VITA E VIRTU CRISTIANE (Olier) 17

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (17)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935 Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XI

Della povertà

V.

Fondamenti della povertà.

Gesù Cristo che vive in noi è il nostro vero tesoro. — Dio si contiene ogni bene. — Dobbiamo già vivere la vita dei santi in cielo. — Esempio di Gesù Cristo. — Felicità dell’anima che sì abbandona alla bontà e Provvidenza del Padre dei cieli. — Ancora i grandi esempi di Gesù Cristo.

Noi siamo chiamati a partecipare alla vita di Dio in Gesù Cristo; la nostra vita come quella di Gesù è nascosta in Dio; Dio la infonde in noi come l’ha infusa nel Figlio suo, col renderci partecipi delle disposizioni, dei sentimenti e delle virtù di questo suo Figlio. Dio nel Figlio suo abita nel suo splendore divino; vive in Lui nella sua Maestà, dimodoché Gesù Cristo possiede una gloria cui nulla può paragonarsi (Lucem in habitat inaccessibilem. I Tim., VI. 16); poiché è rivestito di un tale splendore di divine ricchezze che tutte le cose, in confronto, non sono che polvere e fango. Tutte le ricchezze della terra non sono che vili cenci, a paragone con la gloria di Dio. Perciò Nostro Signore, essendo ora entrato perfettamente nella grandezza di Dio suo Padre, dopo il ritorno al cielo sta infinitamente più lontano dalle cose naturali che non durante la sua vita mortale; in questa Egli lasciava che i discepoli avessero nelle mani qualche po’ di denaro, per il mantenimento della sua vita e per il sollievo dei poveri. – Nostro Signore, anche durante la sua vita mortale, sempre viveva in Dio e interiormente sempre abitava nello splendore della divina Gloria. Nel suo interiore Egli partecipava all’essere del Padre suo ed era essenzialmente ricco di tutte le divine ricchezze di Lui, perciò non poteva desiderare né apprezzare quelle della terra; ogni cosa ai suoi occhi era vile, ogni cosa era indegna della sua stima. Così l’anima ritirata in Dio e rivestita delle disposizioni di Gesù Cristo, mentre trova in Lui ricchezze così preziose, non può gustare i beni terreni; se ne avesse la minima stima, sarebbe simile ad un re che non essendo soddisfatto della sua gloria e della sua Maestà, portasse invidia all’abito cencioso di un mendicante come se col rivestirsene, diventasse ricco e facesse bella comparsa. Siamo dunque obbligati alla povertà e al distacco da tutti i beni, a motivo delle ricchezze immense e infinite che troviamo in Dio. Al confronto di queste, tutte quelle della terra sono un niente: possedendo Dio le possediamo tutte in eminenza.

***

Dio tutto contiene in sé; Egli è la sorgente e l’origine di tutti i beni. Egli li  possiede tutti senza l’imperfezione e la viltà che hanno nelle creature. — Dio è per eccellenza ogni ricchezza, ogni grandezza, ogni bellezza, ogni splendore: perciò colui che sta in Dio è libero da tutto e possiede tutto. In tal modo, i Santi essendo usciti da questo mondo, dopo la risurrezione abiteranno in Dio in corpo e in anima, È tutto avranno in Lui. Non avranno più bisogno di usare di nessuna creatura: in Dio troveranno il loro mondo. Dio non si darà più ai Santi sotto la molteplicità di quelle vili creature che servono all’uomo per il mantenimento o la conservazione della vita; ma sarà per sé stesso la pienezza che soddisferà tutti i loro desideri; Egli li circonderà, li abbraccerà, li sazierà di sé medesimo. Questa felicità, Dio ce la fa pregustare fin da questa vita, quando lo possediamo perfettamente. Perché in quella guisa che una spugna ripiena d’acqua è tutta penetrata dalla sostanza dell’acqua in tal modo che i suoi vuoti ne sono tutti riempiti; così Dio dà soddisfazione a tutti i bisogni e a tutti i desideri dell’anima che lo possiede: l’uomo non può più nulla desiderare, quando possiede un Dio che è il suo Tutto: Deus meus et omnia. – Le ricchezze non sono altro quaggiù che ombre e figure di Dio; a loro modo contengono in eminenza tutte le creature, e le porgono all’uomo per i suoi bisogni. Infatti, per mezzo dell’oro e dell’argento, noi attiriamo a noi tutte le creature; quei metalli che, per una benigna provvidenza di Dio, sono per gli uomini di un valore incredibile ci servono ad acquistarci e procurarci ogni cosa. Ma, l’anima che fin da questa vita vive in Dio, che incomincia a gustarlo e nutrirsi di Lui, e vede già qualche raggio della gloria di Lui e del suo divino splendore, non può avere né stima, né gusto, né gioia, né desiderio, né amore per la meschinità delle cose di questo mondo, perché queste non sono che figure e apparenze: la figura si lascia senza difficoltà quando si vede la verità. Nostro Signore in questo mondo viveva nel godimento e nel possesso di Dio; l’anima sua era abbeverata e saziata di ciò che Dio è in sé medesimo; così, in Dio godeva ogni vero bene, né poteva provare nessun desiderio di ciò che ne è solo la ,scorza e l’involucro. In Dio suo Padre trovava Colui che saziava ogni suo desiderio, quindi, in questo mondo vile e basso, non poteva più nulla desiderare; è questa la disposizione di cui possono essere partecipi i Cristiani fin da questa vita, e che S. Paolo implorava per essi con queste parole: Che Dio, in Gesù Cristo Nostro Signore, riempia tutti i vostri desiderii, secondo l’estensione delle sue divine ricchezze. (Philipp. IV, 9). – Tuttavia, Nostro Signore usava talvolta dei beni di questo mondo per le sue necessità e per il sollievo dei suoi bisogni. Ma così ha fatto per santificarne l’uso; e siccome tra gli uomini, ciascuno in particolare ha bisogno per vivere di possedere in proprio qualche bene materiale dopo che il peccato ne ha tolto l’uso comune, Egli ha voluto insegnarci a possedere santamente ciò che la Provvidenza, nella sua misericordia, mette nelle nostre mani. Perciò, benché l’oro e l’argento siano in sé medesimo cose vilissime, abiette e spregevoli, Dio nondimeno ha voluto che l’uomo, nello stato di miseria cui trovasi ridotto, abbia amore e inclinazione naturale a possederli, perché così possa sovvenire alle necessità in cui Egli stesso lo ha posto in conseguenza del peccato. Tale inclinazione e tale desiderio sono un effetto della divina Provvidenza, nello stesso modo che Dio ci lascia l’appetito del cibo e delle bevande affinché ci conserviamo in vita. Ma il desiderio delle ricchezze, perché trovasi in noi in conseguenza del peccato, è un desiderio tirannico e famelico, molesto e inquieto. Orbene, le anime grandi nella grazia e intimamente unite a Dio, perché in Lui godono tutto, perdono il desiderio di questo mondo. Se lo provano ancora per le loro necessità è un desiderio calmo, spesso anzi è un desiderio così morto in esse che non ne hanno il minimo pensiero. Le anime apostoliche, che nelle comunità vivono in Dio, hanno il vantaggio di poter con facilità tenersi liberi da questi desideri e da queste cure, perché vedono Dio presente in sé medesime, il quale provvede a sufficienza ai loro bisogni, e porge loro quanto è necessario per tutte le loro necessità. Le loro cure, quindi sono riposte in Dio medesimo, il quale è tutto per esse, come esse sono tutte dedicate a Lui e non vivono che per Lui.

***

Oh quanto è felice in questo mondo l’anima che in tal modo non pensa che a Dio, e vive libera dalle cose materiali! Essa serve Dio, vive per Dio, occupata unicamente di Dio per il quale lavora incessantemente; e Dio pure da parte sua, veglia sulle necessità e sulla vita di essa. Oh, quanta fiducia può avere un’anima che così serve Dio cercandone il Regno e la giustizia! Non v’ha nulla di sicuro come la parola di Dio; essa vale più e meglio di centomila contratti; non può essere contraffatta, né alterata, né contrastata; essa è da preferirsi a tutte le rendite, a tutte le proprietà, a tutti i tesori, perché tutto questo può venir perduto. Tutto perirà: il Cielo e la terra passeranno, ma la parola di Dio non passerà mai (Matth. XXIV, 35). Beata l’anima che sa intendere la verità e la santa parola di Dio! O anima apostolica, che vivi dello Spirito Santo, che ti appoggi sulla parola del tuo Dio onnipotente, tutto vigilante, tutto amorevole! Perché occuparti di altro che di Dio? Dio non conosce forse i tuoi bisogni? – I pagani che non avevano la conoscenza d’una intelligenza universale, la quale veglia sulla necessità di tutti e nel suo amore non può soffrire indigenza nei suoi figliuoli, avevano ragione di stare in pena ed agitarsi con sollecitudine per il proprio mantenimento; ma noi, noi sappiamo che il Padre nostro vive in noi, vede tutti i bisogni della sua famiglia e sente l’afflizione e l’indigenza dei suoi figlioli (Matth., VI, 32.). Perché, dunque, tanta inquietudine e tanto affanno? Dio è Padre buono, tenero, pieno di carità, non si esaurisce nel darci i suoi doni, né da alcuno riceve quelle liberalità che ci elargisce. I padri naturali di questo mondo, talora sono avari, talora sono poveri, e nel dare s’impoveriscono ancor di più, spesso sono ben poco commossi per la miseria dei loro figliuoli; eppure non sanno rifiutar di dar loro quei soccorsi che essi domandano. Perché dunque non avremo noi una perfetta confidenza in Dio? (Matth., VII, 1). Perché non imiteremo Nostro Signore che viveva sempre in pace, in una tranquilla fiducia nella Provvidenza del Padre suo?

***

Nostro Signore, in quest mondo viveva in uno stato di povertà, perché la sua vita era una vita di penitenza. Se lasciava che i discepoli ritenessero le limosine che gli si davano, era questo un segno di penitenza. Perché accettando così la carità e la misericordia che Dio suo Padre gli faceva per mezzo degli uomini, Egli si riteneva in dovere di conservare con grande reverenza tali preziosi doni, di cui si stimava indegno vedendosi carico dei nostri peccati; né voleva prodigare quei beni che riceveva dal Padre suo, considerandoli come cose che, a motivo del suo stato di peccatore, non aveva diritto pretendere e di cui pertanto doveva usare senza aspettare altri doni che non gli erano dovuti.  – In questo sentimento di penitenza. Il minimo dono che Egli riceveva era per Lui un gran tesoro. Non aveva nessun bene, nessuna rendita, nessuna limosina assicurata e vedendosi, per la sua qualità di peccatore pubblico, indegno della minima bontà di Dio, Egli viveva in una continua dipendenza dalla misericordia divina. In questa qualità, siccome teneva il posto di tutti i peccatori, niente gli era dovuto, anzi avrebbe dovuto essere privo di tutto; era dunque naturale che ricevesse le minime grazie, col più profondo sentimento della propria indegnità e con la massima stima e riverenza per la misericordia di Dio suo Padre. Egli doveva, inoltre, subire la privazione di ogni sollievo e di ogni ricchezza, perché faceva penitenza per tanti avari e ricchi, come per il lusso e gli eccessi di tutti gli uomini. L’obbrobriosa nudità che gli si fece subire sul Calvario, spogliandolo ignominiosamente delle sue vesti, fu la pena della vanità eccessiva con cui gli uomini si parano di abiti ricchi e suntuosi. Il presepio e la stalla con la paglia e il letame che vi erano, furono la pena del lusso sfrenato ed immodesto di tante case ammobiliate con tanta superbia e ornate di oro e di preziose decorazioni. La santa durezza della Croce, dove riposava nella sua morte, fu la pena di quei letti sfarzosi dove si commettono quelle mollezze e impurità che inondano il mondo. La Chiesa ha stabilito le astinenze per continuare la santa penitenza di Gesù Cristo. e le anime sante che hanno una tale particolare vocazione, devono essere vittime per i peccati del mondo e offrire soddisfazione a Dio nello Spirito medesimo di Gesù Cristo. Devono dunque essere povere, facendo così penitenza per i peccati che regnano sulla terra; devono, col loro esempio, condannare il lusso e per questo gemere sul legno e sulla paglia, vale a dire contentarsi delle abitazioni e dei mobili più ordinari, delle vesti più dimesse, per dare al secolo una lezione, nella virtù di Gesù Cristo che in noi deve illuminare il mondo e mostrargli quale debba essere la vita dei Cristiani.

VI

Motivi della povertà.

L’attacco ai beni materiali è di grande danno spirituale. – Il Cristiano deve imitare i Beati, anzi la santità di Dio medesimo. — I beni materiali sono un peso che trascina al basso, rende inetti alla contemplazione.

1. Il cuore attaccato alle creature e soprattutto alle ricchezze è sempre inquieto.  Perciò Gesù Cristo paragona le ricchezze a delle spine che lo molestano e non gli lasciano nessun riposo.

2. Il cuore pieno di un tal amore è trascinato verso la terra, e allontanato dal Cielo.

3. Dio non lo riempie di sè, anzi ne prova nausea e disgusto,

4. Cade, come dice S. Paolo, nei lacci del demonio; e abbandonandosi ai propri desideri, vive ostinato nei suoi attacchi che lo precipiteranno sicuramente nella rovina (1 Tim. VI, 2).

5. Tosto o tardi, l’anima fatalmente perderà tutto ciò che possiede; la giustizia di Dio la costringerà ad abbandonare per forza quanto non ha voluto lasciare per amore.

6. I Cristiani devono essere morti a tutti i desideri del secolo (Col. III, 3); né devono operare secondo i suoi sentimenti, ma comportarsi come se vi fossero completamente insensibili. Bisogna dunque che soffochiamo in noi ogni affezione per le ricchezze della terra.

7. I Cristiani devono vivere come si vive in Cielo; ora in Cielo si è liberi da ogni sentimento della carne di Adamo; in Cielo più non si vive che secondo inclinazioni e sentimenti spirituali, senza più nessun attacco alle creature: in Cielo, in una parola, con Gesù Cristo e coi Santi tutti, si è ritirati in Dio e separati da tutto. Dio, in sé medesimo, in Gesù Cristo e nei suoi Santi, ecco il modello della nostra vita; orbene, Dio è perfettamente santo e separato da tutto. Ed è questo distacco che è necessario ai Cristiani se vogliono, fin da questa vita, elevarsi a Dio, imitando ciò che si fa in Paradiso. Bisogna si distacchino, elevandosi alla santità, da sé medesimi e da ogni creatura. Bisogna pure che lo spirito sia separato dall’anima, perché questa dal peso della carne trovasi, per sé medesima, inclinata ad ogni creatura; così, le nostre facoltà superiori, nelle quali risiedono tutte le principali operazioni dello spirito interiore, saranno libere dal peso e dall’inclinazione della parte inferiore, la quale è tutta imbevuta della vita animale, terrena e vilissima della carne; così potranno elevarsi a Dio senza ostacolo né resistenza. Bisogna dunque che la nostra volontà sia purificata da qualsiasi attacco alle creature e in tal modo libera, sciolta e distaccata da tutto. A questo effetto, dobbiamo munirci delle ali per volare: Quis dabit mihi pennas sicut columbæ? Chi mi darà le ali della colomba? (Ps. LIV, 7). La contemplazione delle verità divine e l’amore santo di Dio sono le ali che ci faranno volare, perché questo divino movimento ci preserverà dalla caduta dove ci trascinerebbe il peso della carne. E siccome in questa vita siamo sempre da questo peso miserabile attirati verso la terra, dobbiamo sempre lottare per elevarci a Dio nella virtù dello Spirito Santo.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 18

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 16

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (16)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch. Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO XI

I.

Della povertà

La povertà non soltanto separa l’uomo dalle cose esterne del mondo; essa ha un altro effetto e un fine più importante; che tende a ristabilire tutto l’uomo interiore nel suo stato primitivo. Questa separazione dalle cose esteriori, nei Cristiani, non è che l’imitazione di Gesù Cristo. Nostro Signore, infatti, ha voluto praticarla per il primo, affinché la santa ed eroica virtù della povertà, fosse più facile per gli uomini, i quali talmente la paventano che anche in mezzo ai beni e alle ricchezze hanno ancora paura di essere poveri. La virtù della povertà ha inoltre lo scopo di castigare negli uomini l’abuso di ogni cosa che hanno fatto, tanto in Adamo quanto in sé stessi; in soddisfazione di un tale abuso, Dio ha voluto privarli di quei beni di cui hanno abusato e portarne Lui medesimo la penitenza per darne l’esempio alla sua Chiesa.

I.

Natura della povertà.

Ristabilisce l’uomo nel suo primitivo stato di santità. – L’avarizia profanazione del cuore dell’uomo. Gesù Cristo e l’avarizia.

Per intendere la natura della povertà, bisogna ricordare il fine ed il disegno che ebbe Gesù Cristo nella riparazione del genere umano, disegno che fu di offrire a Dio suo Padre una conveniente soddisfazione e in questo modo ristabilire l’uomo nel suo stato primitivo, nella perfezione, cioè, della santità in cui era stato creato. Perciò bisogna riflettere che Dio aveva creato l’uomo perché fosse il suo tempio, tempio che riservava per sé medesimo per esservi, in modo esclusivo, amato, lodato e adorato. Epperò nel primo comandamento, che è l’espressione dello stato primitivo dell’uomo e del primo disegno divino sopra di lui, Dio, nel momento stesso in cui lo creava, gli imprimeva nel cuore quella medesima legge che doveva poi essere scolpita su la pietra, onde obbligarlo ad impiegare nell’amarlo tutta l’attività della sua anima, del suo cuore, delle sue forze; quindi, in quel primo comandamento, Dio gli diceva: Amerai il Dio tuo con tutto il tuo cuore, ecc. (Deuter. VI, 5). Per questo ancora il cuore dell’uomo venne creato vuoto di qualsiasi oggetto,  come una pura capacità di Dio e dell’amore di Dio. – Ma il demonio lavorò per riempire il cuore dell’uomo di idoli, di simulacri e affinché l’uomo occupasse i suoi pensieri e i suoi desiderii nell’amore di queste miserie, lasciasse così il culto del vero Dio e si abbandonasse all’idolatria. – L’avarizia, dice S. Paolo, e l’amore delle cose terrene si sono stabilite nel cuore dell’uomo (Ephes. V, 5); si può dire che è questa l’abbominazione della desolazione nel luogo santo (Matth. XXIV, 15). Il cuor dell’uomo è il tempio di Dio, luogo santo che Dio in modo particolarissimo ha consacrato a sé stesso: qual disordine orribile, quale desolazione ributtante vederlo profanato da tante cose impure e immonde! Quale desolazione vedere, in questo tempio, abominevoli nicchie, come quelle vedute da Ezechiele (Ezech. VIII) piene di serpenti, di coccodrilli, e di cose esecrabili! È cosa questa così abominevole agli occhi di Dio che Egli altre volte abbandonò il suo popolo al furore dei suoi nemici, per castigo dell’avarizia di un solo israelita, il quale aveva preso e trattenuto un mantello di scarlatto e un oggetto d’oro, dalle spoglie di Gerico, città colpita di anatema e da un decreto divino condannata al fuoco.

