Omelia della Domenica VI dopo Epifania (rec.)

Omelia della Domenica VI dopo l’Epifania

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XIII, 31-35)

granello-di-senape

La Santa Chiesa.

Il regno dei cieli è simile ad un grano di senapa, che sebbene fra i semi ordinari, pure seminato in buon terreno, massime nella fertile regione della Palestina, spunta in germoglio, cresce in albero, si estende in rami sì robusti e frondosi, che volano ad abitarvi gli uccelli dell’aria. “Simile est regnun coelorum grano sinapis … quod minimum est omnibus seminibus”, con quel che segue nell’odierno Vangelo. Or perché mai al grano più picciolo viene paragonato il regno de’ cieli? E che va inteso per regno de’cieli? “Regnum coelorum”, risponde il magno Gregorio, “praesentis temporis Ecclesia dicitur” (Hom. 11 in Evang.), regno de’ cieli, si chiama la Chiesa da Gesù Cristo fondata nel tempo presente, e che durerà fino alla consumazione dei secoli: e si paragona ad un piccolo granello di senapa cresciuto in una gran pianta, per significare l’umile principio, e poscia l’ingrandimento della medesima Chiesa. L’umile principio della Chiesa nascente fa vedere la mano di Dio, che la fondò: l’esaltamento della Chiesa in ogni tempo fa conoscere la mano dì Dio, che la difese. Due riflessioni, signori amatissimi, su cui penso intrattenere la vostra pietà. Si tratta di un argomento in cui vedremo le divine qualità che caratterizzano la Chiesa nostra madre per vera sposa di Gesù Cristo, da Lui fondata, da Lui difesa: argomento interessante, che tutto deve richiamare l’attenzione de’ veri suoi figliuoli.

I . La difficoltà dell’opera, la debolezza dei mezzi fan conoscere quanto umile, quanto abbietto, secondo le umane vedute, fosse il principio della Chiesa nascente, e quanto la mano di Dio vi risplendé. – Viene Gesù Cristo al mondo, e si propone ed annunzia un disegno il più strano, il più inaudito. In tutta la terra regna l’idolatria. Le passioni più vergognose, i vizi più abominevoli sono autorizzati dal culto superstizioso di falsi dèi, infetti anch’essi, e celebri per ogni sorta d’iniquità. Gesù Cristo altamente dichiara esser venuto a rovesciar ogni idolo, ed atterrar ogni tempio a loro consacrato: esser venuto a confondere la scienza de’ filosofi, la superbia dei grandi, gli errori di tutti: esser venuto ad abolire le superstizioni, a togliere i vizi, a riformare i costumi, ed a piegar tutti i popoli ad una nuova credenza, e riunirli sotto una medesima legge. In formar questo disegno non ignora nulla esservi di più difficile, che il cambiamento di religione, e allora più, quando una religione radicata da secoli, una religione comoda, confacente alla corrotta natura, che, lungi dall’opporsi, autorizza e consacra le più vili passioni, e le più sfrenate dissolutezze. Tutto sa, tutto prevede, e a vista di tanti ostacoli non si arresta dal concepito disegno. – Convien dire, o essere impossibile la riuscita, o Colui che la si promette, abbia in mano dei mezzi straordinari, possenti, da sperarne felice succedimento. Appunto, i mezzi sono in sua mano; ma oh quanto diversi da quel che l’umana sapienza avrebbe creduto adoperare! I mezzi più disadatti, più contrari all’intento furono gli scelti da Gesù Cristo. Nato egli in un angolo della Giudea in una capanna da povera Madre, reputato figlio di un fabbro, dimorante fino ai trenta anni in una vile bottega, esce dalla sua vita nascosta per cominciar la grand’opera della riforma del mondo. Chiama in aiuto all’ardua impresa dodici plebei senza credito, senza scienza, dodici poveri pescatori, e lor fa intendere che nel seguirlo non cesseranno di esser poveri; che anzi, se voglion essere suoi discepoli, dovranno rinunziare per fin la speranza di ogni bene terreno. Lungi dall’allietarli con qualche umana promessa, si spiega loro chiaramente, che altro non potranno aspettarsi, che persecuzioni, catene, tormenti e morte. Sono ben dolci e lusinghiere siffatte promesse! e pure si uniscono a Lui questi uomini, e fedelmente lo seguono fino alla morte. – Muore Gesù, e colla morte dell’autore doveva naturalmente perire un’opera cominciata da sì pochi anni, sì poco avanzata, e sostenuta sì poco. Muore Gesù, e di qual morte? Muore come un seduttore, come uno scellerato, ed è sepolto. – Chi non direbbe che il suo gran progetto è insieme con Lui seppellito. Così all’umana vista doveva comparire, così si lusingava la perfida Sinagoga; ma no, il grano della senapa sepolto sotterra spunterà fra poco, e crescerà in pianta perfetta. I dodici pescatori rivestiti di una virtù che viene dall’alto, e di una forza invincibile alzanp la voce nelle piazze di Gerosolima, nelle contrade della Giudea e della Samaria, si spargono in tutte le parti dell’universo, predicano Gesù Cristo crocefisso e risorto, confermano coi miracoli la verità del suo risorgimento, la divinità di sua Persona, la purità di sua dottrina ed ecco la faccia della terra tutta cangiata. La luce del Vangelo ha aperto gli occhi alle nazioni sedenti in tenebre ed ombre di morte. La pagana superstizione fugge come la notte allo spuntar del sole, gl’idoli sono infranti, i templi sono distrutti, i vizi sbanditi, i costumi riformati, la Cristiana Religione riconosciuta la vera, il suo Fondatore adorato, la sua Croce esaltata, e dal luogo de’ supplizi passata ad ornare la corona e la fronte dei re e degl’imperatori. “A locis suppliciorum ad frontes imperatorum” (S. Agost. In Ps. XXXVI, ver. 2). – Or io domando, chi ha cambiato l’umano intelletto, chi l’à fatto piegare a credere dogmi inauditi, dogmi che sembrano rivoltare l’umana ragione? Chi ha cambiato il cuor dell’uomo corrotto dalle più sozze passioni, e gli ha fatto abbracciare una Religione sì severa, che esige la più grande purezza di opere, di affetti e di pensieri? Che proibisce uno sguardo men puro, un desiderio men retto? La mano di Dio, che nella elezione degli Apostoli ha impiegati i mezzi più deboli, più inetti, ma resi idonei e forti nella possente sua grazia a propagare e stabilir la sua fede, e a suggellarne la testimonianza col proprio sangue: la mano di Dio, che per tal mezzi ha voluto stampare in fronte alla sua Chiesa i più luminosi caratteri della verità. Ed ecco la pianta della Chiesa, nata da sì picciolo seme, che ha estesi i suoi rami dall’uno all’altro confine del conosciuto mondo. Ed oh su questi rami, quanti dal gentilesimo, quanti dall’ebraismo sono volati! Quanti eroi della fede vi han posta loro dimora, quanti fiori di martiri hanno abbellita pianta sì degna, quanti fiori di vergini l’anno adornata, quanti frutti di santi dottori, di confessori, di pontefici l’hanno arricchita! È vero che questa pianta dalle persecuzioni de’ tiranni, dall’odio de’ pagani, dal furore degli eretici, come da tanti turbini è stata in ogni tempo agitata e sconvolta; ma quel Dio che la piantò, quel Dio a cui ubbidiscono il mare e i venti e le procelle, ha sempre stesa la sua mano a difenderla, per modo che le porte di averno mai prevalessero ad atterrarla; anzi, geloso dell’onor della sua Sposa, scaricò in tutti i tempi con esemplare vendetta i colpi tremendi della sua destra sopra chiunque ardì di farli oltraggio. Aprite le storie, saggi ascoltanti, e vedrete l’esaltazione della Chiesa nella depressione dei suoi nemici, nemici i più potenti del secolo, gli imperatori idolatri. Ed è ben giusto a gloria della nostra madre rammentare i castighi di chi l’oltraggiò. – Nerone (Tacit. Sveton. Eutrop.), il cui solo nome presenta un’idea della più mostruosa crudeltà, il primo e forse il pessimo fra i persecutori della fede di Cristo, venuto in odio al senato, al popolo romano, al mondo tutto, cercato a morte, fugge travestito, e per non cader nelle mani di quei che l’inseguono, da se stesso si uccide. Non poteva trovare miglior carnefice. Domiziano (Sveton. Philostr.) anch’esso da tutti odiato per la sua barbarie, più non si soffre sul trono, e vien ucciso. Ne esulta il senato romano, e fa gettar a terra le sue statue, e cancellare dovunque ogni sua memoria: il suo cadavere si lascia in man de’ becchini, che lo sotterrano con contumelie a foggia d’infame gladiatore. Ascrive Massimino (Victor. Iul. Capitolin. et alii) ai cristiani la cagione de’ fulmini, de’ tremuoti e di tutte le disavventure dell’impero, e ne fa strage; e strage fanno di lui e di suo figlio i suoi soldati. Le loro teste son poste sulla punta di un’asta, i loro corpi gettati alle fiere. Si accende d’ira Decio (Sextus Aurelius) ed infierisce contro la religione cristiana in vederla tanto più dilatata, quanto più oppressa; e in una battaglia contro i Goti spinge il cavallo in una palude, vi resta sommerso, e più non se ne trova il cadavere. Valeriano (Costant. Magnus in orat. ad s. coetum c. 24) quanto zelatore dei culto dei falsi dèi, tanto nemico di quello di Cristo, dopo tre anni di fiera persecuzione, vinto in guerra, cade in potere di Sàpore re dei Persiani, che per avvilirlo all’estremo si serve della sua schiena ogni volta che monta a cavallo. – Sparse Aureliano (Voscus et Eusebius in Chron. Costant. ut supra) a torrenti il sangue dei fedeli; e del suo sangue si videro sparse le strade, trucidato dai suoi familiari. Chiuso da stretto assedio nella città di Marsiglia l’empio e sanguinolento Massimiano Erculeo (ibid.), disperato si sospende ad un laccio. Sotto l’impero del crudelissimo Diocleziano (Victor apud Baonium) in un sol mese si miete la vita di sette mila martiri, ed egli in vedere per tanta strage aumentarsi vie più il numero dei cristiani, divorato da diabolico livore, ha in odio la vita e se la toglie con potente veleno. Che diremo finalmente dell’apostata Giuliano? (Theodoretus lib. 4 hist. c. 25) Quest’empio restauratore del paganesimo, protettore degli ebrei da lui animati a riedificare Gerusalemme per render vana la profezia di Gesù Cristo, dopo lunga tirannia si protesta voler distruggere dai fondamenti la chiesa santa di Dio; ma nella guerra contro i Persiani, dalla prima saetta scoccata a colpo incerto, vien trafitto nel petto e nel polmone, e preso un pugno del proprio sangue, gettandolo verso il cielo, confessa esser vinto da Cristo, che per insulto chiamava il Galileo, “Galilee, vicisti”. – Vani furono dunque gli sforzi delle potestà d’ogni secolo contro l’opera del Signore. Perirono, e periranno i nemici della religione e della Chiesa, come fumo in faccia al vento: essa non perirà giammai. Della sua stabilità tien solenne promessa dall’infallibile verità del divino suo Capo. La religione cristiana porta in volto caratteri così sensibili e luminosi della protezione dell’Altissimo, che bisogna esser ciechi per non conoscerli. Se questo edificio fosse stato fabbricato sull’arena, in forza cioè d’umane opinioni e raggiri, come avrebbe potuto tenersi saldo all’impeto furibondo di tanti turbini, che da ogni lato l’hanno spinto colla maggior violenza di cui è capace l’odio, il furore, la nequizia, la prepotente empietà! Se la religione, disse già sensatamente Gamaliele, dottor della legge, ai capi dell’ebraismo radunati in concilio, se la religione che predicano questi scalzi pescatori, è opera d’uomini, e fanatismo di mente alterata, svanirà fra pochi dì da sé stessa. Se ella è opera di Dio, i vostri ostacoli per impedirla non serviranno che a promuoverla. Così avvenne, e così avverrà sino alla consumazione de’ secoli. Le opinioni degl’increduli, i sofismi degli atei, dei deisti, dei sedicenti filosofi, saranno in ogni tempo come i flutti d’un mare spumoso che si rompono a piè di scoglio saldissimo; saranno come le acque del diluvio portanti in alto l’arca di Noè; saranno come venti e tempeste, che possono bensì agitare la navicella di Pietro, ma non hanno forza di sommergerla. Dorme talora, e par che dorma Gesù; e l’empietà per qualche tempo minaccia naufragio, ma poi si sveglia, e ad un suo cenno tacciono i venti, svanisce la procella, ed il protetto naviglio galleggia sull’umiliato mare. E un prodigio di tal natura, manifesto, stupendo non l’han veduto gli occhi nostri? Rammentiamolo così di volo, fedeli amatissimi, a gloria di Dio e della sua Chiesa. Spogliata questa del temporale suo regno, fatto prigioniero il suo Gerarca, minacciata di guai sempre nuovi e sempre peggiori, oltre ogni umana speranza, l’abbiamo veduta deporre le vesti di lutto, e rivestirsi degli abiti di giocondità e di letizia. Motivi per noi, uditori miei, di stima, di attaccamento, di fedeltà, d’ubbidienza alla nostra Madre la Chiesa santa, di cui siam figli, Chiesa ora militante, soggetta a guerra, ma sempre vincitrice, e poi trionfante nel regno eterno nel divino suo sposo.

