Calendario Liturgico della vera Chiesa cattolica: MARZO

MARZO è il mese che la Chiesa dedica a SAN GIUSEPPE.

[TEMPO DI QUARESIMA]

Il tempo di Quaresima inizia il 1 marzo 2017 e si protrae fino al 15 Aprile 2017 (Sabato santo). Questo è un periodo di digiuno ed astinenza. – Siamo obbligati al digiuno ed all’astinenza durante questo periodo. Tale periodo di astinenza dura 40 giorni in commemorazione dei quaranta giorni di digiuno trascorsi da Gesù nel deserto. Escluse le domeniche della Quaresima, si hanno esattamente 40 giorni dal Mercoledì delle Ceneri fino al Sabato Santo.

Il mercoledì delle ceneri ed il Sabato santo: giorni di digiuno e completa astinenza.

Tutti i venerdì di Quaresima: Giorno di digiuno ed astinenza completa

Tutti i giorni di Quaresima (eccetto la domenica): digiuno e astinenza parziale.

Di seguito, la lista delle feste di Marzo 2017

1 Marzo: Mercoledì delle ceneri.

3 Marzo: Primo VENERDI’ – Sacra corona di spine.

4 Marzo: Primo SABATO – S. Casimiro confessore, semplice, Comm. S. Lucio Papa e Martire.

5 Marzo: I Domenica di Quaresima, Doppio di I Classe. 

6 Marzo: Ss. Perpetua e Felicita Martiri, Doppio.

7 Marzo: S. Tommaso d’Aquino, Confessore e Dottore della Chiesa, doppio.

8 Marzo 8: MERCOLEDI’ DI QUATEMPORA / S. Giovanni di Dio Confessore, Doppio.

9 Marzo: S. Francesca Romana Vedova, Doppio.

10 Marzo 10: VENERDI’ DI QUATEMPORA /I 40 Santi Martiri. Semplice. Ven. dopo la I Dom. di Quar.: Sacra lancia e Chiodi di Nostro Signore

11 Marzo: SABATO DI QUATEMPORA

12 Marzo: II Domenica di Quaresima, Doppio di I Classe. 

17 Marzo: S. Patrizio Vescovo e Confessore. Doppio; Ven. dopo la II Dom. di

Quar.: Santo Sudario di nostro Signore.

18 Marzo: S. Cirillo Vescovo di Gerusalemme, Confessore e dottore della Chiesa, Doppio

Marzo 19: III Domenica di Quaresima, Doppio di I Classe. 

Marzo 20: San GIUSEPPE, Sposo della Santa Vergine Maria, Confessore e Patrono universale della Chiesa. Doppio di I Classe.

21 Marzo: S. Benedetto Abate, Doppio maggiore.

24 Marzo: S. Gabriele Arcangelo, Doppio Maggiore; Ved. Dopo la III Dom. di Quar.: le cinque sante piaghe di Nostro Signore.

25 Marzo: Annunciazione della Santa Vergine Maria, Doppio di I Classe.

26 Marzo: IV Domenica di Quaresima, Doppio di I Classe. 

27 Marzo: S. Giovanni Damasceno, Confessore e Dottore della Chiesa. Doppio.

28 Marzo: S. Giovanni Capistrano, confessore, Doppio.

31 Marzo 31: Ven. Dopo la IV Dom. Di Quar.: Il prezioso Sangue di Nostro Signore.

 

TEMPO DI QUARESIMA [I]

 

TEMPO DI QUARESIMA [I]

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol I]

 

Capitolo I

STORIA DELLA QUARESIMA

Chiamiamo Quaresima quel periodo di preghiera e di penitenza, durante il quale la Chiesa prepara le anime a celebrare degnamente il mistero della Redenzione.

La preghiera.

A tutti i fedeli, anche i più ferventi, essa offre questo tempo come ritiro annuale, che loro offre l’occasione di riparare le negligenze passate e ravvivare la fiamma del loro zelo. Offre ai catecumeni, come nei primi secoli, l’istruzione e la preparazione alla fede battesimale; richiama ai penitenti la gravità del peccato, per eccitarli al pentimento ed ai buoni propositi, e promette loro il perdono del Cuore di Nostro Signore. – Nel 490 capitolo della sua Regola, S. Benedetto raccomanda ai suoi monaci che si applichino, durante questo santo tempo, ad una preghiera « accompagnata da lacrime », siano esse del pentimento o dell’amore.

Nella Messa di ciascun giorno il cristiano, a qualsiasi stato appartenga, troverà le più belle formule di preghiere, con le quali si rivolgerà a Dio. Antiche spesso di quindici e più secoli, s’adattano sempre alle aspirazioni d’ognuno ed ai bisogni di tutti i tempi.

La penitenza.

La penitenza s’esercita, o meglio s’esercitava, principalmente mediante la pratica del digiuno. Le temporanee dispense concesse dal Sovrano Pontefice alcuni anni fa non costituiscono per noi una ragione sufficiente di sottacere un dovere così importante, al quale fanno incessante allusione le Orazioni d’ogni Messa di Quaresima, e di cui tutti devono almeno conservare lo spirito, qualora la durezza dei tempi che si attraversano o la gracilità della salute non ne permetterà l’osservanza in tutta la sua estensione e il suo rigore. Essa risale ai primi tempi del cristianesimo, ed è anche anteriore. La pratica del digiuno fu osservata dai Profeti Mosè ed Elia, i cui esempi ci saranno esposti il mercoledì della prima settimana di Quaresima; per quaranta giorni e quaranta notti fu osservata da Nostro Signore in modo assoluto, senza prendere il minimo alimento; e sebbene egli non abbia voluto farne un precetto, che non sarebbe stato più suscettibile di dispense, pure tenne a dichiarare che il digiuno, spesso comandato da Dio nell’Antica Legge, sarebbe stato anche osservato dai figli della Nuova Legge. – Un giorno i discepoli di Giovanni s’avvicinarono a Gesù e gli dissero: « Per qual motivo, mentre noi e i Farisei digiuniamo spesso, i tuoi discepoli non digiunano ? E Gesù rispose loro: Com’è possibile che gli amici dello sposo possano fare lutto finché lo sposo è con loro? Verranno poi i giorni in cui lo sposo sarà loro tolto, ed allora digiuneranno » (Mt. 9, 14-15). – I primi cristiani si ricordarono di quelle parole di Gesù, e cominciarono molto presto a passare nel digiuno assoluto i tre giorni (che per loro era uno solo) del mistero della Redenzione, cioè dal giovedì Santo al mattino di Pasqua. Fin dal II e III secolo abbiamo la prova che in parecchie Chiese si digiunava il Venerdì e il Sabato Santo e S. Ireneo, nella Lettera al Papa S. Vittore, afferma che molte Chiese d’Oriente facevano la stessa cosa durante l’intera Settimana Santa. Il digiuno pasquale si estese poi nel IV secolo, fino a che la preparazione alla festa di Pasqua, attraverso un periodo di crescente aumento, divenne di quaranta giorni, cioè Quadragesima o Quaresima. – La più antica menzione della « Quarantena », in Oriente, si riscontra nel V can. del Concilio di Nicea (325). Il Vescovo di Tmuis, Serapione, attesta a sua volta, nel 331, che la « Quaresima » era al suo tempo una pratica universale, sia in Oriente che in Occidente. I Padri, come S. Agostino (Discorso 210) dicono antichissima tale pratica; e S. Leone (Discorso 6) arriva a pensare, però a torto, che risaliva ai tempi apostolici. I primi a parlarci del digiuno quaresimale furono i Padri, e tra loro S. Ambrogio e S. Girolamo. I Sermoni di S. Agostino dimostrano che la Quaresima cominciava sei domeniche prima di Pasqua. Siccome la domenica non si digiunava, non rimanevano che 34 giorni, 36 col Venerdì e il Sabato Santo; tuttavia la Quaresima restava sempre una « quarantena » di preparazione alla solennità della Pasqua. Difatti anche allora, e come adesso, non era il digiuno l’unico mezzo per prepararsi alla Pasqua. – S. Agostino insiste che al digiuno vada aggiunto: il fervore della preghiera, l’umiltà, la rinuncia dei desideri meno buoni, la generosità nell’elemosina, il perdono delle offese e la pratica d’ogni opera di pietà e di carità. – Della medesima durata consta in Ispagna nel VII secolo, nella Gallia e a Milano. Per S. Ambrogio il Venerdì Santo è la grande solennità del mondo: la stessa festa di Pasqua, comprende il triduo della morte, della sepoltura e della Risurrezione di Cristo (Lettera 23.a). La domenica s’interrompeva il digiuno, ma non s’abbandonava mai, grazie alla Liturgia, il colore penitenziale. – Anche S. Leone afferma che la Quaresima è un periodo di quaranta giorni che termina il Giovedì Santo sera; e, come S. Agostino, dopo aver insistito sui vantaggi del digiuno corporale, raccomanda energicamente l’esercizio della mortificazione e della penitenza, e sopra tutto l’aborrimento del peccato e la pratica fervente delle opere buone e di tutte le virtù.

Necessità della penitenza.

La necessità della penitenza è sempre attuale. Nell’epoca nostra di sensualità, in cui sembra caduta in disuso la mortificazione corporale, non crediamo sia inutile spiegare ai cristiani l’importanza e l’utilità del digiuno. A favore di questa santa pratica stanno le divine Scritture, sia del Vecchio che del Nuovo Testamento; anzi si può dire che vi si raggiunge la testimonianza della tradizione di tutti i popoli; infatti, l’idea che l’uomo possa placare la divinità con opere di espiazione del suo corpo, è costante presso tutti i popoli della terra e la troviamo in tutte le religioni, anche le più lontane dalla purezza delle tradizioni patriarcali.

Il precetto dell’astinenza.

Il precetto cui furono sottoposti i nostri progenitori nel paradiso terrestre, osservano S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo, S. Girolamo e S. Gregorio Magno, era un precetto di astinenza, e per non aver essi rispettata questa virtù precipitarono nell’abisso del male, trascinando seco tutta la discendenza. La vita di privazioni, alla quale il re decaduto della creazione si vide condannato sulla terra, che doveva produrgli solo triboli e spine, giorno per giorno giustificò tale legge d’espiazione, che il Creatore impose alle membra ribelli dell’uomo peccatore. – Fino all’epoca del diluvio i nostri antenati si sostentarono unicamente dei frutti della terra, che ricavavano con sudato lavoro. In seguito, per supplire in qualche maniera all’indebolimento delle forze della natura. Dio permise che si nutrissero della carne degli animali. – Ugualmente Noè, forse per ispirazione di Dio, cominciò a spremere il succo della vite; e così un altro alimento venne a soccorrere la debolezza dell’uomo.

Astinenza dalla carne e dal vino.

La natura del digiuno fu quindi determinata in base ai diversi elementi che servivano al sostentamento dell’uomo. A principio dovette solo consistere nell’astinenza dalla carne degli animali, essendo meno indispensabile alla vita tale alimento, dono dell’accondiscendenza di Dio. Per molti secoli, come anche oggi nelle Chiese d’Oriente, erano proibite le uova e tutti i latticini, per essere sostanze ricavate dagli animali; ed anche nelle Chiese latine non erano permesse, fino al XIX secolo, se non in virtù di un’annuale dispensa più o meno generale. Il rigore dell’astinenza dalla carne era tale, che a principio non veniva sospesa neppure la domenica di Quaresima, quando invece s’interrompeva il digiuno; e quelli che erano dispensati dal digiunare durante la settimana, rimanevano sempre tenuti a detta astinenza, salvo una dispensa particolare. – Nei primi secoli del cristianesimo il digiuno comprendeva anche l’astinenza dal vino: lo afferma S. Cirillo di Gerusalemme (IV Catechesi), S. Basilio (X Omelia sul Digiuno), S. Giovanni Crisostomo (IV Omelia al popolo d’Antiochia), Teofilo d’Alessandria, ecc. Ma questo rigore scomparve ben presto fra gli Occidentali, mentre durò più a lungo fra i cristiani d’Oriente.

Unico pasto.

Da ultimo, per essere completo, il digiuno doveva limitare anche la misura dei cibi, fino alla privazione dell’alimentazione ordinaria: in tal senso non tollera che un solo pasto quotidiano. Ciò si deduce e risulta da tutta la pratica della Chiesa, sebbene molteplici modifiche vennero a prodursi, di secolo di secolo, nella disciplina della Quaresima.

Il pasto dopo i Vespri.

La costumanza giudaica, che nel Vecchio Testamento era di posticipare al tramonto del sole l’unico pasto consentito nei giorni di digiuno, passò nella Chiesa cristiana e fu seguita anche dai paesi occidentali, ove venne conservata a lungo immutabile. Però dal IX secolo essa cominciò a mitigarsi lentamente nella Chiesa latina, come risulta, a quell’epoca, da un Capitolare di Teodolfo, Vescovo d’Orléans, nel quale il prelato protesta contro coloro che si credono in diritto di pranzare all’ora di Nona, cioè tre ore dopo mezzogiorno. Ma il rilassamento, a poco a poco, insensibilmente, si estese; infatti nel secolo successivo abbiamo la testimonianza del celebre Rathier, Vescovo di Verona, il quale, in un Discorso sulla Quaresima, riconosceva ai fedeli la facoltà di rompere il digiuno dopo Nona. Si trovano ancora tracce di richiami e contestazioni dell’XI secolo, in un Concilio di Rouen, che proibiva ai fedeli di pranzare prima che non fosse cominciato in chiesa l’Ufficio dei Vespri, terminata l’Ora di Nona: ma si trova qui già l’uso di anticipare l’ora dei Vespri, per dar modo ai fedeli di consumare prima i loro pasti. Fino quasi a quest’epoca era infatti rimasta in vigore la costumanza di non celebrare la Messa, nei giorni di digiuno, se non dopo aver cantato l’Ufficio di Nona, che aveva inizio alle tre pomeridiane, e di non cantare i Vespri se non dopo il tramonto del sole. – Ma se andava sempre più mitigandosi la disciplina del digiuno, mai la Chiesa credette giusto d’invertire l’ordine delle Ore, che risaliva alla più remota antichità. Successivamente, essa anticipò prima i Vespri, poi la Messa, infine Nona, per far sì che i Vespri terminassero prima di mezzogiorno, dato che l’uso aveva autorizzati i fedeli a fare i loro pasti a metà del giorno.

Il pasto dopo Nona.

Sappiamo da un passo di Ugo di S. Vittore, che nel XII secolo l’uso di rompere il digiuno all’ora di Nona era divenuto generale (Della Regola di S. Agostino, c. 3); pratica che fu consacrata nel XIII secolo dall’insegnamento dei teologi scolastici. Alessandro di Ales, nella sua Somma, lo insegna formalmente (P. 4, Quest. 28, art. 2), e S. Tommaso d’Aquino non è meno esplicito (2, 2, Quest. 147, art. 7).

Il pasto a mezzogiorno.

Ma questa mitigazione doveva ancora allargarsi, perchè sappiamo che alla fine del medesimo XII secolo il teologo Riccardo di Middleton, celebre francescano, insegnava non doversi considerare violatore del digiuno chi pranzava all’ora di Sesta, cioè a mezzogiorno perché, dice, quest’uso è ormai prevalso in moltissimi luoghi, e l’ora nella quale si può mangiare non è così essenziale al digiuno quanto l’unicità del pasto (Nella 4.3 Dist. 15, art. 3, quest. 8). Il XIV secolo sancì con una pratica ed un insegnamento formale l’opinione di Riccardo di Middleton. Citeremo a testimonianza il famoso teologo Durando di Saint-Pourcain, domenicano e Vescovo di Meaux, il quale senz’alcuna difficoltà fissa all’ora di mezzogiorno il pasto dei giorni di digiuno; perché questa è, dice, la pratica del Papa, dei Cardinali e anche dei Religiosi (Nella 4.a Dist. 15, quest. 9, art. 7). Non ci sorprenderà più, quindi, di vedere tale insegnamento sostenuto nel XV secolo dai più gravi autori, come S. Antonino, Stefano Poncher, Vescovo di Parigi, il Card. Gaetano, ecc. Invano Alessandro di Ales e S. Tommaso cercarono di riportare all’ora di Nona la cessazione del digiuno; furono gli ultimi scogli da superare; poi l’attuale disciplina s’impose, per così dire, fin dai loro tempi.

La « colazione ».

A causa d’essere stata anticipata l’ora del pranzo, il digiuno, che consiste essenzialmente nel mangiare un unico pasto, era divenuto difficile a praticarsi, a motivo del lungo intervallo di tempo fra un mezzogiorno e l’altro. Per cui bisognò venire incontro ancora una volta all’umana debolezza, autorizzando la cosidetta « colazione ». – L’origine di questo uso è pure antichissima e deriva dalle costumanze monastiche. La Regola di S. Benedetto prescriveva una quantità di altri digiuni, oltre a quello della Quaresima ecclesiastica; ma ne temperava il rigore permettendo un pasto all’ora di Nona: il che rendeva quei digiuni meno penosi di quello della Quaresima, perché a questo erano tenuti tutti i fedeli, secolari e religiosi, fino al tramonto del sole. Per altro, siccome i monaci dovevano sostenere le dure fatiche dei campi, nell’estate e nell’autunno, quando i digiuni fino all’ora di Nona erano così frequenti da diventare giornalieri, a partire dal 14 settembre, gli Abati, usando d’una facoltà contemplata nella Regola, permisero ai religiosi di bere verso sera un bicchiere di vino prima di Compieta, per ristorare le forze stanche delle fatiche del giorno. Tale ristoro si prendeva in comune, mentre si faceva la lettura della sera chiamata Conferenza, in latino Collatio, e che consisteva per lo più nel leggere le famose Conferenze (Collationes) di Cassiano: da qui derivò la parola colazione data a quel piccolo sollievo del digiuno monastico. – Nel IX secolo l’Assemblea d’Aquisgrana (817 – Labbe, Conciles t. VII) estende ugualmente tale facoltà al digiuno della Quaresima, per la straordinaria fatica che sostenevano i monaci nell’assolvere ai divini Uffici di questo sacro tempo. Ma in seguito si accorsero che il solo uso di quella bevanda poteva nuocere alla salute, se non vi si aggiungeva qualche cosa di solido; e dal XIV al XV secolo s’introdusse la consuetudine di distribuire ai religiosi un pezzettino di pane, che mangiavano nella « colazione » della sera quando bevevano quel bicchiere di vino. – Naturalmente, introdottesi nei chiostri mitigazioni del genere sul digiuno primitivo, si estesero ben presto anche a vantaggio dei secolari; il che avvenne a poco a poco, con la facoltà di bere fuori dell’unico pasto; e nel XIII secolo S. Tommaso stesso, studiando il caso se il bere rompesse il digiuno, concluse negativamente (4.a Quest. 147, art. 6); ma continuò ad ammettere che invece lo rompeva l’aggiunta di qualsiasi nutrimento solido. Quando alla fine del XIII secolo e durante il XIV fu, definitivamente, anticipato il pranzo a mezzogiorno, non poteva più bastare, alla sera, una semplice bevuta di vino, a reggere le forze del corpo; di conseguenza s’introdusse, prima nei chiostri, e poi fuori, la consuetudine di prendere, oltre quella bevanda, pane, verdura e frutta, sempre a condizione d’usare di quegli alimenti con tale moderazione da non trasformare mai la « colazione » in un secondo pasto.

Astinenza dai latticini.

