26 OTTOBRE 2023, MANCANO 5 ANNI ALLA FINE DELLA DEPORTAZIONE A BABILONIA.

LA “VERA” CHIESA ED IL SUO “VERO” VICARIO.

(Mos. G. SINIBALDI: IL REGNO DEL SS. CUORE DI GESU’ – Soc. ed. VITA E PENSIERO, Milano)

XIII.) L’uomo è naturalmente inclinato alla società religiosa, nella quale può incontrare la soddisfazione delle più nobili ed irresistibili tendenze del suo cuore. Gesù Cristo, venuto al mondo per restaurare ogni cosa e guidar l’uomo al destino soprannaturale, fondò la sua Chiesa. Questa è la società di uomini, uniti fra loro per la professione della stessa vera fede e per la partecipazione agli stessi Sacramenti, sotto il regime dei legittimi Pastori e del Romano Pontefice, Vicario dello stesso Gesù Salvatore ». — Il fine ultimo della Chiesa è la felicità eterna, la quale consiste nella visione intuitiva della Divinità, e perciò è fine soprannaturale, cioè superiore a tutte le nostre forze ed esigenze. Se soprannaturale è il fine, soprannaturali debbono essere anche i mezzi. Quindi la virtù, che è fine della vita presente e mezzo della futura, deve sgorgare da un principio soprannaturale, che è la grazia. — È così bella questa Chiesa, fondata da Gesù, ed è così poco conosciuta, che ci sembra necessario parlare della sua costituzione, delle sue proprietà, dei suoi poteri e dei suoi diritti. — È naturale che qualche cosa, detta in questa nota, si ripeta nel testo.

A) COSTITUZIONE DELLA CHIESA. — La Chiesa, Come società visibile, si compone di due elementi: uno materiale, che è la moltitudine dei fedeli — l’altro formale, che è l’autorità. — L’autorità è di ordine e di giurisdizione. Infatti, la Chiesa, essendo Religione e Regno, deve guidar i fedeli alla felicità eterna, e questa si ottiene ordinariamente per mezzo dei Sacramenti. Dunque, l’autorità dev’essere di ordine per l’amministrazione dei Sacramenti, e di giurisdizione per la direzione sociale dei fedeli. Queste due autorità, alle quali si riducono tutti i poteri della Chiesa, sono soprannaturali, comunicate immediatamente da Dio in quanto è autore della grazia, e perciò sono affatto indipendenti da ogni autorità naturale (il superiore non può dipendere dall’inferiore). — La giurisdizione è mobile (mentre l’ordine è immobile) e può essere interna o esterna, secondo che riguarda il foro interno, che è la coscienza, o il foro esterno, che è la pubblica direzione dei fedeli. — La giurisdizione esterna è gerarchica. Essa è concentrata, in tutta la sua pienezza, nel Romano Pontefice, dal quale deriva ai Vescovi. I semplici Sacerdoti esercitano giurisdizione, ma come delegati del Papa e dei Vescovi. — Perciò la forma di governo nella Chiesa è la monarchica.

B) PROPRIETÀ’ DELLA CHIESA. — La Chiesa è società divina, spirituale, soprannaturale, giuridica, perfetta, suprema.

a) È società divina. Fu essa fondata immediatamente da Dio con atto positivo (non per via naturale, come la società civile), e da Dio in quanto è autore della grazia, avendo Egli prescritta la forma del regime, scelto il soggetto dell’autorità, prescritti i mezzi, e promulgate le leggi.

b) È società spirituale.. Essendo il fine della Chiesa la felicità eterna, che è un bene spirituale, la Chiesa stessa è spirituale (perché è dal fine che le società traggono la loro natura specifica), e perciò è specificamente diversa dallo Stato, che ha per fine la felicità temporale dei cittadini.

c) È società soprannaturale. Non solo è soprannaturale per il suo fine, che è la visione intuitiva di Dio, ma anche — per la sua origine, perché viene da Gesù, — per la sua costituzione, che pure fu data dal Redentore, — e per i suoi mezzi, che superano i limiti delle forze umane.

d) È società giuridica. Una società è giuridica, quando i doveri, che stringono i soci, sono giuridici, cioè fondati sulla giustizia, e provengono da veri diritti, dei quali la stessa società è rivestita. Tali sono i doveri degli uomini verso la Chiesa; essi derivano dai sacri ed inviolabili diritti — che Gesù ha dato alla Chiesa — di chiamare tutte le genti e di guidarle alla vita eterna. L’autorità della Chiesa è la stessa autorità di Dio, e perciò i doveri degli uomini verso la Chiesa sono della stessa specie di quelli, che essi hanno verso Dio — essenzialmente giuridici.

e) È società perfetta. Essa ha tutti i mezzi indispensabili al conseguimento del suo fine, di modo che non dipende da altra società superiore; e ciò è necessario e basta alla perfezione di una società. E qual società terrena potrebbe fornire alla Chiesa i mezzi soprannaturali?… I mezzi materiali, sebbene necessari, sono sussidiari, e la Chiesa li ha virtualmente, in quanto li può esigere dallo Stato.

f) È società suprema. Il fine della Chiesa è supremo, cioè superiore a tutti gli altri fini, perché la salvezza dell’anima sorpassa tutti gl’interessi temporali. Questa supremazia deve essere riconosciuta, e gli Stati devono subordinare i loro atti e interessi agli atti e interessi della Chiesa.

C) POTERI DELLA CHIESA. — La giurisdizione, che la Chiesa esercita sopra i fedeli, contiene quattro poteri — il dottrinale, il legislativo, il giudiziale, l’esecutivo o coattivo
a) La Chiesa ha il potere dottrinale. Essa, difatti, è una Religione costituita in società perfetta. Se, in quanto è Religione, ha l’officio d’insegnare, in quanto è società perfetta, deve avere il potere di obbligare i fedeli a credere alle verità che insegna. Questo potere deriva dalla missione della Chiesa, che è quella di spandere la vera fede, principio della salvezza e fondamento della giustificazione, e la fede si spande coll’insegnamento, ministrato da chi he ha ricevuto la legittima missione. Gesù disse agli Apostoli: « Andate e ammaestrate tutte le genti »  (Matth., XXVIII, 19). — Il Maestro di tutta la Chiesa, e perciò dei fedeli e dei Vescovi, è il Papa. I Vescovi sono maestri delle loro rispettive diocesi, e solo allora sono maestri di tutta la Chiesa, quando sono riuniti in Concilio in unione col Papa e sotto la sua dipendenza. — Il Papa, quando, nell’esercizio del suo officio di maestro universale, definisce verità spettanti alla fede o alla morale, è infallibile. La infallibilità è un privilegio grande, ma necessario alla direzione dei fedeli e alla conservazione della Chiesa, che è il Regno della Verità.

b) La Chiesa ha il potere legislativo. Questo potere è un mezzo indispensabile per dirigere gli uomini, così diversi d’indole e di pareri, al bene comune, e perciò non può mancare alla Chiesa, come non manca a qualunque società perfetta. — Le leggi, che devono regolare le azioni dei fedeli, debbono essere positive, perché le naturali non bastano alla conquista di un fine soprannaturale. — Né si dica che basti a ciò la legge evangelica; perchè questa, essendo molto generica, deve essere determinata ed applicata ai casi speciali: e ciò si fa ton leggi positive. — Il potere legislativo risiede — nel Sommo Pontefice in rapporto alla Chiesa universale, — e nei Vescovi in rapporto alle Chiese particolari.
I Vescovi fanno leggi per tutta la Chiesa soltanto nel Concilio ecumenico. — La materia di questo potere è tutto ciò che ha relazione coll’ordine spirituale ed esterno, come il culto, i Sacramenti, il costume. Perciò la Chiesa non governa direttamente gli atti interni dei fedeli, ma solo indirettamente, in quanto, comandando un atto esterno, comanda con ciò stesso l’atto interno, senza del quale l’esterno non ha alcun valore. Gli atti interni cadono sotto il comando diretto del potere dottrinale.

e) La Chiesa ha il potere giudiziale. — Non si può concepire una società, nella quale  non siano giudici, i quali interpretino le leggi e le applichino ai casi particolari, e, in armonia con esse, decidano le questioni che possono sorgere fra i cittadini, e condannino gli atti contrari al fine comune. Dunque anche la Chiesa deve avere tale potere. Questo si estende anche alla parte dottrinale; perché la Chiesa è essenzialmente il Regno della Verità, e quindi vi debbono essere dei giudici, i quali illuminino i fedeli, interpretando i dogmi, speculativi e pratici, confrontando con essi la credenza e i costumi dei fedeli, onde giudicare della moralità di certi atti, risolvendo le controversie e i dubbi in materia di fede, condannando l’eresie, ecc.

d) La Chiesa ha il potere esecutivo. — Ogni società perfetta, e perciò anche la Chiesa, ha il potere di costringere, per mezzo della coazione giuridica, la volontà dei sudditi all’adempimento delle leggi; altrimenti sarebbe impossibile il conseguimento del fine. — La coazione giuridica, nella Chiesa, non deve limitarsi alle pene spirituali o all’uso della forza spirituale, ma può e deve abbracciare le pene temporali e l’impiego della forza materiale, — non solo perché, altrimenti, non si potrebbero impedire certi atti esterni dei soci, ma anche perché, consistendo ordinariamente il crime nella ribellione della sensibilità contro la ragione, è giusto che l’autorità possa reagire contro la stessa sensibilità per l’applicazione delle pene temporali, e così sia ristabilito l’ordine violato. — vero che la Chiesa è spirituale, ma non è vero che perciò non possa usare le pene spirituali. Essa è spirituale in rapporto al fine, e non in rapporto ai sudditi. Questi non sono spiriti, ma uomini, cioè esseri composti di spirito e di materia. Ora i mezzi efficaci e proporzionati per obbligare esseri composti anche di materia devono essere materiali, sebbene il fine che si vuol ottenere sia spirituale. E se la Chiesa non ha in sé la forza materiale, può chiederla allo Stato, il quale ha il dovere di fornirla.

D) DIRITTI DELLA CHIESA. — Sono quei poteri morali ed inviolabili, che Essa ha di possedere, fare o esigere qualche cosa, e che le furono dati dal divino Fondatore. — Sono interni ed esterni, secondo che riguardano le sue relazioni interne coi proprii sudditi, o le relazioni esterne con gli Stati. Rimettendo ad altro luogo la recensione dei diritti esterni, diremo ora degl’interni. I principali sono: il diritto territoriale e il costitutivo, il diritto di eleggere i ministri, dirigere e tutelare l’insegnamento religioso, di possedere beni temporali ed il diritto della libera comunicazione.

a) La Chiesa ha il diritto territoriale. — Essa è il Regno di Gesù Cristo, il quale, per diritto divino, si estende a tutti i popoli della terra… Questo diritto, del quale la Chiesa è dotata, non è diritto di proprietà, perché nessuno ha mai detto che la Chiesa sia la proprietaria di tutto il mondo, e nemmeno è diritto di giurisdizione politica, perchè Gesù non ha istituito la Chiesa per il governo politico del mondo; ma è diritto di giurisdizione religiosa sopra tutti i popoli, che essa deve, per ordine divino, ammaestrare, santificare e salvare. — Da ciò ne viene che la Chiesa non è ospite in nessuna parte del mondo, e nemmeno è una potenza straniera, che eserciti la sua giurisdizione sopra sudditi non propri. In ogni luogo sta la Chiesa come in casa sua, con più diritto che il proprio sovrano temporale (perché il mondo appartiene più a Dio che ai sovrani), e il potere, che essa esercita sopra i fedeli, è un potere ordinario, che si esercita sopra i sudditi propri. — L’esistenza della Chiesa non può essere contraria all’autonomia dello Stato; gl’interessi dì ambedue sono di un ordine differente, e perciò lo Stato, se non esce dalla sfera della sua azione, non solo non incontrerà ostacoli da parte della Chiesa, ma avrà da essa aiuti e benefici. — Dal detto si scorge facilmente che la Chiesa ha il diritto di annunziare, a mezzo dei suoi missionari, la Fede di Gesù Cristo nelle terre degli eretici, degli scismatici, degl’infedeli, senza il consenso e contro la volontà stessa dei sovrani terreni. Il diritto della Chiesa è l’istesso diritto di Dio, al quale tutti, sudditi e sovrani, devono prestare omaggio ed obbedienza.

b) La Chiesa ha il diritto costitutivo. — È il potere di regolare il culto divino, interno ed esterno, — di stabilire la gerarchia per il regime dei fedeli, — di fondare e dirigere gli ordini religiosi, ecc. Perciò non si tratta qui della costituzione primitiva e fondamentale della Chiesa, né dei suoi elementi costitutivi (questo diritto se l’ha riservato il divino Fondatore, e il Papa non può cambiare né la forma di governo, né la sostanza dei Sacramenti, né tante altre disposizioni, che si chiamano di diritto divino), ma si tratta di una costituzione secondaria ed esplicativa. Così inteso, questo diritto appartiene alla Chiesa, la quale, essendo Religione, deve potere regolare il culto divino, l’amministrazione dei Sacramenti e del S. Sacrificio, ecc. — ed essendo Società, deve potere istituire la gerarchia, fondare ordini religiosi, prescrivere norme ai fedeli, ecc. Senza questi poteri, la Chiesa non potrebbe raggiungere il suo fine.

c) La Chiesa ha il diritto di eleggere i suoi ministri. Anche ciò è necessario. Perciò il Papa, che ha giurisdizione immediata e ordinaria su tutta la Chiesa, ha il diritto di nominare i Vescovi; come il Re, che ha potere su tutto lo Stato, nomina i Prefetti delle Provincie. Per la stessa ragione, i Vescovi hanno il diritto di nominare i Curati nelle parrocchie della propria diocesi. — L’intervento dei popoli o dei sovrani, in altre epoche, non si ammetteva che per dare informazioni intorno alla vita e alla capacità dei candidati. Oggi non si ammette affatto: sarebbe occasione di lotte, di scandali e di ruina.

d) La Chiesa ha il diritto di dirigere e tutelare l’insegnamento religioso. Questo diritto è relativo all’officio che la Chiesa ha ricevuto di ammaestrare tutte le genti, e riguarda propriamente l’insegnamento, che, in materia di religione, si porge ai fedeli — chierici o laici. — La Chiesa ha il diritto di dirigere e tutelare l’insegnamento religioso, che si porge ai Chierici. La formazione dei ministri appartiene alla società, alla quale essi debbono servire. Oltre ciò, la scienza teologica, necessaria ai Chierici, si fonda sulla divina Rivelazione, e di questa la Chiesa sola è depositaria. Quindi commettono un’assurda prepotenza quegli statisti, che fondano, nelle Università laiche, facoltà teologiche, indipendenti dai Vescovi e soggette al Ministro della pubblica istruzione. — Non meno evidente è questo diritto della Chiesa in rapporto ai laici. Questi, se non debbono essere teologi, debbono però essere Cristiani, e perciò conoscere le principali verità religiose. Ora l’insegnamento di queste verità è stato affidato da Gesù alla Chiesa. Questo diritto autorizza, sebbene indirettamente, la Chiesa a portare il suo giudizio sulle altre scienze, condannando le dottrine, opposte alle verità cattoliche e necessariamente false.

e) La Chiesa ha il diritto di possedere beni temporali. — È società religiosa, ma composta di uomini, e perciò deve mantenere i suoi ministri, innalzar templi, comprar vesti e vasi per il culto, ecc.; e tutto ciò esige grandi spese, che non si possono fare se non si hanno beni temporali. Questi beni sono sacri, e chi li usurpa è ladro sacrilego.
f) La Chiesa ha il diritto della libera comunicazione. — Consiste questo diritto in ciò che i Vescovi possano comunicare liberamente con i fedeli della loro diocesi, e il Papa cori i Vescovi e con i fedeli di tutto il mondo. È verità di senso comune. — Il Vescovo è maestro, pastore, padre, principe del popolo di Dio. Chi dirà che il maestro non ha il diritto di comunicare con i discepoli, il pastore con le pecorelle, il padre con i figli, il principe con i sudditi? — Il Papa è il Vescovo dei Vescovi, Padre e Maestro di tutti i fedeli, Pastore supremo degli agnelli e delle pecorelle. Chi potrà negargli il diritto di comunicare liberamente con i Vescovi e con i fedeli? Questo diritto è divino, perché divino è il dovere, dal quale emerge. — Laonde gli statisti, che impediscono o rendono difficile questa comunicazione, esercitano un atto d’ingiusto dispotismo. Trattano il Papa come un sovrano straniero, e non vogliono convincersi che il padre non è mai straniero per i propri figli, né il pastore per le sue pecorelle. Temono usurpazioni da parte del Papa, e non si ricordano che la Chiesa, che dispone del regno celeste, non invidia l’autorità e le attribuzioni dei sovrani della terra. Si può domandare: Se la Chiesa è stata edificata da Gesù su la pietra, che è Simone, figlio di Jona o Giovanni, come si può dire che Essa cominciò in Adamo? Rispondiamo che la Chiesa si può prendere in due sensi: uno largo, e l’altro ristretto. — Presa nel senso largo, la Chiesa significa una moltitudine di persone, chiamate da Dio alla luce della vera fede, e alla pratica di un culto legittimo. In questo senso, essa cominciò colla umanità. Elevato misericordiosamente ad un fine superiore a tutte le esigenze della sua natura — alla visione immediata ed intuitiva di Dio, l’uomo dovette subito essere ammaestrato dallo stesso Dio, in via straordinaria, intorno a questa elevazione, e ricevere ancora i mezzi proporzionati al conseguimento del suo nobilissimo destino. Così la Chiesa cominciò in Adamo. Il peccato turbò l’ordine soprannaturale, ma non lo distrusse; il fine ultimo restò immutato, benché l’uomo, privo della grazia, non lo potesse più raggiungere. Ma l’astuzia e l’invidia del demonio non potevano rendere frustrati i disegni della Bontà divina sull’uomo. Era appena entrato nel mondo il peccato, che vi entrava pure la redenzione. E il Redentore era proprio il Figlio di Dio umanato nel seno di una Vergine. I nostri progenitori ricevettero da Dio la grande promessa, prestarono l’adesione della loro mente e del loro cuore alla sua parola, e la fede nel Redentore fu il principio della loro salvezza, e il fondamento, la vita stessa della società dei fedeli. Gesù non era ancora apparso su la terra, e già i meriti del suo sacrifizio si applicavano ai nostri progenitori e ai loro discendenti. Era decreto di Dio che, siccome da un uomo era venuto al mondo il peccato, ogni male, così da un altro Uomo, il quale era anche Dio, derivasse alla umanità la grazia, che ristora, che vivifica e salva. Era questo decreto, che S. Pietro svelava al mondo in quelle parole ispirate: Non c’è sotto il Cielo altro nome dato agli uomini, mercè del quale possiamo salvarci » (Acta Ap., IV, 12). Talché Gesù fu sempre l’oggetto della fede e della speranza del mondo, il principio di ogni grazia e di ogni benedizione, e perciò la Chiesa è stata sempre cristiana. — Cominciata in Adamo, e quasi distrutta nella massima parte della terra, essa si mantenne in un piccolo popolo e si svolse nei Patriarchi e specialmente nel Mosaicismo. La Chiesa giudaica era piena del Cristo; questi era il suo oggetto, il suo fine, la sua vita. — Ma la Chiesa stessa giudaica, come abbiamo detto, non era che un abbozzo al confronto di quella Chiesa, che Gesù ha fondato, e che Egli si degna chiamar sua. Non è estranea a quell’antica la nuova Chiesa; ma gli elementi antichi, nelle mani onnipotenti di Gesù, ricevono una trasformazione così profonda, un miglioramento così radicale e completo, che la Chiesa di Gesù si può dire ed è veramente una fondazione novella. Osservatela un istante la Chiesa di Gesù, e, al confronto della Chiesa giudaica, scorgerete facilmente la sua superiorità: — superiorità nella verità, resa più chiara e più ricca da nuova e definitiva rivelazione; — superiorità nella legge, più completa e più efficace nell’innalzare l’uomo alla più sublime ed eroica perfezione; — superiorità nei Sacramenti, non più simboli vuoti e sterili, ma veri strumenti di grazia e di santificazione; — superiorità nella estensione, abbracciando non un popolo privilegiato, ma i popoli tutti della terra; — superiorità nella durata, non limitata ad un ristretto periodo di tempo, ma perenne sino alla fine del mondo; — superiorità nel governo, sicuro ed infallibile nel guidare gli uomini al loro destino immortale. Perciò, se la Chiesa si prende in questo senso ristretto, in quanto cioè è una moltitudine di uomini, unita ed elevata a società perfetta, fornita di tutti i mezzi di grazia e di santificazione, e soggetta al suo angusto Capo, Gesù Cristo, rappresentato dal Romano Pontefice, — allora questa Chiesa è nuova e deve la sua origine al Dio-Uomo. Talché se la Chiesa antica — da Adamo fino a Gesù — si può e si deve dire cristiana, in quanto i suoi membri erano giustificati e salvi per i meriti di Gesù Cristo, oggetto della loro fede e delle loro speranze, — la Chiesa nuova è cristiana, anche perché riconosce in Gesù Cristo il suo augusto fondatore.

(XIV.) La Chiesa si dice corpo mistico del Dio-Uomo per varie ragioni: — 1°) perché ossi è distinta dal Corpo fisico di Gesù, composto di carne e di ossa, come quello di tutti gli uomini; — 2°) perché la Chiesa non è un corpo naturale, ma una società soprannaturale, e perciò un mistero della infinita Bontà, Sapienza e Potenza di Dio, come lo sono tutte le opere soprannaturali; — 3°) perché la sua origine, il suo incremento, la sua energia, — tutta la sua vita è un congiunto di alti e occulti misteri; — 4°) perché il rapporto della Chiesa al Dio-Uomo è somigliante a quello della Umanità assunta al Verbo assumente, e perciò sommamente nascosto e misterioso. — Il corpo mistico si distingue, non solo dal corpo fisico, ma anche dal corpo morale (esercito, famiglia, etc.), perché nel corpo morale l’influsso del Capo nelle membra è tutto esterno, per mezzo dell’autorità, mentre nel corpo mistico l’influsso è, sopra tutto, interno, per la grazia e le virtù soprannaturali. La Chiesa non solo è corpo, ma anche pienezza di Cristo (Eph., I, 23). In che senso essa sia pienezza di Cristo, ce lo dichiarano S. Girolamo e S. Tommaso. — S. Girolamo dice: « Siccome l’imperatore si perfeziona e si compie, quando aumenta il suo esercito, e al suo regno si aggiungono nuove provincie e nuovi popoli, così Gesù Cristo Signor Nostro si compie e si perfeziona, quando nuovi uomini gli si uniscono per la fede e, pieni di virtù, lo fanno crescere in età, sapienza e grazia, non solo davanti a Dio, ma anche davanti ali uomini » (Comm. in Ep. ad Eph., 1. I, c. i). — S. Tommaso: « Il corpo è fatto per l’anima, e non viceversa; e perciò il corpo naturale è una certa pienezza dell’anima. Di fatti, se non vi fossero nel corpo tutte le membra perfette, l’anima non potrebbe esercitare con perfezione i suoi atti. Lo stesso accade in rapporto a Cristo e alla Chiesa. Siccome la Chiesa è stata istituita da Cristo, si dice che essa è la pienezza di Lui, cioè che la virtù che risiede in Cristo, si compie in certo modo nei membri della stessa Chiesa, in quanto tutte le grazie e tutti i doni spirituali, che si trovano nella Chiesa, derivano da Cristo ai membri della Chiesa e in questi si compiono (Exp. in Ep. ad Eph., 1. 8). La grazia, che Gesù diffonde sulle anime nostre, è quella che Egli ha come Capo della Chiesa. — In Gesù dobbiamo distinguere una triplice grazia: la grazia di unione, che è la stessa unione ipostatica, cioè la unione della sua Umanità colla Persona divina, — la grazia abituale, che riempie e santifica l’Anima sua benedetta, — la grazia di comunicazione, che Egli ha come Capo della Chiesa e che Egli diffonde su le anime nostre.

La grazia di unione — è grazia, perché quella unione fu dono gratuito, concesso, senza merito precedente, alla Umanità di Gesù, — ed è grazia infinita, perché infinita è la Persona del Verbo, alla quale si unisce la Umanità, e perché questa Umanità è resa santa di santità sostanziale, increata ed infinita, che è la stessa santità del Verbo; con questa differenza che il Verbo è per se stesso santo e santità, mentre la sua Umanità è santa non essenzialmente o per identità, ma per dono gratuito, per la unione personale, e perciò si dice grazia di unione. Questa grazia non solo santifica l’Anima di Gesù, ma anche il suo Corpo, perché tutta la Umanità sua fu unita sostanzialmente al Verbo, santità increata (Coloss., II, 9). Quindi anche la Carne di Gesù partecipa, secondo la sua capacità, alla santità sostanziale, e perciò non solo è santa ed immacolata, ma è anche strumento di santificazione ed è meritevole anch’essa del supremo culto di latria. —. La grazia abituale è una qualità soprannaturale e permanente, la quale è infusa da Dio nell’anima dei giusti, affinché sia il principio intrinseco e proporzionato degli atti soprannaturali. È dono creato, accidentale e finito, e risiede nella essenza dell’anima, alla quale aderisce per unione accidentale; talché l’anima stessa viene costituita santa dalla santità accidentale, creata e finita della grazia. — Come dalla essenza dell’anima derivano le potenze, così dalla grazia sgorgano le virtù infuse. Le virtù perfezionano le potenze nell’ordine soprannaturale, come la grazia perfeziona la essenza dell’anima. — La grazia abituale, infusa nell’anima di Gesù, è incomparabilmente superiore a quella degli altri giusti e del tutto proporzionata alla sua altissima dignità. Di fatti, quanto più una cosa si avvicina al suo principio, tanto più ne partecipa l’influsso, se sia atta a riceverlo; ora, essendo l’anima di Gesù vicinissima alla Divinità, fonte di grazia, e dispostissima, per la sua purità e dignità, a riceverne l’influsso, è chiaro che la grazia, di cui fu adorna, fu sommamente abbondante. — Non basta. La grazia di Gesù fu piena — plenum gratiae et veritatis (Joan., 1, 14). Piena — quanto alla essenza, perché attinge il più alto grado che possa darsi nell’ordine presente; stabilito dalla sapienza di Dio; — quanto alla efficacia, perché si estende a tutti gli effetti della grazia, quali sono le virtù, i doni e e gli altri carismi soprannaturali, che spuntano, come da radice, dalla stessa grazia abituale. — Questa pienezza di grazia è assoluta, propria soltanto di Gesù, ed immensamente superiore a quella pienezza di grazia, che si comunica alle altre anime in una misura proporzionata alla condizione o dignità, alla quale esse sono chiamate, e che perciò è pienezza relativa, maggiore o minore secondo l’altezza della condizione o dignità. Quindi, sebbene la grazia abituale di Gesù sia essenzialmente finita, perchè entità creata e residente in un soggetto creato e finito, quale è l’anima umana, può tuttavia dirsi in qualche modo infinita, perché è data in tutta la pienezza e perfezione, della quale è capace la natura creata nell’ordine attuale, ed è il frutto proporzionato della unione massima che possa esistere fra l’anima e Dio, cioè della unione ipostatica. — Tale pienezza di grazia Gesù l’ebbe fin dal principio della sua vita umana, e anche per questo era incapace di aumento, sebbene potesse ammettersi un progresso nelle sue rivelazioni esterne. Diciamo — anche per questo, parche all’aumento della grazia è necessario lo stato di semplice viatore, e Gesù, anche in quanto Uomo, fin dal primo istante della sua concezione fu pure comprensore. — La grazia abituale, della quale l’anima di Gesù fu ornata, è un effetto della grazia di unione; la grazia segue la Divinità. come lo splendore segue il sole, da cui emana.

La grazia di comunicazione, che Gesù ha come Capo della Chiesa non differisce che nel concetto dalla grazia abituale, onde è santificata l’Anima sua. Nella essenza è la stessa grazia: la quale è personale. in quanto santifica l’anima sua, ed è di comunicazione, in quanto da Lui si diffonde in tutti i membri (Sum. Th., p. III, qq. 7, 8).

(XV.) Gesù, Capo degli uomini secondo tutta la sua adorabile Umanità, la quale opera come strumento vivo della Divinità, è Capo non solo delle anime nostre, ma anche dei corpi; e sì m quelle, che in questi trasfonde la sua virtù. La trasfonde nelle anime, perchè le vivifica e le nobilita colla grazia e colla gloria; la trasfonde nei corpi, i quali adesso divengono strumenti di opere sante, e un giorno riceveranno dall’anima anche la vita della gloria. In due modi, pertanto, il nostro corpo partecipa dell’influsso spirituale di Gesù: in quanto è adesso strumento della grazia, e in quanto più tardi sarà consorte della gloria. Beati gli uomini, se permettessero a Gesù di compiere in essi tutto il piano della sua bontà infinita! Il dogma, col quale professiamo — che fuori della Chiesa non vi è salvezza, — fu spessissimo dalla Chiesa stessa proclamato e inculcato. A scanso di equivoci, che lo potrebbero far parere molto duro, facciamo le seguenti avvertenze:

— 1.°) non fa Dio cosa ingiusta nè dura, quando a tutti prescrive, come indispensabile, una condizione al conseguimento della felicità soprannaturale, e perciò del tutto indebita;

— 2.°) un uomo può appartenere alla Chiesa, se non in atto, almeno in voto; ciò accade, quando, sebbene egli si trovi fuori della Chiesa, da lui ignorata, tuttavia ha l’animo disposto a far tutto ciò che Dio ha ordinato per il conseguimento della salvezza eterna; nel quale generale proposito (che è possibile a tutti coll’aiuto della grazia e che è assolutamente necessario) sta rinchiuso quello speciale di entrar nella vera Chiesa, appena si sia conosciuta: — 3°) quando si dice che — fuori della Chiesa non vi è salvezza — non s’intende parlare di coloro, che appartengono alla Chiesa in voto, sebbene adesso non vi appartengano in atto; questi possono salvarsi, e se si dannano, non si dannano perché non appartennero alla Chiesa, ma perché commisero peccati mortali, e non li detestarono, — ma, invece, si parla di coloro che non sono nella vera Chiesa — o perché non la vogliono abbracciare, dopo di averla conosciuta, — o perché, per una colpevole negligenza, non si curano di cercare la vera Chiesa ed abbracciarla. In poche parole, quel dogma riguarda tutti quelli che sono fuori della vera Chiesa, non in buona, ma in cattiva fede.

Da questo dogma, così inteso, è facile dedurre: —

1.°) che la Chiesa è una società necessaria, nella quale gli uomini debbono entrare per divino precetto; — 2.°) che sono false e contrarie alla dottrina di Gesù Cristo tutte le teorie, che danno all’uomo la libertà di scegliersi la Chiesa e sostengono che, ad ottener la salvezza, basta l’onestà della vita, l’osservanza della legge naturale, etc.; — 3°) che è assurda ed empia la così detta tolleranza religiosa, secondo la quale tutte le sette e tutte le religioni, sebbene fra loro diverse e contrarie, hanno lo stesso valore innanzi a Dio e conducono alla vita eterna: — è assurda, perché l’errore non può valere come la verità, né il vizio come la virtù, — è empia, perché suppone che Dio sia indifferente all’errore e alla verità, al vizio e alla virtù. — Questa tolleranza, che la Chiesa rigetta, è la religiosa, non la politica (la quale consiste in ciò che il principe, ad evitare discordie e guerre civili, non proibisce, anzi permette ai suoi sudditi di seguire la religione, che vogliono). — La Chiesa è intollerante verso gli errori, ma è piena di bontà e condiscendenza verso gli erranti e gli eretici, e non desidera che la loro conversione e salvezza.

[L’appartenenza al Corpo mistico è garantita solo dalla vera Chiesa e dall’adesione al “vero” Sommo Pontefice, Vicario di Cristo che ci è stato promesso da Cristo stesso – infallibile – fino al suo ritorno glorioso. Non c’è spazio per sedevacantismi “comodi” o di facciata omnipermessivi, né per fallibilismi o figure “materiali” non formali, né per eretici manifesti usurpanti la Sede apostolica. Anche Pietro è stato in carcere impedito, come tanti altri Pontefici del passato, figura dell’attuale situazione in cui il Vicario, come il Titolare uomo-Dio, si trova nel sepolcro impedito, ma pronto ad una gloriosa resurrezione, alla quale tutti noi Cattolici del Pusìillus grex siamo chiamati, come gli Apostoli, a credere sulla parola di Cristo.

Oggi, dopo 65 anni dalla deportazione a Babilonia (la falsa chiesa modernista dell’uomo), siamo chiamati alla preghiera continua per la restaurazione del legittimo Papato, in attesa fiduciosa della manifestazione della volontà divina come descritta da San Paolo (II Tessal.) e da San Giovanni apostolo (Apoc.).

Con ferma fede preghiamo per il Sommo Pontefice successore di Gregorio XVII eletto in quel 26 ottobre del 1958 e subito ricacciato nel “deserto” come descritto in Apoc. XII).

Santo Padre, ovunque voi siate, sappiate che questo pusillus grex prega per voi e spera ardentemente nella parola evangelica e della Santa Madre Chiesa Cattolica Romana, unica Arca di salvezza eterna! Viva Iddio, viva il suo Vicario in terra e che ci protegga la Vergine Santa – refugium peccatorun – e l’Arcangelo Michele, capo della milizia celeste, che ancora una volta sconfiggerà satana, il dragone infernale ed i falsi profeti attuali.

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (6)

VITA
dell’Angelico Dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (6)


dell’ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti
Card.
Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA – FRANCESCO FERRARI, 1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

38. — La Canonizzazione.

Mentre S. Tommaso spirava a Fossanova, il Beato Alberto Magno che in Colonia si accingeva a partire pel Capitolo di Lione, ove sperava rivederlo, fu veduto a un tratto dare in un dirotto pianto e fu udito esclamare: È morto Fra Tommaso, il mio figliolo in Cristo! La desolante notizia si sparse rapidamente per tutto. L’Università di Parigi, scrivendo al Capitolo di Bologna che doveva tenersi in quell’anno, si fece eco dei lamenti di tutta la Chiesa e ne pianse la rapida scomparsa come di un sole che in pieno mezzogiorno avesse sottratto al mondo i suoi raggi. – A Fossanova i monaci, pel gran concorso del popolo, doveron collocare per vari giorni la bara ove giaceva il sacro cadavere alla porta del monastero. Nei funerali solenni che si fecero, Fra Re- ginaldo fu invitato a parlare, e non potè sottrarsi a quelle preghiere. Le parole che egli disse, spesso interrotte dal pianto, furono il più bel panegirico che forse alcuno abbia mai fatto del Santo Dottore. Gli fu data sepoltura nella Chiesa davanti all’altar maggiore, prova luminosa del concetto che si aveva della sua santità. Ma prima che il corpo fosse collocato nella tomba, Fra Reginaldo ebbe cura di togliere dai suoi fianchi il cingolo prodigioso di cui gli angeli lo avevano cinto nel giorno del suo trionfo più bello, come in pegno dell’immacolata verginità che avrebbe conservato fino alla morte, e lo recò con sé al Concilio di Lione, ove, per incarico dei Padri, egli doveva portare il manoscritto del Santo Dottore domandato da Gregorio X. Il Beato Giovanni da Vercelli, che già si trovava, dal febbraio, a Lione presso il Pontefice, lo ricevé come il più prezioso tesoro; e terminato il Concilio, lo portò al suo convento di Vercelli dove fu venerato sino alla fine del secolo XVIII. Di là nel 1802, alla soppressione di quel Convento, fu recato a San Domenico di Chieri, ove tuttora si trova. Come fu chiusa la tomba, Fra Reginaldo si allontanò da Fossanova collo strazio nel cuore: ma prima di partire, dichiarò formalmente a nome dell’Ordine, che quella sepoltura non era che provvisoria, avendo ogni diritto d’avere quel venerato corpo la famiglia domenicana. – Non così pensarono i Cistercensi, che allegavano in difesa del loro diritto a ritenerlo una certa consuetudine; e per timore che un giorno o l’altro esso venisse sottratto, il loro Abate Giacomo da Firenze lo fece toglier via segretamente e lo fece deporre in un angolo della cappella di Santo Stefano. Ma sette mesi dopo fu riportato al suo luogo per comando dell’Abate stesso, che era stato atterrito da una visione. Dal corpo, trovato mirabilmente intatto, si diffuse per tutta la chiesa e il monastero un soavissimo odore. Fu celebrata allora una messa come di un santo confessore, e nessuno ebbe ardire di recitare le preci dei defunti e di usare i paramenti da morto. Intanto a quel sepolcro avvennero le grazie più strepitose, e di molte restò memoria nei processi: tutti acclamavano la santità del Dottore Angelico e ne predicavano le virtù. – Né minor lode veniva tributata alla sua dottrina, giudicata dai più non solo sicura, ma santa e prodigiosa. Un tal giudizio non era però ancora stato confermato ufficialmente dalla Chiesa, che suol prendere lentamente le sue decisioni; e non mancavan perciò i dissidenti, anche negli stessi centri di studio. Non era possibile, del resto, che la dottrina d’un uomo che, per stabilirla su solide basi, erasi dovuto opporre a tante correnti intellettuali, e che sebbene avesse derivato il suo sapere dalle maestose sorgenti della verità, poteva sembrare un novatore, fosse subito accettata senza contrasti. E questi sorsero; e, duole il dirlo, fu la stessa Università di Parigi, col Vescovo Stefano Tempier a capo, che appena tre anni dopo la morte del Santo Dottore, condannò, tra le altre, varie proposizioni che contenevano la dottrina di lui e della nuova scuola domenicana. Si vide allora partirsi da Colonia e venire a Parigi, sebbene vecchio di oltre ottant’anni, il Beato Alberto Magno, stato già a Tommaso maestro e padre, e che già eletto Vescovo di Ratisbona, era poi tornato alla quiete del chiostro. Nella celebre Università fece udire le sue parole in difesa del suo grandissimo alunno, che egli affermò vivente, dicendo che non avrebbe avuto bisogno d’esser difeso da un vecchio, che aveva ormai i piedi nella fossa! – La verità si fece strada a poco a poco, le opposizioni lentamente cessarono e la dottrina di San Tommaso andò prendendo piede via via in tutte le scuole. Una sentenza solenne della Chiesa aveva perciò nel caso nostro un doppio valore: dalla santità di Tommaso non avrebbe potuto disgiungersi la dottrina, ma l’una e l’altra dovevano in certo modo essere canonizzate. – E così, tra le altre cause che ritardavano la sentenza definitiva della Chiesa, fra le quali son da porsi le vicende travagliose della Santa Sede che poi la condussero all’esilio di Avignone, questa riesce tutta in lode del Santo Dottore, ed è il significato che tale sentenza avrebbe avuto in faccia al mondo cattolico. Non solo era da provarsi nel modo consueto la sua santità, ma glorificarsi in modo tutto speciale la sua dottrina, che per il suo carattere e la sua comprensione doveva esser manifestata come la dottrina comune della Chiesa e meritare a lui il titolo di dottore universale. – Introdotta infatti la causa nel 1318, fu compilato un processo, raccogliendo a Napoli ed a Fossanova le testimonianze, dal 23 luglio 1319 al 26 novembre del 1321. La Curia Romana, che risiedeva in Avignone, ne fece un rigoroso esame; e il 18 luglio del 1323, Giovanni XXII succeduto a Clemente V che là aveva trasferito la Sede, scriveva Tommaso nel catalogo dei Santi con gran solennità, alla quale intervennero Roberto d’Angiò Re delle Due Sicilie colla Regina e molti nobili del Regno, diciassette Cardinali, il Patriarca d’Antiochia, gli Arcivescovi di Capua e di Arles, il Vescovo di Londra ed altri altissimi Personaggi. Quel giorno, per volere del Pontefice fu festeggiato come la solennità del Natale. – Che tale esaltazione avesse altresì il valore di una consacrazione delle dottrine di San Tommaso, fu palesato dallo stesso Pontefice, che nella bolla di canonizzazione chiamò Opere di Dio gli scritti del Santo, e proferì quella sentenza rimasta famosa: Quanti articoli egli ha scritto, tanti miracoli ha fatto, aggiungendo che dopo gli Apostoli e i primi Dottori, egli aveva più di tutti illuminato la Chiesa di Dio. – Le solenni funzioni furon celebrate nella Chiesa di Nostra Signora des Doms, e i Domenicani le continuarono nella loro Chiesa. La canonizzazione di San Tommaso fu più efficace di qualunque apologia contro quelli che tuttora impugnavano alcune parti della sua dottrina. Essa fu il punto di partenza, veramente ufficiale, che lo condusse alla supremazia dottrinale che oggi ormai più nessuno gli contrasta.

