TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO (3)

L. LEBAUCHE

TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO (3)

TITOLO ORIGINALE: TRAITÉ DU SAINT – ESPRIT – Edit. Bloud-Gay.- Paris 1950

V. Per la Curia Generalizia Roma, 11 – 2 – 1952 Sac. G. ALBERIONE

Nulla osta alla stampa Alba, 20 – 2 – 1952 Sac. S. Trosso, Sup.

lmprimatur Alba, 28 – 2 – 1952 Mons. Gianolio, Vic. GEN.

CAPO SECONDO

ATTIVITÀ DELLO SPIRITO SANTO NEL MONDO

Essendo, la nostra natura umana, finita, non esiste che in una sola persona. Dato invece che la natura divina è infinita, la Rivelazione c’insegna che esiste in tre Persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. È una vita infinita di cui il Padre è la sorgente, il Figlio ne è il Verbo o la parola, la luce, la Sapienza. Quanto allo Spirito Santo è come un soffio di amore che va continuamente dal Padre al Figlio e torna di continuo dal Figlio al Padre. Sempre secondo la Rivelazione, al Padre si attribuisce più particolarmente la potenza; al Figlio il pensiero; allo Spirito Santo l’amore. Ma la potenza del Padre appartiene egualmente al Figlio e allo Spirito Santo; il Pensiero del Figlio appartiene egualmente al Padre e allo Spirito Santo; l’amore dello Spirito Santo appartiene egualmente al Padre ed al Figlio. Nella Trinità Santa non vi è di distintivo e, per conseguenza, di costitutivo delle Persone che le relazioni: la relazione di paternità, per la quale il Padre genera eternamente il Figlio, la relazione di filiazione per la quale il Figlio è generato eternamente dal Padre; la relazione di spirazione passiva per la quale lo Spirito Santo procede eternamente, come da un solo principio, dal Padre e dal Figlio, Secondo la concezione che la Rivelazione ci dà, la Trinità Santa appare come un movimento vitale, ineffabile, infinito che parte continuamente dal Padre e termina allo Spirito Santo, passando per il Figlio, e ritorna continuamente verso il Padre, passando per il Figlio. Perciò lo Spirito Santo appare come il termine della vita divina. È Colui per il quale, col quale, nel quale il Padre ed il Figlio compiono tutte le loro azioni nel mondo. Ma in tutte queste opere esterne, il Padre ed il Figlio agiscono quanto lo Spirito Santo. La Scuola dice molto bene: Omnia opera ad extra Sanctissimae Trinitatis sunt communia tribus personis. Tuttavia il Padre ed il Figlio agiscono sempre per lo Spirito Santo, con lo Spirito Santo, nello Spirito Santo, come lo esprimono, sotto le più varie forme, con altrettanta poesia che pietà, le dossologie liturgiche. – Poiché lo Spirito Santo è il termine della vita divina, ed è in qualche modo Colui per il quale la vita trinitaria è rivolta verso il mondo, Colui per il quale, col quale, nel quale essa agisce, ne risulta che devono essere più particolarmente attribuite allo Spirito Santo tutte le operazioni esterne della Santissima Trinità. E siccome Egli è l’Amore che va al Padre per il Figlio, Verbo incarnato, e che trascina le anime, prima verso il Verbo incarnato, e, per il Verbo incarnato, verso il Padre, tutto ciò che lo Spirito Santo fa nel mondo, lo fa sempre per amore e per un disegno di santificazione. S’intuisce l’attività prodigiosa, meravigliosa, infinita, infinitamente ricca e varia dello Spirito Santo nel mondo. – È questa attività che cercheremo di descrivere.

I

Nella descrizione dell’attività dello Spirito Santo nel mondo, ci limiteremo a indicare quella che gli è esplicitamente attribuita dai Libri Santi e dalla Tradizione. Prima di tutto salutiamo lo Spirito Santo come Spirito creatore. Nel capitolo primo del Genesi leggiamo: «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso, e lo Spirito Santo si librava sopra le acque » (Gen. 1, 1-2). Così, in principio Dio creò il cielo e la terra. – Creò il cielo e la terra per mezzo del Suo Verbo nello Spirito Santo. E lo Spirito Santo si librava al di sopra del caos per formare il mondo, simile all’aquila che, sulle vette ove ha fatto il nido, si libra sopra i suoi piccoli per riscaldarli, comunicar loro forza e audacia, e vivificarli. L’autore del Genesi si è ispirato a questa commovente immagine. La conservazione nell’esistenza è una creazione continua. Lo Spirito Santo crea e conserva creando. Egli è dappertutto immanente nel mondo, sebbene dovunque distinto dal mondo. È in tutti gli esseri. Mediante una creazione continua li conserva tutti nell’esistenza, li dirige verso uno scopo determinato, e secondo un piano d’insieme. A tal punto che se lo Spirito Santo si ritirasse dal mondo, non vi sarebbe più in esso né direzione particolare, né direzione d’insieme, non esisterebbe più alcun essere. Sarebbe il nulla. Nella misura in cui Egli si ritira dal mondo e da noi, scacciato dall’abuso della nostra volontà libera, è il disordine. Creatore del mondo, lo Spirito Santo è il creatore della vita, di ogni vita. «E il Signore formò l’uomo dal fango della terra e gli ispirò in faccia il soffio della vita e l’uomo divenne persona vivente » (Gene II, 7). Dio prese un po” di fango delle sponde di uno dei grandi fiumi che cominciavano a solcare la terra. Con un soffio del Suo Spirito Santo, Dio animò questo fango e l’uomo diventò essere vivente. Mentre gli comunicava la vita naturale, con un soffio del Suo Spirito Santo Dio animò l’uomo della vita soprannaturale. E unitamente a questa duplice vita, ma a motivo della vita soprannaturale, Dio si compiacque perfezionare nell’uomo la vita naturale, perché in lui non vi fosse troppa distanza tra la vita naturale e quella soprannaturale. Gli diede un’intelligenza vigorosa. Lo gratificò di una volontà forte, libera, ben equilibrata, capace di mantenere in lui l’armonia fra tutte le potenze e assicurare l’ordine tra la natura e la grazia. Così l’uomo divenne persona vivente, vivente della vita naturale e di quella soprannaturale, simile a Dio. Dio lo aveva creato simile a Sé per farne il proprio amico e vivere con lui in rapporti di dolce intimità. L’uomo adorerebbe il suo Dio, lo ringrazierebbe, si offrirebbe a Lui, lo pregherebbe. Lavorerebbe la terra, svilupperebbe e approfondirebbe le sue cognizioni mediante lo studio. Ma i doni di privilegio che aveva ricevuto, gli avrebbero reso tutto facile. Sarebbe felice. E tutti i suoi discendenti erediterebbero gli stessi doni di Dio. – Creatore del mondo e creatore della vita, lo Spirito Santo è presentato nell’Antico Testamento come l’autore dei doni speciali, cioè di quei doni da cui dipende tutto l’avvenire del popolo di Dio. È lo Spirito Santo che illumina Giuseppe e gli fa comprendere i sogni di Faraone (Gen. XLI, 14-36). È lo Spirito Santo che dà a Giosuè le virtù che gli permetteranno di succedere a Mosè (Num. XXVII, 18). – È lo Spirito Santo che illumina i profeti. Il profeta dichiara da sé di essere l’uomo dello Spirito Santo (Osea IX, 7). – È lo Spirito Santo che ispira il sacro scrittore e dirige la sua mano. Risultato meraviglioso di questo lavoro divino-umano compiuto nel corso di molti secoli, sarà la Bibbia. È lo Spirito Santo che, mediante la comunicazione della pienezza dei Suoi doni, conferirà l’unzione messianica al Re venturo. Gli comunicherà i doni di sapienza e d’intelletto; i doni di consiglio e di fortezza; quelli di scienza e di timor di Dio. Perciò il Servo di Dio dirà per bocca del profeta Isaia: « Sopra di me è lo Spirito del Signore; poiché, Dio mi ha unto per portare la buona novella agl’infelici » (Is. XI, 1-3). È per opera dello Spirito Santo che il Verbo di Dio si è fatto uomo nel seno della Vergine Maria (Lc. I, 35). È lo Spirito Santo che fa sapere al vecchio Simeone che non morrà prima di aver visto il Redentore del mondo, e gl’ispira il cantico che noi recitiamo: «Or lascia, o Signore, che il Tuo servo, secondo la Tua parola, se ne vada in pace, perché gli occhi miei hanno mirato il Redentore del mondo » (Lc.: II, 27-32). È lo Spirito Santo che, per mezzo di un Angelo, dà a Giuseppe l’ordine di fuggire in Egitto per sottrarsi alla persecuzione di Erode (Mt. II, 13-15). Al battesimo di Gesù, sulle rive del Giordano, lo Spirito Santo sotto il simbolo della colomba, si libra sul Salvatore, e la voce di Dio Padre risuona: «Ecco il mio Figlio diletto: ascoltatelo » (Mt. III, 13-17; Mc. I, 9-11; Lc. :III, 21-22). – Autore dei doni speciali, lo Spirito Santo è l’autore della vita soprannaturale nelle anime. Per lo Spirito Santo, con lo Spirito Santo, nello Spirito Santo che Egli manda, il Salvatore spinge i peccatori alla penitenza e alla fede. La penitenza e la fede, ecco il principio della vita del regno che è venuto a stabilire. Tutti i peccati verranno rimessi eccettuato uno solo, che non può essere rimesso in questo mondo e neppure nell’altro, il peccato contro lo Spirito Santo, cioè il rifiuto di cedere ai lumi, agl’inviti, alle ingiunzioni del divino Spirito nell’anima. Tutti coloro che accettano di cedere allo Spirito Santo si convertono, credono in Gesù, lo seguono. È per mezzo dello Spirito Santo che il Salvatore sceglie e forma gli Apostoli. Quando non sarà più visibilmente presente, lo Spirito Santo sarà in essi e manterrà l’unione tra il Maestro e i discepoli; finirà di illuminarli e mostrar loro i misteri; riceveranno lo Spirito Santo in tutta la pienezza, e per lo Spirito, con lo Spirito, andranno alla conquista spirituale del mondo. Per lo Spirito Santo rigenereranno le anime; rimetteranno i peccati; daranno alle anime la forza di lottare contro la potenza delle tenebre che è nel mondo, e contro tutte le forme di rispetto umano. L’epiclesi della cerimonia eucaristica, cioè l’invocazione allo Spirito Santo, sarà la grande preghiera con la quale si chiederà l’unione di tutti i fedeli, prima in un solo corpo eucaristico, e poi, mistico. Lo Spirito Santo formerà il cuore dei diaconi, e farà dei sacerdoti, altri cristi. Li sosterrà, li illuminerà, animerà la Chiesa fino alla fine dei tempi. Alle origini del Cristianesimo, sostiene i martiri, i confessori, le vergini, come ce ne rende testimonianza il fatto seguente, scelto tra mille. È il 13 dicembre dell’anno 303, a Siracusa, in Sicilia; Diocleziano è imperatore. Una vergine che conta appena qualche anno di più di sant’Agnese, è tradotta davanti al prefetto di Siracusa. Si chiama Lucia. Essa dichiara di aderire a Gesù, per lo Spirito Santo, con tutte le fibre del cuore. E il prefetto le rivolge questa domanda: « Credi dunque che lo Spirito Santo è in te e ti suggerisce le parole che dici? » – « Credo », risponde la vergine, « che quelli che vivono nella castità, sono tempio dello Spirito Santo ». La spada si abbatte sul capo della vittima innocente, testimone del Cristo e dello Spirito Santo. Così è della Chiesa: né l’odio, né la cattiveria, né l’incomprensione, né la stoltezza degli uomini, le impediranno di vivere, fino alla fine del mondo, per compiervi la sua opera di salvezza, perché essa è illuminata, sostenuta, animata dallo Spirito Santo.

2.

Esiste però un problema che ha già tormentato molti spiriti. Da un lato tutte le operazioni della Santissima Trinità, nel mondo, sono comuni alle tre Persone; e, dall’altro, secondo la Sacra Scrittura e la Tradizione dei Padri, a cui, per essere completi, è necessario aggiungere l’esperienza dei santi, le operazioni esteriori della Santissima Trinità sono attribuite allo Spirito Santo con tale insistenza da sembrare che tali operazioni siano unicamente opere dello Spirito Santo. Come conciliare quest’apparente contraddizione? La maggior parte dei teologi scolastici insegnano che se, nella Sacra Scrittura e nella Tradizione dei Padri, la santificazione delle anime è sempre attribuita allo Spirito Santo, è unicamente a motivo della relazione che esiste fra il carattere di tale operazione e il nome distintivo e personale di questa divina Persona. La santificazione delle anime, non è propria dello Spirito Santo, ciò che richiederebbe l’esclusione delle altre Persone; essa gli è solamente appropriata. Si tratta dunque di un’attribuzione fondata sopra una semplice appropriazione. Il P. Petau, l’illustre rinnovatore della teologia positiva, ha creduto poter sostenere un’opinione assai differente. « L’unione dello Spirito Santo con l’anima giusta, scrive nei suoi Dogmata theologica, procede dalla divinità comune alle tre Persone, ma in quanto questa divinità sussiste nell’ipostasi dello Spirito Santo. Così esiste una certa ragione secondo la quale la Persona dello Spirito Santo si applica alle anime dei giusti e che non conviene alle altre Persone nella medesima maniera (De Deo trino, 1. vir, cap. VI, 6). Qual è questa maniera che conviene specialmente allo Spirito Santo? « Le tre Persone, prosegue l’autore, abitano realmente nell’anima giusta. Ma solo lo Spirito Santo è come la forma santificante, quasi forma sanctificans, ed è Lui solo che, per mezzo della comunicazione di Se stesso, rende l’uomo giusto » (Ibid. 8). Che cosa vuol dire il P. Petau, quando scrive che solo lo Spirito Santo è come la forma santificante, ed è il solo ad unirsi sostanzialmente, secondo un’espressione tolta da san Gregorio Nazianzeno e a san Cirillo Alessandrino? Petau ha già spiegato il senso di questa formula. « Nessuno nega, egli scrive, che le tre Persone abitino nel giusto. Ora tutta la questione sta nel sapere il modo di abitazione. Non è necessariamente lo stesso in tutti i casi. Così il Padre e lo Spirito Santo non abitano meno del Verbo nell’Uomo-Cristo. Ma il modo di esistere è differente. Poiché, oltre il modo che gli è comune con le altre Persone, il Verbo ha un modo speciale, in virtù del quale è come una forma che rende Dio, quest’uomo… Parimente, nell’uomo giusto, abitano le tre Persone. Ma solo lo Spirito Santo è come la forma santificante ». Non bisognerebbe far dire al P. Petau, il cui testo è tanto preciso e luminoso, ciò che è ben lungi dal suo pensiero. Non dice che vi è parità fra il modo di unione del Figlio con la natura umana, nell’Incarnazione, e il modo di unione dello Spirito, Santo con l’anima giusta, nella santificazione. Insegna soltanto che l’unione dello Spirito Santo con l’anima giusta, è propria o speciale allo Spirito Santo, come, ma in tutt’altro modo, l’unione del Verbo con l’umanità è propria o speciale al Verbo. Così il P. Petau distingue fra l’abitazione nell’anima e il modo di quest’abitazione, tra l’inabitazione e l’unione. L’inabitazione appartiene egualmente alle tre Persone: l’unione è propria allo Spirito Santo. L’opinione di Petau è condivisa da parecchi altri teologi. Tutti questi autori pretendono che tale dottrina sia quella dei Padri greci. E tuttavia se si ha cura di esaminare più da vicino la patristica greca, sembra che essa esiga un’altra interpretazione. Così, come lo dice benissimo il P. Petau, l’inabitazione delle tre Persone nell’anima giusta appartiene egualmente a tutte e tre. Esse, secondo il loro linguaggio, vi abitano sostanzialmente, termine, diciamolo subito, che bisogna tradurre con l’espressione in sostanza, per evitare un’altra questione. I Padri greci sono unanimi su questo punto. Ma il modo d’inabitazione o l’unione è una proprietà dello Spirito Santo? Sembra che essi abbiano identificato l’inabitazione e il modo d’inabitazione o l’unione santificante. Quando i teologi scolastici contestano la distinzione del P. Petau, non già, è vero, in nome della critica testuale, ma in nome della ragione teologica, il che è più facile, ciò non è senza qualche fondamento. Da un altro lato, i Padri greci distinguono accuratamente tra l’inabitazione o l’unione santificante (che oppongono all’unione ipostatica, che è propria al Verbo Incarnato) e l’atto che ha per termine quest’abitazione. In altre parole, essi distinguono fra l’inabitazione passiva e l’inabitazione attiva. E insegnano che l’inabitazione attiva è più particolarmente opera dello Spirito Santo. Qui bisogna vedere soltanto una conseguenza della maniera dei Padri greci di rappresentarsi la vita trinitaria. Poiché lo Spirito Santo è il termine della vita divina, se questa vita agisce sulle creature, non può essere se non per mezzo dello Spirito Santo che procede dal Padre per il Figlio e che ritorna al Padre per il Figlio. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo agiscono egualmente. Ma il Padre ed il Figlio agiscono per lo Spirito Santo, con lo Spirito Santo, nello Spirito Santo. Così l’inabitazione attiva è più particolarmente opera dello Spirito Santo, perché tale è, in certo modo, l’ordine o la legge fondamentale della vita trinitaria di non agire ad extra che per mezzo dello Spirito Santo. Il Padre e il Figlio agiscono per lo Spirito Santo, con lo Spirito Santo, nello Spirito Santo. Ad extra, tutto si fa per lo Spirito, con lo Spirito, nello Spirito, senza che vi sia in nessun modo esclusività del Padre e del Figlio. Senza dubbio sarebbe preferibile rinunziare a questa espressione scolastica di azione propria, che richiede sempre un intervento, ad esclusione degli altri interventi, per adottare un’espressione alla quale l’uso accordi un significato più largo e meno tecnico. Ne segue che la trasformazione dell’anima, che consiste nell’infusione di una vita nuova e nella sparizione del peccato, sarà più particolarmente opera dello Spirito Santo. Ma è permesso allargare il soggetto, quanto può esserlo, e dire che tutte le operazioni ad extra della Santissima Trinità, che si tratti della creazione del mondo materiale, della creazione della vita, della comunicazione di doni speciali, oppure dell’Incarnazione del Verbo, di tutte le opere ad extra della Santissima Trinità, sia nell’ordine della natura che in quello della grazia, sono più particolarmente opere dello Spirito Santo. Niente si oppone a ciò che la soluzione che ne abbiamo data, e che s’ispira alla rivelazione che ci è stata fatta della vita trinitaria, non serva a spiegare le operazioni che, nella Sacra Scrittura e secondo la Tradizione dei Padri, sono attribuite unicamente, almeno sembra, al Padre, al Figlio o allo Spirito Santo. – Allo Spirito Santo appartengono più particolarmente tutte le operazioni ad extra della Santissima Trinità. L’espressione è stata compresa e giudicata. Ma inoltre, secondo la Sacra Scrittura e la Tradizione dei Padri, nella Trinità Santa, al Padre, sembra appartenere unicamente la potenza; al Figlio, unicamente il pensiero; allo Spirito Santo, unicamente la carità, l’amore. Si tratta forse di un’attribuzione che dipende unicamente dalla relazione che esiste tra il carattere di una data azione e il nome distintivo o personale di una Persona divina determinata? Oppure di un’attribuzione fondata sopra una semplice appropriazione, come lo insegnano la maggior parte dei teologi scolastici? Vi è di più? – Allo Spirito Santo; secondo la Sacra Scrittura e la Tradizione dei Padri, appartiene la carità, l’amore. Questa attribuzione dipende esclusivamente dalla relazione che esiste fra il carattere dell’amore, che è come un soffio, e il nome distintivo della Persona dello Spirito Santo, che è come un soffio? Vi è di più? – Termine e pieno sviluppo della vita divina, perfezione della vita trinitaria, lo Spirito Santo non può essere che la carità, l’amore, come la carità dovrà essere il termine, lo sviluppo sempre più completo la perfezione ognor più compiuta della nostra vita soprannaturale. Perciò san Giovanni, servendosi per nominare Dio, della perfezione che ne è il compimento, il termine, ha potuto dire: Dio è Amore (1 Giov. IV, 16). – Allo Spirito Santo appartiene dunque più particolarmente l’amore. Tale attribuzione è fondata sull’ordine intimo, sull’economia della vita trinitaria, quale la Rivelazione ce la fa conoscete, sul posto dello Spirito Santo nella vita trinitaria, quindi sulla missione più particolare che Esso vi compie. Al Padre, secondo la Sacra Scrittura e la Tradizione dei Padri, appartiene la potenza. Qui dobbiamo fare la stessa domanda. Questa attribuzione dipende unicamente dalla relazione che esiste tra la potenza e il nome distintivo della persona del Padre? La vita trinitaria ci è stata rivelata con un movimento vitale, ineffabile, infinito che parte continuamente dal Padre e termina allo Spirito Santo, passando dal Figlio, e torna continuamente verso il Padre passando dal Figlio. Il Padre è come la sorgente della vita trinitaria, come il punto di partenza che le conferisce il suo slancio, la sua potenza. Perciò al Padre si attribuisce più particolarmente la potenza. – Al Figlio, secondo la Sacra Scrittura e la Tradizione dei Padri, appartiene il pensiero. Quest’attribuzione dipende forse unicamente dalla relazione che esiste tra il pensiero e il nome distintivo della Persona del Figlio? – Il Verbo è Colui per il quale il Padre va allo Spirito Santo, come è Colui per il quale lo Spirito Santo va al Padre. Egli è il centro della vita trinitaria. Ne è il pensiero, la Sapienza, il Logos, la parola, il Verbo di Dio; ne è come il piano vitale che ha servito alla ricostruzione dell’umanità decaduta. Come in principio servì alla creazione della prima umanità, perciò al Figlio appartiene più particolarmente il pensiero. – Non ci resta che chiedere perdono alla Santissima Trinità per aver cercato di penetrarne i misteri e rivolgerle questa preghiera d’invocazione, nella quale metteremo tutta la nostra adorazione, la nostra riconoscenza e il nostro amore:

Eterno Padre, siate la perfezione dell’anima mia:

Figlio di Dio, siatene la luce;

Spirito Santo, che l’anima mia sia mossa unicamente da Voi!

TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO (4)

TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO (2)

L. LEBAUCHE

TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO (2)

TITOLO ORIGINALE: TRAITÉ DU SAINT – ESPRIT Edit. Bloud-Gay.- Paris 1950

V. Per la Curia Generalizia Roma, 11 – 2 – 1952 Sac. G. ALBERIONE

Nulla osta alla stampa Alba, 20 – 2 – 1952 Sac. S. Trosso, Sup.

lmprimatur Alba, 28 – 2 – 1952 Mons. Gianolio, Vic. GEN.

CAPO PRIMO

SIMBOLI DELLO SPIRITO SANTO

Dio si è rivelato agli uomini mediante il pensiero umano che Egli ha illuminato, di cui ha diretto le espressioni verbali, le parole, come cantiamo nel nostro Simbolo: Qui locutus est per prophetas. Egli ha pure assistito gli autori ispirati che scrivevano la parola rivelata. È in questo modo che ci sono venuti i Libri Santi. La Tradizione, diretta da Dio, ci ha trasmesso la parola non scritta nei Libri Santi, alla quale si riferiscono spesso i Padri della Chiesa. Ma soprattutto ci ha trasmesso il pensiero rivelato e scritto nei Sacri Libri. Nel medesimo tempo ha approfondito questo pensiero in modo da penetrarne sempre più gli aspetti. La Chiesa, assistita da Dio, ha diretto questo duplice lavoro di trasmissione e di approfondimento. Il lavoro di trasmissione o di tradizione può considerarsi terminato con san Gregorio Magno, morto nel 604. Ma quello di approfondimento o di penetrazione, continua. La Chiesa assistita da Dio, nei Concili o per mezzo del Papa infallibile, ha definito i termini di questo lavoro di trasmissione e di approfondimento, o di solo approfondimento. È così che Dio dapprima si è fatto conoscere. Ma san Tommaso ci avverte che il linguaggio umano, sia pure pieno dell’assistenza di Dio, resta sempre umano, quindi relativo alle categorie del pensiero umano, enunciativo del mistero di Dio senza dubbio, ma in forma umana o, come si suol dire, in modo analogico. E ci dà questo avvertimento a proposito del più grande dei misteri, enunciato in linguaggio umano, il mistero di un solo Dio in tre persone (Summa theol. 1, q. 30, a. 3.). – Dio si è egualmente fatto conoscere per mezzo del sentimento umano, cioè mediante le intuizioni del cuore. E questa maniera di farsi conoscere, essendo più diretta, meno elaborata, meno umanizzata, ha maggiori probabilità di essere esatta. È ancora san Tommaso che ce ne avverte quando dice di avere appreso i misteri di Dio più nelle meditazioni davanti al crocifisso, che mediante la lettura di tutti gli scritti sacri o profani. Dio si è pure rivelato per mezzo dei fatti. Siamo a Cafarnao. Viene presentato a Gesù un paralitico. Di fronte alla fede di quest’uomo e di coloro che glielo hanno portato, Gesù gli dice: « Ti sono rimessi i tuoi peccati ». I Farisei presenti, Dottori della legge, Scribi, si scandalizzano. E che dicono, additando Gesù, ecco che Egli si attribuisce un  potere tutto divino, quello di rimettere i peccati — infatti, i peccati che sono offese di Dio, non possono essere rimessi se non da Dio solo — ecco che si fa eguale a Dio e si dice Dio. Egli bestemmia! E Gesù risponde: affinché sappiate che il Figlio dell’uomo ha veramente il potere di rimettere i peccati: « Alzati e cammina », dice al paralitico che si alza tosto e cammina. Qui Dio parla per mezzo di un fatto sull’importanza del quale nessuno può ingannarsi. Egli firma, accredita con un fatto, la dichiarazione del Salvatore e l’interpretazione che i Farisei ne dànno: Gesù è proprio eguale a Dio, è Dio. – Ma Dio parla ancora per mezzo degli elementi che sono nel mondo. Si serve pet questo dei più potenti: il vento, l’acqua, il fuoco. Con tali elementi, da Lui animati, Egli significa o simboleggia la Sua presenza, le diverse forme della Sua azione. Ed è specialmente lo Spirito Santo, la Sua presenza e i suoi molteplici interventi, che ha significato o simboleggiato servendosi degli elementi. Forse con questo modo di rivelarsi si fa conoscere meno. Il più delle volte non abbiamo delle nostre potenze fisiche e intellettuali, che una coscienza confusa. Un’osservazione più attenta di noi stessi ce le fa conoscere. Avviene lo stesso dello Spirito Santo. Ci muoviamo in Lui nell’ordine della natura e in quello della grazia. Troppo spesso non abbiamo di Lui che un sentimento vago. Si è anche potuto chiamarlo il « Divino Sconosciuto ». Ma lo sguardo penetrante della fede viva non s’inganna. E, per essa, il linguaggio degli elementi è più espressivo e rivelatore dell’umano linguaggio. Lo Spirito Santo è il Dio che la vivifica, il Dio che essa adora e glorifica con le sue dossologie, Colui per mezzo del quale va continuamente al Figlio, Verbo di Dio fatto uomo e, per il Figlio, al Padre.

1.

La parola Spirito, Spiritus, significa soffio, vento. Serve a designare la terza Persona della Santissima Trinità, perché questa divina Persona ci è stata rivelata ed è come un soffio, talvolta potente e maestoso, che scuote e rinnova la faccia della terra; tal’altra lieve e dolce che increspa la superficie delle riviere e dei laghi, fa ondulare le messi quasi mature, agita delicatamente le foglie dei grandi alberi, accarezza i fiori, rinfresca la nostra fronte: e, ancor più, perché la terza Persona dell’Augusta Trinità ci è stata rivelata ed è come quel soffio inspirato continuamente nei nostri polmoni per ossigenarvi il sangue, ed anche di continuo espirato per espellere dal sangue l’acido carbonico, duplice soffio d’inspirazione e di espirazione che chiamiamo respirazione, talmente necessaria alla nostra vita che la continuazione di essa mantiene e significa la vita e la sua cessazione, provoca e significa la morte. – Così lo Spirito Santo ci è stato rivelato ed è soprattutto come il soffio di Dio che producendo la respirazione in tutto ciò che vive, ne assicura la vita, e sospendendola, ne cagiona lo sfacelo e ben presto la morte. – Ma qui il simbolismo della respirazione si trasforma e si eleva. Lo Spirito Santo è come un duplice soffio che ci dà Dio e, dopo averci rinnovati, mediante la comunicazione della grazia e la purificazione dell’anima nostra, ci dà a Dio. Dio è Vita, Luce e Amore. Lo Spirito Santo è come un soffio che ci vivifica, c’illumina, c’infiamma e fatto questo, ci dà a Dio, Vita, Luce e Amore. Lo Spirito Santo ci prende e, dopo averci rinnovati, ci trascina nel movimento della vita divina. Dio formò l’uomo dal fango della terra e gl’ispirò in faccia il soffio della vita, leggiamo all’inizio del Genesi, e l’uomo divenne persona vivente (Gen. II, 7. È lo spirito che ci anima. Di qui queste due parole, spirito e anima per designare il principio misterioso, che è in noi capace di conoscete, stimare, pesare o pensare, capace anche di volere liberamente, e, come tale, spirituale e immortale, e che costituisce la nostra trascendenza. Unito sostanzialmente al nostro corpo, fa di noi ciò che siamo.). Diventò un essere vivente della vita naturale ed anche, nel medesimo tempo, della vita soprannaturale, come per mezzo della fede affermiamo. – Per essere il più possibile esatti, diciamo che, in questo soffio di Dio che ci anima, si può distinguere come un soffio creato, uno spirito creato, che chiamiamo il nostro spirito o l’anima nostra; poi un soffio creato consistente nel duplice movimento continuo d’inspirazione e di espirazione, che si chiama respirazione ed è necessario alla nostra vita terrena; quindi, immanente, ma distinto, sia nel soffio creato che è l’anima nostra, come nel soffio creato che è la nostra respirazione, un soffio increato che anima l’anima nostra e la nostra respirazione ed è come il soffio di Dio, la terza Persona della Santissima Trinità, lo Spirito Santo. – E, per essere questa volta, non soltanto esatti, ma completi, diciamo che vi è come il soffio di Dio nell’ordine naturale, che ha per termine la nostra vita semplicemente umana, e come il soffio di Dio nell’ordine soprannaturale che ha per termine la nostra vita in Dio mediante la fede e la carità. – Questo soffio di Dio, la Chiesa non cessa d’invitarlo, in un ordine o nell’altro, con questa preghiera che pone sulle labbra di coloro che lavorano — soprattutto di quelli che si dànno con slancio agli esercizi della vita spirituale e allo studio delle verità religiose — e che si affaticano, e vogliono santificare il proprio lavoro e la loro fatica: «Vieni, o Santo Spirito, riempi i cuori dei Tuoi fedeli, e accendi in essi il fuoco del Tuo amore ». « Manda il Tuo Spirito per mezzo del quale non cessi di conservare e di creare tutte le cose: e mediante il quale rinnoverai la faccia della terra ». – «Ti preghiamo, o Signore, che hai ammaestrato i cuori dei fedeli mediante il lume dello Spirito Santo; donaci in questo divino Spirito e per questo divino Spirito, di amare ciò che è vero e trovar sempre la nostra più grande gioia nelle sue consolazioni ». – Il simbolo del soffio, del vento, dello spirito, col quale abbiamo cercato di farci qualche idea della terza Persona dell’Augusta Trinità, ci ha messi di fronte ad una realtà assai complessa e misteriosa, sulla quale tuttavia è riuscito a proiettare un po’ di luce. Soprattutto questa. Lo Spirito Santo è il vincolo vivente che ci unisce a Dio, ci fa vivere in Dio nell’ordine della natura, come in quello della grazia. È come una respirazione misteriosa che ci dà Dio e, dopo averci rinnovati, ci dà a Dio. Con questa divina respirazione, è la vita: senza di essa, è la morte. Torna al pensiero, ma applicandola più particolarmente allo Spirito Santo, secondo, del resto, il suo significato profondo, la celebre parola dell’Apostolo san Paolo, il Dottore della teologia dello Spirito Santo: In ipso enim vivimus, et movemur, et sumus. Così egli insegnava all’Areopago, come già avevano detto alcuni filosofi greci (Atti XVII, 28). –

2.

Lo Spirito Santo è ancora simboleggiato o significato dall’acqua. È come un fiume d’acqua viva, scrive il veggente dell’Apocalisse: « E ostendit mihi fluvium aquæ vivæ, procedentem de sede Dei et Agni. Emi mostrò un fiume d’acqua viva, che scaturivano dal Trono di Dio e dell’Agnello » (Apoc. XXII; 1). Questo fiumed’acqua viva che procede dal Trono di Dio.cioè da Dio Padre, per l’Agnello, cioè il Verbo incarnato, simboleggia lo Spirito Santo, spiega Sant’Agostino (De Gen. contr. Manich. n. 37). E nel Salmo 45, 5, scrive lo stesso sant’Agostino (In Ps. 45, n. 5), si tratta pure dello Spirito Santo quando il Salmista esclama: « Fluminis impetus lætificat civitatem Dei: sanctificavit tabernaculum suum Altissimus.Il corso di un fiume rallegra la città di Dio,l’Altissimo ha santificato il Suo tabernacolo ».Secondo il Salmista, lo Spirito Santo è anche un fiume immenso che irriga, feconda e rallegra la città celeste, il santuario ove abita l’Altissimo.Se uniamo i due simboli dell’Apocalisse e del Salmista formandone uno solo, otteniamo un simbolo di potentissimo effetto. Lo Spirito Santo è come un fiume che dal Padre si frange nel Figlio, edal Figlio rimbalza verso il Padre trascinando seco la moltitudine delle anime beate, prima verso il Figlio, Verbo di Dio fatto uomo, in un movimento di contemplazione, cioè d’intuizione e d’amore, e, per il Figlio, verso il Padre. Eccoci elevati in piena vita trinitaria. La teologia dei Padri greci c’insegnerà infatti, che la vita trinitaria consiste in un movimento immenso e ineffabile, senza principio, senza soste, senza fine, che parte dal Padre e termina allo Spirito, passando per il Figlio, e si rivolge verso il Figlio, e dal Figlio, verso il Padre. Ne segue che, per lo Spirito Santo e nello Spirito Santo, tutte le anime degli eletti vivono in Dio nella più stretta unione. Esse vivono tra loro della vita più intensa e più intima che mai possa esistere. Nessuna parola umana diretta, può dire queste cose. Solo quel meraviglioso simbolo del fiume che si frange e del fiume che rimbalza, analogo al simbolo del duplice soffio respiratorio che ci dà Dio e ci dà a Dio, può lasciarle intravedere. È il cielo. Noi siamo sulla terra. Ora, in questo mondo, è mediante le proprietà dell’acqua, che lo Spirito Santo simboleggia o significale differenti forme della Sua attività nelle anime.« Rorate celi desuper, et nubes pluant Justum, aperiatur terra, et germinet Salvatorem.Cieli, spandete dall’alto la vostra rugiada e le nubi facciano piovere il Giusto.Si apra la terra e germini il Salvatore ».È questa la preghiera ardente che la liturgia prende dal libro di Isaia (Is. XLV, 8) e ne fa il motivo principale della sua supplica durante il tempo dell’avvento. Questa rugiada benefica, queste nubi abbondanti, che nel periodo di siccità s’invocano con desiderio così grande soprattutto nei paesi di Oriente, quasi nubes pluviæ in tempore. siccitatis (Eccli. XXXV, 26), sono ordinariamente, nei Libri Santi, simbolo dello Spirito Santo. Qui si domanda che la rugiada e le nubi si riversino sulla terra per provocarvi la fecondità e la germinazione. Simbolismo molto espressivo per significare l’attività dello Spirito Santo nel compimento del mistero dell’Incarnazione del Verbo. Infatti, è per opera dello Spirito Santo che il Figlio eterno del Padre si è fatto uomo. È per suo mezzo che si è operata la soprannaturale germinazione nel seno della Vergine Maria: Et incarnatus est de Spiritu Sancto, ex Maria Virgine: et homo factus est. È ancora mediante le proprietà dell’acqua che lo Spirito Santo simboleggia e significa la Sua attività nell’opera della nostra santificazione. «Se qualcuno ha sete, venga a me e beva, » ha detto il Salvatore. « Dal seno di chi crede in me scaturiranno fiumi di acqua viva. Egli diceva questo, » scrive san Giovanni, « dello Spirito che dovevano ricevere e già ricevevano quelli che credono in Lui » (Giov. VII, 37-38). Ora quest’acqua mistica abbondante e rapida come le acque dei fiumi, che simboleggia e significa lo Spirito Santo, purifica il cuore mediante la penitenza, unisce l’intelligenza e la volontà a Dio per mezzo della fede, slancia l’anima verso Dio, Sommo Bene, mediante la speranza, ci unisce strettamente a Dio con la carità, stabilisce in noi un equilibrio moderatore con le virtù di prudenza, giustizia, fortezza, temperanza e con tutte quelle che da esse derivano. – Verrà istituito un sacramento che per mezzo dell’abluzione dell’acqua conferirà lo Spirito Santo, con tutte le grazie da esso simboleggiate o significate, e che tutti gli uomini dovranno ricevere per entrare nel regno dei Cieli. « Nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto, non potest introire in regnum cælorum.Chi non rinascerà per acqua e Spirito Santo, non può entrare nel regno dei Cieli» (Giov. III, 5). Questo sacramento è il Battesimo. Così l’acqua diventa il simbolo, il segno, il sacramento, nel quale e per mezzo del quale lo Spirito Santo si comunica o vuol comunicarsi a tutti gli uomini, per rigenerarsi, purificarli, comunicar loro la Sua grazia, farne dei fratelli del Verbo di Dio fatto uomo, dei figli di Dio Padre. « Euntes ergo docete omnes gentes, baptizantes eos în nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Andate dunque ed ammaestrate tutte le genti battezzandole nel nome del Padre e de Figlio e dello Spirito Santo » (Mt. XXVIII, 19). – Lo Spirito Santo ci è stato rivelato. come un soffio, un soffio inspiratore per mezzo del quale Egli ci dà Dio, per rinnovare l’anima nostra, e un soffio espiratore per mezzo del quale, una volta rinnovata l’anima nostra, ci diamo a Dio. Così, per lo Spirito Santo che è come la nostra divina respirazione, viviamo per mezzo di Dio, viviamo in Dio.