Tali furono le conquiste che ottennero sull’antica osservanza del digiuno, sia il rilassamento del primitivo fervore, sia l’indebolimento generale delle forze fisiche, presso i popoli occidentali. Ma non sono questi gli unici temperamenti che dobbiamo rilevare. Per molti secoli l’astinenza dalla carne comprendeva la proibizione di tutto ciò che proveniva dal regno animale, escluso il pesce, per diverse misteriose ragioni fondate sulle sacre Scritture. I latticini d’ogni sorta furono per molto tempo proibiti; a Roma fino a pochi anni fa erano proibiti il cacio e il burro tutti i giorni nei quali non si poteva mangiar carne. – L’uso dei latticini in Quaresima si andò affermando dal ix secolo in poi nell’Europa occidentale, specialmente in Germania e nelle regioni settentrionali. Invano cercò di eliminarlo, nell’xi secolo, il Concilio di Kedlimbourg, (Labbe, Conciles, t. x) di modo che, dopo aver legittimata la pratica mediante dispense temporanee che ottenevano dai Sommi Pontefici, quelle Chiese finirono per usufruirne pacificamente per l’inveterata consuetudine. Le Chiese di Francia mantennero l’antico rigore fino al xvi secolo, anzi sembrò non cedere del tutto fino al xvu secolo; tanto che, per riparare alla breccia fatta all’antica disciplina, e quasi a compensare con un atto pio e solenne il rilassamento circa l’articolo dei latticini, d’allora in poi tutte le parrocchie di Parigi, alle quali si univano i Domenicani, i Francescani, i Carmelitani e gli Agostiniani, si recavano in processione alla Chiesa di Notre-Dame la Domenica di Quinquagesima; nello stesso giorno il Capitolo Metropolitano, col clero delle quattro parrocchie dipendenti, andava a fare una stazione nel cortile della Curia e a cantare un’Antifona davanti alla Reliquia della vera Croce, che si esponeva nella Cappella Santa. Queste belle tradizioni, aventi Io scopo di tenere impressa nella memoria l’antica disciplina, durarono fino alla Rivoluzione.

Astinenza dalle uova.

La facoltà di usare dei latticini non comprendeva l’uso delle uova in Quaresima. Su questo punto rimase per molto tempo in vigore l’antica norma di concedere questo cibo solo se compreso nella dispensa che si soleva dare annualmente. Fino al XIX secolo a Roma non si potevano mangiare le uova nei giorni in cui non era stata concessa la dispensa dell’uso della carne; altrove, le uova in certi giorni erano permesse, in altri no, specie durante la Settimana Santa; mentre l’attuale disciplina non conosce più tali restrizioni.- Se non che la Chiesa, sempre preoccupata del bene spirituale dei suoi figli, e nel loro interesse, ha cercato di mantenere in vigore tutto ciò ch’è stato possibile delle osservanze salutari che li devono aiutare a soddisfare la giustizia divina. In virtù di questo principio Benedetto XIV, allarmato fin dal suo tempo dell’estrema facilità con cui si moltiplicavano da per tutto le dispense circa l’astinenza, con una solenne Costituzione, in data io giugno 1745, rinnovò la proibizione, oggi nuovamente abolita, di mangiare nello stesso pasto pesce e carne nei giorni di digiuno.

Enciclica di Benedetto XIV.

Fin dal primo anno del suo pontificato, il 30 maggio 1741, lo stesso Pontefice indirizzò una Lettera Enciclica a tutti i Vescovi del mondo Cattolico, esprimendo il suo vivo dolore nel costatare rilassamento che s’introduceva ovunque con indiscrete e ingiustificate dispense. – « L’osservanza della Quaresima, diceva il Pontefice, è il vincolo della nostra milizia; con quella ci distinguiamo dai nemici della Croce di Gesù Cristo; con quella allontaniamo i flagelli dell’ira divina; con quella, protetti dal soccorso celeste durante il giorno, ci fortifichiamo contro i prìncipi delle tenebre. Se ci abbandoniamo a tale rilassamento, è tutto a detrimento della gloria di Dio, a disonore della religione cattolica, a pericolo per le anime cristiane; né si deve dubitare che tale negligenza non possa divenire sorgente di sventure per i popoli, di rovine nei pubblici affari e di disgrazie nelle cose private » (Costituzione « Non ambigimus »). Sono passati due secoli dal solenne monito del Pontefice, ma purtroppo quel rilassamento che egli volle frenare andò sempre più crescendo. Nelle nostre città, quanti cristiani si possono contare fedeli all’osservanza quaresimale? Ora dove ci condurrà questa mollezza che aumenta senza limiti, se non al decadimento universale dei costumi e perciò allo sconvolgimento della società ? Già le dolorose predizioni di Benedetto XIV si sono visibilmente avverate. Le nazioni che conobbero l’idea della espiazione sfidano la collera di Dio; per loro non resta altra sorte che la dissoluzione o la conquista. Per ristabilire l’osservanza domenicale in seno alle popolazioni cristiane asservite all’amore del danaro e degli affari sono stati compiuti coraggiosi sforzi, coronati da insperati successi. Chissà che il braccio del Signore, alzato a percuoterci, non s’arresti alla vista d’un popolo che comincia a ricordarsi della casa di Dio e del suo culto! Dobbiamo sperarlo: ma questa speranza sarà più solida quando vedremo i cristiani della nostra società rammollita e degenerata rientrare, come gli abitanti di Ninive, nella via da tempo abbandonata dell’espiazione e della penitenza.

Le prime dispense.

Riprendiamo ora la narrazione storica e segnaliamo ancora alcuni tratti della fedeltà degli antichi cristiani alle sante osservanze della Quaresima. Non sarà qui fuori proposito richiamare la formalità delle prime dispense il cui ricordo è conservato negli Annali della Chiesa; vi si attingerà un salutare insegnamento.

Ai fedeli di Braga (Portogallo).

Nel XIII secolo l’Arcivescovo di Braga fece ricorso al Romano Pontefice, allora Innocenzo III, per fargli presente che la maggior parte del suo popolo era stato costretto a mangiar carne durante la Quaresima a causa d’una carestia che aveva privata la provincia di tutte le ordinarie provvigioni; il prelato chiedeva al Papa quale riparazione poteva imporre ai fedeli per questa violazione forzata dell’astinenza quaresimale. Inoltre consultava il Pontefice sulla condotta da tenere riguardo ai malati, che chiedevano la dispensa per l’uso degli alimenti grassi. La risposta d’Innocenzo III, ch’è inserita nel Corpo del Diritto (Decretali, 1. 3 sul digiuno, tit. xlvi), è piena di moderazione e di carità, com’era da attendersi. Ma da questo fatto noi comprendiamo ch’era tale allora il rispetto della legge generale della Quaresima, da riconoscere che solo l’autorità del Sommo Pontefice poteva sciogliere i fedeli. I secoli successivi non intesero diversamente il caso delle dispense.

Al re Venceslao.

Venceslao, re di Boemia colpito da un’infermità che gli rendeva nociva alla salute l’alimentazione quaresimale, si rivolse nel 1297 a Bonifacio VIII, per ottenere il permesso di mangiare carne. Il Papa incaricò due Abati dell’Ordine dei Cistercensi per informarlo sullo stato reale della salute del monarca; e dietro loro favorevole rapporto, accordò la dispensa richiesta, ma ingiungendo le seguenti condizioni: si sincerassero che il re non si fosse imposto con voto di digiunare a vita durante la Quaresima; i venerdì, i sabati e la vigilia di S. Mattia erano esclusi dalla dispensa; finalmente il re doveva prender cibo privatamente, e farlo con sobrietà.

Ai re di Francia.

Nel secolo xiv abbiamo due Brevi di dispensa, indirizzati da Clemente VI, nel 1351, a Giovanni re di Francia ed alla regina sua sposa. Nel primo il Papa, avuto riguardo al fatto che il re, durante le guerre di cui si occupa, si trova spesso in luoghi dov’è raro il pesce, concede al suo confessore il potere di permettere a lui ed al suo seguito l’uso della carne, fatta riserva, però, dell’intera Quaresima, dei venerdì e di certe Vigilie dell’anno; assodato inoltre, che né il re né i suoi si fossero legati con voto all’astinenza per tutta la vita (D’Achery, Spicilegium, t. iv). Col secondo Breve Clemente VI, rispondendo alla domanda che gli era stata presentata dal re Giovanni per essere esentato dal digiuno, incarica ancora il confessore del monarca e coloro che gli succederanno in quell’ufficio, di dispensarlo insieme alla regina, dall’obbligo del digiuno, dopo aver consultato i medici (Ibid.). – Alcuni anni più tardi, nel 1376, Gregorio XI emanava un altro Breve in favore del re di Francia Carlo V e della regina Giovanna sua sposa, col quale delegava al loro confessore il potere d’accordare l’uso delle uova e dei latticini durante la Quaresima, sentito il parere dei medici e gravatane la loro coscienza, come anche quella del confessore che ne avrebbe risposto davanti a Dio. Il permesso si estendeva ai cuochi ed ai camerieri, ma solo per assaggiare le vivande.

A Giacomo III re di Scozia.

Il XV secolo continua a fornirci esempi di simili ricorsi alla Sede Apostolica per la dispensa dalle osservanze quaresimali. Citiamo particolarmente il Breve che Sisto IV, nel 1483, indirizzò a Giacomo re di Scozia, col quale permette a questo principe di fare uso della carne nei giorni d’astinenza, sempre col consiglio del confessore. – Nel XVI secolo vediamo Giulio II accordare una simile facoltà a Giovanni, re di Danimarca, ed alla regina Cristina sua consorte; e qualche anno più tardi. Clemente VII elargiva il medesimo privilegio all’imperatore Carlo V, e poi in seguito anche ad Enrico II di Navarra ed alla regina Margherita sua sposa. – Tale era la gravità, con la quale si procedeva, ancora qualche secolo fa, a sciogliere gli stessi prìncipi da un obbligo, che è quanto di più universale e di più sacro ha il Cristianesimo. Da questo si può giudicare il cammino seguito dalla moderna società nella via del rilassamento e della indifferenza. Si paragonino quelle popolazioni, che per il timore di Dio e la nobile idea dell’espiazione si imponevano tutti gli anni così lunghe e rigide privazioni, con la nostra tiepida e rammollita generazione, il cui sensualismo della vita va sempre più estinguendo il senso del male, che si commette così facilmente, che così prontamente viene perdonato e così debolmente riparato. Dove sono ora le gioie dei nostri padri nella festa di Pasqua, quando, dopo una privazione di quaranta giorni, riprendevano i cibi più nutrienti e graditi che s’erano interdetti durante questo lungo periodo? Con quale attrattiva e con quale serenità di coscienza essi tornavano alle abitudini d’una vita più facile, che avevano sospesa per affliggere l’anima nel raccoglimento, nella separazione dal mondo e nella penitenza! Ciò c’induce ad aggiungere ancora una parola, con l’intento d’aiutare il lettore cattolico a ben rilevare l’aspetto della cristianità nei periodi della fede, durante il tempo della Quaresima.

Vacanza dei tribunali.

Immaginiamoci dunque un tempo in cui, non solo erano interdetti dalle pubbliche autorità [Secondo Pozio, Giustiniano aveva introdotto una simile legge – Nomocanone. tit. VII, c. 1], i divertimenti e gli spettacoli, ma rimanevano vacanti anche i tribunali, affinché non fosse turbata quella pace e quel silenzio delle passioni così favorevoli al peccatore per approfondire le piaghe della sua anima e prepararla a riconciliarsi con Dio. Fin dal 380, Graziano e Teodosio avevano dettata una legge che ordinava ai giudici di soprassedere a tutte le procedure ed istanze quaranta giorni prima di Pasqua (Cod. Teodos. 1. ix, tit. xxxv, l. 4). Il Codice Teodisiano contiene parecchie altre disposizioni analoghe; e sappiamo che i Concili di Francia, ancora nel IX secolo, si rivolsero ai re Carolingi per reclamare l’applicazione di quella misura ch’era stata sanzionata dai canoni e raccomandata dai Padri della Chiesa (Concilio di Meaux, dell’845. Labbe, / Concili, t. VII. Concilio di Tribur, dell’895, Ivi, t. ix). La legislazione d’Occidente ha lasciato cadere da molto tempo quelle cristianissime tradizioni; mentre costatiamo, a nostra umiliazione, ch’esse sono tuttora rispettate dai Turchi, i quali sospendono ogni azione giudiziaria durante i trenta giorni del Ramadan.

Divieto della caccia.

La Quaresima fu per molto tempo considerata incompatibile con l’esercizio della caccia, a motivo della dissipazione e del tumulto che porta con sé. Nel IX secolo, durante questo sacro tempo, fu interdetta dal Papa S. Nicolò I ai Bulgari (Ad consultat. Bulgarorum Ivi, t. VIII), che s’erano riconvertiti al cristianesimo. E anche nel XIII secolo S. Raimondo di Pennafort, nella sua Somma dei casi penitenziali, insegna che non si può durante la Quaresima, senza commettere peccato, esercitare la caccia rumorosa e col concorso dei cani e dei falchi (Summ. cas. Poenit., I, III, tit. XXIX, De laps. Et disp. § 1). Tale ordinanza è fra quelle cadute in disuso; ma S. Carlo la riportò in vigore nella provincia di Milano in uno dei suoi concili. – Dal resto non avremo più da meravigliarci nel vedere interdetta la caccia durante la Quaresima, quando sappiamo che nei secoli passati del cristianesimo anche la guerra cessava le sue ostilità, s’era necessaria al sollievo ed al legittimo interesse delle nazioni. Nel IV secolo Costantino aveva ordinato la cessazione delle operazioni militari i venerdì e le domeniche, in segno di omaggio a Gesù Cristo, che in tali giorni patì e risuscitò, e per non distogliere i cristiani dal raccoglimento che si richiede per celebrare quei misteri. Nel IX secolo la disciplina ecclesiastica d’Occidente esigeva universalmente la sospensione delle armi durante l’intera Quaresima, eccetto il caso di necessità, come risulta dagli atti dell’assemblea di Compiègne, nel1’833, e dai concili di Meaux e d’Aquisgrana, della stessa epoca. – Le istruzioni del Papa S. Nicolò I ai Bulgari esprimono lo stesso pensiero; e da una lettera di S. Gregorio VII a Desiderio, Abate di Montecassino, consta che tale norma era ancora rispettata nell’XI secolo (Labbe, / Concili, t. VII, VIII e x). La vediamo ancora osservata fino al XII secolo in Inghilterra, come c’informa Guglielmo di Malmesbury, da due armate schierate di fronte: l’una dell’imperatrice Matilde, contessa d’Angiò, figlia del re Enrico; l’altra del re Stefano conte di Boulogne, che nel 1143 stavano per cozzare a causa della successione alla corona.

La tregua di Dio.

È nota a tutti i nostri lettori la mirabile istituzione della Tregua di Dio, per mezzo della quale la Chiesa, nell’XI secolo, riuscì ad arrestare in tutta l’Europa lo spargimento del sangue col sospendere l’uso delle armi quattro giorni ogni settimana, dal mercoledì sera fino al lunedì mattina, per tutta la durata dell’anno. Tale regolamento, sanzionato dall’autorità dei Papi e dei Concili con concorso di tutti i prìncipi cristiani, non era che l’estensione ad ogni settimana dell’anno di quella disciplina, in virtù della quale rimaneva sospesa in Quaresima ogni azione militare. Il santo re d’Inghilterra Edoardo il Confessore migliorò ancora questa sì preziosa istituzione, emanando una legge che fu confermata dal suo successore Guglielmo il Conquistatore, e in merito alla quale la Tregua di Dio doveva essere inviolabilmente osservata dall’apertura dell’Avvento fino all’ottava dell’Epifania, dalla Settuagesima fino all’ottava di Pasqua e dall’Ascensione fino all’ottava di Pentecoste; in più, tutti i giorni delle Quattro Tempora, le Vigilie di tutte le Feste, e finalmente ogni settimana nell’intervallo fra il sabato dopo Nona e il lunedì mattina (Labbe, I Concili, t. ix). – Urbano II, nel Concilio di Clermont (1095), dopo aver regolato tutto ciò che concerneva la spedizione della Crociata, intervenne anche con la sua apostolica autorità ad estendere la Tregua di Dio, prendendo a base la sospensione delle armi osservata durante la Quaresima, e stabilì, con un decreto che fu rinnovato nel Concilio tenuto a Rouen l’anno appresso, che dovevano rimanere interdette tutte le azioni di guerra dal mercoledì delle Ceneri fino al lunedì successivo all’ottava di Pentecoste, e in tutte le Vigilie e Feste della S. Vergine e degli Apostoli: tutto senza pregiudicare quanto stabilito in precedenza per ogni settimana, cioè dal mercoledì sera fino al lunedì mattina (Orderico Vitale, Storia della Chiesa, 1. ix).

Il precetto della continenza.

Così la società cristiana testimoniava il suo rispetto verso le tante osservanze della Quaresima e prendeva dall’anno liturgico le sue stagioni e le sue feste per inserirvi le sue più preziose istituzioni. Anche la vita privata ne risentiva la salutare influenza, e l’uomo v’attingeva ogni anno un rinnovamento di forze per combattere gl’istinti sensuali e risollevare la dignità della propria anima mettendo a freno l’attrattiva del piacere. Per molti secoli si richiese dagli sposi la continenza in tutto il corso della santa Quarantena; e la Chiesa, nel Messale (Missa prò sponso et sponsa), ha conservato la raccomandazione di questa salutare pratica.

Usanza delle Chiese d’Oriente.

Interrompiamo qui l’esposizione storica della disciplina quaresimale, col dispiacere d’avere appena sfiorata una materia così interessante (1). Avremmo voluto fra l’altro dilungarci sulle usanze delle Chiese d’Oriente, che meglio di noi hanno conservato il rigore dei primi secoli del cristianesimo; ma ce ne manca assolutamente lo spazio. Ci limiteremo, perciò, ad alcuni sommari dettagli. (1) Quanto alla storia, alla durata, al carattere dell’antica Quaresima, si potranno consultare gli studi di Mons. Callewaert, Sacris erudlrl, p. 449-533: «Il significato della Quaresima» l’opuscolo del Rev. Flicoteaux (Bloud et Gay, 1946). – In altra parte della nostra opera il lettore ha potuto osservare, che la Domenica che noi chiamiamo di Settuagesima, presso i Greci è chiamata Prosfonesima, per annunciare imminente l’apertura del digiuno quaresimale. Il lunedì appresso viene contato per il primo giorno della seguente settimana, chiamata Apocreos, dal nome della Domenica con la quale essa termina e che corrisponde alla nostra di Sessagesima; la parola Apocreos è un avvertimento per la Chiesa greca, che fra poco si dovrà sospendere l’uso della carne. Il lunedì seguente apre la settimana chiamata Tirofagia, la quale termina con la Domenica che ha questo nome, cioè la nostra Quinquagesima; durante questa intera settimana sono ancora permessi i latticini. Finalmente, il lunedì che segue è il primo giorno della prima settimana di Quaresima, il cui digiuno comincia fin da questo lunedì in tutto il suo rigore, a differenza dei Latini che lo aprono il mercoledì. Durante tutto il periodo della Quaresima propriamente detta, i latticini, le uova e anche il pesce sono proibiti; l’unico nutrimento possibile col pane sono i legumi, il miele e, per chi abita vicino al mare, le diverse conchiglie ch’esso fornisce loro. L’uso dei vini, per tanto tempo proibito nei giorni di digiuno, ha finito per introdursi anche in Oriente, come pure la dispensa di mangiare il pesce il giorno dell’Annunciazione e la Domenica delle Palme. – Oltre poi la Quaresima di preparazione alla festa di Pasqua, i Greci ne celebrano ancora altre tre nel resto dell’anno: quella che chiamano degli Apostoli che va dall’ottava di Pentecoste fino alla festa dei Ss. Pietro e Paolo; quella della Vergine Maria, che comincia col primo agosto e finisce con la vigilia dell’Assunta; e finalmente la Quaresima di preparazione al Natale, che dura quaranta giorni interi. Le privazioni che i Greci osservano durante queste tre Quaresime sono simili a quelle della grande Quaresima, però non così rigorose. – Le altre nazioni cristiane dell’Oriente pure celebrano diverse Quaresime e con un’austerità anche maggiore di quella osservata dai Greci. Ma tutti questi particolari ci porterebbero troppo lontani. Perciò concludiamo qui tutto quello che dovevamo dire della Quaresima dal punto di vista storico, per passare ad esporre i misteri che questo sacro tempo contiene. [contin.]