39. — Le Sante Reliquie e il Sepolcro.

I Domenicani che avevano con somma gioia veduto alfine il loro grande Dottore decorato dell’aureola dei Santi, non ne possedevano ancora il corpo. Da esso i Monaci avevano nel 1288 tolta la mano destra, per farne regalo alla Contessa Teodora, sorella del Santo; e quando, nel 1304, salì al trono Pontificale Benedetto XI, Domenicano, temendo di perdere quelle sacre reliquie, avevano tolto il capo dal corpo ancora in carne e l’avevano dato in consegna al Conte di Piperno, pensando che se i Domenicani fossero riusciti ad avere il corpo, almeno la testa sarebbe rimasta nelle loro mani. – Così rimasero le cose fino al momento della canonizzazione, per la quale, strano a dirsi, non venne fatta alcuna ricognizione delle sante reliquie. Mentre Giovanni XXII in Avignone decretava a Tommaso gli onori dei Santi, il suo corpo restava, senza altro onore, a Fossanova. – Il timore di perdere le sacre reliquie si ridestò nei Monaci nel 1349, quando il Conte di Piperno, che già possedeva il capo, tentò d’impadronirsi del corpo. Il suo pensiero, possedute le reliquie, era di darle a Ludovico Re di Sicilia amico dei Domenicani, e aver denaro in compenso. La cosa fu scoperta dal Conte di Fondi Niccolò Caetani suo nemico, che si accordò col Vescovo della sua città e coll’Abate di Fossanova, perché il sacro corpo fosse trasportato nel suo castello, ove restò celato per dieci anni. Ma caduto egli un giorno da cavallo ed essendo in pericolo di vita, fe’ voto, che se ottenesse la guarigione, avrebbe restituito ai Monaci il sacro corpo. Il Conte guarì, e riportò il corpo a Fossanova, ma per breve tempo, perché poi, dimentico del voto, trovò modo di rapirlo di nuovo e lo riportò a Fondi, ove lo tenne nella propria camera, dalla quale fu poi recato nella cappella del castello. – Nella Città di Fondi i Domenicani avevano un Convento, già monastero benedettino, detto di Santa Maria, il più antico del Regno, dopo quello di Napoli. D’accordo col loro Generale Fra Elia da Tolosa, essi tanto fecero, che riuscirono ad avere dal Conte le desiderate reliquie, e le collocarono in un Oratorio dentro quel loro Convento. Era l’anno 1368. Sedeva sulla cattedra di San Pietro Urbano V, già abate di San Vittore a Marsiglia, favorevole ai Cistercensi. Maestro Elia fu da lui giudicato come un rapitore; ed avutolo a sé in Roma il sabato in alòis di quell’anno, il Papa gli disse: Tu hai rubato il corpo di San Tommaso! Ma il Padre Generale si gettò ai suoi piedi, ed esclamò: Padre Santissimo, e fratello nostro e carne nostra! Il Pontefice restò colpito da quelle parole, ed abbracciò il Padre Generale; e udito come alle ossa mancasse il capo e fosse tuttora a Piperno, ordinò che anche questo venisse restituito. E così fu fatto; ma rimane assai dubbio se fosse ceduto il vero capo; certo in Piperno è venerata una testa, ed è creduta del Santo Dottore. Si conservò memoria, in questo frattempo, di un altro colloquio avvenuto tra il Pontefice e il Padre Elia. Era il 16 giugno del detto anno, vigilia del Corpus Domini; e il Padre Generale disse al Pontefice: Un vostro grande predecessore, che portava appunto il vostro nome, Urbano IV, comandò a San Tommaso di scrivere l’Ufficio del Santissimo Sacramento. — È vero, disse il Pontefice, esso è cosa mirabile! Iddio concesse a San Tommaso una grazia singolarissima per potere scriver così della Santa Eucaristia! — Ebbene, disse il Padre Generale, per tanto merito abbia San Tommaso da Vostra Santità la grazia di poter alfine riposare presso i suoi confratelli! E così fu firmata la Bolla di concessione, e fu stabilito che il sacro corpo fosse trasportato a Tolosa, patria del Generale, anche perché, come fu detto, essa non aveva potuto avere, come avrebbe desiderato, il corpo di San Domenico, rimasto a Bologna. San Domenico, che raccolse i suoi primi religiosi a San Romano di Tolosa, poteva considerarsi come figlio di quel Convento. Durante il loro passaggio per le varie contrade d’Italia, le sante reliquie restarono celate; ed arrivate in Provenza, furon depositate nel monastero di Prouille all’insaputa delle suore. Intanto si preparò il solenne trasporto, che prese l’aspetto di un vero trionfo. Il venerdì 26 gennaio partì come un solenne corteo da Prouille, sostò ad Avignonet, ed arrivò all’aurora del 28 ad una cappella detta la Faretra fuori delle mura di Tolosa. La processione che di qui si svolse fu addirittura uno spettacolo: vi intervenne Luigi di Angiò fratello del Re Carlo, con molti Principi e Prelati; e l’intera turba si calcolò che giungesse a 150 mila persone. Mille faci accompagnarono le sante reliquie fino alla chiesa dei Frati Predicatori. Fu ad esse eretto un monumento in marmo, che dové certo abbellirsi di tutte le grazie dell’architettura e scultura trecentesca. Ma nel 1562 esso fu distrutto dal furore degli Ugonotti, i quali, fortunatamente, non dispersero le sacre ossa, che vennero trovate per terra avvolte in un drappo. Fu allora ideato un superbo mausoleo, di cui diè il disegno Fra Gaudio Borrey architetto e scultore domenicano. Era come un grandioso arco trionfale, aperto da quattro lati, che faceva riparo all’altare; lo adornavano dodici statue in dimensioni naturali; e tutto era scolpito con gusto e leggiadria. – Ma anche questo insigne monumento andò completamente distrutto nel 1790 dalla furia dei rivoluzionarii francesi: e la cassa fu posta in salvo nella Cattedrale di San Saturnino, dove nel 1878, per cura dell’Arcivescovo Desprez, poi Cardinale si coprì d’oro e di gemme.

40. — Il Dottore della Chiesa e il Patrono delle Scuole cattoliche.

Il titolo di Dottore con altri aggiunti di altissima lode fu dato a San Tommaso ancora vivente e subito dopo la sua morte: ma presto egli ebbe anche il nome di Dottore comune, ossia generale e universale: essendo la dottrina di lui fino dal suo secolo riconosciuta come dottrina comune nella Chiesa, quasi dottrina ufficiale, appartenente a lei come cattolica, vale a dire come universale. Così il titolo di Dottore Angelico vennegli dato fino dai primi tempi, essendo egli, come scrisse Leone XIII, da paragonarsi cogli angelici spiriti, non meno per l’innocenza che per l’intelligenza ». Toccava però al Santo Pontefice Pio V ad enumerare solennemente San Tommaso fra i Dottori della Chiesa, aggiungendolo come quinto ai quattro già salutati con quel titolo fra i Latini: San Gregorio Magno, Sant’Ambrogio, San Girolamo e Sant’Agostino. E questo egli fece con un celebre documento, di cui si conserva l’originale in San Domenico Maggiore di Napoli nella Cappella dedicata al Santo Dottore. Nell’emanare quella Bolla, firmata da trentacinque Cardinali, il grande Pontefice, mentre conferma a San Tommaso il titolo di Dottore Angelico, lo saluta fra i grandi Dottori, per aver egli non solo confutato gli errori del tempo suo, ma somministrato il modo di debellare anche le eresie che in seguito sarebbero sorte, del che aveva dato prova luminosa il Concilio di Trento. Ordina altresì che il giorno della sua santissima morte, 7 Marzo, sia celebrato in Napoli e in tutto il Regno come festa solenne. Così devesi a San Pio la celebre edizione, detta Pianeta di tutte le opere del Santo Dottore. – La decisione di San Pio V intorno alla nuova festa, accettata dai Napoletani col più vivo entusiasmo, li indusse a chiedere, dopo pochi anni, alla Santa Sede la nomina di San Tommaso a Patrono della Città e del Regno, da aggiungersi agli altri Santi Patroni. La domanda fu fatta a Clemente Vili dal Re, da cittadini d’ogni ordine e dal popolo intero. E il 22 Novembre del 1603, il Pontefice con viva compiacenza soddisfece al comune desiderio. Un’altra gloria era preparata a San Tommaso sullo scorcio del secolo XIX, quando al trono di San Pietro salì il gran Pontefice Leone XIII. Contro gli errori che traviano le intelligenze e corrompono i cuori egli non vide miglior rimediò che il ritorno alle sane dottrine e ai santissimi esempi del Dottore d’Aquino. A Leone XIII si deve la celebre enciclica Æterni Patris, che tutto il mondo accolse con plauso; a lui l’iniziativa della nuova e splendida edizione delle Opere di San Tommaso, detta Leòniana, ed a lui la nomina, domandata da quasi tutti i Vescovi della Cristianità, di San Tommaso a Patrono di tutte le scuole cattoliche, fatta col memorabile documento del 4 Agosto 1880. Alla gioventù che va educandosi nelle Università, nei Collegi, nei Seminarii e in tutti gli istituti cattolici, il gran Pontefice assegna Tommaso d’Aquino come celeste protettore, sia per la vita purissima, sia per lo studio di quella scienza che viene soltanto da Dio; e a tutti lo indica come guida sicura del pensiero cristiano. – A Duce degli studi additò San Tommaso il regnante Pontefice Pio XI fino dai primi giorni del suo sapiente governo, e confermò insieme quanto sotto i suoi predecessori Pio X e Benedetto XV era stato stabilito e confermato dal Codice di Diritto Canonico intorno al dovere di tenere come unica guida nelle discipline filosofiche e teologiche la dottrina di tanto maestro. E cólta l’occasione del sesto centenario della canonizzazione del Santo Dottore, Egli lo ha solennemente celebrato come eroe di santità e ad un tempo come maestro di vera sapienza; lo ha esaltato col nome di Dottore Eucaristico per aver egli divinamente scritto e poetato in lode del Divin Sacramento e ne ha presentato in modo speciale la purissima immagine alla cara gioventù come modello di quella purezza angelica, che è così necessaria per salire alle altezze della divina contemplazione. £ tutti i giovani egli ha chiamato, con amoroso invito, ad arrolarsi nella Milizia Angelica., perché mettano la loro purità sotto la tutela dell’Angelo delle scuole.

41. — L’arte e il “Trionfo di San Tommaso „.

Le belle arti, a cui San Tommaso indicò la più nobile via, spronandole, nel più decisivo momento della loro storia, alla riproduzione nella natura del vero e del buono, e che ebbero dalle sue dottrine un impulso potente a risorgere, dovevano compensare nel più bel modo un tanto benefizio. La pittura specialmente, che è la più spirituale delle arti, glorificò il Santo Dottore ideando per lui quello che per nessun altro Santo ella aveva concepito: una forma nuova di glorificazione tanto della sua santità che della sua dottrina. Rappresentò fin dal secolo XIV, e continuò nei successivi. San Tommaso come un pacifico trionfatore, che seduto nella sua cattedra accoglie in sé un tesoro di sapienza divina ed umana, e fattolo suo, lo converte in dottrina salutare a beneficio di tutto il popolo cristiano, mentre i contradittori sono costretti ad umiliarsi ai suoi piedi. Tale è il concetto del Trionfo di San Tommaso, quale ci rimane in meravigliosi dipinti dovuti ai nostri principali maestri e conservati i più nelle chiese domenicane. Primo fra tutti fu quello che colorì per la chiesa di Santa Caterina di Pisa Francesco Traini, di poco posteriore a Giotto, in una tavola, già terminata in cuspide, il cui centro è occupato dalla grande figura di San Tommaso seduto entro un sole luminoso. Manda su di lui un triplice raggio di luce il Verbo di Dio fatto carne, e Mosè, San Paolo e i quattro Evangelisti illuminano ad un tempo la sua intelligenza, mentre altri due raggi a lui giungono da Aristotile e Platone che gli mostrano aperti i loro libri. Tutta questa dottrina divina ed umana si aduna nel volume di San Tommaso, da cui poi si diffonde largamente nel clero e nel popolo, mentre si vede prostrato ai suoi piedi il filosofo arabo Averroè, ed il suo « gran commento » è fulminato da un raggio che esce dai volumi del Santo Dottore. Dietro l’esempio del Traini, Andrea di Bonaiuto, sotto la guida’ del celebre Fra Iacopo Passavanti, colorì un più splendido Trionfo di San Tommaso nel Capitolo di Santa Maria Novella in Firenze, e vi aggiunse l’omaggio delle virtù teologiche e cardinali e il corteggio di tutte le scienze e delle arti, mentre i contradittori umiliati son tre: Sabellio, Ario e Averroè. Non mancò di colorire il suo Trionfo di San Tommaso il Beato, suo confratello, Fra Giovanni da Fiesole, che ebbe con lui comune il titolo di Angelico, e immaginò con semplicità, ma con vera genialità, San Tommaso che trionfa nella sua scuola, ove vediamo, tra gli altri uditori, San Luigi Re di Francia, mentre i contradittori sono Sabellio, Averroè e il celebre Guglielmo di Sant’Amore che, come vedemmo, fu da San Tommaso vittoriosamente confutato. – Splendido è il trionfo che il discepolo del Beato Angelico Benozzo Gozzoli colorì per la Primaziale Pisana e che sta ora nel Museo del Louvre in Parigi. Con arte più perfetta egli ripete il concetto del Traini, ed aggiunge nella base in piccole figure la scena della canonizzazione del Santo fatta da Giovanni XXII. – Due dipinti di questo soggetto ci lasciò, fra gli altri, la celebre scuola siciliana di Antonello da Messina. Uno, dovuto probabilmente allo stesso Maestro, già adornò la Chiesa domenicana di Santa Cita di Palermo, l’altro, della sua scuola, era già nella Chiesa dei Domenicani in Siracusa. In questi due dipinti è specialmente segnalato il vantaggio reso dalle dottrine di San Tommaso non meno alla Chiesa che alla civile società, rappresentata la prima dal Pontefice, la seconda dal Re; e la grandezza della scienza del Maestro Angelico si deduce dalla luce celeste che a lui viene dai due grandi apostoli Pietro e Paolo. Un più grandioso sviluppo si ha nel Trionfo di San Tommaso dovuto al pennello di Filippino Lippi, che lo affrescò nella Cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva di Roma. San Tommaso siede in ornatissimo trono, e gli stanno al fianco quattro vergini che figurano la Grammatica, la Dialettica, la Filosofia e la Teologia; e gli eretici più famosi, Ario, Sabellio, Apollinare, Fozio, Manete, stanno aggruppati ai piedi del trono e mirano i loro libri caduti a terra e lacerati, mentre il volume di San Tommaso splende di vivissima luce e Averroè giace vinto sotto i suoi piedi. La scuola spagnola tributò a San Tommaso un encomio sublime colla tavola di Francesco Zurbaran, vera apoteosi dell’Angelico Dottore, su cui discende la celeste sapienza dallo Spirito stesso di Dio; e i quattro massimi Dottori della Chiesa latina gli fanno a destra e sinistra solenne corteggio. Anche l’arte moderna rese a San Tommaso il suo tributo di ammirazione coi due celebri affreschi nei quali Ludovico Seitz si fece interprete del pensiero di Leone XIII, da cui ebbe incarico di colorirli nella volta della Galleria dei Candelabri in Vaticano. In due dipinti esagonali figurò l’omaggio che San Tommaso fa delle sue opere alla Chiesa, che le offre il ramo di lauro, mentre egli le dice di avere attinta tutta la sua scienza da Gesù Crocifisso, che a lui rivolge le parole: Hai scritto bene di me. I suoi libri di Teologia, di Filosofìa e i Commenti sulla Sacra Scrittura sono tenuti in alto e mostrati a tutti da tre Angeli bellissimi, mentre i corifei dell’empietà sono in vari modi atterriti. E vediamo tra questi Guglielmo di sant’Amore col suo impotente libello, Berengario, i due giudei Avice-bron e Mosè Maimonide e i corruttori arabi di Aristotile Avicenna e Averroè, debellati tutti per sempre dalle dottrine di San Tommaso d’Aquino. – A quest’omaggio della pittura, che in varii modi figurò il trionfo di San Tommaso e con Raffaello nella sua celebre Disputa lo pose in mezzo ai grandi dottori della Chiesa prima che San Pio V gli decretasse un tale onore, ed illustrò in tanti capolavori i fasti della sua vita, si unì quello non solo della scultura e dell’architettura, ma della musica e della poesia. E basti per ogni elogio la glorificazione che ne fece Dante Alighieri nella sua Divina Commedia, precorrendo il decreto di Giovanni XXII e collocando San Tommaso nel cielo del sole, tra le più alte intelligenze che brillano di perpetua luce presso il trono di Dio.

APPENDICE

Cenno sulle fonti storiche più antiche della Vita di San Tommaso d’Aquino.

I. — Fra Gerardo di Frachet, Domenicano, vestito nel 1225 e morto nel 1271, è l’autore del prezioso libro Vitæ Fratrum, da lui composto per ordine del Beato Umberto de Romanis, quinto Generale dei Predicatori. Parla di San Tommaso ancora vivente, e perciò non lo nomina. Narra di lui il fatto del suo arresto per opera dei fratelli, una visione avuta in Parigi, l’apparizione a lui della sorella e il sogno avuto prima di tenere il suo Principium per il Dottorato. — V. ed. di Lovanio 1896, pag. 201, § III e pag. 215, §§ VI, VII e VIII.

II. Fra Tommaso da Cantimprato, Domenicano belga, nato nel 1201 a Leuwis presso Bruxelles, entrò nell’Ordine nel 1232 nel Convento di Lovanio. Fu discepolo del B. Alberto Magno in Colonia prima che vi venisse San Tommaso. Morì verso il 1272. È celebre il suo volume Bonum universale de Apibus, dedicato al B. Umberto de Ro- manis. Nel libro I, cap. 20 (Ed. Donai 1627) parla della gioventù di San Tommaso e delle celebri contese sorte nell*Università di Parigi al tempo di Guglielmo di Sant’Amore.

III. — Fra Guglielmo di Tocco, Domenicano, da Benevento, nato verso il 1250 e morto dopo il 1323. È autore della più completa biografia del Santo, da lui scritta in previsione della Canonizzazione. Fu già discepolo di lui in Napoli. Dai Superiori dell’Ordine ebbe incarico di raccogliere le testimonianze per il processo. La biografia, dal titolo Historia Beati Thomae de Aquino Ordinis Frairum Praedicatorum, è stampata per intero nei Bollandisti Acta San- ctorum, nuova edizione, T. I di Marzo, pagg. 657-687 e ristampata dal P. Prum- mer O. P. nella sua collezione : Fontes Vilae ó*. Thomae Aquinatis, Tolosa 1912, Fase. II, p. 57-152.

IV. — Fra Tolomeo da Lucca, Domenicano, morto nel 1322, ha varie notizie biografiche su San Tommaso nella sua Historia Ecclesiastica (lib. XXII, cap, 20-25, 29, e lib. XXIII cap. 8-15) scritta poco prima del 1317 e stampata da L. A. Muratori nell’Opera Rerum italicarum Scriptores, Milano 1727. T. XI, col. 1151-1173. Fra Guglielmo di Tocco lo cita nella sua Historia Beati Thomae, Fu discepolo di San Tommaso in Roma nel 1272, e poi in Napoli fino alla partenza del Santo Dottore per il Concilio di Lione; e udì spesso le confessioni di lui. Fu eletto nel 1318 Vescovo di Torcello, e resse quella sede per circa 4 anni.

V. — Fra Pietro Calò, di Chioggia, Domenicano; scrisse verso il 1320 in 2 grossi volumi le sue Sanctorum, e fra queste una biografia di San Tommaso stampata recentemente dal P. PrOmmer o. c. Fase. I, pag. 17-55.

VI. — Fra Bernardo Guidonis (de la Guyonne), Domenicano, nato nella diocesi di Limoges verso il 1260 eletto nel 1324 Vescovo di Tuy e poi di Lodève, prov. di Narbona, morto nel 1331, scrisse, tra le altre cose, una Legenda Sancii Thomae de Aquino stampata da Boninus Mombritius, nella sua opera Sanciuarium, seu Vitae Sanctorum, Milano 1480. T. IL (Altra edizione Parigi 1910 in 2 volumi). Vi fu tralasciata una parte, edita però nei Bollandisti op. cit. Vol I. Martii, p. 716-722.

VII. — Processus ìnquisitionis factae super mia, conversatione ei miraculìs recoL mem. Fr. Thomae de Aquino Ord. Frairum Prae- dicaiorum, Sacrae Theologiae Doctoris anno salutis MCCCXIX etc. Bollandisti, op. cit. pag. 684-714. Il Processo fu tenuto a Napoli dal 21 luglio al 18 settembre 1319 e poi a Fossanova nel 1321. Manca un frammento stampato dal Baluzio, Vita Paparum Avenionensium, Parigi 1693. T. II col. 7 e dall’Ab. Uccelli, che ne aggiunse un altro, totalmente inedito, nello scritto: Due documenti inediti per la vita di S. Tommaso d’Aquino, Napoli 1873.

VIII. — Bolla di canonizzazione di S. Tommaso, del dì 18 Luglio 1323, di Giovanni XXII. Stampata più volte, e recentemente nel voi. XVI degli Analecta Sacri Ord. Fratrum Prædicatorum, pag. 173-192, con un esame diplomatico e molte annotazioni, e nel volume: In honorem D. Thomae Aquinatis documenta pontificia ele. Tip. Vaticana, 1923, pag. 9-27, con fac-simile tratto dall’esemplare autentico.

IX. — Fra Raimondo di Ugo, segretario e compagno del P. Elia da Tolosa Maestro Generale dell’Ordine dal 1367 al 1369, lasciò uno scritto intitolato: Historia Transla- tionis Corporis S. Thomæ da Aquino, stampato dai Bollandoti dall’autografo di Tolosa, op. cit. pag. 723-731, con varii documenti, pag. 731-736. Morì nel 1368.

X. — Sant’Antonino Pierozzi, Domenicano, Arcivescovo di Firenze nato nel 1389, morto nel 1459 ha una completa biografia di San Tommaso nel vol. III delle sue celebri Cronache, Tit. XXIII, c. VIII, p. 644- 656. In essa è raccolto con diligenza e in bella forma in 14 paragrafi quanto si ha negli storici precedenti, sicché poco, nella parte sostanziale, hanno potuto aggiungere i biografi posteriori.

Altre preziose notizie, specialmente sull’insegnamento di San Tommaso a Parigi e sulla parte da lui presa nelle cose concernenti l’Ordine Domenicano, si hanno dalla pubblicazione del Chartulariicm Universitaria Parisiensìs, stampato a Parigi nel 1889 dal P. Denifle O. P. e da P. Chatelain; e dai volumi degli Aria Capitulì Generalis Ord.

Praedìc. stampati a Roma 1898-1900 dal P. Reichert O. P. Si aggiungano gli estratti da varii Capitoli Generali, pubblicati nel detto voi. Analecta S. O. P. da pag. 168 a pag. 173, Vari eruditi, al presente, come i Domenicani P. Mandonnet, P. Destrez e P. Prùmmer, il P. Pelster S. I., il Prof. Scandone ed altri vanno compiendo diligenti studi sulle predette fonti ed accurate ricerche negli archivi d’Europa, per avere altri dati biografici, e specialmente per stabilire la cronologia, ancora incerta in vari punti, della vita di San Tommaso. E da sperarsi che si giunga a buoni risultati, e che si possa alfine avere una vita veramente critica, cosa che il P. Prùmmer (o. c. p. 7) ritiene impossibile nel momento. Mentre questo serve a giustificare le lacune e incertezze che potranno trovare i lettori nel nostro umile lavoro, non potrà però provare V inutilità di quegli scritti che fanno conoscere, come al presente si può, la vita mirabile del Santo Dottore.

F I N E

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (5)

VITA
dell’Angelico Dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (5)


dell’ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti
Card.
Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA – FRANCESCO FERRARI, 1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

31. — La Somma Teologica.

Scongiurato il pericolo, Tommaso restò nella sua cella di Santa Sabina ringraziando il Signore per la quiete che gli aveva conservato; e si sentì obbligato ancor più ad un assiduo lavoro per il bene della Chiesa. Pose allora mano a quell’opera grandiosa, a cui doveva per sempre legare il suo nome: La Somma Teologica. Il lavoro durò circa nove anni, alternato alla composizione di altre varie opere più o meno estese, come i mirabili Commenti sopra Aristotile e molti trattati più o meno lunghi, raccolti sotto il titolo di Quodlibeti, Questioni disputate ed Opuscoli, scritti la maggior parte per rispondere a quesiti che da varie parti gli venivano mossi. – Nel ripensare a così poderoso lavoro e al breve tempo che vi impiegò, non ci fa meraviglia se leggiamo di lui, e troviamo confermato nei Processi, che dettasse talvolta a tre e quattro scrittori ad un tempo, di diverse materie. Ma nulla è impossibile a Dio, che volle in Tommaso stampare una vasta orma del suo infinito potere. – L’idea di San Tommaso nel metter mano alla Somma Teologica non poteva esser più modesta. Volle unire, ei ci dice, come in compendio, nella forma di brevi articoli, quanto da diversi era stato scritto intorno alle dottrine cristiane, e quanto egli stesso aveva scritto più ampiamente in altri luoghi; fare quasi una compilazione a vantaggio degli incipienti e con un metodo ad essi proporzionato; perché molti, dalle troppe questioni che si facevano e dalla mancanza di ordine, restavano confusi ed impediti. Ne sorse invece un capolavoro immenso, il primo e il più complesso insieme di Teologia cattolica, che fosse fino allora comparso, e tale da togliere a chiunque la speranza di superarlo. Pel numero delle questioni risolute da lui in ogni loro parte intorno a Dio e alle opere sue, può chiamarsi una portentosa enciclopedia, mentre per l’ordine meraviglioso e per l’esatta rispondenza delle parti abbiamo il diritto di dirla una sintesi perfetta, a cui nulla manca, né la necessaria chiarezza, né la scrupolosa precisione, né la vigorosa brevità, né la sicurezza assoluta della dottrina. – La Somma Teologica è divisa in tre grandi parti, di cui la seconda, per la vastità della materia, è suddivisa in due. Da Dio uno e trino tutte le creature procedono; gli Angeli e l’uomo sono le più perfette. Degli Angeli quei che peccarono sono in eterno lontani da Dio; l’uomo peccò, ma trovò presso Dio misericordia e grazia per Gesù Cristo, che è lo stesso Dio fatto carne. Chi sta unito a Cristo e si giova dei mezzi da lui stabiliti, salirà al possesso eterno di Dio; chi non vive di Cristo resterà in eterno lontano da Dio. Tale è il concetto semplice e meraviglioso di tutto il lavoro, che in 512 questioni, divise in 2652 articoli, nulla tralascia di quanto spetta alle materie teologiche e morali necessarie a conoscersi dagli studiosi. Le grandi intelligenze, di cui Iddio aveva fatto dono al mondo fino allora, non avevan saputo crear nulla di simile, né alcuno poi, in questa materia, ha potuto o saputo far meglio che tener dietro a lui. – Nessun libro ha avuto dalla Chiesa tante lodi come la Somma, e basti in luogo di tutte il fatto, che nel Concilio di Trento essa venne posta dai Padri in mezzo all’aula insieme alla Sacra Scrittura e ai decreti dei Pontefici, come la guida dottrinale più solida che potessero trovare. Il lavoro fu cominciato nel 1265, quando San Tommaso ebbe evitato il pericolo dell’elezione ad Arcivescovo di Napoli. Lo continuò, salvo alcune interruzioni, fino al 6 dicembre del 1273, e, come vedremo, lo lasciò interrotto. Venne completato dal suo fedele compagno, Fra Reginaldo da Piperno, con un Supplemento, tratto in gran parte dai Commentari del Santo Dottore sui Libri delle sentenze di Pietro Lombardo.

32. — Al Capitolo di Bologna.

Per il Capitolo Generale del 1267 era stato scelto dai Padri il Convento di Bologna. Fu appresa con somma gioia in quella città la notizia, che vi si sarebbe recato, in tale occasione, il celebrato Dottore; e la celebre Università soprattutto si tenne sommamente onorata di riceverlo e di udirlo. – Raccontano gli storici che la venuta di Tommaso in Bologna pose in tutti quei Professori e studenti come un nuovo ardore per lo studio della verità. Le lezioni che vi tenne per varie settimane restarono memorabili; e si sa che Tommaso condiscese volentieri a rispondere a molti quesiti che gli vennero fatti; così si ebbero nuovi e importanti opuscoli che poi furono raccolti. Ma un vero motivo di gioia ebbe Tommaso da quel viaggio, per essersi potuto trovare ad una cerimonia che fu oltremodo cara al suo cuore di figlio di San Domenico. Il 6 di agosto del 1221 il Santo Patriarca, in Bologna, spirava serenamente, tra il pianto dei suoi figli, che, per eseguire la sua volontà, lo avevano sepolto in umile luogo. Ma il 24 maggio del 1233 il suo successore, il Beato Giordano di Sassonia, aveva fatto aprire la tomba ed aveva trovato il cadavere incorrotto ed esalante gratissimo odore; ed aveva ordinato che venisse collocato in una tomba di pietra all’ingresso del coro. Il 3 luglio del seguente anno Gregorio IX proclamò solennemente la santità del grande Fondatore dei Predicatori; e si pensò allora ad una tomba più decorosa. Si dové alle premure del Beato Giovanni da Vercelli, quando fu eletto Provinciale di Lombardia, l’iniziativa del nuovo lavoro; ed eletto, come vedemmo, nel capitolo di Parigi, Generale dell’Ordine, fece decretare dal Capitolo seguente di Montpellier la costruzione di un solenne monumento, come veniva chiamato. Fu posto mano all’opera ; e sapendo che nel 1267 il lavoro sarebbe stato pronto, ottenne dai Padri adunati l’anno innanzi a Treviri che il Capitolo del 67 si tenesse in Bologna. E veramente solenne fu il lavoro che nella primavera della nostra scultura uscì dalle mani dei maestri di Pisa, e specialmente del bravo e dolce Fra Guglielmo, che lavorò per intiero, o almeno in gran parte, le ammirabili storie dello stupendo sarcofago. Aveva preso l’abito di converso nel convento pisano di Santa Caterina, ed aveva soli 26 anni quando si recò a Bologna con Niccola suo maestro, che dai Domenicani aveva avuto la commissione dell’opera; e ben volentieri il Maestro concesse al bravo artista di lavorare attorno alla tomba del Padre diletto. In due anni la bellissima arca fu scolpita, e così la nuova traslazione del corpo del Santo Padre poté essere onorata dalla presenza di tutti i Padri capitolari. Con essi e con quelli accorsi da varie parti, i religiosi raggiunsero il numero di cinquecento. – In questa bella schiera troviamo dei santi, come lo stesso Beato Giovanni da Vercelli, il Beato Giacomo da Varazze, poi Arcivescovo di Genova e il Beato Bartolomeo da Braganza, già Vescovo di Vicenza. Ma era dolce il vedere nella bella schiera spiccare la figura di San Tommaso, il più grande tra i figli di tanto Padre. – Alla festa celebrata nel giorno 5 giugno, solennità di Pentecoste, prese parte il Potestà di Bologna con tutto il suo seguito; e Clemente IV inviò speciali indulgenze. In tale circostanza San Tommaso mostrò il suo cuore di figlio, scrivendo in lode del Santo Patriarca un sermone, ove lo rassomiglia al sole, ministro di generazione delle cose, che le vivifica e nutre, le aumenta e perfeziona, le purifica e le rinnova. – Dopo il Capitolo di Bologna, se ne tornò a Roma sollecitamente, ove continuò nella quiete a lavorare attorno alla Somma.

33. — Al Re di Cipro.

