QUARESIMALE XXI

[Padre Paolo SEGNERI S. J.:

Quaresimale

– Stamperia Eredi Franco,
Ivrea 1844 –

Cortassa Pro-Vic. Generale; Rist. Ivrea 10 agosto 1843,
Ferraris prof. Rev. Pe]

PREDICA VIGESIMA PRIMA

NEL VENERDI DOPO LA TERZA DOMENICA

Jesus ergo
fàtígatus ex itinere sedebat sic supra fontem hora est quasi sexta.
Venit mulier Samaria haurire aquam etc. [Jo. IV.6];

DUE contrarissimi affetti genera nel mio cuore questo successo della odierna Samaritana, ch’io già presuppongo notissimo ad ognun di voi, e sono appunto una fervente speranza, e un freddo timore. Perocché mentre profondamente io considero, da quanto poco dipende la salute di sì rea femmina, subito mi si sveglia nell’animo un ardito pensiero, il quale mi dice: Se cosi è poco dunque ci vuole afin di salvarsi. Ma, oimè, che si leva tosto in contrario un pensiero palpitante, il quale mi replica: Se così è, basterà dunque ancora poco a perire. E’ vero, che questa misera peccatrice non per altra ragione diventò santa, se non perché s’imbatte casualmente a quel pozzo, dov’era Cristo affaticato ed ansante, ed ivi interrogata da Lui, si contentò di reprimere quella voglia, la quale aveva, di cavare allora dell’acqua per udirlo alquanto discorrere di materie a lei salutari. Ma fate voi ragion, che vedutolo non gli avesse in verun modo voluto prestare orecchie, ma avesse detto: Adesso ho altro che fare, sono assetata, sono arsa, e poi l’ora è tarda: “ora est quasi sexta”; convien ch’io torni alle mie faccende domestiche; quanto è probabile che mai più non dovesse incontrare nell’avvenire una congiuntura sì comoda, quale ella ebbe, da rientrare in se stessa, e da ravvedersi! Da questa considerazione io sollevo sbigottito il mio spirito a domandarvi: Chi è tra noi, Signori miei cari, il quale faccia gran caso di un piccolo movimento interiore, il quale talor ci stimoli alquanto a mortificarci: di un piccolo impulso, di una piccola ispirazione, o di una azione minutissima di virtù? E pure, quell’azion di virtù sì minuta era forse il principio da cui doveva derivare la nostra beatitudine, e siccome trascurato il principio. Né meno. si ottiene il fine; così trascurata quella minuzia, né meno avviene, che ottengasi il Paradiso. Oh Padre (voi mi direte) com’è possibile? Volete dunque che da una minuzia dipenda la salute eterna di un uomo? Mentre parlate così, voi volete atterrirci. non istruire! Voglio atterrirvi? Ah sì. ch’io voglio atterrirvi (ve lo confesso) ma perch’io sono atterrito: Territus terreo, dirò tremante col Padre Santo Agostino. Non però voglio atterrirvi con vane esagerazioni, voglio atterrirvi con sodissime verità. Io vi prometto di non dirvi se non quello che mi fa riscuotere tutto da capo a piedi, quand’io vi penso, e che se ancora non è bastevole a rendermi meno iniquo, mi fa non essere almanco più incorreggibile. E che cosa è questa? Quella proposizione appunto che a voi pareva così strana, cioè, che da una minuzia talor dipenda la salute eterna di un uomo. Questa proposizione è quella che fa tremarmi, questa è quella ch’io qui mi accingo a mostrare, perché ognun veda una volta quanto sia vero che la buona opportunità vuole essere presa a tempo per li capelli, che son le piccole cose.

II. E primieramente io non credo, che vi parrà per altro strano di udire che da cose piccole possano derivare cose grandissime. Non ci predicano quasi altro i Naturali nelle loro considerazioni, i Politici nelle loro avvertenze, i Morali nelle loro massime. Basta dare un’occhiata d’intorno al Mondo per chiarirsene in un momento. Non è già solo il granellino di senape quello che nella Palestina si vanta di giungere a tanta altezza che agguagli gli alberi, non che avanzi le biade? Tutte quelle selve, le quali coi loro tronchi somministrano tante aste agli eserciti, tante navi all’Oceano, tanti sostegni alle case, tanti materiali alle macchine, tanti ricetti alle fiere, tanto nutrimento alle fiamme; ſe ci volessero fedelmente scoprire la l’oro origine, mostrerebbero alla fin altroche minutissimi semi stati talora, o spazzatura dei piedi, o scherzo degli uccelletti? Non accade, che scagliandosi un fulmine dalle nuvole faccia fracasso sì grande per ostentare la sua meravigliosa potenza… Abbatta pure le torri, percuota i gioghi, incenerisca i boschi, sgomenti i popoli: ben si sa da qual piccolo vaporetto egli ebbe i natali. E quei gran fiumi, che del continuo pellegrinando pel mondo ne vanno tanto orgogliosi, che vogliono porre i termini alle provincie, e togliere il nome al mare, e però anch’essi or portano sopra il dosso armati navigli, or contribuiscono dal seno grossissime pescagioni, ed ora infuriati uscendo dagli argini recano strage agli armenti, inondazione a campi, e sterminio alle biade, assedio alle case, solitudine alle Città, questi gran fiumi medesimi, se si potessero rivoltare talora indietro a mirare i loro principi, quanta cagione avrebbero di umiliarsi. mentre vedrebbero o che semplici villanelle vi guizzano entro per giuoco, o che stanchi pellegrini gli saltano per insulto! Tanto è comune alle cose ancora maggiori derivar dalle minime! Così son famosi gli incendi sorti da una favilla, così i contagi sparsi da un fiato, così i tremoti originati da un alito. Ma senza ciò, se si considera il corso degli avvenimenti morali, chi non sa come da cagione leggerissima può accadere che uno o da altissima dignità cada in un vilissimo stato, o da un vilissimo stato sia sollevato ad altissima dignità? Abigaille, di cittadina privata, arrivò ad essere tolta da un Davide per consorte, e così a cingere ancora un giorno la fronte di corona Reale; Ma ciò donde avvenne? Da una tal buona creanza, la qual ella usò coi servi di Davide, nel portar loro un rinfresco. Rebecca, di semplice garzoncella, arrivò ad esser data ad un Isacco per sposa; e così a divenire anche un tempo procreatrice del promesso Messia. Ma ciò donde accadde? Da una tal facile cortesia, ch’ella mostrò col messo di Isacco nell’offrirgli dell’acqua (Gen. XXIV). Laddove Aman, quel sì celebre favorito del Re Assuero, donde venne alla fine a cader di :grazia, a perder le dignità, a perdere le ricchezze, a perder la prole, ed a morir anche appeso qual pubblico malfattore sopra un patibolo? Non da altro venne, che dall’aver lui preso a piccarsi che un Mardocheo, uomo popolare, uomo povero non lo salutasse a suo modo: Non flecteret sibi genu (Esth. III, 5)? Che dirò della milizia? che del traffico? che delle lettere? Non fu per certo un accidente lievissimo, che Protagora divenisse in Grecia filosofo sì ammirato? Guardate donde accadde e meravigliatevi! Era già Protagora un vile contadinello, quando portando egli un dì sulle sue tenere spalle un fastello di legna al vecchio suo padre, si imbatté casualmente in Democrito, filosofo di gran nome, il quale vedendo quelle legne legate insieme con grandissima aggiustatezza, domandò al fanciullo, s’aveva fatte egli quel fascio. E rispondendo quegli di sì: Provati un poco, gli soggiunse Democrito, a scioglierlo, ed a ricomporlo all’istesso modo. Ubbidì Protagora prontamente, e con egual arte ed industria rilegando insieme le legne, se le recò di bel nuovo sopra le spalle. Dal che congetturando Democrito in quel figliuolo ingegno ed indole opportuna agli studi, l’invitò a vivere sotto la sua disciplina, lo educò, lo sostenne, lo addottrinò, e lo rendé filosofo non minore di tal maestro. Fate ora voi ragion che Protagora, o non avesse composto con tale aggiustatezza quel fascio, o non avesse incontrato in tali congiunture quel Savio; quanto è probabile ch’ei si fosse sempre rimasto a guidar l’aratro, in cambio di esercitare la penna? … e a solcar le campagne, in cambio di vergare le carte? E di somiglianti successi io potrei raccontarne quasi infiniti in qualunque genere, se non mi premesse di accostarmi più da vicino ad esemplificare nelle opere della grazia, senza vagar tanto per quelle della Natura.

III. Presupponete adunque che Dio, conforme allo stile, ch’Ei tiene nell’ordine della natura, proceda ancora nell’ordine della grazia; altrimenti da quello, che noi vediamo, non ci potremmo sollevare ad intendere quello, che non vediamo, come pur pretendeva S. Paolo ai Romani, quand’egli disse, che Invisibilia Dei, per ea quæ facta sunt, intellecta conspiciuntur (ad Rom. I, 20). Ha dunque Iddio, quanto alla sua volontà antecedente, non pur disegno (per favellar coi Teologi) ma ancora di beneplacito, destinata a tutti la gloria del Paradiso; e però veramente vorrebbe che la conseguissero tutti, che non la perdesse veruno: Deus vult omnes homines salvos fieri (I Tim. II 4). Ma essendo lo stesso il fine a cui tutti dobbiamo giungere, non son pero l’ istesse le strade da giungere ad un tal fine. Anzi nella vita di ciascun uomo Iddio vede, come le scuole c’insegnano, in numerabili connessioni, concatenazioni, o serie di avvenimenti, le quali, come tante strade maestre conducono, altre dirittamente alla gloria, altre dirittamente alla perdizione: Vias vitæ. Et vias mortis (Jer. XXI, 8). Ora, che l’uomo s’incammini piuttosto per una di queste strade che per un’altra, dipenderà talora da opere piccolissime. L’udire o il non udire una predica: il leggere, o il non leggere un libro; il parlare, o il non parlare con una persona: l’andare o il non andare a una veglia, può esser quello che, o c’incammini al Cielo, o c’incammini all’Inferno. Dissi “c’incammini”, vedete, perché non dipenderà la nostra salute immediatamente da tali azioni, ma dipenderanno remotamente in quella maniera medesima, onde abbiam detto, potere azioni anche minime incamminare naturalmente un mondano a gran perdite, o a grandi acquisti: In tantum ut, si priora tua fuerint parva, (come diceva quell’amico di Giobbe), novissima tua multiplicentrur nimis. Non si sgomenti, se a qualcuno non paja di avere ancor bene appresa una tal dottrina, perché io la renderò con gli esempi manifestissima a chicchessìa, benché digiuno d’ogni perizia scolastica. Pigliamo dunque per maggior’ intelligenza di ciò un nobile avvenimento, che vien descritto dal Padre Santo Agostino. Racconta il Santo. come dimorando l’Imperatore Teodosio nella città di Treviri a rimirare i famosi giuochi del Circo, due cortigiani si vollero appartar da quello spettacolo; ma non sapendo frattanto ciò ch’essi fare, si avviarono unitamente fuor delle mura, per goder la vista innocente della campagna. Passarono d’una in altra strada, d’uno in altro ragionamento, finché s’incontrarono in una solitaria boscaglia, dove abitavano sotto una rozza casuccia alcuni penitenti romiti. Entrarono per curiosità in quel tugurio, e mentre, come accade, ammiravano le angustie dell’abitazione, e la penuria dei mobili, videro un libro assai logoro, che giaceva sopra un tavolino . Uno di loro il piglia, l’apre, e s’avvede contenersi in esso le azioni del grand’Antonio. Comincia a leggerle, prima per curiosità, di poi per diletto, indi sente anche a poco a poco infiammarsi all’imitazione. Quando all’improvviso, avvampando tutto nel cuore di un amor santo, e nel volto di un vergognoso rossore, prorompe in un sospiro, e dice al compagno: Poveri noi, che seguitiamo una strada tanto diversa! Dic, quæso te, omnibus isti laboribus nostris, quo ambimus pervenire? quid quærimus? (S. Agost. Confess. Lib. VI). Ditemi un poco per vita vostra, o Signore, che pretendiamo noi con tante fatiche, con tanti servizi, con tanti corteggi, con tante umiliazioni; che pretendiamo? Possiamo mai sperar più, che di conseguir la grazia del Principe? Major ne esse poterit spes nostra, quam ut amici Imperatirissimus? Ma chi ne assicura che vi arriviamo? La vita è breve, la gioventù fallace, le forze manchevoli, i concorrenti molti, i carichi; pochi. E poi, quando ancor vi arrivassimo quid ibi non fragile, plerumque periculis? Che avremo noi fatto alla fine che cambiare fatica con fatica, servitù con servitù, pericolo con pericolo? Quante invidie ci assedieranno, quanti odi, quante persecuzioni quante calunnie! Non ci converrà vivere sempre in timore, e star sempre in guardia! All’incontro. per diventare amico di Dio, basta il volerlo niuno ce lo potrà mai contendere, e nessun levare: Amicus autem Dei, si voluero, esse non fio. Indi tornò a fissare gli occhi sul libro; e quasi assorto per la gran mutazione che lo agitava nell’animo, leggeva insieme, e gemeva, or nella faccia pallido, ed or acceso; ora pensieroso, ed or lagrimante. Finalmente richiude ad un tratto il libro, e battendo la mano sopra la tavola, dice risolutamente al compagno: Or quanto a me, io del tutto ho già stabilito di non mi partir più di qui. Da quest’ora ed in questo luogo io mi voglio consacrare tutto a Dio; però se voi non mi volete im itare, rimanetevi di sturbarmi: Ego jam Deo servire statui, et hoc ex hora hat, in hoc loco aggredior; te si piget imitari, noli adversari. Come? ripigliò l’altro, commosso da tal esempio, non piaccia a Dio, ch’io a me ritenga la terra, a voi lasci il Cielo. O ambedue ci ricondurremo alla Regia, o chiuderacci questo tugurio ambedue. E così risolutisi di nemmen prima tornare all’Imperatore, gli mandarono dentro un foglio l’avviso della lor concorde risoluzione; e deposti di subito gli ori, e gli ostri , si copersero di un sacco, si cinsero d’una fune, si chiusero in una cella; ed ivi in somma mendicità, sempre squallidi, sempre scalzi, menarono tutto il resto dei loro di, non mai però più famosi al Mondo che quando lo disprezzarono. Ora ditemi un poco, Signori miei; tante opere buone, che questi due novelli romiti dovettero di poi fare, tante vigilie notturne, tanti salmeggiamenti scambievoli, tante contemplazioni profonde, tanti digiuni severi, tante flagellazioni sanguinolenti con cui dovettero sicuramente acquistarsi la gloria del Paradiso, tutte queste cose, donde ebbero principio, chiamato già nei Proverbi (XVI, 5) Initium viæ bonæ? Mirate donde: dall’essersi ritirati da uno spettacolo. Quindi Iddio dispose che uscissero a camminare; dall’uscire a camminare, che incontrassero il romitaggio; dall’incontrare il romitaggio, che leggessero il libro; dal leggere il libro, che s’infiammassero di sentimenti devoti; quindi che aborrissero la Corte, che abbandonassero la Casa, che abbracciassero il chiostro, che camminassero sulla regia via della Croce. Laddove fingete voi, che si fossero trattenuti a quei giuochi, a cui forse potevano intervenire senza grave rimordimento: farebbe accaduto veruno di questi casi? E’ moralmente certo, che no: mercecché tutte le cose, se noi vogliamo dar credito all’Ecclesiaste, hanno una tal propria opportunità, a cui sono affisse Omnia negotia tempus est, et opportunitas (Eccl. VIII, 6). E però piuttosto saria seguita una serie di avvenimenti molto diversa, la qual Dio sa dove gli avrebbe condotti; perocché avrebbero probabilmente perseverato nel servizio del Principe, nella vanità delle signorie, ne’ vizi del secolo, e per conseguente ancor nei pericoli dell’Inferno. Debbono dunque riconoscere essi la loro eterna salute (non già come da cagione prossima, ma come da cagione remota) dall’aver lasciata una ricreazione non sì lodevole; Questa ſu a guisa di quella piccolissima fonte, veduta poi da Mardocheo convertirsi in fiume sì vasto (Esth. XI, 10). Questo fu a guisa di quel piccolissimo sasso veduto poi da Daniele cambiarsi in montagna sì smisurata. (Dan. II. 35).

IV. Ora figuratevi, che da sì lievi cagioni incominciassero quasi tutti coloro che noi sappiamo essere di presente arrivati ad eccelsissimi gradi di perfezione, di santità, di miracoli. Certamente pochissimi furono quei Santi, che nacquero Santi: nella Legge vecchia un Geremia, nella nuova un Giovanni. La maggior parte degli altri non nacquero Santi, ma diventarono. E che diventassero, qual ne fu la cagione? Ad uno fu l’aver gittate le cetere e le chitarre, per correre un poco dietro ad un uomo pio, che con grandissimo accompagnamento di gente passava per la via pubblica. come accadde a San Ranieri il Pisano; ad altri ſu l’aver contemplato attentamente un cadavere, come a San Francesco Borgia; ad altri fu l’aver perdonata Pietosamente un’ingiuria, come a San Giovanni Guarlberto; ad altri l’aver sovvenuto l’avvenuto cortesemente un mendico, come a San Francesco d’Assisi, ad altri l’aver tollerata innocentemente una prigionia, come a Santo Efrem Siro; ad altri l’aver udito casualmente una predica, come a San Niccolò di Tolentino; ad altri l’esser caduto vergognosamente nel loto come al Beato Consalvo Domenicano; ad altri l’aver ricevuto opportunamente un rimprovero dalla madre, come a Santo Andrea Corsini; e ad altri non più che l’aver servito caritatevolmente una Messa, come a Marcello Mastrilli, quel gran campione della mia fiera milizia, il quale giunto al sepolcro di San Francesco Saverio ricevé un chiarissimo lume di essere stato colà chiamato all’onore di combattere per Cristo, e di trionfare con tanta novità di stupori; perché una volta in Napoli ricercato, mentre egli ancora era studente, da un padre vecchio, in congiunture importune, ed in ora tarda, di ministrargli all’altare, egli con sembiante sereno, e con prontezza amorevole nel compiacque. Ma qual maggior santità si può figurare di quella alla quale giunsero, benché per diversissime strade, un Antonio Abate, ed un Ignazio Loyola?- Udite di grazia, se pure il parallelo in mia bocca non sia ambizioso. Furono ambedue patriarchi di numerosissima figliolanza, quantunque l’uno di gente solinga, e contemplativa, l’altro di persone trattabili ed attuose. Ambedue nei principi della loro conversione ebbero da’ demoni contrasti travagliosissimi. Perocché, se ad Antonio apparivano spesso in forma. di animali feroci, ad Ignazio comparivano ancor col volto di femmina lusinghevole. Ma esercitarono all’incontro ambedue sopra i demoni grandissima padronanza, perocché dove Antonio fugavali con la voce; spesso ancora Ignazio scacciavali col bastone. Ambedue arsero d’una voglia accesissima del martirio, per cui sfogare ne andarono, Antonio in Alessandria, Ignazio in Gerusalemme. Ma ambedue volle Dio, che fossero preservati per dare la vita a molti. Popolò pertanto l’uno le selve di santissimi solitari, l’altro riempie le città di zelanti predicatori, eletti ambedue da Dio per ristorare nella Chiesa le perdite ch’ella cominciava a patire, ne’ tempi di Antonio per l’eresia di Ario, nei tempi d’Ignazio per l’eresia di Lutero; opporsi al furore dei quali, lasciò l’uno per qualche tempo i deserti della Tebaide, l’altro per sempre la solitudine di Manresa. E siccome Antonio ancor vivo vide i suoi seguaci distesi; non solo nell’Oriente, ma ancora nell’Occidente; così vide Ignazio ancor vivo distesi suoi, non solo nell’Occidente, ma ancora nell’Oriente. Somigliante verso ambedue, fu la stima, e la venerazione che portarono loro i Principi, perocché e ad Antonio ricorreva per consiglio l’Imperator Costantino, e ad Ignazio l’Imperatore Ferdinando, il quale in confermazione di ciò aveva dato anche ordine al suo ambasciatore residente in Roma, che niun negozio trattasse mai col Pontefice senza averlo conferito prima col Santo. E finalmente è stata somigliante ancor la difesa, che ha Dio pigliata dell’onore di ambedue questi celebri personaggi, perché col fuoco ei represse i dispregiatori d’Antonio, col fuoco i detrattori d’Ignazio, facendo miracolosamente arder vivo uno, che aveva osato di dileggiarlo. Ora ditemi, la santità di ambedue questi grand’uomini donde ebbe il cominciamento, Initium vitæ bonæ, non pare che dovesse essere qualche gran seme quello, il qual produsse due piante sì generose, che molto più di quell’albero già veduto dall’addormentato monarca di Babilonia, hanno dilatata la pompa dei loo rami da un mare all’altro,, e dall’uno all’altro emisfero? (Dan. IV, 7 e 8). Eppure udite che fu. Nell’uno Initium vitæ bonæ fu l’ascoltare attentamente una Messa; nell’altro Initium vitæ bonæ, fu pure attentamente leggere un libro. Entra Antonio ancor giovinetto in una chiesa per udir Messa, e s’incontra in quel Vangelo, nel qual si dice: Se tu vuoi esser perfetto a va’, vendi ciò che possiedi, e poi seguimi. Lo reputa detto a sé, ed indi si risolve a far vita simile a Cristo. Domanda Ignazio convalescente alcun libro per passatempo, e gli è recato il Leggendario dei Santi in cambio dei volumi di cavalleria, ch’avrebbe voluti. Comincia a leggerlo, e quinci ſi determina di far vita simile alla loro. Ora, se non avessero l’uno udita quella Messa con attenzione, e l’altro letto quel libro; che vogliamo credere, che sarebbe stato di essi? Sarebbero ambedue divenuti quei sì gran Santi, che ora noi veneriamo? Io non lo so, perché tutto ciò si appartiene a’ giudizi occulti di Dio. che sono le acque di quel profondo torrente, in cui neppure un Ezechiele si attentò d’inoltrarsi troppo, per non vi restare annegato: Aqua profundi torrentis, qui non potest transvadari (Ezech. XLVII, 5). Ma potrebbe esser ancora molto probabile. che non fossero divenuti; Perché assai spesso Dio suole usare con gli uomini, come fece con Naman Siro lebbroso, non so dir più se di corpo, o d’anima, ogni cui bene, come sapete, egli affisse, a che operazione? ad una sommamente tenue, ad una sommamente triviale: al bagnarsi sette volte in un piccolo fiumicello a lui forestiero: Lavare septies in Jordane, et mundaberis (IV Reg. V, 10). Ma chi mai l’avrebbe creduto? Come? (diceva Naman) Perché non piuttosto venirmi incontro il profeta, e mettermi le sue mani sopra la testa? No: Dio vuol, che ti lavi. Ma s’ho a lavarmi, perché non anzi nell’acque del mio Damasco, che son sì elette? No: nel Giordano! Ma non è meglio nell’Abana? No: nel Giordano! Ma non è meglio nel Farfar? No: nel Giordano! Vuoi per forse tu mettere legge a Dio? Quis ei dicere potest: cur ita facis? (Job. IX, 12). Fa pure ciò che a te piace, che sei padrone del tuo libero arbitrio: nel resto è certo che qualunque tuo bene, non solo corporale, ma ancor spirituale, dovrà dipendere dal mortificare con quest’atto, il quale a te sembra men proporzionato, men proprio, la tua altezza. Lavare septies in Jordane, et mundaberis. – Ora in una forma medesima Iddio suole assai spesso determinare la santità, anzi la salvezza degli uomini, ad una tale opera buona molto ordinaria, la quale s’essi eseguiscono, egli poi comunica loro una grazia tanto soprabbondante, e una protezione tanto speciale, che infallibilmente giungono al cielo, come appunto fu di Naman; ma se non l’eseguiscono, gli priva di tali aiuti più liberali, i quali, come i Teologi sanno, non sono dovuti, né per legge di Provvidenza, né per legge di redenzione; e prove dandogli degli aiuti solamente consueti, lascia, che seguano i lor fallaci consigli, e così si perdano; come sarebbe parimente avvenuto a Naman medesimo, se contumace non s’induceva ad attuffarsi in quell’acque, da lui riputate sì vili.

V. E questo è quello che c’inculcano i Santi, qualora ci dicono, che da un momento dipende l’eternità: Momentum unde pendet eternitas. Alcuni pensano che questo momento sia solamente quel della morte, e però n’usano male tanti altri, quasi che basti impiegar bene quel solo. Eh non è così. Questo momento ad alcuni è nella fanciullezza; ad altri è nella gioventù, ad altri è nella virilità. ad altri è nella vecchiaia. Ed è quel momento al quale Iddio, terribilissimo nei consigli ch’Egli ha sopra i figliuoli degli uomini: Terribilis in consiliis super filios hominum, ci attende per così dire, come ad un varco, affin di provare la nostra cordialità, e la nostra corrispondenza, ch’è quello appunto che Mosè scoperse al suo popolo, quando disse: tenta vos Dominus, ut palam fiat, utrum diligatis eum an non, in tota anima vestra (Deuter. XIII, 3): non perché passato quel momento, non ci sia sempre egualmente possibile la salute o la dannazione (questo non si può dire) ma perché da quello dipenderà, che incontriamo nell’avvenire maggiori o minori difficoltà per ben operare, che abbiamo maggiori o minori forze, ed in una parola, che: Gratiam inveniamus, o non inveniamus, per usare la formula dell’Apostolo, in auxilio opportuno (ad Hebr. IV, 16). Vediamo di grazia questo in un singolarissimo esempio delle divine Scritture, il quale a meraviglia conferma l’intento nostro: e siccome reca seco grandissima autorità, così ancora merita d’essere da tutti ascoltato con gran tremore. Avendo le Tribù Ebree richiesto a Dio qualche Re , che le governasse invece de’ Giudici, condiscese Dio finalmente, quantunque di mala voglia, alle loro istanze, e destinò loro Saule. Era questi vilissimo di lignaggio. ma sceltissimo di virtù. Perciocchè il sacro testo afferma di lui, che nessuno di tutto quel popolo lo vantaggiava per merito di bontà: Non erat vir melior illo. E pure per tacer gli altri, fiorivano seco a quel medesimo tempo un Samuele, ed un Davide, personaggi sì segnalati. Ebbe la cura di eleggerlo il medesimo Samuele. L’unse, lo pubblicò. Indi perchè nel principio del suo governo doveva il novello Re offrire a Dio sacrificio, Samuele il chiama, e gli dice: va’ in Galgala, dove arrivato, mi aspetterai sette giorni, nel termine dei quali io verrò per sacrificare: Septem diebus expectabis, donec veniam ad te. Va Saule, lo aspetta: ma già scorre il settimo giorno, ed il buon Samuele ancor non appare. Or che deve fare Saule? Si vede accampato d’incontro un poderosissimo esercito di nemici che lo sfidano alla battaglia: ha le milizie in ordine per combattere: ha le vittime pronte per immolare; si risolve però, giacché è vicina la sera del dì prefisso, di offrire ei medesimo il sacrificio, come venivagli dalla legge permesso in assenza di sacerdote. Appena egli ha immolato le vittime, ed ecco vien Samuele. Saule l’incontra, e Samuele in vederlo: Ahi sfortunato (gli dice) di’, che hai tu fatto? Quid fecistis? Risponde Saule: io ti ho aspettato conforme all’appuntamento più, che ho potuto, ma frattanto i soldati nostri chiedevano la battaglia, i nemici la minacciavano: stimai scelleratezza l’uscir in campo senza aver prima placato il volto divino con sacrifici pacifici. Ho precorsa nell’offrirli la tua venuta. Avvisandomi che tu per qualche nuovo accidente non potessi giungere in ora. Sì eh (ripigliò allor Samuele) or sappi, che tu hai usato da stolto: Stulte egisti! Però ti denunzio, che siccome, se tu mi avessi aspettato pazientemente, Iddio avrebbe perpetuato il tuo scettro sopra il suo popolo, così ora non ti sporgerà successore dal tuo lignaggio … Si non fecisses, (ponderate bene quest’orrenda condizionale) jam nunc præparasset Dominus regnum tuum super Israel in sempiternum; sed nequam regnum tuum ultra consurget (I Reg, XIII, 13 e 14). – Ma poco fu per questa azione a Saule perdere il regno. Fu peggio perdere le virtù, fu peggio perder la grazia, fu peggio perder l’anima, ſu peggio perder il paradiso. Udite in qual modo. Non si dannò già egli precisamente per quest’azione: Signori no. Perocché molti autori insigni hanno infino voluto credere, ch’ei non peccasse in ciò gravemente, o perché egli stimasse d’esser tenuto ad aspettare solamente il principio del settimo giorno, o perché ei reputasse d’esser costretto a secondare finalmente il volere degli impazienti soldati, come par ch’egli volesse anzi accennare dicendo per sua discolpa: Necessitate compulsus obtuli holocaustum (Ibid. XIII, 12). Come si dannò nondimeno per quest’azione? Si dannò per questa, come per azione, che lo dispose alla perdizione. non come per azione, che ve lo determinò. Mi dichiaro. Per quest’azione di Saule Dio volle togliere il regno da tutta la sua prole e da tutta la sua prosapia, ch’era privarlo d’un benefizio temporale gratuito. Gli prepara però successore d’altro lignaggio, qual fu Davide. E perché Dio, secondo il nobile detto della Sapienza, soavemente dispone intorno di noi ciò che efficacemente risolve: cum magna reverentia disponit nos (Sap. XII, 18); fa cadere una congiuntura opportuna di trasferire Davide allor pastorello dalla greggia alla Corte. Saule stesso è il primo ad accoglierlo per lo bisogno ch’ei n’ha contro il ſier gigante; ma dalle vittorie, che vede lui riportare de’ Filistei, dagli applausi ch’ode a lui farsi dalle milizie, si accorge questo essere il successore a sé minacciato. Però d’innanzi il comincia a guardar con quell’occhio livido, con cui è proprio dei governanti mirare i loro successori. Si accende d’odio, si gonfia di veleno, cerca in mille modi d’ucciderlo, or con lanciargli l’asta sul viso, or con mandargli le birrerie sino in camera, or con tendergli agguati per le foreste, quindi comincia a prezzare assai gl’interessi del suo Reame, poco i comandamenti del suo Signore. E perché sa, che alcuni sacerdoti di Nobe hanno ricettato il suo emulo, ordina, che siano tutti scannati alla sua presenza. Onde si vede cader ai piedi, per mano di un vile servo Idumeo, ottantacinque Sacerdoti vestiti in abito sacro: né contento di questo ordina parimente che Nobe, loro città, sia mandata a ferro ed a fuoco, facendo in essa una confusissima strage di uomini, di donne, di giovani, di bambini, di vecchi, senza nè meno perdonare alle bestie, né meno ai sassi. E quinci passando d’una in altra barbarie, d’una in altra scelleratezza; vede finalmente morirsi insieme in battaglia ſu gli aspri monti di Gelboe tutti e tre quei figliuoli, sui quali ambiva di stabilire lo scettro: chiede disperato allora la morte: non trova chi gliela dia: egli però rivoltando il suo ferro contro il suo petto, l’apre, lo squarcia, s’uccide da sé medesimo: e così finalmente: Dum Samueli non obtemperavit, Paullatim, atque paullatim habens, non stetit, quousque ad ipsùm perditionìs barathrum seipsum, immisit, come poi scrisse San Giovanni Crisostomo ponderando sì fiero caso. (Hom. 87 in Matth.). Ora considero io, chi avesse detto a Saule, quand’egli stava in procinto di trasgredire il comandamento di Samuele: Sire, guardate bene ciò, che voi fate, perché da codesta azione dipende come in radice la vostra salute e temporale, ed eterna; crediamo noi, che a Saule sarebbe ciò parso possibile? Come? da un’azione sì minima? non può essere, non può essere; questi sono spaventacchi di scrupolosi, son timori di vecchierelle. E pur così fu: non perché egli (notate bene) … non perché egli poi non avesse potuto assolutamente ritrarsi da tutte le susseguenti scelleratezze; ma perché il farlo gli fu tanto difficile, ch’ei non lo fece: laddove sarebbe stato a lui facilissimo (come ad uomo di tanta bontà, che: Non erat vir melior illo) se senza contrasto con emulo, e senza sospetto di successore, goduto avesse tranquillamente il suo Regno, com’è di fede, ch’ei se l’avrebbe goduto. – Ora deduciamo da questo illustre racconto quel ch’è di nostro particolare interesse, ed esclamiamo tremanti con San Gregorio: En quam magna… perdidit qui, ut putabat, nulla contemsit. Per così poco perduto tanto? E che cosa è questa? Ah, che quel poco era, per così dire, quel passo augusto, al quale Iddio: Magnus consilio, incomprehensibilis cogitatu, come lo chiamò Geremia, voleva mettersi a provar l’obbedienza, l’ossequio, la fedeltà di Saule per veder s’egli riusciva ancora del numero di coloro di cui sta scritto, che: Deus tentavit eos, et invenit illos dignos se (Sap. III, 5). Saule a questo passo non tennesi, ma cadde: e Dio privandolo di quegli aiuti maggiori, che secundum propositum voluntatis suæ, avevagli apparecchiati, lasciò che a poco a poco andasse in rovina. Or non credete, Signori miei, che con ciascuno di noi Dio faccia molte volte ancora così? E quanto spesso accadrà, ch’Egli dica dentro il cuor suo: io voglio ispirare a quell’ammogliato. che vada ad ascoltar quella predica. S’egli v’andrà, lo verrò di modo a commuovere in auxilio opportuno, che finalmente abbandonerà quella pratica. Abbandonata quella pratica, non gli sarà più difficile accostarsi frequentemente alla confessione e alla Comunione. Con questa frequenza egli a poco a poco si svezzerà di molti abiti licenziosi, contratti nel giuocare, nel parlare, nel trafficare: quindi applicatosi a maneggiar la sua casa cristianamente, vivrà ritirato, si morrà salvo. Ma se non udirà quella predica seguirà a conversare con la sua pratica, entrerà in altri amori, s’allaccerà in altri impegni, s’abbatterà in altri rivali che gli toglieranno miseramente la vita. Ed a quel giovane io voglio parimente ispirare, ch’ei vada a confessarsi per la tale solennità. S’ei v’andrà, lo verrò di modo a compungere in auxilio opportuno, che finalmente abbandonerà quei compagni. Ritirato da quei compagni, non gli sarà più molesto di attendere applica talmente allo studio ed alla pietà . Con questa applicazione egli a poco a poco accenderà di molti desideri ferventi di mortificarsi, di orare, di ritirarsi. – Quindi risoluto di assicurare la sua anima interamente, entrerà in Religione, volerà al Cielo. Ma s’ei non farà la tal confessione, seguirà a praticare coi suoi compagni, piglierà peggior piega, passerà in peggiori tresche, cadrà in peggiori disordini, che il condurranno drittamente all’inferno. Signori miei cari, queste sono verità certissime, irreparabili, indubitate. le quali noi quì non possiamo capire, perché troppo folto è quel velo ch’abbiamo agli occhi: Contenebrati sunt oculi nostri; ma le capiremo il dì del Giudizio, quando cadutoci, per così dire, un tal velo, noi vedremo subito per quali strade, o Dio si sarà compiaciuto salvarci, o noi ci saremo voluti dannare vias vitæ et via mortis (Ger. XXI, 8). E allora ogni Giusto, impaurito, qual pellegrino ramingo, ch’abbia camminato di notte, senza avvedersene, su l’orlo sempre d’un orrido precipizio: Oh Dio buono, dirà, da che è dipesa la mia salute! Quanto poco mancò, che in vece di mettermi per la strada del Cielo, non inoltrassi per la via dell’Inferno! Nisi quia Dominus adjuvit me, Paulo minus habitasset in inferno anima mea (Ps. XCIII, 17). Quell’operetta buona ſu che salvommi; il tal giorno, nella tale occasione: e s’io lasciava di farla, oh che via diversa prendea da quella ch’io presi! All’incontro quanto fremeranno i dannati, quanto urleranno, in veder donde avvenne, ch’essi smarrissero la via dritta al cielo! Viam civitatis habitaculi non invenererunt (Ps. CVI, 4). Ah s’io udiva la tal predica, ah s’io lasciava il tal compagno, ah s’io non andava al tal giuoco, ah s’io mi rimaneva la tal sera d’intervenire a quella veglia, a quel ‘bagordo, a quel ballo, a quella commedia! Ora non c’è più rimedio in eterno, misero me! non c’è più rimedio in eterno: Quam magna perdidi, quam magnaperdidi, qui, ut putabam, nulla contempsi!

SECONDA PARTE.

VI. Veggo che non vi potete più contenere da una gagliarda opposizione, la quale vorreste addurmi. Parlate dunque animosamente, sfogatevi. Oh Padre (voi mi direte) se fosse vera la dottrina da voi predicata finora, poveri noi! ne seguirebbe che noi dovessimo vivere in un assiduo sgomento ed in una angosciosa sollecitudine. Perocché (sentiteci bene) se noi sapessimo per appunto qual fosse questa piccola azione da cui dovesse come in radice dipendere o la nostra miseria, o la nostra felicità, chi può dubitare che noi saremmo molto ben circospetti nell’eseguirla? Ma non sapendo di qual dobbiamo temere, converrà temere di tutte: e per tanto dovremo sempre far grandissimo conto d’ogni minuzia: non dovremo sprezzar mai nessun difetto, come leggero, mai nessuna ispirazione come non importante; anzi in ogni luogo, in ogni occasione, in ogni ora, in ogni momento, dovremo studiarci di assicurare con qualunque minima sorte d’opere buone il nostro incamminamento alla Gloria. Signori miei, troppo mi volete voi stringere i panni addosso con coteste vostre obbiezioni. Ma che volete voi, ch’io risponda? Io non posso finalmente trovar gran difficoltà in concedere certe proposizioni, le quali ha concesse prima dirne la Sapienza eterna. Però vi do per convinto che quanto avete opposto, tutto è verissimo: Concedo, sì torno a dire, concedo totum. E che altro volle intender San Pietro, quand’ egli, dopo lungo discorso, cavò quella formidabile conclusione: quapropter fratres, magis satagite, ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis; hæc enim facientes, non peccabitis aliquando (2 Petr. I, 10). Quasi voless’egli dire in brevi parole: Dilettissimi miei, voi vi credete che il negozio della vostra eterna salute sia negozio da trattarsi per passatempo, quando non riman altro che fare in tutta la giornata, o di che pensare. Eh non è così? Egli è un negozio gravissimo, un negozio geloso, un negozio tremendo, il quale dovrebbe tener sempre occupato il vostro pensiero: Satagite … satagite …; diligenza ci vuole, industria, fatica, finché arriviate a non peccare giammai né molto, né poco, se tanto vi sia possibile: Magis satagite, magis; quanto più fate, tanto stimatevi obbligati a far più. Ma la maggior parte non fa così. Concedo. E però larga è la strada che conduce alla perdizione: Spaziosa via est quæ ducit ad perditionem. (Matth. VII, 13). Ma sono pochissimi quei che faccian così. Concedo. E però angusta è la porta che introduce alla gloria! Angusta porta est quæ ducit ad vitam. (Ib. VII, 14). Che poss’io dirvi? Poss’io predicarvi diversamente da quello, che ha pronunciato l’infallibile Verità? Numquid aliud judex nunciat, aliud præco clamat? (S. Greg. Rom. 17 in Evang.) Poss’io cancellar gli Evangeli, per darvi soddisfazione? poss’io cambiarli? che posso io fare?

VII. E a dire il vero, se non fosse così troppo forsennati sarebbero sempre stati tutti coloro i quali sentitosi dire dall’Ecclesiaste che: Qui timet Deum nihil negligìt, (Eccl. VII, 19) facevano tanto caso di non commettere né pur piccole imperfezioni. Appena si sollevava un leggero dileticamento di senso negli animi d’un Bernardo, d’un Francesco , d’un Benedetto, che incontanente tutti ignudi correvano, chi a tuffarsi nei ghiacci, chi a seppellirsi tra le nevi, chi a ravvolgersi tra le spine. Un solo fantasma impuro, che passò in sogno come di volo per la mente d’un Francesco Saverio, l’atterrì, l’agitò; lo riscosse in modo che gli fece scoppiar dalle fauci una corrente impetuosa di sangue, poco men che bastevole a soffocarlo per l’alto orrore. Un passo poco misurato, un riso poco composto, una parola poco considerata recava tal crepacuore alle Agnesi Auguste, ed alle Marie d’Ognes, che non potevano pe’ singhiozzi parlare, qualora se ne accusavano; come della prima testifica il Cardinal Pietro Damiano, e della seconda il Cardinal Jacopo da Vitriaco, ambedue loro santissimi confessori. Che più? Leggeva un Eusebio Monaco il libro degli Evangeli, quando dal libro gli trascorsero gli occhi con qualche straordinaria curiosità, a rimirare dall’aperta finestra della sua cella alcuni lavoratori che faticavano nella vicina campagna. Non ebbero quegli occhi più pace, finché la morte medesima per pietà non venne a serrarli. Perocché da Eusebio, accortosi del suo fallo, furono tosto puniti con questa legge, che non mirassero mai più né selve, né prati, né montagne, né Cielo. Si legò pertanto al collo una catena di ferro d’immenso peso, che sempre lo costringeva a mirare al basso, e così curvo e cadente, finché egli visse, che furono ancor vent’anni, non schiodò le palpebre più dal terreno. Signori miei, dove siete? Pensate voi che per sì piccoli mancamenti questi sfortunati credessero di aver subito meritato l’Inferno, onde se ne volessero ricattare con supplizi sì atroci, con asprezze sì intollerabili? Eh che non erano i miseri sì ignoranti, che non sapessero ancor essi assai bene, quanto si richieda a dannarsi. Sapevano, che a dannarsi richiedesi colpa grave, e colpa ancora commessa ad occhi veggenti, con animo risoluto, con voglia piena. Ma nondimeno temevano d’ogni minuzia, perché intendevano quanto sia facile in materia di peccato il passare dal poco al molto! Qui spernit modica, paullatim decídet. E così appunto lo confessò di propria bocca. l’istesso Eusebio a coloro. che quasi si scandalizzavano di veder punita un’imperfezioncella sì piccola con una penitenza sì rigorosa. Non vi meravigliate, diss’egli loro, di questo, perch’io lo fo: Ne malignus dæmon de magnis bellum gerat, conans aufèrre temperamtiam, atque justitiam. Temeva egli, che l’avere guardato curiosamente un oggetto indifferente non lo dovesse a poco a poco condurre a guardarne un peccaminoso: e non si fidava, ammesso questo una volta, di non dover passar dal guardo al compiacimento, dal compiacimento al desiderio, dal desiderio al consenso, dal consenso all’operazione, e quindi all’ultimo sterminio totale di quello spirituale edificio, ch’egli aveva innalzato con tanta pena; conforme a quel bellissimo detto dell’Ecclesiastico: Si non in timore Domini tenuerí, te instanter, cito subvertetur domus tua (Eccl. XXVII, 4). Direte, che a voi dà l’animo di astenervi dal molto, dopo avere commesso il poco; e che però tal timore non è per voi. Ma come, se non dava l’animo ad uomini sì perfetti. È possibile adunque, che per loro soli fosse la natura tanto ribelle, la grazia tanto scarsa, il cielo tanto spietato, la virtù tanto faticosa, la salute tanto difficile? Essi vestiti di cilizio, sparsi di cenere, ricoperti di lividure, temevano d’ogni principio di colpa, come d’un principio di dannazione; e non ne temerete voi, che pure vivete ammantati di bisso, aspersi di odori, e sagginati nel lusso? Crudelissimo Dio (vorrei allor io gridare, se questo fosse) Dio crudelissimo! E che amore di padre è cotesto vostro, ch’egualità di Signore? Porgete aiuti tanto soprabbondanti a quei che ingolfati nei piaceri del secolo, concedono ogni sfogo ai loro capricci; e non li porgete a quei, che per cagione vostra son iti a confinarsi nelle boscaglie, dove non hanno altra compagnia, che le fiere; altri testimoni che le ombre; al tre stanze, che le caverne; altro refrigerio che i pianti; altro trastullo che la mortificazione. Debbono stare ognora questi sì timorosi di sé medesimi; e quelli ne potranno vivere sicuri? Meglio sia dunque, se così è, gettar via cilizi, incenerire flagelli, sbandir digiuni, dimenticar penitenze, mentre maggior pericolo corrono di perire quei ch’ogni leggiera colpa castigano con tanta severità, di quei che l’ammettono con tanta scioperatezza. Ma bene stolto io sarei se mai mi lasciassi in questo modo trascorrere a lamentarmi di Dio, mentre pur troppo verrà giorno, verrà, nel quale si vedrà chiaro, quanto ad ognuno o religioso, o mondano, sarà costato comunemente il salvarsi. Ahimè, che il Regno dei Cieli non è da tutti. Chi vuol entrarvi, si ha da rompere il passo, anche a viva forza, con la negazione di quegli appetiti scorretti, che glielo ritardano: Contendite intrare per angustam portam, sì, dice Cristo, contendite, contendite. E che vuol dire questo contendite? Vuol dire: affannatevi, vuol dire: affaticatevi. Queste è poco. Vuol dir ciò che San Luca espresse più orribilmente col suo Greco vocabolo: Agonizate; vuol sprezzare roba, sprezzare riparazione, sprezzare all’ultimo sin la medesima vita.