MERCOLEDI’ delle CENERI

Benedictio cinerum

Exáudi nos, Dómine, quóniam benígna est misericórdia tua: secúndum multitúdinem miseratiónum tuárum réspice nos, Dómine.

Salvum me fac, Deus: quóniam intravérunt aquæ usque ad ánimam meam.

Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.

Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen

Exáudi nos, Dómine, quóniam benígna est misericórdia tua: secúndum multitúdinem miseratiónum tuárum réspice nos, Dómine.

Dóminus vobíscum. – Et cum spíritu tuo.

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, parce pæniténtibus, propitiáre supplicántibus: et míttere dignéris sanctum Angelum tuum de coelis, qui bene dícat et sanctíficet hos cíneres, ut sint remédium salúbre ómnibus nomen sanctum tuum humilíter implorántibus, ac semetípsos pro consciéntia delictórum suórum accusántibus, ante conspéctum divínæ cleméntiæ tuæ facínora sua deplorántibus, vel sereníssimam pietátem tuam supplíciter obnixéque flagitántibus: et præsta per invocatiónem sanctíssimi nóminis tui; ut, quicúmque per eos aspérsi fúerint, pro redemptióne peccatórum suórum, córporis sanitátem et ánimæ tutélam percípiant. Per Christum, Dóminum nostrum. R. Amen.

[Onnipotente sempiterno Iddio, perdona ai penitenti, sii propizio ai supplicanti: e dégnati di mandare dal cielo il tuo santo Angelo, che bene†dica, e santi†fichi queste ceneri, onde siano rimedio salutare a quanti Ti invocano umilmente, si confessano rei dei loro peccati, li deplorano innanzi alla tua divina clemenza e con, vero dolore e làcrime implorano la tua serenissima pietà: e per l’invocazione del Tuo Santissimo Nome: fa che tutti quelli che saranno cosparsi di queste ceneri in remissione dei loro peccati, ricevano la sanità del corpo e la protezione dell’ànima. Per Cristo, nostro Signore. R. Amen.]

Orémus.

Deus, qui non mortem, sed pæniténtiam desíderas peccatórum: fragilitátem condiciónis humánæ benigníssime réspice; et hos cíneres, quos, causa proferéndæ humilitátis atque promeréndæ véniæ, capítibus nostris impóni decérnimus, bene dícere pro tua pietáte dignáre: ut, qui nos cínerem esse, et ob pravitátis nostræ deméritum in púlverem reversúros cognóscimus; peccatórum ómnium véniam, et praemia pæniténtibus repromíssa, misericórditer cónsequi mereámur. Per Christum, Dóminum nostrum. R. Amen.

[O Dio, che non desideri la morte dei peccatori, ma il loro pentimento: guarda benignamente alla fragilità della natura umana; e queste ceneri, che intendiamo imporre sul nostro capo per umiliarci e meritarci il perdono, Tu dégnati, nella tua pietà, di bene†dirle, affinché noi, riconoscendo di essere cenere e di dover ritornare polvere per colpa della nostra malvagità, meritiamo di ottenere misericordiosamente il perdono di tutti i peccati e il premio promesso ai penitenti. Per Cristo nostro Signore.]

Orémus.

Deus, qui humiliatióne flécteris, et satisfactióne placáris: aurem tuæ pietátis inclína précibus nostris; et capítibus servórum tuórum, horum cínerum aspersióne contáctis, effúnde propítius grátiam tuæ benedictiónis: ut eos et spíritu compunctiónis répleas et, quæ juste postuláverint, efficáciter tríbuas; et concéssa perpétuo stabilíta et intácta manére decérnas. Per Christum, Dóminum nostrum. R. Amen.

[O Dio, che Ti lasci piegare dall’umiltà e placare dalla penitenza, porgi pietoso orecchio alle nostre preghiere, e sui tuoi servi, cosparsi di queste ceneri, effondi propizio la grazia della tua benedizione; riémpili dello spirito di compunzione, esaudisci efficacemente le giuste domande, e le grazie loro concesse réndile in perpetuo confermate e stabili. Per Cristo nostro Signore.]

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui Ninivítis, in cínere et cilício pæniténtibus, indulgéntiæ tuæ remédia præstitísti: concéde propítius; ut sic eos imitémur hábitu, quaténus véniæ prosequámur obténtu.

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Preghiamo. Onnipotente sempiterno Iddio, che ai Niniviti attestasti il loro pentimento con la cenere e col cilicio, e accordasti il: rimedio del tuo perdono, concédici propizio di imitarne gli atti, così da meritare anche noi gli effetti del tuo perdono.

Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. – Amen.

Vangelo del giorno

[S. Matt VI:16-21]

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Cum jejunátis, nolíte fíeri, sicut hypócritæ, tristes. Extérminant enim fácies suas, ut appáreant homínibus jejunántes. Amen, dico vobis, quia recepérunt mercédem suam. Tu autem, cum jejúnas, unge caput tuum, et fáciem tuam lava, ne videáris homínibus jejúnans, sed Patri tuo, qui est in abscóndito: et Pater tuus, qui videt in abscóndito, reddet tibi. Nolíte thesaurizáre vobis thesáuros in terra: ubi ærúgo et tínea demólitur: et ubi fures effódiunt et furántur. Thesaurizáte autem vobis thesáuros in coelo: ubi neque ærúgo neque tínea demólitur; et ubi fures non effódiunt nec furántur. Ubi enim est thesáurus tuus, ibi est et cor tuum.” – R. Laus tibi, Christe!

[In quel tempo: Disse Gesù ai suoi discepoli: Quando digiunate non fate i malinconici, come gli ipocriti, che sfigurano il proprio volto per far vedere agli uomini che digiunano. In verità, vi dico che hanno già ricevuta la loro ricompensa. Ma tu, quando digiuni, profumati la testa e lavati la faccia: che il tuo digiuno sia noto, non agli uomini, ma al Padre tuo celeste, il quale sta nel segreto: e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa. Non cercate di accumulare tesori sopra la terra, dove la ruggine e la tignola consumano, e dove i ladri disotterrano e rubano. Procurate di accumulare tesori nel cielo, dove la ruggine e la tignola non consumano, e dove i ladri non disotterrano e non rubano. Poiché dov’è il tuo tesoro, lì è il tuo cuore.]

Omelia del Santo Padre Gregorio XVII

[–nella cattedrale di Genova, 1974-]

Si compirà tra qualche istante la cerimonia sacra della benedizione e imposizione delle Ceneri. Dobbiamo parlarne. Non possiamo dimenticare il Vangelo che ora è stato letto, traendolo dal cap. VI di S. Matteo. – La cerimonia delle Ceneri che senso ha? Lo indicano esattamente le parole che vengono dette mentre si impongono le Ceneri. Il richiamo della morte dobbiamo farlo; non è gustoso, non è divertente, non è allegro, ed è umano che sia così, ma è doveroso. Il concetto della morte resta davanti a noi, ed è necessario distinguere i due piani nei quali ci può apparire: il piano meramente naturale e il piano soprannaturale. Vedeteli per scegliere. – Sul piano naturale, anche se la fiamma di spirito che portiamo dentro di noi garantisce di per se stessa, al di fuori d’ogni rivelazione divina, la sopravvivenza e l’immortalità dell’anima, sul piano naturale la morte è una barriera, è un terribile mistero, è una fine, si direbbe un brutto scherzo della vita. E quando la si vede su questo piano naturale, la morte può oscurare anche i giorni più belli, anche le più profumate stagioni della nostra esistenza. Ed è per questo che molti non ne vogliono sentire parlare. – Ma vediamola dal punto di vista soprannaturale, cioè come ce l’ha indicata la Rivelazione divina. Il concetto della morte allora è spiegato, perché così ci insegna la Rivelazione divina: con la morte finisce il tempo della prova, cioè la morte è la maturazione finita e immutabile di quello che si è realizzato nella vita, la morte è il momento ultimo nel quale la libertà nostra può essere esercitata sul bene e sul male, nel quale si può peccare, ma nel quale si può meritare. E siccome il peccato è negativo e il merito è positivo, resta della vita soltanto il merito, e allora si capisce che nella vita una sola cosa vale ai fini della nostra persona: il nostro merito personale. Ma questo proietta la felicità, la gloria, la pace nella stessa eternità. – Ecco i due piani. Chi si rassegna o si degrada al primo, soffre di vivere e ha paura di morire. Chi sale veramente al secondo soffrirà, ma meritoriamente, e avrà ragione di aspettarsi una grazia per morire senza paure. Ecco la morte. – La morte è la compagna della nostra vita, la vera compagna, per questo semplice motivo: che si verifica ogni giorno per noi, perché ogni giorno si spegne una particella della nostra capacità biologica e, pertanto, come diceva il poeta latino, “noi moriamo ogni giorno” (Seneca, Lettere a Lucilio). Ogni giorno una foglia cade dall’albero, ogni giorno cade qualche poco della neve dai monti, ogni giorno qualche cosa passa per non ritornare mai più in questa vita. I fiori, che sono l’esplosione della vitalità più bella in natura, sono i più caduchi di tutti. La morte accompagna la vita, ma quando la si vede sul primo piano naturale è odiosa; quando la si vede sul secondo piano soprannaturale – e per vederla bisogna meritarlo: non è un atto semplicemente intellettuale, ma un atto morale -, allora la vita può essere gaudiosa. Ho davanti a me anche molti bambini che per la loro età sono lontani, credono di essere lontani, bambini che si preparano alla prima comunione. Ma il ragionamento fatto per gli anziani vale anche per i bimbi, vale per tutti. Il tempo è quello che è quando è passato, e, nel momento stesso in cui si dice “ora”, il momento presente è passato. Ed è da questo punto che si acquista la serietà su tutta la vita, su tutti gli oggetti che vengono disposti a scelta davanti a noi dalla nostra esperienza; è solo da questo punto che si ragiona bene. Vogliate ricordarlo. – Ora veniamo al Vangelo che abbiamo letto. Dà una delle profonde ragioni per cui si può vivere, e vivere come in vigilia (le vigilie sono migliori delle feste talvolta; qui non è migliore della festa, ma è bella la vigilia; noi viviamo in vigilia del gaudio eterno). Sentite questo Vangelo. Che cosa dice? Gesù parla e parla della rettitudine d’intenzione. A proposito di che? Di tutte le opere buone, e segnatamente a proposito dell’orazione e del digiuno, perché l’ambiente nel quale parlava esigeva un riferimento a questi oggetti. Ma parla della rettitudine d’intenzione; dice: “Sia retta!” Che cosa è l’intenzione? È l’atto della nostra volontà e intelligenza, col quale diamo uno scopo a quello che facciamo: questa è l’intenzione. C’è molta gente per la quale non si può parlare di rettitudine d’intenzione, perché non ha intenzione di niente, non pensa a niente, va avanti con la testa nel sacco; qualche volta pensa che deve superare gli esami a scuola, che deve ottenere questo o quel risultato, che deve pensare ai propri figli. – Ma l’intenzione come organizzazione fondamentale della nostra vita, cioè dare a tutto quello che si fa uno scopo, è faccenda molto dimenticata e che deve essere fortemente ricordata per la ragione che dirò far poco. – Ho detto intenzione, ma quand’è che l’intenzione è retta? Perché si richiede la retta intenzione; Gesù parla per inculcare la retta intenzione. L’intenzione è retta, quando nei nostri scopi non si deforma la finalità naturale di quello che si compie. Se io faccio una cortesia, sarà una cortesia, e la mia intenzione è retta se io intendo essere cortese. Ma se io mi allontano da questo naturale scopo dell’atto di cortesia, e faccio la cortesia per ingannare qualcuno, per prenderlo nella mia rete, io non ho più la retta intenzione. – Ma non basta, non basta perché l’intenzione sia retta; Gesù ce lo dice qui: l’intenzione è retta quando tutte le nostre azioni sono finalizzate verso Dio: allora la vita vale, tutta. Avete l’abitudine di dire le orazioni tutte le mattine e tutte le sere? E nelle orazioni del mattino avete l’abitudine di dare una finalità eterna a tutto quello che farete? Badate che gli uomini di quello che facciamo non si curano; il più di quello che passa nella nostra vita non interessa. – L’unico è Dio al quale interessa quello che facciamo noi. Sappiamolo e non dimentichiamolo mai! Lui solo, il Padre che ci ha creato, si curva sulle azioni anche le minime, anche le più domestiche, le più semplici, le più trite, le più evanescenti. Avete l’abitudine al mattino di offrire tutto quello che farete e tutto quello che soffrirete, sopporterete, protestando che lo farete per amore di Dio? Gesù in questo Vangelo dice che l’intenzione è realmente retta, quando le cose si fanno per Dio, perché le veda Iddio. Non sopprime l’intenzione che è connaturata alle azioni in sé buone, ma questa fondamentale rettitudine deve essere innalzata e completata solo da questa. Viviamo, operiamo perché dobbiamo tornare a Dio, e restituire a Lui la vita, il tempo, le possibilità che nel tempo ha dispiegato dinnanzi alla nostra libera scelta. Ecco cosa ha detto Gesù nel Vangelo: la rettitudine d’intenzione. – Tutti gli insinceri, tutti i bugiardi, tutti gli ipocriti, tutti i manovratori è difficile che riescano a salvare questa rettitudine di intenzione. Ma avete qui la risposta alla morte: quando tutta la vita è dominata da una rettitudine d’intenzione, la morte è soltanto il tempo del raccolto gioioso, nient’altro, è il tempo del premio, è il giorno della vita. E così si vedono le cose dal punto di vista del Vangelo.

Suicidio ed eutanasia: telepass garantito per l’eterno fuoco!

Quinto comandamento.

[E. Ione: compendio di teologia morale – Marietti ed. ]

Il quinto comandamento proibisce, in primo luogo, ogni ingiusta uccisione, tanto di se stessi quanto di altri. In secondo luogo, proibisce ogni ingiusto ferimento o mutilazione.

E poiché la morte può venire anche per trascuratezza della propria salute, v’è pure un obbligo correlativo di curare la propria sanità.

CAPITOLO I .

Obblighi verso la propria vita.

I. Il suicidio diretto è peccato grave, quando si faccia di propria autorità. – È pure vietato il tentativo di suicidio, ponendo un atto da cui « per accidens » segua la morte, per abbreviarsi la vita, per es. bere eccessivamente, fumare troppo. — I suicidi vengono puniti con la privazione della sepoltura ecclesiastica, se prima di spirare non abbiano dato segni di pentimento (can. 1240), ovvero non possano essere scusati per mancanza di grave imputabilità (cfr. can. 2218, § 2) . — Probabilmente è lecito eseguire contro se stessi, per incarico dell’autorità pubblica, la sentenza di morte pronunziata legittimamente dalla stessa autorità. –

II. È pure proibito per sé uccidersi indirettamente; tuttavia è lecito, per un motivo proporzionatamente molto grave. – Si uccide indirettamente chi, in realtà non ha lo scopo di sopprimere la vita, ma sapendo e volendo, pone un’azione da cui non solo segue un buon effetto inteso e voluto, ma anche la morte. In ciò si presuppone che l’effetto buono abbia a seguire immediatamente da quell’azione, almeno nello stesso tempo della morte. – Pertanto è lecito gettarsi giù da un punto alto per sfuggire la morte nel fuoco, specialmente quando v’è ancora speranza di salvare la vita. Allo stesso modo può agire una donna per liberarsi dalle mani di un male intenzionato, che voglia afferrarla e violentarla. — Similmente è lecito in guerra far saltare una fortezza, una nave ecc. per danneggiare il nemico, anche se si prevede che si incontrerà la morte.

III. Solo per un motivo proporzionato, è lecito esporsi ad un pericolo di morte. Il motivo deve essere tanto più grande quanto più prossimo è il pericolo di morte. Esporsi a un pericolo remoto di morte, senza un motivo sufficiente, costituisce soltanto peccato veniale. — È lecito curare gli appestati, anche con pericolo di incontrarvi la morte. — I carpentieri edili possono lecitamente esporsi ai pericoli propri della loro professione. Ai prigionieri è lecito tentare l’evasione, sia pure con pericolo della vita, per sfuggire alla esecuzione capitale o alla prigionia perpetua. – È illecito eseguire giochi da saltimbanco pericolosi o giochi da circo per la sola brama di guadagno. Qualora, data l’abilità personale acquisita, il pericolo sia divenuto remoto, non vi è peccato, almeno mortale. Sotto tale categoria di azioni illecite, devono porsi pure le irragionevoli scommesse di prendere eccessive quantità di cibi o di bevande. –

IV. Abbreviare il tempo della vita anche di parecchi anni o danneggiare la salute a causa di una professione o genere di vita o di lavori pesanti, è lecito per motivi proporzionati. È perciò permesso il lavoro negli altiforni, nelle miniere, nelle vetrerie, in certi stabilimenti chimici. Similmente sono leciti ragionevoli esercizi di penitenza. Chi scientemente abbrevia al quanto la vita con l’abuso dei cibi e delle bevande, commette peccato veniale; ma abbreviare notevolmente la vita o rovinare la salute con l’abuso, per es. di morfina o di cocaina, è peccato grave.

V. La mutilazione del proprio corpo è permessa soltanto per salvare la vita. – La mutilazione di solito è peccato grave. L’amputazione di una parte insignificante e che non ha importanti funzioni fisiologiche, per es. il lobo dell’orecchio, è solo veniale. – L’evirazione e la sterilizzazione diretta sono gravemente colpevoli, sia che si abbia lo scopo di diminuire le tentazioni, sia che lo si faccia per conservare la voce di soprano, oppure per motivi di eugenetica sociale (S. U f f . 24 febb. 1940, AAS, XXXII, 1940, p. 73; cfr. pure il discorso di Pio XII alle ostetriche, 29 ott. 1951, AAS, XLIII, 1951, p. 835-854; XLVI, 1954, p. 587 ss.). Sembra lecita, per motivi proporzionatamente gravi di salute, la sospensione temporanea delle facoltà generative. — La vasectomia, l’estirpazione dell’utero e delle ovaie sono colpe gravi, se si fanno per impedire la procreazione. — In casi di cancro, di avvelenamenti ecc. è lecita l’amputazione di un membro.

VI . È lecito per motivo proporzionato desiderare la morte [ma non metterla in atto!! -ndr.-], sottomettendosi però alla divina volontà. – Motivo buono è il desiderio dell’eterna beatitudine, la preservazione da un infortunio o dolore terreno oltremodo grande (per es. una malattia molto penosa e diuturna). — Per i soliti incomodi della vita, desiderare seriamente la morte è peccato grave.

VII. La conservazione della vita e della sanità esige l’uso dei mezzi ordinari indispensabili. Fra i mezzi ordinari viene in primo luogo una adeguata nutrizione. Pertanto lo sciopero della fame, quando sia fatto realmente con la decisa intenzione di morire di fame piuttosto che rinunziare al raggiungimento del proprio scopo, è peccato grave. Ai mezzi ordinari appartengono pure un conveniente vestiario, abitazione, sollievo fisico moderato; l’uso di relative medicine e di rimedi sanitari, supposto che non siano eccessivamente costosi per l’ammalato; la visita o chiamata del medico. Si suppone, in tali casi, che non si tratti di malattia o di incomodi piuttosto leggeri, che passino da sé, e che vi sia fondata speranza che il medico o la medicina possa giovare. – L’uso di mezzi straordinari per la conservazione della vita non è di solito obbligatorio. Quindi, anche le persone ricchissime non sono obbligate a ricercare soggiorni climatici o bagni distanti, a chiamare celebrità della medicina, neppure nel caso che, altrimenti, dovessero morire. Similmente, nessuno è per sé obbligato a sottoporsi a una operazione difficile. — Si fa solo eccezione quando qualcuno sia moralmente necessario alla famiglia o alla società e il successo sia moralmente certo; solo, in tale ipotesi, il padre o il superiore può anche comandare di sottoporsi all’operazione chirurgica.