***

Il disegno di Gesù Cristo, mentre viene nel nostro cuore per santificarlo e ristabilirvi il vuoto e la purezza del primitivo stato, è di bandire da questo suo tempio tutto quanto lo profana. Non può vedervi altro che il Padre suo con le sue divine perfezioni e quindi, a colpi di flagello con le persecuzioni e le croci, ne scaccia tutti i compratori e venditori. – Nostro Signore si accese di zelo e come di furore, quando trovò piena di mercanti la casa del Padre suo, casa di orazione che deve essere ornata di santità (Ps. XCII, 5). Orbene, i mercanti sono il simbolo degli avari, perché nel traffico e nel commercio delle cose terrene espongono persino la loro vita, dedicandovi tutto il loro tempo e le loro cure, invece di impiegar tutto per il Signore che vuole per sé tutta la mente, tutto il cuore, tutto il tempo, e tutte le forze delle sue meschine creature. – È questo il fine per il quale Gesù Cristo è venuto in questo mondo; ha voluto purificare il cuore dell’uomo, farvi il vuoto di ogni creatura, e riparare così la disgrazia e il disordine in cui era caduto per la miseria del peccato e l’opera malvagia del demonio. Perciò Egli ha posto come fondamento capitale della nostra salvezza, la santa povertà, la quale di sua natura tende a espellere dal cuore umano tutto quanto può riempirlo all’infuori di Dio. Per questo appunto, Gesù Cristo, nel suo primo sermone, proclamava come la sua prima massima questa sentenza: Beati i poveri, Beati pauperes (Luc. VI, 20); ciò per insegnarci che la virtù di povertà per noi è la prima, la più importante e la più necessaria. Per farci sapere poi quale sia questa povertà, aggiungeva: Beati i poveri di spirito (Matth. VI), vale a dire quelli che hanno il fondo dell’anima vuoto e libero da ogni possesso di creature, che non hanno nulla che tenga il posto di Dio in quel cuore che Egli solo vuole riempire ed occupare. – Fuori di Dio, tutto è vano e inganno, tutto è fantasia, scorza e superficie. Dio solo è il bene vero e reale, Lui solo è tutta la vita essenziale e incorruttibile delle anime nostre.

II.

Divisioni della povertà.

La povertà è di due sorta, interiore l’una esterna l’altra. La prima consiste nel distacco

del cuore che deve essere vuoto di ogni desiderio terreno e di ogni amore alle creature; la seconda consiste nella privazione esterna ed effettiva dei beni terreni. La privazione esterna senza il distacco interiore non è punto virtù, mentre il distacco interiore, con la disposizione di sopportare la privazione esterna, è la virtù di povertà di cui Nostro Signore ha detto: « Beati i poveri di spirito ». Gesù Cristo, con queste parole, ha voluto insegnarci che dobbiamo vivere nella povertà di spirito, ossia, nel distacco interiore e nella privazione affettiva, per esser disposti al puro amore di Dio, perché Egli non può venire a patti con l’amore alle creature, né può soffrire che si abbia il minimo attacco alle creature; Egli vuole che il cuore sia vuoto, distaccato da tutto, e vuoto secondo tutta l’ampiezza della propria capacità.

III.

Della povertà esterna.

Povertà evangelica. – Povertà praticata dai primi Cristiani. – Privazioni dell’uso dei propri beni.

Vi sono tre sorta di povertà, di cui le prime due furono molto in uso nella primitiva Chiesa. La prima consisteva nel privarsi di tutto il proprio avere e di venderlo, secondo il consiglio che ne diede Nostro Signore a quel giovane: Vade, vende quæ habes et da pauperibus – Va, vendi ciò che possiedi e dà tutto ai poveri (Matth. XIX, 21). Gesù Cristo si compiacque ancora di rinnovare una tale povertà in questi ultimi secoli, come in San Francesco e in parecchi altri santi che così la praticarono. – La seconda povertà era di mettere il proprio avere in comune; era questa la pratica ordinaria dei primi Cristiani; ognuno si privava di ciò che possedeva e lo donava a Dio, affinché ciascuno ne potesse prendere a seconda dei propri bisogni; così tutto era uguale per tutti, e il povero ne riceveva il necessario sostentamento tanto come il ricco. – La terza povertà consiste nello spogliarsi dell’uso dei beni che Dio ci ha dati benché la proprietà se ne conservi ancora:  questa povertà può praticarsi con grande vantaggio. Perché, dapprima in tal mode si rimane nello stato in cui la divina Provvidenza ci ha posti; inoltre, si fa buon uso di ciò che si è ricevuto dalla sua liberalità, servendosene per la sua gloria; in fine, si gode il vantaggio della povertà che è di non aver nulla che ci impedisca di dedicarci a Dio solo. Di questa povertà e di tali poveri sta scritto: Beati i poveri di spirito, perché ad essi appartiene il Regno dei cieli (Matth. V, 3).

IV.

Della povertà interiore – Distacco anche dai doni spirituali.

Distacco universale da ogni bene e dono di Dio. — 1. Stare davanti a Dio come mendicanti. – 2. Non appropriarci i doni e le grazie di Dio; sarebbe ingiustizia. — 3. Lasciare a Dio piena disposizione dei beni di cui ci affida il deposito.

La povertà interiore non si estende solo al distacco dei beni corporali, dai quali lo spirito deve essere interamente diviso e tutto distaccato; non consiste. Solamente nella nudità, ossia privazione affettiva di tutti gli onori, di tutte le ricchezze, e di tutti i beni mondani; consiste anche nella nudità spirituale, ossia nel distacco dai doni di Dio; benché Dio ce li conceda, noi dobbiamo esserne distaccati. Per avere la virtù della povertà, dobbiamo sempre considerare, non solo i beni materiali, ma anche i beni spirituali, come proprietà di Dio. Debbiamo considerare i beni spirituali come appartenenti a Dio e da Lui inseparabili, in quella guisa che i raggi sono inseparabili dal Sole; oppure come perle e diamanti che sarebbero applicati sopra un abito. Il padrone ha attaccato queste perle preziose al suo abito all’unico scopo di renderlo più splendido e più prezioso; esso quindi ha sempre la facoltà di toglierle quando gli piace. Con tal pensiero, l’anima deve stare perfettamente distaccata da tutto, vivendo in mezzo anche ai doni spirituali, per così dire, senza toccarvi e senza che il cuore vi prenda parte.

***

La povertà di spirito ha tre gradi: il primo è di considerarci davanti a Dio come mendicanti riguardo a tutti i suoi doni, non avendo da noi stessi assolutamente nulla e nessuna grazia; così dobbiamo vivere in spirito di mendicanti onde esser rivestiti dei suoi beni. – Il secondo grado è di non appropriarci i doni e le grazie di Dio quando li possediamo, come se fossero cosa nostra o come cosa che fosse passata nella nostra natura. Bisogna considerarli come un abito; uno che porta un abito sa benissimo che il suo corpo, in se stesso è nudo e sprovvisto di ciò che sarebbe necessario per riparlo dagli incomodi delle stagioni; perciò esso trovasi continuamente costretto per difendersi a vestirsi e a dipendere dalle cose esterne. L’anima veramente povera, benché sia rivestita ed arricchita dei doni di Dio, si considera sempre davanti a Lui in una perfetta e assoluta indigenza, come un corpo senza vesti. Perché essendo ben radicata nella conoscenza di sé stessa, vede che sempre si trova nella più assoluta indigenza, benché possieda Dio e ne sia rivestita. In tal modo non prova nessuna compiacenza per tutto ciò che in sé medesima può essere, per tutto ciò che può avere, perché essendo sempre la medesima nell’intimo di se stessa, essa in mezzo ai doni che possiede non ha maggior stima di sé che prima d’esserne ricolmata. – L’anima deve sempre considerare i doni di Dio come cosa che emana da Dio e a Lui appartiene come sua proprietà; sono raggi che Egli fa splendere sopra di noi per impedire ai nostri cechi di vedere la nostra viltà e così renderci più sopportabile la nostra miseria. – Dio trova in noi la sua gloria, traendola da ciò che gli appartiene; Lui solo merita stima per ciò che vi è di buono negli uomini; Lui solo deve prendervi le sue compiacenze. Chi, nell’intimo del suo cuore, ha stima di se stesso per quei doni che non sono suoi e di cui la lode deve riferirsi a Dio solo, è un ladro che tenta di attirare e prendere per sé quella gloria che è dovuta unicamente a Dic. E sarebbe questa una grande ingiustizia, poiché a Dio appartengono le lodi che i suoi doni, da sé medesimi, tributano alla sua divina maestà.

***

Il terzo grado di povertà spirituale è di portare in noi i doni di Dio e custodire i suoi tesori negli scrigni del nostro cuore, senza aver l’ardimento di toccarvi; guardarci quindi dal farne uso da noi medesimi, e lasciare che Dio stesso ci ponga nelle mani il suo avere e nei suoi scrigni prenda ciò che vuole per l’impiego che desidera, affinché Egli solo sia l’autore e il direttore della distribuzione delle sue grazie. Non solamente dobbiamo guardarci dall’usare dei doni di Dio per i nostri meschini interessi temporali oppure per acquistarci onore e stima, ciò che sarebbe un infame sacrilegio; ma dobbiamo persino guardarci dal toccare a questi doni. Dio li ha posti in deposito nella nostra anima: dobbiamo lasciare a Lui la cura di prendere la nostra mano e guidarla a pigliare ciò che a Lui piace, onde farne a nome suo la distribuzione. – L’anima umile, segreta e fedele, alla quale Nostro Signore ha affidato le sue ricchezze, è un tesoro suggellato con sette sigilli che solo l’Agnello può aprire. A Lui solo spetta frugare negli scrigni dove ha rinchiusi i suoi tesori; a Lui solo spetta aprirli e, con lo splendore dei suoi raggi e la ricchezza della sua divina luce, cioè per la virtù della sua grazia, applicar l’anima all’uso che essa ne deve fare. I Re della terra si scaricano della gestione delle loro finanze sopra i tesorieri che le custodiscono, lasciando ad essi di maneggiare i loro tesori per distribuirli come vogliono. Gesù Cristo non fa in questo modo; Egli invece si tiene nelle sue proprie mani le chiavi dei suoi scrigni, per aprirli quando e come gli piace. Economo universale, dispensore generale, Egli è tutto in tutti e non ha bisogno di nessuno che supplisca né alla sua presenza, né alla sua potenza, perché Egli è dappertutto, può tutto, vede tutto e dispone sempre in noi dei suoi beni secondo la sua sapienza e il suo amore. – Egli vuole dunque che l’anima cui Egli affida i suoi tesori, si tenga nel riserbo; lungi dal forzare le serrature quando gli scrigni sono chiusi, non tocchi nulla, vale a dire, si guardi bene dall’andare a cercare, con sforzi di memoria e con violenza, nel proprio fondo qualche cosa che Dio vi avesse posto e come chiuso sotto chiave. Ma, quando pure Dio lasciasse i suoi scrigni aperti, vale a dire, quando ricevessimo da Dio ogni lume e ogni verità, non spetta a noi mettervi la mano e prenderne ciò che ci piace. I doni e i tesori di Dio vanno sempre considerati con gran rispetto, perché a Lui appartengono ed Egli li ha depositati in noi per un effetto della sua infinita misericordia. In noi non v’era nulla che potesse darci motivo di sperare tanta grazia, perché il nostro fondo, nella sua impurità, era indegno dei divini favori. Tuttavia, Dio per una grazia ed un amore infinito, ha scelto un luogo così basso per farne il deposito; e come lo ha fatto unicamente perché così gli è piaciuto, a Lui pure e solo a Lui spetta di usarne in noi come gli piace. – Dio fa nell’anima nostra come il padrone che nel suo campo vuole innalzare una fabbrica. Come fa quel padrone? Vi fa portare a suo piacimento pietre e materiali, secondo il disegno che ha in mente; in un luogo, ne fa depositare più che in un altro, a seconda dell’ampiezza dell’edifici che vuole costruirvi; di tutto fa l’uso che conviene al disegno che più gli piace. Esso utilizza i materiali. assume operai e manovali per fabbricare secondo il disegno che essi sovente non conoscono, senza dir loro quanto intende fare; a poco a poco esso forma una fabbrica, la costruisce e la compie, conforme all’idea che ha nella sua mente e secondo la direzione che esercita sopra i suoi operai. Così fa il Signore nei suoi doni; sono come materiali che Egli depone in noi, come in un campo cieco che non sa punto quale sia la fabbrica che il grande architetto e capomastro vuole innalzare, A noi spetta unicamente cogliere i suoi doni e i suoi favori: a Lui di metterli in opera e di usare a suo piacimento delle nostre facoltà; e queste devono cooperare fedelmente alla sua grazia onde costruire, mediante la sua virtù. quella fabbrica che Egli ha determinata nei suoi adorabili disegni che a noi rimangono nascosti.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 15

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (15)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 – F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO X.

Della dolcezza

Perfezione della dolcezza. — È partecipazione della dolcezza medesima di Dio.  – E il contrassegno del vero zelo — non si trova per lo più che nelle anime innocenti. – Dio per comunicarci le sue virtù segue due vie, quella dell’effusione e quella dell’acquisto.

La virtù di dolcezza è fa più alta perfezione del Cristiano; essa, infatti, presuppone in noi l’annientamente da tutte quanto è nostro e la morte di ogni interesse proprio; dimodochè il disprezzo non ci irrita più e neppure la perdita dei beni e della tranquillità della vita vale a farci perdere la nostra pace. – In voi, dice S. Paolo, sia soffocata e consumata qualsiasi radice di amarezza (Ephes. IV, 31; Hebr. XII, 15). Ora, questo si fa per mezzo di Gesù Cristo Nostro Signore; perché Gesù Cristo, abitando nel fondo dell’anima nostra con la pienezza della divinità, assorbe nella sua carità il nostro amor proprio, il quale è la causa dell’ira. In tal modo, l’anima nostra trovasi nella pace e nella dolcezza; ed anche nei casi in cui l’interesse proprio in apparenza sembra ferito, essa non ha né asprezza né amarezza. L’amor proprio si irrita e si accende tutto di vivissimo fuoco, quando si ha la pretesa di rapirgli ciò che gli appartiene, Perciò, se vogliamo che l’anima nostra goda la vera dolcezza, è necessario che tutto quel fondo di amor proprio che si estende e si porta verso la creatura, sia inabissato in Dio. Come vi sono parecchi gradi di umiltà, vi sono pure varie sorte di dolcezza. Ma la dolcezza vera, fondata e perfetta, è quella del cuore: di essa parlava Nostro Signore, quando diceva: Imparate da me, ch’io sono dolce ed umile di cuore. Ora, questa dolcezza di cuore deve essere talmente radicata in noi che niente la possa alterare, e non le rimanga più nulla né della carne né di sé medesima, ma sia tutta immersa e come perduta in Dio, ossia nell’essere, nella vita, nella sostanza, nelle perfezioni di Dio. In tale stato, l’anima tutto opera nella dolcezza; quando pure agisce con zelo, è sempre con dolcezza, perché l’amarezza e l’acrimonia non hanno più luogo in essa, come non possono aver luogo in Dio. – La carne e l’uomo vecchio hanno uno zelo falso e contraffatto. il quale per quanto esteriormente abbia qualche somiglianza con lo zelo dell’uomo nuovo, in fondo ne è molto dissimile: il primo è sempre pieno di amarezza e di asprezza, il secondo è tutto animato dalla dolcezza. Uno dei maggiori contrassegni per discernere lo zelo della carne da quello dello Spirito Santo è appunto questo; il vero zelo di Dio viene acceso in noi dalla considerazione del bene del prossimo, mentre lo zelo falso dell’uomo vecchio trovasi sempre eccitato dal nostro interesse proprio; e questo viene chiamato la collera, la quale è un appetito, una tendenza, un moto di ardore per ritenere o cercare ciò che ci appartiene. La vera dolcezza non si trova quasi mai che nelle anime innocenti, nelle quali Gesù ha stabilito la sua dimora continua fin dalla loro santa generazione e nelle quali è cresciuto nel complesso di tutte le sue perfezioni. Nelle anime penitenti, la dolcezza si trova raramente; perché il peccato le ha private di un’infinità di perfezioni, ed ha fatto regnare in esse il disordinato interesse di mille cose di cui l’abitudine si è formata e contratta con una fervente attività; anime penitenti sono quindi obbligate lavorare con molta fatica e violenza, per distruggere l’uno dopo l’altro tutti questi vizi della carne, riacquistare le Virtù contrarie, e così, in Gesù Cristo, riparare quanto avevano perduto. Siccome poi per ottenere questi effetti ci vuole molto tempo e occorrono molte mortificazioni, pochi ve ne soro che siano perseveranti e che lavorino all’acquisto della virtù con quella grande fedeltà che è necessaria onde ricuperare quanto hanno perduto col far getto della grazia del loro battesimo, e quindi ristabilirsi, in Gesù Cristo, nella pienezza delle vie divine.

***

Vi sono due vie differenti per le quali Dio comunica agli uomini le sue virtù. Nella prima, Egli le comunica per un puro effetto della sua bontà e liberalità, senza esigere alcun lavoro da parte della sua creatura. Nell’altra, esige fatica nella creatura, e non concede la virtù se non dopo violenti sforzi e in seguito ad una prolungata fedeltà. La prima può chiamarsi via di infusione: la seconda via di acquisto. La prima è rara nella Chiesa, a meno che Dio non abbia qualche disegno particolare sopra qualche anima, e per lo più, non viene usata che per gl’innocenti; la seconda non è meno rara, perché sono pochi quelli che perseverano con costanza e fedeltà. – La via d’infusione è dolce: ciascuno vorrebbe possedere per questa via le virtù non meno che gli altri doni: ma la via di acquisto è dura e nessuno la vorrebbe. Quest’ultima nondimeno è per tutti i peccatori e per tutta la Chiesa; mentre l’infusione è soltanto per gli innocenti e per poche altre anime su fa terra. Gli innocenti mentre crescono in Gesù Cristo, crescono pure in tutte le virtù, a motivo che Gesù Cristo nelle loro anime gode di un dominio estesissimo, per cui le riveste, le copre, le investe delle sue proprie virtù, col dono continuo e privilegiato della sua presenza. Egli in queste anime opera tale una trasformazione ch’esse non sono più sé medesime ma sono Gesù Cristo vivente e regnante in esse, Gesù Cristo che possiede e consuma tutto il loro essere. E siccome Egli è tutto consumato e trasformato in Dio perché Dio è perfettamente stabilito in Lui, così delle anime nelle quali Egli vive; Egli le consuma e le trasforma interamente in sé medesimo. Orbene, poche sono le anime in cui Gesù Cristo operi questi effetti, poche le anime nelle quali non rimanga qualche fondo di amor proprio, sorgente dell’amarezza e dell’ira che si accende per il proprio interesse; donde avviene che vi sono pochi Cristiani animati da perfetta dolcezza.