VIII. Io so, che queste cose non si ascoltano da ciascuno sì volentieri, e che più volentieri si corre comunemente ad udire quei predicatori i quali diano sicurezza, che non quegli altri i quali arrechino timore. Ma non vi diss’io da principio, ch’io non poteva darvi in questa. materia, se non timore? Non vi dovete però meco sdegnare, ma compatirmi .Forse che non ho ancor io comune la causa con tutti voi? Non solleticherei anch’io, quanto ogni altro, volentieri le vostre orecchie, non lusingherei il vostro genio, non mi cattiverei la vostra benevolenza, s’io non vedessi che ciò facendo vi tratterei da servitore infedele; mentre per darvi un breve contento, forse vi arrecherei un’eterna rovina? Però vi conchiuderò con Santo Agostino: Fratres, nimis timendum esse volo . Eh convien temere pur troppo, convien temere; perché di certo è molto più profittevole un timore santo, che una sicurtà baldanzosa: Melius est enim non vobis dare securítatem malam. Io quanto a me: Non dabo, quod non accipiam. Come posso a voi dare ciò ch’io non ho? S’io fossi sicuro, farei sicuro anche voi: Securo vos facerem, si securus ego essem. Ma io pavento, ma io palpito, ma io tutto mi raccapriccio, pensando all’anima mia. E come dunque poss’io farvi sicuri? Benché, sapete voi, qual è il modo da ritrovar nel negozio della salute qualche considerabile sicurezza? Trattarlo sempre con un immenso timore, sempre ricorrere a Dio, sempre raccomandarsi a Dio: Chi fa così, vada lieto: Beatus homo, qui semper est pavidus (Prov. XXVIII, 14).

 

QUARESIMALE -XV-

[Padre Paolo SEGNERI S. J.:

Quaresimale

– Stamperia Eredi Franco, Ivrea 1844 – Cortassa Pro-Vic. Generale; Rist. Ivrea 10 agosto 1843, Ferraris prof. Rev. Per la G. Cancell.]

XV. NEL VENERDÌ DOPO I.A SECONDA DOMENICA.

… Malos male perdet.

(… farà morire quei malvagi).- Matth, XXI, 41.

I. È per intimare castighi ad una città meritevole d’ogni bene son io stamane comparso su questo pulpito? Ah no, Signore. Se pur volete che anch’io vi serva di Giona, mandatemi a qualche Ninive, a città scellerate, a città sacrileghe, ch’io vi volerò volentieri; no dubitate ch’io colà non annunzi ogni più ferale sterminio, come a voi piace. Ma mentre voi mi avete fatto venire ad una città cattolica, quali altri auguri volete voi ch’io qui faccia, se non di prosperità, di vita lunga, di stagioni propizie, di messi liete? Così vorrei certamente che succedesse. Ma chi fia che me n’assicuri? l’iniquità pur troppo vedo che da per tutto si dilata, s’inoltra, si impadronisce; e però temo, o mia N., che ancora in te possa ormai giungere a segno, che provochi a tuo gran danno il divin furore. Comunque siasi, ecco l’espressa denunzia, la qual Dio vuole che assolutamente io ti faccia: malos male perdet. Non si riguarda ad antichità di natali, non si riguarda a merito di antenati; chi è reo, convien che porti a lungo andare la pena del suo delitto. E qual città più gradita al Cielo una volta di Gerosolima? se l’era Dio, qual cara vigna, piantata per suo diporto su gli amenissimi colli di Palestina; le aveva data la sua legge per siepe, le aveva aggiunta la sua protezione per maceria, l’aveva nettata da que’ virgulti spinosi che la ingombravano, da’ Cananei, dagli Ammoniti. dagli Amorrei, e da altri simili popoli a lei molesti; vi avea per torre collocato il suo tempio, vi aveva per torchio costituito il suo altare, e nulla aveva risparmiato o di spesa o di arte ch’egli vi potesse impiegare. Quid debui facete vinea mea, et non feci! (Is. V. 4) Eppur che n’è di presente? Andate, e miratela. Ella è tutta insalvatichita. E per qual cagione? Per non avere già voluto la misera prestar fede all’odierna intimazione evangelica: malos male perdet. Ché tante minacce? non veniet super nos malum (Jer: V. 12). Quest’erano le parole che fin da’ tempi di Geremìa sempre avevano su la lingua gl’increduli Israeliti. Profetæ fuerunt in ventum locuti (Ibid. 13). Questi predicatori pretendono spaventarci; badiamo a campare, badiamo a conversare, attendiamo a ridere. Ah contumacissimi Ebrei! Numquid super gentem hujuscemodi noti ulciscetur anima mea? Dicit Dominus (Ibid. 29). Date un poco di tempo al furor divino, e di poi vedrete. Ma perché frattanto, uditori, di esempio tale non ci vagliamo per nostro ammaestramento? Non manca forse nel Cristianesimo ancora chi sprezzi Dio come inabile alla vendetta, e chi sempre dica: non veniet super nos malum, non veniet super nos malum? [non ci accadrà nulla di male]. Però mi sono risoluto stamane, sapete a che? a confondere questi increduli, ed a mostrar loro da parte di Dio sdegnato, che se non vogliono in tempo dar fede ai tuoni, non tarderanno ancor essi a provare il fulmine.

II. Uno dei maggiori argomenti, che forse abbiamo della misericordia immensa di Dio, sono, a mio credere, le minacce orrendissime, con le quali Egli è stato sempre solito di tonare sopra de’ peccatori. E che altro mai ha preteso egli con esse, se non dare agio ai peccatori medesimi di salvarci? Non ha volontà di ferire chi molto prima si stanca nel minacciare; conciossiachè (conforme il detto acutissimo di colui) la minaccia altro non è che uno scudo del minacciato, siccome quella che gli dà sempre tempo o di mettersi in fuga speditamente, o di porsi in guardia. Quindi asseriva santo Agostino (Ser. 38. de Sanctis), che si nos Deus noster punire vellet, non nos tot ante sæcula commoneret. Invitus quodammodo vindicat qui quomodo evadere possimus, multo ante demonstrat; non enim te vult ferire qui libi clamat: observa. [ se Dio volesse punirti, non ti avviserebbe secoli prima … non ti vuol ferire che grida: sta’ attento!]. Chi prima di ferirti ti dice: guardati, non ha volontà di ferirti. E però (replica il Santo) se Dio avesse diletto di castigarci, non farebbe precedere il tuono al fulmine, non farebbe precorrere il lampo al tuono. Eppure nessun castigo quasi leggiamo aver esso mandato al mondo innanzi di minacciarlo, non solo in genere, ma ancora in particolare; tanto che questa una fu delle principali cagioni per cui spedì varj profeti al suo popolo in varj tempi. Sentite. Volle denunziare al suo popolo l’universale saccheggiamcnlo de’ beni; e che fece? Fece andare per la città Isaia tutto ignudo dei vestimenti (Is. XX. 2). Volle denunziare al suo popolo la cattività lagrimosa delle famiglie; e che fece? Fece andare per la città Geremia tutto carico di catene (Jer. XXVII. 2). Volle parimente al suo popolo denunziare l’orribilissima fame, la quale già preparavasi agli assediati; e fece che Ezechiele) per trecento novanta giorni, nei quali si stette sempre a giacere sopra di un medesimo lato, non si cibasse mai d’altro che di sterco secco di bue, sfarinato in polvere e cotto in pani (Ezech. IV,8 ad 12). E nella stessa maniera ha poi seguitato a predire diversi flagelli in diverse forme. Il che non è altro che un intimare ai popoli, che si guardino, che piangano le lor colpe, che riformino la lor vita, che fuggano dalla faccia del suo furore; al che pensando, prorompeva il buon Davide in quegli affetti: dedisti metuentibus te significationem, ut fugiant a facie arcus: ut liberentur dilecti tui (Ps. LIX. 6). Eppure chi il penserebbe!’ non poté Dio conseguir con tante proteste che gli uomini gli credessero. Onde quanto più egli stanca Vasi in minacciare che malos male perdet, tanto più essi attendevano ad oltraggiarlo; quasi che ciascuno degli uomini portasse impresso nel cuore a note indelebili quel perfido sentimento: s’io non veggo, non crederò: nisi videro, non credam (Joan. XX 25). E che si è fatto, Cristiani miei, con questa incredulità, se non costringere Dio a fulminar quei castighi ch’Ei minacciava, per non giungere all’atto di fulminarli? Questa incredulità sommerse il mondo scorretto nel diluvio dell’acque, quando non die fede a Noè che lo prediceva (Gen. VII). Questa chiamò sopra i perfidi Sodomiti piogge di fuoco, quando derisero la parola di Lot che lo significò (Gen. IX. 24). Questa condusse i contumaci Egiziani a naufragare nell’Eritreo, quando si indurarono ai portenti del Cielo che precederono (Exod. XIV). Questa condannò innumerabili Israeliti a morir nella solitudine, quando sprezzavano le proteste di Mosè che lo presagiva (Num. XIV, 10). Questa costrinse debellati gli Assirj a perire sotto Betulia, quando si sdegnarono della libertà di Achior che Io denunziava (Judith V. ad XV). E piaccia a Dio che non sia questa, uditori, quella che nel secolo nostro ci fomenta nel seno tante calamità, ci sottopone il dorso a tanti flagelli. Eh (diciam noi) che non bisogna spaventarsi si presto: non veniet super nos malum, non veniet super nos malum. Si? E che vorresti veder tu, peccatore, per credere che Dio, sedendo come in suo trono nel Cielo, ha occhi da rimirarle tue colpe, ha cuore da offendersene, ha braccio da castigarle? Vorresti vedere che com’egli minaccia di castigarle, così le castiga? Vedilo: io son contento. Né voglio io già che, per chiarirti di ciò, tu trasporti il pensiero negli altrui secoli; voglio che lo fissi nel nostro, giacché gli oggetti presenti più forza di muoverci, che i passati.

III. Di’: in questo secolo stesso, toccato a noi, non ha Dio chiaramente dato a conoscere che le sue minacce non sono altrimenti fallaci, quali tu pensi, ma infallibili, quali tu non vorresti? Non veniet super nos malum? E non hai tu forse occhi in fronte da rimirare tanti rivi di sangue, tante cataste di ossa, tanti cumuli di cadaveri? Basterebbe che tu passeggiassi un poco pel mondo, e li vedresti. Che alto vestigia di furor militare non sono ivi stampate per ogni parte! Evvi nella misera Europa o regno, o provincia, o principato o città, la qual non abbia in questo secolo udito su le sue porte strepito di tamburi, fragor di trombe, rimbombo di artiglierie? Non l’Italia, non la Spagna, non la Francia, non la Germania, non la Fiandra non l’Inghilterra hanno potuto godere in veruna parte ozj piacevoli, ovvero sonni sicuri. Quant’anime però credi tu che siano mancate in questi universali tumulti? Chi può contarle? Basta dire, che la prima impresa, seguita entro a questo secolo (che fu la presa di Ostenda), non costò meno di ottantamila persone sacrificate con alto lutto alla morte. Ora da questo solo fa tu argomento delle stragi avvenute in luoghi sì varj, in fazioni sì numerose, da spiriti sì feroci, in tempi sì lunghi. Ma che serve parlar di quello che non si sa, mentre possiam trattar di quel che si vede? Quanti poderi si mirano, dianzi deliziosi, ed ora diserti! quante campagne, dinanzi verdeggianti, ed or arse! quanti villaggi, dianzi popolati, ed or solitari! quante città, dianzi intere, ed ora distrutte! E sono altro questi, che adempimenti delle minacce che fece Dio quando disse: si spreveretis leges meas, evaginabo post vos gladium, eritque terra vestra deserta et civitates vestræ dirutæ (se disprezzerete le mie leggi, sguainerò la spada dietro di voi, … la vostra terra sarà deserta, le vostre città distrutte – (Levit. XX. 15 et 33). O meschino, che dici? non veniet super nos malum? – Apri pur gli occhi, tuo malgrado, e rimira in breve giro di anni le sollevazioni sì strane di tanti popoli, giacché continue sono state ai dì nostri le rivolte or di Germania, or di Portogallo, or di Catalogna, or d’Inghilterra, or di Parigi, or di Napoli, ordi Polonia. A chi per queste confiscate le rendite, a chi tolti gli onori, a chi imprigionata la libertà, a chi atterrati i palazzi, a chi troncata la vita, a chi infamata ancor la memoria. In qual altro secolo si raccontano litigi più pertinaci o più frequenti, tradimenti più ingiuriosi o saccheggiamenti più ingiusti, uccisioni più barbare o crudeltà più nefande? A noi forse nella nostra Italia è toccata la maggior parte di tali disavventure, benché qui ancora debbano essere lungamente famosi i desertamenti del Monferrato, i desolamenti di Mantova, e le calamità lacrimevoli di Torino. Ma chi, girando un poco, andasse a credere quel che altrove hanno patito i Cattolici dagli Eretici, i Cristiani dagli Etnici, e, quel ch’è peggio, i Cristiani medesimi da’ Cristiani, non si raccapriccerebbe per l’orrore? che direbbe in vedere ancora stampate per le campagne polacche l’orme di ben trecentomila soldati tra Turchi e Tartari, condotti là dal Sultano? eppure peggiori ancor de’ Turchi e dei Tartari, sono di poi stati a’ Polacchi i Polacchi stessi, nonché solamente i Cosacchi ribelli alteri. Infelice Germania! Miransi nel tuo seno ancora fumanti gli avanzi di quell’incendio sollevato in te da quel tuo nemico trionfale, dico Gustavo, quando per le tue provincie scorrendo, a guisa di un folgore, veloce ma rovinoso, si impadronì in breve tempo d’Erbipoli, di Bamberga, di Magonza, d’Augusta, e di quasi tutta la Franconia, la Svevia, il Palatinato. E il Turco fattosi possessor novello di Varadino, di Nitria, di Novarino, e di tanto già d’Ungheria, in quante altre parti della combattuta Cristianità anela di portar, se riescagli, le catene di misero vassallaggio? Quindi continuamente egli infesta ora i nostri mari con le scorrerie, ora i nostri porti con li saccheggiamenti, ora i nostri domini con le conquiste. Che però se la Candia, caduta al fine sotto il suo barbaro giogo, potesse far interi qui giungere i suoi lamenti, senza che l’alto strepito di quei flutti, che la circondano, glieli assorbisse per via, non ci spremerebbe dagli occhi a forza le lacrime? Evvi secolo, il quale abbia veduto, nondirò tanti principati vagabondi o quasi venali, non dirò tanti principi prigionieri o almeno fuggiaschi (perché questi ormai sono esempi comuni a molti), ma dirò un Re di sì antica sorte, qual era quel d’Inghilterra, giustiziato pubblicamente sopra d’un palco per sentenza di sudditi usurpatori di una autorità non più scorta su l’universo? Non veniet super nos malum? – E che? chi ha scampato dal ferro, ha potuto forse difendersi dalla fame? Ah che mi pare di poter anzi di esclamare con Geremia: Si egressus fuero ad agros, eoce

occisi gladio: et si introiero in civitatem, ecce attenuati fame (Jer. XIV, 18). Parlinotante famiglie spiantate in ogni città pellegravezze antiche già di tanti anni; tantecomunità desolate, tanta mendicità vagabonda.E forsechè non erano per sé solebastanti queste gravezze, se il Cielo stessonon concorreva ad accrescerlo con la sterilità?Non ha molt’anni che in Buda, cittàd’Ungheria, in cambio di piover acqua vi piovve piombo, per avverare in essa letteralmente quella minaccia; sit cœlum, quod supra te est, œneum; et terra, quam calcas, ferrea [Il cielo sarà di rame sopra il tuo capo e la terra sotto di te sarà di ferro – Deut. XXVIII, 23]. Non così tra noi, dove con flagello contrario la sterilità è proceduta quasi sempre dalle orride inondazioni: quindi si è veduto per tutto il volgo famelico marcire, consumato dall’inopia ed inabile alla fatica. Mi ritrovai pur io stesso nella città regina del mondo, quando giornalmente morivano per le strade i mendici, altri assiderati dal freddo, altri languidi dalla fame, non potendo supplire il numero, benché grande, di quei che porgevano loro soccorso, alla moltitudine assai maggiore di quei che lo richiedevano. Or che sarà stato in quelle terre, in quei villaggi, in quei campi, dov’era eguale il bisogno, minor l’ajuto? Non si sarà ivi veduta adempir manifestamente quella denunzia: Percutiet te Dominus egestate et frigore? – Il Signore ti colpirà con l’arsura e il freddo (Deut. XXVIII. 22) et populi erunt projecti in viis pæ fame?Gli uomini ai quali essi predicono saranno gettati per le strade di Gerusalemme in seguito alla fame (Jer. XIV. 16 ) Non veniet super nos malum? Oh cecità, che non hai voluto mirare icontagi, le pestilenze, le mortalità sì comunia tutta l’Europa! E chi sa che di questasollecita annunziatrice non comparisse quella prima orribil cometa, che in questo nostro secolo occupò il cielo per lo spazio intero d’un mese? Furono attribuite ad essa le morti, succedute in breve, d’un sommo Pontefice, di due Re, uno di Spagna e uno di Svezia, d’un figliuolo d’Imperatore, e di una madre d’Imperatrice, un gran Soldano de’ Turchi, e di altri potentati assai, che mancarono dentro un anno. Ma io non credo che per sì pochi parli il Cielo, quando egli muove la lingua: il volgo, che non l’intende, interpreta il suo linguaggio a disfavore solo de’ Principi, da’ quali ha diverso lo stato: non l’interpreta a danno ancor dei plebei, co’ quali ha comune la sorte. E non si vide ben tosto, dopo quella comparsa, scoppiar quella pestilenza, che ha assorbito finora e ancor assorbisce tante fiorite parti d’Europa? In questo momento medesimo, chi potesse girar un poco per essa, troverìa le fauci ancora fioche alle madri ch’hanno singhiozzato di fresco per i loro figliuoli, le trecce ancora scarmigliate alle spose ch’hanno deplorati di breve i loro consorti. Che orrore è stato vedere città, dianzi si adorne, sì allegre, sì popolate, riempirsi ad un tratto di squallore, di urli, di solitudine! Dovunque tu volgevi lo sguardo, tu rimiravi d’intorno o malati senza speranza, o moribondi senza conforto. Le carra de’ cadaveri accumulati giravano ogni giorno per la città, quasi portassero in trionfo la morte, quanto più pallida, tanto più baldanzosa. Ogni cosa concorreva pronta a gettare dalle finestre il suo doloroso tributo. Chi dava amici, chi padroni, chi mogli, chi sorelle, chi padri, con timor forse di dover ancor essi seguire a sera quei che sul mattino inviavano. Che se tu mi domandassi dove in questo nostro secolo ha scorso principalmente sì trionfante la peste, che dovrei fare? Prima ti dovrei mostrar la Sicilia, d’ond’ella uscì; e di poi tutta affatto la nostra Italia, la quale ad una fiera sì ingorda non si valuta avere contribuito ai dì nostri meno di pascolo, che un milion di cadaveri. Indi ti dovrei mostrar la Francia e la Spagna, la Dalmazia e la Candia: ed oltre a queste, l’Inghilterra, la Polonia, la Corsica, la Sardegna, la Catalogna, in cui per lungo tempo son poi rimaste le vestigia dell’ampia mortalità, come nel maro dianzi fremente i contrassegni dei numerosi naufragi. E questo non è stato un vedere chiaramente compite quelle minacciose proteste: Augebit Dominus plagas vestras, plagas magnas et perseverantes, infirmitates pessimas et perpetuas – allora il Signore colpirà te e i tuoi discendenti con flagelli prodigiosi: flagelli grandi e duraturi, malattie maligne e ostinate (Deut. XXVIII, 59), desertæque fìent viae vestræ – le vostre strade diventeranno deserte ( Lev. XXVI, 22). Or che dici? Sei tu però ostinato nel tuo incredulo sentimento: non veniet super nos malum? E che vorresti veder tal di vantaggio per chiarirti che Dio malos male perdet? Vorresti vedere terre ingoiate dall’acque? Domandane alla Fiandra. Vorresti vedere campi divorati dal fuoco? Chiedine a Napoli. Vorresti vedere popoli sprofondati dai gran terremoti? Interrogane la Calabria. Che spettacoli di spavento non si sono aperti in queste provincie agli occhi della curiosa posterità! Nuvole caliginose di fumo, piogge portentose di cenere, gragnuole strepitose di sassi, torrenti bituminosi di zolfo, fiumi bollenti di fuoco, rovine precipitose di case, ingojamenti orribili di bestiami. Che dissi sol di bestiami? D’interi popoli; mentrecchè solo a un alto aprir di fauci, che là faceva di tratto in tratto, quasi affamata, la terra, restavano a mille a mille le genti assorte. Ma che più dissimulo ornai? Non sono forse assai fresche le orrende stragi e di Ragusi e di Rimini? Ambedue questi popoli, nel dì d’oggi, pochi anni sono, ogni altro mal si temevano, che quello il qual poi seguì: trattavano, trafficavano, e si credevano di dover lieta celebrare ancor essi la loro Pasqua. Eppure oh quanto ambedue la sortirono luttuosa! Si ode fin ora quasi il rimbombo di quelle strida, quando non trovando i miseri terra che li volesse sostenere, fuggivano dall’abitato nei campi, dai campi nell’abitato, portando sempre frattanto sotto a’ lor piedi il tremuoto, presso alle loro spalle la morte, e dinanzi a’ lor occhi la sepoltura. E non è chiaro che nel ferale spavento di questi popoli videsi puntualmente adempita quella intimazione divina: timebis nocte et die non credes vitæ tuæ. Mane dices: Quis mihi det vesperum ? et vespere : Quis mihi det mane? propter cordis lui formidinem, qua terreberistemerai notte e giorno e non sarai sicuro della tua vita. Alla mattina dirai: Se fosse sera! e alla sera dirai: Se fosse mattina!, a causa del timore che ti agiterà il cuore e delle cose che i tuoi occhi vedran (Deut. XXVIII, 66 et 67). Va pure dunque, va pure, e di’ baldanzoso: non super nos malum, non veniet super noi malum. Quel ch’io t’ho detto, l’hai pur veduto tu con i tuoi occhi, o almeno l’hai tu pur letto dentro i pubblici fogli, o per lo meno hai tu pur udito da numerosissimi testimoni; che la fama n’ha così colme le sue cento bocche, che il saperlo non è di gloria veruna, ma ben sarebbe d’ignominia grandissima l’ignorarlo.

IV. Ma, sciocco me! Perché tanto io qui mi sono stancato a fin di confondere la nostra incredulità? Eh che bisognerebbe esser cieco, per non vedere i così strani flagelli ch’ogni dì vengono. E però tengo per certo, signori miei, di non essermi apposto nel dire che non vogliamo credere fino a che non vediamo: dovevo io dire, che quantunque vediamo, non vogliamo credere. E questo appunto è l’eccesso maggior di incredulità che trovar si possa, conforme a che diceva Geremìa: flagellasti eos, nec valuerunt ut credere. Quasi egli dica: Ecco come procedono i peccatori: finch’odono solamente il tuono delle minacce, se ne beffan dicendo, che se non vedono, essi non vogliono credere, quando poi sentono il fulmine del castigo, si ostinano imperversando che non vogliono credere, benché vedano: flagellasti eos, nec voluerunt credere (Jer. V, juxta s. Cypr. ad Demetr.). Ma come può star questo, o santo Profeta? non hanno essi il flagello dinanzi agli occhi? non lo toccano? non lo palpano? Non lo provano? Come dunque può stare che non lo credano? Sapete come? Negaverunt Dominum, et dixerunt: Non est ipse!Hanno rinnegato il Signore, hanno proclamato: “Non è lui! (Jer. V, 12). – Credono bensì essi che quello sia veramente flagello, e flagello atroce; ma non credono che quello sia flagello di Dio. Non credono esser Dio quello che manda lor quelle guerre, quelle carestie, quelle pestilenze, quelle inondazioni, quegl’incendi, quei turbini, quei terremoti: negaverunt Dominum, et dixerunt: Non est ipse. Venite qua. Non vedeva Faraone chiarissimamente tanti castighi che piovevano del continuo sopra il suo capo, le tenebre, che gli rubavano il giorno, le grandini che gli schiantavano gli alberi, le locuste che gli divoravano i seminali, le piaghe che gli ulceravano gli uomini, le pesti che gli consumavano gli animali? Certo le vedeva. – Eppure quanto fece il protervo per non si arrendere a quella proposizione che i suoi cortigiani medesimi confessavano: Digitus Dei est hic! (Exod., VIII. 10). Convocò d’ogni parte tutti i più celebri incantatori a consulta, per definire se quei portenti potevano attribuirsi a qualch’altra mano, almanco diabolica; cercò, studiò, specolò; procurò ch’anch’essi facessero prove eguali, di cambiar verghe in serpi, di colorire acque in sangue, di assoldare rane da’ fiumi, di adunare mosche nell’aria. E ben vedendo che questi ancora si davano alfin per vinti, cede egli però, appagossi, arrendettesi? Anzi non volle trarsi giammai di capo, che quei prodigi non fossero arti malefiche di Mosè: tanta è la ripugnanza che provano i peccatori in riconoscere un solo Dio per autore di tutte le avversità. Io non dico già che i Cristiani arrivino comunemente alla stupidezza di Faraone, che sarìa troppo; ma nondimeno quando mal volentieri s’inducono anche i Cristiani a riconoscere, benché percossi, la mano che li percuote! Voi lo sapete. Entra nel vostro ovile un lupo famelico a divorarvi la greggia? Voi l’ascrivete alla negligenza del guardiano. S’appicca nel vostro campo nn fuoco capace

ad incenerirvi le biade? voi n’incolpate la malignità de’ vicini. S’ostina nel vostro corpo una febbre lenta a logorarvi la vita? voi l’attribuite all’ignoranza del medico. Tutte quelle guerre quasi che accadono, non si appongono o all’avidità ch’hanno i Principi d’ingrandir la dominazione, o al desiderio ch’hanno i vassalli di alleggerire la servitù? Alla licenza dei soldati si ascrivono i disertamenti delle campagne ed i saccheggiamenti delle città; all’imperizia dei capitani le rotte degli eserciti, e la moltitudine delle stragi; alla inavvertenza dei marinari i fracassamenti dei vascelli, ed il getto delle merci; alla rapacità dei ministri le estorsioni de’ tributi e lo oppressioni dei popoli; alla ingiustizia dei giudici la perdita delle liti e lo scapitamento dei patrimoni. Né contenti di ciò, noi siamo anche andati ad inventar vocaboli vani, di disastro, di disavventura, di caso. Disgrazia chiamiamo il precipitar da una rupe, disgrazia l’affogarsi in un fiume, disgrazia il perdersi in un incendio, disgrazia il perire sotto una rovina. Anzi, avanzandoci anche più oltre con l’incredulità pertinace, abbiamo fin tentato di leggere nelle stelle gli annali delle nostre calamità, per attribuirle piuttosto a creature insensate, che a Dio vivente. Oh cecità! oh stoltezza! oh deliri di uomini imperversati! i quali, giacché non possono negare di vedere il castigo, non voglion giungere a confessarne l’autore; Flagellasti eos, ncc voluerunt credere: negaverunt Dominum, et dixerunt: Non est ipse.

V. Eh non c’inganniamo, Cristiani, non c’inganniamo, che questo è errore gravissimo. Né parlo or io solamente quanto allo stelle, che non cagioni, ma segni al più possono essere, e ancor fallaci, degli effetti pendenti dal nostro arbitrio; onde saviamente Geremia ci confortò a non farne stima: a signis cœli nolite metuere quæ timent gentes(Jer. X. 2 ); ma parlo di tutto l’altre creature, o ragionevoli, o sensitive, o insensate. Non sappiamo noi bene che tutte queste non altro sono, se non che meri strumenti del divino furore? Questo è certissimo, so noi crediamo a Isaia: Virga furoris Domini, et baculus ipsa sunt(Is. X. 5). Adunque perché questo abuso di guardare alla verga che ci percuote, e di non badare alla mano? Evvi rozzo che, ferito dall’inimico con una spada, dica: la spada mi ha ferito; e non dica: m’ha ferito il nemico? Evvi fanciullo che, battuto dal maestro con una sferza, dica: la sferza mi ha battuto; e non dica: m’ha battuto il maestro? E se un reo, per sentenza del principe, riceve la morte dalla mano del manigoldo, l’attribuisce alla mano del manigoldo, o alla sentenza del principe? Adunque perché, quando ancora Dio ci castiga, noi non vogliamo riconoscere che sia Dio? dicimus: Non est ipse; o facciamo come i cani, inetti, ignoranti, che si rivoltano incontanente rabbiosi a morsicare quel sasso che li colpì, e non fanno caso del braccio che scagliò il sasso? – Volete ch’io ve lo dica, Cristiani? ve lo dirò. Noi facciamo questo, perché non vorremmo altrimenti avere occasione di rientrare un poco in noi stessi, di ravvederci, di riconoscerci. Perché fintantoché ascriviamo quei mali ad altre cagioni, non consideriamo la gravezza del vizio per cui tolleriamo quei castighi; non riflettiamo alla severità del Signore, dal quale li tolleriamo; e veniamo quasi a poco a poco a spogliarci di un naturale timore, che Dio sia al mondo, rimiri ogni nostra azione, e che registri ogni nostra scelleratezza; che è quel timore che finalmente ogni peccatore vorrebbe sbarbicarsi dall’animo, se potesse, conforme a quollo: dixit insipiens in corde suos: Non est Deus(Ps. XIII, 1). Che però (se voi non lo sapete ) nel testo ebreo corrisponde qui a quella voce Deus il vocabolo “Elohim”, che significa Dio in quanto osservatore,» quanto giudice, in quanto castigatore: Quasi dicat insipiens in corde suo, non est ultor. Perché al peccator dà un gran fastidio il credere che ci sia Dio, non in quanto provvido, non in quanto buono, non in quanto benigno, ma in quanto revisor severo dei conti. Questo lo cuoce, questo lo crucia: e però in faccia ai suoi flagelli medesimi s’imperversa. In cambio di ascrivergli al loro autore principale, ch’è Dio, gli ascrive agli uomini; dove non può ascrivergli agli uomini, gli ascrive al caso; dove non può ascrivergli al caso, gli ascrive alle stelle; e così il misero si lusinga sempre e si adula nella propria malvagità: Flagellasti eos, nec voluerunt credere; negaverunt Dominum. et dixerunt: Non est ipse.

VI. E come mai potrebbe essere, o ascoltatori, che noi credessimo vivamente esser Dio quello che si ci castiga per i nostri peccati, e che nondimeno continuamente accrescessimo quei peccati, per li quali sì ci castiga? Ecce irrogantur divinitas plagæ, et nullus Dei metus est (convien dire lagrimando con san Cipriano); Ecce verbera desuper et flagella non desunt, et nulla trepidatio est, nulla formido (ad Demetr.). Non si vede ciò tutto giorno per esperienza? Quanto pochi sono che renda punto migliori la vista delle presenti calamità! Anzi ov’è che piuttosto non crescano per la peste le rapacità e le sfrenatezze,  per la fame l’ingiustizie e le usure, per la guerra le dissoluzioni e le disonestà? Ego dedi vobis stuporem dintium in cunctis urbibus (diceva Dio per Amos al popolo), et non estis reversi ad me, dicit Dominus. Percussi vos in aurigene, et vedistis ad me. Ascendere feci putredinem castrorum in nares vestras, et non redistis ad me, dicit Dominus Eppure, vi ho lasciato a denti asciutti in tutte le vostre città ho fatto salire il fetore dei vostri campi fino alle vostre narici: e non siete ritornati a me, dice il Signore.  (Amos IV. 6 ad 10). – Chi di voi mi sa dire, signori miei, in quale circostanza di tempo facesse Baldassar quel convito solenne, anzi così scellerato, così sacrilego, descrittoci da Daniele? Balthassar rex fecit grande convivium optimatibus suis (Il re Baldassàr imbandì un gran banchetto a mille dei suoi dignitari  – Dan. V, 1). Credete per ventura che fossea ragion di nozze, o in congiuntura con qualche insigne ricevimento di principi, di pace stabilita, di popoli sottomessi? Pensate voi, risponderà san Girolamo, (in Dan. cap. V): fu quando egli era attualmente stretto da Ciro con un terribile assedio. In tantam renerat Rex oblivionem sui, ut obsessus vacaret epulis. Allora fu che, stando il perfido assiso in mezzo ad una gran mandra di concubine, s’imbriacava ne’ vasi rubati al tempio; e che, non badando punto alle grida di tanti miseri, i quali precipitavano dalle mura, faceva brindisi a tutti i suoi dii paterni, dii di metallo, dii di marmo, dii fatti di atli di legno vile: bibebat vinum, et laudabat Deos suos, aureos et argenteos, aereos, ferreos, ligneosque et lapideos(s. Jo. Chr. homil. 28 in Gen.). Che fiera scena veder quel diluvio d’acqua che Dio versò su la terra, sol per purgarla di tante sue laidezze eccessive! Eppure a vista di quell’acque vi fu un figliuolo di Noè, che non temé di pensare a diletti impuri (Gen. IX, 22). Che funesto spettacolo veder quel diluvio di fuoco che Dio scaricò sopra Sodoma, sol per punirla di tanto sue lascivie esecrande! Eppure a vista di quel fuoco vi furono due figliuole di Lot, che non dubitarono di venire ad atti incestuosi (Ib. XIX, 32). –  Ma per non insultare alle altrui miserie, dove possiamo tanto piangere su le nostre, ditemi il vero, uditori: si è veduta tra voi riforma notabile dopo quei solenni castighi, di cui ben sapete esser toccata a voi pure la vostra parte? Ah che mi pare che possiam dire anzi al Signore con Isaia: Ecce tu iratus es, et peccavimus(Is. LXIV, 5 ). Ma come ciò? So dicesse peccavimtis, et iratus es, io lo capirei; ma dire: iratus es, et peccavimus, questo è troppo. Eppure è così. Uscite nelle piazze, ed ivi guardate se, dopo tanti castighi, sono minori o la inverecondia nel tratto, o le iniquità nelle vendite. Entrate nelle case, ed ivi informatevi se sono minori o le dissensioni tra i fratelli o le persecuzioni tra le famiglie. Inoltratevi nello camere, ed ivi attendete se sono minori o l’impurità nei ragionamenti, o le dissolutezze nei talami. Visitate le veglie, ed ivi considerate se sono minori o le maldicenze nei racconti o la petulanza nei motti. Passate alle ville, ed ivi chiaritevi se sono minori o lo ingordigie nelle crapule, o le rilassazioni nei giuochi. Trattenetevi un poco ancor nelle chiese, ed ivi osservate se sono minori o lo irriverenze nelle chiacchere, o le profanità nei vagheggiamenti. Ecce tu iratus es, et peccavimus; ditelo, ditelo, che ne avete ragione, ecce tu iratus es, et peccavimus. –  E noi crediamo poi che tali peccati ci abbiano da Dio meritati tanti flagelli? Non può essere, signori miei, non può essere; lo direm con la lingua, ma non lo crederemo col cuore. Flagellasti eos, nec voluerunt credere; negaverunt Dominum, et dixerunt: Non est ipse (Jer. V. 3 et 12). E crediamolo, signori miei, sì, crediamo, ch’egli è vero pur troppo. Confessiamo che Dio ci è giudice, ci è severo, ci è fulminante: né sia mai vero che lasciamo trascorrere ornai più tempo senza pensare a placarlo.

VII. Lo so che alcuni molto ben vi pensano. Ma chi sono? Son quegli, i quali hanno appunto la minor colpa di tante calamità, i più irreprensibili, i più immacolati, i più pii: quei che v’han colpa, misero me! non vi pensano, non vi pensano. E così sapete voi ciò che accade in questa materia? Quel che succedeva nel vascello del disubbidiente profeta Giona. Tutti i marinari e tutti i passeggieri, i quali erano gli innocenti, in veder sollevata improvvisamente quella rovinosa burrasca che si rammemora nelle divine Scritture, si empierono di spavento: si affaticavano in ammainare le vele, in votar la sentina, in alleggerire la carica; chi dava ordine, chi consiglio, chi aiuto: altri correva al timone, altri si metteva al remo, altri s’appigliava alle sartie; piangevano, gridavano, sospiravano. E frattanto? frattanto chi era il delinquente dormiva riposatamente nel fondo del combattuto naviglio, senza riscuotersi punto ai fischj de’ venti, ai muggiti dell’onde, agli urli dei tuoni, ai fracassi dei fulmini, alle grida dei marinari. Et Jonas dormiebat sopore gravi (Jon. 1. 5). Tanto che bisognò che il pilota stesso andasse a chiamarlo, ad iscuoterlo, ad isvegliarlo, fin coi rimproveri. Et accessit ad eum gubernator, et dixit ei: Quid tu sopore deprimeris? surge, invoca Deum tuum, si forte recogitet Deus de nobis, et non pereamus  (Gli si avvicinò il capo dell’equipaggio e gli disse: Che cos’hai così addormentato? Alzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo – Job. I. 5). – Oh quanto spesso io temo, signori miei , che torni a verificarsi questo successo ancora tra noi! Il Cielo minaccia contanti segni: si adira, s’infuria, s’inferocisce, mostra di volerci talvolta anche inabissare. E v’è chi frattanto attenda a placarlo? Vi saranno alcuni; ma sapete voi chi? Vi saranno quegli innocenti che patiscono per altrui. Questi si affaticheranno, i meschini, or con lagrime, or con limosine, or con cilizi, or con digiuni, or con discipline; e non lasceranno mezzo acconcio a sedare tanta burrasca. Ma quei che sono i colpevoli, quegli usurai, quei vendicativi, quei carnalacci? Ahimè che questi, in cambio di risentirsi attendono neghittosi a dormirsene in seno all’ozio, anzi in braccio all’iniquità. – Cristiani miei, v’è nessun Giona addormentato fra voi, per cui si possa dubitare che almeno in parte si vadano suscitando di tempo in tempo quelle strepitose procelle che ci assorbiscono? Deh se vi fosse, fatemelo di grazia sapere, perché io mi vorrei avvicinare ad esso, e riscuoterlo con le parole, di quel zelante giudizioso pilota: quid tu sopore deprimeris? Vorrei dirgli: surge, surge, invoca Deum tuum, si forte recogitet Deus de nobis, et non pereamus. – Ah peccatore, qualunque tu ti sia, ch’io non lo so, quid tu sopore deprimeris? che sonnolenza è codesta tua? che stupore? che stolidezza? Ogni poco ritornano a noi dal Cielo nuovi castighi, e tu dormi? Sopore deprimeris! Ancora non ricorri al tuo Dio? ancora non ti raccomandi? ancora non ti ravvedi? Surge, surge, Sorgi, peccatore mio caro, sorgi una volta, e riscuotiti da letargo sì pernicioso. Surge, ed abbandona quella pratica, giacché Dio per le disonestà c’imputridisce lo carni con terribili pestilenze. Surge, e conchiudi  ormai quella pace, giacché Dio per le nostre rabbie ci stermina le provincie con sì formidabili stragi. Surge, e restituisci ormai quelle usure, giacché Dio per la nostra avarizia diserta i poderi con sì continuate sterilità. Surge, finalmente, surge, et invoca Deum tuum, si forte recogitet Deus de non pereamus. È verisimile che Dio non voglia piegarsi molto a pietà, infine a che non vegga a sé supplichevoli quelli stessi che l’han provocato allo sdegno.

VIII. Benché non vorrei che, mentre predico agli altri, foss’io quello sfortunato Giona che dorme nelle tempeste, e non mi commuovo. Ah mio Signore, se voi scorgete ch’io sia colui che tengo acceso il vostro divin furore, che posso dirvi? Son  qui, gittatemi in acqua: mitte me in mare (Jon. I.12), purché frattanto salviate che vi servono fedelmente. Io tutto mi capriccio in considerare che un san Domenico stesso (quegli a cui tanto è tenuto il genere umano, per aver lui sostenuta su le sue spalle la Chiesa tutta, già quasi pericolante), quando nondimeno arrivava a qualche città, temeva poter lui esserle di rovina. Ond’è che, prima di entrare in essa e fermavasi e ginocchione supplicava il Signore con vivo affetto, che non volesse per le sue colpe scaricare di subito in quel luogo qualche insinuato flagello. E s’è così, che dovrò dunque dir io, peccator miserabilissimo? Non posso dubitar giustamente se io sia quel Giona che or or si andava cercando? Sono, non nego, venuto a questa città  con intendimento di recarle alcun bene con le mie prediche. Ma piaccia a Dio ch’io non le rechi più facilmente alcun male con le mie colpe. Signor, non lo permettete! Prima morire, prima morire. Eccomi qui ai vostri sacratissimi piedi: qui mi consacro per vittima al vostro sdegno. Se i miei difetti non sono più sopportabili sulla terra, feritemi, fulminatemi; ma non sia vero ch’altri ancora ne abbia a portar le pene. Io certamente desidero quant’ognuno di vivere per servirvi; ma no che non voglio vivere, se la mia vita ha da servir solamente a moltiplicare le umane calamità.

Seconda Parte

IX.  Poco sarebbe che la nostra incredulità ci dovesse trarre addosso i castighi della vita presente, i quali al fine tutti son transitori: il peggio è ch’ella ci trarrà addosso anche quelli della futura. Perciocché dimmi, che scusa avremo dannandoci, o popolo cristiano, che scusa avremo? Narra, ti dirò con la formula di Isaia, narra, si quid habes, ut justificeris– (Parla tu, se hai da giustificarti – Is. XLIII, 26) . Potremo forse giustificarci con dire che Dio non ci abbia denunziato a tempo pericolo sì tremendo? Anzi quanti mezzi opportuni Egli ci viene a suggerir del continuo affinché ce ne guardiamo, quanti consigli ci dà, quante ispirazioni ci manda, in quante forme ci stimola a porci in salvo! Se noi però saremo voluti a suo dispetto perire, di chi  fia la colpa? Finora voi siete stati come uditori ad attendere: non è vero? Ora vi vorrei come giudici a sentenziare. Ma contentatevi di voler prima ascoltare un successo illustre. L’imperator Valente, ingratissimo a quell’Iddio che l’aveva da esule tramutato in regnante, stabilito ch’ei fu nel trono, pigliò di modo a perseguitare i Cattolici, ed a favorire gli Ariani, che già tutta la Chiesa, sbranata e lacera come dalle zanne di un lupo, inconsolabilissimamente ne lagrimava. Intenerito però Dio finalmente da tanti gemiti, suscitò contro l’Imperio di Oriente la barbarie del Settentrione, per cui reprimere fu costretto Valente ad uscire in campo con esercito poderoso. Riseppe questo un sant’uomo, chiamato Isacio, romito abitatore dei monti, e per impulso divino abbandonando a gran passi la solitudine, scese a incontrar l’imperator, che marciava con grosso nervo di cavalieri e di fanti; ed appressatosi a lui, gridò ad alta voce: Imperatore, comanda aprirsi le chiese dei Cattolici, da te chiuse, e ritornerai vincitore; altrimenti resterai morto. L’udì Valente; ma tenendolo per un pazzo, senza rispondergli, seguitò a camminare. Isacio, non però perduto di animo, ritornò il giorno seguente ad incontrare il principe, come prima; e di nuovo alzata la voce, gli replicò: Imperatore, comanda aprirsi le chiese de’ Cattolici, da te chiuse, e ritornerai vincitore; altrimenti resterai morto. Turbossi a questa iterata denunzia l’empio Valeste; e combattuto da affezioni contrarie, da una parte gli pareva  debolezza badare a simili voci, dall’altra parte il disprezzarle pareagli temerità. Finalmente per buona ragion di Stato volle tener quel giorno istesso consiglio su tanto affare; ma i consiglieri più principali, i quali erano anch’essi Ariani, facilmente lo persuasero anzi a castigare quel Monaco, che ad udirlo, se gli fosse altra volta comparso innanzi. Ed ecco appunto il terzo dì viene Isacio più animoso che mai; e rompendo in mezzo alle truppe, che seguivano il loro viaggio, va addirittura a pigliare in mano le redini del cavallo imperiale, e fermatolo: Torno a dirti, o Imperatore (gridò), che tu lasci aprire le chiese de’ Cattolici, da te chiuse, e ritornerai vincitore; altrimenti resterai morto. Presso la strada, dov’egli allora parlò, era un’orribile fossa, tutta ingombrata di cardi e di pruni altissimi; onde sdegnato l’Imperatore ordinò che, pigliato il Monaco, vi fosse precipitato; e così persuasosi d’averlo tutto a un tempo e ucciso e sepolto, proseguì il suo cammino, non però senza qualche interiore agitazione di animo, malcontento de’ suoi furori. Ma che? non prima l’esercito fu passato, ch’ecco tre bellissimi giovani, vestiti tutti di bianco, calarono nella fossa, e ne trassero Isacio non solo vivo, ma prosperoso ed intatto. Conobbe egli all’improvviso sparire di quei tre giovani, ch’erano stati tre angelici spiriti in forma umana; onde prostratosi a terra, ne rendè subito a Dio le dovute grazie; indi con quell’ale, che ai piè gli posero il zelo e la carità, raggiunse per un sentiero più compendioso l’Imperatore, e con sembiante di fuoco: Che ti credevi (gli disse) ch’io dovessi morire tra quel veprajo? Eccomi per avvisarti di nuovo, che tu tu ravvegga, che apri le chiese dei Cattolici chiuse, se vuoi riportar la vittoria; altrimenti resterai morto: m’intendi? resterai morto. Chi il crederebbe? Neppur a questa quarta denunzia l’ostinato Valente volle ammollirsi; anzi intimò che, fatto Isasio prigione, fosse consegnato subito in mano a due senatori, Saturnino o Vittore, perché lo custodissero fintanto ch’egli, tornato da quella impresa, ne prendesse il meritato castigo. Si ripigliò Isacio allora con le parole che in somigliante occasione disse al perfido Acabbo il giusto Michea: Tu tornato a gastigar me? or va; e se tu ritornerai, tien per certo non aver Dio favellato per bocca mia. Presenterai tu la battaglia ai nemici; ma, non potendo loro resistere, cederai, fuggirai, e finalmente caduto nelle lor mani morirai arso d’incendio non aspettato. Quanto Isacio predisse, tanto seguì. Andò l’Imperator, combatté, ma presto fu rotto; e volgendo le spalle con tutto il campo sbaragliato e disperso, s’appiattò dentro una casuccia di paglia, per occultarsi alle genti che l’incalzavano; ma queste, fattene accorte, incontinente attaccaron fuoco alla paglia, e vi bruciarono l’Imperator vivo vivo: pel qual successo disciolto Isacio dai ceppi con somma gloria, ebbe dai due senatori due monasteri, che incontanente gli fabbricarono a gara. – Ora che avete, o signori, udito il successo, contentatevi un poco di sentenziare. E se l’Imperatore Valente nel giorno estremo dell’universale Giudizio pretendesse pubblicamente di muovere lite a Dio, e di sostenere ch’egli cadesse in quel fuoco non per sua colpa, ma per colpa divina, che pare a voi? Non vi pare che un solo Isacio sarìa bastante a farlo di repente ammutire? Taci, direbbe Isacio, taci, arrogante; non venni io ben quattro volte a proporti un mezzo, e questo assai facile, con cui potevi salvare la vita e l’anima? E se tu imperversasti contro di Dio, e se tu infellonisti contro di me, come ora ardisci, o ribaldo, di lamentarti? Ditemi pure, o signori miei, francamente quel che vi pare. Chi avrìa ragione? Isacio, o Valente ? Non sarìa la causa divina giustificata abbastanza con tal difesa? Ma s’è così, dove siete, ohimè, peccatori, ohimè, dove siete, ch’è data ancor la sentenza contro di voi! Voi pretenderete di poter per ventura ascrivere a Dio quella dannazione nella quale andate dirittamente ad incorrere per cotesta via che tenete; e non vedete quanti Isaci avrete, che faranno ammutolire bruttamente e confondere? Se non fossero altri che i soli predicatori, non basterebbero a turarvi bocca? Perdonatemi, che fin io stesso, io dico, io verme vilissimo, sarò costretto ad uscir in campo quel giorno a difendere anch’io la causa divina, e a depor contra voi e ad attestare ch’io, qual Isacio, ne venni sui vostri pulpiti, e vi ho denunziato più volte a nome di Dio, che se non volete cadere nel fuoco eterno, lasciaste, o libidinosi, quelle pratiche licenziose, fuggite o giovani, quelle conversazioni profane; terminate, o negozianti, quei mali acquisti; restituiste, o mormoratori, quella fama tolta; e voi concedeste, o vendicativi, una volta quella pace desiderata. Ma se voi non avrete voluto apprezzare avvisi sì salutevoli, come potrete lamentarvi di Dio? come giustificarvi? come fiatare? Non ha Egli appieno soddisfatto al suo debito sol con queste nuove denunzie ch’ io torno a farvi questa istessa mattina, mentre vi replico che malos male perdet? Perdet nella vita presente, e, quel ch’è peggio, anche perdet nella fatura. – Né mi dite che subito adempireste i consigli ch’io qui vi do, se foste certi di dovervi dannare, non gli adempiendo; ma che a me non prestate fede. Perché ancora Valente, se fosse stato certo di morir arso, non restituendo le chiese, le avrebbe restituite; ed intanto lasciò di farlo, in quanto riputò vergognosa cosa dar fede a un povero scalzo, ch’ei non sapeva chi si fosse, d’onde venisse, o come vivesse. Contuttociò non gli suffragherà questa scusa; perché  quando il consiglio è conforme alle leggi divine e a’ libri sacri, e alle dottrine evangeliche, basta questo: poco rilieva se porgalo un uomo dotto, o se un ignorante; se un santo, o se un peccatore, lo son peccatore, o signori, io sono ignorante, e sono il minimo di quanti ora aprono bocca con tanta lode sui vostri pergami; ma l’Evangelio m’assicura di questo, che se migliorerete la vostra vita corrotta, voi schiverete l’inferno; altrimenti no: m’intendete? Altrimenti no! – Che cercate altro dunque? Bisogna bensì che assai tosto si metta la mano all’opera, perché questo forse per alcuno di voi potrebbe essere l’ultimo avviso: novissima tuba: sì, sì, novissima tuba. Già i vostri Isacj sono ritornati per voi, non solamente le due volte e le quattro, ma le dieci e le dodici; sicché può essere che il fuoco sia già vicino alla vostra paglia. Presto, dunque, presto, che forse dopo questa denunzia non ne resta altra; e dacché Dio già tante volte ha tuonato, se scaglierà poscia il fulmine, vostro danno.