Tra gli scritti che gli storici assegnano al tempo della dimora dell’Angelico Dottore in Bologna è degno di esser ricordato l’opuscolo del Governo dei Principi. Come già alla Duchessa del Brattante aveva il Santo Dottore indirizzato un opuscolo sapientissimo su varie questioni, specialmente sul modo di governare i Giudei, così ad istruzione del giovane Ugo II, Re di Cipro, della nobile dinastia dei Lusignani, cominciò a scrivere in Bologna quel celebre trattato, ove parla delle origini del potere, dei diritti e doveri dei governanti, e dell’esercizio della sovranità. Ma essendo morto, prima della fine di quell’anno 1267, il giovane Re, quel libro rimase incompleto e fu poi terminato dal suo discepolo Fra Tolomeo da Lucca, credesi sopra appunti lasciati dal Maestro. – Nei diciannove capitoli dovuti interamente al Santo Dottore si hanno mirabili documenti della sua alta sapienza. Dalla sorgente stessa del vero essa traeva le sue origini, e ben poteva estendersi anche alla pratica delle cose umane ed alla stessa politica, che non è arte astuta per reggersi sopra un trono od in un seggio qualunque, ma scienza diretta a ben governare gli uomini: e nessuno avrebbe allora pensato che per far godere ai popoli la prosperità materiale fosse espediente il privarli di quei beni dello spirito che la religione soltanto può dare. – Fu certo mirabile cosa il vedere un religioso mendicante che, senza uscire nemmeno di un passo dalla sua condizione, diveniva precettore dei re, e dall’umile sua cella dava lezioni ai potenti della terra. La superiorità morale di quest’uomo si sente dalla stessa nobiltà dello stile. Egli vuole presentare al re cosa che sia degna della reale maestà, e ad un tempo conveniente alla sua professione ed ai suoi doveri. E per farlo, egli chiede l’aiuto a Colui per cui regnano i re e i legislatori determinano le cose secondo giustizia. Parla anzitutto del regio potere in generale, e lo richiama al primitivo concetto dell’ufficio del pastore e del padre, così nobilitato dal Santo Vangelo. Esso gli vien suggerito dalla natura stessa dell’uomo e della società e dallo scopo finale dell’uno e dell’altra: Il pastore cerca il bene del suo gregge e non il comodo proprio, il padre vive pei figli e li provvede del necessario alla vita, regge la famiglia coll’autorità a lui data da Dio; tutti e due amano e vogliono essere amati, obbediti, seguiti. È regime perverso quello di chi cerca il vantaggio proprio e non il bene comune; e se un tal regime risiede in un solo, è tirannia. Esalta il Santo Dottore la superiorità del regime monarchico quando è giusto; perché meglio imita il governo di Dio nell’universo, ed ha ottimi esempi nell’unità dell’anima nell’uomo e del capo nel corpo; ma l’unità del capo, egli dice, vuole il concorso di tutte le membra all’azione, come l’unità dell’anima richiede l’esercizio conveniente delle varie facoltà spirituali e corporali. Così è bella la similitudine della nave, ove sian pure molti uomini nelle varie parti, ed artisti a restaurarla se guasta, ma a governarla non deve starvi che un capo. In quest’armonia tra il diritto di chi comanda e i doveri di chi ubbidisce, il dovere di ben governare e il diritto nei popoli d’esser ben governati, si ha il gaudio della pace, il fiore della giustizia, l’affluenza dei beni, la stabilità del governo. « Quando il regime è giusto, egli dice è bene che esso stia nelle mani di un solo; perché  così sarà più forte ». Ma se in chi regge le sorti della città e dello stato manchino le doti e virtù necessarie, né possa ottenersi che le acquisti, allora al cattivo governo di quest’uno sarebbe da preferirsi il governo di più; male minore che ne impedisce uno maggiore; la tirannia è pessima cosa, perché direttamente opposta al virtuoso governo di un solo, che ha chiamato ottimo. Per evitar tanto male, lo stesso monarca dev’esser richiamato a considerare lo stretto dovere che ha di rendersi degno di tenere uno scettro. Né la corona d’oro che gli cinge la fronte egli deve credere che talvolta non sia irta di spine. Per il bene altrui e per osservare debitamente la giustizia non è raro che tocchi al monarca tollerar pene e sacrifici; non è privo di angustie il pastore che vuol governare e difendere il suo gregge, né il padre che dà alla famiglia il frutto dei suoi sudori. A lui darà la religione virtù e fortezza per sacrificarsi quando occorra, pel bene del suo popolo. Ed un altro premio avrà dall’amore dei sudditi; preziosa ricompensa di chi ben governa, invano cercata dal tiranno che non trova chi lo ami, se non per proprio interesse, e finché questo dura. Ma d’altra parte anche ai sudditi conviene rendere men grave il peso a chi governa colla docilità e ubbidienza, ed anche col tollerarne le imperfezioni né sempre esigere l’ottimo, che nelle cose umane non si trova. Così a chi regge è tolto ogni motivo di incrudelire e piegarsi a tirannia. Se questo non si fa, sul popolo stesso ricade il danno, perché sono non di rado un castigo di sudditi indocili gli inetti o cattivi governanti. – Ed è mirabile il vedere con che acume il Santo Dottore tratta di ciò che spetta alle sollecitudini che ha da prendersi tanto il re quanto chi lo aiuta nell’esercizio del suo potere; l’udirlo trattare della necessità di promuovere il benessere dello stato col far prosperare soprattutto l’agricoltura e cercare lo sviluppo dei commerci. In questo punto è notevole come egli preferisca, in vantaggio comune, la ricerca della ricchezza che l’uomo trova nel suolo, e chiama più degna la nazione che ha l’abbondanza delle cose dal territorio proprio ». Non vieta al monarca di cercar ricchezze, onore e fama, e soprattutto la stabilità del suo potere, quando tutto sia rivolto al comune vantaggio che rimane sempre il fine d’ogni onesto regime; così la sua ricchezza e la sua gloria è come un patrimonio di tutti. Fu un vero danno che quest’opera rimanesse incompleta; sebbene in ciò che ci resta siano poste sapientemente le basi a dimostrare il vantaggio che alla società civile possono apportare i principii della morale cristiana.

34. — Ultimo viaggio a Parigi, e ritorno in Italia.

La dimora in Italia del Santo Dottore dové interrompersi un’altra volta per la sua andata a Parigi, ai primi del 1269 pel Capitolo Generale. Fu pregato a voler riprendere nello studio generale di San Giacomo il suo uffizio di Reggente, ed acconsentì. Il Capitolo fu tenuto, come per il solito, nella Pentecoste; e lo presiedé il Padre Giovanni da Vercelli. Sebbene la presenza di San Tommaso in quel Consesso abbia portato senza dubbio qualche vantaggio, e si ricordi in particolare un suo giudizio dottrinale intorno al segreto, pure è da pensarsi che qualche altra grave ragione inducesse. Tommaso a sostener la fatica di questo viaggio. Il Beato Giovanni era entrato in relazione con Clemente IV; e perfettamente si era inteso con lui intorno al gran bisogno della Cristianità in questo momento. Il comune desiderio era la sospirata unione della Chiesa Greca colla Latina, ed insieme il buon esito di una nuova Crociata contro gli infedeli; e il Papa sperava molto dall’Ordine di San Domenico, così diffuso anche in Oriente, e dalla scienza dei suoi Dottori, che avrebbe domato l’orgoglio dei Greci, ostacolo principale alla desiderata unione, che all’opera della Crociata avrebbe recato vantaggi immensi. Con una lettera del 9 giugno del 1267 si era rivolto al Maestro Generale, facendo assegnamento sull’aiuto di tanti bravi difensori della Chiesa, chiamati a riparare la grave rottura che lo scisma aveva fatto nella veste inconsutile di Gesù Cristo; e domandava intanto tre Religiosi per inviarli come suoi Legati all’Imperatore Michele Paleologo. – Non meno intense erano le premure del Santo Re Luigi IX, che non poteva consolarsi d’aver dovuto lasciare nelle mani degli infedeli il Santo Sepolcro di Cristo, e voleva bandire un’altra volta la guerra santa, nonostante i recenti disastri delle armi cristiane. Ottenuto il consenso da Clemente IV, si era anch’egli rivoltò ai Frati Predicatori per aver bravi missionari che bandissero ovunque la nuova crociata. Si sa infatti che per tutto quell’anno 1268 molti religiosi dell’Ordine furon destinati a tale ufficio. – Ma il 29 novembre dello stesso anno Clemente IV, dopo appena tre anni e dieci mesi di pontificato, moriva in Viterbo; e per deplorevoli circostanze l’elezione del successore ebbe un ritardo di due anni e nove mesi, con danno non leggiero per la Chiesa. Nondimeno i predicatori della Crociata continuarono nella loro missione, e il Capitolo di Parigi cercò di giovare alla grande opera, ordinando che si annunziasse la prossima partenza del Re e si raccogliessero offerte e pii legati dai fedeli. Intanto arrivavano orribili notizie dall’Oriente. Antiochia era caduta, Fra Cristiano, già Frate Predicatore, Patriarca di quella sede, era stato assassinato con quattro religiosi, nella sua Cattedrale, dai militi di Saladino; centomila Cristiani erano stati massacrati, molte suore oltraggiate e passate a fil di spada. Questi fatti aumentarono lo zelo del re, che cercò di affrettare la partenza col suo esercito. Ma prima di prendere in San Dionigi la croce e il bordone da pellegrino, ebbe varii colloqui col suo dolce amico San Tommaso. Era l’ultima volta che queste due grandi anime si incontravano su questa terra. Tommaso non doveva più toccare il suolo di Francia; ed il buon re, che il 1° luglio del 1270 partì da Aigues-Mortes, dopo lo sbarco a Cartagine, sotto i dardi di un sole cocente, il 25 agosto, colto dalla peste che distrusse gran parte dell’esercito crociato, spirò fra le braccia dei Frati Predicatori che nel viaggio gli erano stati amorosi compagni. Il suo corpo, recato da una nave a Trapani, traversò poi tutta l’Italia, portato come in trionfo fra le popolazioni commosse. Non mancaron certo le lacrime del suo grande amico San Tommaso d’Aquino. In Parigi Tommaso era da tutti ricercato. Può dirsi che dalla sua cattedra egli dirigesse il pensiero cristiano del suo tempo. Ciò che egli diceva era la dottrina cattolica che lo diceva; e tutti convenivano in questo pensiero. Tacevano le dispute ai piedi della sua cattedra, ogni dubbio svaniva; e la verità si manifestava in tutta la sua limpidezza. Né cessò in questo frattempo di scrivere o dettare; e i suoi sapienti consigli erano ricercati da tutti. Ma la volontà dei superiori lo richiamava a Roma; ed egli se ne tornò con molto rammarico di ognuno, non senza esprimere la sua viva gratitudine e la sincera affezione che conservava verso una città così piena per lui di grate memorie. Non i trionfi della sua dottrina gli tornarono a mente, ma i ricordi dei bravi maestri, dei colleghi e condiscepoli, di tanti alunni, insieme coi quali era salito alle altezze della divinità, di tanti confratelli, che lo avevano amato, e di cui egli aveva ricambiato con tenerezza la devota affezione. Ripassò da Bologna, ove la sua pietà era attratta dal sepolcro ove egli stesso aveva visto porre con tanto onore le ossa del suo caro e venerato Patriarca, di cui era così viva tra quei religiosi e in tutto il popolo la memoria. E forse in quest’occasione accadde il fatto che dobbiamo narrare, ricordato dai biografi, che fé conoscere quanto in lui fosse radicata la virtù dell’obbedienza. Un frate converso, che doveva uscire per la città a far provvisioni, chiese al Padre Priore la consueta benedizione ed il compagno. Il Priore, senz’altro pensare, gli disse che prendesse per socio il primo frate che gli capitava. Sceso il converso, s’imbattè in Fra Tommaso, che non conosceva, e gli riferì le parole del Priore. Tommaso accettò senz’altro; e fu visto tener dietro a stento per le vie di Bologna al frettoloso converso, sebbene stanco, e impedito da certo dolore ad una gamba. Ma per la città alcune persone riconobbero nel religioso zoppicante il celebrato Maestro, ed avvisarono il laico. Figurarsi la meraviglia, le scuse, le proteste del povero frate! Ma Tommaso non fece altro che sorridere; e disse con tutta calma: Son piuttosto io che merito rimprovero; voi avete fatto l’obbedienza, ed io invece non son riuscito a farla come avrei desiderato! Dopo aver pregato e pianto sulla tomba del santo Patriarca, rivalicò l’Appennino e se ne tornò a Roma.

35. — San Tommaso a Napoli.

Sebbene ancora il Santo Dottore fosse nella sua piena maturità ed avesse appena toccato il quarantacinquesimo anno, egli prevedeva la sua rapida scomparsa. La sua vita si faceva sempre più calma, i rapimenti erano più frequenti, una dolcezza inesprimibile, quasi come in dolce parola d’addio, si vedeva in tutti i suoi atti; e i suoi discorsi mostravano come egli si andasse sempre più staccando dalla terra ed anelasse al cielo. Varie città, intanto se lo contendevano a gara. La sua fama era volata tanto alta, che il solo averlo con sé sarebbe parso onore sì grande, da essere ambito più che qualunque altra gloria. Parigi, che ne aveva educato l’ingegno e dove egli aveva rivelato la sua grandezza, lo richiedeva nella sua Università; Bologna, dove egli aveva trovato tanta corrispondenza di stima e di affetto, gli offriva la più generosa ospitalità; Roma, la metropoli del mondo cattolico, lo avrebbe visto volentieri restare a fianco del Pontefice; e Napoli, che, d’altra parte, poteva dirlo suo e dove aveva ricevuto l’abito dell’Ordine, si lagnava che ancora non aveva potuto averlo; e tutte queste città moltiplicarono le loro istanze al Generale dell’Ordine. Il Capitolo Generale, che si tenne nel 1272 a Firenze, ebbe da quasi tutte le Università d’Europa domanda di averlo, almeno per qualche tempo; e sembra quasi che ovunque si prevedesse la sua scomparsa, e tutti desiderassero di udir quella voce prima che tacesse per sempre. La vittoria toccò a Napoli. I Superiori dell’Ordine, consentendo il Pontefice, accolsero le istanze del Re Carlo d’Angiò e Tommaso, dopo aver venerato per l’ultima volta le tombe dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e salutati i suoi confratelli di Santa Sabina, se ne parti per Napoli col suo indivisibile compagno, Fra Reginaldo. Vi giunse alla fine dell’estate del 1272. – La gioia della città fu indescrivibile; fu portato come in trionfo fino alla porta del suo convento; altissimi prelati e personaggi dei più nobili gradi si confondevano colla folla almeno per  vederlo o udirlo quando predicava nella Chiesa o dava lezioni dalla cattedra, ma nemmeno l’alito della vanagloria giunse a toccarlo per sì festose accoglienze: all’altezza dell’ingegno che sempre più in lui si rivelava, rispondeva d’altra parte l’umiltà del suo animo riconoscente a Dio di tanta luce che gli aveva infuso, senza attribuir nulla, proprio nulla, a se stesso. A lui era grato starsene ritirato nella sua cella a pregare o a dettare i suoi preziosi volumi. Era giunto allora alla terza parte della Summa Teologica., a quel trattato dell’Incarnazione, che è il più gran monumento che la ragione umana abbia innalzato in omaggio al Verbo di Dio fatto carne. E sia che pregasse, sia che dettasse, egli era sempre come rapito e fisso nella contemplazione del vero: ed altissimi personaggi che in quei momenti si recavano a visitarlo, ne restavano ammirati e non osavano disturbarlo. Non dissimile era la sua predicazione che mai tralasciò. Rimase memoria della quaresima da lui predicata, certo nel 1273, tutta sull’Ave Maria. E così nello scrivere delle cose più alte, come dell’unione ineffabile del Verbo colla natura umana, dei misteri di Gesù Cristo, della sua vita e della sua passione, del divino influsso della sua virtù riparatrice per mezzo dei Sacramenti, delle grandezze della Vergine Madre, se egli, seguendo rigorosamente il suo metodo, e sempre più addentrandosi nei divini segreti, sembrava rattenere gli slanci del cuore, nel pregare davanti agli altari, nel celebrare il divin sacrificio, nel dir le lodi di Dio e della Vergine Madre, raggiungeva un tal grado di fervore, che sembrava non bastare il suo cuore all’influsso che a lui veniva dalla fonte increata della verità e della vita. Durante uno di questi slanci accadde il fatto raccontato da tutti gli storici sulla fede giurata del piissimo religioso Fra Domenico da Caserta, che ebbe la sorte di esserne testimone. Egli lo vide nella cappella di San Niccolò, ov’era solito pregare, sollevato di due cubiti da terra, davanti a un devoto Crocifisso. A un tratto dalle labbra del Divin Redentore uscirono queste parole: Tommaso, tu hai scritto bene di me. Qual premio dunque tu vuoi? E Tommaso: Nient’altro che voi, o Signore! Le sue preghiere da quel momento si fecero ancor più fervide e più abbondanti le lacrime. Nella Compieta secondo il rito domenicano, suol cantarsi per due settimane di quaresima, un responsorio commovente, interrotto da un versetto del Salmo 70°, che dice: Non mi rigettate, o Signore, nel tempo della mia vecchiezza, non mi abbandonate quando le mie forze verranno meno. Il versetto suol cantarsi da un sol religioso a turno; e quando toccò a Tommaso, tutto il suo volto si coprì di pianto. – Tra gli altri rapimenti fu notato quello della domenica di Passione, durante la Santa Messa. Mentre teneva in mano il corpo di Nostro Signore, prima di comunicarsi, ebbe un’estasi assai lunga, che fu avvertita dagli astanti, tra cui erano alcuni ministri del Re, i quali non si stancarono, ma s’infervorarono nella pietà ed attesero fino al termine. Non tralasciò, in questo tempo, le lezioni che tenne sia nella celebre Università ov’era stato discepolo, per le quali gli era stato assegnato da Re Carlo lo stipendio d’un’oncia d’oro al mese, sia nel convento in una vasta aula, ove tuttora si conserva la sua cattedra; e il concorso era immenso. Tra i discepoli che ebbe a Napoli è da ricordarsi Fra Guglielmo di Tocco, che doveva poi scriverne la vita, e lavorare per la sua canonizzazione; e Fra Bartolomeo, detto più comunemente Tolomeo da Lucca, altro suo biografo, che ascoltò talvolta le sue confessioni e che fu poi elevato al vescovado di Torcello. – A dimostrare la sua attività anche in questo tempo e le sue cure indefesse per il profitto dei giovani negli studi sta il fatto di un viaggio, avvenuto certamente tra l’estate e l’autunno di quell’anno 1273, a Viterbo, Perugia, Firenze e fino a Pisa, ove, per incarico del Capitolo tenuto l’anno precedente, stabilì nel celebre convento di Santa Caterina, ove si conserva ancora la sua cattedra, uno studio generale di Teologia. Altri piccoli viaggi egli fece a Salerno; e restò memoria di quello fatto al Castello di San Severino nel Salernitano, ove dimoravano le sue sorelle, Teodora sposata a Ruggero Conte di Marsico, e Maria signora di Marano. E qui avvenne che stando ad orare nella cappella, entrò in un’estasi lunghissima, che fece stare le sorelle in pensiero. Lo stesso Fra Reginaldo che lo aveva accompagnato si meravigliò perché mai l’aveva visto restare immobile e fuori di sé per tanto tempo. Come si fu riavuto, il compagno gli chiese con molta premura che cosa avesse veduto o udito in quel tempo; e Tommaso gli rispose colle parole di San Paolo: Ho visto e udito tali meraviglie, che all’uomo non è possibile raccontarle. Tutto quello che ho scritto non è che paglia, al confronto di quello che Iddio mi ha rivelato. E poi soggiunse: A te, o Reginaldo, manifesto il segreto del cuor mio: il mio insegnamento e la mia vita presto avranno fine. – Da quel giorno, che era il 6 di dicembre del 1273, il Santo Dottore cessò di scrivere. La Somma Teologica rimase interrotta alla fine del trattato della Penitenza, e la parte con cui essa è condotta a termine, chiamata il Supplemento, fu poi tratta, come sopra dicemmo, da altre opere del Santo Dottore da Fra Reginaldo, che gli succedé nella Cattedra di Teologia a Napoli.

36. — A Fossanova.

La scelta di Tebaldo Visconti a successore di Clemente IV fu un indizio del desiderio vivissimo che in tutto il mondo si aveva di vedere ormai terminata la lacrimevole separazione della Chiesa Greca dalla Latina e riunito tutto il popolo cristiano nella grande opera della liberazione del Santo Sepolcro. Egli era infatti uno dei più fervorosi apostoli che mai si fossero recati tra i Cristiani d’Oriente; e ricevuto in Palestina, ove si trovava, il decreto della sua nomina, si mise in viaggio per l’Italia e andò tosto a trovare in Viterbo i Cardinali per trattare subito con loro dei grandi interessi della Cristianità. Una delle cose a cui prima pensò fu di dare a Gerusalemme un buon pastore; e la scelta del nuovo Patriarca cadde su Fra Tommaso Agni da Lentino, che, come vedemmo, aveva già ricevuto nelle proprie mani la pròfessione del giovane Tommaso d’Aquino, ed era stato poi elevato all’arcivescovato di Cosenza. Nessuna idea ebbe per allora Gregorio IX di preparativi guerreschi, che da sé soli a nulla approdavano; molto invece egli sperò da una comune intesa dell’Episcopato cattolico, che lavorasse alla desiderata unione delle due Chiese; e indisse per il 1274 il Concilio Ecumenico da tenersi a Lione. Gli uomini più grandi di quel tempo, insieme coi Vescovi di tutta la cristianità vi furon chiamati; e tra gli altri, il Beato Alberto Magno, il Beato Pietro da Tarantasia. San. Bonaventura e il nostro Santo Dottore, che fu invitato con lettere particolari e incaricato dal Pontefice di recare con sé il suo celebre trattato Contro gli errori dei Greci. – Così ai primi di febbraio del 1274 Tommaso si congedò dai suoi confratelli di Napoli e si mise in viaggio col fedele Fra Reginaldo, sebbene sofferente e assai indebolito, soffermandosi in vari luoghi, dappertutto accolto con festa e caramente ospitato. Stando per via, Fra Reginaldo gli disse che correva voce che il Papa, nel Concilio, lo avrebbe fatto Cardinale con Fra Bonaventura e che sarebbe stato questo un grande onore pei due Ordini! State certo, rispose il Santo, che io non muterò mai lo stato in cui mi trovo. E quanto al mio Ordine, in nessuno stato gli potrei essere utile quanto in quello in cui resterò. Passò per Aquino, e al luogo della sua nascita diè l’ultimo saluto. Il suo pensiero salì anche all’asilo della sua infanzia: e ai piedi di Montecassino ebbe una lettera premurosa dell’Abate Bernardo, che lo invitava a salir lassù, anche perchè i monaci desideravano una sua spiegazione di un passo oscuro dei Morali di San Gregorio. Ma egli si scusò, dicendo d’essere stanco pel viaggio e pei digiuni dell’Ordine. Alcuni monaci allora discesero, ed egli rispose in iscritto colla consueta chiarezza. Entrato nella diocesi di Terracina, si fermò al castello di Maenza, nella vallata del Sacco, ov’era una sua nipote, la Contessa Francesca d’Aquino maritata ad Annibale da Ceccano, che lo trovò molto deperito e gli fece apprestare le più sollecite cure. Ma il male progrediva, e la Contessa chiamò a curarlo un medico, certo Guido da Piperno. La nipote avrebbe voluto trattenerlo, ma Tommaso non volle mettersi in letto fuori d’una casa religiosa, e si trascinò a stento sopra un muletto, entrò nella vallata dell’Amaseno, traversò Prossedi, passò sotto Sonnino e si fermò stanchissimo alla badia cisterciense di Fossanova, fra Terracina e Piperno. Entrando in quella sacra dimora, fu udito ripetere le parole del salmo CXXXI (14), che presso i Domenicani sono in uso nell’ufficiatura dei morti: Questo è il mio riposo nei secoli dei secoli; qui abiterò, perché me lo sono eletto. Gli furono assegnate due cellette presso quelle dell’Abate; in una stava un camino, nell’altra il letto. Le cure che gli ebbero i monaci durante un mese non si potrebbero descrivere. Tutti si tenevano onorati di poterlo servire; e basti il dire che andando a far legna nella foresta per fargli fuoco, vollero sempre portarle sopra le loro spalle, né mai permisero che gli animali portassero sul dorso cose che servivano per il Santo Dottore. La notizia si sparse per tutto. Corse la Contessa Francesca, che volle ogni giorno saper le nuove della malattia; vennero premurosi da Anagni, da Fondi, da Gaeta, ed anche da Napoli e da Roma, molti Domenicani, e ad essi si unirono vari Monaci e Frati Minori per aver notizie e ricever dal Santo qualche ricordo. Egli si sforzava di rispondere a tutti. A un religioso che gli chiese come avrebbe potuto fare a non perder mai la grazia di Dio, rispose: Cerca di vivere, come se in ogni ora tu dovessi morire. Alla nipote premurosa, che gli mandò a dire se gli occorresse nulla, fece rispondere: Non mi manca nulla; e diqui a poco avrò tutto. – Nemmeno una parola di lamento uscì dal suo labbro, e dal suo volto sempre più traspariva la serenità dell’anima. I monaci ne restarono ammirati; e alcuni di loro gli ricordarono che San Bernardo, prima di morire, aveva spiegato a quelli che lo assistevano il Cantico dei Cantici, e lo pregarono a fare altrettanto. Datemi lo spirito di San Bernardo, egli rispose, e anch’io farò lo stesso. Ma insistendo essi, egli dettò un mirabile commento che ancora rimane. Fu questa per Tommaso d’Aquino la più bella preparazione alla morte.Fra Reginaldo non lo abbandonò un momento; e Tommaso gli mostrò tutto il suo affetto lasciandogli i più cari ricordi e aprendosi con lui in confidenze affettuose. Un giorno gli disse: Di tre cose io devo ringraziare il Signore in modo speciale. La prima è di avermi dato un cuore nobile, che non si è lasciato attrarre dalle cose vili della terra. La seconda è di avermi lasciato nell’umiltà e povertà del mio Ordine. La terza è stata quella d’avermi fatto conoscere lo stato felice del mio fratello Rinaldo. Il suo pensiero correva a Rinaldo! A lui che lo aveva già malmenato e condotto alla carcere, a lui che, accordatosi col fratello, gli aveva preparato una spaventosa caduta, la quale avrebbegli tolto, se Dio non fosse corso in suo aiuto, il suo massimo onore e il nome di Angelico, a lui, che sapeva ora accolto nella gloria dal Dio delle misericordie, che tanti falli perdona per un atto generoso, egli andava ora col pensiero, sicuro di trovarlo presto nel cielo.

37. — La morte. Ritratto del Santo.

Sentendosi vicino alla sua fine, Tommaso chiese a Fra Reginaldo di udire la sua confessione generale; e poi domandò la grazia di restar solo, per disporsi a ricevere il Santo Viatico. Volle che lo togliessero dal suo letticciolo e lo ponessero a giacere in terra, sopra la cenere. Furon raccolte le parole che proferì nel momento in cui l’Abate gli presentò la Santa Eucarestia, e gli chiese di fare la consueta Professione di fede: Io ti ricevo, o Dio, prezzo della redenzione dell’anima mia, viatico del mio pellegrinaggio, per amore del quale ho vegliato e studiato, predicato ed insegnato. E tutto quello che ho scritto, io lo sottopongo alla correzione della Santa Chiesa Romana, nella cui obbedienza ora passo da questa vita. Ricevuta poi l’estrema unzione, placidamente spirò la mattina del 7 marzo del 1274, prima che spuntasse il sole, in età, a quanto sembra, di quarantotto anni. – Egli era grande e diritto di persona, ben formato, di corporatura oltre l’ordinaria, di complessione delicata, faccia tendente al bruno. Ebbe la fronte ampia ed elevata, e sul davanti alquanto calva, acuto lo sguardo, ma pieno d’inesprimibile dolcezza. Nei suoi gesti e in tutto il suo portamento mai si vide nulla di incomposto: taceva e meditava quasi sempre; interrogato rispondeva cortesemente e qualche volta con arguzia, ma sempre con semplicità e candore. Chiunque lo vedesse sentivasi stimolato ad abbracciar la virtù. Mai fu visto adirato, né turbato, nemmeno leggermente. Non amò affatto le grandezze di quaggiù, che lusingano l’ambizione, né le ricchezze, che non ci sanno dare la vera felicità. Una volta un compagno gli mostrò da un’altura la città di Parigi e gli domandò se avesse desiderato di esserne padrone; e rispose: Prenderei più volentieri le Omelie del Crisostomo su San Matteo. Come compendio di quanto fu detto e scritto della sua santità e delle grazie a lui concesse, bastino le due promesse che Iddio gli fece: che non sarebbe stato mai vinto dagli allettamenti della carne, né mai avrebbe sentito gli stimoli della vanagloria; basti la testimonianza di Fra Reginaldo, che tante volte lo aveva confessato, e fino sul letto di morte, di non aver trovato in lui se non la coscienza d’un bambino di cinque anni. – Quale fu nella vita tale è negli scritti. La tranquillità del ragionamento non si altera mai; sembra che egli tema degli slanci del cuore nel trattare dei divini misteri. Tutto è misurato nel suo eloquio: una parola di più lo guasterebbe, una di meno vi lascerebbe un vuoto. Contro gli erranti non ha mai parole di rimprovero, mentre li confonde collo splendore della verità. La frase più severa che sia uscita dalla sua penna fu quella che usò contro David de Dinant, quando chiamò stoltissima la sua dottrina, che confondeva Dio colla materia prima! Fu amantissimo del suo Ordine, e preferì a tutti gli onori del mondo il suo povero cappuccio di frate. Vero predicatore, seppe ben distinguere la cattedra dal pergamo; e parlando al popolo, mentre attingeva dalla sorgente stessa della divina eloquenza la sua dottrina, la esponeva con parole semplici e chiare, che egli paragonava alle monete, di cui tutti devon conoscere il valore. Ma ancor meglio che colla predicazione e l’insegnamento, egli parlò colla sua vita; e bene egli disse di se stesso con Sant’Ilario: Riconosco che il dovere principale che lega a Dio la mia vita, è che ogni mia parola ed ogni mio sentimento parli di Dio. E veramente egli sembrò in mezzo agli uomini la più alta espressione della verità. Ed un sincero amore della verità sarebbe stato anche causa della sua morte immatura ed avrebbe dato ad essa il valore di un martirio, se fosse accertato quanto vari storici affermarono, che essa fosse accelerata da un lento veleno fattogli dare da Carlo d’Angiò. Sospettoso e crudele com’era, quel Re avrebbe saputo di una risposta data dal Santo Dottore a chi gli aveva domandato che cosa egli avrebbe detto delle cose sue al Concilio di Lione, se ne fosse stato richiesto: Certamente io dirò la verità. Ed è la verità che spesso fa paura ai potenti.

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (6)

UN PAPA È STATO ELETTO

26 OTTOBRE 1958: fumata BIANCA dalla Cappella Sistina.

UN PAPA È STATO ELETTO!!

[di P. S. D.]

Quella lunghissima fumata bianca del conclave del 1958!

            “Il fumo è bianco…non c’è alcun dubbio. Un Papa è stato eletto!” annunciò solennemente Radio Vaticana al termine del Conclave del 1958, quando centinaia di migliaia di persone erano incollate agli schermi o erano con gli occhi fissati verso il comignolo del camino da cui sarebbe uscita la fumata che avrebbe sancito l’elezione del nuovo Papa.

            Erano periodi molto difficili, con le due superpotenze che si fronteggiavano l’un l’altra nello scacchiere politico internazionale e con pressioni che da più parti e sempre più forti intralciavano le scelte del Papa in Vaticano.

            Era la fine di un’epoca e, con riferimento alla nomenclatura adottata da San Malachia nella sua Profezia sui Papi, al Pastor Angelicus, come lui aveva indicato Pio XII, il Papa il cui Pontificato aveva caratterizzato un lungo periodo di crisi per la pace mondiale, doveva far seguito un altro Pastor, quel Pastor et Nauta che la storia, quella che da sempre scrivono i vincitori del periodo, ci ha presentato come un Cardinale vestito di rosso fra decine di altri porporati, ma che i tempi odierni fanno sempre più chiaramente indicare come il vero successore di Pietro destinato a succedere a Pio XII.

            Dopo la morte di Papa Pacelli, avvenuta il 9 ottobre 1958, fu osservato un novendiato di pausa, al termine del quale ebbe luogo il Conclave in cui si apprestava ad essere eletto l’altro Pastor del secolo, quello caratterizzato dal più grave conflitto della storia: la guerra contro la Cristianità, che si stava preparando a vincere la più grande battaglia fra quelle che le era stato consentito di vincere.

            A raccogliere lo scettro del Pastor Angelicus doveva essere un altro Pastore delle greggi, quello che più di chiunque altro era in continuità con Pio XII: Giuseppe Siri, che lo stesso Papa Pacelli aveva indicato come Suo Successore. E a questo Successore San Malachia di Armagh aveva dato lo stesso nome conferito a Pio XII, Pastor, a cui aveva fatto seguire anche la parola Nauta, “marinaio”.

            Ed al Conclave per la designazione del successore del Pastor Angelicus avvenne un fatto inaudito, senza precedenti: due giorni dopo l’inizio del Conclave si sollevò dal camino allestito in Vaticano un fumo denso ed inequivocabilmente bianco, che continuò ad essere emesso verso il cielo per lunghi minuti in tutta la sua nitidezza: ben cinque minuti. Cinque minuti in cui una moltitudine di fedeli ebbe modo di vedere con i propri occhi quell’avvenimento così chiaro nel suo significato e così insolito nella sua imponenza e nella sua durata.

Chi ancora oggi osserva la fumata bianca del 1958 sul web non può che restare sbalordito davanti a quel fumo così candido e denso che sale a lungo verso il cielo, quasi una colonna fitta e impenetrabile che offre una suggestione fuori dal comune e veramente molto forte.

            Poco prima del Conclave del 1958, alcuni giornali dell’epoca avevano riportato le modalità dell’emissione del fumo bianco dal camino del Vaticano con un dettaglio che potremmo definire sospetto, quasi avessero voluto porre preventivamente l’accento sulle possibili spiegazioni delle anomalie che si sarebbero potute verificare di lì a pochi giorni in fase di fumata.

            All’interno di un dettagliato articolo sul Conclave che sarebbe stato indetto di lì a pochi giorni, in corrispondenza di una foto che mostra l’angolo della Cappella Sistina con la stufa già approntata per bruciare le schede dopo le votazioni, un giornale di larga diffusione pubblicato il 23 ottobre del 1958 riportava testualmente:

“Prima di ogni scrutinio, le schede vengono controllate per vedere se corrispondono al numero dei presenti (e in caso contrario vengono subito distrutte). Infine, gli scrutatori procedono alla lettura del risultato e al bruciamento delle schede. Se la votazione ha dato la maggioranza dei due terzi più uno, nella stufa della cappella viene bruciata paglia secca: la fumata bianca che ne deriva annuncerà al popolo, all’esterno, che un nuovo Papa è succeduto a Pietro. (…) Nel caso invece che lo scrutinio sia stato negativo, le schede bruciate con paglia umida daranno il fumo nero del risultato nullo.”

Pertanto, a produrre il fumo bianco o il fumo nero sono le schede bruciate e la paglia.

Nel caso del conclave in cui sia stato eletto un Papa si aggiunge paglia secca, mentre, nel caso in cui non vi sia un nuovo Pontefice, si aggiunge paglia umida, che brucia producendo un fumo di colore nero.

Sia la carta che la paglia sono combustibili: sia la prima che la seconda sono composte da cellulosa, sostanza che si presta ad essere bruciata, ma c’è in esse qualcosa che le rende differenti, in quanto a comportamento nei confronti del fuoco. Mentre la carta è formata da fibre cellulosiche che sono state purificate (la carta riciclata, oltre ad essere un’acquisizione relativamente recente, non è sicuramente quella che viene impiegata in sede di Conclave, e meno che meno in quello del 1958), la paglia reca altre sostanze oltre alla cellulosa (pigmenti, elementi chimici che sono contenuti nei pigmenti stessi, impurità di vario genere, interstizi fra i nodi che fanno da camera di combustione, ecc.). Il risultato è che il fumo derivante dall’abbruciamento della carta è più chiaro di quello derivante dall’abbruciamento della paglia, e probabilmente non solo: il fatto che la carta sia costituita da materiale cellulosico “puro” fa sì che il fumo derivante dalla bruciatura della carta sia più denso di quello derivante dalla fiamma appiccata alla paglia.

Il caratteristico colore intenso delle bruciature delle stoppie è visibile da lontano, e chiunque può rendersi conto del fatto che tale fumo non è mai bianco candido; inoltre, a meno che non siano vaste superfici a bruciare, esso non tende a formare una coltre densa, impenetrabile.

Nel caso della carta, invece, la cellulosa è strettamente appressata e la fiamma che vi viene appiccata si approvvigiona di una fonte di combustibile ingente, compatta.

A seconda che, in sede di Conclave, si voglia produrre un colore bianco o nero della fumata, il passaggio del periodico del 1958 che ho riportato sopra è chiaro: non si agisce sulla carta, ma si agisce sulla paglia, o meglio sulla quantità di umidità contenuta in essa.

Per l’altro parametro, ossia alla durata della fumata, esso è direttamente proporzionale alla quantità di combustibile che viene bruciato, ossia alla quantità della carta e della paglia. Non ha senso aggiungere molta paglia – che farebbe probabilmente un colore differente da quel bianco candido che è visibile nella fumata del 1958 -: quello che si vuole bruciare non è la paglia, ma le schede; e, se la paglia trova un giusto impiego, inumidita, nel conferire il colore scuro al fumo della “fumata nera”, non altrettanto si può dire per la fumata bianca, per ottenere la quale è sufficiente bruciare le carte delle schede.

Per le considerazioni fatte prima, quel colore bianco della fumata dipende probabilmente, in primo luogo, dalla carta, da cui dipendono pure in gran parte, probabilmente, il maggior chiarore e la maggiore densità del fumo. Con pochi dubbi, quindi, nella fumata del conclave del 1958 quella consistenza così densa dipese dalla carta, e quella sua durata così prolungata dalla quantità di combustibile (i numerosi fogli di carta che dovevano essere bruciati) impiegato.

Queste le supposizioni, che non c’è motivo di ritenere infondate.

Prendiamole per buone: come mai fu bruciata tanta carta in occasione di quel Conclave e non in altri? Nel corso di un Conclave non dovrebbe essere pressappoco sempre la stessa, in base al numero dei cardinali elettori – che si presume non debbano variare di moltissimo – la quantità di carta che viene bruciata?

Ci viene in aiuto ancora l’articolista del pezzo comparso su un periodico del 1958, che si cura di precisare:

Al termine del conclave tutto sarà bruciato: ogni cardinale è tenuto a dare alle fiamme anche i più insignificanti foglietti che gli siano serviti a prendere appunti o magari a tracciare ghirigori nell’attesa.