VITA E VIRTU CRISTIANE (Olier) 16

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 14

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (14)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935 – Nihil obstat quominus imprimetur., Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO IX.

Della pazienza

La pazienza è quella virtù che ci fa sopportare in pace, ed anche con gioia, le pene di questa vita, e tutte quelle tribolazioni che Dio si compiace di mandarci. La pazienza, per essere cristiana, deve, con gli occhi della fede, considerare Dio come l’autore di tutte le avversità e di tutte le contrarietà che ci accadono. Deve anche sopportare le afflizioni spirituali e le pene interne; e tutte per la virtù dello Spirito di Dio, che dapprima risiedette nella sua pienezza in Gesù Cristo, e venne poi comunicato anche a noi dal Battesimo e dagli altri Sacramenti.

I.

Gradi della pazienza,

1. Soffrire in pace. -— 2. Desiderare di soffrire. — 3. Soffrire con gioia, — ad esempio di Gesù Cristo.

Tre sono i gradi della pazienza; Nostro Signore ce li ha indicati nel Vangelo e si è compiaciuto di darcene l’esempio. Il primo è di soffrire le nostre pene in pace, con rassegnazione, conservandoci in una perfetta sottomissione agli ordini di Dio. Così Giobbe, in mezzo alle sue afflizioni, diceva, in una perfetta pace e con un intero abbandono alla volontà divina: Dio mi aveva dato tutto, Dio mi ha tolto tutto; sia benedetto il suo santo Nome! (Giob. I-21) – L’anima paziente non si lamenta né contro Dio né contro il prossimo; non si inquieta menomamente nel suo cuore per il proprio male, essendo animata dalle stesse disposizioni che le anime del Purgatorio, le quali con una sublime pace soffrono la violenza del fuoco e dei tormenti. Questo primo grado della penitenza viene espresso in queste parole di Gesù: Beati coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia, e che la soffrono in pace e con sottomissione agli ordini santi della Divina Provvidenza. Gesù Cristo ce ne ha dato l’esempio col sottomettersi volontariamente a tante pene, passando per ogni sorta di patimenti, tranquillo come la pecora che si lascia menare al macello (Act. VIII, 22).

* * *

Il secondo grado, è di desiderare ardentemente di patire. Ciò si è veduto nei martiri, che avevano il cuore infiammato di un tal desiderio così intenso da lasciar comparire anche esternamente il loro grande amore per i patimenti. Così S. Andrea, alla vista dei tormenti, esclamava: O buona croce che da tanto tempo così ardentemente desideravo! San Lorenzo si lamentava nel veder ritardato il suo martirio; e S. Teresa, nei trasporti del suo amore, esclamava: Aut pati, aut mori. O soffrire o morire! Nostro Signore esprimeva questo secondo grado della pazienza con queste parole: Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia (Matth. V, 6), e che sospirano di patire perché in essi si compiano i disegni di Dio, il Quale vuole che tutti i Cristiani soffrano con Gesù Cristo, e in Lui e con Lui prestino soddisfazione alla divina giustizia. Gesù ha voluto pure darcene l’esempio col manifestarci il suo ardente e continuo desiderio di soffrire, quando diceva: « Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, Desiderio desideravi » (Luc. XXII, 15;XII, 50). Egli considerava il sacrificio della Pasqua come un solo sacrificio con quello della Croce che doveva comprendere ed includere ogni patimento per questo motivo manifestava un grande desiderio di mangiare coi Discepoli quell’ultima Pasqua. – Il terzo grado è di soffrire con piacer e con gioia. Così gli Apostoli e i primi Cristiani se ne ritornavano dai tribunali pieni di gioia perché erano stati degni di soffrire per Gesù Cristo. S. Paolo, nelle sue Epistole, attesta ai fedeli che li vuole compagni della sua gioia nelle sue afflizioni e nelle sue pene (Fil., 7). Non solo ci manifesta la gioia che prova nel patire, ma afferma che trionfa nelle sue infermità e si gloria delle sue sofferenze (II Cor., XII, 9; Gal., VI, 14). S. Giacomo dice pure che il nostro cuore deve essere ripieno di ogni gioia in ogni pena e tentazione (Jacob, I, 2). – Nostro Signore esprimeva questo terzo grado con queste parole: Beati voi, quando gli uomini vi perseguiteranno e lanceranno contro di voi ogni sorta di maledizioni e calunnie; allora rallegratevi (Matth. V, 11). Ce ne ha dato pure l’esempio, poiché sta scritto: Propostosi il gaudio, sostenne la Croce, Proposito sibi gaudio sustinuit crucem (Hebr., XII, 2)

II

Motivi della pazienza.

Siamo creature, – peccatori – cristiani. — Gesù Cristo deve vivere in noi e trionfare in noi pure sulla carne. — Obbligo speciale dei Sacerdoti. – Efficacia e modo dell’azione di Gesù Cristo in noi.

Siamo obbligati alla pazienza, in primo luogo per la nostra qualità di creature; Dio è sovrano padrone della vita e della morte; da Lui tutto in noi assolutamente dipende, Egli ha quindi diritto di disporre di noi come gli piace. Il vasaio, dice S. Paolo, è padrone della creta per farne quel vaso che crede meglio (Rom. IX, 21); e dopo, del vaso che ha fatto dispone a suo piacimento; lo spezza, lo rompe; lo rifà, lo impasta, fo piega, lo schiaccia e gli dà quella forma che vuole. – Tale è la nostra condizione riguardo a Dic; essendo noi opera delle sue mani, Egli può far di noi tutto ciò che vuole. Che spezzi e rompa, che uccida o mortifichi, che ci getti nel più profondo dell’inferno o ce ne ritiri, questo è affar suo e dipende dalla sua mano; a noi non rimane che di sopportare in pace, adorando la sua volontà, i suoi giudizi e i suoi disegni, abbandonandoci completamente al suo beneplacito. In secondo luogo, siamo peccatori; in questa qualità, dobbiamo subire gli effetti della giustizia di Dio e del suo corruccio. Tutti i castighi che Egli manda in questo mondo sono un nulla in confronto di ciò che abbiamo meritato, e di ciò che ci farebbe soffrire, se non si degnasse di usarci misericordia trattandoci in questa vita con dolcezza e clemenza. Ricordiamoci dei castighi con cui Dio ha colpito i peccatori, come vediamo nella Scrittura: riflettiamo ai tormenti dei dannati. alle pene che i demoni per un solo peccato soffrono e soffriranno eternamente; con questi pensieri sopporteremo non soltanto con pace, ma anche con gioia, tutti i nostri patimenti, per quanto possano essere grandi. Infatti, che cosa v’è nell’Inferno che a noi non sia dovuto? Quali supplizi vi sono laggiù che non abbiamo meritato? Anzi abbiamo meritato mille volte di più, perché anche nell’Inferno Dio lascio ancora posto alla sua misericordia, e di questa siamo indegni. Non deve forse questo pensiero indurci a sopportare con pazienza qualsiasi pena o tribolazione di questa vita, tanto più che Nostro Signore dichiara che tali afflizioni sono segni del suo amore per noi. Quelli che amo, li riprendo e li castigo (Apoc. III, 19). –  In terzo luogo, siamo Cristiani; in questa qualità, dobbiamo esser disposti a soffrir molto. A questo fine appunto siamo stati introdotti nella Chiesa, poiché Nostro Signore non ci ha accolti come Cristiani nella sua Chiesa, se non per prolungare sulla terra la sua propria vita. Ora. Qual è stata la vita di Gesù Cristo, se non una vita di condanna della carne? Perciò, Gesù Cristo deve umiliare e assoggettare in noi la carne, seguendo quelle vie che Egli sa e giudica più utili per esserne completamente vittorioso. Ha incominciato a riportarne la vittoria nella sua propria carne, e vuole continuare a vincerla in noi medesimi, per manifestare in ciascuno di noi come un indizio e un saggio della vittoria universale che ne ha riportata nella sua Persona. La Chiesa ed i Cristiani, a confronto del mondo intero, non sono che un pugno di carne; tuttavia, Egli desidera di essere ancora vincitore della carne in essi, per manifestare la sua vittoria e dare prove sicure e splendenti del suo trionfo. Con questo sentimento, il Cristiano deve rimanere perfettamente fedele allo Spirito, ed abbandonarsi interamente a Lui per vincere la carne e distruggerla in tutto. Le occasioni non gli mancano in questa vita, perché deve sopportare gli assalti del mondo, il disprezzo, le calunnie, le persecuzioni cui viene fatto segno; poi le violenti rivolte della carne sempre ribelle; inoltre, le tentazioni che gli vengono dal demonio: e infine, quelle prove che vengono direttamente da Dio, come le aridità, l’abbandono, ed altre pene interiori, con cui Egli ci affligge allo scopo di aiutarci a crocifiggere interiormente la nostra carne.

***

I sacerdoti poi hanno un obbligo speciale di portar pazienza, perché devono possedere la perfezione del Cristianesimo; e questa non può stare senza la pazienza. La pazienza è un indizio che l’anima è intimamente unita a Dio e stabilita nella perfezione. Bisogna, infatti, che essa viva eminentemente in Dio, e sia da Lui pienamente posseduta, perché sopporti pene e tormenti con pace e tranquillità, ed anche vi trovi la gioia e la felicità del suo cuore. Bisogna che sia ben profondamente inabissata in Dio e che Dio se la tenga con tanta potenza e tanta forza, perché la carne non abbia la forza di trarla a sé e di farle accettare i propri sentimenti e le proprie ripugnanze verso le pene ed i patimenti. In tale stato. L’anima giunge alla massima perfezione cui possa elevarsi in questa vita, poiché essa è conforme a nostro Signore nella perfetta sottomissione che Egli praticò verso Dio nei suoi patimenti. Gesù Cristo, infatti, benché nella sua carne provasse somma ripugnanza per la croce, non ascoltò la carne né i desideri della carne, ma sempre visse in una perfetta conformità con la volontà del Padre suo. I sacerdoti adunque, essendo Cristiani perfetti, scelti in mezzo alla Chiesa per stare e servire davanti al Tabernacolo di Dio, devono essere attenti in un modo particolare a praticare questa virtù. È questo il loro carattere speciale, il contrassegno che li deve distinguere; la loro pazienza li disporrà a portare l’onorifica dignità di cui sono investiti e li farà riconoscere come servi e familiari di Dio. – Sacerdoti e Pastori devono possedere la pazienza in grado eminente; poiché, in Gesù Cristo e con Gesù Cristo sono sacerdoti, e vittime per i peccati del mondo. Gesù Cristo, il nostro Sommo Sacerdote, ha voluto essere la vittima del suo sacrificio e si è costituito Ostia per tutto il popolo. I sacerdoti sono come sacramenti e figure di Gesù Cristo. Gesù vive in essi per continuare il suo sacerdozio, e li riveste dei suoi propri sentimenti e delle sue disposizioni interiori del pari che del suo potere e della sua Persona, perciò vuole che siano stabilmente animati dallo spirito interiore e dalle disposizioni di Ostia per offrire e sopportare, per far penitenza, insomma, ed immolarsi alla gloria di Dio per la salvezza del popolo. – I sacerdoti non solo devono, ad imitazione di Nostro Signore, essere vittime per il peccato con la penitenza, con le persecuzioni e le pene interiori ed esterne, ma devono ancora essere vittime di olocausto; questa è la loro vocazione. Non basta quindi che soffrano, come Gesù Cristo, ogni sorta di pene, sia per i propri peccati, sia per i peccati del popolo dei quali portano il peso; devono inoltre essere, con Gesù Cristo perfettamente consumati interiormente nell’amore. Lo Spirito di amore dà forza e potenza per sopportare le pene e le afflizioni per quanto possano essere grandi; e siccome Egli è infinito, ci dà forza e potenza quanto è necessario per sopportare tutte quelle che ci possono capitare nella nostra vocazione. Tutti i tormenti del mondo non sono nulla per un cuore generoso che sia ripieno della virtù di un Dio che può portare sopra di sé mille e mille pene, molto più violente di tutte quelle con le quali il mondo e il demonio potrebbero affliggerci. S. Paolo alludeva appunto a questo spirito quando diceva: « Omnia possum in eo qui me corfortat, tutto io posso in Colui che è la mia forza » (Fil. IV, 13). Perché Dio abitava in lui, qualsiasi pena gli sembrava cosa da nulla. In questo medesimo Spirito eterno, immerso e onnipotente, il grande Apostolo chiamava momentanee e leggiere le sue tribolazioni: « Momentaneum et leve » (II, Cor. IV, 17). Perché Gesù le soffriva e le sopportava Lui, facendogli, con la sua presenza, vedere e sentire qualche cosa della sua eternità; perciò l’Apostolo considerava tutto il tempo di questa vita come un istante brevissimo. Così pure, Nostro Signore, col farci scoprire interiormente la sua potenza e la sua forza capace di portare mille mondi, ci fa riconoscere che il suo carico è leggero « Onus meum leve » (Matth. XI, 20). Talora Egli ci priva del sentimento sensibile del suo potente aiuto, affinché sentiamo il peso della tribolazione, nella debolezza della nastra carne e nell’infermità in cui l’anima nostra viene ridotta da tale privazione. Ma con questa specie di abbandono Egli vuole ottenere nelle anime nostre due grandi effetti. Il primo è d’ispirarci il disprezzo di noi medesimi e delle debolezze della carne: il secondo d’infonderci una grande stima di Dio e della sua forza, perché quando sentiamo la nostra debolezza, ci troviamo costretti, per necessità, a ricorrere a Dio e a stare in Lui. onde essere fortificati e sorretti per fare e soffrire a gloria sua tutto quanto gli piacerà.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 13

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (13)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935 – Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 , F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VIII.

Della mortificazione

V.

Pratica della mortificazione

Esame, — Proponimenti: 1. rinunciare alla nostra vita propria, — imitando Gesù Cristo. — Vita di Dio in noi. — 2, lasciare piena libertà all’azione di Dio. — La mortificazione è la condizione della presenza di Dio in noi.

Dopo aver considerato i motivi che ci obbligano a praticare la mortificazione, ed essercene ben convinti, dobbiamo esaminare, con sentimento di confusione davanti a Dio, quanti anni abbiamo passati in una vita immortificata. Allora noi si viveva in noi stessi e secondo il nostro amor proprio, dolendoci per qualsiasi cosa che ci contrariava, né potendo soffrire cosa che fosse opposta alle nostre inclinazioni e ai nostri desideri naturali. Una tale condotta è in opposizione con esempio di Gesù Cristo nostro modello; Gesù non ha mai seguito le inclinazioni umane né i desideri naturali. Cristo non ha mai cercato di piacere a se stesso; Christus non sibi placuit (Rom. XV, 3). Quante volte ci siamo dati all’impazienza? Quanti desiderii di amor proprio abbiamo assecondati? Insomma, per quanti anni abbiamo vissuto non da Cristiani, ma da pagani, mentre l’unico principio della nostra condotta era la nostra soddisfazione e la nostra carne, né ci curavamo dello Spirito Santo che interiormente ci manifestava il nostro dovere e vi ci portava con efficace amore?

***

In seguito a questo esame, dobbiamo risolverci a fare due cose. La prima sarà di studiarci, per mezzo della meditazione, di rinunciare a noi stessi e a questa vita propria che è vita di condanna; di far quanto possiamo per resistere a quei desideri della carne che ad ogni momento nascono in noi, e per sopprimere i movimenti sregolati e disordinati della natura, la quale non è un principio di vita cristiana.

La vita cristiana proviene in noi dallo Spirito vivificante che Dio ci dà nel battesimo, nel quale  siamo fatti figliuoli di Dio, animati dalla sua medesima Vita, riempiti di una medesima sostanza, per cui dobbiamo, in tutto,  essere mossi e diretti da Lui. – Gesù Cristo sia in ciò il nostro modello: Egli, infatti, si lasciava perfettamente go.vernare dallo Spirito di Dio suo Padre; orbene, noi pure abbiamo il medesimo Spirito. Gesù Cristo non operava mai che secondo la luce del Padre suo: così noi non dobbiamo operare che secondo la fede, la quale è un’ammirabile partecipazione della medesima luce divina (1 Piet. II, 9). Gesù Cristo non operava mai che dietro la mozione dello Spirito divino; così noi dobbiamo nei nostri atti essere sempre mossi dalla carità che Egli infonde in noi perché sia il principio delle opere nostre. Gesù Cristo non operava che nella virtù dello Spirito divino, così non dobbiamo operare che nella forza di quel medesimo Spirito che abbiamo ricevuto nel battesimo e che ci venne comunicato in pienezza nella Confermazione. Questa vita cristiana, che procede dalle Spirito e dallo Spirito è animata, è la vita di cui Dio vive in se stesso e di cui vivono i Santi nel Cielo. Dio si compiace di comunicarci la sua vita nascosta (Vita vestra est abscondita cum Christo in Deo. Colos., II, 3); l’ha rinchiusa in noi in queste mondo, e la manifesterà nel giorno dell’eternità in cui farà vedere chiaramente quale era la perfezione, la santità, la sapienza, la carità e la forza con cui Egli operava in noi. E sarà questo uno degli oggetti della beatitudine dei Santi, nei quali Dio esporrà la bellezza e la ricchezza della sua vita (Col. III, 3). – Al contrario, uno dei più grandi e più sensibili tormenti dei reprobi sarà la maledizione delle opere della carne che essi vorrebbero tutte abolite e distrutte, per non portarne più la pena. Dio, tuttavia, ne darà continua visione a quei disgraziati, che vedranno con ispavento tutti gli effetti che la corruzione della carne avrà operati in essi in questa vita. – Per i miserabili dannati sarà spaventevole la visione degli orribili effetti delle opere della carne; in quel modo che per i beati sarà oltremodo deliziosa la vista delle opere dello Spirito. I Santi, infatti, saranno rapiti di gioia nel vedere la bellezza che sarà il frutto delle loro opere ela santità sureminente con la quale la Maestà di Dio avrà esercitata la sua azione nelle loro anime. – La seconda cosa cui dobbiamo risolverci è una immediata conseguenza della prima; e sarà di lasciare che Dio operi in noi e ci animi del suo Spirito in tutte le nostre opere, poiché Egli vuole essere in noi il principio di qualsiasi atto. O benedizione! O gioia! O inconcepibile felicità! che Dio voglia così vivere nella carne e animarla, perché essa compia opere degne dell’eternità, nelle quali Egli senza fine troverà la sua gloria.