RIFLESSIONI SUI VANGELI PER LA FINE D’ANNO

1.

SIMEONE, ANNA E MARIA VERGINE

PER LA FINE DELL’ANNO

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli; Soc. Ed. “Vita e pensiero” – Milano, 1939)

Viveva ancora in Gerusalemme, tra la corruzione del popolo d’Israele, un integerrimo vegliardo. Egli vedeva come la patria, così splendida una volta, era caduta sotto gli artigli dell’aquile romane ed era governata dagli idolatri; vedeva come nell’anima de’ suoi connazionali erano morte le antiche promesse, ed ognuno, dimenticando la legge di Dio, pensava soltanto agli affari, al commercio, alle ricchezze: perfino il tempio marmoreo, che i padri con gemiti e lacrime avevano costrutto, era diventato una spelonca di truffatori e di mercanti. Tutto questo, e le prevaricazioni d’Israele e la schiavitù sotto il giogo straniero, il vecchio Simeone vedeva con profondo dolore. Ma il suo cuore era pieno di luce e di speranza, poiché il Signore gli aveva detto: « Ancora un poco e il Messia arriverà; tu non morrai senz’averlo veduto ». Dopo questa rivelazione non visse che per aspettarlo: e nell’attesa i suoi capelli s’erano fatti bianchi, e le sue membra logore e tremanti di vecchiaia. Un giorno, guidato da un’ispirazione celeste, era entrato nel tempio. Accanto all’altare una giovane madre offriva al sacerdote il suo primogenito neonato: in quell’istante il mistero gli fu rivelato. Tremante di gioia prese il Bambino tra le sue braccia e lo baciò esclamando nell’estasi: « Signore! Fammi pur morire, ora! i miei occhi, come l’hai promesso, hanno visto il Salvatore, il Salvatore che innalzasti davanti ai popoli come un faro potente che illuminerà le umane stirpi e glorificherà i tuoi figli ».

La giovane madre Maria attonita guardava. Il vegliardo abbassando nel suo volto gli occhi, disse : « Madre! se questo tuo Figlio diverrà, il segnacolo della contradizione e intorno a lui l’odio e l’amore, la rovina e la resurrezione cozzeranno, una spada affilata aprirà nel tuo cuore uno squarcio grande ». La Madre di Dio, senza tremare, ascoltava e taceva. – Ed ecco avanzarsi la profetessa Anna, la figlia di Phanuel della tribù di Aser, quella che dopo solo sett’anni perdette il marito e rimase vedova per sempre. Era di età avanzatissima, e viveva nel tempio, e pregava e digiunava e serviva il Signore giorno e notte. Ella adorò il Messia deposto sull’altare delle offerte, e a tutti parlava di Lui e della salvezza che Egli portava. – Questo è il mistero della Presentazione. Il suo significato più vero è di offerta. Gesù, fin dai primi giorni di sua vita, si offre a Dio per noi: ma la sua offerta non gioverà alla nostra salute se noi non offriamo qualche cosa di nostro con lui. – Comprendete ora l’insegnamento della Chiesa che facendoci leggere questo Vangelo nell’ultima domenica dell’anno sembra quasi volerci dire: « La vostra offerta dov’è? Nulla avete raccolto in tutto quest’anno da poter offrire con Gesù? Su, offrite ». « Che cosa dobbiamo offrire? » penseranno alcuni tra voi. Che cosa dobbiamo, o avremmo dovuto, offrire ce lo insegnano le tre persone in giro all’altare su cui, candida offerta per il mondo, sta il piccolo Figlio di Dio: Simeone, Anna, Maria. Simeone offrì la sua vita, distaccata da ogni bene terreno, e tutta vissuta nell’aspettare Iddio. – Anna offrì la sua vedovanza, distaccata da ogni pensiero mondano e da ogni piacere sensuale. – Maria offrì il suo cuore materno, trafitto da una spada affilata.

I. SIMEONE OSSIA DEL DISTACCO DAI BENI TERRENI

Ecce homo exspectansecco un uomo che viveva nell’attesa di un bene eterno con appassionata speranza. Il suo cuore non si era ingolfato, come quello di molti ebrei, nell’avarizia e nella smania della roba e del denaro, il suo cuore non si era acquietato alla schiavitù dei Romani. Un gran desiderio ogni giorno l’assetava di più: vedere il Messia. Fissare i suoi occhi lagrimosi in quegli occhi che portavano in terra l’immagine del Paradiso, abbracciare quella Carne che avrebbe sfamato in tutti i secoli le anime, baciare quella bocca che avrebbe detto la verità… Volgiamoci indietro, cristiani, e osserviamo se in questi dodici mesi anche noi siamo vissuti in questo desiderio, in questa ricerca, in questa attesa di Dio. – Abbiamo avuto brama del pane da mangiare, e nessun desiderio per il Pane vivo disceso dal cielo. Abbiamo avuto sete e golosità del vino e d’ogni bevanda, e non dell’Acqua viva che sale all’eterna vita. Abbiamo cercato le medicine per guarire e preservarci dai mali del corpo, e abbiamo disprezzato la Medicina per guarire e preservarci dai mali dell’anima. Abbiamo voluto il nostro paradiso in terra; e del vero Paradiso, quello nel cielo, quello al di là della morte, non abbiamo saputo che farne. Et Spiritus Sanctus erat in eo. Lo Spirito Santo, che abita in quelle persone che non hanno il peccato mortale, abitava nel giusto Simeone. Ed in quest’anno, dite, lo Spirito Santo ha potuto abitare in voi? Gli avete fatto un po’ di posto? Forse in voi c’era quell’affare, quel contratto, quella frode, quel grasso guadagno, ma lo Spirito Santo non c’era, poiché l’avevate scacciato coi peccati gridandogli: « Via di qua! che non ti conosco ». In quel momento il demonio è entrato ad occupare il posto di Dio; e, forse, ci sta ancora.

Et venit in Spiritu in templum. L’uomo timorato che viveva aspettando il Signore, andava al tempio attratto dallo Spirito Santo. In quest’anno che muore, quante volte le campane ti chiamarono in chiesa alla dottrina cristiana e tu infilavi la strada che mena all’osteria, al cinema, ai campi sportivi. Quante volte, la mattina, le campane ti svegliarono per la Messa, per qualche bella divozione, per il suffragio dei morti, e tu, nel letto ti voltavi dall’altra parte. E quando ti recavi in chiesa, era lo Spirito Santo che ti guidava, o qualche altro spirito? Non era forse lo spirito della vanità, della leggerezza, della lussuria, dell’interesse? Esamina i sentimenti che in chiesa occupavano il tuo spirito ed avrai la risposta. Se ti confessavi era senza dolore: tu capivi il dolore quando gli affari minacciavano disastri, quando la tempesta distruggeva il raccolto, quando la malattia entrava in famiglia; ma non capivi come si potesse sentir dispiacere d’aver offeso Dio. – Se ti comunicavi era senza fervore: tu capivi il fervore nel gioco, nel conchiudere lucrosi contratti, nel lavoro che fa guadagnare; ma non capivi quale intima gioia si dovesse provare nel ricevere in cuore il Padrone del mondo. – Se qualche rara volta ascoltavi una predica era senza attenzione: tu capivi come si potesse leggere avidamente il listino dei prezzi, i giochi di borsa, l’alto e basso dei cambi; ma quegli interessi dell’anima, quegli affari a lunga scadenza del dopo morte e del giudizio universale, ti facevano sbadigliare. – Se talvolta ti mettevi a pregare, era soltanto per chiedere a Dio i beni e le grazie di questa terra. Per l’anima avevi nulla da domandare; per vincere le tentazioni bastavi da solo.

2. ANNA, OSSIA DELLA SENSUALITÀ’ DOMATA

Et hæc vidua usque ad annos octoginta quaituor. Ecco una donna che rimasta vedova nel fior degli anni, rinunziò ad ogni lusinga del mondo, e si conservò illibata fino alla più tarda età. In questo momento essa c’invita ad esaminarci, come noi abbiamo saputo domare la passione impura, che, quasi leone, rugge nelle nostre membra. – Se i 365 giorni di quest’anno potessero sfilarci davanti e parlare!… « Tu ci hai fatto arrossire con le tue parole oscene — ci direbbero — tu ci hai contaminato coi pensieri disonesti e coi desideri che assecondavi nel tuo cuore. Tu ci hai macchiato con azioni senza nome, ingiuriose a Dio e alla natura! ». E forse tra questi 365 giorni ce n’è uno che è il più brutto della vita, uno che potrebbe insorgere e gridarci: « Io ho visto morire la tua innocenza. Io ho raccolto i petali di un giglio sgualcito, sporcato, disfatto. Io ho raccolto quei petali macchiati per sempre, mentre gli Angeli in lontananza si coprivano con le ali il volto e singhiozzavano ». – « Bisognerebbe non essere di carne e di sangue, — si scusano alcuni, — per essere immuni da questi peccati insuperabili ». Non è vero: bisognerebbe soltanto difendersi con quei mezzi che usò Anna, la figlia di Phanuel della tribù di Aser. E quali sono questi mezzi? 1) Non discedebat de tempio: non s’allontanava dal tempio. Anche la vostra famiglia, se è cristiana, è un tempio: ebbene, non allontanatevi da quella se volete conservarvi puri. I gigli non crescono in mezzo alla strada, e neppure nell’osterie, e meno ancora nell’afa dei teatri, delle veglie danzanti, dei cinema pestilenziali, ma crescono nelle valli solatie e raccolte. In queste ultime sere dell’anno, il mondo ispirato dal suo amico il demonio, organizza spettacoli e sfrenati balli: non si dorme più per godere, per mangiare, per rinvoltarsi nel fango. E l’anno nuovo troverà migliaia di persone senza virtù, inebetiti dal vino e dal peccato, in una nuvola grassa di fetore che esala dall’anima loro morta. Cristiani! non allontanatevi dal tempio della vostra casa, se volete conservare la vostra innocenza. Genitori, i responsabili del candore dei vostri figli, siete voi! teneteli dunque con voi.

2) Ieiuniis et orationibus: ecco due armi invincibili per tener lontano il demonio impuro che devasta la mistica vigna. Con la mortificazione degli occhi e della gola, con la preghiera fervorosa e con le giaculatorie nei momenti dell’assalto, ci si libera da questo genere di demoni.

3. MARIA, OSSIA DEL DOLORE RASSEGNATO

La Madonna fu quella che nella Presentazione ha offerto di più:  tutto il suo cuore squarciato da una gelida lama. Ma chi sa quanti tra voi, in quest’anno, si sono sentiti trapassare il cuore dalla gelida lama del dolore! Voi beati, se come la Madonna non avete imprecato, ma avete baciato la vostra croce con rassegnazione: in quest’ultima domenica non vi mancherà certa una bella offerta da unire a quella di Gesù. – Beati voi, poveri infermi! che in letto, fra i dolori e la noia, ad uno ad uno avete contati i mesi di quest’anno, che non passavano mai; che ad una ad una avete contato le ore della notte oscura e muta come una fossa, senza poter requiare un momento dai vostri spasimi; che avete visto gli altri ridere allegri, andare ai divertimenti mentre il vostro male vi condannava tra le quattro mura della vostra squallida dimora. Oggi la Madonna vi bacia in fronte e vi fa passare attraverso lo squarcio del suo cuore materno, come attraverso a una porta, che mette in Paradiso. – Beate voi, povere famiglie, che in quest’anno siete state visitate dalla morte. Quest’irrequieta pellegrina dall’occhiaia senza pupilla, dalle mani senza calore, dai passi senza rumore ha salito le vostre scale, ha varcato la vostra soglia, vi ha portato via una persona carissima. Oh settimane di tensione spasimosa, oh giornate di pianto, oh lunghissime ore di solitudine, senza più godere della persona amata! … Coraggio, Cristiani; anche a voi non manca un’offerta in quest’ultima Domenica dell’anno, e bella. Coraggio che la Madre dolorosa soffre con voi e vi benedice. – Oh beati tutti quelli che nei giorni di quest’anno gustarono l’amarezza della sventura, patirono sempre con sommessa volontà. Beati tutti quelli che hanno sofferto e che soffrono ancora! Adesso, quando all’Offertorio innalzerò l’ostia bianca che diverrà il Corpo vivo di Gesù Cristo, sulla patena d’oro offrirò insieme a Dio tutti i vostri dolori perché siano accetti per la vita eterna.

CONCLUSIONE

Così un anno è passato. È passato un altr’anno di quei pochi che formano la nostra vita: l’anno del Signore, l’anno della salvezza, 2018 ….

Anno del Signore: e forse noi l’abbiamo fatto l’anno del demonio.

Anno della salvezza: e forse per l’anima nostra è stato l’anno della perdizione. Che dal profondo del nostro cuore, sincero doloroso rinnovatore, erompa il grido Davidico: «Signore, pietà di me! » Miserere mei, Deus.

2.

LA NOSTRA VITA

Che cos’è la nostra vita?

Questa domanda, che già S. Giacomo (IV, 15) rivolgeva ai primi Cristiani, ha un sapore speciale sulle nostre labbra in quest’ultima domenica dell’anno. Qualche giorno ancora, e l’anno che ci si presentava — pare ieri — radioso e lusinghiero di speranze, svanirà come un sogno per sempre. Dove sono le gioie che attendevamo? Quante delusioni, quanti ricordi amari e rimorsi pungenti si levano su come nebbia dai dodici mesi ormai vissuti! E questo è forse tutto quello che ci resta dell’anno che muore. Qualche giorno ancora ed un anno nuovo ci verrà innanzi; e noi, come fanciulli ingenui torneremo a farci illudere da chi sa quali speranze, ci procureremo ancora amarezze e rimpianti. E, forse, nel libro di Dio è scritto che la morte ci dovrà sorprendere prima che l’anno nuovo finisca il corso delle sue settimane. – Che cos’è dunque la nostra vita? questa vita che sfugge irreparabilmente come l’acqua del fiume, che dileguasi come la stella che scivola sul cielo oscuro? Domandate all’artigiano perché tutti i giorni fatica e suda tra la polvere e il fracasso, e vi risponderà: «per guadagnarmi la vita». Domandate a un malato perché si lascia dolorosamente incidere dal ferro del chirurgo e vi risponderà: « per salvare la vita ». Domandate all’uomo di mondo perché tanta smania di divertimento lecito e illecito, e vi risponderà: « per godere la vita ». Domandate al santo perché tante preghiere, tante penitenze non viste da nessuno fuori che da Dio, e vi risponderà: « per santificare la vita ». – Tutti dunque s’attaccano a questo gran dono, che ad ogni momento si consuma, e tutti vorrebbero impedire che si consumasse. L’unico che ci ha rivelato il mistero della vita e il modo per non perderla è il Signore. Egli ha detto: «Chi dà la vita per mio amore, quegli la ritroverà. Chi non la dà per mio amore, quegli la perderà ». Spieghiamo queste parole col Vangelo odierno.

Viveva a Gerusalemme un uomo chiamato Simeone: aveva passato tutti i giorni della sua non breve età nel timore di Dio e nella fede alle sue promesse. I compagni, gli amici suoi, dimenticando la parola e la legge del Signore s’erano dati al commercio e al godimento e lo riguardavano forse con occhi compassionevoli. Ma egli sentiva nel cuore la voce dello Spirito Santo confortarlo e sorreggerlo : « Coraggio! tu non morirai senza aver visto il Salvatore ». Viveva pure in quel tempo a Gerusalemme una nobildonna di nome Anna, figlia di Phanuel della tribù di Aser. Aveva ottantaquattro anni: sette appena ne aveva vissuti accanto allo sposo che la morte le rapì innanzi tempo. Giovane ancora, bella, nobile e ricca s’era chiusa nei veli della vedovanza col tenace proposito di non levarseli fino alla morte. Chissà quante donne la compiangevano e quante bramavano d’essere al suo posto per darsi a un nuovo partito, per correre dietro ai piaceri, agli onori, agli spassi d’una vita spensierata! Ma ella, no: ella aveva preferito ritirarsi nella penombra e nel silenzio del tempio, passare gli anni come un Angelo, lasciare sfiorir l’età bella nei digiuni e nelle veglie notturne. Perché? Perché Simeone ha preferito così, ed Anna ha preferito così? Perché ci sono due maniere di vivere la vita: la maniera del mondo la maniera di Cristo. – « Ma io vi dico che solo chi dà la vita per mio amore, quegli la ritroverà; ma chi non la darà per mio amore, quegli la perderà ».

1. VITA MONDANA

Il mondo, coronato di rose, fosforescente di lusinghe, passa in mezzo agli uomini e lancia il suo appello insidioso come la canzone delle sirene: « Venite con me: inebriamoci di tutte le ebbrezze; gettiamoci su tutti i piaceri; domani, forse, non saremo più a tempo ». Quale moltitudine innumerabile, egli si trascina dietro alle sue seduzioni! Sono bestemmiatori che sui treni, per le strade, in casa, in officina lanciano contro il cielo la parola ingiuriosa ed oscena: e non hanno rimorso. – Sono compagnie di profanatori della domenica: hanno tramutato il giorno del sacro riposo e della preghiera fiduciosa e della pace famigliare, in una giornata d’avarizia, di peccato, di vorticoso movimento. Sono schiere di sposi trasgressori delle leggi sante che governano la famiglia: invano soffocano i rimorsi della coscienza violata, invano aspettano le misericordie di Dio, invano si lamentano nell’ora del dolore. – Sono turbe di giovani che vogliono godere la giovinezza: e invece la gettano in ogni pozzanghera. Genitori senza fede, figli ribelli, donne dal cuore vano, tutti schiavi di satana, tutti arruolati nell’esercito del mondo. Voi li vedete, anche di questi giorni, spegnere i rimorsi nei balli, nei veglioni, nei teatri, nei rumori pagani, nella dissipazione, nell’indifferenza. – Povera gente, come sarà pagata dal mondo a cui ha venduto la libertà e la vita? Prima da una manata di piaceri, ma di quei delle bestie e poi dalla morte eterna. Non s’accorgono dell’inganno? Non sentono d’avvilire la loro dignità di figli di Dio fino a diventare figli di satana? … Non capiscono di barattare l’eterna vita per un’ora di sogno inquieto? Dice la Storia sacra che quelli della regione di Galaad andarono a supplicare l’Ammonita affinché li accettasse nella sua alleanza. E l’Ammonita rispose: « Io farò alleanza con voi a questo patto : che io cavi a tutti l’occhio destro e vi renda l’obbrobrio di tutto Israele » (I Re, XI, 2). Così è di tutti coloro che hanno fatto alleanza col mondo: si sono lasciati strappare l’occhio destro, quello che guarda al cielo, alla vita eterna, alle cose vere e belle ed ora non vedono se non con l’occhio sinistro quello dei bruti, che guarda alla terra vede solo il fango e i vermi.

2. VITA CRISTIANA

Gesù coronato di spine, con le mani trafitte dai chiodi passa sulla terra, e lancia il suo appello di bontà, di pazienza, di fede: « Se qualcuno vuol venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua: arriveremo nell’eterna casa della gioia, dove godremo quello che Dio gode ».

Chi è Gesù Cristo? E ‘ il vero Padrone di noi tutti e delle cose tutte: niente senza di Lui è stato fatto, niente senza di Lui vive. È il vero Redentore degli uomini: non l’oro  l’argento ci ha riscattati dalla schiavitù del Maligno, ma il suo sangue dolorosamente versato dalle piaghe del suo corpo. È il vero Rimuneratore: colui che vede le nostre più segrete pene e conta i nostri sospiri; colui che può e vuole donarci un premio che sorpasserà ogni aspettativa.

Chi sono quelli che lo seguono? Sono i veri Cristiani, che hanno conformato la propria vita alla sua parola divina. Uomini che, pur vivendo nel mondo, non hanno macchiato il labbro di bestemmie e di turpiloquio. Donne che sono l’angelo della casa in cui vivono: diffondono un profumo di modestia, una luce di umiltà e di rassegnazione, un desiderio di preghiera. – Genitori che sentono la propria dignità e responsabilità, che temono il Signore, che rispettano il suo comandamento. Figliuoli che crescono ubbidienti, amorosi, devoti. Seguono Cristo tutti quelli che soffrono e sopportano; tutti quelli che nel campo dell’Azione Cattolica e delle pie Confraternite lavorano per la propria santificazione e per quella del prossimo. – S. Policarpo, vescovo di Smirne, fu arrestato dal proconsole Quadrato e condotto al tribunale: « Maledetto il tuo Cristo! » urlò ad un certo punto il proconsole adirato. Il santo vegliardo tremante di vecchiaia ma impavido di fede, disse: « Sono ottantasei anni che lo servo, e ne sono lietissimo. Ah, io lo benedirò fino all’estremo sospiro ». Allora gli fu preparato il rogo: ed egli sorrise. Le fiamme non lo toccarono Allora fu colpito di spada e Policarpo vide il Signore. Quando si serve Cristo, quando la vita è cristiana, entra nel nostre cuore la gioia dei figli di Dio e più nulla ci può spaventare. Neppure la morte: perché è la porta della gioia e della vita, dietro alla quale si vede il Signore.

CONCLUSIONE

Torniamo, per finire, al Vangelo. Nel tempio, Simeone e Anna erano invecchiati: ma invecchiati erano pure quelli che li avevano guardati con occhio di compassione quasi fossero incapaci di godersi la vita. Ma a costoro che restava? dopo i fugaci anni di godimento e di spensieratezza restava solo l’amarezza e la disperazione. Non così per Simeone ed Anna: dopo i digiuni, le preghiere, le mortificazioni, a queste due anime buone e pure, restava la cosa più bella che uomo può desiderare: vedere il Signore. Ed ecco che un giorno videro un’umile comitiva entrare nel cortile del tempio: era un uomo povero dalle mani incallite sulla pialla, era una donna giovane e modestissima che portava due tortore per la sua purificazione, era un bambino ancora in fasce. Il loro cuore sobbalzò; lo Spirito Santo li illuminò; essi conobbero che quel bambino era il Signore. « Signore! — esclamarono — ora facci pure morire, perché i nostri occhi videro la tua faccia e il nostro paradiso è incominciato ». – Cristiani! in quest’ultima domenica dell’anno io concluderò rivolgendovi il gemito dello Spirito Santo : « Ne des annos tuos crudeli » (Prov., V, 9). Non date gli anni vostri al maligno! Così, giunti al termine della vita, non troverete amarezza e disperazione, ma come Simeone ed Anna, vedrete il Volto di Gesù che vi beatificherà nei secoli dei secoli.

3.

LA PROFEZIA DI SIMEONE

Secondo la legge mosaica la donna a cui il cielo avesse largito un figliuolo, dopo il quarantesimo giorno, doveva salire al tempio a chiedere la sua purificazione. Se poi il bambino era il primogenito, esso pure veniva portato per essere simbolicamente consacrato al Signore. E quantunque Maria avesse concepito, non come le altre donne, ma miracolosamente per opera di Spirito Santo, per umiltà volle sottostare alle leggi comuni. Ella dunque venne alla porta del tempio, si fece aspergere da un sacerdote e poi offrì l’offerta dei poveri: due tortorelle; che la Madre di Dio non possedeva tanto da poter offrir un agnello, ch’era l’offerta dei ricchi. – La cerimonia volgeva al termine, quando apparve Simeone, il vegliardo del tempio. Fedele credente, vedeva da lungo tempo con dolore e con profonda indignazione i peccati d’Israele e la schiavitù sotto il giogo straniero. Ma pure in cuor suo aveva ricevuto promessa da Dio che non avrebbe chiusi gli occhi senza vedere il Messia. Ora la promessa si compiva. Tremando di gioia prese il neonato tra le sue vecchie braccia e profetò: « O Signore, lascia pure il tuo servo andare in pace, come l’hai promesso: ho visto la salvezza che salverà tutti i popoli, ho visto la luce che illuminerà tutte le genti ». Giuseppe e Maria nell’ascoltarlo furono colti da ammirazione, ma il santo vecchio li guardò e, dopo averli benedetti, soggiunse: « Questo Bambino è il segno della contradizione posto alla rovina e alla resurrezione di molti. Una spada affilata poi trapasserà l’anima di sua Madre ». Quando in una famiglia nasce qualcuno, quanti sogni si fabbricano su quella piccola testa ignara! Crescerà sano e robusto ovvero piegherà sullo stelo prima ancora di sbocciare? Sarà un uomo coscienzioso e probo o invece un ignobile e disonesto? Amerà gli studi o preferirà il commercio o le armi? Sarà la gloria e la gioia di sua madre o il disonore e il dispiacere? Nessuno lo sa. Ma il santo vegliardo del tempio di Gerusalemme aveva letto bene la storia dell’avvenire e la sua parola s’avverò. Questo bambino sarà il segno di contradizione. Il cuore di sua madre sarà trapassato dal dolore.

  1. IL SEGNO DI CONTRADIZIONE

Conterò una storia che Eusebio di Cesarea ci assicura d’aver raccolta dalle labbra di Costantino stesso. Mentre l’imperatore prepara vasi a marciare contro il rivale Massenzio, gli apparve nel cielo una Croce sulla quale si leggeva: « Con questa vincerai ». Costantino, ancora pagano, sorpreso della meravigliosa visione, promise di farsi Cristiano se avesse ottenuto vittoria. Intanto ordinò che sul vessillo da portare in battaglia si dipingesse la croce, così come l’aveva veduta. Massenzio, che aveva saputo qualcosa, ordinò alle sue legioni di mirare tutti contro il vessillo fatato. L’alfiere che lo portava, sentendo sibilare intorno a lui le frecce, s’accorse d’essere fatto bersaglio da tutti i nemici, e spaventato gettò via il vessillo e riparò in mezzo alle file. Un compagno, visto quest’atto di debolezza, si spoglia delle armi e, afferrata l’insegna, si slancia in testa ai manipoli, avanzando a gran corsa verso il nemico. I dardi fischiando densi come una grandinata, foravano la bandiera, lasciando illeso l’intrepido alfiere. I nemici compresero che un Dio combatteva con l’armata di Costantino, e presi da spavento si rovesciarono indietro, ed ebbero una sconfitta completa e decisiva dove Massenzio stesso perì. Agli inni della vittoria non partecipò il primo alfiere. Qualcuno l’aveva visto cadere colpito nel cuore da uno strale. – Questo fatto ci offre due insegnamenti.

a) Ed il primo è che tutti quelli che combattono Cristo, o la sua Chiesa, o i ministri della sua Religione periscono, come Massenzio perì. Voltiamoci indietro a guardare la storia: il primo persecutore di Gesù è Erode l’infanticida, ma fu anche il primo a sperimentare la vendetta divina. Arso lentamente da una febbre maligna, straziato da coliche che gli laceravano le viscere, gonfio e livido mostruosamente in tutto il corpo, scontorto da convulsioni spasmodiche, esalava un fetidissimo puzzo e nelle sue carni marcenti già brulicavano i vermi. L’altro Erode, l’Antipa, quello che nel giorno della passione trattò Gesù da pazzo, morì in esilio; e Pilato pure dovette fuggire, e ramingare di paese in paese fin che si uccise di propria mano. Giuda Iscariota si appese alla ficaia e scoppiò. Tutti gli imperatori romani, che perseguitarono i martiri, finirono violentemente, così che lo scrittore Lattanzio Firmiano poté formare un libro che intitolò: « La morte dei persecutori ». Caligola fu trucidato, Nerone, vedendosi raggiunto dalla coorte mandata ad ucciderlo, si cacciò egli stesso il pugnale nel cuore. Domiziano fu ucciso da quei di sua famiglia. Commodo fu strangolato. Eliogabalo è ammazzato dai suoi soldati. Valeriano è scoiato. Diocleziano muore di fame. Giuliano l’apostata, ferito in guerra, si strappa le bende, e lanciando una manata di sangue contro il cielo, bestemmia: « Galileo, hai vinto ». Poi morì, come morirono e moriranno tutti i nemici della fede nostra. Cristo invece regna, impera, trionfa; ieri, oggi, domani; sempre.

b) Un secondo insegnamento deriva a noi dal fatto, che ho narrato. Tutti quelli che dopo aver ricevuto il Battesimo e servito a Gesù Cristo per qualche tempo, gli voltano le spalle, lo insultano coi loro peccati, avranno la peggio come l’ebbe il primo alfiere. Quelli invece che, armati di confidenza e di coraggio, lo servono, lo difendono, soffrono per Lui, saranno fortunati quaggiù e nell’eternità, come lo fu il secondo alfiere. Cristo è il segno della contradizione: o risorgere con Lui, o contro di Lui perire. – Chi desiderando d’essere sapiente, disprezzò il Vangelo per studiare altri libri, non capì più nemmeno quello che capiscono anche i bambini. E chi rifiutò il giogo del Signore per vivere secondo i capricci delle sue passioni, non trovò che delusioni, rimorsi, disperazione e condanna eterna. – Invece quelli che per amor di Cristo, rinunciarono alla fatua sapienza del mondo, alle bugiarde gioie del mondo, ai fugaci beni del mondo, ricevettero cento volte più di quello che avevano lasciato, e per giunta la vita eterna (MT., XIX, 29).

1. LA MADRE DOLOROSA

È l’Annunciazione. Un Angelo discende nella casa umile d’una povera fanciulla del popolo e le porta il desiderio dell’Onnipotente. « Non temere, Maria. Accetti tu d’essere la Madre di Dio? ». E la Madonna, sospirando come a una cosa a cui ci si rassegna dopo un lungo tentennare, rispose semplicemente: « Io sono l’ancella del Signore. Sia fatto in me secondo la tua parola ». Ma come? Perché non irrompere in un grido di gaudio infrenabile? Proprio lei, che non conosceva che il tempio e la sua casa, veniva eletta alla più alta dignità possibile a semplice creatura umana, e non esultava d’ebbrezza; ma trepidamente diceva: « Io sono l’ancella del Signore: fiat! ». – Era perché la Madonna sapeva che Madre di Dio vuol dire Madre d’un Crocifisso. Sapeva che in ogni giorno della sua vita sarebbe stata accompagnata dalla visione della croce, fin tanto che il suo Unigenito inchiodato e sanguinante davanti ai suoi occhi materni non fosse spirato davvero. – Da quel momento la sua anima fu trafitta con una spada a taglio doppio. Quattro cose, dice S. Tommaso, fecero amara la passione di Cristo alla Vergine Madre.

Primo, la bontà del Figlio: perdere un figlio è gran dolore, ma perdere un Figlio che non le aveva recato mai il più tenue dispiacere, un Figlio ch’era Dio, è quello che nessun’altra madre provò né proverà.

Secondo, la crudeltà dei crocifissori: a Lui che bruciava di sete nell’agonia non gli vollero dare una stilla d’acqua; e sua Madre neppure gliela poteva dare, che non lo permettevano; e neppure poteva placargli l’arsura con i suoi baci, che era sospeso in alto.

Terzo, l’infamia della pena: moriva il Figlio di Dio tra due ladroni quasi che anch’Egli fosse un ladrone, moriva per mano della giustizia, la giustizia più ingiusta, che aveva osato perfino condannare a morte il Creatore del cielo e della terra e dei giudici. Quarto, la ferocità del martirio: insultato, flagellato, inchiodato. E morto, quasi non bastasse, fu squarciato nel petto con una lancia: Egli non la sentì perché era già spirato, ma la sentì la sua Madre che vedeva … 0 vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus (Tren., I , 12).

CONCLUSIONE

Era la festa dell’Assunta del 1856. A Spoleto si faceva una solenne processione, con l’immagine taumaturga dell’Addolorata. Era la Madre che. come si usava ogni anno in quel giorno, passeggiava tra i figli suoi: e non v’era ginocchio che non piegasse a terra davanti a Lei. La processione, tra canti e incensi, si svolge lenta e giunge davanti a un giovane elegantissimo di nome Francesco Possenti. Già due volte, ammalato da morire, aveva promesso di cambiare vita; davanti al cadavere di sua sorella morta sì giovane l’aveva giurato ancora; e non si era deciso mai a strapparsi dalle voluttuose spire del mondo. Ora, ritto ai margini della strada, guardava la processione snodarsi davanti. Quando l’immagine della Madre dolorosa gli fu vicina, sentì battergli il cuore come mai. Gli parve che la Vergine girasse lo sguardo su lui e lo guardasse in una luce divina. Intanto una voce gli gridava dentro: « Francesco il mondo non è più per te ». Qualche tempo dopo correva un mormorio per la città: « Sai, il ballerino si è fatto frate ». « Francesco Possenti vuoi dire? ». – « Sì: ed ha preso il nome di Gabriele dell’Addolorata ». Quante volte, e con grazie e con disgrazie, la Madonna ci ha fatto capire di abbandonare il peccato e riprendere una vita più cristiana più mortificata: e fu sempre invano. Oggi, che è l’ultima domenica di quest’anno che finisce, la Madonna Addolorata ci guardi con quegli occhi suoi misericordiosi. Ci guardi come ha guardato una volta il giovane Francesco Possenti: e noi con l’anno nuovo riprenderemo una vita nuova: di pietà, di carità, di bontà.

 

IL PRECURSORE (5-6)

QUARTA DOMENICA D’AVVENTO

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli, vol. I, soc. Ed. Pensiero e Vita, Milano 1939)

( Lc., III, 1-6)

1.

APRI IL CUORE AL SIGNORE CHE NASCE

Pochi giorni ci separano dal santo Natale. Penso a molti secoli fa, nell’imminenza del grande avvenimento, quando in Betlemme gremita di forestieri, entrarono due modesti sposi che venivano da Nazareth. Penso alla trepidazione di Giuseppe che supplicava con la parola e con gli occhi sulle porte degli alberghi, perché facessero al Padrone del mondo un po’ di posto per nascere. In mezzo agli uomini non ce n’era più: dovette trovarglielo in mezzo alle bestie.

Se per il prossimo Natale, S. Giuseppe ritornasse a cercargli un posto, lo credereste più fortunato dopo venti secoli? Purtroppo il crudele rifiuto si ripeterebbe punto per punto. Immaginiamolo. Ecco S. Giuseppe batte alla porta del ministero di qualche nazione moderna, dove si forgia il destino dei popoli, e chiede umilmente: « Fate la carità di un posto per nascere al Re del Cielo! ».

« Ma non c’è più il Cielo. Non sapete ch’era una fandonia inventata per tener quieti quelli che non potevano mangiare abbastanza sulla terra? … ».

« … È il Padron del mondo ».

« Il padrone del mondo siamo noi. Noi lo coltiviamo con le macchine e con i concimi chimici, noi lo scaviamo per estrarne oro e petrolio, noi lo percorriamo in alto e in basso, per lungo e per traverso, con treni con navi, con aeroplani. E poiché il rombo del temporale non fa più paura, noi lo spaventiamo con il rombo dei cannoni e lo scoppio delle bombe ».

« … È Dio ».

« Silenzio! Noi abbiamo le temibili organizzazioni dei « Senza Dio » (… O.N.U., U. E., F. M. I., Fed. R., Banca Mondiale, Novus Ordo, Massoneria, I.O.R. … -ndr.-)

Ed ecco S. Giuseppe in giro per le città moderne. Batte alla porta dei cinema e dei teatri, dei caffè, delle osterie, ma spesso si vedono e si dicono cento cose che non è conveniente siano udite o viste dalla Vergine Maria: e lo respingono. Batte alla porta di negozi e di officine, ma si sente dire in faccia: « Indietro! se ti facciamo un posto, poi bisognerà osservare la morale nel commercio. E con la morale non si fanno affari, e si va alla malora ».

Batte alle edicole dei giornali, per chiedere se qualcuno inserisca tra gli avvisi economici una domanda d’alloggio per lui e per la Vergine Maria, e per il Bambino che deve nascere. « An no ! — gli rispondono.

— Se incominciamo a metter sui giornali i nomi dei Santi e le cose vere e serie della Madonna e del Signore, i lettori s’infastidiscono, e non li vogliono più leggere. Perfino i Cattolici preferiscono i giornali un po’ liberali e larghi, e lasciano volentieri entrare in casa certi settimanali, illustrati magari con poca arte, ma con molta immodestia… ».

Giuseppe si decide di battere alla porta di famiglie private. Gli viene incontro il capo di casa che gli getta addosso uno sguardo non incoraggiante.

« Impossibile: non ho stanze. Di figliuoli in casa non ne voglio più, primo perché non ho posto, e poi perché la mia moglie ha già troppi fastidi; figurarsi se posso prendermi in casa un figlio di altri, sia pure il Figlio di Dio! ».

[Giuseppe batte ad una chiesa di Roma. C’è un uomo senza segni e senza talare:

« Mi dispiace ma il Cristianesimo oramai è stato eliminato, noi tutti professiamo una religione unica mondiale, indifferente ai culti e di teologia gnostica, non c’è più posto per Cristo, lo abbiamo sostituito con il baphomet! »   -ndr.].

Che resta ancora a S. Giuseppe? Gli resta da battere alla porta del nostro cuore. Non lo sentite panarvi, in questi giorni di santa aspettativa, con la voce della coscienza con la voce delia liturgia con la voce innocente dei vostri bambini? « Apri il tuo cuore al Signore che nasce ».

Il nostro cuore! da quanto tempo è forse ingombro di passioni cattive e di affetti illeciti e di peccati non confessati, o confessati male, o confessati senza né dolore né proponimento! Il nostro cuore forse è diventato una regione dove il demonio impera con la sua legge d’orgoglio, con i piaceri della sensualità, con le frodi e le ipocrisie.

Come quando in una città deve arrivare il Re, ferve da per tutto il lavoro di pulizia, di riordino, di abbellimento, così con tutte le forze dobbiamo in questi giorni lavorare, nel raccoglimento, intorno al nostro cuore per disporvi le degne accoglienze al Re dei Re. E che dobbiamo fare? Ce lo dice S. Giovanni nel Vangelo di questa domenica.

« Udite la voce che grida nel deserto: preparate la via del Signore.  Spianate i monti.

Colmate le valli. Raddrizzate i sentieri tortuosi ».

1. SPIANATE I MONTI

Le vette da rovesciare sono quelle irte e gelide dell’odio e del rancore. Nel Vangelo è detto: « Da questo vi riconoscerò per miei discepoli se vi amerete tra di voi » (Giov. XIII, 35). Ecco che Gesù viene nel santo Natale, e guarda i cuori che sono suoi, per entrarvi. Ma dove c’è rancore, desiderio di vendetta, odio, egli non li riconosce per suoi, e non entra. Nel Vangelo è detto: « Se stai per presentarti all’altare e ti ricordi che c’è una ruggine tra te e il tuo fratello, torna indietro, e va prima a riconciliarti » (Matth., V, 23-24). Se questo comandamento vale per ogni occasione, tanto più nella massima festa cristiana del santo Natale. « Ho già perdonato una volta e due — si scuserà qualcuno — ma poi mi ha fatto peggio ». Anche questo caso è contemplato nel Vangelo. « Se tuo fratello ha sbagliato verso di te, perdonagli. E quand’anche sbagliasse sette volte al giorno, s’egli venisse sette volte al giorno a chiederti scusa, tu sempre gli perdonerai » ( Lc., XVII, 3-4).

2. COLMATE L E VALLI

Le valli da colmare, acquitrinose e malariche, donde esala un’aria febbricosa, sono quelle dei piaceri sensuali, degli affetti morbidi, dei desideri impuri. Per nascere, al Figlio di Dio non importò né di ricchezze, né di casa, né di cuna. D’una sol cosa non potè fare a meno, essendo Dio: della purezza. Nacque da una Vergine. Beati quelli che saranno trovati in questi giorni col cuore puro: la grazia del santo Natale li inonderà, sentiranno la bellezza e il fascino di questa virtù che ci rende capaci di vedere Dio, godranno la pace promessa dagli Angeli agli uomini di buona volontà. Buona volontà di mortificare i sensi e il cuore, perché Dio non può nascere « dove i demoni ballano e le sirene fanno il nido » (S. GEROLAMO, P. L., XXII, 398).

3. RETTIFICATE I SENTIERI TORTUOSI

I sentieri tortuosi sono tutte quelle vie coperte di frodi, di furti più o meno piccoli, di inganni, di bugie, di sotterfugi di cui troppo spesso si lascia inquinare anche l’uomo onesto. « Sono inezie, è un danno di cui non s’accorge nessuno! ». « Colui che è fedele nelle piccole cose è anche fedele nelle grandi, e colui che è infedele nelle piccole è anche infedele nelle grandi » (Lc., XVI, 10). « Fanno tutti così ». Eppure vi dispiacerebbe che si sapesse che anche voi fate come tutti; che si sapesse quella vostra astuzia, o la provenienza di quella roba, o il modo di farvi dare quel danaro. E del Signore, che lo sa, non vi rincresce? Non temete la sua giustizia? S. Giovanni grida ancora dal deserto: « Ah, gente tortuosa come le vipere, chi vi insegnerà a sfuggire l’ira ventura? Viene il Signore col ventilabro, e separerà nettamente il grano dalla pula ». Raddrizzate i sentieri del vostro lavoro e del vostro commercio.

