Preghiera a Gesù risorto

 

O Gesù che confondeste tutti i vostri nemici col rivestire di gloria e di magnificenza quel corpo che era già stato il bersaglio di tutte le umane persecuzioni, fatemi la grazia di morire a me stesso per risorger con Voi e per condurre a vostra somiglianza una vita nuova, divina, immortale: nuova per cambiamento di condotta; divina per la nobiltà purità dei sentimenti; immortale per la perseveranza nel bene. Operate in me, o Signore, questo fortunato cambiamento, fatemi passare dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce, da una vita piena di imperfezioni ad una vita perfetta e degna di Voi. Fate che io vada crescendo di lume in lume, di virtù in virtù, finché giunga a Voi, o Dio dello virtù, sorgente di ogni vita e d’ogni lume. Voi pure ricorro, o Vergine santa, che più di tutti partecipaste ai patimenti ed alle glorie del vostro divin Figliuolo perché vi degniate di farmi partecipe di quella divina allegrezza che aveste nel giorno faustissimo della sua risurrezione. Asciugate Voi le mie lacrime, e togliete dal mio cuore ogni importuna malinconia. Fate che il vostro Figliuolo risuscitato entri nel mio cuore come nel Cenacolo, a porte chiuse; che dica a me come agli Apostoli: sia con te la pace; che mostri a me, come a S. Tommaso, le sacrosante sue piaghe: che dimori con me stabilmente, né mai da me si parta.

ALLE PIAGHE DI GESÙ RISORTO.

I. – Risorto mio Gesù, adoro e bacio devotamente la piaga dolorosa del vostro piede sinistro, e vi prego a concedermi grazia di fuggire le occasioni pericolose, e di non camminare mai per la via dell’iniquità che conduce alla perdizione. Gloria.

II. – Risorto mio Gesù, adoro e bacio devotamente la piaga gloriosa del vostro piede destro, e vi prego a darmi grazia di camminare costantemente pe la via delle virtù cristiane fino ad arrivare alla patria del paradiso. Gloria.

III. – Risorto mio Gesù, adoro e bacio devotamente la piaga gloriosa della vostra mano sinistra, e vi prego di liberarmi da tutti i sinistri accidenti dell’anima e del corpo, e più particolarmente dell’infelice sorte degli empi che staranno alla vostra sinistra nel finale Giudizio. Gloria.

IV. – Risorto mio Gesù, adoro e bacio devotamente la piaga gloriosa della vostra mano destra, e vi prego di benedire con essa l’anima mia, ed aprirmi dopo la morte le porte beate del Paradiso.

V. – Risorto mio Gesù, adoro e bacio devotamente la piaga gloriosa del vostro Costato, e vi prego di accendere nel mio cuore il fuoco del vostro amore, affinché dopo avervi amato sempre fedelmente sopra la terra, passi ad amarvi eternamente nel cielo.

A Maria.

Vi prego infine, o Santissima Vergine Maria, che per il gran contento che aveste vedendo glorioso il vostro divin Figliuolo, c i impetriate la grazia di sorgere anche noi da una vita di tiepidezza ad una vita di fervore, per poi passare, alla morte, dallo miserie di questa terra, alla gloria eterna del Paradiso. 3 Ave e un Gloria.

Cantico sulla Risurrezione.

Dal cupo sen di morte

Risorge il Redentor,

dalle tartaree porte

Trionfa vincitor.

S’empia di pace e giubilo

Ogni anima fedel.

D’armoniosi cantici

Suoni la terra ed il ciel.

Si terga il mesto pianto

Tempo di duol non è!

 

Il duro laccio è infranto

Che già ci strinse il pie’.

T’allegra in sì bel giorno,

Afflitta Umanità,

Che al mondo fan ritorno

E grazia e santità:

Si vede alfin squarciato

Di morte il tetro vel

E tolto il rio peccato,

S’apre la via del ciel.

TEMPO PASQUALE

TEMPO PASQUALE

[Dom Guéranger. L’Anno Liturgico, vol. I]

Definizione del Tempo Pasquale.

Si dà il nome di Tempo Pasquale al periodo formato dalle settimane che decorrono dalla Domenica di Pasqua al Sabato dopo la Pentecoste. Questa è certo la parte più sacra dell’anno, perché ad essa converge l’intero ciclo liturgico. Ce ne renderemo conto facilmente considerando l’importanza della festa di Pasqua, chiamata fin dagl’inizi del Cristianesimo la « Festa delle feste », la « Solennità delle solennità », allo stesso modo, ci dice il Papa san Gregorio, per cui la parte più sacra del Tempio di Gerusalemme si chiamava il « Santo dei Santi » e tuttora si dà il nome di « Cantico dei cantici » al sublime epitalamio dell’unione del Figlio di Dio con la santa Chiesa. – È infatti nel giorno di Pasqua che la missione del Verbo incarnato, fino ad ora sempre tesa a questa meta, raggiunge la pienezza del suo compimento; è nel giorno di Pasqua che il genere umano viene risollevato dalla sua caduta e rientra in possesso di tutto ciò che aveva perduto per il peccato di Adamo.

Il Cristo vincitore.

Il Natale ci aveva dato un Uomo-Dio; tre giorni fa abbiamo raccolto il suo Sangue di un valore infinito per il nostro riscatto; ma all’alba della Pasqua non abbiamo più sotto i nostri occhi una vittima immolata, vinta dalla morte: è il trionfatore che l’ha annientata perché figlia del peccato, e che proclama la vita, quella vita immortale che ci ha riconquistata. Non è più l’umiltà delle fasce, non sono più gli spasimi dell’agonia e della croce; è la gloria, prima per Lui, poi per noi. Nel giorno di Pasqua Dio restaura nell’Uomo-Dio risuscitato la sua opera iniziale; il passaggio della morte non ha lasciato maggior traccia di quella del peccato, di cui l’Agnello divino si era degnato prendere la somiglianza; e non è solo Lui che torna alla vita immortale, ma tutta intera l’umanità. « Poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, ci dice l’Apostolo, anche per mezzo di un uomo vi è la risurrezione dei morti. E come tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo saranno vivificati » (I Cor. XV, 21-22).

La preparazione della Pasqua.

L’anniversario di questo evento è dunque il giorno più grande, il giorno di allegrezza, il giorno per eccellenza, quello a cui tutto l’anno converge, quello su cui esso si fonda. Ma proprio perché questo giorno è santo fra tutti gli altri, perché ci apre la porta della vita celeste nella quale entreremo risuscitati come Cristo, la Chiesa non ha voluto che venisse a splendere su di noi senza che avessimo prima purificato il nostro corpo per mezzo del digiuno e restaurato con la compunzione le nostre anime. È a questo fine che ha istituito la penitenza quaresimale e che, fin dalla Settuagesima, ci avverte che è venuto il momento di aspirare alle gioie purissime della Pasqua e di disporre l’animo nostro ai sentimenti che deve infonderci il suo avvicinarsi. – Ed ecco che ormai abbiamo terminato di prepararci e il Sole della Risurrezione si alza su di noi!

Santità della Domenica.

Ma non era sufficiente festeggiare il giorno solenne che ha visto Cristo, nostra Luce, sfuggire dall’ombra del sepolcro; un altro anniversario reclamava pure il nostro culto riconoscente. – Il Verbo incarnato è risuscitato il primo giorno della settimana, lo stesso giorno in cui, Verbo increato del Padre, aveva cominciato l’opera della creazione, sprigionando la luce dal seno del caos, separandola dalle tenebre e dando inizio così al giorno dei giorni. Nella Pasqua dunque il nostro divino risuscitato consacra la domenica una seconda volta e da allora il sabato cessa di essere il giorno sacro della settimana. La nostra risurrezione, compiutasi in Nostro Signore Gesù Cristo una domenica, completa la gloria del giorno iniziale; il precetto divino del sabato soccomberà insieme con tutta la legge mosaica; e gli Apostoli d’ora in avanti ordineranno ai fedeli di santificare il primo giorno della settimana, nel quale la gloria della creazione si unisce a quella della divina rigenerazione.

Data della festa di Pasqua.

La resurrezione delI’Uomo-Dio era avvenuta di domenica; la sua commemorazione, quindi, non poteva aver luogo in un altro giorno della settimana. Era perciò necessario separare la Pasqua dei Cristiani da quella degli Ebrei, la quale, fissata irrevocabilmente al quattordici della luna di marzo, anniversario dell’uscita del popolo dall’Egitto, cadeva ora in uno, ora in un altro dei giorni della settimana. La loro Pasqua non era che una figura: la nostra è la realtà, dinanzi alla quale l’ombra svanisce. Fu necessario dunque, che la Chiesa spezzasse quest’ultimo legame con la Sinagoga e proclamasse la sua emancipazione, fissandola più solenne delle sue feste in un giorno tale da non coincidere mai con quello in cui gli Ebrei celebravano la loro Pasqua, sterile ormai di ogni speranza. Gli Apostoli decisero che d’ora innanzi essa non sarebbe mai più il quattordici della luna di marzo, neppure quando questo cadesse di domenica, ma che si sarebbe celebrata in tutto l’universo la domenica che segue il giorno in cui l’ormai scaduto calendario della Sinagoga seguita a piazzarla. Nondimeno, in considerazione del gran numero di Ebrei che avevano ricevuto il Battesimo e che formavano da principio il nucleo della Chiesa cristiana, per non urtare la loro suscettibilità, fu pure presa la risoluzione che la legge relativa al giorno della nuova Pasqua sarebbe stata applicata successivamente e con prudenza. Del resto Gerusalemme non doveva tardare a soccombere sotto i colpi dei Romani, secondo la predizione del Salvatore, e la nuova città, ricostruita sulle sue rovine e abitata dalla colonia cristiana, avrebbe avuto anche la sua Chiesa, ma una Chiesa completamente indipendente dall’elemento giudaico, che la giustizia di Dio aveva in modo così chiaro ripudiato in quei medesimi luoghi. – La maggior parte degli Apostoli, nelle loro lontane predicazioni e nella fondazione delle Chiese in tante regioni situate anche fuori dei confini dell’Impero Romano, non ebbero da lottare contro consuetudini ebraiche. Delle loro reclute i più erano gentili. La Chiesa di Roma, che diveniva Madre e Maestra di tutte le altre, non conobbe mai altra Pasqua da quella che unisce, nella domenica, il ricordo del primo giorno del mondo e la memoria della gloriosa risurrezione del Figlio di Dio e di noi tutti che ne siamo le membra.

Usi dell’Asia Minore.

Una sola provincia della Chiesa, l’Asia Minore, rifiutò per molto tempo di uniformarsi a questo uso comune. San Giovanni, che visse a lungo ad Efeso e vi morì, aveva creduto bene di non esigere dai numerosi Ebrei che dalla Sinagoga erano passati al Cristianesimo la rinuncia alla legge giudaica per la celebrazione della Pasqua, ed i fedeli che, convertiti dal paganesimo, vennero ad accrescere il numero di quella cristianità così fiorente si appassionarono fino all’eccesso per quella tradizione, che si riallacciava all’origine delle Chiese dell’Asia Minore. Ma con l’andare avanti degli anni una tale anomalia era fonte di scandalo; vi si sentiva come un’impronta di giudaismo e l’unità del culto cristiano veniva a soffrire di una divergenza che impediva ai fedeli di essere tutti uniti nella gioia della Pasqua e nella tristezza dei giorni santi che la precedono. Il Papa san Vittore, che governò la Chiesa dall’anno 185, rivolse le sue cure contro tale abuso e pensò che era venuto il momento di far trionfare l’unità anche esteriore del culto cristiano in un punto tanto essenziale da formarne il centro. Già sotto il pontificato di S. Aniceto, circa l’anno 150, la Sede apostolica aveva tentato per mezzo di trattative amichevoli di condurre le Chiese dell’Asia Minore all’uso universale; ma nulla si era potuto ottenere contro un pregiudizio che si fondava su di una tradizione reputata sacra in quelle regioni. S. Vittore credé di potervi riuscire meglio dei suoi predecessori: per aver maggior influenza sugli abitanti dell’Asia, mediante la testimonianza unanime di tutte le Chiese, dette ordine che si tenessero concili nei vari paesi in cui il Vangelo era penetrato, e che vi venisse esaminata la questione della Pasqua. Ovunque l’accordo fu perfetto: e lo storico Eusebio, un secolo e mezzo dopo, scriveva che ancora si conservava il ricordo delle decisioni prese in proposito, oltre che dal concilio di Roma, anche da quelli tenuti nelle Gallie, nell’Acaia, nel Ponto, nella Palestina e nell’Osroene in Mesopotamia. – Il concilio di Efeso, presieduto da Policrate, Vescovo di quella città, fu il solo a resistere agli intenti del Pontefice ed all’esempio dato da tutta la Chiesa. Vittore, giudicando che questa opposizione non poteva venire sopportata più oltre, emise una sentenza con la quale le Chiese ribelli dell’Asia Minore venivano separate dalla comunione con la Santa Sede. Una condanna tanto severa formulata solo dopo ripetute istanze da parte di Roma perché si rinunziasse a quei pregiudizi asiatici, suscitò la commiserazione di molti vescovi. S. Ireneo, che reggeva allora la cattedra di Lione, intervenne presso il Papa in favore di quelle Chiese, le quali, secondo lui, non erano colpevoli che di una decisione poco illuminata. E ottenne la revoca di un provvedimento la cui severità sembrava sproporzionata alla colpa. Questa indulgenza produsse il suo effetto: durante il secolo seguente S. Anatolio, vescovo di Laodicea, nel suo libro sulla Pasqua, scritto nel 276, attesta che già da qualche tempo le Chiese dell’Asia Minore seguivano l’uso romano.

L’opera del concilio di Nicea.

Per una strana coincidenza, press’a poco nella stessa epoca, vi fu lo scandalo di una nuova scissione circa la celebrazione della Pasqua, questa volta da parte delle Chiese della Siria, della Cilicia e della Mesopotamià. Si videro infatti abbandonare la consuetudine cristiana e apostolica, per riprendere quella, di rito giudaico, del quattordici della luna di marzo. – Questo scisma nella liturgia afflisse la Chiesa; e uno dei primi intenti del Concilio di Nicea fu di promulgare l’obbligo universale di celebrare la Pasqua di domenica. Il decreto fu approvato all’unanimità ed i Padri componenti il Concilio ordinarono che « essendo stata superata ogni controversia, i fratelli orientali solennizzerebbero la Pasqua nello stesso giorno dei Romani, degli Alessandrini e di tutti gli altri fedeli » [Spicilegium Solesmense. t. IV. p, 541] – Interessando l’essenza stessa della liturgia cristiana, la questione sembrava così grave che S. Atanasio, nel riassumere i motivi che avevano provocato la convocazione del Concilio di Nicea, ci dice che essi furono: 1° condannare l’eresia ariana e 2° ristabilire l’unione nella celebrazione della Pasqua [Lettera ai Vescovi d’Africa]. Il Concilio di Nicea decise pure che il vescovo di Alessandria sarebbe incaricato di far fare i calcoli astronomici, necessari a determinarne ogni anno il giorno preciso, e che avrebbe inviato al Papa il risultato di tali studi affidati agli scienziati di quella città, scienziati che godevano della più grande reputazione. Il Romano Pontefice si sarebbe poi incaricato d’indirizzare a tutte le Chiese lettere con l’ordine della simultanea celebrazione della grande festa del Cristianesimo. In questo modo l’unità della Chiesa si manifestava con l’unità della liturgia; e la Cattedra Apostolica, fondamento della prima, era nel medesimo tempo mezzo per realizzare la seconda. Del resto, anche prima del Concilio di Nicea, il Romano Pontefice aveva la consuetudine d’indirizzare ogni anno a tutte le Chiese un’enciclica pasquale recante l’intimazione del giorno in cui si sarebbe dovuta celebrare la solennità della Risurrezione. Ce lo dice la lettera sinodale indirizzata al Papa S. Silvestro, nel 314, dai Padri componenti il concilio di Arles. « In primo luogo, essi scrivevano, noi chiediamo che il tempo e il giorno destinato alla celebrazione della Pasqua del Signore sia il medesimo nel mondo intero e che, secondo l’usanza già esistente, a tutti tu faccia pervenire lettere in proposito » (Concilio delle Gallie). – Nondimeno quest’uso non sopravvisse di molto al Concilio di Nicea. L’imperfezione dei mezzi astronomici condusse a confusione nel modo di calcolare il giorno della Pasqua. È vero che ormai essa fu sempre solennizzata di domenica e che nessuna Chiesa si permise più di celebrarla lo stesso giorno di quella degli Ebrei, ma, essendovi vari pareri sull’epoca precisa dell’equinozio di primavera, accadde che in alcuni anni la data della festa variò a seconda dei luoghi. A poco a poco ci si allontanò dalla regola del Concilio di Nicea, che stabiliva di considerare il 21 marzo come il giorno dell’equinozio. Occorreva riformare il calendario e nessuno era in grado di farlo. I calendari si moltiplicavano in contraddizione gli uni con gli altri, di modo che spesso Roma ed Alessandria non riuscivano a mettersi d’accordo. Pur essendoci buona fede da entrambe le parti, alcune volte la Pasqua venne così celebrata senza quella simultaneità universale che il Concilio di Nicea aveva voluto instaurare.

La riforma del Calendario.

L’Occidente si uniformò all’uso di Roma, che finì per trionfare anche di alcune opposizioni sorte nella Scozia e in Irlanda, le cui Chiese erano state sviate da Cicli inesatti. Finalmente i progressi della scienza permisero al Papa Gregorio XIII d’intraprendere e di portare a termine la riforma del calendario. Si trattava di ristabilire al 21 marzo l’equinozio di primavera, in conformità alla decisione presa dal Concilio di Nicea. Ciò che fece il Sommo Pontefice per mezzo della bolla del 24 febbraio 1581, togliendo dieci giorni all’anno seguente, dal 4 al 15 ottobre, e completando così l’opera di Giulio Cesare, che al tempo suo aveva già rivolto la sua attenzione ai calcoli astronomici. Ma la Pasqua era stata l’idea fondamentale e lo scopo della riforma operata da Gregorio XIII. Il ricordo e le regole dettate dal Concilio di Nicea influivano ancora su tale questione capitale dell’anno liturgico, e il Romano Pontefice ancora una volta fissava il giorno della Pasqua per tutto l’universo; non più però per un solo anno, ma per tutti i secoli. Le nazioni dove imperava l’eresia sentirono, loro malgrado, la potenza divina della Chiesa in questa grande innovazione, che interessava tanto la vita religiosa che quella civile, e protestarono contro la riforma del calendario come già avevano protestato contro la regola della fede. L’Inghilterra e gli Stati luterani della Germania conservarono ancora a lungo l’antico calendario, che la scienza ripudiava, piuttosto di accettare dalle mani di un Papa una riforma che il mondo riconosceva indispensabile. – Ai giorni nostri, tra le nazioni europee, non c’è che la Russia che, per avversione verso la Roma di S. Pietro, persiste a restare in ritardo dai dieci ai dodici giorni sul resto del mondo civile.

Avvenimenti miracolosi.

Tutti questi dettagli, che noi siamo obbligati di abbreviare notevolmente, mostrano però a sufficienza quale importanza si debba attribuire alla data della solennità di Pasqua, e il Cielo ha spesso manifestato, con dei prodigi, di non rimanerne indifferente. All’epoca in cui la confusione dei vari cicli e l’imperfezione dei mezzi astronomici portarono a tante indecisioni nello stabilire l’epoca dell’equinozio di primavera, fatti miracolosi servirono più di una volta a fornire quelle indicazioni che la scienza e l’autorità non potevano più dare con certezza. – Pascasino, vescovo di Lilibeo in Sicilia, in una lettera indirizzata nel 444 a S. Leone Magno, attesta che sotto il pontificato di S. Zosimo, mentre Onorio era console per l’undicesima volta e Costanzo per la seconda, il giorno della vera Pasqua fu rivelato ad una popolazione semplice ma religiosa, per mezzo di un intervento del Cielo. Tra montagne inaccessibili e fitte di foreste, in un angolo isolato della Sicilia, si trovava un villaggio chiamato Meltina. La sua chiesa era delle più povere, ma lo sguardo e la bontà di Dio vigilavano su di essa, poiché ogni anno, durante la notte pasquale, al momento in cui il sacerdote si dirigeva verso il battistero per benedirne l’acqua, il sacro fonte se ne trovava miracolosamente riempito, senza che esistesse condotto o sorgente per alimentarlo. Una volta finito di amministrare il Battesimo, l’acqua scompariva da se stessa, lasciando la piscina completamente asciutta. Ma avvenne che nell’anno più sopra indicato, quando il popolo, che era caduto in inganno per calcoli sbagliati, si radunò a celebrare la notte di Pasqua e, finite le profezie, si recò col sacerdote al battistero, il fonte apparve completamente privo d’acqua. I catecumeni attesero invano la presenza dell’elemento per mezzo del quale dovevano essere rigenerati: al levarsi del giorno si ritirarono. Il 22 aprile seguente (decimo dalle calende di maggio) la piscina si trovò riempita fino al labbro, manifestando così che quello era il giorno della vera Pasqua per l’anno in corso. – Cassiodoro, scrivendo in nome del re Atalarico ad un certo Severo, racconta un altro prodigio che sì verificava annualmente, per il medesimo fine, la notte di Pasqua in Lucania, presso l’isoletta di Leucotea, in un luogo chiamato Marciliano, ove esisteva una grande piscina scelta per amministrare il Battesimo. Appena il sacerdote cominciava le preghiere solenni della benedizione sotto la volta del cielo, naturale copertura di questo fonte, l’acqua sembrava prender parte alla gioia pasquale aumentando nel suo bacino, di modo che, se prima arrivava fino al quinto gradino, dopo si vedeva salire fino al settimo, quasi volesse andare incontro alle meraviglie della grazia di cui era lo strumento. Dio dimostrava in tal modo che anche le cose insensibili, quando Egli lo permette, possono associarsi alle gioie sacre del più solenne dei giorni dell’anno. – S. Gregorio di Tours ci parla di un altro fonte, che ai suoi tempi esisteva in una chiesa dell’Andalusia, in un luogo chiamato Osen, i cui fenomeni miracolosi servivano a discernere il vero giorno di Pasqua. Tutti gli anni, il giovedì santo, il vescovo vi si recava con i fedeli. Il fondo e le pareti della piscina, a forma di croce, erano ornati di mosaici. Si costatava che essa era completamente asciutta, e dopo alcune preghiere tutti uscivano dalla chiesa e il vescovo ne chiudeva là porta apponendovi il suo sigillo. Il sabato santo il pontefice vi ritornava insieme con il popolo e ne riapriva le porte, dopo aver verificato che i sigilli fossero intatti. Entrati scorgevano la piscina piena d’acqua fin sopra il livello del pavimento, senza però che si riversasse all’intorno. Il vescovo pronunciava gli esorcismi su quest’acqua miracolosa e vi versava il sacro Crisma. Venivano poi battezzati i catecumeni; e quando il Sacramento era stato amministrato a tutti, l’acqua spariva immediatamente, senza sapere che cosa avvenisse di essa. – Anche le cristianità orientali furono testimoni di prodigi simili. Giovanni Mosco, nel XII secolo, parla di un fonte battesimale in Licia: l’acqua lo riempiva ogni anno la vigilia di Pasqua, dimorandovi per cinquanta giorni e prosciugandosi improvvisamente dopo la festa di Pentecoste. Il prato spirituale, c. CCXV]. – Nel cenno storico sul tempo della Passione noi abbiamo ricordato la legge degli imperatori cristiani che proibivano i processi civili e penali durante tutta la quindicina di Pasqua, ossia dalla domenica delle Palme fino all’ottava dopo la Risurrezione. S. Agostino, in un sermone pronunciato il giorno di detta ottava, esorta i fedeli ad estendere a tutto l’anno una simile sospensione da liti, contese e inimicizie che la legge civile aveva voluto interrompere almeno durante quei quindici giorni.

Il dovere della Comunione.

La Chiesa impone a tutti i suoi figli di ricevere la santa Eucaristia durante il tempo pasquale. Questo dovere si fonda sulla stessa intenzione del divin Salvatore che, se non ha fissato direttamente l’epoca in cui i fedeli si sarebbero accostati a questo grande Sacramento, ne ha però lasciato la missione alla sua Chiesa, insieme con l’autorità di determinarla. Nei primi secoli del Cristianesimo la Comunione era frequente e in alcuni luoghi quotidiana. Più tardi i fedeli divennero freddi verso questo mistero divino e noi sappiamo dal canone diciottesimo del concilio di Agde nel 506 che molti cristiani, anche nelle Gallie, avevano perduto il loro fervore primitivo. Perciò si decise che quei laici che non si fossero accostati alla Comunione a Natale, a Pasqua e a Pentecoste non sarebbero più stati annoverati tra i cattolici. Questa disposizione del concilio di Agde passò come legge quasi generale in tutta la Chiesa d’Occidente. La troviamo, fra l’altro, nelle prescrizioni dettate da Egberto, arcivescovo di York, e nel terzo concilio di Tours. Nello stesso periodo, in parecchi luoghi si vede la Comunione prescritta tutte le domeniche di Quaresima e negli ultimi tre giorni della settimana santa, senza che per questo ne fosse pregiudicato l’obbligo per la festa di Pasqua. Fu solo al principio del XIII secolo, nel IV concilio ecumenico Lateranense del 1215, che la Chiesa, testimone della freddezza sempre più diffusa nella società, decretò, pur con dolore, che la Comunione per i cristiani era strettamente obbligatoria solo una volta l’anno e che doveva aver luogo a Pasqua. E per far sentire ai fedeli che questa condiscendenza rappresentava l’ultimo limite accordato alla loro negligenza, il santo concilio dichiarò che a colui, il quale osasse infrangere questa legge, potrebbe venire interdetto l’ingresso in chiesa durante la vita e sarebbe poi privato della sepoltura ecclesiastica dopo la morte, come se egli stesso avesse rinunciato a far parte della comunità cattolica [Più tardi il Papa Eugenio IV, nella costituzione «Fide digna» dell’anno 1440, dichiarò che questa Comunione annuale poteva aver luogo dalla domenica delle Palme fino alla domenica « Quasi modo » (in Albis) inclusa. – Queste disposizioni, prese da un concilio ecumenico, mostrano sufficientemente l’importanza del dovere che sono destinate a sanzionare. Nello stesso tempo ci fanno dolorosamente costatare il miserando stato di una nazione cattolica, ove milioni di cristiani sfidano ogni anno le minacce della santa madre Chiesa rifiutandosi di sottomettersi d un obbligo il cui adempimento porterebbe la vita nelle anime e costituirebbe la prova essenziale della loro fede. Detraendo dal numero di coloro che non sono sordi alla voce della Chiesa e che vengono ad assidersi al banchetto pasquale coloro i quali hanno vissuto come se la penitenza quaresimale non esistesse, ci sarebbe da abbandonarsi all’angoscia ed al timore sulla sorte di questo popolo, se qualche indizio consolante non venisse di tanto in tanto a risollevare le speranze e promettere per l’avvenire generazioni più cristiane della nostra.

Riti Liturgici.

Il periodo di cinquanta giorni che separa la festa di Pasqua da quella di Pentecoste è stato sempre oggetto del maggior rispetto da parte della Chiesa. La prima settimana di esso, consacrata in modo speciale ai misteri della Risurrezione, doveva essere celebrata con adeguato splendore, ma anche le altre seguenti furono degnamente onorate. Oltre la divina allegrezza che pervade tutta questa parte dell’anno, di cui l’Alleluia è l’espressione, la tradizione cristiana assegna due usi, esclusivi al tempo pasquale, che servono a differenziarlo dal resto dell’anno. Il primo consiste nella proibizione di digiunare durante questi quaranta giorni, estendendo così l’antico precetto, che già lo vietava in tutte le domeniche. E ciò perché questo periodo di gioia deve essere considerato come una sola ed unica domenica. Tale uso fu accolto anche dagli Ordini religiosi più severi, sia dell’Oriente sia dell’Occidente. L’altro rito particolare, conservatosi scrupolosamente nelle Chiese orientali, consiste nel non genuflettere durante la celebrazione degli uffici, dalla Pasqua fino alla Pentecoste. Le consuetudini occidentali hanno poi modificato quest’uso che aveva regnato pure da noi per alcuni secoli. La Chiesa latina ha riammesso da un pezzo le genuflessioni nella Messa durante il tempo pasquale e le sole vestigia che essa ha conservato delle antiche prescrizioni sono diventate quasi impercettibili ai fedeli che non hanno familiarità con le rubriche del servizio divino. – Tutto il tempo pasquale è dunque come un solo giorno di festa; è ciò che attesta anche Tertulliano già nel III secolo, rimproverando certi cristiani che per la loro sensualità si dolevano di aver dovuto rinunziare, dopo il Battesimo, a tante gaie solennità del mondo pagano. Così loro diceva: « Se amate le feste, ne trovate certamente da noi; e feste di molti giorni, non di uno solo come nel paganesimo, dove, una volta avvenuta, la celebrazione non si ripete più per tutto l’anno. Per voi adesso tante settimane, altrettante feste! Addizionate pure tutte le solennità dei gentili: non arriverete mai ai nostri cinquanta giorni della Pentecoste » De Idolatria, c. XIV). – S. Ambrogio, sul medesimo soggetto, scrivendo ai suoi fedeli, fa questa osservazione: « Se gli Ebrei, non contenti del loro sabato settimanale, ne celebrano un altro che dura tutto un anno, quanto più dovremo fare noi per onorare la Risurrezione del Signore! È per questo che ci hanno insegnato a celebrare i cinquanta giorni della Pentecoste quale parte integrante della Pasqua. Sono sette settimane complete e la Pentecoste ne comincia l’ottava. Come in ogni domenica, che è il giorno della Risurrezione del Signore, anche durante questo periodo la Chiesa vieta il digiuno, perché simili ad una sola ed unica domenica sono considerati tutti questi giorni » (Comm. in Lucam, 1. VIII, c. XXV).

Il vertice dell’Anno Liturgico.

Tra tutti i periodi dell’Anno Liturgico, il Tempo Pasquale è sicuramente il più fecondo per i grandi misteri che commemora: il punto culminante di tutta la Mistica liturgica dell’Anno. Chiunque ha la fortuna di penetrare, con la pienezza dello spirito e del cuore, nell’amore e nell’intendimento del mistero pasquale, può dirsi giunto al centro stesso della vita soprannaturale; ed è per questo motivo che la Santa Madre Chiesa, venendo in aiuto alla nostra debolezza, ogni anno ci invita nuovamente a commemorarlo. – Ciò che l’ha preceduto non ne era che la preparazione: l’attesa dell’Avvento, la gioia del Tempo Natalizio, i grandi ed austeri pensieri della Settuagesima, la compunzione e la penitenza della Quaresima , la visione lacerante della Passione; tutta questa serie di sentimenti e di fatti meravigliosi convergevano alla meta a cui siamo giunti. E per farci capire meglio che la solennità di Pasqua rappresenta ciò che sulla terra vi è di più importante per l’uomo, Dio ha voluto che questi due grandi misteri, tesi ad un unico fine, la Pasqua e la Pentecoste, venissero offerti alla Chiesa nascente dopo un passato che contava già quindici secoli: periodo enorme, che non è però sembrato troppo lungo alla Divina Sapienza per preparare, con apposite figure, le grandi realtà di cui noi oggi siamo in possesso. – In questi giorni si uniscono le due grandi manifestazioni di Dio verso gli uomini: la Pasqua d’Israele e la Pasqua Cristiana; la Pentecoste del Sinai e la Pentecoste della Chiesa; i simboli, concessi ad uno solo tra i popoli, e la verità svelata e propagata a tutte le nazioni. Dobbiamo ora dimostrare dettagliatamente come le antiche figure si siano avverate nella realtà della nuova Pasqua e della Pentecoste: il crepuscolo della legge mosaica lascia il posto allo splendore del giorno evangelico. Ma noi ci sentiamo compresi da profondo rispetto, riflettendo che le solennità che noi celebriamo contano già più di tremila anni di esistenza, e che esse si ripeteranno ogni anno, finché non si udirà la voce dell’angelo gridare: « non vi sarà più tempo » (Apoc. X, 6). Allora vedremo aprirsi le porte dell’eternità!

La Pasqua eterna.

L’eternità felice è la vera Pasqua: ed è per questo che la Pasqua di quaggiù è la Festa delle feste, la Solennità delle solennità. II genere umano era in preda alla morte, si sentiva oppresso sotto la sentenza che lo aveva lasciato nella polvere del sepolcro: le porte della vita gli erano chiuse. Ed ora ecco che il Figlio di Dio esce dalla tomba ed entra in possesso della vita eterna; e non sarà Lui solo a non morir più; il suo Apostolo ci insegna che Egli « è il primogenito tra i morti » (Col. I, 18). La Santa Chiesa vuole dunque che noi ci consideriamo risorti con Lui, come fossimo già in possesso della vita che non ha fine. I Santi Padri dicono che questi cinquanta giorni del tempo pasquale sono l’immagine della beatitudine eterna. Essi sono completamente consacrati alla gioia, esclusa ogni tristezza; e la Chiesa non sa più rivolgere la parola al suo Sposo senza intramezzarla con l’Alleluia, questo grido del cielo che risuona nelle vie e nelle piazze della Gerusalemme Celeste, secondo quanto ci dice la Liturgia [Pontificale Romano, per la Dedicazione delle chiese.]. Eravamo stati privati di quel canto di ammirazione, di allegrezza durante nove settimane: dovevamo immolarci insieme con Cristo, nostra vittima; ma adesso che siamo usciti con Lui dalla tomba e che non vogliamo più morire di quella morte che uccide l’anima e fa spirare sulla Croce il nostro Redentore, l’Alleluia è di nuovo a noi!

La Pasqua e la natura.

La sapiente provvidenza di Dio, che ha disposto in una perfetta armonia l’opera visibile di questo mondo e l’opera soprannaturale della grazia, ha voluto far coincidere la risurrezione del nostro divin Salvatore con l’epoca in cui anche la natura sembra uscire dalla sua tomba. I campi rinverdiscono, gli alberi della foresta hanno rimesso le foglie, il canto degli uccelli rallegra l’aere, e il sole, emblema di Gesù trionfante, versa fiotti di luce sulla terra rigenerata. A Natale invece, liberandosi a stento dalle ombre che sembravano minacciare di spegnerlo per sempre, l’astro benefico si mostrava in armonia con la nascita dell’Emmanuele, avvenuta nel profondo della notte, sotto umili spoglie; oggi possiamo dire insieme con il salmista: «È un campione che si slancia a correre la sua via… e nulla si asconde al suo calore » (Sal. XVIII, 6-7). Ascoltate la sua voce nel Cantico (II, 10-13) ove invita l’anima fedele ad unirsi a questa vita nuova che comunica a tutto ciò che respira: « Levati, amata mia colomba » esso dice « e vienitene; perché, vedi, l’inverno è passato, la pioggia è passata, se n’è andata. I fiori si mostrano per la campagna, si ode per la nostra contrada il tubar della tortora. Il fico getta i suoi frutterelli, le viti in fiore mandano il loro profumo ».

Nobiltà della Domenica.

Nel capitolo precedente abbiamo spiegato perché il Figlio di Dio avesse scelto la domenica, a preferenza di tutti gli altri giorni, per trionfar della morte e proclamar la vita. Non poteva dimostrare con maggiore energia, come tutto il creato si rinnova nella Pasqua, che ridando l’immortalità all’uomo, attraverso la sua persona, nel medesimo giorno in cui aveva creato la luce dal nulla. Non soltanto l’anniversario della sua Risurrezione diventa d’ora in avanti il più importante dei giorni, ma; in ogni settimana, la domenica ricorderà la Pasqua, sarà la giornata sacra. Israele, secondo il comandamento di Dio, festeggiava il Sabato per onorare il giorno del riposo del Signore dopo l’opera della creazione: la santa Chiesa, sposa del Cristo, si associa all’opera stessa dello Sposo. Lascia trascorrere il Sabato, il giorno che Egli passò nel riposo del sepolcro, ma, illuminata dagli splendori della Risurrezione, consacra d’ora in poi il primo giorno della settimana alla contemplazione dell’opera divina, che vide di volta in volta uscire dall’ombra e la luce materiale, prima manifestazione della vita sul caos, e Colui che, essendo lo Splendore eterno del Padre, si è degnato di dirci: « Io sono la luce del mondo » (Gv. VIII, 12). – Che la settimana, dunque, termini pure col suo Sabato: a noi cristiani occorre l’ottavo giorno, quello che supera la misura del tempo; a noi occorre il giorno dell’eternità, il giorno in cui la luce non sarà più intermittente, né data con circospezione, ma si spanderà senza fine e senza limiti. Così parlano i santi Dottori della fede, rivelandoci gli splendori della domenica ed il motivo dell’abrogazione del sabato. – Senza dubbio era bello per l’uomo prendere quale giorno di religioso riposo settimanale quello stesso in cui il Creatore del mondo visibile si era riposato; ma in esso non si trovava che il ricordo della creazione materiale. – Il Verbo riappare nel mondo, che Egli aveva creato nel principio: questa volta nasconde la luce della sua natura divina sotto i veli della carne umana. È venuto a compiere la realizzazione delle antiche figure. Prima di abrogare il Sabato vuole realizzarlo nella sua Persona, come tutto il resto della legge, passandolo nell’assoluto riposo, dopo il travaglio della Passione, sotto la volta funebre del sepolcro. Ma ai primi albori dell’ottavo giorno il divin prigioniero si slancia verso la vita e inaugura il regno della gloria. « Lasciamo dunque » ci dice Ruperto « lasciamo all’ebreo, schiavo dell’amore per i beni di questo mondo, di abbandonarsi alla gioia ormai sorpassata del suo sabato, che non rappresenta più altro che il ricordo di una creazione materiale. Assorto in questioni terrestri, esso non ha saputo riconoscere il Signore che ha creato il mondo; non ha voluto vedere in lui il Re dei Giudei, perché Egli diceva loro: «Beati i poveri». Il Sabato dei cristiani, il nostro Sabato, è l’ottavo giorno, che, allo stesso tempo, è il primo; e la gioia che noi vi attingiamo non viene dal fatto che il mondo è stato creato, ma piuttosto da quello che esso è stato salvato » [Gli Offici Divini, 1. VII, c. XIX.]. Il mistero del settenario seguito da un ottavo giorno, che è quello sacro, ha un’applicazione nuova e ancor più larga nella stessa disposizione del Tempo Pasquale. Questo periodo si compone di sette settimane, che formano una settimana di settimane, di cui il giorno seguente viene di nuovo ad essere una domenica, quella di Pentecoste. Dio stesso stabilì, senza che noi ne comprendiamo il mistero, il numero di questi giorni, quando istituì, nel deserto del Sinai, la prima Pentecoste, cinquanta giorni dopo la prima Pasqua. – Quest’ordine fu raccolto dagli Apostoli per essere applicato al periodo pasquale dei cristiani. Ce lo insegna sant’Ilario di Poitiers, la cui dottrina ci viene trasmessa da sant’Isidoro, da Amalario, da Rabano Mauro, e generalmente da tutti gli antichi interpreti dei misteri liturgici. « Se noi moltiplichiamo per sette il settenario – egli ci dice – riconosceremo che questo santo periodo di tempo è veramente il sabato dei sabati; ma ciò che lo completa e lo eleva fino alla pienezza evangelica, è l’ottavo giorno’che lo segue, quel giorno che è contemporaneamente il primo e l’ottavo. Gli apostoli hanno fatto delle sette settimane una istituzione così sacra, che durante tutto questo tempo non si deve genuflettere in segno di adorazione né turbare, col digiuno, le delizie spirituali di questa festa così prolungata. – La medesima disposizione si estende ad ogni domenica, poiché questo giorno, che segue il sabato, è divenuto, mediante l’applicazione dei progressi evangelici, il perfezionamento del sabato stesso e il giorno che noi passiamo festosamente e nell’allegrezza» [Prologo sul Salmi]. Cosi, dunque, maggiormente sviluppato nella forma, noi ritroviamo nel Tempo Pasquale lo stesso mistero che in ogni domenica ci viene ricordato. Tutto per noi ormai ha la sua data di origine nel primo giorno della settimana, perché la resurrezione del Cristo l’ha illuminato per sempre della sua gloria, di cui la creazione della stessa luce materiale non era che un’ombra. Abbiamo visto poco fa che questa istituzione era già accennata nell’antica Legge, anche se il popolo d’Israele ancora non ne possedeva il segreto. La Pentecoste degli Ebrei cadeva nel cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, in quello, ossia, che seguiva immediatamente le sette settimane. Un’altra figura del nostro Tempo Pasquale la troviamo pure in una delle prescrizioni che Dio aveva dato a Mosè nell’anno giubilare. In ogni cinquantesimo anno le case ed i campi che erano stati alienati durante gli altri quarantanove precedenti, dovevano ritornare ai loro possessori, e gli Israeliti che la miseria aveva costretto a vendersi, avrebbero riacquistata la loro libertà. – Quell’anno, chiamato espressamente anno sabbatico, seguiva le sette settimane di anni che l’avevano preceduto e portava così l’immagine del nostro ottavo giorno, nel quale il Figlio di Maria, risuscitato, ci ha riscattato dalla schiavitù della tomba, facendoci tornare eredi della nostra immortalità.