3.

Lo Spirito Santo ci è stato pure rivelato come un fiume che viene dal Padre per il Figlio, Verbo di Dio fatto uomo, e che trascina verso il Padre, per il Figlio. Quando si tratta degli eletti che sono in cielo, lo Spirito Santo viene e trascina, come in un flusso e riflusso continuo e armonioso. Nessun irrigidimento da parte delle anime beate: invece, una infinita docilità, il più perfetto slancio. Lo Spirito Santo dà all’anima il Verbo di Dio, Vita e Luce, e dà l’anima al Verbo di Dio, Vita e Luce. È la contemplazione al grado più elevato. Nello stesso modo, lo Spirito Santo viene in noi per darci il Verbo di Dio e trascinarci verso di Lui. Ma quale peso da sollevare, quante difficoltà da sormontare, quanti peccati da vincere! Talvolta lo Spirito Santo si adopera a ciò durante tutta la nostra vita, fino al termine di essa; non cede, non si ritira che di fronte alla nostra ultima cattiva volontà. – Così lo Spirito Santo è, per noi che viviamo sulla terra, lo Spirito purificatore. La purificazione si fa mediante la penitenza. Ed è unita all’illuminazione per mezzo della fede. E tale illuminazione è tanto più viva quanto la purificazione è più completa e profonda. La fede opera per mezzo della carità. La carità sarà tanto più perfetta quanto più la fede sarà viva. Il fuoco è ciò che purifica meglio. È una fiamma che illumina ed incendia. Esso significa mirabilmente le proprietà dello Spirito Santo. Quindi non reca stupore che lo Spirito Santo ci sia stato rivelato sotto il simbolo del fuoco. «Ignem veni mittere în terram et quid volo nisi ut accendatur? Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e che posso desiderare se non che si accenda ?»(Lc. XII, 49). Il Salvatore diceva questo dello Spirito Santo che era venuto a portare sulla terra: lo Spirito Santo sarà come un fuoco che purificherà le coscienze,una luce che illuminerà le menti, una fiamma che incendierà i cuori, suscitando in essi l’ardore della carità, lo zelo, la dedizione, il sacrificio.Fate penitenza dei vostri peccati. È il primo e principale messaggio del Salvatore, come fu il messaggio di Giovanni Battista e quello di tutti i profeti. Entrando nel mondo Gesù aveva voluto che la Sua vita fosse presentata, nel suo insieme, quale omaggio di adorazione a Dio Suo Padre (Ebr. X, 5), in opposizione al rifiuto di adorazione che trovasi infondo ad ogni peccato degli uomini.Fin dall’inizio del Suo ministero pubblico, dichiara implacabile lotta al peccato. Lo insegue in tutti i partiti, Farisei, Sadducei, Pubblicani, non appartenendo per questo ad alcun partito; in tutti gli ambienti, giudeo, greco o gentile, in tutte le classi,tra i ricchi, come fra i poveri. Là ove trova il pentimento perdona e, in segno di perdono, opera miracoli. In cielo, Egli dichiara, si fa più festa per un peccatore pentito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di perdono. Al Getsemani, la sofferenza che lo opprimerà, che lo getterà nell’angoscia fino a provocare un sudore di sangue, sarà cagionata dalla vista chiarissima dell’ingratitudine del peccato degli uomini. È questa l’azione esteriore del Salvatore; la esercita già per lo Spirito. Santo. Essa è unita ad un’azione interiore intensa che,per lo Spirito Santo, il Salvatore opera nelle menti e nei cuori. Egli si applica a far comprendere e sentire a ciascuno tutto ciò che il peccato ha di odioso. Esso è ad un tempo un’offesa fatta a Dio, sovrano Signore, una disobbedienza alle Sue leggi,un’ingiustizia, un disordine, un errore, un’ingratitudine.L’uomo è stato creato per adorare Dio, amarlo e servirlo. Col peccato, ricusa di servire amare e adorare il suo Dio. Va contro il proprio destino; perde la sua ragione d’essere, si mette in opposizione col bene, col proprio bene. Sono le vedute, i sentimenti, i rimproveri, i rimorsi che, per mezzo dello Spirito Santo che Egli manda, il Salvatore non cessa di mantenere nelle coscienze. Una purificazione s’impone e deve tradursi in un raddrizzamento delle volontà e in un cambiamento di vita. In verità lo Spirito Santo è come un fuoco Purificatore acceso sulla terra dal Salvatore il quale vuole che arda. Fate penitenza, Egli dice, e credete. La purificazione delle coscienze si accompagnava all’illuminazione degli spiriti mediante la fede. Lo Spirito Santo che è come un fuoco che purifica, è nel medesimo tempo una luce che illumina. Dovete credere di avere un medesimo Padre che è nei cieli e di essere tutti fratelli senza distinzione di razze, di nazioni, di caste, di famiglie. Se tra voi scoppiano dei conflitti, cosa inevitabile, fate che si risolvano sotto il segno della fraternità umana che vi unisce. – Credete che la vita presente deve terminare in una vita che non finisce, la vita eterna, quindi deve esserne la preparazione, l’iniziazione, il principio. Credete molto di più. Il Verbo di Dio, Vita e Luce, si è fatto uomo. Ha comunicato all’umanità che ha assunto, la pienezza della Sua vita e della Sua luce, affinché, da questa umanità, mediante la fede e la comunione eucaristica, riceviamo della pienezza di questa vita e di questa luce. È per mezzo dello Spirito che il Verbo di Dio ci manda, che noi riceviamo, della pienezza di questa vita e di questa luce. Così lo Spirito Santo è la luce che brilla nello spirito e nel cuore di ciascun uomo. È un fuoco che brucia e una luce che illumina. Tutti uniti per la fede e l’Eucarestia, nel Verbo di Dio fatto uomo, tutti fratelli in Lui, ed in Lui figli del medesimo Padre che è nei cieli, un vincolo che deve unirci. Di questo vincolo, lo Spirito Santo è l’ispiratore, l’autore, l’anima. La volontà del divino Spirito è che tale vincolo diventi sempre più vivente, sempre più intimo e si manifesti mediante la dedizione e i sacrifici di ogni genere, e sia come una fiamma che incendia tutti i cuori. Così lo Spirito Santo, fuoco che purifica, luce che illumina, è anche una fiamma che incendia. Il fuoco è il simbolo che meglio significa lo Spirito Santo, la Sua, presenza e la Sua azione. – Quando il Salvatore ebbe compiuto sulla terra l’opera della nostra Redenzione, era necessario ricordare agli Apostoli i minimi particolari della vita di cui erano stati testimoni, fissarli nell’anima loro. Bisognava rammentare loro gl’insegnamenti ricevuti che non avevano quasi compresi e non avevano potuto comprendere, come Gesù stesso aveva detto. Erano imbevuti dei pregiudizi del loro tempo, ancora preoccupati dei loro meschini interessi e di quelli materiali di questo mondo. Restava da compiere in essi un lavoro di purificazione, d’illuminazione e di carità disinteressata. Sarà questa l’opera dello Spirito Santo. – Dieci giorni sono trascorsi dall’Ascensione del Salvatore. Gli Apostoli sono radunati nel Cenacolo, divenuto il luogo abituale della loro riunione. La mattina del decimo giorno, pregano con maggiore ardore del solito. La Santissima Vergine è in mezzo a loro. Si ode un rumore come di vento impetuoso che scuote la casa dove si trovano e quelle dei dintorni. Sul loro capo splendente di vivissima e purissima luce appaiono delle lingue di fuoco. Sotto il simbolo del fuoco, è lo Spirito Santo che viene in essi per purificarli, illuminarli, infiammare il loro cuore di carità ardente che si affermerà fino alla testimonianza del sangue. Con lo Spirito Santo, nello Spirito Santo, il Maestro adorato ed amato, il Verbo incarnato, asceso alla gloria, tornava tra loro, per partire con essi alla conquista del mondo. Sarà in mezzo a loro, con loro tutti i giorni, fino alla fine dei secoli, confermando con segni e miracoli la verità della dottrina che insegnano. Il fuoco, simbolo dello Spirito Santo, per opera del quale si compiono tutte queste cose, brilla ovunque, purifica, infiamma.

4.

Come si legge nel Genesi, alle origini dell’umanità sopravvenne un cataclisma per purificare gli uomini già tarati di ogni vizio. Quando tutto fu terminato, apparve nel cielo una colomba, la cui bianchezza è simbolo dell’innocenza, il cui canto lo è della dolcezza. Essa recava un ramo d’ulivo, emblema della pace. Da quel momento la colomba che porta il ramoscello d’ulivo è stata sempre considerata; in tutte le letterature religiose e profane, quale simbolo della pace. La colomba simboleggia lo Spirito Santo. Nei tempi antichi, sotto il segno della colomba recante il ramo di ulivo, lo Spirito Santo annunziava e portava al mondo la pace di Dio. «Io non maledirò più la terra a causa degli uomini, dice Dio, perché i sensi e i pensieri del cuore umano sono inclinati al male fin dall’adolescenza; quindi non colpirò più ogni vivente come ho fatto. Finché durerà la terra, sementi e messe, freddo e caldo, estate e inverno, notte e giorno non cesseranno mai » (Gen. VIII, 21-22). Sulle rive del Giordano, mentre Giovanni Battista battezzava il Salvatore, leggiamo nei tre Sinottici, una voce si fece udire: « Questo è il mio Figlio diletto: ascoltatelo » (Mt. III; 11-17; Mc. 1. 6-11; Lc. III; 15-22). Era la proclamazione dell’unzione messianica di cui Cristo era stato oggetto fin dal suo ingresso in questo mondo. Lo Spirito Santo, sotto il simbolo di una colomba, riposava sopra Gesù, per significare la missione della quale era rivestito e che Egli doveva continuare, attraverso il mondo, fino alla fine dei tempi: una missione di pace nell’ordine, nella verità, nella giustizia, nella carità, nel lavoro rimuneratore e benefico per tutti, sotto tutte le forme, per il bene degl’individui, delle famiglie, delle nazioni, dell’umanità. Spirito Santo che procedi dal Padre per il Figlio, vieni in noi!

TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO (1)

L. LEBAUCHE

TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO (1)

TITOLO ORIGINALE: TRAITÉ DU SAINT – ESPRIT Edit. Bloud-Gay.- Paris 1950

V. Per la Curia Generalizia Roma, 11 – 2 – 1952 Sac. G. ALBERIONE

Nulla osta alla stampa Alba, 20 – 2 – 1952 Sac. S. Trosso, Sup.

lmprimatur Alba, 28 – 2 – 1952 Mons. Gianolio, Vic. GEN.

——–

PREFAZIONE

La teologia dello Spirito Santo viene generalmente insegnata nel Trattato della Santissima Trinità, in quello del Verbo Incarnato o nei trattati di teologia ascetica e mistica. Ciò spiega perché essa non ha ricevuto tutto il suo sviluppo, tutta l’ampiezza che merita. Cercheremo di colmare tale lacuna pubblicando il presente « Trattato dello Spirito Santo ». –  Adottiamo un titolo che fu caro a san Basilio, quello dei tre Padri Cappadoci che ha più e meglio esposto e difeso la dottrina dello Spirito Santo. Tutto il nostro desiderio è di continuare la tradizione di questo padre per il quale abbiamo sempre avuto speciale affezione, in modo da condurre le menti a meglio comprendere lo Spirito Santo, lo Spirito che il Maestro si compiaceva chiamare il Suo Spirito, che Egli mandò In tutta la pienezza agli Apostoli per attrarli maggiormente a Sé, per mezzo del quale si rivelava, si faceva loro conoscere, li fortificava, li consolava, li animava; per Il quale, col quale, nel quale durante î tre anni della Sua vita pubblica ha fatto ogni cosa; per il quale, col quale, nel quale continua a fare tutto nel mondo; per il quale, col quale, nel quale dal seno della Sua gloria, vive in noi per farci vivere in Lui, in modo sempre più perfetto ed intenso, In attesa dell’ora gloriosa della nostra unione con Lui, per lo Spirito Santo, con lo Spirito Santo, nello Spirito Santo, ora che ci permetterà di vedere lo Spirito Santo in tutta la pienezza della Sua attività, della Sua grandezza, di tutta la Sua beltà, lo Spirito Santo, terza Persona della Santissima Trinità, consustanziale al Padre e al Figlio, lo Spirito Santo, nostro Dio.

Ecco l’ordine che seguiremo in questo « Trattato dello Spirito Santo ».

Dopo un Prologo nel quale il dogma dello Spirito Santo è esposto in uno sguardo d’insieme, vengono gli undici articoli seguenti:

I. I simboli dello Spirito Santo.

II. L’attività dello Spirito Santo nel mondo.

III. Le caratteristiche dell’attività dello Spirito Santo.

IV. La Pentecoste.

V. Come il Verbo di Dio fatto uomo ci ha rivelato il Padre, così ci ha rivelato lo Spirito Santo.

VI. La dottrina dello Spirito Santo secondo le Lettere di san Paolo.

VII. Lo Spirito Santo è Dio, consustanziale al Padre ed al Figlio.

VIII. Lo Spirito Santo procede dal Padre per il Figlio.

IX. L’abitazione dello Spirito Santo nelle anime giuste.

X. Le missioni dello Spirito Santo.

XI. I doni dello Spirito Santo.

La Conclusione è un invito ad abbandonarci al Padre per mezzo del Figlio con lo Spirito Santo, nello Spirito Santo, per lo Spirito Santo.

Che lo Spirito Santo di Nostro Signor Gesù Cristo c’illumini e ci guidi affinché in questo Trattato, non scriviamo neppure una parola che non contribuisca a farlo meglio conoscere, amare e servire!

PROLOGO

In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli è Dio da Dio, luce di luce, Figlio eterno del Padre, Suo unico Figlio, consustanziale al Padre. Dal Padre e dal Figlio, procede lo Spirito Santo, consustanziale al Padre ed al Figlio Dio come il Padre ed il Figlio. – Tutte le cose sono state fatte per mezzo del Verbo, più esplicitamente per mezzo dello Spirito che procede dal Padre e dal Verbo, a tal punto che nulla assolutamente nulla delle cose create, è stato fatta senza lo Spirito che procede dal Padre e dal Verbo. In Lui, come nel Verbo, era la vita, e la vita era la luce degli uomini. Fin dall’origine, il Verbo del Padre, pet mezzo dello Spirito ha creato l’uomo. Lo ha fatto ad immagine di Dio, santo per eccellenza, comunicandogli parte della pienezza della Sua vita e della Sua luce. Ma lo creò libero di scegliere per o contro Dio. E l’uomo non tardò ad optare contro il suo Dio ricusandogli obbedienza ed amore. – Così l’uomo introdusse il peccato nel mondo. Il peccato era la ribellione contro Dio. Era ad un tempo ricusare la vita di Dio e rifiutare la luce. Secondo il linguaggio dei Libri Santi, il peccato era una schiavitù, cioè il servaggio del nostro spirito, del nostro cuore e dei nostri sensi a una potenza di peccato. Era immergerci nelle tenebre dell’errore e del vizio. Il peccato era la morte alla vita di Dio in noi. – Tuttavia, il Verbo del Padre continuò a vivificare e illuminare gli uomini per mezzo del Suo Spirito. Non permise al peccato di soffocare la vita, né alle tenebre d’invadere la luce. Ma a quanti ricevettero la Sua vita e la Sua luce, diede il potere di diventare figli di Dio. Poi scelse nel mondo un popolo che sarà il Suo popolo, e, in esso, dei re e dei profeti, dei re che lo governeranno con saggezza e fermezza, dei profeti che saranno le sue guide intellettuali e religiose, insegneranno il regno di Dio nel mondo, e annunzieranno progressivamente il Suo disegno di riscattare l’umanità dalla schiavitù del peccato. In questo popolo eletto, dalla famiglia di David, il più grande dei re d’Israele, da un padre e da una madre, poveri secondo il mondo, ma infinitamente ricchi di doni divini e dei quali la storia ha conservato i nomi, Gioachino ed Anna, sotto la direzione dello Spirito Santo, nacque la Santissima Vergine Maria, la più bella, la più pura, la più santa di tutte le Vergini, l’Immacolata. Crebbe; poi, quando fu giunto il tempo, il Verbo di Dio per opera delle Spirito Santo s’incarnò nel Suo seno. Nacque, piccolo fanciullo, Dio fatto uomo, a Betlemme, borgata della Giudea, patria del re David, Suo grande antenato. Gli Angeli vennero ad adorarlo e i pastori dei dintorni si prostrarono dinanzi a Lui. Giunsero anche i Magi. Poi, silenzio. Il Dio Bambino crebbe sotto lo sguardo di Maria Sua Madre, circondato dall’affetto dolcissimo, tenero ed illuminato di Lei Mai il Cielo è stato né sarà maggiormente presente sulla terra. È la Trinità Santa circondata da una gloria di Angeli, di Arcangeli, di Serafini, cioè: Padre, il Figlio di Dio fatto uomo e lo Spirito Santo con la Santissima Vergine Maria e san Giuseppe padre putativo della Sacra Famiglia. – Gesù, Verbo di Dio fatto uomo, ha trent’anni. È giunta la Sua ora. Comincia la predicazione del Suo Vangelo. Per lo Spirito Santo, con lo Spirito Santo che lo anima, uno col Suo divino Spirito insegna, illumina, commuove: cambia le menti ed i cuori; converte le moltitudini. Egli chiama i dodici Apostoli, dà loro un capo, Pietro. Con essi e sotto i loro occhi, per ben fondare le loro convinzioni e la loro fede, come per fondare le convinzioni e la fede della Sua Chiesa, moltiplica i miracoli. I ciechi vedono, gli zoppi camminano, risorgono i morti. Per mezzo del Suo Spirito, col Suo Spirito, una cosa sola col Suo divino Spirito, agisce nei cuori e nelle menti, agisce nelle coscienze. Trasforma la società di quel tempo. I poteri civili si commuovono. Sono gl’intellettuali di allora, i Farisei, gli Scribi, i Dottori della legge. È il potere civile, rappresentato da Erode, re di Giudea, e soprattutto dal procuratore romano, Ponzio Pilato. Gesù è tradito da uno dei Suoi, preso, accusato di sedurre le folle. È condannato a morte, alla morte più crudele ed ignominiosa, alla morte di croce. Questa morte, il Verbo di Dio fatto uomo l’ha voluta. È l’atto di umiliazione, di obbedienza e di amore che Egli offre a Dio Suo Padre per il riscatto di tutti gli uomini dalla schiavitù del peccato, per la salvezza del mondo. Tre giorni dopo, risuscita da morte. Prima di morire sul Calvario, aveva istituito l’Eucarestia, nella quale resterà sempre presente. Era il sacrificio con cui annunziava la Sua morte di croce. E dopo la Risurrezione, sarà il sacrificio mediante il quale perpetuerà la Sua presenza e il Suo sacrificio sulla Croce, e il sacramento nel quale si darà in cibo a tutti i Suoi. Non si contenta di venire in essi spiritualmente, per il Suo Spirito, col Suo Spirito, uno col Suo Spirito. Vuol venire corporalmente con la Sua umanità, risorta e gloriosa, per essere in ciascuno di essi, il nutrimento della vita spirituale che Egli ha dato loro e vuol perpetuare. Cristo risuscitato, il Verbo di Dio fatto uomo, organizza la Chiesa che deve continuare la Sua opera di salvezza fino alla fine dei tempi. Gli Apostoli ne sono i capi. Egli dà loro il Suo Santo Spirito. Per il Suo Spirito, col quale, nel quale sarà con essi e in essi, avranno il potere di rimettere i peccati, il potere che non appartiene che a Dio. Egli li manda alla conquista spirituale del mondo, che proseguiranno fino alla fine dei tempi. Ma non saranno soli. Sarà con loro, in loro col Suo divino Spirito, per illuminarli, fortificarli, animarli, sostenerli nella vite nel martirio. Torno al Padre mio, disse prima di ascendere al cielo, ma abbiate fiducia, non vi lascerò soli, non vi lascerò orfani; è questa la parola usata da Lui, per far meglio risaltare il carattere delle relazioni paterne che ha con essi, tornerò con voi, sarò con voi per il mio Spirito, col mio Spirito, nel mio Spirito, per illuminarvi, animarvi, aiutarvi, confortarvi nella vita, nella morte, nella testimonianza che mi renderete in mezzo agli uomini. Ed ecco l’Ascensione in una gloria talmente incomparabile, che gli occhi degli Apostoli ne restano e ne resteranno abbagliati. Dieci giorni dopo: la Pentecoste, risposta alla grande promessa. È la venuta dello Spirito Santo nell’anima degli Apostoli. Con lo Spirito Santo, per lo Spirito Santo, nello Spirito Santo, è il ritorno di Cristo, Verbo eterno del Padre, Figlio unico di Dio, Dio, in mezzo agli Apostoli, nel cuore degli Apostoli. – La Pentecoste è un mistero che si perpetua nel cuore di tutti i Cristiani attraverso il tempo e attraverso lo spazio. Per lo Spirito che non cessa di mandare agli Apostoli o ai loro successori, e a tutti i fedeli, con lo Spirito Santo, nello Spirito Santo, il Cristo, Verbo eterno del Padre, Figlio unico di Dio, Dio, vive nel cuore di tutti i Suoi, per illuminarli, animarli, sostenerli e aiutarli a rendere testimonianza al Suo nome, nella vita, in un arduo ed incessante lavoro, in mezzo a persecuzioni di ogni sorta, nella morte, nella gloria. Non temete, abbiate fiducia. Per il mio Spirito, col mio Spirito, nel mio Spirito, tutti i giorni sono con voi, in voi, fino alla fine dei tempi.

TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO (2)

PREGHIERE ALLO SPIRITO SANTO (2)

PREGHIERE ALLO SPIRITO SANTO (2)

CORONA SPIRITUS SANCTI

286

In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.

Amen.

        Actus contritìonis:

Doleo, mi Deus, me contra te peccasse, quia tam bonus es; gratia tua adiuvante non amplius peccabo.

Hymnus Veni, Creator Spiritus, etc. cum versiculis et

Oremus

I – MYSTERIUM PRIMUM

De Spiritu Sancto ex Maria Virgine Iesus conceptus est

Meditatio. – Spiritus Sanctus superveniet in te, et virtus Altissimi obumbrabit tibi. Ideoque et quod nascetur ex te Sanctum, vocabitur Filius Dei (Luc, I, 35).

Afjectus. – Precare vehementer divini Spiritus auxilium et Mariæ intercessionem ad imitandas virtutes Iesu Christi, qui est exemplar virtutum, ut conformis fias imagini Filii Dei.

Semel Pater et Ave et septies Gloria Patri.

II – MYSTERIUM SECUNDUM

Spiritus Domini requievit super Iesum

Meditatio. Baptizatus autem Iesus, confestim ascendit de aqua, et ecce aperti sunt ei cœli: et vidit Spiritum Dei descendentem sicut columbam, et venientem super se (Matth., III, 16).

Affectus. – In summo pretio habe inæstimabilem gratiam sanctificantem per Spiritum Sanctum in Baptismo cordi tuo infusam. Tene promissa, ad quæ servanda tunc te obstrinxisti. Continua exercitatione auge fidem, spem, caritatem. Semper vive ut decet filios Dei et veræ Dei Ecclesiæ membra, ut post hanc vitam accipias cœli hereditatem.

Semel Pater et Ave et septies Gloria Patri.

III – MYSTERIUM TERTIUM

A Spiritu ductus est Iesus in desertum

Meditatio. – Iesus autem plenus Spiritu Sancto regressus est a lordane: et agebatur a Spiritu in desertum diebus quadraginta, et tentabatur a diabolo (Luc., IV, 1, 2).

Affectus. – Semper esto gratus prò septiformi munere Spiritus Sancti in Confirmatione tibi dato, prò Spiritu sapientiæ et intellectus, consilii et fortitudinis, scientiæ et pietatis, timoris Domini. Fideliter obsequere divino Duci ut in omnibus periculis huius vitae et tentationibus viriliter agas, sicut decet perf ectum christianum et fortem Iesu Christi athletam.

Semel Pater et Ave et septies Gloria Patri.

IV – MYSTERIUM QUARTUM.

Spiritus Sanctus in Ecclesia

Meditatio. – Factus est repente de cælo sonus tamquam advenientis spiritus vehementis, ubi erant sedentes; et repleti sunt omnes Spiritu Sancto loquentes magnalia Dei (Act., II, 2, 4, 11).

Afjectus. – Gratias age Deo quod te fecit Ecclesiæ suæ filium, quam divinus Spiritus, Pentecostes die in mundum missus, semper vivificate et regit. Audi et sequere Summum Pontificem, qui per Spiritum Sanctum infallibiliter docet, atque Ecclesiam quæ est columna et firmamentum veritatis. Dogmata eius tuere, eius partes tene, eius iura defende.

Semel Pater et Ave et septies Gloria Patri.

V – MYSTERIUM QUINTUM

Spiritus Sanctus in anima iusti

Meditatio. – An nescitis quoniam membra vestra templum sunt Spiritus Sancti qui in vobis est? (I Cor., VI, 19).

Spiritum nolite exstinguere (I Thess., V, 19).

Et nolite contristare Spiritum Sanctum Dei, in quo signati estis in diem redemptionis (Eph., IV, 30).

Affectus. – Semper recordare de Spiritu Sancto qui est in te, et puritati animæ et corporis omnem da operam. Fideliter obedi divinis eius inspirationibus, ut facias fructus Spiritus: caritatem, gaudium, pacem, patientiam, benignitatem, bonitatem, longanimitatem, mansuetudinem, fidem, modestiam, continentiam, castitatem.

Semel Pater et Ave et septies Gloria Patri.

In fine dicatur Symbolum Apostolorum Credo inDeum, etc, ut supra pag. 14, n. 43.

Indulgentia septem annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, corona quotidie per integrum mensem devote repetita (Breve Ap., 24 mart. 1902; S. Pæn. Ap., 18 mart. 1932).

Veni Creator Spiritus,

Mentes tuorum visita,

Imple superna gratia,

Quæ tu creasti pectora.

Qui diceris Paraclitus,

Altissimi donum Dei,

Fons vivus, ignis, caritas,

Et spiritalis unctio.

Tu septiformis munere,

Digitus paternæ dexteræ,

Tu rite promissum Patris,

Sermone ditans guttura.

Accende lumen sensibus:

Infunde amorem cordibus:

Infirma nostri corporis

Virtute firmans perpeti.

Hostem repellas longius,

Pacemque dones protinus:

Ductore sic te prævio

Vitemus omne noxium.

Per te sciamus da Patrem,

Noscamus atque Filium,

Teque utriusque Spiritum

Credamus omni tempore.

Deo Patri sit gloria,

Et Filio, qui a mortuis

Surrexit, ac Paraclito,

In sæculorum sæcula.

Amen.

V. Emitte Spiritum tuum et creabuntur;
R. Et renovabis faciem terrae.

Oremus.

Deus, qui corda fidelium Sancti Spiritus illustratione
docuisti: da nobis in eodem Spiritu recta sapere;  et de eius semper consolatione gaudere. Per Christum Dominum nostrum. Amen (ex Brev. Róm.).
Indulgentìa quinque annorum.
Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo
hymni recitatio, cum versiculo et oratione quotidie peracta,
in integrum mensem producta fuerit (Breve Ap.,
26 man 1706; S. Rituum Congr., 20 iun. 1889; S. Paen.
Ap., 9 febr. 1934).

Sequentia

Veni, Sancte Spíritus,

et emítte cælitus

lucis tuæ rádium.

Veni, pater páuperum;

veni, dator múnerum;

veni, lumen córdium.

Consolátor óptime,

dulcis hospes ánimæ,

dulce refrigérium.

In labóre réquies,

in æstu tempéries,

in fletu solácium.

O lux beatíssima,

reple cordis íntima

tuórum fidélium.

Sine tuo númine

nihil est in hómine,

nihil est innóxium.

Lava quod est sórdidum,

riga quod est áridum,

sana quod est sáucium.

Flecte quod est rígidum,

fove quod est frígidum,

rege quod est dévium.

Da tuis fidélibus,

in te confidéntibus,

sacrum septenárium.

Da virtútis méritum,

da salútis éxitum,

da perénne gáudium.

Amen. Allelúja.

Indulgentia quinque annorum. Indulgentia plenaria s. c. dummodo quotidie per integrum mensem sequentis devote recitata fuerit (Brev Ap. , 26 Maii 1976; Sacr. Pænit. Ap., 15 apr. 1933)

V. Emitte Spiritum tuum, et creabuntur,

R. Et renovabis faciem terræ.

Oremus

Deus, qui caritatis dona per gratiam Sancti Spiritus tuorum cordibus fidelium infudisti, da famulis tuis, pro quibus tuam deprecamur clementiam, salutis mentis et corporis; ut te tota virtute diligent, et quæ tibi placita sunt, tota dilectione perficiant. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

Preghiera allo Spirito Santo

Deus in adjutorium etc. Gloria Patri etc.

Divino Paraclito Spirito, che avete create tutte le cose, deh venite a visitare con la vostra grazia l’anima mia creata per Voi; purgatela da ogni macchia, riempitela de’ vostri Doni, e infiammatela del santo Amore: Ve ne supplico per i meriti di Gesù. I meriti di Gesù suppliscano alle mie mancanze. Così sia.

l- O Divino Spirito di bontà, riempite il mio cuore del santo Timor di Dio, ma di quel filiale timore, che ci allontana per amore dall’offendere il nostro buon Padre, che merita di essere infinitamente amato, e glorificato.

Gloria Patri, etc.

2Spirito Santo consolatore, Padre dei Poveri, e refrigerio dei cuori, accordatemi per amor di Gesù quella vera, e perfetta Pietà, che è fondata sulla stabile Pietra angolare delle dottrine, e degli esempi del mio divino Maestro, e Salvatore.

Gloria Patri etc.

3- O Voi, Divino Spirito, comunicatemi il Dono della Scienza, che m’insegni ad amare Dio sommo Bene sopra ogni cosa, e con tutte le forze dell’anima mia.

Gloria Patri, etc.

4- O Spirito Santo, con la vostra virtù onnipotente spezzate le catene che tengono il povero mio cuore immerso nelle misere vanità del mondo; e datemi per amor di Gesù il Dono di Fortezza, onde rompa una volta tutti i lacci degli affetti terreni, e l’anima mia libera s’innalzi a Dio suo Creatore.

Gloria Patri, etc.

5- Sapientissimo Spirito, luce delle nostre menti, direttore del nostro cammino, datemi il celeste Consiglio, onde la mia vita sia tutta santa, e ordinata alla vostra gloria.

Gloria Patri, etc.

6- O Spirito santificatore delle anime, accordatemi il dono dell’Intelletto, onde obbedisca con perfezione alla sacra Legge, e ai consigli del mio Redentore.

Gloria Patri, etc.

7- O Sapienza del Padre, che disponete tutte le cose con fortezza e soavità, venite a insegnarmi la via del Paradiso. O Dio d’infinita carità, arricchite il mio cuore della Sapienza divina, onde ami solo il Bene eterno, e disprezzi i piaceri, le ricchezze, e le vanità fugaci, e bugiarde del mondo. Cosi sia.

Antiph. Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per inhabitantem Spiritum ejus in nobis.

V.- Emitte Spiritum tuum, et creabuntur.

R.- Et renovabis faciem terræ.

Oremus:

Adsit nobis, quæsumus, Domine, Virtus Spiritus Sancti, quæ et corda nostra clementer expurget, et ab omnibus tueatur adversis. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

Fidelibus, qui septies doxologiam Gloria Patri … devote recitaverint ad septem dona a Spiritu Sancto impetrans, conceditur: Indulgentia trium annorum(S. C. de Prop. Fide, 12 mart. 1857; S. Pæn. Ap.,  10 iul. 1941).

Altra preghiera

O soffio divino dello Spirito Santo, fateVi sentire nell’anima mia; risvegliatela dall’assopimento in cui si trova; dissipate la languidezza in cui è immersa; portate via la polvere che si attacca, per così dire, a tutto quello che io fo; operate in me tutti i cambiamenti che Voi sapete esservi necessari. O divino Paraclito, datemi una di quelle lingue di lume, di carità, di perfezione che apparvero sopra gli Apostoli, affinché io possa con esse benedire il vostro Nome, confessare i miei peccati, insegnare con amore, riprendere con dolcezza, tacere quando conviene, ed edificare in ogni cosa. E voi, o santi Apostoli, che nel giorno solennissimo di Pentecoste riceveste nella sua pienezza lo Spirito di unità e santità, ottenete anche a noi un dono così segnalato, affinché credendo tutte le verità che avete insegnate, praticando tutte le opere che Voi avete raccomandate, vivendo e morendo nella Chiesa che Voi avete fondata, io giunga con Voi alla ricompensa beata ed eterna che ci avete insegnato a domandare e pregare. Così sia. [Manuale di Filotea, Milano 1888 – Impr.]

Preghiera

O Santo Spirito, Padre dei poveri e Consolatore degli afflitti, venite e scendete sopra di noi. Rischiarateci con la vostra sapienza, santificateci con il vostro amore; animateci con la vostra grazia; sosteneteci con la vostra fortezza, penetrateci con la vostra unzione; adottateci per figli con la vostra carità; pacificateci con la vostra presenza; salvateci con la vostra infinita misericordia; e sollevateci dalla terra al cielo, affinché Vi lodiamo, Vi benediciamo e Vi amiamo per tutta l’eternità. Amen. [Idem].

Preghiera per domandare i Doni

Deus in adjutórium meum intènde.

Dòmine ad adjuvàndum me festina. (Glòria Patri,…) .

Santissimo Spirito Paràclito, io Vi adoro come vero Dio insieme col Padre e col Figlio divino. Vi benedico con le benedizioni degli Angeli e dei Serafini. Vi offro tutto il mio cuore, e vi ringrazio vivamente dei tanti benefici che avete fatto e Sempre fate al mondo. E poiché Voi siete il datore di tutti i beni soprannaturali, e Voi riempiste di immense grazie l’anima della Madre di Dio Maria, Vi prego di venire in me con la vostra grazia e con il vostro amore.

1. O Spirito Santo, concedetemi il dono del santo Timor di Dio, affinché io non tema che il peccato, ami Dio sopra ogni cosa e diffidando di me e fidando in Voi, spenga nel mio cuore ogni ambizione mondana, ogni senso di superbia: salvi l’anima mia. Gloria Patri con una delle giaculatorie riportate sotto.

2. O Spirito Santo, concedetemi il dono della Pietà, affinché io onori Dio con tutto l’affetto del mio cuore, reprima ogni sentimento di invidia; il cuor mio diventi dolce e mansueto come quello di Gesù. Gloria Patri, ecc.

3. O Spirito Santo, concedetemi il dono della Scienza, affinché io conosca sempre più il mio Dio per amarLo, i miei peccati per detestarli, farne la penitenza e ottenerne il perdono. Gloria Patri, ecc.

4. O Spirito Santo, concedetemi il dono della Fortezza, affinché io non tema alcun nemico dell’anima mia, combatta e vinca ogni difficoltà nel divino servizio e diventi sempre più fedele e fervoroso nell’adempimento dei miei doveri. Gloria Patri, etc.

5. O Spirito Santo, concedetemi il dono del Consiglio, affinché la mia mente da esso illuminata, veda il nulla dei beni di questo mondo, scopra ogni inganno del demonio, scacci ogni soverchio affetto alle cose terrene, ed usando misericordia al prossimo, ottenga io pure la misericordia di Dio. Gloria Patri, ecc.

