Mons. De Ségur: L’INFERNO (3)

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III

L’ETERNITA’ DELLE PENE DELL’INFERNO

L’eternità delle pene dell’inferno è una verità di fede rivelata

    Dio stesso ha rivelato alle sue creature l’eternità delle pene che le attendono nell’inferno, se esse saranno tanto insensate, perverse, ingrate, nemiche di se stesse per ribellarsi alle leggi della sua santità e del suo amore. Riconducetevi, coro lettore, alle testimonianze già citate nel corso di questo opuscolo. Quasi sempre, ricordandoci la rivelazione misericordiosa che si era degnato di fare di questa salutare verità ai nostri progenitori, il Signore nostro Dio parla dell’eternità delle pene dell’inferno, già mentre parla dello stesso inferno. Così attraverso il Patriarca Giobbe e Mosè, Egli ci dichiara che nell’inferno « regna un orrore eterno “sempiternus horror” ». Il testo originale è anche più forte, significando la parola “sempiternus”: sempre eterno, quasi come se volesse dire « eternamente eterno ». Il Profeta Isaia ci ripete il medesimo insegnamento, senza dimenticare questa terribile apostrofe che indirizza a tutti i peccatori: « Chi tra voi potrà dimorare nel fuoco divoratore, nelle fiamme eterne, “cum ardoribus sempiternis?” ». qui ancora il superlativo sempiternus! Nel nuovo Testamento, l’eternità del fuoco e delle pene dell’inferno torna in ogni occasione sulle labbra di Nostro-Signore e sotto la penna dei suoi Apostoli. Qui, riportatevi, caro lettore, a qualche brano che vi abbiamo già citato. Io non ricorderò se non una parola del Figlio di Dio, perché essa riassume solennemente tutte le altre; è la stessa sentenza che presiederà la nostra eternità per tutti: « Venite, benedetti del Padre mio, ed entrate in possesso del reame che vi è stato preparato dall’origine del mondo! Allontanatevi da me, maledetti, ed andate nel fuoco eterno che è stato preparato per il demonio e i suoi angeli ». Ed il Giudice adorabile aggiunge: « questi andranno al supplizio eterno, e gli altri entreranno nella vita eterna; “in supplicium aeternum, in vitam aeternam” ». – Questi oracoli del Figlio di Dio non hanno bisogno di commenti. Sulla loro chiarezza luminosa la Chiesa appoggia diciannove secoli di insegnamento divino, sovrano ed infallibile, che riguarda l’eternità propriamente detta della beatitudine degli eletti in cielo e delle pene dei dannati all’inferno. Dunque, l’eternità dell’inferno ed i castighi spaventosi costituiscono una verità rivelata, una verità di fede cattolica, “certa” così come l’esistenza di Dio e come gli altri grandi misteri della religione cristiana.

L’inferno è necessariamente eterno a causa della natura stessa dell’eternità.

   Da molto tempo la fragilità naturale dello spirito umano si piega sotto il peso di questo terribile mistero dell’eternità dei castighi dei riprovati. Già dai tempi di Giobbe e Mosè, diciassette o diciotto secoli prima dell’era cristiana, certi spiriti leggeri e troppe coscienze troppo gravate dai carichi parlavano della mitigazione, o del termine delle pene dell’inferno. « Essi immaginano, dice il libro di Giobbe, che l’inferno decresce ed invecchia. » Oggi, come in tutti i tempi, questa tendenza a mitigare e ad abbreviare le pene dell’inferno trova degli avvocati più o meno interessati alla cosa. Ma essi si ingannano. Oltre al fatto che la loro supposizione si fonda solo sull’immaginazione ed è direttamente contraria alle affermazioni divine di GESÙ-CRISTO e della sua Chiesa, essa parte da una concezione assolutamente falsa della natura stessa dell’eternità. Non solo non ci sarà termine, ma nemmeno una mitigazione alle pene dei dannati, perché è totalmente impossibile che ciò possa accadere. La natura dell’eternità vi si oppone in maniera assoluta. L’eternità, in effetti, non è come “i tempi”, composti da una successione di istanti aggiunti l’uno agli altri, i cui insiemi formano i minuti, le ore, i giorni, gli anni, i secoli. Nel tempo si può cambiare, semplicemente perché c’è il tempo di cambiare. Ma se davanti a noi non abbiamo né giorno, né ora, né minuti o secondi, non è evidente che non si possa passare da uno stato ad un altro? Questo è ciò che accade nell’eternità. Nell’eternità non ci sono istanti che succedano ad altri istanti e che ne siano distinti. L’eternità è una modalità di durata dell’esistenza che nulla ha in comune con la nostra terra; noi possiamo conoscerla, ma non possiamo comprenderla. È il mistero dell’altra vita; è una vera e misteriosa partecipazione all’eternità stessa di Dio. Come dice San Tommaso, con tutta la tradizione: l’eternità è « tutta intera in una volta, tota simul ». È un presente sempre attuale, indivisibile, immutabile. Non ci sono secoli accumulati dopo secoli, né milioni di secoli aggiunti ad altri milioni di secoli, queste sono delle maniere tutte terrestri e perfettamente false di concepire l’eternità. Io lo ripeto, la natura stessa dell’eternità, che non assomiglia affatto alle successioni dei tempi, fa sì che ogni cambiamento sia impossibile, sia in bene che in male. Per ciò che riguarda le pene dell’inferno, ogni cambiamento pertanto è impossibile; e così come la cessazione, anche la mitigazione di queste pene costituirebbe necessariamente un cambiamento, dobbiamo concludere, con una certezza completa, che le pene dell’inferno sono assolutamente eterne, immutabili, e che il sistema di mitigazioni non è che una deficienza dello spirito, o un capriccio dell’immaginazione e del sentimento. Quel che sto per riassumere qui sull’eternità, caro lettore, è forse un po’ astratto; ma più ci rifletterete, più ne costaterete la verità. In ogni caso, che noi comprendiamo o non, dobbiamo riferirci al proposito, alla chiarissima, normalissima affermazione di Nostro Signore GESÙ-CRISTO; e con tutta semplicità e certezza della fede, diciamo: « io credo alla vita eterna, “credo vitam aeternam”, vale a dire all’altra vita, che per tutti sarà immortale ed eterna: per i buoni, immortale ed eterna nelle beatitudini del Paradiso; per i cattivi, immortale ed eterna nei castighi dell’inferno. Un giorno Sant’Agostino, Vescovo di Ippona, era occupato a scrutare, almeno finché lo poteva fare il suo potente spirito, la natura di questa eternità, ove la bontà e la giustizia di Dio attende tutte le creature. Egli cercava, approfondiva, a volte intravedeva, a volte si sentiva arrestato dal mistero. Tutto ad un tratto dinanzi a lui apparve, in una luce radiosa, un vecchio dal volto venerabile e tutto splendente di gloria. Era San Girolamo, che quasi centenario, stava per morire in un luogo molto lontano da lui, a Bethleem. Sant’Agostino guardava stupefatto e con ammirazione la celeste visione che si offriva ai suoi occhi: « l’occhio dell’uomo non ha mai visto, gli disse il vegliardo, l’orecchio dell’uomo non ha mai inteso, e lo spirito dell’uomo non potrà mai comprendere quello che tu cerchi di comprendere » … e così sparì. Tale è il mistero dell’eternità, sia in cielo, sia nell’inferno. Crediamo umilmente, e profittiamo del tempo di questa vita affinché, quando per noi cesseranno i tempi, veniamo ammessi alla buona eternità e che, per la misericordia di Dio, evitiamo l’altra.

Altra ragione dell’eternità delle pene: l’assenza di grazia.

Quando anche il dannato avesse davanti a lui il tempo per poter cambiare, per convertirsi ed ottenere misericordia, questo tempo non gli potrebbe servire, perché? Perché la causa dei castighi che egli sconta sarebbe sempre là. Questa causa è il peccato, è il male che ha scelto sulla terra come sua parte. Il dannato è un peccatore impenitente, incontrovertibile. Il tempo per convertirsi, in effetti, non è sufficiente. Ahimè! Noi lo vediamo purtroppo anche in questo mondo. Noi viviamo in mezzo a gente che il buon Dio attende da dieci, venti, trenta, quaranta anni, ed anche più. Per convertirsi è necessaria, inoltre la grazia. Non c’è conversione possibile senza il dono essenzialmente gratuito della grazia di Gesù-Cristo, la quale è il rimedio fondamentale del peccato, ed il primo principio della resurrezione delle povere anime che il peccato ha separato da Dio e così gettato nella morte spirituale. GESÙ-CRISTO ha detto: « Io sono la resurrezione e la vita »; ed è con il dono della sua grazia che Egli risuscita le anime morte e che le conserva in seguito in vita. Ora nella sua saggezza onnipotente, questo sovrano Signore ha stabilito che in questa vita, che è il tempo della nostra prova, la sua grazia ci sarà data al fine di farci evitare la morte del peccato, e di farci credere nella vita dei figli di Dio. Nell’altro mondo, non c’è più il tempo della grazia né della prova, ma quello della ricompensa eterna per coloro che avranno corrisposto alla grazia vivendo cristianamente ed il tempo dei castighi eterni per coloro che avranno respinto la grazia, morendo nel peccato. Tale è l’ordine della Provvidenza, e nulla lo cambierà. Dunque, nell’eternità non ci sarà più grazia per i peccatori riprovati, e poiché senza la grazia, è assolutamente impossibile pentirsi efficacemente, così com’essa è necessaria per ottenere il perdono, il perdono stesso è impossibile; la causa del castigo rimane sempre, ed il castigo, che non è che l’effetto del peccato, sussiste egualmente. Senza grazia, non c’è pentimento, senza pentimento non c’è conversione, senza conversione nessun perdono, senza perdono, nessuna mitezza né cessazione possibile della pena. Non è ragionevole? Il ricco malvagio del Vangelo non si pente nel fuoco dell’inferno. Egli non dice: « io mi pento! », e non dice nemmeno « io ho peccato ». Egli dice: « Io soffro terribilmente in questa fiamma! » È il grido del dolore e della disperazione, non il grido del pentimento. Egli non si cura di implorare il perdono, non pensa che a se stesso ed al suo sollievo. L’egoista chiede invano una goccia d’acqua che potrebbe dargli sollievo: questa goccia d’acqua è il tocco della grazia che lo salverebbe; gli viene risposto che questo è impossibile. Egli detesta il castigo, non la causa. È la storia raccapricciante di tutti i dannati. Quaggiù la città di Dio e la città di satana sono come insieme mischiate; si può passare dall’una all’altra; da buono si può diventare cattivo, o da cattivo si può diventare buono. Ma tutto questo cesserà al momento della morte. Allora irrevocabilmente le due città saranno separate, come dice il Vangelo, non si potrà passare dall’una all’altra, dalla città di Dio alla città di satana, dal Paradiso all’inferno, e viceversa dall’inferno al Paradiso. In questa vita tutto è imperfetto, il bene come il male; nulla è definitivo; e non essendo mai rifiutata a nessuno la grazia di Dio, si può sempre sfuggire al male, all’impero del demonio, alla morte del peccato, finché si è in questo mondo. Ma come già detto, tutto questo appartiene alla vita presente; ma dal momento che un poveraccio in stato di peccato mortale, ha dato l’ultimo respiro, tutto cambia aspetto: l’eternità succede al tempo; di momenti della grazia e della prova non ce n’è saranno più; la resurrezione dell’anima non è più possibile, e l’albero caduto a sinistra, resterà sempre a sinistra. Dunque, la sorte dei riprovati è fissata per sempre; nessun cambiamento, nessuno sconto di pena, nessuna sospensione, nessuna cessazione dei loro castighi è più possibile. A loro manca non solo il tempo, ma pure la grazia!

Terza ragione dell’eternità delle pene : la perversità della volontà dei dannati.

   La volontà dei dannati, è come pietrificata nel peccato, nel male, nella morte soprannaturale. Che cosa in questa vita rende possibile il fatto che un peccatore possa convertirsi? Innanzitutto, come detto, che ne abbia il tempo e poi che il buon Dio gli conceda sempre la grazia. Ma inoltre, poiché egli è libero, che la sua volontà possa, di sua scelta, ritornare dal lato di Dio. Si tratta infatti di un atto di libera volontà quello che ha allontanato il peccatore dal suo Dio; ed è pertanto con un altro atto di libera volontà, attraverso la grazia di questo Dio buono, che può tornare a Lui, pentirsi e, da povero figliuol prodigo, tornare perdonato alla casa paterna. Ma al momento della morte, ecco che accade per la libertà quel che avviene per la grazia: è finita, finita per sempre. Non si tratta più di scegliere, ma di dimorare in quel che si è scelto. Voi avete scelto il bene, la vita: possederete per sempre il bene e la vita. Voi avete scelto follemente il male e la morte: voi siete nella morte, e per sempre, e solo perché voi l’avete voluto quando potevate volerlo. È l’eternità delle pene! – Ancora oggi nel palazzo di Versailles si può osservare la camera dove morì Luigi XIV, il 1 settembre 1715. Vi sono gli stessi mobili, ed il particolare lo stesso pendolo. Per un sentimento di rispetto per il grande re morto, si arrestò questo pendolo nel momento in cui egli diede l’ultimo respiro, alle quattro , trenta ed un minuto; poi non è stato più toccato. E così dopo cento sessanta anni, la lancetta immobile del quadrante segna le quattro, trenta e un minuto. È una immagine suggestiva dell’immobilità in cui entra e resta la volontà dell’uomo nel momento in cui lascia questa vita. La volontà del peccatore dannato resta dunque necessariamente quella del momento della morte. Così com’è, resta immobilizzata, è eterizzata, se così si ci si può esprimere. Il dannato vuole sempre e necessariamente il male che ha fatto, dice S. Bernardo. Il male e lui fanno un tutt’uno; è come un peccato vivente, permanente, immutabile. Così come i beati, che vedono Dio nel suo amore e Lo amano necessariamente, i riprovati, non vedendo Dio che nei castighi della sua giustizia, Lo odiano necessariamente. Io vi chiedo allora: non è una giustizia rigorosa quella che colpisca con un castigo immutabile una immutabile perversità? E che una pena eterna, sempre la stessa, punisca una volontà eternamente fissata nel male, eternamente staccata da Dio con la rivolta e l’odio, una volontà bloccata nel sempre peccare? Da ciò che stiamo per dire, come da quel che precede, risulta in modo evidente che nell’inferno i dannati non avendo né il tempo, né la grazia, né la volontà di convertirsi, non possono essere perdonati e devono necessariamente subire un castigo immutabile ed eterno; infine come rigorosa conseguenza, le pene dell’inferno, non solo non avranno mai fine, ma non sono suscettibili di queste mitigazioni con le quali ci si vorrebbe illudere.

Se è vero che Dio sia ingiusto nel punire con delle pene eterne dei peccati momentanei.

   Si tratta di una vecchia obiezione, sollevata per timore da coscienze malconce. Nel quarto secolo l’illustre arcivescovo di Costantinopoli, S. Giovanni Crisostomo, la risolveva già in questi termini: « C’è chi dice “io ho messo solo un istante ad uccidere un uomo, a commettere un adulterio, e per questo peccato di un momento, devo subire delle pene eterne” ». « Sì certamente, perché ciò che Dio giudica nel peccato, non è il tempo impiegato nel commetterlo, ma la volontà che lo fa commettere ». Ciò che abbiamo già detto sarebbe già sufficiente per eliminare anche l’ombra di una difficoltà. Essendo nell’inferno assolutamente impossibile la conversione ed il cambiamento, per difetto di tempo, di grazia e di libertà, la causa del castigo sussiste eternamente nella sua interezza, e deve, a rigor di giustizia, produrre eternamente il suo effetto. Nulla da eccepire. Si tratta di pura giustizia. Voi trovate ingiusto che Dio possa con una pena eterna punire dei crimini di un istante? Ma vedete cosa accade ogni giorno nell’umana società. Tutti i giorni essa punisce con la morte assassini, parricidi, incendiari etc. che hanno perpetrato il loro crimine nell’arco di qualche minuto. È questo ingiusto? Chi oserebbe dirlo? Ora che cos’è la pena di morte nell’umana società? Non è una pena perpetua, senza ritorno? Senza mitigazione possibile? Questa pena di morte priva per sempre dalla società degli uomini, come l’inferno priva per sempre dalla società di Dio. Perché dovrebbe essere altrimenti per i crimini di lesa maestà divina, vale a dire per i peccati mortali? – Ma qui il tempo non ha nulla a che fare col peso morale del peccato. Come diceva S. Giovanni Crisostomo, non è la durata dell’atto colpevole che viene punita nell’inferno con una pena eterna, ma è la perversità della volontà che ha fatto agire il peccatore e che la morte è venuta ad immobilizzare. Persistendo sempre questa perversità, il castigo vi si applica eternamente: lungi dall’essere ingiusto, è tutto ciò che c’è di più giusto, ed anche necessario. La santità infinita di Dio non deve respingere forse eternamente un essere che si trova in uno stato eterno di peccato? Tale è il riprovato nell’inferno. E poi chiunque vi rifletterà seriamente noterà che in ogni peccato mortale vi è un doppio carattere: il primo, che è essenzialmente finito, è l’atto libero della volontà che viola la legge di Dio e pecca; il secondo, che è infinito, è l’oltraggio fatto alla santità, alla Maestà infinita di Dio. Da questo punto di vista, il peccato racchiude una malizia in qualche modo infinita: « quamdam infinitatem », dice San Tommaso. Ora la pena eterna risponde in modo esatto a questo carattere finito ed infinito del peccato. Essa stessa è finita ed infinita: finita nell’intensità; infinita ed eterna nella durata. Finita quanto alla durata dell’atto e alla malizia della volontà di colui che pecca, per cui il peccato è punito con una pena più o meno considerevole, ma sempre finita in intensità; infine in rapporto alla santità di Colui che è offeso, è punito con una pena di durata infinita, cioè eterna. Ancora una volta niente di più logico, di più giusto delle pene eterne che nell’inferno puniscono il peccato ed il peccatore. Ciò che non sarebbe giusto, sarebbe che tutti i riprovati subissero la stessa pena. In effetti è evidente che non sono colpevoli tutti allo stesso modo. Tutti sono nello stato di peccato mortale; uniti in questo, meritano tutti ugualmente una pena eterna; ma non essendo colpevoli tutti allo stesso grado, l’intensità di questa pena eterna è esattamente proporzionale al numero ed alla gravità della colpa di ognuno. Ancora una volta abbiamo una giustizia perfetta, una giustizia infinita. Infine ancora un’osservazione molto opportuna: se le pene del peccatore impenitente, riprovato nell’inferno, avevano un fine, questo sarebbe lui stesso, e non il Signore, che avrebbe quindi l’ultima parola nella sua lotta sacrilega contro Dio. Egli potrebbe dire a DIO: « Io prendo il mio tempo, voi prendete il vostro. Ma che il vostro tempo sia corto o lungo, io finirò sempre per avere la meglio su di Voi; io sarò maestro della situazione ed un giorno, che vogliate o non, io dividerò la vostra gloria e la beatitudine eterna nei cieli ». È possibile, io vi domando? – Dunque da questo punto di vista ancora, ed indipendentemente dalle ragioni perentorie che esporremo, la Giustizia, la Santità divina, richiede di stretta necessità che i castighi dei dannati siano eterni. – « Ma la bontà di DIO? » … forse qualcuno penserà! – La bontà di DIO qui non ha nulla a che fare: l’inferno è il luogo della sua giustizia, infinita come la sua bontà. La bontà di DIO si esercita sulla terra, dove Egli perdona tutto, sempre ed immediatamente dopo il pentimento. Nell’eternità la bontà non si esercita più, perché non c’è che da coronare nelle gioie del cielo la sua opera compiuta sulla terra col perdono. Vedreste per caso che, nell’eternità DIO esercitasse la sua bontà nei confronti di gente che ne hanno abusato indegnamente sulla terra, e che non vi hanno fatto ricorso nel momento della morte, e che ora non ne vogliono e non possono più volerne? Questo sarebbe semplicemente assurdo. Da parte di DIO soprattutto, la bontà non potrebbe esercitarsi a spese della giustizia. – Dunque, punendo con delle pene eterne delle colpe passeggere, lungi dall’essere ingiusto, DIO è giusto, anzi giustissimo.

Se è lo stesso per i peccati di debolezza.

   Senza volere scusare oltre misura i peccati di debolezza di cui gli stessi cristiani si rendono molto spesso colpevoli, occorre riconoscere che c’è un abisso tra quelli che li commettono e coloro che la Sacra Scrittura chiama in genere “i peccatori”. Questi sono le anime perverse, i cuori impenitenti che operano il male per abitudine, senza rimorsi, come cosa ordinaria, e che vivono senza DIO, in rivolta permanente contro GESÙ-CRISTO. Questi sono i peccatori propriamente detti, i peccatori di professione. « Essi peccano finché vivono, diceva San Gregorio; essi peccherebbero sempre se potessero vivere sempre; essi vorrebbero vivere sempre per poter sempre peccare. Per costoro, una volta che sono morti, la giustizia del sovrano Giudice esige evidentemente che non siano mai senza castigo, perché essi non hanno mai voluto essere senza peccato ». Queste non sono le disposizioni degli altri: una quantità di povere anime cadono in peccato mortale, e ciò nonostante esse non sono né cattive né corrotte, ed ancor meno empie, è la fragilità che le fa cadere, e non l’amore per il male nel quale esse cadono. Esse somigliano ad un bambino strappato dalle braccia della madre con violenza o per seduzione; che si lasciano così separare da essa, ma con dispiacere, senza mai lasciarla con lo sguardo e tendendo sempre a lei le braccia; non appena il seduttore lo lascia, egli torna a gettarsi subito pentito e gioioso nelle braccia della buona madre. Tali sono questi poveri peccatori occasionali, quasi per caso, che non amano il male che commettono, e la cui volontà non è gangrenata, almeno nel fondo. Essi subiscono il peccato piuttosto che ricercarlo; essi si pentono già nel momento in cui vi si abbandonano. Di tali peccati, non sono essi ben più scusabili? E come la misericordia adorabile del Salvatore non accorderebbe con facilità, soprattutto nel momento decisivo della morte, grandi grazie di pentimento e di perdono ai figliuol prodighi che, pur offendendoLo, non Gli hanno voltato le spalle, e che, pur lasciandosi trasportare lontano da Lui, non Lo hanno lasciato con lo sguardo e col desiderio? Si può affermare che il DIO che ha detto : « mai rigetterò colui che viene a me », troverà sempre nel suo divino Cuore dei segreti di grazie e di misericordie sufficienti per strappare queste povere anime alla eterna dannazione. Ma, diciamolo ben forte, questo è un segreto del Cuore di DIO, un segreto impenetrabile alle creature, sul quale non bisogna contare troppo, perché lascia comunque sussistere questa terribile dottrina, che è di fede, e cioè che ogni uomo che muore in peccato mortale è eternamente dannato e destinato nell’inferno ai castighi che meritano le sue colpe. Una parola per finire. Che gli spiriti sottili e le « anime sensibili » che cercano di cavillare in luogo di credere semplicemente e di santificarsi, si rassicurino pensando ai riprovati. La giustizia, la bontà, la santità di Nostro Signore regoleranno tutto al meglio, sia nell’inferno che nel purgatorio, là non ci sarà nemmeno l’ombra di una qualsiasi ingiustizia. Tutti coloro che saranno all’inferno avranno perfettamente meritato di esservi e di dimorarvi eternamente, per quanto terribili possano essere le loro pene, pene assolutamente proporzionate alle loro colpe. Qui non è come per i tribunali, le leggi e i giudici della terra, che possono ingannarsi, colpire ingiustamente, punire troppo o troppo poco: il Giudice eterno e sovrano GESÙ-CRISTO sa tutto, vede tutto, può tutto; Egli è più che giusto, è la Giustizia stessa, e nell’eternità, come ha dichiarato con la sua stessa bocca, « renderà a ciascuno secondo le sue opere », né più, né meno. Dunque, benché spaventose, incomprensibili allo spirito umano, le pene eterne dell’inferno saranno sovranamente, eternamente giuste.

Chi sono coloro che prendono la strada dell’inferno?

In primo luogo sono gli uomini che abusano della loro autorità, in un ordine qualunque, per indurre i loro subordinati al male, sia con la violenza, sia con la seduzione. « Un duro giudizio li attende ». Veri satana della terra, essi sono coloro ai quali si indirizza, nella persone del padre, la terribile parola della Scrittura: « O lucifero, come sei caduto dalle altezze del cielo? » – Sono tutti coloro che abusano dei doni dello Spirito per distogliere dal servizio di Dio la povera gente e per strappar loro la fede. Questi pubblici corruttori sono gli eredi dei farisei del Vangelo, e cadono sotto l’anatema del Figlio di DIO: « Maledetti a voi, scribi e farisei ipocriti! Perché chiudete agli uomini il regno dei cieli. Voi non vi entrate, ed impedite agli altri che vi entrino. Maledetti voi, scribi e farisei ipocriti! Perché voi percorrete la terra e i mari per fare un proselito; e quando lo avete guadagnato, fate di lui un figlio dell’inferno, due volte peggio di voi. » – A questa categoria appartengono gli empi pubblicisti, professori di ateismo ed eresie, e questa turba di scrittori senza fede e senza coscienza che ogni giorno mentono, calunniano, blasfemano coscientemente, e di cui il demonio, padre della menzogna, si serve per perdere le anime ed insultare GESÙ-CRISTO. Poi vi sono gli orgogliosi che, pieni di se stessi, disprezzano gli altri e contro di loro scagliano impietosamente la pietra. Gli egoisti, i ricchi malvagi che affogando nella ricerca del lusso e della sensualità, non pensano che a se stessi e dimenticano i poveri. Ne è testimone il ricco malvagio del Vangelo, del quale DIO stesso ha detto: « … egli fu sprofondato nell’inferno. ». Poi ci sono gli avari che sognano solo di accumulare scudi, e che dimenticano GESU’-CRISTO e l’eternità. Gli uomini d’affari, che mediante operazioni più che dubbie, per mezzo di ingiustizie consumate in segreto e commerci disonesti, sottraendo magari illecitamente i beni della Chiesa, fanno o hanno fatto la loro fortuna, grande o piccola, su basi che la legge di DIO condanna. Di essi è scritto: « che non possederanno il regno dei cieli ». Ci sono poi i voluttuosi, che vivono tranquillamente, senza rimorsi, con le loro impudiche abitudini, che si abbandonano a tutte le passioni, che hanno come Dio il loro ventre, che finiscono per non aver altra felicità che nei piaceri bestiali e grossolani dei sensi. Vi sono le anime mondane, frivole, che non pensano che a divertirsi, che a trascorrere il tempo follemente, le persone oneste secondo il mondo ma che dimenticano la preghiera, il servizio di DIO, i Sacramenti di salvezza, che non hanno alcuna preoccupazione della vita cristiana, non pensano affatto alla propria anima; essi vivono in uno stato di peccato mortale, e la lampada della propria coscienza è spenta, senza che essi se ne inquietino. Se il Signore viene all’improvviso, come ha predetto, essi ascolteranno la terribile risposta che Egli indirizza alle vergini stolte del Vangelo: « non vi conosco! ». Maledetto l’uomo che non è rivestito dell’abito nuziale! Il Giudice sovrano ordinerà ai suoi Angeli di afferrare, al momento della morte, « il servitore inutile » per farlo gettare, piedi e mani legati, nell’abisso delle tenebre esteriori, cioè nell’inferno! Coloro che vanno all’inferno, sono le coscienze false ed ambigue che calpestano, con cattive confessioni e comunioni sacrileghe, il Corpo ed il Sangue del Signore, « mangiando così e bevendo la propria condanna », secondo la terribile parola di San Paolo. Ed ancora abbiamo le persone che abusano delle grazie di DIO, trovano il modo di essere malvagi negli ambienti più santi; sono i cuori pieni di odio, che rifiutano di perdonare. Infine abbiamo i settari della franco-massoneria e le vittime insensate delle società segrete, che si votano, per così dire, al demonio e giurano solennemente di vivere e morire fuori dalla Chiesa, senza Sacramenti, senza GESÙ-CRISTO, e di conseguenza, contro GESÙ-CRISTO. Non è detto che tutte queste povere persone andranno certamente all’inferno, ma esse vi si dirigono, cioè vi si incamminano. Fortunatamente per loro, non vi sono ancora giunte, e si spera che prima della fine del loro viaggio, essi preferiscano convertirsi umilmente piuttosto che bruciare eternamente. Ahimè, il cammino che conduce all’inferno è così largo, così comodo! Va sempre in discesa, è sufficiente lasciarsi andare. Il Nostro Salvatore ce lo dice a chiare lettere: « la via che porta alla perdizione è larga e molti vi si incamminano! ». Esaminatevi, lettore amico mio; e se per disgrazia avete bisogno di mutare percorso, di grazia, non esitate, e portatevi fuori dalla strada dell’inferno finché siete ancora in tempo.

Se sia certa la dannazione di qualcuno che si vede morire in malo modo

   No. Questo è un segreto che appartiene solo a DIO. Ci sono persone che mandano tutti all’inferno, così come altri che mandano tutti in cielo. I primi credono di essere giusti, i secondi caritatevoli. In verità entrambi si ingannano; il loro primo errore è voler giudicare le cose che all’uomo non è dato conoscere quaggiù. Vedendo morire qualcuno in malo modo, si deve indubbiamente tremare, e non dissimulare la terrificante probabilità di una eterna riprovazione. È così che a Parigi, qualche anno orsono, una disgraziata madre, apprendendo la morte di suo figlio avvenuta in   circostanze raccapriccianti, presa da crisi di disperazione, restò in ginocchio per due giorni. Trascinandosi da un mobile all’altro, tra crisi continue di disperazione e ripetendo incessantemente: “figlio mio, povero figlio mio!! … nel fuoco! … bruciare, bruciare eternamente!!”. Era orribile sia il vederla che il sentirla. Ma nondimeno, benché probabile, benché possa sembrare certa la perdita eterna di qualcuno, resta sempre, nell’impenetrabile mistero di ciò che passa tra l’anima e DIO nel momento supremo, il non disperare. Chi potrà dire cosa passa nel profondo delle anime, anche nelle più colpevoli, in questo istante unico in cui il DIO di bontà, che ha creato tutti gli uomini per amore, che li ha riscattati col suo sangue e vuole la salvezza di tutti, fa necessariamente, per salvare qualcuno di essi, un ultimo sforzo di grazia e di misericordia? Ci vuole così poco tempo alla volontà per rivolgersi a DIO! – Anche la Chiesa non tollera affatto che si pronunci, come certuni fanno, la dannazione certa per chicchessia. Questo è un usurpare il ruolo di DIO. salvo Giuda e qualcun altro la cui riprovazione è più o meno esplicitamente rivelata da DIO stesso nelle Sante Scritture, la dannazione di qualcuno non è assolutamente sicura. La Santa Sede ne ha dato una curiosa prova non molto tempo orsono, in occasione della beatificazione di un grande servo di DIO, il P. Pallotta, che è vissuto e morto a Roma in concetto di grande santità, sotto il Pontificato di Gregorio XVI. Un giorno il santo prete accompagnava all’ultimo supplizio un assassino della peggior specie, che rifiutava ostinatamente di pentirsi, si beffava di Dio, blasfemava, sghignazzava fin sul patibolo. Il P. Pallotta aveva esaurito tutti i mezzi di conversione. Egli era sul patibolo, al fianco di questo miserabile; col viso bagnato di lacrime, si era gettato in ginocchio, supplicandolo che chiedesse perdono per i sui crimini, mostrandogli l’abisso aperto dell’inferno nel quale stava per cadere: a tutto questo il mostro aveva risposto con un insulto ed un’ultima blasfemia; e la sua testa cadde sotto il colpo fatale. Nell’esaltazione della sua fede, del suo dolore, della sua indignazione, e perché questo turpe scandalo si potesse trasformare per la folla che assisteva in una lezione salutare, il povero prete si alzò, prese per i capelli la testa sanguinante del giustiziato e presentandola alla moltitudine : « Vedete – gridò con voce tuonante -guardate bene, ecco la faccia di un dannato! » Questa pulsione di fede era certo ben concepibile, ed in un certo senso era ammirevole. Questo però fu sufficiente per arrestare il processo di beatificazione del venerabile Pallotta; tanto la Chiesa è Madre di misericordia e tanto Ella spera, anche contro la speranza, poiché si tratta della salvezza eterna di un’anima! È così che si può lasciare qualche speranza e portare qualche consolazione ai veri cristiani al cospetto di certe morti terrificanti, improvvise ed impreviste, o anche positivamente cattive. A giudicare dall’apparenza, queste povere anime sono evidentemente perse; da tanti anni quel vecchio viveva lontano dai Sacramenti, si beffava della Religione, ostentava incredulità! Questo povero giovane, morto senza potersene rendere conto, si comportava così male, ed i suoi costumi così deplorevoli! Quest’uomo, questa donna sono stati sorpresi dalla morte in un momento così cattivo, e sembrava certo che non abbiano avuto il tempo di rientrare in se stessi! Non importa, noi non dobbiamo, non possiamo dire in maniera assoluta che essi sono dannati. Senza nulla togliere ai diritti della Santità e della Giustizia di Dio, non perdiamo mai di vista, quelli della sua Misericordia. A questo proposito ricordo un fatto straordinario, e nello stesso tempo molto consolante. La fonte da cui lo traggo è per me una garanzia assoluta della sua perfetta autenticità. In uno dei migliori conventi di Parigi, ancora oggi vive una religiosa, di origine giudaica, notevole per le sue alte virtù e la sua intelligenza. I suoi genitori erano israeliti, e non so come, all’età di circa venti anni, ella si convertì e ricevette il battesimo. Sua madre era una vera giudea; prendeva sul serio la sua religione, e praticava di conseguenza tutte le virtù di una buona madre di famiglia. Ella amava sua figlia con passione. Quando apprese della conversione della figlia, entrò in un furore indescrivibile; a partire da questo giorno si scatenò ininterrottamente con minacce e stratagemmi di ogni genere per riportare « l’apostata », come ella la definiva, alla religione dei suoi padri. Dal canto suo, la giovane cristiana, piena di fede e di fervore, pregava incessantemente e faceva di tutto per ottenere la conversione di sua madre. Costatando la sterilità assoluta dei suoi sforzi, e pensando che un grande sacrificio, più che tutte le preghiere, potesse ottenerle la grazia che impetrava, si risolse di darsi tutta a GESÙ-CRISTO e di farsi religiosa; cosa che mise in atto coraggiosamente. All’epoca aveva circa venticinque anni. La disgraziata madre fu più esasperata che mai nei confronti della figlia e verso la Religione cristiana, cosa che faceva aumentare ancor più l’ardore della novella religiosa per conquistare a DIO un’anima a lei tanto cara. Ella continuò così per venti anni. Vedeva sua madre di tanto in tanto, l’affetto materno si era in parte ridestato, ma, almeno in apparenza, non si intravedeva nessun progresso sul versante dell’anima. Un giorno la povera religiosa ricevette una lettera che la metteva al corrente della morte improvvisa della madre: l’avevano trovata morta nel suo letto. Descrivere la disperazione della religiosa sarebbe impresa impossibile. Come impazzita, non sapendo che cosa facesse o dicesse, corse, con la lettera in mano, a gettarsi ai piedi del Santo-Sacramento; e quando i suoi singhiozzi le permettevano di pensare e parlare, ella disse, o piuttosto gridò a Nostro Signore. « Dio mio, è così che avete esaudito le mie suppliche, le mie lacrime e tutto ciò che ho fatto per venti anni? » Ed enumerando, per così dire, i suoi sacrifici di ogni genere, ella aggiunse, con strazio inesprimibile: « … e pensare che malgrado tutto ciò, mia madre, la mia povera madre, è dannata! » Ella non aveva completato la frase, che una voce uscì dal Tabernacolo dicendole: « E che ne sai tu? » Spaventata la povera suora restò interdetta. « Sappi, riprese la voce del Salvatore, che per confonderti e consolarti nello stesso tempo, Io ho dato a tua madre, nel momento supremo, una grazia così potente di luce e di pentimento, che la sua ultima parola è stata: « Io mi riposo e muoio nella Religione di mia figlia ». Tua madre è salva, è in Purgatorio … e non smettere di pregare per lei ». – Io ho sentito raccontare più volte dei fatti analoghi. Qualunque sia l’autenticità di ciascun caso in particolare, essi testimoniano una così grande e dolce verità, e cioè che in questo mondo la misericordia di DIO sovrabbonda, che all’ultimo momento, Ella compie uno sforzo spremo per strappare i peccatori all’inferno; e che infine qui cadono tra le mani dell’eterna Giustizia, solo coloro che rifiutano fino alla fine gli approcci della Misericordia.

