J.-J. GAUME: La profanazione della DOMENICA [lett. IX]

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LETTERA IX.

IL LAVORO DELLA DOMENICA:

ROVINA DELLA DIGNITÀ UMANA.

25 maggio.

I

Signore e caro amico,

Voi mi fate, signore, sapere, che non siete stato nominato membro della commissione del budget [tipo le attuali commissioni del bilancio]: io ve ne felicito. Sembrami che niente deve esser più sgradevole d’un somigliante titolo. Ecco, eccetto errore, lo stato dei vostri onorevoli colleghi che ne sono rivestiti. Urtarsi la lesta contra i muri d’una segreta, attaccare le piramidi a colpi di spilla ; egli è così che l’immaginazione mi dipinge la fatica loro. Parliamo senza figure: esser mandatarj d’un popolo acciaccato di tributi; non essere accreditato per lui che per alleggerire il proprio fardello; aver promesso d’eseguirlo; averne la volontà, e vedersi colpito d’impotenza; questo non è tutto: aver dinanzi gli occhi un baratro spalancato, dove alcuni gradi di meno al termometro della confidenza sono sufficienti per ingoiare l’onore e la fortuna della nazione; esser condannati durante mesi interi a ritagliare, raspollare di qua e di là sovra lutti i pubblici servigj qualche centinaio di mille franchi; e poi da ultimo esser ridotti a venire a presentare al popolo queste insignificanti economie, come le sole riduzioni possibili in sulla massa enorme delle spese, e a dirgli per tutta consolazione: soffrite e pagate, havvi egli mai un incarico più penoso? Risento io tale pena, ed infino ad un certo punto comprendo simile impossibilità. – Da una parte, l’organizzazione rivoluzionaria della Francia fatalmente conduce all’aumento della spesa pubblica dall’altra parte, io credo, come lo si dice, che delle riduzioni seriose non possono effettuarsi che sopra due budgets: Il budget della guerra, e quello della marina, le cui cifre annuali rimontano a sei o settecento milioni. Ma io credo altresì che, nelle circostanze, nelle quali si trova l’Europa, queste riduzioni non sono possibili. Ridurre, è disarmare, disarmare è abbandonare la società al comunismo. D’un altro canto, non disarmare, si è correre al fallimento: fallimento, o barbarie, tale n’è l’alternativa. Rimane non pertanto un mezzo di scampo: quest’ è attaccare un terzo budget, il quale ingrossa ogni anno, ed a cui non mai si stese mano; un budget che ci divora direttamente, ed al minimo, più di cento milioni per anno; un budget, che ci sforza a tener gli altri al massimo: questo è il budget dell’immoralità, profuso principalmente all’osteria, e sostenuto sopratutto per la profanazione della domenica. Non l’ignoro, non si otterrà tutto in un giorno; ma, per valermi d’un espressione adusata alla Camera, havvi certamente qualche cosa da operarsi, dappoiché, voi ne siete in grado, fate adunque, fate prontamente, fate seriamente. Imprimetetelo bene in mente; una legge veramente morale sarà la migliore legge d’economia, la migliore legge in sulle casse di pensione, la migliore legge sopra l’assistenza pubblica, la migliore di tutte le leggi sul miglioramento della sorte delle classi lavoratrici. Senza ciò, le altre produrranno nulla, nulla, nulla: quid proficiunt vanae leges sine moribus? – Io spero di mostrarvi più lardi che volere è lo stesso che potere, dovendo in questo momento entrare nel soggetto della mia epistola, e stabilire che la profanazione della domenica è la rovina dell’umana dignità.

II.

La questione è d’estrema importanza, non solamente dal punto di vista religioso, ma eziandio al punto di vista puramente umano, in verità, per poco che vogliate riflettervi, signore e caro amico, voi vedrete che le società cristiane sono tutte fondate in sul dogma dell’umana dignità, per conseguenza sopra il rispetto dell’uomo per l’uomo, e dell’uomo per se stesso. Rigeneratesi col Battesimo, quelle ricevettero il sentimento, e la conoscenza di questa grande legge. Iddio in persona era disceso dal cielo per loro annunciare: “L’uomo è mio figliuolo; egli è un non so che di cotanto grande, ch’ io stesso non lo tratto, se non con un profondo rispetto; la sua libertà è per me una cosa sacra, la quale giammai io violento ([“Cum magna reverentia disponis nos”]. (Stop. XII, 18.) – [“Reliquit illum in manu consilii sui”. (Eccl., XV, 14.)]. Àgli occhi della mia sovrana giustizia, l’inferno co’suoi eterni supplizj non è troppo per’ punire il colpevole, il quale per le sue parole, o pe’ suoi atti osa attentare alla sua dignità personale od a quella del suo fratello; questo fratello fosse egli pure un tenero pargoletto, il più povero e l’ultimo degli uomini [“Si quis autem templum Dei violaverit, disperdet illum Deus. Templum enim Dei sanctum est, quod estis vos”. (I. Cor. III, 17.) – “Qui autem dixerit fratri suo rara: reus erit concilio. Qui antem dixerit fatue: reus erit gehennae ignis”. (Matth., V, 22.) – Et quisquis scandalizerit unum ex pusillis credcntìbus in me, bonum est ei magis si circumdaretur mola asinaria collo eius, et in mare mitteretur”. (Marc., IX, 41)]. – Questa carta divina, una volta concessa, due voci s’innalzarono prestissimamente per promulgarla di generazione in generazione, e queste due voci giammai cessarono di farsi intendere: la voce della madre al focolare, la voce della Chiesa nel tempio. Ed ecco che la prima nozione che fu data al mortale, questa è la nozione dell’umana dignità. In su tutti i punti del globo, sopra le ginocchia d’ogni genitrice, il bimbo balbetta da diciotto secoli questi sublimi molti: “Nostro Padre che è nel cielo; io sono Figliuolo di Dio”. – Ma non basta che ’l mortale conosca la sua dignità, è necessario che se ne sovvenga, e che conformi la sua condotta al sentimento che n’ha: nobiltà obbliga. Sotto siffatta considerazione, l’Eterno, che conosceva e la debolezza dell’uomo e le ignobili passioni da cui è stretto, vuole pur che questi consacri un giorno sovra sette per riflettere intorno alla sua dignità, per riparare le tacche, dalle quali essa poté essere lesa, per rinvigorire le forze, di cui abbisogna per sostenerla. – Qual alto insegnamento non è questo stesso precetto! – Donandolo all’uomo, Iddio gli disse per questo solo fatto: « Tu sei il più nobile degli esseri; imperocché tu sei l’immagine mia in mezzo dell’universo, il quale Io ti ho assegnato per impero. Artigiano del mondo, io lavorai durante sei giorni, e nel settimo, glorioso della perfezione di mia opera, sono rientrato nel mio eterno riposo. Tu pure, lavorando a mio esempio, per sei giorni, ti creerai un mondo di meraviglie in questo mondo che tu abiti. Tu li costruirai case e palazzi; tu abbellirai il tuo domicilio d’ogni opera del genio; tu ti procurerai, per tua industria, tutto quello che può conservar la tua esistenza, ed anche contribuire a’ tuoi piaceri. Quando giungerà il settimo, tu, figliuolo di Dio, ti ricorderai del Padre tuo. Comò Io, tu volgerai uno sguardo in sulle tue opere; e rientrerai in un santo riposo; poi allora quando il corso di tua mortal vita sarà finito, verrai a riunirti a me nel riposo dell’eternità, di cui il riposo settenario ò tutto insieme la condizione e l’immagine » [“Et requievit Deus die septima ab omnibus operibus suis … Itaque relinquitur sabbatismus populo Dei. Qui enim ingressus est in requiem eius, etiam ipse requievit ab operibus suis, sicut a suis Deus”. (Hebr., IV, 4, 9, 10]. A siffatta considerazione quanto l’uomo è mai grande! Quale alta moralità presiede alle sue opere: docili a questa luminosa parola, le nazioni moderne vennero religiosamente, durante lunghi secoli, ad ascoltare la Chiesa Cattolica, che la spiegava loro ne’suoi templi, e ’il sentimento cristiano dell’umana dignità s’insinuò profondamente nelle anime. Di quivi pullularono, colla purità de’ costumi, e la santità del matrimonio, le cure per gli esseri deboli, i riguardi per gl’infelici, la salvezza pel fanciullo, la libertà per la donna, la carità per tutti. Di quivi pur anco, l’abolizione della schiavitù, e l’impossibilità pel dispotismo di radicarsi presso le nazioni tenutesi cattoliche.

III.

Ciò non pertanto sòpravennero giorni tristi, in cui i popoli dimenticarono e ’l riposo settenario e ’l cammino del tempio. Che n’arrivò quindi? Desistendo d’ascoltar la voce della Chiesa, l’uomo cessò d’esser cristiano, e restando d’esser cristiano, smarrì la conoscenza e ’l sentimento della sua dignità. Nonostante i grandi movimenti di progresso, di civilizzazione, d’uguaglianza, d’emancipazione, di perfezionamento e d’altro ancora, io non sono peritoso d’ affermare, che sono quelli di cui, sopra tutto in Francia, difettiamo. Evidentemente noi ritorniamo al paganesimo, lorché il disprezzo di sé e degli altri tocca il suo colmo. Che erano per i fieri borghesi di Roma le frotte di schiavi che si avvinghiavano ai loro piedi? Che erano per i Cesari questi borghesi stessi? Ed i Cesari che erano a propri loro occhi? Quale idea avevano essi dell’umana dignità, e come la rispettavano essi stessi nella propria persona? Orgoglio da una parte, bassezza dall’altra; turpitudine, e disprezzo dovunque; invilimento universale, e per servirmi d’una famigerata espressione, un traffico generale dell’uomo per l’uomo: ecco il quadro che presenta la storia di codesta inqualificante epoca. Poco vi manca che tale sia già la nòstra. – Omettendo le eccezioni dovute all’influenza delle idee cristiane, il mortale presentemente rispetta egli d’assai più il suo simile, rispetta egli se stesso assai che imprima della rigenerazione del Calvario? La superiorità, l’autorità, l’onore, l’innocenza, la libertà, la riputazione, la buona fede, la fortuna, la figliuola, la sposa, l’anima degli altri, sono esse l’Oggetto costante d un sincero rispetto? Ostacolo, o via , non è ciò tutto quello che 1’uomo mira nel suo simile? Ed in se stesso, che vede egli se non un essere creato per godere? E quel procacciarsi voluttà, e voluttà ontose ed ignobili, al prezzo di tulle le bassezze, non h questo il suo vivere? Ch’è dunque mai codesta sì scandalosa e così umiliante mobilità di opinioni e di carattere che rassomiglia 1′ uomo attuale ad un vero camaleonte che si scorge cangiare, dalla mattina alla sera, di condotta e di linguaggio; passare successivamente ne’ campi i più opposti; sostenere con lo stesso ardore il prò ed il contra; abbruciare oggi quello, che jeri adorava; spiegare ogni bandiera; prestare venti giuramenti di fedeltà a tutti i partiti, e non guardarne che un solo, quello di violarli tutti, se 1 suo interesse lo richiede? A che tanti Bruti diventati servi? A che tanti fieri scrittori, non ha guari, liberali, ed empj, sono essi oggigiorno conservatori e religiosi, ed a che domani professeranno contrarj principj? A che la stessa bocca parla essa per edificare e per abbattere? Forse che il bene e ’l male, il vero e il falso, il bianco e il rosso non sono ugualmente ridotti a tariffa? Forse che a sostenerli, secondo le circostanze, non lucrano argento, non gioiscono diletti? La vita è essa mai altra cosa, che una speculazione, e la società non è essa che un copioso bazare, dove tutto si vende, perché tutto sì compera, pur anco la coscienza? – Questo ritratto è forse troppo caricato? Me ne appello agli occhi d’ognuno. Da questo momento non si può dire, addolcendo un molto celebre, che l’Europa attuale è la più grande scuola del disprezzo, che giammai esistita abbia? Ora, disprezzo e rispetto s’escludono, e colà dove non trovasi rispetto, non vi si rinviene più né conoscenza, né sentimento della dignità umana. Tale è, senza replica, una delle piaghe le più profonde della nostra epoca, ed una delle più insormontabili difficoltà della rigenerazione.

IV.

Ho dimostrato l’effetto della profanazione della domenica in sull’umana dignità, nella società in generale. Ciò non basta. Havvi due classi di uomini in sui quali 1’influenza deplorabile del disordine, cui noi combattiamo, si fé’ sentire di una maniera più marcata. Queste due classi sono giustamente quelle che si erano promesso un risultato più vantaggioso dalla violazione del riposo ebdomadario, quelle che ne diedero, e continuano a darne il più scandaloso esempio: voi avete nominalo i padroni e gli operai. Conciossiachè anche a’ nostri dì si tributa ad ogni signore onore e rispetto, cominciamo dai padroni. – Escluse le eccettuazioni, tanto più onorevoli quanto esse sono più rare, cosa è questa nostra borghesia industriale e negoziatrice; codesta borghesia, la quale regnante al banco, al magazzino, all’usina, alla manifattura, al laboratorio, alla filatura; codesta borghesia, la quale, divenuta l’aristocrazia dell’argento, e la sovrana del paese, s’impadronì di tutte le cariche, dal Sindacato del villaggio insino alla rappresentazione nazionale; che scrive, che emana leggi, che amministra, che piatisce, che giudica, che insegna; che infino alla rivoluzione di febbrajo, e dopo, diè gomitate a lutto il mondo per farsi ceder luogo, e fortissimamenìe vocifera a tutto ciò che non è dessa: Levati di quivi, che mi vi metto io; qual è codesta borghesia? Una verga d’argento. – Dopo i liberti della vecchia Roma, conoscete voi nell’istoria una genia di persone più cupide, più limitate, più dure, più vanitose, più gelose, più empie, più aliene ad ogni sentimento elevato, ad ogni pensiero generoso? Qual veri Cinesi dell’Occidente, costoro oltrepassato hanno i loro confratelli d’Oriente. Questi, diceva non è gran pezza uno d’infra loro, ammettono quattro verità : pecchiare, pappare, digerire e dormire (1); i nostri non ne ammettono che una: guadagnare del danaro. Se rifiutano essi di riconoscersi a somiglianti lineamenti, contemplino la Francia, quella Francia che fu in varii tempi la derisione, la pietà e lo spavento delle nazioni : codesta non è soltanto l’opera loro, sebbene la loro immagine. Quale dignità! 0 matre pulchra, filia pulchrior! Del resto, che la borghesia francese non prenda punto per essa sola le mie parole, queste si rivolgono a tutta la borghesia europea. – Il delineare siffatto ritratto m’amareggia l’animo, signore e caro amico, perché desso è troppo rassomigliante. Questo non è un rimprovero che io faccia, ma una disgrazia, che deploro; egli non è l’odio che io provochi, sebbene la compassione, la quale io imploro. Se io segnalo difetti, che invano si negherebbero, egli si è per indicarne la cagione e ‘1 rimedio. Quando il pilota, sapendolo od ignorandolo, spinge la nave contra gli scogli, i passeggeri non sono forse in diritto di riprendernelo e dirgli: voi ci perdete? Ecco adunque lo stato d’avvilimento, per non impiegare un’espressione più forte, in cui è discesa una classe cotanto numerosa, e d’ altronde cotanto interessante della società. Come mai s’è essa materializzata a questo segno? Occupandosi esclusivamente della materia, e nulla facendo per ispiritualizzarsi, cioè consacrandosi ostinatamente, e perseverantemente al lavoro materiale anche ne’ giorni divinamente destinati alle opere morali; in una parola, profanando la domenica da sessanta anni. Se tale non è la sorgente esclusiva della degradazione, che ci affligge, non v’è un osservatore, il quale non ne convenga, ch’essa ne diventa, per lo meno, la più efficace.

V.

Che soggiugnerò io dell’operaio? Ah! egli è desso sopratutto che ne viene digradato violando la legge sacra del riposo settimanale. Voi avete senza dubbio osservato, signore e caro amico, che in tutti i comandamenti di Dio, la dignità di padre è sempre molto più distinta di quella del legislatore : direbbesi che l’Eterno non è legislatore se non perché desso è padre. Per entro mille, il precetto della preghiera e del riposo settenario ne diviene una pruova commovente. Scandagliando tutti i misterj dell’avvenire, l’Onnipotente vide dal principio l’uomo, sì felice all’uscire della culla, subissarsi nel1’abisso delle disgrazie, ed inabissar visi per propria colpa. Egli lo vide piegantesi sotto il giogo d’un lavoro penoso, incurvato verso la terra, trascinante dietro sé la lunga e pesante catena dell’ansietà. – Egli vede questo nobile figliuolo scendere in ciascun giorno d’un grado nell’ordine morale. Il suo pensiero s’affralisce sotto il peso delle terrestri necessità; i suoi sentimenti s’abbassano al livello del suolo che calca co’piedi; la sua fronte stessa sembra aver perduto il carattere sublime di cui era stata adornata. À codesta condizione, di già così dura, egli mira l’egoismo aggiungere le sue crudeli esigenze, ed obbligare il povero a consumarsi in un lavoro che non conosce riposo, di quello in fuori cagionato dalla malattia, e dal rifinimento prematuro della natura. – Che fece questo Dio legislatore e padre? Sopra selle giorni di fatica, Egli ne volò uno al riposo del suo figliuolo. Egli, Egli stesso propalò quest’ordine che sarà irremovibile, che sarà sacro tanto pel ricco quanto pel povero, e lo contrassegnò del suo nome: Io Signore, ego Dominus, Poi denominando la Chiesa sua sposa, le dice: Andate, ed annunciate a questi poveri operai: « Al nome del re de’ cieli, di cui voi siete figliuoli, prendete in un giorno almeno l’attitudine e l’andamento conveniente alla vostra origine. – Voi siete stati creati per regnare in sulla natura: sovvenitevene voi oggi. Voi siete nati per riposarvi gloriosamente nel seno dell’immortalità, venite ad impararlo nella mia magione. Venite, ed Io vi farò seder nel mezzo de’vostri padroni; io vi riceverò alla stessa mensa; Io vi darò il medesimo pane e il medesimo calice: Io vi offrirò i medesimi consigli, e i medesimi gaudj. La vostra anima, a’ miei occhi è preziosa al par di quella di un principe ; ambedue ed al medesimo titolo voi siete miei figliuoli; ma se io debbo una preferenza di tenerezza, egli è a colui ch’è povero e piccolo ». Docili a questa voce sì dolce, le classi lavoratrici si mostrarono, durante un lungo seguito di secoli, i più premurosi a riunirsi nei templi, a gustare il riposo salutare, che era stato preparato, a raccogliere le consolanti lezioni, le quali loro venivano comunicate, ed a partecipare delle gioie sì pure, le quali loro erano offerte. Moralizzate, nobilitate e consolate dalla religione, queste classi, divise in mille corporazioni, furono veramente il nerbo della Francia, e ’l fondamento della gloria di lei. La rivoluzione dell’89, le trovò generalmente fedeli alle credenze ed alle abitudini cattoliche. Per difendere questa nobile eredità, esse ebbero numerosi martiri. – Vittoriosa l’empietà pel terrore, non si fece punto illusione; codesta comprese che 1’unico mezzo d’assicurare il suo trionfo era di scattolizzare la Francia. – Né le parodie sacrileghe de’nostri augusti misterj, né le feste della deessa ragione le parvero bastanti per pervenire alla designala mela. Con questo accorgimento che non mai le mancò, essa instituì le decadi, bandendo pena di morte contra chi non lavorerebbe nella domenica, cioè essa decretò la profanazione permanente del giorno sacro [La prova evidente che l’odio della religione fe’ sostituire il calendario repubblicano al cattolico è scritta con indelebili caratteri ne’ due passi seguenti: un decreto del 13 germinale, an. VI (5 aprile 1798) dice espressamente che « l’osservanza del calendario francese è una delle istituzioni le più atte a far dimeticare il ruggime sacerdotale ». Un messaggio del 18 germinale, an .V JI (8 aprile 1799) arroge « che questo calendario ha per iscopo di sradicare dal cuore del popolo la superstizione, generalizzando in tutti i comuni le feste decadarie »]. Somigliante misura fu calamitosa: le classi operaie, private d’altronde delle loro chiese e de’loro sacerdoti, si disusarono insensibilmente del riposo sacro, epperciò perdettero la salvaguardia della loro fede, la scaturigine delle loro consolazioni, i titoli della loro nobiltà e il sentimento della loro dignità.

VI.

Lacrime di sangue, signore e caro amico, v’andrebbero per piangere la digradazione di questo infelice popolo divenuto profanatore della domenica. Che è egli mai agii sguardi de’suoi padroni, al cospetto di coloro stessi che lo spinsero nel precipizio, e che ve lo ritengono? Secondo 1’energica espressione d’un profeta, che non trovò mai una più diritta applicazione, egli è un istrumento, un arnese, una macchina, una bestia da soma [“Comparatus est jumentis insipientibus, – Ps., XLVIII.] – Percorrete le fucine, le manifatture, le fabbriche, i laboraloj, i dominj, le città e le campagne, dove il giorno del Signore non è più conosciuto. Io lo dico, e voi lo direte, come io, con profondo sentimento di pietà, colà, salvo le rare eccettuazioni dovute all’azione secreta del Cristianesimo, 1’artigiano, il coltivatore, l’uomo del popolo, non è più considerato che come una macchina ed una bestia da soma. Macchina a lavorare il terreno, macchina a fabbricare de’tessuti, macchina a battere il ferro, macchina ad affazzonare l’argilla, macchina a piallare il legno od a tagliare la pietra; ma sempre mai macchina. – E la prova è che la stima che gli si accorda si misura al numero, alla facilità ed alla precisione de’movimenti che egli eseguisce. E la prova è che si crede avere adempiuto ad ogni giustizia a riguardo di lui allorquando gli si diede di che riparare le sue forze muscolari, come si versa di tanto in tanto nella ruota di una macchina 1’olio necessario per farla girare. – E la prova è che, una volta rifinito per un lavoro forzato, si licenzia senza misericordia, come si ributta una macchina inservibile. Ma quest’essere ha egli forse un’anima, o no? La delicatezza della sua complessione o de’ suoi sentimenti merita essa de’riguardi, o no? È egli un bestemmiatore, un libertino, o qualche altra cosa? Poco monta! Non havvi che una questione, la quale attentamente si disamina: qual prodotto positivo si può ricavare dalle braccia di lui? Ecco tutto. Sì, ecco tutto, per questa creatura fatta ad immagine di Dio ; ecco lutto per quest’anima immortale riscattata col prezzo d’un sangue divino; ecco tutto per questo figliuolo del cielo, per questo erede presuntivo d’un regno eterno! Ebbi io torto di premettero che il rispetto della dignità umana si è perduto, e che noi ritorniamo al paganesimo?

VII.

Tal è 1’operaio agli occhi di ciascun padrone della scuola inglese, e codesta scuola ha discepoli in ogni parte. Che pensa egli di se stesso, ed in qual conto si tiene? Si crede per quello che divenne. – Ma ciò che havvi di più deplorabile si è, che l’operaio profanatore della domenica non comprende la digradazione, a cui è disceso. Senza difficoltà, egli acceda il ruolo umiliante che a lui viene assegnato. Egli, dimentico d’esser figliuolo dell’Altissimo, accetta di divenire una macchina ed un somaro, secondo un’espressione profetica [“Et similis factus est ìllis” (Ps. XLVIII.) Egli si contenta di pane per mangiare, di vino per bore, d’un giaciglio per accovacciarsi, d’un letto per ripararsi dall’intemperie, e di alcune poche monete per partecipare all’osteria. Se sospiri cose a un altro ordine, se ne può dubitare; imperocché quand’egli, come il somaro, sbramò i suoi appetiti, è contento. L’intendete voi in ciascheduna settimana, trasformando il di della preghiera in giorno di dissolutezza, fare rintronare insino nel mezzo delle notturne tenebre, e nelle sue taverne, e biscazze, e nelle nostre piazze, e contrade de’ canti avvinazzati della sua ignobile prosperità ? Smangiazziamo, trinchiamo, tripudiamo; poiché noi domani morremo. Guardatevi voi, mio caro amico, di volergli indirizzare qualche osservazione, e di richiamarlo ai sentimenti della sua dignità. Egli potrebbe pur rispondere a voi, quello che già fu a me gettato in faccia. « Eh! dite voi che 1’artigiano non deve bere; ed io vi replico che 1’operaio non è punto uno schiavo, e quando esso possiede del danaro, deve bere e godersela. » O dignità umana! Che la sua sposa non faccia mai a lui rimprocci; che giammai costei a lui parli della sua prole sprovveduta di vestimenta e di pane. Ella provocherebbe degli accessi di furore, e tutto quello che otterrebbe da simile uomo, che ne perdè la dignità, sarebbero bestemmie e cattivi trattamenti. – I fatti di siffatto genere sono innumerevoli, ed ognuno può raccontarne moltissimi. Quando anche dovessi commettere una ripetizione, io voglio riportarvene uno, a me particolarmente noto: “ab uno disce omnes”. – Un artigiano metaniere, padre di cinque fanciulli, guadagnava cinque franchi alla giornata. Ricevuta la sua paga, andava sene difilato alla bettola, dove intrattenevasi insino a che li avesse per intero sprecati. Dopo parecchi giorni e parecchie notti d’assenza, rientrava infine nel suo domicilio, e domandava da bere. – Una notte d’inverno, la sua moglie e i suoi pargoli, che sofferivano ugualmente le angosce della fame e i rigori del freddo, ebbero ardire di richiederlo di che comperare un poco di pane e di carbone. Per tutta risposta cotesto sposo, cotesto padre, tal quale li formano la profanazione della domenica e la sua inevitabile compagna, la frequenza de’ridotti, si precipita addosso alla sua donna ed a’suoi figliuoletti, indegnamente li batte e magagna, quindi li caccia in sulla strada: per ultimo, chiudendo a doppio giro la porta in faccia loro, affardella quanto seco può trasportare, se n’esce e scomparisce senza più ritornarvi. – Se questo esempio fosse isolato, io so che se ne potrebbe nulla concludere contro le classi operaie; ma disavventuratamente codesti fatti, tolte leggiere variazioni, divengono talmente numerosi che tostamente non ne costituiranno più per l’innanzi 1’eccezione, ma la regola. – Allora, qual indizio più certo ci si potrà aspettare dell’influenza esercitata pel materialismo profanatore della domenica fra i sentimenti della dignità e dell’umanità, sì estesi altre volte nelle nostre popolazioni francesi!

