LA PREGHIERA DI CRISTO

La preghiera di Cristo

 (Martedì dopo la Domenica di Settuagesima)

“Abbà, Padre, se è possibile, passi da me questo calice! Padre mio! Tutto è possibile a Te! Prendi da me questo calice! … Tuttavia, non come voglio io, ma come vuoi Tu”.

Questa festa cade il Martedì dopo Settuagesima (Doppio maggiore). Il suo scopo è quello di ricordare la preghiera prolungata che Cristo ha offerto nel Getsemani a nostro favore, in preparazione per la sua Sacra Passione. L’Ufficio insiste sulla grande importanza della preghiera.

La festa è posta all’inizio della Quaresima per ricordarci che la stagione penitenziale è soprattutto un momento di preghiera.

“Egli è nell’arena dei suoi patimenti e sull’altare del suo olocausto che dobbiamo seguire, per ben comprenderlo, quest’uomo che si proclama il Figlio e l’Inviato di Dio. Colà noi invitiamo il fedele per commuoverlo, l’incredulo per convincerlo. – Noi loro additeremo una Vittima che spasima, e che muore; ma una Vittima, che spirando fra gli strazi, opera una quantità di tali prodigi accompagnati da circostanze cotanto straordinarie, che il Cristiano, che Lo adora, vi trova il fondamento più saldo della sua fede, e l’incredulo che lo bestemmia v’incontra, se ha fior di senno, i più possenti motivi di un pronto ritorno alla verità. – Ricordiamoci soltanto prima d’imprendere la lettura delle sofferenze e della morte del Salvatore, che era stato predetto in mille luoghi delle Scritture, che il Cristo sarebbe immolato per la gloria di Dio, per la salute degli uomini, e per lo stabilimento d’un nuovo culto, fondato sulla divinità della sua persona e sul merito del suo sacrificio. Ed è pur d’uopo di ricordarci che Gesù Cristo medesimo nel corso della sua vita e fino all’istante della sua morte verificò nella propria persona, tanto parzialmente che complessivamente, tutti gli oracoli degli antichi Profeti. – Ogni cosa era già disposta all’intero loro adempimento; e da parte dell’Eterno Padre che da oltre quattro mila anni aspettava una vittima che fosse degna di soddisfarlo; e da parte dell’Unico Figlio, che venendo al mondo, aveva offerto sé stesso per surrogare gl’inefficaci olocausti della Legge di Mose; e da parte del genere umano che sospirava il Redentore sì sovente predetto, figurato, promesso, preparato da tanti eventi, il cui sangue doveva riconciliare la terra col Cielo; finalmente, ci sia concesso il dirlo, da parte dell’inferno stesso che aveva di sfrenato contro del Cristo tutte le sue potenze. Era giunto il momento solenne. – Accompagnato da’ suoi undici Apostoli il Salvatore erasi recato al giardino di Getsemani, luogo solitario, che distendevasi sul pendìo del monte degli Olivi, separato soltanto da Gerusalemme mediante la valle di Giosafat, nel cui piano scorreva il torrente Cedron. La distanza che correva da Gerusalemme a questa montagna era appena di mille passi; di modo che in giorno di sabato e nelle feste solenni potevasi fare questo breve tragitto senza trasgressione della Legge. – Il villaggio di Getsemani, presso cui oravi il mentovato giardino, sorgeva sull’alto del colle, e di quivi come in anfiteatro si presentava allo sguardo la città ed il Tempio di Gerusalemme. – Giuda, che Lo tradiva, sapeva che Gesù usava di recarsi colà durante la notte coi suoi discepoli, per attender alla preghiera; ondeché può dirsi che il Figlio di Dio, invece di fuggire il traditore, lo precedeva come a luogo di convegno. Essendo imminente l’ora del combattimento, il Salvatore disse a’suoi discepoli: Trattenetevi qui, mentre io vado colà a pregare: pregate voi pure, affinché non entriate in tentazione. Distaccatosi poscia dagli altri, prese con sé Pietro, Giacomo, e Giovanni. Quando si trovò solo con essi, e si lasciò colpire dagli orrori della sua passione, cominciò a rattristarsi e a cadere in mestizia ed in abbattimento mortale. – L’anima mia, ei disse a’ suoi tre Apostoli, è afflitta sino alla morte, restate qui e vegliate con me. Poscia andato innanzi quanto sarebbe la gittata di un sasso, si prostrò per terra orando e dicendo: Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice: del resto sia fatta non la mia, ma la tua volontà. Egli è manifesto che un interiore e terribile contrasto sorse nella sua grand’anima. Essere da una parte, l’Innocenza medesima, il Figlio unico di Dio, il Re dell’universo, e dover tollerare tanti scherni, tanti oltraggi, e finire da ultimo su d’una croce obbrobriosa, quale avvilimento! Quale ignominia! Ma, dall’altro lato, salvare gli uomini suoi fratelli, soddisfare alla giustizia di Dio, qual consolazione! qual trionfo! Finita la sua preghiera, e ritornato presso i tre discepoli, li trovò addormentati. Disse dolcemente a Pietro: Simone, tu dormi? Così dunque non hai potuto vegliare un’ora con me? Vegliate ed orate, affinché non entriate nella tentazione. Lo spirito veramente è pronto, ma la carne è debole. Si allontanò poscia per la seconda volta, e orò dicendo: Padre mio, se non può questo calice passare, che io lo beva, sia fatta la tua volontà. E ritornato di nuovo presso i suoi discepoli, li trovò egualmente addormentati. Come mai far conto sulle consolazioni degli uomini! Voi soffrite, ed essi dormono! Lasciatili pertanto, andò una terza volta, e ripeté la medesima preghiera. Frattanto la tristezza, il terrore, l’angoscia mortale che volontariamente pativa il Salvatore alla vista delle imminenti torture di sua Passione lo fecero entrare in una violenta agonia, cosicché diede in un sudore di grosse gocce di sangue, le quali uscendo da tutto il suo corpo scorrevano fino a terra, che ne fu ben tosto inzuppata. – Un Angelo allora scese dal Cielo per confortarlo. Gesù accetta la croce, sottomettesi al sacrificio, il mondo è salvo. – Ecco quali sono le vere consolazioni del Cielo; esse non infrangono le nostre croci, ma ci tolgono la tentazione di rifiutarle. Dal momento in cui la sentenza pronunziata dal Padre fu accettata dal Figlio, più non si scorge nel Salvatore che intrepidità e coraggio; ma coraggio modesto, intrepidità tranquilla. Gesù alzatosi dall’orazione, accostassi un’ultima volta a’ suoi discepoli, e disse: su via dormite e riposatevi! Ecco è vicina l’ora, ed il Figlio dell’uomo sarà dato nelle mani dei peccatori. Alzatevi; andiamo incontro all’uomo che sta per tradirmi; è prossimo il suo arrivo.”

[da: Il Catechismo di Perseveranza dell’Abate J.-J. Gaume,Vol. 2, Torino 1881].

Qui di seguito c’è la spiegazione dell’Agonia di Nostro Signore, nel giardino, tratto da ‘La Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, secondo le rivelazioni della Beata Anna Caterina Emmerich.

Nell’orto degli Ulivi. L’angoscia mortale di Gesù

«Cristo Gesù, pur possedendo la natura divina, non pensò valersi della sua uguaglianza con Dio, ma annientò se stesso prendendo la natura di schiavo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umilò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte in croce…» (Filippesi II,6-8). Dopo l’istituzione del santissimo Sacramento, in cui Gesù aveva offerto se stesso immolato misticamente, il Signore e gli apostoli intonarono un canto di ringraziamento e lasciarono il cenacolo. Nel vestibolo incontrarono Maria, la Madre di Gesù, con Maria figlia di Cleofa e Maria Maddalena. Le pie donne esortarono il Signore a non recarsi nell’orto degli Ulivi per ché correva voce sulla sua cattura. Ma Gesù le confortò e lasciò il cenacolo, dirigendosi verso il monte degli Ulivi. Compresi che la sua anima era profondamente turbata. Attraversando la valle di Giosafat, Gesù parlò agli apostoli metaforicamente, ma essi non capirono e attribuirono alla stanchezza quel modo strano di esprimersi. – Quando giunsero al monte degli Ulivi era già notte. La luna, benché non fosse ancora piena, illuminava tutta la montagna e rifletteva la sua luce sul volto di Gesù e degli apostoli. Con aria afflitta il Signore disse: «Questa notte sarete indignati con me e vi disperderete, poi ché è scritto: “Percuoterò il pastore e le pecore si disperde ranno”… Ma quando sarò risuscitato vi precederò in Galilea». – Gli apostoli, che da quando avevano ricevuto il santo Sacramento vivevano la pace dello spirito, si strinsero affettuosamente attorno a Lui e Lo rassicurarono della propria fedeltà. Pietro intervenne più di tutti gli altri: «Se anche tutti si scandalizzassero, io non ti lascerà mai, Signore!». Con il volto afflitto Gesù gli predisse: «In verità, in verità ti dico che questa notte stessa, prima ancora che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». Ma Pietro non si diede per vinto e replicò: «Dovessi morire con te, Signore, non ti rinnegherò mai!’». Così ribadirono pure tutti gli altri. – Attraversarono un ponte sul torrente Cedron e si fermarono nel giardino del Getsemani. Era questo un luogo adatto alla meditazione e alla preghiera; qualche volta veniva anche utilizzato dalle persone prive di un proprio giardino per organizzarvi feste e banchetti. – Il Getsemani è ampio, circondato da una siepe, pieno di alberi e di fiori. Vidi anche alcune capanne di frasche. Gli apostoli avevano la chiave del giardino. Nelle notti precedenti Gesù vi si era ritirato con i suoi apostoli per istruirli circa la scienza divina; quella notte, però, scelse di pregare solo nell’orto degli Ulivi, che è lì vicino, cinto da un muro. Il Signore lasciò otto apostoli all’ingresso del Getsemani e portò con sé soltanto i prediletti: Pietro, Giacomo e Giovanni. Giunto nell’angolo più incolto dell’orto interno, in cui si trovano piccole grotte e molti ulivi, Gesù di venne molto triste perché sentì vicina la sua ora. L’angoscia di quel momento si rispecchiava chiaramente sul suo volto. Allora Giovanni gli domandò perplesso: «Signore, come mai sei così triste, tu che ci hai sempre dato conforto e coraggio e ci hai consolato nei tempi peggiori?».

 “La mia anima è triste fino alla morte.”

Egli gli rispose: «La mia anima è triste fino a morire!» Guardandosi intorno vide avanzarsi nubi cariche d’immagini orrende: erano le tentazioni della vicina prova. La sua passione spirituale stava per avere inizio. Prima di ritirarsi nella solitudine orante, Gesù disse ai tre: «Mentre io vado a pregare nel luogo che ho scelto, resta te qui e vegliate: pregate per non cadere nella tentazione. Ricordate che lo spirito è pronto, ma la carne è debole!». Così dicendo, nella sua sconfinata angoscia interiore, Gesù scese per un piccolo sentiero ed entrò in una grotta profonda sei piedi. Vidi spaventose figure affollare minacciose la stretta caverna dove il Signore si era ritirato a pregare. – Fu qui, ai piedi del monte degli Ulivi, che Adamo ed Eva piansero disperati il loro peccato. Vidi i nostri progenitori nello stesso luogo in cui Gesù depose la sua divinità nelle mani della santissima Trinità, affidando la sua innocente umanità alla giustizia di Dio. Con questo sublime atto di carità il Redentore si donava interamente al Padre quale vittima riparatrice dei nostri peccati. – Tutte le colpe del mondo, commesse dall’uomo fin dal la sua prima caduta, gli apparvero a miriadi nella loro completa mostruosità. Nella sua sconfinata angoscia, Gesù supplicò il Padre celeste di perdonare i pensieri malvagi e le offese degli uomini, offrendogli in cambio la sua suprema espiazione. La grotta si era affollata di forme spaventose, immagini delle passioni, dei vizi e delle malvagità del genere umano. Vidi il Redentore abbandonarsi alla sua natura umana e prendere sopra di sé le nefandezze del mondo. Era su dato, stremato e angosciato di fronte agli innumerevoli peccati che Satana continuava a mostrargli come sue conquiste, mentre gli diceva: «Come?!… Anche questo vuoi prendere sopra di te e sopportarne la pena?». La sua umanità stava già per soccombere sotto l’enorme peso dei nostri peccati, quando un solco di luce chiarissima scese dal cielo, da oriente. Erano le schiere angeliche del paradiso inviate dal Padre celeste per infondere rinnovato vigore al suo Figlio divino. Gesù era al limite del le sofferenze spirituali, il peso delle colpe umane continuava a gravare immensamente su di lui e a causargli dolori atroci, mentre gli spiriti malvagi lo deridevano e i demoni gli facevano sentire la loro orribile voce. Infine, nonostante le spaventose visioni, rincuorato dagli angeli, Gesù misericordioso seppe accogliere tutto su di sé. Egli amò immensamente Dio e anche gli uomini, vittime delle loro stesse passioni. – Il demonio ignorava che Gesù fosse il Figlio di Dio; credendolo soltanto un uomo giusto, lo tentò in tutti i modi come già aveva fatto nel deserto. Satana lasciò scorrere’dinanzi alla santa anima del Signore le sue opere di carità facendole apparire come colpe contro il mondo e contro Dio. Tentò di dimostrargli che esse non sarebbero valse a nulla e non erano state adatte a soddisfare la giustizia divina, anzi erano state causa di scandalo e di rovina per molti. – Come un arguto fariseo, Satana gli rimproverò le mancanze e gli scandali che avevano suscitato i suoi apostoli e i discepoli, i disordini che essi avevano provocato abolendo le antiche usanze e, tra l’altro, incolpò Gesù di aver causato la strage degli innocenti e una vita di tribolazioni ai suoi genitori. Inoltre l’accusò di essersi rifiutato di operare diverse guarigioni e di non aver salvato Giovanni Battista, e così continuò a lungo. Gesù era rimasto perseverante nell’orazione, pur continuando a sudare con tremiti convulsi. Egli aveva lasciato prevalere la sua infinita misericordia permettendo al demonio di fargli soffrire le pene dei comuni mortali, in particolare dei giusti, i quali in punto di morte dubitano per fino delle loro sante opere. Atterrito dall’immensa ingratitudine degli uomini verso Dio, il Signore sentì piagare la sua anima e cadde in un violento dolore; allora si alzò e rivolse la sua pena al Padre:

 “Abbà, Padre, se è possibile, allontana questo calice da me.”

«Abbà, Padre mio, se puoi, allontana da me quest’amaro calice!». Ma subito soggiunse: «Sia fatta, però, non la mia, ma la tua volontà!». Sebbene la sua volontà e quella del Padre fossero strettamente congiunte, la natura umana di Gesù tremava di fronte alla morte. Lo vidi sfigurato in volto e le sue labbra erano livide. Barcollando, uscì dalla grotta e si diresse verso i tre apostoli che aveva lasciato fuori. Vedendoli addormentati, il Signore, estenuato e sopraffatto dalla tristezza, incespicò e cadde vicino a loro. Ancora circondato dalle tremende visioni, rialzandosi lentamente, Gesù disse: «Perché dormite? Non potete vegliare nemmeno un’ora? ». I tre, che frattanto si erano svegliati e si erano levati in fretta, vedendo il Signore trafelato e madido di sudore, sta vano per chiamare gli altri apostoli, ma Gesù fermò Pietro dicendo: «Non chiamare gli altri, non voglio che mi vedano in queste condizioni, dubiterebbero di me e cadrebbero in tentazione. Ma voi che avete veduto il Figlio dell’uomo nello splendore, potete pure vederlo nell’oscurità e nell’abbandono. Vegliate e pregate per non entrare in tentazione; lo spirito è sveglio, ma la carne è debole e inferma». Gesù non ignorava che anche i suoi amati apostoli erano caduti in preda all’angoscia e alla paura. Allora parlò loro con amorevole tristezza, mettendoli al corrente circa la dura lotta della natura umana contro la morte. Dopo un quarto d’ora fece di nuovo ritorno alla grotta. Erano quasi le undici di notte. I tre apostoli, afflitti, si chiedevano: «Cosa gli accade per essere così smarrito?». Si coprirono la testa e si misero a pregare. – Frattanto, nella notte silenziosa di Gerusalemme, Ma ria santissima, Maria Maddalena, Maria figlia di Cleofa, Maria Salomè e Salomè avevano lasciato il cenacolo e si erano recate a casa di Maria, la madre di Marco. Tutte erano molto preoccupate per la sorte di Gesù, in modo particolare Maria santissima, la quale non dubitava più sul tradimento di Giuda. Con il cuore colmo d’amara tristezza, Gesù dunque era ritornato nella grotta. Si gettò col viso al suolo e, con le braccia distese, pregò il Padre in cielo. – Allora gli angeli consolatori gli mostrarono l’immagine beata dei nostri progenitori nello stato di santa innocenza, ossia quando Dio dimorava ancora nel loro cuore, facendogli vedere come la loro caduta l’avesse deturpata. – In tale contesto il Salvatore vide le indicibili sofferenze che la sua anima avrebbe dovuto superare per redimere l’uomo dal peccato d’origine, causa di tutti i patimenti. Gli angeli gli fecero notare che l’unica natura umana esente dal peccato era quella del Figlio di Dio, il quale per prendere sopra di sé il debito dell’intera umanità doveva superare la ripugnanza umana per la sofferenza e la morte.

 Gesù vede i peccati del mondo in tutta la loro bruttezza.

La sua santa anima vide le pene future che sarebbero gravate sugli apostoli, sui discepoli e sui santi martiri. La crescita della Chiesa tra ombre e luci, le eresie, gli scismi e tutte le forme di vanità e le colpe scandalose del clero. La tiepidezza e la malvagità di numerosi sedicenti cristiani. E ancora: la desolazione del regno di Dio sulla terra e le or rende raffigurazioni dell’ingratitudine e degli abusi degli uomini. Con il suo martirio egli avrebbe instaurato nel mondo il precetto salvifico dell’amore e sarebbe stato il Salvatore divino per quanti, nei secoli, avrebbero voluto sfuggire alle fiamme dell’inferno e avvicinarsi alla luce beatifica di Dio. – L’umanità, corrotta dal peccato, che Lui si preparava a riscattare col proprio tributo di sofferenze indicibili, si sarebbe potuta salvare solo alla sequela della sua imitazione. Era quindi necessario che Egli bevesse quest’amaro calice per trasfigurarsi nella “verità”, nella “porta” e nella “via” al Padre. – Vidi Gesù versare lacrime di sangue di fronte all’immane ingratitudine degli uomini; per quelle moltitudini che l’avrebbero odiato e si sarebbero rifiutate di portare la croce con lui. Egli pativa affinché la sua Chiesa fosse fondata sulla roccia, contro la quale le porte dell’inferno non avrebbero prevalso. – Ecco perché il demonio per provocano gli aveva detto: «Vuoi davvero soffrire per questa massa d’ingrati?». Con forte dolore, vidi una fitta schiera di nemici del mio Sposo divino mossi dal fanatismo, dall’idolatria e dall’odio contro la Chiesa: ciechi, paralitici, sordi, muti e persino fanciulli. Ciechi che non volevano vedere la verità, paralitici che con la verità non volevano camminare, muti per ché si rifiutavano di trasmetterla agli altri e sordi perché rifiutavano di ascoltare le ammonizioni di Dio. I fanciulli crescevano insensibili alle cose divine, istruiti dai genitori e dai maestri alla vana sapienza del mondo. Questi mi fecero maggior compassione perché erano stati oggetto del massimo amore di Gesù. Non potrei mai finire se volessi raccontare tutti gli oltraggi fatti a Gesù, dai sacerdoti indegni, nel santissimo Sacramento… Vidi gli angeli che seguivano con il dito le diverse immagini che essi stessi producevano, ma non udivo quel che dicevano; compresi solo che avevano molta compassione per le sofferenze del Signore. Le sofferenze interiori di Gesù, per tali orribili peccati e concupiscenze, furono così intense che il suo corpo versò fiotti di sangue. – Nello stesso tempo vidi la Vergine Maria patire a sua volta l’agonia spirituale del Figlio. La Madre di Gesù si trovava ancora nel giardino di Maria di Marco e veniva con solata dalle pie donne, particolarmente dalla padrona di casa e dalla fedele Maria Maddalena. Perse più volte i sensi mentre sollevava le mani imploranti verso il Getsemani. – Anche Gesù, con molto trasporto, contemplava nello spirito le pene della sua santa Madre. Fu una visione intensa e molto commovente. Gli Otto apostoli, sbigottiti e afflitti dal dubbio, teme vano per la sorte di Gesù e per la loro. Essi si chiedevano: «Che faremo, se il Maestro verrà arrestato e morirà? Abbiamo rinunciato a tutto per seguirlo e adesso siamo poveri ed esposti al ridicolo. Forse abbiamo sbagliato affidandoci completamente a lui». Fu così che gli apostoli entrarono in tentazione e si misero a cercare un nascondiglio. Anche i discepoli furono assaliti da un grande sconforto e andavano in giro per Gerusalemme con l’intento di apprendere qualche notizia in torno alla sorte del Redentore. – Mancava poco alla mezzanotte. Gesù continuava l’intimo colloquio con il Padre celeste, allorché si aprì la terra sotto di lui e si trovò all’improvviso su un sentiero luminoso che scendeva nel limbo. Il Maestro divino scorse Adamo ed Eva, gli antichi patriarchi, i profeti e i giusti, i genitori di sua Madre, Giovanni Battista e una moltitudine di sacerdoti, di martiri, di beati e di santi della futura Chiesa. Tutti avevano il capo cinto dalle corone del santo trionfo, conseguite grazie alle sofferenze patite e alla perseverante lotta contro il male. Lo splendore ditale trionfo era legato unicamente ai meriti della sua prossima passione. Essi lo circondarono, esortandolo a compiere il sacrificio del suo sangue, sorgente di redenzione e di vita spirituale per tutti gli uomini di buona volontà. Questa visione rinvigorì Gesù che stava soggiacendo all’abbattimento umano. Dopo quelle confortanti scene, gli angeli gli mostrarono in tutti i particolari la passione che avrebbe subito tra poco. Quando il divino sofferente si vide inchiodato sulla croce completamente nudo per espiare l’impudicizia degli uomini, pregò fervorosamente il Padre di risparmiargli quell’immane umiliazione. Questa preghiera sarebbe stata esaudita per l’intervento di un uomo pietoso che l’avrebbe coperto. -Dopo la visione del suo martirio sulla croce anche gli angeli lo abbandonarono. Egli cadde a terra sfinito come se fosse moribondo: il suo corpo era agonizzante e in preda a un tremito convulso. Vidi la grotta illuminata da tenui raggi lunari. – All’improvviso un’altra luce illuminò la grotta: era un angelo inviato da Dio, indossava abiti sacerdotali e aveva nelle mani un piccolo calice. Senza discendere al suolo, la creatura celeste accostò il calice alle labbra di Gesù e, ciò fatto, disparve. Così il Signore aveva accettato il calice delle sue pene, dal quale ne trasse straordinarie energie. Restò ancora per alcuni minuti in atto di gratitudine verso il Padre celeste, poi si rialzò, si asciugò il volto con un sudario e fece ritorno dagli apostoli. Quando Gesù uscì dal la grotta, vidi la sua faccia pallidissima e spettrale: destava profonda compassione; notai però che il suo passo era diritto. La luce lunare e lo splendore delle stelle mi apparvero molto più naturali. Pietro, Giacomo e Giovanni, spossati dall’angoscia, era no caduti di nuovo nel torpore e si erano assopiti con la te sta coperta.

 “Non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?”

Gesù, pieno di amarezza, li chiamò ancora una volta e disse loro che non era il momento di dormire ma di pregare, perché l’ora della verità era venuta. Li avvertì che egli si sarebbe consegnato ai suoi nemici senza opporre resistenza; chiese che assistessero sua Madre ed ebbe parole di compassione per il traditore. Ma Pietro gridò: «Noi ti difenderemo, vado a chiamare gli altri!». Gesù lo fermò e gli fece segno di guardare nella valle,dall’altra parte del torrente Cedron, dove una masnada di armati si avvicinava alla luce di una lanterna.

Il gran mezzo della preghiera: il PATER NOSTER

IL PATER NOSTER

L’Orazione Dominicale.

[J.-J. Gaume: Il Catechismo di perseveranza, vol II, VI ed. – Torino 1881]

Quantunque l’Orazione Dominicale entri nel novero delle pubbliche preghiere allorquando è offerta a Dio dal sacro ministro a nome di tutto il popolo fedele, tuttavolta noi la mettiamo a capo delle preghiere particolari, dappoiché il Signor Nostro Gesù Cristo la compose, a quanto sembra, principalmente per uso particolare di ogni Cristiano in tutti quei casi, che sì frequentemente ricorrono, nei quali abbiam bisogno d’implorare 1’aiuto del Signore. « Quando tu fai orazione, leggesi in San Matteo, entra nella tua camera, e chiusa la porta, prega in segreto il Padre tuo, orando in tal guisa: Padre nostro, che sei ne’ Cieli, ecc. i » [Matth. VI, 6-9]. – L’Orazione Dominicale, sia che si consideri nel suo Autore, o nella sua forma e sostanza è senza fallo la forma più eccellente di preghiera.

1° Rispetto al suo Autore. Non fu un Santo, né un Profeta, né un Angelo, né un Arcangelo quegli che la compose, ma lo stesso Signor Nostro Gesù Cristo, il Figlio, l’eterna Sapienza di Dio.