CONCLUSIONI PRATICHE  

Uscire immediatamente e ad ogni costo dallo stato di peccato mortale.

   Quali pratiche conclusioni possiamo trarre da tutto questo, mio buono e caro lettore? Queste grandi verità non ci vengono rivelate da DIO che per ispirarci fortemente il timore che è, con la fede, la base della salvezza, timore della giustizia e dei giudizi di DIO; timore del peccato che porta all’inferno; timore di questa dannazione e maledizione spaventosa, di questa disperazione senza fine, di questo fuoco sovrannaturale che penetra nello stesso tempo le anime e i corpi, di queste tenebre oscure, di questa orribile società di satana e dei demoni, infine, dell’eternità immutabile di tutte queste pene, giustissimo castigo del riprovato.

COME EVITARLO

   Certo è una buona, anzi ottima cosa aver fiducia nella misericordia senza misura, ma, alla luce della vera fede, la speranza non deve essere separata dal timore, e se la speranza deve sempre dominare il timore, questo avviene a condizione che il timore sussista come le fondamenta di una casa, che danno a tutto l’edificio forza e solidità. Così il timore della giustizia di DIO, la paura del peccato e dell’inferno deve allontanare dall’edificio spirituale della nostra salvezza ogni vana presunzione. Lo stesso DIO che ha detto: « Mai rigetterò colui che viene a me » , ha detto egualmente : « Preparate la vostra salvezza con timore e tremore ». Bisogna santamente temere per aver il diritto di sperare santamente. In presenza degli abissi brucianti ed eterni dell’inferno, rientrate in voi stessi, mio caro lettore, ma per bene e seriamente. Come vi trovate ora? Siete nello stato di grazia? non avete sulla coscienza qualche grave peccato per cui, se moriste improvvisamente questo potrebbe compromettere la vostra eternità? In questo caso, credetemi, non esitate a pentirvi sinceramente, poi andate a confessarvi oggi stesso appena avete un momento disponibile. È necessario dirvi, che di fronte all’inferno, tutto passa in secondo ordine, ed è imperativo, -sentitemi bene- assolutamente imperativo, assicurare la vostra salvezza. « A che serve all’uomo guadagnare il mondo, se poi perde la sua anima? Ha detto a tutti noi il Giudice sovrano, e cosa potrà dare in cambio della sua anima? » –   Non rimandate a domani quel che potete fare oggi! E poi … siete sicuri che ci sarà un domani per voi? Io ho conosciuto una volta, in un piccolo villaggio della Normandia, un povero uomo che dopo il suo matrimonio, cioè dopo trenta anni, s’era lasciato prendere dai suoi affari, dal suo piccolo commercio e poi, bisogna dirlo, dall’osteria e dal vino, tanto che aveva finito per dimenticare il servizio di DIO. Egli non era malvagio, tutt’altro. Due o tre mezzi attacchi gli avevano fatto paura, ma sfortunatamente non tanto da farlo tornare ai suoi doveri. Le feste di Pasqua si avvicinavano. Il suo curato lo incontrò una sera e gli parlò molto francamente! « Signor curato, rispose l’altro, io vi ringrazio per la vostra bontà, ci penserò, ve lo prometto, parola di uomo onesto. Se non vi dispiace, tornerò a parlare con voi fra qualche giorno. » Il giorno seguente si trovò il corpo del povero uomo in un fiume là vicino: attraversandolo a cavallo, era stato colpito da apoplessia ed era caduto nell’acqua. – Due anni or sono, nel quartiere latino, uno studente di ventiquattro anni, che dopo il suo arrivo a Parigi, si era dato ai bagordi con tutti i comportamenti tipici dei giovani, riceveva un giorno la visita di uno dei suoi compagni, così buono e puro come poco lo era lui stesso. Era un compatriota che veniva a chiedergli nuove circa il suo paese. Dopo qualche minuto di conversazione, questi si ritirò. Ma ricordandosi subito che aveva dimenticato uno dei suoi libri dall’amico, tornò a bussare alla sua porta. Egli dormiva, nessuna risposta. La chiava era però nella serratura. Dopo aver suonato e bussato di nuovo, entrava … il disgraziato era steso a terra morto stecchito. Non era passato neppure un quarto d’ora da quando l’amico lo aveva lasciato. Un aneurisma, pare, gli avesse lesionato il cuore. Si trovò una scrivania piena di lettere abominevoli, ed i soli libri che componevano la sua esigua biblioteca, erano dei più osceni che si trovassero. Esempi del genere si potrebbero moltiplicare senza numero, senza contare poi i mille incidenti che ogni giorno fanno per così dire, passare repentinamente dalla vita alla morte; gli incidenti ferroviari e stradali, ad esempio, le cadute da cavallo, gli incidenti di caccia o di navigazione, i naufragi, etc. essi mostrano con maggiore eloquenza che tutti i ragionamenti, che bisogna sempre essere pronti a comparire davanti a DIO, che non bisogna giocarsi la proprie eternità con un “forse”, e che l’uomo in stato di peccato mortale che non pensa a riconciliarsi immediatamente con DIO con il pentimento e la confessione, è un folle che danza su un abisso, un triplice folle. « Io non comprendo – diceva S. Tommaso – come un uomo in stato di peccato mortale sia capace di ridere e scherzare ». Egli si espone con gaiezza di cuore a sperimentare a sue spese le profondità di questa parola spaventosa dell’Apostolo San Paolo: « È una cosa orribile cadere tra le mani del DIO vivente ».

Evitare con grande cura le occasioni pericolose e le illusioni  

   Ma non si tratta solo di vivere nello stato di peccato mortale quando si è avuta la sventura di cadervi. Bisogna portare ancora più lontano il nostro zelo della eterna salvezza, e prendere delle precauzioni ancora più serie. Non bisogna contentarsi di uscire al più presto dalla via dell’inferno, bisogna evitare di esserne avviati. Bisogna ad ogni costo evitare le occasioni di caduta, soprattutto quelle che per triste esperienza hanno dimostrato la loro pericolosità. Un cristiano, un uomo con senso comune, affronta tutto, sopporta tutto per sfuggire al fuoco dell’inferno. DIO stesso non ha forse detto: « Se la vostra mano destra, se il vostro piede, se il vostro occhio, se ciò che avete di più caro al mondo è per voi occasione di peccato, tagliatelo, cavatelo senza esitare; è meglio entrare, non importa a quali condizioni, nel regno di DIO e nella vita eterna, piuttosto che essere gettati nell’abisso del fuoco, nel fuoco eterno, ove il rimorso non muore mai, ed il fuoco mai si estinguerà ». – Nessuna illusione al riguardo! Le illusioni sono il movimento aggirante con il quale il nemico cerca di sorprenderci quando non riesce ad avere garanzie da un attacco frontale e fa che queste illusioni siano perfide, sottili, multiple, frequenti! Esse si attaccano a tutto, ma più particolarmente all’egoismo, con i suoi freddi calcoli e le sue raffinatezze; sopra ogni sfumatura di insurrezione dello spirito contro la fede, contro l’intera sottomissione dovuta all’autorità della Santa Sede e della Chiesa; sulle pretese necessità di salute o di abitudini, che fanno scivolare insensibilmente nella fossa dell’impurità; sugli usi e le convenienze del mondo in mezzo alle quali si vive, e che vi introducono facilmente nel turbinio del piacere, della vanità, dell’oblio di DIO, e nella negligenza della vita cristiana: infine sull’accecamento della cupidigia che spinge tanta gente a frodare, con il pretesto della necessità del commercio nel generale costume negli affari, della saggia preveggenza per l’avvenire dei figli, etc. Ma lo ripeto, nessuna illusione! Quanti riprovati sono oggi all’inferno che non vi sono entrati che da quest’ultima porta! Si può sedurre se stessi, almeno in una certa misura, ma non si saprebbe ingannare lo sguardo di DIO. – La stessa vita religiosa non sempre è sufficiente a preservarcene. Sappiatelo bene, ci sono religiosi all’inferno; ce ne sono pochi, io spero, ma infine ve n’è. E come sono arrivati là? Con il fatale cammino delle illusioni: illusioni che riguardano l’obbedienza, la pietà, la povertà, la castità, la mortificazione, l’uso della scienza, ed altro, che so? … è com’è largo questo cammino delle illusioni! Qui ne darò un esempio, preso dalla vita di S. Francesco d’Assisi. Tra i principali appartenenti al nascente ordine dei Frati Minori, vi era un certo fra’ Giovanni da Strachia, la cui passione per la scienza minacciava di far deviare i suoi religiosi dalla semplicità e dalla santità della loro vocazione. San Francesco lo aveva avvertito a più riprese, ma sempre invano. Giustamente sgomento della funesta influenza che questo provinciale esercitava, lo depose in pieno Capitolo, dichiarando che Nostro-Signore gli aveva rivelato che bisognava agire con questo rigore, perché l’orgoglio di questo uomo aveva attirato su di lui la maledizione di DIO. L’avvenire lo dimostrò ben presto. Il disgraziato morì in effetti in mezzo alla più terribile disperazione, gridando: « Sono dannato e maledetto per l’eternità! » – E delle raccapriccianti circostanze che seguirono alla sua morte confermarono questa sentenza.

Assicurarsi la salvezza eterna con una vita seriamente cristiana

Volete ancora essere più sicuri di evitare l’inferno, mio caro lettore? Non vi contentate di evitare il peccato mortale, di combattere i vizi ed i difetti che vi ci conducono; conducete una vita buona e santa, seriamente cristiana e piena di GESÙ-CRISTO. Fate come le persone prudenti che attraversano percorsi impervi che costeggiano precipizi: per paura di cadere, esse si guardano bene dal camminare sul bordo, ove un semplice passo falso potrebbe diventare fatale; esse prendono saggiamente l’altro lato della strada, e si allontanano quanto più possono dal precipizio. Fate lo stesso. Abbracciate generosamente questa bella nobile vita che si chiama la vita Cristiana, la via della pietà. Guidati dai consigli di qualche santo prete, imponetevi una sorta di regolamento di vita, nel quale farete entrare, in proporzione ai bisogni della vostra anima e delle circostanze esteriori nelle quali vi trovate, qualche buono e solido esercizio di pietà, tra i quali vi raccomando i seguenti, alla portata di tutti: Cominciate e finite la vostra giornata sempre con una preghiera ben curata, fatta col cuore. Aggiungete, mattino e sera, la lettura attenta di una o due paginette del Vangelo, o dell’Imitazione, o di qualche altro buon libro a vostra scelta che meglio vi edifichi; e dopo questa breve lettura qualche minuto di raccoglimento e di buoni propositi, al mattino per la giornata, alla sera per la notte, col pensiero della morte e dell’eternità. Prendete l’eccellente abitudine di fare il segno della croce tutte le volte che uscite dalla vostra camera, e ogni volte che vi entrate. Questa pratica, estremamente semplice, è molto santificante. Ma abbiate sempre cura di non fare questo segno sacro alla leggera, senza pensarvi, distrattamente come una routine, come fanno tanti. Bisogna farlo religiosamente e gravemente. – Cercate, se i doveri del vostro stato ve ne lasciano l’opportunità, di andare a Messa tutte le mattine, di buon’ora, per ricevere ogni giorno la benedizione per eccellenza. E di rendere a Nostro Signore il dovuto omaggio che ciascuno di noi Gli deve nel suo grande Sacramento. Se non potete, sforzatevi almeno di fare ogni giorno un’adorazione al Santo Sacramento, sia entrando in Chiesa, sia da lontano e dal profondo del vostro cuore. Rendete ugualmente ogni giorno, con cuore veramente filiale, alla Santissima Vergine MARIA, Madre di DIO e Madre dei Cristiani, qualche omaggio di pietà, di amore, di venerazione. L’amore della Santa Vergine, unita all’amore del Santo Sacramento, è una caparra quasi infallibile di salvezza, e l’esperienza ha dimostrato in tutti i secoli che Nostro-Signore GESÙ-CRISTO accorda delle grazie straordinarie sia durante la loro vita, sia al momento della loro morte, a tutti quelli che invocano e che amano sua Madre. Portate sempre addosso o uno scapolare, o una medaglia, o un rosario. Prendete senza lasciarla mai l’abitudine eccellente di confessarvi e comunicarvi spesso. La Confessione e la Comunione sono i due grandi mezzi offerti dalla misericordia di GESÙ-CRISTO a tutti quelli che vogliono salvare e santificare le loro anime, evitare le colpe gravi, crescere nell’amore del bene e nella pratica delle virtù cristiane. Non si può al riguardo dare una regola generale, ma ciò che si può affermare con certezza, è che gli uomini di buona volontà, cioè quelli che vogliono evitare sinceramente il male, servire il buon DIO ed amarLo con tutto il cuore, sono tanto migliori se si comunicano frequentemente. Quando si è così disporti si è al meglio; e questo dovrebbe ripetersi più volte alla settimana, o anche ogni giorno; tutti i buoni cristiani farebbero molto bene, avendone la facoltà, a santificare con una buona Comunione tutte le domeniche e le feste, senza mancarvi mai per loro colpa. Il celebre Catechismo del Concilio di Trento, sembra dire che il meno che possa fare un cristiano, appena preoccupato della sua anima, è l’andare al Sacramento tutti i mesi. Infine, proponetevi, nel vostro piccolo regolamento di vita, di combattere incessantemente i due o tre difetti che voi notate, o che altri hanno fatto rimarcare essere in voi: è questo il lato debole della piazza, ed è evidentemente da qui che da un momento all’altro il nemico tenterà sorprese e colpi di mano. Evitate come la peste le cattive frequentazioni e le cattive letture. Voi lo comprendete, caro lettore, che io non vi raccomando cose obbligatorie, lungi da me! … ma, vi ripeto, se entrate in questa via di generosità e di fervore e la seguirete risolutamente, voi vi assicurerete in maniera sovrabbondante il grande affare della vostra eternità; e sarete così certi di evitare le pene eterne dell’inferno, come si è certi di evitare le privazioni della povertà, con una saggia ed intelligente amministrazione che aumenti potentemente la propria fortuna. In ogni caso, non mancate di prendere da queste direzioni ciò che potrebbe fare al vostro caso al meglio; ma per l’amore dell’anima vostra, per l’amore del Salvatore che ha versato tutto il suo sangue per essa, non indietreggiate davanti al Vangelo, e siate dei buoni cristiani. – Pensate spesso seriamente all’inferno, alle sue pene eterne, alle sue fiamme divoranti, e vi assicuro che andrete in cielo. Il grande missionario del cielo è l’inferno. Un giorno, un buon prete che, dopo aver per quaranta anni predicato in tutta la Francia con encomiabile zelo apostolico, era a Roma ai piedi del buono e Santo Padre, S.S. il Papa PIO IX, che si intratteneva familiarmente con lui su questo bel mistero. « Predicate molto le grandi verità della fede, gli diceva il Papa, predicate soprattutto l’inferno. Nessuna dissimulazione, dite chiaramente, con fermezza e a voce alta, tutta la verità sull’inferno. Nulla è più efficace nel far riflettere e ricondurre a DIO i poveri peccatori. » È proprio ricordandomi di queste parole, così profondamente vere del Vicario di GESÙ-CRISTO, che ho intrapreso la stesura di questo piccolo lavoro sull’inferno. E poi, meditando le pene eterne e le sciagure dei riprovati, mi sono pure ricordato di una espressione di San Girolamo che eccitava una vergine cristiana al timore dei giudizi di DIO: « Territus terreo”, egli scriveva, atterrito atterisco ». Io mi sono sforzato di farlo qui, e Nostro Signore mi è testimonio che nulla ho nascosto di quanto so di questo terribile mistero. A voi lettore, chiunque voi siate, trarne profitto. Quante anime sono in cielo spinte principalmente dal timore dell’inferno! Io vi offro questo modesto opuscolo chiedendo al buon DIO di farvi penetrare in fondo all’anima queste grandi verità che esso riassume, affinché il timore vi ecciti all’amore, e l’amore vi conduca dritti in Paradiso. Degnatevi di pregare per me [ … e per i redattori di questo blog –ndr.-], affinché DIO mi faccia misericordia, come a voi stessi, degnandosi di pormi con voi, nel numero dei suoi eletti.

pio IX

8 dicembre 1875, festa dell’Immacolata Concezione.

OMELIA della DOMENICA VII DOPO PENTECOSTE

DOMENICA VII DOPO PENTECOSTE

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

(Vang. di S. Matteo VII, 15-21)

sansone

– Peccato castigo di sé medesimo –

“Un albero malvagio, così Gesù Cristo nell’odierno Vangelo, un albero malvagio non può produr frutti buoni”: “Non potest …arbor mala bonos fructus facere”. E che si darà uomo così folle, che si lusinghi raccogliere da uno spino grappoli d’uva, ovvero fichi da’ triboli? Eh che uno spino non può produrre che spine pungenti, e un tribolo non può dare che triboli aspri e molesti. “Non potest arbor mala bonos fructus facere. E qual è quest’albero malvagio? Egli è il peccato; qualunque altro male o di animo o di corpo, o di sostanze non merita il nome di male. Solo il peccato, il peccato solo è l’unico e vero male, è quella pianta infelicemente feconda di tutti gli altri mali, è quell’albero pessimo velenoso che produce frutti a sé proporzionati, pessimi cioè, maligni, avvelenati. – Ad accennarli in compendio, come richiede la strettezza del tempo, basterà il dire che il peccato è pena e castigo di sé medesimo, o si consideri secondo la natural ragione, o si riguardi secondo Dio. Passo a dimostrarvelo, se mi seguite con attenzione cortese.

I . Il peccato è pena e castigo di sé medesimo considerato secondo la natural ragione. Che cosa è il peccato? Egli è una violazione della legge eterna, scritta nel nostro cuore da Dio Creatore, regola infallibile d’ogni nostro operare. Ora un’azione qualunque, opposta a questa legge è un vero disordine, e siccome cosa fuori del suo ordine, trovasi in istato di violenza, la violenza stessa deve portare sconcerto tanto nel fisico, quanto nel morale; sconcerto che non può seguire senza pena e dolore, come un osso fuor dal suo luogo che reca spasimi, finché non torni alla propria giuntura; onde quelle stesse opere malvagie, dice lo scrittore della Sapienza, alle quali si determina l’uomo peccatore, si convertono in suo danno e in suo tormento. “Per quae peccat quis, per haec et torquetur” [Sap. XI, 17). – Vediamolo in pratica. Un uomo dedito al vizio del vino, non è egli vero che tosto perde la stima e la re putazione, che diviene l’obbrobrio del paese, e la favola delle conversazioni? Non è un castigo, per uno smodato e vile piacere di gola, restar privo dell’uso di ragione, rovinarsi la sanità, ed abbreviarsi la vita? Gli antichi Spartani, sebbene idolatri, avevano in sommo orrore questo vizio; onde per allontanarne i loro figliuoli, facevano a bella posta divenir ubriaco un loro schiavo; indi convocati i figli: mirate, dicevano, a che si riduce un uomo posseduto dal vino, come parla a sproposito, come va barcollando: ohimè! dà del capo or in questa, or in quella parete. Ahimè! Che cade stramazzone per terra, e sbalordito vomita un lago di caldo vino fetente. Ecco, o figli, i tristi effetti del vino e dell’ubriachezza; abbominate, o cari, vizio tanto vituperoso e dannevole. – Con più ragione adunque possiamo dire noi cristiani che questo peccato è un vero e palpabile castigò di sé medesimo: “Per quae peccat quis, per haec et torquetur”. Che diremo poi del vizio del giuoco, di quel giuoco che forma l’occupazione de’ giorni anche festivi, prolungati sovente a notte avanzata? Di quel giuoco in cui si arrischia tutto il guadagno della settimana? Quante spine produce mai quest’albero maligno! Quanti rancori, risse, contrasti, collere, imprecazioni, bestemmie! Che notti inquiete senza chiuder occhi per un giocatore che ha perduto! Guai alla povera moglie, guai a’ figli, al primo in cui s’incontra un giocatore disperato. A quanti giusti rimbrotti si espone per la sua crudeltà in togliere il pane di bocca ai suoi figlioletti per sacrificarlo alle carte e alla sua malnata passione! Quanti per giuoco passano da una buona fortuna alla mendicità; quanti, a finirla, morti allo spedale lasciano raminga e pezzente la propria famiglia! Non sono questi i meritati castighi, che si trae addosso il peccato del giuoco disordinato e vizioso? Così è: “Per quae peccat quis, per haec et torquetur”. E di quel vizio, che l’apostolo neppur vorrebbe si nominasse, del vizio e della disonestà, così universale nel mondo, che dovrò io dire? Io non vorrei camminare in questo fango, non vorrei maneggiare questa pece. Mi basterà mostrarvi nella persona di Sansone, che non v’è forse altro vizio che più di questo formi la pena ed il tormento del vizioso. Sansone, giudice in Israele, terrore de’ Filistei, onor di sua nazione, per la rea amicizia di Dalila donna venale, perde la riputazione, perde i capelli, perde la forza, perde gli occhi, perde finalmente la vita. – A tutte queste disavventure va incontro un impudico. Perdite d’onore, di sostanze, di sanità e della vita stessa, dacché non vi è peccato che più di questo acceleri la morte, e consumi la vita di chi n’è infetto, anche per fisiche cagioni. E ben lo sanno per dolorosa prova quei sciagurati, che ancor vivi, portano già le carni marce e infracidite. Qui sì che ci cade precisamente il detto del Savio: “Per quel che uno pecca, per quell’istesso vien tormentato:“Per quae peccat quis, per haec et torquetur”, peccato di carne, pena di carne. – Dite altrettanto d’ogni vizio. L’avaro è nemico di sé stesso, il superbo è da tutti aborrito, l’invidioso fa sangue cattivo, il ladro non ride sempre, il goloso si accorcia la vita. Insomma, siccome il ferro produce la sua ruggine, siccome il legno il suo tarlo, e il panno la sua tignuola, così il peccato, anche secondo la natural ragione, genera la sua pena, e il suo castigo.

II. Che sarà poi quando alla ragione naturale si aggiunga la giustizia di Dio? È verità di fede che il peccato deve esser punito. Siccome l’ombra segue necessariamente il suo corpo, così la pena necessariamente segue il peccato. E perciò una delle due, o dobbiamo noi castigare in noi stessi la nostra colpa, e distruggerla con vero dolore di animo umiliato e contrito, o pure Iddio offeso troverà ben Egli modo da prendersi la giusta vendetta. Ve lo ripeto, è di fede, che il peccato deve essere punito o in questa, o nell’altra vita: sentenza è data, e registrata nell’odierno Vangelo: “Omnis arbor quae non facit fructum bonum excidetur, et in ignem mittetur”. Ogni albero che non fa frutti buoni “excidetur”, ecco la pena temporale, “et in ignem mittetur” ecco la pena eterna. La strada dunque non passa: o punire il peccato colla sincera contrizione del cuore, e coll’opere di vera penitenza, o lo punirà Iddio colla sua giustizia. Se ne protesta Egli altamente (Ezech. VII, 9 ): “Scitis quia ego sum Domimis percutiens: si poenitentiam omnes simul peribitis” (Luc. XIII, 13). Suppongo qui che forse alcun di voi vada dicendo in cuor suo: Io ho peccato, continuo a peccare e me ne vanto talora nelle brigate degli amici pari miei, e pure vivo tranquillo, e non me ne è venuto alcun male : “Ne dixeris, Peccavi, et quid mifi accidit triste? [Eccl. V, 4]. Rispondo: quando si dice che il peccato chiama il castigo, non si asserisce che sarà castigato sull’istante: la pena non sempre scarica in sul momento sopra il peccatore. Non vi lasciate più passare nel pensiero, o uscir di bocca: io ho peccato e pecco, e non me n’è avvenuto alcun male. “Ne dixeris, peccavi, et quid mihi accidit triste?”. Ve ne avvisa lo Spirito Santo; perciocché l’Altissimo Iddio è un paziente distributore, “Altissimus enim est patiens redditur” [Eccl. ut supra]. Dio è paziente, dice S. Agostino, perché è onnipotente. Paziente, soggiunge S. Pietro (Ep. II, 3, 9), perché abbiate tempo a ravvedervi, perché vi aspetta a penitenza, perché vi vuol salvi; ma se voi abusate di sua sofferenza, il giorno di Dio destinato alla vostra punizione potrà tardare qualche tempo; ma un po’ più presto, un po’ più tardi vi coglierà, quando meno il pensate: “adveniunt autem dies Domini ut fur” (ibidem, v. 10). – Osservate i sempre giusti ed inscrutabili giudizi di Dio in ritardare o in accelerare i meritati castighi. Cento venti anni tardò il castigo di tempi di Noè minacciato agli uomini carnali: venne poi, e sommerse in un universale diluvio il mondo intero. – Venti anni stette nascosto ed impunito l’attentato de’ fratelli di Giuseppe da essi venduto in ischiavo: ma in fine la tribolazione, la prigionia e lo spavento di peggiori sciagure tolse loro di bocca la confessione, che il sangue del tradito fratello chiamava sopra di loro la meritata vendetta. – Tre anni Acab godé in pace la vigna usurpata a Nabot, e poi ferito a morte sparse nella stessa vigna l’ultimo sangue. – Un anno Davide riposò tranquillo nel suo peccato, ma dopo colla morte di due figli, colla ribellione di un terzo figlio, con mille altri infortuni provò quant’era pesante la mano di Dio vendicatore. – Poche ore passarono dalla calunniosa sentenza data da’ sordidi vecchioni contro la casta Susanna, ad essere sepolti, a furor di popolo sotto una tempesta di pietre. – Un istante, in cui Anania e Saffira confermarono una solenne bugia, bastò per farli cader morti a’ piedi di S. Pietro. – Or qui, miei cari, se siamo persuasi che peccato e castigo siano due cose inseparabili, se io e voi che mi ascoltate siamo peccatori, come in tutta verità dobbiamo confessare, che faremo per evitare l’ira di Dio armata a scaricarci sul capo i colpi di sua mano tremenda? Quale scudo al riparo, o qual via alla fuga? È questa l’interrogazione che in riva al Giordano faceva il Battista alle turbe ebree venute ad ascoltarlo. “Razza di vipere, gridava egli altamente, chi vi mostrerà il modo da fuggire la divina iracondia, che si va preparando a farvene sentire i più funesti effetti? “Genimina viperarum, quis ostendit vobis fugere a ventura ira” (Luc. III, 7). – Ecco ch’io vel suggerisco e vel predico: fate frutti degni di penitenza “Facite fructus dignos paenitentiae” (Luc. V, 3). Badate bene al mio avviso. Voi siete alberi malvagi, che non producono alcun buon frutto, e perciò la scure è già vicino alla radice che vi minaccia il taglio: e la condanna al fuoco: “Jam securis ad radicem; omnis arbor non faciens fructum bonzi excidetur, et in ignem mittetur” (Ibid. v. 2). – Altrettanto inculco a voi, fedeli miei dilettissimi: volete fuggire l’ira di Dio che vi sovrasta? Fate frutti, e frutti degni di penitenza. La vera e degna penitenza comincia dallo spirito contristato per l’orrore della colpa, e del cuore umiliato e contrito, ch’è quel sacrificio tanto a Dio accettevole che placa il suo sdegno. A questa interior penitenza fa d’uopo aggiungere l’opera di penitenza esteriore, l’osservanza de’ comandati digiuni, l’adempimento de’ propri doveri, la mortificazione de’ sensi, la pazienza, la rassegnazione alla divina volontà nelle tribolazioni, le preghiere, le limosine, le pratiche infine di soda cristiana pietà. Così facendo non avremo a temere i divini flagelli: saremo alberi ricchi di buoni frutti, frutti di virtù di vita eterna, che Iddio ci conceda.

La Cresima.

La Cresima.