Gradite, ecc.

Il Papato come mezzo di salvezza.

Riportiamo l’omelia che fr.UK ha tenuto alla Messa del giorno di Natale 2016 al meeting cattolico tenutosi negli Stati Uniti. Un’omelia essenziale, che va diritta al cuore dell’argomento centrale della nostra vita: “la salvezza eterna” senza compromessi e senza rispetti umani., seguendo solo la parola di Dio e del suo Vicario in terra.

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Omelia della Messa del giorno di Natale 2016

Il Papato come mezzo di salvezza.

“Ed Ella partorirà un Figlio e tu Lo chiamerai Gesù: Egli salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Ora tutto questo avvenne perché si adempisse quel che il Signore aveva predetto per mezzo del profeta dicendo:..”Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio, che, sarà chiamato Emmanuele, che significa “Dio con noi” “(Matteo I: 21-23). – Prendiamo in considerazione in questo giorno del santo Natale la verità sui legami tra l’incarnazione di Nostro Signore, il Papato e la nostra salvezza. – Per dirla brevemente, il Papato è un meraviglioso frutto benedetto dell’Incarnazione ed è il mezzo più importante di salvezza. Perché? Saremmo in grado di avanzare molte ipotesi, ma parlando ancora una volta brevemente – vediamo che questa è la volontà di Dio, e questo è il piano di Dio! Noi abbiamo diverse parole del Dio incarnato, e dovremmo prestare particolare attenzione a queste parole: “Voi siete miei amici, se fate le cose che vi comando” (San Giovanni XV,14). – Il contrario della parola “amico” è la parola “nemico”. Quelle persone che fanno le cose che Dio comanda, sono amici di Dio. Ma, al contrario, quelle persone che non fanno le cose che Dio comanda, sono i nemici di Dio. – Uno dei comandamenti di Dio è il seguente: “E Gesù, rispondendo, disse a Pietro: “Beato te, Simone Pietro Bar-Jona, perché non la carne e il sangue te lo hanno rivelato a te, ma il Padre mio che è nei cieli ed Io dico a te: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa ed Io ti darò le chiavi del regno dei cieli e tutto ciò che legherai sulla terra, sarà legato anche in cielo e tutto ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto anche nei cieli” (Matteo XVI: 17-19). – Anche nel Vangelo di Giovanni leggiamo le parole che Gesù Cristo ha rivolto a S. Pietro: “Pasci i miei agnelli … Pasci i miei agnelli … Pasci le mie pecore” (S. Giovanni XXI: 15-17). “Qui il Signore compie le sue promesse (Matteo XVI: 17-19) circa la carica di San Pietro nella Soprintendenza di tutte le sue pecore, senza eccezioni, e di conseguenza di tutto il suo gregge, cioè, della propria Chiesa” (Commento nella Sacra Bibbia, DOUAY-RHEIMS VERSION). – La Chiesa di Cristo che Egli ha costruito su di San Pietro, è il corpo di Cristo.- Essendo corpo di Cristo, la Chiesa non può contraddire il capo, cioè Cristo stesso. Ogni parola ed ogni dottrina della Chiesa, corpo di Cristo, è in piena armonia con ogni parola ed ogni dottrina di Gesù Cristo. – Ecco una dottrina molto importante della Chiesa di Cristo: Il glorioso Concilio Vaticano nel 1870 ha infallibilmente dichiarato che San Pietro avrà successori perpetui. Nel lavoro nobile, che i Padri dei primi secoli del Cristianesimo avevano profuso negli scritti per difendere le dottrine della Chiesa contro i loro assalitori, avevano unanimemente stabilito questo chiaro principio: “che tale dottrina è veramente cattolica se si è creduta in tutti i luoghi, in tutti i tempi, e da tutti i fedeli “. – Il sacerdote Redentorista p. Michael Mueller nel 1880 d.C, ha dichiarato: “Con questo test di universalità, la Chiesa nell’antichità, nel cercare il consenso, specialmente nei suoi Concili generali, in tutte le questioni riguardanti la fede e la morale, condannava e respingeva tutte le variazioni dalla fede, e quindi trionfava sempre sull’eresia e sull’infedeltà “. – Papa S. Stefano I (257 d.C.), dice in una lettera alla Chiesa d’Africa: “Nessuno introduca innovazioni, ma lasciate che si osservi tutto quanto viene tramandato dalla tradizione”. E qui va detto che la Tradizione, citata da Papa S. Stefano I, viene tramandata a noi da Dio stesso. Questo significa, che dobbiamo obbedire a questa tradizione. Se qualcuno non obbedisce a questa tradizione, non obbedisce a Dio stesso! – Così, allo stesso modo dobbiamo seguire ogni dottrina che venga della successione perpetua di San Pietro, perché Egli è il Vicario di Cristo, ed obbedirGli è parte essenziale della nostra salvezza. – Quindi, non c’è salvezza al di fuori del Papato, non vi è alcuna Chiesa al di fuori del Papato, e non c’è salvezza al di fuori della Chiesa. “La Chiesa si trova dove è il Papa.” – Perché nel nostro tempo il demonio induce molto facilmente le persone a commettere peccati mortali? Perché le persone rifiutano la successione perpetua di San Pietro, che è il Vicario di Cristo, il Vicario del Figlio di Dio, il Vicario del Dio incarnato! – “Ed ella partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù egli salverà il suo popolo dai suoi peccati.” (Matteo 1,21). “Voi siete miei amici, se fate le cose che vi comando” (San Giovanni XV,14). – Quindi, continuiamo a praticare la nostra vera fede nell’ Incarnazione di Dio nel vero perpetuo successore di San Pietro, il Vicario di Cristo. E questa vera fede continuerà ad aiutarci ad essere gli amici di Gesù,onde essere il suo popolo, per essere salvati dai nostri peccati.

Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, Amen.

Fr. UK

Domenica II dopo l’EPIFANIA

cana

Introitus Ps LXV:4 Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime.

Introito Ps 65:4 Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo. Ps LXV:1-2 Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus. [Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo. Ps 65:1-2 Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: canta salmi al suo nome e gloria alla sua lode].

Orémus. Omnípotens sempitérne Deus, qui coeléstia simul et terréna moderáris: supplicatiónes pópuli tui cleménter exáudi; et pacem tuam nostris concéde tempóribus.

[O Dio onnipotente ed eterno, che governi cielo e terra, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo e concedi ai nostri giorni la tua pace].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom XII:6-16 Fratres: Habéntes donatiónes secúndum grátiam, quæ data est nobis, differéntes: sive prophétiam secúndum ratiónem fídei, sive ministérium in ministrándo, sive qui docet in doctrína, qui exhortátur in exhortándo, qui tríbuit in simplicitáte, qui præest in sollicitúdine, qui miserétur in hilaritáte. Diléctio sine simulatióne. Odiéntes malum, adhæréntes bono: Caritáte fraternitátis ínvicem diligéntes: Honóre ínvicem præveniéntes: Sollicitúdine non pigri: Spíritu fervéntes: Dómino serviéntes: Spe gaudéntes: In tribulatióne patiéntes: Oratióni instántes: Necessitátibus sanctórum communicántes: Hospitalitátem sectántes. Benedícite persequéntibus vos: benedícite, et nolíte maledícere. Gaudére cum gaudéntibus, flere cum fléntibus: Idípsum ínvicem sentiéntes: Non alta sapiéntes, sed humílibus consentiéntes. R. Deo gratias.

[Epistola Lettura della Lettera, del B. Paolo Ap. ai Romani. Rom XII:6-16 [Fratelli: Abbiamo doni diversi a seconda della grazia a noi data: chi ha la profezia, se ne serva secondo le norme della fede; chi il ministero, eserciti il ministero; chi ha il dono di insegnare insegni; chi di esortare esorti; chi dà del suo lo faccia con semplicità; chi sta al comando governi con sollecitudine; chi fa opera di misericordia lo faccia con gioia. L’amore sia senza simulazione. Aborrite il male, attenetevi al bene; Vogliatevi bene gli uni gli altri con amore fraterno; Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore; Non siate pigri nello zelo; siate ferventi nello spirito; servite il Signore; siate lieti nella speranza; pazienti nella tribolazione; perseveranti nella preghiera: Partecipi delle necessità dei santi: Propugnatori di ospitalità. Benedite i vostri persecutori: benedite e non maledite. Godete con chi è nella gioia, piangete con chi piange: abbiate tra voi gli stessi sentimenti: Non aspirate a cose alte, ma accontentatevi delle umili.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! Joann II:1-11 In illo témpore: Núptiæ factæ sunt in Cana Galilaeæ: et erat Mater Jesu ibi. Vocátus est autem et Jesus, et discípuli ejus ad núptias. Et deficiénte vino, dicit Mater Jesu ad eum: Vinum non habent. Et dicit ei Jesus: Quid mihi et tibi est, mulier? nondum venit hora mea. Dicit Mater ejus minístris: Quodcúmque díxerit vobis, fácite. Erant autem ibi lapídeæ hýdriæ sex pósitæ secúndum purificatiónem Judæórum, capiéntes síngulæ metrétas binas vel ternas. Dicit eis Jesus: Implete hýdrias aqua. Et implevérunt eas usque ad summum. Et dicit eis Jesus: Hauríte nunc, et ferte architriclíno. Et tulérunt. Ut autem gustávit architriclínus aquam vinum fáctam, et non sciébat unde esset, minístri autem sciébant, qui háuserant aquam: vocat sponsum architriclínus, et dicit ei: Omnis homo primum bonum vinum ponit: et cum inebriáti fúerint, tunc id, quod detérius est. Tu autem servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc fecit inítium signórum Jesus in Cana Galilaeæ: et manifestávit glóriam suam, et credidérunt in eum discípuli ejus.

[Séguito del S. Vangelo secondo Giovanni. R. Gloria a Te, o Signore! Joann II:1-11 In quel tempo: Vi furono delle nozze in Cana di Galilea, e li vi era la Madre di Gesù. E alle nozze fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la Madre di Gesù disse a Lui: Non hanno più vino. E Gesù rispose: Che ho a che fare con te, o donna? La mia ora non è ancora venuta. Disse sua Madre ai domestici: Fate tutto quello che vi dirà. Orbene, vi erano lì sei pile di pietra, preparate per la purificazione dei Giudei, ciascuna contenente due o tre metrete. Gesù disse loro: Empite d’acqua le pile. E le empirono fino all’orlo. Gesù disse: Adesso attingete e portate al maestro di tavola. E portarono. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino, non sapeva donde l’avessero attinta, ma i domestici lo sapevano; chiamato lo sposo gli disse: Tutti servono da principio il vino migliore, e danno il meno buono quando sono brilli, ma tu hai conservato il vino migliore fino ad ora. Così Gesù, in Cana di Galilea dette inizio ai miracoli, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui. R. Lode a Te, o Cristo.

Omelia della Domenica II dopo l’Epifania

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Giovanni II, 1-11)

Gesù onorava di sua presenza un convito di nozze in Cana della Galilea, così ci narra l’odierno Vangelo. Dunque il matrimonio, dice S. Agostino, ha Dio per autore. Dunque il matrimonio, soggiunge S. Paolo, è santo, ed è nella Chiesa di Cristo un gran sacramento. “Sacramentum hoc magnum est… in Christo et in Ecclesia” (ad Ephes.V, 32). Della santità del matrimonio potrei, uditori amatissimi, tenervi ragionamento, se non credessi più profittevole parlarvi di alcuni obblighi annessi allo stato del matrimonio stesso. E per ciò fare il modo facile a intendersi, e ritenersi da tutti, contentatevi ch’io mi serva di cose sensibili, che fissino l’mmaginativa, e possano ritenersi più agevolmente nella memoria de’ meno istruiti. L’arca del Testamento è un simbolo assai espressivo delle obbligazioni del matrimonio. Su quella stavano due Cherubini d’oro, figura de’ due sposi, l’amore e le intenzioni de’ quali devono esser pure come puro è 1″oro. L’arca era formata di legni incorruttibili, simbolo della reciproca inviolabile fedeltà. Nel seno dell’arca si conservavano le tavole della legge data da Dio a Mosè sul Sinai, la verga d’Aronne, e un vaselletto di manna, piovuta già nel deserto (ad Heb. IX,4). In questi ultimi oggetti io raffiguro tre principali obbligazioni de’genitori verso i propri figliuoli: Istruzione, correzione e custodia. Ripigliamo: tavole della Legge, ecco l’istruzione: verga d’Aronne, ecco la correzione: vaselletto di manna, ecco la custodia della propria prole. Ciò ch’io passo ad esporvi con la maggiore a me possibile chiarezza.

I. Due erano, come voi sapete, le tavole della divina legge. Conteneva la prima i comandamenti che riguardano Dio, la seconda quei che al prossimo si appartengono. Padri e madri, siccome il grande Iddio impose a Mosè di promulgare al suo popolo i precetti scritti dal suo dito in quelle tavole, così lo stesso Dio comanda a voi di intimarli, e d’istruirne la vostra prole. Questo comando del Signore esattamente adempì il buon Tobia (IV). “Figliuol mio, diceva sovente all’unico suo figlio, abbi sempre il tuo Dio presente allo spirito, guardati dal trasgredire alcuno dei suoi comandamenti, guardati da qualunque peccato: fa’ volentieri limosina a’ poverelli, e noli far volto duro sopra l’altrui miserie: da’ prontamente agli operai la loro mercede, e non fare ad altri quel male che non vorresti fosse fatto a te. Oh se i padri e le madri con frequenti esortazioni facessero penetrare queste massime sante nell’animo de’ teneri figli, quanto si vedrebbe fiorire nelle città cristiane la Religione e il buon costume! Se tratto tratto dicessero come la madre de’ Maccabei: “figliuoli chi vi ha data la vita, non siam in noi precisamente: Dio è l’autore del vostro essere. Da esso venite, a Lui dovete ritornare. Questa terra, su cui vi ha posti, è un esilio, un luogo di prova. Chi opera il bene avrà Iddio per premio, chi fa il male avrà Dio per nemico. Un po’ più presto, o un po’ più tardi io e voi dovremo sloggiare di questo mondo, e comparire al suo tremendo giudizio; il peccato è quel solo, che può trarci addosso una sentenza di eterna morte. Odiate adunque il peccato, o figli, fuggite da questo e dai malvagi compagni come dalla faccia del serpente”. Queste e simili debbon essere le istruzioni de’genitori, se bramano salvi i propri figli e sé stessi. Ma i miei figliuoli, dirà alcun di voi, non mi danno ascolto, le mie parole se le porta il vento, ed essi son sempre più perversi. Sentite; le tavole del Decalogo erano di pietra, e il dito di Dio vi scrisse i precetti della sua legge. Quand’anche il cuor de’ figli nostri fosse di pietra, non cessate d’istruire, replicate le ammonizioni, gli avvisi, i buoni consigli, e vi assicuro che’ resteranno impressi nella loro mente. “Gutta cavat lapidem”. Verrà un giorno, che memori delle salutari vostre istruzioni, e delle buone massime loro inculcate, diranno: benedetto quel mio padre, egli sempre mi raccomandava il timor santo di Dio. ora mi leggeva e mi faceva leggere un libro spirituale, ora mi narrava i fatti più celebri della sacra Scrittura. Benedetta quella mia madre, essa m’istruiva nella cristiana dottrina, non ammetteva scuse per dispensarmi dalle quotidiane preghiere, mi voleva sempre sotto i suoi occhi; qualche volta mi sembrava troppo precisa, ora conosco il bene che mi fece, e i pericoli da’ quali mi liberò. Così i vostri ammaestramenti, a guisa di buona semente, produrranno a suo tempo il frutto desiderato. Tanto più che voi padri e madri, avete per natura e per grazia del Sacramento le più idonee disposizioni a muovere il cuore de’ vostri figli, a formarne lo spirito, a regolarne i costumi, a riformarne i difetti. È necessario però agli insegnamenti congiungere i buoni esempi. Se raccomandate alla vostra famiglia il timor di Dio, e poi vi fate sentire a nominarLo invano, o a bestemmiarLo col proferire il suo santo Nome nell’impeto della vostra collera, se ad essi inculcate la frequenza de’ Sacramenti, e voi ne state lontani; se li mandate alla Chiesa e voi vi portate all’osteria: voi distruggete colle opere quel ch’edificaste colle parole. Sostenete per carità coll’esempio cristiano la cristiana istruzione… la via de’ documenti e de’ precetti è troppo lunga, e il più delle volte senza successo, la più corta ed efficace è il buon esempio. L’intendeva anche un Gentile : “Longum iter per praecepta; breve et effìcax per exempla”.

II. L’istruzione però non basterebbe, se ai dati tempi si escludesse l’opportuna correzione. Deve questa esser simile alla verga di Aronne, che non era un ramo d’albero selvaggio, ma di mandorlo, pianta fruttifera, e perciò la correzione riuscirà vantaggiosa, se sarà figlia della ragione, della prudenza e della carità, carità che finga sdegno per apportare rimedio, come fa il chirurgo che ferisce la piaga a fin di sanarla. Se per l’opposto il vostro correggere sarà effetto di collera, sfogo di rabbia e di furioso trasporto, non n’aspettate buon esito; mancherete all’avviso che vi dà l’Apostolo, di non provocare i vostri figli a concepir ira contro di voi, “Patres, nolite ad indignationem, provocare filios vestros(ad COL. III, 21). La verga d’Aronne era flessibile, e in una notte si coprì prodigiosamente di fiori. Alla qualità della colpa, della persona e dell’età va adattata la correzione. Le mancanze de’ figlioletti meritan verga, ma dolce e flessibile, ma fiorita per discreta moderazione: da queste regole quanto si discostano comunemente i genitori! Quel fanciullo rompe un vaso, versa un liquido: e la madre di esso, lo batte senza riguardo, e lo vuol morto, Lo stesso poi proferisce una parola scandalosa, e gli ride in faccia. Che razza di procedere è questo? L’interesse nel primo caso è quel che spinge una correzione ingiusta; nel secondo quel che va corretto si approva col riso. Non si approvano è vero certe colpe più notabili degli adulti, ma la troppa indulgenza, ma la trascuratezza in castigarli ridonda poi in danno de’ figli rei e de’ negligenti genitori. Che disgusto non provò Davide pe’ suoi due figliuoli Ammone e Assalonne? Sa che il primo ha fatto violenza a Tamar sua sorella, e non si legge che aprisse bocca ad un rimprovero. Gli arriva notizia, che il secondo ha ucciso Ammone a tradimento, e non si dà premura d’aver in mano il delinquente; e perciò nella più grande amarezza piange inutilmente uno trucidato in un convito, l’altro trafitto in un bosco: un proporzionato castigo avrebbe impedito la morte d’entrambi. Castigate i figli vostri, o padri e madri, se non volete disgusti, castigateli se volete salvarvi. Dio ve lo comanda; dovete ubbidire. Non vi lasciate sedurre da natural tenerezza, o da un falso amore. Non è amore, ma odio quel che risparmia al figlio reo il meritato castigo. Lo dice lo Spirito Santo: “Qui parcit virgae odiit fìlium suum” (Prov. XVIII). Ho detto se volete salvarvi, dal Sacerdote Eli apprendete il vostro obbligo e il vostro pericolo. Riprese egli le scandalose azioni de’ figli suoi, pe’ quali il popolo si allontanava dal tempio e da’ sacrifizi; ma siccome invece d’una giusta severità e rigorosa punizione, si contentò di poche parole, Iddio gli fece intimare dal profeta Samuele la perdita dei propri figli in un sol giorno, e quel che più importa, perdette egli non solo la vita temporale, colpito da subitanea morte, ma, secondo l’opinione de’ santi Cirillo e Giovanni Damasceno, anche la vita eterna!

III. Devono finalmente i genitori aggiungere all’istruzione, ed alla correzione l’esatta custodia della loro prole. La manna era custodita nell’arca del Testamento. Pareva dovesse bastare l’essere riposta in una delle sue cassette; no, non bastava, dice S. Paolo (ad Ebr. IX, 4) chiusa in un’urna, e da Dio conservata incorrotta! Usate voi somigliante cautela per custodire la vostra figliolanza? Oh Dio! su questo punto così declamava innanzi al suo popolo di Antiochia S. Giovanni Crisostomo, acceso di santo zelo: dovrò dirlo, o dovrò tacerlo? ma che giova il tacere per non contristarvi, se il mio silenzio vi fosse nocevole? Io vedo in questa vostra città che molti di voi hanno più cura degli asini e dei cavalli, che de’propri figliuoli. “Maiorem asinorum et equorum, quam filiorum curam habent(Hom. 60). E forse che non può dirsi lo stesso di noi? Si ha più cura della vacca, della capra, della gallina, dell’uccello di gabbia, che della propria famiglia, che del proprio sangue; ond’è che si lasciano i figli tutto giorno in abbandono, come i cani alla strada; e se questo è un gran delitto riguardo ai figli qual sarà in rapporto alle figlie? Oh la mia figlia è innocente! Se la lascerete in libertà perderà la sua innocenza. La manna nel deserto appena vedeva il sole si dileguava. Io la lascio, è vero, andare a quella campagna, a quel passeggio, a quel festino, ma con persone oneste, buoni amici e stretti parenti. Voi vi fidate troppo, io piango la vostra figlia e voi. Ma io l’ho data in custodia a un mio congiunto, uomo di senno e di tutta probità. Sarebbe stato meglio, che si fosse offerto ad accompagnarla uno scapestrato, ché così non vi sareste fidati, e non fidandovi, voi e la figlia vostra eravate sicuri. Vi fidate? dunque arrischiate. Bisogna dire che voi, o padre, conosciate poco il mondo, e che a voi, o madre, non sia mai occorso di trovarvi in qualche cimento. Possibile che la vostra esperienza non vi faccia aprir gli occhi, e non vi renda più cauti! Con questo di più, che forse nella vostra adolescenza e giovinezza non v’erano tanti lacci, tant’inciampi, tanta dissolutezza come nel secolo presente, secolo presso che somigliante a quel di Noè avanti il diluvio, secolo in cui, rotto ogni freno all’impudenza, si aggirano ingordi avvoltoi intorno alle incaute colombe, lupi rapaci in cerca di agnelle non custodite. – Non volete restar persuasi sul pericolo delle vostre figlie se non avrete cent’occhi? Imparatelo da Dina unica figliuola di Giacobbe. Questa savia donzella si presenta un dì al suo buon genitore dicendogli.- siavi qui nelle vicinanze di Siehem, contentatevi ch’io vada a vedere come sono abbigliate le donne Sichimite. Qual più innocente domanda? Ah Giacobbe, chi presago dell’avvenire avesse potuto dire all’orecchio di questo patriarca: Giacobbe, non accordare chesta licenza, che troppo ti costerà d’amarezza, di lacrime e di pericoli. Ma Giacobbe che nulla prevede, consente e permette. Va Dina per vedere ed è veduta, e l’esser veduta, rapita, disonorata fu una cosa stessa. Giunge al padre la contristante notizia, e ne piange, arriva ai fratelli, e van sulle furie, dissimulano per poco la vendetta, armati poi assalgono quella città, e mettono a ferro, a fuoco uomini, donne, bambini, case, campagne. I paesi vicini temono una egual sorte; onde tutti gridano all’armi contro i forestieri assassini. Ed ecco il buon Giacobbe e tutta la famiglia in evidente pericolo della vita, costretto a darsi a fuga precipitosa e notturna per selve, per balze e per dirupi. Che dite ora di quella domanda innocente, e di quella incolpabile licenza? Che avverrà delle figlie vostre, alle quali sì facilmente accordate la conversazione, il passeggio il ballo, il festino, il teatro? Ah per carità aprite gli occhi sulle altrui disgrazie. Tante ne vedete, e ne sapete meglio di me. Che aspettate voi dunque? Deh, ve ne prego, ammaestrare i vostri figli, tenete sempre innanzi agli occhi loro le tavole della divina legge, e datene loro l’esempio coll’osservarla; maneggiate la verga per loro correzione: custoditeli in fine come una manna, come un prezioso deposito che Iddio vi ha affidato, e di cui vi domanderà strettissimo conto. E così voi a’ vostri figli, e a voi medesimi procurerete una temporale ed eterna felicità, ch’io vi desidero.

Credo

Communio Joann II:7; II:8; II:9; II:10-11 Dicit Dóminus: Implete hýdrias aqua et ferte architriclíno. Cum gustásset architriclínus aquam vinum factam, dicit sponso: Servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc signum fecit Jesus primum coram discípulis suis.

Communio Joann 2:7; 2:8; 2:9; 2:10-11 [Dice il Signore: Empite d’acqua le pile e portate al maestro di tavola. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino disse allo sposo: Hai conservato il vino migliore fino ad ora. Questo fu il primo miracolo che Gesù fece davanti ai suoi discepoli].

Postcommunio Orémus. Augeátur in nobis, quaesumus, Dómine, tuæ virtútis operatio: ut divínis vegetáti sacraméntis, ad eórum promíssa capiénda, tuo múnere præparémur.

Preghiamo. Cresca in noi, o Signore, Te ne preghiamo, l’opera della tua potenza: affinché, nutriti dai divini sacramenti, possiamo divenire degni, per tua grazia, di raccoglierne i frutti promessi.