Due campioni dell’empietà: Voltaire e Rousseau

Due campioni dell’empietà: Voltaire e Rousseau

[J. –J. Gaume: Catechismo di perseveranza, vol. III, Torino, 1881]

Sdegnato dalle conquiste che il Cristianesimo faceva alle estremità del mondo, l’inferno raddoppiò i suoi sforzi per spegnere la fede in Europa e specialmente in Francia. Una congiura di letterati conosciuti sotto il nome di filosofi formò l’orribil trama di schiacciare la Religione di Cristo. Grandi e piccoli si accingono all’opera; gli uni scavano le viscere della terra, gli altri interrogano gli astri: questi consultano gli annali degli antichi popoli, quelli fanno dei calcoli; tutti si sforzano di dare una smentita alla Religione, e di metterla in contraddizione colle scienze naturali, colle tradizioni dei popoli e coi monumenti della storia. Si spande una farragine di libelli, si predica su tutti i tuoni l’incredulità ed il libertinaggio, l’uomo si fa carnale, e come al tempo che precedette il diluvio, lo spirito di Dio più non potendo in esso riposare sta per ritirarsi. – Fra questi uomini il cui nome non si può pronunziare senza orrore avendo colla loro malizia attirato sul nostro capo innumerevoli flagelli, ve ne sono due specialmente che debbono essere conosciuti affinché persino i fanciulli imparino a temere il veleno delle loro dottrine: Voltaire e Rousseau, doppiamente colpevoli, perché furono apostati della fede, e profanatori del genio. Del resto la loro vita doveva formarne co’ suoi scandali gli avversari della Religione e gli apostoli della incredulità: poiché, non bisogna dimenticarcene mai, l’incredulità nasce sempre dalla corruzione, e non è mai patrocinata che dal libertinaggio: vergogna eterna dell’incredulità! Ma onore a Te, o Religione cattolica che mai non avesti altri nemici che quegli uomini a cui niuno vorrebbe rassomigliare! – Giovani, voi che giurate sulla parola di Voltaire e di Rousseau, uomini di età matura che ne serbate a gran cura le opere nelle vostre librerie, venite, io vi svelerò le ignominie dei vostri maestri, le vergogne dei vostri idoli! Francesco Maria Arouel, detto di

Voltaire,

nacque a Chàtenay presso Parigi, nel 1694. Suo padre era un antico notaio. Venne educato a Parigi nel collegio dei Gesuiti. La temerità de’ suoi giudizi spaventò ben tosto i suoi maestri; ed uno di loro disse un giorno che sarebbe stato in Francia il gonfaloniere dell’empietà; gli eventi giustificarono pur troppo questa predizione. All’età di sedici anni il giovane Arouet uscì di collegio, e visse, giusta le sue inclinazioni in mezzo alle compagnie più eleganti e più corrotte della capitale. – Le molte contese ch’egli ebbe con suo padre lo decisero a passare in Olanda in qualità di segretario d’ambasciata; giunto appena alla Haye, il dabben giovane si fece rimandare a casa pel suo libertinaggio. – Esso non poté riconciliarsi col padre che mettendosi a lavorare presso un procuratore; ma la sua negligenza, e la sua avversione per le scienze legali non tardarono guari a farlo rimandare. – Voltaire fu cattivo cittadino del pari che cattivo figlio. Nel 1715 egli si attirò coi suoi motteggi più che leggieri uno schiaffo da un vecchio autore nelle stanze di un teatro; qualche tempo dopo si ebbe uno sfregio da un ufficiale da lui calunniato: cattivo figlio, malvagio cittadino, Voltaire fu ancora un tristo suddito. Dopo la morte di Luigi XIV si videro comparire a varie riprese delle vili e sconcie satire contro questo monarca: essendo il sospetto caduto sopra Voltaire, fu chiuso nella Bastiglia; appena uscito di prigione, si vide forzato a lasciar Parigi, perché, essendosi collegato cogli autori di una congiura che si era scoperta, venne accusato di avervi preso parte; quindi si ritirò al castello di Sully, ove ben presto si manifestò il suo libertinaggio. – Partito poscia per l’Olanda, e dimoratovi qualche tempo il torbido suo genio lo ricondusse alla capitale. I motti pungenti che si permise contro un giovane signore gli meritarono da parte dei domestici una buona dose di bastonate, e dalla parte delle autorità sei mesi di Bastiglia, con ordine di lasciar la Francia, scontata la sua pena. – Per tal modo Voltaire all’età di trentun anno era stato cacciato di casa paterna, dall’uffizio del procuratore, rimandato dall’Olanda, schiaffeggiato da un comico, castigato anche più severamente da un ufficiale, messo alla Bastiglia, esiliato di Parigi, battuto dai domestici per aver insultato il loro padrone, rinchiuso di bel nuovo nella Bastiglia e sbandito dalla Francia. Filosofi, ammirate la santa vita del vostro Apostolo. – Uscito dalla Bastiglia, Voltaire passò in Inghilterra popolata allora di liberi pensatori, che lavoravano di concerto per scalzare le basi del cristianesimo. A Londra, esso pubblicò l’Enriade ed ingannò il suo libraio, il quale rinnovò sulle spalle del poeta la correzione amministrata tre anni prima dai servitori del cavaliere di Bohan. – Questo spiacevole accidente fece sollecitare a Voltaire la permissione di ritornare in Francia, e l’ottenne. Alloggiato in un sobborgo di Parigi, vi condusse per qualche tempo una vita oscura e quasi nascosta occupandosi ora di lavori letterari, ed ora di faccende finanziarie. Essendosi associato ai provveditori dell’armata d’Italia, il filosofo si fece una rendita di cento sessanta mila lire: il poveretto! – Essendo poi stato denunziato al guardasigilli in proposito di una commediante di cui aveva fatto l’apoteosi, la quale altro non è che una serie di attacchi contro la Religione ed i suoi ministri, e contro la nazione in generale, Voltaire si rifugiò a Rouen, ove visse sette mesi nascosto in casa di uno stampatore, che ridusse poco tempo dopo in rovina con una truffa degna della galera. A questi principi corrisponde il restante della sua vita, la quale non offre altro che un lungo tessuto di libertinaggio, d’empietà, di basse adulazioni pei grandi, d’ipocrisia e di sacrilegio, e termina con una morte spaventevole. Il colpevole scrittore erasi ritirato a Ferney vicino a Ginevra; di là esso lanciava contro i suoi nemici, contro la Religione ed il Governo una quantità di libelli e di diatribe, nelle quali non sapresti ciò che riesca più odioso tra il fanatismo furibondo del patriarca della moderna filosofia, e la sua impudenza cinica e ributtante. – « Mentite, mentite arditamente, scriveva esso a’ suoi accoliti, qualche cosa vi resta sempre… m’importa assai di esser letto, e pochissimo di essere creduto». – Nel 1778 Voltaire ottenne il permesso di venire a Parigi. La sua entrata in questa città fu un vero trionfo. Il trionfo di Voltaire! Queste due parole fanno tremare ed arrossire; il trionfo di Voltaire vuol dire il trionfo del cinismo, dell’empietà e di tutti i vizi personificati, e ci dà un’idea della società francese di quel tempo; mentre presagiva la inaudita catastrofe che quindici anni più tardi doveva insanguinare la nostra patria, e quella degradazione senza esempio che doveva mostrare al mondo la prima delle nazioni in atto di prostituire i suoi incensi al rifiuto degli scellerati, ad un Marat,!!! Ma il Dio vivente oltraggiato per settant’anni dal più ingrato fra gli uomini, doveva ben tosto pigliar le sue vendette. – Era Voltaire giunto all’anno ottantesimo quarto del viver suo, quando pochi giorni dopo il suo ingresso nella capitale, fu assalito da un vomito di sangue; il che però non gl’impediva di farsi aggregare alla frammassoneria. Ma la misura era alla fine ricolma, e stava per suonare l’ora della divina giustizia. Osservisi primamente come la fine del corifeo dell’empietà è tanto più singolare, in quanto che lo colpiva precisamente una mortal malattia nel tempo in cui egli si prometteva il trionfo dell’ateismo. I suoi stessi partigiani hanno pubblicato la lettera nella quale egli scriveva al d’Alembert in questi termini : « Fra vent’anni, Dio sarà spacciato». Questa predizione blasfema porta la data del 25 febbraio 1758; ora il giorno appunto del 25 febbraio 1778 esso venne colpito dal vomito di sangue che lo condusse al sepolcro; a vent’anni d’intervallo il giorno preciso! La violenza del male gli fece ben tosto smentire la sua professione d’incredulità: esso fa chiamare uno di quei sacerdoti che aveva cotanto oltraggiato e calunniato nei suoi scritti, ed era questi l’Abbate Gauthier vicario di San Sulpizio. – Dinanzi a lui confessa in ginocchio le sue colpe, e gli consegna in mano la ritrattazione autentica delle sue empietà e dei suoi scandali. – In essa dichiarava di morire in seno della cattolica Religione. Questa professione di fede parendo molto sospetta da parte di un uomo che ne aveva già fatto delle somiglianti, il curato di San Sulpizio volle presentarsi in casa di Voltaire; ma i suoi amici avevano preso le loro precauzioni per impedirgli, come si esprime uno di loro, di fare un altro capitombolo. Costoro non lo abbandonarono un solo istante, e resero cosi inutile lo zelo e la carità del curato di San Sulpizio. – Intanto il vecchio peccatore si avvicinava alla sua eternità! Forse si era lusingato di recare a compimento la grande opera della sua riconciliazione con Dio, ma la morte prevenne gli estremi soccorsi. – Ecco che il filosofo si trova assalito da orrenda paura, e grida con voce spaventevole: « Io sono abbandonato da Dio e dagli uomini ». Esso invoca il Signore che aveva bestemmiato, ma un mezzo secolo di sarcasmi vomitati contro la Religione pare che abbia stancato la pazienza dell’Eterno; il sacerdote non giunge, ed il malato entra nelle convulsioni e nei furori della disperazione. Torbido il guardo, smorto e tremante dallo spavento egli si agita e si volge da tutti i lati, squarcia le sue carni, e divora…. i suoi escrementi: esso vede aprirsi dinanzi a sé quell’inferno di cui si era cotanto beffato, freme d’orrore a questa vista, ed il suo ultimo sospiro era quello di un riprovato. “Io sono abbandonato da Dio e dagli uomini”. Queste parole tremende, l’aria, l’accento onde furono pronunziate agghiacciarono di spavento il celebre Tronchin, che aveva curato Voltaire nella sua ultima malattia. « Immaginatevi tutta la rabbia ed il furore di Oreste, dice questo medico protestante testimonio dell’orribile morte, voi non avrete che una languida idea della rabbia e del furore di Voltaire nella sua ultima malattia. Sarebbe a desiderare, ripeteva esso sovente, che i nostri filosofi fossero stati testimoni dei rimorsi e dei furori di Voltaire, è questa la lezione più salutare che avrebbero potuto ricevere coloro ch’egli aveva corrotto coi suoi scritti. Il Maresciallo di Richelieu aveva veduto con i suoi occhi questo spettacolo spaventoso e non aveva potuto fare a meno di esclamare: «In verità, questo è troppo forte, è impossibile di resistere ». Cosi moriva il patriarca dell’incredulità i l 30 maggio 1778. Mentre Voltaire corrompeva la gioventù e parlava agli spiriti superficiali,

Gian Giacomo Rousseau

si volgeva agli uomini che si piccano di riflessione, e che allora s’intitolavano pensatori o spiriti forti. Rousseau, essendo protestante, sviluppò ed applicò alla società i pericolosi principii della Riforma. Empio, incredulo e vizioso, esso era degno di figurare tra i nemici di una religione che condanna tutti i vizi, e prescrive tutte le virtù. Gian-Giacomo Rousseau nacque a Ginevra nel 1712. Egli passò la prima sua infanzia nella lettura dei romanzi. Suo padre, di professione orologiere, lo mise in pensione da un ministro protestante; ma tutto il frutto che ne ricavò l’allievo, si fu d’imparare un po’ di latino, e di contrarre delle tristissime abitudini. Collocato in qualità di scrivano presso il Cancelliere di Ginevra fu trovato inetto, e rimandato. Dopo qualche mese di tirocinio in casa di un incisore, dove l’ozio, la menzogna ed il furto divennero i suoi vizi favoriti, come confessa egli stesso, passò in Savoia; un caritatevole ecclesiastico di questo paese gli forni i mezzi per recarsi a Torino, dove si fece ammaestrare intorno alla Religione cattolica, e due mesi di poi abiurò il protestantismo. Non avendo ricavato che venti franchi della sua pretesa conversione, entrò in qualità di lacchè nella casa della Contessa di Vercelli; ma messo ben tosto alla porta per un furto commessovi, e di cui aveva ingiustamente accusato una giovane fantesca, passò al servizio del Conte di Govone primo scudiere del Re di Sardegna. Alle amorevolezze del nuovo suo padrone Rousseau corrispose con una condotta ed un’insolenza che lo fecero congedare. – Senza mezzi, senza protezione, egli si mette a simular la pietà, si volge ad una gentildonna che lo accoglie e gli prodiga tutte le cure di una madre. Dietro i suoi consigli esso entra in un seminario per abbracciare la carriera ecclesiastica, ma ne vien rimosso non essendo buono a nulla. Più non sapendo che far di sé stesso, si mette a percorrere la Svizzera con un preteso vescovo greco che faceva delle collette pel Santo Sepolcro; questi due onesti viaggiatori si fecero arrestare a Solura e mettere in prigione. – L’ambasciatore di Francia mosso a pietà del giovane vagabondo, gli dà i mezzi di tornare a Parigi, dove prova tutti gli orrori della miseria. Finalmente venuto a Lione entra in qualità di precettore nella casa del signor di Mably gran rettore di questa città; gli ruba il suo vino d’Arbois, e se lo beve deliziosamente leggendo dei romanzi. Dopo vari fatti del pari onorevoli, ai quali tenne dietro un viaggio in Italia, Rousseau ritorna a Parigi nel 1745, e si abbandona ad un pubblico libertinaggio e mena una tal vita scandalosa per bene venticinque anni agli occhi di tutta Europa. Al libertinaggio egli unisce l’empietà, e se già aveva abiurato la setta di Calvino per abbracciare la Religione cattolica, eccolo ben tosto, tornato a Ginevra, abiurar la Religione cattolica per la setta di Calvino. La principale sua opera intitolata l’Emilio fu censurata dalla Sorbona, condannata dall’Arcivescovo e dal Parlamento di Parigi, poi arsa pubblicamente a Ginevra per mano del boia. Inseguito dalle autorità di Francia e di Svizzera Rousseau passa in Inghilterra; ma essendovi male accolto, ed abbeverato di amarezze domanda ed ottiene a forza d’i stanze il permesso di fissarsi a Parigi a condizione che non iscrivesse più nulla né sulla Religione né sulla politica. Un ultimo tratto farà conoscere appieno questo patriarca della filosofia. forza sulla tenerezza materna e sui doveri dei genitori verso dei loro figli, metteva con fredda crudeltà i proprii suoi figli all’ospedale dei trovatelli. – Qual vita, tal morte; secondo ogni probabilità, Rousseau si tirò un colpo di pistola, ed avendo preso il veleno mori nel 1778.

  • Voltaire e Rousseau i più abbietti fra gli uomini, tranne coloro che li stimano, tali sono, o filosofi del giorno, uomini irreligiosi di tutti i colori e di tutte le condizioni, i vostri due apostoli, i vostri due evangelisti, i vostri due santi, gli autori di quanto noi abbiam veduto, e di quanto veggiamo. [Voltaire non ha veduto tutto ciò che ha fatto, ma ha fatto quanto noi veggiamo; cosi scriveva il filosofo Condorcet, ammiratore e discepolo di Voltaire frammezzo alle insanguinate rovine dei troni e degli altari. Qualche mese dopo egli avrebbe potuto scrivere questa frase dall’alto del patibolo, dove le dottrine del suo maestro lo avevano condotto con molti altri].

– Imitate pur dunque i vostri padri, prostratevi dinanzi a codesti dati uomini, e poi, se osate, dite pure: io vorrei essere simile a loro!!! Del resto, prima di pronunziare, è bene che li conosciate non dietro quanto si dice di loro, ma dietro le stesse loro parole. Venite dunque a Ferney ed a Ginevra, ascoltate le gentilezze che si dicono a vicenda, e regolate la vostra stima per loro su quella che l’uno professa per l’altro. Voltaire scrive a Rousseau ch’è uno scappato di Ginevra; un certo messere che ne ha fatto delle sue; un mariuolo, un furfante, un ciarlatano selvaggio che raduna i passeggeri sul Ponte Nuovo; un matto villano che scrive delle impertinenze degne di Bicétre: un giovinastro di una ciarla insopportabile che le donnicciuole scambiano per eloquenza: un ipocrita, un nemico del genere umano, un botolo ringhioso e stizzoso: un cupo energumeno impastato di orgoglio e pieno di fiele, un vile, un empio, un ateo, un miserabile che potrebbe assai bene arrampicarsi sopra una scala, che avrebbe meritato di essere appeso per aver fatto dei libri abominevoli, un uomo senza fede, senza religione. – Ecco Rousseau; la sua moglie poi è una vecchia infame, le cui mani adunche furono morsicate dai cani dell’inferno. – Bravo, signor Voltaire! Ecco un bel panegirico: ma intanto non siete voi, o illustre scrittore, modello di civiltà e di gusto, che dicevate: « Nella conversazione » delle persone dabbene ciascuno dice il suo parere, ma niuno ingiuria la sua brigata; si discute, ma non s’insulta? – Ora voi ingiuriate, voi insultate, voi non siete dunque un…. Dispensatemi dal terminar la frase. – Meno abile nell’arte d’ingiuriare, Rousseau risponde a Voltaire attaccandone gli scritti; anima abbietta, tu cerchi invano di avvilirla; è solo la tua trista filosofia che ti rende simile alle bestie, ma il tuo genio è una protesta contro i tuoi principii, e lo stesso abuso delle tue facoltà prova la loro eccellenza a tuo dispetto. – Se voi dunque chiedete a Voltaire chi è Rousseau, vi dice ch’esso è « un mascalzone, un furfante, un cane, un ciarlatano selvaggio ». – Se domandate a Rousseau chi è Voltaire, vi dice ch’è « un’anima abbietta, simile alle bestie ». – Ma eccovi qualche cosa di meglio e di meno sospetto; si è lo stesso Voltaire, lo stesso Rousseau che rendono giustizia a se stessi ed ai loro scritti: volete voi sentirli? – Ascoltate Voltaire : Io sprecai il tempo della mia esistenza a comporre guazzabuglia di cui la metà non avrebbe mai dovuto veder la luce. – Ascoltate Rousseau: Dire e provare del pari il prò ed il contro, persuader tutto e non credere a nulla, è stato sempre mai il favorito trastullo del mio ingegno, io non osservo alcuno de’ miei libri senza fremere; invece d’istruire, io corrompo; invece di nutrire, io avveleno: ma la passione mi trascina, e con tutti i miei bei discorsi io non sono che uno scellerato. Io non desidero altro che un angolo di terra per poter morire in pace senza toccare né carta né penna. – Voltaire e Rousseau, ecco dunque quanto la filosofia ha di meglio da opporci. Gran Dio! Dio di santità, Dio di purità, Dio di tutte le virtù! sarebbero mai costoro quelli che voi sceglieste per vostri rappresentanti sulla terra, gl’interpreti delle vostre sante verità, i maestri del genere umano, mentre avete condannato all’errore tutto ciò che v’ebbe tra gli uomini di più virtuoso, di più illuminato, di più somigliante a Voi stesso! Ed ora a chi mi domandasse come si possano spiegare gli elogi e l’ammirazione fanatica di cui Voltaire e Rousseau furono obbietto, sarebbe agevole il rispondere: « Essi dicevano ad alta voce ciò che il loro secolo pensava in segreto: l’impura loro voce era l’eco di tutti i loro cuori corrotti di cui era pieno il mondo ».

