Nel giorno dell’Ascensione

Ascensione

Preghiera nel giorno dell’ascensione

O Gesù, nostro Creatore e fratello nostro, noi ti abbiamo seguito fin dalla tua nascita con gli occhi e con il cuore; nella Liturgia abbiamo celebrato ciascuno dei tuoi passi da « gigante » (Sal.18, 6) con speciali solennità; ma osservando la tua continua elevazione, nell’opera redentrice, dovevamo prevedere il momento nel quale saresti andato a prendere possesso del solo posto che ti conviene, del trono sublime dove starai eternamente assiso alla destra del Padre. Lo splendore che ti circondava dopo la resurrezione, non era di questo mondo; e tu non puoi più restare con noi. In questi quaranta giorni, ti sei trattenuto con noi soltanto per consolidare la tua opera; e domani, la terra, che ti possedeva da trentatré anni, sarà priva di te. Noi ci rallegriamo del trionfo che ti aspetta insieme con Maria tua Madre, ai discepoli che ti sono sottomessi alla Maddalena ed alle sue compagne; ma alla vigilia di perderti permetti anche ai nostri cuori di provare un sentimento di tristezza poiché tu eri l’Emmanuele, il « Dio con noi », e d’ora in avanti sarai l’astro divino che aleggerà su noi e non potremo più né vederti né toccarti con le nostre mani, o Verbo di Vita! (I Gv. i, i). Tuttavia diciamo ugualmente: a te sia gloria e amore! poiché ci hai trattati con una misericordia infinita. Tu non ci dovevi niente, noi eravamo indegni di attirare i tuoi sguardi, e sei sceso su questa terra macchiata dal peccato, hai abitato tra noi, hai pagato il nostro riscatto con il sangue, ristabilendo la pace tra Dio e gli uomini. Sì, adesso é giusto che tu ritorni a colui che ti ha mandato (Gv. 16, 5). Noi sentiamo la voce della Chiesa che accetta il tuo esilio, e che non pensa che alla tua gloria: « Fuggi diletto mio, ed imita la gazzella o il cerbiatto sul monte degli aromi » (Cant. 8, 14). Potremmo noi, peccatori come siamo, non imitare la rassegnazione di colei che é, allo stesso tempo, tua Sposa e nostra Madre?

L’evangelizzazione del mondo.

Gueranger

   Prendendo poi quel tono di autorità che conviene a Lui solo, disse loro: «Andate per tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crede e sarà battezzato si salverà; chi non crede sarà condannato» (Mc. 16, 15-16). Come compiranno essi questa missione di predicare il Vangelo nel mondo intero? Con quali mezzi riusciranno ad accreditare la loro parola? Gesù lo indica: « Or questi sono i miracoli che accompagneranno i credenti: nel nome mio scacceranno demoni; parleranno lingue nuove; prenderanno in mano serpenti, e se berranno qualche veleno mortifero non ne avranno danno; imporranno le mani agli ammalati e guariranno » (Ibid. 16, 17-18). Egli vuole che il miracolo sia il fondamento della sua Chiesa, come l’aveva scelto quale argomento della sua missione divina. La sospensione della legge della natura annunzia agli uomini che l’ autore di questa stessa natura sta per pronunciarsi: ad essi, allora, il dovere di ascoltare e credere umilmente.

Ecco dunque questi uomini sconosciuti dal mondo, sprovvisti di ogni mezzo umano, eccoli investiti della missione di conquistar la terra e di farvi regnare Gesù Cristo. Il mondo ignora anche la loro esistenza; assiso sul trono, Tiberio, che vive nel terrore delle congiure, non suppone affatto tale spedizione di nuovo genere che si sta iniziando, dalla quale l’impero romano sarà conquistato. A questi guerrieri, occorre un’armatura ma di tempra divina, e Gesù annuncia che stanno per riceverla. « Voi però rimanete in città, finché siate dall’alto investiti di vigoria » (Le. 24, 49), Ma quale sarà quest’armatura? Gesù lo spiegherà, ricordando la promessa del Padre, « la promessa che avete udito dalla mia bocca. Perché Giovanni battezzò nell’acqua, ma voi sarete battezzati nello Spirito Santo di qui a non molti giorni » (Atti, 1).

[Dom P. Guéranger: “L’anno liturgico”; ed. Paoline, Alba, 1956]

Dal Breviario Romano nel giorno dell’Ascensione:

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Sermone di san Leone Papa

Sermone 1 sull’Ascensione del Signore

Quest’oggi, o dilettissimi, si compie il numero di quaranta giorni sacri trascorsi dopo la beata e gloriosa risurrezione di nostro Signore Gesù Cristo, colla quale, nello spazio di tre giorni, la potenza divina rialzò il vero tempio di Dio che l’empietà dei Giudei aveva distrutto, numero preordinato dalla santissima disposizione della provvidenza a nostra utilità e istruzione: perché il Signore prolungando in questo spazio di tempo la sua presenza corporale quaggiù, la nostra fede nella risurrezione vi trovasse le prove e la conferma necessarie. Perché la morte di Cristo aveva turbato assai i cuori dei discepoli: e lo stordimento della diffidenza era penetrato nei loro spiriti resi pesanti dall’angoscia causata dal suo supplizio sulla croce, dal suo ultimo sospiro, dalla sepoltura del suo corpo esanime.

Perciò i beatissimi Apostoli e tutti i discepoli, ch’erano sgomenti per la morte (di Gesù) sulla croce ed avevano esitato sulla fede nella sua risurrezione, furono talmente confermati dall’evidenza della verità, che, lungi dall’essere rattristati al vedere il Signore ascendere nelle altezze dei cieli, furono al contrario ripieni di grande gioia. E certo, c’era là una grande ed ineffabile causa di gioia, allorquando in presenza di questa santa moltitudine, una natura umana s’innalzava al di sopra della dignità di tutte le creature celesti, per sorpassare gli ordini Angelici, per essere elevata più alto degli Arcangeli, e non arrestarsi nelle sue elevazioni sublimi che allorquando, ricevuta nella dimora dell’eterno Padre, ella sarebbe associata al trono e alla gloria di colui alla natura del quale si trovava già unita nel Figlio.

Poiché l’ascensione di Cristo è la nostra elevazione; e il corpo ha la speranza d’essere un giorno dove l’ha preceduto il suo glorioso capo: esultiamo dunque, dilettissimi, con degni sentimenti di gioia, e rallegriamoci con pia azione di grazie. Perché noi quest’oggi non solo siamo stati confermati possessori del paradiso, ma nella persona di Cristo abbiamo penetrato ancora nel più alto dei cieli: e per ineffabile grazia di Cristo, abbiamo ottenuto di più di quanto avevamo perduto per invidia del diavolo. Infatti quelli che il velenoso nemico aveva bandito dalla felicità della prima dimora, il Figlio di Dio se li è incorporati e li ha collocati alla destra del Padre: col quale, essendo Dio, vive e regna insieme collo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Così è.

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Omelia di san Gregorio Papa

Omelia 29 sul Vangelo

     Il ritardo che i discepoli frapposero nel credere alla risurrezione del Signore, non fu tanto loro debolezza quanto, per così dire, nostra sicurezza futura. Difatti a motivo del loro dubbio, la risurrezione fu dimostrata con molte prove: e noi quando leggiamo questi fatti, non siamo forse confermati dalla loro esitazione? La storia di Maria Maddalena, che credé subito, mi è meno utile di quella di Tommaso che dubitò per molto tempo. Perché questi, dubitando, toccò le cicatrici delle ferite (del Salvatore) e tolse così dal nostro cuore la piaga del dubbio.

Per far penetrare in noi la verità della risurrezione del Signore, dobbiamo notare quel che riferisce Luca, dicendo: «Essendo insieme a mensa comandò loro di non allontanarsi da Gerusalemme» (Act. 1,4). E poco dopo: «A vista di essi, si levò in alto, e una nube lo tolse agli occhi loro» (Act. 1,9). Notate queste parole, osservate questi misteri. Dopo essere stato a mensa con essi, si levò in alto. Mangiò, e (poi) ascese: affin di renderci manifesta coll’azione del mangiare, la realtà della sua carne. Ma Marco ricorda che il Signore prima di ascendere in cielo, rimproverò ai discepoli la durezza del loro cuore e la loro incredulità. Che è da osservare in ciò, se non che il Signore rimproverò i discepoli quando li lasciava corporalmente, affinché queste parole, dette nel separarsi da loro, rimanessero più profondamente impresse nel cuore di (quelli) che le ascoltavano?

Dopo aver ripresa la loro durezza, sentiamo ciò ch’Egli comanda: «Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Marc. 16,15). Forse che, fratelli miei, il santo Vangelo doveva predicarsi alle cose insensate, o agli animali privi di ragione, e perciò si dice ai discepoli: «Predicate ad ogni creatura»? Ma col nome di «ogni creatura» qui si indica l’uomo. L’uomo infatti ha qualche cosa di ogni creatura. Perché l’essere gli è comune colle pietre, la vita cogli alberi, la sensibilità cogli animali, l’intelligenza cogli Angeli. Se dunque l’uomo ha qualche cosa di comune con ogni creatura, si può dire, in qualche modo, che l’uomo è ogni creatura. Perciò il Vangelo è predicato ad ogni creatura, quando si predica all’uomo solo.

Rogazioni e tempo pasquale

ROGAZIONI

Spiegazione delle Rogazioni dei giorni prima del giovedì dell’Ascensione

[da “l’anno liturgico” 2° vol. di Dom P. Guéranger]

Le Rogazioni e il Tempo Pasquale.

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   Oggi comincia una serie di tre giorni consacrati alla penitenza. Questa coincidenza inaspettata sembra, a prima vista, una specie di anomalia nel Tempo pasquale; tuttavia, quando vi si riflette, si giunge a riconoscere che l’istituzione ha un nesso intimo con i giorni in cui siamo. È vero che il Salvatore, prima della Passione, diceva che non si può far digiunare gli amici dello sposo mentre lo sposo è con loro (Lc. 5, 34); ma queste ultime ore che precedono la sua dipartita per il cielo, non hanno forse qualcosa di melanconico? E, ieri stesso, non ci sentivamo portati naturalmente a pensare alla tristezza, rassegnata e contenuta, che opprime il cuore della divina Madre e quello dei discepoli, alla vigilia di perdere colui la cui presenza era per essi la pregustazione delle gioie celesti?

Origine delle Rogazioni.

   Dobbiamo ora render conto del come, ed in quale occasione, il Ciclo liturgico si é completato, in quest’epoca, con l’introduzione dei tre giorni, durante i quali la santa Chiesa, ancora raggiante degli splendori della Risurrezione, sembra volere improvvisamente retrocedere fino al lutto quaresimale. Lo Spirito Santo, che la dirige in qualunque cosa, ha voluto che, poco dopo la metà del quinto secolo, una semplice Chiesa delle Gallie desse principio a questo rito che si estese poi rapidamente a tutta la cattolicità, dalla quale fu ricevuto come un complemento della liturgia pasquale.

La Chiesa di Vienne, una delle più illustri e delle più antiche della Gallia meridionale, circa l’anno 470, aveva come Vescovo S. Mamerto. Calamità di ogni genere erano venute a portare la desolazione in questa provincia, di recente conquistata dai Burgondi. Terremoti, incendi, fenomeni paurosi agitavano le popolazioni, come fossero stati segni della collera divina. Il santo Vescovo che desiderava risollevare il morale del suo popolo esportarlo a Dio, la cui giustizia durante i quali i fedeli dovevano darsi ad opere di penitenza e andare in processione al canto dei salmi. Per mettere in pratica questa pia risoluzione, furono scelti i tre giorni che precedono l’Ascensione.

Senza prevederlo, il santo Vescovo di Vienna gettava così le basi di una istituzione che tutta la Chiesa avrebbe poi adottato [Bisogna tuttavia riconoscere che Mamerto non fu il creatore di questa solennità; egli non fece che precisarne lo svolgimento liturgico e fissarne la data. Effettivamente, noi vediamo che queste processioni avevano luogo anche a Milano, non durante i tre giorni che precedono l’Ascensione, ma nella settimana seguente; e in Spagna, il concilio di Girona, tenuto nel 517, ordinava processioni nel giovedì, venerdì e sabato dopo la Pentecoste. D’altronde, Sidone Apollinare, contemporaneo di Mamerto, dice che queste processioni esistevano già prima di Mamerto, ma che egli dette loro una solennità più grande (Rev. Ben., t. XXXIV, p. 17)]. Cominciarono i Galli, come era giusto. Sant’Alcino Avit, che successe quasi immediatamente a San Mamerto nella sede di Vienne, attesta che la pratica delle Rogazioni era già consolidata in quella Chiesa. San Cesario d’Arles, al principio del sesto secolo, ne parla come di un uso già esteso altrove, designando almeno con queste parole tutta quella porzione di Galli che allora si trovavano sotto il giogo dei Visigoti.

Leggendo i canoni del primo concilio di Orléans tenuto nel 511 e che raccoglieva tutte le provincie che riconoscevano l’autorità di Clodoveo, si nota chiaramente che essi affermano come l’intera Gallia non tardò ad adottarlo. I regolamenti del concilio, a proposito delle Rogazioni, danno una chiara idea dell’importanza che si annetteva a questa istituzione. Non solamente è prescritta l’astinenza dalle carni durante quei tre giorni, ma il digiuno è di precetto. Vi si ordina ugualmente di dispensare dal lavoro le persone di servizio, affinché possano prendere parte alle lunghe funzioni che si terranno in quei tre giorni (can. 27). Nel 567, il concilio di Tours sanzionava pure l’obbligo del digiuno durante le Rogazioni (can. 17); e in quanto all’obbligo dell’astensione dal lavoro durante quei tre giorni, si trova anche riconosciuto nei Capitolari di Carlo Magno e di Carlo il Calvo.

La processione delle Rogazioni.

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   Il rito principale nelle Chiese dei Galli durante questi tre giorni consistette, fin dall’origine, in quelle marce solenni, accompagnate da supplichevoli cantici, che furono chiamate Processioni, perché esse sfilano da un luogo all’altro. S. Cesario d’Arles ci dice che quelle che avevano luogo per le Rogazioni, duravano sei ore intere, di modo che quando il clero si sentiva troppo stanco per la lunghezza dei canti, le donne cantavano a loro volta per lasciare ai ministri della Chiesa il tempo di respirare. Questo dettaglio, che troviamo negli usi delle Chiese dei Galli in quell’epoca primitiva, può aiutarci a pesare l’indiscrezione di quelli che, nei tempi moderni, hanno insistito per l’abolizione di alcune processioni che occupavano una parte notevole della giornata, pensando che una manifestazione così lunga dovesse essere per se stessa considerata come un abuso.

La partenza della Processione delle Rogazioni era preceduta dall’imposizione delle ceneri sulla testa di quelli che vi avrebbero preso parte, ossia dell’intero popolo, perché tutti vi partecipavano. Aveva poi luogo l’aspersione dell’acqua benedetta; dopo di che, il corteo si metteva in cammino. La Processione era formata dal clero e dal popolo di parecchie Chiese secondarie che procedevano sotto la croce di una Chiesa principale, il clero della quale presiedeva la funzione. Tutti, sacerdoti e laici, camminavano a piedi nudi. Si cantavano le Litanie, i Salmi, le Antifone, e ci si recava a qualche Basilica, designata per la Stazione, dove si celebrava il santo Sacrificio. Durante la strada si visitavano le Chiese che s’incontravano per via, cantandovi un’Antifona, per lodare il mistero, od il Santo, sotto il cui titolo erano state consacrate.

Grandi esempi.

Tali erano alle origini, e tali sono stati per un pezzo, i riti osservati durante le Rogazioni. Il monaco di San Gallo che ci ha lasciato memorie così preziose su Carlo Magno, ci dice che il grande imperatore in quei giorni si toglieva i calzari come l’ultimo dei fedeli e camminava a piedi nudi seguendo la croce, dal suo palazzo fino alla Chiesa della Stazione. Nel XIII secolo S. Elisabetta di Ungheria dava pure il medesimo esempio; era ben felice, durante le Rogazioni, di confondersi con le povere donne del popolo, camminando anch’essa a piedi nudi, ricoperta di una rozza veste di lana. S. Carlo Borromeo, che rinnovò nella Chiesa di Milano tanti usi dell’antichità, non trascurò certo quello delle Rogazioni. Mediante la sue cure ed i suoi esempi, rianimò nel popolo l’antico zelo per una pratica così santa, esigendo dai suoi diocesani il digiuno durante tre giorni, digiuno che tutto il clero della città era tenuto ad assistere e che cominciava con l’imposizione delle ceneri, partiva dal Duomo, allo spuntar del giorno, e non vi rientrava che alle tre o alle quattro del pomeriggio, avendo visitato: il lunedì tredici chiese; nove il martedì; e undici il mercoledì. In una di esse l’Arcivescovo celebrava il santo Sacrificio e indirizzava la parola al suo popolo. Se si paragona lo zelo dei nostri padri per la santificazione di queste tre giornate, con la noncuranza che oggi, specialmente nelle città, accompagna la celebrazione delle Rogazioni, non potremo fare a meno di riconoscere anche qui uno dei segni dell’indebolimento del senso cristiano nella società moderna. Eppure, quanto importanti sono i fini che si propone la santa Chiesa in queste Processioni, alle quali dovrebbero prendere parte tutti i fedeli che hanno la possibilità di farlo e che, invece di consacrare quel tempo al servizio di Dio per mezzo delle opere di vera pietà cattolica, lo passano in devozioni private, che non potranno attirare su di essi le stesse grazie, né portare alla comunità cristiana i medesimi aiuti di edificazione!

Le Rogazioni nella Chiesa d’Occidente.

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   Le Rogazioni dalla Gallia si estesero rapidamente in tutta la Chiesa d’Occidente. Nel VII secolo erano già stabilite nella Spagna, e non tardarono poi ad introdursi in Inghilterra e, più tardi, nelle nuove Chiese della Germania, man mano che esse venivano fondate.

La stessa Roma l’adottò, nell’801, sotto il Pontificato di S. Leone III. Fu poco tempo dopo che le Chiese dei Galli, avendo rinunciato alla Liturgia Gallicana per prendere quella di Roma, ammisero nei loro usi la Processione di S. Marco. Ma si ebbe questa differenza: che a Roma si conservò alla Processione del 25 aprile il nome di Litania maggiore, e si chiamarono Litanie minori quelle delle Rogazioni; mentre in Francia, queste ultime furono designate con l’appellativo di Litanie maggiori, riservando il nome di minori per la Litania di S. Marco. Ma la Chiesa romana, senza disapprovare la devozione di quelle dei Galli, che avevano creduto bene dover introdurre nel Tempo Pasquale tre giorni di osservanza quaresimale, non adottò tale rigore. Le ripugnava di rattristare col digiuno la lieta quarantena che Gesù risorto aveva accordato anche ai suoi discepoli; si limitò dunque a prescrivere solo l’astinenza dalle carni durante questi tre giorni, pratica che fu mantenuta nel corso dei secoli, fino al momento in cui, per l’indebolimento generale dei costumi cristiani della nostra epoca, fu costretta a modificare l’antica disciplina su questo punto. La Chiesa di Milano che, come abbiamo visto, conserva, con tanta severità, l’istituzione delle Rogazioni, l’ha trasportata al lunedì, martedì e mercoledì che seguono la domenica nell’Ottava dell’Ascensione, ossia dopo i quaranta giorni consacrati a celebrare la Risurrezione.

Bisogna, dunque, per restare in questo vero equilibrio da cui la Chiesa romana mai si distacca, valutare le Rogazioni come una santa istituzione che viene a temperare le nostre gioie pasquali, ma non ad annullarle. Il colore viola, adoperato per la Processione e per la Messa della Stazione, non ha più lo scopo d’indicarci ancora la dipartita dello Sposo (Cant. 8); ma ci avverte che la separazione è vicina; e l’astinenza, che un tempo era imposta in questi tre giorni, pur non essendo accompagnata dal digiuno, era già una manifestazione anticipata del dolore della Chiesa, conscia che la presenza del Redentore le sarebbe stata presto rapita.

Oggi il diritto ecclesiastico non menziona più il lunedì, martedì e mercoledì delle Rogazioni tra quei giorni in cui la legge dell’astinenza obbliga ancora i fedeli. È ben triste che l’indebolimento del sentimento cristiano nelle generazioni del tempo nostro, e le domande di dispense sempre più numerose, abbiano reso necessario quest’abbandono dell’antica disciplina. È un’espiazione di meno, un’intercessione di meno, un soccorso di meno, in un secolo già così povero dei mezzi per i quali la vita cristiana si conserva, diviene indulgente il cielo, si ottengono grazie di salvezza. Possano i veri fedeli concludere che l’assistenza alle Processioni di questi tre giorni è divenuta più opportuna che mai, e che è urgente, unendosi alla preghiera liturgica, di compensare in questo modo, l’abolizione di una legge salutare che datava da così lungo tempo, e che, nelle sue esigenze pesava tanto leggermente sulla nostra mollezza! Possa una sì venerata istituzione, sanzionata dalle leggi della Chiesa e dalla pratica di tanti secoli, restare sempre in vigore in quella Francia che, col suo esempio, ha imposto a tutto il mondo cattolico la solennità delle Rogazioni! Secondo l’attuale disciplina della Chiesa, le Processioni per le Rogazioni, la cui intenzione è d’implorare la misericordia di Dio offeso per i peccati degli uomini, ed ottenere la protezione celeste sui beni della terra, sono accompagnate dal canto delle Litanie dei Santi, e completate da una messa speciale che si celebra sia nella Chiesa della Stazione, sia nella Chiesa stessa da dove la Processione è partita, almeno che non debba fermarsi in qualche altro Santuario.

Le Litanie dei Santi.