2° Rispetto alla forma. L’Orazione Dominicale è chiarissima e non avvi chi non la comprenda, dal piccolo fanciullo al canuto vegliardo, dal villico al cittadino: ella è breve, ed ognuno può impararla con somma facilità, ritenerla fedelmente, e recitarla di frequente. Questo pregio la rende essenzialmente popolare, e per conseguenza degna di quel Dio che venne a salvare tutti gli uomini, e della Religione che dev’essere predicata così ai liberi come agli schiavi, così ai popoli civilizzati come ai barbari e selvaggi. Essa ha forza di persuadere, piena com’è di semplicità, di umiltà, dì tenerezza, e perciò efficacissima pel modo con cui esprime a Dio le nostre Necessità.

3° Rispetto alla sostanza. Essa è completa; racchiude tutto ciò che noi possiamo e dobbiamo chiedere, nella condizione di figliuoli di Dio, pel tempo e per l’eternità, pel corpo e per l’anima, per noi stessi e per gli altri. Ella è sapientissima, poiché ci rammemora e ci fa porre in pratica le tre virtù che sono le tre basi della Religione, della società, della salute, vale dire, la fede, la speranza, la carità: ella è divinamente logica, poiché regola i desideri del nostro cuore insegnandoci ad esprimere in primo luogo i più nobili ed importanti, e poscia quelli che lo son meno [“In Oratione dominica non solum petuntur omnia quæ recte desiderare possumus, sed etiam eo ordine quo desideranda sunt; ut sic haec oratio non solum instruat postulare, sed etiam sit informativa totius nostri affectus”. D. Tu., 2, 2, q. 85, art. 9.]. – «Infatti, scrive S. Tommaso, egli è palese che l’obbietto precipuo dei nostri desiderii dev’essere l’ultimo fine, e dopo questo i mezzi necessari per giungere al suo conseguimento. Ora, il fine ultimo è Iddio, verso del quale in due modi si portano i nostri affetti: primamente col desiderare la gloria di Dio; e in secondo luogo col bramare per noi pure il godimento di questa istessa gloria divina. Il primo modo appartiene alla carità, mercé la quale noi amiamo Dio in se stesso; il secondo egualmente alla carità, ma in quanto che amiamo noi stessi in Dio. Ed ecco il perché la nostra prima domanda è questa: Sia santificato il nome vostro, con cui chiediamo la gloria di Dio; e la seconda: Venga a noi il regno vostro, colla quale domandiamo di pervenire noi stessi alla gloria di Dio. Ciò premesso, si osservi, che una cosa può guidarci all’ultimo nostro fine, o per se stessa, o in modo accidentale. Per se stessa e direttamente, facendoci meritare la beatitudine eterna, mercé l’obbedienza ai Comandamenti di Dio, donde consegue, che la nostra terza domanda è così concepita: Sia fatta la volontà vostra così in Cielo come in terra; e per se stessa ancora, ma in un modo meno diretto, vale a dire, coll’aiutarci a meritare la beatitudine eterna, quindi la nostra quarta domanda: Dateci oggi il nostro pane quotidiano. Una cosa può condurci all’ultimo nostro fine in modo accidentale, allorquando rimuove gli ostacoli che potrebbero impedire il conseguirlo; e questi ostacoli sono di tre sorta: 1° il peccato che ce ne allontana direttamente, dal che è mossa la nostra quinta domanda: Rimettete a noi i nostri debiti; 2° la tentazione che conduce al peccato, onde la sesta domanda: E non induceteci in tentazione; 3° i mali temporali, funesta conseguenza del peccato, che rendono cotanto gravoso il peso della vita, quindi la nostra settima ed ultima domanda: Ma liberateci dal male! ». [D. TH., 2, 2, q. 83, art. 9]. – Le sette domande dell’Orazione Dominicale corrispondono oltracciò ai sette doni dello Spirito Santo ed alle sette Beatitudini evangeliche, tantoché quest’ammirabile preghiera è in armonia perfetta colla gran tela della Religione, ed ha per iscopo di farci conseguire tutti quegli aiuti che sono indispensabili per fare del Cristiano un uomo perfetto in questo mondo ed un beato nell’altro. La qual considerazione moveva S. Agostino a designare l’Orazione Dominicale con questo sublime concetto: « quel modo e quella regola di pregare che il celeste Giureconsulto ha dato egli stesso ai fedeli, affinché ottengano l’adempimento d’ogni loro voto » [“Regula postulandi fldelibus a codesti Jurisperito data”. Enarr, in Ps. CXLII. – Finalmente ciò che accresce ancora l’eccellenza dell’Orazione Dominicale si è che essa è la più necessaria di tutte le preghiere. Molti Concili, e fra gli altri il Concilio di Roma, obbligano tutti i Cristiani a saperla a memoria, attesoché, secondo la dottrina dei Santi Padri, è necessario farne ciascun giorno la recitazione [E la più necessaria di tutte. BELLAR., Dottr. crist. 71; Concil. Rom., c. 2 . — Nisi qui has duas sententias (Symbolum et Orationem dominicam) et memoriter tenuerit et ex toto corde crediderit, et in oratione saepissime frequentaverit, catholicus esse non poterit. Syn. Remens. VI, e. 7. Vedi pure il Concilio Toletano VI, c. 9. — S. Auc, Enchir. 71. — S. CYPR., De Orat. domin. — « Si è obbligati di necessità di precetto, di sapere almeno quanto alla sostanza: 1° il Simbolo degli Apostoli intieramente; 2° l’Orazione dominicale; 5° i precetti del Decalogo; 4° quei Comandamenti della Chiesa, che sono comuni a tutti i Fedeli; 6° il sacramento del Battesimo, che ogni Fedele può trovarsi nel caso di amministrare, e i sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, che si ha obbligo di ricevere almeno una volta all’anno. Per gli altri Sacramenti, la fede esplicita non è necessaria che a chi li riceve. Ma il conoscimento di questi diversi articoli ha diversi gradi: può essere più o meno perfetto, più o meno esteso. Tuttavia non è permesso d’ignorarli interamente. Non vi ha che un difetto di capacità che possa scusare quest’ignoranza da peccato mortale » . GOUSSET, Teol. mor., c. 1, pag. 129: Ediz. Parmense]. – «Vivendo noi, scrive S. Agostino, nel mezzo del mondo, in cui niuno può vivere senza cadere in peccato, la remissione delle nostre colpe trovasi non solo nelle acque sante del Battesimo, ma sì ancora nell’Orazione Dominicale e giornaliera. Essa in certa guisa è il nostro Battesimo di tutti i giorni [Serm. 215 De temp.: Enchir.,c. 71]. – « L’ orazione Dominicale è adunque il rimedio de’ nostri falli quotidiani, vale a dire, dei peccati veniali, purché nel recitarla noi ci troviamo animati da un vero sentimento di contrizione. Egli è conveniente che ogni Fedele sappia questa preghiera nelle due lingue, latina e volgare: in latino, perché questa è la lingua dalla Chiesa; in volgare ossia nella lingua nativa, per intendere ciò che ella domanda.

Divisione dell’Orazione Dominicale.