Usi liturgici.

Gli usi liturgici che caratterizzano il Tempo Pasquale nell’attuale disciplina dei riti sono principalmente i due seguenti: la ripetizione continua dell’Alleluia, di cui abbiamo già parlato poco fa, e l’impiego dei colori bianco e rosso, secondo le esigenze delle due solennità, di cui una apre questo periodo e l’altra lo chiude. Si esige il colore bianco per il mistero della Risurrezione, che è quello della luce eterna, luce senza ombra e senza macchia, e che produce in coloro che lo contemplano un sentimento di inenarrabile purezza e di beatitudine sempre crescente. – La Pentecoste, che fin da questa vita ci dona lo Spirito Santo con il suo fuoco che brucia, col suo amore che consuma, richiedeva un colore speciale che potesse esserne l’espressione e la Chiesa ha scelto il rosso per esprimere il mistero del divino Paraclito, che, manifestandosi in lingue di fuoco, scese su tutti coloro che si erano radunati nel Cenacolo. Più sopra abbiamo già detto che nella liturgia latina non restano che poche tracce dell’antico uso di non genuflettere durante il Tempo Pasquale. – Le feste dei Santi, sospese in tutto il corso della settimana precedente la Pasqua, lo saranno ancora durante i primi otto giorni del Tempo Pasquale, ma, dopo, esse ricompariranno nel ciclo, gioconde e numerose, attorno al Sole Divino. Lo scorteranno nella sua gloriosa Ascensione; ma, tanto grandioso è il mistero della Pentecoste, che ne verranno nuovamente sospese a cominciare dalla vigilia di questa solennità fino al termine di tutto il Tempo Pasquale. I riti della Chiesa primitiva in rapporto ai neofiti che erano stati rigenerati nella notte di Pasqua, offrono ancora numerosissimi episodi del più commovente interesse. Non è qui il momento di parlarne, poiché non si riferiscono che alle due ottave, quelle della Pasqua e della Pentecoste; ma ne daremo ampie spiegazioni a mano a mano che se ne presenterà l’occasione nello svolgersi della Liturgia.

La gioia spirituale.

Il riflesso di questo periodo sacro si riassume nella gioia spirituale che esso deve produrre nelle anime risuscitate assieme a Cristo, gioia che è una pregustazione della felicità eterna e che il Cristiano deve, d’ora in avanti, conservare in sé, cercando sempre più con ardore quella Vita che è nel nostro divin Salvatore e fuggendo, con costante energia, la morte, figlia del peccato. – Nelle settimane precedenti abbiamo dovuto dolerci di noi stessi, piangere le nostre colpe, abbandonarci all’espiazione, seguire Gesù fino al Calvario; ma adesso la Chiesa c’impone, invece, di rallegrarci. Essa stessa ha bandito ogni tristezza; non geme, ormai, che come la colomba; canta, quale sposa che ha ritrovato il suo sposo! E per rendere più universale questo sentimento di gioia, essa si è adattata alla debolezza dei suoi figli. Dopo aver loro ricordato la necessità dell’espiazione, ha concentrato tutto il vigore della penitenza cristiana nei quaranta giorni appena trascorsi; ed ora, rendendo la libertà al nostro corpo, e nel medesimo tempo ai sentimenti dell’anima nostra, ci ha trasportato in una regione dove non esiste che allegrezza, luce e vita, dove tutto è gioia, serenità, dolcezza e speranza di immortalità. – È così che è riuscita a suscitare, anche nelle anime meno elevate, un sentimento analogo a quello di cui godono le più perfette: di modo che, nell’inno che si eleva dalla terra per dar lode al nostro adorabile trionfatore, non vi sono dissonanze, e tutti, ferventi e tiepidi, uniscono le loro voci nell’entusiasmo universale. – Il più profondo e dotto liturgista del secolo XII, Ruperto, Abate di Deutz, così spiega questo indovinato stratagemma della Santa Chiesa: «Vi sono – egli dice – degli uomini sensuali che non sanno aprire gli occhi per contemplare i beni spirituali che quando si presenta loro l’occasione di qualche incidente materiale che gliene dà l’impulso. La Chiesa, per commuoverli, ha dovuto cercare un mezzo proporzionato alla loro debolezza. A questo fine ha istituito il digiuno quaresimale che rappresenta la decima dell’anno offerta a Dio, di modo che questa santa carriera non debba terminarsi che con la solennità della Pasqua, e che dopo vi siano cinquanta giorni consecutivi, durante i quali non se ne trovi neppure uno di digiuno. «Accade così che gli uomini mortificano il loro corpo, sostenuti però dalla speranza che la festa di Pasqua verrà a liberarli da quel giogo di penitenza; essi, nei loro desideri, pregustano l’arrivo della solennità; ogni giorno della Quaresima è per loro ciò che è una sosta per il viaggiatore; essi le contano con cura, pensando che il numero diminuisce progressivamente; ed è così che questa festa, da tutti desiderata, a tutti diviene cara, come lo è la luce per coloro che camminano nelle tenebre, la sorgente zampillante per quelli che hanno sete e la tenda preparata dal Signore medesimo per il viandante affaticato » [Gli Offici Divini, 1. IV, c. XXVII.]. Felice quel tempo in cui, in tutto l’esercito cristiano, come dice san Bernardo, nessuno si asteneva dal compiere il proprio dovere; quando giusti e peccatori camminavano di pari passo nella pratica delle cristiane osservanze. Ai giorni nostri la Pasqua non produce più la medesima sensazione di gioia nella nostra società. Senza dubbio la causa risiede nella mollezza e nella falsità delle coscienze che conducono molte persone a considerare l’obbligo della Quaresima come se per loro non esistesse. Ne consegue che tanti fedeli vedono giungere la Pasqua come una grande festa, è vero, ma non sono che superficialmente impressionati da quel sentimento di viva gioia sul quale la Chiesa impronta in questi giorni tutto il suo atteggiamento. E si sentono ancor meno disposti a mantenere, durante il periodo dei cinquanta giorni, quell’allegrezza a cui hanno partecipato in misura così esigua nel giorno tanto desiderato dai veri cristiani. – Non hanno digiunato, non hanno osservato l’astinenza durante la Quaresima; la condiscendenza della Chiesa verso la loro debolezza non è stata neppure sufficiente; per loro si sono dovute dare altre dispense; e, fortuna ancora, quando non se ne sono esonerati da se medesimi; essi non sentono neppure il rimorso di non aver adempiuto a questi ultimi resti del dovere cristiano! Quale sensazione può produrre in loro il ritorno dell’Alleluja? Quelle anime non sono state purificate dalla penitenza: sarebbero esse abbastanza agili per seguire Cristo Risuscitato, la cui vita è ormai più del cielo che della terra? Ma non andiamo contro le intenzioni della Chiesa rattristandoci con questi pensieri scoraggianti: preghiamo piuttosto il Divin Risuscitato, affinché, nella sua infinita potenza e bontà, illumini queste anime con gli splendori della sua vittoria sul mondo e sulla carne, e che le sollevi fino a Lui. Niente deve distoglierci in questi giorni dalla nostra felicità. Lo stesso Re di gloria ci dice: « Possono forse i compagni dello sposo stare afflitti, finché lo sposo è con essi? » (Mt. IX, 15). Gesù resterà ancora con noi per quaranta giorni; non soffrirà più; non morirà più; che dunque i nostri sentimenti siano consoni al suo stato di gloria e di felicità, che deve ormai durare per sempre. – Ci lascerà, è vero, per salire alla destra del Padre; ma di là ci manderà il divin Consolatore, che resterà con noi, affinché non restiamo orfani (Gv. XIV). Che tali parole siano dunque nostra bevanda e nutrimento per questi giorni: « I figli dello stesso sposo non devono rattristarsi mentre lo sposo è con essi ». Esse sono la chiave di tutta la liturgia di quest’epoca; non perdiamole di vista neppure per un istante e sentiremo che, se la compunzione e la penitenza della Quaresima ci sono state salutari, la gioia pasquale non lo sarà certo di meno. Gesù in croce e Gesù risuscitato è sempre il medesimo Gesù; ma in questo momento Egli ci vuole attorno a Lui, insieme con la sua Santissima Madre, con i suoi Discepoli, con la Maddalena, tutti abbagliati e rapiti per la sua gloria, dimenticando, in queste ore troppo veloci, le angosce della Passione.

Il desiderio della Pasqua eterna.

Ma quest’epoca piena di delizia giungerà al suo termine e non ci resterà che il ricordo della gloria e della familiarità del nostro Redentore. Cosa faremo noi allora nel mondo quando Colui, che ne era la vita e la luce, non sarà più visibile? Cristiano, tu aspirerai ad una nuova Pasqua! Ogni anno tornerà a darti quella felicità che tu hai saputo comprendere; e di Pasqua in Pasqua tu arriverai alla Pasqua eterna che durerà tanto quanto Dio stesso, il cui splendore arriva fino a te quale preludio alle gioie che essa ti riserva. Ma non è ancora tutto: ascolta la Santa Chiesa che ha previsto il disinganno nel quale potresti essere tentato di cadere; ascolta ciò che domanda per te al Signore: « Concedi ai tuoi servi di esprimere colla vita il Sacramento ricevuto mediante la fede » [Colletta del martedì di Pasqua]. – Il mistero di Pasqua non deve cessare di essere visibile sulla terra; Gesù, risuscitato, sale al Cielo, ma lascia in noi l’impronta della sua risurrezione e noi dovremo conservarla finche Egli ritorni.

Vita nuova in Cristo.

E come, effettivamente, questa impronta divina potrebbe non rimanere in noi, sapendo che partecipiamo a tutti i misteri di Cristo? Dacché Egli si è incarnato non ha fatto un passo senza di noi. Quando è nato a Betlemme, noi nascevamo con Lui; quando è stato crocifisso a Gerusalemme, l’antico uomo che era in noi, secondo la dottrina di san Paolo, è stato con Lui inchiodato alla Croce; quando è stato posto nel sepolcro, anche noi siamo stati sepolti assieme a Lui. Ne consegue che quando Egli risuscita da morte, anche noi dobbiamo vivere di una nuova vita (Rom. VI, 6-8). – Ora « Cristo risorto da morte – seguita l’Apostolo – più non muore e la morte non ha più dominio su di Lui. Poiché morendo Egli morì al peccato una sola volta per tutte; vivendo Egli vive a Dio » (ibidem 9-10). – Noi formiamo le sue membra: la nostra sorte, quindi, deve essere uguale alla sua. Morire nuovamente per via del peccato significherebbe rinunziare a Lui, separarci da Lui, rendere per noi inutile quella morte e quella risurrezione a cui noi abbiamo partecipato. Vegliamo dunque per mantenere in noi quella vita che non viene da noi, ma che, nondimeno, ci appartiene completamente, poiché Colui che l’ha conquistata morendo, ce l’ha data insieme a tutto ciò che possiede. Peccatori, che avete ritrovato la vita della grazia in occasione della solennità pasquale, non vi esponete più alla morte, ma compite opere degne di una vita di risurrezione e di redenzione. – Giusti, che il mistero pasquale ha rianimato, intraprendete una vita più generosa sia nei vostri sentimenti che nelle vostre opere. È così che tutti vi incamminerete nella vita rinnovata che l’Apostolo ci raccomanda. Noi non svilupperemo qui le meraviglie del mistero della Risurrezione di Gesù Cristo: risalteranno esse stesse dal nostro modesto commento e metteranno anche in maggior evidenza il dovere imposto ai fedeli di imitare il loro Divin Salvatore, mentre ci aiuteranno a capire meglio la magnificenza e l’estensione dell’opera essenziale dell’Uomo-Dio. – Troviamo qui nel Tempo Pasquale il punto culminante della Redenzione con le tre grandi manifestazioni dell’amore e del potere divino: Risurrezione, Ascensione e discesa dello Spirito Santo. Nell’ordine dei tempi, tutto ha servito a preparare questa conclusione, in seguito alla promessa fatta ai nostri progenitori, dopo la loro colpa, dal Signore irritato, ma misericordioso; e nell’ordine della Liturgia, dopo le settimane di attesa dell’Avvento, eccoci giunti al termine; e Dio appare come una potenza e una sapienza che sorpassano infinitamente tutto ciò che noi potevamo prevedere. Gli stessi Spiriti celesti ne rimangono confusi di ammirazione e di stupore, e la Chiesa ce lo esprime in uno dei cantici del Tempo Pasquale: « Gli Angeli – è detto – sono commossi dal terrore vedendo la rivoluzione che si opera nello stato della natura umana. La carne ha peccato ed è la carne che purifica; un Dio viene a regnare e in Lui la carne è unita alla Divinità» [Inno del Mattutino dell’Ascensione]. – Il tempo pasquale appartiene pure alla « vita illuminativa ». Esso ne è la parte più elevata, poiché non ci manifesta solamente le umiliazioni e le sofferenze dell’Uomo-Dio come nei precedenti periodi, ma ce le mostra in tutta la sua gloria, ce lo fa scorgere, esprimendo nella sua umanità, il più alto grado della trasformazione della creatura in Dio. La discesa dello Spirito Santo viene poi ad aggiungere il suo splendore a questa luce e rivela alle anime i rapporti che devono unirle alla Terza Persona della Santissima Trinità. Così si sviluppa la via ed il progresso dell’anima fedele, che, essendo diventata l’oggetto dell’adozione del Padre celeste, è iniziata a questa splendida vocazione dagli insegnamenti e dagli esempi del Verbo incarnato, e perfezionata dalla visita e dall’inabitazione dello Spirito Santo. Da qui risulta l’insieme delle pie pratiche che la conducono all’imitazione del suo Divin modello, e la preparano a quell’unione a cui è invitata da Colui che « a quanti lo accolsero, a quelli che credono nel suo nome, diede il diritto di diventare figli di Dio; i quali, non da sangue, né da voler di carne, né da voler di uomo, ma da Dio sono nati» (Gv. I, 12-13).

DOMENICA DI PASQUA

DOMENICA DI PASQUA

Introitus Ps CXXXVIII:18; CXXXVIII:5-6. Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuísti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja. [Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.] Ps CXXXVIII:1-2. Dómine, probásti me et cognovísti me: tu cognovísti sessiónem meam et resurrectiónem meam. [O Signore, tu mi provi e mi conosci: conosci il mio riposo e il mio sòrgere.] V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuísti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja. [Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.]

Oratio V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus. Deus, qui hodiérna die per Unigénitum tuum æternitátis nobis áditum, devícta morte, reserásti: vota nostra, quæ præveniéndo aspíras, étiam adjuvándo proséquere. [O Dio, che in questo giorno, per mezzo del tuo Figlio Unigénito, vinta la morte, riapristi a noi le porte dell’eternità, accompagna i nostri voti aiutàndoci, Tu che li ispiri prevenendoli.] Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 1 Cor 5:7-8

“Fratres: Expurgáte vetus ferméntum, ut sitis nova conspérsio, sicut estis ázymi. Etenim Pascha nostrum immolátus est Christus. Itaque epulémur: non in ferménto véteri, neque in ferménto malítiae et nequitiæ: sed in ázymis sinceritátis et veritátis.” R. Deo gratias. [Fratelli: Purificàtevi dal vecchio liévito per essere nuova pasta, come già siete degli àzzimi. Infatti, il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato. Banchettiamo dunque: non col vecchio liévito, né col liévito della malízia e della perversità, ma con gli àzzimi della purezza e della verità.]

Alleluja Alleluia, alleluia Ps. CXVII:24; CXVII:1 Hæc dies, quam fecit Dóminus: exsultémus et lætémur in ea. [Questo è il giorno che fece il Signore: esultiamo e rallegriàmoci in esso.] V. Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus. Allelúja, allelúja. [Lodate il Signore, poiché è buono: eterna è la sua misericòrdia. Allelúia, allelúia.] 1 Cor V:7 V. Pascha nostrum immolátus est Christus. [Il Cristo, Pasqua nostra, è stato immolato.]

Sequentia

“Víctimæ pascháli laudes ímmolent Christiáni. Agnus rédemit oves: Christus ínnocens Patri reconciliávit peccatóres. Mors et vita duéllo conflixére mirándo: dux vitæ mórtuus regnat vivus. Dic nobis, María, quid vidísti in via? Sepúlcrum Christi vivéntis et glóriam vidi resurgéntis. Angélicos testes, sudárium et vestes. Surréxit Christus, spes mea: præcédet vos in Galilaeam. Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére. Amen. Allelúja.” [Alla Víttima pasquale, lodi òffrano i Cristiani. – L’Agnello ha redento le pécore: Cristo innocente, al Padre ha riconciliato i peccatori. – La morte e la vita si scontràrono in miràbile duello: il Duce della vita, già morto, regna vivo. – Dicci, o Maria, che vedesti per via? – Vidi il sepolcro del Cristo vivente: e la glória del Risorgente. – I testimónii angélici, il sudàrio e i lini. – È risorto il Cristo, mia speranza: vi precede in Galilea. Noi sappiamo che il Cristo è veramente risorto da morte: o Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi. Amen. Allelúia.]

Evangelium Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Marcum. R. Gloria tibi, Domine! Marc. XVI:1-7.

“In illo témpore: María Magdaléne et María Jacóbi et Salóme emérunt arómata, ut veniéntes úngerent Jesum. Et valde mane una sabbatórum, veniunt ad monuméntum, orto jam sole. Et dicébant ad ínvicem: Quis revólvet nobis lápidem ab óstio monuménti? Et respiciéntes vidérunt revolútum lápidem. Erat quippe magnus valde. Et introëúntes in monuméntum vidérunt júvenem sedéntem in dextris, coopértum stola cándida, et obstupuérunt. Qui dicit illis: Nolíte expavéscere: Jesum quǽritis Nazarénum, crucifíxum: surréxit, non est hic, ecce locus, ubi posuérunt eum. Sed ite, dícite discípulis ejus et Petro, quia præcédit vos in Galilǽam: ibi eum vidébitis, sicut dixit vobis.” [In quel tempo: Maria Maddalena, Maria di Giacomo, e Salòme, comperàrono degli aromi per andare ad úngere Gesú. E di buon mattino, il primo giorno dopo il sàbato, arrivàrono al sepolcro, che il sole era già sorto. Ora, dicévano tra loro: Chi mai ci sposterà la pietra dall’ingresso del sepolcro? E guardando, vídero che la pietra era stata spostata: ed era molto grande. Entrate nel sepolcro, vídero un giòvane seduto sul lato destro, rivestito di càndida veste, e sbalordírono. Egli disse loro: Non vi spaventate, voi cercate Gesú Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui: ecco il luogo dove lo avévano posto. Ma andate, e dite ai suoi discépoli, e a Pietro, che egli vi precede in Galilea: là lo vedrete, come vi disse.] R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia

Omelia della Domenica di Pasqua

[del Canonico G.B. Musso, 1851]

-Risurrezione Vera e Costante-

Quanto grande dovett’essere la sorpresa delle sante donne, che si condussero a visitare il sepolcro di Gesù Cristo! Credevano trovarlo chiuso , e lo trovarono aperto, credevano trovarvi il suo corpo, e vi trovarono un angelo. Ma quanto più grande fu la loro allegria in sentire dall’angelo stesso: voi cercate Gesù Nazzareno poc’anzi crocifisso, Lo cercate invano. È questo il luogo ove venne riposto, Egli è risorto, non è più qui. “Surrexit, non est hic”. Per sì glorioso risorgimento la Chiesa è tutta in giubilo, in mille guise festose esprime la sua letizia, e vuole che sia comune a tutti i suoi figli un giorno sì lieto. “Haec dies, quam fecit Dominus, exultemus et laetemur in ea.” Esulta la nostra madre perché risorse da morte il divino suo Sposo. Esulta per la speranza, che siano risorti dal peccato i figli suoi. Sarà piena la sua allegrezza, se la nostra resurrezione sarà conforme a quella del Redentore. Quella fu vera e costante. E la nostra, uditori miei, la nostra qual è? Ha queste due qualità, di vera e costante? Vediamolo a nostra consolazione, o nostra riforma colla maggiore brevità.

I. “Surrexit Dominus vere (Luc. XXIV, 34). Fu vera la resurrezione di Gesù Cristo, e i soldati custodi del suo sepolcro ne diedero, anche non volendo, chiara testimonianza con l’infelice astuzia d’asserire che dal sepolcro fu tolto il suo corpo, mentre dormivano, come riflette S. Agostino. Fu cera, e pel corso di giorni quaranta si fe’ vedere alla Maddalena, a Pietro, a Giacomo, a Giovanni, agli Apostoli, ai discepoli in Galilea, al castello di Emmaus, al mare di Tiberiade. Fu vera, e prima di ascendere al cielo si mostrò a cinquecento discepoli. E a togliere ogni dubbio sulla verità del suo corpo risorto, comparso a porte chiuse in mezzo agli Apostoli nel cenacolo congregati, “la pace sia con voi, dice loro, non vi turbate, Io son quel desso che fui tra voi. Accertatevene, miei cari, ecco queste son le mie mani, questi i miei piedi, questo il mio fianco”. “Videte manas meas, et pedes meos, quia ego ipse sum (Luc. XXIV, 39). Se la mia comparsa può parervi un fantasma, appressatevi, e toccata il vero ravvivato mio corpo. Uno spirito non è né carne, né ossa onde si renda palpabile. Fu vera, e rivolse l’incredulità di Tommaso a confermare la fede del suo risorgimento, e, “… vieni, gli dice, e metti il tuo dito nell’apertura delle mie mani, de’ miei piedi traforati dai chiodi, e poni la mano in quella ferita, che nel mio petto ha lasciato la lancia”. Fu vera, finalmente, e gli Apostoli in Gerosolima, nella Giudea, nella Samaria, in tutte le parti dell’universo l’annunziano con fermezza, la predicano con lo zelo più ardente, la confermano con i più stupendi miracoli, la sigillano col proprio sangue; e la verità comprovata di Gesù Nazzareno risuscitato confonde la pagana filosofia, atterra gli idoli, discaccia i demoni, e sulle rovine del gentil esimo fa piantare la croce, e adorare il Crocifisso. – Non si pretende che il risorgimento di un peccatore abbia tutti questi luminosi caratteri di verità; ma è indispensabile una sostanziale somiglianza e conformità tra la Risurrezione del Salvatore, e la nostra. Voi nella presente solennità vi siete accostati al tribunale di penitenza, ed alla sacra mensa colla sacramentale Comunione, avete fatto la Pasqua. Siete con questo veramente risorti dal peccato alla grazia, dalla morte alla vita? Veniamo ad un troppo necessario confronto. Gesù Cristo, fra le altre prove del suo vero risorgimento, mostra e mani e piedi e costato. Lasciate che io veda le vostre mani, per giudicare se siete veramente risorti. Ritengono queste ingiustamente la roba altrui? Continuano a fare scarse misure, a spogliare i poveri, a falsificare scritture, a scrivere lettere infamanti, a mandar biglietti amorosi, canzoni oscene, ad impiegarsi in azioni indegne? Voi non siete risorti, siete ancor morti! Osserviamo i piedi. Son questi sempre rivolti alle cose sospette, al ridotto, al giuoco, alle pericolose conversazioni? Voi non siete risorti, siete ancor morti! Vediamo il cuore. Se questo è gonfio dalla superbia, infetto dalla lussuria, avvelenato dall’odio, posseduto dall’avarizia, voi non siete risorti, siete ancor morti! Non fu resurrezione la vostra, fu una larva, un’ombra, un’apparenza, che agli occhi del mondo vi fece comparire risorti alla luce di grazia, ma in realtà non va ha cavati dalle tenebre ed ombre di morte. A che giova la Confessione, se non intacca il vostro cuore dal peccato? A che giova la pasquale Comunione per un’anima impenitente? La pelle della pecora nasconde, ma non fa cangiare il lupo. La vera conversione cangia il lupo in agnello, come avvenne a S. Paolo. “Tu sarai convertito davvero, disse S. Remigio a Clodoveo re di Francia, se tu farai tutto l’opposto di quel che già facesti. Adorasti gli idoli, ora devi incenerirli, bruciasti la croce, ora devi adorarla!”- “Adora quod incendisti, incendi quod adorasti.” – La vera conversione di un’anima traviata è abbandonare del tutto la strada dell’iniquità e della perdizione, e d’incamminarvi in quella della penitenza e della salute. Consiste la risurrezione vera in un totale cangiamento di vita, di volontà, di pensieri, di affetti, di azioni, di costumi. Lo Spirito del Signore opera questa gran mutazione in quell’anima che apre gli occhi a’ suoi lumi, che porge orecchio alle sue voci, che ascolta gli impulsi della sua grazia. “Insiliet in te Spiritus Domini … et mutaberis in virum alium” (I Re, X, 6). Senza di questa mutazione, per cui si deponga l’uomo vecchio con tutte le sue viziose abitudini, e si rivesta il nuovo con ricopiare in sé Gesù Cristo per l’imitazione dei suoi esempi, sarà la nostra risurrezione un inganno, una illusione, un fantasma.

II. Io voglio credere però che la risurrezione vostra sia vera, che siate passati da morte a vita, e lasciato il vecchio fermento, gustiate degli azzimi della sincerità e della purezza. Ma per essere somigliante a quella de Gesù Cristo fa d’uopo che sia costante. Egli è risorto da morte, dice l’Apostolo, ed alla morte non è più soggetto. “Christus resurgens ex mortuis iam non moritur, mors illi ultra non dominabitur(Rom. VI, 9). Ecco il modello del vostro risorgimento. Cristo è risorto per non morire mai più; voi, risorti con Cristo, non dovete più spiritualmente morire. – Fu vera, fu stupenda la risurrezione di Lazzaro quatriduano già fetido, ma non fu permanente. Vivo uscì dal sepolcro, ma dopo alcuni anni tornò morto nel sepolcro. Ah! Miei direttissimi, non avvenga a voi per mutazione di volontà, ciò che a lui avvenne per necessità di natura. Mantenete la grazia ricevuta, conservate la vita riacquistata. M’interrogate dei mezzi da adoperarsi per rendere costante il vostro risorgimento? Seguite ad ascoltarmi, ed osservate la facile maniera per riuscirvi. Fate per l’anima quel che fate pel corpo. Col cibo si mantiene la vita del corpo, col cibo si mantiene la vita dell’anima. Cibo dell’anima è la parola di Dio o udita, o letta, o meditata. Lo dice in termini espressi il nostro divin Salvatore, “Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo quod procedit de ore Dei” (S. Matt. IV, 4). L’uomo non vive solamente di pane, o di qualunque altro cibo che viene sotto di questo nome, ma del cibo vivifico di quella parola, che esce dalla bocca di Dio. La parola di Dio ha creato il mondo, la parola di Dio ha convertito il mondo, la parola di Dio mantiene nella fede e nella grazia il cattolico mondo. Chi non si pasce di questo cibo, non può conservare la vita dell’anima. “Iustus ex fide vivit” (Rom. I, 17). Il giusto vive di fede, e la fede è per fondamento la divina parola. Cibo dell’anima è altresì la santa Comunione Eucaristica, ricevuta con mondezza di cuore, con frequenza discreta. Cibo dell’anima è l’orazione mentale, è la preghiera, colla quale si ottiene il pane quotidiano della divina grazia. – Per mantenere la vita del corpo, si ripara dall’inclemenza delle stagioni, dal freddo, dal caldo eccessivo, dalla furia dei venti, dalle arie infette. L’aria infetta per l’anima è quella che si respira nei teatri, nei festini, nelle bettole, nelle conversazioni licenziose. Venti furiosi sono le tentazioni, che assaltano per la via dei sensi non custoditi. Freddo, l’accidia, la vita oziosa, l’omissione dei propri doveri. Caldo eccessivo, il fuoco dell’ira, il fuoco della libidine. Tutto ciò conviene riparare, se come la salute del corpo vi preme quella dell’anima. – Se il corpo cade infermo, quanto si fa per risanarlo? Medici, medicine, consulti, tutto si adopera, nulla si omette per ristabilirlo, l’anima anch’essa è soggetta ad infermità. La sua medicina è il Sacramento della Penitenza. A questa probatica fa d’uopo accostarsi frequentemente, acciò le vostre piaghe non si convertano in cancrene, acciò le spirituali malattie non rechino la morte. – Ditemi in grazia, uditori umanissimi, vi si domanda troppo, se vi si chiede che abbiate un’ugual cura a mantenere la vita dell’anima come l’avete a conservare la vita del corpo? In un secolo così delicato siamo ridotti a discendere a patti sì dolci, a condizioni così limitate. Ma si adempiano almeno con quell’impegno che vi assicuri d’una resurrezione vera, d’una risurrezione costante e permanente come fu quella di Gesù Cristo, glorioso ed eterno trionfatore della morte, del peccato, e dell’inferno.

 Credo…

Offertorium V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps. LXXV:9-10. Terra trémuit, et quiévit, dum resúrgeret in judício Deus, allelúja. [La terra tremò e ristette, quando sorse Dio a fare giustizia, allelúia.]

Secreta

Súscipe, quaesumus, Dómine, preces pópuli tui cum oblatiónibus hostiárum: ut, Paschálibus initiáta mystériis, ad æternitátis nobis medélam, te operánte, profíciant. [O Signore, Ti supplichiamo, accogli le preghiere del pòpolo tuo, in uno con l’offerta di questi doni, affinché i medésimi, consacrati dai misteri pasquali, ci sérvano, per òpera tua, di rimédio per l’eternità.] – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Communio 1 Cor 5:7-8

Pascha nostrum immolátus est Christus, allelúja: itaque epulémur in ázymis sinceritátis et veritátis, allelúja, allelúja, allelúja.[Il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato, allelúia: banchettiamo dunque con gli àzzimi della purezza e della verità, allelúia, allelúia, allelúia.]

Postcommunio S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus. Spíritum nobis, Dómine, tuæ caritátis infúnde: ut, quos sacraméntis paschálibus satiásti, tua fácias pietáte concordes. [Infondi in noi, o Signore, lo Spírito della tua carità: affinché coloro che saziasti coi sacramenti pasquali, li renda unànimi con la tua pietà.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate eiusdem Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

VEGLIA PASQUALE: LE PROFEZIE ED UN’OMELIA DI S. S. GREGORIO XVII (1973)

-I Profezia-

Genesi I, 1-31 e II, 1-2

“In princípio creavit Deus cœlum et terram. Terra autem erat inánis et vácua, et ténebræ erant super fáciem abýssi: et Spíritus Dei ferebátur super aquas. Dixítque Deus: Fiat lux. Et facta est lux. Et vidit Deus lucem, quod esset bona: et divísit lucem a ténebris. Appellavítque lucem Diem, et ténebras Noctem: factúmque est véspere et mane, dies unus. Dixit quoque Deus: Fiat firmaméntum in médio aquárum: et dívidat aquas ab aquis. Et fecit Deus firmaméntum, divisítque aquas, quæ erant sub firmaménto,ab his, quæ erant super firmaméntum. Et factum est ita. Vocavítque Deus firmaméntum, Cœlum: et factum est véspere et mane, dies secúndus. Dixit vero Deus: Congregéntur aquæ, quæ sub cœlo sunt, in locum unum: et appáreat árida. Et factum est ita. Et vocávit Deus áridam, Terram: congregationésque aquárum appellávit Maria. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et ait: Gérminet terra herbam viréntem et faciéntem semen, et lignum pomíferum fáciens fructum juxta genus suum, cujus semen in semetípso sit super terram. Et factum est ita. Et prótulit terra herbam viréntem et faciéntem semen juxta genus suum, lignúmque fáciens fructum, et habens unumquódque seméntem secúndum spéciem suam. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et factum est véspere et mane, dies tértius. Dixit autem Deus: Fiant luminária in firmaménto cœli, et dívidant diem ac noctem, et sint in signa et témpora et dies et annos: ut lúceant in firmaménto cœli, et illúminent terram. Et factum est ita. Fecítque Deus duo luminária magna: lumináre majus, ut præésset diéi: et lumináre minus, ut præésset nocti: et stellas. Et pósuit eas in firmaménto cœli, ut lucérent super terram, et præéssent diéi ac nocti, et divíderent lucem ac ténebras. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et factum est véspere et mane, dies quartus. Dixit etiam Deus: Prodúcant aquæ réptile ánimæ vivéntis, et volátile super terram sub firmaménto cæli. Creavítque Deus cete grándia, et omnem ánimam vivéntem atque motábilem, quam prodúxerant aquæ in spécies suas, et omne volátile secúndum genus suum. Et vidit Deus, quod esset bonum. Benedixítque eis, dicens: Créscite et multiplicámini, et repléte aquas maris: avésque multiplicéntur super terram. Et factum est véspere et mane, dies quintus. Dixit quoque Deus: Prodúcat terra ánimam vivéntem in génere suo: juménta et reptília, et béstias terræ secúndum spécies suas. Factúmque est ita. Et fecit Deus béstias terræ juxta spécies suas, et juménta, et omne réptile terræ in génere suo. Et vidit Deus, quod esset bonum, et ait: Faciámus hóminem ad imáginem et similitúdinem nostram: et præsit píscibus maris et volatílibus cœli, et béstiis universæque terræ, omníque réptili, quod movétur in terra. Et creávit Deus hóminem ad imáginem suam: ad imáginem Dei creávit illum, másculum et féminam creávit eos. Benedixítque illis Deus, et ait: Créscite et multiplicámini, et repléte terram, et subjícite eam, et dominámini píscibus maris et volatílibus cœli, et univérsis animántibus, quæ movéntur super terram. Dixítque Deus: Ecce, dedi vobis omnem herbam afferéntem semen super terram, et univérsa ligna, quæ habent in semetípsis seméntem géneris sui, ut sint vobis in escam: et cunctis animántibus terræ, omníque vólucri cœli, et univérsis, quæ movéntur in terra, et in quibus est ánima vivens, ut hábeant ad vescéndum. Et factum est ita. Vidítque Deus cuncta, quæ fécerat: et erant valde bona. Et factum est véspere et mane, dies sextus. Igitur perfécti sunt cœli et terra, et omnis ornátus eórum. Complevítque Deus die séptimo opus suum, quod fécerat: et requiévit die séptimo ab univérso ópere, quod patrárat.”

[In principio Dio creò il cielo e la terra. Or la terra era solitudine e caos, e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso, ma lo Spirito di Dio si librava sopra le acque. Allora Dio disse: «Sia la luce». E luce fu. E Dio vide che la luce era buona, e separò la luce dalle tenebre. E diede il nome di Giorno alla luce e di Notte alle tenebre. Così si fece sera e poi mattina: primo giorno. Poi Dio disse: «Ci sia uno strato in mezzo alle acque, e separi le acque dalle acque». E Dio fece lo strato, e separò le acque che erano sotto da quelle che erano sopra lo strato. E così fu. E Dio chiamò Cielo lo strato. Intanto si fece sera e poi mattina: secondo giorno. Poi Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo si radunino in un solo luogo, e appaia l’asciutto». E così fu. E Dio chiamò Terra l’asciutto, e Mare l’ammasso delle acque. E Dio vide che ciò era ben fatto. Quindi disse: «Produca la terra erba verdeggiante che faccia seme, e piante fruttifere che diano frutto secondo la loro specie ed abbiano in se stesse la propria semenza sopra la terra». E così fu. E la terra produsse verdura, erba che fa seme della sua specie, e piante che danno frutto ed hanno ciascuna la semenza secondo la propria specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. Intanto si fece sera e poi mattino: terzo giorno. Dio disse ancora: «Vi siano dei luminari nella volta del cielo per distinguere il giorno dalla notte e siano segni dei tempi, dei giorni e degli anni, e risplendano nel firmamento del cielo per far luce sulla terra». E così fu. E Dio fece i due grandi luminari: il luminare maggiore, affinché presiedesse al giorno: il luminare minore, affinché presiedesse alla notte; e fece pure le stelle. E le mise nella volta del cielo, perché dessero luce alla terra e regolassero il giorno e la notte, e separassero la luce dalle tenebre. E Dio vide che ciò era ben fatto. Intanto si fece sera e poi mattino: quarto giorno. Disse poi Dio: «Brulichino le acque di animali e gli uccelli volino sopra la terra, sotto la volta del cielo». E Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli animali viventi striscianti, di cui si popolarono le acque, secondo le loro specie, ed ogni volatile secondo la sua specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. E li benedisse, dicendo: «Crescete e moltiplicatevi, e popolate le acque del mare, e si moltiplichino gli uccelli sopra la terra». E intanto si fece sera e poi mattino: quinto giorno. Disse ancora Dio: «Produca la terra animali viventi secondo la loro specie, animali domestici, e rettili e bestie selvatiche della terra, secondo la loro specie». E così fu. E Dio fece le fiere terrestri, secondo la loro specie, e gli animali domestici, e tutti i rettili della terra, secondo la loro specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. Poi Dio disse: «Facciamo l’Uomo a nostra immagine e somiglianza, che domini i pesci del mare, i volatili del cielo, le bestie, e tutta la terra, e tutti i rettili che strisciano sopra la terra». Dio creò l’uomo a sua immagine, lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. E Dio li benedì dicendo: «Crescete e moltiplicatevi, e riempite la terra e rendetevela soggetta, e dominate sui pesci del mare, e sui volatili del cielo, e sopra tutti gli animali che si muovono sulla terra». E Dio disse: «Ecco io vi do tutte le erbe che fanno seme sulla terra e tutte le piante che hanno in se stesse semenza della loro specie, perché servano di cibo a voi; e a tutti gli animali della terra, e a tutti gli uccelli del cielo e a quanto si muove sulla terra ed ha in sé anima vivente, affinché abbiano da mangiare». E così fu. E Dio vide tutte le cose che aveva fatte; ed esse erano molto buone. Intanto si fece sera e poi mattino: sesto giorno. Così furono compiuti i cieli e la terra e tutto il loro assetto. E Dio nel settimo giorno finì l’opera che aveva fatta e nel settimo giorno si riposò da tutte le opere che aveva compiute.]