Full title: The Forerunners of Christ with Saints and Martyrs Artist: Fra Angelico Date made: about 1423-4 Source: http://www.nationalgalleryimages.co.uk/ Contact: picture.library@nationalgallery.co.uk Copyright © The National Gallery, London

Non si stimeranno mai troppo le Litanie dei Santi per il potere e l’efficacia che hanno. La Chiesa vi ha sempre ricorso in tutte le grandi occasioni, come ad un mezzo atto a rendersi propizio l’aiuto di Dio, rivolgendosi a tutta la corte celeste. Se non potessimo prendere parte alle Processioni delle Rogazioni, che si recitino, almeno, queste Litanie in unione con la Chiesa: si avrà parte nei benefici di una istituzione così santa, e si contribuirà ad ottenere le grazie che la cristianità, in questi tre giorni, sollecita da tutti i luoghi; avremo anche compiuto atto di vero cattolico.

 

Esercizi di pietà per i giorni delle Rogazioni.

[da: Via del Paradiso, Terza ediz., Siena 1823 – imprimatur-]

“Dio eterno, Dio ottimo, che ci avete creati con la vostra onnipotenza, e che ci custodite, e nutrito con la vostra infinita provvidenza, siate benedetto per l’essere che ci avete dato, e ci avete conservato fino a questo giorno.

Vi ringrazio con tutta la Chiesa dei beni non solo spirituali, ma anche corporali, che Vi degnate compartire a tutti i fedeli ed a tutti gli uomini pel mantenimento della vita. Vi ringrazio de’ beni che ci date quotidianamente, e di quelli che ci avete preparati, o sia che vogliate darceli Voi stesso immediatamente, oppure per mezzo delle vostre creature, le quali Voi fate gl’istrumenti della vostra provvidenza.

Riconosco il tutto da Voi, o mio Dio: riconosco che tocca a Voi solo, come Padre della natura, di far germogliare gli alberi, e la semenza, di far nascere e crescere i frutti e condurli a maturità.

O Padre celeste, o Autore di ogni bene, che vi ricordaste di Noè nell’Arca al tempo del diluvio, e di Daniele nel lago de’ leoni, ricordatevi, Vi prego, di noi, che siamo Vostri figli e conservateci la vita, e la sanità, e fate che le impieghiamo a Vostro servizio. Togliete dall’aria l’infezione e i mali influssi, e togliete dalla terra la sterilità, e le male bestie. Togliete ai nostri nemici, visibili ed invisibili, tanto pubblici, come privati, la volontà o la forza di nuocerci. Mandate le rugiade e le piogge a suo tempo, acciò la terra produca con abbondanza. Date ai frutti la virtù di nutrirci e fate che noi non ce ne serviamo mai senza ringraziarvene.

In somma allontanate da noi i vostri flagelli, la peste, la fame, la guerra ed i terremoti, o seppure volete castigarci per i nostri peccati, dateci lo spirito di pazienza e di penitenza ne’ mali che ci mandate, acciò i vostri figli riposandosi sotto l’ombra della vostra infinita bontà, Vi amino, e Vi servano con quiete, e lodino il Vostro santo Nome nel tempo e nell’eternità. Così sia.”

25 anni di Papato: lunga vita a Gregorio XVIII

Il 3 maggio del 1991, in un conclave segreto a Roma, veniva eletto il nuovo Papa, che prese il nome di Gregorio XVIII in omaggio al suo predecessore, S.S. Gregorio XVII, Giuseppe Siri.

È interessante notare come Sua Santità Papa Gregorio XVII, abbia avuto il 3° Regno più lungo nella storia papale. Solo Papa San Pietro e Papa Pio IX hanno avuto un regno più lungo. L’attuale Santo Padre, Papa Gregorio XVIII, eletto il 3 maggio del 1991, ha attualmente il 5° Regno più lungo nella storia papale preceduto solo da Papa San Pietro, Pio IX (1846-1878), Gregorio XVII (1958-1989), e Leone XIII (3.3.1878-10.7.1903), che hanno avuto un regno papale più lungo. Mancano pochi mesi perché Gregorio XVIII scavalchi anche Leone XIII, ponendosi così in IV posizione. Questo sta a dimostrare come Dio abbia benedetto i nostri Santi Padri “in esilio”, Papa Gregorio XVII prima, ed ora Papa Gregorio XVIII, gloriosamente regnante, consentendo loro un lungo Papato. W il Papa! Lunga vita al Papa!

Riportiamo le scarne notizie filtrate prudentemente, dopo vari anni, dalla “gerarchia in esilio” della Chiesa in “eclissi”, sul primo atto del Santo Padre appena insediato.

-madonna-di-fatimaLa Santa Vergine di Fatima non mente!

Consacrazione della Russia al Cuore Immacolato della SS. Vergine Maria

   Sappiamo che la Vergine Maria, fin dalle apparizioni del 1917, tramite i veggenti di Fatima, ed in particolare, ripetutamente a suor Lucia, aveva chiesto al Santo Padre, in unione con i Vescovi di tutto il mondo, la “consacrazione della Russia” al suo Cuore Immacolato, e questo per evitare che gli errori della “Russia” si spargessero nel mondo intero. Tale Consacrazione però, non era stata mai fatta secondo i desideri della Vergine, neanche dai “veri” Papi, come Benedetto XV, Pio XI e Pio XII, per motivi di “opportunità” o perché mal consigliati, o per semplice accidia. Gli antipapi succedutisi dal 1958 in poi, secondo il piano massonico da essi messo in atto, si erano naturalmente ben guardati dal farlo, per cui, come sappiamo dalle vicende storiche, effettivamente gli errori della Russia, ed in primo luogo il Comunismo, si sono diffusi come un implacabile cancro metastatico per il mondo intero, generando morte e distruzione, sia materiale che spirituale, ed una lotta aperta e feroce contro la Chiesa Cattolica.

Ma provvidenzialmente, il Santo Padre Gregorio XVII, eletto in 4 successivi Conclavi, a dimostrazione inequivocabile della scelta evidente dello Spirito Santo al Soglio di Pietro del Cardinale Giuseppe Siri, Arcivescovo di Genova, e deposto contro la sua volontà dagli agenti marrano-massonici della “quinta colonna” infiltrati nei Conclavi, un anno prima della sua morte, avvenuta il 2 maggio del 1989, provvedeva segretamente, poiché segregato e monitorato costantemente in tutti i suoi movimenti, a designare Cardinali di Santa Romana Chiesa, ed in primo luogo un Camerlengo che potesse annunciare, alla sua morte, un Conclave per la elezione del Papa successore. Effettivamente, dopo la sua morte, il Camerlengo incaricato, annunciò il Conclave il 3 giugno del 1990, Conclave che si tenne a Roma, in una sede segreta, per motivi ovvi di sicurezza; il 2 maggio del 1991 i “veri” Cardinali della Chiesa Cattolica Romana “in eclissi”, celebrarono una Messa da Requiem (col rito tridentino, è naturale!) in suffragio di Papa Gregorio XVII, ed il giorno successivo si riunirono in Conclave, nel corso del quale venne eletto il nuovo Santo Padre, [la cui identità è segreta perché sotto costante pericolo di morte, essendo braccato dall’FBI e dalle polizie delle “colonie” europee degli USA, oltre che dallo Shin-Bet e dagli agenti del B’nai B’rith] che assunse il nome, in omaggio al suo predecessore, di Gregorio XVIII (262° successore di Pietro – il “flos florum” di S. Malachia). Il primo ed immediato atto di Papa Gregorio XVIII, fu la “Consacrazione” della Russia al Cuore Immacolato della Vergine Maria, realizzata nel corso di una cerimonia, prudentemente segreta, secondo il desiderio della Madonna, insieme ai Vescovi del mondo “veri”, consacrati con la Formula del rito cattolico storico di sempre, e con missione canonica [la cosiddetta: Giurisdizione] affidata loro per iscritto, sia dal Papa precedente che da quello attuale, il 13 maggio del 1991. Il giorno successivo, 14 maggio 1991, il Santo Padre, dopo aver dato disposizioni ai suoi Vescovi e Cardinali, lasciava Roma raggiungendo il suo “esilio” in una località segreta. Per chi volesse conoscere i dettagli della Consacrazione (pochi in verità quelli che potevano essere rivelati), consigliamo di consultare il sito TCW [Today’s Chatolic Word] (sito approvato dalla Chiesa Cattolica in esilio). Vediamo che gli effetti della Consacrazione furono praticamente immediati, anche se Nostro Signore aveva confidato a suor Lucia il 3 agosto 1931 (Rianjo, Spagna): “Essi (i Pontefici) non hanno voluto ascoltare la mia richiesta. Come il re di Francia si pentiranno e la faranno, ma sarà tardi, la Russia avrà già diffuso i suoi errori in tutto il mondo, provocando guerre e persecuzioni contro la Chiesa; il Santo Padre avrà molto da soffrire.”

suor lucia

Senza ricorrere a trattati di storia Europea, ci basterà dare un’occhiata alla ormai famosa Wikipedia, enciclopedia informatica da tutti consultabile. Vi leggiamo infatti: “Boris El’cin fu eletto presidente della Russia nel GIUGNO 1991 nelle prime elezioni presidenziale dirette della storia russa. Nell’AGOSTO del 1991 il tentato colpo di stato militare per deporre Gorbačëv e preservare l’URSS portò invece alla fine del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.. Durante e dopo la dissoluzione sovietica … etc… ” d’altra parte tutti ricordiamo gli eventi vissuti, sbigottiti, con il naso incollato alla TV.

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Boris Yeltsin, “primo” presidente eletto liberamente in Unione Sovietica

     Praticamente la Consacrazione fu fatta il 13 maggio del 1991, e a giugno, cioè dopo neanche un mese, si tennero le prime elezioni libere in Russia, e dopo altri due mesi, fu addirittura sciolto il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, con il suo mastodontico ed “invincibile” apparato e con la successiva dissoluzione sovietica!

Se questa è dunque la forza della Vergine Immacolata, non ci resta che pregare con fiducia assoluta, quotidianamente, come Ella ci ha chiesto, il Santo Rosario completo di quindici “misteri”. Ella infatti ci ha promesso a Fatima che alfine, anche in questa situazione sociale, politica e soprattutto religiosa, apparentemente inestricabile, il suo Cuore trionferà! E allora cosa aspettiamo? Prendiamo “bastone e vincastro”, come recita il Salmo XXII, cioè la Corona e lo Scapolare, e staremo a vedere! Anche Golia sembrava invincibile … fu abbattuto da una fionda ed un sassolino di fiume!

-Davide_e_Golia

 

La strana sindrome di nonno Basilio -17-

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Caro direttore sono ancora qui a discorrere con lei, sperando di non abusare eccessivamente della sua pazienza. Nel Martirologio Romano leggevo del martirio dei Santi Giovanni Fisher e Tommaso Moro, morti in difesa della Verità di Cristo, della Giustizia divina, del Diritto calpestato, della Santa Chiesa di Gesù e del primato pietrino del Papa romano. Con me erano, come al solito, i miei cari nipoti, oramai noti a lei ed ai suoi lettori (… ammesso che ce ne siano ancora di disposti a leggere le mie riflessioni!): Mimmo e Caterina. Così cercavo di riassumere sommariamente le vicende di questi due straordinari testimoni della vera fede cattolica che osarono non assecondare il reprobo, orgoglioso re Enrico VIII, i cui “pruriti genitali” caratterizzarono tutto il suo nefasto governo regale (io per la verità ritengo, direttore, che soffrisse di Herpes genitale, forse di una dermatite squamosa perineale psoriasica o dell’acaro sarcoptes scabei (quello della scabbia), o forse più semplicemente, avesse numerose piattole pruriginose, visto che all’epoca non c’erano molti prodotti di igiene intima efficaci come al giorno d’oggi … lei che ne pensa?). Giovanni Fisher, vescovo di Rochester e Tommaso Moro martiri essendosi opposti al re Enrico VIII nella controversia sul suo divorzio e sul primato del Romano Pontefice, furono rinchiusi nella torre di Londra e decapitati rispettivamente il 22 giugno del 1535, ed il 6 luglio dello stesso anno … Per la verità vedo Mimmo molto aggressivo dire: “Ma come si fa a seguire una religione creata da un soggetto di tale “spessore neuropsichiatrico” senza fondamenti dottrinali, motivazioni teologiche, filosofie di elementare razionalità …. Solo degli uomini altrettanto corrotti, a partire dal cardinal-traditore Wolsey, arcivescovo di York, dall’arcivescovo-vipera di Canterbury Thomas Cranmer, (vuoi vedere che era un marrano della quinta colonna anche questo? … ma certamente, visto l’odio con cui si sono accaniti contro i difensori di Cristo e della sua Chiesa!), dall’ambizioso e perfido Thomas Cromwell fino ai parlamentari assetati di potere e a nobili avidi di possedere i beni confiscati alla vera ed unica Chiesa, potevano assecondare un progetto tanto audace di distruzione della Fede nel regno d’Inghilterra e domini annessi. E poi il capo della “setta” è addirittura il re d’Inghilterra … a me sembra un’operetta di Lehar …”. Ma Mimmo, dico con meraviglia, ti vedo preparato al riguardo, almeno da un punto di vista storico!. Ed allora ti chiedo, che mi sai dire sulla chiesa anglicana?” Quasi a memoria, mi dice: “Chiesa anglicana, dal latino: Anglicana ecclesia, è il nome assunto dalla chiesa d’Inghilterra dopo la separazione dalla Chiesa cattolica nel XVI secolo. Il termine latino è precedente alla Riforma protestante e indicava genericamente la chiesa cattolica inglese, allo stesso modo in cui la chiesa francese era denominata Chiesa Gallicana. In seguito, dopo lo scisma avvenuto durante il regno di Enrico VIII e per influsso delle dottrine protestanti provenienti dal continente europeo, dalle infiltrazioni massoniche e dei soliti marrani, che dirigono sempre la baracca a modo loro, cioè nell’ombra e con la corruzione, la Chiesa anglicana ha assunto una particolare fisionomia dottrinale ed organizzativa, nota come “ anglicanesimo”. “Ma Mimmo, mi sembra che ti sia applicato con zelo … mi stupisci!”… ma come un torrente in piena continua: “La base dottrinale della chiesa anglicana è contenuta nei cosiddetti “Trentanove articoli di religione” (anche questo numero puzza di cabala da un miglio di lontananza) composti nel XVI secolo per garantire l’uniformità religiosa in Inghilterra che utilizzano talvolta espressioni fanta-teologiche vicine al calvinismo. Dal 1547 fino al 1571 vennero pubblicati i The Books of Homilies, una raccolta di due libri contenenti in totale 33 sermoni che illustrano appunto i 39 articoli (33, 39 … questo la dice lunga sulla penetrazione cabalistica dei figli del demonio!), articoli che non sono generalmente più considerati strettamente vincolanti, ed infatti la chiesa anglicana (più opportuno definirla “setta” o conventicola, tanto il suo capo è anche maestro muratore della loggia d’Inghilterra! -n.d.Bas.-), però, è essenzialmente pluralista (sarebbe meglio dire confusa”), poiché nel suo interno convivono, scontrandosi, tendenze diverse, ed ogni comunità può fare capo ad esse ed assumere una forma di culto molto diversa (evviva la libera fantasia!). Vi sono, ad esempio, gli “anglo-cattolici“, che si differenziano apparentemente poco dal cattolicesimo (presentano una forma di culto molto simile alla pseudo-Messa cattolica del novus ordo!), i neo-liberali, i riformati (che si attengono al calvinismo), gli evangelicali, i pentecostali/carismatici” … “… che sono coloro che recentemente hanno cominciato ad infestare quello che resta della Chiesa Cattolica, travestendosi da ispirati rinnovatori dello spirito, (non specificando, ma ovviamente non quello “Santo”!!!) … con sedicenti ed auto referenziati carismi, non garantiti e tutti da verificare, spesso strani e sospetti ma sostenuti da prelati massonizzanti di alto bordo che amano far mostra di sé in stadi e palazzetti dello sport esultanti … o meglio deliranti”. Le riporto il commento un po’ acido di Caterina che interviene ben documentata, sostenendo che in altra occasione sarà ben più acida, anzi “piccante!”. Mah … questi giovani moderni!… Ritornando agli anglicani, Mimmo, a briglie sciolte, incalza: “ … ma lo sai nonno che questi ordinano donne sacerdoti e vescovi, nonché pederasti dichiarati e manifesti, contraddicendo il dettame di Cristo ed infischiandosene allegramente dei peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio?”. “Ma bravo … vedo che stai imparando pure il Catechismo di San Pio X ….”. “E per forza –ribatte prontamente Mimmo- nel C.C.C. c’è tutto ed il contrario di tutto e alla fine tutto è confusione ed incongruenza” . “Piano, Mimmo, queste considerazioni tienile per te, potrebbero urtare certe suscettibilità …”. “Ma come, nonno, proprio tu che dici sempre che insegnare agli ignoranti, consigliare i dubbiosi ed aprire gli occhi spirituali ai ciechi è un atto di profonda carità che va praticato senza timori di alcun genere”? “È vero, Mimmo, questa volta devo darti proprio ragione … oggi mi hai dato una lezione di vita, grazie!!!”. Nella mia malandata memoria emerge il ricordo dello zio Tommaso, sacerdote eclettico quando diceva che … gli anglicani sono noti per aver introdotto nelle funzioni il canto polifonico su testi in vernacolo, e la tecnica del “falso bordone”, tecnica che egli cercava di far comprendere, non sempre con successo, a noi nipoti già distratti da strambe ideologie. Calmatosi Mimmo, devo tener testa a Caterina che, con un certo tono di sufficienza, ricorda la strana vicenda della Costituzione Apostolica “Anglicanorum Coetibus” con la quale si accolgono rappresentanti del clero anglicano inorriditi dalle ordinazioni femminili ed omosessuali, e dalla approvazione dei bestiali matrimoni contro-natura. “Qui non si tratta di ecumenismo, perché ecumenismo non significa, nella attuale accezione, difendere la verità e predicare la conversione all’unica Chiesa fondata da Cristo (anzi da quel poco che ho capito, questo viene accuratamente evitato, disprezzando vergognosamente il comando del Maestro!), ma della onnipresente eresia muratoria della “libera coscienza”, quella condannata ed anatemizzata da S.S. XVI e Pio IX, per cui, nonostante le palesi contraddizioni, si vuole mantenere viva la tradizione anglicana – addirittura definita come “arricchimento” (ma che ridere!) per la Chiesa Romana e dono da condividere (questa è bella: l’eresia manifesta, ostinata ed impenitente che arricchisce la Verità di Cristo e della sua unica e vera Chiesa!!! Un dono !?… Inaudito direttore, questa non è neanche più apostasia, ma idiozia pura! .. mi perdoni l’amaro sfogo ma non ce la faccio a trangugiare questi calici amari! … e probabilmente lo stesso Enrico VIII sarebbe a dir poco perplesso). Inoltre la situazione che si profila è pericolosissima per la salvaguardia del celibato ecclesiastico: non sarebbe la prima volta che il mutamento di una prassi comune ed universale incominci con una concessione ad casum apparentemente di scarsa portata, ma potenzialmente gravida delle conseguenze più estreme. Ed ancora esiste il rischio concreto del “libero esame” visto che non c’è l’obbligo di aderire al Magistero ecclesiastico, quindi ognuno fa quel che meglio crede, come le bestie al pascolo …”. E Mimmo nuovamente interviene chiedendomi: “ma nonno perché sei così ostile al libero esame, in fondo si tratta della Bibbia, della Scrittura Sacra”. “A parte il fatto che le traduzioni che se ne fanno -intervengo io ricordando è ovvio lo zio Tommaso- sono aggiustate di volta in volta per le esigenze della “cappelluccia” che le usa, “avere la Scrittura” non significa nulla, possedere materialmente o filologicamente la Bibbia, non significa niente; la cosa importante è il “senso” della Scrittura che solo la Chiesa Cattolica mantiene costituendone il Magistero, come ricordato nella Costituzione dogmatica del Concilio Vaticano (il XX ecumenico) De fide catholica (Dz 1788): “Deve considerarsi come vero senso della sacra Scrittura, quello che ha creduto e crede la santa Madre Chiesa, alla quale appartiene giudicare del senso e dell’interpretazione autentica delle sacre Scritture” (le risparmio il latino). Al contrario è proprio Lutero ad insegnare che il senso della Bibbia è quello che appartiene alla coscienza (ma è proprio un mantra!) di ciascun cristiano, quindi la libertà di esame è il rovescio della nostra religione: in Lutero e i protestanti la libertà è al di sopra della verità, le favole e i deliri degli ubriaconi sono al di sopra della retta ragione, del rispetto a Dio e agli uomini.”. “Scomodare lo Spirito Santo volendo farne il propulsore del processo ecumenico descritto nella Lumen Gentium -interviene ancora Caterina- e applicarlo alle recenti vicende di finto e posticcio ecumenismo, mi sembra una forzatura ideologica, poco credibile e soprattutto non aderente alla realtà dei fatti”. Ma a me la cosa puzza di bruciato … così all’improvviso mi viene: “Mimmo, ma la tua amica Martina che ne dice?”. Mimmo assume un’aria mesta e non risponde, ma lo salva in calcio d’angolo Caterina: “… la ragazza ha trovato di meglio, ha incontrato Philip, un irlandese protestante, e ha mollato il povero Mimmo, che ora si lecca le ferite, e tocca a me rincuorarlo …”. Caro direttore, sono rimasto costernato, anche se adesso mi spiego la sollecitudine nel raccogliere notizie, memorizzarle, farne considerazioni e trarne le naturali ed opportune conseguenze. Bene, direttore, il Signore utilizza anche questi mezzi per dirigere e sollecitare i suoi figli alla verità. E non ho detto loro che con la enciclica “Apostolicae curae” del 18 settembre 1896, S.S. Papa Leone XIII – confermando le sentenze dei suoi predecessori – ha solennemente dichiarato che le ordinazioni anglicane sono assolutamente “invalide”, ne segue che i prelati anglicani sono – in quanto anglicani – eretici e scismatici notori, ma non sono – in alcun modo – validamente ordinati: non sono né sacerdoti, né vescovi … questi comuni signori, al massimo possono partecipare ad un ballo in maschera! … Deo gratias! Le mie preghiere sono state esaudite! – … ma le pare che una cieca potesse guidare un … ipovedente, spiritualmente parlando, come Mimmo? La saluto cordialmente … mi stia bene, suo: nonno Basilio e famiglia!