L’Orazione Dominicale si divide in tre partì: nella prefazione ossia preparazione, nel corpo della preghiera e nella conclusione. La prefazione consta di queste semplici ma sublimi parole: Padre nostro, che sei ne’ Cieli. Il Salvatore avrebbe potuto senza dubbio farci dare a Dio dei titoli più improntati di maestà e più capaci d’infonderci rispettosa temenza; ma questi titoli sarebbero stati cagione che noi continuassimo a crederci gli schiavi del Sinai, mentre dobbiamo all’incontro essere i figli del Calvario. Noi siamo adunque ammaestrati a dire, non già nostro Dio, nostro Creatore, nostro padrone, ma sì: nostro Padre! – Fermiamoci alquanto a meditare questa parola rispetto a Dio, rispetto a noi stessi, rispetto al prossimo. – Rispetto a Dio. Essa eccita mirabilmente la nostra fiducia, rammentandoci che, malgrado il nostro nulla e la nostra miseria, noi siamo figliuoli, non d’un principe, d’un re, d’un monarca terreno, ma bensì di Dio medesimo; e d’altra parte essa muove infallantemente il cuore di Dio col ricordarGli ch’è nostro padre; Padre sott’ogni riguardo, vale a dire, per creazione, per conservazione, per redenzione; padre del nostro corpo, padre dell’anima nostra. « A quella guisa, ne dice il Salvatore con queste tenere parole, che i figli si rivolgono al padre loro in tutti i bisogni, né temono di manifestarglieli per quanto grandi e numerosi; così pure voi dovete ricorrere al vostro Padre celeste, che vi consolerà, allevierà i vostri travagli, avrà pietà di voi, siccome un padre ha pietà dei propri figli ». – Rispetto a noi stessi. Questa parola Padre nostro ci fa risovvenire più eloquentemente d’ogni altro discorso la nobiltà di nostra origine, e perciò ancora tutto il rispetto che dobbiamo avere sì pel corpo che per l’anima nostra, le cure diligenti che dobbiamo osservare onde mantenerci nell’amicizia di Dio e vivere da veri suoi figli, se pur vogliamo ch’Egli ci esaudisca. I peccatori che, secondo l’espressione del Salvatore medesimo, sono i figli del demonio, non possono a buon diritto dare a Dio il nome di Padre, dappoiché non ubbidiscono a’ suoi santi comandamenti; tuttavolta non devono menomamente tralasciare la recitazione dell’Orazione Dominicale; anzi è da dire che neppur essi la recitano senza frutto. Se veramente sono penitenti, essi dicono Padre nostro, come il figliuol prodigo nell’atto di ritornare al padre suo, per ottenere il perdono dei propri falli; se poi sono induriti al mal fare, essi dicono Padre nostro, se non altro, in nome della Chiesa, della quale sono membri mercé la fede e la speranza. – Rispetto al prossimo. La parola Padre nostro esprime la gran legge che ha salvato e che sola può ancora salvare il mondo, la legge cioè della fraternità universale, e c’insegna quello che sono per noi tutti gli nomini, e quello altresì che noi dobbiamo essere per loro. Difatti noi non diciamo Padre mio, ma sebbene Padre nostro, atteso ché noi siamo tutti fratelli e dobbiamo pregare non solo per noi, ma ancora per tutti i cattolici, eretici, giudei, infedeli, amici e nemici, che è quanto dire, amarli di amore veramente fraterno. In questa sola parola Padre nostro racchiudesi l’abolizione, o almeno la condanna di tutte le tirannie, l’esaltazione del piccolo, la protezione del debole, sacrificio del ricco e del potente al sollievo corporale e spirituale de’ suoi fratelli, meno di lui beneficati dei doni di fortuna e d’intelletto; in una parola, comprendesi in essa la carità, base della famiglia, vincolo della società, e pegno della felicità avvenire. Brevemente, noi diciamo Padre nostro, da una parte per attestare che noi preghiamo per tutti e in nome di tutti; d’altra parte, per impegnare il Signore ad accordarci pei meriti altrui quelle grazie che per noi stessi non meriteremmo di ottenere. Padre nostro! Egli è alle tre divine Persone che s’indirizza questa preghiera, dappoiché tutte tre meritano il nome di padre, a motivo della creazione, della redenzione, della santificazione. Che sei ne’ Cieli. Il Dio a cui ricorriamo è dappertutto tuttavolta noi diciamo che sei nei cieli, vuoi perché tutte le magnificenze della gloria colà rifulgono più che altrove, vuoi perché colà egli regna in tutta la pienezza del suo amore sugli Angeli e sui Santi, e vuoi da ultimo per ricordarci continuamente che colà debbono essere i nostri pensieri, i nostri desiderii, lo scopo delle nostre fatiche; in una parola, come dice l’Apostolo, la nostra conversazione: Padre nostro, che sei ne’ Cieli! – Sì, tu sei nei Cieli, nel sommo della felicità, infinitamente ricco, infinitamente potente, infinitamente buono; e noi, tuoi figli, noi siamo sulla terra, in luogo di esilio, lontani dalla nostra patria, dalla nostra famiglia, poveri, deboli, infermi, circondati di nemici e di pericoli. Che di più efficace per intenerire il cuore di Dio? – Che di più opportuno per imprimere nell’animo nostro un’umiltà profonda, un vivo sentimento dei nostri bisogni, e ad un tempo stesso il rispetto filiale, la pietà, la purità, la carità verso i nostri fratelli? E come non verrà esaudita una preghiera che dispone sì bene chi domanda e chi debbe esaudire? Tale si è il proemio dell’Orazione Dominicale. – Ma che cosa dobbiamo noi domandare, e con qual ordine? Pur troppo noi siamo tanto ciechi ed insensibili, che spesso non conosciamo né la natura dei nostri veri bisogni , nè l’ordine giusta il quale dobbiamo chiederne l’alleviamento. Da ciò nasce che noi o non chiediamo cosa alcuna o che chiediamo male. Laonde per ovviare a questa doppia disgrazia il nuovo Adamo ha composto ei medesimo una supplica a nostro uso, nella quale si esprimono gli obbietti delle nostre suppliche e l’ordine da osservarsi nell’implorarli. Ciò posto, la ragione e la fede ne insegnano, che dai figli bennati ed intelligenti gli interessi del padre si debbono anteporre all’utile proprio; ai beni transitori di questo mondo quelli dell’eternità; il fine, in una parola, ai mezzi. E tutto ciò è appunto insegnato in modo ammirabile nella seconda parte dell’Orazione Dominicale. – Difatti il corpo di questa divina preghiera si divide, a guisa del Decalogo, in due parti. La prima riguarda Dio e comprende tre domande: Sia santificato il nome tuo; venga il regno tuo: sia fatta la tua volontà, siccome in Cielo così in terra. La seconda concerne l’uomo e contiene quattro domande: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, con ciò che segue sino alla fine. – Prima domanda: Sia santificato il nome tuo. La prima cosa che domandar si deve è la gloria di Dio, poiché questa è la cosa più eccellente e ad un tempo il più grande di tutti i beni. Qual figli pertanto che di vero cuore desiderano l’onore del proprio padre, noi cominciamo primamente dal chiedere in generale che il nome del celeste Padre nostro, vale a dire, quello di Dio medesimo, che è quanto dire la sua maestà, la sua potenza, la sua sapienza, la sua bontà, la sua misericordia, la sua giustizia siano santificate, conosciute, apprezzate, onorate, rispettate, amate così in terra come in Cielo; ch’è quanto dire, che ad imitazione degli avventurosi abitatori del Cielo tutti gli abitanti della terra onorino, amino, esaltino, lodino colle loro parole e colle azioni, colla fede, colla speranza, colla carità il nome adorabile di Dio. Noi domandiamo specialmente: 1° che gl’infedeli illuminati dalla luce giungano alla cognizione del vero Dio, e siano rigenerati colle acque del Battesimo nel nome del Padre, del Figliuolo, Spirito Santo; 2° che tutte l’eresie vengano estirpate, ed i loro seguaci conoscano ed abbraccino qual vera madre loro la santa Chiesa cattolica, apostolica e romana, fuori della quale non v’ha effusione di Spirito Santo, né remissione dei peccati, né salute eterna; 3° che spariscano dalla faccia della terra le superstizioni, i sortilegi, le pratiche diaboliche, gli spergiuri, le bestemmie e tutti gli altri disordini coi quali il nome di Dio è vilipeso ed oltraggiato; 4° il ritorno dei peccatori sotto il dolce e sacro giogo del nostro Padre celeste; la persuasione sincera che tutti i beni del corpo e dell’anima vengono da Dio; la fedeltà nel riferirli tutti a gloria sua; e finalmente uno zelo religioso di onorare costantemente colle opere nostre la santa Trinità, affinché gli uomini dai nostri scandali non piglino occasione di bestemmiare il santissimo suo nome. E tutto questo noi domandiamo noi non per un giorno, ma per tutta la nostra vita; ovvero, in altre parole, noi chiediamo la perseveranza nel bene fino all’estremo sospiro. – Il desiderio della santificazione del nome di Dio è certamente il più nobile che possa sortire dal cuor dell’uomo, attesoché appunto per questo noi fummo creati e dotati di ragione; ed è eziandio il più ardente e il più costante che sia stato formato dal Signor Nostro stesso, e dietro il suo esempio da tutti i Santi nel corso dei secoli. – Sant’ Ignazio di Lojola rivolto un giorno al P. Laynez gli disse: « Se Iddio lasciasse alla vostra scelta di andar subito in Paradiso, oppure di rimanere ancora sulla terra colla probabilità di operare qualche gran fatto per la gloria del suo nome, a qual dei due vi appigliereste? — Accetterei di andare in Cielo, rispose il P. Laynez. — Quanto a me, riprese il Santo, preferirei di restare quaggiù per fare la volontà di Dio, e renderGli come potessi un qualche servigio. Rispetto alla mia salute, io non dubito punto che Iddio volesse dimenticarmi, e lasciar perire colui che per suo amore avesse volontariamente ritardato il suo ingresso nel Cielo». – Seconda domanda: Venga il regno tuo. Dopo di aver desiderato la gloria di Dio, noi domandiamo che ci sia dato di partecipare della medesima, essendo questo lo scopo pel quale siamo stati creati, e per conseguenza la ragione suprema della Religione, della vita, del tempo, dell’eternità [Matth. VI]. – Osservisi come noi dimandiamo che il regno di Dio venga a noi, e non già che noi andiamo a lui, poiché è necessario che a noi venga il regno della grazia, acciocché possiam giungere a quello della gloria. E infatti il regno di Dio in tre modi si può intendere: regno di natura, regno di grazia, regno di gloria. Il regno di natura è quello pel quale Iddio regge e governa tutti gli esseri creati e tutto quanto l’uman genere. Di questo regnoparla la Scrittura quando dice: Signore, Signore, Re onnipotente, tu facesti il Cielo e la terra e tutto quello che nel giro dei cieli contiensi; in tuo dominio son tutte le cose, e non avvi chi al tuo volere resister possa [Ps. Esther XIII, 9-10] . Noi non chiediamo che questo regno arrivi, perché esso esisté, sin dall’origine del mondo, e gli stessi malvagi, vogliano o non vogliano, non possono sottrarvisi; dimandiamo soltanto la sua manifestazione, e desideriamo che tutti riconoscano, ammirino, benedicano le leggi di quella materna Provvidenza che il tutto dispose in numero, peso e misura; che raggiunge la sua meta con altrettanta forza che dolcezza, ed alla quale tutti devono sottomettersi con filiale rassegnazione. – Il regno di grazia si è quello col quale Iddio regge e governa i cuori e le anime dei fedeli figli della Chiesa, mercé l’azione dello Spirito Santo, e per mezzo delle tre grandi virtù, fede, speranza e carità, le quali conducono ad osservare con piena fedeltà i suoi divini precetti ed a cercare la sua gloria prima di ogni altra cosa. – Il regno di gloria avrà luogo nell’altra vita dopo il generale giudizio. Allora Iddio regnerà coi Santi in tutte le creature senza opposizione di sorta, perché allora ogni potenza sarà stata tolta al demonio ed ai malvagi che insieme incatenati gemeranno nelle prigioni dell’eternità. Allora eziandio sarà distrutto l’impero della morte, della corruzione, delle tentazioni tutte del mondo e della carne che tormentano qui in terra i servi di Dio, tantoché sarà quello un regno tranquillo, pacifico, accompagnato dal godimento certo e sicuro di una felicità sincera e senza fine. – Di quale di questi tre regni affrettiamo noi coi voti la venuta nella terza domanda dell’Orazione Dominicale? Siccome superiormente dicemmo, non già del primo, poich’esso non deve venire, ma è venuto; noi non ne chiediamo nemmeno la continuazione, poiché c’impedirebbe il nostro ultimo fine, che è quello di veder Dio a faccia a faccia per tutta l’eternità. E neppure chiediamo il secondo, attesoché ne esprimemmo il desiderio nella prima domanda, ed è già in gran parte venuto. Domandiamo invece la venuta del terzo che deve venire, regno a cui tutti quelli i quali conoscono le miserie di questa vita ardentemente anelano, e che consiste nella fruizione del sommo bene e nella gloria perfetta del nostro corpo e dell’anima nostra. E siccome questa gloria non sarà perfetta se non dopo il finale giudizio, così noi domandiamo ogni giorno e con intenso affetto la fine di questo mondo e l’arrivo del generale giudizio. Noi domandiamo che questo mondo sì pieno d’iniquità e di disordini sia ben tosto surrogato da nuova terra e da nuovi cieli, in cui regnerà la giustizia, affinché Iddio sia tutto in tutte le cose. E sebbene gli amatori di questo mondo non possano sentire più sgradevole annunzio di quello del finale giudizio, tuttavia noi altri, cittadini del Cielo, che viviamo quaggiù come pellegrini ed esuli, non possiamo e non dobbiamo avere desiderio più grande di quello di vederlo arrivare. Perciò scrive S. Agostino: « Siccome prima che Gesù Cristo venisse al mondo tutti i desideri dei Santi dell’antica Legge s’indirizzavano alla prima venuta di Cristo: così ora tutti i desideri de’Santi della Legge nuova s’indirizzano alla seconda venuta dello stesso Cristo, che ci porterà la perfetta beatitudine» [in Ps. CXVIII,- Bellarm., Dottr. Crist.. p. 79]. Ecco una verità che importa sommamente di richiamare al nostro spirito e a quello degli altri. Nulla è più atto a nobilitare i nostri pensieri quanto la memoria di questo fine sublime al quale noi siamo destinati; nulla è più proprio a farci tollerare coraggiosamente le avversità, a resistere fedelmente alle tentazioni, a disprezzare tutti i beni della terra, quanto il meditare queo gaudii eccelsi che ci aspettano nell’eternità. Oh! sì; un giorno noi regneremo in compagnia del Signor Nostro; addestriamoci pertanto a far da padroni comandando alle nostre passioni, e costringendo il mondo a piegarsi innanzi alla nostra fede. Quale vergogna se altrimenti avvenisse! Forseché col portar le catene dello schiavo si può apprendere ad esser re? – Terza domanda: Sia fatta la volontà tua. Nell’antecedente petizione noi abbiamo domandato la beatitudine eterna, che è il fine ultimo dell’uomo; ed in questa chiediamo il mezzo principale per arrivarvi.Ora questo mezzo, secondo la parola dello stesso Signor Nostro, è di adempiere la volontà del nostro Padre celeste: Se brami di arrivare alla vita, osserva i comandamenti [Matth.XIX,17]. E perché noi non siamo bastanti da noi stessi ad osservare questi divini Comandamenti come si conviene, però noi imploriamo da Dio che sia fatta da noi la sua volontà, cioè che ci dia: 1° la grazia di adempiere la sua volontà, obbedendo in tutto e per tutto a’ suoi santi Comandamenti, imitando in questo l’esempio del nostro divino modello, che umiliò se stesso, fatto ubbidiente sino alla morte, e morte di croce [Philipp. II, 3]; 2° la grazia di accettare, se non con fiducia e con gioia filiale, senza mormorazioni almeno, le pene spirituali e corporali che ci possono affliggere, come la perdita delle sostanze, dei congiunti, degli amici. Infatti, tutte queste cose che Iddio comanda, o permette, tendono al maggior nostro bene; se noi siamo giusti ci aprono più vasto campo a meritare; se non lo siamo ne somministreranno almeno il mezzo di purificarci. – Uomini di poca fede! Che possiam noi chiedere di più vantaggioso che l’adempimento della volontà del nostro Padre? Ei ci ama più teneramente di quello che non ci amiamo noi stessi; la sua volontà è santa, giusta, perfetta. Ohimè! per non averla adempiuta il primo Adamo precipitò in quell’abisso di mali che sono il triste nostro retaggio; adempiendola, noi ce ne libereremo e ne saremo preservati, o questi almeno saranno per noi di tanto minore aggravio, con quanta maggiore esattezza avremo adempiuta questa volontà perfetta; e ciò è così vero che su nel Cielo si gode la pienezza della felicità, posciaché ivi regna tutta sola, eternamente, la volontà di Dio. E questa felicità per ognuno di noi sarà proporzionata a quella fedeltà colla quale avrem fatto la volontà di Dio sulla terra. – Siccome in Cielo, così in terra. Nel chiedere a Dio la grazia di ubbidirGli, noi domandiamo ad un tempo che si degni di render meritoria e degna di Lui la nostra ubbidienza, vale a dire, somigliante a quella degli Angeli e di tutti i Santi cittadini del Cielo. Ora gli Angeli ed i Santi si soggettano alla volontà di Dio con tutta la pienezza dell’amore; obbediscono unicamente perché Dio lo vuole, senza cercare l’amor proprio; adempio noi suoi cenni colla massima prontezza; non si lagnano, non discutono. Ad ogni volere dell’Altissimo essi rispondono con un cantico di lode, con rendimenti di grazie: Santo, Santo, Santo, è il Signore, Dio degli eserciti. E così pure dobbiamo ubbidir noi: Oh! quanto sarebbe dilettevole questa terrena dimora, se tutti quei milioni di umane volontà non avessero in tutte le cose e in tutti i tempi altra volontà che quella di Dio! Quanto a noi almeno, deh! Siano sempre nel nostro cuore e sulle nostre labbra le parole dell’Apostolo San Paolo: «Signore, che volete voi che io faccia?» Quelle del Re Profeta: «Il mio cuore è preparato, o Signore, il mio cuore è preparato». Quelle del santo Giobbe: « Il Signore me lo diede, il Signore me lo tolse, come a Lui piacque così fu fatto, sia benedetto il suo santo nome ». Quelle finalmente dello stesso divino nostro Maestro: « Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice: tuttavolta sia fatta la vostrae non la mia volontà ». – Tale si è la prima parte dell’Orazione Dominicale; e quando vogliansi considerare nel loro obbietto, nulla è più sublime delle tre domande di cui essa consta, nulla è più logico dell’ordine col quale sono esposte. Noi chiediamo primamente che il nome di Dio sia santificato, dappoiché prima di ogni altra cosa noi dobbiamo amar Dio, e cercare innanzi tutto la sua gloria; in secondo luogo domandiamo che venga a noi il suo regno, perciocché Egli sarà perfettamente amato e benedetto, quando specialmente dopo il finale giudizio, regnerà pienamente e perfettamente su tutte le creature; in terzo luogo (domandiamo la grazia di fare la volontà di Dio quaggiù in terra, allo scopo di cominciare anche in questa vita a santificare il Nome del Signore, ed a vivere sotto il suo regno, onde giungere, mercé tale cominciamento, a quel luogo beato in cui sarà perfetto il suo regno, ed il suo nome perfettamente santificato. A dir breve, in queste tre prime petizioni noi chiediamo le cose pertinenti a Dio: che il suo Nome sia santificato; che venga il suo regno; che i suoi Comandamenti siano osservati: in ciò consiste la perfezione e l’ultimo fine dell’uomo. – La seconda parte dell’Orazione Dominicale abbraccia quattro domande, per le quali si chiedono tutte le cose temporali necessarie per arrivare ai beni eterni. Che di più saggio? Alla stessa guisa che l’uomo si riferisce a Dio come a proprio fine, così pure i beni di questa vita si riferiscono a quelli dell’altra come mezzi al loro fine. Ed ecco perché il Signor Nostro vuole che la domanda di questi beni terreni occupi il secondo luogo. Noi non dobbiamo domandarli se non in quanto Iddio medesimo lo permette, e che noi ne abbisogniamo per conseguire i beni celesti. Quarta domanda: Dà a noi oggi il nostro pane quotidiano. Con queste parole così semplici ed affettuose noi chiediamo tutto ciò ch’è necessario al sostentamento della nostra vita temporale. Ora noi siamo composti di due sostanze, d’anima e di corpo; ambedue per vivere hanno bisogno di alimento. L’anima che è spirituale, esige alimento spirituale; il corpo che è materiale, richiede cibo materiale. La santa Eucaristia, la parola di Dio, le sante ispirazioni, ecco qual’è il ristoro dell’anima, ecco quello che per essa noi domandiamo. – Bere, mangiare, vestire e consimili altre necessità sono le cose che richieggonsi per la conservazione del corpo, ed ecco ciò che pel medesimo noi chiediamo. Dà a noi. Parole d’umiltà attissime a muovere a pietà il cuor di Dio! Per esse riconosciamo che noi non abbiamo nulla, e siamo affatto uguali ai mendichi-, riconosciamo che Iddio solo è ricco, e ch’Egli solo può darci il tutto; che a Lui andiamo debitori dell’esistenza e del necessario, sì per la vita spirituale che per la temporale, e non già alle nostre fatiche, alla nostra industria, alle nostre virtù. Meravigliose verità! È forse per virtù nostra che cresce il grano nei campi, il vello sul dorso della pecora? È per virtù nostra che si avviva nel nostro cuore la fede, si dilata la speranza, s’infiamma la carità? Oh! senza dubbio, ricchi e poveri, di qualunque grado o stato, tutti dobbiam pregare che dia a noi; tutti senza eccezione siamo tapini chiedenti l’elemosina alle porte del Padre di famiglia. I facoltosi devono dire dà a noi, e sulle loro labbra queste parole significano: Mio Dio! degnatevi di conservarci i beni che ci avete confidati, continuateci le vostre liberalità; noi sappiamo che ad ogni istante voi potete toglierci ogni nostro avere, tantoché col conservarceli voi ci fate la stessa grazia, come se ad ogni istante ce li donaste. I poveri devono dire dà a noi, e nella loro bocca queste parole significano: Mio Dio! noi aspettiamo dalla vostra liberalità tutto ciò che è necessario al nostro sostentamento, deh!inviatecelo o direttamente per Voi stesso, o indirettamente per mezzo dei ricchi ai quali voi ispirate di essere caritatevoli verso di noi; benedite le nostre fatiche, né vogliate che le infermità o i pubblici infortuni ci privino del frutto dei nostri sudori. Ora sarebbe un tentare Iddio il credere ch’Egli fosse per inviarci la manna dal Cielo senza far altro del canto nostro che domandarla. No, quel Dio che comanda la preghiera, comanda altresì la fatica; e le nostre suppliche non hanno altro scopo che d’implorare le sue benedizioni sulle nostre fatiche, sui nostri sudori. Infatti ogni fatica nostra è inutile, se Iddio per sua grazia non la rende feconda: la nostra preghiera dà a noi è quindi una protesta che noi viviamo della Provvidenza di Dio, anziché della nostra industria. Finalmente noi tutti, e ricchi e poveri, domandiamo non solo che Iddio ne conceda il nostro pane, ma che egualmente Io benedica, lo santifichi, affinché ne usiamo sempre a vantaggio non solo del corpo, ma eziandio dell’anima. – Noi diciamo dà a noi, e non dà a me, imperocché è proprio del Cristiano di non pensare solamente a se stesso; e vuole la carità che si abbia a cuore l’utile eziandio del nostro prossimo. D’altra parte Iddio non ci accorda i suoi benefizi perché ne approfittiamo noi soli e ci abbandoniamo all’intemperanza; ma vuole che facciamo parte agli altri di tutto quello che ne avanza dopo di aver provveduto a’ nostri personali bisogni. – Oggi. Questa parola ha due significati. Primieramente significa tutto il tempo della vita presente, poiché la vita non è che un giorno, senza ieri, senza domani. E noi chiediamo a Dio che ci doni per tutto il tempo di questo terreno pellegrinaggio il pane dell’anima e il pane del corpo, finché possiamo giungere in quella patria fortunata dove più non abbisogneremo né di Sacramenti, né di prediche, né di materiali alimenti Oggi, in secondo luogo, denota il giorno presente. E noi domandiamo a Dio che ne conceda oggi stesso quel pane di che abbisogniamo, poiché non ci vogliamo angustiare per l’indomani, non sapendo noi se domani saremo ancora in vita. Laonde il pane d’oggi si richiede oggi; quello di domani sarà chiesto domani. – È egli possibile d’insegnarci più eloquentemente quell’amabile, quell’ammirabile povertà evangelica, che per un lato è riposta nel distacco assoluto dai beni della terra, e per l’altro in una filiale, assoluta fiducia nella divina Providenza? Il nostro Padre celeste non vuole che neppure per un giorno noi facciamo assegno sulle nostre forze, ma vuole che ogni giorno gli chiediamo il pane di ogni giorno; vuole che ogni giorno riposiamo in braccio alla sua Provvidenza, e in lei rimettiamo la cura di soccorrere alle nostre necessità. E quale inquietudine possiamo aver noi? Se prima d’ogni altra cosa cercheremo il regno di Dio e della sua giustizia, tutto il resto ne verrà donato per soprappiù. Osservate; non nutrisce Egli forse il nostro Padre celeste gli augellelti dell’aria che non seminano punto? Non veste Egli forse i gigli del campo che non filano? non fa egli nascere ogni giorno il sole sul giusto e sul malvagio? Ma dacché noi non dobbiamo occuparci che del presente, non è forse mal fatto accumulare provvigioni di grano, di vino e di ogni altra derrata per un anno intero? Allorché il Signore ne insegna ad occuparci soltanto del presente, Egli vuole solamente liberarci da quelle soverchie premure che sono ostacolo fortissimo alla preghiera, nonché alle altre occupazioni di maggiore importanza, e il cui adempimento può solo guidarci alla vita eterna. E però quando il pensiero dell’avvenire non è punto eccedente, ma sì bene misurato, come sarebbe il premunirsi di convenienti provvigioni, esso non è riprovevole; anzi, che dico io? Un tale pensiero non si può dire dell’indomani, ma piuttosto del giorno d’oggi, perché, aspettando l’indomani, potrebbe fors’essere troppo tardi. – Il nostro pane. Dopo di avere coll’antecedente petizione domandato la grazia che è la vita stessa, nulla è più naturale di chiedere in seguito il pane che alimentala vita. Difatti la prima cosa che desidera il fanciullo appena nato è quel nutrimento che mantiene l’esistenza. Non esca però di mente, che qui noi pure domandiamo anzi tutto il pane spirituale, nutrimento dell’anima, e poscia il pane materiale, nutrimento del corpo; tanto esigono la ragione e la fede. Per pane spirituale s’intende in primo luogo la santissima Eucaristia, pane celeste e sovrannaturale che sostenta miracolosamente la vita dell’anima; in secondo luogo, la parola di Dio, la quale, ricevuta mercé la predicazione o la lettura, è possente aiuto ad alimentare la nostra vita spirituale; e da ultimo son dinotate le sante ispirazioni, la preghiera e tutto ciò che contribuisce ad alimentare od accrescere in noi la grazia, la quale, siccome abbiam detto, è la vita dell’anima. Perciò il Signor Nostro vuole che chiediamo ogni giorno la sua carne in cibo e il suo sangue in bevanda, che è quanto dire la santa Eucaristia, nutrimento giornaliero delle anime nostre; quindi noi dobbiamo vivere in guisa da renderci degni di riceverlo ogni giorno. Che pensare, o mio Dio! di coloro che non la ricevono se non una volta all’anno! Ei vuole altresì che domandiamo ogni giorno la sua divina parola. Che pensare pertanto di quegli infelici che non l’ascoltano, non la leggono, che per discuterne e censurarla? Costoro, per sentimento dei Padri, si condannano da se stessi alla morte spirituale, e si rendono colpevoli dello stesso sacrilegio dei profanatori dell’Eucaristia È almeno indubitato che coloro i quali fuggono la parola di Dio, non men di coloro che si allontanano dalla santa Eucaristia, ignorano ciò che dicono allorquando dicono il Pater. – Per pane materiale s’intende tutto quello ch’è necessario alla vita del corpo, ma nulla più; nulla di quanto può appagare la sensualità o lusingare il lusso. Nostro Signore usa la parola pane, primieramente perché nelle Scritture una tal voce denota tutto ciò ch’è necessario alla vita, come ad esempio il vitto, il vestito, l’abitazione; e in seguito per insegnarci che dobbiamo contentarci di poco, senza cercare il superfluo, che mal si addice a viaggiatori che passano in terra straniera. – Noi diciamo nostro pane, e questa parola racchiude un senso profondo. Infatti, se s’intende la santa Eucaristia, essa è nostro pane, dappoiché per noi soli fu formato nel seno della Vergine benedetta per opera dello Spirito Santo, fu cotto sulla croce nel fuoco della carità, imbandito sull’altare col ministero dei Sacerdoti. Essa inoltre è nostro pane, pane dei veri figli di Dio, non già dei cani, secondo l’energica espressione delle Scritture, vale a dire, dei peccatori; è pane dei Cattolici, non già degli eretici e degli infedeli. Intendesi la parola di Dio? Col dire nostro pane noi domandiamo la sana e pura parola di Dio, dispensata dai veri Predicatori ai figli della Chiesa, e non già il pane straniero, il pane corrotto, avvelenato, che offrono gli eretici ai loro settari. Intendesi il pane materiale? Noi desideriamo che Iddio ci doni il nostro pane, non quello d’altrui, vale a dire, che ci aiuti a guadagnarlo col benedire le nostre fatiche, i nostri poderi, i nostri campi, le nostre vigne, affinché senza ricorrere alla frode, né aver bisogno di mendicare, ci possiamo procurare di che vivere. Diciamo ancora nostro pane, non perché ci appartenga di diritto, ma sì bene affinché Iddio per somma sua misericordia si degni concederlo a noi, come nutrimento convenevole all’ uomo; diciamo nostro pane e non mio pane, perché ciascuno di noi deve chiedere pe’ suoi fratelli quello che chiede e desidera per se medesimo. Ma potremo noi dire di avere tal desiderio, se ricusiamo di metterli a parte di quel superfluo che Iddio ci dona? Quotidiano. Questa parola ne insegna che da noi non devesi chiedere nutrimento squisito, né delicato, ma sì un cibo semplice, frugale e bastevole alle giornaliere necessità, giusta gl’insegnamenti dell’Apostolo: Avendo gli alimenti, e di che coprirci, contentiamoci di questo (1 Tim.VI, 8) . Alla qual lezione di frugalità la parola quotidiano ne aggiunge un’altra non meno eloquente di modestia e d’isinteresse: l’uomo chiede pane per un sol giorno, attesoché egli ignora se per lui sorgerà l’indomani! – Quinta domanda: Rimetti a noi i nostri debiti, siccome noi li rimettiamo ai nostri debitori. Nelle quattro precedenti domande abbiamo chiesto al Padre nostro d’impartirci i beni temporali ed eterni; nelle tre successive lo preghiamo a liberarci da qualsivoglia male passato, presente e futuro; onde per tal modo l’Orazione Dominicale comprende quanto possiamo desiderare. Il male già passato sono i peccati che commettemmo; il mal futuro, le tentazioni che inducono a peccare; il mal presente, le tribolazioni e gli affanni tutti del faticoso nostro pellegrinaggio. Col domandare di essere liberati dal male, intendesi ancora la domanda di essere preservati dai mali grandissimi che sono i peccati che ci separano da Dio ; e dai mali mediocri altresì, come ad esempio le tentazioni; perciocché sebbene queste non siano per se stesse peccati, sono per altro incentivi possenti a trascinarci nella colpa; ond’è fuor d’ogni dubbio ragionevole chiamare col nome di male ciò che ci espone a sì grande pericolo. Per mali leggieri finalmente, in confronto degli altri di cui sono conseguenza, s’intendono le pene temporali ed eterne. – In questa quinta domanda il Signor Nostro ne insegna dunque a chiedere il perdono dei nostri peccati, e per esprimerli egli adopera la parola «debiti, debita». Ma d’onde una tale espressione? Per tre ragioni, rispondono i Dottori: «La prima, perché ogni uomo che offende Dio, diventa debitore a Dio per l’ingiuria che Gli ha fatto. La seconda, perché chi pecca trasgredisce la Legge di Dio; e perché essa Legge promette premio a chi l’osserva, e minaccia castigo a chi la trasgredisce: il trasgressore si trova perciò stesso debitor della pena fissata nella Legge. La terza, perché ciascuno di noi è obbligato a coltivare la vigna dell’anima sua, e renderne a Dio il frutto, che sono le buone opere; però chi non fa buone opere, e molto più chi ne fa di cattive, si costituisce debitore a Dio, il quale è il vero Padrone della vigna e dei frutti. E perché tutti noi spesso manchiamo, sia col fare ciò che non dovremmo, come col non fare quello che dovremmo, però più volte al giorno conviene dire con profonda umiltà a Dio che ci rimetta i nostri debiti ».(Bellarm. Dottr. Crist., p. 88). – Bastano queste parole per ottenere la remissione dei peccati? — Se trattasi di peccati veniali e giornalieri, tali parole, purché accompagnate, siccome abbiamo detto, da vera contrizione, li rimettono direttamente; ma rispetto ai peccati mortali non li rimettono che indirettamente, nel significato cioè, che dispongono il cuore del nostro Padre celeste ad accordarci il dono di ricevere con frutto l’effusione della grazia e dei meriti del Signor Nostro Gesù Cristo nel sacramento della Penitenza. Tanto i giusti, quanto i peccatori debbono dire rimetti a noi i nostri debiti: 1° perché non è già lo stesso non conoscere i propri peccati, e non averne alcuno. Sebbene la mia coscienza, dice l’Apostolo, nulla mi rimproveri, non per questo io sono giustificato; 2° perché moltissimi sono i peccati occulti; 3° perché l’asserire d’essere senza peccato, dice l’Apostolo S. Giovanni, è un pretto mentire; 4° perché noi domandiamo non solo la remissione del peccato, ma quella eziandio della pena che gli è dovuta; 5° perché chiediamo il perdono così per noi, come ancora per tutti i nostri fratelli. (Con. Trid., sess. VI, can 23). – Siccome li rimettiamo a’ nostri debitori. Con tali parole noi diciamo al Padre nostro celeste: Per ottenere la remissione dei debiti de’ quali siamo carichi verso di voi, noi rimettiamo ai nostri fratelli tutti quei debiti che essi hanno verso di noi. – Chiunque ci offende contrae un debito verso di noi, poiché infrange la legge della carità, e qualche volta ancora quella della giustizia, e per conseguenza incorre l’obbligo di darci soddisfazione. Ora noi dichiariamo di assentire che Iddio prenda per regola della sua misericordia a nostro riguardo quella che noi usiamo verso il prossimo; dunque se noi perdoniamo imperfettamente o solo a metà, oppure non perdoniamo che a fior di labbra, conservando l’amarezza, l’antipatia, il rancore nel fondo dell’animo; e finalmente se non perdoniamo punto, invitiamo Iddio a fare altrettanto con noi. – Tuttavolta coloro che non perdonano ai loro nemici possono recitare l’Orazion Dominicale, non, per vero dire, coll’intenzione che il Signore perdoni loro com’essi stessi perdonano, dappoiché ciò sarebbe un chiedere la propria condanna; ma nel significato che Iddio perdoni loro come eglino pure dovrebbero perdonare, e parlando a nome della Chiesa, che conta sempre tra i suoi figli gran numero di Cristiani i quali perdonano ai nemici e pregano per loro. Perciò anche la Santissima Vergine, quantunque immune da ogni colpa, poteva recitare l’Orazione Dominicale, e dire perdona a noi; imperocché sul suo labbro queste parole significavano: Perdonate ai peccatori che come me appartengono alla Chiesa. « Se quelli soltanto, scrive S. Agostino, che amano i propri nemici possono dire: Rimetti i nostri debiti, siccome noi li rimettiamo a’nostri debitori, io non so quel che mi debba dire, o quel che mi debba fare. Vi dirò io forse: No, non pregate punto? Certo io non lo ardisco; dirovvi invece: Pregate affinché possiate amare. Ma al postutto se voi non amate il prossimo, dovrò proibirvi di recitare l’Orazione Dominicale? Se vi astenete dal dirla non otterrete perdono, e se a lei ricorrete e lasciate non ostante di eseguire quanto dice, non otterrete egualmente perdono. Che resta dunque a farsi? Recitarla e perdonare onde ottener remissione » (Serm. V, alias de divers. 48). – Quindi le parole siccome noi perdoniamo racchiudono una condizione che il Signor Nostro istesso ha voluto imporre alla divina sua misericordia. E perché mai una tale condizione? Per più ragioni, tutte egualmente degne della sua infinita sapienza. La prima, affinché appieno da noi si comprenda la grandezza del benefizio che Iddio c’imparte nel perdonare i nostri peccati; grazia sì grande Ei non volle concederla, senza mettervi la condizione che noi pure usiamo misericordia verso i nostri fratelli. La seconda, a fine d’incoraggiare la nostra debolezza, dimostrandoci con qual estrema facilità si può dall’uomo conseguire l’immenso beneficio della remissione dei peccati, dappoiché egli per parte sua ci promette misericordia se noi non la neghiamo al nostro prossimo: il che dipende affatto dal nostro volere. La terza, onde mantenere fra di noi la carità, la quale è il gran precetto del Vangelo, facendo della nostra la condizione e la regola della carità di Dio inverso di noi. La quarta finalmente, per fiaccare il nostro orgoglio e far palese quanto ingannati e colpevoli sieno quelle persone del mondo che chiamano una viltà il perdonare e rinunziare alla vendetta. Quando infatti essi chiederanno misericordia, Iddio li condannerà colle stesse loro parole, dicendo: come vuoi tu che Io ti usi misericordia, se questa appunto tu abborri e poni in derisione? tu tratti da vile chi perdona; osi tu dunque pregarmi ch’Io mi avvilisca perdonandoti, e vuoi che ti esaudisca? (S. Greg. Niss., in 3 Orat. Domin.). -Per le quali cose il dovere e l’utile nostro egualmente ne impongono di perdonare non solo esternamente, ma interiormente e senza indugio, giusta il detto della Scrittura: « Se voi non perdonate di tutto cuore, il vostro Padre celeste non vi perdonerà; ed altrove: il sole non tramonti giammai sull’odio vostro». I Santi presero in ogni tempo queste parole per regola di loro condotta. San Giovanni l’Elemosiniero, Patriarca di Alessandria, avea ripreso con qualche vivezza un Senatore, che perciò l’aveva lasciato fortemente indispettito. Giunta la sera, il Santo inviò un messo al Senatore con quest’ambasciata: il sole è prossimo al tramonto. A queste parole il Senatore, compreso da vero dispiacere, corre presso il santo Vescovo, dal quale è accolto ed abbracciato come un fratello, e l’ultimo raggio del sole morente rischiarava questo quadro affettuoso di riconciliazione. – Meditiamo spesso questo esempio, non meno della quinta petizione del Pater. Iddio promette di perdonarci, purché noi pure perdoniamo ai nostri fratelli. Le offese che noi perdoniamo al prossimo sono un nulla in paragone di quelle di cui siamo debitori verso Dio. Noi l’abbiamo crocifisso! Noi domandiamo la remissione di dieci mila monete d’oro per qualche denaro che ci è dovuto! Ma se noi rimettiamo questa lieve somma con cuor sincero, e senza neanche aspettare che il debitore venga a pregarci; se la rimettiamo tutta intera e senza restrizione, vale a dire, se perdoniamo con animo volonteroso e con affetto fraterno; se noi preveniamo i nostri offensori con bontà e carità, invece di abbandonarci ad una cieca vendetta, e senza pretendere da essi soddisfazioni umilianti; se tutto ciò, io dico, noi opereremo, le nostre colpe saranno tutte perdonate. Non dimentichiamo giammai le parole del Salvatore: « Se voi perdonerete le offese ricevute, il vostro Padre celeste perdonerà quelle che Gli avete fatto». – Questa promessa per altro suppone in colui, che perdona al suo prossimo, lo spirito di penitenza pei suoi propri peccati; imperocché è verità di fede, che senza lo spirito di penitenza nessun peccato può giammai venir rimesso. – Nè contentiamoci soltanto di meditare queste parole, ma mettiamole in pratica, ad esempio di quel buon Religioso ricordato dalla storia. Aveva esso vissuto nel suo monastero con tale tiepidezza, che spesso si era attirato severe ammonizioni del Superiore. Giunto ad età inoltrata, cadde infermo per non più rialzarsi. Uno de’ suoi confratelli, vedutolo agli estremi, né scorgendo sul suo volto o timore od inquietudine di sorta, gli domandò, come mai poteva morire con tanta tranquillità dopo una vita così poco edificante. E verissimo, fratel mio, gli rispose il moribondo, che sono stato negligentissimo, e gli Angeli pure mi hanno spiegato innanzi agli occhi la lunga lista dei peccati, che ho commesso dopo il mio ingresso in religione: io sono convinto di tutto; ma intanto non mi poterono mostrare o un giudizio temerario, o la più piccola vendetta di cui mi sia reso colpevole. Allora io dissi loro: Io ho fiducia nelle promesse del Signore, il quale ha detto: Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati; perdonate, e vi sarà perdonato. Ciò inteso, gli Angeli hanno lacerato l’elenco de’ miei falli, ed ecco da che nasce la mia fidanza. E in così dire si addormentò tranquillamente nelle braccia del Dio di misericordia, lasciando a tutti i suoi fratelli un salutare esempio ed una grande edificazione. – Sesta domanda. E non c’indurre in tentazione. Allorquando figli ben nati hanno ottenuto dal Padre il perdono dei loro falli, non altro ad essi rimane che sfuggirli per lo innanzi, e mercé una condotta irreprensibile consolare il genitore ch’ebbero la disgrazia’di contristare. Cosi pure il Signor Nostro vuol che si faccia da noi: quindi è naturale il legame che unisce alla precedente questa domanda dell’Orazione Dominicale. Nella quinta noi abbiamo domandato la liberazione dal male passato, cioè dal peccato commesso; nella sesta noi domandiamo l’aiuto di Dio contro il male futuro che è la tentazione. Tuttavolta questa per se stessa non è un male come il peccato; anzi non è male se non in quanto può trascinarci ad un altro male, cioè l’offesa di Dio. Ma per tal ragione è molto pericolosa, e perciò supplichiamo Iddio a volercene preservare. Qui pure conviene spiegar chiaramente il senso della nostra preghiera: Dicendo non c’indurre in tentazione, noi non chiediamo già di essere liberati interamente da ogni tentazione, ma chiediamo: 1° di non esser vinti dalle tentazioni; 2° di esser liberati dalle tentazioni straordinarie; 3° di non essere esposti a tentazioni o deboli o forti, se Dio vede che la vittoria non sarà nostra ma del demonio. – Ma perché non chiediamo noi di essere liberati da ogni sorta di tentazioni? Perché ci torna vantaggioso l’essere tentati. La tentazione ci ammaestra: per un lato ci fa conoscere la nostra debolezza, la nostra corruzione; dall’altro ne dimostrala potenza della grazia la quale con sì deboli soldati, quali noi siamo, sa riportare splendide vittorie. La tentazione ci mantiene nell’umiltà. Affinché, scrive San Paolo, la grandezza delle mie rivelazioni non mi facesse insuperbire, lo stimolo della carne, l’angelo di Satanasso mi fu lasciato intorno per schiaffeggiarmi, vale a dire, per farmi ricorrere all’umiltà, alla vigilanza , alla preghiera. La tentazione ci assoda nella virtù. I venti che scuotono le piante, dice un santo Padre, nello stesso tempo le alimentano; e così pure le tentazioni accrescono vigore all’anima. La tentazione ci arricchisce; imperocché tutte le volte che noi le resistiamo, ci fa produrre atti di virtù e di fedeltà che aumentano i nostri meriti. La tentazione ci rende esperti, vuoi a nostro, vuoi a riguardo altrui. Chi non è stato tentato, quanto sa egli? (Eccl.XXXIV, 11) richiede giustamente il Saggio. Finalmente la tentazione ci fa compatire le debolezze altrui, e fa riposare su di noi lo spirito del Signore, secondo il dettato dell’Apostolo S. Giacomo: Beato l’uomo che tollera tentazione: perché quando sarà stato provato, riceverà la corona di vita promessa da Dio a quelli che lo amano . (Jacob. I, 12). Noi diciamo al nostro Padre celeste: Non indurci in tentazione. Qual significato hanno tali parole? Forse che Dio ci tenta? No certamente; a parlare con proprietà Iddio non tenta alcuno, poiché tentare vuol dire indurre al male (Jacob. I, 12). È bensì vero che nelle Scritture si legge avere Iddio tentato Abramo, ma questo significa che il Signore volle mettere a prova la fede e l’obbedienza di quel santo Patriarca. – Ogni giorno Iddio tenta noi pure in simil guisa colle infermità, colle afflizioni, coi travagli, sia per convertirci come per accrescere i nostri meriti. Rispetto alle tentazioni propriamente dette Iddio permette soltanto che noi siamo tentati; e questo deve consolarci, attesoché per una parte i nemici dell’anima nostra non possono assalirci senza la permissione del Padre nostro celeste; e per l’altra Egli loro non permette giammai di tentarci oltre le nostre forze: Non vi ha sorpreso tentazione, dice l’Apostolo, se non umana; ma fedele a Dio, il quale non permetterà che voi siate tentati oltre il vostro potere, ma darà con la tentazione il profitto, affinchè possiate sostenere (1 Cor. X, 13). Ecco adunque qual’è il senso della preghiera che noi Gli volgiamo: Signore, noi conosciamo la nostra debolezza e fragilità, sappiamo quanta sia la malvagità e il potere del demonio; non vogliate dunque permettere che noi vostri servi siamo atterrati dalla tentazione, e neppure tentati, se non dobbiamo uscire vittoriosi dal combattimento.Ma ad ottenere la vittoria in una lotta sì pericolosa è mestieri ben conoscere i nostri nemici e le armi con cui si devono combattere. Tre grandi nemici son collegati a’ nostri danni, né cessano mai dal tentarci: il demonio, il mondo, la carne. Il demonio ne tenta col suggerirci pensieri peccaminosi d’ogni specie: d’orgoglio, d’invidia, di bestemmia, di vendetta, e somiglianti. Il mondo ci tenta coi cattivi discorsi, colle cattive letture, coi cattivi esempi. La carne ci tenta con criminose tendenze. Il più pericoloso di questi tre nemici è la carne, poiché da essa non possiamo un solo istante separarci. Rispetto alle armi di cui dobbiamo valerci contro questi tre nemici, conviene opporre al demonio, il segno della croce e l’invocazione dei santi nomi di Gesù e Maria; al mondo, il disprezzo de’suoi motteggi, delle sue minaccie, delle sue promesse, considerando la sua debolezza e la caducità delle cose temporali che svaniscono alla morte; alla carne, la fuga dalle occasioni, la mortificazione dei sensi, la devozione alla santa Vergine Madre di ogni purità. Ecco i rimedi particolari. I rimedii generali sono: l’umiltà, la preghiera, il digiuno, la meditazione della Passione del Signor Nostro Gesù Cristo e dei Novissimi; finalmente la fedeltà nello svelare al Confessore le tentazioni tutte dalle quali siamo molestati. – Quest’ultima domanda conferma le domande antecedenti, e vi aggiunge qualche cosa di nuovo. Di fatto nella quinta e nella sesta noi abbiamo chiesto di essere liberati dal peccato e dalla tentazione, e qui pure imploriamo la stessa grazia, conciossiaché supplichiamo di essere liberati da ogni specie di mali; ma nel tempo stesso vi aggiungiamo la domanda di essere liberati da ogni afflizione corporale e spirituale, pubblica e privata, che potesse toglierci di pervenire all’eterna salute. Laonde dopo aver chiesto a Dio la liberazione dai mali passati e futuri, domandiamo di più la liberazione dai mali presenti; e così pure dopo aver pregato di esser liberati dal male della colpa, che è il peccato ed il maggiore di tutti i mali, noi supplichiamo di essere liberati dal male della pena, assai più lieve del primo, e che è riposto nelle afflizioni temporali ed eterne, funeste conseguenze del peccato. – «Ed avvertite che Nostro Signore con gran sapienza c’insegna a domandare la liberazione dal male in universale, e non viene al particolare, come dire dalle povertà, malattie, persecuzioni e simili cose; perché molte volte pare a noi, che una cosa ci sia buona, la quale Dio vede che per noi è cattiva: e per lo contrario a noi pare che una cosa sia cattiva, e Dio vede che per noi è buona. E però noi, secondo l’ammaestramento del Signore, Gli domandiamo che ci liberi da tutto quello che Egli vede, che per noi è male, o sia prosperità, o sia avversità » (Bellar. Dottr. Crist.). Ma non è egli superfluo il volere che noi domandiamo la liberazione del male, poiché la natura medesima ne suggerisce di ricorrere a Dio in ogni nostra tribolazione? È verissimo che sotto i colpi della sventura suolsi invocare l’aiuto divino; ma si osservi ancora, che taluni noi fanno, ed è pur necessario rammentar loro un obbligo così imperioso; altri poi lo fanno troppo tardi, e dopo avere esaurito tutti i mezzi umani. Iddio per costoro non è che un espediente, cui non si ricorre che alla peggio andare; e questa mancanza di fiducia è atto ingiuriosissimo, contro cui era necessario premunirli. Finalmente quasi tutti ignoriamo l’ordine e la maniera con cui si deve chiedere la liberazione dal male. Cosi per esempio, invece di chiedere innanzi tutto la liberazione dal peccato, noi domandiamo la liberazione dalla pena. Siam noi percossi da rovesci di fortuna, o da perdita di salute? Tosto domandiamo a Dio la liberazione da questi mali, senza nemmeno pensare alla liberazione dai mali più importanti, vale a dire, il peccato e il pericolo di commetterlo. Da ciò nasce che nulla si ottiene, poiché non si osserva il precetto del Signore, il quale comanda di chiedere prima d’ogni altra cosa il regno di Dio e la sua giustizia. Oltre a ciò in luogo d’implorare colle debite condizioni la liberazione dai mali temporali, noi più spesso la domandiamo in modo assoluto, senza rassegnazione, talvolta pure con impazienza, uscendo eziandio in atti di disgusto e in parole di mormorazione se non l’otteniamo, oppure se Iddio ce la fa aspettare. Ora, al fin di pregare come vuole Nostro Signore, conviene chiedere in maniera assoluta che Dio ci preservi, o ci liberi per sua benignità dal peccato, che è il solo vero male; ma rispetto agli altri mali, noi dobbiam chiedere d’andarne immuni, in quanto solo una tal grazia può esser proficua alla nostra salute. Ma liberaci dal male. Per restringere in due parole tutta l’importanza di questa petizione, noi diremo, che in tal modo devono sempre finire le preghiere dell’uomo decaduto. La liberazione dal male: ecco lo scopo di ogni Religione, di ogni sacrificio, di ogni penitenza pubblica o privata che mai siasi usata presso tutti i popoli sin dall’origine del mondo. Nella domanda che precede, noi preghiamo Dio a liberarci dal peccato, in questa noi lo supplichiamo a liberarci dalla pena del peccato, come a dire dalla morte subitanea, dai castighi riserbati agli empi, e dal fuoco del Purgatorio; da cui pure Lo preghiamo con tutto l’ardore di liberare le anime che vi sono tormentate. Noi domandiamo di essere preservati da tutti i mali, tanto esterni che interni: dall’acqua, dal fuoco, dal fulmine, dalla gragnuola, dalla fame, dalla guerra, dai tumulti; facciam voti perché restino sempre da noi lontane le malattie, le pestilenze, gl’infortuni, le prigionie, gli esilii, i tradimenti, le insidie; a dir breve, tutte le sventure che affliggono l’umanità. Domandiamo finalmente che le ricchezze, gli onori, la sanità, la vita stessa non tornino a detrimento ed a perdizione dell’anima nostra. Noi dobbiam chiedere tutto ciò con fiducia, perché il nostro buon Padre, col comandarci di chiedere la liberazione dai nostri mali, ci ha pur dato malleveria di essere esauditi: Alzaron le grida i giusti, e il Signore li esaudì, e liberolli da tutte le loro tribolazioni (Ps. XXXIII, 17). In questa domanda la parola male significa ancora il malvagio, ossia il demonio. Noi preghiamo Iddio a liberarci da’ suoi assalti, attesoché il demonio fu l’autore di tutti i delitti e di tutte le sventure degli uomini. Abbiamo detto malvagio e non malvagi, poiché tutti i mali che ci vengono dal nostro prossimo devono essere imputati alle maligne suggestioni dello spirito infernale. Laonde, anziché adirarci coi nostri fratelli, dobbiam volgere interamente il nostro odio contro satana, vera cagione di tutti i mali, che l’un l’altro si fanno gli uomini.La terza parte dell’Orazione Dominicale si compone di questa sola parola, che è come suggello, conclusione, di tutta la preghiera. Amen. Amen è parola ebraica, che vuol dire così sia, cioè, facciasi come ho chiesto; possano essere esauditi i miei voti, io lo credo, io lo spero. Come una rimembranza della Chiesa primitiva,e per rispetto alla veneranda nostra antichità si è conservata questa voce ebraica (“Propter sanctiorem auctoritatem servata est antiquitas”. S. AUG., lib. II , De Doctr. christ., c. 11); non meno che per venerazione al Signor Nostro, dalle cui labbra era frequentemente ripetuta. Amen esprime altresì un voto novello, un più vivo desiderio di ottenere le cose richieste. È mestieri profferire questa conclusione con pietà particolare e con affetto sincero, sia per supplire al mancamento di attenzione e di fervore che poté sorprenderci nel tempo della preghiera, che per tentare un ultimo sforzo, e toccare, per così dire, l’ultima corda al cuore del nostro Padre. – Tale è l’Orazione insegnata dal Signore: niente di più santo, di più affettuoso, di più augusto, di più efficace. È una chiave d’oro colla quale possiamo aprire a nostro talento i tesori del Cielo. Si ami dunque, si veneri, si custodisca come il bene più prezioso, si ponga indefessamente in uso. Ma tuttoché onnipossente, questa divina preghiera, non ci sarà in verun conto giovevole se non sarà fatta a dovere. Ora nulla di più opportuno a rianimare il nostro fervore nella preghiera, come nulla di più celebre negli annali dei Santi, che la visione di S. Bernardo. Ella ne fa conoscere le diverse classi di persone che si dedicano alla preghiera, e ne mostra al tempo stesso quali ricompense si meriti ognuna d’esse. Una notte, l’illustre fondatore di’ Chiaravalle, mentre tutti i suoi Religiosi recitavano il divino Officio, era assorto in profonda meditazione. Erano essi in gran numero, e Iddio gli fece conoscere che tutti andrebbero salvi, sebbene nel punto della visione non tutti egualmente fossero animati dal medesimo fervore. Vedeva il Santo che un Angelo stava al fianco d’ogni Religioso, e scriveva: alcuni di questi Angeli scrivevano in lettere d’oro, altri con acqua, alcuni finalmente con nero inchiostro. Il Signor Nostro degnossi di far comprendere al Santo il significato di questa visione. Gli disse che i Religiosi i quali pregavano col dovuto fervore erano quelli, le cui preghiere l’Angelo scriveva con lettere d’oro; quelli che pregavano con tiepidezza erano quelli, le cui preci venivano scritte coll’acqua; gli altri finalmente che pregavano distrattamente e sonnecchiando erano quelli, le cui orazioni scrivevansi col nero inchiostro: che i primi meritavano una grande ricompensa; i secondi nulla, o quasi nulla; e gli ultimi erano degni di castigo. – Voi che leggete questo racconto (supposto che sappiate in che modo scriva il vostro buon Angelo, quando alla mattina, o alla sera, in chiesa, o nel corso della giornata vi esercitate nella preghiera), la sua penna dovrebbe intingersi nell’oro, nell’acqua, oppure nel nero inchiostro? Lascio a voi il risolvere la questione!

