J.-J. GAUME: La profanazione della DOMENICA [lett. VI]

LETTERA VI.

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LA PROFANAZIONE DELLA DOMENICA

ROVINA DELLA LIBERTÀ.

25 aprile.

I.

Signore e caro amico,

Avete voi la caritatevole ed interessantissima idea di divertire un certo numero dei vostri colleghi, e di veder da vicino i loro smodati sghignazzamenti d’incredulità; o meglio ancora, siete voi solleticato dal prurito di sentirvi tacciare voi stesso di reazionario, e me di gesuita? – In questo caso v’indico un mezzo di conseguire infallibilmente l’uno e l’altro. – Comunicate a’ quei certi tali signori, i quali seggono in sulla montagna rossa, ed anche in sulla montagna bianca, questa lettera, dove io pretendo stabilire che la profanazione della domenica è la rovina della libertà. Siccome deggio io attendermi che un fitto nembo d’infuocale obiezioni d’ogni lato mi si scaglierà addosso, così voi giudicherete atto prudente, se comincio io con mettermene al coperto: nelle guerre di discussione il vero scudo è la logica. Per essere in tutta regola, la logica proceder deve da definizioni inespugnabili, e svilupparsi in induzioni rigorosamente concatenate le une colle altre: egli è di somigliante guisa che la rosa spunta dal bottone, e questo dalla semenza. Fermati sì i miei preliminari, vengo io alle definizioni, e domando: Che cosa mai è la libertà? Quali ne sono i limiti? quale n’è la base, e la condizione?

II.

Noi possiamo, signore e caro amico, dirittamente ripetere della libertà, ciò che vi diceva d’una celebre istituzione: « Molto ne parlarono, ma assai poco l’hanno conosciuta. In sulle prime, a’ giorni nostri incontransi pel mondo milioni di mortali i quali riguardano la libertà come il diritto di fare tutto quello che si vuole. Se così si passasse la cosa, mi spiccerei di presto presto stringere il mio bordone, ed intascare il mio breviario, per andar ad abitare l’impero della luna; e ciò per un’eccellente ragione: imperciocché diverrebbe inabitabile la terra. – Ammettiamo, in effetti, che la libertà sia il diritto per ciascuno di spacciare, e fare tutto quello che gli frulla pel capo, senza altra norma che i suoi capricci; supponiamo di seguito un paese godentesi di simile avventurosa libertà. Ecco un uomo, il quale lacera la vostra riputazione, come una fiera affamata sbrana la sua preda. Voi gliene chiedete la ragione. — La ragione? E questa, che io son libero di far quanto più mi piace. — Ah! tu sei libero di squarciar la mia riputazione, e di questo ti compiaci! Io sono dunque anche libero di deturpar la tua, e vi trovo il mio diletto: ed ecco due cittadini, i quali, in virtù della libertà, s’avventano tutte le ingiurie immaginabili. – Eccovene un altro, il quale abbordandovi con amorevole aria , vi infligge un violento mostaccione, e vi ruba la vostra borsa. — Birbante! gli dite voi, non contento di percuotermi, tu mi derubi? Ehi sì, io sono libero di farlo, e ciò mi piace.— Ahi tu sei libero di schiaffeggiarmi e di spogliarmi? Io dunque sono altresì libero di renderti la pariglia. Ed ecco due cittadini i quali, in virtù della libertà, si ripicchiano come de’ pugilatori, e si depredano come de’ briganti: o la libertà concede somiglianti diritti, o no. Se essa il dona, con senno io premisi che la contrada, sommessa al suo impero, è piena di gravissimi pericoli; se essa non li dà, bisogna necessariamente riconoscere che la libertà si rinchiude in certi limiti.

III.

Quali sono questi limiti? Prima di dirlo, conchiudiamo che la libertà non è, né può essere il diritto di tutto fare. Assai più, benché l’uomo libero possa operar il bene ed il male, il potere d’agir male nulladimeno non è essenziale alla libertà, altrimenti Iddio non sarebbe libero, o la sua libertà sarebbe meno perfetta di quella del mortale; altrimenti ancora, tutte le leggi delle nazioni sarebbero dei mostruosi attentati, giacché tutte hanno come scopo d’incatenare la possanza di fare il male, ed il sig. Proudhon avrebbe ragione di sostenere che l’anarchia è lo stato normale dell’uomo. La libertà, non consistendo né nel potere d’eseguir tutto ciò che uno vuole, né nella facoltà di commettere il male, essa deve pertanto definirsi: la possanza di far il bene, o ciò che amo meno, il diritto di fare quello, che non nuoce ad alcuno. – Mi domanderete ora voi quali sono i limiti della libertà?! limiti dalla libertà, vi diceva, sono i diritti altrui Per altrui, io intendo Dio, il prossimo e noi medesimi, se voi lo permettete. Epperciò colui solo è libero, e merita tale esser denominato, che, nelle sue parole e nelle sue azioni, rispetta ogni diritto, od in altri termini, che compie tutti i suoi doveri verso di Dio, de’ suoi simili, e di se stesso. – Questi doveri hanno la ragione e regola loro nella volontà infallibile dell’Eterno. Donde questa conseguenza inevitabile, che l’uomo, o il popolo il più libero è quegli che rincontra il meno di ostacoli per compier la volontà dell’Altissimo in ogni cosa, e che la compisce il più fedelmente. – Tale è la definizione insieme cotanto sublime, e semplice che la Scrittura stessa ci presenta della umana libertà: servire a Dio, dice questa, egli è regnare [“Servire Deo regnare est”.]

IV.

Ora, due ostacoli permanenti s’oppongono a questa possanza del bene, e tendenti conseguentemente a violar la libertà dell’uomo: vale a dire le proprie passioni e le passioni altrui. Egli è un fatto, che ciascun mortale si trova inquietato nel cerchio de’ suoi doveri, che egli prova, non so, quale secreto prurito d’uscirne, e così usurpare in sui diritti dell’Onnipotente, de’suoi simili, e della sua anima stessa in favore del suo corpo. Per non esser vinto è costretto di rimanere costantemente sotto le armi. Anzi, tale è la violenza della lotta, che i più valorosi, travagliati di codesta, gridano gemendo : Infelice che io mi sono! Non faccio il bene, il quale voglio, ed opero il male, che io ho in odio (“Non enim quod volo bonum, hoc ago: sed quod odi malum, illud facio”. (Rom . VII, 45.). – Infino a tanto che il mortale non è pervenuto a signoreggiare codeste possanze focose, egli è schiavo. In questa qualità, voi lo vedete trascinarsi colla corda al collo verso tutto ciò che vi è d’opposto al dovere, e la sua libertà non sembra più essere che la funesta possanza di eseguir il male, ed accade per anco che più non la sente, che più non la comprende che per essa, ed in questo strano rovesciamento egli appella impedimento, tirannia, dispotismo tutto quello che tende a liberare in lui la possanza del bene, restringendo in catene quella del male. Allora, qualunque sia il suo nome, ogni autorità lo grava; egli l’insulta in se stesso, egli l’abbomina, egli ad essa maledice. Per toglierle il prestigio della medesima, egli la mette in derisione, ed il suo più ardente anelito è di vedere il giorno, in cui potrà spezzarne Io scettro, e gettarne i pezzi nell’insanguinato fango dei crocicchi. Che un uomo, che un popolo, che un mondo riescano in questa cieca lotta contro la propria libertà loro: tostamente le passioni erette in leggi diventano novelli e formidabili ostacoli alla libertà di tutti. Il bene più non si può compiere, che a pericolo della fortuna o della vita; e il martire solo rimane indipendente.

V.

È cosa dunque evidente che l’affrancamento dalle passioni, o la libertà interiore è la sorgente della libertà esteriore. – Una persona, un popolo corrotto, che parla di libertà, è un cieco che ragiona de colori; un uomo, un popolo corrotto che si vanta di pervenire alla libertà rovesciando Iddio da’ suoi altari, i Re dal trono loro, è un forsennato, il quale schianta le dighe d’un fiume per impedirne l’inondazione. Signor no, e mille volle no, la libertà giammai ebbe per madre, né per sorella la corruzione, giammai per piedestallo un pavimento imbrattato di sangue, giammai per malleveria uno straccio di caria in sul quale è scritto, finanche in aurei caratteri: Libertà, ugualità, fraternità. La libertà è figliuola del coraggio e compagna della virtù : essa posa la sua base ne’ profondi ripostigli del cuore. Qualunque cuore immune dalla tirannia delle passioni è libero ; se esso non trovasene esente, può usurpare il nome della libertà, ma la realtà gli manca: quello non ha che la licenza, e la licenza è proprio la schiavitù. In una parola, nei nostri tempi d’illusione e di menzogna, permettete voi, che v’insista sovra di questo punto essenziale: la corruzione è la tirannia de’ vizi; la tirannia de1 vizi è la schiavitù delle anime; la servitù delle anime è il presagio infallibile della schiavitù dei corpi. – Ogni popolo corrotto è schiavo del diritto; esso è un armento esposto sopra una piazza di fiera, il quale non attende che il compratore. Voi sapete che l’Àbd-el-Kader di sua epoca, Giugurta, gettò codesta fulminante predizione in sulla faccia della regina del mondo, e Giugurta diceva il vero; e la sua parola non invecchiò punto: di modo che dobbiamo noi tener per certo che il popolo il più vicino alla schiavitù è il popolo il più corrotto, a meno che sia condannato esso a perire [“Urbem venalem et mature perituram si emptorem invenerit” (Salt. in Jugurth.)].

VI.

Ma chi può affrancare i figliuoli d’Adamo dalla tirannia delle passioni? Nelle epistole precedenti, noi lo abbiamo, anzi meglio abbiamo noi dimostrato, che una cosa sola n’è capace: la Fede. Ora non evvi Fede senza religione, e non vi è religione colla profanazione della domenica: noi ne abbiamo pure allegato la prova. Ammonimento pertanto al secolo nostro che non desidera che libertà, non discorre che di libertà, non travaglia se non per la libertà, e dice di non poter vivere senza libertà. Ebbene nel suo linguaggio e nel suo culto egli è sincero, o no. Se egli è sincero, che prenda dunque i mezzi per toccarne il fine: li conosce ora. Né le leggi, né le forme governamentali, né le rivoluzioni, né le utopie, né i ragionamenti, né le agitazioni febbrili, né gli ammutinamenti, né le barricate cangeranno la natura delle cose: la libertà è incompatibile colla corruzione; la corruzione regna dappertutto ove non domina la fede; la fede cessa dal dominare dovunque la legge sacra della domenica è disprezzata. Infra i due scelga, abbracci, o rigetti. Se esso, non è sincero, io ho nulla a replicargli: il solo sentimento, che possa inspirare, è una profonda pietà.

VII.

A questo punto di vista generale, e come rovina della religione, la profanazione della domenica è dunque realissimamente la rovina della libertà. Essa lo diventa ancora per una ragione più diretta e più sensibile. Di fatto, la Costituzione proclama la libertà dei culti. – Se non è questo un vano parolone, niuno ha il diritto d’insultare al culto cattolico, il quale, al postutto, è il culto della maggiorità. Con assai più di dirittura poi, niuno ha diritto d’impedire i cattolici di compiere i precetti di loro religione. – Or bene, io vi domando, sig. Rappresentante, che cosa è la profanazione della domenica, se non un atroce insulto gettato periodicamente in sulla Caccia del Cattolicesimo, un oltraggio odioso fatto a tutto ciò che havvi de’ cristiani fedeli? Eegli nel maltrattarli o nel lasciarli malmenare in tutto quello che hanno essi di più sensibile, che il governo spera guadagnarsi le simpatie delle popolazioni religiose delle nostre provincie? Il suo interesse non gli comanda forse d’usar loro riguardo? Non è forse ancora qua che ritrovatisi i principi d’ordine, di fedeltà, d’ubbidienza, ultimo argine all’inondazione che minaccia d’invaderci? – Qui non sta il tutto; la profanazione della domenica è un attentato diretto alla libertà d’una folla di negozianti, appaltatori ed operai. Codesta forza i negozianti cattolici a trasgredir la legge sacra della domenica aprendo i magazzini loro, inchiodandoli al loro banco, per vendere a chi si presenta, sotto pena di perdere le pratiche loro, di mancare la vendita, e di non esser in grado, nel giorno della scadenza, di soddisfare ai loro impegni. Codesta vi sforza gli appaltatori, e l’industriale sotto pena di soccombere alla concorrenza esuberante, che faranno altri confratelli meno fedeli di loro. Soprattutto codesta vi sforza l’operaio. — Domani è domenica, non verrò io a lavorare, dice quegli il sabato sera al suo padrone, ricevendo la sua paga. — Quest’appartiene a te ; ma, se tu non ci torni domani, tu puoi cercare lavoro altrove: e’1 povero padre di famiglia, che campa soltanto in grazia di sue braccia, e con queste sostenta i suoi figliuoli, si vede costretto di profanare il giorno di domenica. Se fossero cristiani, si va ciaramellando, così questi, come gli altri profanatori della domenica, essi saprebbero bene conservar la libertà loro, e tenersi per regola la sentenza del loro maestro nella fede: esser meglio ubbidire a Dio, che agli uomini; quindi, rifiutandosi di vendere o lavorare, s’abbandonerebbero alle cure della Provvidenza. Voi comprendete facilmente, che io sono lontano d’applaudire alla condotta degli uni o degli altri. Ma bisogna convenir parimente che il costringimento morale, col quale si angariano, non tralascia però di diventare una violazione della libertà. – Ignorasi forse, che il lavoro rigettato dagli operai buoni cristiani, sarà offerto ad operai meno fedeli, e verrà accettato? Non è cosa forse chiara, che le pratiche concorrono di preferenza presso colui che soddisfa più prontamente alle loro domande? – Ora, è cosa morale il danneggiare ne’ suoi interessi il cristiano fedele alla sua religione, ed assicurare un guadagno a chi si burla delle leggi religiose? – È cosa giusta, e ciò a disprezzo della stessa legge civile, di porre in ogni domenica i cattolici tra il loro interesse e il loro dovere? È egli permesso d’esporli ad una tentazione permanente, alla quale nonostante la loro volontà, un grandissimo numero si lascia trascinare? Il governo se tollera un cotale abuso, o l’autorizza pel suo esempio per anche, è esso il protettore sincero della libertà? – È desso il custode leale della Costituzione? Giudicatene voi. Frattanto, irremovibilmente viene statuito» che la profanazione della domenica è la rovina della vera libertà, che codesta trucida nel suo principio, e la violazione in flagrante della libertà religiosa, consacrata dalle leggi; di maniera che codesta tende a far di noi un popolo di schiavi. In grazia di codesta, ricchi e poveri sono schiavi. Codesta ribadisce al collo loro le catene delle passioni, come il sonaglio al piede dello schiavo, il negoziante è schiavo; codesta lo lega al suo banco, come il janitore janitor dei Romani alla guardia della casa. L’appaltatore è schiavo; codesta lo fissa al suo uffizio, e lo muta in una macchina di calcolo. L’operaio è schiavo, codesta l’inchioda al suo mestiere, alla sua officina, alla sua incudine, come le ruote secondarie sono inchiodate alle ali d’una macchina a vapore. Gradite, ecc.

Omelie del S. NATALE –

 

Omelie del S. NATALE

S. S. Gregorio XVII

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Messa del Giorno (1973)