6. O Spirito Santo, concedetemi il dono dell’Intelletto, affinché io impari sempre più ad amare ed apprezzare le verità della fede, e moderando in me ogni affetto mondano, conservi sempre puro il mio cuore e meriti un giorno di contemplare faccia a faccia il mio Creatore e Padre. Gloria Patri, ecc.

7. O Spirito Santo, concedetemi il dono della Sapienza, affinché l’anima mia, gustando le dolcezze della pietà, fugga gli allettamenti del senso, domi ogni passione, e conservando la pace in me stesso, col mio Creatore e Padre e col mio prossimo, meriti di essere chiamato figlio di Dio, e mi trovi sempre pronto a patire ogni persecuzione per conservare un così prezioso tesoro.

Gloria Patri, ecc.

Veni, Sancte Spiritus

 Veni, Sancte Spiritus, reple tuórum corda fidélium, et tui amóris in eis ignem accènde.

V. Emitte spiritum tuum, et creabùntur.

R. Et renovàbis fàciem terræ.

Oremus

Deus, qui corda fidélium Sancti Spiritus illustratióne docuisti, da nobis in eódem Spiritu recta sapere et de éjus semper consolatióne gaudére. Per Christum Dominum nostrum.

Indulgentìa quinque annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidiana precum recitatio in integrum mensem producta fuerit (S. C. Indul., 8 maii 1907; S. Pæn.
Ap., 22 dec. 1932).

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Supplica allo Spirito Santo

Santissimo Spirito Paràclito, padre dei poveri, consolator degli afflitti, lume de’ cuori, santificatore delle anime, eccomi prostrato alla vostra presenza; Vi adoro con profondissimo ossequio. Vi benedico per mille volte ed insieme con i Serafini che stanno davanti al vostro trono, ripeto anch’io Sanctus, Sanctus, Sanctus. Credo fermamente che Voi siete eterno, consustanziale al Padre ed al Figlio divino. Spero nella vostra bontà che abbiate a salvare e a santificare quest’anima mia. Vi amo, o divino amore, con tutti gli affetti miei sopra tutte le cose di questo mondo, perché Voi siete infinita bontà, unicamente degna di tutti gli amori. E perché io, ingrato e cieco alle vostre ispirazioni tante volte Vi ho offeso con i miei peccati, Ve ne chiedo con le lacrime agli occhi mille volte perdono, dispiacendomi, più di ogni altro male, per aver disgustato Voi, sommo Bene. Vi offro tutto il mio freddissimo cuore, e Vi prego di ferirlo con un raggio della vostra luce e con una scintilla del vostro fuoco, affinché si dilegui il durissimo ghiaccio delle mie iniquità. Voi, che riempiste d’immense grazie l’anima di Maria santissima, ed infiammaste di santo zelo i cuori degli Apostoli, deh infervorate nel vostro amore anche il mio petto. Voi siete Spirito divino, sostenetemi contro tutti gli spiriti maligni. Siete fuoco: accendetemi del vostro amore. Siete luce: rischiaratemi la mente alla cognizione delle cose eterne. Siete colomba, datemi l’innocenza dei costumi. Siete aura soave, dissipate in me i venti delle mie passioni. Siete lingua: insegnatemi il modo di sempre benedirvi. Siete nuvola: proteggetemi con l’ombra del vostro patrocinio. E se finalmente siete il datore di tutti i doni celesti, deh animatemi, Vi prego, con la vostra grazia, santificatemi con la vostra carità, illuminatemi con la vostra sapienza, adottatemi per figlio con la vostra bontà, e salvatemi con l’infinita vostra misericordia; affinché sempre Vi benedica, Vi lodi e Vi ami, prima in terra nel tempo e poi in cielo per tutta l’eternità. Amen.

LITANIE DELLO SPIRITO SANTO

Signore, abbiate pietà di noi

Cristo, abbiate pietà di noi

Signore, abbiate pietà di noi.

Cristo ascoltateci,

Cristo, esauditeci.

Padre celeste, che siete Dio, abbiate pietà di noi.

Figlio, Redentore del mondo, che siete Dio, abbiate pietà di noi.

Spirito Santo, che siete Dio, abbiate pietà di noi.

Santa Trinità, che siete un solo Dio, abbiate pietà di noi.

Spirito Santo, che procedete dal Padre e dal Figlio, abbiate pietà di noi [ogni volta].

Spirito Santo, che all’inizio del mondo spiravate sulle acque rendendole feconde …

Spirito Santo, per la cui ispirazione parlarono gli uomini di Dio, …

Spirito Santo, che rendeste testimonianza di Gesù Cristo, …

Spirito Santo, che siete disceso su Maria, …

Spirito Santo, che riempite tutta la terra, …

Spirito Santo, che abitate in noi, …

Spirito di verità, la cui unzione ci insegna tutte le cose, …

Spirito di sapienza e di intelletto, …

Spirito di consiglio e di fortezza, …

Spirito di scienza e di pietà, …

Spirito di santo timor di Dio, …

Spirito di grazia e di misericordia, …

Spirito di forza e di sobrietà, …

Spirito di umiltà e di castità, …

Spirito di dolcezza e di bontà, …

Spirito di pazienza e di modestia, …

Spirito di pace e di preghiera, …

Spirito di compunzione, …

Spirito di adozione dei figli di Dio, …

Spirito di ogni sorta di grazie, …

Spirito Santo che penetrate anche i segreti di Dio, …

Spirito Santo che pregate per noi con gemiti ineffabili, …

Spirito Santo disceso su Gesù sotto forma di colomba, …

Spirito Santo disceso sugli Apostoli sotto forma di lingue di fuoco, …

Spirito Santo di cui gli Apostoli furono ripieni, …

Spirito Santo per cui riceviamo una nuova vita, …

Spirito Santo che riempite i nostri cuori di carità, …

Spirito Santo che distribuite i vostri doni a chi Vi piace, …

Siateci propizio, perdonateci o Signore,

Siateci propizio, esauditeci o Signore,

Da ogni male – liberateci o Signore [ogni volta].

Da ogni peccato, …

Dalle tentazioni e dagli inganni del demonio, …

Dalla presunzione e dalla disperazione, …

Dalla resistenza alla verità conosciuta, …

Dall’ostinazione e dall’impenitenza, …

Da ogni sozzura di corpo e di anima, …

Dallo spirito di impurità, …

Da ogni cattivo spirito, …

Per la vostra eterna processione dal Padre e dal Figlio, …

Per la concezione di Gesù Cristo operatasi per opera vostra, …

Per la vostra divina discesa su Gesù Cristo nel Giordano, …

Per la vostra discesa sugli Apostoli nel cenacolo, …

Nel gran giorno del giudizio, …

Noi poveri peccatori, Ascoltateci, Ve ne preghiamo [ogni volta],

Affinché vivendo per lo spirito, per lo spirito pure operiamo, …

Affinché ricordandoci che siamo tempio dello Spirito Santo, giammai Lo profaniamo, …

Affinché, vivendo secondo lo spirito, non assecondiamo i desideri della carne, …

Affinché non abbiamo a contristare Voi che siete lo Spirito di Dio, …

Affinché possiamo conservare l’unità di spirito nel vincolo della pace, …

Affinché non abbiamo a credere troppo facilmente ad ogni spirito, …

Affinché sappiamo provare se gli spiriti vengono da Dio, …

Affinché ci rinnoviate nello spirito di rettitudine, …

Affinché ci fortifichiate col vostro sovrano Spirito, …

Agnello di Dio che togliete i peccati dal mondo, perdonateci o Signore.

Agnello di Dio che togliete i peccati dal mondo, esauditeci o Signore.

Agnello di Dio che togliete i peccati dal mondo, abbiate pietà di noi.

V. – Manda il tuo Spirito, e crea in noi una nuova creatura.

R. – E rinnoverai la faccia della terra.

Preghiamo

O Dio, che ammaestrasti i cuori dei fedeli con la luce dello Spirito Santo, concedici di gustare nel medesimo Spirito, ciò che è bene, e di godere sempre delle sue consolazioni. Per Cristo nostro Signore. Così sia.

Giaculatorie:

Spiritus Sancte Deus, miserere nobis. (500 g. o.v.)

Spiritus Sancti gratia illumina sensus, et corda nostra. Amen. (500 g. o.v.)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (15)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (15)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO VII

Ultimi effetti dell’inabitazione di Dio  in noi: I FRUTTI DELLO SPIRITO SANTO E LE BEATITUDINI.

Conosciamo ora, se non in dettaglio, almeno con una veduta d’insieme, i principi di attività conferiti ai giusti dallo Spirito Santo, un magnifico e complesso organismo di santità che, secondo la bella espressione di un Padre della Chiesa, fa dell’uomo uno strumento musicale mirabilmente disposto a cantare la gloria e la potenza divina: Instrumentent musicum a Spiritu pulsatum, divinamque gloriam et potentiam canens (S. Greg. Naz., Orat. Ad Popul. XLIII, 67). E quando ha così preparato tutto, lo Spirito Santo, l’Artista incomparabile, si mette alla tastiera e, se non incontra resistenza, trae da questo strumento spirituale, meravigliosi accordi che deliziano il cuore di Dio e non tralasciano di piacere al mondo stesso, affascinato, malgrado tutto, da questa santa armonia. È la dolce e casta Agnese che canta sulla terra, per continuare in cielo, il canto delle vergini: « Io amo Cristo, di cui presto diventerò la sposa; il Cristo, di cui la Madre è vergine ed il Padre celeste genera senza corruzione….. Io sono fidanzata con Colui che è servito dagli Angeli e la cui bellezza è ammirata dal sole e dalla luna » (ex Offic. S. Agnetis). – È il martire Ignazio, esposto nell’anfiteatro e che, sentendo il ruggito dei leoni, grida nella sua impazienza di soffrire: « Io sono il frumento di Cristo; sarò macinato dai denti delle bestie per diventare un pane veramente puro. » È il grande Apostolo Paolo, che lancia questa fiera sfida a tutte le potenze nemiche: « Chi mi separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione? L’angoscia? La fame? La nudità? Il pericolo? La persecuzione? La spada?….. Sono sicuro che né la morte, né la vita, né gli angeli, né i principati, né le virtù, né qualsiasi altra creatura potrà mai separarmi dall’amore di Dio in Gesù Cristo, nostro Signore » (Rom. VIII, 35-39). – È l’innumerevole moltitudine dei Santi sparsi in tutto il mondo e che formano un immenso concerto, dove ognuno fa la sua parte e canta in modo speciale il trionfo della grazia sulla natura: una deliziosa sinfonia, dove tutte le voci si uniscono e si fondono in una meravigliosa armonia. Voci di bambini e di anziani, di vergini e di adolescenti, di uomini e di donne, che salgono dalla terra al cielo. Voci di innocenze preservate o faticosamente riconquistate. Voce di misericordiosa carità che richiama, per bocca di Vincenzo de’ Paoli, a tutte le miserie per alleviarle. Voce di fede trionfante nella persona di Pietro di Verona colpito a morte dall’eresia, e che ancora trova la forza di tracciare con la porpora del suo sangue questa parola sublime: Io credo. Voce di umiltà pronunciata dall’organo di Giovanni della Croce, una delle parole più belle ed eroiche mai pronunciate da una bocca umana, quando, alla domanda di Cristo di quale ricompensa chiedesse per tanto lavoro, rispondeva: « Signore, soffrire ed essere disprezzato per Voi. »  – Che mirabile fioritura di virtù il soffio dello Spirito Santo fiorisce in anime docili alla sua azione! O piuttosto che frutti deliziosi e variegati fa loro produrre! Questi sono quelli di cui Nostro Signore ha parlato quando ha detto ai suoi Apostoli: « Io vi ho scelto e vi ho costituito perché andiate avanti senza sosta, perché portiate frutti e questi frutti rimangano: Ego elegi vos, et posui vos ut eatis, et fructum afferatis, et fructus vester maneat. » (Giov. XV, 16). Il giusto, in effetti, è paragonato, nei nostri Libri sacri, ad un albero piantato sul bordo delle acque e che dà i suoi frutti nel suo tempo (Ps. I, 3). Cosa sono questi frutti? L’Apostolo san Paolo ce li fa conoscere in questa bella enumerazione che leggiamo nel capitolo V della Lettera ai Galati: « I frutti dello Spirito Santo, dice, sono la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la longanimità, la dolcezza, la fede, la modestia, la continenza e la castità . » (Gal. V, 22-23). – Cosa intendiamo con questi “frutti dello Spirito Santo”? Perché sono così chiamati? Come si differenziano dalle virtù e dai doni? Qual è il loro numero?

I.

E innanzitutto, cosa si intende per frutti dello Spirito Santo? Con questo intendiamo – dice san Tommaso – « tutti gli atti di virtù che hanno raggiunto una certa perfezione e in cui l’uomo si diletta: Sunt enim fructus quæcumque virtuosa opéra in quibus homo delectatur » (S. Th., Ia IIæ, q. LXX, a. 2). Si chiamano frutti – dice sant’Ambrogio – perché riempiono l’anima di pura e santa delizia. – In senso naturale, il frutto è il prodotto finale e gustoso di una pianta o di un albero che ha raggiunto la perfezione, adattato alla sua specie (Ibid. ad 1); è il termine regolare della vegetazione, il risultato definitivo di questo meraviglioso lavorio in cui è impegnata la vita della pianta. Diversi in quanto diversi sono gli alberi da cui sono stati raccolti, i frutti hanno in comune il fatto che sono l’ultimo prodotto della pianta e che, una volta giunti a maturazione, hanno tutti un certo sapore, diverso a seconda della specie. Fructus sensibilis est id quod ultimum ex arbore expectatur, et cum quadam suavitate percipitur (S. Th., Ia IIæ, q. XI, a. 1).  Quand’anche deliziassero la vista con la luminosità dei loro colori e deliziassero l’olfatto con la dolcezza e la finezza del loro profumo, né le foglie né i fiori meritano questo bel nome di frutto; perché non è da questi ciò che ci si aspetta definitivamente dall’albero: quod ultimum ex arbore expectatur.  – Il frutto non è solo l’ornamento e la perfezione dell’albero, è la sua ragion d’essere, il suo scopo, il suo fine; è il frutto che conferisce all’albero il suo pieno valore e compensa la cura dedicata alla sua coltivazione. Ecco perché, parlando nella parabola di un albero di fico che aveva smesso di dare frutti diversi anni prima, il Salvatore ha detto: « Tagliatelo; perché occupa inutilmente il posto? Succide ergo illam; ut quid etiam terram occupât ? » (S. Luc. XIII, 7). Una grande lezione per il Cristiano, che, sotto pena di essere tagliato come un ramo inutile e gettato nel fuoco, non deve lasciare inattive le energie divine che gli sono state conferite come germi destinati a fiorire sotto il soffio dello Spirito di Dio e a produrre quelle opere sante degne della vita eterna che la Scrittura chiama i frutti dello Spirito Santo. Infatti, per analogia, nell’ordine spirituale, questo nome di frutto è dato al prodotto finale della grazia nelle anime, cioè agli atti di virtù, se non a tutti indistintamente, almeno a quelli che possiedono un certo grado di perfezione e di sapore. I frutti dello Spirito Santo non sono dunque delle abitudini, delle qualità permanenti, ma degli atti; non possono quindi essere confusi con le virtù e con i doni, ma si distinguono da essi come l’effetto si distingue dalla sua causa, il torrente dalla sua sorgente. – E sebbene l’Apostolo san Paolo elenchi tra questi frutti la carità, la pazienza, la dolcezza, ecc., non è da intendere con queste espressioni le virtù stesse, ma le loro operazioni; poiché, per quanto perfette possano essere le virtù, esse non possono essere considerate come l’ultimo prodotto della grazia, essendo esse stesse ordinate, come principii, a dei prodotti successivi, cioè ai loro atti.  – Tuttavia per meritare il nome di frutto, gli atti di virtù devono essere accompagnati da una certa soavità. All’inizio, questi atti si compiono solo con difficoltà, richiedono fatica, alcuni sono addirittura amari per natura come un frutto non ancora maturo. « Ma – osserva un pio autore –  quando si è da tempo praticato con fervore nella pratica delle virtù, si acquisisce la possibilità di produrre i propri atti. Non proviamo più la ripugnanza che abbiamo provato all’inizio. Non dobbiamo più combattere o essere violenti. Siamo felici di fare quello che facevamo una volta con difficoltà. Poi succede alle virtù quello che succede agli alberi. Come questi frutti che, giunti a maturità, non hanno più l’acredine, ma sono dolci e di piacevole sapore; allo stesso modo, quando gli atti di virtù abbiano raggiunto una certa maturità, si fanno con piacere, e li si trova di un gusto delizioso » (Lallemant, Doctrine spirit.). Il mondo non capisce nulla di questo genere di delizie; perché – secondo l’osservazione di San Bernardo – vede la croce, ma non l’unzione: Crucem quidem vident, sed non etiam unctionem (Serm. 1 de Dedicat.); le afflizioni della carne, la mortificazione dei sensi, le fatiche della penitenza colpiscono il suo sguardo solo per il loro lato doloroso, e li ha in orrore, le consolazioni dello Spirito Santo sfuggono ad essa. Le anime sante, invece, dicono volentieri con la sposa del Cantico: « Mi sono seduto all’ombra di colui che avevo desiderato, e il suo frutto è dolce al mio palato » (Cant. II, 3). Sono numerosi i frutti dello Spirito Santo? San Paolo ne conta dodici, come abbiamo visto sopra. Perché questo numero di duodenario? Sembra che dovrebbero essere ammessi così tanti anche gli atti virtuosi. Questa è, infatti, la conclusione di san Tommaso: « I frutti – egli dice – sono tutti atti di virtù nei quali l’uomo trova piacere: Sunt fructus quæcumque virtuosa opera in quibus homo delectatur ». (S. Th., Ia IIæ, q. LXX, a. 2). – L’Apostolo avrebbe potuto includerne un numero maggiore o minore nella sua enumerazione, perché non pretendeva di elencarli tutti. Se si è fermato al numero di dodici, è stato prima perché questo numero, nello stile della Scrittura, si riferisce all’universalità; poi, perché tutti gli atti di virtù possono essere opportunamente ridotti a quelli nominati dall’Apostolo, poiché abbracciano l’intera vita cristiana. (Ibid. a 3, ad 4). – Noi parliamo di frutti; ma potremmo anche chiamarli fiori, se, invece di considerare le nostre buone opere come l’ultimo prodotto della grazia in questo mondo, le considerassimo in relazione alla vita eterna, di cui sono come l’annuncio e la promessa. Perché, così come si vede apparire il fiore, si concepisce la speranza di raccogliere un frutto, così  il darsi alla pratica delle opere sante e meritorie ci dà la speranza di raggiungere la vita e la beatitudine eterna.

II.

Al culmine della vita spirituale, quindi al di sopra degli atti di virtù ordinaria, al di sopra dei frutti dello Spirito Santo, vi sono le beatitudini, il coronamento dell’opera divina in noi, l’ultimo e più sublime effetto della presenza di Colui che il Padre si è degnato di inviarci per la nostra santificazione, l’anticipazione della felicità celeste.  Cosa intendiamo per beatitudini? Quante ce ne sono? Sono diversi da frutti, virtù e doni?  – Il nome “beatitudini” si riferisce ad alcuni atti della vita presente che, per la loro particolare perfezione, conducono direttamente e sicuramente alla beatitudine eterna. Sono chiamate così, beatitudini metonimiche, perché sono allo stesso tempo il pegno, la causa meritoria e, in una certa misura, i primi frutti della vera e perfetta beatitudine. La beatitudine propriamente detta, è essenzialmente una sola, e consiste nel possesso di Dio. È chiaro, infatti, che Dio, essendo il Bene sovrano, il Bene infinito, l’unico capace di soddisfare tutti i desideri, nessuno è felice se non nella misura in cui lo possiede. Da questo mondo, è vero, lo possediamo per grazia, ma imperfettamente; lo portiamo dentro di noi, ma nascosto alla vista; lo amiamo, lo godiamo, ma con il pericolo di perderlo. « Quindi, se parliamo di beatitudine qui sulla terra, possiamo solo intendere, naturalmente, una beatitudine imperfetta, una beatitudine desiderata e meritata, tutt’al più cominciata. » (Mgr. Gay: Sermons de l’Avent). – Le beatitudini menzionate nel Santo Vangelo e di cui ci stiamo occupando attualmente non significano, quindi, felicità assoluta, felicità vera e propria. Non è manifesto che la povertà, le lacrime, la fame e la sete, foss’anche di giustizia, le persecuzioni subite per la causa di Dio, non possono costituire una vera e perfetta beatitudine? Ma Nostro Signore afferma che questi sono mezzi, dei gradi, delle salite per raggiungere la beatitudine assoluta: mezzi così potenti, così efficaci, così sicuri, che chiunque li usi con perseveranza può ripetere seguendo l’Apostolo: « Sono salvato nella speranza » (Rom. VIII, 24). Non si dice di qualcuno che è giunto alla fine dei suoi voti, quando ha una fondata speranza di ottenerli? Ma come non concepire la speranza di ottenere un fine determinato, quando ci si muove verso di esso in modo costante e regolare, quando ci si avvicina, quando soprattutto si comincia già a gustare la dolcezza del bene atteso? (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 1.) Quando, dunque, un Cristiano, docile alle ispirazioni dello Spirito Santo, avanza quotidianamente nel cammino di bontà attraverso gli atti di virtù ed i doni, quando lo si vede realizzare gradualmente queste mirabili ascese di cui parla il Salmista (Ps LXXXIII, 6), ed avvicinarsi sempre di più al termine, come non sentire la fiducia che egli raggiungerà la perfezione del cammino e quella della patria, e non proclamarlo benedetto in anticipo? (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 2). Ma quali sono questi mezzi che conducono così sicuramente al termine della salvezza eterna, questi atti così pieni di soavità che possiamo considerarli come l’inizio della beatitudine? – Il Salvatore stesso ce li ha fatti conoscere in questo famoso sermone della montagna che apre il periodo della sua vita pubblica. « Beati – Egli dice – i poveri in spirito, perché il regno dei cieli è loro. Beati i miti, perché possederanno la terra. Beati coloro che piangono, perché saranno confortati….. Otto volte di fila ripete, con delle varianti, la stessa espressione « Beati », annunciando così al mondo stupito quelle che il linguaggio cristiano ha chiamato le otto beatitudini. Sono otto: la povertà di spirito, la mitezza, le lacrime, la fame e la sete di giustizia, la misericordia, la purezza di cuore, l’amore per la pace, le persecuzioni subite a causa di Dio; ma l’ottava è solo la conferma e la manifestazione delle altre (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 3 ad 5.). Infatti, dal momento in cui l’uomo è rafforzato nella povertà spirituale, dalla mitezza e dalle altre beatitudini, la persecuzione non è più in grado di staccarlo da questi beni. – Le beatitudini non sono né virtù né doni dello Spirito Santo, ma degli atti che queste abitudini ci portano a produrre (Ibid. a. 1). Tuttavia, per la loro eccellenza e perfezione, questi atti devono essere considerati più come un prodotto dei doni che come un’emanazione delle virtù. Infatti, la virtù della povertà può anche ispirare questo distacco che fa usare con moderazione dei beni terreni, ma è il dono del timore, che ne ispira il disprezzo. La virtù della mitezza dà all’uomo l’energia necessaria a superare l’impetuosità della rabbia e a stare entro i limiti della giusta ragione; ma è il dono della pietà che assicura la calma, la serenità dell’anima, il perfetto possesso di sé e la completa sottomissione alla volontà di Dio. La temperanza mette il freno alle passioni che tendono al piacere sensibile e le mantiene entro i limiti; il dono della scienza eleva l’anima più in alto, e illuminandola sulla fragilità, la vanità, la breve durata di questi piaceri, insegna a rifiutarli del tutto, se necessario, e ad abbracciare volontariamente il dolore e le lacrime. Le beatitudini si distinguono anche dai frutti dello Spirito Santo, perché, benché  dilettando come questi, abbiano anche il vantaggio di perfezionare chi le possiede: sono, se volete, dei frutti, ma i più eccellenti, i più belli, i più squisiti; frutti giunti, con gli ultimi tocchi del Sole divino, ad una perfetta maturità; anch’esse contengono una dolcezza e perfezione tale da farci sentire e gustare in anticipo qualcosa della felicità celeste. Così è coronata da opere perfette, segni precursori della beatitudine di Dio e del suo pieno possesso, questa serie di meraviglie che lo Spirito Santo compie nelle anime dove ha stabilito la sua dimora.

III.

Prima di concludere questo già lungo studio, diamo un ultimo, rapido sguardo alle verità che ne sono state oggetto, così come, prima di varcare la soglia di un edificio che è stato visitato ed esaminato nel dettaglio, diamo uno sguardo per comprenderne le linee principali e ammirarne la sapiente armonia. Dio è ovunque, in ogni essere e in ogni luogo, come causa immediata di tutto ciò che esiste fuori di Lui; ma abita solo nel giusto, al quale si unisce in modo singolare, come oggetto di conoscenza e di amore. E non è solo con la sua immagine, la sua memoria, o i suoi doni, che Egli è così presente in essi; Egli stesso viene personalmente, inaugurando fin da quaggiù questa vita di unione e di godimento che deve essere consumata in cielo. Non appena una creatura che, fino ad allora era stata peccaminosa, ritorna in grazia al suo Creatore, Colui che è in Dio l’Amore sussistente, lo Spirito Santo, gli viene inviato a suggellare in qualche modo con la sua presenza il patto di riconciliazione, a lavorare alla grande opera di santificazione e a diventare in lui il principio efficace di una nuova vita, incomparabilmente superiore a quella della natura. Non è dunque una visita temporanea, per quanto preziosa, che si degna di fare, ma Egli viene a stabilirsi nell’anima con il Padre e il Figlio e per fissarvi la sua dimora. Quando vi entra, si dà Egli stesso, e questo è il suo grande dono. Si tratta quindi di abbellire e decorare il tempio vivente dove gli piace risiedere. A tal fine, c’è questa Grazia, di un valore infinito, chiamata santificante, che ha l’effetto di purificare da ogni sozzura, di cancellare il peccato, di giustificare, trasformare, divinizzare chi la riceve, farne un figlio di Dio e l’oggetto dei suoi piaceri, con diritto all’eredità celeste. Ma non è tutto, perché la grazia non va mai da sola; essa è sempre accompagnata da una moltitudine di virtù e di qualità sovraeminenti, che sono sia un ornamento per le nostre potenze, sia una fonte di attività soprannaturale. Queste sono le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità; le virtù morali infuse e i doni dello Spirito Santo: essi sono i semi fecondi dei frutti che Dio vuole raccogliere in noi; le energie divine, fonte di quegli atti eccellenti che portano il nome di beatitudini perché sono la causa meritoria ed una sorta di anticipazione della felicità che speriamo. – In questo modo possiamo andare avanti; e, per spostarci efficacemente e in sicurezza verso le sponde eterne, tutto ciò che dobbiamo fare è ricevere questo impulso dallo Spirito Santo che è la parte dei figli di Dio (Rom. VIII, 14). Essa non si farà attendere. Dal profondo dell’anima dove Esso risiede, questo Spirito divino illumina la nostra intelligenza, riscalda i nostri cuori, ci eccita e ci spinge al bene. Chi conterà tutti i santi pensieri che suscita, i buoni movimenti che provoca, le sane ispirazioni di cui è la fonte? Perché invece ci sono sventurate e troppo frequenti resistenze che vengono più o meno a paralizzare la sua azione benefica e ad ostacolarne gli effetti? Questo spiega perché tanti Cristiani, abitualmente in possesso della grazia e delle energie divine che la accompagnano, rimangono tuttavia così deboli e lassi al servizio di Dio, così poco zelanti per la loro perfezione, così inclini verso la terra, così dimentichi delle cose del cielo, così facili da portarsi al male. Pertanto, l’Apostolo ci esorta a « non contristare lo Spirito Santo » con la nostra infedeltà alla grazia: Nolite contristare Spiritum sanctum Dei (Ephes. IV, 30), e soprattutto “non spegnerlo nei nostri cuori: Spiritum nolite extinguere. » (1 Tessal. V, 19). C’è un’altra causa che cerca di spiegare perché una semenza di grazie così abbondante spesso produca solo un raccolto così scarso. Questo avviene perché, conoscendo solo molto imperfettamente il tesoro di cui sono custodi, molti hanno solo una bassa stima di Esso e si impegnano poco nel farlo fruttificare. Eppure, quale forza, quale generosità, rispetto di sé, quale vigilanza, ma anche quale consolazione e quale gioia non li ispirerebbero per questo pensiero costantemente nutrito e piamente meditato: lo Spirito Santo abita nel mio cuore. Esso è lì, potente protettore, sempre pronto a difendermi dai miei nemici, a sostenermi nelle mie battaglie, ad assicurarmene la vittoria. Amico fedele, è sempre pronto a darmi udienza, e, « lungi dall’essere fonte di amarezza e di noia, la sua conversazione porta allegria e gioia:  Non enim habet amaritudinem conversatio illius, nec tædium convictus illius, sed lætitiam et gaudium. » (Sap.. VIII, 16). – Egli è lì, veglia sempre sui miei sforzi e sacrifici, contando, per ricompensarli un giorno, ognuno dei miei passi, seguendo tutti i miei passi, senza dimenticare nulla di quello che faccio per il suo amore e la sua gloria. – Lo Spirito Santo abita nel mio cuore! Io sono il suo tempio, il tempio della santità per essenza; devo quindi diventare io stesso santo, perché il primo carattere della casa di Dio è la santità. Domum tuam, Domine, Domine, decet sanctitudo (Ps XCII, 5). Dirò dunque con il Salmista, con la mia condotta più che con le mie parole: « O Signore, ho amato la bellezza della tua casa e del luogo dove abita la tua gloria: Domine, dilexi decorem domus tuæ, et locum habitationis gloriæ tuæ. » Cosa c’è di più efficace di queste riflessioni per determinarci a vivere, secondo la parola di san Paolo, « in modo degno di Dio, sforzandoci di piacergli in ogni cosa e di portare ogni sorta di frutti di buone opere? Ut ambuletis digne Deo per omnia placentes, in omni opera bono fructificantes » (Col. X, 10). Lavoriamo dunque per crescere nella scienza di Dio, crescentes in scientia Dei, applicandoci ogni giorno per conoscere meglio, per apprezzarli di più, i doni divini. Amiamo, onoriamo, invochiamo spesso lo Spirito Santo, siamo docili alle sue ispirazioni; e se un giorno vogliamo occupare il trono di gloria che ci è stato preparato in cielo, iniziamo glorificando qui sulla terra e nella nostra anima e nel nostro corpo questa Santissima Trinità di cui siamo dimora e tempio. Glorificate et portate Deum in corpore vestro! (1 Cor. VI, 20).

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (14)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (14)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR – 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO VI

Effetti dell’abitazione dello Spirito-Santo.

(Seguito)

I DONI DELLO SPIRITO-SANTO

I.

Con la grazia e le virtù cristiane, lo Spirito Santo porta ancora nell’anima, dove viene a fissare la sua dimora, i vari doni che portano il suo nome, il « sacro septenario » la, come si esprime la Chiesa, sacrum septenarium. Cosa significano questi doni? Qual è il loro ruolo, la funzione, lo scopo, nella vita soprannaturale? Sono davvero distinti dalle virtù infuse, e bisogna considerarli necessari alla salvezza? Queste sono le domande a cui occorre rispondere.  – E in primo luogo, qual è esattamente la natura dei doni dello Spirito Santo? Essi sono, essenzialmente, benefici gratuiti, come indica il nome di “doni”: un nome che è comune agli altri beni della grazia. Ma questo termine generico ha ricevuto nel linguaggio cristiano un significato preciso, un senso perfettamente determinato e limitato ad alcune perfezioni specifiche che Dio comunica liberamente all’anima retta per renderla flessibile e docile alle sue ispirazioni (S. Th. Ia-IIæ, q. LXVIII, a 1).  Come la grazia santificante, come le virtù infuse, con cui presentano molte analogie, i doni sono abitudini, disposizioni al bene che esistono in noi nello stato di qualità fisse e permanenti. Non sono quindi atti, ma principi di operazione; non sono mozioni, attuali, dei soccorsi passeggeri della grazia destinati a mettere in gioco le nostre facoltà, ma piuttosto delle qualità, delle forze conferite all’anima in vista di certe operazioni soprannaturali.  – La Scrittura stessa, parlando di questi doni, ce li rappresenta come esistenti in modo stabile, come riposanti nel giusto. Isaia dice del Verbo incarnato: « Lo Spirito del Signore riposerà su di Lui: lo Spirito di saggezza e di comprensione, lo Spirito di consiglio e di forza, lo Spirito di conoscenza e di pietà; e lo Spirito di timore del Signore lo riempirà. » (Isai. XI, 2-3). E i dottori applicarono queste parole ai membri viventi del Corpo Mistico di Nostro Signore, che devono partecipare ai privilegi del loro Capo. – San Gregorio Magno ci dice ugualmente che « … con i doni, senza i quali la vita non può essere raggiunta, lo Spirito Santo risiede in modo stabile negli eletti, mentre con la profezia, il dono dei miracoli e delle altre grazie gratuite, Esso non si stabilisce stabilmente in coloro ai quali li comunica: in his igitur donis, sine quibus ad vitam perveniri non potest, Spiritus Sanctus in electis omnibus semper manet; sed in aliis non semper manet. » – Potremmo, con l’angelico Dottore, definire i doni dello Spirito Santo: “… delle abitudini o qualità permanenti che sono essenzialmente soprannaturali, che perfezionano l’uomo e lo dispongono ad obbedire con prontezza alle mozioni dello Spirito Santo: Dona Spiritus Sancti sunt quidam habitus quibus homo perficitur ad prompte obediendum Spiritui Sancto. » (S. Th. Ia-IIæ, q. LXX, a. 2). – Da queste parole non si deve concludere che i doni siano delle disposizioni puramente passive, una sorta di unzione spirituale che abbia lo scopo esclusivo di ammorbidire le nostre facoltà perché esse non oppongano resistenza all’azione del celeste motore. « Essi sono nel contempo  delle morbidezze e delle energie, delle docilità e delle forze che rendono l’anima più docile sotto la mano di Dio e nello stesso tempo più attiva nel servirlo e nel compiere le sue opere. » (Mgr. GAY, De la Vie et des Vertus chrétiennes, I. Traité). Come le virtù morali, che mirano a sottomettere e assoggettare le nostre facoltà appetitive all’impero della ragione, a renderle docili alle sue prescrizioni, e che sono non di meno delle fonti di attività, i doni sono anch’essi delle energie soprannaturali, dei principi di operazione. Testimone di queste eccellenti opere, note come Beatitudini, che, per la loro stessa perfezione, devono essere attribuite ai doni piuttosto che alle virtù e che da essi emanano come l’operazione procede dall’abitudine ». (S. Th. Sent. III, d. XXXIV, q. 1, ad 4). In caso affermativo, in che modo i doni differiscono dalle virtù? Alcuni teologi credono di non siano molto diversi da loro, e che doni e virtù significhino, con nomi diversi, la stessa cosa. Se consideriamo le abitudini soprannaturali – essi dicono – come  dei benefici gratuiti che ci vengono dalla bontà divina, li chiamiamo doni; se li consideriamo principi di operazione, li chiamiamo virtù. Questa spiegazione apparentemente molto semplice ha il grave svantaggio di essere difficile da conciliare con  verità indiscutibili. E infatti, se i doni si identificano con le virtù, come mai il Signore, che  certamente possedeva tutti i doni, come ci dice chiaramente Isaia, non aveva avuto tutte le virtù infuse allo stesso modo? Non la fede, incompatibile con la visione immediata dell’Essenza divina, di cui la santa umanità del Salvatore non ha mai cessato di godere; né la speranza, che è stata esclusa dal suo stato e dalla sua perfezione di Persona comprendente; né la penitenza, che non va con l’impeccabilità? Inoltre, se doni e virtù non sono cose separate, rimarrebbe da spiegare perché alcuni doni, come il timore, non siano tra le virtù e perché certe virtù non vengano enumerate tra i doni. Pertanto, la grande maggioranza dei teologi ritiene, insieme a san Tommaso, che ci sia una vera distinzione tra doni e virtù, una distinzione basata sulla diversità dei motori ai quali l’uomo obbedisce nella pratica del bene. Se si vuole – dice l’angelico Dottore – distinguere chiaramente i doni dalle virtù, è necessario attenersi al linguaggio della Scrittura, che designa i primi non come doni, ma come spiriti – Spirito di saggezza e intelligenza, Spirito di consiglio e forza, ecc. – dandoci modo di comprendere che, venuti dall’esterno ed infusi nella nostra anima con la grazia, il loro scopo e il loro effetto è quello di rendere più flessibili le nostre potenze e di disporle a seguire docilmente l’ispirazione divina. Ora, chi dice ispirazione, dice mozione veniente dall’esterno, in contrapposizione al movimento del motore interno, che è la ragione. Ci sono infatti in noi due principi guida sotto il cui impulso si compiono gli atti che devono condurci alla salvezza: uno interiore, che è la ragione, l’altro esteriore, che è Dio. Per consentire all’uomo di ricevere correttamente questo doppio impulso, si ha bisogno di due tipi di perfezioni: le prime, più umili, che lo dispongono a seguire senza resistenza, in tutte le sue azioni interiori ed esteriori, il movimento e la direzione della ragione: questo è il ruolo delle virtù; le seconde, più elevate e conseguentemente distinte dalle precedenti, mirano a renderlo flessibile e docile alle ispirazioni dello Spirito Santo: questo è la funzione dei doni. (S. Th., Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 1). Mettiamo queste verità nella giusta luce. Ed innanzitutto, che l’uomo possieda in se stesso, nella sua ragione, lasciata alle proprie luci o illuminata dalla fede, un principio di attività con cui si muove, decida di fare questo o quello, è ovvio. Non appena diventa un essere intelligente e libero, e quindi padrone delle sue azioni, può, nella sua sfera, come agente secondario e prossimo – in suo ordine, scilicet sicut agens proximum, – compiere questa o quella operazione a sua scelta. Ma, poiché le facoltà umane suscettibili di compiere un atto morale siano inclini abitualmente al bene e disposte a compierlo con facilità, prontezza e costanza, hanno bisogno di essere perfezionate da certe qualità o abitudini, aventi l’effetto di renderle docili alla direzione e all’impero della ragione. Nell’ordine naturale, questo ruolo appartiene alle virtù umane o acquisite; nell’ordine soprannaturale, questa funzione appartiene alle virtù cristiane. Così dotato, l’uomo è in grado di agire, di fare del bene, di fare opere salutari e meritorie, quelle almeno che non superano il livello ordinario e comune.  – Ma la ragione non è l’unico motore, né l’unico principio determinante delle nostre azioni; è anche solo un motore subordinato e secondario. Il  primo e principale motore è fuori di noi e non è altri che Dio. Ora  è una verità confermata dall’esperienza quotidiana che più elevato sia il motore, più perfette debbano essere le disposizioni che preparano il mobile a ricevere la sua azione (S. Th., Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 1). Così, mentre un bambino è in grado di comprendere e seguire le lezioni di un insegnante di grammatica elementare, per consentire ad un adulto, anche colto, di seguire il corso di un insegnante di istruzione superiore, è necessaria una lunga preparazione, che non è nemmeno alla portata di tutte le intelligenze. – Se, allora, per disporre dei nostri poteri appetitivi onde obbedire prontamente alle ingiunzioni della ragione illuminata dalla nostra luce o da quella della fede, abbiamo bisogno di tutta una serie di abitudini, acquisite o infuse, a seconda che il bene di cui si tratti sia naturale o soprannaturale; come non concludere, con san Tommaso, che per poter ricevere fruttuosamente e seguire con docilità le ispirazioni e la guida dello Spirito Santo, un Motore così alto al di sopra della ragione stessa illuminata dalla fede, siano qui veramente necessarie altre perfezioni, ed altre abitudini superiori alle virtù morali, acquisite o infuse? Abbiamo nominato i doni che sono all’uomo nei suoi rapporti con lo Spirito Santo, ciò che sono le virtù morali alla volontà rispetto alla ragione. Queste dispongono le potenze appetitive ad obbedire prontamente alla ragione; quelli preparano l’uomo ad essere docile agli istinti dello Spirito Santo. (Ibid. a. 3).