Omelia della Domenica V dopo Epifania (rec.)

Omelia della Domenica V dopo l’Epifania

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XIII, 24-30)

zizzania

Zizzania e Frumento.

 “Non avete voi seminato (così al proprio padrone i suoi servi agricoltori) non avete seminato nel vostro campo il buon frumento? Come dunque è spuntata insieme con esso la mala zizzania”? – “Volete che sull’istante ci conduciamo ad estirparla?”- “No, rispose il padrone, perché essendo ancor tenere le pianticelle del grano, sradicherete colla zizzania il buon frumento. Lasciate pur crescere l’uno e l’altra sino alla maturità, e darò allora i miei ordini ai mietitori. Farò che, separata dal grano quest’erba malvagia, stretta in fascetti sia gettata al fuoco, e il buon frumento sia portato e custodito nel mio granaio”. Fin qui la parabola del corrente Evangelo. Uditene la facile interpretazione. Quel padrone, padre di famiglia, è il nostro Padre celeste; il campo, in cui è seminato il grano e la zizzania, è la santa Chiesa, che nel suo seno accoglie buoni e cattivi, discoli e ubbidienti figliuoli. Questa mescolanza però non è durevole. Verrà il tempo della messe, e la morte con falce inesorabile troncherà grano e zizzania. Si farà prima al tribunale di Cristo giudice, poscia nel giorno estremo la gran separazione. Saran divisi i petulanti capretti dalle innocenti pecorelle, l’eletto frumento dalla maledetta zizzania, gli eletti da’ reprobi. Verranno questi da’ demoni gettati ad ardere nel fuoco eterno, e quelli portati dagli angeli nel regno dei cieli. Fedeli miei, qual sarà la nostra sorte? Possiamo argomentarlo fin da ora: Siam noi zizzania? aspettiamoci il fuoco. Siam frumento? Il cielo sarà la nostra mansione. A chi più vi assomigliate? Acciò possiate meglio comprenderlo, vi esporrò da prima le naturali qualità della zizzania, che applicheremo a noi in senso morale; v’indicherò dappoi le naturali proprietà del frumento che applicheremo a noi altresì nel senso stesso. Da questo confronto potrete conoscere qual sarà per essere la vostra eterna sorte.

I . Sulla scorta di S. Basilio ( S. Basil. In 5 Hom. Ex.), e degl’indagatori della natura, osserviamo le qualità della zizzania. È questa un’erba malvagia, che nasce in pessimo terreno, e talvolta in mezzo al frumento, erba che poco s’innalza di terra. Si assomigliano a questa coloro che sempre intenti alla terra coi pensieri, coi desideri, e cogli affetti del cuore, altro non hanno in mira, che il lucro, l’interesse, e gli acquisti dei beni terreni. Uomini creati pel cielo non pensano, anzi, al dir del re Profeta, hanno stabilito di non pensare che alla terra, e nella terra fissar gli occhi, fissar le radici di una dominante passione, “Oculos suos statuerunt declinare in terram(Ps. XVI). A costoro io direi, se mi ascoltassero, miei cari, disinganniamoci; il nostro fine non son le cose che passano col tempo. Siam fatti pel cielo; lassù, dice l’Apostolo, dobbiamo innalzare la mente e il cuore, “quæ sursum sunt sopite, non quæ super terram” (Ad. Col. III). Da questa terra ci staccherà la morte, e quanto più, le radici delle nostre affezioni alla terra saranno tenaci e profonde, tanto più il taglio riuscirà doloroso, e incontreremo la mala sorte della rea zizzania. – S’insinua inoltre quest’erba maligna fra le radici dell’ancor tenera biada, e dove la rende sterile, dove la fa perire. Figura più espressiva delle scandalose persone non vi è di questa. Gesù Cristo infatti, dice il Crisostomo, chiamò tutti gli scandali e tutti gli scandalosi col nome di zizzania. “Omnia scandala et eos qui faciunt iniquitatem zizaniorum nomine significasse intelligitur(in Cat. Aurea D. Th.). La zizzania, di cui parla l’odierno Vangelo, fu sparsa dì notte da un uomo nemico, “inimiciis homo hoc fecit”. Questi, secondo i sacri espositori, è il demonio, che per mano degli uomini sparge nel mondo la scandalosa zizzania. Il demonio, dice S. Agostino, ha i suoi apostoli: son questi gli scandalosi, che coi laidi discorsi, col vestir immodesto, colle oscene pitture, colle invereconde poesie, coi libri ereticali, colle massime all’Evangelio contrarie fan perire l’innocenza, corrompono i buoni costumi, e danno morte a tante anime incaute. Che possono aspettarsi gl’iniqui seminatori di questa diabolica zizzania, se non il fuoco? – La zizzania in fine produce frutti così cattivi, che se per incuria misti col frumento vanno sotto la macina, e ridotti in farina restano mescolati col pane, cagionano a chi lo mangia vertigini, capogiri, e ubriaca rendono la persona; onde quel frutto, presso varie nazioni, si appella con nome significante quel brutto effetto. Oh, a quanti in questo secolo pervertito gira il capo circa le verità della fede! Finché vissero da buoni cristiani, finché, mantennero una retta coscienza ed una onesta condotta, non furono soggetti a capogiri intorno ai dogmi della santa religione; sana era la mente, perché sano era il cuore. Ma dopo aver mangiata la velenosa zizzania in quell’eretico autore, in quel poeta lascivo, in quella pratica disonesta, in quella rea amicizia, lo stomaco si è alterato, il cuore si é corrotto, e son saliti al cerebro vapori rivoltosi, ed hanno invasato l’intelletto dubbi, incertezze rispetto all’eterne verità. Che avviene poi di ognun di costoro? Le ree sue passioni, trovandosi senza freno, l’assalgono, gli tolgono l’uso della retta ragione; ond’egli ebro, insensato più non conosce sé stesso, e nel furor della sua ebbrezza, rompe il freno della coscienza, squarcia il velo di ogni naturale onestà, scuote il giogo della legge umana e divina, e per lui Dio più non esiste. “Dixit insipiens in corde suo, non est Deus(Ps. XIII, 1). O povera umanità presa da un’ubriachezza di nuova foggia! “Paupercula et ebria, non a vino” (Isai. LI, 21). Ma l’esito di questa ebbriosa smania sarà simile a quella di un povero uomo plebeo, che agitato dal vino uscito di senno, si gloria, si vanta, si crede ricco, potente, animoso, e digerito il vino si trova debole, infermo, avvilito, e riconosce ridotta ad uno stato peggiore la propria miseria. Durino pur quanto la vita i deliri dell’iniqua zizzania, alla fine stretta in fasci, a fasci sarà gettata “ad comburendum”. – Date ora, fratelli carissimi, un interiore sguardo a voi stessi, ed osservate se fra voi e le pessime qualità della descritta zizzania, trovaste mai qualche confronto. Se fosse così, deh per carità, cangiate vita, cangiate costume. A questo fine, dicono i S. Agostino e Tommaso, ( In catena aurea) il padrone evangelico non volle che così subito si estirpasse la zizzania del campo, per significarci che Iddio pietoso pazientemente aspetta che quei peccatori, che sono zizzania, possano coll’aiuto della grazia, per vera penitenza, trasformarsi in grano eletto.