In memoria di un Papa: Gregorio XVII

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Il 2 maggio del 1989 saliva alla gloria del cielo S.S. Gregorio XVII, Giuseppe Siri, il Papa in esilio, costretto a lasciare ufficialmente il suo Incarico da “coloro che hanno per padre il diavolo”, e dai loro fiancheggiatori della “quinta colonna” introdotta nella Chiesa. Non per questo però, pur nell’ombra e nel silenzio del suo “Getsemani”, cessava di guidare la Chiesa di Cristo attraverso i marosi e le insidie degli usurpanti “servi di Beliaal”, ottemperando dolorosamente alla Volontà di Dio, consentendo così la perpetuazione apostolica della gerarchia della Chiesa, la vera, Santa, Cattolica, Apostolica, Romana, l’unica che dà la salvezza eterna! Uniti nella preghiera al Santo Padre Gregorio, ché interceda presso Dio Onnipotente per l’abbreviazione di questo tempo oscuro di “eclissi” della Chiesa, e per un rinnovato suo splendore, e si ripristini il Sacrificio del Figlio con i veri Sacramenti, vogliamo ricordare questo “martire” della Fede, proponendo l’ultimo capitolo di una sua opera: “Getsemani”. Come non vedere il tratto autobiografico dell’uomo “forte”, solo, abbandonato da tutti, nemici,  amici veri e finti, sofferente e prostrato in obbedienza a Dio nel suo Getsemani?

Il Getsemani della Chiesa è nel Getsemani di Cristo Signore. Conosciamolo meglio.     Getsemani, è la porta del santuario attraverso la quale la Storia ritrova il suo vero volto e il suo vero ordine, nell’intendimento e nella coscienza dell’uomo liberato. È il santuario dove si è compiuta spiritualmente, nella solitudine, la suprema offerta, affinché l’uomo ogni volta unico, e tutta la stirpe degli uomini possano trovare l’ordine eterno della loro creazione e avere così la possibilità di entrare per grazia nella gioia della diretta contemplazione del Creatore. – Soltanto nel raggio del Getsemani la teologia può essere spogliata di ogni vano diletto intellettuale, di ogni lettera morta e di ogni irrigidito schema di pensiero, di ogni aridità del cuore, di ogni illusione di autonomia e di ogni torpore di febbrile attività naturalista. Soltanto in quel luogo l’intendimento e la volontà sono liberati dalla verità conformemente alla parola di Cristo (Gv VIII,32), perché è là che il Redentore ha vissuto nella sua intimità umana, con tutto il suo amore divino, la Croce della storia degli uomini. – Ed è nel segreto dell’agonia di Gesù di Nazareth, che si può intravedere il significato dell’uomo nel mistero della storia degli uomini. – Nel mistero del Getsemani si svelano i due più grandi, più struggenti e più dolci misteri: l’Incarnazione di Dio in uomo perfetto in Maria e la generazione della Chiesa santa nella relatività dell’uomo temporale. – Nel popolo di Israele ci sono stati molti santi e molti profeti. Ci sono state molte anime che hanno sofferto per il loro popolo e che hanno saputo amare Dio fino al sacrificio totale. Ci sono state molte anime forti e grandi che hanno penetrato per grazia di Dio i segreti della Natura. Più di quanto non l’abbiano fatto gli uomini di scienza delle segrete generazioni. – Ma l’uomo dell’agonia sul monte del ulivi era l’Essere di un’altra economia; corrispondeva ad un’altra necessità, ad un’altra attesa della creazione. E per questo motivo questa agonia non solo concerne ogni uomo, ma è ontologicamente vincolata ad ogni uomo. L’uomo non è vincolato all’agonia di Cristo soltanto con l’immaginazione e la compassione per qualcuno che soffre ingiustamente. L’uomo vi è vincolato perché è stato il soggetto dell’offerta solitaria nel giardino del Getsemani, che non era un atto morale, ma un’azione di essere. – Il «Fiat» della Vergine Maria ha avuto come immediata conseguenza un evento nella natura dell’essere umano, un evento ontologicamente nuovo. Le parole con le quali il Cristo si abbandona totalmente alla volontà del Padre costituiscono il secondo «Fiat» dell’economia della salvezza dell’uomo. il «Fiat» del Getsemani fu il compimento, in una nuova tappa, del primo «Fiat» dell’essere umano di Maria. il secondo «Fiat» pronunciato e compiuto dall’essere generato da Dio nella natura umana, ha avuto come conseguenza l’unione di Dio con le esistenze di tutti gli uomini, cioè con l’esistenza di tutti gli esseri che costituiscono la Storia degli uomini. – Quale potrebbe essere la finalità di tutta la sofferenza della Croce accettata da prima? Una tale offerta non è concepibile senza concepire, fievolmente che sia, il perché di questa offerta. E appare allora, in tutta la sua luminosa semplicità, l’essenza della misteriosa agonia di Cristo. – «Padre, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio Io ma come vuoi Tu (Mt XXVI, 39)». Quando Gesù ha pronunciato questo «se è possibile», chiedeva di essere liberato dall’onere della salvezza delle anime? Quando il suo spirito ha lanciato questo appello, avrebbe improvvisamente preferito, non sarebbe che solo per qualche istante, distaccarsi dalla sua missione e poi vivere, invecchiare e spegnersi un giorno, secondo la sorte di ogni uomo? – Sono pensieri che svaniscono come vane finzioni dell’orgoglio dell’uomo; svaniscono quando il nostro intendimento e il nostro cuore penetrano umilmente e con abbandono nel raggio del Getsemani. Là le nostre categorie, secondo le quali percepiamo e giudichiamo, sfumano, o piuttosto sono trasformate, prendendo un altro tenore e un’altra ampiezza. E così, tanto l’intendimento come il cuore, in un’armonia di pace, ricevono il mistero dell’Essere che pregava prostrato a terra per la salvezza degli uomini. L’appello, infatti, del «se è possibile» non significava la stanchezza e che il Cristo preferisse che un altro si addossasse la salvezza degli uomini. Il Cristo non pregava soltanto per sé; pregava in nome di tutti gli uomini, ai quali si era vincolato con la sua offerta: «come vuoi tu». – Il Cristo, Persona unica di essenza divina, viveva interiormente come Redentore degli uomini nella sua pienezza umana, la sofferenza, per inconcepibile amore, di fronte alla cattiveria e al peccato che generavano la sua Passione e la sua Morte. – Allora l’anima, con tutto il suo potenziale d’intelligenza e di amore, penetra nel mistero dell’Incarnazione e dell’agonia del Getsemani e capisce che la Redenzione dell’uomo non è stata opera di un nuovo insegnamento, né l’esempio di una grande perfezione, sconosciuta fino allora. L’uomo capisce che la sua redenzione non è consistita in un rinnovamento morale, è stata innanzitutto un atto che ha riguardato il principio dell’essere dell’uomo, che ha riguardato la rigenerazione della legge della generazione dell’uomo. – Se non ci fosse stato un uomo generato dalla Parola del Creatore, la Redenzione dell’uomo sarebbe sempre un’attesa di rinnovamento morale. Questo insegnamento e questo esempio i Profeti e i Santi d’Israele li avrebbero compiuti e avrebbero potuto compierli sempre. Ma l’atto iniziale della nuova generazione, per il diretto intervento di Dio, non sarebbe stato compiuto; e l’intervento ontologico divino nella stirpe di Abramo non sarebbe compiuto. – Ebbene, l’essere che pregava prostrato a terra nel giardino del Getsemani era esattamente questa penetrazione ontologica di Dio nella stirpe di Abramo. Dio ha suscitato un Essere con il suo proprio Verbo divenuto così uomo, avendo preso «forma» di uomo nell’organismo naturale umano. – L’uomo, nonostante tutte le sue ricerche e le sue indagini, non può penetrare con i propri suoi mezzi il segreto della differenza di livello dei popoli, sia nel passato come nel presente. Raramente si giunge a distinguere da lontano nella profondità del presente la vera immagine iniziale dell’uomo e dell’umanità, perché abbiamo perso la freschezza e il gioioso e continuo stupore della contemplazione attiva e sempre nuova dell’infinita Realtà di Dio Creatore. – Questa perdita c’impedisce di poter sempre percepire la grazia e il continuo miracolo dell’esistenza di ogni cosa, e c’impedisce di percepire il «naturale semplice» delle opere che superano la nostra propria esperienza, delle grandi opere miracolose del nostro Dio Creatore. – L’uomo non può mai afferrare, con le sue ricerche e le sue invenzioni di curiosità, l’inizio delle cose e degli esseri. Perciò incontriamo difficoltà nel concepire il misterioso atto di amore e di armonia che si è compiuto con il primo «Fiat» della Vergine Maria. – Tuttavia è quest’atto che ha permesso all’Essere che pregava con il volto coperto di sudore di sangue, di unirsi ontologicamente all’esperienza di ogni uomo, nel disordine anarchico e doloroso della Storia. Ed è questa unione che offre all’uomo di diventare un essere nuovo e di conoscere che in Lui s’innalza una seconda volontà che è in lotta con la prima volontà della sua natura in disordine: il disordine del peccato. – E questa unione particolare fu compiuta da «Fiat» del Getsemani: «non come voglio Io, ma come vuoi Tu». Questa unione, infatti, era il soggetto della preghiera dell’agonia e del «Fiat»; e fu la causa della Croce che sarebbe seguita. – L’agonia del Getsemani, nel suo mistero ontologico, non sarebbe stata possibile, se l’Essere dell’agonia non fosse stato l’Essere dell’Incarnazione. L’agonia del Cristo esprime la sofferenza nello spirito e nel cuore e di conseguenza in tutta la natura umana; sofferenza che appartiene a questo unico Fiat d’amore indicibile: unirsi all’esistenza di tutti gli esseri umani che costituiscono la Storia. – L’unica Persona, che da sempre possiede la conoscenza oggettiva di ogni cosa, è Colui che è stato concepito a Nazareth, e Colui che è stato concepito a Nazareth è Dio. Soltanto Colui che al Getsemani, si è unito all’esistenza di ogni uomo, avendo accettato per amore di soffrire, nel suo Essere unico, il dolore di tutti i secoli, conosce con assoluta oggettività quella che noi chiamiamo: Storia. È Colui che, dopo la sua sofferenza interiore e universale al Getsemani, ha sofferto i dolori fisici e morali del martirio e della morte sulla Croce; Colui che, uomo e Dio per l’eternità, ha risolto nel suo essere per tutti gli uomini il mistero d’iniquità, con la sua Resurrezione. – L’uomo desidera l’oggettività, come desidera la vita eterna. Solo il Maestro della vita eterna può dare all’uomo l’oggettività. L’uomo non può progredire in conoscenza oggettiva se non unendosi sempre più al Signore della Storia, che per lui ha detto il «Fiat» del Getsemani. – Quando l’uomo riceve questa verità, tutte le leggi, le norme e le categorie della ragione umana si rigenerano e vieppiù si liberano dagli impedimenti delle opere morte e delle parole morte. A misura che l’uomo sottomette Dio e le opere di Dio al suo desiderio spesso molto sottile ma impetuoso di autonomia, svaniscono le vere leggi della ragione umana e si pietrificano le categorie. – Soltanto il soggetto assolutamente libero può essere assolutamente oggettivo. Per questo l’uomo, soltanto nella misura in cui riceve intimamente con amore la Rivelazione del Soggetto assoluto, può ottenere oggettività nelle sua visione degli esseri e delle cose. L’oggettività del sapere dell’uomo, ossia il grado di vera conoscenza dipende dalla sua unione ontologicamente spirituale con Colui che possiede tutta la realtà oggettiva, perché è Egli stesso la Verità eterna incarnata per l’eternità. – Questa fondamentale verità esclude dal cammino dell’uomo verso la conoscenza ogni teoria pluralistica. L’uomo non si trova di notte nella foresta, senza sapere dove andare e non è neanche «una successione di momenti». È un essere dotato di memoria, e questo lo pone contemporaneamente e nel tempo e fuori del tempo. Infatti, per il dono della memoria valica il tempo, e la «successione di momenti»; l’uomo nel corso della sua esistenza, arricchendosi indefinitamente e sviluppandosi continuamente, permane immutabile come essere e come potenziale di arricchimento e di espansione all’infinito. Il Cristo segue tutto il cammino dell’umanità ed è lo stesso ieri e oggi e nell’eternità. – Scartando la Rivelazione per cogitare su Dio e il mondo, fondandoci, per sottile desiderio d’autonomia, esclusivamente sui nostri propri mezzi d’indagine, perdiamo ogni possibilità di oggettività ed entriamo nella «notte esistenziale». Infatti per lo spirito è notte fonda, quando l’uomo, tutte le sue facoltà d’intendimento e di azione sono fissate sui «momenti fuggevoli», sull’«essere-qui» o l’«essere-là». Questo sguardo esistenziale, ossia il fatto di considerare tutte le cose senza fare continuo riferimento alla nostra più profonda realtà, al di là di ogni gioco del linguaggio delle parole esterne, elimina, nel nostro andare, la nostra propria realtà di coscienza e di memoria. Ed è impossibile riconoscersi ed essere veridici, perché rifiutare il Signore dell’oggettività equivale a rifiutare ontologicamente la verità. – La relatività dei momenti che trascorrono non può colpire l’essere che conosce e che ama. Quando però l’essere si lascia prendere dalla relatività, entra nel turbinio del discorso esistenziale, cosa che impedisce all’uomo di avere una vera immagine della sua esistenza e della nozione dell’esistenza. Il discorso può essere indefinito; e senza fine la coniatura dei vocabolari e delle espressioni; è il triste gioco della falsa filosofia che rifiuta di sottomettersi per ogni cosa al Signore della Storia, che è la Verità incarnata, che è l’ordine eterno di tutto il molteplice dell’universo e della Storia. – Quando, nel nostro spirito e nel nostro cuore, si svela il mistero del Getsemani e il suo rapporto con il «Fiat» dell’Annunciazione, un intero linguaggio diviene caduco, infatti ci si accorge che la Storia non può svelare alcun segreto né in merito alle leggi che la governano, né in merito ai fini ultimi dell’uomo. Essa non lo può, perché non ne ha conoscenza né coscienza. Una sola cosa può insegnare: il Sovrano della Storia ha detto il «Fiat» della sofferenza e dell’unione con l’esistenza di tutti gli uomini, per liberare ogni uomo, ogni volta unico, dalla morte e farlo entrare in un’altra realtà di vita eterna. – Riferirsi ogni volta, alla Storia, per evitare di riferirsi al Sovrano della Storia, è voler parlare alla polifonia, senza rivolgersi né a colui che ha composto la musica né a coloro che la eseguono. Solo il Creatore delle leggi e dei fini può conoscere la realtà dei fini ultimi di ogni cosa, il Creatore e coloro ai quali Egli lo rivela e che accolgono con umiltà e amore la sua Rivelazione. – Ogni uomo non può essere redento come società. È la Redenzione di ogni persona a poter creare un insieme di persone redente. È per amore per ogni persona d’Israele, per ogni Israelita, che Simeone ha avuto la gioia di ricevere nelle sue braccia il Redentore. Aveva ricevuto il messaggio divino, secondo il quale avrebbe dovuto vedere il Redentore prima di morire. E quando l’ha visto, ha provato gioia per la redenzione non di un’entità astratta, ma per tutti coloro che sarebbero redenti, e non a causa di un desiderio di uno stato forte e fiorente nella storia, e per questo ha detto: «Nunc dimittis servum tuum, Domine».

È stato lieto per la Luce di tutti gli uomini, che era il Cristo e per la Gloria d’Israele. Questa Gloria era il Cristo, che chiamava ogni israelita alla salvezza. Giacché Israele non era un’idea; era un insieme in cui ciascun membro era chiamato alla redenzione.

gregory-vii-siri8[1]

[Da Getsemani del Card. Giuseppe Siri [S.S. Gregorio XVII], Fraternità della Santissima Vergine Maria, Roma 1987 (pag.360-368)]

Un uomo forte … anzi due!

Un “uomo forte”, anzi … due!

s.giuseppe.

   In questo giorno in cui festeggiamo San Giuseppe lavoratore, vogliamo rendere omaggio al grande Santo con dei passaggi di un’omelia tenuta nel 1974 da S. S. Gregorio XVII, conosciuto dal mondo ordinario come il cardinal Giuseppe Siri. Come non notare le sottili allusioni che mettono in parallelo alcuni aspetti “nascosti” della vita di questi due “Giuseppe”!

Leggiamoli insieme:

“.. il brano di San Matteo (Cap. I, 16 e segg.) appena ascoltato, riguarda S. Giuseppe, del quale oggi celebriamo la solennità, brano che va letto anche in controluce. Ed ecco come. – Il brano presenta un momento drammatico per questo giovanissimo uomo. Egli si era sposato con gli intendimenti che tutti hanno quando si sposano. Si trova d’improvviso davanti ad un fatto che in quel momento superava la sua cognizione: Maria attendeva già Gesù. Non sa come districarsi. “Giusto”, come lo dice la stessa Sacra Scrittura – e nella terminologia biblica, la parola “giusto” indica l’onestà e la santità complessiva -, non vuole guastare nulla di lei e di altri, pensa di risolvere tutto nel silenzio. È un dramma. Ma il dramma si aggrava, perché interviene l’Angelo che gli svela la verità. E la verità per lui, l’uomo Giuseppe, è questa: per tutta la vita dovrà rinunciare ai suoi diritti maritali. Questa è la parte più grave del dramma. Egli china la testa, accetta e basta. In controluce questo appare un “uomo forte”. – Gesù più tardi avrebbe detto agli Apostoli impauriti: “Non si turbi il vostro cuore e non abbia paura” (Gv XIV, 27). Non era arrivato a tempo a dirlo a Suo padre putativo, ma quel comando, il padre putativo lo aveva già messo in pratica. – Badate bene che questo carattere di fortezza continua a dominare. Si tratta di andare, come narra S. Luca (II, 2 e segg.), a Bethlemme a fare il censimento: questo avrebbe portato a far sì che la maternità di Maria si sarebbe compiuta fuori di casa. Affronta il viaggio, affronta tutto quest’uomo, con quale stile sentiremo ora. È un “uomo forte”. Quando porta in Gerusalemme la Madre e il bambino – è ancora S. Luca (II, 22 e segg.) che lo racconta – per presentare il Bambino al Tempio e per compiere la purificazione della Madre, come era prescritto dalla Legge, si sente fare dall’ultimo dei profeti dell’Antico Testamento, S. Simeone, una profezia terribile: “tutto si sarebbe accanito contro di lui”. Egli non ha nulla da obiettare, china la testa, accetta. “Uomo forte”. – Viene la persecuzione di Erode, e qui è S. Matteo (II, 13 segg.) nuovamente che racconta. La persecuzione di Erode sarebbe stata terribile, lo sapevano tutti. Anche noi conosciamo molto bene questo Erode il Grande, attraverso le “Antiquitates Judaicae” di Giuseppe Flavio: ammazzava chiunque trovasse sulla sua strada e gli si opponesse; eliminò tutti i suoi parenti, tutti coloro che gli davano ombra; uccise con un calcio sua moglie; in previsione della sua morte, sei mesi dopo la nascita del Bambino e poco dopo l’ultimo suo delitto, la strage degli Innocenti, avrebbe fatto riunire nell’anfiteatro di Gerico tutti i notabili di Israele, facendoli circondare, dal sommo dell’anfiteatro stesso, dagli arcieri che avevano l’ordine di saettarli immediatamente, non appena avessero saputo che era morto, affinché quel giorno ci fosse pianto, ci fossero tanti morti che Gerico e tutto il regno fosse tutto cosparso di lacrime. Ora, Giuseppe sapeva con chi aveva da fare, lo sapevano tutti! – L’Angelo gli dice: “Parti”. Partire? Una donna e un bambino, indifesi, attraversare da soli tutto il tratto desertico che si estende a sud della pianura di Sharon, attraversare un tratto desertico che circonda il Mar Rosso, arrivare così alla terra opima e fertile perché bagnata dal Nilo; il viaggio era lungo, impervio, certo durò molto. -Quest’uomo non ha paura, affronta questo. Una donna apparentemente fragile, un bambino fragilissimo, la solitudine, il deserto, nessuna voce che rispondesse, solo le pietre: ha affrontato il viaggio ed è arrivato in Egitto. L’Egitto era allora economicamente prospero, non era difficile trovarvi lavoro, evidentemente ha lavorato. Ha affrontato questo con uno stile al quale vi rimando e del quale parlerò subito: l'”uomo forte”. – In tutta la sua vita mantenne il silenzio sulle cose che sapeva. Ebbe la capacità di tacere, e questo lo sappiamo, perché tanto S. Matteo (Mt 14, 54ss) che S. Luca (4, 14ss) ci narrano di un certo ritorno di Gesù, dopo cominciato il suo ministero evangelico, a Nazaret, e tutti si meravigliavano, non vedevano in Lui altro che il figlio del falegname, niente più. Il che voleva dire, ed era la prova provata, che in questa famiglia si era taciuto sempre la coerenza e la costanza con le quali il desiderio divino era stato assecondato: “Uomo forte”. -Per essere silenzioso fino a questo punto bisognava essere forti. -Non dimentichiamo che Nostro Signore ha voluto i più vicini a Sé “forti”, e i più vicini a Sé furono tre: Maria, che Lo accompagnò sul Calvario e non ebbe timore di dividere col Figlio nel cuore quanto Egli pativa nel corpo e nell’anima; Giuseppe, del quale stiamo parlando; il terzo, Suo cugino Giovanni il Battista, che per dire una verità contro un adultero ci lasciò la testa (quella tomba non sia una maledizione per quelli che vogliono il divorzio! Quella tomba guardatela bene!).