-II Profezia-

Gen V;VI; VII; VIII

“Noë vero cum quingentórum esset annórum, génuit Sem, Cham et Japheth. Cumque cœpíssent hómines multiplicári super terram et fílias procreássent, vidéntes fílii Dei fílias hóminum, quod essent pulchræ, accepérunt sibi uxóres ex ómnibus, quas elégerant. Dixítque Deus: Non permanébit spíritus meus in hómine in ætérnum,quia caro est: erúntque dies illíus centum vigínti annórum. Gigántes autem erant super terram in diébus illis. Postquam enim ingréssi sunt fílii Dei ad fílias hóminum illæque genuérunt, isti sunt poténtes a sæculo viri famósi. Videns autem Deus, quod multa malítia hóminum esset in terra, et cuncta cogitátio cordis inténta esset ad malum omni témpore, pænítuit eum, quod hóminem fecísset in terra. Et tactus dolóre cordis intrínsecus: Delébo, inquit, hóminem, quem creávi, a fácie terræ, ab hómine usque ad animántia, a réptili usque ad vólucres cœli; pænitet enim me fecísse eos. Noë vero invénit grátiam coram Dómino. Hæ sunt generatiónes Noë: Noë vir justus atque perféctus fuit in generatiónibus suis, cum Deo ambulávit. Et génuit tres fílios, Sem, Cham et Japheth. Corrúpta est autem terra coram Deo et repléta est iniquitáte. Cumque vidísset Deus terram esse corrúptam , dixit ad Noë: Finis univérsæ carnis venit coram me: repléta est terra iniquitáte a fácie eórum, et ego dispérdam eos cum terra. Fac tibi arcam de lignis lævigátis: mansiúnculas in arca fácies, et bitúmine línies intrínsecus et extrínsecus. Et sic fácies eam: Trecentórum cubitórum erit longitúdo arcæ, quinquagínta cubitórum latitúdo, et trigínta cubilórum altitúdo illíus. Fenéstram in arca fácies, et in cúbito consummábis summitátem ejus: óstium autem arcæ pones ex látere: deórsum cenácula et trístega fácies in ea. Ecce, ego addúcam aquas dilúvii super terram, ut interfíciam omnem carnem, in qua spíritus vitæ est subter cœlum. Univérsa, quæ in terra sunt, consuméntur. Ponámque fœdus meum tecum: et ingrédiens arcam tu et fílii tui, uxor tua et uxóres filiórum tuórum tecum. Et ex cunctis animántibus univérsæ carnis bina indúces in arcam, ut vivant tecum: masculíni sexus et feminíni. De volúcribus juxta genus suum, et de juméntis in génere suo, et ex omni réptili terræ secúndum genus suum: bina de ómnibus ingrediántur tecum, ut possint vívere. Tolles ígitur tecum ex ómnibus escis, quæ mandi possunt, et comportábis apud te: et erunt tam tibi quam illis in cibum. Fecit ígitur Noë ómnia, quæ præcéperat illi Deus. Erátque sexcentórum annórum, quando dilúvii aquæ inundavérunt super terram. Rupti sunt omnes fontes abýssi magnæ, et cataráctæ cœli apértæ sunt: et facta est plúvia super terram quadragínta diébus et quadragínta nóctibus. In artículo diei illíus ingréssus est Noë, et Sem et Cham et Japheth, fílii ejus, uxor illíus et tres uxóres filiórum ejus cum eis in arcam: ipsi, et omne ánimal secúndum genus suum, univérsaque juménta in génere suo, et omne, quod movétur super terram in génere suo, cunctúmque volátile secúndum genus suum. Porro arca ferebátur super aquas. Et aquæ prævaluérunt nimis super terram: opertíque sunt omnes montes excélsi sub univérso cœlo. Quíndecim cúbitis áltior fuit aqua super montes, quos operúerat. Consúmptaque est omnis caro, quæ movebátur super terram, vólucrum, animántium, bestiárum, omniúmque reptílium, quæ reptant super terram. Remánsit autem solus Noë, et qui cum eo erant in arca. Obtinuerúntque aquæ terram centum quinquagínta diébus. Recordátus autem Deus Noë, cunctorúmque animántium et ómnium jumentórum, quæ erant cum eo in arca, addúxit spíritum super terram, et imminútæ sunt aquæ. Et clausi sunt fontes abýssi et cataráctæ cœli: et prohíbitæ sunt plúviæ de cœlo. Reversæque sunt aquæ de terra eúntes et redeúntes: et cœpérunt mínui post centum quinquagínta dies. Cumque transíssent quadragínta dies, apériens Nœ fenéstram arcæ, quam fécerat, dimísit corvum, qui egrediebátur, et non revertebátur, donec siccaréntur aquæ super terram. Emísit quoque colúmbam post eum, ut vidéret, si jam cessássent aquæ super fáciem terræ. Quæ cum non invenísset, ubi requiésceret pes ejus, revérsa est ad eum in arcam: aquæ enim erant super univérsam terram: extendítque manum et apprehénsam íntulit in arcam. Exspectátis autem ultra septem diébus áliis, rursum dimisit colúmbam ex arca. At illa venit ad eum ad vésperam, portans ramum olívæ viréntibus fóliis in ore suo. Intelléxit ergo Noë, quod cessássent aquæ super terram. Exspectavítque nihilminus septem álios dies: et emísit colúmbam, quæ non est revérsa ultra ad eum. Locútus est autem Deus ad Noë, dicens: Egrédere de arca, tu et uxor tua, fílii tui et uxóres filiórum tuórum tecum. Cuncta animántia, quæ sunt apud te, ex omni carne, tam in volatílibus quam in béstiis et univérsis reptílibus, quæ reptant super terram, educ tecum, et ingredímini super terram: créscite et multiplicámini super eam. Egréssus est ergo Noë et fílii ejus, uxor illíus et uxóres filiórum ejus cum eo. Sed et ómnia animántia, juménta et reptília, quæ reptant super terram, secúndum genus suum, egréssa sunt de arca. Ædificávit autem Noë altáre Dómino: et tollens de cunctis pecóribus et volúcribus mundis, óbtulit holocáusta super altáre. Odoratúsque est Dóminus odórem suavitátis.”

[Noè, essendo in età di cinquecento anni, generò Sem, Cam e Jafet. E avendo principiato gli uomini a moltiplicarsi sopra la terra e avendo procreato delle figliuole, vedendo i figliuoli di Dio la bellezza delle figliuole degli uomini presero per loro mogli quelle che più di tutte loro piacevano. E disse il Signore : Non rimarrà il mio spirito per sempre nell’uomo, perché egli è carne e i suoi giorni saranno solamente di cento veti anni. In quel tempo vi erano sopra la terra dei giganti: poiché, dopo che si accostarono i figliuoli di Dio alle figliuole degli uomini, esse generarono, e ne vennero questi uomini, forti e robusti, famosi nei secoli. — Vedendo dunque Dio quanto grande era la malizia degli uomini sopra la terra, e tutti i pensieri del loro cuore erano continuamente intesi al mal fare, si pentì d’aver fatto l’uomo. E preso come da un intimo strazio a! cuore: Sterminerò, disse egli, l’uomo da me creato dalla faccia della terra, dall’uomo sino agli animali, dai rettili fino agli uccelli dell’aria; poiché mi pento di averli fatti. — Ma Noè trovò grazia dinanzi al Signore. Questa è la Ascendenza di Noè. Noè fu uomo giusto e perfetto nei suoi, tempi, e camminò con Dio. E generò tre figliuoli: Sem, Cam e Jafet. Ma era corrotta la terra davanti a Dio e ripiena d’iniquità. E avendo veduto Dio come la terra era corrotta, poiché ogni uomo era corrotto nella sua maniera di vivere sulla terra, disse a Noè: Nei miei decreti è imminente la fine di tutti gli uomini; la terra è ripiena d’iniquità per opera loro, e io li sterminerò insieme con la terra. Tu costruirai un’arca con legni lavorati; tu farai delle piccole stanze nell’arca e la invernicerai di bitume di dentro e di fuori. E in questo modo la farai: la lunghezza dell’arca sarà di trecento cubiti, di cinquanta cubiti la larghezza e di trenta l’altezza. Farai una finestra nell’arca e il tetto dell’arca lo farai che vada alzandosi fino ad un cubito. La porta poi dell’arca la farai da un lato; vi farai un piano in fondo, un secondo piano e un terzo piano. Ecco che io manderò le acque del diluvio sopra la terra ad uccidere tutti gli animali che hanno spirito di vita sotto il cielo: tutto quello che è sopra la terra andrà in perdizione. Ma io farò un patto con te ed entrerai nell’arca tu, e i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. E di tutti gli animali d’ogni specie, ne farai entrare nell’arca una coppia, un maschio e una femmina, affinché si salvino con te. Degli uccelli secondo la specie e delle bestie di ogni specie, e di tutti i rettili della terra secondo la loro specie, due entreranno nell’arca con te, affinché possano conservarsi. Prenderai dunque con te di tutte quelle cose che si possono mangiare, e le porterai in questa tua casa e serviranno a te e a loro di cibo. Fece dunque Noè tutto quello che gli aveva comandato il Signore. Ed. egli era in età di seicento anni allorché le acque del diluvio inondarono la terra. Si squarciarono allora tutte le sorgenti del grande abisso, e le cateratte del cielo si aprirono: e piovve sopra la terra per quaranta giorni e quaranta notti. In quello stesso giorno entrò Noè e Sem, Cam e Jafet suoi figliuoli, la moglie di lui e le tre mogli dei suoi figliuoli con essi nell’arca: essi e tutti gli animali secondo la loro specie, e tutto quello che si muove sopra la terra secondo la loro specie. Ora l’arca galleggiava sopra le acque. E le acque ingrossarono fuor di misura sopra la terra: e rimasero coperti tutti i monti più alti sotto il cielo, Quindici cubiti si alzò l’acqua sopra i monti che aveva ricoperti. E restò consunta ogni carne che ha moto sopra la terra, gli uccelli, gli animali; le bestie e tutti i rettili che strisciano sopra la terra: e rimase solo Noè e quelli che con lui erano nell’arca. Le acque occuparono la terra per centocinquanta giorni, ma ricordandosi il Signore di Noè e di tutti gli animali e di tutte le bestie che erano con essi nell’arca, mandò il vento sulla terra, e si abbassarono le acque. E furono chiuse le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo, e si arrestarono le piogge dal cielo. E si ritirarono le acque dalla terra andando e venendo: e cominciarono a scemare dopo centocinquanta giorni. E passati quaranta giorni, Noè, aperta la finestra che egli aveva fatta nell’arca, mandò fuori il corvo, il quale uscì e non tornò fino a tanto che le acque non s’asciugarono sulla terra. Mandò ancora dopo di esso la colomba per vedere se fossero sparite le acque sopra la faccia della terra. Ma la colomba, non avendo trovato ove posare il suo piede tornò a lui nell’arca: poiché le acque erano per tutta la terra: egli stese la mano e presala, la mise dentro l’arca. E avendo aspettato altri sette giorni, di nuovo mandò la colomba fuori dell’arca; ed ella tornò a lui alla sera portando in bocca un ramo d’olivo con verdi foglie. Comprese allora Noè che erano cessate le acque sopra la terra e aspettò non di meno altri sette giorni e rimandò la colomba, la quale non tornò più a lui. E parlò Dio a Noè dicendo: Esci dall’arca tu e tua moglie, i figli tuoi e le mogli dei tuoi figli con te. Tutti gli animali che sono presso di te d’ogni specie, sia di volatili sia di bestie o di rettili striscianti sulla terra, conducili con te; rientrate sulla terra: crescete e moltiplicatevi. E Noè usci coi figliuoli e sua moglie e le mogli dei suoi figli con lui. E tutti, con gli animali e le bestie e i rettili che strisciano sulla terra secondo la loro specie, uscirono dall’arca. E Noè edificò un altare al Signore e, presi tutti gli animali e uccelli mondi, ne offrì in olocausto sopra l’altare. E il Signore gradì il soave odore.]

-III Profezia-

Gen. XXII, 1-19

“In diébus illis: Tentávit Deus Abraham, et dixit ad eum: Abraham, Abraham. At ille respóndit: Adsum. Ait illi: Tolle fílium tuum unigénitum, quem diligis, Isaac, et vade in terram visiónis: atque ibi ófferes eum in holocáustum super unum móntium, quem monstrávero tibi. Igitur Abraham de nocte consúrgens, stravit ásinum suum: ducens secum duos júvenes et Isaac, fílium suum. Cumque concidísset ligna in holocáustum, ábiit ad locum, quem præcéperat ei Deus. Die autem tértio,elevátis óculis, vidit locum procul: dixítque ad púeros suos: Exspectáte hic cum ásino: ego et puer illuc usque properántes, postquam adoravérimus, revertémur ad vos. Tulit quoque ligna holocáusti, et impósuit super Isaac, fílium suum: ipse vero portábat in mánibus ignem et gládium. Cumque duo pérgerent simul, dixit Isaac patri suo: Pater mi. At ille respóndit: Quid vis, fili? Ecce, inquit, ignis et ligna: ubi est víctima holocáusti? Dixit autem Abraham: Deus providébit sibi víctimam holocáusti, fili mi. Pergébant ergo páriter: et venérunt ad locum, quem osténderat ei Deus, in quo ædificávit altáre et désuper ligna compósuit: cumque alligásset Isaac, fílium suum, pósuit eum in altare super struem lignórum. Extendítque manum et arrípuit gládium, ut immoláret fílium suum. Et ecce, Angelus Dómini de cœlo clamávit, dicens: Abraham, Abraham. Qui respóndit: Adsum. Dixítque ei: Non exténdas manum tuam super púerum neque fácias illi quidquam: nunc cognóvi, quod times Deum, et non pepercísti unigénito fílio tuo propter me. Levávit Abraham óculos suos, vidítque post tergum aríetem inter vepres hæréntem córnibus, quem assúmens óbtulit holocáustum pro fílio. Appellavítque nomen loci illíus, Dóminus videt. Unde usque hódie dícitur: In monte Dóminus vidébit. Vocávit autem Angelus Dómini Abraham secúndo de cœlo, dicens: Per memetípsum jurávi, dicit Dóminus: quia fecísti hanc rem, et non pepercísti fílio tuo unigénito propter me: benedícam tibi, et multiplicábo semen tuum sicut stellas cœli et velut arénam, quæ est in lítore maris: possidébit semen tuum portas inimicórum suórum, et benedicéntur in sémine tuo omnes gentes terræ, quia obœdísti voci meæ. Revérsus est Abraham ad púeros suos, abierúntque Bersabée simul, et habitávit ibi.”

[In quei giorni Dio provò Abramo e gli disse: Abramo, Abramo. Ed egli rispose: Eccomi. E Dio gli disse: Prendi il tuo figlio unigenito, il diletto Isacco, e va nella terra della visione e ivi lo offrirai in olocausto sopra uno dei monti che io ti indicherò. Abramo, dunque, mentre era ancora notte alzatosi, preparò il suo asino e prese con se due servi e Isacco suo figliuolo: e tagliate le legna per l’olocausto, s’incamminò verso il luogo assegnatogli da Dio. E il terzo giorno, alzati gli occhi, vide il luogo da lungi e disse ai suoi servi: aspettate qui con l’asino: io e il fanciullo andremo fin là con prestezza; e, come avremo fatto adorazione, torneremo da voi. Prese anche la legna per l’olocausto e la pose addosso a Isacco suo figliuolo: egli poi portava colle sue mani il fuoco e il coltello. E mentre tutti e due camminavano insieme, disse Isacco a suo padre: Padre mio. E quegli rispose: Che vuoi figliuolo? Ecco, disse quegli, il fuoco e la legna: dov’è la vittima dell’olocausto ? E Abramo soggiunse: Dio ci provvederà la vittima per l’olocausto, figliuolo mio. Andavano dunque innanzi assieme. E giunti al luogo mostrato a lui da Dio, edificò un altare e sopra vi accomodò la legna, e avendo legato Isacco, suo figlio, lo collocò sull’altare, sopra il mucchio della legna.. E stese la mano, e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma ecco l’Angelo del Signore dal cielo gridò, dicendo: Abramo, Abramo. E questi rispose: Eccomi. E quegli a lui disse: Non stendere le tue mani sopra il .fanciullo e non fare a lui male alcuno; adesso ho conosciuto che tu temi Iddio e non hai risparmiato il figliuolo tuo unigenito per me. Alzò Abramo gli occhi e vide dietro a se un ariete che si dimenava tra i pruni e presolo per le corna, lo tolse e lo offerse in olocausto invece del figlio, e a quel luogo pose nome: il Signore vede! Donde fin a quest’oggi si dice: Sul monte il Signore provvederà. Per la seconda volta l’Angelo del Signore chiamò Abramo dal cielo dicendo: Per me medesimo ho giurato, dice il Signore: giacche hai fatto una tal cosa e non hai perdonato al tuo figlio unigenito per me, io ti benedirò e moltiplicherò la tua stirpe come le stelle del cielo e come l’arena che è sul lido del mare; s’impadronirà la tua stirpe delle porte dei suoi nemici; e nella tua discendenza benedette saranno tutte le nazioni della terra, perché hai ubbidito alla mia voce. Tornò Abramo dai suoi servi: e se ne andarono insieme a Bersabea, ove egli abitò.]

-PROFEZIA IV-

Exod. XIV 24-31 e XV, 1-2

“In diébus illis: Factum est in vigília matutina, et ecce, respíciens Dóminus super castra Ægyptiórum per colúmnam ignis et nubis, interfécit exércitum eórum: et subvértit rotas cúrruum, ferebantúrque in profúndum. Dixérunt ergo Ægýptii: Fugiámus Israélem: Dóminus enim pugnat pro eis contra nos. Et ait Dóminus ad Móysen: Exténde manum tuam super mare, ut revertántur aquæ ad Ægýptios super currus et équites eórum. Cumque extendísset Moyses manum contra mare, revérsum est primo dilúculo ad priórem locum: fugientibúsque Ægýptiis occurrérunt aquæ, et invólvit eos Dóminus in médiis flúctibus. Reversæque sunt aquæ, et operuérunt currus, et équites cuncti exércitus Pharaónis, qui sequéntes ingréssi fúerant mare: nec unus quidem supérfuit ex eis. Fílii autem Israël perrexérunt per médium sicci maris, et aquæ eis erant quasi pro muro a dextris et a sinístris: liberavítque Dóminus in die illa Israël de manu Ægyptiórum. Et vidérunt Ægýptios mórtuos super litus maris, et manum magnam, quam exercúerat Dóminus contra eos: timuítque pópulus Dóminum, et credidérunt Dómino et Moysi, servo ejus. Tunc cécinit Moyses et fílii Israël carmen hoc Dómino, et dixérunt: Cantémus Dómino: glorióse enim honorificátus est: equum et ascensórem projécit in mare: adjútor et protéctor factus est mihi in salútem,

Hic Deus meus, et honorificábo eum: Deus patris mei, et exaltábo eum.

Dóminus cónterens bella: Dóminus nomen est illi.”

[In quei giorni, era già la vigilia del mattino, e il Signore da una nuvola di fuoco guardò verso il campo degli Egiziani e lo scompigliò. Fece rovesciare le ruote dei cocchi, che erano trascinati nel profondo. Dissero allora gli Egiziani: «Fuggiamo Israele, perché il Signore combatte per loro contro di noi!». E il Signore disse a Mosè: «Stendi la tua mano sopra il mare, affinché le acque si rovescino sugli Egiziani, sopra i loro cocchi e i loro cavalieri». E avendo Mosè stesa la mano verso il mare, sul far della mattina, il mare tornò al suo posto di prima, e le acque piombarono addosso agli Egiziani che fuggivano: così il Signore li travolse in mezzo ai flutti. E le acque, ritornando, coprirono i cocchi e i cavalieri di tutto l’esercito del Faraone, che per inseguire erano entrati nel mare: né un solo di loro scampò. Ma i figli d’Israele camminarono sull’asciutto nel mezzo del mare, e le acque erano per loro come un muro a destra e a sinistra. Così in quel giorno il Signore liberò Israele dalle mani degli Egiziani. E gli Israeliti videro sul lido del mare gli Egiziani morti e la grande potenza che il Signore aveva dispiegato contro di essi. E il popolo temé il Signore e credettero al Signore e a Mosè, suo servo. E allora Mosè cantò coi figli d’Israele questo cantico al Signore, dicendo: Cantiamo al Signore perché si è maestosamente glorificato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere. Il Signore è la mia forza ed il mio cantico; V. Egli è il mio Dio e lo glorificherò; il Dio di mio padre e Lo esalterò. V. Il Signore debella le guerre: il suo nome è l’Onnipotente.]

-Profezia V-

Isai. LIV, 17 e LV, 1-11

“Hæc est heréditas servórum Dómini: et justítia eórum apud me, dicit Dóminus. Omnes sitiéntes, veníte ad aquas: et qui non habétis argéntum, properáte, émite et comédite: veníte, émite absque argénto et absque ulla commutatióne vinum et lac. Quare appénditis argéntum non in pánibus, et labórem vestrum non in saturitáte? Audíte audiéntes me, et comédite bonum, et delectábitur in crassitúdine ánima vestra. Inclináte aurem vestram, et veníte ad me: audíte, et vivet ánima vestra, et fériam vobíscum pactum sempitérnum, misericórdias David fidéles. Ecce, testem pópulis dedi eum, ducem ac præceptórem géntibus. Ecce, gentem, quam nesciébas, vocábis: et gentes, quæ te non cognovérunt, ad te current propter Dóminum, Deum tuum, et sanctum Israël, quia glorificávit te. Quærite Dóminum, dum inveníri potest: invocáte eum, dum prope est. Derelínquat ímpius viam suam et vir iníquus cogitatiónes suas, et revertátur ad Dóminum, et miserébitur ejus, et ad Deum nostrum: quóniam multus est ad ignoscéndum. Non enim cogitatiónes meæ cogitatiónes vestræ: neque viæ vestræ viæ meæ, dicit Dóminus. Quia sicut exaltántur cœli a terra, sic exaltátæ sunt viæ meæ a viis vestris, et cogitatiónes meæ a cogitatiónibus vestris. Et quómodo descéndit imber et nix de cœlo, et illuc ultra non revértitur, sed inébriat terram, et infúndit eam, et germináre eam facit, et dat semen serénti et panem comedénti: sic erit verbum meum, quod egrediátur de ore meo: non revertátur ad me vácuum, sed fáciet, quæcúmque volui, et prosperábitur in his, ad quæ misi illud: dicit Dóminus omnípotens.”

[Questa è l’eredità dei servi del Signore, e la loro giustizia è affidata a me, dice il Signore. Voi tutti che avete sete venite alle acque; e voi che non avete argento fate presto, comprate e mangiate venite, comprate senza argento e senz’altra permuta, del vino e del latte; per qual motivo spendete voi il vostro argento in cose che non sono pane e la vostra fatica in ciò che non vi sazia? Con docilità ascoltatemi e cibatevi di buon cibo; l’anima vostra si delizierà nel sostanzioso, nutrimento. Porgete l’orecchio vostro e venite a me: Udite, e vivrà l’anima vostra, ed io stabilirò con voi un patto eterno, l’adempimento delle misericordie assicurate a David. Ecco che ho dato lui per testimoniare ai Popoli, condottiero e maestro delle nazioni. Ecco che quel popolo che tu non riconoscevi, tu lo chiamerai; le genti che non ti conoscevano, a te correranno per amor del Signore Dio tuo, e del santo d’Israele, perché ti ha glorificato. Cercate il Signore mentre lo si può trovare: invocatelo mentre egli è vicino. Abbandoni l’empio, la via sua, e l’iniquo i suoi maligni progetti, e ritorni al Signore, il quale avrà misericordia di lui; al nostro Dio, che è largo nel perdonare. Poiché i pensieri miei non sono i pensieri vostri, ne le vie vostre son le vie mie, dice il Signore. Poiché di quanto il cielo sovrasta alla terra, tanto sovrastano le mie vie alle vostre e i miei pensieri ai pensieri vostri. E come scende la pioggia e la neve dal cielo e lassù non ritorna, ma inebria la terra e la bagna e la fa germogliare affinché dia il seme da seminare e il pane da mangiare; così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: essa non tornerà a me senza frutto, ma opererà tutto quello che io voglio, e felicemente adempirà quelle cose per le quali io l’ho mandata: così dice il Signore onnipotente.]

 

-Profezia VI-

Baruch III, 9-38

Audi, Israël, mandata vitæ: áuribus pércipe, ut scias prudéntiam. Quid est, Israël, quod in terra inimicórum es? Inveterásti in terra aliéna, coinquinátus es cum mórtuis: deputátus es cum descendéntibus in inférnum. Dereliquísti fontem sapiéntiæ. Nam si in via Dei ambulásses, habitásses útique in pace sempitérna. Disce, ubi sit prudéntia, ubi sit virtus, ubi sit intelléctus: ut scias simul, ubi sit longitúrnitas vitæ et victus, ubi sit lumen oculórum et pax. Quis invénit locum ejus? et quis intrávit in thesáuros ejus? Ubi sunt príncipes géntium, et qui dominántur super béstias, quæ sunt super terram? qui in ávibus cœli ludunt, qui argéntum thesaurízant et aurum, in quo confídunt hómines, et non est finis acquisitiónis eórum? qui argéntum fábricant, et sollíciti sunt, nec est invéntio óperum illórum? Extermináti sunt, et ad ínferos descendérunt, et álii loco eórum surrexérunt. Júvenes vidérunt lumen, et habitavérunt super terram: viam autem disciplínæ ignoravérunt, neque intellexérunt sémitas ejus, neque fílii eórum suscepérunt eam, a fácie ipsórum longe facta est: non est audíta in terra Chánaan, neque visa est in Theman. Fílii quoque Agar, qui exquírunt prudéntiam, quæ de terra est, negotiatóres Merrhæ et Theman, et fabulatóres, et exquisitóres prudéntiæ et intellegéntias: viam autem sapiéntiæ nesciérunt, neque commemoráti sunt sémitas ejus. O Israël, quam magna est domus Dei et ingens locus possessiónis ejus! Magnus est et non habet finem: excélsus et imménsus. Ibi fuérunt gigántes nomináti illi, qui ab inítio fuérunt, statúra magna, sciéntes bellum. Non hos elegit Dóminus, neque viam disciplínæ invenérunt: proptérea periérunt. Et quóniam non habuérunt sapiéntiam, interiérunt propter suam insipiéntiam. Quis ascéndit in cœlum, et accépit eam et edúxit eam de núbibus? Quis transfretávit mare, et invénit illam? et áttulit illam super aurum eléctum? Non est, qui possit scire vias ejus neque qui exquírat sémitas ejus: sed qui scit univérsa, novit eam et adinvénit eam prudéntia sua: qui præparávit terram in ætérno témpore, et replévit eam pecúdibus et quadrupédibus: qui emíttit lumen, et vadit: et vocávit illud, et obædit illi in tremore. Stellæ autem dedérunt lumen in custódiis suis, et lætátæ sunt: vocátæ sunt, et dixérunt: Adsumus: et luxérunt ei cum jucunditáte, qui fecit illas. Hic est Deus noster, et non æstimábitur álius advérsus eum. Hic adinvénit omnem viam disciplínæ, et trádidit illam Jacob púero suo et Israël dilécto suo. Post hæc in terris visus est, et cum homínibus conversátus est.

[Ascolta, o Israele, i comandamenti di vita; porgi le orecchie ad imparare la prudenza: quale è la ragione, o Israele, per la quale tu sei in terra nemica? Tu invecchi in paese straniero, sei contaminato tra i morti, sei stato contuso con quelli che scendono nella fossa. Infatti tu abbandonasti la fonte della sapienza. Poiché se tu avessi camminato per la via di Dio, saresti vissuto in una pace eterna. Impara dove sia la prudenza, dove sia la fortezza, dove sia l’intelligenza; affinché sappia a un tempo dove sia la lunghezza della vita e il nutrimento, dove sia il lume degli occhi e la pace. Chi trovò la sede di essa? E chi penetrò nei tesori di lei? Dove sono i principi delle nazioni e coloro che dominano sopra le bestie della terra? Coloro che coi volatili del cielo scherzano; coloro che tesoreggiano argento ed oro, in cui confidano gli uomini, né mai finiscono di procacciarsene? coloro che lavorano l’argento, e gran pensiero se ne danno e non hanno termine le opere loro? Furono sterminati e discesero negli abissi e a loro altri succedettero. Questi, giovani, videro la luce e abitarono sopra la terra, ma la via della disciplina non conobbero e non ne compresero la direzione, né i loro figli l’abbracciarono; essa andò lungi da essi, di lei non si udì più parola nella terra di Canaan, non fu veduta in Theman. I figli ancora di Agar, che cercano la prudenza che viene dalla terra, e i negozianti di Merrha e di Theman e i favoleggiatori e gli scopritori della prudenza e della intelligenza, non conobbero la via della sapienza; né fecero tesoro dei suoi ammaestramenti. O Israele, quanto grande è la casa di Dio, e quanto grande è il luogo del suo dominio! Grande egli è e non ha termine: eccelso e immenso. Ivi furono quei giganti famosi che da principio furono di statura grande, maestri di guerra. Non scelse questi il Signore, né questi trovarono la via della disciplina; per questo perirono. E perché non ebbero la sapienza, perirono per la loro stoltezza. Chi salì al cielo e ne fece acquisto, e chi la trasse dalle nubi? Chi varcò il mare e la trovò e la portò a preferenza dell’oro più fino? Non è chi possa conoscere le vie di lei, né chi comprenda i suoi sentieri. Colui che sa tutto la conosce e la discoprì con la sua prudenza; colui che fondò la terra per l’eternità e la riempì di animali e di quadrupedi, colui che manda la luce ed essa va, la chiama ed essa ubbidisce a lui con tremore. Le stelle diffusero dai loro posti il loro lume, e ne furono liete: chiamate, dissero : Eccoci, e risplenderono con gioia per lui che le creò. Questi è il Dio nostro e nessun altro può essere messo in paragone con lui, questi fu l’inventore della via della disciplina e la insegno a Giacobbe suo servo, e ad Israele suo diletto. Dopo tali cose egli fu visto sopra la terra, e con gli uomini ha conversato.]

-Profezia VII-

Ezech. XXXVII, 1-15

“In diébus illis: Facta est super me manus Dómini, et edúxit me in spíritu Dómini: et dimísit me in médio campi, qui erat plenus óssibus: et circumdúxit me per ea in gyro: erant autem multa valde super fáciem campi síccaque veheménter. Et dixit ad me: Fili hóminis, putásne vivent ossa ista? Et dixi: Dómine Deus, tu nosti. Et dixit ad me: Vaticináre de óssibus istis: et dices eis: Ossa árida, audíte verbum Dómini. Hæc dicit Dóminus Deus óssibus his: Ecce, ego intromíttam in vos spíritum, et vivétis. Et dabo super vos nervos, et succréscere fáciam super vos carnes, et superexténdam in vobis cutem: et dabo vobis spíritum, et vivétis, et sciétis, quia ego Dóminus. Et prophetávi, sicut præcéperat mihi: factus est autem sónitus prophetánte me, et ecce commótio: et accessérunt ossa ad ossa, unumquódque ad junctúram suam. Et vidi, et ecce, super ea nervi et carnes ascendérunt: et exténta est in eis cutis désuper, et spíritum non habébant. Et dixit ad me: Vaticináre ad spíritum, vaticináre, fili hóminis, et dices ad spíritum: Hæc dicit Dóminus Deus: A quátuor ventis veni, spíritus, et insúffla super interféctos istos, et revivíscant. Et prophetávi, sicut præcéperat mihi: et ingréssus est in ea spíritus, et vixérunt: steterúntque super pedes suos exércitus grandis nimis valde. Et dixit ad me: Fili hóminis, ossa hæc univérsa, domus Israël est: ipsi dicunt: Aruérunt ossa nostra, et périit spes nostra, et abscíssi sumus. Proptérea vaticináre, et dices ad eos: Hæc dicit Dóminus Deus: Ecce, ego apériam túmulos vestros, et edúcam vos de sepúlcris vestris, pópulus meus: et indúcam vos in terram Israël. Et sciétis, quia ego Dóminus, cum aperúero sepúlcra vestra et edúxero vos de túmulis vestris, pópule meus: et dédero spíritum meum in vobis, et vixéritis, et requiéscere vos fáciam super humum vestram: dicit Dóminus omnípotens”.

[In quei giorni la mano del Signore fu sopra di me: e lo spirito del Signore mi trasse fuori e mi posò in mezzo ad un campo che era pieno di ossa e mi fece girare intorno ad esso: esse poi erano in gran quantità sulla faccia del campo e molto inaridite: e disse a me: Figlio dell’uomo, pensi tu che possano riavere vita queste ossa? Ed io dissi: Signore Dio, tu lo sai. Ed egli disse a me: Profetizza sopra queste ossa e dirai loro: Ossa aride, udite la parola del Signore: queste cose dice il Signore Dio a queste ossa. Ecco che io infonderò in voi lo spirito e avrete la vita. E farò risalire su di voi i nervi e ricrescere sopra di voi le carni, e sopra di voi stenderò la pelle e darò a voi lo spirito, e vivrete e conoscerete che io sono il Signore. E profetai come egli mi aveva ordinato e mentre io profetavo, si udì uno strepito, ed ecco un brulichio: e si accostarono ossa ad ossa, ciascuna alla propria giuntura. E mirai, ed ecco sopra di esse i nervi e le carni vennero e si distese sopra di loro la pelle; ma non avevano spirito. Allora mi disse: Profetizza allo spirito, profetizza. figlio dell’uomo e dirai allo spirito: queste cose dice il Signore Iddio: Dai quattro venti vieni, o spirito, e soffia sopra questi morti ed essi rivivranno. E profetai come egli mi aveva comandato ed entrò in quelli lo spirito e riebbero la vita e stettero sui piedi loro, un esercito grande fuor di misura. Ed egli disse a me: Figlio dell’uomo, tutte queste ossa sono figli di Israele: essi dicono: Aride sono le ossa nostre, ed è perita la nostra speranza, e noi siamo troncati: per questo tu profetizza e dirai loro: queste cose dice il Signore: Ecco che io aprirò le vostre tombe e vi trarrò fuori dai vostri sepolcri, popolo mio, e vi condurrò nella terra d’Israele. E conoscerete che io sono il Signore allorquando avrò aperto i vostri sepolcri e vi avrò tratti dai sepolcri vostri, popolo mio, ed avrò infuso il mio spirito in voi, e vivrete, e vi avrò dato riposo nella terra vostra, dice il Signore, onnipotente.]

-Profezia VIII-

Isai. IV, 1-6

“Apprehéndent septem mulíeres virum unum in die illa, dicéntes: Panem nostrum comedémus et vestiméntis nostris operiémur: tantúmmodo invocétur nomen tuum super nos, aufer oppróbrium nostrum. In die illa erit germen Dómini in magnificéntia et glória, et fructus terræ súblimis, et exsultátio his, qui salváti fúerint de Israël. Et erit: Omnis, qui relíctus fúerit in Sion et resíduus in Jerúsalem, sanctus vocábitur, omnis, qui scriptus est in vita in Jerúsalem. Si ablúerit Dóminus sordes filiárum Sion, et sánguinem Jerúsalem láverit de médio ejus, in spíritu judícii et spíritu ardóris. Et creábit Dóminus super omnem locum montis Sion, et ubi invocátus est, nubem per diem, et fumum et splendórem ignis flammántis in nocte: super omnem enim glóriam protéctio. Et tabernáculum erit in umbráculum diéi ab æstu, et in securitátem et absconsiónem a túrbine et a plúvi”a.

[Sette donne si disputeranno un sol uomo in quel giorno dicendo: Noi mangeremo il nostro pane, del nostro ci vestiremo; solamente dacci il tuo nome, togli la nostra confusione. In quel giorno il «Germoglio del Signore sarà in magnificenza e gloria, e il «Frutto della terra» sarà il sublime vanto e la gioia dei salvati d’Israele. Tutti quelli restati in Sion, quelli rimasti in Gerusalemme, saranno chiamati santi, tutti quelli inscritti per la vita saranno in Gerusalemme . Quando il Signore avrà lavata dalle macchie la figlia di Sion, e Gerusalemme dal sangue che è in mezzo ad essa con lo spirito di giustizia e lo spirito di fuoco, il Signore allora creerà sopra tutto il monte di Sion, e dovunque sarà invocato, una nuvola di fumo durante il giorno, e lo splendore del fuoco fiammante nella notte, e sopra tutta la sua Gloria vi sarà protezione. Il Santuario farà ombra per il calore del giorno, e di difesa contro la bufera e la pioggia.]

-Profezia IX-

Es. XII, 1-11

“In diébus illis: Dixit Dóminus ad Móysen et Aaron in terra Ægýpti: Mensis iste vobis princípium ménsium: primus erit in ménsibus anni. Loquímini ad univérsum cœtum filiórum Israël, et dícite eis: Décima die mensis hujus tollat unusquísque agnum per famílias et domos suas. Sin autem minor est númerus, ut suffícere possit ad vescéndum agnum, assúmet vicínum suum, qui junctus est dómui suæ, juxta númerum animárum, quæ suffícere possunt ad esum agni. Erit autem agnus absque mácula, másculus, annículus: juxta quem ritum tollétis et hædum. Et servábitis eum usque ad quartam décimam diem mensis hujus: immolabítque eum univérsa multitúdo filiórum Israël ad vésperam. Et sument de sánguine ejus, ac ponent super utrúmque postem et in superlimináribus domórum, in quibus cómedent illum. Et edent carnes nocte illa assas igni, et ázymos panes cum lactúcis agréstibus. Non comedétis ex eo crudum quid nec coctum aqua, sed tantum assum igni: caput cum pédibus ejus et intestínis vorábitis. Nec remanébit quidquam ex eo usque mane. Si quid resíduum fúerit, igne comburétis. Sic autem comedétis illum: Renes vestros accingétis, et calceaménta habébitis in pédibus, tenéntes báculos in mánibus, et comedétis festinánter: est enim Phase Dómini”.

[In quei giorni disse il Signore a Mosè ed Aronne nella terra di Egitto: questo mese sarà per voi il principio dei mesi, il primo dei mesi dell’anno. Parlate a tutta l’adunanza dei figliuoli d’Israele, e dite loro: Il decimo giorno di questo mese, prenda ciascuno un agnello per famiglia e per casa. Che se il numero delle, persone è insufficiente per mangiare tutto l’agnello, inviterà, il suo vicino di casa, in modo che si abbia il numero sufficiente per consumare l’agnello. Questo poi sarà senza macchia , maschio, di un anno; e con lo stesso rito prenderete anche un capretto. E serberete l’agnello fino al giorno quattordicesimo di questo mese; e tutta la moltitudine dei figliuoli d’Israele lo immolerà alla sera. E prenderanno del sangue suo e lo metteranno su ambedue gli stipiti della porta e sull’architrave della porta delle case nelle quali lo mangeranno. E quella notte mangeranno quelle carni, arrostite al fuoco, con pani azzimi e lattughe selvatiche. Di esso non mangerete niente di crudo, o cotto nell’acqua, ma soltanto arrostito col fuoco; mangerete anche il capo, i piedi e le interiora. Niente di esso deve avanzare per il mattino; se qualche cosa ne avanzasse lo brucerete nel fuoco. E lo mangerete in questo modo; avrete i fianchi cinti, le scarpe ai piedi, e i bastoni in mano, e mangerete alla svelta perché è la Phase (il passaggio) del Signore.]

-Profezia X-

Jon. III, 1-10

“In diébus illis: Factum est verbum Dómini ad Jonam Prophétam secúndo, dicens: Surge, et vade in Níniven civitátem magnam: et prædica in ea prædicatiónem, quam ego loquor ad te. Et surréxit Jonas, et ábiit in Níniven juxta verbum Dómini. Et Nínive erat cívitas magna itínere trium diérum. Et cœpit Jonas introíre in civitátem itínere diéi uníus: et clamávit et dixit: Adhuc quadragínta dies, et Nínive subvertétur. Et credidérunt viri Ninivítæ in Deum: et prædicavérunt jejúnium, et vestíti sunt saccis a majóre usque ad minórem. Et pervénit verbum ad regem Nínive: et surréxit de sólio suo, et abjécit vestiméntum suum a se, et indútus est sacco, et sedit in cínere. Et clamávit et dixit in Nínive ex ore regis et príncipum ejus, dicens: Hómines et juménta et boves et pécora non gustent quidquam: nec pascántur, et aquam non bibant. Et operiántur saccis hómines et juménta, et clament ad Dóminum in fortitúdine, et convertatur vir a via sua mala, et ab iniquitáte, quæ est in mánibus eórum. Quis scit, si convertátur et ignóscat Deus: et revertátur a furóre iræ suæ, et non períbimus? Et vidit Deus ópera eórum, quia convérsi sunt de via sua mala: et misértus est pópulo suo, Dóminus, Deus noster”.

[In quei giorni il Signore per la seconda volta parlò a Giona profeta e disse: Alzati e va a Ninive città grande, e predica ivi quello che io dico a te. E si mosse Giona e andò a Ninive secondo l’ordine del Signore. Or Ninive era una città grande che aveva tre giornate di cammino. E Giona incominciò a percorrere la città per il cammino di un giorno e gridava e diceva: Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta. E i Niniviti credettero a Dio; e intimarono il digiuno e si vestirono di sacco tanto i grandi quanto i piccoli. E fu portata la nuova al re di Ninive: ed egli si levò dal suo trono e gettò via le sue vesti e si vestì di sacco e si assise sopra la cenere. E pubblicò e intimò in Ninive quest’ordine del re e dei suoi principi: Uomini e bestie, bovi e pecore non mangino niente, non vadano al pascolo, e acqua non bevano. E si coprano di sacco gli uomini e gli animali, e gridino verso il Signore con tutta la loro forza e si converta ciascuno dalla sua cattiva vita e dalle sue opere inique. Chi sa che Dio non si rivolga a noi e ci perdoni: e calmi il furore dell’ira sua, e così non ci faccia perire. E Dio vide le opere loro e come si erano convertiti dalla loro mala vita, ed ebbe misericordia del suo popolo il Signore Dio nostro.]

-Profezia XI-

Deut. XXXI, 22-30

“In diébus illis: Scripsit Móyses canticum, et dócuit fílios Israël. Præcepítque Dóminus Josue, fílio Nun, et ait: Confortáre, et esto robústus: tu enim introdúces fílios Israël in terram, quam pollícitus sum, et ego ero tecum. Postquam ergo scripsit Móyses verba legis hujus in volúmine, atque complévit: præcépit Levítis, qui portábant arcam fœderis Dómini, dicens: Tóllite librum istum, et pónite eum in látere arcæ fœderis Dómini, Dei vestri: ut sit ibi contra te in testimónium. Ego enim scio contentiónem tuam et cérvicem tuam duríssimam. Adhuc vivénte me et ingrediénte vobíscum, semper contentióse egístis contra Dóminum: quanto magis, cum mórtuus fúero? Congregáte ad me omnes majóres natu per tribus vestras, atque doctóres, et loquar audiéntibus eis sermónes istos, et invocábo contra eos cœlum et terram. Novi enim, quod post mortem meam iníque agétis et declinábitis cito de via, quam præcépi vobis: et occúrrent vobis mala in extrémo témpore, quando fecéritis malum in conspéctu Dómini, ut irritétis eum per ópera mánuum vestrárum. Locútus est ergo Móyses, audiénte univérso cœtu Israël, verba cárminis hujus, et ad finem usque complévit.”

