DIFESA DELLA FEDE

DIFESA DELLA FEDE

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol. I, Paoline ed. – 1957, impr.]

… abile a trasformarsi in angelo di luce (II Cor. 11, 14), l’eterno nemico rivestì il suo apostolo [Nestorio] d’una duplice bugiarda aureola di santità e di scienza; l’uomo che più d’ogni altro doveva manifestare l’odio del serpente contro la donna ed il suo seme, si assise sulla cattedra episcopale di Costantinopoli col plauso di tutto l’Oriente, che si riprometteva di veder rivivere in lui l’eloquenza e le virtù d’un nuovo Crisostomo. Ma l’esultanza dei buoni fu di breve durata perché nello stesso anno dell’esaltazione dell’ipocrita pastore, il giorno di Natale del 428, Nestorio, approfittando dell’immenso concorso di fedeli venuti a festeggiare il parto della Vergine-Madre, dall’alto del soglio episcopale lanciò quella blasfema parola: «Maria non ha generato Dio: il Figlio suo non è che un uomo, strumento della divinità ». – A queste parole la moltitudine fremette inorridita; interprete della generale indignazione. Eusebio di Doriles, un semplice laico, si levò in mezzo alla folla a protestare contro l’empietà. In seguito, a nome dei membri di questa desolata Chiesa fu redatta una più esplicita protesta, diffusa in numerosi esemplari, anatemizzando chiunque avesse osato dire: « Altro è il Figlio unico del Padre, altro quello nato dalla Vergine Maria ». Generoso atteggiamento che fu allora la salvaguardia di Bisanzio e gli valse l’elogio dei Concili e dei Papi!

Quando il pastore si cambia in lupo, tocca soprattutto al gregge difendersi.

Di regola, senza dubbio, la dottrina discende dai Vescovi ai fedeli; e non devono i sudditi giudicare nel campo della fede, i capi. Ma nel tesoro della rivelazione vi sono dei punti essenziali, dei quali ogni cristiano, perciò stesso ch’è cristiano, deve avere la necessaria CONOSCENZA e la dovuta CUSTODIA. Il principio non muta, sia che si tratti di verità da credere che di norme morali da seguire, sia di morale che di dogma. I tradimenti simili a quelli di Nestorio non sono frequenti nella Chiesa; tuttavia può darsi che alcuni pastori tacciano, per un motivo o per l’altro, in talune circostanze in cui la stessa religione verrebbe ad essere coinvolta.

In tali congiunture, i VERI FEDELI sono quelli che attingono solo nel loro Battesimo l’ispirazione della loro linea di condotta; non i pusillanimi …

… che, sotto lo specioso pretesto della sottomissione ai poteri costituiti, attendono, per aderire al nemico o per opporsi alle sue imprese un programma che non è affatto necessario e che non si deve dare loro …

NECESSITA’ DI SERVIRE DIO DA GIOVANI

Necessità di servire Dio da giovani.

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, vol. II, S.E.I. ed. Torino, 1930- impr.]

– 1. Quanto è stimabile chi serve Dio da giovane. — 2. È facile servire Dio dalla giovinezza. — 3. Vantaggi del servire a Dio dalla giovinezza. — 4. Motivi di servire Dio nella gioventù: 1° perché questa età passa presto; 2° Perché quale è la gioventù, tali sono le altre età; 3° Perché questa età è la più esposta al male; 4° Perché questa età appartiene in modo speciale a Dio. — 5. È cosa vergognosa sciupare la giovinezza. — 6. Castighi minacciati a quelli che non servono il Signore da giovani. — 7. Mezzi per servire Dio dalla giovinezza.

1 . QUANTO È STIMABILE CHI SERVE DIO DA GIOVANE . — « Chi piace a Dio (dalla giovinezza) diventa il suo prediletto », dice il Savio: — Placens Deo factus est dilectus (Sap. IV, 10). A somma lode di Tobia la Sacra Scrittura dice che egli non fece mai nessuna azione da ragazzo, mentre pure era il più giovane di tutta la sua tribù: — Cumque esset iunior omnibus, nihil tamen puerile gessit in opere (TOB. I, 4). E perché aveva temuto e obbedito Dio fino dai più teneri anni, la Scrittura dice che egli non mormorò contro Dio perché lo avesse colpito di cecità; ma stette saldo nel timore del Signore che egli ringraziava ogni giorno: — Cum ab infantia sua semper Deum timuerit, et mandata eius custodierit, non est contristatus contra Deum, quod plaga cœcitatis evenerit ei; sed immobilis in Dei timore permansit, agens gratias, Deo omnibus diebus vitæ suæ (TOB. II, 13-14). – Leggiamo nel 2° libro dei Maccabei, al capo VII, l’esempio di coraggio e di fermezza nel proprio culto, che fra acerbe torture diedero i sette fratelli, perché avvezzi dalla prima età ad obbedire e servire Dio … E quanti altri batterono la medesima via! … Che spettacolo più dolce e più bello può offrirsi agli occhi di Dio, degli Angeli e degli uomini, che quello di un giovinetto o di una fanciulla i quali passano la giovinezza nella modestia, nella purità, nella saviezza, nella prudenza, nell’umiltà, nella pietà, nella preghiera! – O spettacolo che tanto più innamora, quanto più è raro! Volesse il cielo, che di molti dei nostri giovani si potesse fare l’elogio che di S. Malachia fece l’abate di Chiaravalle: « Benché tenerissimo di anni, non mostrava nulla della petulanza giovanile, ma si diportava in tutto con costumi degni della gravità di un vecchio (In morte B. Malach.) ». Volesse il cielo che della nostra società si potesse ripetere col medesimo dottore: « Noi vediamo tuttodì molti giovani più assennati che i vecchi, mostrare provetta età nei loro costumi; anticipano il tempo coi loro meriti e compensano con le virtù quello che manca ai loro anni (Serm. in Ps.) ». Ecco a questo proposito una sentenza di S. Agostino, degna di essere scritta a lettere d’oro: « La vostra vecchiezza tenga della puerizia, e nella puerizia traspiri la vecchiaia: cioè la vostra saggezza senile sia senza alterigia e la giovanile timidità sia accompagnata dalla saviezza, affinché lodiate Dio ora e nell’eternità (Sent.) » .

2. È FACILE SERVIRE DIO DALLA GIOVINEZZA. — Il tempo e le circostanze più adatte all’innesto sono la primavera e il vento caldo del mezzogiorno. L’innesto spirituale riesce mirabilmente nella primavera della vita, nell’età in cui i sentimenti sono sul fiorire e lo Spirito Santo spira su l’anima ancora tenera il sacro e ardente soffio del suo amore. Infatti la gioventù somiglia a un ramo novello, per la sua flessibilità e la facilità con cui riceve l’innesto divino il quale, nutrito del succo della grazia, forma un albero fruttifero, l’albero della vita. Udite, o giovani, che cosa vi dice il Signore: « Ascoltatemi, o frutti divini, e fruttificate come il rosaio piantato lungo le sponde di fresco ruscello; spandete un odore balsamico come il Libano; portate i fiori che siano, nel candore e nel profumo, come i gigli, adornatevi di verde fogliame, cantate inni di lode e benedite il Signore nelle sue opere. Magnificate il suo nome e rendetegli testimonianza con le parole della vostra bocca » — Obaudite me, divini fiuctus, et quasi rosa piantata super rivos aquarum fructifìcate; quasi Libanus odorem suavitatis habete; florete flores quasi lilium, et date odorem, et frondete ingratiam, et collaudate canticum et benedicite Dominum in operibus suis. Date nomini eius magnifìcentiam, et confitemini illi in voce labiorum (Eccli. XXXIX, 17 -20). « Mentre ero ancora giovinetto, narra di sé l’autore dell’Ecclesiastico, ho cercato la sapienza con le mie preghiere; la domandava a Dio nel tempio e diceva: io le terrò dietro fino alla fine di mia vita; ed essa fiorì in me, come vite che dà frutto precoce, e il mio cuore trovò in lei la sua letizia. I miei piedi camminarono per la strada retta; dai primi anni io mi misi in traccia di lei: ho abbassato l’orecchio, e l’ho ricevuta » (Eccli. LI, 18 – 21), Ecco l’esempio da imitarsi dai giovani i quali sono disposti più che ogni altra età, ad accogliere prontamente e praticare facilmente i dettami della divina sapienza, perché la giovinezza è l’età più prossima all’innocenza, la più atta a ricevere le buone impressioni e la più pronta a fare una buona azione; è l’età più cara a Dio. « Lasciate che i fanciulli vengano a me », diceva il Maestro divino: — Sinite parvulos ad me venire (MATTH. XIX, 14). S. Benedetto ammetteva nel suo ordine specialmente i giovani, affinché si avvezzassero presto alla disciplina monastica. Anzi la storia ci dice che nei primi tempi del Cristianesimo vi era l’uso di disporre i ragazzi, i giovani e le fanciulle ai tormenti e al martirio. Cari modelli ce ne forniscono la madre dei Maccabei e Santa Felicita le quali, nell’educazione dei loro figli, non tralasciarono d’insinuarvi l’amore al martirio e, giunto il tempo, ve li condussero. Così leggiamo che fece, sotto il tiranno Dunaano, re di Arabia, una pia madre la quale aveva istruito e preparato al martirio un suo bimbo. Ora avvenne che il fanciullo, all’età di cinque anni, vide un giorno strapparsegli la madre, per ordine del tiranno, ed essere condannata ad ardere viva. A quella vista, mosso dal desiderio del martirio, il ragazzino cominciò a piangere e sospirare dietro la madre: avendogli Dunaano domandato se amasse meglio essere con lui in un bel palazzo, ovvero con la madre in una caldaia infocata: Preferisco, rispose, starmene con la mamma, affinché ella mi prenda e conduca con sé al martirio. — E sai tu che cosa è il martirio? riprese Dunaano. — E il bambino a lui: — Il martirio è morire per Gesù Cristo per vivere di nuovo. — Chi è Gesù Cristo? replicò il tiranno. — Venite alla chiesa, soggiunse il bambino, e ve lo farò vedere. Ma non cessando il tiranno di sollecitarlo con lusinghe e promesse, quel mirabile fanciullo finì col dirgli: — Taci, o mostro; non cerco né voglio te, ma la madre mia. — Riunito a lei, si strinse al suo petto e ricevé con essa la corona del martirio (Stor. Eccl.).

3. VANTAGGI DEL SERVIRE A DIO DALLA GIOVINEZZA. — « Coloro che mi cercano di buon mattino, mi troveranno », dice il Signore: — Qui mane vigilant ad me, invenient me (Prov. VIII, 17). Chi giunge a buona vecchiaia, gode i frutti raccolti nel tempo della giovinezza, che sono la saggezza, l’autorità, il diritto di dare consigli, l’onoratezza, la speranza dell’eternità beata. Ha dei figli e dei nipoti saggi, prudenti, gravi e onorati… Chi al contrario ha fatto cattivo uso degli anni giovanili, raccoglie nella tarda età dispiaceri, malinconia, disonore, disperazione, sia per conseguenza della vita malvagia che ha menato, sia per la mala condotta dei figli e dei nipoti. « Figlio mio, dice il Signore, se avrai l’animo saggio, il mio cuore ne gioirà con te » •— Fili mi, si sapiens fuerit animus tuus, gaudebit tecum cor meum (Prov. XX II, 15). « Ricevi, figlio mio, l’istruzione nei tuoi primi anni, e otterrai la sapienza fino alla vecchiaia. Avvicinati a lei e aspettane i buoni frutti in pazienza, come colui che ara e semina il terreno, aspettando la messe; in questo lavoro poco avrai da faticare e ti nutrirai ben presto de’ suoi prodotti » — Fili, a iuventute tua excipe doctrinam, et usque ad canos invenies sapientiam. Quasi is qui arat et seminat, accede ad eam, et sustine bonos fructus illius; in opere enim ipsius exiguum laborabis, et cito edes de generationibus illius (Eccle. VI, 18-20). Cercate la virtù nel tempo della vostra giovinezza, e la troverete come un frutto precoce; sarete colmi di felicità (Eccli. LI, 18 – 20). « Io mi sono ricordato di voi, dice il Signore; ebbi pietà della vostra giovinezza e del mio amore per l’anima vostra, sposa mia » — Recordatus sum tui, miserans adolescentiam tuam, et caritatem desponsationis tuæ (IEREM. II, 2). Io mi sono ricordato, anima infedele, ed ho richiamato alla tua memoria la tua prima età, durante la quale io, tuo Dio, non già per riguardo alla bellezza, o alla sapienza, o alla ricchezza, o ad altro tuo merito, ma per pura mia misericordia ho preso te in mia sposa, te debole, povera, inferma; ti ho tratta a me e protetta e dotata del battesimo, della scienza cristiana, della grazia, ecc.; ti ho vestita di abiti preziosissimi e ornata di splendentissimi brillanti, affinché tu mi serbassi la fedeltà che le spose devono ai loro sposi… « È vantaggioso per l’uomo, dice Geremia, ch’egli porti il giogo del Signore fino dall’adolescenza » — Bonum est viro cum portaverit iugum ab adolescentia sua (Lament. III, 27). Portare il giogo del Signore, vuol dire obbedire alle sue leggi e ai suoi precetti, accettare gli obblighi che importa il servizio di Dio; essere umile, dolce, paziente nelle contrarietà. Colui che si è sottoposto al giogo del Signore fino dai primi anni, e che ha diretto, col freno di una savia moderazione, la sua giovinezza, riuscirà, dice S. Ambrogio, a vincere le proprie passioni: dominerà i suoi sensi, e terrà in freno le concupiscenze della carne; saprà discernere e sradicare le cattive inclinazioni del proprio cuore, godrà tranquillità e pace. Il giogo potente e amabile del Signore porta a desiderare Dio e cercarlo; se la gioventù, quasi indomabile, si mette sotto questo giogo, tutto le diventa facile, dolce e piacevole (In Psulm. CXVIII, serm. IX). Per mezzo del giogo del suo servizio, Dio doma la gioventù, la mantiene in piedi, la preserva dalle cadute pericolose, la rende dolce, l’informa al bene e finalmente la perfeziona. Egli suole alleggerire il suo giogo e far sì che vi si gusti la vera felicità, colmando di grazie e di consolazioni quelli che lo portano, secondo la parola di Gesù Cristo medesimo: « Dolce è il mio giogo, soave il mio peso — Iugum meum suave est et onus meum leve (MATTH. XI, 30).  Quanto saggia e generosa è l’anima la quale fu educata di buon’ora alla scuola di Gesù Cristo, e volle conservarsi veramente libera, sottoponendosi al giogo divino, oppure geme di aver passato alcuni giorni fuori di questa disciplina, che è principio di vita e di forza! Quest’anima eroica è ferma nel proposito di sottoporsi e consacrarsi fino alla morte al servizio del Signore nel silenzio, nella pazienza, nella rassegnazione; senza mai scuotere il suo giogo e astenendosi da ogni mormorazione; poiché l’anima la quale cerca di liberarsi di questo giogo, lo porta a malincuore, lo trascina e lo abborre; e allora essa ne è schiacciata, e perde ogni merito… Buona cosa è avvezzarsi da giovani alla disciplina, alla mortificazione, all’austerità, alla pazienza, alla pratica della virtù, in una parola al servizio di DIO. È questa la via che conduce alla salute eterna e a grande perfezione. Dalla loro infanzia Sansone e Samuele si astennero dal vino e da ogni bevanda fermentata e furono consacrati Nazarei. In età tenerissima, S. Giovanni Battista si ritirò nel deserto, vestì il cilizio, si cibò di locuste, e meritò di essere il precursore e il martire di Gesù Cristo. Il Salvatore divino cominciò dal presepio a praticare la povertà e l’obbedienza, a menare una vita di stenti e a prepararsi alla croce. Egli di se stesso diceva, per mezzo del profeta: « Menai vita travagliata e povera fin dai giorni della mia giovinezza » — Pauper sum ego et in laboribus a iuventute mea (Psalm. LXXXVII, 16). Gesù ama l’infanzia che lo serve, dice S. Leone, quell’infanzia ch’egli assunse nell’anima e nel corpo suo. Gesù ama l’infanzia che è un modello di umiltà, d’innocenza, di dolcezza. Gesù ama l’infanzia, secondo la quale informa i costumi ed a cui riconduce la vecchiaia, e che propone per esempio a quelli che chiama a entrare nel regno dei cieli (Serm. in Ephiph. n. 7). Dove trovare utilità eguali a quelle che s’incontrano nel servizio di Dio accettato fin dalla giovinezza? Sapete che cosa vuol dire servire Dio dalla gioventù? Vuol dire conservare la propria innocenza e purità; essere nelle grazie di Dio, avere Dio in noi stessi, i suoi favori, le sue benedizioni; vuol dire non perdere mai il prezioso tesoro del battesimo e rimanere fedeli ai sacri impegni quivi contratti; vuol dire avanzare di virtù in virtù e aumentare ogni anno, ogni giorno, ogni ora, i propri meriti e la propria corona; vuol dire conservare la pace del cuore e prepararsi ineffabili conforti, assicurare la propria salvezza, restare tempio dello Spirito Santo, ornato di tutti i suoi doni; mostrarsi degno membro di Gesù Cristo, riuscire vincitore dell’inferno, del mondo, di noi medesimi; vuol dire cominciare su la terra la vita degli Angeli, e gustare un saggio anticipato delle ineffabili delizie della città celeste; vuol dire essere la consolazione del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, di Maria, degli Angeli, dei santi, della Chiesa, della società, della famiglia; spargere dappertutto il buon odore di Gesù Cristo e invitare col proprio esempio, gli altri a fare lo stesso, a schivare il peccato,, a praticare la virtù e a santificarsi. Felice nel tempo e nell’eternità quel giovane che serve al Signore con tutto il cuore e con tutta l’anima e con tutte le forze e che persevera in questo dolce e salutare servizio!

4. MOTIVI DI SERVIRE DIO NELLA GIOVENTÙ: perché questa età passa presto. — Che cosa è la gioventù? un’età che passa come il fiore sbocciato la mattina, appassito la sera; come leggero vapore, o goccia di rugiada al comparire del sole; come sogno, o baleno, o volò di uccello… Che cosa sono tutte le età, prese ad una ad una? Che cosa è la vita intera, paragonata all’eternità? Per quanti poi la giovinezza è l’ultima età della vita? Quanti devono dire con Ezechia, re di Giuda: Sul fine dei miei anni discendo nel sepolcro… La mia vita fu tolta e piegata ad un tratto, come la tenda di un pastore: fu troncata come la tela del tessitore. Mentre io era tuttavia sul crescere, la mano del Signore mi ha reciso; dal mattino alla sera i miei giorni ebbero fine. Speravo di vedere ancora l’aurora del giorno seguente, ma il male stritolò come leone le mie ossa (ISAI. XXXVIII, 10, 12 – 13)? Oh, di quante persone si può dire quello che Geremia diceva del popolo di Gerusalemme: « Il sole tramontò per lui, mentr’era ancora giorno alto » — Occidit ei sol, eum adhuc esset dies (XV, 9)! – Se volete sapere perché mai una morte prematura abbia colpito quel giovane virtuoso, aprite la Sapienza al capo IV, e vedrete che siccome egli piaceva a Dio, perciò Dio lo amò più degli altri e lo tolse di mezzo ai peccatori fra cui viveva, affinché la malizia non gli traviasse l’intelletto e l’illusione non gli guastasse il cuore. Poiché molto facilmente avviene che l’uomo semplice e aperto sia colto al laccio della frivolezza dei beni e dell’incostanza dei desideri terreni. Consumato in pochi giorni, tuttavia visse molto e perché la sua anima piaceva a Dio, egli si affrettò a toglierlo dalle iniquità del secolo. Ma la gente vede e non comprende; non pensa che la grazia e la misericordia del Signore piovono sopra i suoi santi, e il suo sguardo si posa su di loro. Il giusto morto condanna gli empi vivi; ed una santa gioventù rapidamente trascorsa è rimprovero alla vecchiezza del malvagio (Sap. IV, 10-16). Perché poi altre volte la morte abbatte, non meno prematuramente, quel giovane corrotto ed empio? Sebbene siano impenetrabili i segreti di Dio, che noi dobbiamo adorare e non scrutare, ci è però lecito asserire che questo avviene: 1 ° in punizione della sua rea condotta…; 2 ° perché non prolunghi di più la catena delle iniquità e non accresca di più il già troppo terribile conto che ha da rendere a Dio … ; 3 ° per mettere un fine agli scandali che semina …; 4° perché serva d’esempio ai suoi coetanei; ai savi affinché perseverino, ai dissipati perché si convertano…; 5 ° perché era maturo per l’inferno. Ah! la brevità della giovinezza grida ad alta voce ai giovani la necessità di consacrare quest’età al servizio del Signore.

Perché quale è la gioventù, tali sono le altre età. — « La vostra vecchiezza ricopierà gli anni della vostra gioventù », dice i l Signore: — Sicut dies iuventutis tuæ, ita et senectus tua (Deuter. XXXIII, 25). «L’adolescente, dice il Savio, continuerà la strada per la quale si è messo e non ne uscirà nemmeno da vecchio » — Adolescens iuxta viam suam, etiam cum senuerit non recedet ab ea (Prov. XXII, 6). « Le ossa dell’empio, scrive Giobbe, saranno penetrate dei vizi della sua giovinezza, e se li porterà con sé nella polvere della tomba » — Ossa eius implebuntur vitiis adolescentiae eius, et cum in pulvere dormient (XX, 11). Un vaso di terra, come nota S. Gerolamo, mantiene a lungo, ed alcune volte anche per sempre, dice il poeta, l’odore del liquore di cui fu riempito l a prima volta.

Perché questa età è la più esposta al male. — Chi negherà che la gioventù sia un’età piena d’ignoranza, d’inesperienza, di debolezza, di presunzione? Quattro motivi spingono il demonio a muovere più accanita guerra alla gioventù, che non alle altre età, e sono: 1) perché sa che Dio ama di speciale amore la gioventù pia e costumata; perciò egli si adopera mani e piedi per rubare al Signore l’incantevole fiore dell’età e della virtù; 2) perché con questo mezzo egli trascina incatenate per la strada del peccato, tutte le età seguenti…; 3) perché è più facile adescare i giovani … 4) perché quando sono caduti nel vizio, i giovani vi si immergono perdutamente… Anche il mondo e la carne fanno ai giovani guerra più crudele che non agli altri, come l’esperienza c’insegna. « La gioventù, scrive S. Basilio, è molto leggera e assai proclive al male; ora sono concupiscenze indomite e sfrenate, ora collere bestiali e crudeli. Maldicenza di parole, petulanza di tratto, arroganza di risposte, boria e fasto figlio dell’orgoglio, uno sciame insomma di vizi ronza continuamente attorno, e assale e morde l’età giovanile (Homil. in Psalm.) ». Ora se i giovani sono esposti a tanti pericoli e scogli, a tante tentazioni e passioni, ed hanno poco o nulla di esperienza, non è forse cosa estremamente utile e necessaria che si consacrino al servizio di Dio, se vogliono scampare a certo naufragio?

Perché questa età appartiene in modo speciale a Dio. — Certamente tutte le età appartengono al supremo padrone di tutte le cose, ma per titolo specialissimo a Lui appartiene la giovinezza che rappresenta le primizie della vita dell’uomo e ognuno sa che le primizie furono in ogni tempo e luogo offerte al Signore… I bei fiori di primavera e principalmente i primaticci, sono sempre i più belli, i più graditi, i più preziosi, i più ricercati, e noi preferiamo questi quando vogliamo fare un regalo a persona cara. Ora l’età giovanile è il più eletto fiore del giardino del Signore; a Lui dunque bisogna consacrarla… Sul fiore dell’età, Gesù Cristo diede la sua vita per la salute del mondo; a questo pensiero, chi non consacrerà al divin Redentore questa parte della sua vita? … La gioventù non ci appartiene; toglierla o negarla a Gesù Cristo, è un furto che noi gli facciamo.