 

LE ALLEGRE CONSACRAZIONI “FAIDATE” DI MONS. Thuc

LE ALLEGRE CONSACRAZIONI “FAIDATE” DI MONS. Thuc.

Molti lettori ci chiedono notizie di questo discusso prelato estremo-orientale; a tal proposito riportiamo quanto pensa un membro della Gerarchia della Chiesa cattolica in eclissi che, parlando con due membri dello staff di Papal Restoration Campaign, ha tenuto a precisare che il Santo Padre, Papa Gregorio XVIII,  considera le cosiddette “consacrazioni” di Ngo Dinh Thuc, come minimo, dubbiose. Per semplificare, diciamo che nelle intenzioni della Chiesa tal genere di consacrazioni non si sono mai verificate, poiché il monsignore venuto dall’oriente Thuc, in queste “consacrazioni”, diciamo azzardate, agiva con un proprio mandato (procuratogli dal demonio?). Questo è incontrovertibile, così come quando, ad un certo momento, chiese perdono all’antipapa Montini, il sedicente Paolo VI, per aver tentato di consacrare un gruppo di Alumbrados (Illuminati) in Palmar de Troya, Spagna [quelli che hanno poi fondato la barzelletta della “chiesa”c. d. palmariana], come vescovi senza mandato papale!

Ma i fatti gettano gravi dubbi circa la validità delle “consacrazioni” di Thuc. Ne diamo alcuni motivi:

  • Partecipa al falso concilio Vaticano II e ne firma i decreti.
  • Ha rimproverato pubblicamente l’intero Concilio per non essere abbastanza ecumenico;
  • ha cercato di ottenere che il Concilio accettasse l’uguaglianza con le donne nella Chiesa;
  • con la possibile eccezione del Sacramento dell’Eucaristia, non ha mai affermato che i sacramenti della Chiesa del Vaticano II fossero invalidi, ma solo che essi sono respinti da Dio;
  • ha sempre firmato i documenti con i titoli a lui “conferiti” dalla Chiesa del  Vaticano II;
  • fatto riferimento a Giovanni XXIII come ad un papa santo;
  • riconosciuto il marrano Paolo VI come Santo Padre;
  • ha “ordinato” / “consacrato” un gran numero di uomini, sacerdoti e vescovi senza missione e giurisdizione, senza chiedere loro di rinunciare alle loro false sette, anzi creandone di nuove. [tra questi il “grande” teologo Gerard des Lauriers, sacrilego pseudo-vescovo senza giurisdizione, l’inventore della stravagante antitomistica c. s. “tesi cassiciacum”, nonché i fondatori della barzelletta palmariana, e diversi personaggi riciclatisi nella setta C.M.R. I.];
  • ha “ordinato” / “consacrato” uomini del tutto inadatti ad essere ministri;
  • Ha regolarmente servito come accolito la nuova “messa”, quando era in Francia;
  • ha concelebrato la nuova “messa” con un vescovo del Vaticano II in tante e diverse occasioni;
  • ha ascoltato confessioni da settari del Vaticano II con il permesso di un vescovo del Vaticano II;
  • prima della sua morte, ha esortato alcuni collaboratori discendenti dalla sua “linea” a tornare alla chiesa del Vaticano II;
  • si è lamentato che alcune abitudini alimentari orientali fossero state escluse dalla Santa Messa.
  • E’ stato detto che fosse fisicamente e psicologicamente esaurito;
  • La sua sanità mentale era stata pubblicamente messa in dubbio dai suoi contemporanei;
  • Il guadagno monetario è stato riconosciuto dai suoi amici, essere un fattore motivante nel “conferimento” dell’Ordine sacro; • Nella sua autobiografia ha ammesso ad un prete del Vaticano II, di aver mentito.
  • Una sua amica ha detto che spesso parlava con doppi sensi;
  • Si comportava da tradizionalista solo quando intorno aveva altri tradizionalisti;
  • ha ammesso di simulare la “messa”;
  • ha ammesso di aver trattenuto la sua intenzione sacramentale nel conferimento dell’Ordine sacro. Nota: questo in almeno 10 diverse occasioni, vale a dire in 10 cerimonie false!

Il requisito minimo della Chiesa per accettare la validità di un sacramento è la “certezza morale.” La certezza morale “esclude ogni prudente timore di errori, in modo tale che l’opposto è reputato come del tutto improbabile.” Ora, sulla base delle evidenze sopra riportate si impone la seguente domanda: “Abbiamo la certezza che le c.d. consacrazioni del Vescovo Thuc raggiungessero un livello tale da escludere ogni prudente timore di errore?” – C’è la possibilità che egli non abbia validamente consacrato? … è del tutto improbabile che i riti non siano validi? – Mi sembra che nessuna persona obiettiva che possieda l’uso della retta ragione possa in coscienza concludere che le consacrazioni del Vescovo Thuc siano certe nella misura in cui si possa escludere ogni prudente timore di errori, in modo tale che l’opposto sia reputato come del tutto improbabile. – I Cattolici, quindi, devono indubbiamente respingere la validità delle consacrazioni del Vescovo Thuc. E se dobbiamo rifiutare le consacrazioni del Vescovo Thuc, ovviamente dobbiamo anche respingere tutte le ordinazioni e (pseudo-) consacrazioni provenienti dalla progenie Thuc, dalla linea episcopale Thuc, che non può fornire il Sacramento dell’Ordine, originariamente incerto, per cui non si può dare ad altri ciò che non si possiede da se stessi. Così la mancanza di certezza morale con il quale i Cattolici devono respingere la validità degli ordini del Vescovo Thuc, deve essere applicata anche alla progenie del Vescovo Thuc.

 Fotografia del vescovo Thuc che pubblicamente simula il Sacramento dell’Ordine Sacro su un Alumbrados, l’eretico venditore di assicurazioni, il Sig. Gomez, in Spagna nel gennaio del 1976.

La foto riportata sopra è l’esempio di una consacrazione episcopale FALSA al 100% D.O.C. garantita, come ha ammesso lo stesso vescovo Thuc che l’ha “eseguita”. (egli avrebbe poi formalmente affermato che stava trattenendo la sua intenzione sacramentale – un sacrilegio! -) “consacrando” il sig. Gomez senza un mandato papale – un altro sacrilegio!- anche se lo stesso vescovo Thuc aveva scritto e firmato un documento ufficiale [completamente fuori luogo] dichiarando di aver “consacrato” Clemente Dominguez y Gomez il 1° gennaio 1976) ??? Ecco il testo del documento, memoriale di tanta nefandezza sacrilega, attestante la perfetta malafede di questo, a dir poco “strano”, prelato vietnamita.

* “Io Peter Martin Ngo-Dinh Thuc, Arcivescovo titolare di Bulla Regia certifico che, il primo giorno del mese di gennaio 1976 ho conferito la tonsura e gli minori ordini, così come gli ordini maggiori (cioè suddiaconato, diaconato e sacerdozio) sulla seguenti persone: …. Clemente Domínguez, nato a Siviglia, National Identity Number 28279369 … […] Ho inoltre attestato che i Vescovi ed i Sacerdoti appartengono all’Ordine dei Carmelitani del Santo Volto, fondata a Siviglia il 23 dicembre 1975. – La Casa Madre di questo Ordine è al n 20 di via Redes a Siviglia. Il Fondatore e Padre Generale è Sua Eccellenza Clemente Domínguez, vescovo. – Di mia mano e di mia penna firmo questo documento perché abbia tutti gli effetti ecclesiastici e civili. – Dato il mio sigillo, il giorno dodici di gennaio dell’anno del Signore 1976   Firmato + Peter Martin Ngi-Dinh Thuc, Arcivescono di Bulla Regia.

A suo dire egli avrebbe avuto un mandato da S.S. Pio XII di consacrare dei Vescovi nella sua nazione, martoriata dalla guerra, anche senza l’autorizzazione di Roma. Di questo documento non c’è traccia, ed anche se fosse stato così, con prassi mai attuata in alcun tempo dalla Chiesa Cattolica anche in analoghe e ben più gravi situazioni, questo valeva per la sua terra durante il tempo di guerra, non certo si trattava di un permesso “speciale” per non-consacrare cani e p… in ogni angolo del pianeta creando il presupposto per sette e “chiesette” scismatiche ed eretiche, chiedendo una lauta ricompensa per “coprire le spese”.

(I Cattolici romani riconoscono che il sacro sacerdozio viene solo da Dio che chiama l’anima prescelta, mentre la Chiesa di San Pietro conferma il mandato dal Cielo. … E questi sedevacantisti patetici cercano di deridere pubblicamente i cattolici [della Chiesa in Eclisse perché non frequentano i loro servizi sacrileghi?!?).

Tra gli altri, anche il sacerdote vietnamita Peter Khoat Van Tran, ha avuto nel 1983 la “fortuna” di incontrare il Vescovo suo conterraneo a Tolone in Francia in Rue Garibaldi 22. Durante quelle lunghe riunioni, dove c’erano gatti che saltavano intorno, dentro e fuori dai mobili, Bp. Thuc e P. Tran hanno parlato tra loro nella lingua nativa Vietnamita, circa la crisi della Chiesa. – Thuc, espose gli insegnamenti di Cum ex apostolatus officio a P. Tran, che conosceva bene la bolla pontificia. Il vescovo Thuc parlava del documento di Paolo IV applicandolo all’usurpatore antipapa Giovanni Paolo II, per cui egli riteneva che al momento, la sede pietrina fosse vacante.- Fr. Tran, che ha avuto il più grande rispetto per il Vescovo Thuc, ha potuto notare, registrandolo, che il suo connazionale “variava i suoi stati di lucidità durante i loro incontri”. La cosa più scioccante, secondo la testimonianza scritta e firmata di p. Tran, fu che durante il loro ultimo incontro a Tolone, Thuc sottolineava il fatto che Giovanni Paolo II fosse un cattivo antipapa (cosa che P. Tran già sapeva), ma quando p. Tran poi si alzò per andarsene, anche il Vescovo Thuc si alzò e lo guardò dritto negli occhi dicendo: “E come è buono il nostro papa Giovanni Paolo II!” – – Così tragicamente Bp. Thuc non ha mai avuto la sua “testa a posto”, cosa di nuovo ulteriormente evidenziata (oltre ai punti elencati sopra) dal fatto di consigliare ai suoi conoscenti di tornare alla massonica setta del Vat. 2°, poco prima di morire nel 1984. Abbiamo poi la testimonianza giurata della consacrazione di Guerard des Lauriers, che continuamente dovette intervenire durante la cerimonia perché Thuc citava continuamente Giovanni Paolo II, nonostante che avesse detto due settimane prima che lo stesso non fosse il Papa. Anche altri sacerdoti (ad es. il noto padre Noel Barbara e padre Barthe nel 1981), hanno incontrato il vescovo vietnamita che serviva nella cattedrale la messa del N. O. e confessava i fedeli conterranei autorizzato dall’arcivescovo locale), riportandone analoghe impressioni circa la sua salute mentale. Il padre Barbara, in particolare lo rimproverava, e gli consigliava di non seguire la via del non-monsignor Lefebvre, che a parole diceva di riconoscere la legittimità della gerarchia post-conciliare [egli che sapeva bene come fossero andate le cose nei conclavi dal 58 in poi, perché informato dettagliatamente dagli infiltrati massoni Tisserant e Lienart, suoi amici e confratelli di merenda …-ndr-], e poi pubblicamente li disubbidiva secondo il suo mutevole umore giornaliero. Ci sono tante altre testimonianze giurate di sacerdoti sedicenti tradizionalisti (es. W. Jenkins, A. Cekada, il già citato G. des Lauriers, etc.) che testimoniano delle infelici condizioni mentali del nostro vescovo vietnamita; secondo alcuni osservatori pare che le sue “pittoresche” consacrazioni fossero motivate da un disperato bisogno di denaro! –

D’altra parte il Signore ci aveva ampiamente avvertito e con largo anticipo: “… dai frutti li riconoscerete” … e qui i frutti marci sono proprio evidenti!

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Le consacrazioni senza mandato sono anatemizzate, cioè colpite da scomunica “ipso facto”; ricordiamo a proposito cosa ci dice il Dottore Angelico: Art.1,4 Chi col battesimo è inserito nella Chiesa è reso capace di due cose: di costituire il ceto dei fedeli e di partecipare ai sacramenti. E questa seconda cosa presuppone la prima, poiché mediante la partecipazione ai sacramenti i fedeli sono anche in comunione tra loro. Perciò si può essere posti fuori della Chiesa con la scomunica in due modi. Primo, con la sola esclusione dai sacramenti: e questa è la scomunica minore. Secondo, con l‘esclusione da entrambe le cose: e questa è la scomunica maggiore definita in questo articolo…. «Chi è colpito di anatema per un delitto, è escluso dalla bocca, dalla preghiera, dal saluto, dalla comunione e dalla mensa». «Dalla bocca», cioè dal bacio, «dalla preghiera», poiché non si può pregare con gli scomunicati, «dal saluto», poiché essi non vanno salutati, «dalla comunione», cioè da ogni rapporto sacramentale, «dalla mensa», poiché non si può mangiare con essi. Ora, la definizione data implica l‘esclusione dai sacramenti con le parole «quanto al frutto», e dalla comunione dei fedeli quanto alle realtà spirituali con il riferimento ai «suffragi comuni della Chiesa». [suppl. III, arg. 21, art.3]. In altro luogo:

Articolo 2,2 – In S. Matteo [XVIII, 17], di chi si rifiuta di ascoltare la Chiesa, sta scritto: «Sia per te come un pagano e un pubblicano». Ora, i pagani sono fuori della Chiesa. Perciò è giusto che la Chiesa, con la scomunica, escluda dalla sua comunione coloro che non vogliono ascoltarla.

Parte III, Questione 36, artic. 5, in contrario:

-. 1) Dionigi [Epist. 8, 2] ha scritto: «Costui», ossia chi non è illuminato [dalla grazia], «sembra molto presuntuoso, mettendo mano alle funzioni sacerdotali; e non sente timore e vergogna nel trattare le cose divine senza dignità, pensando che Dio ignori i segreti della sua coscienza; e pensa di poter ingannare colui che egli falsamente chiama Padre; e osa servirsi delle parole di Cristo per pronunziare sui segni divini, non oso dire delle preghiere, ma delle immonde bestemmie». Perciò il sacerdote che indegnamente esercita il proprio ordine è come un bestemmiatore, o un ipocrita. Quindi pecca mortalmente. E per lo stesso motivo peccano in caso analogo tutti gli altri ordinati. 2. La santità è richiesta negli ordinandi in quanto indispensabile per esercitare le loro funzioni. Ora, chi si presenta agli ordini in peccato mortale pecca mortalmente. A maggior ragione quindi pecca chiunque esercita in stato di peccato il proprio ordine.

-.2) Dimostrazione: La legge [Dt 16, 20] comanda di «compiere santamente le cose sante». Perciò chi esegue le funzioni del proprio ordine in modo indegno compie le cose sante in maniera non santa, e quindi agisce contro la legge, per cui pecca mortalmente. Chi infatti esercita un ufficio sacro in peccato mortale, senza dubbio lo esercita indegnamente. Perciò è evidente che fa peccato mortale.

           Punto chiave della teologia morale è: “In caso di dubbio, ASTENERSI”.

Henry Davis, S.J.: “Teologia morale e pastorale”; Londra: Sheed & Ward, 1935 Volume III, pag. 27

L’UTILIZZO DEI PARERI PROBABILI [CAPO VII, SEZIONE I: Opinioni probabili di Validità]

Nel conferire i Sacramenti (così come anche nella consacrazione nella Messa) non è mai permesso adottare una probabile linea di condotta per la validità, ed abbandonare il corso più sicuro. Il contrario è stato esplicitamente condannato da Papa Innocenzo XI.  Fare ciò sarebbe un grave peccato contro la religione, cioè un atto di irriverenza verso ciò che Cristo nostro Signore ha istituito, sarebbe un grave peccato contro la carità, quindi il destinatario sarebbe probabilmente privato delle grazie e dell’effetto del Sacramento; sarebbe un grave peccato contro la giustizia, poiché il destinatario ha diritto a Sacramenti validi, ogni volta che il ministro, sia d’ufficio o no, si impegna a conferire un Sacramento. Nei Sacramenti necessari non vi è alcun dubbio circa il triplo peccato; nei Sacramenti che non sono indispensabili ci sarà comunque sempre il sacrilegio grave contro la religione!

“E’ una grave responsabilità di tutti i cattolici dimostrare a se stessi che i sacramenti che frequentano siano leciti [legali] agli occhi della Chiesa di Cristo, perché se i cattolici si avvicinano ai Sacramenti senza sapere per certo che i ministri hanno sia validi ordini sacri, sia ordini che sono stati dati con approvazione canonica [autorizzazioni alla pratica], si mettono fuori della Chiesa. ”

Il Magistero espressamente dichiara: che [Il seguente errore è] condannato da un decreto del Sant’Uffizio, del 4 marzo 1679:Non è lecito nel conferire sacramenti seguire un parere probabile per quanto riguarda il valore del sacramento, abbandonando il parere più sicuro, a meno che non lo vieti la legge, le convenzioni o il pericolo di incorrere in danni gravi. Pertanto non si dovrebbe fare uso di pareri probabili nel conferimento del battesimo, degli ordini sacerdotali, o episcopali.” (Denzinger n.1151). Innocenzo XI (1676-1689).

[P. s. Qui non si tratta di distinguere il potere d’ordine dal potere di giurisdizione, perché gli ordini sacri in realtà non sono mai stati conferiti, come nel caso del cavaliere Kadosh Lienart, il mai-prete e mai-vescovo che non ha trasmesso mai alcun ordine a nessuno, così come pure la sua “progenie”.]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MOSERNISTA-APOSTATA DI TORNO: “APPETENTE SACRO”

Con l’approssimarsi della Quaresima è giusto rileggere la lettera enciclica di S. S. Clemente XIII “Appetente sacro”, un breve scritto che ricorda l’importanza fondamentale della penitenza quaresimale nella vita del Cristiano, in espiazione delle proprie colpe e di quelle della intera società. Oggi purtroppo questa pratica è diventata pressoché inusitata, inutile per la contro-Chiesa della falsa misericordia, quella dell’orgoglioso modernismo che, pretendendo la propria autosufficienza, secondo il costume massonico ben assorbito, rifugge dal soprannaturale, a detrimento della vita dell’anima e pure del corpo. Oggi si propongono le diete più strampalate, menù dettati dalla fantasia più stupida e pericolosa per la salute, sotto il pretesto dell’esotismo e di un salutismo mai provato, mentre l’unica pratica, veramente salutare e vantaggiosa per la vita del corpo e dell’anima, viene neghittosamente rigettata, con i risultati che tutti purtroppo vediamo in ogni ambito, da quello medico a quello mentale, sociale, morale e spirituale, solo per citarne alcuni. In questa enciclica, che dimostra come i Santi (veri) Pontefici siano preoccupati e dediti alla cura delle anime loro affidate, suggerendo ogni accortezza che possa esser loro di vantaggio per la vita attuale, ma soprattutto in vista della salvezza eterna dell’anima. Qui si richiama la pratica del digiuno che il Cristiano deve offrire al Signore senza sotterfugi o inganni, anzi con gioia e gratitudine per avere l’occasione di intraprendere questa pia opera espiatrice, apportatrice di benessere materiale e spirituale senza pari.