II.

L’argomento che abbiamo appena sviluppato dimostra bene, è vero, che i doni e le virtù sono abitudini davvero distinte; ma non indica, almeno in modo esplicito, in cosa consista questa differenza. Così, quando San Tommaso propone solo di stabilire – come in Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 1, – che i doni sono perfezioni diverse dalle virtù, la ragione che egli propone è la dualità dei motori a cui l’uomo obbedisce nella pratica del bene: ottima ragione, perché motori formalmente diversi presuppongono, richiedono disposizioni diverse da parte del mobile, in modo che egli sia in grado di ricevere connaturalmente impulsi di cui gli uni possano essere tanto elevati al di sopra degli altri: Manifestum est quod ad altiorem motorem oportet majori perfectione mobile esse dispositum (S. Th. Ia-IIæq. LXVIII, a. 8). Ma quando il santo Dottore vuole mostrare in cosa i doni e le virtù differiscano, tutt’altra è la sua risposta; si richiama alla divergenza nel modo di agire che caratterizza questi due tipi di abitudini, e alla diversità della regola che serve come misura dei loro atti: Dona a virtutibus distinguuntur in hoc quod virtutes perjiciunt ad actus MODO HUMANO, sed dona. ULTRA UMANO. (S. Th. Sent., III, dist. XXXVI, q. 1, a. 1.).Il primo elemento caratteristico dei doni, quello per cui essi si distinguono chiaramente dalle virtù, è il loro modo di agire. Infatti, le virtù, qualunque esse siano, naturali o soprannaturali, acquisite o infuse, dispongono l’uomo ad un’azione di forma razionale e umana: virtutes perjiciunt ad actus MODO HUMANO; i doni, al contrario, lo mettono in grado di operare in modo sovrumano e in qualche modo divino: sed dona ULTRA HUMANUM MODUM. Questa è la loro ragione: Donorum propria est ratio, ut per ea quis super humanum modum operetur (S. Th., m, Sent., III, dist., xxxv, q. II, a. 3): questo è ciò che costituisce la loro superiorità sulle virtù: Donum in hoc transcendit virtutem quod supra humanum modum operetur (S. Th., Sent., III, dist. XXXVI, q. 1, a. 3.). Lasciate che lo stesso san Tommaso ci spieghi, con la sua ordinaria lucidità, che cosa debba intendersi del modo umano di agire specifico delle virtù e in cosa consista il processo superiore che caratterizza i doni. A tal fine, egli confronta la virtù della fede con il dono dell’intelletto che gli corrisponde, e mostra con un esempio, che egli stesso dichiara evidente, la divergenza dei loro processi.  Il nostro modo naturale di conoscere le cose spirituali e divine – dice – è quello di salire da questo mondo materiale e visibile al mondo invisibile attraverso lo specchio della creatura e l’enigma delle analogie, cioè attraverso concetti inappropriati presi in prestito all’ordine sensibile e pertanto necessariamente imperfetti. Connaturalis enim modus humanæ naturæ est ut divina non nisi per speculum creaturarum et ænigmate similitudinum percipiat (Ibid. dist. XXXIV, q. 1, ad I). Così, per la fede, che è una virtù, usa queste stesse nozioni per introdurci alle verità soprannaturali. Et ad sic percipienda divina perjicit fides, quæ virtus dicitur (S. Th., III, Sent., dist., XXXIV, q. I, a. 1). – Senza dubbio essa allarga il cerchio della nostra conoscenza, ci conduce nel santuario della Divinità e ci rivela misteri di cui la contemplazione dell’universo non ci avrebbe mai manifestata l’esistenza; ma in luogo del nostro semplice assentimento ai dogmi rivelati che implica la fede, ci comunica una certa percezione della verità, ci fa cogliere, per così dire, le cose divine, ci eleva al di sopra del nostro modo naturale di conoscere e, senza togliere tutti i veli, ci dà di questa vita, come un’anticipazione delle manifestazioni e delle chiarezze future. (S.Th. III Sent.. dist. XXXIV, a I a. I). – Che senso profondo delle verità di fede possiamo trovare di tanto in tanto in certi uomini senza cultura e senza lettere, ma docili alle ispirazioni dello Spirito Santo, a volte anche nei bambini semplici! Quali intuizioni per scoprire il veleno dell’errore! Forse non saranno in grado di confutare, secondo le regole della dialettica, i sofismi dell’eresia o dell’incredulità; ma poiché sono impregnati delle verità dell’insegnamento cattolico, capiscono che non devono discostarsene in nulla! Da dove viene in loro una tale certezza sulle cose della fede? Dai mezzi naturali della conoscenza per l’uomo: lo studio, la riflessione? No, ma dal dono dell’intelletto. – Leggiamo nella vita di Santa Giovanna Chantal che un giorno, all’età di cinque anni, giocava nell’ufficio del padre, quando scoppiò una discussione tra il presidente Frémiot e un gentiluomo protestante venuto a trovarlo. Si discuteva della Santa Eucaristia. Il signore protestante diceva che quello che gli piaceva di più della religione riformata era che negava la presenza reale di Nostro Signore nel Santissimo Sacramento. A queste parole, la santa bambina non poté trattenersi: ella si avvicina vivacemente al protestante e si mette a fissarlo con uno sguardo accigliato: « Monsignore – gli disse – dovete credere che Gesù Cristo è nel Santissimo Sacramento perché Egli lo ha detto; se non lo credete, lo ritenete un bugiardo ». Il tono con cui parla stupisce il protestante, che inizia a discutere con lei; ma ella lo ferma subito con la saggezza delle sue risposte, e nello stesso tempo, con l’ardore della sua fede, ed incanta tutti i presenti. Imbarazzato dalle sue vivaci rimostranze, il signore protestante volle porre fine alla discussione come si conclude con i bambini: gli presenta dei dolcetti. Ma la piccola subito li prende dal grembiule e, senza toccarli, li getta nel fuoco, dicendo: « Guardate, monsignore, è così che tutti gli eretici bruceranno nelle profondità dell’inferno, perché non credono a ciò che il Signore ha detto. »

III.

Se ora, passando all’ordine pratico, chiediamo all’angelico Dottore in cosa consista il modo umano di agire proprio delle virtù, per esempio della prudenza, ed in cosa si distingua dal processo sovrumano che caratterizza il dono corrispondente, quì il dono del Consiglio, la sua risposta non sarà meno netta né meno precisa. Che si tratti della scelta di uno stato di vita o di ogni altra determinazione importante da prendere, ecco come procede la prudenza. Essa si occupa delle vie e dei mezzi convenienti per ottenere il fine prefissato, e giudica quali siano i migliori e ne prescrive l’applicazione. A mo’ di indagine, il modo umano consiste nell’esaminare tutto alla luce della ragione o della fede, soppesare i pro e i contro, studiarne le attitudini, le attrattive, le disposizioni, prevedere il futuro secondo quanto accade abitualmente in situazioni simili, consultare persone prudenti, pregare.  In Inventione, MODUS HUMANUS est quod procedatur inquirendo et conjecturando ex his quæ sient accidere (S. Th., III Sent., dist. XXXIV, q. 1, a. 2). Poi arriva il turno del giudizio, e infine quello del comandamento, che è il principale atto di prudenza. Ma non è raro che la prudenza umana, a causa di circostanze eccezionali o particolarmente difficili, si trovi in difficoltà. Si ha un bel riflettere, consultare, studiare la questione da tutte le parti, non possiamo andare fino in fondo, né possiamo formulare una risoluzione ferma e precisa. Che cosa dobbiamo fare in queste circostanze, quando la prudenza è muta, e la ragione è disperata? Ciò che fece Re Josaphat quando, in una situazione simile, di fronte a una moltitudine di Moabiti, Ammoniti e Siriani che erano uniti contro di lui, e non sapendo da che parte stare, si voltò verso il cielo e pregò: “Signore, non sapendo quello che dobbiamo fare, tutto quello che dobbiamo fare è guardare a te: Cum ignorremus quid agere debeamus, hoc solum habemus residui ut oculos nostros dirigamus ad te (II Paralip. XX, 12). Ed ecco, lo Spirito del Signore si posò improvvisamente su di un profeta, che venne a dire al re e al suo popolo da parte di Jeowah: « Non temete, non vi spaventi questa moltitudine; la battaglia non è affar vostro, ma di Dio…. Domani camminerete contro di loro e il Signore sarà con voi: Nolite timere, ne paveatis hanc multitudinem; non est enim vestra pugna, sed Dei…. Cras egrediemini contra eos, e Dominus erit vobiscum (II Paralip. XX, 15-17). “Ora, se allo stesso modo, in una simile occasione, un Cristiano ricorre, con fiducia, a Colui che non rifiuta mai il suo aiuto nelle cose necessarie o utili alla salvezza, e se ne riceve ispirazione che pone fine alle sue perplessità e gli insegna con una sorta di certezza ciò che deve fare, questo è al di sopra del modo umano e l’effetto del dono del Consiglio. Sed quod homo accipiat hoc quod agendum est, quasi per certitudinem a Spiritu Sancto edoctus, SUPRA HUMANUM MODUM EST; et ad hoc perficit donum consilii (S. Th., III Sent., dist. XXXIV, q. 1, a. 2). Così, nelle cose che non vanno oltre la portata della ragione, è alla prudenza acquisita o infusa che spetta guidare l’uomo nella scelta e nell’uso dei mezzi (S. Th., Ia-IIæ, q. LII, a. 1, ad. 1).. Trascurare poi di esaminare da soli ciò che sia opportuno dire o fare, con il pretesto dell’abbandono alla Provvidenza, sarebbe tentare Dio (S. Th., IIa-IIæ, q. LIII, a. 4, ad 1). Ma poiché la ragione umana è incapace di comprendere tutti i casi particolari e contingenti che possano sorgere, – dal che deriva che « i pensieri dei mortali sono timidi e le loro previsioni incerte » – per non essere privati di consiglio in materia di salvezza, dove la prudenza non è più sufficiente, l’uomo deve essere guidato e diretto da Colui che sa tutto; così come nelle cose umane, quando non si ha abbastanza luce per trattare un caso, si ricorre ai consigli di persone più illuminate. (S. Th., Ia-IIæ q. LXVIII, a. 3, ad 2). – Questa direzione superiore nell’ordine della salvezza si realizza attraverso il dono del Consiglio, da cui le parole del Salmista: « Il Signore è la mia guida, nulla mi mancherà: Dominus regit me,  et nihil mihi deerit » (Ps. XXII-1). Ma in questo caso, l’uomo non deve esaminare e giudicare da solo ciò che sia opportuno fare, lo Spirito Santo si incarica di questa cura, e l’uomo deve solo prestarsi obbedientemente alle sue ispirazioni; perché – secondo l’osservazione di san Tommaso – è il motore, non lo strumento, che deve giudicare e comandare. Tuttavia, in materia di doni, è lo Spirito Santo, non la ragione umana, che è la forza motrice, essendo l’uomo più passivo che attivo, strumento e non causa principale: strumento, però, che non può essere considerato inerte, perché attivo e libero, attivo in quanto libero, collaborando liberamente con la mozione divina. (S. Th., Ia IIæ q. LXVIII, a. 3, ad a. 1). – La differenza nel modo di agire che abbiamo appena visto tra la prudenza e il dono del Consiglio, si trova allo stesso modo tra le altre virtù e i doni che le perfezionano; ad ogni virtù corrisponde infatti un dono particolare che la aiuta e la fa operare a volte in modo sovrumano. Ciò è particolarmente vero per la fortezza ed il dono che porta lo stesso nome. – La caratteristica della virtù della fortezza è quella di rafforzare l’anima e farle superare tutti gli ostacoli che si incontrano nella pratica del bene, nonostante i pericoli e persino la morte stessa. Se mi chiedete qual sia il suo modo naturale per agire, vi risponderò con San Tommaso che esso consiste nell’affrontare le difficoltà fino all’estensione delle forze umane, pensatis viribus propriis et secundum earum mensuram (S. Th. III Sent., dist. XXXIV, q. 1 a.2); andare oltre, intraprendere con il proprio movimento un’opera che superi le proprie forze, non sarebbe più virtù, ma incoscienza, così come rimanerne al di sotto, per difetto il coraggio, sarebbe un segno di pusillanimità. Ma che, in un incontro particolare, spinto da un istinto superiore, l’uomo prenda come misura delle sue azioni, non più le proprie forze, ma la potenza divina, elevandosi a cose manifestamente superiori alle sue energie native, ed affronti pericoli che non è in grado di superare, affidandosi all’aiuto divino, è al di sopra del modo umano ed effetto del dono della fortezza. -Sarebbe facile continuare questo parallelo e mostrare nel dettaglio quale sia il modo umano di agire specifico delle diverse virtù, e come si differenzi dal modo speciale di operare mediante i doni; ma forse sarebbe meglio limitarsi ad indicare in caratteri generali ciò che costituisce la divergenza di processo tra gli uni e le altre. Negli atti che emanano da virtù, acquisite o infuse, l’uomo agisce in modo conforme alla sua condizione umana, cioè con il proprio movimento, in virtù della propria iniziativa personale. Dopo aver riflettuto, deliberato e, se necessario, preso consiglio, egli si porta al bene per libera scelta, per propria determinazione, senza escludere, naturalmente, la mozione ordinaria di Dio che opera internamente in qualsiasi agente libero o naturale come causa prima: non tamen exclusa operatione Dei, qui in omni natura et voluntate intérius operatur1. (S. Th. Ia IIæ, q.  LXVIII, a. 2). Al contrario, egli agisce, sotto l’influenza dei doni, ma non è più da se stesso che opera, ma un impulso interiore onnipotente, al quale egli si presta tuttavia volontariamente, lo spinge a fare questa o altra cosa il cui pensiero gli sia stato improvvisamente ispirato. Qui l’uomo è più passivo che attivo, anche se non manca la sua attività personale, sotto forma di consenso e di libera collaborazione, perché Dio muove ogni essere in modo conforme alla sua natura (S. Th. IIa IIæ, q. LII, a. 2 ad 1). -Sant’Agostino ha descritto molto bene questa seconda modalità d’azione quando, a proposito delle parole dell’Apostolo: « Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, questi sono i figli di Dio: Quicumque Spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei » (Rom. VIII, 14), egli sottolinea che lo Spirito Santo « li muove per farli agire, non perché rimangano inerti e puramente,  passivi: Aguntur enim ut agant, non ut ipsi nihil agant » (S. Aug. De gest, Pelag. C. III, n. 5). Agiscono dunque, ma per far emergere il particolare istinto che li fa agire, l’Apostolo san Paolo dice che sono mossi e azionati dallo Spirito di Dio. Ora, « essere mossi o azionati è più che essere semplicemente guidati o diretti; perché colui che è guidato fa pure qualcosa; egli è precisamente diretto in modo che agisca correttamente. Ma chi è mosso o attivato sembra a malapena fare qualcosa da se stesso; eppure la grazia del Salvatore agisce così efficacemente sulla nostra volontà che l’Apostolo non ha paura di dire: Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, questi sono i figli di Dio » (Rom., VIII, 14). E la nostra volontà non saprebbe fare un uso migliore della propria libertà, che abbandonandola all’impulso di Colui che non può fare il male …. » (Rom. VIII, 14 – S. Aug. De Gestius Pel. C. III, n. 5). La Scrittura e la vita dei Santi contengono un gran numero di fatti in cui questo impulso divino è visto in esercizio. Così si dice in Luca che « Gesù è stato spinto nel deserto dallo Spirito Santo: Agebatur a Spiritu in desertum » (Luc. IV, 1). Allo stesso modo il vecchio Simeone, che aveva ricevuto dallo Spirito Santo la promessa che non sarebbe morto senza aver visto prima il Cristo del Signore, si sentiva ispirato a venire al Tempio, venit in Spiritu in templum, (Luc. II, 25) nel momento in cui Maria e Giuseppe si sono presentati lì per adempiere le prescrizioni della legge nella persona del Bambino Gesù.  – Un fatto ci mostrerà in modo impressionante la differenza nel modo di agire che distingue le virtù dai doni. Sotto la persecuzione di Settimio-Severo, una giovane schiava di nome Felicita era appena stata condannata alle bestie feroci con altri Cristiani. Ella era prossima a partorire, e poiché si avvicinava il giorno del supplizio, Félicita era desolata al pensiero che la sua gravidanza avesse potuto ritardare il suo supplizio, perché la legge vietava l’esecuzione di una donna incinta. Anche gli altri martiri si affliggevano di lasciarla indietro.Tre giorni prima della data fissata per il combattimento, tutti pregavano per la sua pronta liberazione. Non appena finito, la colsero i dolori. Mentre si lamentava, una delle carceriere le disse: « Se in questo momento non puoi sopportare le sofferenze, come sarà quando sarai straziata dalle bestie? Sarebbe quindi molto meglio sacrificare agli dei. » Al che, questa donna generosa diede questa bella risposta: « Oggi sono io che soffro; ma allora sarà un Altro in me che soffrirà per me, perché anch’io soffrirò per Lui. »

IV.

Distinti dalle virtù per il loro modo di agire, i doni lo sono ancora per una regola che serve da misura dei loro atti. La regola delle virtù acquisite è la ragione umana perfezionata dalla prudenza naturale; quella delle virtù infuse, la ragione illuminata dalla fede e diretta dalla prudenza soprannaturale; per questo si definisce la virtù: un’abitudine che ci inclina a vivere con rettitudine secondo la regola della ragione: qua recte vivitur secundum regulam rationis (S. Th., Ia IIæ, q. LXVII, a. 1, ad 3). Quanto ai doni dello Spirito Santo, queste perfezioni superiori, alliores perfectiones (Ibid. in corp. art.) che Dio ci dà in vista della sua mozione, in ordine ad motionem ipsius (Ibid. ad. 3), i loro atti non hanno altra regola che l’ispirazione divina e la saggezza di Colui che è lo Spirito di verità.  (S. Th. III Sent. Dist. XXXIV, q. 1 a. 3) – Non è quindi raro che « l’ispirazione divina spinga l’uomo a delle opere che vanno oltre i limiti ordinari della ragione, quando è illuminato dalla fede. Queste opere sono buone di una bontà superiore; non sono temerarie perché hanno Dio stesso come consigliere e sostegno; esse sono giustificate da questa ragione superiore per cui Dio, quando agisce in questo modo, non è obbligato a restare entro i limiti che l’imperfezione naturale dell’uomo lo costringe a rispettare. Per tutte queste ragioni esse soddisfano più del necessario i dati della prudenza. Tuttavia, la prudenza ordinaria, anche la cristiana, non permetterebbe loro di essere intraprese o consigliate. È soprattutto in queste opere che sono in gioco i doni dello Spirito Santo. » Così quando Santa Dorotea, condotta al supplizio e interrogata da un avvocato di nome Teofilo, che, avendola sentita parlare del paradiso del suo Sposo, le disse scherzosamente: « Vieni, sposa di Cristo, mandami dei fiori o delle rose dal Paradiso di tuo marito », rispose subito: « Certamente lo farò »: da dove ha ottenuto tale assicurazione? Avrebbe potuto parlare in questo modo, secondo le leggi della prudenza cristiana? Non si esponeva ella alla tentazione di Dio contando su di un miracolo che  Egli non era tenuto ad operare, o a screditare la Religione Cristiana, se la promessa che aveva appena fatto non fosse stata mantenuta? Eppure la giovane vergine risponde senza esitazione: « Certamente lo farò: Plane hoc faciam. » E l’evento gli diede subito ragione. Perché lo Spirito Santo le aveva suggerito la sua risposta e, senza esitazione, senza ulteriori riflessioni, aveva obbedito docilmente all’ispirazione divina, secondo questa parola del profeta: « Il Signore mi ha aperto l’orecchio per farmi sentire la sua voce; qualunque cosa mi dica, non resisto; qualunque difficoltà si presenti, non torno indietro. »  – Allo stesso modo, quando il Beato Enrico Suso, dell’Ordine di San Domenico, incise profondamente sul suo petto il nome di Gesù e compì macerazioni che rivoltano la nostra delicatezza; quando Santa Apollonia, minacciata dai pagani di essere bruciata viva se non rinunciava a Gesù Cristo, preveniva i suoi carnefici e si gettava nelle fiamme; quando gli stiliti e tanti altri Santi abbracciavano una vita che sembrava una sfida perpetua alla natura, si comportavano secondo le regole della prudenza cristiana? Certo che no! Eppure i miracoli compiuti a conferma della loro santità sono lì a dimostrarci che, agendo in questo modo, hanno obbedito ad un impulso divino. Tutti questi eroismi di fede, di dolcezza, di forza, di pazienza, di carità, di cui l’agiografia cristiana ci fornisce il commovente racconto; le straordinarie opere intraprese per la gloria di Dio o la salvezza del prossimo; le manifestazioni più alte ed eccellenti della vita spirituale, non sono altro che gli effetti dei doni dello Spirito Santo. Partendo da un principio superiore alle virtù, non sorprende che esse vadano oltre la misura delle virtù? Ecco perché alcuni teologi dicono che i doni sono delle perfezioni che dispongono l’uomo ad atti più elevati, più eccellenti di quanto non lo siano generalmente gli atti di virtù: et hoc est quod quidam dicunt quod dona perficiunt hominem ad altiores actus quam sint actus virtutum (S. Th., Ia IIae, q. LXVII1, a. 1). – E, lungi dall’impugnare questa opinione, san Tommaso dichiara, in un altro passaggio, che è quella che sembra più conforme alla verità: Et hæc opinio inter omnes vera videtur. (S. Th., III Sent., dist. xxxiv, q. I, a. 1). – Questo significa che i doni hanno un oggetto distinto da quello delle virtù, e che entrano in gioco solo quando si tratta di opere eroiche o straordinarie? Se così fosse, sarebbero adatte solo ai grandi Santi, agli Apostoli, ai martiri, alle anime generose pronte a fare ogni sacrificio per avanzare sulla via della perfezione, mentre sarebbero quasi inutili per la moltitudine immensa di Cristiani che vivono nella giustizia senza fare azioni eclatanti. Quanti in effetti sono salvati dalla semplice pratica dei comandamenti e dalle opere ordinarie della vita cristiana! A che serve dunque che gli habitus debbano praticarsi solo raramente, in casi eccezionali, e chi rimarrebbero più spesso nello stato di forze dormienti e inattive? Ora, è l’insegnamento unanime dei Dottori e dei maestri della vita spirituale che i doni dello Spirito Santo siano la sorte comune di tutti i giusti, senza escludere i più umili; e San Tommaso li dichiara necessari alla salvezza (S. Th., Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 2). – Come non riconoscere, dunque, che gli atti eroici e le eminenti opere di perfetta santità, pur costituendo il dominio principale dei doni, non possano essere tuttavia considerati come oggetto adeguato e come il limite estremo della loro sfera di influenza? Così, pur ammettendo che « i doni superano la comune perfezione delle virtù >>, il santo Dottore sottolinea che questo non è quanto al genere delle opere, nel modo in cui i consigli prevalgono sui precetti, ma nel modo in cui operano, in quanto dispongono l’uomo a ricevere la mozione di un Agente superiore: Dona excédant communem perfectionem virtutum, non quantum ad gênas operum, eo modo quo consilia præcedunt præcepta, sed quantum ad modum opérandi secundum quod movetur homo ab altiori principio. » (S. Th., 1a IIae, q. LXVIII, a. 2, ad I). Non sarebbe quindi possibile, senza allontanarsi dal pensiero del principe della teologia, assegnare alle virtù e ai doni domini completamente separati, riservare loro una sorta di opera speciale che supererebbe in perfezione l’oggetto materiale di questi. Al contrario, non c’è alcuna virtù sulla quale l’uno o l’altro dono non possa essere chiamato ad esercitare in un dato momento il suo modo sovreminente di operare, così come non ci sono forze umane o facoltà suscettibili di essere il principio degli atti umani, che non possano essere attivati dallo Spirito Santo e perfezionati dai suoi doni (S. Th., Ia Ilæ, q. LXVIII, a. 4.). In breve, il campo d’azione dei doni si estende fino a quello delle virtù; ma se entrambi hanno la stessa materia, si differenziano, come abbiamo detto, sia nel loro modo d’azione che nella regola che serve come misura delle loro azioni; per questo il loro oggetto formale non è lo stesso. 

V.

Le considerazioni che precedono sulla natura e la distinzione dei doni e delle virtù hanno già chiarito i rispettivi ruoli nell’economia soprannaturale. Tuttavia, la questione non è stata affrontata direttamente fino ad ora; è giunto il momento di farlo e di indagare su quale sia questo ruolo. Secondo il giudizio dell’Angelico Dottore, questo consisterebbe, per le virtù, nel mettere le nostre potenze appetitive in uno stato di pronta obbedienza alla ragione, e per i doni nel disporre i giusti a seguire docilmente le ispirazioni dello Spirito Santo: Virtutes morales habitus quidam sunt, quibus vires appetitivæ disponuntur ad prompte obediendum rationi….. Dona Spiritus Sancti Sancti sunt quidam habitas quibus homo perficitur ad obediendum Spiritui Sancto (S. Th. Ia IIæq. XXXVI, ad. 3). – Ridotta in questi termini e considerata solo nella sue grandi linee, la dottrina relativa alle particolari funzioni delle virtù e dei doni ha facilmente raccolto tutti i suffragi; ma non appena si è trattato di chiarirla ulteriormente, l’accordo è scomparso e le opinioni si contrastarono. – Così alcuni teologi sostengono che le virtù dispongono « solo ad obbedire alla ragione, ad agire in conformità ad essa, e non a seguire l’ispirazione divina »; il ruolo dei doni sarebbe quello di perfezionare l’uomo « in tutto ciò che egli deve fare sotto l’impulso, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo ». E poiché non c’è alcuna azione della creatura in cui il moto divino non sia associato all’attività umana, essi concludono che le virtù e i doni entrano in esercizio tra i giusti in ogni atto della loro vita soprannaturale.  Essi ragionano così: « Le virtù dispongono l’uomo a seguire l’impulso della ragione giusta; i doni lo dispongono a seguire quello di Dio o dello Spirito Santo. Tuttavia, questo doppio impulso è necessario negli atti ordinari di virtù, dal più elevato al più infimo. » È quindi necessario riconoscere in ogni atto soprannaturale, anche il più semplice, l’esercizio delle virtù e dei doni.  – San Tommaso vede le cose in modo diverso. A suo avviso, pur avendo come ufficio quello di preparare l’anima a seguire il movimento e la direzione della ragione senza resistenza, le virtù la dispongono ancora, di conseguenza, a seguire l’impulso divino, almeno quell’impulso ordinario e comune che Dio non rifiuta a nessuna creatura desiderosa di usare ed attuare i principi di attività che in essa risiedono. Perché, secondo l’osservazione del Santo Dottore, per il fatto stesso che l’uomo sia ben disposto verso la propria ragione, è anche ben disposto verso Dio: Quia per hoc quod homo bene se habet circa rationem propriam, disponitur ad hoc quod se bene habeat in ordine ad Deum (S. Th., Ia IIæ, q. XXXIV, a. 8, ad 9). Per quanto riguarda i doni, la loro specifica funzione, il loro particolare ruolo è quello di preparare colui che li possieda a ricevere in modo connaturale non ogni specie di mozione divina, ma solo alcuni impulsi speciali designati come ispirazioni, distinti dello Spirito Santo, e di far compiere all’uomo atti fuori dal comune, se non per il loro oggetto materiale, almeno per il loro modo di produzione e dalla norma che serve come loro misura: Dona sunt quædam perfectiones hominis, quibus homo disponitur ad hoc quod bene sequatur INSTINCTUM Spiritus Sancti (S, Th., 1a IIæ, q. LXVIII, a. 3). Cum dona sint ad operandum SUPRA HUMANUM MODUM, oportet quod donorum operationes mensurentes ex altéra régula quam sit régula humanæ virtutis, quæ est ipsa Divinitas participata suo modo. (S. Th. III Sent. Dist. XXXIV, q. 1, a. 3). – Per mettere questa verità in tutta la sua luce, non sarà fuori luogo ricordarci che possiamo distinguere una triplice mozione divina: la prima, proporzionata alla natura, e data in vista delle operazioni naturali; è la mozione con cui Dio opera in qualsiasi agente naturale o libero, qua Deus operatur in omni operante, come prima causa, e di cui San Tommaso prova la necessità nella Summa Theologica (I p., q. 105, a. 5). La seconda, soprannaturale e proporzionata alla grazia, ci è concessa da Dio per farci compiere opere salutari; poiché, per quanto perfetta sia o si supponga essere una creatura, anche se possiede in grado eminente la grazia santificante e le virtù infuse, ella non è in grado di passare dalla potenza all’azione, se non in virtù della mozione divina, che qui non si distingue dalla grazia attuale: Nulla res creata potest in quemcumque ætum prodire, nisi virtute motionis divinæ (S. Th., Ia IIæ, q. CIX, a. 9). – La terza ed ultima è una mozione molto speciale sotto l’influenza della quale l’uomo è più passivo che attivo, magis agitator quam agat, secondo questa parola dell’Apostolo: « Tutti coloro che sono mossi e attuati dallo Spirito Santo, questi sono i figli di Dio: Quicumque Spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (Rom. VIII, 14) ». Su questo san Tommaso sottolinea che « essere mossi o attivati è come essere messo in moto da una sorta di istinto superiore: Illa enim agi dicuntur, quæ quodam superiori instinctu moventur. Così si dice di animali, non che non agiscono da se stessi. Si dice quindi che gli animali agiscano, non come se agissero con il proprio movimento, ma spinti dall’istinto della natura: Unde de brutis dicimus quod non agunt, sed aguntur, quia a natura moventur, e non ex proprio motu, ad suas actiones agendas. Ora, qualcosa di simile accade nell’uomo spirituale che è inclinato a certi atti non dal movimento del suo libero arbitrio, ma principalmente dallo Spirito Santo: Similiter autem homo spiritualis non quasi ex motu propriæ voluntatis principaliter, sed ex instinctu Spiritus Sancii inclinatur ad aliquid. » (S. Th., in Rom. VIII, 14, lect. 3). E per non abusare del paragone che ha appena fatto, l’angelico Dottore si affretta ad aggiungere che questo impulso dello Spirito Santo non esclude in alcun modo la spontaneità, o addirittura la libertà delle loro azioni, nei giusti, ma è l’indicazione che il movimento stesso della loro volontà e del libero arbitrio è causato dallo Spirito Santo, seguendo questa parola dell’Apostolo: « è Dio che opera in noi il volere ed il compierlo. – Non tamen per hoc excluditur quin viri viri spirituales per voluntatem et liberum arbitrium operentur, quia ipsum motum voluntatis et liberi arbitrii Spiritus Sanctus in eis causat, secundum illud Philip, II, 13; Deus est qui operatur in nobis velle et perficere (Ibid.). Il primo tipo di moto divino attiva le nostre forze naturali, sia da sole, sia perfezionate dalle virtù acquisite, e con esse diventa il principio degli atti moralmente buoni. Il secondo mette in pratica le virtù infuse, e ci fa compiere atti soprannaturali, almeno quelli in cui è conservato il nostro modo naturale di agire. Quanto al terzo, è specifico dei doni, ed è sempre un impulso speciale avente come termine opere sovreminenti in qualche ambito, cum donum elevet ad operationem quæ est supra humanum modum (S. Th., m Sent., dîst. XXXIV, q. 1, a. 2), opere in cui l’anima umana opera come strumento dello Spirito Santo, ed è quindi più passiva che attiva: In donis Spiritus Sancti mens humana non se habet ut movens, sedmagis ut mota (S. Th., IIa IIæ, q. LII, a. 2, ad 1). – Nei primi due casi, il moto divino si nasconde dietro le nostre facoltà, che fa sì che vengano esercitate nel rispetto del loro normale gioco. Secondo la felice espressione di Papa Pio VI nella bolla Auctorem fidei, ci fa compiere gli atti ai quali ci siamo determinati liberamente: facit ut faciàmus (Bulla Auctorem fidei, Prop. 21). È il moto ordinario e comune sotto l’influenza del quale si compiono gli atti emanati dalle virtù.  – Molto diversa è la mozione specifica per i doni. Questa, infatti, impedisce le nostre deliberazioni, anticipa i nostri giudizi, e ci porta in un modo quasi istintivo ad opere che non avevamo pensato e che possiamo veramente chiamare sovrumane, sia perché superano le nostre forze, sia perché avvengono al di fuori del modo e dei processi ordinari della natura e della grazia. È l’impulso che viene da Dio come Agente superiore, sicut a quadam superiori potentia, (S. Th., I* II”, q. LXVIII, a. 4) e che, per essere ben accolto, richiede disposizioni molto particolari. Infatti, è comprensibile che, per preparare l’anima a seguire prontamente questi straordinari impulsi per mezzo dei quali lo Spirito Santo spinge le anime ad atti che sono principalmente sotto il suo controllo e che avvengono al di fuori delle regole comuni, sono qui necessarie particolari perfezioni, superiori alle virtù, altiores perfectiones (Idem a. 1), i doni, in una parola. Il mobile non dovrebbe essere in relazione armoniosa con il suo motore? Manifestum est quod ad altiorem motorem oportet majori perfectione mobile esse dispositum (Idem a. 8). Ma quando si tratta di opere ordinarie e comuni, alle quali l’uomo si dedica da se stesso, con il proprio movimento, come non ammettere con san Tommaso che la stessa abitudine che inclina la volontà a seguire l’impulso della retta ragione lo disponga ugualmente a ricevere il moto divino: ad esempio, che la stessa virtù della fortezza o della temperanza che ammorbidisce la nostra volontà al giogo e all’impero della ragione, la renda allo stesso tempo docile al moto divino, inclinandolo a compiere le sue azioni nelle circostanze ordinarie della vita? – Non è forse l’essenza stessa dell’habitus operativo ad avere il potere che esso perfeziona nell’atto, in modo che dipenda dalla volontà usarne a piacimento, secondo le parole di San Tommaso: Habitus est quo quo quis utitur cum valuerit? (S. Th., Ia IIæ, q. L, a. 5). Inoltre, chiunque abbia una buona abitudine, non solo il giusto in cui si trovano i doni dello Spirito Santo con le virtù infuse, ma lo stesso peccatore, o almeno quello  che abbia conservato la fede e la speranza, può compiere gli atti quando lo giudica opportuno, e in modo connaturale, anche in assenza dei doni. – Se fosse altrimenti, se dovesse preparasi l’anima giusta a ricevere fedelmente la mozione divina in tutto ciò che è soprannaturale e a cui i doni sono ordinati, non vediamo perché non ci dovrebbero essere, nell’ordine puramente naturale, delle perfezioni simili ai doni dello Spirito Santo, e destinate a renderci docili al moto divino, così come vi sono virtù acquisite che dispongono della facoltà di obbedire alla ragione; perché infine, nell’ordine della natura come in quello della grazia, obbediamo ad un doppio motore: la ragione e Dio. Tuttavia, per quanto ne sappiamo, nessuno ha mai parlato di questo tipo di perfezioni.  – Concludiamo quindi che: Dio ci muove sia con le virtù che con i doni, ma in modi diversi: in modo conforme alla nostra natura mediante le virtù, in un modo superiore attraverso i doni: Virtutes perficiunt ad actus modo humano, sed dona ultra humanum modum. (S. Th., III Sent, dist. XXXIV, q. 1, a. 1). Finché si tratta di operare il bene in modo umano, secondo le procedure ordinarie e le regole della natura e della grazia, non è richiesta l’azione dei doni e le virtù sono sufficienti: le virtù acquisite, se si tratta di un’opera moralmente buona nell’ordine naturale; le virtù cristiane o infuse, se si tratta di un atto salutare. È solo nei casi in cui l’uomo debba comportarsi in modo superiore al modo ordinario, praticare la virtù in misura eroica o in circostanze particolarmente difficili; o quando si tratti di corrispondere come strumento libero ma docile a qualcuno di quegli impulsi insoliti che vengono da Dio come agente superiore, secondum quod movetur homo ab altiori principio, (S. Th., Ia IIæ, q. LXVIII, a. 2, ad 1) che i doni diventano necessari ed entrano in esercizio.  Una comparazione  completerà il nostro pensiero. Se un Lacordaire o un Montalembert, diventando maestri di scuola, si abbassano al punto di insegnare ai bambini l’a, b, c, sarà necessario che abbiano ricevuto una preparazione speciale per poter seguire le loro lezioni? No, per niente. Non appena questi illustri maestri, molto al di sopra di un normale pedagogo, si limitano ad insegnare le basi della lingua, tutti possono capirle. Sarebbe diverso se, invece di dare al loro giovane pubblico un’istruzione elementare, questi grandi oratori pretendessero di far loro conoscere tutti i segreti dell’eloquenza!