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, vi ringrazio di aver composto per me una preghiera breve, facile, perfetta ed efficacissima. Fatemi la grazia di poterla sempre recitare colle dovute disposizioni. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose e il mio prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore, raddoppierò l’attenzione nel recitare il PATER nelle mie preghiere del mattino.

 

Un’ENCICLICA AL GIORNO, toglie il modernista apostata di torno: INTER CÆTERA

Benedetto XIV

INTER CÆTERA

Tra le molte cose che Ci conturbano, quando Ci conviene tollerare nel Nostro Stato temporale il divertimento del Carnevale, due se ne ritrovano, sopra le quali alcuni zelanti Vescovi del predetto Stato si sono lamentati con Noi, esprimendo le loro giuste querele o a voce o per iscritto. Una consiste nel fatto che per lo più tanto si inoltrano le veglie, i balli, i giochi nell’ultima notte di Carnevale che s’intacca anche l’inizio del primo giorno di Quaresima; in tal maniera accade alle volte di vedere che le persone, partendo dal ballo, dal gioco e dalla veglia, vanno, benché senza maschera ma con gli abiti con i quali si sono mascherati, alla Chiesa a sentire la Messa e prendere le Ceneri portandosi poscia alle loro case, dormendo nei loro letti per lo meno tutta la mattina del primo dì di Quaresima; né si lascia di addossare al Vescovo l’accusa di indiscreto, se si lamenta e molto più se vuol punire l’eccesso. – La seconda: che in alcune Città dello Stato Ecclesiastico o si va introducendo o si pretende di mantenere un abuso pochi anni prima introdotto, che le persone vadano mascherate anche nei giorni di Festa, e che molto più nelle Feste che nei giorni feriali i saltimbanchi, i ciarlatani ed altra simile razza di persone facciano nelle piazze le loro faccende con gran concorso di popolo, e che finalmente negli stessi giorni di Festa siano più frequenti i balli per le strade, che nei giorni feriali. – Quanto alla prima cosa non vi è assolutamente bisogno di farvi sopra gran raziocinio; basta averla riferita, perché ognuno ne concepisca orrore. E poiché l’ordinaria difesa di chi sostiene le parti del vizio e dell’eccesso suole consistere nel dire che tanti altri Vescovi predecessori, che erano uomini dabbene, l’hanno saputo e non ne hanno parlato (lasciando da parte la verità del fatto che per lo più si asserisce e non si trova), dovrà bastare a ciascheduno la risposta di una delle celebri Università Cattoliche che, interrogata a dare il suo parere sopra una certa Festa scandalosa che si chiamava la Festa de’ Pazzi, introdotta in alcune Diocesi e sostenuta coll’esempio che era stata tollerata da tanti Vescovi predecessori, non solo proferì censura condannatoria d’essa, ma rispondendo alla esposta opposizione, così soggiunse: “Non ascoltate le subdole parole degli uomini che dicono che i nostri Predecessori, che erano considerati persone notevoli, permettevano ciò: a noi basta vivere come quelli. Senza dubbio tale argomentazione è diabolica, tale persuasione infernale: voi ignorate se la fine della loro vita è stata buona o cattiva“.

La censura di questa Università è portata per esteso, come suol dirsi, nell’Appendice delle Opere di Pietro di Blois (p. 782), e nel trattato scritto in lingua francese da Giovanni Savaron contro le maschere (pp. 32 e segg). E però inculchiamo con tutto lo spirito a ciascheduno di voi, o Venerabili Fratelli, nelle Diocesi dei quali o si tenta di introdurre o è vigente l’eccesso, di non risparmiare veruna parte del vostro zelo, acciò non si introduca ove non è introdotto ed introdotto si sradichi, castigando severamente e senza rispetto umano gli inventori o mantenitori dello stesso: non essendo questo il modo di incominciare la Quaresima, come esclamava San Basilio nell’Omelia 2 sul Digiuno, pubblicata a Parigi nel 1722: “Delle cose di cui si respinge l’inizio, senza dubbio deve essere anche respinto completamente il tutto” (tomo II, p. 13); e: “Questo giorno è il vestibolo del digiuno. Chi è contaminato nel vestibolo, non è degno di entrare nel Sacrario” (p. 15). È troppo contrario al rispetto che si deve alle Chiese ed alla Sacra Funzione di prendere le Ceneri, entrare nelle Case di Dio con gli abiti da maschera, benché senza maschera, ed accostarsi al Sacro Altare nello stesso modo per ricevere dalle mani del Sacerdote la sacra polvere, con l’intimazione di dover pensare a morire. – Passando poscia alla seconda delle predette cose sopra esposte, Noi qui non intendiamo di esclamare o di predicare contro il Carnevale o di fare contro di esso qualche storica dissertazione. Se lo volessimo lo potremmo fare facilmente, trascrivendo quanto in questo proposito fu santamente composto da San Carlo Borromeo nel suo Libro Memoriale stampato nella Parte settima degli Atti della Chiesa di Milano, allora che in ringraziamento di essere stata liberata la detta città dalla peste, con zelo e con dottrina esortò il popolo a non far più Carnevale; ed inserendo in questa Nostra lettera quanto fu eruditamente radunato dal monaco De L’Isle nel suo nuovo Trattato del Digiuno al libro VI, cap. 6, ove, trattando dei Baccanali dei Pagani, dimostra quanti disordini nel nostro Carnevale sono contrari alle massime del Cristianesimo. Ci contenteremo di dire che, benché di malavoglia e per evitare mali maggiori, dalla Chiesa viene semplicemente permesso e tollerato il divertimento carnevalesco come, dopo un ben fondato ragionamento, conclude il celebre e pio Teologo Tommaso Stapletone nella sua Orazione ottava Contra Bacchanalia, tomo 2 delle sue opere, alla pagina 556: esservi inoltre una bella differenza fra le cose che si comandano e le cose che si tollerano. “Altro è quello che insegniamo, altro quello che sosteniamo; altro quello che siamo costretti a punire, e mentre puniamo siamo spinti a tollerare” (Sant’Agostino, Contro Fausto, libro 20, cap. 21); dal che poi deriva non esser luogo nelle cose semplicemente tollerate di fare estensione, e di giocare d’arbitrio. – Abbiamo ritrovato in questa Nostra città di Roma, instaurato dai Nostri degni Predecessori, un sistema che nonostante il breve tempo prefisso al Carnevale, non si facciano in verun modo le maschere nei giorni di Festa e nel giorno di Venerdì. Lo stesso vogliamo che si pratichi nel rimanente del Nostro Stato. Né lasceremo di far palese questa Nostra determinazione ai Cardinali Legati delle Province e ai Prelati e Governatori locali. Sarebbe pure nostro desiderio che nei giorni di Festa non vi fossero nelle piazze Ciarlatani e Saltimbanchi; avendo sempre avanti gli occhi le parole del Profeta Isaia al capitolo I: “La mia anima odia le vostre Calende e le vostre solennità; mi sono diventate moleste; a fatica le ho sopportate” (Is 1,14), e le altre del Profeta Malachia, al cap. II: “Spargerò sul vostro volto lo sterco delle vostre solennità” (Ml II,3). Ma perché non si può sempre ottenere in un subito dagli uomini quello che si vorrebbe, e che sarebbe giusto che si ottenesse, notifichiamo non volersi da Noi nei giorni di Festa, Ciarlatani o Saltimbanchi nelle piazze, né in altri luoghi delle Città e Castelli, né nella mattina, né nel dopopranzo. Ché se in qualche Città o luogo ritrovasi qualche cattivo abuso da tollerarsi anche nelle Feste, ciò mai si permetta la mattina; si procuri ancora che non vi siano nel dopopranzo; e non potendosi ciò ottenere senza grave disturbo, non si permetta però mai, che i predetti, o simili divertimenti si facciano, se non dopo l’ora del Vespro e della Dottrina Cristiana, sopra di che non lasceremo di dare gli ordini opportuni ai Cardinali Legati ed ai Governatori. – Questo è nel predetto stato delle cose il sistema di San Carlo Borromeo nel suo primo Concilio Provinciale alla parte I, titolo “Sull’osservanza dei Giorni Festivi“, unendolo con quanto da lui fu disposto nel 3° Concilio Provinciale nello stesso titolo; e questo pure è quello che la santa memoria di Clemente XI inculcò in due sue Lettere Circolari, l’una dell’11 gennaio del 1719, l’altra del 4 gennaio del 1721 e che sono l’undecima e la duodecima nel suo Bollario alla pagina 533. E nello stesso tempo in cui Ci protestiamo di ben volentieri battere le orme impresse da San Carlo, e contrassegnate dal predetto Nostro degno Predecessore, Ci protestiamo altresì, che dall’avere Noi finora parlato della proibizione di alcune cose, non abbiamo inteso, né intendiamo di levare la proibizione di tante altre, che sono nei Canoni, nelle Apostoliche Costituzioni, e nei Concili o Provinciali o Diocesani, in ordine ai divertimenti carnevaleschi, e particolarmente rispetto alle persone Ecclesiastiche; avendo avanti gli occhi la disposizione del Concilio di Trento (sess. XXII, cap. 1), dopo avere parlato delle Canoniche disposizioni che proibiscono agli Ecclesiastici il lusso, i conviti, le danze, i giuochi di carte, così parla coi Vescovi: “Se siano venuti a sapere che alcune di queste disposizioni sono cadute in desuetudine, cerchino di richiamarle in uso al più presto e che siano ben custodite da tutti, nonostante qualunque consuetudine, affinché essi stessi non paghino degna pena della trascurata correzione dei sudditi, per vendetta di Dio” (Conc Trid., sess. XXII, cap, 1). – Ciascheduno mediocremente versato nell’Ecclesiastica disciplina sarà facilmente informato che v’erano alcune antiche infami superstizioni dei Gentili, che nel primo giorno di gennaio si facevano in onore di Giano e della Dea Strena, nelle quali talvolta si andavano mischiando i Cristiani, frequentando la crapula e il giuoco, e mascherandosi gli uomini da donne, e le donne da uomini: né lasciarono i Santi Padri nei loro Sermoni, ed anche in Concili della Chiesa, di inveire contro quest’intollerabile abuso, e di stabilire rispettivamente gravi pene contro i trasgressori, del che da Noi si è diffusamente ragionato nella Nostra opera “Delle Feste del Signore“, quando trattammo di quella della Circoncisione di Gesù Cristo Nostro Redentore. – Schiantata questa prava usanza, se n’è purtroppo introdotta un’altra, che è quella di certe pubbliche rilassazioni nelle settimane per lo più di Settuagesima, Sessagesima e Quinquagesima, nelle quali la Santa Chiesa ci rappresenta i principali Misteri della nostra Redenzione, per ben disporci alla penitenza nel tempo di Quaresima, come pure da Noi fu dimostrato nella Nostra Notificazione decimaquarta al tomo I fra quelle che pubblicammo, quando eravamo in Bologna governando quella Chiesa; e questo per l’appunto è il Carnevale, che così viene descritto da un rinomato Vescovo, Monsignor Graziani, nel suo Sinodo di Amelia, tenuto l’anno 1595, alla pagina 150: “Di qui derivò (tanto ci corruppe la mala consuetudine) che i giorni che intercorrono tra Settuagesima e Quaresima, che la Santa Madre Chiesa considera con grande venerazione, come lugubri e funesti, da un’invadente ilarità improntata a lascivia, dall’amore dell’allegria, non solo sono stati volti in gaio e scomposto godimento, ma quasi sono stati consacrati a una specie di pazzia collettiva, e la sfrenatezza fu portata al punto da trascinare le leggi stesse, i Magistrati stessi, e ciò che nessun Governo ben costumato non concedeva neppure a nessun privato, si appoggia ora interamente alla pubblica autorità, e i popoli, quasi dimentichi del nome pel quale sono lodati, hanno degenerato fino ai riti e ai costumi delle genti profane“; per lo che il celebre Ghislain Busbecq, che fu ambasciatore verso la metà del secolo decimosesto dell’Imperatore Ferdinando I a Solimano II, lasciò scritto, che essendo stato un Ambasciatore Turco in un Paese Cristiano in tempo del Carnevale, ritornato in Turchia riferì che in un certo tempo dell’anno, che è quello del Carnevale, i Cristiani impazzivano, ed in virtù di una certa polvere, che si metteva sopra la loro testa, ritornavano in sé: “È stato dato come cosa certa che un Turco, che in quel tempo era venuto da noi come Ambasciatore per affari di Stato, tornato a casa riferì che i Cristiani in certi giorni erano pazzi furiosi, finché, cosparsi nel Tempio di una speciale qualità di polvere, tornavano in sé e guarivano“.