CONCLUSIONE

Francesco d’Assisi, parecchi giorni prima della festa di Natale, chiamò un uomo molto pio, di nome Giovanni, e gli disse che desiderava passare il Natale a Greccio. Doveva però preparargli nella foresta un presepio con la mangiatoia e col bue e l’asino, per rappresentare in una maniera viva il mistero della divina nascita. Nella santa notte arrivò gente da tutte le parti con fiaccole e con lanterne: tutta la foresta palpitava di luce e risonava di gioia. Francesco co’ suoi frati, in ginocchio, cantava le lodi del Signore davanti alla mangiatoia. Fu allora che al buon Giovanni parve di vedere una cosa meravigliosa. Nella greppia c’era un Bambino con gli occhi chiusi, come un morto. San Francesco si avvicinò dolcemente e lo svegliò da quel profondo sonno di morte. Cristiani, il Natale è qui. Ma nella cuna di tanti cuori, il Bambino Gesù è morto. Sono stati i peccati a ucciderlo, così piccolo ed innocente! Lo dice S. Paolo che chi commette peccato lo fa morire nel proprio cuore. Bisogna farlo rinascere.

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IL BATTESIMO DI PENITENZA

Sardanapalo, il famoso re d’Assiria, statua di fango e di vizi da vivo, ha voluto che dopo la sua morte gli fosse eretta sulla pubblica piazza una statua di bronzo, con questa infame iscrizione sul piedestallo: « Passante, bevi, mangia, godi: il resto è nulla ». Aristotile stesso ch’era un pagano, leggendola esclamò: « Che altro scriveresti sul sepolcro non di un re, ma di un bue? ». – Eppure Sardanapalo, simbolo del godimento sensuale, è oggi deificato da per tutto, sulla grande piazza pubblica del mondo e gli uomini ripetono il grido che San Paolo pose in bocca ai disperati mondani: « Non ci sia piacere che l’anima nostra non abbia provato; incoroniamoci di rose prima che marciscano; mangiamo e beviamo perché domani morremo » (I Cor., XV, 32). Ma in faccia alla statua di Sardanapalo, da due mila anni, un’altra fu eretta, non di bronzo, ma di legno; e sul legno inchiodato e sanguinante sta Gesù Cristo che morendo dice: « Se qualcuno mi vuol seguire, prenda la sua croce, e vi configga sopra spietatamente le sue cattive passioni » (Matth., XVI, 24). – Dove ci mettiamo noi? Sotto la statua di Sardanapalo o sotto la croce? sceglieremo i piaceri del mondo e la vita sensuale delle bestie o la penitenza di Cristo e la vita spirituale degli angeli? Sceglieremo la strada larga dell’inferno o quella stretta del Paradiso? Quello che ci convien fare, ce lo predica dal Vangelo San Giovanni Battista. – Regnava a Roma da quindici anni Tiberio Cesare, Ponzio Pilato era governatore di Gerusalemme, Erode tetrarca della Galilea, Anna e Caifa sommi sacerdoti, quando il figliuol di Zaccaria venne nei paesi lungo il Giordano a predicare il battesimo di penitenza. Prædicans baptismum pœnitentiæ. A quelli che l’ascoltavano diceva: « Razza di vipere! chi v’insegnò a fuggire l’ira che vi sovrasta? fate penitenza. Già l’ascia è sulla radice della pianta: fate penitenza. Già s’avvicina il regno dei cieli: fate penitenza ». Non è dunque la vita spensierata, ma la vita dura del proprio dovere che impone il Precursore; e dopo il mangiare, il bere e il godere ricordiamoci che c’è l’ira che ci sovrasta, c’è l’ascia che abbatte, c’è il regno dei cieli per i buoni e l’inferno per i cattivi. Facciamo dunque penitenza. Ma che cos’è la penitenza? Ce lo spiega chiaramente S. Gregorio Magno: transacta fiere et illa deinceps non committere. È il dolore, dunque, dei peccati, ed il fermo proposito di evitarli. Il dolore è la penitenza che cancella i peccati commessi. Il proposito è la penitenza che preserva dai peccati futuri.

1. PENITENZA CHE CANCELLA I PECCATI

Dopo la Pentecoste, S. Pietro uscì sulla pubblica piazza e predicò con parole ferventissime. « Uomini d’Israele! Ascoltatemi in silenzio. Gesù Nazareno, figlio di Dio, famoso per dottrina, per virtù, per miracoli, voi l’avete ucciso. Vos interemistis. Perché l’avete ucciso? forse perché illuminò i vostri ciechi, o forse perché mondò i lebbrosi? Forse perché guariva i vostri ammalati, o perché abbracciava, benedicendo, i vostri bambini? Perché l’avete ucciso? rispondete! ». – Sotto la rovente foga di quel discorso la folla doveva sussultare come un bosco battuto dal vento. Gli uomini d’Israele si guardavano in faccia, atterriti, e gemevano tristamente: « Quid faciemus, viri fratres? ». Che faremo adesso per cancellare il delitto enorme? Come S. Pietro li udì mormorare così, rispose: « Fate penitenza! ». Pæenitentiam agite (Atti, II, 38). Non appena agli ebrei, ma anche a noi S. Pietro potrebbe ripetere: « Gesù Nazareno, voi l’avete ucciso. Voi, con i vostri peccati, l’avete di nuovo crocifisso nell’anima vostra ». Quando avete assecondato quei desideri disonesti, voi l’avete novellamente crocifisso sul legno infame della vostra impurità. Quando avete violata la giustizia, o prendendo o non restituendo, voi l’avete novellamente crocifisso sul legno infame della vostra avarizia. Quando avete trasgredito il precetto del venerdì, voi l’avete novellamente crocifisso sul legno infame della vostra golosità. E potrei continuare. Ma allora, o fratelli, se noi siamo colpevoli di così gran delitto che dobbiamo fare? Pænitentiam agite. Buttiamoci ai piedi del crocifisso, guardiamo quelle piaghe che noi abbiamo aperte, e domandiamogli perdono. Questa contrizione delle nostre colpe, questo vivo rincrescimento d’aver offeso Dio che è tanto buono, questo dispiacere grande d’aver nuovamente crocifisso Cristo, è la penitenza che predicava S. Giovanni nei paesi lungo il Giordano, quella penitenza che è simile al Battesimo perché ci lava da ogni peccato. Prædicans baptismum pœnitentiæ. Il dolore d’aver offeso Dio, quanto più è perfetto tanto più ci otterrà, non solo il perdono dei peccati, ma anche la remissione della pena dovuta al peccato. – Quando S. Vincenzo Ferreri predicò in Francia, un giovane andò a gettarsi ai suoi piedi, piangendo. Aveva condotto una vita dissoluta, ora la grazia di Dio lo toccava in un modo mirabile. Il santo ascoltò la sua lunga confessione, poi gli assegnò una penitenza austera di sette anni. « Ma come, padre! — ripigliò il giovane — a me che tanto peccai, solo sette anni di penitenza! » e singhiozzava. Il santo, vedendo tanto dolore, rispose: « Figlio, andate: farete soltanto tre giorni di penitenza perché Dio è tanto buono ». – « Appunto perché Dio è buono e nonostante io l’offesi, merito una grande penitenza ». « Orsù — rispose il santo — contentatevi di recitare tre Ave ». Allora il giovane scoppiò in pianto e S. Vincenzo Ferreri, per virtù di Dio, vide la sua anima così bianca che se fosse morto in quell’istante, senz’altra penitenza che il suo dolore, sarebbe volato direttamente in Cielo.

2. PENITENZA CHE PRESERVA DAL PECCATO

E Gesù entrò in Gerico. Passando sotto un sicomoro, scorse tra le foglie una breve figura d’uomo: Zaccheo. Lo chiamò: « Zaccheo, scendi in fretta che ho pensato di venire a casa tua ». La guardia doganale confusa e commossa, si calò giù dall’albero e si trovò in faccia al Signore: « Andiamo, Zaccheo, — disse Gesù — oggi voglio fermarmi un poco da te ». E s’avviarono. Zaccheo intanto pensava alle sue ingiustizie, ai furti, alle esose estorsioni di danaro fatte sulle carovane che passavano il confine tra la Giudea e la Perea; Zaccheo intanto sentiva i mormorii della folla scandalizzata al vedere il divin Maestro prendere stanza presso quel doganiere.

Pensava e sentiva tutto questo con un senso di disgusto e di dolore per la sua vita passata. Ma a che sarebbe valso questo dolore, se non fosse stato seguito dal proposito efficace? Per ciò quando furono sul limitare si rivolse e disse: « Signore! dò la metà dei miei beni ai poveri e per ogni estorsione ingiusta, restituirò il quadruplo ». Gesù guardò con amore quell’uomo di forte proposito, e in faccia alla folla gli rispose: « Questa casa ha ricevuto la salute, oggi, poi che anche costui è diventato figlio d’Abramo ». – Da questo brano evangelico consegue che la vera penitenza non consiste solo nel detestare i peccati commessi, ma soprattutto nel ripararli, e nell’usare tutti quei mezzi che ci possono preservare dalle ricadute. Non bastano quindi parole e sospiri: mi confesso, mi pento, è mia colpa, mia massima colpa; ci vogliono i fatti. A quante persone si potrebbe dire: la tua voce è quella di Giacobbe, ma la tua mano è quella d’Esaù! Di parole e di promesse ne hai tante, ma in pratica c’è troppo poco. – Il santo Natale è vicino, Gesù ha pensato di venire in casa nostra, come un giorno nella casa di Zaccheo; via le chiacchiere adunque e convertiamoci. È necessario distruggere il corpo del peccato che è dentro di noi come dice l’apostolo: Ut destruatur in vobis corpus peccati (Rom., VI, 6). Rinunciamo a quelle mille cose dilettevoli che acuiscono in noi le passioni: perciò via da nostri occhi oggetti e libri che suscitano la concupiscenza. Via dal nostro labbro quella scandalosa libertà di parola che rovina la nostra anima e l’altrui. Via quegli spettacoli, dei quali l’unico effetto è di ridestare le immagini più losche. Via quelle amicizie morbose nelle quali noi stessi presentiamo vicina la caduta fatale. Anche la gola bisognerà mortificare, anche la pigrizia che ci tiene a letto quando alla prim’alba le campane ci chiamano alla Messa. Il regno dei cieli si conquista con la violenza; con la violenza che ciascuno di noi deve fare alla propria carne. Castigo corpus meum et in servitutem redigo (I Cor., I X , 27).

CONCLUSIONE

Ma dunque, dirà qualcuno spaventato da questo battesimo di penitenza, la Religione Cristiana è proprio melanconica. Aveva ragione il poeta paganeggiante quando diceva a Cristo: cruciato martire, tu cruci gli uomini. Ascoltate: Gesù, un giorno andò a un banchetto di nozze che si faceva in Cana. Sul più bello del convito manca il vino: nessuno ci aveva pensato. Gesù allora, benché a malincuore, — ma come resistere alla Madonna che lo pregava! — chiamò i servi: « Riempite le idrie d’acqua e poi versate che ne uscirà vino ». Tutti bevvero il vino del miracolo; ma come l’ebbe saggiato l’architriclino, ne fu meravigliato. Lo pacchiò due o tre volte in bocca e poi esclamò: « Maestro! tutti, in principio, offrono ai convitati il vino migliore e poi, quando sono ubriachi, li riempiono di quello scadente; tu invece hai fatto il contrario. Hai dato prima il vino peggiore ed hai serbato alla fine un vino estasiante ». Cristiani: il calice del mondo e del demonio, il calice di Sardanapalo comincia col dolce, e poi dopo averci ubriacati nei vizi, finisce con il fiele del rimorso, in questa vita, e con l’inferno, nell’altra. Il calice di Cristo comincia con l’amaro della penitenza e finisce con la pace e la benedizione di Dio, in questa vita, e con il paradiso, nell’altra.

3.

GESÙ’ VIENE

Da quindici anni Tiberio Cesare, figliastro di Augusto suo predecessore, sedeva sul trono imperiale di Roma. A Valerio Gracco nella procura della Giudea era successo il lionese Pilato, sopranominato Ponzio per aver conquistato l’isola Ponzia con le armi romane. L’adultero Erode Antipa, figlio di Erode l’infanticida, teneva la tetrarchia della Galilea. Il suo fratellastro Filippo teneva la tetrarchia dell’Iturea e della Traconitide. Lisania, di cui non si conosce altro che il nome, teneva quella di Abila. Il sommo pontificato era in mano di Caifas e del suo suocero Anna. In questi tempi Giovanni di Zaccaria uscì dal deserto e venne lungo il Giordano a predicare il battesimo di penitenza per la remissione dei peccati. E predicando diceva : « Io sono la voce di uno che grida nel deserto: preparate la via al Signore che viene. Colmate le valli, spianate i colli! Allora ogni uomo vedrà il Salvatore ». Omnis vallis implebitur et omnis collis humiliabitur. In questa domenica, ultima d’Avvento, l’austero Battezzatore s’avvicina anche alle anime nostre e grida: « Gesù viene nel Santo suo Natale: colmate le valli, spianate i colli ». Che sono queste valli e questi colli? Le valli sono il vuoto che fanno in noi i peccati, spogliandoci della grazia. I colli sono i nostri atti di superbia che ci rendono spiacenti a Dio. – Bisogna riacquistare la grazia con una santa confessione. Bisogna ricominciare una vita più umile e più sincera. Questa è la miglior preparazione al Natale di Colui che dal Cielo discese in terra a portarci la grazia, a insegnarci l’umiltà.

  1. COLMATE L E VALLI DEL PECCATO CON LA GRAZIA

La guerra europea non era ancor finita; ma appena le armi tedesche furono obbligate a ritirarsi dal Belgio invaso, il re Alberto volle rientrarvi. Ma per quali strade sarebbe ritornato nel suo regno il re del Belgio, se non v’erano più strade? I ponti bombardati e sfasciati erano mucchi enormi di macerie. Carri sconquassati, affusti di cannoni spezzati, elmetti d’acciaio smarriti, scarpe di cuoio e di ferro abbandonate nel fango, carogne di cavalli e di muli e talvolta cadaveri umani insepolti, ingombravano il piano. Lungo i dossi s’aprivano le trincee scavate nella pietra e nella creta rossastra con ancora i segni di un crudele patire; nei punti d’incrocio le strade si sprofondavano in una fossa aperta dalle mine; le case scoperchiate e diroccate alzavano al cielo pietosamente le pareti frastagliate e fendute. Non importa: il re Alberto vuol rientrare e subito. Ecco: e delle squadre di uomini e di donne e di fanciulli s’impegnano a preparare la strada, ad appianare ogni asprezza, a riempire con le macerie ogni vallo di trincea, ogni sprofondamento di mina. « Viene il Re! ». E questo grido rinvigoriva quella povera gente, immetteva ancora energia nelle toro membra affrante, ancora speranza nei loro cuori sfiduciati. « Viene il Re! ». E passò il Re Alberto, piangendo, sopra quelle strade rifatte con rovine e con sangue. E quando le donne gli additavano le case crollate, egli diceva: « Non temete, io torno: le riedificheremo più belle ». E quando un fanciullo agitava verso lui le sue braccia stroncate dalla barbarie del nemico, egli diceva: « Non temere, io torno e le mie braccia possono lavorare per te; non ti mancherà il pane ». O Cristiani, forse, se consideriamo il nostro cuore in questo istante ci somiglia alla rovina del Belgio invaso. Sopra di esso è passata l’aspra guerra delle passioni: i cupi istinti della carne ebbero il sopravvento ed hanno soffocato e stroncato le buone ispirazioni; il demonio con i suoi inganni ha minato l’anima nostra, squarciandola qua e là; i peccati come obici disastrosi ci hanno rovinato e scrollato tutto quello che avevamo edificato con pazienza e sacrificio per giorni, per mesi, per anni. I nostri meriti, il frutto di tante preghiere, la grazia bellezza suprema dell’anima, tutto abbiamo perso; ed ora non ci rimane che la vergogna d’aver ceduto al mondo, alla carne, al demonio; ed ora non ci rimane che la nostra miseranda rovina. – Ma ecco il Natale è vicino, Gesù ritorna: vuol rientrare nell’anima nostra, in questo regno ch’è suo, in questo regno da cui lo scacciammo per dar posto a satana. Imitiamo anche noi i doloranti figli del Belgio: prepariamogli la strada del cuore, sopra cui passando, Egli possa ritornare in noi. Omnis vallis implebitur: colmate le valli! È necessario una buona Confessione, prima del santo Natale, che ci ricolmi di grazia, che spazzi via le carogne e le macerie del peccato. Gesù rientrando in noi, guardando la rovina dell’anima nostra., piangerà: ma è tanto buono, che avrà parole di consolazione e di coraggio per noi. Egli riedificherà quello che fu distrutto, Egli con le sue braccia potentissime ci aiuterà a lottare contro il demonio e a non lasciarci ingannare e vincere mai più. – Gesù viene: colmate le valli! Omnis vallis implebitur. Dice una leggenda che nella notte in cui Cristo nacque, a Roma spontaneamente cadde la statua di Romolo e stritolossi; e tutti gli altri idoli in tutti gli altri luoghi caddero. O Cristiani! Cristo sta per nascere: abbattiamo con una sincera Confessione, stritoliamo con vero dolore la statua dei nostri peccati e delle nostre passioni. Che la notte santa in cui celebreremo la natività dell’eterno Figlio di Dio, in nessuno di noi si trovi in piedi e dominante l’immagine del demonio!

 2. SPIANATE I COLLI DELLA SUPERBIA CON UNA VITA UMILE

Giovanni, l’alto funzionario dell’imperatore bizantino in Damasco, nella pienezza dei mondani onori e delle forze, si ritirò dalla vita galante e rumorosa della corte verso la solinga pace del deserto: nel chiostro di S. Saba. Là, davanti a Dio e a una voragine rocciosa il cui riverbero offendeva l’occhio, cominciò la rude scuola della perfezione. Nelle ore libere dall’orazione, colui che aveva l’eloquio d’oro e aveva scritto mirabili apologie della fede doveva intrecciare canestri, tanto da guadagnare il cibo quotidiano. Ora proprio a Giovanni toccò una volta di portare sul mercato di Damasco simili ceste: le sue e quelle degli altri monaci. E acciocché l’umiliazione gli fosse maggiore, il solito prezzo delle sporte fu aumentato del doppio. Come poteva nel suo povero abito monacale attraversare quelle stesse vie per le quali era passato poco tempo prima come alto impiegato statale, fra gli inchini di tutti? Come poteva mostrarsi ai suoi nobili amici, divenuto quasi uno schiavo che vende ignobile mercanzia? Sentiva tutto il suo sangue ruggire nelle vene e la sua anima rivoltarsi. Gli venne in mente di gettare la sua cocolla sulla strada, fra Damasco e il deserto, e ritornarsene com’era, onorato ricco felice. Ma una voce gli disse in fondo al cuore : « Giovanni! non Io prima di te ho lasciato la reggia del cielo per la stalla dei giumenti? prima di te, non Io innocente mi sono confuso tra i peccatori, mi sono addossato la loro onta e il supplizio? Perché dunque ha fatto questo il Figlio di Dio, se gli uomini non lo vorranno imitare? ». Comprese Giovanni ed entrò in Damasco con volto ilare. Girò a lungo per. la città: qualcuno lo riguardava maliziosamente; qualche altro s’avvicinava per comprare, ma alla profferta del prezzo gli gettava addosso una sbruffatina di risa. Da ultimo fu ravvisato da un suo antico servo che, mosso a compassione del padrone d’una volta, senza darsi a conoscere, gli comperò i panieri al prezzo richiesto. A sera Giovanni Damasceno tornò al chiostro più santo. Quanta superbia c’è anche nella nostra vita! La maggior parte delle nostre colpe sono di superbia.

a) Siamo superbi con Dio.

Ogni giorno riceviamo infiniti benefizi da Dio: ci conserva, ci dà le forze e l’intelligenza per lavorare, benedice i nostri affari e le nostre famiglie, non ci lascia mancare il pane, ci aiuta nelle tentazioni, ci santifica coi sacramenti. E pure noi non lo ringraziamo mai o quasi mai; anzi crediamo che tutti questi benefizi non ci vengono da altri se non dalla nostra solerzia e abilità. Questa è superbia. – Quando ci capitano malattie o disgrazie negli affari, o altri dolori, non facciamo che lamentarci dell’ingiustizia di Dio a nostro riguardo, che imprecare, che smaniare. E non si pensa che siam peccatori, che meriteremmo ben altri e più terribili castighi; e non si pensa che siam come cavalli bizzarri a cui è di bisogno sentir la frusta per tenersi sulla strada buona. Questa è fior di superbia. Non è superbia quella che spinge molti Cristiani a criticare perfino la Provvidenza? « Perché Iddio permette così?… Sarebbe molto meglio se queste cose non le avesse permesse… Ma se c’è davvero, si faccia vivo!… ». Ingenua imbecillità! si ha la vista lunga una spanna e si pretende di veder meglio di Dio che conosce il passato, il presente, il futuro.

b) Siamo superbi con il prossimo.

Se riceviamo un’offesa, anche piccola la coviamo in cuore per mesi e mesi, la gonfiamo con la fantasia, attendiamo con rabbia e con gioia il momento d’una bella vendetta. Chi crediamo di essere, per far pagare così care le nostre offese? Se ci avviene di fare un favore, se l’altro se ne dimentica presto, subito glielo rinfacciamo. Invece, dei piaceri, e non pochi e non piccoli, che ricevemmo, perdiamo subito ogni riconoscenza. Ci pare, insomma, che tutti devono inchinarsi a noi, e noi a nessuno. Questa è superbia! Che cos’è se non superbia quella smania di mettersi davanti a tutti, quel pretendere d’aver sempre ragione, e con gli inferiori e con i superiori? Di qui le disubbidienze, di qui le discordie nelle famiglie, e di qui i rancori. Gesù viene nel santo Natale: spianate i colli! Omnis collis humiliabitur. Facciamo anche noi come S. Giovanni Damasceno; soffochiamo, per amore di Dio che s’è annichilito facendosi uomo, la nostra superbia. Dice un’altra leggenda che nella notte in cui nacque Gesù, a Roma una fontana cessò di dare acqua rumorosamente, e diede olio purissimo soavemente. Di noi pure deve avvenire così: cessiamo una vita fatta di opere di superbia, e cominciamo una vita umile e sincera. Preghiera e confidenza col Signore, dimenticanza di ogni offesa, in pace con tutti, compatire tutti, amarci: ecco la nostra vita nuova.

CONCLUSIONE

Mentre era intento ai suoi giochi, il piccolo Antonio da Padova vide, un giorno, un bambino della sua età: bello d’una bellezza nuova sopra la terra, teneva il grembiulino rialzato e girava intorno gli occhi grandi come desideroso di preziose raccolte.

« Donde vieni? Come ti chiami? che cerchi? ».

« Donde venga? dal cielo. Come mi chiamo? il mio nome lo troverai scritto in lettere di fuoco sopra una grotta a Betlemme; in lettere di sangue sopra una croce a Gerusalemme; in lettere d’oro sopra tutti i tabernacoli della terra. Sono il Bambino Gesù e vado alla cerca del cuore degli uomini ».

« O Bambino Gesù, che vuoi da me? » supplicò il piccolo Antonio premurosamente.

« Antonio, dammi il tuo cuore ».

Fra pochi giorni l’immagine del Bambino celeste ritornerà sui nostri alatri, e, chiamando ciascuno per nome, dirà: « Dammi il cuore ». Ma come potremo noi darglielo, se il peccato v i ha scavato paurose voragini e la superbia vi ha innalzato colli rocciosi? Omnis vallis implebitur et omnis collis humiliabitur. Colmate le valli del peccato con la santa Confessione, spianate i colli della superbia con la vita umile, e poi rispondetegli: « Bambino Gesù ! eccoti il mio cuore ».

4.

VOCE NEL DESERTO: PREPARATE LA VIA

Quando gli esploratori della terra promessa ritornarono da Mosè con gli occhi ancora dilatati dalla meraviglia, dissero: «Abbiamo veduto degli uomini giganteschi, in confronto dei quali noi parevamo grilli » (Num., XIII, 34). – Il medesimo stupore prende anche le anime nostre, leggendo il Vangelo di queste domeniche d’Avvento, davanti all’eroica figura di San Giovanni Battista: egli è un gigante della santità in confronto del quale noi siamo dei grilli. – Probabilmente era l’anno 27 dell’era volgare, quando fra le dune e i tamerischi del deserto la voce di Dio risuonò per la bocca di Giovanni, figlio di Zaccaria.

Era coperto con una pelle di cammello, stretta alle reni da una cinghia di cuoio. Molti anni aveva trascorso nella solitudine sconfinata, fra le pietre e le belve… Molti anni s’era cibato appena di miele selvatico e di locuste e s’era dissetato appena di acqua. Solo un uomo cresciuto così, può avere la forza di varcare la soglia d’un re incestuoso, di gridargli in faccia il suo delitto, di lasciarsi stroncare il capo. Tra i nati da donna egli è il più santo. La sua voce possente risonava nei dintorni del Giordano, attirando da ogni parte gente al battesimo e alla remissione dei peccati. Voce di gridatore nel deserto: preparate la via del Signore. Spianate i sentieri: dove adergono, livellate; dove sprofondano, colmate; dove serpeggiano, raddrizzate. Così ogni uomo vedrà il Salvatore. Fermiamoci a una frase soltanto, e commentiamola nelle sue due parti: Voce che grida nel deserto: preparate la via del Signore.

1. VOCE NEL DESERTO

Dice S. Tommaso da Villanova, che l’anima del peccatore è un deserto. Ne ha infatti tutto l’aspetto: è arida e incolta, non produce frutto alcuno di vita, è ingombra dei rovi di cattivi pensieri, delle spine di cattivi desideri, delle ghiande di passioni immonde. E neppure mancano i serpenti, che sono i demoni. E poi, quanta solitudine dove Dio manca! quanta siccità dove la grazia non piove!… Ebbene in questo deserto Dio non cessa di parlare per chiamarci al battesimo della penitenza e alla remissione dei peccati. E ci chiama con la voce della predicazione e con quella dell’ispirazione; con la voce del beneficio e con quella del castigo.

a) Voce della predicazione. — Come in quei tempi il Signore si fece preparare i cuori dalle prediche del Battista, così attraverso i secoli egli si è sempre servito della parola dei sacerdoti. La predicazione è come l’acqua fecondatrice: ove essa non discende, vi è terra dura e sterile. La predicazione è come la manna alimentatrice: chi non ne raccoglie morirà di fame spirituale. La predicazione è come l’olio che nutre la lampada: chi non se ne procura, rimarrà al buio. – S. Ilario d’Arles vide una volta alcune persone che, appena ebbe cominciata la spiegazione del Vangelo, si dileguarono fuori di Chiesa per sottrarsi alla noia d’una predica. Il santo allora gridò verso di quelli: « Uscite pure: ora potete fuggire dalla Chiesa, ma verrà un tempo che non potrete fuggire dall’inferno ».

b) Voce dell’ispirazione. — Ma talvolta il peccatore è così indurato che nessuna voce esteriore può penetrarlo, nessun grido può r i svegliare il suo deserto. E allora Dio, buono e misericordioso, parla direttamente a quel cuore, parla quella sua parola viva, più acuta della spada a due tagli, che penetra gelida o rovente fino alle più intime compagini dell’anima (Hebr., IV, 12).

« Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio? » diceva l’Innominato dei Promessi Sposi, quell’uomo che aveva riempito di spavento e di delitto una intera regione. E a lui il Card. Federico Borromeo rispondeva così: « Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, l’imploriate? ».

c) Voce dei benefici. — Ci sono certi periodi nella vita in cui Dio ci manda ogni fortuna: salute, danaro, onori; ed aspetta quasi che l’uomo dica: «Anima mia, serviamo un Padrone così buono e generoso: non vedi che meritiamo pène e ci dà gioie? ». Ma invece l’uomo non riconosce attraverso le creature, la voce del suo Padrone. Il cielo grida: « O uomo, io giro per tuo comodo e utilità ». Il sole grida: « O uomo, io ti riscaldo e ti fortifico; io, a primavera, rinnovo la terra e l’adorno come un paradiso; io faccio crescere i frutti sulle piante e le piante sul suolo ». Grida la terra: « O uomo, io ti sostengo, ti nutro co’ miei campi e coi vigneti ». Grida l’acqua: « O uomo, io ti lavo, rinfresco, e fecondo ogni cosa ». E tutte insieme dicono le creature: « Riconosci dunque, e ringrazia il tuo generoso Signore ». L’uomo non ode. E Dio si lamenta: « Anche il bue è grato all’uomo che lo nutre, anche l’asino riconosce che la stalla è del suo padrone: solo Israele non ha conosciuto me, solo il mio popolo lascia cadere nel deserto la mia voce » ( I s., 1).

d) Voce dei castighi. — Come un padre che ama suo figlio ricorre ai castighi quando non è ubbidito, così il Padre eterno fa con noi. Anche i suoi castighi sono un segno del suo grande e tenero amore. Se la malattia non lo avesse costretto a letto, Ignazio di Loyola forse non sarebbe mai diventato santo. Se una ostinatissima piaga non avesse travagliato Camillo de Lellis, egli non sarebbe forse mai diventato il grande amico degli ammalati. Se la morte non avesse rapito crudelmente il marito a Margherita di Cortona, noi ora non la venereremmo. E se la miseria e la tribolazione non avesse colpito i fratelli di Giuseppe, essi non si sarebbero giammai pentiti del loro peccato orribile ». « Merito hæc patimur, — dicevano, — quia peccavimus in fratrem nostrum » (, XLII, 21). I veri Cristiani che non sono sordi alla voce di Dio così devono dire nei dolori:

« Soffro giustamente, perché ho peccato contro il mio fratello Gesù Cristo ».

1. PREPARARE LA STRADA DEL SIGNORE

La strada per la quale il Signore deve venire nel nostro cuore, al prossimo Natale, ora è impedita, forse, dalle colline del peccato, dalle valli che simboleggiano la mancanza delle buone opere, dai sentieri tortuosi che invece di mirar diritto al fine si perdono nei piaceri e nelle lusinghe del mondo.

  1. a) Abbattiamo i colli del peccato con una sincera confessione.

Sarebbe un’ironia crudele per un Cristiano festeggiare la venuta del Salvatore, mentre il suo cuore è già occupato dal demonio. Una buona confessione dunque! Non come quella di Saul che disse a Samuele: « Ho peccato! » e si sentì rispondere : « Il Signore ti ha rigettato ». perché non era pentito; ma una confessione sincera e dolorosa come quella di David che disse a Nathan: « Ho peccato !» e si sentì rispondere: « Il Signore ha già distrutto il tuo peccato ».

b) Non basta la confessione, se poi non si continua, con le opere buone, a camminare sulla strada intrapresa. Le opere buone che meglio al santo Natale ci preparano sono la preghiera e la elemosina: la preghiera perché senza di essa noi siamo come una città senza difesa; l’elemosina perché in cielo è preferita a qualsiasi penitenza corporale: « Non sapete quale sia il digiuno che io prediligo? dice il Signore Iddio: Spezzare il proprio pane con l’affamato, Albergare i poveri senza asilo, Vestire chi si trova ignudo, Non sottrarsi alle necessità del proprio fratello. Allora la tua luce spunterà come l’aurora… ». (Is., LVIII, 6-8)

c) Ed infine viviamo un po’ più ritirati; amiamo un poco anche noi il deserto, come S. Giovanni Battista. Lontani dai divertimenti pericolosi, lontani dai ritrovi rumorosi, lontani dalle compagnie corrompitrici, noi vivremo dolcemente, cristianamente tra la nostra casa e la nostra chiesa. Senza questa volontà di isolamento, le antiche abitudini cattive ci riprenderanno facilmente. Quando S. Antonio passò da Alessandria, il governatore d’Egitto voleva fermarlo per qualche giorno. Gli rispose il santo: « Capita al monaco quello che capita al pesce: l’uno muore se lascia l’acqua, l’altro muore se lascia la sua solitudine ». Capita anche al Cristiano quello che al pesce: l’uno muore se lascia l’acqua, l’altro muore alla grazia se lascia la solitudine della sua casa e della sua chiesa, e si espone ai pericoli e alle seduzioni del mondo.

CONCLUSIONE

Compariremo un giorno al tribunale di Dio. E Cristo, giudicandoci, ci dirà: « Vieni, o benedetto! Ero pellegrino e mi accogliesti ». « Quando, Signor mio, vi ho incontrato pellegrino per accogliervi? ». «Ti ricordi del Natale 19…? Io camminavo allora sulla terra, e stanco passavo per la strada del tuo cuore. Tu allora hai spianato i colli del peccato con una sincera confessione; tu hai colmato le valli delle omissioni con opere buone; tu hai raddrizzato nella solitudine il sentiero; così ho potuto trascorrere nella tua cara compagnia quella festa santa ».

« Avete ragione, Signore mio buono ».

5.

PREPARAZIONE AL SANTO NATALE

Molti secoli or sono, proprio in questi giorni, una giovane donna e il suo sposo erano in viaggio verso le montagne di Giuda. Venivano da molto lontano, dalla Galilea, e andavano alla città dei loro vecchi, a Betlemme, per dare il nome al gran censimento dell’imperatore Ottaviano Augusto. Una lolla immensa era accorsa in città, per ciò Maria e Giuseppe passarono di porta in porta bussando e chiedendo con lagrime un po’ di posto, invano. Nessuno li accolse. E nella notte, mentre Erode adagiato tra gli ori e la porpora terminava il suntuoso banchetto, mentre per le vie ormai deserte si spegneva l’ultima acclamazione al feroce Idumeo e all’usurpatore Romano, in una stalla nasceva il Re dei re. Perché questo delitto d’ingratitudine più non si rinnovi nel mondo ora che il Re dei re sta per tornare tra noi nel suo Natale, ecco che la Chiesa manda avanti S. Giovanni Battista ad avvisarci di preparare il cuore. « Voce di uno che nel deserto grida: preparate la strada al Signore. Se la via è tortuosa per monti e per valli, colmando le valli e spianando i monti rendetela dritta; se la via è malagevole per triboli e pietre, togliendo ogni scabrosità rendetela liscia… » et erunt prava in directa ed aspera in vias planas. Nella regione selvaggia ove il Giordano precipita nel Mar Morto, il Precursore gridava queste parole; ma il suo monito sorpassa i secoli, sorpassa le vicende degli uomini, il trambusto della vita materiale, la nostra dissipazione e giunge fino a noi: « Voce di uno che nel deserto grida: preparate la via del Signore ». Ormai Gesù sta alla porta dell’anima nostra e bussa. Anche noi, come quei di Betlemme, gli chiuderemo l’uscio in faccia e lo costringeremo a nascere in una stalla? Nessuno vorrà essere crudele così. Ma in che maniera potrà venire dentro di noi se il nostro cuore è una strada impraticabile? Se il peccato vi ha scavato burroni scoscesi e vi ha innalzato greppi rocciosi e nudi? Ecco: una bella Confessione prima del santo Natale colmerà ogni valle e spianerà ogni colle per fare nel nostro cuore uno strada diritta. Et erunt prava in directa. In altri cuori invece la strada per il Signore c’è già, non essendoci il peccato mortale. Però è una strada pietrosa e scomposta che fa sanguinare i piedi al pellegrino: costoro hanno soltanto da lisciarla, col togliere la tiepidezza e i molti attacchi mondani. Et erunt aspera in vias planas. Ecco i due pensieri: I peccatori si devono preparare al Santo Natale col togliere il peccato; I giusti col togliere ogni più piccolo difetto.

1. RADDRIZZARE LA VIA PRAVA: TOGLIERE IL PECCATO

a) In casa vostra, in questi giorni, tutto diventa nitido e profumato: le pareti sono sbiancate, il pavimento è scopato, ogni ragnatela è levata. Anche la cucina del più povero si adorna con qualche ramo di sempreverde alloro, e di qualche frutto colorito. Fra tanto nitore, soltanto l’anima vostra rimarrà nera e sporca di peccato? Fra tanto profumo soltanto l’anima vostra, morta alla grazia, esalerà un fetore cadaverico? No, Cristiani: inutilmente v’affacendate a tergere e abbellire la vostra dimora, quando prima non vi curate di tergere ed abbellire la vostra coscienza!

b) In casa vostra in questi giorni c’è molta abbondanza e un lusso discreto: ognuno si procura abiti nuovi o almeno ben ripuliti; si acquistano carni e vivande squisite, si prepara un vino più vecchio e più schietto, si comperano dolci insueti. Ma, dite, a che vale tutto questo quando l’anima, che di noi è la parte più preziosa, muore di fame e si dispera per la sete? O peccatori, non la sentite dentro di voi l’anima vostra piangere a lungo e singhiozzare pietosamente perché ha fame e ha sete del suo Dio e voi glielo negate crudelmente, e glielo negate anche in questi giorni di feste quando nulla rifiutate al vostro corpo? No, Cristiani: non siate cattivi con l’anima vostra, che è preziosa tanto ed immortale!

c) In casa vostra, in questi giorni, c’è molta letizia. Gli affanni della vita sembrano più leggeri, ogni lavoro par meno pesante: c’è nell’aria una diffusa allegria che si respira con soave piacere. Beate, poi, le famiglie dove ci sono bambini! contano i giorni che ci separano dalla grande solennità, pregano con più innocenza, aspettano i doni, sognano il Pargolo divino che passa… Soltanto il vostro cuore resterà cupo, o peccatori? Soltanto l’anima vostra resterà amara? Perché non diverrete anche voi lieti come i vostri bambini? che cosa vi manca? L’innocenza perduta nel peccato. Ricordate la parola del Vangelo: « Chi non si farà come uno di questi piccoli, non entrerà nel regno dei cieli ». No, Cristiani, non resistete più all’amore di Dio: confessatevi e riavrete la vostra innocenza, e diventerete anche voi, come i vostri figliuoli, lieti. – Forse il demonio vi spaventa col timore delle difficoltà che dovrete affrontare per togliere i vostri peccati, distruggere le vecchie abitudini, ricominciare una vita nuova. Sentite. Camminava Sansone per una strada solitaria e boschiva: ecco un improvviso ruggito, un lampo rossastro, un tonfo. Un grosso leone era balzato fuori dalla selva sulla strada e gli muoveva incontro con negli occhi la brama della sua carne. Fu una lotta tremenda, corpo a corpo, tra l’uomo e la belva. – Sansone era inerme, ma investito dallo Spirito con le sue mani afferrò il leone per la gola e lo strozzò come un capretto. Madido di sudore, macchiato di sangue a lunghi passi proseguì ansimando il cammino. Ma quando ritornò per quella strada, trovo la massa inerme del leone che nella bocca aveva un dolce e profumato favo di miele (Giudici, XIV, 8). Così è anche di voi, o peccatori: è dura la lotta corpo a corpo col demonio e con la passione, ma dopo che avrete vinto, là dove c’era il peccato troverete il miele; e sentirete com’è soave la vita quando si è in grazia di Dio! – Sentirete anche voi, come in quella notte i pastori innocenti, oltrepassare nel cielo di Natale, le schiere angeliche, cantando: «Gloria a Dio nell’altissimo cielo, pace in terra agli uomini di buona volontà ». E potrete dire: « Angeli, anche a me un po’ di pace, perché ora anch’io sono uomo di buona volontà ».

2. LASCIARE LA VIA SCABROSA: PURIFICARCI DALLA TIEPIDEZZA

Ora parlo a quelli che già sono in grazia di Dio.

a) Che cosa sono quei piccoli odi che nutrite contro il vostro vicino? Quella superbia con quelli di casa vostra, quell’antipatia tra cognati e cognati, tra parenti e parenti, che cosa è? È una pietra aguzza sulla strada del vostro cuore, che pungerà i piedi del Bambino Celeste quando verrà. – Orsù toglietela via generosamente. Che importa se la ragione è nostra e il torto è degli altri, che importa se ci toccherà umiliarci, che importa se perderemo del nostro, quando il Signore entrerà volentieri in noi e ci colmerà di grazie eterne che valgono migliaia di volte più di quelle inezie che per suo amore abbiamo sacrificato?

b) Che cosa sono quelle trascuratezze nelle opere di pietà, quell’omettere facilmente il santo Rosario, quella negligenza nel mandar i figliuoli all’Oratorio, quel vivere intere giornate senza una giaculatoria e una comunione spirituale? Sono tutti indizi che il nostro cuore è più attaccato al mondo che a Dio. Bisogna lisciar via i maligni attacchi.

c) Che cosa sono quelle negligenze nel respingere i pensieri cattivi e nel mortificare gli occhi e la lingua, quelle intemperanze nel bere nel mangiare nel fumare? Sono le spine della sensualità che ingombrano la strada su cui Gesù dovrà passare per giungere a noi. Bisogna strapparle. In questi ultimi giorni che ci separano dal Santo Natale sforziamoci con entusiasmo di lisciare la via al Signore, levando ogni più piccola scabrosità e lordura che possa offendere il suo piede o il suo sguardo.

Rosa da Lima si era appassionata con troppa sollecitudine a una pianticella di basilico. All’alba, appena desta, correva ad esporla perché ricevesse i primi raggi umidi di rugiada. Quando il sole montava verso il mezzodì, Rosa pronta la ritirava perché l’eccessivo calore non l’inaridisse. Quando al tramonto le ombre s’allungavano e di lontano ogni montagna s’imporporava, Rosa tornava ad esporla, bramosa che si ristorasse negli ultimi tepori del giorno; ma al sopraggiungere della notte, subito la nascondeva perché le brine troppo fredde non la danneggiassero. Così e in Chiesa, e in cella, e in parlatorio, e in cortile, sempre il pensiero della verde e olezzante pianticella era con lei. Ma una mattina svegliandosi trovò l’amata pianticella divelta e gettata sul suolo a marcire. Non poté trattenere il pianto: « Qual mano — esclamò — fu così invidiosa da troncare la vita ad una pianta così innocente? Perché mi sono affannata a salvarla dalla brina e dall’arsura, se poi doveva finire così? ». Mentre si lamentava, ecco apparirle Gesù. Era mesto negli occhi e senza sorriso: « Non l’invidia, ma Io divelsi il tuo basilico con la mia mano. Potevo forse sopportare che una parte di quell’amore e di quei pensieri che a me sono dovuti, andassero ad una creatura vile com’era la tua pianta? ». O Cristiani, quando nel santo Natale verrà nel nostro cuore, che non sia mesto negli occhi, che non sia senza sorriso! che non trovi dentro di noi pensieri e affetti inutili e pericolosi verso le cose e le persone di quaggiù! Anche un solo peccato veniale potrebbe fargli tanto dispiacere.

CONCLUSIONE

I ladroni Amaleciti erano venuti a predare nei campi del popolo di Israele. Ma nel tumulto della fuga, un povero schiavo abbandonato dal suo padrone perché ammalato, era rimasto disteso sulla nuda terra a morire di febbre e di sfinimento. Ed ecco passarono di là i soldati del re Davide, che lo videro sdraiato nella campagna come un morto. Lo portarono al re, il quale n’ebbe compassione, e ordinò che gli dessero pane da mangiare e acqua da bere, e una parte di fichi e alcuni grappoli d’uva. L’infelice schiavo a poco a poco rinvenne e si ristorò. « Non più schiavo, ma libero sarai. In guerra combatterai al mio fianco da valoroso,, e in pace vivrai onorato con molte ricompense ». Così gli parlò il re Davide, e lo condusse seco a far grande strage di nemici (I Re, XXX, 11-16). Cristiani, lo schiavo Amalecita è un simbolo dell’anima nostra. Essa ha servito il demonio, predatore e assassino dei cuori, e stanca e febbricitante per i peccati e per gli affetti mondani, è rimasta a languire sulla strada della vita. Ma ecco che già viene il nostro re Gesù: viene col suo santo Natale. O Gesù, salvatore! non siate meno pietoso di quello che già Davide fu col suo suddito. Ristorateci col vostro cibo e con la vostra bevanda, riscaldateci con l’alito del vostro amore. Poi conduceteci sempre al vostro fianco: in guerra e in pace: in questa e nell’altra vita.

6.

PER VEDERE IL SIGNORE NEL S. NATALE

E un’altra volta è vicino il Natale del Signore. In questa solennità, alcuni vedono una festa di piacere. Già stanno organizzando veglie danzanti, spettacoli lussuriosi, ricevimenti mondani, e trascorreranno la notte santa in cui il Salvatore venne al mondo per redimerli, nell’ebbrezza dei sensi sprofondando sempre più nel fango e nel peccato. Altri vedono invece nel Natale una festa di benessere corporale. Anche i più poveri per un giorno almeno all’anno possono nutrirsi a sazietà, e con cibi succulenti e con bevande corroboranti; quelli poi che non son poveri imbandiscono la loro mensa con inconsuete e laute vivande. Sicché c’è della gente che tutta questa settimana sarà indaffarata per il pranzo di Natale, senza trovare tranquillità e tempo per pensieri diversi da quelli gastronomici. – Vi sono altri ancora che vedono nel Natale una festa sportiva. Alla vigilia o all’antevigilia, con maglioni e calzettoni per difendersi dal rigore invernale, partiranno per la montagna, a sciare. « Ah che religiosità commovente — dicono — contemplare dalle finestre d’un albergo alpino le stelle della notte natalizia scintillanti sugli abeti coperti di neve! Che senso di pace e di purezza volare tutto il giorno come angeli sui campi immacolati! ». E la Messa di Natale? «Probabilmente non mancherà. Forse verrà lassù un prete a celebrare ». Così tutta la santificazione della grande solennità cristiana si esaurisce in una ipotetica Messa. E nessuno, che non sia maligno, sospetti ipotetiche profanazioni. – Altri infine nel Natale non vedono che una festa di poesia domestica. Nessuno manca della famiglia, anche i lontani son ritornati, almeno per un giorno. È gioia del cuore raccogliersi in casa, dove tutto luccica per la recente pulizia, e arde il fuocherello sul camino, e c’è l’albero fosforescente di candeline e di dolciumi, e c’è il presepio, e c’è qualche fanciullo che declama un complimento in rima stringendo nelle mani i doni del Bambino Gesù. – Ma non è Natale veramente e compitamente cristiano se non quello in cui si vede con la fede il Signore. « E vedrà ogni uomo la salvezza di Dio ». Questo è l’insegnamento che S. Giovanni Battista ci dà nel Vangelo odierno.