Clemente XIII

Appetente sacro [20 dic. 1759]

1.- Avvicinandosi il sacro tempo Quaresimale che, ricco di dottrina misteriosa, non senza alcunché di arcano, precede la grande solennità di Pasqua, nella quale trovano compimento e dignità tutte le solennità, vi esortiamo, Venerabili Fratelli, affinché il santissimo digiuno sia scrupolosamente e inviolabilmente praticato dai fedeli, come raccomandato dalla Legge e dai Profeti, santificato da Cristo Signore, tramandato dagli Apostoli così come la Chiesa Cattolica sempre ritenne, affinché attraverso la mortificazione della carne e l’umiliazione dello spirito ci accostassimo più preparati ai misteri della Passione del Signore e dei Sacramenti Pasquali, e potessimo risorgere nella sua risurrezione; dopo essere morti con lui nella passione, avendo deposto l’uomo vecchio. Per il desiderio di difendere tanto religiosa e salubre istituzione il nostro predecessore Benedetto XIV di felice memoria, anche se inviandovi due lettere in forma di Breve eccitò lo zelo esimio delle Vostre Fraternità perché la disciplina del digiuno quaresimale, minacciata da molte depravazioni, per merito e zelo vostro fosse riportata alla primitiva osservanza, tolse di mezzo alcuni cavilli, dai quali ogni validità dei sacri digiuni veniva infranta. Tuttavia dal tremendo e odiosissimo nemico del genere umano sono state fatte così numerose e continue insidie al gregge del Signore, che c’è da temere che successivamente quella vecchia volpe suggerisca agli animi dei più deboli nuove motivazioni e cattive consuetudini, dalle quali la severità del digiuno venga svigorita, e donde dianzi era stata revocata, colà nuovamente torni indietro. Giudicammo perciò necessario mandarvi questa lettera per significare alle vostre Fraternità in quanto grande timore Ci troviamo che rimanga alcunché della precedente corruzione, oppure nuovo danno venga inferto a questo riguardo alla disciplina ecclesiastica, con nocumento delle anime dei fedeli.

2. – Abbiamo capito che questo Nostro timore di tanto sarebbe diminuito di quanto fosse stata sollecitata la Vostra personale vigilanza. Per mezzo di essa, con l’aiuto di Dio, impegnatevi affinché tutti gli errori siano eliminati dalle fondamenta: sia ciò che possa essere rimasto dell’antica corruttela dopo le ricordate Lettere del suddetto Nostro Predecessore, sia le nuove opinioni dirette ad infrangere le leggi del digiuno, sia le consuetudini aborrenti dal vero significato e dalla natura del digiuno recentemente introdotte dalla cattiveria dell’ingegno umano. – Tra questi errori certamente pensiamo si debba includere quell’abuso, che una certa voce ha fatto giungere fino a Noi. Alcuni, ai quali per giuste e legittime motivazioni si è concessa la dispensa dall’astinenza delle carni, credono sia loro lecito assumere bevande miste con latte, contrariamente a quanto è stato previsto dal predetto Nostro Predecessore, il quale pensò che tanto i dispensati dall’astinenza delle carni quanto i digiunanti in qualsiasi modo, eccettuata l’unica commestione, devono essere in tutto da equiparare a coloro che non hanno alcuna dispensa, e perciò possano servirsi di carne oppure di ciò che deriva dalla carne soltanto relativamente all’unica commestione.

3. – In verità, né più convenientemente né con maggiore speranza di profitto giungerete a richiamare gli uomini alla sacrosanta legge del Digiuno se non insegnando ciò ai popoli. La Penitenza del cristiano, oltre alla cessazione dal peccato, la detestazione della vita passata trascorsa male e la Confessione Sacramentale dei medesimi peccati, chiede anche che, per mezzo di digiuni, elemosine, preghiere e altre opere di vita spirituale rendiamo soddisfazione alla giustizia divina; infatti ogni iniquità, piccola o grande che sia, deve essere punita o dal penitente stesso o da Dio vendicante. Se dunque non vogliamo essere puniti da Dio, non possiamo fare diversamente che punirci da noi stessi. Se tale dottrina sarà costantemente inculcata negli animi dei fedeli, e dai fedeli profondamente recepita, evidentemente si dovrà temere di meno che coloro che avranno rigettato i costumi vinti, e lavato per mezzo della Confessione Sacramentale i loro peccati, non vogliano espiare i medesimi peccati per mezzo del digiuno, frenando la concupiscenza della carne. Inoltre coloro che saranno persuasi di pentirsi in maniera meno dubbia dei loro peccati, non permettendo a se stessi di restare impuniti, presi dal desiderio della penitenza, certamente si rallegreranno nel tempo di Quaresima (ed in certi altri giorni, quando la Santa Madre Chiesa ordina ai fedeli il digiuno) che sia offerta loro l’occasione di produrre frutti degni di penitenza. Poiché è sempre opportuno tenere domata la concupiscenza (è scritto infatti: “Non andare al seguito della concupiscenza, e allontanati da essa“), facilmente indurranno il loro animo, specialmente durante il tempo più sacro di tutto l’anno, a temperare l’intemperanza del corpo col digiuno; di modo che l’anima, ripresa conoscenza di se stessa, comprenda con quale compunzione si debba preparare a ricordare i Santissimi Misteri della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo. Pertanto, sospinti dagli stimoli della penitenza, cerchino di meno le soavità nei pasti, seguano di meno le delizie delle ghiottonerie che, benché non sembrino discordare con l’astinenza dai cibi proibiti, tuttavia potrai dire giustamente che colui che le pone sulla sua mensa non tanto ha allontanato le solite dolcezze, quanto ha trasferito la sua cupidigia verso inusitate attrattive, o quanto meno, infine, cerca motivi di scampo con i quali sottrarsi al Digiuno, oppure si appresta ad infrangere la legge Ecclesiastica.

4. – È dunque compito vostro, Venerabili Fratelli, precedendo i fedeli con l’esempio egualmente che con la parola, infondere nel loro animo tanto zelo e amore di penitenza in modo che, affrontando decisamente il Digiuno, lo osservino secondo le leggi prescritte dalla Chiesa Cattolica e lo santifichino anche con elemosine e con la preghiera; tenendo presente soprattutto ciò a cui guarda la Chiesa, possano infine ottenere che, mortificati nel corpo e consepolti con Cristo, chiamati alla nuova vita del nuovo uomo nella solennità di Pasqua, con grande fiducia possano andare incontro a Cristo Signore risorto. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con voi tutti, ai quali con grande affetto impartiamo l’Apostolica Benedizione, pegno della nostra benevolenza e carità verso di voi.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 20 dicembre 1759, nell’anno secondo del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA

Introitus Ps XXX: 3-4

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. – [Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guídami e assistimi.]

Ps XXX:2

In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me. – [In Te, o Signore, ho sperato, ch’io non resti confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e sàlvami.]

  1. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.
  2. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. – [Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guídami e assistimi.]

Orémus. Preces nostras, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: atque, a peccatórum vínculis absolútos, ab omni nos adversitáte custódi. [O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le nostre preghiere: e liberati dai ceppi del peccato, preservaci da ogni avversità.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.

1 Cor XIII:1-13

Fratres: Si linguis hóminum loquar et Angelórum, caritátem autem non hábeam, factus sum velut æs sonans aut cýmbalum tínniens. Et si habúero prophétiam, et nóverim mystéria ómnia et omnem sciéntiam: et si habúero omnem fidem, ita ut montes tránsferam, caritátem autem non habúero, nihil sum. Et si distribúero in cibos páuperum omnes facultátes meas, et si tradídero corpus meum, ita ut árdeam, caritátem autem non habuero, nihil mihi prodest. Cáritas patiens est, benígna est: cáritas non æmulátur, non agit pérperam, non inflátur, non est ambitiósa, non quærit quæ sua sunt, non irritátur, non cógitat malum, non gaudet super iniquitáte, congáudet autem veritáti: ómnia suffert, ómnia credit, ómnia sperat, ómnia sústinet. Cáritas numquam éxcidit: sive prophétiæ evacuabúntur, sive linguæ cessábunt, sive sciéntia destruétur. Ex parte enim cognóscimus, et ex parte prophetámus. Cum autem vénerit quod perféctum est, evacuábitur quod ex parte est. Cum essem párvulus, loquébar ut párvulus, sapiébam ut párvulus, cogitábam ut párvulus. Quando autem factus sum vir, evacuávi quæ erant párvuli. Vidémus nunc per spéculum in ænígmate: tunc autem fácie ad fáciem. Nunc cognósco ex parte: tunc autem cognóscam, sicut et cógnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, cáritas, tria hæc: major autem horum est cáritas.” –

[Fratelli: Quand’io parlassi le lingue degli uomini e degli àngeli, se non ho la carità sono come un bronzo risonante o un cémbalo squillante. E quando avessi la profezia e intendessi tutti i misteri e ogni scienza, e se avessi tutta la fede così da spostare le montagne: se non ho la carità sono un niente. E quando distribuissi in nutrimento per i poveri tutti i miei possessi e sacrificassi il mio corpo per essere bruciato: se non ho la carità nulla mi giova. La carità è paziente, è benigna. La carità non è astiosa, non è insolente, non è tronfia, non è ambiziosa, non cerca il proprio interesse, non si muove ad ira, non pensa male, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità: tutto soffre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non viene mai meno: mentre invece le profezie passeranno, le lingue cesseranno e la scienza sarà abolita. Adesso conosciamo imperfettamente e profetiamo imperfettamente. Quando verrà ciò che è perfetto, verrà rimosso ciò che è imperfetto. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, avevo gusti da bambino, pensavo da bambino. Divenuto uomo, ho smesso le cose che erano dei bambini. Adesso vediamo come in uno specchio, per enigma: allora poi faccia a faccia. Ora conosco in parte: allora conoscerò come sono conosciuto. Per ora restano queste tre cose: la fede, la speranza e la carità, ma la più grande è la carità.]

 Graduale : Ps LXXVI:15; LXXVI:16

Tu es Deus qui facis mirabília solus: notam fecísti in géntibus virtútem tuam. . [Tu sei Dio, il solo che operi meraviglie: hai fatto conoscere tra le genti la tua potenza.]

Liberásti in bráchio tuo pópulum tuum, fílios Israel et Joseph

[Liberasti con la tua forza il tuo popolo, i figli di Israele e di Giuseppe.]

Tratto: Ps XCIX:1-2

Jubiláte Deo, omnis terra: servíte Dómino in lætítia, V. Intráte in conspéctu ejus in exsultatióne: scitóte, quod Dóminus ipse est Deus. V. Ipse fecit nos, et non ipsi nos: nos autem pópulus ejus, et oves páscuæ ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta: servite il Signore in letizia. V. Entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio. V. Egli stesso ci ha fatti, e non noi stessi: noi siamo il suo popolo e il suo gregge.]

Evangelium

Luc XVIII:31-43

In illo témpore: Assúmpsit Jesus duódecim, et ait illis: Ecce, ascéndimus Jerosólymam, et consummabúntur ómnia, quæ scripta sunt per Prophétas de Fílio hominis. Tradátur enim Géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et postquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intellegébant quæ dicebántur. Factum est autem, cum appropinquáret Jéricho, cæcus quidam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam prætereúntem, interrogábat, quid hoc esset. Dixérunt autem ei, quod Jesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Jesu, fili David, miserére mei. Et qui præíbant, increpábant eum, ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans autem Jesus, jussit illum addúci ad se. Et cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Jesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit, et sequebátur illum, magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit laudem Deo. –

[In quel tempo: Gesù prese a parte i dodici e disse loro: Ecco, andiamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quello che è stato scritto dai profeti sul Figlio dell’uomo. Poiché sarà dato nelle mani della gente e sarà scernito, flagellato e sputato: e dopo che l’avranno flagellato, lo uccideranno e il terzo giorno risorgerà. Ed essi non compresero nulla di tutto questo, un tal parlare era oscuro per essi e non comprendevano quel che diceva. E avvenne che, avvicinandosi a Gerico, un cieco se ne stava sulla strada mendicando. E udendo la folla che passava, domandava cosa accadesse. Gli dissero che passava Gesù Nazareno. E quegli gridò e disse: Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me. E quelli che andavano avanti lo sgridavano perché tacesse. Ma egli gridava sempre più: Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me. E Gesù, fermatosi, ordinò che glielo conducessero. Quando gli fu vicino, lo interrogò dicendo: Cosa vuoi che ti faccia? E quegli disse: Signore, che io vegga. E Gesù gli disse: Vedi, la tua fede ti ha salvato. E subito vide, e lo seguiva: magnificando Dio. E tutto il popolo, vedendo ciò, rese lode a Dio.]

Omelia

della DOMENICA di QUINQUAGESIMA

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Luca, XVIII, 31-43)

Contro il Carnevale.