[In quei giorni Mosè scrisse un cantico e lo insegnò ai figli di Israele. E il Signore diede i suoi ordini a Giosuè figlio di Nun e gli disse: «Fatti coraggio e sii forte: tu introdurrai i figli d’Israele nella terra che ho loro promessa, io poi sarò con te». Or quando Mosè ebbe finito di scrivere le parole di questa legge in un libro, diede ordine ai leviti, che portavano l’arca del patto del Signore: «Prendete questo libro e mettetelo in un lato dell’arca del patto del Signore Dio vostro, che vi rimanga come testimonio contro di te, ; perché ben conosco la tua ostinazione e la tua durezza di testa. Se, mentre sono ancor vivo e cammino con voi, siete stati sempre ribelli contro il Signore; quanto più dopo la mia morte! Radunate presso di me tutti gli anziani di ciascuna delle vostre tribù, e i vostri prefetti, che pronunzierò dinanzi a loro queste parole, chiamando a testimonio contro di loro il cielo e la terra. Poiché so bene che dopo la mia morte agirete iniquamente, uscendo ben presto dalla strada che vi ho prescritta; e vi cadranno addosso i mali negli ultimi tempi, allorché avrete fatto il male nel cospetto del Signore, provocandolo a sdegno colle opere vostre». Mosè quindi pronunciò e recitò sino alla fine le parole di questo cantico mentre tutto Israele stava ad ascoltarlo.]

-Profezia XII-

Dan. III, 1-24

“In diébus illis: Nabuchodónosor rex fecit státuam áuream, altitúdine cubitórum sexagínta, latitúdine cubitórum sex, et státuit eam in campo Dura provínciæ Babylónis. Itaque Nabuchodónosor rex misit ad congregándos sátrapas, magistrátus, et júdices, duces, et tyránnos, et præféctos, omnésque príncipes regiónum, ut convenírent ad dedicatiónem státuæ, quam eréxerat Nabuchodónosor rex. Tunc congregáti sunt sátrapæ, magistrátus, et júdices, duces, et tyránni, et optimátes, qui erant in potestátibus constitúti, et univérsi príncipes regiónum, ut convenírent ad dedicatiónem státuæ, quam eréxerat Nabuchodónosor rex. Stabant autem in conspéctu státuæ, quam posúerat Nabuchodónosor rex, et præco clamábat valénter: Vobis dícitur populis, tríbubus et linguis: In hora, qua audiéritis sónitum tubæ, et fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et univérsi géneris musicórum, cadéntes adoráte státuam áuream, quam constítuit Nabuchodónosor rex. Si quis autem non prostrátus adoráverit, eádem hora mittétur in fornácem ignis ardéntis. Post hæc ígitur statim ut audiérunt omnes pópuli sónitum tubæ, fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et omnis géneris musicórum, cadéntes omnes pópuli, tribus et linguæ adoravérunt státuam auream, quam constitúerat Nabuchodónosor rex. Statímque in ipso témpore accedéntes viri Chaldæi accusavérunt Judæos, dixerúntque Nabuchodónosor regi: Rex, in ætérnum vive: tu, rex, posuísti decrétum, ut omnis homo, qui audiérit sónitum tubæ, fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et univérsi géneris musicórum, prostérnat se et adóret státuam áuream: si quis autem non prócidens adoráverit, mittátur in fornácem ignis ardéntis. Sunt ergo viri Judæi, quos constituísti super ópera regiónis Babylónis, Sidrach, Misach et Abdénago: viri isti contempsérunt, rex, decrétum tuum: deos tuos non colunt, et státuam áuream, quam erexísti, non adórant. Tunc Nabuchodónosor in furóre et in ira præcépit, ut adduceréntur Sidrach, Misach et Abdénago: qui conféstim addúcti sunt in conspéctu regis. Pronuntiánsque Nabuchodónosor rex, ait eis: Veréne, Sidrach, Misach et Abdénago, deos meos non cólitis, et státuam áuream, quam constítui, non adorátis? Nunc ergo si estis parati, quacúmque hora audieritis sonitum tubæ, fístulæ, cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, omnísque géneris musicórum, prostérnite vos et adoráte státuam, quam feci: quod si non adoravéritis, eadem hora mittémini in fornácem ignis ardéntis; et quis est Deus, qui erípiet vos de manu mea? Respondéntes Sidrach, Misach et Abdénago, dixérunt regi Nabuchodónosor: Non opórtet nos de hac re respóndere tibi. Ecce enim, Deus noster, quem cólimus, potest erípere nos de camíno ignis ardéntis, et de mánibus tuis, o rex, liberáre. Quod si nolúerit, notum sit tibi; rex, quia deos tuos non cólimus et státuam áuream, quam erexísti, non adorámus. Tunc Nabuchodónosor replétus est furóre, et aspéctus faciéi illíus immutátus est super Sidrach, Misach et Abdénago, et præcépit, ut succenderétur fornax séptuplum, quam succéndi consuéverat. Et viris fortíssimis de exércitu suo jussit, ut, ligátis pédibus Sidrach, Misach et Abdénago, mítterent eos in fornácem ignis ardéntis. Et conféstim viri illi vincti, cum braccis suis et tiáris et calceaméntis et véstibus, missi sunt in médium fornácis ignis ardéntis: nam jússio regis urgébat: fornax autem succénsa erat nimis. Porro viros illos, qui míserant Sidrach, Misach et Abdénago, interfécit flamma ignis. Viri autem hi tres, id est, Sidrach, Misach et Abdénago, cecidérunt in médio camíno ignis ardéntis colligáti. Et ambulábant in médio flammæ laudántes Deum, et benedicéntes Dómino”.

[In quei giorni il re Nabuchodonosor fece una statua d’oro alta sessanta cubiti, larga sei cubiti e la fece alzare nella campagna di Dura, provincia di Babilonia. E così il Re Nabuchodonosor mandò a radunare i satrapi e i magistrati e i giudici e i capitani e i dinasti e i prefetti e tutti i governatori delle Provincie affinché tutti insieme andassero alla dedicazione della statua alzata dal re Nabuchodonosor. Allora si radunarono i satrapi e i magistrati e i giudici e i capitani, e i dinasti, e i grandi che erano costituiti in dignità, e tutti i governatori delle Provincie per andare tutti insieme alla dedicazione della statua, eretta da Nabuchodonosor. E stavano in faccia alla statua alzata dal re Nabuchodonosor: e l’araldo gridava ad alta voce: A voi si ordina, popoli tribù e lingue che nel punto stesso in cui udirete il suono della tromba e del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano è di ogni sorta di strumenti musicali, prostrati adoriate la statua d’oro eretta dal re Nabuchodonosor. Se alcuno non si prostra e adora, nello stesso momento sarà gettato in una fornace di fuoco ardente. Poco dopo, dunque, appena che i popoli tutti udirono il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano e di ogni genere di strumenti musicali, tutti senza distinzione di tribù e di lingua prostrati, adorarono la statua d’oro alzata dal re Nabuchodonosor. Subito, in quel punto stesso andarono alcuni uomini Caldei ad accusare i giudei e dissero al re Nabuchodonosor: Vivi, o re, in eterno; tu, o re, hai fatto un decreto che qualunque uomo che avesse udito il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano e di ogni sorta di strumenti musicali si prostrasse e adorasse la statua d’oro: che se alcuno non si prostrasse e adorasse, fosse gettato in una fornace di fuoco ardente. Vi son dunque tre uomini giudei i quali tu hai deputati sopra affari della provincia di Babilonia: Sidrach, Misach e gli Abdenago; questi uomini han dispregiato, o re, il tuo decreto: ai tuoi dei non rendono culto, non adorano la statua d’oro, alzata da te. Allora Nabuchodonosor pieno di furore e d’ira, ordinò che gli fossero condotti Sidrach, Misach e Abdenago; i quali furono condotti al cospetto del re. E parlò Nabuchodonosor re, e disse: È vero, o Sidrach. Misach e Abdenago, che voi non rendete culto ai miei dei e non adorate la statua d’oro che io ho eretta? Ora dunque se voi siete a ciò disposti, in quel momento in cui udirete il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del salterio, del timpano, e ogni genere di strumenti musicali, prostratevi e adorate la statua che io ho fatta che se non l’adorerete in quel punto stesso sarete gettati in una fornace di fuoco ardente: e quale è il Dio che vi sottrarrà al mio potere? Risposero Sidrach, Misach e Abdenago e dissero al re Nabuchodonosor: Non è necessario che noi ti diamo risposta. Perché certamente il Dio nostro che noi adoriamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e sottrarci al tuo patere, o re. Ma se anche non lo volesse fare, sappi, o re, che non rendiamo culto ai tuoi dei e non adoriamo la statua d’oro da te eretta. Allora Nabuchodonosor entrò in furore, e la sua faccia cambiò di colore verso Sidrach, Misach e Abdenago, e comandò che si accendesse il fuoco nella fornace sette volte più dell’usato. E ad uomini fortissimi del suo esercito diede ordine che legassero i piedi di Sidrach, Misach e Abdenago, e li gettassero nella fornace di fuoco ardente. E tosto, questi tre uomini legati nei piedi, avendo, i loro calzoni e tiare e i loro calzari e le loro vesti, furono gettati in mezzo alla fornace di fuoco ardente: poiché il comando del re non ammetteva indugi, e la fornace era accesa straordinariamente. Ma la fiamma di, improvviso incenerì coloro che vi avevano gettato Sidrach, Misach e Abdenago: mentre questi tre e cioè Sidrach, Misach e Abdenago caddero legati nel mezzo della fornace ardente. E camminavano in mezzo alle fiamme lodando Dio e benedicendo il Signore.]

OMELIA

di S. S. Gregorio XVII (G. Siri) – (1973)

Dal fuoco si è tratta la scintilla per accendere il cereo pasquale e tutti gli altri ceri. Perché questo? Per indicare che Cristo è luce. Ma questa luce sfavillò pienamente il giorno della Risurrezione e sfavillò perché portava la Risurrezione con sé il documento, la prova per la certezza; la verità non sfavilla se non è certa. La grande certezza di Cristo fu raggiunta per gli altri – la certezza obiettiva, dico – nel momento della Risurrezione, e allora fu luce, quale luce! Allora fu certo che Lui era il Figlio di Dio perché era Signore della vita e della morte, il limite sul quale gli uomini non arrivano. Fu luce perché allora si capì l’amore che Dio ha per le Sue creature. Fu luce perché allora fu certa l’elevazione dell’uomo all’ordine soprannaturale, il Suo intervento nelle anime, lasciando libera la volontà dell’uomo e trattandola e sostenendola con la grazia Sua. Fu luce perché allora si seppe che questa vita dalle apparenze così misere aveva un traguardo eterno: la stessa vita divina. La luce materiale che è stata accesa era ed è soltanto un piccolo, umile simbolo della luce di certezza che si accende nelle nostre anime. – Poi abbiamo sentito leggere tratti della Sacra Scrittura, e così è riapparsa la storia del mondo nelle sue grandi tappe. Anzitutto la creazione. Abbiamo sentito il canto di Mose, il canto lirico dal fondo storico del primo capitolo del Genesi (1, 1-2, 2), il canto che Mose in forma lirica – e questo è necessario tener presente per leggere con chiarezza quel testo – compose per inculcare al popolo suo la prima legge dell’Antico Testamento, la legge del riposo festivo, perché il settimo giorno deve essere dedicato a Dio; non una mezz’ora, un giorno! Quest’obbligo, scritto nella prima pagina della Sacra Scrittura, resta legato alla creazione del mondo, alla ragione per cui noi sussistiamo. Tutte le cose proclamano quello che la creazione esige: che si adori Dio. Poi abbiamo sentito un secondo momento, il momento in cui la storia incomincia a prendere forma e a snodarsi con chiarezza verso Cristo. Abbiamo sentito leggere di Abramo (Gen. XXII, 1-18). Con Abramo la storia si concreta in una linea che mira a Cristo, linea meravigliosa, tutta intessuta di soprannaturale, illuminata dallo spirito profetico. Ma questa storia inizia con un preannunzio del futuro: ad Abramo è chiesto il sacrifìcio del figlio; quando con la volontà egli l’ha fatto, l’angelo l’ha fermato, ma quando Cristo è andato in croce nessun angelo ha fermato gli eventi. Allora era profezia e promessa; sulla Croce si ebbe la magnificenza di questa fedeltà divina alle promesse fatte agli uomini. Poi abbiamo sentito leggere del passaggio del Mar Rosso (Es. XIV e XV, 1), altro punto fondamentale della storia umana, perché in questo punto prese definitivamente forma la storia che camminava verso Cristo. E la prese a questo modo: il mare si aprì ed il popolo camminò tra le due muraglia d’acqua, che si sarebbero dopo del popolo rovesciate sugli Egiziani per mandarli a morte. Così la storia prese forma. Abbiamo sentito poi parlare di questa salvezza attraverso la bocca di Ezechiele (XXXVI, 16-17a. 18-28). – E, finalmente, abbiamo sentito l’epistola (Rm VI, 3-11) e poi il Vangelo (Mc XVI, 1-8): la Resurrezione. La Risurrezione è l’epilogo di questa storia. – Davanti a questo epilogo noi ci chiediamo questo: in che misura la Risurrezione di Cristo si trasferisce a noi? Siamo qui solo per godere di una gloria altrui? No, siamo qui perché la Risurrezione di Cristo si trasferisce anche a noi. Vediamo con che gradi, vediamo in che modi, vediamo con quali traguardi. Si trasferisce a noi quando siamo battezzati, perché allora dall’anima è tolto il seme della morte, il peccato d’origine. Si trasferisce a noi quando noi volontariamente deponiamo il peccato grande e piccolo dall’anima. Il peccato non lo potremo trasferire da noi; lo possiamo trasferire soltanto per la Redenzione che ha avuto la sua manifestazione finale nella Risurrezione di Cristo. E allora attraverso la penitenza, che richiama sempre il Sacramento della Penitenza, risorgiamo dal peccato nel quale eravamo sepolti. E poi questa Risurrezione potrà con la Grazia di Dio camminare con la nostra libertà, portata anche sulle ali del nostro libero volere verso traguardi infiniti, continuando fino all’ultimo dei giorni, l’ultimo, dico, per ciascheduno di noi. E poi l’abito da lavoro sarà deposto, l’abito da lavoro ritornerà alla terra, rientrerà nel cerchio delle cose, in attesa che la Risurrezione di Cristo si trasferisca a noi in modo completo, e questo sarà l’ultimo giorno. Quando l’ifinita ed eterna scienza divina troverà quello che è appartenuto al nostro corpo, ce lo restituirà, restituirà il corpo all’anima e l’anima al corpo nella risurrezione finale. E allora completamente la Risurrezione di Cristo sarà trasferita a noi. – Per il momento siamo a mezza strada di questa grande storia, di cui in questa notte e solo in questa notte vengono riassunti gli elementi fondamentali, le grandi e vere svolte. Siamo a mezza strada, fratelli, e dico che siamo a mezza strada sia per rievocare la certezza della nostra risurrezione finale, ma anche per dire che nella mezza strada che ci rimane possiamo perdere tutto. Che questo non accada! Che per nessuno di noi e per nessuno di quelli che non sono qui possa accadere questo! Preghiamo. Così sia.

 

 

 

LE TRE ORE D’AGONIA DI NOSTRO SIGNOR GESÙ CRISTO

LE TRE ORE D’AGONIA

DI

NOSTRO SIGNOR GESÙ CRISTO

del

p. ALFONSO MESSIA (1).

[da “Il Giardino spirituale”, Tip. Pesole, Napoli, s. d. -imprim.-]

INTRODUZIONE — Per ciò che si deve fare e contemplare il Venerdì Santo nelle tre Ore dell’ Agonia, cominciandole dalle ore diciotto.

INVITO

Già trafitto in duro legno

Dall’indegno popol rio,

La grand’alma un Domo Dio

Va sul Golgota a spirar.

Voi, che a Lui fedeli siete,

Non perdete, o Dio! i momenti;

Di Gesù gli ultimi accenti

Deh venite ad ascoltar!

Si darà principio con un breve ragionamento per disporre alla venerazione e al profitto di queste tre Ore, terminato il quale si leggerà quanto segue:

Noi tutti fedeli Cristiani, amanti del nostro Salvatore Gesù, redenti e riscattati a costo del Sangue suo preziosissimo, della sua Passione e Morte, dalla schiavitù della colpa e del demonio, dobbiate contemplare con somma attenzione e riverenza i tormenti, le ambasce e le angustie mortali che nello spazio di queste tre Ore d’Agonia patì sulla Croce il nostro amorosissimo Redentore. Furono tanto crudeli e orrende che, al dire di S. Bernardo, non vi ha intelletto umano che valga a comprenderle, nè lingua creata a spiegarle. Dalla pianta del piede alla sommità della testa nulla aveva il Salvatore di sano. Guardalo bene, o Anima, su quella Croce: tutto da capo ai piedi fatto una piaga: le spalle e tutto il corpo lacerato dai flagelli, il petto snervato dalle percosse, il capo trapassato orribilmente dalle spine, i capelli strappati, la barba schiantata, il volto ferito dalle guanciate, le vene vuote di sangue, la bocca inaridita dalla sete, la lingua amareggiata dal fiele e dall’aceto, le mani e i piedi crivellati e trafitti da fieri chiodi, e questi squarci inaspriti anche più dal peso del suo medesimo corpo: il cuore afflitto, l’anima sul punto di spirare, divelta da un’indicibile tristezza ed angoscia. Ma ciò non era veramente quel che più lo cruciava, poiché si era già offerto di volersi assoggettare ai tormenti della croce. – Quello che più gli trafiggeva il cuore nell’agonia di queste tre ore erano le nostre colpe e la nostra iniqua corrispondenza. Era la nostra ingratitudine che Gli cagionava quelle tremende agonie di morte. Ah! chi non aborrirà, o Anima, con tutto il suo cuore, le colpe, che furono cagione d’agonie sì mortali al nostro amorosissimo Salvatore? – In queste tre ore di un sì lungo tormento, senza che le acque di tante amarezze potessero spegnere la vampa della sua carità, tutti Ei ebbe davanti a sé per offerire a prò nostro con amore sviscerato il suo Sangue e la sua vita in sacrifizio all’eterno suo Padre. In queste tre Ore, benché con gli occhi nostri noi nol vedessimo, colla immensa sua vista ben vide Egli noi, e ci tenne presenti, per offerirsi in favor di ciascuno; come se ciascuno di noi fosse l’unico al mondo, e l’unico amato da Lui. In queste tre ore vide chiaramente ciascuna delle nostre colpe con tutte le sue circostanze, come le vede allora che si commettono, e ne fu si intimamente penetrato ed afflitto, che mosso a pietà di noi offrì il suo Sangue suo preziosissimo in pagamento dei nostri delitti. In queste tre Ore coll’amarezza delle sue agonie levò di mano al demonio, principe del mondo la scrittura e l’obbligazione delle nostre colpe, e, seco inchiodandola sulla croce, la cancellò col suo Sangue. – In queste tre Ore col prezzo delle sue agonie ci guadagnò dall’eterno suo Padre i tesori tutti della sua clemenza, tutt’i buoni pensieri e le sante inspirazioni, e tutti gli aiuti della sua grazia. Oh avventurosa memoria del nostro dolcissimo Redentore! Oh beate tre preziose Ore spese per i nostri falli, nelle quali meritammo di star presenti sul monte Calvario, e non da lontano, non da vicino alla Croce, ma nel cuore stesso, nella stessa memoria del nostro amorosissimo Redentore, per acquistare tutta la grazia dell’amor suo e dell’infinita sua carità! Davvero, o Anima, non soddisfacciamo abbastanza per quel che dobbiamo al dolcissimo nostro Gesù se in queste tre Ore non moriamo noi d’amore. – Voltiamoci, Anime, all’eterno Padre, nostro Dio e nostro Giudice, e fatti animosi dell’agonia del nostro Redentore Gesù, diciamoGli con tutto l’affetto e con l’umiltà del nostro cuore: “Oh eterno Padre, Giudice e Signore delle anime nostre, la cui giustizia è incomprensibile! Giacché ordinaste, o Signore, che l’innocentissimo Figlio vostro pagasse i nostri debiti, guardate, o Signore e Padre nostro, alla sì tremenda agonia, nella quale per la vostra obbedienza e per le nostre colpe si trova in queste tre Ore: guardate al sì pietoso pagamento che vi offre nel suo Sangue e nella sua agonia, affinché si plachi così la vostra Giustizia. Cessi, o Signore, la vostra indignazione, e poiché vi vedete pagato e soddisfatto sì abbondantemente, noi debitori restiamo liberi: e per queste tre Ore d’agonia dell’amantissimo Figlio vostro Gesù, meritiamo noi tutto quello che vi chiese per noi, il perdono cioè delle nostre colpe e gli aiuti efficaci della vostra grazia,adesso e nell’ora della nostra morte”. Amen.

Qui tutti si pongano ginocchioni a meditare quel che si è detto, e intanto si canta qualche strofa; o brevemente si suona qualche strumento; poi si mettono a sedere e si legge:

LA PRIMA PAROLA.

“Padre perdonate loro, perché non sanno quel che si fanno”.

Posto il nostro Signore Gesù Cristo, come celeste Maestro sulla cattedra della Croce, avendo fine allora taciuto con sì profondo silenzio, apri le divine sue labbra per insegnare al mondo in sette Parole la dottrina più alta dell’amor suo. Bada , o anima, dunque, ravviva le tue potenze, guarda bene che Egli è Iddio stesso che t’ammaestra, e strutto conto ti chiederà di queste sette lezioni. Oh Gesù amoroso! O Maestro divino! parlate pure, o Signore, che i vostri figli v’ascoltano. – Tutta la natura si commoveva nel vedere il suo Creatore patire aggravi si atroci. Si offusca il Cielo di tetre ombre: stava per dar la terra orribili scosse, per cozzar fra loro le pietre, per aprirsi le sepolture: sono gli Angeli istupiditi, mirando il loro Signore fra sì crudeli tormenti; i demonii poi pieni di rabbia e d’invidia per non veder eseguire sopra degli uomini il castigo che meritavano le loro colpe, come si era eseguito sopra dì essi. Possiamo immaginare che irritata la Natura contro dei peccatori, domandasse al Padre eterno giustizia e vendetta: “Usquequo, Domine, sanctus et verus, non vindicas sanguinem Filii fui?” E quando ancor tarderete, giusto Signore e santo, a prendere nei peccatori vendetta del Sangue e delle ingiurie dell’innocente vostro Figliuolo? E che, quando ad un tal clamore la divina Giustizia stava già per vibrare il fulmine dell’ira sua per vendicarsi: allora il Redentore del mondo mostrando la carità sua infinita, alzando gli oscurati suoi occhi all’eterno suo Padre, e rappresentandoGli la sua ubbidienza e i suoi meriti, gli dicesse: Padre, e Signor mio, trattenete il braccio della vostra giustizia per questa Croce in cui muoio; pel Sangue che per Voi in essa spargendo vi domando, o Signore, e vi prego di perdonare ai peccatori le colpe, colle quali mi han messo in questa Croce; perdonate loro, o Padre, perché non sanno quel si fanno. O anima peccatrice, apri gli occhi e gli orecchi e ascoltando in questa prima parola Gesù, che chiama Padre tuo e di tutti l’eterno suo Padre, riconosci l’altezza della tua origine! Non d’altro Padre sei figlia che dell’eterno Iddio. Oh Padre eterno! Voi mio Padre; ed io figliuol sì reo? Quale cecità m’allontana da’vostri occhi? Che stoltezza è la mia! lasciar le vostre carezze e la vostra grazia pel vile amore delle creature? Dove sto coi miei peccati? Dove vado colle mie passioni? In che stato mi trovo io dacché vi offesi? Oh Padre amoroso! io perisco qui miserabile nei miei debiti! A chi volterò gli occhi? A Voi li volterò io, Padre benignissimo. Ma come ha da aver occhi un ingrato per ritornare alla presenza di un padre che ha tanto offeso? Ritorna, sì, Anima afflitta, ritorna, che finalmente è tuo Padre. Andrò; ma, ahimè! oh Dio mio! che mi manca la lena, perché son senza numero le mie malvagità, le mie scelleratezze; e temo che i vostri sguardi non siano per me fulmini spaventevoli: morir sarà meglio, e non andare. Via, ritorna, Anima pentita, ritorna ch’Egli in fine è tuo Padre: è il tuo stesso Fratello Gesù che hai crocifisso colle tue colpe, e quegli che t’introduce e prega il Padre Sovrano a perdonarti, offrendo per le tue colpe il suo Sangue. – Oh mio Gesù! Oh Fratello amorosissimo! A me codesti piedi, che li baci colle mie labbra e li bagni colle mie lacrime. Voi domandate il perdono delle mie abominazioni; e d’amore io qui non muoio per Voi? Ahimè! qual durezza è la mia! Su, va con fiducia, Anima pentita: andate, peccatori tutti, a procacciarvi misericordia, che già trabocca il cielo in pietà, perché l’amorosissimo Gesù prega l’eterno Padre per tutti, e con profonda riverenza Gli dice: “O Padre pietosissimo, ecco che avete già qui i miseri peccatori! Non guardate, o Signore, che abbiano essi crocifisso me, ma che muoio per loro: vivano essi: non guardate alla loro ignoranza, ma all’amor mio: non guardate alla loro ingratitudine, ma al Sangue ch’Io ho versato: non guardate alle loro colpe, ma a questa vita che vi offro per loro su questa Croce: perdonate, che non sanno quel che si fanno.” – Oh carità infinita dell’amantissimo nostro Gesù, il cui incendio amoroso non poterono estinguer le acque di tanta crudeltà e tribolazione. Oh che alla dottrina c’insegna Egli in questa prima parola! Osserva, Anima, come scusa, alla maniera che può, quelli che Lo crocifiggono, e come perdona ai suoi crudeli nemici, e in essi a tutti i peccatori che l’offendono, e con le loro offese l’han messo in Croce. “Padre, dice, perdonate loro, perché non sanno quel che si fanno”. Impara, o Anima, da questo esempio a non accusare, né esagerare gli altrui difetti, né gli affronti che ti vengono fatti: impara a scusar le mancanze dei tuoi prossimi, benché ti siano nemici, attribuendole non al peggio, ma ad ignoranza ed inavvertenza, a zelo o ad altra men cattiva intenzione. Oh carico spaventoso che questa prima parola deve farsi il vendicativo e pieno di rancore! Gesù Cristo prega l’eterno Padre che ti perdoni tante ree parole, tante malvagie opere, con cui l’oltraggi e crocifiggi; e tu poi, Anima vendicativa e fomentatrice di odii, non perdoni una lieve parola, o un lieve affronto per Gesù Cristo! Che ostinazione è codesta, o cuore cattolico? Che ha di cristiano chi non ha pietà verso del suo nemico? Se accarezzi chi ti lusinga, mordi chi ti offende, che hai tu meno del bruto? E perché conservi il nome di cristiano? Guarda bene che Gesù Cristo ti tratterà nello stesso modo, e negherà a te tutto quello che negherai al tuo prossimo. Gli neghi tu la parola, gli neghi tu lo guardo, non gli porgi la mano? Neppure a te porgerà la mano Gesù, non ne udirai una buona parola, non vedrai che ti guardi. Perdona, o Cristiano, se vuoi che Gesù ti perdoni. Oh Padre eterno! Già perdono, Signore, a tutt’i miei nemici una e mille volte in riverenza del santissimo Figlio vostro, acciocché mi perdoniate Voi pure le innumerabili colpe che ho commesse contra la divina vostra Maestà. Perdonatemi, o Signore, che non seppi quel che mi feci quando io v’offesi, e se per essere stato a Voi tanto ingrato non merito di essere esaudito, lo merita il preziosissimo vostro Figliuolo, che pel suo Sangue e per la sua Agonia in quest’ora vi prega di perdonarmi. Perdonatemi, o Signore, che non seppi quei che mi feci: misericordia, pietosissimo Padre, per l’amantissimo Figlio vostro Gesù. – Qui s’inginocchiano tutti per meditare alquanto su questa parola: si canta frattanto questa strofa:

“Di mille colpe reo,

Lo sa Signore, io sono:

Non merito perdono.

Né più il potrei sperar.

Ma senti quella voce,

Che per me prega, e poi

lascia Signor se puoi,

Lascia di perdonar!”

Poi in rendimento di grazie del perdono che il Signore domandò per noi, si reciti cinque o più volte quello che segue.

“Siate infinitamente lodato, o mio Gesù Crocifisso, del perdono che domandaste per noi di tutti i nostri peccati”.

Si faranno poi gli atti seguenti:

“Credo in Dio: spero in Dio: amo Dio sopra tutte le cose: mi dolgo d’aver offeso Dio per essere quel Dio ch’è: propongo di non offenderlo mai più. Maria, Madre ammirabile. Avvocata dei peccatori, deh! per Gesù Cristo Crocifisso, impetrateci perdono e grazia efficace di non cadere mai più in peccato.”

LA SECONDA PAROLA

“Oggi sarai meco in Paradiso.”

Considera, anima divota, Gesù in mezzo a due peccatori: l’uno pentito, l’altro indurito; l’uno che si arrende, l’altro che si ostina; l’uno che si saJva, l’altro che si danna. Oh misteri profondi della predestinazione! Ma, oh trascuratezza la più lacrimevole dei mortali! Ànima, che ascolti la differenza di queste sorti impenetrabili, osserva ben nel tuo interno, a qual classe appartieni tu? A quella del buon Ladro che si salvò, o a quella del cattivo che si dannò? Ti salverai tu coll’uno, oppure coll’altro ti dannerai? Quanti dei qui presenti andranno a farsi compagni del Ladro misero nell’inferno? Oh punto spaventosissimo! Uomo, come vivi sì negligente? E tu, donna, sì spensierata in materia sì incerta e dubbiosa? Rifletti a qual di questi due ladri abbi invidia: allo sciagurato e ribelle, ovvero all’umile? E, se all’umile, come non sei tu umile? Come anzi ti stai in codesta croce dei tuoi vizi tanto ribelle? Peccatore e superbo? (cattivo ladro);Peccatore e umile? felice uomo! Il cattivo si rivolta contro a Gesù e come rinnegandolo l’ingiuria, e Lo maltratta qual falso Dio. Questo fa chi pecca e chi maledice: questo fa chi rinnega e chi bestemmia, aggiungendo all’offesa de’ vizi la contumelia dei disprezzi. – Non così il Ladro felice che, illuminato dai raggi divini di Gesù Cristo, Lo riconosce, Lo confessa, Lo adora per suo vero Dio. Il lume vostro, oh Dio, quanto è mai efficace! A’ vostri aiuti chi sarà che resista? Deh non rendete vane,o Anime, le chiamate: sentitele. L’uomo felice si rivolge a Cristo, e Gli dice con tenera voce: Signore, in Voi confido, io spero in Voi: il mio Signore Voi siete, il mio Dio e il mio Redentore, ricordatevi di me quando sarete nel vostro Regno. O fortunatissimo peccatore! li chi ti disse, o uomo facinoroso, che codesto Crocifisso fosse il tuo Signore, il tuo Dio, il tuo Redentore? Che gran vergogna per i Giudei il vedere che un Ladro confessa Gesù Cristo in una Croce, e negarlo dopo tanti miracoli? Ma quanti Cristiani Lo confessano colle labbra, e Lo negano colle opere. Che confessione è la tua, uomo turpe e vizioso? sfacciata donna e scandalosa, come ti confessi? Se alla tua confessione non sei tanto stabile da morirvi come il buon Ladro, ma anzi ti confessi appena che fai ritorno ai tuoi vizi e ai tuoi scandali; che confessare è codesto? Non è confessare da buon Ladro, ma da ladro cattiva, ostinato, reprobo. – Sul momento dell’ udir Cristo la voce del Ladro che Lo confessa e che Gli dimanda perdono, senza il minimo indugio gli perdona le colpe e le pene. Oggi, gli dice, sarai meco in Paradiso, oggi stesso, il Venerdì dei miei dolori. Ah giorno! chi ci sarà, chi non s’approfitti di te? Oh peccatore felice! Oh penitente avventurato, arrivasti in gran giorno: arrivasti quando stava il Redentore colle chiavi in mano, e colla porta non solo aperta, ma spalancata. – Oggi, o Anima, non è giorno di pene per l’uomo, che le pene se le addossò tutte Gesù. Oggi non v’ha pur gocciola di tormento: ché Gesù si ha assorbiti tutti i tormenti! Oggi per chi si pente non havvi inferno, «ché l’Inferno andò a chiudersi pei dolori di Gesù. Oggi pel peccatore tutto è Paradiso, tutto soavità, tutto gloria. Venite dunque a godere di sì buon tempo, enormissimi peccatori: con poco costo, con un buon cuore, con una parola, con un tenero sguardo amoroso, con un sospiro di petto penetrato si conseguisce. E come oggi potrà esserci cuore che non vi curi, o Gesù benignissimo? Quanto siete mai liberale, preciso, prodigo del Cielo! Oh cuore dolcissimo, tutto amore, tutto ansietà di salvar peccatori! Comunicaste al mondo o Signore, codesta pietà, accendete di cotesto affetto ogni cuore; si converta oggi il mondo, Signor grande; mirate come s’empie l’inferno non pur di Gentili, d’eretici, di Giudei; ma ancor di cristiani: qual crepacuore! Oggi, o Gesù mio, s’hanno a dannare moltissimi! Basta così, o Signore, ché è danno e dolore insopportabile che in tanti si disperda il vostro Sangue. Pietà, o Signor grande, verso i Cristiani: mirate la vostra greggia: non si vanti il demonio di vedere tanto trionfo: tutti si salvino, oggi, che a larga mano perdonate: e tutti già, o Signore, col buon Ladro pentiti vi confessiamo per nostro Dio e nostro Redentore: e proponiamo di fare una confessione vera: per questo, o Signore, vi chiediamo un vero dolore, e che oggi vi ricordiate di noi nel vostro regno.

Posti qui in ginocchio per meditare su questa parola, si canti poi la sua strofa:

Quando morte coll’orrido artiglio.

La mia vita a predare ne venga,

Deh! Signor, ti sovvenga di me,

Tu m’assisti nel fiero periglio,

e deposta la squallida salma.

Venga l’alma a regnare con Te.”

Si dica 5 volte al Signore la preghiera del buon Ladro, con dire: f Ricordatevi di me, o Signore, nel vostro Regno, per vostra pietà e misericordia. Poscia si dice: Credo in Dio, etc..

LA TERZA PAROLA

“Donna, ecco costì il tuo Figliuolo, ed al discepolo Giovanni:

Ecco costì la tua Madre”.

Vedendo il Salvatore dall’alta Croce in un profondo pelago d’amarezze la Madre sua amorosissima, le gettò nell’addolorato seno un’altra piena di sollecitudine e d’ambasce consegnando a lei per figliuolo in persona di Giovanni tutti i mortali. Oh Madre afflittissima! quale spada é codesta che nuovamente vi passa il cuore? Per figli il vostro divin Figlio Gesù vi raccomanda tutti i peccatori, affinché per figli li riceviate in suo luogo. Oh scambio sensibilissimo! Perdete in Gesù un Figlio sì amabile,e per figli avete da accogliere, nei peccatori, alcuni figli si villani e perversi che han crocifisso colle loro colpe il Figliuol vostro medesimo? Oh Signora addoloratissima! che tormento è cotesto? Non siete Voi addolorata abbastanza? Un tanto ingrato, come io sono, ci vuole di più a vostro carico? Al vostro seno trafitto, un figlio si scellerato! Oh carità infinita del Salvatore verso dei peccatori, poiché lascia loro per madre la Madre sua stessa! O somma pietà della Madre che pietosa, compassionevole, amorosa, tenera, accetta fin da quel punto, e qual madre sollecita stringe al suo seno tutto il mondo! Oh rifugio universale del mondo intero! come potrà il nostro cuore mostrarvi la riconoscenza che merita l’accettar noi per figliuoli? Con quali ossèqui potremo noi corrispondervi? Oh felici peccatori! guardate bene alla Madre di cui godrete, guardate bene alla Madre che avete: la madre vostra è Maria quella che è Madre di Dio, una Madre tutta piena di grazia, una Madre specchio di santità ci purezza: dice bene, Madre sì santa e figli sì perversi, Madre sì pura e figli sì deformi e sì immondi. O gran Signora! pigliateci ora sotto il vostro patrocinio, affinché siamo degni figli vostri, che già con gran sottomissione e fiducia, Madre vi ha da confessare tutto il mondo. Qui senza dubbio dovette tutto tremar l’inferno all’udire da Cristo questa parola; dovettero senza dubbio bruciar d’invidia i demoni. Uomini, udite; Inferno Maria è madre dei peccatori, Madre dei giusti, di tutti Madre. Oh Signora! Non una volta vi bacio, ma mille volte codesti sacri piedi, e con un grido, che s’oda in terra e in cielo, esclamo: Sì, sono figlio, quantunque indegno, di Maria. Oh Signora! Impetratemi voi che qual figlio vi riguardi e vi serva; e che vi ami quanto mi sia possibile, come vi ama il vostro Figlio Gesù. – Gli affetti vostri più teneri, Anime devote, debbano essere per la vostra Madre. Alzate gli occhi a Gesù che ve la dà e consegna per Madre, e in essa tutti raccolti i beni della sua misericordia per la vostra salvezza; perché nessuno si salva, fuorché per mezzo di Maria; nessuno ottiene perdono, fuorché per mezzo di Maria; beneficio alcun nessuno impetra fuorché per mezzo di Maria. Oh amorosissimo e liberalissimo Gesù! che amor fu quello che v’impegnò a tal tenerezza, a tal eccesso, a tal beneficenza? “Ecce Mater tua”, ti dice, o Anima, mira tua Madre. Ah Madre! vi rimiro, coll’amore più fervido del cuore, e coll’anima mia. Guarda bene o Anima, a Maria; alza gli occhi verso di Lei, innalza a Lei il cuore, che Ella ancor ti dice “Ecce Mater tua”. Guardami per tua Madre. Guardala addolorata per le tue colpe; accompagnala col dolore tuo stesso, giacché Ella prega per te; chiedile misericordia e perdono: domandale per i suoi dolori aiuti efficaci, e che ti riguardi qual figlio nell’ora terribile della morte. Oh Signora! oh Madre mia! adesso e nell’ora della mia morte, mostrate d’esser mia Madre, a me volgete codesti misericordiosi vostri occhi di Madre amorosa, guardate a quell’inesplicabile dolore che vi costammo ai pie della croce. No, a vuoto non vadano i vostri dolori: giovino a me, col vostro patrocinio, adesso e nel mio bisogno estremo. Ma oggi io vorrei, Madre amabilissima, per mostrar che son vostro figlio, morire d’amore e di dolore a pie di codesta croce. Oh morte tenerissima, vieni tu adesso; e fa che di dolore, e d’amore io muoia a piedi della mia Madre Maria e dell’amorosissimo mio Gesù.

Ci si ponga in ginocchi a meditare in questa parola; si canti poi la strofa:

“Volgi, deh volgi,

A me il tuo ciglio,

Madre pietosa;

poiché amorosa,

Me quel tuo figlio

Devi guardar.

Di tanto onore

Degno mi rendi.

Del santo amore

Tu il cor m’accendi.

Nè un solo istante

Freddo incostante

Ah! mai non sia,

Gesù e Maria

Lasci d’ amar”.

E in ringraziamento a Gesù di averci data Maria per Madre, e a Maria implorandola per madre, si recita cinque volte quello che segue:

“Gesù dolcissimo, vi ringraziamo che ci deste per Madre la’ vostra Madre Maria.”

A Lei poi si dirà: “Madre dolorosissima, Madre nostra, pregate pei vostri figli peccatori adesso e nell’ora della nostra morte”. … Poscia: Credo in Dio, etc..

LA QUARTA PAROLA.

“Dio mio, Dio mio, perché mi avete abbandonato?”