***

Questi sono i due esercizi coi quali dobbiamo dar principio in noi alla vita interiore e divina: bisogna metterci con impegno a mortificarci; poi, essendo morti alla carne, procurare di vivere nello Spirito. Senza di ciò non faremo mai nulla; ogni altro esercizio non servirà che a rovinarci. Tutto il resto è come un unguento che inasprisce il nostro male e non lo guarisce, un palliativo e non un rimedio: Tutto è illusione e abuso, se non si lavora sopra questi principi. Bisogna quindi risolverci alla santa mortificazione per la virtù dello Spirito Santo; perché se avremo cura, per la sua divina virtù, di respingere i sentimenti e le suggestioni abominevoli della carne, noi vivremo, come dice S, Paolo, mentre se vivremo secondo l’impulso dei desiderii e delle suggestioni della carne, noi morremo (Rom. VIII, 13). Se saremo fedeli a mortificare la nostra carne nelle sue concupiscenze e nei suoi desideri, Dio si renderà presente in noi; Egli si unirà intimamente con noi; e maggiore sarà la nostra cura di mortificarci e di rinunciare a noi stessi anche nelle minime cose in cui la carne potrebbe ricercare sé medesima, maggiore sarà pure l’amore con cui Dio ci vivificherà e ci animerà. – Per giungere alla contemplazione non v’è via migliore della purificazione di noi medesimi, con la quale eliminiamo da noi tutto ciò che non è Dio, e rendiamo l’anima nostra pulita e pura come uno specchio nel quale quel sole che è Dio si compiace di imprimersi e tenersi presente. In questo consiste la vera vita dei Cristiani, essa è una partecipazione della vita medesima dei beati nella contemplazione della verità di Dio a loro sempre presente dovunque si trovino.

VI.

Considerazioni su l’immortificazione

Ingiuria al Padre. – a Gesù Cristo, – allo Spirito Santo. – Trionfo del demonio. – Disordine nell’uomo. – Confusione per voi; tristezza e rimorso per l’ora della morte. – Avvilimento dell’anima. – Equità della mortificazione.

1° Noi facciamo una speciale ingiuria all’Eterno Padre, quando rifiutiamo di privarci per la sua gloria del godimento d’un miserabile piacere, rimanendo insensibili sia alla considerazione della sua presenza, come all’autorità del uo comando, ed alla minaccia dei suoi castighi, insensibili persino alla promessa. dei torrenti immensi delle sue delizie che saranno il premio della mortificazione.

2° Quale confusione per il Figlio di Dio! Aver sofferto tanto per obbligarci a resistere ai nostri sensi, eppure, né il sentimento di tante grazie e di tanti doni che Egli ci ha meritati, né l’esempio che ci ha dato, né la forza che ci ha acquistata possono nulla sopra di noi! E da parte nostra quale disprezzo della vita, del sangue e della morte di Gesù Cristo!

3° Quale affronto per lo Spirito Santo! Egli risiede in noi per opprimere la carne nelle sue pretese, per stabilire il suo impero sopra l’assoggettamento dei nostri sensi, delle nostre passioni e di noi medesimi; eppure questa divina e augusta Persona, questo Dio vincitore di tutto il mondo, questo augusto Re di tutte le creature, si vede ridotto ad essere schiavo dei nostri sensi, assoggettato ad una passione, vinto dalla carne e troppo spesso rovesciato dal suo trono e scacciato dalla sua dimora!

4°Quale soggetto di superbia per il demonio, mentre esso nella creatura trionfa del Dio vivente, e vede assoggettati sotto i suoi piedi il Cristiano e insieme il suo Dio! Quale vergogna per noi che venga commesso, per mezzo nostro, un sì orribile attentato: un Dio schiavo sotto i piedi del demonio!

5° Quale disordine nell’uomo! Quale sconvolgimento nel suo essere! L’appetito inferiore che dovrebbe essere soggetto allo Spirito, ne è invece il padrone, e la carne è sovrapposta allo spirito; in una parola, il padrone in noi è divenuto lo schiavo. Dio ha tanto fatto per ristabilire per mezzo del suo Figlio l’ordine primitivo della nostra condizione, e noi d’un colpo rovesciamo i suoi meriti, il suo sangue, la sua grazia e tutta l’opera sua, tutti i disegni del Padre, tutte le fatiche del Figlio, tutti gli sforzi e le operazioni dello Spirito Santo.

6° Qual frutto riceviamo da un istante d’immortificazione, se non il rimorso nel cuore, la confusione che ci fa arrossire per la vergogna, ed infine la condanna eterna?

7° Il piacere è Passato, e la pena resta: il piacere è stato di brevissima durata, la soddisfazione è stata leggerissima, ma i disagi dureranno in eterno,

8° Quale tristezza per l’anima all’ora della morte, quando vedrà nel languore senza vita quelle membra con le quali avrebbe potuto acquistare gradi di gloria immortale, e si troverà invece, per colpa della sua immortificazione priva di speranza e priva di merito nelle sue opere!

9° Quale dispetto essa proverà pure in quell’ora contro se stessa, per essersi miseramente perduta in soddisfazioni di cui, sotto la luce di Dio, vedrà l’iniquità  e la viltà, soddisfazioni che non avranno più allora nulla di quelle ingannevoli attrattive, di quelle fallaci illusioni che la seducevano e l’immergevano nel peccato!

10° Quale gioia, al contrario, non sentirà allora l’anima che in questa vita sarà stata fedele e costante nella mortificazione! Quale gioia nel vedere le sue membra allora ormai inutili e senza vita, aspettare di vivere della vita gloriosa di un Dio risorto, il quale, con la sua vita di travagli e di pene, ha conquistato per i suoi membri afflitti e crocifissi con Lui, la pienezza della gioia e della beatitudine che dal Padre suo deve ricevere in essi, per aver sofferto ed essersi mortificato in essi!

11° Qual terrore nel vedersi presentata ad un giudice così esatto, giusto e rigoroso! Dio accoglierà l’anima con gradimento tanto maggiore quanto più essa avrà sofferto in questa vita; la castigherà invece con tanto maggior rigore quanto più essa sarà stata indulgente per sé stessa, quanto più per la propria soddisfazione avrà assecondato le voglie della carne e le suggestioni del demonio.

12° O’ anima cristiana, rifletti perché il tuo Dio ti ha creata e perché nella sua Misericordia ti ha rigenerata! Non già perché  vivesti nell’impurità e nell’immondezza della carne, ma perché t’innalzassi alla santità di Dio medesimo (1 Tess. IV, 7). La volontà di Dio Padre, nel riformarci secondo la sua propria immagine, è di farci santi come Lui (1 Tess. IV, 5). Dio è santo e vuole che i suoi figliuoli siano santi (1 Piet. I, 6). – Il Figlio suo, dice S, Paolo, è risuscitato a questo fine, affinché camminiamo in una vita nuova, vale a dire nella santità. Per questo pure ci ha dato il suo divino Spirito di santità: e per questo dimora in noi onde fare di noi i suoi templi e santificarci in tutto. Il suo disegno è di fare di tutti i Cristiani. nella sua Chiesa, altrettanti angeli, e come spiriti separati dalla carne per la santità (1 Cor. III, 17).

13° O anima! Che cosa fai tu? Che cosa sei divenuta? Dov’è la santità e la perfezione delle tue vie? Tu che eri così bella come la luna, eletta come il sole, immacolata per la grazia del battesimo! (Cant. VI, 9).

14° Che cosa ne è ora di quello splendore di Dio e dove mai sei ridotta? Sei diventata più nera dei carboni (Thren. IV, 8). Eccoti per causa della tua immortificazione e dell’aderenza alla carne, più nera del carbone, più sporca di uno straccio coperto di fango e di marcia: Quasi pannus menstruatæ (Isa. LXIV, 6).

15° Sorgi dal tuo avvilimento e dalla tua confusione: ritorna a Dio tuo Createre, fiduciosa che ti purificherà! Saresti anche più nera di un Etiope, egli ti renderà più bianca della neve. Invoca il Signore, nella sua bontà e nelle sue misericordie che sono maggiori della sua giustizia!

16° Mercè la confessione dei nostri peccati, preveniamo l’ira della sua giustizia: evitiamo le pene col punire noi medesimi, offrendo soddisfazioni per le nostre colpe e castigando la nostra carne per mezzo di quelle medesime cose nelle quali essa ha peccato. La soddisfazione in Gesù Cristo, la penitenza animata e vivificata dal suo spirito, vale tutto per un’anima che si è investita di Lui, che è pienamente animata dall’intenzione di piacere alla giustizia del Padre senza riserva e di fargli ammenda onorevole, mediante un puro sacrificio di amore, di buona e pura volontà!

17° Da ultimo, cosa può esservi mai di più potente contro l’immortificazione che il pensiero che siamo peccatori, e come tali non dobbiamo più ricevere nessuna gioia dalle creature? Queste non debbono più servire che a crocifiggerci e a castigarci, invece di rallegrarci e consolarci; anzi. Come delinquenti, dobbiamo crocifiggerci noi medesimi incessantemente e in tutto; perché la crocifissione è il supplizio che Dio istituito e consacrato per punire il peccato e farne giustizia – La crocifissione, è una pena universale che colpisce e fa soffrire tutta la carne; è la morte totale dei sensi e di tutto noi medesimi, e non solamente un supplizio che colpisca solamente qualche membro e produca la morte mediante qualche pena particolare.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 12

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (12)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VIII.

Della mortificazione

II.

Secondo motivo della mortificazione

È dovere di giustizia crocifiggere la carne, — perché ha servito al peccato. Perché è nemica mortale di Dio.

Il secondo motivo che ci obbliga a mortificarci è il dovere di far penitenza. Come le nostre membra hanno servito all’iniquità, dice S. Paolo, così devono servire alla giustizia (Rom. VI, 19). Nostro Signore vuole troviamo il nostro castigo in quelle medesime cose per le quali abbiamo peccato. Bisogna dunque che le nostre membra, perché nell’offesa di Dio hanno cercato la propria soddisfazione, siano crocifisse e punite; bisogna siano mortificate e come hanno servito all’ingiustizia e all’iniquità, noi le facciamo servire alla giustizia. Ora noi le facciamo servire alla giustizia, non solamente nell’adoperarle negli esercizi di pietà ché sono opere di giustizia perché per mezzo di esse si adempiono i doveri verso Dio; ma le faremo servire alla giustizia di Dio, col far loro sentire giusti effetti della divina vendetta. Bisogna che Dio punisca in noi le nostre membra, e così queste servano alla giustizia: se Dio non lo fa, dobbiamo noi metterci al suo posto e animarci del suo zelo contro di nei; bisogna che diventiamo strumenti del suo Spirito per esercitare sopra di noi la sua giustizia; bisogna che rendiamo partito per Lui contro noi medesimi e che per conto suo facciamo guerra a noi stessi, poiché sappiamo che Egli non è contento di noi, eppure non si è preso soddisfazione e vendetta per le nostre offese. – Dobbiamo dunque con un santo zelo ed un generoso coraggio castigarci noi medesimi, alzando il braccio contro di noi come contro una persona estranea, perché, infatti, apparteniamo a Dio più che a noi stessi e dobbiamo curarci dell’interesse di Dio più che di ogni nostro interesse proprio. Dio è tutto per noi, e a confronto Lui noi non siamo nulla. Dobbiamo perciò dimenticare per così dire, abbandonare la nostra persona e battere sopra di noi come sopra un morto o sopra un estraneo. Così fa il vero penitente che esercita sopra di sé la mortificazione con ispirito di vera penitenza.

***

 Altro pensiero che ci impone la mortificazione è la considerazione della nostra carne quale trovasi in sé stessa, nella sua maledizione e nella sua ribellione contro Dio; in quanto è tale, noi dobbiamo mortificarla in tutto e in ogni modo, armandoci contro di essa come contro un mortale nemico di Dio. La carne in sé stessa è interamente contraria a Dio e, in tale qualità, va castigata; essa è come un forzato, uno schiavo ribelle che, malgrado il suo delitto, non lascia punto di rivoltarsi ogni era; così essa con la forza e la violenza va tenuta soggetta al suo padrone. Adamo, per dare l’esempio alla sua posterità, passò la sua vita nella penitenza: il Signore lo lasciò novecento anni sulla terra, appunto per insegnare a tutti i di lui figliuoli che ne continuano la vita, che essi pure, mentre vivono sulla terra esuli dal Cielo, devono incessantemente far penitenza come sempre fece Adamo finché stette sulla terra. I Cristiani, come figliuoli di Gesù Cristo, continuano la vita santa di Gesù per la virtù del suo Santo Spirito. Così i figliuoli di Adamo devono parimente continuare la vita penitente del loro primo Padre. I Cristiani sono l’espressione di Gesù Cristo e il prolungamento della sua vita; così i figli di Adamo devono ancor essi essere l’espressione di Adamo e la dilatazione della sua vita nello stato di penitenza. Sono dunque obbligati a castigare le prorie colpe come Adamo ha castigato la sua.

III.

Terzo motivo di mortificazione.

La religione esige il sacrificio.

Il terzo motivo nasce dalla religione la quale ci porta sempre al sacrificio di noi medesimi e quindi alla mortificazione. Quando desideriamo di prenderci qualche diletto secondo la carne, quando siamo tentati di dar gusto ai nostri sensi interni o esterni, oppure di accontentare qualcuna delle nostre facoltà anche spirituali, come sarebbe la nostra volontà con qualche vana soddisfazione o la nostra mente con qualche curiosità o qualche studio inutile, dobbiamo, in ispirito di religione e di sacrificio, mortificare tutti questi desideri dell’amor proprio, distruggerli e soffocarli. Questo si chiama propriamente sacrificare, perché così, per la gloria di Dio, sì distrugge, si immola, si uccide, si soffoca l’appetito naturale, il quale è pur cosa reale e vera, perché è cosa sensibile ed effettiva, tanto più sensibile quanto più realmente è in noi, essendo una parte di noi stessi. Nulla è più crudele e rigoroso della religione; essa immola tutto, uccide tutto e non risparmia nulla; essa ha in mano quella spada che il nostro Maestro Gesù è venuto ad apportare sulla terra: Non veni pacem mittere sed gladium. Non sono venuto ad apportare la pace, ma la spada: (Matth. X, 24). La mortificazione è raffigurata pure dalla spada di Ezechiele (Ez. V, 1) che quel santo Profeta ogni tanto passava tra i peli della sua barba, per indicare che bisogna mortificare i desideri superflui della carne che non sono altro che rifiuti e una corruzione della nostra natura. – I sacrifizi sanguinosi dell’antica legge erano un’altra figura della crudeltà che dobbiamo avere in fatto di religione; questa non deve risparmiare nulla, ma tutto sacrificare a Dio. Così fecero i Leviti, come si riferisce nell’Esodo (Es. XXXII, 27-29), che sacrificarono a Dio e immolarono i loro figliuoli, i loro fratelli e i loro amici per ispirito di religione e di grande riverenza verso Dio, davanti al quale consideravano ogni creatura come niente, né potevano soffrir nulla che a Lui procurasse dispiacere. Da tale spirito di religione devono essere animati i Cristiani; quindi distruggere e mortificare ogni corruzione della propria carne, tutto quanto hanno di proprio, tutto quanto vi è in essa di superfluo, in una parola, sacrificare tutto quanto non è rigenerato da Gesù Cristo.

IV.

Quarto motivo della mortificazione

La santità, cui tutti siamo chiamati, specialmente i Sacerdoti, esige distacco da ogni cosa creata, anche dalle tenerezze spirituali. — La comunione spirituale a Dio.

Quarto motivo che ci obbliga alla mortificazione, la santità con cui dobbiamo vivere nell’anima con Dio, nel distacco da ogni creatura. In Dio, la santità lo tiene applicato a Lui stesso e separato da tutto l’essere creato; lo stesso effetto essa suole operare in tutti i Cristiani, perché sono consacrati a Dio per il battesimo e perciò da S. Paolo chiamati col nome di Santi (1 Cor. I, 2; Efes., I, 1). Ché se tutti i Cristiani devono essere santi e distaccati da tutto, i sacerdoti ne hanno un obbligo più particolare, perché ad essi principalmente Dio rivolge queste parole: Siate santi perché io sono santo (Lev. XI, 44), siate distaccati da tutto perché io sono separato da tutto. – I sacerdoti, che offrono a Dio i pani e l’incenso, dovranno essere santi per il loro Dio (Lev. XXI, 6), vale a dire, saranno distaccati da tutto e dedicati a Dio solo. Egli merita questo omaggio, ma di più lo esige la sua grande santità; Dio, essendo la santità per essenza, non può sopportar nulla che non sia secondo la sua volontà. Egli vuole che i sacerdoti, perché lo avvicinano, siano consumati in Lui dal suo Spirito, affinché nulla che sia impuro si avvicini a Lui e che, in tal modo, anche quando è unito al sacerdote Egli rimanga sempre santo e separato da tutto. – La santità separa l’anima da ogni creatura; le impedisce di effondersi nella creatura e riporvi i suoi affetti; la obbliga a ritirarsi in Dio senza più cercar nulla fuori di Lui. La santità è così di una austerità eminente e di una severità oltremodo rigorosa perché non tollera la minima effusione dell’anima in ciò che non è Dio. La santità non tollera neppure che l’anima cerchi la sua soddisfazione in certe tenerezze verso Dio, perché questi sentimenti e questi gusti spirituali non sono Dio; e l’anima perdendosi in queste tenerezze si prenderebbe diletto e soddisfazione in ciò che non è Dio. Quando sia stabilita nella santità perfetta, l’anima rimane unita a Dio puramente con la fede; non si perde in nulla, né si ferma a nulla, non cerca altro che Dio e sì conserva distaccata persino dai doni di Dio, perché questi non sono Dio, il quale è puro, santo e separato da tutto. – Non già che non dobbiamo usare dei suoi doni per andare a Lui, ma essi non debbono essere che la via per giungere a Lui; non dobbiamo esservi menomamente attaccati; dobbiamo tendere unicamente al possesso di Dio solo. Se vi ci attacchiamo, tra Dio e noi v’è qualche cosa che gl’impedisce di unirsi interamente a noi. Ben poche sono le anime che non sì rivolgano alle creature per cercare in esse qualche soddisfazione (Omnes declinaverunt. Ps. XIII,3). Poche sono quelle che appena si accorgono di qualche attacco alle creature, hanno cura di ritirarsi nel loro interiore per entrare in Dio e rimanere perfettamente uniti a Lui. Eppure ci vuole grande fedeltà in questo punto, perché non bisogna mai soffrire che l’anima riponga le sue affezioni in nessuna creatura. Donde avviene che le persone sante, le quali sono puramente intente in Dio e interamente ritirate in Lui, non si compiacciono mai in soddisfazioni naturali, neppure nelle relazioni con le persone care; essendoché Dio, nel quale la loro anima è ritirata, non lo permette; e siccome esse hanno rinunciato ad ogni sentimento naturale e che il fondo della loro anima tutto occupato di Dio e a Lui intimamente unito, non si perdono nel cercare soddisfazioni fuori di Lui. – Ché se l’anima incomincia a distogliersi da tale distacco santo e divino, se incomincia ad effondersi nelle creature, essa tanto meno resta unita a Dio; inoltre perde la sua forza e il suo vigore, diventa vana e dissipata, effusa fuori di sé come l’acqua versata su la terra asciutta (Ps. XXI, 15). Quindi non bisogna soltanto aver cura di distaccare l’anima, come abbiamo detto, dalle cose sensuali e materiali, ma anche dalle cose spirituali; vale a dire dalle dolcezze, dalle consolazioni e dalle altre grazie sensibili alle quali l’anima facilmente si attacca. Essa ama questi doni, li cerca, quasi sempre li desidera, non avvertendo che questi doni non sono Dio più che le altre cose; vi si attacca e perde la sua santità in modo tanto reale, benché non così interamente, come se si attaccasse a cose più materiali. L’anima, per l’uso e il gusto di queste cose spirituali, diventa lorda e impura, debole, incostante e leggera; se non istà ben attenta, arriverà ad una intera opposizione con la santità di Dio. – Il disegno di Dio è di richiamare tutte queste cose all’unità; perciò, Egli vuole che tutte le creature, le quali in se stesse sono diffuse e moltiplicate, servano però all’uomo perché si unisca a Lui solo. Epperò Egli vuole che, se l’anima nostra e i nostri sensi vengano attirati da oggetti che ci piacciono, subito noi ce ne distogliamo per rivolgere a Lui il nostro cuore, dicendogli: voi siete il mio mondo, la mia gloria, il mio tesoro e il mio tutto. – Così nel Cielo, i Santi inabissati in Dio, in Lui trovano tutto, né più sono tentati dalle cose basse e spregevoli della terra. Siccome Dio contiene ogni cosa in eminenza ed Egli è tutto per essenza; siccome Dio in sé e nella sua somma perfezione include tutte le imperfette perfezioni disseminate e diffuse nelle creature, i Santi in Dio possiedono perfettamente intenti, senza che nulla di profano, né alcuna inclinazione terrena li renda impuri, o sia di impedimento alla loro santità. – Ciò che ci rende terreni e ci impedisce di essere santi, è l’amore e l’attacco alla creatura. Perciò, se vogliamo essere santi, dobbiamo aver cura, all’aspetto di qualsiasi creatura, di ritirarci in Dio, perché non ve n’è neppure una che non tenda a distaccarsi da Dio per attirarci a sé stessa. Perciò, sono convinto che è cosa importantissima proporci esercizi giornalieri, che nelle varie circostanze della vita ci servano a tenerci distaccati da Ogni cosa, per portarci a Dio, rifugiarci in Lui e così vivere in intima unione di amore con Lui: Chi sta nella carità sta in Dio, e Dio in lui (Qui manet in charitate, in Deo manet, ed Deus in eo. – Joan. IV, 16).