Non è stata neghittosa la Chiesa nell’opporsi, per quanto ha potuto, a questo pubblico disordine; ed è sempre ricorsa alle orazioni e alle opere di pietà, pregando Dio di sospendere i flagelli contro i peccatori, e di somministrare col suo potente aiuto il modo per riparare ad un sì gran male; e fra le altre devozioni indirizzate a questo fine, vi fu quella intrapresa da alcune Famiglie Religiose d’astenersi dal mangiar carne e cibarsi di soli latticini o dalla domenica di Settuagesima, o da quella di Sessagesima, o da quella di Quinquagesima, fino al giorno delle Ceneri; pertanto il Carnevale viene chiamato privo di carne, e nella Messa Mozaraba la domenica di Sessagesima è denominata domenica nella quale bisogna eliminare le carni. Altre devozioni sono state introdotte nel tempo del Carnevale per lo stesso effetto da uomini dabbene, ed oltre tante altre, fra le quali solenne e pubblica è quella introdotta da San Filippo Neri in questa città di Roma, della visita delle sette Chiese, della qual cosa parla il Bacci nella di lui vita; i Nostri Predecessori, per accendere in questi giorni i Fedeli alla frequenza dei Sacramenti, hanno fatto distribuzione del Tesoro delle Sante Indulgenze: “Con nuovo ma molto salutare espediente i Pontefici Sommi, tratte elargizioni dal Tesoro della Chiesa, hanno stimolato i Fedeli a frequentare con grande devozione i Sacramenti in quei tre giorni (parlasi di quelli del Carnevale) e, dal modo con cui vanno gli inizi, vi è speranza che il diavolo, cacciato via di là, dovrà essere costretto a cercare altre scelleratezze” (Teofilo Raynaudo, Opere, tomo 16, p. 412, n. 41). – Battasi dunque, o Venerabili Fratelli, da Voi questa strada, e col vostro esempio si invitino gli altri a fare lo stesso. Non si tralascino, particolarmente in questi giorni di Carnevale, da Voi l’interesse ai Divini Offizi, la celebrazione in pubblico della Messa, la visita delle Chiese e quella degli ospedali, e fate invito degli Ecclesiastici, ed anche di Laici timorati di Dio; ché questo è corteggio buono ed approvato. Si procuri che in una o più Chiese si esponga per un triduo il Venerabile, dando ogni sera la Benedizione, o dentro la settimana di Settuagesima, o in quella di Sessagesima, o in quella di Quinquagesima, o in tutte e tre; concedendo Noi con questa Nostra presente Lettera Circolare una Plenaria Indulgenza, che dovrà pubblicarsi da Voi nelle solite forme, e che essendo diretta a uno scopo pio, non resta impedita da altra Indulgenza Plenaria, che per altri titoli avesse la Chiesa in cui si espone il Venerabile, a chiunque, confessato e comunicato, visiterà in ciaschedun giorno dei detti tridui il Santissimo Sacramento, come sopra esposto, pregando di vivo cuore Sua Divina Maestà secondo l’intenzione di Santa Chiesa, che è quella di sopra esposta. – Il Nostro Apostolico Ministero esigeva che vi scrivessimo questa Lettera. L’esempio vostro, che siete tanto vicini a Noi, moverà i più lontani a far ricorso a Noi medesimi; e Noi non mancheremo di porgere a ciascun ricorrente ogni Nostro aiuto, estendendo anche a pro di lui e della sua Diocesi le Indulgenze a Voi concesse. Infine, con pienezza di cuore abbracciandovi, diamo a ciascuno di Voi, Venerabili Fratelli, ed al Gregge a ciascuno di Voi commesso, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 1° gennaio 1748, anno ottavo del Nostro Pontificato.

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Oggi il carnevale delle nostre contrade mostra orrori ben peggiori di quelli passati, per cui l’opera di riparazione spirituale è veramente insufficiente a contrastare le turpitudini alle quali si assiste, anche sostenute spesso da falsi prelati, che carnevalescamente indossano talari ed abiti clericali senza averne alcun titolo canonico … Ai pochi superstiti cattolici in unione col Santo Padre in esilio, non resta allora che mettere in pratica i propositi suggeriti dalla Santa Madre Chiesa per bocca di Sua Santità, il Vicario di Cristo di felice memoria, Benedetto XIV, già cardinal P. Lambertini, onde acquisire le indulgenze accordate in questi giorni, per l’adorazione del Santissimo, cosa invero sempre più difficile nelle chiese e cappelle oramai occupate nella quasi totale maggioranza dagli apostati falsi preti della setta del Novus Ordo, o dagli eretici scismatici, gli altrettanto falsi preti delle fraternità paramassoniche o da sacrileghi cani sciolti senza “arte né parte” che falcidiano le anime di tanti poveri ingannati e purtroppo così estromessi, per ignoranza però spesso vincibile, dalla Chiesa Cattolica. Preghiamo perché il Signore possa concedere un novello trionfo alla Chiesa Cattolica “vera” sui suoi nemici, su coloro che odiano Cristo-Dio e tutti gli uomini: i marrani infiltrati, gli aderenti alle logge della sinagoga di satana, e gli irriducibili cabalisti-talmudisti. Che il Signore Dio, con l’intercessione della Beata Vergine Maria, ce lo conceda!

 

Domenica di SETTUAGESIMA

Introitus Ps XVII:5; XVII:6; XVII:7

Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam. [Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudí la mia preghiera.]

Psal. Ps XVII: 2-3

Díligam te, Dómine, fortitúdo mea: Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus. [Ti amerò, o Signore, mia forza: Signore, mio firmamento, mio rifugio e mio liberatore.]

Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.

Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen

Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.

Orémus. Preces pópuli tui, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: ut, qui juste pro peccátis nostris afflígimur, pro tui nóminis glória misericórditer liberémur. [O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo: affinché, da quei peccati di cui giustamente siamo afflitti, per la gloria del tuo nome siamo misericordiosamente liberati.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum.

Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

1 Cor IX:24-27; X:1-5

Fratres: Nescítis, quod ii, qui in stádio currunt, omnes quidem currunt, sed unus áccipit bravíum? Sic cúrrite, ut comprehendátis. Omnis autem, qui in agóne conténdit, ab ómnibus se ábstinet: et illi quidem, ut corruptíbilem corónam accípiant; nos autem incorrúptam. Ego ígitur sic curro, non quasi in incértum: sic pugno, non quasi áërem vérberans: sed castígo corpus meum, et in servitútem rédigo: ne forte, cum áliis prædicáverim, ipse réprobus effíciar. Nolo enim vos ignoráre, fratres, quóniam patres nostri omnes sub nube fuérunt, et omnes mare transiérunt, et omnes in Móyse baptizáti sunt in nube et in mari: et omnes eándem escam spiritálem manducavérunt, et omnes eúndem potum spiritálem bibérunt bibébant autem de spiritáli, consequénte eos, petra: petra autem erat Christus: sed non in plúribus eórum beneplácitum est Deo.

[Fratelli: Non sapete che quelli che corrono nello stadio, tutti invero corrono, ma uno solo riporta il premio? Così correte, in modo da guadagnarlo. Orbene, tutti quelli che lottano nell’arena si astengono da tutto: essi per conseguire una corona corruttibile, noi invece per una incorruttibile. Io dunque corro, non come a caso, combatto, non come colpendo nell’aria: ma castigo il mio corpo e lo riduco in schiavitù, affinché per avventura, pur avendo predicato agli altri, io stesso non diventi réprobo. Non voglio infatti che voi ignoriate, o fratelli, come i nostri padri furono tutti sotto la nuvola, e tutti passarono per il mare, e tutti furono battezzati in Mosè, nella nube e nel mare: e tutti mangiarono dello stesso cibo spirituale, e tutti bevettero la stessa bevanda spirituale e bevevano della pietra spirituale che li accompagnava: e quella pietra era il Cristo: eppure Iddio non fu contento della maggior parte di essi.]

Deo gratias.

Graduale Ps IX: 10-11; IX:19-20

Adjútor in opportunitátibus, in tribulatióne: sperent in te, qui novérunt te: quóniam non derelínquis quæréntes te, Dómine, [Tu sei l’aiuto opportuno nel tempo della tribolazione: abbiano fiducia in Te tutti quelli che Ti conoscono, perché non abbandoni quelli che Ti cercano, o Signore]

Quóniam non in finem oblívio erit páuperis: patiéntia páuperum non períbit in ætérnum: exsúrge, Dómine, non præváleat homo. [Poiché non sarà dimenticato per sempre il povero: la pazienza dei miseri non sarà vana in eterno: lévati, o Signore, non prevalga l’uomo.]

Tractus Ps CXXIX: 1-4

De profúndis clamávi ad te. Dómine: Dómine, exáudi vocem meam. [Dal profondo ti invoco, o Signore: Signore, esaudisci la mia voce.]

Fiant aures tuæ intendéntes in oratiónem servi tui. [Siano intente le tue orecchie alla preghiera del tuo servo.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? [Se baderai alle iniquità, o Signore: o Signore chi potrà sostenersi?]

Quia apud te propitiátio est, et propter legem tuam sustínui te, Dómine. [Ma in Te è clemenza, e per la tua legge ho confidato in Te, o Signore.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.

Gloria tibi, Domine!

Matt XX:1-16

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Simile est regnum coelórum hómini patrifamílias, qui éxiit primo mane condúcere operários in víneam suam. Conventióne autem facta cum operáriis ex denário diúrno, misit eos in víneam suam. Et egréssus circa horam tértiam, vidit álios stantes in foro otiósos, et dixit illis: Ite et vos in víneam meam, et quod justum fúerit, dabo vobis. Illi autem abiérunt. Iterum autem éxiit circa sextam et nonam horam: et fecit simíliter. Circa undécimam vero éxiit, et invénit álios stantes, et dicit illis: Quid hic statis tota die otiósi? Dicunt ei: Quia nemo nos condúxit. Dicit illis: Ite et vos in víneam meam. Cum sero autem factum esset, dicit dóminus víneæ procuratóri suo: Voca operários, et redde illis mercédem, incípiens a novíssimis usque ad primos. Cum veníssent ergo qui circa undécimam horam vénerant, accepérunt síngulos denários. Veniéntes autem et primi, arbitráti sunt, quod plus essent acceptúri: accepérunt autem et ipsi síngulos denários. Et accipiéntes murmurábant advérsus patremfamílias, dicéntes: Hi novíssimi una hora fecérunt et pares illos nobis fecísti, qui portávimus pondus diéi et æstus. At ille respóndens uni eórum, dixit: Amíce, non facio tibi injúriam: nonne ex denário convenísti mecum? Tolle quod tuum est, et vade: volo autem et huic novíssimo dare sicut et tibi. Aut non licet mihi, quod volo, fácere? an óculus tuus nequam est, quia ego bonus sum? Sic erunt novíssimi primi, et primi novíssimi. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fissare degli operai per la sua vigna. Avendo convenuto con gli operai un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. E uscito fuori circa all’ora terza, ne vide altri che se ne stavano in piazza oziosi, e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà giusto. E anche quelli andarono. Uscì di nuovo circa all’ora sesta e all’ora nona e fece lo stesso. Circa all’ora undicesima uscì ancora, e ne trovò altri, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché nessuno ci ha presi. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti dunque quelli che erano andati circa all’undicesima ora, ricevettero un denaro per ciascuno. Venuti poi i primi, pensarono di ricevere di più: ma ebbero anch’essi un denaro per uno. E ricevutolo, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora e li hai eguagliati a noi che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo. Ma egli rispose ad uno di loro, e disse: Amico, non ti faccio ingiustizia, non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi quel che ti spetta e vattene: voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso dunque fare come voglio? o è cattivo il tuo occhio perché io son buono? Così saranno, ultimi i primi, e primi gli ultimi. Molti infatti saranno i chiamati, ma pochi gli eletti.]

Omelia

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XX, 1-16)

Contro i Balli.

Uscì un padre di famiglia, come nell’odierna parabola ci narra S. Matteo, al primo spuntar del giorno in cerca d’operai. Fece lo stesso alle ore di terza, di sesta, e di nona, e adocchiati alcuni agricoltori, che scioperati stavano perdendo il tempo, che fate voi qui tutto il giorno, in questo ozio infingardo? Quid hic statis tota die otiósi?” – Signore, risposero, non abbiamo veduto alcuno che ci chiamasse al lavoro, “Quia nemo nos condúxit. Fu questa una legittima scusa, un’opportuna risposta. Qui mi fermo per fare una poco dissimile interrogazione ad un gran numero di cristiani in questo tempo di licenze carnevalesche. Perché passate voi tutto il giorno e tutta la notte in balli, in festini, che dell’ozio sono peggiori? Oh! sento rispondermi facendo le meraviglie, e che male trovate voi nel ballo? Egli è un onesto e lecito trattenimento, autorizzato dall’antica e moderna consuetudine e praticato da ogni qualità di persone. Voi l’intendete così; contentatevi però ch’io vi dica, esser io di sentimento contrario. Come dunque ci accorderemo, se voi tenete l’opinion vostra, ed io la mia? Io non voglio che crediate sulla semplice mia parola: io non mi arrogo tanta autorità, né tanta pretensione. Mi permetterete all’opposto, che neppur io stia alla sola vostra asserzione. Facciamo dunque così. Si formi tra noi una contesa amichevole, una specie di dialogo. Voi esporrete tutte le più acconce ragioni a difendere il ballo, io vi darò quelle risposte che più saprò. Se voi mi convincete, io vi prometto di non più molestarvi su questo punto. Se restate convinti, spero mi farete grazia e giustizia con l’allontanarvi dal ballo. Cominciamo la pacifica nostra controversia. – Il ballo, dite voi, è una cosa indifferente, come indifferente è il passeggio. Altra differenza non v’è tra quello e questo, se non che nel passeggio si muove un piede avanti l’altro, e nel ballo i piedi si muovono con règola e maestria in tenore delle cadenze musicali. Oltre a ciò noi veggiamo nelle divine Scritture approvato il ballo. Maria sorella di Mose là su le sponda dell’Eritreo diede di piglio a una cetra, e mista a un coro di ebree donzelle, spiccò danze e carole, né fu certo ripresa dal suo fratello, né da alcuno del popolo di Dio. Davide re e profeta, con tutta la regia sua gravità, saltò anch’egli avanti l’arca del Testamento. Ecco il ballo, che, come una cosa tra le indifferenti, e praticata da oneste e sante persone, non si può riprendere, né condannare. – Udite la mia risposta. È dottrina di S. Agostino, e di tutti i Teologi, che un’azione qualunque veste sempre la qualità del fine a cui si dirige, e dell’intenzione con cui si fa : “Noveris, dice egli, ex fine a vitiis discernendas esse virtutes”. Voi avete un fine buono e lodevole, l’azione vostra sarà lodevole e buona. Per l’opposto avete un fine reo o malvagio, la vostra azione rea sarà del pari e malvagia. Posto ciò, il ballo della sorella di Mose e di Aronne fu un trasporto di allegrezza, diretto a magnificare la divina onnipotenza in aver liberato il suo popolo dalle spade di Faraone, sommerso con tutto il suo esercito nel mar rosso; fu perciò un ballo religioso, figlio della riconoscenza, gradito a Dio. Infatti in mezzo alla danza istessa intonò il cantico composto dal suo germano Mosè in lode del Signore. “Cantemus Domino: gloriose cum magnificatus est” (Es. XV, 21). Lo stesso deve dirsi del ballo di Davide. Al veder l’arca del Signore, figura dell’alta divina maestà, avrà un tempo tanto fatale ai Filistei, e propizia tanto ad Israele, al vederla, dissi, entrar con pompa solenne nella regia città di Gerusalemme, al suono festivo delle trombe levitiche, preso da santo giubilo, volle esternare coi salti la sua allegrezza, e applaudire così al trionfo dell’arca, ed alla gloria del suo Signore. – Ditemi or voi con tutta sincerità, qual è quel fine che vi porta al ballo? Interrogatene la vostra coscienza. Sarebbe mai, o donne, quel fine che si propose la ballerina figlia di Erodiade? per cattivarvi cioè il cuore e l’affetto di qualche Erode adultero ed incestuoso? Sarebbe mai, o uomini, quel fine ch’ ebbero gli Ebrei danzanti alle falde del Sinai? per adorare cioè qualche idolo non d’oro, ma di carne? Sarebbe mai, o giovani di bel tempo, il fine, con cui con tanta ardenza vi portate al ballo, simile a quello del corvo uscito dall’arca di Noè, quando volava in giro in volte e rivolte su i galleggianti cadaveri, per adocchiar quel carname, ove meglio potesse saziare la sozza ingordigia? – Comprendete bene, uditori miei cari, che parlando con voi, non parlo di voi. Chi frequenta la parola di Dio, come voi fate, non ha certamente fini sì sordidi. Ma fatemi ragione, e ditemi se non è cosi per la massima parte de’ ciechi mondani? Così è! Risponde un autore di credito e d’esperienza, così è, togliete dal ballo la libidine, separate gli uomini dalle donne, le donne dagli uomini, e non vi son più balli, “tolle libidinem, et choreas sustulìsti”. – Fin qui, voi confessate che la ragione sta per me. Si concede, voi dite, che se un fine così immondo ci conduce al ballo diviene peccaminoso e dannevole; ma se noi, come praticano civili e timorate persone, con fine onesto, onestissimo andiamo al ballo, cesserà d’essere per noi illecito e colpevole. Udite di grazia. Un’azione perché sia permessa, non basta che di sua natura sia indifferente, e diretta a buon fine, convien vedere se qualche circostanza la renda illecita e proibita. Per adattarmi alla capacità di tutti, permettetemi che io mi serva d’un caso ipotetico. Suppongo in questo momento che un di voi passeggi sul tetto di questa Chiesa; io resto sorpreso, lo piego a fermarsi, ed ei mi risponde: “il passeggio non è cosa indifferente e permessa?” Concedo, io soggiungo; e se passeggiate per far moto, prender aria, e per vostro sollievo, questo fine è anch’esso lecito e onesto; ma siccome camminando su questo tetto siete in prossimo pericolo di precipitar sulla piazza e perdere la vita, così non è più lécito e permesso un tal passeggio, anzi vi resta gravemente proibito, e l’onestà dell’azione e del fine non basta a giustificarlo. Lo stesso dite del ballo. Sia per sé indifferente, sia onesto quanto volete il vostro fine; il pericolo è troppo grande, il pericolo è troppo prossimo, lo scandalo è troppo eccedente; viste di sconci abbigliamenti, di mode, di nudità, musiche, suoni, allegrie, salti, stringimenti di mano … Oh Dio! io non vorrei dire di più da questo sacro luogo. Parleranno in mia vece i santi Padri, dati da Dio alla sua Chiesa e a noi per dottori, luminari, guide e maestri. Pochi ne citerò per non essere prolisso, e da questi potrete comprendere il gran pericolo dei balli. Udite santo Agostino (Serm. 115 De Temp.). Voi, diceva al suo popolo, venite alla Chiesa cristiani , e ritornati alle vostre case, dandovi ai balli, diventate pagani. Sarebbe minor male zappare la terra in giorno di festa, che occuparvi nel ballo “melius est arare, quam saltari” (in Ps. XCIII ). Udite S. Ambrogio: vadano al ballo le figlie di madre adultera, che a lei vogliono assomigliarsi, “saltent adulteræ filiæ”. Udite come ne parla S. Efrem: “Dove vedete un festino di ballo, dite pure che quel luogo è tutto tenebre per gli uomini, perdizione per le donne, tristezza per gli angeli, festa per satanasso: “Ubi choreæ, ibi virormn tenebræ, mulierum perditio, angeli cum tristitia, diaboli festum” (De ludici a christian. vitandis). Lascio S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo, e conchiudo col non men pio, che dotto Gersone, “omnia peccata chorizzant in choreìs”, danzano tutt’i peccati con quei che danzano. Questo linguaggio dei santi quanto è mai diverso da quello del mondo! Se dunque il ballo è la festa e la scuola del demonio, se è lo scoglio fatale, ove rompe l’onestà delle zitelle, la fedeltà delle coniugate; se è la rovina de’ giovani, l’obbrobrio de’ vecchi, lo scandalo di tutti, come potete senza peccato esporvi a tanto e cosi evidente pericolo? Sarebbe questo in pretendere che Iddio rinnovasse per voi il miracolo della fornace di Babilonia, ove i tre giovanetti in mezzo alle fiamme neppure sentirono il calore di quelle vampe. – Se siete stati al ballo, me ne appello alla vostra esperienza. – Va bene, voi rispondete, avete citato i santi Padri, citeremo ancor noi un Santo, che se per l’antichità non è nel catalogo dei Padri e dottori della Chiesa, merita però per santità e per dottrina esservi registrato. È questi il gran Vescovo di Ginevra S. Francesco di Sales, il quale ben lungi dal condannare il ballo, anzi l’approva e lo permette. – So che questo errore corre nel volgo, falsamente adottato dagli amanti del ballo; ma per difesa di questo gran Santo tanto diletto a Dio ed agli uomini, io vi assicuro ch’egli non dice né più né meno di quel che dicono tutt’i teologi, che può benissimo darsi caso, in cui concorrono certe circostanze imponenti, che rendano lecito il ballo, come sarebbe una moglie dal marito obbligata a concorrervi, e se essa prevede, che ricusando ne nasceranno disgusti ne’ congiunti, disturbi ne’ domestici, freddezze nell’amor maritale che santamente deve passare tra i coniugi, in questo caso può condiscendere, può ubbidire; qualora però il ballo sia onesto, e con oneste persone, e breve sia il tempo discrétamente. Questo dicono i teologi, questo dice il santo di Sales. Ma di ciò non si contenta. Ecco i suoi sentimenti intorno al ballo, i quali vi prego di riscontrare nel capo trigesimo terzo della sua Filotèa. I balli, dice questo amabile Santo, si possono rassomigliare ai funghi, de’ quali scrive Plinio, che i migliori in certe parti del mondo a nulla valgono. E siccome i funghi, per essere spugnosi e pieni di pori, assorbono facilmente il veleno di quelle serpi, di quei rospi che a loro passano attorno; così quei che vanno al ballo assorbono il veleno dell’impudicizia cogli occhi nelle viste di nudità scandalose; assorbono il veleno per le orecchie colle parole oscene, coi motti equivoci, coi sensi amorosi di qualche basilisco; assorbono il veleno per le mani, per quella maledetta libertà, che dà il ballo, di stringimenti prolissi. Se voi, Filofea, prosegue a dire, dovete per alcun dei buoni fini suddetti prestarvi a un ballo onesto e moderato, riflettete che in quella notte, in quell’ora stessa, in cui danzate, tanti Religiosi salmeggiano in coro, o sono assorti in profonde meditazioni. Riflettete che tanti poveri infermi, feriti, addolorati alzan clamori e sospiri o nelle private case o nei pubblici spedali. Riflettete che tanti moribondi e agonizzanti stanno per spirare l’anima, e renderla al Creatore. Riflettete che tante anime in quell’ora stessa spasimano nell’inferno, appunto per cagione dei balli. Riflettete infine che un giorno la morte vi farà fare un ballo assai diverso da quel che fate, vi prenderà per la mano, e vi farà far un salto dal vostro letto al tribunale di Dio, e i violini saranno i pianti dei vostri congiunti. – Credete che il Santo abbia ancora finito? Siccome, prosegue egli, a chi ha mangiato i funghi si suol consigliare che li corregga con vino generoso; così, dopo esservi, o Filotea, ritirata dal ballo, occupatevi in santi pensieri ai pie’ del crocifisso, considerate la vanità, la pazzia di questi trastulli, che dissipano lo spirito, fan languire la devozione, raffreddano la carità, e svegliano nell’anima mille affetti malvagi. Dopo tutto ciò andate a citar questo gran Santo in approvazione de balli. Questo Santo, che ogni anno si ritirava in solitudine a far gli esercizi spirituali appunto nel tempo di carnevale, per piangere le mondane follie, e le tante offese fatte a Dio ne’ balli. – Orsù, uditori miei cari, non siete ancora convinti? Non mi rispondete; io non voglio obbligarvi a dire l’intimo vostro sentimento, voglio anzi darvi vinta la causa se voi mi fate una promessa. E quale? Ecco, quando sarete in punto di morte col sacerdote a fianco, che vi presenterà il santo Crocifisso, promettetemi di dire a lui rivolti: Signore, io me ne muoio contento, perché in mia vita mi sono molto divertito nel ballo, e non ho mai lasciato passar carnevale senza darmi ad un sì caro esercizio. Io dunque, ripeto, me ne muoio contento, e voi, o Signore, accoglietemi nelle vostre braccia. Se voi “oibò! oibó!” … voi esclamate, e son queste cose da suggerirci? Con Dio non si burla, massime in quel punto estremo tanto formidabile. Ah, dilettissimi miei, se non vi sentite di così fare in quel punto, se ne avete orrore in solo esservi proposto, che segno è questo? Segno che conoscete che il ballo non è un buon passaporto pel paese dell’eternità: segno che siete persuasi che il ballo non piace a Dio, che non potrà esservi di conforto nelle vostre agonie, ma di rimorso e di spavento. Deh! per amor di Dio, per carità dell’anime vostre, dategli un eterno bando, allontanatevi da tanto pericolo, allontanatene col consiglio e coll’esempio i vostri amici, e coll’autorità e comando quei che da voi dipendono. La causa tra noi trattata, se credete averla perduta, sarà vinta in diversa e miglior forma? e in una maniera tutta per voi vantaggiosa. Avrete trionfato del demonio e de’ suoi lacci, del ballo e de” suoi tristi effetti; e cosi vittoriosi sarete ammessi in quell’eterna letizia, in cui esultano i santi nella gloria sempiterna, che Iddio vi conceda.