[Mons. J.-J. Gaume: Il trattato dello Spirito Santo, vol. II, cap. XXIV]

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Il cristiano può adesso ammirarsi; ma egli deve soprattutto rispettarsi: Agnosce o Christiane dignitatem tuam . – Come tempio vivente dello Spirito Santo, Ei conosce i preziosi materiali con cui è costruito, ed i numeri misteriosi secondo i quali sono stati adoperati. Ma non basta una conoscenza generale. Fa d’uopo analizzare minutamente ciascuno degli elementi di questa creazione divina, incomparabilmente più bella e più degna de’nostri studi, che il mondo fisico con tutte le sue magnificenze. Per rimanere nei limiti naturali del nostro argomento, non parleremo né dei sacramenti in generale, né del simbolo, né del decalogo, né dell’orazione domenicale, quantunque tutte queste parti della divina costruzione sieno tante dipendenze ed effetti della grazia. La Cresima, le virtù, i doni, le beatitudini, i frutti, compongono il dominio diretto dello Spirito Santo. Tale è il campo più ricco di tutte le miniere della California, che .si apre alla nostra esplorazione. È di fede che i sacramenti, dandoci la grazia, ci danno lo Spirito Santo con tutti i suoi doni. Che forse ne vien di conseguenza che la Cresima sia inutile? Già noi abbiamo risposto negativamente, e dato la prova sommaria della nostra risposta. Bisogna svolgerla, e dire il fine speciale, o se si vuole, la ragione d’essere della cresima. « I sacramenti della nuova legge, ripeteremo con san Tommaso, non sono stabiliti soltanto per rimediare al peccato, e perfezionare la vita soprannaturale, ma altresì per produrre degli effetti speciali di grazia. Cosi dappertutto dove si presenta un effetto particolare di grazia, si rinviene un sacramento. » [“Sacramenta novae legis ordinantur ad speciales effectus gratiae; et ideo ubi occurrit aliquis specialis effectus gratiae, ibi ordinatur speciale sacramentum”. I II p., q. 71, art. 1, corp.]. – L’uomo venendo al mondo, non possiede che la vita naturale, e gli è necessaria la vita soprannaturale. Il Battesimo gliela dà. Tale è il fine speciale di questo sacramento. La debolezza fisica e morale è propria dell’infanzia. Se non fortificasse con l’età il suo corpo e la sua anima, l’uomo non diverrebbe uomo. Cosi è pure del cristiano. La forza gli è tanto più necessaria poiché è nato soldato. Destinato a lotte continue, la sua vita si definisce, una guerra. [“Militia est vita hominis super terram”. Job., VII,]. -L’antico Israele è la sua immagine vivente. Dai lidi del mar Rosso, tomba dei loro tiranni, gli Ebrei attraversano, dando continui combattimenti, il deserto che gli separa dalla terra promessa. Sette nazioni potenti ne disputano loro il possesso: ecco il cristiano. – Uscito dalle acque battesimali, con cui è stato liberato dalla schiavitù del demonio, per arrivare al cielo sua patria, gli è d’uopo attraversare il deserto della vita con le armi alla mano. La lotta non sarà contro esseri di carne e di sangue come lui; ma contro nemici ben altrimenti terribili, i principi dell’aria, le sette potenze del male. Evidentemente egli ha bisogno d’armi e di un maestro delle armi. In questa conferma, lo Spirito Santo si dà a lui come tale. Dice il Papa san Melchiade: « che lo Spirito Santo, scendendo nelle acque del battesimo, comunica loro nella sua pienezza la grazia che dà l’innocenza: nella cresima, arreca un accrescimento di grazia. Nel battesimo noi siamo rigenerati alla vita; nella cresima siamo preparati alla lotta. Nel battesimo noi siamo lavati; nella cresima siamo fortificati. ». [Apud S. Th,, III p.; q. 71, art. 1, corp.]. – Il Vicario di Gesù Cristo è l’eco fedele del divino maestro. A chi Nostro Signore riserba egli il miracoloso cambiamento degli Apostoli in uomini nuovi, e il cambiamento non meno ammirabile dei fedeli in martiri eroici? allo Spirito Santo che, disceso direttamente dal cielo sui primi, si dà ai secondi con la imposizione delle mani degli Apostoli, vale a dire mediante il crisma. – « Io vado, diceva tanto agli uni che agli altri, a mandare lo Spirito del Padre. Rimanete nella città, finché voi non siate rivestiti della forza dall’alto. Siate senza timore, e lo stesso Spirito Santo che parlerà per la vostra bocca e che vi darà una eloquenza tanto potente, che i vostri avversari non avranno nulla da replicare. »[Joan., XX, 16. — Luc. XXIV, 49; XX, 15]. – Come indica il suo nome, la confermazione è dunque il sacramento della forza: che essa sia stabilita per comunicarla al cristiano e fare di lui un soldato generoso, la Chiesa cattolica non ha mai cessato d’insegnarlo mediante i suoi concili, e la storia di provarlo con fatti luminosi. Di qui, quella dichiarazione solenne del Concilio di Firenze, cioè dire dell’Oriente e dell’Occidente riuniti sotto la presidenza dello stesso Spirito Santo: « L’effetto del sacramento della cresima, è di dare lo Spirito Santo come principio di forza, in quella guisa che fu dato agli Apostoli il giorno della Pentecoste, affinché il cristiano confessasse arditamente il nome di Gesù Cristo» [“Effectus autem confìrmationis sacramenti est, quia in eo datur Spiritus sanctus ad robur, sicut datus est apostolis in die Pentecostes; ut videlicet christianus audacter Christi confìteatur nomen”. Decret. ad Ann.]. – Il concilio di Magonza non è meno esplicito: « Secondo la promessa del Signore, lo Spirito Santo che noi riceviamo nel battesimo per la purificazione del peccato, si dà a noi nella cresima con un accrescimento di grazia, che ha per effetto di proteggerci contro gli assalti di Satana; d’illuminarci a fine di meglio comprendere i misteri della fede; di darci il coraggio di confessare arditamente Gesù Cristo e di fortificarci contro i vizi. Tutti questi beni il Signore ha formalmente promesso di darli ai fedeli per mezzo dello Spirito Santo, che doveva mandare. Tutte queste promesse sono state adempiute sugli apostoli il di della Pentecoste, come i loro atti ne porgono splendida testimonianza. 1 » [Conc. Mogunt, 1549, c. XVIII]. – Anche oggidì esse si compiono sui fedeli, nelle quattro parti del mondo, mediante il sacramento della cresima. La ragione è che lo Spirito Santo dimora sempre con la Chiesa, e che i suoi favori necessari per formarla, non lo sono meno per conservarla. Ora comunicandosi mediante la cresima, Io Spirito Santo opera parecchie grandi meraviglie nel cristiano, sua creatura privilegiata. La prima è una nuova Infusione della grazia santificante. – « La missione o la donazione del Santo Spirito, insegna san Tommaso, non ha luogo mai senza la grazia santificante, della quale lo Spirito Santo medesimo è il principio. È dunque manifesto che la grazia santificante è comunicata dalla cresima. Nel battesimo e nella penitenza questa grazia fa passare l’uomo dalla morte alla vita. Negli altri e nella confermazione specialmente essa accresce, ed afferma la vita( di già esistente. Questo sacramento perfeziona l’effetto del battesimo e della penitenza, nel senso che dà al penitente una remissione più perfetta de’ suoi peccati. Se un adulto, per esempio, si trova in stato di peccato senza saperlo, oppure se non è perfettamente contrito, e che si accosti alla cresima di buona fede, ei riceve mediante la grazia di questo sacramento la remissione dei suoi peccati. [III p., q. 71, art. 7, corp. et ad 1]. – La seconda è la grazia sacramentale. Oltre la grazia santificante, ciascun sacramento dà una grazia speciale, in relazione col fine del sacramento che la conferisce: e lo si appella grazia sacramentale. Nel sacramento della cresima è ama grazia di forza. Così la grazia sacramentale aggiunge qualche cosa alla grazia santificante propriamente detta. [“Gratia sacram entalis addit, saper gratiam gratum facientem comuniter sumptam, aliquid effectivum speciali effectus ad quod ordinatur sacramentum”. S . Thom. ubi sitpra, ad 8.] – Nella confermazione essa aggiunge la forza necessaria al cristiano: forza di memoria, per ritenere, senza mai dimenticarle, le grandi verità cattoliche, base e bussola della vita: forza d’intendimento, per comprendere la religione nei suoi dogmi e nei suoi precetti, nel dettaglio delle sue pratiche e nel suo magnifico complesso: nei suoi benefìci e nella sua storia, affinché tutte queste cose non abbiano nella nostra estimazione e nella nostra ammirazione né superiore né rivale. Forza di volontà, per tenere alto e fermo il vessillo cattolico, malgrado le diserzioni dei falsi fratelli, le persecuzioni del mondo, gli attacchi incessanti dell’inferno, e le interne sollecitazioni delle corrotte inclinazioni. Forza di tutte le facoltà in guisa, da armarle e da farle salire all’altezza della gran lotta,, delle quali l’anima è la posta, e il cielo la ricompensa. [S. Th., III p., q. 71, art. 1, ad 4, et art. 1, corp.]. – La terza è il carattere. In materia di sacramenti, chiamasi carattere un potere spirituale destinato a fare celate azioni nell’ordine della salute. [“Character est quaedam spiritualis potestas ad aliquas sacras actiones ordinate”. S. Th., ibid., art. 5, corp.]. Questo carattere è una grazia. Questa grazia è data allo scopo di distinguere quelli che la ricevono, da quelli che non la ricevono. Ogni grazia agisce sulla essenza medesima dell’anima. – Il carattere sacramentale è dunque interno, inerente all’anima e per conseguenza inammissibile. – Da ciò deriva che i sacramenti che l’imprimono non possono essere reiterati. « Vi sono tre sacramenti, dice il concilio di Firenze, il battesimo, la cresima e l’ordine che imprimono nell’anima un carattere, cioè dire un segno spirituale, distintivo e indelebile. » [“Tria sunt sacramenta, baptismus, confìrmatio et ordo, quae characterem, id est, spirituale quoddam -signum a caeteris distinctivum , imprimunt in anima indelebile”. Conc. Fiorent. decret. union.]. – E il concilio di Trento: « Se qualcuno dice che nei tre Sacramenti, battesimo, cresima e l’ordine non è impresso nell’anima un segno spirituale indelebile che impedisce di rinnovarli, sia scomunicato. » [“Si quis dixerit in tribus sacramentis, baptismo scilicet, confìrmatione et ordine, non imprimi characterem in anima, hoc est signum quoddam spirituale et indelebile, unde ea iterari non possunt ; anathema sit”. Sess. VII, 7]. – Il carattere essendo una forza, un potere, produce degli effetti reali in relazione con la sua natura e i bisogni dell’uomo. Cosi il carattere del battesimo distingue il cristiano dall’infedele, e gli comunica tutt’insieme la forza di compiere ciò che è necessario alla sua personale salute, e di confessare la sua credenza col ricevimento degli altri sacramenti ai quali dà il diritto. [“In baptism o accipit homo potestatem ad ea agenda, quae ad propriam pertinent salutem, prout scilicet secundum seipsum vivit Baptizatus accipit potestatem spiritualem ad protestandam fìdem per susceptionem aliorum sacramentorum”. S . T h ., III p., q. 72, art. 5, Corp. et ad 2]. -Ma non basta comunicare all’uomo la vita divina con i mezzi di conservarla, vivendo solitariamente. Bisogna da un lato che questa vita vada sviluppandosi come la vita naturale: e dall’altro, che il cristiano sia armato contro ai pericoli esterni, atteso che l’uomo è fatto per vivere in società. Mediante il carattere ch’essa imprime, la cresima soddisfa a tutte queste esigenze. Del cristiano essa fa un soldato. In esso ella aumenta la vita, della grazia ricevuta nel battesimo, e lo innalza alla perfezione. Ne risulta che il confermato può fare, nell’ordine della salute, certe azioni differenti da quelle di cui il battesimo l’ha reso capace. [“In hoc sacramento datur plenitudo Spiritus sancti ad robur spirituale, quod com petit perfectae aetati. Homo autem cum ad perfectam aetatem pervenerit, incipit jam comunicare actiones suas ad alios; antea vero quasi singulariter sibi ipsi vivit. S. Tohm., III p., q. 72, art. 12, corp.]. – Queste nuove azioni sono in rapporto, con la condizione del cristiano uscito dall’infanzia; e nel momento di entrare nella gran mischia che si appella la vita sociale. Certo la lotta contro ai nemici invisibili è la condizione di ogni anima battezzata dal giorno in cui ella si sveglia alla ragione. Ma il combattere i nemici visibili della fede, non comincia che più tardi nell’adolescenza, e al ruscire dal focolare domestico. Questi nemici sono i persecutori della verità; pagani, empi, libertini, corruttori, bestemmiatori, uomini e donne di tutte le condizioni, razza innumerevole che non sono, o che non son più cristiani e che non vogliono che si sia. – Il sacramento della cresima riveste il cristiano della forza necessaria contro questi nemici, a fine di sostenere nobilmente i combattimenti esterni della virtù. Vediamo ciò con l’esempio degli apostoli. Essi hanno ricevuto il battesimo, e nonostante si tengono nascosti nel Cenacolo fino al giorno della Pentecoste. Una volta confermati, escono dal loro ritiro, e senza temere né gli nomini né l’inferno, annunziano dappertutto la dottrina del loro maestro. Né le promesse, né le minacce, né le verghe, né le catene, né le prigioni, né le torture, né la morte non scuotono il loro coraggio. Così è altrettanto dei martiri. La quarta è l’accrescimento della virtù. Per comprendere questa nuova operazione, fa d’uopo scendere con la falce della filosofia e della fede, sino nelle profondità della natura dell’uomo e del cristiano. Nel cristiano vi sono due vite: la vita umana e la vita divina: ambedue si sviluppano su tante linee parallele; ambedue unite da leggi di conservazione e da rapporti di somiglianza, accusano l’unità di principio e l’unità di fine. – Siccome la quercia con tutta la sua potenza di vegetaazione, d’accrescimento e di solidità si trova in germe nella ghianda; cosi nel germe di vita umana e nel germe di vita divina; depositato in noi, si trovano in principio le forze, che più tardi si manifesteranno con atti, e si dischiuderanno in abitudini, d’onde dipenderà lo sviluppo dell’uomp e del cristiano. – Non vi è nessuno che non ammiri nelle piante questo lavoro di vegetazione e di accrescimento: potremmo noi seguirlo con minore interesse nella nostra debole natura d’uomini e di cristiani? Nello scoprire il segreto nel più umile vegetale, è la gioia del sapiente e il trionfo della scienza. Qual trionfo più nobile, qual gioia più viva di sorprenderlo in noi stessi. Il mezzo di giungere a questo risultato, è di farci una idea giusta di ciò che s’intende per abitudini e per virtù: per virtù infuse e per virtù acquisite; per virtù naturali e per virtù soprannaturali. – Chiamasi abitudine, una disposizione, o una qualità dell’anima, buona o cattiva. Essa è buona se è conforme alla natura dell’essere e del suo fine; cattiva se è contraria all’uno od all’altro. L’abitudine essendo una forza o un principio d’azione, dà luogo ad atti buoni o malvagi. Così, l’abitudine di agire con riflessione è buona, imperocché essa è conforme alla natura dell’essere ragionevole. Al contrario, l’abitudine di eccedere nel sonno, nel bere o nel mangiare, è cattiva: poiché essa tende a mettere al disopra ciò che deve stare al disotto, il corpo al disopra dell’anima. La virtù è una abitudine essenzialmente buona. Questa definizione mostra tutta la differenza che esiste tra l’abitudine propriamente detta, e la virtù. La prima è buona o cattiva, e porta al bene o al male. La seconda è essenzialmente buona e non può portare che al bene. – Di qui, quell’altra definizione, di sant’ Agostino: «La virtù è una buona qualità, o abitudine dell’anima, che fa viver bene, che niente può impiegare a male, e che Dio ha posto in noi, senza di noi. » [“Virtus est bona qualitas seu habitus m entis, qua recte vivitur et qua nullus male utitur, et quam Deus in nobis sine nobis operator”. De lib. arbit, lib. XI, c. XVIII]. -Nell’ordine puramente naturale, si distinguono le virtù infuse e le virtù acquisite. Le prime, come dice sant’Agostino, sono in noi, senza di noi; ma è chiaro che mediante gli atti spesso reiterati, queste buone qualità acquistano alla lunga una grande energia, e cosi sviluppate si appellano virtù acquisite. Meno che altrove non deve l’uomo attribuirsi ciò che appartiene a Dio. Nell’ordine naturale, come nell’ordine soprannaturale, è sempre sopra un fondamento divino eh’ esso lavora. I semi delle virtù acquisite sono in lui senza di lui. Il solo suo merito è nella coltura che egli dà ai doni del Creatore. E altresì gli atti che risultano dalla sua cooperazione, non raggiungono mai la perfezione del principio da cui essi emanano: simili ai ruscelli, la cui acqua è sempre meno pura, di quella della stessa sorgente. Le virtù naturali infuse o acquisite, procedendo da principi puramente naturali, cioè a dire non essendo che lo svolgimento della vita umana, hanno per termine la perfezione naturale. Il domandare ad esse di innalzare l’uomo ad un fine soprannaturale, cioè dire di condurlo nella perfezione della sua vita divina, sarebbe assurdo. La ragione è chiara come la luce del giorno. In tutte le cose i mezzi debbono essere proporzionati al fine; dunque il naturale non può produrre il soprannaturale. Però il soprannaturale è il fine per il quale l’uomo è stato creato. Come vi perverrà egli? Con la sua ordinaria lucidità, san Tommaso ci darà la risposta. – Dice l’angelico dottore: « Nell’uomo vi sono due principi moventi: l’uno interiore che è la ragione, l’altro esteriore che è Dio. II primo generatore delle virtù pura mente umane, pone l’uomo in stato di agire, in molti casi, conforme alla rettitudine ed all’equità naturale. Ma ciò non basta; l’uomo è chiamato a vivere d’una vita divina. – Di questa seconda vita, lo stesso Spirito Santo è il principio. La grazia eh’Egli diffonde nell’anima al momento del battesimo, è un elemento divino, donde procedono virtù soprannaturali, coinè le virtù naturali procedono dalla ragione e dall’eleménto umano. Queste virtù prendono il nome di virtù soprannaturali infuse. – Esse non sono la grazia, molto meno le virtù naturali non sono la ragione; come pure l’atto non è la potenza: nè l’effetto è la causa. » – Avuto riguardo alla vita divina che é in noi e della quale dobbiamo vivere a fine di giungere al nostro fine ultimo, queste virtù soprannaturali sono altresì più necessarie delle virtù puramente naturali o umane. – « La virtù, dice san Tommaso, perfeziona l’uomo e lo rende capace di atti, in relazione alla sua felicita. Ora vi sono per l’uomo due sorta di felicità o di beatitudine: l’una proporzionata alla sua natura d’uomo, e alla quale egli può pervenire con le forze della sua natura; ma non senza l’aiuto di Dio, “non tamen absque adjutorio divino”: l’altra, superiore alla natura, alla quale l’uomo non può pervenire che con forze divine, imperocché essa è una certa partecipazione della natura stessa di Dio. Gli elementi costitutivi della natura umana, non potendo innalzare l’uomo a quella seconda beatitudine, è occorso che Dio sopraggiungesse dei nuovi elementi, capaci a condurre l’uomo alla beatitudine soprannaturale, come gli elementi naturali lo conducono ad una naturale beatitudine. » – Tutti questi elementi sono compresi nella parola grazia, la più profonda senza dubbio e la più bella della lingua religiosa. Ora, in capo alle virtù nate dalla grazia, stanno le tre virtù teologali : la fede, la speranza e la carità. Come prime espansioni alla vita divina esse ci mettono, come conviene, in relazioni soprannaturali con Dio, nostro fine ultimo, e loro oggetto immediato. – La fede deifica l’intelligenza, messa in possesso di certe verità soprannaturali, che la luce divina le fa conoscere. La speranza deifica la volontà, dirigendola verso il possesso del bene soprannaturale conosciuto dalla fede. La carità deifica il cuore, che essa spinge all’unione col bene soprannaturale, conosciuto mediante la fede, e desiderato per mezzo della speranza. Non solamente il cristiano dee vivere nei suoi rapporti soprannaturali con Dio, ma ancora con sé stesso, co’ suoi simili con la creazione tutta intera. Come adempirà egli a quest’ obbligo? Dal principio vitale soprannaturale in lui escono necessariamente come un nuovo getto, le quattro grandi virtù morali: la prudenza, la giustizia, la forza, la temperanza. – Noi diciamo necessariamente; la ragione è che Dio non opera con meno perfezione nelle opere della grazia che nelle opere della natura. Ora, nelle opere della natura non si trova un sol principio attivo che non sia accompagnato da mezzi necessari al compimento dei suoi atti propri. Cosi tutte le volte, che Dio crea un essere qualunque, lo provvede di mezzi per fare quello a cui è destinato. Ma infatti la carità, predisponendo l’uomo al suo fine ultimo, è il principio di tutte le buone opere che vi conducono. Bisogna dunque che con la carità siano infuse, e che dalla carità escano tutte le virtù necessarie all’ uomo, per compiere i suoi doveri non solamente verso il Creatore, ma verso la creatura. – Le quattro virtù morali essendo come il cardine su cui muovonsi in giro i rapporti dell’ uomo con tutto ciò che non è Dio, hanno ricevuto il nome di virtù cardinali. [S. Th., l a, 2ae, q. 63, art. 3, corp.]. – E con ragione; poiché da esse sono animati, diretti, informati soprannaturalmente i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre affezioni e i nostri atti, nell’ordine domestico e nell’ordine sociale. La prima è la prudenza. Questa madre delle virtù morali, che le dirige, come una madre dirige le sue figlie, si definisce: Una virtù che, in tutte le cose, ci fa conoscere, e fare ciò che è onesto, e fuggire ciò che non lo è. Questa definizione, ammessa del pari dalla filosofia e dalla teologia, mostra che non vi è virtù morale senza la prudenza. « Difatti, dice san Tommaso, viver bene, vuol dire operar bene. Non basta conoscere quel che c’è da fare, bisogna conoscere altresì la maniera dì fare. Ciò suppone la scelta giudiziosa dei mezzi. Alla sua volta questa scelta avendo rapporto col fine che si vuol raggiungere, suppone un fine onesto e mezzi convenienti per giungervi: tutte cose che appartengono alla prudenza. – Se voi gli sopprimete non vi è più virtù. La precipitazione, l’ignoranza, la passione, il capriccio, divengono il movente delle azioni; la stessa virtù sarà vizio. Dunque senza la prudenza non v’ha virtù possibile. [S. Bernard Serm. 40 super Cani]. Apprendiamo di qui qual regio dono fa lo Spirito Santo all’anima, dandole la prudenza, mediante il battesimo, sviluppandola per mezzo della cresima. Impariamolo eziandio dal bisogno continuo che abbiamo di questa virtù; poiché essa si applica a tutto. Parimente si distingue la prudenza personale, che insegna a ciascuno il modo di adempiere a’ suoi doveri verso sé medesimo, verso l’anima sua e verso il corpo suo. La prudenza domestica, che insegna al padre a dirigere la sua famiglia. La prudenza politica, che insegna ai re a governare i popoli in modo, da condurli al fine per cui Dio gli ha creati; la prudenza legislativa, alla quale i legislatori debbono le leggi eque ed i regolamenti salutari. Nemica della prudenza della carne, dell’astuzia, della menzogna, della frode, della sollecitudine esagerata delle cose temporali, la prudenza, figlia della grazia, è la gloria esclusiva degli abitanti della Città del bene. Essa forma la loro felicità; e se il mondo attuale cammina di rivoluzioni in rivoluzioni, se tutto in esso e malcontento, instabilità, febbre d’oro e di godimenti, bisogna attribuirlo alla perdita della prudenza cristiana ed al regno della prudenza satanica. La seconda virtù morale che esce dalla grazia, come il frutto esce dall’albero, e che matura al sole della confermazione, è la giustizia. La giustizia è una virtù che fa rendere ad ognuno ciò che gli appartiene. – Illuminata dalla prudenza, la giustizia soprannaturale rispetta innanzi tutto i diritti di Dio. Questi, come proprietario incommutabile d’ogni cosa, ha diritto a tutto e sopra tutto, per conseguenza al culto interiore ed esteriore dell’ uomo e della società. Qui la giustizia si manifesta mediante là virtù di religione, che comprende l’adorazione, la preghiera, il sacrificio, il voto, l’adempimento fedele dei precetti relativi al culto diretto del Creatore. «Essa rispetta i diritti del prossimo, ricco o povero, debole o forte, inferiore o superiore. Ad essa il mondo deve la fine dell’impiego dell’uomo a profitto di un uomo, dell’uccisione del bambino, della schiavitù, del dispotismo brutale, che pesò su tutti i popoli avanti la redenzione, e che pesa ancora su tutte le nazioni estranee ai benefizi del Vangelo. Essa insegna all’uomo a rispettare se stesso, la sua anima e i suoi diritti, il suo corpo ed i suoi, la sua vita, la sua morte e fino al suo sepolcro.Essa gli insegna finalmente a rispettare le creature governandole con equità, cioè conforme al loro fine: in spirito di dipendenza come in bene d’altri; con timore, come dovendo render conto dell’ uso che ne avrà fatto. Si immagini dunque ciò che diverrà il mondo sotto l’impero della giustizia soprannaturale!La terza virtù cardinale è la forza. Senza di essa la prudenza e la giustizia sarebbero lettere morte. Non basta aver cognizione del bene, nemmeno la volontà, bisogna averne il coraggio. Il coraggio è figlio della forza. La forza è una virtù che tiene l’anima in equilibrio tra l’audacia e il timore. L’audace pecca per eccesso, il timido per difetto, il forte tiene il mezzo tra l’uno e l’altro. [“Fortitudo est mediocritas inter audaciam et timorem constituta”. Apud Ferraris, Biblioth., etc., art. Virtus, n. 120]. – La forza ha un doppio ufficio, attivo e passivo. Attivo, in faccia al dovere perché affronta i pericoli: passivo, all’avversità perché oppone la pazienza. La magnanimità, o la grandezza di animo, la confidenza, il sangue freddo, la costanza, la perseveranza, la rassegnazione, l’attività, sono figlie della forza. Tutta questa famiglia, soprannaturalizzata dalla grazia, innalza il carattere dell’ uomo al suo più alto grado di nobiltà, intanto che essa produce nella vita privata, come nella vita pubblica, gli atti ammirabili che non si cessa d’ammirare, dacché lo Spirito Santo, diffuso nel mondo, gli ha resi così comuni. V’è egli bisogno d’aggiungere che per ragione delle circostanze presenti la forza deve essere, la grande virtù dei cristiani? forza per mettere, mediante il numero, la grandezza e la santità delle loro opere, un contrappeso alle iniquità del mondo; forza eroica per resistere agli attacchi eccezionali, di cui sono l’oggetto; forza per soffrire gli oltraggi inauditi, prodigati verso tutto ciò che hanno di più sacro e di più caro. La quarta virtù cardinale è la temperanza. È una virtù che regola l’uso del bere, e del mangiare; che reprime la concupiscenza, e modera i piaceri del senso. – Come le tre sue sorelle, cosi la temperanza è madre di una nobile e numerosa famiglia. La sobrietà, l’astinenza, la castità, la continenza, la verginità, il pudore, la modestia, la clemenza, l’umiltà, l’amabilità sono le sue figlie. Oh! vivano in un uomo, e quest’uomo diventerà il tipo del bello morale, la personificazione dell’ordine. – L’anima illuminata dalla prudenza, regolata dalla giustizia, sostenuta dalla forza, comanda al corpo; e il suo comandamento, eseguito con esattezza, allontana tutto ciò che degrada la natura umana. Lungi dall’uomo temperante, la gola, l’ubriachezza, la crapula, l’Impurità, la folle prodigalità, il lusso rumoso, i piaceri seduttori, in una parola, la vergognosa schiavitù dello spirito sotto il dispotismo della carne. Tale è la quarta virtù alla quale lo Spirito Santo comunica mediante la cresima, una nuova energia. Noi tralasciamo di dire se la temperanza in tutte le sue applicazioni, è una virtù necessaria ai cristiano moderno, condannato a vivere in mezzo di un mondo costituito tutto quanto sulla intemperanza. Benché sia difficilissimo in molti casi distinguere il naturale e il soprannaturale, la ragione e la grazia, questo duplice movente degli atti umani, come parla san Tommaso; nonostante la distinzione è reale. Costantemente ammessa dalla teologia cattolica, essa è fondata sul principio incontrastabile di una doppia vita nel cristiano. Vita puramente naturale come creatura destinata ad un fine naturale, e provvista di mezzi di pervenirvi. Vita soprannaturale, come figlio adottivo di Dio destinato ad un fine soprannaturale, imperiosamente obbligatorio per tutti gli uomini nell’ordine attuale della Provvidenza. Ne risulta che la prudenza, la giustizia, la forza, la temperanza sono altrettante virtù naturali infuse: ma tra la prudenza, la giustizia, la forza, la temperanza soprannaturali, grande è la differenza. Differenza nel principio: le prime procedono dalla ragione; le seconde dalla grazia. Differenza nel fine: le prime ci pongono in rapporti naturali e puramente umani col loro oggetto; le seconde in rapporti soprannaturali e divini. – Differenza nella efficacia: le prime sono inutili alla salute: le seconde non vi conducono. Differenza nella loro dignità: le prime si regolano secondo i lumi della ragione: le seconde, secondo i lumi dello Spirito Santo. Le prime fanno l’uomo onesto; le seconde il cristiano. Ora tra l’uomo onesto ed il cristiano, è tutta la differenza, che separa l’insetto che striscia, e l’uccello che vola. Un solo tratto ci fa pronunziare questo giudizio. La temperanza naturale, o filosofica per esempio, si limita a reprimere la concupiscenza del bere e del mangiare, in guisa da prevenire ogni eccesso, capace di nuocere alla salute, e di turbare la ragione; è il terra terra della virtù. La temperanza soprannaturale va più oltre. Essa conduce l’uomo a castigare il suo corpo ed a ridurlo in servitù, mediante l’astinenza nel bere e nel mangiare e di ciò che può lusingare i sensi. È la verità della virtù, la ratifica dell’ordine, mediante la subordinazione, completa della carne allo spirito, e dello spirito a Dio. Lo stesso è delle altre virtù. [S. Th., l a, 2ae, q. 63, art. 4, corp.]. – La differenza tra le virtù naturali e le virtù soprannaturali ci è nota. Ma in che cosa diversificano queste ultime da’ doni dello Spirito Santo? Questa questione è senza dubbio una delle più importanti che noi abbiamo da trattare. Nettamente risoluta, essa getta una gran luce sulla natura delle operazioni successive, per le quali lo Spirito Santo sviluppa in noi l’essere divino; mostra il nesso che le unisce senza confonderle; e fa risaltare con splendore l’azione necessaria di ciascuna. I seguenti capitoli saranno consacrati allo studio di questo meraviglioso lavoro, la cui cognizione chiamerà sulle nostre labbra l’esclamazione del Profeta: “Ammirabile è Dio nei suoi santi, ed è santo in tutte le opere sue”. [Ps. LXVII, 36]

 

PREZIOSISSIMO SANGUE DI NOSTRO SIGNOR GESÙ CRISTO

PREZIOSISSIMO SANGUE

DI NOSTRO SIGNOR GESÙ’ CRISTO

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Scopo della festa.

[Dom Guéranger: “L’anno liturgico, vol II]

La Chiesa ha già rivelato ai figli della nuova Alleanza il valore del Sangue dal quale furono riscattati, la sua virtù nutritiva e gli onori dell’adorazione che esso merita. Il Venerdì Santo, la terra e i cieli videro tutti i peccati immersi nel fiume della salvezza le cui eterne dighe si erano infine rotte, sotto la pressione associata della violenza degli uomini e dell’amore del Cuore divino. La festa del Santissimo Sacramento ci ha visti prostrati davanti agli altari in cui si perpetua l’immolazione del Calvario e l’effusione del Sangue prezioso divenuto la bevanda degli umili e l’oggetto degli omaggi dei potenti di questo mondo. Oggi tuttavia la Chiesa invita nuovamente i cristiani a celebrare i flutti che si effondono dalla sacra sorgente: che altro significa ciò, se non che, le solennità precedenti non ne hanno certamente esaurito il mistero? La pace ottenuta da quel Sangue; lo scorrere delle sue onde che riportano dagli abissi i figli di Adamo purificati; la sacra mensa imbandita per essi, e quel calice di cui esso costituisce l’inebriante liquore: tutti questi preparativi sarebbero senza scopo, tutte queste meraviglie resterebbero incomprese se l’uomo non vi scorgesse le proposte d’un amore le cui esigenze non vogliono essere sorpassate dalle esigenze di nessun altro amore. Il Sangue di Gesù deve essere per noi in quest’ora il Sangue del Testamento, il pegno dell’alleanza che Dio ci propone (Es. XXIV, 8; Ebr. IX, 20), la dote costituita dall’eterna Sapienza che invita gli uomini a quella divina unione di cui lo Spirito di santità procura senza fine il compimento nelle nostre anime.

Virtù del Sangue di Gesù.

« Avendo dunque, o fratelli – ci dice l’Apostolo – in virtù del sangue di Cristo, la fiducia di entrar nel Santo dei Santi, per la via nuova e vivente che egli inaugura per noi attraverso il velo, cioè attraverso la sua carne, accostiamoci con cuore sincero, colla pienezza della fede, purificato il cuore dalla cattiva coscienza, col corpo lavato dall’acqua pura. Conserviamo senza vacillare la professione della nostra speranza (essendo fedele chi ha promesso) e vigiliamoci a vicenda, per stimolarci alla carità e alle opere buone (Ebr. X, 19-24). E il Dio della pace, il quale ha ritolto alla morte nostro Signor Gesù Cristo, vi renda capaci d’ogni bene, in modo che voi facciate la sua volontà, mentre egli opera in voi ciò che gli è grato per Gesù Cristo, a cui sia gloria nei secoli dei secoli» (ibid. XIII, 20-21).

Storia della festa.

Non dobbiamo omettere di ricordare qui che questa festa è il memoriale di una fra le più splendide vittorie della Chiesa. Pio IX era stato scacciato da Roma, nel 1848, dalla Rivoluzione trionfante; in quegli stessi giorni, l’anno seguente, egli vedeva ristabilito il suo potere. Il 28, 29 e 30 giugno, sotto l’egida degli Apostoli, la figlia primogenita della Chiesa, fedele al suo glorioso passato, cacciava i nemici dalle mura della Città eterna; il 2 luglio, festa di Maria, terminava la conquista. Subito un duplice decreto notificava alla città e al mondo la gratitudine del Pontefice e il modo in cui egli intendeva perpetuare mediante la sacra Liturgia il ricordo di quegli eventi. – Il 10 agosto, da Gaeta, luogo del suo rifugio durante la burrasca, Pio IX, prima di tornare a riprendere il governo dei suoi Stati, si rivolgeva al Capo invisibile della Chiesa e Gliela affidava con l’istituzione dell’odierna festa, ricordandogli che, per quella Chiesa egli aveva versato tutto il suo Sangue. Poco dopo, rientrato nella capitale, si rivolgeva a Maria, come avevano fatto in altre circostanze san Pio V e Pio VII; il Vicario dell’Uomo-Dio attribuiva a Colei che è l’Aiuto dei cristiani l’onore della vittoria riportata nel giorno della sua gloriosa Visitazione, e stabiliva che la festa del 2 luglio fosse elevata dal rito doppio maggiore a quello di seconda classe per tutte le Chiese: preludio alla definizione del dogma dell’Immacolata Concezione, che l’immortale Pontefice fin d’allora aveva in mente, e che doveva schiacciare ancor più il capo del serpente. – Poi, nel corso del Giubileo indetto nel 1933 per commemorare il XIX centenario della Redenzione, Papa Pio XI, onde imprimere maggiormente nell’animo dei fedeli il ricordo e la venerazione del Sangue del Divino Agnello e per invocarne sulle anime nostre frutti più abbondanti, elevò la festa del Preziosissimo Sangue al doppio di prima classe.

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Sermone di san Giovanni Crisostomo Omelia ai Neofiti

Volete conoscere la virtù del sangue di Cristo? Risaliamo a ciò che l’ha figurato, e ricordiamo il suo primo simbolo, e narriamo il passo dell’antica Scrittura. Nell’Egitto, Dio minacciava gli Egiziani d’una decima piaga, di far perire a mezzanotte i loro primogeniti, perché trattenevano il suo popolo primogenito. Ma, affinché l’amato popolo Giudaico non perisse insieme con quelli, abitando tutti uno stesso paese, egli trovò un mezzo di riconoscimento. Esempio meraviglioso fatto apposta per farti conoscere la virtù del sangue di Cristo. Gli effetti della collera divina erano attesi e il messaggero di morte andava di casa in casa. Che fa allora Mosè? Uccidete, dice, un agnello d’un anno, e col suo sangue tingete le porte. Che dici, Mosè? Il sangue di un agnello può dunque preservare l’uomo ragionevole? Certo, egli risponde; non perché è sangue, ma perché esso è figura del sangue del Signore. – Poiché come le statue dei re, pur inerti e mute, proteggono d’ordinario gli uomini dotati d’anima e di ragione i quali si rifugiano presso di esse, non perché sono di bronzo ma perché sono l’immagine del principe; così quel sangue, privo di ragione, liberò gli uomini aventi un’anima, non perché era sangue, ma perché annunziava la venuta di questo sangue. E allora l’Angelo devastatore vedendo gli stipiti e le porte tinte, passò oltre e non osò entrare. Se dunque ora il nemico invece delle porte tinte d’un sangue figurativo, vedrà le labbra dei fedeli, porte dei templi di Cristo, arrossate del suo vero sangue, molto più esso se ne allontanerà. Perché se l’Angelo si ritirò davanti alla figura, quanto più sarà atterrito il nemico nel vedere la stessa realtà? Vuoi conoscere ancora un’altra virtù di questo sangue? Sì. Guarda donde prima s’è sparso e da qual fonte è uscito. Esso è uscito prima dalla croce medesima; il costato del Signore ne fu la sorgente. Difatti morto Gesù, è detto, e ancora sospeso alla croce, si avvicina un soldato, ne percuote il lato colla lancia e ne esce acqua e sangue; l’una simbolo del battesimo, l’altro del sacramento. E perciò non disse: Uscì sangue e acqua; ma uscì prima l’acqua e poi il sangue, perché prima siamo lavati nel battesimo, e poi consacrati dai santi misteri. – Un soldato aprì il costato, e fece un’apertura nella parete del tempio santo; ed io v’ho trovato un tesoro prezioso, e mi rallegro di scoprirvi delle grandi ricchezze. Così è avvenuto pure di quest’agnello: i Giudei uccisero l’Agnello, ed io vi ho riconosciuto il frutto del sacramento. Dal costato uscì sangue ed acqua. Non voglio, uditore, farti passare sì rapidamente sui secreti di tanto mistero; mi resta ancora a dire una cosa mistica e profonda. Dissi quest’acqua e questo sangue esser simbolo del Battesimo e dei sacri misteri. Infatti per essi fu fondata la Chiesa mediante la rigenerazione del bagno e la rinnovazione dello Spirito Santo. Per il Battesimo, dico, e i sacri misteri, che sembrano usciti dal costato. Dal suo costato dunque Cristo ha edificato la Chiesa, come dal costato di Adamo fu tratta Eva, sua sposa. Ond’è che (San) Paolo attesta dicendo: «Noi siamo membra del suo corpo e delle sue ossa» (Eph. 5,30), alludendo a questo costato. Invero, come Dio fece uscire la donna dal costato d’Adamo, così Cristo ci ha dato dal suo costato l’acqua e il sangue, destinati alla Chiesa come elementi riparatori.