* * *

L’unione di carità mette Dio in noi e noi in Dio. Come la Comunione sacramentale mette Gesù Cristo in noi e noi in Gesù Cristo, così la Comunione a Dio per amore, benché spirituale, è tuttavia reale; essa ci mette realmente in Dio e mette pure realmente Dio in noi; dimodoché diventiamo un medesimo spirito con Lui: Chi mangia la mia carne, e beve il mio sangue sta in me, ed io sto in lui (Joan. VI, 59). È  questo l’alimento continuo, il pane quotidiano di cui dobbiamo incessantemente nutrirci; è la mammella cui dobbiamo ricorrere senza posa per essere mantenuti nella vita divina. La Comunione spirituale a Dio e la Comunione sacramentale sono le due mammelle di cui dice la Scrittura che sono migliori del vino più delizioso (Cant. I, 1). – Dio, col suo divino Spirito che è una di quelle mammelle con cui nutre la sua Chiesa, fa come quelle nutrici, che talvolta gettano del latte sulle labbra del bambino perché si porti al seno dove troverà abbondante nutrimento. In tal modo, quel divino Spirito, ornando il mondo delle proprie bellezze (Spiritus ejus ornavit cælos – Job. XXVI, 18) presenta agli occhi nostri i beni e gli oggetti piacevoli di questa vita, perché ci ricordiamo della loro fonte che è in Lui e perché a questa fonte ricorriamo con amore per il nostro spirituale alimento: e questo si fa col legarci a Lui per amore, col ritirarci in Lui quando a noi si presentano le creature. Le cose di questo mondo non sono create perché in esse noi troviamo la nostra soddisfazione, ma per avvertirci che nello Spirito di Dio troveremo cose più sante e più pure, di cui potremo godere in Lui senza imperfezione.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 13

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 11

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (11)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VIII.

Della mortificazione

È verità certissima che, dopo il peccato, Adamo è stato maledetto tutto intero, vale a dire non solo nella sua persona ma anche in tutta la sua discendenza: dimodoché Dio riprova tutto quanto di Adamo v’è in noi; la sua santità non lo potrebbe sopportare. La condanna divina, non porta soltanto su la carne, ma ancora su le opere della carne; perciò, queste opere sono da S. Giovanni chiamate carne. Ciò che è nato dalla carne è carne: la carne non serve a nulla; e S. Paolo la chiama morte e carne di peccato, perché ci porta al peccato; è ripiena « di desiderii del peccato, non ha in sé che inclinazione propensione al peccato (Joann., III, 6; VI, 64- Rom. VIII. 6). Se persino in Nostro Signore la carne viene da S. Paolo chiamata peccato e maledizione, benché in Lui non vi fosse che la somiglianza col peccato, non avendone Egli preso che la figura e l’immagine (Rom. VII, 8): quanto più deve essere chiamata con tale nome in noi che, pur troppo, ne abbiamo la malizia, la dissolutezza ed i disordini?

***

Donde chiaramente appare che tutto quanto si opera per principio della carne, per la sua mozione, le sue inclinazioni, i suoi desideri, la sua impressione e la sua impetuosità, non serve di nulla per la vita eterna, ma, al contrario, viene senza posa riprovato da Dio; secondo questo fondo corrotto e questa parte maligna, con tutto ciò che da tale principio viene operato in noi, siamo per il Signore oggetto di avversione. Dovremmo vivere in una immensa confusione, con la faccia contro terra, per la vergogna di vederci così riprovati da Dio in una parte di noi stessi e per la malignità di quel fondo maledetto che abbiamo in noi. – Le opere, infatti, che provengono dalla mozione e dall’istinto della carne oppure dalla pradenza della carne, non sono che opere di morte (Rom. VII, 6), da Dio condannate come frutto della malignità del demonio, il quale ha corrotta la nostra carne e vi ha impresso quelle maligne inclinazioni che la portano ad allontanarsi da Dio e usurparne il posto, col cercare sé stessa in ogni cosa come suo ultimo fine (La scuola berulliana adotta, riguardo agli effetti del peccato originale in noi, l’opinione teologica più stretta. Perciò le espressioni di Giov. Olier contro la carne sono assai forti, ma sempre nei limiti della fede. Per altro, il linguaggio del Servo di Dio, in sostanza, è quello di S. Paolo nel capo VIII dell’Epistola ai Romani e dell’Imitazione di Cristo nei capitoli XIV e XV del libro III. Anche Nostro Signore disse che dobbiamo odiare l’anima nostra – Joan. XII, 25, ossia « quella parte di noi, come spiega G. Olier in altro luogo, che è unita alla carne ed è contraria a Dio con la carne »). Ecco il fondo e l’origine della nostra malignità intima e segreta, quella prepotente inclinazione a cercare incessantemente, in ogni nostra azione, null’altro che il nostro interesse, la nostra soddisfazione e il nostro onore, non mai Dio, non mai la sua volontà né il suo compiacimento. La carne non può mai cercare Dio perché, come dice S. Paolo, essa non è, né mai può essere soggetta alla legge di Dio (Rom. VIII, 7). – Perciò, Nostro Signore, venuto al mondo per farci intendere la nostra miseria e la necessità del soccorso di un principio interiore che ci faccia vivere divinamente, volendo renderci persasi dell’urgente bisogno che abbiamo di un altro spirito che quello della carne, vale a dire, dello Spirito Santo che ci attacchi a Dio, elevandoci al disopra della terra, diceva: Lo Spirito è quello che dà la vita (Joan. VI, 64). Lo Spirito Santo dà la vera vita, lo Spirito Santo santifica tutte le nostre opere, lo Spirito Santo ci fa operare in tutto come veri figli di Dio (Rom. VIII, 14). – I veri figli di Dio sono ben differenti la quelli di Adamo, perché sono diretti dallo Spirito Santo e condotti dalla luce della fede; ricevono la virtù di operare con l’intenzione di piacere a Dio e in un modo superiore alla propria natura. Ciò presupposto, possiamo notare vari motivi che ci obbligano alla mortificazione di noi stessi.

1

Primo motivo della mortificazione.

Siamo Cristiani, dobbiamo vivere secondo lo Spirito ricevuto nel Battesimo. In questa vita c’è sempre da combattere. – Grande vantaggio nella lotta contro la carne.

Il Cristiano non deve vivere secondo la carne, (Debitores sumus non carne, ut secundum carnem vivamus. – Rom., VIII, 12), ma secondo lo spirito, avendo nel battesimo ricevuto in sé lo Spirito Santo perché sia il principio delle sue opere e tolga alla carne la facoltà di trascinarlo. Questo ci obbliga a reprimere la carne e a mortificarla in ogni occasione, affinché lo Spirito Santo possa fare in noi ciò che Egli vuole e portarci a ciò che Egli desidera. Benché lo Spirito ci porti talora a certe cose che sono pure conformi ai desideri della carne, come sono il cibo, il riposo ed altre simili, non le dobbiamo tuttavia compiere per i motivi impuri ed i fini perversi della carne, né per un maledetto principio di amor proprio, ma per un principio divino, per un principio di santità che ci elevi a Dio nel distacco da noi stessi e dalle creature. Orbene, ecco il segno per conoscere la differenza che passa tra le opere alle quali ci portiamo per il principio della carne e quelle alle quali ci portiamo per il principio dello Spirito. Chi opera secondo il principio della carne, opera con precipitazione, con veemenza. per il proprio piacere, e senza essere mosso da nessuna intenzione rivolta a Dio. Quando invece siamo mossi dallo Spirito, questo ci ispira interiormente qualche motivo divino, quindi il nostro operare viene riferito a Dio, con l’intenzione di piacere a Lui e di renderci capaci di servirlo; noi allora, più dell’opera che facciamo e più della creatura di cui abbiamo bisogno, consideriamo Dio medesimo. – Inoltre, lo Spirito si fa sentire per la forza con cui ci eleva a Dio, per la dolcezza, la pace, la soavità della sua mozione; ci tiene distaccati da noi medesimi, e rimane in possesso della nostra volontà onde portarla, nelle sue mani, a tutto quanto Egli desidera da noi. È questo propriamente ciò che si chiama essere spirituali e in ogni cosa vivere secondo lo spirito; quando, cioè, lo Spirito Santo è in noi il principio di tutto, ci possiede interamente, ci tiene nelle sue braccia e ci porta dovunque gli piace. Benché in alcuni ciò avvenga in modo più sensibile che in altri, ciò si verifica in tutti quelli che vogliono mortificarsi, rinunciando in tutto alla propria carne e a sé medesimi. – Quando lasciamo il posto allo Spirito con piena libertà di disporre di noi, Egli non manca mai di esercitare in noi la sua azione e di dirigerci; non manca mai di prendere possesso delle nostre facoltà per elevarle alle opere che Dio desidera da noi, perché viene e abita in noi unicamente per promuovere, per mezzo nostro, la gloria di Dio. Egli sta in noi, per essere il principio della nostra vita nuova, di quella vita divina di cui dobbiamo vivere. Dopo il battesimo, infatti, nel quale abbiamo ricevuto lo Spirito di figlioli di Dio, noi dobbiamo vivere secondo la volontà di Dio, anzi vivere della vita medesima di Dio, perché il figlio deve vivere della vita del padre suo; il figlio proviene dal padre come un secondo vivente, deve quindi continuare, dilatare e propagare la vita medesima del padre, in una parola, aver col padre un medesimo principio di vita. Orbene, la vita di Dio in se stesso è Dio medesimo, ed Egli è il principio della propria vita. Così la vita in noi è Dio: Dio è il principio della nostra vita, principio che ci anima, ci muove ed è la nostra forza. Qui sta la differenza tra i battezzati e gli infedeli; i battezzati han ricevuto lo Spirito di Dio, che è Dio medesimo il quale abita in essi come nuovo principio di vita e di azione. Ma gli infedeli e tutti i figli di Adamo sono mossi dalla carne e dallo spirito maligno; vivono secondo i sentimenti, i movimenti e la vita della carne e dello spirito maligno. E così avviene pure dei Cristiani che cadono in peccato mortale; perché, rinunciando allo Spirito divino col quale erano una sola cosa, per unirsi ed aderire allo spirito maligno, diventano per ciò stesso una cosa sola con quest’ultimo. Il demonio ha gran potere sopra la carne, perciò dobbiamo stare in guardia per essere costanti nel rinunciare coraggiosamente ad essa; egli la spinge, la muove, l’anima a suo piacimento, perché non è ancora rigenerata né santificata come il nostro spirito è rigenerato e santificato dal battesimo. Nella presente vita, la nostra rinascita non è perfetta; essa è parziale, né sarà completa che nel giorno del giudizio e della universale rigenerazione; allora i nostri corpi saranno rinnovati e trasformati, le loro inclinazioni maligne e carnali saranno cambiate in quelle dello spirito; trasformazione che non viene operata dal battesimo in questa vita, Nel battesimo, lo spirito dell’uomo viene rigenerato, dimodoché riceve inclinazioni nuove, riceve cioè le inclinazioni di Gesù Cristo invece di quelle di Adamo delle quali era ripieno a motivo della relazione con la carne maledetta che proviene da Adamo e ne conserva le inclinazioni. L’anima non ha la sua origine da Adamo, ma da Dio che l’ha tratta dal proprio seno per metterla in quel corpo umano che proviene da Adamo. Perciò, Dio la considera come sua figlia, e si prende cura di purificarla, lavarla, separarla, santificarla mediante la grazia del Figlio suo e per l’aspersione del sangue di esso, per la presenza del suo proprio Spirito che la libera e la purifica dalle macchie contratte nella alleanza con la carne. Orbene, benché l’anima sia così purificata e rigenerata, il corpo, vero figlio di Adamo, conserva sempre le sue inclinazioni e le sue tendenze, rimane sempre per intero nei suoi primitivi e maledetti sentimenti, e tale rimarrà sino al giorno della rigenerazione universale per la quale nel dì del giudizio, i corpi saranno riformati da Gesù Cristo nostro Padre, che infonderà in essi i suoi propri sentimenti e li renderà partecipi della sua redenzione. Noi sospiriamo, dice S. Paolo, e gemiamo entro noi stessi, perché sentiamo ad ogni ora gli istinti della carne e la vita del nostro misero padre Adamo (Rom. VIII, 23). Sospiriamo perché, essendo già figli di Dio nello spirito, non lo siamo ancora nel corpo; perché la nostra carne non ha ancora ricevuto le inclinazioni del Padre nostro e non è ancora partecipe di quelle del nostro spirito. Gemiamo perché non siamo ancora figli che a metà (Initium aliquod creaturæ ejus. Jac., I, 18), mentre i nostri corpi non partecipano ancora alla nostra adozione, non hanno ancora ricevuto gli effetti della grazia di adozione e rimangono privi, a differenza della nostra anima, dei privilegi della redenzione operata da Gesù Cristo. – Ahimè, qual peso per il nostro spirito! Quale pericolo per noi, il nostro corpo! Esso è così lontano da Dio, così pesante e pende così fortemente verso la rovina, che facilmente trascina l’anima e lo spirito, se non resistono continuamente alle sue maledette inclinazioni. L’anima è costretta ad animare la carne e a servirsene, ma ne resta aggravata. La carne deprime lo spirito, ossia quella parte superiore ed eminente che lo Spirito Santo eleva alla partecipazione della sua divina luce. È dunque essenziale che il nostro spirito si mantenga continuamente fermo nella sua adesione allo Spirito Santo e si elevi continuamente a Lui; che ad ogni ora si dia e si abbandoni alla sua potenza, separandosi e allontanandosi dall’anima infetta dalla carne e dalle mozioni della carne e perciò attratta verso la terra e le creature. Se il nostro spirito non rimane fedele in tal modo allo Spirito Santo, diventa carne, perché da questa si lascia assorbire e ne riceve i sentimenti, a quel modo che prima era spirito, quando cioè aderiva allo Spirito Santo e gli era unito per l’amore e l’affezione. Tale è lo stato dell’uomo in questa vita, stato che lo pone nella necessità di rinunciare incessantemente a se stesso, di resistere alla propria carne, di mettersi risolutamente dalla parte dello spirito, di vivere continuamente nel timore a motivo della smania del corpo nel ricercare la propria soddisfazione. Perciò la via che dobbiamo seguire, via unica, sicura e certa, è di rinunciare alla carne, togliendo tutto quanto essa desidera e così aderire allo spirito e non essere che una sola cosa con lui. Allora si compirà quanto dice l’Apostolo: Chi aderisce a Dio, ossia sta unito a Dio, diventa con Lui un solo Spirito (1 Cor. VI, 17). Procuriamo dunque di darci per intero a quel divino Spirito, rinunciando a tutto quanto non è Lui. – O Spirito divino, rapiteci! Elevateci a tutto ciò che è di vostro gradimento! Fate che nulla ci trattenga più in questo mondo né ci attacchi alla terra! Fate che non ci occupiamo più di cose terrene: A Voi, a Voi solo il nostro cuore, le nostre affezioni e tutto ciò che siamo!

***

Ecco, dunque, il primo motivo che abbiamo di praticare la mortificazione; siamo Cristiani e quindi obbligati a vivere secondo lo Spirito che abbiamo ricevuto nel battesimo e che ci fa aderire a Dio onde non vivere più secondo la carne. Benché una tal pratica sia la rinuncia ad ogni cosa creata, tuttavia non vi perdiamo nulla. Perché, in virtù di questa unione ammirabile di Dio con noi e di noi con Dio, noi, in quel Dio che possiede in se stesso ogni verace bene, troviamo attrattive così potenti, che l’anima nostra senza rincrescimento si priva di tutto quanto le viene proposto dalla carne. In Dio essa trova i beni veraci di cui gli altri beni non sono che apparenze: Dio ha voluto che questi beni apparenti fossero come immagini, figure, somiglianze di Lui; se l’anima prende queste figure per la realtà, sta nella menzogna, ma se ne giudica con rettitudine e ne ha una vera conoscenza, vi rinuncerà mille volte al giorno. Essa riconoscerà che il grande ed unico bene è Dio, il quale ora vuol essere posseduto in se stesso e non più nelle sue creature, come quando si dava all’anima sotto la figura delle creature, facendosi conoscere ed amare sotto i titoli e le qualità con cui in esse rappresentava sé medesimo; a questo fine si presentava, come luce nel sole, come calore nel fuoco, come fermezza sotto la figura della terra, come bellezza nei fiori; ma erano rappresentazioni sempre imperfettissime, perché si trattava di creature materiali, corruttibili e passeggere. Ora, invece, Egli non vuole più darsi al possesso dell’anima che in se stesso e in spirito; vuole che l’anima lo possegga immediatamente e si dà ad essa direttamente. Dio vuole che l’anima e lo spirito gli stiano interiormente uniti, dimodocé Egli li possegga, li animi, li diriga e li elevi in tal modo al di sopra della carne e della terra, che non abbiano più nessun altro desiderio che di essere totalmente da Dio, posseduti e in Lui consumati. In forza di che noi viviamo nell’avversione della carne e da essa separati, e la mortifichiamo in tutto nella nostra persona.