Credo …

Offertorium

Orémus Ps XCI:2

Bonum est confitéri Dómino, et psállere nómini tuo, Altíssime. [È bello lodare il Signore, e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Secreta Munéribus nostris, quæsumus, Dómine, precibúsque suscéptis: et coeléstibus nos munda mystériis, et cleménter exáudi. [O Signore, Te ne preghiamo, ricevuti i nostri doni e le nostre preghiere, purificaci coi celesti misteri e benevolmente esaudiscici.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

Communio Ps XXX:17-18

Illúmina fáciem tuam super servum tuum, et salvum me fac in tua misericórdia: Dómine, non confúndar, quóniam invocávi te. [Rivolgi al tuo servo la luce del tuo volto, salvami con la tua misericordia: che non abbia a vergognarmi, o Signore, di averti invocato.]

Postcommunio

Fidéles tui, Deus, per tua dona firméntur: ut eadem et percipiéndo requírant, et quæréndo sine fine percípiant. [I tuoi fedeli, o Dio, siano confermati mediante i tuoi doni: affinché, ricevendoli ne diventino bramosi, e bramandoli li conseguano senza fine.]

APPARIZIONE DELLA VERGINE SS. DI LOURDES: 11 FEBBRAIO

Columba mea, in foraminibus petrae, in caverna maceriae, ostende mihi faciem tuam, sonet vox tua in auribus meis: vox enim tua dulcis, et facies tua decora.

[O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro” – Cantico dei cantici, II-14].

 In un secolo tutto incredulità, in una nazione tutta ateismo, quale era la Francia nel secolo XIX, Maria si proclama Immacolata, ed inizia una serie di miracoli che sono la più eloquente apologia del soprannaturale. Il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria SS. era stato proclamato da appena quattro anni, ma le discussioni in pro ed in contro continuavano tuttavia: Maria pone loro termine confermando l’infallibile proclama Pontificio. Le apparizioni avvennero ad un’umile pastorella, la giovine Bernardetta Soubirous, avverandosi anche in questo caso, quanto Gesù diceva pregando il Padre: — Ti ringrazio, o Padre, che hai nascoste queste cose ai prudenti e ai sapienti e le hai rivelate ai pargoli e agli umili. – Era l’alba dell’11 febbraio 1858 e Bernardetta usciva in prossimità della grotta di Massabielle, sulle sponde del torrente Gave. Su una rupe di questa grotta la Madonna le apparve biancovestita, col capo coperto di un velo scendente sulle spalle, i fianchi cinti d’una fascia azzurra, i piedi nudi, baciati da rose olezzanti, un volto celestiale. « Era la più bella fra tutte le donne ». – Nella prima apparizione la S. Madonna insegnò alla a fanciulla a far bene il segno di Croce e a recitare il Rosario, ed Ella stessa per prima, prese fra le mani la corona che aveva penzoloni al braccio e l’incominciò. – Il secondo giorno, Bernardetta, temendo uno scherzo del demonio, all’apparizione gettò acqua santa in direzione della Signora. Ma questa si mise a sorriderle conn volto ancor più benigno. – Il terzo giorno le ordinò di ritornare alla grotta altre quindici volte, dopo le quali si manifestò: « Io sono l’Immacolata Concezione ». – Intanto avvenivano anche miracoli e la fama delle apparizioni si estendeva per tutta la Francia ed anche all’estero destando un concorso straordinario di curiosi e devoti. – Per accertarsi che la Bernardetta non fosse una visionaria o malata di mente e che quindi le apparizioni fossero vere, vi ebbero più sopraluoghi e da parte dell’autorità ecclesiastica come di quella civile. – Medici periti visitarono la fanciulla e ne constatarono la più grande normalità fisica. Mentre in una apparizione era in estasi e in conversazione colla S. Madonna, le accostarono alle dita la fiamma d’una candela; ma essa non se ne risentì. – In breve tempo i numerosissimi devoti edificarono una Chiesa che fu dai Sommi Pontefici arricchita di titoli e privilegi. – L’acqua scaturita nell’interno della roccia miracolosamente, continua anche ai nostri giorni a essere attiva; in questa vengono immersi gli ammalati e molti vengono graziati. – Ogni anno dalla nostra Italia parte per Lourdes un treno speciale, con grandi riduzioni di prezzo, per il trasporto di ammalati e ogni anno ritorna con qualche miracolato.

PRATICA. — La fede è una condizione precipua per ottenere grazie non solo materiali, ma, e più, quelle spirituali.

PREGHIERA. — O Dio, che per l’Immacolata Concezione della Vergine, preparasti al tuo Figliuolo una degna abitazione, ti supplichiamo umilmente che, celebrando l’Apparizione della Vergine, conseguiamo la salute dell’anima e del corpo. Così sia.

Nell’apparizione di Maria SS. a Lourdes

[da: Manuale di Filotea di G. Riva, XXX ed. Milano 1988]

Nella grotta di Massabielle, che trovasi in cima alla montagna che sorge presso Lourdes (Diocesi di Tarbes in Francia negli alti Pirenei, il giorno 11 febbraio del 1838 comparve, circondata da straordinario splendore, e portante al suo braccio la corona del santo Rosario, una Matrona, ornata di celeste bellezza, che più tardi (23 marzo) dichiarò di essere nientemeno che l’Immacolata Concezione Questa gran Dama fissò benigno il suo sguardo su Bernardetta Soubirons, povera e infermiccia pastorella di 14 anni priva d’ogni coltura, ma pia, ingenua ed innocente come una bambina di pochi anni, la quale, a poca distanza dalle sue due compagne, stava raccogliendo legne secche per il domestico focolare. A una prima impressione di paura succedette ben tosto la confidenza, la gioia e il desiderio di rivedere la Signora che dopo un quarto d’ora spari, né ad altri mai si rese visibile fuori che alla povera Bernardetta, la quale per tutta preghiera recitava in ginocchio il suo Rosario. Alla terza visita della grotta la dama le promise di farla felice, non in questo mondo, ma nell’altro quand’ella le promettesse di ivi ritornare per 13 volte, il che ella fece a vari intervalli, appena n’ebbe il potere, In queste apparizioni Bernardetta si trasformava in persona tutta celeste, insensibile anche alla fiamma di una candela ardente fra le sue dita, con gran stupore di migliaia di persone accorse per la già sparsa notizia delle ripetute apparizioni, e più ancora perché la non mai vista fontana, sgorgata dal nudo sasso sotto gli occhi e le mani di Bernardetta il 24 febbraio, quinto giorno della quindicina, operava di continuo le più istantanee sanazioni d’ogni male più incurabile, fra le quali, dalla commissione a ciò istituita dal Vescovo di Tarbes, furono constatate come assolutamente innegabili, non meno di quindici fra le trenta prodigiose sanazioni ch’erano state proposte, Tutte le più indegne arti del secolo, cioè le vessazioni usate a Bernardetta dal Sindaco, dal Direttore di Polizia, dal Regio Pronatore di quel Comune, dal Prefetto di quel dipartimento, dal Ministro del culto a Parigi, congiurati insieme coi medici del luogo, e coi libertini giornali a sparger di ridicolo ed a condannare come finzioni il più innegabile prodigio, tornarono all’atto vane per impedire o smentire: 1.- le apparizioni che dall’11 febbraio al 16 luglio 1858, si ripeterono fino a 18 volte; 2.- l’erezione della domandata Cappella, che finì ad essere un tempio di più di 2 milioni di costo; 3.- le prodigiose guarigioni, che sempre più crebbero in numero, importanza e certezza, per cui l’acqua della fonte di Lourdes è ansiosamente cercata in ogni parte, e con speciale fiducia è da ogni genere di persone devotamente invocata la Immacolata Vergine colà apparsa, e di là diffondente i suoi miracoli in tutto il mondo. – Le meraviglie di questa Apparizione sono assai bene descritte dal signor Enrico Lasserre, uno dei beneficati dalla Madonna di Lourdes colla istantanea ricuperazione della vista quasi perduta. L’opera è intitolata: “Storia di Nostra Signora di Lourdes”.

ALLA MADONNA DI LOURDES ( 11 Febbraio).

I.- Immacolata Regina, che personalmente apparendo qual maestosa Matrona, nella grotta di Massabille sopra Lourdes, onoraste dei vostri benigni sguardi e della comunicazione dei vostri segreti la povera ed infermiccia Bernardetta Soubirons, quanto poco stimabile presso gli uomini per la sua deficienza d’ogni coltura, altrettanto accettissima a voi pel candore della sua innocenza e il fervore della sua devozione, ottenete a noi tutti la grazia che, mettendo sempre ogni nostra gloria nel renderci cari al Signore con una vita tutta conforme alla specialità dei nostri doveri, ci rendiamo al tempo stesso sempre meritevoli dei vostri più speciali favori. Ave.

II.- Immacolata Regina, che, esternando alla povera Bernardetta il vostro desiderio di venire onorata con nuovo tempio nel luogo stesso della vostra apparizione sopra le alture di Lourdes, le ingiungeste ancora di partecipare il vostro ordine ai preti siccome quelli che ne dovevano promuovere esecuzione, ottenete a noi tutti la grazia che, in quanto può riferirsi alle celesti comunicazioni, ci rimettiamo sempre al giudizio dei sacerdoti, essendo essi le guide che Dio medesimo ci ha assegnate per non mai mettere il piede in fallo in tutto ciò che riguarda così il vero culto di Dio, come il vero bene delle anime. Ave.

III.– Immacolata Regina, che, ad assicurar tutto il mondo così della realtà nella vostra apparizioni sopra le alture di Lourdes, come del desiderio da voi espresso di essere ivi onorata con nuovo tempio, faceste sgorgare sotto gli occhi di Bernardetta una sorgente affatto nuova di perenne abbondantissima acqua, quanto gustevole al labbro, altrettanto efficace al risanamento d’ogni più incurabile morbo, ottenete a noi tutti la grazia che, risanandosi per vostra intercessione ciò che è infermo, rinvigorendosi ciò che è sterile nel nostro spirito, apriamo nei nostri cuori quella mistica fonte di virtù e di opere buone, le cui acque salgono alla vita eterna per assicurarcene il felice possedimento. Ave.

IV.- Immacolata Regina, che faceste svanir come nebbia in faccia al sole tutte le armi impugnate dalle più maligne potenze del mondo e dell’inferno per infermare e sventare le vostre divine rivelazioni fatte nella grotta della vostra comparsa alla buona Bernardetta, ottenete a noi tutti la grazia che, lungi dallo sgomentarci per qualsivoglia contraddizione, tanto più spieghiamo di coraggio nel camminare sulle orme da Voi insegnateci, quanto più spiegheranno di forza i nostri spirituali nemici per farci declinare dal cammino retto che solo guida a salute. Ave.

V. Immacolata Regina, che vi degnaste assicurare la buona Bernardetta della eterna beatitudine nell’altra vita, quando ella vi promettesse di cuore di tornare per quindici volte al luogo della vostra apparizione sulle alture di Lourdes, come fece realmente col vostro aiuto, malgrado tutte le arti adoperate contro di lei per distornerla, ottenete a noi tutti la grazia che perseveriamo sempre fedeli nei buoni propositi da Voi suggeriti colle vostre santissime inspirazioni; o così ci assicuriamo quel premio che solo ai perseveranti nel bene è da Dio preparato. Ave.

VI. Immacolata Regina, che a sempre meglio inculcare a tutto il mondo la devozione del santo Rosario mostraste voi stessa di tenera carissima nelle vostre mani la misteriosa corona, e accompagnarne la recita che ne faceva la devota Bernardetta, ottenete a noi tutti la grazia che, facendoci sempre un dovere di praticare colle nostre famiglie una divozione così bella, ci conformiamo ancora costantemente ai divini insegnamenti che ci derivano così dalle santissime preghiere che vi si devono ripetere, come salutari misteri che vi si devono meditare. Ave.

VII. Immacolata Regina, che, a glorificare in modo degno di voi la vostra devotissima Bernardetta, la preservaste da ogni sgomento e da ogni anche minima perturbazione della propria inalterabile tranquillità fra i più insidiosi interrogatori, le più severe minacce e le più inique persecuzioni, la trasformaste in creatura affatto celeste nel tempo delle vostre apparizioni, e la rendeste, alla vista d’immenso popolo, affatto insensibile anche agli ardori di una fiamma su cui nell’estasi della propria preghiera teneva immote le mani, ottenete a noi tutti la grazia che in tutti i nostri pericoli e in tutte le nostre tribolazioni ci affidiamo fiduciosi al materno vostro patrocinio, siccome quello da cui solo possiamo prometterci la liberazione di ogni male e il conseguimento d’ogni bene. Ave.

VIII. Immacolata Regina, che, a soddisfare le pie domande ripetutamente indirizzatevi dalla vostra affezionatissima Bernardetta, ora le spiegaste il motivo del vostro insolito rattristamento, ripetendo nella parola Penitenza ciò che resta sempre da fare a chiunque coi proprii peccati ha meritato i divini castighi, ora colle grandi parole da voi proferite nel giorno stesso della vostra annunciazione: “Io sono la Immacolata Concezione”, le faceste conoscere con precisione la inarrivabilità della vostra eccellenza e la divinità del gran dogma poco prima proclamato dal Sommo Pontefice Pio Nono, vostro fedelissimo servo, quando vi dichiarò affatto esente dall’originale peccato, ottenete a noi tutti la grazia che ci facciamo sempre un dovere di placare colla debita penitenza la divina procata dai nostri falJi, e di sempre propiziarci la divina bontà colla più cordiale venerazione del vostro immacolato Concepimento, che è il più onorifico fra i vostri pregi, il più istruttivo fra i vostri misteri, e l’ossequio il quale è il più proprio a meritarci la vostra potentissima protezione. Ave.

IX. Immacolata Regina, che a perpetuar la memoria della vostra personale apparizione, per ben diciotto volte ripetuta alla buona Bernardetta sulle alture di Lourdes, e dei tanti miracoli operati in tutto il mondo dall’acqua prodigiosamente sgorgata ai vostri piedi, moveste i cuori più duri a concorrere insieme coi più pii alla costruzione di un nuovo tempio rappresentante nella propria magnificenza la nazione primogenita della Chiesa, che si fece poi una gloria di ivi invocare il vostro aiuto coi più devoti pellegrinaggi e colle più splendide testimonianze della propria fede, ottenete a noi tutti la grazia che spieghiamo sempre la più viva riconoscenza a tutti i vostri favori, e congiungendo allo zelo pel vostro culto la imitazione sempre fede, delle vostre celesti virtù, ci assicuriamo la tenerezza del vostro patrocinio in questa vita, e la partecipazione alla vostra gloria tra i Santi e gli Angeli nella eternità. Ave, Gloria.

ORAZIONE.

Deus qui, per Immaculatam Virginis Conceptionem, dignum Filio tuo habitaculum preparasti, qæsumus, ut qui ex morte ejusdem Filii tui prævisa, eam ab omni labe preservasti, nos quoque mundos, ejus intercessione, ad te pervenire concedas. Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum, etc, – R). Amen.

TEMPO DI SETTUAGESIMA

TEMPO DI SETTUAGESIMA

[da Dom Guéranger. L’Anno Liturgico, vol I]

Capitolo I

STORIA DEL TEMPO DI SETTUAGESIMA

Importanza di questo tempo.

Il Tempo di Settuagesima abbraccia la durata delle tre settimane che precedono immediatamente la Quaresima e costituisce una delle parti principali dell’Anno Liturgico. È suddiviso in tre sezioni ebdomadarie, di cui solamente la prima porta il nome di Settuagesima; la seconda si chiama Sessagesima; la terza Quinquagesima. È chiaro che questi nomi esprimono una relazione numerica come la parola Quadragesima, donde deriva la parola Quaresima. La parola Quadragesima sta ad indicare la serie dei quaranta giorni che dobbiamo attraversare per arrivare alla festa di Pasqua. Le parole Quinquagesima, Sessagesima e Settuagesima ci fanno quasi vedere tale solennità in un lontano ancora più prolungato; però non è meno importante il grande oggetto che comincia ad assillare la santa Chiesa, la quale lo propone ai suoi figli quale mèta verso cui devono ormai tendere tutti i loro desideri e tutti i loro sforzi. – Orbene, la festa di Pasqua esige per preparazione quaranta giorni di raccoglimento e di penitenza. E il tempo più propizio, il mezzo più potente che adopera la Chiesa per ravvivare nel cuore e nello spirito dei fedeli il sentimento della loro vocazione. Nel loro più alto interesse, essi non devono lasciar passare questo periodo di grazie, senz’averne approfittato per il rinnovamento dell’intera loro vita. Perciò conveniva disporli a questo tempo di salute, ch’è di per se stesso una preparazione, affinché, spegnendosi a poco a poco nei loro cuori i rumori del mondo, fossero più attenti al grave monito che la Chiesa farà loro, imponendo la cenere sul capo.

Origine.

La storia della Settuagesima è intimamente legata a quella della Quaresima. Infatti fin dal V secolo cominciava la sesta domenica prima di Pasqua, che corrisponde alla prima domenica del l’attuale Quaresima, e comprendeva i quaranta giorni che vanno fino al Giovedì Santo, considerato dall’antichità cristiana come il primo Mistero pasquale. – La domenica non si digiunava; di conseguenza non v’erano, propriamente parlando, che 34 giorni di digiuno effettivo (36 col Venerdì e il Sabato Santo), Ma il desiderio d’imitare l’intero digiuno del Signore portò le anime più ferventi ad anticiparlo a Quinquagesima. – Questa usanza si vede apparire la prima volta nel V secolo; tanto che S. Massimo di Torino, nel Sermone 260, pronunciato forse nel 451, la biasima e ricorda che la Quaresima comincia la domenica di Quadragesima. Ma siccome in seguito essa si andava molto diffondendo tra i fedeli, verso il 465, nel Sermone 360, l’approva. Nel vi secolo S. Cesario d’Arles, nella sua Regola per le Vergini, fa cominciare il digiuno una settimana prima della Quaresima, Dunque è certo che, almeno nei monasteri, la Quinquagesima esiste fin d’allora. Il Primo Concilio d’Orléans (511) ordina ai fedeli di osservare prima di Pasqua la Quadragesima e non la Quinquagesima, per « mantenere – dice il canone 26,0 – l’unità delle usanze », Il primo e secondo Concilio d’Orange (511 e 541) combattono il medesimo abuso e proibiscono di digiunare prima della Quadragesima, L’autore del Liber Pontificalis, intorno al 520, segnala l’usanza d’anticipare la Quaresima d’una settimana, ma sembra che fosse ancora poco diffusa.

Sessagèsima,

In seguito, il periodo consacrato al digiuno venne ancora anticipato di un’altra settimana, che si aggiunse alla Quinquagesima e si chiamò Sessagesima, La prima menzione si riscontra nella Regola di S, Cesario, scritta per i Monaci prima del 542, Ugualmente ne parla il IV Concilio d’Orléans, nel 541, ma solo per proibire le anticipazioni del digiuno.

Settuagesima.

Finalmente, verso la fine del vi secolo o al principio del vii, apparve a Roma la Settuagesima, come se ne fa menzione nelleOmelie di S. Gregorio Magno (594-604). Le osservanze liturgiche raggiunsero a poco a poco prima l’Italia del Nord, con Milano, poi, per l’influsso dei Carolingi, tutta l’Europa occidentale, L’Inghilterra le ricevette alla fine del VII secolo e l’Irlanda soltanto dopo il IX. Però, se il digiuno era ormai osservato durante le settimane di Quinquagesima e di Sessagesima, sembra che al momento della sua istituzione, la Settuagesima non fosse che una celebrazione liturgica senza digiuno; mentre nel IX secolo i Concili Carolingi lo prescrivono formalmente.

Soppressione dell’Alleluia.

Sappiamo da Amalario che, dall’inizio del IX secolo, alla Settuagesima si sospendeva l’Alleluia e il Gloria in excelsis Deo, Anche i monaci si conformarono a quest’uso, sebbene la Regola di S. Benedetto formulasse una disposizione contraria. Secondo alcuni fu S. Gregorio VII (1073-1085) che, alla fine del XI secolo, soppresse l’ufficiatura alleluiatica, in uso fino allora, alla domenica di Settuagesima, Si tratta delle Antifone alleluiatiche delle Lodi, che S, Gregorio VII avrebbe sostituite con quelle dell’ufficio della domenica di Settuagesima, fornendo quest’ultima di nuove antifone. Tale fatto è attestato dall’Orbo Ecclesiae Lateranensis del XII secolo, È dunque da ritenere che fu quel Papa ad anticipare la soppressione dell’Alleluia al sabato avanti la Settuagesima (Mons. Callewaert, Sacris eruditi, p, 650), Così questo Tempo dell’Anno Liturgico, dopo vari esperimenti,finì per stabilirsi definitivamente.- Fondato sull’epoca della festa di Pasqua è, per ciò stesso, soggetto a ritardo o ad anticipo, secondo la mobilità di quella festa. Il 18 gennaio e il 22 febbraio vengono chiamati chiave della Settuagesima, perché la domenica che porta questo nome non può essere collocata né prima del 18 gennaio, né dopo il 22 febbraio.

Capitolo II

Il tempo in cui entriamo contiene profondi misteri, che non sono solamente propri delle tre settimane che ci preparano alla santa Quarantena, ma si estendono a tutto il periodo che ci separa dalla grande festa della Pasqua.

Due tempi.

Il numero settenario è il fondamento di questi misteri. « Vi sono due tempi, dice S. Agostino nel suo commento al Salmo 148: uno si attraversa ora, nelle tentazioni e tribolazioni della vita; l’altro si passerà in una sicurezza e letizia eterne. Noi li celebriamo, il primo avanti la Pasqua, il secondo dopo la Pasqua. II tempo avanti la Pasqua esprime le angosce della vita presente; quello che comincia con la Pasqua significa la beatitudine che godremo un giorno. Ecco perché passiamo il primo dei due tempi nel digiuno e nella preghiera, mentre il secondo lo dobbiamo dedicare ai canti della gioia; e per tutta la sua durata è sospeso il digiuno ».

Due luoghi.

La Chiesa, interprete delle sacre Scritture, ci addita due diverse città, in diretto rapporto coi due tempi descritti da S. Agostino: Babilonia e Gerusalemme. La prima è il simbolo di questo mondo di peccato, dove il cristiano passerà il tempo della prova; la seconda è la patria celeste, dove si riposerà di tutti i suoi combattimenti. Il popolo d’Israele, la cui storia è tutta una grandiosa figura dell’umanità, fu esiliato da Gerusalemme e tenuto, per settant’anni prigioniero in Babilonia. Per esprimere questo mistero la Chiesa, secondo Alenino, Amalario, Ivo di Chartres e generalmente i liturgisti del Medioevo, ha voluto fissare per i giorni dell’espiazione il numero settuagenario, e seguendo lo stile delle sacre Scritture, ha preso il numero simbolico per quello reale.

Le sette età del mondo.

Secondo le antiche tradizioni cristiane anche la durata del mondo si suddivide in sette periodi. Prima che albeggi il giorno della vita eterna il genere umano deve attraversare sette età. La prima è trascorsa dalla creazione di Adamo a Noè; la seconda dal diluvio fino alla vocazione di Abramo; la terza comincia con questo primo nucleo del popolo di Dio e arriva a Mosè, per le cui mani il Signore elargì la Legge; la quarta si estende da Mosè a David, nella cui persona si inizia la sovranità reale nella casa di Giuda; la quinta abbraccia la serie di secoli dopo il regno di David fino alla cattività dei Giudei in Babilonia; la sesta si svolge dal loro ritorno dalla cattività fino alla nascita di Gesù Cristo. Finalmente si apre la settima età, che sorge con l’apparizione del Sole di giustizia, e durerà fino all’avvento del Giudice dei vivi e dei morti. Tali sono le sette grandi frazioni dei tempi, dopo i quali non v’è che l’eternità.

Il settenario della gioia.

Per confortarci in mezzo ai combattimenti di cui è cosparso il nostro cammino, la Chiesa ci fa conoscere un altro settenario, che in realtà seguirà a quello che andiamo attraversando. Dopo la Settuagesima della tristezza verrà la Pasqua, con sette settimane di gioia, a farci pregustare le consolazioni e le delizie del cielo. Difatti, dopo aver digiunato con Cristo e compartecipato alle sue sofferenze, risusciteremo con lui, e i nostri cuori lo seguiranno nel più alto dei cieli. A poco a poco sentiremo discendere in noi il divino Spirito coi suoi sette doni; per cui la celebrazione di sì grandi meraviglie non ci chiederà meno di sette settimane, cioè da Pasqua a Pentecoste.

Il periodo della tristezza.

Dopo aver gettato uno sguardo di speranza verso il consolante avvenire dobbiamo ora rifarci alle realtà presenti. Che cosa siamo quaggiù? Degli esiliati, degli esseri in catene, in preda a tutti i pericoli che Babilonia ci nasconde. Orbene, se amiamo la patria, se desideriamo rivederla, dobbiamo romperla con le false lusinghe di questo perfido straniero e respingere lungi da noi quella tazza, alla quale s’inebria una gran parte dei nostri fratelli di cattività. Essa c’invita ai trastulli ed ai piaceri; ma le nostre arpe devono rimaner sospese ai salici presso le rive del suo fiume, fino a quando ci sarà dato il segnale di rientrare in Gerusalemme. Vorrebbe impedirci di riascoltare i canti di Sion entro le sue mura, come se il nostro cuore potesse star contento lontano dalla patria, mentre un esilio eterno sarebbe la pena della nostra infedeltà. « Come canteremo i cantici del Signore in terra straniera?» (Sal. CXXXVI, 4).

I riti della penitenza.