 Lungo la via di Gerico sedeva un povero cieco, mendicando dai passeggeri qualche soccorso. Si avvenne a passar di colà il divin Redentore, seguito da numeroso popolo. Il cieco ne udì il calpestìo, e interrogò che cosa fosse, gli fu riposto, essere Gesù Nazzareno che di là passava, “Gesù figliuol di Davide, esclamò tosto il mendico, abbiate pietà di me”! Taci, lo sgridavano i primi del seguito, taci, che tanto gridare? “Gesù, a voce più alta gridò il cieco, Gesù figliuol di Davide, abbiate di me pietà”. Si fermò il benigno Signore, e fattolo condurre a sé innanzi, “che vuoi, gli disse, che chiedi da me?” – “O Signore, rispose, e che può desiderare, e che può chiedere un misero cieco par mio, se non la vista?” –  “Domine ut videam” : “sia fatto, ripigliò Gesù, secondo la tua domanda e la tua fede.” – Aprì gli occhi alla luce in quell’istante il non più cieco mendìco, e saltellando per gioia si accompagnò col Salvatore, e ne esultò tutto il popolo dando gloria a Dio. Chi fosse questo cieco l’Evangelista non lo dice, entri qui il magno Gregorio (Hom. 2 in Evang.), ma è una figura assai esprimente la cecità dell’umano genere, del cieco mondo, che prima della venuta del divino Verbo era avvolto nelle tenebre del peccato, e nelle caligini della idolatria. Volesse Iddio che da questa cecità non fossero colpiti anche al presente, tanti fra i cristiani! E qual maggior cecità in questi giorni di licenze carnevalesche che darsi in preda alle follie del paganesimo? E nol dite voi stessi che il carnevale fa l’uomo cieco e matto? Se dunque, da quei saggi che siete confessate così, posso sperare da voi una grazia, che son per domandarvi. Voi siete assidui ad ascoltar la divina parola, voi con devota frequenza assistete alle sacre funzioni, lasciate che i ciechi facciano da ciechi e i matti da matti, e voi fate da savi e buoni cristiani. Astenetevi dal concorrere, e dal vedere le vane pazzie, le scandalose sciocchezze del mondo insensato. Datevi in questo tempo dannoso per le anime ed oltraggioso per Dio, a servirLo con maggior impegno, accorrete a quelle Chiese ove è esposto all’adorazione dei fedeli, santificate questi giorni profanati dai ciechi mondani. Quest’è la grazia che io vi domando, anzi ve la domanda Gesù medesimo per bocca mia, come udirete in tutto il corso della presente spiegazione. – “Miei figli, ( è Gesù che parla, come già vi accennai, per organo del suo sebben indegno ministro), miei figli, anime redente col sangue mio, date ascolto alle parole che escono più dal mio cuore che dal mio labbro, “venite filii, audite me” (Ps. XXXIII, 12) . Una gran parte dei vostri fratelli e figli miei, innalzati da me col carattere del santo Battesimo ad esser meco coeredi del celeste regno, e nutriti alla mia mensa colle mie carni e col mio sangue, ingrati ai miei benefizi in tutt’i tempi, e massime in questo di carnevale, son giunti a disprezzarmi con una specie di autenticità basata sul depravato costume dei ciechi idolatri e dei più ciechi cristiani. “Filios enutrivi et exaltavi: ipsi autem spreverunt me” (Is. I, 2). E non è un disprezzo di me e della mia legge, l’immodesta libertà autorizzata dal ballo, l’inverecondia delle saltatrici, lo scandalo delle nudità? E non è un disprezzo di me, e del mio Vangelo, così contrario al mondo, il darsi in preda ai disordini e alle scostumatezze dal mondo? Così è, si sono dimenticati i cristiani miei seguaci, ch’Io sono il fonte d’acqua viva, che sola può spegnere le arsure dell’uman cuore, e si son lusingati di trovar refrigerio alla loro sete col ricorrere alle rotte e fangose cisterne dei sensuali piaceri; mi hanno perciò voltate le spalle, e villanamente abbandonato. “Me dereliquerunt fontem aquæ vivæ, et foderunt sibi cisternas dissipata, quæ continere non valent aquas” (Gerem. XI, 13). E voi miei cari che mi ascoltate, volete ancor voi abbandonarmi? “Numquid et vos vultis abire?” (Joan.VI, 68). Così già dissi ai miei Apostoli in un tempo, che altri del mio seguito e della mia udienza si partirono da me. E bene, dissi a loro dodici, eccomi ridotto a voi soli, tutti gli altri si sono allontanati, sareste mai ancor voi tentati a seguir l’esempio malvagio e lasciarmi qui solo? “Numquid et vos vultis abire?”– Dico altrettanto a voi. Tutti corrono dietro al gran mondo, som piene di gente le sale di ballo, e le mie Chiese deserte: gli stravaganti sollazzi disonorano la mia religione, le mode scandalose, i tratti indecenti corrompono il buon costume, le danze licenziose, alle quali presiede il demonio, le oscene parole, i motti allusivi, i sospiri amorosi rubano al mio costato tante anime incaute. Volete ancor voi, uditori figliuoli miei, unirvi ai miei nemici, ed essere complici o spettatori dei trionfi di Satanasso, sprezzare le mie parole?Num quid et vos vultis abire? Avrà più forza sul vostro cuore una vana allegrezza che la compassione delle mie offese? Via, se non vi muovono gli oltraggi gravissimi, che mi son fatti dai seguaci di Venere, dai deliranti per le baccanali follie, vi muova almeno il vostro bene, e l’amor di voi stessi. Qual vantaggio avete voi riportato dai balli, dai festini dei carnevali trascorsi? Quante volte la vostra stolta allegria si è convertita in tristezza, e il gaudio in lutto? L’amor non corrisposto vi ha portato doglia e rancore, il corrisposto confusione e rimorso. La gelosia vi ha fatto struggere, l’invidia marcire: le risse, le rivalità vi han tolto il sonno dagli occhi e la pace dal cuore, le crapule, le pompe, le dissolutezze vi hanno resi poveri, infermi, avviliti. S’è rinnovata in voi la dolorosa catastrofe del figliuol prodigo. Giovane sconsigliato! Lo tradì l’amor di libertà; l’amor delle donne fu quell’assassino, che lo spogliò di tutte le sue sostanze, e mezzo ignudo lo ridusse, per non morir di fame, a farsi mandriano d’immondi animali. – Ma quel che immensamente più importa, ditemi, anime mie care, volete salvarvi? Mi rispondete di sì. Ma se volete salvarvi, fuggite l’occasione di perdervi. Imitate Àbramo mio servo fedele. Era egli nella Caldea in mezzo a un popolo idolatra, le pagane superstizioni non macchiarono mai la sua fede nel vero Dio; stava però in mezzo ai pericoli. Per sottrarlo da questi bastò un mio comando, e con tutta prontezza e generosità abbandonò la casa, la patria, i congiunti, ed Io lo colmai di ogni terrena e celeste benedizione, e del suo nome mi fregiai la fronte, chiamandomi il Dio di Abramo, ed esso padre di tutti i credenti. Che sono le allegria del carnevale? Feste profane son queste istituite dagli idolatri in onore dei loro falsi Dei: fa orrore il solo leggerle nella storia del Paganesimo. – Sembra impossibile che l’uomo fornito di ragione sia giunto ad eccessi che degradano l’umana natura nella foggia più obbrobriosa. Non soffre il pudore che si rammentino le sozzure delle baccanti ubriache, le prostituzioni nel culto dato a Venere, e mille altre vergognosissime nefandezze. Or voi, miei fedeli, nati nel grembo della mia Chiesa, insigniti del carattere cristiano, illuminati dal mio Vangelo, avrete animo d’imitare senza rossore, di seguire senza rimorso i rei costumi, i deliri, le pazzie, le abominazioni della cieca gentilità, della riprovata idolatria? Deh! come Abramo, ubbidite alla mia voce, allontanatevi da quei pericoli, uscite da quei lacci, fuggite da quegli scandali, e discenderanno su di voi, come sopra Abramo, le più desiderabili mie benedizioni. – I miei eletti si sono sempre distinti cosi. Tobia ancor giovane, mentre nella prevaricazione del suo popolo i sedotti suoi fratelli n’andavano agli idoli d’oro, innalzati dalla scellerata politica dell’empio Geroboamo, egli tutto solo si incamminava al tempio in Gerusalemme ad adorare il Dio dei padri suoi, e il Dio dei suoi padri fu il suo protettore in terra, ed il suo premio in cielo. – Che dirò di quei generosi Ebrei ai tempi d’Antioco? Quest’empio conquistatore e crudelissimo tiranno ordinò che nella soggiogata Gerusalemme si celebrassero solennemente le feste Baccanali. Minacciati di morte erano costretti quegli infelici, coronati di edera, andar in giro saltando ad onore di Bacco, “cogebantur hedera coranati Lìbero circuire” (2 Macch. VI, 7). Ma parte di essi fuggirono sui monti, e parte elessero d’essere barbaramente trucidati, pria che contaminarsi con quei riti profani, e pieni di fede e di coraggio s’animavano a vicenda ad andar generosamente incontro alla morte dicendo che Iddio, da tanti abbandonato, si consolerebbe nella fedeltà dei servi suoi, “in servis suis consolabitur Deus” (Ibid.). Le feste profane del carnevale, già vel dissi hanno l’origine dall’idolatria. Questo è il tempo che distingue i veri cristiani da quelli che seguono i costumi degl’idolatri. Se vi fosse minacciata la morte, come a quei valorosi Giudei, vorrei in qualche modo scusare la vostra debolezza, ma qui non v’è da vincere che un misero allettamento, per conseguire un gran merito. E voi mi negherete questa consolazione? Avrà più forza in voi la concupiscenza, che la mia fede? Più l’amor sensuale, che l’amor mio? Più la danza, che l’anima? Se perdeste l’anima per l’acquisto di tutti i regni del mondo, sarebbe sempre una perdita incalcolabile. Perduta l’anima, tutto è perduto. Or che sarà se si perda per tali trastulli da pazzi? Aprite gli occhi, e fate senno, miei cari. Dopo esservi stancati giorno e notte nei balli, aprite, e mirate il concavo delle vostre mani, che vi resta? Un bel nulla. Vi restano invece tedi, malinconie e rimorsi. E quando anche vogliate affettare allegrezza, Io, che vedo l’interno vostro so e vi dico che non siete contenti: e siatelo per un istante, l’estremo dell’allegrezza finisce in lutto, e il riso del mondo va a terminare in un eterno pianto. “Extrema gaudii luctus occupat” (Prov. XIV, 13). Così avvenne a quegli stolti Ebrei nel deserto che festeggiarono il Vitello d’oro ad imitazione degli Egizi pagani, e la loro letizia andò a finire colla strage di ventitré mila di loro, che in poco d’ora coprirono il campo dei loro cadaveri, l’inondarono del proprio sangue, e l’anime piombarono a popolar l’inferno. Qualora poi, dilettissimi miei, non vi muovesse né l’amor mio, né il vostro vantaggio, né il vostro pericolo, mirate a qual passo discende l’amor di giovarvi. Questi giorni d’allegria pel mondo son giorni di mestizia per me; e perciò nella mia afflizione cerco da voi un qualche sollievo, come già lo cercai dai miei discepoli nell’orto delle mie agonie. Se non lo trovo fra voi, da chi potrò sperarlo? Quest’è l’ora vostra o amatori del mondo. Già me l’aspettava, “improperium expectavit cor meum et miseriam” (Ps. LXVIII, 21). – Che amarezza per l’animo mio, se dovessi soggiungere colle parole del mio Profeta, ho cercato fra quei che m’ascoltano un cuore, che meco senta doglia dei miei affanni, o almeno per compassion mi consoli, e son costretto a dire che non lo trovai. “Et sustinui, qui simul contristaretur et non fiat, et qui consolaretur, et non inveni”. La Chiesa mia sposa dolente assegna in questa domenica il tratto di quell’Evangelio, in cui predissi ai miei Apostoli gl’insulti, i flagelli, la morte ch’Io era per soffrire in Gerosolima dai miei nazionali e dai soldati gentili. Ed ora non dai miei nemici, ma dai miei figli mi si rinnovano barbaramente l’ingiurie stesse. Fui da Erode vestito da pazzo, fui dai soldati mascherato da re di burla con uno straccio di porpora sulle spalle, con scettro di canna, con corona di spine, con benda agli occhi, con finte adorazioni. – E non fanno altrettanto al presente i miei seguaci colle maschere, colle vesti scandalose, colle danze impudiche, colle adorazioni agl’idoli di carne, con  l’esultar pazzamente in ogni genere di scostumatezza? Se dai miei nemici fossi trattato così, nel soffrirei in pace, “si inimicus meus maledixisset mihi, sustinuissem utique(Ps. LIV); ma i miei cristiani, ma i figli miei, redenti col mio sangue, nutriti alla mia mensa, eredi del mio regno, ah quale acerba ferita all’afflitto mio cuore! – Orsù conchiudiamo. Voi, che qui radunati m’ascoltaste finora, volete in questi giorni seguir la folla del gran mondo, di quel mondo per cui mi son protestato di non pregare, e volete abbandonarmi? Andate pure, un giorno mi cercherete. La scena si cambierà ben presto. A rivederci all’ora di vostra morte, che potrebbe suonare in questi stessi giorni. Gente senza consiglio, dirò allora, mi avete provocato a sdegno colle vane vostre follìe : “Ipsi me irritaverunt in vanitatibus suis” (Deuter. XXXII, 21), ed Io come gente colpevolmente stolta vi abbandonerò al mio giusto furore ; “et ego in genie stulta irritabo illos”. Orsù venga a conforto del vostro spirito agonizzante la memoria degli allegri balli e delle danze festose. Fatevi porgere quella maschera che usaste al festino e copritevi il volto, se vi fa confusione l’immagine di me crocifisso, che vi presenta il sacerdote assistente. Anch’io nasconderò la mia faccia, e vi lascerò senza soccorso sul limitare della morte e dell’inferno: “Abscondam faciem meam ab eis, et considerabo novìssima eorum” (ibid.). Anime mie carissime, non m’obbligate a compiere le mie minacce, che partono da un cuore che v’ama, che v’avvisa per non ferirvi, che vi spaventa per consolarvi. Venite a me, volgete le spalle a Belial, e vi riguarderò come miei fidi seguaci, come miei figli diletti nel tempo e nell’eternità.

Credo

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 12-13

Benedíctus es, Dómine, doce me justificatiónes tuas: in lábiis meis pronuntiávi ómnia judícia oris tui. [Benedetto sei Tu, o Signore, insegnami i tuoi comandamenti: le mie labbra pronunciarono tutti i decreti della tua bocca.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [O Signore, Te ne preghiamo, quest’ostia ci purifichi dai nostri peccati: e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

Communio Ps LXXVII:29-30

Manducavérunt, et saturári sunt nimis, et desidérium eórum áttulit eis Dóminus: non sunt fraudáti a desidério suo. [Mangiarono e si saziarono, e il Signore appagò i loro desiderii: non furono delusi nelle loro speranze.]

Postcommunio

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui coeléstia aliménta percépimus, per hæc contra ómnia adversa muniámur. Per eundem … [Ti preghiamo, o Dio onnipotente, affinché, ricevuti i celesti alimenti, siamo muniti da questi contro ogni avversità.]

I KAZARI: dominatori del mondo

I kazari

Conosco la tua tribolazione, la tua povertà – tuttavia sei ricco – e la calunnia da parte di quelli che si proclamano Giudei e non lo sono, ma appartengono alla sinagoga di satana.” [Apoc. II, 9]

Questo versetto è veramente magnifico e inquadra perfettamente la situazione attuale della Chiesa Cattolica. Ma chi sono questi giudei dell’Apocalisse, citati nella lettera all’Angelo della chiesa di Smirne, che si pretendono giudei senza esserlo? Essi non lo sono né per fede, avendo ripudiato la legge di Mosè per preferire il talmud, né per sangue non essendo originari della Giudea, bensì dell’Asia centrale, dell’Europa centrale e dell’est, e più precisamente provenienti dalla Turchia e della Mongolia. Si tratta innegabilmente del popolo kazharo (in turco significa “errante”). Secondo gli storici ufficiali Benjamin H. Freedmann ed Arthur Koestler, il reame dei kazhari dominò il mondo come nazione, dopo la Russia dal VII al X secolo. Anche prima della venuta di Cristo sulla terra, i kazhari avevano già invaso l’Europa orientale. Questi guerrieri furono inizialmente dei pagani che si allearono a Bisanzio (l’Impero Romano d’Oriente) contro i persiani ed i musulmani. Poi il loro re Bulan dovette scegliere tra le tre religioni monoteiste. Il cristianesimo, l’islam, ed il talmudismo. Il re di questi pretesi giudei optò per il terzo, cosa che diede diritto al suo popolo di proseguire la sua dominazione attraverso l’usura, essendo all’epoca il talmudismo ciò che si chiama oggi il giudaismo talmudico. Nel suo libro “Due secoli insieme”, il russo Alexandre Soljenitse da una spiegazione politica a questa conversione determinante. “I capi etnici dei turco-kazari idolatri di questa epoca non volevano né l’islam, per non sottomettersi al califfo di Bagdad, né il Cristianesimo per evitare la tutela di Bisanzio. Così quasi 722 tribù adottarono la religione giudaica.” Qualunque sia il motivo, politico o economico, questa conversione al giudaismo doveva condurre alla loro egemonia. Questa falsa religione deve molto a questo popolo. Perché ci si chiede, senza i kazari, sarebbe mai sussistito il giudaismo talmudico? L’interrogativo resta aperto. – Il re Butan si convertì dunque nell’anno 740. Questa conversione cambiò le cose, altre seguirono massivamente: oramai solo un giudeo poteva accedere al trono perché l’autorità religiosa era il talmud. I rabbini si incaricarono poi di imporlo alle popolazioni. – L’apogeo della dominazione kazhara fu a metà del IX secolo. Il loro reame aveva allora esteso largamente il suo territorio, dall’Europa dell’est all’Europa centrale, su circa 15,3 milioni di chilometri quadrati. I kazhari, questi askhenaziti dell’Europa orientale, non sono quindi semiti, bensì ariani. Essi parlano l’yddish, una lingua che ha preso un gran numero di parole dal tedesco, e che nulla a che a vedere, nemmeno una parola, con l’ebraico antico o biblico di cui ha ereditato solo i caratteri esdraici quadratici. I kazhari furono in seguito cacciati dalla Russia come spesso è loro accaduto nel corso della storia. La capitale dell’Ucraina, Kief, era stata creata da loro ed in loro onore nel 640. Certi autori, tra i quali pure il Freedman, pensano, legittimamente, che la rivoluzione bolscevica sia stata una rivincita del kazari sul popolo russo. I fatti danno credito a questo punto di vista, poiché si sa bene che gli autori maggiori della sovversione in Russia erano tutti giudei askhenaziti, cioè falsi giudei. Ora il 90 % degli askhenaziti sono di discendenza kazhara, secondo Benjamin H. Freedman, Arthur Koestler e John Beaty. Il legame tra questo popolo e l’oligarchia mondialista è stretto, perché i due non fanno che una sola cosa. Osserviamo ciò che analizzava a suo tempo il giornalista Paul Copin-Albancelli sugli uomini che dirigono la franco-massoneria: “… va da sé che un’opera come quella che abbiamo studiato, [la realizzazione della piramide massonica] non potrebbe essere quella di un unico uomo, né quella di alcuni uomini estranei tra loro che si sarebbero incontrati. La sua continuità, più ancora che la sua immensità, rivela questa permanenza di sforzi della quale sono capaci solo le razze che rendono indistruttibili la loro fedeltà alla fede degli avi. Il potere occulto è dunque costituito dai rappresentanti di una razza e di una religione”. Questa razza è appunto la razza giudeo-askhenazita kazhara e questa religione è il giudaismo talmudico. Pertanto, ciò che si chiama comunemente l’impero, trasse le sue origini da questo popolo sanguinario, da questi askhenaziti di discendenza kazhara che sono globalmente dei rifugiati dell’Europa dell’est. Quindi ai giorni nostri, si è avverato che la stragrande maggioranza dei giudei askenaziti discendenti dal popolo kazaro e l’alta finanza dei Rothschild, Warburg, Soros, Lazard … proviene in pratica tutta da questa razza, che nulla ha a che vedere con la Giudea e con gli Ebrei.

De Segur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE [risp. V-VIII]

Mons. G. De Sègur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CHE SI FANNO PIU’ FREQUENTEMENTE CONTRO LA RELIGIONE -2-

V.

LA RELIGIONE È BUONA PER LE DONNE.

  1. R. E perché dunque non per gli uomini? O essa è vera o è falsa. Se è vera, è anche vera (e perciò anche buona) per gli uomini come per le donne. Se essa è falsa non è migliore per le donne che per gli uomini; perché la menzogna è buona per nessuno. Sì certo « la religione è buona per le donne » ma anche ed assolutamente per le stesse ragioni è buona per gli uomini. – Come le donne, gli uomini hanno delle passioni sovente molto violente a combattere; e come le donne, gli uomini non le possono vincere senza il timore e l’amore di Dio, senza i mezzi potenti, che la religione sola lor dona. – Per gli nomini come per le donne, la vita è piena di doveri difficili e penosi: doveri verso Dio, doveri verso la società, doveri verso la famiglia, doveri verso se – Per gli uomini, come per le donne vi ha un Dio da adorare e da servire, un’anima immortale da salvare, dei vizi ad evitare, delle virtù a praticare, un paradiso a guadagnare, un inferno a schivare, un giudizio a temere, una morte sempre minacciosa a cui è d’uopo prepararsi. – Per gli uni come per le altre Gesù Cristo è morto sulla croce, e i suoi comandamenti riguardano tutti. La Religione dunque è cosi buona per gli uomini come per le donne; e se vi ha una differenza, si è ch’essa è ancora più necessaria agli uomini, che alle donne, specialmente agli uomini giovani. Essi sono infatti esposti a maggiori pericoli; essi possono fare il male più facilmente, e sono più circondati da cattivi esempi, principalmente in ciò, che riguarda i cattivi costumi, l’intemperanza, e la negligenza dei doveri religiosi. Essi hanno dunque ancora più bisogno di preservativo, perché il male che li minaccia è più grave, e più imminente.

VI.

BASTA ESSERE ONEST’UOMO; CIÒ È LA MIGLIOR RELIGIONE:

CIÒ BASTA.

R. Sì per non essere mandato alle forche; ma non per andare al cielo. — Sì, avanti agli uomini; no avanti Dio, il Giudice Supremo. « 1.° Basta essere onest’uomo?» Dite voi. — Sia; ma intendiamoci. Chi chiamate voi onest’uomo? Ecco una parola, che mi sembra molto elastica, molto comoda, e che si presta a tutti i gusti. Domandate infatti a questo giovane di costumi sregolati, se colla condotta più che leggiera che tiene, si può essere onest’uomo?— « Ah, qual domanda! » vi risponderà; Delle follie di gioventù non impediscono per nulla d’essere un onest’uomo. Ho certamente la pretensione d’esserlo: o vorrei vedere che qualcuno venga a contestarmi questo bel titolo! » – Domandate in seguito a questo avido negoziante che apparecchia le sue stoffe di qualità inferiore, e le vende quasi fossero di prima qualità; a quell’operaio che lavora la metà di meno, quando si paga a giornata, che quando è pagato a fattura; a quel padrone, che abusa della miseria dei tempi per carpire ai suoi operai il riposo necessario della Domenica. Domandate loro, se ciò che fanno l’impedisca d’essere persone oneste? e ciascun d’essi non esiterà a rispondervi, ch’egli è un onest’uomo, e che queste taccherelle, queste destrezze, non fanno alla bisogna. -Domandate altresì a quel dissipatore, se la sua prodigalità; a quel vecchio, se la -sordida sua avarizia; a quell’abituato all’osteria, se l’ubriachezza distruggano la loro onestà? E ciascuno domanderà scusa per la sua passione favorita nel tempo stesso che si proclamerà onesto anzi onestissimo uomo! – Così per confessione delle stesse persone oneste di cui qui si parla, un uomo sfrenato, ingannatore, dato all’ubriachezza, avaro, usuraio, prodigo e libertino, può essere un onest’uomo, e nessuno può negargli questo titolo a condizione che non abbia rubato o assassinato!! – Non trovate voi forse questa morale molto comoda? Chiunque non ha questione a sbrigare avanti tribunali criminali, avrà a rendere nessun conto a Dio. — Perciò non più al cuore, ma alle spalle ormai abbisognerà guardare per giudicare le persone; e chi non avrà il L. F. o il L. P. [ L. F. Lavori forzati; L. P. Lavori forzati perpetui] sarà riputato buono per il cielo! Quale religione è la religione dell’onest’uomo!—e voi dite che quella è la vostra religione? Che è la migliore delle religioni? Una religione che permette tutto fuori del furto e dell’assassinio!! Ma voi non ci pensate? È una perversione, una abominevole dottrina e non una religione. – 2.° « Ma, dite voi, intendo allora per uomo onesto, più di quello che s’intende comunemente. Chiamo onesto uomo quello che adempie tutti i suoi doveri, che fa il bene e fugge il male. » – Ed io allora vi rispondo e sostengo appoggiato sull’esperienza, che se voi siete tal quale vi dite senza l’aiuto potente della religione, voi siete l’ottava meraviglia del mondo; ma vi ha cento a mettere contro uno che voi non lo siete punto. – Perché voi non mi farete credere, che non abbiate passioni ed inclinazioni sregolate; ogni uomo ne ha molte. — Se dunque voi siete proclive al libertinaggio, alla cupidigia, ai piaceri del senso, chi vi regolerà?— Se voi siete portato alla violenza o alla pigrizia, o all’orgoglio, chi dominerà queste passioni ? Chi arresterà il vostro braccio? Chi la vostra lingua? — Il timore di Dio? — Ma non se ne parla in questa religione dell’onest’uomo.— La voce della ragione? — Ma noi sappiamo che valga il ragionamento alle prese con una passione violenta. — Chi dunque? Io non vedo altra cosa che il timore della polizia, la forza brutale. Ma allora quale nobile religione!… ve ne faccio i miei complimenti. — Amo meglio la mia. – Sola la religione cristiana offre dei rimedi efficaci alle nostre passioni, e oppone un freno sufficiente alla loro veemenza. — A meno d’ammettere che un uomo è impeccabile, che egli è un angelo (ciò che non è) è necessario conchiudere che senza i potenti soccorsi che ci somministra il Cristianesimo noi non possiamo essere costantemente fedeli a tutti i grandi doveri, l’adempimento dei quali costituisce il vero onest’uomo. Senza il Cristianesimo noi non possiamo soprattutto adempierli con quella sincerità d’intenzione che ne forma tutta la bellezza morale. – I cristiani più virtuosi (tanto è grande questa debolezza umana da cui voi vi pretendete esente!) mancano essi stessi alle volte ai loro doveri, malgrado la forza sovrumana che attingono dalla fede. E voi privo di questo freno onnipotente, abbandonati le inclinazioni della natura, esposto a mille pericoli del mondo, pretenderete voi essere sempre fedele? – Io vi affermo con certezza, che colui, il quale non essendo cristiano, sì dice onest’uomo (nel senso che or ora abbiamo indicato) o fa a se stesso una grande illusione, oppure mente alla sua coscienza. – 3.° Ma io vado più lungi. Quand’anche vi vedessi adempiere perfettamente i vostri doveri di cittadino, di padre, di sposo, di figlio, d’amico, in una parola i doveri che fanno l’onest’uomo secondo il mondo, io vi direi ancora : « Ciò non basta ! ». No, ciò non basta. — E perché? — Perché vi ha un Dio, che regna nei cieli, che vi ha creato, che vi conserva, che vi chiama a sé, che v’impone una legge. — Perché voi avete verso questo gran Dio dei doveri di adorazione, di ringraziamento, di preghiera, così stretti, così necessari, e nello stesso tempo più essenziali, più imprescrittibili di quello che siano i nostri doveri in riguardo ai vostri simili. — Questi ultimi doveri potrebbero infatti cessare, se voi veniste ad essere separato dal rimanente degli uomini, mentre che in ogni luogo e sempre sussisteranno le vostre obbligazioni verso Dio; in ogni luogo, e sempre vi sarà per voi obbligo di credere in Lui, di amarLo, di adorarLo, di pregarLo. – Un ingrato può dire a se stesso: « Io son buono; non ho niente a rimproverarmi? » — No, certamente! — Or bene! voi siete un ingrato, voi, onest’uomo del mondo, che dimenticate Iddio! — Egli è vostro Padre; voi Gli dovete l’esistenza, la vita, l’intelligenza, la dignità morale, la sanità, i beni, tutto; Egli ha creato il mondo per voi, per vostra utilità, per vostro piacere. — Egli vi prepara nel cielo un’immensa felicità. — Egli è vostro Signore; vostro Padrone; Egli vi benedice, vi perdona, v’ama, v’aspetta! – E voi qual cosa gli rendete in cambio? Quale amore, qual rispetto, qual omaggio? Voi discutete freddamente i pretesti, ch’inventano i suoi nemici per sottrarvi al suo servizio! Voi forse non avete che sarcasmi, odio, disprezzo per tutto ciò che riguarda il suo culto! Voi non Lo pregate. Voi non L’adorate. Voi non Lo ringraziate. Voi vi beffate della fede alla sua parola, della pratica della sua legge! ! . . . Ingrato! E voi non avete niente a rimproverarvi? E voi adempite tutti i vostri doveri? – Credetemi, cessate di farvi quest’illusione! a che ingannar se stesso? a che dissimular i propri falli? Riconosciamo piuttosto, che il giogo della religione, cioè del dovere ci ha spaventati, e che si è per scaricarcene senza troppa impudenza, che noi abbiamo immaginato questa Religione dell’onest’uomo. – Non solamente essa non basta, ma a dir vero non è che una sonora ciancia, vuota di senso, destinata a coprire agli occhi del mondo, ed ai nostri propri, dei disordini, delle debolezze, di cui la pratica del Cristianesimo è il solo rimedio.