5. È COSA VERGOGNOSA LO SCIUPARE LA GIOVINEZZA. – La maggior parte dei giovani si avviano per una cattiva strada e vanno dicendo: Darò la mia gioventù al piacere e la vecchiaia alla penitenza; la gioventù concederò all’ozio ed alle passioni, la vecchiezza al lavoro e alla virtù; sacrificherò la giovinezza alla carne, al mondo, al demonio, la vecchiaia consacrerò all’anima e a Dio … Che insulto a Dio, che vergogna per l’uomo è mai questa, di dare al diavolo il fiore e il frutto della vita, serbando a Dio il gambo fatto strame! Dove trovare insensatezza più stupida che questa, di sciupare nell’ozio e nella mollezza un’età atta al lavoro, e costringere ad una fatica troppo pesante, l’età fatta per il riposo! Come si regola l’uomo prudente, negli affari del secolo? Egli dice: bisogna che cerchi, nel vigore dell’età, a procacciarmi dei mezzi per passare tranquillo i miei ultimi giorni. Ora perché non si fa altrettanto, trattandosi dell’affare dell’anima?… Che spaventoso pericolo non è quello di chi si abbandona al disordine, nella vana e incerta speranza, prima di una lunga vita, poi di avere il tempo necessario alla penitenza!… Alla gioventù tocca preparare, dice Seneca, alla vecchiaia godere: — Iuveni parandum, seni utendum (Prov.). – Grave imprudenza e mostruosa ingratitudine è abbandonare e offendere Dio nella giovinezza. A chi si diporta in tale maniera, sono diretti quei rimproveri di Geremia: « Tu hai dunque abbandonato il Signore Dio tuo nel tempo in cui ti guidava per la strada. Ed ora che cosa ti giova l’aver lasciato la sorgente di acqua viva, per bere il fango delle passioni e del mondo? La tua malizia insorgerà ad accusarti e la tua avversione si leverà a rimproverarti. Vedi una volta e comprendi quanto sia per te funesta e amara cosa l’esserti allontanato dal Signore Dio tuo e non avere più il suo timore. Tu hai rotto le mie catene, hai spezzato il mio giogo, gridando: Non servirò! » (IEREM. II, 17-20). – E non sono pochi, purtroppo, questi giovani che furono divorati dal fuoco delle passioni, che deviarono dal retto cammino fin dalla prima età e s’impigliarono nell’errore fino dall’infanzia: — Iuvenes comedit ignis (Psalm. LXXVII, 63). — Alienati sunt peccatores a vulva, erraverunt ab utero (Id. LVII, 3). Della maggior parte dei giovani si può dire con Baruch, che videro il lume, eppure vissero di vita carnale; ignorarono la strada della sapienza, non ne conobbero il sentiero: la rigettarono, ed essa si allontanò da loro (III, 20-21). – « O giovani, dice il Signore, e fino a quando amerete voi le fanciullaggini? fino a quando gli insensati brameranno quello che loro è nocevole, e gli imprudenti volgeranno il tergo alla scienza? » — Usquequo, parvuli, diligitis infantiam? et stulti ea, quæ sibi sunt noxia, cupient, et imprudentes odibunt scientiam? (Prov. I , 22). Fino a quando avrete voi in uggia la scienza della virtù e della salute, e farete buon viso alle frivolezze, ai giuochi, all’ozio, all’infingardaggine, al peccato, alla morte?… « Credete voi di trovare, domanda. VEcclesiastico, nella vostra vecchiaia, quello che non avrete raccolto nella giovinezza? » — Quæ in iuventute tua non congregasti, quomodo in senectute tua invenies? (XXV, 5). Dove sono, ahimè! i giovani che abbiano conservato la loro innocenza? dove trovare giovani umili, modesti, casti, docili, saggi, edificanti? Come ne è piccolo il numero! come grande, al contrario, è la folla di quelli che perdettero così bella virtù!…

6. CASTIGHI MINACCIATI A QUELLI CHE NON SERVONO IL SIGNORE DA GIOVANI. — « Godi pure, o giovane, nei giorni della tua adolescenza, sfoga ogni tuo capriccio, ma sappi che di tutte queste cose Dio ti chiederà conto » — Lætare, iuvenis, in adolescentia tua, ambula in viis cordis tui, et in intuitu oculorum tuorum; et scito quod prò omnibus his adducet te Deus in iudicium (Eccle. X I , 9). « I ragazzi, lamenta Geremia, furono trascinati in schiavitù dinanzi alla faccia del dominatore » — Parvuli ducti sunt in captivitatem, ante faciem tribulantis (Lament. I, 5), cioè innanzi al demonio, come spiegano gli interpreti. E il profeta Baruch: «Non presero la via della sapienza, perciò perirono » — Neque viam disciplinæ invenerunt, propterea perierunt (III, 27). Ecco finalmente come lo Spirito Santo descrive, per bocca di Giobbe, i castighi che seguono una giovinezza colpevole: « Signore, voi mi avete amareggiato sino al fondo dell’anima, e mi avete fatto vittima dei trascorsi della mia adolescenza. Voi avete posto ai miei piedi degli intoppi, e avete notato tutti i mei procedimenti; io sarò divorato come corpo roso da cancro, come veste consumata dalla tignuola » (IOB. XIII, 26-28). – Da queste parole della Scrittura si deduce che Dio minaccia alla gioventù viziosa i seguenti castighi: 1° l a peggiore fra le schiavitù, quella del diavolo; 2° l’amarezza del rimorso; 3° una rovina totale; 4° una morte spaventosa; 5° un giudizio terribile … Che disgrazia perdere l’innocenza, la bella età, la virtù, l’anima e Dio! … Che tremendo castigo essere venduto al vizio e al demonio!…

7. MEZZI PER SERVIRE DIO DALLA GIOVINEZZA. — Sono molti i mezzi che ci conducono a servire Dio e a correggerci dei nostri difetti dalla giovinezza.

L’osservanza della legge divina. « In qual modo può mai la gioventù emendare i suoi costumi? », domanda il Salmista, e risponde: « Con l’osservare i precetti del Signore » — In quo corrigit adolescentior viam suam? in custodiendo sermones tuos (Psalm. CXVIII, 9).

Il ricordo di Dio. « Ricordati del tuo Creatore nei giorni della tua giovinezza », leggiamo nell’Ecclesiaste: — Memento Creatoris tui in diebus iuventutis tuæ (XII, 1).

Il timore di Dio. Tobia insegnò al suo figliuolo a temere Dio dall’infanzia e ad astenersi da ogni peccato: — Filium ab infantia timere Deum docuit, et abstinere ab omni peccato (TOB. I, 10).

La prudenza. « Uscite dall’infanzia e vivete e camminate per le vie della prudenza », si legge nei Proverbi: — Relinquite infantiam, et vivite; et ambulate per vias prudentiae (IX, 6).

L’istruzione cristiana. « Figlio mio, dice il Savio, ricevi l’istruzione dai tuoi primi anni, e troverai la sapienza fino agli ultimi » — Fili, a iuventute tua excipe doctrinam, et usque ad canos invenies sapientiam (Eccli. VI, 18).

Preporre Dio ad ogni cosa, e ricordarsi che l’anima è il più prezioso tesoro affidato alla custodia dell’uomo…

Amare di cordiale e tenero affetto la Beata Vergine Maria, raccomandarsi a lei tutti i giorni e non lasciarne passare un solo, senza prestarle qualche particolare omaggio.

Non tenere mai sulla coscienza un peccato mortale; ma pentirsi ogni giorno delle colpe commesse e confessarsene al più presto.

Pensare sovente alla morte e considerare che, dopo morte, chi fu morigerato da giovane sarà eternamente felice con Dio e con i santi; che al contrario chi dimentica Dio nell’aurora della sua vita, ha tutta la ragione di temere di perdersi eternamente…

10° Rispettare se medesimo e in pubblico e in privato.

11° Fare tutte le azioni come se fossimo sotto gli occhi di rispettabili persone.

 

La Contrizione.

 La Contrizione.

[G. Bertetti: I Tesori di San TOMMASO d’Aquino”; S.E.I. Ed.Torino, 1918]

1- Che cosa è la contrizione. — 2. Di che cosa dobbiamo noi avere la contrizione. —3. Quanta dev’essere la contrizione. — 4. Quanto tempo deve durare. — 5. Quale effetto produce (Seni., 4, dist. 17, q. 2; Quól., 1, 9).

1- Che cos’è la contrizione. — È il dolore dei peccati congiunto col proponimento di confessarli e di soddisfarvi. — Principio d’ogni peccato è la superbia, per cui l’uomo attaccato alle sue voglie, si scosta dai divini comandamenti; distruggerà dunque il peccato ciò che farà allontanar l’uomo dalle sue voglie. Eigido e duro si dice colui che rimane ostinato nelle sue voglie: così si dice che s’infrange colui che finalmente si strappa dalla sua ostinazione. Ma tra l’infrangersi e lo sminuzzarsi o il contrirsi nelle cose materiali (da cui son tratti questi vocaboli a designar le cose spirituali) c’è differenza: infrangersi è spezzarsi in grandi parti, sminuzzarsi o contrirsi è spezzarsi in piccolissime parti. E poiché alla remissione del peccato si richiede che l’uomo interamente rinunci all’affetto del peccato che lorendeva duro e ostinato, per ragione di somiglianza si chiama contrizione l’atto per cui si perdona il peccato. – La contrizione deve aver con sé unito il proponimento di confessare i peccati e di soddisfarvi: sia perché non si può esser certi d’aver avuta una contrizione sufficiente per togliere tutto il peccato, sia perché la confessione e la soddisfazione son cose comandate da Dio, e sarebbe trasgressore della legge di Dio chi non confessasse i suoi peccati e non vi soddisfacesse.Nella contrizione c’è un doppio dolore dei peccati: uno nella parte sensitiva, e questo dolore non è essenzialmente contrizione in quanto è atto di virtù, ma piuttosto n’è l’effetto. Come la virtù della penitenza infligge al corpo una pena esteriore per ricompensar l’offesa fatta a Dio per mezzo delle membra, così infligge anche alla parte concupiscibile, che concorse nel peccato, la pena del dolore. Tuttavia può appartenere alla contrizione questo dolore sensibile, in quanto è parte del sacramento: perché i sacramenti son fatti per essere non solo in atti interni, ma anche in atti esterni. L’altra specie di dolore consiste nella volontà: e questo dolore non è altro che il dispiacere d’un male; e così la contrizione è un dolore per essenza e un atto della virtù della penitenza. Infatti, siccome il gonfiarsi della propria volontà per fare il male porta di per sé il male in genere, così l’annichilamento e il quasi stritolamento della volontà cattiva porta di per sé il bene in genere, perché è un detestare la propria volontà per cui s’è commesso il male. La contrizione adunque, che ciò appunto significa, porta una rettitudine di volontà; la contrizione dunque è un atto di penitenza, cioè di quella virtù che ci fa detestare e distruggere il peccato commesso.

2. Di che cosa dobbiamo noi avere la contrizione. — Dobbiamo aver la contrizione di tutti e singoli i peccati mortali da noi commessi. — Nessun peccato mortale si rimette, se il peccatore non è giustificato; ma per esser giustificati ci vuole la contrizione: dunque la contrizione è necessaria per ogni peccato mortale. — Tutti i peccati mortali convengono fra di loro nell’allontanamento da Dio. Diverse malattie richiedono medicine diverse; ed essendo la contrizione una medicina da applicarsi a ciascun peccato mortale, non basta una sola contrizione comune a tutti i peccati. Bisogna però distinguere fra il principio e il termine, della contrizione. Quanto al principio, cioè quanto al pensare ai peccati e dolersene almeno con dolore d’attrizione, è necessario che la contrizione sia di ciascun peccato mortale di cui ci si ricorda. Ma quanto al termine, cioè quanto al dolore già vivificato dalla grazia, basta che ci sia una sola contrizione comune a tutti i peccati, e ciò in virtù delle disposizioni precedenti. E se i peccati non si ricordano più?… Bisogna distinguere: — se il peccato ce lo ricordiamo soltanto in modo generale e non in modo particolare, dobbiamo farne la ricerca nella nostra memoria, essendo necessaria la contrizione speciale per ciascun peccato mortale; e posto che non ci riuscissimo nella nostra ricerca, basta che ce ne pentiamo secondo la conoscenza che ne abbiamo, e col peccato ci pentiamo pure della dimenticanza dovuta alla nostra negligenza: — se poi il peccato ci cadde interamente dalla memoria, allora l’impossibilità ci scusa dal debito, e basta una contrizione generale di tutto quello in cui abbiamo offeso Dio: ma se il peccato ci venisse poi alla memoria, allora saremmo tenuti ad averne una contrizione speciale, com’è scusato dal pagare il debito un povero che non può, ma è tenuto a pagarlo non appena lo possa.

3. Quanta dev’essere la contrizione. — Secondo S. Agostino (De civit. Dei, 21, 3) ogni dolore si fonda sull’amore. Ma l’amore di carità, su cui si fonda il dolor di contrizione, è il più grande degli amori: dunque il dolor di contrizione sarà il più grande dei dolori. – Nella contrizione c’è però un doppio dolore: uno nella volontà e l’altro nella parte sensitiva. — Il dolore della volontà, che è essenzialmente la stessa contrizione, ossia il dispiacere del peccato commesso, è tale da eccedere ogni altro dolore: perché quanto più ci piace una cosa, tanto più ci dispiace il suo contrario; ora, sovra tutte le cose piace a noi il fine per cui si desiderano tutte le cose; perciò il peccato, che ci allontana dall’ultimo fine, ci deve dispiacere sovra tutte le cose. — Il dolore della parte sensitiva, ch’è cagionato dal dolore della volontà, o per quella necessità di natura che costringe le forze inferiori a seguire il movimento delle superiori, o per elezione del penitente che spontaneamente eccita in se stesso il dolore sensibile, non è necessario che sia il più grande di tutti i dolori. Infatti le forze inferiori son mosse più fortemente dai propri oggetti che non dalla ridondanza delle forze superiori, e perciò quanto più l’opera delle forze superiori è vicina agli oggetti delle inferiori, tanto più queste ne seguono il movimento: quindi nella parte sensitiva il dolore per una lesione sensibile è più grande di quello che le possa derivare dalla ragione. Parimenti il dolore ridondante dalla ragione che delibera di cose corporali è più grande di quello che ridonda dalla medesima ragione allorché debberà intorno a cose spirituali. – Laonde il dolore che del peccato deriva nel senso dal dispiacere della ragione non è maggiore degli altri dolori sensibili. Così si dica del dolore sensibile volontariamente assunto: sia perché un affetto inferiore non ubbidisce talmente all’affetto superiore da determinarne l’impressione voluta da questo; sia perché le impressioni volute dalla ragione negli atti di virtù hanno una determinata misura, che talvolta un dolore scompagnato dalla virtù non osserva, ma oltrepassa. Anche la contrizione, essendo un atto di virtù morale può, al pari di tutti gli altri atti di virtù morale, guastarsi per sovrabbondanza o per difetto. Certo non potrà mai esser soverchia la contrizione da parte del dolore che si trova nella volontà, cioè da parte del dispiacere del peccato in quanto è offesa di Dio: come non può esser mai soverchio l’atto d’amor di Dio su cui questo dispiacere si fonda e s’espande con l’espandersi della carità. – Ma può esser soverchia la contrizione da parte del dolore sensibile, come può esser soverchia l’estenuazione del corpo nel digiuno. In ciò deve prendersi per misura il dovere di conservarci in condizioni tali che ci permettano di compiere le opere richieste dal nostro stato. Il contrito è tenuto in generale a voler patire qualsiasi pena piuttosto che peccare, perché non si può aver contrizione senza la carità per cui si rimettono tutti i peccati. Ora, la carità ci fa amare Dio più di noi stessi, mentre il peccato ci fa operare contro Dio; l’essere poi punito è soffrire qualcosa contro noi stessi; perciò la carità richiede che anteponiamo qualsiasi castigo alla colpa. Non siamo però tenuti a discendere con l’immaginazione a questa o a quell’altra pena in particolare; Anzi faremmo cosa stolta, se angustiassimo noi stessi o altri su queste pene particolari. È evidente che, siccome le cose dilettevoli più ci piacciono considerate in particolare che in generale, così le cose terribili più ci spaventano considerate in particolare. Chi è disposto a soffrir la morte per Gesù Cristo, si sentirebbe vacillare nella sua generosa risoluzione, se si facesse a considerare tutti i tormenti che potrebbero straziare il corpo. Discendere a particolarità in siffatte cose è un indurre l’uomo nella tentazione, è un offrir occasione di peccato. – Non è poi cosa difficile il voler piuttosto esser senza colpa nell’inferno, che esser con la colpa in paradiso: perché, come dice S. Anselmo (De similitud.), un innocente nell’inferno non sentirebbe alcuna pena, e l’inferno non sarebbe più per lui inferno; invece un peccatore in paradiso non sentirebbe alcun gaudio di gloria, e il paradiso per lui non sarebbe più paradiso.

4. Quanto tempo deve durare la contrizione. — Fin quando ci troviamo nella vita presente, noi detestiamo gl’incomodi che c’impediscono o ritardano il termine del nostro viaggio. Il peccato da noi commesso ci fece ritardare il corso nostro verso Dio: perché non più potremo ricuperare quel tempo ch’era designato per il nostro cammino e che abbiamo perduto per il peccato. Dunque bisogna che sempre per tutto il tempo di questa vita, detestiamo il peccato. Peccando, ci meritammo la pena eterna che Dio ha commutato per noi in pena temporale: rimanga dunque, come pena spontaneamente assunta, nell’eterno dell’uomo, e cioè nello stato di questa vita, il dolore dei nostri peccati. « Non essere senza timore circa il peccato perdonato » (Eccli., 5, 5); « dove finisce il dolore, manca la penitenza: dove manca la penitenza, nulla più rimane di perdono » (S. AGOSTINO, De vera et falsa poenit.); « Dio, mentre assolve l’uomo dalla colpa e dalla pena eterna, lo lega col vincolo d’una perpetua detestazione del peccato » (UGONE DI S. VITTORE). Benché il peccatore penitente ritorni alla grazia e all’immunità dal reato di pena, tuttavia non ritorna giammai alla primiera dignità dell’innocenza: perciò sempre rimane in lui qualche cosa del peccato commesso. Può avere un limite la soddisfazione, la quale è una pena principalmente proporzionata alla limitazione della colpa da parte della conversione verso le creature; ma il dolore di contrizione corrisponde alla quasi infinità della colpa da parte dell’allontanamento da Dio: e perciò la vera contrizione deve sempre rimanere, fino alla morte. – Fino alla morte deve rimanere in noi la contrizione: e come dolore, e come atto di virtù informata dalla grazia, e come atto meritorio, sacramentale e in certo qual modo satisfattorio. Dopo morte, le anime che sono in cielo non possono avere la contrizione, perché non può esserci dolore tra la pienezza del gaudio; quelle che son nell’inferno soffrono il dolore, ma un dolore non informato dalla grazia; quelle che sono nel purgatorio hanno bensì il dolore dei peccati, ma il loro dolore è senza merito, non trovandosi più esse nello stato di poter meritare.

5. Effetto della contrizione. — La contrizione si può considerare sotto duplice aspetto, o come parte del sacramento o come atto di virtù: nell’uno e nell’altro modo è causa della remissione del peccato, ma in modo diverso. La contrizione come parte del sacramento è causa strumentale del perdono; come atto di virtù è quasi causa materiale, essendo le dovute disposizioni una quasi necessità per la giustificazione del peccatore. Il peccato si commette per amor disordinato, e si distrugge per il dolore cagionato dall’amor ordinato di carità. – La carità può poi estendersi talmente nel suo atto, che il dispiacere derivatone d’aver offeso Dio meriti non solo la remissione della colpa, ma anche l’assoluzione da ogni pena. D’altra parte, l a volontà può eccitare tanto dolore sensibile, che questa pena possa bastare alla cancellazione d’ogni altra pena e di tutta la colpa. Se n’ha l’esempio nel ladrone, a cui, per un unico atto di penitenza, fu detto: « Oggi sarai con me in Paradiso » (Luc., XXIII, 43). – S’avverta finalmente che per quanto piccolo sia il dispiacere del peccato commesso, purché sia bastante per determinare una vera contrizione, cancella ogni colpa. La contrizione è informata dalla grazia che ci fa graditi e cari a Dio e che cancella ogni colpa mortale, non potendo stare insieme grazia e peccato.

GIOIE MONDANE

GIOIE MONDANE

[E. Barbier: I tesori di Cornelio Alapide – S.E.I. Ed. Torino, 1930]

– 1. Le gioie mondane sono vane. — 2. Le gioie mondane sono amare. — 3. Le gioie mondane sono pericolose e colpevoli; rendono schiavi e ciechi. — 4. Disgrazie di chi ama le gioie mondane.

1. Le gioie mondane sono vane. — « Ho stimato il riso un inganno, ed alla gioia ho detto: Perché cerchi di illudermi? » (Eccli. II, 2). Questa sentenza del Savio è fondata nella natura stessa delle gioie mondane, ed ha per conferma l’esperienza di tutti i secoli. E infatti, dove ripone il mondo il suo godimento? Nei beni, negli averi; ora che cosa sono le sostanze di questa terra? Nei diletti della voluttà, nelle gozzoviglie della tavola; ma che cosa sono questi piaceri, se non il profumo di una cosa che appena nato svanisce? Nella maldicenza, nella calunnia, nella vendetta, nei balli, nei teatri, nei festini; negli onori; ma che cosa sono tutte queste cose? Illusioni che abbagliano e talvolta ancora irreparabilmente accecano… Per grandi poi e soavi che siano, oltreché è dato a pochi di goderne, per quanto tempo anche a questi pochi durano?… Sono ombre, sono fantasmi che spariscono quando uno crede di raggiungerle; e chi si ostina a voler seguirle, si mette in uno spinaio di dove esce, quando pure n’esce, ferito e sanguinoso… – « Vanità è ogni gioia del secolo, scrive S. Agostino, con ardentissimi voti si desidera, e avutala, scompare senza che lasci traccia. Tutte queste allegrie mondane passano, svaniscono come fumo. Sventurati quelli che in esse mettono il cuore! ». – Le gioie mondane sono vuote…, insulse…; non hanno né realtà, né felicità, né consistenza, né durata, e chi gode di loro, gode del nulla (Amos. VI, 14). La serie delle allegrezze mondane è una tragedia che finisce appena cominciata, e che termina sempre col dispiacere, col pianto, con la morte. Udite di nuovo il figlio di S. Monica « Inutilmente piangono quelli che piangono per le cose vane; e ridono del loro danno, quelli che ridono delle cose vane. La sbagliano questi e quelli,  si rallegrano quando dovrebbero dolersi, ridono quando bisognerebbe piangere, simili a quei ragazzi che giuocano anche nel punto in cui i loro genitori stanno per spirare ».

