LA PASSIONE DI GESU’ CRISTO

In questi venerdì di quaresima, si ricordano gli strumenti della Passione di Cristo e le sue ferite: 1° venerdì: La corona; 2° venerdì: i chiodi e la lancia; 3° venerdì: il sacro lenzuolo, 4° venerdì: le piaghe di Gesù-Cristo; 5° venerdì: il suo Preziosissimo sangue. Oggi ci occuperemo della Santa Croce e degli Strumenti della Passione.

DEVOZIONE ALLA SANTA CROCE

ISTRUZIONE.

La storia dell’Invenzione e dell’Esaltazione della S. Croce su cui, per opera di Gesù Cristo, fu compita la redenzione di tutto il genere umano, è troppo interessante per essere passata sotto silenzio. Facciamone dunque qualche cenno.

Invenzione della Santa Croce.

Costantino, detto il grande, figlio di Costanzo Cloro e di S. Elena, dopo essere stato presente alla morte del proprio padre nella Gran Bretagna, fu dichiarato imperatore in suo luogo, il giorno 25 luglio 306. Investito della suprema autorità, cominció a regnare nell’Inghilterra, nelle Gallie e nella Spagna, ch’erano ì paesi dominati da Costanzo, quando da Diocleziano fu associato all’Impero. Ma dopo qualche anno, sentendo che Massenzio in Roma cercava di usurpargli il trono, mosse dal Reno contro di lui, e sapendo che il suo nemico era assai maggiore di forza, dacché non aveva meno di duecentomila uomini, chiama in soccorso il Dio dei Cristiani, pei quali aveva gran propensione. La sua speranza non lo tradì, che anzi, il giorno innanzi alla battaglia, trovandosi alle porte di Roma qualche ora dopo il mezzogiorno, a vista di tutto il suo esercito, non che di lui che ne era a capo, apparve nel cielo una Croce, più luminosa del sole, e intorno alla quale si leggevano queste parole — Con questa bandiera tu vincerai. — “In hoc Signo vinces”. La notte seguente Gesù Cristo gli apparve in sogno, e mostrandogli di nuovo la Croce apparsa nel cielo il giorno avanti, gli comandò di farne subito costruire una in tutto simile a quella che gli era mostrata, e di usarla come stendardo di guerra, che avrebbe certissima la vittoria. Appena svegliato l’imperatore, diede gli ordini opportuni per fare questa nuova bandiera tanto famosa sotto il nome di Labaro, la quale consisteva in una lunga picca tutta coperta di oro traversata in alto da un altro legno che formava una Croce dalle cui braccia pendeva un velo tessuto d’oro, e di pietre preziose. Al sommo della Croce brillava una ricca corona d’oro, nel cui mezzo stavano le lettere greche indicanti il nome di Cristo. Con questa nuova bandiera che veniva portata dai veterani più distinti per valore e per pietà, si avanzò Costantino verso Massenzio, e al Ponte Mìlvio, detto ora il Ponte Molle, lo sconfisse per modo che il tiranno preso la fuga e si annegò nel Tevere il 28 Ottobre del 312. Questa è quella grande vittoria che determinò Costantino a dichiarare la Religione Cristiana libera in tutto l’impero; il che fece con formale decreto sottoscritto in Milano nell’anno 313; tanto più che, vinto Massenzio, trionfò anche di Licinio Imperator d’Oriente persecutore fierissimo del Cristianesimo, e cosi divenne egli solo padrone del mondo conosciuto a quei tempi. Pochi sono i fatti che abbiano tante prove quante ne vanta l’apparizione della Croce a Costantino. – Eusebio ci assicura d’averlo sentito dalla bocca stessa dell’Imperatore. Lattanzio che scrisse prima di Eusebio ne parla come di fatto innegabile: cosi fan pure Filistorgio nei suoi frammenti, Socrate e Sozomeno nelle loro storie, nonché Gelasio di Cizico negli Atti di s. Artemio martirizzato sotto Giuliano, oltre l’essere attestato da infinite iscrizioni e medaglie che si riferiscono a quell’ epoca, non che dalla statua che il Senato fece erigere a Costantino, nelle cui mani fu posta come strumento di sua vittoria, la Croce. – Risoluto Costantino di far trionfare la Croce in tutte le parti del suo impero, comandò prima di tutto di abbattere quei tempii profani che l’imperatore Adriano aveva fatto innalzare sopra del Santo Sepolcro, dopo di averlo riempito di terra e nascosto alla vista comune con un pavimento di pietra. Datone l’ordine a Draciliano governatore di Palestina e partecipatene la notizia a s. Macario vesc. di Gerusalemme, Elena, madre dell’Imperatore, quantunque fosse già sugli 80 anni, volle prendere personalmente la direzione, e pose ogni suo studio nel ricercare la santa Croce. Dopo un lungo scavare, si giunse a scoprire il Sepolcro, e in sua vicinanza tre croci della stessa grandezza e della stessa forma, per cui non si poteva distinguere quale fosse quella del Salvatore, tanto più che il titolo ordinato da Pilato, e portante le parole “Gesù Nazareno Re de’ Giudei”, era confuso tra ì vari legni. – Nell’impossibilità di ben conoscere quale delle tre croci fosse quella che si cercava, s. Macario suggerì all’imperatrice portarle tutte e tre alla casa di una gentildonna che era moribonda. Fatta una fervida preghiera, e portate le croci alla casa della ammalata, si provò a toccarla con esse; ma mentre nessun effetto si ebbe dalle due prime, al tocco della terza l’ammalata si vide perfettamente guarita. Alcuni altri riferiscono che la Santa Croce sia stata riconosciuta per la istantanea risurrezione di un morto che sopra di essa fu steso, mentre niente era avvenuto applicandolo alle altre due croci! – Riconosciuta la vera Croce, si fondò una Chiesa nel luogo in cui fu trovata, ed ivi la si depose in una grande custodia di sommo valore. Una porzione però fu da s. Elena mandata al suo figlio in Costantinopoli, ed un’altra fu spedita alla Chiesa da lei fondata in Roma e che ora si conosce sotto il nome di Santa Croce di Gerusalemme, alla quale regalò anche il titolo della croce, che venne posto al sommo di un’arcata ove fu trovato nel 1492 chiuso in una cassetta di piombo. – Costantino per ispirare a tutto il mondo gran rispetto alla Croce, comandò che in tutta l’estensione dei suoi domini non si adoperasse mai più la croce per supplizio dei malfattori, il che fu praticato in progresso da tutti ì suoi antecessori. – La parte più considerabile della Croce fu fatta chiudere da s. Elena m un astuccio d’argento, e lasciata a Gerusalemme sotto la custodia del vescovo S. Macario [di cui oggi 10 marzo festeggiamo la memoria –ndr.-] che la depose nella magnifica chiesa costrutta sul santo Sepolcro. – Da tutte le parti concorsero sempre i fedeli a venerare sì gran Reliquia, ed è pur rimarcabile il fatto che da s. Paolino è riferito nella sua lettera a Severo, cioè che per quanti pezzetti ne fossero staccati, dessa non veniva mai a scemarsi, producendosi a misura che veniva tagliata come fosse 1egno ancor vivo. S, Cirillo di Gerusalemme, che viveva 25 anni dopo la Invenzione della santa Croce, protesta che dopo essersene distribuiti tanti pezzetti da trovarsene in ogni parte del mondo, la Croce era ancora della stessa grandezza, e grossezza, come non fosse mai stata toccata da alcuno, e paragonava questo fatto ai pani moltiplicati nel deserto per satollare 5 mila persone.

ESALTAZIÓNE DELLA SANTA CUOCE.

Come l’apparizione della Croce a Costantino, e la scoperta del sacro legno fatta da s. Elena diede occasione alla festa dell’invenzione della S, Croce, che però, al dir del Baronio, non si rese universale che nel 720, così il riacquisto di sì santo strumento, fatto da Eraclio, diede nuovo lustro alla festa della Esaltazione, che già si celebrava dai Greci e dai latini nel sesto secolo, e anche nel quinto. Cosroe II, re di Persia, sotto pretesto di vendicare l’imperatore Maurizio trucidato da Foca, si mosse con grande esercito contro quest’ultimo, e in poco tempo si impadronì della Siria e della Palestina, mettendo a fuoco ed a sangue tutto l’Oriente. – Eraclio figliuolo del governatore dell’Africa, animato dai voti del popolo che stanco della tirannide di Foca, lo proclamava imperatore, approda con un’armata navale a Costantinopoli, ove sconfisse le truppe nemiche, e, impadronitosi del tiranno, gli fece troncare la testa. Non ottenne appena questa vittoria, che cercò di fare la pace con Cosroe, affinché, senza spargere altro sangue, si ritirasse nei proprii stati, cioè nel regno di Persia. Cosroe, superbo delle prime conquiste, rifiutò ogni condizione, fece nuove scorrerie, strinse d’ asilo Gerusalemme, e presala nell’anno 625, portò seco nella Persia, coi principali della città e il vescovo Zaccaria, i più preziosi tesori che vi poté trovare, e fra questi la vera Croce su cui era morto il Salvatore. Allora Eraclio risolvette di farla finita; e, confidando nella protezione del cielo, parti colle sue truppe per la Persia. La sua marcia fu un continuo trionfo, e sconfitti tutti i Persiani che d’allora in poi non riacquistarono mai più il loro primitivo splendore, costrinse alla fuga il loro Re, che fu poi fatto morire dal proprio figlio Siroe, com’egli a colpi di bastone aveva fatto morire il proprio padre Ormisda. – Debellati così tutti i nemici, Eraclio cedette alle istanze di Siroe che domandava la pace; e la prima condizione che gli impose fu quella di restituire tutto quello che Cosroe avea rubato in Palestina, e specialmente la Santa Croce. Fu allora che questa nel 628, fu portata trionfalmente, fra le acclamazioni e gli ossequi di tutto il popolo a Costantinopoli. L’anno seguente l’imperatore si imbarcò per portarla in Gerusalemme. E giuntovi felicemente, la volle portare egli stesso nei tempio fabbricato da Costantino sopra’il Calvario. Ma arrivato alla porta che serve di introduzione al sacro monte, si sentì impediti i suoi passi da una forza invisibile e irresistibile. Allora il patriarca Zaccaria, che lo accompagnava, lo avvisò che ciò proveniva dall’essere egli vestito pomposamente, e quindi in modo non proprio per imitar Gesù Cristo nel portare la croce. – Depose subito l’imperatore le regie insegne; si vestì di abito penitenziale, e trovò di poter procedere liberamente, come procedette difatti al compimento dei propri voti. E cosi la santa Croce fu nel 629 riposta per mano di Eraclio in quel luogo medesimo da cui 14 anni prima era stata rubata da Cosroe. Siccome ciò avvenne nel 14 Settembre, in cui molti eran già soliti festeggiare la Santa Croce, cosi fu universalmente stabilita in tal giorno la solennità della sua Esaltazione.

DEGLI ALTRI STRUMENTI DELLA PASSIONE.

Veduto quello che diede origine alle due feste della Santa Croce, tornerà molto caro il conoscere che cosa avvenne degli altri strumenti della Passione, che furono da s. Elèna trovati nel luogo medesimo della Croce, essendo antico costume di seppellire presso il tumulo dei giustiziati tutti gli strumenti che avean servito al loro supplizio.

I SANTI CHIODI.

Presso la Croce del Redentore s. Elena trovò ì Chiodi che avevan servito alla sua crocifissione. Né durò fatica a riconoscerli, perché, a differenza degli altri, che erano tutti coperti di ruggine, questi conservavano ancora la primitiva lucidezza. In quanto al numero, è insegnamento di s. Gregorio di Tours, seguito dal papa Innocenzo III che fossero quattro i Chiodi che erano stati a contatto colle mani e coi piedi del Redentore, senza parlare di quello che aveva servito pel titolo o cartello, che stava al sommo della croce, e di altri che si rendevano indispensabili per connettere al legno diritto il legno trasversale. Dei quattro Chiodi che penetrarono nelle carni divine del Redentore, uno fu da s. Elena calato riverentemente nel mare Adriatico per calmare una tempesta violentissima che minacciava la di lei vita, per render più sicuro quel golfo che per la sua voracità si chiamava la voragine dei naviganti. Acquietatosi il mare a quel contatto s. Elena regalò quel chiodo alla chiesa di Treveri, di cui era allora arcivescovo s. Agrizio. Gli altri tre furono mandati a Costantino, il quale se ne servì per garantire da ogni sinistro la propria persona, mettendone uno nel suo diadema più ricco, ossia l’elmo di parata, e collocando gli altri due nella briglia e nel morso del suo cavallo, onde gli servissero di scudo impenetrabile fra ì tanti pericoli delle battaglie. Questi chiodi si conservarono in Costantinopoli fino all’epoca dell’imperatore Giustiniano, imperocché si sa che il pontefice s. Vigilio, che si trovava in quella città per la famosa condanna dei tre Capitoli nel 555 giurò per la virtù dei santi Chiodi e del santo freno che ivi si conservava. Nell’anno poi 586, dall’imperatore Costantino Tiberio, furono regalati a s. Gregorio Magno, nell’occasione che ritornava a Roma, dopo aver sostenuto presso la corte di Costantinopoli l’impegno di Apocrisario, ossia legato del Papa, che era s. Agapito. Fu allora che il Santo Chiodo, già allogato nel diadema di Costantino, fu dato in dono alla basilica della Santa Croce m Roma, un altro venne donato alla chiesa di s. Giovanni in Monza, ove fu poscia incastrato nella parte interiore della celebre Corona Ferrea, che serve anche attualmente per l’incoronazione dei Re. Quello inserito da Costantino nel freno de! suo cavallo fu regalato alla Metropolitana di Milano, ove si conserva tuttora in una specie di magnifica cappella costruita nella parte superiore della volta del coro. – Non deve poi far meraviglia che molte altre chiese si vantino di possedere sì preziosa reliquia, dacché per soddisfare alla pietà dei fedeli desiderosi di tanto tesoro, si sa che fu limato uno dei veri chiodi, specialmente quello che era a Roma, e che appunto per questo ora non ha più punta. E questa limatura si è rinchiusa in altri Chiodi fatti alla foggia dei veri, e così si sono in certa guisa moltiplicati. Si e pur trovato altro modo di farne molti, col mettere a contatto del chiodo vero, degli altri appositamente preparati a sua somiglianza. S. Carlo Borromeo, cosi scrupoloso in fatto di Reliquie aveva molti Chiodi fatti a somiglianza di quello che si venera in Milano, e, dopo averli ad esso accostati li distribuiva ai distinti personaggi che voleva regalare; ed uno di questi fu da lui donato qual reliquia preziosa a Filippo II Re delle Spagne. Di una somigliante devozione si trovano le tracce nei secoli i più remoti. S. Gregorio Magno, ed altri papi, diedero, come grande reliquia, un po’ di limatura delle catene di s. Pietro, che poi mettevasi in altre catene fatte a somiglianza di quelle. Nelle opere del P. Onorato di s. Maria, che è uno dei critici più giudiziosi, si legge un fatto che conferma quanto si è detto, ed è un miracolo autentico operatosi per mezzo di un taffetà fatto a somiglianza del cuore della gran vergine santa Teresa.

LA SANTA LANCIA.

Trovata da s. Elena, cogli altri strumenti della Passione di Cristo, la lancia che gli aperse il costato, fu posta nella debita venerazione. Ma in progresso di tempo, temendosi l’invasione dei Saraceni, fu segretamente sotterrata in Antiochia, ove fu trovata nel 1098, nella cui occasione accaddero molti miracoli. Allora da Antiochia fu trasportata a Gerusalemme, e di lì a poco a Costantinopoli. L’imperatore Balduino II ne mandò la punta alla Repubblica di Venezia in pegno d’una somma di danaro che dessa gli aveva prestato. S. Luigi Re di Francia pagò ai Veneti la somma per cui era impegnata quella reliquia, e la fece trasportare a Parigi, ov’è custodita nella Santa Cappella. Il rimanente della Lancia rimase a Costantinopoli anche dopo che i Turchi se ne furono impadroniti. – Nel 1492, il Sultano Bajazette, per mezzo di un suo ambasciatore, la mandò in regalo al Papa Innocenzo XII, rinchiusa in una ricchissima custodia, facendogli dire nel tempo stesso che la punta della sacra Lancia era in mano del Re di Francia.

LA SANTA SPUGNA.

Quando Cosroe spogliò delle cose le più preziose la chiesa del santo Sepolcro in Gerusalemme, il patrizio Niceta, per mezzo di un amico di Sarbazara, Generale dei Persiani, giunse a sottrarre alla nemica invasione la santa Spugna cui fu presentato l’aceto al Salvator Crocifisso, non che la Lancia che gli aveva ferito il Costato. – Queste due reliquie furono mandate a Costantinopoli, e depositate nella cattedrale, la santa Spugna al 14 Settembre dello stesso anno 628 , e la santa Lancia al 20 ottobre: e ciascuna esposta per due giorni alla venerazione dei Fedeli. La santa Spugna che da Balduino II fu consegnata colla punta della Lancia ai Veneziani, per pegno del prestito che gli aveva fatto, fu di là trasportata da s. Luigi nella santa Cappella in Parigi, onde poi fu mandata a Roma, ove si conserva ancora nella chiesa di san Giovanni Laterano, e si vede ancora tinta di rosso sanguigno.

LA SANTA CORONA.

L’imperatore Balduino II vedendo che la città di Costantinopoli stava per cader nelle mani dei Saraceni e dei Greci, donò la corona di spine a s. Luigi suo parente, per ricompensarlo di tanti sacrifici che aveva fatti per la difesa dell’impero d’Oriente e della Palestina. S. Luigi fu gratissimo a quesdono che gli venne per la via di Venezia; i n segno di rinoscenza, pagò spontaneamente un grosso prestito che l’impero aveva contratto colla Repubblica. Questo prezioso tesoro, rinchiuso in una cassetta suggellata, fu da Venezia portato in Francia da Religiosi specchiatissimi per santità. S. Luigi gli andò incontro 14 miglia di là di Sens, col corteggio della madre, dei fratelli, dei primi principi, e dei primi Prelati: ed egli stesso con Roberto d’Artois, suo secondo fratello, camminando a piedi nudi, volle portare la santa Corona nella cattedrale di Sens, donde poi con gran solennità, fu trasportata a Parigi, e deposta in una cappella magnifica espressamente per lei fabbricata, ed officiata da un apposito Capitolo, e questa è quella che si chiama la Santa Cappella. – Dalla santa Corona si sono staccate alcune spine per farne dono ad altre chiese: ma se ne sono anche fatte molte ad imitazione delle vere, e, come si è detto dei Chiodi, col contatto delle vere Spine che sono quasi tutte lunghissime, si resero venerabili tutte le altre che furono fatte in progresso a loro somiglianza.

LA SANTA COLONNA.

La colonna a cui fu legato Gesù Cristo quando fu sottoposto alla flagellazione, per testimonianza dei due SS. Gregorio, il Nazianzeno ed il Turonese, non che di s. Prudenzio e s. Girolamo, fu religiosamente custodita in Gerusalemme insieme alle altre reliquie della Passione. Ma, per opera del cardinale Giovanni Colonna, legato del papa Onorio II, in oriente, fu trasportata a Roma nell’anno 1221, e collocata in una piccola Cappella della chiesa di santa Prassede, ove si vede tuttora a traverso di una grata di ferro. Essa è di marmo grigio, lunga un piede e mezzo; nella base ha un piede di diametro, ma nella parte superiore non ha che otto pollici. Vi si vede ancora un anello di ferro, che è quello a cui s’attaccavano i colpevoli. Alcuni credono che questa non sia che una parte della Colonna che servì alla Passione di Cristo, ma siccome non si vede alcuna frattura, cosi si ritiene che sia intera.

IL SANTO SEPOLCRO

Era costume fra gli Ebrei di seppellire i loro morti non in una fossa di terra, ma bensì i n un sasso scavato a modo di piccola stanza che veniva nell’estrema sua parte coperta con una grossa Lastra di pietra. Di tal natura fu pure il sepolcro già preparato sul monte Calvario per un grande della Giudea, qual era Giuseppe d’Arimatea, e che da lui fu ceduto al Nazareno fatto cadavere perché avesse una sepoltura possibilmente conveniente alla sua dignità. Questo luogo santificato dalla dimora che vi fece per circa tre giorni Gesù Cristo defunto, e reso gloriosissimo per i miracoli che accompagnarono la sua Risurrezione, non poteva non divenire un oggetto di somma venerazione per i Cristiani. Presa però dall’Imperatore Tito nell’anno 70, cioè 37 anni dopo la morte di Cristo, la città di Gerusalemme, fu ridotta, secondo la profezia evangelica, a un mucchio di rovine. Più tardi, cioè nel 134 sotto l’imperatore Adriano ne furono cacciati tutti i giudei che l’avevan in gran parte rifabbricata, e la città fu rovinata in modo da divenire inabitabile. Tre anni dopo, lo stesso Principe la fece ricostruire sotto il nome di Elia Capitolina, e, per cancellarvi ogni traccia di Cristianesimo, fece collocare la statua di Venere sul Calvario nel luogo preciso della Crocifissione del Nazareno, e la statua di Giove sul suo sepolcro. Finalmente nell’anno 327, dopo che Costantino ebbe abbracciato il Cristianesimo, l’imperatrice Elena sua madre vi fece abbattere ogni avanzo di idolatria, vi cercò e vi trovò la vera croce ove erasi consumato il sacrificio della nostra salute, poi fece innalzare una bellissima chiesa sul Sepolcro ov’era stato deposto il divin Redentore. Questa chiesa, che è coperta da una gran cupola, e unita ad altre due chiese anch’esse coperte di cupole di minor mole, forma con esse un solo tempio, la cui gran nave è illuminata dalla maggior cupola che si innalza sopra del santo Sepolcro. – Ben tosto quel luogo fu frequentato dai Cristiani che vi andavano in pellegrinaggio da tutte le parti del mondo. S. Geronimo nella lettera a s. Paola dice che questa santa vedova era entrata nel s. Sepolcro, baciandone per rispetto la terra. E S. Agostino (De Civit. Dei, c, 22, c, 8) racconta che fedeli ne raccoglievano la polvere, e la conservavano come preziosissima, operandosi con essa molti miracoli. La vista del santo Sepolcro venne in seguito disturbata dai Saraceni che, impadronitisi della Palestina nell’anno 639, vessavano orribilmente i Cristiani che vi si portavano in pellegrinaggio. Queste vessazioni sdegnarono per modo le nazioni cristiane, che si risolvette di farla finita con quei barbari persecutori degli Innocenti. Quindi i Principi d’Europa, capitanati dal francese Goffredo di Buglione, incominciarono quelle famose spedizioni di truppe Cristiane in Asia che si celebrarono sotto il nome di Crociate, perché in tal circostanza tutti i soldati portavano per distintivo una croce rossa sul petto. Per l’opera di questi valorosi, Gerusalemme fu riconquistata dai Cristiani l’anno 1099, ma sgraziatamente questo dominio non durò che 88 anni, in capo ai quali, cioè nel 1187, Gerusalemme con tutta la Terra Santa, cadde in potere di Saladino sultano di Egitto e di Siria, i cui successori la tennero sino al 1517 in cui furono soggiogati dai Turchi, che sono anche attualmente i padroni di tutta la Palestina. – Malgrado però queste vicende, il Santo Sepolcro colla relativa chiesa fu sempre rispettato; e mediante il pagamento di un certo tributo, fu concesso ai Religiosi Francescani di stabilirsi la propria dimora in un vicino convento da loro fabbricato anche allo scopo di alloggiarvi i Pellegrini che recansi alla visita dei Luoghi Santi, Non è pero a tacersi che la devozione dei Cristiani visitanti il santo Sepolcro deve essere pagata a caro prezzo, perché i Turchi che ne sono i padroni, esigono un fisso tributo per ogni volta che si entra nella chiesa del santo Sepolcro. Onde è che si trovano dei pellegrini che per non pagare un nuovo tributo sortendo dopo la prima visita, stettero in essa dei mesi interi, senza mai sortire, ricevettero il vitto quotidiano da una piccola finestra destinata a questo scopo, sebbene traversata da una sbarra di ferro. Non saranno dunque mai abbastanza lodati quei santi Francescani Religiosi che ne tengono la custodia, e che malgrado le più grandi persecuzioni non abbandonarono mai quella santissima impresa. Come non sarà mai abbastanza raccomandato ai fedeli di largheggiare nella elemosina che, specialmente in Quaresima si raccoglie pei Luoghi Santi, dacché dessa serve non solamente a mantenere quei religiosi che ne sono i custodi, a pagare gli annui tributi che loro sono imposti dai Turchi, ma ancora a supplire alle spese occorrenti per la custodia di tutti gli altri santi Luoghi di Palestina, non che pel mantenimento dei pellegrini che vi sono alloggiati, e dei ragazzi d’ambo sessi, che, raccolti in apposite case, vi sono santamente allevati, onde servano un qualche giorno di apostoli nelle loro famiglie, e cosi santifichino gli altri nell’atto stesso che sempre più vanno santificando sé stessi. – Nel 1811 un incendio rovinò il magnifico tempio di s. Sepolcro. Però le fiamme risparmiarono il sepolcro di Gesù-Cristo, il vicino convento cattolico, e le cappelle delle otto nazioni del cristianesimo. Quel tempio fu nel 1812 riedificato a spese dei monaci Greci, creduti gli autori di quel disastro. – Nel 1834 nuove sciagure immersero nella più desolante costernazione la citta santa, poiché oltre la sventura della presenza degli Arabi che cola portavano i l sacco e la fame, uno spaventevole terremoto, che durò per ben tre minuti, scoppiò nel giorno 23 Maggio di detto anno, in conseguenza del quale il tempio marmoreo del s. Sepolcro fu scosso a segno che minacciava l’estrema rovina. Fortunatamente però desso stette ancor saldo, e se nel 1865 la gran cupola di detto tempio minacciava di andare in isfascio, diverse potenze, cioè la Porta, la Russia, e specialmente la Francia, gareggiarono nell’impegno di ripararne subito tutti ì danni. – A proposito del s. Sepolcro è molto edificante ciò che scrive ve di sè stesso nel suo Itinerario di Palestina, il grande autore del Genio del Cristianesimo Chateaubriand: « Forse i lettori mi domanderanno quali sentimenti io abbia provato entrando in luogo così santamente formidabile. A tal domanda io non saprei cosa rispondere, tanti furono i sentimenti che si impossessarono del mio animo in un sol colpo. Dirò solo che entrato nella piccola camera del s. Sepolcro, vi restai per circa mezz’ora in ginocchio come assorto, senza poter levar ì miei occhi dalla pietra su cui fu depositato Gesù Cristo defunto. Un dei due religiosi che mi servivano di guida stava presso di me colla fronte prostrata al marmo, l’altro tenendo in mano l’Evangelio leggeva al fiocco lume della lampada, i passi relativi al santo Sepolcro. Tutto ciò che io posso assicurare si è che alla vista di quel sepolcro trionfale io non sentiva che la mia debolezza: e quando la mia guida gridó con s Paolo, dov’è o Morte, la tua vittoria? ov’è il tuo pungolo? mi pareva di sentire all’orecchio la voce della morte rispondere “Io sono stata vinta ed incatenata in questo monumento dal glorioso Autor della vita! » – Ecco i sentimenti che deve in noi risvegliare la memoria del santo Sepolcro.

ORAZIONE ALLA SANTA CROCE.

Con tutto le forze del mio cuore, vi amo, vi lodo, vi benedico, vi adoro, o vera Cattedra di sapienza, per tutti i popoli della terra, o Arma debellatrice di tutte le infernali potenze, o strumento inestimabile della comune redenzione, santissima Croce di Gesù Cristo. Voi, nobilitata dal sangue dell’Agnello divino, siete divenuta tutt’assieme la speranza dei peccatori, il conforto de’ penitenti, la consolazione dei giusti, e il carattere distintivo di tutti i discepoli del vero Dio. I più potenti Re della terra si recano sempre ad onore il farvi ossequio, e, piantandovi in mezzo alle lor corone, vi dichiarano pubblicamente per la loro difesa, per la lor gloria. Deh, apprenda io una volta quelle divine lezioni di umiltà, di pazienza, di mansuetudine, di carità, di costanza che ci diede morendo sopra di voi l’Autore di nostra fede, il Consumatore della nostra salvezza! Colla contrizione la più sincera io detesto tutto quel tempo in cui ho ricusato di conformare ai vostri insegnamenti la mia condotta: e colla risoluzione la più ferma, protesto di volere per l’avvenire portarvi con santo coraggio e con edificante allegrezza, mortificando in ogni maniera gli affetti sregolati del mio cuore, i sensi sempre ribelli del mio corpo, e sopportando con pazienza e con gioja, tutte quelle traversie con che l’amoroso mio Salvatore si compiacerà di provarmi, onde, dopo essere stato con Lui compagno degli obbrobri e delle pene che soffrì disteso sulle vostre braccia, possa partecipare con Lui alla beatitudine di quel regno di cui voi siete la chiave. 3 Pater all’agonia di Gesù.

[da: Manuale di Filotea, del sac. G. Musso, XXX ed. Milano 1888]

L’UFFICIO DIVINO -II-

L’UFFICIO DIVINO -2-

J.-J.- Gaume, Catechismo di Perseveranza, vol. IV, Torino 1881]

Alle notti peccaminose del mondo la Chiesa ha contrapposto sante vigilie: i suoi angeli sono stati in adorazione davanti a Dio; hanno chiesto misericordia per i traviati; hanno allontanato dall’ovile addormentato i leoni ruggenti, più formidabili nelle tenebre che nel giorno; hanno a vicenda unito le proprie voci e lacrime a quelle degli Angeli per onorare la nascita e l’agonia del Dio di Betlemme e del Getsemani. Che resta loro da fare? La notte è passata; ecco l’aurora che indora coi primi raggi la sommità delle montagne; ecco gli augelli che salutano con i loro lieti gorgheggi lo spuntare del sole; ecco i fiori che schiudendo i loro calici esalano un profumo delizioso, che la brezza del mattino trasporta verso il cielo: si crederebbero migliaia d’incensieri d’oro e di perle accesi davanti a Dio. La natura è un tempio; ecco i musici, ecco l’incenso del sacrificio; tutto si agita, tutto sembra rinascere. Ma di nuovo, che cosa stanno per fare i figli di Dio, gli Angeli della preghiera? Stanno per mescolare la loro voce a quella della natura: l’uffizio del giorno incomincia. Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro, Compieta, sono le parti che lo compongono. Il Salvatore del mondo ha contrassegnato ciascun’ora del giorno, come quelle della notte con benefizi inestimabili: quindi nasce l’obbligo di benedirLo. Come quelle della notte, le ore del giorno assegnano all’uomo nuovi doveri, e fa di mestieri sollecitare la grazia per adempirli come si conviene. Tale è, generalmente parlando, lo scopo dell’uffizio del giorno; la sua antichità è la più remota [Durandus, lib. V, c. 5.], come ci accingiamo a dimostrare.

.I. Prima. — È questa la prima ora dell’uffìzio del giorno, ed ha il nome di “Prima” Perché era recitata al cominciare del giorno, cioè verso le sei della mattina, secondo l’antica maniera di dividere il tempo. Quest’ora è stata stabilita: 4° per onorare Nostro Signore coperto d’obbrobri dai Giudei e condotto davanti a Pilato; 2° per memoria del suo apparire ai discepoli sul lido del mare, dopo la risurrezione; 3° per offrire a Dio le primizie della giornata, come i Giudei gli offrivano le primizie della messe e dei frutti, per consacrarisi interamente a Lui. – La parte dell’uffizio che chiamasi Prima si compone dell’invocazione, “Deus in adiutorium”, del “Gloria Patri” seguito dall’Alleluia, d’un inno, di tre salmi, d’un’antifona, e d’un capitolo, d’un responsorìo, e di alcune altre preci. L’inno che noi cantiamo a Prima, e che già si cantava fino dal decimo terzo secolo [Durandus, lib. V c. 5], esprime a meraviglia i sentimenti che la fede deve eccitare in un cuore cristiano al nascere del giorno. Alla vista del sole materiale che viene ad illuminare il mondo fisico, noi supplichiamo il sole di giustizia e di verità a levarsi per noi, affinché camminando con la guida infallibile di sua luce evitiamo le tenebre e le insidie del demonio. Noi preghiamo questo sole divino ad essere Egli stesso il nostro condottiere. « Vedete voi queste pecore, dice uno dei nostri padri nella fede [Amalar. Fortunat., 1. IV, De Eccl. Offic., c. 2], le quali, nel corso della notte ricoverate nell’ovile, domandano di uscire all’aperta campagna sin dalla punta del giorno? Esse reclamano un pastore che le conduca ai pascoli, e le protegga dalle insidie dei lupi. Così noi, allorché l’aurora viene a chiamarci alla santa fatica, ci affrettiamo a domandare un maestro che c’istruisca, e un protettore che ci difenda. Abbiamo bisogno dell’uno e dell’altro, poiché senza di esso il lupo infernale verrebbe a disperdere il gregge in luoghi indifesi, e a sbranare le pecorelle ». – Per sfuggire agli agguati del demonio, la Chiesa ci rammenta ammirevolmente nei salmi di Prima, e nel Simbolo di sant’Atanasio, che bisogna vestire quella stessa armatura, che hanno portata tutti gli eroi cristiani: lo scudo della fede, l’elmo della speranza, la spada della carità. Per animarci con maggior efficacia questa attenta madre ne mette sotto gli occhi i combattimenti e i trionfi dei Santi. A Prima, si legge il Martirologio; esso è la storia cruenta, ma gloriosa dei nostri fratelli, che, essendo stati un giorno soldati come noi, si riposano adesso nel cielo sopra i loro immortali allori. – Dopo la lettura del Martirologio, l’officiante dice: “Ella è preziosa davanti a Dio!” — La morte dei suoi Santi, risponde il Coro; e allora in nome di tutti i suoi fratelli, l’officiante medesimo esprime il seguente piissimo voto: « Che la santa Vergine e tutti i Santi ci aiutino con le preghiere che essi per noi indirizzeranno al Signore, a divenir santi in tutte le cose, come è santo Quegli che ne ha chiamati alla perfezione ». Dopo questa preghiera, l’officiante ripete tre volte: Signore, venite in mio aiuto; e il Coro aggiunge: Signore, affrettatevi a soccorrermi. Questa trina ripetizione è destinata a ottener soccorso contro i nostri tre grandi nemici, il demonio, il mondo, la carne. Essa è seguita dal Gloria Patri, affine di ringraziare in nome di tutti i nostri fratelli l’augusta Trinità, mercé della quale la morte dei Santi divenne preziosa, e preziosa pure diverrà la nostra se vorremo. – Ma ohimè! vi sono delle cadute da temere, poiché la debolezza umana è estrema! Innanzi tutto domandiamo misericordia , e tre volte diciamo: Kyrie eleison, ovvero Christe eleison « Signore, Cristo, abbiate pietà di noi »; e per ottenere questa misericordia più sicuramente, noi recitiamo l’Orazione dominicale. La terminiamo supplicando il Padre celeste di dirigere i suoi figli (e i suoi figli siamo noi), e di eccitarci a dirigere i nostri (e i nostri figli sono i nostri pensieri e le nostre opere).

Terza. — Ella è questa la seconda ora dell’Uffizio diurno, la quale ha ricevuto questo nome perché era recitata alla terza ora del giorno, secondo l’antica maniera di computare. Ai dì nostri, Terza corrisponde alle nove ore del mattino. Prima e Terza son composte delle stesse parti, eccettuate le preghiere finali. – La Chiesa che col mezzo dei suoi sacramenti scolpisce ed imprime in qualche maniera la santità su tutti i nostri sensi, scrive ancora i suoi augusti misteri in ciascuna ora della giornata, e il suo Uffizio li richiama successivamente alla nostra adorazione e al nostro amore. Il Salvatore perseguitato dalle implacabili e sanguinose ostilità dei Giudei, attaccato alla colonna per ordine di Pilato, e crudelmente flagellato; lo Spirito Santo che discende sugli Apostoli, e dà vita alla Chiesa: tali sono gli avvenimenti memorabili che celebriamo con le preghiere di Terza, la quale, quanto all’origine, risale al paro delle altre ai tempi apostolici [Ignat., Epist. ad Trall.]. – In memoria della nuova legge, che fu scritta a caratteri di fuoco nel cuore degli Apostoli, si cantano alcuni salmi che celebrano la dolcezza e la perfezione di questa legge di grazia e di amore. L’inno rammenta eziandio la discesa dello Spirito Santo, al quale si porgono vive suppliche, affinché rinnovi in nostro favore le meraviglie del Cenacolo.