Dopo di avere il Salvatore soddisfatto a tutte le, più attente sollecitudini del Redentore del mondo, domandato già perdono per i peccatori, ed eletta Madre universale di tutti Maria sua Madre, cominciarono nell’ intimo dell’ anima sua santissima a farsi più vive le pene e gli sconforti più intensi. Esausto già, e consumato per le perdite del sangue, principiano i deliqui e le agonie della morte: più avvalorata la sua fantasia gli avviva la memoria delle ingratitudini degli uomini; se gli rappresentano da una parte le ingiurie gravissime dei malvagi, le tiepidità e le debolezze dei buoni; e dall’altra parte vede intuitivamente l’amore infinito del Padre verso degli uomini, la ribelle ostinazione degli empi, la dimenticanza di finezze sì grandi, lo sprezzo della SS. sua passione, i pochi a profittare della sua croce e della sua morte, gli innumerevoli che si sarebbero dannati, il dolore della sua Madre Santissima, la timidità dei suoi mesti Discepoli, le atroci persecuzioni della sua sposa, la Chiesa: e aggiunti tutti questi motivi a’ suoi tormenti e dolori, con la testa trafitta da una corona di spine, colle tempie penetrate da quelle punte acutissime, con gli occhi ingombrati dal polverio e dal sangue, e con le spalle squarciate, col petto oppresso, con le mani e i piedi traforati, (oh Gesù mio infinito nei dolori, come immenso nella pazienza!) in questo stato domandò al Padre la salvezza di tutto il mondo: ed al vedere che il suo sangue e la sua morte sarebbero stati infruttuosi in anime senza numero, che per colpe loro si sarebbero perdute, cominciò con questo maggior tormento ad agonizzare nell’anima: ed un sì profondo cordoglio più gli si accrebbe, quando vide che il Padre Lo lasciava patire senza conforto, tanti tormenti nel corpo, tanti affanni nell’anima; ed al vedersi abbandonato così fin dall’eterno suo Padre (così meritando i peccati che caricavano la sua croce), per tanto sensibile ed amaro abbandonamento cadde in tanta angustia e travaglio che prorompendo in un tristo e doloroso gemito, se ne lagnò coll’eterno Padre, dicendo; “Dio mio, Dio mio, perché mi avete abbandonato?” O amabilissimo mio Gesù! la cagione, o Signore, del vostro abbandono furono i miei peccati. Ah, Anima traviata! guarda all’orrendo abbandono che soffre il Figlio di Dio per il tuo traviamento: trema pure che Iddio pure non abbandoni te: trema che abbandonato da Dio, non avrai a chi voltar 1’occhio. – E perché dunque, o Anima, ti vuoi perdere? “Ut quid?” Rispondi a Gesù, che agonizzando, te ancora interroga da quella croce: perché vorrai rendere infruttuoso il mio sangue e la mia redenzione? Perché vorrai tu dannarti? “Ut quid?” Per cose della terra tanto vili? Per qualche piacere tanto sozzo? Per qualche interesse tanto caduco che svanisce nell’aria e sgraziatamente finisce? “Ut quid?” Su via rispondi, o Anima, sciolta in dolore ed in pianto. Ah Gesù mio! “Ut quid?” E perché m’avrò io da perdere, o Signore, stando voi in codesta Croce per me? Perché m’avrò io a dannare, spargendo per me cotesto preziosissimo Sangue ? Perché avrò io da mandarlo a male? No, Salvator mio, non sarà così; lo dicano questi miei occhi: il mio dolore e il mio pentimento lo dica: non mi abbandonate, o Gesù mio, pel santissimo vostro abbandono.

Qui la meditazione, e poi la strofa:

“Dunque dal padre ancora

Abbandonato sei,

Ridotto ti ha 1’amore

A questo, e buon Gesù?

Ed io con i falli miei

Per misero gioir

Potrotti abbandonar?

Piuttosto, oh Dio! morir,

Non più, non più peccar:

Non più peccar, non più!”

Indi a pregare, il Signore che: non ci abbandoni, cinque volte si recita quello che segue: “Gesù dolcissimo, pel santissimo vostro abbandono, non ci abbandonate né in vita né in morte.”

E una volta a nostra: Signora:

“Maria Madre di grazia, Madre di misericordia, ed in vita e in morte, o Signora, proteggeteci.

Poscia: Credo in Dio, etc..

LA QUINTA PAROLA

“Ho sete”.

Qual intelletto vi sarà che comprenda le cagioni che in questo estremo fecero più viva la sete del nostro dolcissimo Salvatore? Attaccata al palato quella lingua che fu strumento di tante meraviglie; secche per l’amarezza di tanti tormenti quelle labbra amorose: esausto di sangue e di sudore, era indicibile la sete che lo cruciava con nuova pena e maggiore: e però con rauca voce, ma tenera, esclamò, dicendo: “Sitio”, ho sete. Oh dolcissimo mio Gesù! Che sete è codesta che tanto vi molesta ed addolora? Che sete ha da essere? Sete insaziabile di anche maggiori tormenti per la nostra salute: sete accesa e cocente d’anime e di lacrime, come se dicesse: in questa ambascia ed agonia altra consolazione non vi è per me che il pianto dei miei cari devoti. Piangete dunque anime amanti di Gesù: piangete, ché arido e sitibondo è il buon Gesù agonizzante. Fonti, ruscelli, fiumi, date acqua ai miei occhi. O Signore, chi porgerà qualche sollievo alla vostra sete? chi lascerà il peccato? che questa è la sete che da a Cristo più pena, la sete che non si pecchi: “Sitio”, ho sete, o Gesù mio, chi vi darà refrigerio? Chi vi cercherà una pecorella smarrita? che questa è la sete che vi tormenta, la sete di guadagnare anime. Or io, o Signore, io vi cercherò anime; io insegnerò ai zotici ed ai fanciulletti le vostre vie; io esorterò i cattivi colla parola e coll’esempio; si convertiranno molti. “Sitio”. Ho sete, o mio Gesù, di chi mai siete tanto assetato? D’amore, d’amor più grande. Orsù, mirate dunque, o Signore, che un esercito avrete di vergini, di martiri, di confessori che morranno per impulso di un fervido vostro amore. D’ un amore vivissimo morrà la cara vostra Maddalena, le vostre spose Caterina, Lutgarda, Teresa, ed altre innumerabili. “Sitio”, ho sete; anche più amore; che mai amore non dice, basta. Deh! Anime, a morir d’amore con Gesù Cristo, che ha sete molta, v’è poco amore. “Sitio”. Ho sete: di che, o Signore? Che il mondo si salvi. Consolatevi dunque, o mio Bene, che i vostri Apostoli o discepoli vi convertiran regni interi, ed anime a migliaia. “Sitio”. Ho sete. Più anime ancora. Or via, Signor mio, il gran Domenico e il gran Francesco innumerabili ve ne guadagneranno sino alla fine del mondo. “Sitio”. Ho sete:” vengano ancor più anime. Mirate, o Signore, che l’infiammato Ignazio vi condurrà eretici senza numero, infedeli e peccatori, attaccando fuoco in ogni stato e nazione; e il gran Saverio, figlio di lui, ed il gran Saverio, figlio di lui, vi conquisterà .alla sua vampa un nuovo mondo. “Sitio”. Ho sete, Anche più anime, ancor più vengano, ancor più peccatori. Oh induriti peccatori, ponete mente alla sete insaziabile che ha della vostra salvezza il vostro amorosissimo Redentore, ed alla poca che avete voi di salvarvi! E come mai tanta sete di ricchezze, di vanità, di ribalderie che vi spingono a perdizione? Fine una volta, fine al peccare, che arde di sete Gesù per salvarvi. Schiudete codeste fontane de’ vostri occhi. Per quante saran le lacrime? Purgate le vostre colpe che di codest’acqua vuole appagar la sua sete il nostro amorosissimo Redentore. Ma, o mio Gesù, chi vi potrà sollevare, se mai amore non dice basta? Siete voi il sollievo della sete vostra medesima col dare a noi di codesta sete una sete ardente di amore prima di offendervi. Moriamo dunque, anime, moriam di amore; e sciogliendo in pianto di tenerezza il nostro cuore, alleviamo la sete a Gesù colle lacrime del nostro pentimento e dolore.

Qui meditazione e strofa:

“Qual giglio candido

Allorché il cielo

Nemico negagli

Il fresco umor

Il capo languido

Sul verde stelo

Nel raggio fervido

Posa talor.

Fra mille spasimi

Tal pure esangue

Di sete lagnasi

Il mio Signor.

Ov’è quel barbaro,

Che mentr’Ei langue,

Il refrigerio

Di poche lagrime

Gli neghi ancor?”

Indi per alleviar la sete a Gesù gli si dia il cuore, cinque volte dicendo quello che segue:

“Gesù mio dolcissimo ed assetato, io vi consegno il mio cuore”.

Poscia: Credo in Dio, etc..

LA SESTA PAROLA.

“Tutto già è terminato”.

Già, o Anime, si adempirono le profezie della antiche Scritture: il fine già si compì degli alti decreti di Dio; furono pagati già alla divina giustizia i debiti dei peccatori: fu già comperato al vero suo prezzo il premio della beatitudine per li giusti: si è dato già fine alla schiavitù del demonio, e principio al trionfo della gloria: già il dolcissimo nostro Gesù è nell’ultimo estremo agonizzando tra orribili svenimenti, dopo d’aver terminato gli uffici tutti di Redentore; e già dentro le porte della morte sta finalmente offrendo la dolce sua vita in prò dei peccatori. Entra, o Anima, nell’intima sua memoria, e tutte vedrai presenti le petizioni che dovranno farsi all’eterno Padre sino alla fine del mondo: tutte le fa Gesù Cristo: e per Lui e per la morte sua tutte hanno le suppliche un favorevole rescritto. Già il dispaccio è spedito di tutte le altre disposizioni del mondo finché starà in piedi: e da questa morte, che già compie, tutta dipende la nobile restaurazione dei seggi del Cielo. Guarda quel gran Signore, che in questo punto vide colla sua alta sapienza tutte le tue battaglie e tentazioni, le tue più secrete cadute, i tuoi più occulti pensieri, tutti gli avvenimenti della tua vita, tutti i tuoi pericoli di peccare e di dannarti. Guarda, come applica a te tutta la sua Passione e Morte, come se fossi tu solo l’oggetto unico dell’amor suo. Rendigli infinite grazie di quello che ebbe per te sì speciale, come fossi al, mondo tu solo. Adesso è che il sovrano suo Padre gli concede la salvazione di quei gran peccatori che son dalle storie riferiti; e le eroiche imprese dei Santi: adesso è che dà valore ai suoi Apostoli, fortezza ai suoi martiri, purità alle Vergini, coraggio ai Confessori ed ai Penitenti; adesso che vede pieni i campi delle raccolte dei giusti, e retti i suoi tempi, popolati i suoi chiostri, abbattuti gli idoli e inalberata in ogni parte la trionfale insegna della sua Croce: adesso che vede dover per la sua morte ricever lume moltissime nazioni e salvarsi ancora le più barbare. E nel mirare 1’adempimento di questi sì alti fini della sua Redenzione, si raccolse quasi come nell’intimo del suo cuore a vedere se altra cosa gli restasse a fare e patire per i peccatori: “Quid ultra debui facere et non fecit?” Che doveva io fare per li peccatori e che non ho fatto? Che altro mancami a fare? O Redentore dell’anima mia! no, non vi resta più altro a fare. Arrivaste alla cima più alta della carità, al segno ultimo dell’amore, quanto poteva far l’amor vostro, tanto avete Voi fatto e patito. Osservando dunque il Salvatore che niente più gli rimaneva di fare in obbedienza al Padre, ed in riparo degli uomini, alzò la voce e con generoso affetto disse: “Consummatum est”. Tutto è già terminato, tutto conchiuso. Siate benedetto, o Redentore dell’ anima mia, per un beneficio e per una carità così immensa. Concedetemi o Signore, che pel preziosissimo vostro Sangue possa anch’io della mia vita dirvi con pentimento vero: Già tutto è finito: è finito l’offendervi: son finiti miei scandali: finite le mie iniquità : tutto è conchiuso per amor vostro; tutto è terminato.Ah! come sarà stato, o Anime, in questo momento quel cuore, quella volontà di Gesù Cristo? Che fuoco, che amorevolezze, che tenerezze? Queste, Anime, è il tempo di far provvisione d’amore; ché sta avvampando Gesù. Tutto, dice, è già terminato, tutto compiuto; non mi resta più nulla: fin qua poterono giungere i miei affetti: arse già il fuoco fin dove poté; il cuor già mi bolle entro il petto nel suo accendimento maggiore. All’incendio, o cuori amanti, petti gelati, al petto di Gesù. Oh tiepidi cuori! Questo è già terminato. O peccatori insensibili! Questo ha già conchiuso; la fiamma è già nel suo punto: gettatevi nell’incendio del cuor di Gesù:amore e più amore; ardore ed ardore sempre più. Sia cosi, Gesù mio. Esso pur unisca il mio cuore, disfatto da dolore ed arso nel vostro amore.

Qui meditatione e strofa:

“L’alta impresa è già compita;

E Gesù con braccio forte,

Negli abissi la ria morte,

Vincitor precipitò.

Chi alle colpe ornai ritorna

Della morte brama il regno,

E di quella vita è indegno

Che Gesù ci ridonò”.

Poi in rendimento di grazie per aver compiuta la nostra Redenzione si recita:

“Vi ringrazio, o Signore, che compiste la mia Redenzione; sia, o mio Gesù, per la salvezza mia”.

Indi: Credo in Dio, etc..

LA SETTIMA PAROLA.

“Padre, nelle vostre mani raccomando

lo spirito mio”.

In quest’ultima parola ci dà il nostro amorosissimo Redentore l’ultimo documento dell’amor suo, insegnandoci l’atto il più importante e sublime per l’ora strema della morte; abbandonarsi cioè e mettersi tutto quanto con umile confidenza nelle mani di Dio, come nelle mani del nostro Padre. Gesù Cristo insegna a morire. Impariamo, o Cristiani, ciò che è la morte da quella del nostro Salvatore. Oh che passo tremendo! oh che arduo punto! Nell’accostarvisi un Uomo-Dio, si altera la sua santissima Umanità: perde la faccia il suo colore, s’annerano le labbra, tra le angustie ed agonie scuotesi tutto il corpo. Anche quell’alto ed animoso grido, con cui, già vicino a spirare, raccomandò il suo spirito nelle mani dell’ eterno Padre che lo poteva liberar della morte, fu accompagnato da tenere lagrime: Cum clamore valido et lachrymis. Muore così un Uomo-Dio. E voi, uomini, riguardate la morte con tanta indifferenza? Siete mortali, e vivete così trascurati? E come potete mostrarvi insensibili alla considerazione di un momento così terribile? Anime , cosa sia il morire, osservatelo in Gesù; mirate cosa sia agonizzare. Che battaglie! che angustie! che dolori! Oh passo forte! Come ci può essere persona che differisca le sue disposizioni a quel tempo, in mezzo ad amarezze di tanto affanno? Come c è uomo che riservi a quell’ora, fra tali e tante ambasce, l’affare più serio e più difficile della salute? Ora, ahimè, d’agonia! chi potrà ponderarvi? Quali angustie non soffrì Gesù nella separazione dell’anima e del sacro suo corpo! L’anima santissima riguardava in quel corpo il suo prezioso compagno, vi riguardava quella carne pura di Maria; quella stretta unione; ed al vedersene distaccare, la se parazione era sì dolorosa che obbligò tramutarsi e a tremarne tutta la sacratissima Umanità. Oh forza del morire: oh duro colpo che fa scuotere un Uomo-Dio! Ma siate benedetto, o mio Gesù, che vi metteste Voi in codeste agonie per aiutar me a passare il fiume delle mie miserie, Voi, o Signore, lo tragittaste per addolcire a me le amarezze della mia morte. – Or trovandosi in questo estremo il Redentor nostro Gesù, fece silenzio e domandò ai mortali attenzione con quell’alto vigoroso grido; significando di voler già morire, e per insegnarne a noi la sublime e sincera maniera, prima che spiri, raccomanda e pone il suo spirito nelle mani dell’eterno suo Padre, dicendoGli con gran riverenza: Padre, nelle vostre mani raccomando lo spirito mio. Oh che eccelso e divino ammaestramento! Gesù Cristo onora in questo atto il suo eterno Padre col maggior onore che può rendergli: perché mettendo nelle mani di Lui il suo spirito, mostra verso del Padre l’immenso amor suo, la sua sicura fiducia, la sua profonda umiltà, la sua total sottomissione: giacché si consegna Egli tutto alla discrezione e provvidenza di Lui, come a Padre fedele, giusto, santo, potente che mancar non può mai a chi a Lui si affida, né lascia di esser asilo infallibile di misericordia e di sicurezza, e nelle cui mani consegnando l’anima, non può non esser che felice e beata. Col più sublime atto della sua dottrina e perfezione così c’insegna Cristo a morire. Oh eterno Padre, giusto e santo! col sacro spirito dell’amabilissimo vostro Gesù pongo anch’io, e raccomando il mio spirito nelle vostre mani. Ricevetemi, o Signore, fin da quest’ora per sempre: miratemi agonizzante fra tanti pericoli di offendervi: miratemi tra le battaglie e gli sbigottimenti delle mie tentazioni e cadute: non mi lasciate andar giù, Padre pietosissimo, che insieme col dolcissimo Figlio vostro Gesù raccomando il mio spirito nelle vostre mani, non solo nell’ora della mia morte, ma in tutto il tempo ancora della mia vita. Nelle mani vostre raccomando, o Signore, lo spirito mio, quanto ho, quanto sono. Abbiate di me misericordia. – Avendo il nostro Redentore Gesù raccomandato il suo spirito nelle mani dell’eterno Padre, vide che l’ora si andava già accostando di renderlo: ed affinché tutto il mondo conoscesse che moriva spontaneo, per volontaria obbedienza al Padre, e per amore verso degli uomini, alla morte diede licenza di giungere. Innanzi però di morire, per mostrare che non era la morte che gli facesse piegar la testa, ma il peso immenso dell’amor suo, Egli stesso prima di spirare inchinò dolcemente sul petto la testa sua sacrosanta. Oh inchinamento tutto pieno di profondi misteri! Con tale inchina mento significò il Salvatore la sua obbedienza all’eterno suo Padre, la sua propensione e benevolenza versi degli uomini, la sua povertà ed umiltà, il non avere in croce ove posar la sua testa , per la gravità delle nostre colpe, che col peso gli facevan chinare il capo e morire. La chinò anche alla ingrata terra per congedarsi da lei, e darle nel suo spirare, come al principio del mondo, spirito di nuova vita. La chinò inoltre per chiamar con tal segno i peccatori all’amor suo, invitandoli alle carezze e tenerezze del suo cuore. Rivolse per ultimo questa inclinazione alla sua dolcissima Madre Maria (che trafìtta dolore stava ai piedi della croce) per farle questa riverenza profonda, e prendere da Lei congedo, dirigendo a Lei l’estremo fiato del viver suo, anche per insegnare agli uomini che non può veruno partir bene dal mondo, se non con dirigere a Maria e per mezzo di Maria l’ultimo respiro della sua vita. Siate benedetto, o Maestro della mia vita, pei misteri della santa vostra inchinazione, e per gl’insegnamenti che in essa mi dà la carità vostra infinita. – Chinata in tal modo con tanti misteri la testa del nostro amorosissimo Redentore, non rimanendogli più che fare per render l’anima, comincia a tramutarsi, e tutto trema il sacro suo corpo al volersene distaccare l’anima sacratissima. Già la morte, per esercitare il suo officio, principia a spogliar di colore il suo bellissimo volto, già gli affila il naso, già gli fa livide le labbra, già gli sfigura il sembiante, già gli esalta il petto, già gli va togliendo il respiro, e tutte le insensibili creature, all’accorgersi che già vuole spirare il loro Creatore, non possono trattenersi di risentisene e cominciano a cangiarsi gli elementi. Il sole si ottenebra, la luna si fa sanguigna, i cieli si oscurano, geme e trema la terra, e tutto il mondo piange e si scuote. Deh, Gesù mio, aspettate un poco, o Signore, che voglio anche io morir con Voi: moriamo insieme, o mio Gesù: che se Voi morite di amor per me, io voglio morire d’amor per Voi. No, più non mi curo di vivere, o mio Dio, se vi ho da tornare ad offendere e crocifiggere. – O Gesù del mio cuore! veggo già che l’ora si affretta; ben Voi potete morire, o Redentore dell’anima mia, che tutto il cielo, in terra tutta stanno con grande aspettazione attendendo la vostra morte. Con le braccia aperte l’attende il vostro eterno Padre per raccogliere il vostro Spirito; l’attendono gli Angeli per applaudire alla vostra vittoria; l’attendono i Padri santi nel Limbo, per risplendere alla vista di Voi in libertà gloriosa, l’attendono tutti i giusti per rendervi eterne grazie e lodi ; l’attendono tutti i peccatori per ispezzarsi il cuore di dolore, con fermo proponimento di più non esservi ingrati, tutto finalmente 1’attende il mondo per rinnovarsi, e gli uomini tutti per vedersi redenti dalla schiavitù del peccato. – Vedendo pertanto il Signore l’ansietà ed i sopiri con cui tutto il mondo aspetta la sua morte, già si arrende alle brame, ed in mezzo al suo affetto e alle sue tenerezze verso i peccatori, consegna il suo spirito all’eterno Padre, e la sua Vita ed il suo Sangue pel general rimedio di tutti gli uomini. Via dunque, dolcissimo mio Gesù: già è ora: morite dunque, e Redentore dell’anima mia, ed allorché dopo morte sarete col vostro eterno Padre, pregatelo, o Signore, che sempre siamo coi Voi; che viviamo e moriamo nella grazia vostra, nel vostro amore per il vostro preziosissimo Sangue, Passione e Morte; che per la vostra gran riverenza sarete ben ascoltato e favorito per noi peccatori, vostri redenti e cari. Oh altissimo Iddio! Oh incomprensibile maestà! Voi solo, o Signor grande, potete intendere ed apprezzare la morte del vostro Figlio, il nostro Signore Gesù Cristo. L’uomo l’ascolta, e si rimane insensibile, cieco, sordo e muto. Vede morire il suo Dio, e non sospira, non piange, non si ravvede, mentre sa che muore il suo Dio, perché non muoia egli eternamente nell’Inferno. Oh che obbligazione tremenda! oh Venerdì Santo! oh tre Ore d’Agonia! Svegliate, o mortali, codesti occhi dell’addormentata vostra fede; muore il vostro Dio per voi, e alcuno non havvi che non muoia d’amore e di dolore col suo Dio? Per i vostri peccati Egli muore, e non havvi alcuno che non muoia di disgusto d’aver peccato? Oh Dio, oh cieli, oh pietre prestateci voi la vostra commozione per morir oggi col nostro Redentore Gesù Cristo di amore e di dolore. A morir, Anime, con Gesù Cristo, a morir d’amore, a morir di dispiacere per averLo offeso.

Qui inginocchiandosi tutti, cantano i musici.

Iesus antem, emissa voce magna, espiravit.

Dopo qualche minuto di silenzio, ripiglieranno

“Gesù morì .. Ricopresi

di nero ammanto il cielo

I duri sassi spezzansi,

Si squarcia il sacro velo,

E l’universo attonito

compiange il suo Signor.

Gesù morì insensibile

In mezzo a tanto duolo

Più dei macigni stupido,

Resterà l’uomo solo,

Che coi suoi falli origine

Fu del comun dolor?”

.(1) Chi fa le tre Ore continuate di Agonia nel Venerdì Santo in pubblico o in privato; solo o in unione di altri, meditando o recitando Salmi, Inni ed altre preci, purché sia confessato e comunicato il Giovedì Santo, pregando secondo l’intenzione del sommo Pontefice, o le farà nella seguente settimana di Pasqua, guadagna INDULGENZA PLENARIA da potersi applicare alle Anime Purganti, (Pio VII, 14 febbraio 1815).

 

L’UFFICIO DELLE TENEBRE

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, I vol.]

Prima dell’ultima riforma, la Chiesa anticipava, negli ultimi tre giorni della Settimana Santa, il Notturno al pomeriggio della vigilia, per permettere ai cristiani di parteciparvi. Mattutino e Lodi venivano quindi recitati nel pomeriggio. In seguito tali ore vennero scomode, occupate dal lavoro, e quindi la Chiesa ha stabilito di celebrare l’ufficio nelle ore normali. Per quanto lo permettono le loro occupazioni, i fedeli devono cercare di prendervi parte. Quanto al merito di tale devota assistenza, non v’è, dubbio ch’è superiore ad ogni altra pratica di devozione privata. Il mezzo più sicuro per arrivare al cuore di Dio è sempre quello di servirsi come intermediaria della sua Chiesa; quanto alle salutari impressioni che potranno aiutarci a penetrare i misteri di questi tre grandi giorni, ordinariamente, quelle che attingeremo nei divini Uffici saranno più potenti e più solide di quelle che potremo trovare nei libri degli uomini. Nutrita della meditazione delle parole e dei riti della Liturgia, l’anima cristiana s’avvantaggerà doppiamente degli esercizi e delle letture, alle quali non mancherà d’abbandonarsi secondo la particolare devozione. In questi anniversari, sarà dunque la preghiera della Chiesa la base sulla quale eleveremo tutto l’edificio della pietà cristiana: e con essa imiteremo i nostri padri, che, nei secoli di fede, erano così profondamente cristiani, perché vivevano della vita della Chiesa per mezzo della sua Liturgia.

GIOVEDÌ’ SANTO

AL NOTTURNO

Carattere di tale Ufficio.

L’Ufficio del Mattutino e delle Lodi dei tre ultimi giorni della Settimana Santa differisce non poco da quello degli altri giorni dell’anno. Giovedì, Venerdì e Sabato la Chiesa tralascia quelle esclamazioni di gioia e di speranza con cui suole cominciare la lode di Dio. Non si sente il recitativo del « Domine, labia mea aperies : Signore, sciogli le mie labbra, affinché possa annunziare la tua lode »; nè il “Deus, in adjutorium meum intende”: O Dio, vieni in mio soccorso; né il Gloria Patri alla fine dei Salmi, dei Cantici e dei Responsori. Negli Uffici rimane solo ciò ch’è loro essenziale nella forma, scomparendo tutte quelle vive aspirazioni che i secoli vi avevano aggiunte.

Il Nome.

Si dà comunemente il nome di Tenebre ai Mattutini ed alle Lodi degli ultimi tre giorni della Settimana Santa, perché vengono celebrate al mattino presto, prima del levar del sole.

Il Triangolo dei quindici ceri.

[Ufficio delle tenebre a Sessa Aurunca -CE-]

Un rito imponente e misterioso, esclusivo di questi Uffici, conferma tale appellativo. Nel tempio, presso l’altare, si colloca un grande candeliere di forma triangolare, dove si dispongono quindici ceri. Questi ceri, come pure i sei dell’altare, sono di cera gialla, come quelli degli Uffici dei Defunti. Al termine d’ogni Salmo, o Cantico, si spegne successivamente uno dei ceri del grande candeliere; alla fine ne rimarrà acceso uno solo, quello posto al vertice del triangolo. Ora spieghiamo il senso di queste diverse cerimonie. Siamo nei giorni in cui la gloria del Figlio di Dio rimane eclissata sotto le ignominie della sua Passione. Egli era la « luce del mondo », potente in opere ed in parole, poco fa accolto dalle acclamazioni di tutto un popolo; ed ora eccolo spogliato di tutte le sue grandezze e divenuto « l’uomo dei dolori, un lebbroso », dice Isaia; « un verme della terra, e non più uomo », dice il Re Profeta; « un motivo di scandalo per i suoi discepoli», dice egli stesso. Tutti s’allontanano da Lui: Pietro stesso nega d’averlo conosciuto. Tale abbandono e tale defezione pressoché generale sono appunto figurati nell’estinzione successiva dei ceri che stanno sul Triangolo e di quelli dell’altare.

Un antico rito.

Secondo un’usanza di origine franca, che ci è confermata da Amalario e ch’ebbe vita fino alla recente riforma, essendo stati spenti i ceri dell’altare durante la recita del Benedictus, il cerimoniere prendeva l’unico cero rimasto acceso sul candeliere e lo teneva appoggiato sull’altare durante il canto dell’antifona che si ripete dopo il Cantico. Poi andava a nascondere questo cero, senza spegnerlo, dietro l’altare. E lo conservava così, lontano da tutti gli sguardi, per tutta la recita del Miserere e della sua orazione conclusiva. Terminata la quale, si faceva un po’ di rumore contro gli scanni del coro fino all’apparire del cero ch’era stato nascosto dietro l’altare. Con la sua luce sempre conservata annunciava la fine dell’Ufficio delle Tenebre. – In realtà, la luce misconosciuta del Cristo non s’era mai spenta. Si metteva per un momento il cero sull’altare per indicare ch’esso era là come il Redentore sul Calvario dove soffriva e moriva. Poi, per significare la sepoltura di Gesù, si nascondeva il cero dietro l’altare e la sua luce scompariva. Allora un brusio confuso si diffondeva nel tempio immerso nelle tenebre per la scomparsa di quell’ultima fiammella. Tale rumore, unito alle tenebre, esprimeva la convulsione della natura nel momento in cui, spirato il Salvatore sulla croce, la terra aveva tremato, le rocce si erano spaccate e s’erano aperti i sepolcri. Ma tutto ad un tratto il cero riappariva nel pieno splendore della sua luce e tutti rendevano omaggio al vincitore della morte.

Le Lamentazioni di Geremia su Gerusalemme.

Le Lezioni del primo Notturno di ciascuno di questi tre giorni sono prese dalle Lamentazioni di Geremia. In esse vediamo lo spettacolo desolante che offrì la città di Gerusalemme, quando il suo popolo fu portato prigioniero in Babilonia, in punizione del peccato dell’idolatria. La collera di Dio è tutta impressa su queste rovine che Geremia deplora con parole così vere e terribili. Però un tale disastro non era che la figura d’un altro ancora più spaventoso. Se Gerusalemme cade in mano altrui ed è condannata alla solitudine dagli Assiri, almeno conserva il proprio nome; del resto, il Profeta che oggi si lamenta sopra di lei, aveva pure predetto un limite alla sua desolazione, che non sarebbe durata più di settant’anni. Ma nella seconda rovina la città infedele perdette anche il nome. Riedificata poi dai vincitori, per più di due secoli portò il nome di Elia Capitolina; e se, ristabilita la pace della Chiesa, tornò a chiamarsi Gerusalemme, non fu in ossequio a Giuda, ma per ricordarsi del Dio del Vangelo che Giuda aveva crocifisso nella sua città. – Non è valsa la pietà di S. Elena e di Costantino, né i valorosi sforzi dei crociati a ridare in maniera durevole a Gerusalemme almeno l’ombra d’una città secondaria: la sua sorte è d’essere schiava degl’infedeli, fino alla fine dei tempi. È la maledizione che s’è attirata addosso in questi giorni: ecco perché la santa Chiesa, per farci capire la grandezza del delitto commesso, ci fa rintronare nelle orecchie i pianti del Profeta, che solo ha potuto adeguare le lamentazioni ai dolori. È un’elegia commovente, che si canta su un tono semplicissimo, e risale alla più remota antichità. Le lettere dell’alfabeto ebraico, che separano le strofe, indicano la forma acrostica che questo poema contiene nell’originale; noi le cantiamo perché anche i Giudei le cantavano.

BENEDIZIONE DEGLI OLI SANTI

La seconda Messa che anticamente si celebrava il Giovedì Santo, era accompagnata dalla consacrazione degli Oli santi, rito annuale che ha sempre richiesto il Vescovo come consacratore. Ora questa importante cerimonia si compie nella prima Messa, detta crismale, che si celebra solo nelle cattedrali. Avendo luogo soltanto nelle chiese cattedrali, noi non illustreremo qui tutti i dettagli di questa benedizione; però neppure vogliamo privare i lettori dell’utile istruzione che potranno ricavare dal mistero degli Oli santi. La fede c’insegna che, se mediante l’acqua noi siamo rigenerati, mediante l’olio consacrato siamo confermati e fortificati. L’olio è fra i principali elementi, che il divino autore dei Sacramenti scelse a significare ed insieme produrre la grazia nelle anime. – La Chiesa ha fissato molto per tempo il giorno, nel quale rinnovare ogni anno i santi Oli, la cui virtù è molto grande, sotto i suoi molteplici aspetti; infatti s’avvicina il momento in cui ne deve fare abbondante uso sui neofiti, che genererà nella notte di Pasqua. Occorre quindi che i fedeli conoscano dettagliatamente la sacra dottrina d’un sì alto simbolo; e noi qui la spiegheremo, sebbene brevemente, per eccitare la loro riconoscenza verso il Redentore, che s’è servito di creature visibili nelle opere della sua grazia, dando loro, per il suo sangue, la virtù sacramentale che ormai in esse risiede.

L’Olio degl’infermi.

Il primo degli Oli santi a ricevere la benedizione del Vescovo è quello che si chiama l’Olio degli infermi, e che è la materia del sacramento dell’Estrema Unzione. Esso cancella nel cristiano morente i resti del peccato, lo fortifica nell’estremo combattimento e, per la virtù soprannaturale che possiede, talvolta gli restituisce anche la sanità corporale. Anticamente, la benedizione di quest’Olio non si faceva solo il Giovedì Santo, perché il suo uso è per così dire, continuo (i). Più tardi la si fissò nel giorno in cui si consacrano gli altri due Oli per la somiglianza dell’elemento che loro è comune. – I fedeli assisteranno con raccoglimento alla santificazione di quell’olio che un giorno scorrerà sulle loro membra languenti e purificherà ogni parte del loro corpo: pensino alla loro ultima ora, e benedicano l’inesauribile bontà del Salvatore, « che fa scorrere abbondante il suo sangue insieme a questo liquido prezioso » (Bossuet, Orazione funebre ad Enrichetta d’Inghilterra).

Il sacro Crisma.

Il più nobile degli Oli santi è il Sacro Crisma, e la sua consacrazione si svolge con maggiore solennità. Per mezzo del Crisma lo Spirito Santo imprime il suo indelebile sigillo nel cristiano già membro di Gesù Cristo per il Battesimo. Mentre l’Acqua ci fa nascere, l’Olio del Crisma ci conferisce robustezza; e finché non riceviamo questa unzione, non possediamo ancora la perfezione del carattere di cristiano: unto di quest’olio, il fedele diviene visibilmente un membro dell’Uomo-Dio, il cui nome Cristo significa l’unzione ricevuta come Re e Pontefice. La consacrazione del cristiano col Crisma è talmente nello spirito dei nostri misteri, che all’uscire dal fonte battesimale, un momento prima d’essere ammesso alla Confermazione, il neofita riceve sulla testa una prima unzione, sebbene non sacramentale, di quest’Olio regale, a dimostrare ch’egli già partecipa della regalità di Gesù Cristo. – Per esprimere con un segno sensibile l’alta dignità del Crisma, la tradizione apostolica vuole che il Vescovo vi unisca del balsamo, che rappresenta ciò che l’Apostolo chiama « il buon odore di Cristo » (II Cor. II, 15), [I Canoni d’Ippolito (III secolo) ci mostrano questa cerimonia in tutte le Messe pontificali. Sul punto di terminare il Canone della Messa, il Vescovo benediceva i frutti o i legumi che gli si presentavano, e così pure consacrava l’olio che doveva servire all’unzione dei malati, sia nel sacramento dell’Estrema Unzione che per privata devozione, come si fa oggi di quello d’alcuni santuari], di cui è anche scritto «che correremo all’odore dei suoi profumi» (Cant. 1, 3). La rarità e l’alto costo dei profumi, in Occidente, obbligò la Chiesa Latina ad usare il balsamo solo nella confezione del sacro Crisma; mentre la Chiesa Orientale, più favorita dal clima e dai prodotti delle regioni che abita, vi fa entrare fino a trentatrè sorta di profumi che, condensati con l’Olio santo, formano un unguento dall’odore delizioso. Oltre all’uso sacramentale nella Cresima e sui nuovi battezzati, il sacro Crisma è usato dalla Chiesa nella consacrazione dei Vescovi, per ungerne la testa e le mani; in quella dei calici e degli altari e nella benedizione delle campane; infine, per la dedicazione delle Chiese, in cui il Vescovo ne segna le dodici croci che attesteranno ai posteri la gloria della casa di Dio.

L’Olio dei Catecumeni.

Il terzo degli Oli santi è quello chiamato dei Catecumeni. Non è materia d’alcun Sacramento, ma è ugualmente d’istituzione apostolica, e serve nelle cerimonie del Battesimo per le unzioni che si fanno al Catecumeno sul petto e sulle spalle, prima dell’immersione o infusione dell’acqua. Si usa anche nell’ordinazione dei Sacerdoti, per ungere le mani, e nella consacrazione dei Re e delle Regine. Sono queste le nozioni che deve conoscere il fedele, per avere un’idea della funzione compiuta dal Vescovo nella Messa odierna, in cui, come canta S. Fortunato nell’Inno che daremo qui appresso, egli soddisfa al suo dovere operando la triplice benedizione che non può venire che da lui solo.

De Segur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE [risp. XXIX-XXXII]

XXIX.

PERCHÈ PARLAR LATINO? PERCHÈ PARLARE UNA LINGUA SCONOSCIUTA?

R. I protestanti che hanno tutto innovato nella religione, peri primi dichiararono guerra al Ialino, senza badare che la predicazione, la sola parte del culto divino che abbiano conservato, è anche presso di noi in lingua volgare, e che così tutto ciò che essi hanno noi pure l’abbiamo. – Per il sacrifizio (che essi rigettarono e che è l’essenziale del culto) importa poco al popolo che le sue parole sacramentali che si pronunciano a voce bassa, siano recitate in francese, in italiano, ecc. o in latino o in ebraico. – Oltre che un numero considerevole di persone conoscono il latino, si provvide a tutto colla traduzione di tutte le preghiere della Chiesa. Questi libri, in numero infinito, s’adattano a tutte le età, a tutte le intelligenze, a tutti i caratteri. Certe cerimonie, certi movimenti, certi suoni conosciuti avvertono l’assistente il meno istruito di ciò che si fa e si dice nei nostri uffizi. Sempre può seguire il prete e la Messa; se egli è distratto, colpa sua. – Qual idea sublime, d’altronde, quella d’una lingua universale per la Chiesa universale! Da un capo all’altro del mondo (se si eccettuino le Chiese di rito orientale), il cattolico che entra in una Chiesa del suo rito è come in sua patria. Niente è straniero a lui. Arrivando intende ciò che intese in tutta la sua vita; può unire la sua voce a quella de’ suoi fratelli. La fratellanza che risulta da una lingua comune è un legame misterioso d’una forza immensa! Niente inoltre pareggia la dignità, la grandezza, la chiarezza, la beltà della lingua latina. È la lingua dei conquistatori dell’universo, dei Romani, è la lingua della civilizzazione, la lingua della scienza. Questa lingua è la regina delle lingue; essa meritava l’onore di diventare la lingua della religione. – Finalmente tutte le lingue, che variano (come son quelle che ancora si parlano) convengono poco ad una religione immutabile. Presso ogni moderna nazione il parlare odierno è ben differente da quello che si usava duecento, o trecent’anni orsono, ed assai più da quello, che si parlava cinque o sei secoli fa. Oltre questi grandi cambiamenti, che mutano le sembianze delle lingue viventi, ve ne sono molti altri, che sembrano poco importanti, ma infatti Io son molto. Cosi in tutti i giorni l’uso cambia il senso delle parole, e sovente le guasta per licenza. Se la Chiesa parlasse la nostra lingua, potrebbe dipendere dalla sfrontatezza d’un bello spirito il rendere la parola più sacra della liturgia o ridicola, o indecente. Per tutti i riguardi immaginabili, la lingua della religione deve esser messa fuori del dominio dell’uomo. – Ecco perché la Chiesa cattolica parla il latino.

XXX.

PERCHÈ I PRETI FANNO PAGARE I LORO SERVIGI? NON SI DEVON VENDERE LE COSE DI DIO.