La difficilissima pagina del Vangelo (Gv I, 1-18) che avete ora ascoltato, che costituisce il prologo del quarto Evangelo, quello di Giovanni, dà però la risposta di due gravi domande. – La prima è: chi è Colui del quale oggi celebriamo la natività? La seconda: ma che cosa è venuto a fare? Vediamo la risposta che dà il difficilissimo brano, che evidentemente non possiamo commentare adeguatamente per limiti di tempo, e non solo di quello. Chi è? La risposta è questa: è Dio, è il Verbo di Dio. Naturalmente a questo punto dobbiamo sentire la maestà del Signore. Noi facciamo distinzioni in questo mondo, e in tutto il creato del resto, tra maestà, amore, giustizia, misericordia, e via discorrendo. In Dio tutto è unico, tutto s’identifica: la maestà è l’amore, l’amore è la giustizia, la giustizia è la misericordia. Per noi tutte queste cose sono distinte e divise, perché siamo piccoli, siamo imperfetti e pertanto non siamo infiniti. E Dio. Ma è il Verbo. Che cosa significa questo? Significa che in Dio c’è un rapporto d’intelletto. Il primo termine di questo rapporto intellettuale si chiama il Padre; il secondo termine si chiama il Verbo, il Figlio. E perché si usa la parola “Verbo”? E maggiormente propria la parola greca “Logos”, usata nel testo originale da Giovanni l’Evangelista. La parola “Verbo” significa la parola; ma quale parola? La parola intellettuale, cioè l’idea. Ed è questo il termine, imperfetto certo, ma vero, che serve ad identificare il secondo termine di questo eterno rapporto di intelletto che è in Dio. Siamo obbligati ad entrare nella vita di Dio oggi. Facciamolo con riverenza infinita, perché le cose divine a noi non possono arrivare se non calate e pertanto rimpicciolite nei termini delle nostre rappresentazioni intellettuali. Ma la constatazione di questi termini, che sono veri, ma che non possono adeguare la realtà rappresentata, deve infondere in noi un senso profondo di rispetto, di ammirazione, di adorazione. Ecco Colui che è nato a Betlemme. E’ così. Se non fosse così, perché tanta festa? Perché si dovrebbe oggi il mondo fermare? Perché oggi si ferma il mondo, anche quello non cristiano, e c’è in questo nostro povero mondo un momento di fede per tutti e, penso, anche di pace per tutti. – La seconda domanda: ma che cosa è venuto a fare? Do la risposta che dà il testo letto. E venuto per essere con gli uomini. Come mai si è fatto uomo? Come si è fatto uomo? Ha assunto una natura umana, identica alla nostra, anima e corpo. Strano? No, difficile, strano no. Dio, che ha creato tutto, anche la natura umana, può assumere tutto quello che crede ed elegge per esser vicino alle Sue creature, e nessuno ha diritto di meravigliarsi di quello che fa Iddio. Noi comunichiamo con i nostri simili mediante la fonazione, la voce; possiamo usare anche dei gesti e possiamo usare dei simboli, la scrittura. Non abbiamo altro per comunicare coi nostri simili. Dio ha tutto, tutto è nelle Sue mani. La docilità dell’atto creativo è la docilità di qualunque assunzione nei termini della Provvidenza Divina. Difficile sì, strano no. Naturalmente, qui c’è il mistero. E perché si è fatto uomo per essere con gli uomini? Con che scopo? Non certo un viaggio turistico sul nostro pianeta; queste sono sciocchezze che vanno bene per i circhi! La ragione è un’altra, e qui c’è una questione che bisogna affrontare. Chi ha ascoltato con attenzione il prologo giovanneo dianzi letto avrà notato che in tutto il brano non si fa alcun cenno alla Redenzione dal peccato. Forse è dimenticata? No. E che questo brano vuol ricordare al mondo la prima ed essenziale ragione per cui il Figlio di Dio si è fatto uomo. La questione sta in questo: se il Figlio di Dio si fosse fatto uomo unicamente per riparare il peccato – il che è ero -, l’iniziativa di quest’opera grande dell’Incarnazione e della Redenzione la avrebbe avuta il peccato, il male, e sarebbe affermare il pessimismo e negare Dio, e non è così. Se non avessimo questa pagina del Vangelo, avremmo dovuto piegare la fronte ad un mistero di più. Questa pagina del Vangelo ci dà la quiete. E come se dicesse: “State tranquilli: l’iniziativa non è del male, ma del bene”. L’iniziativa è di Dio, perché ha voluto. Dice il testo evangelico: ecco perché è venuto, la ragione assoluta che avrebbe avuto valore anche se non ci fosse stato il peccato negli uomini: rendervi figli di Dio (Paolo avrebbe spiegato dopo: “adottivi”). Ecco lo scopo. Siccome veniva per questo scopo, ha assunto anche l’altro: redimere dal peccato. E per questo motivo, è per quello che è rivelato da questo brano del Vangelo che noi sappiamo, che la precedenza l’ha il bene non il male, che la vittoria l’ha il bene non il male. E da questo deduciamo che il bene vivifica sempre e il male si distrugge da sé. Attenzione a quelli che vogliono mettersi dalla parte del male: sappiano che il male si distrugge da sé. Oltre alle altre umiliazioni, ha anche questa. E ben gli sta! – Ecco che cosa è venuto a fare il Figlio di Dio: a fare di noi dei figli adottivi di Dio stesso. E questa filiazione in noi rappresenta una dignità obiettiva, non semplicemente morale. Le dignità umane, quando non sono date per un Sacramento – c’è un unico caso: il Sacramento dell’Ordine che realmente e essenzialmente distingue da tutti coloro che non l’hanno, essenzialmente -, le dignità umane sono cose accidentali, sovrapposte, che cambiano nulla della realtà di chi porta le denominazioni, gli onori, gli attributi. Invece esser figli di Dio cambia totalmente ed obiettivamente il valore della nostra natura, della nostra vita, dei nostri atti, del nostro destino eterno, tutto. È il grande annuncio. Questo grande annuncio a Natale ha sentito il cantico degli Angeli, ma vi prego di guardare a quello che ha preceduto il cantico degli Angeli. Perché gli uomini potessero essere a suo tempo, in un altro piano di Provvidenza, disposti a capir meglio qualcosa, Dio ha sparso a piene mani la bellezza, l’infinita varietà, la bontà delle cose nel creato, e tutte le cose sono una rivelazione divina, talmente chiara a chi ha l’anima pura, talmente profonda a chi ha il sentimento immacolato, da far sì che in realtà Dio sia la cosa più evidente che c’è nel mondo, perché ogni cosa parla e parla di Lui. E la bellezza è l’anticamera del bene e il bene è l’anticamera di Dio. E tutto questo è stato predisposto in un’infinita festosità di cose, in una sequela di luci e di colori e di cose sorprendenti, e abbiamo davanti a noi non soltanto la storia che svolta le sue pagine, ma tutto quanto questo creato che raggiunge i suoi cicli, ne aspetta altri, ne annuncia; è una festosità incontenibile che Dio ha messo in natura, perché quando fosse arrivato il piano soprannaturale, che nessuno poteva esigere, gli uomini fossero pronti, guardando le cose, a intendere i gesti stupendi del loro Creatore. – Ecco la risposta del prologo giovanneo. Risolve delle questioni grandi ed è nostro dovere far sì che le questioni si risolvano. Non possiamo permettere che le questioni diventino un peso inutile, doloroso e nefasto per l’anima degli uomini.

Sermone di san Leone Papa

Sermone 1 sulla Natività del Signore

O dilettissimi, è nato il nostro Salvatore esultiamo. Poiché non può esser luogo a tristezza allorché nasce la vita: la quale, dissipando il timore della morte, ci riempie di gioia per la promessa dell’eternità. Nessuno è escluso di partecipare a tanta allegrezza. Tutti hanno lo stesso motivo di letizia: perché nostro Signore, distruttore del peccato e della morte, siccome non trovò nessuno libero da reato, così è venuto per liberar tutti. Esulti il giusto, perché è vicino alla palma: gioisca il peccatore, perché è invitato al perdono: prenda animo il Gentile, perché è chiamato alla vita. Infatti il Figlio di Dio nella pienezza dei tempi fissata dalla imperscrutabile profondità del divino consiglio, assunse la natura umana per riconciliarla col suo autore, affinché l’inventore della morte, il diavolo, fosse vinto con quella stessa natura onde aveva vinto. – In questo conflitto impegnatosi per noi, si combatté con grande e ammirabile lealtà, poiché l’onnipotente Signore combatté contro il crudelissimo nemico non nella sua maestà, ma nella nostra infermità: opponendogli la stessa forma e la stessa natura soggetta sì, alla nostra mortalità, ma scevra d’ogni peccato. Giacché è alieno da questa natività ciò che si legge di tutti gli uomini: «Nessuno è senza macchia, neppure il bambino, la cui vita sulla terra è appena di un giorno» (Job. XIV,4). Nulla dunque della concupiscenza della carne entrò in questa natura singolare, niente ci s’infiltrò della legge del peccato. Viene scelta una Vergine regale, della stirpe di David, la quale dovendo portare nel seno il sacro rampollo, prima che corporalmente concepisse l’Uomo-Dio spiritualmente. E affinché, ignara del disegno celeste, non si spaventasse a sì inusitato annunzio, apprende mediante colloquio angelico quel che lo Spirito Santo doveva operare in lei: così ella che presto diverrà Madre di Dio, non teme più alcun danno per il suo pudore. – Rendiamo dunque grazia, o dilettissimi, a Dio Padre per il suo Figlio, nello Spirito Santo: poiché «per l’infinita sua carità onde ci amò, ebbe pietà di noi» (Ephes. II,4): e «mentre eravamo morti per i peccati, ci ha reso la vita in Cristo» (Coloss. III,9), perché noi fossimo in lui nuova creatura e nuova opera. «Deponiamo dunque l’uomo vecchio colle sue azioni» (Coloss. 3,9); e fatti partecipi della nascita di Cristo, rinunziamo alle opere della carne. Riconosci, o Cristiano, la tua dignità: e, «divenuto partecipe della divina natura» (2 Petri I,4), non volere con una indegna condotta ritornare all’antica abiezione. Ricorda di qual capo e di qual corpo sei membro. Rifletti, che «strappato alla potestà delle tenebre» (Coloss. I,13), sei stato trasferito nella luce e nel regno di Dio.

Omelia di san Gregorio Papa

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Omelia 8 sul Vangelo

Poiché per grazia del Signore oggi abbiamo a celebrare tre Messe solenni, non possiamo discorrere a lungo della lettura del Vangelo; però che ne diciamo qualche cosa, sia pur brevemente, ce l’obbliga la stessa Natività del nostro Redentore. Perché dunque alla nascita del Signore si fa il censimento dell’impero, se non per far comprendere che appariva nella carne colui che doveva registrare i suoi eletti nell’eternità? D’altra parte, per mezzo del Profeta, dice dei reprobi: «Siano cancellati dal libro dei viventi, e non siano iscritti coi giusti» (Ps. LXVIII, 29). Egli poi opportunamente nasce in Betlemme, dacché Betlemme vuol dire casa del pane. Difatti lui stesso dice: «Io sono il pane vivo che son disceso dal cielo» (Joann. VI,51). Pertanto il luogo dove nasce il Signore fu chiamato innanzi casa del pane; perché là doveva certamente apparire nella natura umana colui che doveva ristorare internamente le anime dei suoi eletti. Egli nasce non in casa del suoi parenti, ma in viaggio: alfin di mostrarci senza dubbio che per la sua umanità assunta nasceva quasi in luogo straniero.

Omelia di sant’Ambrogio Vescovo

Libro 2 al cap. 2 di Luca, verso la metà

Considerate gl’inizi della Chiesa nascente: Cristo nasce, e i pastori già vegliano, come per raccogliere nell’ovile del Signore i greggi delle nazioni che sino allora vivevano come pecore, affin di preservarle, nelle profonde tenebre della notte, dagli assalti di bestie spirituali. E giustamente i pastori vegliano seguendo l’esempio del buon pastore. Così il gregge è il popolo, la notte è il mondo, i pastori sono i sacerdoti. Senza dubbio anche quegli è pastore cui è detto: «Sta vigilante e conferma gli altri» (Apoc. III, 2). E il Signore non solo ha stabilito i vescovi per difendere il gregge, ma ha destinato anche gli Angeli.

Omelia di sant’Agostino Vescovo

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Trattato 1 su Giovanni, verso la metà

Affinché tu non abbia del Verbo un’idea bassa, come se si trattasse di parole umane, ascolta ciò che devi pensarne: «Dio era il Verbo» (Joann, I,1). Ora venga fuori non so quale infedele Ariano a dirci che il Verbo di Dio fu fatto. Come può essere che il Verbo di Dio sia stato fatto, quando Dio per mezzo del Verbo ha fatto tutte le cose? Se esso Verbo di Dio fu fatto, per qual altro verbo fu egli fatto? Se tu dici che esso è stato fatto da un verbo del Verbo, allora io rispondo che esso è l’unico Figlio di Dio. Se poi non ammetti un verbo del Verbo, concedi allora che non è stato fatto quegli per il quale tutto fu fatto. Perché non poté fare se stesso Colui per il quale tutto fu fatto. Credi dunque all’Evangelista.

S. S. Gregorio XVII – Omelia del S. NATALE – S. Messa nella Notte (1975)

S. S. Gregorio XVII

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Omelia del S. NATALE – S. Messa nella Notte (1975)

Era notte, come è notte ora. E siamo certi che era notte, perché il testo stesso parla dei pastori sollecitati ad accorrere ad adorare il Bambino, mentre vegliavano di notte il gregge. Era notte. Vorrei che riflettesse su questo fatto: non c’era luce. Possiamo credere che l’unica luce in una fredda notte invernale fosse soltanto quella delle stelle. Non c’era nessuno: alcun conforto, alcun sussidio alcuna assistenza, alcun consenso, alcun amico. Non c’era splendore, non c’era gloria, non c’erano applausi. Nessuno in terra. E questo il punto: era notte. Si direbbe che una mano divina nel fatto allora e nella narrazione oggi separi i due campi: è questo che dobbiamo imparare. Venendo al mondo il Figlio di Dio a questo modo ci richiama a una verità, o meglio, a una distinzione semplice e fondamentale per la saggezza di tutta la vita umana: tra quello che conta e quello che non conta, quello di cui non possiamo fare a meno e quello del quale possiamo fare a meno, restando pienamente quello che siamo. – Che cosa c’era quella notte? Un bimbo che nasceva: era il Figlio di Dio. C’era una Madre, che è anche Madre nostra. C’era un uomo custode di entrambi: S. Giuseppe. Non sappiamo che ci fossero altri. Sì, la leggenda – è leggenda -, che ha interpretato assai male un testo di Isaia, ha messo accanto al presepio un asino e un bue. Poveretti, ci sarebbero stati bene, e non è detto che non ci fossero, ma non lo sappiamo. Comunque, a fare a meno di un asino e di un bue occorre poco. C’era una grandezza divina che non ha bisogno di vestirsi di nessuna pompa umana, c’era un’umiltà profonda, quasi scalpellata nella stessa roccia della grotta che ancora esiste, c’era l’atto di obbedienza. Nella Lettera agli Ebrei S. Paolo ci ricorda che Cristo, entrando nel mondo, ha detto e ha scritto in capo alla sua vita allora: “Sono qui, o Padre, per fare la tua volontà” (cfr. Eb X, 9). È questo quello che conta: quello che vien da Dio, quello che può appartenere a Dio, quello che può non essere rifiutato da Dio, quello che è nella verità, perché l’umiltà non è altro che la verità della nostra condizione, quello che è la saggezza, perché non c’è altra saggezza che quella dell’obbedienza verso Chi ha il diritto di imporci la norma, e nessuno questo diritto lo può contestare a Dio che è il Creatore. La distinzione tra quello che conta e quello che non conta: perché gli uomini imparassero, perché gli uomini sapessero quello che è una priorità della loro estimazione e quello che può essere confinato al secondo, al terzo, al decimo posto. La notte ha la sua eloquenza, perché la notte toglie le apparenze, come se quella notte dovesse insegnare all’umanità di non credere mai troppo e spesse volte nulla alle apparenze. Questa è la saggezza di questa santa notte.- Noi sappiamo che poi intervennero gli Angeli e cantarono il cantico che abbiamo udito poc’anzi. Ma questo non appartiene più alla storia degli uomini, questo appartiene soltanto a quell’ordine soprannaturale del quale solo l’umiltà e l’obbedienza del Figlio di Dio ha potuto darci notizia e certezza. – Penso che il miglior augurio che io vi possa fare, cari, per Natale sia quello di distinguere bene tra quello che conta e quello che non conta, tra quello che è sostanza e quello che è apparenza, tra quello che può valere di fronte al cielo e quello che a lungo andare vale niente anche di fronte alla terra.

 

TEMPO DI NATALE

STORIA DEL TEMPO DI NATALE

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[Dom Gueranger: l’Anno Liturgico]