VI.

Se questo è il ruolo dei doni, se il loro scopo proprio e speciale è quello di prepararci a seguire obbedientemente le ispirazioni divine, gli impulsi speciali e straordinari dello Spirito Santo nelle cose dove il moto della ragione è insufficiente, come possiamo affermare che sono necessari alla salvezza? Come possiamo dimostrare che i fedeli, la cui vita si muove nell’orbita di una virtù comune, abbiano davvero bisogno dei doni per raggiungere il loro ultimo fine? Sembra che, con le virtù teologali che le dispongono bene in relazione alle cose divine, con le virtù morali infuse che producono un effetto simile in relazione alle cose umane, possiedano già tutto ciò che è necessario per ottenere la salvezza. Conoscono il termine a cui indirizzare la loro vita, possiedono le forze soprannaturali per lottare per esso, di cosa hanno bisogno di più? Il moto speciale e la direzione di colui di cui il Salmista ha parlato quando ha detto: « Il tuo Spirito che è buono, o Signore, mi condurrà nella terra della vera giustizia » (Ps. CXLII, 10). Infatti, nessuno può raggiungere l’eredità della patria celeste se non sia diretto e guidato dallo Spirito Santo: Quia scilicet in hæreditatem illius terras beatorum nullus potest pervenire nisi moveatur et deducatur a Spiritu Sancto (S. Th., Ia. IIæ, q. XLVIII, a. 2). – Se l’uomo non avesse altro fine che quello che risponde alle esigenze della sua natura, potrebbe, con le sue energie nativee e l’aiuto ordinario che la Provvidenza non rifiuta mai di dare alle cause seconde per l’esercizio della loro attività, andrebbe da solo verso il termine del suo destino. Se, però, Dio si degna di venire ancora in suo aiuto con una mozione ed un impulso speciale, per especialem instinctum, sarebbe l’effetto di una bontà veramente sovrabbondante che va volentieri oltre il necessario, e non è il segno di un bisogno a cui sia indispensabile provvedere: Si tamen etiam in hoc homo adjuvetur a Deo per specialem instinctum, hoc erit superabundantis bonitatis (Idem). Ma perché è piaciuto a Dio chiamarci ad un fine che supera assolutamente le forze e le esigenze della natura, e poiché la ragione stessa, pur perfezionata dalla fede e dalle altre virtù teologali, non è in grado di condurci a questo felice termine, abbiamo bisogno della direzione di una guida più illuminata, dell’aiuto di un motore più potente, e di conseguenza dei doni divini che hanno precisamente come loro scopo il renderci flessibili e docili alle ispirazioni dall’alto: Sed in ordine ad finem ultimum supernaturalem….. non sufficit ipsa motio rathonis, nisi adsit instinctus et motio Spiritus Sancti….. E ideo ad illum finem consequendum necessariun est homini habere donum Spiritus Sancti (S. Th., Ia. IIæ, q. LXVIII, a. 2). Da dove viene questa impotenza della ragione? Il difettoso possesso delle virtù teologali che caratterizza lo stato del cammino, e l’insufficienza delle virtù morali per resistere in ogni caso agli attacchi talvolta così improvvisi e così vivaci del demone, del mondo e della carne.  – Chiunque, infatti – nota san Tommaso – possiede perfettamente una natura, una forma, una virtù, insomma un principio qualunque di operazione, può, con la mozione ordinaria di Dio che opera internamente in qualsiasi agente naturale o libero, agire da solo in questo ambito; ma chi possiede solo imperfettamente una fonte di attività non gli è bastante questa per agire, ma ha bisogno di aiuto estraneo, di una direzione, di una mozione speciale. (S. Th., Ia Iæ, q. LXVIII, a. 2). Così uno studente di medicina, un interno degli ospedali, non ancora pienamente istruito, non si avventura, se è prudente, ad intraprendere da solo e senza l’assistenza del suo maestro, un’operazione delicata che potrebbe portare a gravi conseguenze, mentre un medico o chirurgo incaricato, una volta che ha pienamente posseduto la sua arte, può operare da solo, anche, senza bisogno di direzione o assistenza (Ibid). Il capitano di una nave, che viaggia in ambienti sconosciuti, non si avventura nell’entrare da solo in un porto di difficile e pericoloso accesso, ma porta a bordo un pilota esperto che ha familiarità con i passi che conducono alla rada. Tuttavia, questa è proprio la condizione attuale dell’uomo in relazione al suo fine ultimo soprannaturale. Avendo solo allo stato imperfetto i principi delle operazioni soprannaturali, cioè le virtù cristiane, e in particolare le tre virtù teologali – perché è solo imperfettamente che conosciamo e amiamo Dio – è impossibile raggiungere il porto della salvezza senza un aiuto speciale, senza un particolare impulso ed un aiuto dello Spirito Santo.. In ordine ad finem ultimum supernaturalem…., non sufficit ipsa motio rationis, nisi desuper adsit istinctus et motio Spiritus Sancti…..; quia scilicet in hæreditatem illius terræ beatorum nullus potest pervenire nisi moveatur et deducatur a Spiritu Sancto.. E poiché è necessario questo speciale impulso divino, sono necessari di conseguenza i doni che dispongono a riceverlo. Et ideo ad illum finem consequendum necessarium est homini habere donum Spiritus Sancti (S. Th., Ia IIæ, q. LXVIII, a. 2) – Non è che, anche nell’ordine della  Grazia, l’uomo non sia in grado di agire da solo e con il proprio movimento in qualsiasi incontro. Essendo informato, anche se in modo difettoso, dalle virtù teologali, la sua ragione può benissimo, è vero, permettergli di compiere, con l’aiuto ordinario della grazia, più di un atto salutare; essa può cominciare a portarla sulle sponde eterne; ma perché non è in suo potere né il sapere tutto ciò che sia importante sapere, né di compiere tutto ciò che sarebbe utile o necessario fare (Ibid. ad 3); perché essa non possiede, nelle virtù acquisite o infuse, se non solo un insufficiente rimedio contro l’ignoranza, l’ottusità, la durezza del cuore e le altre miserie della nostra natura, non è in grado di superare efficacemente tutti gli ostacoli, di superare tutte le difficoltà che possano sorgere, e di condurci definitivamente in cielo senza una speciale assistenza, e quindi senza i doni dello Spirito Santo.  – Quante volte, nel corso della sua vita, un Cristiano si trova di fronte a certe gravi evenienze, ad importanti risoluzioni da prendere, ad una scelta di vita da fare, ai comportamenti da seguire in questo o in quel caso, senza poter sapere esattamente cosa sia opportuno per la sua eternità! È quindi necessario che Colui che sa tutto e può fare tutto si incarichi Egli stesso di guidarci e proteggerci (S. Th., Ia IIæ, q. CIX, a. 9). – Inoltre, la salvezza a volte richiede delle opere difficili. Sia un funzionario che non può compiere i suoi doveri religiosi senza essere visto male dai suoi capi e senza esporsi nell’incorrere in loro disgrazia. Se fosse solo, affronterebbe il pericolo con maggior coraggio; ma è sostegno di famiglia, e la sua funzione è la sua unica risorsa. Siano coniugi che, per non lasciarsi trascinare dalla corrente che ne trasporta tanti altri, hanno bisogno di un’energia insolita per essere fedeli fino alla fine dei gravi doveri che impone il matrimonio. Anche supponendo che questi Cristiani posseggano con la grazia, l’uno la virtù della fortezza, gli altri la castità coniugale, spesso la loro virtù è debole e la loro forza vacillante. Dove trovare l’aiuto speciale, l’energia extra, necessaria in tali circostanze critiche, se non nella preghiera incessante e nei doni dello Spirito Santo? Infatti, il dono della fortezza è lì per perfezionare la virtù che porta il suo nome; e quello del timore arriverà molto opportuno in aiuto della castità coniugale per facilitare il suo trionfo ispirando agli sposi un santo orrore del peccato. Per questo San Tommaso ci dice – seguendo le orme di San Gregorio Magno – che i doni sono conferiti per aiutare le virtù, in adjutorium virtutum (S. Th., in Is. XI, 2). Pur essendo inferiori per eccellenza alle virtù teologali che ci uniscono direttamente a Dio, i doni danno loro comunque un utile contributo: Sono soprattutto i preziosi ausiliari delle virtù morali, di cui perfezionano l’azione, supplendo anche al bisogno alla loro impotenza: Dona dantur in adjutorium virtutum contra defectus; e sic videtur quod perficiant illud quod virtutes perficere non possunt (S. Th., 1a IIæ, q. LXVIII, a. 8, arg. Sed contra). – La prudenza riceve dal dono del consiglio le luci che le mancano; la giustizia, che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto, si perfeziona con il dono della pietà, che ci ispira sentimenti di tenerezza filiale per Dio e ci dona viscere di misericordia per i fratelli e le sorelle. Il dono della fortezza ci fa superare senza paura tutti gli ostacoli che potrebbero distoglierci dal bene, ci rafforza contro l’orrore delle difficoltà e ci ispira con il coraggio necessario per intraprendere i più difficili lavori. Infine, il dono del timore sostiene la virtù della temperanza contro i duri assalti della carne in rivolta. Un’azione più energica, degli sforzi più eroici nella pratica del bene, questi sono gli effetti dei doni dello Spirito Santo. Attraverso di loro, l’anima che le virtù infuse avevano già portata in possesso della comune santità e resa capace di compiere le opere ordinarie della vita cristiana, sale facilmente alle vette più elevate della perfezione. Da qui le parole dell’angelico Dottore: « I doni perfezionano le virtù elevandole al di sopra del modo umano: Dona perficiunt virtutes, elevando eas supra modum humanum (S. Th., De charit., q. unie., a. 2. ad 17). – Così i maestri della vita spirituale li hanno paragonati alle ali dell’uccello o alle vele della nave. L’uccello vola più veloce di quanto cammini; e mentre la nave, con semplici remi avanza solo con difficoltà e lentezza, quella per cui il vento gonfia le vele o il cui vapore fende i flutti, corre veloce sulle onde. – Quello che emerge dalle spiegazioni precedenti, e quello che ne consegue, ci sembra, con la chiarezza dell’evidenza, che i doni dello Spirito Santo siano veramente necessari laddove il moto stesso della ragione, perfezionato dalle virtù infuse, sia insufficiente, e serva uno speciale impulso divino. Ora, il fatto è che, anche con l’appoggio delle virtù cristiane, la ragione umana non è in grado di condurci efficacemente al nostro ultimo fine e di superare tutti gli ostacoli che si incontrano lungo il cammino, se non sia aiutata, salvata, assistita da una particolare ispirazione dall’alto, da una sorta di istinto superiore dello Spirito Santo, quodam superiori instinctu Spiritus Sancti (S. Th., Ia IIæ, q. LXVIII, a. 2, ad 2).Abbiamo quindi bisogno di questo speciale impulso divino, e conseguentemente dei doni, non costantemente, ma di tanto in tanto nel corso della nostra esistenza, più o meno spesso secondo le difficoltà che sorgono, gli atti eminenti che devono essere compiuti, il grado di perfezione a cui siamo chiamati, e anche secondo il buon piacere di Colui che, padrone dei suoi doni, li distribuisce a suo piacimento. Non c’è tempo nella vita, nessuno stato, nessuna condizione umana che possa fare a meno dei doni e della loro influenza divina. -Tuttavia, non sono necessari per tutti e per ogni atto soprannaturale, ma solo per le opere emanate dai giusti sotto la guida dello Spirito Santo, e nelle quali l’uomo è più passivo che attivo. In donis Spiritus Sancti mens humana non se habet ut movens, sed magis ut mota (S. Th., IIa IIæ, q. LII, a. 2, ad 1). È con questa restrizione che dobbiamo sempre comprendere la risposta di San Tommaso alla seguente obiezione contro la necessità dei doni: Sembra che con le virtù teologali e morali l’uomo sia sufficientemente preparato per raggiungere la salvezza, anche senza i doni. A cui il Santo Dottore risponde: « Le virtù teologali e morali non perfezionano l’uomo talmente tanto rispetto all’ultimo fine, che ancora non abbiano bisogno di essere mosse da un istinto superiore dello Spirito Santo: Per virtutes theologicas et morales non ita perficitur homo in ordine ad ultimum finem, quin SEMPER indigeat moveri quodam superiori istintu Spiritus Sancti, ratione jam dicta in corpore articuli (S. Th., Ia IIæq. LXVIII, a. 2 ad 2).

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/17/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-15/

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (13)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (13)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) – P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA ABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO V

Effetti dell’Inabitazione dello Spirito-Santo

LE VIRTÙ INFUSE TEOLOGALI E MORALI

I.

Se la beatitudine fosse data solo a titolo d’eredità, non dovremmo preoccuparci di aver cura di meritarla con le nostre opere; basterebbe per ottenerla il possedere, con la grazia santificante e attraverso di essa, il titolo e la qualità di figlio di Dio adottivo. E’ proprio questo il caso dei bambini battezzati, finché non abbiano raggiunto l’età della discrezione. Per gli adulti è diverso, perché, secondo la parola di sant’Agostino, colui che ci ha creati senza di noi non ha ritenuto opportuno giustificarci e salvarci senza di noi. (S. Aug., De Verbis Apost.f serm , XV, cap. XI). – Era, infatti, per lo meno bene opportuno che, dopo essere stato divinizzato e risuscitato con un dono tanto sublime, fino alla partecipazione dell’essere e della vita di Dio, si dia all’uomo la possibilità di agire divinamente, di esercitare le funzioni della sua nuova vita e diventare così collaboratore di Dio e artefice secondario della propria salvezza. Anche il Concilio di Trento, infallibile interprete della verità rivelata, dichiara apertamente che « la vita eterna deve essere offerta ai giustificati, non solo come grazia misericordiosamente promessa dal Signore ai figli di Dio, ma anche come ricompensa per le loro buone opere e per i loro meriti, come corona di giustizia che il Giudice giusto riserva a chiunque abbia legittimamente combattuto (Conc. Trid.\ sess. VI, c. XVI.). » Per questo l’Apostolo san Paolo ci esorta ad abbondare in ogni tipo di azioni sante, con la ferma convinzione che, lungi dall’essere sterili nel Signore, il nostro lavoro debba invece ricevere una magnifica ricompensa. E per stimolare il nostro zelo e scuotere la nostra apatia, ci ricorda che siamo salvati solo nella speranza, spe salvi facti sumus (I Cor. V, 58 – Hebr. X, 35), e che potendo sempre, ahimè, perdere la grazia ricevuta, dobbiamo operare la nostra salvezza con timore e tremore (Rom. VIII,24). Unendo la sua grande voce a quella di san Paolo, il capo del collegio apostolico ci grida: « Cercate, fratelli miei, di assicurare la vostra vocazione e la vostra elezione attraverso buone opere. Così facendo non peccherete e vi concederete un felice ingresso nell’eterno regno del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo » (Fil. II, 12). – Ma per meritare, per produrre degli atti relativi alla nostra elevazione soprannaturale, per poterci muovere verso quell’ordine superiore che ci è stato assegnato dalla misericordia divina e che la natura non è in grado di raggiungere da sola, per agire divinamente, in una parola, abbiamo bisogno di forze, poteri, energie divine, di un aiuto speciale. Dio non ce li ha rifiutati; ce li concede persino con una varietà ed una sovrabbondanza veramente meravigliosa. Allo stesso modo, in effetti, che come nell’ordine  naturale possediamo un insieme di facoltà, intellettuali e sensibili, che derivano dall’essenza dell’anima e costituiscono altrettanti principi prossimi di operazione; così, nell’ordine soprannaturale, riceviamo con l’essere spirituale, tutta una serie di nuovi poteri, che derivano dalla grazia come sue proprietà, e perfezionano, nobilitano, elevano le nostre facoltà al di sopra di se stesse e permettono loro di produrre atti superiori alle forze della natura. (S. Th., Summa Theol., Ia IIæ, q. CX, a. 4, ad X.). Senza dubbio, la grazia attuale sarebbe di rigore sufficiente per questo tipo di operazioni; e, infatti, è attraverso un tale soccorso temporaneo e transitorio che Dio viene in aiuto del peccatore non rigenerato, per consentirgli di compiere gli atti preparatori alla giustificazione. Ma quando la vita soprannaturale ha raggiunto uno stato di perfezione in un’anima, quando le è stata comunicata in modo stabile con il dono della grazia santificante, non è più solo attraverso l’aiuto transitorio che Dio permette che quest’anima possa esercitare le funzioni della sua nuova vita; le infonde principi di attività proporzionati alle operazioni che deve compiere, le dà forza, qualità soprannaturali permanenti – tronchiamo le parole – delle abitudini, che le permettano di esercitare in modo come naturale, connaturaliter, delle opere soprannaturali. Queste abitudini sono le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo. – Questo organismo soprannaturale è stato mirabilmente descritto in una pagina che ci rimprovereremmo di non mettere sotto gli occhi dei nostri lettori. « È qualcosa di ineffabile – dice Msr Gay -che questo irradiamento attivo e benefico di Dio nella creatura che Egli abita….. Soprattutto, Dio irradia ed opera nell’essenza dell’anima. Egli riversa in essa questa grazia radicale che si chiama santificante, e che, essendo sia la condizione che primario effetto della sua presenza soprannaturale, diventa in noi un titolo e come un passaggio ai suoi altri benefici, e libra l’anima intera alle sue operazioni, almeno di diritto, in potenza e in principio. È con questa grazia che la libera, che la rischiara, che la rende nuova, giovane, candida, aperta a tutte le influenze alle quali la sottopone, docile a tutti gli impulsi che gli dà. – È con questa grazia che Egli tiene, per così dire, le radici di quest’anima, e, innestandola su di Lui, le fa bere la sua linfa tre volte santa, e diventa capace di proiettarla in tutte queste magnifiche potenze con cui si estende come l’albero nei suoi rami. Queste forze naturali, così numerose, così varie e già così ammirevoli, sono divinamente perfezionate da questa diffusione interiore, ciascuna secondo il suo ordine, la sua funzione e il suo fine. Tutte ne ricevono delle qualità nuove, superiori, essenzialmente soprannaturali, che sono allo stesso tempo delle dolcezze e delle energie, delle docilità e delle forze, delle trasparenze e dei concentramenti,  rendendo l’anima più passiva sotto la mano di Dio e allo stesso tempo più attiva nel servirlo e nel fare le sue opere. Queste sono innanzitutto quelle virtù sovrane che si chiamano teologali: la fede, la speranza e la carità. L’esperienza ci mostra che la luce solare unica si sfiocca in diversi colori, e prima di tutto in tre colori principali. Sembra che queste tre grandi virtù siano l’immediata espansione della grazia santificante. Poi ci sono le virtù infuse, sia intellettuali che morali. Queste sono i doni dello Spirito Santo che, derivanti dalle tre virtù teologali e dalla loro fonte, permettono all’anima di esercitare divinamente le virtù secondarie e diventare i semi fecondi dei frutti che Dio vuole raccogliere in noi. Senza dubbio l’unico Sacramento della Cresima dà automaticamente l’abbondanza di questi sacri doni; ma il semplice stato di grazia ne implica la presenza nell’anima, e non c’è un solo giusto che non li possieda tutti in questa o quella misura (Mgr Gay: De la vie et des vertus chrétiennes ie r traité) ». Lo stesso bambino, battezzato all’alba della vita e incapace a quest’età di un atto di bene o di male, riceve tuttavia con la grazia, tutta questa serie di virtù soprannaturali, come altrettanti semi che lo Spirito Santo getta nella sua anima, affinché, al primo risveglio della ragione, stiano già lì, pronti ad entrare in esercizio e a dare i loro frutti.

II.

Possiamo già vedere da quanto appena detto, che un quadruplo elemento costituisce la vita soprannaturale dei giusti: la grazia abituale o santificante, le virtù teologali, le virtù morali infuse e i doni dello Spirito Santo. Non sarà fuori luogo dedicare qui alcune pagine ad una breve esposizione della natura, del ruolo e del funzionamento di questi vari elementi. Se lo studio della vita organica e razionale offre al fisiologo e filosofo un’attrazione mediocre, quale forte interesse non dovrebbe avere un Cristiano nel conoscere gli organi, le funzioni ed i fenomeni della vita soprannaturale, in breve, i mezzi usati dallo Spirito Santo per provocare e promuovere la santificazione della sua anima? Diciamo solo una parola sul ruolo della grazia, la cui natura e i cui effetti abbiamo già sufficientemente spiegato sopra. – Per consentire all’uomo di compiere gli atti che devono condurlo alla visione beatifica, termine finale del suo destino, Dio riversa in lui prima di tutto la grazia santificante che svolge nell’ordine soprannaturale il ruolo dell’anima in quello della natura. Allo stesso modo in cui, con la sua unione al corpo, l’anima fa della materia vile e inerte un essere vivente e umano, così la grazia, vera forma di ordine superiore, comunica a chi la riceve un nuovo essere, un essere spirituale e divino, che fa dell’uomo un Cristiano e figlio di Dio (S. Th., De virt. in comm., q. un., a. 10.). E poiché l’essere è la perfezione propria dell’essenza, così come l’operazione è quella delle potenze, la grazia è ricevuta nell’essenza stessa dell’anima che essa rende partecipe della natura divina, mentre le virtù che l’accompagnano hanno come soggetto le varie facoltà umane che elevano e perfezionano aggiungendo alle loro forze native un’energia extra, più alta e più potente. (S. Th, De Verit., q. XXVII, a. 6 ). Nessuno deve stupirsi che, similmente all’anima che non agisce direttamente sulla sua sostanza, ma con l’intermediazione delle sue facoltà, la grazia santificante non opera immediatamente per se stessa, ma con l’intermediazione delle virtù infuse e dei doni che tengono il posto delle potenze. (S. Th., De Verit., q. XXVII, a. 5, ad 17.). È vero, è un principio di vita e di funzionamento, è un principio radicale e lontano, non un principio immediato e vicino; è la radice o il tronco dell’albero, le virtù soprannaturali sono i suoi rami; eppure, come tutti sanno, sono i rami che di solito portano fiori e frutti.  – Abbiamo nominato le virtù soprannaturali e le infuse. Esse si chiamano soprannaturali perché superano la portata e le esigenze della natura; infuse perché, a differenza delle virtù naturali o acquisite, che sono il risultato dell’attività umana e sono acquisite attraverso la ripetizione frequente degli stessi atti (ad rem. Cf. S. Th. Ia- IIæ q. LI, a, 4), esse possono venire solo da Dio, che le provoca in noi senza la nostra effettiva cooperazione, ma non senza il nostro consenso (S. Th., 1a-IIæ, q. LV, a. 4, ad 6.). Sono ancora chiamate virtù cristiane, perché sono appannaggio esclusivo del Cristiano perfetto, cioè del membro vivente di Gesù Cristo; vengono con la grazia, crescono, si sviluppano e scompaiono con essa, tranne la fede e la speranza, che perseverano nel peccatore e sono distrutte solo da una grave colpa in opposizione ad esse. Le virtù infuse vengono quindi impiantate in noi per elevare e trasformare le energie della natura e renderle capaci di meritorie operazioni di vita eterna, così come i rami di una specie più eccellente e nobile vengono innestati su di una selvatica, e la linfa naturale dell’arbusto, passando attraverso l’innesto, viene corretta e purificata al punto da produrre frutti che non sono più come in precedenza amari e selvaggi, ma dolci e squisiti. – Tra le virtù infuse ci sono in primo luogo le tre virtù teologali, così chiamate perché hanno Dio stesso come oggetto, che solo Lui può diffonderle nei cuori, e che alla rivelazione divina dobbiamo la loro conoscenza (S. Th., Ia-IIæ, q. LXII, a. 1). È impossibile mettere in dubbio l’esistenza di queste virtù, di cui san Paolo fa esplicita menzione nella sua prima epistola ai Corinzi: « Ora – egli dice – rimangono queste tre virtù, fede, speranza e carità; ma la più eccellente delle tre è la carità. Nunc autem manent fides, spes, charitas: tria hæc; major autem horum est charitas » (1 Cor.XIII, 13). Il Concilio di Trento non è meno formale. Esso insegna, infatti, che « nella giustificazione l’uomo riceve, con la remissione dei peccati, le tre virtù della fede, della speranza e della carità, infuse nello stesso tempo nella sua anima da Gesù Cristo su cui sono innestate ». Queste prove di autorità diventano ancora più convincenti se consideriamo il fine verso il quale dobbiamo sforzarci e muoverci attraverso i nostri atti. Se questo fine non fosse altro che la beatitudine proporzionata alla natura, le forze naturali, con l’aiuto di Dio, ci basterebbero per raggiungerlo. Ma poiché, nella sua infinita bontà, Dio si è degnato di chiamarci ad un fine soprannaturale, alla partecipazione della sua propria beatitudine, al possesso di beni che superano assolutamente la portata delle nostre facoltà, è di ogni necessità che Egli aggiunga alle nostre forze native altri principi di azione più potenti, energie di natura divina in relazione alla meta da perseguire e raggiungere. Questi principi superiori sono innanzitutto, le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità, che ci ordinano verso l’ultimo fine, che è Dio (S. Th., Ia-Iiæ, q. LXII, a. 1). Che cosa è necessario, infatti, affinché un essere ragionevole sia in grado di tendere in modo diretto e regolare ad un determinato scopo? Che ne abbia la conoscenza e il desiderio di farlo. La conoscenza: come arrivarci senza di essa? Desiderio: senza il quale gli sarebbe difficile ottenerlo. Ma il desiderio effettivo di un bene presuppone la fiducia che esso possa essere acquisito, perché l’uomo saggio non si mette in moto verso una meta che considera impossibile da raggiungere; poi l’amore, perché si desidera solo ciò che si ama. Da lì, per disporre la nostra anima e renderla capace di muoversi liberamente verso il fine dei suoi destini soprannaturali, nasce la necessità delle virtù teologali: di fede, che ci mostra in Dio, visto e posseduto come è in se stesso, il fine supremo a cui siamo chiamati; la speranza con cui, fiduciosi nell’aiuto che ci è stato promesso, ci aspettiamo dal Padre celeste e la beatitudine eterna, ed i mezzi necessari o utili per raggiungerlo; la carità infine, che ci fa amare al di sopra di tutte le cose, Colui che è la bontà infinita (S. Th., De Virt. In comm., q. un., a. 12). – Queste sono le tre virtù principali che devono dare alla nostra vita la loro vera direzione ed esercitare la loro benefica influenza su tutti i nostri comportamenti: la fede, che il Concilio di Trento chiama « l’inizio della salvezza, fondamento e radice di ogni giustificazione; senza la quale è impossibile piacere a Dio e raggiungere la società dei suoi figli » (Conc. Trid. Sess. VI, c. 8); la speranza, questa solida e ferma ancora che gettiamo nel cielo (Hebr. VI, 19)., affinché né gli uragani, né le tempeste della vita presente possano staccarci da Dio e portare via dal porto la nostra fragile carlinga; la carità, infine, la più nobile ed eccellente delle tre; la carità, questa incomparabile regina che dà alle altre virtù la loro forma e perfezione ultima, facendo convergere i loro atti  verso il proprio oggetto, Dio sommo Bene, e rendendole meritorie della vita eterna.

III.

Per quanto preziose ed eccellenti possano essere le virtù teologali, esse non bastano a regolare da sole tutta la vita del Cristiano; altre virtù devono dare il loro sostegno e la loro assistenza a quest’opera complessa; abbiamo così le nominate virtù morali. Indubbiamente, la prima e più indispensabile condizione di salvezza consiste nell’essere ben ordinati rispetto al fine ultimo; ma questa buona disposizione deve estendersi anche ai mezzi che devono condurci al fine. Inoltre, non è solo verso Dio che abbiamo dei doveri da compiere, ma altri ancora sono a carico nostro verso il prossimo e verso noi stessi. Se, allora, per inclinare la nostra intelligenza ad aderire a Dio come alla prima Verità, se per disporre la nostra volontà a disporsi verso di Lui come oggetto della nostra beatitudine suprema e ad amarlo come bontà infinita, abbiamo bisogno delle virtù teologali, per il fedele, rapido e facile adempimento dei nostri obblighi morali, sono necessarie anche altre virtù: la prudenza, per illuminare e dirigere la nostra condotta, e per insegnarci a discernere ciò che dobbiamo fare e ciò che dobbiamo evitare; la giustizia, per prepararci a rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto; la fortezza, per farci superare le difficoltà incontrate nella pratica del bene; la temperanza, infine, per moderare i piaceri dei sensi e mantenerli entro i giusti limiti. A queste quattro virtù principali, comunemente chiamate cardinali, perché sono come l’asse attorno al quale ruota tutta la nostra vita morale, vi è una moltitudine di virtù secondarie e ausiliarie, che hanno tutte il proprio oggetto e scopo, e contribuiscono, ciascuna nella propria sfera, all’ordine e alla santificazione della nostra esistenza terrena fin nei minimi dettagli. Ma che dire delle virtù morali come la fede, la speranza e la carità? Sono esse divinamente infuse per essere gli organi e gli strumenti della vita soprannaturale, o dovremmo acquisirle con le nostre azioni? Sono un dono dello Spirito Santo o un prodotto della natura? In una parola, dovremmo ammettere come giusto, oltre alle virtù morali naturali che costituiscono l’uomo onesto e che sono acquisite con la ripetizione frequente degli stessi atti, altre virtù simili di ordine superiore –, delle virtù morali cristiane o soprannaturali che Dio produrrebbe direttamente e diffonderebbe nelle anime con la grazia e che sarebbero prerogativa esclusiva dei suoi figli adottivi? Una questione che in passato è stata oggetto di accesi dibattiti ed in cui la diversità di opinioni può ancora avere libero corso. Un certo numero di teologi medievali, considerando da un lato che la l’influenza della carità fosse sufficiente a rendere meritevole della vita eterna degli atti che emanavano da principi naturali, non vedevano la necessità di queste virtù infuse; e, d’altra parte, essi contestavano la loro esistenza come contraria all’esperienza, con il pretesto che dopo la loro giustificazione gli uomini incontravano le stesse difficoltà di prima per il bene. Tuttavia, la caratteristica della virtù è quella di inclinare verso il bene colui che la possiede e di renderla facile da praticare.  Nonostante queste ragioni, più pretestuose che convincenti, la stragrande maggioranza dei dottori ha sempre ritenuto e insegnato come più probabile l’opinione che ammette l’esistenza delle virtù morali infuse. Noi non possiamo, è vero, portare qui a favore di questo sentimento, come abbiamo fatto in precedenza per le virtù teologali, l’autorità del Concilio di Trento, perché esso non fa alcun riferimento alle virtù morali. Ma sarebbe uno strano errore voler argomentare da questo silenzio per combattere un insegnamento comune nella Scuola. Se il Santo Concilio non parla delle virtù morali infuse, la ragione è facile da comprendere; perché per rimanere fedele al suo programma e alla risoluzione presa dall’inizio secondo il principio di concentrare tutti i propri sforzi sulle verità negate dall’eresia e non di dirimere le questioni controverse tra i Cattolici. – E per non fraintendere il suo vero pensiero, il Catechismo ufficiale redatto dai suoi canoni ed approvato dal grande Papa san Pio V elenca, tra gli effetti del battesimo, « il nobilissimo corteggio di tutte le virtù che sono divinamente infuse nell’anima con la grazia: Huic autem additur nobilissimus omnium virtutum comitatus, quæ in animam cum gratia divinitus infunduntur. » (Catech. Conc., part, n, de Baptismo, n. 51). Espressioni certamente singolari, se questa processione consistesse solo delle tre virtù teologali. – Questa non è l’unica occasione in cui la Chiesa ha espresso i suoi sentimenti su questo punto. Già nel XIII secolo, in relazione ad una controversia sugli effetti del Battesimo nei bambini, un tema sul quale i teologi erano divisi in due campi, alcuni sostenendo che la virtù del Sacramento rimette semplicemente ai bambini la colpa originaria, senza conferire loro né la grazia né le virtù infuse, che non consideravano necessarie finché il bambino non fosse stato in grado di compierne gli atti, mentre gli altri essendo di parere contrario, un illustre Pontefice, Innocenzo III, senza commentare il contenuto del dibattito, aveva tuttavia sottolineato che l’affermazione di coloro che sostengono che « né la fede, né la carità, né le altre virtù sono conferite ai bambini, per mancanza di consenso, non è assolutamente accettata dal maggior numero » . Infatti, la maggior parte dei teologi riteneva che l’infusione della grazia e delle virtù fosse un’abitudine, non solo negli adulti, ma anche negli stessi bambini. E di quali virtù si trattava? Delle virtù teologali? Senza dubbio, ma anche delle altre, secondo l’espressione di Innocenzo III. Ora, se le prime fossero state le uniche coinvolte, cosa c’è di più semplice e di più naturale che completare l’enumerazione aggiungendo la speranza, alla fede e alla carità già citata? E perché questo plurale “le altre virtù”, per designarne solo una?

IV.