Infatti, prima che Gesù incominciasse la vita pubblica, egli si mosse a preparargli la strada, e predicando la penitenza, diceva: « Preparate la via al Signore che viene! Ogni valle si colmi; ogni colle si spiani; ogni tortuosità si rettifichi. Così vedrà ogni uomo la salvezza di Dio ». Bisogna dunque prepararci al Santo Natale in modo tale da meritare di vedere spiritualmente il Signore. Ma per meritare tanta grazia occorre prepararci: con la purità dell’anima; con la bontà delle opere.

Quando a Presburgo, in Ungheria, nel 1207, nacque S. Elisabetta, un poverello malato e cieco s’avvicinò alla culla, e toccando quella bambina riebbe improvvisamente la vista. Se la nascita dei Santi è accompagnata spesso da simili prodigi, maggiori meraviglie può operare in noi la nascita di Colui che è la stessa Santità. E se il peccato ci ha resi miseri e ciechi, avviciniamoci con cuore preparato alla culla del Pargolo divino, e otterremo la grazia di vederlo, adesso, con la fede, e, un giorno, senza veli nella gioia del suo regno.

1. PURITÀ’ DELL’ANIMA

È l’anima che vede Dio; ma per vedere ha bisogno di luce e di igiene.

a) Luce dell’anima è la grazia. Cristiani, che il Santo Natale non vi trovi immersi nelle tenebre. Luminosa è la casa tutta ripulita, luminosi i vostri vestiti nuovi, tutto è luminoso al di fuori: e dentro c’è il buio del peccato mortale? Questo sarebbe un’ipocrisia peggiore di quella dei Farisei che pulivano il piatto all’esterno e nell’interno lo lasciavano insudiciato. « Che unione ci può essere tra la luce e le tenebre, tra il giorno e la notte, tra la vita e la morte? » esclamava S. Paolo; e come può illudersi d’avvicinarsi a Gesù, colui che tiene il peccato sulla coscienza? Gesù è la luce, egli è tenebre; Gesù il giorno, egli è notte; Gesù è la vita, egli è morte.

b) Igiene dell’anima è la custodia dei sensi, specialmente della vista. Chi vuole vedere il Signore con l’anima, preservi gli occhi del corpo dalle mondane vanità. Ci sono dei bambini che mettono in bocca tutto. Quello che scovano negli angoli più remoti della dispensa, quello che viene loro donato per strada o in visita presso qualche famiglia, quello che colgono dalle piante del giardino o a passeggio lungo una siepe. Dopo scontano la vorace imprudenza con dolori lancinanti alle viscere. Milioni e miliardi di microbi ingeriscono, e non sospettano mai che forse tra quelli c’è uno che supererà le forze di resistenza dell’organismo, si moltiplicherà, disgregherà il sangue o i tessuti interni, produrrà la morte. – Ci sono dei figliuoli, delle figliuole, dei giovani, degli uomini che sono peggiori dei bambini. Essi guardano tutto: qualsiasi giornale, cartolina, illustrazione, libro che capiti tra mano; qualsiasi figura reclamistica sui muri della via, o sulle stecconate intorno alle case in costruzione, o nelle luminose vetrine dei negozi; entrano in qualsiasi sala da spettacoli, vedono qualsiasi proiezione. Poi son dolori! Sì, perché gli occhi sono la bocca dell’anima, e l’anima ha pure la sua igiene che va rispettata come e meglio dell’altra per lo stomaco. Perché hanno continuamente l’anima ottenebrata da nuvole dense di pensieri e desideri perversi, e non possono più pregare con gusto e fervorosa attenzione, e non possono più credere con la gioia e la spontaneità di quando erano piccoli? Perché i loro occhi non sono stati custoditi. Bisognerebbe cavar fuori tutte le figuracce vedute, le novelle e i romanzi letti, le scene provocanti dei cinema, le cronache nere, gli scherni religiosi raccolti sui giornali. Siate meticolosi nell’igiene dell’anima! Specialmente in questi giorni d’attesa santa, conservate mondi i vostri occhi, quelli dei vostri figli, perché possano vedere il Signore.

2. BONTÀ DELLE OPERE

Perché l’anima veda Iddio, non basta colmare le valli del peccato con una sincera confessione, non basta spianare ogni ostacolo opaco con la custodia dei sensi: occorre che Dio viva nell’anima con le opere buone.

Verso il Natale del 396, l’ultimo che gli restava da vivere in terra, S. Ambrogio si sentiva stanco e alla fine delle sue eroiche fatiche, ma aveva il cuore pieno d’una pace vasta e serena com’è quella del colono quando in certe domeniche d’autunno contempla beato la sua campagna colma di frutti, mentre in lontananza campane suonano a distesa. In quei giorni appunto, a Paolino il suo fedele segretario, dettava queste parole: «Cristo vive in me: cioè, vive quel Pane vivo che discese dal cielo e nacque a Betlemme, vive la sua carità, vive la sua pace, vive la sua giustizia, vive la sua sapienza ». Mirabili espressioni, che ci suggeriscono con quali buone opere Cristo deve nascere in noi nel prossimo Natale. Vive in me quel Pane vivo; La prima opera, la più bella e cara a Lui che sta per venire, è la santa Comunione. I pastori si ritennero fortunatissimi in quella notte in cui lo poterono vedere e forse baciare. I re magi fecero lunghissimo e pericoloso viaggio per poterlo trovare. Il vecchio Simeone per i molti anni di sua vita non desiderò altro, e come lo poté stringere tra le sue braccia tremanti, disse che non gli importava di morire, perché il suo cuore non chiedeva più nulla. La gioia dei pastori, dei magi, di Simeone, ci è vicina: perché non ne approfitteremo? È vero che siamo peccatori e oppressi d’infinite miserie; però se un rincrescimento profondo delle nostre colpe, se un desiderio vivo di farci più puri per più vedere il Signore c’è dentro di noi, quel Dio che venne al mondo in una stalla, non sdegnerà il nostro povero cuore.

Vive in me la sua carità: Non può gustare il Natale cristiano chi si priva della consolazione di fare, in questi giorni un po’ di carità, con le opere di misericordia corporali o spirituali. I poveri pastori e i ricchi magi non si presentarono a mani vuote al Celeste Bambino, ma ciascuno con un dono proporzionato alla propria condizione: agnellini, frutti agresti, formelline di tenero cacio erano i doni dei poveri; oro, incenso, mirra erano i doni dei re. Così tutti noi, poveri e ricchi, dobbiamo avvicinarci alla culla di Gesù col nostro dono proporzionato. È dato al Dio nato poverissimo e inerme tutto quanto è donato senza ostentazione ai poveri e agli infermi.

Vive in me la sua pace: Colui che nasce fu vaticinato come il Principe della pace. Egli stesso ha detto : « Io vi dono la mia pace: ma non ve la dono come fa il mondo » (Giov., XIV, 27). Il mondo, quando vuol sembrare buono, fa la pace con quei che la meritano; i Cristiani, che vogliono essere buoni, fanno pace con tutti, anche con quelli che non la meritano, e da cui sono stati offesi. Perciò nessuna scusa, è valevole, nessuna ragione è plausibile, perché tra noi si conservi anche un solo rancore durante il santo Natale.

Vive in me la sua giustizia: Quand’Egli nacque gli Angeli dissero agli uomini: « Non temete più: vi annunciamo una grande gioia ». Ora che il suo Natale ritorna, c’è forse qualcuno che non può gioire per colpa nostra? Nessuno dei nostri fratelli può accusarci d’ingiustizia nei danari, nella roba, nei commerci, nei contratti, nei debiti e nei crediti. Non abbiamo nulla con noi che invoca il suo legittimo padrone?

Vive in me la sua sapienza: Ascoltiamo e meditiamo volentieri in questi giorni santi la parola di Dio per poter capire qualche cosa almeno dell’infinita sapienza nascosta nel mistero della natività del Salvatore. Se il tempo e l’occasione si trova, leggete nel Vangelo il racconto della nascita di Gesù, così lo potrete raccontare alla sera ai vostri figliuoli, che sono avidissimi d’ascoltarlo dalle vostre labbra.

CONCLUSIONE

Un giorno Napoleone passava in rivista le sue truppe. Un umile soldato anziano attirò il suo sguardo, per alcune cicatrici che gli apparivano sul volto. L’imperatore si fermò davanti a lui, e, con un gesto consueto gli pose una mano sulla spalla; poi, guardandolo negli occhi gli rivolse brevissime domande.

« Tu, a Ulm? ». « C’ero ».

« A Austerlitz? ». « C’ero ».

« A Iena? ». « C’ero ».

_ « A Wagram? ». « C’ero ».

« A Dresda? ». « C’ero ».

« Bene, capitano ! ».

L’altro, ch’era soltanto soldato, voleva correggere il grado, credendo fosse uno sbaglio. Ma l’imperatore, senza correggersi, aggiunse: « Capitano, decreto per voi la grande croce della legione d’onore ». – Quando, preparate le strade secondo il consiglio di Giovanni Battista, il nostro Re divino giungerà nel santo suo Natale e passerà in rivista i suoi fedeli, felice colui che potrà rispondere alle sue domande franco e ardito come quel soldato napoleonico.

« Alla Messa festiva? ». « C’ero ».

« Alla dottrina cristiana? ». « C’ero ».

« Al confessionale? ». « C’ero ».

« Alla balaustra? ». « C’ero ».

« Nella resistenza aspra contro le tentazioni? ». « C’ero ».

« Nella professione coraggiosa della fede in faccia a chiunque? ».

« C’ero ».

« Bene, servo buono e valoroso: perché nel poco sei stato fedele, ti darò autorità su molto: e verrai nella gioia del tuo Re ».

MEDITAZIONE PER L’AVVENTO 2018 [A Meditation on Advent 2018 A. D.]

A Meditation on Advent 2018 A.D.

On the Sunday, December 2nd, the new Advent Season has begun.

All of us, who belong to the Church Militant, during twenty three days, will be waiting for the New Born Savior’s Coming.

Do we remember what the purpose of Our Lord Jesus Christ’s First Coming is?

The purpose of Our Lord Jesus Christ’s First Coming is to show us that God did not abandon man after he fell into sin, and God Himself came down to “save his people from their sins”.

Do we remember what sin is, and what we lose by committing mortal sin?

Sin is a wilful violation of the divine law, and by committing mortal sin, we lose the grace of God and eternal salvation. Sin separates us from God, but God wants us to stay united with Him, not only in this world, but also in the world to come. To unite us with God, He sent Jesus Christ, the only-begotten Son of God, true God of true God, Who is “hungry” for our eternal salvation.

So, let us be “hungry”, not for mortal sin, but for eternal salvation, our own and our neighbors.

Let us be militant, not against our neighbors, but against our sins. And as God forgives us our debts, let us also forgive our debtors.

Let us be waiting for Our Savior’s Coming, by preparing ourselves for a good Confession, in order to unite ourselves with Him, in Holy Communion and in a state of grace.

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Meditazione per l’AVVENTO 2018

Domenica 2 dicembre è iniziato l’attuale tempo di Avvento.

Tutti noi che apparteniamo alla “Chiesa militante”, nei prossimi 23 giorni, aspetteremo la Venuta del Salvatore Neonato.

– Ricordiamo qual è stato lo scopo di questa prima venuta del nostro Signore Gesù Cristo?

Lo scopo della prima venuta di nostro Signore Gesù Cristo è quello di dimostrarci che Dio non ha affatto abbandonato l’uomo dopo la sua caduta nel peccato, tanto che Dio stesso è sceso per “salvare il suo popolo dai suoi peccati“.

– Ricordiamo cosa sia il peccato e cosa perdiamo commettendo un peccato mortale?

Il peccato è una grave violazione della legge divina, e pertanto commettendo un peccato mortale, perdiamo la grazia di Dio e la salvezza eterna. Il peccato ci separa da Dio, ma Dio vuole che rimaniamo uniti a Lui in questo mondo e nel mondo a venire. Per unirci a Dio, Egli ha inviato Gesù Cristo, l’Unigenito Figlio di Dio, Dio vero  da Dio vero , che “ha fame” della nostra  eterna salvezza.

Quindi, vediamo di essere “affamati” non del peccato mortale, ma della eterna salvezza nostra e del nostro prossimo.

Cerchiamo di essere militanti, non contro il nostro prossimo, ma contro i nostri peccati. E come Dio perdona i nostri debiti, perdoniamo anche noi ai nostri debitori.

Aspettiamo la Venuta del nostro Salvatore, preparandoci ad una buona Confessione, per unirci con Lui nella Santa Comunione alla Messa di Natale .

Fr. UK

(Sacerdote della Chiesa eclissata)

 

IL PAPA IN ESILIO ED IL PAPA IMPEDITO

[Secondo Franco: RISPOSTE POPOLARI ALLE OBIEZIONI PIU’ COMUNI CONTRO LA RELIGIONE – Vol. PRIMO, Coll. Artigianelli, Torino, 1889, imprim.]

CAPO XL

1. Se il Papa sia veramente prigioniero.

2. Se le guarentigie valgano a guarentirlo.

Quando scrissi i capi antecedenti il Papa era già spogliato di alcune sue provincie e minacciato delle rimanenti, ma nel mettere che fo sotto il torchio la presente edizione, il latrocinio totale è consumato, ed il sommo Pontefice è privo di ogni podestà regia. Noi dicevamo che, toltagli questa, ei non poteva essere che uno schiavo, ed ora è luogo di osservare se ci siamo apposti al vero o abbiamo ragionato assennatamente. Sappiam bene che gli usurpatori dei suoi Stati, aggiungendo al danno la beffa, ridono della prigionia pontificia, e per isfatarla mostrano il palazzo splendido che gli hanno assegnato, i milioni che come ricco appannaggio gli hanno offerto, le leggi che hanno sancito per guarentigia del suo sacro ministero: e tanto esagerano questa loro liberalità da far credere a certi zoticoni che veramente la prigionia del Papa è una fiaba e persuadere a parecchi Governi (che del resto hanno una voglia matta di essere persuasi) che nulla manca al Capo della Chiesa di quanto può essere necessario all’adempimento del suo alto uffizio. – La verità però è questa: che quanto i Cattolici avevano predetto dover avvenire al sommo Pontefice, se gli fosse stato tolto il temporale dominio, tutto si è avverato al di là delle loro previsioni, e come è sommamente necessario che tutti ne siano convinti, cosi vediamolo brevemente.

  1. È dunque vero o falso che il Papa sia prigioniero? Sì è prigioniero, anzi questa parola non rende abbastanza il concetto per cui è adoperata. Il sommo Pontefice si espresse esattamente quando disse d’essere in balìa di una nemica podestà, sub hostili potestate constitutus. Imperocché meno è l’essere prigioniero che stare nelle mani di un nemico. La pubblica autorità quando ha soddisfatto alla legge condannando un reo alla carcere, non ha e non debbe esercitare con lui ostilità di sorta. Può anzi e deve, salva la pena a cui l’ha condannato la legge, usargli trattamenti, compassione e perfino quegli alleviamenti che un’ordinata carità prescrive e consiglia. Laddove chi sta nelle mani di un nemico non può aspettarsi altro che quello che l’odio e la passione sanno suggerire. Or questo è proprio tutto il caso del sommo Pontefice, voglialo o no la perfidia di quelli che l’hanno accerchiato. E si parrà chiaro solo che si consideri la differenza che passa fra quello che costituisce la libertà di un privato e quella che è richiesta al sommo Pontefice. Un privato non può reputarsi prigioniero quando abbia libertà di muoversi per una città ed anche di viaggiare in paesi stranieri, quando possa usare dei diritti comuni a tutti i cittadini di disporre della propria persona, di giovarsi dei tribunali per far valere i suoi diritti e per cessarsi le molestie ed i soprusi, quando abbia rendite non solo bastevoli ma pure abbondanti: e chi, godendo questi diritti, rimpiangesse la sua perduta libertà, si dichiarasse vittima de’ suoi nemici, moverebbe a riso e si farebbe stimare poco meno che fuor di cervello. Ma è tutt’altro il caso del sommo Pontefice. Quando si tratta di lui non si parla dell’uomo privato, si parla dell’uomo pubblico, si parla del Pontefice supremo in quanto è tale. Ora se è in istato di esercitare tutti i suoi ministeri, è libero veramente: se è inceppato in questi, a tutto rigore di verità egli è schiavo.Quali sono i suoi doveri? Egli è capo della Cristianità e capo che ha tal connessione colle membra che queste disgiunte da lui non hanno più vigore né vita soprannaturale. Quindi deve aver comunicazione libera co’ suoi soggetti ed i suoi soggetti debbono aver comunicazione libera con lui. Ha il Papa presentemente questa libertà di comunicazione? Inchiavellato nel regno d’Italia, le poste, i telegrafi, i vapori che sono i mezzi di comunicazione unici e soli, in mano di chi stanno? Certamente non in mano sua. Se il Governo italiano vuole intercettargli le lettere, sopprimergli i telegrammi, visitare i vapori che portano le sue ambasciate, i suoi ordini, chi gliel divieta efficacemente? Accadeva ben talvolta anche prima che un Governo estero nemico alla Chiesa, arrestasse a’ suoi confini gli ordini di Roma: ma il Pontefice pubblicandoli nel suo Stato, li rendeva noti ed obbligatorii dovechessia: ora che cosa farà? Eppure non abbiamo ancora visto il caso tutt’altro che impossibile ad avvenire, del Governo italiano in rotta ed in guerra con qualche altra nazione. Come farebbero allora questi nemici d’Italia a trattare col sommo Pontefice? Come si recherebbero a Roma, con qual facilità, con qual sicurezza, e di rincontro qual libertà avrebbe il Pontefice in tutti quei provvedimenti che avesse da prendere rispetto a quella nazione? In tutti questi incontri così facili ad avvenire dove andrebbe a parare la libertà del Vicario di Cristo?Inoltre il Papa è giudice supremo della fede e della morale, e questo titolo non importa solo risoluzione delle controversie che si sollevano a quando a quando sopra l’intelligenza d’una o di un’altra verità cristiana: ma importa vigilanza continua sopra la dottrina che s’insegna nei trattati messi a stampa, che si dà nelle scuole e nei seminari chiericali soprattutto, che si dimostra nella professione esterna delle credenze dal popolo cristiano. Si consideri per poco la vastità delle cognizioni d’ogni sorta che a ciò si richiedono, l’estensione del lavoro che vi ha trattandosi di tutta la cristianità divisa in tante lingue e tanti paesi, e si comprenderà quanta sia la necessità di dottori, di consultori, di congregazioni, di ufficiali d’ogni ragione per attendere ad opera così vasta. Il sommo Pontefice al presente possiede la libertà necessaria per formare cotesti uomini, per ispesarli, per giovarsene secondochè richiede l’uffizio suo?Il Pontefice è l’evangelizzatore del mondo. Niuno sarà per negare che al Vicario di Cristo sia detto principalmente Andate ed insegnate a tutte le Genti, poiché a lui spetta il dare la missione legittima agl’inviati. Del mondo sin quì conosciuto tre quarte parti giacciono ancora nell’ombra della morte e quindi aspettano dalla cattedra di Pietro l’avviamento all’eterna salute. Ma donde sceglie per ordinario il sommo Pontefice i suoi pacifici conquistatori? Li toglie dal clero vuoi secolare vuoi regolare, ma da questo secondo principalmente. E la ragione è chiara. Il clero secolare, come quello che nelle città e nei paesi cattolici porta il pondus diei et cestus del ministero quotidiano delle parrocchie, non è cosi libero a volare in paesi lontani. Laddove il clero regolare, sciolto per ordinario dalla cura delle parrocchie, si volge con tutto l’ardore al ministero dell’evangelizzazione dei paesi infedeli. Come i monaci hanno evangelizzato a lor tempo la Bretagna, le Gallie, la Germania, la Danimarca, la Svezia e quasi tutta l’Europa, cosi i religiosi del secolo decimosesto e decimosettimo hanno evangelizzato il Brasile, il Perù, il Messico e pressoché tutta l’America allora abitata. Ma lo stesso avviene ai di nostri. Le Missioni della Cina, delle Indie, dell’Africa, dell’Oceania, fatta qualche rara eccezione, son tutte in mano dei religiosi. Ond’è che il sommo Pontefice dalla sua Roma per mezzo dei superiori tutte le dirigeva ed amministrava. Ma, spenti i religiosi e tolti di mezzo i Capi d’Ordine, non si troverà il sommo Pontefice troncate le braccia per l’opera maggiore che Iddio gli abbia commessa sopra la terra? Già sin d’ora parecchie di queste Missioni se ne risentono grandemente.Dove si richiedevano dieci, venti missionari, non se ne trova più che qualcuno, e non solo non si procede ad acquisti novelli di anime, ma non si possono mantenere i già fatti. Eppure siamo solo ai principii della bufera. Che cosa sarà quando per questo stato di cose più prolungato, siano venute meno le vocazioni, sia stata impedita la formazione dei missionarii? Quale immensa rovina per le anime! quale violenza fatta alla Chiesa di Cristo! Certo a qualche ministro miscredente, a qualche deputato frammassone non turberà i sonni che i barbari rimangano barbari, che gli antropofagi continuino tra di sé a divorarsi, perché si sa quel che vale la loro filantropia. Ma il sommo Pontefice che vede e sente con la carità di Cristo il peso di quella barbarie e soprattutto la perdita di quelle anime, non ha forse ragione di gemere e dichiararsi costituito sotto una autorità ostile, quando si vede spogliato violentemente di tutti que’ mezzi che gli sono assolutamente necessari per riparare tanti mali? Il sommo Pontefice è il Capo del culto che la terra deve rendere al Cielo; culto che non si disfoga solo cogli atti di ossequio che si rendono direttamente alla divinità, quali sono la fede, la retta adorazione, il sacrificio, ma che abbraccia tutte le virtù onde l’uomo si rende meno indegno di Dio, tutte le opere che dall’indole stessa delle credenze fioriscono in quelli che le professano sinceramente. Di quanti ministri avrà dunque bisogno? di quanto magistero di uomini probi e sapienti? di quanto esercizio di opere pie d’ogni maniera? Or tutto ciò gli è reso pressoché impossibile. I Cristiani non nascono Cristiani, dicevano gli antichi, ma si formano tali: molto meno si nasce dottore, teologo, uomo di senno e di pietà: è dunque d’uopo di formarli con la pietà nell’educazione e con la dottrina. Qual mezzo è stato lasciato al sommo Pontefice per sì difficile impresa? Aveva egli due Università, che per le scienze civili stavan al pari di qualunque studio più eletto, per le scienze sacre erano le prime del mondo, vo’ dire la Sapienza, e l’Università Gregoriana sotto il nome di Collegio Romano. Questa gliel hanno sbandata e soppressa, quella gliel hanno ritolta e contaminata. Il Papa non ha più uno Studio, dove far insegnare solennemente la scienza della fede e cristianamente le scienze civili. E tutta quella gioventù che ivi accorreva, che ivi si formava alle scienze dei sacri canoni, della teologia, delle sante Scritture, della polemica, che forniva poi alle Congregazioni, al governo della Chiesa, la copia necessaria di sapienti sacerdoti, consultori e prelati, tutta quella gioventù dove è andata? È scomparsa del tutto. Rimangono alcuni Collegi particolari che, come appartenenti a nazioni estere, se poterono essere molestati, spogliati a mezzo delle rendite, non poterono essere soppressi. Ma qual prò dell’averli se a mano a mano siano privi di quei professori illustri che già vi attraevano tanta gioventù, e se per la confusione delle cose umane e divine che regna in Roma, riesce pericoloso il mandarveli? Ora io non so che cosa possa parerne ad altri, ma a me sembra pur qualche cosa che il Maestro delle nazioni sia condannato a non potere aprire uno Studio secondo la legge cristiana. E pel culto cattolico che cosa può fare? Avrebbe debito di promuoverlo col lustro delle sacre funzioni con la riverenza mantenuta ai sacri ministri, col non tollerar nulla che gli riuscisse di spregio. Si, ma si provi il Papa a bandire una processione, a prescrivere una solennità, a promuovere una mostra esterna di fede senza che se ne impensierisca il Governo, senza che ne impedisca tutto quello che è esteriore: sono poliziotti, sono gendarmi, sono guardie di ogni colore e di ogni nome, che hanno sempre qualche pretesto per infierire contro i fedeli sin nelle chiese, come avvenne al Gesù ed in S. Pietro. La libertà, la protezione, il favore è tutto riserbato per gli eterodossi, pei dileggiatori delle cose sante, per i frammassoni che accompagnano i loro frammassoni alla tomba, per le mascherate che deridono sacrilegamente le persone e le cerimonie di santa Chiesa. All’ombra dell’attuale Governo, le sètte più luride che appestino Europa ed America poterono ergere oltre a dodici sinagoghe nella città del Vicario di Cristo in pochi anni. Son pure fatti che significano qualche cosa.Non parlo delle Opere Pie che sono l’esplicamento naturale della fede di Gesù Cristo, opere che dal Papa debbono essere sopravvegliate, rette, amministrate da lui essenzialmente: perocché è chiaro che il Papa nella Roma di oggidì non può non dico fare un regolamento per un ospedale, dare una norma per un orfanotrofio, divisare un provvedimento per i poveri, ma non può mutare un inserviente scandaloso, od un direttore inetto in qualsiasi amministrazione di carità dalla Chiesa istituita e mantenuta. Or tutte queste prodezze della rivoluzione a taluni paiono la cosa più naturale del mondo, ma chi sa che non abbiano tutto il torto quelli che la reputano una violenza atroce fatta ai diritti di Gesù Cristo e di santa Chiesa?Finalmente, per restringere tutto in poche parole, ecco quali sono le condizioni che la rivoluzione in Italia ha fatte al sommo Pontefice. Il Papa ha stretta obbligazione di attuare tutte le istituzioni che Cristo ha poste nella sua Chiesa, e prima che in qualsivoglia altro luogo, conviene al suo decoro che le venga attuando nella sua diocesi propria. Ora nella stessa sua Roma egli è costretto a vedere coi propri occhi impunemente ed efficacemente manomessa, impedita, proscritta la professione dei consigli evangelici. Egli ha debito di governare tutte le nazioni cristiane indirizzandole al termine dell’eterna salvezza: e proprio nella sua Roma ha da sostenere la sottrazione di tutti i mezzi materiali e morali che sono richiesti ad opera così vasta. Egli ha debito di ammaestrare tutte le genti e soprattutto i pargoli: e deve vedere con i suoi occhi strappato il popolo ed i pargoli al suo insegnamento, perché sia dato in preda a turbe di maestri corrotti e corrompitori di ogni sano principio e di ogni buon costume nella stessa sua Roma. Egli ha obbligo di impedire gli scandali per quanto può privati e pubblici che contaminano i grandi ed i piccoli nelle città e nei regni: ed è costretto a sostenere nella sua Roma gli scandali più infami contro la fede e la morale nei teatri e nelle feste pubbliche. Egli ha obbligo, come Maestro dei Cristiani, di proibire la stampa rea vuoi dei giornali, vuoi dei libri; ed è costretto a vedere nella sua Roma una turba di giornalisti, di romanzieri, di pubblicisti di ogni fatta che impugnano la esistenza di Dio, la divinità di Cristo, e fino le leggi stesse della natura. Egli ha obbligo di mantener in fiore il culto divino, la solennità delle sacre funzioni, la riverenza ai ministri dell’altare, perché non si diminuisca il concetto verso le cose sante: ed ha da vedere nella sua Roma impedite le funzioni esterne della Chiesa, trascinati ai tribunali i suoi sacerdoti e la sua stessa persona travolta nel fango perfino dai deputati del parlamento. Insomma egli è il Vicario di Cristo, Sposo di santa Chiesa, Padre di tutti i credenti, Clavigero del regno dei Cieli, e là dove Cristo lo ha collocato ad esercitare sì eccelsi uffici deve vedere, impotente a rimediarvi, ergersi templi di falso culto, dilacerarsi la Chiesa, strapparsi dal seno delle verità i suoi figliuoli e chiudersi per anime senza numero la via del cielo.Sono vere o sono false tutte queste accuse? Se sono vere, come è manifesto, altro che prigioniero deve dirsi il sommo Pontefice, esso è fra le catene di una tirannia che lo odia, che lo beffeggia, che l’avversa, che lo inceppa in tutto quello che è più essenziale al suo ministero. Hanno pertanto buon garbo davvero quei grandi uomini che si fanno le grasse risa sopra il sommo Pontefice, quando si dichiara posto sotto autorità che gli è nemica: e garbo anche maggiore ha Giulio Simon presidente del ministero di Francia, quando dall’alto della sua presidenza ministeriale definisce ex tripode in servigio della rivoluzione che al Papa nulla manca di quanto gli è necessario al governo di santa Chiesa. Resterebbe solo a chiedergli per isfogo di una giusta curiosità, quale scopo abbia questa sua dichiarazione. E balordaggine che nulla vede? Non si può supporre neppure in un ministro rivoluzionario. E viltà d’animo per attirarsi le simpatie del Governo italiano? La Francia non è ancora caduta si basso da mendicare la protezione dell’Italia. Vuole egli beffarsi dei Cattolici dell’universo? È impresa a cui non si riesce. Vuole sfogare contro la Chiesa la bile frammassonica che lo divora? si scopre troppo da se medesimo. Che cosa sarà adunque? un effetto di tutte queste cause riunite insieme? Lo risolva il lettore. – Io passo ad aggiungere un’altra osservazione, ed è che, stando in questi termini le cose, il Papa, anche quanto alla sua persona, è a tutto rigore di verità prigioniero. E vaglia la verità a che serve il dire al Papa che esca dal suo palazzo, che dispieghi in pubblico la maestà delle sue funzioni, che respiri e goda le aure della libertà introdotta in Roma, quando non solo non è assicurato che gli verrà mantenuta la riverenza dovuta al suo grado, ma è moralmente certo che gli sarà perduto ogni rispetto e sarà fatto segno di ogni insulto più grave? E se il cielo vi salvi, non gli fu promessa dalla rivoluzione l’inviolabilità della persona come a sovrano monarca? Or bene, non è piena Roma delle caricature più luride ed oscene contro la maestà del Pontefice? E quando il Governo ne ha impedito l’esposizione e la vendita? Non sono stati gli atti della sua autorità dichiarati fuori di ogni sindacato? Eppure qual è quel giornalista cosi oscuro che non faccia risalire sino alla persona di lui le critiche più virulente ed amare? Qual è quel deputato cotanto abietto che, svillaneggiando nel parlamento di Roma il Vicario di Gesù Cristo, non ottenga gli applausi dei suoi onorandi colleghi? E quando di tutto ciò o camere, o ministri fecero risentimento? Più, la stessa sua persona non fu esposta a pubblico strazio in mascherate solenni, in orge popolari sotto gli occhi delle milizie che lasciavan fare; della polizia che batteva palma a palma? E dopo tutti questi fatti, avvenuti al cospetto di tutta Europa, trarranno innanzi con le mani piegate e col collo torto i nostri dabben liberali ad esclamare: Oh perché il Papa non si mostra in pubblico, oh perché i Gesuiti ce lo sequestrano? Perché lo rapiscono al nostro amore, alle nostre ovazioni? Ah tristi ed imbecilli, rispondete una parola se l’avete. Un Governo che lo protegge si efficacemente in tutte queste cose si gravi, dà fiducia che lo proteggerà meglio nella sua persona? Lo proteggerà in quelle strade in cui l’ha lasciato calpestare in effigie? In quelle chiese dove ha mandato i suoi soldati a percuotere i fedeli? Su quelle piazze dove ha imprigionato chi lo applaudiva? Che i cattolici siano semplici è bene, poiché cosi l’ha consigliato il Maestro divino, ma che siano stupidi da non comprendere le cose più chiare, niuno l’ha mai consigliato: anzi ci fu comandato di accoppiare alla semplicità la prudenza. Che però non crediamo a costoro che orde di popolani che il Governo ha sedotte per averle complici, a cui ha persuaso lungamente nelle conventicole operaie e nelle congreghe frammassoniche, il Papa essere il gran nemico d’Italia, che non hanno a temere per qualunque loro eccesso repressione di sorta, non crediamo, lo ripeto, che siano per riverirne la persona, riconoscerne la dignità. Noi non lo crediamo e con noi non lo crede il sommo Pontefice, non lo crede il sacro Collegio dei Cardinali, non lo credono quanti sono Cattolici sinceri: e tutti trovano necessario che la più grande autorità che sia al mondo, non si getti tra le mani ad agli insulti degli empi suoi nemici, e non si affidi alla discrezione di tali che stanno dando saggio di si squisita discrezione. Il perché rimane evidente fino a tanto che egli è per tal modo sotto la podestà de’ suoi nemici, è anche prigioniero nella sua persona.

II. Ma vi è la legge delle guarentigie che assicura al sommo Pontefice la libertà. Piano, che non v’è proprio nulla che assicuri nulla. Nei capi antecedenti abbiamo dimostrato che la rivoluzione non poteva, non voleva dare al Vicario di Cristo libertà alcuna: qui soggiungiamo che di fatto non l’ha data, e confermeremo che né può né vuole darla minimamente. Che non l’abbia data è manifesto da quanto abbiamo ragionato testé. Con tutte le guarentigie del mondo, al Papa sono state tolte di fatto tutte le libertà sopradescritte e tutte essenzialissime al suo ministero. Insegnamento ne’ collegi e nelle università, Ordini religiosi, possibilità di formar chierici, sacerdoti, consultori, ministri per le molteplici necessità della Chiesa, Opere Pie d’ogni ragione, tutto gli è stato Alla sua persona fu tolto il palazzo del Quirinale, la sede dei Conclavi, la inviolabilità dalle critiche e dagli oltraggi. In che si risolvono adunque le guarentigie? In nulla.E non potevano risolversi in altro, poiché esse sono in se stesse un assurdo. Infatti, perché fossero qualche cosa, esse dovrebbero essere un’assicurazione fatta al mondo cristiano che il sommo Pontefice mai non verrà spogliato di quei diritti che sono essenziali al suo ufficio. Ora a chi è stata fatta questa assicurazione? al Papa? No, perché gli si diede quello che si volle, senza che egli fosse consultato e con lui non si contrasse verun impegno. È una convenzione fatta con le Potenze cattoliche, con le quali si sia stretto un contratto bilaterale? Neppure. Le Potenze conobbero la legge detta delle guarentigie dai giornali, non la stipularono, si rifiutarono persino a riconoscerla. Hanno qualche consistenza almeno nella natura dell’atto con cui si è stabilita? Tutto il contrario, sono una legge fatta dal parlamento, e sotto di un ministero, che può essere attenuata od abrogata da qual si voglia ministero e parlamento. Chiamare adunque guarentigie, assicurazioni un tal atto, non è che un pigliarsi gabbo dei Cattolici ed al danno aggiunger le beffe. – Come dunque si condusse la rivoluzione a questo atto? Ebbe le sue belle e buone ragioni. Per quanto losca d’ingegno, capì la framassoneria che il mondo cattolico aveva diritto sulla libertà del suo Capo supremo, temé che i Governi potessero prendere le parti dei loro sudditi Cattolici e farne risentimento: quindi pose le mani avanti, finse di riconoscere la necessità del Pontefice libero, tolse anzi sopra di sé il provvedervi, e con la gherminella delle guarentigie l’accoccò a quei balordi che si appagano delle apparenze, e contentò quelli che principalmente volevano confiscato il temporale, perché fosse atterrata l’autorità spirituale. Nel qual tranello però si vede tutta l’iniquità degli usurpatori del temporale dominio del Pontefice. Imperocché se essi stessi riconoscono che il Papa ha diritto alla sua indipendenza, che i popoli cristiani possono insorgere per tutelarli, come è che poi credono di soddisfare a diritti reali con un dono grazioso di semplice cortesia? Eppure le guarentigie sancite per il Papa non sono altro che una cortesia del Governo italiano. Lo hanno detto mille volte i nostri supremi legislatori, quando hanno ventilato quelle magnanime loro concessioni. Lo hanno ripetuto quando hanno affermato che, come il Governo le ha concedute, cosi le può sminuire, abrogare secondo l’opportunità ed il bisogno. Quindi, mentre da una parte concedendole, vengono a riconoscere che il Pontefice ha diritto ad averle, dall’altra pretendendo di menomarle ed abrogarle a talento, vengono a confessare che ai diritti di lui non portano verun rispetto. Or la Cristianità potrà mai tollerare in pace che il suo Capo, il Vicario di Cristo sia trattato cosi indegnamente? Quando il Governo italiano usasse ogni più squisito riguardo al Papa, ancora non sarebbe tollerabile che il Papa gli fosse soggetto: perocché ai fedeli non basta che il loro Padre sia trattato convenientemente per cortesia dell’uno o dell’altro, ha diritto che sia assicurata la libertà di lui da ben altro che dal buon volere d’un ministro o di un principe. Niuno accetta a titolo di grazia quello a cui ha diritto. E se venisse fuori una legge che vi desse facoltà di mangiare, di bevere e vestir panni, voi ridereste della legge e del legislatore, perché a quelle opere avete diritto, senza che vi metta il naso nessun magistrato, dalla stessa legge naturale e divina. Or similmente il mondo cristiano non vuole che il Vicario di Cristo sia libero nelle sue attribuzioni per concessione di Nicotera o di Depretis, ma il vuole in quel modo e per quelle ragioni per cui l’ha fatto libero il divin Redentore. Molto più che, qualunque siasi il Governo italiano e quali che siano i ministri che lo reggono ed i parlamenti che vi fanno le leggi, non saranno poi mai altro che nemici personali del romano Pontefice. Essi medesimi vantandosene hanno detto e più volte replicato che sono tutti rivoluzionari, che è quanto dire vecchi cospiratori, fondiglia di società frammassoniche scomunicate da Santa Chiesa, che hanno pescato in tutte le rivolte degli anni scorsi, come lo dichiarano i loro nomi e le loro gesta. Fatta qualche rara eccezione di pochi illusi che s’imbrancano in quelle file perché non intendono l’obbedienza Cattolica, la grande maggioranza di essi sono uomini senza fede, senza Religione, amici e fautori di ogni culto purché non sia Cattolico, nemici e disapprovatori d’ogni pratica religiosa solo che sia cristiana. Né questo è un calunniarli, poiché i libri che parecchi di loro hanno stampato, ed i discorsi che pubblicamente hanno tenuto, e l’approvazione con cui hanno accolto quelli che li tenevano, lo tolgono di ogni dubbio. Quindi né sono, né possono essere che nemici personali del Vicario di Cristo, quando sono cosi avversi a quella Religione di cui egli è il Capo supremo. Ed a chi ancora ne dubitasse potremmo dire: aprite dunque una volta gli occhi e vedete quel che da venti e più anni a questa parte hanno fatto. Quale delle libertà cattoliche non hanno osteggiata, assalita e inceppata per quanto era in loro? come hanno tolta al Papa la libertà, cosi hanno incagliata l’opera dei Vescovi e dei sacerdoti. Se trovano questi ligi al loro pensare li armano e sostengono contro dei Vescovi, se li trovano contrarli, negano loro fin gli ultimi avanzi delle rendite non ancor confiscate. I Capitoli dei canonici altri totalmente soppressi, altri diminuiti di numero e di entrate. Le doti dei seminari messe all’incanto. Gli atti di culto pubblico attraversati, l’esercito senza cappellani, i preti sotto la leva militare, le scuole senza Catechismo ed obbligatorie, il matrimonio dissacrato, i Cattolici sinceri tolti spesso d’impiego, gli empi posti in onore, le rendite delle Opere Pie parte confiscate, parte stornate dal loro scopo, parte dissipate per impinguare una turba di amministratori, pressoché tutte tolte di mano al clero. Ogni giorno che passa porta a Cristo un nuovo affronto, alla Chiesa una nuova ferita, alla Religione Cattolica un nuovo sfregio, al popolo cristiano un nuovo ostacolo al bene, ed il Governo spesso d’accordo coi municipi che ha formato a sua somiglianza, fa quanto può per distruggere ed annientare il Cattolicismo. Pertanto se questi son fatti innegabili a chiunque abbia mente per intendere, occhi per vedere, riesce manifesto che gli autori di sì gloriose imprese non possono non essere sommamente avversi al romano Pontefice. Ora gli è proprio a questa genia malnata di atei, di deisti, di razionalisti, di empi d’ogni colore e di ogni nome, che tocca a vegliare sul romano Pontefice, a concedergli prima e poi a mantenergli le guarentigie necessarie al suo pastoral ministero! Ah se non si trattasse del più orrido sacrilegio che ricordino gli annali dell’umanità, del più perfido tradimento che mai siasi formato ad intere generazioni che restano spogliate della fede e quindi della vita eterna, sarebbe argomento da destare risa inestinguibili a lutto l’uman genere. Un parlamento come l’italiano a far leggi di guarentigie pel Papa! Ministri come un Cavour, un Rattazzi, un Sella, un Nicotera, un Mancini a custodirle e recarle in atto! Oh præclarum custodem ovium, ut aiunt, lupum! Il perché ornai a me sembra abbastanza chiaro ed evidente che né il Papa è libero, né bastano né basteranno in eterno le guarentigie del Governo italiano a renderlo tale. Dunque che cosa ne seguirà? Ci penserà Iddio, il quale non ha ancora emancipato il mondo, checché altri ne creda, e molto meno ha tolto alla Chiesa il suo amore e con l’amore il suo patrocinio e la sua difesa.

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L’autore di queste vibranti parole, piene di sdegno verso i frammassoni persecutori, e di amore filiale per il Santo Padre prigioniero, aveva immaginato che questo era quanto di peggio potesse capitare al Sommo Pontefice ed alla Cristianità tutta dell’epoca. Ma si sbagliava purtroppo, perché l’attuale situazione è ben peggiore ed ha toccato il fondo di ogni voragine. Il Santo Padre, Gregorio XVIII, eletto il 3 maggio del 1991, successore di Gregorio XVII, è prigioniero ed impedito ancor più di Pio IX costretto all’esilio di Gaeta e poi del Vaticano, e ridicolizzato dalle farsesche leggi delle guarentigie, promulgate da corrotti frammassoni servi di “coloro che odiano Dio, il suo Cristo, i Cristiani e tutta l’umanità”, … ed odiano pure i frammassoni di cui si servono nei loro piani diabolici. Questi scellerati, dal 26 ottodre del 1958, hanno esiliato il Santo Padre, in modo da renderlo invisibile, inesistente agli occhi dei fedeli, e lo hanno sostituito con una serie di “pupazzi” eretici ed a-cattolici che, insediati, usurpandoli truffaldinamente, nei palazzi sacri e nelle chiese Cattoliche, hanno costituito l’anti-chiesa dell’uomo che, dovendo essere ferocemente anticristiana, non poteva fondarsi su un vero Papa divinamente assistito e Vicario di Cristo, perché questi non avrebbe mai ceduto a proclamare eresie, blasfemie, falsità, modifiche sataniche della dottrina rivelata. Essi avevano bisogno di un falso “papa”, di un “papocchio”, un frammassone possibilmente kazaro, prono alle richieste dei suoi mentori e del capo supremo delle logge: lucifero, il cosiddetto “signore dell’universo”, il baphomet delle logge di qualsiasi obbedienza ed abominio degli altari del novus ordo. Quindi a questi “signori”, ai servi dell’antiCristo, occorreva ed occorre ancora, che ci sia il vero Papa, un Papa “oscurato”, impedito in ogni sua manifestazione, controllato in ogni sua mossa, ventiquattro ore al giorno, da apparenti “protettori”, ma ben vivo e vegeto, possibilmente in buona salute, perché paradossalmente costituisce il garante dei “papocchi” a-cattolici-kazari che occupano la Sede Apostolica che, in tal modo, sicuramente non sono Papi, né formali, né materiali ( “… Roma perderà le fede e sarà la sede dell’anti-Cristo” … apparizione di La Salette! – “L’Apostasia nella Chiesa comincerà dal suo vertice” … apparizione di Fatima). Ovviamente è pure indispensabile una Gerarchia minima, anch’essa impedita, controllata e dispersa, ma viva e vegeta, permessa per poter evidentemente organizzare un nuovo conclave che “garantisca” l’elezione di un nuovo vero Papa, a sua volta garanzia del falso “papocchio”, burattino dell’anti-Cristo. È  esattamente quello che San Paolo profetizza nella II Epistola ai Tessalonicesi, quando dice che il “katachon” sarà messo da parte (… non ucciso o eliminato, ma « messo da parte », perché possa apparire l’anti-Cristo, … che precisione di termini! … ἒως ἐκ μέσου γένηται = de medio fiat). Padre Secondo Franco, l’autore del discorso riportato, non immaginava certamente che la situazione pontificia romana che lo infiammava di tanto ardore apostolico, fosse solo una fase transitoria nella realizzazione dei piani satanici della setta infernale. Oggi ne vediamo la piena realizzazione ma … non è finita, ne vedremo ancora delle belle, Gesù ce l’ha promesso e San Paolo lo ha profeticamente confermato nella lettera citata, così come S. Giovanni nell’Apocalisse.

Et IPSA conteret caput tuum!

 

IL SANTO ROSARIO

IL SANTO ROSARIO

[Padre V. STOCCHI: DISCORSI SACRI; Tipogr. Befani Ed. – ROMA, 1884, imprim.]

DISCORSO XXIII.

SANTO ROSARIO

Flores mei fructus honoris et honestatis.