Diamo il nome di Tempo di Natale ai quaranta giorni che vanno dalla Natività di Nostro Signore (25 dicembre) alla Purificazione della Santa Vergine (2 febbraio). Questo periodo forma, nell’Anno Liturgico, un tutto speciale, come l’Avvento, la Quaresima, il Tempo Pasquale, ecc. Vi domina completamente la celebrazione d’uno stesso mistero, e né le feste dei Santi che si susseguono in questa stagione, né l’occorrenza abbastanza frequente della Settuagesima con i suoi colori tristi, sembrano distrarre la Chiesa dal gaudio immenso che le hanno evangelizzato gli Angeli (Lc. II, 10) nella notte radiosa così a lungo attesa dal genere umano, e la cui commemorazione liturgica è stata preceduta dalle quattro settimane che formano l’Avvento. L’usanza di celebrare con quaranta giorni di festa o di memoria speciale la solennità della Nascita del Salvatore è fondata sul santo Vangelo stesso, che ci riferisce come la purissima Maria, trascorsi quaranta giorni nella contemplazione del dolce frutto della sua gloriosa maternità, si recò al tempio per compiervi, nell’umiltà più perfetta, tutto ciò che la legge prescriveva a tutte le donne d’Israele quando fossero diventate madri. La commemorazione della Purificazione di Maria è dunque indissolubilmente legata a quella della Nascita stessa del Salvatore; e l’usanza di celebrare questi santi e lieti quaranta giorni sembra risalire ad una remota antichità della Chiesa. Innanzitutto, per ciò che riguarda la Natività del Salvatore il 25 dicembre, san Giovanni Crisostomo, nella sua omelia su tale Festa, pensa che gli Occidentali l’avessero fin dall’origine celebrata in questo giorno. Si ferma anche a giustificare questa tradizione, facendo osservare che la Chiesa Romana aveva avuto tutti i modi di conoscere il vero giorno della nascita del Salvatore, poiché gli atti del censimento eseguito per ordine di Augusto in Giudea si conservavano negli archivi pubblici di Roma. Il santo Dottore propone un secondo argomento ricavato dal Vangelo di san Luca, facendo notare che, secondo lo scrittore sacro, dovette essere nel digiuno del mese di settembre che il sacerdote Zaccaria ebbe nel tempio la visione in seguito alla quale la sposa Elisabetta concepì san Giovanni Battista: donde consegue che la santissima Vergine Maria avendo essa pure, secondo il racconto dello stesso san Luca, ricevuto la visita dell’Arcangelo Gabriele e concepito il Salvatore del mondo al sesto mese della gravidanza di Elisabetta, cioè in marzo, doveva partorirlo nel mese di dicembre [Il più antico documento che ci permette di concludere che la festa di Natale era celebrata il 25 dicembre fin dal 336, è il calendario filocaliano redatto nel 354. E’ infatti poco dopo il Concilio di Nicea (325) che la Chiesa romana istituì una festa commemorativa della Nascita del Salvatore. Se gli storici moderni sono concordi nel dire che le date del 25 dicembre e 6 gennaio non sono basate su una tradizione storica, è legittimo pensare che la Chiesa le abbia scelte per qualche serio motivo]. – Le Chiese d’Oriente, tuttavia, non cominciarono se non nel quarto secolo a celebrare la Natività di Nostro Signore nel mese di dicembre. Fino allora l’avevano celebrata ora il 6 gennaio, confondendola, sotto il nome generico di Epifania, con la Manifestazione del Salvatore ai Gentili nella persona dei Magi, ora – secondo la testimonianza di Clemente Alessandrino – il 25 del mese Pachon (15 maggio), o il 25 del mese Pharmuth (20 aprile). San Giovanni Crisostomo nell’omelia che abbiamo citata, e che egli pronunciò nel 386, attesta che l’usanza di celebrare con la Chiesa Romana la Nascita del Salvatore il 25 dicembre datava appena da dieci anni nella Chiesa d’Antiochia. Questo cambiamento sembra essere stato intimato dall’autorità della Sede Apostolica, alla quale venne ad aggiungersi, verso la fine del quarto secolo, un editto degli Imperatori Teodosio e Valentiniano, che decretava la distinzione delle due feste della Natività e dell’Epifania. La sola Chiesa scismatica d’Armenia ha conservato l’usanza di celebrare il 6 gennaio il duplice mistero; e ciò senza dubbio perché quella nazione era indipendente dall’autorità degli Imperatori, e fu molto presto sottratta dallo scisma e dall’eresia agli influssi della Chiesa Romana [Anche Gerusalemme non conobbe che la festa del 6 gennaio, sino alla fine del IV secolo]. – La festa della Purificazione della Santa Vergine, che chiude i quaranta giorni di Natale, è una delle quattro più antiche feste di Maria: avendo fondamento nel racconto stesso del Vangelo, è possibile che sia stata celebrata fin dai primi secoli del Cristianesimo. – Ma per ciò che riguarda la Chiesa orientale, non vi troviamo definitivamente stabilita la festa del 2 febbraio se non sotto l’impero di Giustiniano, nel vi secolo [Gli studi recenti del Liturgisti hanno mostrato che questa festa cominciò a essere celebrata a Gerusalemme non il 2 febbraio, come lo fu più tardi a Roma, ma il 14 febbraio, quaranta giorni dopo la festa della Natività che gli Orientali celebravano il 6 gennaio. La Peregrinatio Sylviae (del 400 circa) rileva che la festa era celebrata nel 380 a Betlemme e a Gerusalemme nella basilica dell’Anastasi, con la stessa solennità di quella di Pasqua. La Cronaca di Teofane ci dice che fu introdotta a Costantinopoli, fra il 534 e il 542, e celebrata il 2 febbraio. Di qui passò a Roma. Il Liber Pontificalis indica che Sergio (687-701) istituì una litania per le quattro feste della Vergine (Purificazione, Dormizione, Natività e Annunciazione), donde si conclude che esistevano già, benché non si possa sapere da quando]. – Se ora passiamo a considerare il carattere del tempo di Natale nella Liturgia Latina, siamo in grado di riconoscere che questo tempo è dedicato in special modo alla letizia che suscita in tutta la Chiesa la venuta del Verbo divino nella carne, e particolarmente consacrato alle lodi dovute alla purissima Maria per l’onore della sua maternità. Questo duplice pensiero d’un Dio figlio e d’una Madre vergine si trova espresso ad ogni istante nelle preghiere e nelle usanze della Liturgia. – Così, nei giorni di Domenica e in tutte le feste che non sono di rito doppio, per l’intera durata di questi quaranta giorni, la Chiesa ricorda la feconda verginità della Madre di Dio, con tre Orazioni nella celebrazione del santo Sacrificio. Negli stessi giorni, alle Laudi e ai Vespri, implora il suffragio di Maria, proclamando altamente la sua qualità di Madre di Dio e la purezza inviolabile che resta in lei anche dopo il parto. Infine, l’usanza di terminare ogni Ufficio con la solenne Antifona del monaco Ermanno Contratto in lode della Madre del Redentore, continua fino al giorno stesso della Purificazione. – Queste sono le manifestazioni d’amore e di venerazione Con le quali la Chiesa, onorando il Figlio nella Madre, testimonia la sua religiosa letizia nella stagione dell’Anno Liturgico che designiamo con il nome di Tempo di Natale. – Tutti sanno che il Calendario Ecclesiastico contiene fino a sei domeniche dopo l’Epifania, per gli anni in cui la festa di Pasqua tocca i limiti estremi nel mese di aprile. I quaranta giorni dal Natale alla Purificazione racchiudono talvolta fino a quattro di queste domeniche. Spesso non ne contengono che due, e talvolta perfino una sola, quando l’anticipazione della Pasqua in alcuni anni costringe a far risalire a Gennaio là Domenica di Settuagesima, e anche quella di Sessagesima. Nulla tuttavia è stato innovato, come abbiamo detto, nei riti di questi lieti quaranta giorni, fuorché il colore viola e l’omissione dell’Inno angelico, nelle domeniche che precedono la Quaresima.La santa Chiesa onora, per tutto il corso del Tempo di Natale, con una religiosità particolare, il mistero dell’Infanzia del Salvatore.Ma quando il corso del Calendario, anche negli anni in cui la festa di Pasqua è più inoltrata, dà meno di sei domeniche per la celebrazione dell’intera opera della nostra salvezza, cioè dal Natale alla Pentecoste, obbliga la stessa Chiesa ad anticipare, nelle letture del Santo Vangelo, i fatti della vita attiva di Cristo. La liturgia non resta tuttavia meno fedele nel ricordarci le bellezze del divino Bambino e la gloria incomunicabile della Madre sua, fino al giorno in cui verrà a presentarlo al tempio.I Greci fanno anche, nei loro Uffici, frequenti Memorie della maternità di Maria, per tutto questo tempo; ma hanno soprattutto una speciale venerazione per i dodici giorni che vanno dalla festa di Natale a quella dell’Epifania: periodo designato nella loro Liturgia sotto il nome di Dodecameron. In questo periodo, essi non osservano alcuna astinenza dalla carne; e gli Imperatori d’Oriente avevano perfino stabilito che, per il rispetto dovuto a un sì grande mistero, fossero proibite le opere servili, e i tribunali stessi vacassero fino al 6 gennaio.Queste sono le particolarità storiche e i fatti positivi che servono a determinare il carattere speciale di quella seconda parte dell’Anno Liturgico che designiamo con il nome di Tempo di Natale. Il capitolo seguente svolgerà le intenzioni mistiche della Chiesa, in questo periodo così caro alla pietà dei suoi figli.

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Per il giorno di Natale e ottava

[da Manuale di Filotea, del sac. G Riva, XXX ed. Milano 1888 – imprim.]

I. Vi adoro umiliato nel Presepio, o vero Angelo del gran Consiglio che colla vostra misericordia conciliaste così bene la misericordia di cui eravamo noi bisognosi, colla soddisfazione dovuta alla divina Giustizia. Deh! per tanta vostra bontà, fate che vi siamo sempre riconoscenti per così gran beneficio, e non rinnoviamo mai col peccato la causa delle vostre umiliazioni. Gloria.

II. Vi adoro nel Presepio come nell’altare del vostro sacrificio, o vero Agnello di Dio, che vi addossaste spontaneamente tutte le pene dovute ai peccati di tutti gli uomini. Deh! per tanta vostra bontà, accordate a noi tutti il perdono di tutte quante le nostre colpe, e dateci la grazia di vivere in tal maniera che la nostra vita si possa dire un continuo sacrificio per Voi. Gloria.

III. Vi adoro nascosto nel Presepio, o vera Luce del mondo che sceglieste di nascere fra le tenebre della notte per indicare lo stato in cui si trovano gli uomini senza di Voi, e il comun loro bisogno d’essere da Voi illuminati. Deh! per tanta vostra bontà, diradate le tenebre della nostra mente, onde non apprendiamo giammai per veri i falsi beni, e corriamo sempre verso la luce delle vostre sante ispirazioni. Gloria.

IV. Vi adoro umiliato nel Presepio, o vero Principe della pace, che, nascendo al mondo in quel tempo in cui sotto il dominio d’Augusto, erano dappertutto cessate le turbolenze e le guerre, voleste farci conoscere i preziosi effetti della vostra venuta fra noi. Deh! per tanta vostra bontà, fate che noi sempre godiamo i frutti di quella pace che Voi portaste nel mondo, pace con Voi per mezzo della fede e dell’osservanza della vostra santa legge, pace col prossimo con un compatimento sincero di tutti i suoi mancamenti, pace con noi stessi con un costante signoreggiamento de’ disordinati nostri appetiti. Gloria.

V. Vi adoro nel Presepio, o divino Infante, che siete per tutti gli uomini la Via, la Verità e la Vita; la Via coi vostri precetti, la Verità coi vostri esempi, la Vita per il premio che ci tenete preparato nel cielo. Deh! per tanta vostra bontà, fate che noi osserviamo esattamente i vostri precetti, imitiamo fedelmente i vostri esempi, affinché dopo avervi seguito come Via, e imitato come Verità in questa valle di lacrime, meritiamo di godervi come Premio nell’eternità dei Beati. Gloria.

VI. Vi adoro nel Presepio, come in cattedra di divina sapienza, o Maestro infallibile d’ogni virtù, che vi metteste in stato di tanta pena e di tanta umiliazione per farci conoscere la vera strada che conduce alla vita. Deh! per tanta vostra bontà, concedeteci di amare costantemente, a vostra imitazione, le umiliazioni e i patimenti, e di non gloriarci mai d’altro che di esser vostri discepoli, crocifissi insieme con voi in tutto il tempo di nostra vita. Gloria.

VII. Vi adoro nascosto nel Presepio, o unica Porta del Cielo che sosteneste con tanta pazienza gli incomodi della povertà, i rigori delle stagioni e le scortesie degli uomini, per insegnarci la vanità di tutti i beni del mondo. Deh! per tanta vostra bontà come già accoglieste le offerte dei poveri pastori, così gradite l’offerta che vi facciamo di noi stessi; e fate che, vivendo sempre stranieri a tutte le mondane delizie, non ci allontaniamo giammai da Voi, che siete il solo che può introdurci nel gaudio eterno del Paradiso. Gloria.

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Orazione a Gesù Bambino.

Venite in me, o divin Salvatore; degnatevi di nascere nel mio cuore. Fate che, istruito dal vostro esempio, ed aiutato dalla vostra grazia, io sia povero di spirito, umile di cuore, come straniero sopra la terra, mortificato ed obbediente, come foste Voi nella vostra mangiatoia. Voi, o divin Gesù, vi siete fatto Bambino, affinché io possa divenire uomo perfetto. Avete sofferto di esser involto tra le fasce, affine di sciogliere l’anima mia da tutti i lacci del peccato. Avete voluto giacere in una stalla per ammettermi al vostro altare nel tempo, ed alla vostra gloria nell’eternità. – Voi scendeste fino in terra per innalzar me sino al cielo. Voleste esser rifiutato da Betlemiti per assicurare a me un cortese accoglimento nel vostro regno. Non voleste altra compagnia che quella di due ammali per meritare a me il consorzio dei Santi e degli Angeli in Paradiso. Finalmente Voi vi siete reso debole per fortificarmi, povero, per arricchirmi, umile par esaltarmi, soggetto a tutti i patimenti per liberarmi da tutti i mali e procurarmi tutti i beni. Fate, o Signore, che tali grazie non divengano, per difetto della mia corrispondenza altrettanti titoli di condanna per me; ma fate piuttosto che, approfittandone fedelmente mi assicuri il possesso di quella gloria che fu l’unico scopo, non solo della vostra incarnazione, ma ancora di tutta la vostra passione o della vostra morte. Cosi sia.

Un’ENCICLICA AL GIORNO, toglie il modernista apostata di torno … e pure il tradizionalista sedevacantista! : “PASTOR ÆTERNUS”

 

Questa Costituzione apostolica è un documento “chiave” della dottrina della Chiesa, uno scoglio contro il quale si infrangono i flutti eretico-demoniaci di protestanti, di modernisti ecumenismi vati-cani-muti, dei pseudo-tradizionalisti sedevacantisti di nome e di fatto, ed oggi pure dei fautori dell’ultima eresia in voga: il “sedevacantismo doppio”! Questo documento fu voluto con caparbia ostinazione da S. S. Pio IX, al Concilio Vaticano, prima che si abbattesse il flagello dei “buzzurri” piemontesi violatori della Porta pia, approfittando con codardia dell’assenza della guarnigione francese richiamata nella guerra franco-prussiana … ecco gli eroi di porta pia, … codardi buzzurri servi dei satanici cabalisti … ma cominciamo a leggere, studiare e meditare con calma.

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 COSTITUZIONE APOSTOLICA

“PASTOR ÆTERNUS”

DEL SOMMO PONTEFICE PIO IX

“SULL’INFALLIBILITÀ DEL ROMANO PONTEFICE ”

AI VENERABILI FRATELLI, PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE PACE E COMUNIONE

PIO PP. IX, SERVO DEI SERVI DI DIO

 

VENERABILI FRATELLI, SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

Il Pastore eterno e Vescovo delle nostre anime, per rendere perenne la salutare opera della Redenzione, decise di istituire la santa Chiesa, nella quale, come nella casa del Dio vivente, tutti i fedeli si ritrovassero uniti nel vincolo di una sola fede e della carità. Per questo, prima di essere glorificato, pregò il Padre non solo per gli Apostoli, ma anche per tutti coloro che avrebbero creduto in Lui attraverso la loro parola, affinché fossero tutti una cosa sola, come lo stesso Figlio e il Padre sono una cosa sola. Così dunque inviò gli Apostoli, che aveva scelto dal mondo, nello stesso modo in cui Egli stesso era stato inviato dal Padre: volle quindi che nella sua Chiesa i Pastori e i Dottori fossero presenti fino alla fine dei secoli. – Perché poi lo stesso Episcopato fosse uno ed indiviso e l’intera moltitudine dei credenti, per mezzo dei sacerdoti strettamente uniti fra di loro, si conservasse nell’unità della fede e della comunione, anteponendo agli altri Apostoli il Beato Pietro, in lui volle fondato l’intramontabile principio e il visibile fondamento della duplice unità: sulla sua forza doveva essere innalzato il tempio eterno, e la grandezza della Chiesa, nell’immutabilità della fede, avrebbe potuto ergersi fino al cielo [S. LEO M., Serm. IV al. III, cap. 2 in diem Natalis sui]. E poiché le porte dell’inferno si accaniscono sempre più contro il suo fondamento, voluto da Dio, quasi volessero, se fosse possibile, distruggere la Chiesa, Noi riteniamo necessario, per la custodia, l’incolumità e la crescita del gregge cattolico, con l’approvazione del Sacro Concilio, proporre la dottrina relativa all’istituzione, alla perennità e alla natura del sacro Primato Apostolico, sul quale si fondano la forza e la solidità di tutta la Chiesa, come verità di fede da abbracciare e da difendere da parte di tutti i fedeli, secondo l’antica e costante credenza della Chiesa universale, e respingere e condannare gli errori contrari, tanto pericolosi per il gregge del Signore.

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Capitolo I – Istituzione del Primato Apostolico nel Beato Pietro

Proclamiamo dunque ed affermiamo, sulla scorta delle testimonianze del Vangelo, che il primato di giurisdizione sull’intera Chiesa di Dio è stato promesso e conferito al beato Apostolo Pietro da Cristo Signore in modo immediato e diretto. Solamente a Simone, infatti, al quale già si era rivolto: “Tu sarai chiamato Cefa” (Gv 1,42), dopo che ebbe pronunciata quella sua confessione: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo“, il Signore indirizzò queste solenni parole: “Beato sei tu, Simone Bariona; perché non la carne e il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli: e Io ti dico che tu sei Pietro, e su questa pietra Io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: qualunque cosa avrai legato sulla terra, sarà legata anche nei cieli, e qualunque cosa avrai sciolto sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli” (Mt XVI, 16-19). E al solo Simon Pietro, dopo la sua risurrezione, Gesù conferì la giurisdizione di sommo pastore e di guida su tutto il suo ovile con le parole: “Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore” (Gv XXI,15-17). A questa chiara dottrina delle sacre Scritture, come è sempre stata interpretata dalla Chiesa cattolica, si oppongono senza mezzi termini le malvagie opinioni di coloro che, stravolgendo la forma di governo decisa da Cristo Signore nella sua Chiesa, negano che Cristo abbia investito il solo Pietro del vero e proprio primato di giurisdizione che lo antepone agli altri Apostoli, sia presi individualmente, sia nel loro insieme, o di coloro che sostengono un primato non affidato in modo diretto e immediato al beato Pietro, ma alla Chiesa e, tramite questa, all’Apostolo come ministro della stessa Chiesa.

Se qualcuno dunque affermerà che il beato Pietro Apostolo non è stato costituito da Cristo Signore Principe di tutti gli Apostoli e capo visibile di tutta la Chiesa militante, o che non abbia ricevuto dallo stesso Signore Nostro Gesù Cristo un vero e proprio primato di giurisdizione, ma soltanto di onore: sia anatema.

Capitolo II – Perpetuità del Primato del Beato Pietro nei Romani Pontefici

Ciò che dunque il Principe dei pastori, e grande pastore di tutte le pecore, il Signore Gesù Cristo, ha istituito nel beato Apostolo Pietro per rendere continua la salvezza e perenne il bene della Chiesa, è necessario, per volere di chi l’ha istituita, che duri per sempre nella Chiesa la quale, fondata sulla pietra, si manterrà salda fino alla fine dei secoli. Nessuno può nutrire dubbi, anzi è cosa risaputa in tutte le epoche, che il santo e beatissimo Pietro, Principe e capo degli Apostoli, colonna della fede e fondamento della Chiesa cattolica, ricevette le chiavi del regno da Nostro Signore Gesù Cristo, Salvatore e Redentore del genere umano: Egli, fino al presente e sempre, vive, presiede e giudica nei suoi successori, i vescovi della santa Sede Romana, da lui fondata e consacrata con il suo sangue [Cf. EPHESINI CONCILII, Act. III]. Ne consegue che chiunque succede a Pietro in questa Cattedra, in forza dell’istituzione dello stesso Cristo, ottiene il Primato di Pietro su tutta la Chiesa. Non tramonta dunque ciò che la verità ha disposto, e il beato Pietro, perseverando nella forza che ha ricevuto, di pietra inoppugnabile, non ha mai distolto la sua mano dal timone della Chiesa [S. LEO M., Serm. III al. II, cap. 3]. È questo dunque il motivo per cui le altre Chiese, cioè tutti i fedeli di ogni parte del mondo, dovevano far capo alla Chiesa di Roma, per la sua posizione di autorevole preminenza, affinché in tale Sede, dalla quale si riversano su tutti i diritti della divina comunione, si articolassero, come membra raccordate alla testa, in un unico corpo [S. IREN., Adv. haer., I, III, c. 3 et CONC. AQUILEI. a. 381 inter epp. S. Ambros., ep. XI] . – Se qualcuno dunque affermerà che non è per disposizione dello stesso Cristo Signore, cioè per diritto divino, che il beato Pietro abbia per sempre successori nel Primato sulla Chiesa universale, o che il Romano Pontefice non sia il successore del beato Pietro nello stesso Primato: sia anatema.