Sono questi i sentimenti che la Chiesa cerca d’infonderci in tali giorni, richiamando l’attenzione sui pericoli che ci circondano, dentro e fuori di noi, da parte delle creature. Per il resto dell’ anno ci spronerà a ripetere il canto celestiale del gioioso Alleluia! Ma ora ci mette la mano sulla bocca, perché non abbia mai a risuonare quel grido d’allegrezza in Babilonia. «Siamo in viaggio e lontani dal Signore » (II Cor. V, 6): serbiamo i nostri inni per il momento che lo raggiungeremo. Siamo peccatori, e molto spesso complici degli infedeli: purifichiamoci col pentimento, perché sta scritto che « la lode del Signore perde la sua bellezza nella bocca del peccatore» (Eccli. XV, 9). La caratteristica di questo tempo è, dunque, la sospensione dell’Alleluia che non dovrà più sentirsi sulla terra, fino a quando non avremo partecipato alla morte di Cristo e non saremo risuscitati con Lui per una vita nuova (Col. II, 12). – Ugualmente ci viene tolto l’inno angelico Gloria a Dio nel più alto dei cieli, che riecheggiò ogni domenica dopo la nascita del Redentore; ci sarà solo concesso ripeterlo in quei giorni della settimana in cui si commemora la festa d’un Santo. Alla domenica il Mattutinoperde fino a Pasqua l’Inno Ambrosiano “Te Deum laudamus”. – Al termine del Sacrificio il diacono non scioglierà più l’assemblea dei fedeli con le parole Ite, Missa est ; ma solo li inviterà a continuare la loro preghiera in silenzio, benedicendo il Dio della misericordia che, malgrado le nostre iniquità, non ci ha rigettati da Lui. – Dopo il Graduale della Messa, in luogo dell’Alleluia, che si ripeterà tre volte per disporre i nostri cuori ad aprirsi per ascoltare la voce stessa del Signore nella lettura del suo Vangelo, sentiremo l’emozionante melodia del Tratto, il quale esprime il linguaggio del pentimento, della supplica incessante e dell’umile confidenza, che ci devono essere abituali in questi giorni.

Altri riti liturgici

Pare che la Chiesa si preoccupi d’avvertire anche i nostri occhi, che il tempo in cui entriamo è un tempo di dolore. Difatti, il violaceo sarà il colore abituale, quando non vi sarà un Santo da festeggiare. Fino al Mercoledì delle Ceneri il diacono e il suddiacono continueranno a indossare la dalmatica e la tunica; ma a partire da questo giorno deporranno questi abiti di gioia, e aspetteranno che l’austera Quarantena ispiri alla Chiesa come esprimere ancora più la sua tristezza, eliminando tutto ciò che potrebbe minimamente risentire di quello splendore, di cui in altro tempo ama circondare i suoi altari.

Capitolo III

Sono scomparse le gioie che gustammo con la Nascita dell’Emmanuele. Furono quaranta giorni di breve gioia; poi il cielo della Chiesa si è oscurato, apparendo soffuso di tinte più tristi. Forse è per sempre perduto il Messia atteso con tanta speranza nelle settimane d’Avvento? O il Sole di giustizia ha deviato il suo corso per dirigersi lontano da questa terra colpevole?

Partecipazione alla Passione di Cristo.

Rassereniamoci. Il Figlio di Dio e di Maria non ci può aver abbandonati, perché il Verbo s’è fatto carne per abitare in mezzo a noi. Gli è riservata una gloria più grande di quella di nascere fra i cori angelici, e noi ne avremo parte; ma la comprerà a prezzo di mille patimenti e con la più crudele e più ignominiosa delle morti. Se, dunque, vogliamo partecipare al trionfo della sua Risurrezione, dobbiamo prima seguirlo nella via dolorosa bagnata dalle sue lacrime e dal suo sangue. – Fra poco si farà sentire la voce della Chiesa per invitarci alla penitenza quaresimale; ma in preparazione a questo penoso battesimo, vuole che per tre settimane ci soffermiamo a sondare la profondità delle piaghe fatte alle nostre anime dal peccato. È vero, niente uguaglia il fascino e la dolcezza del Bambino di Betlem; ma non ci bastano più le sue lezioni d’umiltà e semplicità. Sta per essere eretto l’altare, dove sarà immolata da una tremenda giustizia la grande vittima che morirà per noi, ed è quindi tempo che ci chiediamo conto delle obbligazioni che abbiamo con Colui ch’è pronto a sacrificare l’innocente in luogo dei colpevoli.

Opera di purificazione.

Il mistero d’un Dio che si degna incarnarsi per gli uomini ci ha aperto i sentieri della Via illuminativa ; ma i nostri occhi sono invitati a contemplare una luce più viva. Non si turbi il nostro cuore: la bellezza della Natività sarà superata dalla grande vittoria dell’Emmanuele. Ma se il nostro occhio è ansioso di mirare il suo splendore, si deve prima purificare, immergendosi senza debolezza nel profondo abisso della sua miseria. A nessuno sarà negato il lume divino per compiere quest’opera di purificazione e di giustizia. Quando giungeremo a ben conoscere noi stessi ed a renderci conto della profonda caduta originale e della malizia dei peccati attuali, a comprendere, nella luce di Dio, la sua immensa misericordia per noi, allora soltanto saremo preparati alle salutari espiazioni che ci attendono ed alle gioie ineffabili che le seguiranno.

Il pianto dell’esilio.

Poiché tale tempo è consacrato ai più gravi pensieri, non sappiamoesprimere meglio i sentimenti che la Chiesa attende dal cristiano che traducendo un brano dell’eloquente esortazione, che nel secolo IX indirizzava il grande Ivo di Chartres al suo popolo, all’aprirsi della Settuagesima. « Lo disse l’Apostolo: Tutte le creature sospirano e sono nei dolori del parto. E non esse soltanto, ma anche noi che dobbiamo le primizie dello spirito, anche noi sospiriamo dentro noi stessi, aspettando l’adozione dei figli di Dio e la redenzione del nostro corpo (Rom. VIII, 22). Questa anelante creatura è l’anima allontanata dalla corruzione del peccato, che piange la sorte d’essere ancora soggetta a tante caducità e continuerà a soffrire i dolori della sua nascita fino a quando sarà lontana dalla patria. Per la stessa ragione il Salmista esclamava: Misero me! il mio pellegrinaggio è prolungato! (Sal. CXIX, 5). Lo stesso Apostolo, che aveva ricevuto lo Spirito Santo ed era uno dei primi membri della Chiesa, ansioso di ricevere di fatto l’adozione filiale, che già possedeva nella speranza, esclamava: “Desidero morire ed essere con Cristo” (Filip. I, 23). Perciò dobbiamoin questi giorni più che mai abbandonarci al pianto ed alle lacrime, per meritare con la tristezza ed i lamenti del nostro cuore di ritornare nella patria, dalla quale ci esiliarono le gioie che procurano la morte. Piangiamo durante il viaggio, se vogliamo gioire giunti alla mèta; percorriamo l’arena della vita presente per cogliere al termine il premio della chiamata celeste; non siamo dei viaggiatori insensati che dimenticano la propria terra e s’affezionano a quella dell’esilio, o si fermano lungo la via; neppure dobbiamo essere di quei malati insensibili che non sanno cercare il rimedio ai loro mali, perché è già spacciato chi non ha neppure coscienza della propria infermità. Corriamo dunque dal medico dell’eterna salute, a scoprirgli tutte le nostre ferite e a fargli sentire l’intimo grido dell’anima nostra: Abbi pietà di me. Signore, che son malato: ridonami la salute, perché le mie ossa sono sconquassate (Sal. VI, 3). Così questo medico divino perdonerà le nostre iniquità, ci guarirà da tutti i languori e colmerà tutti i nostri desideri per il bene ».

Vigilanza.

Il cristiano che vuole, durante questo tempo, penetrare lo spirito della Chiesa, deve bandire da sé quella falsa sicurezza, o quella propria soddisfazione che spesso alligna nelle anime molli e tiepide e non produce che sterilità, quando non porta insensibilmente alla distruzione del vero senso cristiano. Chi si crede dispensato da questa continua vigilanza, tanto raccomandata dal Salvatore (Mc. XIII, 37), è già nelle mani del nemico; chi non sente il bisogno di combattere, lottare per mantenersi saldo nella via del bene deve temere d’essere molto lontano dal Regno di Dio, che si conquista con la forza (Mt. XI-12); chi dimentica i peccati perdonati dalla misericordia divina, deve tremare al pensiero che d’ora in poi sarà lo zimbello d’una pericolosa illusione (Eccli. V, 5). Diamo dunque gloria a Dio in questi giorni, consacrandoci alla coraggiosa contemplazione delle nostre miserie, ed attingendo nella conoscenza di noi stessi sempre nuovi motivi di sperare in Colui, che mai debolezze ed errori impedirono d’abbassarsi fino a noi per innalzarci fino a Lui.

Trionfo della Chiesa

Nella attuale situazione della Chiesa Cattolica, Chiesa attualmente eclissata da un orribile mostro conciliare, infettato dal cancro e dalla peste del modernismo, somma di tutte le eresie, mostro sostenuto pure dalle sette eretico-scismatiche sedicenti tradizionaliste, ci conforta leggere l’introduzione all’opera di Sant’Alfonso Maria dei Liguori: “Storia delle eresie”, che ci ricorda appunto che la “barca di Pietro”, battuta dalle tempeste e dai marosi delle eresie susseguitesi nel corso dei secoli, alfine è stata sempre vittoriosa e più splendente che in precedenza, grazie alla mano di Dio Onnipotente che sempre la sostiene e la dirige. Animo quindi, anche la peste modernista attuale sarà superata, in un modo a noi umanamente impensabile, ma la promessa evangelica di Gesù Cristo si compirà ancora una volta … portæ inferi non prævalebunt … a noi il compito di mantenerci fermi nella fede secondo il Magistero della Santa Chiesa cattolica, senza digressioni o fantasie pseudo-teologiche, cosicché terminata la corsa, con l’aiuto del Cuore Immacolato di Maria, possiamo giungere al premio eterno promesso da Gesù-Cristo a coloro che fanno la volontà del Padre suo.

Trionfo della Chiesa,

ossia “Istoria delle Eresie colle loro confutazioni” (1772) di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori

INTENTO DELL’OPERA

1.- L’intento di quest’opera è di far vedere che la Chiesa cattolica romana è fra tutte le altre chiese l’unica vera; dimostrandosi la cura che Dio ne ha tenuta, facendola sempre restar vittoriosa contro tutte le persecuzioni de’ suoi nemici. Pertanto da essa debbono tutti dipendere, come dal fonte e dal capo, secondo scrisse S. Ireneo: “Omnes a romana ecclesia necesse est ut pendeant tamquam a fonte et capite” (L. 3. c. 3. n. 2.). Questa già è quella Chiesa che fu fondata da Gesù Cristo e poi propagata dagli apostoli; e quantunque fin dal principio fosse stata da per tutto perseguitata e contraddetta, come opposero i giudei a S. Paolo in Roma: “De secta hac, così chiamavano essi la religion cristiana, notum est nobis quia ubique ei contradicitur”, nondimeno ella si mantenne sempre stabile, a differenza delle altre chiese false che a principio ebbero molti seguaci, ma poi col tempo restarono dissipate; come si vedrà nell’opera, quando parleremo degli Ariani, de’ Nestoriani, Eutichiani, Pelagiani e simili. E se qualche setta è rimasta numerosa, come quella de’ Maomettani, de’ Luterani e Calvinisti, da ognuno tuttavia si scorge che non già l’amor della verità la sostiene, ma o l’ignoranza de’ popoli o la licenza de’ costumi. Dice S. Agostino che le eresie non sono abbracciate se non da coloro i quali, se fossero restati nella Chiesa, si sarebbero perduti egualmente per la perversità de’ loro vizj: “Non ex aliis hominibus fiunt haeretici, quam ex iis qui, si in ecclesia permansissent, propter vitae turpitudinem nihil ominus periissent”.

2.- La nostra Chiesa all’incontrario, non ostante che ella insegna a’ suoi figli una legge contraria alle inclinazioni della natura corrotta, non solamente non mancò in mezzo alle persecuzioni, ma con quelle più crebbe; onde poté asserire Tertulliano che il sangue de’ martiri era come una feconda semenza che moltiplicava i cristiani, di cui quanti più ne erano uccisi, tanto più ne cresceva il numero: “Sanguis martyrum semen christianorum; quoties metimur, plures efficimur”. E prima aveva scritto: “Christi regnum et nomen ubique creditur, ab omnibus gentibus colitur”. E ciò si conforma a quel che scrisse Plinio il giovine nella sua celebre lettera a Traiano, dicendo venirgli riferito dall’Asia che ivi regnava da per tutto la religion cristiana, in modo che si vedevano abbandonati tutti i templi degli idoli: “In Asia prope iam desolata esse templa deorum, eo quod christiana religio non tantum civitates sed etiam vicos occupasset”.

3. Ciò non poteva certamente avvenire senza la forza dell’onnipotente mano divina, trattandosi di fondare in mezzo all’idolatria una nuova religione che distruggeva tutte le superstizioni di quella e la credenza così invecchiata di tanti falsi dei, comunemente prima adorati da’ gentili e dai loro antenati ed anche da’ magistrati e dagli stessi imperatori, che con tutto il loro vigore la proteggevano: e ciò non ostante la fede cristiana da molti popoli fu abbracciata, passando essi da una legge rilassata ad un’altra dura che vietava il secondare gli appetiti del senso. Chi mai poteva condurre a fine una tale impresa se non la potenza di un Dio?

4.- Grandi pertanto furono le persecuzioni che patì la Chiesa dall’idolatria; ma più terribili furono quelle che ebbe a soffrire dalle eresie uscite dal suo medesimo seno per mezzo di uomini malvagi, che mossi dalla superbia, o dall’ambizione, o dalla libertà de’ sensi, impresero a lacerar le viscere della stessa loro madre. L’eresia dall’apostolo fu chiamata cancer (ut cancer serpit), perché siccome il canchero infetta tutto il corpo, così l’eresia infetta tutta l’anima, infetta la mente e il cuore, l’intelletto e la volontà. Ella si chiama ancora peste, perché non solo infetta la persona che n’è contaminata, ma ancora gli altri che a lei si accostano. Ed in fatti avvenne che, dilatandosi questa peste nel mondo, è stato molto maggiore il danno recato alla Chiesa dall’eresia che dall’idolatria; sì che questa buona Madre è stata più maltrattata dai figli che dagli stessi suoi nemici. Nulladimanco ella è restata sempre superiore in tutte le tempeste che gli eretici le han suscitate contro. Parve un tempo che l’eresia dell’empio Ario avesse oppressa la Chiesa, precisamente quando per le frodi di Valente e di Ursacio vescovi perversi fu condannata la fede del Concilio niceno; onde scrisse san Geronimo che allora il mondo gemendo si vide fatto Ariano: “Et ingemiscens orbis terrarum se Arianum esse miratus est” [Actor. 28. 22.]. E la stessa oppressione par che avesse sofferta la Chiesa nell’oriente a tempo dell’eresie di Nestorio e di Eutichete; ma ella è una meraviglia e una consolazione insieme nel leggere i successi delle eresie, come in certi tempi sembrava che la navicella della Chiesa dalla forza delle persecuzioni restasse superata e sommersa, e come poi in breve tempo si è veduta risorgere più gloriosa e trionfante di prima.

5.- Scrisse S. Paolo: “Oportet et haereses esse, ut et qui probati sunt, manifesti fiant in vobis”. Spiega s. Agostino la parola oportet, e dice che siccome il fuoco è necessario a purgare l’argento e separarlo dalla scoria, così le eresie sono necessarie a provare i buoni tra i cattivi cristiani, ed a separar la vera dalla falsa dottrina. La superbia degli eretici fa loro presumere che essi conoscano la vera fede, e che la Chiesa cattolica erri. Ma qui sta l’inganno: perché non possiamo noi tener per vera quella fede che ci addita la nostra ragione; mentre le verità della fede divina sono superiori alla nostra ragione. Dobbiamo per tanto attenerci a quella fede che Iddio ha rivelata alla sua Chiesa, e la Chiesa c’insegna, la quale, come dice l’apostolo, è la colonna e la fermezza della verità: “Ecclesia Dei vivi columna et firmamentum veritatis” (Apol. c. ult. ). Onde poi s. Ireneo parlando della Chiesa romana dice che in essa debbono convenire le altre chiese e tutti i fedeli, perché nella Chiesa romana si è conservata sempre la tradizione degli Apostoli: “Omnes a romana ecclesia necesse est ut pendeant, tamquam a fonte et capite. Ad hanc enim ecclesiam propter potiorem principalitatem necesse est omnem convenire ecclesiam, hoc est eos qui sunt undique fideles; in qua semper ab his, qui sunt ubique, conservata est ea, quae ab apostolis est traditio” [Cap. 20.]. E nello stesso luogo aggiunge che per tale tradizione e fede, pervenuta a noi per la successione de’ vescovi della romana chiesa, restan confusi i di lei nemici: “Per Romæ fundatæ ecclesiæ eam, quam habet ab apostolis, traditionem et fidem per successionem episcoporum provenientem usque ad nos, confundimus eos, qui per caecitatem et malam conscientiam, aliter quam oportet, colligunt”. Volete sapere, dice s. Agostino, quale è la vera chiesa di Gesù Cristo? Ritrovate quella ove si numerano i sacerdoti che per continua serie son succeduti nella sede di Pietro, e questa è la pietra, contro cui non possono prevalere le porte dell’inferno: “Numerate sacerdotes vel ab ipsa sede Petri in ordine illo patrum; quis cui successerit, videte, ipsa est petra quam non vincunt superbæ inferorum portæ”. Ed in altro luogo asserisce il santo dottore, che tal successione de’ sacerdoti lo teneva in essa Chiesa: “Tenet me in ipsa ecclesia ab ipsa sede Petri usque ad praesentem episcopatum successio sacerdotum”. Poiché in verità questo carattere della continua successione degli Apostoli e poi dei loro discepoli è un carattere che non si trova che nella sola Chiesa cattolica.

6.- Pertanto il Signore ha voluto che questa sua Chiesa, ove si conserva la vera fede, fosse una, acciocché tutti i fedeli tenessero la stessa fede da questa Chiesa insegnata. Ma il demonio, scrive s. Cipriano, ha inventate le eresie per dividere questa unità, procurando per tal via di distruggere la fede: “Haereses invenit, quibus subverteret fidem, scinderet unitatem”. Ha procurato il maligno che gli uomini costituissero più chiese diverse, affinché, seguitando ciascuno la credenza della sua chiesa particolare, contraria alla credenza delle altre, restasse confusa la vera fede, e si formassero tante fedi false, quante sono le chiese diverse, o per meglio dire, quante sono le teste degli uomini: com’è accaduto specialmente in Inghilterra, ove le religioni sono tante, quante son le famiglie e quante son le persone; poiché nella stessa famiglia ciascuno tiene quella religione che gli piace. Ma perciò, dice s. Cipriano, ha disposto Iddio che la vera fede nella sola Chiesa cattolica romana si conservasse, acciocché, non essendovi che una Chiesa, una fosse per tutti i fedeli sempre uniforme la dottrina e la fede: “Primatus Petro datur, ut una Christi ecclesia et cathedra una monstretur”. Lo stesso fu scritto da S. Optato Milevitano a Parmeniano: Negare non potes, scire te in urbe Romæ Petro primo cathedram episcopalem esse collatam… in qua una cathedra unitas ab omnibus servaretur”.

7.- Anche gli eretici vantano l’unità delle loro chiese; ma dice S. Agostino che la loro unità “est unitas contra unitatem”. Quale unità mai, dice il santo, aver possono tutte quelle chiese che son divise dalla Chiesa cattolica ch’è l’unica vera? Le misere son rimaste come tanti rami mutili recisi dalla vite, che è appunto la Cattolica Chiesa, la quale sta e sarà sempre ferma nella sua radice: Ipsa est ecclesia sancta, ecclesia una, ecclesia vera, ecclesia catholica, contra omnes haereses pugnans; pugnare potest, expugnari non potest. Haereses omnes de illa exierunt, tanquam sarmenta inutilia de vite praecisa: ipsa autem manet in radice sua, in vite sua, in caritate sua: portæ inferorum non vincent eam. Scrive parimente s. Geronimo che gli eretici per la stessa ragione per cui si han formata una chiesa diversa dalla Chiesa romana, essi medesimi si dichiarano esser quei seguaci dell’errore e discepoli del demonio, che furono descritti dall’apostolo: “Attendentes spiritibus erroris, et doctrinis daemoniorum”. Ecco le parole di s. Geronimo: “Ex hoc ipso quod postea instituti sunt, eos se esse iudicant, quos apostolus futuros prænuntiavit”.

8.- Ma dicono i Luterani e i Calvinisti, e prima lo dissero i Donatisti, che la Chiesa cattolica ha conservata la vera fede sino a certo tempo (altri dicono sino al terzo secolo, altri sino al quarto, altri sino al quinto); ma che poi è mancata, corrompendo la sana dottrina, onde da sposa è divenuta adultera. Ma tale opposizione si riprova e convince da se stessa: perché posto che la Chiesa romana è stata la prima fondata da Gesù Cristo, ella non ha potuto, né può mai mancare; mentre dallo stesso nostro Salvatore le sta fatta la promessa, che non mai sarebbe stata vinta dalle porte dell’inferno: “Et ego dico tibi, quia tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo ecclesiam meam, et portæ inferi non prævalebunt adversus eam”. Ammesso dunque per certo che la Chiesa romana è stata vera, come confessa anche il luterano Gerardo, che fu uno de’ primi ministri di Lutero, avendo scritto: “Certum quidem est (ecclesiam romanam) primis quingentis annis veram fuisse et apostolicam doctrinam tenuisse” 1; se dunque è stata vera una volta, ella ha dovuto e dovrà esser sempre vera, e non mai può diventare adultera, come scrive s. Cipriano: “Sponsa Christi adulterari non potest”.

9.- Replicano gli eretici (i quali, invece di apprendere dalla Madre i dogmi che debbono credere, vogliono insegnare alla Madre i dogmi falsi e perversi) e dicono: per noi sta la scrittura sacra, la quale è il fonte della verità. Ma non vogliono intendere che le scritture, come dice un dotto autore, “non in legendo consistunt, sed in intelligendo”. Tutti gli eretici si valgono della scrittura per fondare i loro errori; ma non dobbiamo noi intender la scrittura, come noi l’interpretiamo col nostro spirito privato, che spesso c’inganna, ma secondo c’insegna la santa Chiesa, la quale ci è stata assegnata per maestra della vera dottrina, ed alla quale Iddio manifesta il vero senso de’ sacri libri. Questa Chiesa, dice l’Apostolo, è quella che da Dio è stata costituita per la colonna e la fermezza della verità: “Scias quomodo oporteat te in domo Dei conversari, quæ est ecclesia Dei vivi, columna et firmamentum veritatis” [3]. Onde scrive s. Leone che la fede cattolica deve disprezzar gli errori degli eretici che latrano contro la Chiesa, mentr’eglino si sono allontanati dal vero evangelio, ingannati della loro vana sapienza del mondo: “Fides igitur catholica oblatrantium haereticorum spernat errores, qui mundanæ sapientiæ vanitate decepti a veritatis evangelio recesserunt”.

10.- Posto ciò io stimo esser molto l’utile che si ricava dalla lettura dell’istoria delle eresie; ella fa comparire più bella e risplendente la verità della nostra fede, in dimostrarcela sempre uniforme a se stessa; e se tal lettura è stata sempre giovevole, maggiormente lo sarà ne’ tempi presenti, ne’ quali audacemente si mettono in dubbio le massime più sante e i dogmi più principali. Inoltre ella ci fa vedere la cura che sempre ha avuta Iddio in sostener la sua Chiesa in mezzo a tante procelle che sembravano volerla abbattere; ed insieme le maniere ammirabili con cui ha fatti restar confusi tutti i nemici che l’hanno combattuta. Giova ancora il leggere le storie delle eresie per conservarci nello spirito di umiltà e di soggezione alla Chiesa; ed anche per renderci grati a Dio in averci fatti nascere in paesi ove ella regna, nel vedere in quali errori ed inezie sono caduti tanti uomini letterati, per non aver voluto eglino sottomettersi a’ di lei insegnamenti.

11.- Ma veniamo a vedere l’intento della presente opera. Stimerà alcuno superflua questa mia fatica, dopo che tanti eccellenti autori hanno scritto distesamente la storia delle eresie, come sono Tertulliano, s. Ireneo, s. Epifanio, s. Agostino, s. Filastrio, Teodoreto, Vincenzo Lirinese, Socrate, Sozomeno, Niceforo e molti altri antichi e moderni. Ma per questo stesso motivo che molti autori hanno scritto a lungo in più volumi la storia delle eresie, io mi son mosso a fare quest’opera, considerando che molti o non hanno tempo di leggere questi libri così diffusi, o pure non hanno la possibilità di comprarli, e perciò ho procurato in questo mio libro di raccogliere in breve i principj ed i progressi di tutte le eresie, sì che senza l’applicazione di molto tempo e senza molta spesa può ciascuno restar sufficientemente informato delle eresie e degli scismi che hanno infestata la Chiesa. Ho detto in breve; ma non tanto in breve, come hanno fatto alcuni altri autori che appena accennano i fatti, e lasciano il leggitore scontento, o almeno poco istruito di più cose importanti a sapersi. Io ho cercato di esser breve, come ho detto, ma nello stesso tempo mi sono studiato di dare a’ leggitori una tal cognizione di ciascuna eresia (parlando di quelle che hanno fratto più rumore nella Chiesa), per cui ne restassero contenti ed appieno informati, almeno circa i fatti più notabili.