2. Le gioie mondane sono amare. — Non si danno gioie mondane senza dolore e senza amarezza. L’amarezza le precede…, le accompagna…, le termina…; le gioie se ne vanno, l’amarezza resta. « Il riso è mescolato al pianto, dicono i Proverbi, e il sommo del gaudio si finisce nel colmo dell’angoscia » (Prov. XIV, 13). « Vedi e intendi, o uomo, dice Geremia, quanto funesta e amara cosa sia per te il distaccarti dal tuo Dio » (Ierem. II, 19). Chiunque abbia provato le dolcezze mondane, deve ripetere col medesimo Geremia: «Abbiamo avuto per bevanda il fiele, in pena di aver peccato contro il Signore. Ci aspettavamo pace e non abbiamo avuto giorno sereno; ci credevamo in sicurezza ed eccoci nel timore » (Ierem. VIII, 14-15). – Ah quanto è vero che Dio inebria i mondani di un vino di dolore (Psalm. LIX, 3), e li nutrisce di un pane di lacrime (Psalm. LXXIX, 6). – « Dio mescola l’amarezza alle gioie terrene, dice S. Agostino, per volgere l’uomo al desiderio di quella gioia, la cui dolcezza non è fallace e che solo in Dio si trova ». « Iddio, dice S. Gerolamo, porge agli amanti delle gioie mondane, un’acqua amara, l’acqua della maledizione: li abbevera di amarezza, acciocché apprendano per esperienza quanto sia duro l’avere abbandonato il Signore, ed avere irritato quel Dio che è la dolcezza per essenza» (Comment.). – La gioia mondana è una stilla di miele che si cangia in un mare di fiele… Osservate quello che accade al crapulone…, all’intemperante…, al vanitoso…, all’ambizioso…, ecc…

3. Le gioie mondane sono pericolose e colpevoli; rendono schiavi e ciechi — È noto che le gioie mondane generano la noia ed il rimorso… E ?…  sono pericolose e colpevoli… A quali pericoli infatti non espongono i piaceri de’ sensi, la sensualità, la gola, gli occhi poco modesti, le orecchie poco caste, la lingua mal frenata? A quanti rischi non espongono le vanità, l’amore del mondo, le danze, le famigliarità sospette, gli spettacoli?… Le gioie mondane sono colpevoli 1° per lo scandalo che si riceve…, per lo scandalo che si dà…; 2° per la disobbedienza alla legge di Dio… Né può essere altrimenti, poiché, come dice S. Gregorio, chi vive delle gioie del mondo, incatena i suoi sensi interiori, il suo spirito…, la sua anima, la sua intelligenza…, la sua memoria…, la sua volontà…, il suo cuore… (Homil. XXXVI in Evang.). Egli più non comprende le vere gioie…, le cose spirituali. Parlategliene, egli non v’intende più… non sente… Dio, religione, virtù, legge, doveri, tutto lo stanca e lo accascia… non vede e non sogna più nulla se non le frivolezze e le vanità…

4. Disgrazie di chi ama le gioie mondane. — È terribile la maledizione del Signore: « Guai a voi che vivete nel riso! » (Luc. VI, 25). Quindi l’apostolo S. Giacomo ci esorta a sentire e riconoscere la nostra miseria, a piangere e gemere,  il nostro riso non si cambi in lutto e la nostra gioia non si converta in mestizia (Iacob. IV, 9). Dicono i Santi Agostino, Basilio, Bernardo ed altri dottori che Gesù Cristo pianse sovente, ma non fu mai veduto ridere. « Nessuno, conchiude S. Gerolamo, può godere ad un tempo le gioie del mondo e le gioie di Dio, essere felice in questa terra e nel cielo, vivere a norma del secolo e conseguire il paradiso » (Ep. XXXV, ad Iulian.).

MEDITAZIONI SOPRA IL PECCATO

MEDITAZIONI SOPRA IL PECCATO

– Opportunissime per ogni tempo,

ma specialmente per ben disporsi alla Confessione.-

[e per ottenere la grazia della CONTRIZIONE]

[sac. G. Riva: Manuale di Filotea, XXX ediz. Milano 1888 – impr.]

Meditazione I

L’OFFESA, L’OFFESO E L’OFFENSORE!

I. Qual è l’Offesa che il peccato fa a DIO. Che col peccato mortale l’uomo faccia ingiuria a Dio, Lo disprezzi, gli faccia un torto, è una verità incontestabile, dacché nelle Scritture si dice che il peccatore si infuria contro Dio, Lo strapazza, arriva a calpestarlo. Né giova il dire, io non pecco per disprar Dio, ma solo per pigliarmi quella soddisfazione; perché conviene avvertire che vi sono due sorta di dispregi: uno espresso e diretto: l’altro indiretto ed interpretativo. Non si tiene forse strapazzato un padre quando il suo figlio contravviene ai suoi ordini? Ingiuriato un principe quando i suoi sudditi non si curano delle sue intimazioni? Intendetela dunque bene: Quando peccate, voi disonorate Dio, ve lo dice S. Paolo nella lettera ai Romani — “Per prævaricationem legis Deus insonora”. Se non Lo disprezzate colla intenzione, Lo disprezzate col fatto, non obbedendo alla sua legge, non temendo la sua giustizia, non amando la sua bontà; non avendo riguardo alla sua immensità che vede il vostro peccato, alla sua santità che lo odia, alla sua onnipotenza che può punirvene ad ogni istante. Quindi Egli se ne disgusta sì altamente che, se potesse morire un Dio eterno, un solo peccato mortale gli darebbe la morte. Oh il gran torto che si fa a Dio ogni qualvolta si pecca! Siccome poi il torto è più o meno grave secondo che maggiore o minore è la differenza che passa tra l’offensore e l’Offeso, così a ben comprendere la gravezza del peccato, conviene considerare attentamente Chi è che col peccato vien offeso, e chi è l’offensore.

II. Chi è l’Offeso. — Figuratevi col pensiero una bellezza così sorprendente che rapisca i cuori col solo farsi vedere, sicché sia più stimabile veder lei per un momento, che godere per molti secoli tutti i diletti della terra, una maestà in ossequio della quale valga più il patir ogni strazio, che regnar in tutto il mondo: una bontà cui offendere, anche col solo pensiero, sia maggior male che se si annichilassero i cieli, si distruggesse l’universo. E poi riflettete che Dio è infinitamente maggiore di quanto vi siete ideato. Pensate pure più e più perfezioni; raddoppiatele e moltiplicatele con aritmetica proporzione quante sono le stelle del cielo, gli atomi dell’aria, le gocce dell’acqua, e poi sappiate che tutta questa grandezza in confronto a Dio è infinitamente meno di quello che sarebbe un vermiciattolo paragonato a tutto il mondo. Chi mai potrà ben comprendere che voglia dire essere stato in tutti i tempi, occupare tutti i luoghi, sapere tutte le verità, possedere tutte le perfezioni, potere quanto si vuole, essere inaccessibile ad ogni male e godere ogni bene? Eppure questo Signore, fonte ed origine di tutto, che solo a vederlo vi farebbe eternamente beato, è quello che voi conculcaste col peccato mortale; e non ne inorridite? A meglio svegliare in voi così necessario inorridimento, considerate chi è quegli che fa fa tanta ingiuria ad un Signore sì grande.

III. Chi è l’Offensore. — In quanto al corpo egli è un niente vestito di fango. Pochi anni sono non eravate: in breve sarete mangiato dai vermi; e quel che avanza si ridurrà in cenere. Ora questa poca polvere ha ardito pigliarsela contro Dio? Che cosa siete voi in quanto all’anima? Concepito in peccato originale, non prima aveste l’essere che foste nemico di Dio, schiavo del demonio, spogliato della grazia, sbandito eternamente dal cielo. La vostra eredità è una somma ignoranza di mente, una strana malizia di volontà, fiacchezza per far il bene, insaziabile concupiscenza per operare tutto il male.A questa funestissima eredità avete aggiunto del proprio tanti peccati attuali, tanti mali abiti, altrettanti debiti colla divina giustizia, per cui siete nel demerito d’ogni aiuto. Che, se volete conoscervi anche meglio, instituite il seguente paragone: Chi siete voi confrontato con tutti gli uomini del mondo, con tutti quelli che sono stati, con tutti quelli che sono adesso, con tutti quelli che saranno sino alla fine dei secoli? Che cosa siete paragonandovi a tutti gli Angioli, non che a tutte le creature possibili? Chi vi riconoscerebbe in sì vasta moltitudine? Chi terrebbe conto di voi. Or, se non siete altro che un nulla avanti a tanto numero di creature, pensate che cosa siete innanzi a Dio, al cospetto del quale, questo numero, quantunque grandissimo, è proprio come se non fosse?Che dite adesso della vostra temerità nel prendervela contro di Dio? Non avete forse ragione di stupirvi assai più che se vedeste una formica a prendersela contro un leone?

AFFETTI DI PENTIMENTO.

Chi mai avrebbe creduto che un verme vilissimo della terra, come son’io, potesse aver l’ardimento di strapazzare un Dio così grande, così buono, così potente, qual siete voi, che non potrà mai essere abbastanza adorato, temuto ed amato? Eppure io vi strapazzato tante volte coi miei peccati, e con tanta temerità, come se voi non voleste, o non mi poteste subito castigare. Voi siete mio Creatore ed io non ho voluto sottomettermi a voi come vostra creatura; ero vostro figlio e vi ho sconosciuto, disonorato, trattato da nemico e non da padre: voi siete stato mio Salvatore sulla croce: ed io senza pietà vi ho nuovamente crocifisso colle mie colpe: prevenuto dalla vostra grazia, ricolmo dei vostri beni, non me ne sono prevaluto che per oltraggiar Voi e perdere me. Ma se io ho fatto da quel che sono, da creatura meschina, piena di tenebre e di malizia, voi fate da quello che siete, cioè da quel Dio grande e onnipotente che contiene ogni bene. Io mi pento con tutto il cuore d’avervi offeso, e per amor vostro detesto un sì gran male sopra ogni cosa detestabile e bramo una contrizione simile al mare per la profondità, per l’estensione, per l’amarezza, onde risarcire in qualche parte col mio dolore l’onore che vi ho tolto con il mio peccato. Beato me se io avessi eletto ogni male prima che determinarmi a disgustar Voi, sommo bene! Ma se sono stato così stolto per lo passato, non voglio più esserlo per l’avvenire, mentre sono resolutissimo col vostro aiuto di non tornare ad offendervi. Voi, o Signore, che adoperaste tanto la vostra pazienza in sopportarmi, adoperate ora altrettanto la vostra potenza in assistermi; sicché in ogni luogo, in ogni tempo vi ami, vi obbedisca, come richiede la vostra infinita grandezza, e come merita la vostra infinita bontà.

Meditazione II.

IL TEMPO, IL LUOGO E I MEZZI CON CUI SI PECCA.

I Il tempo. — L’offendere un innocente meritevole di ogni rispetto, è sempre un gran male; ma offenderlo dopo avergli giurato fedeltà ed amore, dopo essere stato da lui beneficato, e mentre continua a beneficarci, è tale enormità che non si saprebbe con quali termini qualificare. Ora questa enormità è quella di cui si fa reo il cristiano, quando col peccato offende Iddio, perché lo offende dopo che, col Battesimo, Dio lo rese suo figliuolo; dopo aver saputo per fede che Gesù è morto sulla Croce, affine di distruggere il peccato; dopo essere stato per i meriti del suo sangue rimesso nella sua grazia; dopo averGli promesso tante volte fedeltà inalterabile nei santi sacramenti; e lo offende nell’atto stesso in cui Egli lo conserva, e lo provvede di tutto il bisognevole, lo fa servire da tutte le creature inferiori, lo fa sostenere dai principi della sua corte, quali sono gli Angeli, lo preserva da tanti pericoli, gli risparmia tanti castighi, gli tiene apparecchiato il divino suo corpo nella Eucaristia, tiene a sua disposizione tutti i tesori della sua grazia in questa vita e tutte le delizie della sua gloria nell’altra. Ah questo è proprio un lacerare quel seno che ci dà vita; è una ingratitudine, una crudeltà a cui non arrivano le stesse fiere

II. Il luogo. — Il peccato è ben anche un eccesso di temerità; perché non può esser commettere che al cospetto di Dio, il quale da per tutto si trova, ed ha sempre gli occhi aperti sopra di noi. Peccando dunque, voi avete conculcato la legge al cospetto dello stesso legislatore; a vista del vostro Giudice vi siete burlato dei suoi castighi; davanti al vostro Redentore vi siete messo sotto i piedi il suo sangue: in faccia della sua infinita maestà vi siete fatto schiavo d’un suo ribelle, il demonio, e tentaste, se fosse stato possibile, di toglierGli la corona dal capo. Faceste dunque davanti a Dio ciò che non ardireste giammai di fare davanti ad una persona del mondo meritevole di qualche riguardo.

III. I mezzi. — Che cosa adoperaste voi per peccare se non gli stessi benefici di Dio. Cioè quelle potenze dell’anima, quei sensi del corpo, quei beni di fortuna che Dio vi accordò per procurare la vostra santificazione e la sua gloria? Vi diede un intelletto capace di conoscere la prima verità, e voi lo usaste in cercar nuovi mezzi per offender il donatore. Vi diede una volontà capace di amare il sommo Bene, e voi, spregiata la fonte di vita eterna, andaste ad abbeverarvi alla fossa fangosa e puzzolente delle vostre disordinate passioni. Che più? Non solo abusaste delle creature contro Dio, ma abusaste ancora del Creatore medesimo contro Lui, prendendo anzi a peccare dal conoscere per esperienza che Egli è buono e misericordioso, appresta i rimedi al peccato, e differisce il castigo per dar luogo alla penitenza. Oh cosa spaventevole! Non basta all’uomo di tradir Dio con volgergli contro le sue creature; vuole pur anco che Dio medesimo concorra all’orribile Deicidio.

AFFETTI DI PENTIMENTO.

Dio di infinita misericordia, io non ho mai conosciuto così bene che la vostra clemenza eccede ogni termine, quanto adesso che siete arrivato a tollerar me così sconoscente, così ingrato a tanti vostri favori. Oh pazienza inaudita! Oh pietà indicibile! Qual principe della terra avrebbe sopportato un solo degli strapazzi che io ho fatto a Voi, senza sterminarmi dal mondo? Confesso la verità: la considerazione di condotta sì amabile e misericordiosa, qual fu la vostra verso di me, mi fa più vivamente compungere dei miei peccati, e non posso fare a meno di detestarli col dolore più vivo e più sincero. Ah! mio Signore, son risoluto; prima mi si apra sotto ai piedi la terra, che mai più tornare ad offendervi. Quand’anche fossi certissimo che niun castigo avessi a temere per le mie colpe, pure vorrei sempre abborrirle, sempre astenermene, se non altro per non essere ingrato un’altra volta alla vostra infinita bontà. Intanto per liberarmi da quella di cui mi trovo gravato, datemi grazia di accusarle con ogni sincerità al ministro delle vostre misericordie, e di condurmi con lui in maniera da pentirmene perfettamente riconciliato con Voi.

Meditazione III

IL PECCATO IN SÉ, NEGLI EFFETTI E NEI CASTIGHI.

I In se stesso. — Quando Mose intimò al Faraone l’ordine di Dio di lasciar in libertà il suo popolo, il Faraone rispose: “Chi è questo Signore perché io debba ubbidirlo? Io non lo conosco, nè mi indurrò mai a fare ciò ch’ei comanda”. Un atto cosi temerario è rinnovato da ogni uomo, quando acconsente al peccato. La coscienza gli intima come Mosè di non prendersi quel piacere, perché è da Dio proibito: ed egli risponde col fatto: io non mi curo di Dio, voglio fare a mio modo. Né solo ricusa di obbedirgli, ma gli volge dispettosamente le spalle; ricusa di portare il suo giogo; protesta di noi volerlo servire. Questa condotta affligge il cuore di Dio e lo affligge in maniera che, se non fosse immortale, lo farebbe morire, cagionandogli una tristezza infinita. E come no, se col peccato l’uomo dichiara col fatto di non fare alcun conto del sommo bene, dei tanti benefici da Lui ricevuti, dei tanti titoli che lo legano al suo servizio, al suo amore, e a Lui preferisce il suo più grande nemico qual è il demonio? E ciò, non già per procurarsi qualche grande vantaggio, ma per prendersi una brutale soddisfazione, che, appena provata, svanisce e non lascia dietro di sé che l’inquietudine ed il rimorso.

II Nei suoi effetti. — Che cosa fa la morte al nostro corpo? Lo priva tutto ad un tratto della vita, della bellezza, della forza e d’ogni altro bene. Altrettanto fa il peccato mortale alla nostr’anima: perché prima di tutto la priva di Dio il Quale è vita dell’anima più che non è l’anima vita del corpo. In secondo luogo lo priva della grazia divina, ch’è il più bell’ornamento dell’anima: quindi quell’anima che per la grazia era similissima agli Angioli, diventa in un momento bruttissima come un vero demonio. In terzo luogo mortifica tutte le opere buone adunate in stato di grazia: avesse acquistato i meriti di tutti i Santi, e quelli ancora di Maria Santissima, non gli gioverebbero più a nulla quando avesse a morire in tale stato; ed invece dell’eterna ricompensa pel bene operato, non riceverebbe che la sentenza di eterna dannazione per il male posteriormente commesso. In quarto luogo lo priva di tutti i meriti che potrebbe acquistare colle sue opere buone, dacché queste per se stesse sono morte, cioè non più ricompensabili con la gloria eterna, dacché manca loro il principio del merito, ch’è l’unione con Dio per mezzo della sua grazia. Quindi l’anima in tale stato con tutta ragione si paragona ad un tralcio staccato dalla sua vite, e perciò impossibilitato a produr frutti; mancando dell’umor vitale che esso ritraeva dal tronco con cui faceva un solo corpo.

III. Nei suoi Castighi. — Dalla severità della pena inflitta da un giudice imparziale e sempre inclinato alla misericordia, si argomenta con tutta ragione la gravità del delitto. Che concetto adunque dobbiamo noi formarci del peccato mortale, se Dio, che è la stessa bontà per essenza, lo punisce coi castighi più severi? Consideriamone soltanto i più conosciuti: lucifero l’Angelo il più bello, il più eminente del Paradiso. Eppure, appena ardì sollevarsi contro Dio, Dio stesso lo spogliò d’ogni bellezza, lo cacciò per sempre dal cielo, e lo precipitò nell’inferno con tutti i compagni della sua ribellione, che pur formavano un esercito immenso, e costituivano una gran parte del corteggio del divin trono. Adamo non fece altro che arrendersi a mangiare il frutto che gli era stato da Dio proibito. Eppure non appena contravvenne al divin comando che si trovò spogliato d’ogni dono soprannaturale e gratuito, cacciato per sempre dal giardino d’ogni delizia, condannato con tutta la sua discendenza a pascersi di miserie in tutto il tempo della sua vita e poi a diventare nel corpo preda dei vermi per mezzo della morte. Il mondo al tempo di Noè era presso a poco come al presente: eppure quando ardì di familiarizzarsi col peccato, Iddio fece perir nel Diluvio tutte quelle centinaia di milioni di uomini che allora abitavano la terra, a riserva della famiglia di Noè che, per avere perseverato nella giustizia, fu salva nell’arca. Le cinque città della Pentapoli furono distrutte dal fuoco, quando i suoi abitanti lordaronsi dì ciò che forma l’abominazione di Dio; e da quell’incendio non andò salvo che Loth con la sua famiglia che si era conservata innocente. Le miserie che tuttavia travagliano il mondo, le guerre, le pestilenze, le carestie che cosi spesso lo desolano, non sono altro che castighi del peccato. Il divino Unigenito, incarnatosi per nostra salute, non vestì che apparenze del peccato, per operar la salvezza di tutti gli uomini. Eppure l’eterno Padre, che pur Lo dichiarò l’oggetto delle sue compiacenze, Lo assoggettò a tante ignominie, a tanti dolori, e ad una morte così tormentosa, che di più non avrebbe potuto fare se Gesù fosse stato il peccato in persona. Se non che i castighi del peccato in questa vita non sono che un’ombra di quelli che la divina Giustizia gli tiene preparati nell’altra. Una fornace di fuoco al cui confronto il nostro fuoco non è che un dipinto, e in cui si soffrono tutti i mali senza alcuna mescolanza di bene e senza alcuna speranza che abbiano una qualche volta a finire, ecco la stanza preparata per coloro che muoiono col peccato mortale sull’anima. Considerate bene tutto questo; poi dite, se vi dà l’animo, che il peccato non è poi quel gran male che vi si predica, e che Dio cerca troppo coll’imporci l’obbligo di accusarcene con sincerità e con vero pentimento nella sacramental Confessione per liberarcene.

AFFETTI DI PENTIMENTO.

Conosco, o mio Dio, il gran male che ho fatto col violare la vostra legge, ordinata al mio vero bene, per secondare i miei capricci, che mi hanno procurato il maggior dei mali, privandomi della vostra presenza, e della vostra amicizia, spogliandomi di tutto quello che poteva trovarsi di buono dentro di me, ed esponendomi a tutti i rigori della vostra giustizia così nella vita presente, siccome ancora nella futura. Detesto adunque con tutto il cuore, e confesso la mia iniquità al vostro divino cospetto, e la confesso alla presenza di tutti i vostri Santi che vi sono stati così fedeli, alla presenza della SS. Vergine, di cui ho crocifisso il Figliuolo, alla presenza dei Principi della vostra corte celeste, S. Michele, S. Giovanni Battista, S. Pietro, e S. Paolo, che tanti esempi mi hanno lasciato dì esattezza e di fervore nell’adempire i vostri santi voleri. Mi riconosco pertanto pieno di colpe gravissime ed inescusabili, e le detesto sopra ogni male, non tanto per il gran danno che hanno recato all’anima mia, quanto perché dispiacciono a Voi, mio sommo ed unico Bene, protestando che non vorrei mai averle commesse, e ciò solo per risparmiare il gran disgusto che ho dato a Voi. Voi potete ogni cosa; mostrate ora la forza del vostro braccio col distrugger affatto i miei peccati, e col cambiare il mio cuore in maniera che d’ora innanzi io vi ami tanto quanto finora vi ho offeso. Di questa grazia siano presso Voi Avvocati la stessa SS.. Vergine e tutti quanti gli Eletti, affinché imitandoli nell’obbedire alla vostra santa legge, sia fatto degno di esser loro compagno nel godervi per sempre in Paradiso.