Capitolo III – Della Forza e della Natura del Primato del Romano Pontefice

Sostenuti dunque dalle inequivocabili testimonianze delle sacre lettere e in piena sintonia con i decreti, chiari ed esaurienti, sia dei Romani Pontefici Nostri Predecessori, sia dei Concili generali, ribadiamo la definizione del Concilio Ecumenico Fiorentino che impone a tutti i credenti in Cristo, come verità di fede, che la Santa Sede Apostolica e il Romano Pontefice detengono il Primato su tutta la terra, e che lo stesso Romano Pontefice è il successore del beato Pietro, Principe degli Apostoli, il vero Vicario di Cristo, il capo di tutta la Chiesa, il padre e il maestro di tutti i cristiani; a lui, nella persona del beato Pietro, è stato affidato, da nostro Signore Gesù Cristo, il pieno potere di guidare, reggere e governare la Chiesa universale. Tutto questo è contenuto anche negli atti dei Concili ecumenici e nei sacri canoni. Proclamiamo quindi e dichiariamo che la Chiesa Romana, per disposizione del Signore, detiene il primato del potere ordinario su tutte le altre, e che questo potere di giurisdizione del Romano Pontefice, vero potere episcopale, è immediato: tutti, pastori e fedeli, di qualsivoglia rito e dignità, sono vincolati, nei suoi confronti, dall’obbligo della subordinazione gerarchica e della vera obbedienza, non solo nelle cose che appartengono alla fede e ai costumi, ma anche in quelle relative alla disciplina e al governo della Chiesa, in tutto il mondo. In questo modo, avendo salvaguardato l’unità della comunione e della professione della stessa fede con il Romano Pontefice, la Chiesa di Cristo sarà un solo gregge sotto un solo sommo pastore. Questa è la dottrina della verità cattolica, dalla quale nessuno può allontanarsi senza perdita della fede e pericolo della salvezza. Questo potere del Sommo Pontefice non pregiudica in alcun modo quello episcopale di giurisdizione, ordinario e immediato, con il quale i Vescovi, insediati dallo Spirito Santo al posto degli Apostoli, come loro successori, guidano e reggono, da veri pastori, il gregge assegnato a ciascuno di loro, anzi viene confermato, rafforzato e difeso dal Pastore supremo ed universale, come afferma solennemente San Gregorio Magno: “Il mio onore è quello della Chiesa universale. Il mio onore è la solida forza dei miei fratelli. Io mi sento veramente onorato, quando a ciascuno di loro non viene negato il dovuto onore” [Ep. ad Eulog. Alexandrin., I, VIII, ep. XXX]. Dal supremo potere del Romano Pontefice di governare tutta la Chiesa, deriva allo stesso anche il diritto di comunicare liberamente, nell’esercizio di questo suo ufficio, con i pastori e con i greggi della Chiesa intera, per poterli ammaestrare e indirizzare nella via della salvezza. Condanniamo quindi e respingiamo le affermazioni di coloro che ritengono lecito impedire questo rapporto di comunicazione del capo supremo con i pastori e con i greggi, o lo vogliono asservire al potere civile, poiché sostengono che le decisioni prese dalla Sede Apostolica, o per suo volere, per il governo della Chiesa, non possono avere forza e valore se non vengono confermate dal potere civile. – E poiché per il diritto divino del Primato Apostolico il Romano Pontefice è posto a capo di tutta la Chiesa, proclamiamo anche ed affermiamo che egli è il supremo giudice dei fedeli [PII VI, Breve Super soliditate, d. 28 Nov. 1786] e che in ogni controversia spettante all’esame della Chiesa, si può ricorrere al suo giudizio [CONC. OECUM. LUGDUN. II]. È evidente che il giudizio della Sede Apostolica, che detiene la più alta autorità, non può essere rimesso in questione da alcuno né sottoposto ad esame da parte di chicchessia [Ep. Nicolai I ad Michaelem Imperatorem]. Si discosta quindi dal retto sentiero della verità chi afferma che è possibile fare ricorso al Concilio Ecumenico, come se fosse investito di un potere superiore, contro le sentenze dei Romani Pontefici. – Dunque se qualcuno affermerà che il Romano Pontefice ha semplicemente un compito ispettivo o direttivo, e non il pieno e supremo potere di giurisdizione su tutta la Chiesa, non solo per quanto riguarda la fede e i costumi, ma anche per ciò che concerne la disciplina e il governo della Chiesa diffusa su tutta la terra; o che è investito soltanto del ruolo principale e non di tutta la pienezza di questo supremo potere; o che questo suo potere non è ordinario e diretto sia su tutte e singole le Chiese, sia su tutti e su ciascun fedele e pastore: sia anatema.

Capitolo IV – Del Magistero Infallibile del Romano Pontefice

Questa Santa Sede ha sempre ritenuto che nello stesso Primato Apostolico, posseduto dal Romano Pontefice come successore del beato Pietro Principe degli Apostoli, è contenuto anche il supremo potere di magistero. Lo conferma la costante tradizione della Chiesa; lo dichiararono gli stessi Concili Ecumenici e, in modo particolare, quelli nei quali l’Oriente si accordava con l’Occidente nel vincolo della fede e della carità. Proprio i Padri del quarto Concilio di Costantinopoli, ricalcando le orme dei loro antenati, emanarono questa solenne professione: “La salvezza consiste anzitutto nel custodire le norme della retta fede. E poiché non è possibile ignorare la volontà di nostro Signore Gesù Cristo che proclama: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”, queste parole trovano conferma nella realtà delle cose, perché nella Sede Apostolica è sempre stata conservata pura la religione cattolica, e professata la santa dottrina. Non volendo quindi, in alcun modo, essere separati da questa fede e da questa dottrina, nutriamo la speranza di poterci mantenere nell’unica comunione predicata dalla Sede Apostolica, perché in lei si trova tutta la vera solidità della religione cristiana” [Ex formula S. Hormisdae Papae, prout ab Hadriano II Patribus Concilii Oecumenici VIII, Constantinopolitani IV, proposita et ab iisdem subscripta est]. Nel momento in cui si approvava il secondo Concilio di Lione, i Greci dichiararono: “La Santa Chiesa Romana è insignita del pieno e sommo Primato e Principato sull’intera Chiesa Cattolica e, con tutta sincerità ed umiltà, si riconosce che lo ha ricevuto, con la pienezza del potere, dallo stesso Signore nella persona del beato Pietro, Principe e capo degli Apostoli, di cui il Romano Pontefice è successore, e poiché spetta a lei, prima di ogni altra, il compito di difendere la verità della fede, qualora sorgessero questioni in materia di fede, tocca a lei definirle con una sua sentenza”. Da ultimo il Concilio Fiorentino emanò questa definizione: “Il Pontefice Romano, vero Vicario di Cristo, è il capo di tutta la Chiesa, il padre e il maestro di tutti i Cristiani: a lui, nella persona del beato Pietro, è stato affidato, da nostro Signore Gesù Cristo, il supremo potere di reggere e di governare tutta la Chiesa“. Allo scopo di adempiere questo compito pastorale, i Nostri Predecessori rivolsero sempre ogni loro preoccupazione a diffondere la salutare dottrina di Cristo fra tutti i popoli della terra, e con pari dedizione vigilarono perché si mantenesse genuina e pura come era stata loro affidata. È per questo che i Vescovi di tutto il mondo, ora singolarmente ora riuniti in Sinodo, tenendo fede alla lunga consuetudine delle Chiese e salvaguardando l’iter dell’antica regola, specie quando si affacciavano pericoli in ordine alla fede, ricorrevano a questa Sede Apostolica, dove la fede non può venir meno, perché procedesse in prima persona a riparare i danni [Cf. S. BERN. Epist. CXC]. Gli stessi Romani Pontefici, come richiedeva la situazione del momento, ora con la convocazione di Concili Ecumenici o con un sondaggio per accertarsi del pensiero della Chiesa sparsa nel mondo, ora con Sinodi particolari o con altri mezzi messi a disposizione dalla divina Provvidenza, definirono che doveva essere mantenuto ciò che, con l’aiuto di Dio, avevano riconosciuto conforme alle sacre Scritture e alle tradizioni Apostoliche. Lo Spirito Santo infatti, non è stato promesso ai successori di Pietro per rivelare, con la sua ispirazione, una nuova dottrina, ma per custodire con scrupolo e per far conoscere con fedeltà, con la sua assistenza, la rivelazione trasmessa dagli Apostoli, cioè il deposito della fede. Fu proprio questa dottrina apostolica che tutti i venerabili Padri abbracciarono e i santi Dottori ortodossi venerarono e seguirono, ben sapendo che questa Sede di San Pietro si mantiene sempre immune da ogni errore in forza della divina promessa fatta dal Signore, nostro Salvatore, al Principe dei suoi discepoli: “Io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede, e tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli“.Questo indefettibile carisma di verità e di fede fu dunque divinamente conferito a Pietro e ai suoi successori in questa Cattedra, perché esercitassero il loro eccelso ufficio per la salvezza di tutti, perché l’intero gregge di Cristo, distolto dai velenosi pascoli dell’errore, si alimentasse con il cibo della celeste dottrina e perché, dopo aver eliminato ciò che porta allo scisma, tutta la Chiesa si mantenesse una e, appoggiata sul suo fondamento, resistesse incrollabile contro le porte dell’inferno.Ma poiché proprio in questo tempo, nel quale si sente particolarmente il bisogno della salutare presenza del ministero Apostolico, si trovano parecchie persone che si oppongono al suo potere, riteniamo veramente necessario proclamare, in modo solenne, la prerogativa che l’unigenito Figlio di Dio si è degnato di legare al supremo ufficio pastorale.Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa. Se qualcuno quindi avrà la presunzione di opporsi a questa Nostra definizione, Dio non voglia!: sia anatema.

Dato a Roma, nella pubblica sessione celebrata solennemente nella Basilica Vaticana, nell’anno 1870

dell’Incarnazione del Signore, il 18 luglio, venticinquesimo anno del Nostro Pontificato.

PIO PP. IX

[grassetto, sottolineature e colore sono redazionali].

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Pastor Æternus condanna la setta nuova di zecca dei “doppi sedevacantisti”!

La NUOVA SETTA DEL “DOPPIO SEDEVACANTISMO”

  Si sta affermando ai nostri tempi un nuovo mostro teologico: il “doppio sedevacantismo”, che si aggiunge così al variegato e pittoresco panorama di sette protestanti, eretiche e scismatiche, molte autodefinite finanche tradizionaliste! Di cosa si tratta? Ci sono diversi soggetti che, pur ritenendo i clown vaticani dei veri Papi, li bollano definendoli massoni, marrani, eretici, apostati, quanto meno a-cattolici, etc. etc., negando loro di conseguenza ogni obbedienza dottrinale, disciplinare, liturgica e di giurisdizione. In realtà essi li ritengono “ipso facto” decaduti dal ruolo di Pontefice, come da elementari leggi canoniche: come può un non cattolico, un illuminato di Baviera satanista, un accusato di crimini contro l’umanità, un pederasta notorio ed ostinato fin sul letto di morte … etc. etc., essere il capo della Chiesa cattolica? Pertanto si sarebbe in piena Sede vacante già da decenni [dal 1958]. Nel contempo però essi ritengono che nel Conclave del 26-X-58 sia stato eletto legittimamente Papa il cardinal Siri, col nome di Gregorio XVII, e che, essendo stato egli impedito, tutti i successivi “impostori” eletti siano stati e siano degli anti-papi al servizio della giudeo-massoneria. E qui abbiamo il secondo obbrobrio teologico e magisteriale: il “vero” Santo Padre Gregorio XVII, una volta deceduto [2 maggio del 1989), non avrebbe lasciato il suo incarico ad un successore, designato dai Cardinali legittimi e canonicamente nominati dallo stesso Gregorio XVII, venendosi così, anche questa volta, a determinare una condizione di sedevacantismo, o meglio di doppio-sedevacantismo dal 1989! In pratica l’inizio della Sede vacante è stata spostata di circa una trentina di anni. Ora questo pensiero corrotto e distorto, oltretutto patologicamente schizoide, per non dire da idiozia pura, contraddice in modo aberrante, temerario e “novatorio” il mandato pietrino del divin Fondatore, che ha promesso la perpetuità della “Sua” presenza in Pietro e nei suoi successori fino alla fine del mondo. Questi neo-eretici sono pure in condizione di scomunica “latae sententiae” per non accettare, rifiutando con sofismi sottili ma incongrui, il dogma definito nel Concilio Vaticano della perpetuità della serie ininterrotta dei successori di Pietro [come abbiamo per l’appunto appena letto nella Pastor Æternus]. –  Complimenti quindi a questi nuovi e doppiamente eretici, carichi di anatemi a “ripetizione” ed in serie, dei quali non si accorgono, o di cui non vogliono tener conto, non essendo giustamente più parte, da scomunicati “ipso facto”, della Chiesa Cattolica, e quindi candidati “di diritto” al fuoco eterno! E molti si dicono addirittura tradizionalisti ed osservanti il Magistero … ma ci facciano il piacere … lo vadano a raccontare a tanti loro ciechi seguaci doppiamente ingannati, e doppiamente colpevolmente ignoranti.

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Che la Vergine Maria, debellatrice di tutte le eresie, sia ancora una volta trionfante anche su questi nuovi servi del serpente nemico!

SULLA FESTA DEL NATALE

SULLA FESTA DEL NATALE

[Il Manuale di Filotea, del Sac. Giuseppe Riva, XXX ed. Milano 1888]

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Giovanni Grisostomo, nella Omelia 31, non credeva di esagerare chiamando il Natale la festa la più venerabile di tutte, perché in essa si ricorda il gran prodigio aspettato da tutti i secoli, il parto di una Vergine predetto da Isaia, l‘annientamento del divin Verbo sotto le spoglie dell’uomo, figurato da Elia e da Eliseo quando si annichilarono in modo da adattare le proprie membra a quelle di un bambino defunto per restituirgli la vita col proprio alito. Di qui è che dal compimento di questo mistero, vero principio della nostra salute, cominciò un’Era del tutto nuova, ond’è che abbandonato il computo antico, si contò per anno primo della nuova epoca quello della nascita del Redentore, e si continuerà fino alla fine del mondo a partire da tal punto per contar gli anni. L’importanza di questa Festa fu sì ben conosciuta fin dal principio, che il Grisostomo la dice manifesta e celebre in tutto il mondo fin dai primordi del Cristianesimo. E ciò tanto è vero, che s. Gregorio Nazianzeno, s. Basilio, s Ambrogio, e molti altri, ci fan sapere com’era antico e universale tra ì fedeli il costume di accostarsi in questo gran giorno alla SS. Eucaristia. E fu poi così comune la pratica di comunicarsi al Natale, che il Concilio Toledano, al cap. 13, dichiarò non computabile fra i cristiani chi non si comunicasse in tal giorno Qui in natali Domini non comunicaverunt, catholici non credantur, nec inter Catholicos habeantar. Le particolarità poi tutte proprie di questo mistero e di questa Festa ci mostrano abbastanza il gran conto che sempre se ne è fatto. Esse meritano tutta la nostra attenzione. Scorriamole quindi ad una, sebbene con la massima brevità.

LA VIGILIA.

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Preso nello stretto suo senso, la Vigilia è il vegliare in preghiera la notte antecedente alla festa, il che facevasi sempre nei primi tempi da tutti i fedeli insieme col vescovo, come si sa aver fatto S.Ambrogio nella basilica di Fausta, quando il giorno appresso dovevansi ivi collocare solennemente i due martiri s. Protaso e s. Gervaso. Così considerate le vigilie, quella di Natale è la sola che siasi sempre conservata, dacché oltre la Messa che è stabilita per la mezzanotte, in varie chiese, come in Bergamo, in Roveredo, in Venezia, in Roma ve n’ha una che si celebra alla stessa sera della Vigìlia. Se poi per Vigilia intendiamo tutto il giorno antecedente santificato dalla preghiera e dal digiuno, quella di Natale fu sempre praticata come quella di Pasqua, di Pentecoste, e nei primi tempi anche quella dell’Epifania. Quindi si sa che S. Agostino depose dal suo officio un sacerdote perché nella Vigilia del Natale fu trovato a cenare lautamente in una casa privata; e San Gregorio Turonese ci parla d’un speciale castigo mandato da Dio ad un certo Eparchio, per aver profanata questa Vigilia. In questa Vigilia ogni 25 anni, si fa dal Papa l’apertura della Porta Santa per dar cominciamento al gran Giubileo dell’Anno Santo che finisce colla Vigilia dell’anno susseguente.

LE TRE MESSE.

Il sommo Pontefice S. Telesforo fino dall’anno 142 comandò la celebrazione di una Messa alla Mezzanotte, d’un’altra all’Aurora, e di una terza all’ora solita in vicinanza del Mezzo giorno. La prima ricorda la nascita temporale di Presepio di Betlemme. La seconda la sua manifestazione ai Pastori e la sua nascita spirituale nell’anima dei fedeli. La terza la sua eterna generazione nel sen del Padre fra gli splendori della gloria. Queste tre Messe sono anche originate ad onorare distintamente le Tre Persone della ss. Trinità che concorsero in questo mistero. Il Padre perché amò talmente il mondo da mandar in terra per la nostra salute il proprio divino Unigenito. Il Figliuolo perché spontaneamente si assoggettò al decreto del Padre, e si compiacque di pagare con i propri patimenti ì debiti di tutta la Umanità. Lo Spirito Santo perché concorse col proprio adombramento ad operare in Maria la incarnazione del divin Verbo, senza il più piccolo nocumento della sua immacolata verginità.Se le tre Messe sono obbligatorie per tutte le catterali e a tutti i sacerdoti è permesso di celebrare seguentemente l’una dopo l’altra conservando il digiuno lino alla terza, in cui solo devono fare la purificazione; l’obbligo che incombe ai fedeli non è che di ascoltarne una sola, la quale può essere tanto la prima, quanto la seconda, o la terza, essendo tutte e tre vere messe. Se la pietà insinua come doveroso in tal giorno l’ascoltamento di 3 Messe, bisogna ricordarsi che sono in inganno coloro che non solamente credono necessario l’udir tre Messe, ma credono anche che sia dovere l’ascoltarle tutte e tre da un solo sacerdote. – Le tre Messe del Natale devono inspirarvi un impegno straordinario di glorificare il Signore, colla pietà più distinta, dacché il Signore più frequentemente che in ogni altro giorno dell’anno rinnova per noi il suo Sacrificio sopra gli altari. Conobbe assai bene la grandezza di questa distinzione quel famoso Umberto di Romano, che fu il quinto Generale dei Frati Predicatori. Rinunziato il Principato di Filippo Valesio Re di Francia, e vestito l’abito di S. Domenico, volle ricevere gli Ordini Maggiori nelle tre messe del Santo Natale. Quindi nella prima fu fatto soddiacono, nella seconda diacono, e nella terza celebrata da Papa Clemente V, il quale allora si trovava in Lione, fu fatto sacerdote. Corrispose poi cosi bene a una sì grande estinzione che fu uno dei primi luminari dell’Ordine, così per scienza come per pietà. Basta il dire che compose uno sterminato numero di opere, e dopo nove anni, cioè nel 1263, per solo umiltà rinunziò il Generalato, ricusando invincibilmente il patriarcato di Gerusalemme, e visse così santamente che molti lo qualificarono per Beato

LA DISPENSA DAL MAGRO.