Un secolo dopo, nel 1312, nel Concilio Ecumenico di Vienne, un altro Pontefice, Clemente V, riprendendo questa stessa questione ancora in discussione tra scotisti e tomisti, questa volta sostenendo chiaramente il sentimento di san Tommaso, e, senza farne una definizione di fede, dichiarava di adottare, con l’approvazione del Concilio, « come più probabile e conforme agli insegnamenti dei Santi e dei teologi moderni, l’opinione secondo la quale la grazia informante e le virtù siano conferite a tutti i battezzati, bambini o adulti » (Clemens V, in Conc. Vienn., De summa Trinit., et Cathol. Fide). Al cospetto di tale autorità, i teologi hanno da allora comunemente accettato l’opinione che ammette l’esistenza delle virtù morali infuse. E la Scrittura, così come la Tradizione, sostengono questa opinione. Le Sante Lettere ci parlano di virtù cardinali che non sono il risultato del lavoro umano, ma il frutto della sapienza divina. « Perché è essa che insegna la temperanza, la prudenza, la giustizia e la forza, cioè ciò che è la cosa più utile in questa vita » (Sap. VIII,7). Anche sant’Agostino dichiara che « ci sono quattro virtù che devono dirigere la nostra vita, secondo la dottrina dei savi e gli insegnamenti della Scrittura. La prima si chiama prudenza; essa ci fa distinguere tra bene e male. La seconda è la giustizia, con la quale restituiamo a tutti ciò che appartiene loro. La terza è la temperanza, attraverso la quale freniamo le nostre passioni. La  quarta è la fortezza, che ci permette di sopportare tutto ciò che è doloroso. Queste virtù ci sono date da Dio con grazia in questa valle di lacrime: Iste virtutes nunc in convalle plorationis per gratiam Dei dantur nobis » (S. Agost. in Ps. LXXXIII). – A sostegno di questa dottrina, San Tommaso fornisce una ragione teologica di grande importanza. E’ necessario – egli dice – che gli effetti corrispondano e siano proporzionati alle loro cause o principi. Tuttavia, tutte le virtù, sia intellettuali che morali, che possiamo acquisire attraverso le nostre azioni, derivano da certi principi depositati nel profondo del nostro essere, da certi germi naturali di cui sono la realizzazione. In luogo ed al posto di questi principi, Dio ci conferisce, nell’ordine della grazia, le virtù teologali, che ci ordinano verso il nostro fine soprannaturale. È quindi necessario, perché ci sia armonia nel piano divino, che queste virtù teologali divinamente infuse corrispondano ad altre abitudini soprannaturali, della stessa origine e dello stesso ordine, che mirino a soprannaturalizzare la nostra vita morale e a rendere i suoi atti meritevoli della vita eterna; abitudini che siano alle virtù teologali ciò che le virtù umane, intellettuali o morali sono ai principi naturali da cui derivano (S. Th., Ia-IIæ, q. LXIII,  a. 3). Infatti, non lo si deve nascondere, le virtù acquisite non sono proporzionate alle virtù  teologali: non sunt proportionatæ virtutibus theologicis » (Idem. ad. 1); derivate da principi naturali, non possono estendere la loro attività oltre i limiti della natura. Senza dubbio, operando sotto l’influenza e l’impero della carità, possono compiere opere meritorie; ma tutto il valore di queste opere deriva in definitiva dal principio che le ispira, e l’atto che emana da una virtù naturale rimane intrinsecamente un atto naturale, senza proporzione di per sé con la ricompensa celeste. – Il Cristiano può quindi possedere due tipi di virtù morali, specificamente diverse, alcune naturali ed acquisite, altre soprannaturali ed infuse: prudenza naturale e prudenza infusa, giustizia naturale e giustizia infusa, ecc. che hanno lo stesso oggetto materiale, ma si differenziano non solo per la loro origine e modalità di crescita, ma anche per il loro oggetto formale e per la loro regola. – Così, mentre la temperanza naturale ci mantiene, nell’uso del cibo, una giusta misura fissata dalla ragione e consistente nell’evitare ogni eccesso capace di nuocere alla salute del corpo o di ostacolare le operazioni intellettive, la temperanza infusa o cristiana, elevandoci più in alto, ci inclina, sotto la direzione della fede, a punire il nostro corpo e ridurlo alla servitù con digiuni, astinenze, veglie e altre mortificazioni; e lo stesso vale per le altre virtù morali, a seconda che siano un prodotto della natura o un dono di Dio. Alcuni possono incontrarsi pure nel peccatore, altri sono privilegio esclusivo dei giusti. Ma allora, da dove possono venire le difficoltà e le ripugnanze nella pratica di certe virtù degli uomini giustificati, e chi dovrebbe quindi possederle tutte? Perché finalmente il miglior marchio, il segno più autentico della presenza di un’abitudine, è la facilità e il piacere che proviamo nel farne gli atti. – Anche san Tommaso, dal quale abbiamo preso in prestito l’obiezione, ce ne fornirà la risposta. « Non è raro – egli dice – trovare qualcuno con un’abitudine intellettuale o morale e che tuttavia abbia difficoltà a compierne gli atti, e non prova né piacere né soddisfazione a causa di alcuni ostacoli estrinseci che si pongono di traverso. Così, uno scienziato incontra a volte una vera difficoltà ad affrontare la scienza che ha acquisito, quando il sonno o qualche altra indisposizione ostacola l’esercizio delle sue facoltà. Allo stesso modo, chi possiede le virtù morali infuse può occasionalmente sperimentare qualche difficoltà nella pratica delle buone opere, come risultato di una cattiva inclinazione precedentemente contratta e che queste virtù non hanno fatto scomparire, perché non sono direttamente opposte ad essa. Lo stesso non si può dire delle virtù acquisite; per gli atti che le generano, rinnovandosi frequentemente, distruggono di per se stesse le disposizioni contrarie ». (S. Th., 1a -IIæ. q. LXV, a. 3, ad 2). – Aggiungiamo, per completezza, che non è universalmente vero che il peccatore giustificato senta, dopo una sincera e generosa conversione, la stessa ripugnanza per il bene come prima.  Quante difficoltà, che all’inizio sembravano insormontabili, vengono improvvisamente superate dall’azione della grazia e scompaiono come per incanto! Ne è testimone S. Agostino che racconta di se stesso: « all’improvviso  mi sembrava dolce il rinunciare alle dolcezze dei vani divertimenti! Io avevo timore di perderli, mentre ora la mia gioia era di lasciarli. Perché li cacciavate lontano da me queste dolcezze, Voi, la vera e sovrana dolcezza; Voi li allontanate ed entrate al loro posto, Voi che siete più dolce di ogni voluttà, ma di una dolcezza sconosciuta alla carne e al sangue … Già l’anima mia era libera dalle cocenti cure che eccitavano in me l’ambizione, la cupidigia, l’amore delle grossolane voluttà; e il mio piacere era di parlare con Voi, Signore mio Dio, che ora eravate oramai la mia gloria, le mie ricchezze e la mia salvezza » (S. Agost. Con. L. IX, c. I).

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L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (12)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (12)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) – P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA ABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO IV

Diritto all’eredità celeste, conseguenza della nostra adozione. — Qual è questa eredità?

I.

La grazia, che ci rende figli di Dio, ci costituisce anche suoi eredi: Si filii et hæredes. Questo è il ragionamento dell’Apostolo, questa è la conseguenza necessaria della nostra adozione. Non esiste una vera adozione senza il diritto del figlio adottivo ad ereditare il patrimonio dell’adottante. Di solito, è vero, che è solo in assenza di un figlio legittimo e solo alla morte del testatore, che un estraneo è chiamato a ricevere la sua successione come figlio adottivo. Ma Dio non muore, e possiede già un Figlio unigenito che è il suo legatario universale (Hebr. I, 2), un Figlio al quale ha dato tutto (Matth. XI, 27), al quale tutto appartiene in cielo e sulla terra (Giov. XVI, 15). Ma, osserva sant’Agostino,  « la carità di questo erede è così grande che ha voluto avere dei coeredi. Quale uomo avido vorrebbe avere dei coeredi? Se per caso ce ne fosse uno, egli dovrebbe condividere l’eredità e si troverebbe meno ricco che se la tenesse interamente per sé. Nulla di simile in rapporto all’eredità di cui siamo coeredi di Cristo; essa non diminuisce con la moltitudine dei coeredi, non diminuisce in proporzione al numero degli eredi; ma è considerevole tanto per molti, come per un piccolo numero, per ognuno in particolare come per tutti insieme. » (S. Aug., in Ps. XLIX, n. 2). Per i beni spirituali non è come per i beni materiali. Questi ultimi, non potendo appartenere interamente a più persone contemporaneamente, il loro possessore non può, senza spogliarsene, chiamare qualcuno a condividere con lui la sua eredità. I beni spirituali, invece, possono essere posseduti contemporaneamente da più persone. Il medico si spoglia delle conoscenze acquisite, quando le comunica alla folla di discepoli che si affollano intorno alla sua cattedra? Cristo può dunque, senza timore di impoverirsi e senza alcun danno per il Padre celeste, sempre vivente, chiamarci a raccogliere con Lui l’eredità del nostro Padre comune. (S. Th., III, q. XXIII, a. 1, ad 3.). – Qual è questa eredità? Secondo la saggia osservazione del Dottore Angelico, l’eredità è ciò che costituisce la propria fortuna o la ricchezza propria: Hoc autem dicitur hæreditas alicujus, ex quo ipse est dives. (S. Th., III, q. XXIII, a. 1). Non basta, quindi, per meritare giustamente il nome di erede, ricevere un’eredità, un dono anche importante, ma è soprattutto, la maggior parte, se non tutto il patrimonio del testatore, cioè ciò che sostanzialmente costituisce la sua ricchezza, che si è chiamati a raccogliere. (S. Th., in Rom., VIII, 17, lect. 3.). Ma la ricchezza di Dio non consiste, come quella dell’uomo, in beni esteriori: oro, argento, prodotti della terra, campi, edifici. Tutto questo gli appartiene chiaramente, perché non c’è nulla nell’universo creato che sfugga alla sua sovranità: la terra, in tutta la sua estensione, è sua: Domini est terra e plenitudo ejus (Ps. XXIII, 1); il mare e tutto ciò che contiene è sua proprietà, perché è colui che ha fatto tutto: Ipsius est mare et ipse fecit illud (Ps XCIV, 5). Ma tutti questi beni materiali, così ardentemente ambiti dalla creatura, perché trova in essi i mezzi per provvedere ai suoi bisogni, per soddisfare i suoi piaceri, per soddisfare la sua indigenza, non possono essere considerati come fortuna del Creatore. Egli li concede quindi indistintamente ai buoni e ai cattivi, spesso anzi i peccatori sembrano essere favoriti in questo senso. Per quanto riguarda i suoi beni, propriamente detti, questi sono prerogativa esclusiva dei figli adottivi, e si può applicare qui la parola della Scrittura: « Scaccia la schiava ed il figlio suo; poiché il figlio della serva non sarà erede con quello della donna libera: Ejice ancillam e filium ejus: non enim hæresit erit filius ancillæ cum filio liberæ » (Gal. IV, 30). I beni di Dio, la sua ricchezza, è Lui stesso, è la sua stessa perfezione; essendo l’infinito Bene, principio ed esemplare di ogni bene, Egli è pienamente sufficiente a se stesso e trova nel possesso e nel godimento di se stesso la sua perfetta felicità: In se et ex se beatissimus (Ex Conc. Vatic, Const. Dei Filius (cap. I.). Ma, nella sua infinita bontà, Egli non ha voluto essere solo a godere della sua felicità; e, senza nessun altro interesse, se non quello di fare dei felici, si è degnato di chiamare le creature ragionevoli a condividere questi beni divini che superano assolutamente tutto ciò che l’intelligenza umana e persino l’angelica, sia capace di concepire; poiché « l’occhio dell’uomo non ha visto, né l’orecchio mai udito, e il suo cuore non ha neppure potuto sentire ciò che Dio riserva a coloro che lo amano » (I Cor. II, 9). Chiamandoci all’ordine soprannaturale, Egli ci offre e ci conferisce i mezzi per raggiungere questa beatitudine; e adottandoci per mezzo della grazia, ci dà un vero diritto ad essa. – Così, la visione della bellezza infinita, l’amore e il godimento del sovrano Bene, la partecipazione della felicità stessa di Dio, costituiscono il patrimonio preziosissimo, il patrimonio incomparabile che è destinato ai suoi figli adottivi (S. Th. III, q. XXIII, a. 1). Come non cantare, col Salmista « L’eredità che mi è toccata è veramente magnifica; la mia parte è splendida ed inebriante è la parte che mi è arrivata:  Funes ceciderunt mihi in præclaris, etenim hæreditas mea præclara est mihi.  Il Signore stesso deve essere la mia parte: Dominus pars hæreditatis meæ, e calicis mei. anche il mio cuore è nella gioia, e la mia lingua trema; la mia stessa carne riposerà in pace, perché non mi lascerete nel sepolcro, e non lascerete il vostro santo la preda perpetua della corruzione. Mi hai fatto conoscere i modi di vita, mi riempirai di gioia mostrandomi il tuo volto e le mie delizie non avranno fine” (Ps. XV, 5-11), « … imperocché qual cosa havvi mai per me nel cielo, e che volli io da te sopra la terra? La carne mia e il mio cuore vien meno, o Dio del mio cuore, e mia porzione, o Dio, nell’eternità » (Ps. LXXII, 25-26).

II.

L’Apostolo  san Paolo aveva dunque ragione a parlarci « delle ricchezze di gloria che costituiscono l’eredità dei santi! Divitiæ gloriæ hæreditatis ejus in sanctis » (Ephes. I, 18). Le ricchezze della nostra eredità! Chi potrebbe concepirne l’estensione, poiché sono proprio i beni di Dio che ci sono riservati? Credo videre bona Domini in terra viventium (Ps. XXVI, 13). Mosè, al quale il Signore una volta parlava come amico, una volta formulò la seguente preghiera in uno slancio di fiducia: « Mio Dio, se ho trovato grazia alla vostra presenza, mostratemi il vostro volto, perché io vi conosca: Si ego inveni gratiam in conspectu tuo, ostende mihi faciem tuam, ut sciam te.…. Mostratemi la vostra gloria: Ostende mihi mihi gloriam tuam » E il Signore, rispondendo in parte alla sua richiesta, gli rispose: « Ti mostrerò ogni bene: Ego ostendam omne bonum tibi. Tuttavia, non sarai in grado di contemplare il mio volto, perché nessuno può vedermi in questa vita mortale. Tuttavia tu starai sulla roccia, e quando la mia gloria passerà, ti coprirò con la mia mano fino a quando non sia passato. Allora toglierò la mia mano e tu mi vedrai da dietro, ma quanto alla mia faccia, tu non potrai vederla » (Es. XXXIII, 12-23). – Ebbene, quel Dio che Mosè desiderava ardentemente poter contemplare, quel Dio naturalmente invisibile, « che abita in una luce inaccessibile, che nessuno ha mai visto, che nessuno può vedere senza la luce della gloria » (I Tim. VI, 16), deve un giorno mostrarsi allo scoperto; perché è in questa conoscenza, in questa visione, che consiste la vita eterna promessa ai nostri meriti: Hæc est vita æterna: ut cognoscant te solum Deum verum et quem misisti Jesum Christum (Giov. XVII, 3). Un giorno gli eletti vedranno l’Eterno Re dei secoli in tutta lo splendore della sua gloria e della sua maestà: Regem in decora il suo videbunt (Is. XXXIII, 17); lo vedranno, non più solo per riflessione, nello specchio delle creature, per speculum; non più attraverso un velo e nell’oscurità della fede, in ænigmate; non più da dietro come Mosè, ma faccia a faccia, facie ad faciem, direttamente, immediatamente, così com’è, sicut est, come vede e conosce se stesso, cognoscam sicut et cognitus sum (I Cor. XIII, 12); essi contempleranno eternamente e con sguardo sempre più avido, pur sempre soddisfatti di questa infinita bellezza, fonte fertile, ideale supremo perfetto di ogni bellezza, di ogni bontà, di ogni perfezione. E poiché Dio è un bene infinito, il Bene universale, bonum universale (S. Th., Ia IIæ, q. II, a. 8), secondo l’espressione di san Tommaso, il Bene di tutti i beni, bonum omnis boni (S. Aug., de Trin., 1. VIII, cap. 3), l’oceano, la pienezza del bene, facendosi vedere ai beati, Egli mostrerà loro veramente ogni bene: Ego ostendam omne bonum tibi (Es. XXXIII, 19). Se gli Apostoli, ammessi sul Tabor per vedere la gloria dell’anima santa di Nostro Signore che risplendeva attraverso il suo corpo mortale, esultarono, in un santo trasporto misto a paura e gioia, e senza sapere quello che stavano dicendo, con l’esclamare: « Signore, è bene per noi stare qui: Domine, bonum est nos hic esse » (S. Marc. IX, 5); che cosa sarà quando, fortificati dalla luce della gloria, il nostro spirito potrà contemplare a piacimento non solo l’Umanità trasfigurata del Verbo fatto carne, ma la stessa Divinità in tutto il suo splendore; quando, abbracciando con un solo sguardo tutte e ciascuna le divine perfezioni, che ora siamo obbligati a studiare separatamente per conoscerle meglio, le vedrà fondersi in una semplice ed unica perfezione infinita: uno spettacolo inebriante e davvero ineffabile, di cui nulla quaggiù può darci un’idea? Che cosa sarà quando il suo sguardo, che è diventato più fermo e più acuto di quello dell’aquila, potrà penetrare i misteri della vita intima di Dio, scandagliare le profondità della sua saggezza e giustizia, considerare le incomprensibili ricchezze del suo amore, gli eccessi della sua misericordia, la profondità dei suoi decreti, le meravigliose operazioni della sua grazia, i modi segreti e ammirevoli in cui conduce ciascuno di noi al termine del suo destino? Lì, la nostra intelligenza, così desiderosa di sapere, così affamata di verità, troverà nella chiara visione del Verbo, la sua piena soddisfazione: Satiabor cum apparuerit gloria tua (Ps. XVI, 15); perché il Verbo è la verità, non la verità dimezzata, parziale, frammentaria, ma la verità piena, totale, sostanziale. E, come sottolinea San Gregorio: « Cosa possiamo ignorare quando conosciamo Colui che sa tutto, che ha fatto tutto, attraverso il quale tutto esiste? Quid est quod ibi nesciant, ubi scientem omnia sciunt ? » (S. Greg. M., Dial., 1. IV, n. 24). Lì la nostra volontà, che nulla qui sulla terra può soddisfare pur se realizzasse l’irraggiungibile conquista del mondo intero, troverà nel possesso del sovrano Bene, la soddisfazione più piena di tutti i suoi desideri: Qui replet in bonis desiderium tuum (Ps. CII, 5). Là, il nostro cuore, sempre inquieto durante questa vita, perché facendoci da Se stesso e creandoci capaci di possederlo, Dio ha scavato degli abissi che solo Egli può riempire, troverà il suo perfetto riposo.

III.

Cercheremo di far conoscere più a fondo l’eredità dei figli di Dio. Ma per farlo, dovremmo dire che cos’è il cielo. Ora, non ci sarebbe forse l’avventatezza da parte nostra di voler descrivere ciò che l’Apostolo san Paolo stesso, pur essendo stato elevato al terzo cielo (II Cor. XII, 2) si dichiara incapace di esprimere? Certo, questa sarebbe una intollerabile presunzione se, per parlare di qualcosa di così forte al di sopra delle nostre concezioni, fossimo ridotti alle nostre stesse luci. Ma « lo Spirito Santo, che scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio » (I Cor. II, 10), si è degnato di fornirci preziosi dati su questo punto, che è importante non lasciare nell’ombra. – Per aiutarci a concepire un po’ delle ineffabili delizie del cielo, Egli ce le ha rappresentate con molteplici nomi e sotto figure diverse: a volte come regno, a volte come casa del Padre celeste e la vera patria delle anime. Qui, c’è un banchetto, un banchetto di nozze; là, un torrente di delizie; poi, … c’è il riposo, la pace, la vita senza termine e senza limite, la vita eterna. Ripercorriamo brevemente queste varie denominazioni, per cercare di penetrarne un po’ più nel profondo il significato. E prima di tutto, il cielo ci è rappresentato sotto il nome e la figura di un regno, il Regno di Dio promesso a coloro che lo amano: « Hæredes regni quod repromisit diligentibus se. » – Jac, u, 5.). – « Venite, dirà un giorno Nostro Signore agli eletti, venite, benedetti del Padre mio, prendete possesso del regno che è stato preparato per voi fin dall’inizio del mondo: « Venite benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi. » (S. Matth. XXV, 34). Quando si dice regno, si intende ricchezza, onori, gloria, abbondanza di ogni bene. Ora, tale è precisamente il cielo, questa dimora opulenta, dimora opulentam (Isa. XXX, 20), come dice il Profeta, dove si trovano raccolti tutti i beni desiderabili del corpo e dello spirito. « Che beatitudine – esclama sant’Agostino – quando, cessando tutto il male, uscendo tutto il bene dalle tenebre, ci si dedicherà solo alle lodi di Dio, che sarà tutto in tutti! … Qui risiederà la vera gloria, che non sarà data dall’errore, né dalle lusinghe. Lì, il vero onore, che non sarà negato a coloro che lo meritano, né deferito a coloro che ne sono indegni; là, dove nessuno potrà essere, se ne è indegno. Là infine, c’è la vera pace, dove non si subirà nulla di contrario né da se stessi né dagli altri. L’Autore stesso della virtù ne sarà la ricompensa, e questa ricompensa che ha promesso – la più grande e la migliore di tutte – è Egli stesso. E quale altro significato potrebbe avere questa parola del Profeta: Io sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo, se non che Io sarò ciò di cui potranno saziarsi; Io sarò tutto ciò che gli uomini possono legittimamente sperare: vita, salute, nutrimento, abbondanza e gloria, onore e pace, tutti i beni, in una sola parola! E questo è il vero significato di questa parola dell’Apostolo: Affinché Dio sia tutto in tutti. » (S. Aug., De Civit. Dei, 1. XXII, cap. XXX, n. 1). Se già in questa valle di lacrime e per l’uso comune dei buoni e dei malvagi, Dio non solo fa risplendere il suo sole, ma produce opere veramente ammirevoli, seminando fiori e frutti con ogni specie di profusione, dando alle valli la loro freschezza, alle pianure la loro fertilità, la loro maestà ai monti, ai cieli la loro armonia, quali meraviglie tiene in serbo per il paradiso, poiché – secondo il Profeta – è solo lì che Egli è veramente magnifico? Solummodo ibi magnificus est Dominus (Isa. XXXIII, 21). Se, nell’ordine puramente naturale, Egli si mostra così largo e liberale, aprendo la sua mano per riempire dei suoi benefici  ogni essere vivente (Ps. CXLIV, 16), cosa non farà, nel grande giorno delle sue ricompense, a favore di coloro che lo hanno fedelmente servito e perseverantemente amato quaggiù, di quei cari figli che, dopo essere stati umiliati, disprezzati e perseguitati per il suo Nome, appariranno finalmente davanti a Lui, con le mani piene di buone opere, per ricevere la loro ricompensa? Con quale tenerezza li accoglierà, riempiendoli di carezze e testimonianze d’amore! Con quale gioia li introdurrà nel suo regno, e li farà sedere accanto a Lui su troni dove regneranno per sempre! Et regnabunt in sæcula sæculorum (Apoc. XXII, 5). Che cos’è di nuovo il cielo? È la patria, la casa di famiglia, il luogo d’incontro di tutti i figli di Dio! La patria! Qual dolce nome! Che dolce nome. Qual più dolce cosa! Come il suo ricordo fa battere il cuore! Come siamo felici di tornarvi dopo un’assenza più o meno lunga! Qui troviamo tutto ciò che abbiamo amato, tutto ciò che ancora amiamo: i genitori, gli amici, i conoscenti, il tetto paterno, le ceneri dei nostri antenati. Lì l’aria è più pura, il sole più gioioso, la campagna più piacevole, i fiori più belli, i frutti più deliziosi. Lì, invece di essere soli, sconosciuti, dimenticati, ci vediamo circondati, ci sentiamo amati, si è felici. Eppure, quella che oggi chiamiamo la nostra patria, è in realtà solo un luogo di passaggio; è un albergo dove si chiede ospitalità per la notte, ed il giorno dopo si abbandona, è la tenda del nomade, che si issa la sera per essere ripiegata al mattino. La vera patria è quella che gli antichi Patriarchi consideravano e salutavano da lontano e facevano  professione di cercare, chiamandosi volentieri esuli e viaggiatori (Hebr. XI, 13-14); quella che, per dopo, dobbiamo sospirare noi stessi, perché non abbiamo una dimora permanente quaggiù: Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus (Hebr. XIII, 14); « è la città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste, l’innumerevole società degli Angeli, l’assemblea dei primogeniti il cui nome è scritto nel libro della vita » (Hebr. XII, 22-23). Quale incomparabile famiglia! Che deliziosa società!  Là noi troveremo il Primogenito della nostra razza, Colui che si è degnato di adottarci per fratelli suoi e ci chiama a condividere con Lui la sua eredità, Nostro Signore Gesù Cristo, di cui gli Angeli non si stancano mai di contemplare la bellezza: In quem desiderant Angeli prospicere (I Piet. I, 12). Anche noi pure potremo  considerare a nostro piacimento questo volto adorabile, atteggiato a così dolce maestà, appoggiare la testa su questo Cuore che ci ha tanto amato, attaccare le labbra smosse a queste tre volte sante piaghe che i nostri peccati hanno scavato nelle mani e nei piedi del Salvatore. Come gli Apostoli sul Tabor, sentiremo il divino Maestro raccontarci ancora una volta gli eccessi a cui si è librato per noi (Luc. IX, 31): eccessi di umiliazioni e di sofferenze, sopportate per la nostra salvezza durante la sua santa Passione, o meglio durante tutta la sua vita; eccesso di misericordia, onde perdonare colpe rinascenti incessantemente; eccesso di carità, che nulla ha potuto trascurare: né dimenticanze, né ingratitudini, né tradimenti. E la nostra anima si scioglierà con gratitudine ed amore quando sentiremo questo dolce Salvatore raccontarci la storia delle meraviglie fatte a nostro favore, raccontarci le sante industrie della sua tenerezza per riportarci a Lui e tenerci in uno stato di grazia. Là noi vedremo, ameremo, benediremo la dolcissima, purissima, santissima Madre di Dio, la Beata Vergine Maria, questa graziosa Sovrana la cui bellezza verginale delizierà i Santi, questa madre amorevolissima e sì degna di essere amata, la cui tenerezza si tradurrà in testimonianze capaci di inebriare il cuore dei suoi figli. Là, noi godremo la società degli Angeli, contemplando con un occhio rapito queste gerarchie celestiali che formano un mondo infinitamente superiore per numero e bellezza al mondo materiale e sensibile. Là infine, tutte le grandi anime che si sono avute sulla terra, le anime sante, le anime vergini, le anime eroiche, faranno parte della nostra società. I Patriarchi, i Profeti, gli Apostoli, i martiri, i confessori, i vergini, formeranno una sola grande famiglia, i cui membri si ameranno, si congratuleranno tra loro per la loro felicità, godranno tutti insieme. E non ci sarà nessuna voce discordante, nessun processo doloroso o indelicato, nessuno spettacolo triste; una gioia sempre giovane, una gioia che nulla turba, cantici senza fine. I peccatori, gli indegni, sono banditi da questo regno, dove si vedono solo santi, che lodano con una voce unanime il loro Creatore e Redentore. O bel cielo, patria eterna, quando potremo vederti? Ci vien raccontato di te di cose così gloriose e belle (Gloriosa dicta sunt de te, civitas Dei (Ps LXXXVI, 3).

IV.

Ma cos’è ancora il cielo? È un banchetto, una festa, data dal Pater familias alla moltitudine immensa dei suoi figli riuniti intorno a Lui. « Avete mai pensato all’importanza che gli uomini hanno sempre attribuito ai pasti consumati in comune? Non c’è nessun trattato, nessun accordo, nessuna celebrazione, nessuna cerimonia di qualsiasi tipo senza pasti….. Gli uomini non potevano trovare alcun segno di unione e di gioia più espressivo che riunirsi per prendere, così ravvicinati, un cibo comune » (De MAISTRE, Serate di San-Pietroburgo, 10° intrattenimento). Inoltre, quando, in certe circostanze solenni, tutti i membri della stessa famiglia, convocati nella casa paterna, possono sedersi ed intrattenersi allo stesso tavolo per qualche istante insieme, questi incontri di un giorno sono considerati come uno dei più dolci piaceri della vita. – E cosa ci si dice l’un l’altro, cosa ci si comunica l’un l’altro in questo tipo di incontri? Le proprie speranze e le proprie paure, le gioie ed i dolori, soprattutto i propri dolori, perché questa è una pianta che abbonda nella nostra terra d’esilio. Ma è raro che non ci sia un membro della famiglia la cui cattiva condotta o una disgrazia renda gli altri desolati. E poi, tanti posti vuoti, tante persone assenti che non appariranno più! Infine, dopo troppo brevi ore di felicità ben lungi dall’essere tutti uniti, bisogna separarsi di nuovo. Lassù, ci sarà la grande riunione dei figli di Dio. Nessuno degli invitati mancherà all’appello, nessuno sarà fonte o occasione di tristezza per gli altri, e la prospettiva di una futura separazione non turberà la festa. – Ma di tutte le feste, la più splendida, la più solenne, e allo stesso tempo la più gioiosa, è la festa di nozze. Ora la beatitudine celeste è la festa delle nozze dell’Agnello. « Beati – è detto nell’Apocalisse – quelli che sono stati invitati alle nozze dell’Agnello: « Beati qui ad cænam nuptiarum Agni vocati sunt » (Apoc. XIX, 9). – Già su questa terra, Nostro Signore ha allestito per i suoi fedeli una sontuosa tavola, la tavola eucaristica, dove serve un Pane vivo e tonificante, disceso dal cielo ed estremamente delizioso (Giov. VI, 41); ma se Egli si degna di darsi a noi in questo momento, è solo in modo imperfetto; se Egli nutre le nostre anime, non le soddisfa pienamente: Hic pascis, sed non in saturitate (S. Bern., in Cant., serm, XXXIII, n. 7). « Io possiedo il Verbo – dice san Bernardo – ma nella carne; la verità mi è servita, ma nel Sacramento. Mentre l’Angelo si nutre del fiore di grano, io devo contentarmi della corteccia del Sacramento, del suono della carne, della paglia della lettera, del velo della fede » (S. Bern. ibid. n. 3). Ecco perché, prima di salire in cielo, il Salvatore annunciava ai suoi Apostoli che avrebbe preparato loro un altro banchetto nel suo regno, dove li avrebbe invitati alla sua tavola (Luc. XXII, 29-30). Inutile dire che il divin Maestro non ha punto parlato di piatti grossolani destinati al mantenimento della vita corporea, perché in cielo il nostro corpo non avrà più bisogno di cibo. Quando diciamo che gli eletti mangiano e bevono alla tavola di Dio, significa che essi godono della felicità di Dio stesso, vedendolo come Lui vede se stesso (S. Th., Contra Gent., 1. III; cap. LI). Questo è il grande banchetto di Dio, al quale sono invitati tutti gli eletti. Venite, et congregamini et congregamini ad cænam magnam Dei (Apoc. XIX, 17). Lì non sarà più la carne e il sangue di Cristo che ci sarà dato come cibo, ma la stessa Divinità si farà nostro cibo. Che festa il vedere Dio, lo stare con Dio, il vivere di Dio! « Præmium nostrum est videre Deum, esse cum Deo, vivere de Deo. » (S. Bern.). È allora che sarà consumata la santissima unione, iniziata qui sulla terra dalla grazia, tra Dio e le anime, perché possedendolo perfettamente come Verità piena e Bene sovrano, esse si uniranno a Lui in modo ineffabile e godranno per sempre dei suoi castissimi abbracci.  « Beati, qui ad cænam nuptiarum Agni vocati sunt ». (Apoc. XIX, 9). A tutti, lo Sposo celeste dirà: « Mangiate, amici miei, e bevete: bevete il vino della santa carità, e ubriacatevi, miei cari: Comedite, amici, et bibite, et inebriamini,  charissimi (Cant. V, 1). « La beatitudine non è come un liquore prezioso contenuto in un vaso e rapidamente esaurito; è un fiume inesauribile e senza fine, un torrente di delizie, di gloria e di pace, da cui gli eletti berranno in eterno fino a quando non saranno pienamente soddisfatti, fino a quando non si ubriacheranno.  Inebriabuntur ab ubertate domus tuæ, et torrente voluptatis tuæ potabis eos (Ps. XXXV, 9). E non ci si offenda di questa espressione dettata dallo Spirito Santo stesso. Se c’è una ubriacatura vergognosa e indegna di un essere ragionevole, ce n’è un’altra legittima e santa: c’è l’inebriamento di gioia, l’inebriamento d’amore. Non era inebriata dall’amore divino, questa buona Santa, Maria Maddalena di Pazzi, quando andava lanciando con tutte l’eco del suo monastero questo grido appassionato: « L’amore non si conosce, l’amore non si ama »? Non era anch’egli inebriato di delizie, San Francesco Saverio, quando, in mezzo alle sue fatiche apostoliche, schiacciato, per così dire, sotto il peso delle consolazioni celesti che inondavano la sua anima, gridava: « Basta, Signore, basta; risparmiate il mio povero cuore, io non ne posso più sopportare » ? Se, nel seno stesso dell’esilio, l’uomo è in grado di assaporare tali gioie, come sarà nella patria?

V.