13 GENNAIO BATTESIMO DI CRISTO

battesimo di Gesù

Il secondo Mistero dell’Epifania, il Mistero del Battesimo di Cristo nel Giordano, attira oggi in modo speciale l’attenzione della Chiesa. L’Emmanuele si è manifestato ai Magi dopo essersi mostrato ai pastori; ma questa manifestazione è avvenuta nel ristretto spazio d’una stalla a Betlemme, e gli uomini di questo mondo non l’hanno conosciuta. Nel mistero del Giordano, Cristo si manifesta con maggior splendore. La sua venuta è annunciata dal Precursore; la folla che accorre al Battesimo del fiume ne fa testimonianza, e Gesù esordisce alla vita pubblica. Ma chi potrebbe descrivere la grandiosità delle cose che accompagnano questa seconda Epifania?- Essa ha per oggetto, al pari della prima, il bene e la salvezza del genere umano; ma seguiamo il progredire dei Misteri. La stella ha condotto i Magi verso Cristo. Prima essi aspettavano e speravano; ora, credono. La fede nel Messia venuto comincia in seno alla Gentilità. Ma non basta credere per essere salvi; è necessario che la macchia del peccato sia lavata nell’acqua. « Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo» (Me. XVI, 16): è tempo dunque che avvenga una nuova manifestazione del Figlio di Dio, per inaugurare il grande rimedio che deve dare alla Fede la virtù di produrre la vita eterna. – Ora, i decreti della divina Sapienza avevano scelto l’acqua come strumento di questa sublime rigenerazione della razza umana. – Già all’origine delle cose lo Spirito di Dio ci è rappresentato mentre sorvola sulle acque, affinché, come canta la Chiesa il Sabato Santo, la loro natura concepisse già un principio di santificazione. Ma le acque dovevano servire alla giustizia contro il mondo colpevole, prima di essere chiamate a compiere i disegni della misericordia. – Ad eccezione d’una sola famiglia, il genere umano per un terribile decreto, scomparve sotto le acque del diluvio. Tuttavia, alla fine di quella terribile scena, si manifestò un nuovo indizio della futura fecondità di questo elemento predestinato. La colomba, uscita per un momento dall’arca della salvezza, vi rientrò con un ramoscello d’ulivo, simbolo della pace ridata alla terra dopo l’effusione dell’acqua. Ma il compimento del mistero annunciato era ancora lontano. – Nell’attesa del giorno in cui il mistero sarebbe stato manifestato, Dio moltiplicò le immagini destinate a sostenere l’attesa del suo popolo. Così, fu attraversando le acque del Mar Rosso che il popolo arrivò alla Terra promessa; e durante il misterioso tragitto, una colonna di nube copriva insieme il cammino d’Israele e le acque benedette alle quali questi doveva la sua salvezza. – Ma il solo contatto delle membra umane d’un Dio incarnato poteva dare alle acque la virtù purificatrice che ogni uomo colpevole sospirava. Dio aveva dato il Figlio suo non al mondo soltanto come Legislatore, Redentore e Vittima di Salvezza, ma perché fosse anche il Santificatore delle acque; e appunto in seno a questo sacro elemento doveva rendergli una testimonianza divina, manifestarlo una seconda volta.

Il battesimo di Gesù.

Gesù dunque, all’età di trent’anni, va verso il Giordano, fiume già famoso per le meraviglie profetiche operate nelle sue acque. – Il popolo ebreo, risvegliato dalla predicazione di Giovanni Battista, accorreva in massa per ricevere il Battesimo che poteva produrre il pentimento del peccato, ma non cancellarlo. Il nostro divino Re va anch’egli al fiume, non per cercarvi la santificazione, poiché Egli è il principio di ogni giustizia, ma per dare finalmente alle acque la virtù di produrre, come canta la Chiesa, una razza nuova e santa. Scende nel letto del Giordano, non più come Giosuè per attraversarlo a piedi asciutti, ma affinché il Giordano lo cinga delle sue acque, e riceva da Lui, per comunicarla a tutto l’elemento, quella virtù santificatrice che esso non perderà mai più. Riscaldate dai divini ardori del Sole di giustizia, le acque divengono feconde, nel momento in cui il sacro capo del Redentore viene immerso nel loro seno dalla mano tremante del Precursore. – Ma in questo preludio di una nuova creazione, è necessario che intervenga tutta la Trinità. Si aprono i cieli, e ne scende la Colomba, non più come simbolo e figura, ma per annunciare la presenza dello Spirito d’amore che dà la pace e trasforma i cuori. Essa si ferma e si posa sul capo dell’Emmanuele, scendendo insieme sull’umanità del Verbo e sulle acque che bagnano le sue auguste membra.

La testimonianza del Padre.

Tuttavia il Dio-Uomo non era manifestato ancora con abbastanza splendore; bisognava che la parola del Padre risonasse sulle acque, e le agitasse fin nella profondità dei loro abissi. Allora si fece sentire quella Voce che aveva cantata David: Voce del Signore che risuona sulle acque, tuono del Dio di maestà che spezza i cedri del Libano, l’orgoglio dei demoni, che spegne il fuoco dell’ira celeste, che scuote il deserto, che annuncia un nuovo diluvio (Sal. XXVIII), un diluvio di misericordia; e quella voce che diceva: Questi è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto. Così fu manifestata la Santità dell’Emmanuele dalla presenza della divina Colomba e dalla voce del Padre, come era stata manifestata la sua Regalità dalla muta testimonianza della Stella. Compiuto il divino mistero e investito della virtù purificatrice l’elemento delle acque, Gesù esce dal Giordano e torna a riva, portando con sé – secondo l’opinione dei Padri – rigenerato e santificato il mondo di cui lasciava sotto le acque i delitti e le immondezze.

Usanze.

Come è grande la festa dell’Epifania, che ha per oggetto di onorare così sublimi misteri! E come non c’è da stupire se la Chiesa Orientale ha fatto di questo giorno una delle date per l’amministrazione solenne del Battesimo. Gli antichi monumenti della Chiesa delle Gallie ci mostrano che l’usanza esisteva anche presso i nostri avi; e più d’una volta – stando a quanto riferisce Giovanni Mosch – si vide il santo battistero riempirsi d’un’acqua miracolosa il giorno di questa grande festa, e asciugarsi da sé dopo l’amministrazione del Battesimo. La Chiesa Romana, fin dal tempo di san Leone, insisté per riservare alle feste di Pasqua e di Pentecoste l’onore di essere gli unici giorni consacrati alla celebrazione solenne del primo fra i Sacramenti; ma in parecchi luoghi dell’Occidente si conservò e dura ancora oggi l’usanza di benedire l’acqua con una solennità del tutto speciale nel giorno dell’Epifania. – La Chiesa d’Oriente ha conservato inviolabilmente tale usanza. La funzione ha luogo, ordinariamente, nella Chiesa, ma talvolta il Pontefice si reca sulle rive di un fiume, accompagnato dai sacerdoti e dai ministri rivestiti dei più ricchi paramenti e seguito da tutto il popolo. Dopo alcune magnifiche preghiere, che ci dispiace di non poter riportare qui, il Pontefice immerge nelle acque una croce rivestita di pietre preziose che significa il Cristo, imitando così l’azione del Precursore. Un tempo, a Pietroburgo, la cerimonia aveva luogo sulla Neva, e attraverso un’apertura praticata nel ghiaccio il Metropolita faceva scendere la croce nelle acque. Questo rito si osserva parimenti nelle Chiese dell’Occidente che hanno conservato l’usanza di benedire l’acqua nella Festa dell’Epifania. I fedeli si affrettano ad attingere nella corrente del fiume quell’acqua consacrata; e san Giovanni Crisostomo – nella sua ventiquattresima Omelia sul Battesimo di Cristo – attesta, chiamando a testimone il suo uditorio, che quell’acqua non si corrompeva mai. Lo stesso prodigio è stato riconosciuto molte volte in Occidente. – Glorifichiamo dunque Cristo per questa seconda manifestazione del suo divino carattere, e rendiamogli grazie, insieme con la santa Chiesa, per averci dato, dopo la Stella della fede che ci illumina, l’Acqua potente che toglie le nostre immondezze. Nella nostra riconoscenza, ammiriamo l’umiltà del Salvatore che si curva sotto la mano di un uomo mortale al fine di compiere ogni giustizia, come dice egli stesso; poiché, avendo assunto la forma del peccato era necessario che sopportasse l’umiliazione per risollevarci dal nostro abbassamento. Ringraziamolo per questa grazia del Battesimo che ci ha aperto le porte della Chiesa terrena e della Chiesa celeste. Infine, rinnoviamo gli impegni che abbiamo contratti sul sacro fonte, e che sono stati la condizione di questa nuova nascita.

Un’ENCICLICA AL GIORNO, toglie il modernista apostata di torno: ARCANUM DIVINAE SAPIENTIAE,

Il Papa ha sempre amato le sue pecorelle, proteggendole non solo con tutte le sue possibilità materiali, ma soprattutto tenendole lontane dagli errori spirituali, apparentemente innocui, ma che pongono le anime fuori della Chiesa Cattolica, alla cui appartenenza è legata la salvezza dell’anima. Il Santo Padre, Vicario di Cristo, si è sempre adoperato, senza rispetti falsi, codardie ed indietreggiamenti davanti all’errore, esalta il valore del matrimonio, elevato da Gesù alla dignità di Sacramento, e conseguentemente condanna con veemenza il diorzio. La codardia di oggi, vogliamo porre un tema di riflessione per gli ostinati aderenti alla falsa chiesa dell’uomo, si trincera dietro ridicole e clawnesche dichiarazioni … chi sono io per giudicare, etc. etc. … Non vale la pena polemizzare circa l’acqua calda, ma leggiamo in questa grandissima Enciclica di Papa Pecci, LEONE XIII, le sue puntualizzazioni teologicamente millimetriche e senza speranza di confutazione da parte di imbecilli e faziosi impregnati da massonismo e liberalismo anticlericale. Alla seconda enciclica, era già così evidente lo spirito combattivo del Vicario di Cristo, pronto a tutto pur di difendere i suoi agnelli dai lupi rapaci pronti a penetrare nell’ovile per farvi strage di anime. Ma non togliamo ulteriore spazio alla voce della verità: Arcanum divinae sapientiae consilium, quod Salvator hominum Iesus Christus ….

ARCANUM DIVINAE

LETTERA ENCICLICA

DI SUA SANTITÀ

LEONE PP. XIII

leone-xiii

 

A tutti i Venerabili Fratelli Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi del mondo cattolico che hanno grazia e comunione con la Sede Apostolica.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