Ecco, quindi, chiarito l’arcano: al termine del Conclave del 1958, come al termine di tutti gli altri Conclavi, non furono bruciate solo le schede, ma anche qualsiasi foglio su cui era stata trascritta qualsiasi cosa, anche la più infima e irrilevante.

Considerata la durata e la densità della fumata levatasi al termine del Conclave, durato solo due giorni, del 1958, è lecito chiedersi quanta sia stata la quantità di carta che sia stata bruciata, e la risposta è: ingente! Ci si può chiedere a questo punto a cosa fosse servita tutta quella carta, e per rispondere a questa legittima domanda faccio riferimento all’articolo “Gregorio XVII: l’incredibile storia” pubblicato su questo sito ed a sviluppare i concetti contenuti in esso.

È infatti ben più che presumibile che fossero stati fatti circolare fra i Cardinali elettori dei fogli contenenti le “istruzioni” da seguire nel corso del Conclave per avere in contraccambio dei vantaggi speciali – leciti e soprattutto, molto probabilmente, illeciti – nel caso in cui tali richieste fossero state esaudite, o, al contrario, vendette la cui portata è difficile da immaginare, nel caso in cui tali richieste non fossero state esaudite.

Ci furono, con tutta evidenza, “cose” che furono fatte leggere a tutti e che portarono alla rinuncia forzata – cioè alla violenta “cacciata” – o impeditio secondo C. J. C. – del Papa (… dopo avergli fatto però accettare l’elezione), ed imposto il silenzio a tutti gli altri … il tutto supportato da abbondante materiale cartaceo “scottante” che doveva scomparire rapidamente senza lasciare tracce ad eventuali “curiosi” sospettosi od a posteri complottisti …

È possibile che fosse stato messo in preventivo che fosse Siri ad uscire Papa da quel Conclave, o forse ciò era stato addirittura favorito dagli stessi personaggi che volevano cambiare l’ordine costituito: in questo modo si sarebbe avuto il Papa vero la cui presenza permettesse al mondo di andare avanti (e, fra le altre cose, che potessero essere sviluppati e condotti a termine i progetti di dissoluzione della Chiesa “visibile”).

Comunque sia, le istruzioni di quello che sarebbe dovuto succedere dopo la prima fumata bianca erano state probabilmente date nel corso di quel Conclave, ed è questo, a mio avviso, l’unico elemento che permetta di spiegare come mai fu bruciata, unica volta nel corso del Papato, tanta carta da dare luogo ad una fumata così densa e bianca durata ben cinque minuti.

La combustione fu fatta durare fino a suo completamento: non doveva restare traccia, nessun residuo incombusto da cui si potesse capire anche la minima parte di ciò che era avvenuto, e così tutta la massa cartacea contenente istruzioni, promesse, minacce forse, chissà, anche simboli esoterici, fu lasciata nella stufa fino alla sua combustione completa, a dare quel fumo così bianco ed intenso ed impenetrabilmente denso che tante persone ebbero modo di vedere stazionare a lungo nell’aria, direttamente o attraverso il mezzo televisivo.

Quando poi si fu sicuri che il fuoco avesse distrutto ogni traccia, allora e solo allora fu gettata nella stufa della paglia inumidita: bisognava dare al mondo un segnale non chiaro, non preciso, non netto: che il Papa era stato eletto, cioè no, che si era trattato di un errore di valutazione e che il fumo uscito dalla Cappella Sistina in realtà era nero, come ebbe a dire la stessa Radio Vaticana poco tempo dopo il suo annuncio così categorico dell’elezione del Papa.

***

Pochi giorni dopo, all’ ”Habemus Papam” che sarebbe seguito nel corso dello stesso Conclave (benché questo fosse in realtà terminato due giorni prima), una coltre scura non si limitò ad uscire dalla Cappella Sistina, ma piombò, come dicono le cronache, su tutta Roma.

Il 28 ottobre 1958 il Cardinale protodiacono Nicola Canali pronunciò dalla loggia centrale della basilica vaticana quelle fatidiche parole indicando il nome prescelto da Angelo Roncalli, il quale aveva adottato lo stesso nome di Baldassarre Cossa, l’antipapa che aveva convocato un concilio eretico pochi anni dopo la sua non-elezione.

Come narrano le cronache, in quello stesso giorno di ottobre del 1958 l’oscurità calò di botto su Roma, benché fossero appena le 18,05 ed il sole in quel giorno dell’anno tramonti nella Capitale alle 18,13 (per lasciare dopo di sé circa mezz’ora di chiarore soffuso).

L’ora era giunta: quel nero che era uscito appena due giorni prima dalla stufa della Cappella Sistina in pochissimo tempo aveva coperto il Vaticano e la città in cui esso era situato, e da lì si preparava ad invadere tutto il mondo.

GREGORIO XVII: L’INCREDIBILE STORIA

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (4)

VITA
dell’Angelico Dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (4)


dell’ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti.
Card. Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA FRANCESCO FERRARI 1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

23. — Ritorno in Italia.

A Santa Sabina.

Il 25 Maggio del 1261 moriva Alessandro IV in Viterbo, ove si trovava allora il Patriarca di Gerusalemme, già Arcidiacono di Liegi e poi Vescovo di Verdun Giacomo Pantaleone, venuto per chiedere alla corte papale protezione in favore dei poveri Cristiani di Palestina. A lui si rivolse il pensiero dei Cardinali nel Conclave; ed eletto Pontefice, prese il nome di Urbano IV. – Uno dei primi pensieri del novello Papa fu di giovarsi della dottrina di Tommaso d’Aquino, che in breve aveva acquistato sì alta fama tra i dotti e che egli stesso aveva conosciuto in Francia al tempo della celebre lotta contro i religiosi, nella quale il savio Arcidiacono si era schierato tra i loro difensori. Lo volle presso di sé, e gli comandò di venire in Italia, respingendo ogni domanda che faceva con insistenza l’Università di Parigi per ritenere il suo Dottore. Ai primi del 1261, Tommaso dové sospendere le sue lezioni cedendo la sua cattedra a un suo illustre discepolo, Fra Annibale di Molaria, e mettersi in viaggio per l’Italia. Andò per diritta via ad Orvieto, ove si trovava il Pontefice, lietissimo di aver vicino a se l’uomo più dotto del tempo suo, che gli sarebbe stato di potente aiuto per attuare, a benefizio della Chiesa, quelle idee che occupavano tutta la sua mente. – D’altra parte i superiori della Provincia Romana, andarono lieti di riavere questo loro alunno, a cui senza indugio affidarono la cattedra di teologia nel celebre convento di Santa Sabina sull’Aventino. Lassù, ove si era rifugiato giovanetto, fuggito da Napoli e perseguitato dai parenti per aver preferito agli agi della vita del mondo la povertà dell’abito domenicano, tornava ora pieno di gloria, ma cresciuto nel basso sentire di sé dopo diciassette anni; e vi trovava più che altrove la pace, nel silenzio, nei colloqui con Dio e nelle care memorie del suo venerato Patriarca. – Il Convento di Santa Sabina, che già era stato sotto Onorio III palazzo pontificale, presso la Chiesa gloriosa che lo stesso Pontefice aveva dato all’Ordine, era il centro, a quel tempo, della Provincia Romana, a cui Tommaso apparteneva per esser figlio dei Convento di Napoli, estendendosi allora la vasta Provincia domenicana all’Etruria, all’Umbria, al Lazio e a tutta l’Italia inferiore. Così a lui poté affidare il P. Troiano del Regno, allora Provinciale, l’istruzione dei giovani studenti in quel glorioso convento. Questo periodo di dodici anni, durato fino alla morte, e interrotto, come vedremo, dalle sue gite a Londra, a Bologna e a Parigi pei Capitoli Generali, dobbiamo chiamarlo, nella vita del Santo Dottore, il più fecondo, se pensiamo al molteplice e arduo lavoro a cui egli si diede, oltre al soddisfare ai delicati incarichi a lui affidati dal Papa. Le pratiche religiose, a cui fu sempre fedelissimo, le orazioni lunghe e ferventi, da lui alternate alla predicazione quasi continua della parola di Dio ed alla fatica dell’insegnamento, non gli impedirono di meditare e scrivere opere meravigliose, che formano ora l’ammirazione del mondo. Basti ricordare la Somma contro i Gentili, la Catena d’oro e soprattutto la Somma Teologica. Ma questa vita gloriosa doveva tosto abbellirsi di una nuova e splendidissima luce: e a nessun altro che al Dottore Angelico aveva riservato la Provvidenza questa purissima gloria.

24. — Il Dottore e Poeta eucaristico.

A Tommaso d’Aquino che Urbano IV, stando in Orvieto, fece venire a sé, manifestò un suo pensiero. Disse che essendo egli più di venti anni addietro, Arcidiacono di Liegi, aveva conosciuto nel convento di Mont-Carillon una serafica vergine, chiamata Giuliana, che professava la regola di Sant’Agostino, devotissima della Santa Eucaristia. Questa suora, fino dai suoi primi anni, ogni volta che orava, aveva una visione misteriosa: le sembrava vedere una luna piena, ma da un lato un po’ mancante; e chiestone a Dio con fervide preghiere il significato, aveva inteso che la luna significava la Chiesa, e il difetto che si vedeva era la mancanza in lei di una festa speciale del Santissimo Sacramento. Dopo molte esitazioni, ella aveva manifestato la cosa ad un canonico di Liegi, che l’aveva poi riferita a lui Arcidiacono e ad altri Dottori, tra i quali era il Domenicano Fra Ugo di San Caro, allora Provinciale di Francia, che là si trovava per la visita canonica ai conventi del suo Ordine. – Ma non eran mancate le critiche più acerbe contro la novità voluta dalla suora. Però quei sapienti si erano mostrati favorevoli in gran parte, specialmente il Domenicano; sicché il Vescovo, che era Roberto di Torota, aveva pensato nel 1246 di istituire nella sua diocesi la festa desiderata, ma fu prevenuto dalla morte. Quello che egli non aveva potuto fare, lo fece sei anni dopo lo stesso Fra Ugo da San Caro, che eletto Cardinale e Legato della Santa Sede in quelle regioni, istituì in Liegi, e per quanto si estendeva la sua legazione, la nuova festa, fissando per essa il giovedì dopo l’Ottava della Pentecoste. Egli stesso con gran solennità la celebrò in Liegi stessa nella cattedrale di San Martino. Ma le ostilità furon riprese con maggior furore dopo la partenza del Cardinale. La Beata Giuliana fu presa specialmente di mira e cacciata dal suo convento: e il 5 Aprile del 1258 erasene volata al cielo. Ma prima di morire, aveva fatto partecipe una povera reclusa, chiamata Èva, sua amica, ripiena dello spirito di Dio, dei suoi dolori e delle sue speranze. Aggiungeva il Pontefice come a lui, che era tuttora Arcidiacono, e soleva inviarle delle elemosine, aveva potuto la povera Èva far pervenire i suoi lamenti e ne aveva avuto conforto. Ed ora che la Provvidenza avevalo elevato sul più alto trono del mondo, voleva ad ogni modo che i voti di quelle candide anime fossero esauditi. – Egli ben sapeva che collo spirito della Beata Giuliana, la quale aveva ormai deposto il corpo nel suo sepolcro, e con quello della reclusa superstite, che gemeva nella sua povera grotta, tante e tante anime avevan comuni i desideri ed i voti; e tra queste anime era certamente quella del gran Dottore d’Aquino. – Tommaso non esitò un istante ad approvare il pensiero del Pontefice; e vide in tutto quel fatto l’opera di Dio. E pregato da lui di metter subito mano alla composizione del nuovo ufficio liturgico e della messa per la grande solennità, umilmente accettò. Quell’ufficio rimane; ed è un vero capolavoro di poesia e di scienza teologica. Possiamo dire che la mente ed il cuore del Dottore Angelico si rivelano a noi in quelle antifone, in quegli inni e in quei canti, in mirabile modo. E veramente conveniva che un Dottore, a cui la Chiesa avrebbe poi dato il nome di Angelico per la sua purissima vita e la celeste dottrina, ponesse sul labbro di lei le sue parole per celebrar la virtù e grandezza di quel dono, che è chiamato Pane degli Angeli. Come premio pel suo lavoro ebbe Tommaso da Urbano IV un prezioso dono, che fu ad un tempo un graziosissimo simbolo: una colomba d’argento. V’è chi aggiunge che Urbano volesse anche nominarlo cardinale, ma che non riuscisse a vincere le sue più vive resistenze. – La bella festa del Sacramento fu instituita il 2 Agosto del 1264 ed estesa a tutta la Chiesa. Con vari prodigi Iddio stesso aveva manifestato in varie parti che il tempo in cui sarebbesi tra gli uomini maggiormente glorificato il mistero di amore era vicino; specialmente nel celebre miracolo di Bolsena, avvenuto appunto in quei giorni. Un sacerdote alemanno, nel celebrarvi la santa Messa, ebbe fortissimi dubbi sulla presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia. Ma quando fu al momento di dovere spezzar l’Ostia che teneva nelle mani, egli vide uscirne vivo sangue in copia, sì che il corporale ne fu in varie parti macchiato. Lo stesso Urbano IV recò ad Orvieto colle proprie mani quel sacro corporale, che divenne insigne reliquia. Ad esso non solo la mirabile custodia d’argento e di gemme lavorata da Ugolino da Siena, ma la cattedrale stupenda, che sorse in quella città, sarebbe rimasta solenne monumento. Intanto il decreto del 2 Agosto veniva pubblicato per tutte le diocesi, e destava nel popolo cristiano il più vivo entusiasmo. – La sollecitudine per il bene della Chiesa universale non aveva cancellato nella mente del Pontefice sommo il ricordo della povera reclusa di Liegi. A lei egli mandò con una sua lettera una copia tanto del decreto quanto del nuovo ufficio composto da San Tommaso. Meraviglioso esempio in faccia al mondo, che così spesso tra il grande ed il piccolo, tra gli alti intelletti e le menti degli umili innalza muri di divisione!

25. — La Somma contro i Gentili.

Un altro grande pensiero del Pontefice Urbano IV era la conversione di tanti poveri infedeli, a molti dei quali mancava il benefizio di una parola apostolica, che togliesse dalla loro mente i pregiudizi e li guidasse per sicura via alla verità. Egli aveva visto coi propri occhi quante anime si perdevano per questa funesta ignoranza e il poco frutto, o piuttosto il danno che si faceva a tanti popoli d’Oriente andando contro di loro colle armi e con mire ambiziose piuttosto che colla parola di pace e colla buona novella del Vangelo. Nei missionarii che si recavano nelle terre dei Saraceni e dei Giudei e in mezzo ad altre nazioni separate dalla Chiesa, due cose essenzialissime spesso mancavano: la conoscenza delle lingue ed una sufficiente istruzione religiosa per catechizzare quelle genti. E spesso si trattava non di ammaestrare turbe di neofiti nelle verità della fede, ma di piegare intelletti traviati da un falso cristianesimo, e specialmente quelli che si davan per dotti, in cui da secoli si eran fatte strada le più assurde dottrine. – L’Ordine di San Domenico aveva un uomo che viveva di questa idea: un dotto spagnolo, il Padre Raimondo da Pennafort, che la Chiesa avrebbe poi iscritto nel catalogo dei Santi. Egli che aveva fatto per varii anni, prima di entrare nell’Ordine, la vita di missionario, di 46 anni aveva vestito l’abito, e nel 1238 era stato eletto Maestro Generale, succedendo al Beato Giordano di Sassonia. Una forte debolezza a lui sopravvenuta, dopo soli due anni, lo aveva costretto a lasciar quella carica; ma poi, riacquistate le forze, erasi dato ad una vita laboriosissima dedicata soprattutto alla conversione degli infedeli. Presso i Generali dell’Ordine a lui succeduti, e specialmente presso Fra Giovanni Teutonico, aveva fatto premure per la fondazione di varie scuole di arabo e di caldeo in alcuni Conventi dell’Ordine, e sollecitato l’invio di alcuni frati spagnoli a Tunisi e nella Murcia, allo scopo di apprender quelle lingue. Essi avevan portato con sé il testo autentico della Bibbia, con cui si erano studiati di palesar gli errori di cui eran piene le versioni falsate dei dottori arabi. All’opera di evangelizzazione già aveva cercato Fra Raimondo di unire quella della carità più eroica, colla fondazione dell’Ordine della Mercede per la redenzione degli schiavi, che imponeva ai suoi membri di restare in pegno nelle mani degli infedeli per ottener la liberazione dei cristiani fatti prigionieri. – Il Capitolo Generale di Parigi del 1256 si era reso conto di questa necessità, ed aveva encomiato l’opera intrapresa dal generoso Fra Raimondo. Ma non bastò. Egli vide quanto sarebbe stata necessaria per una soda educazione dei missionari, sia di quelli che in Spagna vivevano a contatto cogli Arabi che l’avevano invasa, sia di quelli che per cagione delle crociate si trovavano allora in Oriente, ed erano anche provocati a difficili dispute, un’opera che facesse conoscere le verità divine a cui può giungere l’umana ragione e insieme confutasse tutti gli errori e le superstizioni dei nemici della fede, fossero essi Ebrei, o Maomettani, o semplicemente Pagani; e mettere in mano all’Apostolo di Cristo valide armi per combatterli; e pensò che nessuno avrebbe meglio di Tommaso d’Aquino compiuto un tale lavoro. Al desiderio di Fra Raimondo si aggiunse quello del Pontefice e la volontà del Capo dell’Ordine; e San Tommaso pose mano al poderoso lavoro. – Così si ebbe la celebre Somma contro i Gentili, che egli cominciò a scrivere, a quanto pare, in Parigi e a cui pose termine in Roma nel 1261 dopo l’esaltazione di Urbano IV, e che così bene corrispondeva ai generosi intenti del grande Pontefice. San Raimondo l’ebbe come un dono a lui venuto dal cielo. Le verità naturali a cui l’uomo può giungere colla ragione e per la via delle creature, e quelle che, pur essendo contenute nei limiti della facoltà intellettiva, ci vengono insegnate dalla fede che sovviene alla debolezza nostra, sono da Tommaso illuminate con tal forza di ragionamento, che più oltre non è dato salire ad umano intelletto. E quanto alle verità superiori, che i Cristiani ritengono per fede, a lui basta mostrare che contro di esse nulla può opporre la ragione umana, e che sono invece con essa in mirabile armonia. Tutto ciò che dai sistemi filosofici dei vari tempi, dalla negazione giudaica e dalle false dottrine degli eretici, specialmente dalle sottigliezze degli Arabi e dalla perfidia dei Manichei viene opposto contro di loro, non è che vano sofisma o gratuita negazione. – Con quest’opera meravigliosa, tradotta’ subito in greco, in arabo ed in siriaco, a cui solo fanno riscontro i famosi libri della città di Dio di Sant’Agostino, non solo S. Tommaso giovò allo scopo voluto da S. Raimondo e meritò l’ammirazione del Pontefice, ma fu utile a tutti i tempi, restando essa guida sicura ai forti intelletti per giungere ad una chiara visione della cattolica verità e per conoscere i solidi fondamenti su cui essa è basata.

26. — La Catena d’oro.

Un altro lavoro appartenente a questo periodo, è la Catena d’oro. Fu la posterità che diede questo bel titolo alla preziosissima opera che S. Tommaso compose sui quattro Vangeli per espresso comando, come egli dice, del Vicario di Gesù Cristo, a cui egli dedicò la prima parte, cioè il Vangelo di S. Matteo, e che dopo la morte del Papa, avvenuta solo due anni dopo l’elezione, egli condusse a termine. L’incarico di distendere un commento completo del Santo Vangelo riunendo insieme le molte testimonianze dei Padri Greci e Latini aveva pensato il Pontefice di affidarlo ai due grandi Dottori S. Tommaso e S. Bonaventura, che, dividendosi l’arduo e lungo lavoro, lo avrebbero condotto a termine con maggior sollecitudine. Ma S. Bonaventura, allora Generale del suo Ordine, si scusò; e il lavoro rimase al solo Tommaso. Nella Catena d’oro il testo sacro viene a noi attraverso la mente dei suoi più grandi conoscitori, quali furono i Santi Padri, i Dottori della Chiesa e gli antichi interpreti, di cui vengono riportate, quasi sempre a lettera, le testimonianze, così bene accordate, da farne come un concerto di voci solenni. Ventidue Padri e scrittori Greci e venti Latini, appartenenti a dodici secoli, cioè tutto il fiore dei commenti fino allora conosciuti, noi lo abbiamo in quest’unico libro, che, oltre al procurarci un risparmio immenso di tempo e di studio, ci presenta il testo sacro in una mirabile e divina unità, e ne espone lucidamente tanto il senso letterale quanto lo spirituale o mistico, con quell’autorità che tutta la Chiesa riconosce in tali espositori. Sono essi soli che parlano; S. Tommaso tace; ma la luce di quell’intelletto angelico rifulge in ogni pagina del libro, ed è essa che congiunge gli anelli della preziosa catena. – I biografi videro quasi un miracolo nel fatto che, con tanta penuria di codici quale eravi in quel tempo, potesse S. Tommaso unire insieme tante testimonianze; e dicono che, percorrendo per vari monasteri, facesse suo molto materiale colla sua prodigiosa memoria. Comunque sia, e tenuto conto anche del ricco contributo di cui poté far tesoro, stando specialmente a fianco del Pontefice, il lavoro meritò l’ammirazione di tutti i dotti al tempo suo e le lodi di tutta la posterità. Scrivendo al Cardinale Annibaldo, a cui, dopo la morte di Urbano, dedicò i tre volumi dei Vangeli di S. Marco, di S. Luca e di S. Giovanni, S. Tommaso dice di aver durato in questo lavoro molta fatica e di avervi posto uno studio amoroso. Questo studio è principalmente nella scelta dei testi, dai quali sono tolte via le sottili e inutili questioni e che sono stati messi ingegnosamente a raffronto, prendendone veramente il fiore. In tal modo le più belle pagine di S. Giovanni Crisostomo, di Sant’Agostino, di S. Gregorio, di Sant’Ambrogio, di Tertulliano, di Origene, così calde, così ricche di vera eloquenza, illustrano nel più mirabile modo la parola divina del Vangelo.

27. — Prodigi e celesti favori.

Colla preziosa opera della Catena d’oro sono da ricordarsi altri dotti commenti della Sacra Scrittura, come quelli sui libri di Giobbe e d’Isaia, sui primi cinquanta salmi, sui Vangeli di San Matteo e di San Giovanni e sulle quattordici Epistole di San Paolo; minuta analisi del pensiero del grande Apostolo delle Genti, che riesce una perfetta esposizione di tutta la dottrina cattolica. – Fu concesso da Dio al nostro Santo uno specialissimo lume per entrare nei secreti del testo sacro, che egli sempre interpretò dopo lunghe orazioni, alle quali aggiungeva il digiuno quando si presentavano a lui speciali difficoltà. Lo vedevano spesso in chiesa starsene lunghe ore col capo appoggiato al Tabernacolo, ove si conservava la Santa Eucaristia. E in quei momenti ripeteva le parole di Sant’Agostino: « Possa io ottenere l’aiuto da te, fonte dei lumi; e mentre batto alla tua porta, mi sia rivelato il segreto dei tuoi sermoni. » – Ricordano i processi un fatto attestato dal fedele compagno di Tommaso, Fra Reginaldo. Era andato il Santo al suo notturno riposo; e Fra Reginaldo, che dormiva nella cella accanto, si destò al rumore di alcune voci che si udivano in quella di Tommaso. Poco dopo, il Santo lo chiamò dicendo: Portatemi il lume e la carta, ove abbiamo scritto sopra Isaia. Il frate obbedì, e scrisse quanto il Santo Dottore gli venne dettando. Era la spiegazione di un passo difficilissimo del Profeta. Com’ebbe terminato di scrivere, Fra Reginaldo si gettò in ginocchio presso il letto del Santo, e lo scongiurò a dirgli con chi avesse parlato: « Non mi partirò di qui, »esclamava, finché non me lo avrete detto! Alfine il Santo condiscese, c disse che gli erano apparsi i Santi Apostoli Pietro e Paolo e gli avevano spiegato il difficile passo, Ma insieme gli impose di non far parola della cosa a nessuno prima della sua morte. – Altri prodigi confermarono la santità della sua vita e dei suoi insegnamenti. Uno di essi accadde nella Basilica Vaticana ove predicò una quaresima. Nel Venerdì Santo parlò dei dolori del Redentore con tanta devozione che mosse tutti al pianto. E nella Pasqua vi fu gran concorso; ed egli esortò tutti ad esultare nel Signore e celebrare la sua resurrezione. Nell’uscir dalla Chiesa, una donna che pativa un flusso di sangue, avvicinatasi a lui tutta piena di fede, gli toccò il lembo della cappa e rimase d’un tratto sanata. – Un altro prodigio avvenne nel castello della Molara, nelle colline Tu- sculane, ove San Tommaso fu un giorno invitato dal Cardinale Riccardo di Sant’Angelo. Vi andò col suo amato Fra Reginaldo, che si ammalò gravemente e si mise in letto con altissima febbre; sicché era quasi disperato dai medici. Tommaso aveva una specialissima devozione verso la Vergine e Martire Romana Sant’Agnese, e ne teneva continuamente appesa al collo una piccola reliquia. Se la tolse e l’accostò al petto del povero Fra Reginaldo, che si alzò subito dal letto perfettamente guarito. Tommaso, attribuendo tutto all’intercessione della beata verginella, mostrò desiderio che ogni anno se ne facesse la festa nel convento, ove si trovava, con letizia speciale. Tra gli altri favori celesti che gli furon concessi furono le rivelazioni che egli ebbe intorno ai suoi due fratelli Landolfo e Rinaldo. Di Landolfo, allorché morì, seppe che era andato in purgatorio, e ne sollecitò con ardenti preghiere la liberazione, e che Rinaldo, il quale, come vedremo, per una santa e nobile causa aveva dato la vita, toltagli dai sicari di Federico II, era salito alla gloria celeste. E gli fu mostrato un libro, ove il nome di Rinaldo era scritto a caratteri d’oro ed azzurro. Allo stesso modo fu accertato dell’eterna salute della sua sorella Marotta, Badessa del monastero di Santa Maria di Capua, ov’era vissuta in santità di vita e che alcuni anni innanzi era morta.

28. — I due Rabbini.

Stando a Roma, Tommaso fu di nuovo invitato dal Cardinale Riccardo al detto castello della Molara, perché passasse in sua compagnia la festa del Santo Natale. Vi andò, e trovò che stavano presso il Cardinale due Rabbini, padre e figlio, uomini ricchi e di forte ingegno, molto conosciuti in Roma. Al Santo Dottore disse molto famigliarmente il Cardinale: Fra Tommaso, dite qualcuna delle vostre buone parole a questi Ebrei indurati. E il Santo: Dirò quel che potrò, purché mi vogliano ascoltare. Entrarono in discorso; ed era bello udir questi Ebrei esaltare, in tono di vittoria, la loro religione, come la più antica del genere umano, la custode fedele della divina rivelazione, l’erede delle più sante promesse, e specialmente di quella a loro fatta da Dio, del dominio su tutti i popoli della terra con l’assicurazione di un’eterna durata. Chi avesse udito quei vanti, avrebbe forse crollato il capo e pensato ad opporre altre grandezze da parte della nostra fede; ma Tommaso tutto approvò, e si unì ai suoi interlocutori in quegli elogi. Anzi, continuando, mostrò che quelle grandezze avrebbero potuto conservarsi e avrebbe dovuto compiersi quel grande destino, né mai interrompersi tradizioni così gloriose. E con la profonda cognizione che aveva delle Sacre Scritture, mostrò come tanti simboli sarebbero ora senza alcun significato, tante predizioni non si sarebbero verificate, se non si fosse ammesso quanto i Cristiani ritengono di Gesù Cristo e della sua Chiesa; il solo regno spirituale veduto dai Profeti, che avrebbe esteso i suoi domini fino ai confini della terra. – I due Rabbini rimasero stupiti, ma non si diedero per vinti. Allora la parola del Santo Dottore divenne più accesa; e veramente usciva da un cuore pieno di desiderio della salute di quelle anime, anch’esse redente da Cristo; e parlava di Cristo, solo erede delle promesse di Abramo, di Isacco, di David e di tutti i Patriarchi e Profeti, di Cristo, a cui i dolori e le pene non tolsero nulla della sua divina grandezza, anzi aumentarono la sua virtù riparatrice dei nostri falli, consolatrice dei nostri cuori. E il suo volto manifestava l’interno desiderio, e già da esso traspariva la letizia per la conquista che egli era per fare di queste due anime. – Si separarono quella sera: i Rabbini ridotti al silenzio, erano ancora ostinati. Tommaso non andò al consueto riposo: ma si trattenne per tutta la notte in devota preghiera. Era appunto la notte del Santo Natale: il suo Dio doveva in quei cuori versare la sua luce; Tommaso chiedeva questa grazia al suo Dio, che era disceso nel mondo fra il canto degli Angeli a recar la vera pace. Riferiscon gli storici dal processo, che il Santo Dottore, devoto com’era di quell’ineffabile mistero, era solito ogni anno, nella festa di Natale, aver qualche visione del Santo Bambino e della sua divina Madre ed ottener qualche grazia da lui desiderata; e che quest’anno la grazia che chiese fu la conversione di queste due anime. – I Rabbini passarono la notte nella più viva agitazione. Alzatisi innanzi giorno, si recarono come per istinto nella cappella del castello, e udirono la voce di due che cantavano. Erano Fra Tommaso e Fra Reginaldo, che avevano intuonato il Te Deum, A quella voce erano accorsi i cappellani e familiari del Cardinale, e il Cardinale stesso, sebbene incomodato dalla podagra, si fece portare nella chiesa. Finito il canto, che gli stessi accorsi avevano compiuto, i due Ebrei si prostrarono davanti al Santo colle lacrime agli occhi. Non avevano altre ragioni da opporre, né ebbero altro da domandare se non la grazia del santo Battesimo. – Nel giorno stesso, che era la Solennità del Natale, furono battezzati con gran letizia del Cardinale e gran festa in tutto il palazzo, e vi presero parte molti nobili venuti da Roma, dove presto fu divulgata la cosa con grande ammirazione di tutti.

29. — Al Capitolo di Londra.

Fra Umberto de Romanis, il venerando uomo che aveva per nove anni governato l’Ordine domenicano con sapienza e fortezza e ne aveva difesi validamente i diritti, e veduta la crescente prosperità ed anche indovinata la futura grandezza e gli alti destini a cui Iddio lo chiamava, specialmente col concedere ad esso un uomo come il Dottore d’Aquino, aveva passato il sessantesimo anno, ed era risolutamente deciso di rinunziare al suo ufficio nel prossimo Capitolo che doveva tenersi a Londra. Egli pensò che l’arduo peso poteva bene esser sostenuto da più giovani spalle, e che a lui era utile tornare alla condizione di umile suddito ed alla vita di orazione e di ritiro nella pace della sua cella. Varie infermità, del resto, lo avevano visitato di quando in quando, e ne avevano allentato l’attività mirabile. – La città di Londra era stata scelta nel Capitolo tenuto in Bologna nella Pentecoste del 1262; e San Tommaso era stato eletto Definitore della Provincia Romana. Ai Padri capitolari che non potevano opporre ragioni assolute di impossibilità, non era permesso dispensarsi; e Tommaso considerò come un sacro dovere l’intervenirvi, sebbene il lunghissimo viaggio costasse a lui assai tempo e molto disagio. Partì da Roma alla fine dello stesso anno 1262 con alcuni compagni. Ci fu conservata  la cara memoria della sosta che fece nel celebre convento di Sant’Eustorgio in Milano, ove il Beato Giovanni da Vercelli, allora Provinciale, aveva istituito una scuola di logica. Ma la pietà di Tommaso eravi attratta soprattutto dalle memorie del gran martire suo confratello, San Pietro da Verona. – Questo eroe della fede, dieci anni innanzi, era caduto vittima dell’odio dei Manichei nella foresta di Barlassina, tra Como e Milano, e morendo aveva scritto la parola Credo nel terreno col dito intriso nel proprio sangue. Non ancora spirato l’anno da quella morte gloriosa, Innocenzo IV lo aveva ascritto nel catalogo dei Santi ed alla sua tomba erano continui i miracoli e le grazie. – Dinanzi a quelle sacre reliquie si prostrò il Santo Dottore, che volle lasciarvi il prezioso ricordo di otto versi, che furono poi incisi sulla tomba. In essi è esaltato lo spirito apostolico del difensore di Cristo e del popolo fedele, caduto sotto il ferro dei Catari, e vien resa testimonianza dei prodigi che Cristo compiva a gloria di lui ed a vantaggio della fede. – Dinanzi ai Padri Capitolari il Beato Umberto, dopo di avere esattamente reso conto del suo governo, domandò umilmente d’esser prosciolto dall’ufficio. Invano si opposero i Padri, che sapevano essere egli specchio di pietà, amato da tutti e venerato, zelante al sommo del bene dell’Ordine. Ma furon così vive le sue istanze, che essi pensaron meglio di non contristarlo ed appagarono il suo desiderio. Trattavasi però della nomina di un successore, alla quale molti, in verità, non erano preparati. Ed era affare di molta importanza, in quel momento specialmente, la scelta del novello Generale, e cosa assai ardua dare un degno erede al Beato Umberto. Fu molto opportuno il consiglio suggerito dal Santo Dottore d’Aquino. Con altri Capitolari egli pensò doversi dare ai Padri un anno di tempo per tale scelta; e propose frattanto l’elezione di un Vicario. E forse si deve a lui se, per il bene dell’Ordine, accettò quell’incarico il suo caro condiscepolo sopra ricordato, Fra Pietro da Tarantasia, allora Provinciale di Francia, uomo santissimo, che avrebbe saputo in quell’intervallo, con prudenza e forza, calcare le orme del beato Umberto, per poi tornare alla sua cattedra di Parigi e agli altri ministeri che lo tenevano legato. Quel consiglio fu di somma utilità, perché da un lato si provvide assai bene al bisogno del momento; dall’altro poté poi scegliersi un uomo veramente degno di quell’altissima carica. Infatti, spirato l’anno, i voti dei Padri capitolari si raccolsero sul nome del Beato Giovanni da Vercelli, che fu veramente l’uomo della Provvidenza, eletto a conservare la famiglia domenicana nelle sue tradizioni gloriose ed avviarla ai nuovi destini in difficili tempi. – A Fra Pietro da Tarantasia era riservata una più gloriosa carriera, che, come vedemmo, lo condusse al più alto soglio della terra. Terminato il Capitolo di Londra, il Santo Dottore riprese il suo viaggio per l’Italia.

30. — La rinunzia all’Arcivescovato di Napoli.

Tornato in Italia, ebbe Tommaso assai presto il dolore di perdere un amico ed un padre, il Pontefice Urbano IV. A lui succede, col nome di Clemente IV, il Cardinale Vescovo di Sabina, Guido Fulcodi, di Linguadoca, che sembrò avere ereditato da Papa Urbano i sentimenti di stima e di affezione sincera verso il nostro grande Dottore, a cui però, col pensiero di premiarne i meriti, procurò le angustie più vive. – Era rimasto vacante l’Arcivescovato di Napoli; e il novello Pontefice giudicò che a nessuno meglio che a Tommaso d’Aquino poteva affidar quella sede. I Napoletani, giustamente orgogliosi di lui, desideravano unanimi quella nomina; e il Pontefice, in segno di predilezione verso il Santo, aveva pensato di aggiungere alle rendite dell’Arcivescovato quelle del Monastero di San Pietro ad Aram. In questa decisione era compreso anche un nobile intento, secondo il suo parere: quello, cioè, di dare il modo a Tommaso di rialzare la famiglia d’Aquino, assai decaduta per le vicende politiche di quei tempi. Federigo II imperatore, divenuto crudele e ribellatosi alla Chiesa, era stato scomunicato da Gregorio IX nel 1239. Allora molti Signori d’Italia lo abbandonarono, né vollero prender più parte alle sue guerre ingiuste. Furon tra questi i Conti d’Aquino, fratelli di San Tommaso, Landolfo e Rinaldo, che si unirono ai Conti di Sora, fattisi difensori del Papa. Per vendicarsi di loro, Federigo II nel 1250 fece smantellare la città di Aquino e privò la illustre famiglia di tutti i suoi beni. E non bastò; perché Rinaldo fu ucciso a tradimento e Landolfo mandato in esilio. Ma Tommaso, che già sotto Urbano IV, a quanto sembra, aveva saputo sottrarsi all’onore della porpora, poté evitare anche il nuovo pericolo. Tutto ormai era disposto per l’elezione, ed egli ancora nulla sapeva. Ma quando la cosa gli giunse all’orecchio, rimase così colpito, che più non si sarebbe addolorato per una grave sventura che gli fosse ad un tratto piombata addosso. Il motivo d’aiutare i parenti non valse: quanto a loro egli aveva altre idee: se la Provvidenza avesse voluto ricondurli a prospera condizione, non sarebbero a lei mancati i mezzi; ma le rendite della Chiesa, egli pensava, non dovevano servire a questo. Tra il desiderio del Santo di voler restare nell’umiltà del suo abito religioso e il volere del Papa di esaltarlo ad ogni costo, la lotta si continuò alquanto; e Tommaso tutto sperò dalle preghiere che giorno e notte rivolse a Dio in quei momenti. Alfine il Pontefice depose quel pensiero, con grande allegrezza del Santo Dottore. – Quanto alla famiglia d’Aquino Iddio provvide a suo tempo, perché da Carlo d’Angiò, eletto dopo cinque anni re delle Due Sicilie, essa fu restituita nel pieno godimento di tutti i suoi beni. Napoli non ebbe in Tommaso il suo Arcivescovo. Ma se lo avesse avuto, dobbiamo certo pensare che l’attività scientifica di Tommaso, in altri ministeri occupato, si sarebbe troncata, e forse la Chiesa non avrebbe avuto da lui la Somma Teologica.