LA “vera” CHIESA

[J.-J. Gaume: il Catechismo di Perseveranza, vol. 2° – Torino 1881]

Noi abbiamo visto poc’anzi che ogni santità discende dallo Spirito Santo, siccome l’acqua dalla sorgente. Laonde la Chiesa, che rispetto a noi è madre, strumento e dispensatrice della santità, non può venire che dallo Spirito Santo: ed ecco la ragione per cui il Simbolo, dopo aver parlato dello Spirito Santo, soggiunge immediatamente: Io credo la Chiesa cattolica, la comunione dei Santi. Queste parole esprimono il nono articolo del Simbolo. – Qui comincia, secondo la divisione adottata dal Bellarmino e da S. Agostino, la seconda parte del Simbolo. La prima, distesa in nove articoli, ci ha fatto conoscere Iddio, nostro Padre; la seconda, composta di quattro articoli, imprende a farci conoscere la Chiesa, nostra madre [Qui comincia la seconda parte del Credo; perché la prima parte appartiene a Dio; la seconda alla Chiesa, sposa di Dio. Dottr. Crist. p. 53]. – Diciamo innanzi tutto, “io credo la Chiesa”, e non già, io credo nella Chiesa, come allorché parliamo delle tre Persone della Triade augustissima. La ragione di tale diversità è in ciò riposta, che Iddio è nostro fine ultimo ed obbietto fondamentale della nostra fede, laddove la Chiesa non lo è. Udendoci dire io credo la Chiesa, ne potrebbe venir richiesto, in che modo mai l’esistenza della Chiesa possa essere un articolo di fede, poiché non suol credersi ciò che si vede, e la Chiesa è da noi veduta coi propri nostri occhi. Agevole è il rispondere che nella Chiesa v’ha una cosa che si vede, ed un’altra che non si vede. Ciò che si vede , è il corpo della Chiesa, vale a dire, la società esteriore di tutti i Fedeli soggetti al Romano Pontefice: quello che si crede, perché non si vede è l’origine divina della Chiesa, l’anima della Chiesa, che è lo Spirito Santo, i doni, la potenza, le prerogative, le virtù dei sacramenti della Chiesa, le grazie ch’ella comunica ai suoi figli, la sua stabilità, la sua immortalità, la santità, il suo fine sovrannaturale; le quali cose tutte, non potendo esser vedute cogli occhi del corpo, sono l’obbietto della fede. Alla stessa guisa gli Apostoli nel Signor Nostro Gesù Cristo vedevano l’umanità; ma ciò ch’essi credevano, poiché vedersi non poteva, era la divinità che risiedeva in esso [Nat. Alex.,De Symb., p. 310]. Noi diciamo eziandio, “io credo la Chiesa”, e non già le Chiese, perciocché siccome esiste un Dio solo, così pure esiste una Chiesa sola, sparsa per tutta la terra [“Erunt duo in carne una, non in duobus, nec in tribus. Propterea relinquet homo patrem et matrem suam et adhaerebit uxori suae; certe non uxoribus. Quod testimonium Paulus edisserens refert ad Christum et Ecclesiam, ut primus Adam in carne, secundus in Spiritu monogamus sit. Et una Eva mater cunctorum viventium, et una Ecclesia parens omnium Christianorum; sicut illam maledictus Lamech in duas divisit uxores, sic hanc haeretici in plures lacerant Ecclesias, quae, iuxta Apocalypsim Joannis, Synagoga magis diaboli appellandae sunt quam Christi conciliabula”. S . HIER. , Epist. II, ad Gerunc, c. IV]. – Secondo la definizione dei Padri e dei Dottori: “la Chiesa è la società di tutti gli uomini che sono battezzati e che fanno professione della fede e della legge di Gesù Cristo, sotto l’obbedienza del supremo Pontefice Romano”; ovvero, con altre parole: “la Chiesa è la società di tutti i Fedeli, governata dal nostro Santo Padre, il Papa”; oppure finalmente: la società di tutti i Fedeli riuniti per mezzo della professione di una medesima fede, per la partecipazione agli stessi Sacramenti, e per la sommissione al nostro Santo Padre, il Papa [Congregazione d’uomini, i quali si battezzano, e fanno professione della Fede e Legge di Cristo, sotto l’ubbidienza del Sommo Pontefice Romano. BELLAR., Dottr. Crist. 56. — A questa definizione consuonano le seguenti dei Padri e dei Teologi: [“Ecclesia plebs sacerdoti adunata; pastori suo grex adhaerens”. S . CYPR., Epist. 69 ai Florent. Papian. — Ecclesia est populus Dei toto orbe terrarum diffusus. S. AUGUST., De catechiz. rud., c. III. — Ecclesia est catholicorum congregatio NICOL. I , Dist, 4, De Consecr. — Ecclesia est congregation fidelium. D, THOM. Passim]. – La parola Chiesa significa convocazione, attesoché non si nasce Cristiani come si nasce Francesi, Spagnuoli, ecc., ma siamo da Dio chiamati alla Chiesa per mezzo del battesimo. Significa pure congregazione, dacché denota il popolo fedele sparso per tutta la terra, e riunito dai sacri vincoli della stessa fede e della stessa obbedienza. La Chiesa è parimente detta casa di Dio vivo, colonna ed appoggio della verità, 1 [“Ut scias quomodo oporteat te in domo Dei conversari, quae est Ecclesia Dei vivi, columna et firmamentum veritatis. I ad Tim. III, 15], tanto per essere ella dimora del Signor Nostro Gesù Cristo, che n’è l’architetto e il fondatore, quanto per essere un’immensa famiglia governata da un solo Padre, e nella quale tutti i beni appartengono in comune a tutti i figli suoi; sia ancora perché è stabilita da Dio nella verità mediante l’assistenza dello Spirito Santo, siccome colonna sul suo piedestallo; o vuoi finalmente perché essa stessa conferma tutti i Fedeli nella verità coi suoi insegnamenti [CORN A LAPID. In hunc loc.]. – Essa porta ancora l’augusto nome di sposa di Gesù Cristo [II Cor. XI.], poiché i l Salvatore la lavò e la purificò col prezioso lavacro del proprio sangue, e fece con essa indissolubile alleanza; l’ama come sposo la sposa, la governa, la protegge, la conduce al Cielo; ed esso in contraccambio è da lei amato con fede inviolata, e da lei sola arricchito di veri figli di Dio. Riceve da ultimo l’appellativo di corpo di Gesù Cristo”, [Ephes. I . — Coloss. 1], perché non già fisicamente e naturalmente, ma pur realmente e propriamente essa è il corpo di Nostro Signore in modo misterioso e sovrannaturale. Non è dunque solo per metafora, che la Chiesa è corpo di Nostro Signore, come di una repubblica o di un esercito dicesi ch’è un corpo solo atteso l’unità di governo, di spirito, di fine; ma ella è con tutta proprietà di espressione realmente e veramente il corpo di Gesù Cristo; Egli n’è il capo, e tutti i Fedeli sono suoi membri, animati dal suo spirito, viventi della sua vita, obbedienti alla sua volontà. – Noi diciamo di tutti i Fedeli; e questa parola Fedeli, intesa nel suo più ampio e generale significato, abbraccia tutti quelli che compongono la Chiesa. Or essa, considerata nel suo complesso, abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi, il Cielo, il Purgatorio, la terra. La sua durata è scompartita in due grandi epoche, vale a dire, dal peccato di Adamo fino a Gesù Cristo, e da Gesù Cristo sino alla fine dei secoli2 [abbraccia tutti i fedeli che sono sparsi per tutto il mondo e non solamente quelli che ora vivono, ma ancora quelli che furono dal principio del mondo, e quelli che saranno sino alla fine del mondo. Bellarm. Dottr. Crist.]; imperocché appena commesso il peccato originale, Iddio, usando misericordia ai primi padri nostri, promise loro un futuro Redentore; e pei meriti futuri del medesimo, gli uomini poterono dopo il fallo primiero rientrare nella grazia di Dio e ricuperare l’eterna felicità, a condizione che ricevessero santamente la speranza di questo divino Messia. Così prima di Gesù Cristo, tutti quelli che facevano professione di vivere secondo i precetti della legge naturale, e che animati da fede viva aspettavano la Redenzione del genere umano, erano veri Fedeli, e per conseguenza appartenevano alla Chiesa di Gesù Cristo: il primo Cattolico fu Adamo. – Dopo Mose, gl’Israeliti furono obbligali di praticare quanto era prescritto dalla Legge, ed allora la Chiesa fu composta di due classi di persone: dei Giudei che professavano di vivere secondo la Legge di Mosè, e che soli componevano la Chiesa giudaica, detta altrimenti Sinagoga; poscia dei Gentili che aspettavano un Redentore, e regolavano la propria condotta giusta i dettami della legge naturale. Quando questi passavano al Giudaismo, contraevano l’obbligo di uniformarsi a tutta la Legge di Mosè, e diventavano membri della Chiesa giudaica; ma quelli che non professavano la Legge di Mose non cessavano per questo di essere veri Fedeli e di appartenere alla Chiesa universale. Egli è per tal ragione che nel Tempio di Gerusalemme si trovava un luogo destinato pei Gentili, che venivano a farvi le loro preghiere; e questo luogo era diviso mediante un muro dal ricinto in cui si congregavano i Giudei. – Tale si era lo stato della Chiesa militante prima della venuta del Salvatore. Ma cominciando da quest’epoca avventurata, più non v’ha differenza, per rispetto a Dio, fra i Giudei ed i Gentili; perché questi due popoli furono riuniti in Gesù Cristo, il Quale, secondo l’espressione dell’Apostolo delle Genti, atterrò il muro di separazione, e dei Giudei e dei Gentili fece un popolo solo, denominato il popolo Cristiano. Così la Chiesa abbraccia tutta la durata delle età; nel suo seno eternamente fecondo nacquero tutti gli Eletti; col solo latte verginale furono essi tutti nutriti. Perciò allora quando si fa datare dalla Pentecoste il giorno della sua fondazione, s’intende mostrare che a quell’epoca memorabile risale, non già la sua origine, ma sì bene il suo meraviglioso svolgimento per tutta la terra, la surrogazione della fede esplicita alle verità nascoste sotto i veli dell’antica Alleanza, e la diffusione più copiosa delle sue grazie divine nel cuore de’suoi figli. – La sua estensione abbraccia il Cielo, il Purgatorio e la terra, donde sorgono tre Chiese, o per dir meglio, tre rami di un albero istesso. La prima è la Chiesa del Cielo, chiamata Chiesa trionfante, poiché gli Angeli ed i Beati che la compongono ivi trionfano col Salvatore, dopo avere, coll’aiuto della grazia, riportato vittoria sul mondo, sulla carne, sul demonio: liberi da tutte le afflizioni e da tutti i pericoli della vita, i Santi quivi godono dell’eterna beatitudine. La seconda è la Chiesa del Purgatorio, detta perciò Chiesa purgante, perché le anime bruttate di qualche leggiera macchia vanno in quel luogo a cancellarla con pene temporali, la cui durata è stabilita dalla sovrana giustizia, dopo di che esse prendono posto fra i Beati per dividere con loro la perfetta felicità. La terza è la Chiesa della terra, denominata Chiesa militante, poiché deve sostenere guerra continua contro implacabili nemici, il mondo, la carne, il demonio. Queste tre Chiese non formano che una sola e medesima Chiesa, composta di tre parti, locate ciascuna in diversi luoghi e in differenti stati. La prima precede la seconda e la terza nella patria celeste, laddove le altre due vi aspirano tutti i giorni fino all’istante fortunato, in cui queste tre sorelle, abbracciandosi in Cielo, più non formeranno che una Chiesa stessa eternamente trionfante. – La parola Fedeli nel suo più stretto significato si appropria alla Chiesa nell’attuale suo stato, e denota tutti coloro che sono stati battezzati, essendo il battesimo, dopo la venuta del Signor Nostro Gesù Cristo, il mezzo indispensabile per divenir membro della sua Chiesa. A questo luogo accenneremo soltanto di passaggio quello che altrove diffusamente spiegheremo, vale a dire, che si conoscono tre sorta di battesimi: il battesimo d’acqua ch’è il Sacramento del Battesimo, il battesimo di fuoco, e il battesimo di sangue, che in certi casi speciali tengono luogo di Sacramento. – Riuniti mediante la professione di una medesima fede; vale a dire, quelli che credono alla stessa maniera e per gli stessi motivi tutte le stesse verità insegnate da Gesù Cristo. – Per la partecipazione agli stessi Sacramenti; poiché è con tal mezzo che i Fedeli sono incorporati a Gesù Cristo, stanno fra loro riuniti, e formano tutti insieme un’esteriore società. – Mediante l’obbedienza al nostro Santo Padre, il Pontefice Romano. Non vi ha società senz’autorità da una parte, ed obbedienza dall’altra; ora la Chiesa essendo la società la più perfetta, riunisce ancora queste due condizioni al più alto grado. Laonde un celebre protestante dei giorni nostri chiama la Chiesa: la più gran scuola di rispetto che abbia mai esistito. Diciamo inoltre: al nostro Santo Padre, il Papa, attesoché egli è il capo supremo della Chiesa. La Chiesa ha due capi, l’uno invisibile, che risiede nel Cielo, ed è il Signor Nostro Gesù Cristo; l’altro visibile, che risiede a Roma, ed è il nostro Santo Padre, il Papa. – Per tale ragione e perché ancora il sovrano Pontefice è il successore di S. Pietro, primo Vescovo di Roma, la Chiesa cattolica è detta Chiesa romana. Dall’essere San Pietro il vicario di Gesù Cristo sulla terra, ne segue primamente che la Chiesa di Roma, siccome fu riconosciuto da tutti i secoli, è la madre e la maestra di tutte le altre Chiese; in secondo luogo ne segue, che tutti i Pontefici romani, successori di S.Pietro, hanno com’esso ricevuto piena ed intera autorità per governare, insegnare, reggere la Chiesa universale. Tale si è pure la concorde dottrina dei secoli cristiani.

I. Piena autorità per governare. Tutti i Pastori particolari, vale e dire, tutti i Vescovi, e “tutti i Fedeli devono rendere omaggio ed obbedienza al Pontefice romano”, [Concilì. Fiorent. 1458. —Concil. Trid. , sess. VI, De Reform. c. 1; sess. XV, De Poenit., c. 7], poiché la sovrana possanza di cui è rivestito fu al medesimo conferita dal Salvatore istesso. Difatti dopo che San Pietro ebbe confessato la divinità del proprio Maestro, Gesù Cristo gli rispose: E io dico a te, che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non avranno forza contro di lei. E a te io darò le chiavi del regno dei Cieli: e qualunque cosa avrai legato sopra la terra, sarà legata anche nei Cieli; e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra sarà sciolta anche nei Cieli [Matth. XVI, 18, 19].Colla frase le porte dell’inferno sono significate le potenze infernali, gli scismi, le eresie, gli scandali; le chiavi sono il simbolo dell’autorità e del governo; la podestà di legare e di sciogliere è il carattere della magistratura. Tutti questi privilegi furono accordati a San Pietro senza restrizione alcuna, e per conseguenza anche ai Pontefici romani, suoi successori; perché tali cose erano necessarie onde assicurare l’unità, la solidità, la perpetuità della Chiesa sino alla fine dei tempi.

II. Piena autorità per insegnare. S. Pietro ebbe da Gesù Cristo medesimo la piena autorità di ammaestrare i Pastori particolari e tutte le pecore dell’ovile. Prescelto nello scopo di raffermare i suoi fratelli, la sua fede non verrà meno giammai, la sua parola sarà sempre l’oracolo della verità. Questa splendida prerogativa è essa pure fondata sulle parole medesime del Salvatore: Pasci i miei agnelli, disse a Pietro Gesù Cristo, pasci le mie pecorelle [Joan. XXI, 15]. Altra volta parlando ai suoi Apostoli del regno ch’Ei loro lasciava, e nel quale sarebbero stabiliti per giudicare i Fedeli, si rivolse singolarmente a Pietro, e gli disse: Simone, Simone, ecco che Satana va in cerca di voi per vagliarvi, come si fa del grano: ma Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno: e tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli [Luc. XXII, 31-52]. – In che modo avrebbe potuto confermarli s’egli stesso fosse stato fallibile nella propria fede? La piena autorità per insegnare fu dunque concessa a San Pietro, e per conseguenza ai romani Pontefici suoi successori; attesoché essa è necessaria, come si è detto, per assicurare l’unità, la solidità, la perpetuità della Chiesa sino alla fine dei secoli.

  • III. Piena autorità per reggere la Chiesa Fu questa pure a San Pietro conferita da Gesù Cristo stesso, il quale con ciò rivestitolo d’ogni podestà necessaria per legare e sciogliere, e per fare tutte le leggi necessarie al governo della Chiesa. Tale autorità emerge con tutta evidenza delle parole poc’anzi riferite: «Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle; tutto ciò che legherai o scioglierai sulla terra sarà legato o sciolto nei Cieli ». Questo podere di suprema giurisdizione non meno degli altri fu esercitato senza contrasto dal principe degli Apostoli. Difatti, che cosa vediamo noi dopo l’Ascensione del Salvatore? Vediamo Pietro costantemente il primo in tutte le occasioni. E’ desso che a capo dell’apostolico Collegio prende a favellare e fa eleggere un Apostolo in luogo di Giuda; è desso che predica pel primo, ed annunzia ai Giudei la risurrezione di Gesù Cristo. D’altra parte se è il primo a convertire i Giudei, è anche il primo ad accogliere i Gentili. Esso è inviato per un ordine del Cielo a battezzare Cornelio centurione; egli il primo conferma la fede con un miracolo; egli, che nel Concilio di Gerusalemme prende a parlare, ed espone pel primo la propria sentenza. La piena autorità di reggere la Chiesa universale fu dunque data a San Pietro, e per conseguenza ai Pontefici romani, di lui successori; attesoché, come si disse, era indispensabile ad assicurare l’unità, l’immobilità , la perpetuità della Chiesa sino alla fine dei tempi. Quindi tutti i secoli cristiani riconobbero tale podestà nei successori di Pietro; tutti i Padri della Chiesa esaltano a gara il romano Pontefice, e lo chiamano capo dell’Episcopato da cui parte il raggio del governo; il suo seggio, il seggio di Roma, vien detto dai medesimi principato della cattedra Apostolica, principato supremo, sorgente d’unità, la cattedra unica nella quale sola tutti conservano l’unità. Così parlano S. Ottato, S. Agostino, S. Cipriano, S. Ireneo, S. Prospero, S. Avito, Teodoreto, il Concilio di Calcedonia, e gli altri tutti dell’Africa, delle Gallie, della Grecia, dell’Asia, dell’Oriente e dell’Occidente in tal dottrina concordi [Bossuet; Sermone sull’unità della Chiesa]. – Egli è in forza di questo diritto sovrano di governare, d’insegnare e di reggere la Chiesa di Dio, che i Papi hanno presieduto ai Concili generali e li hanno confermati. Dal che proviene, che nessun Concilio è stato risguardato come Ecumenico, e per conseguenza infallibile, quando non sia stato presieduto dal sovrano Pontefice in persona, o per mezzo dei suoi Inviati, o approvato e confermato da lui. Nessun altro Vescovo del mondo ha giammai goduto, come i successori di S. Pietro, del privilegio di farsi rappresentare dai suoi Legati. Cominciando dal primo Concilio generale sino a noi, troviamo in tutti, nessuno eccettuato, i contrassegni del primato e della giurisdizione universale della Santa Sede. In virtù di questo diritto le grandi controversie, le grandi questioni di morale o di disciplina sono sempre state deferite, fin dai primi secoli, al tribunale dei sovrani Pontefici; essi hanno sempre istituito i Vescovi, approvato la loro elezione, determinato la loro giurisdizione, coll’assegnare ai medesimi quella parte del gregge che dovevano guidare; di modo che i Vescovi non sono veri Pastori se non perché sono in comunione col Pastore universale. Poiché ebbe stabilito il Capo supremo della sua Chiesa, il nuovo Adamo gli associò dei cooperatori. Accostandosi ai suoi Apostoli, disse loro con tutta la maestà richiesta dalla grandezza dell’atto: Mi è stata conferita ogni potestà in Cielo e in terra; ch’è come a dire: Questa grande monarchia dell’ universo, che mi spetta come a Dio insieme e Uomo, m’appartiene più ancora per diritto di conquista, essa è il prezzo dei miei patimenti e della mia morte. Andate adunque, istruite tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo. Insegnate loro di osservare tutto quello che io vi ho comandato: ed ecco che io sono con voi per tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli!. [Matth. XX.VIII, 19-20]. Divina promessa che ci sta garante che il Signor Nostro, il Figlio di Dio, la Verità istessa, parla, e parla sempre per organo della sua Chiesa. Quale consolazione pel Cristiano! Qual tranquillità pel suo spirito! Quale sicurezza per la sua fede! Quale nobiltà e quale facilità per la sua obbedienza! – È manifesto per le cose dette, che tutti gli Apostoli ricevettero, come San Pietro, la stessa missione di predicare l’Evangelo, di fondar delle Chiese per tutta la terra, e di governarle; ma non segue da ciò che tutte le cattedre Vescovili che fondavano, dovessero essere il centro dell’unità cattolica, siccome quella di San Pietro: essi non furono al par di lui stabiliti qual pietra angolare della Chiesa. Laonde l’autorità dei Vescovi, successori degli Apostoli e stabiliti dallo Spirito Santo medesimo per reggere la Chiesa, riconosce dei limiti; laddove quella del sovrano Pontefice si estende ancora sopra coloro che hanno autorità di governare gli altri; ed esso ha diritto di deporre per causa legittima un Vescovo dal suo seggio. – In seguito della definizione or data della Chiesa, è assai facile discernere quelli che fanno parte di questa santa società da quelli che ne sono esclusi. Per esser membro della Chiesa conviene: – essere battezzato; quindi gl’infedeli ed i Giudei, essendo privi di battesimo, non appartengono alla Chiesa. – II° Bisogna credere tutto ciò che la Chiesa c’insegna; onde gli eretici, vale a dire, coloro che rimangono ostinatamente attaccati ad un errore condannato dalla Chiesa, e che rifiutano di credere quello ch’essa decide come articolo di fede, non sono membri della Chiesa, poiché mancano di fede. – III° È mestieri di obbedire al sovrano Pontefice ed ai legittimi Pastori; sicché gli scismatici, ossia quelli che si dividono e ricusano di confessare l’autorità suprema del nostro Santo Padre il Papa sulla Chiesa universale, sono fuori della Chiesa, perché rinnegano l’autorità legittima. – IV° È necessario rimanere nella Chiesa; per la qual cosa gli apostati, cioè coloro che rinunziano esteriormente alla fede cattolica, dopo d’avere fatto professione, per abbracciare l’infedeltà, o il maomettanismo per esempio, cessano di far parte della Chiesa, poiché non rimangono nel suo seno. – Non bisogna farsi escludere dalla Chiesa; in guisa che gli scomunicati, vale a dire, coloro che la Chiesa rigetta dal suo grembo e stanno da lei separati per tutto il tempo della scomunica, perché sono come membra recise. – Ma vien forse da ciò che tutti i membri della Chiesa siano giusti e santi, e per conseguenza non si possa essere ad un tempo peccatore e figlio della Chiesa? No, certamente. Giusta la similitudine del Salvatore medesimo, la Chiesa della terra è un’aia nella quale la paglia è mescolata al buon grano; è una rete entro cui trovansi adunati pesci buoni e cattivi; la separazione verrà fatta al giorno del giudizio finale. Laonde, sia pure il Cristiano quant’esser si voglia peccatore, egli continua ad appartenere al corpo della Chiesa fin tanto che non ne sia stato scacciato per mezzo della scomunica. Ma, ohimè! ch’egli è simile ad un ramo disseccato, il quale, sebbene resti attaccato all’albero, non riceve più succo nutritizio, né più partecipa di quegli umori vitali che dalle radici salgono ai rami vivi, e verdeggianti. – Esiste nondimeno diversità notevolissima fra il peccatore e il ramo inaridito; diversità che lascia una speranza consolatrice anche ai perversi i più indurati; perciocché un ramo disseccato più non può rivivere, laddove un membro della Chiesa, morto per ragione del peccato, può ricuperare la vita, e ricevere di nuovo quegl’influssi della virtù divina, che Gesù Cristo diffonde sui giusti, come il capo nelle sue membra [Vedi Filassier, p. 504]. – Quanto adunque sono a temersi quei reati per i quali s’incorre nella scomunica! Quanto sono a compiangersi quegl’infelici che più non appartengono alla Chiesa! Quanto è doveroso pregare e adoperarsi affinché rientrino nel grembo della Chiesa! Essi son meritevoli di maggior compassione che non quegl’infelici i quali al sopravvenire del diluvio non poterono aver luogo nell’Arca. Difatti fuori della Chiesa non v’è salute. Nulla è più vero di questa massima; nulla è più caritatevole che il professarla. – Nulla è più vero. Il Signor Nostro Gesù Cristo paragona il reame dei Cieli, che è la Chiesa, ad un re che festeggia lo sposalizio del suo figliuolo, e manda i suoi servi ad invitare alle nozze i propri favoriti; ma ricusando questi di assistere al banchetto, ei si sdegna acerbamente, e giura che niuno degl’invitati gusterà le imbandigioni della sua mensa [Matth. XXII]. – Coloro dunque che rifiutano la grazia offerta dal Salvatore, non possono pretendere di regnar con esso in Cielo; dunque coloro che non entrano nella Chiesa a cui sono invitati, rimangono stranieri a Gesù Cristo, e nel giorno estremo non saranno da Lui riconosciuti[Id. c. XVI].Altrove il Figlio di Dio disse agli Apostoli: Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo a tutti gli uomini. Chi crederà, e sarà battezzato, sarà salvo : chi poi non crederà, sarà condannato » [Marc. XVI, 15-16]. – Il Signor nostro Gesù Cristo volle adunque con volontà formale, che tutti gli uomini credessero al Vangelo, e credessero la sua Chiesa di cui diventano membri per mezzo del battesimo. Difatti se tutti gli uomini sono obbligati, siccome rimane fuor d’ogni dubbio dimostrato, per ottenere la salute eterna a professare la Religione cristiana, tutti sono del pari tenuti di entrare nella Chiesa di Gesù Cristo. E la ragione di tale conseguenza si è questa, che la Chiesa non è stata stabilita che per motivo della Religione. – Ora, chi vuole il fine vuole i mezzi: Dunque, il Signor Nostro Gesù Cristo il quale vuole che per mezzo della Religione che tutti si salvino, deve altresì per necessità volere che tutti facciano parte della società, ch’Egli medesimo ha fondato per conservare e per insegnare questa Religione. Dunque, II° essendo tutti gli uomini obbligati ad abbracciare la Religione di Gesù Cristo, perciò appunto sono tenuti di profittare del mezzo che il Signore ha stabilito per giungere alla vera cognizione della Religione e per rendere a Dio un culto legittimo. Dunque, III° la Chiesa è una società necessaria, della quale, per ragione di diritto naturale e divino, tutti devono far parte: per conseguenza quegli che scientemente e volontariamente si rimane fuori del suo grembo non può sperare la salute. « Le porte dei Cieli, dice il Salvatore per bocca dell’ Evangelista, non si apriranno che per quelli i quali avranno osservato i comandamenti; colui che avrà conosciuto la mia legge, e avrà rifiutato di uniformarvisi sarà condannato». – I Padri, quali eredi delle dottrine del Salvatore e degli Apostoli, professano altamente la stessa verità. « Colui, dice San Cipriano, che non avrà Iddio per padre, non avrà la Chiesa per madre. Se alcuno poté sfuggire alle acque del diluvio senza essere nell’Arca, così chi sarà vissuto fuori della Chiesa potrà sfuggire all’eterna condanna » 1 [De Unit. Eccles.]. – « Nessuno, scrive Sant’Agostino, otterrà la salute, se non ha Gesù Cristo per capo, se non ha fatto parte del suo corpo, che è la Chiesa ». – Gran che! Questa massima è professata persino dai Protestanti; anzi, a dir giusto, questa massima è la ragione stessa della pretesa loro riforma. Perché si sono eglino separati dalla Chiesa Romana, se non perché non la risguardavano come la vera Chiesa, vale a dire, come la vera società a cui era d’uopo appartenere per salvarsi? Perché hanno essi ideato Chiese novelle? Non per altro che per entrare in tali società che, a loro avviso, conducessero alla salute eterna. Perché si sono gli uni contro gli altri vicendevolmente scagliati terribili anatemi? Per questa sola ragione, che ognuno d’essi ha detto: Io sono la vera Chiesa, e fuori del mio grembo non si trova salvezza. Appartenere dunque alla vera Chiesa, ed essere sul sentiero della salute, è per loro un sola e medesima cosa. Ora questo significa nel linguaggio cattolico, fuori della Chiesa non si dà salute. Né solo i Protestanti, ma i seguaci ben anco di tutte le altre Religioni ammettono lo stesso principio, ed il più ovvio buon senso ne persuade agevolmente che hanno ragione. Se voi infatti distruggete questa massima: Fuori della Chiesa non v’ha salute, sarà forza ricevere la contraria, e confessare: Che anche fuori della Chiesa è possibile le salute. Ma in tal caso quale sarà la differenza fra la verità e l’errore? L’Eretico, lo Scismatico, il Turco, l’Infedele, il Giudeo, il Deista, l’Ateo avranno le stesse probabilità di salute, e potranno arrivare al Cielo professando le dottrine le più contraddittorie e le più funeste. [Questa massima anche nell’ordine sociale è il cardine su cui si aggirano tutte le parti politiche. Chi più altamente la professa, e più terribilmente la sanziona delle sètte dei Socialisti, Comunisti, Fourieristi! Ognuna di queste fazioni grida in modo da sopraffarne le altre: Son io che possiedo la verità, e fuori delle mie dottrine, della mia politica, del mio seno, non c’è salute per la società!]. – Dicemmo che nulla è più caritatevole per parte dei Cattolici che il professare questa massima. Difatti, convinti come sono per una parte, e fino a sostenerlo coll’effusione del proprio sangue, che esiste una Religione vera ed obbligatoria per tutti, nonché una società incaricata di conservarla e di spiegarla; convinti dall’altra, che questa Religione è la Religione cattolica, e questa società la Chiesa Romana, possono essi mai esercitare verun atto maggiore di carità, quanto quello di dire agli uomini: Entrate in questa società, al fine di conoscere e porre in pratica la Religione, che sola può rendervi felici in questo mondo e nell’altro? Badate bene quello che v’inculchiamo è indispensabile, fuori della Chiesa non si dà salute? Ripetere questa massima, proclamarla dappertutto, si dovrà dire dunque, come odesi le tante volte, che è un mostrarsi crude:contro gli uomini? Ma non è questo più tosto un rendere ad essi il massimo dei servigi? Fu forse crudele Noè, allorquando nel costruire l’Arca diceva ai peccatori per ridurli a penitenza: Fuori dell’Arca non vi sarà salute ? Il Signor Nostro Gesù-Cristo ha forse mancato di carità, quando ci avvertì, che chiunque non entrerà nella Chiesa per la fede e pel battesimo sarà condannato? Manca forse il medico di carità, allorché avverte il suo infermo, che se non usa la tale precauzione può disperare di guarire? Io so che si deve dar fuoco alla vostra abitazione, e farvi perire nell’incendio con tutta la vostra famiglia, io conosco il solo mezzo di sventare la trama de’ malfattori, e perciò vi dico: State all’erta; se non v’appigliate all’espediente che propongo voi perirete. Sarò io colpevole di crudeltà dandovi tale avvertimento? Non è piuttosto un segnalato servigio che vi rendo? – Or bene, noi cattolici sappiamo di certa scienza, e tutti gli uomini possono saperla al par di noi, perché il Figlio di Dio, la Verità stessa, il Giudice sovrano dei vivi e dei morti lo ha detto, che fuori della società da Lui stabilita non v’ha salute, noi vi ripetiamo le sue parole, vi ricordiamo il destino che v’attende, vi preghiamo d’uniformarvi ai suoi divini comandamenti. – Noi facciamo quello che hanno fatto già gli Apostoli, i Martiri, i Missionari, tutti i Santi, che si sacrificarono per intimare altamente a tutte le nazioni: “Diventate cristiane, entrate nell’ovile di Gesù Cristo”, fuori della Chiesa non v’ha salute. Il di lei zelo non era mosso da verun altro impulso: che questa una crudeltà? – Adunque nulla è più vero di questa massima, nulla è più conforme alla carità che il proclamarla, acciò che da tutti sia creduta una volta per sempre. Bisogna perciò sapere che vi sono più modi di appartenere alla Chiesa. – Si appartiene al solo corpo della Chiesa, allorquando vivesi nella società visibile di tutti i Fedeli, soggetti esteriormente al loro capo, alla sua dottrina, ma in istato per altro di peccato mortale; nel qual caso si è membri morti, rami inariditi. – II° Si fa parte dell’anima e del corpo della Chiesa, quando alla professione esteriore della Religione cattolica si congiunge la grazia santificante. – III° Finalmente si appartiene all’anima della Chiesa senza far parte del suo corpo, allorché si è scusati innanzi a Dio, per buona fede o per ignoranza invincibile, di essere e di perseverare in una società straniera alla Chiesa. In questo stato si può arrivare alla salute mercé una vera carità, un desiderio sincero di conoscere la volontà di Dio, e la pratica fedele di tutti i doveri che si conoscono, o che si è potuto e dovuto conoscere. [Catechismo del Concilio di Trento]. – Laonde fra gli eretici e gli scismatici, tutti i fanciulli che sono battezzati, né sono per anco giunti all’uso della ragione, non che molte persone semplici le quali vivono nella buona fede, e di cui Iddio solo conosce il numero, tutti questi fanciulli, io dico, tutte queste persone di buona fede, non partecipano né allo scisma, né all’eresia; hanno una scusa nell’ignoranza invincibile dello stato delle cose, né devono essere risguardati come esclusi dalla Chiesa, fuori della quale non si dà salute. – Primamente i fanciulli non avendo ancora potuto perdere la grazia ricevuta nel battesimo, appartengono senza dubbio all’anima della Chiesa, vale a dire, che le sono uniti mercé la fede, la speranza e la carità abituali. In secondo luogo i semplici e gl’ignoranti, di cui si tratta, possono aver conservato la medesima grazia; possono in diverse delle loro sètte essere istruiti di certe verità della fede che hanno esse conservato, e bastevoli assolutamente alla salute; essi possono crederle sinceramente, e col soccorso della grazia condurre una vita pura ed innocente. Iddio non imputa loro gli errori in cui vivono per invincibile ignoranza; ond’è che sebbene visibilmente siano membri di una setta, possono far parte dell’anima della Chiesa, ed avere la fede, la speranza, la carità. Del rimanente questi fanciulli e queste persone di buona fede son debitrici della loro salute alla Chiesa cattolica che essi non conoscono punto; imperocché da essa provengono le verità salutari, non meno del battesimo, cui le sètte nel separarsi hanno conservato. Queste persone, a dir vero, riceverono codeste verità immediatamente dalle sètte, ma queste sètte le ebbero dalla Chiesa, cui Gesù Cristo ha confidato l’amministrazione dei Sacramenti e il deposito della fede. [V. la Censura dell’Emilio fatta dalla Sorbona]. – Quindi è che si può ottenere la salute benché si faccia parte esteriormente di una religione straniera, ma non già perché alla medesima si appartenga: il che è assai diverso. – Ecco pertanto il senso preciso di questa massima così perfettamente irreprensibile, e non ostante così spesso rimproverata ai Cattolici: fuori della Chiesa non si dà salute: non si dà salute per ogni uomo, che, conoscendo o dovendo conoscere la vera Chiesa, ricusa d’entrarvi; non si dà salute per quelli, che, essendo nella vera Chiesa, se ne separano per abbracciare una setta straniera. Tutti costoro si mettono evidentemente fuori della via della salute; imperocché si rendono colpevoli d’inescusabile ostinazione. Gesù Cristo non promette la vita eterna se non alle pecorelle che ascoltano la sua voce; quelle che fuggono dal suo ovile, o che rifiutano di ricoverarvisi, son preda dei lupi divoratori. – Quanto a noi figli della Chiesa dimostriamo i nostri sensi di gratitudine a Dionostro Padre, e alla Chiesa nostra Madre, in guisa da corrispondere per quanto possiamo agli immensi benefizi che abbiamo ricevuti. Dond’è, che noi, siccome tanti altri, non siamo nati in mezzo all’eresia, all’infedeltà, all’idolatria? Dond’è, che abbiamo avuto la felicità di essere nutriti ed allevati con materna tenerezza nel grembo della vera Chiesa? Amiamola dunque questa Chiesa così buona, e per isventura sì poco amata e tanto perseguitata. Attestiamole il nostro amore: sottomettendoci alle sue decisioni con rispetto filiale, ed osservando le sue leggi con fedeltà irreprensibile; II° dividendo i suoi dolori e le sue gioie, e prendendo a cuore tutto ciò che la concerne; III° mostrandoci ognora presti a sacrificare alla conservazione della sua fede, della sua disciplina, della sua autorità, i nostri vantaggi, la nostra libertà, il nostro riposo, il nostro onore innanzi agli uomini, la nostra vita stessa! IV° Non tralasciando mezzo alcuno onde farla conoscere a quelli che non la conoscono, farla amare da quelli che non l’amano, e così essere veri imitatori di Gesù Cristo, « che ha amato la Chiesa sino a darsi oblazione per essa ».