L’arcano consiglio della sapienza divina, che il Salvatore degli uomini Gesù Cristo doveva compiere sulla terra, mirava appunto a questo: che Egli, per sé ed in sé, rinnovasse prodigiosamente il mondo, quasi consunto della vecchiaia. Il che espresse in una splendida e magnifica frase l’Apostolo Paolo quando scrisse agli Efesini: “Averci Iddio fatto noto il mistero della sua volontà… di riunire in Cristo tutte le cose, sia quelle che sono nei cieli, sia quelle che sono in terra” (Ef 1,9-10). Infatti, allorché Cristo Signore cominciò ad eseguire il mandato che gli aveva dato il Padre, subito comunicò a tutte le cose una nuova forma e bellezza, dileguandone ogni squallore. Infatti, Egli sanò le ferite che il peccato del primo padre aveva cagionato alla natura umana; riconciliò con Dio tutti gli uomini, per natura figli dell’ira; ricondusse alla luce della verità coloro che erano oppressi dagli errori; riportò ad ogni virtù coloro che erano soggiogati da ogni impudicizia; ed avendo ridonato tutti alla eredità della beatitudine eterna, diede loro la sicura speranza che lo stesso loro corpo mortale e caduco sarebbe stato un giorno partecipe dell’immortalità e della gloria celeste. Affinché poi benefìci tanto singolari durassero sulla terra fintantoché vi fossero uomini, costituì la Chiesa vicaria di ogni sua potestà, e, guardando all’avvenire, volle che essa, se qualche turbamento si verificasse nella società umana, vi riportasse l’ordine e riparasse eventuali guasti. – Benché questo divino rinnovamento che abbiamo detto riguardasse principalmente e direttamente gli uomini costituiti nell’ordine della grazia soprannaturale, tuttavia i suoi preziosi e salutari frutti ridondarono largamente anche nell’ordine naturale, così che ne conseguirono una non mediocre perfezione tanto i singoli mortali, quanto l’intiera famiglia del genere umano. Infatti, appena stabilita nel mondo la religione cristiana, a tutti e singoli gli uomini fu offerta la felice sorte di conoscere la paterna provvidenza di Dio, di avvezzarsi a porre in essa ogni loro fiducia, ed a nutrire quella speranza che non confonde, cioè la speranza dei celesti aiuti, dai quali derivano la fortezza, la moderazione, la costanza, l’equilibrio dello spirito e, infine, molte belle virtù e fatti egregi. È davvero meraviglioso quanta dignità, quanta stabilità e quanto decoro ne siano derivati alla comunità familiare e a quella civile. L’autorità dei Principi si è resa più ragionevole e più santa; l’obbedienza dei popoli più devota e più pronta; i vincoli di fratellanza fra i cittadini più stretti, i diritti di proprietà più garantiti. La religione cristiana provvide a tutte le cose che sono ritenute utili nello Stato, tanto che, come dice Sant’Agostino, non pare che essa avrebbe potuto apportare maggior soccorso al tranquillo e beato vivere, se fosse nata unicamente per apprestare od accrescere i comodi ed i beni della vita mortale. – Ma non è ora Nostro intendimento enumerare tutti i particolari intorno a questo argomento; solo Ci proponiamo di ragionare della comunità domestica, il cui principio o fondamento si trova nel matrimonio. – Tutti sanno, Venerabili Fratelli, quale sia l’origine vera del matrimonio. Poiché, sebbene i detrattori della fede cristiana rifuggano dal conoscere la dottrina perpetua della Chiesa intorno a questa materia, e si sforzino da gran tempo di cancellare la memoria di tutte le genti e di tutti i secoli, tuttavia non hanno potuto né estinguere, né diminuire la luce della verità. Rammentiamo a tutti cose note e non dubbie: dopo che Iddio, nel sesto giorno della creazione, formò l’uomo dalla polvere della terra, e gli soffiò nel volto l’alito della vita, volle dargli una compagna che trasse prodigiosamente da un fianco dello stesso uomo addormentato. Con questo il provvidentissimo Iddio intese che quella coppia di coniugi fosse il principio naturale di tutti gli uomini, dal quale cioè dovesse propagarsi il genere umano e, attraverso generazioni mai interrotte, conservarsi nel tempo. Quella congiunzione dell’uomo e della donna, affinché meglio rispondesse ai sapientissimi consigli di Dio, fin da allora mostrò in sé, come altamente impresse e scolpite, due proprietà principali ed oltremodo nobilissime, cioè l’unità e la perpetuità. Ciò vediamo dichiarato e solennemente ratificato dal Vangelo con la divina autorità di Gesù Cristo, il quale proclamò ai Giudei ed agli Apostoli che il matrimonio, per la sua stessa istituzione, deve essere solamente tra due, ossia tra un uomo e una donna; che dei due si forma come una sola carne, e che il vincolo nuziale, per volere di Dio, è così intimamente e fortemente unito che nessuno tra gli uomini può romperlo o scioglierlo. “Starà congiunto [l’uomo] con la moglie sua, e i due saranno una sola carne. Pertanto non sono più due, ma una carne sola. Dunque ciò che Iddio ha congiunto l’uomo non separi” (Mt XIX,5-6). – Peraltro questa forma di connubio, tanto nobile e sublime, a poco a poco cominciò a corrompersi e a venir meno presso i popoli pagani; e presso la stessa nazione degli Ebrei parve quasi annebbiarsi e oscurarsi. Infatti, presso questi, a proposito delle mogli era comune consuetudine che ad ogni uomo fosse lecito averne più d’una. Successivamente, avendo Mosè, “a cagione della durezza del loro cuore” (Mt XIX,8), dato benignamente la facoltà dei ripudi, fu aperta la strada al divorzio. Presso i pagani, poi, sembra cosa appena credibile quanta corruzione e depravazione si concentrassero nelle nozze, soggette al fluttuare degli errori e delle turpissime cupidigie di ciascun popolo. Tutte le genti, più o meno, parvero disimparare la nozione e l’origine vera del matrimonio; e intorno ai connubi dappertutto si promulgavano leggi le quali parevano secondare l’indole dei governi, non quelle richieste dalla natura. I riti solenni, introdotti ad arbitrio dei legislatori, facevano sì che le donne ottenessero il nome onesto di moglie o quello infame di concubina, anzi, si giunse a un punto tale che secondo la volontà dei capi della repubblica si disponeva a chi fosse permesso di contrarre le nozze, e a chi no, dato che le leggi richiedevano molte cose contrarie all’equità e molte a favore dell’ingiustizia. Oltre a ciò, la poligamia, la poliandria, il divorzio furono cagione che il vincolo nuziale si rallentasse di molto. Esisteva una grandissima confusione nei vicendevoli diritti e doveri dei coniugi, dato che il marito acquistava la proprietà della moglie, e sovente senza nessuna giusta causa ordinava a lei che, ripigliate le cose sue, se ne andasse; egli poi, spinto da una sfrenata ed indomabile libidine, poteva impunemente “scorrazzare per i lupanari in cerca di schiave, come se dalla dignità non dalla volontà dipendesse la colpa”. In così strabocchevole licenza del marito, nulla vi era di più miserando della moglie, abbassata a tanta viltà che quasi veniva considerata soltanto come uno strumento destinato a soddisfare alla libidine od a procreare figli. Né arrossì per il fatto che quelle che erano da collocare per mogli fossero comprate e vendute a somiglianza delle cose corporali, essendo stata data talvolta facoltà al padre o al marito di condannarle all’estremo supplizio di moglie. Una famiglia nata da siffatti connubi era giocoforza considerata come proprietà dello Stato, o come schiava del padre di famiglia, al quale le leggi avevano concesso il potere non solo di effettuare o di sciogliere a suo arbitrio il matrimonio dei figli, ma di esercitare altresì sopra di essi l’immane potere della vita e della morte. – Ma a tanti vizi e a così grandi ignominie, da cui erano inquinati i connubi, vennero infine approntati dal cielo il soccorso e la medicina, in quanto Gesù Cristo, riparatore dell’umana dignità e perfezionatore delle leggi mosaiche, si prese non piccola né ultima cura del matrimonio. Egli infatti nobilitò con la sua presenza le nozze in Cana di Galilea, e con il primo dei suoi prodigi le rese memorabili (Gv II,1-11), e da quel giorno pare che cominciasse a risplendere una nuova santità nei connubi degli uomini. Poscia richiamò il matrimonio alla nobiltà della prima origine, sia col riprovare i costumi degli Ebrei, che abusavano e del numero delle mogli e della facoltà del ripudio, sia massimamente col prescrivere che nessuno osasse sciogliere ciò che Iddio con perpetuo vincolo di congiunzione aveva legato. Pertanto, avendo confutato le difficoltà che derivavano dalle istituzioni mosaiche, assunta la persona di supremo legislatore, decretò queste cose intorno ai coniugi: “Ora io vi dico che chiunque rimanderà la propria moglie, salvo che per cagione d’adulterio, e ne sposerà un’altra, commette adulterio; e chi sposerà colei che fu ripudiata commette adulterio” (Mt XIX,9), cioè che Cristo Signore ha innalzato il matrimonio alla dignità di Sacramento, ed ha contemporaneamente fatto sì che i coniugi, rivestiti e fortificati dalla celeste grazia che i meriti di Lui apportarono, ottenessero la santità nello stesso matrimonio. In questo, conformato mirabilmente all’esempio del suo mistico connubio con la Chiesa, ha perfezionato l’amore naturale, e stretto più fortemente col vincolo della carità divina l’unione, indivisibile per sua stessa natura, del marito e della moglie. “O uomini, – dice Paolo agli Efesini – amate le vostre mogli come anche Cristo amò la Chiesa e diede se stesso per lei, al fine di santificarla… I mariti debbono amare le loro mogli come i loro propri corpi… dato che nessuno ebbe mai in odio la propria carne; anzi la nutre e la cura, come fa pure Cristo della Chiesa: perché noi siamo membra del suo corpo, della sua carne e delle sue ossa. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre sua, e starà congiunto con sua moglie; e i due saranno una carne sola. Questo Sacramento è grande: io però lo dico riguardo a Cristo e alla Chiesa” (Ef V,25-33). Similmente apprendemmo dagli Apostoli che Cristo ha decretato che l’unione e la perpetua stabilità – che si richiedevano fino dalla stessa origine delle nozze – fossero sacre e inviolabili in tutte le età. “Ai coniugati, dice lo stesso Paolo, ordino, non io, ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito, e qualora si sia separata, rimanga senza rimaritarsi, o si ricongiunga con suo marito” (1Cor VII,10-11), e di nuovo: “La moglie è legata alla legge per tutto il tempo che suo marito vive; se il marito muore, ella è libera” (1Cor VII,39). Per questi motivi dunque il matrimonio divenne “Sacramento grande” (Ef V,32), “onorabile in tutto” (Eb XIII,4), pio, casto, venerando per la figura ed il significato d’altissime cose. – Né la sua cristiana e somma perfezione è contenuta soltanto nelle prerogative che si sono ricordate. Infatti, in primo luogo alla società coniugale fu prestabilito uno scopo più nobile e più alto che mai fosse stato in precedenza, in quanto si volle che essa mirasse non solo a propagare il genere umano, ma a generare figli alla Chiesa, “concittadini dei Santi e domestici di Dio” (Ef 2,19), cioè “che fosse creato ed educato un popolo al culto e alla religione di Cristo, vero Dio e nostro Salvatore” . In secondo luogo, all’uno ed all’altro dei coniugi furono stabiliti i loro propri doveri, e interamente descritti i loro diritti. È necessario cioè che essi abbiano sempre l’animo talmente disposto da comprendere l’uno dovere all’altro un amore grandissimo, una fede costante, un sollecito e continuo aiuto. Il marito è il principe della famiglia e il capo della moglie; la quale, non pertanto, dato che è carne della carne di lui ed osso delle sue ossa, deve essere soggetta ed obbediente al marito, non a guisa di ancella, ma di compagna; cioè in modo tale che la soggezione che ella rende a lui non sia disgiunta dal decoro né dalla dignità. In lui che governa, ed in lei che obbedisce, dato che entrambi rendono l’immagine l’uno di Cristo, l’altra della Chiesa, sia la carità divina la perpetua moderatrice dei loro doveri. Infatti “l’uomo è capo della donna, come Cristo è capo della Chiesa… Quindi, come la Chiesa è soggetta a Cristo, così le mogli debbono essere soggette ai loro mariti in ogni cosa” (Ef 5,23-24); furono pareggiati i diritti del marito e della moglie; infatti, come diceva San Girolamo , “presso di noi ciò che non è lecito alle donne, altrettanto non è lecito agli uomini, e la stessa servitù viene considerata a pari condizione”; furono stabilmente consolidati i medesimi diritti per mezzo della reciproca benevolenza e dei vicendevoli compiti; fu garantita e tutelata la dignità delle donne; fu vietato al marito di punire l’adulterio con la pena di morte , e di violare per libidine e impudicizia la fede giurata. È altresì di grande importanza che la Chiesa abbia posto un limite, nella misura necessaria, alla patria potestà, affinché nulla venisse tolto alla ragionevole libertà dei figli e delle figlie che desiderassero sposarsi ; che abbia decretato nulle le nozze tra i consanguinei e gli affini in certi gradi , affinché l’amore soprannaturale dei coniugi potesse diffondersi in più vasto campo; che abbia avuto cura di rimuovere dalle nozze, per quanto le fu possibile, l’errore, la violenza e la frode ; che abbia voluto si conservassero intere ed intatte la pudicizia santa del talamo, la sicurezza delle persone , la dignità dei connubii , la integrità della religione . Da ultimo, con tanto vigore, con tanta provvidenza di leggi fortificò codesta divina istituzione, tanto che non v’è alcuno, giusto estimatore delle cose, il quale non comprenda che anche per quanto si riferisce ai connubi, la Chiesa è ottima conservatrice e protettrice del genere umano; la sua sapienza trionfò nel corso dei tempi contro le ingiurie degli uomini e le innumerevoli vicende degli Stati. – Ma ad opera del nemico del genere umano non mancano coloro che, come rigettano ingratamente gli altri benefici della redenzione, così disprezzano o non riconoscono affatto la riabilitazione e il perfezionamento del matrimonio. Fu malvagità di alcuni antichi l’essere stati nemici delle nozze in qualche loro prerogativa, ma con danno molto più grave peccano all’età nostra coloro che vogliono completamente corromperne la natura, così perfetta e completa in tutte le sue parti e qualità. La causa di tale guerra consiste massimamente in questo, che imbevuti delle opinioni di una falsa filosofia e di prave abitudini, gli animi di molti soffrono soprattutto nello stare soggetti e nell’obbedire; pertanto operano a più non posso perché non solo ciascun uomo, ma le famiglie e tutta l’umana società disprezzino i comandi di Dio. Siccome però la fonte e l’origine della famiglia e della società umana sono riposte nel matrimonio, non possono in alcun modo sopportare che esso sia sottoposto alla giurisdizione della Chiesa; anzi si sforzano di spogliarlo d’ogni santità e di circoscriverlo entro la cerchia veramente angusta delle cose che furono istituite dal senno umano, e che cadono sotto l’autorità e il governo del diritto civile. Dal che doveva derivare per necessaria conseguenza che essi attribuissero ogni diritto sopra i connubi ai capi dello Stato, e che non ne avesse alcuno la Chiesa; la quale, se talvolta esercitò un siffatto potere, ciò avvenne o per condiscendenza dei Principi, o per sopruso. Ma essi dicono che ormai è giunto il tempo nel quale coloro che reggono lo Stato devono difendere gagliardamente i loro diritti, e cominciare a regolare a loro discrezione ogni cosa che appartiene ai connubi. Quindi sono nati i cosiddetti matrimoni civili; sono state stabilite le leggi intorno alle cause che possano impedire le nozze; da qui le sentenze del foro intorno ai contratti matrimoniali eseguiti illegalmente o con difetto. Infine vediamo che ogni facoltà di far leggi e pronunciare sentenze in questa materia è stata sottratta alla Chiesa cattolica con studiata abilità, al punto che non si tiene alcun conto né della sua potestà divina, né delle sue provvide leggi, con le quali così a lungo vissero beatamente i popoli, ai quali con la cristiana sapienza pervenne la luce della civiltà. – Con tutto ciò i Naturalisti e tutti coloro che, professandosi altamente devoti alla onnipotenza dello Stato, si sforzano di sconvolgere con queste malvagie dottrine tutta la società, non possono sfuggire all’accusa di falsità. Infatti, poiché il matrimonio ha Dio come autore, ed essendo stato fin da principio quasi una figura della Incarnazione del Verbo di Dio, perciò in esso si trova qualcosa di sacro e religioso, non avventizio, ma congenito, non ricevuto dagli uomini, ma innestato da natura. Pertanto, Innocenzo III e Onorio III, Nostri Predecessori, non a torto né senza ragione poterono affermare che “il Sacramento del matrimonio esiste presso i fedeli e gl’infedeli”. Chiamiamo in testimonio i monumenti dell’antichità, ed i costumi e le usanze dei popoli che meglio si erano avvicinati all’umanità, e che avevano progredito in una più esatta cognizione del diritto e della equità; nelle loro menti era impressa, come preconcetta ed innata, questa nozione, cioè che quando pensavano al matrimonio sorgeva in essi spontaneamente l’idea di una cosa congiunta con la religione e la santità. Per questo motivo le nozze presso di loro non venivano sovente celebrate senza i riti delle religioni, l’autorità dei pontefici, il ministero dei sacerdoti. – Tanta meravigliosa efficacia ebbero in quegli animi, pur digiuni della celeste dottrina, la natura delle cose, la memoria delle origini, la coscienza del genere umano! Pertanto, mostrandosi il matrimonio per la sua stessa natura come cosa del tutto sacra, è giusto che venga regolato e moderato non dal potere dei Principi, ma dall’autorità divina della Chiesa, la quale sola ha il magistero delle cose sacre. Inoltre si deve por mente alla dignità del Sacramento, prerogativa per la quale divennero oltre ogni dire nobilissimi i matrimoni dei cristiani. Il dar leggi, poi, e disposizioni intorno ai Sacramenti, lo può e deve, per volontà di Cristo, soltanto la Chiesa, sicché ripugna assolutamente il volere che una minima parte di tale potestà sia trasferita nei reggitori delle cose civili. – Da ultimo, grande è il peso, grande l’autorità della storia, la quale solennemente attesta che la Chiesa liberamente e costantemente fu solita esercitare il potere legislativo e giudiziario, di cui ragioniamo, anche in quei tempi nei quali sarebbe somma stoltezza supporre che i moderatori dello Stato in tal fatto prestassero il loro consenso o fingessero di non vedere. È certamente tanto incredibile quanto assurdo che Cristo Signore condannasse l’inveterata consuetudine della poligamia e del ripudio per una facoltà a lui delegata dal governatore della provincia o dal principe dei Giudei; analogamente che l’Apostolo Paolo proclamasse illeciti i divorzi e le nozze incestuose per condiscendenza o per tacito mandato di un Tiberio, di un Caligola, di un Nerone! E neppure potrà mai farsi credere ad un uomo di sano intelletto, che intorno alla santità e alla stabilità dei connubi , intorno alle nozze tra gli schiavi e le donne libere, fossero promulgate dalla Chiesa tante leggi con licenza impetrata dagli Imperatori romani, assolutamente nemici del nome cristiano, i quali non avevano altro più deciso proposito che di opprimere con la violenza e con le stragi la crescente religione di Cristo, soprattutto per la ragione che il diritto stabilito dalla Chiesa era alle volte talmente discordante dal diritto civile, che Ignazio Martire, Giustino, Atenagora e Tertulliano riprovavano pubblicamente come ingiuste od illegittime le nozze di alcuni alle quali, nondimeno, erano favorevoli le leggi imperiali. – Dopo che ogni potere passò agli Imperatori cristiani, i Sommi Pontefici ed i Vescovi adunati nei Concili, con la stessa libertà e coscienza del loro diritto continuarono sempre a prescrivere o ad inibire intorno ai matrimoni quanto ritenevano utile, quanto conforme ai tempi, ancorché sembrasse contrario alle consuetudini civili. Nessuno ignora quante grandi cose, spesso contrarie ai decreti sanciti dal diritto cesareo, siano state stabilite dai Prelati della Chiesa nei Concili Illiberitano, Arelatese, Calcedonese, Milevitano II ed in altri, intorno agli impedimenti del vincolo, del voto, della diversità di culto, della consanguineità, del delitto e della pubblica onestà. Anzi, fu così lontana l’ipotesi che i Principi si arrogassero la giurisdizione nei matrimoni cristiani, che riconobbero invece e dichiararono che essa era tutta e soltanto nella Chiesa. Infatti Onorio, Teodosio il giovine, Giustiniano non esitarono a dichiarare che, nelle cose che riguardano le nozze, non era loro lecito di esser altro che custodi e difensori dei sacri canoni. E se sancirono qualche cosa con i loro editti sopra gl’impedimenti dei connubi, ne fecero spontaneamente conoscere il motivo, cioè che essi si erano presa tale libertà con il permesso e l’autorizzazione della Chiesa, della quale furono soliti ricercare e seguire con ossequio la decisione nelle questioni riguardanti l’onestà dei natali , i divorzi , e in definitiva tutte le cose che hanno una relazione con il vincolo coniugale . Pertanto fu con buona ragione definito nel Tridentino essere in potestà della Chiesa “determinare gl’impedimenti che rompono il matrimonio, ed essere di competenza dei giudici ecclesiastici le cause matrimoniali”. – Né deve impressionare qualcuno la separazione tanto sostenuta dai Regalisti, che distinguono il contratto nuziale dal Sacramento, con l’intenzione di lasciare il contratto in balìa ed in arbitrio dei capi dello Stato, riservando alla Chiesa le ragioni del Sacramento. Infatti non si può approvare tale distinzione, o più esattamente separazione, essendo manifesto che nel matrimonio cristiano il contratto non può essere separato dal Sacramento, e perciò non può sussistere un vero e legittimo contratto che non sia al tempo stesso Sacramento. Poiché il matrimonio fu arricchito da Cristo Signore della dignità di Sacramento, il matrimonio si identifica con lo stesso contratto, quando sia fatto secondo le norme volute. Si aggiunga che il matrimonio è Sacramento proprio per questo: che è un segno sacro, che produce la grazia e rende immagine delle mistiche nozze di Cristo con la Chiesa. La forma poi e la figura di queste vengono espresse da quello stesso vincolo di perfetta unione con il quale l’uomo e la donna si congiungono tra loro, e che non è altro se non il matrimonio medesimo. È dunque chiaro che ogni giusto connubio tra cristiani è in sé e per sé Sacramento: e niente è più contrario alla verità di questo, che il Sacramento sia un certo ornamento aggiunto, od una proprietà estrinseca, che si possa ad arbitrio degli uomini disgiungere e separare dal contratto. Quindi né con la ragione, né con la storia, testimone dei tempi, si arriva a provare che il potere sui matrimoni dei Cristiani sia a buon diritto trasferito nei capi dello Stato. Se in questa materia fu violato l’altrui diritto, nessuno certamente potrà dire che sia stato violato dalla Chiesa. – Dio volesse poi che le dottrine dei Naturalisti, piene come sono di falsità e d’ingiustizia, così non fossero anche portatrici di danni e di calamità! Ma è facile conoscere quanta rovina abbiano arrecato i connubi celebrati profanamente, quanta siano per arrecarne alla generale comunità degli uomini. Innanzi tutto è legge divinamente sancita che le cose istituite da Dio e dalla natura risultano sperimentalmente tanto più utili e salutari quanto più rimangono integre ed immutabili nel loro stato originale, dato che Dio, creatore di tutte le cose, ben conobbe ciò che alla istituzione e al mantenimento di ciascuna sia conveniente, e con la volontà e con la mente sua le ha tutte ordinate in modo che ognuna debba opportunamente raggiungere il suo fine. Ma se la temerità e la malvagità degli uomini vogliono mutare e sconvolgere l’ordine delle cose provvidamente stabilito, allora anche le cose istituite con somma sapienza ed altrettanta utilità cominciano a nuocere o cessano di giovare, sia perché col mutare abbiano perduto la virtù di far bene, sia perché Iddio stesso voglia piuttosto castigare siffatte manifestazioni dell’orgoglio e dell’audacia dei mortali. Ora, coloro che negano che il matrimonio è sacro e, spogliatolo d’ogni santità, lo relegano nel novero delle cose profane, rovesciano le fondamenta della natura, e come si oppongono ai consigli della provvidenza divina, così ne abbattono, per quanto sta in loro, le istituzioni. Pertanto non deve suscitare meraviglia che da tali sforzi forsennati ed empi si generi quella moltitudine di mali, di cui niente è più pernicioso alla salute delle anime ed alla incolumità degli Stati. – Se si ricerca a qual fine fosse ordinata la divina istituzione dei matrimoni, apparirà evidentissimo che Dio volle in essi racchiudere fonti ricchissime di pubblica utilità e salvezza. E in verità, oltre che provvedere alla propagazione del genere umano, essi hanno anche lo scopo di rendere migliore e più facile la vita dei coniugati, e ciò per più ragioni, quali gli scambievoli aiuti nell’alleviare le loro necessità, l’amore costante e fedele, la comunanza di tutti i beni, la grazia celeste che proviene dal Sacramento. I matrimoni poi contribuiscono assai alla salvezza delle famiglie, giacché essi, finché saranno conformi alla natura e risponderanno pienamente ai consigli di Dio, potranno senza dubbio rafforzare la concordia degli animi fra i genitori, garantire la retta educazione dei figli, moderare la patria potestà sull’esempio della potestà divina, rendere obbedienti i figli ai genitori, i servi ai padroni. Da tali connubi poi le comunità possono ragionevolmente aspettarsi una stirpe ed una successione di cittadini che siano ottimamente animati e che, assuefatti all’ossequio e all’amore verso Dio, reputino stretto dovere prestare obbedienza a coloro che giustamente e legittimamente esercitano il comando, portare a tutti benevolenza, non recare offesa ad alcuno. – Il matrimonio produsse veramente tutti questi frutti copiosi e salutari finché mantenne le prerogative della santità, dell’unità e della perpetuità, dalle quali esso riceve ogni virtù feconda di beni e di salute; né si può dubitare che ne avrebbe sempre prodotto di simili ed eguali se fosse stato continuamente ed in ogni luogo sotto il potere e la protezione della Chiesa, la quale è conservatrice e vindice di quelle prerogative. Ma poiché al presente piacque dappertutto sostituire il diritto umano al naturale e al divino, cominciò non solo a cancellarsi l’immagine e la nozione nobilissima del matrimonio che la natura aveva impressa e quasi scritta negli animi dei mortali, ma nei medesimi connubi dei cristiani, per colpa degli uomini, fu molto affievolita quella virtù generatrice di grandi beni. Infatti, che cosa di buono possono mai apportare quelle unioni coniugali dalle quali è costretta ad allontanarsi la religione, madre feconda di ogni bene, che alimenta le più grandi virtù, promovendo ed avvalorando ogni eccelsa qualità d’animo generoso e sublime? Quando essa sia allontanata e sia rigettata è inevitabile che le nozze siano fatte schiave della viziosa natura degli uomini e di quelle pessime cupidigie che signoreggiano gli animi, senza che questi trovino altra difesa che quella ben poco efficace della onestà naturale. La molteplice rovina che derivò da questa fonte si diffuse non solo nelle famiglie private, ma nelle intiere comunità. Infatti, rimosso il timore salutare di Dio, e tolto ai miseri il conforto che si trova nella religione cristiana, del quale non esiste uno maggiore, avviene sovente ciò che è troppo facile che accada, cioè che sembrino quasi insopportabili gli obblighi e gli altri pesi del matrimonio. Conseguentemente molti desiderano che sia sciolto quel vincolo che credono dipendere dal diritto umano e dal loro libero arbitrio, nell’ipotesi in cui la diversità dei caratteri, la discordia o la violata fedeltà da parte dell’uno o dell’altro, o il consenso di entrambi, od altri motivi li persuadano che sia necessario scioglierlo. E se per avventura la legge vieta loro di soddisfare alla protervia delle loro voglie, allora gridano che le leggi sono ingiuste, disumane, in piena contraddizione con il diritto di liberi cittadini, e perciò si deve ad ogni modo far sì che, rigettate ed abrogate quelle, si stabilisca con una legge più umana che sono leciti i divorzi. – I legislatori poi dei tempi nostri, professandosi fedeli ed ardenti seguaci degli stessi principi di diritto, non possono schermirsi, quand’anche lo volessero, dalla protervia degli uomini che abbiamo detto: quindi è giocoforza cedere ai tempi ed accordare la facoltà dei divorzi. Questo ci viene dimostrato dalla storia. Infatti, per tralasciare altri esempi, sul declinare del secolo scorso, in quello, più che perturbamento, orribile sconvolgimento delle Gallie, quando l’intera società, allontanato da sé Iddio, si rese profana, volle infine che fossero ratificati per legge i divorzi dei coniugi. Queste stesse leggi, poi, molti ai giorni nostri desiderano che siano richiamate in vigore, in quanto vogliono che Dio e la Chiesa siano tolti di mezzo e allontanati dalla umana società, dandosi stoltamente a credere che in siffatte leggi si debba ricercare il supremo rimedio alla rovinosa corruttela dei costumi. – Ora, quanta occasione di mali contengano in sé stessi i divorzi, è appena il caso di ricordarlo. Per essi infatti si rendono mutabili le nozze; si diminuisce la mutua benevolenza; si danno pericolosi eccitamenti alla infedeltà; si reca pregiudizio al benessere e all’educazione dei figli; si offre occasione allo scioglimento delle comunità domestiche; si diffondono i semi delle discordie tra le famiglie; si diminuisce e si abbassa la dignità delle donne, le quali, dopo aver servito alla libidine degli uomini, corrono il rischio di rimanere abbandonate. E poiché per distruggere le famiglie e abbattere la potenza dei regni niente ha maggior forza che la corruzione dei costumi, è opportuno conoscere che contro la prosperità delle famiglie e delle nazioni sono funestissimi i divorzi, i quali nascono da depravate consuetudini e, come attesta l’esperienza, aprono l’adito ad una sempre maggiore corruzione del costume pubblico e privato. E questi mali appariranno anche più gravi se si considera che non vi sarà mai alcun freno tanto potente che valga a contenere la licenza entro certi e prestabiliti confini, una volta che sia stata concessa la facoltà dei divorzi. È grande la forza degli esempi; maggiore quella delle passioni. Per tali eccitamenti avverrà certamente che la sfrenata voglia dei divorzi, serpeggiando ogni dì più largamente, invaderà l’animo di moltissimi, simile a morbo che si sparge per contagio, o come torrente che, rotti gli argini, trabocca. – Queste cose senz’altro sono per se stesse evidenti, ma, rinfrescando la memoria di quanto è accaduto, diventano più evidenti ancora. Non appena si cominciò a rendere sicura la via dei divorzi attraverso la legge, crebbero assai le discordie, le inimicizie, le separazioni; e ne conseguì tanta turpitudine di vita che quegli stessi che si erano fatti difensori di tali separazioni ne furono pentiti; e se non avessero tempestivamente apprestato il rimedio con legge contraria, si poteva temere che ben presto la repubblica stessa sarebbe caduta in rovina. È fama che gli antichi romani inorridissero davanti ai primi esempi di divorzio; ma dopo non lungo tempo cominciò ad assopirsi negli animi il sentimento dell’onestà, a spegnersi il pudore che modera gli appetiti, e a rompersi con tanta licenza la fede coniugale, che sembra abbia grande verosimiglianza ciò che alcuni lasciarono scritto, cioè che le donne usavano computare gli anni non con la successione dei consoli, ma dei mariti. Parimenti presso i Protestanti, le leggi da principio avevano disposto che fosse lecito fare divorzio per cause determinate, e a dir vero non molte; tuttavia queste, per l’affinità con cose simili, giunsero a tal numero presso i Tedeschi, gli Americani ed altri popoli, che coloro i quali non avevano perduto il senno ritennero doversi deplorare sommamente l’infinita depravazione dei costumi e la intollerabile avventatezza delle leggi. Né altrimenti andò la cosa presso le nazioni cattoliche, nelle quali, se fu concessa la separazione dei connubi, la moltitudine degli inconvenienti che ne seguirono superò di gran lunga la previsione dei legislatori. Perciò molti giunsero a tanta malizia da escogitare ogni malignità e frode per mezzo di crudeltà da essi stessi usate, d’ingiurie, di adulterii, di finte cause al fine di sciogliere impunemente il vincolo dell’unione coniugale che era loro venuto a noia: e ciò con così grave pregiudizio della pubblica onestà, che tutti ritennero necessario intervenire senza indugio per emendare le leggi. E vi sarà qualcuno che dubiti che esiti egualmente tristi e calamitosi non debbano avere le leggi favorevoli ai divorzi, qualora in qualche luogo, in questa nostra epoca, si richiamassero in vigore? I progetti o i decreti degli uomini non hanno certamente tanta forza da poter mutare l’indole naturale e l’ordine delle cose. Pertanto hanno ben poca saggezza coloro che ritengono che la pubblica felicità possa giungere pervertendo impunemente la vera natura del matrimonio. Accantonata qualsiasi santità di religione e di Sacramento, sembra che essi vogliano deformare e disonorare i connubi più turpemente di quanto non usassero gli stessi Gentili. Quindi, qualora non si muti consiglio, le famiglie e la società umana dovranno stare in perpetuo timore di essere travolte in quella lotta e in quello scompiglio di tutte le cose a cui da gran tempo anelano le pericolose sette dei Socialisti e dei Comunisti. Dal che si rende palese essere vanità e follia attendere la salvezza pubblica dai divorzi, i quali anzi condurranno a sicura rovina la società. – Si deve pertanto riconoscere che la Chiesa cattolica è stata sommamente benemerita del bene comune di tutti i popoli, essa che fu sempre intenta a tutelare la santità e la perpetuità dei connubii; né piccola gratitudine le si deve per avere apertamente protestato contro le riprovevoli leggi civili che ormai da cento anni in questa materia si vanno promulgando; per avere fulminato l’anatema contro la pessima eresia dei Protestanti sui divorzi e i ripudi ; per avere in molti modi riprovato la separazione dei matrimoni praticata presso i Greci così frequentemente ; per avere decretato la nullità delle nozze celebrate con la condizione che una volta possano sciogliersi ; infine per avere fino dai primi tempi rigettato le leggi imperiali che erano favorevoli in modo esiziale ai divorzi e ai ripudi. Quante volte poi i Sommi Pontefici fecero resistenza a Principi potentissimi i quali chiedevano con minacce che i divorzi da loro fatti venissero ratificati dalla Chiesa, altrettante volte si deve ritenere che essi abbiano combattuto non solo per la salvezza della religione, ma anche per la civiltà dei popoli. Al qual proposito tutti i posteri ammireranno gli esempi di animo invitto mostrati da Niccolò I contro Lotario; da Urbano II e da Pasquale II contro Filippo I, re delle Gallie; da Celestino III e Innocenzo III contro Filippo II, re delle Gallie; da Clemente VII e Paolo III contro Enrico VIII; infine dal santissimo e fortissimo Pontefice Pio VII contro Napoleone I, baldanzoso per la fortuna che lo assecondava e per la grandezza del proprio impero. – Quindi, se tutti i governatori e amministratori degli Stati avessero voluto seguire la ragione, la sapienza e lo stesso interesse dei sudditi, avrebbero dovuto desiderare che le sacre leggi intorno al matrimonio rimanessero intatte, e valersi dell’aiuto offerto dalla Chiesa a tutela dei costumi e a prosperità delle famiglie, piuttosto che mettere in sospetto quale nemica la stessa Chiesa, ed attribuirle la falsa ed iniqua accusa di avere violato il diritto civile. – Ciò tanto più in quanto la Chiesa cattolica, come in nessuna cosa può mancare alla fedeltà del suo ufficio e alla difesa dei suoi diritti, così suole essere sommamente inclinata a benignità e indulgenza in tutte quelle cose che possono insieme conciliarsi con la saldezza delle sue ragioni e con la santità dei suoi doveri. Infatti non stabilì mai intorno ai connubi senza tener conto dello stato della società e della condizione dei popoli. Più volte ella medesima, per quanto poté mitigò le proprie leggi, quando fu indotta a mitigarle da giusti e gravi motivi. Analogamente ella non ignora, né sconfessa che il Sacramento del matrimonio, essendo indirizzato anche alla conservazione e all’incremento dell’umana società, ha una stretta relazione con le stesse cose umane, le quali derivano bensì dal matrimonio, ma appartengono all’ordine civile, e sulle quali, a ragione, giudicano e dispongono i reggitori dello Stato. – Nessuno poi mette in dubbio che il fondatore della Chiesa, Gesù Cristo, volesse che la potestà sacra fosse distinta da quella civile, e che l’una e l’altra avessero, nell’ordine proprio, libero e sciolto l’esercizio del proprio potere, tuttavia alla condizione, che conviene all’una e all’altra e che è vantaggiosa per tutti gli uomini, che intercorressero tra loro unione e concordia, e che nelle cose le quali sono, quantunque per diversa ragione, di comune diritto e competenza, quella cui furono raccomandate le cose umane dipendesse in modo opportuno e conveniente dall’altra, alla quale furono affidate le cose celesti. In siffatto accordo poi, quasi un’armonia, è riposto non solo il benessere dell’una e dell’altra potestà, ma anche il più opportuno e più efficace mezzo di giovare al genere umano in ciò che appartiene al modo di vivere ed alla speranza della salute eterna. Infatti, poiché l’intelletto umano, come Noi dimostrammo nella precedente Enciclica, se si accorda con la fede cristiana diviene molto più nobile ed acquista maggior forza per schivare e combattere gli errori, e vicendevolmente la fede ottiene non piccolo aiuto dalla stessa ragione, così nello stesso modo, ove l’autorità civile proceda in pieno accordo con la sacra potestà della Chiesa, non può non derivarne grande utilità all’una e all’altra. Conseguentemente, a questa viene aggiunta maggiore dignità: ispirandosi alla religione, essa dominerà sempre secondo giustizia; a quella vengono forniti aiuti di tutela e di difesa a comune vantaggio dei fedeli. – Noi dunque, mossi dalla considerazione di tali cose, come altre volte con la maggior cura, così al presente esortiamo di nuovo caldamente i Principi ad unirsi in buon accordo e in amicizia. Ad essi, con paterna benevolenza Noi per primi porgiamo la destra, offrendo loro il soccorso del Nostro supremo potere, il quale è tanto più necessario in questo tempo in quanto l’autorità sovrana nella opinione degli uomini, come per ferite ricevute, è resa più debole. Essendo gli animi già accesi di licenziosa libertà, e rifiutando con empio ardire il dominio di qualsivoglia autorità, anche la più legittima, la salvezza pubblica richiede che le forze dell’una e dell’altra potestà si uniscano al fine di allontanare i danni che sovrastano non solo sulla Chiesa, ma sulla stessa società civile. – Però, mentre consigliamo caldamente l’amichevole unione delle volontà, e supplichiamo Dio, principe della pace, che infonda negli animi di tutti gli uomini l’amore della concordia, non possiamo Noi stessi astenerci, Venerabili Fratelli, dall’eccitare con le esortazioni sempre meglio il Vostro zelo, la Vostra operosità e la vigilanza che sappiamo in Voi essere grandissima. Per quanto si possano estendere i Vostri sforzi, per quanto possa la Vostra autorità, adoperatevi perché presso i popoli affidati alla Vostra fede si mantenga integra ed incorrotta la dottrina che Cristo Signore e gli Apostoli, interpreti dei voleri del cielo, insegnarono, e che la stessa Chiesa cattolica conservò gelosamente, e comandò che fosse custodita dai cristiani in tutti i tempi. – Adoperatevi al massimo che i popoli conoscano in abbondanza i precetti della sapienza cristiana, ed abbiano sempre fisso nella mente che il matrimonio fu dal principio stabilito non per volontà degli uomini, ma per autorità e volere di Dio, e con questa legge: che sia di uno solo con una sola. Cristo poi, autore della nuova Legge, da ufficio di natura lo ha collocato fra i Sacramenti, e per quel che riguarda il vincolo, ne ha dato alla Chiesa il potere legislativo e giudiziario. In questa materia conviene vigilare diligentemente affinché le menti non siano tratte in errore dalle fallaci argomentazioni degli avversari, i quali vorrebbero che fosse tolto alla Chiesa tale potere. Similmente deve essere chiaro a tutti che se tra i cristiani si contrae l’unione dell’uomo e della donna indipendentemente dal Sacramento, essa manca della natura e dell’efficacia del legittimo matrimonio, e quantunque essa sia stata fatta in modo conforme alle leggi dello Stato, tuttavia non può essere considerata più che un rito od un’usanza introdotta dal diritto civile. Inoltre, dal diritto civile non possono essere ordinate e amministrate se non quelle cose che i matrimoni producono nell’ordine civile, e che ovviamente non possono essere prodotte se non ne esiste la vera e legittima causa, cioè il vincolo nuziale. – Certo importa moltissimo che gli sposi conoscano appieno queste cose, le quali debbono essere approvate anche da loro e impresse nei loro animi affinché sia loro consentito in questo caso di uniformarsi alle leggi. La Chiesa non vieta ciò, anzi vuole e desidera che siano completamente salvi gli effetti dei matrimoni, e che non venga cagionato alcun danno ai figli. In tanta confusione poi di giudizi, che vanno crescendo ogni giorno di più, è necessario che sia anche ben conosciuto che lo sciogliere il vincolo del connubio rato e consumato tra cristiani, non è in facoltà di nessuno, e che conseguentemente sono rei di manifesto delitto quei coniugi – se per avventura ve ne fossero alcuni – i quali per qualunque motivo addotto vogliano stringersi in un nuovo vincolo matrimoniale innanzi che per morte resti sciolto il primo. Se le cose giungessero a tal punto che il convivere insieme non sembri più a lungo sopportabile, allora la Chiesa permette che l’uno conduca i suoi giorni separato dall’altro, e cerca con cure e rimedi, da apprestarsi secondo la condizione dei coniugi, di alleggerire i danni della separazione, né avviene mai che ella non s’adoperi o che disperi di ridurre gli animi alla concordia. Questi, per altro, sono i partiti estremi ai quali sarebbe facile non addivenire se gli sposi, non trasportati dalla passione, ma riflettendo in precedenza sia i doveri dei coniugi, sia i motivi nobilissimi dei connubi, si accostassero al matrimonio con ponderata intenzione e non anticipassero le nozze con una serie continuata di turpitudini, sotto lo sdegno di Dio. Per concludere, allora i matrimoni potranno avere una dolce e sicura stabilità, quando attingano lo spirito e la vita dalla virtù della religione, la quale dà grazia d’animo forte ed invitto; e fa sì che si sopportino non solo con rassegnazione, ma con lieto animo, i difetti che possono avere le persone, la diversità dei costumi e delle indoli, il peso delle cure materne, la grave sollecitudine dell’educazione dei figli, i travagli, compagni della vita. – Di un’altra cosa si deve ancora avere cura, che cioè non si desiderino con facilità le nozze con persone che non appartengono alla Chiesa cattolica. Infatti si possono nutrire poche speranze che gli animi dissidenti in materia religiosa riescano ad andare d’accordo nel resto. Anzi, che si debba rifuggire da siffatti connubi, si comprende soprattutto per il fatto che essi porgono occasione alla vietata comunanza e partecipazione delle cose sacre, mettono a rischio la religione del coniuge cattolico, sono d’impedimento alla buona istruzione della prole, e troppo spesso inducono gli animi ad assuefarsi a tenere in pari stima tutte le religioni, eliminando ogni differenza tra il vero ed il falso. Infine, ben sapendo che alla Nostra carità nessuno deve rimanere estraneo, raccomandiamo all’autorità, alla tutela e alla pietà Vostra, Venerabili Fratelli, coloro, veramente molto miseri, i quali trascinati dall’ardore delle passioni ed assolutamente dimentichi della propria salute, conducono una vita licenziosa, congiunti in vincolo di nozze non legittime. A richiamare a dovere tali uomini sia rivolta la Vostra sagace solerzia; Voi stessi, direttamente o mediante l’opera di persone dabbene, cercate in tutti i modi che essi sentano di avere operato scandalosamente, si pentano di tanta vergogna e s’inducano a celebrare le vere nozze secondo il rito cattolico. – Voi vedete facilmente, Venerabili Fratelli, che questi ammaestramenti e precetti intorno al matrimonio cristiano, che con questa Nostra lettera ritenemmo doveroso comunicarVi, sono di grande utilità non solo per la conservazione della civile comunanza, ma anche per l’eterna salute degli uomini. Voglia dunque Iddio che, quanto più essi hanno d’importanza e di autorità, tanto più trovino in ogni parte animi docili e pronti ad obbedire. Per la qual cosa, con supplici ed umili preghiere tutti uniti imploriamo l’aiuto della Beata Maria Vergine Immacolata che, rafforzate le menti alla obbedienza della fede, si mostri madre e soccorritrice degli uomini. Né con minore calore supplichiamo i Principi degli Apostoli Pietro e Paolo, vincitori della superstizione, seminatori della verità, affinché proteggano con il più costante patrocinio il genere umano insidiato dall’inondazione dei rinascenti errori. – Intanto, auspice dei celesti favori e testimonio della singolare Nostra benevolenza, a Voi tutti, Venerabili Fratelli, ed ai popoli affidati alla Vostra vigilanza, impartiamo di cuore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 10 febbraio 1880, anno secondo del Nostro Pontificato.