***

Ma è da notarsi che questa mortificazione deve essere non solo universale, ma anche continua, perché la minima mancanza di mortificazione abbassa l’anima ad aderire alla carne; e così a poco a poco il nostro spirito diventa carne, si distacca da Dio per abbandonarsi alla creatura. Il nostro spirito quanto più si ferma alla creatura tanto meno aderisce a Dio, perché ne riceve meno il soccorso. Quanto più è privo del grande aiuto di Dio cui prima aderiva e dal quale era sorretto, tanto più diventa pesante, inclinato alle cose terrene; così per non aver mortificato continuamente la propria carne, a poco a poco cadrà nella rovina. Se vivrete secondo la carne, dice S. Paolo, morrete; se invece, con lo spirito, darete morte alle azioni della carne, vivrete (Rom. VII, 131).Questa pratica della mortificazione èfacile per chi vive nello Spirito della graziaed è ben posseduto da Dio; perché loSpirito Santo che sta in noi, attira l’animanostra, trattiene il nostro spirito perchénon aderisca alle creature. Quando sigode in tal modo della unione perfetta epura con Dio, bisogna guardarsi bene daiprimi assalti delle creature; appena si sentequalche attrattiva verso di esse, bisognaresistervi, allontanarsene e separarsene totalmente. Se avviene, a cagione di esempio, esi presenti ai nostri occhi qualche oggettoattraente e che l’anima sia spinta a compiacersene, bisogna rinunciarvi e astenersi dal guardarlo. Questo si chiama mortificare i propri occhi; così bisogna dire degli altri sensi esterni ed interni, ed anche delle altre facoltà dell’anima nostra

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 10

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (10)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VII

Della virtù di penitenza

VI.

Preghiere e affetti di penitenza.

Questo pure, mio Dio e mio Padre, ardisco chiedervi con le parole medesime di Gesù Cristo, che morendo su la Croce esprime il desiderio di soffrire ancora in noi per dilatare le sue pene, prolungare la sua penitenza, farvi così in perpetuo ammenda onorevole e darvi una soddisfazione continua in mezzo alla vostra Chiesa. Perciò, grande Iddio, prostrato ai vostri piedi, mi sottometto ad ogni vostra giustizia, a tutte quelle pene e vendette cui vorrete sottopormi. E in attesa che vi piaccia darmi qualche penitenza, accetterò tutte quelle che, per mio onore, mi saranno da Voi imposte a mezzo della vostra Chiesa e delle persone che hanno diritto d’umiliarmi e di assoggettarmi ai rigori della penitenza. E tutto ciò in unione col vostro diletto Figlio, l’unico e universale penitente della Chiesa. Signor mio Gesù, che vivete in me col vostro spirito onde terminare di soffrire tutte quelle pene e quella penitenza che eravate disposto a portare durante la vostra vita per la gloria del Padre vostro, se fosse stato il suo beneplacito; fatemi questa grazia che, usando della potenza del vostro spirito in me, io sia animato in tutte le mie azioni dalle disposizioni di una vera penitenza; fate che io non perda mai la vista dei miei peccati, perché non posso averla che nella luce della vostra sapienza, la quale ai peccatori, come in uno specchio tersissimo, fa vedere le macchie delle loro anime. Fate inoltre, o mio Signore e mio Dio, che essendo riempito di confusione per l’enormità delle mie colpe, non compaia mai senza vergogna, per la mia orribile deformità, sia al cospetto della Maestà del Padre vostro, sia davanti ai suoi santi altari, sia nella preghiera come in tutte le sante pratiche e i santi ministeri. Fate ancora che non ardisca di comparire senza confusione in mezzo ai santi Sacerdoti ed ai Cristiani miei maestri, stimandomi indegno della loro società e tenendomi in ispirito ai loro piedi oppure lontano da essi. Tali pure siano le mie di posizioni riguardo a me stesso e che rimanga continuamente confuso ed annientato in me stesso, non osando pensare a me che con orrore e spavento, stimandomi meno di un verme della terra, più vile che i rifiuti del mondo; riputandomi indegno di prendere il mio cibo e le altre cose per il sostentamento della mia vita. indegno anzi della vita stessa, non prenda mai senza rincrescimento ciò che è necessario per conservarmela.

***

Adorabile mio Signore, per le lacrime che avete versate sopra Gerusalemme, vale a dire sopra tutti i peccati della Chiesa; per quelle lacrime che sul Calvario, avete versato nella santa contrizione che avete continuamente sentita per i miei peccati sopra i quali avete pianto, come su Lazzaro, in un fremito che indicava l’emozione che essi causavano nel vostro spirito: vi chiedo la grazia di piangerli ogni giorno della mia vita, e di vivere in un amaro dolore di averli commessi. Ch’io viva nell’orrore di tutto me stesso come pure di ogni sentimento peccaminoso che insorga in me! Ch’io combatta e crocifigga tutte le mie inclinazioni naturali, tutti i miei sensi interni ed esterni, e tutte le passioni disordinate dell’anima mia!

* * *

Infine o mio Dio, per quel grido che la forza e il fervore del vostro Spirito penitente vi fecero emettere sulla Croce, nell’abbandono dell’anima vostra alla vendetta del Padre e a quell’orribile giudizio che dovevate subire sopra di Voi stesso, vi domando la grazia di vivere, come Voi, abbandonato al rigore del giudizio e della giustizia del Padre vostro sopra i miei peccati. Fin d’ora accetto tutta quella crocifissione che vi compiacerete di ordinare per me nella vita presente.

1° In unione con la vostra povertà e nudità su la croce, e con l’abbandono da parte delle creature che allora avete sofferto e per onorare questa vostra pena, mi abbandono a tutta la povertà alla quale potrò mai essere ridotto, sia per qualche ordine aspro della divina Provvidenza e della sua santa giustizia, come per la noncuranza o la cattiveria da parte delle creature.

2° In unione coi disprezzi, con le ingiurie, con gli obbrobri che avete sofferti sul Calvario e per rendere onore a queste umiliazioni, mi abbandono, in pena dei miei peccati, a tutte le calunnie, derisioni, confusioni e ignominie che potranno mai accadermi.

3° In unione coi dolori con cui vi siete meritato quel bel nome di uomo dei dolori «Virum dolorum » (Isa. LIII, 3) e per onorarli, mi abbandono pure alle sofferenze, malattie, infermità, agonie ed infine alla morte medesima, ultimo supplizio del peccato In unione con la vostra morte così penosa e ignominiosa, accetto, in castigo dei miei peccati, qualsiasi tormento, qualsiasi pena, qualsiasi genere di morte che vi piacerà di farmi soffrire.

4° In unione e in onore dell’abbandono interiore che avete sofferto da parte del Padre vostro, e di tutte le vostre pene interiori, mi abbandono al Padre vostro per soffrire tutte quelle pene di cui vorranno onorarmi la sua santità e la sua giustizia; dolente di non aver usato bene sinora delle sue sante visite. Oh! se ora mi fosse dato ancora di soffrirle in soddisfazione dei miei delitti, quanto mi riterrei fortunato di presentarvele per l’amore e la gloria del Padre vostro! E per quanto riguarda l’uomo vecchio che vive in me, che sta tutto nel peccato come pur troppo riconosco, ed è stato attaccato alla Croce con Voi (Rom. VI, 6), adorabile nostro Capo, sotto il vostro esterno di peccato: prometto a Dio, davanti a Voi, o mio Gesù, di tenerne tutte le membra crocifisse e incatenate sulla Croce; protesto di non voler lasciar a queste membra nessuna libertà di operare secondo la loro malizia, ma di fare ogni sforzo, al contrario, per annientarne gli atti perversi affinché solo dallo spirito siano riempite e vivificate, e mi servano solo per compiere opere sante. Le nostre membra non sono più di Adamo ma di Gesù Cristo, che è venuto a consacrarle e santificarle con la presenza del suo Spirito, per muoverle e dirigerle alla gloria di Dio. Noi siamo trasferiti, dice S. Giovanni, dalla morte nella vita. Non apparteniamo più a noi, soggiunge S. Paolo, perché siamo stati redenti col prezzo di un sangue prezioso, affinché coloro che vivono non vivano già per sé, ma per Colui che è morto e risuscitato per essi (I Joann., III, 14, – I. Cor. V, 19, 20; – Il Cor., V, 18).

VII.

Frutti ed effetti della vera penitenza.

1. Lo Spirito Santo rende l’anima partecipe del suo odio contro la carne. – 2. Dio riprende il suo posto nell’anima e se ne appropria. – 3. Se l’anima diventa Sposa di Dio, ripara lo sfregio orribile fatto dal peccato allo Spirito Santo e, trasformata nella natura divina, vive in Dio.

I primi sentimenti che lo Spirito Santo produce in noi, in seguito alle virtù teologali, sono quelli di religione riguardo a Dio e di penitenza riguardo a noi stessi. Dopo di averci fatto conoscere ed amare Iddio con la fede, la speranza e la carità, il suo primo effetto è di applicarci ai doveri di rispetto e di sottomissione verso la divina Maestà, nei quali consiste la religione; poi sentimenti di orrore, di avversione, di riprovazione e di distruzione del peccato, della nostra carne e di noi stessi, ciò che chiamasi penitenza.

1. Quando lo Spirito abita in noi in pienezza; quando diventa re della nostr’anima; quando l’ha separata da sé medesimo e dai propri interessi, che l’ha tirata dalla sua parte, convertita e ridotta ad essere una cosa sola con se stesso, la sua prima operazione è di renderla partecipe del suo zelo, del suo odio, del suo orrore contro la carne e contro essa medesima in quanto è forma e amica della carne. Così, lo Spirito Santo è il padre della penitenza e l’anima ama la penitenza nella misura in cui vive nello Spirito Santo, perché tanto più è animata da zelo contro sè stessa quanto più è passata nella natura di Lui. (I. Cor. VI, 17)

* * *

2. Allora si vede un Dio vittorioso in noi, veramente vittorioso dell’amor proprio e di noi medesimi: un Dio che eleva l’anima alla vera estasi, tirandola fuori di sé stessa mediante la sua divina virtù per farla entrare in sé medesimo e nei suoi interessi; Dio si appropria l’anima in tal modo che essa passa in Lui, dimentica tutto ciò che è in sé medesima e ciò che vorrebbe, se appartenesse ancora a sé. Dimodoché l’anima dimenticando completamente sé stessa e tutti i suoi propri interessi, abbandona tutti i suoi primitivi sentimenti; perduta nell’amore di Dio e passata in Dio contro sé stessa, diventa una stessa cosa e uno stesso spirito con Lui.

3. Appropriata così a Dio, l’anima diventa sposa di Dio e totalmente aliena dalla sua prima aderenza alla carne. Prima, essa era una medesima cosa con la carne che vivificava, ne amava gli interessi, ne assecondava i sentimenti e i desideri; ora invece, essendone interamente separata, tende a Dio nel suo intimo amore, s’investe degli interessi di Dio, delle inclinazioni, dei sentimenti e della vita di Dio, mentre non ha più che odio, opposizione e avversione contro la carne. – L’anima che è amica della carne ha desideri contrari allo Spirito (Tutte queste espressioni di G. Olier significano che lo Spirito Santo unisce intimamente a sé l’anima penitente e fa sì che essa si distacchi da sé medesima per darsi a Lui e rendergli gloria.), quindi è contraria a Dio, rivolgendo tutti i suoi desideri verso le creature e verso tutto ciò che dà gusto e soddisfazione alla carne. Ed è cosa miserabile questo voler obbligare lo Spirito a mettersi dalla nostra parte; è segno che la sua azione in noi è debolissima e che la carne lo ha vinto, costringendolo ad aver compassione della nostra delicatezza. In tal case lo Spirito in noi è come un Dio in fasce, un Dio bimbo e infermo, un Dio nella debolezza: allora si vede la carne tutta trionfante nella sua dominazione. Una tale inferiorità è più ignominiosa per lo Spirito Santo che se Egli non fosse in noi; perché se fosse assente, almeno non soffrirebbe un simile affronto: il suo nemico, è vero, trionferebbe, ma almeno senza combattere; la carne sarebbe meno gloriosa nel suo trionfo. Ma, avere un Dio presente, eppure trionfarne, calpestarlo, impedirgli di superare il proprio schiavo, anzi tenergli il piede sulla gola, è cosa spaventevole; è ciò che S. Paolo chiama: contristare lo Spirito Santo; è questo fare allo Spirito di grazia la più villana delle ingiurie (Ephes., IV, 30 – Hebr, X, 29). L’anima invece che è amica e sposa di Dio, cerca gl’interessi di Dio e non desidera che d’inabissarsi interamente in Lui. Dimodoché investendosi della natura della divinità, essa diventa nemica e vendicatrice di sé stessa, partecipando a quel fuoco divino che in essa opera i medesimi effetti di quello della fornace di Babilonia, il quale divorava i carnefici che lo alimentavano. La fiamma li investiva ed essi non avevano nemico peggiore di quel fuoco che i medesimi avevano acceso. – L’anima che vive in Dio, respinge e condanna continuamente la propria carne; esce dal suo Dio, simile ad un tizzone ardente; e in quella guisa che il tizzone, avendo preso la natura del fuoco, abbrucia, ciò che il fuoco medesimo abbrucerebbe, così anima trasformata in Dio che è un fuoco consumante, divora e distrugge il peccato, diventando ardente ed infiammata di zelo contro la carne e contro il peccato il quale abita nella carne. Così, secondo la misura dell’odio che l’anima porta a sé stessa, della riprovazione che fa della propria carne e dell’orrore che nutre verso il peccato, si deve giudicare della misura in cui lo Spirito di Dio sia stabilito e potente in essa; perché in verità, questo divino Spirito è padrone in noi nella misura in cui la carne gli è sottoposta; l’anima pure è trasformata nella natura di Dio nella misura in cui essa odia sé stessa (Odiando sé stessa, la sua carne e le cattive inclinazioni della nostra natura corrotta dal peccato, l’anima diventa sempre più unita a Dio ed acquista con Lui maggiore somiglianza soprannaturale.). Estasi felice quella che mette l’anima in un tale stato permanente di rinuncia a sé medesima: le fa dimenticare e trascurare ogni suo interesse e il suo essere proprio; la mantiene in tale stato di morte a sé stessa, in un tale trasporto e in una tale consumazione in Dio, che essa rovina e distrugge sé medesima, senza risentirne, ovvero, se ne risente, non tralascia perciò di annientarsi perfettamente. Beata quell’anima che, investita della vita e dello zelo di Dio, non ha più nulla che sia rivolto a sé medesimo, né pensiero. Né stima, né volontà, né inclinazione, né movimento, ma vive sempre in Dio senza mai uscirne! Una tale estasi, quanto è differente da quelle estati passeggere che momentaneamente trasportano l’anima in Dio con un rapimento di gioia e di consolazione! Passati questi rapimenti momentanei, la carne rimane ancora integra, col suo desiderio di essere ricercata, adulata, accarezzata; dimodoché facilmente l’anima ritorna al suo amor proprio e al desiderio del proprio interesse e spesso non ritiene nulla di ciò che Dio sovranamente desidera; perché ciò che Dio desidera è l’annientamento della creatura, l’annientamento della ricerca di noi stessi e della inclinazione che ci porta alla propria soddisfazione e alla pienezza di noi medesimi.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 11

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 9

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (9)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VII

Della virtù di penitenza

III.

L’esercizio della penitenza in ispirito

Colui che aderisce a Dio è un solo spirito con Lui: Chi sta unito col Signore, è un solo spirito ‘con Lui (1 Cor. VI, 17). Ne consegue necessariamente che l’anima, quando è intimamente unita a Dio si rende partecipe delle qualità, dei costumi, dei sentimenti, delle disposizioni di Lui; e perciò si investe anche dello zelo incessante della divina giustizia contro la carne, dimodoché il giusto corruccio di Dio contro la carne ed il peccato essendo impresso in quell’anima ed essendo essa animata dallo Spirito della divina giustizia, essa sì trova continuamente compresa di avversione e di condanna per la propria carne. – La carne tutta sta nel peccato e tende al peccato; la carne è tutta impregnata di ogni sorta di desideri impuri e, nel suo amor proprio e nella sua sensualità, non desidera nulla che per sé medesima; perciò Dio non può amare la carne; ma al contrario sempre la respinge e condanna ( Giov. Olier non vuol dire che tutto quanto l’uomo fa sia peccato, come potrebbe pensare chi guardasse superficialmente le sue espressioni; egli fu sempre strenuo della verità cattolica contro Protestanti, Bajanisti. E Giansenisti. La parola carne qui è presa nel suo senso peggiore, è quella che ha desideri contrari allo Spirito e le cui opere sono descritte da San Paolo nel capo V dell’Epistola ai Galati; quell’anima che nostro Signore ci comanda di odiare; che bisogna crocifiggere con i suoi vizi e le sue concupiscenze; quella inclinazione prepotente al male che portiamo in noi in forza del peccato originale; chi la segue non può piacere a Dio). Così l’anima quando sia passata in Dio, investita dallo zelo e dalla santità di Dio, riprova, condanna ed annienta in sé medesima tutti i desideri perversi che senza posa si innalzano nella propria carne per la soddisfazione dei sensi. Gli occhi, per esempio, secondo i desideri della carne, tendono a ciò che può dar loro gusto e soddisfazione, quindi cercano senza posa nelle creature quanto può contentarli; così pure tutti gli altri sensi esterni e interni. Ma lo Spirito che ha preso possesso dell’anima nostra, vedendo e sentendo in noi le inclinazioni e i desideri impuri che sono i segni della vita della carne e l’espressione della volontà ch’essa ha di soddisfarsi, non manca di imprimerci un sentimento di ripulsa contro questa vita della carne, e di portar l’anima nostra a resistervi, a guardarsi bene dall’aderire ad essa o dal soddisfarla con la ricerca e l’uso di ciò ch’essa desidera. Lo Spirito porta pure i sensi a privarsi di tali cose e a starne lontani, appunto perché sono desideri impuri della carne, la quale va castigata nel suo amore disordinato e nella sua funesta concupiscenza che la porta sempre ad accontentare sé stessa invece di Dio, mentre Dio è il nostro unico fine a cui dobbiamo tendere, secondo il dovere essenziale e capitale della nostra vita. È questa l’azione costante delle Spirito di penitenza, il quale ci porta alla mortificazione di noi stessi e all’intima repressione degli eccessi della nostra carne. Quando questa sia ben castigata, in modo che non goda nessuna soddisfazione inutile, essa si trova in istato di penitenza violentissima e penosissima, che conduce agli estremi; sono spesso agonie affannose, sensibilissime per quelli che sono fedeli a mortificarla e a privarla di ogni inutile soddisfazione.

IV.

Motivi e sentimenti di penitenza.