R. Ciò è vero, e voi avreste gran torto di credere che i preti vendano le cose sante, i sacramenti, la messa, etc., perché pagate, quando voi domandate quest’uffizio dal loro ministero. La ragione di quest’usanza cosi spiacevole a primo aspetto, è giustissima, come ve la spiego in due parole. Il prete non è prete per sé, ma per Dio, e per i suoi fratelli. Egli è l’uomo di Dio, e l’uomo di tutti, incaricato di salvare eternamente le anime de’ suoi fratelli, loro facendo conoscere, amare, e servire Dio. – Consacrandosi interamente ad una cosi sublime vocazione, rinuncia a tutto, alla fortuna domestica, alle gioie del matrimonio, alle dolcezze della famiglia, e così ad ogni mezzo di procacciarsi la vita, quale il commercio, il lavoro delle mani , l’industria, ecc. – Egli si consacra tutto ai suoi fratelli. È ben giusto, che in cambio di questo generale sacrificio, e della vita dell’anima, che loro dona, i fedeli contribuiscano a procurargli i mezzi d’esistenza. Benché prete egli è uomo. In tutti i secoli dopo nostro Signor Gesù Cristo, il popolo fedele ha somministrato il necessario a’suoi preti, ha variata la forma, ma la cosa fu sempre così. Non bisogna però credere, che tutto il danaro che forma la rendita delle Chiese sia per i preti. Così ne’ grandi matrimoni, ne’ pomposi funerali che sovente costano sì caro, la maggior parte di ciò che pagasi alla Chiesa, va nelle borse dei laici. Con questi mezzi inoltre si provvede alla conservazione delle Chiese, alla riparazione degli altari, alle spese necessarie del culto, al canto ecc. Vi sono taluni che s’immaginano che in quei giorni i preti prendono il pollo, cioè guadagnano grosso. È vero per niente, e prendono sovente meno il pollo di quelli che loro lo invidiano. – Lo vedete dunque, voi non pagate le cose di Dio, ma , al contrario pagate un debito di giustizia, e se posso aggiungerlo, un debito dì riconoscenza verso il prete che si è donato tutto a voi. Se alcuna volta (ciò che grazie a Dio è raro) un prete obliando la santità’ del suo stato, s’attacca troppo al denaro, fatica per la terra invece di faticare per il cielo, dovete ricordarvi, che egli è uomo, ed inclinato al male al par di voi, ma che le debolezze dell’uomo non macchiano il sacerdozio di cui è rivestito. Il prete infedele è ben colpevole, ma il suo sacerdozio rimane sempre puro. Noi l’abbiamo detto, è il sacerdozio di Gesù Cristo che niuna cosa può alterare.

XXXI.

I BENI DEL CLERO.

Sì muove frattanto una guerra accanita ai beni che gode il clero — si cercano tutti i pretesti, e tutti gli appunti per spogliarli — si va malignamente decantando la povertà degli Apostoli, e dei Vescovi nei secoli primitivi della Chiesa, per opporla alle attuali possessioni della Chiesa — Principalmente poi non cessasi dì opporre le fallaci conclusioni dell’economia politica alla conservazione delle da loro chiamate Mani morte, cioè de’ beni ecclesiastici nelle mani del clero — Miseri che s’illudono, e la passione loro impedisce d’accorgersene! — Osservate difatti come essi dimenticano il gran bene che procurano agli stati le proprietà direttamente amministrate dal clero — Il sollievo dei poveri, oltre essere un dovere cristiano, anzi un dei primi, è anche un obbligo dello stato sì stretto, che gli scrittori d’economia politica prescrissero a quest’uopo somme grosse di danaro a carico del Governo — Così si pratica in Inghilterra e in altri paesi acattolici della Germania, ove nei tempi della pretesa riforma si fecero passare nelle mani dei secolari i beni della Chiesa, e in cui non pertanto regna tuttora in tutta la sua orridezza il pauperismo. Ora ditemi: — Non viene scemato un gran peso del governo, se i beni ecclesiastici, cioè il patrimonio dei poveri, servono specialmente al loro sollievo, a cui ogni chierico deve dispensare ciò che gli sopravanza ad una decente sustentazione? — Sentite infatti uno scrittore non sospetto a questi falsi politici (Mirabeau, Ami des hommes t. A. pag. 159). « Sono le abadìe, che fauno vivere una quantità d’operai: esse dispensano le loro rendite con una saggia economia: esse lasciano un onesto assegnamento ai loro affittuari, affinchè nutriscano i poveri pei loro contorni, e nei tempi di carestia alimentino una quantità d’uomini, che senza il loro soccorso soccomberebbero sotto il peso della miseria » — Quando dunque sentite calunniare i sacerdoti per questi loro beni, mostrate a quest’insensati le opere di pietà, i luoghi d’educazione, gli ospedali, e tanti luoghi, in cui si viene in soccorso all’umanità soffrente, tutti quasi o fondati o sostenuti colle rendite ecclesiastiche, e di cui ovunque vedete l’esistenza sia nelle città, che nei borghi, e villaggi. — Dite loro, che per l’ordinario gli ecclesiastici non hanno quel forte motivo che suol distogliere dalla limosina i secolari, cioè il lusso, che pure è molto dannoso [La legge di residenza imposta dai canoni ai benefiziali prova pure quanto la Chiesa abbia a cuore oltre gl’interessi spirituali, anche il temporale bene dei popoli facendo che l’ecclesiastico spenda sul luogo ove ha il benefizio ciò che da esso ricava, mentre d’altronde ben a ragione si deplora nei laici molto ricchi l’assenteismo dalle loro terre e quindi la miseria, che ne conseguita, come quotidianamente lo va provando l’Irlanda e altri paesi d’Europa.]. Quanto dunque sarebbe contrario alla politica utilità, che fossero ingiustamente tolti dalla Chiesa e dati al governo, o venduti ai secolari i beni di essa, che sono in gran parte applicati ai soccorsi dei poveri! — Ma le rendite ecclesiastiche non circolano nel paese, quindi non arrecano vantaggio al pubblico stando nelle mani del clero: che se il governo se ne impossessasse, e le vendesse ai laici, sarebbero più proficue alla generalità dei cittadini — Speciosa falsità, che basta a distruggerla il pensare che nel mentre che i fondi dei laici restano per più secoli in una stessa stirpe, che sola ne gode, i fondi della Chiesa passano a tante famiglie, quanti sono ordinariamente gli individui, che s’ascrivono al clero — Inoltre ai beni dei laici ha dritto il solo erede; ai beni della Chiesa chiunque del popolo, che sia chiamato da Dio al sacerdozio — Il laico tesoreggia per i suoi figli; il sacerdote che è celibe è tenuto a dispensare ai poveri ciò che è superfluo al suo sostentamento. Il secolare distribuisce le rendite a capriccio; l’ecclesiastico invece secondo la norma dei canoni, che tendono al vero bene dell’umanità— Un padre di famiglia non può collocare tutta la numerosa figliolanza in decorosa condizione — ebbene, se Dio chiama alcuno dei suoi figli a quest’augusto stato del sacerdozio, avrà questi di che vivere, e ne godrà il rimanente della bisognosa famiglia. Da tutto questo ben dunque vedete quanto sia utile alla società che i fondi ecclesiastici siano posseduti, e amministrati dal clero stesso. – Ma le possessioni ecclesiastiche sono mal coltivate — non rendono ciò che dovrebbero—sarà meglio dunque darle all’attività, e al commercio dei cittadini, dei laici. — Anche qui un falso supposto mena ad una conclusione ancor più falsa — L’esperienza, e l’autorità di dotti scrittori attesta il contrario — Jay, e Rossi celebri scrittori d’economia politica affermano come i beni posseduti dai regolari, e da altre comunità ecclesiastiche sono più e assai meglio coltivati che i beni delle case secolari private, i quali per lo più son sempre mal tenuti e derelitti, massimamente quando si posseggono da dette case in gran quantità, ond’è che si vede ocularmente, che le più gran tenute dei più ricchi signori sono ordinariamente deserte, e ridotte a macchia, o ad erba solamente — Dunque se tutti fossero in mano dei laici, sarebbero meno coltivati, e quindi gran danno allo stato — I laici non tenuti come gli ecclesiastici da un dovere positivo che loro impone la Chiesa, di rendere migliori, o almeno nello stato cche si ricevettero, i beni ecclesiastici ai propri successori. Il dovere è una forza più potente che i propri comodi, e la libera volontà dei secolari a questa cultura non astretto — E poi a confessione dello stesso Mirabeau, non erano che orridi deserti gli odierni stabilimenti ecclesiastici, e noi dobbiamo, egli dice, ai primi cenobiti lo sterpamento di più della metà dell’interiore delle nostre terre — Bella gratitudine sarebbe dunque a questi benefizi del clero per la società, toglier ad essi la possessione di tali suoi migliorati, e ben coltivati fondi. – Il clero è troppo ricco, soggiungono, gli apostoli fondarono la Chiesa senza tante ricchezze — Il clero è per le cose spirituali, dunque deve astenersi dai preoccuparsi dei beni di quaggiù, deve lasciare ai laici i beni temporali — Scaltra, ed ipocrita fallacia dei nemici dei beni del clero — Osservate difatti come male si appongono— Si vuole fingere strabocchevole ricchezza dove non è che il puro necessario, ed il superfluo è tutti i giorni in memoria di benedizione, e gratitudine accolto, e ricevuto dai poveri — Guardate questi poveri di Gesù Cristo, che si affollano alla casa del beneficiato e ne partono soddisfatti nei loro bisogni, e ditemi se questa sia lussuriosa ricchezza — Quanti poi vi sono tra i sacerdoti che non hanno che il puro necessario! — E poi non ha il clero diritto ad un decoroso sostentamento, esso che esercita il più augusto dei ministeri sulla terra?—È falso poi, che gli apostoli siano stati poveri nel senso, che si vorrebbe dagli avversari — Il clero sarebbe contentissimo d’essere trattato oggidì dalla liberalità dei fedeli, come furono trattati gli apostoli dai primitivi cristiani che vendevano i loro beni, e ne portavano il prezzo agli apostoli [Act.. II. v. 54]. Se la missione del clero è tutta spirituale, se esso deve occuparsi degl’interessi eterni del popolo a lui affidato, non scema però in esso il diritto di vivere coi beni della terra, che per contrario s’accresce il dovere dei laici di sussidiare il ministro dell’altare che si impiega in officio così nobile, quale è l’eterna salvezza dei popoli — Perché dunque invece di concorrere al mantenimento del clero, si pensa oggi cotanto a levargli pur anco quei beni, che la pietà dei nostri padri loro ha dati? Il perché lo ravviserete nelle tendenze irreligiose dei nostri politici, che non contenti di sconnettere le cose civili, vorrebbero riformare la veneranda antichità di questa disciplina della Chiesa in ciò che concerne i beni da essa sempre legittimamente posseduti. – I cavilli e le obiezioni, che v’esposi e confutai, non son le sole, che escono dalla feconda sorgente che n’è l’irreligiosità politica — I tranelli di essa son multiformi e molteplici.— Saprete però resistere a tutti questi inganni se ben riterrete: 1.° che il clero per la sua dignità merita un decoroso trattamento; 2.° Che cominciando dai leviti dell’antico testamento, e venendo agli Apostoli, e ai loro successori, si vede come i fedeli fossero liberali verso di essi, in ogni tempo; 3.° Che gl’invasori dei beni ecclesiastici furono sempre creduti rei di sacrilegio.- 4.° Che i principi buoni sempre accrebbero i beni della Chiesa e ne furono ricompensati; 5.° Che i diritti, che il clero acquistò per i beni che possiede è sacrosanto quanto quello d’un privato qualunque, e che deve essere garantito e difeso dalla legge civile. 6.° Che l’opera della pietà di diciotto secoli nel sovvenire il clero ha ben più valore morale, che le strane idee dei tempi che corrono — Se, dico, riterrete tutto ciò, ben comprenderete che il disegno degli avversari dei beni del clero, altro non è se non d’avere, col mezzo della miseria, sacerdoti abbietti, ignoranti, alieni delle sagre funzioni, per ottenere infine la decadenza della Religione, e dei troni.

XXXII.

SONO I PRETI CHE INVENTARONO LA CONFESSIONE

R. Si, è facile cosa il dirlo, ma ben altra il provarlo. No non sono i preti, si è Colui che ha fatto i preti, si è nostro Signor Gesù Cristo che stabilì la confessione dei peccati come il mezzo necessario per ottenerne il perdono. – Aprite infatti il Vangelo: nel giorno stesso di sua risurrezione, nel giorno di Pasqua, i suoi apostoli erano riuniti in Gerusalemme, nel cenacolo. Tutto ad un tratto, a porte chiuse. Gesù Cristo compare in mezzo d’essi. Essi son tosto compresi da timore, prendendolo per un fantasma. Ma Egli mostrando loro le sue mani, ed il costato: « Pace a voi: come mandò me il Padre, anch’Io mando voi – e detto questo soffiò sopra di essi, e disse: Ricevete lo Spirito Santo: saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saranno ritenuti a chi li riterrete » (S. Giovanni cap. XX vers. 22.). Queste parole non hanno bisogno di commenti. Nostro Signore concede dunque a’ suoi primi preti, di cui il sacerdozio ed i poteri durano sino alla fine dei secoli, la virtù di perdonare, potere talmente assoluto, che i peccati ormai non possono essere perdonati che mediante il loro ministero, o in riguardo di questo loro ministero [Noi aggiungiamo a bello studio queste ultime parole; perché quando non puossi ricorrere al ministero di un confessore, si può ottenere da Dio la remissione dei peccati mediante un perfetto dolore. Ma uopo è che a questa contrizione perfetta sia congiunta la ferma risoluzione d’obbedire al più presto possibile al comando di Gesù Cristo che vuole che ogni grave peccato sia portato al tribunale della penitenza. Dunque non è che in riguardo del ministero dei suoi sacerdoti che Dio rimette i peccati in questi casi straordinari.]. – Ma il sacerdote non può perdonarci peccati che ignora; quando un penitente si presenta a lui, esso non sa neppure se questo penitente abbia peccato. Uopo è dunque che costui faccia conoscere la sua coscienza, dichiari i suoi peccati, di maniera che il sacerdote possa giudicare se debba perdonargli tosto, oppure ritenere i suoi peccati sino a migliore disposizione. – Or bene in ciò sta la confessione. E voi ben vedete dietro la parola sì chiara di Gesù Cristo, interpretata dal più semplice buon senso, che si è Egli che inventò la confessione. – Chi lo nega non conosce più la storia, di quello che conosca il Vangelo. Dai primi secoli del Cristianesimo si vede la confessione dei peccati, sia segreta sia pubblica, fatta al Sacerdote, e susseguita dalla assoluzione sacramentale riguardala come la condizione necessaria del perdono. Sempre e dovunque la si vede praticala come istituzione divina. – I protestanti che rigettarono la confessione perché loro recava molestia, si sono sforzati invano a trovar l’inventore umano di essa. Furonvi taluni che ignoravano talmente l’istoria della religione, che dichiararono la confessione essere stata inventata nel secolo tredicesimo dal concilio di Laterano. Sventuratamente per questi dotti l’istoria della Francia ci conservò il nome del confessore di Carlo Magno e di quello di suo figlio Luigi il Buono, che vivevano qualche cinque cento anni avanti il concilio di Laterano I. – Colui, che inventò la confessione, giova il ripeterlo, è Colui che ha inventato i concili, Colui che ha inventato la Chiesa, Colui che ha fatto la religione, Colui, che ha fatto l’uomo, il mondo, e tutte le cose, il Figlio eterno di Dio, che si è fatto uomo, nel tempo, per salvarci. Si, è per misericordia, che ci ha dato la confessione. È per meglio assicurarci del perdono dei nostri peccati e per dare così la pace all’anima nostra. Quando noi abbiamo domandato a Dio perdono di qualche mancanza, noi siamo sicuri dì aver domandato il perdono, ma non siamo sicuri d’averlo ottenuto. Quando al contrario, abbiamo udito la parola sacramentale del sacerdote : « Io t’assolvo da’ tuoi peccati in nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo, » e che d’altronde abbiamo fatto ciò che abbiamo dovuto, e potuto per parte nostra, siamo assolutamente sicuri, che la nostra anima è purificata. Gesù Cristo l’ha detto: « Saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete. » Inoltre noi riceviamo nel Sacramento della Penitenza una perfetta ed intera applicazione dei meriti del Salvatore, come in tutti i sacramenti. Gesù Cristo supplisce all’imperfezione, all’insufficienza della nostra contrizione; mentre che, abbandonati a noi stessi, noi non riceviamo la grazia di Dio, che in proporzione delle nostre disposizioni personali sempre ben povere e misere. Nostro Signore coll’ istituire la confessione de’ peccati, non fece, del resto, che trasportare nella religione uno degl’istinti, uno dei bisogni del nostro cuore nell’ordine naturale. Chiunque ha commesso una mancanza, sembra sollevato, e quasi giustificato, col confessarla. Chi non ha provato in un momento di dispiacere, il desiderio di espandere il suo cuore nel seno d’un amico? Tale è la confessione. Il peccato è il vero male, che pesi sopra un cuore onesto e retto; il sacerdote è il confidente di questo rimorso, il consolatore di questa pena. Egli fa più che sollevarla, la toglie, e gli rende la calma, e la gioia della buona coscienza! Non confesserete voi, che Dio è assai buono in quest’invenzione della confessione? Traduciamo in volgare, come ci accade alcuna volta questa parola inconsiderata: « Sono i preti, che hanno inventata la confessione. » – Essa vuol dire il più delle volte :« Io non voglio confessarmi, perché: Io sono un orgoglioso o un libertino, che ne avrei troppe a raccontare; « e che 2.° non voglio correggermi de’ miei vizi. » Voi che parlate contro la confessione, oserete dire, che io m’inganno?

Don MINO – segretario di Giuseppe Siri (S.S. Gregorio XVII)

 

 

GIUSEPPE CARD. SIRI

Arcivescovo di Genova

[futuro GREGORIO XVII]

Don Mino

(Mons. Bartolomeo Pesce)

Profilo

Ai Suoi genitori

LO STUDENTE

Don Mino era nato il 5 febbraio 1921 da Giovanni Pesce e da Elvira Mazza a Genova in Via Casaregis 18. Egli avrebbe portato fino alla fine il senso della saggezza pacata di suo padre e la educazione e finezza di sua madre. L’attaccamento ai suoi genitori fu esemplare, senza stornarlo dal suo dovere di sacerdote. Due anni prima della sua morte, un giorno a Villa Campostano, nel giardino restammo soli. Ne approfittai per fare un certo discorso, su un argomento che mi preoccupava da tempo. Volevo studiare per lui una sistemazione, che gli fosse stata congrua. Mi disse: “Non si preoccupi; vede, io non potrei sopportare la morte di mio padre o di mia madre. Del resto sento che morirò giovane”. Visse sempre del ricordo dei suoi nonni paterni e materni con una devozione commovente. Ebbe profondità e finezza di sentimento – tutta sua – verso gli zii e le zie. Il ceppo della famiglia era a Molare presso Ovada; egli non vi era nato, ma quella era la sua patria. Negli ultimi anni volle si comperasse un terreno nel Cimitero, per trovarsi tutti uniti dopo la morte. Credo però che il tono e il tipo di questo amore per il natìo loco si potrà capire quando la sua figura sarà più completamente delineata. – La sua storia comincio a narrarla da un giorno d’Ottobre quando io cominciai la mia missione di Insegnante di religione al Regio Liceo Doria nel 1937. Don Mino apparteneva alla terza B, che occupava al secondo piano l’aula a destra in fondo al corridoio prospiciente la Questura. Rivedo tutti i miei scolari d’allora e li rivedo al loro posto. Mino occupava la seconda fila da sinistra, il secondo banco a destra, che condivideva con Biagio Petraroli. – Feci il primo appello, adagio come era consuetudine, per stamparmi bene in testa nomi e fisionomie in modo da poter ritenere subito tutti, chiamarli senza alcun bisogno di registri o di piante dell’aula. Cominciai la scuola. Prima della fine avevo una certa idea degli scolari, ma tra questi ne notai uno, attentissimo con due occhi benevoli e penetranti che esprimevano un immenso desiderio di imparare quanto insegnavo. Era Mino Pesce. Quello sguardo era tale, che capii subito esserci qualcosa di non comune. Col tempo seppi che era benvoluto da tutti, che la sua casa era facilmente il ritrovo di compagni, che andavano a studiare con lui in gruppo nutrito. Come ero stato solito fare nelle scuole, nelle quali avevo prima insegnato, diedi inizio al “Focolare”, per curare meglio fuori della scuola l’anima di quei ragazzi. Corrispondevano in modo commovente. Il luogo di incontro era la mia camera in Seminario, nel corridoio dei Superiori, immediatamente prima della Tribuna della Cappella. Sapevo che i ragazzi hanno una immensa sete di verità e di giustizia, di ideali. Il focolare visse sempre per quella grande sete. Sapevano che eravamo in Seminario, che bisognava rispettare il silenzio. Arrivavano al sabato nel pomeriggio, camminavano in punta di piedi, perché bisognava passare davanti alla porta del Rettore. Nella mia camera ci stavamo assiepati in più di trenta, seduti su tutti i mobili in qualche modo senza alcun chiasso. Per anni sono venuti e non hanno mai disturbato nessuno, tanto che io non ebbi mai rimproveri o proibizioni. Dopo che si era tra loro fondata una specie di Società di san Vincenzo de Paoli, si faceva la raccolta e io conservo ancora la busta di panno azzurro che serviva a deporvi i denari. L’anima di questo focolare era don Mino. – Sui suoi compagni aveva un prestigio singolare che non venne mai meno. Il segreto di questo prestigio era la chiarezza del suo contegno, la finezza della sua educazione, l’equilibrio dell’anima sua, la prontezza a fare quello che potesse essere utile agli altri. La sua fu la classe che ricorderò di più: una parte arrivò senza spinte alla Comunione quotidiana, che comportava naturalmente il sacrificio di una molto sollecita levata. I più facevano la Comunione festiva. Ancora oggi il ricordo di quella classe non abbandona quelli che vi appartennero. – I professori erano persone per bene: due – che non sono più – sono particolarmente ricordati: il Prof. Savelli di filosofia e la Signora Settignani di matematica e fisica. Il primo era ammirato per la sua dirittura e per la forza educativa che sapeva infondere nel suo insegnamento. Aveva la statura da grande professore universitario e lo sarebbe certamente stato se si fosse piegato alla moda politica del tempo. Gli fui amico, lui frequentava per anni i Corsi di Villa Maria, nella onesta ricerca della Fede. Durante la guerra, mi pare nel 1942, verso l’estate mi giunse da lui, da Ancona, una cartolina in cui mi annunciava che si era confessato e comunicato. Era quello che attendevo: dopo un mese era morto. Pensando al Prof. Savelli ho sempre pensato essere impossibile che un uomo veramente onesto e desideroso della giustizia non arrivi alla Fede. Quest’uomo ebbe una influenza fondamentale sulla onestà di don Mino: egli lo venerò sempre e spesso di lui si parlava insieme. – La seconda era una donna unica: nubile splendida insegnante, severa, costituiva il terrore delle reclute del Liceo. Il terrore si tramutava presto in rispetto e in serietà di studio. Eppure era una santa donna: viveva leggendo le opere di Santa Teresa. A me veniva a chiedere notizia della salute di questo o quello; temeva che qualcuno patisse per mancanza di mezzi e non voleva mostrare a nessuno che aveva il cuore buono. Più di una volta sono stato strumento della sua carità accuratamente nascosta. Dava un tono a tutta la scuola. Anche questa insegnante ebbe una notevole influenza sulla formazione di don Mino. Fu da studente che lui rivelò la singolarissima capacità di fondere gli animi, di amalgamarli. Lui forse non se ne accorgeva, ma era la sua personalità buona ad imporsi. – Studiava con profondità ed allargava notevolmente la sfera di quello che imparava a scuola. Era un lettore formidabile specialmente nel settore letterario e filosofico. Alcuni compagni facevano con lui un gruppo speciale, che non si accontentava dello studio scolastico. È facile che in studenti così fatti venga a preponderare la cultura nozionistica ed altrettanta coscienza di sapere tutto. Non direi che questo possa pensarsi di quel gruppo, ora che esiste la controprova data nella vita. Per don Mino non fu certamente così. Io l’aiutavo, ma certamente egli si costruì un casellario logico mentale, nel quale le nozioni trovavano giusta collocazione per una costruzione più legata ed una sintesi più alta. Di questo dovrò parlare ancora. Nella lettura aveva il gusto delle opere che restano ed appunto perché restano si chiamano “classici”. Lo attraevano profondamente le grandi idee e le grandi sintesi. Prima ancora che in lui si manifestassero chiari i segni di una vocazione al sacerdozio, la struttura era fatta. È difficile che gli studenti si facciano delle strutture portanti ed evitino la più antipatica delle presunzioni. – Naturalmente tutto questo si perfezionò col tempo allorché entrò in Seminario e quando cominciò egli stesso l’insegnamento. Tutte le mattine era puntuale nel coretto di Santa Zita, ove io celebravo la Santa Messa alle otto.

Dopo, la scuola.

Ho sempre creduto per esperienza alla efficacia dei ritiri minimi. Li volevo in un ambiente monastico, perché avevo osservato che erano incomparabili aiuti, la consuetudine dei monaci, la divina liturgia, il canto corale, i pasti presi in silenzio insieme alla comunità. Quasi sempre i ritiri minimi, nel tempo al quale mi riferisco, si tenevano per i miei alunni alla Abbazia benedettina di San Nicolò del Boschetto. Più tardi ci si trasferiva a Sant’Andrea di Cornigliano. Le vere tappe della formazione e della vocazione di don Mino sono stati questi ritiri. Li predicavo io, facevo fare l’esame di coscienza, partecipavamo al Coro. Si finiva verso sera, prima o dopo a seconda dei casi, ma in modo che non si annoiassero mai e partissero coll’animo contento, disposti a ritornare. – Alla domenica e alle feste era sempre fedelissimo al canto dei Vespri all’Apostolato Liturgico. Viveva ancora mons. Moglia e tutti noi eravamo attratti nell’alone di quell’uomo incomparabile ed indimenticabile. Mancavamo solo quando si andava ad occuparci dei poveri nel Ricovero municipale di Borzoli. Là ci dividevamo per visitare e portare soccorsi alle diverse famiglie. Poi insieme scendevamo a piedi attraverso Coronata a Cornigliano. Erano ben più contenti che se si fossero divertiti e lo dicevano chiaro. – Le vacanze hanno una loro importanza nella breve storia che narro. Mettevo insieme un gruppetto di amici di diversa età (il più anziano, il caro signor Stefano Parodi, aveva quasi settant’anni) sceglievo la località alpina, organizzavo tutto, gite comprese e si partiva. Diversi alunni cominciarono ad unirsi a noi: il gruppo era il più eterogeneo che si potesse immaginare, preti, laici, vecchi e giovani, eppure ancora oggi ripenso con nostalgia al signor Stefano Parodi il più arguto e sereno, singolarmente saggio. Queste vacanze nella amabile mista compagnia, mi permettevano di curare meglio dal punto di vista spirituale e intellettuale il gruppetto degli studenti. Di questo gruppetto Mino era il capo ed anche il più interessato. Fu in queste vacanze che egli con una singolare tenacia, mise a punto la costruzione filosofica e lo fece in modo tale da poterne essere poi maestro a molti altri e da poter dare una particolare e forse unica caratteristica alla sua scuola d’Arte in Seminario. – Afferrava, assimilava, godeva della certezza conquistata e la sapeva comunicare ad altri. Quando si trattava di entrare in Seminario per la Teologia ed egli doveva subire l’esame integrativo di filosofia, feci per lui un riassunto della Metafisica, che in seguito credo sia servito a molti altri. Le nostre campagne oscillavano dal Trentino a Courmayeur, ma la più frequentata restò la colonia P. Semeria a Courmayeur diretta allora dall’indimenticabile Padre Cossio, Barnabita. Non dimenticherò mai più un circolo di studio tenuto in un prato di Dolonne, sullo sfondo delle Gr. Jorasses e nel quale tutti arrivarono a capire l’ammirevole contenuto dello a. 3, c. 3 della parte prima della Somma di San Tommaso. – Don Mino era uno studente al tutto singolare. Era bibliofilo, amante delle nozioni, ma molto più dell’approfondimento razionale sistematico. Obbligava con le sue interrogazioni a mettere a fuoco le questioni, senza mai sbandare. Intellettualmente egli avrebbe portato fino alla fine la fisionomia limpida e sicura del sapere, che lo avrebbe caratterizzato fra tutti. In questo tempo con alcuni indivisibili amici frequentava le migliori manifestazioni d’arte e di cultura che erano allora a Genova ed ho assistito più volte alle nutrite discussioni, che questi ragazzi seri sapevano condurre con competenza e sagacia, dopo quelle manifestazioni. – Oggi occupano tutti il loro posto nella società, ma sono certo che bene spesso ritornano a quei tempi bellissimi, anche se in una cornice di fatti che dovevano ineluttabilmente portare alla seconda guerra mondiale.

LA VOCAZIONE

Non tardai molto a capire che la spiritualità di Mino prendeva un certo indirizzo, scartava passatempi, sceglieva ambienti congeniali ad un certo tipo di vita. Io non parlai mai di quello che mi pareva intuire. Egli era felice di venire nelle solennità a fare il chierichetto all’Istituto Giosuè Signori per ragazze deficienti e abbandonate. Mi occupavo di quell’Istituto in rappresentanza dell’Arcivescovo ed ogni festa vi celebravo io una Santa Messa alle 6,30 del mattino. Penso alle Messe di Natale, che lasciarono a lui un ricordo per tutta la vita. La sua maturazione spirituale limpida e generosa era evidente. Cercò molte volte di incominciare un discorso, che doveva portare a parlare di vocazione. Io feci mostra di non capire. Fu solo all’inizio della terza liceale che egli mi fece il discorso chiaro, al quale non potevo sfuggire. Ci voleva del tempo, bisognava pregare. Intanto la maturazione cresceva, lo spirito di preghiera e soprattutto, di meditazione. Gli dissi che gli avrei comunicata la decisione a Pentecoste. Venisse con me all’Opera Giosuè Signori. Io cantai la Messa. Dopo la Messa, in sacristia gli diedi la risposta: poteva andare avanti nella via del sacerdozio. Era raggiante. Da molto tempo la sua vita sarebbe stata esemplare per il migliore seminarista, da quel giorno, come se avesse dato addio al mondo, la sua vita si affinò e raggiunse una virtù al tutto singolare. Io non ebbi mai ombra di dubbio sulla sua riuscita. Così a Ottobre di quel 1940 entrò nel Seminario Maggiore. I suoi Genitori non lo ostacolarono, pur sentendo il colpo di un inopinato cambiamento di rotta, che poteva sconvolgere i loro piani. Essi erano della sua levatura. Lui sarebbe stato per loro come per la sorella di una devozione unica, che diventò più splendente ancora col passare degli anni. Essi ritrovarono sempre in lui con una chiarezza pura il loro bambino d’un tempo. Ebbe appena, si può dire, la gioia di vederli sistemati a Pegli e quella casa porta in tutto l’impronta del suo gusto. Più tardi i suoi nipoti avrebbero avuto in lui uno zio indimenticabile, proprio per la levatura spirituale. – Mi sono chiesto molte volte quali potessero essere le lontane cause di quella vocazione, che come tutte le vere vocazioni, viene da Dio. Ma egli parlò sempre soprattutto del suo nonno paterno: lo ammirava, l’esempio di lui gli era guida, le sue massime luce. Probabilmente il merito dei padri aveva la sua parte in tutta questa vicenda. Così cominciò con entusiasmo lo studio della Teologia. La assimilò come ho visto accadere a pochi. Non sfarfallò mai nella gustosa e facile bibliografia. Approfondiva tutto e talvolta colle debite licenze faceva excursus più ampi della scuola. Egli vagliò veramente tutto il pensiero moderno alla luce della teologia, raggiungendo una meravigliosa precisione in tutto, quella che lo avrebbe reso ammirato e carissimo tra i suoi futuri alunni del Doria. – Lo ebbi alunno in primo anno per la sola Eloquenza, poi per tutto il corso della Teologia Speciale. Visse la Teologia come una contemplazione continua e come la luce per capire e misurare qualunque altra cosa. Raggiunse una sicurezza che gli permetteva di conoscere senza esitazioni o danno qualunque manifestazione del pensiero moderno. Il cammino della sua vocazione fu un cammino luminoso e sereno.

LO STATO DI SALUTE

Questo costituisce una componente veramente principale della Sua vita. Da ragazzo ebbe qualche indisposizione, ma in sostanza era un ragazzo normale e resistente. Fanciullo di poco più che dieci anni, passò diverse vacanze a Cortina d’Ampezzo. Là, da solo, girò tutte le montagne. Al sentirgli narrare le sue prodezze e la resistenza dimostrata, pareva incredibile non gli fosse successo qualcosa di grave. Egli poteva parlare di tutta la conca Ampezzana con una famigliarità che stupiva. Fu durante la guerra, mentre egli studiava teologia, che cominciò ad apparire quell’esaurimento che avrebbe costituito il merito segreto di tutta la rimanente esistenza. Nel 1942 dopo i gravi bombardamenti a tappeto del 22 e 23 Ottobre il Seminario, non colpito ma danneggiato e divenuto ormai pericoloso, fu chiuso. Poco dopo venne riaperto nei locali allora del Maremonti a Ruta, località che pareva dare una notevole sicurezza in ordine alle possibili operazioni belliche. Là, anche perché l’alimentazione era di guerra, la salute di Mino manifestò quell’abbassamento, dal quale non si sarebbe sostanzialmente rialzato. Fu visitato da un medico estero che gli trovò almeno una dozzina di malattie. La verità era nell’esaurimento nervoso. Il suo sistema neuro vegetativo era in malo arnese e fu il protagonista di una lunghissima passione, sia pure con alti e bassi. Aveva tutti i sintomi, tanto che, a chi non fosse stato edotto, lo avrebbe ritenuto affetto da chi sa quali malanni, mentre il malanno era uno. Tuttavia poté proseguire con una certa regolarità ed arrivò così sereno come sempre e felice alla sacra ordinazione che gli fu conferita nel Santuario dell’Acquasanta il 3 Giugno 1944. Io ero vescovo da un mese; lo chiesi come segretario al card. Boetto, che benevolmente me lo accordò subito. – Due anni dopo, diventato io Arcivescovo, condivise con me le fatiche. Era stremato, tanto che dopo una non lunga permanenza mia in Svizzera a titolo di riposo, decisi di lasciarlo lassù, perché pareva che l’aria e le terapie dessero per lui migliori speranze. Ma anche là i progressi furono insignificanti o assenti del tutto. Da amici di Lucerna venne consigliato di ricorrere ad un Naturarzt dell’Appenzel. Si trattava di un Signore distinto, abitante a Waldstatt, un grazioso villaggio poco distante da Appenzel. Io non sono in grado di giudicare dei metodi seguiti dal Signore di Waldstatt, però Mino seguendo le sue indicazioni riuscì a raggiungere un passabile tenore di vita. Quel bravo uomo lo prediligeva ed egli finché visse, disse di dovere la vita al Naturarzt. Vi sarebbe ritornato poi anche quando questo Signore non esercitava più e ricordo che una volta trovandoci in Svizzera andammo insieme a Waldstatt. Dopo quattordici mesi ritornò in Italia, non perfettamente guarito, ma tale da avere una vita abbastanza normale, anche se sempre più o meno sofferente. – Cominciò una vita, nella quale, pur dimostrando una singolare resistenza, facilmente doveva fare della notte giorno e viceversa con dolori e disturbi di tutti i generi che assiduamente gli tenevano compagnia. Aveva i disturbi più strani, che celava quanto poteva anche a noi di casa. La sua sensibilità gli donò una sofferenza anche per le più piccole cose. Egli celava. Tra l’altro aveva i cinque sensi incredibilmente sviluppati, sentiva e percepiva tutto. Questa situazione di ipersensibilità generale gli rendeva greve quello di cui noi neppure ci accorgevamo. I rumori erano i suoi nemici. Si trovava così esposto a tutti i malanni, che affioravano secondo le stagioni. Di influenze con febbre ne faceva almeno quattro all’anno e quasi mai duravano solo due o tre giorni. Aveva delle prostrazioni che lo facevano privo di forze ed era frequente per lui andare vicino al collasso. La penultima influenza la prese a principio del 1969, fu lunga e se ne liberò in modo soddisfacente con una cura di vaccini. Non c’è merito ad essere sofferente, se manca una accettazione ed una virtù. Egli, nonostante questo, continuava a lavorare e, non solo rappresentava per nulla un aggravio della serenità familiare, ma ne era la luce. La pazienza, la serenità, il sorriso erano lo schermo dei suoi dolori. Questa accettazione del suo stato, assolutamente semplice e senza pose, questa serenità comunicativa a tutti, fatta di Fede e di coscienza, costituisce l’aspetto più grande della sua figura morale. – Bisogna farsi un’idea di quello che lo affliggeva. Per anni ed anni quasi mai mangiò a tavola, tale era la debolezza che lo prendeva. Il pranzo o la cena gli era servita stando lui su una sedia a sdraio per essere in nostra compagnia. E questa era sempre piacevole. Molte volte era costretto a consumare i pasti a letto. Molte notti erano bianche. La ragione di questa debolezza? Si prodigava per tutti e per tutto; anche quando non stava bene, continuava a ricevere, a trattare pratiche. Egli era assolutamente incapace di sbrigare le persone. Doveva servirle tutte fino all’esaurimento; quando era fuori per scuola o per altri motivi facilmente al suo rientro trovava gente che lo aspettava per qualche motivo. Egli, anche sentendosi mancare, senza dare alcun segno di peso o fastidio, ascoltava tutti. Così quando rincasava, non era neppure in grado di mangiare e, spesso doveva attendere sul letto che gli ritornassero le forze. Il sabato era una giornata campale. Nel pomeriggio riceveva nei locali della Segreteria: ascoltava, confessava, consigliava ed erano alunni suoi recenti e lontani, professionisti … Quando rincasava noi eravamo spesso a tavola da un pezzo. – Quando i suoi nervi non reggevano, era per lui un supplizio trattare cogli altri; eppure continuava a ricevere. Il suo ufficio d’arte sacra (egli ne era il titolare) potrebbe raccontare molte cose su questo punto. Parlava poco dei suoi guai; se lo faceva era per rispondere alle nostre affettuose domande o riderci sopra. E quando in casa, tutti, (notare la parola ”tutti”) avevamo qualcosa andavamo da lui. Era il pacificatore di tutte le dure esperienze e di tutte le ansietà. Si rianimava veramente solo in montagna, in alto. Dopo che abbiamo presa l’abitudine di passare le nostre magre vacanze sulle pendici della Bisalta in quel di Peveragno, facilmente di buon mattino, all’alba, partiva per esplorare, cercare sentieri, strade che permettessero le gite oltre i duemila metri. Egli conosceva perfettamente, le valli alpine della provincia di Cuneo e noi abbiamo compiuti degli itinerari noti a pochi, ma scoperti da lui. La sua abitudine contemplativa lo metteva in comunione con tutto: molti animali, piante, fiori. Era felice, allora. E scopriva un’altra caratteristica della sua anima: quella di portare tutto in alto. Nei quattordici mesi in cui tra il 1947-48 restò in Svizzera dove trovò la sua relativa salute, egli conobbe tutto di quel mondo alpino, spesso meraviglioso. Ed imparò anche perfettamente il dialetto tedesco di quei monti. Quella esperienza svizzera deve essere stata assai dura per Lui, ma egli si guardò bene dal metterci a parte delle sue sofferenze: per lui andava sempre bene. I suoi amici svizzeri da allora non l’hanno mai più dimenticato. – Dalla Svizzera ritornò definitivamente sul finire della estate 1948. Nel 1953 ritenni necessario cooptare nella nostra famiglia Arcivescovile un altro giovane sacerdote (don Giacomo Barabino, ndr) che tutti conoscono e stimano. Ma per don Mino questa fu solo la occasione di riempire con altri impegni di pazienza e di carità il tempo che veniva da altri supplito nel lavoro di Segretario. Tempo non ne perse mai. Tutto questo durò, l’ho già detto, per ventotto anni! Il suo peso fu in parte notevole dovuto ai dolori morali. Egli soffriva del male altrui, soffriva dei difetti altrui, partecipava in modo singolare a tutti i dolori che hanno accompagnato il mio ministero (qui, si potrebbe percepire una eco del dramma interiore dell’Arcivescovo, ndr). Questi furono molti e non tanto a causa del Governo della Diocesi, e per le vicende della Chiesa e dell’Italia, per le quali non poteva lasciarmi insensibile la mia appartenenza al Senato della Chiesa stessa. Egli, anche se io non parlavo, indovinava le ombre nei miei occhi e silenziosamente soffriva con me. Soffriva per tutti e spesso era il solo che riusciva ad addolcire l’amarezza di tutti. Lo stato del suo sistema neuro vegetativo faceva rimbalzare nella sua anima paziente i più insignificanti episodi. Alcuni aspetti delle sue sofferenze, per lo più a me nascoste, gli venivano dall’adempimento di taluni suoi doveri … La insonnia aveva il potere di moltiplicargli tutto. Eppure pregava e taceva. Sui suoi guai aveva la capacità di scherzare. Forse lo faceva perché temeva essi pesassero su di noi.