Ci sono ancora altre denominazioni ricche di promesse, piene di mistero, che finiranno di edificarci sulla grandezza della felicità futura, a partire dal patrimonio riservato ai santi. Il cielo è riposo, è pace, è vita: riposo dopo il lavoro, pace dopo la guerra, vita senza fine. Chi non desidera il riposo, chi non desidera la pace, chi non desidera la vita? Ma il riposo si acquista regolarmente solo attraverso il lavoro; la guerra è spesso necessaria per raggiungere la pace; e l’Apostolo san Paolo ci invita « a portare costantemente la mortificazione di Gesù nel nostro corpo, se vogliamo che la vita divina si manifesti nella nostra carne mortale » (II Cor. IV, 10).  La vita presente è il tempo del lavoro, del lavoro fecondo, della semina spirituale (II Cor. IV, 10). Come l’aratore deve sopportare il peso del giorno e del caldo, soffrire le intemperie delle stagioni, stancare le sue forti braccia per arare il seno della terra prima di affidargli il seme, sperare per il raccolto futuro, così anche il Cristiano deve compiere instancabilmente le opere che costituiscono il suo compito quotidiano; deve dedicarsi alla preghiera, all’obbedienza, a curvare le spalle sotto il giogo della croce, a sopportare, senza lamentarsi, le difficoltà, la tristezza, le tribolazioni che sono il pane quotidiano dell’esilio. A questo si aggiungono le privazioni, le sofferenze, la povertà, le contraddizioni, le vessazioni dolorose, le ingratitudini, tante ferite segrete del cuore, tanti dolori intimi tanto più amari e dolorosi da sopportare, perché spesso senza testimoni e consolatori. In breve, secondo le parole dei nostri Libri sacri, il Cristiano deve seminare in lacrime: Euntes, ibant et flebant, mittentes semina sua (Ps. CXXV, 6).  E come se tutto questo non bastasse per la sua debolezza, lo attendono ancora altre prove: lo attende la malattia, la morte che falcia senza pietà intorno a lui, delle vite spesso molto care; c’è poi lo spettacolo dell’ingiustizia trionfante, la persecuzione organizzata contro chiunque voglia essere fedele al suo dovere; ci sono le tentazioni che lo assediano, gli attacchi incessanti dei nemici della sua salvezza; c’è la lotta sempre crescente contro gli istinti malvagi della natura, la lotta quotidiana contro le sue passioni; una lotta così feroce, a volte così terribile, che lo stesso grande Apostolo gridava: « Chi mi libererà da questo corpo di morte? Quis me liberabit de corpore mortis hujus » (Rom. VII, 24). Ma qual gioia, qual felicità, qual trasporto di allegria, quando, liberata dalla prigione del corpo, liberata per sempre dagli attacchi dei suoi nemici e pienamente purificata, la sua anima sarà introdotta in cielo e vedrà Nostro Signore correre incontro a lei con volto sorridente e aprirle le braccia; quando sentirà queste parole di conforto uscire dalle sue labbra: « Alzati, mio caro, vieni senza indugio e riposa dalla tua fatica ». Surge, propera, amica mea….. È trascorso già l’inverno, questa stagione di tristezza e sofferenza è passata: Jam enim hiems transiit; non è più il tempo delle lacrime, fuggito per sempre: imber abiit et recessit. I fiori, quei fiori del cielo che non sbiadiscono mai, si sono mostrati nella nostra terra: flores apparuerunt in terra nostra. – Più dolce di quella della tortorella, la voce di Maria, che si unisce a quella degli Angeli e dei beati, risuona ora nel tuo orecchio: vox turturis audita est in terra nostra….. (Cant. II, 10-12) Vieni a ricevere la corona che è destinata a te: veni, coronaberis. » (Cant. IV, 8). Poi, secondo la parola dei nostri Libri sacri, « Dio stesso cancellerà ogni lacrima dal volto degli eletti, e non ci sarà più né morte, né lutto, pianto o dolore, perché tutto questo appartiene ad un passato che è scomparso per sempre. Absterget Deus omnem lacrymam ab oculis eorum; et mors ultra non erit, neque luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra, quia prima abierunt » (Apoc. XXI, 4). L’autore sacro non dice semplicemente che tutte le lacrime si asciugheranno o che gli eletti si tergeranno da sé il viso; no, è Dio, Dio in persona, che si riserva questo ufficio: Absterget Deus omnem lacrymam. « Sono Io – dice altrove attraverso il suo profeta – che vi consolerò: Ego, ego ipse consolabor vos » (Isa. LI, 12). Come una madre che accudisce il suo bambino, Io vi conforterò e voi sarete confortati: « Quomodo si cui mater blandiatur, ita ego consolabor vos, et in Jerusalem consolabimini » (Isa. XLVI, 13). Se è dolce per un malato sentire una mano amica, la mano di una madre o di una moglie asciugare il sudore o le lacrime che gli inondano il viso, come sarà sentire la mano sulla fronte di un Dio, una mano mille volte più morbida e carezzevole di quella di una madre? Questo è ciò che sostiene i giusti in mezzo alle loro prove e li conforta nelle loro afflizioni. Sanno – senza averne dubbio – che i loro dolori avranno solo un tempo, mentre la ricompensa sarà eterna; e, sentendo l’Apostolo dire loro  che non c’è proporzione alcuna tra le sofferenze della vita presente e la gloria futura che un giorno dovrà essere loro rivelata » (Rom. VIII, 18), perché « delle tribolazioni leggere e momentanee, procureranno loro un immenso ed eterno carico di gloria » (II. Cor. IV, 17), sono confortati da questa speranza; e, lungi dal lasciarsi travolgere dalle miserie di questa vita, gioiscono piuttosto, convinti che, se soffrono qui sulla terra con Gesù Cristo, un giorno saranno associati al suo trionfo (Rom. VIII, 17), e che dopo essere stati con Lui nel dolore, saranno ammessi a condividerne il suo riposo.  Ma quale sarà questo riposo? L’inazione? La tranquillità? Il fermare della vita? Un sonno eterno? No, certamente no. Il riposo promessoci è un riposo animato, fruttuoso, opulento, secondo la parola del profeta: Sedebit populus meus…. in requie opulenta (Isa. XXXII, 18). È un riposo pieno di meravigliose operazioni, non accompagnato da alcuna fatica, che non viene ad interrompere alcuna necessità, e che procura piaceri ineffabili. È l’attività generosa, incessante, continua; l’attività, portata alla sua massima potenza, di un’anima che è giunta al termine e riposa in Dio come Dio riposa in se stesso (Hebr. IV, 9-10). Cessando di creare, Dio non cessa di agire (« Pater meus usque modo operatur, et ego operor. » – Joan,V, 17); ma è soprattutto all’interno che si svolge la sua attività: Egli contempla se stesso, ama se stesso, gioisce di se stesso, è felice, è la beatitudine sussistente. Ora, in cielo, noi saremo simile a Lui, vedendolo e amandolo come vede ed ama Se stesso, condivideremo la sua felicità, vivremo la sua vita. E nulla disturberà o interromperà la nostra contemplazione: né le occupazioni materiali, che assorbono una parte così grande della nostra esistenza terrena, né le opere di misericordia che non dovranno più essere esercitate là dove manca ogni miseria, né il bisogno imperativo del sonno. Niente più combattimenti all’interno, niente più combattimenti all’esterno contro i nemici della nostra salvezza; tutti i nostri confini saranno ora al sicuro dalle loro incursioni. La pace, una pace gloriosa, una pace immutabile, sarà ora la nostra condivisione. Tutto il popolo degli eletti, non avendo più nulla da temere, riposerà, secondo le parole del Profeta, nella bellezza della pace. Sedebit populus meus in pulchritudine pacis….. e in requie opulenta. (Isa. XXXII, 18). Oh! dolce riposo! Oh! felici vacanze, dedicate interamente allo spettacolo più bello che si possa offrire ad una creatura ragionevole, poiché esso costituisce la felicità stessa di Dio. Ibi vacabimus et videbimus. – L’intelligenza, la più nobile delle nostre facoltà, sarà quindi della festa; ma anche il cuore avrà la sua grande parte, perché la visione genererà l’amore. Videbimus et amabimus. È proprio allora, e solo allora, che il precetto della santa carità sarà pienamente adempiuto, perché ameremo Dio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, con tutte le nostre forze, con tutta la nostra mente (Luc. X, 27); noi lo ameremo senza  sosta, senza interruzione, senza stancarci,  senza queste alternative di ardore e di freddezza così umilianti per le anime sante e desolate; lo ameremo e l’amore che, traboccante dal nostro cuore, e salito fino alle nostre labbra, scoppierà, rendendo grazie e lode: Amabimus et laudabimus (S. Aug., De Civit. Dei. 1. XXII. cap. XXX, n. 5), invece di tradursi come è quaggiù in desideri (Ps. XLI, 3), gemiti (Rom. VIII, 23), languori (Cant. V, 8), si diffonderà sotto forma di canti di gioia e canti di allegria (Isa. LI, 3). « Beati coloro che abitano nella tua casa, o Signore, essi vi loderanno per sempre: Beati qui habitant in domo tua, Domine: in sæcula sæculorum laudabunt te » (Ps. LXXXIII, 5). Ma non è da temere che il riposo provochi noia e che la lode perpetua si trasformi in disgusto? « Se smettete di amare – dice sant’Agostino – smetterete di lodare. Ma il vostro amore non cesserà, perché Colui che voi contemplerete è di una bellezza così grande, che non è affatto capace di produrre sazietà e disgusto » (S. Aug. in Ps. LXXXV, N. 24). – Se un semplice raggio di bellezza divina che cade sulla fronte di una creatura la rende così amabile da trascinare e affascinare i cuori; se più la contempliamo, più ne siamo rapiti, quale attrazione invincibile non eserciterà sugli eletti la visione chiara, la contemplazione prolungata della Bellezza infinita? Se è così dolce amare o essere amato da una semplice creatura, povera e fragile come noi, quale gioia, qual gaudio, qual felicità, qual ebbrezza, non proverà un’anima che si sentirà incessantemente amata da tutta la potenza della Santissima Trinità? Che altro potrebbe desiderare, se non il prolungamento di tale felicità? E sapendo che essa è eterna, come potrebbe non essere pienamente soddisfatta? Dio sarà dunque il fine dei nostri desideri, Colui che vedremo all’infinito, che ameremo senza stancarci » (S. Aug., De Civit. Dei, 1. XXII, c. XXX, n. 1). Ecco, da tutto ciò che siamo riusciti a balbettare, in cosa consiste l’eredità dei figli di Dio: ecco ciò che sarà la beatitudine promessa da Nostro Signore, sotto il nome di vita eterna, a coloro che Egli chiama sue pecore (Giov. X, 28): la contemplazione diretta e immediata della bellezza infinita, un’estasi perpetua d’amore, una lode incessante. “Ecco ciò che sarà alla fine infinito: Ecce quod erit in fine sine fine ». Se, a giudizio del Salmista o meglio dello Spirito Santo che lo ha ispirato, « un solo giorno trascorso qui sotto nella casa di Dio, vale mille tra i piaceri del mondo » (Ps. LXXXIII, 11), cosa possiamo pensare, cosa possiamo dire della vita che ci attende in cielo, una vita così piena, così santa, così debordante di gioia, una vita che non è più soggetta all’alternanza del giorno e della notte, né alle vicissitudini della tristezza e della gioia, soprattutto quando si rifletta che non finirà mai? Ma non basta proclamarla senza fine; come l’eternità divina, di cui è partecipazione, non conosce cambiamenti, né successione, né passato, né futuro, e consiste in un presente indivisibile ed immutabile, nel pieno, perfetto ed immutabile possesso del Bene sovrano (S. Th., Summa Theol., 1, q. X, a. 3).  Come, pensando a tale felicità, l’anima santa, ancora esiliata sulla terra, non potrebbe non gridare con la sposa del Cantico dei Cantici:  « O mio amato, insegnatemi dove mi conduce il vostro gregge, dove riposate a mezzogiorno: Indica mihi, quem diligit anima mea, ubi pascas, ubi cubes in meridie » (Cant. I, 6) – « Mezzodì è la vista, è la contemplazione del Vostro volto. Vultus tuus meridies es. » (S. Bern., in Cant. Serm. XXXIII, n. 7). Quaggiù, ahimè! né la luce è chiara, né il riposo completo, né c’è alcuna sicurezza da nessuna parte; per questo vi chiedo di dirmi dove riposate a mezzogiorno….. O vero Mezzogiorno, oh pienezza di ardore e di luce, dove tutto è stabile, dove il sole non declina mai, dove le ombre sono sconosciute, l’acqua fangosa della terra disseccata, e le esalazioni fetide del mondo si sono completamente dissipate! O luce del mezzogiorno, dolcezza della primavera, bellezza dell’estate, fertilità dell’autunno, e, per nulla omettere,  riposo d’inverno! a meno che non si preferisca dire che non ci sarà l’inverno. Indicatemi, o mio amato, questo luogo di chiarezza, di pace, di pienezza, perché anch’io meriti di contemplarvi nella vostra luce e bellezza (S. Bern. loc. cit. n. 6-7).

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/10/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-13/

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (11)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (11)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA ABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO III

La nostra filiazione divina adottiva. — Analogie e diversità tra l’adozione divina e le adozioni umane.  — Incomparabile grandezza e dignità del Cristiano.

I.

Diventati con la grazia santificante di natura divina, divinæ consortes naturæ (II Petr., I, 4), siamo, per lo stesso motivo, elevati all’incomparabile dignità di figli adottivi di Dio con diritto all’eredità paterna (Rom. VIII, 17) – (S. Th., Ia IIæ, q. CXIV, a. 3.).   Questa verità, che ogni Cristiano dovrebbe sempre avere davanti ai suoi occhi e che non saprebbe mai troppo approfondire, perché questi sono i nostri titoli di nobiltà al presente e la nostra promessa di felicità per il futuro, è registrata in tutte le pagine del Nuovo Testamento, « È per redimerci dalla servitù della legge, dice l’Apostolo, e per comunicare a noi l’adozione dei figli, che Dio ha mandato suo Figlio, nato dalla donna sotto la legge » (Gal IV, 4-5). E poiché siamo suoi figli, Egli ha mandato nei nostri cuori lo Spirito di suo Figlio per ispirarci sentimenti di filiale fiducia nel Padre celeste (Ibid.). « Perciò questo stesso Spirito divino testimonia al nostro spirito che siamo figli di Dio. » (Rom. VIII). Per convincerci che questa non sia una semplice denominazione esterna, un titolo puramente onorifico, ma una filiazione molto reale, che è una partecipazione alla filiazione stessa di Cristo, l’apostolo San Giovanni non esita a dire: « Guardate quale amore il Padre ci ha mostrato concedendoci non solo il titolo, ma anche la vera qualità dei figli di Dio: Videte qnalem caritatemit nobis Pater, ut filii Dei nominemur et simus. ». (1 Giov. III, 1). E come rapito da ammirazione in presenza di tanta grandezza: « Sì, miei cari, ripete, noi siamo fin da ora i figli di Dio; ma ciò che un giorno saremo non appare ancora. Noi sappiamo che quando Dio si mostrerà, noi saremo come Lui, perché lo vedremo così com’è. Chiunque ha questa speranza santifica se stesso, siccome è santo egli stesso. » (Ibid. 2-3). – I Santi Padri celebrano questo glorioso titolo di figli di Dio, ne esaltano le prerogative, ne ripetono i preziosi vantaggi con fede ed amore. Ascoltate il grande Vescovo di Ippona: « Quale non sarebbe la gioia di uno sconosciuto, di qualcuno che non conoscesse i suoi genitori, e che fosse nella miseria, nel dolore e nel duro lavoro, se qualcuno venisse improvvisamente a dirgli: Tu sei il figlio di un senatore, tuo padre gode di un’immensa fortuna che è destinata a te, e io vengo a riportarti da lui. Quali trasporti di gioia non esprimerebbe se potesse credere nella realtà di queste promesse? Ebbene, ecco un Apostolo di Gesù Cristo, la cui parola merita ogni credito, che è venuto a dirci: Perché disperarvi? Perché soffrite e vi consumate dal dolore? Perché vi abbandonate alle proprie concupiscenze e languite nella miseria prodotta da questi piaceri voluttuosi? Voi avete un padre, una patria, un’eredità. Chi è questo Padre? Miei cari, noi siamo figli di Dio » (S. Aug., Enarrat. in Ps. LXXXIV, n. 9.). Agli occhi di san Leone, tutte le altre benedizioni svaniscono di fronte alla grandezza di questa filiazione divina. « Che Dio – egli dice – disse, chiami l’uomo suo figlio, che l’uomo dia a Dio il nome di Padre, e che questo chiamarsi reciproco sia l’espressione della realtà, questo è il dono che supera ogni dono » (S. Leo M. Serm.VI de Nativ.). Ascoltiamo come San Pietro Crisologo espone ai neofiti la suprema dignità del Cristiano: « Così grande – egli dice – è per noi la bontà divina che la creatura non può che ammirarla sempre più: l’abbassamento di un Dio che scende fino alla nostra schiavitù, la dignità alla quale ci eleva condividendo con noi la sua divinità. Padre Nostro che siete nei cieli …. Oh uomo, fino a che punto ti ha elevato arrivando all’improvviso la grazia? Dove ti ha condotto la tua natura celeste? Anche se vivi ancora nella carne e sulla terra, non conosci più la terra e la carne, quando dici: Padre nostro che siete nei cieli. Colui che crede e confessa di essere figlio di un tale Padre, possa condurre una vita in rapporto alla sua origine, conforme a quella del Padre suo; possa affermare nel suo pensiero, nei suoi atti ciò che ha ottenuto con la sua origine celeste » (S. Petr. Chrysol., serm. LXXII in Orat. Domin.). – Per evidenziare la natura della nostra adozione divina, non sarà fuori luogo confrontarla con l’adozione umana e studiarne a sua volta le analogie e le differenze.  Quaggiù, adottare un bambino significa portarlo nella propria famiglia, dandogli liberamente e gratuitamente il titolo e le prerogative di figlio che non gli appartenevano in virtù della sua nascita, compreso il diritto di ereditare dal padre adottivo. – Da ciò si può dedurre che per una vera adozione sia necessaria una triplice condizione: in primo luogo, l’adottato deve essere per origine estraneo alla famiglia che lo introduce nel suo seno, e non ne fa naturalmente parte; in secondo luogo, l’ingresso nella nuova famiglia deve essere il risultato di una libera e gratuita scelta; infine, è necessario che, con il titolo di figlio, l’adottato riceva un diritto rigoroso e legale all’eredità dalla persona che lo adotta. Queste diverse condizioni sono facili da stabilire nel caso in cui sia solo suscettibile di adozione, cosa manifesta; sarebbe una contraddizione adottare il proprio figlio. Come si può dire, infatti, del figlio legittimo, del figlio per natura, che è stato introdotto gratuitamente in una famiglia alla quale non apparteneva per nascita, che ha ricevuto per libera scelta il nome e il diritto di ereditare dal padre? Ma tutto questo gli tocca naturalmente, in virtù anche dalla sua origine. Il figlio legittimo può, è vero, demeritare; può essere cacciato dal tetto paterno per la sua cattiva condotta e per i disordini della sua vita; può anche, in alcune circostanze eccezionali, essere legittimamente diseredato; ma quando, istruito dalla disgrazia e pentito, questo nuovo prodigo ritorna alla casa paterna, riprende il suo posto nella casa di famiglia e non è adottato. Il legame di sangue è indistruttibile, e ci sarà sempre una profonda differenza tra il figlio naturale, qualunque possano essere i suoi torti, e colui che è entrato in famiglia solo per la buona compiacenza del suo capo. Inoltre, l’adozione è essenzialmente volontaria e gratuita: volontaria sia da parte dell’adottante che dell’adottato; gratuita, in quanto non si basa su diritti naturali o acquisiti. È un contratto con il quale due persone, naturalmente indipendenti e libere di disporre l’uno del proprio nome e della sua fortuna, l’altra della propria persona, si impegnano reciprocamente: la prima, per conferire al secondo tutti i diritti di un figlio legittimo, e il secondo, per riconoscere l’autorità del padre adottivo di cui si accettano le liberalità. – Un’ultima condizione finale dell’adozione, che i giureconsulti convengono nel considerare fondamentale, è il conseguente diritto legale della persona adottata a ricevere un giorno la successione dell’adottante.

II.

Se, quindi, la nostra adozione per grazia non è una parola vuota, essa deve soddisfare questa triplice condizione che, data la natura stessa delle cose, si trova necessariamente in ogni vera adozione. Che questo sia davvero  così, è facile da dimostrare. Infatti, vi sono molti estranei che Dio introduce nella sua razza, quando si degna di concedere agli esseri ragionevoli la grazia santificante, e quindi comunicare loro una partecipazione della sua natura e della sua vita. Indubbiamente, « considerato nella sua natura e quanto ai beni dell’ordine naturale, l’uomo non è estraneo a Dio, poiché deve a Lui tutto ciò che possiede; ma per quanto riguarda i beni della grazia e della gloria, egli gli è estraneo; ed è proprio in questo che egli è adottato » (S. Th., III, q. XXIII, a. 1, ad 1). L’uomo della natura, l’uomo privo della grazia, non può quindi essere considerato come uno di quelli ai quali è stato detto: « Voi siete dei e figli dell’Altissimo » (Ps. LXXXI, 6); egli non fa parte della famiglia divina, non ha diritto al possesso dei beni di Dio; egli è veramente un estraneo. Le relazioni che lo uniscono all’Autore del suo essere sono le relazioni di effetto alla causa, dell’opera all’operaio, ed in nessun modo quelle di figlio al padre, dal momento che egli esiste per creazione e non per generazione, che egli procede dal nulla e non dal seno di Dio. Se egli ha, come qualsiasi effetto, una certa somiglianza con la sua causa, non partecipa, tuttavia, alla natura del suo principio; se è stato fatto ad immagine di Dio, pure non vive della vita divina; non ha, nei suoi elementi costitutivi, nulla di veramente divino, né per essenza né per partecipazione.  Indubbiamente, in questo senso ampio e molto improprio, secondo il quale ogni artefice può dirsi, in un certo senso, padre della sua opera, Dio può essere chiamato nostro Padre nell’ordine naturale, e tutte le creature, specialmente le creature intelligenti, che portano in modo più evidente l’impronta della divinità, possono essere chiamate figlie di Dio (« Numquid non ipse est pater tuus, qui possedit te, et fecit, et creavit te? » (Deut., XXXII, 6 – Giob. XXXVIII, 28); ma, per dirla in senso stretto, non lo sono per difetto di questa somiglianza di natura che deve esistere tra il padre ed i figli. Così, la tradizione cattolica ha sempre considerato l’adozione divina come una chiamata di Dio agli esseri che per natura gli sono estranei e che, per la loro condizione originaria, sono per Lui servi, non figli. Ecco come lo spiega San Cirillo d’Alessandria: « Noi che, per natura, siamo creature prodotte e di condizione servile, otteniamo per grazia e al di sopra delle esigenze della nostra natura la dignità di figli di Dio: Nos qui natura censemur effecta servaque creatura, iidem supra naturam et per gratiam nanciscimur præstantiam filiorum Dei » (S. Ciril. Alex In Joan. l. 1). – Sant’Atanasio esprime lo stesso pensiero nei seguenti termini: « Gli uomini, essendo, per loro natura, creature, non possono diventare figli di Dio che ricevendone lo Spirito da Colui che è il vero Figlio di Dio per natura: Nec alio modo possunt filii fieri cum ex natura sua sint creati, nisi Spiritum ejus, qui est naturalis ei verus Filius, acceperint » (S. Athan., Orat. 2 contra Arian). Il Sommo Pontefice Leone XIII non era dunque che l’eco della dottrina tradizionale quando, nella sua bella Enciclica sullo Spirito Santo, diceva: « La natura umana è necessariamente la servente di Dio: Per natura, noi siamo i servi di Dio (S. Cyr. Alex., Thesaur., 1. V, c.5). Inoltre, a causa della comune caduta, la nostra natura è finita in un tale abisso di vizio e vergogna che eravamo diventati nemici di Dio. Nessun potere era in grado di strapparci da questa rovina e di salvarci dalla perdita eterna. Questo compito, Dio, Creatore dell’uomo, lo ha compiuto nella sua sovrana misericordia per mezzo del suo Figlio unigenito, grazie al quale siamo stati restaurati con una maggiore abbondanza di doni in dignità e nobiltà di quanto avessimo perso. È impossibile dire quale sia stata l’opera compiuta dalla grazia divina nell’animo umano; perciò, i Libri Santi e i Padri della Chiesa ci chiamano esseri rigenerati, creature nuove ammesse alla partecipazione della natura divina, i figli di Dio, gli esseri divinizzati e altri titoli simili » (Ex Epist. Encycl. Divinum illud munus Léon. Papæ XIII.). Così, nel momento stesso in cui riceviamo la grazia, avviene in noi un profondo cambiamento; da servi che eravamo in virtù della nostra creazione, diventiamo improvvisamente figli di Dio; da figli del primo Adamo, eredi della sua natura e della sua colpa, diventiamo fratelli del secondo Adamo, Gesù Cristo nostro benedetto Salvatore, che non si vergogna di darci questa gloriosa qualifica (Propter quam causam non confunditur fratres eos vocare. » – Hebr., II, 11.); e sentiamo l’Apostolo pronunciare queste significative parole: « Non siete più stranieri ed ospiti, ma siete concittadini degli Santi e della Casa di Dio: Jam non estis hospites et advenæ, sed estis cives sanctorum et domestici Dei. » (Ephes. II, 19) – Non contento di distruggere in noi il vizio della nostra prima origine, Dio ci comunica un nuovo essere, una nuova vita, una nuova natura; ci genera spiritualmente, non certamente allo stesso modo, né come il Verbo divino, ma a sua somiglianza. Egli è consustanziale con il Padre, che gli comunica la propria natura in tutta la sua pienezza; abbiamo solo una partecipazione finita, un’imitazione analogica di questa stessa natura. Lui è Dio, noi siamo semplicemente divinizzati. La sua generazione è eterna e necessaria; la nostra rigenerazione, che si compie nel tempo, è libera e volontaria. Voluntarie genuit nos verbo veritatis (Giac. I, 18). In breve, il Verbo è Figlio per natura; noi non lo siamo che per benevolenza e adozione, essendo stati divinizzati dalla grazia, senza essere nati dalla sostanza divina: Homines dixit deos, ex gratia sua deificatos, non de substantia sua natos (S. Aug., in Ps. XLIX, n. 2). Ma pur essendo solo figli adottivi, abbiamo comunque diritto all’eredità del nostro Padre celeste. « Se siamo figli – dice san Paolo – siamo anche noi eredi: eredi di Dio e coeredi di Gesù Cristo: Si autem filii, et hæredes: hæredes quidem Dei, cohæredes autem Christi. » (Rom. VIII, 17) . Questo diritto all’eredità paterna è la parte più essenziale dell’adozione; è il suo scopo e il suo fine, così come l’amore ne è il principio. Inoltre, « non appena, per effetto della sua infinita bontà, Dio chiama gli uomini ad ereditare la propria beatitudine, si dice che li adotti » (S. Th., III, q. XXVIII, a. 1). È una grande e sublime vocazione, una benedizione inestimabile, che ha strappato dall’Apostolo san Paolo quel grido di gratitudine e di amore: « Benedetto sia Dio e Padre di Nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha ricolmati in Gesù Cristo di ogni sorta di benedizioni spirituali e celesti, avendoci eletti in Lui prima della costituzione del mondo, perché fossimo santi e immacolati davanti a Lui nella carità. Perché con un favore gratuito ci ha predestinato a diventare suoi figli adottati per mezzo di Gesù Cristo, per la gloria ed il trionfo della sua grazia, con la quale ci ha resi graditi ai suoi occhi nel suo amato Figlio. » (Ephes. I, 3-6).

III.

La grazia soddisfa così tutte le condizioni per una vera adozione, poiché attraverso di essa gli stranieri vengono introdotti liberamente nella famiglia di Dio, di cui diventano eredi. Ma quanto questa adozione differisce dalle adozioni umane! Se ci sono certe analogie, certi tratti di somiglianza tra di loro, tante, d’altra parte, sono le differenze profonde e marcate! Tra gli uomini, l’adozione avviene solo per compensare, in una certa misura, l’assenza di figli legittimi e per popolare una casa che la natura aveva lasciato deserta. Quando due coniugi, privati del beneficio della fertilità, temono che un grande nome si estinguerà e che si disperderà una brillante fortuna, scelgono uno sconosciuto, lo introducono come un figlio nella loro casa, e, trasmettendogli il loro nome e la loro eredità, si consolano nel pensiero che non moriranno del tutto. Ma se i coniugi hanno un figlio, fanno attenzione a non ridurre il suo patrimonio dandogli dei coeredi. « Questo – disse sant’Agostino – è ciò che fanno gli uomini; Dio agisce in modo diverso: Hoc faciunt homines….. No sic Deus » (S. Aug., in Joan., tract, 2, n. 13). Non è per l’indigenza, in assenza di un figlio, che Dio ci adotta; è solo per amore, con l’intenzione di diffondere su altri esseri l’abbondanza delle sue perfezioni. Egli possiede infatti un Figlio uguale a Se stesso, sovranamente perfetto, immortale, erede di tutti i suoi beni (Hebr. I, 2); ma, spinto dalla sua bontà, vuole allargare il cerchio della famiglia divina, ammettere alla condivisione dei suoi beni delle creature che non ne avevano alcun diritto, e conferire loro, adottandoli, una sorta di filiazione che è immagine di quella del Verbo, così come, con l’atto creativo, aveva comunicato a tutti gli esseri usciti dalle sue mani una somiglianza della sua perfezione (Rom. VIII, 29 – S. Th., III, q. XXIII a. 1, ad 2). Di qui le parole dell’Apostolo: « Coloro che Dio conosceva nella sua prescienza, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo. » (Rom. VIII, 29). Era infatti necessario che, prima di adottarci, Dio cominciasse con il conferirci una partecipazione alla sua natura generandoci spiritualmente, perché la conformità della natura tra chi adotta e chi viene adottato si impone così manifestamente che non si giunge all’idea che un uomo possa prendere come figlio una creatura diversa dall’essere umano. Ora, mentre l’adozione umana suppone questa comunità di natura, l’adozione divina deve crearla, perché la divinità appartiene naturalmente solo a Dio. Inoltre, mentre l’uomo sceglie a piacimento tra i suoi simili colui che vuole fare suo figlio adottivo ed erede, Dio può adottare un essere ragionevole solo se lo divinizza in anticipo informandolo della sua natura. Inoltre, tra gli uomini, l’estraneo adottato può ricevere da se stesso l’eredità che gli è stata devoluta; se non può rivendicarla in virtù della sua nascita, basta una semplice formalità giuridica a costituire per lui un diritto e metterlo in possesso dei beni che gli sono stati lasciati in eredità. Questo non è il caso dell’adozione divina. Invece di limitarsi a designare la persona chiamata a ricevere l’eredità celeste, Dio deve prima creare, nell’eletto, la capacità di entrare in possesso e di godere dei beni divini; perché nessun essere creato, lasciato a se stesso e abbandonato alla sua sola forza, è capace di raggiungere tali altezze; c’è bisogno dell’integrazione della grazia e della gloria (S. Th. III, q. XXIII, a. 1); indubbiamente, non appena l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio e possiede una natura intelligente, ha la potenza radicale di essere elevato alla visione beatifica e alla partecipazione della beatitudine divina, che consiste nel godere di Dio (Ibid.); ma, per ottenere l’effettivo godimento di questa beatitudine suprema, ha bisogno di forze soprannaturali che perfezionino la sua intelligenza e dilatino il suo cuore. Come si vede, l’adozione umana è un atto puramente esterno, una finzione giuridica, che può benissimo cambiare la situazione sociale dell’adottato, ispirargli nuovi sentimenti, stabilire tra lui e colui che lo adotta rapporti di intimità e di affetto, ma che non può fare nulla sulla natura. Il padre adottivo ha dato tutto quello che può trasmettere, quando ha dato il suo nome, la sua eredità e il suo cuore. « Colui che ne prende ora il nome, non appartiene alla razza per questo motivo. Se ha un cuore nobile e riconoscente, sposerà i sentimenti, i pensieri e le tradizioni della sua famiglia adottiva; ad essa dedicherà amore e obbedienza; ma a questa filiazione artificiale e convenzionale mancherà sempre il legame di origine, la consanguineità. Questo non è il caso dell’ordine della nostra filiazione suoprannaturale. Il giorno in cui diventiamo Cristiani, la nostra iniziazione non solo ci conferisce il nome, non solo ci aggrega alla casa, non solo ci impegna alla dottrina di Gesù Cristo: ma imprime nella nostra anima un sigillo di somiglianza, un carattere indelebile; essa ci comunica internamente « lo spirito di adozione dei figli in cui gridiamo; Padre » (Rom. VIII, 15); infine, attraverso l’azione sacramentale del Battesimo e di altri segni, e ancor meglio attraverso il nettare eucaristico, essa insinua il sangue di colui in cui siamo adottati nella parte più intima del nostro essere. Attraverso questo, entriamo autenticamente nella sua razza: ipsius enim et genus sumus (Act. XVII, 28). E siccome siamo della razza di Dio: genus ergo cum simus Dei (Ibid. 29), perché la nostra filiazione non è puramente nominale, ma rigorosamente vera e reale, diventiamo eredi di diritto e di stretta giustizia, eredi del Padre comune che abbiamo con Gesù Cristo, coeredi quindi del primogenito della nostra razza (Rom. VIII, 17): Si filii, et hæredes: hæredes quidem idem Dei, cohæredes autem Christi » (Card. Pie, 3 e Instruct. synod. sur les principales erreurs du temps présent, § XVI).

IV.

Cosa sono, di fronte a queste qualità di figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo, i titoli più fastosi di cui la vanità umana ama adornarsi come di un’aureola? Che cos’è un principe della terra, un capo di stato, un monarca benché si presuma essere così potente, accanto a un erede della corona celeste? Questo aveva perfettamente compreso il nostro grande San Luigi; egli infatti preferiva l’umile nome di Luigi di Poissy, il luogo dove aveva ricevuto il Sacramento della rigenerazione, al nome sì giustamente famoso di Re di Francia. Altri si vantino, se lo desiderano, della nobiltà della loro origine, dell’ampiezza e della profondità della loro conoscenza, dell’abbondanza delle loro ricchezze, della brillantezza dei loro onori: agli occhi della fede, e di conseguenza a giudizio di Dio, nulla di tutto ciò è paragonabile alla dignità di un Cristiano in stato di grazia. Questo giusto non è forse che solo un povero artigiano, che vive a malapena del lavoro delle sue mani, o una donna umile, senza influenza o notorietà, per non parlare di un mendicante misconosciuto e disprezzato, con pochi stracci sordidi per coprire la sua nudità. Ma mentre il felice della terra passa accanto a lui senza degnarsi di guardarlo, tutto il Cielo intero ha gli occhi su di lui; Dio lo contempla con amore, pronto a ripetere per lui le parole che un giorno caddero dalle labbra a lode di Gesù Salvatore: « Questo è il mio amato Figlio, nel quale ho riposto tutte le mie compiacenze » (« Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi bene complacui. » (Matth,, XVII, 5); gli Angeli lo circondano di religioso rispetto e lo coprono della loro protezione, perché vedono in lui un fratello e un coerede della gloria celeste. Questo è ciò che deve essere insegnato e ripetuto frequentemente agli uomini della generazione contemporanea che sono così freddamente indifferenti alle cose della salvezza, così ingrati a Dio, così sprezzanti dei beni della grazia. A questi battezzati che fanno conto del titolo di Cristiani come di una cosa da nulla, quand’anche non se ne umiliano apertamente davanti ai figli del secolo, è necessario ricordare lo splendore della loro nascita spirituale, la dignità del loro Battesimo, l’incomparabile grandezza dei loro destini; è necessario insegnare loro a non arrossire di ciò che li rende gloriosi. Un figlio di famiglia, un giovane di nobile estrazione, arrossisce forse per i nomi dei suoi antenati? Nasconde o dissimula il proprio blasone? Al contrario, egli lo fa risuonare ben in alto, si ingegna nel metterlo bene in evidenza. Ebbene, tutti noi che siamo stati battezzati apparteniamo alla più grande razza del mondo: siamo della razza divina, siamo figli di Dio. « Imparate – diceva san Girolamo alla vergine Eustochio, invitandola a non associarsi alle superbe matrone gonfie per l’importanza dei loro mariti – imparate a concepire qui un santo orgoglio; sappiate  che voi siete migliori di loro: Disce sanctam superbiam; scito te illis majorem. » (S. Girol. Epist. IX). Se l’umiltà cristiana ci si addice come creature, e specialmente in quanto peccatori, non è opportuno avere pensieri mediocri o sentimenti bassi circa le cose della grazia. Un santo orgoglio appare qui appropriato, per colui che rispetta i doni di Dio e si rifiuta di derogare. Che gli uomini estranei alla nostra fede riservino la loro stima per i beni ed i benefici nell’ordine naturale, che esaltino più della ragione le conquiste della scienza, questo è concepibile; poiché « l’uomo animale – secondo l’espressione energica di san Paolo – non conosce le cose che sono dello Spirito di Dio » (« Animalis homo non percipit ea quas sunt Spiritus Dei. » (I Cor., II, 14); quanto al Cristiano, egli non la cede a nessuno quanto alla stima e alla cultura delle scienze naturali e umane – perché, lungi dall’essere una depressione della natura, la grazia è, al contrario, la sua più splendida esaltazione – fa professione di credere in una scienza superiore e più necessaria, la scienza di salvezza. – Ascoltate dunque con quali nobili accenti san Cipriano risponde a tutti quei difensori della natura che hanno costantemente in bocca le grandi parole di “progresso”, “civiltà” e “scoperte moderne”, e che, non contenti di esaltarsi davanti a quelli che chiamano i capolavori del pensiero e le conquiste della scienza, sembrano voler imporre la loro ammirazione agli altri: « Non ammirerà mai le opere umane, chi sa di essere figlio di Dio ». È un discendere dalla vetta della grandezza l’ammirare qualcosa dopo Dio. Nunquam humana operato mirabitur, quisquis se cognoverit filium Dei. Dejicit se culmine generositatis, qui admirari aliquid post Dominum potest. » (S. Cyp., lib. de Spectac., n. IX). E per incoraggiare il Cristiano a rifiutare coraggiosamente la tentazione, l’illustre Vescovo di Cartagine non trova motivo più potente di quello della sua divina figliolanza: « Ogni volta che la carne vi sollecita a piaceri vergognosi, rispondete: Io sono il figlio di Dio, chiamato a un destino troppo alto per farmi schiavo di vili passioni. Quando il mondo vi tenta, rispondete: Io sono il figlio di Dio; mi sono riservate le ricchezze celesti, non è degno di me che io mi leghi ad una zolla di terra. Quando il diavolo cerca di attaccarvi e vi promette onori, ditegli: io sono il figlio di Dio, nato per un regno eterno; ritirati, satana, non confondere mai gli alti pensieri che appartengono ai figli di Dio. « O Cristiano – aggiunge san Leone – riconosci la tua dignità e, divenuto partecipe della natura divina, non ritornare alla tua precedente bassezza con una condotta indegna della tua origine celeste » (« Agnosce, o christiane, dignitatem tuam, et divinse consors factus naturae, noli in veterem vilitatem degeneri conversations redire. » (S. Léo, serm. 1 de Nativ. Domini.)

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/05/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-12/

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (10)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (10)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°)

P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov. Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO II

La nostra giustificazione per mezzo della grazia è una vera deificazione. – Come la grazia santificante, sia una partecipazione fisica e formale della natura divina.

I.