III. Sesta. — È questa la terza ora del l’Uffizio del giorno, e corrisponde al mezzodì. Si compone delle stesse parti e ha la stessa antichità della precedente! [Constit. Apostol., lib. VIII, c. 20]. Vi si ricordano delle grandi memorie, giacché quest’ora memorabile è consacrata da grandi avvenimenti. A Terza la Chiesa ci aveva condotti al pretorio, e in faccia di quella colonna insanguinata ella aveva aperte le nostre labbra a pregare. Qui, prendendoci per la mano, ne conduce al Calvario, e soffermandoci addita uno strumento di supplizio. Gesù pendente in croce, ecco il primo oggetto delle nostre preghiere e delle nostre meditazioni all’ora di Sesta. Cosi la Chiesa, penetrata di riconoscenza, ci fa cantare salmi che spirano un ardente amore. “Gli occhi miei si sono stancati nell’aspettazione della tua salute e delle parole di tua giustizia”.[Salmo CXVII1 in cui parlasi della venuta del Salvatore aspettato. A questo passo campeggia una magnifica armonia, che non è sfuggita alla sagacità dei nostri padri nella fede. Istruiti dalla tradizione, insegnano che fu alla sesta ora del giorno che Adamo si rese colpevole e perì mangiando il frutto dell’albero; sicché, per far coincidere la redenzione con la caduta, Gesù volle essere alzato nell’ora medesima sull’albero della nostra salute 8! [Quo tempore eversio fuit eodem rursus facta reparatio. Cyril. Hierosol., Catech. XVI. Teophilact., in Matth. ad ea verba : A sexta autem hora, etc. Ecco ancora alcune altre armonie: « Propter protoplastum Adam… (Chrislus) sexta hora in crucem ascendit, sexlo die sacculi , in sexta hora eiusdem millenarii, et sexta liebdomadis et sexta bora sexti diei, etc » . S. Anast.]. – E un altro ricordo eziandio è proposto alla gratitudine del cristiano, poiché fu appunto nell’ora di sesta che Pietro ebbe la chiara rivelazione della vocazione dei gentili, e che ricevé l’ordine di portare il Vangelo alle nazioni; benefizio inapprezzabile, del quale noi tutti in oggi esperimentiamo gli effetti preziosi. Forseché il Figlio di Dio confitto in croce, e Pietro che porta il Vangelo alle nazioni, non sono memorie più che bastanti per eccitare il nostro fervore e la nostra riconoscenza durante questa nuova ora?

Nona. — Questa che viene a continuare le riferite ammirabili memorie, è la quarta ora dell’Uffizio del giorno. Per noi è la terza ora di sera, e per gli antichi era la nona del giorno; dal che appunto ha sortito il nome. Ella contiene le stesse parti che le precedenti, e risale alla stessa antichità [Basil., in Regul. interrog. 34]. – La Chiesa si ritiene ancora sul grande teatro dei dolori ; il sole oscurato, la terra vacillante, il velo del tempio squarciato, l’Uomo-Dio spirante, il fianco del nuovo Adamo aperto dalla lancia del soldato, e che dà vita alla nuova Eva, vale a dire la Chiesa cattolica nostra tenera madre: ecco gli avvenimenti che quest’ora ci rammenta. Quali altri sarebbero più idonei a farci versare davanti a Dio lacrime e preghiere? I salmi delle brevi ore della Domenica ci offrono un’armonia sì bella, che non possiamo astenerci dall’esporla alla vostra ammirazione. Essa vi farà conoscere che tutto, tutto fino ad un iota, è disposto negli uffizi della Chiesa con una saggezza e una profondità di disegno che non potranno mai essere abbastanza encomiate. – Tutte le brevi ore di questo giorno son composte di due salmi, di cui il secondo è distribuito a Prima, a Terza, a Sesta e a Nona ; ed ogni divisione di questo salmo contiene sedici versetti. Per qual ragione questi due salmi soli? A che questi sedici versetti? 1 due salmi rammentano le due alleanze di Dio con gli uomini: l’antica e la nuova. I sedici versetti significano gli interpreti di questa doppia alleanza. Per l’antica i dodici minori profeti, e i quattro maggiori: per la nuova i dodici Apostoli e i quattro Evangelisti [Durandus, lib. V, c. 5]. – I salmi e gl’inni di codeste ore sono egualmente in accordo con le differenti ore del giorno nelle quali noi li recitiamo. Al levar del sole il principio; a Terza la continuazione; a Sesta la perfezione ; a Nona la fine della carità e della vita; giacché, pur troppo! la vita non è che un giorno!

  1. I Vespri. — I Vespri sono la quinta ora dell’Uffizio del giorno, e la loro antichità è uguale a quella della Chiesa [Constit. Apost., lib. VIII, c. 40]. – Oh! come a giusta ragione la madre nostra ha consacrato quest’ora alla preghiera! Quante memorie ne rammenta! Primieramente il sacrificio della sera offerto ogni giorno al tempio di Gerusalemme; quindi l’istituzione della santa Eucaristia; infine la deposizione dalla croce, e la sepoltura di Nostro Signore. Tali sono le ragioni, per cui la Chiesa desidera si vivamente che i fedeli stiano pregando durante quest’ora memorabile. – Ma conoscono essi forse il pregio della preghiera, sentono essi battere di riconoscenza il loro cuore quei cristiani di ogni età e di ogni condizione, che sdegnano d’assistere al Vespro? I Vespri, udiamo rispondere con empia leggerezza, i Vespri sono pei preti. Ma non è dunque per tutti i cristiani che è stata istituita la santa Eucaristia? Non dovete voi dunque niente a Dio per questo benefizio? Non è dunque per voi che Gesù Cristo è stato immolato? L’ora, in cui questi grandi miracoli sono stati operati, è dunque muta, insignificante, inefficace sul vostro cuore? Che fate voi dunque durante quest’ora memorabile, in cui lacrime ardenti dovrebbero sgorgare dai vostri occhi, e unirsi a preghiere anche più ardenti ? Ah! se voglio saperlo, interrogo le pubbliche piazze, i pubblici passeggi, le case da giuoco, li passatempi, ed essi mi rispondono pur troppo. E che? Non arrossirete giammai di ferire in tal modo la dignità del cristiano? O nostri padri nella fede! che cosa avreste pensato, se vi fosse stato detto che i tardi nipoti profanerebbero un’ora sì santa, un’ora commemoratrice di tanti benefizi! Vergogna a coloro che sentono la riconoscenza come un peso gravoso e difficile! I cuori che si rendono ingrati son cuori malvagi; e rassomigliano a quei frutti che il sole non può maturare, e che son privi perciò di sapore e di odore. Onta ai cuori servili, a quei pessimi cristiani che non si recano in chiesa alla mattina che spinti dal solo timor servile; mentre alla sera, allorché non vi è anatema e minaccia di peccato mortale, se ne dispensano affatto! – Per noi, cristiani docili, più i vespri sono abbandonati, più dobbiamo farci un dovere di assistervi; le nostre obbligazioni hanno da crescere in proporzione dell’indifferenza dei più. Rechiamoci al piede degli altari a pregare, a gemere, ad adorare, a ringraziare pei nostri ingrati fratelli; e noi fortunati, se potremo compensare colla nostra pietà il loro Salvatore e il nostro! – La bellezza dell’uffizio della sera basterebbe per sé sola a renderci assidui al medesimo. I vespri si compongono di cinque salmi, di cinque antifone, di un capitolo, di un inno, del Magnificat e d’una sola orazione, se per altro non si fa commemorazione di qualche festa speciale. – Questo numero cinque è stato stabilito per onorare le cinque piaghe di Nostro Signore, e per espiare i peccati che abbiamo commessi nel corso della giornata abusando dei nostri cinque sensi. – La tromba della Chiesa militante, la campana, risuonò tre volte: la prima per annunziare l’uffizio; la seconda per dirci che è tempo di partire; la terza per significare che l’uffizio comincia. Arrivati alla chiesa, il clero e i fedeli si raccolgono in sè stessi un breve istante, e preparano la loro anima alla preghiera, recitando il Pater e l‘Ave Maria, le quali due orazioni si dicono in ginocchio e in silenzio. Si dà principio col segno della croce, per invocare il soccorso della santa Trinità, e per confessare i misteri della Incarnazione e della Redenzione. La mano che nel tracciare il segno augusto si porta a quattro parti, ne dice che il Figlio di Dio è venuto a chiamare i suoi eletti, dispersi ai quattro angoli della terra. Quando dunque vedete l’officiante, dall’alto del suo seggio, fare il segno adorabile, rappresentatevi Gesù Cristo sulla croce in vetta al Calvario, colle braccia stese per accogliervi i figli di Adamo divenuti suoi, e tutti chiamare, tutti stringere al suo cuore con questa parola d’ineffabile amore: “Sitio”; Io ho sete, sete di voi ». Facendo il segno della croce, il sacerdote, stando rivolto verso l’altare, dice: “Deus in adiutorium meum intende”: « O Dio, venite in mio aiuto »; e i fedeli egualmente in piedi e volti verso l’altare, per esprimere che la confidenza è tutta intera nei meriti di Gesù Cristo, rispondono con effusione, “Domine, ad adiuvandum me festina”: «. Signore, affrettatevi a soccorrermi ». – Quindi per maggiormente testimoniare la gratitudine, che loro ispira questa celeste protezione, essi cantano con entusiasmo di amore il “Gloria Patri, etc”: «Gloria al Padre, ecc. ». La loro gioia ed il loro ardore nel pubblicare le lodi del loro Padre che è nei Cieli, si manifestano con queste parole: Alleluia, Alleluia: « Allegrezza, felicità ». – Nel corso della quaresima, tempo di digiuno e di penitenza, l’ “Alleluiaè surrogato da queste parole, che hanno lo stesso senso: “Laus tibi, Domine, rex aeternae gloriae”: « Lode a voi, o Signore, eterno re della gloria ». – Detta appena l’antifona, che è destinata a infiammare la nostra carità, un corista intona il primo salmo: “Dixit Dominus Domino meo” « Il Signore, Padre eterno, Dio onnipossente, ha detto a Gesù Cristo, suo Figlio, e mio Signore NEL GIORNO DELLA SUA GLORIOSA ASCENSIONE: Siedi alla mia destra».In questo magnifico salmo la Chiesa canta la generazione eterna del Figlio di Dio, il suo sacerdozio’ egualmente eterno, come anche il suo dominio eterno e assoluto sul mondo, divenuto la conquista della Croce. Ma che? i vespri non son forse destinati ad onorare i funerali di Gesù Cristo? Come avviene dunque che la Chiesa, questa tenera Sposa, inginocchiata, per cosi dire, sulla tomba del suo divino Sposo, fa risuonare soltanto all’orecchio de’suoi figli canti di gioia, ed inni di trionfo e d’immortalità? Ah! ciò avviene perch’ella vede la vita uscire dal seno della morte; vede la vittoria scaturire dai patimenti! E questo nobile pensiero non sarà per tutti noi un’eloquente lezione? Il secondo salmo dei vespri della domenica è il “Confitebor”: « Io vi loderò, o Signore ». Esso è come una continuazione del primo. Per la bocca di David, la Chiesa canta i benefizi che ne procura il regno del suo divino Sposo, e celebra in particolare l’istituzione del divino banchetto, al quale sono invitate tutte le generazioni che vengono in questo mondo!Che cosa rimane adesso, se non che descrivere la felicità di quelli, che si sottomettono all’impero di Gesù Cristo? E ciò fa la Chiesa nel salmo, “Beatus vir qui timet Dominum”: « Felice l’uomo che teme il Signore ». Allato alla descrizione semplice e affettuosa della felicità dell’uomo giusto che teme Iddio e osserva i suoi comandamenti, la Chiesa pone il quadro del peccatore. Durante la sua vita, egli è tristo e disgraziato; al momento della morte, digrigna i denti e irrigidisce per lo spavento; defunto, egli entra nel luogo dei supplizi, alla porta del quale egli lascia la speranza: la speranza di uscirne mai più! La Chiesa nel salmo precedente ha ricordato ai giusti che il Signore li renderà felici, se porteranno il suo amabile giogo. Che di più naturale che l’esortarli adesso a cantare la loro felicità? Ed ecco che questa tenera madre, appropriandosi la voce del Re profeta, li esorta a lodare e a benedire la grandezza, la potenza, e soprattutto l’ammirabile bontà del loro Padre celeste : “Laudate, pueri, Dominum, laudate nomen Domini” : « Miei figli, lodate il Signore, lodate il nome del Signore ». Questo invito provoca uno slancio di amore; e tutte le bocche e tutti i cuori si uniscono per rispondere: «Sì, che il nome del Signore sia benedetto: fin da ora e fin ai secoli dei secoli »: “Sit nomen Domini benedictum, ex hoc nunc et usque in sæculum”; e nel seguito di questo ammirabile salmo ognuno proclama a gara le ragioni particolari che ha di benedire il Dio buono, il Dio che veglia sul povero e sul debole, come sopra la pupilla degli occhi proprii.Dalle ragioni personali che muovono ciascuno di noi, e tutti gli uomini in generale, a benedire Iddio e ad amarLo, la Chiesa passa alle ragioni riguardanti la grande famiglia cattolica. A meno che non si chiuda in petto un cuore di marmo, questi benefizi sono stati tali, che dobbiamo struggerci d’amore al ricordarli. Tale è l’oggetto del quinto salmo: “In exìtu Israel de Ægypto, domus Jacob de popolo barbaro”: « Allorché Israele uscì dall’Egitto, e la casa di Giacobbe si partì da un popolo barbaro ». Qui la Chiesa ne fa risalire più che tremila cinquecento anni addietro, e fermandoci sulle rive del mar Rosso, e nel deserto del Sinai, discopre agli occhi nostri il quadro splendidissimo delle meraviglie e dei prodigi che Dio operò per liberare Israele dall’Egitto, e per farlo entrare nella Terra promessa. E sotto il simbolo di questi miracoli dell’Egitto e del Mar Rosso, del Deserto e del Sinai, essa ce ne fa vedere dei più gloriosi e dei più consolanti, operati in nostro favore; vale a dire la nostra liberazione dal demonio, dal peccato, dalla morte, dall’inferno, mediante il Battesimo. Ella ci mostra, in quelli nascosta, la fede che ne conduce attraverso del deserto della vita, come la colonna conduceva Israele; la legge di grazia discendente dal Calvario, come la legge antica discendeva dal Sinai, il pane degli Angeli, nutrimento dell’anima nostra, come la manna nutrimento degli Ebrei; e questi miracoli della legge nuova ci son presentati essi stessi come un contrassegno dei miracoli più grandi ancora, per mezzo dei quali il Signore vuol condurci dal deserto della vita nella celeste Gerusalemme: tali sono i benefici che la Chiesa ci ricorda. Quindi, come Davide, paragonando Dio onnipotente e forte agli Idoli deboli ed insensati delle nazioni gentili, questa tenera madre ci stimola, con tutto l’affetto e tutta l’estensione della sua carità del suo zelo, ad abiurare il culto degli dei menzogneri per attaccarci irrevocabilmente al Signore, che ci ha dato contrassegni sì luminosi della sua grandezza, della sua potenza e della sua bontà. – Questo salmo, al quale la poesia propina non ha nulla da paragonare, è seguito dall’Antifona e dal Capitolo. Il Capitolo delle domeniche ordinarie è tolto dall’Epistola di S. Paolo agli Efesini: “Bexedictus Deus”, ecc.: « Benedetto Dio e Padre del Signor Nostro Gesù Cristo, il quale: ha benedetti con ogni benedizione spirituale del Cielo in Gesù Cristo, siccome in Lui ci elesse prima della fondazione del mondo, affinché fossimo santi ed immacolati nel cospetto di lui per carità » (Ephes. 1,3,4.). – L’officiante legge in piedi il Capitolo, e li indirizza ai fedeli che hanno cantato le lodi a Dio, affine d’incoraggiare il loro zelo, e di dare alla pietà un nuovo alimento.Questa attitudine, voluta dal decoro, conviene alle sante parole che egli pronunzia, ed esprime il rispetto che porta ai membri di Gesù Cristo che l’ascoltano. L’adunanza ascolta con riconoscenza questa breve esortazione, e risponde: “Deo gratias” : « Sien grazie a Dio »Ciò fatto s’intona l’inno: l’inno, che è espressione di amore, di coraggio, d’incitamento a compiere gli ammaestramenti ricevuti; l’inno è il canto di un esercito che s’incammina alla pugna. Esso varia secondo la festa, affinché sempre appalesi sentimenti analoghi alla circostanza. Il regno di Gesù Cristo cominciato sopra la consumato nel cielo, ecco ciò che la Chiesa canta nella domenica; quindi l’inno dei vespri della domenica è un lungo sospiro verso il cielo. Felice il cristiano che sa penetrarsi dello spirito di questa santa preghiera! Il suo cuore prova una consolazione e una felicità che il mondo e i suoi piaceri non potrebbero dargli! – La Chiesa ha cantato i benefizi del Signore, ha veduto nel passato la sua Ideazione dal demonio, il proprio stabilimento sulla terra, i favori infiniti, di cui è stata oggetto: ha veduto nell’avvenire il cielo schiuso per riceverla e compiere la sua felicità eterna. Come esprimerà tutta la sua riconoscenza? Per non soccombere sotto il peso, cerca un interprete de’ sentimenti che prova; ed eccolo. In luogo di una sua, s’alza una voce, al suono della quale il cielo e la terra debbono far silenzio; una voce sì soave, sì pura, sì melodiosa, e nello stesso tempo sì possente, che rallegra infallibilmente il cuore di Dio; questa voce è quella dell’augusta Maria, della madre dei cristiani. Ecco pertanto la dolce Vergine di Giuda, la madre di Dio, la Vergine per eccellenza, la Vergine del Cielo, che sta per esprimere la riconoscenza della Vergine della terra, la casta sposa dell’Uomo-Dio, la Chiesa cattolica. – S’intona il Magnificat, quel canto sublime, slancio d’ineffabile amore, poema in dieci canti, profezia magnifica, che valse a Maria il titolo glorioso di Regina dei profeti: «La mia anima glorifica il Signore, ecc. ». Si sta ritti durante il Magnificat, per rispetto alle parole di Maria, e perché questa nobile attitudine ben dimostra la gioia e il contento di un cuore colmo di grazie, e disposto a tutto intraprendere per testimoniare al suo benefattore il sentimento della gratitudine. Nel tempo del Magnificat l’officiante esce dal suo posto e va rivestirsi del piviale. Bentosto preceduto da un chierico che porta l’incensiere, egli sale all’altare, prende la navicella dell’incenso, ne mette sul fuoco, e dice le parole: “Ab illo beneficaris, in cuius honore cremaberìs” : « Sii benedetto da Colui, in onore del quale sarai consumato ». Pronunciando tali parole, fa il segno della croce per ricordare che pei soli meriti di Gesù Cristo ogni benedizione si spande sulla terra; quindi egli prende il turibolo dalle mani del chierico; incensa tre volte la croce posta sopra il tabernacolo, prima a destra, poscia a sinistra, infine da ciascuna parte, come per circondare l’altare, figura di Gesù Cristo, col profumo che dal fuoco esala e che è simbolo della fede dei cristiani e del fervore delle loro preghiere. – Terminata questa cerimonia, il chierico incensa il celebrante, e con ciò gli rende onore come al rappresentante di Gesù Cristo. Il prete dice in seguito: “Dominus vobiscum”; « Che il Signore sia con voi »; alle quali parole i fedeli rispondono: “Et cum spiritu tuo”; « E che egli sia col tuo spirito ». Seguita poscia immediatamente l’orazione della messa chiamata Colletta, perché riunisce in qualche modo le preghiere indirizzarte a Dio. Dettosi di nuovo dal sacerdote “Dominus vobiscum”, augurio di pace e di carità, i chierici invitano i fedeli a lodare e a benedire il Signore con queste parole: “Benedicamus Domino”; « Benediciamo il Signore »; e tutti gli assistenti rispondono: “Deo gratias” : « Noi ringraziamo Iddio ». Così termina questa parte dell’uffizio della sera. Si può egli immaginare qualche cosa più bella, più completa, meglio ordinata?

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio d’avermi istruito nelle sante cerimonie del vostro culto ; fate che esse accendano in me lo spirito della fede e della preghiera. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso per amor di Dio, ed in prova di questo amore io assisterò regolarmente al vespro.

Compieta. — Colmo di benefizi l’uomo ha espresso a Dio la propria gratitudine; egli è animato da ottime disposizioni, la terra gli sembra trista, la vita pesante, i suoi sospiri sono pel cielo; ma il suo esilio non è finito, e più d’una prova gli resta a subire. Ormai il giorno nel suo tramonto annunzia l’avvicinarsi della notte, tempo funesto sotto ogni rapporto; che l’uomo, soldato stanco, va a dormire, ma il demonio non dormirà, ed al contrario moltiplicherà le sue insidie. Egli, leone che rugge, va attorno con maggior furore per rapire e sbranare qualche pecorella. Ecco quale addiviene la posizione dell’uomo al cadere del giorno! Se venisse a domandarvi che cosa deve fare per evitare gli agguati del nemico e conservarsi fedele a Dio fino al ritorno della luce, quale consiglio gli dareste voi? Aspettando la vostra risposta, io vi spiegherò i suggerimenti della Chiesa; poscia voi mi direte se conoscete alcun che di meglio. « Mio figlio, essa gli dice, gettati tra le braccia del tuo Padre celeste; sii sobri, e vigilante; prega il tuo angelo custode e i santi che amano di proteggerti; sopra tutti prega Maria di vegliar su di te come una tenera madre veglia sul suo figlio che dorme: riposa in pace sotto la potente loro protezione, e non potrà nuocerti il demonio ». E per fortificare nel cristiano questi vivi sentimenti di una ingenua confidenza la Chiesa gli fa recitare Compieta. [Compieta significa complemento, poiché quest’Ora compisce l’Uffizio]. – Ecco la prova di ciò che abbiam detto nella spiegazione di questa ultima ora dell’uffìzio. – Compieta comincia con queste parole: Convertiteci, o Dio, voi che siete il nostro Salvatore, e allontanate da noi la vostra collera. La sola cosa che possa far allontanare Dio da noi e impedirgli d’avere pel nostro riposo quella cura paterna che domandiamo, si è il peccato. Ecco perché si comincia dal pregarlo di purificarcene e di convertirci di tutto cuore; noi Gli diamo il più potente motivo a ciò, ricordandogli che è il nostro Salvatore. – Il primo salmo ne fa ricordare il Re- Profeta che esprime al Signore la propria gratitudine, vivamente penetrato da una effusione di carità pei benefizi ricevuti, e che implora il soccorso contro i suoi nemici. – È in Dio riposta la sua fiducia, e sul seno paterno di lui assolutamente si riposa. Qual cantico poteva star meglio sulla bocca del cristiano, di questo nuovo Re-Profeta, il quale dopo aver pugnato contro i suoi nemici e dopo aver terminata la sua giornata con l’aiuto di Dio, cerca in un riposo necessario di prender nuove forze e nuovo vigore per combattere l’insidiatore della sua salute? Tale è il senso del salmo Cum invocarem: « Allorché io ho invocato questo Dio autore della mia giustizia egli mi ha esaudito ». « Miei figli, invocate dunque il Signore, ne dice la Chiesa in questo primo cantico, e la vostra speranza non andrà fallita ». – Volete sapere in qual modo Iddio protegga l’uomo, che spera in Lui? Il secondo salmo ve ne istruisce. Esso ci mostra effettivamente l’uomo che abita sotto la custodia dell’Altissimo e trova quiete inalterabile nella protezione del Dio del cielo; il demonio e i suoi agguati, gli empi e le loro macchinazioni nulla possono a danno del giusto: “Qui habitat in adiutorio Altissimi, in protectione Dei coeli commorabitur”: « Quegli che si appoggia al braccio dell’Onnipotente, vive in pace sotto la protezione del Dio del cielo ». – Ora che resta? Un avviso da darsi a noi, ma un avviso importantissimo; cioè di stare in guardia, e se ci svegliamo nella notte, di volger subito il nostro cuore a Dio. Tale è l’oggetto del terzo salmo: “Ecce nunc benedicite Domino”: « Adesso dunque benedite il Signore ». Se così è, conclude la Chiesa: “Dall’alto della montagna di Sion, quel Dio che ha fatto il cielo e la terra, vi benedirà”. Tutti i cuori e le voci si riuniscono per cantare l’antifona; per assicurar cioè che saranno fedeli a queste sagge raccomandazioni L’inno che segue è un lungo sospiro verso il cielo, ed è come il principio di quella preghiera notturna che non mancheremo di fare, se siamo colti dalla veglia insonne. L’officiante, recitando il capitolo subito dopo che è cantato l’inno, soggiunge questa bella preghiera tolta dal profeta Geremia: “Tu autem in nobis es Domine, et nomen sanctum tuum invocatum est super nos, ne derelinquas nos, Domine Deus noster”: « Ma tu, o Signore, sei con noi, ed il tuo santo nome fu sopra di noi invocato; non abbandonarci, o Signore Dio nostro ». [4 I Thess. V, 5]. – I fedeli ringraziano il sacerdote, e benedicono il Signore con queste parole: Deo gratias: « Noi ne ringraziamo Iddio ». – Qui comincia tra tutti questi figli della stessa famiglia, riuniti di presente ai piedi del loro Padre comune, e fra poco dispersi nelle loro particolari dimore, un colloquio, una specie d’addio, di buonanotte cristiana, la cui tenerezza e la cui mirabile semplicità non può con parola venire espressa: spetta al cuore di comprenderla. – Un fanciullo del coro canta colla sua voce pura come quella di un angiolo: “In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum” – « affido l’anima mia ». – I fedeli rispondono: In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum; « Tra le vostre mani, o Signore, affido l’anima mia ».II fanciullo del coro : “Redemisti me, Domine, Deus veritatis”: « Voi mi avete redento, o Signore, Dio di verità ». L’angiolo della terra espone a Dio i più potenti motivi di proteggerci; noi gli apparteniamo, Egli ci ha ricomprati a prezzo infinito, Egli è il Dio di verità, fedele alle sue promesse; Egli adunque non può mancare di proteggerci. – I fedeli: “Commendo spiritum meum”: « Affido l’anima mia ». – Il fanciullo del coro : “Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto”; « Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo ». – I fedeli: “In manus tuas, Dumine, commendo spirito meum”; « Tra le vostre mani, o Signore affido l’anima mia ».Il pensiero dell’esilio e dell’avvicinarsi dei pericoli della notte, diffonde in questa risposta una malinconia che non permette di terminare il Gloria Patri: « Come era al principio, e ora, e sempre, e nei secoli dei secoli ». Queste parole sono riservate alla vera patria: la Chiesa della terra non le fa udire che nel momento delle solenni allegrezze. Il fanciullo del coro: “Custodi me, Domine, ut pupillam oculi”: « Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio ». I fedeli : “Sub umbra alarum tuarum protege me”: « Proteggimi all’ ombra delle tue ali ».Ditemi, per fede vostra, conoscete voi qualche cosa di più bello che questo colloquio? Qualche cosa che meglio dipinga il candore di un fanciulletto tra le braccia del padre suo? Questo figlio prediletto, sicuro che il Dio che regna nel cielo l’ama con la tenerezza di un padre, non ha altro desiderio che di abbandonare questa terra di esilio, questa valle di lagrime, e di giungere a fruire della pace nel seno del Signore. Ed ecco la madre sua, la Chiesa cattolica, sempre così bene ispirata, che gli mette in bocca le parole del vecchio Simeone, il quale dopo aver veduto la salute d’Israele, non domandava altro che la morte: “Nunc dimittis”: « Lascia ora , o mio Dio, partire in pace il tuo servo ». Segue una preghiera, che ammirabilmente riassume le domande indirizzate a Dio nella Compieta. – Ecco dunque la famiglia cristiana sul punto di separarsi. Quegli che sulla terra ne è capo e padre non può lasciare i figli senza augurar loro le più abbondanti benedizioni; quindi il sacerdote non contento dell’ordinario saluto, “Dominus vobiscum”: « Che il Signore sia con voi », ha ricorso ad espressioni più toccanti, e che meglio palesino l’affezione che porta ad essi, non che il desiderio ch’Egli ha di vederli felici. Esso dice : “Benedicat et custodiat nos omnipotens et misericors Dominus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus. Amen”: « Che ci benedica e ci custodisca l’onnipotente e misericordioso Signore, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Così sia ».Prima di partire, tutti insieme salutano un’ultima volta la loro tenera Madre che è in cielo; essi la supplicano di volgere sui figli suoi gli sguardi della sua misericordia, e di aprir loro le sue braccia materne. Qual altro asilo infatti è più sicuro del seno di una madre? E allora voi udite le vòlte del tempio echeggiare a vicenda della Salve Regina, dell’Alma Redemptoris, dell’Ave Regina Coelorum, che gli angioli ascoltano con gioia e vanno a ripetere sulle loro arpe d’oro nella celeste Gerusalemme ai piedi della Vergine piena di grazia, nostra madre e loro regina.Andate adesso, o diletti figli, dormite in pace, il rimorso non turberà il vostro sonno, non angustierà l’anima vostra. « Per tal modo la domenica scorre giuliva per quelli che sanno veramente santificarla! la preghiera, la carità, gioie innocenti, familiari riunioni, diletti pacifici l’hanno abbellita; e quando questa giornata è finita, quando con tutti gli altri giorni va a cadere nell’abisso del passato, vi scende luminosa per le buone opere che ha fatto compire e profumato dall’incenso bruciato davanti agli altari » [Quadro poetico delle Feste Cristiane, del Visconte Walsh]. – Diamo termine a ciò che riguarda la compieta, aggiungendo che questa ultima ora dell’uffizio diurno si trova accennata negli antichi Padri della Chiesa [Basii., in Regul. interr. 37. — Clem. Alex., lib. II io. D. Paedag., c. 4. — Isid., De Offic. Eccles., lib. I , cap. 21]. L’uso di pregare prima di prendere il consueto riposo sembra stabilito dalla natura stessa. – La Chiesa l’ha consacrato, e ordinandoci di ringraziare Dio alla fine della giornata, ella propone alla nostra adorazione il Salvatore messo nel sepolcro, di maniera che nel suo uffizio quotidiano ella onora il suo divino Sposo dalla sua nascita fino alla sua sepoltura. Che bel soggetto di meditazione pei suoi figli! Che mezzo ammirabile di renderli quali devono essere, cioè altrettanti Gesù Cristo [Christianus, alter Christus].

Uso del latino. — La Chiesa offre a Dio tutte le ore del suo uffizio in una lingua ignorata oggi giorno dalla pluralità dei fedeli; ed essa a Lui le indirizza cantando. È conveniente di farvi ammirare in questo doppio uso la profonda sapienza della madre vostra. E primieramente perché si usa la lingua latina nelle pubbliche preghiere? – 1° Per conservare l’unità della fede, colla nascita del Cristianesimo, il servizio divino si faceva in lingua volgare nella maggior parte delle chiese. Ma anche le lingue, come tutte le umane cose, sono soggette a mutazioni. La lingua francese, per esempio, non è più la stessa di quella di duecento anni fa; molte parole sono antiquate, altre han cangiato senso. Il giro delle frasi differisce tanto, quanto le nostre mode differiscono da quelle dei nostri avi . Ma una cosa deve restare immutabile, e questa si è la fede; onde per metterla al coperto da questa perpetua instabilità delle lingue viventi, la Chiesa cattolica impiega una favella costante, una lingua, che, non essendo più parlata, non è più soggetta a cangiarsi. L’esperienza ne mostra che la Chiesa è stata, qui come dappertutto, diretta da una sapienza divina. – Osservate infatti ciò che accade ai protestanti: essi hanno voluto impiegare nelle loro liturgie le lingue viventi, ed ecco che sono incessantemente obbligati a rinnovare le formule, a ritoccare le versioni della Bibbia; ed eccovi alterazioni infinite! Se la Chiesa li avesse imitati sarebbe stato necessario che ad ogni cinquant’anni si riunissero i concilii generali per redigere nuove formule circa l’amministrazione dei sacramenti. – 2° Per conservare la cattolicità della fede. L’unità di favella è necessaria per mantenere un legame più stretto e una comunicazione di dottrina più facile tra le differenti Chiese del mondo, e per renderle più stabilmente attaccate al centro dell’unità cattolica. Togliete la lingua latina, ed ecco che il sacerdote italiano che viaggia in Francia, o il sacerdote francese che viaggia in Italia non può più celebrare i santi misteri, né amministrare i sacramenti. Questo è appunto ciò che accade al protestante; fuori della sua patria, egli non può più partecipare al culto pubblico. – Un cattolico non è fuor di paese in alcuna delle contrade della Chiesa latina. – Sia lode pertanto ai sovrani Pontefici, che non hanno trascurato verun mezzo per introdurre ovunque la liturgia romana; sicché l’uomo imparziale scorge qui pure una prova novella del loro luminoso zelo per la cattolicità, carattere augusto della vera Chiesa. Ohimè! se i Greci e i Latini avessero avuto uno stesso linguaggio, non sarebbe stato sì facile a Fozio e ai suoi aderenti di trascinare tutta la Chiesa greca nello scisma, attribuendo alla Chiesa romana errori e abusi, di cui non fu colpevole giammai! 3° Per conservare alla Religione la maestà che le conviene. Una lingua dotta, e che è intesa soltanto dagli uomini istruiti, ispira più rispetto del gergo popolare. I più santi misteri parrebbero forse ridicoli, se fossero espressi in sermone troppo famigliare. E questo è cosi vero, che gli stessi protestanti, nemici giurati della lingua romana, se ne sono accorti come gli altri; ma piuttosto che rinunziare ai loro anticattolici pregiudizi, han voluto divenire incoerenti a sé stessi, ed hanno fatto tradurre l’uffizio divino in francese. A meraviglia : ma i Bassi-Bretoni, i Piecardi, gli Alvergnesi, i Guasconi non avevano forse egual diritto di udire l’uffizio divino nei loro dialetti, come i Calvinisti di Parigi di udirlo in francese? Perchè mai i riformatori, così zelanti per l’istruzione del basso popolo, non hanno tradotto la liturgia della santa Scrittura in tutti questi dialetti? Non avrebbe ciò a parer loro contribuito a render la Religione più rispettabile? [Bergier, art. Langue]. Al contrario, la lingua greca in Oriente, la lingua latina in Occidente, doppio idioma del popolo-re, conservano qualche cosa della maestà romana, che conviene perfettamente alla maestà molto più grande della Chiesa cattolica. A una Religione padrona del mondo la lingua dei dominatori del mondo, come a una dottrina immortale una lingua invariabile. Ma se la Religione e la ragione debbono ringraziare la Chiesa cattolica per aver adottate le lingue greca e latina, le scienze non le debbono minor gratitudine. Immortalando la loro favella, la Chiesa ha rese immortali le letterature dei Greci e dei Romani, siccome i Papi hanno salvato, santificandoli, i monumenti dei Cesari. Senza la croce che le è soprapposta, da lungo tempo la colonna Traiana non sarebbe più in piedi. – Del resto, non è vero, che per l’uso di una lingua morta i fedeli si trovino privati della cognizione di quello che è contenuto nella liturgia. Anziché interdir loro questa conoscenza, la Chiesa raccomanda ai suoi ministri di spiegare al popolo le differenti parti del santo Sacrificio, e il senso delle pubbliche preghiere. [Conc. Trid., sess. XXII, c. VlII]. – Di più ella non ha assolutamente proibito le traduzioni delle preghiere della liturgia, per le quali il popolo può vedere nella sua lingua quello che i sacerdoti dicono all’altare. Non è dunque vero, come ne l’accusano i protestanti, ch’ella abbia voluto nascondere i suoi misteri: no, ella ha solamente voluto mettersi al coperto dalle alterazioni, conseguenza inevitabile dei cambiamenti di linguaggio [Bona, Rer. Liturg., lib. I , c. V, p. 53].