IL SACERDOZIO

Dopo essere stato ordinato all’Acquasanta dal Cardinale Boetto, il giorno appresso 4 Giugno 1944 cantò la Sua prima Messa nella chiesa parrocchiale di Molare. Vi andai e tenni io il discorso. Ricordo che all’inizio della mia predica sentimmo passare con fracasso sulle nostre teste la formazione di bombardieri che, andavano a bombardare Torino. Verso la fine ripassò ancora sulle nostre teste per andare a bombardare Genova nella zona della bassa Polcevera. Era una giornata di eccidio, che a Molare passò serena e luminosa. Io ritornai quel giorno stesso e dovetti lasciare il mio bagaglio a Borzoli, perché oltre era interrotta la linea e, a piedi, me ne andai a Certosa a constatare i disastri, poi a Genova. Egli rimase qualche tempo in famiglia, anche perché un mese dopo dovetti scomparire perché mi si voleva, per lo meno, portare in campo di concentramento. – Don Mino il suo sacerdozio lo realizzò nell’Arcivescovado. Per capire l’anima di questa esistenza sacerdotale bisogna considerare la Sua Messa. La sentiva talmente, vi si addentrava con tale profondità da consumarvi le forze, tanto che molte volte non riusciva celebrare e doveva accontentarsi della sola Comunione. La meditazione e la preghiera duravano, negli intervalli possibili, tutto il giorno. Una volta ad una Superiora che gli riferiva dell’atteggiamento critico di un sacerdote, rispose semplicemente: “Non c’è altro che da pregare”. Questo era il suo atteggiamento costante, che spiega in lui altre cose. Le questioni ecclesiastiche e pastorali specialmente dopo che assunse la difficile Delegazione Arcivescovile per la Università, le risolveva sempre pregando. Era facile a qualunque ora trovarlo nella Cappella dell’Arcivescovado, seduto, colla testa appoggiata sul banco del coro, del tutto immerso nella orazione. Ed a fondamento di quello che faceva come sacerdote metteva la offerta delle sue sofferenze fisiche e morali. Questo mi parve, almeno, di capirlo per quanto egli fosse su questo argomento, estremamente riservato. Preghiera e sofferenza avvolsero il suo sacerdozio e gli diedero le caratteristiche, delle quali dirò appresso. – I suoi contatti con altri, anche quando avevano la apparenza di contatti culturali, d’ufficio, occasionali – ed era sempre di una comunicativa per nulla pesante – avevano uno scopo sacerdotale. Quante sono le persone che per aver avuto a qualunque titolo un contatto con lui hanno riflettuto, hanno trovata una via, hanno cessato di essere anticlericali …? Non saprei dirlo, perché sono molti e lo deduco dai frammentari accenni che arrivano a me. Tutti quelli che non solo lo hanno accostato, ma lo hanno frequentato, sono diventati migliori. Tutto quello che fece, lo fece da sacerdote. – Egli, don Mino, non ebbe mai impegno di parrocchia: né il suo ufficio, né la sua salute glielo avrebbero permesso. Lavorava moltissimo, sorprendeva anzi per la strana resistenza al lavoro; ma il diagramma delle sue forze non combaciava in genere con gli orari. Il suo sacerdozio lo esercitò anzitutto come segretario mio. Non si trattava di un impegno burocratico, come addetto di un sia pure importante ufficio; per lui tutto era un atto ministeriale. Quanto compiva era sempre un atto di Fede e taluni tratti lo davano chiaramente a vedere. L’Arcivescovo lo vedeva coll’occhio della Fede: fino all’ultimo e nonostante le mie reiterate proteste si alzava rispettosamente in piedi ovunque io entrassi. Mai prese confidenza, quella almeno che fa perdere la riverenza. Ogni suo gesto era educatissimo e fine; il contegno diceva chiaro che egli serviva il Signore, non un uomo. – La segreteria di un Vescovo è sempre un posto pericoloso e questo è tanto vero che spesso i segretari, scomparso il Superiore, finiscono ai margini di tutto. La ragione è che per forza di cose possono trovarsi immischiati nei rapporti tra il Vescovo e gli altri, possono venire sollecitati o creduti in modo inopportuno, devono spesso meditare per lasciare fuori questione il loro Superiore. È insomma un ufficio per il quale occorre virtù e saggezza. Don Mino era la discrezione personificata. Nei tanti anni, nei quali mi fu accanto, mai mi rivolse una domanda per sapere quello che avrei fatto, deciso chi avrei nominato o dei segreti di Curia. Queste cose le sapeva dagli altri. Circondava e tutelava la Autorità con una educazione perfetta, con una finezza e delicatezza esimie, con chiunque trattasse egli sapeva che doveva usare tale umanità e tale cortesia (anche con chi non la usava per lui) da trarne prestigio al Superiore. Era il riserbo in persona: mai si permise di dire agli altri quello che veniva a conoscere per ragioni di ufficio. Tutto questo testimoniava non solo di un controllo continuo, ma – come ho già detto – di un movente soprannaturale. Al suo tatto si debbono molte buone figure fatte dalla Autorità. Sapeva trattare con tutti con bontà e decoro e molti Personaggi si sono rallegrati con me per avere un tale segretario. C’erano i viaggi. – Taluni li dovetti compiere all’estero come Legato Pontificio. Il ruolo del segretario per gli alti contatti che si dovevano avere, diventava allora di una singolare importanza. Fu proprio in occasione della mia prima Legazione Pontificia in Spagna che venne nominato Cameriere Segreto di Sua Santità ed ebbe il titolo di “Monsignore”. Egli riusciva perfetto diplomatico, non solo per lo straordinario possesso delle lingue, ma per la affabilità, la cortesia e la intelligenza. In tale qualità mi accompagnò in Spagna e due volte in Belgio. Fu ammirato anche perché in situazioni simili è estremamente facile compiere dei passi falsi. Dopo la mia assunzione al Cardinalato (12 Gennaio 1953) compresi che dovevo prendere contatto e cognizione diretta degli ambienti internazionali. Cominciai una serie di viaggi attraverso i paesi cattolici d’Europa ed attraverso i Paesi di diaspora cattolica. Era preziosissimo don Mino. Egli possedeva perfettamente, parlando speditamente e scrivendo il Francese, l’Inglese, il Tedesco più il dialetto Svizzero. Ero pertanto libero da tutte le noie del viaggio e mi riuscì sempre di mantenere l’incognito ben necessario a chi va per osservare e studiare. La cosa strana era che quando compivamo tali viaggi, sia perché erano quasi sempre al nord ovest o al nord dell’Europa (e a lui il clima continentale o nordico era favorevole), sia per la eccitazione nervosa delle nuove cose da imparare, stava benissimo e poteva, alternandosi con un altro nostro collaboratore (Barabino? ndr), condurre per lunghi tratti la macchina. Io per lui non avevo il fastidio di compitare lingue e di provvedere. Lui mi faceva trovare tutto fatto. Per i sondaggi in ambienti culturali, lui era il compagno ideale. Per le opere d’arte era un vero maestro, data la sua straordinaria competenza in materia. In Inghilterra qualcuno mi chiese perché io avevo con me un segretario inglese; lui! Risposi che era genovese come me, solo parlava la lingua con tale correttezza da far credere che fosse nato a Londra. Bisogna dire che egli aveva una singolare abilità di parlare le lingue estere col più fedele accento dei diversi Paesi. – Questi viaggi con lui li potevo organizzare in modo razionale: molti mesi prima studiavamo tutto quello che poteva sapersi sulla storia, sulla geografia, sulla letteratura, sul diritto del Paese da visitare. L’incognito ci ha sempre protetto a meraviglia se eccettuiamo uno o due casi nei quali fummo in imbarazzo. Un giorno venni riconosciuto da un sacerdote italiano mentre ce ne andavamo con padre Ferrari alla Camera dei Lords a Londra. Me la cavai con una battuta e tutto finì lì. Certo sarebbe stato imbarazzante un cardinale alla Camera dei Lords. – Per don Mino accompagnare me ad acquistare le notizie od informazioni utili al mio ufficio, era sempre un atto sacerdotale. Il nunzio a Vienna del quale fummo ripetutamente ospiti, il genovese Monsignor Dellepiane, era entusiasta del mio Segretario. Anche l’Uditore (agente diplomatico facente parte della Nunziatura ndr); che, diventato a sua volta Delegato Apostolico in Indonesia, precedette di parecchi anni nella tomba don Mino. Come segretario, nel trattare cogli altri, era di una signorilità mai smentita. Credo che molta carità fatta da lui sia nota solo a Dio. Quando nel 1953 venne con noi don Giacomo Barabino (prima volta che lo nomina esplicitamente, peraltro con evidente scarso entusiasmo), per aiutarci e per sostituire don Mino nell’accompagnarmi e nei contatti ordinari, tutto rimase sereno, direi luminoso: la casa arcivescovile fu una vera famiglia. Fino al 1966 il faro della casa restò mio Padre, della cui virtù scriverò a parte; egli amò i miei segretari come figli e ne era riamato. Dopo cena, salvo i frequenti casi nei quali dovevo uscire per ragioni pastorali o dovevo ricevere gente, si stava qualche tempo tutti insieme e quello era l’unico momento di riposo che ci si concedeva dopo le dure e lunghe giornate di lavoro. Le ombre che facilmente sorgevano dai casi della giornata in quel momento, tra tanta serenità si dissipavano. Credo che sia difficile dire che cosa sia stata questa famiglia la quale comprendeva, allo stesso modo, me, mio padre, i collaboratori, chi stava in cucina, chi guidava la macchina. La carità e la serenità giuliva del mio segretario, unita alla singolare presenza di mio padre, (di Barabino non scrive nulla di particolare) hanno creato uno stile, che anche dopo i vuoti tristissimi dura, come se niente fosse accaduto. – L’altro campo della attività sacerdotale di don Mino era la scuola. La fece per molti anni in una o due sezioni, coll’insegnamento della religione al Doria. Negli ultimi anni la lasciò perché troppo onerosa per la sua salute e dati gli altri impegni; fino alla morte invece tenne la cattedra di Arte in Seminario, per la (facoltà di) Teologia. – Per la scuola al Doria, trascrivo qui, quello che scrive uno dei suoi alunni ben certo che interpreta il pensiero di quanti lo ebbero maestro. “Era amico, grandissimo e vero amico e – ciò che più conta – non solo verso le persone che gli volevano bene, applicando così alla lettera l’insegnamento evangelico. Ascoltava tutti, confortava tutti, incoraggiava tutti a guardare con fiducia il giorno seguente. A fondamento di questa sua grande disponibilità verso gli uomini, c’era la sua Fede piena illimitata, illuminata da un pensiero chiarissimo. Essa lo univa a Dio e gli permetteva di vedere negli uomini null’altro che creature Sue, bisognose di comprensione, desiderose di umanità di dignità di verità. Credeva nei suoi studenti liceali, universitari e di tutti esaltava le doti, gli aspetti positivi, mettendo sempre in secondo piano debolezze, mancanze ed altro”. E ancora: “Durante i giorni, che ho vissuto con lui sulle montagne … imparavo sempre cose nuove; mi rendevo conto che ogni minuto trascorso con don Mino era una lezione a livello della Grazia … Per don Mino, animo finissimo, non esisteva il bello fine a se stesso, ma bellezza, armonia, ordine, sintonia, purezza erano doni di Dio a disposizione degli uomini per loro sollievo ed elevazione”. – Ed ancora un ricordo della montagna cuneese: “Partiti da San Giacomo dal sentiero che si stacca dietro la casa di caccia e conduce ai due “gias Colomb”, di qua salimmo per il lago del “Vei del Buc”. Sotto un temporale con tuoni, fulmini e grandine, arrivammo al lago. Entrammo ad asciugarci in un ricovero di pastori, dove c’era un po’ di fuoco, gli levai gli scarponi inzuppati, lo guardai: era felice, con gli occhi radiosi più del solito. In quel momento, per essere arrivato fin lassù, doveva aver capito che poteva dare ancora molto di se stesso …” – Un antico scolaro di don Mino scrive: “ È stato l’unico insegnante del Liceo, che mi abbia lasciato un’impronta. Le doti, che in classe venivano messe più in luce erano la sua serenità, la sua umiltà e la sua scienza. Non ho mai visto Monsignore perdere anche per un solo istante il suo equilibrio; era fermo nei suoi propositi, ma sapeva anche ascoltare e comprendere noi giovani alunni come se avesse potuto scrutare fino in fondo nel nostro animo … Andava sempre al fondo agli argomenti da trattare, ma ci dava la impressione di aver raggiunto noi le conclusioni che ci porgeva. Ci stupiva la sua capacità di assimilare le questioni più disparate e di porgerci risposte chiare e brevi che non lasciavano ombra di dubbio. Aveva una grande erudizione ed una ancor maggiore capacità di far vivere le cose che ci diceva. Ma forse per una dote si distingueva da tutti gli altri …: era l’unico veramente rispettato ed amato, che con la sua stessa presenza ci imponeva una rigida disciplina. – È stato lui il primo insegnante che mi abbia portato ad amare lo studio ed apprendere con umiltà … Era un vero e proprio maestro, colui che trascina con la propria personalità e che non può essere dimenticato da chi lo abbia conosciuto, perché ci ha dato un esempio concreto di quanto si possa e si debba fare”; conosco molti altri compagni suoi ed alunni suoi, che dicono queste cose. Il segreto della scuola? Credo che fosse la sua anima, abitualmente unita a Dio, spoglia di ogni umano interesse e la luminosità interiore che riusciva a mantenere nonostante la prova del dolore e della debolezza continua. Certo in scuola conta l’ingegno e lui l’ebbe, come poche volte ho trovato nella mia vita; si trattava di una intelligenza apertissima, pacata, sicura, nata per la sintesi. I suoi giudizi in materia di pensiero mi hanno spesso meravigliato per la intuizione e per l’equilibrio. Tuttavia questa intelligenza non era sola. Ho trovato pochi uomini, che avessero una cultura varia ed universale come la sua. Non si esibiva mai, ma sosteneva sempre con personaggi di alta cultura una conversazione degna, ferma, illuminante. Quelli che hanno partecipato alle tavole rotonde, guidate da lui, in materia di arte, di scienza e di pensiero lo sapevano bene. Ma la cosa più grande per lui, quella che gli altri intuivano, era che lui insegnava per amore, quello di Dio. Senza una visione della costante altezza di sacrificio e di intenzione dell’anima sua è impossibile spiegare la sua scuola di religione. E le basi messe da lui, in genere resistono. Tutti vedevano che questo giovane sacerdote non aveva nemici, antipatici, avversari. Non che non ne abbia avuti, ma tutto cadeva e svaniva dinanzi alla serenità virtuosa dell’anima sua. – C’era la scuola di arte in teologia. La fece per lunghi anni. Ne fu il fondatore ed ancor oggi non è stato sostituito. Egli aveva in arte una competenza, una cultura ed un discernimento che lo fecero stimare da quanti professionisti ed artisti ebbero a fare con lui nell’ufficio curiale di arte. Per l’arte aveva una predisposizione marcatissima e congeniale. La sua sensibilità estrema gli faceva cogliere con semplicità e naturalezza quello che a molti sfuggiva. Insegnare il criterio, infondere il gusto, svegliare le recondite affinità col bello che gli alunni portavano in sé, gli era facile e quasi immediato. – A questo punto devo soffermarmi, perché una parte non indifferente del suo studio in materia era sul problema filosofico, connesso con l’arte, sulla estetica, sulla teoria del bello. La sua biblioteca d’arte testimonia fin dove sia andato a scovare opere di penetrazione, di valutazione critica, di teoria generale. Egli non poteva concepire l’arte separata dalla filosofia e vedeva nella carenza di obbiettivi principi filosofici le colpe, anche in buona fede di molti artisti alla moda. Sotto questo aspetto la sua cultura, favorita dal pieno possesso delle lingue estere, fu tale che io non ne ho conosciuto una di pari valore. Ho insistito per molti anni perché raccogliesse tutta la fondamentale teoria dell’arte e del gusto in un volume. La sua modestia lo rese sempre attento a non mettersi in mostra ed oggi ci rimane solo la speranza di poter reperire e sistemare le sue carte in modo da stampare, almeno, le sue lezioni. – Egli spaziava da signore su tutti i campi dell’arte, era sensibilissimo alla musica, aveva una stupefacente memoria musicale: per lui l’arte non era una semplice imitazione od espressione, era una vita che assommava tutto. Credo avesse ragione. Per questo mai in arte apparve come il piccolo grammatico dei termini, delle distinzioni, delle catalogazioni; per questo capì fin dove non diventa pazza tutta l’arte moderna. – Credo che se tutto il clero da vent’anni a questa parte ha un gusto più elaborato, lo si debba alla scuola d’arte del seminario fatta da don Mino. La considerazione dell’arte dà un tocco inconfondibile ed insieme rivelatore alla figura di questo sacerdote, perché in fin dei conti la sua inimitabile finezza, la sua educazione, il suo sorriso nel dolore non sono comprensibili affatto senza la presenza di una Suprema Armonia che gli diede fermezza di Fede ed ardore di carità. Noi tutti avevamo la impressione che il suo piano fosse sempre in alto. – Un campo speciale del sacerdozio di don Mino fu la Delegazione Arcivescovile Universitaria della quale fu il primo esecutore ed il primo Delegato. L’Università di Genova, per quanto in qualche settore permeata dalla presenza e dalla azione di buoni studenti cattolici, non aveva una cura spirituale generale, appropriata e diretta. D’altra parte ne era evidente il bisogno: oggi la evidenza è certamente cresciuta. Non si poteva creare una parrocchia della università, perché la grande dislocazione delle facoltà non permetteva una giurisdizione parrocchiale continua, né un solo sacerdote, anche se a tempo pieno coadiuvato da un cooperatore poteva essere sufficiente ai bisogni di una massa, che s’avvicina ormai ai ventimila. Fu così che decisi di istituire una Delegazione Arcivescovile con tutti i poteri e che potesse servirsi dell’opera di numerosi sacerdoti adatti, anche a tempo non pieno. I membri di questa delegazione per evitare questioni giurisdizionali, furono chiamati semplicemente “addetti alla assistenza spirituale degli universitari”. Altri sacerdoti furono aggregati in qualità di “ausiliari”; altri, per la competenza, in qualità di consulenti. Per cementare questo drappello di studio, sull’esempio dell’altro gruppo interessato ai lavoratori, c’era il convegno settimanale del Giovedì nella Segreteria Arcivescovile. Là si studiava, si pregava, si organizzava. Tutto è duro all’inizio. Il peso lo portò tutto don Mino fino alla vigilia della morte. Il suo pensiero era lì. È ovvio che una istituzione simile fosse ritenuta alquanto rivoluzionaria del quieto vivere di tradizioni antiche e di tale stato d’animo si provassero le conseguenze. I colloqui, gli incontri, le ore di conversazione che occuparono il tempo di questo sacerdote sofferente non si possono dire. Certo la sua resistenza, la sua tenacia e la sua pazienza furono in tutto questo eroiche. A me non disse mai male di nessuno – del resto, di chi mai ha detto male questo uomo? – . Per non turbarmi, specialmente in momenti nei quali la mia salute era dolorosamente provata, prospettò sempre quello che era oggetto di gioia e di speranza, senza tentennamenti. Gli era vicino e conforto il buon padre Alberto Boldorini, Barnabita. Tutto il peso lo teneva per sé. Io vedevo e rispettavo il merito della sua virtù. La Delegazione o DAU diventò il centro motore di talune iniziative culturali. Tra queste mi piace annoverare la iniziativa editoriale “Fonti e studi”, che pubblicò documenti originali e studi severi su aspetti interessanti la Storia Ecclesiastica di Genova. Vi collaboravano anzi dirigevano egregi docenti universitari: l’anima con don Mino era il padre Alberto Boldorini. Queste edizioni ebbero dei singolari consensi in Italia ed all’estero. – C’erano le tavole rotonde. Gli elementi della prima e forse della seconda tavola rotonda erano stati raccolti ed animati da un altro benemerito sacerdote. Ma la cosa si affermò splendidamente quando Mino assunse anche questa non comune fatica. Le tavole rotonde radunavano dei competenti su un argomento (urbanistica, arte, scienza, Fede, etc.); i componenti erano pochi, ma il risultato notevolissimo, tanto che mi parve uno degli strumenti più atti all’apostolato di livello. Il nostro intendimento era di arrivare un giorno a stampare gli elaborati di queste tavole rotonde, delle quali mi auguro la resurrezione. Molte volte finivano oltre la mezzanotte ed io non mi accorgevo neppure del ritorno di don Mino. Pensavamo ad una nostra casa editrice, che potrò realizzare quando troverò uomini competenti, disponibili da altri impegni ed obbedienti al pari di Lui. – Il suo apostolato si dilatava in tutte le direzioni, mentre egli stava sempre nella oscurità ed aumentava il peso dei suoi incontri, delle sue conversazioni. Non posso dimenticare che nei primi anni del mio Governo lo volli direttore dell’Opera Giosuè Signori, detta allora “per deficienti e abbandonate”. In seguito alla sua salute dimostrò che non poteva esercitare una tale direzione a distanza e che non la si poteva far combaciare coi suoi possibili orari. Ne lo dispensai con rimpianto, perché la cura di quelle creature l’avevo tenuta io fino alla mia nomina di Arcivescovo, avendola cominciata – me giovanissimo – nell’autunno del 1929. – Questo sacerdozio era illuminato da una pressoché continua preghiera ed era caldo di una intensa carità. Della sua carità ci ha celato tutto quello che ha potuto celare. Ora nelle narrazioni dei molti che lo piangono andiamo lentamente riscoprendo un aspetto, che prima dovevamo solo intuire e ricostruire da casuali elementi. Vi portava una semplicità ed una finezza commovente. – Il sacerdozio di don Mino ha lasciato un singolare rimpianto. La sua finezza aveva risorse commoventi per tutti. Dico per tutti, perché non fece mai differenza tra quelli che lo trattavano bene e quelli che – forse – lo trattavano male. Mai aggressivo, mai reattivo, mai vendicativo: la sua finezza era per tutti. Una luce interiore lo avvolgeva sempre e lontana da ogni discriminazione. Quanti hanno visto arrivare al momento giusto il piccolo dono, la cartolina, la rapida lettera. Fece tante cose, ma come se una regia liturgica lo sovrastasse; fece tutto in ordine al suo sacerdozio. – E questo fece mai pesare a nessuno. Esistono molti che oggi lo rivedono stupiti, in se stessi, come se fosse passato senza fare rumore.

LA INTELLIGENZA

Tutto in don Mino parve qualificato. Una componente era la sua intelligenza Non credo che questo semplice profilo sarebbe sommariamente completo se non la considerassi a parte. Era una intelligenza che voleva la ragione delle cose. Lo constatai subito quando era studente al Doria. Non si accontentava mai della piccola giustificazione di una verità e di un fatto. È per questo che diede basi granitiche alla sua Fede. Ci arrivò presto. Su tutto indagò e discusse, assetato della verità. Ma sulla verità certa, mai tornò indietro. Quando si iniziò per la Chiesa un periodo triste di discussioni e negazioni sulle cose certe, egli vide tutto, sentì tutti, ma non seguì nessun facile profeta. Chi parlava con lui finiva coll’avere – in quasi tutti i casi – (non in tutti purtroppo) la sua certezza irradiante. Era una intelligenza che conduceva diritto alle supreme giustificazioni. E qui sta la ragione della sua sicurezza. Io in questo periodo oscuro ebbi molte e gravi preoccupazioni per gli errori che si andavano insinuando, ma non ebbi mai bisogno di trattarne con lui; egli era già al mio fianco con una intuizione precisa e concludente. Tutte le questioni, anche le più periferiche, con lui o prima o poi risalivano – e spesso si trattava di un baleno – ai supremi principi. Vedeva immediatamente col colpo del maestro le crepe, le illogicità, le contraddizioni, le dispersioni. E sapeva convincere. – La intelligenza di don Mino non cercava la platea. Non ho mai vista la più piccola ricerca dell’effetto, né la più piccola compiacenza di esso quando, indipendentemente da lui, l’effetto c’era. Infatti la conoscenza di lui si diffondeva tranquilla, senza colpi e reazioni. Ho conosciuto pochi che avessero come lui chiara la situazione della cultura moderna, nella cui storia, specialmente se si trattava di arte, egli leggeva sempre la vicenda dei supremi principi. Leggeva moltissimo, ricordava, assimilava ed incasellava subito tutto il puro materiale nozionale. Per questo la conversazione con lui, oltreché piacevole, era sempre illuminante. – Aveva il gusto della letteratura finissimo, era un purista della lingua e dello stile. La ridondanza di questa intelligenza la sentivano sempre e la accoglievano quelli che avevano dimestichezza con lui o con lui vivevano, i suoi scolari soprattutto. Con tutto questo niente c’era in lui dell’intellettualoide (tipo oggi di estrema facilità), il senso pratico non gli fu mai offuscato. Teneva la amministrazione della casa e questo con perfetta accortezza, immediatezza e tatto; nei viaggi io potevo occuparmi di nulla ed attendere solamente allo scopo del viaggio stesso, perché tutto si moveva colla esattezza di un orologio per la organizzazione fatta da lui. – Aveva capacità anche nel disegno e nella pittura. Vi si esercitò in anni lontani e non ignobilmente. Poi non ne fece più nulla; non disse il perché, ma credo che ciò sia accaduto per un suo giudizio di inutilità in ordine al suo ministero sacerdotale. Aveva altro da fare. – Spaziava nei grandi problemi della Chiesa; erano gli unici che potessero interessare. Dalla grandezza di questi problemi e dal modo con cui li impostava si capiva l’altezza del suo ingegno. Spesso, quasi sempre, è l’oggetto trattato dall’intelletto che dà la vera misura del vero intelletto. Mi riesce difficile dire che cosa abbia rappresentato per me, in tempi di vero travaglio, la vicinanza di questa autentica intelligenza. Non gli sfuggivano i dettagli anzi aveva l’occhio di lince per vederli; ma prevaleva l’“insieme”. Per forza della intelligenza, da parte di tutti, il contatto con lui era sempre elevato. Egli era l’autentico “signore” per la sua intelligenza.

LA MONTAGNA

Ne parlo perché era lo specchio dell’anima sua. Ho già ricordato che da ragazzo decenne, ospite dello zio paterno a Cortina d’Ampezzo, ebbe il coraggio di girarsi ripetutamente tutte le alpi ampezzane. Solo. La forza, la linea, la maestà della montagna lo attraevano e lo esaltavano. A poco a poco questo diventò sempre più marcatamente un fatto spirituale. Lo si capiva dal fatto che egli in montagna non aveva alcun bisogno di compagnia. Non che la sopportasse; anzi era un compagno amabilissimo, ma cogli altri in realtà continuava il suo dialogo della montagna. Esultava per la purezza dell’aria, per l’irrompere della natura senza conduzione umana, per il vero silenzio, il più ricco in realtà di arcane melodie. Sono convinto che, specialmente negli ultimi anni, il suo appassionato errare per la montagna fosse fatto di contemplazione e di orazione. Non si trattava di una commozione naturalistica; egli trovava la più pura impronta materiale di Dio. La montagna aveva un potere magico su di lui; svanivano per incanto tutti i limiti impostigli dal suo travagliato sistema nervoso. Per questo lo incitavo ad andare anche quando noi si stava a Genova. Gli orizzonti, i colori, le trasparenze lo mandavano in visibilio e gli facevano dimenticare ogni malanno. Filosoficamente egli era ben certo che “ens et pulchrum convertuntur”. La bellezza della natura non cessava mai di agire su di lui, ma si trattava sempre di un influsso religioso. Se amava la fotografia, questo era certo per fissare volti cari di parenti e di amici, ma era soprattutto per fissare la epopea della montagna. Non aveva importanza per lui che fosse irritata, che fosse percossa dai tuoni e dai lampi: era la montagna e basta. Negli anni in cui si fecero le vacanze nel cuneese, la sua attrattiva era Entraque e di lì la valle di San Giacomo, che lo portava fino ad oltre il padiglione reale di caccia, perché quella valle aveva il Gelas e il Clapier, i soli monti delle Alpi Marittime che conservino veri perenni e consistenti ghiacciai. Ne conosceva i sentieri, i pastori, gli abitanti. Penso che lassù qualcuno lo ricorderà a lungo. Si preoccupava della cioccolata da portare agli amici pastori e credo che se non fosse stato per lasciare noi, lui si sarebbe adattato a viversene lassù, nelle baite. Del resto in quegli intervalli, in cui lui tornava e noi eravamo a Genova, era sempre lassù. – Dopo il primo periodo delle sue sofferenze, fu la Svizzera a dargli una relativa stabilità di salute. La amava ed amava soprattutto i monti. Se poteva raggiungeva i monti sopra Lauterbrunnen – le due meravigliose quinte davanti alle alpi bernesi – per godere della Jungfrau e di tutto il grande ammanto di ghiaccio. Conosceva tutto e finché anch’io per ragioni di quiete ho passato le mie povere vacanze in Svizzera, era lui ad organizzare una meravigliosa varietà con conoscenze perennemente nuove ed entusiasmanti. Io mi occupavo piuttosto di imparare le situazioni e le risorse dei contadini svizzeri, nella vaga e mai soddisfatta speranza di trapiantare qualcosa in Italia: lui vedeva i laghi, i fiumi, i monti. Ricordo una escursione per vedere il gruppo del Silvretta davanti a Davos, coll’attraversamento piuttosto periglioso date le misere condizioni della strada, dell’orrido di Berentritt. Le ultime sue uscite verso la montagna furono ancora una volta nella valle di San Giacomo verso il Gelas e il Clapier. Era felice perché suo cognato e sua sorella nell’assicurarsi un alloggio ad Entraque, avevano pensato a lui riservandogli una stanza. In tal modo egli senza uscire dal caldo ambiente familiare avrebbe potuto facilmente ritirarsi lassù di quando in quando. Purtroppo ne usufruì, come vedremo, una volta solo.

LA MORTE

Don Mino l’attendeva con una certa sollecitudine. Eppure era tranquillo. Me lo aveva detto due anni prima che lui sarebbe morto giovane. Era ormai arrivato al suo meriggio, sofferente e sereno. Io avevo la impressione che tutte le cose di questo mondo, dolori compresi, si fossero ormai distesi in una grande pace. La sua finezza educatissima per noi era commovente. – Lui aveva la cura di amministrare la casa Arcivescovile e questo ufficio comportava i contatti e la cura spirituale delle buone suore, che attendono alla Casa stessa. Vi era assiduo, impegnato; vi portava una gran luce. Quella luminosità serena mi impressionava. Lo trovavo facilmente nella Cappella del Righi, curvo e raccolto in quell’atteggiamento di abbandono che gli era caratteristico. Ora che ho la prospettiva del “poi” capisco che la Provvidenza se lo stava preparando. – Nel Gennaio del 1969 fu colpito dalla influenza. Non c’era alcunché di strano, perché egli era abbonato a tutti i fastidi, che le stagioni portavano con sé. Fece ricaduta e questa fu più lunga del solito. Il Dott. Boggero, suo cognato e suo medico curante, per garantirgli una reale e duratura guarigione pensò di ricorrere alle iniezioni di vaccino. Durarono parecchi mesi, anche dopo la salute recuperata, sotto questo aspetto, pienamente. La vita fluì in modo ordinario. Quando il 3 Giugno di quell’anno egli celebrò il suo giubileo sacerdotale d’argento, stava abbastanza bene rispetto agli anni precedenti. Tutto si chiuse colla celebrazione vespertina nella Cappella del Palazzo Arcivescovile. Erano presenti i suoi amati genitori, la famiglia della sorella coi nipoti; c’eravamo tutti noi. Fu una festa semplice, indimenticabile. Non mancava un gruppo di antichi suoi compagni ed amici. Subito dopo ci trasferimmo alla casa Arcivescovile del Righi. Lui non avrebbe fatto più ritorno al Palazzo Arcivescovile! Le vacanze passarono in modo normale. Don Mino poté ritornare a Peveragno a godersi qualche giorno la montagna. Si arrivò ai Santi. Egli accompagnò la sorella alcuni giorni a riposarsi nella casa di Entraque e subito dopo riprese la vita ordinaria. Si occupava fortemente della organizzazione di quanto gli era affidato. Ma fu questione di pochi giorni: l’influenza lo aggredì nuovamente. Stette alcuni giorni a letto, sempre amorosamente curato dal cognato dottore. Dopo pochi giorni era sfebbrato e tutto parve ritornato alla normalità. Egli riprese la sua consuetudine di portarsi di buon mattino dal Righi sulle alture di Genova, per godere dell’aria pura e fresca: era il fascino della montagna, che aveva sempre un benefico influsso anche sul suo usurato sistema nervoso. Penso che queste uscite mattutine, a lui sì care, abbiano provocato la ricaduta. Si era infatti a metà novembre e cominciava a far freddo. – Alla metà di novembre si rimise a letto e questa volta la febbre venne alta e violenta. Suo cognato lo curava amorevolmente. Eravamo ancora alla villa Arcivescovile del Righi dove egli occupava il piano a tetto. Ci stava lui solo, se lo era arredato e disposto lui, là stava la sua non comune biblioteca. Dalla finestra più che la città vedeva il mare, l’infinito. Noi salivamo lassù solo quando era malato. Era sempre tranquillo, sempre sorridente, grato di qualsivoglia attenzione. Questa volta il male era più serio. Il giovedì 20 Novembre il Dott. Boggero chiese il consulto col Prof. Meneghini. Lo chiamai io stesso al telefono, perché la influenza imperversava in tutta la casa ed io solo ero stato immune dalla influenza. Venne subito; era sera. Il consulto confermava la grande preoccupazione. Quella sera don Mino cominciò ad essere davanti alla morte. Era calmo. Soffriva molto per l’affanno, che facilmente lo coglieva, se qualche poco si sollevava sul letto o scendeva, dopo poco aveva sintomi di collasso. Venne la Suora per l’assistenza anche notturna. Parlava sereno e tranquillo con tutti e sorrideva a tutti. Si capiva che la sua occupazione abituale era la preghiera. In quella malattia breve abbiamo vista veramente l’anima di Mino. La sua finezza, la sua educazione, il suo perfetto equilibrio, la sua pace davanti ad un pericolo che, colla sua intelligenza prontissima, doveva certo capire più di noi. Il preoccuparsi degli altri, il ringraziare per tutto quello in cui lo si aiutava, il suo ragionar tranquillo e sereno dimostrava che da molti anni egli era unito a Dio. Non aveva mai detto male di nessuno, non aveva partecipato a nessuna passione faziosa, aveva coperto il difetto altrui anche quando questo lo faceva terribilmente soffrire. Se l’argomento portava a parlare di aspetti spiacevoli, questi si fondevano sempre in una carità senza limite, mai ostentata e mai pesante. In questi ultimi giorni abbiamo capito il riassunto della sua vita. – Aveva vissuto di Fede, continuamente, mai aveva cercato di apparire, lui, al quale erano tormento per lo stato dei nervi il più piccolo sgarbo, mai se ne era commosso. Si stava accendendo, anche per noi una luce retrospettiva, fatta di cose che una umiltà non comune aveva sempre accuratamente nascosto. È difficile dire quanto amasse suo Padre e sua Madre, la famiglia della sua cara sorella, ma, per non disturbarli e impressionarli ebbe l’eroismo di non chiederne la presenza. Io ero cieco e non pensavo che potesse morire. Lui vedeva. Si arrivò così alla mattina del 24 Novembre. Era un lunedì. Quella mattina salii a salutarlo ancora, prima di andare in Curia: l’affanno era fortissimo (mai lo avevo trovato così) e doveva parlarmi a tratti, sempre calmo e sereno. Quella mattina il Prof. Meneghini chiese la consulenza del Prof. Fieschi. È difficile dire come e con quale affetto questi medici illustri lottarono contro il male. Si trattava di polmonite doppia virale. Fu deciso l’immediato ricovero in clinica. Il Prof. Fieschi chiese in quale clinica volesse andare; egli rispose: “In quella che è più comoda a Lei”. Venne così ricoverato alla clinica di Montallegro. Io ero in arcivescovado per le solite udienze e venni avvertito. Fu un colpo. Subito nel pomeriggio andai a Montallegro, lo trovai sotto la tenda ad ossigeno, più sollevato di quella mattina. Mi chiese: “Ma che cosa dicono che ho, i medici?” Io fui interdetto e risposi con una pia scusa. Capì subito: per un attimo seguì e lesse il mio pensiero, poi evidentemente per non contrariarmi chiese più nulla e continuò a parlare per quanto poteva tranquillamente sorridendo. So che al Padre Cappellano della clinica disse poco dopo: “Non mi lascerete morire senza Sacramenti”. Ci avevo pensato subito ed avevo pregato il Padre Damaso da Celle di amministrargli i Santi Sacramenti. Andò, lo avvertì ed egli non si mostrò affatto sorpreso. Con tranquillità e serenità, con intima devozione ricevette i Santi Sacramenti. Io non riuscivo a persuadermi che il pericolo era veramente mortale, ciò nonostante volli fosse subito provveduto. Ritornai in clinica. C’era allarme tra i medici e venne richiesto il polmone artificiale per permettere al paziente di poter respirare senza troppa fatica. Non so come abbia fatto, ma, Padre Damaso riuscì a far arrivare il polmone artificiale dalla Clinica universitaria. Naturalmente si dovette procedere alla intubazione e da quel momento non passando più l’aria espirata per la gola, il paziente non poté più parlare. Le labbra e la lingua articolavano tutto ma la fonazione, mancando l’aria, non avveniva. Egli continuò a parlare così e a sorridere, sempre perfettamente presente a se stesso; per noi era uno strazio. Ogni mattina si facevano le radiografie. Esse rivelavano che l’area di respirazione dei polmoni si andava progressivamente restringendo per la spaventosa infiltrazione del virus violentissimo. Avrei dovuto capire che moriva, ma io non lo volli capire e continuavo a sperare. Lui sorrideva sempre. Al mattino del mercoledì 26 i medici decisero, per un tentativo disperato, di procedere alla tracheotomia. La lotta era tra il ciclo del virus e le risorse vitali. Se il ciclo del virus si fosse esaurito prima delle risorse vitali, sarebbe stato salvo. Io per questo continuavo fortemente a sperare. Ma, come mi fu spiegato dopo, don Mino non aveva risorse immunitarie sufficienti: ci fosse stato almeno un po’ di essudato polmonare si sarebbe potuto fare la cultura del virus e la vaccinazione (l’unica arma contro quel virus); ma essudato non c’era o non ci fu in tempo utile. Lo rividi dunque col respiratore direttamente applicato alla gola tagliata. Mi parlò a segni delle labbra, che io, stravolto come ero, non potevo capire; ma sorrideva e questo era nella piena coscienza e lucidità, testimone della pace e uniformità alla volontà di Dio, colle quali egli andava incontro alla morte. Gli amici più stretti, il cognato medico, si avvicendavano intorno a Lui, il Padre Damaso, il Padre Boldorini. Nella notte ebbe una agitazione nervosa effetto evidente della asfissia galoppante. Gli fu fatta una iniezione. Si assopì, non rinvenne più e cessò colla coscienza il sorriso. – Al mattino del giovedì 27 fu fatta l’ultima radiografia ed i polmoni apparvero completamente presi. Mi venne immediatamente riferito, ma io impenitentemente continuai a sperare. Fu verso mezzogiorno che mi venne data la terribile notizia. Mino era spirato senza riprendere conoscenza alle dodici meno dieci. Era presente il suo devoto cognato Dott. Boggero e proprio in quel momento sopraggiungeva Padre Boldorini. Diedi ordine che la cara salma venisse immediatamente trasportata e composta nel salone dell’Arcivescovado. Fu così che rividi don Mino morto, rivestito dei sacri paramenti e della casula nel salone poco dopo. Sorrideva ancora. Il concorso del Clero, dei molti scolari, condiscepoli ed amici, per visitare la salma fu imponente e si può veramente dire segnato dal pianto. Arrivarono i suoi genitori. Fu uno strazio: essi erano stati fidenti fino all’ultimo momento. Tutti capivano che avevamo perduto un uomo per nulla comune. I funerali li celebrai io nella Chiesa Metropolitana. Con me concelebrarono i sacerdoti membri della famiglia arcivescovile: Mons. Luigi Cuneo, don Alfredo Capurro Cerimoniere, don Giacomo Barabino segretario. Non invitate, spontaneamente vennero le Autorità. Noi non avevamo fatto l’invito per discrezione. La folla fu grande, la commozione intensa. Io non ebbi la forza di parlare ed il silenzio fu assai più eloquente. I Genitori di Lui, la sorella colla famiglia furono oggetto di una attenzione commossa e affettuosa. Chiesi al Padre di poterlo seppellire nel cimitero di Molare, vicino ai suoi nonni. Del resto Lui, in vita aveva fatto chiaramente capire che desiderava là il luogo del suo riposo. Là aveva trascorse tutte le sue vacanze giovanili, là aveva i ricordi più cari, là avevano vissuto e lavorato i suoi nonni, gli antenati; là restavano parenti. Così il vecchio paese lo riabbracciò e lo tenne con sé. Nella attesa di una sistemazione più acconcia e da Lui sognata, la salma riposa ora in loculo che guarda verso mezzogiorno, verso il sole. Sulla lapide è scritto solo così: Mons. Bartolomeo Pesce. Per XXIII anni segretario dell’Arcivescovado di Genova. 1921 – 1969. – Tutti noi abbiamo la impressione che ci segua dovunque e che ci protegga dal Cielo. Ci volgiamo indietro a guardarlo nel suo insieme. – Era alto di statura, slanciato, la pelle bianca, di capelli neri. I suoi occhi di colore castano avevano una straordinaria capacità di rivelare i sentimenti dell’anima e, per questo, i rapporti di tutti con Lui erano facili, immediati e tendevano a diventare profondi. Guidò nello spirito anime giovanili e tutti i suoi antichi discepoli del Doria portano e porteranno con sé la impronta di una profondità, onestà e serietà cristiane, quale da lui ebbero. I suoi condiscepoli lo riguardarono come un maestro ed era per loro un punto di incontro come se non fossero passati gli anni. I confratelli lo sentirono passare accanto a loro umile, sincero, sempre pronto a tenersi in disparte e ad essere amico servizievole. Nessuno mai si accorse esternamente che era il Segretario del Cardinale Arcivescovo di Genova. Stava alle mie spalle e vi si nascondeva. Mai pesò su nessuno. – Portava con sé la sua pena procuratagli costantemente dal suo sistema neuro vegetativo. Questa pena la nascondeva quanto poteva e per gli altri serbava in qualunque momento la giovialità che ha consolato molti. Quando tutti noi (notare il “tutti noi”) si aveva qualche rompicapo si andava da Lui. Allora si raccoglieva, pensava qualche secondo, poi rispondeva, risolveva, incoraggiava, infondeva la gioia. La sua virtù, il suo spirito di orazione che fu in un certo senso continuamente in atto, non erano affatto comuni. Non disse male di alcuno, cercò di capire tutti, fece quanto poté per risparmiare dolori agli altri, o per dirottarne il duro colpo. Ho sentito il dovere di scrivere queste poche pagine, perché molti le hanno invocate e perché molti hanno ancora bisogno di Lui! Rimane un esempio.