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (3)

VITA
dell’Angelico Dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (3)


dell’ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti
Card.
Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA
FRANCESCO FERRARI
1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

18. — La difesa dei religiosi.

Guglielmo di Sant’Amore era uomo irrequieto e fantastico. Sebbene gli fossero mostrati con ogni evidenza i suoi torti, e quasi tutti i Vescovi e lo stesso Re Io avessero riprovato, si ostinò nei suoi errori, e neppure lo mosse una nuova Bolla di Alessandro IV del 18 giugno 1255, in cui venivano a lui ed ai suoi compagni minacciate le pene più severe della Chiesa. Comparve allora un opuscolo anonimo, di cui lo stesso Guglielmo fu poi riconosciuto autore, intitolato: Dei pericoli degli ultimi tempi. L’autore protesta di non essere animato se non dal desiderio del bene, e di dovere, per questo, additare alle anime uno dei più gravi pericoli che minacciava la Chiesa. Ed afferma che la comparsa nel mondo degli Ordini mendicanti non era che la venuta dei falsi profeti predetta da San Paolo, esser sola finzione la loro virtù, pompa vana la scienza, utile a poco il loro apostolato, vana ostentazione la loro povertà, inganno e menzogna le loro penitenze. Se a un tal danno non si fosse posto sollecitamente un rimedio, se non fossero proscritti come infesti alla Chiesa e alla Società questi uomini nuovi, altri gravi pericoli, egli diceva, avrebbe dovuto temere l’intera umanità. Sarebbe stato dovere della Chiesa disperdere per sempre queste istituzioni inutili e dannose, prima tollerate, ma poi approvate per deplorevole errore; perché i loro membri non erano che figli di satana, messi dell’Anticristo. – In verità le accuse di Maestro Guglielmo furono dai più giudicate tosto appassionate e false, specialmente nei punti ov’egli attaccava la natura e lo scopo delle due sante istituzioni, non nominate da lui, ma descritte con esatte particolarità. Ma purtroppo alcune accuse, che avevano una certa apparenza di vero, acquistarono credito, come quella del danno che veniva al clero secolare dall’attività dei frati, ed altre a cui forse avevan dato occasione alcuni membri dei due Ordini, che, nel calore della disputa, non avevano saputo conservare quella serenità e quella calma, di cui Tommaso dava si splendido esempio. Il libro fu inviato dal Re San Luigi a Roma per chiederne la condanna; e là si recaron di nuovo lo stesso Guglielmo di Sant’Amore con altri tre dottori dell’Università; mentre dal loro canto vi accorsero in propria difesa alcuni religiosi Domenicani e Francescani. Frattanto il Pontefice diede il libro in esame a quattro Cardinali, fra i quali era il Domenicano Ugo di San Caro, che manifestò al Beato Umberto Generale dell’Ordine il desiderio che intervenisse nella lotta anche Tommaso d’Aquino, da lui creduto l’uomo più adatto per ribattere accuse così maligne, mentre la sua vita, d’altra parte, ne era la confutazione più aperta. Era l’anno 1256; e Fra Tommaso per la prima volta tornava in Italia. La fama lo aveva precorso; ed Alessandro IV già ne aveva parlato con alte lodi scrivendo il dì 11 marzo di quel medesimo anno al Cancelliere dell’Università di Parigi; e chiamandolo illustre per nobiltà di natali non meno che per onestà di costumi, aveva affermato che nella sua mente aveva accolto, col divino aiuto, un tesoro di scienza nelle lettere sacre, e desiderava perciò che gli venisse conferito il grado di Dottore nella celebre Università, sebbene non avesse l’età prescritta dagli statuti, che esigevano trentacinque anni. Venne Fra Tommaso in Italia col caro Maestro Alberto Magno e il Generale dell’Ordine Beato Umberto; e fu lieto di avere per compagno San Bonaventura, il suo fedele amico, condotto da Fra Giovanni da Parma Generale dei Minori. Si trattava di un pericolo comune; e i campioni dei due Ordini dovevano sostenere insieme la lotta. – Il Pontefice dimorava allora in Anagni. Come là fu giunto, il Beato Umberto radunò nel convento dell’Ordine il Capitolo, e in presenza dei religiosi diede ordine a Tommaso, anche in nome del Vicario stesso di Gesù Cristo, di stendere una confutazione dell’infame libello del Maestro Guglielmo. Tommaso obbedì senz’altro; e dopo aver rivolto a Dio fervorose preghiere, si mise al lavoro, e scrisse quella difesa, che ancora rimane, ove son messi al nudo tutti i sofismi dell’astuto scrittore, che vien confutato vittoriosamente. Allo scritto unì la parola: e in un giorno stabilito tenne dinanzi al Papa un sermone così chiaro e stringente sull’argomento, che il Papa col sacro Collegio applaudì calorosamente. Il libro ad una voce fu giudicato contrario alla fede, dannoso alla pietà cristiana, ingiurioso alla Chiesa e sorgente di scandalo pei fedeli; e i deputati dell’Università doverono umiliarsi a sottoscrivere la propria condanna. Ma Guglielmo di Sant’Amore perseverò nella sua ostinazione, e fu perciò degradato ed escluso dall’Università, mentre gli altri tre dottori doverono ascoltare nella Cattedrale d’Anagni la lettura del decreto, che condannava il libro ad essere arso pubblicamente alla presenza del Papa. – Il trattato di San Tommaso scritto in tale occasione e che ha per titolo: Contro coloro che impugnano lo stato religioso, è uno dei più celebri che ci abbia lasciato il santo Dottore. Alla consueta solidità delle ragioni egli aggiunge in queste pagine quella potenza e calore di stile che nasce dall’intima persuasione della bontà della causa che difende e dal desiderio di mettere in salvo da ogni attacco presente e futuro l’umano diritto ad una vita di ritiro e di studio, d’innocenza e di bontà, consigliata dal Vangelo e congiunta coll’attività apostolica. Opera che molto utilmente può leggersi anche ai dì nostri, mentre da varie parti le accuse contro gli Ordini religiosi si sono rinnovate, sebbene i fatti più luminosi le smentiscano continuamente.

19- — Ritorno in Francia, e tempesta di mare.

Chiesta umilmente la benedizione al Sommo Pontefice, Tommaso, in compagnia del Padre Generale e del Beato Alberto, si rimise in viaggio per la Francia e giunto a Civitavecchia prese la via del mare. Si crede che in questo viaggio accadesse la furiosa tempesta, di cui gli storici conservarono il ricordo. – Era partito il naviglio con vento propizio, e veleggiava per le acque del Tirreno verso i lidi di Provenza, quando il cielo si fé oscuro, il vento impetuoso, la pioggia violentissima, sicché la nave era in serio pericolo. Il capitano sbigottito temeva da un momento all’altro che la nave si rovesciasse od andasse ad urtare in certi scogli che si trovano appunto in quel tratto di mare, ove la burrasca li aveva colti; e tutti i passeggeri si raccomandavano a Dio con altissime grida. In quei terribili momenti Tommaso nulla perdé della sua calma consueta, e restò assorto per tutto quel tempo in devota preghiera. Come Dio volle, i flutti si abbonirono e, cessata la procella, tornò favorevole il vento, che condusse la nave al porto di Marsiglia. La calma tornata nel mare per le preghiere di Tommaso fu come un preludio della pace che man mano si venne a ristabilire negli animi tanto per la volontà risoluta del Pontefice e la santa accortezza del Re San Luigi, quanto per la luce che l’intelletto di San Tommaso aveva apportato nell’ardua questione.

20. — Il Dottorato.

Conferma di questa pace e quasi pegno di riconciliazione dei dottori dell’Università coi religiosi già calunniati ed esclusi, fu la decisione che essa prese di concedere il supremo grado del dottorato ai due santi religiosi Tommaso e Bonaventura. Tommaso aveva oltrepassato di poco il trentesimo anno, ma era ben lieto di avergli accordata l’opportuna dispensa Alessandro IV, che aveva già avuto nella famosa disputa un sì bel saggio della sua dottrina. Così dal grado di Baccelliere, col quale aveva continuato il suo insegnamento esponendo i celebri libri di Pier Lombardo in mirabili lezioni che rimangono tra i suoi scritti, salì a quello del Dottorato. Ma per la sua modestia e profondissima umiltà fu una gran prova per lui il dovere accettare quel grado; e solo per obbedienza consentì ad esser chiamato maestro, mentre nell’insegnare e nel predicare aveva sempre cercato di porre in luce la dottrina e nascondere se stesso; e ai propri occhi egli appariva immeritevole di qualunque onore. Molto diversamente invece la pensavano gli altri. Egli si rivolse a Dio colla preghiera; e rapito in estasi, vide comparire davanti a sé un bel vecchio, a cui egli espose tutte le sue esitazioni. Non temere, gli rispose il vecchio, e tieni come volere di Dio il comando dei tuoi superiori. E intanto gli suggerì il testo da esporre nel cosiddetto Principio, o prolusione, da recitarsi in presenza di tutta l’Università nell’atto di ricevere il Magistero. Era il versetto del salmo centesimo terzo: Tu dai luoghi superiori innaffi i monti: e dei frutti, che sono opera tua, sarà saziata la terra. Quel sermone fu tenuto dal Santo il 23 ottobre 1257, e tutti lo udirono meravigliati. Esso tuttora ci rimane; ed oltre ad essere un documento mirabile della scienza del novello Dottore, è un chiaro saggio della sua umiltà, e un grande presagio, come Giovanni XXII lo giudicò nella celebre Bolla con cui decretava a lui gli onori degli altari. Poiché in Tommaso stesso sì adempì, a benefìcio della Chiesa, quanto dice il Reale Profeta: riceverono la sua celeste sapienza le grandi intelligenze, paragonate ai monti, irrigati da alte sorgenti; mentre la santità di lui, come acqua ristoratrice della terra, che rende atta a produrre frutti copiosi, è di somma edificazione a tutto il popolo di Dio.

21. — San Luigi Re di Francia.

Della elevazione di San Tommaso al grado del dottorato andò lieto soprattutto il santo Re Luigi, che ebbe sempre per lui una specialissima predilezione. Eran due anime grandi, che appena si furon conosciute, si compresero e si amarono, e, possiamo anche dire, lavorarono insieme per il bene della società e della Chiesa. Lietissimo San Luigi d’avere nella sua Università il celebrato Maestro, ebbe occasione più volte di ammirarne la profonda e vasta dottrina. Ben presto si strinse con lui in familiarità cortese, prese a consultarlo intorno a quanto egli intendeva di fare a benefizio della religione e dello stato, e sempre si attenne ai suoi prudenti consigli. E spesso eran cose ardue e del tutto estranee alle occupazioni dei religiosi; ma Tommaso, certo illuminato dallo spirito di Dio, portava nelle questioni come una luce superiore e rispondeva ai dubbi e quesiti del re colla massima sapienza e sicurezza. Sebbene di rado Tommaso si recasse alla corte, qualche volta accettò gl’inviti del Re, e gli occorse anche di restare a pranzo con lui. Ma era cosa mirabile per tutti quei che sedevano a mensa il vederlo assorto in Dio anche in quel tempo, ed affatto estraneo a quello che si faceva o si diceva dai commensali. – Ci conservarono gli storici il ricordo d’un fatto, accaduto appunto quando Tommaso ebbe occasione una volta di sedere a pranzo col Re. Sa ognuno quanto fosse allora occupato il pensiero della Chiesa e dei principi cristiani per le minacce dell’eresia manichea, più volte abbattuta, ma non vinta; e che sotto diversi titoli tentava pullulare di nuovo. San Tommaso che stava allora scrivendo la celebre Somma contro i Gentili, pensava a trovare le ragioni più convincenti per confutare il famoso errore dei due principi del sommo bene e del sommo male, che rinnovava la fatale dottrina del dualismo pagano. In quei pensieri egli s’immerse anche nel momento della mensa; quando a un tratto egli batté un pugno sulla tavola, ed esclamò: È finita pei Manichei! Possiamo figurarci lo stupore dei commensali! Il Priore dei Domenicani, che lo aveva accompagnato, lo avvertì tirandolo per la cappa; ed egli, come riscosso da un sonno, chiese perdono al Re della sua distrazione, dicendo che in quel momento credeva di stare nella sua cella e non alla mensa del Re. Ma questi volle che subito fosse chiamato uno scrittore, il quale subito raccolse, dalla bocca di Tommaso, l’argomento da lui trovato, semplice e luminoso, contro i Manichei. — Se il male, in quanto male, non esiste perché assenza di bene e di entità, il sommo male è somma assenza di entità: è il nulla. E così il preteso dio dei Manichei, che essi chiamano il sommo male, non è che il nulla. – Conservò San Luigi, finché visse, la preziosa amicizia dell’Angelico Dottore, e fu lieto di rivederlo e trattenersi a lungo con lui nel 1270, prima di partire per il suo viaggio, ove trovò, com’è noto, la morte. L’impresa d’Oriente era in cima di tutti i suoi pensieri: e possiam bene immaginare come agli slanci di quel cuore generoso aggiungesse fervore la parola mite, ma calda del nostro Santo, a cui stava così a cuore, come a tutte le anime grandi di quell’età, il trionfo della Chiesa sulla barbarie, annidata presso il sepolcro di Cristo. Da quel momento essi non si rividero più in terra, per ritrovarsi presto nel cielo, ove lo figurò in dolce colloquio, presso il trono della Vergine, il Beato Angelico.

22. — L’ordinamento degli studi domenicani.

L’Ordine di San Domenico ebbe fino dai primordii, e per volontà del suo grande Istitutore, un carattere dottrinale. La sua missione si compendiò nel dare largamente alle anime, per mezzo della parola, il frutto della contemplazione, la verità, meditata ed amata. Ebbero perciò sempre cura i Superiori Domenicani di raccomandare ai religiosi lo studio ; e lo stesso San Domenico diede ai suoi figli un luminoso esempio, quando volle egli stesso, coi primi che gli si unirono, sebbene già ricco di sapere, assistere talora alle lezioni di Maestro Alessandro. Ad essi, tornato una volta da Roma dopo il celebre colloquio col Papa Onorio III, tracciava in due parole la vita che dovevano condurre : Studiare e predicare. I primi conventi furono edificati presso le più celebri università, o altri luoghi di studi ; e questo anche giovò perchè accorressero a domandar l’abito dell’Ordine gli scolari più eletti, desiderosi di darsi tutti al ministero apostolico, ed anche maestri già celebrati nel secolo o insigni luminari del clero. Varie deliberazioni erano state prese intorno agli studi nei Capitoli Generali che si tenevano ogni anno per la festa di Pentecoste ; e specialmente sotto i tre Generali Beato Giordano di Sassonia, San Raimondo da Pennafort e Fra Giovanni Teutonico, erano state fissate alcune norme intorno all’insegnamento nei conventi, tra le quali non fu la meno importante quella dell’erezione di varie cattedre di lingue orientali. La fondazione ordinata nel i348 dei quattro grandi centri di studio che venivano ad aggiungersi a quello più antico di Parigi e ai quali dovevano inviarsi gli studenti migliori da ogni parte d’Europa, ci manifesta la somma premura che l’Ordine si prendeva per la prosperità degli studi, e per l’unità e serietà dell’insegnamento. – Non esisteva però ancora un ordinamento scolastico comune ed uniforme nei conventi domenicani, sia intorno alla durata dei corsi, sia intorno ai doveri particolari dei lettori e degli studenti : e ci piace vedere come a stabilire tutto questo portasse il suo valido contributo San Tommaso d’Aquino. Nel 1259 fu convocato il Capitolo Generale a Valenciennes nell’ Hainaut, che dopo la fondazione dell’Ordine era il trentesimo ottavo ; e vi furono chiamati cinque dottori domenicani, tra i quali, come vedemmo, il Beato Alberto Magno, Fra Pietro da Tarantasia, e San Tommaso. Generale dell’Ordine era tuttora il Beato Umberto de Romanis, scflecito non meno della disciplina religiosa che dello studio, in cui vedeva per l’Ordine la sorgente d’una prosperità vitale. Nello studio (egli diceva) sta tutto il vigore dell’Ordine, come nell’ anima il vigore del corpo. Sotto questo abilissimo capo, le ordinazioni sugli studi domenicani dovevano prendere la loro forma definitiva. Nel celebre Capitolo molte ordinazioni, prese qua- e là nei varii Capitoli provinciali, vennero discusse ed approvate; e si aggiunsero altri nuovi provvedimenti, che, dopo quasi sette secoli, sono ancora in vigore nelle loro parti fondamentali; prova la più evidente della sapienza che li ispirò. Nè poteva esser diversamente, se pensiamo che in quel venerando consenso splendeva la luce dell’intelletto di Tommaso. Mentre ai discepoli viene imposto lo studio come un sacro dovere e la religiosa disciplina, il silenzio soprattutto, vien suggerita come mezzo per conservare il necessario raccoglimento, ai Superiori son date norme precise per la scelta dei lettori abili all’insegnamento e lodevoli per bontà di vita, e si stabilisce che le Provincie che ne fossero mancanti vengano aiutate dalle altre. Così son dati precisi incarichi ai Visitatori, i quali debbano riferire ai Capitoli provinciali i difetti che troveranno nell’applicazione dei varii decreti, e stabilire le pene ai trasgressori. Aiuto più valido ancora avrebbe poi dato Tommaso all’avanzamento degli studi domenicani, quando la sua dottrina, accettata solennemente da tutto l’Ordine e strenuamente difesa, avrebbe procurato ad esso la lode di una meravigliosa unità dottrinale, a sommo vantaggio della Chiesa Cattolica.

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (4)

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (2)

VITA dell’angelico dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (2)


dell’ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti
Card.
Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA – FRANCESCO FERRARI, 1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

8. — Professione religiosa e andata a Colonia.

Pio XI nella sua enciclica Studiorum Ducem così si esprime: « Se la pudicizia di Tommaso, nel pericolo estremo a cui fu esposta, fosse venuta meno, è da ritenersi che la Chiesa non avrebbe avuto il suo Angelico Dottore. A nessuna virtù infatti meglio si collega la sapienza celeste, che alla mondezza del cuore; e Cristo lo insegnò dicendo: Beati i mondi di cuore, perché essi vedranno Dio. Ben giudicarono i superiori di Napoli che il noviziato di Tommaso, anche lungi dal chiostro, fosse compiuto. E qual maggior prova si richiedeva da lui per ammetterlo alla professione religiosa? Il farlo professare era, d’altra parte, un mezzo per metterlo sempre più al sicuro; ed egli davvero ne aveva il più pieno diritto. Contro i fratelli, essendo stata risaputa la loro infamia, erasi mosso lo sdegno tanto del Pontefice Innocenzo IV, quanto dell’Imperatore Federico; e la contessa Teodora era ormai disarmata, tanto più che le figlie si eran così volte in favore del giovane perseguitato. Nelle mani del ricordato Priore Fra Tommaso Agni da Lentino poté il novizio emettere i suoi voti solenni di povertà, castità ed obbedienza, ed ascriversi definitivamente all’Ordine Domenicano. Questo santo religioso, che fu poi Vescovo di Betlemme e Legato di Terra Santa, e che più volte aveva visitato Tommaso nel carcere col favore delle sorelle di lui, era in quel momento raggiante di gioia. E fu maggiore la sua soddisfazione quando seppe che in Roma il Pontefice aveva presa la cosa su di sé ed erasi mostrato irremovibile dinanzi ai lamenti e alle proteste della famiglia d’Aquino, difendendo ad un tempo e il diritto di Tommaso di seguire la sua vocazione e l’operato dei religiosi che alcuni avevano messo in mala vista agli occhi di lui. Prima, infatti, di pronunziarsi in favore del novizio, il Papa lo aveva voluto a sé e lo aveva interrogato intorno alla sua vocazione. Davanti al Pontefice il giovane religioso aveva, con ammirabile candore, difeso il suo diritto, ma non aveva per nulla accennato alle violenze patite. Solo aveva chiesto umilmente al Vicario di Gesù Cristo libertà di seguire, per la via della croce, il Divino Maestro. E il Papa lo aveva benedetto, vietando ai parenti di perseguitarlo in qualunque modo. Ad evitar però ogni pericolo, il Generale dell’Ordine, che era allora Fra Giovanni di Wildehausen, detto il Teutonico, il quale doveva recarsi a Parigi e quindi in Germania, prese con sé Fra Tommaso e lo condusse a Colonia, tanto più che soltanto in quel celebre studio dell’Ordine sapeva che egli avrebbe trovato il suo più degno maestro, Alberto Magno. Partirono da Roma nel settembre del 1244.

9. — Alberto Magno.

L’uomo che Dio aveva destinato ad essere a Tommaso maestro e padre, Alberto di Colonia, della nobile famiglia dei Conti di Bollstadt, non aveva forse l’uguale nell’Ordine Domenicano per santità di vita e altezza di dottrina. Dal Beato Giordano di Sassonia, succeduto a San Domenico nel governo dell’Ordine, egli aveva di 19 anni ricevuto l’abito nel convento di Parigi; ed oltre ad aver tutti meravigliato per la profondità del suo ingegno, per la prontezza della sua memoria e per il profitto che fece ben presto in tutte le scienze del tempo suo, aveva dato altresì esempio della più ardente pietà, e soprattutto della più viva divozione verso il SS. Sacramento e la Vergine Madre. In Parigi, ove prima insegnò, poi a Strasburgo, a Ratisbona, a Colonia acquistò sì alta fama che gli fu dato il soprannome di Grande. In Roma, ove aveva tenuto in Vaticano l’ufficio di Maestro del Sacro Palazzo e Teologo del Papa, era rimasto celebre il suo nome. Gareggiò colla scienza la sua santità: zelantissimo per la salute delle anime non tralasciò mai la predicazione della divina parola e la alternò sempre coll’insegnamento: ebbe una carità inesauribile verso i poveri; e quando gli fu dato, li soccorse nel modo più largo. Uomo di orazione, ebbe in pratica di recitare ogni giorno finterò salterio. Gli furono commesse le cariche più onorifiche nell’Ordine, e dalla Santa Sede venne eletto Vescovo di Ratisbona e Legato in Polonia. – Nato più che tre lustri prima del suo discepolo Tommaso, gli sopravvisse di altri 16 anni; e fu somma gloria di lui l’aver avuto un tal discepolo, di cui aiutò i progressi nella scienza con indicibile amore, di cui vide con gioia i trionfi e di cui pianse finalmente la morte. E se Tommaso volò agli eterni riposi senza poter giungere al Concilio di Lione, ov’era chiamato, in questo venerando consesso Alberto Magno sembrò parlare in suo luogo e zelare per lui l’onore di Dio e della Chiesa. La storia ci mostra ad evidenza come il Beato Alberto concepisse fin da principio verso il giovane Tommaso un grandissimo affetto e lo tenesse veramente come figlio. Di qui si spiega quanto valore acquistassero per Tommaso i suoi insegnamenti e quanto giovassero alla completa formazione di lui i suoi esempi; e come l’angelico giovane, quasi per via di un amore docile e veramente filiale, entrasse man mano nel segreto dei più alti pensieri del grande Maestro a lui comunicati con affetto di padre.

10 — Il bue muto

Se col santo suo Maestro trattava Tommaso con filiale espansione, ed a lui furon subito note, coll’altezza dell’ingegno, tutte quelle doti di mente e di cuore che nel carattere italiano, e con più evidenza nei meridionali, si uniscono spesso in dolce armonia coll’affabilità e gentilezza dei modi, coi suoi compagni egli fu piuttosto restio, e non mostrò dapprima familiarità nessuna. Assorto com’era nello studio e nel meditare continuo, osservante al sommo del silenzio, abitualmente serio e composto, fu giudicato soltanto da quella superficie, e creduto povero d’ingegno e del tutto inesperto. Si aggiunga una circostanza notata dagli storici, che Tommaso, quasi del tutto astratto dalle cose di quaggiù, non si accorgeva spesso di ciò che avveniva attorno a lui, sicché egli ebbe poi bisogno di una continua guida per le cose materiali, e fu provveduto che un religioso fosse addetto alla cura della sua persona. Questa singolarità dové certo esser notata anche nella sua giovinezza, e poté venire diversamente giudicata. Certo è che i suoi compagni di scuola presero a chiamarlo il bue muto di Sicilia ». Quel soprannome gli venne dato dapprima dai meno riflessivi di quei giovani, ma presto divenne comune, e non mancò chi giudicò scarsità d’ingegno quella taciturnità e alienazione dai sensi; fino al punto che un suo condiscepolo si offrì amorevolmente a fargli da ripetitore, pensando che poco o nulla avesse compreso delle lezioni del maestro. Per più giorni Tommaso ascoltò quelle ripetizioni, mostrando sempre all’improvvisato maestro la più schietta gratitudine pel benevolo ufficio; e se frattanto non si accresceva la sua scienza, faceva invece grandi progressi la sua umiltà; mentre provava un’interna gioia per la poca stima che si aveva di lui. Egli aveva appreso che l’umiltà è la sola via per salire alla grandezza vera; e che nel disprezzo di sé e nello star lietamente in basso sta il fondamento della virtù più sublime.

11. — Il presagio del Beato Alberto

Al Beato Alberto non restò celato il fatto di quel soprannome, e forse rise in cuor suo dell’inganno in cui eran caduti i suoi scolari intorno al giovane napoletano nuovo venuto. Tacque per allora, ed aspettò che si presentasse un’occasione per correggere quell’errore. E questa non tardò, perché avendo egli un giorno spiegato un passo difficilissimo dell’opera « sui nomi divini » da tutti allora attribuita a San Dionigi Areopagita, il condiscepolo di Tommaso, che gli faceva da ripetitore, disse a lui di mettere in carta ciò che per avventura avesse compreso della lezione del maestro. Tommaso lo fece con semplicità mirabile; e accadde che quello scritto capitò nelle mani del Maestro Alberto, che ne restò stupito, per quanto fosse certo del sublime ingegno di Tommaso. Ma perché a tutti fosse nota la cosa ed egli avesse dalla scolaresca il rispetto che si meritava, stabilì pel giorno seguente una disputa, nella quale Tommaso avesse la parte di difensore. Egli dové obbedire; e le sue risposte pronte, sicure, luminose, superarono ogni aspettativa. Gli oppositori, secondo l’uso della scuola, insistevano colle più sottili obiezioni che avrebbero messo in imbroglio i più provetti; ma egli ne vide subito il debole e le sciolse senza difficoltà veruna, sì che il Maestro degli studenti, che guidava la disputa, gli disse: Voi qui non parlate da scolaro ma piuttosto da Maestro! Allora il Beato Alberto credé giunto il momento di rompere il silenzio: e rivolto a tutta la scolaresca esclamò: Voi lo chiamate il bue muto; ma questo bue manderà tali muggiti, che se ne udirà l’eco in tutto il mondo! – Uno storico fedele del Santo aggiunge: La testimonianza di tanto maestro non lo fece per nulla montare in superbia; ed egli continuò nella sua solita ed esemplare semplicità. E interrogato più tardi perché egli avesse sempre taciuto nella scuola di Maestro Alberto, rispose: Perché ancora non avevo imparato a parlare.

12. — All’Università di Parigi.

Da quel momento a Tommaso furono affidati nella scuola i più delicati uffici. Ma il Capitolo Generale dell’Ordine, tenuto appunto in Colonia nel 1245, prese la determinazione di presentare Alberto all’Università di Parigi perché prendesse la laurea del dottorato, da cui nessuno veniva insignito innanzi il trentacinquesimo anno. Ma non si separò per questo il discepolo dal Maestro, perché insieme fu determinato che si recasse in quella metropoli anche Fra Tommaso, per continuarvi il suo corso di teologia. Partirono nell’autunno del medesimo anno; e in Parigi presero dimora nel celebre Convento di San Giacomo, già fondato nel 1217 dal Beato Mannes fratello di San Domenico, quattro anni avanti la morte del Santo Patriarca. Nel corso di quasi trent’anni quel Convento aveva acquistato una celebrità senza pari, specialmente per avere i Generali dell’Ordine risposto con larghezza ai desideri di San Luigi re di Francia, che bramò aver nella sua metropoli i più eletti ingegni dell’Ordine; favore che egli ricambiò coi benefìzi più larghi. Questi religiosi, uniti ai più celebri di altri Ordini, specialmente di quello dei Minori, occuparono nella celebre Università varie cattedre importanti. Per la venuta di Maestro Alberto ebbe l’Università un notevole incremento, e le sue lezioni furono le più frequentate. La sua fama corse per tutto e attirò scolari dai più lontani paesi. – La vita di Tommaso studente di teologia nell’Università di Parigi fu quella del più umile religioso. Dicon gli storici che egli era sempre occupato in gravi pensieri, e sembrava quasi non curare le necessità della vita. Sedeva a mensa e sembrava mangiar senza gusto; sorgeva e non ricordava affatto quel che aveva mangiato. I libri eran la sua passione più viva; e quando poté avere alcuni volumi dei Padri, avidamente li lesse e colla prodigiosa memoria li fece suoi; soprattutto cercò di penetrar nella mente di Sant’Agostino, che sempre considerò come suo speciale Maestro. – La sua preghiera si fece sempre più intensa, né mai era impedita dallo studio, che, del resto, era anch’esso una preghiera. Colla pietà più profonda e coll’esercizio continuato delle religiose virtù si preparò ai sacri Ordini, che via via gli vennero conferiti, per ricever finalmente quello a cui sapeva di doversi preparare col massimo fervore: il Sacerdozio.

13. — Ritorno a Colonia. L’ordinazione sacerdotale.

Era stato tenuto nel 1248 il Capitolo Generale dell’Ordine a Parigi per la festa di Pentecoste; ed erano state scelte dai Padri quattro città per erigervi gli studi generali, oltre quello che già esisteva in San Giacomo di Parigi, ove ogni provincia dell’Ordine doveva inviare tre studenti: Bologna per l’Italia, Colonia per la Germania, Oxford per l’Inghilterra e Montpellier per la Provenza. A diriger quello di Colonia fu nominato il Beato Alberto Magno, che nell’autunno di quell’anno si mise di nuovo in viaggio e condusse seco Fra Tommaso, che sotto la sua guida continuò con sommo profitto il corso dei suoi studi teologici durato, a quanto sembra, fino al 1252. Al sacerdozio fu promosso Tommaso in Colonia nel suo anno venticinquesimo. La celebrazione della Santa Messa fu per lui da quel momento la cosa senza paragone più degna della giornata. Gli storici della sua vita raccontano che, mentre diceva la Messa, egli era tutto rapito in Dio; che il suo volto, come accadeva a San Domenico, era spesso coperto di lacrime, e sembrava bevere a gran sorsi a quella fonte di vita e di grazia, che è la Divina Eucarestia. Giovanni XXII, nel proclamare la sua santità, lo additava ad esempio; perché ogni giorno, prima di salire la cattedra, il Santo Dottore era solito celebrare con somma devozione la Santa Messa e poi udirne un’altra; e se talvolta non poteva celebrare, ascoltavane due. E le più volte amava servire egli stesso ai confratelli che celebravano, parendogli questo un ministero angelico; ma doveva porre una speciale attenzione per rattenere gli slanci del suo spirito e non restare rapito in Dio. È facile comprendere come le giornate di lui passassero nella più intima unione col suo Signore. Lo studio, l’insegnamento e la contemplazione delle cose celesti si alternavano e, possiam dire, si compenetravano; e quando scriveva o dettava, poteva paragonarsi ad una fonte tranquilla che versa in abbondanza acque salutari. Tale specialmente era Tommaso quando predicava. Per la predicazione egli sapeva avere il Santo Patriarca Domenico fondato il suo Ordine, e dall’insegnamento della cattedra non disgiunse mai il ministero della parola. Possiamo figurarci come fossero sante ed amabili le predicazioni di San Tommaso! Dice un suo storico che il popolo udiva con tanta riverenza la sua parola, come se venisse da Dio. Delle prediche da lui tenute sui Vangeli e sulle Epistole di tutte le domeniche dell’anno e per molte feste dei Santi non restano che brevi note, ma esse ci bastano a dimostrare come egli sempre cercasse di rendere amabile la verità, da lui mostrata nei suoi molteplici aspetti; e che la parola di Dio rivelata fosse sempre la sua guida. Nulla vi si trova di sapienza terrena; è la parola evangelica nel suo senso più vero e più pieno; e sotto il rigore del ragionamento, si sente la dolcezza del cuore di un Santo. – Se il popolo accorreva nelle chiese ad udirlo, lo avrebbero ammirato i dotti non meno nella scuola. Il Beato Alberto era in quel momento l’oracolo dei tempi suoi, nessuno dottore aveva levata di sé più alta rinomanza. Ma Tommaso, senza perder nulla dell’umiltà del discepolo, doveva presto superare il maestro per la nuova luce che parve gettare sulle grandi verità filosofiche e teologiche e per l’invidiabile chiarezza dell’esposizione. Per tutti i centri di studio corse la fama di giovane sì raro; e l’Università di Parigi desiderò di riaverlo come Maestro, dopo averlo ammirato come studente. Il Generale dell’Ordine, che era tuttora il Padre Giovanni Teutonico, consentì alla domanda che specialmente ne faceva il celebre Cardinale Domenicano Ugo di San Caro, il quale prevedeva quanto splendore avrebbe apportato a quella celebre scuola il bravo Dottore italiano. E così nell’anno 1252 tornò a Parigi e inaugurò il suo insegnamento col grado di Baccelliere.

14. — Amicizia con San Bonaventura.

Con altri frati Minori era stato inviato all’Università di Parigi, in quel tempo, anche Fra Bonaventura da Bagnorea, elettissimo ingegno ed uomo ammirabile per purità e santità di vita. Nato nel 122, ebbe al battesimo il nome di Giovanni, che fu poi mutato in quello di Bonaventura per questo fatto. In età di quattro anni fu colto da grave malattia, ed era in pericolo di vita. La madre prostrata ai piedi di San Francesco d’Assisi, lo scongiurò a salvarle il figlioletto. Il Santo si mise a pregare, e il bambino guarì. Allora il Santo lo prese nelle mani, e, levati gli occhi al cielo, esclamò: O buona ventura! Con questo nome egli prese poi l’abito del santo poverello. Appena s’incontrarono, questi due grandi italiani, che dovevano essere i più fulgidi luminari del loro secolo nei due grandi Ordini, si conobbero e si amarono teneramente, come già si erano amati i loro due santissimi padri Domenico e Francesco. Come tra di loro gareggiarono nella pietà e nell’amore delle celesti cose, così si emularono nella virtù dell’umiltà; e si narra che spesso si intrattenessero insieme in santi colloqui. In uno di questi, Tommaso trovò il compagno tutto intento a scrivere la vita di San Francesco. Non volle distrarlo da quella santa occupazione, e ritirandosi, disse: Lasciamo che un Santo lavori per un altro Santo. Un’altra volta a Bonaventura che lo interrogava onde avesse tratto tutto il sapere di cui erasi arricchita la sua intelligenza, Tommaso mostrò il Crocifìsso, dicendo esser quello il libro da cui aveva imparato tutto ciò che sapeva. E fu dolce per il nostro Tommaso che mentre egli, come vedremo, dové accettare, per volere dei Superiori, il Dottorato nella celebre Università, venisse ad un tempo conferito il grado stesso al suo grande amico Fra Bonaventura, come fu a lui di conforto il vederselo a fianco nella lotta che dové sostenere per la difesa dei diritti che vennero in quel tempo contrastati ai nuovi Ordini religiosi. Sarebbe venuto un giorno in cui un grande Pontefice, desideroso di unire gli sforzi dell’Europa cristiana per la grande causa religiosa e civile che agitava allora gli animi, avrebbe voluto in Lione al Concilio Generale questi due grandi luminari della Chiesa; ma, alla vigilia del grande avvenimento, la morte doveva separare Tommaso dall’amato compagno, che si sarebbe poi a lui ricongiunto nel cielo.

15 — Il Beato Pietro da Tarantasia e il Beato Ambrogio da Siena.