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, vi ringrazio con vero cuore che abbiate stabilito la vostra Chiesa onde perpetuare la vostra santa Religione, e la nostra unione con voi: deh! fate che io sia sempre docile pecorella del vostro ovile. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose e il prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore, pregherò spesso per l’esaltazione della Chiesa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“L’uomo saggio costruisce la sua casa sulla roccia”

“L’uomo saggio costruisce la sua casa sulla roccia” –

[una meditazione di Fr. UK, sacerdote di S. S. Gregorio XVIII]

 Conosciamo tutti dal Vangelo di San Matteo questo importante insegnamento di Nostro Signore Gesù Cristo che parla di due uomini, un uomo saggio ed un uomo stolto, che incarnano due tipologie di persone. – Possiamo cominciare da qui: “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così, ogni albero buono produce buoni frutti, e l’albero cattivo produce frutti cattivi. Un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni, viene tagliato e gettato nel fuoco. Perciò dai loro frutti li conoscerete”(Matteo VII, 15-20). – E continuiamo: – “Ognuno, pertanto, che ascolta queste mie parole, e le mette in pratica, sarà paragonato ad un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia (qui aedificavit domum suam supra petram), Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, e i venti soffiarono e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia (fundata enim erat eccellente petram); e chiunque ascolta queste mie parole, e non le mette in pratica, sarà simile ad un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia, cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e grande fu la sua rovina “(Matteo VII: 24-27). – Chi è un uomo saggio e perché egli è saggio? – Un uomo saggio è colui che ascolta le parole di Nostro Signore, e ha costruito la sua casa sulla roccia. – Chi è invece un uomo stolto e perché è stolto? – Un uomo stolto è colui che ascolta le parole di Nostro Signore, ma ha costruito la sua casa sulla sabbia. – E ora vedremo che cosa significhi: 1) ascoltare le parole di nostro Signore e costruire una casa sulla roccia, ed 2) ascoltare le parole di nostro Signore e costruire una casa sulla sabbia. – Vediamo quello che il Signore ha detto, appena prima di questo. – Egli ha detto che molte persone pensavano di aver fatto (in foro esterno) cose buone: hanno detto al Signore che hanno pregato per Lui, hanno profetizzato nel suo Nome, scacciato i demoni nel suo Nome, e fatto molti miracoli nel suo Nome. Ma comunque, il Signore disse loro che non li conosceva, e dovevano andar via da Lui, perché erano operatori di iniquità: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa volontà del Padre mio che è nei cieli: questi entrerà nel regno dei cieli! Molti mi diranno in quel giorno: “Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome” … ma Io dichiarerò loro: non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi che operate iniquità “(Matteo VII: 21-23). – Nel contesto di questo insegnamento di Nostro Signore, possiamo vedere chi sia l’uomo saggio e lo stolto, visto che le cose sembrano simili tra loro. Ma c’è una differenza essenziale tra di loro. – La differenza è che quelle persone che costruiscono le loro case sulla roccia sono sagge Omnis ergo qui audit verba mea hæc, et facit ea, assimilabitur viro sapienti, qui ædificavit domum suam supra petram”. (Matteo VII,24), ma l’altro tipo di persone, coloro che costruiscono le loro case sulla sabbia, sono stolte: “et omnis, qui audivit verba mea hæc, et non facit ea, similis erit viro stulto, qui ædificavit domum suam super arenam” (Matteo VII:26 ). – Perché il Signore dice che l’uomo saggio è colui che ha costruito la sua casa sulla roccia? – Perché l’uomo che ha ascoltato le parole di Dio, infatti, e si è sottomesso alla volontà di Dio, ed ha costruito la sua casa (la vita) sulla roccia (fondamento) che Dio ha comandato, poiché Dio stesso ha costruito la sua casa sulla roccia, che è Pietro: “E io ti dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (Et ego dico tibi, quia Tu es Petrus, et super-hanc petram aedificabo ecclesiam meam, et portæ inferi non prævalebunt adversus eam) (Matteo XVI:18). – San Pietro, per volontà del Signore, è stato scelto per essere la roccia della Chiesa di Dio, di modo che un uomo che ha costruito la sua casa (la vita) su questa pietra, è un uomo saggio … “un albero buono produce frutti buoni ed entrerà nel regno dei cieli “. – Ma, al contrario, un uomo che non ha costruito la sua casa (la sua vita) su questa pietra (basamento), come Dio ha comandato, è uno stolto, perché ha costruito la sua casa sulla sabbia. E non importa quante volte queste persone abbiano detto: “Signore, Signore”, o “profetizzato”, o “scacciato i demoni, e abbiano fatto molti “miracoli” … questi uomini sono operatori di iniquità, e Dio non li conosce, sono falsi profeti, essi sono l’albero cattivo che produce frutti cattivi, e questo è il motivo per cui Dio manderà quegli uomini stolti direttamente “nel fuoco”! – Così, in questo semplicissimo insegnamento, possiamo vedere le dirette conseguenze del lavoro di un uomo saggio e del lavoro di un uomo stolto: 1) ogni uomo, che ha costruito la sua casa su San Pietro, parte integrante della Casa di Dio, quest’uomo con la sua casa (la vita) appartiene al regno dei cieli! 2) La casa che ogni uomo ha costruito sulla sabbia, è parte integrante della casa del Diavolo, ed un uomo del genere non appartiene al regno dei cieli, poiché lui con la sua casa “è caduto, e grande è stata la sua rovina.” – In conclusione, si vede dal Vangelo di Nostro Signore, che Egli dice a tutti … Egli vuole che tutti entrino nel regno dei cieli, che è già iniziato sulla terra. Il Regno dei Cieli in terra è la Chiesa di Gesù Cristo, che Egli ha costruito su San Pietro e tutti i successori di San Pietro … “e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”. – Il 26 ottobre del 1958 è stato eletto il vero successore di San Pietro, che ha scelto il nome di Gregorio XVII, e dopo di lui, il 3 maggio 1991 è stato eletto un nuovo Pontefice che ha scelto il nome di Gregorio XVIII (il 262° successore di San Pietro). Il primo è stato in una prigione e il secondo è in esilio. E infatti il primo è stato la vera roccia, ed il secondo è la vera roccia. – Sia lodato Dio per la sua roccia, su cui tutti hanno ancora la possibilità di costruire una casa, e quindi diventare un “uomo saggio”. – Sii un uomo saggio!

23 gennaio 2016

MESSA

Messa.

[da: E. Barbier – “I tesori di Cornelio Alapide” SEI ed. Torino, 1930]

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.1. Significato della parola Messa. — 2. I sacrifici e il loro scopo. — 3. I sacrifici nell’antica legge. — 4. Eccellenza e vantaggi della Messa. — 5. Significato delle vesti sacre. — 6. Come si deve udire la santa Messa.

1.- SIGNIFICATO DELLA PAROLA « MESSA » . Alcuni derivano la parola Messa dal vocabolo ebraico missah; ma è più probabile, secondo S. Agostino, S. Avito di Vienna, S. Isidoro di Siviglia, che derivi dalla parola latina missio, che significa rinvio, licenziamento; perché nell’antica liturgia, dopo le preghiere e le istruzioni che precedono l’oblazione dei sacri doni, si licenziavano dalla chiesa i catecumeni e i penitenti, rimanendo presenti alla celebrazione dei divini misteri i soli fedeli, che erano supposti degni di assistere al santo sacrificio. – La Messa è il Sacrificio della nuova legge, nel quale la Chiesa offre a Dio, per mano del sacerdote, il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, nascosti sotto le specie del pane e del vino. È di fede che l’oblazione che si fa nella Messa è il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, e da ciò bisogna conchiudere in modo sicuro, che la Messa non è solamente un sacramento, ma è veramente anche un sacrificio. E non si offre in tutto il mondo cattolico altro sacrificio fuori di questo.

2.I SACRIFICI E IL LORO SCOPO. Dopo il peccato vi furono sempre e dappertutto dei sacrifici… Abele, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Melchisedech, gli Ebrei nell’Egitto e nel deserto, e nella terra promessa, offrirono a Dio dei sacrifici… Non si trova nazione né barbara né civile che non abbia avuto e non abbia i suoi sacrifizi… Essi sono necessari a placare Dio …; a rendergli onore e culto …; ad espiare le colpe degli individui e della società…; ad ottenere grazie…; a ringraziare delle grazie ottenute…

 3. – I SACRIFICI NELL’ANTICA LEGGE. Nell’antica legge vi erano tre specie di sacrifizi: 1° il sacrificio di olocausto, destinato unicamente a lodale e onorare Dio; la vittima vi era interamente consumata e ridotta in cenere, per indicare con ciò che si riconosceva e professava il supremo dominio di Dio su tutte le cose create. 2° Il sacrificio pacifico e salutare, che offri vasi per ottenere la pace, cioè la salute di chi l’offriva o di altra persona, di un individuo in particolare o di una famiglia o della nazione. 3° Il sacrificio di espiazione, che aveva per fine di ottenere il perdono dei peccati e chiama vasi anche sacrificio di propiziazione. – Essendo imperfetta la legge antica, erano imperfetti anche i sacrifici che ne facevano parte: « È impossibile, scriveva S. Paolo agli Ebrei, che il sangue dei tori e dei capri scancelli i peccati » — “Impossibile est sanguine taurorum et hircorum auferri peccata” (Hebr. X, 4) . A placare Dio e santificare gli uomini, ben altro pontefice e altro sacrificio si richiedeva che non fosse il grande sacerdote ed il sacrificio di animali … Si richiedeva un sacrificio veramente degno di Dio, e abbastanza efficace per lavare i peccati… Gli antichi sacrifici non erano altro che la figura del Sacrificio della nuova legge, e intanto erano graditi a Dio in quanto simboleggiavano il sacrificio della croce e dell’altare … E la legge la quale ordinava che le vittime di quei sacrifici fossero affatto senza macchia, da ciò appunto traeva la sua ragione, perché dovevano significare la perfezione di Gesù Cristo divenuta vittima… Ecco la dichiarazione espressa che fece il Signore per bocca di Malachia, ultimo dei profeti, vissuto in tempo vicinissimo alla venuta di Gesù Cristo: « La mia affezione non è per voi, e non accetterò più doni dalla vostra mano. Poiché dall’oriente all’occidente suona grande il mio nome fra le nazioni; in ogni luogo si sacrifica, e viene offerta a me un’oblazione monda » — “Non est mihi voluntas in vobis, et munus non suscipiam de manu vestra”. (Malach. I ,10-11) . È manifesto che il profeta parla del sacrifizio della croce e dell’altare, poiché dopo Gesù Cristo non vi è più altro sacrificio che questo, il quale è in tutta verità offerto in ogni luogo e in tutte le ore dal nascere al calare del sole… Venuto Gesù Cristo su la terra, tutti i sacrifici cessarono, rigettati da Dio, come più non si bada alla figura, quando si possiede la realtà, o si spegne la candela quando arriva la luce del sole. Perciò S. Paolo, togliendo le frasi al Salmista, scriveva agli Ebrei: « Entrando il Figlio nel mondo, disse: “Tu , o Padre, non hai più voluto né ostia, né oblazione, ma hai vestito me di un corpo: ed Io allora vedendo che gli olocausti più non ti erano graditi, ho detto: Ecco che io vengo per fare la tua volontà, o mio Dio. Egli abroga il primo sacrifizio per stabilire il secondo » (Hebr. X, 5-6, 9). Tu non hai voluto;— “hostiam et oblationem noluisti”, — cioè, tu non hai più accettato le vittime offerte, gli olocausti, i sacrifizi che si offrono secondo la legge; ora eccomi qua Io, Io il Messia, il Salvatore, il Redentore, pronto e disposto, o Padre, a fare la tua volontà; per essere immolato prima sul Calvario, poi tutti i giorni su gli altari, a perpetuo ricordo e quotidiana rinnovazione del Sacrificio del Calvario.