Gesù Cristo volle intorno a Sé degli uomini forti. – Gli Apostoli inizialmente lo furono un po’ meno, perché, in circostanze dinnanzi alle quali Giuseppe non scappò, essi scapparono tutti, dal primo all’ultimo. Due trovarono un po’ di forza per ritornare sui loro passi, ma con diverso esito, e tutti lo sappiamo. Ma tutto questo ci insegna che Iddio ama gli uomini forti, gli uomini che sanno essere dritti, che camminano secondo la direttiva della verità e non della moda o del comodo, che sanno prendere tutti gli strali che possono partire da qualunque parte pur di non rinnegare la dirittura della loro via, che è la via della verità. Dio ama costoro e ne ha bisogno perché è Lui che lo vuole. Chi può intenda! Di uomini molli ce ne sono anche troppi a questo mondo e rappresentano la ragione per cui il mondo rischia di andare a fondo. Non va a fondo per gli uomini forti, ma per gli uomini molli, deboli!”

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L’uomo forte! L’uomo che vive nascosto al mondo, che non appare nel suo ruolo da Dio assegnatogli. Solo Dio sa e conosce la forza, il coraggio di quel silenzio, della sofferenza amata, accettata senza “ma” e senza “se”. L’uomo “forte” si fida di Dio, l’uomo “forte” obbedisce senza intralciare la volontà dell’Onnipotente, l’uomo molle vuole spiegazioni, vuol capire ed avere sempre ragione! L’uomo “forte” si rifugia nella solitudine e nella sofferenza, l’uomo molle vuole la gloria del mondo, gli onori, la visibilità! Due “Giuseppe”, due uomini forti, nascosti, disprezzati, combattuti, esiliati: gli uomini “forti” che Dio ama!

Omelia della Domenica V dopo Pasqua.

Omelia della V Domenica dopo Pasqua.

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napolitana Vol. II -1851-]

preghiera

-Preghiera-

   “Qualunque grazia voi chiederete”, cosi il divin Salvatore a’ suoi discepoli, e in persona dei suoi discepoli a noi, come leggiamo nell’odierno Vangelo, “qualunque grazia voi chiederete in nome mio all’eterno mio Genitore, senza alcun dubbio voi l’otterrete, Io ne impegno la mia parola: “Amen, amen dico vobis : si quid petieritis patrem in nomine meo, dabit vobis”. Ma voi finora non avete domandato cosa alcuna, “usque modo non petistis quidquam in nomine meo”. Via su domandate, chiedete, e v’assicuro che le vostre preghiere saranno esaudite, “petite et accipietis”. In queste divine parole traluce un lampo della divina onnipotenza, e della divina bontà: dell’onnipotenza, poiché non si restringe a quello o a quell’altro genere di grazie, ma tutte le promette Chi tutte le ha in mano, si quid petieritis”; della divina bontà, che arriva perfino a lagnarsi che non le siano chieste grazie, “usque modo non petistis quidquam”. Conviene ben dire che sia grande il desiderio del Redentor nostro di farci del bene, mentre si lagna di non esser chiesto che ci faccia del bene. Al suo desiderio si aggiunge l’intenzione della nostra madre la santa Chiesa, che in questa Domenica prossima e immediata alle pubbliche solenni preghiere, che Rogazioni si appellano, ci propone il presente Vangelo per animare la nostra fiducia, e spingerci a domandare al dator di ogni bene le grazie delle quali abbisogniamo. Seguendo ora di entrambi il desiderio e lo spirito, passo a dimostrarvi la necessità, e l’efficacia della preghiera; necessità che non può esser maggiore; efficacia, che può essere più grande, se mi accordate la solita gentile vostra attenzione.

I . La necessità della preghiera va del pari colla necessità della grazia. È certo per fede che non siam capaci del minimo atto buono in ordine alla vita eterna senza il superno aiuto della divina grazia. “Sine me…”, detto è dall’incarnata verità Cristo Gesù,“sine me nihil potestis facere(Joann.XV,5). Osservate, commenta S. Agostino, che il Salvatore non dice, senza di me potete far poco, ma nulla “non ait, quia sine me parum potestis facere, sed nihil(Tract. 81, in Joann.). Siam come tralci, che uniti alla vite producono frutto, staccati da quella sono inutili sarmenti, non ad altro uso buoni, che al fuoco.

Ammessa la necessità della grazia, stabilisce la necessità della preghiera. Trovatemi un uomo, scrivea S. Girolamo contro i Pelagiani, che non abbia bisogno di grazia, ed io vi dirò che neppur abbisogna di preghiera. Iddio, secondo la dottrina de’ Santi Agostino, Tommaso, Crisostomo, Damasceno, ha determinato fin dall’eternità di dar all’anime le grazie necessarie alla loro eterna salute, non per mezzo, che per quello dell’orazione. Nella stessa guisa che la sua provvidenza à stabilito, che la terra abbondasse di frumento e di ogni altro frutto, mediante però l’opportuna coltura. Si eccettuano, soggiunge S. Agostino, due sole grazie eccitanti, che, come una pioggia volontaria, vengono in noi senza di noi, qual sono la chiamata alla fede e alla penitenza. Tutte le altre però in noi derivano non da altro canale, che dalla preghiera. Che cosa dice nell’ odierno Vangelo l’amorosissimo nostro Salvatore: domandate, e vi sarà dato “petite, et accipietis”. La grazia mia è sempre pronta, purché preceda la vostra domanda. “Petite”, ecco la condizione, “accipietis”, ecco la grazia. Volete la grazia? Adempite la condizione, senza di questa non potete sperarla. La preghiera è la chiave de’ celesti tesori; questi saran sempre chiusi per chi non adopera la chiave ad aprirli. Ed ecco il perché, soggiunge l’Apostolo S. Giacomo, siete poveri, e mancate delle grazie, che Iddio vi tien preparate, perché non vi curate di farne richiesta, “non abetis propter quod non postulatis( Joann. IV, 2). Come campan la vita i poveri mendicanti? Col chieder pane alla porta de’ facoltosi. E noi, dice S. Giovanni Crisostomo, siamo poveri pezzenti, che dobbiamo alla porta del Padre celeste, ricco in misericordia, chieder soccorso, se non vogliamo morire d’inedia.

Premurosa di nostra salvezza Cristo Signore rinnova l’avviso, “oportet semper orare, et nunquam deficere” (Luc. XVIII). Notate la forza del termine “oportet”, fa d’uopo, bisogna pregar sempre, e mai cessare dalla preghiera; perché, al dire dell’angelico S. Tommaso, la preghiera è necessaria all’anima, come al corpo il respiro. Non già che si debba in ogni momento occupare la lingua o il cuore in orazione continua, indefessa; ma l’enfatica espressione prova la necessità: il modo poi va inteso, come chi dicesse: bisogna sempre cibarsi, vale a dire a dati tempi. Per simil modo si può dire che uno preghi sempre, se in date ore costantemente si eserciti in cristiane preghiere, come appunto facea il Profeta Daniele, che in tre diverse ore del giorno avea il religioso costume di raccogliersi alle sue stanze, e far la sua orazione adorando il Dio d’Israele.

Posta ora e provata la stretta e rigorosa necessità della preghiera, quanto dovrà compiangersi la negligenza di tanti cristiani, che passano i giorni e i mesi senza raccomandarsi a Dio! È sentenza de’ Padri e teologi, che l’omissione della preghiera per un tempo notabile non va esente da colpa mortale; perciocché la preghiera è necessaria a salvarsi per i due più precisi motivi di necessità di precetto, e necessità di mezzo. Come dunque potranno sperare la loro salvezza quei che non adempiono questo precetto, quei che non adoprano questo mezzo? Quei che vanno abitualmente al riposo senza un segno di croce, e vi ritornano senza un segno di cristiano? Quei che credono di pregare masticando preci e rosari col sonno agli occhi, colla distrazione della mente, coll’allontanamento del cuore? Sono costoro in maggior pericolo di dannazione di chi affatto non prega. Chi non prega sa di esser colpevole, e questa cognizione può giovargli all’emenda; ma chi, pregando colla sua lingua, crede di pregar bene, non conoscendo la propria colpa, il suo inganno lo lusinga, lo accieca, lo rende incapace a rimedio.

II. Se tanta è la necessità della preghiera, non minore è la sua efficacia. La preghiera, dice S. Ilario, fa al cuor di Dio una dolce violenza, “Oratio pie Deo vim infert”. E d’onde prende ella mai la sua forza? Da tre capi: dalla bontà di Dio, dalla parola di Gesù Cristo, e dalla nostra cooperazione. Dalla bontà di Dio, primamente. Di questa udite come parla il nostro divin Salvatore. Se ad un padre terreno domanda pane il proprio figlioletto, invece di pane gli presenta forse una pietra? Se gli chiede un pesce, gli da forse un serpente? Se un uovo, gli porge forse uno scorpione? Se dunque voi, che siete una razza cattiva, vi sentite muovere il cuore a donare a’ vostri figli quel che vi chiedono, quanto più il Padre mio, la cui natura è bontà, accorderà alle vostre suppliche lo spirito di perseveranza se siete giusti, lo spirito di penitenza se peccatori, in somma tutte le grazie più opportune e necessarie alla vostra santificazione e salvezza? “Quanto magis Pater vester de coelo dabit spiritum bonum petentibus se”? ( Luca XI) .

In cento luoghi delle Scritture sacre si protesta il nostro buon Dio che ascolterà le nostre voci, che accoglierà le nostre istanze, che si moverà a’ nostri clamori, che aprirà le sue orecchie, che stenderà la sua destra a nostro sollievo. Eccovi un tratto, dice il re Profeta, della gran bontà del suo cuore. La sua provvidenza si estende fino ai pulcini del corvo, allorché sono da’ loro genitori abbandonati. Al veder le aperte lor bocche fameliche, al sentir le querule strida, fa che si aggiri intorno al nido una turba foltissima di moscherini, dei quali con piacer si alimentano. Sia o non sia ciò che ci narrano gl’indagatori della natura, il vero si è che essi L’invocano, ed Egli li pasce, “dat escam pullis corvorum invocantibus eum” [Psal. CXLVI,10]. Se dunque da Dio pietoso si ascoltano le voci d’ignobili animalucci, con quanta maggior bontà darà ascolto alle preghiere di noi, che siam suoi figliuoli, se Gli chiederemo il cibo vivifico della sua grazia?

Dalla parola di Gesù Cristo in secondo luogo prendono la loro efficacia le nostre preghiere. Con una specie di giuramento Ei ci assicura che qualunque grazia imploreremo in suo nome dal suo celeste Genitore, ci sarà infallibilmente concessa. “Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vabis” [Joann. XIII, 38]. Alla parola di tanta sicurezza aggiunge l’invito ch’Egli ci fa nelle più pressanti maniere di pregare, e non cessar di pregare. Domandate e vi sarà dato, “petite , et dabitur vobis”, cercate e ritroverete, “quaerite, et invenietis, battete alla porta della divina clemenza, e vi sarà aperto, “pulsate, et aperietur vobis”. Che più si desidera per esser certi che le nostre suppliche avran favorevol rescritto?

Ma le nostre preghiere, dicon certe anime timorate, sono fiacche, sono deboli, sono di niun valore. Non temete, purché partano dal vostro cuore, purché fatte in nome di Gesù Cristo saranno a Dio accettevoli e care. Le nostre preghiere si possono rassomigliare, con S. Giovanni Crisostomo, a quelle monete, delle quali parla Seneca, monete di cuoio e di legno, a’ tempi degli antichi Romani. Avvi cosa più abbietta di un pezzo di cuoio o più meschina di un pezzetto di legno? Pure, perché corredate della impronta di Numa Pompilio imperatore, avean corso e valore in tutto l’impero. Non altrimenti son miserabili le nostre preghiere, son di niun prezzo; ma fatte in nome di Gesù Cristo acquistano con questa impronta prezzo, virtù ed efficacia. Ed è perciò che la Chiesa, inerendo alle parole del Salvatore, che in suo nome saran da noi richieste le grazie, “in nomine meo”, conchiude tutte le sue orazioni, dirette all’eterno Padre, con quella nota formola : “Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum”.

La nostra cooperazione in fine si richiede per rendere a Dio accetta e a noi vantaggiosa la preghiera. Tre condizioni devono accompagnarla: l’umiltà, la fiducia, e la perseveranza. L’orazione di un’anima umile penetra i cieli, “oratio humiliantis se nubes penetrabit” (Eccli. 32, 21), e presentandosi al divino cospetto, di là non parte senza che Dio l’accolga e l’esaudisca, “et non discedet, donec Altissimus aspiciat”. Ne abbiamo l’esempio nel Pubblicano, che in fondo del Tempio, umiliato, confuso non ardiva alzar gli occhi da terra, e unendo alla preghiera la confessione di esser egli peccatore, venne esaudito e giustificato.

   All’umiltà va congiunta la fiducia. Chi pregando ha il cuor titubante, e l’animo diffidente, è simile, dice S. Giacomo, ai flutti del mare agitato da’ venti; non isperi costui di cosa alcuna dal Signore. La confidenza, miei cari, la fiducia deve animare il nostro cuore pregando. A farne conoscere l’importanza il divin Salvatore, prima di far quelle grazie prodigiose a sollievo de’ peccatori e degl’infermi, esigeva da loro questa fiducia e confidenza. “Confide, fili,” disse al paralitico “remittuntur tibi peccata tua”; “confide filia, disse all’Emorroissa; così al cieco di Gerico, così a tanti altri, alla confidenza de’ quali assegnava la causa degli ottenuti prodigi. E come possiamo temere, interroga S. Agostino, che Iddio ci neghi quel ch’egli stesso ci esorta a domandare? “Hortatur ut petas, negabit quod petis”?

La perseveranza finalmente è l’importantissima condizione per rendere efficaci le nostre preghiere. Giuditta, ispirata da Dio a liberar la sua patria, cominciò la grande impresa colla preghiera, proseguì colla preghiera, e nell’atto di troncar il capo ad Oloferne, accompagnò il colpo con fervorosissima preghiera. La Cananea, perché, non ostante le replicate ripulse, perseverò a chiedere al Salvatore la grazia per l’ossessa sua figlia, fu finalmente esaudita e consolata. Gli Apostoli nel cenacolo, perché “perseverantes in oratione”, ricevettero lo Spirito Santo. Se la nostra orazione sarà perseverante, la divina misericordia ci sarà sempre propizia. La perseveranza finale, che è la corona di tutte le grazie, sebbene non si possa meritare “de condigno”, come ha definito la Chiesa nel Concilio Tridentino, pure Iddio non la nega a chi è assiduo e perseverante in domandarla. Io vorrei, scrive fa un dotto zelantissimo autore (il Segneri), poter dar fiato ad una tromba, come quella che si farà sentire per l’universo nel giorno estremo, e gridar forte a tutti, pregate, raccomandatevi; raccomandatevi, pregate, se volete salvarvi. Altrettanto dicea e lasciò scritto S. Alfonso de Liguori: “se potessi parlare a tutt’i predicatori e confessori del mondo, vorrei dire loro: “Fate ben penetrare nella mente a nel cuore de’ vostri uditori e penitenti questa gran massima: “Chi prega si salva, e chi non prega si danna”. Udiste, fratelli amanissimi, il modo con cui si dee pregar sempre, cioè con umiltà, con fiducia, con perseveranza: mettetelo in pratica, e sarete salvi!

La vera carità

LA VERA CARITA’ 

   Taluni si lamentano che a volte, anche in questo umile ed insignificante blog, si usino espressioni forti nell’attaccare apostati, eretici, falsi tradizionalisti, maschere carnevalesche e marrani incalliti. A costoro, chiaramente in malafede, noi non possiamo rispondere, non ci sentiamo in grado di farlo, vista la nostra infima statura culturale e la scarsa capacità oratoria. Però, grazie a Dio, c’è chi lo ha già fatto per noi, per cui ci limitiamo a ricopiare fedelmente alcuni capitoli dell’opera di Felix Sarda y Salvany del 1884 “El liberalismo es pecado”! È una musica celestiale per le orecchie di un cattolico!

N.B.:al termine “liberale”, possiamo sostituire: “apostata modernista”, o se preferite: “esponente della setta ecumenista-mondialista” … fate voi!

 liberalismo

-Cap. XXI-

La sana intransigenza cattolica opposta alla falsa carità liberale

   Intransigenza! Intransigenza! Io sento una parte dei miei lettori più o meno intaccati dal liberalismo lanciare queste grida dopo la lettura del capitolo precedente. Che maniera poco cristiana di risolvere la questione, dicono!

I liberali sono, si o no, il nostro prossimo, come gli altri uomini? Con tali idee dove andremo? È mai possibile proporre con una simile impudenza la condanna della carità!

“Siamo al punto, infine!” Noi grideremo a nostra volta. Ah! Ci si getta sempre in faccia questa pretesa nostra mancanza di carità. Ebbene! Poiché è così, noi risponderemo nettamente a questo rimprovero che per molti, riguardo a questo soggetto, è un grande cavallo di battaglia. E se non lo è, perlomeno serve da paraurti ai nostri nemici, e, come ha detto con grande spiritualità un autore, obbliga gentilmente la carità a servire da barricata contro la verità. Ma, prima di tutto,

cosa significa la parola carità? 

   La teologia cattolica ne dà una definizione tratta dall’organo più autorevole per l’insegnamento al popolo, il Catechismo, così pieno di saggezza e di filosofia. Ecco questa definizione: “la carità è una virtù soprannaturale che ci inclina ad amare Dio sopra ogni altra cosa e il prossimo come noi stessi per amor di Dio”. Così, dopo Dio, noi dobbiamo amare il prossimo come noi stessi, e ciò, non in una qualsiasi maniera, ma per l’amore che portiamo a Dio e per obbedienza alla sua legge.

E ora, che cosa significa amare?

   Amare è volere il bene, risponde la filosofia, “amare, è volere il bene per colui che si ama”. A chi la carità comanda di voler bene? Al prossimo! Cioè non a tale o tal altro uomo solamente, ma a tutti gli uomini. E quale è questo bene che bisogna volere perché ne risulti un vero amore ? Prima di tutto, il bene supremo, che è il Bene soprannaturale; immediatamente dopo i beni nell’ordine naturale, che non siano incompatibili con esso. Tutto ciò si riassume nella frase: “per l’amore di Dio” e in mille altre il cui senso sia lo stesso.

Ne consegue che si può amare il prossimo, bene e molto, sia facendogli dispiacere, sia contrariandolo, oppure causandogli un pregiudizio materiale o perfino in certe occasioni privandolo della vita.

Tutto si riduce, insomma, a esaminare se in tutti questi casi si operi, sì o no, per il suo bene proprio, per il bene di qualcuno i cui diritti sono superiori ai suoi, o semplicemente per il più grande servizio di Dio.

1°)– Per il suo bene. – Se è dimostrabile che dispiacendo al prossimo, offendendolo, si sia agito per il suo bene, sarebbe evidente che noi lo amiamo, anche nelle contrarietà e dispiaceri che gli abbiamo imposto. Per esempio: si ama il malato bruciandogli con il fuoco o tagliandogli il membro affetto da cancrena; si ama il malvagio correggendolo con la repressione e le punizioni, etc. etc., tutto ciò è carità, e carità perfetta!

2°)– Per il bene di un altro i cui diritti siano superiori.- È sovente necessario dispiacere una persona, non per il suo proprio bene, ma per togliere a qualcun altro il male che ella gli causa. Si tratta allora di un obbligo di carità difendere l’aggredito contro l’ingiusta violenza; e può capitare di fare all’aggressore tanto male quanto sia necessario per la difesa dell’aggredito, ciò che accade quando si uccide un brigante alle prese con un viaggiatore. In questo caso, uccidere l’ingiusto aggressore, ferirlo, ridurlo in ogni maniera all’impotenza, è fare un atto di vera carità!

3°)– Per il servizio dovuto a Dio. – Il Bene di tutti i beni è la Gloria divina, allo stesso modo che Dio è per ogni uomo il più prossimo di tutti i prossimi. Di conseguenza, l’amore dovuto all’uomo in quanto prossimo deve sempre essere subordinato a quello che noi tutti dobbiamo al nostro comune Signore. Per il suo amore dunque e per il suo servizio (se è necessario), occorre dispiacere agli uomini, ferirli e perfino (sempre quando sia necessario) ucciderli. Fate bene attenzione alla grande importanza delle parentesi (quando sia necessario): esse indicano chiaramente il solo caso in cui il servizio di Dio esiga tali sacrifici.

Allo stesso modo che in una guerra giusta gli uomini si feriscono e si uccidono per il servizio alla patria, così essi possono ferirsi o uccidersi per il servizio di Dio.

E ancora: allo stesso modo che si può, in conformità alla legge, giustiziare degli uomini a causa delle loro infrazioni al codice umano, si ha il diritto, in una società cattolicamente organizzata, di fare giustizia degli uomini colpevoli di infrazione al codice divino, in quelli dei suoi articoli obbligatori nel foro esterno. Così si trova giustificata, sia detto “en passant”, l’Inquisizione tanto maledetta. Tutti questi atti (beninteso quando essi siano giusti e necessari) sono degli atti virtuosi e possono essere comandati dalla Carità.

Il liberalismo moderno non la vede in questo modo, ma in ciò ha torto. Da questo deriva che esso concepisca e dia una nozione falsa della carità ai suoi adepti. Con le sue invettive e le sue banali accuse di intolleranza e di intransigenza rinnovate senza interruzione, esso sconcerta perfino i cattolici più fermi. La nostra concezione, per noi, è tuttavia ben chiara e concreta.

Eccola: la sovrana intransigenza cattolica non è altro che la sovrana carità cattolica. Questa carità si esercita relativamente al prossimo, quando, nel suo proprio interesse, essa lo confonde, l’umilia, l’offende e lo fa soffrire. Essa agisce verso terze persone, allorquando per liberarle dall’errore e dal suo contagio, essa ne smaschera gli autori e i fautori, chiamandoli con il loro vero nome: malvagi, perversi, destinandoli all’orrore, al disprezzo, denunciandoli all’esecrazione comune, e quando sia possibile, allo zelo delle autorità sociali incaricate di reprimerli e di punirli.