 

Omeopatia e Chiesa Cattolica (vera)!

La diversità di opinioni tra i cultori dell’Omeopatia ed i suoi detrattori fin dall’inizio della diffusione del metodo omeopatico, era rimasta confinata sul piano della clinica medica, della ricerca sperimentale, dei risultati terapeutici, delle possibili teorie che possono spiegare i meccanismi di azione, [dall’effetto inverso di Arndt-Schultz, cardine della farmacologia classica, ai salti quantici con emissioni frequenziali, all’informazione dell’acqua, dalla struttura molecolare dell’acqua del Prof. Del Giudice, alla emissione coerente di biofotoni sec F. A. Popp, agli studi dei fisici sovietici, etc. etc.], e le diatribe restavano comunque nell’ambito squisitamente scientifico e delle conoscenze di chimica, fisica, fisiologia medica, farmacologia. Negli ultimi anni, però, una serie di “piccoli scienziati” improvvisati ed infervorati da uno zelo esorcistico antiesoterico di stampo modernista pseudo cattolico [decisamente settario, come l’attuale apostatica falsa “chiesa dell’uomo” postconciliare Vat. II], si è scalmanata nel voler vedere la pagliuzza nell’occhio dell’avversario [non avvedendosi delle travi nei propri], accusando cioè l’omeopatia ed i professionisti che in tutto il mondo la praticano, di costituire una magia moderna l’una, e dei rozzi operatori dell’occulto gli altri, solo perché non ne comprendono principi, metodologia clinica, ed ignorano completamente le ricerche effettuate da professionisti e società mediche di serietà conclamata, in questo essendo sostenuti dai “nemici di Dio e di tutti gli uomini”, che quando scorgono qualcosa che possa aiutare l’umanità sofferente, si scagliano contro di essa con inaudita violenza. Questi nuovi “asini” moderni [senza offesa per gli asini!], non sapendo a cosa appigliarsi per denigrare un metodo terapeutico dai risultati innegabili, forse il primo in assoluto che si sia dato un assetto scientifico con i cosiddetti “proving”, cioè con il testare i possibili rimedi su soggetti sani, riportandone minuziosamente e scrupolosamente [in certi casi anche maniacali] i risultati, hanno iniziato a dire che i rimedi vengono preparati con metodiche nientemeno che … “esoteriche”, con interventi magici, e direttamente ispirati dal demonio in persona, che poi favorirebbe i risultati evidenti che si ottengono [un po’ come dire che l’aspirina ottiene dei risultati perché preparata con la polvere delle ossa dei morti!]. In questo sono appoggiati da fantasmagorici personaggi di pretesa appartenenza al corpo ecclesiastico cattolico, quasi (togliamo il quasi… ) sempre “falsi” preti mai tonsurati e quindi mai validamente consacrati, o vescovi apostati [gli eletti manichei del rito blasfemo montiniano], ed al servizio del “signore dell’universo”, cioè il lucifero-baphomet adorato nelle logge massoniche ed oggi purtroppo anche nei riti quotidiani, di sapore rosacrociano, che hanno soppiantato la santa Messa cattolica di sempre. Ora con questi personaggi, che definire “ignoranti” sarebbe per essi un onore ed un elogio eccessivo, non vogliamo parlare di cose scientifiche, visto che il loro livello è presso a poco quello della scuola dell’infanzia (senza offesa per i bambini … ), ma a causa dei tanti poveri pazienti sedicenti cattolici, ingannati e spaventati dalle terroristiche pubblicazioni che mettono in guardia dal rivolgersi all’omeopatia in quanto pratica magico-esoterica, vogliamo per loro tranquillità ricordare quanto la Santa Madre Chiesa Cattolica, per mezzo dei Santi Padri che, lo ricordiamo solo per inciso a chi eventualmente lo avesse dimenticato o facesse solo finta, è, quale successore di S. Pietro, il dolce Cristo in terra, assistito in materia di fede e di costume dallo Spirito Santo, sono l’espressione più alta della “verità” che la Chiesa stessa ha il compito di propagare infallibilmente vigilando sulle falsità, eresie, e tutto quanto possa danneggiare la vita spirituale e materiale dei fedeli cristiani. La Chiesa, corpo di Cristo [parliamo di quella “vera” ovviamente, non del baraccone da Cinecittà post-conciliabolo Vat. II della setta modernista del Novus Ordo], non può ingannare i suoi fedeli discostandosi anche di un solo millimetro dal deposito della fede insegnata da Gesù Cristo, deposito tramandato nei secoli dagli Apostoli e dai loro successori, conservato gelosamente da tutti i “veri” Papi succedutisi fino a Gregorio XVIII, felicemente regnante anche se costretto all’esilio. Osserviamo allora quale è stato l’atteggiamento dei Papi del XVIII e XIX secolo nei confronti dell’omeopatia, da Gregorio XVI a Pio XII, quelli che hanno potuto esercitare liberamente la loro funzione di Papa, prima dell’eclissi iniziata con Gregorio XVII cardinal Siri, e provvidenzialmente annunciata dalla Santa Vergine Maria nell’apparizione approvata di La Salette. Ci aiutiamo qui riportando stralci di un lavoro storico approfondito del dr. Fernando Piterà di Genova [“Breve storia dello sviluppo dell’Omeopatia in Italia”], la cui serietà professionale e la valenza indiscussa nel campo medico clinico, è tale da far arretrare sul nascere effimere contestazioni da parte di improvvisati “dilettanti allo sbaraglio”, anche se direttori di cattedre universitarie o funzionari di organizzazioni sanitarie e parasanitarie.

RAPPORTI DELL’OMEOPATIA CON LA CHIESA CATTOLICA

Sin dalla prima comparsa in Italia l’Omeopatia incontrò il favore dei movimenti cattolici e del Vaticano. La posizione del Vaticano nei confronti dell’Omeopatia era ben nota anche in Francia. Nel Giornale Omeopatico del 1875 edito a Nîmes, comparve un articolo dei Fratelli Peladan i quali scrivevano: « La Chiesa Romana lascia piena libertà alla scienza, è scritto, finché questa rimane nel campo che le è proprio. Ciò è talmente vero che mai nessuna opinione medica fu oggetto della minima censura. D’altra parte i Papi non hanno mai mostrato quell’odiosa intolleranza che l’aggruppamento degli scienziati sapienti ostinati nella loro routine hanno ostentato uno dopo l’altro contro i medicamenti eroici, contro le riforme farmaceutiche, contro le nuove scoperte, le proprietà dell’Antimonio e quelle della China, le preparazioni spagiriche, la teoria della circolazione del sangue e infine contro l’Omeopatia, la più importante delle novità mediche. Mentre molte Università e molti governi, essendo influenzati dai rappresentanti degli studi ufficiali, rifiutavano l’Omeopatia senza averne nemmeno studiato il nome e impedivano ai successori di Hahnemann di dispensare dei rimedi direttamente e liberamente – condizione indispensabile al successo in ogni località in cui non esiste una Farmacia Omeopatica specializzata, – la Corte di Roma procedeva con grande larghezza di vedute nei confronti del nuovo metodo di guarigione. Tutti quelli che considerano l’Omeopatia come una verità in medicina devono testimoniare a Pio IX tutta la gratitudine che la nostra scuola gli deve per i favori eccezionali che le ha concessi. » – Fu nel 1827 che l’Omeopatia fu introdotta a Roma dal Dottor Kinzel, un austriaco. Il metodo hahnemanniano ottenne in quella città un trionfo completo sugli avversari, cioè i partigiani della vecchia scuola allopatica. Il loro decano, il Dottor Luppi, era riuscito a convincere il Papa che era necessario proibire agli Omeopati la libera distribuzione dei rimedi a Wahle, nativo di Leipzig, omeopata, i cui numerosi e brillanti successi hanno dato alla nuova medicina un’immensa popolarità, fece invano valere i suoi privilegi di straniero e l’influenza di uno dei suoi protettori, il Barone Liedderkerke, Ambasciatore olandese. Ma, nel 1841, sebbene non possedeva nessun titolo accademico regolare, questo Medico ottenne l’autorizzazione di praticare l’Omeopatia negli Stati Pontifici da Sua Santità essendo questi, dopo essersi fatto fare un resoconto del modo in cui gli Hahnemanniani preparano le loro medicine, stato sollecitato da qualche nobile famiglia romana. [quindi il Santo Padre era a corrente per conoscenza diretta del metodo di preparazione dei rimedi – ndr.-]. Da allora Wahle vide crescere notevolmente la cerchia della sua clientela, e il convento dei Gesuiti l’adottò come Medico, concedendogli onorari doppi rispetto a quelli assegnati ai suoi predecessori allopati. Egli, in seguito alle sue energiche proteste contro il divieto di distribuire rimedi e grazie alla protezione di prelati eminenti, riuscì a rendere nulle le severe ordinanze pubblicate in proposito dalla municipalità di Roma e Bologna. Infine, nel 1842, Sua Santità, meglio istruito sul modo di preparazione dei rimedi Omeopatici, revocò in favore dei Medici Omeopatici il divieto di distribuire medicine ai malati [Sua Santità prima di decidersi in tal senso aveva perciò adottato una linea di somma prudenza imponendosi una conoscenza diretta del metodo – ndr. -]. – Per di più, nel 1852, una bolla di Pio IX sanciva, come anche il suo predecessore, il diritto agli ecclesiastici di distribuire delle medicine Omeopatiche in caso di urgenza o in assenza degli uomini dell’Arte. Tale permesso era esteso alle regioni senza medici. Il Dottor Charge di Marsiglia, in seguito agli importanti servizi resi in ospizio religioso durante l’epidemia di colera nel 1849, ha ricevuto dal Santo Padre un’onorificenza del tutto particolare: la Croce di Cavaliere di San Gregorio Magno. Inoltre, il nostro governo, che non ha potuto disconoscere la devozione di questo Medico intrepido, gli ha assegnato la Croce della Legione d’Onore e lo ha innalzato, in seguito, al grado di Commendatore dello stesso ordine. Credo che il Dottor Charge sia il primo Omeopata, per lo meno in Francia, che abbia ricevuto una decorazione pontificia. »

I PONTEFICI E L’OMEOPATIA: PAPA GREGORIO XVI DIFENSORE DELL’OMEOPATIA

Se i Pontefici Leone XII e Pio VIII si erano manifestati sempre favorevoli all’Omeopatia, fu il Papa Gregorio XVI (1831-1846) che si distinse più degli altri a difesa del metodo omeopatico, come si può rilevare dal seguente documento (simile a quello francese precedente -ndr.-): « Il metodo omeopatico ha ottenuto a Roma un trionfo completo sugli avversari partigiani dell’antica scuola. Il decano di questi, Dott. Lupi, era riuscito a persuadere il Papa Gregorio XVI che bisognava interdire agli Omeopatici la libera distribuzione dei rimedi. Il Dott. Wahle, brillante medico omeopatico, i cui numerosi e brillanti successi terapeutici hanno guadagnato all’Omeopatia la popolarità attuale, mise al servizio della causa i suoi privilegi di straniero, e l’influenza di uno dei suoi protettori: l’ambasciatore olandese, il barone di Liederkerke. Il Papa però, meglio informato del metodo di preparazione dei rimedi Omeopatici [vieve ribadito anche in questo caso che il Papa aveva personalmente acquisito informazioni – ndr. -], e sollecitato da qualche nobile famiglia romana, rese a Wahle il diritto di distribuzione. Da allora il nostro compatriota ha visto estendersi considerevolmente il cerchio della sua clientela, e il Convento dei Gesuiti al Gesù l’ha nominato Medico dell’Istituto, accordandogli onorari doppi di quelli già dati al suo predecessore allopatico. » [Estratto del Deutschen Allgemeine Zeitung, n. 827, del 22 Novembre 1844.]. – È dunque Papa Gregorio XVI che autorizza, nel 1841, il Dottor Wahle all’esercizio dell’Omeopatia, sebbene egli non possedesse alcun regolare titolo accademico conferitogli dalle Università Pontificie. Con quel riconoscimento ufficiale di Wahle l’Omeopatia si afferma sempre più, ma il decano dei medici allopatici, il Dottor Lupi, riesce a persuadere Gregorio XVI ad interdire agli Omeopatici la libera distribuzione dei loro medicinali. Dietro questa sordida manovra era evidente non soltanto l’ostilità della scuola allopatica ma anche il palese interesse dei farmacisti. Il Dottor Wahle, nativo di Lipsia, cerca allora di difendere come meglio può l’omeopatia e gli interessi dei colleghi, facendo valere i suoi privilegi di straniero e l’influenza di uno dei suoi protettori, l’Ambasciatore olandese Barone di Liederkerke, nonché quella di numerosi patrizi romani suoi pazienti. Il Papa Gregorio XVI allora si informa più dettagliatamente sul metodo di preparazione dei rimedi Omeopatici ed infine rende giustizia al Dott. Wahle concedendo a lui ed ai suoi colleghi il diritto di distribuire gratuitamente i rimedi Omeopatici ai loro pazienti, rendendo così nulle le vessatorie ordinanze delle Municipalità di Bologna e di Roma che invece lo proibivano. Wahle, inoltre, viene nominato Medico del Convento dei Gesuiti ed ottiene un salario doppio a quello già accordato al suo predecessore. In seguito Papa Gregorio XVI concede la Gran Croce di Cavaliere al Dottor Centamori, intimo amico di Hahnemann, che dedicò tutta la sua vita alla diffusione dell’Omeopatia nello Stato Pontificio. E fa ancora un gesto che certo dovette allarmare notevolmente gli allopatici: con una Bolla accorda agli ecclesiastici l’autorizzazione di somministrare rimedi Omeopatici in casi urgenti in assenza del Medico, e in tutte le località che sono sprovviste di Medici Omeopatici.

PIO IX LA CATTEDRA DI FILOSOFIA DELLA NATURA

Gregorio XVI non fu l’unico Papa a manifestare interesse per l’Omeopatia. Il suo successore, Pio IX (1846-1878) nomina nel Marzo del 1848, per interessamento del Cardinale Orioli, del Gioberti, del Ventura e del Rosmini, il Prof. Ettore Mengozzi, Medico Omeopatico, alla Cattedra di Filosofia della Natura nell’Università di Roma. Nel 1869 lo stesso Papa affida al Prof. Ladelci la Cattedra di Botanica nell’Università Pontificia di Macerata. – Papa Pio IX insignì di decorazioni e riconoscimenti Medici Omeopatici italiani e stranieri e qui ricordiamo: la Croce di San Gregorio Magno, conferita, nel 1849, al Dottor Charge di Marsiglia per i servizi resi durante l’epidemia di colera in un ospizio religioso; l’Ordine di San Silvestro conferito, nel 1855, al Conte De Guidi in riconoscimento dei suoi meriti di Medico Omeopatico; un breve Apostolico Speciale inviato nel 1847 al Dottor Perrussel, Medico Omeopatico a Parigi; nel 1862 il Dottor Ozanam di Parigi viene insignito dell’Ordine di San Gregorio e, sempre nello stesso anno, un altro Medico Omeopatico di Parigi, il Dottor Tessier, viene nominato Commendatore dell’Ordine di San Gregorio Magno. – « Il 10 Marzo 1848 venne presentata a Papa Mastai dal Cardinale Orioli, a nome dei Professori dell’Università di Roma, mentre già il sommo Gioberti, il Chiarissimo Ventura, l’Illustre Rosmini al medesimo verbalmente avevano fatta la identica commendatizia, la petizione per la nomina del Prof. Ettore Mengozzi, Medico Omeopatico, alla cattedra di Filosofia della Natura nell’Università di Roma. » – « Per la testimonianza dello stesso Cardinale Orioli, il Papa mentre scorreva con l’occhio la Petizione esclamò: “Oh! Il Prof. Mengozzi è già creato Maestro della Romana Università. Non vede, Eminenza, che sono sette i Maestri che lo desiderano?” – E soggiunse: “Dica al nostro Ministro di Pubblica Istruzione Cardinale Vizzardelli che lo munisca della nostra nomina!”. » La Petizione e la Nomina in originale si trovano presso il Notaro Camerale di Roma, Giacomo Gaggiotti; la prima registrata l’anno 1848, Atti Pubblici; la seconda registrata l’anno prima della Repubblica Romana 1849, Atti Privati. – Felice Argenti, Segretario e Cancelliere delle R.C. Apostolica. »

[Una deliberazione del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione sul Libero Insegnamento della Medicina Omeopatica. Memoria del Prof. MENGOZZI, Roma, 1879, Tipografia Altero e C.].

PAPA LEONE XIII GUARITO DALL’OMEOPATIA

Anche Leone XIII (1878-1903), successore di Papa Mastai, fu nettamente a favore dell’Omeopatia e si fece curare dal Dottor Francesco Talianini, che esercitava ad Ascoli, come risulta dalla Rivista Omiopatica, (Anno XXXVIII, n. 3, 1892, pag. 99): “S.S. Papa Leone XIII che investito di lenta affezione tracheale con grave pericolo di vita allorché nell’Accademia Ecclesiastica in Roma addestravasi nelle prove per la futura grandezza, ebbe meravigliosamente ristorata e rinnovata e può ben dirsi la salute. Si che fu indubbiamente merito dell’Omeopatia e del Dott. Talianini se il sapientissimo Pontefice gode di una bene auspicata e provvidenziale longevità.”. – Il Dottor Francesco Talianini nacque a Trevi in Umbria il 21 Maggio 1776 e morì il 13 Ottobre 1857. Si laureò nell’Università della Sapienza di Roma e divenne Assistente nell’Ospedale di San Gallicano. Fu Medico condotto a Trevi, San Severino, Tolentino, Cingoli, Gubbio, Foligno e Ascoli dove fu nominato Membro della Commissione di Sanità. È concordemente ritenuto come uno dei primi Medici Omeopatici italiani. Conobbe l’Omeopatia studiando la Materia Medica Pura sulla traduzione di Romani e la traduzione dell’Organon del Dottor Bernardo Quaranta. Nel 1826 si recò a Napoli dove incontrò il Necker, Romani, De Horatiis e Mauro. Il Dott. Talianini fu il primo ad introdurre l’Omeopatia nello Stato Pontificio, dopo aver constatato a Napoli i successi terapeutici del Romani che pare gli sia stato maestro. In Ascoli rimase celebre la guarigione della Marchesa Vittoria Mosca di Pesaro che riacquistò la vista, grazie alle cure omeopatiche, dopo essere stata tenuta al buio per ben cinque anni dai medici allopatici per una grave affezione agli occhi. La Marchesa visse ancora molti anni dopo tale guarigione. Celebre fu, come già accennato, anche la guarigione di Sua Santità Papa Leone XIII, il quale, “ammalatosi di lenta affezione tracheale, con grave pericolo di vita, allorché nell’Accademia Ecclesiastica in Roma addestravasi nella prova per la futura grandezza, ebbe meravigliosamente ristorata e rinnovata la salute.” (Pompili, Rivista Omeopatica, Ottobre 1892, n. 4). – « Si che fu indubbiamente merito dell’Omeopatia e del Dott. Talianini se il sapientissimo Pontefice gode di una bene auspicata e provvidenziale longevità. » – (Dalla Rivista “La Strenna Spoletina”, del 1892: Una pagina dell’Omeopatia nell’Umbria, del Dott. Gioacchino Pompilj). Per i suoi servigi e l’alta professionalità dimostrata, il Dott. Talianini ebbe in dono dal Vaticano una medaglia d’oro, e continuamente vi era chiamato per consulti. Nel 1830 andò in Inghilterra con il Dottor Romani, al seguito del Principe Doria Pamphili, su invito di Lord Shrewsbury. Anche in Inghilterra egli ebbe molto successo e fu nominato Membro di varie Accademie.

SUA SANTITÀ PIO XII CURATO DALL’ARCHIATRA OMEOPATA

Anche, Sua Santità Papa Pio XII fu un convinto difensore dell’Omeopatia. Si legge infatti nell’Europeo del 16 Luglio 1947: “Il primo curante è Galeazzi–Lisi. Segue il metodo Omeopatico e lo applica al Papa Pio XII ”. È doveroso ricordare che questo stimabile clinico specialista, divenuto in seguito Archiatra Pontificio, fece molto per la causa Omeopatica ai tempi del C.O.R. (Centro Omeopatico Romano). La sua opera venne molto apprezzata da tutti gli Omeopati italiani. – Con tanti riconoscimenti ufficiali, la vita dell’Omeopatia nello Stato Pontificio non fu così difficile come in altre regioni d’Italia. Dopo un primo tentativo di ostacolare la libera distribuzione dei rimedi Omeopatici, fortunatamente superato grazie all’intervento di Papa Gregorio XVI nel 1842, per alcuni anni lo Stato Pontificio non si occupò più giuridicamente dell’Omeopatia. I Medici Omeopati poterono così distribuire gratuitamente i loro medicinali e non subiranno più denuncie e polemiche. – Con l’andar degli anni il numero dei Medici Omeopatici crebbe però al punto che lo Stato non poteva più restare indifferente di fronte alla quantità, sempre maggiore, di ricette mediche che passavano incontrollate direttamente dalle mani del Medico a quelle del paziente. Basandosi sul fatto che la precedente legge permetteva ai Medici Omeopatici di distribuire gratuitamente i rimedi omeopatici là dove non vi era una farmacia omeopatica, un Decreto Ministeriale Notificato il 15 Novembre 1856, (n° 53196, sull’ordinamento delle Farmacie nello Stato Pontificio) ordinava l’apertura di Farmacie Omeopatiche esclusive a Roma e in Provincia. Così là dove vi era una Farmacia Omeopatica, i Medici non potevano più distribuire gratuitamente i loro medicinali, senza incorrere nei rigori della legge.

L’OMEOPATIA ALL’OPERA PIA COTTOLENGO NELLE PAROLE DEL CHIRURGO LORENZO GRANETTI, AMICO DEL SANTO

Il Dottor Lorenzo Granetti racconta come divenne Medico Omeopatico: “Anch’io pensava come pensa la maggior parte dei medici allopatici sul merito di questa scienza; anch’io nutrii per gran tempo gli stessi pregiudizi, la medesima incredulità all’annunzio del principio hahnemanniano, Similia Similibus Curentur, quando ancora era digiuno della nuova dottrina e dei suoi risultamenti, e sentiva d’essere fondata sul principio opposto all’abituale ed invecchiato assioma – Contraria Contrriis – quantunque persone degnissime di fede mi raccontassero con entusiasmo molti casi di guarigione press’a poco miracolose.” (Giornale di Medicina Omiopatica, n. 1, 1848, pp. 155 e segg.). Queste “storie sorprendenti” lo indussero a sperimentare l’Omeopatia nella clinica chirurgica. Abbandonò salassi e sanguisughe e scelse per il trattamento Omeopatico i casi più difficili e, consigliato e guidato in principio da Omeopati esperti, ottenne anch’egli guarigioni sorprendenti. – “Io sarò eternamente riconoscente ad alcuni medici insigni di questa Capitale, che mi indussero a studiare ed a sperimentare l’Omeopatia, e ad osservare ed impiegare l’Aconito nelle febbri infiammatorie; l’Arnica nelle malattie traumatiche; la Tuja nella sicosi, il Solfo nella psora, ecc.; e difatti sono ormai più di dieci anni che nella mia vasta clinica all’Opera Pia Cottolengo, in grazia dell’Arnica, dell’Aconito, ecc. un caso solo io non posso contare d’averlo perduto. Io mi chiamerei pago se i miei colleghi, già benemeriti della Patria per i loro incessanti e gloriosi servizi resi, e che tuttora scientemente e con somma singolarità rendono ai nostri prodi difensori della Patria e della libertà italiana, prestassero attenzione all’azione specifica ed elettiva dell’Arnica, perché sarebbero meglio coronate le loro fatiche e più presto guarirebbero i loro feriti.”. Dottor Lorenzo GRANETTI, Chirurgo Direttore dell’Ospedale Cottolengo a Torino de La Medicina specifica applicata in particolare al trattamento delle lesioni organiche risultanti da violenza di corpi meccanici, massime dei proiettili di guerra. Dissertazione dedicata al prode e valoroso Esercito Piemontese. Torino, Tipografia di Enrico Mussano, 1848, pag. 8, 10. – Nel 1851 partecipò a Parigi al Congresso di Medicina Omeopatica. Nel 1855 fu nominato Medico di Re Carlo Alberto e di Casa Savoia. Fu intimo amico del Santo Giuseppe Cottolengo e Direttore Chirurgo dell’Opera Pia Cottolengo. Ebbe il coraggio di esercitare apertamente l’Omeopatia nell’Ospedale del Cottolengo in un momento particolarmente difficile. I risultati furono superiori ad ogni aspettativa e le reazioni nel campo avverso furono così numerose e violente che il Granetti fu nominato Direttore delle Terme di Acqui ed allontanato dall’Ospedale. Nel 1858 era Direttore dell’Istituto dello Spirito Santo di Nizza. Ebbe una vivace polemica con il Dott. Borelli, direttore della Gazzetta Medica Italiana. Moriva a Torino il 5 Settembre 1871.

LE CONDOTTE OMEOPATICHE NELLO STATO PONTIFICIO

Con la creazione delle Condotte Omeopatiche nello Stato Pontificio la legge implicitamente riconosceva l’Omeopatia. La prima Condotta Omeopatica ad essere istituita fu a Bevagna, in Umbria, ma il Dott. Giuseppe Bonino precisa che fu per lui il primo ad avere la prima Condotta Omeopatica perché accettò la Condotta Sanitaria in due Comuni, cioè Villar Perosa nel 1859 e nell’anno successivo a Pinasca… inotre a Montedoro in Sicilia fin dal 1862 fu istituita una Condotta Omiopatica, occupata dal Dott. Pappalardo, cui più tardi si è associato il Dott. Stonaci. (Ricordo Cronografico dell’Omeopatia in Italia, l’Omiopatia in Italia, Agosto 1907). Il Dottor Agostino Mattoli si era prodigato per anni a favore della popolazione curando i concittadini sempre omeopaticamente finché, come riconoscimento ufficiale della sua opera, fu unanimemente deliberata, il 22 Aprile 1869, nello stesso giorno del suo decesso, l’istituzione di una Condotta Omeopatica. Il 20 Dicembre 1869 (visto del 9 Luglio 1869, n. 821, della R. Sottoprefettura del Circondario) si apre così il concorso alla prima Condotta Medica Omeopatica. I concorrenti erano tre ed il vincitore, con unanime consenso, fu il Dottor Vincenzo Massimi di Teramo. Per tale avvenimento vi furono molte polemiche, specialmente ad opera del Dottor Agostino Bertani (Gazzetta Medica Italiana Lombarda, n. 3, pag. 23-24), in quanto si riteneva un sopruso da parte del Municipio di Bevagna l’imporre ai cittadini di curarsi Omeopaticamente. Tutto fu messo a tacere quando si rese noto che contemporaneamente esisteva anche una Condotta Allopatica, affatto soppressa, e che i cittadini avevano la più ampia libertà di scelta. Con il tempo la Condotta Omeopatica di Bevagna fu eliminata per il motivo, si dice, che fu impossibile trovare un successore poiché il trattamento economico era troppo esiguo e inadeguato. Il 31 Ottobre 1875 anche il Consiglio Municipale di Piperno delibera con voto unanime l’istituzione di una Condotta Medica Omeopatica, affidata al Dottor Pasi, che la tenne fino alla sua morte, avvenuta nel 1878. – Ugualmente il Dottor Carlo Berretti tenne, per 27 anni, la Condotta Medica di Paliano, fino al 1875, anno della sua morte. – Ma non sempre la situazione si risolveva in favore dell’Omeopatia e molte proposte di istituire Condotte Omeopatiche furono bocciate. Il Placci racconta infatti a proposito di una Condotta nello Stato Pontificio dove già esistevano una Farmacia ed un Medico Omeopatico. Accettando condizioni economiche più favorevoli, questo medico si trasferì in una città vicina. Rimasta la Condotta scoperta, fu bandito un concorso nel quale si esigeva espressamente che il Medico fosse perfettamente istruito nella teoria e nella pratica Omeopatica. Ma il bando fu bocciato dal Consiglio Provinciale di Sanità e gli abitanti del luogo furono costretti a ritornare alle sanguisughe, ai vescicamenti, ai cauteri, ai setoni, ai purganti, agli emetici della scuola allopatica (Giornale di Medicina Omiopatica, anno IV, 1847, Vol. XII, pag. 135).

RICONOSCIMENTI E ONORIFICENZE VATICANE CONCESSE A MEDICI OMEOPATICI:

Ripetiamo in uno schema riassuntivo alcune informazioni già ricordate in precedenza: “nel 1841 il Dott. Wahle ottiene da Papa Gregorio XVI il diritto ai Medici Omeopatici di distribuire gratuitamente i farmaci omeopatici ai pazienti rendendo così nulle le vessatorie ordinanze delle Municipalità di Bologna e di Roma che invece lo proibivano. Wahle, inoltre, viene nominato Medico del Convento dei Gesuiti ed ottiene un salario doppio a quello già accordato al suo predecessore. – Papa Gregorio XVI concede la Gran Croce di Cavaliere al Dott. Centamori, intimo amico di Hahnemann, che dedicò tutta la sua vita alla diffusione dell’Omeopatia nello Stato Pontificio. – Papa Gregorio XVI con una Bolla accorda agli ecclesiastici l’autorizzazione di somministrare rimedi Omeopatici in casi urgenti in assenza del Medico, e in tutte le località che sono sprovviste di Medici Omeopatici. – Nel 1847 Sua Santità nominò il Dott. Tessier, Medico Omeopata che introdusse l’omeopatia negli ospedali di Parigi, Commendatore dell’Ordine di S. Gregorio il Grande. – Nel 1849 Pio IX conferisce al Dott. Charge di Marsiglia, la Croce di Cavaliere di San Gregorio il Grande per gli importanti servizi resi in ospizio religioso durante l’epidemia di colera nel 1849. – Nel 1847 Pio IX invia un breve Apostolico Speciale al Dottor Perrussel, Medico Omeopatico a Parigi; – Nel Marzo del 1848, Pio IX nomina il Prof. Ettore Mengozzi, Medico Omeopatico, alla Cattedra di Filosofia della Natura nell’Università di Roma. – Nel 1855 Pio IX conferisce l’Ordine di San Silvestro al Conte de Guidi in riconoscimento dei suoi grandi meriti di Medico Omeopatico; – Nel 1862 Sua Santità Pio IX conferì le insegne dell’Ordine di S. Gregorio Magno al Dott. Ozanam, medico omeopatico a Parigi, fratello del Beato Federico Ozanam. – Nel 1869 lo stesso Papa Pio IX affida al Ladelci la Cattedra di Botanica nell’Università Pontificia di Macerata. – Per i suoi servigi e l’alta professionalità dimostrata nel curare e guarire Papa Leone XIII, il Dott. Talianini ebbe in dono dal Vaticano una medaglia d’oro, e continuamente vi era chiamato per consulti. – Nel 1947 il primo medico curante di Papa Pio XII è il Dottor Galeazzi–Lisi, medico omeopata. È doveroso ricordare che questo stimabile clinico specialista divenne infatti Archiatra Pontificio e applicava con successo il metodo omeopatico al Papa Pio XII. [In verità ci sono diverse perplessità e dubbi sull’operato di Galeazzo-Lisi, in particolare durante la malattia terminale e la morte del Pontefice!-ndr.-] – Verso la metà del secolo XIX cominciano a intravedersi i segnali, che porteranno ad una fase di declino dell’Omeopatia italiana che si prolungherà per alcuni decenni. In Italia l’Omeopatia, essendosi legata ai movimenti cattolici popolari, con l’aperto consenso delle gerarchie ecclesiastiche che favorivano tutto ciò che poteva contrapporsi al materialismo illuminista, è destinata a pagare un caro prezzo. Ben presto infatti il Prof. Ettore Giovanni Mengozzi, dovette abbandonare la Cattedra di Omeopatia presso l’Università romana, assegnatagli nel 1848 da Pio IX, per il precipitare degli eventi. Le successive vicende storiche e politiche [determinate dalle logge massoniche -ndr. -] che porteranno all’unità d’Italia, saranno realizzate contro il Cattolicesimo e l’Omeopatia italiana, essendosi troppo schierata con quest’ultimo, non poteva che essere emarginata nel nuovo clima culturale che si andava configurando. Si instraurava il regime della massoneria imperante, come al giorno d’oggi, che non si fa scrupolo di utilizzare ogni mezzo, anche il più ridicolo, come l’accusa di “stregoneria”, “magia moderna” o esoterismo, essi che adorano il baphomet, per contrastare l’espansione del metodo omeopatico, che allevierebbe le sofferenze di tanti malati costretti a curarsi “legalmente” e senza risultati con ferro [interventi chirurgici mutilanti ed inutili], fuoco [le famigerate radioterapie] e veleno [chemioterapie tossiche]. – È evidente quindi che, allora come oggi, dietro il movimento anti-omeopatia c’è la “longa” mano delle logge, braccio operante e tentacolo della piovra nemica di Dio e di tutti gli uomini, di coloro cioè che hanno per padre il diavolo. I maggiori detrattori in Italia ad esempio, sono noti frequentatori delle logge che in cambio hanno permesso loro rapide e brillanti carriere, e sono gli stessi che si sperticano al contrario nelle lodi dell’evoluzionismo e della psicanalisi, basate su teorie assurde e mai provate [-ndr.-]. Pertanto stiano sicuri i cultori e gli utilizzatori dell’omeopatia, metodica dichiarata dalla “vera” Chiesa di Cristo utile e benemerita, e cerchino caso mai di evitare pittoreschi operatori sanitari che utilizzano impropriamente l’omeopatia in associazione estemporanea con metodi dichiaratamente anticristiani, e quindi suggeriti dal nemico infernale … medicina cinese, yoga, meditazioni orientali ed occidentali, antroposofia, magnetismo e mesmerismo, psicoanalisi gnostico-cabalista, e via di seguito.

S. S. GREGORIO XVII (G. Siri): Omelia della DOMENICA DELLE PALME -1970-

S. S. GREGORIO XVII [G. Siri]

Con le letture dalla Sacra Bibbia, in particolare quelle tratte dal Vangelo, col Santo Sacrificio, comincia la grande settimana, la Settimana Santa, nella quale i fedeli sono chiamati a ricordarsi di essere stati redenti e di avere una speranza al di sopra della loro talvolta misera vita unicamente perché Gesù Cristo è andato in Croce ed è risorto. – Il primo brano del Vangelo, cantato prima della processione delle palme, ha ricordato l’ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme. Questo ingresso è avvenuto pochi giorni prima della Sua Passione; l’ha voluto Lui. È stata un’affermazione perché il Messia era anche Re, era il successore di Davide, non per esercitare un potere nell’ordine politico, ma perché raccoglieva un’eredità su un piano ben più alto, ad un livello divino. Volle gli onori reali, perché usare quella cavalcatura era allora privilegio dei re; che si stendessero i mantelli per terra, era cosa che accadeva pei re o pei grandi trionfatori. Il canto dei fanciulli: chi mai li aveva insegnato loro? Chi mai? Eppure i fanciulli soprattutto cantarono per Lui. E così il corteo si mosse e così entrò in Gerusalemme. Se qualcheduno aveva da lamentarsi di questo, aveva risposto colle parole del Profeta: “Se qualcheduno tacerà, saranno le lingue degli infanti ad aprirsi” (cfr. Mt XXI, 16). Insomma, ha voluto che esternoamente ci fosse un trionfo. Dopo sarebbe rientrato subito nell’umiltà della Sua evangelica vita e avrebbe salito il Calvario, il vero grande trionfo, del quale aveva detto poc’anzi: “Quando sarò innalzato sul legno, allora trarrò tutto a me stesso” (Gv XII,32). Vi prego di notare questo: Gesù Cristo ha voluto il trionfo, ha voluto gli onori regali, ha voluto la acclamazione, ed è evidente che anche tutte queste cose hanno una funzione nella realizzazione del piano del Dio. – L’ultima lettura è stata lunga, perché si letto tutto il racconto della Passione secondo Marco (XIV, 1-15, 47), non, come accadeva prima, secondo Matteo. E la narrazione più breve quella di Marco. Ma io non richiamo la vostra attenzione sui particolari, perché tutta questa narrazione si stende tra l’uno e l’altro dettaglio, però si compone tutta intorno ai dolori del Cristo paziente e morente in Croce. E allora vi invito ad una considerazione di carattere generale che è questa: per riparare i peccati degli uomini è occorso tanto. Sì, la Croce! Badate bene che sarebbe occorsa anche ci fosse stato un solo peccato tra gli uomini. Non è che questa sovrabbondanza di dolore sia legata al fatto dei molti peccati, ma è legata all’entità del peccato in se stesso, e pertanto la ragione non avrebbe cambiato se il peccato fosse stato uno solo. E allora ritorniamo in noi per accogliere con umiltà, con pazienza, coll’amore, il riflesso che tutto questo deve disegnare nell’anima nostra. Vuol dire che gli atti nostri sono importanti, e forse un atto della vita, un atto di fede che manca a molti di noi nella loro vita, è quello di renderci conto che i loro atti sono importanti, anche se questo piccolo mondo per gli stessi atti non ha che il silenzio e l’oblio. Perché se a ripagare un peccato, atto di volontà, c’è voluta la Morte del Figlio di Dio, vuol dire che il peccato è una cosa grave, ma prima ancora del peccato, che un atto umano è una cosa grave davanti a Dio e cioè davanti a Colui per il Quale soltanto le cose contano. – Il riflesso che accogliamo nella nostra anima, come vedete, è semplice, è apodittico, ma è tremendo: con che sorta di prudenza, di riflessione noi dobbiamo pensare ed agire. Naturalmente tra l’uno e l’altro ci sta di mezzo il parlare, che talvolta sostituisce l’uno e l’altro a torto, perché gli atti dell’uomo prendono sempre la loro potenza da una folgorazione intellettuale interna e da un atto di volontà. Ecco, cari, la prudenza, il ritegno, la riflessione su tutti i nostri atti. Sembra che le cose colino come l’acqua, fluiscano per disperdersi nel gran mare e non è vero. I nostri atti sono importanti. Stiamoci attenti bene. E quando pensiamo, non crediamo di essere autorizzati a pensare come a noi comoda, e quando parliamo, non crediamo di essere autorizzati a parlare come a noi piace, e quando agiamo, non crediamo di essere autorizzati ad agire come a noi porta benessere e gaudio. Davanti a Dio queste cose che noi dimentichiamo, prendono dimensioni alle quali la nostra stessa intelligenza non sa arrivare e allora sia per il peccato a evitarlo, anche piccolo, sia per la virtù, anche piccola da compiere, pensiamoci bene!