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Perchè al tripudio dello spirito si aggiungesse anche quello del corpo, Onorio III, essendo al papato nel 1216, accordò ai fedeli il permesso di mangiare di grasso, qualunque fosse il giorno in cui capitasse il Natale, eccettuando però da questa dispensa chi per voto speciale è obbligato a mangiar sempre di magro, come i Certosini, i Paolotti, ecc.

IL LUOGO DELLA NASCITA.

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A differenza di tutti gli altri bambini che non possono mai scegliere il luogo della lor nascita, Gesù Cristo nostro Signore se lo scelse da sé stesso: Michea aveva predetto che il Messia sarebbe nato a Betlemme Ora a mandare a compimento codesto oracolo, Iddio dispose che, per ordine dato da Augusto, che tutti i suoi sudditi avessero a farsi inscrivere nel luogo di loro provenienza, Maria con Giuseppe, come discendenti di Davide, il quale era nato a Betlemme, dovessero partire da Nazaret per recarsi a questa piccola città della Giudea, distante da Nazaret circa 100 miglia. Però, non trovando ivi alloggio né nelle case private, né nei pubblici alberghi, uscirono dalla città, e si ricoverarono in una capanna che serviva da ricovero agli animali nel caso di trovarsi sorpresi da qualche intemperie. Ivi, venuta l’ora segnata negli eterni decreti, venne alla luce il Messia che, involto fra poveri panni fu reclinato nel presepio, cioè nella mangiatoia. Queste circostanze furono ordinate a far conoscere: 1° Che il Cristo discendeva da Davide dalla cui stirpe, secondo le promesse, doveva nascere il Messia, 2. Che Michea aveva detto la verità quando si fece ad esclamare. “Tu, o Betlemme, non sei più la minima tra le città della Giudea, giacché dal tuo territorio uscirà Colui che sarà il supremo condottiero del popolo di Dio, 3°. Che il Messia veniva per combattere tutti i pregiudizi del mondo, preferendo la povertà, alle ricchezze, l’umiliazione alla gloria, i patimenti ai piaceri.

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RIGUARDO ALLA NASCITA.

Riguardo allo stato politico era il tempo della pace universale dacché Augusto, finite tutte le guerre, aveva tutto il mondo allor conosciuto obbediente ed ossequioso al proprio scettro. Quest’epoca era la più conveniente per dare una giusta idea di Colui che i Profeti avean detto Principe della Pace, e che non per altro veniva al mondo che per portare a tutti gli uomini la vera Pace, insegnando loro a domare tutte le proprie passioni che tengono l’uomo sempre in guerra con sé medesimo, non men che con Dio e con i propri simili. Riguardo al Mese, fu il Dicembre, e precisamente al cominciare del giorno 25. E ciò con divina sapienza. Siccome in quest’epoca il giorno ha finito di accorciarsi, e comincia a crescere, così dessa era opportunissima a rappresentare Colui che veniva per far spuntare sul mondo la luce della verità e della Grazia che doveva andare crescendo fino alla fine dei secoli. L’ora poi della mezzanotte in cui le tenebre sono più fitte, e il mondo è tutto in silenzio, era ordinato ad indicare: 1°. Che le tenebre dell’ignoranza e della iniquità cui il Messia veniva a dissipare, erano arrivate al loro colmo, e che fino da quel momento cominciavano a dissiparsi. 2.° Che Iddio vuol la quiete per comunicarsi agli uomini colla sua grazia, 3°. Che nel fare le opere nostre, per quanto sante e vantaggiose, dobbiamo cercare il più che è possibile di non esser veduti da alcuno.

I PRODIGI AVVENUTI NELLA NASCITA,

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Appena venne al mondo il Messia, che un coro di Angeli disceso sulla capanna fe’ risuonare tutta l’aria di quel bellissimo cantico “Gloria a Dio nel più alto de’ cieli, e Pace in terra agli uomini di buona volontà”. Un Angelo apparve ai pastori veglianti sul loro gregge, nei dintorni di Bethlemme, annunciando loro la nascita del Salvatore, ed invitandoli a recarsi alla sua capanna per presentargli i proprii ossequi. Una stella di nuova luce apparve nel cielo nelle parti dell’Oriente e servì di Guida ai Re Magi per condurli all’adorazione del Messia, che, giusta l’oracolo di Balaam, sarebbe nato allora appunto che un astro di splendore non più veduto sarebbe comparso nel cielo.

ONORI AL PRESEPIO DI CRISTO,

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Per cancellare ogni idea di Cristianesimo in Oriente, l’imperatore Adriano fece innalzare la statua dell’idolo Adone nel luogo in cui era stato adagiato bambino il Re dei Vergini. Ma dopo 100 anni, finite le persecuzioni, data da Costantino la pace alla Chiesa, S. Elena di lui madre fece atterrare quest’idolo, cambiò la capanna in un tempio, e al luogo del Presepio fece erigere un suntuoso altare. D’allora in poi fu sempre in grandissima venerazione, e ai suoi piedi si videro ì personaggi più eccelsi, fra cui meritano speciale memoria l’ìmperatrice Agnese tanto lodata da san Pier Damiani, e santa Brigida principessa di Svezia. In questo luogo santissimo fissò la propria dimora, e vi divenne modello d’ogni virtù il gran dottore S. Girolamo, il cui esempio venne imitato, dietro i suoi inviti dalle famose dame di Roma, santa Eustochia e santa Marcella. – Eretto poi in Roma, sotto del papa Liberio, un magnifico tempio a Maria sopra del monte Esquilino, su cui era caduta la neve il 5 Agosto, dall’ Oriente fu quivi trasportata la santa mangiatoia che si adorava in Betlemme, e quindi si chiama quella Chiesa Santa Maria del Presepio, la quale è poi quella stessa che si denomina Santa Maria Maggiore, ove insieme col Presepio di Cristo, fu trasportato anche il corpo di San Girolamo che ne fu il più distinto veneratore.

IL COSTUME DI FARE IL PRESEPIO.

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San Francesco d’Assisi, per disposizione del cielo, nacque in una stalla, dacché la sua madre Pica, travagliata dai dolori del parto, senza mai riuscire a sgravarsi, si sgravò subito felicemente appena fu portata dentro una stalla, secondo l’avviso che venne a dargliene uno sconosciuto mendico accostatosi all’uscio della sua casa a chieder limosina mentre ella trovavasi in quel travaglio. Fatto adulto questo gran Santo, ebbe sempre una devozione particolare a Gesù Bambino, che come lui era nato in un presepio; e per meglio soddisfare la sua devozione, mentre trovavasi in un romitaggio della selva detto il Greco, gli venne in mente di rappresentare al vivo il mistero della nascita del Redentore, per eccitare al fervore tutti i devoti abitanti di quella remota campagna. E perché la sua invenzione non fosse disprezzata come leggerezza, ne chiese prima licenza al Papa e, ottenutala, costrusse una capanna, v’introdusse un bue ed un asino, dispose bene la mangiatoia, e pieno di fede, chiese al Signore che pensasse Egli a dargli il Bambino. La sua preghiera fu esaudita, poiché nel medesimo istante Gesù Cristo, in figura di grazioso bambino, comparve a riposare su quelle paglie, che divennero subito portentose al risanamento d’ogni male appena venivano applicate. Sparsa la notizia del gran prodigio, si universalizzò ancora il costume di rappresentar col Presepio il gran mistero della nascita del Redentore, e sono infiniti ì prodigi che si operarono a pro di coloro che si mostrarono per tal modo devoti di Gesù Bambino. Il costume dunque di far il Presepio con distinti gruppi di ligure tutte atteggiate a devozione, quali avviantisi, quali ritornanti, e quali arrestantisi alla capanna ed afferentevi diversi doni, e festeggianti il gran prodigio coi propri musicali strumenti, è assai più stimabile di quel che si pensa, perché vanta fin dal principio l’approvazione del Sommo Pontefice ed il Papa Innocenzo IX, colla Bolla 27 Marzo 1687 approvò formalmente un Ordine Religioso che si chiamava dei Frati Bethlemitici, perché sopra del proprio abito, simile a quello dei Cappuccini, portano sempre una gran medaglia in cui è rappresentato il mistero della Nascita di Gesù nel Presepio. Quest’ordine, istituito nel 1653 da un piissimo uomo delle Canarie, per nome Pietro Betancour di S. Giuseppe, si consacra al servizio degli ospedali del nuovo mondo, specialmente nel Messico ed in Angelopoli, professando ì suoi religiosi la regola del gran padre S. Agostino.

GRANDI FATTI ACCADUTI NEL DÌ DI NATALE.

Questo giorno solennissimo per la Religione divenne in progresso anche celebre per la storia perocché nel dì di Natale Ottaviano Augusto emanò un editto con cui proibiva di dargli come in passato, il titolo di Signore. S. Ambrogio, circa l’anno 395 riconciliò con la Chiesa l’imperator Teodosio. Clodoveo, primo re cristiano di Francia, nel 496 ricevette il Battesimo in Reims dalle mani di S. Remigio, Bonifacio V, nel 617 fu consacrato Papa. Carlo Magno, nell’ 800 fu coronato imperatore dal Papa Leone III, e cosi venne a ristabilirsi l’impero d’Occidente. Ricevettero pure la imperiale corona di Natale dal papa Giovanni VIII, nell’876, Carlo il Grosso, da Giovanni XII, nel 936, Ottone il Grande; da Clemente II nel 1047, Enrico III. Il Duca Costanzo XII, nel 1060, fu eletto imperatore dell’Oriente. Guglielmo duca di Normandia, vinto Eraldo, fu nel 1066 coronato re d’Inghilterra, e stabili la nuova dinastia che dura tuttora. Balduino III figliuolo di Fulcone nel 1441, fu coronato re di Gerusalemme Michele Paleogolo nel 1258, fu coronato imperatore d’Oriente. Innocenzo IV, due anni dopo il Concilio generale di Lione, cioè nel 1247, mentre col re di Francia passava per Cluny, diede ai cardinali la distinzione che, decretata loro dal Concilio medesimo, hanno invariabilmente ritenuto la distinzione cioè del Cappello rosso all’intento di ricordar loro il grand’obbligo di esser disposti di versare anche il sangue per la difesa della Fede e del Romano Pontificato.

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A CONCLUSIONE

Abbiate adunque grande premura di festeggiare con molto fervore il Santo Natale di Cristo, che S. Gregorio Nisseno chiamava la festa delle feste. Tenetevi sempre cara la rappresentazione di Gesù nel presepio. Meditate le virtù praticate da Gesù Cristo. nella sua nascita, e sforzatevi di ricopiarle in voi stesso tenendo sempre davanti agli occhi la gran sentenza dell’Evangelio: “se non diventerete piccoli come ì bambini, non entrerete mai nel regno de’ cieli”.

LIBERTA’

[da: E. Barbier, I tesori di Cornelio Alapide]

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LIBERTA’

.1. La libertà e l’uomo libero. — 2. In che consiste la vera libertà. — 3. Da chi ci viene la libertà. — 4. Tutti siamo chiamati alla libertà, e uguali dinanzi a Dio. — 5. La libertà vera e durevole è nel cielo. — 6. Falsa libertà. — 7. I santi si adoprarono per la libertà degli uomini.

1.- La libertà e l’uomo libero. — Un uomo celebre, interrogato che cosa fosse la libertà, rispose: È la retta coscienza. Un figliuolo di Carlomagno, avendo fatto la medesima interrogazione ad Alcuino, n’ebbe per risposta: L’innocenza. Difficilmente si sarebbe potuto dare più bella, più esatta, più vera definizione. Cicerone poi chiama la libertà: La potestà di vivere come l’uomo vuole; le quali parole se a primo aspetto suonano un po’ equivoche e paradossali, considerate bene e confrontate con le seguenti, apparranno profonde e chiarissime. Infatti soggiunge subito dopo: « Ora chi è che vive come vuole, se non chi segue la retta ragione? Solo il saggio non fa nulla suo malgrado o a malincuore o sforzato. Chi porrà in dubbio che le persone leggere o cupide o cattive non siano schiave? ». Solo l’uomo virtuoso è libero… Solo i veri figli di Dio sono liberi. Che cosa è infatti la libertà dei figli di Dio? non altra cosa se non la dilatazione e l’ingrandimento del loro cuore che si libera da tutto ciò che è finito. Finita è la volontà nostra, e finché essa rimane in se stessa, si confina; desiderate essere liberi? spogliatevi della vostra volontà e non ne abbiate più altra che quella di Dio. E siccome Dio è la libertà e la potenza per natura, che fa tutto quello che gli aggrada, così anche voi parteciperete alla sua libertà, alla sua potenza, alla sua volontà. Non è conveniente all’uomo il non vedere nulla al di sopra di sé; una pronta schiavitù tien dietro a questo pensiero di orgoglio. La condizione della creatura non comporta una tale indipendenza; bisogna che sia soggetta a Dio… « Il Signore poi farà la volontà di coloro che lo temono » dice il Salmista (CXLIV, 19). Al contrario, permette che quelli i quali non si curano del volere di lui e fanno soltanto il loro proprio, non possano giammai fare quello che vogliono e diventano i più schiavi degli uomini…