Infine questa carità si esercita relativamente a Dio, quando per la sua Gloria e il suo Servizio, diventi necessario imporre il silenzio a tutte le considerazioni umane, superare tutti i limiti, tralasciare ogni rispetto umano, ferire tutti gli interessi, esporre la propria vita e tutte le vite allorquando il loro sacrificio fosse necessario al raggiungimento di un così alto fine.

Tutto ciò è pura intransigenza nel vero Amore e, per conseguenza, sovrana Carità.

I tipi umani di questa intransigenza sono gli eroi più sublimi della Carità, come la comprende la Vera Religione. E poiché ai nostri giorni ci sono così pochi veri intransigenti, ci sono anche poche persone veramente caritatevoli. La carità liberale, attualmente alla moda, [ed oggi anche la falsa misericordia –n.d.r.-] è condiscendente, affettuosa, perfino tenera, nella forma, ma in fondo essa non è che il disprezzo essenziale dei veri beni dell’uomo, dei supremi interessi della Verità e di Dio.

-Cap. XXII-

La carità nelle forme della polemica: i liberali hanno ragione su questo punto contro gli apologisti cristiani?

 

Non è tuttavia sul terreno dei principi del liberalismo che a tutta prima si deve dare battaglia, perché si sa troppo bene che nella discussione sui principi, esso avrebbe a subire un’irrimediabile disfatta. Il liberale preferisce accusare senza interruzione i cattolici di esercitare poca carità nelle forme della loro propaganda. E’ su questo punto, come abbiamo già detto, che certi cattolici, in fondo buoni, ma intaccati di liberalismo, si scagliano ordinariamente contro di noi. Vediamo ciò che c’è da dire su questo punto. Cattolici, noi abbiamo ragione su questo punto come su tutti gli altri, ma i liberali non ne hanno neppure l’ombra. Fermiamoci un momento per convincerci di ciò sulla base delle seguenti considerazioni:

1°)– Il cattolico può trattare apertamente il suo avversario in quanto “liberale”, se egli lo è realmente, e questo nessuno lo metterà in dubbio. Se un autore, un giornalista, un deputato fa mostra di liberalismo e non nasconde le sue preferenze liberali, come si può dire che lo si insulta chiamandolo “liberale”? Si palam res est, repetitio injuria non est: “dire ciò che tutti sanno, non è un’ingiuria.”. A maggior ragione, dire del prossimo ciò che lui stesso afferma in tutti i momenti, non può costituire offesa. Quanti liberali tuttavia, soprattutto nel gruppo delle persone miti e di quelle moderate, giudicano ingiuriose le espressioni di “liberali” o “amici dei liberali” riferite loro da qualche avversario cattolico.

2°)- essendo dato che il liberalismo è una cosa malvagia, definire malvagi i difensori pubblici e coscienti del liberalismo, non è una mancanza di carità. Si tratta in sostanza, di applicare al caso presente la legge di giustizia in uso in tutti i secoli. Noi, cattolici di oggi, non diciamo nulla di nuovo a questo riguardo. Noi ci atteniamo alla pratica costante dell’antichità. I propagandisti e i fautori delle eresie sono stati in tutti tempi definiti eretici quanto i loro autori. E siccome l’eresia è sempre stata considerata nella Chiesa come un male dei più gravi, la Chiesa ha sempre definito malvagi e cattivi i suoi fautori e propagatori. Vedete l’insieme degli autori ecclesiastici, voi noterete come gli Apostoli abbiano trattato i primi eresiarchi, come i santi Padri, i controversisti moderni e la Chiesa stessa nel suo linguaggio ufficiale, li hanno imitati. Non c’è dunque alcun peccato contro la carità nel chiamare il male “Male”, malvagi gli autori, fautori e discepoli del male, iniquità, scelleratezza, perversità, l’insieme dei loro atti, parole e scritti. Il lupo è stato sempre chiamato “lupo” senza giri di parole, e mai chiamandolo così si è creduto di fare torto al gregge e al suo pastore.

3°)- se la propaganda del bene e la necessità di attaccare il male esigono l’impiego di termini un poco duri contro gli errori e i loro corifei riconosciuti, questo impiego non è assolutamente contrario alla carità. Vi è qui un corollario o una conseguenza del principio sopra dimostrato. Occorre rendere il male detestabile e odioso. Ora non si ottiene questo risultato senza mostrare i pericoli del male, senza dire quanto esso sia perverso, odioso e da disprezzare. L’arte oratoria cristiana di tutti i secoli autorizza l’impiego delle figure retoriche più violente contro l’empietà. Negli scritti dei grandi atleti del Cristianesimo, l’uso dell’ironia, dell’imprecazione, dell’esasperazione, degli epiteti “pesanti” è continuo. In questo campo l’unica legge deve essere l’opportunità e la verità.

Esiste ancora un’altra giustificazione per questo uso di termini un poco duri.

La propaganda e l’apologetica popolari (esse sono sempre popolari quando sono religiose) non possono conservare le forme eleganti e temperate dell’accademia e della scuola. Per convincere il popolo occorre parlare al suo cuore e alla sua immaginazione che non possono essere toccate che da un linguaggio colorito, bruciante, appassionato. Essere appassionati non è reprensibile quando si è tali per un santo ardore di Verità.

Le pretese violenze del giornalismo ultramontano moderno non solo sono molto inferiori a quelle del giornalismo liberale, ma esse sono ancor più giustificate da tutte le pagine delle opere dei nostri grandi polemisti cattolici delle epoche migliori, ciò che è facile da verificare.

San Giovanni battista cominciò col chiamare i farisei: “razza di vipere”. Gesù Cristo nostro Signore lanciò loro gli epiteti “di ipocriti, di sepolcri imbiancati, di generazione perversa e adultera” senza per questo credere di macchiare la santità della sua predicazione così misericordiosa.

San Paolo stesso diceva degli scismatici di Creta che essi erano dei “mentitori, delle bestie selvagge, fannulloni obesi”. Il medesimo Apostolo definisce il mago Elymas “seduttore, uomo pieno di frode e di furberia, figlio del diavolo, nemico di ogni verità e giustizia”.

Se noi apriamo la collezione delle opere dei Padri, incontriamo dappertutto degli scritti di questa natura. Essi li impiegarono senza esitare, in ogni occasione, nella loro eterna polemica con gli eretici. Limitiamoci a citarne qualcuno dei principali.

San Girolamo discutendo con l’eretico Vigilanzio gli getta in faccia la sua antica professione di teatrante. “Dai tempi della tua prima infanzia, gli disse, tu apprendesti altra cosa che la teologia e ti abbandonasti ad altri studi. Verificare nello stesso tempo il valore delle monete e quello dei testi delle Scritture, degustare i vini e possedere il significato dei Profeti e degli Apostoli: queste non sono certamente cose in cui lo stesso uomo possa cavarsela con onore”! È facile rendersi conto della predilezione del Santo controversista per questa maniera di discreditare il proprio avversario. In un’altra occasione, attaccando il medesimo Vigilanzio, che negava l’eccellenza della verginità e del digiuno, gli domanda, col suo solito buon umore, se il motivo della sua opposizione a queste virtù non fosse il minore afflusso che avrebbero causato ai suoi spettacoli.

Oddio! Che grida avrebbero gettato i critici liberali, se uno dei nostri controversisti avesse scritto in questo modo contro l’eretico del giorno!

Che diremmo di San Giovanni Crisostomo? La sua famosa invettiva contro Eutropio non è paragonabile, dal punto di vista del carattere personale e dell’aggressività, che alle più crudeli invettive di Cicerone contro Catilina o contro Verre. Il dolce San Bernardo non era certamente mellifluo allorquando si trattava dei nemici della Fede. Indirizzandosi ad Arnaldo da Brescia, il grande agitatore liberale del suo tempo, egli lo definisce in tutte le lettere “seduttore, vaso di iniquità, scorpione, lupo crudele”!

Il pacifico San Tommaso d’Aquino dimentica la calma dei suoi freddi sillogismi per lanciare contro il suo avversario, Guglielmo da Saint-Amour e i suoi discepoli, le violente parole che seguono. “Nemici di Dio, ministri del diavolo, membra dell’anticristo, ignoranti, perversi, riprovati”. Mai l’illustre Louis Veuillot ne ha dette tante!

Il serafico San Bonaventura, così pieno di dolcezza, si serve contro Gérald di tali epiteti: “impudente, calunniatore, spirito di malizia, empio, pubblicano, ignorante, impostore, malfattore, perfido e insensato”.

Nei tempi moderni noi vediamo apparire la splendida figura di San Francesco di Sales che per la sua delicatezza squisita e la sua ammirevole mansuetudine hanno chiamato “l’immagine vivente del Salvatore”. Voi credete che egli ebbe dei riguardi per gli eretici della sua epoca del suo paese? Vediamo dunque!

Egli perdonò loro le ingiurie e li riempì di benefici, arrivò fino a salvare la vita di quelli che avevano attentato alla sua, fino al punto di dire ad uno dei suoi avversari: “se voi mi strappaste un occhio, io non smetterei con l’altro di guardarvi come un fratello”; ma con i nemici della Fede, egli non conservava alcuna moderazione, alcuna considerazione.

Interrogato da un cattolico desideroso di sapere se gli era permesso di parlare male di un eretico che spargeva cattive dottrine, egli gli rispose: “Sì, voi potete farlo, a condizione di attenervi all’esatta verità, a ciò che voi sapete della sua malvagia condotta, presentando ciò che è dubbioso come dubbioso e secondo il grado più o meno grande di dubbio che voi avrete a questo riguardo”.

Nella sua “Introduzione alla vita devota”, libro così prezioso e popolare, egli si esprime più chiaramente ancora: “I nemici dichiarati di Dio e della Chiesa, dice a Filoteo, devono essere biasimati e censurati con tutta la forza possibile. La Carità ci obbliga a gridare al lupo, quando un lupo si sia infiltrato in mezzo al gregge e allo stesso modo in quei luoghi in cui vi sia il rischio di incontrarlo”.

Sarà dunque necessario per noi di fare un corso pratico di retorica e di critica letteraria per affrontare i nostri nemici? Insomma, noi abbiamo appena detto ciò che c’è di vero nella questione tanto dibattuta delle forme aggressive utilizzate dagli scrittori cattolici ultramontani, cioè dai “veri” cattolici. La carità ci proibisce di fare agli altri ciò che ragionevolmente non vorremmo che fosse fatto a noi. Notate l’avverbio “ragionevolmente”, esso specifica tutta l’essenza della questione.

La differenza essenziale che esiste tra la nostra maniera di vedere e quella dei liberali a questo proposito, consiste nel fatto che essi considerano gli “apostoli” dell’errore come dei semplici cittadini liberi, che usano il loro pieno diritto quando esprimono il proprio parere, in materia di religione, diversamente da noi. Di conseguenza essi si credono tenuti a rispettare l’opinione di chiunque e di non contraddirla se non nei termini di una discussione libera.

Noi altri, al contrario, vediamo in essi i nemici dichiarati della Fede che noi siamo “obbligati” a difendere. Noi non vediamo nei loro errori delle libere opinioni, ma delle eresie formali e colpevoli, nel modo che ce lo insegna la Legge di Dio.

   È dunque con ragione che un grande storico cattolico ha detto ai nemici del cattolicesimo: “Voi vi rendete infami con i vostri atti ed io arriverò a coprirvi d’infamia con i miei scritti”. In questo stesso modo la legge delle 12 tavole ordinava alle virili generazioni dei primi tempi di Roma: Adversus hostem aeterna auctoritas esto! Ciò che può essere tradotto così: “contro il nemico, mai nessuna tregua!”.

s. Agostino

Cap. XXIII

Conviene, mentre si combatte l’errore, combattere e screditare la persona che lo sostiene ?

   Passi la guerra contro dottrine astratte, dirà qualcuno. Ma conviene combattere l’errore, per quanto evidente esso sia, abbattendosi e accanendosi contro le persone che lo sostengono?

Ecco la nostra risposta!!:

Si, spesso conviene e non solamente conviene, ma ancor più è indispensabile, meritorio davanti a Dio e davanti alla società, che sia così.

Questa affermazione deriva da ciò che è stato precedentemente esposto, tuttavia noi vogliamo trattarla qui ex-professo tanto è grande la sua importanza.

L’accusa di fare dei personalismi non è di solito rivolta agli apologisti cattolici se non quando gli intaccati di liberalismo gettano quest’accusa contro uno dei nostri, e sembra loro che non vi sia più niente da appurare per la sua condanna. Tuttavia essi si sbagliano, sì, in verità, si sbagliano. Occorre discreditare e combattere le idee malsane e ancor più bisogna ispirare l’odio, il disprezzo e l’orrore, verso queste idee, nella moltitudine che cercano di sedurre e reclutare.

Le idee non si sostengono in alcun caso da se stesse, esse non si diffondono né si propagano per il solo fatto di esistere; non potrebbero da sole produrre tutto il male di cui soffre la società. Esse assomiglierebbero a frecce o a pallottole che non ferirebbero nessuno, se non si usassero archi o fucili.

È dunque contro l’arciere e il fuciliere che deve rivolgersi, innanzitutto, colui che vuol metter fine ai loro tiri assassini!

Qualsiasi altro modo di guerreggiare sarà liberale quanto si vorrà, ma sarà insensato. Gli autori e propagatori di dottrine eretiche sono dei soldati che usano delle armi caricate con proiettili avvelenati. Le loro armi sono il libro, il giornale, il discorso pubblico, l’influenza personale [oggi i mezzi di comunicazione –n.d.r.-]. È sufficiente portarsi a destra o a sinistra per evitare i colpi? No, la prima cosa da fare, la più efficace, è quella di eliminare il tiratore.

Così dunque conviene togliere qualsiasi autorità, qualsiasi credito al libro, al giornale e al discorso del nemico, ma conviene anche, in certi casi, fare altrettanto per la sua persona, sì, per la sua persona che è incontestabilmente l’elemento principale della lotta, come l’artigliere è l’elemento principale dell’artiglieria e non la bomba, la polvere e il cannone.

È dunque lecito in certi casi rivelare al pubblico le sue infamie, ridicolizzare le sue abitudini, trascinare il suo nome nella polvere!

Si, lettore, ciò è permesso, permesso in prosa, in versi, in caricatura, in un tono scherzoso o meno, con tutti i mezzi e procedimenti che l’avvenire potrà inventare. Importa solamente non mettere la menzogna al servizio della giustizia. Questo no, sotto nessun pretesto può essere portata offesa alla Verità, nemmeno d’uno iota.

Ma senza uscire dai suoi stretti limiti si può ricordare questa parola di Cretinau-Joly e trarne profitto: la Verità è la sola carità permessa alla storia, si potrebbe anche aggiungere: e alla difesa della Religione e della Società. Ed i Padri che noi abbiamo già citato forniscono la prova di questa tesi. Gli stessi titoli delle loro opere affermano chiaramente che nelle loro lotte con le eresie, i loro primi colpi furono diretti contro gli eresiarchi.

Le opere di Sant’Agostino portano quasi tutte in prima pagina il nome dell’autore dell’eresia che combattono: Contra Fortunatum Manichoeum; Adversus Adamanctum; Contra Felicem; Contra Secundinum; Quis fuerit Petilianus; De Gestis Pelagii; Quis fuerit Julianus, etc.; in tale maniera la maggior parte della polemica del grande dottore fu personale, aggressiva, biografica, per così dire, quanto dottrinale, lottando corpo a corpo con l’eretico, non meno che con l’eresia.

Ciò che noi diciamo di Sant’Agostino, potremmo dirlo di tutti i santi Padri.

Da dove il liberalismo ha dunque tratto la nuova obbligazione morale di non combattere l’errore se non facendo astrazione delle persone, se non elargendo agli eretici incensamenti e sorrisi? Si attengano piuttosto alla Tradizione cristiana e ci lascino, noi gli ultramontani [ed oggi i “veri” cattolici – n.d.r. -], difendere la SANTA FEDE come è stata sempre difesa nella Chiesa di Dio.

Che la spada del polemista cattolico ferisca, che essa ferisca, che vada dritta al cuore !

È questa l’unica maniera reale ed efficace di combattere!!!

 

Exsurgat Deus, et dissipentur – Salmo LXVII –

Dall’opera “CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES” dell’Abate J.-M. PÉRONNE, (3 voll., Parigi – 1878), anticipiamo, in omaggio al titolo del nostro blog, il commento al salmo LXVII, riservandoci, a tempo debito, e se piacerà al Signore, di proporre l’intera opera che, benché in un certo qual modo monumentale ed impegnativa in tutti i sensi, rappresenta una miniera ove è racchiusa parte della sapienza cattolica di sempre, comune a tanti autori del passato ormai dimenticati, o peggio, volutamente occultati. Chiedendo in anticipo scusa per gli eventuali immancabili errori di traduzione e trascrizione, che grati invitiamo naturalmente a segnalare, cercheremo a modo nostro, nella limitatezza delle nostre capacità e dei nostri mezzi, nel nostro piccolo e con estrema umiltà, di rendere omaggio a questa immensa preziosa sapienza e ad uno dei tanti straordinari autori che hanno dato lustro sia alla letteratura di tutti tempi in generale, che a quella cattolica in particolare.

 

[Il testo in latino è quello della Volgata-Clementina, la traduzione italiana è quella approvata del Cardinal A. Martini, Arcivescovo di Firenze. Dopo le brevi note iniziali, c’è il sommario analitico, alla fine del quale è possibile passare alle spiegazioni e considerazioni, versetto per versetto. Spero, come già noi abbiamo di persona costatato, che possiate godere di questa gioia dello spirito, a gloria e lode del S. N. Gesù Cristo Salvatore]

Davide-re

SALMO LXVII

In finem, Psalmus Cantici ipsi David (1)

1. Exsurgat Deus, et dissipentur inimici ejus; et fugiant qui oderunt eum a facie ejus.

2. Sicut deficit fumus, deficiant; sicut fluit cera a facie ignis, sic pereant peccatores a facie Dei.

3. Et justi epulentur; et exsultent in conspectu Dei, et delectentur in laetitia.

4.Cantate Deo, psalmum dicite nomini ejus; iter facite ei qui ascendit super occasum. Dominus nomen illi (2); exsultate in conspectu ejus. Turbabuntur a facie ejus,

5.patris orphanorum, et judicis viduarum; Deus in loco sancto suo.

6.Deus qui inhabitare facit unius moris in domo; qui educit vinctos in fortitudine, similiter eos qui exasperant, qui habitant in sepulchris. 7.Deus, cum egredereris in conspectu populi tui, cum pertransires in deserto

8.terra mota est, etenim caeli distillaverunt, a facie Dei Sinai, a facie Dei Israel.

9. Pluviam voluntariam segregabis, Deus, haereditati tuae; et infirmata est, tu vero perfecisti eam.

  1. Animalia tua habitabunt in ea; parasti in dulcedine tua pauperi, Deus (3).
  2. Dominus dabit verbum evangelizantibus, virtute multa (4).
  3. Rex virtutum dilecti, dilecti; et speciei domus dividere spolia (5).
  4. Si dormiatis inter medios cleros, pennae columbae deargentatae, et posteriora dorsi ejus in pallore auri (6).
  5. Dum discernit caelestis reges super eam, nive dealbabuntur in Selmon (7).
  6. Mons Dei, mons pinguis. Mons coagulatus, mons pinguis:
  7. ut quid suspicamini montes coagulatos? Mons in quo beneplacitum est Deo habitare in eo; etenim Dominus habitabit in finem.
  8. Currus Dei decem millibus multiplex, millia laetantium; Dominus in eis in Sina in sancto.
  9. Ascendisti in altum, cepisti captivitatem, accepisti dona in hominibus (8);  etenim non credentes inhabitare Dominum Deum.
  10. Benedictus Dominus die quotidie: prosperum iter faciet nobis Deus salutarium nostrorum.
  11. Deus noster, Deus salvos faciendi; et Domini, Domini exitus mortis.
  12. Verumtamen Deus confringet capita inimicorum suorum, verticem capilli perambulantium in delictis suis.
  13. Dixit Dominus: Ex Basan convertam, convertam in profundum maris (9);
  14. ut intingatur pes tuus in sanguine, lingua canum tuorum ex inimicis, ab ipso.
  15. Viderunt ingressus tuos, Deus, ingressus Dei mei, regis mei, qui est in sancto.
  16. Praevenerunt principes conjuncti psallentibus, in medio juvencularum tympanistriarum.
  17. 26- In ecclesiis benedicite Deo Domino de fontibus Israel.
  18. Ibi Benjamin adolescentulus, in mentis excessu; principes Juda, duces eorum; principes Zabulon, principes Nephthali (10).
  19. Manda, Deus, virtuti tu ae; confirma hoc, Deus, quod operatus es in nobis.
  20. A templo tuo in Jerusalem, tibi offerent reges munera.
  21. Increpa feras arundinis; congregatio taurorum in vaccis populorum ut excludant eos qui probati sunt argento (11): dissipa gentes quae bella volunt.
  22. Venient legati ex Aegypto; Aethiopia praeveniet manus ejus Deo.
  23. Regna terrae, cantate Deo; psallite Domino; psallite Deo.
  24. Qui ascendit super caelum caeli, ad orientem: ecce dabit voci suae vocem virtutis.
  25. Date gloriam Deo super Israel; magnificentia ejus et virtus ejus in nubibus.
  26. Mirabilis Deus in sanctis suis; Deus Israel ipse dabit virtutem et fortitudinem plebi suae. Benedictus Deus!