ECCLI. XXIV, 23

La vita del cristiano che vuol salvare l’anima sua conviene che si consumi nel doppio esercizio di fuggire il male e di fare il bene. Declina a malo et fac bonum. (Ps. XXXVI, 27) Ecco in compendio tutta l’economia secondo la quale deve svolgersi la téla dei nostri giorni in questo corso di pellegrinaggio mortale. Or questo doppio esercizio che in apparenza sembra dover essere all’uomo ragionevole sì soave e sì facile, in pratica si trova oltre natura. Onde chi predica la parola del Signore conviene che dia opera assidua ad avvalorare col presidio della fede le umane volontà, sicché vincendo le fiacchezze della natura, si diano all’esercizio di ogni maniera di opere lodate e sante. E questo ho procacciato di fare tutte le volte che sono asceso quassù, e farò oggi con affetto particolare: perciocché ho in animo di accreditare, quanto mi basteranno le forze, una pratica santa, la quale possiede una efficacia veramente celeste per ritrarre dal male e condurre al bene. Questa pratica santa è quella che ieri chiamai un caro regalo fatto da Maria agli individui non meno che alle famiglie cristiane, ed è la devozione del santo Rosario. O quanti individui, o quante famiglie debbono al santo Rosario tutto il bene che hanno, e lo confessano a voce alta e lo predicano e lo proclamano. Questo li ha colmati di ogni benedizione di Dio. Benedizione nella salute che li rallegra vegeti e prosperosi; benedizione nelle sostanze che non solo sono al bisogno sufficienti ma soprabbondano: benedizione nei figli e nelle figliuole che crescono negli anni e consolano il cuore dei genitori con la obbedienza, con la integrità della vita: benedizione nell’anima, benedizione nell’onore, benedizione nella reputazione, benedizione in tutto quello che si può onestamente e santamente desiderare. E queste benedizioni sono quelle che avevano operato, che questa pratica sì cara alla Regina del Cielo nelle famiglie cristiane si stabilisse; e non sono molti anni che a malo stento una famiglia avreste trovato nella quale ogni giorno non si pagasse questo tributo a Maria. Ora il diavolo è riuscito a sbandirlo da molte case, e il danno è stato enorme, e l’abbandono del santo Rosario cresce ogni giorno. Io che amo questa devozione con tutto il cuore voglio stamane levar la voce per commendarla e lo farò con quanto di lena e di affetto mi sarà possibile. Forse chi sa? Riuscirò a confermare in sì santa devozione chi ancora la pratica, e ridurre a ripigliarla chi infelicemente l’avesse dismessa.

1. Tutti quanti siamo Cristiani conveniamo in questo, che è necessaria per salvarsi l’anima la devozione a Maria, e che questa devozione non deve consistere solo in parole ma deve mostrarsi con le opere. Le parole sono foglie, le opere frutti: e però ogni Cristiano deve avere un numero stabile di onoranze e di ossequi da pagare alla Vergine, giornaliero tributo di amore filiale, e argomento e via per conseguirne il patrocinio e il favore. Ora di questi ossequi da tributare a Maria ce ne sono infiniti, che quasi messe e portate di sapore diverso a commensali svogliati, reca in mezzo tutto dì lo zelo e la pietà di coloro, che danno opera di mantenere e di accendere nel mondo la pietà e l’affetto verso la Madre di Dio. Praticarle quindi tutte non è possibile, e conviene che si scelga, e che in questa varietà e copia quasi infinita di devozioni ciascuno si appigli a quella che fa per lui. Qui è dove io mi fo innanzi, e non temo di intromettermi consigliere. Voi dunque volete scegliere un ossequio da tributare ogni giorno a Maria? Ce ne sono infiniti, ma dite a me: se fra tanta moltitudine di devozioni e varietà di omaggi antichi e moderni e forse più moderni che antichi, uno se ne trovasse che avesse Maria medesima istituito, né istituito solamente ma commendato, né commendato solamente ma inculcato come carissimo a sé, e come efficacissimo e fruttuosissimo, di promesse singolari a nome suo e del suo Figliuolo arricchito e privilegiato, non pare a voi che sarebbe giusto che a questo si desse sovra ogni altro il primato? Certo sì, rispondete voi subito: noi vogliamo fare cosa cara a Maria, e se Maria ci dice: mi è cara questa, non esitiamo un momento a darle la preferenza. Ora tale è il santo Rosario. Maria lo ha istituito, Maria lo ha commendato, Maria lo ha inculcato, Maria di promesse e di privilegi incomparabili lo ha arricchito: sentite come. Se ne stava il santo patriarca Domenico pettoreggiando in campo aperto gli Albigesi, ribaldaglia oscena di eretici, che, rinnovellando non meno le empietà nella dottrina che le abbominazioni nella vita degli Gnostici e dei Manichei, dopo avere con le arsioni e con le stragi, coi tumulti e con le rapine sconvolta la Spagna, desolavano la Francia e minacciavano l’Italia. Quelle sette scellerate che, non più coperte e soppiatte e furiose, imperversano oggidì e sono le furie che armate di serpi e di fiaccole flagellano il mondo [le sette massonche – ndr. -], ci porgono un adeguato concetto della setta degli Albigesi, con la quale hanno attraenze più strette che il volgo non crede, ne discendono per dritta linea, hanno comune con essa il padre infernale che è il diavolo, e col padre i princîpi, i riti, lo scopo, le empietà, i sacrilegi, le mire bieche, le lordure nefande, e se questo fosse il luogo ed il tempo potrei mostrarvi senza fatica che i nostri settari sono gli Albigesi del secolo decimonono. A questa peste e cancrena che aveva fatto capo nella Linguadoca e nella Provenza, contrastava come dicemmo gagliardamente Domenico, ma né la fiamma dello zelo, né la luce della dottrina, né la possanza della santità valevane a conquidere quest’idra, il trionfo della quale era serbato al piede invitto di Colei che nata a schiacciare la testa del diavolo si appella per antonomasia la domatrice di tutte le eresie nell’universo mondo. Se ne stava dunque Domenico mesto e scorato, quando gli apparve, celeste visione, Maria, e “fa cuore o figlio, gli disse, e istituisci il Rosario. Non alla scienza né all’opera dell’uomo, ma a questo modo di orazione è serbata la vittoria del nemico che tu combatti. Esso è gratissimo al mio Figliuolo ed a me, istituiscilo dunque e bandisci per l’universo mondo che da ora in poi per sbaragliare le eresie, per sterminare i vizi, per promuovere le virtù, per implorare le divine misericordie sarà nella Chiesa un presidio validissimo e potentissimo”. Cosi Maria. Maria dunque è la vera istitutrice del santo Rosario, e i sommi Pontefici di quel secolo ne autenticarono le origini gloriose. Ma quando pure ogni autorevole conferma mancasse, per ogni conferma varrebbero gli effetti e i prodigi: imperocché predicando Domenico il Rosario in breve ora si distese e mise radici per l’universo mondo: armato di questo il gran Patriarca, negli sterpi eretici percosse, dice divinamente l’Alighieri, come torrente che alta vena preme; cadde infranta sotto i suoi colpi l’eresia albigese; scomparve quella coorte di vizi che inselvatichiva e contaminava il santuario, e innestandosi in quelle spine le rose di Maria, ne presero il luogo i fiori di ogni eletta virtù: stupendi effetti, di cagione agli occhi della prudenza umana non solo sproporzionata ma contennenda, ma che non fanno meraviglia nessuna a chi conosce chi sii tu e che possi, o Maria. Conchiudiamo adunque. Volete una devozione carissima a Maria? Recitate il santo Rosario. La volete non solo cara a Maria ma da Maria medesima istituita? Recitate il santo Rosario. La volete potentissima, efficacissima per frastornare ogni male e fruttificare ogni bene? Recitate il santo Rosario.

2. E che cercare di vantaggio se, quando pure tanta gloria di origine e ubertà di promesse al Rosario mancasse, basterebbe la eccellenza intrinseca che possiede come orazione perché si vendicasse sopra ogni altra orazione privata la preferenza? E di verità: due maniere sogliono distinguere di orazione i maestri della vita spirituale, come è notissimo. Chiamano l’una vocale, ed è quella nella quale si pronunziano con la voce le parole della orazione; chiamano l’altra mentale e in questa pregano la mente e il cuore, senza che il labbro sensibilmente pronunzi sillaba. Ambedue eccellenti, ambedue perfette se siano fatte a dovere, ma perfettissime allora, che l’una con l’altra si intrecciano e a vicenda si aiutano e perfezionano, infiammandosi il cuore di sani affetti ed esprimendo la lingua i sensi dell’animo. Ora il santo Rosario è opera di magistero semplice sì, ma così bello ad un tempo e così compiuto che nessuna desidera delle perfezioni che nobilitano e fecondano la orazione. È infatti il santo Rosario orazione vocale, ma di tutte le orazioni vocali coglie per adornarsene il fiore e la cima. Gesù Cristo nostro Signore fece scrivere nel Vangelo una orazione, che Egli stesso compose e insegnò agli Apostoli, onde orazione domenicale si appella, ed è tanto perfetta, dice Agostino, che quando preghiamo, se preghiamo a dovere, non possiamo domandare cosa che in essa non si contenga. E questa orazione coglie prima di ogni altra il santo Rosario, e ben quindici volte la innesta nella sua corona. Dopo il Pater che è la orazione della quale parlato abbiamo, non ha la Chiesa orazione o più saputa o più cara dell’Ave Maria, saluto angelico alla Regina del Cielo, che la Chiesa stessa compose intrecciando insieme le parole di Gabriele e di Elisabetta e legandole con le proprie quasi gemme in collana: e questa cara orazione è la più gran parte del santo Rosario che tutto passa in salutare e risalutare Maria, e il dolce saluto altro non interrompe che il trisagio celeste al Padre, al Figliuolo e allo Spirito Santo che ce la diedero e la fecero sì bella. Ti piace dunque di fare omaggio alla Vergine con orazioni vocali? Recitate il santo Rosario, perché molte e belle orazioni trovare potrete, ma nessuna nella quale si intreccino o si congiungano orazioni o più eccellenti o più sante. Ma voi per avventura di sole orazioni vocali non vi appagate, e alle vocali vi piace congiungere la mentale, siccome quella che onora Dio con la parte più nobile di noi l’intelletto e la volontà. E avete ragione, perché se nella orazione, come non di rado avviene, la lingua sola parli con Dio, e la mente volontariamente svolazzi nelle brighe e futilità della terra, non è veramente orazione ma ludibrio di orazione, e non può essere, dice Agostino, udita da Dio quando non è udita neppure da chi la fa. Or bene, se una orazione si ritrovasse nella quale mentre prega la lingua si offerisse alla mente la contemplazione di oggetti tali, che fossero capacissimi di tenerla a sé medesimi afferrata ed avvinta, tarpando le ali ai voli e agli errori della fantasia, non pare a voi che opportunissima sarebbe questa orazione alle vostre brame? Tale è il santo Rosario. Prega in esso la lingua e fa onore a Dio con le orazioni più sublimi e più sante che abbia la Chiesa; ma al tempo medesimo non rimane vuota la mente, quasi teatro abbandonato ai fantasmi che vagano nella parte inferiore, ma occupazione degnissima di sé le si offeriscono a contemplare i misteri più augusti del Cristianesimo. O santo Rosario, o giardino eletto, o vago teatro di spettacoli incomparabili: Ecco io veggo la cara Verginella di Nazaret, e un Arcangelo a colloquio con essa, e odo il saluto angelico e le proposte magnifiche e le prudenti risposte, e il fiat taumaturgo e adoro il Verbo di Dio fatto carne. Voglio anch’io salutare questa creatura Madre già del Creatore: ma che? La veggo volare agile e snella quasi cavrioletta leggera per le montagne di Galilea, che si smaltano di fiori sotto i suoi passi, ed ecco, ecco entra apportatrice di gaudio nella casa di Lisabetta e scioglie la cara voce al saluto. Sente Lisabetta il suono di quella voce, esulta nel materno seno il Battista, lo Spirito Santo l’empie di sé, e cantano insieme, Lisabetta le grandezze di Maria, Maria le magnificenze di Dio. Da questo dolce spettacolo mi ritrae soavemente il santo Rosario, ma un altro più bello me ne appresenta. Ecco questa è Betlemme, questa è la grotta, entro, vedo Maria, vedo Giuseppe, vedo il Pargoletto che è nato, lo adoro coi pastori e canto con gli Angeli, gloria in excelsis Deo: e poi accompagno Maria col Pargoletto al tempio, ascolto inorridito la profezia di Simeone, e poi piango al pianto di Maria e di Giuseppe che piangono Gesù perduto e con loro lo cerco, ed esulto poi vedendolo nel tempio giovinetto dodicenne in mezzo ai dottori che stupiscono di sì eccelsa sapienza in membra infantili. Qui si cambia spettacolo, e o Dio che veggo? Veggo Gesù che prega e suda sangue nell’orto: ecco un fracasso di arme e di armati, ecco un chiarore di fiaccole e di lanterne, mettono le mani addosso al Figlio di Dio, lo legano, lo flagellano, lo coronano di spine, lo configgono in croce. Ahimè, ecco Maria madre desolata e crocifissa nel cuore assiste spettatrice immobile alle agonie del Figliuolo, e ne contempla gli ultimi aneliti e ne ode l’ultime voci. Deh? Chi vide mai più atroce spettacolo? Ma viva Dio ogni cosa è mutato: alleluia alleluia, cantano gli Angeli del Paradiso, io veggo Gesù risorto più luminoso del sole, che prima appare alla Madre, poi sale al Cielo, ma ecco scende tra il fuoco e il turbine lo Spirito Santo. Chi lo manda? Gesù. Chi lo impetra? Maria. Ma o Dio la terra non è più degna di tenere Maria, il Cielo la vuole, e io la vedo tra i cori degli Angeli salire al trono di Dio: o che festa o che giubilo, o che trionfo! Entro in Paradiso con Essa, la vedo vestita di sole, coronata di stelle, tutto è festa, tutto esultanza in quella gloria beata: qui mi ferma il santo Rosario e mi dice: se vuoi davvero, questa gloria è per te. Ecco gli spettacoli che alla nostra contemplazione offerisce il santo Rosario. Prega così la lingua e prega la mente, e lingua e mente esercitano se medesime a onore di Maria, e l’una ripete e l’altra contempla quanto in Cielo e in terra vi ha di più nobile e più sovrano. Recitate dunque il santo Rosario perché se ogni orazione fatta a dovere espugna il Cielo e fa forza al trono di Dio, che non potrà presentata a Dio per le tue mani o Maria una orazione da te composta di tanta eccellenza?

3. Né dalla bellezza e dalla eccellenza si scompagna la facilità e il diletto, e appare manifesto nel santo Rosario il magisterio di Maria, che volendo che questo ossequio fosse nella Chiesa di Dio universale, lo architettò sublimissimo e facilissimo. Ora uditori, se inculcate a molti Cristiani che pensino un poco all’anima, che preghino, che non tengano il capo sempre volto alla terra come le bestie, vi rispondono che non possono, che non sanno, che non hanno voglia né tempo. Dite una ragione sola: dite che non avete voglia e direte vero: ma che non sapete, che non avete tempo deh! non lo dite. Non sapete pregare? Ma come? Non sapete a memoria il Pater e l’Ave? Non vi sono noti i principali misteri della nostra fede? Non avete mai udito contare chi sono e che fecero in terra Gesù e Maria? Sapete queste cose o non le sapete? Se non le sapete imparatele subito, perché un Cristiano non può ignorarle senza colpa e senza vergogna. Ma voi le sapete e le sapete benissimo, e come le ignorereste voi, voi nato allevato e cresciuto nella Chiesa Cattolica? Ma se queste cose sapete non dite più di non saper pregare perché Basta sapere il Pater e l’Ave, e chi è Gesù e chi è Maria per recitare il santo Rosario, e il santo Rosario è l’ottima delle orazioni. Né miglior scusa dell’ ignoranza è l’altra del difetto del tempo. Voi allegate il difetto del tempo voi? Ma se tanto ne gettate ogni giorno: ma se vi consuma la noia tra le dissipazioni, l’ozio e le chiacchiere: ma se dite voi medesimi di non sapere come ammazzare il tempo. D’altra parte ogni tempo è buono per recitare il santo Rosario, ogni luogo è propizio. Dimorate nella Chiesa ascoltando la Messa? Invece di star lì spensierato, divagato, curioso con offesa di Dio, pericolo vostro e scandalo altrui, recitate il santo Rosario. Vi trovate in isciopero e sentite voglia di andare a mettervi in quei convegni, in quei crocchi, in quei caffè, in quelle bettole, dove regnano le bestemmie, gli osceni parlari, i giuochi e le gozzoviglie? Sequestratevi per breve ora e recitate il santo Rosario. È il santo Rosario dolce e comodo compagno nei passeggi, sale con noi sui cocchi delle ferrovie, ci sta a fianco nei viaggi, soli o in brigata, di giorno o di notte, alla luce o tra le tenebre, sempre sempre il santo Rosario ci sarà, se vogliamo, dolce compagno. Il Rosario condisce il lavoro, il Rosario fiorisce la veglia, i sollazzi e i favellari amichevoli dopo il Rosario tornano più graditi, il Rosario fa soave al contadino il travaglio, al tribolato l’angoscia, all’ infermo l’ingrato letto del dolore. Recitiamo dunque, recitiamo il santo Rosario. Per quanto gli affari ci assedino, le occupazioni ci stringano, ci incalzino le faccende, troviamo il tempo per offrire le sue rose a Maria: chi vuole lo trova, chi lo trova si accorge tosto che il tempo del Rosario è tempo bene impiegato, e benedicendolo Maria ne sta bene l’anima e il corpo. O beato e mille volte beato chi ama il santo Rosario! L’amarlo è segno di predestinazione perché come la respirazione è segno insieme e causa di vita, così dice S. Germano, il nome di Maria devotamente pronunziato non solo è segno che l’anima vive alla grazia ma produce di vantaggio questa medesima e la conserva. Quemadmodum respirano non solum signum est vitæ sed etiam causa; sic sanctissimum Mariæ nomen simul argumentum est quod vera vita vivitur, simul etiam hanc ipsam vitam efficit et conservat.

4. Ma crescerà senza misura nel nostro concetto la stima del santo Rosario se porremo mente alle promesse singolarissime, onde sopra ogni altra orazione Gesù privilegiò quella fatta non da un solo in particolare ma da molti in comune. Tertulliano con la sua consueta efficacia chiamò questa orazione un assalto dato al trono di Dio. Coimus in cœlum congregationemque,ut ad Deum quasi manu facta precationibus misericordiam ambiamus orantes. Hæc Deo grata vis est. Rendeva il grande apologista ragione agli imperatori della nostra Religione santissima, e a chi incolpava ai Cristiani perché di notte si radunassero molti insieme, noi ci raduniamo, rispondeva, e facciamo colletta e congregazione per irromper quasi fatta violenza al trono di Dio ed espugnare misericordia. Violenza se volete, ma violenza gratissima a Dio. Così egli: e aveva imparato questa dottrina da Gesù Cristo che così parla. Si duo ex vobis consenserint super terram de omni re, quamcumque petierint, flet illis a Patre meo. (Matth. XVIII, 19) Volete una grazia e la volete davvero? Unitevi due o tre insieme e dimandatela. Io vi dò parola che qualunque grazia chiediate, mio Padre ve la farà: così Gesù, che ne allega altresì la cagione, ubi duo vel tres congregati fuerint in nomine meo, ibi sum in medio eorum: (Matt. XVIII, 20.) dove due o tre si trovano radunati nel nome mio, ivi sono anch’Io che prego nel mezzo a loro. Essendo così, si direbbe essere il santo Rosario un presente bellissimo e preziosissimo fatto alle famiglie cristiane dalla gentile cortesia di Maria. Opportunissima infatti è questa santa orazione alla preghiera comune, e per essa i genitori e i figliuoli colrimanente della famiglia e la servitù, dimenticata la diversità della condizione e della fortuna, e soppressa la distinzione degli uffici e dei gradi, e divenuti tutti figliuoli del medesimo Padre celeste e in Gesù Cristo fratelli, fatti quasi due cori cantano le lodi di Dio, e supplicano all’Altissimo interponendo il nome e la mediazione di Maria. O caro spettacolo che alla maggior parte di noi ricorda la inviolabile consuetudine che la pietà degli avi dei padri e delle madri nostre manteneva con tanto amore e nei dolci anni della nostra fanciullezza che furono gli anni della nostra innocenza! Fra la letizia della veglia domestica un’ora, nella quale al cenno materno si interrompevano i femminili lavori, i dolci colloqui e i sollazzevoli favellari. e tutta la famiglia si prostrava davanti alla avita immagine della Vergine benedetta, ed era il santo Rosario stabile tributo che le si pagava ogni giorno. Così le famiglie cristiane rendevano somiglianza di un drappello di figlioletti amorosi che si stringevano intorno alla falda materna, e per patrocinio e conforto la supplicavano, e quasi per vezzo e per blandizia filiale di mille dolci nomi e saluti a muta a muta la molcevano e carezzavano. E ti salutiamo, Maria piena di grazia, l’una schiera diceva, e santa Maria Madre di Dio, rispondeva l’altra schiera, prega per noi peccatori. Vi ricordate? Passava allora appena per cristiana quella famiglia nella quale il santo Rosario si trasandasse, e chi a notte ferma si aggirava per le nostre città, pei castelli, per le borgate, sentiva da ogni casa venirsi alle orecchie un dolce sussurro. Era il sussurro del santo Rosario: le voci argentine dei fanciulli si mescevano con le soavi delle donne, con le ferme degli uomini maturi e con le tremule dei vecchi, e donne e uomini, vecchi e fanciulli Maria chiamavano … Maria. E Maria supplicata scendeva e il manto materno distendeva sopra le famiglie, sopra le case, sopra le città, sopra i regni, e vegliava e proteggeva come figliuoli quelli che la amavano e riverivano per madre. E allora erano docili ed obbedienti i giovani, erano allora le fanciulle intemerate e pie, erano sollecite e illibate le madri, attendevano i padri ai negozi della famiglia, ma senza scordarsi che oltre la vita temporale ci è anche l’eterna, molcevano i vecchi con le consolazioni di Dio gli affanni e le cure della vita cadente. Era insomma nelle famiglie il timore santo di Dio, e Maria vegliava alla guardia del prezioso tesoro, e col timore santo di Dio fioriva la salute, abbondavano le cose necessarie alla vita, erano benedetti i matrimoni e la prole, e i popoli si giocondavano in una prosperità e in una pace, che a noi ricordandola sembra un sogno. Che se talora entrava in casa la tribolazione e la croce l’amore a Maria e la cognizione di Gesù Cristo faceva quel peso tollerabile, e talora soave la trafittura di quelle spine che avevano perduto la punta nelle tempie del Crocifisso. O soavità di memorie che inteneriscono l’anima! O tempi che pur troppo passarono! O venerate e care anime degli avi, dei padri e delle madri nostre, se nella pace e nel gaudio che vi inebria nel seno di Dio foste capaci di dolore, non ne sarebbe ultima cagione il vedere i figliuoli e i nipoti degeneri avere escluso dalle ammodernate case quella devozione che voi riputavate l’arma della protezione, la torre della difesa e il pegno della gloria celeste.

5. Che giova dissimularlo? Non mancano no tra noi un buon numero di famiglie che mantengono fede al santo Rosario e ne colgono gli antichi frutti di benedizione: ma sono anche in gran numero quelle dalle quali la moderna civiltà lo ha cacciato in bando, e questo numero ahi pur troppo cresce l’un dì più che l’altro. Vi pare? Case ammodernate e Rosario, possono darsi cose che più si ripugnino e si escludano l’una con l’altra? Il Rosario è un vecchiume morto e sepolto, e appena qualche languida reliquia ne resta in quelle famiglie che si incaponiscono a tener ferme le consuetudini del medio evo. Ma oggidì se parlate in società di Rosario vi fate deridere. Oibò, il padre e la madre non debbono più passare la serata in famiglia favoleggiando dei Troiani, di Fiesole e di Roma, direbbe l’Alighieri. Conviene andare alla conversazione, al ballo, al teatro, e intanto i figli e le figlie abbandonati dalla madre sollazzevole impareranno il pudore, la pietà, il galateo da un servo sboccato e da una fantesca impudente. Andando così le cose che meraviglia se il santo Rosario ha dovuto sloggiare e Maria con esso, da queste case prostituite alla vanità, alla dissipazione, al vagabondaggio, e a tutte le corruttele di questa vita godente, voluttuosa, carnale, dissoluta, animalesca che quasi vortice e gorgo di inferno assorbe e travolge nella sua rapina le sostanze non meno che la pietà, e col patrimonio avito il buon nome e la pace? Il santo Rosario è sloggiato: ma corrono certe voci delle quali il bottegaio, la trecca e l’artigianello del vicinato si risciacquano la bocca. Si dicono male cose della padrona, pessime della figlia: il figlio si è assicurato la riputazione di libertino: gli affari vanno in precipizio, il giudeo usuraio adocchia già la villa e il palazzo: ahimè non ne va più bene una: fra poco si sentirà uno scroscio da rintronarne l’Italia. Signori miei, voi sapete che non esagero: guardate quanti nobili casati che mantenuti si erano per secoli e secoli, congiungendo insieme la nobiltà e l’opulenza; e ora? e ora ammodernati e degeneri dall’antica pietà o sono precipitati o precipitano affogati quasi in pelago nelle usure e nei debiti. Io non dirò che sia unica causa di tanto male il Rosario sbandito; dirò solo questo, che quando in casa si recitava il Rosario e si viveva all’ antica non accadeva così. E veramente, anche lasciando stare 1′ efficacia del Rosario come orazione che chiama sulle famiglie la benedizione di Maria, chi non vede anche a colpo d’ occhio quanta efficacia deve avere per se medesimo a bene ordinare una casa e a disciplinare una famiglia cristianamente? Quel raccogliersi tutti insieme alla preghiera ad un’ora posta, quel prostrarsi ginocchione davanti all’immagine di Maria, quell’anteporsi ad ogni altra occupazione questo omaggio alla Madre di Dio, mantiene vivo nelle menti mature degli adulti e stampa profondamente nelle tenere dei giovinetti, che Dio è Padre e Signore, che conviene adorarlo, pregarlo, obbedirgli, che questo è il primo tra i doveri dell’uomo e che chi ha Dio amico avrà bene in questa vita e nell’altra, sarà infelice nel tempo e nella eternità chi ha Dio nemico. Nei misteri che si contemplano è un compendio prezioso dei dommi di nostra fede, e si riduce a memoria Gesù Cristo, Maria, la redenzione, il Paradiso, l’inferno. La necessità dell’orazione, i debiti che ci corrono verso Maria e la devozione a Lei come a Madre si raccomandano con raccomandazione di fatto. Applicando il Rosario pei nostri poveri morti mentre suffraghiamo quelle anime benedette, ammoniamo noi stessi che deve fuggirsi il male, deve farsi il bene e che dopo questa vita un tribunale ci aspetta dove il bene e il male sarà pagato da Gesù Cristo a rigore di giustizia. Che andare in tante parole? Il santo Rosario è nato fatto per radicare e mantenere nelle famiglie la fede, la quale se si perde in molte famiglie la colpa è dei genitori. Se non si prega mai in casa vostra, se i nomi di Gesù Cristo e di Maria mai non si odono sul vostro labbro, vi meravigliate poi che i figliuoli crescano senza fede? Padri e madri che mi ascoltate rispondete a me: al tempo dei vostri genitori si recitava in casa vostra il santo Rosario? Si recita al presente in casa vostra? Se si recita ancora badate bene, non lasciate cadere la santa usanza: a dismetterla si fa presto ma a ripigliarla o quanto è diffìcile! Se non si recita…. Ahimè che vi ha fatto Maria, perché sbandiste una devozione a Lei sì cara e a voi medesimi sì fruttuosa?

6. E finora non ho parlato di un altro tesoro che porta in dono il santo Rosario a quelli che devotamente lo recitano, il tesoro delle sante indulgenze: le quali sono tante e di tal prestanza che il giorno mi verrebbe meno se tutte le volessi o noverare o ammendare. Indulgenze plenarie e indulgenze parziali; indulgenze che ogni giorno si lucrano, indulgenze che si guadagnano al cadere di ogni mese, indulgenze per le solennità della Vergine, di Gesù Cristo, dei Santi, indulgenze per la remissione dei peccati dei vivi, e indulgenze che si applicano ai nostri cari defunti, indulgenze che mentre siamo in vita distruggono nel libro di Dio le partite del nostro debito, indulgenze che le distruggono in morte. Imperocché la santa Chiesa ha col santo Rosario obbligazioni grandi e ne conosce alla prova la efficacia per placare Dio irato ai peccati degli uomini, per prodigare i nemici di Gesù Cristo, per conseguire ogni maniera di misericordie. E se io volessi qui convertire il discorso in panegirico, o qual campo mi si aprirebbe davanti opportunissimo alla pompa dell’eloquenza! Vi potrei spalancare infatti davanti agli occhi il pelago delle Cursolari e il golfo di Lepanto, e metterei innanzi la flotta mussulmana annichilita, trascinata nel fango la mezza luna, battuta di tal colpo la potenza turchesca dal quale non si è riavuta mai più. Potrei da Lepanto condurvi sotto le mura di Vienna, e di là in Ungheria e sotto i baluardi di Buda e farvi spettatori di vittorie miracolose; opera e merito del santo Rosario. Ma io non mi sono prefisso di dilettarvi con le glorie del santo Rosario ma di mettervi in altissima stima sì gran presidio che ha il Cristiano per conseguire il suo ultimo fine la eterna salute; alla quale mirando soprattutto la Chiesa commenda il santo Rosario e vorrebbe vederlo regnare nel mondo, sicché non ci fosse individuo non famiglia, non società che non fosse dal Rosario santificata. Le quali cose essendo così uditori carissimi, lasciamo noi andare il mondo per la sua via, e noi imitiamo i Santi di Gesù Cristo, imitiamo le anime cristiane e pie. che hanno sempre amato e trovato tempo pel santo Rosario. Mirabil cosa, un S. Francesco di Sales recitò ogni giorno fino che visse intero il santo Rosario, e trovò sempre tempo: S. Carlo Borromeo era Vescovo di immensa diocesi ed ebbe tempo, tempo trovarono re. principi, regine delle quali e dei quali ci contano le fedeli storie che ogni giorno con le loro famiglie congiunti insieme pagavano questo tributo a Maria. E noi siamo costretti a sentire gente che passa tutto giorno o nell’ozio o in futilità che equivalgono all’ozio, dirci che non ci è tempo, che non ci è comodo! Eh! basterebbe che ci fosse la voglia, il tempo e il comodo si troverebbe. Si trova per tante altre cose. Ma dei sacrifizi se ne fanno pel mondo quanti si vuole, e solo allora che si tratta dell’anima non se ne vuol fare nessuno. Si sa, anche a quei Santi che ho nominato, anche ai nostri antichi portava qualche disagio il santo Rosario recitato in comune, ma essi intendevano che quel disagio era lieve cosa verso i frutti preziosi che ne venivano, e si sarebbero vergognati di non saper fare per Maria un sacrificio che si fa sì facilmente pel mondo. Signori miei, badiamo bene, non viviamo troppo alla moda perché si muore all’antica. Allora quando avremo spirato quest’anima che c’informa, e il nostro corpo freddo, inerte, squallido, contraffatto giacerà sulla bara, porteremo in queste gelide mani fra queste dita intirizzite intrecciata la corona della Vergine. Ma varrà poco la corona sepolta col corpo, se il santo Rosario non infiorerà l’anima davanti a Dio. Ma, o che consolazione in quel punto se potremo dire guardando la corona: giorno non è passato che io non pagassi il caro tributo del Rosario a Maria! Con che affetto con che fiducia baciando la tua corona ti domanderemo o Maria, e tu chiamata verrai e ci tergerai con le tue mani benedette il sudore dell’agonia, e molcerai i terrori e gli affanni dell’anima conturbata. No, non perirà di mala morte chi avrà tenuto fede al santo Rosario. O non sia dunque mai che il santo Rosario da me si scompagni: per quel giorno che non pagherò questo tributo a Maria, si inaridisca il braccio e irrigidisca la lingua pria che la corona dalle mani mi cada e sul labro ammutisca la prece. Sia il Rosario il mio conforto in vita, e in mortemi tocchi la sorte che ti fece beato, o gemma della Compagnia di Gesù, soavissimo giovinetto Giovanni Berchmans. Giaceva questo caro imitatore di S. Luigi Gonzaga nel letticciuolo di morte, e sentiva l’anima presso a sciogliersi dai lacci del corpo che ansava nell’agonia. Strinse allora con le tremule mani il Crocifìsso, al Crocifisso appressò il libricciuolo delle sue regole, e fra l’uno e l’altro intrecciò la corona, e composto il sembiante in un’ aria di paradiso, questi, disse, sono stati i miei amori in vita, con questi morrò volentieri. Disse ed esalò lo spirito e parve non una creatura umana che muore ma un Angelo che si addormenta. Questa fu morte all’ antica: beato chi la farà somigliante.

BATTAGLIA DI LEPANTO

BATTAGLIA DI LEPANTO

[Sac. V. Stocchi: DISCORSI SACRI, Tipogr. Befani ed. Roma, 1884, – impr.]

DISCORSO LI.

PER LA VITTORIA DI LEPANTO

“Dies autem victoriæ huius in numero sanctorum dierum accipitur et colitur exilio tempore usque in præsentem diem.” (JUDITH. XVI, 31)

Accingendomi a celebrare la gran vittoria per la quale andrà eternamente famoso il pelago delle Curzolari e il golfo di Lepanto, mi si para davanti una domanda, che molti di voi, sono certissimo, avranno mosso a se stessi, e vorrebbero, potendo, muovere a me. Perché mai si commemora della vittoria di Lepanto il terzo centenario con una solennità che il primo centenario e il secondo non videro? Ecco signori. Non appena, volgono appunto tre secoli, volò per la attonita Europa la gran novella, che la mezza luna insolente per lungo corso di formidabili vittorie, aveva nelle acque di Lepanto abbassato le corna in faccia al segno trionfale della croce, ed era profligato e vinto il nemico del nome cristiano, smisurata fu l’allegrezza che commosse i cristiani popoli, smisurate le feste che se ne fecero per tutta la cattolica Chiesa. Si resero  grazie immortali a Dio onnipotente, guiderdoni e trionfi, emulatori degli antichi premiarono il valore dei vincitori, solennità, monumenti e templi votivi si decretarono ad eternare la memoria di un conflitto che aveva salvato la Chiesa dall’eccidio e la società dalla barbarie. E con tutto ciò il primo secolo che corse dopo tanto trionfo, si chiuse senza secolari feste, e senza secolari feste si chiuse il secondo. Oggi solamente dopo tre secoli, rimenando la ruota degli anni il giorno anniversario del gran conflitto, la rimembranza della cristiana vittoria ha commosso il mondo cristiano, e la festeggiano i cristiani popoli con disusata pompa di secolare solennità. Perché noi nipoti di ben tre secoli scuote una rimembranza che non iscosse i padri nostri, che del trionfo Lepanteo avevano recente la memoria e godevano il frutto? Questo perché o signori, che voi mi chiedete qui sulle mosse io vi dirò sulla fine della orazione raccogliendolo quasi frutto e corona della orazione medesima. Nella quale come apparecchio proporzionato a tanta risposta vi mostrerò: che la vittoria di Lepanto è vittoria comune del Romano Pontefice, della flotta cristiana e di Maria ausiliatrice del cristiano popolo. Il Romano Pontefice strinse la lega cristiana, congiunse la cristiana flotta, e la sospinse al conflitto. La cristiana flotta combattendo prostrò il nemico, Maria condusse a lieto fine i consigli del Pontefice e diede la vittoria alle armi dei combattenti. Onde a Maria nel gran successo le prime parti si debbono, le seconde al Pontefice, il cristiano stuolo proclama esso medesimo che a lui si debbono le terze. Questa conclusione raccoglierete nettissima dal mio discorso, il quale mentre nulla detrarrà al valore guerresco dei prodi di Lepanto, riferirà la gloria al principio d’ogni bene Dio onnipotente e alla guerriera della Chiesa, Maria, e in secolo ribelle a Dio e a Gesù Cristo tornerà alle anime cristiane vieppiù gradito per questo, che le rose di Maria s’intrecceranno alle palme guerresche; e il suono del nome benedetto e santo tempererà il rimbombo delle artiglierie e il fremito delle ire marziali.

1. Né fa mestiere di molta indagine per accertarsi che nell’impresa coronata dal trionfo di Lepanto, Maria prima e poi il Romano Pontefice vendicarono le prime parti, basta che altri ponderi con animo sincero il successo. A che potenza fosse salita nella seconda metà del secolo decimo sesto la mezza luna lo sanno tutti. Infranti da più di un secolo i confini dell’Asia, distrutto l’impero orientale e recata in sua mano Costantinopoli, si era il terribile ed insolente Mussulmano assiso sul Bosforo, e da quella formidabile rocca teneva il piede sul collo all’Oriente: e soggiogato l’Egitto e la Siria, espugnata Rodi, occupava per terra con formidabile esercito l’Ungheria, s’insignoriva per mare di quasi tutta la Grecia, assaliva Malta, e risospinto dal prodigioso sforzo di pochi cavalieri di Gesù Cristo, per rabbia di vendetta piombava sul regno di Cipro, e dopo i macelli di Nicosia e le perfide e invendicate carneficine di Famagosta, armata una flotta di ben trecento vascelli correva da padrone i mari, tentava la Sicilia e minacciava Italia. Gemeva la cristianità desolata alle novelle di tante rovine, Venezia soprattutto tremava di tanto apparecchio, e più del danno presente impauriva tutti il terrore delle desolazioni future. Si chiamava aiuto da ogni parte, ma niuno muoveva piede né mano. Come il villano dalla porta del suo casolare mirando torpido e spensierato il temporale che desola i campi del suo vicino, si consola pensando che mentre gli altrui flagella risparmia i propri; così i monarchi della cristianità divisi da una bieca politica e da una forsennata gelosia di stato, o non si curavano, o dissimulavano, o godevano che il turchesco turbine si rovesciasse sulle province altrui purché risparmiasse le proprie: di che il barbaro insolentiva, e impotente contro tutti ma inespugnabile contro ciascuno, crescendo della inerzia universale, uno dopo l’altro assaltandoli li conquideva. Solo il Romano Pontefice pieno il petto di quella carità che mancava altrui, levava la voce e chiamava alle armi. Sorgessero finalmente, e falange confederata e terribile piombassero che era tempo, sul nemico del nome Cristiano. Il Pontefice era Pio quinto, santissimo e costantissimo petto. Ma che poteva fare in tanta cecità delle menti e frenesia dei consigli? Né l’autorità della persona, né la santità della vita, né l’altezza del grado, né la presenza del pericolo valevano a scuotere gl’infingardi petti. Chiamava Cesare? Ma l’impero romano col Turco aveva pace. Invitava Francia? Ma il Cristianissimo nonché pace, col nemico del nome cristiano aveva, obbrobrio sempiterno, alleanza. Spronava Spagna? Ma il Cattolico sollecito delle costiere sicule ed africane, godeva che il turchesco artiglio ghermisse i possessi marittimi dell’emula Venezia. I mesi passavano, passavano gli anni, si negoziava sempre non si operava mai, e nell’inerzia cristiana il furore del barbaro non aveva fine né modo. Ogni costanza si sarebbe fiaccata, ogni pazienza avrebbe dato vinte le mani, e protestando la propria impotenza davanti agli uomini e a Dio si sarebbe rimasta. Ma non venne meno la costanza santa di Pio. Non pigliavano i suoi consigli l’impulso o dalla ambizione o dall’interesse, o dalla politica, sì dalla carità e dallo zelo dell’onore di Gesù Cristo: onde deluso non disperò, respinto non si rimase, e quando vide che i presidi e gli accorgimenti umani non profittavano, non perde la fiducia, perché intatti ed infallibili gli rimanevano i presidi divini. A Maria si rivolse, a Maria presidio e difesa del cristiano popolo: nelle mani onnipotenti della benedetta fra le donne commise la causa e la difesa del nome cristiano, e ordinò che la guerra che i potenti fare non volevano con la spada facessero i popoli con le orazioni, e si collegassero a supplicare Maria col Rosario.

2. La quale arte e maniera disusata di guerra ordinata contro il Mussulmano dal condottiere santissimo dell’esercito di Gesù Cristo, mi rivoca al pensiero Giosuè e la espugnazione di Gerico. Forte per sito e per munizione levava Gerico la fronte nei campi di Palestina, e colle brune mura, colle torri, coi baluardi attraversava la via al popolo del Signore, e sembrava sfidare l’esercito di Giosuè che risoluto di averla in pugno la circondava. Ma credereste? Chi dalle mura e dagli spalti della assediata piazza avesse speculando osservato il campo nemico, tutt’altro veduto avrebbe fuori che macchine, terrori ed apparati di guerra. Tutto era silenzio e quiete in quei singolari accampamenti, nulla che desse sentore di battaglia o di assalto. Solamente allora che il sole illustrava l’Oriente col primo raggio si vedeva uscire dalle trincee in ordinanza tutto il popolo ebreo. Precedeva l’esercito in tutto punto di arme, all’esercito succedevano sette sacerdoti che tenevano in pugno le sette trombe del giubileo, alto portata sugli omeri dei leviti veniva appresso l’Arca del Testamento, e appresso all’arca il popolo alla confusa, turba mista di donne, di fanciulli e di vecchi. Così ogni mattina per sette giorni uscivano dal campo, così lenti e gravi senza far motto giravano intorno alle mura di Gerico, così fornito il giro senza dar fiato a una tromba, senza brandire una lancia, senza ferire un colpo, di cheto e in silenzio alle tende si riducevano. Che dovettero dire di quest’arte singolare di guerra gli abitanti di Gerico? Forse il primo giorno sbalordirono non sapendo dove la cosa andasse a parare, forse osservarono trepidando il secondo, stettero forse sull’avviso anche il terzo; ma quando il quarto il quinto giorno ed il sesto andando in arme alle mura per ributtare un assalto si trovarono spettatori di una tacita processione, chi ne avrà contenuto le risa, gli scherni, i motteggiamenti? Così dunque, dovevano dire, si fa la guerra? Così si espugnano le città? Abbatterete le torri con le processioni e con le trombe, coi sacerdoti e con l’arca intorpidirete alle armi le mani dei combattenti? Così forse dissero, ma se lo dissero il quinto giorno ed il sesto, certo non lo dissero il settimo. Uscì infatti allo spuntare del settimo giorno col consueto ordine dalle tende il popolo d’Israele e intraprese il viaggio. Ma che? Pervenuta l’arca santa di Dio al cospetto della città i sacerdoti dettero fiato alle trombe, il popolo mise un grido. Stupenda cosa! A quel clangore a quel grido ecco crollare i baluardi, ecco precipitare le torri, ecco fendersi le muraglie, e irrompendo con le sguainate spade per le ruine 1’esercito di Giosuè, fu Gerico in breve ora un vasto campo di strage dove tra il sangue e i cadaveri imperversava il ferro ed il fuoco. Bestemmie simili a quelle dei Gericuntini udiamo noi ogni giorno dagli empi, e perché la Chiesa angariata ed oppressa, alla ferocia e alla rabbia dei figliuoli del diavolo oppone l’orazione e invoca il braccio e il piede infrangitore di Maria, ci deridono, ci scherniscono, ci domandano se le processioni sono eserciti, le orazioni e i rosari artiglierie. Ridevano anch’essi i Mussulmani, mentre correndo i mari col formidabile naviglio non si abbattevano in una vela, in una sola vela cristiana che accennasse di fronteggiarli, e solo udivano dagli esploratori novelle di processioni e di suppliche, che recitando il rosario per le meste contrade e circondando l’Arca del nuovo patto Maria, facevano i cristiani popoli. Ridevano, si fingevano con l’animo la vittoria, e immaginando dividevano le prede che riportato avrebbero sopra un nemico inerte e discorde, e vinto già col terrore dell’apparato e del nome. Ma ecco a un tratto subitaneo rivolgimento di cose. Una formidabile armata cristiana già tiene il mare e si appresta a piombare sul nemico. Ha mosso da Messina, è volata di lancio a Corfù, e bramosa di venire al cozzo s’inoltra. Dugento dieci vascelli, trenta navi, sei galeazze, mille e più di ottocento cannoni, ventotto mila soldati, marinari quasi dodici mila, quarantatremila validi rematori. Cento cinque galere manda Venezia e le conduce Sebastiano Veniero; dodici il Papa e le comanda Marcantonio Colonna, Spagna ottantuna tutte italiane e cavate da italiani porti, Napoli, Genova, Malta e Livorno, e le guida gran nome ma poco fido, Gian’Andrea Doria. Duce Supremo di tutti Giovanni d’Austria, luogotenente il Colonna, tremila nobili italiani d’inclito nome d’ogni italica provincia d’ogni città militano per Gesù Cristo, nel cristiano naviglio. Forse non vide mai il mare flotta più bella, non vide mai certamente né più infocato zelo né causa più santa. Ardono capitani e soldati di incontrare il nemico, di piombare sopra di esso, di vendicare in un giorno più secoli di onta e di danni inflitti al nome cristiano. Come mai tanto miracolo in termine sì disperato di cose? Chi ha raccolta questa flotta? Chi l’ha armata? Chi l’ha congiunta? Come tanta consensione è succeduta a tanta discordia? Come tante gelosie e tante ombre di bieca politica hanno dato luogo, e Gesù Cristo vede una flotta cristiana volare col suo vessillo alla vendetta della sua causa e alla gloria del suo nome? È tutta opera di Pio e della Vergine nata a schiacciare il capo di satana. O carità sviscerata del santo Pontefice, o veglie notturne, o diurne angosce, o ardenti preghiere, o lacrime sparse con larga vena, o speranze deluse, o disinganni crudeli! Vide più volte le pratiche oggi condotte a termine, rompersi duramente domani, vide la concordia conciliata con grande stento, per un’ombra di gelosia interessata disfarsi, vide ipocrite mostre, fatti ingannevoli, promesse non mantenute, imprese fallite, vide ahi dolore, espugnate città, province invase, regni perduti mentre la infingardaggine e la politica legava le cristiane mani, vide pianse e gemé, e l’eco notturna del Vaticano ripeté più volte i gemiti e i lai del desolato petto. Eppure non disperò Celeste visione comparendogli col rosario Maria, lo rincuorava, e confida, dicevagli, confida o Pio. Vedi: son io quella stessa che per mano di Domenico col mio rosario prostrai gli Albigesi, e sappi non ho abdicato il patrocinio di S. Chiesa, né perduta la mia possanza. E Pio confidava, e vinse; e quei medesimi che più ripugnavano, tirati dal rosario di Maria quasi da potente macchina, vennero tergiversanti sì, ma pur vennero, e fu stretta la lega, ed eccovi la flotta cristiana correre a fare le Curzolari famose per un turchesco eccidio e per una cristiana vittoria. Capitani e soldati, rematori e ciurma, hanno espiato le loro colpe nel Sacramento di Penitenza, e reficiati del corpo di Gesù Cristo, al coraggio che dà la natura hanno congiunto quello che infonde la pace della coscienza e la grazia. Uno è di tutti l’animo, combattere per Gesù Cristo, vincere o morire: beato chi vedrà la vittoria: ma più beato chi per sì nobile causa profonderà il sangue e la vita. Il mondo moderno non è capace di intendere questo linguaggio troppo nobile per tanta bassezza. Ma voi andate o anime generose piene il petto di quella fede che vince il mondo, e tu vola o naviglio che porti le speranze del nome cristiano, vola e ti sia propizio il mare, placido il vento, sicuro il viaggio, accelerato e trionfale il ritorno. Venga la vittoria sulle tue prue, semina dovunque vai lo spavento, fugga innanzi a te sbaragliato il nemico. Gesù Cristo ti ha radunato dal cielo, Pio dalla tomba di Pietro ti benedice, ti mira con benigno riguardo la Stella del mare Maria, vola con la tua scorta e combatti, e precipitato per te nei gorghi del mare il Faraone del Bosforo, intuoni il mondo cattolico il cantico che sulle rive dell’Eritreo cantò Israele mentre l’onda fremente spingeva al lido i corpi, i carri e i cavalli del sommerso Egiziano.