2. In che consiste la vera libertà. — L’uomo veramente libero è quello che sta sottomesso a Dio, che soggioga le passioni, che evita il peccato e pratica la virtù… La libertà cristiana che fu predicata dagli Apostoli e che è la sola vera, sta in una esenzione dataci da Gesù Cristo; ma non è l’esenzione del servo dal fare quello che gli impone il padrone; non l’esenzione dall’obbedienza al decalogo, alle leggi, ai prìncipi, ai prelati, ai superiori; non l’esenzione dalle opere di penitenza e di soddisfazione; non l’esenzione dall’adempimento dei voti e delle promesse che si siano fatte, perché la libertà di sottrarsi a tutte queste obbligazioni è una libertà sragionevole, animalesca, carnale, vergognosa, ingiusta, contraria alla natura ed alla sana ragione. Non è dunque una libertà di tal fatta, la quale non sarebbe in realtà che una formale ribellione, quella che Gesù Cristo ci ha procurato; ma la libertà cristiana consiste nell’esenzione dalle molteplici cerimonie dell’antica legge, dal giogo del peccato, del demonio, della morte, come anche della dannazione eterna. « L’uomo, dice S. Leone, gode vera pace e libertà, quando la carne è governata dallo spirito e lo sprito da Dio ». Perché, come osserva S. Agostino, « l’uomo dabbene, ancorché serva, è libero e l’uomo malvagio, benché comandi, è schiavo ». L’uomo fa buon uso della sua libertà, quando sceglie di fare quello che è conforme alle leggi ed al volere di Dio; così diportandosi, egli si sottomette al suo vero e legittimo padrone. Ma servire a Dio è un regnare : la qual cosa è sodamente provata da ciò, che il servire Dio è fare della ragione un santo uso; servire Dio è un procurarci una libertà veramente reale, giacché in Dio si trova la libertà suprema; servir Dio è unirci al Re dei re e per conseguenza un regnare con lui. Al contrario se ci uniamo con gli schiavi, diventiamo schiavi con loro. Non è forse vergognosa schiavitù sottostare ai propri inferiori? Ora siccome non vi è cosa più vergognosa che le passioni, ne segue che chi serve alle passioni è il più vile degli schiavi. Il servizio più nobile sta nel sottomettersi a Dio, perché Dio solleva, come dice l’Apocalisse, coloro che lo servono; li glorifica e beatifica, li corona re e sacerdoti (Apoc. V, 10). In quattro cose consiste il servizio di Dio : 1° nel conoscere Dio e quello che conduce a lui: e qui sta veramente il fondamento del servizio divino… 2° Nel fare opere di carità e di beneficenza: mentre godiamo dei benefizi fattici da Dio, è nostro debito ringraziarlo e adoperarci a celebrare in tutto la sua bontà e la sua gloria; offerirGli e consacrarGli il nostro cuore, la nostra anima, i nostri pensieri, le nostre sollecitudini. Questo è ciò che fanno verso il loro principe i cortigiani fedeli e devoti; essi ne encomiano dappertutto e in ogni tempo le qualità e la potenza, per attirare gli uomini ad amarlo e servirlo; e guai se odono chi ne parla male… 3° Nell’attendere al culto, porgendogli i doverosi nostri omaggi con l’offerta del santo Sacrificio, con le cerimonie, coi riti, con gli inni, con le preghiere, coi voti. È questo l’uffizio degli angeli e dei santi che nel cielo vivono in Dio, l’onorano, lo lodano, lo benedicono, lo amano e lo adorano. Perciò il perfetto servizio di Dio formerà la nostra beatitudine e la vita eterna… 4° Nell’osservare i comandamenti di Dio e nel praticare la virtù… Sottomettersi a Dio e servirlo vuol dire imporsi la fortunata necessità di obbedire alle sue leggi; togliersi, per quanto si può, la triste e crudele libertà di mal fare e di perdersi. La libertà dei figli di Dio sta nel liberarsi dal peccato; ora il servizio di Dio produce questo grande e fortunato effetto e perciò ci dà la vera liberta. Notate, dice Bossuet, tre sorta di libertà che noi possiamo immaginare nelle creature. La prima è quella degli animali, la seconda è la libertà dei ribelli, la terza è la libertà dei figli di Dio. Gli animali sembrano liberi, perché non è loro prescritta nessuna legge; i ribelli si figurano di esserlo, perché scuotono da sé e disprezzano l’autorità delle leggi; i figli di Dio lo sono in fatti, sottoponendosi umilmente alle leggi; tale è la libertà vera; le altre due non sono che immaginarie… Infatti, in quanto alla libertà di cui godono le bestie, io arrossisco di chiamarla con tal nome; è vero che esse non hanno leggi le quali frenano i loro appetiti o dirigano i loro movimenti, ma questo avviene perché sono prive d’intelligenza che li renda capaci di essere governati dalla savia direzione delle leggi; esse vanno senza norma e senza giudizio là ove le trascina un cieco istinto. E chiameremo noi libertà questo istinto bruto e indocile, incapace di ragione e di disciplina? Dio non permetta, o figli degli uomini che mai vi piaccia tale libertà e che mai vogliate essere liberi in modo così vile ed indegno!… Che cosa diremo poi a quegli uomini animaleschi per i quali ogni legge è una spina e che vorrebbero vederle abolite tutte quante, per non ricevere se non quelle che dettano loro gli sregolati appetiti? Dirò loro che ricordino almeno che sono uomini e non si vantino di una libertà che li mette tra le bestie. Ponderino quella stupenda osservazione di Tertulliano. Convenne che Dio assegnasse una legge all’uomo : forse per incatenarne la libertà? No, ma perché non paresse posto nell’abbietta condizione delle bestie. Questa libertà di vivere senza leggi, sarebbe stata un’ingiuria alla natura umana. Dio avrebbe mostrato di disprezzare l’uomo se non si fosse degnato di dirigerlo e di prescrivergli l’ordine di vita: ne avrebbe fatto il conto che fa degli animali irragionevoli ai quali permette vivere senza leggi perché non ne fa stima e li lascia liberi per disprezzo. Se egli ha dunque tracciato delle leggi, se ha imposto dei doveri all’uomo, non fu per togliergli la libertà, ma per dirigerla e per mostrarci la stima in cui lo tiene. « Stabilisci, o Signore, diceva Davide a Dio, un legislatore su le genti, affinché sappiano che sono uomini »; cioè, esseri dotati di ragione e d’intelligenza e degni di essere governati da una condotta savia e regolata (Psalm. IX, 20). Da ciò risulta chiaramente che riesce a disonore, e non a vanto dell’uomo, la sua pretesa di vivere senza leggi. E cosa giusta che Dio ce ne imponga e non meno giusta che la nostra volontà loro si sottometta; perché negare obbedienza all’autorità legittima non è libertà, ma rivolta; non è franchezza, ma insolenza. Chi abusa della propria volontà fino al punto di mancare di rispetto, merita di perderla e così infatti avvenne. Perché l’uomo, scrive S. Agostino, avendo usato male della sua libertà, perdette insieme se stesso e la sua libertà. E ciò, perché ebbe l’ardire di misurare la sua libertà contro Dio; egli pensò che sarebbe stato più libero, se avesse scosso il giogo della legge divina e non conobbe, lo sventurato, qual era la natura della sua libertà; non badò che era libertà, non indipendenza; era libertà, non sbrigliamento; era libertà, non immunità della soggezione che è essenziale alla creatura. Il papa Innocenzo I dice che Adamo fu ingannato dalla sua libertà, cioè non seppe distinguere tra libertà e indipendenza; pretese di essere libero più di quanto potesse un uomo nato sotto Impero sovrano di Dio. Egli era libero come un buon figlio sotto l’autorità paterna; volle essere libero fino al punto di valicare i termini della soggezione figliale, di mancare di rispetto. Questa non è liberta, ma ribellione. La vera libertà è dipendere da Dio e occuparsi della propria salute… È un segreto di Dio il saper congiungere insieme l’affrancamento e la servitù e S. Paolo ce ne dà la chiave in quelle parole: « Chi, essendo servo, è stato chiamato al Signore, è liberto del Signore; parimente, chi è stato chiamato essendo libero, è servo di Cristo » (I Cor. VII, 22). Non ci sia cara la liberta se non per sottometterla a Dio e non abbiamo paura che la sua legge ce la involi. Chi dirà che sia un opporsi a un fiume, o chiamerà inceppamento alla libertà del suo corso, il sollevamento delle rive e lo sgombramento dell’alveo, perché le acque non straripino e inondino la circostante campagna? anzi è questo un aiutarne e renderne più regolare, più sicuro, più maestoso il sue corso naturale. Similmente non è un perdere la libertà l’imporle delle leggi, assegnarle dei limiti, affinché non devii; è al contrario un’indirizzarla più sicuramente per la via che deve tenere; con tale provvedimento non si costringe, ma si conduce; non si inceppa, ma si dirige. Sapete chi la perde, chi la distrugge? quelli che la deviano dal suo corso naturale, cioè dalla sua tendenza al sommo bene… Se vi è un mezzo di rendere libero un cuore, è il perfetto, assoluto abbandono nelle mani di Dio e della sua santissima volontà.

3. Da chi ci viene la libertà. — Disse Gesù Cristo ai Giudei: « Se voi vi manterrete saldi alla mia parola, sarete veramente miei discepoli e conoscerete la verità e la verità vi farà liberi » (Ioann. VIII, 31-32). Ora chi è la verità? Gesù Cristo (Ioann. XIV, 6). Gesù Cristo è dunque Colui che ci procura la vera libertà come egli stesso affermò : « Se il Figlio vi libererà, sarete veramente liberi » (Ioann. Vili, 36). Gesù Cristo distrusse quattro sorta di servitù e ci portò quattro sorta d libertà: 1° ruppe il giogo dell’antica legge e ci diede la libertà del Vangelo… 2° Infranse le catene della schiavitù in cui ci teneva il peccato e ci chiamò alla libertà della giustificazione… 3° Abbatté l’impero della concupiscenza e stabilì la sovranità della carità e della grazia… 4° Distrusse la morte e diede la vita… Ce ne assicura San Paolo che scriveva ai Galati : « Cristo ci ha liberati » (Gal. IV, 31), ed ai Corinzi diceva che, « dove è lo spirito di Dio, ivi è la libertà» (II Cor. III, 17). » Chi mirerà addentro nella perfetta legge della libertà ed in essa persevererà, costui sarà fortunato nelle opere sue », dice S. Giacomo (Iacob. I, 25). Questa legge perfetta di libertà è la legge evangelica. 1° È legge di libertà, perché ci ha sciolti dai precetti giudiziali e cerimoniali dell’antica legge; non però dal Decalogo, poiché il Decalogo obbliga non già perché fu promulgato da Mosè, ma perché è la legge medesima naturale sanzionata da Dio e rinnovata da Gesù Cristo il quale diceva: «Non sono venuto per abolire la legge, ma per adempirla », cioè perfezionarla (Matth. V, 17). 2° È legge di libertà, perché ci ha fatti liberi dal peccato, riscattati dalla potestà del demonio e dell’inferno… Ora non v’è altra libertà vera presso Dio, scrive San Gerolamo, fuorché l’esenzione dal peccato. 3° È legge di libertà, perché ci libera dalla costrizione e dal timore; dovendo noi osservare i precetti di Dio non per paura della vendetta, ma per amore della giustizia. I cristiani non sono servi come i giudei, ma sono figli. « Noi non sottostiamo, osserva S. Agostino, a una legge che ordini il bene ma che non ci dia potere di farlo; bensì viviamo sotto la legge di grazia, la quale portandoci ad adempire per amore quello che la legge comanda, può esercitare il suo impero senza ledere la libertà di chi obbedisce… Non abusiamo della nostra libertà per peccare liberamente, ma serviamocene per non peccare. Poiché la nostra volontà è libera, se è pia; saremo liberi, se saremo servi: liberi dal peccato, soggetti alla giustizia ». Qui si adatta quel detto di Seneca: « Noi siamo nati per regnare; obbedire a Dio è libertà ». 4° Finalmente, la legge evangelica è libertà, perché nel giorno della risurrezione saremo liberati dalla morte e da ogni miseria… Dice ancora S. Agostino: « Ci libera da ogni servitù Colui la cui servitù è utilissima a tutti e al cui servizio chi attende con amore trova la sola vera libertà, la libertà regale, poiché essere servo di Dio è essere re ». « O Signore, esclamava il profeta, voi avete rotto le mie catene, perché io sono vostro servo, vostro servitore devoto e figlio della vostra serva » (Psalm. CXV, 6) « L’anima nostra, invischiata come passero nella pania, ne fu strappata; il laccio fu tagliato e noi fummo rimessi in libertà» (Psalm. CXXIII, 6-7). « Quando il Signore che scioglie gli incatenati liberò Sion dalla sua schiavitù, ci siamo rallegrati » (Psalm. CXLV, 6)-(Psalm. CXXV, 1). « Noi speriamo, scrive S. Agostino, di essere fatti liberi dal principe della libertà, il quale liberandoci ci salverà. Noi eravamo schiavi delle passioni; resi alla libertà, diventiamo servi della carità ». Sì, Gesù Cristo ci ha liberati dalla servitù del peccato, del demonio e dell’inferno. Questa libertà, da lui procurataci, è la libertà dell’anima; libertà somma, preziosissima, eterna, per ottenere la quale dovremmo contare per nulla tutte le cose anche se ci dovesse costare la schiavitù per tutta la vita presente… Ma per fortuna anche da quest’ultima servitù Gesù Cristo ci ha liberati : 1° perché venendo al mondo, principe della pace, ha portato con sé la pace al mondo; 2° perché ha cambiato la servitù, da castigo della colpa, in semplice condizione di nostra natura, o meglio ne ha fatto un esercizio di pazienza e di virtù, il principio e la causa della libertà e della gloria celeste; 3° perché mediante la sua grazia ha reso la servitù dei cristiani volontaria, dolce, cara, non più dura e forzata come quella dei Giudei; 4° perché alla risurrezione, annienterà per i santi ogni virtù, darà loro non solamente la libertà, ma il regno dei cieli, affinché siano re e re in eterno. Aveva dunque ben ragione S. Paolo di dire ai cristiani: « Voi tutti siete chiamati da Gesù Cristo alla vera libertà » (Gal. V, 13). Ma se questo c’importa e ci rallegra, ricordiamoci che il nostro riscatto costò il sangue di un Dio, e redenti a prezzo così grande, non avviliamoci più a farci schiavi: (I Cor. VII, 23).

4. Tutti siamo chiamati alla libertà, e uguali dinanzi a Dio. « Voi tutti, proclama il grande Apostolo, siete figli di Dio per la fede in Gesù Cristo. Non vi è più né giudeo, né greco, né servo, né libero, né maschio, né femmina, perché tutti siete una cosa sola in Gesù Cristo» (Gal. III, 26, 28). « Non siete più servi, ma figli; e se figli, certamente anche eredi di Dio per Gesù Cristo» (Gal. IV, 7). Ed agli Efesini scriveva: «Voi non siete più pellegrini e stranieri, ma concittadini dei santi e familiari della casa di Dio » (Eph. II, 19). Noi, cristiani, apparteniamo tutti alla città degli angeli, dei patriarchi, dei profeti, alla casa, alla gente di Dio; siamo della famiglia del re Messia, abbiamo diritto ai Sacramenti ed a tutti i beni di Gesù Cristo e dei cristiani; noi siamo registrati tra gli eredi del regno celeste… Noi abbiamo tutti un solo e il medesimo maestro e padrone nel cielo; e questo padrone non guarda in faccia a persona.

5. La libertà vera e durevole è nel cielo. — Noi che abbiamo creduto entreremo nel riposo, dice S. Paolo (Hebr. IV, 31. Quanta pace, gioia, riposo, libertà voi godreste, o uomini del mondo, se poteste essere assicurati che le vostre ricchezze non subiranno mai nessuna perdita, che la vostra fortuna non sarà mai in pericolo, che le vostre forze e la vostra sanità non soffriranno mai acciacco né malattia! Il vostro stato vi sembrerebbe il più lieto, il più invidiabile! Quanto adunque non sarete voi liberi e felici, quanta non sarà la dignità e la gloria della vostra libertà quando non potrete più essere ingiusti, non più impuri, non più peccatori; quando non potrete più perdere Iddio, non più decadere dalla vostra giustizia e per conseguenza dalla vostra felicità! Ma tale pace e tale libertà non si trovano che in cielo. – Facciamo dunque quaggiù buon uso della libertà e la libertà ci sarà data pienissima, intera, potentissima; noi non potremo più soggiacere a nessuna servitù, né interiore, né esteriore, né fisica, né morale; noi saremo eternamente liberi ed eternamente consacreremo la nostra libertà ad amare, lodare, benedire la libertà, che è Dio…

6. Falsa libertà. — Quando Gesù disse ai Giudei che la verità li avrebbe liberati, essi quasi offesi risposero bruscamente: Forse che noi, stirpe di Abramo, fummo giammai schiavi? E Gesù riprese: « Vi assicuro, in fede mia, che chiunque pecca, è schiavo del peccato » (Ioann. VIII, 34). Ecco dove si trova, per testimonianza di Gesù Cristo, la schiavitù veramente spaventosa: nel peccato e non altrove che nel peccato. « L’uomo virtuoso, dice S. Agostino, anche schiavo, è libero; il malvagio, invece, foss’anche re, è schiavo; né schiavo di un solo uomo, ma, quel che è peggio, di tanti padroni quanti sono i suoi vizi ». Gli increduli, gli empi, i peccatori, i ribelli, gli uomini perversi e corrotti, vivendo senza freno, senza legge, senza principi, senza religione, senza coscienza, senza Dio, non sono liberi, ma interamente schiavi, perché venduti al peccato secondo la frase di S. Paolo(Rom. VII, 14). Essi vogliono una perfetta libertà e cadono in una completa schiavitù; quindi la loro libertà perisce appunto perché la vogliono troppo estesa. Cercandola assoluta, la distruggono, perché lasciati in loro balia, si gettano ciecamente in ogni eccesso, e tanti tiranni incontrano quante passioni accarezzano. L’esempio del prodigo attesta questa triste e terribile verità. Quel giovane abbindolato non si crede abbastanza libero nella casa paterna, dove gode l’abbondanza di tutto; gli viene il capriccio di uscirne e cerca modo di soddisfarlo; vuole schermirsi dagli sguardi e dai caritatevoli ammonimenti del padre che gli rimprovera con dolcezza le prime sregolatezze. Egli parte, si allontana e penetra in un paese lontano… Troverà egli la libertà? Ahimè! quanto più affannosamente le corre dietro, tanto più essa gli sfugge. In breve tempo egli dà fondo ad ogni suo avere, abbandonandosi con falsi amici all’impeto delle malnate sue inclinazioni. Fortuna, onore, sanità, pace e gioia, tutto perde a un tratto e cade nell’indigenza torturato dalla fame, dalla sete, dal freddo. Disprezzato, abbandonato da tutti, si vede costretto a mettersi al servizio di un padrone spietato che lo manda alla campagna a guardare una mandra di maiali. Là divorato dalla fame, vorrebbe cibarsi delle ghiande e non ha chi gliene dia. O prodigo, hai tu trovato la libertà, la felice libertà? La libertà del prodigo è l’immagine della libertà che godono gli impudichi, gli avari, i golosi, tutti quelli insomma che si sono venduti al peccato e portano il ferreo giogo del demonio e delle passioni. Di costoro (cioè degli empi, degli eretici, dei dissoluti) parla San Pietro, quando dice che vi sono certuni i quali « promettono la libertà, mentre sono essi medesimi schiavi della corruzione; poiché il vinto è schiavo di colui che lo ha vinto » (II Petr. II, 19). « Infatti, dice S. Cirillo, la troppa libertà porta la perdita della libertà; perciò i governi che non frenano la troppa libertà dei malvagi, rovinano per questa libertà, che si cambia in licenza, in ribellione, in ingiustizia, in misfatti » (Catech.). Finché il corpo sta soggetto all’anima, vive; se vuole liberarsene, muore. Una nave che obbedisce al pilota, scampa al naufragio; lasciata a se stessa, diventa zimbello delle tempeste, rompe negli scogli, si sprofonda nell’abisso per non più comparire. La formica che mette le ali è più libera, perché può volare, ma allora appunto va alla prigione e alla morte. Similmente la libertà dei malviventi diventa per loro principio di schiavitù e di morte… I cattivi, non volendo dipendere da Dio, si rifiutano di essere quello che dovrebbero essere, cioè creature ragionevoli, intelligenti, create da Dio e per conseguenza dipendenti da lui. Combattono dentro se medesimi i primi principi e il fondamento del loro essere; corrompono la naturale loro equità, si inimicano Dio e si attirano perciò la sua collera. Il peccatore adopera la sua libertà per muovere guerra a Dio e se ne serve per trasgredire tutte le sue leggi… In pena di non aver riconosciuto il possesso dei veraci beni datigli dal Creatore, l’uomo viene abbandonato all’illusione dei beni apparenti. Ebbe a nausea i piaceri del cielo e diventa ludibrio dei piaceri terreni che menano le anime alla perdizione. Non volle la libertà ricevuta dal Signore e gode la libertà immaginaria che gli presenta la sua ragione bisbetica e viziata. Noi siamo liberi, dicono i peccatori, noi possiamo fare quello che ci piace. Come, voi potete fare ciò che vi piace? risponde loro Bossuet; ed io invece vi assicuro che voi non potete fare quel che vi piace e se anche lo poteste, non perciò sareste liberi. Voi non potete fare quello che volete, poiché non sta in voi l’impedire che la vostra fortuna non sia incostante, che la vostra felicità non sia fragile, che l’oggetto dei vostri amori non vi sfugga, che la vita non vi manchi nel bel mezzo delle vostre imprese, che la morte non tronchi il filo di tutti i vostri disegni. Voi non potete quel che volete, poiché non potete impedire di vedervi delusi nelle vane vostre pretese: o voi mancate a loro, o esse mancano a voi; voi mancate a loro quando non raggiungete la vostra méta, esse mancano a voi, quando dopo di averla raggiunta, non vi trovate quello che vi cercavate. Voi non potete fare ciò che più vi sta sul cuore, voi desiderate i piaceri, la felicità e invece dovete subire ciò che più vi dispiace e vi ripugna, cioè la giustizia divina e i suoi castighi… Facendo quello che volevo, confessa di sé S. Agostino, io arrivavo dove non volevo. La falsa libertà consiste nel voler fare il proprio volere. Questa vana mostra d’indipendenza è la libertà di Satana e dei ribelli suoi complici… Quali sono i vostri sentimenti, o peccatori accecati, quando pretendendo di essere liberi, prendete per norma di condotta il vostro umore, la vostra passione, la collera, il vostro capriccio? Quando rigettate ogni freno, ricalcitrate contro ogni legge, non soffrendo né ritegno, né rimprovero, né ammaestramento, né guida? Voi volete la libertà dei cavalli sfrenati, dei leoni, delle tigri… Il nome di libertà è il più dolce, il più lusinghiero, ma è anche il più fallace, il più ingannatore dei nomi. I tumulti, le sedizioni, il disprezzo delle leggi, hanno sempre la loro causa o il pretesto nell’amore di una libertà male intesa. Non vi è bene naturale di cui tanto abusino gli uomini, quanto della libertà…