[Al maestro del coro. Di Davide. Salmo.-Cantico di David. 1- Sorga Iddio, e sian dispersi i suoi nemici e fuggan, quei che l’odiano, davanti alla sua faccia. 2- Come si dilegua il fumo, si dileguino; come si scioglie la cera davanti al fuoco, così periscano gli empi in faccia a Dio. 3- Ed i giusti tripudino ed esultino al cospetto di Dio, e gioiscano per l’allegrezza. 4- Cantate a Dio, inneggiate al suo nome, spianate la strada a colui che s’avanza per i deserti: il suo nome è il Signore, esultate al suo cospetto. Si sbigottiranno [gli empi] alla presenza di lui. 5- Padre degli orfani e giudice delle vedove, Dio sta nella sua santa dimora. 6- Iddio che dà ai solitari una casa, che libera i prigionieri con fortezza: soltanto i ribelli restan nella steppa! 7- O Dio, quando uscisti alla testa del tuo popolo, quando traversasti il deserto, 8- la terra si scosse e i cieli gocciolarono, di fronte al Dio del Sinai, di fronte al Dio di Israele, 9- Una spontanea pioggia tu largisti al tuo retaggio, e stanco ch’e’ fu, tu lo ristorasti. 10- I tuoi animali si fermarono in mezzo ad esso: tu provvedesti al povero, o Dio, nella tua bontà. 11- Il Signore fa parlare i messaggeri per la sua molta prodezza: 12- i re degli eserciti fuggono, fuggono, e la venusta [signora] della casa spartisce le spoglie. 13-Oh! Riposate entro i sortiti confini;le ali della colomba sono argentate, e l’estremità del dorso ha il pallore dell’oro! 14- Mentre il celeste [nume] disperdeva i re su quelle [terra], biancheggiavano di neve le pendici sul Selmon. 15- Monte di Dio, monte ferace, monte opimo, monte ferace! 16- Perché guardate i monti opimi? [È Sion] il monte in cui si è compiaciuto Iddio di abitare: e invero ci abiterà per sempre. 17- I carri di Dio son decine di migliaia, [v’è] migliaia di giubilanti: il Signore viene dal Sinai nel santuario. 18- Tu ascendo in alto [sul Sion], trascini dietro prigionieri, ricevi doni tra gli uomini; sì, anche [tra] i ribelli, perché ci abiti il Signore Dio in eterno. 19- Benedetto il Signore Iddio ogni giorno! Prospere rende a noi le vie Iddio della nostra salvezza. 20- Il nostro Dio è un Dio che salva, e in mano del Signore Iddio è lo scampo da morte. 21- Ma Dio schiaccerà il capo dei suoi nemici, il cocuzzolo capelluto di quei che camminano nei loro delitti. 22- Ha detto il Signore: “Da Basan li ricondurrò, [li] ricondurrò dal fondo del mare! 23- affinché si tuffi, [o Israele], il tuo piede nel sangue, e la lingua de’ tuoi cani n’[abbia] la sua parte succhiandolo da’ nemici”. 24- Vedono la tua avanzata, o Dio, lavanzata del mio Dio, del mio re, nel santuario. 25- Precedono i cantori, uniti ai sonatori di cetra, in mezzo a fanciulle sonatrici di cembali. 26- Nelle adunanze benedite Iddio, [benedite] il Signore, voi scaturiti] dalla fonte d’Israele! 27- [Ecco] là Beniamino, il giovane, in rapimento di spirito, i principi di Giuda, i loro capi, i principi di Zabulon, i principi di Neftali. 28- Comanda o Dio, alla tua possanza, rafferma o Dio, ciò che hai fatto per noi. 29- Dal tuo tempio, in Gerusalemme, t’offriranno doni i re. 30- Minaccia la bestia dei canneti, la torma de’ tori tra le vacche de’ popoli: i vitelli dei popoli: che si prostrino con pezzi d’argento! Disperdi le nazioni che vogliono le guerre. 31-Verranno [allora] ambasciatori dall’Egitto, l’Etiopia stenderà le mani a Dio. 32- Regni della terra, cantate a Dio, inneggiate al Signore; inneggiate a colui 33 -che se ne viene a cavallo dal sommo cielo verso oriente! Ecco egli dà alla sua voce suono potente. 34- Date gloria a Dio! Sopra Israele è la sua magnificenza , e la sua potenza nelle nubi. 35- Mirabile è Dio nel suo santuario: Iddio d’Israele, è lui che dà valore e forza al suo popolo. Benedetto sia Iddio!

(1) – Per ben intendere questo magnifico Salmo e comprenderne il senso, talvolta così misterioso e sì difficile, sono da fare tre importanti annotazioni: .1° ci si ricordi che, nell’estasi profetica, tutto appare, tutto si riscopre agli occhi del profeta contemporaneamente. Da qui questo brusco passaggio da un oggetto all’altro, queste associazioni di idee istantanee ed inattese, questo miscuglio, e per così dire, questa confusione di cose che ci rendono talvolta sì ardua l’intelligenza dei Salmi profetici; – 2° la Chiesa è una, perpetua, universale ed abbraccia tutti i tempi, e questa perpetuità si sviluppa in due periodi successivi: nel primo, la Chiesa è figurativa, è l’abbozzo di ciò che più tardi deve essere il capolavoro: è la stessa Chiesa che conduce Mosè e che regge l’Uomo-Dio, di cui Mosè non era che la prefigurazione. Questa unità fa comprendere come, in questo Salmo, il Profeta passi, senza transizione, dalle meraviglie antiche alle opere degli ultimi giorni. – .3° Occorre anche grandemente fissare gli oggetti multipli dei quali questo Salmo è pieno. Il Profeta descrive una solennità, ma la descrizione di questa solennità non serve al Profeta che da cornice per gli sviluppi più sublimi e le rivelazioni più grandiose.

.(2) -“Fate un cammino”, apostrofe agli abitanti dei luoghi ove deve passare l’Arca. “A Colui che sale verso il ponente”. L’armata vittoriosa ritorna a Gerusalemme dal lato di ponente; essa, di conseguenza, avanzava verso Sion attraverso le contrade che erano ad occidente di Gerusalemme.

.(3) – Davide fa qui allusione ai ribelli, condannati a non entrare nelle terra promessa ed a perire nella solitudine del deserto.

.(4) – “Una pioggia volontaria”. Una pioggia tutta di favore, secondo gli uni, pioggia reale che rinfrancava gli Ebrei nella solitudine, e più verosimilmente, secondo gli altri, pioggia della manna di cui essi furono nutriti nel deserto e che è la figura della dottrina evangelica. “I vostri animali vi abiteranno”. Allusione alle quaglie che si sono abbattute in mezzo al campo per nutrire gli Ebrei che avevano preso in disgusto la manna.

(5) – Nelle feste pubbliche e nei trionfi, le donne cantavano le gesta dei vincitori, [Es. XV, Giud. V, I Re XVIII, Giud. XVI.]

(6) – “Rex virtutum dilecti dilecti”, vale a dire “erit dilectissimae o dilectissimo huic cedet erit ejus possessio”. – Questo può applicarsi al popolo di Israele, che assoggettava i re potenti della terra di Chanaan, ma conviene altresì meglio a Gesù Cristo, questo beneamato dal Padre, in cui ha messo tutte le sue compiacenze . – La bellezza della casa, le donne della casa (Giob. V, 24). In Oriente le donne sono ordinariamente chiuse all’interno della casa.

(7) – Quando riposerete in piena sicurezza nelle terre che vi saranno assegnate in sorte (clerus, dalla parola greca κληρόσ), voi brillerete dello splendore dell’argento e dell’oro, similmente alle colombe le cui ali sono argentate e le cui piume che ricoprono l’estremità del dorso riflettono il verde pallore dell’oro.

(8) Mentre il Dio del cielo dissipa i re di questa terra data in eredità al suo popolo. Allora Dio voleva scegliere una montagna per sua dimora. Il Selmon, montagna della catena del Basan, a nord-est della Palestina, sembrava degna di questo onore, a causa della sua vetta elevata, sempre coperta da neve. Senza dubbio, questa catena di Basan è una montagna elevata, una montagna dalle sommità dense, ma non è quella che Dio ha scelto. Perché arrestate i vostri sguardi, o popolo di Israele? È qui su Sion che Dio vuole abitare. – Da questa montagna di Selmon, il Salmista passa dunque alla montagna di Sion.

(9). – Tu ti elevi, o Dio! Nell’arca, sulla montagna santa, per farne tua dimora; tu trascini al tuo seguito i tuoi nemici, che hai fatto prigionieri mediante le mie mani; tu ricevi da essi i tributi che hai loro imposto. – L’Arca rappresenta qui l’umanità di Gesù Cristo che si eleva al cielo nel giorno dell’Ascensione portando prigionieri i principi delle tenebre (Col. II, 15). Tutto ciò che Egli riceve, lo riceve con la sua Chiesa alla quale Egli lo dà; è tale il senso che San Paolo dà a questo versetto (Efes. IV, 8).

(10) – “Io li condurrò da Basan (dall’Oriente), nel paese di Chanaan, dove essi saranno messi a morte con la spada, o precipitati nel mare”. – Il Salmista fa menzione di qualche tribù che le rappresenta tutte, e questa menzione di tribù che marciano separate, sarebbe una prova che questo Salmo è stato evidentemente composto prima della cattività.

(11) – Questa bestia delle canne (il coccodrillo o l’ippopotamo), figura il re d’Egitto con i grandi del suo reame, comparati a due tori potenti e con i loro popoli che li circondano, che si abbandonano ai loro capi, come le vacche ai tori, ed assecondano i disegni che hanno formato di scacciare i servitori provati da Dio.

davide-salmi

Sommario analitico

In questo Salmo, composto nell’occasione del trasporto dell’arca dalla casa di Abededom nel tabernacolo preparato sulla montagna di Sion (II Re, VI, 12), [Hengstenberg ed altri esegeti pensano che questa occasione fosse quella della traslazione solenne dell’Arca, quando in seguito alle guerre essa fu condotta, accompagnata dai prigionieri, sul monte Sion], Davide contempla e celebra il trionfo di Gesù Cristo sulla morte, la sua Ascensione al cielo ed i doni che Egli ha sparso sulla Chiesa nascente.

I. – Egli descrive la splendore del suo trionfo:

1° la dispersione e l’annientamento dei suoi nemici (1, 2);

2° la gioia e la sicurezza dei giusti, che cantano dei cantici in onore del Salvatore che ascende al cielo (3, 4);

3° la protezione che Egli accorda alle vedove e agli orfani (5);

4° La sua entrata trionfale nel suo palazzo, la pace e l’unione che Egli fa regnare intorno a sé e la libertà che accorda ai prigionieri dei quali ha distrutto le catene. (6)-

II. – I doni che il trionfatore distribuisce in abbondanza:

1° Come figura di questi doni, egli ricorda i benefici di Dio nei riguardi del suo popolo nel deserto, la manna che il Dio del Sinai fa piovere dal cielo per nutrirlo (7, 8);

2° egli adatta la figura alla realtà e ci fa vedere come Gesù Cristo salendo al cielo abbia inviato, sugli Apostoli ed i fedeli, lo Spirito Santo come una pioggia celeste, a) per guarire la terra dalla sua sterilità e rendere la sua Chiesa feconda (9); b) per nutrire i fedeli che abitano nel suo seno (10); c) per dare loro la forza di operare i miracoli e di convertire con la loro parola coloro che sono chiamati a far parte della Chiesa (11, 12); d) per dar loro la sicurezza ed anche il fulgore e splendore in mezzo ai pericoli (13, 14); e) per porli sulla sua montagna, di cui enumera i privilegi (15, 16).

III. –La condotta del trionfatore:

1° Nei riguardi di coloro che Egli ha liberato, a) come in precedenza, egli parla dapprima figurando l’Ascensione, cioè l’ascesa di Dio al Sinai, in mezzo agli Angeli (17); b) egli celebra il fatto stesso dell’Ascensione – la liberazione dei prigionieri – i doni che Dio ha elargito agli uomini, anche su coloro che non credono (19); c) egli rapporta il canto trionfale dei prigionieri liberati, lodando Dio per aver appianato davanti a loro il cammino, e per averli ritirati dalla morte e condotti al termine del viaggio (20, 21).

2° Nei riguardi dei loro nemici, cioè dei demoni che tenevano prigionieri questi uomini, a) egli indica il modo in cui saranno distrutti; b) ne fa conoscere la causa (22); c) egli indica il luogo ove compirà questo castigo: le profondità dell’inferno (23);

.d) egli svela tutto il rigore del castigo e la grandezza della vittoria (24).

IV. – Egli predice le lodi che gli Apostoli, I Re ed i popoli convertiti alla fede, canteranno in onore del celeste Trionfatore:

1° Egli ci insegna che gli Apostoli sono stati testimoni dell’Ascensione del Salvatore (24); 2° le lodi cantate da essi, dalla folla dei fedeli e che il Profeta esorta a continuare (25); 3° egli indica da quale tribù vengono gli Apostoli (26, 27); 4° predice che i re delle nazioni, dei quali chiede la conversione, vedranno Lui che offre dei doni 828, 29). 5° Egli predice che i popoli si uniranno ai re in una medesima fede; a) egli chiede a Dio di reprimere gli sforzi dei tiranni e dei demoni che si oppongono a questa conversione dei popoli; b) di dissipare le agitazioni ostili delle nazioni stesse (30), c) predice come frutto la conversione delle nazioni più ostinate nel culto degli idoli (31). 6° I re canteranno a Dio dei cantici di azioni di grazie, in riconoscenza dei benefici della fede (32, 33); 7° Il Re Profeta descrive la potenza di Gesù-Cristo regnante sul suo trono, per eccitare i popoli a lodare eternamente questo Dio magnifico, ammirevole nei suoi Santi, e fonte di ogni potenza e di ogni forza per il suo popolo (34, 35).

 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-6.

1-3. “Sorga Dio, etc.”. È cosa già fatta. Il Cristo che è al di sopra di tutte le cose, Dio benedetto in tutti i secoli, il Cristo è risuscitato (Rom. IX, 6), e i Giudei suoi nemici sono dispersi tra tutte le nazioni. Vinti nel luogo stesso ove essi hanno esercitato contro di Lui la loro inimicizia, sono stati di là dispersi tra tutti i popoli. Ed ora essi odiano il Cristo, ma essi Lo temono, e sotto l’impero di questo timore, essi fuggono lontano dalla sua faccia. Per l’anima, in effetti, temere, è fuggire; perché, come fuggire, secondo il modo del corpo, la faccia di Colui che rende sensibile in tutti i luoghi gli effetti della sua presenza? Essi fuggono, dunque, non con il corpo, ma con lo spirito; non nascondendosene, ma temendoLo; non quella faccia di Dio che essi non seppero vedere, ma quella che essi sono forzati a vedere (S. Agost.). – “Come il fumo svanisce, essi svaniscono da se stessi”. Il fumo è trasportato dal vento, la cera si liquefa a causa del fuoco, e gli empi cadono così senza forza e senza resistenza davanti alla maestà dell’Altissimo. In effetti, sollevati dal fuoco del loro odio, i nemici di Dio e del suo Cristo, si sono elevati al colmo dell’arroganza, essi hanno innalzato la testa fin nel cielo (Ps. LXXII, 9), ma ben presto essi svaniranno nella vergogna dei loro peccati. “Come le cera fonde davanti al fuoco, così i peccatori periscono davanti alla faccia di Dio”. Forse il Profeta ha voluto rappresentare in questo modo coloro la cui durezza si fonde nelle lacrime della penitenza; ciò nonostante si può forse vedere in questo passaggio una minaccia del giudizio prossimo, perché dopo essersi elevati in questo mondo come il fumo, e quindi dopo essersi dissipati nel loro orgoglio, i peccatori saranno colpiti alla fine con l’ultima condanna e periranno per l’eternità davanti alla faccia di Dio, quando Egli si sarà manifestato nel suo splendore, simile al fuoco più vivo, per essere il castigo degli empi e la luce dei giusti (S. Agost.). – Due gli avvenimenti del Messia nei quali Egli deve trionfare sui suoi nemici. Il primo è passato, e noi ne gioiamo, il secondo è da venire, e noi lo attendiamo. – Augurio legittimo: che Dio sia elevato e che i suoi nemici siano confusi. – Desiderio cristiano, che Dio si elevi in un’anima, che ne prenda possesso e che tutti i suoi nemici siano dissipati ed annientati; vale a dire che i peccatori non siano più peccatori, e che i loro peccati non compaiano più davanti alla sua faccia. – I due grandi nemici di Dio nell’anima del peccatore sono l’orgoglio del suo spirito e la durezza del suo cuore. Quando la grazia si fa sentire a questo peccatore, la sua vanità sparisce come il fumo che il vento dissipa, la durezza del suo cuore si ammorbidisce e si rende flessibile a tutte le impressioni che gli si vogliono dare. Questo cuore, in precedenza insensibile e glaciale, riceve infine il calore del divino amore e comincia fondersi con il fervore dello spirito (S. Greg., Berthier). – La gioia dei giusti espressa da un festino, per significare 1° che essa è viva e fa su di essi un’impressione simile a quella che produce uno squisito nutrimento; 2° che essa è intima e non superficiale, 3° che essa fa, per così dire, parte della sostanza dei giusti, che essa li penetra e li fortifica, come il nutrimento che noi assumiamo. – È nella nuova Alleanza un banchetto che riempie di gioia l’anima dei giusti: non è più un pasto alla presenza dell’Arca, è il Dio stesso dei due Testamenti che si dà come nutrimento ai suoi figli. Quali delizie inondano i Santi seduti alla tavola di Gesù Cristo! Essi solo possono spiegare i loro trasporti; ancora la loro lingua è troppo poco eloquente per dire ciò che passa nei loro cuori (Berthier). – Gettiamo gli occhi sul venerabile Sacramento dell’altare: è là che ci è preparata la tavola celeste e su questa tavola la coppa che produce la santa ebbrezza. (S. Greg.). – Comparata a questa gioia divina, ogni altra gioia è un dispiacere, ogni soavità è un dolore, ogni dolcezza è un’amarezza, ogni bontà una bruttura, tutto ciò che può lusingare e piacere, è spiacevole e penoso (S.Bern., Ep. 234). 4. “Cantate le lodi di Dio”. Si cantino le lodi di Dio che vive per Dio; si cantino dei salmi al suo nome, che lavora per la sua gloria. Celebrate le lodi di Dio con questi cantici, con questi salmi, cioè vivendo per Dio, lavorando per Dio. “Preparate, egli dice, la via a Colui che sale su per ponente”. Preparate la via a Cristo con i piedi ammirevoli di coloro che annunziano il Vangelo (Isaia LII, 7), i cuori dei credenti siano una strada aperta per Lui; perché è il Cristo che sale su da ponente, sia perché la vita nuova di colui che si converte a Lui, non si unisce alla sua se non quando l’uomo vecchio è morto con la rinunzia a questo secolo, ossia perché il Cristo è salito su da ponente, quando, con la sua Risurrezione, ha vinto la morte che aveva nascosto il suo corpo nella tomba (S. Agost.). – L’uomo è incapace da se stesso a preparare il cammino al Signore; ma quando Dio parla al suo cuore, accompagna la sua parola con l’unzione della sua grazia, per fargli compiere ciò che non può senza la sua assistenza. Egli abbassa in lui le montagne del suo orgoglio, riempie ciò che vi trova di vuoto, si prepara un cammino per arrivare fino a lui (Dug.). – “Trasalite di allegria in sua presenza”, o voi che preparate la via a Colui che sale su da ponente, esultate di allegria in sua presenza; “se voi siete in un’apparente tristezza, sarete non di meno in una gioia costante”, “afflitti ma sempre lieti”(IICor. VI, 10); perché, mentre aprite un cammino davanti a Lui, e così preparate una via per la quale Egli possa venire e possedere le nazioni, voi soffrirete mille mali che gli uomini giudicheranno ben tristi. Ma voi invece, non solo non vi lasciate abbattere, ma rallegratevi vivamente, non agli occhi degli uomini, ma davanti agli occhi di Dio. “Siate gioiosi per la speranza e pazientate in mezzo alle sofferenze (Rom. XII, 12). “Riempitevi di gioia alla sua presenza”. In effetti coloro che si turbano alla presenza degli uomini “saranno turbati in faccia a Colui che è il Padre degli orfani ed il giudice protettore delle vedove”.  Questi, in effetti, sembrano, a giudizio degli uomini, colpiti dalla desolazione per essere stati separati, il più spesso, dalla spada della parola di Dio, dai figli di cui essi erano i padri, o dalle donne delle quali erano gli sposi (S. Matt. X, 34). Ma nel loro rigetto, nella loro vedovanza, essi trovano consolazione presso “il Padre degli orfani ed il Giudice protettore delle vedove”. Essi trovano consolazione presso di Lui, se sanno dirGli. “mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, il Signore al contrario mi ha preso sotto la sua protezione” (Ps. XXVI, 10); se essi ripongono la loro speranza nel Signore e non cessano di pregare né di giorno né di notte (I Tim. V, 5), davanti a loro i malvagi saranno turbati, quando vedranno che i loro sforzi sono stati inutili e che il mondo intero ha seguito il Signore (S. Agost.). – “Io non vi lascerò orfani, aveva detto il Signore ai suoi Apostoli, Io ritornerò da voi” (S. Giov. XIV, 18); Io tornerò a voi con la mia grazia, con il mio Spirito, con l’Eucaristia. “Io non vi lascerò orfani”, vale a dire “Io non vi invierò il mio Spirito, di modo che Io cessi di essere con voi. Questo nome di orfano che dà loro, indica chiaramente che Egli è loro Padre. Io tornerò a voi dopo la resurrezione del mio corpo, Io che sono sempre con voi con la presenza della mia divinità (S. Bern., Tract. De Coena.). – 6. Il Signore si fa un tempio di questi orfani e di queste vedove, cioè di coloro che sono come destituiti da ogni eredità nelle speranze del mondo. È di questo tempio che parla il Profeta quando dice: “il Signore abita nel suo luogo santo”. Egli mostra chiaramente in effetti, qual è questo luogo santo, quando aggiunge: “Dio fa abitare nella sua casa coloro che sono della stessa sorte, cioè coloro che non hanno che uno stesso pensiero, uno stesso sentimento”. Questi formano il luogo santo del Signore, perché, dopo aver detto: “il Signore abita nel suo luogo santo”, come se noi Gli domandassimo qual è questo luogo, poiché esso è tutto intero dappertutto, il Profeta ci risponde per farci comprendere a non cercarlo fuori di noi, ma piuttosto a riunirci in una stessa maniera di vivere, alfine di meritare che Dio si degni di abitare in noi. Ecco il santuario del Signore, che cercano la maggior parte degli uomini, per pregarvi ed essere esauditi. Che essi siano dunque per se stessi questo luogo che essi cercano, che essi vi abitino come nella casa del Signore, con coloro che non hanno che un solo spirito, uno stesso sentimento, uno stesso pensiero, e che là, nel loro cuore, cioè nel silenzio di questo letto misterioso, essi ripassino con compunzione tutte le loro parole (Ps. IV, 5), affinché il Maestro della grande casa risieda in essi, ed essi siano quello stesso santuario nel quale saranno esauditi (S. Agost.). – Questa profezia si è compiuta nella Chiesa cristiana che lo Spirito Santo formò nel giorno della Pentecoste in cui fece come un solo cuore di tutti i fedeli, e di tutte le loro case, una sola casa, ove essi erano riuniti in un solo corpo, del quale Gesù-Cristo era il capo. – Quale spettacolo mirabile nella Chiesa cattolica, quello di questa unione di tutti i veri fedeli con i loro Pastori, e di tutti i Pastori particolari con il Pastore Universale! Che altro poteva il Signore produrre se non questa unanimità di pensiero, di vedute, di sentimenti? In questo secolo di contraddizioni, di confusione, di tenebre, questo accordo di tanti spiriti in una stessa luce, di tanti cuori in uno stesso amore, questa identità dottrinale e morale di tutti, malgrado la diversità dei punti di partenza di ciascuno, è la prova manifesta della divinità della Chiesa cattolica; è la testimonianza irrecusabile della presenza e dell’azione di Dio nella sua città santa (Mgr. Pie, Entret. Syn. t. IV, p. 458). – È per effetto della sua grazia che si costruisce questa casa, e non a causa dei meriti di coloro con i quali Egli la costruisce. Considerate in effetti, ciò che segue. “Egli libera e fortifica quelli che erano in catene”. Egli ha in effetti spezzato con la sua grazia le pesanti catene che impedivano ai colpevoli di camminare nella via dei suoi comandamenti; Egli li ha liberati ed ha dato loro una forza che essi non avevano prima di aver ricevuto la sua grazia. Egli libera ugualmente coloro che Lo irritano abitando le tombe”, cioè coloro che sono morti in vario modo e non sono occupati che in opere morte. In effetti, questi Lo irritano con la loro resistenza a ciò che è giusto; perché per i primi che sono nelle catene, forse essi volevano camminare, ma costoro non lo vogliono; essi pregano Dio per averne i mezzi e Gli dicono: “liberatemi dalle mie necessità” (Ps. XXIV). E quando Dio li ha esauditi, essi Gli rendono grazie dicendo : “Voi avete spezzato i miei legami” (Ps. CXV, 7). Ma questi peccatori che Lo irritano, abitando le tombe, sono del genere di quelli che la Scrittura designa con queste parole: “da un morto che non è più, la riconoscenza si perde” (Eccles XVII, 23). Di là ancora questa parola: “Il peccatore quando è caduto nel profondo dell’abisso, disprezza tutto” (Prov. XVIII, 3). Una cosa è in effetti, desiderare la giustizia, altra cosa il combatterla, una cosa è l’essere liberato dal male, altra cosa è il difendere i propri peccati in luogo di confessarsi; pertanto, la grazia del Signore libera e fortifica l’uno e l’altro tipo di peccatore? E quale forza dà loro, se non quella di lottare fino al sangue contro il peccato? Perché Egli trova dei peccatori di questi due tipi, che devono proprio a ciò che il santuario di Dio sia costruito in essi. Gli uni dopo la loro liberazione, gli altri dopo la loro resurrezione (S. Agost.). – Questa vita è un luogo di prigionia ed un deserto. Dio deve un giorno liberarci, e noi temiamo il momento della nostra liberazione. Noi vogliamo, dice S. Agostino, sempre accumulare dei giorni e non giungere mai alla fine di questa carriera; noi vogliamo sempre marciare e mai arrivare; questo è irragionevole e contraddittorio. Quale sarà infine la nostra sorte? Quella che il Profeta descrive: noi moriamo da ribelli, ed abiteremo eternamente in luoghi aridi ove la misericordia divina non espande le sue influenze, noi approderemo a queste tombe ove la luce non penetra mai. È una sciagura non profittare del deserto di questa vita per entrare nella terra promessa! (Berthier).