Tra i compagni di studio e d’insegnamento che ebbe in Parigi San Tommaso, meritano d’esser ricordati due sopra tutti: il Beato Pietro da Tarantasia, poi Papa Innocenzo V e il Beato Ambrogio da Siena. Era il primo un giovane savoiardo nato forse nel medesimo anno del Dottore Angelico in Tarantasia nella Valle d’Aosta ai pie’ dei ghiacciai del Monte Bianco. Per il suo svegliatissimo ingegno fu mandato a Parigi giovanetto di appena nove o dieci anni; e ivi restò subito incantato dei Frati Predicatori che vide a San Giacomo. Chiese l’abito, e tosto gli fu dato, nonostante la tenera età, tanto piacque la ingenuità e candore con cui lo chiese. Vestito con ben altri sessanta giovani dal Beato Giordano, succeduto a San Domenico nel governo dell’Ordine, fece tutti meravibilare per i progressi nella pietà e nello studio. Era uno spettacolo, in quei momenti, veder correre a quel convento il fiore della gioventù là convenuta da tanti paesi ed entrare a gara nella figliolanza di San Domenico! Nel Beato Giordano di Sassonia era come una meravigliosa attrattiva: narrano che, quando passava per le vie, le madri nascondessero i loro figlioli per timore che gli andassero dietro. Durante il suo generalato, che durò quindici anni, vestì oltre mille novizi. Sapeva infondere in essi l’amore di una vita perfetta e lo zelo più acceso per la salute delle anime. La prosperità dell’Ordine diceva poi con compiacenza, dipende da queste giovani piante. Fra Pietro, prima nelle scuole di San Giacomo e poi nell’Università, fu tra i discepoli più diligenti; e quando vi giunse da Colonia San Tommaso, nel 1252, egli attendeva ai suoi studi teologici e con lui udì le lezioni del Beato Alberto Magno. Due anni dopo San Tommaso, nel 1258 egli ottenne la laurea del Magistero. Troveremo poi insieme i due Santi religiosi col loro Maestro nel Capitolo di Valenciennes, ove portarono il contributo del loro sapere nelle decisioni prese intorno agli studi nell’Ordine. – La carriera percorsa dal Beato Pietro fu rapidissima e giunse al culmine più alto. Eletto nel 1262 Provinciale di Francia, diede all’Ordine grande impulso e ne tenne alto il prestigio. Nominato dieci anni dopo Arcivescovo di Lione e Primate delle Gallie, porse braccio validamente a Gregorio X nel preparare il Concilio che doveva tenersi in quella città, e dal medesimo, prima che il Concilio si aprisse, fu nominato Cardinale insieme con San Bonaventura, e i due Cardinali insieme col Beato Alberto Magno furono come l’anima di quell’assemblea. San Tommaso era già volato al cielo! Terminato il Concilio, Gregorio X prese con lui la via di Roma e s’infermò ad Arezzo, dove santamente morì. In Arezzo stessa si tenne il Conclave, e nel primo scrutinio il voto unanime dei Padri cadde sul Beato Pietro, che, eletto Papa, prese il nome di Innocenzo V. Era il primo Papa Domenicano. Fu stimato uno dei più eloquenti uomini del suo secolo: e a tutti fu esempio di virtù e di apostolico zelo. Scrisse anche opere teologiche pregiatissime; e nel breve pontificato, durato soli cinque mesi e due giorni, poté compiere in bene della Chiesa salutari riforme e lavorare a tutto potere per l’opera della riconciliazione tra i principi e i popoli, e specialmente per la sospirata unione della Chiesa Greca colla Latina. – Sebbene tutto nascosto nel più modesto ritiro, lo pareggiò per altezza d’ingegno il Beato Ambrogio, un po’ più di lui avanzato negli anni, che nato in Siena nel 1220 dalla nobilissima famiglia dei Sansedoni, di 17 anni vestì in patria l’abito religioso e fu inviato a Parigi, ove alla scuola di Alberto Magno fu condiscepolo al Beato Pietro e a San Tommaso. Sebbene molti lo giudicassero, per altezza d’ingegno, pari all’Angelico Dottore, non volle mai salire al grado del Magistero, e i Superiori, per non contristarlo, non crederono di fargliene un comando. Divise la sua vita tra le fatiche dell’insegnamento e quelle della predicazione; ed era cosa mirabile l’udirlo parlare, tanta era l’attrattiva della sua semplice e illuminata eloquenza. Non bastavano spesso le chiese a contenere la folla che si accalcava da ogni parte ; e gli convenne spesso parlar nelle piazze. Talvolta fu veduta al suo orecchio una bianca colomba, ed altri prodigi confermarono la santità della sua parola. Fu accettissimo a Clemente IV, che lo volle in Italia e gli affidò in Roma l’ufficio di Maestro del Sacro Palazzo e predicatore apostolico e l’incarico di riordinare nella città i buoni studi che erano assai in decadenza. Passò la sua vita in laboriosi impieghi, nel sedare inimicizie tra i popoli, e specialmente nel rivendicare la libertà delle elezioni papali. Fu Legato pontificio in Germania, pacificatore di regni e di repubbliche; e per comando di Gregorio X predicò con meraviglioso zelo la santa Crociata. Alla sua città scomunicata da Clemente IV per aver dato aiuto a Corradino di Svevia, contro Carlo d’Angiò, della cui crudeltà questi fu vittima a Tagliacozzo, egli ottenne la riconciliazione col Pontefice e la liberazione delle pene a lei minacciate. Si oppose a tutto potere alla sua elezione ad Arcivescovo di Siena, voluta dai suoi concittadini e dal Pontefice, ed amò continuare nella sua vita di apostolo e cogliere in essa quasi la palma del martirio, perché, predicando in Siena, con grande impeto, contro l’usura, gli si ruppe una vena nel petto e poco dopo morì in età di 66 anni, il 20 marzo del 1286. Lasciò pochi scritti, sebbene dottissimo; e si dice che tanto alta stima egli avesse verso il suo grande condiscepolo San Tommaso e sì basso sentire di sé, che si ricusasse di scrivere o dettare, parendogli bastare ad esuberanza quanto avrebbe scritto San Tommaso. – La nobiltà dei natali, l’altezza dell’ingegno, la gentilezza e soavità del carattere unirono il Beato Pietro e il Beato Ambrogio coi più stretti legami all’Angelico San Tommaso; ma ciò che maggiormente li strinse in dolce comunanza di affetto, fu il verginale candore e soprattutto l’umiltà del cuore per cui nessuno osava anteporsi all’altro, mentre a vicenda si stimavano e si amavano. Se la superbia divide gli animi ed è causa di contese e riprova dell’umana miseria, l’umiltà li unisce e li affratella nella giocondità della pace e ne mostra a tutti la vera grandezza.

16. — La lotta contro i religiosi.

Fu assai dolorosa la contesa che sorse nel seno dell’Università di Parigi intorno ai nuovi istituti religiosi, specialmente ai due Ordini mendicanti dei Domenicani e dei Francescani. La lotta, derivata certo dalla gelosia pel rapido prosperare delle due grandi istituzioni che avevan dato alla Chiesa ed al mondo dottori così eminenti, come Alberto Magno, Tommaso e Bonaventura, ebbe un pretesto dall’uccisione avvenuta in una notte del 1252 di uno studente dell’Università di Parigi, che con altri tre era stato villanamente assalito per le vie della città. I tre, dopo essere stati crudelmente maltrattati, furon tenuti prigioni, e ne vennero tratti il giorno seguente per le proteste dell’Università. Gli assalitori appartenevano alla guardia del celebre istituto, ove i più dei dottori secolari chiesero giustizia; e in segno di protesta, sospesero le loro lezioni. I dottori invece che appartenevano agli Ordini religiosi, vollero continuarle; e sorse di qui una fiera contesa fra gli uni e gli altri dottori, sebbene i rei fossero stati debitamente puniti di comune consenso. Intanto i dottori secolari fecero un decreto, ov’era stabilito che in simili casi dovessero sospendersi tutte le lezioni. Ai religiosi un tal decreto non piacque, non vedendo essi nell’interruzione delle lezioni nessun vantaggio in tali casi. Ma i secolari si ostinarono, e giunsero al punto di escludere dall’insegnamento i religiosi. La discordia non rimase soltanto nel seno dell’Università; la città stessa era divisa per le calunnie che si spargevano contro i dottori religiosi. Il Santo Re Luigi IX era allora in Palestina; Bianca di Castiglia, sua madre, che tanto aveva amato e protetto i nuovi Ordini, era morta; e teneva la reggenza Alfonso, Conte di Poitiers, fratello di San Luigi, che non seppe spiegare nel fatto la dovuta energia. E così seguitaron le liti, che furono lunghe ed aspre: e dové intervenirvi lo stesso Pontefice Innocenzo IV, a cui i superiori dei due Ordini avevano appellato. Con una bolla inviata da Assisi il 1° luglio del 1253, egli proibì severamente ogni vessazione che venisse fatta contro i Predicatori e i Minori, che dichiarava del tutto degni della sua particolare protezione. – Ma a turbare più profondamente gli animi apparve al 4 di febbraio del 1254 un vero libello diffamatorio, di cui furono fatti molti esemplari e che fu mandato agli Arcivescovi e Vescovi ed altri prelati. In esso la preponderanza dei religiosi nella celebre Università veniva mostrata come un danno per il cattolico insegnamento, ed erano accusati i Domenicani di aver tirato ai loro voleri lo stesso Conte di Poitiers. Il più celebre tra gli oppositori fu Guglielmo di Sant’Amore, Canonico di Beauvais. Questo famoso dottore ed abile sofista, armato di tutti gli strali della calunnia, fu spedito dalla parte avversa come procuratore alla corte di Roma, dove tanto si adoperò, che Innocenzo IV, da lui male informato, si mostrò dapprima esitante, e poi apertamente contrario ai religiosi, da lui colpiti con una celebre costituzione il 21 novembre di quell’anno. Guglielmo di Sant’Amore aveva lavorato per oltre quattro mesi per ottenere il suo intento, di trarre, cioè, almeno in parte, il Pontefice nelle sue vedute e fargli giudicare non giovevole alla salvezza delle anime e al diritto del clero secolare la troppa prosperità dei due Ordini dei Predicatori e dei Minori. Ma il giorno stesso il Pontefice restava colpito da una paralisi, in seguito alla quale egli moriva il 7 dicembre di quel medesimo anno. Tornava intanto dalla Palestina il Santo Re Luigi IX, che tosto intervenne nella questione, e tentò rimetter la pace, spinto particolarmente dall’amore che portava verso i due Ordini di San Domenico e di San Francesco, fino al punto che fu udito dire, che se avesse potuto dividersi in due, avrebbe dato una parte di sé ai Domenicani, l’altra ai Francescani. Sulla cattedra di San Pietro era intanto salito Alessandro IV, che un giorno solo dopo la sua elezione, il 22 dicembre del 1254, non esitò a dichiarar nulla la costituzione del suo Predecessore, e la fece seguire da una lettera al Generale dell’Ordine, il Beato Umberto de Romanis, ove gli mostrò la sua paterna benevolenza. D’altra parte lo stesso Padre Generale lavorava per l’opera della pacificazione insieme col Generale dei Francescani, Giovanni da Parma; e i loro sforzi riuniti, colla protezione ad un tempo del Pontefice e del Re, davano i loro buoni effetti. Alessandro IV in una celebre bolla del 14 aprile 1255 condannava severamente e revocava tutte le disposizioni dei dottori secolari dell’Università contro i religiosi. Ma ancora la lotta non era terminata.

17. — Il bidello Guillot.

Il nostro Tommaso, che si trovò in mezzo a tutte queste contese, die’ esempio ad ognuno della calma più serena, anche quando vide depresso il suo Ordine e non risparmiate a sé ed ai suoi derisioni e calunnie. Ci conservarono gli storici memoria di un fatto che ci dipinge al vivo il carattere di San Tommaso ed è ad un tempo una bella conferma della sua sapiente condotta in questi momenti travagliosi. Purtroppo la celebrità a cui era rapidamente salito questo italiano non ancora laureato, il concorso di uditori d’ogni parte alle sue lezioni, mentre quelle di altri, che già avevano acquistato grido, restavano deserte, era una delle segrete ragioni di tutta quella guerra. Egli forse non lo pensò, e continuò senz’altro per la sua strada; e quando gli fu vietato di tener pubbliche lezioni nelle aule dell’Università, le seguitò con eguale concorso nel suo convento di San Giacomo. Era la Domenica delle Palme, ed egli predicava nella chiesa appunto di quel convento, quando il devoto silenzio degli uditori fu interrotto ad un tratto dalla voce molesta di un uomo, che si alzò improvvisamente dinanzi al pulpito, ed impose silenzio al predicatore. Egli era un certo Guillot, che nell’Università aveva l’ufficio di bidello degli scolari della Picardia. Tommaso si tacque; e l’importuno interlocutore disse a tutta l’assemblea come egli aveva, d’urgenza, da comunicare a tutti un avvertimento a nome dei professori dell’Università. Ed allora trasse dalla tasca un foglio, e lesse un lungo scritto, ove erano accumulate accuse sopra accuse contro i dottori Domenicani e Francescani, con la relativa difesa dell’operato di Guglielmo di Sant’Amore. Come Dio volle, quella lettura terminò; e Tommaso, che in quel tempo era rimasto impassibile, seguitò senz’altro la sua predica, riprendendola precisamente dal punto in cui era rimasta interrotta. Ciò valse presso tutto l’uditorio a sua magnifica difesa. L’insolente bidello non rimase impunito. Alessandro IV, che riseppe la cosa, ordinò al Vescovo di Parigi di fulminargli la scomunica in presenza dei maestri e degli scolari, di privarlo della sua carica e di domandare al Re che lo cacciasse dalla città.

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (3)

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (1)

VITA
dell’angelico dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (1)
dell’ ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti
Card.
Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA
FRANCESCO FERRARI 1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

PREFAZIONE

Questa breve narrazione della vita dell’Angelico Dottore San Tommaso d’Aquino non è scritta per gli eruditi né frutto d’indagini nuove. Non ha ingombro di citazioni; e basterà assicurare i lettori che il racconto è stato condotto dietro la traccia dei primi biografi e dei documenti più autorevoli, che essi potranno trovare enumerati in appendice. Quello che soprattutto preme, è che dai fatti essi deducano, per loro bene, utili insegnamenti e specialmente i giovani apprendano da questo santissimo Duce dei loro studi, che non si sale in alto se non coll’aiuto di due ali: la pietà e la scienza.
Quando diciamo che San Tommaso fu
il più dotto tra i Santi, e il più
santo tra i Dotti, intendiamo affermare che in lui dottrina e santità si eguagliarono} e furon somme ambedue; così poté salire ad un culmine, che ad altri
non fu dato toccare. Felice chi saprà seguirlo per quella via, ponendo, come lui, per fondamento della sua vita, l’umiltà che ci fa grandi, e la purezza del cuore, a cui è concessa la visione di Dio.

I. — Nascita e presagi felici.

La data della nascita di San Tommaso d’Aquino è incerta. Vari riscontri cronologici ci conducono all’anno 1226. Nell’anno stesso, in Assisi, volò al cielo San Francesco, e Dio dava alla terra San Tommaso; come cinque anni innanzi aveva dato San Bonaventura, mentre in Bologna moriva San Domenico. Anche sulla patria si ha qualche incertezza negli storici, però dai più si ritiene che la nascita avvenisse in Roccasecca, nella contea di Aquino, da cui traeva il titolo la nobile famiglia. Tommaso ebbe il nome dell’avo, e nacque da Landolfo Conte d’Aquino e Signore di Loreto e di Belcastro e da Teodora Caracciolo, figlia del Conte di Teate e oriunda dai Principi Normanni. Da Landolfo aveva avuto Teodora altri due figli: Landolfo e Rinaldo, e cinque figlie; ma per Tommaso, che fu l’ultimo, accaddero segni speciali che lo mostrarono vero frutto di benedizione anche prima della nascita. Narrano gli storici di un santo eremita, soprannominato il Buono, che si presentò a Teodora quand’era incinta, e le disse grandi cose del bambino che essa avrebbe dato alla luce: che sarebbe stato un gran luminare nella Chiesa, che avrebbe dato alla famiglia un sommo splendore; e le suggerì di dargli il nome dell’avo, Tommaso, che, secondo l’origine ebraica, significa abisso. Il fanciullino fu tenuto a battesimo dal Conte di Somma, che fece in quell’atto le veci di Papa Onorio III. Si parlò anche di una luce che splendé sul volto del neonato nel momento del battesimo, e si conservò memoria nella famiglia di un graziosissimo fatto, riferito poi nei processi, avvenuto quando il bambino aveva pochi mesi. Era stato condotto dalla madre ad un bagno; ed ivi la balia si accorse che egli aveva in mano un pezzetto di carta e lo stringeva forte. Tentò di averlo, ma il bambino con molte strida si opponeva. Corse la contessa, che gli tolse dalla manina la carta, ove lesse le parole Ave Maria. Ma il bambinello fece tutti gli sforzi per riaver nelle mani la carta; ed appena che l’ebbe, se la pose in bocca e la inghiottì. Così possiam dire che col latte materno Tommaso facesse sua la devozione verso la Vergine Madre.

2. — A Montecassino.

I Conti d’Aquino erano in relazione stretta coi Monaci di Montecassino, grande asilo di pietà e di scienza e vero faro di civiltà, ove i figli di San Benedetto, che ivi sui principii del secolo VI aveva gettato le basi del suo Ordine e di tutto il monachismo d’Occidente, vivevano santamente sotto la guida di Sinibaldo, della stessa famiglia d’Aquino, allora abate del Monastero. Di questa nobile abbazia si erano resi altamente benemeriti gli antenati del giovanetto per averla più volte difesa contro le violenze dei messi di Ruggero, Re delle due Sicilie. Com’era costume dei nobili di quei dintorni, specialmente quando i loro figli promettevano bene di sé, il Conte Landolfo affidò Tommaso, di soli cinque anni, a quei Monaci, perché ne avessero cura. Tommaso visse in Montecassino come nella casa del Signore; lassù apprese a pregare, ed ebbe da quei santi religiosi i primi insegnamenti delle lettere. 1 libri erano la sua passione, quando potevali avere; e tutti i Monaci ammiravano come il bambino agli studi convenienti all’età sapesse alternare le devote preghiere. Gli avevano parlato di Dio, delle sue perfezioni, della sua immensa bontà, di Dio creatore del cielo e della terra; ma egli non era pago. E rivolto al suo maestro, domandavagli con molte istanze: Chi è Dio? Il ripetersi di quella domanda era segno che egli avrebbe voluto sapere qualche cosa di più di quel che il buon maestro gli potesse dire. Questo lo avrebbe appreso più tardi colla preghiera e colla chiarezza che sarebbe venuta nella sua mente dalla luce di Dio; ma in parte soltanto, qui in terra; perché il luogo ove Dio pienamente si svela è solamente il cielo.

3. — Nel castello di Loreto.

I progressi fatti da Tommaso in Montecassino nei primi studi fu così straordinario, che il conte Landolfo pensò d’inviarlo alle scuole di Napoli. Ma per godere qualche mese almeno della sua compagnia, la famiglia lo volle con sé nel castello di Loreto Aprutino, che essa possedeva, e dove soleva passare la stagione autunnale. Partì Tommaso da Montecassino col suo aio, e si recò in Loreto, ove abitavano i suoi genitori con quattro figlie. La quinta era stata sventuratamente uccisa nella sua culla da un fulmine caduto sul patrio castello, mentre era presso il fratellino Tommaso, che rimase illeso. I due fratelli stavano iniziandosi alle armi sotto Federigo II. La gentilezza e bontà del giovinetto, la sua mirabile intelligenza, la sua angelica pietà si rivelarono a tutti; sebbene sotto il velo di una modestia ed umiltà senza pari egli tentasse di nascondere le sue doti di mente e di cuore. Appunto in quel tempo fu afflitto tutto il paese da una grave carestia. Le porte del castello erano assediate dai poveri; e Tommaso era tutto lieto quando gli veniva dato l’incarico di distribuire le elemosine. Si vedeva rapidamente scender la scala che conduceva alla ròcca, e portare a quei miseri il soccorso. E supplicava i genitori perché fossero larghi nel dare, promettendo loro, in compenso, benedizioni e grazie da parte di Dio. Ma la carità di Tommaso non aveva limiti; e spesso egli correva alla dispensa, e colmava di pane il grembo della sua veste. La cosa apparve eccessiva all’amministratore della casa, che volle avvertirne il padre; e questi attese ad ammonire il figliuolo appunto nel momento in cui questi usciva dalla rócca colla solita provvista. Trovatosi in faccia al padre, aprì la sua veste fissando con occhio sereno il volto leggermente adirato di lui. Ma il pane era scomparso; il grembo di Tommaso era pieno di fiori! Stupirono tutti del prodigio; e con Tommaso ne furono lieti in modo speciale i poverelli, che da quel momento ebbero da lui senza limiti i pietosi soccorsi.

4. — Nell’ Università di Napoli.

In Napoli, ove abitò sotto la custodia del suo aio fedele, attese Tommaso agli studi per cinque anni. Nella città bellissima era stata eretta di fresco un’Università, a cui subito era accorsa molta gioventù d’Italia e di fuori, specialmente per godere l’incanto di quel cielo e di quel mare. Fu stabilita nel 1224 da Federigo II imperatore, coll’intenzione di far diminuire d’importanza quella di Bologna, città a lui nemica. Tra gli uomini dotti che vi insegnavano nel tempo in cui la frequentò il giovinetto Tommaso, troviamo ricordato un Pietro Martino, maestro di umanità e retorica, e un Pietro d’Ibernia, professore insigne di filosofia. Questi specialmente furono i maestri di Tommaso nello studio napoletano. Tutti gli storici del Santo parlan di lui non solo come di un ottimo scolaro, ma come di un giglio di purezza conservatosi intatto in mezzo alla corruzione di quella città incantevole e al contatto di una gioventù sfrenata; parlano della sua carità verso i poveri, della sua semplicità e nobiltà di tratto unita ai più innocenti costumi, delle sue molte orazioni, specialmente quando nell’antica chiesa di San Michele a Morfìsa, che il popolo chiamava Sant’Angelo, ebbe conosciuto i Padri Domenicani. Il Santo Patriarca Domenico da appena vent’anni era morto ; e già il suo Ordine era salito in alta fama di santità e dottrina. Napoli nel 1231 aveva accolto i figli di lui, che nella Chiesa di San Michele, già appartenuta ai Benedettini, poi incorporata nel gran tempio di San Domenico Maggiore, attendevano ai sacri ministeri, e nella città e nei dintorni predicavano santamente la divina parola. Tommaso rimase incantato del loro abito, e più della loro modestia e bontà: la stretta povertà in cui vivevano li faceva ai suoi occhi più grandi ancora; perché egli aveva bene appreso che le ricchezze della terra sono tutt’altro che i veri beni per l’uomo; e soprattutto li rendeva a lui amabili la purità angelica di vita in cui vivevano e che aveva loro conciliato la stima universale. L’amore alla scienza divina di cui vedeva così pieni i Frati Predicatori e il desiderio di una vita perfetta tutta impiegata nel servizio di Dio e nella salute delle anime, furono i due grandi motivi che attrassero Tommaso alla vita domenicana. Egli conobbe altresì il pericolo in cui sarebbesi trovata la sua virtù in mezzo al mondo, che già facevagli udire da tante parti le voci lusinghiere della lode all’ingegno sublime, che già tanto lo sollevava sui suoi condiscepoli, e alle doti di cui la natura lo aveva fornito; e cercò un rifugio sicuro. San Domenico dal cielo fissò il suo sguardo sopra un giovinetto sì caro, e gli pose in cuore un vivo desiderio di divenir suo figliuolo. Sappiamo che Tommaso si unì in affettuosa amicizia col Padre Giovanni da San Giuliano, dotto e santo religioso, di cui narrano gli storici che più volte vide il santo giovinetto col volto irradiato di luce celeste, mentre, inginocchiato presso gli altari, intensamente pregava.

5. — Vestizione religiosa e prime lotte.

Verso il mese di Agosto del 1243, nella sua età di diciassette anni, Tommaso, nella Chiesa di San Michele a Morfisa, prostrato in terra, chiedeva la misericordia di Dio e dell’Ordine Domenicano; e rialzatosi, riceveva dalle mani del Padre Tommaso Agni da Lentino l’abito bianco, simbolo di innocenza, tutelato dal mantello nero della penitenza. La notizia della decisione presa dall’illustre figlio del Conte d’Aquino fece accorrere al Convento molte persone meravigliate al vedere un giovinetto così nobile e che tanto faceva sperare del suo ingegno, chiedere, nel più bel fiore della sua età, mentre tutto intorno a lui sorrideva, l’abito di un Ordine mendicante, che voleva anzitutto la penitenza e il nascondimento di sé. Chi lo vide raggiante di gioia tender le braccia all’abito bianco che il Priore gli porgeva, conobbe forse i disegni di Dio su quest’anima eletta, superiori assai alle vedute umane; ma non mancarono quelli che condannarono lui di inconsideratezza per essersi chiuse da se stesso tutte le vie che la fortuna avevagli aperto dinanzi, e i frati d’imprudenza e anche d’avarizia. In quel frattempo l’aio di Tommaso, a cui egli aveva candidamente palesata innanzi la sua decisione, aveva avvertito il Conte d’Aquino, che dimorava allora in Roccasecca. Ma il Conte non seppe forse la cosa che quando Tommaso era stato già accettato nell’Ordine. Sembra che poco dopo egli morisse; e si sa che la Contessa desolata si recò in Napoli per riavere a tutti i costi il figliuolo, anche perché la morte del marito pareva averne accresciuto in lei il diritto. Ella amava il suo Tommaso d’uno specialissimo amore, sapeva di non essere stata mai da lui contristata colla più leggiera disobbedienza; e forte si meravigliava, che, così docile com’era, avesse preso quella decisione senza nemmeno avvertirla! A Tommaso invece era parsa cosa tanto naturale, e tanto necessario da parte sua aveva veduto l’obbedir prontamente alla chiamata di Dio, che non aveva veduto probabile da parte dei pii genitori la minima opposizione. Del resto, di tali fatti non eran rari gli esempi in quella età; e questo giustifica anche i religiosi, che, del resto, vedevano nel giovanetto i più evidenti segni della chiamata di Dio. Purtroppo essi temerono opposizioni fin da principio, e si prepararono a difendere come un sacro diritto la vocazione di Tommaso. Saputo che la Contessa si era messa in viaggio per Napoli, vollero che il novizio evitasse quell’incontro, e lo fecero segretamente fuggire. Due religiosi Io accompagnarono al Convento di Santa Sabina sull’Aventino in Roma, ov’era fresco e vivo il ricordo del santo Fondatore. Forse fu lo stesso Tommaso che li pregò a non esporlo ai pericoli di quel colloquio; e sebbene fosse fermamente deciso, umilmente temé di se stesso. Teodora, dopo aver riempita Napoli dei suoi clamori, volle raggiungerlo a Roma. Al cuore di Tommaso sarebbe stato dolce rimanere in quel caro Convento ove ancora vivevano alcuni padri che erano vissuti col Santo Patriarca e dove trovava tutta la freschezza e semplicità di quei primi anni della vita domenicana. Ma i Superiori che avevano avuto sentore della cosa, lo avevano di nuovo fatto partire, perché prendesse la via della Francia.

6. — Fuga del Santo e suo arresto. La prima conquista.

Il buon novizio con quattro compagni se ne andava lieto, credendosi ormai sicuro, e cercando in paesi lontani la pace desiderata. Ma purtroppo eran pronte per lui altre lotte, e, per volere di Dio, altre vittorie. Bisognerebbe entrare nel segreto di quei tempi di contrasti feroci, in cui, pur di ottenere un intento, da nessun mezzo si recedeva, fosse pure il più indegno. A Tommaso d’Aquino i nobili parenti avrebbero volentieri concesso a suo tempo di vestire un abito ecclesiastico che lo stradasse a prelature o abbazie: la nota celebrità del casato, l’ingegno rarissimo che di giorno in giorno sempre più si rivelava, avrebbero aperto a lui le più splendide vie. Ma appunto queste vie egli aveva voluto chiuder tutte davanti a sé; e questa fu la ragione della lotta ch’ei sopportò da gigante. La madre di Tommaso, i fratelli, le sorelle non ascoltaron per allora che la voce della carne e del sangue. Teodora riuscì a sapere che il suo Tommaso batteva la via che da Roma conduce a Siena, e fece disperato appello ai due figli che militavano in quel momento ai servizi dell’Imperatore Federigo II, il quale aveva posto l’assedio a Viterbo: che in ogni modo cercassero il fratello per la via senese, ed arrestatolo, lo conducessero a lei. Il novizio, che era ormai vicino ai confini della Toscana, si vide presso Acquapendente assalito ad un tratto, circondato dalla soldatesca, e dagli stessi suoi fratelli strapazzato e costretto a separarsi dai suoi compagni, che si salvarono colla fuga, e, coll’abito mezzo lacero messo in groppa ai cavalli e condotto al patrio castello di Monte San Giovanni. – Fu questo il campo della lotta più fiera: qui Tommaso si mostrò veramente grande. Il primo incontro colla madre, armata di tutte le ragioni dell’umana prudenza, avvalorate dal più vivo affetto materno, fu per Tommaso un primo trionfo. Egli l’ascoltò in silenzio e con calma serena. Alle lacrime e preghiere di lei non si commosse, e a quelle voci del senso oppose una sola ragione: la volontà di Dio che lo chiamava e a cui doveva anzitutto obbedire. Di tale chiamata era sicuro, tanto viva gli si era fatta sentire nel cuore. Ma la povera madre non si arrese. Si separò dal figlio col proposito di tentare altre vie. Ordinò che si tenesse sotto custodia, e che soltanto alle due sorelle maggiori fosse permesso di visitarlo. Queste s’impegnarono ad aiutar la madre per ottenere l’intento. – Cominciò allora colle sorelle una seconda lotta, e fu davvero un maggiore trionfo; perché i colloqui colle sorelle, che soprattutto mettevano innanzi i diritti materni, furono da Tommaso volti a tal punto, che le due nobili giovinette sentirono man mano il loro cuore distaccarsi dai pensieri e dagli amori del secolo e fermamente desiderare e volere quello che il santo fratello desiderava e voleva. Anzi una di esse fin d’allora decise di consacrarsi a Dio: l’altra nell’esercizio delle più austere virtù passò poi la sua vita nel secolo. Alla madre, sulle prime, esse nulla rivelarono, per aver modo di recarsi liberamente dal fratello, dalle cui parole s’infervoravano sempre più. E al cuore di lui Iddio concedeva una calma ed una gioia ineffabile che lo avvalorava alle lotte future.

7. — La vittoria più bella.

E venne la lotta più terribile. Non tardò a scoprirsi il cambiamento avvenuto nelle sorelle, che tenevano segretamente informati di tutto i Domenicani. Questi, per mezzo loro, fecero pervenire al novizio un abito dell’Ordine ed alcuni libri di Filosofia e di Sacra Scrittura, nei quali tanto si deliziava, ed erano stati avvisati di stare all’erta nei pressi del castello per qualunque occorrenza. Ci duole il dire dell’infame pensiero che venne in mente ai due scostumati fratelli quando seppero dell’ostinazione di Tommaso. Farlo cadere, questo fu il loro diabolico intento; dalla vita di virtù farlo scivolare ad un tratto nelle vie della carne; questo mal passo sarebbe stato il più decisivo per fargli cambiare strada per sempre. Certamente alla madre essi non fecero trapelar nulla dello scellerato disegno. Una giovane dissoluta si prestò ai loro infami voleri; e mentre Tommaso una sera, a ora già tarda, stavasene solo nella sua carcere presso un focolare acceso, ella aprì cautamente la porta e si offerse a lui con tutte le grazie e le lusinghe della procacità femminile. La forza di Dio diè vigore in quel momento al cuore ed al braccio di Tommaso, che, vista la donna, non esitò un istante, e, con un tizzone acceso, si lanciò contro di lei per colpirla nella faccia. Dicono gli storici che il mite Tommaso fece quest’atto con grandissimo sdegno ». E mentre la donna fuggiva, egli, col tizzone stesso, delineava sul muro una croce e si gettava in ginocchio davanti a lei. – Fu questo il gran trionfo per cui la vita di Tommaso si abbellì di luce divina. A celebrarlo scesero gli Angeli del cielo, che si rallegrarono con lui, fatto ad essi più simile per quella vittoria, e cinsero i suoi fianchi di un cingolo sacro. – Corsero le sorelle e diedero avviso ai Domenicani, che penetrarono nella cinta più stretta del castello. Esse avevano preparato una cesta di vimini e una corda; e Tommaso, per le mani stesse delle due giovani sorelle, fu calato giù dal muro e scese nelle braccia dei frati, che nel buio della notte si diedero con lui alla fuga. Ai fratelli non fu dato nel momento di scoprir la cosa; e mentre essi forse già si allietavano della sua caduta, egli era già in via per il suo convento di Napoli.