7. I santi si adoperarono per la libertà degli uomini. — S. Epifanio, vescovo di Pavia, fece nell’anno 493 un viaggio in Borgogna per riscattare i prigionieri ritenuti dal re Gondebaldo (In Vita). S. Poppone, abate di Stavèlo nella terra di Liegi, si adoperò a tutto potere presso il re Enrico, per ottenere l’abolizione della barbara usanza di far combattere gli uomini con gli orsi (In Vita), S. Batilde, regina di; Francia, abolì la schiavitù. La regina Bianca ed il santo re Luigi confinarono in ristrettissimi limiti il diritto di vassallaggio (In Vita). S. Pier Nolasco, S. Giovanni di Matha consacrarono tutti i loro averi e le persone loro alla redenzione degli schiavi (In Vita). La storia della Chiesa e la vita dei Santi, segnano in ogni pagina gli sforzi e le fatiche che fecero in ogni tempo i figli di Gesù Cristo, per procurare agli uomini la vera libertà e distruggere la schiavitù. In ciò risplendono particolarmente i Sommi Pontefici i quali non cessarono mai, fino a questi ultimi giorni, di fulminare ogni maniera di schiavitù, con qualunque nome l’umana cupidigia la nasconda e di proteggere ogni vera, ogni sana libertà e politica e civile.

L’Aspettazione della Santa Vergine.

Un’antica tradizione di Toledo per contemplare i Desideri di Maria negli ultimi otto giorni di Avvento

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Nel secolo VII il santo Papa Martino I confermò con Decreto uno stabilimento della chiesa di Toledo che da tempo immemorabile celebrava la Festa dell’Aspettazione il diciotto di dicembre, otto giorni prima del Natale. In seguito Sant’Ildefonso difese e propugnò questa tradizione dandole il titolo di Aspettazione del Parto della Santa Vergine. Così il vescovo della città spagnola voleva fare intendere ai suoi fedeli che, quantunque durante tutto il tempo dell’Avvento dovessero anelare ardentemente con la Chiesa la Nascita del Signore, la loro premura e i loro desideri per il Parto sacro della Vergine dovevano essere raddoppiati in questi otto giorni. Il culto dell’Aspettazione, poi detto anche dei Desideri di Maria, si diffuse in tutta la Spagna, passò in Francia e in Italia. In Messico “Nuestra Señora de la Expectación” è venerata nell’antica cattedrale di Zapopan ed è all’origine del cattolicesimo in quella terra. In Spagna la Vergine dell’Aspettazione si celebra per uno spazio di otto giorni con grande pietà. Ogni giorno si dice una Messa solenne alla quale assistono le donne gravide. La festa è stata sempre mantenuta in Spagna ed è stato approvata per Toledo nel 1573 da Gregorio XIII come “doppio” maggiore, senza ottava. La chiesa di Toledo ha il privilegio (approvato 29 Aprile 1634) di celebrare questa festa, anche quando essa cade nella quarta Domenica di Avvento. – Proponiamo qui di seguito un testo spirituale nel quale il padre domenicano Sante Pascucci rifletteva nell’anno 1750 sulla magnificenza e sui doni dei Desideri di Maria: in attesa con tutta la Chiesa del divino Parto. – “Avvicinandosi il compimento de’ novi Mesi di gravidanza della S.S. Vergine; ella, che sempre era stata in aspettazione del suo Parto, cominciò a vivere più che mai anelante di darlo in luce pur, una volta, sì per rispetto di Gesù; acciò terminassero quelle incomodità, e que’ patimenti, che sosteneva nell’oscura e stretta prigione del suo Ventre; sì per rispetto degli Uomini, acciò entrassero anch’essi in parte d’un tanto dono; e tutti ne godessero beneficio; giacché s’era incarnato appunto per tutti; sì finalmente per rispetto proprio, acciò potesse vagheggiare la di Lui bellissima faccia, stringerLo amorosamente al seno; affettuosamente baciarLo; e godendo della sua esteriore presenza impiegarsi tutto giorno in di Lui servigio. Da tali desiderj infiammata, ben può credersi, che ad ogni tratto seco parlasse col cuore, e gli dicesse: quando sarà, o Figlio, quell’ora, quando giungerà quell’istante, in cui vi vegga fuori attaccato al petto di me vostra dilettissima Madre? Mio bene, a che tardate; mia vita a che tanti indugi? Mio amore, a che più dimore? Ah che gli occhi miei si struggono, per voglia di vedere il vostro bel volto. Ah che le mie braccia anelano di stringervi a questo seno. Ah che le mie mani son avide d’accarezzarvi, i miei labbri di baciarvi, le mie orecchie di udirvi, le mie poppe d’allattarvi. Così approssimandosi sempre più l’ora del parto, crescevano maggiormente in Maria non i dolori, non le convulsioni, compagne ordinarie degli altri parti; ma gli ardori dei desiderj col fervore delle preghiere, e con l’intenzione degli abiti virtuosi: sin che giunse quel momento, in cui questo benedetto frutto di vita dolcissimamente si staccò dall’Albero: diventando la Vergine compitamente Madre; e restando nella sua Verginità illibata. Or in memoria di ciò fu istituita, al tempo del Sommo Pontefice Martino primo, nel Concilio decimo Toletano, questa Festa chiamata de’ Desideri di Maria, o dell’aspettazione del Parto della Vergine. E perché indi a diecissette anni, essendo contraddetta da alcuni nella Spagna, venne difesa da Idelfonso: questi ne fu dall’istessa Vergine, per ricompensa, adornato d’un candido manto. Ad oggetto poi che si celebrasse più perfettamente, fu altresì istituita, in riverenza de’ nove Mesi della gravidanza dell’istessa Vergine, una Novena di giorni, la quale serva insieme per apparecchio della Festa del S. Natale. Né andò guari, che principiata nella Spagna, largamente si propagò negli altri Regni Cattolici, e specialmente nella nostra Italia, con non ordinario frutto de’ Fedeli”. – La festa del 18 dicembre è stata comunemente chiamata, anche nei libri liturgici, “S. Maria della “O”, perché in questo giorno i chierici del coro dopo i Vespri emettono un forte e prolungato “O”, per esprimere il desiderio dell’universo per la venuta del Redentore. Questa festa e la sua ottava erano molto popolari in Spagna, dove la gente ancora lo chiama “Nuestra Señora de la O”.

 

J.-J. GAUME: La profanazione della DOMENICA [lett. V]

J.-J. Gaume: La profanazione della DOMENICA

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LETTERA V.

LA PROFANAZIONE DELLA DOMENICA:

ROVINA DELLA FAMIGLIA.

18 aprile.

I.

Signore e caro amico,

Quello che mi dite voi nella vostra risposta d’inintelligenza del paese legale, havvi nulla che debba apportarvi stupore. Il nostro paese legale non è cristiano; ciò che vuol dire, domandandogliene io perdono, che in fatto di leggi sociali, di salute sociale, di progresso sociale, esso è cieco ed impotente. Il molto è tanto vero, quanto antico, e conia tremila anni; e se lo trova duro, ne muova querela con colui che lo pronunciò: ché vani sono quegli uomini tutti, i quali sono privi della scienza di Dio [“Vani enim sunt omnes homines in quibus non subest scientia Dei”. (Sap. XIII, I.) – “Nisi Dominus ædificaverit domum, etc.”]. – Frattanto che lo ripeto, cotesta è la disgrazia e la punizione de’popoli materialisti di perdere la conoscenza delle leggi fondamentali delle società. Il mortale senza fede religiosa non sa che la società è un fatto divino; un fatto che sussiste in virtù delle leggi, che l’uomo non istabili, e che non può toccare senza produrre uno scrollamento od una rovina. Egli s’immagina al contrario aver facoltà di costituire una società, come l’architetto di costruire una casa; di sostener la società vacillante con leggi a suo modo, come si sorregge con puntelli un casolare. – Certamente, se le leggi umane potessero sole assicurarsi 1’esistenza d’ una nazione, giammai nazione avrebbe avuto argomenti più positivi di longevità che la Francia moderna. La cosa procede diversamente; nonostante tutte le leggi umane, sì numerose e sì saviamente elaborate ch’esse siano, la violazione d’una sola legge divina è sufficiente per condurre una serie di rovine parziali, le quali finiscono presto o lardi per una compiuta rovina. All’esempio presentatovi nell’ultima mia lettera, n’aggiungo io un secondo, per dimostrare non già a voi, signor rappresentante, che lo sapete, ma a parecchi de’vostri colleghi, i quali fingono di non accorgersi, che la profanazione della domenica è la rovina della famiglia.

II.

Nulla di più necessario, nulla di più delizioso, nulla di più onorevole che la famiglia: ecco quello che ognora è vero. Ma nei tempi attuali, in cui la società trovasi divisa in mille partili, i quali si detestano mentre che si lacerano, la famiglia è il solo bene comune che rimane al mortale. Se dunque stabilisco io con ineluttabile evidenza, che la profanazione della domenica distrugge questa cosa cotanto indispensabile, cotanto santa e cotanto dolce, sarà egli d’uopo d’altro motivo per ricondurre immediatamente il riposo sacro del settimo giorno? Ebbene si! La profanazione della domenica è la rovina della famiglia. Per verità, non si dà famiglia senza la pratica de’ doveri che la costituiscono, e senza il vincolo il quale unisce i membri che la compongono.

III.

Elemento primitivo della Chiesa e dello Stato, la famiglia ha per oggetto d’alimentare l’una e l’altro, conservando il fiume delle generazioni umane. Alla Chiesa, ella dona fedeli; allo Stato, cittadini. Dal che nascono doveri religiosi e doveri civili. Questi doveri sono le leggi che ne uniscono tra di loro i membri: doveri di nutrire, d’istruire, di, sorvegliare, di riprendere e d’edificare dalla parte del padre e della madre; e dalla parte de’ figliuoli, doveri di rispettare, amare, d’ubbidire, d’assistere gli autori de’ loro giorni. Egli è la religione che dà il conoscimento di questi doveri sacri; come essa inspira il rispetto necessario per riempierli. Fate ora che la domenica sia profanata da tutti i membri, o soltanto dal capo di famiglia, lo stesso pur troppo succederà prestamente de’doveri che la costituiscono.

IV.

In effetto si toglie l’assistenza comune alle istruzioni, le quali insegnano a’ singoli membri della famiglia le reciproche obbligazioni loro: istruzioni necessarie al genitore, a cui esse ridicono, e ciò in presenza di tutti i fedeli, in presenza di sua sposa e dei suoi figliuoli, che una grande dignità a lui è conferita, ma che una grande responsabilità pesa sopra di esso stesso; ch’egli è rivestito d’una duplice autorità del sacerdozio e dell’impero, non per esserne despota, ma ministro di Dio pel bene; ch’egli debbe, immagine vivente dell’Altissimo, comandare, riprendere, dirigere la sua casa con saviezza ed equità, come il Creatore governa l’universo. – Istruzioni necessarie alla genitrice fa cui esse ridicono, e ciò alla presenza di tutti i fedeli, al cospetto di suo marito e di sua prole, che la sua vita deve essere un sacrificio di tutti i giorni e di tutte le ore, ch’essa stessa esser debbe l’angelo della sottomissione, del pudore, della clemenza, della carità, del lavoro e della pace, acciocché diriga l’interno della sua famiglia, come la Provvidenza medesima ciascuna cosa regge per la doppia possanza della dolcezza e della forza. – Istruzioni necessarie al padre ed alla madre, a’quali essi ridicono, e ciò dinanzi a tutti i fedeli, e davanti dell’uno e dell’altro e de’ loro figliuoli, che la religione e la società tengono fissati in su di essi gli sguardi loro, che la figliolanza loro è un sacro deposito, di cui loro sarà domandato conto, sangue per sangue. – Istruzioni necessarie a’figliuoli, a’ quali queste ripetono, e ciò alla presenza di tutti i fedeli, de’padri e delle madri, dei fratelli e delle sorelle loro, che, sotto pena di grave colpa innanzi a Dio ed agli uomini, e di severe punizioni in questa vita e nell’altra gravitano sopra di essi quattro doveri sacri da compiersi verso de propri parenti: il rispetto, l’amore, l’ubbidienza, l’assistenza spirituale e corporale, in prima e dopo la morte loro.

V.

Cessino per un tanto poco queste istruzioni, ed in sull’istante la conoscenza de’ doveri della famiglia s’infievolisce, diventa prestamente soltanto una vaga reminiscenza senza influenza sovra la condotta: la santa dignità della missione loro vien posta in dimenticanza da’ parenti. Agli occhi loro il pargoletto non è più un candidato del cielo, ma un cittadino della terra, ma un pusillo della specie umana. Crederanno essi aver compiuto ogni legge, come avranno inspirato nel cuore de’ figliuoli e delle figliuole loro 1’amore a’ beni di questo mondo, procurando loro i mezzi di procacciarseli: cioè allorquando avranno formato reclute al socialismo ed al comunismo, estremo a cui metton capo, necessariamente, per una o per un’altra via, le tendenze del mortale privo di speranza al di là della tomba. Allora dal domestico focolare sbucano sciami di esseri perversi, e tanto più pericolosi che nulla nell’anima loro risponda alle grandi nozioni del dovere, del sacrificio e della virtù. Come mai la società, per entro la quale entrano costoro di tale guisa preparati, non si risentirà essa profondamente troppo del contraccolpo de’ principi di disordine, che v’apportano? Eppoi, il conoscimento de’ doveri non è sufficiente: è indispensabile il coraggio di adempierli. Ora, niun dovere n’esige uno maggior d’ubbidienza, di sollecitudine, di sacrificio, di perseveranza, cioè il verace coraggio, che i doveri della famiglia. – Iddio unicamente può darlo e sostenerlo. L’ elargirà Egli mai, se non si degna il mortale nemmeno di domandarglielo? E a Lui lo si domanda mai seriamente, quando si profana il giorno consacrato alla preghiera? Ohimè, i genitori profanatori della domenica non pregheranno né in cotesto né in altri giorni, ed assai in breve i figliuoli stessi non pregano più. Ma senza orazioni, e sopratutto senza orazioni fatte in comune, ai piedi de’santi altari, senza partecipazione comune al banchetto divino, senza edificazione vicendevole, conseguentemente senza la grazia divina, che addiviene il coraggio cristiano, che addiviene la famiglia? – I cattivi istinti inerenti alla natura umana riprendono l’impero. E voi avete de’ padri duri, iracondi, capricciosi, indolenti, bordellieri: voi avete delle madri molli, impazienti, mondane, accidiose e troppo sovente infedeli; voi avete dei figliuoli irriverenti, insommessi, libertini, disaffezionali, divorati dalla brama dell’indipendenza; ed invece di riposare tranquilli come in un paradiso, il tetto domestico si permuta in un inferno: la famiglia più non esiste. Non è questa punto una supposizione gratuita, ma un fatto conosciuto; un fatto di cui il più oscuro villaggio della più oscura provincia presenta la trista prova, un fallo che tulle le nostre ville vi offrono venti volte nella lunghezza d’una contrada: un fatto che si rivela ciascun giorno per querele, divisioni, processi scandalosi, bestemmie, lacrime, tratti d’ingratitudine e di durezza che fanno tremare e vergognare.

VI.

Quante fiate, signore e caro amico, non siete voi stato colpito da questo sintomo di decadenza che offerisce, infra noi, la domestica società, l’insubordinazione vi sembra ordinata, e confesso di tenerlo per uno de’ presagj i più certi della prossima rovina, da cui minacciate sono le vecchie nazioni dell’Europa meridionale. Lo stato della famiglia determina quello della socielà. Infino ad un certo punto i governi possono esistere senza pubblici costumi, ma non senza costumi domestici: testimoni due grandi fatti che non sfuggirono niente alle vostre meditazioni. Il primo appartiene al mondo antico, il secondo sussiste ancora: io voglio parlare dell’impero Romano e dell’impero Cinese. – Mi sono spesso domandato, qual era il vincolo sociale, che conservalo aveva per tanto lunga pezza questi due colossi in stato di nazione? Se considero io la religione, la legislazione, la giustizia, i costumi pubblici, lungi dal trovar de’principi di vita, io scorgo anzi dovunque i germi i più attivi di dissoluzione. Il materialismo il più grossolano tutto vi penetra, tutto vi domina, di tutto vi tiene luogo; si bene che il Cinese d’oggi giorno vi dirà essere esso in sulla terra per papparsi di riso, come il Romano delle altre volte diceva che vi si trovava per mangiar del pane, ed assistere ai giuochi del circo. – Nulla dimeno, ogni cosa ha la sua ragione per cui sussiste. Dove rinvenire quella di questi due giganteschi imperi? Unicamente nel rispetto dell’autorità paterna, cioè nel vincolo domestico. In niuna parte, voi lo sapete meglio di me, questo legame non fu più esteso , più forte, più sacro. Quando esso si ruppe, l’impero Romano cadde in polvere, e quando si romperà nel celeste impero, noi vedremo la medesima catastrofe.