In onore di Gesù Cristo, e in unione con Lui penitente davanti a Dio, per i miei peccati e per quelli di tutto il mondo, protesto di voler far penitenza in tutti i giorni della mia vita, e di considerarmi in ogni cosa come un povero e miserabile peccatore, come un penitente indegnissimo. A questo fine porterò sopra di me l’immagine di Gesù Cristo, penitente sovrano, ed essa, con la memoria della penitenza interiore e dell’amore del mio Salvatore, sarà per me il ricordo continuo dei motivi che mi obbligano a far penitenza. Sono obbligato a fare ammenda onorevole alla giustizia ed alla santità di Dio Padre; un tal dovere mi viene imposto dal suo amore, dalla sua bontà, e da tatti ì suoi divini attributi. Sono in dovere di far penitenza, perché  il Figlio di Dio l’ha fatta per i miei peccati, perché ha meritato per me la misericordia del Padre suo e insieme la grazia di poter compiere la mia penitenza, mediante l’adorabilissimo e preziosissimo tesoro del suo sangue sparso per me su la Croce. Sono in dovere di far penitenza, perché nel battesimo ho ricevuto il Santo Spirito di penitenza onde esserne animato e vivere nei suoi sentimenti in tutta la condotta della mia vita. Dio è giusto, perciò non può né deve perdere nessun diritto sulle sue creature; Egli non mancherà di esercitare sopra di esse una intera vendetta e di prendersi una rigorosissima soddisfazione; o in questo mondo coi suoi flagelli, o con castighi spaventevoli nell’altro.

V.

Pratica della virtù di penitenza.

Il peccatore deve: 1. tenersi sempre presente il suo peccato, 2. conservarsi in una continua confusione, davanti a Dio, davanti al mondo e davanti a sé medesimo, 3. Dolersi con Gesù Cristo dei propri peccati, sempre disposto a subire la vendetta della divina giustizia. – e ciò in unione con Gesù Cristo. – Gesù ha espiato l’avarizia, la superbia e la voluttà con la povertà, i patimenti corporali e più ancora coi dolori interni dell’anima.

L’anima penitente in Gesù Cristo, rivestita dello spirito di penitenza di Gesù Cristo, deve formarsi le medesime disposizioni di Gesù Cristo e assimilarsi la forza e la virtù delle pratiche di Gesù Cristo.

***

1° Il peccatore, ad imitazione di Gesù Cristo che si è costituito peccatore e penitente per noi (Qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum, fecit. II Cor. V. 21.); deve sempre tenersi il suo peccato davanti a sé (Peccatum meum contra me est semper. Ps., 4, 5); questa vista continua sarà il fondamento degli altri doveri che i suoi peccati gli impongono verso Dio.

2° Il peccatore, in conseguenza dei suoi peccati, deve, con Nostro Signore, portare sul proprio volto una perpetua confusione; portare una tale confusione dapprima davanti a Dio, come Gesù Cristo che portò davanti al Padre suo la vergogna delle nostre offese, secondo quelle parole Di confusione è stato coperto il mio volto (Operuit confusio faciem meam. Ps. LXVIII, 8); inoltre, restar confuse davanti a tutto il mondo, come ha fatto ancora il Figlio di Dio, il quale dice per bocca del Profeta: « Mi sono allontanato e ritirato dal mondo per dimorare nella solitudine; sono stato forestiero e pellegrino tra i miei fratelli (Ps. LIV, 8 – LXVIII, 9), vale a dire, fra gli uomini e tra i figli santi della Chiesa; avevo vergogna di stare in mezzo a loro, essendo carico di delitti più che tutti gli altri e portando su me stesso l’orribile e vergognoso peso dei peccati di tutto il mondo. Effettivamente mi sono nascosto nella solitudine solo per un certo tempo, ma, in ispirito, vi rimango sempre come indegno di comparire davanti al mondo e tra gli uomini ». – In terzo luogo, dobbiamo essere confusi anche davanti a noi medesimi, non potendo sopportarci nella nostra miseria e nella nostra onta. Così pure, di se stesso diceva il Figlio di Dio per bocca del profeta: Sono diventato di carico a me stesso (Job. VII, 20); provavo gran pena a sopportare me stesso per l’obbrobrio che sentivo sopra di me per tutti quei peccati orribili e odiosi. – Dio, nella sua misericordia mi faccia la grazia di aver parte della santa luce di Gesù Cristo, luce che mi faccia vedere l’orrore dei miei peccati, e mi copra la faccia e lo spirito di confusione davanti al mondo e davanti a me Stesso, ma soprattutto davanti a Dio Padre, affinché io gli dica spesso col Figlio prodigo: « Padre del Verbo Incarnato, che non ardisco chiamar mio Padre, ho peccato contro il cielo, contro gli Angeli ed i Santi che vivono con Voi, ma soprattutto ho peccato contro di Voi medesimo; e col pubblicano, che non osava alzare gli occhi al cielo; « Abbiate pietà di me che sono peccatore ».

***

3° In seguito alla confusione che deve sentire per i suoi peccati, il peccatore deve inoltre averne il dolore e la detestazione insieme con Nostro Signore che visse nel sacrificio perpetuo di un cuore contrito ed angosciato per i peccati del mondo. In virtù dei meriti di Gesù Cristo e per la unione con Lui, Dio accetta la contrizione da parte di tutti gli uomini i quali, partecipando  allo Spirito di Gesù, piangono, gemono e sono contriti per i loro peccati (Ps. 4, 19). Eterno Padre, per l’amara contrizione e l’abisso dei dolori interni del Figlio vostro (Thren. II, 12), datemi parte al divino Spirito della sua santa e dolorosa penitenza. Il vero penitente dopo tante sue colpe, nella confusione e riprovazione di sè stesso, deve sottomettersi per tutti i momenti della sua vita alla giustizia eterna, infinita e onnipotente di Dio, rimanendo sempre disposto a subire tutti gli effetti della sua vendetta, tutti i castighi che si compiacerà di imporgli. – A questo fine dobbiamo, noi peccatori, vivere sempre in unione di spirito con Gesù Cristo vivente e morente in croce in pena delle nostre colpe, perché il valore della soddisfazione di Gesù, essendoci comunicato, impreziosirà le nostre pene e santificherà i nostri travagli; questi sono sempre leggeri, meschini e sproporzionati alle nostre colpe, ma il merito adorabile di Gesù li renderà accettabili alla giustizia del Padre suo. – Gesù Cristo, dice S. Paolo, è morto per i nostri peccati; Egli era giusto ed ha sofferto per gl’iniqui (Rom. IV, 25); onde presentarci a Dio suo Padre come penitenti mortificati crocifissi nella nostra carne da uno spirito di penitenza, animando così, Egli stesso, i nostri cuori, come da nuova vita, dal desiderio di vendicare sopra di noi medesimi i nostri delitti. – I tre grandi peccati che riempiono il mondo sono: l’avarizia, la superbia e la voluttà; orbene a tre sorte di pene possono pure ridursi le immense soddisfazioni che Gesù Cristo Nostro Signore ha rese al Padre suo sulla Croce, e le pene esterne che Egli ha sofferto: estrema povertà, estrema confusione, estremi dolori nel suo corpo; tre sorte di patimenti ordinati a distruggere i suoi nemici capitali che sono pure tre: il mondo, il demonio e la carne. – La Scrittura, in parecchi luoghi, fa espressa menzione di questi tre patimenti. In merito alla povertà, la quale apparve più completamente sulla Croce, essa dice: Essendo ricco, si è fatto povero per noi. In merito alla sua vergogna e confusione, Egli stesso dice: Sono un verme della terra, l’obbrobrio degli uomini, il rifiuto del popolo. In merito ai patimenti che Gesù soffrì nel suo corpo, il Profeta dice: Non v’è nel mio corpo una minima parte che non sia colpita dal dolore (Isa, I, 6). Ma tutti questi mali erano ben poca cosa in confronto delle pene interne e dell’abbandono interiore che Gesù subiva nell’anima; di questo unicamente Egli si lamentava su la Croce: « Dio mio. Dio mio, perché mi avete abbandonato? » (Matt. XXVII, 46) Il profeta parlando di questo estremo della sua atroce afflizione dice di averlo visto non solo come un lebbroso, da cui stillava da ogni parte fetida marcia, ma pure come colpito nell’anima dalla vendetta di Dio corrucciato contro di Lui; perché era carico dei peccati di tutti gli uomini che insorgevano contro la Maestà divina (Isai, LIII, 4). Gli obbrobri e le ripulse, le oppressioni e i castighi meritati dai peccati che insorgevano contro di Voi, o mio Dio, sono caduti sopra l’anima mia e mi hanno causata la morte. Mi han fatto morire in uno spaventevole accasciamento nel quale immensamente soffrivo per il prolungato ritardo del mio ritorno a Voi e della mia perfetta unione con Voi nella gloria. In questo sta il colmo enorme e spaventoso dei dolori di Gesù, di Gesù infinitamente santo e amante di Dio suo Padre. Egli non respira che l’amore del Padre, non sospira che gli attestati della sua benevolenza, e vedersene respinto da un eccesso terribile e spaventoso della sua ira e del suo furore! Nella previsione di questo dolore spaventevole Egli diceva al Padre: Padre se è possibile, passi da me questo calice » (Matt. XXVI, 29), e parecchie volte per bocca del Profeta: «Dio mio, non mi riprendete nel vostro furore » (Ps. LVII, 1); sopporterò quanto vi piacerà, ma risparmiatemi questo effetto orribile della vostra collera, perché, a paragone di questo, tutti i dolori corporali non sono niente, né sono capaci di saziarmi: Sitio, ho sete ancora di pene esterne; perciò datemi di poter soffrire ancora dopo la mia morte nella mia Chiesa. e che i miei membri bevano al mio Calice, affinché facciano penitenza con me ed Io faccia penitenza in essi.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 8

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (8)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR: In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935, F. MOZZANICA V. G.

CAPITOLO VII

Della virtù di penitenza

Spirito di Gesù. — Davide e San Paolo animati da tale spirito. — Si ottiene con la preghiera; modo di ottenerlo.

La virtù di penitenza è interiore ed esteriore. La penitenza interiore, che è la principale e dà alla penitenza esterna il suo valore, comprende tre disposizioni necessarie: l’umiliazione, la contrizione e l’oblazione di sé stesso alla divina giustizia per subire tutti gli effetti della vendetta che le piacerà d’infliggerci. – Lo spirito di penitenza è lo spirito medesimo di Dio, che è stato infuso dapprima in Gesù Cristo, e in seguito da Gesù Cristo diffuso nella sua Chiesa; esso opera nelle anime vari sentimenti e vi imprime specialmente i sentimenti di penitenza. Ciò si osserva nella persona di Davide, che in anticipazione, come figura del Figlio di di Dio penitente, aveva ricevuto l’abbondanza di tale spirito. Si vede che l’anima di Davide, per l’azione dello spirito di penitenza, era rivestita di quei sentimenti e di quelle disposizioni di cui abbiamo l’espressione nei Salmi che vennero dati alla Chiesa per sollievo e consolazione dei veri penitenti. Questi restano oltremodo consolati nel vedersi animati da sentimenti conformi a quelli che sono espressi nella Scrittura; perché la Scrittura è la regola della loro condotta e della loro vita. Essa esprime la vita interiore di Gesù nelle anime, vita che deve essere la medesima in esse come in Gesù; e questo si è verificato nei suoi membri, sia in quelli che lo hanno preceduto, come in quelli che lo hanno seguito nella Chiesa. S. Paolo nel nuovo Testamento, e Davide nell’antico, esprimono l’interiore penitente di Gesù Cristo. Dalla identità delle espressioni che adoperano l’uno e l’altro, si riconosce chiaramente che furono ispirati dal medesimo Spirito, il quale in Davide prima della venuta di Gesù Cristo, e in San Paolo dopo il ritorno di Lui al Padre, ha operato i medesimi effetti. Davide dice che è stato compreso di timore, di terrore e di spavento alla vista dei giudizi di Dio: Timor et tremor (Ps. CXVIII, 120). S. Paolo ci fa sapere che il timore e le ansie interne non gli causavano minori angosce che le calunnie e le persecuzioni che gli provenivano dai suoi nemici. (II. Cor. VII, 5). Davide nella sua qualità di penitente ci attesta che era disposto a subire nel suo corpo tutto quanto un delinquente deve soffrire (Ps. XXXVII, 18); Paolo ci dice che trattava il proprio corpo come uno schiavo, castigandolo severamente (I. Cor. IV, 27). L’uno e l’altro ci attestano così, con l’espressione dei loro sentimenti, la conformità che esiste tra i penitenti, sie dell’antico come del nuovo Testamento, con Gesù Cristo penitente, il quale, nel suo interiore, era pieno di timore e di terrore alla vista dei giudizi e dei rigori del Padre suo corrucciato contro di Lui, mentre eternamente era colpito dall’odio e dalla persecuzione dei Giudei che lo cercavano per metterlo in croce. In questo stato Gesù continuamente offriva sé stesso al Padre suo per sopportare, nel suo ardente desiderio di dargli soddisfazione, tutti i tormenti che avrebbe sofferto da parte dei Giudei, in penitenza dei nostri peccati. Nel leggere i Salmi, bisogna dunque onorare in Davide lo spirito di penitenza di Gesù Cristo, e con grande religione e raccoglimento venerare le disposizioni dello spirito interiore di Gesù Cristo, fonte di ogni penitenza, che era diffusa nel santo Salmista; bisogna inoltre, con un cuore umiliato, implorare con insistenza, fervore e costanza, ma sopra tutto con umile confidenza, che quello spirito ci venga pure comunicato.

***

Se dopo di aver implorato l’effusione di questo Santo Spirito di cui vediamo gli effetti nell’anima del santo re Davide, non sentiamo in noi in modo sensibile, le medesime disposizioni; non dobbiamo tuttavia rattristarci. Perché dobbiamo sapere che, nella preghiera animata dallo Spirito, non vi sarà da parte nostra il minimo sospiro, che da Dio non attiri qualche bene sopra di noi e in noi: Dio non rifiuta nulla allo Spirito che prega in noi, ma sempre lo esaudisce, come sempre esaudisce Nostro Signore a motivo della sua riverenza (Hebr. V., 71). Sta scritto ancora che nessuna parola interiore si innalzerà a Dio, che non venga esaudita e non ritorni a noi col suo frutto (Ps. CXVIII, 131; Isai, LV, 11). Dio con la sua parola si è impegnato a concedere alla preghiera dell’uomo il dono di questo Spirito che è il cibo dell’anima. Lo dà alla sua Chiesa secondo il bisogno dei suoi figliuoli; a ciascuno dei pargoli che lo domandano Egli distribuisce questo pane. Ma questo divino Spirito, a motivo della sua purezza, è insensibile nella sua azione; quando si dà all’anima come cibo e alimento, lo fa in modo impercettibile. L’anima realmente lo riceve in sé stessa e cresce nella virtù di esso, ma senza averne coscienza. Così, non si vede, né si sente l’aumento di questo spirito, perché consiste in una grazia insensibile, ricevuta nel fondo dell’anima dove non c’è sensibilità. Non si vede crescere il corpo dell’uomo, benché nutrito da una sostanza sensibile; non si vede muoversi la sfera di un orologio, benché il movimento ne sia sensibile; non è quindi da meravigliarsi se non si possono percepire coi sensi le azioni di quel divino Spirito; ma soltanto bisogna aver fede e fidarsi della parola di Dio, il quale concede tutto alla preghiera; e pregare con umiltà, ma con fiducia in Dio, tenendo l’anima nostra aperta davanti a Lui per ricerverne le operazioni. – Potrà darsi che mentre leggiamo i salmi, la bontà di Dio produca nel nostro cuore disposizioni e sentimenti in conformità con ciò che leggiamo, e che proviamo quindi nel cuore una certa operazione di spirito che ci farà gustare ciò che meditiamo e seguire con attenzione, con intelligenza, con compiacenza le parole di Davide: in tal caso non dovremo interrompere questa operazione per continuare le nostre suppliche; bisognerà fermarci lì perché così saremmo esauditi prima di pregare; la meditazione otterrebbe il suo fine nel suo inizio medesimo; le nostre preghiere sarebbero in tal modo prevenute e noi riceveremmo così gratuitamente ciò che i fedeli servitori e le anime forti ottengono dopo molte preghiere e molte umiliazioni. – Daremo un esempio; se nel leggere questo versetto: Domine ne in furore tuo arguas me, neque in ira tua corripias me,Signore, non mi riprendere nel tuo furore e non mi castigare nell’ira tua (Ps. VI, 2), avvenisseche ci fosse data l’intelligenza di questeparole, e che esse facessero sorgere nelpiù intimo di noi stessi una prece e undesiderio conformi a quel di Davide; seavvenisse che ci sentissimo umiliati davantia Dio, domandandogli che nel suo fervore non ci condanni, né ci giudichi nella sua ira, e che questo sentimento tenesse la nostra anima tutta impegnata in un santo fervore al cospetto della divina Maestà, non bisognerebbe cercare nessun’altra occupazione, perché qui vi sarebbe un segno della operazione di Dio; bisognerebbe stare in pace in questo stato, e lasciare operare lo Spirito, cibandoci di questa disposizione. – Che se lo Spirito cesserà di nutrirci o di tenerci occupati in quel modo, allora potremmo passare ai versetti che seguono: ché se infine Dio ritirasse la sua operazione sensibile dall’anima nostra, lasciandocinell’aridità della pura fede, potremmo metterci a pregare in altro modo, servendoci di altro metodo com’è quello che abbiamo esposto più sopra.

I.

Varie sorta di penitenze interiori.

Abbandono a Dio per subire la pena interiore dei nostri peccati. — Gesù Cristo penitente: quanto ha patito. — La penitenza interiore è la più necessaria. — Esempio di Gesù che si assoggetta a San Giovanni.

Dobbiamo abbandonarci a Dio, pronti a sopportare ogni aridità e desolazione, ogni timore, ogni tristezza e ogni dolore, tutti effetti questi di quella penitenza interiore che viene da Dio e non è conosciuta che da Lui solo, e da quelli che la esercitano. Bisogna abbandonarci alla divina giustizia per subire i terrori dei suoi santi giudizi, le ripulse interiori ch’essa ci fa sentire delle nostre anime e di tutte le opere nostre, per sopportare i rigori dei suoi rimproveri e delle sue riprensioni.