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (2)


STORIA APOLOGETICA DEL PAPATO: Introduzione (2)

STORIA APOLOGETICA DEL PAPATO DA SAN PIETRO A PIO IX

DI

MONS. FÈVRE

Protonotario apostolico

I Papi non hanno bisogno che della verità

(J. DE MAISTRE, “du Pape”, lib. II, Cap. XIII)

TOMO PRIMO

PARIGI – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMBRE, 13 – 1878

INTRODUZIONE – 2 –

IV. Nonostante i suoi benefici, nonostante i suoi trionfi, nonostante le sue virtù, il Papato non ha dovuto solo subire una persecuzione, sempre pronta a cambiare strategia; ha dovuto subire gli insulti dei libelli, e le menzogne della storia. Dall’attacco dei Philosophumena contro Papa San Callisto all’ultimo pamphlet di Sir Gladstone, dagli scritti immondi di Lutero alla Storia dei crimini del Papato di Maurice Lachàtre, c’è contro i Papi una fedele trasmissione di immondezze ed una vile tradizione di calunnia. È vero che la maggior parte di queste composizioni non hanno avuto molto credito, anche nel loro tempo; sono cadute, per la maggior parte, in un oblio dove ricevono poco più che le visite indiscrete di studiosi. Da queste fogne, tuttavia, si è alzata non so quale nuvola che cerca di oscurare il sole della verità e il cui spessore impedisce ancora ai raggi di luce di illuminare diversi paesi. È curioso osservare come è stato ha formato questa nube ed è utile indagare se i nostri apologeti sono stati in grado di dissipare le sue ombre o di allontanare la sua ira. – C’è sempre stata, e sempre ci sarà, una grande e compatta coalizione di tutti gli errori, di tutte le discordie, di tutti gli odi contro la Sede di Pietro, perché lì, e solo lì, c’è il fondamento eterno di ogni verità e di ogni carità, di ogni ordine e giustizia. Per quanto distanti possano essere, « tutti i nemici di Roma sono amici », ha detto il conte de Maistre. Per quindici secoli, tuttavia, il Papa ha governato il mondo ortodosso, senza che si sia sollevato contro la sua autorità sovrana, un partito che abbia avuto la fortuna di durare. Senza dubbio si videro usate tutte le armi della viltà letteraria, i libretti anonimi, la satira pungente, i pettegolezzi storici e le battute taglienti dell’epigramma, ma non causarono danni: la fede e la pietà unanime verso la Santa Sede non permisero di raggiungerla. Fu solo dopo il grande scisma, e soprattutto dal XVI secolo, che i demoni in carne ed ossa apparvero nel mondo per abbaiare, ruggire e gridare contro il capo della Chiesa. Mai prima d’allora l’infernale coorte di apostati aveva potuto presentarsi in un numero così grande; così formarono un partito che crebbe sempre di più e oggi costituisce un esercito. Il primo ad issare lo stendardo della menzogna oltraggiosa fu Lutero. Le sue opere sono un oceano di insulti ed invettive contro i Papi. La sua potente immaginazione, esaltata dall’odio fino al delirio, ha creato mostri prima sconosciuti. Lo scalpello ed il pennello del Callot, del Cranach, dell’Holbein della Riforma hanno dato loro un corpo: la penna degli scribacchini, ha saputo dare a queste immonde caricature una voce analoga. Le immagini impure rimpiazzarono, al capezzale del giovane e della ragazza le immagini di Cristo, della sua divina Madre, dell’Angelo custode e del Papa regnante; i libri pieni di menzogne, bugie, sostituirono, nelle mani intelligenti, i libri della dottrina cattolica e della devozione alla Santa Sede. Così procedeva la riforma: le scale che l’immaginazione e la ragione cristiana offrivano alle anime per salire alle regioni dell’amore, le volgevano ora verso l’abisso nero dove ribollivano tutti gli odi. – L’odio per il Papa fu il primo dogma del protestantesimo; ne è rimasto più o meno l’unico. Il protestantesimo vive ancora su questo odio, laddove non conserva più un’ombra della vita. Gli assurdi dogmi imputati al Vangelo dalle antiche confessioni di fede non esistono più; ma le mal comprese visioni dell’Apocalisse contro l’Anticristo di Roma, contro la grande prostituta vestita di scarlatto, sembrano continuare in eterno. Queste odiose creazioni della penna e del pennello luterano decorano ancora i negozi ed i saloni dei paesi protestanti. Questi sono paesi acquisiti all’odio della Cattedra Apostolica. – Nel XVI secolo, i paesi protestanti erano gli unici nemici di Roma; in compenso, i Paesi Cattolici offrivano il loro amore. Poi apparve un secondo avvelenatore della razza umana, Giansenio. Il vescovo di Ypres aveva composto durante la sua vita un grosso libro, il ci testo aveva lentamente ed insidiosamente composto; l’autore del trattato, come il chimico che maneggia sostanze pericolose, aveva addolcito le sue formule per distillare meglio la sua pozione e temperato le sue miscele per nasconderne il veleno. Sotto le sembianze del grande Agostino, quell’anima sì tenera ed elevata, colma d’amore e di luce, Giansenio doveva offrire alle anime la manna della vera pietà. In realtà, voleva mettere solo odio nei cuori; voleva introdurre l’antropologia malsana di Lutero nella Chiesa sotto il colore della pia riforma, per irritare i cuori cattolici contro Roma e avvelenare tutto fino all’ostia. Ma l’apparenza di fervore ingannò tutti; i primi discepoli di Jansenius risplendevano per una brillantezza pronta e vivida. Li si vedeva nelle posizioni più avanzate tra i difensori della santa Chiesa. Nei loro scritti citavano con rispetto le opere dei Padri; dichiaravano di aderire ai decreti dei Concili, alle costituzioni dei Papi e alle tradizioni cattoliche; e nel difendere i sacri dogmi mostravano una grande preparazione dottrinale. La Chiesa credette che essi l’avrebbero consolata dalle perdite che il protestantesimo le aveva causato. Ma mentre teneva questi figli prediletti vicino al suo cuore, si accorse che alcuni di loro praticavano nella maniera più dissimulata, con un comportamento ed un linguaggio ambiguo. Inoltre, avevano una pretesa particolare nel definirsi cattolici, per quanto negassero questo nome con le loro parole e le azioni. Infine, il Sommo Pontefice li dichiarò eretici; tutta la comunità cattolica si inchinò alla decisione del Vicario di Gesù Cristo. Mentre da ogni angolo del mondo si levava un anatema contro chiunque non volesse ascoltare il successore di Pietro, essi negavano ostinatamente l’esistenza stessa della loro setta. In questo modo presentavano agli spiriti irriflessivi – e questi erano un gran numero – lo scandalo di un dissenso dogmatico che stava apparendo all’interno della Chiesa stessa. Fino alla fine ostinandosi a negare tutto, a eludendo tutto, tergiversando su tutto, si presentarono come dei cattolici oppressi per la loro virtù, e riuscirono solo a suscitare l’odio della Santa Sede nei Paesi Cattolici. Il battaglione di J Giansenio venne a rinforzare quello di Lutero. Questo scandalo ingannò rapidamente gli spiriti; la cancrena che si stava diffondendo nella società europea si sviluppò con una velocità terribile. Dal fiele smorto di Giansenio e dall’odio furioso di Lutero, nacque il cesarismo di Luigi XIV. Lo spirito parlamentare, una specie di protestantesimo applicato alla politica, si era insinuato nel sistema giudiziario, attraverso i libri di diritto partiti dalla Germania, come il vero protestantesimo, per dirla con Mézerai, e giunti tra qualche parola di greco e di ebraico; esso riaccese ovunque le vecchie guerre del sacerdozio e dell’impero. Insoddisfatta di tenere la mano della giustizia, la magistratura si diede la missione di difendere la regalità contro le invasioni della Cattedra apostolica, che era diventata una pericolosa rivale e usurpatrice dei diritti di Cesare. La Regalità, ingannata, lusingata, lasciò fare, quand’anche non ne ebbe parte. Nel 1682, il clero stesso ebbe la debolezza colpevole di afferrare, nonostante gli avvertimenti dei Papi, la catena che gli si lanciava. In tutte le questioni relative alla disciplina, si può dire che il re si era fatto capo della Chiesa; il parlamento si erse a tribunale ecclesiastico. I due battaglioni del gallicanesimo episcopale e parlamentare vennero ad unirsi ai due battaglioni di Lutero e di Giansenio; come loro, anch’essi avevano sulle loro bandiere: Odio per i Papi. – Dalla magistratura nazionale il cancro si propagò alla magistratura internazionale e fu ammesso nel diritto pubblico. I Papi erano stati i geni costituenti del Medioevo; i re, che dicevano di ricevere le loro corone solo da Dio e dalle loro spade, esclusero i Papi dall’ordine politico alla pace di Westfalia. Da allora in poi, la pace dipenderà dall’equilibrio materiale delle potenze poteri; la statica e la dinamica ci riveleranno gli oracoli del progresso. La penna di Lutero, Giansenio, Pithou e Fleury passò nelle mani della diplomazia. Ricordiamo solo per la cronaca l’iniquità, la rivoltante doppiezza, l’insolenza, l’estrema violenza dei dispacci che i corrieri partiti da Versailles, Vienna, Firenze, Napoli, Madrid, Lisbona, andavano a gettare ogni settimana in faccia al Papa. Il vicario di Gesù Cristo, circondato dai ministri di Pombal, di d’Aranda, di Choiseul, di Tanucci, di Leopoldo, di Giuseppe II, ci rappresenta l’Uomo-Dio alla corte di Caifa o al Pretorio; Pio VI a Vienna è Cristo in casa di Erode, con la differenza che la passione di Cristo è durata solo un giorno ed una notte, mentre quella del suo Vicario è durata quasi tre secoli. L’esercito dei nemici della Santa Sede fu aumentato da squadroni di artiglieria e cavalleria. Le dispute della polemica e gli oltraggi della diplomazia non potevano che far disgustare la Religione a chiunque non si appoggiasse all’ancora dell’autorità. Apparve Bayle, Voltaire lo seguì: è l’epoca del pirronismo universale. Ben presto gli archivi dei filosofi divennero nelle mani rivoluzionarie dei pugnali. Una rivoluzione satanica si precipitò sul mondo: è in corso da quasi un secolo; la sua parola d’ordine è ancora: Guerra al Papato! D’ora in poi chi non è un pio figlio della Santa Sede ne è suo nemico: tale è lo stato attuale del mondo.

V. Non si deve credere che la cospirazione anti-pontificia abbia seguito il suo corso incontrastata e reclutato senza alcuna contraddizione le legioni dell’apostasia. Le prime schermaglie iniziarono sul terreno della controversia teologica; i settari, battuti nei dettagli su questo terreno compromettente, si gettarono sul terreno della storia. Prima hanno contestato l’autenticità dei documenti e l’integrità dei testi. I nostri studiosi sono stati costretti a spulciare gli archivi, a collazionare i manoscritti, a controllare i passaggi dubbi frase per frase, e infine a trarre una versione definitiva dalle varianti trovate. Da questa indagine dolorosa, sono nate opere vittoriose. Henri de Valois rivide gli storici greci, Papebrock redasse il Catalogo dei Pontefici Romani, Bianchini diede la sua splendida edizione del Liber fontificalis, Bolland raccolse gli Atti dei Santi, Baronio compose gli Annales ecclésiastiques, e Mabillon creò la Diplomatica. La negazione ostile dava vita a dei capolavori. Quando i testi autentici furono riconosciuti, iniziò la grande battaglia dell’erudizione. Gli atti ed i diritti della Santa Sede furono vendicati e, agli occhi del pubblico colto, furono ottennero una riparazione. Anche in quei tempi funesti, in cui lo spirito di compiacenza e di accecamento portò il nostro clero alle più infelici concessioni, Dio non avrebbe permesso gli errori dei novatori se non per la loro eterno obbrobrio e per la gloria della sua Chiesa. I più grandi dottori facevano giustizia dei fanatici che volevano attribuire alla Francia i sentimenti di alcuni particolari individui; essi hanno vendicato le nostre dottrine, che la malignità voleva oscurare o rendere sospette; ci hanno restituito la purezza della fede e della pietà che sembravamo aver perso. Il cielo doveva benedire le loro opere; doveva suonare l’ora in cui l’opera della frode e della perfidia sarebbe stata confusa. Onore e gloria a questi uomini dotti che hanno preparato con opere ammirevoli l’effetto definitivo di questa epoca fatale. Onore ai Polus, agli Stapleton, ai Sfondrate, Roccaberti, Gonzalez, Bellarmino, Duval, Gharlas, Serri, Soardi, Orsi, Bianchi, Muzzarelli, Marchetti, Gavaloanti, Zaccaria, Litta, Lamennais. La maggior parte di loro ha veramente compreso lo spirito dei francesi, che è quello di essere sovranamente rispettosi verso i romani Pontefici e di difendere le prerogative della Santa Sede con tutti i mezzi che la Provvidenza può offrire. Infine, è stato possibile riconoscere che la Francia aveva in ogni occasione vendicato l’autorità pontificia, o con la penna o con la spada; che aveva difeso i suoi decreti contro gli attacchi dei falsi fratelli; che aveva voluto attaccarsi alla tradizione più pura e universale; che aveva sempre condiviso i sentimenti dei Papi, degli antichi concili e dei più santi Dottori. Gloria a Dio e pace alla Francia! In presenza dei gloriosi monumenti dell’erudizione, non sarebbe più possibile offuscare la reputazione religiosa della Francia con commenti ridicoli o vani sofismi. Tuttavia, questo non si deve nascondere, il trionfo è stato tolto solo nel campo della metafisica, e se, in pratica, abbiamo ottenuto preziose riforme, rimangono ancora non so quali fermenti, quale vecchio lievito che potrebbe facilmente corrompere tutta la massa. Una rivolta lascia sempre tracce formidabili nel cuore di un popolo. Anche le confutazioni più decisive non sono riuscite a raggiungere la Francia in quella zona sensibile che la Scrittura chiama la divisione dell’anima e dello spirito. Roccaberti, arcivescovo di Valencia, che scrisse tre volumi in-folio contro i quattro articoli, fu arrestato alla frontiera; sebbene fosse un Grande Inquisitore di Spagna, un viceré della sua provincia, un teologo di prim’ordine, la polizia trattò il suo libro come il quaderno di uno scolaretto. Il libro di Soardi fu messo al macero, dopo la condanna del parlamento. L’ordine fu così rigorosamente eseguito che l’opera fu conosciuta in Francia solo con la sentenza di condanna; fu ristampata ad Halle nel 1793, ma allora caddero troppe teste per mantenere gli occhi del pubblico su questo lettura. Anche se avessero potuto attraversare le linee doganali, gli scritti dei teologi erano, inoltre, scritti in uno stile ed in una forma inaccessibili alla folla. Per quanto riguarda le confutazioni storiche degli spagnoli, degli italiani e dei tedeschi, che erano eccellenti per i loro Paesi, dovevano potersi conoscere attraverso la traduzione solo quando non potevano più essere rese note con qualche correzione notevole. In breve, l’immenso lavoro diretto contro l’errore anti-pontificio rimase a lungo, per la Francia, una lettera morta. I disconoscimenti dei reali e le condanne dei Papi non erano quasi nemmeno sospettati dal pubblico. Una muraglia cinese difendeva le teste gallicane dall’irradiazione della verità e anche dalla sua ira. Tuttavia, il nostro parlamento, a sua volta protestante, giansenista, ribelle, gallicano e repubblicano, mandò il santo Viatico tra quattro baionette ai ribelli, si impadronì delle nomine dei vescovi e, con il pretesto di difendere i re contro i Papi, consegnò la Francia a Robespierre, Luigi XVI alla ghigliottina. La vittoria era così acquisita, ma e il pregiudizio persisteva. All’inizio di questo secolo, Lamennais fu il primo a rompere con la tradizione dei gallicani, ma non fece che agitare ancor più gli animi e si comportò così male che presto tradì la causa di Roma che voleva far trionfare. Discepoli più illuminati e più pii stavano per scendere nella trincea. C’era quel momento di incertezza negli spiriti quando non si capisce se si voglia andare indietro o avanti. Cosa singolare, in quest’ora di indecisione, un impulso vittorioso venne dal protestantesimo. I protestanti erano stati i primi a diffamare i Papi; i primi, a loro lode, a riabilitarli. Senza altra luce che quella dell’onestà, senza altro motivo che la loro conoscenza, Jean de Muller, Ilerder, Schoell avevano già reso intelligenti testimonianze ai Sovrani Pontefici; ma queste testimonianze portavano ancora il marchio della loro origine ed il carattere della loro data. Altri vennero dopo di loro, più espliciti nelle loro confessioni, perché avevano potuto liberarsi più completamente dai pregiudizi dei settari e brillavano per una più alta intelligenza storica: cito Raumer, Léo, Hock, Voigt, Hurter, Ranke. L’opera di Hurter fu addirittura così compiuta da riportare il suo autore in seno alla Chiesa. Strano spettacolo! Papi vilipesi dai Cattolici e ammirati dai protestanti eruditi in Germania! Il contrasto colpì gli spiriti e cambiò la direzione dei pensieri. Fleury cessò di essere un oracolo, Tillemont non mantenne la sua aureola di studioso, Bossuet e La Luzerne potevano essere contraddetti senza che il contradditore fosse costretto a chiedere pietà. Allora i valorosi paladini, con il più risoluto ardore, sconfissero il gallicanesimo ed il suo fratello gemello, il giansenismo. Il cardinale Gousset li perseguì nel campo della scienza teologica; Dom Guéranger nel campo della liturgia. Tuttavia Montalembert, Veuillot, Parisis, Monnyer de Prilly, Clausel de Montais, portarono la guerra sul terreno mutevole della politica; Affre e Sibour difesero l’indipendenza temporale delle chiese; Donnet e Giraud allargarono il cerchio delle influenze episcopali; Lacordaire, Ravignan, Combalot illustravano, dal pulpito, le tradizioni dell’eloquenza apostolica; Pitra, Migne, Bonnetty, Glaire, Lehir hanno riportato gli spiriti alle fonti pure dell’erudizione; Rohrbacher, Villecourt, Doney, Gerbet, Salinis, Gaume, Ozanam, Blanc, Chavin, Jager, Darras, Christophe e altri venti, hanno ripreso le questioni oscure o controverse della storia. D’ora in poi, non c’è più, in Francia, in nome del gallicanesimo, del giansenismo, del liberalismo e del razionalismo (quattro parole per dire la stessa cosa), una cospirazione contro la verità del diritto pontificio. La rete dell’errore e dell’iniquità è dogmaticamente lacerata; la catena delle tradizioni del Cattolicesimo più puro è riformata con anelli forti. Questa è una di quelle restaurazioni in cui si ammira ciò che le nostre Scritture chiamano così giustamente i colpi di stato del Signore: Mirabilia Dei. – Tuttavia, se abbiamo trionfato con la scienza, dobbiamo completare le nostre riforme pratiche con la restaurazione diocesana del Diritto Pontificio e con la restaurazione degli studi canonici necessari per l’applicazione di questo diritto. Inoltre, bisogna sempre combattere le trame dell’ambizione politica ed i pregiudizi ignoranti della moltitudine: pregiudizi e ambizione, serviti quotidianamente da una stampa prezzolata, le cui batterie devono essere smascherate. Infine, nonostante le riparazioni della scienza, nonostante i tributi resi alla verità, abbiamo davanti agli occhi tutti gli attacchi della persecuzione, vediamo lo spettro di Hohenstauffen risorgere dalla tomba. È quindi necessario riprendere la causa della Santa Sede e dedicare i nostri sforzi esclusivamente alla difesa storica delle prerogative, dei diritti e degli atti della Cattedra di Pietro.

VI. Una ventina di anni fa, si è incontrato un uomo, un umile parroco, che ha scritto, contro i corifei del razionalismo, una difesa storica della Chiesa. Alla caduta dell’impero, si è formata tra noi una scuola che, negando l’intervento divino nella fondazione del Cristianesimo, rifiutando di credere nei miracoli, e quindi nel soprannaturale, aveva rifiutato di vedere nella storia della Chiesa, soprattutto ciò che vi si doveva notare. Uno aveva toccato questioni filosofiche, l’altro questioni letterarie, diversi sulle questioni proprie della storia, spiegando, a volte mediante l’eclettismo, a volte con la teoria delle razze o dell’antagonismo di classe, i grandi eventi, ma, non appena si trattava di religione, si cedeva solo ai moti dell’odio o alla cecità del pregiudizio. Quello che ne è venuto fuori lo sanno tutti. In apparenza, alla Chiesa era stata resa una giustizia scrupolosa; in realtà, i suoi eroi erano stati ignorati e i suoi annali sfigurati. L’apparenza della giustizia aveva sedotto l’opinione pubblica; le iniquità troppo reali minacciavano di passare in giudicato. Eppure la Chiesa ha protestato, purtroppo senza trovare il Davide che doveva colpire alla fronte i nuovi Golia con la sua piccola fionda. Ora un povero sacerdote della diocesi di Bellay, crivellato dallo scherno di diversi suoi confratelli, perseguitato anche dalla disgrazia del suo Vescovo, si pronunciava contro le sentenze dei maestri, e mentre aspettava che l’opinione pubblica più informata ratificasse i suoi giudizi, forniva la prova materiale dell’errore di valutazione. Padre Gorini – e parlo solo di lui – ha dato, ricorrendo alle fonti, una testimonianza irrefutabile contro i mille errori storici dei Gizot, dei Cousin, dei Villemain, dei Thierry, dei Barante, dei Michelet, degli Ampère, dei Martin e di una schiera di altri, che fino ad allora si erano chiamati modestamente i maestri della scienza. – Ciò che Padre Gorini ha fatto contro i razionalisti, per la difesa generale della Chiesa; ciò che Bossuet, con il suo grande genio, aveva innalzato, contro i protestanti, nell’immortalità di un capolavoro, noi abbiamo cercato di fare, per la difesa esclusiva del Papato, contro tutti i nemici e gli avversari che lo hanno attaccato per quattro secoli. Vorremmo prendere, uno dopo l’altro, tutti i fatti della storia, dove protestanti, giansenisti, parlamentari, episcopaliani e pseudo-filosofi si lusingano di convincere il Papato di errore nei suoi giudizi o degli eccessi nelle sue imprese, e mostrare che sono loro ad abusare. Passeremmo allora, secondo le buone pratiche dell’apologetica cristiana, dalla difensiva all’offensiva, prendendo uno per uno gli atti dottrinali, o cosiddetti tali, e gli sconfinamenti speculativi o legislativi degli avversari, per convincerli che c’è eccesso nelle loro imprese perché c’è un difetto nei loro giudizi. Vorremmo presentare una difesa storica della Santa Sede contro i protestanti, come Flaccius Illyricus, Mosheim, Duplessy-Mornay, Malan, Bosf e Puaux; contro i giansenisti, come Duvergier de Hauranne, Quesnel, Ellies Dupin, Fébronius e Scipione Ricci; contro i parlamentari, come Richer, Pilhou, Dupuy, Camus, Portalis, il procuratore Dupin, Isambert, Baroche e Cavour; contro gli episcopali, come Pierre de Marca, Maimbourg, Bossuet, Fleury, Tillemont, La Luzerne, Maret, Dupanloup, Gratry; contro i razionalisti, liberali o cesariani, come Guizol, i Thierry, Michelet, John Russel, Gladstone, Minghetti e Bismarck. – Nell’iscrivere sul noto blasone la croce pontificia, non dimentichiamo che non basta iscrivere la croce sul suo scudo per portare colpi di lancia incantate. Se c’è una somiglianza tra il lavoro di Gorini e il nostro, c’è però una differenza nella scelta del metodo. – Gorini cita i testi in dettaglio e affianca ai testi contemporanei i testi antichi che li distruggono. Così facendo, affonda piacevolmente l’autore che confuta, ma costruisce molto meno di quanto demolisce e, per la solita mancanza di scienza organica, la sua opera cade con le opere che abbatte. Non intendiamo certo togliere nulla al merito personale di Gorini: per la sua modestia, la sua scienza, il suo coraggio e la sua perseveranza nella disgrazia, Gorini è il tipo dell’onore sacerdotale. Ma il suo libro è stato molto più lodato che letto; ha ispirato più stima che convinzione; ha dettato meno risoluzioni di quante ne abbia suscitate. Per noi, senza attribuirci alcun merito di chiaroveggenza, su ogni punto controverso, dopo aver fatto conoscere le rimostranze ed i titoli dell’avversario, non con citazioni, ma con l’esposizione filosofica dell’errore e la sua classificazione metodica, discutiamo poi o confutiamo, con la produzione dei testi, l’autorità dei fatti, o la testimonianza dei maestri. – Non possiamo pretendere di scrivere la storia positiva del Papato; né ci limitiamo ad invertire; vorremmo, respingendo con una mano i falsi titoli o le vane rimostranze elevare la storia critica della monarchia papale. In solitudine, si parla solo con le proprie idee, e se si è esposti ad abbondare troppo nel proprio senso, non si corre il rischio di essere fraintesi per mancanza di spiegazioni. Azzardiamo qualche altra parola, chiedendo pietà. Questo lavoro è stato composto secondo un doppio metodo: metodo di confutazione e metodo di esposizione. – La confutazione diretta e personale rende una domanda accademica un piccolo dramma che suscita facilmente interesse. Si mette l’avversario davanti agli occhi del lettore, si presentano i suoi mezzi di attacco e poi, entrando in lotta con lui, si mostra che le sue armi sono mal temperate o che i suoi colpi sono sbagliati. Il cuore umano gode di queste lotte pacifiche, ed è sempre con gioia che vede il trionfo della verità. Tuttavia, un libro i cui capitoli formassero una successione invariabile di pugilati letterari potrebbe portare, per l’uniformità delle sue battaglie, una certa monotonia. L’uso alternativo del metodo di esposizione risveglia nella mente altri gusti e fornisce altri piaceri. Quando la questione è meno controversa, ci limitiamo quindi a farne conoscere i termini, a determinarne i limiti, gli sviluppi e la soluzione tradizionale. Poi il lettore, uscito dal campo di battaglia, si riposa sulle pacifiche vette della storia. Quando l’attenzione si sposta da una controversia belligerante ad un’esposizione pacifica, se il lavoratore non è troppo al di sotto del suo compito, può risultarne un piacevole interesse. – La maggior parte del materiale di questo libro doveva essere preso dai fatti e dalle autorità. Nel campo chiuso della storia, c’è poco spazio per un autore che polemizzi contro un autore, per un intelletto che si scontri con un altro intelletto; sono gli eventi che entrano in scena e dicono alle parti contendenti: « Voi sostenete che i fatti giustifichino tale e tale accusa o autorizzino tale e tale titolo, questi sono i fatti di cui reclamate gli oracoli, giudicate voi stessi se implicano tali scopi o comportino tali pretese. » Ci è sembrato, tuttavia, che, senza derogare dall’ordine storico, potessimo collocare i fatti in certe categorie, la cui connessione getta un po’ di luce, e abbiamo pensato di poter, per adempiere meglio al nostro programma, invocare, di tanto in tanto, l’autorità dei princìpi, gli insegnamenti delle teorie ortodosse, e la deduzione delle conseguenze legittime. Queste domande, che sono molto difficili da spiegare, si risolvono meglio per implicazione. – Inoltre, ecco lo schema del nostro lavoro:

Nel primo volume, spieghiamo le origini del Papato da San Pietro a Costantino; nel secondo volume, presentiamo le prerogative della sovranità papale, per il comando ed il governo, per il potere legislativo e giudiziario, per il proselitismo dell’apostolato e per l’indipendenza di esercizio per la costituzione del potere temporale;  nel terzo, si studia la relazione dei Papi con le Chiese d’Oriente, da Papa Liberio a Fozio e al Concilio di Firenze; nel quarto, si difende la costituzione pontificia del Medioevo nel suo insieme; nel quinto, riprendiamo in particolare i fatti attribuiti ai Papi del Medioevo, da Papa Zosimo fino al Grande Scisma; nel sesto, studiamo con particolare cura, da Filippo il Bello a Napoleone, le relazioni dei Papi con la Francia; infine, nel settimo ed ultimo volume, parliamo dei Papi dell’epoca moderna, dall’invasione del protestantesimo a Pio IX. – Nella misura in cui il nostro lavoro lo richiede e le circostanze lo permettono, diamo in appendice alcune discussioni incidentali che avrebbero potuto ostacolare il nostro procedere, alcuni documenti di supporto che permetteranno al lettore di giudicare da solo, e alcuni studi in cui determineremo meglio certe questioni di speculazione teologica o di pia pratica. – A volte, molto raramente, per rendere più evidente l’irriverenza dell’accusa, abbiamo citato fianco a fianco le testimonianze concordanti di falsi fratelli e dei nemici dichiarati. Voltaire accanto a Bossuet, Petrucelli della Gattina accanto a Gratry, Janus e Mons. ***: tutte queste persone che, tranne il tono, e parlano la stessa lingua, non costituiscono un confronto istruttivo? Gli empi ci offrono questo vantaggio, di rovinare con la loro presenza tutto ciò che onorano con le loro simpatie. Nel rispondere agli ecclesiastici che si avventurano in queste lotte, specialmente agli avversari onorati della Prelatura, non abbiamo dimenticato ciò che è dovuto alla loro santità e al genio. Il genio non dà un Miglio di indennità; ma, in caso di dissenso, comanda un profondo rispetto per uno scrittore di merito eccezionale. L’olio santo deve attutire i colpi alle teste che sono state unte con esso. Anche nella legittima difesa, bisogna essere generosi con la dovuta moderazione e circondare la necessaria severità con una sorta di seduzione formale in cui la franchezza del rammarico e la sincerità della venerazione servono da passaporto per tutto ciò che si è obbligati a fare intendere.  Ci siamo dunque fatti una legge di moderazione: se, contro la nostra volontà, abbiamo trasgredito i suoi salutari rigori, ritrattiamo in anticipo ogni eccesso verbale. Nel rispondere ai nemici dichiarati, non eravamo obbligati alle stesse moderazioni. Con loro, possiamo avere solo la guerra e applichiamo loro le leggi delle Dodici Tavole. Adversùs hostem, æterna auctoritas esto. Non dimentichiamo certo la saggia massima di San Francesco di Sales: « Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con un barile di aceto »; ricordiamo anche che, quando il lupo è nell’ovile, è atto di carità gridare: Al lupo! I nostri cattolici liberali hanno discreditato la moderazione poiché riservano tutto il loro miele ai nemici della Chiesa e abbeverano con l’aceto i difensori della Cattedra apostolica. « La più grande piaga del XIX secolo – dice Le Catholique di Magonza – è la cortesia. » Queste lunghe spiegazioni non nascondono alcun secondo fine. Non stiamo scrivendo per l’Accademia. Non abbiamo la fortuna di appartenere a questa scuola dotta, che può sostenere ogni affermazione con un testo e giustificare i suoi giudizi con cento testimonianze.  Stiamo scrivendo questo libro in una landa di frontiera, in un paese perso in mezzo alle paludi, lontano dagli studiosi, lontano dalle biblioteche, senza consigli, senza incoraggiamento, senza nulla che possa diminuire le difficoltà del nostro compito. Gli ostacoli crudeli che si sono dovuti superare per raccogliere qualche libro, per scrivere qualche articolo, per pubblicare qualche libro, ci hanno fatto conoscere tutte le disgrazie dell’isolamento e tutti i disagi della miseria. Possiamo con questa esperienza conoscere meglio i problemi dei pii laici e dei coraggiosi sacerdoti sparsi, come noi, per tutta la Francia, con il desiderio e la relativa impossibilità di entrare nelle questioni del tempo. È per loro che abbiamo composto quest’opera: che Dio conceda loro una giusta nozione delle cose e il coraggio che una scienza esatta ispira! Se questo scritto cade per avventura nelle mani dei dotti, non dubitiamo di incorrere nelle loro critiche: non siamo un padrone, ma un mendicante; viviamo di briciole cadute dalle tavole dell’opulenza, o di qualche resto, portato via da splendide festini. – È il momento di concludere. – I frivoli dottori del cattolicesimo liberale si sono accaniti nel far progredire una teoria che promette di far vivere fianco a fianco in dolce fratellanza il nibbio e la tortora, il lupo e l’agnello, la capra e il leone. Invano abbiamo risposto a questi dottori, accecati dalle illusioni del liberalismo, che tutte le concessioni avrebbero avuto come unico risultato quello di mettere la museruola ai cani ed incatenare i pastori; che ogni liberale era largo con il rivoluzionario ed il despota; e che i liberali, una volta divenuto i più forti, avrebbero messo da lato il liberalismo, per schiavizzare i loro liberatori e divorare il gregge di Cristo. Oggi il grido di guerra risuona in tutta Europa. Tutto si agita, tutto ruota intorno alla Cattedra apostolica. Si tratta di sapere se sarà così o no. Pro o contro: non c’è un terzo termine; dobbiamo decidere. Il nemico ha tutte le possibilità di successo: questa è l’ora del coraggio o del tradimento. – In questa guerra contro il Papa, il filosofo si dà alla politica; il repubblicano svizzero e il costituzionalista italiano cospirano con i capi delle vecchie monarchie. Guerra alle dottrine definite e alle pratiche cristiane! – grida Renan, l’accolito apostata come Giuliano -; guerra al vaticanismo!, gridano Lord John Russell e Sir Gladstone, fanatici ingordi dei beni della Chiesa; guerra ai legati della Santa Sede!, strillano i codardi radicali della triste Elvezia; guerra alla mitra ed alla tiara!, esclama Otto de Bismarck. E con queste violenze ingrate, che ipocrisia! Impedire ai Cattolici di praticare liberamente la loro Religione, dicono che è rispettare la coscienza, compiere il dovere morale dell’autorità e difendere le prerogative del potere! Mettere i Vescovi in prigione, vendere i loro mobili all’asta, dicono che è garantire il benessere e la libertà dei popoli! Scassinare chiese e presbiteri, rubare il patrimonio ecclesiastico, aprire le porte all’esilio, riaprire le carceri per i forzati della fede cattolica: tutto ciò, sarebbe beneficio della riforma, grazia della monarchia parlamentare, trionfo delle idee liberali, circospezione evangelica degli Hohenzollem! L’usignolo ( … quello della fiaba di Andersen) è lo scettro del futuro; confische, prigione, esilio, patibolo, sono ormai le forme del progresso! Sotto la copertura di queste ipocrisie, sotto il favore di antichi pregiudizi, tutte le passioni si coalizzano, tutti gli errori si uniscono, e nell’ora presente, sebbene Pio IX, prigioniero, come Papa, in Vaticano, non abbia altra libertà che la denuncia, altra arma che la preghiera, tutti gli erranti sentono di avere tutto da temere da lui, finché non lo abbiano ridotto alla completa inazione (ancora oggi lo temono, temono il Papa – impedito e materialmente prigioniero – Gregorio XVIII, e lo combattono apertamente con eresie e falsità le più vergognose, non solo i soliti nemici, cioè i kazari cabalisti e tutte le sette massoniche e dei protestanti apostati beoti, ma ancor più i settari del novus ordo, a cui si aggiungono i fallibilisti del cavaliere kadosh Lienart e del suo degno “compariello”, i tesisti del falso vescovo domenicano francese, tutti gli adepti delle sette sedevacantiste – eretiche e scismatiche, i mille cani sciolti, liberi lupi rapaci a vario titolo – ndr. -). Mentre gli ex apologeti tacciono, mentre i politici se ne stanno con le mani in mano, mentre i Cattolici liberali intrigano, una bocca impazzita a Ginevra diventa occasione di esilio del dolce Mermillod; dei miserabili preti si intrufolano nelle parrocchie del Giura cattolico; Bismarck assalta tutti gli stabili ecclesiastici della Germania, e cospira con Minghetti per sopprimere praticamente il Papato, aspettando la morte di Pio IX, l’occasione, sperano, per mettere le mani sulla Chiesa di Gesù Cristo (cosa avvenuta nel 1958 con il massonico Conclave-farsa delle marionette di bianco-vestite ed il Conciliabolo rivoluzionario roncallo-montiniano – ndr. -), per consumare, come risultato, la degradazione e la schiavitù della razza umana. Tutti questi politici professano una dottrina per guidare la loro condotta e, in apparenza, motivare i loro attacchi. In altri tempi i persecutori si chiamavano gellicani; il gallicanesimo non era solo un attacco alla supremazia dei Papi; con i suoi pro e contro, con le sue idee particolari su dogma, morale, disciplina e liturgia, presentava, da un lato, una concezione religiosa molto diversa da quella rappresentata dalla Chiesa e dalla tradizione cristiana; d’altra parte, ammettendo la legittimità dei prestiti usurari e l’assoluta indipendenza dei re, tendeva a creare un ordine ben diverso da quello cattolico. Da entrambe le parti, attraverso la corruzione iniziata nella società civile e nell’ordine ecclesiastico, si ritornava alle tradizioni pagane, precipitando verso la rivoluzione. Oggi, le nostre politiche si chiamano radicali, liberali, repubblicane, parlamentari, costituzionali o monarchiche – « questo è, se ci viene passata l’espressione, il titolo per decorare la facciata del negozio ». Sotto denominazioni apparentemente innocue ed anche sedicenti generose, hanno tutti, contro la Chiesa e la Santa Sede, una dottrina comune. Gambetta e Thiers pensano come Gladstone, come Minghetti, come Bismarck: sotto l’apparenza di forme ingannevoli, è nascosta sempre l’ipocrisia violenta e l’oppressione brutale. L’individuo reclama le franchigie che aiutano la corruzione, l’individuo rifiuta le franchigie della virtù; la società vuole certi diritti che si rivolgono tutti alla consacrazione della tirannia e alle latitudini della persecuzione, ma niente che si rivolga a vantaggio della verità e della giustizia cristiana. Ciò che tutti propugnano sotto vari nomi, adornandosi dei colori del benessere e della libertà, difendendo, come dicono, le immunità del potere e le prerogative dello Stato, è l’esclusione sociale della grazia di Gesù Cristo, l’oppressione della coscienza cattolica, la schiavitù della Chiesa, la confusione di tutti i poteri nella mano del principe e, per dirla in breve, il cesaro-papismo. Il cesaro-papismo è il culmine forzato, la cloaca di raccolta di tutti gli errori contemporanei, la loro formulazione dottrinale e la loro applicazione sociale; il principio storico del cesarismo è il libero esame di Lutero e il libero pensiero di Cartesio; il suo primo tentativo di organizzazione è il gallicanesimo di Luigi XIV e Napoleone; il suo attuale promotore, la massoneria; il suo esecutore di opere alte, la rivoluzione demagogica o coronata; il suo ultimo termine, è Cesare sovrano-pontefice, è il potere dio e bestia, è la legge divenuta lo strumento di sterminio del Cattolicesimo, è il grido di guerra: « I Cristiani ai leoni! ». – Dopo aver attraversato il cerchio dell’evoluzione cattolica, la civiltà è tornata al suo punto di partenza: alla guerra contro la Chiesa ed i Pontefici Romani, alla persecuzione dei Cesari. Quello che può venir fuori da questo, per il bene dell’ordine pubblico, lo possiamo imparare dal recente passato. Cento anni fa Luigi XIV poteva vedere i suoi figli sui troni d’Europa dalle profondità della tomba; il gallicanesimo fioriva ovunque all’ombra dei troni borbonici. Dove sono oggi i Borboni del patto di famiglia? L’ultima discendente di Luigi XIV è appena caduta dal trono: era una donna, una regina costituzionale, riconciliata con i nemici della sua famiglia, e, in ogni caso, secondo la teoria parlamentare, non le si poteva rimproverare nulla. Tuttavia, il trono cadde; nonostante questo gallicanesimo, supposto protettore del potere, la Francia, la Spagna, il Portogallo, Napoli e la Toscana cacciarono i Borboni; l’errore che doveva coprire questi principi contro gli sconfinamenti della Santa Sede servì solo a creare loro dei nemici; la civiltà andò addirittura in una direzione contraria agli interessi di questi Stati, e la rivoluzione, che minaccia tutti gli insediamenti umani, minaccia le razze latine con estromissioni ancora maggiori. Il mondo sta attraversando una di quelle terribili crisi da cui può nascere un cambio di stato per la proprietà e la sovranità. Ma questa nascita è laboriosa; le fazioni possono distruggere tutto, le false dottrine possono rovinare completamente questo lavoro meticoloso. A seconda della direzione, questo movimento può rialzare o abbassare tutto. Ciò che manca è la luce degli insegnamenti cattolici, i benefici della Santa Chiesa, la guida sicura della Santa Sede. La Chiesa libera sarebbe venuta in questo povero mondo con un cuore pieno di misericordia e mani piene di grazia, per guarire le sue ferite, per dirigere i suoi sforzi, per regolare le sue aspirazioni. – La rivoluzione dall’alto dà una mano alla rivoluzione dal basso per compromettere tutto; è al deviato che domanda la scienza delle soluzioni giuste e il segreto delle opere progressive. Dei Cattolici stessi, lo dico con dolore, dei cattolici vestiti con la livrea del liberalismo, accettano, in linea di principio, le dottrine della rivoluzione, quello che chiamano il suo buono spirito e le sue felici conquiste, la giustapposizione della Chiesa e dello Stato, il potere costituente e sovrano della società civile. Contro questo Cattolicesimo liberale, è giunto il momento che la Cattedra Apostolica si armi di fulmini. Nel frattempo, dobbiamo affrontare la persecuzione. La persecuzione non può sorprendere né affliggere i Cristiani. Il discepolo non è al di sopra del maestro; anche il martirio è una grazia, e quando Dio permette che le ipocrisie e la violenza della persecuzione si scatenino contro di noi, ci tratta come figli viziati dalla sua Provvidenza. Ma per ottenere la grazia legata alla persecuzione, bisogna lottare. In mezzo alle nuove lotte, dobbiamo ricordare la lunga serie di vecchie vittorie; dobbiamo ricordare le memorie che ci sostengono e i diritti che ci proteggono; dobbiamo essere santi nella nostra fame di rigori ostili, di prigioni e di catene; dobbiamo stare ai piedi della croce, aspettando di salirvi. Anche noi, quando saremo sacrificati, attireremo tutto a noi con il richiamo del sacrificio e il potere invincibile delle immolazioni. – Opponiamo dunque la nostra memoria e i nostri diritti ai nemici ciechi che si coalizzano per schiacciarci. Che questa proclamazione fermi, se ancora c’è tempo, il tradimento di oggi e prepari, in ogni caso, il beneficio delle lotte di domani. Non saremo mai noi a sottrarci alla gara di coraggio. Abbiamo un’istruzione dal cielo che ci anima al coraggio e abbellisce tutto, anche la morte: Confidite, ego vici mundum.