Omelia di sant’Agostino Vescovo Trattato 120 su Giovanni

L’Evangelista ha usato una parola studiata, perché non ha detto: Gli percosse il costato, o ferì, o altro di simile, ma: “Aprì”; per mostrarci che la porta della vita ci si apre in certo qual modo là donde sono sgorgati i sacramenti della Chiesa, senza i quali non si ha accesso alla vita, ch’è la sola vera vita. Quel sangue che fu versato, fu versato per la remissione dei peccati. Quell’acqua ci tempera la bevanda della; salvezza; ed essa è insieme bagno, purificatore e bevanda. Questo significava l’ordine dato a Noè di aprire una porta nel fianco dell’arca per farvi entrare gli animali che non dovevano perire nel diluvio e che rappresentavano la Chiesa. Perciò la prima donna fu tratta dal costato dell’uomo addormentato e fu chiamata la vita e la madre dei viventi. Perché simboleggiava un gran bene, prima che commettesse il gran male della prevaricazione. Questo secondo Adamo, chinato il capo, si addormentò sulla croce, affinché ne fosse formata la sua sposa che uscì dal costato di lui addormentato. O morte, per cui i morti rianno la vita! Che più puro di questo sangue? Che più salutare di questa ferita? – Gli uomini erano schiavi del diavolo, e servivano ai demoni; ma sono stati riscattati dalla schiavitù. Essi infatti poterono bensì vendersi, ma non poterono riscattarsi. Venne il Redentore, e sborsò il prezzo; sparse il suo sangue, e ricomprò il mondo. Chiedete che cosa ha comprato? Guardate quel che ha dato e vedrete quel che ha comprato. Il sangue di Cristo n’è il prezzo. Che vale esso mai? che cosa, se non tutto il mondo? che cosa, se non tutte le genti? Sono molto ingrati al suo prezzo, o sono molto superbi coloro che dicono ch’esso vale sì poco d’aver comprato soltanto gli Africani, o ch’essi sono tanto grandi che fu sborsato soltanto per essi. Non si millantino dunque, non s’insuperbiscano. Quello che ha dato, lo ha dato per tutti. – Egli ebbe il sangue, onde riscattarci; e perciò prese il sangue, perché servisse ad essere versato per la nostra redenzione. Il sangue del tuo Signore, se lo vuoi, è stato dato per te: ma se non vuoi, non è stato dato per te. Ma forse dirai: Ebbe il mio Dio il sangue onde redimermi, ma ormai lo diede tutto, quando soffrì: che gliene rimane ancora da darlo anche per me? E questa è la gran cosa, che lo diede una volta, e lo diede per tutti. Il sangue di Cristo per chi vuole è salvezza, per chi non vuole è condanna. Perché dunque tu, che non vuoi morire, dubiti d’essere liberato piuttosto dalla seconda morte? Dalla quale sarai liberato, se vuoi prendere la tua croce, e seguire il Signore; perché Egli prese la sua, e andò in cerca dello schiavo.

Invito a questa Devozione.

[G. Riva: Manuale di Filotea – Milano 1888]

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Basta esser cristiano per professare una speciale devozione al Sangue divino di Gesù Cristo. Desso infatti è nientemeno che il prezzo con cui tutti gli uomini furono riscattati dalla schiavitù dell’inferno, quel mosto misterioso colla cui aspersione l’anima nostra si purificò d’ogni macchia e divenne oggetto di compiacenza agli occhi di Dio, quella mediazione che è sempre efficace ad ottenere misericordia, più che non fosse il sangue di Abele a domandare vendetta; quella fonte sempre patente da cui ognuno può trarre con gaudio acque di misericordia e di grazia. Di qui è che il Crisostomo la chiama “Salvezza delle anime”, S. Tommaso “Chiave dei tesori celesti”, Sant’Ambrogio “Oro prezioso d’infinito valore”, S. Bernardo “Tromba che altamente risuona misericordia e clemenza, e S. Maria Maddalena de’ Pazzi “Pegno e Caparra di vita eterna”. Egli è perciò che Eugenio IV, Paolo II1, Paolo IV, Gregorio XIII accordarono numerosi privilegi alla confraternita del Prezioso Sangue eretta nella Chiesa di “Santa Maria in Vado”, in Roma. Questa pia Unione venne poi confermata in perpetuo nel 1285 da Sisto V. Venuta però in qualche decadenza una sì pia istituzione, si adoperò per rilevarla il canonico Gaspare de Bufalo, di cui vassi ora inoltrando in Roma il processo di Canonizzazione [fu poi effettivamente canonizzato nel 1954 da SS. Pio XII -ndr.- ]. Né furono vani i suoi sforzi, perocché in poco d’ora vide divenute famigliarissime in Roma e in molti altri paesi le sante pratiche da lui suggerite, specialmente quella delle Sette Offerte costituenti la Corona del preziosissimo , non che quella di un mese intero, e specialmente quello di giugno, parzialmente destinato a questo culto. [oggi luglio]. A questo dilatamento, che va sempre crescendo, contribuì l’istituto dei Missionari detti del preziosissimo Sangue fondati dallo stesso Canonico, non ché Monsignor Strambio, Vescovo di Macerata che ne fu sempre devotissimo. Nelle vicinanze di Roma, nei villaggi cioè di Genzano, di Laricia, di Nemi niente è più comune che il trovar scritto sopra le porte “Viva il Sangue dì Gesù Cristo”. Ciò ricorda l’efficacia della predicazione di Gaspare del Buffalo che riusciva a radicar dappertutto il culto ch’ei professava pel primo, e quindi mettere tutte le case sotto la protezione del Sangue di Gesù-Cristo, come le case degli Ebrei in Egitto erano sotto il patrocinio del Sangue dell’Agnello che bastava, da sè solo, a perseverarle dalla spada dell’Angelo sterminatore.- Professate dunque ancor voi una divozione particolare al Sangue SS. di Gesù Cristo, e una felice esperienza vi obbligherà a confessare col Grisostomo, che questo Sangue adorabile è un fiume misterioso che irriga tutta la terra, e la feconda e la adorna d’ogni più bella specie di alberi ciascheduno dei quali produce a suo tempo i frutti più belli e saporosi.

Sulle Reliquie del Preziosissimo SANGUE

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Fu dunqe già sentimento di molti critici, che il Sangue Preziosissimo di Gesù Cristo che molte chiese si glorificano di possedere non fosse altro che sangue miracoloso sgorgato da qualche Crocifisso maltrattato dagli Ebrei, fra i quali è famoso quel di Perito, oppure da qualche Sacra Ostia egualmente maltrattata. Ma il rispetto che si deve alle venerabili e pie tradizioni riconosciute legittime dai Papi stessi che ne fecero l’esame il più accurato e le autenticarono con il’appoggio dei loro più solenni Decreti, non lascia più luogo a dubitare che questo Sangue di cui si parla, anziché sangue miracoloso dei Crocifissi e delle Ostie, sia proprio sangue naturale di Gesù Cristo, cioè parte di quel Sangue che sgorgò dalle sue vene nei giorni tormentosi di sua passione . Né vale l’opporre in proposito che Gesù Cristo, nella sua Risurrezione, riprendendo tutto quello che aveva perduto, doveva ancor prendere tutto il sangue che in qualsivoglia modo aveva versato; perocché i più dotti teologi fanno notare che, a restituire nel pristino stato la sua divina Umanità, non era necessario che Gesù Cristo riprendesse fino all’ultima goccia tutto quel sangue che era uscito dal divino suo corpo, ma bastava che egli riprendesse tutto quello che era necessario a costituire perfetta la propria umanità, non ostando per niente alla sua integrità il lasciare in terra qualche piccola parte a fomento speciale di devozione ne’ suoi fedeli adoratori, onde alla vista di queste moltiplicate testimonianze della sua carità verso di noi, venissero essi a sempre più accendersi di amore verso di Lui. Tale infatti è infatti la dottrina insegnataci dal Sommo Pontefice Pio II nel famoso suo Breve del 1 Agosto 1461, ordinato ad approvare quel culto che dalla più remota antichità, fu costantemente prestato al Preziosissimo Sangue venerato in Mantova, e sempre ritenuto per sangue vero e naturale del nostro Signore Gesù-Cristo. – A provare la ragionevolezza di questa credenza non occorre che di esaminare la storia di questo sacro deposito, sempre veneratissimo fra i Mantovani. Noi la rifereremo coll’ordine, e quasi ancora colle parole del celebre Fra Ippolito Donesmondi, accreditatissimo scrittore delle Memorie Ecclesiastiche di tale illustre città.

 

DEL SANGUE PREZIOSISSIMO DI GESÙ

venerato in Mantova.

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Longino, soldato romano della provincia di Isauria, presente alla morte di Cristo, Lo ferì con una lancia nel costato, e da questa ferita ne scaturì Sangue ed Acqua. Convertito da questo miracolo, raccolse con una spugna quanto più poté di quell’umore divino, e lo portò a Mantova l’anno di Cristo 36, ove si recò per predicarvi, come primo apostolo, il Vangelo. Ivi perseguitato dal prefetto Ottavio, per cui ordine fu poi decollato il 2 Dicembre dell’anno susseguente, che era il ventesimo primo del regno di Tiberio, pensò a mettere in sicuro la gran Reliquia che aveva seco portato, nascondendola sotto quel luogo ove adesso si ammira la chiesa oltremodo magnifica di S. Andrea. – Al tempo di Carlo Magno nell’804, per celeste rivelazione, venne a scoprirsi il preziosissimo deposito lasciatovi da Longino. Il fatto fu cosi strepitoso che il Papa Leone III si recò personalmente sul posto, ed accertatosi della verità, ne portò in dono una particella all’ Imperatore. – Nel 925, per paura degli Ungari che devastavano l’Italia, i Mantovani sotterrarono il detto preziosissimo Sangue, parte in S.Andrea, e parte in s. Paolo, che era allora la chiesa cattedrale. Nel 1053 Enrico III Imperatore, venuto apposta a Mantova, adorò questo preziosissimo Sangue e presone un poco, che portò in Boemia, fece murar sotterra il rimanente temendosi ancora l’invasione dei barbari che di continuo infestavano l’Italia. – Nel 1084, per rivelazione fatta dall’Apostolo s. Andrea al Beato Adalberto, fu nuovamente trovato il divino deposito: e pei grandi miracoli che ne seguirono, venne a Mantova il Papa Leone IX, e approvata la pubblica credenza, nonché il culto supremo che si prestava a quell’insigne Reliquia, ne portò una particella in Roma, ove si mostra tuttora. – Nel 1298 Bardellone Bonacorsi, reggendo Mantova, fece aprire il luogo ov’era nascosto detto Santissimo Sangue, e lo fece portare processionalmente per tutta la città con grande festa, poi lo rinserrò come prima. – Nel 1356 Carlo IV Imperatore, venuto a Mantova, fece rompere segretamente lo stesso luogo, ove era il detto SS. Sangue, lo adoro con gran devozione facendo poi acconciar tutto come prima; e 14 anni dopo concesse amplissimi privilegi alla chiesa di S. Andrea. – Nel 1402 Francesco Gonzaga vicario, quarto re di Mantova, fece rompere segretamente il detto luogo, è presa una particella di esso SS. Sangue, lo portò a Pavia in dono a Giovan Maria Visconti, secondo duca di Milano per riconciliarlo seco lui. – Nel 1459 venne a Mantova Pio II, e vi celebrò un Concilio, al fine del quale si disputò in sua presenza sulla verità di questo Sangue, e si conchiuse che era del vero real Sangue laterale di Gesù-Cristo, poi con suo breve : “Illius qui se pro dominici salvatione gregis”, etc. del 1 Agosto 1461 dichiarò non essere in nessun modo contrario alla cristiana Religione il ritenere che Gesù-Cristo abbia lasciata in terra qualche piccola particella de suo Sangue per maggiormente accrescerne la devozione dei fedeli, e ordinò che in ogni anno fosse quel Sangue mostrato al popolo come si fa. – Nel 1479 fu trovata in S. Paolo quella particella di questo Sangue che 556 anni prima vi era stata riposta e occorsero in quest’occasione grandi miracoli, onde poi fu sempre conservata in S. Pietro, che è l’attuale Cattedrale costruita in luogo dell’antica chiesa di s. Paolo. – Nel 1321, facendo professione nel monastero di S. Paola la beata suor Paola Gonzaga figliuola del Marchese Francesco e sorella del Duca Federico, il duca medesimo, per consolare la sorella che non aveva mai visto codesto Sangue, lo fece portare con bellissima processione da S. Andrea a Santa Paola, ove fu da tutte quelle Religiose adorato, e fu da tutta la città per tutto quel giorno riverito con universal commozione.

ALTRE RELIQUIE DEL SANGUE PREZIOSISSIMO DI G. G.

Nella chiesa di S. Basilio in Bruges, città della Fiandre si ritiene esservi del Sangue vero e reale di Cristo, raccolto da Giuseppe d’Arimatea e portatovi da Teodorico Alsazio conte di Fiandra nel suo ritorno da Terra Santa l’anno 1143. – Niceforo, scrittor greco, attesta che la Beata Vergine, stando sotto la croce, raccolse in un vaso qualche poco di Sangue versato dal suo divinissimo Figlio, e conservollo presso di sé. In Marsiglia se ne adora una porzione mescolata colla terra che ne fu inzuppata. Essa è chiusa in un vasetto portatovi da Santa Maria Maddalena. Questo sangue, dice il Plerio, nel Venerdì Santo si vede sensibilmente bollire con meraviglia di tutti.

 

 

 

 

GIACULATORIA

Per cui il Settembre 1817 Pio VII concesse l’Indulgenza di 100 giorni per ogni volta che si reciti con cuor contrito.

“Eterno Padre, io vi offro il Sangue preziosissimo di Gesù Cristo in isconto de’ miei peccati per i bisogni di santa Chiesa”.

 

Giaculatoria  

Salve, o Sangue di grazia e salute;

Su quest’alma contrita discendi;

Tu la tergi, t u bella la rendi;

Tu la torna al suo primo candor.

Salve, o Vittima augusta adorata,

D’un Dio’ grande infinito sol degna;

E Viva, viva l’Eterno che regna

Sovra un trono di gloria e d’amor.

 

Mons. De Ségur: L’INFERNO (2)

Mons. De Ségur: L’INFERNO (2)

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Cap. II 

Che cos’è l’inferno

False e superstiziose idee sull’inferno

Innanzitutto scartiamo con cura le immaginazioni popolari e superstiziose che alterano in tanti spiriti la nozione vera e cattolica dell’inferno, e portano alla sua negazione. Si forgia un inferno di fantasia, un inferno ridicolo, e si dice: « Io non crederò mai a questo. È assurdo, impossibile, no, io non credo, non posso credere all’inferno! ». In effetti se l’inferno fosse quel che sognano tante buone donne, voi avreste cento volte, mille volte di che non credere. Tutte queste invenzioni sono degne di figurare accanto ai racconti fantastici di cui si nutre spesso l’immaginazione popolare. E questo a volte succede anche in ciò che si insegna nelle chiese. E se talvolta, con il fine di impressionare meglio gli spiriti, qualche autore o predicatore ha creduto di poterle impiegare, la loro buona intenzione non impedisce che essi abbiano gran torto, visto che a nessuno è permesso il travestire la verità ed esporla alla derisione delle persone sensate, con il pretesto di far paura alle buone persone per meglio convertirle. Io lo so, molte volte si è fortemente imbarazzati quando si tratta di far comprendere alle moltitudini i terribili castighi dell’inferno, e come la maggior parte della gente ha bisogno di rappresentazioni materiali per concepire delle cose più elevate, ed è quasi necessario parlare dell’inferno e del supplizio dei dannati in maniera figurata. Ma è molto difficile farlo con il senso della misura; e molto spesso, lo ripeto, con le migliori intenzioni, si cade nell’impossibile, per non dire nel grottesco. No, l’inferno non è questo, esso è ben altrimenti grande, ben altrimenti terribile. Andremo a vederlo.

L’inferno consiste essenzialmente nella spaventosa pena della dannazione.

 La dannazione è la separazione totale da DIO. Un dannato è una creatura totalmente e definitivamente privato del suo DIO. È lo stesso Nostro Signore che ci segnala la dannazione come la pena primaria e dominante dei dannati. Vi ricorderete i termini della sentenza che Egli pronuncerà contro essi al giudizio finale e che ora riportiamo: « Allontanatevi da me, maledetti, ed andate nel fuoco eterno che è stato preparato per il demonio e per i suoi angeli ». Vedete come la prima parola della sentenza del Giudice sovrano, ci fa comprendere che il primo carattere dell’inferno, è la separazione da DIO, la privazione di DIO, la maledizione di DIO, in altri termini, la dannazione o riprovazione. La leggerezza dello spirito e la mancanza di fede viva, ci impediscono di comprendere in questa vita tutto ciò che la dannazione contiene come orrori, terrori e disperazioni. Noi siamo fatti per il buon DIO, e per Lui solo. Noi siamo fatti per DIO, come l’occhio è fatto per la luce, come il cuore è fatto per l’amore. In mezzo alle mille preoccupazioni del mondo, noi non lo comprendiamo più, non lo sentiamo, e veniamo distolti da DIO, nostro fine ultimo, da tutto ciò che ci circonda, da tutto ciò che noi vediamo, sentiamo, soffriamo ed amiamo. Ma dopo la morte, la verità riprende tutti i suoi diritti; ciascuno di noi si trova da solo davanti a DIO, davanti a Colui dal Quale e per il Quale è fatto, che solo può e deve essere la sua vita, la sua felicità, il suo riposo, la sua gioia, il suo amore, il suo tutto. Ora figuratevi cosa può essere lo stato di un uomo al quale manca tutto in un colpo solo, in modo assoluto e totale, la sua vita, la sua luce, la sua felicità, il suo amore, in una parola, ciò che è “tutto” per lui. Concepite questo vuoto immediato, assoluto, nel quale si inabissa un essere fatto per amare e per possedere Colui del Quale si vede privo? Un religioso della Compagnia di Gesù, il p. Surin, che le sue virtù, la sua scienza e le sue sofferenze hanno reso celebre nel diciassettesimo secolo, ha avvertito per quasi venti anni le angosce di questo stato raccapricciante. Per strappare una povera e santa religiosa alla possessione del demonio che aveva resistito a tre lunghi mesi di esorcismi, di preghiere e di austerità, il padre caritatevole si era spinto all’eroismo fino ad offrirsi egli stesso vittima se la misericordia divina si fosse degnata di esaudire le sue voci e liberare la sfortunata creatura. Egli fu esaudito; e Nostro Signore permise, per la santificazione del suo servo, che il demonio prendesse possesso del suo corpo e lo tormentasse per lunghi anni. Nulla di più autentico dei fatti strani, pubblici, che segnalarono questa possessione del povero p. Surin, e che sarebbe troppo lungo riportare qui. Dopo la sua liberazione egli raccolse in uno scritto tutto quello che ricordava di questo stato soprannaturale nel quale il demonio, impossessandosi per così dire delle sue facoltà e dei suoi sensi, gli faceva sentire una parte delle impressioni e delle disperazioni del dannato. « Mi sembrava, egli dice, che tutto il mio essere, che tutte le potenze della mia anima e del mio corpo si portavano verso il Signore mio DIO, che io vedevo essere la mia felicità suprema, il mio bene infinito, l’unico oggetto della mia esistenza; e nello stesso tempo io sentivo una forza irresistibile che mi strappava a Lui, che mi teneva lontano da Lui; di modo che, fatto per vivere, io mi vedevo, mi sentivo privato di Colui che è la vita; fatto per le verità e la luce, io mi vedevo assolutamente respinto dalla verità; fatto per amare, io ero senza amore, rigettato dall’amore; fatto per il bene, io ero immerso nell’abisso del male. Io non saprei, egli aggiunge, comparare le angosce e le disperazioni di questa inesprimibile afflizione che somiglia allo stato di una freccia vigorosamente lanciata verso un bersaglio dal quale la respinge una forza invincibile; irresistibilmente portata in avanti, essa è sempre ed invincibilmente respinta indietro ». E questo non è che una pallida simbologia di questa orribile realtà che si chiama la dannazione. – La dannazione è necessariamente accompagnata dalla disperazione. È questo disperare che Nostro Signore chiama nel Vangelo: « il verme » che rode i dannati. È certo meglio, Egli ci ripete, che andare in questa prigione di fuoco, ove il verme dei dannati non muore, “ubi vermis eorum non moritur”. Questo verme dei dannati, è il rimorso, è la disperazione. Esso è chiamato verme perché nell’anima peccatrice e dannata, esso nasce dalla corruzione del peccato, come nel cadavere i vermi corporali nascono dalla corruzione della carne. Ed ancora una volta, noi non possiamo farci che una pallida idea di ciò che è questo rimorso e questo disperare; in questo mondo, ove nulla è perfetto, il male è sempre mischiato al bene, ed il bene mischiato con qualche male; per quanto quaggiù le nostre disperazioni ed i nostri rimorsi possano essere violenti, essi sono sempre temperati da qualche speranza ed anche dall’impossibilità di sopportare la sofferenza quando essa oltrepassa un certo limite. Ma nell’eternità tutto è perfetto: se così si può dire, il male è, come il bene, perfetto, senza misture, senza speranze né possibilità di essere mitigato, come spiegheremo in seguito. I rimorsi ed il disperare dei dannati saranno completi, irrevocabili, irrimediabili, senza ombra di attenuazione, senza possibilità di addolcimento; quanto più assoluto possibile, perché il male assoluto non esiste. Figuratevi cosa possa essere questo stato di disperazione privo di ogni barlume di speranza! E questo pensiero così desolante: « io mi sono perso per dei piaceri, perso per sempre ormai, per dei nonnulla, per delle bagattelle di un attimo! Mentre sarebbe stato così facile salvarmi eternamente, come tanti altri! ». Alla vista dei beati, dice la Sacra Scrittura, i dannati saranno presi da un terrore spaventoso; e nella loro angoscia essi grideranno gemendo: « Dunque, ci siamo ingannati” – “Ergo erravimus!”. Noi abbiamo errato fuori dalla vera via. Noi ci siamo persi nelle strade dell’iniquità e della perdizione; non abbiamo riconosciuto la strada del Signore. A cosa ci sono serviti il nostro orgoglio, le nostre ricchezze ed i nostri piaceri? Tutto è passato come un’ombra. Ed eccoci perduti, ingoiati dalla nostra perversità! ». Ed il sacro Scrittore aggiunge quanto abbiamo già riportato più sopra: « Ecco ciò che dicono nell’inferno i peccatori riprovati ». alla disperazione essi aggiungono l’odio, questo altro frutto della maledizione: « Allontanatevi da me, maledetti! » E quale odio? L’odio di DIO! L’odio perfetto del Bene infinito, della Verità infinita, dell’eterno Amore, della Bontà, della Pace, della Saggezza, della Perfezione infinita, eterna! Odio implacabile e satanico, odio soprannaturale, che nel dannato assorbe tutte le potenze dello spirito e del cuore. Il dannato non potrebbe odiare il suo DIO se gli venisse concesso, come ai beati, di vederLo in Se stesso, con tutte le sue perfezioni e i suoi inenarrabili splendori. Ma certo non è nell’inferno che si vede DIO, i dannati non Lo vedono se non nei terribili effetti della sua giustizia, cioè nei loro castighi; essi odiano DIO, come odiano i castighi che li tormentano, come odiano la dannazione, come odiano la maledizione. Nell’ultimo secolo a Messina, un santo prete esorcizzava un posseduto e domandava al demonio: « Tu chi sei? – io sono l’essere che non ama DIO », rispose lo spirito malvagio. E a Parigi, in un altro esorcismo, il ministro di DIO,chiedendo al demonio: «Dove sei? » – Questi con furore rispose: « Negli inferi, per sempre! – Vorresti essere annientato? – No, per poter così odiare DIO per sempre». Così potrebbe parlare ciascun dannato. Essi odiano eternamente Colui stesso che dovevano amare eternamente. « Ma, talvolta si dice, DIO è la bontà stessa. Come volete che Egli mi danni? ». Non è DIO che danna, è il peccatore che si danna da se stesso. Nel terribile evento della dannazione, non è in causa la bontà di DIO, ma unicamente la sua santità e la sua giustizia. DIO è tanto santo quanto buono; e la sua giustizia è infinita nell’inferno come infinite sono la sua misericordia e la sua bontà nel Paradiso. Non offendete la santità di DIO, e siete sicuri di non essere dannati. Il dannato ha quel che egli ha scelto, che egli ha scelto liberamente e malgrado tutte le grazie del suo DIO. Egli ha scelto il male: egli ha il male; ora nell’eternità, il male si chiama inferno. Se egli avesse scelto il bene, avrebbe avuto il bene, e lo avrebbe avuto eternamente. – Tutto questo è perfettamente logico; e qui, come sempre, la fede si accorda meravigliosamente con la retta ragione e l’equità. Dunque ecco il primo carattere dell’inferno, il primo elemento di questa orribile realtà che si chiama inferno: la dannazione, con la maledizione divina, con la disperazione, con l’odio di DIO.

L’inferno consiste in secondo luogo nella pena orribile del fuoco.

 Nell’inferno c’è il fuoco; questo è di fede rivelata. Ricordate le parole così chiare, così precise, così formali del Figlio di DIO: « Allontanatevi da me, maledetti, nel fuoco – in ignem – nella prigione di fuoco ove il fuoco non si spegnerà mai. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi Angeli, e capiranno ciò che avranno fatto di male per essere gettati nella fornace: di fuoco, “in camino ignis” ». parole divine, infallibili, che hanno ripetuto gli Apostoli, e che sono la base dell’insegnamento della Chiesa. Nell’inferno i dannati soffrono la pena del fuoco. Noi leggiamo nella storia ecclesiastica che due giovani che seguivano, nel terzo secolo, i corsi della celebre scuola di Alessandria in Egitto, erano entrati un giorno in una chiesa ove un prete predicava circa il fuoco dell’inferno, ed uno dei due si fece beffe, mentre l’altro, pieno di paura e di pentimento, si convertì, e poco tempo dopo si fece religioso per assicurarsi al meglio la salvezza. Dopo qualche tempo, il primo morì all’improvviso, ed il Signore permise che apparisse al suo vecchio compagno al quale disse: «la Chiesa predica la verità quando predica il fuoco eterno dell’inferno. I preti non hanno che un torto, quello di dire cento volte di meno di quel che ce n’è! ».

Il fuoco dell’inferno è soprannaturale ed incomprensibile.

 Ahimé! Come, sulla terra esprimere o anche solo concepire le grandi realtà eterne? I preti si danno gran da fare, il loro spirito e la loro parola si piegano sotto questo peso. Se del cielo è detto: « l’occhio non ha visto, l’orecchio non ha inteso, lo spirito dell’uomo non saprebbe comprendere ciò che DIO riserva a coloro che Lo amano » , si può ugualmente, ed in nome della infinita giustizia, dire dell’inferno: « No, l’occhio umano non ha mai visto, né l’orecchio udito, né il suo spirito ha mai potuto, né potrà mai concepire ciò che la giustizia di DIO riserva ai peccatori impenitenti » . « Io soffro, io soffro crudelmente in queste fiamme »! Gridava dal fondo dell’inferno il ricco malvagio del Vangelo. Per capire la portata di questa prima parola del riprovato: «Io soffro! – Crucior!- » bisognerebbe capire la portata della seconda: « In questa fiamma – in hac flamma – », il fuoco di questo mondo è imperfetto come tutto ciò che è di questo mondo, e le nostre fiamme materiali non sono, malgrado la loro potenza spaventosa, che un misero simbolo di queste fiamme eterne, delle quali parla il Vangelo. È possibile esprimere, senza restare molto al di sotto della verità, l’orrore della sofferenza che proverebbe un uomo che sarebbe, anche solo per qualche minuto, gettato nella fornace ardente, supponendo che possa sopravvivere? È possibile, io vi domando? Evidentemente no. Che dire allora di questo fuoco tutto soprannaturale, di questo fuoco eterno, i cui orrori non si possono paragonare a nulla? Nondimeno stando noi nel tempo e non nell’eternità, occorre servirci delle piccole realtà di questo mondo, così infime ed imperfette, per elevarci un po’ alle realtà invisibili ed immense dell’altra vita. Occorre, mediante la considerazione dell’indicibile sofferenza che produce quaggiù il fuoco terrestre, impressionare noi stessi, per non cadere negli abissi del fuoco dell’inferno.

Il P. de Bussy ed il giovane libertino.

Ecco come un giorno volle far toccare con mano, ad un giovane libertino, un santo missionario dell’inizio del secolo, celebre in tutta la Francia per il suo zelo apostolico, la sua eloquenza, la sua virtù, ed un po’ anche per le sue originalità. Il P. de Bussy dava, in una grande città del sud, una importante missione che impressionò tutta la popolazione. Si era nel cuore dell’inverno, si avvicinava il Natale, e faceva gran freddo. Nel salone ove il Padre riceveva gli uomini, c’era una stufa con un bel fuoco. Un giorno il Padre vede arrivare un giovane, che gli era stato segnalato per la sua vita disordinata e le sue empie fanfaronate. Il P. de Bussy comprende presto che non c’è molto da discutere con lui. « Venite qui, mio buon amico, gli dice con gaiezza, non abbiate paura, io non confesso le persone che non lo vogliono, sedetevi là, facciamo due chiacchiere e intanto riscaldiamoci ». Egli apre la stufa, e si accorge che la legna si è quasi tutta consumata. « Ah, prima di sedervi, portatemi qui uno o due tocchetti di legna », dice al giovane. Questi, un po’ perplesso, fa quanto il Padre gli chiede. « Ora, metteteli qua nella stufa, ben in fondo ». Appena il giovane mette la legna nella stufa, il P. de Bussy, gli afferra improvvisamente le braccia e le spinge in fondo alla stufa. Il giovane lancia un grido e salta dietro. « Ah! grida, ma siete matto? Così mi bruciate! ». – « Ma cosa avete, caro mio, riprende il Padre tranquillamente? Ma io lo faccio per farvi abituare! Dovete sapere che nell’inferno, dove andrete se continuate a vivere come fate, non saranno solo le punta delle dita a bruciare nel fuoco, ma tutto il vostro corpo; e questo fuocherello qui, non è nulla a paragone dell’altro. Andiamo, andiamo, amico caro, coraggio, bisogna abituarsi a tutto ». Il giovane naturalmente, cerca di ritrarre le braccia, ma il Padre ancora fa resistenza. « Povero figlio mio, gli dice allora il P. de Bussy cambiando tono, rilassatevi un po’; non è meglio ogni cosa dell’andare a bruciare eternamente nell’inferno? E il sacrificio che Dio vi chiede per farvi evitare un supplizio così terribile, non è in realtà ben poca cosa? » Il giovane libertino se ne va frastornato e pensieroso; egli rifletté così bene che non tardò poco tempo dopo a tornare dal missionario che lo aiutò a scaricarsi dalle sue colpe ed a rientrare nei costumi di una buona vita. Io sono certo che su mille, due mila uomini che vivono lontano da Dio, e di conseguenza sulla strada dell’inferno, non ce n’è uno che resisterebbe alla “prova del fuoco”. Non ci sarebbe nessuno così folle da accettare una tale contropartita: per l’intero anno tu potrai abbandonarti impunemente a tutti i piaceri, a saziare le tue voglie, a soddisfare tutti i capricci, a condizione di trascorrere un giorno, o anche solamente un’ora, nel fuoco. Nessuno accetterebbe la condizione, ne volete una prova? Eccola, ascoltate!

I tre figli di un vecchio usuraio.

Un padre di famiglia, che si era arricchito con traffici illeciti, si era ammalato gravemente. Egli sapeva che la gangrena era già iniziata alle sue piaghe e nondimeno non poteva decidersi a restituire il maltolto. «Se io restituisco, diceva, cosa diventeranno i miei figli? ». Il suo curato, un uomo di spirito, per salvare questa povera anima, mette in atto un curioso stratagemma. Egli gli dice che, affinché possa guarire, può suggerirgli un rimedio estremamente semplice, ma caro, molto caro. «Dovessi infatti sborsare anche mille, due mila o dieci mila franchi, che importa! Risponde prontamente il vecchio; e in cosa consiste questo rimedio? » – « Esso consiste nel far colare sulla zona cancrenosa delle piaghe, il grasso di una persona vivente. Non sarà necessario molto tempo: se voi trovate qualcuno che per diecimila franchi voglia lasciarsi bruciare la mano per meno di un quarto d’ora, questo sarà possibile. » Ahimè! Dice il povero uomo sospirando, io credo di non trovare nessuno che lo voglia fare. « Ecco un metodo, dice il curato tranquillamente: fate venire qui il vostro figlio primogenito, egli vi ama, deve essere il vostro erede! E ditegli: mio caro figlio, tu puoi salvare la vita al tuo vecchio padre se acconsenti a lasciarti bruciare una mano solo per meno di un quarto d’ora. Se egli rifiuta, fate la proposta al secondo, impegnandovi a lasciarlo erede al posto del fratello primogenito. Se anch’egli rifiuta, sicuramente il terzo accetterà». La proposta così fu fatta ai tre fratelli che, uno dopo l’altro, rifiutarono con orrore. Allora il padre disse loro. E che, per salvarmi la vita, un momento di dolore vi spaventa? Ed io per procurarvi l’agiatezza dovrei bruciare eternamente nell’inferno? In verità sarei un folle. E si convinse così a restituire tutto ciò che doveva, senza aver pensiero di cosa sarebbe accaduto ai suoi figli. Egli ebbe certamente ragione, così come i suoi figli. Lasciarsi bruciare una mano, per nemmeno un quarto d’ora, fosse anche per salvare la vita al padre, è un sacrificio troppo superiore delle forze umane. E questo, come già detto, che cos’è a paragone delle anime che bruciano nel fuoco dell’inferno?