3. E qui potrei convertire la orazione contro quegli ingrati codardi, che pieni il petto di livore e di rabbia contro il Pontificato cattolico lo accusano di nimicare quella civiltà che ha salvato, e quella Italia di cui è stato ed è la gloria ed il vanto: e contrapponendo opere ad opere ed imprese ad imprese, gettare loro in faccia ignominie non inventate ma vere, e non antiche ma recenti, non insuccessi no, ma sconfitte; ma non voglio turbare con tanta lordura, tanta bellezza e nobiltà di argomento. Torniamo signori alla flotta cristiana spettatori oramai di cristiana vittoria. Ecco qua: questo è il famoso golfo di Corinto oggi detto di Lepanto, che chiuso quasi steccato all’intorno per uso di conflitti navali, fu già teatro di battaglie per cui si volsero le sorti del mondo, ma oggi vedrà l’affrontata più formidabile che abbia visto o sia per vedere giammai. Correva l’anno mille cinquecento settantuno, spuntava l’alba del memorando giorno settimo di ottobre, e le due flotte Turca e Cristiana certe di combattere, muovevano l’una da Lepanto l’altra dalla contrapposta spiaggia di Cefalonia e si scontravano sulla bocca del golfo. Forte era la flotta Mussulmana di dugento venti vascelli e sessanta fuste: novanta mila uomini e settecento cinquanta cannoni gonfiavano la baldanza turchesca. Condottiero supremo era Ali che feroce per indole, e per vittorie insolente teneva il centro, il destro corno comandava Maometto Scirocco pascià di Alessandria, il sinistro il re di Algeri Lacciali. La Turca armata scopre dalla lunga la flotta Cristiana, la Cristiana si avvede della Turchesca. Ali con un colpo di artiglieria provoca il cristiano stuolo alla pugna, Giovanni d’Austria rispondendo con altro colpo accetta la sfida; succede una sosta e un quietare repentino quale è quello che precede la tempesta. Quinci si ordina in battaglia lo suolo turchesco, quindi il cristiano. Al centro contro Ali Giovanni d’Austria con Marco Antonio Colonna e Sebastiano Veniero, a destra Gian Andrea D’Oria contro Lacciali, a sinistra Agostino Barbarigo contro Scirocco. Alì fermo ed eretto sulla capitana col grido, col cenno, col lampo della scimitarra e degli occhi infiamma le squadre, Giovanni con una nobile corona di duci scorrendo sur un legno leggiero la fronte della battaglia, questi accende, quelli saluta, rincuora tutti. Veduto avresti nell’uno stuolo e nell’altro un ardore, un impeto, una faccenda, una ressa, e un chiamare, e un rispondere, e un rincuorarsi ed un fremere, e l’imperio di chi comanda e il moto di chi obbedisce. Quand’ecco a un tratto squillano con giulivo suono le cristiane trombe: a questo squillo quasi in atto di ossequio tutte le bandiere si abbassano e danno luogo a una sola. È il santo vessillo della lega che Pio pontefice pel giorno della battaglia donò alla flotta, che sale maestosamente sull’albero della capitana, e in nobile drappo dispiega al vento l’immagine gigantesca di Cristo crocifisso, e ai lati del Crocifisso le sembianze di Pietro e di Paolo guerrieri di santa Chiesa. Parve che Gesù Cristo medesimo si presentasse alla flotta condottiero e combattente divino, quando al calare degli altri stendardi volteggiò all’aura tra cielo e mare la maestosa sembianza del Figlio di Dio. Un grido pieno ed universale dei prodi salutò il santo segno, si piegarono davanti ad esso tutte le ginocchia, ad esso si conversero tutti gli occhi e tutte le mani, chi batteva palma a palma, chi percotevasi il petto, chi intuonava cantici, chi domandava mercé, e intanto i sacerdoti d’alto luogo espiavano novellamente col cristiano rito e benedicevano pontificalmente i guerrieri. Sembrò a questo spettacolo scolorarsi la mezza luna, corse ai mussulmani un gelo per l’ossa, impallidì il truculento ceffo di Ali, e Gesù Cristo parve affidasse i campioni col motto che fregia il vessillo, e come già a Costantino dicesse loro “Εν τούτῳ νικᾰ” (= en touto nika) vinci con questo. Ma già di mezzo alle flotte sparito è il mare, già fulminano orribilmente le artiglierie, un nembo di frecce stridenti nasconde il sole, vola quinci e quindi apportatore di morte il fuoco ed il piombo, e le navi con orribile affrontata vengono al cozzo. Quinci i legni cristiani nei turcheschi percotono, quindi i turcheschi nei cristiani; sembra che alla percossa si schianti il cielo, e il mare ne vada alle stelle. I cristiani coi raffi, coi rampiconi, con le catene alle navi turche si afferrano, i turchi alle cristiane. I Cristiani fatto nodo con le spade, con le picche, coi moschetti sui turchi si avventano, i turchi con le nude scimitarre si precipitano sui cristiani. Di qua si assalta, di là si resiste, questi cedono, incalzano quelli, nave con nave combatte, schiera con schiera, soldato con soldato: i bronzi tonanti vomitano senza posa strage e sterminio, il fuoco dall’un naviglio all’altro si rovescia a torrenti, un denso fumo ravvolge l’aria di fitta tenebra. Infuriano intanto disfrenate le fiamme, ardono le navi: e quali stridono con cigolio ferale, e quali scoppiano con orrendo fracasso, quali si fiaccano, quali si fendono: sembra che avvampi il mare, che il cielo precipiti, le grida dei Cristiani, le bestemmie dei turchi, gli urli dei feriti, i gemiti dei moribondi, le voci dei naufraghi che domandano mercé si confondono insieme con inenarrabile frastuono, mentre vola inesorabile fra schiera e schiera la morte, e l’onda tinta in vermiglio tranghiotte nei suoi gorghi le infrante navi, e dibatte col flutto o corpi semivivi di prodi che chiedono mercé, o membra e brani di lacerati cadaveri. Torciamo l’esterrefatto sguardo da tanta atrocità di spettacolo, lasciamo per poco i campi sanguinolenti del mare, e lungi dal fragore delle armi riduciamoci altrove spettatori di più miti battaglie e di più mansueti guerrieri. Vedete voi quel simulacro di soave sembianza, che portato alto sotto nobile padiglione percorre quasi in trionfo le vie popolose di tutte le italiche città? È la immagine benedetta di Maria che supplicata col rosario dai cristiani popoli combatte con la cristiana flotta intercedendo vittoria presso il Dio degli eserciti. La precedono in bella ordinanza supplici schiere di uomini coperti di sacco, di matrone in gramaglia, e di vergini bianco vestite, la circondano devoti drappelli di sacerdoti, la seguono innumerevoli turbe di popolo confuso e misto, le voci argentine dei fanciulli, le soavi delle donne, le tremule dei vecchi fanno echeggiare l’aria con vario concento. Dio ti salvi o Maria piena di grazia, il Signore è teco, intuona una schiera, Santa Maria Madre di Dio prega per noi peccatori, l’altra schiera risponde, e il dolce suono della cara prece molce soavemente i cuori e chiama sul ciglio le lacrime. Che vogliono queste turbe devote? Che si fa qui con questa pompa solenne? Si combatte qui come a Lepanto, ma la maniera della battaglia è diversa. Qui si combatte con le preghiere, a Lepanto con le artiglierie, qui con gl’inni di pace, là col fremito e con le ire guerresche, qui col saluto angelico a Maria ripetuto cento volte e cento, là con le ferite e col ferro. A Lepanto operano le mani dei combattenti, qui s’invoca Maria perché ai combattenti soccorra. E Maria invocata nelle cristiane città, a Lepanto combatteva, e battagliera terribile avventava sui mussulmani il terrore, la paura, lo scompiglio, la fuga, lo spavento, la strage. Quam pulchri gressus fui in calceamentis filia principis. O che belle orme stampavi nella pompa leggiadra del calzamento o figlia del principe! O quanto era formidabile nella battaglia il tuo incesso o Maria! Eri ai Cristiani bella come la luna, eletta come il sole, eri al mussulmano terribile, come esercito schierato in battaglia. In questo atto, in questo sembiante la vide dalla specola pacifica del Vaticano il santissimo Pio, e rapito con lo spirito nel teatro sanguinoso di guerra corse a un balcone, ed ecco, gridò, ecco è vinta la gran battaglia e l’ha vinta Maria, vedo la mezza luna abbattuta, e spiegato al vento sulla capitana nemica il trionfale vessillo di Cristo. Pio così in Roma esclamava: e in Lepanto in quell’istante medesimo una palla cristiana percoteva nella fronte Ali condottiero, che cadendo al suolo ingombrava nuovo Golia col trucidato corpo la nave. Lo vede un prode cristiano e detto fatto; si precipita nella capitana nemica ratto così che non più ratta la folgore, recide al condottiero ucciso la testa, la infigge su di una picca e, orrendo spettacolo, la ostenta levata in alto agli – Un grido di spavento e di orrore si leva tra i turchi, i Cristiani rispondono con un grido di gioia, ed ecco tosto un nodo di valorosi Cristiani irrompe nella spaventata nave, urta, rovescia, trabocca in mare ogni ostacolo, e se ne fa padrone. Fu allora che calò, veggenti tutti, dal più sublime albero il turchesco stendardo, e salì trionfando a pigliarne il luogo il vessillo di Gesù Cristo. Vittoria vittoria si grida al centro della cristiana flotta, al sinistro e al destro si ripete vittoria. D’allora in poi non fu più battaglia fu strage, la disfatta dei turchi fu piena, universale, terribile, la carneficina e la preda non ebbero fine né modo. Cento sette navigli arsi, cento trenta presi, trucidati quaranta mila turchi, prigionieri ottomila, liberati diecimila schiavi Cristiani, il bottino inestimabile, le bandiere, i cannoni, le armi, l’argento, l’oro, le gemme senza numero e senza peso, mentre le recise teste di Alì e di Scirocco infitte sulle picche e portate in col pallore della morte, col sangue, con lo spettacolo, seminavano il terrore e lo sgomento in quei petti che testé infiammavano col lampo degli occhi e col grido. O si abbiano pure e lodi e trionfo nella gran giornata e combattenti e duci; e più che le armi dei combattenti e le prodezze dei duci siano nel trionfo di Lepanto esaltati i consigli del Pontefice Romano Pio quinto. Ma e Pio e combattenti e duci cedano a Maria le prime lodi e il vanto della vittoria, che bene sta. Taccia la lingua del cane che in laide e invereconde pagine invidia e contende il gran trionfo a Maria. – Ascolti i prodi di Lepanto che a gran voce proclamano, che Ella fu veramente che prostrò il nemico e ne conquise l’orgoglio. A Lei dunque sciolga il voto la Cristianità tutta quanta, al suo tempio si appendano le opime spoglie, le armi, le bandiere e i trofei del nemico, a Lei vincitrice sorga sul Quirinale il memore tempio, una solennità perpetua ricordando la gran vittoria intrecci alle palme di Lepanto le rose di Maria, e ringraziamento dei passati e presagio dei trionfi futuri si avvezzi la Chiesa a salutare la Vergine benedetta: Ausilìatrice del popolo Cristiano, prega per noi.

4. E se celebrassi il trionfo di Lepanto in qualunque altra parte del mondo fuorché in Italia, e in qualunque altro tempo fuori che in questo, avrei finito e liberata la mia parola, potrei fra brevi istanti tacere. Ma in Italia, i n questi tempi che corrono, la gloria di Dio e di Maria chieggono quasi per proprio diritto che anche questo soggiunga, che la vittoria di Lepanto fu vittoria italiana. Lasciate o signori che fra tante vergogne che la rivoluzione accumula sul capo di questa misera Italia, una gloria vera le rivendichi che la religione le partorì, la gloria della giornata di Lepanto. Le imprese infatti e le vittorie guerresche si attribuiscono ad una gente, quando in essa si agitarono della impresa i consigli, in essa se ne fermò il partito, da essa venne l’impulso, essa fornì le armi, le macchine, gli strumenti marziali, essa e i soldati e i condottieri, e ciò che è il nerbo nelle cose di guerra, essa con l’oro dei suoi erari diede vita e movimento a ogni cosa. Ora o signori, con gli incorrotti monumenti della storia alla mano io potrei senza fatica, discorrendo uno per uno i capi proposti, mostrare che tutto fu Italiano nella impresa di Lepanto. Un italiano principe infatti, Pio quinto pontefice, concepì il disegno della lega, e col consiglio, con l’autorità, con le legazioni, con l’oro le dette vita, mossa ed impulso: italiane tutte non una eccettuata, furono le navi che fecero in Lepanto le mirabili prove, italiane le artiglierie e le armi: le munizioni e gli arredi o da battaglia o da corso italiani: italiani da non molti spagnuoli infuori, i soldati: i rematori italiani, italiani i marinari e le ciurme. Italiano veramente non fosti o Giovanni d’Austria supremo duce della cristiana flotta, ma tutti italiani furono gli altri duci, e confessasti tu stesso o giovane egregio, e nessuno al detto tuo ripugnò, che la gloria della giornata di Lepanto appartenne al grande italiano che ha legato ad essa perennemente il suo nome, Marco Antonio Colonna. E mi metterei volentieri per questa via, anche perché fosse aperto che noi uomini di chiostro e di chiesa amiamo la patria e ne vendichiamo la gloria, ma la gloria vera non la falsa, la cristiana non la pagana, quella che partoriscono i consigli generosi e le opere egregie, non quella che fruttificano le tirannie e le vessazioni contro gli inermi ed i deboli, e le vigliacche connivenze verso i potenti. Ma io parlo nel cattolico tempio, tra la pompa di cattolica solennità, però sollevo l’orazione ad altezza più augusta, e dico che la impresa di Lepanto e la vittoria, fu impresa e vittoria Italiana perché fu impresa e vittoria pontificale. Gesù Cristo figliuolo di Dio, volendo congiungere tutti gli uomini da se redenti col sangue, nella carità di una sola famiglia, costituì centro e padre di questa famiglia, il Pontefice Vicario suo, e ordinò che la sede di questo Pontefice fosse Roma e l’Italia. Di qua come da rocca e specola divinamente costituita prospettasse l’universo mondo, di qua desse i responsi, di qua dettasse la legge, di qua confermasse i fratelli, di qua partisse, qua ritornasse il capo di quella catena che allaccia 1’universo mondo in unità di comunione e di fede. D’allora in poi si stabilì quasi una reciprocanza di uffici tra il Pontificato e l’Italia per modo tale, che il Pontefice illustrasse della sua gloria, corroborasse colla sua potenza, e della sua grandezza ingrandisse l’Italia, e la Italia grata e riverente vendicasse a sé le prime parti nell’ossequio al Pontefice, e nel grande ufficio di reggere la Chiesa, con ogni sua opera negli ordini naturali ed umani gli soccorresse. Si ricordò Pio quinto pontefice massimo di questa gran missione dell’Italia, allora quando il terribile nemico del nome Cristiano, rotte oramai le barriere dell’oriente rovesciava sull’Europa sbigottita e divisa, e la chiamò alla difesa della società e della Chiesa, si ricordò l’Italia dell’ufficio suo e prese nella grande impresa il posto di onore. Non una città, uno stato, non una provincia, non una terra, non un castello italiano, e per poco non dissi non una nobile ed insigne famiglia del patriziato che non avesse a Lepanto o navi o soldati condottieri e non comprasse la vittoria col sangue o con l’oro: e il Pontefice con l’Italia e l’Italia col Pontefice presso che soli, rovesciandosi sul mussulmano nelle acque di Lepanto, lo percossero di tal colpo dal quale non si è più rilevato. Vittoria italiana fu dunque la vittoria di Lepanto, e Pio lo sentì, e cuore veramente italiano, insieme col debito tributo di azioni di grazie a Dio O. M. e alla Vergine vincitrice, apparecchiò al Romano vincitore un romano trionfo, nel quale con Marco Antonio Colonna trionfasse l’Italia. Correva il giorno quarto di dicembre di questo anno medesimo che fece insigne la gran vittoria, e tutta Roma era in arredo di solennità, di giubilo, di trionfo. Brillava il sole quasi fosse di primavera, le strade erano cosperse di fiori, archi di trionfo e festoni di verzura adornavano la via trionfale, tuonavano le artiglierie, i popoli, i magistrati, le arti raccolto sotto i loro stendardi si versavano alla porta Capena. O nobile spettacolo. In arnese di gala precedono le milizie pontificali sotto le loro bandiere, presso ogni bandiera cori e armonie di musiche bellicose, succedono le arti sotto i loro vessilli, alle arti le accademie, alle accademie i collegi, ai collegi il patriziato e le corti. Chi ha parole per ridire cotanta festa? Chi può ritrarre narrando e le pittoresche divise del cinquecento, e le pompe e l’arredo dei cavalieri e delle dame e i cocchi e i cavalli e i drappi e l’oro argento e i popoli senza fine né numero e una gioia e un tripudio e un’esultanza sì piena, sì universale, quale noi in questi tempi di divisioni, di rabbie e di rancori settari neppure possiamo con l’animo escogitare? Che festa è mai questa? E tanta solennità di apparato e di concorso, perché? Leggete il titolo che alla porta soprastà. A Marco Antonio Colonna ammiraglio pontificio, perché ottimamente meritò dell’Apostolica sede, della salute degli alleati e della dignità del popolo romano. Questo titolo fregia la fronte della porta Capena e dice a tutti, che questa pompa trionfale è il premio onde Pio pontefice onora il vincitore di Lepanto. Espugnatori di Roma, incidete un titolo come questo sulla breccia di porta Pia. Ma ecco a un tratto le trombe guerriere raddoppiano il loro squillo, le armi agitate scintillano, le bandiere volteggiano al vento, le artiglierie tuonano più universali e frequenti, un moto vivo e ardente commuove il popolo, tutte le cervici si tendono, si affissano tutti gli occhi, palpitano tutti i cuori, nessuno quasi ardisce fiatare, ecco è Marco Antonio che viene. Procede il nobile guerriero seduto sur un bianco cavallo dono di Pio, porta sul maestoso sembiante mista alla gioia marziale una nobile modestia, con atto di signorile decoro saluta i popoli, e circondato da nobile drappello di prodi che con esso pugnarono in Lepanto entra nella eterna Città. Lo precedono il Leone di S. Marco, e il vessillo di Spagna, insegne delle parti confederate, in mezzo ad esse sventola colle somme chiavi, il gonfalone di santa Chiesa, succede con le corna riversate a terra lo stendardo della mezza luna, e trascinate nel fango le bandiere nemiche, vengono appresso incatenati a due con le ciglia rase di ogni baldanza i prigioni mussulmani. Circondano il duce i magistrati, i guerrieri, le accademie, i patrizi, lo segue turba innumerabile ed esultante. Applaudono le genti, al plauso delle genti rispondono le artiglierie, all’un plauso e all’altro fa tenore il suono dei musicali stromenti. Fra tanto corteggio percorre Marco Antonio la via Sacra. La via medesima, e gli archi di Costantino, di Tito e di Severo, e le colonne, i portici, i monumenti parvero dilatarsi ed esultare ringiovaniti, al non più visto da tanti secoli spettacolo di romano trionfo, e si eclissò la gloria dei trionfatori pagani quando Marco Antonio trionfatore cristiano prima ascese in Campidoglio a ricevere dal Senato la corona del meritato alloro, poi sulla vicina rocca a deporre a pie di Maria il dono votivo e i conquistati trofei, e cavalcando quindi al Vaticano, pianse prima e pregò sulla tomba di Pietro, poi nelle tue braccia o Pio che lo aspettavi, sfogò, figlio nel seno del Padre, la piena del petto. Questo fu trionfo italiano e papale! Mostrate voi, qualche cosa che gli somigli o bastardi della rivoluzione!

5. E qui è tempo che liberi la mia parola e deducendo dalla orazione il perché le feste secolari del Trionfo di Lepanto non si celebrarono al chiudersi del primo secolo né del secondo, e si celebrano in tanta angustia dei tempi al consumarsi del terzo. La rivoluzione celebra senza posa gli anniversari secolari o no, dei suoi non trionfi no, ma delitti, e degli eroi che li consumarono: è giusto e degno che i Cristiani oppongano commemorazioni a commemorazioni, le commemorazioni delle glorie del Pontefice di Maria, di Gesù Cristo, dei Santi, alle commemorazioni dei plebisciti e dei fatti compiuti. Corrono tempi nei quali il Pontificato cattolico è odiato, bestemiato, oppresso, deriso da una fazione di italiani degeneri, nati all’onta e al flagello dei popoli. La commemorazione del trionfo di Lepanto ricorda a questa fazione parricida, che il Romano Pontefice salvò l’Occidente dalla barbarie, e illustrò l’Italia di gloria immortale. Perché l’empietà si allieta di un effimero ed infelice trionfo, insolentiscono i cattivi e portano alta la testa come avessero abbattuto dal trono Dio e Gesù Cristo; noi festeggiando la vittoria di Lepanto ricordiamo a costoro, che è in cielo quel medesimo Dio giusto e potente, che percosse una superbia più solida della loro, la superbia turchesca. I buoni cadono di animo e inviliscono, perché ai cattivi che manomettono oggi cosa umana e divina tutto succede a disegno. Con la memoria del trionfo di Lepanto noi ci argomentiamo di sostentarne il coraggio; e ricordiamo loro che quando Gesù Cristo dice basta, quietano l’onde frementi del pelago e la bonaccia consola in un momento tutte le angosce e i terrori della tempesta. La Chiesa tribolata e oppressa ha converso a Maria le mani e la voce, ma sembra che Maria non abbia udito le preci della sposa del suo Figliuolo. Noi celebriamo il trionfo di Lepanto per ricordare che Maria indugia talora, ma viene a suo tempo, e viene tanto più mirabile, quanto più lungamente aspettata, e guerriera nata della Chiesa fa mirabili prove, schiacciando i figli del diavolo col pie esercitato a schiacciare il teschio del padre. Ecco perché le feste secolari del trionfo di Lepanto, che i nostri padri non celebrarono in tempi lieti e felici, celebriamo noi nella tribolazione di questi tempi che corrono. Sono feste ordinate a commemorare le glorie passate, a consolare le desolazioni presenti, a presagire trionfi futuri. E gli empì lo sentono e si dirompono e bestemmiano e fremono e sfogano in opere ed esalazioni immonde il livore e la rabbia del petto. E questo è un altro motivo perché noi celebriamo le secolari feste delle glorie cristiane; per svergognare la rivoluzione, per confonderne la protervia e sbugiardarne i vanti, per dimostrare con la prova del fatto che il popolo italiano è col pontefice Vicario di Gesù Cristo, che ama la sua religione e il suo Dio, che mentiscono gli empì quando con velenoso oltraggio lo accusano di connivenza con quei delitti che esecra e con quelle opere che condanna. Ecco o signori! Una voce cattolica si è levata in Piacenza e ha chiamato il popolo a celebrare la vittoria di Lepanto. E il popolo alla voce nota dei suoi sacerdoti si è commosso, e questa pompa, e lo splendore di tanta solennità si deve all’obolo volontario del popolo piacentino, e con chi stia questo popolo dice chiaro questa festiva esultanza e questa folla e questa frequenza, alla quale è angusto il recinto del vastissimo tempio. Furibonda per tanto smacco la empietà settaria ha mostrato se stessa con opere degne di sé. E che ha fatto? Ha bestemmiato in lerci giornali, ha contaminato l’immagine sacrosanta del Salvatore; ma il popolo piacentino spregiando i latrati di questi cani, e le opere, e l’immondezza sacrilega di questi ciacchi, è concorso al tempio di Dio, e celebrando il cristiano trionfo, ha ostentato uno splendore e una pompa, e un fervore ed una pietà, quale noi medesimi a stento avremmo osato prometterci. E quello che Piacenza ha fatto, tutte hanno fatto le italiche città, e tanto consenso in fare onore a Maria è pegno e presagio dolcissimo di consolazioni future. E con queste speranze finisco ed esulto nel desiderio e nella espettazione dell’esaltamento della Chiesa del trionfo di Maria. Si io spero questo trionfo, e tanto fidatamente lo spero che quasi il veggo. Veggo, sì veggo un inaspettato raggio di luce rompere finalmente sì fitta tenebra, e fra questa luce veggo ma splendido, ma sereno lampeggiare il tuo bel volto o Maria. Veggo al lampo delle tue pupille sgominate le falangi di satana, e i nemici di Gesù Cristo convertire per più smacco le proprie armi contro se stessi. Veggo te o glorificatore di Maria, padre del cattolico mondo, fortissimo Pio, cingere alla canuta chioma intrecciato alla palma di martire l’alloro della vittoria, veggo umiliati i tuoi nemici, veggo consolati i tuoi figli, e rigettata nell’inferno onde emerse l’idra settaria, veggo turbe di pellegrini da tutto il mondo muovere alla tomba di Pietro a vedere il miracolo, e a sciogliere il voto all’ara di Maria vincitrice. Queste e mille altre cose io veggo, e veggendole esulto, e mi sollevo per gaudio sopra di me. Saranno sogni e lusinghe sterili e vane? No, perché in Maria si fondano: e non ha Maria no, né abdicato il patrocinio della Chiesa, né perduto la sua possanza.

 

SANTISSIMO CUORE DI MARIA

SANTISSIMO CUORE DI MARIA

 [V. STOCCHI, Discorsi sacri; Tip. BEFANI, ROMA, 1884 – DISCORSO XXIV].

“Qui me invenerit, inveniet vitam”.

PROV. VIII, 35.

1. Fino da quando da chi mi tiene il luogo di Dio mi fu posto sopra le spalle il carico alla natura poco soave, di predicare la parola di Dio in tanta iniquità di tempi, il mio cuore e i miei occhi si conversero subito alla stella benedetta del mare, alla Madre immacolata di Dio e Madre nostra Maria, e posi incontanente le mie povere fatiche sotto gli auspici e sotto il patrocinio di Lei, alla quale fino dagli anni primi della mia vita ho dedicato tutte le cose mie e me medesimo. Da Lei madre di grazia, di luce, di fortezza e di verità sperai forza e vigore, da Lei grazia e virtù, da Lei efficacia e dono per condurre le anime a Gesù Cristo, da Lei insomma ogni cosa, e se nulla hanno operato le povere mie fatiche, se qualche frutto ha secondato il sudore e il travaglio della parola di Dio seminata da me, tutto il merito è stato sempre di Maria della quale la misericordia e il patrocinio e nel corpo e nell’anima tocco tutto giorno con mano. Essendo così, è naturale che io ardentemente desideri di fare alcuna cosa che sia cara a questa Vergine gloriosa per attestarle la mia gratitudine; e fra le altre è mio costume di argomentarmi di tirare a Lei i cuori di tutti persuadendo a tutti che trovata Maria, troveranno la vita conforme a quello: qui me invenerit inveniet vitam. E per riuscire in questo intento soavissimo io ho per costume di non lasciare che trascorra alcun corso di predicazione, nella quale io abbia parte, senza favellare del Cuore benedetto di Maria, additandolo a tutti come porto unico e soavissimo di pace, di sicurezza, di misericordia. Tale io ho trovato il Cuore di Maria per me, tale l’ho sempre mostrato agli altri, tale a voi, se mi udirete, lo mostrerò stamattina signori miei. Vi parlerò del cuore di Maria pianamente e devotamente, quanto mi sarà possibile, cercando di innamorarne tutti e specialmente i poveri tribolati, gli afflitti e i peccatori, e beato me se riuscirò nell’intento. Innamorarsi del Cuore di Maria è come far suo quel Cuore benedetto; chi ha fatto suo il cuore di chi che sia è padrone di tutto l’uomo. E che bramerà di vantaggio chi abbia fatto suo il Cuor di Maria?

È cosa che si ripete ogni giorno nella santa Chiesa Cattolica, e che mille volte ridetta torna sempre gradita come se nuova fosse al popolo cristiano, che nulla è più amabile più soave più salutare del pensiero, del nome, della memoria della Madre di Dio. Maria! Basta pronunziare questo nome perché palpiti ogni cuore, perché sorrida ogni labbro; perché ogni tristezza si dilegui, perché ogni petto si riempia di giubilo. Come, se dando luogo i nembi, la stella del mattino scintilla tremula nell’azzurro del firmamento, o come se dopo la pioggia si colori tra le nubi la variopinta gloria dell’iride; così dice Bernardo, tra le tenebre di questa terra sgombrano le nuvole, riede il sereno, chetano i turbini e fiorisce la pace, quando s’invoca Maria: Maria nella quale tutto innamora, il nome, il grado, la grazia, la gloria, la dignità. Tutto questo è verissimo e io mi glorio di predicarlo, né tacerò le glorie e le misericordie di tanta Madre, finché il cuore nel petto mi palpita, e si snoda alla parola la lingua. Con tutto ciò dilettissimi dopo avere detto Maria, provatevi a dire Cuore di Maria; voi sentite subito di avere detto qualche cosa di più caro, di più tenero, di più soave che dicendo semplicemente Maria. Accade a noi o Madre benedetta quando menzioniamo il tuo Cuore quello che ci accade quando menzioniamo il Cuore del tuo Figliuolo. Io dico Gesù, e il nome di Gesù è miele alle labbra, melodia alle orecchie, giubilo al cuore, ma se dopo avere detto Gesù passo innanzi e dico Cuore di Gesù, sento l’anima mia essere percossa di affetti insoliti verso il mio Redentore e me ne rendo questa ragione. Quando io dico Gesù mi si rappresenta al pensiero nella pienezza della sua magnificenza della sua potestà il Verbo incarnato. Lo vedo quindi non solamente uomo ma Dio, non solamente amico e fratello ma Pontefice e Re. non solamente Padre ma Giudice. Non così quando dico Cuore di Gesù. Il cuore è simbolo dell’amore, è sede dell’amore. è organo dell’amore. Chi dico cuore dice amore, chi vede il cuore vede l’amore, e quando nomino il Cuore di Gesù, sparisce il giudice, il re, l’onnipotente a cui ogni ginocchio si curva in Cielo ed in terra, e vedo solo l’amante delle anime, il Pastor buono, il vero padre ed amico dell’uman genere morto in croce per me. E anche in questo o Madre benedetta, voi vi rassomigliate al vostro Figliuolo. Io dico Maria, e nominandovi vedo Voi tutta quanta. Non vedo solamente la più amabile e misericordiosa creatura che abbia fatto il Signore, ma vedo ancora la augusta Regina della terra e del Cielo, l’innalzata al consorzio della Trinità sacrosanta, la piena e soprappiena di santità. E allora sento di amarvi, ma all’ amore si mesce la riverenza, e per alta ammirazione la mia fronte si curva davanti a Voi. Eppure noi abbiamo bisogno di accostarci a Maria con fidanza filiale. E però passiamo avanti e diciamo Cuore di Maria. Ed ecco alla menzione del cuore sparisce la grande, la regina, la sublime, la tutta santa, e altro più non vediamo fuorché la Madre piena di misericordia e di amore. Vengono quindi al dolce richiamo del tuo cuore vengono gli uomini al tuo cospetto o Maria e ti raccontano i loro dolori e ti partecipano le gioie, ti svelano le proprie miserie e ti chiedono le tue ricchezze, i nostri peccati, i nostri peccati medesimi non ci sgomentano vedendo il tuo cuore, e scuoprendoli a te, sentiamo rilevarsi l’anima e speriamo la misericordia e il perdono. E questo è il motivo perché in questi miseri tempi Maria ha svelato straordinariamente il suo cuore. Ha voluto alla nostra generazione pervertita dalla empietà offrire un’esca dolcissima e un porto di salute e di pace. E gli uomini hanno inteso quest’arte di amore, e veduto il Cuor di Maria come trovato avessero un centro di attrazione invincibile, a quello sono corsi e in quello hanno trovato vita, salute, grazia, ogni bene: e più facile sarebbe contare le stelle del cielo e le arene del mare che le misericordie e le grazie d’ogni maniera, che la devozione al suo cuore ha espugnato a Maria. No, quando si fa capo al suo cuore, Maria non resiste.

2. Ma entriamo alquanto più addentro e scandagliamo la ragione intima di tanta forza di attraimento che esercita sugli uomini il Cuore benedetto di Maria e la troveremo, per così dire, naturale nell’ordine soprannaturale della grazia. Mi aiuti Maria perchè il concetto della mente esprima adeguatamente la lingua. Uno degli spettacoli più misteriosi e più teneri che la natura appresene è l’amore dei figliuoli verso la madre, e viceversa l’amore della madre verso i figliuoli. Feri questo spettacolo la mente e gli occhi del divino Crisostomo, e lo espresse con viva eloquenza così. Mostra a un pargoletto lattante ancora e ignaro di tutto una regina coronata di gemme e vestita di oro dall’una parte, dall’altra mostragli la sua madre avvolta nei cenci e coperta di povertà e di squallore e vedrai. Nulla intende quel piccioletto nulla conosce, ma con tutto ciò non cura la regina, la sprezza, la sdegna, la risospinge, ma non così con la madre. Si ravviva tutto vedendola, brilla, sorride, e protendendo verso di essa coll’animo la persona, si scaglia e quasi si avventa per abbracciarla. Che è mai questa attrattiva, questo impeto e questa foga che rapisce quell’animo inconsapevole verso la madre? Che sia, non domandare che io non lo so, so che è cosa verissima e potentissima ed è un senso, un istinto ideato dalla mente divina e dalla divina mano inserito nell’anima, che stabilisce, corrobora, illegiadrisce le relazioni naturali tra figlio e madre, tra madre e figlio. Essendo così, qual luogo tiene Maria nell’ordine mirabile della redenzione e della grazia? Tiene il luogo di madre. Mirabil cosa Gesù Cristo è venuto in terra per stabilire tra gli uomini una famiglia collegata con i vincoli dell’amore e della fede, la quale in terra si inizi, e si consumi e perfezioni nel Cielo. In questa famiglia è un Padre ed è Dio, un primogenito ed è Gesù Cristo, fratelli moltissimi di ogni popolo, d’ogni tribù, di ogni lingua. Ma alla buona economia della casa è richiesto che ogni famiglia abbia una madre, che divida col padre l’autorità, che vegli con occhio amoroso la prole, e soprintenda agli uffici più intimi e più delicati di casa. Ora Dio non ha voluto che a questa gran famiglia della sua Chiesa una madre mancasse, ed ottima di tutte le madri le ha dato Maria. E Madre la saluta la Chiesa, e il vocabolo col quale ogni cristiano appella Maria è il dolce nome di Madre. Né questa è squisitezza o esagerazione mistica, ma verissima dottrina cattolica: e i Padri di tutti i secoli con consenso pienissimo insegnano che come Gesù Cristo è il nuovo Adamo miglior dell’antico, capo del genere umano rigenerato, così è Maria l’Eva novella madre per grazia di tutti quelli che Gesù Cristo rigenerò alla salute; e sono celebri i paralleli che tra Eva e Maria tessono Ireneo, Epifanio, Agostino e Bernardo. Voleva quindi ogni ragione che come nell’ordine della natura Dio inserisce nei figli un attraimento arcano verso la madre per cui anche il pargoletto inconsapevole la discerne tra mille e a lei corre e in lei si abbandona, così nell’ordine della grazia un affetto arcano, una propensione quasi istintiva fosse inserita verso Maria. E questo affetto, questa propensione, lo Spirito Santo medesimo inserisce nei petti cristiani sino da allora che nel santo Battesimo muoiono all’antico Adamo e rinascono al nuovo Adamo che è Gesù Cristo. In quelle acque sacrosante nelle quali veniamo rigenerati, insieme con la grazia santificante e con gli abiti delle virtù soprannaturali che ci si infondono, ci si infonde ancora l’abito dell’amore a Maria. E per negare che questo affetto ce lo troviamo quasi inserito nel cuore, bisogna chiudere gli occhi alla luce, bisogna negare quello che ci dice ragionando altamente nel nostro cuore l’intimo senso. Pigliate quel pargoletto e quella pargoletta che pendono ancora dal seno materno, mostrate loro la immagine di Maria. Vedrete un’arcana simpatia, una tenerezza, una propensione, un attraimento di quell’anima innocente verso la benedetta fra le donne. Insegnategli a giungere le tenere mani e a balbettare con labbro infantile Maria, e vedrete con quanta facilità con quanto diletto quel dolce nome si stampa in quella memoria e in quel cuore, e dal cuore viene sul labbro, e sarete costretti a dire che lo Spirito Santo diffuso nei loro cuori generi questo affetto, generato lo nutrisca, nutrito lo perfeziona. Quindi è che questo affetto, se il peccato e l’iniquità non lo spengono, insieme colla fede cresce con gli anni e ci appresenta quello spettacolo che tutto giorno e agli altri porgiamo noi stessi, e noi stessi ammiriamo negli altri. – Se ci stringe un pericolo, chi invochiamo per soccorso? Maria. Se ci rallegra una consolazione chi ringraziamo per gratitudine? Maria. Se un affanno ci preme, chi invochiamo per refrigerio? Maria. Se ci assedia una necessità a chi ci volgiamo per sovvenimento? A Maria. Si vede, o si vede e si tocca con mano in questa gran famiglia cristiana quello che si vede in ogni ben composta famiglia, e come in quella in ogni necessità, in ogni pena, in ogni consolazione i figli fanno capo alla madre e tratti quasi da una dolce necessità ne la chiamano a parte, cosi anche in questa. E come nella famiglia un figlio che non ama la madre, che la disconosce e le fa villania si ha in conto di mostro snaturato e maledetto dagli uomini e da Dio; così fra i cristiani quelli che non amano, che non curano, che hanno alieno e avverso l’animo da Maria, sono pochi perché sono mostri, e i mostri non sono mai un gran numero. Anche fra i Cristiani di vita prodigata e perduta troverete di rado alcuno che non serbi nel petto qualche scintilla di amore a Maria, e questo è pegno di salute e ancora di misericordia, e basta perché non se ne debba disperare la conversione. Ma se qualcuno se ne trova, o Dio, guai a lui; fa orrore, mette spavento appunto come un mostro, e fra i segni di riprovazione non ce n’è alcuno che sia più terribile di una non so quale alienazione e avversione di animo da Maria. Questa avversione questo allenamento si è sempre visto negli eresiarchi più atroci e più empì, e Lutero diceva, siccome è noto, tutta l’anima mia si ribella e non posso patire in pace che mi si dica che la mia speranza è Maria. Infelice, cui il demonio invasava il petto del veleno e dell’odio che lo consuma contro la sua nemica. Quest’odio vediamo rinnovellato ai dì nostri nei settari che si sono venduti alle congreghe d’inferno, e fanno guerra a Maria ne bestemmiano il nome, ne distruggono il culto e le immagini, anime reprobe e destinate all’inferno. Da questi infuori regna in tutti i cuori cattolici l’amore, la tenerezza e una propensione filiale verso Maria. Ma che dico solo tra i cattolici? Domandate donde trae suo principio la conversione degli eretici alla Chiesa cattolica e sentirete che il primo passo fu un pio affetto che sentirono nascersi in petto verso Maria. Interrogate il missionario che si aggira per le barbare spiagge dell’Australia e della Polinesia come fa ad attrarre a se quei barbari e di bestie farli uomini e di uomini cristiani? Sotto un padiglione di verzura adorna di veli e di fiori che dà il paese, campeggia una cara immagine di Maria. Il selvaggio dal folto dei macchioni e dal cupo degli antri dove si intana vede quella cara sembianza e si accosta, e attonito domanda chi sia quella matrona sì augusta e sì amabile? Ode che è la Madre di Dio, e tirato e vinto quasi da catena amorosa dal nome di Maria è condotto a Gesù Cristo e alla Chiesa. Non vi faccia meraviglia. L’anima, disse sapientemente Tertulliano, è naturalmente cristiana, e avendo col Cristianesimo proporzione sì grande, non può non avere propensione naturale verso chi è la Madre di Gesù Cristo e del Cristianesimo, delle membra e del capo. Ma se Maria è la Madre universale andate al suo cuore. La madre più che altro si governa col cuore, e se volete espugnarla ragionate poco e date opera di guadagnarle il cuore: guadagnato il cuore è già vinta. Maria è madre andiamo al suo cuore, preghiamola pel suo cuore, espugniamo il suo cuore: la impresa è facile, ed otterremo ogni cosa.