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Era questo lo stato di penitenza interiore in Gesù Cristo, e le sue pene interiori sorpassavano infinitamente i dolori esterni. Gesù fin dal primo momento dell’incarnazione si era abbandonato a Dio per subire questi stati di penitenza, e li ha sempre portati durante la sua vita mortale, perché era venuto in questo mondo per fare la penitenza interiore ed esterna dovuta ai peccatori (Psalm., XXI, 11; XXXVII, 18; Isai, I, 6.). – Gesù Cristo non solamente ha sopportato ogni pena e ogni dolore nelle sue membra per soffrire in tutto il suo corpo, perché i peccatori si prendono soddisfazioni peccaminose in tutte le parti del loro corpo; ma inoltre, ha subìto la massima delle pene corporali dovute al peccato, ossia la morte. Si è fatto obbediente sino alla morte e sino alla morte della Croce che è la più estrema delle pene corporali; questa pena Gesù ha voluto tenersela sempre davanti agli occhi. Durante tutta la sua vita; nell’orto degli ulivi poi ha voluto sentire tutta l’amarezza e l’acerbità nella sua dolorosa agonia. Non solamente ha sofferto le pene esteriori nel massimo grado, ma ancora le pene interiori in tutta la violenza delle passioni alle quali lasciava ogni libertà, perché insorgessero in Lui e lo affliggessero in ogni modo nella parte inferiore dell’anima sua. – Ha sopportato nel suo spirito la vista del disprezzo, della ripulsa, dell’abbandono e dei rigori dell’Eterno Padre che l’aveva caricato della vergogna e della confusione meritata da quei peccati che pur non aveva commessi (Improperia improperantium tibi ceciderunt super me. Ps. LXVIII. 10). Gesù sottostava al rimprovero obbrobrioso che Dio fa ai peccatori nel giudicarli e condannarli, e ciò gli faceva esclamare: Dio mio!… la voce dei miei delitti mi allontana dalla salute (Ps. XXI 2). – Non solo si vedeva circondato da tutti i peccati degli uomini, i quali,  di loro natura, insorgono con audacia contro Dio: per Gesù era questo un peso insopportabile; non solo Egli era oppresso dalle grida e dalle bestemmie che tutti questi peccati vomitano contro la divina Maestà, ma ancora dalla bocca del Padre riceveva le invettive e gli obbrobri dovuti al peccato di cui portava il carico, ed erano questi come altrettanti colpi di tuono che lo schiacciavano e con un giudizio severo e terribile lo respingevano dal Padre.

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Bisogna che un’anima si offra a portare in sé medesima la penitenza interiore nella quale Dio Padre talora da sé medesimo e per la sua propria giustizia mette le anime, penitenza che Lui solo sa operare in noi; è questo l’estremo abbandono cui l’anima possa venir ridotta. Di questa pena parlava Nostro Signore soprattutto nella descrizione delle pene della sua morte. Di questa diceva dapprima, facendo poi un cenno anche alle altre pene esterne. Il salmo Deus, Deus meus, ut qui dereliquisti me? si riferisce soprattutto alle pene interne, in confronto delle quali dolori esterni erano un nulla.Così in confronto della penitenza interiore,ha ben poco valore l’esercizio esterno della penitenza, come il digiuno, la mortificazione corporale, l’astinenza dai piaceri sensibili. Un solo istante di penitenza interna vale più di tutto il resto senza di essa (È da ammirarsi la moderazione con cui, in questo tratto, il servo di Dio parla della mortificazione corporale, soprattutto se si riflette che a quel tempo le macerazioni erano molto in uso ed egli stesso trattava il suo corpo con grande durezza. I santi mentre sono crudeli, si passi la parola, con sé medesimi, sono miti con gli altri. Ci si permetta di ricordar qui un aneddoto della vita del servo di Dio. Padre Yvan, oratoriano di grande austerità, ma rude anche con gli altri, venne un giorno a far visita a Giov. Olier e lo trovò a pranzo coi suoi sacerdoti; la tavola era servita senza lusso, ma pure senza ostentata austerità, trattandosi di preti che seguivano la via comune e dovevano faticar molto. Il Padre Yvan ne restò scandalizzato, e con franchezza eccessiva ma che si doveva compatire per la sua età avanzata, ne mosse rimproveri severi e quasi offensivi al servo di Dio; questo accettò la correzione con sincera umiltà ringraziando il Signore di aver trovato infine una persona che lo avvisasse dei suoi difetti, e se ne dimostrò gratissimo con tutta naturalezza. Padre Yvan durante tutto il colloquio, tenne l’occhio fisso sopra Giov. Olier, e vedendo la dolcezza con cui accettava la rude correzione, ne restò tutto stupito e riconobbe che, pur prendendo il suo cibo secondo il suo bisogno, era mortificato come i più austeri penitenti; e da quel momento lo tenne in una stima particolare, a segno che andava dicendo in ogni occasione: « Il Sig. Olier è veramente un santo, è morto, in lui la natura è spenta»; e si mise a lavorare anche lui al servizio del Seminario fondato di Olier e della Parrocchia di San Sulpizio. La grazia dei santi, non essendo la medesima in tutti, la durezza apparente del Padre Yvan non toglieva nulla alla grande stima che da ogni parte si professava della sua persona e dei suoi consigli. – Cfr. Faillon, Vita di Olier. II, pag. 114). – Questo stato di penitenza interiore opera d’un colpo nell’anima le disposizioni lella penitenza vera e reale, ossia della penitenza essenziale dello spirito. Perché le sue impressioni producono in noi un profondo annientamento e una grandissima confusione, la condanna, l’orrore e la contrizione del peccato, l’umiliazione dell’anima e la sottomissione agli effetti della santa giustizia di Dio sopra di noi. – Beata l’anima che raggiunge uno stato di purezza interiore tale da renderla adatta a subire gli effetti della giustizia divina. Ché se Dio per la nostra infermità o per le nostre disposizioni particolari, non ce ne giudica degni, dobbiamo abbandonarci a Lui per sopportare almeno tutto quanto Egli si degnerà di disporre a nostro riguardo, sia direttamente con la sua divina mano che si estende anche al nostro interiore, sia per mezzo delle creature, come pure talora per mezzo dei demoni. Dio infatti impiega anche i demoni per darci il mezzo di far penitenza; essi ci opprimono quindi con tentazioni oltremodo veementi, dolorose, odiose e spaventose, come quelle di bestemmia, di impurità, di disperazione, d’infedeltà, di gelosia e di tristezza, le quali sono più penose dei patimenti naturali ordinari. – Dio inoltre si serve anche degli uomini per castigarci ed esercitare sopra di noi le vendette della sua giustizia; così, i servi ed i domestici ci saranno molesti, perché pigri, negligenti e infedeli; gli estranei ci saranno di peso e di noia per il loro carattere antipatico, ci daranno incomodo con le loro visite importune, e forse lasceranno capire il foro desiderio di soppiantarci, di tradirci e di burlarsi di noi.  Anche il nostro confessore sarà per noi strumento di penitenza, perché  ci imporrà delle mortificazioni in nome di Dio e secondo ciò che Dio gli ispirerà; ma questo ci dà minor fastidio, perché noi gli siamo sottoposti per nostra volontà ed accettiamo con amore ciò che ci impone.

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In tal modo Nostro Signore si sottomise a S. Giovanni Battista che teneva il posto dell’Eterno Padre dal quale era stato mandato. Dalla mano di Giovanni Egli ricevette il battesimo che significava l’obbligo della penitenza; così da Giovanni venne pure caricato dei peccati di tutto il popolo. Il capro emissario dal Sommo Pontefice veniva caricato di tutti i peccati d’Israele e poi scacciato nel deserto; di questo rito figurativo san Giovanni realizzò il significato: notiamo che il Battista era figlio di Zaccaria e quindi apparteneva alla stirpe sacerdotale, benché non ne esercitasse la funzione esterna a motivo che era riservato per un’opera più santa di quella della Legge, opera che dava il suo compimento a tutta la penitenza della Legge. Da Lui Gesù Cristo venne, da parte di Dio Padre, caricato anche esteriormente dei peccati di tutto il mondo. Dopo di ché lo Spirito Santo lo cacciò nel deserto come il capro emissario, come la vittima pubblica del peccato, per dare soddisfazione a Dio. Con questo spirito dobbiamo ritirarci nel deserto con Gesù Cristo, lasciando che lo Spirito vi ci conduca e ci separi dal consorzio del mondo, dalla società dei fedeli ed anche dalla gente per bene, per metterci, in ispirito, fuori di quella vita alla quale dobbiamo morire interiormente.

Il.

Dello spirito di penitenza

Lo spirito di penitenza di Gesù Cristo, principio della sua penitenza – Gesù Cristo penitente pubblico e universale, vuole continuare la sua penitenza nel suo Corpo mistico e in ciascuno di noi. – Sete di patimenti in Gesù. – La sua penitenza esteriore è più estesa. — Perfezione dei sentimenti e delle minime azioni di Gesù. – Per essere veri penitenti dobbiamo unirci al divino interiore di Gesù, abbandonarci al suo spirito, accettando quella misura di penitenza che vuole da noi.

Nostro Signore è la pienezza della penitenza; Egli ne porta in sé stesso lo spirito e ne riveste tutta la Chiesa; dimodoché tutta la penitenza che compare al di fuori e all’esterno, se è vera e reale, emana dallo spirito interiore di penitenza che trovasi in Gesù Cristo, donde si diffonde in noi. – Ogni penitenza esterna che non derivi dallo Spirito di Gesù Cristo, non è penitenza vera e reale: Potremmo praticare mortificazioni rigorose ed anche acerbissime, ma se non emanano da Nostro Signore penitente in noi, saranno penitenze cristiane. Unicamente per mezzo di Gesù si fa penitenza; Egli ha incominciato la penitenza quaggiù su la terra nella propria Persona, e la continua in noi, dilatando nei suoi membri ciò che aveva compendiato in sé medesimo. – Non dico soltanto che la penitenza deve farsi per mezzo di Gesù, vale a dire, per i suoi meriti e per la sua grazia; ma dico che la dobbiamo fare realmente in Lui, vale a dire, che Egli, nel suo Spirito, deve esserne il principio. Gesù deve investire l’anima nostra delle disposizioni interiori di annientamento, di confusione, di dolore, di contrizione, di zelo contro di noi medesimi e di forza per esercitare sopra di noi la soddisfazione, in quella misura di pena che Dio Padre vuole ricevere da Gesù Cristo nella nostra carne. –  Gesù Cristo è il Penitente pubblico ed anche il Penitente universale (Bourdelou: « O profondità ed abisso dei disegni di Dio! Tale è la qualità  (di Penitente) che il Salvatore del mondo ha voluto assumere ed ha tanto santamente quanto costantemente sostenuta in tutto il corso della sua adorabile passione … Siccome, secondo la Scrittura, la vera penitenza consiste soprattutto in due cose: la contrizione che ci fa detestare il peccato, e la soddisfazione che lo deve espiare; così, quando dico un Dio Penitente, intendo un Dio compreso dalla più viva contrizione alla vista del peccato dell’uomo, un Dio che ha sacrificato sé medesimo, soddisfa in pieno  il vigore della giustizia, re della giustizia, per il peccato dell’uomo: due obbligazioni che Gesù Cristo aveva prese sopra di sé sino dal primo istante della sua vita e che adempì esattamente nel giorno della sua Passione ». Sermone sulla Passione.); Lui, Lui solo, fa penitenza in noi. Gesù Cristo carica il corpo della Chiesa di strumenti di penitenza e li porta Egli stesso nei Cristiani che sono le sue membra; come avrebbe voluto usarne sulla terra e portarli, Lui solo, nel suo corpo reale, se questo non fosse stato troppo debole e troppo piccolo. Per questo, Gesù Cristo ha voluto, per mezzo della sua Chiesa, dilatare e allargare il suo corpo (Ecclesia quæ est corpus ipsius, et plenitudo ejus. – Eph. I,  23); con la diffusione del suo Spirito, Egli riveste la Chiesa delle industrie della sua penitenza, e così Egli dà soddisfazione a Dio suo Padre nel suo corpo mistico come in un supplemento di sé stesso; Egli soddisfa lo zelo interiore ed i desideri che il suo spirito avea di soffrire, desiderio che non ha potuto saziare nella sua sola Persona. Egli ha preso per sé una parte soltanto della penitenza esteriore, e l’altra la distribuisce fra i singoli suoi membri (Adimpleo era quæ desunt passionum Christi. Col.,  I, 24); ma per se stesso ha riservato fa pienezza dello Spirito interiore, dal quale in tutti i suoi membri vengono compiute tutte le operazioni esterne. – L’interiore di Nostro Signore è più esteso del suo esterno; perché nel suo proprio Spirito Egli contiene l’interiore di tutti i fedeli; mentre nel suo corpo non ebbe che quella penitenza esterna che era ordinata dal Padre suo e che Egli accettò. Orbene, siccome quest’interiore di Gesù Cristo era nascosto, il Padre ha voluto fosse manifestato; ha voluto che la sete ardente che Gesù provava su la Croce, quella sete che gli strappava quell’esclamazione: « Ho sete » (Joan. XIX, 28), fosse conosciuta e che gli uomini ne avessero la spiegazione. Era quella una di soffrire per il Padre suo e per la Chiesa, sete che indicava l’ardore della sua penitenza e il fuoco che infiammava il suo cuore di zelo contro sé medesimo, per distruggere il peccato. – Egli dava ad intendere, con quella esclamazione, che un corpo, benché sia oppresso, consumato e distrutto, benché sia ridotto agli estremi dell’agonia, come era il suo corpo sulla Croce, deve nondimeno vivere nello spirito di penitenza; e che il desiderio di soffrire per i nostri peccati e per tutti coloro che nella Chiesa hanno offeso e offendono ancora la Maestà di Dio, deve sempre rimaner acceso nel nostro cuore. Da qui noi veniamo a conoscere quel comune spirito di penitenza del quale debbono investirsi tutti i membri di Gesù Cristo, col darsi interiormente allo spirito di penitenza della Chiesa. Questo Spirito di penitenza della Chiesa è lo Spirito medesimo di Gesù Cristo ch’Egli diffonde e dilata nei suoi membri, onde avere un amore e uno zelo universale di soddisfare al Padre suo, nella propria sua Persona, per tutti i peccati del mondo. Così Gesù Cristo, con questo Spirito universale, mediante questo Spirito e in questo Spirito, vuole essere presente in tutti i suoi membri per dare, in tutti e in ciascuno, soddisfazione e compiacenza alla divina Maestà.

***

Ed è questa la seconda unione di penitenza che dobbiamo avere con Gesù Cristo. Dobbiamo in primo luogo renderci partecipi della penitenza di Gesù Cristo, facendo penitenza in Lui medesimo. In secondo luogo, dobbiamo unirci pure con Gesù Cristo penitente nei suoi membri, onde investirci di tutti i sentimenti della penitenza interiore, e questa non deve avere limiti in noi, ma deve oltrepassare infinitamente la misura di quella penitenza esterna che dobbiamo esercitare sui nostri corpi. Dio tutto pesa con la misura dello spirito: Egli vede quanto nelle nostre opere vi è dello Spirito divino, e le stima secondo tale misura; perché nelle opere nostre non v’è nulla che meriti stima, se non ciò che viene da Lui mediante il suo Spirito. Donde avviene che in Gesù Cristo ogni minima azione sorpassava tutte le fatiche dei Santi Apostoli e di tutta intera la Chiesa; a motivo della pienezza dello Spirito, della scienza, della luce e dell’amore, ogni minima azione era, in Lui, animata da sentimenti, intenzioni e disposizioni tutte divine, per onorare Iddio. – Infatti, la pienezza dello zelo, della forza, della purezza, che riempiva le opere di Gesù, dava ad esse davanti a Dio, maggior valore e maggior efficacia di tutto quanto dalla Chiesa intera viene meritato o potrebbe essere meritato. Benché animata dal medesimo Spirito, la Chiesa non opera con l’immensità della divinità, con la quale quel divino Spirito operava in Gesù Cristo. In tal modo, benché la Chiesa esprima all’esterno una parte dei pensieri che l’amore della penitenza eccitava in Gesù, per dare soddisfazione al Padre suo; non abbiamo nulla, tuttavia, nella Chiesa medesima che esprima perfettamente l’intensità dei desideri e la forza degli atti interiori di Gesù; non abbiamo nulla che esprima il peso immenso dell’amore del suo Cuore, e l’infinità del suo zelo per dare soddisfazione e compiacimento al Padre suo. Qualche cosa, è vero, se ne può conoscere per la gravezza dei rigori che il suo Spirito opera nella Chiesa, e per la diversità delle pene e sofferenze che Egli stesso porta nei suoi membri, i quali gli servono a compiere e terminare la sua penitenza, ma l’intensità e la perfezione dei suoi sentimenti, soltanto l’eternità ce le potrà svelare. Nulla ce le può manifestare in questa vita, come dice S. Ambrogio: Nessuno quaggiù potrà mai intendere perfettamente l’interiore di Gesù. (Dei consilium humana vota non capiunt, nec quisquam interiorum potest esse particeps Christi).

***

Dobbiamo unirci a questi divini sentimenti di Gesù Cristo, per essere rivestiti di Lui nell’intimo dell’anima nostra. Una tale unione con Gesù Cristo, questa partecipazione al suo spirito è ciò che dobbiamo soprattutto ricercare, perché è ciò che vi ha di più prezioso nella penitenza ed è anche il fondo ogni virtù. Dobbiamo essere penitenti in Gesù Cristo e inebriati in Lui dello Spirito delia vera penitenza: questo Spirito opera dapprima in noi e sopra di noi tutta la penitenza esteriore, la quale non è che una dipendenza, un getto tenuissimo, e come un segno e un’espressione della penitenza interiore; ma poi produce in noi questa penitenza interiore in proporzione della pienezza e dell’abbondanza dello Spirito. Secondo la dottrina di S. Paolo, lo Spirito nei Santi opera insieme e supplica secondo i disegni di Dio, (1 Cor, XII, 6, 11), perciò nel suo zelo ci porta a castigarci noi stessi, e a prestare soddisfazione a Dio; e noi dobbiamo obbedire a questo divino Operaio dei misteri di Dio, come a Colui che assiste ai consigli divini e penetra nel più profondo dei segreti di Dio (I Cor. II, 34). – Egli conosce la misura delle soddisfazioni che Dio esige da noi, e che noi ignoriamo: dobbiamo quindi abbandonarci a questo Spirito interiore, che è un mare e in oceano di penitenza interiore e divina, e protestargli che siamo, con intero abbandono, pronti e disposti a tutto, e che non rifiutiamo nessun castigo e nessun effetto della sua giustizia. Dobbiamo protestargli che siamo universalmente sottomessi a tutti gli ordini di Dio; e che, quando pure dovessimo perdere mille volte la vita nella penitenza, noi siamo pienamente disposti a tutto; che non vogliamo limiti nelle nostre sofferenze, poiché lo Spirito di Gesù Cristo, nel suo zelo, non può aver nessun limite riguardo a Dio suo Padre; che perciò noi abbracciamo in ispirito ogni sorta di pene, onde sopportare tutto quanto Dio desidererà di imporci, o direttamente per sé stesso, o per bocca e per ordine di colui che tiene per noi il suo posto sulla terra, ossia del nostro confessore in cui veneriamo la sua Maestà. In tal modo, bisogna essere uniti a Gesù Cristo penitente su la terra; e come Egli, quando dallo Spirito fu inviato e cacciato nel deserto per fare penitenza, si sottometteva agli ordini di Dio suo Padre, così dobbiamo accettare, in unione col suo Spirito e con le sue disposizioni, le penitenze, che ci verranno imposte. Bisogna accettarle rinunciando completamente al nostro spirito proprio, al nostro proprio giudizio ed alla nostra volontà propria, senza discutere né mormorare, abbandonandoci a tutto, ma senza far mai più di quanto ci sarà comandato.

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 9