Figli miei, non andate all’inferno

Nel 1814, io ho conosciuto al Seminario di San Sulpicio, a Issy, vicino Parigi, un professore di scienze naturali veramente in gamba, del quale ognuno ammirava l’umiltà e la mortificazione. Prima di farsi prete, l’abate Pinault era stato uno dei professori più eminenti dell’istituto politecnico. Al Seminario egli teneva il corso di fisica e di chimica. Un giorno, durante un esperimento, dal fosforo che egli stava manipolando, non si sa come, si sprigionò del fuoco, ed in un istante la sua mano si trovò avvolta dalle fiamme. Nell’arco di pochi minuti, la sua mano si trasformò in una massa informe, incandescente, e le unghie sparite. Vinto dall’eccesso di dolore, il malcapitato perse conoscenza. Gli si infilò la mano e il braccio in un catino d’acqua fredda per tentare di attenuare almeno un po’ la violenza di questo martirio. Per tutto il giorno e la notte egli non fece che gridare con grida irresistibili e laceranti, e quando, per qualche istante, poteva articolare qualche parola, diceva e ripeteva ai tre o quattro seminaristi che lo assistevano: «O figli miei, figli miei, non andate all’inferno, non andate all’inferno! » Lo stesso grido di dolore e carità sacerdotale venne emesso, nel 1857, dalle labbra, o piuttosto dal cuore di un altro prete, in una circostanza analoga. Vicino a Pontivy, diocesi di Vanner, un giovane vicario, nominato Laurent, si getta nelle fiamme di un incendio per salvare una sfortunata madre di famiglia con due bambini: egli si lancia in due o tre riprese, con un coraggio ed una carità eroici, dal lato dove provenivano le grida dei malcapitati, avendo così la gioia di trarre, sani e salvi i due bambini, fuori dalle fiamme. La madre però ancora resta imprigionata e nessuno osa affrontare la violenza delle fiamme che aumentano di minuto in minuto. Dando ascolto solo alla sua carità, l’abate Laurent ancora una volta si lancia nel fuoco e riesce a trarla fuori dalle fiamme folle di terrore. Nello stesso momento il tetto crolla; il santo prete sconvolto, rotola in mezzo alla macerie infuocate; chiamati i soccorsi a mala pena si riesce a sottrarlo ad una morte immediata. Ma ahimè, è troppo tardi, il povero prete è già colpito mortalmente; ha respirato le fiamme, il fuoco comincia a bruciargli interiormente e lo divorano inesprimibili sofferenze. Niente da fare, il fuoco interiore continua a far danni e, in capo a qualche ora il martire della carità giunge in cielo a ricevere la ricompensa del suo atto eroico. Anche lui, durante la sua raccapricciante agonia, gridava a coloro che lo circondavano: « Amici miei, figli miei, non andate all’inferno, non andate all’inferno! … è spaventoso, in questo modo si brucia nell’inferno »

Il fuoco dell’inferno è un fuoco corporale

   Ci si domanda spesso che cos’è questo fuoco dell’inferno; quale sia la sua natura, se sia un fuoco materiale o se invece sia unicamente spirituale, e molti propendono per questa ultima opinione, perché in fondo questa li spaventa di meno. San Tommaso non è però dello stesso avviso, come d’altra parte la teologia cattolica. Come diciamo sempre, è di fede che il fuoco dell’inferno è un fuoco reale e vero, un fuoco inestinguibile, un fuoco eterno, che brucia senza consumare, che penetra gli spiriti così come i corpi. Ecco ciò che è rivelato da DIO ed insegnato come articolo di fede dalla Chiesa di DIO. Il negarlo, sarebbe non soltanto un errore, ma una empietà ed un’eresia propriamente detta. Ma ancora una volta: di che natura è il fuoco che brucia nell’inferno? È un fuoco corporale? È della medesima specie della nostra? È il principe della teologia, San Tommaso che ci risponde, con la sua chiarezza e profondità ordinaria. Egli nota innanzitutto che i filosofi pagani, che non credevano alla resurrezione della carne, e che nondimeno ammettevano, con la tradizione intera del genere umano, un fuoco vendicatore nell’altra vita, dovevano insegnare, ed insegnavano in effetti che questo fuoco era spirituale, della stessa natura delle anime. Il razionalista moderno, che tende ad infestare tutte le intelligenze, e che minimizza i dati della fede quanto più gli è possibile, ha fatto inclinare verso questo sentimento un gran numero di spiriti, poco istruiti degli insegnamenti cattolici. Ma il gran Dottore, dopo aver esposto questo primo sentimento, dichiara francamente che: « il fuoco dell’inferno sarà corporale ». E la ragione che ne dà è perentoria: « infatti, dopo la resurrezione, i riprovati vi saranno nuovamente precipitati, ed i corpi non possono subire che una pena corporale, quindi il fuoco dell’inferno sarà corporale. Una pena non potrebbe essere applicata al corpo se fosse spirituale ». e san Tommaso appoggia il suo insegnamento, su quello di San Gregorio Magno e di S. Agostino, che dicono la stessa cosa nei medesimi termini. Non di meno si può dire, aggiunge il gran Dottore, che questo fuoco corporale abbia qualcosa di spirituale, non quanto alla sua sostanza, ma quanto ai suoi effetti; perché punendo il corpo, non lo consuma, non lo distrugge, non lo riduce in cenere, ed inoltre esso esercita la sua azione vendicativa fin sulle anime. In questo senso il fuoco dell’inferno si distingue dal fuoco materiale, che brucia e consuma i corpi.

Benché corporale, il fuoco dell’inferno aggredisce le anime

Ci si chiederà forse come il fuoco dell’inferno possa interessare delle anime che fino al giorno della resurrezione e del giudizio finale, restano separate dal loro corpo. Occorre rispondere innanzitutto, che in questo terribile mistero delle pene dell’inferno, un conto è conoscere chiaramente la verità di ciò che è, altra cosa è comprenderla. Noi sappiamo in modo positivo ed assoluto, secondo l’insegnamento infallibile della Chiesa, che immediatamente dopo la morte, le anime cadono nell’inferno e nel fuoco dell’inferno. Ora questo non può che intendersi per le anime, poiché fino alla resurrezione i loro corpi restano affidati alla terra nella tomba. Una volta separato dal suo corpo, l’anima del riprovato si trova relativamente all’azione misteriosa del fuoco dell’inferno, nella condizione dei demoni. I demoni, in effetti, benché non abbiano un corpo, subiscono i tormenti del fuoco nel quale saranno un giorno gettati i corpi dei dannati, come indicano espressamente le sentenze del Figlio di DIO sui riprovati: « Allontanatevi da me, maledetti! Andate nel fuoco eterno che è stato preparato per il demonio ed i suoi angeli ». Ora questo fuoco è corporale, perché altrimenti non attecchirebbe sui corpi dei riprovati. Dunque l’anima separata dal corpo, l’anima del riprovato, subisce le azioni di un fuoco corporeo. Ecco ciò che sappiamo con certezza. Ciò che non sappiamo è il “come”, ma per credere non abbiamo bisogno di sapere, le verità rivelate da DIO hanno come fine il chiarire il nostro spirito e nel contempo di restare nella dipendenza e sottomissione. Per fede noi siamo certi della realtà del fatto: ci è sufficiente vedere che la cosa non sia impossibile. Ora il ragionamento e l’analogia ce lo fanno vedere chiaramente: non siamo forse noi stessi in ogni istante i testimoni irrecusabili dell’azione non solo reale, ma intima, incessante che il nostro corpo esercita sulla nostra anima? Il nostro corpo, che è sostanza materiale sulla nostra anima, che è una sostanza spirituale? Dunque è perfettamente possibile che una sostanza materiale, come lo è il fuoco dell’inferno, agisca su di una sostanza spirituale, come è l’anima del riprovato.

Il capitano aiutante maggiore di Saint-Cyr.

A questo proposito, lasciatemi, caro lettore, raccontare un fatto assai curioso che è successo alla scuola militare di Saint-Cyr, negli ultimi anni della restaurazione. La scuola militare aveva allora per cappellano militare, un ecclesiastico pieno di spirito e di talento, che aveva il nome bizzarro di Rigolot. Egli predicava un bel ritiro ai giovani della Scuola, che ogni sera si riunivano in cappella prima di salire in dormitorio. Una sera, dopo che il cappellano ha predicato parlando in modo mirabile dell’inferno, a cerimonia conclusa, si ritira, con un candeliere in mano, nel suo appartamento, situato in un’ala riservata agli ufficiali. Nel momento in cui apre la porta, si sente chiamare da qualcuno che lo ha seguito lungo le scale. Si tratta di un vecchio capitano, dai baffi grigi, e dall’aria poco fine. « Pardon, signor cappellano, egli dice, con voce un po’ ironica; voi avete fatto un bel sermone sull’inferno. Solo avete dimenticato di dire, se nel fuoco dell’inferno si verrà arrostiti, messi alla griglia, o bolliti. Potreste dirmelo? ». Il cappellano, vedendo con chi ha a che fare, lo fissa nelle pupille, e mettendogli il candelabro sotto il naso, gli risponde tranquillamente: « voi, questo lo vedrete, capitano »! E chiude la porta senza potersi trattenere dal sorridere un po’ della figura goffa e buffa del povero capitano. Egli non ci pensa più, ma a partire da quel momento gli sembra di avvertire il capitano come se gli giri i tacchi quanto più lontano può, ogni volta che lo vede. Sopraggiunge poi la rivoluzione di luglio, la figura del cappellano militare viene soppressa, sia quella di Sain-Cyr che di tutte le altre. L’abate Rigolot è nominato dall’arcivescovo di Parigi ad occupare un altro incarico non meno onorevole. Una ventina di anni dopo, il venerabile prete si trova una sera in un salone con numerose personalità civili, quando gli si avvicina una vecchio “baffo bianco” che lo saluta, domandandogli se non sia l’abate Rigolot, già cappellano di Sain-Cyr. E alla sua risposta affermativa: « Oh! monsignor cappellano, gli dice emozionato il vecchio militare, permettetemi di stringervi la mano ed esprimervi tutta la mia riconoscenza: voi mi avete salvato! – Io?! E come mai? – Ah, voi non mi riconoscete? Vi ricordate che una sera il capitano istruttore della scuola, all’uscita da un sermone sull’inferno, vi aveva posto una domanda ridicola, e voi gli avete risposto mettendogli sotto il naso il vostro candelabro dicendo: “voi lo vedrete, capitano” ? » Quel capitano ero io! Figuratevi che da quel momento queste parole mi hanno perseguitato dappertutto, con il pensiero di dover andare a bruciare nell’inferno. Io ho lottato dieci anni, ma alla fine mi sono arreso, sono andato a confessarmi, sono diventato cristiano, cristiano secondo l’uso militare, cioè tutto d’un pezzo. È a voi che devo questa felicità; sono ben contento di rincontrarvi per potervelo dire ». Si mio caro lettore, se mai vi dovesse capitare di ascoltare qualche maligno buontempone porre delle domande strampalate sull’inferno, rispondetegli come l’abate Rigolot: « voi lo vedrete, mio caro amico, voi lo vedrete ». Vi garantisco che non avranno la tentazione di andarvi per vedere!

La mano bruciata di Foligno

Certa è una cosa, che, nei riguardi del fuoco dell’altra vita, tutte le volte che DIO ha permesso ad una povera anima riprovata di manifestarsi, o ad un’anima del Purgatorio di apparire sulla terra e di lasciare una traccia visibile, questa traccia non sia stata che quella del fuoco. Ricordate anche ciò che già più in alto abbiamo riportato, la terribile apparizione di Londra, del braccio carbonizzato della dama col braccialetto e del tappeto bruciato. Ricordate l’atmosfera di fuoco e fiamme che avvolgeva la ragazza perduta di Roma ed il giovane religioso sacrilego di S. Antonino di Firenze. In questo stesso anno in cui vi parlo, nel mese di aprile, io stesso ho visto e toccato a Foligno, vicino ad Assisi, in Italia, una di queste impressionanti impronte di fuoco, che ancora una volta di più attesta la verità di quanto andiamo qui dicendo: che il fuoco dell’altra vita è un fuoco reale. Il 4 novembre del 1859, morì di apoplessia fulminante nel convento del terziarie francescane di Foligno, una buona suora, di nome Teresa Margherita Gesta, da lungo tempo maestra delle novizie ed incaricata del povero vestiario del monastero. Essa era nata in Corsica, a Bastia, nel 1717, ed era entrata al monastero nel febbraio del 1826. Inutile dire che era ben preparata alla morte. Dodici giorni dopo, il 17 novembre, una suora di nome Anna-Felicia, che l’aveva assistita nel suo incarico e che dopo la sua morte, era rimasta sola ad espletarlo, sale al vestiario e sta per entrarvi, quando intende dei gemiti che sembrano venire dall’interno della camera; un po’ spaventata, si accinge ad aprire la porta: non c’è nessuno! Ma nuovamente si fanno sentire dei gemiti, e tanto accentuati che, malgrado il suo coraggio ordinario, ella si sente invadere dalla paura. « O Gesù e Maria! Gridò, ma cosa succede? ». Non ha nemmeno finito, che sente una voce flebile, accompagnata da un sospiro doloroso: « Oh! Mio DIO!, come soffro! Oh, DIO, che tanto peno! ». La suora stupefatta riconosce subito la voce della povera suor Teresa. Si riprende come meglio può e domanda: « E perché? – A causa della povertà, risponde suor Teresa. – Ma come! – Riprende la piccola suora, proprio voi che eravate così povera! – Non è stato per me, ma per le suore alle quali ho lasciato troppa libertà a questo riguardo. Ed anche tu, riguardati e bada a te stessa ». In quello stesso istante tutta la sala si riempie di uno fumo denso e l’ombra di suor Teresa appare dirigersi verso la porta scivolando lungo il muro. Giunta vicino alla porta, ella grida con forza: « Ecco una testimonianza della misericordia di DIO! » E ciò dicendo, colpisce il pannello più alto della porta, lasciandovi incisa nel legno carbonizzato, l’impronta più perfetta della sua mano destra; poi sparisce. La povera suor Anna-Felicia resta mezza morta dallo spavento. Tutta agitata comincia a gridare ed a invocare soccorso. Accorre una delle sue compagne, poi un’altra, poi tutta la comunità; si avvicinano ad essa, meravigliandosi dell’odore di legno bruciato. Cercano, guardano, e sulla porta intravedono la terribile impronta e vi riconoscono subito la forma della mano di suor Teresa, la quale era notevolmente minuta. Spaventate esse scappano via, corrono al coro, si mettono in preghiera e, dimenticando anche i bisogni corporali, trascorrono tutta la notte a pregare, a singhiozzare ed a far penitenza per la povera defunta, e l’indomani vanno tutte a comunicarsi per lei. La notizia si sparge fuori dal monastero: i frati minori, i buoni preti amici del monastero e tutti i cittadini dalla città uniscono le loro preghiere e le suppliche a quelle dei francescani. Questo slancio di carità ha qualcosa di soprannaturale e di particolarmente insolito. – Intanto, suor Anna-Felicia, ancora tutta sconvolta per l’emozione, riceve l’ordine formale di andare a riposarsi. Ella obbedisce, ben decisa a far sparire ad ogni costo, l’indomani mattina, l’impronta carbonizzata che rende sgomenta tutta Foligno. Ma ecco che suor Teresa-Margherita le appare nuovamente. « Io so cosa tu vuoi fare, le dice con severità, tu vorresti togliere il segno che io ho lasciato. Sappi che non è in tuo potere il farlo, essendo questo prodigio stato ordinato da DIO come insegnamento ed ammonimento per tutti. Per il suo giusto e terribile giudizio, io ero condannata a subire per quaranta anni le spaventose fiamme del Purgatorio, a causa della debolezza che spesso avevo mostrato nei riguardi di alcune mie consorelle. Io vi ringrazio, te e le tue compagne, delle tante preghiere che, nella sua bontà, il Signore si è degnato di applicare esclusivamente alla mia povera anima; ed in particolare i sette salmi penitenziali, che mi sono stati di grande sollievo ». Poi con viso sorridente, aggiunge: « O felice povertà, che procura una grande gioia a tutti coloro che veramente la osservano ». E così sparisce di nuovo. Infine l’indomani, suor Anna-Felicia, dopo aver dormito come d’abitudine, si sente ancora una volta chiamare per nome. Si sveglia tutta frastornata, rimanendo inchiodata nella sua posizione e senza poter articolar parola. Questa volta ancora, ella riconosce perfettamente la voce della suor Teresa. Nello stesso istante un globo di luce tutto luminoso e splendente appare ai piedi del suo letto illuminando la sua cella come in pieno giorno; nel mentre le giunge ancora la voce di suor Teresa che, con voce gioiosa e trionfante, dice: « io sono morta un venerdì, il giorno della Passione; ed ecco che un venerdì io me ne vado in gloria. Siate forti nel portare la croce! Siate coraggiose nella sofferenza! » Ed aggiungendo con amore: “addio, addio, addio!” si trasfigura in una nube leggera, bianca, luminosa, si alza in volo e sparisce. Ben presto fu aperta una inchiesta canonica dal Vescovo di Foligno e dai magistrati della città. Il 2 novembre, alla presenza di un gran numero di testimoni, si aprì la tomba di suor Teresa-Margherita; e l’impronta bruciata della porta si trovò esattamente conforme alla mano della defunta. Il risultato dell’inchiesta fu un giudizio ufficiale, che constatava con certezza l’autenticità perfetta di quanto avvenuto e raccontato. La porta, con l’impronta carbonizzata, è conservata nel convento con grande venerazione. La madre badessa, testimone del fatto, si è degnata di mostrarmela ella stessa, e i miei compagni di pellegrinaggio ed io abbiamo visto e toccato questo legno che attesta in modo così evidente e terribile che le anime, sia eternamente, sia solo di passaggio, soffrono nell’altra vita la pena del fuoco, e sono compenetrati e bruciati da questo fuoco. Quando, per ragioni che solo DIO conosce, è concesso loro di apparire in questo mondo, il fuoco ed esse sembrano essere una sola cosa; è come il carbone quando è arroventato dal fuoco. Dunque benché noi non possiamo penetrarne il mistero, sappiamo che, senza poterne dubitare, il fuoco dell’inferno, benché essenzialmente corporale, esercita la sua azione vendicatrice fin sulla anime.

Dove si trova il fuoco dell’inferno?

 Forse ci si domanderà ancora dove sia il fuoco dell’inferno e quale luogo occupi. Senza rimarcare niente di assolutamente preciso su questo punto, la rivelazione cristiana e l’insegnamento cattolico si accordano nel mostrarci gli abissi brucianti del fuoco centrale della terra come il luogo ove saranno precipitati, dopo la resurrezione, i corpi dei riprovati. È così che il celebre Catechismo del Concilio di Trento ci dice a chiare lettere che l’inferno è : « al centro della terra, “in medio terrae” ». questo è pure l’insegnamento formale di S. Tommaso, il quale tuttavia lo presenta come il sentimento più probabile. « Nessuna persona, egli dice, conosce con certezza ove sia l’inferno, a meno che non lo abbia direttamente appreso dallo Spirito Santo; si ha ragione nel credere che esso sia sotto terra. Innanzitutto il nome stesso sembra indicarcelo: “infernus”, inferno, vuol dire: “ciò che è al di sotto”, in un luogo inferiore rispetto alla terra. Poi nelle scritture, i riprovati sono detti essere «sotto terra, subtus terram ». Inoltre si dice nello stesso Vangelo e nelle lettere di San Paolo, che il Venerdì Santo la santa anima di Nostro Signore, momentaneamente separata dal suo corpo, scese nel cuore della terra, “in corde terrae,”, e « nei luoghi inferiori della terra, in inferiores partes terrae ». Ora noi sappiamo che essa andò a portare la notizia della redenzione e della salvezza ai giusti dell’Antica Legge che, dall’inizio del mondo avevano creduto in Lui e Lo attendevano pieni di speranza e di amore, nella pace del limbo; infine che questa santa Anima andò a rinfrancare e liberare le anime che erano allora in Purgatorio, e avevano compiuto l’espiazione delle loro colpe. Poi passa da lì nel limbo; infine che Essa discese fin nell’inferno “descendit ad inferos”, per manifestare a satana, a tutti i demoni e a tutti i riprovati, la sua divinità trionfante sul peccato, la carne ed il mondo. Ora da tutto questo si evince, anche se non con evidenza assoluta, ma tuttavia con grande forza, che il luogo dell’inferno è e sarà il centro della terra, che tutti i geologi ci rappresentano infatti come un immenso oceano di fuoco, di zolfo e bitume in fusione, e come qualcosa di così spaventoso ed insieme così potente, che niente potrebbe darcene un’idea in questa vita. Aggiungiamo a tutto questo il linguaggio delle Scritture nelle quali lo Spirito Santo presenta sempre l’inferno come un abisso nel quale si è precipitati, ove si cade, ove si discende; parole che esprimono necessariamente un luogo non soltanto inferiore, ma profondo. È ugualmente questo il linguaggio universale della Chiesa, dei Santi Padri e dei Teologi, ed anche di tutto il mondo. Infine, malgrado le loro alterazioni, le tradizioni del paganesimo, principalmente tra i Greci ed i Latini, vengono a confermare il sentimento che noi qui riassumiamo, dipingendo il luogo del castigo dell’altra vita, come una vasta regione sotterranea, o il regno del tetro dio Plutone, caricatura mitologica di satana; ove il fuoco e le fiamme giocano un ruolo principale, come già detto; e sotto il nome di Campi Elisi si vedono altre regioni, pure sotterranee, ove regnano però una certa pace ed una certa malinconica felicità, curioso riflesso della tradizione vera sul “limbo” degli antichi giusti. Aggiungiamo infine l’osservazione di S. Agostino, riportata da S. Tommaso: che dopo la morte il corpo è interrato, cioè disceso e deposto nella terra, per espiare il peccato con la putrefazione, e che sembra almeno corretto ritenere che l’anima debba espiare questo stesso peccato, sia come purificazione nel Purgatorio, sia come castigo nell’inferno, con lo scendere per trovare nei luoghi inferiori il fuoco vendicatore acceso dalla giustizia divina. Da tutto questo non possiamo, ed anche non dobbiamo concludere che l’inferno, con il suo fuoco spaventoso, abbia come sede speciale il centro della terra, ove il fuoco dell’abisso brucia con maggiore intensità? Osserviamo tuttavia che questo fuoco naturale è soprannaturalizzato dall’Onnipotenza della giustizia divina, alfine di produrre tutti gli effetti che richiede questa adorabile e terribile giustizia; tra l’altro, col fine di coinvolgere e penetrare gli spiriti come i corpi, senza consumare i corpi dei dannati ma al contrario conservarli, secondo questa terribile parola del sovrano Giudice stesso, “nella Geenna del fuoco inestinguibile, tutti i riprovati saranno salati dal fuoco “igne salietur”, in modo tale che il sale penetra e conserva la carne delle vittime, così per un effetto soprannaturale, il fuoco corporale dell’inferno penetra, senza mai consumarli, sia i demoni che i riprovati.

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Il fuoco dell’inferno è un fuoco tenebroso. Visione di Santa Teresa.

 Nel rivelarci che l’inferno è nel fuoco, Nostro Signore ci ha detto ugualmente, con l’autorità divina ed infallibile della sua parola, che l’inferno è nelle tenebre. Nel vangelo di San Matteo, nel capitolo ventiduesimo, Egli dà all’inferno il nome di tenebre esteriori. « Gettatelo, dice parlando dell’uomo che non è vestito con l’abito nuziale, cioè che non è nello stato di grazia, gettatelo nelle tenebre esteriori, “in tenebras exteriores”. » In altri passi del Vangelo, e nelle Epistole degli Apostoli, i demoni sono chiamati: « I princìpi delle tenebre, i potenti delle tenebre ». San Paolo dice ai fedeli: « voi siete tutti figli di luce: noi non siamo figli delle tenebre ». Le tenebre dell’inferno saranno corporali come il fuoco stesso, e queste due verità non implicano alcuna contraddizione. Il fuoco, o per parlare più esattamente, il produttore del calore, è come l’anima e la vita del fuoco, è un elemento perfettamente distinto dalla luce. Nello stato naturale, quando si produce la fiamma in mezzo al gas dell’aria, il fuoco è sempre più o meno luminoso, ma nell’inferno, conservando tutta la sua sostanza, l’elemento fuoco sarà privo di alcune proprietà naturali e ne acquisterà altre che saranno soprannaturali, che cioè non possiede di per se stesso. È quel che insegna San Tommaso che, appoggiandosi sul Santo Basilio Magno, insegna: « per la potenza di Dio, la chiarezza del fuoco sarà separata dalla proprietà che ha di bruciare, ed è la sua virtù comburente che servirà da tormento ai dannati ». Inoltre, « al centro della terra, ove è l’inferno, aggiunge San Tommaso, non può esserci che un fuoco tetro, oscuro, tutto denso di fumo »… quel poco che ne fuoriesce dalla bocca dei vulcani, conferma pienamente questa asserzione. Nell’inferno dunque ci saranno delle tenebre corporali, ma con un certo barlume che permetterà ai riprovati di intravedere quello che dovrà comporre i loro tormenti. Essi giungeranno a vedere nel fuoco e nell’ombra, ai bagliori delle fiamme dell’inferno, dice S. Gregorio Magno, coloro che hanno trascinato con essi nella dannazione; e questa vista sarà il complemento del loro supplizio. Pertanto, l’orrore stesso delle tenebre, che conosciamo per esperienza sulla terra, non deve essere ritenuto poca cosa nel castigo dei riprovati. Il nero è il colore della morte, del male, della tristezza. Santa Teresa racconta che un giorno, rapita in spirito, Nostro Signore si degnò di rassicurarla circa la sua eterna salvezza, se ella continuasse a servirLo ed amarLo come già faceva; e per aumentare nella sua serva fedele il timore del peccato e dei terribili castighi che esso genera, Egli volle farle intravedere il luogo che avrebbe occupato nell’inferno se ella avesse seguito le sue inclinazioni per il mondo, con la vanità e con i piaceri. « Un giorno in preghiera – ella racconta – mi trovai in un istante, senza saper in qual modo, trasportata corpo ed anima nell’inferno. Io compresi che Dio voleva farmi vedere il posto che i demoni mi avevano preparato e che avrei meritato per i peccati nei quali sarei caduta se non avessi cambiato vita. Questo durò per uno spazio breve, ma per quanto io vivessi ancora tanti anni, mi sarebbe impossibile cancellarne il ricordo. « L’entrata in questo luogo di tormento mi parve simile ad una sorta di forno estremamente basso, oscuro, stretto. Il suolo era un fango orribile, di un odore fetido e pieno di rettili striscianti. Alla sua estremità si levava una muraglia nella quale c’era un ridotto molto stretto ove mi vidi richiudere. Nessuna parola può dare la minima idea del tormento che là provai; è incomprensibile. Nella mia anima sentii un fuoco, di cui non ci sono parole per descriverne la natura, ed il mio corpo era nello stesso tempo in preda a dolori intollerabili. Io avevo provato nella mia vita crudelissime sofferenze che, secondo il parere dei medici, sono tra le più grandi che quaggiù si possano contrarre. Io avevo visto i miei nervi contrarsi in modo terribile all’epoca in cui persi l’uso dei miei arti; tutto questo era nondimeno nulla a paragone dei dolori che sentii allora; e il colmo era la consapevolezza che sarebbero stati eterni e senza sollievo. Ma queste torture del corpo non sono nulla a loro volta rispetto all’agonia dell’anima. È una stretta, un’angoscia, un infrangersi del cuore così sensibile, è nello stesso tempo una così disperata ed amara tristezza, che tenterei invano di descrivere. Se io dicessi che si prova in ogni istante l’angoscia della morte, direi ben poca cosa. No, mai potrò trovare espressioni che diano un’idea di questo fuoco interiore e di questa disperazione, che sono come il colmo di tanti dolori e tormenti. « Ogni speranza di consolazione in questo terrificante soggiorno è spenta, vi si respira un odore pestilenziale. Tale era la mia tortura in questo anfratto stretto scavato nel muro ove mi trovavo chiusa; le mura di questa cella, terrore per gli occhi, mi opprimevano esse stesse col loro peso. Là tutto soffoca; nessuna luce, non vi sono che tenebre della più tetra oscurità; eppure, o mistero!, anche senza alcun chiarore, si percepisce tutto quello che è più penoso per la vista. « Non è più piaciuto al Signore darmi una ulteriore maggiore conoscenza dell’inferno. Mi ha mostrato poi dei castighi ancora più spaventosi inflitti a certi vizi; poiché non ne soffrivo la pena, il mio terrore era minore. Nella prima visione, al contrario, il divino Maestro volle farmi provare veramente in spirito, non solo l’afflizione interiore, ma i tormenti anche esteriori come se il mio corpo li avesse sofferti. Io ignoro il modo in cui questo accadeva, ma compresi che era una grande grazia, e che il mio adorabile Salvatore aveva voluto farmi vedere con i miei occhi da quale supplizio Egli mi avesse liberato. Perché tutto ciò che si può sentir dire dell’inferno, tutto ciò che i nostri libri ci dicono degli strazi e dei diversi supplizi che i demoni fanno subire ai dannati, tutto questo non è niente rispetto alla realtà; tra l’uno e l’altro c’è la stessa differenza che esiste tra un quadro inanimato ed una persona vivente; bruciare in questo mondo è ben poca cosa in confronto a questo fuoco in cui si brucia nell’altro. Sono trascorsi quasi sei anni da questa visione, aggiunge Santa Teresa, ed ancora oggi, nello scriverlo, avverto un tale spavento che il sangue mi si gela nelle vene. In mezzo alle prove ed ai dolori, io evoco questo ricordo e da allora ogni cosa che possa accadermi quaggiù mi sembra più nulla; e trovo che noi ci lamentiamo senza motivo. « Da questo giorno, tutto mi sembra facile da sopportare in confronto ad un solo istante da trascorrere nel supplizio nel quale fui allora immersa. E non posso stupirmi del fatto che, pur avendo letto tante volte dei libri che trattano delle pene dell’inferno, ero così lontana dal formarmi un’idea giusta, e di temerlo come avrei dovuto. A cosa pensavo, Dio mio, e come potevo gustare qualche riposo in un genere di vita che mi conduceva ad un sì spaventoso abisso! O mio adorabile Maestro, siate eternamente benedetto! Voi avete mostrato nel modo più eclatante che Voi mi amate infinitamente più di quanto io non ami me stessa. Quante volte mi avete liberato da questa nera prigione, e quante volte vi sono rientrata contro la vostra volontà! « Questa visione ha fatto nascere in me un indicibile dolore alla vista di tante anime che si perdono. Essa mi ha inoltre dato i desideri più ardenti di lavorare per la loro salvezza; per strappare un’anima sola da sì orribili supplizi, lo sento, sarei pronta ad immolare mille volte la mia vita. » Che la fede sopperisca in ciascuno di noi alla visione; e che il pensiero delle «tenebre esterne» nelle quali i riprovati saranno gettati come la spazzatura e le scorie della creazione ci trattengano nelle tentazioni e faccia noi dei veri figli di luce!.

Quali altre grandissime pene accompagnano il tetro fuoco dell’inferno.

Oltre al fuoco e alle tenebre, nell’inferno ci sono altri castighi, altre pene ed altri modi di soffrire. Lo richiede infatti la giustizia divina; i riprovati hanno commesso il male in molte maniere, avendo ciascuno dei loro sensi partecipato più o meno ai loro peccati, e di conseguenza alla loro dannazione, è giusto che siano puniti innanzitutto nei punti che maggiormente avranno contribuito al peccato, secondo questa parola della Scrittura: “ciascuno sarà punito a secondo di come ha peccato”. È principalmente ancora il fuoco, questo fuoco terribile e soprannaturale di cui stiamo parlando, che sarà lo strumento di questi castighi molteplici: esso punirà con azione speciale questo o quel senso che avrà contribuito particolarmente all’iniquità; è così pure in rapporto a ciascun vizio, a ciascuno dei suoi peccati, che il dannato, gettato nel fuoco e nelle tenebre esteriori, come dice il Vangelo, piangerà amaramente su di un passato irreparabile e striderà i denti, nell’eccesso della disperazione. “Là vi sarà pianto e stridor di denti, “flatus et stridor dentium”. Tali sono le parole di DIO stesso. Questi pianti dei riprovati saranno più spirituali che corporali, dice S. Tommaso; e questo anche dopo la resurrezione, ove i corpi dei riprovati, riprendendo i loro corpi umani con tutti i loro sensi, tutti i loro organi e tutte le proprietà essenziali, non saranno nondimeno più suscettibili di certi atti né di certe funzioni. Le lacrime, in particolare, suppongono un principio fisico di secrezione che non esisterà più. O buon lettore, figuratevi dunque ciò che saranno e soffriranno sotto le diverse influenze di questo fuoco e di queste tenebre, di questi terribili rimorsi e di queste disperazioni inutili, gli occhi di un dannato, quegli occhi che tante volte, e per tanti anni, saranno serviti a contentare il proprio orgoglio, la vanità, la cupidigia, tutte gli appetiti della lussuria. E le sue orecchie aperte a discorsi impudichi, alle menzogne, alle calunnie, alle beffe dell’empietà! E la sua lingua, la sua bocca, strumento di tante sensualità, di tanti discorsi empi ed osceni, di tante leccornie! E le sue mani, che hanno cercato, scritto, che hanno sparso tante cose detestabili, che hanno fatto tante cattive azioni! Ed il suo cervello, organo di milioni di colpevoli pensieri di ogni genere! E il suo cuore, sede della sua volontà depravata, e di tutte le cattive affezioni, svanite per sempre! Ed il suo corpo tutto intero, la sua carne per la quale è vissuta, e di cui ha soddisfatto tutti i desideri, tutte le passioni, tutte le concupiscenze! Tutto in lui avrà il suo castigo, il suo tormento speciale, oltre alla pena generale della dannazione, della maledizione divina, e del fuoco vendicatore. Che orrore! E non è tutto. San Tommaso aggiunge, in effetti, con i Santi Padri: « nella purificazione finale del mondo, ci sarà tra gli elementi una separazione radicale; tutto ciò che è puro e nobile sussisterà nel cielo per la Gloria dei beati; mentre tutto ciò che è ignobile e sporco sarà precipitato nell’inferno per il tormento dei dannati. E così, come ogni creatura sarà causa di gioia per gli eletti, i dannati troveranno in tutte le creature una causa di tormenti. » E questo sarà il compimento dell’oracolo dei Libri santi: « L’universo intero combatterà con il Signore contro gli insensati, cioè i riprovati ». Infine, e per completare l’esposizione di questo lugubre stato dell’anima riprovata, aggiungiamo che Nostro Signore ha dichiarato Egli stesso nella formulazione della sentenza ultima del giudizio finale, vale a dire che: i maledetti, i dannati, andranno a bruciare nell’inferno, « nel fuoco che è stato preparato per il demonio e per i suoi angeli », negli abissi infuocati dell’inferno; i riprovati avranno dunque il supplizio dell’esecrabile compagnia di satana e di tutti i demoni. In questo mondo si trova talvolta una sorta di sollievo nel non essere soli a soffrire: ma nell’eternità, questa associazione del dannato con tutti i cattivi angeli e tutti gli altri riprovati sarà al contrario un aggravio di disperazione, di odio, di rabbia, di sofferenze dell’anima e dei dolori fisici. Ecco il poco che sappiamo, per rivelazione divina e attraverso gli insegnamenti della Chiesa, sulla molteplicità dei tormenti che saranno, nell’altra vita, il castigo degli empi, dei blasfemi, degli impudichi, degli orgogliosi, degli ipocriti, ed in generale di tutti i peccatori ostinati ed impenitenti. Ma quello che più di tutto il resto rende tutte queste pene spaventose, è la loro “eternità”!