Uso del canto. — Dall’idioma della Chiesa cattolica passiamo al suo canto ed esponiamone rapidamente l’origine, l’uso, la bellezza. Il canto è naturale all’uomo, e si rinviene presso tutti i popoli; il canto è essenzialmente religioso, e fin dal principio si vede da per tutto impiegato nei culto divino. Quest’accordo universale prova che il canto è gradevole al Signore, e che è un mezzo legittimo di rendergli una parte del culto che Gli dobbiamo. Ma che cosa è il canto? Esso, risponde un antico e pio autore, è il linguaggio degli angeli [Durandus, lib. V, c. 11]; forse è il linguaggio che l’uomo parlava primi della sua caduta. In questa ipotesi, la nostra attuale parola non sarebbe che un avanzamento di quella parola primitiva. * [Annuali di Filosofia Cristiana, an. 1830]. – Essendo l’uomo stato interamente degradato dal peccato originale, si comprende che la sua favella abbia dovuto subire una degradazione corrispondente. Almeno sembra che il canto sarà il linguaggio del cielo, o dell’uomo interamente rigenerato, poiché non parlasi che di canti e d’armonie tra i felici abitanti della celeste Gerusalemme. Checché ne sia di queste congetture, il canto sarà sempre l’espressione viva e misurata dei sentimenti dell’anima: il suo potere è magico, ed è questo un altro mistero. – Per ricordare all’uomo la sua lingua primitiva, o per insegnargli quella che deve parlare in cielo, la Religione ha consacrato l’uso del canto nei suoi divini esercizi. Ella non vuole che gli uomini si adunino al piede degli altari senza parlare il linguaggio degli Angeli, o la lingua dell’innocenza. L’uomo esiliato ri trova nei nostri templi l’idioma e il cammino della sua patria: re decaduto, quivi pure gli è dato di balbettare la lingua che parlò nei giorni della sua felicità. Si può ideare un insegnamento più utile, un pensiero più ammirabile? Il canto arreca ancora altri vantaggi: esso muove il cuore e lo eccita alla divozione [S. Aug., Confess. lib. VI]; scaccia la tiepidezza nelle pratiche religiose, infonde una santa letizia e inspira alacrità nella recita dell’uffizio divino, che senza ciò potrebbe talvolta sembrar lungo, e ingenerare ben anche della noia [S. Basil., In Psal. I. — Lactant., lib. VI, cap. 21. — S. Chrys., In Psal. 41]; egli è come una professione solenne di fede e di amore, mercé della quale ci rechiamo a vanto d’invocare il Signor Nostro, e di celebrare le sue lodi senza tener conto dei sarcasmi e delle bestemmie dell’empietà [Ruff, Hist., lib. X , c. 35, 37. — Theodoret., lib. III, c. I]; finalmente dissipa le suggestioni del demonio, ci merita i favori del cielo, e rende propizio lo Spirito Santo, come apparisce in moltissimi luoghi delle sante Scritture [Reg. passim. — Daniel. III]. – L’uomo dunque canta, e la Chiesa canta con lui, mostrandosi anche in questo l’erede fedele di tutto ciò che vi ha di vero, di bello, di buono, nelle tradizioni dell’universo, poiché tutti i popoli hanno cantato. Noi non parleremo dei pagani: essi avevano pervertito l’uso del canto: in luogo di celebrare il Dio della natura, essi cantavano i delitti e le avventure scandalose delle loro false Divinità. – Gli Ebrei appena furono riuniti in corpo di nazione, seppero abbellire cogli accenti della voce le lodi del Signore. Chi non conosce i cantici sublimi di Mose, di Debora, di David, di Giuditta, dei profeti? David non si limitò a comporre i salmi, ma stabilì cori di cantori e di musici per lodar Dio nel tabernacolo. Salomone suo figlio fece osservare l’uso medesimo nel tempio, ed Esdra lo ristabilì dopo la schiavitù di Babilonia. – Fin dall’origine del Cristianesimo, il canto fu ammesso nell’uffizio divino, quando specialmente la Chiesa acquistò la libertà di dare al suo culto la magnificenza e il lustro conveniente, in ciò autorizzata dall’esempio di Gesù Cristo e degli Apostoli. La nascita di questo divino Salvatore era stata annunziata ai pastori di Betlemme dai cantici degli angioli. Son noti quelli di Zaccaria, della santa Vergine, del vecchio Simeone; e il Salvatore stesso, durante la sua predicazione, gradì che le moltitudini del popolo venissero incontro a Lui e l’accompagnassero nella sua entrata in Gerusalemme, cantando: Osanna! Sia benedetto colui che viene in nome del Signore, benedetto il regno, che viene, del padre nostro Davide: Osanna nel più alto dei Cieli [Marc XI, 10], e continuassero così fino nel Tempio. San Paolo esorta i fedeli a eccitarsi mutuamente alla pietà con inni e cantici spirituali: “Parlando tra di voi con salmi ed inni e canzoni spirituali, cantando e salmeggiando, coi vostri cuori al Signore” [Ephes. V, 19], e cantava egli stesso nella sua prigione di notte con Sila. – I nostri padri nella fede misero in pratica le lezioni del grande apostolo. Plinio il giovane, avendoli interrogati per sapere che cosa operassero nelle loro adunanze, essi gli risposero, che si riunivano la domenica, per cantar inni a Gesù Cristo,come a un Dio [Epist. XCVIl. — Veggansi pure i Concili di Laodicea, c. XV; di Cartagine, IV, can. 10; di Agide, can. 21; di Aix, can. 152, 135, ecc.]. Lo stesso è avvenuto in tutta la serie dei secoli. I più grandi uomini, che la Chiesa abbia prodotto e la terra ammirato, annettevano al canto una tale importanza, che non disdegnavano di regolarlo da loro stessi e d’insegnarlo agli altri; testimoni di ciò noi abbiamo sant’Atanasio, san Crisostomo, sant’Agostino, sant’Ambrogio, san Gregorio papa. Sant’Ambrogio che regolò il canto della Chiesa di Milano in un tempo in cui i teatri del Paganesimo sussistevano tuttavia, evitò accuratamente d’imitarne la melodia, al che egualmente provvide san Gregorio per la chiesa di Roma, benché questi, riformando il canto in un secolo in cui erano scomparsi i teatri pagani, non trovasse veruno inconveniente a introdurre nel canto ecclesiastico melodie più piacevoli, ma tali per altro che non potessero eccitare alcuna pericolosa rimembranza. – Da ciò è derivata la distinzione tra il canto Ambrosiano e il canto Gregoriano. Il primo è più grave, il secondo più melodioso; il primo è tuttora in uso nella Chiesa di Milano, il secondo è diffuso in una gran parte della Cristianità. San Gregorio prese da tutte le Chiese ciò che vi era di meglio, appoggiandosi sopra il canto degli antichi Greci; egli scelse i mottetti che più gli piacquero, li modificò col suo gusto che era squisito, e li rese ad esprimere con maggior leggiadria i misteri lieti o dolorosi, la dolce tristezza della penitenza o la felicità d’una vita piena di virtù. – Ad esempio di David, Pipino re di Francia, ma specialmente Carlo Magno suo figlio, diedero molte cure al canto religioso. Avendo osservato che il canto Gallicano era meno dilettevole di quello di Roma, mandarono in quella capitale del mondo cristiano de’ chierici intelligenti affinché studiassero e imparassero il canto di san Gregorio, cui ben presto introdussero nelle Gallie. Non però tutte le Chiese di Francia l’adottarono uniformemente alcune non ne accolsero che una parte e lo mescolarono con quello che era anticamente in uso. È questa la cagione della differenza che esiste tra il canto delle diverse diocesi ‘ Leboeuf, Trattato storico del canto, c. 3].

Bellezza del canto. — Tuttavia questo canto, quale è oggi, quantunque abbia fatto grandi perdite nel passare pei secoli barbari, conserva tuttora bellezze di primo ordine, ed è, per l’uso cui è applicato, superiore di molto alla musica. Anche non aiutato da ritmo o misura offre agl’intelligenti imparziali un carattere di grandezza, una melodia piena di nobiltà, e una feconda varietà d’inflessioni. Vi ha egli infatti cosa più sublime del canto solenne del Prefazio e del Te Deum? Che di più commovente delle lamentazioni di Geremia, e più giulivo degl’inni di Pasqua? Ove trovare concenti più maestosi del Lauda Sion, o più terribili del Dies iræ? L’uffizio de’ morti è un capo d’opera, e pare di udire il sordo eco delle tombe. Nell’uffizio della settimana santa è notevole la Passione di san Matteo; il recitativo dello Storico, le grida della popolazione Giudaica, la nobiltà delle risposte di Gesù formano un dramma patetico. Pergolesi ha dispiegato bensì nello Stabat Mater la ricchezza dell’ingegno e dell’arte, ma ha egli forse perciò superato il semplice canto della Chiesa? Il carattere essenziale della tristezza consiste nella ripetizione del medesimo sentimento, e per così dire nella monotonia del dolore; e ciò non ostante esso ha variato la musica ad ogni versetto. Diverse cause possono eccitare le lacrime, ma le lacrime hanno sempre un’eguale amarezza; d’altra parte poi raramente si piange ad un tempo stesso per una moltitudine di mali, poiché quando le ferite sono molteplici sempre ve ne ha una più acerba delle altre che finisce per assorbire le minori. Quella uniforme melodia ad ogni strofa, non ostante la varietà delle parole, imita perfettamente la natura; l’uomo, che soffre, fa vagare i propri pensieri sopra diverse immagini, mentre il fondo delle sue afflizioni rimane lo stesso. – Pergolesi ha dunque disconosciuto questa verità, fondata sopra la teoria delle passioni, allorquando non ha voluto che un sospiro dell’anima rassomigliasse ad un altro sospiro che l’aveva preceduto. Egli ha obliato che dovunque è varietà ivi è distrazione, e dovunque è distrazione ivi non è tristezza [Genio del Cristianesimo, t II, c. 11]. – Che diremo dei salmi? La maggior parte sono sublimi per gravità; specialmente il “Dixit Dominus Domino meo”, il “Confitebor tibi”, e il “Laudate pueri”. L’ “In exitu” racchiude un misto indefinibile di gioia e di tristezza, di melanconia e di speranza; il “Kyrie eleison”, il “Gloria in excelsis” e il “Credo” delle Solennità sublimano lo spirito; il “Veni Creator” esprime in guisa ammirabile le ardenti suppliche d’un cuore che brama di venire esaudito. – Qual meraviglia dopo di ciò se il nostro canto sacro fa sì vive impressioni sopra uomini che hanno orecchio e cuore? – « Io non poteva saziarmi, o mio Dio, esclama sant’Agostino, di ammirare la profondità de’ vostri disegni in tutto quello che avete operato per la salute degli uomini, sicché la contemplazione di tante meraviglie riempiva il mio cuore d’inenarrabile dolcezza. Oh! qual pianto mi ha fatto spargere la melodia degli inni e de’ salmi che si cantavano nella vostra Chiesa! e quanto era io vivamente commosso all’udire risuonare nella bocca dei fedeli le vostre lodi! A misura che quelle parole tutte divine colpivano le mie orecchie, le verità da loro espresse s’insinuavano nel mio cuore, e l’ardore dei sentimenti di devozione ch’esse vi eccitavano faceva scorrere dai miei occhi un torrente di lacrime, ma di lacrime deliziose, che formavano allora il maggior piacere della mia vita » [Conf. Lib. 6]. – E per citare un uomo ben diverso da Agostino, è noto come più volte sia stato veduto Gian-Giacomo Rousseau assistere al Vespro in san Sulpizio, per provarvi quel divino entusiasmo da cui un’anima sensibile non può difendersi, quando ella prenda parte con qualche raccoglimento alle ecclesiastiche melodie, che, unite all’accordo di un popolo immenso, e alla maestà dei riti sacri, assumeva in quel superbo tempio un carattere capace di elevare l’anima fino al cielo, e di ammollire il cuore anche di uno scettico. Il semplice recitativo delle nostre preghiere, faceva su quell’uomo una tale impressione, ch’ei non poteva udirlo, senza sentirsi commosso fino alle lacrime. – « Un giorno, scrive Bernardino di Saint- Pierre, essendo io andato a passeggio con Rousseau al Monte-Valeriano, giunti alla sommità formammo il progetto di chieder da pranzo agli eremiti che vi dimoravano. Erano pochi istanti prima che si ponessero a tavola, e secondo il consueto stavano tuttora in chiesa; sicché Gian-Giacomo Rousseau mi propose d’entrare e di farvi noi pure le nostre orazioni, mentre gli eremiti recitavano le litanie della Provvidenza che sono bellissime. Fatta la nostra preghiera in una cappelletta, e quando gli eremiti si furono avviati al refettorio, Gian-Giacomo mi disse con emozione: Ora io sento tutta la verità di quel concetto del Vangelo: «Quando parecchi di voi saranno adunati in mio nome Io sarò in mezzo a loro ». In questo luogo si respira un sentimento di pace e di felicità, che penetra tutta l’anima 2 » [Etudes de la Nature, t. III, p. 508].

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io ringrazio di avere stabilito tanti mezzi di parlarmi al cuore; non permettete che io rimanga insensibile alla vostra voce. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo, come me stesso, per amor di Dio, e in prova di questo amore, io canterò col cuore e colle labbra le lodi di Dio.

 

L’UFFICIO DIVINO -I-

L’UFFICIO DIVINO -1-

[J.-J. Gaume, Catechismo di Perseveranza, vol IV, Torino 1881]

— Le preghiere in comune dei nostri padri nella fede ci porgono l’opportunità di parlare qui dell’Uffizio divino, vale a dire della vera preghiera in comune del Cristianesimo. Quantunque i Fedeli più non recitino l’uffizio, vi assistono però, una volta almeno nelle domeniche, e ne recitano anche una parte, per esempio il Vespro e qualche volta Compieta. La loro fede, la loro pietà, il loro rispetto per tutte le preghiere e per tutti gli usi della Chiesa non possono fare a meno di guadagnare assai allorché ne conoscano lo scopo, la ragione e il significato.

Origine dell’Uffizio divino. — Tutti gli uomini hanno pregato, e pregato in comune; ma i primi cristiani specialmente si dilettavano di adunarsi per offrire a Dio il sacrificio del labbro. Risuonavano tuttora alle loro orecchie quelle parole del divino Maestro: In qualunque luogo due o tre siano adunati in mio nome, Io sono in mezzo a loro. Perseguitati, inseguiti come pecore innocenti da lupi feroci, essi attingevano la forza e la costanza necessaria, mettendo il loro cuore, i loro voti e le loro preghiere in comune coi loro fratelli, siccome dividevano con essi le sostanze e i pericoli. – La notte come il giorno avevano certe ore determinate per attendere alla preghiera. Le Costituzioni apostoliche comandano ai fedeli di pregare alla mattina, alla terza ora, alla sesta, alla nona, la sera e a mezza notte, [Precationes fìant mane, tertia hora , sexta, nona et véspere, atque ad galli cantum. Lib. VIII, c. 54. — Purandus, lib. III, c. 41, p. 735], e san Girolamo scrivendo a una pia gentildonna intorno l’educazione della sua figlia, le dice: “Affidatela all’esperienza di una donzella di età provetta, che sia specchio di fede e di castità, che le insegni, e con l’abitudine e con l’esempio, a levarsi la notte a pregare e a cantare i salmi; la mattina, gl’inni sacri; a Terza, a Sesta, a Nona a proseguire il combattimento come un’eroina di Gesù Cristo; e verso il cader del sole ad accendere la sua fiaccola come una vergine saggia, e ad offrire il sacrificio della sera [Ad Laetam., Epist. VII, de Instit. Filiae]. – Il medesimo Santo ci assicura nelle sue epistole che il mietitore cristiano accompagnava i suoi lavori col canto de’salmi, e il vignaiuolo che potava la sua vigna ripeteva i cantici di Davide [Ad Marcell.]. I monaci dell’Egitto e della Tebaide, i solitari dell’Oriente, della Palestina e della Mesopotamia, si adunavano nei loro monasteri più volte al giorno per recitare i salmi e cantare inni in lode del Signore. – Né solo i Religiosi pregavano in tal guisa nelle diverse ore del giorno e della notte, ma in pratica sì devota erano ben anche imitati da gran parte dei fedeli. Sant’Agostino nell’istruire i l suo popolo cosi si esprime: «Miei cari fratelli, levatevi, ve ne prego, di buon’ora per attendere alle veglie; assistete specialmente agli uffizi di Terza, di Sesta e di Nona; nessuno si esenti da quest’opera santa, quando non ne sia impedito da qualche infermità, da qualche pubblico incarico, o da una grande necessità » [Serm. I . Feriae quartae, LVI de Tempere. — Vedi pure S. Basilio, Homil in Martyr. Julittam. — E così pure S. Agust., Epist., 109, etc.]. – La riunione di tutte queste preci si chiama uffìzio divino, perché è un dovere che si presta a Dio per adorarlo, placarlo, ringraziarlo e richiederlo delle sue grazie; per lo che è agevole dedurre che l’uffizio, tal quale è presso a poco oggidì, risale alla più remota antichità. Erede delle tradizioni primitive, la Chiesa lo ha stabilito sì per perpetuare quei sacri cantici di cui risuonarono e il Tempio di Gerusalemme e i gioghi del Sinai, e le spiagge del Mar rosso, e sì pure per facilitare con tal mezzo ai cristiani l’esercizio della preghiera.

Diverse ore dell’Uffizio. — E in questo proposito eziandio ci soccorre una tradizione di tremila anni. David diceva al Signore : « Io canto le vostre lodi sette volte al giorno »; e l’uffizio divino si divide in sette parti, chiamate ore, perché si recitano a sette ore diverse della notte e del giorno. Ecco il nome delle medesime: Mattutino, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro e Compieta. Questa divisione ascende alla più alta antichità. [Isid., lib. de Eccles. offic. Raban. Maur., lib. II, de Instit, cleric. Basil., lib. I de Instit, monach. Hieron., in exposit. Psal. CXVIII. Cassian., lib. III, de lnst. coenobit., c. 4. — Ci piace di riferir qui alcuni versi antichi i quali spiegano la ragione delle diverse ore dell’Uffizio, indicando i Misteri che si onorano in ciascuna delle medesime: “Matutina ligat Christum, qui crimina purgat: Prima replet sputis; causam dat Tertia mortis; Sexta cruci neetit; latus eius Nona bipertit; Vespera deponit; tumulo Completa reponit].Le Lodi che si cantano talvolta per un’ottava ora, fanno parte del mattutino, ossia dell’uffizio della notte. Laonde, come si è detto, la divisione dell’uffizio divino in sette ore, adottata dalla Chiesa, è stabilita sopra la incontrastabile autorità d’una tradizione di tremila anni. Ma in che cosa è poi fondata questa sì antica tradizione? Sopra le prodigiose armonie del numero sette con Dio, con l’uomo e col mondo.

1° Il numero sette è quello dei doni dello Spirito Santo. « L’antico serpente, dice a questo proposito san Girolamo, scacciato dal cuore umano, torna con sette demoni più malvagi di lui, e sarebbe impossibile la resistenza quando non si fosse assistiti dai sette doni dello Spirito Santo; quindi preghiamo sette volte al giorno per ottenerli [Jeron. In Job. XXXVIII] . 2° Il numero sette è il numero de’ sette peccati capitali. Per evitarli, o per liberarcene se vi siamo caduti, noi preghiamo sette volte al giorno. 3″ Tutti i bisogni spirituali o temporali del genere umano sono in numero di sette, contenuti nelle sette domande del Pater. Quindi noi preghiamo sette volte al giorno per ottenere l’obbietto di ciascuna di queste domande. 4° Il numero sette è quello dei giorni della creazione e del riposo di Dio; e noi preghiamo sette volte al giorno per rammentare quella grande settimana, che vide sorgere il mondo dal nulla, e per eccitarci nello stesso tempo a ringraziare Iddio delle diverse opere fatte in ciascun giorno, affinché facendo buon uso delle creature, noi arriviamo al santo riposo dell’eternità. I motivi di questa divisione settenaria della preghiera esistevano già da tremila anni: ed ecco il fondamento di quella venerabile tradizione, e la prova della profonda sapienza della Chiesa cattolica. – Sogni, fantasie, diranno forse gli uomini leggieri, incapaci di meditare!… Ebbene, siano sogni, se cosi vi piace; ma noi preferiamo di sognare con san Girolamo, san Basilio, sant’Agostino, Varrone, anziché vegliare in vostra compagnia. [Vedi inoltre sulle altre armonie del numero sette san Basilio, Homil. II, in Hexaem. -— Greg. Naz. Orat. XCIV, in Sanct. Pentecost. — S. Aug., de Civit. Dei, lib. II, c. 57, de Gen. ad lit. I: confr, Manich., lib. i. — Varro, lib. I. Eorum qui inscribuntur hebdomades, etc.].

Bellezza dell’Uffizio. — Per meglio mostrare l’eccellenza dell’Uffizio divino, basterà il sapere di che cosa sia composto. – È un compendio [Per questo si chiama breviario] di quanto vi ha di più bello nel più bello di tutti i libri, l’antico cioè, e il nuovo Testamento; di quanto la storia de’ Santi ci presenta di più affettuoso e di più sublime; di quante preghiere siano uscite dal cuore ardente dei più grandi intelletti, e nel tempo medesimo de’ più grandi Santi che il mondo abbia conosciuti; di quanti devoti cantici finalmente siano stati dalla fede inspirati alla cristiana pietà. Che cosa può dirsi di più? Esso racchiude per intero quegl’inni inimitabili, quelle poesie immortali del Profeta reale , in cui il cuore, lo spirito, l’immaginazione trovano sempre un oceano di bellezze senza pari, di pensieri sublimi, di sentimenti divini. Dove trovare un più bel breviario di cose più belle? Chi saprebbe insegnare una più efficace preghiera?Un monarca vuol colmare di favori la diletta sua sposa, ma ama che essa glieli dimandi: ed ecco ch’egli stesso le traccia la supplica, le indica le parole di cui desidera che si valga, poi a lei la consegna giurando solennemente di concedere quanto le ha promesso tosto ch’ella si presenterà con la supplica alla mano, sulle labbra, e nel cuore; ecco Dio, ecco la Chiesa; ecco il breviario.Oh! qual forza aver debbono sul cuore di Dio quei tre o quattrocento mila sacerdoti cattolici, che ogni giorno si presentano sette volte dinanzi al trono dello Sposo della Chiesa, per domandargli nel modo che gli è più accetto i favori da Lui stesso promessi, e di cui abbisogna questa Sposa diletta! E pensare che a ciascun’ora del giorno e della notte parecchie migliaia di preti son occupati in questa sublime funzione; che l’Oriente prega quando l’Occidente riposa, di maniera che la voce della orazione non resta giammai interrotta, non vi par forse di essere nella Gerusalemme celeste, ove i beati ripetono continuamente i l cantico dell’eternità: Santo, Santo, Santo, il Signore Dio degli eserciti? [Apoc. IV, 8]Qual fiume di benedizioni non debbe attirar sulla terra questa supplica potente Mondo ingrato! mondo reo! mondo cieco! a lei soltanto tu sei debitore della tua conservazione e puoi obliarlo? Che cosa potrei aggiungere? Tutti i secoli, tutte le nazioni, tutte le favelle si accordano con noi quando cantiamo i salmi di Davide. Mentre noi ne facciamo risuonare le volte delle nostre chiese, quelle liriche immortali sono ripetute a Roma, a Gerusalemme, a Pekino, al Messico, a Pietroburgo, al Cairo, a Costantinopoli, a Parigi, a Londra. Il tempio di Salomone, le pianure di Babilonia e di Memfi, le spiagge del Giordano, i deserti della Tebaide, le catacombe di Roma, le basiliche di Nicea, di Corinto e d’Antiochia le hanno a loro volta ascoltate. Oh! per quante bocche più pure della mia sono esse passate! Tobia nel suo letto di dolore, Giuditta nel campo d’Oloferne, Ester alla corte d’Assuero, Giuda Maccabeo alla testa dei guerrieri d’Israele le hanno ripetute; Antonio le sospirava nel deserto, Crisostomo ad Antiochia, Atanasio ad Alessandria, Agostino ad Ippona, Gregorio a Nazianzo, Bernardo a Chiaravalle, Saverio al Giappone!E dopo tanti secoli, e dopo avere espresso tanti sentimenti diversi, quei cantici inimitabili sono nuovi come al primo giorno, e come la prima volta che Davide li faceva risuonare sull’arpa profetica! E ciò nulla dice al vostro cuore? E ciò non ingrandisce le vostre idee? E ciò non vi farà comprendere tutto l’incanto di questo nome incomunicabile della Chiesa vostra madre. . . cattolica?

Mattutino. — La prima ora dell’Uffizio si chiama Mattutino, Vigilia, Notturno, ovvero Ore della mattina, perché nel tempo andato erano recitate di notte, come si pratica tuttora per Natale, e perché nei Capitoli si recitano ancora di buon mattino. Il Mattutino è diviso in tre notturni o parti, composti di tre salmi, di tre antifone, di tre lezioni, precedute da una benedizione e seguite da un responsorio. Le prime lezioni sono estratte dalla Scrittura Santa, le seconde dalle opere de’ Padri, o dalle leggende de’ Santi di cui si celebra la festa, e le terze servono di commento al Vangelo del giorno, di cui si canta qualche versetto. – E primieramente i l mattutino si divide in tre notturni. La parola Notturno significa Uffìzio della notte. Si sa come gli antichi dividessero la notte in quattro parti, di tre ore ciascuna; la prima dalle sei fino alle nove, la seconda dalle nove fino a mezza notte, la terza da mezza notte fino alle tre e la quarta dalle tre fino alle sei del mattino. Ogni parte si chiamava vigilia o fazione, e si diceva prima vigilia, seconda vigilia, ecc. Questa denominazione è presa dal linguaggio militare, poiché i soldati vegliavano o stavano in fazione tre ore per ciascuno [Vegetius, De Re militari, c. VIII. – Pari alle legioni dei Cesari, l’esercito di Gesù Cristo, la Chiesa, sempre in armi, ordina agli ecclesiastici di vegliare a vicenda a custodia del campo, specialmente in tempo di notte, perché è quello il tempo del pericolo, dicono i Padri, il tempo in cui circuisce il tentatore, il tempo del peccato [Hilar. in Psalm. CXVI1I. — Ambros., lib. VII, in Lucam]. – Laonde nei primi secoli i notturni si recitavano separatamente; il primo durante la prima vigilia, il secondo nella seconda, il terzo nella terza, e le lodi nella quarta. I fedeli vi assistevano, ma al fine di ogni notturno, erano in libertà di andare al riposo, fino al notturno seguente. Tutti per altro, sebben gracili e delicati, si facevano un obbligo d’intervenirvi. Abbiamo veduto che san Girolamo, scrivendo alla figlia de’ Paoli Emili e de’ Scipioni, le insinuava di uniformarsi all’uso di alzarsi la notte due o tre volte per cantare gl’inni ed i salmi [Noctibus, bis, terque surgendum; Ad Eustoch. epist. XXII]. – In progresso di tempo la Chiesa, avendo riguardo alla umana fralezza, concesse di recitare i tre notturni con le laudi, in una medesima vigilia della notte, i suoi disegni non vennero con ciò punto alterati. – Ella vuole, mediante ciascuna ora dell’Uffizio, onorare i principali misteri della Passione del Salvatore, darci ad ogni istante del giorno e della notte le più utili lezioni, e procurarci le grazie adattate a ciascuno de’ nostri bisogni. Svolgeremo più minutamente codesti argomenti allorquando spiegheremo ciascuna ora in particolare. – Ma intanto potrebbe chiedere qualcuno: perché mai il Mattutino, che è la prima parte dell’Ufficio, incominci alla sera? Al che risponderemmo: perché il giorno ecclesiastico incomincia la sera; uso venerabile che ci rammenta l’antichità, imperocché anche presso i Giudei il giorno incominciava la sera. Erede della Sinagoga, la Chiesa cattolica ha conservato quest’uso pieno di memorie e di misteri. – Il Mattutino si recita nella notte: 1° perché in tempo di notte furono uccisi dall’Angelo sterminatore i primogeniti degli Egiziani; avvenimento per sempre memorando, che produsse la liberazione del popolo d’Israele, antica figura della Chiesa; 2° perché in tempo di notte nacque il Liberatore del mondo; 3° perché in tempo di notte compì una parte dei misteri della sua dolorosa Passione. In memoria di questi grandi, ineffabili avvenimenti, in rendimento di grazie di quei benefici, e in espiazione delle colpe de’ Giudei e di tante altre che si commettono nella notte, la Chiesa ha voluto che i sacerdoti e i Religiosi, tutti questi angeli della preghiera, fossero in adorazione e pagassero il debito dell’universo. Non vi sembra codesta una bella idea? Com’era men bello infatti il vedere, appena la campana faceva udire i suoi rintocchi, quei sacerdoti, quei Religiosi, quei vegliardi accorrere alla Chiesa! Si sarebbe detta una schiera che dà di piglio alle armi al primo invito della tromba. – « Giunti al tempio, scriveva un veterano di Gesù Cristo, noi cadiamo a ginocchi davanti l’altare, salutiamo il nostro Condottiero, gli rinnoviamo le proteste della nostra obbedienza, e gli confessiamo che senza il suo divino soccorso ci sarebbe impossibile di sperare e di ottenere vittoria contro l’infernale nemico ». [Durandus, lib. V.]. – Incomincia l’uffizio; ma in quale maniera? Al modo con cui deve incominciare ogni opera soprannaturale, vale a dire, dalla professione della nostra debolezza. Il sacerdote traccia su le proprie labbra il segno della croce, e dice: Apritemi le labbra, o Signore, affinché la mia bocca possa cantare le vostre lodi. Ma mentre il sacerdote domanda a Dio la grazia e la facoltà di poterne esaltare demonio raddoppia gli sforzi per renderne inutile la pietà; e perciò il sacerdote stesso, appena ottenuta la chiesta licenza, tosto soggiunge, armandosi dell’usbergo della croce: Venite, o Signore, in mio aiuto; alle quali parole tutto il coro, penetrato egli pure della propria debolezza, risponde ad alta voce: Affrettatevi, o Signore, a soccorrermi. – Poscia il sacerdote soggiunge immediatamente: Sia gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo; e il coro risponde: com’era in principio, com’è adesso, e come sarà per tutti i secoli: vale a dire, sia gloria eterna al Dio dell’eternità. E perché dunque s’innalza quest’inno di gloria e di gratitudine tosto dopo il grido di angoscia? Eccone la ragione: « Non appena avrai finito d’invocarmi, io sarò teco 1 » [“Adhuc te loquente ecce adsum” Isai. LVI1I, 9], ha detto il Signore per bocca di un Profeta; sicché la Chiesa fidando interamente iella promessa del divino suo Sposo che ha assicurato di esaudirla si studia di dar gloria alla santa Trinità. Il Gloria Patri fu composto da san Girolamo, e da lui trasmesso a Papa Damaso, il quale, secondando le istanze del santo anacoreta di Betlemme, decretò che questa dossologia venisse cantata in fine dei salmi. [Alcuni pensano che il Gloria Patri abbia origine più antica, e l’attribuiscono al Concilio di Nicea]. – Dalla Pasqua fino alla Pentecoste il Gloria Patri è seguito dall’Alleluia, voce ebraica, e significa gioia, allegrezza; onde è posta dalla Chiesa in principio dei suoi Uffizi per eccitare alla letizia, servendo Iddio conforme alle istruzioni del Profeta: “Servite al Signore nell’allegrezza” [Salmo XC1X]. – In qual altro tempo può essere più contento un fanciullo, qual altra occupazione può essergli più accetta, se non è quella di cantare le lodi del padre suo? – Dopo l’Alleluia segue l’Invitatorio ossia “chiamata”. Il sacerdote non è pago di lodare da solo il nostro Dio; ma come profeta della legge nuova, come inviato dell’Altissimo sollecita i proprii fratelli a lodarlo in sua compagnia. L’invitatorio è una frase che esprime in poche parole le ragioni speciali che noi abbiamo di lodare Iddio nella festa del giorno. Cotale preghiera è seguitata da queste parole: “Venite, adoriamo”, ripetute dal coro fino a sei o sette volte; perché dopo di avere spiegato ai suoi fratelli il motivo particolare ch’essi hanno di ringraziare Iddio nella festa di quel giorno, il celebrante ne enumera loro le ragioni generali ed immutabili che si contengono nel salmo “Venite Exultemus”. Egli dice: «Venite, esultiamo nel Signore, cantiamo le lodi di Dio Salvator nostro. Corriamo a presentarci davanti a Lui coll’orazione, e coi salmi celebriamo le sue lodi ». – Il Coro: « Venite e adoriamo il Signore ». L’Uffiziante: « Imperocché il Signore è un Dio grande, è un re grande sopra tutti gli Dei. Perché l’ampiezza tutta della terra Egli tiene nella sua mano, e a Lui gli altissimi monti appartengono. Perché di lui è il mare, ed Egli lo fece, e dalle mani di Lui fu fondata l’arida terra ». Il Coro: « Venite ed adoriamo il Signore ». L’Uffiziante: « Venite, adoriamolo, e prostriamoci, e spargiamo lacrime dinanzi al Signore, di cui siamo fattura. Imperochè Egli è il Signore Dio nostro, e noi popolo dei suoi paschi e pecorelle di suo governo ». – Il Coro : « Venite ed adoriamo il Signore ». – L’Uffiziante : « Oggi se la voce di Lui udirete non vogliate indurate i vostri cuori, come nel luogo della altercazione al di della tentazione nel deserto, dove tentarono me i padri vostri e fecero prova di me e videro le opere mie ». – Il Coro : « Venite ed adoriamo il Signore ». – L’Uffiziante: « Per quarant’anni fui disgustato altamente con quella generazione, e dissi: Costoro vanno sempre errando col cuore. Ed eglino non han conosciuto le mie vie: ond’Io giurai sdegnato: Non entreranno nella mia requie». – Il Coro: « Venite e adoriamo il Signore ». – Scegliete fra tutti i poeti antichi e moderni, e poi ditemi se voi trovate qualche cosa di più bello, di più sublime, di più affettuoso che questo magnifico dialogo. Questo poetico colloquio sì efficace per infondere nell’animo il vero spirito della preghiera si termina con uno slancio di amore verso la Santissima Trinità, cioè il Gloria Patri.

Preghiera.

“O mio Dio, che siete tutto amore, vi ringrazio di aver instituito il santo giorno di Domenica: ben so che specialmente per mio benefizio questo giorno deve essere consacrato all’orazione: fatemi la grazia ch’io possa degnamente santificarlo. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo, come me stesso, per amor di Dio, e in prova di questo amore studierò attentamente lo spirito delle cerimonie della Chiesa”.

L’inno – Dopo il Gloria Patri, sospiro ardente di amore e plauso di gioia che si solleva alla santa Trinità, dopo la ripetizione dell’invitatorio, canto di allegrezza, o di mestizia secondo la natura del mistero che si commemora, segue subito l’inno, destinato a lodare Iddio, a sublimare i nostri pensieri e i nostri affetti, e a raffermare in noi i sentimenti e le virtù che deve inspirarci la festa del giorno. – Tutti perciò si alzano in piedi, tutti i cuori si accendono, tutte le voci si accordano per cantar l’inno degnamente. « Tre cose, dice sant’Agostino, formano l’essenza dell’inno: 1° la lode; 2° la lode di Dio; 3° il canto. [Aug. Ad Psalm. LXXII. — Greg. Nazianz., Carm. XV.]. – L’uso degli inni risale ai primi giorni del Cristianesimo poiché si cantavano dai padri nostri, giusta il consiglio di san Paolo, nei cenacoli e nelle catacombe [Coloss. lII, 16. — Ephes. V, 19. — Euseb., Hist., 1. II]. Primo a decretare che nell’uffizio della notte si cantassero inni fu S. Giovanni Crisostomo, nell’occasione che gli Ariani si aggiravano di notte per Costantinopoli cantando versi che contenevano le loro empie dottrine. Nell’uscire dalla chiesa i cristiani incontravano quegli eretici ed erano esposti a sentirli; onde per prolungare l’Uffizio fino a tanto che gli Ariani fossero tornati alle loro case, e anche per fortificare la fede dei cattolici, il santo Patriarca aggiunse gl’inni al Mattutino e Laudi. [Socrat., lib. VI].- AI Mattutino l’inno precede i salmi, ma li segue alle Laudi, al Vespro e alla Compieta. – Li precede a mattutino, perché il mattino appartiene ai giusti che fruiscono del gaudio di una buona coscienza, mentre la sera spetta ai penitenti il cui animo è conturbato e sente il pungolo dei rimorsi. – La gioia conduce i primi al lavoro, figurato dai salmi, come diremo fra poco: i secondi debbono giungere al contento e alla letizia per mezzo del lavoro. Gl’inni si cantano in piedi per dimostrare coll’atteggiamento del corpo che i nostri cuori debbono essere innalzati verso Dio mentre la nostra bocca ne canta le lodi. Ogni cosa pertanto nel culto esteriore ci rammenta la necessità del culto interiore; tutto sembra ripeterci quelle parole del divino Maestro: Il Padre cerca adoratori in ispirito e in verità [Giov. IV, 23].