  1. II. Passate ora a vedere, secondo l’evangelica allegoria, se piuttosto, come mi giova sperare, siete simili al buon frumento. Vien questo gettato sul campo, e sepolto sotterra, ove mercé la pioggia, e il calore del sole si schiude, si sviluppa, e vi muore per rinascere moltiplicato in biondeggianti spighe. Ecco il tipo di un buon cristiano. Egli nel suo battesimo, secondo la frase di S. Paolo (Rom. VI, 4), fu sepolto con Cristo, per poi risorgere con Cristo; ma prima deve morire di sua mistica morte colla rinunzia al mondo, al demonio, e alla carne. Né crediate esser questa una mia applicazione ingegnosa. È Gesù Cristo che precisamente lo afferma nel suo santo Vangelo colla similitudine del frumento, “nisi granum frumenti , dice egli, cadens in terram mortuum fuerit, ipsum solum manet(Ion. XII, 24). Se come un granello di frumento in seno” alla terra l’uomo cristiano non muore, resterà sterile, e non potrà rinascere a vita migliore. Ma come una tal morte va intesa? Udite: sono in noi tutte le passioni, e tutte pel peccato d’origine, al male inclinate, la superbia, l’avarizia, la lussuria, l’invidia, la gola, l’iracondia, l’accidia, e come tante fiere stanno chiuse nel nostro cuore, come in un serraglio. Il tenere in freno queste bestie feroci cogli aiuti della ragione e della fede, il correggerle, il mortificarle, è come dar loro la morte: ucciderle non è possibile, ma si possono e si debbono, coll’impero della volontà, assistita dalla grazia, soffocare in guisa che non arrivino ad offendere né coi denti, né cogli artigli. L’uomo infame vive, ma pure è morto alla vita civile. Del pari vive sono le nostre passioni, ma se si raffrenano i loro moti, se s’impediscono i loro sfoghi, han vita, ma perché senz’azione, si possono dir morte,come morte al mondo si appellano le religiose persone, che pei voti solenni non han più beni propri, non più libertà di stato, non più elezione di volontà. È questa la mistica morte. Ma perché più facile in noi si renda, conviene anche dar morte agli strumenti dei quali si servono le malnate nostre passioni. I sensi del corpo son le armi, son gli incentivi delle nostre passioni, e di queste non si vinceranno gli assalti, se non si spuntano quest’armi, se non si estinguono quest’incentivi. Mortificazione dunque dei sensi in tutto ciò ch’è contrario alla legge di Dio e della Chiesa: custodia d’occhi, che non trascorrano in oggetti pericolosi; freno alla lingua, che non prorompa in maldicenze, in imprecazioni, in bestemmie; freno alla gola, che osservi la temperanza e i comandati digiuni; in somma, mortificazione della carne per vivere secondo lo spirito, come inculca l’Apostolo. Ma questo spirito conviene che muoia anch’esso nell’uso delle sue facoltà, Deve morir l’intelletto coll’umile sottomissione in credere tutto ciò che Dio ha rivelato, la memoria colla dimenticanza delle ricevute offese, la volontà con la perfetta rassegnazione a quella di Dio in ogni cosa. Ecco la mistica necessaria morte, di cui parla il Redentore in quella sua grande e meravigliosa sentenza, così chiamata da S. Agostino: “Qui amat animam suam perdet eam(Ion. XII, 23). Chi ama l’anima sua, e vuol salvarla, la faccia morire a tutte le disordinate sue voglie. Il martire S. Ignazio, discepolo di S. Giovanni Evangelista, Vescovo d’Antiochia, da Traiano condannato alle bestie nell’anfiteatro romano, mandò lettera ai fedeli di Roma, che n’attendevano l’arrivo, e: “figliuoli miei, scriveva, io son frumento di Cristo, sarò stritolalo dai denti delle fiere come dalla mola, per esser fatto pane mondo, accettevole agli occhi suoi. “Frumentum Christi sum, dentibus bestiarum molar, ut panis mundus veniar(Hieron. De Script. Eccl.). Questa é ben altra morte; Iddio nelle circostanze presenti non l’esige da noi; ma nell’ordine dell’attuale provvidenza, non può dispensarci dalla morte de’ nostri sensi, delle nostre potenze, delle nostre passioni, come veniva dicendo. – Il frumento inoltre giunto a maturità va sotto le verghe, e a colpi sonori si sguscia, e si divide dalla sua paglia. Veniamo al senso morale. Se voi, sotto i pubblici o privati flagelli, che vengono dalla mano di Dio, o per castigo o per prova, abbassate il capo, e con pazienza e rassegnazione dite con Giobbe, “sit nomen Domini benedictum”; buon segno, voi siete grano eletto. Ma se voi sotto la sferza delle tribolazioni, delle quali abbonda questa valle di pianto, se nelle malattie, nelle disgrazie, nelle persecuzioni, come un rospo sotto il flagello, raddoppiate il veleno, prorompete in maledizioni, vomitate bestemmie, ve la prendete contro Dio, contro gli uomini, come autori dei vostri guai, mentre non ne son che gli strumenti, ohimè, voi non siete buon grano. Mirate un S. Paolo, e salutarmente confondetevi, udite questo grande Apostolo delle genti: “Io, dice egli, sono stato per ben tre volte battuto con verghe, ed una volta sepolto sotto una tempesta di pietre per amor di Gesù Cristo, e a gloria del suo santo nome: “Ter virgis cæsus sum, semel lapidatus sum pro Christi nomine(2 ad Cor. XI, 25). – Gesù stesso, dice S. Agostino, era un grano di frumento sottoposto ai flagelli de’ perfidi Giudei, “erat granum mortificandum infidelitater judeorum(Tract. 51 in Ioan.). A questi esempi, che dice la nostra delicatezza, che aborre ogni sorta di mortificazione, e che né pure nelle tribolazioni, che scansar non si possono, sa fare della necessità virtù? Finalmente il frumento, per purgarlo dall’inutile paglia, posto nel vaglio vien agitato, ed esposto allo spirar del vento, che via portando la paglia dispersa, lo lascia cader sull’aia purgato e mondo. Le morale applicazione su questo punto ce la somministra Gesù Cristo con quel che disse a S. Pietro ed agli Apostoli: “Ecce Satanas expetivit vos, ut cribraret sicut triticum”(Luc. XXII, 31). Ha concepito il demonio l’iniqua idea di ventilarvi come frumento nel vaglio. Così avvenne; gli Apostoli, i cristiani in ogni tempo sono stati dal demonio, e dai seguaci di lui, agitati nel vaglio delle persecuzioni, ed esposti al vento delle false dottrine; ma si son mantenuti saldi nella fede, e sani nel costume. Seguite l’esempio. Il nemico non dorme; non cedete ai suoi assalti, state fermi ai venti delle tentazioni, degli scandali e degli errori, e come grano purgato, farete certa la vostra elezione e salvezza. – Da queste due pitture della zizzania e del frumento potrete conoscere a quale più vi assomigliate. Se nella zizzania riscontrate il vostro ritratto, ohimè! il fuoco vi aspetta; se nel frumento, consolatevi, avete un gran segno della beata vostra predestinazione.

 

Omelia della Domenica IV dopo Epifania

Omelia della Domenica IV dopo l’Epifania

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo VIII, 23-27)

tempesta-sedata

Sonno del peccatore.

Ascende il divin Redentore, accompagnato dai suoi discepoli, su la navicella di Pietro, e si abbandona a un dolce sonno. Intanto si scatenano i venti, si turba il mare, s’alzano i flutti, e stan per sommergere il combattuto naviglio, e Gesù dorme, “ipse vero dormiebat”. Che sonno, è questo, uditori? Che mistero in ciò si nasconde? Egli è, s’io ben mi avviso, un’immagine dell’uomo giusto, che in mezzo alle agitazioni di questo mar tempestoso, qual è il mondo, riposa in pace. Tutto l’opposto dell’uomo peccatore, che dorme in seno al peccato, ma nel peccato non trova riposo. Il suo sonno è piuttosto un letargo, che annunzia la vicina sua morte. Gesù fu svegliato dalla preghiera degli spaventati discepoli, e tosto fe’ sentire il suo comando e il suo potere al mare e ai venti: cessarono questi, e l’agitato mare si cangiò sull’istante in perfettissima calma. Se le preghiere fossero valevoli a destare il peccatore addormentato nella sua colpa, vorrei gettarmi a’ suoi piedi e dirgli; fratel mio, “miserere animae tuae”, abbiate pietà dell’anima vostra: non aspettate a svegliarvi sulle porte dell’eternità. Aprite gli occhi sul vostro pericolo;Surge qui dormis, et exurge a mortuis” (Ad Ephes. V,4): sorgete da questo sonno mortifero, foriero d’eterna morte. Le preghiere non bastano? Volete che per agevolare il vostro risorgimento ve ne adduca i più efficaci motivi? Lo farò senza più. Vi mostrerò da prima quanto Iddio ha fatto per risvegliarvi dal sonno di morte, e poscia quanto dovete far voi per corrispondere alle amorose premure ch’Egli ha di salvarvi. –

.I. Per rendere più sensibile e fruttuosa la presente spiegazione, dal sonno del divino Maestro passiamo al sonno d’un suo discepolo: avremo in ciò una luminosa scorta, onde conoscere i tratti della divina bontà, e l’obbligo della nostra corrispondenza. Là nel fondo di oscura prigione in Gerosolima, condannato a morte da Erode Agrippa, giaceva l’apostolo Pietro, e in mezzo ai custodi e alle catene tranquillamente dormiva. Quand’ecco un Angelo da Dio spedito sgombra con improvvisa luce le tenebre della carcere, e data una scossa al fianco di Pietro lo sveglia, e “sorgi” gli dice, “surge”! Mirate se non è questa una viva figura e dello stato dell’uomo peccatore, e della condotta di Dio pietoso per ricondurlo a ravvedimento e a salvezza. Peccatore fratello, io parlo con voi, io parlo di voi. Il grave peccato v’à oscurato l’intelletto, voi siete in tenebre ed ombre di morte, la sentenza di vostra eterna condanna è scritta in cielo, i demòni vi stanno a fianco, e voi stretto da tante catene, quante sono le vostre colpe, in mezzo a tanti pericoli profondamente dormite. Che ha fatto Iddio per sottrarvi da tanto rischio, per svegliarvi dal fatale letargo? Ha fatto le tante volte balenare alla vostra mente una luce superna, che vi faceva vedere la bruttezza del vizio, la bellezza della virtù, la vanità del mondo, l’importanza della salute, la miseria del vostro stato, la brevità della vita, l’orrore della morte, l’eternità delle pene. La fede dell’eterne verità si è fatta sentire vostro malgrado. Ai lampi di tanta luce più che sufficiente a farvi aprir gli occhi ha aggiunto Iddio sempre pietoso colpi e percosse: colpi d’ostinata siccità, di storilezza di campagne, di spaventosi tremoti questi pubblici flagelli ha fatto succedere particolari percosse: quella lite, peste della vostra pace, rovina della vostra famiglia, quella perdita sul mare, quella sventura nel traffico, quella lunga malattia, la morte in fine di quel vostro congiunto, tanto per voi necessario. Colpi son questi della mano di Dio diretti a scuotervi dal sonno mortifero. Pure seguitaste a dormire, come Giona al fragor de’ tuoni e della tempesta; e il misericordioso Signore per risanarvi non cessò di ferirvi. Vi ferì nel più vivo del cuore con acerbi rimorsi, con pungenti stimoli, con nere malinconie, che v’han fatto conoscere e toccar con mano che il peccato è una spina che vi trafigge, un tossico che vi avvelena, un cancro che vi rode le viscere. Fra tante punture mal soffrendo voi stesso vi siete alquanto commosso, ma, come uomo sonnacchioso, rivolto sull’altro fianco, avete prolungato la rea vostra sonnolenza. E il vostro buon Dio, mai stanco d’adoperarsi intorno a voi, vi ha fatto sentir la sua voce, voce interna di vive ispirazioni, di forti chiamate, d’amorevoli inviti, voce esterna de’ suoi ministri sul pergamo, de’ suoi sacerdoti nel sacro tribunale, voce di quell’amico fedele, di quel congiunto zelante del vostro bene, voce di quel libro devoto, che a caso vi capitò alle mani, voce partita da quel cadavere, che vi venne sott’occhio. In queste occasioni la misericordia di Dio vi ripeteva le parole dell’Angelo a Pietro dormiente , “surge!”, “sorgi”, o figlio, dal tuo sonno dannevole, sorgi dalle tue tenebre, sorgi dalle tue catene, sorgi dal miserando tuo stato, “surge”! A queste voci amorevoli avete chiuse le orecchie, e serrato il cuore. Or via, non si parli più del passato. Si tiri un velo su i vostri rifiuti. Vediamo ora quel che far dovete per corrispondere alle divine chiamate, e ritorniamo a S. Pietro.