 

G. B. MONTINI fonda la contro-Chiesa dell’uomo

il 29 giugno del 1963, intronizzando satana nella Cappella Paolina durante una doppia messa nera.

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Prima di morire, nel luglio 1999, l’ex gesuita, scrittore e perenne “insider” del Vaticano, Malachi Martin, marrano braccio destro dell’altrettanto marrano cardinal Bea, incaricato di pedinare e ricattare i cardinali ostili alle riforme di Montini, cripticamente ammise che, durante il conclave del 1963, si verificò un intervento criminale subito dopo la seconda (la prima era già avvenuta il 26/X/1958) elezione papale di Siri, S. S. Gregorio XVII, per mezzo di UNA TERRIBILE MINACCIA ESTERNA PER ANNIENTARE IL VATICANO. Martin chiaramente affermò che: «È certo che nelle votazioni del Conclave del 1963, Siri avesse raccolto il numero necessario di voti per essere eletto Papa, ma l’elezione fu accantonata da quella che è stata definita come una “piccola brutalità”. (…) Dopo tre giorni di Conclave, Montini fu invalidamente eletto come Paolo VI. Montini avrebbe rappresentato la testa dell’anti-Chiesa».

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– Sempre l’ex gesuita, scrittore e perenne “insider” del Vaticano, Malachi Martin, nel suo libro: “Windswept house – A Vatican Novel”, fornisce i dettagli di una doppia messa nera, che ebbe luogo solo alcuni giorni dopo la fraudolenta elezione di G. B. Montini (il sedicente antipapa Paolo VI) al soglio pontificio. – Il 29 giugno 1963, otto giorni dopo l’elezione di Paolo VI, fu celebrata una doppia messa nera, a Roma e a Charleston (Carolina del Sud – USA) con la quale Satana fu intronizzato nella Cappella Paolina, il luogo in cui il Papa ricopre il ruolo di “Custode dell’Eucarestia”. – Il “marrano” gesuita fece queste rivelazioni non per rimorso o scrupolo di coscienza, ma semplicemente perché in tal modo tutti i fratelli del bnai Brith venissero a conoscenza dell’evento che sigillava la riuscita totale del piano organizzato da secoli, un po’ come quando il Montini denunciava il fumo di satana in Vaticano, quel fumo che egli stesso aveva permesso che infestasse la Cattedra di Pietro … non era uno stato di allerta, ma un segnale per i suoi mandanti che la cose stavano procedendo come pianificato. Quel 29 giugno 1963, fu, e cioè l’inizio del Regno dell’Anticristo. In quel giorno, divennero realtà le parole della Madonna de La Salette: «Roma perderà la Fede e diventerà la sede dell’Anticristo», e le parole della Madonna di Fatima: «Effettivamente, Satana riuscirà ad introdursi fino alla sommità della Chiesa».

– A conclusione di quella doppia messa nera, il Delegato Internazionale Prussiano lesse la Legge di Autorizzazione davanti ai presenti della messa nera di Roma: «Chiunque, attraverso questa Cappella Interna, fosse designato e scelto come successore finale dell’Ufficio Papale, dovrà giurare lui stesso, e tutti coloro che egli comanderà, di essere il volonteroso strumento e collaboratore dei Fondatori della “Casa dell’Uomo sulla Terra” … Così sarà modellata la “Nuova Era dell’Uomo”».

– Il 29 giugno 1963, quindi, nasceva la “Nuova Chiesa Universale dell’uomo” di ispirazione satanica che aveva il compito di sopprimere la Chiesa di Cristo, ma in modo particolare, doveva eliminare dalla faccia della terra la Redenzione del Sacrificio di Cristo sulla Croce, e sostituirla con la redenzione blasfema e satanica della Triplice Trinità massonica, di cui Mons. Montini ben conosceva la rappresentazione geometrico-simbolica, per averla personalmente progettata e fatta scolpire, nel 1943, sul tombale della madre, Giuditta Alghisi, nel cimitero di Verolavecchia (Brescia). – Alla fine, il Vescovo Leo (Mons. John Joyce Russell, Vescovo di Charleston – n.d.r.) chiuse la prima parte del Cerimoniale con la Grande Invocazione: «Credo che il Principe di questo Mondo sarà Insediato, questa notte, nell’Antica Cittadella e, da lì, Egli creerà una Nuova Comunità». La Risposta venne immediatamente con un brio impressionante: «E IL SUO NOME SARA LA “CHIESA UNIVERSALE DELL’UOMO”». Era giusto e adeguato che il Vescovo Leo offrisse l’Ultima Preghiera d’Investitura della Cappella Satellite: «… ora Ti adoro, Principe delle Tenebre. Con la Stola di tutte la Empietà, io ora pongo nelle Tue mani la Triplice Corona di Pietro, secondo la adamantina volontà di Lucifero, cosicché Tu possa regnare qui, cosicché ci possa essere un’unica Chiesa, una Chiesa Universale, una Vasta e Potente Congregazione fatta di Uomini e Donne, di animali e piante, cosicché il nostro Cosmo possa essere di nuovo uno, immenso e libero». Dopo queste ultime preghiere e dopo l’ultimo gesto di Leo, tutti si sedettero. Il Rito passò alla Cappella Madre di Roma. – L’Intronizzazione del Principe in seno alla Cittadella del Debole (La Cappella Paolina) era ormai quasi terminata. Rimanevano ancora la Legge di Autorizzazione, la Legge delle Istruzioni e la Prova. – Il Delegato Internazionale Prussiano si diresse verso l’Altare e lesse la Legge di Autorizzazione con un forte accento: «Come voluto dagli Anziani Sacrosanti e dall’Assemblea, istituisco, autorizzo e riconosco questa Cappella d’ora in avanti come la Cappella Interna, presa, posseduta e appropriata da lui, colui il quale abbiamo insediato “signore” e comandante del nostro destino umano. – Chiunque, attraverso questa Cappella Interna, sarà designato e scelto come successore finale dell’Ufficio Papale, dovrà giurare lui stesso, e tutti coloro che egli comanderà, di essere il volonteroso strumento e collaboratore dei Fondatori della “Casa dell’Uomo sulla Terra” e su tutto il Cosmo dell’Uomo. (…) Così sarà modellata la “NUOVA ERA DELL’UOMO”». Poi venne il momento del giuramento. Il Delegato Internazionale alzò la mano sinistra e disse: «Voi tutti, avendo udito questa autorizzazione, ora giurate solennemente di accettarla intenzionalmente, inequivocabilmente, immediatamente e senza alcuna riserva?».

«LO GIURIAMO!».

«Voi tutti giurate solennemente che la vostra amministrazione sarà volta a soddisfare il volere della “CHIESA UNIVERSALE DELL’UOMO?”».

«LO GIURIAMO SOLENNEMENTE!».

«Voi tutti siete pronti a firmare questa volontà con il vostro stesso sangue, che Lucifero vi punisca se non siete stati fedeli a questa Promessa d’Impegno?». – «SIAMO PRONTI E DISPOSTI!». «Voi tutti accettate che, con tale Promessa, trasferirete la Signoria e la Possessione delle vostre anime dall’Antico Nemico, il Debole Supremo, nelle mani dell’Onnipotente nostro Signore Lucifero?».

«LO ACCETTIAMO!».

– Poche ore dopo l’evento della doppia messa nera, Paolo VI fece il giuramento da “papa”. Quel “giuramento” fu uno “spergiuro” perché, de facto, Paolo VI lo annullò in tutto con la sua “rivoluzione” che non salvò alcun aspetto del Dogma, della Morale, della Liturgia, della stessa Disciplina. I quindici anni di pontificato di G. B. Montini (alias Paolo VI) videro la nascita e lo sviluppo della “Casa dell’uomo sulla Terra” o meglio della “Nuova Chiesa Universale dell’Uomo” d’ispirazione satanica. Questa fu la “nuova chiesa di Paolo VI” che, secondo le parole della Madonna de La Salette, come “corpo nero” avrebbe “eclissato” la Chiesa di Cristo, il “corpo lucente”, ancora oggi la “gerarchia in esilio”.

Padre Pio da Pietrelcina incaricò il sacerdote don Luigi Villa di scovare i massoni infiltrati nella Chiesa indirizzandogli tra l’altro (seconda metà del 1963) le seguenti parole:  «Coraggio, coraggio, coraggio, perché la Chiesa è già invasa dalla Massoneria», seguita dalle parole: «La Massoneria è già entrata nelle pantofole del Papa (l’antipapa Paolo VI)», dandogli come principale obiettivo del suo incarico, ratificato ufficialmente da S. S. Pio XII: PAOLO VI.

Ecco la missione che Padre Pio è passata a Don Luigi Villa ed oggi a tutti noi, ognuno con i suoi poveri e scarsi mezzi [ma … è quando siamo deboli che siamo forti]: combattere il Regno dell’Anticristo, nato il 29 giugno 1963, smascherare i nemici di Cristo ai vertici della Chiesa e condannarli come disse la Madonna a La Salette, parlando degli apostoli degli ultimi tempi: «… essi faranno progressi per virtù dello Spirito Santo e condanneranno gli errori diabolici Dell’Anticristo!». La Vera Chiesa Cattolica è salva, anche se in affanno, in sofferenza, in pericolo costante tra sotterranei e catacombe. Ma C’è! … non praevalebunt …

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et ipsa conteret caput tuum!

Messa della Domenica I dopo l’Epifania

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Introitus Prov XXIII:24; XXIII:25 Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te Ps LXXXIII:2-3 Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit et déficit ánima mea in átria Dómini, V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te

Introito Prov XXIII:24; 23:25 [Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato. Ps 83:2-3 Quanto sono amabili i tuoi tabernacoli, o Signore degli eserciti: anela e si strugge l’ànima mia nella casa del Signore, V. Gloria al Padre, e al Figlio, e allo Spirito Santo. R. Come era nel principio è ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen. Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato].

Orémus. Dómine Jesu Christe, qui, Maríæ et Joseph súbditus, domésticam vitam ineffabílibus virtútibus consecrásti: fac nos, utriúsque auxílio, Famíliæ sanctæ tuæ exémplis ínstrui; et consórtium cénsequi sempitérnum:

Colletta Preghiamo. O Signore Gesú Cristo, che stando sottomesso a Maria e Giuseppe, consacrasti la vita domestica con ineffabili virtú, fa che con il loro aiuto siamo ammaestrati dagli esempii della tua santa Famiglia, e possiamo conseguirne il consorzio eterno:

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses. Col III:12-17

Fratres: Indúite vos sicut elécti Dei, sancti et dilécti, víscera misericórdiæ, benignitátem, humilitátem, modéstiam, patiéntiam: supportántes ínvicem, et donántes vobismetípsis, si quis advérsus áliquem habet querélam: sicut et Dóminus donávit vobis, ita et vos. Super ómnia autem hæc caritátem habéte, quod est vínculum perfectiónis: et pax Christi exsúltet in córdibus vestris, in qua et vocáti estis in uno córpore: et grati estóte. Verbum Christi hábitet in vobis abundánter, in omni sapiéntia, docéntes et commonéntes vosmetípsos psalmis, hymnis et cánticis spirituálibus, in grátia cantántes in córdibus vestris Deo. Omne, quodcúmque fácitis in verbo aut in ópere, ómnia in nómine Dómini Jesu Christi, grátias agéntes Deo et Patri per ipsum. R. Deo gratias.

Epistola Lettura della Lettera del B. Paolo Ap. ai Colossesi. Col 3:12-17 [Fratelli: Come eletti di Dio, santi e amati, rivestitevi di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di pazienza, sopportandovi e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno ha da dolersi di un altro: come il Signore vi ha perdonato, cosí anche voi. Ma al di sopra di tutto questo rivestitevi della carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché siete stati chiamati a questa pace come un solo corpo: siate riconoscenti. La parola di Cristo àbiti in voi abbondantemente, istruitevi e avvisatevi gli uni gli altri con ogni sapienza, e, ispirati dalla grazia, levate canti a Dio nei vostri cuori con salmi, inni e cantici spirituali. E qualsiasi cosa facciate in parole e in opere, fate tutto nel nome del Signore Gesú Cristo, rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di Lui.]

Graduale Ps XXVI:4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. Ps LXXXIII:5. Beáti, qui hábitant in domo tua, Dómine: in saecula sæculórum laudábunt te. Allelúja, allelúja, Isa XLV:15 Vere tu es Rex abscónditus, Deus Israël Salvátor. Allelúja.

Graduale Ps 26:4 Una sola cosa ho chiesto e richiederò al Signore: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita. Ps 83:5. Beati quelli che àbitano nella tua casa, o Signore, essi possono lodarti nei secoli dei secoli. Allelúia, allelúia, Isa 45:15 Tu sei davvero un Re nascosto, o Dio d’Israele, Salvatore. Allelúia.

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.

R. Gloria tibi, Domine! Luc II:42-52 Cum factus esset Jesus annórum duódecim, ascendéntibus illis Jerosólymam secúndum consuetúdinem diéi festi, consummatísque diébus, cum redírent, remánsit puer Jesus in Jerúsalem, et non cognovérunt paréntes ejus. Existimántes autem illum esse in comitátu, venérunt iter diéi, et requirébant eum inter cognátos et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Jerúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos et interrogántem eos. Stupébant autem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis ejus. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit Mater ejus ad illum: Fili, quid fecísti nobis sic? Ecce, pater tuus et ego doléntes quærebámus te. Et ait ad illos: Quid est, quod me quærebátis? Nesciebátis, quia in his, quæ Patris mei sunt, opórtet me esse? Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis. Et Mater ejus conservábat ómnia verba hæc in corde suo. Et Jesus proficiébat sapiéntia et ætáte et grátia apud Deum et hómines. R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Luc 2:42-52 [Quando Gesú raggiunse i dodici anni, essendo essi saliti a Gerusalemme, secondo l’usanza di quella solennità, e, passati quei giorni, se ne ritornarono, il fanciullo Gesú rimase a Gerusalemme, né i suoi genitori se ne avvidero. Ora, pensando che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, dopo di che lo cercarono tra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a cercarlo a Gerusalemme. E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, mentre sedeva in mezzo ai Dottori, e li ascoltava e li interrogava, e tutti gli astanti stupivano della sua sapienza e delle sue risposte. E, vistolo, ne fecero le meraviglie. E sua madre gli disse: Figlio perché ci ha fatto questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo. E rispose loro: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi di quel che spetta al Padre mio? Ed essi non compresero ciò che aveva loro detto. E se ne andò con loro e ritornò a Nazareth, e stava soggetto ad essi. Però sua madre serbava in cuor suo tutte queste cose. E Gesú cresceva in sapienza, in statura e in grazia innanzi a Dio e agli uomini.]

Omelia della Domenica FRA L’OTTAVA e I dopo l’Epifania

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Luca II, 42-52)

Perdita di Dio.

Maria e Giuseppe perdono il fanciullo Gesù, giunto all’età di dodici anni. Credevano, come ci narra S. Luca nell’ odierno Vangelo, ch’Ei fosse in lor comitiva, insieme con altri molti della Galilea, che discendevano da Gerusalemme dopo la celebrazione d’una festa solenne; ma giunti ad un ospizio sull’imbrunir della sera, si mirano intorno e non veggono il divino Fanciullo. L’attendono ma inutilmente: ne domandano ai compagni del loro viaggio, ma nessuno ne sa dare conto: lo cercano fra gli amici e fra i congiunti, ma tutto è vano: immaginate qual dovett’essere il loro affanno. Pensavano bensì che qualche giusto e ragionevole motivo tratteneva Gesù da essi lontano; ma questo riflesso non era bastevole a consolarli. Oh con quanta amarezza passarono quella notte! Al primo spuntar del giorno si posero a rifare il cammino dall’ospizio a Gerusalemme, e al terzo dì finalmente lo ritrovarono nel Tempio, che in mezzo ai dottori li interrogava con loro stupore, e con meraviglia del popolo circostante. “Eh! figlio, prese a dirgli la Vergine Madre, figlio, io e il vostro nutrizio padre siamo andati in cerca di Voi colla mestizia nel volto e colla doglia nel cuore” : “Fili… pater tuus et ego dolentes quaerebamus te”. Maria e Giuseppe perdono Gesù e, come osserva il venerabile Beda con altri sacri espositori, Lo perdono senza loro minima colpa, e pure tanto si attristano di questa perdita, e tanto si affannano per ritrovarLo. Quanto è mai diversa la condotta di molti cristiani! Perdono questi Gesù per propria colpa, perdono Dio e la sua grazia per lo peccato, e pur non si commuovono, non si contristano, non se ne pigliano pensiero. Così è: quanto sono sensibili e premurosi per la perdita di cose temporali, altrettanto sono stupidi e indolenti per la perdita di Dio. – E questo è appunto ciò che v’invito a meco compiangere, uditori devoti. Non ha bisogno di prova la prima parte del mio assunto; cioè, che per l’ordinario gli uomini della perdita dei beni terreni son tutti in pena ed in contristamento; pure diamo così di volo uno sguardo alle sacre pagine, per riscontrarne fra molti alcuni esempi. Perde Esaù la primogenitura, e alza clamori, e trae dal petto ruggiti a guisa di leone piagato a morte, “irrugiit clamore magno” ( Gen XXVII, 34) . Perde Cis le sue giumente, spedisce Saulle suo figlio ad andarne in cerca. Saulle, per quanto si aggiri per valli, per monti e per foreste, non gli vien fatto trovarle; e preso il consiglio del suo servo compagno, va a consultarne Samuele gran profeta in Israele. Perde il suo figliuol prodigo le sostanze assegnategli per sua porzione dal suo buon padre, ed è inconsolabile. Perde quel pastore, descritto in parabola nel santo Vangelo, una pecorella, e lascia nel deserto l’armento intero, e ne va in traccia per balze e per dirupi. Perde, a finirla, quella donna evangelica una dramma, moneta di poco valore, e mette tutta sossopra la casa finche non la ritrovi. Ma a che rammentar cose antiche? Non è questo il naturale effetto che producono nel cuor dell’uomo le cose smarrite? e la pena ordinaria di chi più o meno è attaccato ai beni di questa terra? Compatiamo la misera umanità, qualora per gravi infortuni è posta in cimento, qualora o per naufragio si perdono ricche mercanzie, o per sentenza contraria liti di somma importanza, o per prepotenza pingui eredità. Compatiamo ancora coloro, che per un anello, per un orecchino, per un fazzoletto ricorrono al parroco, acciò avvisi il popolo di quegli oggetti smarriti, e loro ricordi il proprio dovere per la necessaria restituzione. – Non si possono costoro né riprendere, né disapprovare, se usano diligenze, se adoprano mezzi per riavere ciò che hanno perduto. Ma di grazia perché almeno non si tiene questa pratica, quando per grave reato si perde Dio e la sua amicizia? Perché non si fa ricorso alla Vergine Madre, ai Santi del cielo, al confessore, acciò vi aiutino a ricuperare la grazia, e a riconciliarvi con Dio? Perché tanta sollecitudine per le perdite temporali, e tanta indifferenza, tanta freddezza per la perdita di Dio, perdita incalcolabile infinitamente maggiore della perdita d’un mondo intero? – Bramate sapere onde nasce tanta stupidezza? Ecco tre cagioni, alle quali, per ben comprenderle, vi prego porgere l’attento orecchio. La prima cagione, per cui, perduto Dio per lo peccato, non si sente il dolore di perdita, sì grande, è perché non c’è lume, non c’è fede, non c’è cognizione di Dio. Avviene a molti ciò che non di rado accade ad un fanciullo non ancor giunto all’uso di ragione. Perde questi una gemma preziosa, e non la cura, e non vi pensa: perde una carta dipinta, una palla da giuoco, un palco da trastullo, ed è inconsolabile, piange, singhiozza, pesta coi piedi la terra. Ed ecco il nostro caso. Perdiamo i beni fallaci, che un giorno bisogna lasciare, e siamo trafitti; si perde il sommo bene, ch’è Dio, e siamo insensibili. E fino a quando, o uomini già adulti e forse incanutiti, amerete ancora i pregiudizi dell’infanzia?Usquequo… diligìtis infatiam? ( Prov. I. 22) Se conosceste che dir voglia perdere Dio, piangereste a lacrime di sangue. La spada più acuta, che ferisce il cuor d’un dannato, la pena più atroce che lo tormenta, è quel fisso contristante pensiero, quell’interna voce di acerbo rimprovero, che gli dice ad ogn’istante: “ubi est Deus tuus?” dov’è quel Dio che ti creò, quel Dio che ti ha redento, quel Dio che ti voleva salvo? dov’è, infelice, tu l’hai perduto! “Ubi est Deus tuus?” Dov’ è quel Dio che nello stato di tua dannazione è l’oggetto dell’ odio tuo, e al tempo stesso lo scopo del tuo desiderio, come unico rimedio a’ tuoi tormenti, dov’è? Questo Dio non è più per te, non è più tuo. Conosci ora per tua pena quel che conoscere non volesti per tua malizia. – La seconda cagione dell’umana insensibilità nella perdita di Dio è una fiducia ingannevole, una speranza fallace di riacquistare Iddio perduto con una penitenza futura. È vero, dice colui, dice colei, che sono in disgrazia di Dio, ch’Egli contro di me è giustamente sdegnato; ma voglio ben io riconciliarmi con Lui; non voglio vivere in questo stato, in cui non vorrei morire: perciò dato ch’io avrò compimento ai miei affari, ultimato quel negozio, finita quella lite, collocata la famiglia, quando avrò un tempo più comodo, più quiete, penso ben prevalermene per ricuperare tanto bene perduto, e non perdere me stesso. Ahi miei cari, queste vostre proteste non fan che mitigare il rimorso di vostra coscienza, e il dolore della vostra perdita; vi lusingano, vi addormentano in seno al peccato, con una speranza tanto più traditrice, quanto più lusinghiera. Accade a voi come a quel giocatore, che sente meno la pena del danaro perduto, perché spera in un altro giuoco rifarsi del danno sofferto; e questa speranza per lo più moltiplica le sue perdite, e lo getta in rovina. E poi se in questo tempo che differite la vostra conversione vi cogliesse la morte, che sarebbe di voi? Oh allora presi dallo spavento, chiamato in nostro aiuto un confessore, più facilmente ci volgeremo a Dio con un cuor contrito, e pieni di fiducia nella sua misericordia.. Non più, miei dilettissimi, non più: questo è il maggior degl’inganni. Questa, seducente speranza ha popolato l’inferno; Iddio, dice S. Agostino, vi promette perdono, se in tempo vi convertite, non vi promette né tempo, né perdono, se differite. – Ma torniamo al nostro argomento. La terza, forse più forte cagione della nostra insensibilità nella perdita di Dio, è perché, se si perde Dio in questa vita, pure si godè dello stesso Dio. E come? Ecco: tutti i beni, che anche dai peccatori si gustano su questa terra, sono altrettante stille emanate da quell’oceano immenso di bontà ch’è Dio. Il sole che c’illumina, l’aria che ci pasce, i fiori che ci dilettano, le piante che ci ricreano, i frutti che ci nutriscono, tutte insomma le creature, o inanimate o sensibili o ragionevoli, son tutti beni che discendono da Dio sommo bene; ond’è che se il peccatore perde Dio bene infinito, pur gode Iddio ne’ beni sparsi nelle sue creature, e non si avvede della perdita del fonte, perché si disseta ai ruscelli. Ma quando poi l’anima sciolta dai legami del corpo comparirà, spirito ignudo, abbandonato e solo, innanzi a Dio, conoscerà allora che Dio è l’unico bene; l’infinito bene; che fuor di Lui in quel nuovo mondo altro bene non v’è, con cui trattenersi, con cui sfamarsi. E perciò una delle due, o l’anima è amica dì Dio, e troverà in Dio come in suo centro ogni bene, o di Dio nemica, e da Lui ributtata e divisa, non avrà più un attimo, un’ombra di bene. Non più mondo in quel terribile istante, non più corpo, non più creature. Piaceri, onori, gradi, ricchezze, amici, congiunti, tutto è finito; Dio, Dio solo è l’unico eterno, incommutabile bene, e fuori di Lui né si può sperare, anzi né pur si può immaginare, o fingere un altro bene. – Vogliamo noi, uditori carissimi, aspettare al mondo di là a conoscer la perdita del sommo bene, che è Dio? Ah anime mie care non vi sarà allora più riparo all’inganno, più rimedio all’errore, non più tempo a profittevole ravvedimento. Dovremo allora esclamare con quel Sovrano, di cui parla la storia: “Omnia perdidimus”. Sedotto questi da lusinghiera beltà, e da furiose passioni invasato, corse a precipizio le vie del piacere, dell’errore e dell’empietà, e giunse in fine a quel termine da Dio a tutti costituito, al quale non si può passar oltre. Infermo, aggravato, giacente a letto, conobbe, come il grande Alessandro, che bisognava morire; “decidit in lectum, et cognovit quia moreretur” ( Mac. I), e data in giro una mesta occhiata a’ suoi favoriti, ahi me disgraziato! esclamò, che ho perduto la fede, la reputazione, l’amor de’ sudditi, la sanità, e fra poco sarò per perdere la vita, il regno, l’anima e Dio, “omnia perdidimus”. Tanto dovrà ripetere un’anima che abbia perduto Dio per colpa e per pena, “omnia perdidimus”. – Infelice pertanto chi aspetta a conoscere la sua disavventura quando non è più in tempo di ripararla. Infelicissimo chi aspetta a cercare Dio quando non si può più ritrovare. Cari ascoltanti, facciamo senno, ravviviamo la fede, apriamo gli occhi sul massimo nostro interesse. Ora in questo tempo accettevole, che ci accorda il pietoso Signore, andiamo in cerca di Dio, e sarà facile il trovarLo, “Quærite Dominum dum inveniri potest (Isai. LV, 6). In punto di morte , ahi! che forse Lo cercheremo .invano. No, peccatori fratelli miei, con Dio non si burla, “Deus non irridetur”. Cercate Dio in vita, perché in morte nol troverete! Non son io che vel dico, lo dice a me, lo dice a voi l’infallibile Verità, lo dice Gesù Cristo, “quæretis me, et non invenietis(Joan. VII, 34). E in un altro luogo ce lo ripete in termini di maggiore spavento: mi cercherete, e morrete in seno al vostro peccato: “Quæretis me, et in peccato vestro moriemini” (Joan. VIII, 21). – Che facciamo dunque? fino a quando noi stolti figliuoli degli uomini ameremo la vanità, e terremo dietro ai beni fuggevoli e bugiardi di questa terra? Deh! se ci cale l’eterna nostra salvezza, procuriamo essere di quella santa generazione, che altro non cerca, che Dio. Cerchiamo Dio sull’esempio e sulla scorta di Maria Vergine, e di S. Giuseppe, cerchiamoLo nel tempio ai piedi degli altari, a piedi dei suoi ministri; che poi dopo il breve corso di nostra vita Lo vedremo nel tempio della beata eternità, e al primo incontro sarà per noi oggetto di consolazione perpetua, come lo fu di temporanea alla Vergine Madre, ed al suo nutrizio padre. Che Dio ce ne faccia la grazia.