L’antifona. — Finito l’inno, l’ufficiante intona l’antifona. Ma che cosa è l’antifona? Essa è un canto alternativo, un canto eseguito da due cori che si rispondono. L’antifona significa l’amor di Dio, e il salmo la fatica delle opere buone.L’ uffiziante intona la prima parola dell’antifona per animare il salmo, cioè la fatica, per mezzo dello spirito di carità senza del quale la fatica non serve a nulla. Cantato il salmo, tutto il coro ripiglia l’antifona per mescolare costantemente la carità alla fede, di cui le opere non sono efficaci che per mezzo della carità. Perciò queste due grandi virtù del Cristianesimo si potrebbero assomigliare in questo luogo a due sorelle occupate nel medesimo lavoro, che si sostengono e si aiutano scambievolmente. Il sacerdote che da solo intona l’antifona, ne rammenta Gesù-Cristo unico e vero fonte della carità; tutto il coro che la canta alla fine del salmo significa l’effusione della carità di Gesù Cristo in tutti i suoi membri. Il canto delle antifone risale alla più alta antichità, e deriva da un’origine sommamente rispettabile. Sant’Ignazio martire, la gloria dell’Oriente e l’eroe del secondo secolo, avendo udito gli spiriti beati cantare in coro delle antifone nella Gerusalemme celeste, fece palese la sua rivelazione, dal che venne l’usanza di cantare antifone nella Gerusalemme terrestre [Durandus, lib.V].

I salmi. — Dopo l’antifona viene il canto de’salmi, per costume introdotto da Papa Gelasio. Quei cantici divini ricordano i patimenti, le fatiche e i combattimenti di un Re perseguitato; la gioia e la felicità ch’ei raccoglie dalla protezione del cielo; mentre palesano con forza i sensi della più viva gratitudine. Sospiri profetici, essi esprimono le pene, le fatiche, i combattimenti, i trionfo e la gloria del vero David, della Chiesa sua sposa e dell’anima fedele, sua figlia diletta e sua vivente immagine. Per lo che il cristiano ascolta e ritrova nei salmi quattro voci diverse: voce di David, voce di Gesù Cristo, voce della Chiesa, voce del cristiano. – È dunque cosa evidente che i salmi rappresentano la fatica della vita, e il lavoro delle opere buone. La parola salmo significa il canto che si eseguiva sul Salterio, il quale era uno strumento da musica: Lodate il Signore sulla cetra: cantate inni a lui sul Saltero da dieci corde [Psal. XXXII, 3] . Parole misteriose indicanti che noi dobbiamo lodare Dio nell’adempiere i dieci comandamenti, e che soltanto quel cristiano che osserva la divina legge gode degnamente il Signore. – Papa Damaso ordinò che i salmi fossero cantati a due cori. Ammirabile istituzione! Non vi sembra egli di vedere i santi della terra eccitarsi alternativamente al lavoro e alla pratica delle opere buone, comunicandosi le gioie e le speranze, le lacrime e i sospiri, la gratitudine e l’amore, rinviandosi incessantemente le parole ardenti ch’essi volgono a Dio protettore del debole, sostegno dell’orfano, padre del povero, consolatore dell’afflitto e rimuneratore del Giusto? Non vi sembra inoltre di vedere l’adempimento di quel precetto del grande apostolo: Portate gli uni i pesi degli altri; e così adempirete la legge di Cristo? [Galat. VI, 2]. Non vi sembra infine di vedere quei cherubini visti dà Isaia, i quali, collocati davanti al trono di Dio, colla faccia nascosta tra le ali, esclamavano a vicenda : Santo, Santo, Santo il Signore degli eserciti; della gloria di lui è piena tutta la terra [Isai. VI, 3]. – I salmi si cantano in piedi come per esprimere l’ardore del lavoro e lo zelo del bene. Quindi è che si vedono i canonici stare semplicemente appoggiati ai loro stalli, mentre si cantano le diverse ore dell’uffizio, eccettuata Compieta. Diremo ben presto la causa di questa eccezione. – Ogni salmo è seguito dal Gloria Patri; 1° per render gloria a Dio del bene che ci ha fatto; 2° per rammentare all’uomo l’augusta Trinità dalla quale tutto deriva; e alla quale tutto deve tornare; 3° per ripetergli che la fede nella santa Trinità è il fondamento della vita cristiana; 4″ per attestare che in tutte le circostanze, e tanto nella contentezza quanto nell’afflizione, così nel lavoro come nel riposo, noi vogliamo benedire e lodare il Signore.

I versetti. — Dopo ogni notturno vengono tre lezioni, e le lezioni stesse sono precedute da versetti e benedizioni che fa di mestieri primieramente spiegare. Il versetto è una breve sentenza, un concetto vivo, un avvertimento dato per risvegliare l’attenzione. Può infatti accadere che, durante la recita o il canto de’ salmi, che qualche volta dura molto tempo, non ci lasciamo sorprendere dalla distrazione o dalla stanchezza. Il versetto dunque si canta da una voce sola, per ridestare più sicuramente, mercé una tale varietà di tono, tutti gli assistenti, e tenerli occupati di quello che segue. Che ve ne pare? Non è questo un ottimo espediente? La Chiesa nostra madre non conosceva abbastanza la umana fragilità nello stabilire questa regola? Avreste voi saputo immaginare un mezzo migliore per tener viva l’attenzione dello spirito e la divozione del cuore? Al versetto cantato con voce e tono infantile succede il Pater intonato dalla voce grave del celebrante. Si dice il Pater perché è imminente la lezione, e l’uomo abbisogna di saviezza e d’intelligenza per comprendere e per gustare le verità sante, e deve per ottenere tali doti rivolgersi e domandarle a Colui che le concede in abbondanza e senza rimproveri. Si recita il Pater a voce bassa per eccitare il raccoglimento e far osservare che noi parliamo da soli e soli con Dio, e per dimostrare da ultimo ch’Egli intende, senza l’aiuto della parola, la preghiera del nostro cuore. Arrivati a quelle parole : “Et ne nos inducas in tentationem”, « Non vogliate permettere che soccombiamo alla tentazione », il sacerdote alza la voce, per insegnare a tutti perché si recita il Pater, ed impedire al lettore e all’ascoltatore di cedere alle tentazioni del nemico durante la lettura; tentazione di vanità per l’uno, e di negligenza per l’altro.

Le Benedizioni. —Il Pater è seguito da una breve preghiera che si chiama Benedizione, la quale ha per fine di ottenere quello che abbiamo domandato per mezzo dell’orazione Domenicale, e in questa nuova preghiera noi ci rivolgiamo successivamente e per ordine a ciascuna delle tre Persone dell’augusta Trinità. – Altro non rimane adesso, fuorché di sapere chi sarà degno di leggere la parola di Dio. Uno degli assistenti si leva, e voltandosi verso l’ufficiante, che rappresenta Gesù Cristo, gli dice ad alta voce: Iube, Domne, benedicere [La parola Domne è un’abbreviatura di Domine, e risale al nono, o decimo secolo], « Ordinate, Signore, di benedire », cioè ordinate che sia annunziata la vostra parola di benedizione In questa piccola cerimonia si racchiude un avviso di somma importanza, poiché imparasi con ciò che nella Chiesa nessuno deve esercitare il ministero, quando non vi sia chiamato dall’autorità legittima. – Le vocazioni e le missioni dall’alto non sono necessarie soltanto per lo stato ecclesiastico, ma eziandio pei vari stati della civile società. Donde derivano infatti la più gran parte dei mali che ci affliggono, se non da ciò, che quasi nessun individuo è collocato al suo posto o non vuol rimanervi? Ma ripigliamo il nostro ragionamento. – A questa domanda di benedizione che è rinnovata prima d’incominciare ciascuna lezione, l’officiante risponde con preghiere capaci di muovere tutta la celeste Gerusalemme ad interporsi presso il Signore affinché la santa lettura torni proficua; talvolta egli domanda che il Signore si degni aprire il nostro cuore alla sua legge, per timore che la parola santa che siamo per ascoltare non sia come un grano, un seme che gli uccelli divorano, o che le spine soffocano, o che i passeggeri calpestano; tal altra implora che veniamo ammessi alla felicità de’ Santi di cui ci apprestiamo a leggere le virtù. Il sacerdote ci augura tutte queste cose in nome di Dio, e cosi dimostra che non a lui, uomo peccatore, appartiene di benedire, ma a quello bensì che solo è buono, solo perfetto, solo autore di ogni bene.

  1. Le Lezioni. — Destata con ciò la vigilanza, ottenuta la benedizione e implorate previamente le grazie d’intelligenza e di saviezza, incominciano le lezioni. Si compongono queste dell’antico e del nuovo Testamento, de’ commentari de’ Padri e dei Dottori e della vita del Santo di cui si celebra la festa. La Scrittura è la legge; gli scritti de’ Padri la spiegazione; la vita del Santo, l’applicazione. Qual più completa istruzione? Per meglio ascoltarle si sta seduti e in silenzio. Infatti, vi ha egli al mondo una parola che più meriti questa attitudine di raccoglimento e di rispetto? Le lezioni finiscono con queste parole: “Tu autem Domine, miserere nobis”; « Deh! o Signore, abbiate misericordia di noi ». Commovente confessione della nostra miseria! « Sì, mio Dio, dice il lettore, perdonateci gli errori che hanno potuto accompagnare questa lettura; a me i sentimenti di vanità o di negligenza di cui mi sono reso colpevole; ai miei fratelli le distrazioni e il poco fervore con cui forse hanno ascoltato i vostri divini oracoli ». – Tutti gli assistenti rispondono: “Deo gratias”; « Siano rese grazie al Signore ». – Queste parole si riferiscono alla lezione, ed eccone il senso: « Se è un dovere per l’uomo ringraziare Iddio del nutrimento corporale ch’Ei ne concede ogni giorno, quanto più sacro dev’esser l’obbligo di ringraziarlo della manna della sua parola con cui alimenta l’anima nostra! Come figli di Dio, noi ringraziamo il nostro Padre celeste del cibo spirituale che ci ha compartito ». Eccoci ammaestrati ed anche riconoscenti per la dottrina che abbiamo ricevuta. Ora qual mezzo migliore di attestare la nostra gratitudine, che quello di mettere in pratica la parola santa e d’imitare i nobili esempi che ci sono stati posti sott’occhio? A ciò tutti gli assistenti si obbligano mediante i Responsori che si recitano subito dopo la Lezione, e alternativamente dai due cori. I responsori della terza lezione finiscono col Gloria Patri, acciocché rammentiamo che tutte le nostre preghiere e tutte le opere nostre debbono riferirsi al fine supremo di tutte le cose, alla santa Trinità. Ecco come si recita o si canta il primo Notturno, cioè la prima parte del Mattutino. Nei primi secoli si diceva verso le nove della sera, nel momento in cui siamo soliti di andare al riposo; e in molte chiese era senza invitatorio, perché i ministri sacri lo recitavano da soli senza convocare il popolo. Questo primo Notturno si chiamava propriamente veglia, o vigilia, in memoria de’ pastori che custodivano le mandrie nelle vicinanze di Betlemme, la notte in cui nacque il Salvatore del mondo. Quanti misteri ci rammemora questa ora sacra! La veglia de’ pastori, il tenero addio del Salvatore agli Apostoli, la sua agonia nell’orto di Getsemani! Se abbiamo scintilla di fede, quali espansioni di cuore, quali fervorose preghiere si uniranno in questo primo Notturno alle prove di amore e al sangue della gran Vittima che ci riscattava! – Nelle chiese ove il popolo non assisteva al principio dell’uffizio, il secondo Notturno cominciava dallInvitatorio, perché tutti i fedeli, uomini e donne, vi erano convocati. E qui pure noi ci imbattiamo in una nobile tradizione, in una affettuosa armonia. Come angeli della terra, gli ecclesiastici invitavano all’adorazione del Salvatore i cristiani affidati alla loro cura, come gli angeli avevano invitati i pastori di Betlemme. Il secondo Notturno si cantava a mezza notte. Ed anche quest’ora sacra quanti misteri ci ricorda! La nascita del Salvatore, la chiamata degli angeli e l’adorazione de’ pastori, i patimenti del Salvatore davanti ai tribunali di Anna e di Caifa.- Il terzo Notturno si recitava verso le tre ore della mattina, e ciò per tre precipue ragioni: la prima, a fine di onorare il Salvatore nelle ignominie di quella notte orribile, ch’Ei passò in balìa de’ servi e dei soldati; la seconda per chieder perdono della sentenza di morte pronunziata contro di lui verso quell’ora da Caifa; la terza per espiare il rinnegamento di san Pietro. – Nelle domeniche e nelle feste si dicono tre Notturni al Mattutino; in altri tempi non ve n’è che un solo. Donde viene una tal differenza? Essa nasce dalla solennità maggiore o minore della festa. In certi giorni solenni la Chiesa dispiega agli occhi de’ propri figli tutte le sue magnifiche tradizioni, fa loro ammirare tutte le sue belle armonie, rimette sotto gli occhi nostri la storia di sessanta secoli, tutte le auguste memorie di cui è l’erede. – « Ecco, dicono i nostri Padri, la ragione di questa misteriosa distribuzione de’ nostri Mattutini solenni; i tre Notturni rammentano le tre grandi epoche dell’umanità; l’epoca Patriarcale, l’epoca Mosaica e l’epoca Cristiana. Ciascuna di queste tre epoche si divide in tre periodi; perciò in ogni Notturno vi sono tre salmi, tre antifone, tre lezioni: si direbbe quasi un poema diviso in nove canti. » – L’epoca patriarcale ha il suo primo periodo da Adamo fino a Noè; il secondo da Noè fino ad Abramo; il terzo da Abramo fino a Mose. Così pure l’epoca Mosaica ci presenta tre periodi; il primo, da Mose a David; il secondo, da David alla schiavitù di Babilonia ; il terzo, dalla schiavitù di Babilonia al Messia. – Finalmente anche l’e poca Cristiana si divide in tre periodi; il primo, che comprende la fondazione della Chiesa fatta da Nostro Signore, e il suo stabilimento operato dagli apostoli: ed è questo il periodo de’ martiri; il secondo, che abbraccia il tempo delle grandi eresie e de’ grandi campioni dell’Oriente e dell’Occidente: ed è il periodo de’ Padri della Chiesa ; il terzo, che comprende il tempo di pace, che succede all’estinzione delle grandi eresie: ed è il periodo della Chiesa regnante » [Durandus, lib. II, c.7]. Il numero tre tante volte ripetuto è un inno eloquente alle tre adorabili Persone della Trinità, come i nove salmi sono una ricordanza de’ nove cori degli angeli, e di tutte le armonie della Gerusalemme celeste, ai cantici della quale la sua giovine sorella, la Gerusalemme terrestre, invita tutti i propri figli ad accordare le loro voci; di modo che nei nostri giorni solenni si può dire che della voce del cielo e della voce della terra, si forma una sola gran voce la quale intona con esultanza: « Santo, Santo, Santo è il Dio degli eserciti; i cieli e la terra sono pieni dello splendore della sua maestà ». Qual sorgente di pensieri santi e affettuosi pei fedeli istruiti e pii! Quale miniera di sublimi inspirazioni pel poeta cristiano!

VII. Il Te Deum. — Il terzo Notturno finisce col Te Deum. Inno, preghiera, poema epico, il Te Deum è tutto ciò che si può dire, tutto ciò che si conosce di più sublime e di più maestoso in qualunque favella. Sia gloria immortale a voi, Ambrogio e Agostino, poeti inimitabili e santi illustri, che avete saputo spiegare i pensieri della vostra mente e gli affetti del vostro cuore, come i Serafini spiegherebbero i propri, se parlassero i l linguaggio de’ mortali! Il Te Deum è concepimento si perfetto e di tanta eccellenza, che i protestanti sì freddi, sì gelidi nel loro culto, sì nemici della Chiesa romana, l’hanno accuratamente conservato. – Ma perché si recita alla fine del terzo diurno? Ecco la risposta a questa domanda. Tutti i figli di Dio, sacerdoti e fedeli, hanno lodato il Signore; si sono reciprocamente stimolati alla carità, al fervore; hanno ascoltato la lettura della legge che tocca si vivamente il cuore; hanno inteso la storia de’ loro fratelli, già glorificati nel seno del comun Padre; hanno veduto delle palme e delle corone, preparate come ricompensa immortale per una fatica di breve durata: sarebbe mai possibile dopo tanti incentivi, che tutti insieme i cristiani pieni di questi pensieri, non prorompessero in azioni di grazie? Non vi stupite dunque se essi cantano il Te Deum. Il suono delle campane, che altre volte si accoppiava alle loro voci, tra una nuova dimostrazione dell’ allegrezza e dell’ardore universale, era un solenne incitamento ch’essi facevano a tutti i loro fratelli e a tutte le creature di lodare con essi un Padre sì magnifico e sì buono.

Le Lodi. — I tre Notturni costituiscono le tre prime parti del Mattutino, le Lodi la quarta. Questa divisione è stata introdotta, come dicemmo, per sanificare le quattro vigilie della notte, poiché le Lodi si recitavano anticamente, e si dovrebbero, regolarmente parlando, recitare allo spuntar del giorno. Eccone le ragioni: 1° Nostro Signore usci allo spuntare del giorno vittorioso dal sepolcro; 2° allo spuntar del giorno camminò sopra le acque e vi fece camminare san Pietro. La parola Lode significa elogio, encomio, gloria , plauso, ed è infatti, in questa parte dell’Uffizio della notte che noi celebriamo particolarmente le lodi di Dio, e lo ringraziamo : 1° della risurrezione del Salvatore, miracolo fondamentale del Cristianesimo, operato in quel momento; 2° delle grazie che il Signore ci accorda, perché, come san Pietro sulle acque, noi camminiamo durante la notte di questa vita sul mare tempestoso del mondo; 3° della creazione dell’universo di cui il comparir della luce ci offre l’immagine; 4° finalmente della cura paterna con cui Dio ha vegliato sopra di noi pel corso della notte, e della bontà con la quale ci concede un nuovo giorno. – Le Lodi come i Notturni incominciano con l’invocazione “Deus in adiutorium”, accompagnata dal segno della croce, e seguita dal Gloria Patri, dall’Alleluia e dall’apposizione dell’antifona. Alla fine di ciascun salmo si ripete il Gloria Patri per soddisfare ad un debito di gratitudine.Non abbiamo noi forse veduto che i salmi esprimono le opere buone, il lavoro cristiano? Qual cosa è dunque più giusta che ringraziare Dio da cui ogni opera buona deriva, e che merita in conseguenza d’esser lodato e ringraziato come in principio, quando creò il cielo e la terra; e attualmente, perché conserva il mondo materiale e spirituale; e sempre, perché la creazione non sussisterà giammai se non per Lui; e nei secoli de’ secoli, quando vi saranno nuovi cieli e nuova terra, e che Dio sarà tutto in tutte le cose? Alle Lodi si recitano cinque salmi, o a meglio dire quattro salmi e un cantico. Il rinnovamento dei nostri cinque sensi, vale a dire la rigenerazione di tutto il nostro essere in virtù del Cristianesimo, di cui nel corso della notte sono stati celebrati i principali misteri, è appunto la ragione misteriosa di questo numero cinque, e l’importante ammaestramento che la Chiesa ne porge al cominciare del giorno. La domenica, dopo i tre primi salmi, si canta l’inno de’ tre fanciulli nella fornace, col quale la Chiesa ha voluto rammentarci le tribolazioni de’ giusti in ogni tempo, e la loro allegrezza in mezzo alle tribolazioni, e la Provvidenza che veglia su loro. – Sembra ch’essa ci dica: « All’apparire di questo giorno ricordatevi che siete stati rigenerati in Gesù Cristo: vivete dunque santamente, vegliate su i vostri sensi, guardatevi dal contaminarli; aspri combattimenti vi aspettano, ma non temete, poiché finiranno a vostra gloria; il Signore sopra di voi; il cantico che voi recitate ve ne offre una prova ». – Il cantico è seguito dal quinto salmo, di cui è questo il senso ed il motivo del luogo che occupa. I figli della Chiesa rispondono alle promesse di vittoria che poc’anzi ha date loro: « Noi ben sappiamo, le dicono essi, che noi saremo vincitori, e per questo benediciamo il Signore e invitiamo tutte le creature del cielo e della terra ad esaltarlo in nostra compagnia ». Perciò il quinto salmo delle Lodi comincia sempre con queste parole: Lauda ovvero Laudate; « loda, lodate » e questo invito a lodare Dio s’indirizza a vicenda agli Angeli e ai Santi, a tutte le creature inanimate, alla Chiesa, alle nazioni, agli uomini di qualsiasi tribù e di qualsiasi favella. L’uomo riconoscente vuole in tal guisa che tutto ciò che esiste si unisca a lui per benedire il benefattore universale. – Il cantico de’ tre fanciulli nella fornace non è seguito dal Gloria, perché le auguste Persone della santa Trinità vi sono lodate da un capo all’altro.

Il capitolo. — Dopo l’ultima antifona segue il capitolo, parola che altro non significa fuorché piccolo capo, piccola lezione; e si compone di alcuni versetti della Scrittura, analoghi all’uffizio della giornata. Se questa lezione è più breve negli uffizi del giorno che non in quelli della notte, egli è perché le occupazioni diurne domandano il nostro tempo e la nostra presenza. Siccome il capitolo si recita ordinariamente dall’officiante, non è preceduto dall’ “Iube Domine” ossia dalla domanda di benedizione. Oltre l’ammaestramento ch’egli ci dà, il capitolo ha per oggetto di ravvivare il fervore nell’animo degli assistenti; e la Chiesa per tal modo vuol preservarli dal castigo de’ Giudei, che nauseati della manna andarono soggetti in punizione alle morsicature de serpenti. – Alle Laudi particolarmente il capitolo e mirabilmente acconcio ad infiammare il nostro coraggio, tanto nel fare il bene quanto nel combattere il demonio: talvolta vi siamo esortati a rimaner fermi nella fede, talvolta a compiere opere di misericordia, sovente ancora a rivestirci come guerrieri delle armi della luce. Allora il coro, simile ad una schiera animata dall’arringa del suo capitano, si affretta a rispondere con voce unanime: Deo gratias! « Siano grazie a Dio! Tali sono le nostre disposizioni! » E simile ad un esercito di valorosi, che solo chiede di cimentarsi contro il nemico, egli intona l’inno; l’inno, espressione del suo ardore, della sua riconoscenza, della illimitata sua fiducia in Dio, che non la chiama al combattimento, se non per condurla alla vittoria. Finito l’inno, viene il Versetto, ed è questo come un ritornello il cui scopo è di spingere al più alto grado l’entusiasmo del soldato cristiano. Si canta a una sola voce, alla quale rispondono tutte le altre: e ciò avviene non solo per fissar maggiormente l’attenzione, ma eziandio per mostrare l’unanimità di sentimento che domina in tutti i cuori. Al versetto succede l’Antifona; ed oh! quanto è ben collocata questa espressione d’amore dopo l’inno, nel quale abbiamo cantata la vittoria riportata dai Santi, nostri fratelli maggiori, e quella che speriamo riportare noi stessi! L’amore che produce l’unione produce anche la forza.

Il cantico. — Ma l’uomo è fragile, ed è talmente inclinato alla diffidenza, che la Chiesa vuole di nuovo riassicurarlo, e perciò ella pone qui il cantico, “Benedictus” « Sia benedetto il Dio d’Israele». Questo cantico contiene l’adempimento letterale di tutte le promesse che Dio ha fatte ai patriarchi e ai profeti. «Uomini di poca fede, sembra dirci la Chiesa nel farci ripetere questo cantico, perché dubitate, il Signore, per cui vi recate a combattere nel corso di questo giorno, ha Egli mancato mai a veruna delle sue promesse? interrogate i secoli; non lo vedete forse sempre lo stesso, con una mano soccorrere i suoi soldati, con l’altra coronare i vincitori? » – Cantato il Benedictus, assodata la speranza del cristiano in Dio, come àncora fissa alla spiaggia che tien fermo il vascello in mezzo alle tempeste, si rendono grazie alla santa Trinità, dicendo: Gloria Patri. Le si fa nuova protesta del nostro timore senza limiti per mezzo della ripetizione dell’antifona; finalmente Le si domanda l’adempimento di tutte le sue promesse per mezzo dell’orazione che termina l”uffizio. – Ora andate, soldati di Gesù Cristo, magione di Dio, campo d’Israele, andate al combattimento, nulla vi manca per mietere allori. Oh! se noi recitassimo queste nobili preghiere dell’uffizio con quello spirito di fede che le ha disposte, non saremmo noi dopo di esse, secondo il detto di san Crisostomo, simili a leoni spiranti fuoco, e il cui aspetto fa tremare le legioni infernali? E perché non sarebbe così? Da chi dipende l’esser forti? Da noi, unicamente da noi!

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio che abbiate istituite tante belle preghiere per mezzo delle quali siamo assicurati di ottenere tutte le grazie di cui abbisogniamo; io vi chiedo perdono della poca fede con cui ho pregato fin ora. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore, io dirò spesso come gli Apostoli: “Signore insegnatemi a pregare”.

 

7 MARZO: SAN TOMMASO D’AQUINO

In questo giorno in cui i Cattolici Romani dell’orbe cristiano festeggiano il Dottore Angelico, S. Tommaso D’Aquino, lungi dal cimentarci in lodi e panegirici di cui la nostra infima statura culturale non sarebbe capace, affidiamo la celebrazione di tale genio teologico al Santo Magistero della Chiesa, quanto mai pieno di riferimenti all’opera sua straordinaria ed insostituibile per la vita della “vera” Chiesa, in netto contrasto, anzi in diametrale opposizione alla Nouvelle Theologie [o meglio “falsa teologia”], base del satanico modernismo, sintesi di tutte le eresie, attualmente imperante. Tra le diverse bolle ed encicliche ci piace qui riportare la lettera enciclica di S.S. Pio XI “Studiorum ducem” pubblicata in occasione del seicentesimo anno della canonizzazione del Santo domenicano.

PIO XI

LETTERA ENCICLICA

STUDIORUM DUCEM

DEL SOMMO PONTEFICE AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI CHE HANNO PACE E COMUNIONE CON LA SEDE APOSTOLICA, IN OCCASIONE DEL VI CENTENARIO DELLA CANONIZZAZIONE DI SAN TOMMASO D’AQUINO

 