12.- Inoltre mi ha spinto a dar fuori quest’opera il vedere che gli autori moderni, i quali meglio hanno appurati i fatti, hanno parlato delle eresie, scrivendo essi della storia universale della Chiesa; come hanno fatto il Baronio, Fleury, Natale Alessandro, Tillemont, Orsi, Spondano, Rinaldo, Graveson ed altri. Onde essi hanno parlato di ciascuna eresia in diversi luoghi, secondo l’ordine de’ tempi, ne’ quali è uscita fuori quella eresia o han fatto progresso o è stata abbattuta; e perciò il lettore ha da scorrere diversi luoghi dell’opera per informarsi della nascita, del seguito e della sconfitta che quell’eresia ha avuta. Io all’incontro ho procurato di unire insieme nello stesso luogo tutte le notizie che a ciascuna eresia si appartengono.

13.- Di più non tutti i nominati scrittori hanno addotte le confutazioni delle eresie; e queste confutazioni io le collocherò nel terzo tomo di quest’opera. Non prenderò però tutte a confutarle, ma quelle sole che hanno avuto maggior seguito, come sono state quella di Sabellio, di Ario, di Pelagio, di Macedonio, di Nestorio, di Eutichete, de’ Monoteliti, degl’Iconoclasti, de’ Greci e simili. Delle altre eresie poi che hanno avuto minor seguito accennerò in breve solamente gli autori e gli errori, la falsità de’ quali si conosce dalla loro evidente insussistenza, oppure dalla confutazione che addurrò delle altre eresie più celebri che poc’anzi ho nominate.

14.- Frattanto, lettor mio, ringraziamo noi incessantemente il Signore di averci fatti nascere ed allevare in grembo della Chiesa cattolica. S. Francesco di Sales esclamava: “Buon Dio, molti e grandi sono i benefici coi quali mi avete obbligato, e ve ne ringrazio; ma come potrò io ringraziarvi per avermi illuminato colla santa fede?” E ad una persona scrisse: “O Dio! La bellezza della nostra santa fede compare sì bella, che io ne muoio d’amore; e mi pare che debba chiudere questo dono prezioso dentro un cuore tutto profumato di devozione”. E s. Teresa non si saziava di ringraziare sempre Dio di averla fatta figlia della santa Chiesa. Stando in morte tutta si consolava dicendo: “Muoio figlia della santa Chiesa, muoio figlia della santa Chiesa”. E così ancor noi non lasciamo di ringraziar Gesù Cristo di questa grazia a noi donata, la quale è una delle maggiori che Egli ci ha fatte, distinguendoci con tal favore da tanti milioni di uomini, che sono nati e morti fra gl’infedeli o fra gli eretici. “Non fecit taliter omni nationi” [2. Tim. 2. 17.]. E con animo grato per sì gran beneficio entriamo a vedere il trionfo che la santa Chiesa ha ottenuto per tanti secoli sovra tutte le eresie che hanno cercato di oppugnarla. Prima però di cominciare voglio protestarmi coi signori letterati che io ho fatto quest’opera in mezzo alle cure del vescovado; onde non ho potuto con tutto il rigore della critica esattamente esaminare ciascuna cosa di quelle che ho scritte; quindi in molti fatti ho riferite le diversità che vi sono fra gli autori, senza prender partito con darvi il mio sentimento. Nondimeno ho procurato di ricavar tutto da autori appurati e di chiaro nome; ma trattandosi di tanti innumerabili avvenimenti che si addurranno, non sarà difficile che alcuno erudito appuri qualche fatto meglio di me.

… et Ipsa conteret caput tuum …

Ex cathedra

Ex cathedra

(Fonte: “Spiegazione familiare della Dottrina Cristiana, Adattato per la Famiglia e gli studenti di scuole cattoliche e università, pagine 40-41, Di P. Michael Müller, C.SS.R., Imp ., 1875) Michael Müller, C.SS.R., Imp., 187

D. Quando il Papa parla “ex cathedra“, o infallibilmente?

R. Il Papa parla infallibilmente ogni volta che nello svolgimento del suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani, definisce (vale a dire, determina definitivamente), secondo la sua suprema autorità apostolica, una dottrina riguardante la fede o la morale, che si terrà dalla Chiesa universale, o qualsiasi altra cosa che è utile alla conservazione della fede e della morale.

D. Quando il Papa, in conformità con il dovere del suo ministero apostolico e la sua suprema autorità apostolica, procede, con brevi, lettere encicliche, allocuzioni concistoriali, e altre lettere apostoliche, nel dichiarare certe verità, riprovare dottrine perverse, e condannare alcuni errori, tali dichiarazioni di verità e condanne di errore, devono essere considerate infallibili e come vincolanti per la coscienza, e richiedono il nostro assenso interiore, anche se non esprimono un anatema verso coloro che sono in disaccordo?

R. Queste dichiarazioni di verità e condanne di errori sono infallibili, o ex cathedra come atti del Papa, e, quindi, sono vincolanti in coscienza, e richiedono il nostro assenso completo; rifiutarle sarebbe per noi un peccato mortale, dal momento che un tale rifiuto sarebbe una negazione virtuale del dogma dell’infallibilità, e ci troveremmo ad essere eretici nel caso fossimo consapevoli di un tale rifiuto. S. Alfonso Liguori. Theol. Theologiae. Mor., Lib I., 104. Mor., Lib I., 104.

* Nota: gli eretici pseudo-tradizionalisti e sedevacantisti scismatici, che lo siano di nome o di fatto, in parole o in opere, negano l’insegnamento infallibile della lettera enciclica di Papa Pio XII, del 29 giugno, 1958, contenuto in Apostolorum Principi ( “Principe degli Apostoli”), che con chiarissime parole (per gli uomini di buona volontà) condanna tutte le consacrazioni senza mandato papale.

S. S. PIO XII ed il suo successore il Cardinale G. SIRI (Gregorio XVII)

  “La Chiesa cattolica non potrà mai corrompere una dottrina, e non permetterà mai che due dottrine diverse vengano insegnate nel medesimo suo magistero.

La Chiesa cattolica è vincolata dalla legge divina a subire il martirio, piuttosto che corrompere una dottrina “.  (Cardinale Manning, ” La crisi attuale della Santa Sede nella profezia: quattro conferenze “., P 73)

  “Ci sarà una defezione generale dalla Chiesa verso la fine del mondo, soprattutto per quanto riguarda l’obbedienza che le si deve”

 (Profezia di Richard Rolle di Hample, d. 1349 d.C.)

Papa Benedetto XIV. (1740-1758) dice: Noi affermiamo che la maggior parte dei dannati sono all’inferno, perché non sapevano che i cristiani devono conoscere e credere tutti i misteri della fede.” Inst. Inst. 27, No. 28. 27, n °28.

E Papa Pío XII nella sua enciclica Humani generis del 12 di agosto del 1950 diede la seguente sentenza:

Né si deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo. Infatti questi insegnamenti sono del Magistero ordinario, di cui valgono poi le parole: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Luc. X, 16); e per lo più, quanto viene proposto e inculcato nelle Encicliche, è già per altre ragioni patrimonio della dottrina cattolica.”

L’arciconfraternita del Cuore Immacolato: storie di conversioni [3]

 

7. CONVERSIONE di un’attrice.

Questa giovane ragazza sfortunata è nata a Parigi;  era stata battezzata, ma non sapeva nulla della religione. Quando aveva appena sette anni, iniziò la sua carriera di ballerina nei teatri minori della capitale, restando in questo lavoro scandaloso fino all’età di diciotto anni; uccessivamente, sentendo una inclinazione per il teatro, diventava un’attrice, esibendosi nelle città di provincia. In seguito a diverse vicende arrivava a Parigi, dove però si ammalava gravemente, tanto da dover essere ricoverata presso la Maison de Santé, di Dubois. Non aveva fino ad allora mai rispettato uno qualsiasi dei doveri della religione, e neppure aveva un pensiero per Dio;  e come potrebbe essere altrimenti in una vita così infelice, iniziata e passata in mezzo ad ogni specie di corruzione. “Cosa fa il ministro della morte qui, non lasciatelo venire a me vicino!”: aveva esclamato in tono di orrore alcuni giorni dopo il suo ricovero, notando l’elemosiniere della casa entrare nel suo reparto, e pensando che fosse in pericolo di morte; una vita così mal vissuta e tali disposizioni negative, sembravano essere un sicuro presagio della riprovazione eterna di questa peccatrice infelice. Una persona pia, che in precedenza l’aveva conosciuta, sentendo la sua triste condizione, ha parlato di lei al direttore della Arciconfraternita; questi, compenetratosi con compassione, prometteva di ottenere preghiere per la sua conversione. Ha raccomandato poi a questa persona tanto caritatevole di visitare questa povera figlia perduta, per parlarle di Dio, e esortarla al pentimento; questo veniva fatto con carità e costanza, ma la malata né capiva, né sentiva quanto le si diceva; Le preghiere dell’Arciconfraternita sono state offerte per lei la Domenica 4 novembre, dopo le raccomandazioni in cui si richiedeva di provvedere a tutte le sue necessità applicandole con gran sentimento; il seguente Lunedi, il curato le mandava una medaglia miracolosa, che lei ha ricevuto, ascoltando il buon consiglio di chi era con lei, e con la promessa di seguirlo, ma al tempo stesso diceva: “Che devo fare, cosa devo dire? Non mi è stato insegnato niente! “L’elemosiniere informava delle sue disposizioni il sacerdote incaricato, che sentiva la sua confessione, e le somministrava i sacramenti ecclesiastici, il 16 novembre.; la mattina del 18 rendeva la sua anima a Dio con sentimenti di sincera devozione, pronunciando con il suo ultimo respiro, la dolce invocazione, “O Maria, concepita senza peccato, pregate per me che ricorro a voi.”

Un idiota recupera la ragione .

 Finora la conversione dei peccatori era stata la sola intenzione delle preghiere della Arciconfraternita, mentre i malati e gli afflitti non erano mai stati inclusi nelle raccomandazioni pubbliche, non per un sentimento di sfiducia nella forza della sua patrona dei beati, che è Ella stessa “La salute degli infermi” e la “consolazione degli afflitti,” così come il “Rifugio dei peccatori,” ma perché si voleva rispettare esclusivamente l’oggetto speciale della sua fondazione. Ma la Madre della misericordia divina è andata al di là di questa restrizione, poiché desiderava esercitare il suo potere e la sua clemenza anche in favore di tutti coloro che sono nel dolore, nella miseria, e nell’afflizione. – Uno dei parrocchiani di Notre Dame des Victoires divenne vittima di attacchi di follia; la malattia era diventata così violenta, che si rese imperativa la separazione dalla sua famiglia. Sabato 16 marzo, i suoi amici desiderarono raccomandarlo alle preghiere pubbliche della Arciconfraternita; la loro richiesta è stata in un primo momento rifiutata, perché l’intenzione e l’oggetto dell’associazione è la conversione dei peccatori; ma poiché si prospettava la rovina inevitabile della famiglia, con il susseguente triste destino dei due giovani figli che, a causa della condizione deplorevole del loro padre, sarebbero presto diventati come orfani, il cuore dell’Abate Desgenettes fu sensibilmente afflitto così da dare il suo consenso, e il giorno seguente, il 17, è stata fatta la raccomandazione.  Nel pomeriggio del 18, il paziente scriveva una lettera alla moglie, piena di ragione e buon senso, informandola degli atti di imprudenza che aveva commesso nella gestione dei suoi affari, durante i giorni che avevano preceduto l’attacco della sua malattia, e di cui la sua famiglia non era a conoscenza, sostenendo giudiziosamente la perdita che avrebbe potuto causare loro, ed affermando che egli si proponeva di impiegare questi tali mezzi per ovviare a questa disgrazia; infine si svegliò la mattina con perfetta calma e con sana ragione, con sensazione di benessere nel corpo e nella mente: cioè si sentiva guarito, anche se, per motivi di prudenza, sarebbe rimasto un paio di giorni ancora al manicomio. La moglie andò subito a vederlo, passò il pomeriggio con lui, e non era meno stupita che contenta nel testimoniare il felice ritorno della sua ragione. Restituito alla sua famiglia, poteva ancora una volta dirigere i suoi affari, senza mai più avvertire il minimo residuo della sfortunata malattia da cui era stato afflitto.

 Guarigione di una giovane donna.

Alcuni giorni dopo, una giovane donna di una delle famiglie più rispettabili della Bassa Normandia, che stava ricevendo la sua formazione presso un istituto religioso di Parigi, è stata raccomandata alle preghiere della Arciconfraternita da sua madre e dai suoi pii istruttori. Di età compresa tra i quattordici e i quindici anni, aveva sofferto per diversi anni da una contrazione dei muscoli della gamba e della coscia; i suoi dolori erano strazianti, non aveva potuto abbandonare il suo letto per molti mesi, la contrazione della sua gamba le impediva la stazione eretta. Venne così richiesta una novena di preghiere, che non fu più rifiutata, dopo la benedizione così concessa ultimamente alla parrocchiana nel caso appena citato sopra. Durante i primi giorni della novena, la paziente si è aggravata; ella ha gioito per questo, considerando le sue sofferenze come pegno del suo vicino recupero. La mattina del nono giorno, si è alzata improvvisamente perfettamente guarita.

Innumerevoli infatti sono quelli che hanno trovato sollievo e consolazione nelle loro sofferenze, e che si sono raccomandati alle preghiere della Arciconfraternita, con l’offerta delle loro petizioni davanti all’altare dedicato a quel Santo ed Immacolato Cuore, la dolce fonte di ogni benedizione per coloro che devotamente e con fiducia lo invocano.

Fonte: L’Arciconfraternita del Cuore Immacolato di Maria, per la conversione dei peccatori, Notre Dame des Victoires, Parigi. 1843. 1843.

 

L’arciconfraternita del Cuore Immacolato: storie di conversioni [2]

L’arciconfraternita del Cuore Immacolato: storie di conversioni [2]

4. CONVERSIONE di diversi villaggi.

 Uno dei giovani missionari che ultimamente si è imbarcato per la Cina, ha inviato il manuale dell’associazione allo zio, un curato della diocesi di Le Mans, in occasione della festa della Purificazione: così, dopo la celebrazione della Messa solenne, egli aveva iniziato una novena alla Beata Vergine per il felice risultato della solennità delle Quaranta ore, che sarebbero iniziate la Domenica di Quinquagesima. Pensando che il suo contenuto potesse produrre un buon effetto sui suoi parrocchiani, ha letto alcuni estratti dal manuale durante il suo sermone, nella Domenica di Sessagesima; il pubblico ne rimase ammirato restando pieno di stupore ed ammirazione; egli approfittò di questa impressione, con l’esortarli alla conversione e alla penitenza, e annunciando che due missionari della diocesi si sarebbero uniti a lui ed ai suoi tre vicari, per confessare durante la settimana seguente. Il suo appello venne ascoltato: per otto giorni la chiesa fu quasi costantemente piena; i tribunali sacri furono circondati da una moltitudine di penitenti; le confessioni, iniziate la mattina, alle tre, non finivano prima delle undici di sera. Le comunioni furono pari a milleottocento durante tre giorni, e rimasero quasi un centinaio di persone, le cui confessioni, iniziate, non poterono essere completate per mancanza di tempo. Questi sono i dettagli del missionario sopra menzionato. – M. Desgenettes ricevette la seguente lettera, datata il 9 marzo, da questo degno curato: “Mio nipote mi ha mandato il manuale della vostra associazione, che gli avete dato nel mese di febbraio; io l’ho ricevuto in occasione della festa della Purificazione. In quella mattina, avevo annunciato una novena in onore della Beata Vergine, per il felice risultato della solennità delle nostre Quaranta ore; avevo con me due dei nostri missionari diocesani, per rinnovare i buoni effetti del loro ritiro, durante l’ultima Quaresima. Immediatamente, nel ricevere il manuale, ho deciso di informare i miei parrocchiani dei suoi contenuti;  ho fatto loro notare, la felice coincidenza dell’arrivo di questo libro e l’inizio della novena; ho dato loro un’idea della vostra associazione, e ho letto due delle più belle conversioni, ottenute dalle preghiere degli associati; poi li ho esortati ad un rinnovamento nella fede e nel fervore, implorando coloro che avevano fino ad allora trascurato i loro interessi eterni, che iniziassero la loro conversione in quello stesso giorno. Il felice risultato è andato ben al di là di ogni più rosea aspettativa; durante i tre giorni delle Quaranta ore, la chiesa è stata costantemente piena; abbiamo avuto quattro esercizi spirituali al giorno; sei confessori erano continuamente impegnati nei tribunali sacri. Abbiamo dato la santa comunione a quasi milleottocento persone, su una popolazione di tremila e sei o settecento anime. Quanto a me, ho confessato cinquecentotrenta individui, di cui 272 erano uomini. Questo inatteso successo, che ha superato tutte le mie speranze, io l’ho completamente attributo alla protezione del Cuore Immacolato di Maria.  I miei parrocchiani hanno raddoppiato il loro amore e la devozione verso questa Madre di beneficenza;  confido presto di stabilire anche qui la vostra associazione, che sono persuaso effettuerà benefici incalcolabili; mi riservo di far questo per il mese di Maria, proponendoci quest’anno di celebrarlo solennemente con grande affluenza e fervore. ” – Chi non riconosce in questo l’intervento speciale di Maria, che con una semplice lezione è in grado di cambiare i cuori della maggior parte di una numerosa popolazione. Questa parrocchia comprende numerosi villaggi sparsi lontani dalla chiesa; la stagione è stata la più fredda e triste dell’anno, con le strade impraticabili o rese quasi impossibili da utilizzare anche durante il giorno dalle forti piogge e nevicate di un rigido inverno; ma questi ostacoli sono stati superati, e si sono sfidati questi pericoli, anche durante la notte, dal momento che i primi fedeli sono arrivati in chiesa prima delle tre del mattino, e molti l’hanno lasciata non prima di mezzanotte. Le distrazioni ed i passatempi della stagione, usuali per gli abitanti del villaggio del Maine, come da consuetudine immemorabile, sono stati poi del tutto trascurati; tutto è stato sacrificato per soddisfare il loro pio ardore. Certo, si potrebbe pensare che la ripetizione frequente delle esortazioni e degli esercizi spirituali, abbiano rianimato il fervore di un popolo naturalmente religioso, ma questi si ripetono ogni anno, durante i tre giorni della settimana di Quinquagesima, ed ogni anno i comunicandi sono stati pari a circa tre o quattrocento, mentre, in questa occasione ben milleottocento persone hanno circondato la tavola santa. Questo non era opera dell’uomo; no, era Dio che si è degnato di fare uso di mezzi così semplici per poter manifestare la sua misericordia, e glorificare la Regina augusta del cielo. Vediamo questo fatto, quindi, con più ardore che mai, e poniamoci sotto la protezione della beata Maria; pensiamo a Lei come la nostra speranza e come il conforto in questa valle di lacrime; dobbiamo amarLa come la nostra tenera e affettuosa madre; cerchiamo di considerarLa come il nostro avvocato davanti al trono dell’Altissimo;- dice san Bonaventura, “sarà salvato, e chi trascura di servirLa morirà nei suoi peccati”: “Qui coluerit Mariam, justificabitur; et qui neglexerit illam, morietur in peccatis suis. et qui neglexerit illam, morietur in peccatis suis”.

5. Una edificante CONVERSIONE.

Il pastore di una importante cittadina in Francia, dove in precedenza la pietà era tutt’altro che fiorente, ascoltando le grazie concesse dalla parrocchia di Notre Dame des Victoires, dalla testimonianza dell’Abate Desgenettes, ha pensato di stabilire l’associazione nella sua parrocchia. Qui, ugualmente, ha fatto una serie di conversioni a dimostrazione che Maria aveva esaudito le preghiere dei suoi supplicanti.; una tra le tante numerose fu molto particolare e ben adatta ad eccitare l’ammirazione e la fiducia. — Il curato di questa città ha scritto quanto segue a M. Desgenettes: – Ho a lungo ritardato di scrivervi, perché io desideravo ricevere dalla persona stessa i dettagli che avete chiesto circa la sua conversione. Vi allego pertanto la sua lettera: i suoi scandali erano pubblici, la sua pietà è ora invece esemplare. Non ho mai visto in modo così ammirevole un trionfo della grazia; in un momento è cambiato un cuore abbandonato alla peggiore delle passioni, trasformato in un vaso di elezione. Molti e terribili erano gli assalti sostenuti:beffe, persecuzioni, attacchi all’amor proprio, tutte sono state superate. La santa orazione è ora la sua felicità e la gioia; costei che, per venticinque anni, non è mai salita in chiesa, ora è da sette anni davanti all’altare, immersa nella devozione ai piedi della Vergine, e smette le sue devozioni solo per adempiere le funzioni della sua condizione.. . .. .. .”. – Quella che segue è la lettera di questa felice penitente al suo pastore, in risposta alla sua richiesta di dettagli della sua conversione. “Vi faccio conoscere la causa del cambiamento che ha avuto luogo in me nel corso degli ultimi sei mesi.Io comprendo come in mezzo alle peregrinazioni e ai disturbi della mia giovinezza, avevo conservato alcuni barlumi di fede che allo stesso tempo provocavano sì il timore della vendetta di un Dio offeso, ma mi permettevano di sperare pure nella sua infinita misericordia. Metto davanti a voi, padre mio, la storia malinconica della mia vita passata, le cui pagine tristi ho avuto tanto timore di raccontare: ricorrevano agli anni felici della mia infanzia e della giovinezza; il loro ricordo, mi offrono il fascino dell’innocenza, per la qual perdita devo aggiungere i miei rimorsi; avevo fatto una devota prima Comunione e, fino all’età di diciotto anni, ho perseverato nel mio fervore religioso. Ma l’amore della virtù, e il desiderio di praticarla, è scomparso quando sono entrata nel mondo. Le sue attrazioni, le sue lusinghe, hanno incantato la mia immaginazione ardente; il piacere è diventata la mia ricerca unica e totalizzante. Presto la passione mi ha sedotto; la mia prima trasgressione ha dato poi luogo all’abitudine, e nel corso di più di venti anni, ho vissuto dimentico dei miei doveri cristiani. Ci sonostati momenti di infelicità, di inganno, di rimpianto;quante volte, allora, ho invocato l’aiuto del Cielo! Penitente e peccatore di volta in volta, ho cercato ancora il coraggio di rompere le catene della mia prigionia. – A voi, mio benefattore e mia guida, è stato riservato questo compito arduo, ed infatti per la vostra ispirazione felice ho stabilito la devozione al Cuore Immacolato di Maria. Ho assistito per la prima volta ad una delle vostre istruzioni, mossa unicamente dalla curiosità; ed ecco che la nostra Madre, che riceve i peccatori e rinnova loro la speranza, ha fatto un’impressione profonda e vivace nella mia mente. Sono sempre tornato da questi discorsi, pensosa e colpita. Il sermone del 17 marzo, il figliol prodigo, ha dato una retrospettiva malinconia della mia vita ed ilrimorso ha penetrato la mia anima; così feci un voto di rompere e fare a pezzi i legami del peccato e di ritornare a Dio. Ma quali prove ho dovuto combattere con il nemico che mi aveva in precedenza incatenato: promesse lusinghiere e speranze brillanti del futuro, sono state impiegate per sedurmi nuovamente; le vostre esortazioni mi hanno seriamente confermato nella mia risoluzione, e determinato nel confidare nel vostro cuore paterno i miei peccati, le mie miserie, il mio pentimento! Nei vostri consigli benefici ho trovato il coraggio e la rassegnazione per sostenere le prove, che è piaciuto alla Provvidenza di mandarmi. -“Il mondo e i suoi piaceri sono ora per me come un nulla; la mia unica attrazione è per gli esercizi di religione e per la santa orazione, che mi offre una fonte inesauribile di conforto e di assistenza, anche se spesso è accompagnata da lacrime, che sono ora, ahimè!,l’unica offerta che posso fare al mio Dio. – Ah! Ah! come sarei felice ai piedi di Maria, se non avessi il dispiace di non poter riavere l’innocenza di cui Ella è il modello perfetto, e che sarei felice di ritrovare, al prezzo di una parte della mia vita! ”

6. La CONVERSIONE di un ufficiale.

Un ufficiale che risiede in un paese della diocesi di Bayeux, la cui vita era stata segnata dal costante esercizio di tutte le virtù sociali, ma da una totale assenza di sentimento e di principi religiosi, è diventato gravemente malato. La moglie e la famiglia lo esortavano con urgenza a ricevere gli aiuti della religione; ma egli dichiarava subito che non aveva bisogno di essi, nei quali non aveva nessuna fede, perché, egli diceva, aveva sempre vissuto come un uomo d’onore, e non aveva niente di cui rimproverarsi, e proibiva loro di ricorrere agli ausili. La sua famiglia lo ha piamente raccomandato alle preghiere della Arciconfraternita; subito dopo, egli ha espresso il desiderio di vedere il suo pastore, che si affrettava a fargli visita, lo riportava alla religione, e gli somministrava i sacramenti della Chiesa. A coloro che, conoscendo le sue opinioni precedenti, sembravano stupito dalla sua condotta, diceva: “ho agito in tal modo per salvare la mia anima; per diventare fedele al mio Dio, come io lo sono stato al mio re. ”

Fonte: L’Arciconfraternita del Cuore Immacolato di Maria, per la conversione dei peccatori, Notre Dame des Victoires, Parigi. 1843. 1843.