.II. Tre comandi gli fece l’Angelo liberatore, di sorgere immantinente “surge velociter”, di adattarsi la veste “circumda tibi vestimentum tuum”, e di seguirlo, “et sequere me” (Act. XIX, 7,8) . La stessa voce fa sentire a voi in questo giorno quel Dio, che vi vuol salvo. Sorgete, e presto senza indugio sorgete dalla cattività del peccalo, “surge velociter”. Il ritardo può essere per voi fatale. Non dite: “risorgerò”, l’avete detto tante altre volte che lascerete il peccato, che verrà la quaresima, che in quel tempo più opportuno vi convertirete davvero. Venne la quaresima, e differiste la vostra conversione alla Pasqua, dalla Pasqua alla Pentecoste e dalla Pentecoste all’altra quaresima. Rimettere ad altro tempo un affare dì tanta conseguenza è manifesto indizio di poco buona volontà. So che per questa dilazione non mancano pretesti. Io sono, voi dite, assediato da tanti affari, che mi tolgono la necessaria quiete dell’animo e il tempo materiale per pensare a me stesso,- campagne da coltivare, frutti da raccogliere, negozi da spedire, liti da sostenere, conti da aggiustare, viaggi da intraprendere. Finiti questi disturbi, cessati quest’impedimenti… Non più per carità. Che affari, che travagli, che conti! L’affare più importante è quello dell’eterna salute, la lite più seria è quella da vincersi col demonio al divin tribunale, il viaggio più premuroso è quello che conduce all’eternità. Adesso è il tempo accettevole, adesso è l’ora propizia per sorgere ornai dal pigro sonno fatale, “Hora est iam de somno surgere” (Ad Rom. XIII, 11); se voi differite, la dilazione sarà la vostra rovina. Una conversione futura quanto più vi lusinga, tanto é più ingannevole. Il tempo sta in man di Dio. Verrà tempo che non avrete più tempo, e vi pentirete senza rimedio di non aver profittato del tempo. Avverrà a voi, che Dio vi guardi, come ai generi di Lot: “surgite”, disse loro il giusto Lot con somma premura, “surgite”, uscite presto da Sodoma, è imminente il suo sterminio, sta per piovere su di essa il fuoco dal cielo; ma quegli scioperati, non curando l’avviso, restarono avvolti nell’incendio dell’infame città. La seconda cosa, che l’Angelo impose a S. Pietro, fu che prese le proprie vesti se le cingesse attorno, “Circunda tibi vestimentum tuum”. Voi al sacro fonte col carattere battesimale avete vestiti gli abiti delle teologali virtù: fede, speranza e carità. Di questi abiti per il peccato mortale vi siete in certo modo spogliati. Povera fede! Le ree vostre passioni han fatto illanguidire; anzi dopo la lettura di quell’empio libro, dopo il discorso di quel miscredente è morta in voi la fede, e come una veste logora l’avete abbandonata. Ah! per pietà ripigliatela, “circumda tibi vestimentum tuum”. Esiste un Dio, esiste l’idea d’un Dio a dispetto di tutti gli sforzi dell’empietà, a dispetto di tutte le violenze, che far si possono all’intelletto. L’idea d’un Dio esistente si può cacciar dal cuore per un atto di ribelle volontà, ma non dalla mente per ragionevole convincimento. Esiste un Dio premiatore dei buoni, punitore de’ malvagi. Dopo pochi giorni di vita, la morte manderà il corpo al sepolcro, l’anima all’eternità. Qual sarà la sua sorte? La vita presente deciderà della futura. Vita da peccatore: eternità di rancore. Ecco quel che insegna la fede: ripigliatene l’abito con ben ponderarne le infallibili verità, con applicarle all’attuale vostro bisogno, “circumda tibi vestimentum tuum.” Rivestitevi in seguito dell’abito della speranza. In chi avete fino ad ora fondate le vostre speranze? Nel mondo? Ma il mondo è un traditore, ed una trista speranza ve l’ha fatto chiamar più volte con questo nome. Il mondo è una scena volubile, che oggi vi alletta, domani vi contrista. La sua incostanza non può render sicura la vostra fiducia, “praeterit figura huius mundi (I. Ad Cor. VII, 31 ). Sperereste negli uomini? Ma questi sono o mentitori per malizia, o fallaci per impotenza, “Mendaces filii hominum” (Ps. LXI, 10). Non vi appoggiate dunque ad una canna sdrucita, e ad un muro pendente. Ponete tutta la vostra fiducia in Dio: Egli è l’amico vero; niuno ch’abbia sperato in Lui è mai rimasto confuso. La carità finalmente è quella veste nuziale, che assumer dovete. Di questa vi rivestirà il Padre celeste, se a Lui fareste ritorno sull’orme del figliuol prodigo. Imitate l’umiltà di questo figlio ravveduto, il suo pentimento, il suo dolore. Ai piedi del ministro di Dio deponete l’uomo vecchio con tutti i suoi vizi, spogliatevene affatto colla manifestazione sincera delle vostre colpe, colla contrizione più viva del vostro cuore: vestitevi dell’uomo nuovo con intraprendere una vita nuova, una vita cristiana, che vi dia fonduta speranza d’eterna vita. Forniti così delle vesti della fede, della speranza e della carità, resta il tener diètro all’Angelo, che, come S. Pietro, v’invita a seguitarlo, “sequere me”. Fatevi scelta d’un dotto, pio e prudente confessore. Egli, dice S. Francesco di Sales, è l’Angelo visibile delle nostre anime: egli si farà scorta a’ vostri passi, vi allontanerà dai pericoli, vi guiderà per la strada della salute. E quand’anche al vostro cammino si frapponessero porte di ferro, come a S. Pietro, s’apriranno agevolmente innanzi a voi: vincerete, volli dire, coi suoi consigli ogni difficoltà, supererete ogni ostacolo, finché arrivati in luogo d’eterna sicurezza, possiate dire ancor voi, come l’Apostolo Pietro: “ora conosco in verità che il Signore ha mandato il suo Angelo a liberarmi”: quegli diceva dalle mani d’Erode, io da quelle del demonio. Io dormiva, e il mio sonno profondo era sonno di morte; mi sono svegliato, perché mi ha steso la destra il pietoso Signore: “Ego dormivi, et soporatus sum, et exurrexi quia Dominus suscepit me” (Ps. V, 6). – Ho finito, ma se potessi supporre che fra voi molti ancor dormono, “et dormiunt multi” ( I ad Cor. XI, 50), udite, vorrei dir loro, quel che mi suggerisce il mio ministero, e l’amor che vi porto. Voi volete persistere nel sonno del vostro peccato? Morrete nel vostro peccato, e vi sveglierete sulle porte dell’inferno. Dormiva Sisara assicurato dal cortese accoglimento di Giaele, e in mezzo al sonno trafitto dall’una all’altra tempia da lungo e grosso chiodo, dal luogo del suo riposo cadde nel luogo di tutti i tormenti. Dormiva Oloferne ben lontano dal temere la morte, e in mezzo al sonno, tronco il capo dalla prode Giuditta, dal suo letto piombò nell’abisso. Dormivano le vergini stolte, “dormitaverunt omnes, et dormierunt” (Matt. XXV, 5), e perché sprovviste dell’olio della carità e dell’opere buone, furono escluse per sempre dalle nozze dello sposo celeste. Ah! Mio Dio non permettete mai che avvenga ad alcun di noi somigliante sventura.

Omelia della Domenica XXIII dopo Pentecoste

Omelia della Domenica XXIII dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo IX, 18-26)

giairo

Pietà.