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Con recente Lettera Apostolica [Officiorum omnium dell’1° agosto 1922] confermammo quanto era già stato stabilito dal Diritto Canonico e ordinammo che Tommaso d’Aquino dovesse essere considerato la principale guida negli studi delle discipline superiori. – Ed avvicinandosi ora il giorno, in cui si compie il seicentesimo anno da quando egli fu ascritto nel numero dei Santi, Ci si presenta una bella occasione per inculcare maggiormente la medesima cosa nell’animo dei nostri, e dichiarare loro in che modo potranno profittare alla scuola di tanto Maestro. Poiché la vera scienza e la pietà, che di tutte le virtù è compagna, sono tra di loro mirabilmente congiunte; ed essendo Iddio la stessa verità e bontà, non basterebbe certo, per ottenere la gloria di Dio e la salvezza delle anime — scopo principale e proprio della Chiesa — che i sacri ministri fossero bene istruiti nella cognizione delle cose, se essi non fossero pure abbondantemente forniti di idonee virtù. Ora questa unione della dottrina con la pietà, della erudizione con la virtù, della verità con la carità, fu veramente singolare nel Dottore Angelico, a cui venne attribuito il distintivo del sole, poiché, mentre egli porta alle menti la luce della scienza, accende nelle volontà la fiamma della virtù. – E sembrò che Iddio, fonte d’ogni santità e sapienza, volesse mostrare in Tommaso come queste due cose si aiutino a vicenda, come cioè l’esercizio delle virtù disponga alla contemplazione della verità ed a sua volta l’accurata meditazione della verità renda più pure e perfette le stesse virtù. Perché chi vive integro e puro, e con la virtù tiene a freno le sue passioni, quasi libero da un grande impedimento, potrà elevare alle cose celesti molto più facilmente il suo spirito e meglio fissarsi nei profondi misteri della Divinità, secondo le parole dello stesso Tommaso: «Prima è la vita che la dottrina; perché la vita conduce alla scienza della verità » (1); se l’uomo avrà messo tutto il suo studio nel conoscere le cose che sono sopra la natura, per questo stesso si sentirà non poco eccitato al vivere perfetto; né una tale scienza, la cui bellezza tutto lo rapisca e a sé lo attiri, potrà mai dirsi arida ed inerte, ma attiva in grado supremo. – Sono questi gli ammaestramenti che questa solennità centenaria ci fornisce, Venerabili Fratelli; ma per renderli più manifesti, Noi pensammo di dover trattar brevemente della santità e dottrina di Tommaso d’Aquino e mostrarvi quali vantaggi possa trarre da un tale argomento sia tutto l’ordine sacerdotale, i giovani del clero specialmente, sia tutto intero il popolo cristiano. – Tutte le virtù morali furon possedute da Tommaso in altissimo grado e talmente associate e connesse, che, come vuole egli stesso, si unirono nella carità « la quale dà la forma agli atti di tutte le virtù » (2). Se poi cerchiamo le caratteristiche proprie e particolari di questa santità, ci vien fatto di trovare per prima quella virtù per cui Tommaso sembrò assomigliare alle nature angeliche, la castità, per la quale egli fu degno di esser cinto ai fianchi dagli Angeli di una mistica cintura, avendola egli conservata intatta in un pericolosissimo cimento. A purezza così esimia andò congiunto il distacco dai beni terreni e il disprezzo degli onori; e sappiamo come egli vincesse, con somma costanza, l’ostinazione dei parenti che lo volevano con tutti i mezzi trattenere nella vita agiata del secolo; e come poi, offerti a lui dal Pontefice Sommo i parimenti sacri, lo scongiurasse a non imporgli quel peso, per lui formidabile. Ma il principale distintivo della santità di Tommaso è quello che da Paolo è chiamato « il linguaggio della sapienza » (3), quell’unione cioè della duplice sapienza, acquisita ed infusa, come vengono dette; con le quali nulla meglio si accorda quanto l’umiltà, l’amore della preghiera, la carità verso Dio. – Quanto all’umiltà, che Tommaso mise a fondamento di tutte le altre sue virtù, fu manifesta dall’essersi egli posto nelle azioni della vita quotidiana, sotto l’ubbidienza di un fratello laico; né meno essa si rivela dalla lettura dei suoi scritti, dai quali spira ogni riverenza verso i Padri della Chiesa; e « siccome egli ebbe in somma venerazione gli antichi dottori, così sembrò che di tutti egli ereditasse l’intelligenza » (4). – La stessa cosa viene bene chiarita dall’aver egli impiegato, per il trionfo della verità, tutte le forze del suo divino ingegno, senza cercare per nulla la propria gloria. E così, mentre i filosofi si propongono spesso quale méta la propria fama, egli invece si studiò, nell’insegnare le sue dottrine, d’oscurare se stesso, appunto perché splendesse di per sé la luce della verità divina. Questa umiltà pertanto, congiunta alla purezza del cuore, di cui abbiamo parlato, ed alla grande assiduità nelle sante preghiere, rendeva l’animo di Tommaso docile e tenero tanto a ricevere quanto a seguire gl’impulsi e le illuminazioni dello Spirito Santo, nel che consiste la sostanza della contemplazione. E per impetrarle dall’alto, egli soleva spesso astenersi da ogni cibo, passare le intere notti in continua preghiera, e di quando in quando con l’impeto d’un’ingenua pietà appoggiare il suo capo al tabernacolo dell’augusto Sacramento, e rivolgere di continuo i suoi occhi e il suo spirito addolorato all’immagine di Gesù Crocifisso, che fu il massimo libro da cui apprese tutto quello che seppe, com’egli stesso confessò all’amico suo San Bonaventura; sicché di Tommaso poteva dirsi quello che si era detto del suo santo padre e legislatore Domenico, che non parlava se non di Dio o con Dio. – E siccome egli soleva contemplare tutto in Dio come causa prima ed ultimo fine di tutte le cose, gli fu facile seguire tanto negli insegnamenti della sua « Somma Teologica », quanto nella sua vita, l’una e l’altra sapienza, che egli stesso così definisce: « Per la sapienza acquisita mediante lo studio umano si ha il retto giudizio delle cose divine secondo l’uso perfetto della ragione. Ma ve n’è un’altra che discende dall’alto e che giudica delle cose divine per una certa connaturalità ad esse. E questa è un dono dello Spirito Santo, per cui l’uomo divien perfetto nelle divine cose, e non solo le apprende, ma in se stesso le sente ». – Accompagnata dagli altri doni dello Spirito Santo, questa sapienza derivata da Dio per infusione in Tommaso, fu in un continuo aumento al pari della carità, signora e regina di tutte le virtù. Poiché per lui fu dottrina certissima che l’amore di Dio deve in noi crescere sempre « a norma del primo precetto: ‘Amerai Iddio tuo Signore con tutto il tuo cuore’; perché tutto e perfetto sono la stessa cosa … Fine del precetto è la carità, come c’insegna l’Apostolo (6); ora nel fine non si pone misura alcuna, ma solo nelle cose che servono al fine » (7). E questa è la causa per cui la perfezione della carità cade sotto precetto; perché essa è il fine a cui tutti devono tendere secondo la loro condizione. E siccome « l’effetto proprio della carità è che l’uomo tenda a Dio unendo a lui il suo affetto, perché egli viva non più a sé ma a Dio stesso », noi vediamo come in Tommaso il divino amore, insieme con quella duplice sapienza, aumentò senza posa, fino ad ingenerare in lui il prefetto oblio di se stesso; tale che, essendogli stato detto da Gesù Crocifisso: «Tommaso, hai scritto bene di me », e domandato: «Qual premio tu desideri per l’opera tua? », Egli rispose: «Te solo, o Signore ». Ond’è che, stimolato dalla carità, s’impegnava assiduamente a favore degli altri con lo scrivere ottimi libri, coll’aiutare i fratelli nei loro lavori, e si spogliava delle stesse sue vesti per soccorrere i poveri, ed anche restituiva agli infermi la salute, come avvenne nella Basilica Vaticana, dove egli predicò nella solennità di Pasqua, allorché liberò ad un tratto da un inveterato flusso di sangue una donna che gli aveva toccato il lembo della veste. E dove mai si trovò più chiaro che nel Dottore Angelico questo « linguaggio di sapienza », mentre a lui non bastò erudire le menti degli uomini, ma con ogni studio cercò di eccitare le volontà loro a riamare un tanto amore, che è la causa di tutte le cose? « L’amore di Dio », egli afferma con frase sublime, « è quello che infonde e crea nelle cose la bontà », né mai si stanca, trattando dei varii misteri ad uno ad uno, di illustrare questa diffusione della divina bontà. «Appartiene » egli dice, « alla natura del sommo bene, che in sommo grado comunichi se stesso; e questo massimamente è fatto da Dio coll’Incarnazione » . – E nessun’altra cosa più apertamente dimostra questa potenza non meno del suo ingegno che della sua carità, quanto l’ufficio ch’egli compose dell’augusto Sacramento; e quanto amore egli avesse in tutta la vita verso l’Eucarestia, lo dichiarò nella parola che proferì morendo prima di ricevere il santo Viatico: « Io ti ricevo, prezzo della redenzione dell’anima mia, per amore del quale io studiai, vegliai e lavorai ». Dopo questo breve cenno intorno alle grandi virtù di Tommaso, sarà più agevole comprendere l’eccellenza della sua dottrina, che nella Chiesa ha un’autorità e un valore ammirabili. I nostri Predecessori la esaltarono sempre con unanimi lodi. – Alessandro IV non dubitò di scrivere a lui vivente: «Al diletto figlio Tommaso d’Aquino, uomo eccellente per nobiltà di natali e onestà di costumi, che per grazia di Dio si acquistò un vero tesoro di coscienza e dottrina». E dopo la sua morte Giovanni XXII sembrò voler canonizzare ad un tempo le sue virtù e la sua dottrina, mentre, parlando ai Cardinali in Concistoro, pronunciò quella memorabile sentenza: « Egli illuminò la Chiesa di Dio più di qualunque altro Dottore; e ricava maggior profitto chi studia per un anno solo nei libri di lui, che chi segua per tutto il corso della sua vita gl’insegnamenti degli altri ». La fama perciò della sua intelligenza e sovrumana scienza fece sì che San Pio V lo scrivesse nel numero dei Dottori e gli confermasse il titolo di Angelico. Del resto, quale fatto più chiaramente dimostra la stima che la Chiesa ha fatto sempre d’un tanto Dottore, quanto l’essere stati esposti sopra l’altare dei Padri Tridentini due soli volumi, la Scrittura e la Somma Teologica, perché potessero ispirarsi ad essi nelle loro deliberazioni? E per non riportare la serie degli innumerevoli documenti della Sede Apostolica su quest’argomento, è sempre vivo in Noi il felice ricordo del rifiorire delle dottrine dell’Aquinate per l’autorità e le premure di Leone XIII; e questo merito di così illustre nostro Precedessore è tale, come dicemmo altre volte, che da solo basterebbe a dargli gloria immortale quand’anche altre cose sapientissime egli non avesse fatto o stabilito. Seguì il suo pensiero Pio X di santa memoria, specialmente nel Motu proprio «Angelici doctoris » ove troviamo questa bella sentenza: «Dopo la morte beata del Santo Dottore, non fu tenuto nella Chiesa alcun Concilio ove egli non sia stato presente con la sua preziosa dottrina ». E più prossimo a Noi, Benedetto XV, Nostro compianto Antecessore, più d’una volta mostrò la stessa compiacenza; e a lui spetta la lode della promulgazione del Codice di Diritto Canonico, ove vengono consacrati « il metodo, la dottrina e i principii » dell’Angelico Dottore (11). E Noi, mentre facciamo eco a questo coro di lodi date a quel sublime ingegno, approviamo che egli non solo sia chiamato Angelico, ma altresì che gli sia dato il nome di Dottore Universale, mentre la Chiesa ha fatto sua la dottrina di lui, come da moltissimi documenti viene attestato. E siccome sarebbe troppo lungo esporre qui tutte le ragioni addotte dai Nostri Predecessori intorno a tale argomento, basterà che Noi dimostriamo che Tommaso scrisse animato dallo spirito soprannaturale onde viveva, e che i suoi scritti, ove sono insegnati i principii e le regole di tutte le scienze sacre, sono da giudicarsi di natura universale. – Trattando egli infatti delle cose divine nei suoi insegnamenti e nei suoi scritti, porse ai teologi un luminosissimo esempio della strettissima relazione che deve correre fra gli studi e i sentimenti dell’animo. E siccome non può dirsi che abbia esatta notizia di un lontano paese chi ne conosca anche la più minuta disposizione, se non vi avrà per alcun tempo vissuto, così nessuno potrà acquistare un’esatta cognizione di Dio con la sola diligente ricerca scientifica, se non sarà anche con Dio in perfetta unione. E a questo appunto tende tutta la teologia di San Tommaso; a condurci a vivere una vita intima con Dio. E come fanciullo a Montecassino non si stancava di domandare: « Chi è Dio? », così i libri da lui composti intorno alla creazione del mondo, intorno all’uomo, alle leggi, alle virtù e ai Sacramenti, tutti quanti trattano di Dio come autore della nostra eterna salvezza.  Perciò, disputando intorno alle cause che rendono sterili gli studi, come la curiosità, lo smodato desiderio di sapere, l’ottusità dell’ingegno, l’avversione allo sforzo ed alla perseveranza, egli non trova a tali cause altro rimedio che una gran prontezza alla fatica, rinvigorita dall’ardore della pietà, e come derivata dalla vita dello spirito. – Ed essendo i sacri studi diretti da un triplice lume: la retta ragione, la fede infusa e i doni dello Spirito Santo che perfezionano l’intelligenza, nessuno più di Lui ebbe questa luce in abbondanza, perché dopo avere in qualche ardua questione impiegato tutte le forze del suo ingegno, implorava da Dio la spiegazione delle difficoltà con i digiuni e con umilissime preghiere; e Dio soleva ascoltarlo con tanta benignità, che mandò talora gli stessi Prìncipi degli Apostoli ad ammaestrarlo. – Né fa meraviglia se, avvicinandosi alla fine della sua vita, egli raggiunse un così alto grado di contemplazione, che le cose da lui scritte non gli parevano altro che paglia, e diceva di non poter dettare più oltre; così già egli aveva fisso il pensiero nelle verità eterne da non bramare ormai più altro che di vedere Dio. Poiché questo, come Tommaso stesso insegna, è il frutto che deve principalmente cogliersi dagli studi: un grande amore di Dio e un gran desiderio delle cose eterne. – Ma mentre con il suo esempio egli c’insegna come dobbiamo comportarci negli studi di vario genere, così di ogni particolare disciplina ci dà fermi e stabili precetti. E innanzi tutto, chi meglio di lui spiegò la natura e la ragione della filosofia, le sue parti e l’importanza di ciascuna? Ecco con quanta perspicacia egli dimostra la convenienza e l’accordo delle varie membra che formano come il corpo di tale scienza: «Al sapiente » egli dice « spetta l’ordinare. E la ragione è che la sapienza è principalmente perfezione di ragione, della quale è proprio conoscere l’ordine; poiché, sebbene le virtù sensitive conoscano alcune cose in modo assoluto, l’ordine fra l’una e l’altra non lo conosce che l’intelletto e la ragione. Così, secondo i diversi ordini che la ragione considera, sono diverse le scienze. L’ordine che la ragione, considerando, produce nel proprio atto appartiene alla filosofia razionale (ossia alla Logica) che propriamente considera l’ordine delle parti del discorso fra di loro e l’ordine dei principii sia fra loro stessi, sia rispetto alle conclusioni. Alla filosofia naturale (ossia alla Fisica) spetta il considerare l’ordine delle cose che la ragione umana considera, ma non fa: e così nella filosofia stessa naturale noi comprendiamo anche la Metafisica. L’ordine delle azioni volontarie viene considerato dalla filosofia morale, che si divide in tre parti: la prima considera le operazioni dell’individuo in ordine al fine e si chiama Monastica; la seconda considera le operazioni della moltitudine domestica e si chiama Economica; la terza considera le operazioni della moltitudine civile, e si chiama Politica »(12). Tutte queste parti della filosofia sono state trattate diligentemente da Tommaso, ciascuna nel proprio modo, cominciando da quelle che sono più strettamente congiunte alla ragione umana, e gradatamente salendo alle più remote, fino a fermarsi, per ultimo, « al vertice supremo di tutte le cose ». – È fermissima dottrina del Nostro quella che riguarda il valore dell’intelligenza umana. « Il nostro intelletto naturalmente conosce l’ente e le cose che appartengono all’ente in quanto tale, e su questa cognizione si fonda la notizia dei primi principii » (14). Dottrina che distrugge fin dalle radici gli errori e le opinioni di quei recenti filosofi che negano all’intelletto la percezione dell’ente, lasciandogli solo quella delle impressioni soggettive; errori da cui segue l’agnosticismo, così vigorosamente riprovato dall’Enciclica Pascendi. – Gli argomenti con cui San Tommaso dimostra l’esistenza di Dio e che egli solo è lo « stesso Essere sussistente », sono anche oggi, come nel medioevo, le prove più valide, chiara conferma del dogma della Chiesa proclamato nel Concilio Vaticano e interpretato egregiamente da Pio X con queste parole: « Iddio, come principio e fine di tutte le cose, può conoscersi e con certezza dimostrarsi con lume naturale della ragione, per le cose fatte, ossia per le opere visibili della creazione, come dagli effetti si conosce certamente la causa » (15). E la sua metafisica, sebbene tuttora, e non di rado, acerbamente impugnata, ritiene ancora la sua forza e tutto il suo splendore, quasi oro che nessun acido può alterare; e bene aggiunge lo stesso nostro Predecessore: « Allontanarsi dall’Aquinate, specialmente in metafisica, non può essere senza un grande danno ». – La più nobile tra le umane discipline è certamente la Filosofia, ma, secondo l’ordine attuale della divina Provvidenza, non possiamo definirla al disopra delle altre perché essa non abbraccia tutto intero l’insieme delle cose. Tanto nell’inizio della « Somma contro i Gentili », quanto in quello della « Somma Teologica », il Santo Dottore descrive un altro ordine di cose superiore alla natura ed eccedente la capacità stessa della ragione, e che mai l’uomo avrebbe conosciuto, se la bontà divina non glielo avesse rivelato. È il campo dove domina la fede, e questa scienza della fede si chiama Teologia, la quale si troverà più perfetta in chi avrà cognizione più profonda dei documenti della fede, e insieme più piena e più alta facoltà di filosofare. Ora non è da dubitare che la Teologia sia stata elevata al più alto grado dall’Aquinate, avendo egli posseduto perfettamente i documenti divini della fede, e disponendo di un ingegno mirabilmente disposto a filosofare. – Perciò Tommaso, non tanto per la sua dottrina filosofica quanto per gli studi di una tal disciplina, è nelle nostre scuole il principale maestro. Nessuna parte, infatti, vi è nella Teologia in cui egli non abbia felicemente mostrato la straordinaria ricchezza della sua mente. Anzitutto egli stabilì su propri e genuini fondamenti l’Apologetica, definendo bene la distinzione che corre fra le cose della ragione e quelle della fede, tra l’ordine naturale e il soprannaturale. Perciò il sacrosanto Concilio Vaticano, allorché definì che alcune verità religiose si possono conoscere naturalmente, ma che per conoscerle tutte e senza errore bisognò per necessità morale che fossero rivelate, e che per conoscere i misteri fu assolutamente necessaria la divina rivelazione, si servì di argomenti tratti non da altri che da Tommaso, il quale vuole che chiunque si accinga alla difesa della dottrina cristiana tenga fermo questo principio: « Assentire alle verità della fede non è leggerezza, benché esse siano al disopra della ragione » (17). Egli infatti dimostra che, sebbene le cose di fede siano arcane ed oscure, pure le ragioni che inducono l’uomo alla fede sono chiare e manifeste, poiché « egli non crederebbe, se non vedesse che le cose sono da credere ».(18) Ed aggiunge altresì che la fede, lungi dall’essere un impedimento od un giogo servile imposto all’umanità, è invece da stimarsi un massimo beneficio, essendo ella in noi un « preludio della vita eterna ». – L’altra parte della Teologia che riguarda l’esposizione dei dogmi è trattata da Tommaso con ricchezza tutta speciale; e nessuno ha penetrato più a fondo o più accuratamente esposto i misteri augustissimi della fede, come quelli che appartengono alla vita intima di Dio, al segreto della predestinazione eterna, al soprannaturale governo del mondo, alla facoltà di conseguire il loro fine concessa alle creature ragionevoli, alla redenzione del genere umano operata da Gesù Cristo e continuata dalla Chiesa e dai Sacramenti: due mezzi che il Dottore Angelico chiama in certo modo « reliquie della Divina Incarnazione ». Egli stabilì inoltre una sicura dottrina teologica morale per l’orientamento di tutti gli atti umani al fine soprannaturale. Da perfetto teologo egli assegna non solo agli individui in particolare, ma anche alla società domestica e civile le norme sicure della vita: in ciò consiste la scienza economica e politica dei costumi. Così nella parte seconda della Somma Teologica sono assai eccellenti le cose che insegna intorno al regime paterno, ossia domestico, al regime legale dello Stato e della Nazione, al diritto naturale e a quello delle genti, alla pace, alla guerra, alla giustizia e al potere, alle leggi e alla loro osservanza, al dovere di provvedere sia alle private necessità, sia alla pubblica prosperità; e tutto questo tanto nell’ordine naturale, quanto nel soprannaturale. Precetti, che, se venissero inviolabilmente ed esattamente osservati in privato ed in pubblico nonché nelle mutue relazioni tra nazioni e nazioni, nient’altro ormai si richiederebbe per ottenere tra gli uomini « la pace di Cristo nel regno di Cristo » a cui tutto il mondo anela. Pertanto è molto desiderabile che sempre più si conoscano le dottrine dell’Aquinate intorno al diritto delle genti ed alle leggi che stabiliscono le relazioni dei popoli fra di loro, contenendo esse i veri fondamenti di quella che si chiama « Società delle Nazioni ». – Non ebbe in lui minor pregio la dottrina ascetica e mistica, perché, ridotta tutta l’economia morale alla ragione di virtù e di doni, stabilisce questa dottrina ed una tale economia secondo le diverse classi degli uomini, tanto di coloro che vogliono vivere secondo le regole comuni, quanto di quelli che aspirano di proposito a conseguire la perfezione cristiana del loro spirito, e ciò in un doppio genere di vita: attiva e contemplativa. Chi voglia conoscere quanto si estenda il precetto dell’amore di Dio, come crescano in noi la carità e i doni dello Spirito Santo ad essa congiunti, come tra di loro differiscano i vari stati della vita, quali lo stato di perfezione, lo stato religioso, l’apostolato, e quale sia la natura di ciascuno, o altri punti di teologia ascetica o mistica, dovrà principalmente consultare l’Angelico Dottore. – In tutte le opere che egli scrisse, ebbe somma cura di mettere a base e fondamento le Sacre Scritture. Tenendo fermo che la Scrittura in tutte e singole le sue parti è parola di Dio, egli ne esige l’interpretazione secondo le norme stesse che diedero i Nostri Predecessori Leone XIII nell’Enciclica « Providentissimus Deus » e Benedetto XV nell’altra Enciclica « Spiritus Paraclitus », e posto per principio che « lo Spirito Santo è autore principale della Sacra Scrittura… mentre l’uomo non ne fu che l’autore strumentale »(20), non permette che alcuno muova dubbi contro l’autorità storica della Bibbia; mentre dal fondamento del significato delle parole, o sia senso letterale, egli ricava le copiose ricchezze del senso spirituale, di cui suole spiegare con la massima precisione il triplice genere: l’allegorico, il tropologico e l’anagogico. – Infine, il Nostro ebbe il dono e il privilegio singolare di poter tradurre gl’insegnamenti della sua scienza in preghiere ed inni della liturgia, e divenire così il poeta e il massimo lodatore della divina Eucaristia. Poiché la Chiesa Cattolica in ogni parte del mondo e presso tutte le genti, nei riti sacri si serve e si servirà sempre, con ogni zelo, dei cantici di Tommaso, dai quali spira il sommo fervore dell’animo supplichevole, e che contengono ad un tempo l’espressione più esatta della dottrina tradizionale intorno all’augusto Sacramento, che principalmente si chiama «Mistero di fede », ripensando a questo e ricordando l’elogio già citato fatto a Tommaso da Cristo stesso, nessuno si meraviglierà se a lui è stato dato anche il titolo di Dottore Eucaristico. – Da quanto si è detto, Noi ricaviamo queste conseguenze molto opportune per la pratica. Occorre anzitutto che i giovani in particolare prendano a loro modello San Tommaso e cerchino d’imitare e seguire con ogni diligenza le grandi virtù che in lui risaltarono, soprattutto l’umiltà, che è il fondamento della vita spirituale, e la purezza. Da quest’uomo, sommo per impegno e dottrina, imparino sia a frenare ogni moto d’orgoglio del proprio animo, sia ad implorare umilmente sui loro studi l’abbondanza della luce divina. Apprendano altresì da tale maestro a fuggire instancabilmente gli allettamenti del senso, per non dover poi contemplare la sapienza con occhio ottenebrato. Questo infatti egli insegnò nella sua vita con l’esempio, e confermò col suo insegnamento: « Se uno si astiene dai piaceri corporali per attendere più liberamente alla contemplazione della verità, questo appartiene alla rettitudine della ragione » (21). Siamo per questo ammoniti dalla Sacra Scrittura: «Nell’anima malevola non entrerà la sapienza, né abiterà in un corpo venduto al peccato » (22). Perciò, se la pudicizia di Tommaso, nel pericolo estremo a cui fu esposta, fosse venuta meno, è da ritenersi che la Chiesa non avrebbe avuto il suo Angelico Dottore. E vedendo la maggioranza dei giovani, ingannati dagli allettamenti del piacere, gettare tanto presto la loro purezza e darsi ai diletti del senso, Noi, Venerabili Fratelli, con ogni premura vi raccomandiamo di propagare dovunque, e specialmente tra i seminaristi, la società della Milizia Angelica, fondata per la conservazione e la custodia della purità sotto la tutela di Tommaso, e confermiamo tutte le indulgenze pontificie di cui essa fu arricchita da Benedetto XIII e da altri Nostri Predecessori. E perché più facilmente ognuno s’induca a dare il suo nome tale a Milizia, concediamo il permesso, a coloro che ne faranno parte, di portare, invece del cingolo, una sacra medaglia appesa al collo, che porti impressa da un lato l’immagine di San Tommaso cinto dagli Angeli, e dall’altro quella della Vergine, Regina del Santissimo Rosario. – Essendo poi San Tommaso dichiarato patrono di tutte le scuole cattoliche, come colui che mirabilmente congiunse in se stesso una duplice sapienza, quella cioè che si acquista con la ragione e quella che ci viene infusa da Dio, e nel risolvere le questioni più difficili unì alle preghiere i digiuni, e ritenne l’immagine di Gesù Cristo Crocifisso come suo libro principale, la gioventù consacrata a Dio apprenda da lui come debba esercitarsi nei buoni studi per ritrarne il maggior frutto. I membri delle famiglie religiose abbiano presente come in uno specchio la vita di Tommaso, che ricusò le dignità d’ogni grado, anche altissimo, per poter vivere nell’esercizio d’una perfetta ubbidienza e morire nella santità della sua professione. Tutti i fedeli cristiani abbiano nell’Angelico Dottore un esempio della più tenera devozione verso l’augusta Regina del cielo, della quale egli recitava spesso il saluto angelico e soleva scrivere il dolce nome nelle sue pagine; ed al Dottore Eucaristico domandiamo il fervore verso il divino Sacramento. E questo conviene che chiedano sopratutto i sacerdoti. «Ogni giorno, quando l’infermità non lo impediva, Tommaso celebrava una Messa, e poi ne ascoltava un’altra del suo compagno o di altri, e spesso la serviva », come racconta il diligentissimo autore della sua vita. E chi può esprimere il fervore del suo spirito nel celebrare il santo sacrifizio, e con quanta diligenza si preparasse, e, terminatolo, quali ringraziamenti egli porgesse alla Maestà divina? – Per evitare poi gli errori che sono la prima origine di tutte le miserie della nostra età, occorre rimanere fedeli, oggi ancor più che in altri tempi, alle dottrine dell’Aquinate. Le varie opinioni e teorie dei Modernisti sono da lui vittoriosamente confutate, tanto le filosofiche, difendendo, come vedemmo, il valore e la forza dell’intelligenza umana e provando con fermissimi argomenti l’esistenza di Dio; quanto le dogmatiche, ben distinguendo l’ordine naturale dal soprannaturale e illustrando le ragioni del credere e tutti quanti i dogmi; e mostrando nella teologia che le cose credute per fede non si appoggiano sopra un’opinione, ma sulla verità e sono immutabili; nella scienza biblica dando il vero concetto della divina ispirazione; nella disciplina morale, sociale e giuridica, con lo stabilir bene i principii della giustizia sia legale e sociale, sia commutativa e distributiva, e le relazioni della giustizia stessa con la carità; nell’ascetica col dare insegnamenti sulla perfezione della vita cristiana e contrastando coloro che al suo tempo avversavano gli ordini religiosi. E contro quella emancipazione da Dio che oggi si vanta, egli afferma i diritti della prima Verità e l’autorità che ha sopra di noi Iddio supremo Signore. Da qui si rileva perché i Modernisti nessun altro dottore della Chiesa paventino quanto Tommaso d’Aquino. – Come dunque un giorno fu detto agli Egiziani, nel loro estremo bisogno di vivere, « Andate da Giuseppe » perché avessero da lui in abbondanza il frumento per alimentare il loro corpo, così ora a tutti gli affamati di verità Noi diciamo: « Andate da Tommaso » per aver da lui, che ne ha tanta abbondanza, il pascolo della sana dottrina e il nutrimento delle loro anime per la vita eterna. Che un tal cibo sia pronto e alla portata di tutti fu attestato con la santità del giuramento quando si trattò di ascrivere Tommaso nel catalogo dei Santi: «Alla scuola luminosa ed aperta di questo Dottore fiorirono moltissimi maestri religiosi e secolari per il suo modo succinto, facile, e chiaro … ed anche laici ed uomini di scarsa intelligenza desiderano avere i suoi scritti ». – Ora noi vogliamo che tutte le cose stabilite principalmente da Leone XIII e da Pio X, e da Noi stessi comandate nello scorso anno, siano attentamente e inviolabilmente osservate specialmente da coloro che nelle scuole del clero insegnano le materie superiori. Essi tengano presente che soddisferanno bene ai loro doveri e compiranno i Nostri voti se, cominciando ad amare il Dottore d’Aquino e rendendo a sé familiari i suoi scritti, comunicheranno agli alunni della propria disciplina questo ardente amore, facendosi interpreti del suo pensiero, e li renderanno capaci di eccitare negli altri un eguale ardore. – Fra i cultori di San Tommaso, quali devono essere tutti i figli della Chiesa che attendono ai buoni studi, Noi certamente vogliamo che, nei limiti di una giusta libertà, vi sia quella bella emulazione che fa progredire i buoni studi, ma desideriamo che sia il più possibile evitata quell’asprezza di contrasto che non giova alla verità e serve soltanto a rallentare i vincoli della carità. Sia adunque da tutti inviolabilmente osservato ciò che è prescritto nel Codice di Diritto Canonico: «Gli studi della filosofia razionale e della teologia, e l’istruzione degli alunni in tali discipline, siano assolutamente trattati dai professori secondo il metodo, la dottrina e i principii del Dottore Angelico, e questi siano religiosamente mantenuti » (25). Essi si regolino in modo da poterlo con tutta verità chiamare loro maestro. Ma nessuno esiga dagli altri più di quello che da tutti esige la Chiesa, maestra e madre comune; perché nelle cose in cui autori di buona fama sogliono disputare fra loro in senso diverso, essa certo non vieta che ciascuno segua la sentenza che gli sembra migliore. – Pertanto, siccome a tutta la cristianità importa che questo centenario sia degnamente celebrato, quasi che, onorando San Tommaso, si tratti non solo della gloria di lui, ma dell’autorità della Chiesa docente, è Nostro desiderio che una tale ricorrenza, dal giorno 18 luglio dell’anno che volge fino alla fine dell’anno venturo, si celebri in tutto il mondo, dovunque esistano scuole di giovani chierici; non soltanto, cioè, presso i Frati Predicatori « all’Ordine dei quali », come dice Benedetto XV, « ha da darsi lode non meno per averci dato il Dottore Angelico, che per non aver mai abbandonato d’un punto la sua dottrina » (26), ma anche presso le altre famiglie religiose e in tutti i Collegi ecclesiastici, Università e Scuole cattoliche, a cui egli fu dato per celeste Patrono. – E converrà che nel celebrare queste feste solenni la prima sia quest’alma Città, ov’egli fu per un certo tempo Maestro del Sacro Palazzo; e che nel manifestare la loro santa letizia vadano, avanti a tutti gli istituti ove si coltivano gli studi sacri, il Pontificio Collegio Angelico, ove si direbbe che Tommaso abiti come in casa sua propria, e tutti gli altri Atenei Ecclesiastici che si trovano in Roma. – E Noi, per accrescere lo splendore e il frutto di questa solennità, col Nostro potere, accordiamo:

I. che in tutte le chiese dell’Ordine dei Predicatori e in qualunque altra chiesa o cappella pubblica o dove il pubblico possa introdursi, specialmente presso i Seminari, i Collegi e le Case di educazione per la gioventù, si celebri un triduo od un ottavario od una novena, in cui possano lucrarsi le stesse indulgenze che si concedono per simili funzioni in onore di Santi o Beati;

II. che nelle chiese dei Frati e delle Suore dell’Ordine Domenicano, soltanto per le celebrazioni centenarie, durante i giorni di tali funzioni, i fedeli, confessati e comunicati possano lucrare l’Indulgenza Plenaria tante volte quante volte avranno pregato dinanzi all’altare di San Tommaso;

III. che nelle predette chiese domenicane i sacerdoti dell’Ordine ed i terziari, durante l’anno centenario, possano ogni mercoledì, o nel primo giorno libero della settimana, celebrare la Messa in onore di San Tommaso, come nella festa, recitando in essa od omettendo il Gloria e il Credo secondo il rito del giorno, e concediamo, tanto a chi celebra la Messa quanto a quelli che l’ascoltano, l’Indulgenza Plenaria alle condizioni consuete. – Si cerchi inoltre di tenere nei sacri Seminari e negli altri Istituti ecclesiastici, durante questo tempo, qualche solenne disputa filosofica o sopra altre gravi discipline, in onore del Dottore Angelico. E perché in seguito la festa di San Tommaso sia celebrata come si conviene a quella del Patrono di tutte le scuole cattoliche, Noi vogliamo che in tale giorno si faccia vacanza dalle lezioni, e che non solo in esso si celebri la Messa solenne, ma che, almeno nei Seminari e nelle Famiglie religiose, sia tenuta una delle dispute di cui abbiamo parlato. – Infine, perché sotto la guida dell’Angelico Maestro d’Aquino gli studi dei nostri alunni diano sempre maggiori frutti a gloria di Dio e a vantaggio della Chiesa, aggiungiamo a questa Lettera, con la raccomandazione di divulgarla, la formula della preghiera da lui stesso usata. A coloro che devotamente la reciteranno, Noi concediamo per ogni volta, con la Nostra autorità, l’indulgenza di sette anni e sette quarantene. – Auspice infine dei doni celesti e segno della Nostra benevolenza, Noi impartiamo di tutto cuore a voi, Venerabili Fratelli, al clero ed al popolo affidato alle vostre cure, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno 1923, festa del Principe degli Apostoli, anno secondo del Nostro Pontificato.

 

PREGHIERA DI SAN TOMMASO

Creatore ineffabile, che dai tesori della tua sapienza hai tratto le tre gerarchie degli Angeli, le hai collocate con meraviglioso ordine sopra il cielo empireo ed hai disposto con grandissima precisione tutto l’universo; Tu, che sei celebrato come autentica Fonte della Luce e della Sapienza, e supremo Principio di ogni cosa, dégnati di infondere sulle tenebre del mio intelletto il raggio della tua chiarezza, liberandomi dalle due tenebre in cui sono nato: il peccato e l’ignoranza. – Tu, che rendi feconde le lingue degl’infanti, istruisci la mia lingua e infondi nelle mie labbra la grazia della tua benedizione. Dammi l’acutezza dell’intelligenza, la capacità della memoria, il modo e la facilità dell’apprendere, la perspicacia dell’interpretare, il dono copioso del parlare. Disponi Tu l’inizio, dirigi lo svolgimento e portami fino al compimento: Tu che sei vero Dio ed uomo, che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.

 

De Segur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE [risp. IX-XII]

IX.

VI SONO DEI DOTTI, E DELLE PERSONE D’INGEGNO CHE NON CREDONO PUNTO ALLA RELIGIONE.

R. Che cosa si conchiude da ciò, se non che per essere cristiano, per ricevere da Dio il dono della fede, non basta l’avere la scienza profana, né ingegno; ma che bisogna inoltre avere un cuor retto, puro, umile, ben disposto, pronto a fare i sacrifizi, che imporrà la conoscenza della verità? – Or ecco ciò che manca al piccolo numero de’ dotti che sono irreligiosi. – 1° O essi sono indifferenti, e ignoranti in materia di Religione, assorti nei loro studi matematici, astronomici, fisici, e non pensano né a Dio, né alla loro anima; e allora non fa meraviglia ch’essi non intendano nulla nelle cose della Religione. In riguardo alla Religione, essi sono ignoranti, ed il loro giudizio su di essa non ha più di valore, che quello d’un matematico sulla musica, o sulla pittura. Vi ha tal dotto che è più ignorante in religione di quello che lo sia un ragazzo di dieci anni assiduo al catechismo. – 2.° Ovvero, ciò che accade più sovente, questi tali sono orgogliosi, che vogliono giudicare le cose di Dio, trattare con Lui da pari a pari, e misurare la sua parola colla dimensione della loro debole ragione. – L’orgoglio è il più radicato dei vizi. Cosi sono essi giustamente respinti come temerari, e privati dei lumi, che non si danno se non ai cuori semplici ed umili. Dio non ama chi insorge contro la sua infallibile verità. – 3.° Ovvero, ciò che accade più di sovente ancora e ciò che abitualmente è congiunto a due altri vizi, questi dotti hanno delle malvagie passioni, che non vogliono abbandonare, e che sanno essere incompatibili colla religione cristiana. – Se si vuole inoltre pesare il numero ed il valore delle autorità, la difficoltà scompare interamente. – Si può affermare che dopo diciotto secoli, tra gli uomini eminenti di ciascun secolo, non vi fu un incredulo sopra venti. – E tra questo piccolo numero, d’increduli, si può ancora affermare che la più parte non furono sinceri nella loro incredulità e si rifugiarono avanti la morte nelle braccia di questa religione ch’essi avevano bestemmiata.—Tali furono, tra molti altri, i capi della scuola Volterriana dell’ultimo secolo, Montesquieu, Buffon, la Harpe. – Lo stesso Voltaire, ammalato a Parigi si fece chiamare il curato di s. Sulpizio un mese circa avanti la sua morte.—Il pericolo passò, e col pericolo il timore di Dio. Ma una seconda crisi sopravvenne; gli amici dell’empio accorsero…. Il suo medico testimonio oculare ci attesta che Voltaire richiamò di nuovo i soccorsi della religione… ma questa volta fu invano; non si lasciò penetrare il prete sino al moribondo che spirò in un’orribile disperazione! – D’Alembert volle egualmente confessarsi, e ne fu impedito, come l’era stato il suo maestro, dai filosofi che circondavano il suo letto — «Se noi non fossimo stati là, diceva uno di essi, avrebbe fatto il piagnone come gli altri! » – Quanto a Rousseau, morì pazzo, e si disse essere stato suicida. Qual valore morale hanno questi uomini? E che prova la loro irreligione sopratutto se loro opponete la fede, la pietà dei più grandi sapienti, dei più profondi geni, degli uomini più venerabili che siano comparsi sulla terra? La fede, notatelo bene, loro imponeva come a tutti gli uomini fatiche spiacevoli, doveri umilianti. L’evidenza sola della verità del cristianesimo ha potuto ottenere la loro adesione. – Senza parlare di quegli ammirandi dottori che la Chiesa chiama Padri, e che furono quasi i soli filosofi, i soli sapienti dei quindici primi secoli, come s. Atanasio, s. Ambrogio, s. Gregorio il grande, s. Gerolamo, s. Agostino, s. Bernardo, s. Tommaso d’Aquino (l’uomo più prodigioso forse che sia giammai esistito) quanti grandi nomi la Religione non conta essa tra i suoi figli! – Roggero Bacone, Copernico, Leibnizio, Cartesio, Pascal, Malebranche, d’Aguesseau, Lamoignon, de Maistre, de Ronald , ecc. tra i grandi filosofi e dotti del mondo. – Bossuet, Fénelon, Bourdaloue, Segncrt, Massillon tra i grandi oratori. – Corneille, Bacine, Dante, Tasso, Petrarca , Boileau ecc., ed ai nostri giorni, Chateaubriand, tra i letterati ed i poeti. – E le nostre glorie militari non sono esse per la più parte glorie religiose? Carlo Magno non era egli cristiano? Goffredo di Buglione, Tancredi, Balordo, Giovanna d’Arco, ecc. non chinavano avanti la Religione le loro fronti religiose cinte dagli allori di mille vittorie? Enrico IV, Luigi XIV erano cristiani. Turenne era cristiano, egli aveva ricevuto la comunione il giorno stesso della sua morte.—II gran Condè era cristiano. —E sopra ogni altro s. Luigi, questo vero eroe, quest’uomo si amabile e sì perfetto, la gloria della Francia, parimenti che della Chiesa! Ciascuno conosce i sentimenti del grande Napoleone riguardo al cristianesimo. Nell’ebbrezza di sua potenza, e di sua ambizione egli s’allontanò assai, lo so, dalle regole, e dai doveri pratici della Religione, ma ne conservava sempre la credenza, ed il rispetto. « Io sono cristiano, cattolico, romano, diceva egli; mio figlio l’è pure com’io; avrei gran dispiacere, se non lo potesse essere mio nipote. » – Quando sì trovò solo con se stesso a s. Elena, si diede a riflettere sulla fede della sua infanzia, e nel suo alto ingegno giudicò Napoleone la fede cattolica, vera, e santa. Egli domandò alla Religione i suoi ultimi conforti! Fece venire a s. Elena un prete cattolico, ed assisteva alla Messa celebrata nei suoi appartamenti. Raccomandava al suo cuoco di non servirlo di grasso nei giorni di magro. Faceva meravigliare i compagni del suo esilio per la forza, con cui esso discorreva sulle dottrine fondamentali del cattolicesimo. – Essendo vicino a morire, congedò i suoi medici, chiamò a sé l’abate Vignali suo cappellano, e gli disse «Io credo in Dio; son nato nella Religione cattolica, voglio adempiere i doveri ch’ella impone, e ricevere i soccorsi che somministra. » – E l’imperatore si confessò, ricevette il santo Viatico, e l’estrema unzione — « Io son felice d’avere compìti i mici doveri, disse al generale Montholon. Vi auguro, generale, d’aver alla vostra morte la medesima ventura … Io non li ho praticati sul trono, perché la potenza inebria gli uomini. Ma ho sempre conservata la fede, il suono delle campane mi fa piacere, e la vista d’un prete mi commuove.—Io voleva fare un mistero di tutto questo, ma ciò è debolezza Voglio rendere gloria a Dio!…. ». Poscia ordinò egli stesso che s’innalzasse un altare nella camera vicina per l’esposizione del Santissimo Sacramento e le preghiere delle Quarant’ore. – Così da cristiano moriva Napoleone. – Non temiamo d’ingannarci, seguendo tutti questi grand’uomini, il cui numero, la scienza religiosa, e sopratutto l’autorità morale la vincono mille volte sui pochi, che sconobbero il cristianesimo. – L’orgoglio e la passione di sapere che li assorbe interamente, altre passioni ancora più violente e più vergognose sono ragioni più che sufficienti per spiegare la loro incredulità; mentre che la verità della Religione ha potuto sola, lo ripetiamo, fare chinare la fronte degli altri sotto il sacro giogo del cattolicesimo.

X.

I PARROCI FANNO IL LORO MESTIERE. LASCIATELI DIRE.