Credo…

Secreta Placatiónis hostiam offérimus tibi, Dómine, supplíciter ut, per intercessiónem Deíparæ Vírginis cum beáto Joseph, famílias nostras in pace et grátia tua fírmiter constítuas.

Secreta [Ti offriamo, o Signore, l’ostia di propiziazione, umilmente supplicandoti che, per intercessione della Vergine Madre di Dio e del beato Giuseppe, Tu mantenga nella pace e nella tua grazia le nostre famiglie].

Communio Luc II:51 Descéndit Jesus cum eis, et venit Názareth, et erat súbditus illis.

Communio Luc 2:51 [E Gesú se ne andò con loro, e tornò a Nazareth, ed era loro sottomesso].

Postcommunio S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Quos coeléstibus réficis sacraméntis, fac, Dómine Jesu, sanctae Famíliæ tuæ exémpla júgiter imitári: ut in hora mortis nostræ, occurrénte gloriósa Vírgine Matre tua cum beáto Joseph; per te in ætérna tabernácula récipi mereámur:

Postcommunio V. Il Signore sia con voi. R. E con il tuo spirito. Preghiamo.[O Signore Gesú, concedici che, ristorati dai tuoi Sacramenti, seguiamo sempre gli esempii della tua santa Famiglia, affinché nel momento della nostra morte meritiamo, con l’aiuto della gloriosa Vergine tua Madre e del beato Giuseppe, di essere accolti nei tuoi eterni tabernacoli].

J.-J. GAUME: La profanazione della DOMENICA [lett. VIII]

LETTERA VIII.

2 maggio,

LA PROFANAZIONE DELLA DOMENICA

ROVINA DEL BENESSERE.

(Seguito)

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Signore e caro amico,

I.

« I provvedimenti presi per la difesa di Parigi nulla lasciano a desiderare; la confidenza rinasce; i fondi sono saliti di sessanta centesimi; la legge elettorale è in via di purificare il suffragio universale, e dar la vittoria al partito dell’ordine: né la sollevazione osa si prestamente agitarsi per le vie. » Ecco quello, che voi mi scrivete nell’ultima vostra lettera, aggiungendomi tale esser l’opinione delle persone oneste. Ne domando io perdono alle vostre persone oneste, e queste, come spero, mi scuseranno, se non posso avere tutta la fiducia loro. Il male trovasi nelle anime, ed insino a tanto che non vi vedrò apportare il rimedio là dove sta il male, io sarò pochissimo rassicurato. Ora, infino al presente io non vedo, che se ne occupino ben seriamente. Quando una società è minata come la nostra, non si salva questa né a colpi di legge, né a colpi di cannone, né a colpi di bollettini. Lo compiango sinceramente il popolo che non conosceva altri ripieghi di quelli in fuori, e che misura la sua sicurezza in sull’aumento, o discredito del suo traffico. Egli è vero, l’ammutinata plebaglia non discende nelle contrade col moschetto ad armacollo, e coi ciottoli del selciato nella mano; ma costei vi discende ogni giorno sotto la maschera del borghese volteriano, sotto la maschera dell’empio giornale, sotto la maschera del libro osceno, sotto la maschera del profanatore della domenica; ed incessantemente essa corrode, scuote, e va minando ciò che solo sostiene i regni e le repubbliche: i principj del Cristianesimo. Se per arrestarla in un’opera di distruzione ci atteniamo ai mezzi della legislazione e dello spaventamento, non dubitale, che dessa non s’impedirà di pervenire al suo scopo, tardi o tosto. – Non voglio io già insinuare, che non si debba armare il potere; ben lungi da ciò. Io penso come voi, che il solo modo umano che ci resta è di stendere in sulla Francia un braccio possente, capace d’incatenare le fazioni anarchiche; ed all’ombra di somigliante protezione tutelare, di supplicare la Chiesa Cattolica d’affaticarsi attivamente intorno alla guarigione delle anime. Affinché la sua impresa si renda possibile, è di mestieri non solamente d’accordarle piena libertà; ma di più, che ciascuno inetta la mano all’opera per suo proprio conto, e cominci per dare l’esempio di quella riforma ch’egli desidera avvenire negli altri. In una parola, non è la riforma elettorale che salverà la Francia, sebbene la riforma morale. Questa è la meta, a cui tende la mia epistola d’oggi, come le precedenti: riprendo il seguito del nostro studio.

II.

Se dalle nazioni noi passiamo ai particolari, noi osserveremo pur anche che la profanazione della domenica, ben lungi d’esser una fonte di prosperità, codesta diventa una sorgente inesauribile di miserie. – Io vi presentai la questione nei suoi rapporti tra i1 padrone e l’operaio, ed affermo che il lavoro profanatore è tanto nocivo alluno quanto all’altro. Permettetemi voi da principio di farvi rimarcare che i particolari non sfuggono punto di più che la società all’azione delle leggi divine, che queste leggi intelligenti come il fuoco infernale, secondo 1’espressione di Tertulliano, percuotono ciaschedun delitto d’un castigo particolare, lo percuotono a proporzione della sua gravità; ed alla differenza de’ supplizi eterni, percuotono ognora il colpevole per convertirlo. – Nei tesori della sua giustizia, Iddio conserva della moneta per tutti coloro che l’offendono: al negoziante, all’industriale, al proprietario, profanatore della domenica, egli manda alternativamente il fallimento, la grandine, la siccità, 1’incendio, l’epidemia, lo stagnamento degli affari, e, in qualche ora, gli fa scontare con usura tutte le obbligazioni contratte verso la sua giustizia per un vietato lavoro. – Per pagare l’operaio della sua rivolta spedisce a lui, alla sua moglie, a’ suoi figliuoli, o la malattia, o i terribili giorni feriali, o la penuria, che gli ritoglie il guadagno illecito, di cui s’inorgoglì, e sovente assai più ancora. Nulla di più comune. sopratutto odiernamente, che quelle provvide liquidazioni. A meno d’ammettere effetti senza cagione, si manca forse di logica riconoscendovi la punizione della cupidità, e della profanazione della domenica, che n’è la sacrilega e permanente manifestazione? – Tratto la questione dal lato puramente umano, e non separo ancora il padrone dal lavorante. Ascoltiamo un personaggio perfettamente competente. In un rapporto recentemente indirizzato al governo, il primiero magistrato d’una delle nostre grandi città manifatturiere s’esprime cosi: « Dall’attività incessante del lavoro che non rispetta il giorno santo, nacque: « La concorrenza illimitata che produce le frodi nella produzione; » La rivalità ardente e di cattiva fede; » La rovina degli artigiani; » I1 monopolio de’grandi stabilimenti; » L’aumento del numero de’fallimenti; » Il disordine e l’ abbruttimento dei lavoranti; » La distruzione della vita di famiglia; » L’assenza d ogni vincolo morale fra il padrone e l’operaio ». – Questo ricco beneficio è indiviso tra colui che profana e quegli che fa profanare la domenica. Passiamo a quello che appartiene esclusivamente al padrone; mentre vedremo poscia il fruito che ne tocca all’operaio.

III.

Egli è brevissima pezza che m’intratteneva con un capo di fucina intorno appunto alla questione presente. Quest’uomo, con un buon senso rimarchevole, mi diceva: Il lavoro della domenica non giova né al padrone, né all’operaio. Di fatto, se si lavora in tutte le domeniche ed in tutti gli altri giorni senza riposarsi, si fabbrica troppo, sovra tutto dietro l’invenzione delle macchine. Inoltre havvi nell’annata cinquantadue domeniche ed alcune feste; da ciò ne risulta un aumento considerevole de’ prodotti. Ora, non basta il produrre; bisogna vendere. Se tutte le industrie di Francia fanno la stessa cosa, voi avrete ben tosto una fabbricazione superiore alla consumazione. E che, forse la profanazione della domenica aumenterà il novero de consumatori? Ciascuno non continuerà egli a spendere ad un dipresso la stessa somma per le sue vestimenta e per lo suo nutrimento? E perciò, i prodotti, in tutto od in parte rimarranno in magazzino, e voi subirete infallibilmente una doppia perdita: il detrimento inevitabile delle mercanzie e l’assopimento dei capitali. – Ecco quanto corre pei tempi ordinari. – Che ne sarà se sopravvenga una crisi commerciale? se la confidenza si perde, se cessa la vendita? Eccovi voi rovinati co’ vostri magazzini riempiti di mercanzie, od almeno eccovi costretti di restringere la produzione, di vendere a più basso prezzo, di ricorrere alle dilazioni e di licenziare i vostri artigiani: cose tutte deplorabili, che sarebbonsi assai più sicuramente evitate per una fabbricazione moderata. Quante case di commercio non potrebbonsi citare, le quali portano oggi la pena della loro esagerata fabbricazione al punto di vista dell’interesse temporale, e colpevole al punto di vista religioso! – Dirassi forse, che siffatto inconveniente non è punto da paventarsi, poiché, in luogo di celebrare la domenica, l’artefice fa vacanza il lunedì; ciò che riduce alla medesima cifra il numero de’ giorni di lavoro? Certamente non è la stessa cosa pel padrone, e ciò per tre ragioni: la prima, perché l’operaio che non lavora il lunedì, prolunga spesso la vacanza per intero od in parte infino al martedì, dal che risulta pel padrone un altro inconveniente, che è di non poter contare certamente sovra il lavorante, e di restare così con lavori, i quali premono in sulle braccia, nell’impossibilità di finirli nel giorno determinato, e di compiere la sua promessa. Da ciò nascono talora disdette considerabili a carico del padrone, gravi disgusti dalla parie de’ clienti, ed infine vien pur anco la perdita della fiducia. – La seconda, perché l’artigiano che passa abitualmente il lunedì nella bettola, si disusa nell’arte sua e ne strafalcia l’opera. Il lavorìo che eseguisce il martedì sotto le ultime emozioni dell’ubriachezza, non vale la metà del suo prezzo; e soventemente, come diceva un ispettore di manifattura, bisogna farlo ricominciare. – La terza, perché l’operaio che gode di non lavorare nel lunedì si abitua a dettar la legge al padrone. Se, dovunque abbonda il lavoro, ciascun dì si mostra presto a rompere l’accordo seco voi pattuito, e, come egli dice, n’impone alla borghesia, questo non rende i borghesi né più ricchi, né più felici. Se scarseggia il lavoro, e, l’operajo si rimanda, siccome è principio che niuno muore di fame, cosi tocca ancora al padrone, di concerto con altre persone caritatevoli, sopportare il peso di alimentare costui e la famiglia di lui; imperocché l’operaio che non lavora nel lunedì, non economizza certo. La sua cassa di risparmio è il banco del mercatante da vino, e cotesto banco ingoia tutto, e nulla mai rende. – M’inganno io, rende molto. Esso rende l’operaio bordelliere, infedele, invidioso, minacciante: bordelliere, s’infastidisce del lavoro, e malamente l’eseguisce: primo benefizio del padrone. Infedele, non si fa scrupolo mai di sprecare il tempo, e sentesi un grido generale contro al rilasso ed alla pigrizia de’ lavoranti, quando non sono sorvegliali dal padrone. Nulladimeno bisogna che questi loro paghi la giornata come se l’avessero coscienziosamente impiegala: secondo benefizio del padrone. Invidioso, perché l’abitudine alle allegrie ed all’oziosità contralta nella taverna, gli fa ambire la sorte di chi può vivere senza affaticarsi; e giura agli aristos un odio uguale alla sua gelosia: terzo benefizio del padrone. Minacciante, egli prestò l’orecchio ai canti, ed alle proposizioni le più anarchiche, linguaggio abituale de’ luoghi da lui frequentati, e la sua smania del benessere si infiammò siffattamente, che nell’occasione, per soddisfare ad esso, non retrocederà punto dinanzi ai mezzi i più violenti: quarto beneficio del padrone. – In breve, la concorrenza illimitata e sleale, l’ingombro de’prodotti, la sonnolenza de’capitali, i numerosi fallimenti, una minaccia perpetua alla vostra tranquillità e fortuna, son come la spada di Damocle, che sospesa sulle vostre teste dice: ecco, industriali, negozianti, proprietari, ricchi, qualunque siate voi, la cui cieca cupidigia comanda, o la cui stupida indifferenza autorizza la violazione del giorno sacro, ecco i vantaggi particolari che voi ne riscuotete. Voglia Iddio, che a voi non ne tornino altri! Voglia Iddio, che non abbiate voi a temere niente di più grave di quegli stormi popolari, de’ quali il vostro insolente disprezzo della legge di Dio ha scatenato le veementi passioni. Ma se mai quest’onda, che minaccia voi, e che ingrossa, viene a rompere l’ultimo suo riparo, voi saprete di chi n’è la colpa: gli avvertiménti non vi mancarono.

IV.

Se la profanazione della domenica è fatale agl’interessi del padrone, questa lo è pur anche agl’interessi dell’operaio. È qui, sig. Rappresentante, che noi tocchiamo al vivo la piaga. Primieramente, l’operaio guadagna assolutamente nulla pel lavorare del settimo giorno. Gli si sussurrò: cinquanta o sessanta giornate di lavoro di più per anno ti frutterà un considerabile benefizio. Ma al fianco di somigliante calcolo, che lo sedusse, si fe’ un’operazione, della quale non se ne avvide: si ricalò il salario. La è cosa di presente incontestabile, che l’artefice non lucra di più in sette giorni di lavoro, di quello che n’approfittava altre fiate in sei giorni. – Proseguiamo: questo settimo dì, l’artigiano non lo consacrò alla fatica, ma alla licenziosità; tanto che esso si trova odiernamente, per cagione della profanazione della domenica, ridotto, come pel passato, a sei giorni di lavoro per settimana, colla differenza d’essergli diminuito il salario, e di aver peggiorato nella buona condotta.

V.

Ohimè sì, la profanazione della domenica costa all’operaio 1’unico suo tesoro, la buona condotta. Da grande pezza, signore e caro amico, voi rimuginate l’origine della miseria, e dell’ indigenza delle classi lavoratrici; voi avete volto e rivolto la questione sotto tutti i suoi aspetti, e come tutti gli osservatori degni di questo nome, voi non conoscete che due cagioni reali della miseria per l’operajo: l’ozio e la mala condotta. L’ozio proviene da circostanze esteriori, che i mezzi ordinari possono attenuare o distruggere: la condotta sregolata nasce d’un male interno, che sfugge all’azione ordinaria dell’uomo. L’ozio non è per avventura che parziale e temporale; una tale condotta è disgraziatamente generale e permanente. – Per simil condotta dell’ operaio intendo le abitazioni d’accidia, d’imprevidenza, di lusso negli abbigliamenti, nei mobili, negli alimenti; di dissolutezza , cioè il bazzicare per le bettole. pe’ caffè, pe’ teatri e per altri luoghi. Ora, niuno può dissimularselo, che questa condotta, di tal modo intesa, e che, salvo errore, deve essere tale, esiste sopra una vasta scala nel seno delle classi artigiane delle nostre città. Ora che codesta divenga pur troppo cagione profonda e permanente della miseria, sarà superfluo il provarlo. In qualunque famiglia lavoratrice, in cui non si dia equilibrio tra l’uscita, e l’ entrata, v’alberga la miseria. Che troppo! l’immoralità diventa incompatibile con questa equilibrazione necessaria, perché la distrugge, divorandone assai più che non arreca il salario quotidiano, unica entrata della famiglia. – Donde origina la mala condotta deil’operaio? Deriva da ciò che ha spezzato il solo freno capace d’incatenar le sue inclinazioni, i suoi capricci, ed i suoi appetiti sregolati, divenuti talmente imperiosi che formano la regola abituale della sua maniera di vivere. – Or questo freno qual è mai? L’universo intero sorge per rispondere: questo freno è la religione. La religione, la quale di una mano segna infallibilmente al mortale i limiti del bene e del male; e col1’altra gl’infonde la forza per lottare vittoriosamente contro le proprie passioni la religione che lo colloca del continuo sotto l’occhio d’un Dio, il Quale vede tutto, alla presenza d’un giudice sovrano, il quale non si può né ingannare, né corrompere; la religione finalmente, la quale gli mostra, al di là della tomba, il cielo e l’inferno, inevitabile mercede di sue virtù o de’ suoi peccati. – Quale cosa mai è quella che infrange questo salutare freno? Quale cosa è quella che trucida la religione nel cuore del1’operaio, e l’abbandona conseguentemente come una preda senza difesa alle sue divoranti passioni? Avanti tutto, e sopratutto, la profanazione della domenica.

VI.

Per provarlo, io non dirò quivi che colla profanazione della domenica la religione non è, né conosciuta, né meditata, né praticata; bisognerebbe rifare la lettera, in cui vi sviluppai queste considerazioni. – Stabilisco la mia tesi invergando la questione sotto un novello punto di vista, e così pronuncio che l’uomo non potendo incessantemente lavorare, fa d’uopo che egli si riposi. Questa è una legge altrettanto irremovibile ed inflessibile quanto quella, la quale presiede al corso del sole. Ora se l’artefice non prende riposo nella domenica alla chiesa, egli vi si abbandona nel lunedì alla taverna. – È questa altresì una legge invariabile, il cui adempimento è così universale, e così costante come la profanazione della domenica. Ma il riposo della taverna, sapete voi ciò che è”? Codesto è l’immoralità in permanenza, e la feccia di tutto quello che la stessa ha di più degradante e di più rovinoso. – Vedete voi codest’operaio, codesto padre di famiglia gomitolato sovra una tavola insozzata degli avanzi d’una protratta orgia, scambiando co’ suoi compagnoni di dissolutezza canti anarchici, o discorsi sconci ed osceni? Sapete voi mai ciò che costui cionca nel bicchiere che vacilla nelle sue mani tremanti per /l’ubriachezza? Egli tracanna le lacrime, il sangue, la vita della sua sposa e de’ suoi fanciulli. Statuita la media , la taverna gli costa poco meno di cento scudi per anno: tre franchi per la giornata perduta, cd altri tre di spesa, cagionano una tale perdita, la quale, rinnovata cinquanta volte per anno, rimonta facilmente alla triste somma suindicata. Ora, se cento scudi di più per anno in una famiglia di operai, ne costituiscono l’agiatezza; cento scudi di meno, ne cagionano la miseria. Se questo disordine è generale, esso diventa la miseria permanente, la miseria incurabile per la classe lavoratrice di tutta una città, di tutto un reame. – Eppur! è di necessità il confessarlo adontandosene, che cotesto disordine si ingrandì in proporzione diretta della profanazione della domenica, di cui è la conseguenza; e che questa essendo divenuta generale, ancor quello diventò tale, e divenendolo, ci ha dotati della miseria, ed ha ucciso la vita di famiglia.— Uno sguardo solo sopra cotesto spaventevole progresso, più o meno rapido secondo le provincie, ma incontrastabile dovunque. Conosceva io una delle nostre città, la quale nel 1789 coniava una popolazione di 14,000 abitanti. Trovavansi tre alberghi, e due caffè, ne’ quali il popolo non entrava mai, e diciotto o venti osterie. Per contraccambio donavansi quasi in tutte le domeniche, e quasi in tutte le case modeste cene di famiglia, di cui tutti approfittavano: padre, madre, amici, fanciulli insieme piacevolmente mangiavano, bevevano, ciaramellavano, ed in dolce armonia lasciavansi.Di presente, questa stessa città per una popolazione di 16,000 anime possiede otto alberghi, ventisei caffè frequentatissimi dal popolo, e duecento ottantatrè osterie; in tutto trecento ventun venditori di vino e di liquori. Non fa di mestieri l’aggiungere che al partir dalla domenica dopo mezzodì, insino al lunedì sera, ed anche al martedì mattina, la più parte di codeste bettole sempre rigurgitano. – Calcolando, dietro le cifre ufficiali, oltre alla perdita della giornata, la spesa dei liquidi e dei commestibili, voi arrivate, mettendo tutto al minimum, ad un’imposizione annuale di più di 30,000 franchi, prelevati sovra questa condotta. – Ciò oltrepassa più del doppio quello che la città elargisce in elemosine. Ma però, non si danno più pranzi di famiglia, né si fanno più unioni, od altre feste domestiche, non più società; invece di tutto questo, vi regna la miseria sotto tutti i nomi, e sotto tutte le forme. Ecco qual vantaggio diretto produce la profanazione della domenica e la frequentazione delle taverne, che n’è l’inevitabile conseguenza. – Notiamo frattanto il beneficio indiretto. Tale condotta delle classi operaie, conseguenza della profanazione della domenica, non consiste solamente nelle dissolutezze delle bische, giacché conduce ad altre, che non voglio nominare, e che sono una novella scaturigine di spese, lo dirò solamente, perché tutto il mondo lo vede, che quella conduce al lusso esagerato nella toeletta, nelle suppellettili, ne1 cibi: quella conduce a’ piaceri degli spettacoli, e della danza. Ora, tutte siffatte cose sarebbero evitate, almeno in parie, e con un pochettino di più di timor di Dio e di fedeltà alla religione, conseguentemente con la santificazione della domenica, senza cui, come dimostrai, la religione è impossibile. – Per istare eziandio al di sotto della realtà, queste diverse spese cagionate per la condotta s’elevano ciascuna annata, per lo meno, a trenta franchi per famiglia. – Ora la città, di cui ragiono, annovera all’intorno 1,500 famiglie operaie. Ecco impertanto una novella imposizione di 45.000 franchi, che, aggiunta a 50,000 ci dona una contribuzione annuale di 95.000 franchi. Che questa somma smoderata riceva un impiego normale, cioè, che l’operaio divenga religioso ed onesto, ed in luogo della miseria profonda, ed incurabile, si godrà d’un’agiatezza, e d’un benessere generale; tal è il fallace compito dell’infelice città, di cui parlo, la quale non è necessario che l’annunci io, distinguendosi tristemente fra tutte per la profanazione della domenica.