La pietà, dice l’Apostolo, per ogni cosa per ogni modo è utile e vantaggiosa , “pietas ad omnia utilis” (Ad Rom. XIII, 17). Quest’eccellente virtù, prosegue lo stesso, contiene in sé una sicura promessa d’ogni bene per la vita presente e per la futura, “promissionem habens vitae, quae mens est futurae”. Il Vangelo di questa domenica in due esempi ce ne dà la più autentica prova. Ad un Principe della Sinagoga era morta l’unica figlia; privo d’ ogni umano rimedio s’accosta a Gesù e, “Signore, Gli dice nella più umile e rispettosa maniera, la mia figlia non vive più ma se voi vi degnate venire a porre la vostra mano sopra la stessa, io son sicuro che tornerà in vita”. Sorge il pietoso Salvatore, e lo segue accompagnato da’ suoi discepoli. Facendo strada, ecco una donna da dodici anni languente per un ostinato flusso di sangue, che tra sé va dicendo:se mi riesce toccargli soltanto l’orlo della sua veste, io son sanata.” Così avvenne: toccò la fimbria della sua veste, e guarì sull’istante. Giunto poi Gesù alla casa del Principe, che tutta era in lutto e mestizia, “non è morta, dice Egli, questa fanciulla, ella dorme”. Certi di sua morte gli astanti, presero a scherno le sue parole. Indi entrato nella camera della defunta, la prende per mano, e viva e sana la rende ai suoi genitori. Ecco quanto fu giovevole por quel Principe e per l’emorroissa quella pietà che li fe’ ricorrere al Salvatore. “Pietas ad omnia utilis”… Di questa pietà, da cui, al dir di S. Agostino, derivano tutte le pratiche d’un retto vivere, “pietas, unde omnia recte vivendi ducuntur officia” (Ep. 25), io vengo a parlarvi; potrei mostrarvi di quanto vantaggio sia alla vita umana, alla vita civile, alla vita sociale, alla vita spirituale, alla vita eterna; ma per adattarmi alle strettezze del tempo , e non abusarmi della vostra sofferenza, ve ne darò un piccolo saggio, onde allettati dall’utilità che apporta, vi risolviate abbracciare cosi bella virtù. – Agli occhi del mondo, agli amatori del secolo suol comparire la cristiana pietà in aspetto d’un mostro, che divora i suoi seguaci. A disinganno di costoro, ed a nostra istruzione, eccovi un ritratto dì questa virtù, madre d’ogni retto operare, in quel che avvenne al giovane Tobia (Tob. VI). Giunto questi alle sponde del Tigri, mentre sta lavandosi i piedi, ecco venirgli incontro a bocca spalancata un pesce enorme. Ohimè, Signore, grida spaventato Tobia, aita, m’inghiotte. L’Arcangelo Raffaele sotto le sembianze d’Azaria gli fa cuore, e, prendilo, gli dice, per una branca e trascinalo in sull’asciutto. Ubbidisce Tobia, e trattolo in sull’arena, lo vede, dopo alquanto dibattersi, palpitante a’ suoi piedi. “Dov’è, Tobia, il tuo spavento”? dovette dirgli l’Arcangelo, “tu non sai quanto sia per giovarti quel che tanto ti sbigottì. Sventralo orsù, e metti da parte il fiele: sarà questo l’opportuno rimedio a guarire la cecità del tuo buon genitore: fa altrettanto del fégato e del cuore; una porzione di questi posta sopra accesi carboni ha virtù di scacciare il demonio, e lo scaccerà infatti da Sara tua futura sposa: l’altre parti condite con sale ci serviranno per nutrimento nel nostro viaggio”. Tanto disse l’Angelo a Tobia, lo stesso io dico a voi riguardò alla pietà, alla vita devota. Sembra questa un mostro che divori per le apparenti e mal supposte difficoltà ed asprezze, che v’apprendono i mondani, ma non è così. Appigliatevi alla pietà soda e vera, ad un tenore di cristiana e costante devozione, e una dolce esperienza vi farà conoscere quanto sian vani i timori di chi si lascia sedurre dall’apparenza, vedrete in pratica di quanti beni vi sarà apportatrice. Essa v’aprirà gli occhi a conoscere la vanità delle cose terrene e la grandezza dell’eterne, vi scoprirà la bellezza della virtù e la deformità del vizio, la preziosità dell’anima, l’importanza dell’eterna salute, passerete come il vecchio Tobia dalle tenebre di cecità alla luce d’un nuovo giorno. Essa scaccerà da voi il demonio tentatore, vi farà schivar i suoi lacci, ributtar lo sue suggestioni, vincere i suoi assalti. Essa in fine sarà per voi una sorgente di benedizioni, un mezzo ond’essere provveduti di temporale sostentamento nel viaggio di questa vita mortale. Ve n’assicura, in più luoghi lo Spirito Santo: per chi teme Dio non v’è da temer povertà, “non est inopia timentibus eum” (Ps. XXXIII, 10-11): a chi cerca il Signore non verranno mai meno i sussidi d’ogni bene terreno, “inquirentes Dominum non minueniur omni bono”. Noi vediamo infatti nella divina Storia, che Iddio ha sempre avuta una cura tutta singolare di quei che camminano nelle vie della giustizia e della pietà, o si tratti di liberarli da generali castighi, o di versar sopra di essi le più generose beneficenze. – Se parliam de’ flagelli, la divina giustizia sommerge il mondo tutto nell’acqua di un universale diluvio: vuol salvare una famiglia per conservare l’umana specie. Si salva la famiglia d’un malvagio? No, voi lo sapete, bensì la famiglia del giusto, Noè e tre suoi figli colle rispettive consorti. La sempre giusta ira di Dio fa piover fuoco sulle infami città di Sodoma e di Gomorra. Si vuol liberare dall’incendio fatale un’altra famiglia; sarà quella d’un impudico o quella di un casto? Ognun lo sa, vien liberato Lot colle due sue figlie, perché nella comune corruzione si è mantenuto incorrotto. Se poi si tratti di spandere le sue larghe beneficenze, mirate di grazia su chi il buon Dio le diffonde; sopra i tanto rinomati Patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, tutti personaggi santissimi, e nel tempo stesso doviziosissimi, abbondanti d’ogni sorta di armenti, di possessioni, di servi, d’oro, d’argento, e di ogni bene più desiderabile. E giacché di Giuseppe si è fatta menzione, vi prego a condurvi col pensiero là in Egitto nella casa di Putifar a dargli un consiglio. Egli è nel fior dell’età giovanile, chi sa che non ne abbisogni. Si trova questi in terra straniera, in casa altrui, in qualità di schiavo. La sua padrona di esso invaghita gli ha chiesto più volte corrispondenza in amore. Accostatevi al suo orecchio, o politici, voi che sul fondamento della nequizia sperate innalzar la vostra fortuna. “E possibile (par di sentirvi) possibile in te tanta ritrosia? Si vede bene che sei semplice ed inesperto: la tua sorte è fatta se tu sai profittarne. La padrona che t’ama è ricca e potente, se tu la disgusti per uno sciocco tuo scrupolo, tu sei perduto, tu non sai quanto sia da temersi quell’odio che comincia dall’amore; tu non sai che non v’è ira che possa somigliarsi all’ira della donna. Giuseppe non sa di tanta politica, ei teme Dio, ei non v’ascolta, lascia nelle mani dell’ impudica padrona la sopravvesta, e fugge dicendo, “come posso far tanto male e tanta offesa al mio Dio”? Oh! questa volta, voi ripigliate, la pietà non l’indovina. Giuseppe calunniato come tentatore vien posto in ferri, condannato ad un’oscura prigione. La pietà non l’indovina? Aspettate in grazia, ed ammirate i tratti stupendi di quell’altissima provvidenza che protegge i suoi cari. Faraone fa sogni misteriosi, nessun si trova capace a interpretarli, dal fondo della sua carcere si chiama Giuseppe, spiega i sogni, provvede i popoli, salva l’Egitto, ed eccolo innalzato al primo grado del regno, eccolo assiso sopra cocchio reale, acclamato per le contrade di Menfi e di tutto l’impero Salvatore del mondo. Che dite ora, Signori miei? Avrebbe potuto Giuseppe sperar dal peccato un tanto innalzamento? Sarebbe ora egli tanto celebre nella divina storia, tanto a Dio accetto, e quel che il tutto importa eternamente beato? – E pure, voi replicate, più dell’uomo pio è sovente prosperato il malvagio. Chi fa fortuna al mondo? L’usuraio nascosto, il ladro civile, lo spergiuro sfacciato, il prepotente impunibile, il litigante animoso, il superbo fortunato. È vero, sono alle volte prosperati i malvagi, ma per l’ordinario non è durevole la loro prosperità. Io fui giovane, diceva il Reale Profeta, ed ora son vecchio, “iunior fui, etenim senui”, ed ho veduto l’empio esaltato come i cedri del Libano, “vidi impium superexaltatum sicut cedros Libani” (Ps. XXXVI), … fatti alcuni passi son ritornato per rivederlo, non v’era più, “transiti, et ecce non erat”, e ne ho potuto distinguere il luogo , ov’era piantato, “quaesivi eum, et non est inventus locus eius”. Per lo contrario non ho veduto mai l’uomo giusto abbandonato, né i figliuoli andar alla cerca del pane. “Et non vidi justum derelictum, nec semen eius quaerens panem”. – Inoltre gli iniqui sono talvolta felicitati, non già perchè son tali, molto meno per difetto di provvidenza, ma perché Iddio premia in ossi l’atto, o l’abito di qualche naturale virtù. Il sentimento è di S. Agostino, che porta in esempio la Romana Repubblica, da Dio prosperala con tante vittorie fino ad estendere col valor della sue armi dall’oriente all’occidente il suo dominio.A tanta gloria innalzò Iddio quegli antichi eroi con lauta estensione d’impero, perché di lor natura erano sobri, temperanti, fedeli nelle promesse, zelatori della giustizia, umani coi popoli soggiogati. Queste virtù naturali non potevano avere né merito, né premio di vita eterna, perché opere morte di gente idolatra: ond’è che Dio, a Cui piace l’ombra eziandìo della virtù, li ricompensò con beni terreni, con onori mondani, con felicità temporali. – Applicate questa dottrina al caso nostro. Non v’è, come è da credere, al mondo uomo così scellerato che in vita sua non pratichi, o praticato non abbia qualche atto naturalmente buono, come sarebbe soccorrere un miserabile, proteggere un oppresso, assistere un infermo, impedir l’altrui danno, amar la verità, praticar la giustizia.Questi atti naturalmente virtuosi, fatti da chi è in disgrazia di Dio, non son certo meritevoli d’eterno premio, son ombre, sono immagini, son cortecce di virtù, quali Iddio, autore anche d’ogni naturale onestà, non vuol lasciare senza proporzionata ricompensa.A farvi meglio comprendere quest’importante verità, e adattarmi alla capacità di tutti, fatevi tornare a mente ciò che avrete più volte veduto. Allorché un omicida, un assassino vien condannato a morte, tutta la città è in movimento. Vanno a confortarlo in carcere sacerdoti, religiosi, e i più distinti signori, lo provvedono di cibi scelti, di vini preziosi, di squisiti liquori. Nell’uscir poi della sua prigione per andar al patibolo, se lo tolgono in mezzo, l’accompagnano con carità, con tutto rispetto, come personaggio di merito singolare. Ditemi ora, gli fanno queste attenzioni perché è un assassino, perché ha tolta la vita a tanti suoi simili? Non già, e voi lo sapete, così lo trattano, perché loro prossimo e fratello in Gesù Cristo. Laonde come uomo, come prossimo, some fratello riceve tante finezze, e come omicida, come sanguinario, assassino si sospende ad un infame patibolo. – Dite lo stesso degli empi prosperati; come uomini, come ragionevoli creature, che in atto o in abito han praticata qualche naturale virtù, sono da Dio rimuneratore trattali bene nel breve corso di questa vita; come malvagi poi, e come rei saranno dallo stesso Dio, giusto punitore dell’empio e dell’empietà, condannati all’eterno supplizio. Tanto avvenne precisamente al ricco Epulone: ebbe la sua mercede in questa terra, e poi il suo castigo nell’eternità, “recepisti bona in vita tua” (Luc. XVI), gli disse Abramo dal luogo del suo riposo, ove aspettava la risurrezione del Salvatore: “recepisti”, dunque aveva qualche merito nell’ordine di natura, “recepisti bona”, e furono vestir di bisso, o di porpora, seder quotidianamente a lauto banchetto; dopo ciò, perché stato crudele verso il povero Lazzaro, fu sepolto nell’abisso infernale, “mortuus est dives et sepultus est in inferno”. – Dal fin qui detto, discende questo consolanti argomento. Se il nostro buon Dio tanto ama la virtù fino a premiarne la sola apparenza nella persona dei suoi nemici, quanto più largamente ricompenserà la virtù vera, la soda pietà nella persona dei suoi eletti? Così è, così sarà: “beato l’uomo che teme il Signore”, dice il Re Salmista (Ps. I), sarà come un albero piantato in riva a fresca sorgente, che a sua stagione s’arricchirà di frutti, e in tutte l’opere sue sarà prosperato; non così gli empi, non così; ma saranno come polvere, che il vento sbalza da terra, e disperde per l’aria. Camminiamo dunque, fratelli carissimi, nelle vie della giustizia, della devozione vera, della pietà cristiana, e scenderà copiosa sopra di noi la benedizione dell’Altissimo, benedizione foriera di quella ch’Egli comparte ai beati nel suo eterno regno, ove Dio ci conduca.