  1. Volete voi dire con ciò che i preti sono impostori? Che essi adempiono al loro ministero, predicano, confessano, battezzano, celebrano la messa ecc., senza credere né a ciò che dicono, né a quel che fanno ? Che essi non cercano in tutte queste grandi funzioni che un sordido interesse?—Se è cosi vi do la più formale smentita. Non solamente voi ingiuriate grossolanamente il prete, ma lo calunniate! – I preti di Gesù Cristo impostori! Eh! Che ne sapete voi? Come potete leggere nel fondo del loro cuore se essi credono o non credono al loro sacerdozio? Sta all’accusatore provare ciò che asserisce, provate questa accusa? Io vi sfido. – Mi darete a mo’ di prova il nome di qualche prete malvagio? Ma non vedete che l’eccezione prova la regola? Non si segnalerebbe un cattivo prete, se l’immensa maggioranza non fosse santa; pura e veneranda. – Una macchia d’inchiostro comparisce vivamente sopra un abito bianco; la si vedrebbe appena se l’abito fosse nero e imbrattato. – Cosi è pure del sacerdozio cattolico a cui l’empietà rende qui un involontario omaggio. – Non è cosa strana che vi siano malvagi preti: ricordatevi che vi fu un Giuda tra gli apostoli!—A quella guisa che gli apostoli, primi preti, primi vescovi della Chiesa rigettarono l’apostolo infedele, e non furono responsabili del suo delitto, cosi la Chiesa condanna essa pure con più d’energia, più orrore che non facciate voi, i preti colpevoli, disertori dei loro sublimi doveri! Essa cerca sulle prime dì ricondurli colla dolcezza e col perdono: il prete come gli altri uomini ha dritto alla misericordia; ma se non si correggono, se perseverano nella loro vita malvagia, essa li stacca dal suo seno, li colpisce coi suoi anatemi, e loro interdice tutte le sacre funzioni. Qual interesse d’altronde ha il vostro parroco a confessarvi, a riprendervi dei vostri vizi, a predicarvi, a catechizzare i vostri ragazzi, a nutrire i poveri, a dare a questo un consiglio, a quello una consolazione, a un altro del pane? – Si toglierebbe forse un centesimo dalla piccola prebenda e dai casuali del prete s’ei si tacesse sopra i disordini della sua parrocchia, se ammettesse tutti ai sacramenti senza darsi l’incomodo d’esaminar le coscienze, se abbreviasse di metà il suo catechismo ecc.? Vi sarebbero sempre dei neonati da battezzare, giovani a maritare, morti a seppellire, e il signor parroco avrebbe sempre il conto del suo casuale. – Qual interesse ha egli dunque a ben adempiere al suo ministero? No, no, il prete, non è ciò che gli empi vorrebbero che fosse; ed è perché essi sanno ciò, che detestano il prete. – Essi vedono in lui il rappresentante dì Dio che condanna i loro vizi, l’inviato di Gesù Cristo che essi bestemmiano e che Egli giudicherà! Essi vedono in lui una personificazione di questa legge di Dio che essi violano incessantemente; ed è perché non vogliono saperne del Signore, che non vogliono il suo ministro. I parroci fanno il loro mestiere! a Sì, certo, i preti di Gesù Cristo fanno il loro mestiere, e ammirabile e sublime mestiere, procurando di salvare le anime dei loro fratelli! Il prete è chiamato operaio evangelico, perché infatti la missione che ha ricevuto dal Salvatore l’obbliga a un duro e difficile lavoro. – L’operaio lavora la materia; il prete lavora l’anima. Quanto l’anima è al disopra della materia, tanto l’opera de! prete è superiore a tutti i lavori della terra. Così è una parola ben sconveniente, ben empia, chiamare mestiere un sì sublime ministero. – Il prete continua sulla terra la grande opera della salute del mondo; Gesù Cristo suo Dio e suo modello l’ha incominciata per il primo; i preti continuano la sua opera nel corso de’ secoli. – A suo esempio, il prete passa la vita nel fare il bene. Egli è l’uomo di tutti; il suo cuore, il suo tempo, la sua sanità, le sue cure, il suo danaro, la sua vita appartengono a lutti ed specie ai fanciulli, ai poveri, agli abbandonati, a quelli che piangono e non trovano amici. Egli nulla attende in ricambio di questo sacrificio; il più delle volte non riceve che insulti e cattivi trattamenti. Egli non vi risponde che continuando a fare il bene. Quale vita! abnegazione sovraumana! – Nelle pubbliche calamità, nelle guerre civili, nelle malattie contagiose, nel colera, quando i ministri protestanti e i filantropi se la svignano, si vedono esporre la loro sanità, la loro vita per sollevare e salvare i loro fratelli. Tale fu Monsignor Àffre sulle barricate di Parigi; tale Belzunce, e s. Carlo Borromeo nelle pestilenze di Marsiglia, e di Milano; tale nel colera del 1832, e 1849 tutto il clero di Parigi e di tant’altre città, che s’era fatto come il servitor pubblico di tutto il popolo. – Ecco qual mestiere fanno i parroci! Io vorrei sapere se quei che li calunniano ne fanno uno migliore. Ingrati! Essi non cessano d’opprimere d’amarezza coloro che chiameranno poscia al loro capezzale nei giorni d’infortunio, coloro che hanno benedetta la loro infanzia, e mai cessano di pregare per essi. – Tutte le disgrazie del nostro paese provengono da ciò, che non si pratica ciò che insegna il prete. E la nostra patria straziata dalle discordie civili, dagli sconvolgimenti politici può applicare a sé la parola che indirizzava al cappellano d’una delle prigioni di Parigi un povero condannato a morte ritornato a Dio di tutto cuore. II prete gli aveva dato un piccolo manuale del cristiano, a « Ah! mio Padre, gli disse un giorno mostrandogli quel libro, se io avessi conosciuto ciò che quivi sì contiene, e se l’avessi praticato in tutta la mia vita, non avrei fatto ciò che ho fatto, e non sarei dove sono ! » – Se la Francia avesse conosciuto, se essa conoscesse ciò che insegna il prete, se avesse fatto, se facesse ciò che gli dice di fare, essa non sarebbe stata sconvolta da tre o quattro rivoluzioni in cinquant’anni, e non sarebbe in oggi al punto di domandare a se stessa nella sua fiacchezza: Vado io a perire ? Posso io ancora essere salvata ? Sì; lo può essere, se vuole ritornare cattolica! Sì ella può esserlo, se vuole ascoltare i ministri di colui che salva il mondo. – I preti sono la salute della Francia; senza la Religione la società è perduta. – Più che giammai si deve onore, riverenza, riconoscenza al prete. Chi lo respinge non conosce il nostro secolo, né la Francia. – Lungi da noi dunque tutti i nostri vecchi pregiudizi 1 Lungi da noi queste grossolane, e ingiuriose derisioni di cui la cieca empietà del Volterianismo aveva vituperato il sacerdozio cattolico. – Rispettiamo i nostri preti: se noi vediamo in essi delle imperfezioni, anche dei vizi, ricordiamoci che bisogna concedere all’uomo il retaggio della sua debolezza. – Cerchiamo allora di non osservare l’uomo, e di non vedere che il prete; in quanto a prete egli è sempre rispettabile, ed il suo ministero sempre santo, perché egli continua l’opera di Gesù Cristo, primo prete, nel corso dei secoli, ed è di lui, che il Salvatore ha detto: « Chi v’ascolta, mi ascolta, chi vi disprezza , disprezza me. »

XI

IO NON CREDO SE NON CIÒ CHE INTENDO: UN UOMO RAGIONEVOLE PUÒ EGLI CREDERE I MISTERI DELLA RELIGIONE ?

R. Se è così, dunque non credete niente, niente affatto, né anche che vivete, che vedete, che parlate, che intendete, ecc. ecc., perché io vi sfido a comprendere alcuno di questi fenomeni. – Infatti che cosa è la vita? Che cosa è la parola ? Che cosa è il suono? Che cosa è il rumore, il colore, l’odore, ecc.? Che cosa è il vento? Donde viene? Dove e perché e come cessa? Che cosa è il freddo e il caldo? Che cosa è il dormire? Come avviene che durante il sonno le mie orecchie restando aperte perfettamente come quando sono svegliato, non sento alcuna cosa? Perché, come mi sveglio? E cosa accade in allora? Che cosa è la fatica, il dolore, il piacere, ecc.? – Che cosa è la materia, questo non so che, il quale prende tutte le forme, tutti i colori ecc.? Chi comprende ciò che sia? Come può accadere che coi miei occhi, che sono due piccoli globi tutti neri al di dentro, vedo tutto quello che mi circonda e sino a milioni di leghe (le stelle ad esempio)? – Come avviene che la mia anima si separerebbe dal mio corpo se regolarmente io non facessi entrare in questo corpo, mediante il nutrimento, brani di bestie morte, di piante, di legumi ecc.? Tutto è mistero in me sino alle cose le più animali le più volgari [Un “Mistero” è una verità di cui possiamo conoscere con certezza l’esistenza, ma che non possiamo comprendere in se stessa che di una maniera imperfetta. – Tutto é mistero, per chi sa riflettere, nella natura come nella religione. È l’impronta delle opere di Dio]. – Chi è quel dotto che ha compreso il come e il perché dei fenomeni della natura? Chi è colui che ne ha compreso un solo? Che misteri !!… Ed io voglio comprendere Colui che ha fatti tutti questi esseri i quali non posso comprendere? Io non comprendo la creatura, e voglio comprendere il Creatore? Io non comprendo il finito, e voglio comprendere l’infinito? Io non comprendo una ghianda, una mosca, un ciottolo, e voglio comprendere Dio e tutti i suoi insegnamenti !!… – Ma ciò è assurdo! Non avvi altro a rispondere. I misteri della Religione sono come il sole impenetrabile in se stessi, essi rischiarano e vivificano quelli che camminano con semplicità al loro lume; essi non accecano che l’occhio audace che vuole fissarli. – I misteri sono al di sopra della ragione, e non contrari alla ragione. Il che è ben differente.—La ragione non vede colle sole sue forze la verità, ch’essi esprimono; ma non vede però l’impossibilità di questa verità. – Così il mistero dell’eternità; dell’infinità di Dio.—Non comprendo come un essere possa non aver principio, e trovarsi in ogni luogo, tutt’intero. Ma io non vedo punto che ciò sia impossibile, contraddittorio nei termini. – Parimenti per il mistero della Trinità.— Non comprendo come una sola natura infinita, una sola e medesima divinità possa appartenere allo stesso tempo a tre Persone distinte; ma non vedo che ciò sia evidentemente contrario alla verità, impossibile in sé. —Il dire «Tre persone non fanno che una sola persona, » sarebbe evidentemente falso ed assurdo; ma non già: Tre persone hanno la medesima, ed unica natura divina, e per conseguenza non sono che un solo Dio. » – Così ancora, i misteri dell’incarnazione, della redenzione, dell’eucaristia, dell’eternità, dei premi e delle pene, e tutti gli altri, che insegna la Chiesa cattolica.—Non comprendo l’unione della natura divina alla natura umana in Gesù Cristo.—Non comprendo come Gesù Cristo, Dio, e uomo ha espiato colla sua morte tutti i nostri peccati, e come calla sua grazia, ch’Egli ha unita ai sacramenti applica questa santificazione alle nostre anime.—Io non veggo come il suo corpo glorificato sia presente nell’eucaristia, come la sostanza del pane, e del vino sia cambiata per la consacrazione del sacerdote nella Messa nella sostanza del corpo e del sangue adorabile del Salvatore.—Io non veggo, come una felicità ed una pena eterna siano la giusta ricompensa, e la giusta punizione di azioni temporali buone o ree, ecc. Ma non posso dire a me stesso, né altri il può dire più di me: « Ciò è evidentemente contrario alla verità , evidentemente, ed assolutamente impossibile. » – Dunque i misteri della religione sono al di sopra della ragione, e non ad essa contrari. – No la fede non è contraria alla ragione. Ben lungi da ciò, essa è sua sorella, e suo aiuto. È una luce più viva, che si aggiunge ad una prima luce. – La fede è alla ragione ciò che è il Telescopio all’occhio nudo. L’occhio col Telescopio vede ciò che non può vedere da solo. Penetra nelle regioni, che gli sono inaccessibili senza questo soccorso. Direte voi che il Telescopio è contrario alla vista? – Tale è la fede. Essa non fa che regolare, ed estendere la ragione. Essa la lascia applicare a tutto ciò che è di sua spettanza; e colà dove mancano le forze naturali, essa la prende, la solleva, e la fa penetrare verità nuove, soprannaturali, divine, sino i segreti di Dio. – Io credo dunque ì misteri della religione come credo quelli della natura, perché so che esistono. – Io so che i misteri della natura esistono perché testimoni irrefragabili me l’attestano: i miei sensi ed il senso comune. – Io so che i misteri della religione esistono, perché testimoni più irrefragabili ancora me l’attestano. Gesù Cristo e la sua Chiesa. La mia ragione mi serve per esaminare e pesare il valore della loro testimonianza. Ma una volta che colla luce della filosofia, della critica, e del buon senso, io esaminai i fatti che mi provano la verità, la divinità, l’infallibilità di queste testimonianze, la mia ragione ha terminata la sua opera; la fede le deve succedere, la ragione mi condusse alla verità. Essa parla, io non ho più che ascoltarla, che aprire la mia anima a credere, ad adorare! – La mia fede ai misteri cristiani è dunque sovranamente ragionevole. Essa prova uno spirito fermo e logico. La mia ragione mi disse: « Questi testimoni non possono ingannarti, nè ingannarsi. Essi ti apportano dal cielo la verità! » — Io mancherei alla mia ragione se non credessi alla loro parola. È una miserabile debolezza di spirito il non volere credere se non quello che si comprende.

XII.

VORREI BEN VOLENTIERI AVER LA FEDE MA NON POSSO.

R. Pura illusione che non vi scuserà al tribunale del tremendo Giudice che ci dichiarò che « a colui che crede in Esso ha la vita eterna, e che quello che non crede in Lui è già condannato. » – « Voi non potete credere? » E quali mezzi avete presi per arrivare alla fede? Chi vuole il fine vuol pure i mezzi, chi non cura i mezzi mostra evidentemente che non si prende pensiero del fine. – Ora è questo il vostro caso se non avete la fede. O non avete preso i mezzi per ottenerla, ovvero lì avete presi malamente; ciò che torna presso a poco allo stesso. – 1.° Avete pregato? Questa è la prima condizione di tutti i doni di Dio, per conseguenza anche della fede che è il dono il più prezioso, il più fondamentale. Avete domandato a Dio questa grazia della fede? — Come l’avete chiesta ? — Non forse alla sfuggita senza troppo curarvene, una volta di passaggio e senza perseveranza? — Avevate pregando, ed avete attualmente un profondo, sincero, e vivo desiderio di credere e di essere cristiano? Vi sono alcuni che domandano le virtù con grande paura di ottenerle. – 2.° Avete studiato la religione con un amore sincero della verità?— Siete stato a trovare un prete istruito, o almeno un cristiano illuminato nella sua credenza per esporre e sciogliere le vostre difficoltà? L’orgoglio è quello che sovente ne trattiene. – 3.° Vi siete deciso, se Dio vi concedeva la fede, a vivere secondo le sue sante ed austere massime, a combattere le vostre passioni, a travagliare alla vostra santificazione, a fare a Dio i sacrifici che vi domanderà? – Ecco, nella maggior parte degli increduli la vera ragione del loro stato. In sostanza è il cuore, è la passione che respinge la fede come troppo penosa e troppo incomoda. « La luce è venuta nel mondo, disse » Gesù Cristo, e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. » Il cuore trasporta la testa. Allora i ragionamenti non giovano più a niente, non se ne vuole sapere della verità. Non avvi sordo peggiore di chi non vuol sentire. – Questo accecamento è volontario e colpevole nella sua causa, ecco perché nostro Signor Gesù Cristo dichiara che un incredulo è già giudicato: esso resisté alla verità. Siate di buona fede nella vostra ricerca della verità religiosa; domandale a Dio la luce con sincerità e perseveranza; esponete i vostri dubbi a un prete caritatevole ed illuminato: siate disposto a vivere secondo la fede, dopo che la sua luce divina schiarirà la vostra anima, ed io vi assicuro in nome di Gesù Cristo, che voi non tarderete a credere e ad essere un buon cattolico.

 

Un’enciclica al giorno toglie il modernista apostata di torno: DEI FILIUS

Un’enciclica al giorno toglie il modernista apostata di torno o … in questo caso …:

l’anatema papista all’inferno manda l’apostata modernista!

a voi la scelta!

Proponiamo oggi all’attenzione del lettore questa Costituzione Apostolica del Concilio Vaticano, XX ed ultimo della Chiesa Cattolica, presieduto dall’autorità di S. S. Pio IX, che si batté allo stremo contro i novatori, già all’epoca infiltrati nel Concilio, ma ancora minoritari rispetto ai Santi Padri ancora Cattolici. Vengono qui ribadite le verità basilari della fede cattolica, opposte alle idiozie e ai deliri del panteismo, del naturalismo, del deismo, dello scientismo fasullo, della interpretazione razionale della Sacra Scrittura, della pretesa libertà di non osservare come divinamente ispirato il Magistero ordinario ed universale della Chiesa, in pratica tutti gli abomini oggi trionfanti nel modernismo ecumenico, liberista e massonico della setta oggi imperante come “abominio della desolazione” ed occupante i sacri Palazzi ed i templi, un tempo cristiani, di tutto l’orbe. Stiano attente però, queste menti bacate e corrotte fin nel midollo, perché tali idee moderniste ed ultramoderniste, alle quali nulla manca per essere pari agli apostati scismatici di ogni risma dei secoli passati, succedutisi con vergognosa sfacciataggine, nell’ergersi contro la santa fede divinamente ispirata, e rigettando nelle parole o nei fatti, il santo Magistero di sempre della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica romana: i venti anatemi di questa costituzione sono eterni ed inviolabili e portano dritto all’eterna riprovazione, comune a tutti quelli che, eretici o apostati o scismatici, o anche solo prossimi all’eresia, come ben precisato in coda a questo scritto sacro, si pongono fuori dall’unica Chiesa di Cristo, fuori dalla quale non c’è salvezza! Attenti al fuoco che arderà in eterno, secondo la promessa evangelica … “ e la sarà pianto e stridor di denti!”. Ai veri Cattolici ora diciamo: fermiamo un attimo la nostra preghiera per i tanti fratelli ingannati dai lupi modernisti, servi del signore dell’universo, cioè il baphomet luciferino che essi adorano nel falso rito rosacrociano insediato come “abominio” in luogo della Santa Messa, del Sacrificio di Cristo offerto al Padre in remissione delle nostre colpe, e gustiamo, con l’esultanza dello spirito, questa goduria per l’anima: “Dei filius et generi humani Redemptor Dominus noster Jesus Christus … 

COSTITUZIONE APOSTOLICA

“DEI FILIUS”

DEL SOMMO PONTEFICE PIO IX

AI VENERABILI FRATELLI, PATRIARCHI,

PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI

E AGLI ALTRI ORDINARI

AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE

PACE E COMUNIONE

PIO PP. IX

SERVO DEI SERVI DI DIO

VENERABILI FRATELLI, SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

“Il Figlio di Dio e Redentore del genere umano, il Signore Nostro Gesù Cristo, accingendosi a ritornare al Padre celeste, promise che sarebbe rimasto con la sua Chiesa militante sulla terra, tutti i giorni, fino alla consumazione dei secoli. Pertanto Egli, in nessun tempo, mai tralasciò di essere sollecito ad aiutare la sua sposa diletta, di assisterla nell’insegnamento, di benedirla nelle sue opere, di soccorrerla nei pericoli. Questa sua salutare Provvidenza, come apparve di continuo da altri innumerevoli benefici, così si manifestò grandissima in quei frutti che pervennero a tutto l’Orbe cristiano dai vari Concili Ecumenici e segnatamente da quello di Trento, quantunque sia stato celebrato in tempi malagevoli. – Da questo Concilio infatti furono più espressamente definiti e più ampiamente esposti i dogmi santissimi della Religione, con la condanna e la repressione degli errori. Da tale Concilio venne reintegrata la disciplina ecclesiastica e più saldamente rinsaldata; fu promosso nel Clero l’amore della scienza e della pietà; furono preparati i collegi per educare gli adolescenti alla milizia sacerdotale; infine, furono restaurati i costumi del popolo cristiano con una più diligente istruzione dei fedeli e con l’uso più frequente dei Sacramenti. Ne derivò inoltre una maggiore comunione delle membra col Capo visibile, e si aggiunse maggior vigore a tutto il Corpo mistico di Cristo; si moltiplicarono gli ordini religiosi e gli altri istituti di pietà cristiana, e sorse quell’ardore assiduo e costante nel propagare largamente per il mondo il regno di Cristo, fino allo spargimento del sangue. – Ma mentre, con animo grato, rammentiamo doverosamente questi ed altri benefici che la divina clemenza ha elargito alla Chiesa, specialmente per mezzo dell’ultimo Sinodo ecumenico, non possiamo comprimere l’acerbo dolore causato principalmente dal fatto che o cadde in disprezzo presso moltissimi l’autorità del predetto santo Concilio, o perché si trascurarono i suoi sapientissimi decreti. – Certamente nessuno ignora che le eresie, già condannate dai Padri del Concilio Tridentino, si divisero in varie sette in conseguenza del rigetto che si faceva del divino magistero della Chiesa e con il lasciare in balìa del giudizio di ciascuno le verità relative alla religione; e queste sette, discordando tra loro e combattendosi, fecero venir meno in molti ogni fede in Cristo. Così le stesse Sacre Scritture, che prima erano proclamate come la sola fonte della verità e il codice unico della dottrina cristiana, finirono coll’essere ritenute non più libri divini, fino ad essere annoverate fra i racconti mitici. – Allora nacque e si diffuse ampiamente quella dottrina del razionalismo, o naturalismo, che combattendo in tutto la religione cristiana appunto perché di istituzione soprannaturale, con ogni sforzo si adopera di ottenere che il Cristo sia bandito (il solo Signore e Salvatore nostro) dalla mente degli uomini, sia dalla vita e dai costumi dei popoli, si potesse instaurare il regno – come dicono – della pura ragione e della natura. Abbandonata poi e rigettata la religione cristiana, rinnegato il vero Dio e il suo Cristo, alla fine molti precipitarono nel baratro del panteismo, del materialismo, dell’ateismo, cosicché, negando la stessa natura razionale e ogni norma di giustizia e di rettitudine, arrivano ad abbattere i fondamenti essenziali della società umana. – Imperversando poi dovunque questa empietà, accadde miserabilmente che molti, pure figli della Chiesa cattolica, si smarrirono dalla via della vera pietà, ed oscurandosi in loro a poco a poco le verità, si attenuò anche il sentire cattolico. Trasportati da queste instabili e speciose dottrine, confondendo malamente la natura con la grazia, la scienza umana con la fede divina, arrivano a corrompere il senso genuino dei dogmi professati dalla Santa Madre Chiesa e mettono in pericolo l’integrità e la sincerità della fede. – In considerazione di tutte queste cose, come non possono commuoversi le intime viscere della Chiesa? Poiché, come Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano a conoscere la verità; come Cristo venne per salvare ciò che era perduto a congregare in uno i figli che erano dispersi, così la Chiesa, costituita da Dio Madre e Maestra dei popoli, ben sa di essere debitrice a tutti: pertanto è sempre pronta a sollevare i caduti, a sostenere i vacillanti, ad abbracciare quelli che ritornano, a confermare i buoni e ad indirizzarli verso le cose migliori. Perciò in nessun tempo essa può astenersi dall’attestare e predicare la verità di Dio che risana ogni cosa, non ignorando quello che a lei è stato detto: “Lo Spirito mio che è in te, e le mie parole che posi sulla tua bocca, non si allontaneranno dalla tua bocca né ora, né mai” (Is XLIX,21). – Noi dunque, seguendo le orme dei Nostri Predecessori, in virtù del Nostro Apostolico mandato, non cessiamo mai d’insegnare e difendere la verità cattolica e di condannare le dottrine perverse. Ora poi essendo qui uniti con Noi, deliberanti, tutti i Vescovi del mondo cattolico, dalla Nostra autorità congregati nello Spirito Santo in questo Concilio Ecumenico, fondandoci sulla parola di Dio, contenuta nella Scrittura e nella Tradizione, come l’abbiamo ricevuta, santamente custodita e genuinamente interpretata dalla Chiesa cattolica, determinammo di professare e dichiarare al cospetto di tutti, da questa Cattedra di Pietro, con la potestà a Noi trasmessa da Dio, la salutare dottrina di Cristo, proscrivendo e condannando gli errori ad essa contrari.

Capitolo I – Dio creatore di tutte le cose

La Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana crede e confessa che uno solo è il Dio vivo e vero, Creatore e Signore del cielo e della terra, onnipotente, eterno, immenso, incomprensibile, infinito per intelletto, volontà e per ogni perfezione, il quale essendo unica singolare, assolutamente semplice ed immutabile sostanza spirituale deve essere predicato realmente e per essenza, distinto dal mondo, in sé e per sé beatissimo, ineffabilmente eccelso sopra tutte le cose che sono e che si possono concepire fuori di Lui. – Questo solo vero Dio, per la Sua bontà e per la Sua onnipotente virtù, non già per accrescere od acquistare la Sua beatitudine, ma per manifestare la Sua perfezione attraverso i beni che dona alle Sue creature, con liberissima decisione fin dal principio del tempo produsse dal nulla l’una e l’altra creatura contemporaneamente, la spirituale e la corporale, cioè l’angelica e la terrena, e quindi l’umana, costituita in comune di spirito e di corpo [CONC. LATER. IV, c. 1, Firmiter]. – Iddio, con la Sua provvidenza, conserva e governa tutte le cose che Egli ha creato, estendendosi da un confine all’altro con forza, e disponendo soavemente ogni cosa (Sap. VIII,1). Infatti, tutte le cose sono nude e scoperte ai Suoi occhi (cf. Eb IV,13), anche quelle che per libera scelta delle creature saranno in avvenire.

Capitolo II – La Rivelazione

La medesima Santa Madre Chiesa professa ed insegna che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza al lume naturale della ragione umana attraverso le cose create; infatti, le cose invisibili di Lui vengono conosciute dall’intelligenza della creatura umana attraverso le cose che furono fatte (Rm 1,20). Tuttavia piacque alla Sua bontà e alla Sua sapienza rivelare se stesso e i decreti della Sua volontà al genere umano attraverso un’altra via, la soprannaturale, secondo il detto dell’Apostolo: “Dio, che molte volte e in vari modi parlò un tempo ai padri attraverso i Profeti, recentemente, in codesti giorni, ha parlato a noi attraverso il Figlio” (Eb 1,1-2). – Si deve a questa divina Rivelazione se tutto ciò che delle cose divine è di per sé assolutamente inaccessibile alla ragione umana, anche nella presente condizione del genere umano può facilmente essere conosciuto da tutti con certezza e senza alcun pericolo di errore. Tuttavia non per questo motivo deve dirsi assolutamente necessaria la Rivelazione, ma perché nella Sua infinita bontà Dio destinò l’uomo ad un fine soprannaturale, cioè alla partecipazione dei beni divini, che superano totalmente l’intelligenza della mente umana; infatti Dio ha preparato per coloro che Lo amano quelle cose che nessun occhio vide, nessun orecchio mai udì, nessun cuore umano conobbe (1Cor II,9). – Questa Rivelazione soprannaturale, secondo la fede della Chiesa universale, proclamata anche dal santo Concilio Tridentino, è contenuta nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte ricevute dagli Apostoli dalla stessa bocca di Cristo o dagli Apostoli dalla stessa bocca di Cristo o dagli Apostoli, ispirati dallo Spirito Santo, tramandate di generazione in generazione fino a noi [CONC. TRID., Sess. IV, Decr. De Can. Script.]. Ora questi libri, sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, integri in tutte le loro parti, come sono numerati nel decreto del medesimo Concilio e come si trovano tradotti nell’antica edizione latina, devono ritenersi per sacri e canonici. La Chiesa li considera sacri e canonici non perché, composti da opera umana, siano poi stati approvati dalla sua autorità, e neppure perché contengono la Rivelazione divina senza errore, ma perché, essendo stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio come autore e come tali sono stati affidati alla Chiesa. – Poiché quelle cose che il santo Concilio Tridentino decretò per porre conveniente freno alle menti presuntuose sono state interpretate in modo malvagio da taluni, Noi rinnoviamo il medesimo decreto e dichiariamo che questo è il suo significato: nelle cose della fede e dei costumi appartenenti alla edificazione della dottrina Cristiana deve essere tenuto per vero quel senso della sacra Scrittura che ha sempre tenuto e tiene la Santa Madre Chiesa, alla cui autorità spetta giudicare del vero pensiero e della vera interpretazione delle sante Scritture; perciò a nessuno deve essere lecito interpretare tale Scrittura contro questo intendimento o anche contro l’unanime giudizio dei Padri.

Capitolo III – La Fede

Essendo l’uomo, in tutto il suo essere, dipendente da Dio, suo Creatore e Signore, ed essendo la ragione creata completamente soggetta alla Verità increata, noi siamo tenuti a prestare con la fede il nostro pieno ossequio di mente e di volontà a Dio rivelante. La Chiesa cattolica professa che questa fede, che è l’inizio della salvezza dell’uomo, è una virtù soprannaturale, con la quale, sotto l’ispirazione e la grazia di Dio, crediamo che le cose da Lui rivelate sono vere, non per la loro intrinseca verità individuata col lume naturale della ragione, ma per l’autorità dello stesso Dio rivelante, il quale né può ingannarsi, né può ingannare. La fede è, per testimonianza dell’Apostolo, sostanza delle cose sperate, argomento delle non apparenti (Eb XI,1). Ma affinché l’ossequio della nostra fede fosse conforme alla ragione, Dio ha voluto che agli aiuti interiori dello Spirito Santo, si unissero gli argomenti esterni della sua Rivelazione, cioè gli interventi divini, come sono principalmente i miracoli e le profezie che dimostrano luminosamente l’onnipotenza e la scienza infinita di Dio e sono segni certissimi della divina Rivelazione e adatti all’intelligenza di tutti. Per questo Mosè e i profeti, ma specialmente Cristo Signore fecero molti e chiari miracoli e profezie; e degli Apostoli leggiamo: “Essi poi partirono e predicarono dappertutto, cooperando il Signore e confermando la loro predicazione con prodigi che li accompagnavano” (Mc XVI, 20). – Sta pure scritto: “Abbiamo il linguaggio profetico più sicuro, che fate bene ad osservare, come lampada che splende in un luogo oscuro” [2Pt 1,19] . Benché, dunque, l’assenso alla fede non sia un cieco impulso dell’anima, tuttavia nessuno riesce ad aderire alla verità del Vangelo nel modo necessario per il conseguimento dell’eterna salvezza, senza l’illustrazione e l’ispirazione dello Spirito Santo, il quale dà a tutti soavità nel consentire e credere alla verità [Syn. Araus., II, can. 7]. Pertanto la stessa fede, anche quando non opera per la carità, è dono di Dio, e il suo atto è opera ordinata alla salvezza, con cui l’uomo presta a Dio libera obbedienza, cooperando e consentendo alla Sua grazia, alla quale però può sempre resistere. – Quindi si devono credere con fede divina e cattolica tutte quelle cose che sono contenute nella parola di Dio, scritta o trasmessa per tradizione, e che vengono proposte dalla Chiesa, o con solenne definizione, o con il magistero ordinario e universale, come divinamente ispirate, e pertanto da credersi. – Poiché senza la fede è impossibile piacere a Dio e giungere all’unione con i suoi figli, così senza di essa nessuno potrà mai essere assoluto, come pure nessuno conseguirà la vita eterna senza aver perseverato in essa sino alla fine. Affinché poi potessimo adempiere il dovere di abbracciare la vera fede e perseverare costantemente in essa, Dio, mediante il Suo Figlio Unigenito, istituì la Chiesa e la insignì di così chiare note perché potesse essere conosciuta da tutti come custode e maestra della parola rivelata. – Infatti alla sola Chiesa cattolica appartengono tutte quelle cose così ricche e così meravigliose che sono state divinamente predisposte per la credibilità della fede cristiana. Anzi, la Chiesa, per se stessa, cioè per la sua ammirevole propagazione nel mondo, per la sua esimia santità e per l’inesausta fecondità di tutti i suoi beni, per la sua unità, per l’invitta solidità è un grande e perenne motivo di credibilità, una testimonianza irrefragabile della sua istituzione divina. Onde avviene che essa, come vessillo levato fra le genti (Is XI,12), invita continuamente a sé quelli che non credono, e assicura i suoi figli che la fede da loro professata poggia su solidissimo fondamento. A questa testimonianza proviene un efficacissimo aiuto dalla suprema virtù. Infatti il misericordioso Signore eccita gli erranti, e li aiuta con la sua grazia affinché possano giungere a conoscere la verità; conferma con la stessa grazia coloro che trasse dalle tenebre nella sua mirabile luce, affinché perseverino nella stessa luce: non abbandona mai nessuno se non è abbandonato. Conseguentemente, non è pari la condizione di coloro che con il celeste dono della fede aderirono alla verità cattolica e la condizione di coloro che, guidati da opinioni umane, seguono una falsa religione. Infatti, quelli che sotto il Magistero della Chiesa hanno ricevuto la fede, non possono avere alcun giusto motivo per cambiare o mettere in dubbio la loro fede. Stando così le cose, rendendo grazie a Dio Padre, il quale ci ha fatti degni di partecipare nella luce alla sorte dei santi, non trascuriamo tanta salvezza, ma guardando all’autore e perfezionatore della fede, Gesù, manteniamo immutata la confessione della nostra speranza.

Capitolo IV – Della Fede e della Ragione

L’ininterrotto pensiero della Chiesa cattolica sostenne e sostiene che esiste un duplice ordine di cognizioni, distinto non solo quanto al principio, ma anche riguardo all’oggetto; quanto al principio, perché in uno conosciamo con la ragione naturale, nell’altro con la fede divina; quanto all’oggetto perché, oltre le cose a cui la ragione naturale potrebbe arrivare, ci viene proposto di credere misteri nascosti in Dio: misteri che non possono essere conosciuti senza la rivelazione divina. Per questo l’Apostolo, il quale asserisce che Dio è conosciuto dalle genti attraverso le cose che sono state create, trattando poi della grazia e della verità che ci sono venute da Gesù Cristo (Gv 1,17), afferma: “Noi parliamo di una sapienza di Dio, misteriosa, che è nascosta: di una sapienza che Dio ha ordinato prima dei secoli per la nostra gloria, e che nessuno dei principi di questa terra ha conosciuto. A noi è stata rivelata da Dio per mezzo del Suo Spirito: quello Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le cose profonde di Dio (1Cor 2,7-9). Lo stesso Figlio Unigenito ringrazia il Padre di aver tenuto nascoste queste cose ai sapienti e di averle rivelate ai pargoli” (Mt XI, 25). Per la verità, la ragione, quando è illuminata dalla fede e cerca diligentemente, piamente e con amore, ottiene, con l’aiuto di Dio, una certa comprensione dei misteri, già preziosa per sé, sia per l’analogia con le cose che già conosce naturalmente, sia per la connessione degli stessi misteri fra di loro relativamente al fine ultimo dell’uomo. Essa, però, non è mai in grado di comprendere tali misteri allo stesso modo delle verità che costituiscono l’oggetto naturale delle proprie capacità conoscitive. Infatti, i misteri di Dio trascendono per loro natura in modo così elevato l’intelletto creato, che anche se insegnati dalla Rivelazione e accolti con fede, restano tuttavia coperti dal velo della stessa fede e quasi avvolti nell’oscurità finché in questa vita mortale noi pellegriniamo lontani dal Signore: giacché noi camminiamo per fede e non per conoscenza (2Cor V,7). – Ma sebbene la fede sia superiore alla ragione, pure non vi può essere nessun vero dissenso fra la fede e la ragione, poiché il Dio che rivela i misteri della fede e la infonde in noi è lo stesso che ha infuso il lume della ragione nell’animo umano; Dio non può quindi negare se stesso, né la verità contraddire la verità. La vana apparenza di queste contraddizioni nasce soprattutto o perché i dogmi della fede non sono stati compresi ed esposti secondo la mente della Chiesa, o perché false opinioni sono state considerate verità dettate dalla ragione. Stabiliamo pertanto che ogni asserzione contraria alla verità della fede illuminata è totalmente falsa [CONC. LAT. V, Bulla Apostolici regiminis]. La Chiesa, poi, che insieme con l’ufficio apostolico d’insegnare ha ricevuto pure il mandato di custodire il deposito della fede, ha da Dio anche il diritto e il dovere di proscrivere la falsa scienza, affinché nessuno sia ingannato da una filosofia vana e fallace (Col II,8). Conseguentemente non solo è vietato a tutti i fedeli cristiani di difendere come legittime conclusioni della scienza tali opinioni che sono contrarie alla dottrina della fede, specialmente quando sono state riprovate dalla Chiesa, ma gli stessi cristiani sono assolutamente tenuti a considerarle come errori che hanno ingannevole parvenza di verità. – La fede e la ragione non solo non possono essere mai in contrasto fra loro, ma anzi si aiutano vicendevolmente in modo che la retta ragione dimostri i fondamenti della fede e, illuminata da questa, coltivi la scienza delle cose divine, e la fede, dal canto suo, renda la ragione libera da errori, arricchendola di numerose cognizioni. Pertanto, non è affatto vero che la Chiesa si opponga alla cultura delle arti e delle discipline umane; anzi, le coltiva e le favorisce in molti modi. Essa non ignora né disprezza i vantaggi che da esse provengono alla vita umana; anzi dichiara che esse, dato che derivano da Dio, Signore delle scienze, conducono l’uomo a Dio, con l’aiuto della Sua grazia, qualora siano debitamente coltivate. La Chiesa non vieta certamente che le diverse discipline si valgano dei propri principi e del proprio metodo, ciascuna nel proprio ambito, ma mentre riconosce questa giusta libertà, vigila attentamente che esse non accolgano nel proprio interno errori contrari alla divina dottrina, oppure che, travalicando i propri confini, non occupino né sconvolgano le materie appartenenti alla fede. – La dottrina della fede che Dio rivelò non è proposta alle menti umane come una invenzione filosofica da perfezionare, ma è stata consegnata alla Sposa di Cristo come divino deposito perché la custodisca fedelmente e la insegni con Magistero infallibile. Quindi deve essere approvato in perpetuo quel significato dei sacri dogmi che la Santa Madre Chiesa ha dichiarato, né mai si deve recedere da quel significato con il pretesto o con le apparenze di una più completa intelligenza. Crescano dunque e gagliardamente progrediscano, lungo il corso delle età e dei secoli, l’intelligenza e la sapienza, sia dei secoli, sia degli uomini, come di tutta la Chiesa, ma nel proprio settore soltanto, cioè nel medesimo dogma, nel medesimo significato, nella medesima affermazione [VINC. LIR. Common., n. 28].