Un altro effetto della missione invisibile dello Spirito Santo e della sua presenza in noi è la nostra divinizzazione per mezzo della grazia. « Sarete come dei: Eritis sicut dii », l’antico serpente, l’infernale tentatore, aveva detto ai nostri primi genitori per portarli a raccogliere il frutto proibito. « Dal giorno in cui mangerete questo frutto, i vostri occhi si apriranno e sarete come dei, conoscenti il bene e il male » (Gen. III, 5). E, cedendo ad un orgoglio insensato, portarono il frutto fatale alle loro labbra, e i loro occhi si aprirono effettivamente, ma per contemplare con orrore l’abisso dove la loro disobbedienza li aveva appena precipitati. Al posto della scienza universale e della divinizzazione promessa, essi persero per se stessi e per tutti i loro posteri la giustizia originaria nella quale erano stati creati, nonché le magnifiche prerogative che ne erano la sequela. In seguito a questa terribile caduta, l’uomo nacque peccatore; ancor prima di aver potuto commettere una colpa personale, egli è, per il semplice fatto della sua discendenza da Adamo, un nemico di Dio e un figlio dell’ira, cosicché chi ci genera ci dà la morte, perché ci trasmette solo una natura disonorata, dimezzata, priva della grazia santificante, che è la vita della nostra anima. Aggiungete a questa le altre conseguenze del peccato originale, l’ignoranza, la concupiscenza, il dolore e la necessità di morire, e avrete un’idea della triste eredità che troviamo quando entriamo in questo mondo. Ma, oh meraviglia della bontà divina! Questa divinizzazione, la cui promessa era solo un’esca sulle labbra di satana, ci viene proposta ancora una volta, ma questa volta da Dio stesso, non solo come qualcosa che possiamo legittimamente pretendere, ma anche come una meta che noi dobbiamo raggiungere. Ed è per renderci possibile questa suprema esaltazione, è per meritare questo insigne beneficio, che il Figlio di Dio si è degnato di umiliarsi fino a noi e di rivestirsi della nostra umanità. « Si è fatto uomo – dice sant’Atanasio – per farci come dei. » (S. Ath., serm. IV, contra Arianos.). « Egli è disceso – aggiunge sant’Agostino – per farci salire; e, pur conservando la sua natura, ha voluto prendere la nostra, affinché, pur rimanendo noi stessi nella nostra natura, potessimo partecipare alla sua: con questa differenza, però, che la partecipazione alla nostra natura non lo ha fatto decadere, mentre la comunicazione nella sua natura ci eleva singolarmente. » (S. Aug., Epis t. CXL, ad Honoratum, cap. IV, n. 10). Che se, abbagliati da tanta grandezza, qualcuno non può accettare il pensiero che una semplice creatura possa essere chiamata da Dio a destini così alti, gli diremo con san Giovanni Crisostomo: « Esitate a credere che tali onori possano essere di vostra condivisione? Imparare dall’abbassamento del Verbo Incarnato per ammettere ciò che vi viene insegnato sulla vostra sublime dignità.  Perché, infine, per quanto la ragione umana possa essere arbitra di queste cose, è molto più difficile che un Dio divenga uomo, che un uomo sia costituito figlio di Dio. Quando sentite dire allora che il Figlio di Dio è diventato figlio di Davide e di Abramo, non dubitate più che voi, figlio di Adamo, non dobbiate essere figlio di Dio.  Perché non è invano e senza risultato che il Verbo sia sceso così in basso, ma questo avvenne perché Egli doveva innalzarci alla sua altezza. Egli è nato secondo la carne per farvi nascere secondo lo spirito; è nato dalla Donna perché voi non siate più semplicemente figlio della donna » (S. Joan. Chrys., Homil. II in Matth. n. 2.). – Per quanto sorprendente possa sembrare questa dottrina della nostra esaltazione soprannaturale, essa è nondimeno una verità di fede, insegnata dal Principe degli Apostoli in termini così chiari, sì formali e sì espliciti da non lasciare il minimo dubbio. « Per mezzo di Gesù Cristo – egli dice – Dio ci ha comunicato le grandi e preziose grazie che aveva promesso, rendendoci partecipi della natura divina: Ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ » (2 Petr. I. 4). Questa partecipazione della natura e della vita di Dio non è altro che la grazia santificante, cioé il dono che ci giustifica, ci divinizza allo stesso tempo, e questa giustificazione è una vera divinizzazione. – Questo è ciò che il grande Vescovo di Ippona esplicita chiaramente. commentando queste parole del salmista: « Io ho detto: Voi siete dei e figli dell’Altissimo »; egli si esprime così: « Chi è che ci giustifica è lo stesso che ci divinizza: Qui autem justificat, ipse deificat, perché giustificandoci, ci rende figli di Dio… Ora, se siamo figli di Dio, siamo per la stessa ragione degli dei, non senza dubbio per via di una generazione naturale, ma per grazia di adozione. Perché unico in effetti è il Figlio di Dio, un solo Dio con il Padre, nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo….. Gli altri che diventano dèi lo diventano per la sua grazia; essi non nascono dalla sua sostanza per essere ciò che Egli è, ma giungono fino a Lui per un beneficio della sua liberalità » (S. Aug., in Ps. XLIX, n. 2). Nessuno sarà sorpreso di sentire i santi Dottori dichiarare che la giustificazione è il capolavoro del potenza divina. San Tommaso, sempre così esatto nelle sue valutazioni, non ha paura di affermare che essa è superiore alla stessa creazione, se non per quanto riguarda il modo d’azione, ma almeno per quanto riguarda l’effetto prodotto; perché l’atto creativo, sebbene di natura esclusivamente divina, porta alla fine solo alla produzione di una sostanza soggetta a cambiamenti, mentre la giustificazione ha come termine la partecipazione alla natura divina, e fa di un peccatore un essere divino, un figlio di Dio, un erede della beatitudine eterna (S. Th., Ia IIæ, q. CXIII, a. 9). Parlando così, l’angelico Dottore si limitava a riprodurre il pensiero di sant’Agostino, che aveva detto già, otto secoli prima: « Giustificare un peccatore è una cosa più grande che creare il cielo e terra; perché il cielo e la terra passeranno, ma la giustificazione e la salvezza dei predestinati non passerà. »  (S. Aug., in Joan. tract, LXXII, n. 3.).

II.

Cerchiamo di penetrare ulteriormente nella conoscenza di questi magnifici segreti e di scrutare, per quanto possibile qui sulla terra, il mistero della nostra divinizzazione mediante la grazia. E innanzitutto, come si opera questa divinizzazione? Con quale meraviglioso processo è inoculata la vita di Dio alla creatura ragionevole? Essa si compie regolarmente attraverso il Battesimo e costituisce una vera generazione che ha per termine una vera nascita. – È questa nuova generazione che viene così spesso menzionata nelle Lettere sante, questa seconda nascita così celebrata dai Padri e così spesso ricordata nella Santa Liturgia: generazione incomparabilmente superiore alla prima, poiché, invece di una vita naturale e tutta umana, ci trasmette una vita soprannaturale e divina; è una nascita mirabile che fa di ciascuno di noi « questo uomo nuovo di cui parla l’Apostolo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità » (Giov. I, 13) generazione tutta spirituale e pertanto vera, il cui principio non è né la carne, né il sangue, né la volontà dell’uomo, ma la libera volontà di Dio: la voluntarie genat nos verbo veritatis (Giac. I, 18); nascita misteriosa che non proviene da un seme soggetto a corruzione, ma da un seme incorruttibile mediante la parola di Dio: Renati non ex semine corruptibili, sed incorruptibili per verbum Dei (1 Petr. I, 23); generazione e nascita altrettanto indispensabili per vivere della vita di grazia, come la generazione e la nascita carnale per vivere della vita della natura – Perché è la Verità stessa che ha detto: « Chi non rinasce dall’acqua e dallo Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio. Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è Spirito » (Givan,. III, 5-6). E dice il Concilio di Trento: « È soltanto a condizione di rinascere in Gesù Cristo che si può essere giustificati, poiché questa seconda nascita è il frutto della grazia che giustifica. » (Trid. Sess. VI, c. 3).  Ma qual è la natura di questo elemento divino e rigenerativo che il Battesimo deposita nelle nostre anime e che ci rende esseri deiformi? In cosa consiste questo principio radicale di vita soprannaturale che un Sacramento ci comunica e che altri segni sacri sono destinati a nutrire, sviluppare e a resuscitare se abbiamo la sventura di perderlo? E poiché questo dono prezioso, causa formale della nostra giustificazione e della nostra divinizzazione, non è altro che la grazia santificante, cos’è la grazia che ci santifica? – Nostro Signore e Redentore Gesù Cristo si degnò spiegarlo un giorno in favore di un peccatore che voleva convertire. Abbiamo già nominato la donna samaritana. Solo che, invece di una definizione colta, che sarebbe rimasta inevitabilmente fraintesa, il buon Maestro approfittò della circostanza che questa donna, venuta a rifornirsi dell’acqua materiale al pozzo di Giacobbe, per poterle parlare della grazia sotto l’emblema di un’acqua misteriosa, dalle proprietà ammirevoli. Egli cominciò chiedendole da bere, perché, secondo il testo sacro, era stanco di camminare ed era l’ora in cui il caldo della giornata era più opprimente; poi, vedendo questa donna sorpresa da una tale richiesta, per il fatto che gli Ebrei non avevano alcun rapporto con i Samaritani, aggiunse: «Se voi conosceste il dono di Dio! Si scires donum Dei! Se voi conosceste il dono di Dio e sapeste chi è Colui che vi chiede di bere, forse voi stessi preghereste ed Egli vi darebbe l’acqua viva » (Giov. IV, 10). Donum Dei, il dono di Dio … questo è davvero il vero concetto della grazia.  Essa è un regalo, quindi qualcosa di gratuito, qualcosa che ci viene concesso senza alcun diritto o merito da parte nostra. È vero che tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che noi siamo, il nostro corpo, la nostra anima, le nostre facoltà, i nostri atti, i nostri beni esterni … tutto, in una parola, ci viene da Dio e può essere chiamato dono della sua liberalità, secondo la parola dell’Apostolo: « Che cosa avete che non abbiate ricevuto? Quid habes quod non accepisti? » (1 Cor. IV, 7). Ma se ogni cosa, ogni perfezione è, nel vero senso, un dono di Dio, non è però “il” dono di Dio. Il dono di Dio per eccellenza, quello davanti al quale tutti gli altri spariscono, è la grazia. La grazia, infatti, è il dono più prezioso, il più magnifico, il più necessario, il più gratuito di tutti i doni. – Ma perché la grazia è paragonata all’acqua? Perché produce spiritualmente tutti gli effetti dell’elemento liquido nell’ordine materiale. L’acqua purifica, rinfresca, disseta e feconda. Purifica ciò che è sporco, e ne restituisce la chiarezza, la lucentezza e la bellezza primaria: simbolo dell’intima purificazione operata dalla grazia, che non solo rimuove le macchie prodotte dal peccato e restituisce all’anima il suo naturale splendore, ma aggiunge alla sua bellezza originaria un fascino incomparabile, che delizia il cuore di Dio e gli strappa queste parole: « Tu sei tutta bella, o mia cara, non c’è macchia in te…. ». L’acqua tempera il calore, raffredda l’atmosfera che un sole ardente aveva trasformato in una fornace, allevia le nostre stanche membra: simbolo della grazia, questa rugiada celeste smorza l’ardore delle passioni e diminuisce gradualmente, senza riuscire a spegnerla però completamente qui sulla terra, la febbre della concupiscenza. L’acqua che disseta e spegne la sete, è immagine della grazia che spegne la sete inestinguibile del cuore umano. Creato per la felicità, l’uomo la cerca costantemente con insaziabile avidità, e non c’è nulla che non faccia per raggiungerla. Ma troppo spesso, purtroppo, cerca la felicità nei beni terreni e passeggeri, nei piaceri sensibili che stimolano solo la sua sete, invece di placarla. Questo è ciò che Nostro Signore voleva far intendere alla samaritana quando, mostrandole l’acqua materiale, figura dei beni effimeri di questo mondo, le diceva: « Chiunque beve quest’acqua avrà ancora sete; ma chi beve l’acqua che Io gli darò non avrà mai più sete » (Giov. IV, 13). Ma cosa significa questa espressione di acqua viva, aquam vivam (Giov. IV, 10), quando il Salvatore la usa per designare la grazia? Ordinariamente – dice sant’Agostino – si dà il nome di acqua viva, in opposizione all’acqua stagnante delle cisterne o delle paludi, all’acqua che sgorga dal terreno, che scorre, che si muove, pur rimanendo in comunicazione con la sua sorgente, e che offre così l’aspetto della vita. Se quest’acqua, pur provenendo da una fontana, viene raccolta in un serbatoio, se il suo flusso viene interrotto, viene separata dalla sorgente, non può più essere chiamata acqua viva. (S. Aug., In Joan., tract, XV, n. 12). Ora, qual è la fonte della grazia, se non lo Spirito Santo? Se si chiama acqua viva, allora è, secondo la riflessione di san Tommaso, perché non si separa dal suo principio, cioè dallo Spirito Santo, che abita nel cuore dei veri fedeli. (S. Th., In Joan., VII, lect. 5.) – Un’ultima proprietà dell’acqua, che non possiamo ignorare, è la sua meravigliosa fecondità. Dove l’acqua abbonda, la terra è ricoperta da un ricco manto di vegetazione, si sviluppano germi, i fiori sbocciano come per magia, i frutti si moltiplicano, i raccolti si susseguono numerosi e variegati; dove è assente, tutto si prosciuga, tutto dissecca, tutto muore: è il deserto con le sue sabbie aride, con la sua triste monotonia. Elemento indispensabile di tutta la vita fisica, l’acqua è una mirabile figura della grazia, con la quale la nostra anima produce una ricca messe di virtù e di meriti, ma senza la quale la virtù lasciata alle sue sole risorse è radicalmente incapace di produrre qualsiasi frutto di salvezza, e rimane per sempre sterile per il cielo. Non è che la natura stessa decaduta non possa, con le proprie forze, produrre alcun bene nell’ordine naturale; ma queste azioni umane, queste virtù di ordine inferiore, simili alle acque della valle, non hanno in sé il potere di elevarsi al cielo. Solo le opere e le virtù cristiane, che procedono dalla grazia e ricevono il loro impulso dallo Spirito Santo, possono portare l’anima fino alle alture della Gerusalemme celeste; discese dalle montagne eterne, esse risalgono come da sole al loro punto di partenza. Per questo Nostro Signore diceva, parlando della grazia: « L’acqua che Io darò diventerà in colui che la riceve una fonte di acqua viva che sgorga nell’eternità » (Giov. IV, 14).  « Quanto amo questo luogo del Vangelo” – diceva santa Teresa – fin dalla più tenera infanzia, senza comprendere il prezzo di ciò che chiedevo, chiedevo spesso al divino Maestro di darmi quest’acqua meravigliosa; e ovunque mi trovavo, avevo sempre un quadro che mi rappresentava questo mistero, con queste parole scritte sotto: Domine, da mihi hanc aquam: Signore, datemi di quest’acqua »  (Vita di santa Teresa scritta da se stessa, cap. XXX). – Purificare, rinfrescare, dissetare: sono le proprietà della grazia medicinale: gratiæ naturam sanantis (S. Th. Ia IIæ, q. CIX, a. 3. — Cf. etiam, aa. 2 et 9), come le chiama san Tommaso; elevare le nostre facoltà ed azioni al di sopra delle esigenze e delle forze della natura, rendere le nostre opere meritorie della vita eterna, diventare in noi il principio di una vita superiore e divina, è il frutto di una grazia propriamente soprannaturale, gratiæ elevantis. – Nello stato originale di giustizia, la grazia non doveva produrre il primo tipo di effetti, perché la purificazione implica la sozzura, il bisogno di ristoro è indice di un eccesso di calore, e la sete, quando brucia, è una sofferenza che può diventare molto acuta. Tuttavia, nello stato d’innocenza, non c’era né sozzura, né profanazione, né disordine, né pena. La grazia non doveva quindi guarire una natura che non era malata, ristabilire un equilibrio che non si era rotto, riparare delle rovine che non c’erano ancora; il suo ruolo in questo ordine di cose si limitava a prevenire. Ma, dopo la caduta, la grazia è prima di tutto un rimedio per guarire le nostre ferite, un bagno salutare dove dobbiamo immergerci per purificarci, un potente tonico la cui virtù deve restituire all’anima le forze morali che il peccato le aveva sottratto. In entrambi gli stati, nello stato attuale di decadenza come nello stato di innocenza, la grazia santificante è la vera forma di santità, la causa della nostra divinizzazione, il principio della vita soprannaturale e divina, in breve, è quella fonte di acqua viva che sfocia nell’eternità fons aquæ salientis in vitam æternam (Giov. IV, 14).

III.

Spiegare la natura della grazia con i suoi effetti è il processo, se non il più profondo, almeno il più popolare, diciamo, l’unico veramente popolare, perché è alla portata di tutte le intelligenze; per questo Nostro Signore l’ha usato nelle circostanze che abbiamo appena citato. Tuttavia, nessuno non troverà cattivo che i Cristiani d’élite, gli uomini colti, i teologi, cerchino di penetrare ulteriormente nell’intimità delle cose. – A coloro che, mossi non da una vana curiosità ma dal lodevole desiderio di conoscere meglio i benefici di Dio, ci chiederanno che cosa sia la grazia santificante in sé, risponderemo, con la Scuola, che essa è un dono soprannaturale e permanente, insito nella nostra anima, una partecipazione della natura e della vita divina, che fa dell’uomo un giusto ed un figlio di Dio. Essa è un dono soprannaturale, cioè, talmente al di fuori e al di sopra delle esigenze e delle aspirazioni della natura, che non potrebbe appartenere a nessun essere creato, né come costituente o porzione integrante della sua natura, né come sviluppo normale delle sue facoltà, né gli vien dato ad alcun titolo. La grazia è quindi qualcosa di essenzialmente gratuito, un extra divino per cui la natura non solo si rafforza e si perfeziona nella propria sfera, ma anche si allarga e si eleva ad una sfera superiore. Inoltre, è un dono permanente. A differenza della grazia attuale, che è un soccorso passeggero, un’illuminazione dell’intelligenza, un impulso dato alla volontà, insomma, una mozione transitoria per farci produrre un atto superiore alle forze della natura, la grazia propriamente detta o santificante è un dono stabile e permanente, che, ricevuto nell’essenza stessa dell’anima, diventa in essa come una seconda natura di un ordine trascendente, un principio di vita soprannaturale, la radice fissa di atti meritori. Non era appropriato, infatti, come osserva l’angelico Dottore, che noi fossimo meno provvisti nell’ordine della Grazia che nell’ordine della Natura, che ci fosse qui un principio stabile di operazione, delle forme, delle potenze sempre presenti e pronte all’azione, mentre là tutto si sarebbe limitato ad un aiuto concreto che innalzasse le nostre facoltà e le applicasse ad una determinata azione per sparire poi con essa. (S. Th., Ia IIæ, q. CX, a. 2). – Ma, sebbene la grazia svolga nell’ordine soprannaturale il ruolo dell’anima in quello della natura, pur essendo principio di vita, seme divino, secondo l’espressione di san Giovanni (Giov. III, 9), la quale dimora in noi per preservarci dal peccato e farci portare dei frutti di santificazione e di salvezza, sarebbe sbagliato considerarlo come un essere sussistente  in se stesso, una specie di sostanza o almeno un elemento sostanziale che Dio aggiungerebbe alla nostra anima, perché, secondo l’osservazione di san Tommaso, la sostanza di un essere si fonde con la sua natura (S. Th., Ia IIæ , q. CX, a. 2, ad 2). Ora, la grazia è qualcosa di essenzialmente superiore non solo alla natura umana, ma a qualsiasi natura creata e creabile. Essa non può quindi essere una sostanza o una forma sostanziale (Ibid.). Tuttavia, resta un accidente soprannaturale, una forma non sussistente (Ibid.), una qualità di ordine divino insita nella nostra anima, secondo la nozione che ci è stata data dal Catechismo del Concilio di Trento, una specie di luce, di splendore, come riflesso della bellezza di Dio che cade sulle anime e le rende tutte belle e tutte splendenti (Catech. Rom., part. II, c. II, n. 50). Da qui queste parole di san Tommaso: « Ciò che è in Dio esiste sostanzialmente sotto forma di accidente nell’anima che partecipa alla bontà divina: Id quod substantialiter è in Deo, accidentaliter fit in anima participant divinam bonitatem » (S. Th., Ia IIæ, q. ex, a. 2, ad 2). Si trattava di esprimere in altre parole ciò che il capo del Collegio Apostolico aveva già detto quando chiamava la grazia una partecipazione della natura divina (« Maxima et pretiosa nobis promissa donavit, ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ. » – II Petr., I, 4). – Ma in cosa consiste questa partecipazione? Sarebbe, come vogliono alcuni teologi, una semplice partecipazione morale consistente in una rettitudine di volontà, in virtù della quale l’uomo si allontana dal male, compie fedelmente i comandamenti divini e conduce una condotta retta, giusta e santa, proprio come Dio è santo in tutte le sue vie? Se così fosse, la nostra divinizzazione sarebbe puramente nominale, e saremmo solo figli di Dio in modo metaforico, come chiamiamo i figli di Abramo, quelli che imitano la fede di questo Patriarca senza però discendere da lui, e i figli di satana, imitatori della sua malizia. Anche altri teologi – e sono al tempo stesso i più numerosi e i più raccomandabili per sapienza e virtù – considerando da un lato che, lungi dal sopravvalutare i suoi doni e dall’usare, quando ne parlano, un linguaggio iperbolico, come uomini che esaltano in termini magnifici doni spesso di scarsa entità, Dio rimane sempre al di sotto della realtà; e ricordando, d’altra parte, le testimonianze così formali con cui lo Spirito Santo dichiara, qui, per bocca di San Pietro, che la grazia è un dono molto grande e prezioso, maxima et pretiosa nobis promissa, che ci rende partecipi della natura divina, ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ; là, per l’organo di San Giovanni, che siamo figli di Dio, non solo di nome ma in realtà: filii Dei nominamur e sumus (1 Giov. III, 1), essendo nato da lui: ex Deo nati sunt (Giov. I, 13), credono in una comunicazione reale, fisica, formale, della natura divina; non probabilmente in una comunicazione simile a quella per mezzo della quale Dio Padre trasmette al suo Figlio unigenito la propria sostanza, ma in una comunicazione analogica della natura divina per una certa partecipazione di somiglianza, che consiste in un dono creato, distinto da questa natura, di cui egli è comunque immagine viva (S. Th., III, q. 11, a. 10, ad 1. — Cf. etiam Ia IIæ, q. CXII, a. 1). Questa è pure la dottrina dei Padri. « È falso – dice san Cirillo d’Alessandria – che non possiamo essere una cosa sola con Dio se non attraverso un accordo di volontà. Perché al di sopra di questa unione ce n’è un’altra più sublime e molto più alta, che avviene attraverso una comunicazione della divinità all’uomo, il quale, pur conservando la propria natura, si trasforma per così dire in Dio; così come il ferro immerso nel fuoco diventa igniforme, e, pur rimanendo ferro, sembra essersi trasformato in fuoco. Ecco la via dell’unione con Dio attraverso l’accoglienza in Esso e la partecipazione della divinità che Nostro Signore chiede per i suoi discepoli ». – « In questo modo Dio trasforma le anime umane in Se stesso, in un certo senso, stampando, incidendo in esse un’immagine e una somiglianza della sua sostanza. » (S. Cyr. Alex., in Joan., 1. XI). – Questa comparazione tra il ferro incandescente rivestito delle proprietà del fuoco, quella simile del cristallo illuminato da un raggio di sole e trasformatosi improvvisamente in un fuoco luminoso la cui brillantezza è difficilmente sopportabile, si ritrova spesso sulle labbra dei Padri, quando espongono ai fedeli il mistero della nostra divinizzazione soprannaturale. Ciò che essi propongono con queste analogie è di farci capire che la grazia ci fa veramente deiformi, che abbellisce e trasforma le anime in modo non meno meraviglioso e non meno profondo della luce e del fuoco per i corpi su cui lavorano; ma non pretendono che il modo di operare sia identico da entrambe le parti. Perché c’è un vero splendore dal fuoco al ferro; il primo comunica al secondo parte del suo calore e della sua luminosità, mentre Dio non comunica nulla di se stesso, della sua sostanza o delle sue perfezioni alle creature, né nell’ordine soprannaturale né in quello della natura.

IV.

Ma allora, in cosa consiste questa partecipazione alla natura divina, questo consorzio di nature divine, che è la grazia? Per cogliere a fondo questa risposta, il lettore faccia riferimento nel pensiero a quanto detto in un precedente capitolo (Cap. II), per mostrare come ogni essere creato sia una partecipazione dell’essere increato, ogni perfezione creata è una partecipazione alla perfezione infinita, non un’emanazione, non un flusso di una realtà esistente in Dio e che passerebbe parzialmente all’esterno, bensì una riproduzione per modo di similitudine o di immagine di ciò che è in Dio. Poiché, allora, la grazia è un’entità reale e fisica, e non solo una denominazione esterna o una semplice denominazione esteriore o un favore estrinseco di Dio, come sostenevano i protestanti, la cui affermazione fu colpita con un anatema dal Concilio di Trento, ne consegue che essa è, come ogni altra perfezione verificabile, una partecipazione reale; per maggiore chiarezza,  diciamo, un’imitazione fisica ma finita di una perfezione che è in Dio nello stato infinito. – Essa ne è persino una partecipazione formale. Per comprendere appieno il significato di questa espressione, dobbiamo ricordare il modo in cui le perfezioni create esistono in Dio. Poiché non può esserci nulla di buono in un effetto che non si trovi nella sua causa, e poiché Dio è la causa universale ed efficace di tutto ciò che esiste, è ovvio che le perfezioni delle creature devono preesistere tutte in Lui. Ma non tutte vi si trovano allo stesso modo.  Vi sono, infatti, alcune perfezioni il cui concetto non implica alcun difetto: come la scienza, che è una conoscenza delle cose nelle loro cause; la giustizia, che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto, ecc. ecc. ecc.; ve ne sono altre, al contrario, come la vita organica, la facilità di ragionare, etc. che si mescolano essenzialmente con l’imperfezione; poiché, se è una cosa eccellente possedere in se stessi il principio dei propri movimenti, è invece un grave difetto dipendere necessariamente dalla materia nell’esercizio della propria attività; così come, se è un privilegio molto apprezzabile dell’essere ragionevole di poter raggiungere la verità, è un segno di imperfezione arrivarvi solo attraverso lunghi circuiti, con l’aiuto di deduzioni  penose e multiple. Anche l’Angelo, più perfetto di noi, non ragiona; egli vede, legge nel principio tutte le conclusioni in esso contenute. Questo avviene a maggior ragione per Dio. Le perfezioni di questa seconda categoria, chiamata dai filosofi miste, non possono esistere formalmente in Dio, cioè, secondo la loro ragione specifica, ma solo in modo più evidente. Così la ragione non esiste in Dio come facoltà discorsiva, ma si trova solo nel più perfetto stato di pura intelligenza. Per quanto riguarda le perfezioni propriamente e strettamente dette, nulla impedisce loro di essere formalmente in Dio. Ora, la grazia è di questo numero, perché essa non implica alcuna imperfezione: nullam in sui ratione imperfectionem importat (S. Th., Ia IIæ, q. CXI, a. 3, ad 2). Così la grazia è partecipazione ad una perfezione che si trova formalmente in Dio; non in nessuna di quelle perfezioni che possono essere comunicate naturalmente alle creature, come l’essere, la vita, l’intelligenza, ma in una perfezione soprannaturale e specifica di Dio, come elevata al di sopra di ogni creatura esistente o possibile; nemmeno di una perfezione soprannaturale, come ad esempio della conoscenza di Dio di se stesso e del suo amore per se stesso – questo è il segno distintivo della fede e della carità – ma di una partecipazione, che è imitazione di quella perfezione primordiale e fondamentale che, secondo il nostro modo di concepire, è la radice, la fonte, il principio delle operazioni e degli attributi divini; insomma, è una partecipazione formale della natura divina stessa (S. Th., Ia IIæ, q. CX, a. 4). E deve essere proprio così; perché – dice san Tommaso, affidandosi all’autorità di San Dionigi – se, per poter produrre operazioni spirituali, è necessario avere una natura spirituale; e, per parlare universalmente, se non si possono esercitare le operazioni di una natura senza partecipare a questa natura, come si può agire divinamente se non a condizione di possedere, almeno per partecipazione, la natura divina? (S. Th., De Verit. , q. XXTII, a. 2.)  Ora, la grazia ha proprio l’effetto di elevare la nostra anima ad un essere divino che la renda adatta alle operazioni proprie di Dio (S. Th., Sent, 1. II, dist. XXVI, q. 1, a. 5): operazioni che consistono nel conoscersi, nel vedersi così come si è in se stesso, nell’amarsi di un amore beatifico. – Se, allora, Dio vuole, nella sua infinita bontà, permetterci di compiere tali operazioni in modo connaturale, se vuole che un giorno possiamo vederlo, amarlo, come vede e ama se stesso, possederlo, goderlo, e trovare in questo possesso e godimento la nostra felicità suprema, deve comunicarci una partecipazione della sua stessa natura. Da qui queste parole di San Cirillo: “Poiché abbiamo la stessa operazione con Dio, è necessario che partecipiamo alla sua natura – Eamdem operationem connaturaliter habentes, necesse est ejusdem esse naturæ. » (S. Cyril. Alex., Thesaur., 1. 2, c. 2). – Questo è ciò che è la grazia che ci santifica: una partecipazione reale, fisica, formale alla natura di Dio; è la sua vita intima liberamente comunicata alle creature ragionevoli; è l’inizio, l’alba della vita eterna: quoedam inchoath gloriæ in nobis (S. Th., Ia IIa, q. XXIV, a. 3, ad 2). –  Parlando in questo modo, san Tommaso era solo un’eco del grande Apostolo, che avevo detto da lungo tempo: “La grazia di Dio è la vita eterna, quaggiù nel suo germe, lassù nel suo pieno sviluppo: Gratia Dei vita æterna. » (Rom. VI, 23). Questo germe può sembrare piccolo, questo profilo imperfetto, questa alba non molto luminosa; tuttavia, è verità che la grazia del cammino contiene quasi tutta la felicità del cielo, che ci comunica la sostanza dei beni che speriamo, che con essa, in una parola, e attraverso di essa, il cielo è già nei nostri cuori. La gloria, infatti, non sarà uno stato sostanzialmente diverso da quello della grazia; sarà solo l’apogeo, la realizzazione, il pieno sviluppo. « Sarà la quercia spuntata della ghianda, il raccolto invece del seme, il mezzogiorno pieno invece dell’alba (Mgr. Gay, Sermons d’Avent); ma da questa vita è iniziata già l’opera della nostra divinizzazione, e noi possediamo con lo Spirito Santo, il deposito della nostra beatitudine.  Ah, se conoscessimo il dono di Dio, se comprendessimo il prezzo della grazia! Con quali ardenti suppliche reindirizzeremmo anche la parola della donna samaritana: « Signore, dammi quest’acqua! Domine, da mihi hanc aquam! (Giov. IV. 15). E perché portiamo questo tesoro in vasi fragili (« Habemus thesaurum istum in vasîs fictilibus. » (II Cor., IV, 7.) e basta un solo passo falso per compromettere tutto, con quale sollecitudine eviteremmo tutto ciò che potrebbe esporci a perderlo! Con quale fretta cercheremmo subito di recuperarlo dopo averlo perso! – Come ci sforzeremmo di accrescerlo con i nostri meriti! Come ci sembra semplice, ovvia, luminosa, la parola dell’angelico Dottore che afferma che il più piccolo atomo di grazia vale più dell’intero universo « Bonum gratiæ unius majus est quam bonum naturæ totius universi. » (S. Th., Ia IIæ, q. CXIII, a. 9, ad 2).

V.

E tuttavia non abbiamo ancora detto tutto completamente, – E chi potrebbe farlo? – abbiamo a malapena toccato quelle che l’Apostolo chiama le imperscrutabili ricchezze di Cristo: investigabiles divitias Christi (Ephes. III, 8). Questa grazia, che sembra un fine così prezioso, è solo un mezzo; questo obiettivo è solo un punto di partenza. Versando nell’anima del Cristiano questo meraviglioso dono che lo purifica, lo giustifica e lo trasforma in una nuova creatura, in un essere deiforme che è oggetto delle divine compiacenze, Dio lo prepara solo per un dono ancora più sublime, ad una più completa divinizzazione. – Per quanto così grande, anzi, così supremo in sé stesso sia il bene della grazia, non è l’ultimo termine dell’amore divino quaggù, né la più alta effusione del cuore di Dio; questa è solo una preparazione al Bene supremo, un modo per avviarsi verso il dono per eccellenza, una disponibilità  preliminare alla comunicazione dello Spirito Santo che entra di Persona nell’anima giusta in compagnia del Padre e del Figlio, ed unendosi ad essa in modo ineffabile come oggetto della sua conoscenza e del suo amore. Per prendere possesso di Dio, qui sulla terra in modo reale benché oscuro, in attesa dell’ora in cui potremo contemplarlo faccia a faccia, ecco l’ultimo fondo della grazia e ciò che in definitiva ne fa tutto il prezzo. L’opera della nostra divinizzazione comprende quindi un doppio elemento: l’uno creato, che serve in qualche modo come legante, un legame tra Dio e l’anima, e che pone quest’ultima in possesso delle Persone divine: è il ruolo della grazia (S. Th., I, q. XLIII, a. 3, ad 2.); l’altro creato, che costituisce il coronamento della nostra perfezione, il termine delle nostre aspirazioni, il bene il cui godimento iniziale è già un anticipo del cielo: ed è Dio stesso che si dona a noi, unendosi a noi, venendo ad abitare nei nostri cuori, secondo la parola del divino Maestro: « Se qualcuno mi ama … mio Padre lo amerà, e noi verremo a lui, e stabiliremo in lui il nostro soggiorno. » (Giov. XIV, 23). Così i teologi distinguono due tipi di partecipazione alla natura divina – duplex natures divinæ consortium: – l’uno, formale e analogico, con cui Dio ci fa comunicare alla sua natura attraverso una certa partecipazione di somiglianza con lui, per quamdam similitudinis participationem (S. Th., Ia IIæ, q. cCXII, a. 1.); l’altro, termine e scopo del primo, che consiste in un’intima unione delle nostre anime con Dio. San Dionigi riassume questo insegnamento in una formula tanto breve quanto espressiva: « La nostra deificazione, dice, consiste in un’assimilazione ed una unione con Dio la più perfetta possibile: Est autem hæc deificatio, ad Deum, quanta fieri potest, assimilatio et unio ». (S. Dionys., Hirarch. ecceles., c. 1, n. 3). Questa unione, comparata nella Sacra Scrittura a quella del marito e della moglie, è indicata dai mistici col nome di matrimonio spirituale. Questo dimostra quanto sia stretta, dolce e feconda. Un’unione stretta, intima, profonda, inspiegabilmente superiore a quella che esiste tra l’uomo e la donna, perché la natura è solo l’ombra della grazia. Da un lato, in effetti, c’è solo il riavvicinamento dei corpi; dall’altro, c’è la compenetrazione dell’anima da parte di Dio. E se è vero dire che gli sposi umani sono due in una stessa carne, erunt duo in carne una (Gen. II, 24), l’Apostolo dichiara che aderendo a Dio attraverso l’amore, l’anima giusta diventa con Lui uno spirito unico: Qui adhæret Domino, unus spiritus efficitur (1 Cor. VI, 17). -Un connubio pieno di dolcezza e soavità. Rispetto a questa santa unione, l’unione matrimoniale non è che freddezza ed amarezza. Qui la contentezza è breve, il piacere basso e grossolano; là tutto è grande, elevato, duraturo: c’è la gloria, c’è la purezza, c’è la tenerezza, ci sono delizie ineffabili che il linguaggio umano non è in grado di esprimere, ed il cuore dell’uomo è troppo stretto per contenerle. –  Infine, un’unione feconda, da cui nascono pensieri santi, affetti generosi, sforzi audaci e tutte queste perfette opere, chiamate beatitudini e frutti dello Spirito Santo. Cominciata in terra, questa unione benedetta sarà consumata solo in cielo. Già, senza dubbio, secondo la parola dell’Apostolo, l’anima santa è fidanzata al Cristo (II Cor. XI, 2); già essa è la sposa dello Spirito Santo, che le ha dato la sua fede come anello simbolo della loro alleanza (« Ànnulo suo subarrhavit me. » (Ex offic. S. Agnetis.), l’ha rivestita di grazia e carità come una veste di broccato dorato (Ibid.), l’ha adornata di doni e di virtù infuse come delle pietre preziose (Ibid.), e gli si è dato Egli stesso, seppur in modo oscuro, come pegno di eterna felicità. Ora rimane che il divino Marito completi la sua opera e concede alla sua sposa questa dote ineffabilmente ricca che si chiama visione, comprensione, fruizione: la visione che deve succedere alla fede, la comprensione che le farà capire questo bene sovrano che ella ha perseguito qui sulla terra con desideri così ardenti, la fruizione che finalmente consumerà la sua beatitudine (S. Th., I, q. XIIa. 7, ad 1. — Supplem., q. XCV, a. 5). Allora finirà quest’opera di trasformazione soprannaturale che costituisce la trama della vita del Cristiano in questo mondo, essendo ormai perfetta l’assimilazione divina. Divinizzata nella sua essenza dalla grazia, nella sua intelligenza dalla luce della gloria, nella sua volontà dalla carità consumata, l’anima contemplerà senza veli, e possiederà nella pienezza della gioia, Colui che è la Verità sussistente ed il bene sovrano. È nel momento in cui Dio ci apparirà così in tutto lo splendore della sua gloria che noi saremo pienamente simili a Lui, perché lo vedremo così com’è: Scirnus quoniam, cum apparuit, similes ei erimus: quoniam videbimus eum sicut est (1 Giov. III, 2). Vivremo la sua vita, condivideremo la sua beatitudine, perché la vita di Dio consiste nel conoscere e amare se stesso, la sua beatitudine nel godere di se stesso. Allora il desiderio dell’Apostolo, quando scrisse agli Efesini, si realizzerà: “Inchino le ginocchia davanti al Padre di Nostro Signore Gesù Cristo……”. perché siate riempiti di tutta la pienezza di Dio: Ut impleamini in omnem plenitudinem Dei. » (Ephes. III, 19).