VII.

PER ME LA MIA RELIGIONE È DI FAR DEL BENE AGLI ALTRI.

R. Nulla di meglio, che amar gli altri, e fare loro del bene. È ciò altresì, che la Religione cristiana ci ordina con maggiore insistenza, essa giunge persino ad assomigliare questo dovere al grande, e fondamentale dovere d’amar Dio: « Tu amerai, essa ci dice, il Signore Dio tuo di tutto il tuo cuore; » questo è il primo comandamento. Ed ecco il secondo, che è simile al primo: « Amerai il tuo prossimo come te stesso. » Queste sono le parole di Gesù Cristo (Ev. di s. Matt. c. XXII); ma aggiunge qualche cosa a cui non ponete troppo mente: « In questi due comandamenti consiste tutta la legge ». Voi, la cui Religione a vostro dire, consiste solo nel far del bene agli altri, voi sopprimete uno dei due comandamenti, il principale, quello che ordinariamente fa nascere l’altro, che lo sviluppa, l’alimenta, fa ascendere sino all’eroismo, quello che l’innalza all’altezza di un dovere religioso Il comandamento dell’amor di Dio, e l’obbligo di servirlo. Bisogna avere queste due gambe per camminare, non è egli vero? Parimenti per compiere il nostro destino sulla terra, e arrivare al cielo abbisogna la pratica dei due grandi comandamenti: 1.° Tu amerai il tuo Dio, 2.° Amerai i tuoi fratelli come te stesso. Così il secondo esiste raramente colà dove il primo non regna; l’esperienza di diciannove secoli è là per attestarlo. I cristiani che appoggiano l’amore dei loro simili sopra l’amore di Dio sono i soli che amino veramente, efficacemente, puramente c – Quali sono stati i più grandi benefattori dell’umanità sofferente? I Santi, cioè, gli nomini accesi dell’amor di Dio. – Per contarne un solo tra tutti, osservate S. Vincenzo de’ Paoli, quest’eroe della carità fraterna, questo padre di tutti gl’infelici, che ancora adesso fa del bene in tutta la terra per mezzo delle opere benefiche che ha fondate! Chi era Vincenzo de Paoli? Un prete, un uomo di Chiesa! Dove attingeva egli questo sacrificio di sé per i suoi simili? Nell’amore di Dio, nella pratica della religione di Gesù Cristo. – Quali sono le instituzioni di beneficenza che prosperano di più? (per non dire che prosperano le sole). – Quali sono quelle che vivono, che si sviluppano, che sussistono attraverso dei secoli? Quelle che fonda la Chiesa; quelle che riposano su di un pensiero religioso; quelle che corona la croce di Gesù Cristo! Chi ha fondati gli ospìzi? La Chiesa! – Chi ha sovvenute in tutti i tempi, chi nei nostri giorni ancora, a dispetto degli ostacoli che ricchi governi le frappongono, sovviene tutte le miserie sia dell’anima, sia del corpo, sia dell’infanzia, sia dell’età virile, sia della vecchiezza ? La Chiesa. – Chi, per sollevare ciascuna di queste miserie, ha creato gli ordini religiosi degli uomini e delle donne, occupati gli uni per i piccoli ragazzi abbandonati, altri nell’educazione dei poveri, altri alla cura degli ammalati, questi alla cura dei pazzi, quelli alla redenzione degli schiavi, all’ospitalità dei viaggiatori ecc., ecc.? La Chiesa e la Chiesa sola! – È dessa che produce i più grandi benefici all’umanità, è dessa che, fa la suora di carità, come ella fa il missionario e il monaco di S. Bernardo! Sempre l’amor di Dio come fondamento il più solido dell’amor degli uomini! – Ai nostri tempi più che mai sì parla molto di umanità, di fraternità, d’amor dei poveri. Si fantasticano sistemi; le belle parole non costano niente: si fanno dei libri e dei discorsi. Perché tutto ciò ottiene cosi piccolo risultato? Perché la religione non vivifica i suoi sforzi. Un effetto non può sussistere senza la sua causa; la causa, il principio più fecondo della carità fraterna è la carità divina, o l’amor di Dio. – Diffidatevi dunque dei bei sistemi di fraternità, che fanno astrazione dalla Religione. Senza nostro Signor Gesù Cristo non vi ha amor degli uomini efficace, puro, solido e durevole.

VIII.

LA RELIGIONE INVECE DI PARLAR TANTO DELL’ ALTRA VITA, DOVREBBE PIUTTOSTO OCCUPARSI DI QUESTA, DISTRUGGERE LA MISERIA, E DARCI LA FELICITA’.

R. Sotto quest’irragionevole accusa è nascosta una delle più grandi questioni sempre del giorno, sempre accese, che riguardano a ciò che vi ha di più intimo in noi: la questione della felicità. – Voi cercate la felicità; voi volete esser felice. — Voi avete ragione. Dio nella sua paterna bontà non ha potuto crearvi che per rendervi felice. Cercate dunque la felicità …. ma guardatevi di non ingannarvi nella scelta de’ mezzi ! Molte sono le vie aperte avanti a voi: Una sola è la vera …. Infelice chi ne prende una falsa!… Quest’errore è più facile che mai ai nostri giorni; perché giammai, io penso, il nostro paese fu più inondato di dottrine menzognere su quest’argomento. —Uomini colpevoli, o sviati spandono da ogni parte e per le mille maniere che fornisce la stampa, dottrine che adescano tutte le passioni, penetrano facilmente nello spirito delle popolazioni. – Essi vogliono persuaderci, che non siamo sulla terra che per godere, che le speranze della vita futura sono chimere; che la felicità consiste nella prosperità materiale, nel denaro, e nei piaceri che procura il denaro. — Alcuni più audaci e più logici, aggiungono, che per procurarsi questo denaro e questi piaceri, tutti i mezzi sono buoni, e che quand’anche avesse a perire la società, la famiglia, la Religione, bisogna che tutto il mondo arrivi a questa perfetta felicità terrena. Lo stato attuale della società umana è vizioso, dicono essi; bisogna distruggere tutto, tutto cambiare; bisogna che la terra muti aspetto; allora tutto il mondo sarà felice. Questa dottrina voi non la conoscete che troppo. È il Comunismo (Si chiama ancora fourierismo, socialismo, sansimonismo ecc. La sostanza di questi sistemi è la stessa: quanto olla morale, essi non differiscano chi nei particolari poco essenziali d’applicazione. Pei dotti questa dottrina sì chiama Panteismo. La morale del Panteismo è la stessa che quella del Comunismo, è il Comunismo, che parla latino, ed abbigliato da Pedagogo e da Pedante.). – Io non vi farò l’ingiuria di provarvi, che questa felicità di piaceri avvilisce. Ciò salta agli occhi. Esso annulla ciò che ci distingue dalle bestie, il bene, la virtù, il sacrificio, l’ordine morale. L’uomo non differisce più dal suo cane che per la pelle, e la figura; la felicità è la stessa per l’uno come per l’altro, la soddisfazione delle sue inclinazioni, il piacere! – Ma ciò di cui non si è appieno convinti, e ciò sopra cui voglio richiamare la vostra attenzione, è l’impossibilità pratica della dottrina comunista, l’assurdità della sua felicità universale. – Vorrei farvi toccar con mano la sua opposizione assoluta con la natura delle cose, coi fatti esistenti che nessuno può cangiare; convincervi che ella non è che un sogno, una dannosa e ridicola utopia, e che sotto le grandi parole colle quali si presenta avvi un niente. – Se vi è un fatto accertato, cosi chiaro come il sole, è senza dubbio la triste necessità in cui noi siamo tutti quaggiù di soffrire e morire; è la condizione umana in ciò che le è essenziale sulla terra; è Io stato in cui io sono, in cui voi siete, in cui sono stati i nostri padri, in cui saranno i nostri figli, da cui nessuno umano sforzo ci può sottrarre. – Avvi, io domando, sulla terra e non vi saranno per sempre, sempre, sempre, malattie, pene, dolori? Vi sono e non vi saranno sempre vedove ed orfani? Madri piangenti inconsolabilmente davanti la culla vuota del loro bambino? Vi sono, e non vi saranno sempre conflitti di caratteri, opposizioni di volontà, inganni maligni? Nulla potrà cambiare questo stato di cose. Una nuova organizzazione della società qual ella siasi, impedirà essa che noi abbiamo delle malattie, dei dolori, delle flussioni al petto, la febbre, la gotta, il colerà? che noi perdiamo quelli che amiamo?… Impedirà essa le intemperie così spiacevoli delle stagioni, il rigore del freddo d’inverno, l’ardore bruciante del sole d’estate?.. Impedirà essa che l’uomo abbia dei vizi? ch’esso abbia orgoglio, egoismo, violenza, odio? Impedirà essa soprattutto di morire? Tutto ciò è vero, o non é vero? E non è parimente tanto certo ed indubitabile che ciò è, quanto è certo che ciò sarà sempre? Bisognerebbe aver perduta la testa per negarlo. – Cosa diventa, ditemi, in presenza di questo fatto, cosa diventa in mezzo di tanti mali inevitabili questo piacere costante, questa perfetta felicità terrena, che ci promette il Comunismo?—Il solo avvicinarsi d’una malattia, d’un dispiacere della morte basta per annientarlo!… e questi terribili nemici sono continuamente alla nostra porta. – Dunque il vostro Comunismo, il vostro Socialismo (chiamatelo come volete) è un sogno, una vana utopia contraria alla natura delle cose. Dunque egli s’inganna, o egli m’inganna, quando mi prometto la felicità sulla terra dove non vi può essere, e quando la fa consistere in uno stato impossibile di piaceri. – Dunque bisogna che la cerchi altrove, perché io so che in qualche parte si trova: la sapienza, la bontà, la potenza di Dio me ne sono certo pegno. Dove adunque? Là dove me la fa vedere il Cristianesimo, in germe sulla terra,,perfetta nel Cielo. – Il Cristianesimo si accorda perfettamente col gran fatto della nostra condizione mortale. Esso ci spiega il terribile problema del dolore e della morte. – Esso ci fa vedere la punizione del peccato. Esso ci mostra nelle pene inevitabili della vita delle afflizioni passeggere destinale, nei disegni del nostro Padre Celeste, a provare la nostra fedeltà, a purificarci dalle nostre mancanze, a renderci più simili al nostro Salvator Crocifisso, a farci meritare una più grande felicità nella Patria eterna! Esso ce le fa sopportare con pazienza, talvolta ancora con gioia, esso ci fa amare la mano paterna, che non ci percuote se non per salvarci. – Esso prende l’uomo tutto intero, e tale quale egli è; esso tiene conto dei fatti, che dimentica il Comunismo (il peccato originale, la condanna alla penitenza, la redenzione di Gesù Cristo, la necessità d’imitare il Salvatore per aver parte alla sua redenzione, la vita eterna, che ci aspetta, ecc.). Esso non ragiona in aria, come il Comunismo, e sopra supposizioni chimeriche. – Tutti gl’interessi dell’uomo gli sono presenti il suo corpo, la sua anima, la sua vita in questo mondo, la sua vita futura, esso non dimentica niente! – Il Comunismo non vede in noi che la scorza, esso dimentica il midollo, l’anima. — Il Cristianesimo non dimentica punto la scorza, il corpo, ma vede altresì il midollo, e trova che il midollo vale ancor più che la scorza. — Esso riferisce tutto all’anima, all’eternità, a Dio. – Per un’azione altrettanto dolce, che potente, esso purga a poco a poco l’anima del suo orgoglio, delle sue cupidigie, della sua concupiscenza, del suo egoismo, dei suoi eccessi, in una parola di tutti i suoi vizi; esso va ancora alla radice più profonda della maggior parte di questi mali che noi continuamente sentiamo. – Quasi sempre infatti, i nostri mali vengono dalle nostre passioni, e queste passioni il Cristianesimo le calma, le trattiene, le doma. – Esso dà al nostro cuore questa gioia e pace sì dolce che produce la purità della coscienza. – La fede ci mostra chiaramente la via che conduce alla felicità, e a quale felicitai! … La speranza e l’amore ci fan correre in questa via, e rendono dolce ed amabile il giogo del dovere. – Se il Cristianesimo fa tanto per l’anima, come abbiamo detto, non oblia il corpo. Esso lo venera come il tempio di questa anima immortale che é essa stessa il tempio vivente di Dio. Esso si studia incessantemente a sollevarla, a guarirla, e a prevenire anche tutti i dolori coi suoi caritatevoli istituti, i suoi ospizi, ecc. – Dovunque la sua voce è ascoltata, la miseria va scemando, il ricco diventa l’amico, il fratello, sovente il servo del povero. Esso versa il suo superfluo nel seno degli infelici; e la povertà se non può esser distrutta diventa almeno sopportabile (La povertà non può essere distrutta, perché le sue cause non possono essere tolte. La prima è l’ineguaglianza delle forze fisiche, della sanità, dell’ingegno, dell’intelligenza, dell’attività ecc. tra gli uomini. È egli possibile rendere tutti gli uomini eguali in forza, talento e buona volontà?… La seconda causa della miseria, non meno profonda che l’alita, sono i vizi della nostra povera natura corrotta dal peccato: la pigrizia, la dissolutezza l’ubriachczza, la prodigalità ecc. La miseria è una delle punizioni del peccato. È impossibile distruggerla ma è possibile scemarla, sollevarla, addolcirla, santificarla. Ciò fa la religione. I ricchi adunque divengano buoni cristiani e caritatevoli, ed i poveri buoni cristiani e pazienti. Qui sta tutto il mistero). – Il Cristianesimo s’occupa del corpo, non come di principale e di padrone (ciò sarebbe un disordine), ma come di accessorio e di compagno. Esso lo conserva colla sobrietà e castità ; lo santifica col culto esteriore, colla partecipazione dei sacramenti, e soprattutto per l’unione al corpo sacrato di Gesù Cristo nell’Eucaristia…. – Esso raccoglie i suoi ultimi sospiri; l’accompagna con onore sino all’ultima sua dimora; e là ancora non gli dice un eterno addio! … Esso sa che un giorno questo corpo cristiano, purificato dal Battesimo della morte, sorgerà raggiante dalla sua polvere, risusciterà nella gloria, sarà riunito alla sua anima, e gusterà con essa nel paradiso ineffabili delizie…. Tale è il Cristianesimo.- Esso conosce, promette, concede la felicità. Esso dà sulla terra ciò che è possibile. Se non concede tutto, si è perché tutto né deve né può essere concesso sulla terra. Esso appoggia le sue promesse con prove le più irrefragabili. Ciò che non ha ancora, il Cristiano sa, è sicuro che l’avrà un giorno. – Così ogni vero cristiano è felice. Egli ha dei dispiaceri, dei dolori… egli è impassibile il non averne, ma il suo cuore è sempre soddisfatto, sempre calmo e contento. – Il Comunismo tratta egli così i poveri sviati che egli incanta colle sue chimere? Esso promette ciò che nessuna potenza umana può dare; promette l’impossibile … Esso non ha altra prova che l’affermare audace dei suoi capi! E i suoi capi son essi atti ad inspirare confidenza? – Il mondo sarà felice, dicono essi, quando tutto vi sarà cambiato »—Sì; ma quando sarà tutto cambiato?—Se, come crediamo averlo provato, questo cambiamento è contrario alla natura delle cose, il mondo corre gran rischio di giammai conoscere la felicità. Il Comunismo fa come quel parrucchiere della Guascogna, che metteva sulla sua insegna: « Qui per nulla si rade alla dimane ». La dimane resta sempre la dimane, e l’oggi non arrivava mai. – Il comunista vuole la ricompensa senza il lavoro; il cristiano vuole la ricompensa dopo il lavoro. L’uno parla come il cattivo operaio, l’altro come il buono. Così ogni ozioso, ogni pigro accetta volentieri le dottrine del Comunismo , e respinge per istinto la voce della religione. – Si guardi la nostra patria dunque da queste promesse vuole, ma seducenti, di cui i suoi nemici riempiono i loro giornali, i romanzi, libelli; che essa li respinga, ch’essa col suo disprezzo giudichi uomini, che non arrossiscono di proporre ai loro fratelli la vile felicità delle bestie, il piacere. Solleviamo la testa! Rianimiamo l’addormentala nostra fede; siamo, ritorniamo cristiani. Colà solamente è il rimedio ai nostri mali, istruiamoci in questa religione cattolica, che ha creato la nostra Patria! Penetriamone il nostro spirito, il nostro cuore, le nostre abitudini, le nostre istituzioni, le nostre leggi!…. Noi avremo la felicità possibile in questo mondo, e la felicità perfetta nell’altro mondo. Chi pretende di più è un insensato che non avrà né l’una, né l’altra.