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 4. – ECCELLENZA E VANTAGGI DELLA MESSA. Il Sacrificio di Gesù Cristo tiene il luogo di tutti gli altri sacrifici, ed è a loro superiore in dignità ed eccellenza, come il corpo è superiore all’ombra. Perciò i molti sacrifici della legge mosaica tutti disparvero, coi loro ministri, in faccia a quest’uno, per non mai più ricomparire… Gesù solo è nostra vittima e nostro Sacrificio… « Gesù Cristo, dice S. Paolo agli Efesini, si è dato egli medesimo in offerta per noi a Dio, ed in ostia e sacrificio di grato odore » — “Christus tradidit semetipsum prò nobis oblationem et hostiam Deo in odorem suavitatis(Eph. V, 2). Il Sacrificio della messa è un olocausto, perché Gesù Cristo vi è offerto tutto intero a Dio in virtù della consacrazione… È Sacrificio pacifico, che placa la giustizia di Dio, dà la pace agli uomini… È Sacrificio di propiziazione, che ci ottiene il perdono dei nostri peccati… E Sacrificio di ringraziamento, che rende a Dio tutto quello che gli è dovuto; perché qui vi è un Dio che si offre a un Dio. – La Messa è un Sacrificio che di per se stesso ci procura la grazia preveniente, la quale ci eccita alla fede, alla penitenza e a ricevere i sacramenti la cui virtù ci giustifica. A questo proposito dobbiamo notare che appartiene all’azione dei sacramenti il giustificare, e all’azione del Sacrificio il piegare Dio a nostro favore e rendercelo propizio. In quanto Sacrificio dunque, la Messa ci ottiene primieramente la grazia preveniente, poi la remissione della pena dovuta ai peccati ed il perdono delle colpe veniali, ma non toglie né cancella d i per se stessa il peccato mortale, eccetto che colui il quale la celebra, o partecipa al Sacrificio per mezzo della comunione, ignori in buona fede lo stato in cui si trova. In questo caso l’eucaristia gli rimette la colpa mortale e gli conferisce la prima grazia e la giustizia; ma la Messa non opera ciò in quanto è sacrifizio, ma in quanto è sacramento… « Il sacerdote che celebra la messa, dice l’autore dell’Imitazione di Cristo, dà gloria a Dio, letizia agli angeli, sostegno alla Chiesa, aiuto ai vivi, suffragio ai defunti, e rende se medesimo partecipe di tutti i beni [“Quando sacerdos celebrat, Deum honorat, angelos laetificat, Ecclesiam aedificat, vivos adiuvat, defunctis requiem praestat, et sese omnium honorum participem efficit” (Lib. IV, c. V)]. San Giovanni Crisostomo ci assicura che, mentre viene immolato sui nostri altari l’Agnello di Dio, vi assistono venerabondi i serafini, coperto il volto con le loro ali; poi aggiunge che mentre siamo nella presente vita, questo sacrifizio cambia per noi la terra in cielo [“Agnus Dei immolatur, seraphim adstant sex alis faciem tegentia… Dum in hac vita simus, ut terra nobis coelum sit, facit hoc misterium(De Sacerdot., lib. VI)]. La Messa è il ricordo della passione e della morte del Salvatore, come affermò Egli medesimo agli Apostoli, quando disse: «Fate questo in memoria di me » — “Hoc facite in meam commemorationem” (Luc. XXII, 19). – Ma che dico, memoriale della passione del Salvatore? Essa è quel medesimo Sacrifizio che fu offerto su la croce: infatti e sulla croce, e sull’altare una e medesima è la Vittima che viene offerta, uno e medesimo è il Sacerdote che l’offre; sulla croce Gesù Cristo fu Sacrificatore a un tempo e Sacrifizio, lo stesso avviene sull’altare; e sebbene qui sia incruento mentre là fu con spargimento di sangue, ciò nulla toglie a che abbiano tutti e due il medesimo valore e la stessa efficacia… « Era conveniente, osserva S. Paolo, che noi avessimo un Sacerdote, santo, innocente, immacolato, segregato dai peccatori, e più alto dei cieli; un Pontefice che non abbia necessità, come i sacerdoti, di offrire vittime prima per i suoi peccati, poi per quelli del popolo; poiché questo egli fece una volta, immolando se stesso » — “Talis enim decebat ut nobis esset pontifex, sanctus, innocens, impollutus, segregatus a peccatoribus et excelsior coelis factus, qui non habet necessitatem quotidie, quemadmodum sacerdotes, prius prò suis delictis hostias offerre, deinde prò populi; hoc enim fecit semel seipsum offerendo” (Ebr. VII, 26-27). E offerendosi, egli fu esaudito a cagione della sua dignità e della venerazione che gli è dovuta » — “Exauditus est pro sua reverentia” (Id. V, 7). – Dio nei suoi stratagemmi di amore per l’uomo, ha ordinato il sacrificio della Messa in modo, che il pontefice il quale l’offre per riconciliarci con Dio, si unisce a formare una cosa sola con Colui al quale è offerto il Sacrificio, e con quelli per i quali è offerto; affinché questo Sacrificio riesca pienamente accetto a Dio ed efficace, la vittima si trova anch’essa nelle medesime condizioni. Quindi l’apostolo S. Giovanni scrive che « Gesù Cristo è egli medesimo propiziazione per i nostri peccati; né solo per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo » — “Ipse est propitiatio pro peccatis nostris; non prò nostris autem tantum, sed etiam prò totius mundi” ( IOANN. I, II, 2). – La santa Messa basta da sola a dare abbondante soddisfazione a Dio, perché vince infinitamente in pregio tutti i pesi dell’iniquità del mondo. Questo sacrifizio vale assai meglio a placare il Padre, di quanto sia valsa la nostra iniquità a sdegnarlo, secondo la sentenza di S. Paolo: « Dove era abbondato il peccato, sovrabbondò la grazia » — “Ubi abundavit delictum, superabundavit gratia” … (Rom. V, 20). Così grande è il Sacrificio dell’altare, che non può essere offerto ad altri fuorché a Dio solo!… Nella sua bontà infinita, Gesù Cristo ha voluto lasciare alla Chiesa visibile e indefettibile, un sacrificio visibile e permanente. Il sacrifizio della croce fu la prima Messa celebrata in questo mondo… Di che immenso amore ardeva il cuore del Salvatore, se ha voluto perpetuare ogni giorno, fino alla fine del mondo, il Sacrificio del suo corpo e del suo sangue! – Cinque sono i frutti principali che si possono raccogliere dalla santa Messa: 1° un aumento di grazie…: 2° la remissione della pena dovuta al peccato…; 3° un più facile conseguimento di ciò che si domanda…; 4° la professione di atti di fede, di speranza, di carità, di religione…; 5° chi assiste al Sacrificio della Messa, trovandosi in presenza di Gesù Cristo, non vede nessuna sua preghiera rimanere senza effetto. – In tre parti principali si divide la Messa: 1° l’offertorio; 2° la consacrazione; 3° la comunione del sacerdote. – La prima parte, che, va dalla confessione all’offertorio, è la preparazione al santo Sacrificio. Col Confiteor, atto di umiltà e contrizione, ci disponiamo al grande fatto che sta per incominciare. Col Kyrie, invochiamo il soccorso e la misericordia di Dio… Col Gloria, ne cantiamo le lodi, ed inneggiamo in suo onore… L’Oremus, unisce tutti gli astanti a pregare insieme… Col Dominus vobiscum, il sacerdote e i fedeli si augurano a vicenda i doni dello Spirito Santo… L’Epistola, ci fa comunicare coi santi dell’antica legge… Il Graduale, segna la penitenza che faceva il popolo ad esortazione di San Giovanni Battista . . . L’Alleluia, è il grido di gioia del peccatore riconciliato. .. – Il Vangelo, figura della nuova legge, ricorda la dottrina e la morale predicate da Gesù Cristo… Il segno di croce su la fronte, dice che non dobbiamo arrossire della fede; su la bocca, denota che il cristiano dev’essere prudente nelle parole e che deve discorrere frequentemente della croce di Gesù Cristo; sul petto, significa l’amore di cui deve ardere il cuore dell’uomo, per Dio; sul Vangelo, figura che bisogna annunziare e seguire Gesù crocefisso… I lumi che si portano accesi, simboleggiano la luce che il Vangelo ha sparso per il mondo… Ci leviamo in piedi, per dichiararci pronti ad obbedire agli insegnamenti del Salvatore. Segue poi la professione di fede col Credo… Ai catecumeni era solo permesso assistere a questa parte della Messa. – La seconda parte, che è la principale, la più santa, la più divina, e che costituisce propriamente il Sacrificio, parte alla quale assistevano i soli cristiani, va dall’Offertorio al Pater. L’Offertorio, così è chiamato perché allora si fa l’offerta del pane e del vino che devono essere consacrati… L’acqua che si versa nel calice, figura quella che uscì mescolata al sangue, dal costato di Gesù Cristo trafitto in croce… Il vino e l’acqua sono offerti da chi serve alla Messa, per accennare che i fedeli hanno parte nel Sacrificio… – II pane, composto di molti grani di frumento, e il vino, prodotto di molti acini d’uva, rappresentano la Chiesa composta di molte membra tratte dalla massa corrotta degli uomini, affinché siano trasformati in Gesù Cristo e più non abbiano fra tutti che un cuore ed un’anima sola. Sotto altro aspetto si può dire, che siccome il pane ed il vino formano il principale nostro nutrimento, perciò offrendo a Dio questi due prodotti, gli offriamo la nostra vita … Il prete si lava la sommità delle dita, per mostrare quanta purità si richieda per offrire il santo sacrifizio. – All’Orate fratres, il celebrante si raccomanda alle orazioni dei fedeli, affinché il sacrifizio che egli offre in unione con essi, sia ricevuto da Dio; e i fedeli rispondono che essi desiderano che le intenzioni e i voti del sacerdote si compiano… Si arriva al Prefazio, il qual nome indica preludio, preambolo. – Infatti, il prefazio è destinato a preparare gli animi alle orazioni del canone e specialmente dell’elevazione. È un canto di trionfo e di gloria, un invito ad elevarsi fino al cielo, per lodare di concerto con i cori angelici, il Dio dell’universo . . . Il Sanctus viene dal cielo; colà lo impararono e di là lo portarono in terra Isaia e Giovanni Evangelista… La parola “canone”, vuol dire regola… A d esempio di Mose, il prete tiene alzate le mani, per innalzare la terra fino al cielo e per far discendere il cielo su la terra. Nel Memento dei vivi, il sacerdote prega in nome della Chiesa, per tutti i fedeli e specialmente per coloro a cui richiesta offre il Sacrificio, e per quelli che assistono alla Messa… Siamo all’istante meraviglioso e divino della Consacrazione; l’assemblea si prostra a terra alla vista del miracolo dei miracoli . . . Un grande fiat ha luogo, e il RE dei re si trova su l’altare. .. – Il pane e il vino sono divenuti il corpo, il sangue, l’anima e la divinità di Gesù Cristo… I molteplici segni di croce fatti dal sacerdote, hanno lo scopo di ricordarci Gesù su la croce… Le sue genuflessioni indicano l’adorazione che si deve a Dio e il profondo rispetto dovuto all’augusta sua Persona… Il Memento dei morti è un ricordo delle anime purganti, una preghiera indirizzata per loro a Dio, in nome di tutta la Chiesa… Dopo questo si recita la preghiera per eccellenza, il Pater; e da questo punto comincia la terza parte della Messa. – Il sacerdote divide l’ostia sacrosanta, per imitare Gesù Cristo il quale prese del pane, lo spezzò e distribuì a’ suoi apostoli, dicendo: « Prendete e mangiate: questo è il mio corpo ». Poi lascia cadere nel calice una porzioncella dell’ostia, per indicare che la pace la quale egli ha or ora augurato ai fedeli col Pax Domini, è suggellata col sangue medesimo di Gesù Cristo… La mescolanza dell’ostia col sangue di Gesù significa: 1° l’unione di Dio con l’uomo, nell’incarnazione; 2° l’unione di Dio con l’uomo, nella santa comunione; 3° l’unione degli eletti con Dio, nel cielo… Ma per godere di questa pace così preziosa, di quest’unione così cara e gloriosa, bisogna essere mondo di peccato. Ed ecco perché il sacerdote recita l’Agnus Dei ed il Domine non sum dìgnus… Il prete si comunica; i fedeli si dispongono attorno alla sacra mensa… Il rimanente della Messa va nel ringraziare Iddio.

 5. – SIGNIFICATO DELLE VESTI SACRE. Tutto ciò che ha attinenza alla Messa, rappresenta il Sacrifizio adorabile della croce… L’amitto figura il velo che copriva il volto di Gesù Cristo quando era schiaffeggiato… ; il camice, la bianca veste di cui lo fece coprire per ischerno Erode…; il cingolo, le funi, e le catene con cui fu legato nel giardino degli Olivi e flagellato nel Pretorio … ; il manipolo, le ritorte con cui fu legato alla colonna; e si applica al braccio sinistro, più vicino al cuore, quasi per farci notare il grande amore di Gesù Cristo…; la stola, rappresenta i tre legami che lo fermarono su la croce; indica ancora il potere del ministro consacratore…; la pianeta, ricorda lo straccio di porpora di cui fu coperto il Redentore, e la tunica di cui fu spogliato e sopra cui furono messe le sorti … ; la croce che si vede figurata sopra gli abiti sacri, mette continuamente sotto gli occhi del sacerdote e degli assistenti, lo strumento del supplizio del Salvatore… Ogni ornamento dunque rappresenta una circostanza della passione e della morte di Gesù Cristo. Tutto eccita i fedeli a meditare seriamente e a piegare con fervore… Tutto inspira loro confidenza…

 6. – COME SI DEVE UDIRE LA SANTA MESSA. — 1° I fedeli devono procurare di unirsi d’intenzione col celebrante, e per ciò ricordarsi che per tre motivi principali si offre il santo Sacrifizio: 1) in rendimento di grazie per i beni ricevuti …; 2) per dare soddisfazione dei peccati commessi.,.; 3) per implorare gli aiuti e le grazie di cui abbiamo bisogno. – 2° Bisogna offrire se medesimo a Dio insieme con la vittima eucaristica. 3° Durante il santo Sacrificio è cosa utile considerare: 1) chi sia Colui al quale si offre…; 2) Colui che l’offre…; 3) Colui che è offerto…; 4) perché si offre. – 4° Poiché il Sacrificio della Messa è il memoriale dell’amore di Gesù Cristo per gli uomini, e la rappresentazione, o meglio, la rinnovazione incruenta della sua passione e morte, quale occupazione più utile e naturale, che quella di meditare, nel tempo che si offre, sui patimenti e su l’amore del Salvatore? E questo il vero mezzo di udire la messa con profitto. – 5° Bisogna assistere alla santa Messa con quel profondo rispetto interiore ed esteriore, che naturalmente provoca, in chi vi ponga mente, la vista del luogo santo, la presenza di Dio, la compagnia degli Angeli e dei fedeli e finalmente il pensiero del grande mistero che si compie … Chi è penetrato di queste verità, assisterà alla santa Messa con fede, umiltà, compunzione, timore, confidenza, ecc..

INCREDULITA’

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INCREDULITA’

[da: E. Barbier –  I tesori di Cornelio Alapide – Sei ed. Torino 1930]

.1. Cause dell’incredulità. — 2. Effetti dell’incredulità: 1° l’accecamento; 2° l’indurimento; 3° la corruzione del cuore; 4° gli increduli sono abbandonati da Dio e giudicati fin da questa vita; 5° la morte da reprobo. — 3. Castighi dell’incredulità. — 4. Grande è il numero degli increduli. — 5. Rimedi contro l’incredulità.

1. Cause dell’incredulità. — S. Giovanni ci ha svelato fino dai suoi tempi le cause — e sono le stesse anche oggidì — per cui tanta parte di mondo, anche battezzato, è incredula. « Gesù, il Verbo di Dio, è la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, dice l’apostolo; Egli era nel mondo ed il mondo è stato fatto per mezzo di lui, ma il mondo non lo conobbe » (Ioann. I, 9-10). Il mondo si è rifiutato e tuttavia si rifiuta di accogliere, conoscere e ascoltare Gesù Cristo. Ecco in una parola e, diremo, in germe, le cause tutte dell’incredulità e antica e moderna. – Gesù Cristo poi, oltre al confermare con la sua autorità la sentenza dell’apostolo, ci ha posti su le tracce per scoprire le ragioni di questo trattamento a lui fatto dal mondo, in varie occorrenze nelle quali ebbe a folgorare l’incredulità de’ suoi contemporanei e connazionali. « Voi siete increduli, diceva loro, perché non siete del numero delle mie pecorelle. Queste odono la mia voce ed io le conosco ed essi mi tengono dietro » (Ioann. X, 26-27). Quasi che loro apertamente dicesse: Voi non siete credenti, non siete de’ miei, perché non mi volete conoscere; e vi rifiutate di conoscermi, perché non volete seguirmi. Questo poi vi pare la più dura e insopportabile e impossibile cosa del mondo, perché attaccati, come ostriche allo scoglio, al vostro orgoglio, alla vostra invidia, al vostro odio, alla vostra avarizia, alla vostra gelosia, alla vostra lascivia, amate meglio chiudere volontariamente gli occhi su le mie opere, turarvi le orecchie alle mie parole, anziché vedervi obbligati a cessare da quei vizi che tanto amate. – « Sapete voi, diceva ad essi un’altra volta, perché non intendete il mio linguaggio? È perché non potete sopportare i miei avvisi. Ah! voi siete figli del diavolo e volete adempire i desideri del padre vostro » (Ioann. VIII, 43-44). « Quei disgraziati, osserva S. Agostino, non potevano intendere, perché se avessero inteso e creduto, si sarebbero dovuti correggere ed emendare »; ma questo appunto essi non volevano fare, secondo quel detto dei Salmi: « Non volle intendere per timore di dover fare il bene » (Psalm. XXXV, 3). – « Io sono la via, la verità e la vita », disse anche il divin Redentore (Ioann. XIV, 6). « Io sono la luce del mondo; chi viene dietro di me, non cammina nelle tenebre, ma godrà la luce della vita » (Ioann. VIII, 12). Ora molti non vogliono seguire Gesù Cristo, Lo rinnegano nei loro affetti e nelle orazioni; non vi è dunque in essi né via, né verità, né luce; perciò che meraviglia se l’incredulità s’impossessa del loro spirito e del loro cuore? – Oggidì, come ai tempi di Gesù Cristo, l’incredulo vuol essere e rimanere incredulo… Stringete pur loro i panni addosso con vigorosi argomenti, con luminosi tatti, non verrete mai a capo di nulla. È proprio il caso di ripetere con Gesù Cristo: «Venne Giovanni che non mangiava e non beveva ed essi lo chiamarono un indemoniato; venne il Figliuolo dell’uomo che mangia e beve ed essi Lo accusano come ghiottone, amico dei pubblicani e dei peccatori » (Matth. XI, 18-19). Si persevera nell’incredulità volgendo tutto a male, incolpando ora la legge, ora la religione, ora quelli che sono mandati per istruire e illuminare. Si nega quello che si ignora, si dimentica quello che si è imparato; si mette in canzone quel po’ di bene che viene talora, senza volerlo, alla memoria. Poveri disgraziati! Ad essi si adattano quelle minacce del Salvatore: « Guai a te, Corozain! Guai a te, Cafarnao! perché se in Tiro ed in Sidone Io avessi operato i prodigi che ho fatto in voi, esse già si sarebbero convertite e avrebbero fatto penitenza nella cenere e nel cilicio. Perciò vi do parola che meno severa punizione toccherà a Tiro e a Sidone, che non a voi, nel giorno del giudizio » (Matth. XXI-22).

2. Effetti dell’incredulità: 1° l’accecamento. — Il primo effetto dell’incredulità è l’accecamento spirituale. Come i ciechi non vedono nemmeno la luce del sole, così gli increduli non vedono né Dio, né i loro doveri, né l’infelice stato della loro anima. Ciò non di meno la luce di Dio splende in mezzo alle tenebre stesse dell’incredulità, per mezzo della luce della ragione…, della voce delle creature animate, intelligenti e brute…, della legge antica…, della legge nuova…, dei dottori…, dei predicatori…, dei miracoli…, dei monumenti…, della Chiesa…, delle sante ispirazioni…, dei rimorsi…, della bellezza della virtù…, delle laidezze del vizio…, delle vite dei santi…, ecc. – O increduli, volete voi vedere e conoscere? credete. La luce non sta e non può stare con le tenebre; ora essendo l’incredulità fitta tenebra, come ci vedrete voi, rimanendo in essa? Solo Gesù Cristo, e nessun altro fuori di lui, è la vera luce, la luce increata. — Luce per la sua dottrina, luce per la sua grazia la quale illumina più chiaramente l’anima che non il sole la terra; luce per la verità del suo essere, del suo spirito, delle sue parole, delle sue opere; luce universale che rischiara ogni persona che viene su questa terra, per quanto è in sé, e tanto quanto basta perché il cieco incredulo sia senza scusa. Se gl’increduli non sono illuminati, la colpa è tutta loro; essi non sentono e non intendono nulla, ma è forse Iddio l’autore di questa terribile disgrazia? No: essi medesimi ne sono la causa, perché non vogliono né vedere, né udire, né comprendere. – La condizione degli increduli odierni è, rispetto a Gesù Cristo ed alla religione, quella medesima in cui erano e rimasero gli Ebrei. Ora furono essi e sono innocenti di questa loro incredulità? No, ma furono e sono colpevolissimi; infatti è fuori di ogni dubbio che potevano e dovevano chiaramente conoscere e assolutamente credere che Gesù era il Messia: l° per i suoi miracoli, facendoli esso a questo scopo… 2° Egli ha fatto tutti i miracoli predetti dai profeti… 3° Benché parecchi profeti e molti santi abbiano fatto dei miracoli, nessuno però uguagliò in numero ed in rilevanza quelli di Gesù Cristo. Inoltre i profeti e i santi non facevano miracoli per virtù loro propria, ma per l’invocazione e la virtù di Dio; mentre Gesù li faceva in nome e virtù e autorità propria, per quel potere che a lui competeva come a Signore di tutte le cose. I suoi miracoli erano pubblici, evidenti, strepitosi, numerosissimi; per operarli, gli bastava una parola, un cenno; ne operava dappertutto ed in ogni genere. Questa potenza assoluta, questa virtù perpetua appartengono esclusivamente a Gesù Cristo, non meno che la sua divina morale… Dunque i Giudei dovevano riconoscerlo. La loro incredulità è pertanto un enorme delitto e un delitto d’accecamento tutto volontario ed ostinato. E non è questa la condotta degli increduli di tutti i tempi? Non hanno essi da rimproverarsi il medesimo volontario accecamento? – I Giudei potevano e dovevano sapere e credere che Gesù era il Messia promesso, perché tutto quello che era stato predetto del Messia, si vedeva realmente adempito in Gesù. Io sono il Messia vaticinato, aveva egli tutta ragione di dire; io fo tutto quello che di lui fu predetto, dunque io sono il Messia. Sono il Messia, per il compiersi in me di tutte le Scritture; sono il Messia per la mia dottrina, la mia morale, la mia vita, le mie opere, i miei miracoli, la voce del mio Padre, la conversione dei gentili, ecc. Io provo la mia divinità, la mia missione; consultate le Scritture ed esse vi renderanno testimonianza di me (Ioann. V, 39). Quello che diceva Gesù, lo ripeteva S. Pietro, predicando che di lui fanno testimonianza tutti quanti i profeti (Ad. X, 43); lo ripeteva S. Paolo, asserendo che Gesù è il fine, il termine, il compimento, lo scopo di tutta quanta la legge (Rom. X, 4). – Chiunque legge e medita la sacra Scrittura, trova Gesù Cristo dappertutto, chiaramente e velatamente sotto le ombre e le figure; resta dunque che chi si ostina a non credere, sia o ignorante o uomo di mala fede. « E perché, scrive l’Apostolo, non hanno voluto ricevere l’amore della verità per essere salvi, Dio li abbandonerà alla potenza dell’errore; sicché credano alla menzogna; affinché siano condannati tutti coloro che non credettero alla verità e si acquietarono all’iniquità»  (II Thess. II, 10-11). Accade ancora degli increduli quello che di loro già notava il Salmista: «Essi vanno dicendo a se medesimi: Il Signore non ci vede e non saprà quello che noi facciamo» (Psalm. XCIII, 7); e su questo errore dormono tranquilli per tutta la vita. – « Le tenebre non hanno compreso la luce » (Ioann. I, 5), dice il Vangelo. Per l’incredulo tutto è tenebre e notte, Gesù Cristo, la rivelazione, la Chiesa, i sacramenti, la legge, il dogma, il culto, la morale, la preghiera, il giudizio, il paradiso, l’inferno, la santità, la sapienza, la virtù, la grazia, la salute, ecc. Qui si adattano quelle parole di Seneca : « A che illuderci? non è fuori di noi il male che ci rode, ma è dentro di noi, nelle nostre viscere; docilmente guariamo, perché non sappiamo di essere malati ». Perciò l’incredulità è follia a un tempo e malattia quasi incurabile; come il pazzo vede e giudica ben altrimenti dell’uomo assennato e sempre dà in fallo, così fa l’incredulo rispetto al credente. E’ questo, appunto il rimprovero che Gesù Cristo fece ai discepoli di Emmaus: « O stolti, voi che andate così a rilento nel credere a quello che dissero i profeti! » (Luc. XXIV, 25). – Ateniesi, disse S. Paolo, io mi sono abbattuto, passando per questa vostra città, in un altare su cui sta scritto: «Al Dio ignoto» (Ad. XVII, 23). Ciechi increduli, non meritate anche voi il medesimo rimprovero? Non è forse Dio una cosa a voi affatto sconosciuta? Ve ne date pensiero? Ma come conoscerete Iddio, mentre respingete volontariamente la fede?…- L’indurimento. — L’incredulo pensa e parla come Faraone : « Chi è il Signore, perché io deva ascoltarne la voce? Io non conosco alcun Signore » (Exod. V, 2). Ma ricordino gl’increduli che quanto più Faraone chiudeva gli occhi, tanto più s’indurava il suo cuore. Per gl’increduli che cercano di mascherare la loro incredulità con l’istruzione, dicendosi pronti a credere quando fossero persuasi con argomenti irrefutabili, si adatta quella risposta che diede Abramo al ricco dannato il quale lo pregava di mandare Lazzaro ad avvertire i suoi fratelli affinché mutassero vita, che cioè se non credevano a Mosè e ai profeti, non avrebbero nemmeno creduto ad un morto venuto dall’altro mondo (Luc. XVI, 29-31). L’incredulo che si acceca volontariamente, necessariamente s’indurisce. – Chi è l’indurito? chiede S. Bernardo, e risponde: l’indurito è colui il cui cuore non si commuove per nulla, che non si sente attratto dalla virtù, che non si lascia scuotere dalle preghiere, che si ride delle minacce, che resiste sotto i castighi, che dimentica i benefizi, che si burla dei pericoli, che non teme né Dio né gli uomini. Questo è il vero carattere dell’uomo indurito (Lib. 1 de Consider.). Ed è questo, soggiungiamo noi, il vero ritratto dell’incredulo. – La corruzione del cuore. — Questo terzo frutto dell’incredulità, così fu descritto dal Salmista: «Disse l’insensato in cuor suo: Dio non esiste. Ma ecco che questi tali si sono corrotti e divenuti abbominevoli nei loro affetti; non si trova più tra loro nemmeno uno che faccia il bene… Tutti si sono gittati fuori di strada e caddero in dissoluzione; la loro gola è un sepolcro spalancato, con la loro lingua ingannano, dalle labbra schizzano veleno di vipere. La loro bocca è piena di maledizione e di fiele, i loro piedi corrono allo spargimento del sangue. Nelle loro vie è afflizione e calamità, non conoscono la strada della pace, non è dinanzi ai loro occhi il timor di Dio » (Psalm. XIII, 1-3). – L’incredulo ben può dire di se stesso: «Le mie piaghe si sono incancrenite a cagione de’ miei traviamenti » (Psalm. XXXVII, 5). Gli increduli sono corrotti e carichi di delitti e sono increduli appunto perché carichi di peccati e di corruzione. La corruzione dello spirito e del cuore genera la incredulità e l’incredulità accresce la corruzione della mente e del cuore… Mondate, o increduli, il vostro cuore dall’impurità, cacciate dal vostro spirito la bestemmia e voi cesserete d essere increduli, avrete la fede… – Gli increduli sono abbandonati da Dio e giudicati fin da questa vita. « I rami, cioè i Giudei, furono recisi a cagione della loro incredulità » dice S. Paolo (Rom. XI, 20). Per la loro incredulità cessarono di essere il popolo di Dio; sono divenuti pagani; Dio li ha rigettati e maledetti… Così ugualmente tratta gli animi increduli quel Dio che vuole che si creda in lui, che si ami e si adori… Gli increduli corrono la sorte dei reprobi, con questa differenza, che i reprobi sono essi costretti ad allontanarsi da Dio, gli increduli costringono Dio ad allontanarsi da loro. Ed essere abbandonato da Dio è la somma delle disgrazie… – Del resto, l’incredulo non ha da aspettare la sua sentenza in fin di vita; egli è già giudicato mentre ancora vive, poiché è chiarissima e perentoria la parola di Gesù Cristo: « Chi disprezza me, e non dà orecchio alle mie parole, ha chi lo giudica: anzi egli non credendo è già giudicato » (Ioann. XII, 18) (Ioann. IlI, 18). E quello che qui Gesù Cristo dice di se stesso, lo aveva già detto Dio, nell’antica legge, di ogni uomo che parlasse in suo nome: « Chi non vorrà intendere quello che il mio profeta parlerà in vece mia mi troverà pronto a vendicarlo » (Deut. XVIII, 19). – La morte da reprobo. — L’incredulo vive da reprobo; ora come non morirà tale, senza un grande miracolo della grazia, miracolo che Dio non è tenuto a dare, anzi, per quanto si ricava dalla Scrittura, si protesta di non dare? – Nel Deuteronomio infatti leggiamo: « Chi si insuperbisce e non vuole ubbidire al comando del sacerdote, morrà » (XVII, 12). E ai Giudei Gesù diceva: «Se voi non crederete in me, morrete nei vostri peccati » (Ioann. VIII, 24). «Quale sarà, domanda S. Pietro, la sorte di quelli che non vogliono credere al Vangelo di Dio? Se appena il giusto troverà salvezza, che cosa toccherà all’empio ed all’incredulo » (I Petr. IV, 17-18).