Omelia della Domenica XXII dopo Pentecoste

Omelia della Domenica XXII dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XXII, 15-21)

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Restituzione.

“Rendete a Cesare ciò ch’è di Cesare, ed a Dio ciò che è di Dio”. E’ questa la saggia, la divina risposta colla quale Cristo Signore confuse la malizia de’ Farisei. Si presentarono questi innanzi a Lui con meditata idea di perderLo in forza delle sue stesse parole, e così si fecero ad interrogarLo: “Maestro, noi sappiamo quanto siete veritiero, Voi non avete umani rispetti, non siete accettator di persone: diteci dunque: è lecito pagare a Cesare il tributo?” Se Gesù rispondeva di no, urtava gravemente con Cesare; se di sì, tiravasi addosso l’odio dei più zelanti della Sinagoga che, come popolo sotto l’immediato dominio di Dio, pretendevano non esser soggetti a tributo verso la secolare potestà. Gesù Cristo, che scopre la trama, “Mostratemi, dice, la moneta destinata a tributo”. “Al vederla: “di chi è quest’impronta?” soggiunge. Rispondono: “di Cesare”. “Rendete, adunque, conchiude, quel che è di Cesare a Cesare, e a Dio quel che è di Dio”. – “Reddite ergo quae sunt Caesaris Caesari, et quae sunt Dei Deo”. Un’opportuna riflessione è da farsi su queste parole del divin Redentore: perché nel suo rispondere antepone Cesare a Dio? Perché non disse piuttosto; rendete a Dio quel che è di Dio, e a Cesare quel che è di Cesare? Ecco, se mal non mi avviso il perché: Iddio non accetterà giammai l’omaggio che a Lui dobbiamo, se da noi non vengano prima adempiuti i nostri doveri col prossimo. Fra questi doveri i principali sono quel di giustizia, ed un fra questi de’ più essenziali è la restituzione dell’altrui roba. Di questa restituzione sono a tenervi ragionamento, e passo senza più a dimostrarvi due impossibilità in questo genere. Impossibilità di salvarsi per chi non restituisce, sarà la prima; impossibilità ordinariamente parlando di restituire, sarà la seconda. La prima è assoluta, la seconda è morale. Uditemi attentamente.

I . Che sia assolutamente impossibile il salvarsi per chi non restituisce la roba altrui è cosa definita nelle divine Scritture. Annovera l’apostolo quei che non entreranno al possesso del Regno dei Cieli, e fra questi i ladri, “neque fures Regnum Dei possidebunt” (1 Cor. VI, 10). Ora un ingiusto ritentore dell’altrui roba è un vero ladro, e per conseguenza è escluso dal Regno dei cieli. – In un sol caso ha eccezione questa saldissima regola; allora quando l’iniquo usurpatore dell’altrui sostanze si trovi in istato di stretta impotenza. Se costui abbia animo disposto e volontà decisa di restituire potendo, e in questa disposizione lo colga la morte, egli si salverà, come appunto si salvò il buon ladro, che nella fiducia in Gesù Crocifisso, e nella contrizione del suo cuore ebbe o espressa, o implicita volontà di risarcire, se avesse potuto, i danni delle sue ruberie. Fuor di questo unico caso, per chi non restituisce non v’è salvezza:Non remittitur peccatum, nisi restituatur ablatum” (S. Agost.). – Ragioniamo per maggior chiarezza su questo proposito. Il suo voler restituire è lo stesso che chiudersi la porta del cielo. Quali sono i mezzi più validi ad entrar in cielo? Scegliamone alcuni de’ principali, vale a dire, la preghiera, la limosina, la confessione sacramentale. Or tutti questi mezzi per se stessi efficacissimi son resi inutili da chi far non vuole la debita restituzione. Inutile la preghiera. Servi del Signore, alzate pure le vostre mani in mezzo al Santuario, dice il Re Salmista (Ps. CXXXIII), e sarete benedetti dal Fattore del cielo e della terra. Tutto l’opposto a chi tiene fra le mani la roba d’altri. Con che coraggio, dice a costoro Iddìo sdegnato, stendete a me le vostre mani supplichevoli, e al tempo stesso grondanti di umano sangue? Toglietevi dinanzi al mio cospetto, Io non vi ascolto: “manus enim vestrae sanguine plenae sunt” (Is. I, 15), sangue di vedove spogliate, sangue di assassinati pupilli, sangue di poveri oppressi, sangue d’operai non soddisfatti, sangue di creditori traditi. Se seguiterete a pregarmi con queste mani piene di sangue, ben lontano dall’esaudirvi, non vi degnerò neppure d’uno sguardo: “avertam oculos meos a vobis, non exaudiam”. – Inutile la limosina. Ha tanta virtù e tanta forza la limosina, che giunge a liberarci dalla morte, non dalla temporal morte, ma dalla morte spirituale ed eterna: “elemosyna a morte liberat” (Tob. XII, 9); poiché da questa doppia morte ci preserva, se siam vivi alla grazia, e se siamo morti pel grave peccato è efficace a muovere il cuor di Dio ad accordarci quelle grazie che ci faccian rivivere, che ci conducano a vera penitenza, che ci portino all’eterna vita. Tutto ciò corre assai bene per tutta sorta di peccatori, ma non per quelli che ingiustamente ritengono la roba altrui. “A questi, dice il Signore, onora Iddio con dar in limosina quel che è tuo, ma non già quello che ad altri appartiene”: “Honora Dominum de tua substantia(Prov. III, 9). Quel tanto che dai in limosina non è tuo; dallo a chi tu devi per titolo di rigorosa giustizia. Mi piace la limosina, ma più mi piace l’adempimento del mio dovere. La limosina alcuna volta è atto spontaneo di liberale elezione: la restituzione è sempre atto indispensabile di rigorosa giustizia. – Inutile infine la confessione. O voi, accostandovi al tribunale di Penitenza, manifestate l’obbligo che vi corre di restituire, o no. Se lo tacete, vi aggravate di un enorme sacrilegio; se lo confessate, il sacro ministro non può astenervi, se voi potendo non restituite. Il confessore in questo Sacramento ha la potestà o immediata o delegata d’assolvervi da ogni peccato, da ogni eresia, da ogni scomunica: ha la facoltà di sciogliervi da qualunque voto; così che se aveste a Dio promessa qualunque somma di denaro da distribuirsi ai poveri, o da applicarsi alla Chiesa, egli del tutto può dispensarvi da questo voto, o commutarlo in altra obbligazione; ma trattandosi d’obbligo di restituire, egli ha le mani legate, non può sciogliervi, non può disobbligarvi per alcun modo dalla medesima somma, bisogna restituire. – Dirò di più: Dio, Dio stesso, sebbene abbia di tutte le cose il supremo universale dominio, e possa trasferire da uno in altro il dominio d’ogni cosa, come già usò cogli Ebrei nell’uscir dall’ Egitto; pure di legge ordinaria e secondo la presente provvidenza non può dispensarvi da quella obbligazione, ch’Egli stesso v’impose; perché all’uso della sua padronanza si oppone la sua fedeltà e la veracità delle sue divine parole; onde convien conchiudere: o restituire, o dannarsi.