VII.

Ma la profanazione della domenica non è la rovina della famiglia solamente perché essa sospinge il mortale all’ignoranza ed all’ oblio dei doveri, che la costituiscono, essa l’è eziandio perché infrange il legame, che unisce i membri i quali la compongono. Si conosce forse a fondo il modo di vivere degli artigiani, degli operai e della più parte degli abitanti delle campagne, cioè dei tre quarti degli uomini? – Allo spuntar dell’alba, il capo della famiglia ha lasciato il suo letticciuolo. – L’ora del lavoro lo chiama, esce di sua casa senza aver veduta la sua figliuolanza, che ancora riposa tra le braccia del sonno. – Due volte il giorno viene egli, correndo, a prender 1’alimento necessario al sostentamento di sue forze. I suoi fanciulli o sono assenti, ritenuti alla scuola, al lavoro; oppure, se trovansi presenti, né li vede, né loro parla che in fretta. Giunge la sera, e il padre, rifinito e prostrato di forze s’affretta d’andar a cercare in un sonno riparatore il vigore indispensabile alle opere dell’indomani. Altre volte una corsa necessaria, o il seducimento dei compagni a lui ruba quei pochi istanti, di cui potrebbe disporre in favore di sua famiglia. Succede quasi ad un dipresso di altra classe, presentemente assai numerosa, di uomini impiegati nei banchi, nelle compagnie delle strade ferrate, o negli uffici delle amministrazioni dello Stato. Ora, siffatta assenza, siffatta separazione della famiglia avviene in ciascun giorno della settimana dal principio dell’anno fino al fine; colla profanazione della domenica, quella diventa perpetua. In questo caso, il padre e la madre rassomigliano agli animali selvatici, de1 quali l’uno dalla mattina è in giro per rintracciare del pascolo alla sua prole; frattanto che l’altro monda la caverna, e protegge i teneri parti, insino a tanto che questi, divenuti più forti, abbandonino essi medesimi la dimora, in cui nacquero, e dimentichino per sempre gli autori di loro esistenza. Tale è il degradante andamento, a cui la profanazione della domenica condanna la cosa la più santa, la più nobile del mondo : la famiglia.

VIlI.

Il santo riposo solo della domenica è capace di sottrarvela. In questo giorno tutti i membri della famiglia, liberi dalle opere servili, possono insieme passare dei preziosi istanti. Il padre può agevolmente assai interrogare i suoi figliuoli, farli discorrere, studiare il loro carattere, i loro difetti, le buone qualità loro; incoraggiare gli uni, riprendere gli altri, dare a ciascuno utili consigli, cavati sia dalle confidenze della madre, sia dalle confessioni che egli intese dai fanciulli istessi, sia dalle istruzioni della Chiesa, sia da una lettura vantaggiosa e gradevole fatta in comune. Può egli informarsi di proposito, e non leggermente, appresso de’ maestri, e delle maestre loro, della loro attitudine, della loro condotta, della loro frequenza, della loro esattezza alla scuola od al laboratorio; in una parola egli può compiere il più dolce, come il più sacro de’ suoi doveri : l’educazione dei suoi pargoletti. In quanto poi ai figliuoli stessi, questi da un canto osservando il genitore loro rispettosamente sottomesso al Padre che è ne1 cieli; dall’altro la sollecitudine e bontà di lui, apprendono a meglio conoscerlo, a rispettarlo più religiosamente, in breve a temerlo, di quel timore sì dirittamente nominato il timore figliale. – Diventando più cristiano, il vincolo della famiglia diviene e più dolce e più forte. Per tutti, 1’interno del focolare domestico prende una novella attrattiva, pegno prezioso della concordia e salvaguardia de costumi. – Somigliante risultamento è infallibile sopratutto allorquando la giornata, santificata per l’assistenza comune agli uffizi della parrocchia, si compie per visite fatte o ricevute ai differenti membri della famiglia, per passeggiate gradevoli, per giuochi innocenti, e per quelle cene piacevolissime, e desiderate sempre mai, le quali riuniscono intorno ad una mensa semplicemente imbandita parecchie generazioni di parenti e di amici. Tutte queste gioie sì morali e sì vive, le sole, ahimè alle quali si possa di presente aspirare, divengono il frutto della santificazione del giorno sacro. Per lo contrario colla profanazione della domenica nulla di tutto ciò è possibile. A buon diritto dunque io premisi, che per questo nuovo motivo codesta profanazione diventa la rovina della famiglia, posto che essa n’infrange il vincolo, come la stessa ne fa obliare i doveri. Gradite, ecc.

Un’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA-APOSTATA DI TORNO … e pure il falso tradizionalista: “GRAVES AC DIUTURNAE

Oggi ci occupiamo di una lettera enciclica di Pio IX poco conosciuta dal pubblico, accuratamente occultata, o quantomeno poco citata, perché dal contenuto scomodo, non solo per i falsi cattolici del N.O., ma ancor più dai sedicenti “tradizionalisti[la seconda ganascia della tenaglia stritola-cattolico], che si arrogano il diritto di “consacrare” Vescovi e sacerdoti, di istituire seminari, amministrare sacramenti in modo quantomeno illecito, cioè sacrilego e gravemente peccaminoso, in nome di una presunta necessità di operare nella sedicente tradizione cattolica, pur eludendo totalmente dai canoni della Chiesa Cattolica. Come allora, oggi ancor più, in Svizzera e un po’ dappertutto nel mondo oramai, imperversano i falsi“veri cattolici” della tradizione, i falsi profeti in veste di agnello, travestiti con talari nere o rosse, dai volti e dai modi rassicuranti, appartenenti a “scuole di pensiero” diverse, ma tutte facenti capo, in un modo o nell’altro, ad uno stato scismatico ed autogestito, slegato totalmente dalla gerarchia, governato da autorità auto-create ad hoc, senza giurisdizione o missione di alcun genere, investiti direttamente dall’ “Autorità divina”, circondati da aloni mistici, o di santità autoproclamata  ed accettata come ordinaria ed autentica dai poveri “brocchi” che vi aderiscono con nocumento gravissimo delle loro anime. Ma iniziamo: “Graves ac diuturnæ insidiæ et conatus quos in dies magis neohæretici … etc. ….

GRAVES AC DIUTURNAE

S. S. Pio IX

pio-ix

Le gravi e diuturne insidie, e gli sforzi che ogni giorno più compiono in codesta regione i neo-eretici, che si dicono vecchi cattolici, per ingannare e strappare dall’avita fede il popolo fedele, Ci muovono, per dovere del supremo Nostro Apostolato, a portare con ogni zelo le cure e le sollecitudini paterne in difesa della salute spirituale dei Nostri Figli. Ci è noto infatti, Venerabili Fratelli, e con dolore lo deploriamo, che i predetti scismatici ed eretici, nel territorio della diocesi di Basilea, ed in altri luoghi di codesta regione, mentre la libertà religiosa dei cattolici è pubblicamente oppressa dalle leggi scismatiche, essi, col favore dell’autorità civile, esercitano il ministero della condannata loro setta, e, occupate violentemente le parrocchie e le chiese da preti apostati, non tralasciano alcun genere di frode e di artificio per attirare miseramente nello scisma i Figli della Chiesa cattolica. Siccome poi fu sempre proprio e peculiare degli eretici e degli scismatici l’usare simulazione ed inganni; così questi Figli delle tenebre (che debbono annoverarsi fra coloro ai quali fu detto dal Profeta: “Guai a voi, figli disertori, che nutrite fiducia nella Protezione dell’Egitto: avete respinto il Verbo e avete confidato nella calunnia e nel disordine“) nulla hanno maggiormente a cuore che d’ingannare gl’incauti e gl’ignoranti, e trarli negli errori con la simulazione e l’ipocrisia, ripetendo pubblicamente che non respingono la Chiesa cattolica e il suo Capo visibile, ma anzi desiderano la purezza della dottrina cattolica, e sono essi soli cattolici ed eredi dell’antica fede. Di fatto essi non vogliono riconoscere tutte le prerogative del Vicario di Cristo in terra, né sono ossequienti al supremo magistero di Lui. – Per diffondere poi ampiamente le loro dottrine eretiche, sappiamo pure che alcuni di essi hanno assunto l’ufficio d’insegnare la sacra teologia nell’Università di Berna, sperando in tale modo di potere guadagnare fra la gioventù cattolica nuovi seguaci della loro condannata fazione. Noi abbiamo già riprovato e condannato questa deplorabile setta. Con la Nostra lettera pubblicata il 21 novembre dell’anno 1873, abbiamo detto e dichiarato che quegli infelici, i quali a tale setta appartengono e ad essa danno adesione e favore, sono segregati dalla comunione della Chiesa e devono ritenersi scismatici. Dichiarando ora di nuovo e pubblicamente questa stessa cosa, crediamo Nostro dovere, Venerabili Fratelli, di rivolgerci a voi affinché, con quello specchiato vostro zelo e con quella egregia vostra virtù, di cui avete dato splendidi esempi nel sostenere tribolazioni per la causa dl Dio, in ogni modo possibile difendiate l’unità della fede nei vostri fedeli, e richiamiate alla loro memoria che si guardino con ogni attenzione da quegl’insidiosi nemici del gregge di Cristo e dai loro pascoli velenosi; rifuggano assolutamente dai loro riti religiosi, dalle istruzioni, dalle cattedre di pestilenza, erette per insegnare impunemente le sacre dottrine; dai loro scritti e da qualunque contatto; non sopportino alcuna convivenza e relazione coi preti intrusi ed apostati dalla fede, i quali osano esercitare gli uffici del ministero ecclesiastico, e sono privi di legittima missione e di qualsiasi giurisdizione; aborriscano dai medesimi come da estranei e da ladri, i quali vengono solo per rubare, per uccidere, per rovinare. Infatti i Figli della Chiesa debbono pensare che si tratta di custodire il preziosissimo tesoro della fede, senza la quale è impossibile piacere a Dio, ed insieme di conseguire il fine della fede, la salvezza delle anime proprie, seguendo la retta via della giustizia. – E poiché conosciamo che costì, oltre alle altre leggi ostili alla divina costituzione ed all’autorità della Chiesa, ne sono state emanate altre dall’autorità civile, assolutamente contrarie alle prescrizioni canoniche relative al matrimonio cristiano, e che con queste leggi sono del tutto conculcate l’autorità e la giurisdizione ecclesiastica, non possiamo fare a meno, Venerabili Fratelli, di esortarvi nel Signore affinché con opportune istruzioni spieghiate ai vostri fedeli la dottrina cattolica sul matrimonio cristiano, e ricordiate loro ciò che molte volte nelle Nostre Lettere Apostoliche o nelle Allocuzioni, specialmente in quelle del 9 e 27 settembre 1852, abbiamo inculcato intorno a questo Sacramento, ond’essi conoscano pienamente la santità e la forza di questo Sacramento, e in ciò conformandosi piamente alle leggi canoniche, possano evitare quei mali che derivano nelle famiglie e nella umana società dalla dispregiata santità del matrimonio. – Confidiamo poi moltissimo nel Signore che voi, diletti Figli Parroci ed ecclesiastici (che vi trovate, non solo per la vostra ma anche per l’altrui santificazione e salvezza, in così grande cospirazione degli empi e in mezzo a tanti pericoli di seduzioni) secondo la vostra pietà e il vostro zelo, di cui abbiamo avuto splendide prove, sarete di efficace conforto ed aiuto ai vostri Vescovi, e sotto la loro guida vi adoprerete con coraggio ed alacrità per difendere diligentemente la causa di Dio, della Chiesa e della salvezza delle anime, per confermare la virtù dei fedeli che resistono alle prove, per soccorrere la debolezza dei vacillanti, e per accrescere ogni giorno più quei meriti presso Dio, che avete acquistato con la pazienza, con la costanza, con la forza sacerdotale. Sono pur gravi le fatiche che in questo tempo debbono sostenere coloro che rappresentano le veci di Gesù Cristo; ma la Nostra fiducia dev’essere riposta in Colui che vinse il mondo e che aiuta chi fatica nel suo nome, e lo ricompensa nei cieli con immarcescibile corona di gloria. – Voi poi, fedeli tutti, Nostri Figli diletti dimoranti nella Svizzera, cui, solleciti come siamo della vostra salute, con paterno affetto dirigiamo la parola, voi, che ben comprendete quanto sia prezioso il dono della fede cattolica che Dio vi ha elargito, non risparmiate cura e fatica, al fine di custodire fedelmente tale dono e conservare incolume ed integra la gloria della religione che riceveste dai vostri maggiori. Perciò vi raccomandiamo vivamente di stare con fermezza e costanza uniti ai vostri legittimi Pastori, i quali da questa Sede Apostolica ricevettero la loro missione e vegliano per le anime vostre, dovendo renderne conto a Dio; vi raccomandiamo di ascoltare obbedienti la loro voce, avendo sempre dinnanzi agli occhi queste parole dell’eterna Verità, “chi non è con me è contro di me; chi non raccoglie con me, disperde” Siate ossequienti alle dottrine di essa, ed amanti del soave suo giogo, respingendo lontano da voi con energia coloro dei quali il Redentore nostro disse: “Guardatevi dai falsi Profeti che vengono a voi in veste di agnelli, in verità nell’intimo sono lupi rapaci“. Forti della fede, resistete adunque all’antico nemico del genere umano, “finché la destra di Dio onnipotente annienti tutte le armi del diavolo, al quale per questo viene concesso di osare qualunque cosa affinché derivi dalla vittoria maggior gloria ai fedeli di Cristo… poiché dove la verità è maestra, non mancano mai le consolazioni divine” (San Leo, in Epistola ad Martinum Presbyterum). – Scrivervi queste cose, Venerabili Fratelli e diletti Figli, stimammo che fosse dovere del Nostro ministero, in forza del quale siamo tenuti a salvare tutto il gregge di Cristo da qualsivoglia pericolo di frode, ed a tutelare la sua salute nonché l’unità della fede e della Chiesa. Siccome pertanto ogni ottima concessione ed ogni dono perfetto emanano diretta mente dal Padre dei lumi, dal profondo del cuore invochiamo Lui a confortare nella lotta le vostre forze, a sostenervi con la sua protezione e col suo presidio, ed a guardare con occhio propizio codesta regione, affinché, sgominati gli errori e i consigli degli empi, essa possa godere tranquilla la pace della verità e della giustizia. Né tralasciamo di implorare il supremo Lume anche per i miseri traviati, affinché desistano dall’accumulare a loro danno lo sdegno divino, per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, ma, finché sono in tempo, si convertano con una sincera penitenza dalla via dell’errore. – Voi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, unite le vostre alle fervide Nostre preci, acciocché otteniamo misericordia e grazia nell’aiuto opportuno, e ricevete l’Apostolica Benedizione che dal profondo del cuore, quale pegno di singolare Nostra carità, a tutti e ai singoli affettuosamente impartiamo nel Signore.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 23 marzo 1875, anno ventinovesimo del Nostro Pontificato.

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Attenzione dunque ai figli delle tenebre, ai lupi in cuor loro rapaci, a coloro che, 140 anni or sono come oggi, si proclamano i veri cattolici legati alla tradizione, magari solo perché celebrano la Messa di sempre (in vero sacrilegamente, perché pseudo-preti laici mai consacrati validamente da pseudo-vescovi mai nominati dalla Sede Apostolica), ma che aderiscono comunque all’apostasia della setta conciliare-modernista del N.O., riconoscendone il capo “usurpante” come vero Papa, al quale però si dicono in diritto di disobbedire, contraddicendo il Magistero alla sua base, Magistero che essi dicono di osservare, ma evidentemente solo per quello che fa loro comodo, eludendo allegramente ciò che riguarda il potere di giurisdizione, la nomina autonoma ed incontrollata di falsi vescovi e la missione canonica di falsi sacerdoti che celebrano in modo invalido ed illecito, la fondazione di scuole e seminari mai autorizzati dalla Sede apostolica, nemmeno da quella fasulla! … senza contare le radici massoniche del falso-cardinale e cavaliere Kadosh “adonai nokem” A. LIENART , che da buon 30° grado, cioè scomunicato abbondantemente “ipso facto” e pertanto senza mai aver ricevuto il sigillo sacerdotale né di conseguenza alcuna ordinazione valida, non ha mai a sua volta consacrato validamente alcun sacerdote e tantomeno alcun Vescovo! Da questa radice massonica, altro tentacolo della piovra giudaica, derivano le cosiddette “fraternità” [già il nome ha un vago sapore di loggia giacobina!!!], ma pure Istituti spaccianti para-teologie e con maschera mariana … ed aumentano sempre, più onde alimentare la confusione dei malcapitati pluri-ingannati. Attenzione quindi ai lupi sedevacantisti o ai subdoli sedeprivazionisti, tutti invalidamente consacrati spesso da ridicoli e pittoreschi vescovi auto referenziati, anch’essi senza alcuna giurisdizione. Essi ritengono Gesù Cristo un bugiardo quando ha asserito che Egli sarebbe stato con noi fino all’ultimo giorno del mondo, e ritengono falsi i santi Padri conciliari presieduti da S.S. Pio IX al concilio Vaticano, quando nella “Pastor Aeternus” hanno ribadito infallibilmente che:Se qualcuno dunque affermerà che non è per disposizione dello stesso Cristo Signore, cioè per diritto divino, che il beato Pietro abbia per sempre successori nel Primato sulla Chiesa universale […]: sia anatema” [Cap. II]. – Ascoltiamo allora la voce della Chiesa attraverso il Magistero autentico, e lasciamo le suggestioni sentimentali, le affezioni amicali, il rispetto umano, la millantata autenticità ed il falso tradizionalismo, le auto-rivelazioni mariane taroccate, etc. Il Magistero è chiaro, bisogna solo leggerlo, ma … nella sua interezza, e possibilmente senza gli occhiali da sole o … le travi negli occhi!