3. Castighi dell’incredulità. — Dio ha in ogni tempo puniti gli increduli: Noè, nei cento anni che impiegò a fabbricare l’arca, non cessò mai di ammonire il mondo del castigo terribilissimo di un diluvio universale che stava per sommergerlo; gli uomini lo canzonano, rimangono increduli e il diluvio si avvera. – Chi travolse nella rovina di Sodoma coloro che Lot cercava di salvare? l’incredulità di quei cittadini che s’imaginavano ch’egli celiasse (Gen. XIX, 14). E le piaghe di Egitto non furono causate dall’incredulità? Perché Faraone annegò con seicento mila Egiziani nel Mar Rosso? perché furono increduli alla parola divina annunziata da Mosè. – Portatevi nel deserto e là vi dirà il Salmista, che tutta la nazione ebrea corse pericolo di totale sterminio, in punizione di non aver creduto alla parola del Signore, di non aver dato ascolto alla sua voce (Psalm. CV. 25-26). « L’ira di Dio piombò sopra di essi e prostrò il fiore d’Israele, perché non avevano prestato fede alle sue meraviglie » (Psalm. LXXVII, 30-32). – Zaccaria esita a credere quello che gli annunzia Dio e in pena della sua incredulità perde la favella (Luc. I, 20). Simili ai padri loro, gli Ebrei contemporanei di Gesù Cristo non vollero ascoltare le sue chiamate: ma la distruzione di Gerosolima, le inaudite calamità cui sottostette la nazione giudea e la sua dispersione tra le genti, mostrano il frutto della loro incredulità. « Quando gli increduli, esclama la Sapienza, dichiararono, o Signore, di non volervi conoscere, si aggravò sopra di loro il peso del vostro braccio, furono inondati da nuove acque, flagellati da grandini, battuti da tempeste, consumati dal fuoco »  (Sap. XVI, 16).  – Qual è stata la fine degli increduli in tutti i secoli? La loro morte somiglia alla loro vita; vivono senza fede, muoiono nell’incredulità… Gli increduli sono nemici di Dio e degli uomini. I loro fatti, i loro scritti, la lor vita, la loro morte, il loro nome sono esecrati dal cielo e dalla terra…

4. Grande è il numero degli increduli. — Già da’ suoi tempi si lagnava Isaia che molti non porgevano orecchio alle parole dei profeti e vivevano da increduli(Isai. LIII, 1). E a lui fa eco, dopo vari secoli, S. Paolo, lamentando che non tutti obbediscono al Vangelo (Rom. X, 16); prenunziando che sarebbe venuto un giorno, in cui gli uomini non avrebbero più dato ascolto all’annunzio della sana dottrina; ma deprezzando la verità, si sarebbero volti alle favole (II Tim. IV, 3-4). Questo vuol dire che in tutti i tempi vi sarebbero stati degli increduli, allora e oggi e sempre.

« Quando verrà il Figliuolo dell’uomo, stimate voi che troverà molti credenti sulla terra?», diceva il Salvatore (Luc. XVIII, 8). Ora se venisse oggidì, quanti increduli vi troverebbe!… Infatti non vivono forse da increduli tutti coloro che abbandonano la legge di Dio, la religione, i sacramenti? Invano diranno che credono, poiché la fede senza le opere, è morta, risponde loro S. Giacomo (II, 26). Come sono poche e rare le virtù cristiane, perché la fede manca. – « Chi è incredulo, opera sempre infedelmente », dice Isaia — (Isai. XXI, 2). Ora un gran numero di persone si regolano male, vivono infedeli a Dio, alla sua legge, alla coscienza; ecco altrettanti increduli. Se poi è incredulo chi non ha un anima retta, come dice Abacuc (Habac. II, 4), quanti non somigliano all’incredulo in questo punto!

5. Rimedi contro l’incredulità. — 1) – Bisogna spesso rivolgere a Dio questa preghiera del profeta: «Illuminate, o Signore, le mie tenebre, rischiarate i miei occhi, affinché non mi addormenti un giorno nella morte; perché il mio nemico non dica: l’ho soverchiato e vinto» (Psalm. XVII, 28) (Psalm. XII, 4-5). – 2) – Avere gran timore di perseverare nell’incredulità. « Se oggi udite la voce del Signore, grida il Salmista, non indurite i vostri cuori » (Psalm. XCIV). Pensate alla misericordia di Dio, che vi cerca e vi trae non ostante l’incredulità vostra; udite che vi dice per bocca d’Isaia: « Io sto tutto il giorno con le braccia tese per istringere al mio seno un popolo incredulo che cammina per una strada non buona » ( Isai. LXV, 2). Principalmente su la croce questo gran Dio stese le braccia per stringersi al petto il mondo intero… 3) – Bisogna fuggire gli increduli: è questo l’avviso di S. Paolo: « Se qualcheduno fa il riottoso alla nostra parola, non abbiate seco lui alleanza veruna » (II Thess. III, 14). 4) – Obbedite per prima cosa alla legge naturale, alla voce della coscienza, poi schivate il peccato e voi crederete senza pena…

 

E. Barbier: i tesori di Cornelio Alapide: PROVE

[Da: E. Barbier – “I tesori di Cornelio Alapide”, vol. III, 3° ed. SEI, Torino 1930]

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PROVE

  1. Che cosa sono le prove e loro necessità. — 2. Le prove ci vengono da Dio. — 3. In qual modo Dio ci provi, e perché. — 4. Buon indizio è per un cristiano l’essere messo alla prova. — 5. Dio non abbandona l’uomo soggetto alle prove. — 6. Le prove fanno conoscere quello che siamo. — 7. Le prove sono spesso grandi e sempre molteplici. — 8. Vantaggi delle prove. — 9. Gesù Cristo e i Santi, modelli nelle prove. — 10. Le prove sono un eccellente rimedio. — 11. Le prove sono la porta del cielo. — 12. Disgraziati quelli che non hanno prove.

.1. Che cosa sono le prove e loro necessità. — Il vocabolo prova si presta a molti significati. Mettere alla prova, vuol dire 1° riguardare; 2° indagare, scrutinare; 3° discernere; 4° appurare e sceverare quello che è puro da quello che non lo è; 5° giudicare; 6° scegliere e ricompensare, rigettare e punire. – « I giorni sono cattivi » dice il grande Apostolo (Eph. V, 16). I giorni di questa vita sono miserabili, pieni di prove penose, di tentazioni, di pericoli. Perciò Gesù Cristo dice in S. Matteo: « Basta a ciascun giorno il suo male » (VI, 34), che vuol dire: basta a ciascun giorno la propria afflizione e miseria. I giorni sono cattivi, cioè incerti, mobili, brevi, pieni di cure, di distrazioni, d’insidie, di nemici. Senza prove e senza tentazioni, dice il Crisostomo, non vi è corona; senza combattimento non si dà vittoria; senza patimento non si ottiene perdono. Non c’è inverno senza estate. Il grano seminato su la terra ha bisogno della pioggia, del freddo, del caldo per macerarsi e per cambiarsi in spiga alla primavera (Homil. IV, de divit. et paup.). La cera deve provare l’azione del fuoco per ricevere l’impronta del sigillo, e così pure, l’uomo, perché sia segnato con l’impronta della grazia celeste e della divinità, ha bisogno delle prove, del lavoro, delle infermità, delle tentazioni, ecc… Quello che è lordo di terra, di ruggine, di scoria, d’immondizie, richiede il fuoco per essere purificato, nettato, brunito…