STORIA APOLOGETICA DEL PAPATO – Introduzione (1)

STORIA APOLOGETICA DEL PAPATO DA SAN PIETRO A PIO IX

DI MONS. FÈVRE

Protonotario apostolico

I Papi non hanno bisogno che della verità

(J. DE MAISTRE, “du Pape”, lib. II, Cap. XIII)

TOMO PRIMO

PARIGI – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMBRE, 13 – 1878

DICHIARAZIONE  DELL’AUTORE.

Se, in questo libro, ho dato il nome di santo a qualche personaggio non ufficialmente canonizzato, dichiaro, conformemente al decreto di Urbano VIII, che ho parlato come storico e senza voler invadere il dominio della giurisdizione pontificia. Inoltre, se c’è in quest’opera qualche parola o frase di significato oscuro, equivoco od impreciso, protesto che la mia intenzione è che sia presa nel senso più ortodosso e più conforme al sentimento della Chiesa Romana, madre e padrona di tutte le Chiese. L’autore di questo libro, sacerdote per grazia di Gesù Cristo e prelato per autorità della Santa Sede, dichiara di essere cattolico, apostolico, romano, e adotta senza riserve le conseguenze di questa dichiarazione. Infine, sottoponiamo il nostro libro e tutte le nostre parole, così come le nostre opere precedenti e la nostra persona, alla censura della Santa Chiesa, il cui capo visibile ed infallibile è il Sovrano Pontefice Pio IX, il Papa dell’Immacolata Concezione, del Sillabo e del Concilio.

JUSTIN FÈVRE,   Protonotario.

A PIO IX PONTEFICE MASSIMO

INTRODUZIONE – 1 –

La pubblicazione di una Storia Apologetica del Papato risveglia nella mente una domanda preliminare: a cosa serve, dice il lettore devoto, e a quale scopo? Il Vicario di Gesù Cristo, depositario e propagatore della luce e dell’amore divino, avrebbe bisogno di scuse? E la storia dei suoi benefici millenari non ha forse una sua giustificazione? – Per il credente, senza dubbio, per il lettore cristiano, il Papato non ha bisogno di difesa; più lo si difende, più si deve anche temere di sembrare di dare ragione all’accusatore e di scuotere la fede dei buoni cattolici. Tuttavia, se si va al fondo delle cose, se si penetra nel mistero dell’istituzione pontificia, si vedranno scomparire queste delicatezze, e si capirà non solo che non c’è pericolo nel difendere i Papi, ma che c’è il dovere di difenderli se vengono attaccati, e che questa apologia, se è tanto decisiva quanto necessaria, deve essere, per le menti stanche o agitate, un raggio di grazia e di salvezza.

I. La Chiesa quaggiù è, secondo la grande dottrina di Mœhler, l’incarnazione permanente di Gesù Cristo, e il capo della Chiesa è il vicario di Gesù Cristo sulla terra, rappresentandolo, non del Dio della gloria, ma del Dio di Betlemme e di Nazareth, del Cedron e del Golgota, il continuatore mistico dell’Uomo-Dio, umiliato, perseguitato, crocifisso per redimere l’uomo dal peccato originale e per restituirlo, per quanto lo richiede l’economia della salvezza, all’ordine soprannaturale della grazia. Queste esigenze del peccato, da un lato, e, dall’altro, questa meta sublime e difficile della Redenzione, preannunciano il destino del Sovrano Pontefice. Se torno alla culla dell’umanità, vedo prima di tutto l’uomo posto in un giardino di delizie; poi vedo il paradiso perduto, l’uomo esiliato sulla terra, che scende la china della degradazione continua, e sepolto sotto le acque vendicatrici del diluvio. Non appena la razza umana rinasce dal sangue di Noè, dimentica la punizione provvidenziale, ritorna alla sua corruzione, cade nell’idolatria, al punto che, per impedire la dissoluzione degli insediamenti umani e la distruzione della specie, Dio è costretto a scegliere un piccolo popolo che sottopone alla verga della legge mosaica, mentre abbandona il resto alla frusta dei conquistatori, alla furia della guerra, alla durezza della schiavitù, a tutti i progressi dell’abiezione. L’uomo è creato per gli splendori della luce e non ama più. È chiamato all’onore delle virtù e si diletta nella bassezza del vizio; deve vivere in vista delle beatitudini eterne e, rinunciando alla speranza, non vuole più che le gioie fugaci e ingannevoli del tempo. Il suo peccato diventa come una seconda natura che soffoca la prima; la sua degradazione gli sembra preferibile ad ogni grandezza. Ora il Papa è sulla terra il sovrano dispensatore dei misteri di Dio; egli non deve badare solo all’integrità ed alla purezza dei mezzi di salvezza; deve ancora portarli alle ultime profondità della vita intellettuale e morale del genere umano, per rigenerare la natura caduta, per santificarla in tutte le sue relazioni ed in tutte le sue opere. – Non sarebbe conoscere la degradazione primitiva e le sue formidabili conseguenze se non si scoprisse in essa una fonte di opposizione permanente alla missione dei Sovrani-Pontefici. La missione del Papa è di applicare, come capo supremo della Chiesa, il merito e la luce della Redenzione all’umanità degradata. Il mondo, da parte sua, è sempre pronto a ribellarsi alla verità ed alla grazia, e si sforza costantemente di non limitare le deviazioni della sua ragione e le debolezze della sua volontà. Piuttosto essere contaminati che rivivere: questo è il sentimento segreto, spesso il grido pubblico di molti. Dalle passioni attaccate nelle loro ultime roccaforti ed evocate per mantenerne il possesso, nasce la guerra alla Santa Chiesa. Questa è la fonte primaria della lotta contro il Pontificato; la sua origine non deve essere cercata più in là. L’uomo è come un cavallo indomito che rifiuta il freno; la società è come un malato che rifiuta di essere curato; e nelle debolezze come negli eccessi di forza c’è sempre un sentimento di odio, uno scatto d’ira, un piano per attaccare il benefattore della razza umana, troppo felici quando l’attacco non arriva se non al crimine. Questo crimine, che sembra confondere i piani di Dio, al contrario, ne assicura il misericordioso compimento. Per la salvezza del mondo era necessaria una vittima; per mantenere intatta la luce della rivelazione, per preservare questo povero mondo dalla corruzione, bisognava aggiungere nuovi nomi al martirologio e offrire nuove vittime all’altare. Il Pontificato è la continuazione di Gesù Cristo; ora il Salvatore ha redento l’umanità, e se viene innalzato alla gloria, è dopo essersi costituito il principio e la fine della Redenzione morendo sulla croce. Non c’è redenzione o trionfo senza crocifissione. La vita, il sublime destino, l’augusta missione dei Papi, è una vita di lotte, un destino di sacrificio, una missione di dolore mortale e di angoscia senza fine. I Pontefici romani non sono elevati così in alto se non col fine di dominare, dal vertice della grandezza, l’immenso orizzonte in mezzo al quale essi hanno ad ogni passo, una lotta da sostenere contro i nemici di Cristo. Se non si vedessero in tutte le ore del giorno e della notte combattuti dall’errore dei figli deviati e dalle passioni dei figli corrotti, non sarebbero allo stesso grado riconoscibili come veri vicari di Gesù crocifisso, per compiere la missione ricevuta dal Padre celeste. Un Papa misconosciuto, perseguitato, crocifisso: questi è il vero Papa! Così profondo è questo piano, che Gesù Cristo ha stabilito l’Apostolo San Pietro come suo Vicario qui sulla terra solo dopo avergli offerto in spettacolo il grande esempio del Calvario, e che non ha affidato le pecore e gli agnelli alle sue cure se non dopo aver ottenuto tre volte la protesta del suo amore. Gesù Cristo chiese a Pietro di provargli che aveva la forza di soffrire, e la protesta di Pietro fu che, come amante di Gesù Cristo, sarebbe stato capace di prosciugare il calice della tribolazione fino alla fine. – Il Pontificato, dunque, è veramente il martirio o la via del martirio; è la battaglia o un luogo fortificato sempre pronto a sostenere il combattimento; è la morte o una continua disposizione dell’anima a sfidare la morte. Perché tutto questo bagliore di gloria, tutta questa grandezza di rispetto con cui il mondo pronuncia il nome dei Sovrani Pontefici? È perché il mondo sappia che il Papa è la seconda vittima del Calvario, sempre pronto a soffrire ed a morire, proprio quando sarà necessario che un uomo si voti alla morte per la salvezza del popolo. La Chiesa e il mondo cattolico vogliono circondare di grandezza e di gloria il trono, o, per meglio dire, la croce dei Sovrani Pontefici. Ma non è un trono di grandezza mondana che erge al successore  di San Pietro l’affetto dei popoli; è piuttosto una testimonianza di venerazione e di gratitudine per il sangue di un martire dell’anima. Il Pontificato, inoltre, non è annientato perché soffre persecuzione. La più grande prova, al contrario, della sua necessaria e riconosciuta esistenza, forte ed immortale, è la serie ininterrotta di attacchi che, ora in un modo, ora in un altro, si elevano contro la Santa Sede, senza che il Papa sia spaventato, nella sua lunga e gloriosa carriera, né dalle passioni ausiliarie sempre pressanti, né dalle idee false, né dalle idee solo in parte vere che accettano il concorso delle passioni. Non è di logica perfetta assicurare, come si fa oggi, che l’uomo decaduto non abbia bisogno della guida e dell’insegnamento dei Papi, e che la società pubblica possa distruggere il Sovrano Pontificato senza farsi alcun male. Trovo persino queste affermazioni volgari e puerili. Respingendo i Papi in nome delle proprie idee e passioni personali, gli uomini mostrano al contrario la necessità di una direzione suprema; e dichiarando una guerra implacabile al Pontificato, la società civile è meglio in grado di scoprire l’inadeguatezza delle sue leggi, l’impotenza delle sue forze ed il bisogno di un centro fissato da Dio. – Dal semplice punto di vista del senso comune, non è logico dire, perché un vigoroso destriero rifiuta il suo freno, che questo freno sia inutile; questo freno, che rifiuta con forza, gli è ancor più necessario. Questo è ciò che chiamiamo, nella società, bisogno pressante, desideri generali, fatalità di circostanze, cose che possono essere ammesse in una società puramente umana e variabile, purché rispondano ad interessi legittimi e siano suscettibili di una formula di applicazione. Nelle istituzioni divine, tale ragionamento non è applicabile. Chi ha più bisogno dell’autorità di un padre se non il figlio che rifiuta questa autorità? Nonostante queste illusioni infantili e queste lotte incessanti, il Pontificato continuerà, e non solo continuerà, ma il brillare dei suoi trionfi si misurerà con la grandezza delle sue lotte: ad ogni vittoria, il Pontificato appare più cattolico e la sua influenza diventa più universale. Noi non proviamo alcuna inquietudine per la sorte della Cattedra Apostolica, né da parte dei persecutori perché si chiamano Nerone, né da parte dei filosofi perché si chiamano Celso, né da parte degli eretici perché si chiamano Lutero o Giansenio, né da parte dei poeti perché si chiamano Voltaire o Béranger, né da parte dei socialisti perché si chiamano Mazzini o Proudhon, né dai politici perché si chiamano Cavour o Bismarck. Povere creature, che hanno creduto, con delle mani di carne, di fermare il carro di fuoco di Ezechiele! Il carro li ha schiacciati con il peso della sua forza ed eclissati con lo splendore della sua gloria. Non solo non mi preoccupo dei clamori, non ho paura degli attentati che si elevano contro la Santa Sede, ma, a questo spettacolo, sento nel mio cuore un non so che di gioia. Se il Pontificato romano non fosse una grande istituzione, un’istituzione più grande del mondo, non sarebbe scosso dalle passioni terrene, attaccato dalle ambizioni che ne congiurano la rovina. Perché allora queste grida di rabbia non si alzano contro i sovrintendenti del protestantesimo, contro i rabbini della sinagoga, contro gli interpreti del Corano, contro i poteri religiosi dei falsi culti? Poiché queste stesse idee, queste stesse passioni che combattono il Pontificato, lo considerano come un’istituzione potente, come l’unico nemico da temere, dimenticano naturalmente tutto il resto; esso non ispira loro alcun terrore. Inoltre, se temete il Pontificato, voi che vi proclamate padroni del mondo, è perché il Pontificato vi supera in potenza: così lo confessa il vostro cuore, così lo proclamano i vostri sforzi disperati. Cosa otterrete dunque immolando uno o due Papi? Voi farete diventare vera alla lettera la parola di Gesù Cristo; prenderete la vita di un uomo, ma darete nuova forza all’istituzione. Farete del Papa un martire, ma alla triplice corona aggiungerete nuove palme: in altre parole, fornirete le prove più persuasive a favore della divinità dell’istituzione apostolica. In poche parole, il Papa rappresenta la reazione contro il peccato originale ed il principio della Redenzione; l’individuo e la società si mostrano, al momento attuale, come sono sempre stati, degradati e refrattari. Il Papa può sempre essere crocifisso; i Giudei hanno potuto anche aver crocifisso Gesù Cristo, e se la società europea vuole spargere il sangue del giusto, potrà farlo; ma questo sangue ricadrà su di essa e sui suoi figli: sui suoi figli, che vagheranno senza legge, senza altare, nel mondo delle prevaricazioni, e saranno allora costretti a gridare dal profondo della loro miseria in mezzo a rivoluzioni senza fine: « Il vicario di Gesù Cristo era veramente il salvatore e il padre dell’Europa! » La persecuzione e il martirio sono dunque la condizione naturale della vita del Sovrano Pontefice. La forza dell’istituzione pontificia non viene meno dal fatto che sia nata sul Calvario e che, da questo monte cosparso di sangue, diffonda la luce sul mondo prostrato ai suoi piedi e che chiede misericordia. È in spirito di fede e di pietà che abbreviamo la storia del Papato in questa breve formula; primo, per consolare le anime che si lasciano turbare dal rumore delle tempeste; secondo, per mostrare agli attuali nemici della Santa Sede che non hanno il merito dell’originalità nella lotta. In questo concorso di persecuzione, al contrario, sono solo essi che sostengono una causa che è persa in anticipo, e questa sconfitta infallibile, che assicura la loro disgrazia nella storia, prepara per la Cattedra apostolica solo un supplemento di gloria e di potere.

II. Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, è il Salvatore del genere umano, e il Sovrano Pontefice, successore di San Pietro, è, per la salvezza degli uomini, il Vicario di Gesù Cristo. L’opera storica dei Romani Pontefici è dunque, attraverso i secoli, l’estensione misteriosa dell’Incarnazione del Figlio di Dio e della nostra Redenzione attraverso la Croce: è un faro innalzato sulla montagna per illuminare i popoli; è un’istituzione di grazia per rigenerarli, e quindi un segno di contraddizione eterna. La guerra contro tutte le passioni dell’umanità è il comando che i Papi hanno ricevuto dall’alto; la resistenza spesso offensiva e gratuitamente aggressiva di tutte le passioni contro la Santa Sede è la risposta ordinaria dell’umanità. Benefici celesti, benefici poco conosciuti: questa, in poche parole, è la storia della Monarchia Pontificia. Questa guerra di passioni contro la Santa Sede ha attraversato tre fasi nella sua evoluzione bimillenaria: una fase di persecuzioni sanguinose, una fase di eresie e scismi, una fase di ipocrita oppressione della tirannia. Da tre secoli stiamo attraversando quest’ultima fase. L’obiettivo dei nemici del Papato è il suo annientamento. È scritto che non prevarranno; non solo essi vogliono prevalere, ma dominare tutto, e anche se non ci riescono mai, ci provano sempre. I loro attacchi abbracciano e imbarazzano tutta la storia dall’Età della Grazia, dice Rohrbacher, ma la imbarazzano solo in quanto rimandano la concessione e lo sbocciare di grandi benedizioni. Ora, in questa lunga guerra contro la Santa Sede, i suoi nemici hanno seguito quattro piani distinti: 1° rovesciarla con la violenza; 2° degradarla con l’umiliazione; 3° privarla di ogni appoggio esterno per lasciarlo solo di fronte alla rivolta; 4° asservirla a Roma o tenerla lontano da essa, per confinarla ad Avignone o a Gerusalemme (quest’ultimo è il piano attuale che ha coinvolto Gregorio XVII prima e poi Gregorio XVIII – ndr- ). Il piano di distruzione con la violenza risale a Nerone, che fece crocifiggere il primo Papa. I Cristiani, condannati allo sterminio, non potendo trovare riparo, si rifugiavano nelle catacombe. I successori di San Pietro, anche quando furono inseguiti in questi passaggi sotterranei, furono strappati dall’altare dove consacravano il pane della vita e dal pulpito da cui riversavano parole di speranza immortale. L’annientamento della loro opera e del loro potere fu perseguito con la stessa implacabilità dai Traiani e dai Domiziani, dai Diocleziani e dai Marco Aureli. L’odio della Cattedra Apostolica esasperava non meno gli uomini di Stato del Palatino e i giureconsulti del Foro che la vile moltitudine degli anfiteatri e dei carnefici del circo. Era persino diventato un assioma che era meglio tollerare un rivale con la porpora che un Papa a Roma. Diocleziano arrivò persino a trascurare la difesa dell’impero per sterminare con più efficacia i Cristiani. Nonostante l’energia dell’attacco, l’estensione delle sue risorse e gli scoppi progressivi della sua furia, cosa fecero i Cesari dopo due secoli e mezzo di guerra ad oltranza? Un’ammenda onorevole, un atto sfolgorante di omaggio e di sottomissione al Papato, nella persona di Costantino! Il tempio del Vaticano e la città del Bosforo sono ancora lì come due trofei che testimoniano di questa vittoria. – Il progetto di degradazione attraverso l’umiliazione segue il progetto di distruzione mediante la violenza: è il sistema dei degenerati successori di Costantino, dei re barbari e dei Cesari tristi di Bisanzio. Durante tutto questo periodo, il capriccio degli imperatori prolungò le vacanze della Sede apostolica. Il Papato è talmente asservito, che i Pontefici eletti non possono prendere possesso senza un placet dei governanti. Nell’esercizio delle loro funzioni, incontrano solo ostacolati e traversie. Le imprese di Costanza e Valente sono ben note. Odoacre, dopo la morte di Simplicio, dichiarò nulla ogni elezione fatta senza il suo consenso. Teodorico fece morire Giovanni I, rifiutò un’elezione legittima e scelse Felice a suo piacimento. Suo nipote, Atalarico, causò lo scisma tra Bonifacio e Dioscoro. Teodato fece accettare il suo prescelto, Papa Silverio, sotto pena di morte; Belisario e Teodora nominarono, allo stesso tempo, Vigilio a Costantinopoli. Nessuno ignora oggi gli attacchi di Luitprando, di Rachis, Astolfo, Didier, di Leone l’Isaurico e di Costantino Copronimo. Furono esaurite lungo tre secoli, quindi, tutte le risorse della brutalità e della perfidia; per tre secoli, i Papi furono perseguitati, spogliati dei loro beni, oltraggiati, assassinati. Certamente, se questo progetto non è riuscito, non è stata né per mancanza di zelo né per mancanza di perseveranza. – E il risultato? Carlo Magno dà gli ultimi ritocchi alla costituzione del potere temporale dei Papi. Se il piano di umiliare il Papato non riuscì meglio di quello di annientarlo, bisogna ora isolarlo, secolarizzarlo e lasciare che sia la rivoluzione ad agire contro di esso; questo è il sistema in vigore alla caduta dell’Impero Carovingio.

II. Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, è il Salvatore del genere umano, e il Sovrano Pontefice, successore di San Pietro, è, per la salvezza degli uomini, il Vicario di Gesù Cristo. L’opera storica dei Romani Pontefici è dunque, attraverso i secoli, l’estensione misteriosa dell’Incarnazione del Figlio di Dio e della nostra Redenzione attraverso la Croce: è un faro innalzato sulla montagna per illuminare i popoli; è un’istituzione di grazia per rigenerarli, e quindi un segno di contraddizione eterna. La guerra contro tutte le passioni dell’umanità è il comando che i Papi hanno ricevuto dall’alto; la resistenza spesso offensiva e gratuitamente aggressiva di tutte le passioni contro la Santa Sede è la risposta ordinaria dell’umanità. Benefici celesti, benefici poco conosciuti: questa, in poche parole, è la storia della Monarchia Pontificia. Questa guerra di passioni contro la Santa Sede ha attraversato tre fasi nella sua evoluzione bimillenaria: una fase di persecuzioni sanguinose, una fase di eresie e scismi, una fase di ipocrita oppressione della tirannia. Da tre secoli stiamo attraversando quest’ultima fase. L’obiettivo dei nemici del Papato è il suo annientamento. È scritto che non prevarranno; non solo essi vogliono prevalere, ma dominare tutto, e anche se non ci riescono mai, ci provano sempre. I loro attacchi abbracciano e imbarazzano tutta la storia dall’Età della Grazia, dice Rohrbacher, ma la imbarazzano solo in quanto rimandano la concessione e lo sbocciare di grandi benedizioni. Ora, in questa lunga guerra contro la Santa Sede, i suoi nemici hanno seguito quattro piani distinti: 1° rovesciarla con la violenza; 2° degradarla con l’umiliazione; 3° privarla di ogni appoggio esterno per lasciarlo solo di fronte alla rivolta; 4° asservirla a Roma o tenerla lontano da essa, per confinarla ad Avignone o a Gerusalemme (quest’ultimo è il piano attuale che ha coinvolto Gregorio XVII prima e poi Gregorio XVIII – ndr- ). Il piano di distruzione con la violenza risale a Nerone, che fece crocifiggere il primo Papa. I Cristiani, condannati allo sterminio, non potendo trovare riparo, si rifugiarono nelle catacombe. I successori di San Pietro, anche quando furono inseguiti in questi passaggi sotterranei, furono strappati dall’altare dove consacravano il pane della vita e dal pulpito da cui riversavano parole di speranza immortale. L’annientamento della loro opera e del loro potere fu perseguito con la stessa implacabilità dai Traiani e dai Domiziani, dai Diocleziani e dai Marco Aureli. L’odio della Cattedra Apostolica esasperava non meno gli uomini di Stato del Palatino e i giureconsulti del Foro che la vile moltitudine degli anfiteatri e dei carnefici del circo. Era persino diventato un assioma che era meglio tollerare un rivale nella porpora che un Papa a Roma. Diocleziano arrivò persino a trascurare la difesa dell’impero per sterminare con più efficacia i Cristiani. Nonostante l’energia dell’attacco, l’estensione delle sue risorse e gli scoppi progressivi della sua furia, cosa fecero i Cesari dopo due secoli e mezzo di guerra ad oltranza? Un’ammenda onorevole, un atto sfolgorante di omaggio e di sottomissione al Papato, nella persona di Costantino. Il tempio del Vaticano e la città del Bosforo sono ancora lì come due trofei che testimoniano di questa vittoria. Il progetto di degradazione attraverso l’umiliazione segue il progetto di distruzione mediante la violenza: è il sistema dei degenerati successori di Costantino, dei re barbari e dei Cesari tristi di Bisanzio. Durante tutto questo periodo, il capriccio degli imperatori prolungò le vacanze della Sede apostolica. Il Papato è talmente asservito, che i Pontefici eletti non possono prendere possesso senza un placet dei governanti. Nell’esercizio delle loro funzioni, incontrano solo ostacolati e traversie. Le imprese di Costanza e Valente sono ben note. Odoacre, dopo la morte di Simplicio, dichiarò nulla ogni elezione fatta senza il suo consenso. Teodorico fece morire Giovanni I, rifiutò un’elezione legittima e scelse Felice a suo piacimento. Suo nipote, Atalarico, causa lo scisma tra Bonifacio e Dioscoro. Teodato fece accettare il suo prescelto, Papa Silverio, sotto pena di morte; Belisario e Teodora nominarono, allo stesso tempo, Viglio a Costantinopoli. Nessuno ignora oggi gli attacchi di Luitprando, di Rachis, Astolfo, Didier, di Leone l’Isaurico e di Costantino Copronymo. Furono esaurite lungo tre secoli, quindi, tutte le risorse della brutalità e della perfidia; per tre secoli, i Papi furono molestati, spogliati dei loro beni, oltraggiati, assassinati. Certamente, se questo progetto non è riuscito, non è stata né per mancanza di zelo né per mancanza di perseveranza. E il risultato! Carlo Magno dà gli ultimi ritocchi alla costituzione del potere temporale dei Papi. Se il piano di umiliare il Papato non riuscì meglio di quello di annientarlo, bisogna ora isolarlo, secolarizzarlo e lasciare che sia la rivoluzione ad agire contro di esso; questo è il sistema in vigore alla caduta dell’Impero Carovingio. La storia del Papato non ha un’epoca più disastrosa. L’Italia è attaccata da tutte le parti, dai Magiari, dai Normanni e dai Saraceni. La città eterna non è altro che un conglomerato di piazze fortificate con torri. Gli Stéfaneschi dominano il Gianicolo, i Frangipane il Palatino; qui i Conti, là i Massimi; ovunque formidabili fortini muniti di bastioni. La mole di Adriano, affacciata sull’unico ponte che collega le due sponde del Tevere, è la fortezza dei Cenci, saccheggiatori che depredano senza pietà tutti i passanti. Intorno a Roma, si vedono solo castelli abitati da briganti e campagne devastate da legioni di banditi. Cosa ne è stato del Papato? Nel 965, Rodfredo rapì il Papa e lo gettò in una fortezza della Campania. Otto anni dopo, Benedetto VI viene strangolato. Un antipapa deruba la tomba degli Apostoli… Dono II viene assassinato. Giovanni XIV muore di fame in un oscuro sotterraneo. Giovanni XV è rinchiuso in Vaticano (… nulla di nuovo anche oggi, sotto il sole – ndr.-). Poco dopo, le elezioni pontificie passano nelle mani degli imperatori tedeschi. Certamente, mai la barca di Pietro era stata assalita da una tempesta più violenta; mai era stata così vicina ad essere inghiottita in questo oceano oscuro, coperta dai resti delle istituzioni umane sgretolate. « Epoca nefasta – esclama Baronio, – in cui la Sposa di Cristo, sfigurata da una terribile lebbra, divenne la zimbella dei suoi nemici! » Fu un’epoca doppiamente nefasta, possiamo aggiungere, perché la società vedeva anche cadere i suoi principi e svanire le sue speranze. E il risultato? Il Papato risollevato da Ildebrando, che esercitava un potere incontrastato sulle nazioni cristiane e in tutte le sfere dell’attività sociale, da Gregorio VII a Bonifacio VIII. – Infine, rimane un ultimo progetto, più moderato degli altri, che non vuole né distruggere, né umiliare o secolarizzare il Papato, ma portarlo fuori dall’Italia: questo è il sistema scelto durante il soggiorno dei Papi ad Avignone. Questo soggiorno, chiamato dagli stessi italiani la cattività di Babilonia, non aggiunse nulla al prestigio del Papato e fu un elemento di durata per il grande scisma d’Occidente; Roma e l’Italia vi trovarono almeno prosperità? Ughelli risponde che « … le disgrazie degli italiani durante l’assenza dei Papi superavano di gran lunga quelle subite dalle orde barbariche ». Sfogliando Muratori, vediamo rinnovarsi e aggravarsi le disgrazie delle epoche passate. Famiglie potenti dominano o contendono nelle città principali; bande di predoni devastano le campagne: questo è il decimo secolo con gli elementi aggiuntivi di empietà e libertinaggio. Roma, tuttavia, è divisa tra gli Orsini e i Colonna. La popolazione diminuisce. La parte abitata della città presenta uno spettacolo rivoltante di abbandono e desolazione; le strade sono ingombre di detriti; le basiliche sono disadorne, gli altari spogliati, le funzioni senza maestà; niente più viaggiatori, nessun pellegrino; ovunque i furfanti commettono furti, rapine, omicidi ed ogni tipo di crimine. « Roma – dice Petrarca – tende le sue braccia smagrite verso il Papa, e il seno d’Italia, implorando il suo ritorno, è gonfio di singhiozzi di dolore. » – Siete felici, Romani? I rovi laddove i vostri padri incoronavano gli eroi; le vigne sul campo della vittoria; un giardino cresciuto nel Foro ed i banchi dei senatori nascosti dal letame: ecco i monumenti che ricordano i trionfi dei Colonna, degli Arnaldo da Brescia, dei Brancaleone e dei Rienzo. Ammirevole attenzione della Provvidenza e legge misteriosa della storia! In ogni prova del Papato, Dio tira fuori dai suoi tesori un grande uomo, e il grande uomo è grande solo quanto la sua devozione alla Cattedra Apostolica. Dopo le persecuzioni, Costantino; dopo le umiliazioni, Carlo Magno; dopo le lacrime, Gregorio VII, Innocenzo III, Gregorio IX e Bonifacio VIII; dopo la traslazione, Nicola V, Pio II, Giulio II, Leone X, San Pio V e Sisto V. Al contrario, coloro che si scontrano contro la pietra fondamentale della Chiesa si sfracellano nel loro potere, e immancabilmente si sviliscono agli occhi dei posteri.

III. La storia del Papato ci viene offerta sotto due aspetti diversi, uno terreno, l’altro celeste; da un lato le prove, dall’altro i trionfi. Il Papa è sempre perseguitato, egli è sempre vittorioso sulla persecuzione. Due forze, le uniche i cui successi sono durevoli, lo aiutano a conquistare questa vittoria perpetua: la forza di Dio e la forza dell’uomo, l’assistenza dall’alto e la fedele corrispondenza alle grazie che rafforzano la natura. Tra le qualità eminenti che sono state per la Santa Sede il risultato della sua fedeltà all’aiuto del cielo, ce ne sono due principali che spiegano quasi tutta la sua storia: la consumata prudenza e il coraggio passivo a tutta prova. Il mondo si muove lentamente, e nello sviluppo del suo destino è soggetto ad una doppia legge: da un lato, la materia deve servire alla santificazione dello spirito; dall’altro, gli eventi sulla terra devono coltivare i semi della creazione e della grazia, in modo da glorificare Dio. L’errore e la colpa degli uomini che sono a capo delle cose umane è quella di ignorare questa doppia legge e di voler precipitare il movimento dei secoli. Nell’impazienza del loro genio o nell’infermità delle loro passioni, vogliono piegare i fatti secondo le loro opinioni personali, concentrarsi sul benessere dell’attività dei popoli e creare chi la società, chi la religione, chi un partito, chi il futuro. Lavorando contro la volontà di Dio, tutti questi uomini consumano la loro vita in questo arduo lavoro, e quasi sempre, prima di morire, vedono le cose stesse che hanno arbitrariamente regolato, ridersi dei loro disegni. Leggete la storia: vedrete chiaramente questa contraddizione perpetua tra la volontà dell’uomo e il successo dei suoi sforzi. Alessandro, Cesare, Napoleone, grandi uomini e grandi popoli subiscono tutti le stesse vicissitudini. La forza può assicurare loro il successo per un giorno, ma la forza è solo una grande debolezza quando non è il braccio della verità. Il conquistatore scompare e con lui la sua opera. Solo sa quello che fa chi serve Dio nella sua Chiesa e che, volgendo le cose passeggere al trionfo dei principi permanenti, prende consiglio non dagli interessi transitori, ma dalle leggi che rimangono: questa è stata una virtù dei Pontefici ed il principio della loro prudenza. Durante i primi tre secoli della Chiesa, contenti del loro pane quotidiano e dei loro doveri, vissero poveri e morirono martiri. Estratti dalle catacombe da Costantino, arricchiti dalla pietà dei fedeli e degli imperatori, sono rimasti semplici nei loro desideri, l’anima umile e forte, le mani aperte. Alla caduta dell’impero, spesso minacciati, imprigionati, esiliati, colpititi, sostennero con la loro maestà la confusione del Basso Impero e attutirono l’urto delle invasioni. Nel IX secolo, l’indebolimento dell’Impero d’Oriente, la protezione dei re franchi contro gli attacchi dei re longobardi, e l’amore dei romani, sollevano il trono temporale dei Papi. – Infine, sempre tranquilli circa i piani di Dio, sempre impegnati a diffondere la vita, la luce e l’amore di cui hanno il deposito, i Sommi Pontefici non fanno violenza agli eventi; li ricevono dalla mano di Dio, che li produce o li permette, limitandosi, quando si compiono, a comportarsi nei loro confronti secondo le regole della sapienza cristiana. Questo non è il ruolo che piace all’orgoglio, l’azione che colpisce gli occhi distratti; ma poiché questa azione e questo ruolo sono conformi ai disegni della Provvidenza e alla natura delle cose, assicurano alla Cattedra Apostolica la situazione che le è propria, incomparabile per durata, legittimità e successo, a nessun’altra situazione. Quella pazienza così meritoria nei confronti del tempo, quella saggezza così perspicace alla presenza di principi, saggezza e pazienza che elevano così in alto la prudenza pontificia, diventano più degne di attenzione, se si considera che non solo richiedono una fede imperturbabile nel futuro, ma richiedono anche un coraggio eroico per resistere alla rapidità e alla violenza degli eventi. Il coraggio che i Pontefici romani devono mostrare non è quello del soldato che affronta la morte donandola, coraggio stimabile quando è giusto, comune tra gli uomini del resto. È un coraggio più difficile e più raro, quello che sopporta freddamente i risentimenti e le carezze dei principi e dei popoli; quello che, alieno da ogni esaltazione, senza speranza umana, sacrifica il riposo alla coscienza e affronta quelle tristi morti in prigione, nel bisogno e nell’oblio. C’è una difficoltà? I Papi negoziano, e nei loro negoziati spingono la condiscendenza fino ai suoi limiti. Dopo aver atteso, approfittando delle circostanze, giunta la preghiera alla rivendicazione dei diritti, se il persecutore persiste, i Papi presentano le mani alle catene e la testa al carnefice, offrendo in tutta la sua purezza lo spettacolo di una giustizia umile e spoglia alle prese con l’orgoglio della forza. Da Nerone a Diocleziano, restano nella capitale dell’impero, consci del tipo della loro morte perché avvertiti da quella dei loro predecessori, e tranne uno che fu sottratto dalla vecchiaia alla spada, tutti ebbero la gloria di essere colpiti sulla loro sede. Da Diocleziano a Michele Cerulario, passando per Costanza, Valente, Costantino Copronimo, Leon l’Isaurico, e tutta quella serie di principi codardi, di donne vili ed eunuchi ambiziosi, le cui bassezze inette hanno dato il loro nome alla storia di Costantinopoli, vediamo i Papi respingere inesorabilmente le sottigliezze greche, subire le pretese di un prefetto imperiale, prendere la via dell’esilio piuttosto che cedere, e resistere, se necessario, fino allo spargimento del loro sangue. Nel Medioevo, le guerre dei signori, i vincoli del feudalesimo tendenti ad imbrigliare la Chiesa nei pesi del vassallaggio, l’ambizione dei Cesari tedeschi, ci mostrano in Gregorio VII, Innocenzo III, Gregorio IX, Innocenzo IV, Bonifacio VIII, e, molti altri, il coraggio dei Papi sempre uguale a se stesso. Infine, ai nostri giorni, gli attacchi della rivoluzione fornirono a Pio VI, Pio VII e Pio IX l’opportunità di salire alle altezze di Leone, Gregorio ed Innocenzo. (Oggi l’infame setta dei massoni-kazari e dei finti-ecclesiastici falsi profeti, ha eclissato il Papa imprigionandolo e rendendolo impedito nelle sue funzioni ma … fino a quando vincerà la bestia e l’anticristo? … ma noi Cattolici lo sappiamo già dall’Apocalisse! – ndr. -). In breve, dall’epoca della grazia, la verità non ha avuto alcun difensore perpetuo se non il Vescovo di Roma. I vescovi greci hanno consegnato la Chiesa d’Oriente ai teologastri coronati di Bisanzio; i vescovi inglesi hanno venduto le chiese della Gran Bretagna ad Enrico VIII; alcuni vescovi del Nord hanno consegnato a Gustavo Wasa e a Cristiano le chiese dei regni scandinavi; i vescovi slavi abbandonarono le chiese della Russia allo zar Pietro: mai un Pontefice romano ha ceduto a nulla di simile. In questa lunga genealogia del Papato, non si è trovato nessuno che avesse permesso al potere secolare di invadere l’integrità del dogma, la purezza della morale e l’indipendenza del ministero apostolico. C’è, nel coraggio di subire la sorte attirata dalla propria inesperienza, una nobiltà che tocca i cuori e li dispone al perdono; ma quando una prudenza consumata ha preceduto un coraggio ferreo, e queste due virtù vengono ad unirsi sulla stessa fronte con l’alone dell’innocenza, la gravità degli anni e la maestà degli acciacchi, si produce un sentimento che muove le viscere, e nessuna gloria può controbilanciarne l’effetto infallibile sugli uomini.

[Continua … ]