 

 

Omelia di S.S. Papa Gregorio XVII (Giuseppe Siri)

Omelia di S.S. Papa Gregorio XVII (Giuseppe Siri) nella festa dei Santi Pietro e Paolo del 1974

[Liberamente adattata da: Omelie dell’anno liturgico – ed. Fede e Cultura, Verona, 2008]

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(…) precisato questo, vorrei intrattenervi brevemente non sul testo, ma su una sola parola del testo. Conferito il primato a Pietro, il primato nella “Sua” Chiesa -(S. Matt. XVI, 18) , Gesù annuncia che le porte, ossia le potenze dell’inferno non sarebbero mai prevalse contro di essa. E su questa impossibilità di prevalenza del male che attiro la vostra attenzione, anche perché tra poco saranno consacrati i nuovi sacerdoti, ed è giusto che essi comincino il cammino nella Chiesa con assoluta sicurezza, ben certi, ben saldi nella fede e ben sicuri della divina protezione in tutto il loro cammino e della fecondità della loro opera, anche quando non ne vedessero direttamente i frutti. Saranno ugualmente ordinati diaconi e anche questi, che con tale atto compiono qualche cosa d’importante e sono per la prima volta investiti del Sacramento dell’Ordine, devono cominciare il loro servizio, diaconia, nella Chiesa con coraggio, con ardimento, e con sicurezza. Tutti dovranno impavidi affrontare tempeste, ed è bene che sappiano con quale forza le affrontano. – Gesù dunque ha detto: “Non praevalebunt”. Non prevarranno (Mt. 16, 18). Che cosa implica questa non prevalenza affermata delle potenze dell’inferno? Vorrei far notare che nella dizione: “potenze dell’inferno” c’entrano anche le potenze di questo mondo, ma è grave per esse che vengano semplicemente chiamate “potenze dell’inferno”, grave perché vuol dire che con tutta la loro superbia non sono altro che dei poveri segugi del diavolo, il che può fare a loro molto onore a rovescio, come del resto la storia sufficientemente dimostra. – Ma questa assicurazione di Cristo, che si traduce con la parola “indefettibilità della Chiesa”, che cosa riguarda? Riguarda l’esistenza della Chiesa: non cesserà mai. La parola divina non può essere smentita. Riguarda l’istituzione della Chiesa, riguarda la costituzione della Chiesa; cioè il complesso sacramentale e giuridico nel quale Gesù Cristo ha definito la sua Chiesa. Insomma vuol dir questo: la Chiesa non solo resterà fino alla dei tempi, ma non cambierà, perché nella sua sostanza – beninteso non parliamo delle cose esterne, accidentali, a cominciare dalle vesti -, nella sua sostanza non potrà deformarsi e pertanto non potrà cambiare. Questo è l’oggetto dell’annuncio dato da Cristo. Vorrei far notare che quest’annuncio per quel che riguarda la Chiesa è il più imponente, il più grave di tutto il Nuovo Testamento, perché, se Gesù Cristo non avesse pronunciato queste parole, noi potremmo essere nel dubbio ogni momento di trovarci all’agonia, mentre all’agonia ci vanno i singoli uomini, ci vanno le nazioni, ci vanno le civiltà, ci vanno le culture, ci vanno i movimenti; tutto va all’agonia, meno che la Chiesa. Essa solo resta. Resta non per sopravvivere, ma per vivere con Cristo e, se volete, in via incidentale, resta anche per fare il funerale a tutti gli altri, che faranno bene ad aspettarselo. – Però io chiedo: come il Signore assicurerà questa non prevalenza del male? Non ve lo so dire. Ma non ve lo saprebbe dire nessuno, perché le vie di Dio sono infinite, e non solo per il numero, ma per la loro ingegnosità e profondità a noi assolutamente recondite. Tuttavia, qualche cosa possiamo osservare ed è questo: che le vie di Dio possono camminare per i sentieri più pericolosi, possono affrontare i pericoli che sarebbero per ogni altra cosa mortali – e ne abbiamo avuta una dimostrazione molto brillante in questi ultimi tempi -, le vie di Dio possono incontrarsi con chiunque, le vie di Dio possono mancare anche, direi, di pavimento sul quale stendersi, ma continuano. Ossia una cosa sappiamo: che le vie di Dio per salvar la Sua Chiesa non hanno bisogno di trovarsi in similarità con tutte le cose, che in questo mondo, annaspando, cercano di salvarsi. Le vie di Dio non hanno bisogno di annaspare, ma possono giocare con tutti i pericoli che gli uomini stimano a buon diritto per sé e per gli altri assolutamente mortali. Ma data, come potevo dare, una risposta a questa domanda, debbo venire a una precisazione che ci tocca molto da vicino. – Gesù ha garantito l’indefettibilità della Sua Chiesa: tale suona la non prevalenza delle potenze dell’inferno su di essa. Ma non ha affatto garantiti i nostri comodi; questi no, non li ha garantiti! E questo costituisce uno degli aspetti – lasciatemi dire – più vari e più pittoreschi di questa divina storia, che passa da signora tra le cose umane. Anzi per quel che ci riguarda Nostro Signore ci ha annunciato che saremmo perseguitati, e lo “siamo già”. Proprio in questi giorni si sta tramando per togliere respiro e vita agli asili parrocchiali, atto che denuncio assolutamente persecutorio, e veramente persecutorio. Nostro Signore ci ha annunciato che per far questo mentiranno a cagione del Suo nome (cfr. S. Matt. V, 11). – Nostro Signore non ci ha garantito che questa nazione o quell’altra rimarrà fedele fino alla fine dei tempi. Le può cambiare: al posto dell’Italia può mettere la Cina (….) al posto dei nostri vicini può benissimo mettere qualche altra nazione africana, e può venire il tempo in cui noi possiamo essere evangelizzati dai neri, tanto per imparare una buona volta l’umiltà intellettuale, almeno quella. Gesù Cristo non ci ha garantito nessun comodo, o di vedere noi il frutto dei nostri sacrifici. E tra le cose più abituali vi è il fatto che questa amorosa Provvidenza, che vuole noi soprattutto carichi di meriti, perché ci vuole soprattutto carichi di gloria e di felicità nella vita eterna -, questa eterna Provvidenza può anche toglierci di aver sollievo e godimento e riposo nello stesso nostro lavoro. Noi possiamo vedere cadere tutto, noi possiamo vedere rasa la terra, noi possiamo benissimo dover “scendere un’altra volta in catacomba”: tutto questo non ha importanza per chi ha fede, perché sta scritto: “Non prevarranno”. “La Chiesa è già uscita tante volte dalle catacombe”, non soltanto quando con l’Editto di Costantino nel 313 ha avuto per la prima volta un riconoscimento di libera esistenza, ma tante volte, perché in tutte le nazioni ha conosciuto dei momenti di persecuzione selvaggia, sanguinosa, e anche nel nostro tempo esistono punti della terra nei quali la Chiesa è soggetta a persecuzione selvaggia, sanguinosa, antigiuridica, contraria a tutti i principi, compresa ben intesa quella che vale meno degli altri: “la Carta dell’ONU”. Può subire tutto. “Non ha importanza che le nostre persone prevalgano! Non sono esse che devono prevalere, ma è l’istituzione, e questa prevarrà”. – Però c’è da consolarsi, perché, siccome la prevalenza completa della Chiesa sta nel poter consegnare a Dio delle anime salve – badate bene che la garanzia data alla vita della Chiesa diviene la garanzia che molte anime si salveranno -, il nostro ministero, che può anche passare attraverso l’aridità, la contraddizione, la contestazione – una piacevolezza anche quella -, il nostro ministero salverà delle anime. Noi non le vedremo in faccia in questo mondo, “Noi” non potremo enumerarle, “Noi” non sapremo, ma la loro salvezza passerà attraverso il nostro ministero, perché il Sacramento dell’Ordine, del quale, cari figlioli, sarete tra poco investiti, diventa produttivo di per se stesso. Il carattere impresso dall’Ordine resta per sempre ed è produttivo, perché è titolo di Grazia e di Grazia efficace. – Pertanto vi esorto a non guardare molto intorno e indietro a voi: avreste il pericolo di amare le chiesuole. E se voi doveste amare le chiesuole vostre, dovreste piangere molte cose e molti disguidi, che sogliono seguire – e quanto lo sentiamo! – alle chiesuole. Ma andate avanti con gli occhi chiusi, senza cercare intorno, aperti gli occhi dell’anima nella fede, sapendo che tutto lascerete di bene intorno a voi e dietro a voi e raggiungendo l’oggetto del vostro lavoro e delle vostre fatiche con la fede più che con la constatazione, lasciando a Dio di vedere. E Dio, quando Lo lasceremo solo a vedere, moltiplicherà i frutti del nostro lavoro. – Così sia.

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Si tratta di un’omelia del Papa, per la cui bocca, guidata dallo Spirito Santo, parla il divino Maestro. Notevoli sono i passaggi, messi in grassetto, nei quali il Santo Padre invita alla fiducia cieca nella parola di Gesù Cristo, e questo anche se la vera Chiesa di Cristo dovrà scendere, come profeticamente annunciato, nelle “catacombe”, così come lo è attualmente, e così come la Santa Vergine l’aveva predetto nell’Apparizione di La Salette: “la Chiesa sarà eclissata”!

A qual patto Dio promise l’infallibilità ai primi Pastori.

A qual patto Dio promise l’infallibilità ai primi Pastori.

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Nella festa di San Pietro, vogliamo riportare uno stralcio di mons. E. Barbier, tratto da “I Tesori di Cornelio Alapide, a proposito della infallibilità del successore di Pietro e Vicario di GESU’ CRISTO, tanto per schiarire le idee a molti pseudo fedeli ingannati che seguono le eresie gallicane e fallibiliste dei signori di Econe & C., della radice velenosa di Lienart, sedicenti tradizionalisti per meglio ingannare gli incauti ed ignoranti con la celebrazione di false ed invalide messe sacrileghe, officiate da semplici laici, con la pianeta … mai validamente consacrati. Che la Vergine Maria respinga e bruci tutte le eresie attuali, a cominciare dall’ecumenismo e dal conciliarismo, e quelle più sottili ed ingannevoli dei (sedicenti) tradizionalisti scismatici sedevacantisti, sia materiali che formali. Preghiamo il Principe degli Apostoli affinché il Signore si decida quanto prima a ristabilire il “vero” Santo Padre nella sua Cattedra, oggi vergognosamente usurpata!

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A qual patto Dio promise l’infallibilità ai primi Pastori.

[da I tesori di Cornelio Alapide, vol. I, Torino, 1930]

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Resta a vedere a quali condizioni Gesù Cristo abbia promessa l’infallibilità a’ primi pastori. E qui, la – l)a di queste sarà forse che i detti pastori, chiamati a decidere di tutte le controversie in ultimo appello, siano tutti santi? – Ma in questo caso Gesù Cristo non avrebbe provveduto a nulla, perché consistendo la santità nel cuore, dove nessuno quaggiù può giudicare, noi non potremmo sapere mai chi sia santo, e chi no: uno pare gran santo ed è finissimo ipocrita. Se dunque fosse necessario questa condizione, sempre dubbiosa sarebbe la nostra fede.

2)a Si richiederà forse che siano tutti arche di scienza! Ma i fedeli dovrebbero essere ancora più sapienti per giudicare se quelli lo siano e qual grado di scienza ci voglia per ben decidere. Questo, da parte di Gesù Cristo, sarebbe stato un procurare la stabilità della fede, o non piuttosto un renderla incertissima?

3)a A Sarà a patto che abbiano tutti una diritta intenzione e non operino che spinti da motivi puri e soprannaturali? Ma chi penetrerà nel segreto della mente, chi scandaglierà l’abisso del cuore? Ed ecco di nuovo incertezza e dubbio, invece di saldezza e sicurezza.

4)a Sarà necessario che vi concorra il voto di tutti i Vescovi? Allora sarebbe inutile questo dono di Gesù Cristo alla sua Chiesa, perché non si potranno mai radunare tutti quanti i vescovi, né materialmente in persona, né moralmente in una sola sentenza; qualcheduno vi si troverà sempre di parere contrario.

5)a Sarà almeno a condizione che siano sbanditi da tali assemblee gli intrighi, le cabale, le brighe? Oltreché sarebbe questo un pretendere da Dio un miracolo non necessario, poco con ciò si provvederebbe alla conservazione del deposito della fede, perché nessuno non potrebbe cavare di mente ai più restii e procaci, che non vi sono stati raggiri e cabale all’aperto, e numerose ve ne furono però in segreto e di soppiatto, e gli eretici condannati, non mancherebbero d’afferrarsi a quest’appiglio.

6)a Bisognerà che il giudizio di ciascun vescovo sia stato preceduto da un esame scrupoloso, in cui siasi confrontato il punto controverso con la Scrittura e con i monumenti della tradizione, e che tutto questo si conosca pubblicamente? Ma come accertarsi e persuadersi che ciò si è fatto? Non si sono forse gli eretici, dopo la loro condanna, sempre lagnati che non si era bene esaminata la questione, non ben compresa la difficoltà? È certamente necessario che alla decisione vada innanzi un serio esame, e sarebbe colpevole quel vescovo che decidesse senz’aver attentissimamente discusso le materie su le quali sentenzia: e tutti sanno che così si suol fare; ma non a questa condizione Gesù Cristo ha legato l’infallibilità promessa ai primi pastori, perché essa ci lascerebbe tuttavia luogo a temere che non abbiano abbastanza pregato ed esaminato, e la nostra fede non sarebbe, per conseguenza, giammai ferma.

7)a Dovrà la difficoltà essere risolta in un concilio generale? Ma dove mai Gesù Cristo ha parlato di concilio generale o particolare? Egli c’indirizza alla Chiesa, ma non ci dice che intenda mandarci alla Chiesa congregata. Quindi la Chiesa sparsa, unita al sommo Pontefice, è tanto infallibile quanto la Chiesa riunita in concilio.

8)a Si richiederà finalmente che si abbia certezza che la sentenza dei primi pastori sia proferita sinceramente, senza che c’entri per nulla la politica, o veruna considerazione umana, o timore, o interesse, o compiacenza verso qualche potere terreno? Questo, invero, è sempre stato il ridicolo pretesto degli eretici per non sottomettersi alla condanna pronunziata contro di loro. Ma se a questo patto fosse stata promessa l’infallibilità della Chiesa, chi sarebbe ancora sicuro di qualche cosa? Sempre e per poco nascerebbe il sospetto, che non abbiano i vescovi ceduto a mire politiche, o d’interesse, o di timore, ed eccoci sempre titubanti intorno alla validità del loro giudizio. Dunque da nessuna delle riferite condizioni dipende l’infallibilità promessa alla Chiesa: le promesse di Gesù Cristo sono assolute e non legate a condizioni. L’infallibilità è annessa alla decisione del maggior numero dei vescovi uniti di comunione e anche di sentimento al Papa. Quindi, o i primi pastori sieno santi o no; sparsi o assembrati; abbiano diritta intenzione o sinistra; vi siano passate brighe, o no; abbiano giudicato per mire politiche, di interesse, o di che altro; si pretenda che siasi mancato nella forma canonica, nell’uniformità dei sentimenti; che il giudizio dei vescovi non fu preceduto da un esame sufficiente; che non si è fatto ricorso alla Scrittura e bilanciato l’affare coi monumenti della tradizione; che si mettano innanzi tutti i pretesti, i cavilli, i raggiri, le finezze, gli artifici, le sottigliezze immaginabili; che si blateri che la procedura non procedette regolare, che la sentenza non è stata canonica; nulla di tutto questo, né qualunque altra cosa che possa inventare la malizia della mente umana aguzzata dall’eresia, importa un bel nulla: rimane fermo che la Chiesa, dove si tratta della fede, non trascura nulla di quanto è necessario a rendere certa, indubitabile, inviolabile, la sua decisione. Ripetiamolo, le promesse di Gesù Cristo sono assolute, non legate a condizione di sorta. Qualunque siano le disposizioni dei primi Pastori che sentenziano la fede, la loro decisione è sempre infallibile e suona oracolo di Spirito Santo, quando sono uniti al centro dell’unità cattolica e giudicano col Papa. Perché allora la provvidenza divina disporrà infallibilmente gli spiriti in tal guisa che decideranno sempre conforme alla verità e mai a favore dell’errore, e ciò in virtù delle promesse di Gesù Cristo. Se così non fosse, noi non saremmo mai sicuri di nulla, neppure delle decisioni de’ concili generali. – Ma una decisione chiara e precisa della maggior parte dei vescovi, uniti in un sentimento col Papa, rende la fede nostra salda, certa, esente d’ogni dubbio, inquietudine, incertezza, perplessità. Ecco la regola infallibile del nostro credere a cui non contraddice nessun cattolico, essendo essa stata in ogni tempo la regola di tutta la Chiesa, e nessuno può sconfessarla senza dichiararsi eretico e scismatico. A questo solo punto si riducono tutte le controversie che mai furono e saranno nel mondo: qui è l’ultimo e supremo tribunale da cui non è mai permesso appellarsi. E in verità, la Chiesa sarebbe un corpo ben mal congegnato e mal fermo, se non vi fosse né capo, né giudice il quale componesse inappellabilmente le differenze, decidesse infallibilmente le controversie, a cui può dare origine la Scrittura in materia di religione; e ad accertarsene, basta volgere l’occhio su tutte le altre religioni sedicenti cristiane: voi non ci vedete che corpi mostruosi, appunto Perché non hanno né capo, né giudice il quale possa decidere in modo sicuro e infallibile i dubbi e le obbiezioni loro; seguono per unica regola la Scrittura santa da loro malmenata, falsificata, interpretata a proprio capriccio, quindi vi pullulano tra di loro tante sette quante sono le teste. Ma in tanto la verità non può essere che una sola, dunque essi versano nell’errore. -Ecco ora le regole che bisogna osservare e che furono ogni tempo osservate, per un concilio generale: vi si scorge la prudenza, la sapienza e lo spirito di Dio che guidano la Chiesa; sono tali insomma che bastano a chiudere la bocca a qualunque avversario che non abbia perduto affatto il buon senso ed ogni rossore.

.- l. Bisogna, dice il Bellarmino (De homil., lib . I , 9, 17), che la convocazione si pubblichi nelle principali parti del mondo cristiano. – 2. A Nessun vescovo ne deve essere escluso senza legittima e grave causa, quale sarebbe se fosse eretico o scismatico, notorio o scomunicato. – 3. Che vi si trovi qualche vescovo almeno delle più ragguardevoli e insigni province. – 4. Il Papa deve presiedere o in persona o per mezzo de’ suoi legati, altrimenti figurerebbe un corpo senza capo, il quale non rappresenterebbe la Chiesa. – 5. A Che non venga disciolto dal Papa: questa condizione procede dalla precedente, poiché quando il Papa più non vi presiede, o per sè o per i suoi legati, il concilio più non esiste. – 6. Che vi sia la libertà del voto . – 7. Quand’è finito deve essere confermato dal Papa: questa conferma è garanzia ai fedeli della legittimità del concilio, e assicurazione che ogni cosa vi si è fatta canonicamente.

 

L’INFERNO – mons. DE SEGUR -1-

L’inferno, di mons. De Ségur (1)

[Da: Oeuvres de Mgr. De Ségur, tome XI]

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Breve di S.S. il Sommo Pontefice all’autore:

Il Santo Padre, PAPA PIO IX

Carissimo Figlio, salute e benedizione apostolica. Noi ci felicitiamo di tutto cuore perché non cessate di ottemperare, su così ampia scala e con tanto successo, al vostro ufficio di araldo del Vangelo. Tutto ciò che pubblicate si diffonde subito tra il popolo con migliaia di esemplari. Evidentemente, perché i vostri scritti sono così ricercati, occorre che essi piacciano ed essi non potrebbero piacere se non avessero il dono di conciliare gli spiriti, e di penetrare fino al fondo dei cuori e di produrre in essi ciascuno i loro benefici effetti. Mettete dunque a profitto la grazia che Dio vi ha fatto; continuate a lavorare con ardore ed assolvere al vostro ministero di evangelizzazione. Quanto a Noi, Noi vi promettiamo da parte di Dio una larga assistenza, per mezzo della quale voi potrete iniziare alle vie della salvezza un numero ogni giorno più considerevole di anime, e intrecciarvi così una magnifica corona di gloria. Nell’attesa, come dono di questo celeste favore e degli altri doni del Signore, ricevete la Benedizione Apostolica che Noi vi impartiamo con grande amore, Figlio carissimo, per testimoniarvi la Nostra paterna benevolenza. – Dato a Roma, presso San Pietro, il 2 marzo 1876, trentesimo anno del Nostro Pontificato

                         PIO IX, PAPA.

 

L’INFERNO

PROLOGO 

Siamo nel 1837: due giovani sottotenenti, recentemente usciti da San Cyr, visitano i monumenti e le curiosità di Parigi. Entrano nella Chiesa dell’Assunta, vicino alla Tuileries, e si mettono a guardare i quadri, le pitture e gli altri dettagli artistici di questa bella rotonda, senza curarsi affatto di pregare. Vicino ad un confessionale, appartato, un giovane prete in cotta adora il Santo Sacramento. “Guarda con quanta attenzione sta lì, dice uno di loro al compagno, si direbbe quasi che aspetti qualcuno. Forse aspetta te?”. L’altro ridendo risponde. – “Me?! E per fare cosa?” – “ Non saprei, chissà, magari per confessarti”. – Per confessarmi? “Ebbene, vuoi scommettere che ci vado?”. “Tu, andare a confessarti! Bah!” E si mette a ridere, alzando le spalle. Cosa vuoi scommettere? riprende il giovane ufficiale, con aria beffarda e decisa. Scommettiamo una bella cena, con una bottiglia di champagne d’annata! “E vada per la cena con lo Champagne. Va’ allora a metterti in confessionale”. Appena lasciato l’altro va diritto dal prete bisbigliandogli qualcosa nell’orecchio, costui si alza, entra in confessionale mentre il penitente improvvisato rivolge uno sguardo di sussiego verso il compagno inginocchiandosi come per confessarsi. – “Ma che sfrontatezza”, mormora l’altro, e si siede a vedere cosa accade. Aspetta cinque minuti, poi dieci, un quarto d’ora “Ma cosa fa?” – si domanda curioso e leggermente impaziente – cosa sta dicendo in tutto questo tempo?” Infine si apre il confessionale, l’abate ne esce, col volto animato e grave; e dopo aver salutato il giovane militare, entra in sagrestia. A sua volta esce l’ufficiale, rosso come un gallo, stirandosi i baffi con aria un po’ accigliata, facendo cenno all’amico di uscir dalla Chiesa. “Oh – gli dice – ma cosa è successo? Lo sai che sei rimasto quasi venti minuti con questo abate? Ho pensato che ti confessassi per davvero. Ti sei proprio guadagnato la cena scommessa! Vogliamo andare questa sera?” No, risponde l’altro di cattivo umore, no, non oggi! Ho da fare, ti devo lasciare”. E stringendo la mano al compagno, si allontana bruscamente, con aria corrucciata. Ma che cosa è successo realmente tra il sottotenente ed il confessore? Ecco cosa: Appena il prete apre lo sportello del confessionale, si accorge dal tono del giovane che si tratta di una mistificazione. Costui aveva avuto l’impertinenza di dire, al termine di una sua frase: « La religione! la confessione! Io me ne infischio! ». Questo abate era un uomo di spirito. « Mio caro signore, egli dice interrompendolo con garbo, io vedo che ciò che fate, non è una cosa seria. Lasciamo da parte la confessione, e se volete, facciamo un po’ di chiacchiere. Io amo molto i militari, e poi voi mi sembrate essere un giovane amabile. Che grado avete, ditemi? ». L’ufficiale comincia a capire di aver commesso una sciocchezza, e felice di trovare il modo di liberarsi, risponde gentilmente: « Io sono un sottotenente. Esco da Saint-Cyr. — “Sottotenente? E resterete per molto tempo sottotenente?” — “Ma non penso per molto, due o tre anni, forse quattro”. — “E dopo?” — “Dopo? Passerò tenente” — “E dopo?” — “Dopo? Sarò capitano” — “Capitano? A quanti anni si diventa capitano?” — “Se avrò fortuna, dice l’altro sorridendo, potrò essere capitano a ventotto o ventinove anni.” — “E dopo?” — “Oh! dopo è più difficile; si resta per molto tempo capitano. Poi si diventa capo di battaglione; poi tenente-colonnello; poi, colonnello”. — “Ebbene! Eccovi colonnello a quaranta, quarantadue anni. E dopo?” — “Dopo? Io diventerò generale di brigata, e poi generale di divisione.” — “E dopo?” — “Dopo? C’è solo il bastone di maresciallo ma … le mie pretese non vanno fin là!” — “Eh bene, eccovi sposato, ufficiale superiore, generale, generale di divisione, forse anche maresciallo di Francia, che so? E dopo signore, e dopo?” Insisteva il prete con decisione.— “Dopo? Dopo? Replica l’ufficiale un po’ interdetto. Oh ! Ma che dire, io non so cosa accadrà dopo!”. “Vedete come è strano – dice allora l’abate con tono sempre più grave – Voi sapete tutto ciò che accadrà fino a quel punto, e non sapete cosa accadrà dopo! Ebbene, io invece lo so; e voglio proprio dirvelo! Dopo, signore, voi morirete. Dopo la vostra morte comparirete davanti a Dio e sarete giudicato. E se continuerete a fare come fate ora, voi sarete dannato; sarete bruciato eternamente nell’inferno. Ecco cosa succederà dopo!”. E poiché il giovane stordito da questa conclusione, infastidito da questo finale, sembra volersi schermire : “Un instante ancora Signore! – aggiunge l’abate – ho da dirvi ancora una parola”. “Voi avete il vostro onore, è vero? Ebbene anche io ho il mio, e voi avete mancato gravemente nei miei confronti, e mi dovete una riparazione. Io ve la chiedo, la esigo in nome dell’onore. Essa sarà molto semplice. Datemi la vostra parola che per otto giorni, ogni sera prima di andare a dormire, vi metterete in ginocchio e direte ad alta voce: “Un giorno io morirò; ma io me ne frego! Dopo il mio giudizio, io sarò dannato, ma io me ne frego. Io brucerò eternamente nell’inferno; ma io me ne frego”. Ecco tutto. Voi mi date la vostra parola d’onore, giusto?”. Sempre più disorientato, volendo uscire quanto prima dall’imbarazzo, il sottotenente promette tutto, e il buon abate lo congeda con bontà, aggiungendo : “Non ho bisogno di dirvi, mio caro amico, che vi perdono di vero cuore. Se mai avete bisogno di me, voi mi troverete sempre qui, al mio posto. Solo … non dimenticate la parola data”. Così si sono lasciati, come abbiamo già visto. Il giovane ufficiale va a cena da solo. È manifestamente infastidito. La sera, al momento di dormire, esita un po’, ma la sua parola è data; egli esegue: “io morirò, io sarò giudicato, ed andrò forse all’inferno ….” E non ha il coraggio di aggiungere: « Io me ne frego. » Passano così dei giorni. La sua “penitenza” gli torna continuamente nella mente e sembra assordargli le orecchie. In fondo, come il novantanove per cento dei giovani, egli è più frastornato che cattivo. Non ancora trascorso l’ottavo giorno, egli ritorna, questa volta da solo, alla chiesa dell’Assunta, si confessa per bene, ed esce dal confessionale col viso bagnato di lacrime o con la gioia nel cuore. Egli è poi rimasto, mi hanno assicurato, un degno e fervente cristiano. Il serio timore dell’inferno, con la grazia di Dio, aveva operato la metamorfosi. Ora, ciò che ha fatto sullo spirito di questo giovane ufficiale, questa consapevolezza, perché non potrebbe farlo sul vostro, amico lettore? Occorre dunque riflettere, una buona volta. Si tratta di una questione personale, e pertanto, confessatelo, terribile. È una domanda che si pone per ciascuno di noi, e bene o male occorre dare una soluzione positiva. – Andremo così ad esaminare insieme, se vi aggrada, brevemente e francamente, due cose: 1) se c’è veramente un inferno; 2) cos’è l’inferno. Io qui faccio unicamente appello alla vostra buona disposizione e alla vostra fede.

CAP. I

Se veramente esiste un inferno

C’è l’inferno: è la credenza di tutti i popoli, in tutti i tempi.