CANONI

I – Di Dio creatore di tutte le cose

  1. Se qualcuno negherà l’unico vero Dio Creatore e Signore di tutte le cose visibili ed invisibili: sia anatema.
  2. Se qualcuno non arrossirà affermando che nulla esiste all’infuori della materia: sia anatema.
  3. Se qualcuno dirà che unica e identica è la sostanza, o l’essenza, di Dio e di tutte le cose: sia anatema.
  4. Se qualcuno dirà che le cose finite, sia materiali, sia spirituali, o almeno le spirituali, sono emanate dalla sostanza divina; ovvero che la divina essenza per la sua manifestazione ed evoluzione diventa ogni cosa; ovvero infine che Dio è ente universale od indefinito, il quale determinando se stesso costituisce l’universo delle cose, distinto in generi, specie ed individui: sia anatema.
  5. Se qualcuno non dichiara che il mondo e tutte le cose che in esso sono contenute, sia spirituali, sia materiali, secondo tutta la loro sostanza, sono stati da Dio prodotti dal nulla; o dirà che Dio non per volontà libera da ogni necessità, ma tanto necessariamente creò, quanto necessariamente ama se stesso; o negherà che il mondo sia stato creato a gloria di Dio: sia anatema.

II – Della Rivelazione

  1. Se qualcuno dirà che l’unico vero Dio, nostro Creatore e Signore, non può essere conosciuto con certezza dal lume naturale della ragione umana, attraverso le cose che da Lui sono state fatte: sia anatema.
  2. Se qualcuno dirà che non è possibile o spiegabile che l’uomo, attraverso la divina Rivelazione, sia ammaestrato e illuminato su Dio e sul culto che Gli si deve prestare: sia anatema.
  3. Se qualcuno dirà che l’uomo non può essere divinamente elevato ad una conoscenza e ad una perfezione che superino quelle naturali, ma che può e deve da se stesso arrivare al possesso di ogni verità e di ogni bene in un continuo progresso: sia anatema.
  4. Se qualcuno non accetterà come sacri e canonici i libri interi della sacra Scrittura, in tutte le loro parti, come li ha accreditati il santo Concilio Tridentino, o negherà che siano divinamente ispirati: sia anatema.

III – Della Fede

  1. Se qualcuno dirà che la ragione umana è così indipendente che Dio non le può comandare la fede: sia anatema.
  2. Se qualcuno dirà che la fede divina non si distingue dalla conoscenza naturale di Dio e delle cose morali, e che perciò non si richiede alla fede divina che la verità rivelata sia creduta per l’autorità di Dio rivelante: sia anatema.
  3. Se qualcuno dirà che la Rivelazione divina non può rendersi credibile per segni esterni, e che perciò gli uomini devono procedere verso la fede solo attraverso l’interiore esperienza o l’ispirazione privata di ciascuno: sia anatema.
  4. Se qualcuno dirà che i miracoli sono impossibili e che quindi la loro narrazione, anche se contenuta nella sacra Scrittura, sia da relegare tra le favole e i miti; ovvero che i miracoli non si possono mai conoscere con certezza, né per mezzo di essi si può conoscere e provare sufficientemente la divina origine della religione cristiana: sia anatema.
  5. Se qualcuno dirà che l’assenso alla fede cristiana non è libero, ma che si produce necessariamente dagli argomenti della ragione umana; ovvero che la grazia di Dio è necessaria alla sola fede viva che opera per la carità: sia anatema.
  6. Se qualcuno dirà che la condizione dei fedeli e quella di coloro che ancora non sono arrivati all’unica vera fede sono pari, così che i cattolici possono avere giusto motivo per mettere in dubbio la fede che già ricevettero sotto il magistero della Chiesa, sospendendone l’assenso finché non abbiano compiuto la dimostrazione scientifica della credibilità e della verità della loro fede: sia anatema.

IV – Fede e Ragione

  1. Se qualcuno dirà che nella rivelazione divina non è contenuto alcun mistero vero e propriamente detto, ma che tutti i dogmi della fede possono essere compresi e dimostrati dalla ragione debitamente coltivata per mezzo dei principi naturali: sia anatema.
  2. Se qualcuno dirà che le discipline umane devono essere trattate con tale libertà che le loro asserzioni, anche se contrarie alla dottrina rivelata, possono essere ritenute vere e non possono essere condannate dalla Chiesa: sia anatema.
  3. Se qualcuno dirà che può accadere che ai dogmi della Chiesa si possa un giorno – nel continuo progresso della scienza – attribuire un senso diverso da quello che ha inteso e intende dare la Chiesa: sia anatema.

* * *

Pertanto, eseguendo il dovere del Nostro supremo ufficio pastorale, per le viscere di Gesù Cristo scongiuriamo tutti i fedeli di Cristo, specialmente coloro che presiedono o hanno l’ufficio d’insegnare, anzi comandiamo loro, con l’autorità dello stesso Dio e Salvatore nostro, che dedichino il loro studio e la loro opera per allontanare ed eliminare questi errori dalla Santa Chiesa e spandere la luce della purissima fede. E poiché non basta evitare gli errori dell’eresia, se non si fuggono diligentemente anche tutti gli altri errori che più o meno ad essa si avvicinano, richiamiamo tutti al dovere di osservare anche le Costituzioni e i Decreti con i quali furono condannate e proibite da questa Santa Sede tutte le false dottrine e opinioni di questo genere che qui non sono esplicitamente indicate.”

Dato a Roma, nella pubblica Sessione solennemente celebrata nella Basilica Vaticana l’anno dell’Incarnazione del Signore 1870, il 24 aprile, nell’anno ventiquattresimo del Nostro Pontificato.

PIO PP. IX

PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA

Introitus Ps XC:15; XC:16

Invocábit me, et ego exáudiam eum: erípiam eum, et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum. [Mi invocherà e io lo esaudirò: lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni.] Ps XC:1 Qui hábitat in adjutório Altíssimi, in protectióne Dei coeli commorábitur. [Chi àbita sotto l’égida dell’Altissimo dimorerà sotto la protezione del cielo]. V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen.

Invocábit me, et ego exáudiam eum: erípiam eum, et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum. [Mi invocherà e io lo esaudirò: lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni.]

Oratio V. Dóminus vobíscum. – Et cum spiritu tuo.

Orémus. Deus, qui Ecclésiam tuam ánnua quadragesimáli observatióne puríficas: præsta famíliæ tuæ; ut, quod a te obtinére abstinéndo nítitur, hoc bonis opéribus exsequátur. [O Dio, che purífichi la tua Chiesa con l’ànnua osservanza della quaresima, concedi alla tua famiglia che quanto si sforza di ottenere da Te con l’astinenza, lo compia con le opere buone.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.

Lectio Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios. 2 Cor VI:1-10.

“Fratres: Exhortámur vos, ne in vácuum grátiam Dei recipiátis. Ait enim: Témpore accépto exaudívi te, et in die salútis adjúvi te. Ecce, nunc tempus acceptábile, ecce, nunc dies salútis. Némini dantes ullam offensiónem, ut non vituperétur ministérium nostrum: sed in ómnibus exhibeámus nosmetípsos sicut Dei minístros, in multa patiéntia, in tribulatiónibus, in necessitátibus, in angústiis, in plagis, in carcéribus, in seditiónibus, in labóribus, in vigíliis, in jejúniis, in castitáte, in sciéntia, in longanimitáte, in suavitáte, in Spíritu Sancto, in caritáte non ficta, in verbo veritátis, in virtúte Dei, per arma justítiæ a dextris et a sinístris: per glóriam et ignobilitátem: per infámiam et bonam famam: ut seductóres et veráces: sicut qui ignóti et cógniti: quasi moriéntes et ecce, vívimus: ut castigáti et non mortificáti: quasi tristes, semper autem gaudéntes: sicut egéntes, multos autem locupletántes: tamquam nihil habéntes et ómnia possidéntes.” –  Deo gratias.

[Fratelli: Vi esortiamo a non ricévere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti: Ti esaudii nel tempo accettabile, e nel giorno della salvezza ti offrii soccorso. Ecco ora il tempo accettabile, ecco ora il giorno della salvezza. Non diamo ad alcuno occasione d’inciampo, affinché non sia vituperato il nostro ministero: ma comportiamoci in tutte le cose come ministri di Dio, con molta pazienza, nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angustie, nelle battiture, nelle prigionie, nelle sedizioni, nelle fatiche, nelle vigílie, nei digiuni, con la castità, con la scienza, con la mansuetudine, con la soavità, con lo Spírito Santo, con una carità non simulata, con la parola di verità, con la virtù di Dio, con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nell’ignominia, nell’infamia e nel buon nome: come seduttori, eppur veraci: come ignoti, eppur conosciuti: come morenti, ed ecco che siamo vivi: come castigati, ma non uccisi: quasi tristi, eppur sempre allegri: quasi mendichi, pur arricchendo molti: come aventi nulla e possedenti tutto.]

Graduale Ps XC,11-12

Angelis suis Deus mandávit de te, ut custódiant te in ómnibus viis tuis.

In mánibus portábunt te, ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum.

[Dio ha mandato gli Ángeli presso di te, affinché ti custodíscano in tutti i tuoi passi. Essi ti porteranno in palmo di mano, ché il tuo piede non inciampi nella pietra.]

Tractus. Ps XC:1-7; XC:11-16 Qui hábitat in adjutório Altíssimi, in protectióne Dei coeli commorántur. V. Dicet Dómino: Suscéptor meus es tu et refúgium meum: Deus meus, sperábo in eum. V. Quóniam ipse liberávit me de láqueo venántium et a verbo áspero. V. Scápulis suis obumbrábit tibi, et sub pennis ejus sperábis. V. Scuto circúmdabit te véritas ejus: non timébis a timóre noctúrno. V. A sagitta volánte per diem, a negótio perambulánte in ténebris, a ruína et dæmónio meridiáno. V. Cadent a látere tuo mille, et decem mília a dextris tuis: tibi autem non appropinquábit. V. Quóniam Angelis suis mandávit de te, ut custódiant te in ómnibus viis tuis. V. In mánibus portábunt te, ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum, V. Super áspidem et basilíscum ambulábis, et conculcábis leónem et dracónem. V. Quóniam in me sperávit, liberábo eum: prótegam eum, quóniam cognóvit nomen meum, V. Invocábit me, et ego exáudiam eum: cum ipso sum in tribulatióne, V. Erípiam eum et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum, et osténdam illi salutáre meum.

[Chi abita sotto l’égida dell’Altissimo, e si ricovera sotto la protezione di Dio. V. Dica al Signore: Tu sei il mio difensore e il mio asilo: il mio Dio nel quale ho fiducia. V. Egli mi ha liberato dal laccio dei cacciatori e da un caso funesto. V. Con le sue penne ti farà schermo, e sotto le sue ali sarai tranquillo. V. La sua fedeltà ti sarà di scudo: non dovrai temere i pericoli notturni. V. Né saetta spiccata di giorno, né peste che serpeggia nelle tenebre, né morbo che fa strage al meriggio. V. Mille cadranno al tuo fianco e dieci mila alla tua destra: ma nessun male ti raggiungerà. V. Poiché ha mandato gli Angeli presso di te, perché ti custodiscano in tutti i tuoi passi. V. Ti porteranno in palma di mano, affinché il tuo piede non inciampi nella pietra. V. Camminerai sull’aspide e sul basilisco, e calpesterai il leone e il dragone. V. «Poiché sperò in me, lo libererò: lo proteggerò, perché riconosce il mio nome. V. Appena mi invocherà, lo esaudirò: sarò con lui nella tribolazione. V. Lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni, e lo farò partécipe della mia salvezza».]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.

Gloria tibi, Domine!

Matt IV:1-11

“In illo témpore: Ductus est Jesus in desértum a Spíritu, ut tentarétur a diábolo. Et cum jejunásset quadragínta diébus et quadragínta nóctibus, postea esúriit. Et accédens tentátor, dixit ei: Si Fílius Dei es, dic, ut lápides isti panes fiant. Qui respóndens, dixit: Scriptum est: Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo, quod procédit de ore Dei. Tunc assúmpsit eum diábolus in sanctam civitátem, et státuit eum super pinnáculum templi, et dixit ei: Si Fílius Dei es, mitte te deórsum. Scriptum est enim: Quia Angelis suis mandávit de te, et in mánibus tollent te, ne forte offéndas ad lápidem pedem tuum. Ait illi Jesus: Rursum scriptum est: Non tentábis Dóminum, Deum tuum. Iterum assúmpsit eum diábolus in montem excélsum valde: et ostendit ei ómnia regna mundi et glóriam eórum, et dixit ei: Hæc ómnia tibi dabo, si cadens adoráveris me. Tunc dicit ei Jesus: Vade, Sátana; scriptum est enim: Dóminum, Deum tuum, adorábis, et illi soli sérvies. Tunc relíquit eum diábolus: et ecce, Angeli accessérunt et ministrábant ei.”

[In quel tempo: Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. Ed avendo digiunato quaranta giorni e quaranta notti, finalmente gli venne fame. E accostatosi il tentatore, gli disse: Se sei il Figlio di Dio, di’ che queste pietre divéntino pani. Ma egli rispose: Sta scritto: Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio. Allora il diavolo lo trasportò nella città santa, e lo pose sul pinnacolo del tempio, e gli disse: Se sei il Figlio di Dio, géttati giù, poiché sta scritto: Ha mandato gli Ángeli presso di te, essi ti porteranno in palmo di mano, ché il tuo piede non inciampi nella pietra. Gesù rispose: sta anche scritto: Non tenterai il Signore Dio tuo. Di nuovo il diavolo lo trasportò sopra un monte altíssimo e gli fece vedere tutti i regni del mondo e la loro magnificenza, e gli disse: Ti darò tutto questo se, prostrato, mi adorerai. Ma Gesù gli rispose: Vattene Sàtana, perché sta scritto: Adorerai il Signore Dio tuo e servirai Lui solo. Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco che gli si accostarono gli Ángeli e lo servívano.]

Omelia

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo IV, 1-11)

Digiuno.

Condotto dal divino suo spirito Gesù Cristo si conduce al deserto, come ci narra l’Evangelista Matteo, e quivi si dà a un così rigido e prolisso digiuno che non finisce se non a capo di quaranta giorni, ed altrettante notti. Vi sorprende, uditori, una sì lunga e dura astinenza? E me ne chiedete il perché!? Ce l’insegna la storia dell’umana prevaricazione. Cominciò questa dalla violazione del primo comandato digiuno. “Adamo, disse il Signore al nostro primo padre: di tutti i frutti delle molte e diverse piante che fan ricco a felice questo terreno paradiso, ne gusterai a tuo talento, ma in segno dell’alto mio dominio su tutte le create cose, ed in prova dell’ubbidienza che tu mi devi, ti asterrai dal mangiare il frutto di quest’albero, il quale unicamente ti proibisco: il gustarne e morire sarà la cosa istessa, “in quocumque die comederis ex eo morte morieris” (Gen. II, 17). Pecca Adamo, rompe precetto e digiuno, perde se stesso, e il mondo tutto; e Gesù riparatore del mondo intraprende e compie così severo digiuno per soddisfare l’offesa divina giustizia, e dar a noi esempio di soddisfarla col mezzo stesso. Animiamoci dunque, o fedeli, ad osservare nel corso della già cominciata quaresima, in ispirito di religione e di penitenza il prescritto digiuno. Dovrebbe bastare per noi l’esempio di Gesù Cristo, e il comando della sua Chiesa”; ma siccome una gran parte del popolo cristiano non ha di questa santa osservanza quella cognizione necessaria a formarne il giusto e debito concetto, così io mi avvisai di proporne l’eccellenza e l’importanza. L’eccellenza attirerà la vostra estimazione, l’importanza determinerà la vostra ubbidienza a praticarla con fervore e con merito; come mi giova sperare, se mi udirete cortesemente. – Tante è grande l’eccellenza d’un precetto, quanto è grande ed autorevole il legislatore, e quanto son lodevoli e proficui i motivi, che l’accompagnano. La santa Chiesa la sposa di Gesù Cristo, colonna dì verità, è quella che prescrive a tutti i suoi figli l’osservanza del quadragesimale digiuno. Chiunque senza ragionevole ed approvato motivo si dispensa da questa legge, si dichiara col fatto d’essere come un pubblicano, come un idolatra. Con questi nomi viene chiamato da Cristo medesimo. “Si Ecclesiam non audierit, sit tibi sicut ethnicus, et publicanus” (Matth. XVII,18): cioè come un dì quegli uomini esecrabili, che non conoscono altra legge che quella della loro cupidigia, che si mostrano apertamente idolatri della loro carne, e del loro gusto, della lor sensualità, che, secondo l’espressione di S. Paolo, del loro ventre si han fatto un Dio, “quorum Deus venter est” (ad Phil. III, 19). – Ma dal nome ed autorità della Chiesa soltanto, non acquista pregio e valore il prescritto quaresimale digiuno. Gesù Cristo ce ne diede Egli stesso l’esempio, giusta il tenore di sua condotta ammirabile, di prima eseguir egli coll’opera quel che poi insegnava colla sua parola. “Coepit Jesus facere, et docere” (Act. I, 1). – Al comandamento della Chiesa ed all’esempio luminosissimo del nostro Salvatore vanno unite le più plausibili congruenze. Per giorni quaranta digiunò Mose sulle cime del Sinai prima di ricevere le tavole del Decalogo, scritte dalla mano di Dio. Per altrettanti giorni durò il digiuno d’Elia prima d’ascendere al monte santo di Dio. E Gesù nella prodigiosa sua trasfigurazione in sul Tabor volle l’uno a destra, l’altro a sinistra, come testimoni della sua divinità e della sua dottrina, comprovata dai profeti, e dalla scritta sua legge. – L’eccellenza di questa legge quadragesimali vie più risplende in considerare i salutevoli motivi, per i quali fu istituita; motivi che al tempo stesso ne dimostrano 1’importanza. Voi sapete, uditori, che ai tempi di Noè Iddio sdegnato punì tutta l’umana generazione, corrotta dal vìzio della carne, con un diluvio di quaranta giorni, e quaranta notti. Placato poi si protestò, che di simile flagello non avrebbe mai più punita la terra. Si dichiara però per bocca del suo Profeta Nahum, che con certi diluvi particolari non cesserà di castigare or questi, or quelli popoli prevaricatori: “In diluvio prætereunte consummationem faciet”. Diluvi di pestilenze, diluvi di guerre, di carestie, di terremoti. Or la Chiesa nostra madre pietosa, per placare l’offesa divina giustizia, e rimuovere dai figli suoi questi tremendi flagelli, ce ne presenta il mezzo opportuno in questo tempo accettevole nell’osservanza del quaresimale digiuno. Miei fratelli, diciamolo a nostra confusione, siamo in un secolo poco dissimile dall’antidiluviano. La giustizia di Dio è armata di fulmini, che ci pendono sul capo. Chi disarmerà la sua destra? La penitenza, miei cari, la penitenza di quaranta giorni colla fedele osservanza del digiuno, colla mortificazione del corpo, colla contrizione del cuore. Incontreremo così la buona sorte dei Niniviti, che, minacciati da Giona profeta al termine di quaranta giorni di totale sterminio, seppero ripararlo con vestirsi di sacco, con lo spargersi di cenere, con un digiuno così severo, fino a negare a sé stessi e ai loro giumenti ogni sorta di cibo e di bevanda. – Non a questa, ma ad una più moderata astinenza, secondo il fine e lo spirito della Chiesa, ci esorta S. Giovanni Crisostomo. Ieiuna, dice egli a ciascun di noi, “ieiuna quia peccasti” (Hom. 1 de ieiun.) . – Abbiam peccato, siam tutti peccatori: al peccato è dovuta la pena o in questa o nell’altra vita. – Qui la penitenza sconta la pena con merito, di là a puro rigore di giustizia. Saremo ben ciechi e nemici del nostro bene, se, potendo con poco soddisfare i nostri debiti con Dio, ometteremo un mezzo sì facile per condannarci a più lunghi e fieri tormenti. E che sarebbe poi se la trasgressione d’un solo digiuno ci facesse rei di grave delitto, e meritevoli d’eterno supplizio? – Ben l’intese il penitente David. Egli sebbene reso certo da Natan Profeta del perdono del suo peccato, pure praticava digiuni di tanta austerità, che mal si reggeva sui suoi ginocchi infievoliti, “genua mea infirmata sunt a ieiunio” (Ps. CVIII, 23): si pasceva di pane cosparso di cenere, e colle sue lagrime mescolava la sua bevanda: “Cinerem tamquam panem manducabam, et potum meum cura fletu miscebam” (Ps. CII, 20). Tanto da noi non esige né il nostro buon Dio, né la Chiesa benigna; ma in vista di questo esemplare di penitenza, l’esimersi dal digiuno ecclesiastico, addolcito dalla più discreta moderazione, accrescerebbe la nostra confusione e il nostro delitto. “Ieiuna ut non pecces”, prosegue a dire il Crisostomo, perché oltre il peccato per l’infrazione del digiuno, oltre il peccato di gola e d’intemperanza, s’espone il trasgressore al pericolo di nuovi e maggiori peccati. Un corpo ben pasciuto, trattato con delicatezza è un nemico dell’anima, tanto più formidabile, quanto meno temuto. Dai cibi soverchi, o apparecchiati con arte ad appagar la ghiottoneria, qual fomento non prendono le rivoltose passioni, che, secondo la frase dell’Apostolo, militano nelle nostre membra? Si mantennero fedeli a Dio le turbe alle falde del Sinai fino al quarantesimo giorno, aspettando Mosè che discendesse dal monte, ma dopo che nel giorno stesso “sedit populus manducare et bibere, et surrexerunt ludere” (Es. XXXII, 6), riscaldate dal vino e dalle vivande, con sacrilega idolatria sostituirono al culto del vero Dio un vitello d’oro. – Per l’opposto i tre giovani ebrei fortificati nell’animo per l’astinenza dei cibi vietati, si protestarono costantemente di non adorare la famosa statua di Nabucco, eleggendo piuttosto di esser gettati vivi nel seno d’ardentissima fornace. – “Ieiuna ut accidia”, soggiunge lo stesso santo dottore. Noi creature miserabili, che di nostro non abbiamo che il nulla ed il peccato, abbisogniamo pel corpo e per lo spirito di grazie spirituali e temporali. Ora il digiuno fedelmente osservato, essendo una protesta col fatto della nostra sommissione, della nostra ubbidienza a Dio ed alla Chiesa, e un sacrifizio che si fa in ossequio, del Padrone di tutte le cose, diventi un mezzo dei più, efficaci per muovere il cuor di Dio a prestar orecchio alle nostre voci, e ad accordarci quanto gli chiederemo colle nostre preghiere Giuditta infatti, che passava gii anni di sua vedovanza nel ritiro, nel digiuno; e nell’orazione, ottenne da Dio il coraggio e la forza di liberare dall’assedio e dall’imminente totale rovina la costernata Betulia. Ester, colla preghiera e col digiuno di tre giorni ed altrettante notti da lei praticato ed imposto ai suoi confidenti, salvò tutti quei di sua nazione dalla strage già decretata dall’incauto re Assuero. Daniele, perché s’astenne dai cibi a lui vietati della regia mensa, visse tranquillo in un serraglio d’affamati leoni, e ne uscì vivo, sano ed illeso. Ecco come il Signore rimunera quel poco che a Lui si sacrifica con l’astinenza e col digiuno. – E poi, miei cari, che è mai questo digiuno, che a taluni fa tanto ribrezzo? Che è mai questa quaresima, che pare ad alcuni un’aspra montagna inaccessibile? Ella è pur sovente addolcita dai pontefici indulti per le difficili circostanze dei tempi, e per i bisogni dei popoli. Perché dunque concepirne un’idea così svantaggiosa? Dio buono! Ravviviamo la fede. Il santo vecchio Eleazaro prima che finger soltanto di trasgredire la legge di Dio e di Mosè, gustando un cibo permesso, elesse generoso ed intrepido una spietata morte. E noi per non soffrire la tenue e passeggera mortificazione di un digiuno, eleggeremo dar morte alla nostr’anima, ed esporci al pericolo d’eterna morte? La fede non basta? Diamo luogo alla ragione. Quante volte voi digiunate per ordine del medico, e vi adattate a lunghe e rigorose diete, e ad amare e nauseanti pozioni? Avrà dunque più d’autorità il vostro medico, a cui con tanta pena pur ubbidite, che Dio e la sua Chiesa che vi domanda un’astinenza tanto discreta? Ma per la sanità del corpo, voi rispondete, conviene sottomettersi, conviene soffrire! E per la salute dell’anima nulla, e poi nulla dovrà tollerarsi? Quante volte per puro vostro piacere imbandite la vostra tavola di quelle vivande, che solo in quaresima vi dispiacciono? – Quante volte fra l’anno il mangiar carne vi nausea, e solo in questo tempo, forse perché proibita, vi alletta e vi piace? Voi compiangete, e disapprovate Esaù, che per una vile minestra rinunziò la ricca sua primogenitura, e come poi pretendete scusare voi stessi, qualora per una soddisfazione di gola rinunziate l’eredità del paradiso? Che i pesci (il paragone è dello Spirito Santo) che i pesci per un’esca lusinghiera, per un dolce boccone perdano la libertà e la vita, che gli uccelli per un granello di frumento o di miglio cadano nella rete del cacciatore, non fa sorpresa, sono animali irragionevoli. Ma che uomini forniti d’intelletto, cristiani di professione, illuminati dalla fede, si lascino ingannare, e tirar dalla golosità fino a perdere la grazia di Dio, la vita spirituale ed eterna, fu e sarà sempre un mistero impercettibile di fatale accecamento. Ma purtroppo è cosi. “Sicut pisces captiunt hamo, et aves laqueo, sic copiant homines(Eccli. IX, 12). Avete giusti motive incompatibili col digiuno, o colla qualità del cibo? Siete infermi, poveri in famiglia, mendicanti alla strada, oppure obbligati a guadagnarvi il pane col sudore della fronte alla campagna, all’officina, o a qualunque altro grave lavoro; non temete, la legge non v’obbliga, la Chiesa non parla per voi. Se poi dai vostri incomodi personali vi nascono dubbi sulla possibilità della prescritta osservanza, e di buona fede, senza esagerare esponete ai medici non sospetti di troppa indulgenza, l’attuale fisica vostra situazione, se consultate i direttori di vostra coscienza e vi dichiarano esenti, vivete in pace, e compensate il digiuno che sostener non potete, con quel digiuno raccomandato da santo Agostino. Fate cioè digiunar la lingua, i sensi, l’amor proprio, la volontà, le passioni. Compensatelo colle preghiere a Dio, colle limosine ai poveri, con la frequenza ai Sacramenti, coll’esercizio delle cristiane virtù. Vi disporrete così a pascervi salutarmente delle carni immacolate del divino Agnello nella futura Pasqua, che potrebbe essere l’ultima di vostra vita, e presa colle dovute disposizioni sarà, come io spero, fatta di vera allegrezza per voi e foriera della letizia sempiterna, che Iddio vi conceda.

 Credo …

Offertorium

Orémus Ps XC:4-5:

Scápulis suis obumbrábit tibi Dóminus, et sub pennis ejus sperábis: scuto circúmdabit te véritas ejus. [Con le sue penne ti farà schermo, il Signore, e sotto le sue ali sarai tranquillo: la sua fedeltà ti sarà di scudo.]

Secreta

Sacrifícium quadragesimális inítii sollémniter immolámus, te, Dómine, deprecántes: ut, cum epulárum restrictióne carnálium, a noxiis quoque voluptátibus lemperémus.

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.

[Ti offriamo solennemente questo sacrificio all’inizio della quarésima, pregandoti, o Signore, perché non soltanto ci asteniamo dai cibi di carne, ma anche dai cattivi piaceri.]

Communio Ps XC:4-5

Scápulis suis obumbrábit tibi Dóminus, et sub pennis ejus sperábis: scuto circúmdabit te véritas ejus.

[Con le sue penne ti farà schermo, il Signore, e sotto le sue ali sarai tranquillo: la sua fedeltà ti sarà di scudo.]

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. – Et cum spíritu tuo.

Orémus.

Qui nos, Dómine, sacraménti libátio sancta restáuret: et a vetustáte purgátos, in mystérii salutáris fáciat transíre consórtium. [Ci ristori, o Signore, la libazione del tuo sacramento, e, dopo averci liberati dall’uomo vecchio, ci conduca alla partecipazione del mistero della salvezza.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.

-LA SEDE IMPEDITA-

-LA SEDE IMPEDITA-

Fr. Jean-Marie Charles-Roux afferma:

Siri fu Eletto Papa nel Conclave del 1958

… e non ha mai Abdicato!

Il ben noto Fr. Jean-Marie Charles-Roux (m. 2014) racconta:

Le baruffe intorno alla stufa!!

 Jean-Marie Charles-Roux è nato a Marsiglia in una famiglia diplomatica francese il 12 dicembre, 1914. I suoi primi ricordi di Roma sono motivati dal fatto che il padre era un membro dell’ambasciata francese al Re d’Italia.

Fr. Jean-Marie Charles-Roux, un ex ufficiale effettivo in forza all’intelligence del Vaticano sostiene che il cardinale Siri di Genova fosse stato eletto ed avesse anche accettato l’Ufficio Papale (1), ma fu poi subito deposto, senza che ci fosse la sua volontà di abdicare (2). Secondo P. Charles-Roux, una minaccia molto grave fu rivolta a Siri dai Cardinali riuniti, attraverso il cardinale Tisserant, decano del Sacro Collegio dei Cardinali, poco dopo l’accettazione della carica da parte del nuovo Papa. I ministri del Conclave avevano già cominciato a bruciare le schede con la paglia secca nella stufa della Cappella Sistina, per produrre il fumo bianco che annunciasse l’elezione del nuovo Papa. Benché gli applausi fragorosi del pubblico dall’esterno cominciassero a farsi sentire da coloro che erano all’interno del conclave, un gruppo di cardinali in accordo con Tisserant [l’infiltrato nel Conclave, agente massonico 33° liv. –ndr.-] comandava ai ministri di modificare la miscela di paglia nella stufa in modo da bagnarla affinché producesse fumo nero.Quando i funzionari del Conclave si rifiutarono di eseguire l’ordine di inviare un falso segnale che potesse indicare risultati elettorali fasulli, un gruppo di cardinali si è avvicinato ai monsignori in disparte cominciando a scaricare paglia bagnata nella stufa. Charles-Roux riporta il curioso episodio che ne seguì: “Successivamente iniziava una “partita di spintoni” per conseguire il controllo della stufa, e le miscele di paglia secca ed umida che venivano scaricate nella stufa stessa da parte dei due gruppi di contendenti, producevano alternativamente un fumo che variava dal bianco al nero, al bianco di nuovo, e, infine, al grigio“.

.(1) La persona che è stata eletta [Papa] acquisisce la piena giurisdizione sulla Chiesa Universale immediatemente e acconsentendo, diventa il Vicario di Cristo in terra. [Cost. Vacante Sede Apostolica, 25 dic. 1904]

(2) In vari incontri clandestini alla fine del 1980 con un sacerdote fidato, il Papa in ostaggio, Gregorio XVII, ha confermato le reali minacce illegali che aveva ricevuto al Conclave del 26 Ottobre 1958.


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La Chiesa perfetta di Cristo ha una “barriera in atto a sua salvaguardia” [legge] per proteggerla contro questo tipo di aggressioni illegali, e che provvidenzialmente fornisce anche il rimedio contro la possibile fragilità umana di uno dei suoi minacciati legali titolari dell’Ufficio. Così, nello stato di timore grave che è stato ingiustamente inflitto a Papa Gregorio XVII (che è durato tutto il suo pontificato), egli non poteva (per legge) dimettersi dal suo ufficio di Papa – anche se lui lo avesse desiderato – come decreta il Codice di diritto canonico della Chiesa: (Codice di Diritto Canonico – 1917:

Canone 185)

Renuntiatio ex metu gravi, iniuste incusso, dolo aut errore substantiali vel simoniace facta, irrita est ipso iure.

[La rinuncia non vale se fatta per timore grave, ingiusto, dolo, errore sostanziale, simonia …”.

Pertanto al posto di Siri, GREGORIO XVII,  sono arrivati gli usurpatori, illegittimi, invalidi, che hanno prodotto atti invalidi ed illegittimi perché ANTIPAPI … e non c’è titolo colorato che tenga …

TEMPO DI QUARESIMA [3]

Capitolo III

PRATICA DELLA QUARESIMA

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol. I

Il timore salutare.

Dopo avere impiegato tre intere settimane a riconoscere le malattie della nostra anima e ad approfondire le ferite che ci ha fatte il peccato, ora dobbiamo sentirci preparati alla penitenza. Conosciamo meglio la giustizia e la santità di Dio ed i pericoli ai quali s’espone l’anima impenitente; per operare nella nostra anima un ritorno sincero e durevole, abbiamo abbandonato le vane gioie e le futilità del mondo; fu cosparsa di cenere la nostra testa, ed il nostro orgoglio si dovette umiliare sotto la sentenza di morte che si compirà in ciascuno di noi. Ma nel corso della prova che durerà quaranta giorni, così lunghi alla nostra debolezza, non saremo privati della presenza del nostro Salvatore. Sembrava ch’egli si fosse nascosto ai nostri occhi durante queste settimane, che risuonavano delle maledizioni pronunciate contro l’uomo peccatore; ma la sua assenza ci era salutare: era bene, per noi, imparare a tremare al tuono delle vendette divine. – « Principio della sapienza è il timor di Dio » (Sal. CX, 10); ed è perché siamo stati presi dal timore, che s’è risvegliato nelle nostre anime il sentimento della penitenza.

L’esempio affascinante di Cristo.

Ora, apriamo gli occhi e vediamo. È lo stesso Emmanuele che, raggiunta l’età dell’uomo, si mostra di nuovo a noi, non più sotto le sembianze del dolce bambino che adorammo nella culla, ma simile a un peccatore, tremante e umiliato dinanzi alla suprema maestà che noi abbiamo offesa, ed ai piedi della quale egli s’è offerto in nostra cauzione. Nell’amore fraterno che ci porta, è venuto ad incoraggiarci con la sua presenza ed i suoi esempi. Noi ci dedicheremo per lo spazio di quaranta giorni al digiuno ed all’astinenza: e Lui, l’innocente, consacrerà lo stesso tempo ad affliggere il suo corpo. Ci allontaneremo per un po’ di tempo dai rumorosi piaceri e dalle riunioni mondane: ed Egli si apparterà dalla compagnia e dalla vista degli uomini. Vorremo frequentare con più assiduità la casa di Dio e darci con più ardore alla preghiera: ed egli passerà quaranta giorni e quaranta notti a conversare col Padre, nell’atteggiamento d’un supplicante. Penseremo agli anni trascorsi, nell’amarezza del nostro cuore, e gemeremo a causa delle nostre iniquità: ed Egli le espierà con la sofferenza e le piangerà nel silenzio del deserto, come se le avesse commesse Lui. – È appena uscito dalle acque del Giordano, or ora da Lui santificate e rese feconde, e lo Spirito Santo Lo conduce verso la solitudine. – È giunta l’ora, per Lui, di manifestarsi al mondo; ma prima ha un grande esempio da darci: sottraendosi alla vista del Precursore e della folla, che vide la divina Colomba posarsi sopra di Lui e intese la voce del Padre celeste, si dirige là, verso il deserto. A breve distanza dal fiume s’eleva un’aspra e selvaggia montagna, chiamata in seguito dalle età cristiane la montagna della Quarantena. – Dalla sua ripida cresta si domina la pianura di Gerico, il corso del Giordano e il Mar Morto, che ricorda la collera di Dio. Là, nel fondo d’una grotta naturale approfondita nella roccia, si viene a stabilire il Figlio dell’Eterno, senz’altra compagnia che le bestie, che hanno scelta in quei luoghi la loro tana. Gesù vi penetra senz’alcun alimento per sostenere le sue forze umane; in quello scosceso ridotto manca perfino l’acqua per dissetarlo; solo la nuda pietra si offre a dar riposo alle sue membra spossate. Non prima di quaranta giorni gli Angeli s’avvicineranno e verranno a porgergli il nutrimento. – È così che il Salvatore ci precede e sorpassa nella via della santa Quaresima: provandola e adempiendola prima di noi, per far tacere col suo esempio tutti i nostri pretesti, tutti i nostri ragionamenti, e tutte le ripugnanze della nostra mollezza e della nostra superbia. Accettiamo quest’insegnamento in tutta la sua estensione e comprendiamo finalmente la legge dell’espiazione. Il Figlio di Dio, disceso da quell’austera montagna, apre la sua predicazione con questa sentenza, che indirizza a tutti gli uomini: «Fate penitenza, che il regno dei cieli è vicino » (Mt. IV, 17). Apriamo i nostri cuori a quest’invito del Redentore, affinché non sia obbligato a destarci dal nostro sonno con quella terribile minaccia che fece intendere in altra circostanza: « Se non farete penitenza, perirete tutti » (Lc. XIII, 3).