II. Dall’assoluta impossibilità di’ salvarsi senza la restituzione, passiamo a vedere l’impossibilità morale di restituire. Per morale impossibilità s’intende una somma difficoltà. A dimostrarvela notiamo una viva espressione del real Salmista. “Alcuni, dice egli (come sono i ladri, gli usurai, i prepotenti) si mangiano viva la povera gente, in guisa che divorano il pane: “Devorant plebem meam sicut escam panis” (Ps. XIII, 4). Il pane, o altro qualunque cibo, dalla mano portato alla bocca, e dalla bocca allo stomaco in forza del natural calore, si cangia in sangue, che si dirama in tutte le parti del corpo. Andate ora a cavar dalle vene quel cibo tramutato in sangue. Non altrimenti la roba tolta per furto o per usura, o posseduta di mala fede, si consuma in uso proprio, si confonde colle proprie sostanze, e passata così come in sangue e sostanza della persona e della famiglia, difficilmente si può estrarre, acciò ritorni alle mani del suo padrone. – Vediamolo in pratica. “So che devo restituire, dice colui, ma non già se restituendo io venga a decader dal mio stato”. Vi rispondono i Teologi: “se al vostro stato presente siete asceso per vie torte, per scale false, per frodi, per ingiustizie, voi siete tenuto a restituire anche col vostro decadimento. Come! siete innalzato sulle altrui rovine, e pretendete star sempre in alto calpestando le stesse rovine? No, no, dovete discender giù, la vostra altezza non è legittima, il vostro stato è affatto simile a quello di un assassino arricchito dell’altrui spoglie, ed è eguale in quello e in voi la necessità di restituire. – Se poi prima dei vostri latrocini eravate in possesso d’uno stato giustamente acquistato, consultate gli stessi Teologi, e vi diranno concordemente che se volete salvarvi conviene restringervi, bisogna con prudente risparmio e con studiosa economia troncare le spese superflue, giuochi, pompe, mode, cacce, conviti, splendidi trattamenti non sono più per voi finché con questa doverosa parsimonia non abbiate saldato i conti, e i debiti che avete col prossimo; poiché i vostri creditori, e tutti i da voi danneggi hanno diritto a tutto ciò che non è necessario al vostro onesto e discreto sostentamento. Ma qui sta appunto la difficoltà in adattarsi ad un restringimento economico per mettere da parte il superfluo al proprio stato, e restituire così il mal tolto, e riparare i cagionati danni. Eppure è indispensabile questa misura per chi si vuol salvare. Fingete che nei giorni del diluvio, quando Noè assegnava nell’arca il suo posto ad ogni specie d’animali, il leone, avvezzo ad aggirarsi per selve e per foreste, avesse rifiutato restringersi in una buca, e l’aquila, solita a spaziare nei vasti seni dell’aria, avesse ricusato racchiudersi in una gabbia, l’uno e l’altra sarebbero periti in quell’acque mortifere. È questa una figura di quel che a voi accadrà non restringendovi nel vostro trattamento, onde il superfluo vi porga un mezzo alla tanto necessaria restituzione. – “Io poi, dice un altro, voglio restituire, ma al presente non posso, restituirò alla prima raccolta”. Viene la raccolta, si toccan danari; ma questi abbisognano per farsi un abito, questi altri per coltivare quel terreno, per far un acquisto vantaggioso, e per cento altri bisogni in famiglia, e si ripete: per ora non posso. E così di tempo in tempo, di anno in anno si differisce, si prolunga or con uno, or con altro pretesto, e col dire restituirò, si palpa la coscienza, si fa tacere il rimorso, o si addormenta per modo che riduce tante anime al punto di morte col carico d’una restituzione non fatta, e per lo più impossibile a farsi. Di due obbligati alla restituzione fanno menzione le divine Scritture. Uno è Zaccheo, l’altro Antioco. Zaccheo pubblicano, visitato dal Salvatore e convertito davvero, dice a Gesù Cristo: “se qualcuno è stato da me defraudato, io restituisco sul momento”, – “si quid aliquem defraudati, reddo quadruplum(Luc. XIX, 8). Non dice, renderò, darò, restituirò, dice “reddo, restituisco subito, quel che dice lo manda ad effetto. Antioco per l’opposto, che aveva rubati i sacri vasi al tempio, promette che li renderà moltiplicati, ma queste promesse se le porta il vento (Macc. IX). Non si legge che desse alcun ordine o in voce o in iscritto, che si riparasse quel sacrilego spogliamento: si contentò abbondare di parole e di promesse, ma questa restituzione di lingua non bastò a salvarlo dalle mani dell’Onnipotente, non poté lo scellerato ottenere misericordia dal Signore. L’ottenne Zaccheo usuraio, e l’ottenne in tanta ampiezza, che egli e l’intera sua casa furono da Dio benedetti e salvati. Il perché già l’abbiamo veduto, perché pronto restituì sull’istante: “reddo quadruplum”. Si potrebbe qui domandare: “E perché Zaccheo restituì quattro volte tanto della roba tolta?” Ecco: Zaccheo da molti anni esercitava l’usura. In tanto tempo chi poteva calcolare i danni da lui cagionati a tante persone, a tante famiglie? Il danno primo della roba tolta, e l’ingiusta ritenzione della medesima, porta per l’ordinario dannosissime conseguenze, e perciò Zaccheo ravveduto volle restituire il quadruplo, “reddo guadruplum”. A queste conseguenze pochi fanno riflessione. Riflettete voi, se mai foste nel caso. Nel tempo che ingiustamente tenete roba o danaro del vostro prossimo, egli non può far uso del fatto suo: quel danaro, che sta in vostre mani, si potrebbe metterlo à traffico, potrebbe con quello coltivare la sua terra, ristorare la sua fabbrica, pagar i suoi debiti, comperare il necessario a prezzo più mite; e voi con restituire il puro capitale credete avere pienamente soddisfatto? Inganno, miei cari, inganno! Ma che dico, restituire il puro capitale? Con tanti danni cagionati per vostra colpa vi lusingate appagare la vostra sinderesi, soddisfare il prossimo, placar Dio, con dire e tornare a dire: restituirò. Oh “restituirò” infelice e seduttore, oh restituzione immaginaria, quant’anima porti all’impenitenza finale, all’eterna dannazione! – Deh per carità, fedeli amatissimi, rendete possibile almen per voi questa restituzione, che per gli altri è moralmente impossibile, attese le fallaci scuse, e i mendicati pretesti, coi quali l’uomo tenace studia ingannarsi, e perdersi per un fatale attacco alla roba, e per un più fatale accecamento differire la restituzione ad un incerto futuro. ”Reddite, dunque, se v’è cara la vostra salute, ve ne scongiuro colle parole dell’Apostolo, rendete a ciascuno, e senza dilazione, quel che di giustizia gli dovete”: “Reddite ergo omnibus debita” (Ad Tim. 1, IV,8). “Reddite”, vi ripeto colle parole di Gesù Cristo nell’odierno Vangelo, “Reddite ergo quae sunt Caesaris Caesari, et quae sunt Dei Deo”.

 

Omelia della Domenica XXI dopo Pentecoste

Omelia della Domenica XXI dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda ed. napoletana, Vol. III -1851- imprim.]

(Vangelo sec. S. Matteo XVIII, 23-35)

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Amore ai nemici.

Servo malvagio (così un Re sdegnato contro un suo iniquo vassallo, secondo la parabola dell’odierno sacrosanto Vangelo) “servo malvagio, io mosso a pietà del tuo pianto ti ho rimesso il debito, che avevi con me, di dieci mila talenti. E tu ancor bagnato dalle tue lacrime, ancor commosso dall’amore con cui ti perdonai, appena metti il pie’ fuor della mia soglia, che incontrato un tuo conservo a te debitore di cento danari, lo tieni per la gola, minacci di soffocarlo se non ti rende quanto deve. Quegli si getta ai tuoi piedi, e usando di quelle stesse parole, colle quali tu hai destata la mia commiserazione, ti prega, ti scongiura a dargli un respiro di tempo, onde poter soddisfarti; e tu inflessibile e duro al, par d’un macigno, lo strascini al tribunale, lo fai chiudere in oscura prigione. Servo indegno, perché da me non apprendesti la compassione per un tuo simile? Olà, miei ministri; sia legato costui, sia dato in mano de’manigoldi, sia posto alla tortura, finché abbia interamente soddisfatto tutto il suo debito”. Cosi, conchiude la parabola il divin Salvatore, così farà con voi, miei discepoli, il Padre mio, se non perdonerete di cuore ai vostri offensori. Già in altro luogo del suo Evangelio, Gesù Cristo nei termini più precisi ha promulgato l’espresso suo comandamento d’amare i nostri nemici, “ego autem dico vobìs: diligite inimicos vestros” (Matt. V, 44). Convien dire che molto preme al nostro divin Legislatore l’osservanza di questo suo comando. Così è: e pure quanto vien trasgredito! Per opporre qualche argine a un tanto disordine, io passo a dimostrarvi l’eccellenza di questo precetto, la gravezza della sua trasgressione, la stoltezza de’suoi trasgressori. Piacciavi d’ascoltarci:

I. Il precetto d’amar i nostri nemici mostra la propria eccellenza, o si riguardi il Legislatore che comanda, o il suddito che ubbidisce. Il Legislatore è l’Uomo-Dio, che a farci conoscere il pregio di questo suo comandamento ci mette in vista l’esempio del suo Padre celeste, che fa sorgere il sole da Lui creato, acciò della sua luce e del suo calore godan del pari i buoni ed i malvagi, e comanda alle nubi di spargere la pioggia fecondatrice tanto sul terreno del giusto, quanto su quel dell’ingiusto: “Qui solem suum oriri facit super bonos et malos; et pluit super iustos et iniustus” (Ibid. 45). Amate, dice Egli; i vostri nemici. Segni del vostro amore saranno se al loro odio contrapporrete i vostri benefizi e alle calunnie le vostre preghiere. Questa è la via per essere costituiti figliuoli di Dio, e per arrivare colla debita proporzione ad esser perfetti, come è perfetto il Padre vostro che sta in cielo: “ut sitis filii Pater vestri … perfecti, sicut et Pater vester coelestis perfectus est” (Ibid. 48). L’altezza del grado a cui mira un tal precetto è chiara prova dell’eccellente sua prerogativa. – Cresce questa a dismisura quando il Legislatore col proprio esempio, dato nelle più difficili circostanze, muove i suoi sudditi all’adempimento della sua legge. Uno sguardo a Gesù sulla Croce sazio d’obbrobri, che provocato da’ suoi nemici con amare ironie e con pungenti sarcasmi, prega l’eterno suo Padre a graziarli di perdono, e per più facilmente ottenerlo espone la scusa della loro ignoranza: “Pater dimitte illis; non enim sciunt quod fàciunt” (Luc. XXIII, 34). Tratto così generoso manifesta del pari la grandezza del cuor d’un Uomo-Dio, l’eccellenza del suo precetto, la gloria de’ suoi imitatori. – Dio ha creato l’uomo a sua immagine e similitudine; risplende questa nelle facoltà del suo spirito. Gran dignità all’uomo concessa; ma la bellezza e nobiltà di quest’immagine non si perfeziona, se non quando l’uomo stesso regola le sue azioni giusta il volere e l’esempio del suo prototipo che è Dio. Chi dunque perdona al suo nemico, si rende a Dio somigliante, si solleva ad un grado superiore alla natura, e merito e gloria glie ne ridonda appresso Dio e appresso gli uomini. A chiarirvene seguitemi col pensiero. – Vedete voi quei pastori innanzi al viceré dell’Egitto? Sono i suoi fratelli, egli è Giuseppe da essi non conosciuto. Son eglino quei che l’hanno avuto in tant’odio, fin a volersi lavar le mani nel suo sangue innocente, quei, che spogliatolo e messo in fondo di secca cisterna l’han poi venduto in ischiavo a mercanti Ismaeliti. Sono ora in sua mano: non gli manca né potere, né ragione per vendicasi. Ma no, “io son Giuseppe vostro fratello, dice loro, venite al mio seno”, e cosi dicendo strettamente gli abbraccia, li bagna di dolci lacrime, li colma di benefizi. Qual senso, uditori, desta in voi quest’avvenimento? Quale in voi è maggiore l’ammirazione o la tenerezza? Fingete ora che Giuseppe si fosse vendicato de’ suoi snaturati fratelli, un alto senso d’indignazione e di disprezzo avrebbe svegliato in voi la bassa sua azione. Quanto, avreste detto, ha mai avvilito la sua dignità, quanto disonorato il suo nome! Col grado di viceré non ha cangiato il rozzo costume di vigliacco pastore. Così è, render male per male è proprio dei bruti, è segno d’anima vile. Per l’opposto, perdonar le offese, beneficare gli offensori è singolare virtù d’uomo grande, di cuor generoso vincitor di sé stesso, virtù col solo lume di natura conosciuta e praticata da tanti, anche nelle tenebre del Paganesimo, virtù, che nella legge di grazia innalza il cristiano al grado di somiglianza con Dio. Grande adunque e magnifica è l’eccellenza di queste precetto; ma ancor più grande e ontosa è la gravezza della sua trasgressione.