VII.

Ecco quello della Francia intera. Secondo il censo generale fallo da qualche mese appena, si numerano in Francia 332,000 osterie, dove si spendono annualmente 105 milioni. Aggiungendovi le altre spese di lusso e di piacere, che noi abbiamo rimarcato come la conseguenza ordinaria della profanazione della domenica, e calcolate a 30 franchi per famiglia, voi avete, per quattro milioni di famiglie lavoratrici, una novella somma di 120 milioni, ciò che dona, per la Francia intera, la cifra enormissima di 225 milioni. Ma io temo che il novero delle famiglie suddette, sia della città, che della campagna, le quali profanano la domenica, e delle quali i genitori ed i figliuoli frequentano i ridotti, siano assai più considerabile. – Nel 1841, la somma degli operai nelle fabbriche, nelle manifatture e nei laboratori delle diverse professioni era di 6,000,000; quella degli agricoltori e braccianti della campagna di 421,978,278. Io non pretendo punto attribuire alla dissolutezza sola tulle le spese fatte nelle taverne; ma, riducendo alla metà quelle che sono le imputabili, comprendete voi ancora qual ammontare eccessivo di troppo paga la mala condotta. E poi, che è addivenuto, nella Francia intera, della vita di famiglia, dell’educazione della figliolanza, e dello spirito di società nella riunione dominicale de’parenti e degli amici attorno ad una mensa moderatamente imbandita? Ogni cosa disparve colla santificazione della domenica. – Spiegate voi, pertanto, perché le numerose elemosine che si versano ciascun anno nel grembo delle popolazioni, non migliorano la loro sorte; perché questo fiume d’oro stillante come tante gocce d’acqua nella botte delle Danaidi; perché, nonostante tante molteplici opere di carità spirituale e corporale. L’immoralità diventa di giorno in giorno più generale e più profonda; perché la mendicità, codesta cangrena corroditrice delle società moderne, invece d’essere arrestata nel suo invadente cammino, minaccia, sotto il nome di comunismo, di divorar ben tostamente i popoli profanatori della domenica; perché, al postutto, in Parigi, dove cotesto disordine tocca all’estremo, i due quinti della popolazione muoiono all’ospedale? Ehi mio Dio! La spiegazione non è difficile a trovarsi: i sudori dell’artigiano, ed una parte delle elemosine del ricco si scialacquano alla taverna, e ciò è la profanazione della domenica che moltiplica, ed arricchisce la bettola; e codesta diventa la strada dell’ospedale, quando pure non si trasformi in quella della galera. – E come mai potrebbe altrimenti succedere? – Il lavorante che travaglia nella domenica, si trova solo nel lunedì. La sua donna sta occupata sia al di fuori, sia al di dentro delle faccende famigliari; i suoi figliuoli sono al tirocinio od alla scuola: che volete voi che ne addivenga? Egli s’annoia della sua solitudine, e vola naturalmente alla bettola per cercare la società e i godimenti ch’egli non trova al focolare domestico. – Al contrario, se lo stesso si riposasse nella domenica, il pericolo della solitudine per lui non esisterebbe. Libero dalle esteriori occupazioni, la sua moglie e i suoi fanciulli n’attirerebbero l’attenzione. Il loro esempio, le loro sollecitudini, il timore solo di restare isolato, sufficienti sarebbero alla lunga per risolverlo a mettersi fra’ piedi con esso loro la via della chiesa, e renderlo, ciò che non sarà giammai profanando la domenica, un buon padre, un buono sposo, un operaio onesto, laborioso, economo. – E dunque dirittamente stabilito che la menzogna la più mostruosa che siasi giammai commessa, dopo quella di satanasso nel paradiso terrestre, consiste nel buccinare che il lavoro della domenica è una sorgente del benessere per i particolari e per i popoli. Cotesto n’è, ne fu e ne sarà sempre mai la rovina. Gradite, ecc.

MESSA DELL’EPIFANIA

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Introitus

Malach III:1; 1 Par XXIX:1

Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium.

Ps LXXI:1 Deus, judícium tuum Regi da: et justítiam tuam Fílio Regis. V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium

[Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero. Ps 71:1 – O Dio, concedi al re il tuo giudizio, e la tua giustizia al figlio del re. V. Gloria al Padre, e al Figlio, e allo Spirito Santo. R. Come era nel principio è ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero.]

Orémus.

Deus, qui hodiérna die Unigénitum tuum géntibus stella duce revelásti: concéde propítius; ut, qui jam te ex fide cognóvimus, usque ad contemplándam spéciem tuæ celsitúdinis perducámur.

[O Dio, che oggi rivelasti alle genti il tuo Unigenito con la guida di una stella, concedi benigno che, dopo averti conosciuto mediante la fede, possiamo giungere a contemplare lo splendore della tua maestà.]

Lectio Léctio Isaíæ Prophétæ. Is LX:1-6

Surge, illumináre, Jerúsalem: quia venit lumen tuum, et glória Dómini super te orta est. Quia ecce, ténebræ opérient terram et caligo pópulos: super te autem oriétur Dóminus, et glória ejus in te vidébitur. Et ambulábunt gentes in lúmine tuo, et reges in splendóre ortus tui. Leva in circúitu óculos tuos, et vide: omnes isti congregáti sunt, venérunt tibi: fílii tui de longe vénient, et fíliæ tuæ de látere surgent. Tunc vidébis et áfflues, mirábitur et dilatábitur cor tuum, quando convérsa fúerit ad te multitúdo maris, fortitúdo géntium vénerit tibi. Inundátio camelórum opériet te dromedárii Mádian et Epha: omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes.

[Lettura del Profeta Isaia: Sorgi, o Gerusalemme, sii raggiante: poiché la tua luce è venuta, e la gloria del Signore è spuntata sopra di te. Mentre le tenebre si estendono sulla terra e le ombre sui popoli: ecco che su di te spunta l’aurora del Signore e in te si manifesta la sua gloria. Alla tua luce cammineranno le genti, e i re alla luce della tua aurora. Leva gli occhi e guarda intorno a te: tutti costoro si sono riuniti per venire a te: da lontano verranno i tuoi figli, e le tue figlie sorgeranno da ogni lato. Quando vedrai ciò sarai raggiante, il tuo cuore si dilaterà e si commuoverà: perché verso di te affluiranno i tesori del mare e a te verranno i beni dei popoli. Sarai inondata da una moltitudine di cammelli, dai dromedarii di Madian e di Efa: verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore.]

Graduale

Isa LX:6; LX:1 Omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes. V. Surge et illumináre, Jerúsalem: quia glória Dómini super te orta est. Allelúja, allelúja [Verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore. Sorgi, o Gerusalemme, e sii raggiante: poiché la gloria del Signore è spuntata sopra di te. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Matt II:2. Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum. Allelúja.

[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni per adorare il Signore. Alleluja.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum

Gloria tibi, Domine!

Matt II:1-12

Cum natus esset Jesus in Béthlehem Juda in diébus Heródis regis, ecce, Magi ab Oriénte venerunt Jerosólymam, dicéntes: Ubi est, qui natus est rex Judæórum? Vidimus enim stellam ejus in Oriénte, et vénimus adoráre eum. Audiens autem Heródes rex, turbatus est, et omnis Jerosólyma cum illo. Et cóngregans omnes principes sacerdotum et scribas pópuli, sciscitabátur ab eis, ubi Christus nasceretur. At illi dixérunt ei: In Béthlehem Judae: sic enim scriptum est per Prophétam: Et tu, Béthlehem terra Juda, nequaquam mínima es in princípibus Juda; ex te enim éxiet dux, qui regat pópulum meum Israel. Tunc Heródes, clam vocátis Magis, diligénter dídicit ab eis tempus stellæ, quæ appáruit eis: et mittens illos in Béthlehem, dixit: Ite, et interrogáte diligénter de púero: et cum invenéritis, renuntiáte mihi, ut et ego véniens adórem eum. Qui cum audíssent regem, abiérunt. Et ecce, stella, quam víderant in Oriénte, antecedébat eos, usque dum véniens staret supra, ubi erat Puer. Vidéntes autem stellam, gavísi sunt gáudio magno valde. Et intrántes domum, invenérunt Púerum cum María Matre ejus, hic genuflectitur ei procidéntes adoravérunt eum. Et, apértis thesáuris suis, obtulérunt ei múnera, aurum, thus et myrrham. Et re sponso accépto in somnis, ne redírent ad Heródem, per aliam viam revérsi sunt in regiónem suam,

[Seguito ✠ del Santo Vangelo secondo Matteo. R. Gloria a Te, o Signore! Matt II:1-12

Nato Gesú, in Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco arrivare dei Magi dall’Oriente, dicendo: Dov’è nato il Re dei Giudei? Abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo. Sentite tali cose, il re Erode si turbò, e con lui tutta Gerusalemme. E, adunati tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, voleva sapere da loro dove doveva nascere Cristo. E questi gli risposero: A Betlemme di Giuda, perché cosí è stato scritto dal Profeta: E tu Betlemme, terra di Giuda, non sei la minima tra i príncipi di Giuda: poiché da te uscirà il duce che reggerà il mio popolo Israele. Allora Erode, chiamati a sé di nascosto i Magi, si informò minutamente circa il tempo dell’apparizione della stella e, mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e cercate diligentemente il bambino, e quando l’avrete trovato fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo. Quelli, udito il re, partirono: ed ecco che la stella che avevano già vista ad Oriente li precedeva, finché, arrivata sopra il luogo dov’era il bambino, si fermò. Veduta la stella, i Magi gioirono di grandissima gioia, ed entrati nella casa trovarono il bambino con Maria sua madre qui ci si inginocchia e prostratisi, lo adorarono. E aperti i loro tesori, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non passare da Erode, tornarono al loro paese per un altra strada. – Lode a Te, o Cristo.]

Sermone di san Leone Papa

Sermone 2 sull’Epifania

Gioite nel Signore, o dilettissimi, di nuovo dico, gioite: perché dopo breve intervallo di tempo dalla solennità della Nascita di Cristo, risplende la festa della sua manifestazione: e colui che in quel giorno la Vergine diede alla luce, il mondo l’ha riconosciuto quest’oggi. Infatti il Verbo fatto uomo dispose il suo ingresso nel mondo in tal maniera, che il bambino Gesù fu manifestato ai credenti e occultato ai suoi persecutori. Fin d’all’ora dunque «i cieli proclamarono la gloria di Dio, e il suono della verità si sparse per tutta la terra» (Ps. 18,1), quando una schiera d’Angeli apparve ai pastori per annunziare loro la nascita del Salvatore, e una stella fu di guida ai Magi per venire ad adorarlo; affinché dall’oriente fino all’occidente risplendesse la venuta del vero Re, perché così i regni d’Oriente appresero dai Magi gli elementi della fede, ed essi non rimasero nascosti all’impero Romano. – Poiché anche la crudeltà d’Erode, che voleva soffocare in sul nascere il Re che gli era sospetto, serviva, a sua insaputa, a questa diffusione della fede; ché, mentre intento a un atroce delitto perseguitava, con un massacro generale di bambini, l’ignoto bambino, ovunque più solennemente si spargeva la fama della nascita annunziata dal dominatore del cielo, rendendola più pronta e più atta alla divulgazione, e la novità d’un segno nuovo nel cielo e l’empietà del crudelissimo persecutore. Allora pertanto il Salvatore fu portato anche in Egitto, affinché questo popolo, in preda a vecchi errori, fosse preparato, con una grazia secreta, a ricevere la sua prossima salute; e affinché, prima ancora d’aver bandito dall’animo la superstizione, ricevesse già ospite la stessa verità. – Riconosciamo dunque, o dilettissimi, nei Magi adoratori di Cristo, le primizie della nostra vocazione e della nostra fede; e con animo esultante celebriamo i princìpi di questa beata speranza. Poiché fin d’allora cominciammo ad entrare nell’eterna eredità: fin d’allora ci si scoprirono i passi misteriosi della Scrittura intorno a Cristo; e la verità, che la cecità dei Giudei non accolse, sparse la sua luce in tutte le nazioni. Onoriamo dunque questo santissimo giorno in cui l’Autore della nostra salute s’è fatto conoscere: e quello che i Magi adorarono bambino nella culla, noi adoriamolo onnipotente nei cieli. E come quelli coi loro tesori offrirono al Signore dei mistici doni, così ancor noi sappiamo cavare dai nostri cuori dei doni degni di Dio.

Omelia di san Gregorio Papa

Omelia 10 sul Vangelo

Come avete udito, fratelli carissimi, nella lettura del Vangelo, un re della terra si turba alla nascita del Re del cielo: ciò perché ogni grandezza terrena rimane confusa allorché si manifesta la grandezza del cielo. Ma noi dobbiamo cercare perché, alla nascita del Redentore, un Angelo apparve ai pastori nella Giudea, mentre non un Angelo, ma una stella condusse i Magi d’Oriente ad adorarlo. Perché cioè i Giudei, servendosi della ragione per conoscerlo, era giusto che lo annunziasse loro una creatura ragionevole, vale a dire, un Angelo: mentre invece i Gentili, perché non sapevano servirsi della ragione, vennero condotti a conoscere il Signore non per mezzo d’una voce, ma con dei segni. Onde anche Paolo dice: «Le profezie sono date ai fedeli e non agl’infedeli; i segni al contrario agl’infedeli e non ai fedeli» (1Cor. 14,22). E così a quelli son date le profezie, perché erano fedeli, non già infedeli; e a questi sono dati i segni, perché erano infedeli, e non fedeli. – Ed è a notare, che allorquando il nostro Redentore sarà giunto all’età d’uomo perfetto, gli Apostoli lo predicheranno agli stessi Gentili, mentre bambino e non ancora capace di parlare con gli organi corporali, una stella lo annunzia alla Gentilità: ciò senza dubbio perché l’ordine della ragione richiedeva che fossero dei predicatori che parlassero per farci conoscere il Signore, quando lui stesso avesse parlato, e che dei muti elementi l’annunziassero quando egli non parlava ancora. Ma in tutti i prodigi che apparvero sia alla nascita del Signore, sia alla morte di lui, noi dobbiamo considerare quale fu la durezza di cuore di quei Giudei, i quali non lo riconobbero né al dono della profezia, né ai suoi miracoli. – Tutti infatti gli elementi resero testimonianza alla venuta del loro autore. E per parlare di essi secondo il linguaggio umano: i cieli lo riconobbero Dio, perché inviarono subito la stella. Lo riconobbe il mare, perché sotto i suoi piedi si dimostrò traversabile. Lo riconobbe la terra, perché tremò alla morte di lui. Lo riconobbe il sole, perché nascose la luce dei suoi raggi. Lo riconobbero i sassi e le pareti, perché al momento della sua morte si spezzarono. Lo riconobbe l’inferno, perché restituì i morti che teneva. E tuttavia, colui che tutti gli insensibili elementi riconobbero per Signore, i cuori degli infedeli Giudei ancora non lo riconoscono per Dio, e, più duri dei sassi, non si vogliono aprire al pentimento.

Omelia di S.S. Gregorio XVII per

EPIFANIA (1977)

Parrebbe, cari fedeli, che l’odierna solennità sia destinata soltanto a ricordare il fatto della venuta dei Magi, che avete sentito raccontare ora nella lettura del Santo Vangelo (Mt II, 1-12), ma non è così. Questa solennità ha un respiro molto più ampio, e questo respiro molto più ampio ci è indicato dalle letture che hanno preceduto quella del Vangelo. – Ma quello che impressiona è il cantico – perché in realtà è un cantico -, che abbiamo sentito leggere nella prima lettura ed è tolto dal cap. LX del profeta Isaia (vv. 1-6). Questo capitolo ha un andamento non solo poetico, ma trionfale, ed è questo che dobbiamo cogliere ed è questo che ci dà la dimensione forse più profonda di questa solennità. Cosa dice Isaia in quel cantico? Dice questo: rinnova la promessa contenuta già nel cap. 54 della stessa profezia del ritorno dall’esilio che doveva ancora accadere – sarebbe accaduto quasi tre secoli dopo -, dall’esilio babilonese, e pertanto canta la ricostruzione di Gerusalemme. Ma come è solito nella letteratura tanto del Vecchio quanto del Nuovo Testamento, dal fatto contingente nel tempo l’agiografo si leva alla considerazione universale e dalla Gerusalemme materiale, capitale della Palestina, sorge contemplare un’altra Gerusalemme, un’altra città, un altro regno. La chiama Gerusalemme, ma in senso figurato, che aduna tutto il mondo, che porta tutto il mondo, da tutte le genti, con tutte le lingue, con tutti i canti, verso Colui che deve venire. Cioè la prima lettura ci dice questo: che l’Epifania, manifestazione globale di Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, è anche e soprattutto la vocazione di tutte le genti alla fede, cioè la chiamata delle genti a Gesù Cristo. Ed è questo il punto sul quale io voglio attirare la vostra attenzione. – La chiamata di tutte le genti costituisce un mistero, e ve ne accorgerete da quello che sto per dire. Ed un mistero sotto diversi aspetti. Anzitutto la chiamata di tutte le genti non significa la connversione di tutte le genti, per la ragione che Dio chiama, ma lascia liberi, perché rispetta la libertà che ha donato; è coerente Iddio, non lo siamo noi, generalmente, ma Lui sì. Rispetta questa libertà, che è il fondamento del valore personale, del merito personale dell’uomo. Pertanto chiamata universale non significa cammino universale, anche se questo cammino universale è adombrato nel cantico di Isaia. Chiamata delle genti: noi restiamo un po’ sopra pensiero, perché ne vediamo molte riottose, ne vediamo molte poco fedeli, ne vediamo molte ancora nelle tenebre. Sì, il Vangelo è annunziato fino agli estremi della terra – tant’è vero che il giorno di Natale è sentito da tutto il mondo, cristiani e non cristiani -, ma le cose non sono così completamente perfette e limpide. Questa chiamata delle genti lascia il cielo coperto, soltanto si vede qua e là qualche sprazzo di sereno e questo è un mistero per noi, ma non tanto. Perché? Per questo motivo: nella Sacra Scrittura è asserito che Dio vuole salvi tutti gli uomini (cfr. I Tim II, 4) e non vuole che alcuno di essi perisca. – Questo è quello che vuole Dio: desiderio divino, ma non desiderio tale da pigliar per il collo gli uomini. Però indica che Dio da parte Sua fa tutto perché tutti gli uomini siano salvi. Ed è proprio da quest’affermazione della Sacra Scrittura che la dottrina cattolica ha derivato un’affermazione dottrinale certa e che non può essere messa in dubbio: che Dio dà a tutti gli uomini la grazia necessaria per salvarsi. È questo il mistero: come, quando, in che modo noi non lo constatiamo; lo sappiamo, perché l’ha detto, ma non lo constatiamo. E a questo punto sul margine del corpo visibile, societario, gerarchico della Chiesa siamo obbligati a spaziare sul mare immenso di cui non conosciamo i confini, cioè sulla moltitudine di quegli uomini che furono, che sono e che saranno e che attraverso un filo sottile e segreto, non iscritto nei fatti esterni e umani, Dio chiama a sé, ne ascolta anche la più piccola risposta affermativa data nel semplice ordine naturale, la accoglie e porta a perfezione, compiendo Lui, al di la della constatazione esterna, quanto occorre perché si abbia l’atto di fede esplicita nei misteri principali della Trinità e dell’Incarnazione ed implicita su tutto il rimanente corpo rivelato e perché si abbia l’atto di adesione a Dio, e attraverso questo atto di fede e di amore possa avvenire la salvezza. Badate che questo mare va all’infinito. Chi lo può contare? E il mistero di Dio! Non è un mistero nel fatto che esiste, è un mistero nel modo per cui si realizza. Per cui la famiglia di Dio non è larga quanto è compresa negli annuari. No, molto di quelli che sono compresi negli annuari della Chiesa ci sono ben poco e alcuni che sembrano esserci e scritti a caratteri anche a rilievo non ci sono affatto, perché hanno perduta la fede e l’hanno corrotta; e senza fede, che è adesione alla verità certa, è impossibile – parlo con le parole della Scrittura -, è impossibile piacere a Dio (cfr. Eb XI,6). Ma i confini del Regno di Dio veramente si estendono su tutta la terra, e noi, che qualche volta possiamo essere colti da un pensiero di superbia, come ad essere i privilegiati, i vicini, i carismatici, noi dobbiamo umilmente riconoscere che al di là del cerchio visivo dei nostri poveri occhi esistono tante altre anime che piacciono a Dio, che sono sulla via della salvezza. Ne esistono anche tante che hanno detto di no e diranno di no. Ci saranno giusti e ci saranno reprobi all’ultimo giudizio di Dio – ce lo dice il Vangelo -, ma ci sono tanti altri che dicono di sì. Dio non concede a noi per ragioni Sue, che forse in parte possiamo intuire, di avere la visione dettagliata di questo stupendo e trionfale accorrere da tutte le genti a Cristo Redentore, al Verbo di Dio incarnato, ma sappiamo che c’è ed è questo che rende grande il giorno della Epifania del Signore festa. Io consiglierei alle medesime di studiarsi meglio il catechismo e la Sacra Scrittura, perché forse capirebbero quello che non hanno mai capito. E l’augurio che faccio a loro e, se qui dentro ci fosse qualcuno che avrebbe bisogno di questo augurio, lo faccio anche a lui!

Credo …

 

Antif. All’Offertorio

Orémus Ps LXXI:10-11 Reges Tharsis, et ínsulæ múnera ófferent: reges Arabum et Saba dona addúcent: et adorábunt eum omnes reges terræ, omnes gentes sérvient ei.

[I re di Tharsis e le genti offriranno i doni: i re degli Arabi e di Saba gli porteranno regali: e l’adoreranno tutti i re della terra: e tutte le genti gli saranno soggette.]

Secreta

Ecclésiæ tuæ, quæsumus, Dómine, dona propítius intuere: quibus non jam aurum, thus et myrrha profertur; sed quod eisdem munéribus declarátur, immolátur et súmitur, Jesus Christus, fílius tuus, Dóminus noster: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

[Guarda benigno, o Signore, Te ne preghiamo, alle offerte della tua Chiesa, con le quali non si offre più oro, incenso e mirra, bensì Colui stesso che, mediante le medesime, è rappresentato, offerto e ricevuto: Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore: Lui che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. Amen.]

Communio

Matt II:2 Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum.

[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni ad adorare il Signore.]

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Præsta, quaesumus, omnípotens Deus: ut, quæ sollémni celebrámus officio, purificátæ mentis intellegéntia consequámur. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

[V. Il Signore sia con voi. R. E con il tuo spirito. Preghiamo. Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che i misteri oggi solennemente celebrati, li comprendiamo con l’intelligenza di uno spirito purificato. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. Amen.]

In preparazione all’EPIFANIA

“Orietur stella ex Jacob, et consurget virga de Israel”

[UNA STELLA sorgerà da Giacobbe; uno scettro spunterà da Israele]

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EPIFANIA DI NOSTRO SIGNORE

[Dom. Guéranger. L’anno liturgico, vol. I]

Il nome della festa.

La festa dell’Epifania è la continuazione del mistero di Natale; ma si presenta, sul Ciclo cristiano, con una sua propria grandezza. – Il nome, che significa Manifestazione, indica abbastanza chiaramente che essa è destinata ad onorare l’apparizione di Dio in mezzo agli uomini. – Questo giorno, infatti, fu consacrato per parecchi secoli a festeggiare la Nascita del Salvatore; e quando i decreti della Santa Sede obbligarono tutte le Chiese a celebrare, insieme con Roma, il mistero della Natività il 25 dicembre, il 6 gennaio non fu completamente privato della sua antica gloria. Gli rimase il Nome di Epifania con la gloriosa memoria del Battesimo di Gesù Cristo, di cui la tradizione ha fissato a questo giorno l’anniversario. – La Chiesa Greca dà a questa Festa il venerabile e misterioso nome di Teofania, celebre nell’antichità per significare un’Apparizione divina. Ne parlano Eusebio, san Gregorio Nazianzeno, sant’Isidoro di Pelusio, e, nella Chiesa Greca, è il titolo proprio di questa ricorrenza liturgica. – Gli Orientali chiamano ancora questa solennità i santi Lumi, a motivo del Battesimo che si conferiva un tempo in questo giorno in memoria del Battesimo di Gesù Cristo nel Giordano. È noto come il Battesimo sia chiamato dai Padri illuminazione, e quelli che l’hanno ricevuto “illuminati”[oggi “illuminati” si definiscono gli appartenenti ad una setta dell’alta massoneria! –ndr.-] – Infine, noi chiamiamo comunemente, in Francia, tale festa la Festa dei Re, in ricordo dei Magi la cui venuta a Betlemme è celebrata oggi in modo particolare. – L’Epifania condivide con le Feste di Natale, di Pasqua, della Ascensione e di Pentecoste, l’onore di essere qualificata con il titolo di giorno santissimo, nel Canone della Messa; e viene elencata fra le feste cardinali, cioè fra le solennità sulle quali si basa l’economia dell’Anno liturgico. Una serie di sei domeniche prende nome da essa, come altre serie di domeniche si presentano sotto il titolo di Domeniche dopo Pasqua, Domeniche dopo la Pentecoste. – Il giorno dell’Epifania del Signore è dunque veramente un gran giorno; e la letizia nella quale ci ha immersi la Natività del divino Bambino deve effondersi nuovamente in questa solennità. Infatti, questo secondo irradiamento della Festa di Natale ci mostra la gloria del Verbo incarnato in un nuovo splendore; e senza farci perdere di vista le bellezze ineffabili del divino Bambino, manifesta in tutta la luce della sua divinità il Salvatore che ci è apparso nel suo amore. Non sono più soltanto pastori che son chiamati dagli Angeli a riconoscere il verbo fatto carne, ma è il genere umano, è tutta la natura che la voce di Dio stesso chiama ad adorarlo e ad ascoltarlo.