II. —7-16.

7, 8. “O Dio, quando voi uscite in presenza del vostro popolo”. Per Dio, uscire, significa apparire nelle sue opere. Ora, questo non è da tutti, ma appartiene solamente a coloro che sanno ammirare le sue opere. – Io non parlo attualmente di queste opere che colpiscono gli occhi di tutti, come il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che esse racchiudono, ma delle opere per le quali “Egli libera e fortifica coloro che sono nelle catene”, così come coloro che Lo irritano abitando nelle tombe, per farli abitare nella sua casa come aventi un solo cuore ed una sola anima. È così che Egli esce in presenza del suo popolo, cioè in presenza di coloro che comprendono questa grazia (S. Agost.). – Gesù-Cristo marcia alla nostra testa nel deserto di questa vita; Egli espande su di noi le benefiche influenze della sua grazia; Egli scuote i nostri cuori, sia con il timore dei suoi giudizi, sia con la veemenza del suo amore. Egli si mostra a noi come il Signore si mostrava agli Israeliti nella nube miracolosa; luce da un lato, tenebre dall’altra; molta luce per guidare i nostri passi, tante tenebre per provare la nostra fede. La nostra sventura è il perdere di vista il Conduttore beneficante, e di imitare gli Ebrei che rimpiangevano i falsi beni dell’Egitto. Ah! Diceva S. Gregorio, seguiamo Gesù-Cristo: la strada che Egli ci mostra sembra rude e difficile all’inizio, essa è piena di dolcezze per coloro che conducono una vita perfetta (Berthier). – “La terra è stata scossa quando passavate nel deserto”. Il deserto, erano i gentili che non conoscevano Dio; il deserto era il luogo ove Dio non aveva dato alcuna legge, o nessun profeta aveva abitato e predetto la venuta del Salvatore. “Quando voi dunque passavate nel deserto”, quando il vostro Nome è stato predicato ai gentili, “la terra è stata scossa”, gli uomini della terra sono stati svegliati e chiamati alla fede. Ma come è stata scossa la terra? “Perché i cieli si sono fusi in acque davanti al Dio del Sinai, davanti al Dio di Israele ….”. si tratta qui dei cieli di cui in un altro Salmo è detto: “I cieli raccontano la gloria di Dio”, e poco oltre “Non è linguaggio e non sono parole, di cui non si oda il suono” (Ps. XVIII, 4). In ogni caso non è a questi cieli, per grandi che essi siano, che bisogna attribuire la gloria di aver scosso la terra fino a condurla alla fede, come se il deserto delle nazioni fosse debitore di questa grazia a questi uomini; non è da se stessi che questi cieli hanno dato la loro pioggia, ma questa pioggia è partita dalla faccia di Dio … perché è dal Signore che è detto in un altro punto: “voi versate ammirevolmente la vostra luce dall’alto delle montagne eterne” (Ps. LXXV, 5); benché sia dall’alto delle montagne eterne che viene la vostra luce, tuttavia siete Voi che la spandete. Lo stesso qui: “I cieli si sono fusi in pioggia”, ma questa pioggia è partita dalla faccia di Dio” (S. Agost.). 9, 12.-  La pioggia è qui il simbolo della grazia in noi, della Dottrina della salvezza e della santa Eucaristia; è una pioggia volontaria e tutta gratuita, perché essa è dovuta alla bontà di Dio e non ai nostri meriti. – Dio spande le sue grazie con abbondanza e con una liberalità che è generata dalla sua misericordia, perché noi non possiamo ottenerla da noi stessi. Questa liberalità tutta gratuita esige da noi che noi vi corrispondiamo con una perfetta buona volontà, e con grande coraggio in mezzo alle prove di questa vita, cosa che non fecero i Giudei carnali che, colmi di benefici del Signore, non cessarono di mormorare contro di Lui quando li minacciavano le avversità (Berthier). – Questo popolo che fu ricondotto dall’Egitto con grande clamore; e noi che siamo oggi il popolo di Dio, noi dobbiamo essere liberati da questo mondo, che è l’Egitto in rapporto a noi, e questa liberazione arriverà quando Gesù Cristo apparirà nella sua gloria. Ecco allora due grandi benefici, uno passato, ed uno futuro. Cosa c’è in mezzo? Delle tribolazioni? Perché? Al fine di manifestare la volontà di coloro che servono Dio, affinché appaia fin dove portino lo zelo del suo servizio, affinché si veda se essi servono con disinteresse Colui dal Quale hanno ricevuto gratuitamente la salvezza (S. Agost.). –Quando una terra è stata fertilizzata, gli armenti vi abbondano, perché essi trovano il nutrimento di cui hanno bisogno. Il povero è alleviato e si riconosce che la benedizione del cielo è su questo retaggio. Ognuno deve interrogarsi sullo stato della propria anima, di questa terra che Dio gli dà da coltivare. Ma qui non vi si trovano che animali feroci, cioè passioni indomite! (Berthier). – “Oh! Se poteste vedere il campo del vostro cuore, fondereste in lacrime e non trovereste un solo boccone di cui potervi nutrire. Tutto il vostro uomo interiore perisce per la fame; esso è quasi morto. Quanti morti vediamo camminare nel mondo!” (S. Agost.). – “Voi avete preparato nella vostra soavità, o Dio mio, ciò che è necessario al povero”… nella vostra soavità e non nelle sue ricchezze. In effetti, egli è povero, perché è stato fiaccato per essere reso perfetto, ed ha riconosciuto la sua indigenza per essere poi ricolmo di beni. È di questa soavità che il Profeta dice allora: “Il Signore spanderà la sua soavità, e la nostra terra porterà i suoi frutti” (Ps. LXXXIV, 13), affinché faccia il bene, non per timore, ma per amore, non per il terrore del castigo, ma per l’attrattiva della giustizia; perché tale è la vera libertà. Ma il Signore ha preparato questi beni per l’indigente e non per il ricco, che guarda questa povertà come un obbrobrio; obbrobrio, dice ancora il Salmista, per colui che è nell’abbondanza, ed oggetto di disprezzo per gli orgogliosi (Ps. CXXII, 4), (S. Agost.). – “Il Signore darà la sua parola a coloro che evangelizzano con una grande forza”. È Dio solo che dà Egli stesso la parola che vuole che si annunci al suo popolo, ed il coraggio per annunciarla con forza; nessuno dunque deve ingegnarsi da se stesso in questo ministero. – È Dio che ispira i ministri della sua parola; è Lui che dà loro la forza di predicare in mezzo ai più grandi pericoli. – Coloro che il Signore ha scelto per annunciare la sua volontà provano che lo Spirito-Santo parla con la loro bocca; essi sono illuminati prontamente dalla verità ed infiammati dalla carità … ma essi devono leggere con grande precauzione le Sante Scritture; perché colui che le consulta non in spirito d’amore, ma in spirito di curiosità, e per diventare sapiente, si arricchisce non della pienezza della parola, bensì della pienezza del libro (S. Greg.). – È l’amore della parola di Dio, e non l’amore della scienza che deve condurre allo studio del santi Libri. – La forza che Dio ha comunicato ai predicatori del Vangelo si è manifestata in tre maniere. .1° con l’efficacia dei loro discorsi, hanno convertito il mondo intero: “così le mie parole non torneranno senza frutto, esse compiranno i miei disegni, e prospereranno in tutto ciò che Io ho voluto” (Isaia. LV, 11); .2° per la libertà dei loro discorsi, che è giunta fino a rimproverare i re per la loro vita licenziosa e dissoluta, e le loro empietà: “Io stesso vi darò le parole ed una saggezza alla quale tutti i vostri nemici non potranno resistere, e che essi non potranno contraddire” (S. Luca XXII, 15); .3° per la potenza e la virtù dei miracoli. “le mie parole e la mia predicazione, dice S. Paolo, non sono consistite in parole persuasive di saggezza umana, ma nelle prove sensibili dello Spirito e della potenza di Dio” (II Cor. IV). 13, 14. Gesù-Cristo è il Re dei re ed il Signore dei signori. Egli li ha assoggettati tutti, condividendo le spoglie del “forte armato”, cioè rendendosi maestro di tutte le nazioni che appartenevano in precedenza ai demoni, ed ha così formato tutte le bellezze della sua casa, che è la Chiesa. – Si, il Cristo ha reso bella la casa, cioè la Chiesa, con la distribuzione delle proprie spoglie, con un corpo che è bello per la distribuzione delle sue membra. Ora, si chiama spoglia ciò che è tolto ai nemici vinti. “Nessuno, dice il Salvatore, entra nella casa del forte per togliergli le armi, se non ha prima legato il padrone (S. Matt. XII, 29). Il Cristo ha dunque caricato il demonio di legami spirituali, con la vittoria che ha riportato sulla morte e con la sua Ascensione dagli inferi ai cieli. Egli lo ha legato con il mistero della sua incarnazione, ragion per cui il demonio, benché non avesse potuto trovare nulla che Gli facesse meritare la morte, ha ricevuto il permesso di farLo perire. Egli lo ha legato e gli ha tolto le sue armi come delle spoglie, perché Egli agiva sui figli della diffidenza (Efes. II, 2), per cui Egli assoggettava l’infedeltà ai propri disegni. Allora il Signore ha purificato queste armi con la remissione dei peccati; Egli ha santificato queste spoglie strappate ad un nemico abbattuto e caricato di catene, e le ha distribuite per la bellezza della sua casa. Degli uni ne ha fatti degli Apostoli, degli altri dei Profeti, altri Pastori, o dottori per i bisogni del Ministero, alfine di edificare il corpo di Cristo (Ibid. I, 4), (S. Agost.). – Le spoglie che Egli sottrae e delle quali arricchisce la Chiesa, è ancora il deposito delle sante verità che passa dalla sinagoga alla Chiesa Cristiana, il mondo intero che ha rapito al gentilizio, le vittime che strappa all’inferno, la vita che conquista sulla morte. – Qui dunque il Salmista ci espone, in termini figurati e profetici, l’organizzazione, la forza, i trionfi, le ricchezze della Chiesa. – Sotto la condotta di Gesù-Cristo, il prediletto di Dio, i piccoli, i poveri, i semplici, le donne stesse riportano le vittorie sui nemici della salvezza. Talvolta il Signore, per manifestare i tesori della sua grazia, ha dato lo spettacolo delle virtù più perfette nelle condizioni più eminenti; ma, dice Sant’Agostino, io vedo i peccatori chiamati prima dei filosofi, io vedo Pietro preferito ai re, io vedo migliaia di vergini impossessarsi della corona, e dai bambini anche tenere lezione ai vecchi (Bethier). – “Se voi dormite in mezzo a terre che vi sono toccate in eredità”. Il Profeta sembra rivolgersi a coloro ai quali sono stati distribuiti come delle spoglie per la beatitudine della casa, secondo l’utilità particolare che lo Spirito Santo manifesta per ognuno. Se voi dormite in mezzo alle vostre eredità, voi sarete come le ali della colomba argentata, cioè vi eleverete ad una nuova altezza, restando attaccati alla forza che unisce la Chiesa; perché questa colomba argentata è quella di cui è detto: “Unica è la mia colomba” (Cant. VI, 8). Essa è argentata perché istruita dagli insegnamenti divini per cui in un altro Salmo è detto: “I vostri insegnamenti, Signore, cono come l’argento che il fuoco ha separato da ogni terra e che è stato purificato dette volte” (Ps. XI, 7). È dunque un gran bene il dormire in mezzo alle eredità, che significano, secondo qualcuno, i due Testamenti; così, il dormire in mezzo alle parti, è riposare sull’autorità dei due Testamenti; cioè annuire alle testimonianze dei due Testamenti. Di modo tale che ogni parola proposta e riconosciuta proveniente dall’una o dall’altra fonte, mette termine pacificamente ad ogni discussione col riposo più perfetto. Se così è, qual avvertimento è dato qui a coloro che evangelizzeranno con una grande forza, se non è Dio ad accordar loro questa parola con la quale essi potranno evangelizzare, se essi dormono in mezzo a queste due eredità? In effetti a loro è data la parola di verità quando essi riposano sull’autorità dei due Testamenti, e che essi stessi sono le ali della colomba argentata, portando fino in cielo, con la loro predicazione, la gloria della Chiesa (S. Agost.). – Applicato ai semplici fedeli, questo versetto contiene una verità non meno toccante. In effetti, se l’eredità del primo Testamento, essendo l’ombra figurativo del secondo, consisteva in una felicità terrestre, e se l’eredità del Nuovo Testamento è l’eterna felicità, dormire in mezzo alle due eredità, non è la ricerca con ardore della prima, ma attendere con pazienza la seconda; perché, a coloro che servono Dio, o piuttosto che rifiutano di servire Dio, alfine di ritrovare la felicità in questa vita e su questa terra, il sonno sfugge ed essi non possono dormire. In effetti, agitati dai piaceri che li infiammano, essi sono spinti ai disordini ed ai crimini, e non hanno riposo, desiderando acquisire e temendo di perdere. “Al contrario, colui che mi ascolta, dice la Saggezza, abiterà nella speranza e riposerà senza timore, esente da ogni minaccia” (Prov. I, 33). Ecco che questo è dormire in mezzo alle eredità: è abitare, non ancora in realtà, ma già nella speranza, nella eredità celeste, e riposare lontano da ogni piacere di una felicità terrestre. Ma quando sarà arrivato ciò che noi speriamo, noi non dormiremo più in mezzo a due eredità; noi regneremo in ciò che è il nuovo ed il vero. Ecco perché nulla ci impedisce di comprendere queste parole: “Se voi dormite in mezzo alle eredità”, applicandole alla nostra morte, secondo il costume della Scrittura, che dà il nome di “sonno” alla morte della carne. Perché la migliore delle morti è quella dell’uomo che, perseverando fino alla fine nella repressione dei piaceri terrestri, e nella speranza dell’eredità celeste, vede l’ultima ora chiudere il corso della sua vita. Ora, coloro che si addormenteranno in questa sorte, saranno come le ali della colomba argentata, per essere trasportati, al momento della resurrezione, nelle nubi, nell’aere, davanti al Cristo, al fine di vivere per sempre con il Signore (I Tess. IV, 14), e si abbelliscono a misura dell’avvicinarsi al sole di giustizia (S. Agost.). – Queste ali argentate della colomba, dopo le grandi sofferenze, non sono ordinariamente per questa vita; questo splendore dell’oro non è che per coloro che sono stati epurati per lungo tempo nella fornace. – Criterio nascosto, ma pieno di giustizia, che il Re del cielo fa non soltanto dei re, ma pure di tutti i popoli della terra. – Separazione ben diversa secondo la quale gli uni diventeranno più bianchi della neve, e gli altri più neri del carbone (Duguet). – Le piume della colomba sono suscettibili di colori cangianti, a seconda di come esse siano esposte ai raggi del sole. Ciò che vi domina è il bianco, il grigio, il nero, il vinaccia, e da questo miscuglio ne risulta un colore che rassomiglia all’oro pallido. Il Profeta si serve qui di questa comparazione per designare la protezione che Dio accorderà al suo popolo, principalmente alla tribù di Giuda, quando anche essa sarà circondata dalle dieci altre tribù divenute sue nemiche, dopo lo scisma di Roboamo. Questa tribù è chiamata qui colomba, come lo è nel Cantico dei Cantici, perché essa rimane fedele più tempo delle altre all’alleanza con Dio (Berthier). 15, 16. Ma, nel timore che qualcuno osi comparare Nostro Signore Gesù-Cristo ai Santi, che pure sono chiamati montagne di Dio, e nella paura che si assimilasse a queste montagne, che sono i figli degli uomini, la montagna che è il Cristo, perché non mancherebbero uomini per dire, gli uni che era Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei profeti, il Salmista si volge ad esse e dice loro: “Perché supponete che queste montagne fertili siano la montagna ove è piaciuto a Dio stabilire la sua abitazione? Similmente questi grandi uomini hanno ricevuto il nome di luce, perché il Signore ha detto loro: “Voi siete la luce del mondo” (S. Matt. V, 14); ma è stato anche detto del Cristo: “ Egli è la vera luce, che illumina ogni uomo veniente in questo mondo” (S. Giov. I, 9); per cui questi uomini sono delle montagne gloriose, ma ben al di sopra di esse è la montagna preparata sulle cime delle altre montagne. Perché dunque supponete che queste montagne siano la montagna sulla quale è piaciuto a Dio fissare la sua dimora? Non è che Egli non abiti gli altri monti; ma non vi abita se non per il Cristo, “perché in Lui risiede tutta la pienezza della divinità”(Colos. II, 7). Il Signore abiterà le montagne che non sono comparabili a quella preparata sulle cime di tutte le altre; Egli vi abiterà per condurli fino alla loro fine, cioè fino a Se stesso, dove essi Lo contempleranno nella sua divinità (S. Agost.). – I luoghi elevati sono stati preferibilmente scelti da Dio per divenire il teatro delle sue divine manifestazioni. I luoghi elevati avvicinano al cielo, e l’esempio che vi si manifesta attira più facilmente gli sguardi. Così Gesù-Cristo compara la sua Chiesa ad una città posta su di una montagna, a causa della sua elevazione e della sua solidità, dice Sant’Agostino, ma la Chiesa non fa che un tutt’uno con Gesù-Cristo. Essa è una Montagna egualmente, perché Essa è il Corpo di Cristo; ma è Gesù-Cristo che è il fondamento della Chiesa, ed è legalmente Gesù-Cristo che Sant’Agostino riconosce in questa parola del Salmo: “La Montagna di Dio è una montagna grassa e fertile, ove è piaciuto a Dio l’abitarvi, perché è la Montagna ove le anime si rafforzano e si arricchiscono di doni celesti”. – Dio scelse quaggiù dei luoghi privilegiati, ove piacque a Lui spandere con più abbondanza le rugiade della sua grazia. Le sante lettere sono piene di questa teologia, ed essa è il fondamento della pratica antica e costante dei pellegrinaggi. E questo si collega a tutto l’insieme della Dottrina cattolica: Dio volendo entrare in trattative con l’uomo, cioè con l’essere nello stesso tempo intelligente e sensibile, ha dovuto adattare alla sua grazia i rapporti di tempo, luoghi e di persone. C’è dunque una vocazione, una predestinazione per i luoghi come per le persone; ci sono dei luoghi, delle montagne ove si sono accumulate delle meraviglie di un ordine soprannaturale, ove è stato il compiacersi di Dio nel risiedere dagli inizi, e dove risiederà fino alla fine (Mgr. Pie, t. VI, p. 524).