  1. Le prove ci vengono da Dio. — S. Agostino insegna che le prove le quali ci affliggono, non vengono né dagli uomini né dal demonio, ma da Dio che si serve degli uomini o dei demoni per castigarci o purificarci, come adoperò Satana per provare Giobbe. Dio flagella i suoi figli per disciplinarli e correggerli; flagella i riprovati affinché siano puniti ad esempio degli altri (In Psalm. XXI). « Io vi porrò un freno, dice il Signore per bocca di Isaia, affinché non andiate perduti » (XLVIII, 9). Questo freno sono le prove; esse sono dunque un regalo di Dio, e partono dalla sua benevolenza per noi, sono un frutto della sua beneficenza che vuole domare, arrestare e sterpare le malvagie e pericolose nostre tendenze. È al contrario segno evidente della collera di Dio se nessun freno Egli mette alle perverse inclinazioni dell’uomo, se lo lascia scapricciare e scapestrare a talento, come cavallo indomito, non frenato da morso, non guidato da briglia. – Le avversità sono spesso, per parte di Dio, dono assai più prezioso che le prosperità, e riescono molto più salutari; inoltre, l’amore che si porta a Dio molto più puro si mostra in mezzo alle strettezze che non fra l’abbondanza. Dio è assai più perfettamente amato su la croce e nelle afflizioni, che tra le consolazioni e le delizie. Nelle prove l’amore carnale e sensuale non trova da amare nulla di quello che ama nelle delizie. Perciò quando si ama Dio su la croce, lo si ama di un amore spirituale e puro, perché non si ama altro che Dio solo. Dalla croce e dal puro amor di Dio su la croce, noi impariamo ad estendere questo medesimo amore tutto puro e celeste alle cose terrene, alle ricchezze, ai piaceri; alle prosperità di ogni sorta, affinché non amiamo in esse che Dio solo. Perciò S. Gregorio Nazianzeno diceva: Io do lode e ringraziamento a Dio non meno nelle ambasce che nelle allegrezze, perché tengo per fermo che Dio, suprema ragione, opera per noi a nostro vantaggio.
  2. In qual modo Dio ci provi, e perché. — « Voi ci avete provati, o Signore, esclama il Profeta, ci avete saggiati col fuoco come si saggia l’argento » (Psalm. LXV, 10); e altra volta: « Signore, io porto il peso della vostra collera, il mio cuore è nell’affanno. I flutti dell’ira vostra mi passarono sopra, i vostri terrori mi accasciarono; si riversarono su di me come torrente straripato, e m’investirono » (Psalm. LXXXVII, 16-18). E il Savio dice: «Li ha provati come oro nel crogiuolo, li ha ricevuti come vittime in olocausto; risplenderanno nel giorno in cui li visiterà; brilleranno come fiamma appresasi ad arido canneto » (Sap. IlI, 6-7). Ci narra il Genesi che Iddio volendo far prova di Abramo, gli disse: « Prendi l’unico tuo figlio che tanto ami, Isacco, e va nella terra della visione, e là l’offrirai in olocausto sopra uno dei monti che t’indicherò » (Gen. XXII, 1-2). « Come il fornello prova l’argento e il crogiuolo saggia l’oro, così il Signore prova i cuori », leggiamo nei Proverbi (XVII, 3). –  Il Signore prova i cuori degli uomini esaminandoli… 1° per mezzo della sua legge e dei suoi precetti, per mezzo dei dottori e dei predicatori…; 2° per mezzo delle tribolazioni; 3° con le tentazioni. Ma perché provarci in tante maniere? Perché ci ama, risponde egli medesimo nell’Apocalisse: (Apoc. IIII, 19): « Quelli che io amo, questi riprendo e castigo»; perché correggendoli e castigandoli li affina e purifica in modo che in loro non resta più nessuna macchia di peccato. Questo vuole indicare il Salmista con quel verso: « Avete provato il mio cuore, o Signore, e visitato durante la notte; mi avete fatto passare per il fuoco della tribolazione, e non fu più trovato in me peccato » (Psalm. XVI, 3). «Indugiando Iddio a mostrarcisi, osserva S. Agostino, dilata e ingrandisce il nostro desiderio, crescendo il desiderio ingrandisce e dilata l’animo, e lo rende maggiormente capace a riceverlo ». – Gesù Cristo mette alla prova i suoi: 1° per aumentare i loro meriti…; 2° per mantenerli bassi…; 3° per dare loro un mezzo da espiare i peccati…; 4° per fare luogo ad una più solenne manifestazione dell’azione di Dio; come chiaramente si scorge in Lazzaro, nei Martiri, negli Apostoli, nella Chiesa, ecc. “Io mi alzai frettolosa per aprire al mio diletto, diceva la Sposa dei Cantici; ma quando ebbi aperta la porta, egli era già passato e avviato per altro sentiero; corsi al luogo donde aveva udito partire la sua voce, ma più non c’era; l’ho chiamato, ma non rispose; l’ho cercato, ma non l’ho trovato” (Cant. V, 5-6). Così fa Iddio con i suoi servi ed amici per eccitarli a desiderarlo e cercarlo. Inoltre egli li cimenta con prove e persecuzioni diverse, per innalzarli all’onore della virtù e della gloria… Egli mortifica e vivifica (1 Reg. II, 6); percuote per emendare. « Tutta la severità di Dio, scrive Sant’Ambrogio, ha per iscopo di punire le colpe de’ suoi con le tribolazioni, di conservare la loro anima, di distruggere i loro vizi, di fomentare nel loro cuore le virtù più elette ». La prova è per il cristiano come la tempesta per il pilota, la lotta per l’atleta, il combattimento per il soldato. – Nulla accade al fedele senza che Dio lo permetta o voglia; e la sua volontà consiste nel correggerlo de’ suoi difetti, nel rinvigorirlo nella virtù e nella pazienza, per accrescerne la corona in cielo. È questa la ragione per cui permise che il giusto Abele fosse ucciso dall’empio fratello; provò Abramo ordinandogli di sacrificare il figlio Isacco; provò Giuseppe, permettendo che fosse venduto dai fratelli; provò Mosè ed il popolo d’Israele, lasciandoli opprimere dalla tirannia di Faraone; provò Davide abbandonandolo all’odio di Sanile; provò la casta Susanna, permettendo che fosse esposta alle nere calunnie dei due vecchioni; che Geremia fosse imprigionato; che Daniele fosse gettato nella fossa dei leoni. Assennatissime sono pertanto le parole rivolte da Giuditta ai seniori di Betulia, per incoraggiarli a continuare la resistenza contro l’assedio degli Assiri: I padri nostri, disse ella, furono soggettati alla tentazione come ad una prova, affinché si vedesse se era sincero il culto loro verso Dio. Si rammenti il popolo del modo con cui il padre nostro Abramo fu provato con molte tribolazioni e divenne l’amico di Dio; così Isacco, Giacobbe, Mosè e quanti furono cari a Dio, si mostrarono fedeli in mezzo a molte tribolazioni: al contrario, tutti quelli che non hanno ricevuto le prove nel timor di Dio e si mostrarono impazienti e mormoratori contro il Signore, caddero sotto la spada dell’Angelo sterminatore e perirono morsi dai serpenti. Non c’impazientiamo dunque per i mali che soffriamo; ma considerando che questi tormenti sono da meno dei nostri misfatti, e che siamo puniti come servi, crediamo che Dio vuol emendarci, non perderci (Iudith. VIII, 21-27). Ah sì. Dio ci manda delle prove, 1° per ammollire la nostra volontà ribelle, abbattere il nostro orgoglio, e sforzarci a sottometterci a Lui; 2° per punirci delle nostre trasgressioni; 3° per distruggere in noi il vecchio Adamo; 4° per condurci alla pazienza; 5° per renderci simili a Gesù Crocifisso. –  «In mezzo alla tribolazione, dice il Signore per bocca di Osea, si affretteranno di venire a me. Venite e ritorniamo al Signore; Egli ci ha feriti ed Egli ci guarirà, ci ha percossi ma ci curerà, ci renderà alla vita, ci risusciterà, e noi vivremo nella sua presenza » (Osea. VI, 1-3). S. Agostino commentando queste parole di Osea, dice: « Ecco la voce del Signore: Io percuoterò e sanerò: recide la purulenta enfiagione dei nostri misfatti e guarisce il bruciore della ferita. Così fanno i medici: aprono, tagliano, bruciano e sanano; si armano per ferire, portano il ferro e vengono per guarire ». Le prove sono come frecce lanciate dalla mano divina, per richiamare a Dio ed alla loro salvezza gli uomini che fuggono e corrono alla loro rovina. Agitati, trapassati, umiliati, atterrati da queste frecce salutari, essi depongono il loro orgoglio, riconoscono le loro colpe e dimandano col cuore pentito perdono al Signore; e il Signore li risparmia; loro perdona a cagione delle loro suppliche, e se li stringe al cuore con la tenerezza di una madre: come appunto dice il Salmista in quel versetto : « Le tue saette, o Signore, mi si piantarono nelle carni per ogni lato, la tua mano si è aggravata sopra di me » (Psalm. XXXVII, 3). Perciò S. Agostino vede in Dio un utile e caritatevole medico il quale si serve delle prove, come di prezioso ed efficace rimedio, a guarirci dei nostri vizi. « Posto sotto l’azione del rimedio, tu sei bruciato e tagliato, dice questo santo Dottore, tu mandi lamenti e grida, ma il medico non si conforma al tuo volere, e fa quello che la tua sanità richiede. Bevi quell’amaro calice, che tu medesimo ti sei manipolato; bevilo affinché tu viva ». – Le prove c’insegnano a distaccarci dal nulla del mondo e ad attaccarci ai soli veri beni; ci aprono, secondo la frase di S. Gregorio, le orecchie del cuore che la prosperità di questa terra bene spesso introna e assorda. S. Gerolamo osserva che Dio toglie non di rado ai peccati il loro diletto e ne priva i peccatori, affinché non avendo voluto conoscere Iddio nella prosperità, lo conoscano nell’infortunio, e avendo fatto cattivo uso delle ricchezze, ritornino alla virtù per mezzo della povertà, cioè siano in certo modo costretti, a ritornarvi. S. Agostino poi vede un gran tratto della misericordia divina, quando Dio permette che noi siamo provati dalla tribolazione; esercitando la fede col differire il soccorso, non si rifiuta dal venirci in aiuto, ma pone in movimento il desiderio (Serra. XXXVII, de Verb Doni.).
  3. Buon indizio è per un cristiano l’essere messo alla prova. — Le prove non abbattono e non opprimono se non coloro che non sanno sostenerle. I più valenti soldati vengono scelti per le congiunture in cui vi è più bisogno di energia, di coraggio, d’eroismo; vengono designati per le imprese importanti e decisive; e cosi pure Iddio elegge, per inviarli alle più gagliarde prove, quelli che più ama; esempio ne sono: Mosè, Giobbe, Tobia, gli Apostoli, i Martiri, i Santi più celebri in ogni stato e professione. 1° Sappiano i cristiani, e siano intimamente convinti che le prove sono un segnale non della collera di Dio, ma del suo amore, perché mostrano l’elezione e la figliazione divina. Questo c’insegna Iddio per bocca di Zaccaria: « Io li farò passare per il fuoco e li porrò al cimento come si pone l’argento e l’oro; e allora essi invocheranno il mio nome, ed Io esaudirò la loro preghiera. Io dirò: questo è il mio popolo; ed essi esclameranno: il Signore è nostro Dio» (Zach. XIII, 9), e per bocca di S. Giovanni con quelle parole: « Io riprendo e castigo quelli che amo » (Apoc. III, 19). Questo disse l’Angelo a Tobia divenuto cieco: « Perché tu eri accetto a Dio, bisognò che fossi provato con la tentazione » (Tob. XII, 13). Questo ripete S. Paolo scrivendo agli Ebrei : « Il Signore castiga coloro che ama, e percuote tutti quelli che riceve per suoi figli. Nei castighi tenetevi fermi e di buon animo. Dio vi tratta da figli: e dov’è il figlio che non sia corretto dal padre? Che se voi siete fuori del castigo cui tutti i figli vanno soggetti, mostrate di essere frutti di adulterio, non figli legittimi. E poi, non abbiamo noi forse avuto per educatori i padri nostri secondo la carne, e non li abbiamo noi avuti in riverenza? a ben più forte ragione dunque dobbiamo obbedire e riverire il Padre degli spiriti, se vogliamo vivere. Quei primi ci castigarono per qualche tempo, come loro talentava, ma questo ci castiga secondo che è utile, affinché partecipiamo alla sua santità. Ogni castigo pare, al presente, un motivo di tristezza e non di gioia; ma in seguito, produce a quelli che lo sopportano, frutto di giustizia pieno di pace » (Hebr. XII, 6-11). – 2° Intendano e si persuadano i cristiani, che le prove per se stesse, non che ferire e nuocere, purificano e perfezionano coloro ai quali avvengono. « La fornace cuoce e indura le stoviglie, dice l’Ecclesiastico, e la prova della tribolazione tempra e raffina l’uomo giusto » (Eccli. XXVII, 6). Le prove sono, dice S. Agostino, un rimedio che porta salute, non una sentenza che porta condanna (Sent. CCIV). S. Giovanni Crisostomo, parlando di Giuseppe il quale sopportò generosamente e vittoriosamente ogni genere di prove, fa rilevare che quaggiù Iddio non suole liberare dalle prove e dai pericoli le persone più virtuose, ma dimostra in esse la sua potenza, perciocchè le prove riescono per loro un’occasione di alta gioia e di grande merito, secondo quel detto del Salmista: «Signore, nelle tribolazioni voi mi avete fatto grandeggiare » (Psalm IV, 2 — Homil. de Cince). Questo ci apre il senso di quelle parole di S. Gregorio Papa: « Non appena la luce divina batte sul cuore umano, tosto il demonio vi solleva tempeste, non mai provate per l’innanzi da quel cuore, finché giaceva nelle tenebre ». Tanto meno dobbiamo mormorare contro le prove, quanto più siamo assicurati che esse sono un pegno dell’amore paterno di Dio. L’avversità è un segno certo, è una caparra immancabile della divina elezione, e per essa l’anima è fidanzata a Gesù Cristo, per unirsi a Lui in divino connubio. Bisogna dunque conchiudere che le prove sono piuttosto da invidiare e da desiderare, anziché da fuggire. I vasi dello stovigliaio, ricevuto che hanno la forma voluta e designata, non direbbero essi, se fossero capaci di pensiero, di desiderio, e di parola, che il padrone li metta nella fornace a cuocere e diventare solidi? Così i giusti, corretti dalla grazia di Dio, desiderano che il fuoco delle prove bruci e consumi quello che vi è in loro di impuro, che li consolidi e perfezioni nella virtù.
  4. Dio non abbandona l’uomo soggetto alle prove. — « Iddio, leggiamo nella Sapienza, non abbandona il giusto; lo scampa alle insidie dei peccatori, e discende con lui nel pozzo delle tribolazioni; lo toglie dalle mani di quelli che l’opprimono, non gli si leva dal fianco quando è in catene; entra nell’anima del suo servo; gli paga il prezzo dei suoi lavori, lo guida per una via miracolosa, gli fornisce immancabilmente tetto e lume » (Sap. X, 13-17). Quando il popolo di Dio, schiavo in Egitto, fu oppresso di lavoro da Faraone, Dio inviò Mosè a liberarlo. Il soccorso di Dio allora più si mostra, quando più abbondano le traversie. « Il Signore, dice S. Pietro, sa liberare i giusti dalle prove » (lI Petr. II, 9). E infatti, ecco Noè, scampato dalle acque del diluvio; Lot, dal fuoco di Sodoma; Abramo, dai mali esempi dei Cananei; Giacobbe, dall’ira di Esaù; Giuseppe, dalle mani dei suoi fratelli e dal carcere; Mosè e gli Ebrei, dal furore di Faraone, dalle onde del Mar Rosso, dalla fame e dalla sete; Davide, dalla lancia di Saulle; Susanna, dalle calunnie dei vecchioni; Daniele, dai denti dei leoni; i tre giovani, dalle fiamme della fornace; Mardocheo, dal capestro di Amano; Giuditta, dal potere di Oloferne; il giovine Tobia, dall’assalto del demonio; Giuda Maccabeo, dalle armi di Antioco; Elia, dalla rabbia di Gezabele; S. Pietro, dal carcere e dalle catene. Più le prove sono terribili, e più Dio ci sta vicino. Questa verità già proclamava il Salmista in quel versetto : « Gravi tribolazioni stanno riservate per i giusti, ma il Signore li libererà da tutte » (Psalm. XXXIII, 20). Perciò il Signore ci dice: « Invocatemi, nel giorno della tribolazione ed io vi libererò, e voi mi onorerete » (Psalm. LXIX, 15). « Chi griderà a me Io l’ascolterò; sarò con lui nelle sue tribolazioni, lo salverò e lo rivestirò di gloria » (Psalm. XC, 15).
  5. Le prove, fanno conoscere quello che siamo. — Vi sono due occasioni nella vita, nelle quali ogni uomo vede chiaramente che cosa vi è nel cuore umano; e queste sono l’occasione di operare in segreto ed il momento delle prove. Molti sono cattivi interiormente, e buoni all’esterno; ora fate che venga il caso in cui possano peccare, senza timore di essere scoperti, e allora la corruzione e la malizia loro dà fuori e si palesa all’aperto. Così pure nel tempo della prosperità riesce difficile discernere i cattivi dai buoni, ma, posti al fuoco delle prove, l’oro splende e la paglia fuma. Allora i cattivi s’istizziscono, si ribellano, mormorano, bestemmiano; i buoni, all’opposto, si sottomettono, si rassegnano, pregano, praticano la pazienza e la dolcezza. Al primo genere di prove accenna il Salmista con la frase: Mi avete visitato durante la notte, cioè quando aveva l’occasione di peccare in segreto; al secondo con quell’altra: Mi avete fatto passare per il fuoco della tribolazione, per una prova scottante. Ed avendo egli saputo vincere nell’uno e nell’altro caso, aggiunge (Psalm. XVI, 3). Chiunque nei sopraddetti due casi sa conservare, come il re Profeta, l’anima e la virtù sua, può dire con lui: « Nessuna iniquità si trova in me ». Nel crogiuolo, dice S. Agostino, l’oro si purifica, la paglia è bruciata (In Psalm. LXI). Il pilota, dice Seneca, si fa conoscere nella tempesta, ed il soldato nella zuffa (Lib. de Provv.).
  6. Le prove sono spesso grandi e sempre molteplici. — Il santo e famoso patriarca Abramo dieci volte, e sempre fortemente, fu provato da Dio: 1° Dio gli intima che abbandoni patria, parenti e amici, e vada come straniero in terra sconosciuta. 2° Al tempo di una carestia, gli ordina di andare in Egitto. 3° Faraone gli toglie la moglie, la quale è esposta a perdere la castità, mentr’esso corre rischio di perdere la vita. 4° È costretto a separarsi da Loth, suo nipote carissimo, a cagione delle risse scoppiate fra i loro servi. 5° È obbligato ad ingaggiare una zuffa ostinata e pericolosa per liberare Loth caduto prigioniero. 6° Stimolato da Sara, si vede spinto a dover cacciare di casa sua Agar ch’egli aveva sposato, e che già stava in procinto di renderlo padre di un figlio. 7° Già avanzato negli anni, è costretto a sottoporsi alla circoncisione. 8° Il re Abimelec gli ruba Sara sua moglie. 9° È obbligato una seconda volta da Sara, per ordine del Signore, di bandire Agar con suo figlio, Ismaele. 10° Dio gli comanda d’immolare il figlio suo Isacco. E siccome quest’ultima prova fu la più tremenda, solamente questa Mosè chiama col nome di tentazione, “Udite quest’ordine doloroso, ciascuna delle cui parole è al cuore di Abramo un colpo di spada, una crudele prova. Prendi, Abramo, l’unigenito tuo, l’amore del tuo cuore, e va ad immolarlo su quel monte che sarò per indicarti” (Gen. XXII, 2). 1° Prendi non uno sconosciuto, uno straniero, ma tuo figlio; 2° tuo figlio unico; 3° tuo figlio che tanto teneramente ami, e tanto devi amare; 4° il tuo figlio Isacco, cioè la tua gioia; 5° tu l’offrirai; il Signore non gli dice: tu lo farai immolare per mano straniera, ma l’immolerai tu medesimo con le tue proprie mani. E a tale ingiunzione, Abramo poteva pure rispondere: dove sono, o Signore, le vostre promesse? ma egli non muove labbro; 6° l’offrirai in olocausto, affinché nessuna parte del suo corpo rimanga presso di te, suo padre; ma il tuo Isacco tutt’intero sia ridotto in cenere e scompaia; 7° prendilo subito, senza indugio; non ti si concede ritardo nell’esecuzione. – La madre dei Maccabei imita Abramo. E quanti altri santi uomini ed eroiche donne non furono sottoposti a uguali prove! Quando mai noi fummo posti a così crudeli strette? Eppure osiamo lamentarci!
  7. Vantaggi delle prove. — « Noi non siamo passati per il fuoco e per l’acqua, dice il Profeta, e voi, o Signore, ci avete condotti in luogo di refrigerio » (Psalm. LXV, 12). « Io ho trovato dappertutto tribolazioni e dolori; perciò ho invocato il nome del Signore » (Psalm. CXIV, 3). « Signore, voi mi avete provato e conosciuto » (Psalm. CXXXVIII, 1). Le tribolazioni, le prove, le croci, fanno a pro delle anime fedeli quello che il fuoco fa all’oro, la lima al ferro, il vaglio al grano. – Sottoposto S. Paolo a dure prove e a terribili tentazioni, scongiura il Signore che lo liberi. Ma avendogli il Signore risposto: Ti basta, o Paolo, la mia grazia; perché la forza nella debolezza si perfeziona, l’Apostolo soggiunge : « Volentieri mi glorierò adunque delle mie infermità, affinché in me dimori la forza di Cristo. Perciò mi compiaccio e gioisco nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle ambasce per Cristo; perché quando appaio debole, allora sono forte » (II Cor. XII, 9-10). – Chi meglio di Gesù conosceva quello che tornava più vantaggioso all’uomo? Or bene, sapete voi in che cosa egli posò i più grandi beni e vantaggi dell’uomo? Andate a meditare il sublime suo sermone del monte, e vedrete che Egli li fa consistere in otto prove le quali chiamò beatitudini, appunto per le grandi utilità che da esse derivano… Le prove sono avvertimenti che hanno lo scopo di conservarci nella grazia e nella virtù, di preservarci dal peccato e dall’inferno, di assicurarci l’eterna salute.  « L’oro e l’argento sono saggiati al fuoco, dice il Savio, e le anime  care a Dio passano per la fornace dell’umiliazione » (Eccli. II, 5). Come il fuoco non nuoce all’oro, ma gli è vantaggioso, perché lo prova, lo purifica, lo forbisce e lo rende più lucente, così il crogiuolo delle prove, delle umiliazioni, delle afflizioni, mette al cimento colui che le sopporta, lo purifica, lo perfeziona, lo illustra, lo rende accetto a Dio e degno di lui… S. Bernardo mette in rilievo che tre cose propone Gesù Cristo, l’Angelo del gran consiglio, all’anima ragionevole fatta ad imagine della Trinità Santissima: e sono la servitù, l’annientamento, le spine. La servitù, nell’abnegazione di se stesso; l’annientamento, nel portare la croce; le spine, nell’imitazione di Gesù Cristo; e gliele propone affinché l’anima, dallo stato di una triplice felicità decaduta, si rialzi dalla sua triplice miseria per mezzo dell’obbedienza e dell’umiltà nell’afflizione. Poiché essa era caduta di per se stessa dalla società degli Angeli e dalla visione di Dio, cioè dalla libertà, dalla dignità, dalla beatitudine. Ascolti dunque il consiglio che le è dato, affinché rinunziando a se stessa, cioè alla propria volontà, ricuperi la sua libertà; portando la sua croce, cioè crocifiggendo la propria carne con le concupiscenze sue, ritorni, per il bene della continenza, nella società degli Angeli; seguendo Gesù Cristo, cioè imitando la sua passione, ritrovi la visione della sua chiarezza; poiché se noi patiamo con Lui, regneremo anche con Lui (Serm, in Cant.). Non si poteva meglio che con queste parole mostrare l’intima ragione e la molteplice utilità delle prove. – Le prove sono la verga di Dio; esse fanno di noi un frumento degno dell’aia del Signore, sceverandoci dalla paglia… Dice S. Agostino: « Nella fornace la paglia brucia, l’oro si purga; quella si converte in cenere, questo si spoglia della scoria. La fornace figura il mondo; l’oro, i giusti; il fuoco, le prove, le tribolazioni, le avversità; il fornaciaio, Iddio. Io faccio quello che vuole il fornaciaio, e dov’egli mi colloca, io rimango. È mio dovere il sopportare tutto pazientemente, Egli sa come purgarmi. Bruci pure la paglia per incendiarmi e consumarmi, io mi adatto; essa viene ridotta in cenere, ed io resto purgato di ogni bruttura. Nessun servo di Gesù Cristo va esente da prove; se tu t’immagini di poterne fare senza, non hai ancora cominciato ad essere cristiano. Le prove interiori ed esteriori preparano la glorificazione del peccatore; sforzano il riluttante, istruiscono l’ignorante, proteggono il debole, stimolano il tiepido, custodiscono quello che corre e iniziano a quella morte che è il cominciamento della vita eterna ». – Beato l’uomo che è provato da Dio! Non rigettiamo dunque le prove alle quali ci sottopone, perché egli ferisce e risana, percuote e salva… Questo ci assicurano i suoi inspirati; Dio ha moltiplicato sopra di loro le prove, le infermità, le croci, diceva già il Salmista, e dopo queste essi avanzano a grandi passi per il buon cammino (Psalm, XV, 4). Le acque, dice Giona, mi assalirono così impetuose ed alte, che mi cacciarono fino alle porte della morte; l’abisso mi ha ingoiato, l’oceano mi seppellì ne’ suoi gorghi. Quando l’anima mia fu tutta concentrata in me, io mi ricordai di Voi, o Signore, e la mia preghiera fu esaudita; voi avete parlato al pesce, ed esso mi ha rigettato sul lido (Ion. II, 6, 8-11). « I sapienti del popolo, dice Daniele, cadranno sotto il fendente delle spade, tra le fiamme ed in prigione. E cadranno, affinché siano rinnovati e scelti e purificati » (Dan. XI, 33, 35). Il profeta Malachia raffigura Iddio al fuoco che divora, all’erba dei gualchierai; e lo presenta come seduto al fornello dove purga i figli di Levi, come si purifica l’oro e l’argento nel crogiuolo (III, 2). – In mezzo alle prove, bisogna mantenere sempre l’anima tranquilla, essendo certo che il soccorso divino arriva quando manca ogni aiuto umano… Inoltre la virtù messa al cimento ingigantisce, dice S. Leone (Serm.). Perciò quel detto del Dottore di Chiaravalle: « Più siete provati, e più vi arricchite » (In Sentent.). Il medesimo Santo poi osserva ancora, che dalle tribolazioni ricaviamo tre principali beni: l’esercizio, affinché la virtù non si intiepidisca per l’accidia e la noncuranza; il patimento, affinché la forza della nostra costanza sia esempio ed incoraggiamento degli altri; la ricompensa, affinché il peso della gloria aumenti in ragione della gravità delle prove (Sentent.). Assennatissime pertanto e sempre da ricordare sono quelle parole di Giuditta : « Non inquietiamoci per i mali che soffriamo, ma considerando che questi mali sono molto più lievi di quelli che meriterebbonsi i nostri peccati, e che noi siamo castigati come servi, teniamo per certo che Dio vuole correggerci, non perderci » (Iudith. VIII, 26-27). – « Per quelli che amano Dio, tutto riesce a bene », dice il grande Apostolo (Rom. VIII, 28). Il cristiano non deve mai dimenticare un istante queste parole. Nella povertà, nelle malattie, nelle persecuzioni, nelle calunnie, nei naufragi, negli incendi, negli smarrimenti, nell’esilio, nella morte, ricordi che ogni cosa torna a vantaggio di chi ama Dio. In ogni genere di prove, il vero cristiano deve dire a se stesso: Io sono certo che nulla può succedermi di penoso, di disgustoso, di amaro, di crudo, che non sia anticipatamente regolato secondo l’ordine paterno della Provvidenza. Io sono sicuro che né gli uomini, né i demoni, né le creature tutte potranno giammai provarmi oltre quello che Dio vuole, che ha preveduto, ed oltre il potere ch’Egli ha loro concesso, perché tutto volga a mio vantaggio. Qualunque prova dunque piaccia a Dio mandarmi, io l’accetto, non mi vi rifiuto, non indietreggio; perché altra cosa io non voglio fuori della santa volontà di Dio; deh! si compia essa pienamente in me ed in tutte le creature. Non cade infatti un capello dalla nostra testa senza il volere di Dio. Sottomettermi ad esso in tutte le prove, le avversità, le afflizioni, i dolori, le croci, è mio sommo vantaggio; è il vero mezzo di tesoreggiare per l’eternità e di essere felice in questa vita…
  8. Gesù Cristo e i Santi, modelli nelle prove. — Ogni vero cristiano deve bere il calice delle prove; gli è necessario tracannarlo, se vuole guarire e vivere. E perché nessuno dica: Non posso bere, non mi regge l’animo d’appressarvi le labbra, non lo berrò, Gesù Cristo, pieno di sanità, Gesù Cristo, l’innocenza e la santità in persona, l’ha sorbito egli il primo, fino alla feccia; sì, l’ha bevuto, affinché noi, miseri infermi, coperti di ferite e di piaghe, carichi di peccati, oppressi dai debiti, lo beviamo per guarire, cancellare i peccati, ricuperare l’innocenza, pagare i debiti, assicurarci il cielo, dove nulla di macchiato può entrare. Quale amarezza vi è in questo calice delle prove, che Gesù prima di noi non l’abbia assaggiata? Si tratta torse di disprezzi e d’ingiustizie? Egli ne fu abbeverato quando, cacciati i demoni dagli ossessi, sentì dirsi da’ suoi nemici: Nel nome di Belzebù costui mette in fuga i diavoli: sono amari i patimenti, i dolori? Egli fu legato, flagellato, incoronato di spine, inchiodato su la croce. È amara la morte? Ci mette ribrezzo il genere di morte che ci minaccia? Eccolo rendere l’ultimo flato in mezzo a due ladroni, sopra una croce, il supplizio più ignominioso che fosse in uso a quei tempi… Sia dunque Gesù Cristo nostro modello in tutti i generi di prove. – Anche i Santi ci offrono modelli da imitare nelle prove; e senza fare parola di altri, Tobia e Giobbe furono, sono e saranno in ogni tempo due esempi chiarissimi e due lucidissimi specchi di pazienza per tutti i ciechi, gli afflitti, i disgraziati, i poveri, i perseguitati. Di Tobia la Sacra Scrittura dice che si mantenne saldo nel timore di Dio, rendendo grazie al Signore tutti i giorni della sua vita (Tob. II, 14). Vi è qui un atto eroico di pazienza: è questo lo stato di un uomo santo e perfetto che nulla curandosi di tutte le cose terrene, aiuti od ostacoli, tiene lo spirito in cielo, e gusta anticipatamente la felicità celeste… Così pure Giobbe, oppresso da afflizioni di ogni genere e di ogni lato, esclamava: « Dio mi ha dato dei beni, Dio me li ha tolti; accadde come piacque al Signore; sia benedetto il suo nome »  (Iob. I, 21)… In mezzo alle più dure prove, che ammirabili modelli non ci presentano i patriarchi, i profeti, gli apostoli, i martiri, i confessori, le vergini, i missionari, i santi di tutte le età, di tutti i sessi, di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le condizioni! – Singolari e meravigliose sono certamente le vie, le maniere, e le ragioni secondo le quali Dio conduce i suoi eletti per il deserto di questa vita. A traverso le prove, le insidie, i pericoli, i nemici, le angustie, i travagli, le tentazioni, le persecuzioni, le croci, il martirio egli li guida alla terra promessa, li introduce nella terra dei viventi.
  9. Le prove sono un eccellente rimedio. — Vi sono delle ferite che invece di nuocere alla sanità, ne sono anzi efficacissimo rimedio: questo fanno nell’ordine spirituale le prove. Da S. Giovanni Crisostomo vengono paragonate al ferro dell’aratro; perché con esse noi apriamo e solchiamo il terreno del nostro cuore, affinché se vi si tengono abbarbicate erbe cattive, rovi e spine, siano interamente schiantate, e noi diventiamo terreno diligentemente coltivato, atto a ricevere il seme della grazia e della virtù (Homil. de Cruce). – Ma che cosa dobbiamo fare per profittare delle prove? Bisogna imitare la pazienza di Giobbe e con lui ripetere: Il Signore mi ha dato ogni mio avere, il Signore è padrone di ritoglierselo; è avvenuto come piacque al Signore; sia benedetto il nome di Dio! (Iob. I, 21). Bisogna imitare Tobia il quale diceva: « Io vi benedico, o Signore Dio d’Israele, perché mi avete castigato e salvato » (Tob. XI, 17). Figlio mio, dice il Signore per bocca del Savio, quando tu ti consacri al servizio di Dio, sta nella giustizia e nel timore, e prepara l’anima tua alla prova. Umilia il tuo spirito e attendi con pazienza. Sopporta gli indugi di Dio. Accetta tutto quello che ti succede e rimani in pace nel tuo dolore. Affidati a Dio ed egli ti libererà; conserva il suo timore e in esso invecchia (Eccli. II, 1-4, 6). – Chi desidera di piacere a Dio e diventare suo erede per la fede, per essere chiamato figlio di Dio, deve anzitutto, dice S. Efrem, armarsi di longanime pazienza per prevenire le tribolazioni, le angustie, le strettezze, le malattie, i patimenti, gli affronti, le ingiurie, le tentazioni, i demoni, e poter sopportare tutte queste prove (Tract. de Patientia). « Quando l’anima si attacca fortemente a Dio, nota S. Gregorio Papa, cosicché altro non vegga fuori che Lui in tutte le cose, ogni amarezza si cambia per lei in dolcezza; ogni afflizione le è riposo ». Il più cospicuo vantaggio che, a parere del Crisostomo, uno può ricavare dalle prove, quello che ne aumenta infinitamente il merito e la ricompensa, è di rendere grazie a Dio (Homil. de Cruce).
  10. Le prove sono la porta del cielo. — Le prove pazientemente sopportate sono la porta del paradiso, e vi ci introducono. Questo ci insegna la Sacra Scrittura con quel testo : « Non bisognava forse che il Cristo patisse tutte queste pene (la sua passione), e così entrasse nella sua gloria? » (Luc. XXIV, 26), e con quell’altro chiarissimo che si legge negli Atti Apostolici: « Bisogna che per mezzo a molte tribolazioni noi entriamo nel regno di Dio » (XIV, 21). Ora se bisognò che Gesù Cristo soffrisse, sostenesse ogni genere di prove, e entrasse alla gloria per la via dei patimenti e della croce, non ci ha Egli, con questo, chiaramente indicato che se non si dà altra strada che metta al cielo, questa però vi mette sicuramente, e che chiunque la calca è certo di entrarvi? Le prosperità e la felicità di questa vita sono, al contrario, la porta dell’inferno. Perciò vediamo Dio concederle bene spesso ai tristi ed agli empi, e negarle ai buoni… – « Chiunque adora voi, o Signore, diceva Tobia, è sicuro che se sostiene prove in vita sua, sarà coronato; se è afflitto, sarà liberato; se percosso, otterrà misericordia » (Tob. III, 21). « Coloro che hanno seminato nel pianto, mieteranno nella gioia, dice il Salmista. Essi andavano e piangevano spargendo la loro semenza; ritorneranno lieti e giubilanti portando in mano i loro covoni » (Psalm, CXXV, 5-6).
  11. Disgraziati quelli che non hanno prove. — Vivere senza prove, è un vivere per l’inferno… Sappiano quelli i quali rifiutano le prove loro mandate da Dio, che in essi non è l’impronta di Dio, ma quella del demonio, e che saranno infelici e in questa e nell’altra vita. Infatti è chiara la parola dello Spirito Santo: « Coloro che non hanno ricevuto le prove nel timor del Signore, ma dimostrarono la loro impazienza e mormorarono contro Dio, furono abbandonati alla spada dell’Angelo sterminatore » (Iudith. VIII, 24-25)… Non accettare le prove con cui Dio ci cimenta, è un resistere a Dio; ora non è questo colpa gravissima e terribile disgrazia?- Forse che le prove bussano meno alla porta di chi si rifiuta di accoglierle? Oibò: molte volte anzi vi si affollano in maggior numero e più gravi… Si perde il merito che dovrebbero procurare… Si cambiano in peccato… Invece di essere principio di ricompensa, diventano principio di castighi… Il mondo tutto è un vasto fornello in cui sono gettati gli uomini. Là il giusto rassomiglia all’oro, l’empio alla paglia. Per mezzo del medesimo fuoco, il giusto è purificato, santificato; l’empio è divorato, consumato, condannato. E Dio, osserva S. Agostino, è nell’uno e nell’altro caso lodato; in quello per la ricompensa, in questo per il castigo; nel primo per la sua misericordia, nel secondo per la sua giustizia (De civit. Dei).