I misteri della festa.

Nei misteri della divina Epifania, tre raggi del sole di giustizia scendono fino a noi. Questo sesto giorno di gennaio, nel ciclo della Roma pagana, fu assegnato alla celebrazione del triplice trionfo d’Augusto, autore e pacificatore dell’Impero; ma quando il nostro pacifico Re, il cui impero è eterno e senza confini, ebbe deciso, con il sangue dei suoi martiri, la vittoria della propria Chiesa, questa Chiesa giudicò, nella sapienza del cielo che l’assiste, che un triplice trionfo dell’Imperatore immortale dovesse sostituire, nel rinnovato Ciclo, i tre trionfi del figlio adottivo di Cesare. Il 6 gennaio restituì dunque al venticinque dicembre la memoria della Nascita del Figlio di Dio; ma in cambio tre manifestazioni della gloria di Cristo vennero ad adunarsi in una stessa Epifania: il mistero dei Magi venuti dall’Oriente sotto la guida della Stella per onorare la divina Regalità del Bambino di Betlemme; il mistero del Battesimo di Cristo proclamato Figlio di Dio nelle acque del Giordano dalla voce stessa del Padre celeste; e infine il mistero della potenza divina di quello stesso Cristo che trasforma l’acqua in vino al simbolico banchetto delle Nozze di Cana. – Il giorno consacrato alla memoria di questi tre prodigi è insieme l’anniversario del loro compimento? È una questione discussa. Ma basta ai figli della Chiesa che la loro Madre abbia fissato la memoria di queste tre manifestazioni nella Festa di oggi, perché i loro cuori applaudano i trionfi del divin Figlio di Maria. Se consideriamo ora nei particolari il multiforme oggetto della solennità, notiamo innanzi tutto che l’adorazione dei Magi è il mistero che la santa Romana Chiesa onora oggi con maggior compiacenza. – A celebrarlo è impiegata la maggior parte dei canti dell’Ufficio e della Messa, e i due grandi Dottori della Sede Apostolica, san Leone e san Gregorio, sembra che abbiano voluto insistervi quasi unicamente, nelle loro Omelie sulla festa, benché confessino con sant’Agostino, san Paolino di Nola, san Massimo di Torino, san Pier Crisologo, sant’Ilario di Arles e sant’Isidoro di Siviglia, la triplicità del mistero dell’Epifania. La ragione della preferenza della Chiesa Romana per il mistero della Vocazione dei Gentili deriva dal fatto che questo grande mistero è sommamente glorioso a Roma che, da capitale della gentilità quale era stata fino allora, è diventata la capitale della Chiesa cristiana e dell’umanità, per la vocazione celeste che chiama oggi tutti i popoli alla mirabile luce della fede, nella persona dei Magi. – La Chiesa Greca non fa oggi menzione speciale dell’adorazione dei Magi. Essa ha unito questo mistero a quello della Nascita del Salvatore negli Uffici per il giorno di Natale. Tutte le sue lodi, nella solennità odierna, hanno per unico oggetto il Battesimo di Gesù Cristo. – Questo secondo mistero dell’Epifania è celebrato insieme con gli altri due dalla Chiesa Latina, il 6 gennaio. Se ne fa più volte menzione nell’Ufficio di oggi; ma siccome la venuta dei Magi alla culla del neonato Re attira soprattutto l’attenzione della Roma cristiana in questo giorno, è stato necessario, perché il mistero della santificazione delle acque fosse degnamente onorato, legare la sua memoria a un altro giorno. Dalla Chiesa d’Occidente è stata scelta l’Ottava dell’Epifania per onorare in modo particolare il Battesimo del Salvatore. – Essendo inoltre il terzo mistero dell’Epifania un po’ offuscato dallo splendore del primo, benché sia più volte ricordato nei canti della Festa, la sua speciale celebrazione è stata ugualmente rimessa a un altro giorno, e cioè alla seconda Domenica dopo l’Epifania. Alcune Chiese hanno associato al mistero del cambiamento dell’acqua in vino quello della moltiplicazione dei pani, che ha infatti parecchie analogie con il primo, e nel quale il Salvatore manifestò ugualmente la sua potenza divina; ma la Chiesa Romana tollerando tale usanza nel rito Ambrosiano e in quello Mozarabico, non l’ha mai accolta, per non venir meno al numero di tre che deve segnare nel Ciclo i trionfi di Cristo il 6 gennaio, e anche perché san Giovanni ci dice nel suo Vangelo che il miracolo della moltiplicazione dei pani ebbe luogo nella prossimità della Festa di Pasqua, il che non potrebbe attribuirsi in alcun modo al periodo dell’anno nel quale si celebra l’Epifania. – Diamoci dunque completamente alla letizia di questo bel giorno e nella Festa della Teofania, dei santi Lumi, dei Re Magi, consideriamo con amore la luce abbagliante del nostro divino Sole che sale a passi da gigante, come dice il Salmista (Sal. XVIII, 18) e che riversa su di noi i fasci d’una luce tanto dolce quanto splendente. Ormai i pastori accorsi alla voce dell’Angelo hanno visto accrescere la loro schiera fedele; il Protomartire, il Discepolo prediletto, la bianca coorte degli Innocenti, il glorioso san Tommaso, Silvestro, il Patriarca della Pace, non sono più soli a vegliare sulla culla dell’Emmanuele; le loro file si aprono per lasciar passare i Re dell’Oriente, portatori dei voti e delle adorazioni di tutta l’umanità. L’umile stalla è diventata troppo stretta per un simile afflusso di persone; e Betlemme appare vasta come il mondo. Maria, il Trono della divina Sapienza, accoglie tutti i membri di quella corte con il suo grazioso sorriso di Madre e di Regina; presenta il Figlio alle adorazioni della terra e alle compiacenze del cielo. Dio si manifesta agli uomini, perché è grande, ma si manifesta attraverso Maria, perché è misericordioso.

Ricordi storici.

Nei primi secoli della Chiesa troviamo due avvenimenti notevoli che hanno illustrato il grande giorno che ci raduna ai piedi del Re pacifico. Il 6 gennaio del 361, l’imperatore Giuliano già apostata nel cuore, alla vigilia di salire sul trono imperiale, che presto la morte di Costanzo avrebbe lasciato vacante, si trovava a Vienne nelle Gallie. Aveva ancora bisogno dell’appoggio di quella Chiesa cristiana nella quale si diceva perfino che avesse ricevuto il grado di Lettore, e che tuttavia si preparava ad attaccare con tutta l’astuzia e tutta la ferocia della tigre. Nuovo Erode, artificioso come il primo, volle inoltre, in questo giorno dell’Epifania, andare ad adorare il Neonato Re. Nella relazione del suo panegirista Ammieno Marcellino, si vede il filosofo incoronato uscire dall’empio santuario dove consultava segretamente gli aruspici, avanzare quindi sotto i portici della Chiesa e in mezzo all’assemblea dei fedeli offrire al Dio dei cristiani un omaggio tanto solenne quanto sacrilego. – Undici anni dopo, nel 372, anche un altro Imperatore penetrava nella chiesa, sempre nel giorno dell’Epifania. Era Valente, cristiano per il Battesimo come Giuliano, ma persecutore, in nome dell’Arianesimo, di quella stessa Chiesa che Giuliano perseguitava in nome dei suoi dèi impotenti e della sua sterile filosofia. La libertà evangelica d’un santo Vescovo abbatté Valente ai piedi di Cristo Re nello stesso giorno in cui la politica aveva costretto Giuliano ad inchinarsi davanti alla divinità del Galileo. – San Basilio usciva allora allora dal suo celebre colloquio con il prefetto Modesto, nel quale aveva vinto tutta la forza del secolo con la libertà della sua anima episcopale. Valente giunse a Cesarea con l’empietà ariana nel cuore, e si reca alla basilica dove il Pontefice celebrava con il popolo la gloriosa Teofania. « Ma – come dice eloquentemente san Gregorio Nazianzeno – l’Imperatore ha appena varcato la soglia del sacro tempio, che il canto dei salmi risuona al suo orecchio come un tuono. Egli contempla sbalordito la moltitudine del popolo fedele simile ad un mare. » L’ordine, e la bellezza del santuario risplendono ai suoi occhi con una maestà più angelica che umana. Ma ciò che lo colpisce più di tutto, è l’Arcivescovo ritto davanti al suo popolo, con il corpo, gli occhi e la mente raccolti come se nulla di nuovo fosse accaduto, e tutto intento a Dio e all’altare. Valente osserva anche i ministri sacri, immobili nel raccoglimento, pieni del sacro terrore dei Misteri. – Mai l’Imperatore aveva assistito a uno spettacolo così sublime. La sua vista si oscura, il capo gli gira, e la sua anima è presa dallo sbigottimento e dall’orrore ». – Il Re dei secoli. Figlio di Dio e Figlio di Maria, aveva vinto. Valente sentì svanire i suoi progetti di violenza contro il santo Vescovo, e se in quel momento non adorò il Verbo consustanziale al Padre, confuse almeno i suoi omaggi esteriori a quelli del gregge di Basilio. Al momento dell’offertorio, avanzò verso la balaustra, e presentò i suoi doni a Cristo nella persona del suo Pontefice. Il timore che Basilio non lo volesse ricevere agitava con tanta violenza il principe che la mano dei ministri del santuario dovette sostenerlo perché, non cadesse, nel suo turbamento, ai piedi stessi dell’altare. – Così, in questa grande solennità, la Regalità del neonato Salvatore è stata onorata dai potenti di questo mondo che si son visti, secondo la profezia del Salmo, abbattuti e prostrati bocconi a terra ai suoi piedi (Sal. LXXI). – Ma dovevano sorgere nuove generazioni d’imperatori e di re che avrebbero piegato i ginocchi e presentato a Cristo Signore l’omaggio d’un cuore devoto e ortodosso. Teodosio, Carlo Magno, Alfredo il Grande, Stefano d’Ungheria, Edoardo il Confessore, Enrico II Imperatore, Ferdinando di Castiglia, Luigi IX di Francia tennero questo giorno in grande devozione, e furono orgogliosi di presentarsi insieme con i Re Magi ai piedi del divino Bambino e di offrirGli i loro cuori come quelli Gli avevano offerto i loro tesori. – Alla corte di Francia s’era anche conservata, fino al 1378 e oltre (come testimonia il continuatore di Guillaume de Nangis) l’usanza che il Re cristianissimo, giunto all’offertorio, presentasse dell’oro, dell’incenso e della mirra come un tributo all’Emmanuele.

Usanze.

Ma questa rappresentazione dei tre mistici doni dei Magi non era in uso solo nella corte dei re. Nel medioevo, anche la pietà dei fedeli presentava al Sacerdote, perché lo benedicesse, nella festa dell’Epifania, dell’oro, dell’incenso e della mirra; e si conservavano in onore dei tre Re quei commoventi segni della loro devozione verso il Figlio di Maria, come un pegno di benedizione per le case e per le famiglie. Tale usanza è rimasta ancora in alcune diocesi della Germania. – Più a lungo è durata un’altra usanza, ispirata anch’essa dall’età di fede. Per onorare la regalità dei Magi venuti dall’Oriente verso il Bambino di Betlemme, si eleggeva a sorte, in ogni famiglia, un Re per la festa dell’Epifania. In un banchetto animato da una santa letizia, e che ricordava quello delle nozze di Galilea, si rompeva una focaccia di cui una parte serviva a designare l’invitato al quale era attribuita quella momentanea regalità. Due porzioni della focaccia erano prese per essere offerte al Bambino Gesù e a Maria, nella persona dei poveri che godevano anch’essi in quel giorno del trionfo del Re umile e povero. Le gioie della famiglia si confondevano con quelle della religione; i legami della natura, dell’amicizia, della vicinanza si rinforzavano attorno alla tavola dei Re; e se la debolezza poteva apparire qualche volta nell’abbandono di un banchetto, l’idea cristiana non era lontana e splendeva in fondo ai cuori. – Beate ancor oggi le famiglie nel cui seno si celebra con cristiana pietà la festa dei Re! Per troppo tempo un falso zelo ha trovato da ridire contro queste semplici usanze nelle quali la gravità dei pensieri della fede si univa alle effusioni della vita domestica. – Si faceva guerra a queste tradizioni della famiglia con il pretesto del pericolo dell’intemperanza, come se un banchetto privo di ogni linea religiosa fosse meno soggetto agli eccessi. Con uno spirito di ricerca alquanto difficile a giustificarsi, si è giunti fino a pretendere che la focaccia dell’Epifania e la innocente regalità che l’accompagnava non fossero altro che un’imitazione dei Saturnali pagani, come se fosse la prima volta che le antiche feste pagane avessero dovuto subire una trasformazione cristiana. Il risultato di sì imprudenti conclusioni doveva essere ed è stato, infatti, su questo punto come su tanti altri, di isolare dalla Chiesa i costumi della famiglia, di espellere dalle nostre tradizioni una manifestazione religiosa, di favorire quella che è chiamata la secolarizzazione della società. – Ma torniamo a contemplare il trionfo del regale Bambino la cui gloria risplende in questo giorno con tanta luce. La santa Chiesa ci inizierà essa stessa ai misteri che dobbiamo celebrare. Rivestiamoci della fede e dell’obbedienza dei Magi; adoriamo, con il Precursore, il divino Agnello al di sopra del quale si aprono i cieli; prendiamo posto al mistico banchetto di Cana, presieduto dal nostro Re tre volte manifestato, e tre volte glorioso. Ma, nei due ultimi prodigi, non perdiamo di vista il Bambino di Betlemme, e nel Bambino di Betlemme non cessiamo inoltre di vedere il gran Dio del Giordano, e il padrone degli elementi.

SULLA FESTA DELL’EPIFANIA.

[da Manuale di Filotea del sac. G. Riva, XXX ed. Milano 1888]

ISTRUZIONE.

Epifania è una parola greca che significa Manifestazione. Con questo nome fu chiamata la festa che si celebra 13 giorni dopo il Natale, perché dopo la prima manifestazione del Signore ai pastori dei dintorni di Betlem nella notte della sua Natività, ci ricorda tre altre principali circostanze in cui Gesù Cristo si è fatto conoscere agli uomini come il promesso Messia, cioè ai Gentili, nell’adorazione dei Magi chiamati e condotti per mezzo d’una stella prodigiosa alla capanna di Betlemme; ai Giudei nel suo Battesimo per mezzo dello Spirito Santo apparso sopra di Lui in forma di Colomba e del divin Padre che sul Tabor, disse a voce chiarissima: Questo è il mio Figlio nel quale io mi sono compiaciuto, ai Discepoli, nelle nozze di Cana col cangiamento miracoloso dell’acqua in vino. Nel rito Ambrosiano si aggiunge una quarta manifestazione, ed è quella fatta a tutte le turbe quando Gesù Cristo moltiplicando pochi pani, che avevano i suoi discepoli, saziò più di 5 mila persone che da tre giorni Lo seguitavano, e c’era pericolo che svenissero per la fame ritornando digiuni alle loro case. – Comunemente si tien per certo che i Magi giungessero al Presepio nel giorno 6 di Gennaio; e che al sei di Gennaio trenta anni dopo accadesse anche i l Battesimo del Signore. – Ma il cangiamento dell’acqua in vino si crede avvenuto verso la fine di Febbraio nell’anno stesso del Battesimo. – Tuttavia la Chiesa stimò conveniente il ricordare con una sola festa solenne tutti questi meravigliosi avvenimenti! – Vuolsi che questa festa abbia cominciato ad essere celebrata fino dai tempi apostolici, perché ne parlano nelle loro opere i Padri più antichi. Siccome però lo scopo primario di questa festa è di celebrare la manifestazione di Cristo ai Gentili, cioè la lor vocazione alla fede nella persona dei Santi Magi, su di questo fatto particolarmente terremo qualche discorso. – La stella che apparve ai Magi era profetizzata nel capo XXIV del libro dei Numeri in quelle parole dette da Balaam: “ da Giacobbe nascerà una stella, e da Israele spunterà uno scettro”. “Orietur stella ex Jacob, et consurget virga de Israel”. Essa apparve subito dopo la nascita del divin infante, come osserva il cardinal Lambertini, poi Papa Benedetto XIV, nelle sue annotazioni sopra le feste deducendole dalle Parole dette dai Magi in Gerusalemme. Dov’è il nato Re de’ Giudei, imperocchè abbiam veduto la sua stella nell’Oriente, e siamo venuti ad adorarlo “Ubi est qui natus est Rex Judæorum? Vidimus enim stellam ejus in Oriente et venimus adorare eum” (Matteo II, 2). Infatti se avessero creduto che la stella fosse segnale della nascita vicina anziché già avvenuta, avrebbero detto: “Ov’e che deve nascere il Re de’ Giudei”, e non già “Dov’è che Egli si trova il nato Re de’ Giudei?” – In qual natura poi fosse quella stella, varii sono i pareri: secondo il Cardinal Lambertini, la più vera opinione si è che la stella fosse una Meteora formata da un Angelo, tutta piena di luce così viva da non confondersi con alcun’altra, in figura di stella e mossa dall’Angelo stesso da Oriente verso Occidente nella media regione dell’aria, a somiglianza della colonna di fuoco che condusse il popolo Ebreo nel deserto; oppure una stella creata di nuovo, non nel cielo ma nell’aria a poca distanza dalla terra che muovevasi come Dio voleva. – Matteo non dice dei Magi né quanti fossero, né come si chiamassero, ma la tradizione più antica vuole che fossero tre: e secondo l’asserzione del Venerabile Beda, scrittore del secolo ottavo, essi erano anche prima de’ suoi tempi conosciuti sotto i nomi di Gaspare, Melchiorre e Baldassarre. Si ritiene pure comunemente che essi fossero Re cioè Signori di qualche territorio, sebbene non molto esteso, ove alla cura del governo dei loro sudditi, univano l ‘amore allo studio, perciò chiamati con voce persiana Magi, che significa uomini eruditi nella Filosofia e nella Astrologia. – Essi vennero dall’Arabia Felice che, rispetto alla Giudea, è regione Orientale. E che di là venissero, Io prova la qualità dei doni che seco recarono per presentarli al nuovo Re dei Giudei. Per venirvi si servirono di Dromedari così veloci al corso da fare non meno di 120 miglia al giorno. Onde i Magi agevolmente poterono compiere il lungo viaggio fino a Betlemme in soli 13 giorni, cioè dal 25 Dicembre al 6 Gennaio. Qui trovarono il Bambino Gesù con Maria nel Presepio, come lo attesta S. Girolamo praticissimo dei Luoghi Santi, nella sua lettera 44 a Marcella, e lo conferma la Chiesa nell’antifona di questo giorno. Vedere il Divino Infante, e adorarLo, prostrati colla fronte per terra, fu per loro la medesima cosa, indi Gli offrirono in dono, Oro, Incenso e Mirra per denotare in Gesù Cristo la Divinità, la Dignità Reale, e la Umanità, convenendo l’Incenso a Dio, l’Oro ad un Re, e la Mirra ad un uomo mortale il cui corpo dopo morte dovevasi imbalsamare. – Qual vita menassero essi dopo il ritorno alla loro patria non si sa con certezza; ma il culto che loro presta la Chiesa ci prova fuor d’ogni dubbio che essi professarono costantemente la Religione Cristiana e morirono così santamente da meritarsi la pubblica venerazione. Quindi niente è più probabile di ciò che si asserisce da più autori, che essi siano stati pienamente istruiti nella Fede dall’Apostolo S. Tommaso, e da battezzati ed ordinati Vescovi delle loro patrie ove cooperarono con gran fervore alla dilatazione del Cristianesimo. – I santi corpi dalla città di Serva nell’Arabia, ov’erano stati sepolti, vennero, per ordine di Costantino Magno, trasportati in Costantinopoli e poi donati ad Eustorgio governatore di Milano, che fu poi fatto vescovo di questa città, e da lui collocati nella Chiesa che dal nome di questo santo vescovo fu detta Eustorgiana, mentre pel sacro deposito dei santi Magi si chiamava prima la Basilica dei Re. Ivi stettero i sacri corpi fino all’anno 1162 in cui l’imperatore Federico Barbarossa, impadronitosi di Milano, li levò dal loro marmoreo sepolcro, che è vasto come una piccola camera, e li diede in dono a Rainoldo Arcivescovo di Colonia, nella qual città furono trasferiti il 23 Luglio 1164; il che vien confermato”‘ dalla festa che ogni anno si celebra nella città di Colonia in detto giorno per solennizzare la detta Traslazione, come all’11 di Gennaio si solennizza la memoria della preziosa loro morte. – Nella Diocesi di Milano esistono ancora i tre diti anulari dei Santi Magi, riposti in un bel Reliquiario d’argento di lavoro antico. Essi erano nell’Altare di S. Ambrogio, oratorio sotto la parrocchia di Brugherio presso Monza. Quando l’Arcivescovo cardinale Federico Borromeo nel 1611 vi fece la visita, li riconobbe per reliquie autentiche, e li trasferì nella parrocchia dove sono tuttora in molta venerazione. La tradizione dice, che santa Marcellina abbia fondato ed abitato quel monastero, e che da suo fratello S. Ambrogio, abbia avuto in dono questi tre dita.

La tua luce è venuta, o Gerusalemme, e la gloria del Signore brilla sopra di te, e le genti cammineranno dalla tua luce.

Ai SANTI MAGI

Per la Novena, la Festa e l’Ottava dell’Epifania

I. O santi Magi, che viveste in continua aspettazione della stella di Giacobbe, la quale doveva annunziare la nascita del vero sole di Giustizia, otteneteci la grazia di vivere sempre nella speranza di vedere spuntato sopra di noi il giorno della verità, la beatitudine del Paradiso. Gloria.

II. O Santi Magi, che al primo brillar della stella miracolosa abbandonaste i patrii paesi, per andar tosto in cerca del neonato re dei Giudei, otteneteci la grazia di corrispondere, come voi, prontamente a tutte le divine ispirazioni. Gloria.

III. O Santi Magi, che non temeste i rigori delle stagioni e gli incomodi dei viaggi per giungere e ritrovare il nato Messia, otteneteci la grazia di non sgomentarci giammai per le difficoltà che si incontrano nella via della salute. Gloria.

IV. O Santi Magi, che abbandonati dalla stella nella città di Gerusalemme, ricorreste umilmente e senza umano rispetto a chi poteva darvi certa notizia sul luogo ove si trovava l’oggetto delle vostre ricerche, otteneteci la grazia che in tutti i dubbi, in tutte le perplessità noi ricorriamo umilmente e fedelmente ci atteniamo al consiglio dei nostri superiori, che rappresentano sulla terra la stessa Persona di Dio. Gloria.

V. O Santi Magi, che, contro ogni vostra aspettazione, foste di nuovo consolati dalla stella ricomparsa a servirvi di guida; otteneteci dal Signore la grazia che, rimanendo a Lui fedeli in tutte le afflizioni, meritiamo di essere consolati dalla sua grazia, nel tempo, e dalla sua gloria nell’eternità. Gloria,

VI. O santi Magi, che, entrati pieni di fede nella stalla di Betlemme, prostesi a terra, adoraste il nato Re dei Giudei, quantunque non fosso circondato che da indizi di povertà e di debolezza, otteneteci dal Signore la grazia di ravvivar sempre la nostra fede quando entriamo nella sua casa, alfine di dimorarvi con quel rispetto, che è dovuto alla grandezza della sua maestà. Gloria.

VII. O santi Magi, che offrendo a Gesù Cristo, Oro, Incenso e Mirra, Lo riconosceste concordemente come Re, come Dio e come Uomo, otteneteci dal Signore la grazia che non ci presentiamo mai colle mani vuote davanti a Lui e Gli offriamo anzi continuamente l’Oro della carità, l’Incenso dell’adorazione, la Mirra della penitenza, giacché senza questa virtù è impossibile incontrare il suo gradimento. Gloria.

VIII. O santi Magi, che, avvisati da un angelo di non ritornare da Erode, vi avviaste subito per altra strada alla vostra patria, otteneteci dal Signore la grazia che, dopo esserci con Lui riconciliati nei santi Sacramenti, viviamo lontani da tutto quello che potrebbe esserci occasione di nuovi peccati. Gloria.

IX. O santi Magi, che, chiamati per i primi fra i Gentili alla cognizione di Gesù Cristo, perseveraste fino alla morte nella professione di sua fede, otteneteci dal Signore la grazia di viver sempre in conformità alle promesse da Lui fatte nel santo Battesimo, di rinunciare cioè costantemente al Mondo ed alle sue pompe, alla Carne ed alle sue lusinghe, al demonio e alla sue suggestioni, affine di meritarci come voi la visione beatifica di quel Dio che forma qui in terra l’oggetto di nostra fede. Gloria.

ORAZIONE.

“Deus, qui hodierna die Unigenitum tuum Gentìbus, stella duce revelasti, concede propitius; ut qui jam te ex fide cognovimus, usque ad contemplandam speciem tuae celsitudinis perducamur. Per eundem Dominum etc.”

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– A GESÙ ADORATO DAI MAGI-

I Magi prostrati ai vostri piedi, o mio Salvatore, sono le primizie della Gentilità. Vi ringrazio mille volte della loro vocazione; essa fu pegno della mia; ma sono io poi altrettanto fedele a corrispondervi quanto lo furono questi primi apostoli della Religione, miei veri modelli, miei colleghi nella fede? Ah! Signore, risuscitate in me lo spirito di quella preziosissima grazia la cui memoria mi vien richiamata nell’adorazione dei Magi, di quella grazia inestimabile di cui già mi favoriste con una predilezione speciale, e che troppo sovente ho meritato di perdere dopo di averla ricevuta. La memoria della mia vocazione al Cristianesimo sia per l’avvenire, o mio Dio, il motivo della mia più viva riconoscenza, le sue massime e le obbligazioni che ella mi impone facciano tutta la regola di mia condotta per meritarmi così il diritto all’eredità dei veri credenti.        3 Gloria.