Ciò che tutti i popoli hanno sempre creduto, in tutti i tempi, costituisce ciò che si chiama una verità di senso comune, o meglio, di comune sentimento universale. Se qualcuno si rifiuta di ammettere una di queste grandi verità universali, non avrebbe, come si dice giustamente, il senso comune. Bisogna essere folli, in effetti, per pensare che si possa aver ragione contro tutto il mondo. Ora in tutti i tempi, dall’inizio del mondo fino ai nostri giorni, tutti i popoli hanno creduto all’inferno. Sotto un nome o un altro, in forme più o meno alterate, essi hanno ricevuto, conservato e proclamato, la credenza in castighi terribili, in castighi senza fine, in cui appare sempre il fuoco, per punire i malvagi, dopo la morte. Questo è un fatto certo, così luminosamente stabilito dai nostri grandi filosofi cristiani, tanto che è superfluo darsi la pena di provarlo. Fin dalle origini si trova l’esistenza di un inferno eterno di fuoco, chiaramente affidato ai più antichi libri conosciuti, quelli di Mosè. Io non li cito qui se non da un punto di vista puramente storico. Il nome stesso dell’inferno si trova a chiare lettere. Così nel sedicesimo capitolo del libro dei Numeri, noi vediamo i tre leviti, Goré, Dathen ed Abiron che avevano blasfemato Dio, ribellandosi a Mosè: “Inghiottiti vivi nell’inferno”, ed il testo ripete: “ … e discesero vivi nell’inferno” “descenderuntque vivi in infernum”; ed il fuoco, “ignis” che il Signore ne fece uscire, divorò altr i duecentocinquanta altri ribelli”. Ora, Mosè scrive questo più di sedici secoli prima della nascita di Nostro Signore, vale a dire quasi tremila e cinquecento anni fa. Nel Deuteronomio, il Signore dice, per bocca di Mosè. “ il fuoco è stato acceso nella mia collera ed i suoi ardori penetreranno fino alle profondità dell’inferno “ardebit usque, ad inferna novissima”. Nel libro di Giobbe, egualmente scritto da Mosè, a testimonianza dei più grandi sapienti, gli empi, per cui la vita abbonda di beni, e che dicono a Dio “noi non abbiamo bisogni di Voi, non vogliamo la vostra legge; perché servirVi e pregarVi!”, questi empi cadono tutto ad un tratto nell’inferno “in puncto ad inferna descendunt”. Giobbe chiama l’inferno “la regione delle tenebre, la regione sprofondata nelle ombre della morte, la regione del dolore e delle tenebre, in cui non c’è alcun ordine, ma vi regna l’orrore eterno “sed sempiternus horror inhabitat”. Ecco già delle testimonianze più che rispettabili, e che risalgono alle origini storiche più remote. Mille anni prima dell’era cristiana, quando non c’era ancora né storia greca, né storia romana, Davide e Salomone parlano frequentemente dell’inferno come di una grande verità, talmente conosciuta e riconosciuta da tutti, per cui non c’è neppure bisogno di dimostrarlo. Nel suo libro dei Salmi, Davide tra l’altro, parlando dei peccatori, dice: “che essi siano gettati nell’inferno, “revertantur peccatores in infernum”. Che gli empi siano confusi e precipitati nell’inferno, “et deducantur in infernum”. E altrove parla dei dolori nell’inferno “dolores inferni”. Salomone non è meno formale. Ricordando i propositi degli empi che vogliono sedurre e perdere il giusto, egli dice: « Divorano ogni vivente, come fa l’inferno, “sicut infernus” ». E in questo famoso passaggio del Libro della Sapienza, dove egli descrive ammirevolmente la disperazione dei dannati, aggiunge: « ecco ciò che dicono nell’inferno, coloro che hanno peccato; perché la speranza dell’empio svanisce come il fumo portato dal vento ». In un altro dei suoi libri, l’Ecclesiastico, egli dice ancora: « la moltitudine dei peccatori è come un fardello di stoppa; ed il loro fine ultimo, è la fiamma del fuoco, “flamma ignis”; questo sono gli inferi, e le tenebre e le pene, et in fine illorum inferi, et tenebrae, et paenae ». Due secoli dopo, più di ottocento anni prima di Gesù Cristo, il grande profeta Isaia diceva a sua volta “Come tu sei caduto dall’alto del cielo, o lucifero? Tu che dicevi nel tuo cuore: “io salirò fino al cielo, io sarò simile all’Altissimo” ti vedo precipitato nell’inferno, in fondo all’abisso, “ad infernum detraheris, in profundum laci”. Per questo “abisso”, per questo misterioso “stagno”, noi vedremo più avanti che bisogna intendere questa spaventosa massa liquida di fuoco che la terra avvolge e nasconde, e che la Chiesa stessa ci indica come il luogo propriamente detto dell’inferno. Salomone e Davide parlano anch’essi di un abisso bruciante. In un altro passaggio delle sue profezie, Isaia parla del fuoco, del fuoco eterno dell’inferno. “I peccatori, egli dice, sono pieni di spavento. Chi di voi potrà entrare nel fuoco che divora, nelle fiamme eterne “cum ardoribus sempiternis?” – Il Profeta Daniele, vissuto duecento anni dopo Isaia, dice, parlando della resurrezione ultima e del giudizio: « E la moltitudine di coloro che dormono nella polvere, si sveglierà, gli uni per la vita eterna, gli altri per un obbrobrio che non finirà mai ». testimonianza simile da parte di altri Profeti, fino al precursore del Messia, san Giovanni Battista, che parla anch’egli al popolo di Gerusalemme del fuoco eterno dell’inferno, come una verità da tutti conosciuta, e della quale nessuno ha mai dubitato. « Ecco il Cristo che si avvicina, esclama, Egli vaglierà il suo grano, raccoglierà il frumento (gli eletti) nei granai; quanto alla paglia (i peccatori) Egli li brucerà nel fuoco che non si spegne mai. In “igne inestinguibili” ». – L’antichità pagana, greca e latina, ci parla ugualmente dell’inferno, e dei suoi terribili castighi che non avranno mai fine. Sotto forme più o meno esatte, a seconda che i popoli si allontanavano più o meno dalle tradizioni primitive e dagli insegnamenti dei Patriarchi e dei Profeti, vi si ritrova sempre la credenza in un inferno, un inferno di fuoco e di tenebre. Tale era il Tartaro dei greci e dei latini. « Gli empi che hanno disprezzato le sante leggi, sono precipitati nel tartaro per non uscirne mai, e per soffrivi tormenti orribili ed eterni », dice Socrate, citato da Platone, suo discepolo. E Platone ancora dice: « Si deve prestar fede alle tradizioni antiche e sacre che insegnano che dopo questa vita l’anima sarà giudicata e punita severamente se non ha vissuto in modo conveniente ». Aristotele, Cicerone, Seneca, parlano di queste stesse tradizioni che si perdono nella notte dei tempi. Omero e Virgilio le hanno rivestite dei colori dei loro versi immortali. Chi non ha letto della discesa di Enea agli inferi, ove, sotto il nome di “Tartaro”, di Plutone, etc. noi ritroviamo le grandi verità primitive, sfigurate ma conservate dal paganesimo? I supplizi dei malvagi sono eterni; ed uno di essi ci viene ritratto come “fissato, eternamente fissato nell’inferno”. Che questa credenza sia universale, incontestabile ed incontestata, lo stesso filosofo scettico Bayle, è il primo a costatarlo, a riconoscerlo. Il suo confratello in voltairianesimo ed in empietà, l’inglese Bolingbroke lo confessa con uguale franchezza. Egli dice formalmente: « La dottrina di uno stato futuro di ricompensa e di castigo sembra perdersi nelle tenebre dell’antichità; essa precede tutto quel che sappiamo di certo. Dal momento che iniziamo a sbrogliare il caos della storia antica, noi ritroviamo questa credenza in modo solido nello spirito delle prime nazioni che noi conosciamo ». Se ne ritrovano i frammenti fin tra le informi superstizioni dei selvaggi dell’America, dell’Africa e dell’Oceania. Il paganesimo dell’India e della Persia ne conserva vestigia impressionanti, ed infine il maomettanesimo annovera l’inferno nel numero dei suoi dogmi. In seno al Cristianesimo, è superfluo dire che il dogma dell’inferno è fortemente insegnato come una delle grandi verità essenziali, che servono come base di tutto l’edificio della Religione. Finanche gli stessi protestanti che hanno distrutto tutto con la loro folle dottrina del “libero esame”, non hanno osato toccare l’inferno. Cosa strana ed inesplicabile in mezzo a tante rovine, Lutero, Calvino e gli altri hanno dovuto lasciare in piedi questa verità terrificante, che doveva pur essere a loro personalmente così inopportuna! Dunque, tutti i popoli, in tutti i tempi, hanno conosciuto l’esistenza dell’inferno. Questo dogma terribile fa parte allora di questo tesoro delle grandi verità universali, che costituiscono la luce dell’umanità. Pertanto un uomo appena sensato non può metterlo in dubbio dicendo, nella follia di un’orgogliosa ignoranza: “Non c’è l’inferno!”. In conclusione, quindi: l’inferno c’è!

L’inferno c’è: l’inferno non è stato inventato, né poteva esserlo.

   Noi vediamo allora che in tutti i tempi, tutti i popoli hanno creduto nell’inferno. Questo già prova da solo che esso non è frutto di un’invenzione umana. – Supponiamo per un istante: il mondo vivente, ben tranquillo, immerso nei piaceri ed abbandonato senza timore a tutte le passioni. Un bel giorno, un uomo, un filosofo, gli viene a dire: « C’è un inferno, un luogo di eterni tormento, ove Dio vi punirà se continuate a fare il male; un inferno di fuoco nel quale brucerete senza fine, se non cambiate vita ». Figuratevi che effetto avrebbe prodotto un tale annunzio! – Inizialmente nessuno vi avrebbe creduto. « Ma cosa venite a predicarci? Avrebbero detto a questo inventore dell’inferno. Ma come vi è saltato in mente, da dove l’avete preso? Quali prove ci portate? Voi siete un sognatore, un profeta di sventura ». Non lo si sarebbe mai creduto. Nessuno lo avrebbe creduto, perché tutto, nell’uomo corrotto, si rivolta istintivamente contro l’idea dell’inferno. Così come ogni colpevole respinge, per quanto può, l’idea del castigo, allo stesso modo e centuplicato l’uomo colpevole respinge la prospettiva di questo fuoco vendicatore, eterno, che deve punire impietosamente tutte le sue colpe, anche le colpe segrete. E soprattutto in una società, come la supponiamo al momento, in cui nessuno ha mai sentito parlare dell’inferno: la rivolta dei pregiudizi, si sarebbe unita alla rivolta delle passioni. Non solo non lo avrebbero voluto credere, questo inventore di sciagure, ma lo si sarebbe cacciato con furore, lo si sarebbe lapidato, cosicché il pensiero di ricominciare non sarebbe più venuto a nessun’altro. E qualora si volesse ancor prestar fede a questa invenzione, poniamo, evocando una impossibilità ancor più evidente, che tutti i popoli si siano messi a credere all’inferno sulla parola del suddetto filosofo: qual avvenimento! E allora io mi domando: il nome dell’inventore, il secolo, il paese dove viveva, non sarebbero certamente stati consegnati alla storia? Ma, nulla di tutto questo! È stato segnalato mai qualcuno che abbia introdotto nel mondo questa dottrina terrificante, sì contraria alle passioni più radicate dello spirito umano, del cuore, dei sensi? Dunque, l’inferno non è stato inventato! Non è stato inventato, perché non poteva esserlo. L’eternità delle pene dell’inferno è un dogma che la ragione non può comprendere; essa può conoscerlo, ma non comprenderlo, perché è al di sopra della ragione. E ciò che l’uomo non comprende, come può averlo inventato? Ed è proprio perché l’inferno, l’inferno eterno, non può essere compreso dalla ragione che la ragione insorge contro di esso, non essendo rischiarata e rivelata dalle luci soprannaturali della fede. Come vedremo più in la, la ragione grida all’ingiustizia, alla barbarie, e di conseguenza all’impossibilità. – Il dogma dell’inferno è ciò che si chiama “una verità innata”, vale a dire una di quelle luci di origine divina che lotta in noi malgrado noi; che è nel fondo della nostra coscienza, incrostata nelle profondità della nostra anima come un diamante nero, che brilla di un bagliore oscuro. Nessuno lo può strappare, perché è DIO stesso che lo ha messo là. Si può coprire questo diamante con i suoi bagliori scuri, se ne può allontanare lo sguardo e dimenticarlo per un certo tempo; si può negarlo in parole; ma vi si crede malgrado tutto, e la coscienza non cessa di proclamarlo. Gli empi che si burlano dell’inferno, in fondo ne hanno una paura terribile. Coloro che dicono che per essi è dimostrato che l’inferno non c’è, mentono a se stessi e agli altri. Si tratta di una empia speranza del cuore, piuttosto che una negazione ragionata dello spirito. Nell’ultimo secolo, uno di questi insolenti scriveva a Voltaire che aveva scoperto la prova metafisica della non esistenza dell’inferno: « voi siete tra i felici, gli rispose il vecchio patriarca degli increduli; ma io non mi trovo tra essi! ». No, l’uomo non ha inventato l’inferno! Egli non lo ha inventato, non lo ha potuto inventare. Il dogma di un inferno eterno di fuoco risale a DIO stesso. Esso fa parte di questa grande rivelazione primitiva che è la base della Religione e della vita morale del genere umano. Ergo: l’inferno c’è!

L’inferno c’è: Dio stesso ce ne ha rivelato l’esistenza.

I passaggi dell’Antico Testamento che ho citato più in alto, dimostrano già che il dogma dell’inferno è stato rivelato da Dio stesso ai Patriarchi, ai Profeti e all’antico Israele, in effetti non si tratta solo di testimonianze storiche: sono ancora e soprattutto delle testimonianze divine, che comandano la fede, che si impongono alla nostra coscienza, con l’autorità infallibile delle verità rivelate. Nostro Signore GESU’-CRISTO ha solennemente confermato questa temibile rivelazione; e per ben quattordici volte nel Vangelo, parla dell’inferno. Noi non riporteremo qui tutte le sue parole per non ripeterci. Non dimenticate, mio buon lettore, che è DIO stesso che qui parla, e che ha detto: « Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno … ». poco dopo la sua meravigliosa trasfigurazione sul Tabor, Nostro Signore diceva ai suoi discepolo e alle moltitudini che Lo seguivano: « Se la vostra mano (cioè ciò che di più prezioso avete) è per voi occasione di peccato, tagliatela: è meglio entrare nell’altra vita con una sola mano, che con due mani nell’inferno, nel fuoco inestinguibile. Se il vostro piede o il vostro occhio è per voi un’occasione di scandalo, tagliatelo, cavatelo, gettatelo lontano da voi: è meglio entrare nella vita eterna con un solo piede ed un solo occhio, che essere gettati con i due piedi o i due occhi nella prigione del fuoco eterno, “in gehenna ignis inextinguibilis”, ove il rimorso non cessa mai, ed il fuoco non si spegne mai “ … et ignis non estinguitur!” – Egli parla di ciò che accadrà alla fine dei tempi, e dice: « Allora il Figlio dell’uomo verrà con i suoi Angeli, ed essi separeranno coloro che avranno fatto il male per gettarli nella fornace di fuoco, “in caminum ignis” ove ci sarà pianto e stridor di denti. Chi ha orecchie per intendere, intenda ». Quando il Figlio di Dio predice l’ultimo giudizio, nel venticinquesimo capitolo del Vangelo di San Matteo, ci fa conoscere in anticipo i propri termini della sentenza che pronuncerà contro i riprovati: « Ritiratevi da me, maledetti, al fuoco eterno “discedite a me, maledicti, in ignem aeternum ». Io vi chiedo: ci può essere nulla di più chiaro? Gli Apostoli, incaricati dal Salvatore di sviluppare la sua dottrina e di completare le sue rivelazioni, ci parlano dell’inferno e delle sue fiamme eterne in modo non meno esplicito. Per non citare che alcune delle loro parole, ricorderemo San Paolo che dice ai cristiani di Tessalonica, predicando loro i giudizi eterni, « … che il Figlio di DIO si vendicherà nella fiamma del fuoco, “in flamma ignis”, degli empi che non hanno voluto riconoscere DIO e che non obbediscono al Vangelo di Nostro Signore GESU’-CRISTO; essi avranno da soffrire delle pene eterne nella morte, lontano dalla faccia del Signore, “paenas dabunt in interitu aeternas” ». – L’Apostolo San Pietro dice che i malvagi subiranno il medesimo castigo degli angeli cattivi, che il Signore ha precipitato nelle profondità dell’inferno, nel supplizio del tartaro, « rudentibus inferni detractos in Tartarum tradidit cruciandos ». Egli li chiama « figli di maledizione, “maledictionis filii”, ai quali sono riservati agli orrori delle tenebre ». San Giovanni ci parla ugualmente dell’inferno e dei suoi fuochi eterni. Riguardo all’anticristo e del suo falso profeta, egli dice: « Essi saranno gettati viventi nell’abisso ardente di fuoco e zolfo, “in stagnum ignis ardensis sulphure”, per esservi tormentati notte e giorno nei secoli dei secoli, “cruciabuntur die ac nocte in saecula saeculorum” ». infine l’Apostolo San Giuda ci parla a sua volta dell’inferno, mostrandoci i demoni ed i riprovati « incatenati per l’eternità nelle tenebre, subenti le pene del fuoco eterno, “ignis aeterni paenam sustinentes” ». – Ed in tutto il corso delle loro epistole ispirate, gli Apostoli ritornano incessantemente sul timore dei giudizi di DIO e sui castighi eterni che attendono i peccatori impenitenti. Dopo gli insegnamenti così chiari, come meravigliarsi che la Chiesa ci presenti l’eternità delle pene e del fuoco dell’inferno come un dogma di fede propriamente detto? In tal modo, che colui che vorrebbe negarlo o solo dubitarne, sarebbe quantomeno un eretico. Dunque l’esistenza dell’inferno è un articolo di fede cattolica e ne siamo tanto sicuri, come per l’esistenza di DIO. – Dunque, un inferno c’è! Riassumendo: la testimonianza dell’intero genere umano e delle tradizioni più antiche; la testimonianza della natura umana, della retta ragione, del cuore e della coscienza, e soprattutto la testimonianza dell’insegnamento infallibile di DIO stesso e della sia Chiesa, si uniscono per attestarci, con assoluta certezza, che c’è un inferno di fuoco e tenebre, un inferno eterno per il castigo degli empi e dei peccatori impenitenti. Io vi domando, caro lettore, si può mai stabilire una verità più perentoria?

Se veramente c’è l’inferno, come mai nessuno ne è tornato?

L’inferno esiste essenzialmente per punire i riprovati, e non per lasciarli tornare sulla terra. Quando uno si trova là, ivi resterà. Voi dite che non si ritorna? Questo è vero nell’ordine abituale della Provvidenza. Ma è proprio certo che nessuno sia mai tornato dall’inferno? Siete sicuri che in vista della misericordia e della giustizia, DIO non abbia permesso mai ad un dannato, di riapparire sulla terra? Nella santa Scrittura e nella storia, si fa prova del contrario; e, benché sia divenuta una superstizione, la credenza quasi generale a ciò che si chiamano “i fantasmi”, sarebbe inesplicabile se non provenisse da un fondo di verità. Lasciatevi qui riportare qualche avvenimento la cui autenticità sembra evidente e che proverebbe l’esistenza dell’inferno, per mezzo di spaventose testimonianze di quelli stessi che vi si trovavano.

Il dottore Raimond Diocré

      Nella vita di San Bruno, fondatore dei monaci certosini, si trova un avvenimento sconvolgente, avvenuto alla presenza di migliaia di testimoni, ed esaminato in tutti i particolari dai dottissimi Bollandisti, che presenta pertanto alla critica più seria, tutti i caratteri storici dell’autenticità; un fatto accaduto a Parigi, in pieno giorno, alla presenza di migliaia di testimoni, i cui dettagli sono stati raccolti dai testimoni, e che ha dato vita infine ad un grande ordine religioso. – Moriva, nell’anno 1082, un grande professore dell’università di Parigi, di nome Raymond Diocrès, che godeva dell’ammirazione universale, compianto da tutti i suoi allievi. Uno dei più sapienti dottori del tempo, conosciuto in tutta l’Europa per la sua scienza, i suoi talenti e le sue virtù, chiamato Bruno, si trovava in quel tempo a Parigi con quattro colleghi, e decise di assistere diversamente alle esequie dell’illustre scomparso. Si era disposto il corpo nella grande sala della cancelleria vicino alla Chiesa di Nostre-Dame, ed una immensa folla circondava il catafalco, ove, secondo l’uso dei tempi, il morto veniva esposto, coperto da un semplice velo. Nel momento in cui si cominciò a leggere una delle letture dell’Ufficio dei morti che comincia così: « Rispondimi. Quanto grandi e numerose sono le tue iniquità … », una voce sepolcrale uscì da sotto il velo funebre, e tutti gli astanti udirono queste parole. « Per un giusto giudizio di Dio, sono stato accusato ». Ci si precipitò allora a togliere il drappo mortuario: il povero morto era là immobile, glaciale, perfettamente “morto”. La cerimonia, interrotta per un istante, riprese subito; tutti gli astanti erano nello stupore e pieni di paura. Si riprende dunque l’Ufficio, si arriva nuovamente alla lettura suddetta «Rispondimi»! Questa volta, visto da tutti, il morto si solleva, e con voce più forte, ancora più accentuata, dice: « Per un giusto giudizio di DIO, sono stato giudicato », e ricade all’indietro disteso. Il terrore negli astanti è al colmo! Alcuni medici possono costatarne di nuovo la morte: il cadavere è freddo, rigido. Non si ha il coraggio di continuare, e l’Ufficio viene rimandato all’indomani. Le autorità ecclesiastiche, non sanno come comportarsi. Gli uni dicono. «È un dannato; è indegno delle preghiere della Chiesa». Altri dicono: «No, tutto questo è senza dubbio molto terrificante, ma infine, tutti noi non saremo dapprima accusati, e poi giudicati con un retto giudizio di DIO? ». il Vescovo è pure di questo avviso, e l’indomani, il servizio funebre ricomincia alla stessa ora. Bruno ed i suoi compagni sono là come il giorno prima. Tutta l’Università, tutta Parigi è accorsa a Notre-Dame. – L’Ufficio dunque ricomincia. Alla stessa lettura: « Rispondimi! … », il corpo del dottor Raymond si erge seduto e, con un accento indescrivibile, che lascia di ghiaccio tutti gli astanti, esclama: « Con un retto giudizio di DIO sono stato condannato» , e ricade immobile. Questa volta non ci sono più dubbi, il terribile prodigio costatato fino all’evidenza estrema, non è più discutibile. Per ordine del Vescovo e del Capitolo, si spoglia seduta stante il cadavere delle sue insegne e delle sue dignità, e lo si manda alla volta di Montfaucon. – All’uscire dalla grande sala della cancelleria, Bruno, che all’epoca aveva circa quarantacinque anni, decide irrevocabilmente di lasciare il mondo, ed si mette alla ricerca, insieme ai suoi compagni, nella solitudine della grande certosa, nei pressi di Grenoble, di un ritiro ove giungere più sicuramente alla salvezza, e prepararsi così, lontano dagli agi, ai giusti giudizi di DIO. Ecco quindi un riprovato che ritorna dall’inferno non per uscirne, ma per esserne il più inconfutabile dei testimoni.

Il giovane religioso di San Antonino

 Il sapiente Arcivescovo di Firenze, san Antonino, riporta nei suoi scritti un fatto non meno terribile che, verso la metà del quindicesimo secolo, aveva spaventato tutto il nord dell’Italia. Un giovane di buona famiglia che a sedici o diciassette anni ebbe la disgrazia di nascondere un peccato mortale in confessione e di comunicarsi in questo stato, aveva rimandato di settimana in settimana, di mese in mese, la confessione così penosa dei suoi sacrilegi, continuando, del resto le sue confessioni e le sue comunioni, per un miserabile rispetto umano. Tormentato dal rimorso, cercava di stordirsi facendo grandi penitenze, e tanto bene che passava per un santo. Non resistendo, entrò in un monastero. « Là, almeno, si diceva, io dirò tutto, ed espierò seriamente i miei spaventosi peccati ». – Fu accolto così, per sua sventura, come un piccolo santo dai superiori che lo conoscevano per la reputazione, ma la sua onta riprese ancora il sopravvento. Egli rimandò la sua confessione a più tardi, raddoppiò le sue penitenze, e così in questo deplorevole stato passarono un anno, due anni, tre anni, ed egli non osava mai rivelare il peso terribile e vergognoso che lo opprimeva. Infine una malattia mortale sembrò facilitarne la soluzione. Per questo motivo, si disse, io vado a confessare tutto. Vado a fare una confessione generale prima di morire. Ma per l’amor proprio, dominando sempre il pentimento, egli ingarbugliò cosi bene la confessione dei suoi peccati, che il confessore non poté comprendere nulla. Egli aveva un vago desiderio di ritornarvi sopra l’indomani; ma sopravvenne un accesso febbrile, e l’infelice così morì. Nella comunità, ove si ignorava la mostruosa realtà, si diceva: « Se non va in cielo costui, che di noi potrà mai entrarvi? ». e si facevano toccare alle sue mani delle croci, dei rosari, delle medaglie. Il corpo fu trasportato con una sorta di venerazione nella chiesa del monastero, e vi restò esposto nel coro fino all’indomani mattino quando si celebrarono i funerali. Qualche istante prima dell’ora fissata per la cerimonia, uno dei frati, inviato a suonare le campane, scorse tutto ad un colpo davanti a lui, vicino all’altare, il defunto circondato da catene che sembravano rosse di fuoco, ed una certa incandescenza appariva in tutta la sua persona. Spaventato, il povero frate era caduto in ginocchio, con gli occhi fissi sulla orribile apparizione. Allora il dannato gli disse: « Non pregate per me. Io sono nell’inferno per l’eternità », e raccontò la storia lamentevole della sua cattiva onta e dei suoi sacrilegi, dopo di ché sparì lasciando nella chiesa un odore ripugnante che si sparse in tutto il monastero, come per attestare la veridicità di tutto quanto il frate vedeva e intendeva. Subito avvertiti, i superiori fecero portar via il cadavere, giudicandolo indegno della sepoltura ecclesiastica.

La cortigiana di Napoli

San Francesco Girolamo, celebre missionario della Compagnia di Gesù all’inizio del diciottesimo secolo, era stato incaricato di dirigere le missioni nel reame di Napoli. Un giorno, mentre predica in una piazza di Napoli, alcune donne di vita cattiva, tra cui una di essa, chiamata Caterina, lì riunite, si sforzano nel disturbare il sermone con i loro canti e le loro sguaiate esclamazioni, per indurre il padre a ritirarsi; ma egli nondimeno continua il suo discorso, senza che sembri accorgersi delle loro insolenze. Qualche tempo dopo, egli torna a predicare nella stessa piazza. Vedendo la porta di Caterina chiusa e tutta la casa, ordinariamente così chiassosa, in un profondo silenzio: « “Ebbene! – dice il santo – cosa è successo a Caterina?” – “Ma come Padre, non lo sa? Ieri sera la disgraziata è morta, senza poter pronunziare una parola”. “Caterina morta? – riprende il Santo – e morta all’improvviso? Entriamo e vediamo” ». Si apre la porta, il Santo sale le scale ed entra, seguito dalla folla, nella stanza ove il cadavere giace a terra, su di un drappo, con quattro ceri, secondo l’uso del paese. Egli la guarda per un po’ di tempo con occhi spaventati; poi con voce solenne le dice: «Caterina, adesso dove vi trovate»? Il cadavere resta muto. Il Santo riprende: «Caterina, ditemi, dove siete adesso? Io vi ordino di dirmi: adesso dove vi trovate »? Allora con grande meraviglia di tutti, gli occhi del cadavere si aprono, le sue labbra si agitano convulsivamente, ed una voce cavernosa e profonda ecco risponde. « Nell’inferno! Io sono nell’inferno! ». A queste parole la folla degli astanti scappa spaventata ed il Santo ridiscende con essi ripetendo: « Nell’inferno! O DIO, è terribile! Nell’inferno! O DIO, è terribile! Avete sentito? Nell’inferno! ». L’impressione di questo prodigio fu così vivo, che un buon numero di coloro che ne furono testimoni, non osarono rientrare a casa loro senza essersi prima confessati.

L’amico del conte Orloff

Nel nostro secolo, tre fatti dello stesso genere, uno più autentico dell’altro, sono pervenuti a mia conoscenza. Il primo si è verificato quasi nella mia famiglia, in Russia, a Mosca, poco tempo prima della orribile campagna del 1812. Mio nonno materno, il conte Rostopchine, governatore militare di Mosca, era fortemente legato al generale conte Orloff, celebre per la sue prodezze, prode ancorché empio. Un giorno, dopo un’abbondante e raffinata cena, innaffiata da copiose libagioni, il conte Orloff e uno dei suoi amici, il generale V. , voltairiano come lui, si erano messi a burlarsi offensivamente della religione e soprattutto dell’inferno. « “E se per caso, dice Orloff, se per caso c’è qualche cosa dall’altro lato della cortina?” … – “Ebbene, risponde il generale V., il primo di noi due che vi andrà, tornerà ad avvertire l’altro. Ne convenite, siete d’accordo?” – “Idea eccellente!” », risponde il conte Orloff, ed entrambi, benché mezzo alticci, diedero seriamente la loro parola d’onore per non mancare al loro impegno. Qualche settimana più tardi, scoppiò una delle grandi guerre che Napoleone aveva il dono di saper suscitare all’epoca; l’armata russa entra in campagna di guerra, ed il generale V. ebbe l’ordine di partire immediatamente per prendere un importante comando. Egli aveva lasciato Mosca da due o tre settimane, quando un mattino, di buon’ora, mentre mio nonno faceva toilette, la porta della sua camera si apre bruscamente. È il conte Orloff, in giacca da camera, in pantofole, coi i capelli arruffati, gli occhi stralunati, pallido come un morto. « Cosa c’è! Orloff siete voi? A quest’ora? E così conciato, cosa c’è dunque, cosa è successo? ». – « Mio caro, riprende Orloff. Credo di essere diventato matto! Ho appena visto il generale V. » – Il generale V.? “Ah, dunque è già ritornato? – “Eh no! Riprende Orloff, sprofondando su un divano e prendendosi la testa tra le mani – No! Non è tornato! Ed è per questo che sono terrorizzato!” » Mio nonno non riesce a capire, e cerca di calmarlo.               « Raccontatemi dunque quel che vi è successo e tutto quello che volete dirmi ». Allora, cercando di dominare la sua emozione, il conte Orloff racconta quanto segue. « Mio caro Rostpchine, già da qualche tempo, V. ed io, ci siamo giurati reciprocamente che il primo tra di noi che fosse morto, venisse a dire all’altro se dall’altra parte della cortina ci sia qualcosa. Ora questa mattina, da neanche mezz’ora, io ero tranquillamente a letto, sveglio da tempo, non pensando affatto al mio amico, quando tutto ad un tratto le due tende del mio letto si sono bruscamente aperte ed io ho visto, a due passi da me, il generale V., in piedi, pallido, con la mano destra sul suo petto che mi ha detto: « C’è l’inferno, ed io vi sono dentro! » ed è sparito. E così sono venuto a cercarvi. La mia testa scoppia! Che cosa strana! Io non so cosa pensare!”. Mio nonno cerca di calmarlo come può, anche se non è cosa facile. Egli parla di allucinazioni, di incubi, … forse dormiva … son cose straordinarie, inspiegabili, ed altre banalità di questo genere, che consolano gli spiriti forti. Poi fa preparare i suoi cavalli per riportare il conte Orloff al suo hotel. Dieci o dodici ore dopo questo strano incidente, un corriere dell’armata porta a mio nonno, tra le altre notizie, quella della morte del generale V. . La mattina del giorno stesso in cui il generale Orloff lo aveva visto e sentito, alla stessa ora in cui era apparso a Mosca, lo sfortunato generale, uscito per verificare la posizione del nemico, venne colpito al petto da un proiettile cadendo morto stecchito! « L’inferno c’è, l’inferno c’è, ed io ci sto dentro »! Ecco le parole di qualcuno che « ne è tornato! ».

La Dama dal braccialetto dorato.

Nel 1859, io raccontavo appunto questo avvenimento ad un prete molto distinto, il Superiore di una importate comunità. “È terribile, mi dice, ma questo non mi stupisce in modo straordinario. Fatti di questo genere sono molto meno rari di quel che si possa pensare. Il fatto è che generalmente si tende più o meno a mantenere il segreto, sia per l’onore del “ritornato”, sia per l’onore della sua famiglia. Da parte mia posso riferire quel che io ho saputo da fonte certa, circa due o tre anni orsono, da una parente stretta di una persona alla quale è successa una cosa simile. In questo momento che vi parlo (Natale del 1859), questa dama ancora vive, ed ha poco più di quarant’anni. « Ella era a Londra, nell’inverno tra il 1847 ed il 1848, era vedova, fortemente mondana, molto ricca e di bell’aspetto. Tra i più eleganti frequentatori del suo salone, c’era un giovane lord, le cui assiduità la compromettevano singolarmente e la cui condotta libertina di conseguenza non era meno edificante. « Una sera, o piuttosto una notte (poiché era oltre mezzanotte), ella leggeva un romanzo, cercando di conciliare il sonno. Al battere del pendolo, essa spense la sua bugia. Ma nell’addormentarsi, con suo grande stupore, vide che un tenue bagliore sembrava giungere dalla porta del salone, spandendosi a poco a poco nella sua camera, aumentando sempre più di intensità. Stupefatta aprì bene gli occhi, non sapendo cosa questo potesse significare. Essa cominciò a spaventarsi, quando vide aprirsi lentamente la porta del salone ed entrare nella sua camera il giovane lord, complice delle sue disordinate avventure. Prima che elle potesse dire una parola, egli le fu vicino e stringendole il polso sinistro, con voce stridente, le disse in inglese: « C’è l’inferno! » Il dolore che ella sentì al braccio fu tale che perse conoscenza. « Quando riprese i sensi, circa una mezz’ora dopo, suonò alla sua donna da camera. Questa entrando sentì un forte odore di bruciato; avvicinandosi alla sua padrona, che appena poteva balbettare, constatò al polso una bruciatura così profonda che perfino l’osso era scoperto e la carne quasi tutta consumata; questa bruciatura aveva la larghezza di una mano d’uomo. In più ella notò che dalla porta del salone fino al letto, e dal letto alla stessa porta, il tappeto portava l’impronta del passo di un uomo che aveva bruciato la trama da parte a parte. Per ordine della sua padrona, aprì la porta del salone: non c’erano altre tracce sul tappeto. « Il giorno dopo la sciagurata dama, apprese, con terrore facile da immaginare, che la notte stessa, verso l’una del mattino, il suo lord era stato trovato ubriaco fradicio sotto la tavola, che i suoi servi lo avevano riportato nella sua camera e che era così spirato tra le loro braccia. « Io ignoro, aggiunge il superiore, se questa terribile lezione abbia convertito l’infortunata; ma ciò che so è che ella ancora vive; solo, per nascondere agli sguardi le tracce della sua sinistra bruciatura, porta al polso sinistro, a guisa di braccialetto, una larga benda dorata che non toglie mai, né di giorno né di notte. – « Lo ripeto, ho appreso tutti questi dettagli da un suo parente prossimo, serio cristiano, sulla cui parola io ripongo la massima fiducia. Nella stessa famiglia non se ne parla però mai, ed io stesso che ve lo confido, tengo tutto per me. » Malgrado il velo con il quale è stata circondata questa apparizione, mi sembra impossibile metterne in dubbio la terribile autenticità. E certamente non si avrebbe bisogno della dama dal braccialetto d’oro per provare che esiste l’inferno.

La “bella donna” di Roma

Nell’anno 1873, qualche giorno prima dell’Assunzione, ebbe luogo a Roma una di queste terribili apparizioni dall’oltretomba, che corroborano così efficacemente la verità dell’inferno. – In una di queste case malfamate che l’invasione sacrilega del territorio temporale del Papa ha fatto aprire a Roma in tanti luoghi, una disgraziata ragazza, feritasi ad una mano, deve essere trasportata all’ospedale della Consolazione. O a causa del suo sangue infetto, o per inattese complicazioni, essa muore repentinamente durante la notte. – Nello stesso istante, una delle compagne, che ignora completamente ciò che sta succedendo in ospedale, si mette a gridare disperatamente, al punto da svegliare gli abitanti del quartiere e mettere in subbuglio tutte le miserabili creature di questa casa, provocando addirittura l’intervento della polizia. La morta dell’ospedale le era apparsa circondata da fiamme e le aveva detto: « io sono dannata, e se tu non vuoi finire come me, esci da questo luogo infame, e torna a DIO che hai abbandonato. » Niente può calmare la disperazione ed il terrore di questa giovane che si lamenta fin dall’alba del giorno, lasciando tutta la casa piombare nello stupore, dal momento che si è risaputo della morte della sventurata in ospedale. – Da questo episodio, la “maîtresse” del luogo, una garibaldina esaltata, e conosciuta per tale dai suoi fratelli ed amici, si ammala. Fa così subito domandare del curato della vicina chiesa, San Giuliano dei Banchi. Prima di recarsi in una tale abitazione, il venerabile prete consulta l’autorità ecclesiastica, la quale affida questo compito ad un degno prelato, Mons. Sirolli, curato della parrocchia di San Salvatore in Lauro. Costui, munito di speciali istruzioni, si presenta e per prima cosa pretende dalla malata, alla presenza di numerosi testimoni, di ritrattare gli scandali della sua vita, le blasfemie contro l’autorità del Sovrano Pontefice, e tutto il male che aveva fatto al prossimo. La disgraziata lo fa senza esitazioni, si confessa e riceve il Santo Viatico con gran professione di pentimento e di umiltà. Sentendo che la morte si approssima, supplica nelle lacrime il buon curato di non abbandonarla, spaventata com’è da tutto ciò che è accaduto in quei giorni. Approssimandosi la notte, mons. Sirolli, diviso dall’incertezza di restare, per un atto di carità, al capezzale della morente, o di andar via per non passare la notte in tale luogo, fa richiesta alla polizia di due agenti, che vengono, chiudono la casa e passano tutta il tempo fino all’ultimo respiro dell’agonizzante. Tutta Roma conobbe ben presto tutti i dettagli di questo tragico avvenimento. Come sempre gli empi ed i libertini si presero beffe, guardandosi bene dal trarne insegnamento, i buoni ne profittarono per diventare migliori ed ancora più fedeli ai loro doveri. – Davanti a questi fatti, il cui elenco potrebbe essere molto più lungo, io chiedo al lettore di buona fede se sia ragionevole ripetere, con la folla degli stolti, la famosa frase stereotipata: « se veramente esiste un inferno, com’è che non ne è mai tornato nessuno? » – Ma quando anche, a torto o a ragione non si vorrebbero ammettere i fatti, per altro veritieri, che io ho riportato, la certezza assoluta dell’inferno non sarebbe meno incrollabile. In effetti la nostra fede nell’inferno non riposa su questi fatti prodigiosi, che non sono di fede, ma sulle ragioni di buon senso che noi sempre esponiamo e soprattutto, sulla testimonianza divina, infallibile di Gesù Cristo, dei suoi Profeti e dei suoi Apostoli, così come sull’insegnamento formale, invariabile, inviolabile della Chiesa Cattolica. I prodigi possono corroborare la nostra fede e ravvivarla, ecco perché ci siamo sentiti in dovere di citarne qui qualcuno, capaci come sono oltretutto di chiudere la bocca a coloro che osano affermare: «l’inferno non c’è», e di confermare nella fede quelli che sarebbero tentati di chiedersi; «ma c’è un inferno? », ed infine di consolare ed illuminare ancor più tutti i buoni fedeli che dicono con la Chiesa: « l’inferno certamente c’è! ».