III. — 17-24.

 17, 18. Il Salmista termina questo Salmo con la descrizione del trionfo di Gesù-Cristo, che dopo essere disceso, con la sua Incarnazione seguita dalla sua morte, nelle parti più basse della terra, è salito dopo al di sopra di tutti i cieli, conducendo con Sé una moltitudine di prigionieri, ed ha distribuito magnificamente i suoi differenti doni sugli uomini, inviando loro lo Spirito Santo e, cosa più ammirevole, ha trionfato del cuore ribelle di coloro che erano interamente increduli e fatto in modo che popoli in precedenza infedeli ed increduli, abbiano dimorato nel Signore, e che il Signore abbia dimorato in essi (Duguet). – Dopo aver descritto il corteo che circonda il carro di trionfo del Signore, il Profeta si rivolge al Signore stesso: “Voi siete salito nell’alto dei cieli, voi avete catturato la prigionia, avete distribuito dei regali agli uomini. “ L’ Apostolo riporta questo versetto e lo applica a Nostro Signore in questi termini: “Ad ognuno di noi, la grazia è stata data secondo la misura del dono di Gesù. Ecco perché il Profeta ha detto: “Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini”. Ma che significa la parola “ascese”, se non che prima era “disceso” quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose (Efes. IV, 7-10). È dunque, senza alcun dubbio, di Gesù Cristo che il Profeta ha parlato dicendo: “Voi siete salito nell’alto dei cieli, Voi avete fatto prigioniera la cattività, Voi avete ricevuto i doni nella persona degli uomini.”. E non siete preoccupati dal fatto che l’Apostolo, citando questo passaggio, non abbia detto: “ Voi avete ricevuto dei doni nella persona degli uomini”, ma: “ Egli ha dato dei doni agli uomini”. L’Apostolo, con l’autorità che questo titolo gli dava, ha parlato come ha fatto considerando il Figlio come Dio con il Padre. In questo senso, effettivamente, Egli ha dato dei doni agli uomini, inviando loro lo Spirito-Santo, che è lo Spirito del Padre e del Figlio. Ma se si considera lo stesso Gesù Cristo nel suo corpo che è la Chiesa; se si considera che i Santi ed i fedeli sono sue membra, secondo queste parole dell’Apostolo: “Voi siete il corpo ed le membra di Cristo” (I Cor. XII, 27), senza alcun dubbio, in questa qualità, Egli ha ricevuto dei doni nella persona degli uomini (S. Agost.). – Ma cosa vuol dire: “Avete catturato la cattività”? Sarà perché Egli ha vinto la morte, che teneva prigionieri coloro sui quali essa regnava? O forse il Profeta ha designato, con questo termine “cattività”, gli uomini che il demonio teneva prigionieri? Il Profeta dà agli uomini che erano prigionieri, il nome di cattività, come noi diciamo “milizia” parlando dei militari. Il Profeta ha detto che la cattività era stata catturata dal Cristo. Perché in effetti, la cattività non sarebbe felice se gli uomini potessero essere fatti prigionieri per il loro bene? … Essi sono dunque prigionieri perché sono stati presi, e sono stati presi perché sono stati soggiogati; sottomessi a questo giogo che è pieno di dolcezza, liberati dal peccato di cui erano schiavi, essi sono divenuti i servitori della giustizia, rispetto alla quale essi erano liberi in precedenza (Rom. VI, 18). Ecco perché il Cristo è in essi, nello stesso tempo, Colui che ha dato i doni agli uomini, e Colui che ha ricevuto dei doni, nella sua Persona, dagli uomini. Così, in questa cattività, in questa servitù, a questo carro, sotto questo giogo vi sono migliaia di uomini, non che piangono, ma che gioiscono; perché “il Signore è in essi, nel suo Santuario”. – Ma cosa aggiunge il Profeta? “Anche coloro che non credono che Dio possa abitare in mezzo ad essi”. Non parla della cattività, e non dice perché, prima di passare sotto la felice servitù, essi si trovavano incatenati in una servitù funesta? In effetti è in ragione della loro incredulità che gli uomini erano prigionieri del nemico, “che agisce sui figli ribelli, nel numero dei quali una volta eravate anche voi, quando vivevate tra essi” (Efes. II, 2-3). È dunque per i doni della sua grazia che il Cristo, che ha ricevuto i doni nella persona degli uomini, ha reso prigioniera questa funesta cattività. In effetti, questi uomini non credevano che un giorno avrebbero abitato la casa di Dio. Ma la fede li ha infine liberati, affinché essi abitassero la casa di Dio, e diventassero essi stessi questa casa e il carro di Dio, formato da migliaia di Santi che si rallegrano (S. Agost.). 19, 20. È allora che il cantore di queste parole profetiche, al quale lo Spirito Santo concedeva di contemplare in anticipo queste grandi cose, egli stesso pieno di gioia, intona un inno di gioia e grida: “Benedetto sia il Signore-Dio”. La terra deve unirsi al cielo per ridire con la moltitudine degli eletti: “La salvezza viene dal nostro Dio, seduto sul trono, e dall’Agnello … Benedizione, gloria, saggezza, azioni di grazie, onore, potenza e forza dal nostro Dio, nei secoli dei secoli”. (Apoc. VII, 10, 12.). – E poiché il Cristo conduce fino alla fine il carro di cui ha parlato, il Profeta continua e dice: “ Un cammino prospero ci sarà preparato dal Dio della nostra salvezza”. Queste parole ci insegnano la necessità della grazia. Chi sarà salvato in effetti, se Dio non lo salva? Ma per paura che questo pensiero non si presentasse al nostro spirito: “perché dunque noi moriamo se la grazia ci ha salvato?” … egli aggiunge: “Appartiene al Signore liberare dalla morte”, lo stesso vostro Signore, non ha avuto altra uscita dalla sua vita, se non la morte. Soffriamo dunque con pazienza la morte stessa, sull’esempio di Colui che ha voluto uscire dalla vita per mezzo della morte, benché alcun peccato Lo avesse reso tributario della morte, e che fu il Signore, al Quale nessuno poteva togliere la vita ed al Quale apparteneva il deporla da se stesso (S. Agost.). 21-23. “Ma comunque Dio schiaccerà la testa dei suoi nemici, e la fronte superba di coloro che camminano nei loro peccati”; vale a dire di coloro che si elevano in maniera disordinata, e che si inorgogliscono fieramente nei loro peccati, mentre essi dovrebbero attingere sentimenti di umiltà. Egli schiaccerà la loro testa, “perché colui che si esalta, sarà abbassato”. Egli schiaccerà la testa dei suoi nemici e non soltanto di coloro che Lo hanno deriso sulla croce, ma anche di tutti quelli che si ergono contro la sua dottrina e che volgono la sua morte in derisione, come se non fosse che la morte di un uomo (S. Agost.). – Così come Dio è buono nei riguardi dei peccatori umili che riconoscono le loro debolezze, così è terribile nei riguardi dei peccatori orgogliosi che sono nemici dichiarati e vogliono insolentemente perseverare nei loro peccati. Egli talvolta li schiaccia in questa vita, ma sempre nell’altra, dove non ci sarà da sperare più salvezza per coloro il cui orgoglio non sarà stato abbassato in questa vita. – Nessun nemico, per potente che sia, tra le mani di Dio ritira le sue quando a lui piace, con la stessa facilità con la quale Egli ha liberato il suo popolo dalle mani di re potentissimi; nessun abisso di peccato, quantunque profondo, da cui la bontà onnipotente di Dio non si ritira quando vuole (Dug.).

 IV. — 24-35

25-27. “Si è visto il vostro passo, o mio Dio”! Si è visto il vostro passo attraverso il mondo, che voi dovete percorrere interamente su questo carro, chiamato ugualmente nel Vangelo col nome di nube e che significa i Santi ed i fedeli. … Tali sono i passi che da Voi si sono visti; vale a dire, tali sono i passi che ci sono stati manifestati, quanto la grazia del Nuovo Testamento ci è stata rivelata. Ecco perché è scritto: “Quanto son belli i piedi di coloro che annunziano la pace, che annunciano la buona novella” (Rom. X, 15). In effetti, questa grazia e questi passi erano nascosti nell’Antico Testamento; ma quando è venuta la pienezza dei tempi, e quando è piaciuto a Dio rivelare suo Figlio, perché fosse annunciato tra le nazioni” (Gal. IV, 4), si sono visti i vostri piedi, o mio Dio!, i passi del mio Dio, del Re che abita nel luogo santo”. In qual luogo santo, se non nel suo tempio? In effetti il tempio di Dio è santo, e Voi siete questo tempio” (II Cor. III, 17), (S. Agost.). – Ora, perché questi passi fossero visti, “i principi hanno marciato per primi con coloro che cantavano sul salterio, in mezzo alle fanciulle che battevano sui tamburi”. I Principi sono gli Apostoli; essi hanno in effetti, marciato per primi, affinché i popoli li seguissero; essi hanno marciato per primi annunciando il Nuovo Testamento, “con quelli che cantavano sul salterio”, cioè con coloro le cui buone opere, visibili agli altri uomini, glorificassero Dio, come strumenti destinati a lodarLo. Questi stessi principi erano “in mezzo alle fanciulle che battevano sui tamburi”, vale a dire che essi erano onorati dal ministero stesso che essi espletavano; perché tale è il rango dei ministri sacri in mezzo alle nuove chiese che essi governano. In effetti, nel timore che non venga allo spirito di qualcuno l’interpretare queste figure in senso carnale, il Profeta continua e dice: “ benedite il Signore nelle Chiese”; come se dicesse: guardatevi, sentendo parlare di fanciulle che battono sui tamburi, dal pensare a divertimenti lascivi. “Benedite il Signore nelle Chiese”. Le Chiese sono figurate con denominazione mistica; le Chiese sono le fanciulle che battono sui tamburi, cioè a chi la vittoria riportata sulla carne ha dato un’autorità spirituale. “Benedite dunque nelle Chiese il Signore, Iddio, voi che siete usciti dalle sorgenti di Israele. È in Israele, in effetti, che Egli ha scelto coloro che Egli voleva fossero delle sorgenti; è la che Egli ha scelto gli Apostoli, i primi che hanno ascoltato queste parole. “Chiunque berrà l’acqua che Io gli darò, non avrà mai sete, ma uscirà da lui una sorgente d’acqua che zampillerà fino alla vita eterna” (Giov. IV, 13, 14); (S. Agost.). – I piccoli ed i grandi, I princìpi ed I popoli si trovano in queste Chiese come nella casa comune, per rendere I loro doveri a Dio.

28-30. Questa espressione. “Signore, dispiegate la vostra forza”, è nello stile dei profeti, che rappresentano Dio come intimante i suoi ordini agli strumenti della sua bontà o delle sue vendette. Dio comanda alla sua forza, quando la impiega, quando ne fa sentire gli effetti. Io potrei dire, nell’orazione: “Signore comandate alle vostre luci di illuminarmi; comandate al vostro amore di abbracciarmi; comandate alla vostra misericordia di perdonare i miei peccati; comandate alla vostra saggezza di mostrarmi le vostre vie”. Nel Salmo XLIII, il Profeta dice che Dio comanda la salvezza di Giacobbe; vale a dire che Egli prende i mezzi efficaci per salvare il suo popolo. O Signore, ripeto, con il sentimento di un cuore toccato dal desiderio di compiacervi: comandate la mia salvezza; comandate ai nemici che vi si oppongono, lasciate la mia anima gioire della pace che si gusta nel vostro seno; comandate alle mie passioni di tacere alla vostra presenza. Comandate al mio cuore di attaccarsi invincibilmente a voi (Berthier). – In qualunque grado di virtù e di santità l’uomo sia stabilito, deve chiedere a Dio di stabilizzarlo e completare in lui ciò che ha iniziato. Sovrano ambito di Gesù Cristo, al Quale tutti i re della terra sono venuti a rendere adorazione ed i loro omaggi, consacrando a Lui i loro Stati ed ancor più il loro cuore. Quale dono più gradito a Dio, se non il sacrificio di lode? Ma vi sono degli uomini che, benché portino il nome di cristiani, hanno sentimenti contrari, e mischiano a queste lodi queste arie discordanti. Che Dio faccia dunque ciò che dice il Profeta. “Reprimere le bestie feroci della canna”. Queste sono delle vere bestie feroci, perché sono pericolose per la loro mancanza di intelligenza, e sono le bestie feroci delle canne perché essi corrompono, con i loro errori, il senso delle scritture. – È ancora per gli stessi uomini che il Profeta aggiunge: “ Essi sono come una moltitudine di tori in mezzo alle vacche dei popoli”, affinché coloro che sono stati provati come l’argento siano respinti. Dando loro il nome di tori, a causa della loro testa dura ed indomita, il profeta designa gli eretici, mentre le vacche dei popoli sono le anime facilmente seducibili. “Al loro numero appartengono certi tali che entrano nelle case e accalappiano donnicciole cariche di peccati, mosse da passioni di ogni genere, che stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità” (II Tim. III, 6-7). – Lo stesso Apostolo dice ancora: “Bisogna che si abbiano delle eresie per manifestare coloro che tra voi sono riprovati” . “È necessario infatti che ci siano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi (I Cor. XI, 19), cosa che si riconduce a ciò che aggiunge il profeta: “Affinché tutti quelli che sono provati come l’argento siano riprovati”; cioè manifestati, evidenziati (S. Agost.). – “Respingete le bestie feroci, sempre pronte a slanciarsi dalle loro canne”. Questo spettacolo non presenta forse in questo momento il mondo, nel quale una banda di tori furiosi ha davanti a sé solo timide vacche? È vero, i popoli stessi sono rammolliti, “stravaccati”, anche se il mondo contiene ancora delle intelligenze ferme, dei coraggi robusti; grandi energie sussistono in seno alle società. Ma queste nature forti ed oneste che sono a prova di argento, vengono escluse, respinte; riducendosi gli uomini degni di questo nome, si crede di aver guadagnato tutto, e tanti popoli si personificano in volontà fiacche, in spiriti fluttuanti, in anime che non hanno nulla di virile: sono queste le truppe di vacche che abbiamo visto più di una volta in fuga, quando i tori hanno fatto irruzione (Mgr. Pie, I, 456, Homél, Pentec.). 31-35. I reami o i re della terra hanno bisogno che si ricordi loro l’obbligo che hanno di cantare le lodi di Dio. Essi sono talmente inebriati dalla loro grandezza e dallo sfarzo che li circonda, che dimenticano facilmente ciò che essi devono a Dio, per non ricordarsi se non di quello che essi credono che gli uomini debbano loro. – La voce di Dio è così forte e potente, che nulla è capace di resisterGli, e che i suoi nemici più dichiarati saranno infine obbligati a renderGli gloria. – I Santi sono la più grande meraviglia di Dio. Il mondo non è che un’ombra della sua grandezza, ma i Santi ne sono un’immagine viva, essi rappresentano in qualche modo, la virtù e la forza invincibile di Dio, perché è per esse che sono divenuti Santi, malgrado tutti gli attacchi del demonio, del mondo, della carne (Dug.). – “Al suo popolo che è ora fragile e debole, Dio donerà la forza e la potenza”. In effetti quaggiù, noi portiamo i nostri tesori in vasi fragili (II Cor. IV, 8); ma allora, per i gloriosi cambiamenti che avranno luogo anche nei corpi, “egli darà la forza e la potenza al suo popolo”; il Cristo gli darà la forza che per primo ha deposto nella sua carne, e che l’Apostolo chiama la forza di resurrezione (Filip., III, 10); questa forza per la quale la morte sarà distrutta. “Benedetto sia il nostro Dio”! (S. Agost.).

San Pietro Canisio e la preghiera per conservare la fede

Oggi, 27 aprile, festeggiamo un grande Santo, modello di fede intrepida ed irriducibile, senza compromessi né tentennamenti:

pietro CanisioSan Pietro Canisio

   Egli è stato un accanito difensore della santa Fede cattolica e della Cattedra di Pietro contro gli attacchi feroci degli eretici del tempo! Salvò numerosissime anime dal baratro in cui le eresie le avrebbero per certo sprofondate per una morte eterna, una volta allontanate dalla retta fede e dai salubri pascoli di Pietro. Oggi più che mai, ciò che resta del popolo cristiano avrebbe bisogno non di uno, ma di dieci, cento, mille S. Pietro Canisio, che allontanino dal gregge i lupi voraci fautori dell’apostasia modernista-conciliare, esponendo ed offrendo, se necessario, la propria vita per proteggere la Chiesa oggi nelle catacombe ed il Santo Padre in esilio nella sofferenza del Getsemani, per il risorgere ed il trionfo della Santa Chiesa. In attesa dell’intervento del Signore che solo, con il soffio della sua bocca, oramai può porre rimedio alla rovina in cui “quelli che hanno per padre il diavolo”, stanno cercando di precipitarla, uniamoci in preghiera invocando l’intercessione del Santo dottore, per conservare la fede divina, e perché si acceleri la venuta del Signore Gesù Cristo ed il trionfo della sua Chiesa sulle porte dell’inferno che giammai prevarranno, secondo promessa evangelica.

 

San Pietro Canisio: preghiera per conservare la vera fede

 

“Preghiera per conservare la vera Fede” scritta da san Pietro Canisio (1521-1597), olandese della Compagnia di Gesù, apostolo della Controriforma in Germania, definito “martello degli eretici”, beatificato da Pio IX nel 1868 e canonizzato da Pio XI nel 1925 che lo nominò pure Dottore della Chiesa.

 

Professo davanti a Voi la mia fede. Padre e Signore del Cielo e della terra, mio Creatore e Redentore, mia forza e mia salvezza, che fin dai miei più teneri anni non avete cessato di nutrirmi col sacro pane della vostra Parola e di confortare il mio cuore. Affinché non vagassi errando con le pecore traviate che sono senza Pastore. Voi mi raccoglieste nel seno della vostra Chiesa; raccolto, mi educaste; educato, mi conservaste insegnandomi con la voce di quei Pastori nei quali volete essere ascoltato e ubbidito, come di persona, dai vostri fedeli.

Confesso ad alta voce per la mia salvezza tutto quello che i cattolici hanno sempre a buon diritto creduto nel loro cuore. Ho in abominio Lutero, detesto Calvino, maledico tutti gli eretici; non voglio avere nulla in comune con loro, perché non parlano né sentono rettamente, e non posseggono la sola regola della vera Fede propostaci dall’unica, santa, cattolica, apostolica e romana Chiesa. Mi unisco invece nella comunione, abbraccio la fede, seguo la religione e approvo la dottrina di quelli che ascoltano e seguono Cristo, non soltanto quando insegna nelle Scritture ma anche quando giudica per bocca dei Concilii ecumenici e definisce per bocca della Cattedra di Pietro, testificandola con l’autorità dei Padri. Mi professo inoltre figlio di quella Chiesa romana che gli empii bestemmiatori disprezzano, perseguitano e abominano come se fosse anticristiana; non mi allontano in nessun punto dalla sua autorità, né rifiuto di dare la vita e versare il sangue in sua difesa, e credo che i meriti di Cristo possano procurare la mia o l’altrui salvezza solo nell’unità di questa stessa Chiesa.

Professo con franchezza, con san Girolamo, di essere unito con chi è unito alla Cattedra di Pietro e protesto, con sant’Ambrogio, di seguire in ogni cosa quella Chiesa romana che riconosco rispettosamente, con san Cipriano, come radice e madre della Chiesa universale. Mi affido a questa Fede e dottrina che da fanciullo ho imparato, da giovane ho confermato, da adulto ho insegnato e che finora, col mio debole potere, ho difeso. A far questa professione non mi spinge altro motivo che la gloria e l’onore di Dio, la coscienza della verità, l’autorità delle Sacre Scritture canoniche, il sentimento e il consenso dei Padri della Chiesa, la testimonianza della Fede che debbo dare ai miei fratelli e infine l’eterna salvezza che aspetto in Cielo e la beatitudine promessa ai veri fedeli.

Se accadrà che a causa di questa mia professione io venga disprezzato, maltrattato e perseguitato, lo considererò come una straordinaria grazia e favore, perché ciò significherà che Voi, mio Dio, mi date occasione di soffrire per la giustizia e perché non volete che mi siano benevoli quelle persone che, come aperti nemici della Chiesa e della verità cattolica, non possono essere vostri amici. Tuttavia perdonate loro, Signore, poiché, o perché istigati dal demonio e accecati dal luccichio di una falsa dottrina, non sanno quello che fanno, o non vogliono saperlo.

Concedetemi comunque questa grazia, che in vita e in morte io renda sempre un’autorevole testimonianza della sincerità e fedeltà che debbo a Voi, alla Chiesa e alla verità, che non mi allontani mai dal vostro santo amore e che io sia in comunione con quelli che vi temono e che custodiscono i vostri precetti nella santa romana Chiesa, al cui giudizio con animo pronto e rispettoso sottometto me stesso e tutte le mie opere. Tutti i santi che, o trionfanti nel Cielo o militanti in terra, sono indissolubilmente uniti col vincolo della pace nella Chiesa cattolica, esaltino la vostra immensa bontà e preghino per me. Voi siete il principio e il fine di tutti i miei beni; a Voi sia in tutto e per tutto lode, onore e gloria sempiterna. Amen.