3. Ma Dio che tanto amore ha infuso e propensioni affettuose così mirabili nel cuore del popolo cristiano verso Maria, avrà poi lasciato imperfetta l’opera sua, e non avrà acceso una fiamma di amore corrispondente nel cuore di tanta Madre? Voi intendete bene che questa mia domanda significa questo. Se ci ama Maria, e il vostro cuore ha risposto a quest’ora, se ci ama Maria? E non è il medesimo dire Maria e dire la più tenera e amorosa di tutte le madri? Le opere di Dio sono perfette nell’ordine della natura, ma nell’ordine della grazia sono perfette infinitamente di più. Ora la natura con la sua mano innesta nel petto dei figli l’amore verso la madre, ma nel cuore delle madri inserisce un amore molto più veemente molto più tenero, molto più sviscerato e costante. Vedrete quindi moltissimi figli disamorati delle loro madri, ma madri che non amino i figli le troverete rarissime, e appena qualcuna che vi metterà come snaturata sdegno e ribrezzo. Ora volendo Dio dare in Maria al mondo una madre, inserì nel cuore degli uomini un grande amore di Lei, ma nel cuore di Lei accese verso di noi un amore che non ha paragone altro che coll’amore che per noi arde nel cuore di Gesù. E per questo affetto cominciò il signore l’opera sua fino da quando questa futura Madre di Dio e degli uomini fu concetta, e le collocò in petto un cuore somigliante a quello che da Lei preso avrebbe Gesù, perché Maria, dice sapientemente S. Efrem Siro, è un’opera fatta solamente pel Verbo incarnato, di forma tale che se il Verbo non si fosse dovuto incarnare Maria non sarebbe stata nel mondo introdotta. A questo cuore poi lavorato apposta per amare gli uomini, Gesù medesimo che creato lo aveva, dette con la sua mano stessa la perfezione e la tempera, e lo empié del suo amore medesimo e lo scaldò della sua medesima fiamma. E chi ne può dubitare? – Gesù prese carne dei sangui purissimi sgorgati dal Cuore di Maria, Gesù albergò nove mesi nel santuario verginale dell’utero di Maria, e quei due cuori palpitarono di un medesimo palpito e vissero di una medesima vita. Che faceva quei nove mesi che tenne compresso il claustro delle viscere materne, che dico il Cuore di Gesù? Ardeva di amore smisurato ed ineffabile verso i figliuoli degli uomini. Come dunque non doveva accendere il cuore di Maria del suo medesimo ardore e temperarlo alla fucina delle fiamme che consumavano il suo? Ma che sarà stato poi durante quei trentatré anni che Ella dimorò con Gesù pellegrina celeste sopra la terra? Ci dice il Vangelo che questa Verginella prudente teneva sempre gli occhi in quel modello divino e tutto esaminava notava tutto, e quello che Gesù faceva e quel che diceva, e le comunicazioni mirabili col Padre, e le predilezioni verso i figliuoli degli uomini, e le propensioni, e i desideri e gli affetti, e nulla le sfuggiva e faceva tesoro di tutto, e tutto conservava dentro al suo cuore e tutto ponderava, tutto pensava, tutto seco medesima conferiva con diligenza celeste. Conservàbat omnia verbo hæc in corde suo. (Luc. II, 51) Avete udito? Teneva assiduamente il suo cuore alla scuola del Cuore di Gesù e lo formava su quel modello divino con sollecitudine tenera, gelosa, assidua, squisita. Conservabat omnia, verbo, haec in corde suo. E che altro da quel Cuore poteva imparare il tuo cuore o Maria fuor che ad amare quantunque immeritevoli, quantunque ingrati i figliuoli degli uomini? Ma che fa mestiere procedere per argomenti a mostrare l’amore di Maria verso gli uomini? Basta aver occhi per vedere com’Ella tutti mirabilmente fornisce gli uffici di ottima madre. A che prove conoscete se una madre ama veramente i figliuoli? Alle opere. Vedete non vive altro che per la sua famiglia, altro non cerca, di altro non si briga, non pensa ad altro. Ora in ogni famiglia ben ordinata, chi guardi bene vedrà che essendoci una madre e un padre sono tra questo quasi domestico magistrato compartiti gli uffici. L’autorità paterna è un’autorità grave e robusta, la materna, amorosa e soave, il padre sopraintende ai negozi che escono fuori delle pareti domestiche, e regola le relazioni esterne della famiglia, la madre è una autorità casalinga a cui appartengono le cure tenui ed interne. Alle cure grandi e rilevanti attende il padre, la madre dà opera alle incombenze minute. Però la madre si tiene davanti da mane a sera la sua famigliola e vede tutto, tutto procura, nulla le sfugge. Al modo medesimo passano le cose in questa gran famiglia della Chiesa, dice Bernardo. Ci è Dio nostro Padre e Gesù Cristo nostro fratello e da loro scende ogni bene. Ma ci è anche una madre a cui appartiene il governo e l’economia domestica di questa famiglia ed essa è Maria. Si tiene Essa però davanti tutti i figli della santa Chiesa cattolica, e tutti ci vede, ci conosce tutti, tutti ci custodisce, tutti ci veglia, vede tutte le nostre necessità, indaga i bisogni e pensa e provvede. E questo povero figlio è peccatore, è peccatrice questa povera figlia: e questo è tribolato, quest’altra è afflitta: e quale è infermo e quale in pericolo: a questo tende insidie il demonio, quest’altro il mondo lusinga: questa sta per cedere a un seduttore, quell’altro incatenano i lacci di una occasione: vede Maria vede, il cuore materno s’intenerisce, l’amore la sollecita e non ha pace. Si volge al Figlio, si appresenta al trono della Trinità sacrosanta, e supplica e implora a questo la conversione, la salute a quell’altro, a chi la forza e la grazia, a chi la speranza, a chi la consolazione, a chi lo scampo e la vita, a chi la vittoria contro il maligno in vita e in morte. Però è sempre attorno pel Paradiso, e i santi Padri leggiadramente la chiamano del Paradiso la faccendiera, però come nella famiglia i figlioletti chiamano più la madre che il padre, così nella Chiesa cattolica si chiama Maria continuamente, Maria, Maria. Non udite? Maria si grida dal mare se minaccia procella, e se l’onda è tranquilla le si insegna a salutarla stella del mare: Maria si invoca dalla terra o volgono prosperi e felici i successi o corrono torbidi e avversi. Dai letti del dolore si chiama Maria, nelle angustie e nelle distrette Maria s’invoca. Ed Ella? Ed Ella come colei che tota suavis est ac piena misericordiæ, che tutta è soave e piena di misericordia, omnibus sese exorabilem, dice Bernardo, omnibus clementissimam præbet, omnium necessitatibus amplissimo quodam miseratur Con quel suo cuore buono, largo, benfatto, generoso, benefico, a tutti si porge esorabile, clementissima a tutti, e con amplissimo affetto s’intenerisce alle necessità di tutti. Però ogni tempio, ogni lido, ogni terra, ogni spiaggia è piena dei monumenti e dei voti che attestano, che cuore sia quello di Maria, e quei monumenti e quei voti gridano in loro linguaggio, Maria ha un cuore grande, tenero, gentile, benefico: chi fa capo a quel cuore non patisce ripulsa: omnium necessitatibus amplissimo quodam miseratur affectu.

4. E perché Maria fosse tale Dio volle esercitare e perfezionare col dolore il cuor suo immacolato, verginale, santissimo, innocentissimo. Avrete sentito dire che Maria dal momento che divenne Madre di Dio divenne madre ancor di dolore, e portò sempre infitta nel mezzo al cuore una spada. È verissimo e così fu, e così conveniva che fosse. Perché osservate. Una madre buona e degna di questo nome ama tutti egualmente i figliuoli suoi: non ha parzialità per nessuno: sono tutti frutti delle sue viscere, li ama tutti ad un modo. Ma se tra i figli alcuno ne sia pel quale sperimenti più tenerezza qual è? È quello per cui ha molto patito. Il cuore di ogni madre è fatto così, il dolore patito genera amore, e il figliuolo delle lacrime e del dolore è il figliuolo prediletto. Essendo così, Dio che ci ha dato per figli a Maria, e ha costituito Lei nostre madre perché tutti ci avesse in grado di prediletti ha voluto che tutti fossimo per Lei figli di dolore. Già fin da quando aperse le sue viscere al Verbo di Dio intese che quel figliuolo destinato ad essere vittima del genere umano sarebbe per lei figliuolo di lacrime: ma lo intese anche meglio poco di poi. Aveva appena da quaranta giorni partorito Gesù e madre fortunata e incomparabile portava al tempio il frutto delle sue viscere, quando torbido e rabbuffato le si fece incontro un vegliardo per nome Simeone e presole di tra le braccia il bambino, questo bambolo, esclamò, è posto in ruina e in resurrezione di molti, e in bersaglio di contradizione: e tu donna preparati perché per conto di lui una spada ti trapasserà il cuore da parte a parte. Intese allora Maria tutto il mistero e capì che quel figlio all’età di trentatré anni le morirebbe crocifisso. Povero cuore da quel giorno in poi non ebbe più lieta un’ora, e come Gesù dal presepio al calvario ebbe sempre nel cuore la croce, così tu o Maria avesti sempre nel cuore la spada. Cresceva Gesù, crescendo in età sempre diveniva più vezzoso, più giocondo, più bello, lo irraggiava la sapienza, lo infiorava la grazia, Dio e gli uomini si compiacevano in esso, le spose e le madri di Sion ti predicavano beata, e tu tacevi: ma chi ti avesse letto nel cuore avrebbe letto le parole della desolata Noemi: non mi chiamate felice ma amara perché il Signore mi ha ripiena di amaritudine: e il significato di queste parole si sarebbe inteso quel giorno che ti sarebbe conferito il grado di Madre degli uomini. Orsù dilettissimi, rispondete: quando e dove Maria veramente ci partorì e diventò madre nostra? Nel gran giorno del dolore là sul Calvario. Stabat iuxta crucem Jesu Mater ejus (Ioan. XIX, 25.) Pendeva Gesù dalla croce sanguinolento olocausto: ai piedi della croce stava Maria. Presso Maria, rappresentante nostro, stava Giovanni. Maria trambasciava di dolore, Gesù la vide, e additandole Giovanni le disse: ecco il tuo figliuolo, e a Giovanni: ecco la madre tua. Allora divenne Maria madre nostra, e in Giovanni tutti quanti ci accettò per figliuoli, e Gesù consumò l’opera gettandole in petto una parte di quella fiamma che nel suo Cuore allora ardeva per noi. Coraggio o carissimi, coraggio: Maria ci ama, siamo suoi figli e non figli in qualunque modo, ma figli del suo dolore, e però prediletti, e quando ci vede ricordandosi quel che ha patito s’intenerisce, il suo cuore non regge più e dimentica tutto e solo sente le voci dell’amore. Tutta la terra è piena delle misericordie di Maria verso i figliuoli degli uomini che si cantano in ogni lingua, si magnificano da ogni labbro. Come mai in tal Regina tanto amore verso una generazione scortese, ingrata, villana? Non vi stupite gli uomini sono figliuoli del suo dolore. Nessuno dunque abbia temenza di accostarsi a Maria. Ogni temenza sarebbe irragionevole. Andate pure e sappiate che quando un figliuolo la supplica, il cuor suo non resiste. Guardatela ha il cuore in mano e par che vi dica son io sì, son io, son vostra madre, accostatevi e vedrete che cuore è questo.

5. E però è che la santa Chiesa tutti invita, tutti sprona a rifuggire al Cuor di Maria: ma di preferenza appresenta quel cuore ai peccatori, che pei peccatori sembra che sia aperto principalmente in questi tempi novissimi, onde la devozione al Cuore di Maria è ordinata principalmente alla conversione dei peccatori. Intendo, intendo. Datemi una madre tenera, sviscerata quanto volete dei suoi figliuoli, datemela a vostro talento imparziale verso tutti i frutti delle sue viscere: vedrete con tutto ciò, che se uno dei suoi figliuoli o le cade infermo e il morbo si aggrava, o geme prigioniero, o vaga tribolato e ramingo sembra che questa madre muti natura. Non sembra più imparziale né eguale con tutti i figli: sembra invece che dimentichi tutti gli altri, che non li curi: tutte le sollecitudini sembrano essere pel figliuolo che tribola e che patisce, sembra che in lui si concentri tutto l’affetto. La vedete quindi o assisa di dì e di notte alla sponda del letto molcere le angosce e alleviare i dolori del caro infermo, o sollecita di sapere le novelle del prigioniero diletto, e dell’amato ramingo, di altro non favella se parla, ad altro non pensa se tace, non ode volentieri che si parli di altri fuorché di loro. Sono tribolati, hanno ragioni sovrane sul cuor materno. Ora chi sono in questa gran famiglia che Dio ha dato a Maria i poveri peccatori? Sono figli prigionieri, sono figli raminghi, son figli infermi. Infermi della pessima malattia del peccato, raminghi ed esuli dalla casa del Padre, prigionieri del diavolo già condannati all’inferno. Li vede Maria e ne sa la miseria incomparabile, e il suo Cuore materno si strugge e si consuma di dolore e di amore. Poveri figli non sanno quello che fanno, sono ciechi, sono travolti da infelicissimo errore: si perdono e non intendono il loro male. Ah! il Cuor di Maria non ha pace, grida mercé al suo Figlio, li cerca, li scuote, li sollecita, li invita, li alletta, e con tenere voci da mane a sera li chiama, e poiché non ascoltano si volge ai figli fedeli, e voi, dice, voi aiutatemi, se mi amate, aggiungete la vostra voce alla mia, e uniti insieme riconduciamo al Padre questi profughi sconsigliati e cari. Peccatori, sentite a quando a quando quelle voci al cuore, quelle grida della coscienza lacerata, quegli impeti, quegli impulsi a tornare al Padre? Sono le voci di Maria che vi chiama, ah! se avete cuore umano nel petto consolate il dolore e rasserenate il cuore di questa Madre. Su rispondete, parlate. Quem fructum habuistis in quibus nunc erubescitis? (Rom. VI, 21.) Vi è messo conto a partirvi dalla casa del Padre? A mettervi per le vie tribolate dell’iniquità? A cambiare il giogo di Gesù colla catena del diavolo? O cari anni della vostra innocenza! O giorni felici della coscienza serena! Allora passavano i dì tranquilli, allora correvano placide e dolci le notti, allora guardavate il cielo con lieto sembiante, allora invocavate con dolce affetto i nomi di Gesù e Maria, il presente era giocondo, non vi atterriva il futuro, la pace del cuore si dipingeva nell’occhio sereno e nel volto. E ora? E ora non ci è più pace. Torbidi i giorni, tetre le notti, la coscienza s’indraga siccome un serpe, pochi momenti di ubriaca voluttà e poi tempesta e fremito nel cuore, e il tumulto e la rabbia del cuore vi si dipinge negli occhi torvi, nel volto arroncigliato, nelle parole rabbiose, nei modi protervi. Su dunque sorgete, poveri assetati di pace, tornate al Padre. Ma vi manca la lena, il giogo del peccato vi grava verso la terra, vi stringe i piedi la catena inveterata di satana. Ecco vi si apre in buon punto il Cuor di Maria. Alzate gli occhi: guardate quella benedetta sembianza, contemplate quegli occhi, quel cuore, quel dolce atto d’invito e poi non confidate se vi riesce. O sì, sì confidiamo, confidiamo tutti o Maria. Il tuo nome infonde fiducia, rincuora la tua sembianza, ma se contempliamo il tuo Cuore, forza è che ci diamo per vinti, perché esercita un’attrattiva che ci trascina. Trahe nos dunque trahe nos Maria … Mostraci, mostraci cotesto Cuore. In odorem curremus unguentorium tuorum, (Cant. IV, 10.) correremo all’odore dei tuoi profumi, e riconciliati con Dio e salvi con Te e per Te, cominceremo nel tempo e continueremo nella eternità a cantare o clemens, o pia, o dulcis virgo Maria.

 

FRANCHEZZA NEL FARE IL BENE

FRANCHEZZA NEL FARE IL BENE

[V. STOCCHI: “PREDICHE”, Tipogr. A. Befani, ROMA 1882- impr.; predica XIII.]

“Filii huius sæculi prudentiores filiis lucis in generatione sua sunt.” –

Luc. VI. 8.

I. Uno dei più fastidiosi e miserabili spettacoli coi quali questo mondo tutto posto in malignità contrista l’animo di chi ama la virtù, è questo così comune a vedersi anzi presso che universale; che i cattivi non si vergognano di essere e di mostrarsi cattivi, i buoni si vergognano di essere o almeno di mostrarsi buoni. Ma come mai! Siamo uomini ragionevoli: al lume naturale della ragione abbiamo aggiunto il lume soprannaturale della fede e siamo cristiani: viviamo in terra cristiana, e proclamiamo tutto giorno che il vizio è cosa abbominevole e turpe, che è cosa nobile, onorata, preclara, riguardevole la virtù, e pure i cattivi marciano a fronte alta e fanno il male non solo liberamente ma con ostentazione e con fasto, i buoni si vergognano di essere buoni, e o lasciano il bene, o trascorrono al male non tanto per malignità e per nequizia, quanto per inerzia, per dappocaggine e per paura. Or donde, donde si sconcio e turpe disordine? Donde procede? Qual cagione lo genera? Perché in un mondo che ci stordisce da mane a sera le orecchie coi vocaboli di libertà, di dignità umana, di indipendenza; la sola iniquità mostra francamente la faccia, e la virtù o si deturpa o si maschera o si nasconde? La cagione è questa, e la definì con evidenza divina Gesù benedetto là dove disse: Filii huius saeculi prudentiores filiis lucis in generatione sua sunt. I cattivi capiscono che non avendo per se né il numero, né la ragione, né la giustizia, né la verità si conviene che giuochino di baldanza, e non mancano a se medesimi; e usufruttuando i tempi che corrono sì propizi per loro, insolentiscono quasi fiere alle quali è stata rotta la catena e la sbarra. I buoni invece di imitare questa prudenza dei tristi e contrapporre alla baldanza il coraggio, la fortezza alla tirannide, la libertà della verità e della giustizia alla soperchieria della iniquità e dell’ errore, usano la prudenza della dappocaggine e della paura, e piegano per viltà il dorso sotto la verga dispotica dei perversi, subiscono il duro giogo e prevaricano. Cadranno a male in cuore, ma cadono; andranno repugnanti e tergiversanti, ma vanno, e questa miserabile prudenza fa che sembrino un esercito i tristi, i buoni un drappello; mentre in verità senza questa i tristi sarebbero così pochi che dovrebbero nascondersi per vergogna. Però è che io voglio questa mattina insorgere contro questa miseria e argomentarmi di infondere un pò di coraggio nel petto dei timidi e dei dappochi. Per conseguire il quale effetto mostrerò di questa timidezza la vergogna ed il danno, e darò opera di fare una come levata di anime risolute che confessino Gesù Cristo in questo mondo che lo rinnega.

2. E comincio donde forse non aspettate: comincio dal confessare che il vincere la corrente e vendicarsi una nobile libertà nella professione della vita cristiana, è cosa di più bravura e contenzione ai dì nostri che pel passato non era, e vuole per conseguenza ed animo più eretto e cuore più risoluto e prontezza più magnanima alla battaglia. Una volta noi che predichiamo il Vangelo parlando di coloro che si ritenevano dal fare il bene e trascorrevano al male per paura delle dicerie e della persecuzione dei mondani e dei tristi, ci ridevamo del fatto loro e li chiamavamo gente che adombrava in faccia agli spauracchi come gli uccelli, e con ragioni palpabili mostravamo ad evidenza che adombrarne era puerilità, farne caso dappocaggine impaurirsene follia, recedere dal bene per cagione di esse viltà, trascorrere al male intollerabile insania. Ma oggigiorno lo confesso non è così. I tristi, così permettendolo Dio, hanno preso il di sopra, e valendosi del vantaggio che loro danno e la nequizia dei tempi e la tirannide della rivoluzione; mettono paura anche a quelli che li dovrebbero contenere in dovere: i buoni si trovano abbandonati senza difesa, sono oppressi o spaventati dalla efferatezza di coloro che hanno come disse S. Pietro il vocabolo di libertà per velame di malizia. Questo è verissimo. Ma d’altra parte, che conseguenza se non può ragionevolmente inferire? Che dunque si può tenere come suole dirsi il piede in due staffe? Zoppicare da due parti? • Pendere ora a destra ed ora a sinistra? Mareggiare tra poggia ed orza tanto da guadagnare la riva senza fatica? No: questa non è conseguenza da seguaci di Gesù Cristo: è un temperamento da schiavi infelici del mondo. La conseguenza unica, vera, legittima, irrepugnabile, è, che conviene armarsi di coraggio maggiore, e seguitare Gesù Cristo con animo pronto ad ogni sbaraglio. Perché Signori non ci è accaduto niente di singolare, niente di strano, niente che Gesù Cristo non ci abbia mille e mille volte predetto. La vita dell’uomo sopra la terra è milizia diceva Giobbe, e molto più è milizia la vita del Cristiano. Ora nella milizia alle volte corrono tempi di pace, e allora la vita militare porta lucro ed onore ma non espone a pericoli. Ma quando meno si aspetta, l’orizzonte politico si rabuffa e alla pace succede la guerra. E allora conviene cambiare la città col campo, ed esporre il petto al ferro ed al piombo sotto pena di essere bollato con la turpe nota di codardo in faccia al nemico. Il simile avviene nella milizia cristiana: corrono alle volte tempi tranquilli ed equabili: e Gesù Cristo è riconosciuto, riverita la Chiesa: e allora la professione aperta di Cristiano non espone a cimenti gravi e talvolta frutta anche onore: e di questa fatta furono i tempi che antecedettero la rivoluzione. Ma Gesù Cristo non ha mai detto che questo ordine di cose lieto e sereno sarebbe stato nella sua Chiesa ordine giornaliero e molto meno perpetuo. Ardisco anzi di dire che in tutto il Vangelo si trovano ad ogni pagina profezie di tempeste e promesse di soccorso fatte alla sua sposa, ma promesse di pace forse nessuna. Certo i Cristiani dei primi tre secoli furono sempre in battaglia, tregua ebbero talvolta, pace non mai, e i trucidati per Gesù Cristo si contano non a migliaia ma a milioni. Sappiamo ancora che avanti che il mondo finisca, deve venire una tribolazione quale non fu, da che le genti hanno cominciato ad essere, ne sarà mai più, onde i martiri che renderanno a Gesù Cristo testimonianza col sangue saranno molto più nella fine che negli esordi non furono. E quando vengono questi tempi: quando il nemico suona la tromba e presenta la battaglia, che conviene di fare? Scendere in campo e combattere. Allora il tempo che Gesù Cristo intuona ad alta voce. Chi vuol venire dietro a me pigli la sua croce e mi seguiti. Chi non piglia la sua croce e mi seguita non è degno di me. Chi si vergognerà di me al cospetto degli uomini anch’ io mi vergognerò di lui al cospetto del padre mio: non ci è scampo, non ci è via di mezzo, l’inferno incalza, Gesù Cristo non cede, o mostrare la fronte, costi quel che si vuole, o dannarsi. Ora questi tempi sono venuti. A vivere in essi è toccato propriamente a noi: conviene sfoderare la spada e scendere in campo altrimenti siamo perduti. Sentite come anima San Paolo i primi cristiani a cimentarsi da valorosi. Deponentes omne pondus et circumstans nos peccatum per potientiam curramus ad propositum nobis certamen. (Hebr. XII. 1. 2.). Gettiamo via il fardello della nostra dappocaggine e il peso di cui ci grava questa carne di peccato che ci circonda, armiamoci di pazienza e scendiamo in campo dove la tromba della tenzone ci appella. Ma il senso inorridisce, la carne ricalcitra, palpita il cuore, manca la lena: un’occhiata al Crocifisso e avanti. Aspicientes in auctorem fidei et consumatorem Iesum, qui proposito sibi gaudio sustinuit crucem confusione contempla et sedet a deoctris Dei. Ecco qua l’autore e consumatore della fede guardatelo o pusillanimi e confondetevi. Esso è andato avanti: si propose il gaudio di salvare le anime vostre e portarle in paradiso preziosa conquista; non badò a nulla non curò la confusione, sostenne la croce, e ora siede alla destra del Padre e vi chiama: avanti, avanti. La cosa dunque è decisa conviene andare. È arduo il passo non ce ne è altro. Sente di acerbo? Convien andare di qui. O questo o dannarsi.

3. Poiché dunque la cosa è cosi e non ci è transazione, alla prudenza non è lasciato altro partito che questo: di vedere di cavarsela meno peggio che può, e salva l’anima, la coscienza, l’onore di Dio, argomentarsi di soffrire meno che sia possibile. – E questo è buono, questo è lecito, questo è ordinato. Ma la via per soffrire meno, e cavarsela meno peggio col mondo, salva l’anima e la coscienza, qual sarà mai? Quella di cedere, di cagliare, di tenere il piede in due staffe, di porgersi con due manichi a chi ci vuol prendere? No: è quella di essere risoluto e fermo alla bandiera di Gesù Cristo. Ponete mente. Il mondo è cane dice S. Giovanni Crisostomo, e tutti i mondani qual più qual meno tengono del cagnesco. Ora quale è l’indole del cane? È questa di indracarsi contro a chi fugge, di cedere contro a chi mostra la faccia. Ti è accaduto di vedere? Se ne va quel passeggiero spensierato e franco pel suo viaggio e passa vicino alla casa dove il cane inquieto e ringhioso dorme tranquillamente nel suo giaciglio. Ode la mala bestia il mutare dei passi, drizza le orecchie, alza la testa, balza in piedi, scuote il dosso, e con alti latrati, con aspri ringhi corre e si avventa. Che farà il viandante mal capitato per evitare la rabbia e il dente di questo feroce? Darà le reni? Piglierà la fuga? Si renderà vinto? Dio ne lo guardi! La bestia piglierà tanto più di baldanza quanto esso mostrerà più di paura, e divenuta tremenda, implacabile gli farà sentire come fledano i suoi rienti, e non basta: perché tutta la canea del contorno sommossa e tratta dai latrati del maggior cane correrà anch’essa ad aggredirlo in massa, ed egli avrà alle mani assai duro partito. Che farà dunque? si rincuori, confermi l’animo, mostri alla turpe bestia la faccia, la guardi fisso, la bravi, le corra addosso e vedrà. Si arresta alla prima mostra di resistenza il bracco poltrone, poi caglia, poi cede; poi dà le groppe, poi fugge esterrefatto e si invola, e tutta la canea minore cede il campo e s’invola con esso. Il viandante si è vendicato in libertà, potrà passare mille volte per quella via, non patirà più mai molestia nessuna. Così il Crisostomo, il quale seguita domandando, onde avviene che il cane dia le reni e fugga se l’uomo resiste, e s’indraghi invece e diventi terribile se caglia e mostra paura? Avviene così. Sente il tristo animale la propria inferiorità in faccia all’uomo, e non ha altro coraggio che quello che l’uomo gli rinunzia quando abdicando per dire così la propria superiorità e il proprio grado, s’atterrisce e mostra paura. Essendo così, l’uomo è sempre uomo, signori miei e il vizioso sente la propria turpitudine e la propria viltà, e stima naturalmente la virtù e chi la possiede. Di qui è che invidia il virtuoso e, non potendo essere come lui, l’odia e lo perseguita con livore diabolico, ma mentre lo perseguita, lo riverisce interiormente e lo teme. Se l’uomo buono pertanto quando il perverso o lo deride o lo insulta o lo perseguita; si avvilisce, cede, mostra paura, trascorre a connivenze infelici, si nasconde, quasi vergognandosi di essere buono e di stare coi buoni, è finita: il tristo che è per natura vigliacco e ingeneroso, piglia baldanza come il cane in faccia all’uomo spaurato e vi perseguita con tale pertinacia ed efferatezza che non vi dà più pace, e tutta la canea dei tristi di second’ordine insorgerà contro di voi. Volete vincere in questo miserabile certame e vendicarvi la nobile libertà di essere cristiano cattolico a fronte aperta? Non curate questi soperchiatori codardi: alzate loro in faccia gli occhi: intimate liberamente che volete fare di vostro senno, e vedrete; vedrete che stringeranno dapprima i denti e ringhieranno contro di voi: poi daranno addietro, poi taceranno, non passerà gran tempo che potrete fare quel che volete, e non solo non vi molesteranno; ma vi loderanno e diranno di voi che siete uomo di principi e che non ammettete transazioni quando si tratta della coscienza. Girate gli occhi all’intorno e vedrete un certo numero di persone uomini e donne che professano liberamente i principi cattolici e sono rispettati da tutti. Come hanno fatto a imporre silenzio alla canea maggiore e minore? Con questa libertà dimostrata francamente in faccia ai soperchiatori. Oh se ciò intendesse la povera gioventù: oh quanti si salverebbero che miseramente prevaricano! Quella fanciulla ama la virtù e la pietà; le piace frequentare la chiesa, assidersi alla mensa celeste, non ama le leggerezze e le vanità alle quali corre dietro si perdutamente il suo sesso: quel giovane è stato bene educato, ha saldi in mente i sani principi: vuole attendere all’anima sua, aborre dalle sfrenatezze e dalle turpitudini dei dissoluti, dei disonesti e degli sboccati. Ma se ne sono accorti quella fanciulla civetta, quel giovinastro discolo e libertino: se ne sono accorti e quando li vedono li guardano con un cipiglio di scherno, sogghignano, insultano, fate largo, gridano, alla santa e al santo che passano. Sbalordiscono i cattivelli a questi dileggi, rappicciniscono, si tengono perduti, non è fanciullo che tremi tanto sotto la verga del pedagogo come costoro in faccia a questi censori. Semplicetti che siete! Sappiate che quella civetta e quel discolo vi stimano in loro cuore, e vorrebbero essere come voi: alzate la fronte, deridete chi vi deride, date loro i titoli che si meritano, e vedrete rannullarsi quella baldanza e quei censori sì baldanzosi, quasi bracchi poltroni, dare le groppe e pur ringhiando fuggire.

4. E qui guai a me se mi ascoltassero certuni e certune, che pure abbondano ai nostri giorni. Gente buona vedete, ma gente cauta, circospetta, guardinga quando si tratta del bene. – Ahimè direbbero inorriditi, che parlare è mai questo? Ma dunque la discrezione deve fuggire dalla terra? Dunque la prudenza non è più una virtù? Non date ascolto agli intransigenti, ai fanatici. Son tristi tempi: prudenza, per carità, prudenza. Così si grida da mane a sera, e la prudenza è un vocabolo che oramai trova luogo per tutto. Prudenza risuonano le case dei grandi, le officine dei piccoli ripetono prudenza, le sacrestie medesime, i presbiteri, i conventi prudenza echeggiano, prudenza, prudenza. Che farò io fra tanto frastuono? A qual partito mi appiglierò ? Io proporrò un caso di coscienza: voi lo risolverete coi principi di questa prudenza, poi voi ed io udiremo la soluzione magistrale di tale alla sentenza del quale sarà pur forza che ci rendiamo. Allorché Gesù Cristo nostro Signore viveva mortale sopra la terra e predicava la sua celeste dottrina era odiato a morte dagli scribi, dai farisei e da quasi tutti i personaggi di primo conto della sua nazione: aveva, si direbbe ai di nostri la pubblica opinione delle classi intelligenti contro di sé. E l’odio e l’astio il livore pervenne a tale che adunatisi nel Sinedrio che era, si direbbe, l’assemblea legislativa dei Giudei fecero questo decreto. Iam enim conspiraverant Iudœi, ut si quis confiteretur eum esse Christum extra sinagogam fieret. (Io IX, 22.) Che qualunque avesse confessato che Gesù di Nazaret era il Cristo e il Messia fosse espulso dalla Sinagoga. Questa pena era gravissima, ed equivarrebbe tra noi ad essere casso del numero dei cittadini e privato di tutti i dritti civili e politici con una specie di scomunicazione per giunta. Questo decreto fece paura a moltissimi e intorno a Gesù Cristo si fece deserto, e molti che prima erano sempre con Lui lo fuggivano, e se per la strada lo trovavano, facevano vista di non vederlo. Con tutto ciò che volete? L’uomo è pur sempre uomo e Gesù Cristo sbalordiva il mondo non con le parole ma con i miracoli: di che prosegue a dire S. Giovanni, ex principibus multi crediderunt in eum: (Ioan. XII, 42.) molti anche di personaggi di primissimo conto vedendo questi prodigi credettero in Lui. Credettero e credettero fermamente; solo si tenevano la loro fede nel cuore, al di fuori si guardavano bene dal dimostrarla per paura dei farisei e onde non essere cacciati dalla Sinagoga. Sed propter pharisæos non confìtebantur ut e Synagoga non eiicerentur. Questo è il caso: e qui si domanda. Facevano bene questi credenti? Erano degni di scusa? Li avreste assoluti? Sì, certo sì. Credevano e credevano davvero. Ma la fede si tenevano nel cuore: non la mettevano in piazza: era prudenza. I nemici di Gesù Cristo erano potenti, avevano in mano ogni cosa: guai se pigliavano in odio un mal capitato: la dichiarazione dei loro principi non giovava a Gesù, ad essi nuoceva. Perché mettersi in uggia ai primi della nazione? Si tennero indietro, fu prudenza, fecero bene. Questa è la soluzione vostra. Sentiamo ora la soluzione che diede chi mai? Nientemeno che lo Spirito Santo per bocca dell’Apostolo prediletto di Gesù Cristo. Dilexerunt enim magis gloriam hominum quam gloriam Dei. (Io: XII. 43.). Costoro che così fecero, furono una mano di vigliacchi che più amarono la gloria degli uomini che quella di Dio. Furono vigliacchi e più volte Gesù Cristo li rampognò: disse che non erano atti al regno di Dio, sentenziò che erano già giudicati, li fulminò asserendo che la loro fede, non era fede. Voi credete? Voi? Quomodo potestis credere qui gloriam ab invicem accipitis, et gloriam quae a Deo solo est non quæritis ? (Io. V. 44.) Ma che fede è la vostra se andate cercando la gloria l’uno dall’altro: della gloria che viene da Dio solo non vi curate? Il caso dunque è già risoluto e non ci è che ridire: di tal maestro è la risoluzione. Veniamo dunque a noi. Non è dunque più, dicevano, non è più una virtù la prudenza ? Sì, la prudenza è una virtù, e non una virtù qualunque ma una delle quattro che diconsi cardinali: oltrediché è virtù universale e condisce quasi sale tutte le altre virtù e le scorge sì che raggiungano il loro fine. Ma la fede ci insegna che ci sono due generi di prudenza. Una che si appella prudenza della carne, e un’altra che si chiama prudenza dello Spirito. La prudenza della carne consiste in questo: che si cerchi di non aver brighe per conto di Gesù Cristo; che si procuri di passarsela bene col secolo nemico suo, religiosi sì ma non eccessivi: una mano ai farisei, un’altra al Messia. Saper ridere a una bestemmia e biasciare una giaculatoria. Amici di tutti, bene con tutti, questa è prudenza. Prudenza sì ma della carne: e S. Giacomo Apostolo e S. Paolo non ne sentono troppo bene. Poiché S. Paolo dice prudentia carnis mors est (Rom. VIII 6.). La prudenza della carne è morte, e S. Giacomo la chiama sapienza ma sapienza non discesa dal cielo, bensì tutta di terra propria solo dell’animale e del diavolo : Non est enim ista sapientia desursum descendens; sed terrena, animalis, diabolica. (Iac. III. 15.) prudenza terrena, animale, diabolica. Se vi piace questa prudenza tal sia di voi, a noi ancora piace di esser prudenti ma con la prudenza dello spirito, che è quella di Gesù Cristo.

5. Il quale con la divina evidenza delle sue parole consigliò i suoi servi ad esser prudenti perchè si sarebbero trovati come pecore in mezzo ai lupi, ma definì la prudenza che dovevano avere, estote ergo prudentes sicut serpentes (Matth. X . 16.). Siate prudenti come i serpenti. Ora quale è la prudenza per la quale è nominato il serpente? È questa rispondono i Padri. Quando è inseguito e si vede in pericolo mette il capo insicuro: sicurato il capo salva se può anche la striscia che si trascina dietro delle sue spire, se no abbandona al nemico la coda purché il capo sia salvo. Ecco dunque qual è, e in che consiste la prudenza cristiana: prima di tutto salvare il capo, e non mai per pericolare pel rimanente del corpo la salute del capo. E il capo qual è? L’anima, uditori miei riveriti, l’anima, la grazia di Dio, la salute eterna, l’onore e la gloria di Dio e di Gesù Cristo. Questo, questo è il capo: questo e non altro. Questo dunque si salvi a qualunque patto : salvo questo, se si può si salvi anche il resto, se no vada tutto, vada anche la vita, ma il capo si salvi. Non vi impone no Gesù Cristo di essere temerari, audaci, provocatori: vi impone di essere forti. Si tratta per esempio di cedere in qualche cosa alla tirannide della moda ? Purché non intervenga peccato; si faccia: si tratta di arredare la casa così o così? Purché si stia nei limiti del proprio stato; accomodatevi agli usi del vostro tempo. Si tratta di una vesta, di un cappello, di un acconciatura più che di un’altra? Purché sia salva la verecondia, non dirò nulla, al più riderò. No certo non mi cruccerò con quel giovane se alza i capelli al zenit o li deprime al nadir, né appiccherò una lite con quella femmina perché si fabbrica coi capelli non suoi su quella testa un cimiero o una torre: o se spazza un miglio di paese con la coda del vestimento. Sono cose indifferenti potrò compatire chi si fa servo di queste inezie, ma non mi sdegnerò con nessuno. Ma è cosa indifferente il vergognarsi delle pratiche di pietà? Il cercare per adempiere i doveri di cristiano le ore più incompatte e i luoghi più solitari? L’andare a certi spettacoli infami per compiacenza? Il leggere certi libri nefandi per vergogna di rifiutarli? Il calpestare la onestà, l’accomodarsi al turpiloquio per non parere bigotto? È di questa l’atta il bazzicar cogli increduli il bestemmiare con essi la Chiesa e il Papa? L’aderire a certi partiti che altro scopo non hanno fuorché di far guerra a Dio e Gesù Cristo? Eppure trovate innumerabili che per paura di un pugno vile di miserabili, per tremore delle sozze pagine di un giornale, per ispavento di una derisione, di un ghigno, di un lazzo, fanno questo e peggio e il fare di questo modo chiamali prudenza. Prudenza questa? Ma a me pare che si onori troppo chiamandola prudenza della carne, perché è una tiranna che fa dell’uomo un vile mancipio e con le mani e coi piedi legati lo dà in balìa a ciò che è di più turpe e vile sopra la terra. E vaglia la verità. Ponete caso che ad alcuno o ad alcuna dei conoscenti o delle conoscenti che avete si mettesse nell’animo la voglia insana di tenervi di occhio, di spiare tutti i vostri procedimenti, di indagare come suol dirsi perfino i vostri sospiri. Vi venissero quindi per casa, volessero sapere quale è per voi l’ora della levata, quale quella del coricarvi. In quali occupazioni vi passi la giornata; quali ore diate al lavoro, quali al riposo. Quali cibi imbandiscono la vostra mensa, quali persone sono ammesse alla vostra dimestichezza; quali sono i vostri passeggi quali le visite, ciò che sia nei luoghi più riposti di casa vostra nella dispensa per esempio e nello scrigno, e ciò che non sia. E ciò che si conforma al loro capriccio approvassero, e disapprovassero ciò che non si conforma: né approvassero solamente o disapprovassero, ma dispoticamente proibissero o comandassero: mangerete i tali cibi, tratterete con le tali persone, in questi luoghi andrete in quelli no, vestirete così o così. Ammettereste voi questa sopravveglianza? Vi soggettereste a questa schiavitù? Subireste questo ignobile sindacato? Certo no, rispondete sdegnati, immaginando anche solo un procedere così screanzato e villano, e a chi si attentasse di esercitarlo rintuzzeremmo la voglia. Ottimamente avete risposto: e così deve fare qualunque è libero ed uomo. Eppure questi prudenti trascinano una catena e portano un giogo anche più vergognoso di questo. Aggiratevi infatti per le vie: entrate nelle case, mettete il pie’ nei palagi, insinuatevi perfino nel santuario. Quali sono le parole che udite più di frequente? Che si dirà? Non bisogna far dire. Ci vuol prudenza. Che si dirà? Ma da chi? Non bisogna far dire. Ma chi? Ma per rispetto di chi? Esiste una proterva e vilissima generazione di mal creati che pretende di esercitare una tirannide intollerabile sopra di tutti, di tener tutti a catena, di dettare a tutti la legge. Essi comandano a capriccio e a capriccio divietano: a capriccio lodano e a capriccio vituperano: a capriccio vogliono e a capriccio disvogliono. Spingono il temerario sindacato nelle case, investigano il santuario delle famiglie, osservano quel che si fa, notano quel che si lascia, ordinano e vogliono essere obbediti, interdicono e minacciano chi resiste. Si deve fare così, perché ad essi piace, così, perché ad essi non piace, non si deve fare. E con che autorità esercitano questa tirannide? Con nessuna. Chi ha dato loro il diritto di costituirsi legislatori? Nessuno. È tutto arbitrio, tutta audacia, tutta soverchieria. E questi prudenti che fanno? Vestono com’essi vogliono, parlano come essi vogliono, vanno dove essi vogliono, dove essi non vogliono non vanno. Si astengono a un loro cenno e da ciò che piace benché onestissimo, a ciò che ad essi non piace si accomodano benché reo, peccaminoso, turpe, molesto, e dilaniando col nome di opinione pubblica il cicaleccio ed il latrato di costoro, per poco non si fanno legge di non violarne i precetti neppure col pensiero, e se si pigliano talvolta qualche timida libertà, si guardano prima bene all’intorno e tremano come conigli per paura che lo risappiano i suoi tiranni. E tutto ciò lo ripeto non in cose indifferenti né cattive né buone per sé medesime, ma in cose gravissime, santissime, che affettano la religione, la salute dell’anima, i comandamenti di Dio e della Chiesa, e la sostanza medesima della fede e della vita cristiana. Ahimè questa non è prudenza dello spirito anzi neppur della carne. Non dello spirito, perché nemica di Dio, non della carne, perché alla carne, medesima nemica, molesta e pressoché intollerabile. Questa è dappocaggine, vigliaccheria, viltà, codardia, melensaggine. Eppure costoro se li sentite si chiamano spregiudicati, liberi, indipendenti. Voi spregiudicati? Voi indipendenti? Voi liberi? Ma se i nomi di poltrone, di mancipio, di schiavo non fossero nel vocabolario: bisognerebbe inventarli per chiamarvi come vi meritate. Sapete chi sono gli indipendenti ed i liberi? Colui e colei che sanno con petto valido rompere la marea e andare diritto senza impensierirsi di quel che faccia o dica il mondo nemico di Gesù Cristo, più di quello che si impensierisca la luna del notturno latrato dei cani. Eppure questi magnanimi sono derisi, e non è raro che si ascoltino questi codardi dispensar loro i titoli di bigotti, di stupidi, di imbecilli. Perché così va la cosa che ciascuno regala volentieri altrui quelle note che sa benissimo di meritare per sé. Su via, se volete essere veramente liberi e indipendenti, scuotete il giogo vile degli umani rispetti, vendicatevi la libertà della vostra fede e della vostra coscienza, e allora con la libertà e con la indipendenza avrete ancora la prudenza vera cioè la prudenza non della carne ma dello spirito, e prudenti come serpenti sarete anche semplici come colombe perché camminerete per la via diritta, e lasciando il mondo imperversare a sua posta, confesserete Gesù Cristo davanti agli uomini, ed Egli confesserà Voi al cospetto del Padre suo che è nei cieli.

6. Io sono certissimo che qualcuno di voi richiamandomi a quelle parole di Gesù Cristo: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi, vorrebbe dirmi così. Veramente il Cristiano Cattolico senza epiteti, intero, schietto, sincero, si trova a questi tempi come pecora inerme nel mezzo ai lupi e lupi feroci e terribili. Dunque che dovrà fare? Dovrà insorgere, dovrà tempestare, non dovrà conoscere né riserbo né modo? Io risponderò a questa domanda con un esempio che ci diede il nostro maestro Gesù, esempio accomodatissimo ai tempi nostri. Quando Gesù predicava la sua celeste dottrina, la Giudea era agitata da fiere tempeste politiche. I Giudei erano caduti sotto la dominazione romana e portavano il giogo di malissima voglia. Dicevano che essendo essi il popolo di Dio erano per gius divino liberi e indipendenti, che però i romani erano invasori iniqui, e che non era lecito pagar loro il tributo, onde peccatori per antonomasia chiamavano i pubblicani che erano gli esattori delle gabelle. Or di questa condizione di cose e stato degli animi si valsero i farisei per tendere un laccio a Gesù, ed ecco come. Un drappello di essi a Gesù se ne vennero con alcuni partigiani di Erode, e con ipocrita riverenza gli parlarono così: magister scimus quia verax es et viam Dei in veritate doces et non est tibi cura de aliquo. (Matth. XXII. 16). Maestro noi sappiamo che sei verace e insegni in verità la strada di Dio e non guardi in faccia a nessuno. Questo fu l’esordio, col quale lusingandolo, cercarono quei tristi di accalappiare Gesù, cattivandone la fiducia e poi proseguirono. Die ergo nobis quid tibi videtur: licet censum dare Cæsari an non? Dinne dunque su il tuo parere ma netto, esplicito, senza ambagi, senza inviluppi. È lecito pagare il censo a Cesare sì o no? Vogliono mettere Gesù alle strette: vogliono unsi o unno: e qui stava il tranello. Se Gesù rispondeva sì: è lecito; essi lo accusavano ai Giudei e lo mettevano in odio come fautore del dominio straniero e nemico della sua gente. Se rispondeva no: non è lecito: lo accusavano ai Romani come sedizioso o nemico di Cesare, così lo perdevano ad ogni modo e avevano condotto quegli Erodiani perché all’uopo facessero da testimoni. Che farà Gesù? Come si caverà dalla stretta di questo laccio: Con la prudenza del serpente congiunta colla semplicità della colomba. Cognita autem Iesus nequitia eorum ait: quid me tentatis hypocritæ? Prima di tutto fece intendere che li aveva conosciuti: e, ipocriti, disse, che venite qui a tentarmi? E poi proseguì: mostratemi la moneta del censo. Ostendite miài numisma census. Essi gliela diedero in mano, ed Ei proseguì. Di cui è questa immagine e questa scritta? Cuius est imago hœc et superscriptio? Risposero, di Cesare: Dicunt Ei, Cæsaris. Rendete dunque, conchiuse, a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio. Reddite ergo quæ sunt Cœsaris Cœsari, quœ sunt Dei Deo. Trovate se vi riesce una risposta all’insidioso quesito? Non la troverete in eterno. Gesù Cristo non rispose né sì né no, solo enunciò una verità incontrastabile, e così schivò il laccio: confuse la malizia dei suoi nemici e salvò sé medesimo, lasciando coloro scornati e confusi a digerire la rabbia, la confusione e lo scorno. Nel qual cimento mise in opera per sé quell’altro documento santissimo che diede a tutti: Nolite dare sanctum canibus. Eccovi uditori una lezione divina: eccovi come si vive nel mezzo ai lupi schivandone quanto si può, salva l’anima e la coscienza, l’insidie, le zanne e la rabbia. Verrà poi tempo che il lupo la dia per mezzo, e vedendo che le insidie non giovano, spieghi gli unghioni e adopri le zanne. Così fecero questi medesimi farisei con Gesù. Cercarono tutte le vie per coglierlo al laccio con apparenza almeno di ragione. Quando videro che non riuscivano, comprarono Giuda, mandarono ad arrestarlo una corte con lanterne, fiaccole ed armi, e lo crocifissero. Ma intanto a noi sta di togliere il pretesto, e il pretesto si toglie imitando il Signor nostro Gesù. Del quale richiamate l’avviso che è ottimo per noi, suoi Sacerdoti, nelle strette di questi tempi. Nolite dare sanctum canibus neque mittatis margaritas vestras ante porcos, ne forte conculcent eas pedibus suis et conversi dirumpant vos. (Matth VII. 6.) – Non vogliate dare le cose sante ai cani e non gittate dinanzi ai porci le margarite, non forse voltandosi contro di voi col grifo e conle zanne vi sbranino. Esistono, esistono di questi ciacchi e di questi cani che stanno in posta per vedere se gittate dinanzi a loro le cose sante e le perle e sbranarvi. Non le gittate loro: non ne son degni e odiandoli a morte vi preparano, se proseguite, ceppi e catene. A loro non le gittate. Esistono però gli agnelli del pastor buono, le pecorelle di Gesù Cristo, a queste date le cose sante, a queste mettete innanzi le gemme della verità. Che se i ciacchi e i cani grugniscono e latrano minacciandovi unghioni e zanne rispondete così: Noi diamo a Cesare, quel che è di Cesare: a Dio, quel che è di Dio.