La vera penitenza.

Ora, la penitenza consiste nella contrizione del cuore e nella mortificazione del corpo: due parti che le sono essenziali. È stato il cuore dell’uomo a volere il male, e spesso il corpo l’ha aiutato a commetterlo. D’altra parte, essendo l’uomo composto dell’uno e dell’altro egli li deve unire entrambi nell’omaggio che rende a Dio. Il corpo avrà parte o alle delizie dell’eternità o ai tormenti dell’inferno; non c’è, dunque, vita cristiana completa, e neppure valida espiazione, se nell’una e nell’altra esso non si associa all’anima.

La conversione del cuore.

Ma il principio della vera penitenza sta nel cuore: lo impariamo dal Vangelo negli esempi del figliuol prodigo, della peccatrice, di Zaccheo il pubblicano e di S. Pietro. Perciò bisogna che il cuore abbandoni per sempre il peccato, che se ne dolga amaramente, che lo detesti e ne fugga le occasioni. A significare tale disposizione la Sacra Scrittura si serve di un’espressione ch’è passata nel linguaggio cristiano, e ritrae mirabilmente lo stato dell’anima sinceramente ravveduta dal peccato: essa lo chiama Conversione. Il cristiano, durante la Quaresima, deve esercitarsi nella penitenza del cuore e considerarla come il fondamento essenziale di tutti gli atti propri di questo santo tempo. Ma sarebbe sempre illusoria, se non aggiungesse l’omaggio del corpo ai sentimenti interni ch’essa ispira. Il Salvatore, sulla montagna non s’accontenta di gemere e di piangere sui nostri peccati: li espia con la sofferenza del proprio corpo; e la Chiesa, ch’è la sua infallibile interprete, ci ammonisce che non sarà accolta la penitenza del nostro cuore, se non l’uniremo all’esatta osservanza dell’astinenza e del digiuno.

Necessità dell’espiazione.

Come s’illudono, dunque, tanti onesti cristiani che si credono irreprensibili, specialmente quando dimenticano il loro passato e si paragonano agli altri, e, pienamente soddisfatti di se stessi, non riflettono mai ai pericoli d’una vita comoda ch’essi contano di condurre fino all’ultimo momento! A volte essi credono di non dover più pensare ai loro peccati: non li hanno confessati sinceramente? La regolarità con la quale conducono ormai la vita non è prova della loro solida virtù? Che hanno ancora da fare con la giustizia di Dio? E li vediamo puntualmente sollecitare tutte le dispense possibili, nella Quaresima: perché l’astinenza sarebbe loro d’incomodo, e il digiuno non è più conciliabile con la salute, con le occupazioni e le abitudini di oggi. Non pretendono affatto di essere migliori di questi e quelli che non digiunano e non fanno astinenza; e siccome non sono neppure capaci di avere il pensiero di supplire con altre pratiche di penitenza, quelle prescritte dalla Chiesa, è chiaro che, senza accorgersi e insensibilmente, finiranno col non essere più cristiani. – La Chiesa, testimone di questa spaventevole decadenza del senso soprannaturale, temendo una resistenza che accelererebbe ancora di più le ultime pulsazioni d’una vita moribonda, continua ad allargare la via delle mitigazioni; nella speranza di conservare una scintilla di cristianesimo, in un avvenire migliore, essa preferisce affidare alla giustizia di Dio i figli che non l’ascoltano più, quando indica loro i mezzi di propiziarsi quella giustizia fin da questo mondo. – E quei cristiani s’abbandonano alla massima sicurezza, senza darsi mai il pensiero di paragonare la loro vita con gli esempi di Gesù Cristo e dei Santi, e con le norme secolari della penitenza cristiana.

Dispense e tiepidezza.

Vi sono senza dubbio delle eccezioni ad un simile pericoloso rilassamento, ma quanto sono rare, specialmente nelle nostre città! Quali pregiudizi, quali vani pretesti e quali infausti esempi contribuiscono a guastare le anime! Quante volte, dalla bocca di quegli stessi che si gloriano della prerogativa di cattolici, si sente pronunciare l’ingenua scusa che non fanno astinenza e non digiunano, perché l’astinenza e il digiuno li mettono a disagio e li affaticano troppo! come se l’astinenza e il digiuno non avessero precisamente lo scopo d’imporre su questo corpo di peccato (Rom. VI, 6) un giogo penoso! Veramente costoro sembrano aver perduto il senno. Ma quanto sarà grande la loro meraviglia quando il Signore, nel giorno del suo giudizio li metterà a confronto con tanti poveri musulmani che, in seno ad una religione tanto sensuale e depravata, pure sanno trovare in sé ogni anno, il coraggio d’adempiere le due privazioni dei trenta giorni del loro Ramadan! – Ma è proprio necessario confrontarli con altri quelli che si dicono incapaci di sopportare le astinenze e i digiuni così ridotti di una Quaresima, quando Dio li vede ogni giorno sovraccaricarsi di tante e ben più penose fatiche nella ricerca degli interessi e dei godimenti di questo mondo? Quanta salute sciupata nei piaceri, almeno frivoli, e sempre pericolosi! l’avessero invece mantenuta in tutto il suo vigore, e fosse stata la loro vita regolata e dominata dalla legge cristiana, piuttosto che dal desiderio di piacere al mondo! Ma la rilassatezza è tale, che non si concepisce nessun turbamento e nessun rimorso; si rimandala Quaresima al Medio Evo, senza osservare che la remissività della Chiesa ha sempre proporzionato le osservanze alla nostra debolezza fisica e morale. S’è conservata o riconquistata, per la misericordia divina, la fede dei padri; e non ci si è ancora ricordati che la pratica della Quaresima è un indice essenziale di cattolicesimo, e che la Riforma protestante del XVI secolo ebbe come una delle sue principali finalità, scritta pure sulla sua bandiera, l’abolizione dell’astinenza e del digiuno.

Dispensa legittima e necessità del pentimento.

Ma, si dirà, non vi possono essere delle legittime dispense? Sicuramente ve ne sono, e, in questo secolo di svigorimento generale, ben di più che nei secoli precedenti. Però stiamo bene attenti a non equivocare. Se tu hai forze per tollerare altre fatiche, perché non ne avrai per compiere il dovere dell’astinenza? Che se ti arresta il timore d’un lieve incomodo, hai dimenticato che i peccati non saranno rimessi senza espiazione? L’opinione dei medici che presagiscono un indebolimento delle tue forze, in seguito al digiuno, può avere una fondata ragione; ma la questione è di sapere, se questa mortificazione della carne, la Chiesa non te la prescrive. appunto nell’interesse della tua anima. Ma ammettiamo pure che la dispensa sia legittima, che la tua salute incorrerebbe un vero pericolo, e che, se osservassi alla lettera le prescrizioni della Chiesa, ne soffrirebbero i tuoi doveri essenziali; in questo caso, pensi di sostituire con altre opere di penitenza quelle che le tue forze non ti permettono di praticare? chiedi a Dio la grazia di potere, un altr’anno, partecipare ai meriti dei tuoi fratelli, adempiendo con essi quelle sante pratiche che devono essere il motivo della misericordia e del perdono? Se è così, la dispensa non ti nuocerà; e quando la festa di Pasqua inviterà i figli fedeli della Chiesa alle sue ineffabili gioie, anche tu potrai unirti fiducioso a quelli che avranno digiunato; perché, se la debolezza del tuo corpo non t’avrà permesso di seguirli esteriormente, il tuo cuore sarà rimasto fedele allo spirito della Quaresima.

Beneficio dell’istituzione del digiuno.

Scrivendo queste pagine, abbiamo di mira solo i lettori cristiani che ci hanno seguiti fino a questo punto; ma che sarebbe, se dovessimo considerare il risultato della sospensione delle sante leggi della Quaresima sopra la massa delle popolazioni, specialmente delle città? Perché i nostri scrittori cattolici, i quali hanno illustrate tante questioni, non hanno insistito sui tristi effetti che produce nella società la cessazione d’una pratica che, mentre ricorda ogni anno il bisogno dell’espiazione, conserverebbe più d’ogni altra istituzione il sentimento del bene e del male? Non occorre riflettere a lungo, per comprendere la superiorità di un popolo che s’impone, per quaranta giorni all’anno, una serie di privazioni, allo scopo di riparare le violazioni da esso commesse nell’ordine morale, sopra un altro che in nessun periodo dell’anno pensa alla riparazione ed all’emendaménto

Coraggio e confidenza.

Si rianimino di coraggio, dunque, i figli della Chiesa, ed aspirino a quella pace della coscienza ch’è solo assicurata all’anima veramente penitente. L’innocenza perduta si riacquista con l’umile confessione della colpa, quando è accompagnata dall’assoluzione del sacerdote; ma il fedele si guarderà bene dal pericoloso pregiudizio, che non ha più niente da fare dopo il perdono. Ricordiamo l’avvertimento così grave dello Spirito Santo nella Scrittura : « Del peccato perdonato non essere senza timore » (Eccli. V, 5). La certezza del perdono è in ragione del mutamento del cuore; e tanto più uno si può abbandonare alla confidenza, quanto più costante ha in sé il dispiacere dei peccati e la premura di espiarli per tutta la vita. « L’uomo non sa se sia degno di amore o di odio » (Eccli. IX, 1), aggiunge la Scrittura; e può sperare d’essere degno di amore colui che sente in sé di non essere abbandonato dallo spirito di penitenza.

La preghiera.

Entriamo dunque risoluti nella santa via che la Chiesa apre davanti a noi, e fecondiamo il nostro digiuno con gli altri due mezzi che. Dio ci indica nei Libri sacri: la Preghiera e l’Elemosina. Come con la parola digiuno la Chiesa intende tutte le opere della mortificazione cristiana, così con quella della preghiera essa comprende tutti quei pii esercizi, per mezzo dei quali l’anima s’indirizza a Dio. – La frequenza più assidua alla chiesa, l’assistenza quotidiana al santo Sacrificio, le devote letture, la meditazione sulle verità della salvezza e sui patimenti del Redentore, l’esame di coscienza, la recita dei Salmi, l’assistenza alla predicazione particolare di questo santo tempo, e soprattutto il ricevere i Sacramenti della Penitenza e della Eucaristia, sono i principali mezzi coi quali i fedeli possono offrire al Signore l’omaggio della loro Preghiera.

L’elemosina.

L’elemosina contiene tutte le opere di misericordia verso il prossimo; e i santi Dottori della Chiesa l’hanno all’unanimità raccomandata, come il complemento necessario del Digiuno e della Preghiera durante la Quaresima. È una legge stabilita da Dio, alla quale Egli stesso ha voluto assoggettarsi, che la carità esercitata verso i nostri fratelli, con l’intenzione di piacere a Lui, ottiene sul suo cuore paterno lo stesso effetto che se fosse esercitata direttamente verso Lui; tale è la forza e la santità del legame col quale ha voluto unire gli uomini fra di loro. E, come Egli non accetta l’amore di un cuore chiuso alla misericordia, così riconosce per vera, e come diretta a sé, la carità del cristiano che, sollevando il proprio fratello, onora quel vincolo sublime, per mezzo del quale tutti gli uomini sono uniti a formare una sola famiglia, il cui Padre è Dio. Appunto in virtù di questo sentimento, l’elemosina non è semplicemente un atto di umanità, ma s’innalza alla dignità d’un atto di religione, che sale direttamente a Dio e ne placa la giustizia. – Ricordiamo l’ultima raccomandazione che fece l’Arcangelo San Raffaele alla famiglia di Tobia, prima di risalire al cielo : « Buona cosa è la preghiera col digiuno, e l’elemosina val più dei monti di tesori d’oro, perché l’elemosina libera dalla morte, purifica dai peccati, fa trovare la misericordia e la vita eterna » (Tob. XII, 8-9). Non è meno precisa la dottrina dei Libri Sapienziali: « L’acqua spegne la fiamma, e l’elemosina resiste ai peccati » (Eccli. III, 33). « Nascondi l’elemosina nel seno del povero, ed essa pregherà per te contro ogni male » (Ibid. XXIX, 15). Che tali consolanti promesse siano sempre presenti alla mente del cristiano, e ancor più nel corso di questa santa Quarantena; e che il povero, il quale digiuna per tutto l’anno, s’accorga che questo è un tempo in cui anche il ricco s’impone delle privazioni. Di solito una vita frugale genera il superfluo, relativamente agli altri tempi dell’anno; che questo superfluo vada a sollievo dei Lazzari. Niente sarebbe più contrario allo spirito della Quaresima, che gareggiare in lusso e in spese di mensa con le stagioni in cui Dio ci permette di vivere nell’agiatezza che ci ha data. È bello che, in questi giorni di penitenza e di misericordia, la vita del povero si addolcisca, a misura che quella del ricco partecipa di più a quella frugalità ed astinenza, che sono la sorte ordinaria della maggior parte degli uomini. Allora, sia poveri che ricchi, si presenteranno con sentimento veramente fraterno a quel solenne banchetto della Pasqua che Cristo risorto ci offrirà fra quaranta giorni.

Lo spirito di raccoglimento.

Finalmente, v’è un ultimo mezzo per assicurare in noi i frutti della Quaresima, ed è lo spirito di raccoglimento e di separazione dal mondo. Le abitudini di questo santo tempo devono distinguersi sotto ogni rapporto da quelle del resto dell’anno; altrimenti l’impressione salutare che abbiamo ricevuta nel momento che la Chiesa c’imponeva la cenere sulla fronte, svanirà in pochi giorni. Perciò il cristiano deve far tregua coi vani divertimenti del secolo, con le feste mondane e coi trattenimenti profani. Quanto agli spettacoli perversi e svenevoli, o alle veglie di piacere, che sogliono essere lo scoglio della virtù e il trionfo dello spirito del mondo, se in nessun tempo è lecito al discepolo di Gesù Cristo comparirvi, se non per una situazione particolare o per pura necessità, come potrebbe intervenirvi in questi giorni di penitenza e di raccoglimento, senza rinnegare in qualche maniera il suo nome di cristiano, e senza rinunciare a tutti i sentimenti di un’anima penetrata del pensiero delle sue colpe e del timore dei giudizi di Dio? La società cristiana oggi, purtroppo, non ha più, durante la Quaresima, quella gravità esteriore di austera tristezza che abbiamo ammirato nei secoli di fede; ma fra Dio e e l’uomo, e l’uomo e Dio, nulla è mutato; e rimane sempre la grande parola: «Se non farete penitenza, perirete tutti». Oggi sono molto pochi a dare ascolto a quella parola, e per questo molti periscono.Ma coloro nei quali essa cade, devono ricordarsi degli ammonimenti che dava il Salvatore nella Domenica di Sessagesima: egli diceva che parte della semente viene calpestata dai passanti, o divorata dagli uccelli dell’aria; parte è seccata dall’aridità dei sassi che la ricevono; e parte, infine, è soffocata dalle spine. Perciò, non risparmiamo cure, affinché diventiamo quella buona terra, che non solo riceve la semente, ma ne centuplica i frutti per la raccolta del Signore che s’avvicina.

L’attraente austerità della Quaresima.

Leggendo queste pagine, nelle quali ci siamo sforzati d’esprimere il pensiero della Chiesa così come ci viene significato, oltre che nella Liturgia, anche nei santi canoni dei Concili e negli scritti dei santi Dottori, forse più d’uno dei nostri lettori avrà rimpianto la dolce e graziosa poesia, di cui si mostrava ricco l’anno liturgico nei quaranta giorni che celebrammo la nascita dell’Emmanuele. Già il Tempo della Settuagesima venne a stendere un mesto velo su quelle sorridenti immagini; ed ora siamo entrati in un deserto arido, irto di spine e privo d’acque zampillanti. Ma non dobbiamo dolercene, perché la Chiesa conosce i nostri veri bisogni e li vuole appagare. – Per avvicinarci al Bambino Gesù, essa non ci chiese che una leggera preparazione, con l’Avvento, perché i misteri dell’Uomo-Dio erano ancora all’inizio. Molti vennero al presepio con la semplicità dei pastori betlemiti, non conoscendo ancora abbastanza né la santità del Dio incarnato, né la precaria e colpevole condizione della loro anima; ma oggi che il Figlio dell’Eterno è entrato nella via della penitenza, e fra poco Lo vedremo in preda a tutte le umiliazioni e a tutti i dolori, sull’albero della croce, la Chiesa ci fa uscire dalla nostra sciocca sicurezza, e vuole che ci percotiamo il petto, che affliggiamo le nostre anime e mortifichiamo i nostri corpi, perché siamo peccatori. La penitenza dovrebbe essere il retaggio dell’intera nostra vita; le anime ferventi non l’interrompono mai; è quindi giusto e salutare per noi, che una buona volta ne facciamo almeno la prova, in questi giorni che il Salvatore soffre nel deserto, in attesa del momento in cui spirerà sul Calvario. Raccogliamo ancora dalle sue labbra le parole che rivolse alle donne di Gerusalemme che piangevano al suo passaggio, il giorno della sua Passione: « Ché se si tratta così il legno verde, che sarà del secco?» (Lc. XXIII, 31). Ma, per la misericordia del Redentore, il legno secco può riprendere la linfa e sfuggire al fuoco. Tale è la speranza e il desiderio della santa Chiesa, ed è per questo che ci impone il giogo della Quaresima. Percorrendo costantemente questa via faticosa, i nostri occhi a poco a poco vedranno brillare la luce. Se eravamo lontani da Dio col peccato, questo santo tempo sarà la nostra via purgativa, come dicono i mistici dottori; e i nostri occhi si purificheranno, perché arrivino a contemplare il Dio vincitore della morte. Se poi camminiamo già nei sentieri della via illuminativa, dopo aver approfondito così vantaggiosamente la bassezza dalle nostre miserie, nel Tempo della Settuagesima, ritroveremo ora Colui ch’è la nostra Luce; infatti, se abbiamo saputo vederlo sotto le sembianze del Bambino di Betlem, Lo riconosceremo anche, senza fatica, nel divino Penitente del deserto e presto nella vittima sanguinante del Calvario.

TEMPO DI QUARESIMA [2]

Capitolo II

MISTICA DELLA QUARESIMA

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico vol I]

Non ci si deve meravigliare se un tempo così sacro come quello della Quaresima sia così pieno di misteri. La Chiesa, che la considera come la preparazione alla più gloriosa delle sue feste, ha voluto che questo periodo di raccoglimento e di penitenza fosse caratterizzato dalle circostanze più idonee a risvegliare la fede dei cristiani ed a sostenere la loro costanza nell’opera dell’espiazione annuale. – Nel Tempo della Settuagesima riscontrammo il numero settuagenario, che ci richiamava i settant’anni della cattività in Babilonia, dopo i quali il popolo di Dio, purificato dalla sua idolatria, doveva rivedere Gerusalemme e celebrarvi la Pasqua. Ora è il numero quaranta che la santa Chiesa presenta alla nostra religiosa attenzione, il numero che, al dire di S. Girolamo, è sempre quello della pena e dell’afflizione (Comm. d’Ezechiele, c. XX).

Il numero 40 e il suo significato.

Ricordiamo la pioggia dei quaranta giorni e delle quaranta notti, causata dai tesori della collera di Dio, quando si pentì d’aver creato l’uomo (Gen. VII, 12) e sommerse nei flutti il genere umano, ad eccezione d’una sola famiglia. Pensiamo al popolo ebreo che errò quaranta anni nel deserto, in punizione della sua ingratitudine, prima di poter entrare nella terra promessa (Num. XIV, 33). Ascoltiamo il Signore, che ordina al profeta Ezechiele (IV, 6) di starsene coricato quaranta giorni sul suo lato destro, per indicare la durata d’un regno al quale doveva seguire la rovina di Gerusalemme. Due uomini, nell’Antico Testamento, hanno la missione di raffigurare nella propria persona le due manifestazioni di Dio: Mosè, che rappresenta la Legge, ed Elia, nel quale è simboleggiata la profezia. L’uno e l’altro s’avvicinano a Dio; il primo sul Sinai (Es. XXIV,18), il secondo sull’Oreb (III Re XIX, 8); ma sia l’uno che l’altro non possono accostarsi alla divinità, se non dopo essersi purificati con l’espiazione in un digiuno di quaranta giorni. – Rifacendoci a questi grandi avvenimenti, riusciremo a capire perché mai il Figlio di Dio incarnato per la salvezza degli uomini, avendo deciso di sottoporre la sua divina carne ai rigori del digiuno, volle scegliere il numero di quaranta giorni per quest’atto solenne. – L’istituzione della Quaresima ci apparirà allora in tutta la sua maestosa severità, e quale mezzo efficace per placare la collera di Dio e purificare le nostre anime. Eleviamo dunque i nostri pensieri al di sopra dello stretto orizzonte che ci circonda, e vedremo lo spettacolo di tutte le nazioni cristiane del mondo, offrire in questi giorni al Signore sdegnato quest’immenso quadragenario dell’espiazione; e nutriamo la speranza che, come al tempo di Giona, egli si degnerà anche quest’anno fare misericordia al suo popolo.

L’esercito di Dio.

Dopo queste considerazioni relative alla durata del tempo che dobbiamo passare, apprendiamo ora dalla Chiesa sotto quale simbolo essa considera i suoi figli durante la santa Quarantena. La Chiesa vede in essi un immenso esercito, che combatte giorno e notte contro il nemico di Dio. Per questa ragione il Mercoledì delle Ceneri essa ha chiamato la Quaresima la carriera della milizia cristiana. – Per ottenere infatti quella rigenerazione che ci farà degni di ritrovare le sante allegrezze dell’Alleluia, noi dobbiamo aver trionfato dei nostri tre nemici: il demonio, la carne e il mondo. Insieme al Redentore che lotta sulla montagna contro la triplice tentazione e lo stesso Satana, dobbiamo essere armati e vegliare senza stancarci. Per sostenerci con la speranza della vittoria ed animarci a confidare nel divino soccorso, la Chiesa ci presenta il Salmo XC, che colloca fra le preghiere della Messa nella prima Domenica di Quaresima, e del quale attinge quotidianamente molti versetti per le diverse Ore dell’Ufficio. Con la meditazione di quel Salmo vuole che contiamo sulla protezione che Dio stende sopra di noi come uno scudo; che attendiamo all’ombra delle sue ali; che abbiamo fiducia in lui, perché Egli ci strapperà dal laccio del cacciatore infernale, che ci aveva rapita la santa libertà dei figli di Dio; che siamo assicurati del soccorso dei santi Angeli, nostri fratelli, ai quali il Signore ha dato ordine di custodirci in tutte le nostre vie, e che, testimoni riverenti della lotta sostenuta dal Salvatore contro Satana, s’avvicinarono a Lui dopo la vittoria per servirLo e rendere i loro omaggi. Entriamo nei sentimenti che la santa Chiesa ci vuole ispirare, e durante questi giorni che dovremo lottare ricorriamo spesso al bel canto che essa ci indica come l’espressione più completa dei sentimenti che devono animare, in questa santa campagna, i soldati della milizia cristiana.

La pedagogia della Chiesa.

Ma la Chiesa non si limita a darci una semplice parola d’ordine contro le sorprese del nemico; per occupare tutta la nostra mente ci mette davanti tre grandi spettacoli, che si svolgeranno giorno per giorno fino alla festa di Pasqua, e ciascuno dei quali ci procurerà delle pie emozioni insieme alla più solida istruzione. Gesù Cristo perseguitato e mandato a morte. Prima assisteremo alla fine della congiura dei Giudei contro il Redentore: congiura che si inizia ora per esplodere il Venerdì Santo, quando vedremo il Figlio di Dio inchiodato sull’albero della Croce. Le passioni che si agitano in seno alla Sinagoga si manifesteranno di settimana in settimana, e noi le potremo seguire in tutto il loro svolgersi. La dignità, la pazienza e la mansuetudine dell’augusta vittima ci appariranno sempre più sublimi e più degne di un Dio. Il dramma divino che vedemmo aprirsi nella grotta di Betlem continuerà fino al Calvario; e per seguirlo, non abbiamo che da meditare le letture del Vangelo che la Chiesa ci presenterà giorno per giorno.

La preparazione al Battesimo.

In secondo luogo, ricordandoci che la festa di Pasqua è per i Catecumeni il giorno della nuova nascita, riandremo col pensiero a quei primi secoli del Cristianesimo, quando la Quaresima era l’ultima preparazione dei candidati al Battesimo. La sacra Liturgia ha conservata la traccia di quell’antica disciplina, di modo che, mentre ascolteremo le splendide letture dei due Testamenti, con le quali terminava l’ultima iniziazione, ringrazieremo Dio, che si degnò di farci nascere in tempi, nei quali il bambino non deve più attendere l’età dell’uomo per esperimentare le divine misericordie. Penseremo pure a quei nuovi Catecumeni che, anche ai nostri giorni, nei paesi evangelizzati dai nostri moderni apostoli, aspettano, come nei tempi antichi, la grande solennità del Salvatore che vince la morte, per discendere nella sacra piscina ed attingervi un nuovo essere.

La pubblica penitenza.

Finalmente durante la Quaresima dobbiamo richiamare alla memoria quei pubblici Penitenti che, espulsi solennemente dall’assemblea dei fedeli il Mercoledì delle Ceneri, formavano in tutto il corso della santa Quarantena un oggetto di materna preoccupazione per la Chiesa, che doveva ammetterli, se lo meritavano, alla riconciliazione, il Giovedì Santo. Una serie ammirabile di letture destinata alla loro istruzione e ad interessare i fedeli a loro favore, scorrerà sotto ai nostri occhi; poiché la Liturgia non ha perduto niente di quelle solide tradizioni. Ci ricorderemo allora con quale facilità sono state a noi perdonate le iniquità, che forse nei secoli passati non ci sarebbero state rimesse, se non dopo dure e solenni espiazioni; e, pensando alla giustizia del Signore, che non muta mai, qualunque siano i cambiamenti che l’accondiscendenza della Chiesa introdusse nella sacra disciplina, ci sentiremo tanto più portati ad offrire a Dio il sacrificio d’un cuore veramente contrito e ad animare con un sincero spirito di penitenza, le piccole soddisfazioni che presenteremo alla sua divina Maestà.

Riti e Usanze Liturgiche.

Per conservare al sacro tempo della Quaresima il carattere di austerità che gli conviene la Chiesa, per moltissimi secoli, si mostrò molto riservata nell’ammettere feste in questo periodo dell’anno, perché esse recano sempre con sé dei motivi di gioia. Nel IV secolo, il Concilio di Laodicea già mostrava tale disposizione nel suo Canone, là dove permetteva di celebrare la festa dei Santi solo i sabati e le domeniche. La Chiesa greca si mantenne in questo rigore, e solo parecchi secoli dopo il Concilio di Laodicea permise, per il 25 marzo, la festa dell’Annunciazione. – La Chiesa Romana conservò per lungo tempo questa disciplina, almeno all’inizio; però ammise molto presto la festa dell’Annunciazione, ed in seguito quella dell’Apostolo S. Mattia, il 24 febbraio e in questi ultimi secoli aprì il suo calendario a diverse altre feste nella parte corrispondente alla Quaresima, ma sempre però con limitata misura, per rispettare lo spirito dell’antichità. – La ragione per cui la Chiesa Romana ammise più facilmente le feste dei Santi nella Quaresima è che gli Occidentali non ritengono la celebrazione delle feste incompatibile col digiuno; mentre i Greci sono persuasi del contrario, tanto che il sabato, considerato sempre dagli Orientali un giorno solenne, non è mai per loro, giorno di digiuno, a meno che sia il Sabato Santo. Per lo stesso motivo essi non digiunano il giorno dell’Annunciazione, per riguardo alla solennità di tale festa. – Questo modo di pensare degli Orientali diede origine, verso il VII secolo, ad un’istituzione ch’è loro particolare, chiamata da essi la Messa dei Presantificati, cioè delle cose consacrate in un Sacrificio precedente. Ogni domenica di Quaresima il celebrante consacra sei ostie, di cui una la consuma nel Sacrificio, le altre cinque sono riservate per una semplice comunione da farsi in ciascuno dei cinque giorni seguenti, senza Sacrificio. La Chiesa latina pratica questo rito una sola volta l’anno, il Venerdì Santo, e per una ragione profonda che spiegheremo a suo tempo. – Il principio di tale usanza presso i Greci è scaturito evidentemente dal 49.0 Canone del Concilio di Laodicea, che prescrive di non offrire il pane del Sacrificio in Quaresima, se non il sabato e la domenica. Nei secoli seguenti i Greci conclusero da questo canone che la celebrazione del Sacrificio non si poteva conciliare col digiuno; e da una loro controversia avuta nell’XI secolo col legato Umberto (Contro Niceta, t. IV), sappiamo, che la Messa dei Presantificati, che ha in suo favore un canone del famosissimo concilio chiamato in Trullo, tenuto nel 692, era giustificata dai Greci da ciò che in quel Canone si affermava e cioè che la comunione del corpo e del sangue del Signore rompeva il digiuno quaresimale. – I Greci celebrano detta cerimonia la sera, dopo l’Ufficio dei Vespri; in essa il solo celebrante si comunica, come da noi il Venerdì Santo. Però da molti secoli, fanno eccezione per il giorno dell’Annunciazione, nella quale solennità, siccome è sospeso il digiuno, celebrano il Sacrificio e i fedeli si comunicano. La norma del Concilio di Laodicea pare non sia stata mai accolta dalla Chiesa d’Occidente, e non troviamo, a Roma, nessuna traccia della sospensione del Sacrificio in Quaresima. – La mancanza di spazio ci obbliga a non accennare che leggermente a tutti i dettagli di questo capitolo. Se non che ci resta ancora da dire qualche cosa circa le consuetudini della Quaresima in Occidente. – Già ne abbiamo fatte conoscere e spiegate parecchie del Tempo della Settuagesima. La sospensione dell’Alleluia, l’uso del colore violaceo nei paramenti sacri, la soppressione della dalmatica del diacono e della tunica del suddiacono; i due inni gioiosi “Gloria in excelsis” e “Te Deum laudamus”, entrambi proibiti; il Tratto, che supplisce nella Messa il versetto alleluiatico; l’ “ite, Missa est”, sostituito da un’altra formula; l’Oremus della penitenza che si recita sul popolo a fine Messa, nei giorni della settimana in cui non si celebra la festa d’un Santo; i Vespri sempre anticipati prima di mezzogiorno, eccetto le Domeniche: sono diversi riti già noti ai nostri lettori. Quanto alle cerimonie attualmente in uso, rimangono da notare le preghiere che si fanno in ginocchio alla fine d’ogni Ora dell’Ufficio, nei giorni feriali, ed anche la consuetudine in virtù della quale nei medesimi giorni, tutto il Coro rimane genuflesso durante l’intero Canone della Messa. – Ma le nostre Chiese d’Occidente praticavano ancora in Quaresima altri riti, che da parecchi secoli sono caduti in disuso, sebbene alcuni di essi si siano conservati, in talune località, fino ai nostri giorni. Il più imponente di tutti era quello di stendere un gran velo, ordinariamente di colore violaceo, chiamato cortina, fra il coro e l’altare, così che né il clero né il popolo potevano più vedere i santi Misteri che vi si celebravano dietro. Il velo simboleggiava il dolore della penitenza, al quale si deve sottoporre il peccatore, per meritare di contemplare di nuovo la maestà di Dio, il cui sguardo fu oltraggiato dalle sue iniquità [«Sappiamo dall’antica disciplina della Chiesa, che i pubblici penitenti erano sottoposti, durante la santa Quarantena, ad un regime speciale di penitenza, che cominciava in Quaresima con l’imposizione delle ceneri e l’espulsione dalla chiesa, e terminava il Giovedì Santo con la pubblica riconciliazione. Ora, a mano a mano che lo stretto regime della penitenza pubblica andò scemando, l’idea della pubblica penitenza si estese alla generalità dei fedeli. Cosi noi vediamo il clero e i fedeli chiedere ben presto spontaneamente l’imposizioni delle ceneri e, con ciò stesso, riconoscersi, in qualche maniera, pubblici penitenti: è come se l’intera comunità dei fedeli passasse la Quaresima nella pubblica penitenza. « Ma. benché considerati come peccatori e penitenti, non potevano evidentemente tutti i fedeli esser cacciati fuori dalla chiesa; si doveva, allora, assolutamente rinunciare a ricordar loro alcune grandi verità che la Liturgia inculcava ai pubblici penitenti? I peccatori meritavano d’essere esclusi dalla Chiesa, come Adamo era stato cacciato dal paradiso a causa della sua colpa; senza penitenza non era possibile raggiungere il regno del cielo e la visione di Dio. Quindi, non ha forse cercato la Liturgia di ribadire questa verità in una maniera sensibile, nascondendo alla loro vista l’altare, il santuario, l’immagine di Dio e quella dei Santi uniti a lui nella gloria celeste? » – C. Callewaert, Sacris erudit., p. 699]. – Esso significava anche le umiliazioni di Cristo, che furono scandalo alla superbia della Sinagoga, ma poi scomparvero tutto ad un tratto, come un velo che in un attimo si toglie, per dar luogo agli splendori della Risurrezione (Onorio d’Autun, Gemma animæ, 1. III, c. XVI). La medesima usanza, fra gli altri luoghi, è rimasta anche nella Chiesa metropolitana di Parigi. In molte Chiese c’era anche la consuetudine di velare la croce e le immagini dei santi fin dall’inizio della Quaresima, per ispirare una più viva compunzione ai fedeli, i quali si vedevano così privati della consolazione di posare lo sguardo sopra gli oggetti cari alla loro pietà. Però questa pratica, che s’è pure conservata in alcuni luoghi (come nel Rito Ambrosiano) è meno giustificata di quella della Chiesa Romana, la quale copre i crocifissi e le immagini solo nel tempo di Passione, come a suo luogo spiegheremo. Apprendiamo dagli antichi cerimoniali del Medio Evo, che si solevano fare durante la Quaresima numerose processioni da una chiesa all’altra, particolarmente i mercoledì e i venerdì; nei monasteri queste processioni si facevano attraverso i chiostri, ed a piedi nudi (Martène, De antiquis Ecclesiae ritibus, t. III, c. XVIII). Erano un’imitazione delle stazioni di Roma, che in Quaresima sono giornaliere, e che, per molti secoli, cominciavano con una processione solenne alla chiesa stazionale. – Finalmente, la Chiesa ha sempre moltiplicato le sue preghiere durante la Quaresima. Fino a questi ultimi tempi la disciplina voleva che nelle chiese cattedrali e collegiali, purché non esenti da una consuetudine contraria, si doveva aggiungere alle Ore Canoniche: il lunedì l’Ufficio dei Morti, il mercoledì i Salmi Graduali, e il venerdì i Salmi Penitenziali. Nelle Chiese di Francia, nel Medio Evo, si doveva aggiungere un Salterio intero, ogni settimana, all’Ufficio ordinario (Martène, ivi, t. III, c. XVII