 

Perché tanta gente si sforza di negare l’esistenza dell’inferno.

   Innanzitutto, la maggior parte di questi vi sono troppo direttamente interessati. I ladri, potendo, distruggerebbero la gendarmeria; allo stesso modo, se tutte le persone che “accusano il colpo”, sono sempre disposte a fare il possibile e l’impossibile per persuadersi che l’inferno non esiste, soprattutto un inferno di fuoco, essi sentono, che se ce n’è uno, questo è per loro stessi. – Essi fanno come i vigliacchi, che cantano a squarciagola nella notte oscura al fine di stordirsi e non sentite troppo la paura che li attanaglia. – Per darsi ancora più coraggio, essi cercano di persuadere gli altri che l’inferno non esiste; essi lo descrivono nei loro libri più o meno scientifici e filosofici; essi lo ripetono in alto ed in basso, in tutti i toni, confortandosi gli uni gli altri, e grazie a questo concerto chiassoso, finiscono per credere che nessuno più vi creda, e di conseguenza abbiano il diritto di non crederci nemmeno essi. Tali furono, nell’ultimo secolo, quasi tutti i capi dell’incredulità voltairiana. Essi avevano stabilito come A più B che non ci fosse DIO, né Paradiso, né inferno; essi erano sicuri del fatto loro. E nonostante che la storia sia la, a dimostrare che tutti, gli uni dopo l’altro, in preda ad un orribile panico al momento della morte, abbiano ritrattato, si siano confessati, chiedendo perdono a DIO e agli uomini. Uno di essi, Diderot, scriveva dopo la morte di Alambert: « se non fossi stato colà, egli avrebbe fatto il “tuffo” come tutti gli altri! ». E anche per lui, poco è mancato, che abbia chiesto un prete. Tutti sanno come Voltaire, sul letto di morte avesse due o tre volte insistito perché gli si andasse a cercare il curato di San Sulpizio; i suoi accoliti lo circondarono però così bene che il prete non poté giungere fino al moribondo, che così spirò in un eccesso di rabbia e disperazione. È visibile ancora a Parigi la camera ove accadde questa tragica scena. – Coloro che gridano più forte contro l’inferno, ci credono spesso più di noi altri. Al momento della morte, però, la maschera cade e si vede cosa c’era sotto. Non ascoltiamo pertanto i ragionamenti troppo interessati che detta loro la paura. – In secondo luogo, è la corruzione del cuore che fa negare loro l’esistenza dell’inferno. Quando non si vuole lasciare la vita cattiva che si conduce, si è automaticamente sempre portati a dire, se non a credere, che esso non esiste. Ecco un uomo, di cui il cuore, l’immaginazione, i sensi, le abitudini quotidiane sono impegnati, assorbiti da un amore colpevole. Egli ne è completamente immerso; sacrifica tutto: andategli dunque a parlare dell’inferno! Parlereste ad un sordo. E se talvolta attraverso le crisi della passione, la voce della coscienza e della fede si fa sentire, ben presto egli impone il silenzio, non volendo più ascoltare la verità né dentro né fuori. Tentate di parlare dell’inferno a questi giovani libertini che popolano la maggior parte dei nostri licei, dei nostri negozi, delle nostre officine, delle nostre caserme: essi vi risponderebbero con dei fremiti di collera e accanimenti diabolici, più potenti per essi che non gli argomenti della fede e del buon senso. Essi “non vogliono” che esista l’inferno. Io poco tempo fa ne ho visto uno dal quale mi aveva condotto un barlume di fede. Io lo esortavo, come meglio potevo, a non disonorarsi come faceva, a vivere da cristiano, da uomo e non come una bestia. « Tutto è molto bello e buono, mi rispondeva, e forse è anche vero; ma ciò che io so è che quando questo mi prende, io divento furioso come un pazzo; non capisco più niente, non vedo più niente, e non c’è Dio né inferno che tenga. Se esiste l’inferno, bene, io ci andrò, questo mi è indifferente ». Poi non l’ho più rivisto. E gli avari, gli usurai? E i ladri? Quanti argomenti irresistibili essi trovano per controbattere l’esistenza dell’inferno! Rendere ciò che hanno preso! Mollare il loro oro, i loro scudi! Piuttosto mille morti, piuttosto l’inferno, se è vero che ce n’è uno! – mi diceva un vecchio usuraio normanno, usuraio a settimana, che anche davanti alla morte, non poteva decidersi a lasciare il malloppo. Egli aveva acconsentito, non si sa come, a restituire tali e grosse somme; ma doveva ancora restituire solo otto franchi e cinquanta centesimi: mai il curato poté ottenerle. Il disgraziato morì senza sacramenti. Per il suo cuore di avaro, la misera somma di otto franchi e cinquanta centesimi sarebbero stati sufficienti per sfuggire all’inferno. – Così è per tutte le violente passioni: l’odio, la vendetta, l’ambizione, certe esaltazioni dell’orgoglio. Essi non vogliono sentir parlare dell’inferno. Per negarne l’esistenza, mettono in gioco tutto e più niente conta per loro. Tutta questa gente, quando viene messa con le spalle al muro, magari mediante qualche buona ragione che abbiamo esposto in precedenza, si getta sui morti, sperando così di sfuggire ai viventi. Essi immaginano e dicono che crederebbero all’inferno se qualche morto resuscitasse davanti a loro, ed affermasse che esiste veramente. Pure illusioni, che Nostro Signore Gesù Cristo si è dato Egli stesso la pena di confutare, come andremo a vedere.

Si crederebbe senz’altro di più all’inferno se i morti ritornassero più spesso!

 Un giorno, Nostro Signore, passava per Gerusalemme, non lontano da una casa di cui ancora oggi si vedono le fondamenta, e che era appartenuta ad un giovane fariseo, molto ricco, chiamato Nicenzo. Costui era morto da un po’ di tempo. Senza nominarlo, Nostro Signore prese occasione da quel che era accaduto per istruire i suoi discepoli e la moltitudine di gente che Lo seguiva. « C’era, Egli dice, un uomo che era ricco, vestito di porpora e di lino, e che ogni giorno faceva splendidi banchetti. Alla sua porta giaceva un povero mendicante, chiamato Lazzaro, coperto di piaghe, che avrebbe ben volentieri voluto saziarsi con le briciole cadute dalla tavola del ricco, ma nessuno gliene dava. «Ora giunse il giorno che il povero morì; egli fu portato dagli Angeli nel seno di Abramo (cioè il Paradiso). Il ricco, morì a sua volta; e fu cacciato all’inferno. E là, in mezzo ai suoi tormenti, avendo alzato gli occhi, scorse da lontano Abramo, e Lazzaro nel suo seno. Egli allora si mise a gridare e a dire: « Abramo, padre mio, abbiate pietà di me, e mandatemi Lazzaro che bagni l’estremità del dito nell’acqua perché mi rinfreschi un poco la lingua, poiché io soffro crudelmente in queste fiamme ». Figlio mio, gli rispose Abramo, ricordati che durante la vita hai avuto la tua parte di godimenti, e Lazzaro, di sofferenze. Ora egli è consolato, mentre tu soffri. Almeno, replicò l’altro, vi prego, nella casa di mio padre, io ho cinque fratelli; egli dirà loro che qui si soffre, affinché non sprofondino anch’essi, come me, in questo luogo di tormenti ». « E Abramo gli rispose: Essi hanno Mosè ed i Profeti, che li ascoltino. – No, padre mio, replicò il dannato, questo non è sufficiente. Ma se essi vedranno qualcuno tra i morti, allora essi faranno penitenza. E Abramo gli disse: “se essi non ascoltano Mosè e i Profeti, non crederanno neppure alle parole di un uomo tornato dai morti ». Quella parola grave del Figlio di DIO è la risposta anticipata a tutte le illusioni di persone che, per credere all’inferno e per convertirsi, chiedono resurrezioni e miracoli. Anche se abbondassero intorno ad essi miracoli di qualsiasi natura, comunque non crederebbero. Testimoni i giudei che, alla vista di tutti i miracoli del Salvatore, ed in particolare della resurrezione di Lazzaro a Betania, non trassero altra conclusione, se non questa qui: « Che fare? Ecco tutto il mondo Gli va dietro. Uccidiamolo ». e più tardi, davanti ai quotidiani miracoli pubblici, assolutamente incontestabili di San Pietro e degli altri Apostoli, essi ancora dissero: « Questi uomini fanno dei miracoli e noi non possiamo negarlo. Facciamoli arrestare e proibiamo loro di predicare ancora nel nome di GESU’». – Ecco cosa producono di solito i miracoli e la resurrezione dai morti nelle persone il cui spirito e cuore è corrotto. E quante volte questo si è ripetuto come nella confessione sconvolgente sfuggita a Diderot, uno degli empi più sfrontati dell’ultimo secolo. « Diceva un giorno: se tutta Parigi mi dicesse di aver visto un morto resuscitato, io preferirei credere certamente che tutta Parigi sia diventata folle, piuttosto che ammettere un miracolo ». Io lo so, anche tra i più malvagi, ci può essere una forza residua, ma in fondo le tendenze sono le stesse, c’è il partito preso, ed anche davanti all’evidenza, se un po’ di buon senso residuo impedisce di dire assurdità, c’è una chiusura di indifferenza. Sapete cosa fare per non temere di aver paura dell’inferno? Bisogna vivere in modo tale che non se ne abbia timore. Vedete i veri cristiani, i cristiani casti, coscienziosi, fedeli a tutti i loro doveri: ad essi verrebbe mai in mente di dubitare dell’inferno? I dubbi vengono dal cuore, ben più che dall’intelligenza e, salvo rare eccezioni, dovute all’orgoglio dell’ignoranza, l’uomo che conduce una vita appena corretta, non prova il medesimo bisogno di blaterare contro l’esistenza dell’inferno.

 

 

 

S. IRENEO

S. IRENEO VESCOVO E MARTIRE

[Da: I SANTI PER OGNI GIORNO DELL’ANNO-Alba-Roma, 1933] 

28 GIUGNO.

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Il nome di S. Ireneo si lega colla schiera numerosa di quegli eroi che col glorioso martirio illustrarono la Chiesa di Lione. -Nato Ireneo l’anno 121 nelle vicinanze di Smirne, ebbe per primo precettore l’illustre vescovo di quella città S. Policarpo. Fu da questo insigne maestro che egli succhiò lo spirito apostolico ed apprese quella scienza che lo rese uno dei più belli ornamenti della Chiesa in quei tempi di lotta e di sangue. Ancora giovane, erudito in ogni scienza e dotato di meravigliosa facondia diede un primo assalto alle vituperose dottrine degli Gnostici e Valentiniani che avevano infarcito la dottrina di Cristo colle favole del paganesimo. Ma il desiderio di approfondirsi negli studi, lo spinse a Roma dove, assisi sulle cattedre, insegnavano i più celebri maestri del suo tempo. Di ingegno acuto, sagace memoria, e di profonda speculazione, fu tale il progresso che egli fece in quelle scuole che al fine dei corsi poteva ormai gareggiare con i suoi precettori. – Recatosi Ireneo nelle Gallie fissò la sua dimora a Lione dove sedeva Vescovo S. Potino. Questi conosciuto i talenti e le virtù eminenti del giovane lo promosse agli ordini sacri e al Sacerdozio. – Da quell’istante lo zelo del novello Levita non ebbe più misura. La sua parola trascinava, penetrava i cuori; la sua eloquenza conquideva; cadevano gli idoli e i delubri e la luce della verità irradiava le menti degli idolatri che a schiere chiedevano il S. Battesimo. – All’opera della predicazione quest’insigne dotto della Chiesa accoppiò numerosissimi scritti, fonti inesauribili di dottrina e di sapienza. Scritti che al dire di S. Girolamo, erano una barriera insormontabile dinanzi alla quale venivano ad infrangersi gli sforzi ed i sofismi dei nemici di Cristo della sua mistica sposa, la Chiesa. – Alcuni di essi andarono perduti, ma molti altri si conservano tra i quali i cinque libri contro gli eresiarchi, che sono una delle più belle ed intransigenti difese della Dottrina Cristiana. A questo lavoro di studio egli seppe pure accoppiare una profonda pietà dando i più ammirabili esempi di virtù. – Cinto colla corona del martirio il santo Vescovo Potino, il popolo Lionese unanime elesse alla sede Vescovile S. Ireneo, il quale dovendosi recare a Roma per la consacrazione portò al Papa S. Eleuterio una lettera ridondante del più sacro attaccamento al Vicario di Gesù Cristo, ritornando alla sua sede confortato dalla benedizione del Sommo Pastore. – Conscio della nuova missione che il Signore gli aveva affidato, non si diede più un istante di riposo. Predicò con la parola e con l’esempio, con la potenza dei miracoli, tutto a fine di condurre anime a Colui che tanto amava. – Essendo sorta in quel tempo la questione circa la celebrazione della Pasqua, il Papa Vittore minacciava della scomunica i Vescovi dell’Asia che su questo punto quasi tutti dissentivano dai loro fratelli nell’Episcopato. – S. Ireneo amante della pace vi intervenne colla sua autorità e mise nuovamente la concordia. Dopo queste ed altre numerose fatiche, dopo glorificato il nome di Dio e dilatato il suo regno, sigillò sotto Settimio Severo, col sangue quella fede che aveva predicato e per la quale aveva tanto sofferto. Benedetto XV ne estese la festa a tutta la Chiesa cingendolo coll’aureola del dottorato.

FRUTTO. — Impariamo da S. Ireneo l’attaccamento al Papa  (il “vero” Vicario di CRISTO, da non confondere col vicario dell’anticristo -n.d.r.) e con Lui sappiamo combattere da veri soldati per essere degni di questo nome.

PREGHIERA. — O Dio, che desti al beato Martire e Vescovo Ireneo la grazia di espugnare l’eresia e di consolidare la pace nella Chiesa, deh! concedi al tuo popolo forza e costanza nella S. Religione. Così sia.

Oggi avremmo bisogno di tanti S. Ireneo, per confutare tutte le eresie, imbecillità e menzogne propagate dai settari di ogni risma, in primo luogo da coloro che indegnamente occupano i Sacri Palazzi e le Sedi Apostoliche lordandole con gnostico sterco fetido e disprezzando spudoratamente la dottrina del divino Maestro e la Liturgia Sacra della Chiesa. Preghiamo con S. Ireneo affinché il Signore Gesù-Cristo bruci, quanto prima, con il soffio della sua bocca l’anticristo con il suo vicario e i suoi lecchini già pronti per il fuoco eterno, premio a loro riservato per l’apostasia dalla fede in Cristo.

Intanto ci accontentiamo di leggere il passo di uno scritto del Santo Martire, che sembra parlare a noi per confortarci e confermarci nella fede incrollabile in Gesù-CRISTO e nella sua “vera” Chiesa, ed ai “lupi” ed ai “Caino” odierni. La speranza che qualcuno di questi possa rinsavire, con la grazia dello Spirito Santo, non deve mai lasciarci. Preghiamo!

Da: Libro 3 contro le Eresie cap. 18, ovv. 20, n.5-6

Il Signore conosceva quelli che dovevano subire la persecuzione; e sapeva pure chi erano quelli che sarebbero flagellati ed uccisi per Lui. E perciò esortando anche costoro, diceva: “Non temete quelli che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima. Temete piuttosto colui che può mandare in perdizione all’inferno e l’anima e il corpo” e anche conservare quelli che gli hanno reso testimonianza. Difatti Egli permetteva di riconoscere davanti al Padre suo, quelli che avessero confessato il suo nome davanti agli uomini; e di rinnegare quelli che Lo avessero rinnegato; e di confondere quelli che avessero arrossito di confessarLo. Ora, stando così le cose, alcuni sono giunti a tanta temerità da disprezzare i Martiri e persino vituperare quelli che sono stati uccisi per aver reso testimonianza al Signore, o che sopportano tutte le prove che il Signore ha predetto, e, conforme alla sua parola, si sforzano di seguire le orme del Signore nella sua passione, divenuti i Martiri di Colui che s’è fatto passibile per noi, e noi li contiamo nel numero dei Martiri. Quando sarà ricercato il loro sangue, quando la gloria sarà stata la conseguenza delle loro sofferenze, allora saranno confusi da Cristo tutti quelli che si saranno rifiutati d’onorare il loro martirio. Lo stesso sarà di quelli che dicono aver Egli sofferto solo apparentemente. Perché se Egli non ha patito realmente, nessuna grazia per Lui, non avendo Egli sostenuto nessuna passione; e quando noi cominceremo a soffrire veramente, Egli ci apparirà un seduttore, esortandoci a farci battere e a porgere l’altra guancia, se veramente non l’ha sofferto Egli per il primo. E allora come avrebbe sedotto loro, facendosi vedere ad essi per quel che non era; così sedurrebbe anche noi, esortandoci a soffrire quello che Egli non ha sofferto. In questo caso saremmo da più del Maestro, mentre soffriamo e tolleriamo ciò che il Maestro né avrebbe sofferto, né tollerato. Ma siccome nostro Signore, il solo vero Maestro, il vero Figlio di Dio, è buono e paziente, Verbo di Dio Padre, Egli si è fatto il Figlio dell’uomo. Egli ha lottato ed ha vinto; Egli era uomo e combatteva per la famiglia dei suoi padri, e riparava con l’obbedienza la loro disubbidienza. Egli ha legato il forte, e ha sciolto i deboli, ed ha donato la salvezza sacrificando la sua vita umana, e distruggendo il peccato. Quelli dunque che dicono che Egli non si è manifestato che in apparenza, che non s’è rivestito di carne, che non si è veramente fatto uomo, essi sono ancora sotto l’antica condanna.

L’eresia gnostica.

[Dom Guéranger, “l’anno liturgico” vol II)

La pietra su cui è basata la Chiesa era fin dai tempi di S. Ireneo incrollabile agli sforzi della falsa scienza. Eppure, non era certo un attacco senza pericoli quello della Gnosi, eresia molteplice, dalle trame ordite, in uno strano accordo, dalle potenze più opposte dell’abisso. Si sarebbe detto che, per mettere a prova il fondamento che aveva posto. Cristo avesse permesso all’inferno di saggiare contro di esso l’assalto simultaneo di tutti gli errori che si dividevano allora il mondo, oppure dovevano più tardi dividersi i secoli. Simon Mago, preso da Satana nelle reti delle scienze occulte, fu scelto come luogotenente del principe delle tenebre in questa impresa. Smascherato a Samaria da Simon Pietro, aveva iniziato contro di lui una lotta accanita che non ebbe termine purtroppo nemmeno alla morte del padre delle eresie, ma continuò più viva ancora nei secoli seguenti. Saturnino, Basilide, Valentino e molti altri escogitarono i sistemi più insidiosi e più stravaganti, lasciando libero sfogo agli istinti che faceva nascere intorno ad essi la corruzione della mente e del cuore. Nei loro sistemi trova connubio la coalizione delle filosofie, delle religioni e delle aspirazioni più contraddittorie della umanità. Non vi erano aberrazioni, dal dualismo persiano, dall’idealismo indù fino alla cabala ebraica e al politeismo greco, che non si dessero la mano nel santuario segreto della gnosi. Già si elaboravano in essa formule che annunziano le future eresie ldi Ario e di Eutiche. Già prendevano movimento e vita, in uno strano romanzo panteistico, le più bizzarre fantasie di certe metafisiche moderne. Dio, abisso che precipita di caduta in caduta fino alla materia, per prendere coscienza di se stesso nell’umanità e tornare mediante l’annientamento al silenzio eterno: era uno dei dogmi della gnosi sul quale si basava una morale talora rigorista fino al punto da spingere al suicidio cosmico, e che talora mescolava una mistica trascendente alle pratiche più immonde, o abbandonava l’uomo alle sue passioni. (Oggi la gnosi, oltre che infarcire di assurdità irrazionali le cosmogonie e le teogonie delle conventicole massoniche di tutte le obbedienze – anche se unica è l’obbedienza al baphomet-lucifero -, impregna la nuovelle théologie creata dalla menti di falsi e sacrileghi religiosi, menti bacate col verme del materialismo, del nichilismo e dell’ateismo anti-sovrannaturale, proprio oggi della setta ecumenista-montiniana attualmente usurpante –n.d.r.-).

Sant’Ireneo fu scelto da Dio per opporre alla gnosi gli argomenti della sua potente logica e ristabilire contro di essa il vero senso delle Scritture; egli eccelse ancor più quando, di fronte alle infinite sette che recavano così apertamente il marchio del padre della discordia e della menzogna, mostrò la Chiesa che custodiva piamente in tutto il mondo la tradizione ricevuta dagli Apostoli. La fede nella SS. Trinità che governa questo mondo opera delle sue mani, nel mistero di giustizia e di misericordia che, mentre abbandonava gli angeli decaduti, si è abbassato fino alla nostra carne in Gesù, ecco il deposito che Pietro e Paolo, che gli Apostoli e i loro discepoli avevano affidato al mondo (Contr. Haer. I, 10, 1). « La Chiesa dunque – costata sant’Ireneo – avendo ricevuto questa fede, la custodisce gelosamente, facendo come una sola casa della terra in cui vive dispersa: essa crede compatta, con una sola anima e con un sol cuore; con una stessa voce predica, insegna e trasmette la dottrina, come se avesse una sola bocca. Poiché, per quanto nel mondo siano diversi gli idiomi, ciò non impedisce che la tradizione resti una nella sua linfa » (ibid. 2).

La strana sindrome di nonno Basilio: 25

La strana sindrome di nonno Basilio -25-

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   Caro direttore, sono di nuovo qui con questa mia nuova, sperando di non seccare oltremodo lei ed i suoi cortesi lettori, e le chiedo ancora una volta umilmente scusa e se possibile il suo aiuto perché, da quando abbiamo iniziato le discussioni circa il neo-modernismo esploso nella Chiesa attuale, evoluzione (o sarebbe meglio dire forse: involuzione ulteriore) del “modernismo”, a suo tempo vigorosamente denunciato ed anatemizzato dal Santo Padre Pio X nell’Enciclica “Pascendi” e nel decreto “Lamentabili”, si è aperta una vivace discussione tra i miei carissimi nipoti, Mimmo e Caterina, e me che, reduce dai miei altalenanti ed instabili problemi di memoria, faccio notevole fatica ad identificare come “cattolici” riti, comportamenti e orientamenti vari che a me sembrano eccessivamente fantasiosi, stravaganti, e soprattutto assolutamente non in linea con la “Tradizione” della Santa Chiesa Cattolica Romana, Cattedra di verità, così come “depositum fidei” definita da ben venti Concili e da oltre 260 Papi, a cominciare da San Pietro, fino a quel sant’uomo, integerrimo Pastore, Guida del gregge di Giacobbe autorevole ed irreprensibile, che è stato il “mio” papa Pio XII, e sostenuta da una Patristica ferrea oltre che da una teologia scolastica razionalmente inattaccabile. (Mi dice Mimmo che San Tommaso e la sua “Summa”, oramai non fanno parte più del bagaglio del moderno sacerdote, anzi che alcuni lo confondono con San Tommaso apostolo, e qualcuno addirittura con san Tommaso Moro! … ma io so che Mimmo mi prende in giro e si burla di me … anche perché, lui dice, ormai il latino non si studia più nei seminari! Lo so che sono mattacchionate di quel giocherellone di Mimmo (è del tutto evidente che si tratta di affermazioni infondate, … o no, le pare?!) ma riesce comunque a farmi innervosire … bah, questi giovani!. Ma veniamo ai fatti: stavo consultando l’antico Messale Romano Tridentino, quello edito da S. Pio V, poi da Clemente VIII e quindi Urbano VIII, che mi ha lasciato (autentica eredità spirituale) il caro zio Tommaso, utilizzato per tanti anni e poi finito in soffitta perché sostituito da un messale in vernacolo, e alla Messa “Misericordia Domini”, la seconda domenica di Pasqua, all’antifona alla Comunione leggevo il versetto: “Ego sum pastor bonus, alleluia: et cognosco oves meas, et cognoscunt me meae, alleluia, alleluia”.(Io sono il buon pastore, alleluia: conosco le mie pecore, ed esse conoscono me, alleluia, alleluia! Giov. X, 14) che poi è la ripresa del Vangelo di Giovanni, al capitolo X. In questo capitolo, il Signore Gesù affigge un manifesto circa le caratteristiche del sacerdote cattolico, che doveva rispecchiare il ritratto che già era stato delineato nell’Antico Testamento a cominciare da Melchisedek, tratteggiato e colorito progressivamente dai Profeti e dai Salmi. Così ad esempio in Malachia (II, 7) possiamo leggere :Labia enim sacerdotis custodient scientiam, et legem requirent ex ore ejus, quia angelus Domini exercituum est” [Infatti le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l’istruzione, perché egli è messaggero del Signore degli eserciti]. Le citazioni potrebbero essere numerose, ed ognuno può divertirsi a trovarle, cominciando dal versetto del Salmo CIX, 4 “Juravit Dominus, et non poenitebit eum: Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech.” [Il Signore ha giurato e non si pente: “Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek] .Ma non sempre i sacerdoti hanno fatto il loro dovere, e questo fin dall’antichità, tanto che Dio stesso, per bocca dei suoi profeti, è intervenuto per richiamarli. Tali richiami, caro direttore, come ognuno purtroppo può osservare nel suo piccolo, sono particolarmente attuali oggi, mi sembra di capire da quello che i miei nipoti mi riferiscono. Sfoglio le pagine della Bibbia, che ho sempre con me, “luce dei miei passi”, e mi capita sott’occhio il tremendo inizio del capitolo XXXIV di Ezechiele, che lei certamente conoscerà, capitolo che viene solitamente letto, stranamente, dal versetto 11 in poi; io me lo ricordo bene perché lo zio Tommaso, sacerdote straordinario che ha improntato la mia giovinezza (ah … se lo avessi ascoltato, quanti guai avrei evitato … ma tante cose da giovani non si comprendono … e poi dicono beata gioventù!…) lo rileggeva spesso in nostra presenza per richiamare e confermare la sua vocazione, ben conscio della responsabilità che questa comportava davanti a Dio e al suo Cristo. Pensi che noi nipoti lo avevamo quasi imparato a memoria … ma chi lo conosceva “a campanello” era, ovviamente quella secchiona di Felicina (mi pare di averne già parlato … o no?). Adesso che la mia memoria non è più esattamente prodigiosa, ecco che me lo rileggo e le ricordo pure a lei, se mi consente: “Et factum est verbum Domini ad me, dicens: Fili hominis, propheta de pastoribus Israel: propheta, et dices pastoribus: Haec dicit Dominus Deus: Vae pastoribus Israel, qui pascebant semetipsos! nonne greges a pastoribus pascuntur? Lac comedebatis, et lanis operiebamini, et quod crassum erat occidebatis, gregem autem meum non pascebatis. Quod infirmum fuit non consolidastis, et quod aegrotum non sanastis: quod confractum est non alligastis, et quod abjectum est non reduxistis, et quod perierat non quaesistis: sed cum austeritate imperabatis eis, et cum potentia. Et dispersae sunt oves meae, eo quod non esset pastor: et factae sunt in devorationem omnium bestiarum agri, et dispersae sunt. Erraverunt greges mei in cunctis montibus, et in universo colle excelso: et super omnem faciem terrae dispersi sunt greges mei, et non erat qui requireret: non erat, inquam, qui requireret. Propterea, pastores, audite verbum Domini: Vivo ego, dicit Dominus Deus, quia pro eo quod facti sunt greges mei in rapinam, et oves meae in devorationem omnium bestiarum agro, eo quod non esset pastor: neque enim quaesierunt pastores mei gregem meum, sed pascebant pastores semetipsos, et greges meos non pascebant: propterea, pastores, audite verbum Domini: Haec dicit Dominus Deus: Ecce ego ipse super pastores: requiram gregem meum de manu eorum, et cessare faciam eos, ut ultra non pascant gregem, nec pascant amplius pastores semetipsos: et liberabo gregem meum de ore eorum, et non erit ultra eis in escam. [Mi fu rivolta questa parola del Signore: “Figlio dell’uomo, profetizza contro i pastori d’Israele, predici e riferisci ai pastori: Dice il Signore Dio: Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso la forza alle pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e son preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando tutte le mie pecore in tutto il paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura. Perciò, pastori, ascoltate la parola del Signore: Com’è vero ch’io vivo, – parla il Signore Dio – poiché il mio gregge è diventato una preda e le mie pecore il pasto d’ogni bestia selvatica per colpa del pastore e poiché i miei pastori non sono andati in cerca del mio gregge – hanno pasciuto se stessi senza aver cura del mio gregge – udite quindi, pastori, la parola del Signore: Dice il Signore Dio: Eccomi contro i pastori: chiederò loro conto del mio gregge e non li lascerò più pascolare il mio gregge, così i pastori non pasceranno più se stessi, ma strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto] (Ezech. XXXIV, 1-10). E alla fine della lettura, ricordo lo zio Tommaso, che per rincarare la dose diceva a se stesso: “povero Signore in mano a Tommaso, e … che non si dica dopo la mia morte: povero Tommaso nella mani del Signore!” … eh altri tempi, altra tempra direttore! Come se non bastasse ci faceva poi recitare tutti all’unisono i versetti di Isaia: “I suoi guardiani sono tutti ciechi, non si accorgono di nulla. Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare; sonnecchiano accovacciati, amano appisolarsi. Ma tali cani avidi, che non sanno saziarsi, sono i pastori incapaci di comprendere. Ognuno segue la sua via, ognuno bada al proprio interesse, senza eccezione. (Isaia LVI,10-11). A questo punto partiva quella secchiona di Felicina con la recita dei salmi XIV e LIII soffermandosi, come voleva lo zio Tommy (come affettuosamente lo chiamavamo … era un po’ severo, ma aveva un cuore d’oro ….) sulle parole: “Omnes declinaverunt, simul inutiles facti sunt. Non est qui faciat bonum, non est usque ad unum. Sepulchrum patens est guttur eorum; linguis suis dolose agebant. Venenum aspidum sub labiis eorum. Quorum os maledictione et amaritudine plenum est; veloces pedes eorum ad effundendum sanguinem. Contritio et infelicitas in viis eorum, et viam pacis non cognoverunt; non est timor Dei ante oculos eorum. Nonne cognoscent omnes qui operantur iniquitatem, qui devorant plebem meam sicut escam panis? [Tutti hanno traviato, sono tutti corrotti; più nessuno fa il bene, neppure uno. Non comprendono nulla tutti i malvagi che divorano il mio popolo come il pane?] (Salmo XIII, 3-4), e “Omnes declinaverunt, simul inutiles facti sunt; non est qui faciat bonum, non est usque ad unum” [Tutti hanno traviato, tutti sono corrotti; nessuno fa il bene; neppure uno]. (LII,4). Appena finito lo zio scoppiava in lacrime, e noi non capivamo perché … piangeva, ci disse un giorno, perché vedeva le proprie incorrispondenze, le ingratitudini sue e quelle dei suoi confratelli all’amore di Cristo che si faceva Carne e Sangue vivo nelle loro mani, la loro superficialità nel celebrare l’Evento del suo Sacrificio, della sua Immolazione, per la nostra salvezza. Per calmarlo e consolarlo almeno in parte, correvo allora a prendere l’“Imitazione di Cristo” e leggevo con piglio fermo e deciso al capitolo V del IV° libro: “Grande è l’ufficio, grande la dignità dei sacerdoti, ai quali è dato quello che non è concesso agli angeli; giacché soltanto i sacerdoti, ordinati regolarmente nella Chiesa, hanno il potere di celebrare e di consacrare il corpo di Cristo. Il sacerdote, invero, è servo di Dio: si vale della parola di Dio, per comando e istituzione di Dio” e: “Il sacerdote deve essere ornato di ogni virtù e offrire agli altri l’esempio di una vita santa; abituale suo rapporto non sia con la gente volgare secondo modi consueti a questo mondo, ma con gli angeli in cielo o con la gente santa, in terra. Il sacerdote, rivestito delle sacre vesti, fa le veci di Cristo, supplichevolmente e umilmente pregando Iddio per sé e per tutto il popolo. Egli porta, davanti e dietro, il segno della croce del Signore, perché abbia costante ricordo della passione di Cristo; davanti, sulla casula, porta la croce, perché guardi attentamente a quelle che sono le orme di Cristo, e abbia cura di seguirla con fervore; dietro è pure segnato dalla croce, perché sappia sopportare con dolcezza ogni contrarietà che gli venga da altri. Porta davanti la croce, perché pianga i propri peccati; e la porta anche dietro, perché pianga compassionevolmente anche i peccati commessi da altri, e sappia di essere stato posto tra Dio e il peccatore, non lasciandosi illanguidire nella preghiera e nell’offerta, fin che non sia fatto degno di ottenere grazia e misericordia. Con la celebrazione, il sacerdote rende onore a Dio, fa lieti gli angeli, dà motivo di edificazione ai fedeli, aiuta i vivi, appresta pace ai defunti e fa di se stesso il dispensatore di tutti i benefici divini”. Allora succedeva un’altra cosa stranissima, lo zio si calmava ma uno alla volta cominciavamo a piangere noi altri, finché io stesso, con la voce strozzata dalle lacrime, ponevo termine alla lettura. Con gli occhi rossi dal pianto, commosso … però vedo che pure Mimmo e Caterina si voltano per non mostrare la lacrimuccia … saluto lei ed i suoi lettori … alla prossima.