II. Ditemi in grazia o voi, ai quali sembra tanto dura, e difficile l’osservanza di questo divino comando. V’impone forse Iddio d’amare nel vostro nemico i suoi misfatti, i modi indegni coi quali oltraggiò la vostra persona? No certamente, vi comanda d’amarlo come sua immagine e come vostro fratello in Gesù Cristo. Ora siccome sarebbe enormissimo sacrilegio calpestare l’immagine del S. Crocifisso sul pretesto che fosse mal impressa in carta, o male scolpita in legno; così sarà sempre un gran delitto l’odiare, l’offendere il nostro fratello, tuttocché malvagio, offensore e nemico; poiché in ogni modo porta sempre l’impronta di quel Dio, che lo creò a sua immagine e somiglianza. – Se poi l’odio contro quel vostro nemico vi trasportasse ad ucciderlo, sfogato il crudele piacer della vendetta, placato il sangue, avreste in orrore voi stesso. Il reato d’un omicidio, il nome d’omicida vi coprirebbe di confusione e di infamia, e la memoria del vostro delitto sarebbe il vostro carnefice. Or sappiate, che se nutrite in cuore un odio grave verso il vostro fratello, siete reo d’omicidio, siete un omicida. In termini espressi vel dice l’Evangelista s. Giovanni Omnis qui odit fratrem suum homicida est.- Homicida est” (Gio. III, 15), perché nel cuor di chi odia muore il fratello odiato. E come? Vi muore la buona opinione dello stesso, vi muore la carità comandata, vi muore la stessa natura portata ad amar i suoi simili. Volete conoscere se nel vostro cuore è morto qualche vostro fratello? Osservate se si eccitano in voi quei movimenti, che naturalmente sogliono in voi destarsi alla vista di qualche cadavere più o meno schifoso. L’occhio primieramente prova ribrezzo a vederlo, ne resta offeso, si volta altrove. Avviene a voi altrettanto all’imbattervi con quel tal prossimo? Di quel cadavere non potete soffrire la fetida esalazione. E la presenza e il parlare e il trattare con quella persona vi si rende del pari intollerabile? Non vedete l’ora che quel cadavere vi si tolga davanti e si metta sotterra. Avreste mai la stessa voglia riguardo al vostro nemico? Se è così, son tutti segni che nel cuor vostro è morto il vostro fratello, che odiandolo gli avete dato morte, che siete reo di formale omicidio, che siete omicida: Omnis qui odit fratrem suum homicida est.” – Andate ora con questo nome in fronte a produrre scuse per sottrarvi dal perdonare le ricevute ingiurie, ed a chiamar troppo dura la legge d’amare i nemici. Se bramate ch’io vi dica perché tale vi sembra, io vel dirò con quella sincerità ch’esige il mio ministero, e da quel che son dirvi vedrete quanto s’aumenta la gravezza della vostra trasgressione. Vi par duro, vi pare anche impossibile il precetto d’amare i vostri nemici perché fatto e promulgato da Gesù Cristo. Oh che orrenda cosa ci fate sentire! Vi sorprende, miei cari, e pur è così, uditemi con pazienza. Se un personaggio autorevole, un uomo di merito, come più volte è avvenuto, con confidenza ed impegno, orsù, vi dicesse: io voglio estinto il vostro odio, quest’inimicizia disonora voi, disgusta me, non voglio che più sussista: vi chiedo la pace e pace sincera e pace stabile: non mi negate tal grazia, che l’attribuirò fatta a me stesso e ve ne professo fin d’ora obbligazione e riconoscenza perpetua; a questo dolce parlare non sapreste resistere, vincerebbe ogni ritrosia l’acquisto d’un amico potente. Meno: quella donna da voi coltivata s’interpone tra voi e il vostro avversario, e “per amor mio, vi dice, deponete ogni rancore, non mi tornate dinanzi se non fate amistà”. E voi alle parole uscite da quella bocca chinate la testa, vi chiamate fortunato in ubbidirle. Meno ancora: l’interesse vi suggerisce che tronchiate quei dispendiosi puntigli, che rendiate il saluto, che mostriate buon viso a chi può farvi un prestito, a chi può procurarvi una carica, a chi può nominarvi o escludervi nel suo testamento, e voi date ascolto alle voci dell’interesse e vi attenete ai suoi consigli. Ora, io ripiglio, parla una persona di qualità e vi arrendete; parla una femminetta e vi piegate, parla l’interesse ed ubbidite, parla Gesù Cristo e non s’ascolta e non si vuol ubbidire. Il fatto dunque dimostra esser in pratica pur troppo vero quel che vi faceva sorpresa come una cosa orrenda.

III. Ma via non vi muove la gravezza e l’enormità della colpa, date almeno luogo alla ragione. In tante altre vostre azioni vi piccate di senno e di prudenza, ma se voi state fissi a non perdonare, non ischivate la taccia d’una grande stoltezza. So quanto l’indole vostra sia aliena dal fare una sanguinosa vendetta. Supponete però, che alcun, fra voi da forte tentazione vi fosse incitato: “fratel mio, gli direste, tirate i vostri conti. Mettete in una parte di bilancia il barbaro piacer della vendetta: ponete dall’altra la perdita della vostra libertà, la fuga dalla patria e dallo stato, l’infamia del vostro nome, il disgusto dei congiunti, la rovina della famiglia, lo spavento di cader nelle mani della giustizia, il patibolo in fine, a cui potesse esser condotto”. Che cosa prepondererà nel vostro giudizio? L’amor di vendicarvi? Perdonatemi, quando è così, se vi chiamo un insensato, un matto da catena, non uomo ragionevole, ma una fiera del bosco. Così direste umanamente parlando. – E che dovrò io soggiungere parlando dell’ anima e dell’eterna salute? O Dio! Voi non volete sparger sangue, lo so, ma il vostro cuore è tutto sparso di malavoglia e pieno di rancore. Intanto voi recitate l’orazione domenicale, il Pater noster, e non avete tanto lume a conoscere, che collo odio in cuore pronunziando quelle parole, dimitte nobis debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris”, pronunziate la vostra sentenza. – Badate a quel che dite, v’avvisa S. Giovanni Crisostomo, acciò come un pazzo furibondo non volgiate contro voi stessi la vostra spada a trafiggervi: “Vide quid dicis, ne contra te ensem, tanquam insanus et furiosus stringas(Hom. 38 in Ioan.). Voi in sostanza dite così: Signore, perdonate a me, come perdono agli altri, io non perdono e non mi perdonate, non voglio più mirare in faccia quel prossimo, non voglio più trattarlo, non più parlargli, e voi fate altrettanto con me, misuratemi colla stessa misura, pagatemi della stessa moneta, battetemi collo stesso bastone. Così pregando, voi impugnate la penna e scrivete la vostra condanna. E qual sarà se non è questa la più solenne pazzia? – Cristiani amatissimi, siam tutti peccatori, abbiamo tutti chi più, chi meno dei debiti con Dio. Se non perdoniamo di cuore non v’è per noi perdono. Un Dio lo comanda, un Dio ne dà l’esempio, un Dio promette premio, un Dio minaccia castigo; e noi saremo inflessibili? Non voglio crederlo d’alcuno di questa mia cara udienza.

Omelia della Domenica XX dopo Pentecoste

Omelia della Domenica XX dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

(Vangelo sec. S. Giovanni IV, 46-53)

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Mal esempio dei Genitori.

Quant’è mai grande la forza del buon esempio! Un padre, come ci narra l’odierna evangelica storia, col suo credere a Gesù Cristo, trae coll’ardore del suo esempio alla fede di Gesù Cristo medesimo tutta la sua famiglia. Era questo un piccolo Re, il cui figlio giaceva gravemente infermo a Cafarnao. Vedendo inutili tutti gli umani rimedi, ebbe ricorso al Consolator degli afflitti, partì da Cafarnao, e Lo raggiunse in Cana sui confini della Galilea, e prostèso a Lui dinanzi “Signore, disse, tengo un figliuolo in pericolosa infermità, compiacetevi venirlo a risanare, e a consolare il più addolorato di tutti i padri”.- “Se non vedete miracoli, Gesù rispose, voi non credete”. – “Ah Signore, soggiunse il padre, venite per pietà che ogni momento d’indugio può esser fatale al figlio moribondo”. – “Andate, disse allora il Salvatore, che il figlio vostro è vivo e sano e salvo”. Credette alle sue parole il genitor consolato, e nel tornarsene a casa ecco alla metà del cammino i suoi servitori spediti ad apportargli la lieta notizia, che il figlio aveva ricuperata in un istante la sanità. Interrogati dell’ora, in cui la febbre l’aveva lasciato, e in udir che ieri all’ora settima cessata la febbre era uscito di pericolo, comprese essere precisamente quell’ora stessa, in cui il divin Redentore detto gli aveva che il suo figliuolo era vivo e risanato. In vista di questo prodigio abbracciò la fede di Gesù Cristo, e trasse col suo esempio alla stessa fede tutti di sua famiglia, numerosa di alti e bassi ufficiali, d’ordini diversi di servitori, essendo egli un piccolo Re da Erode Tetrarca costituito Principe e Governatore di tutta la Galilea. “Credidit ipse, et domus eius tota”. – Tant’è la forza del buon esempio. Ma ancor più grande è la forza dell’esempio cattivo. “Un poco d’assenzio, dice S. Gregorio Nisseno, basta a rendere amara una notabile quantità di mele, ma una notabile quantità di mele non può far dolce l’assenzio”. E più facile distruggere che edificare. Quanta rovina adunque recherà ai propri figli l’esempio malvagio de’ genitori! Per impedirlo io prendo a dimostrarvi le perdite inconsolabili, che fanno i genitori col mal esempio. Pérdono l’autorità sopra de’ figli, perdono i figli, e perdono sé stessi. Tre perdite che abbracciano il temporale e l’eterno interesse, tre punti che meritano la vostra più seria applicazione.

I. L’autorità è in tutto il suo vigore, quando ne hanno il dovuto concetto i subalterni; ma ohimè quando decade, se nei soggetti autorevoli trovano gli inferiori di che adontarsi, e scoprono che riprendere! Veniamo al pratico. Entro col mio pensiero in una casa di questo mondo, e v’entro nell’ora in cui marito e moglie sono tra loro in aspra contesa. Vomita il primo le più infami e contumeliose parole, aguzza l’altra la lingua come un serpente; crescono le ingiurie, crescono gli insulti a vicenda. La tempesta non finisce in tuoni. Alle imprecazioni, alle bestemmie succedono colpi, percosse, duri e villani maltrattamenti. Oh Dio! e tutto ciò in presenza dei figli che piangono, che alzano stridi e clamori. Che casa è questa, ove abita il demonio della più arrabbiata discordia? Che scuola è questa in cui da’ figliuoli s’apprende l’immodesto parlare, lo scostumata procedere, l’ira, la contumelia, lo spirito d’odio e di vendetta? E qual concetto può avere la povera famiglia d’un padre bestiale, d’una madre viperina? Perduta la stima si perde necessariamente l’autorità tanto necessaria per la buona educazione. Lo scandalo che date, o incauti genitori, vi chiude la bocca: non potete più correggere la vostra prole di quei misfatti, de’ quali voi siete più rei. – Allorché Caino stese a terra impiagato e morto Abele suo innocente fratello, Iddio acremente rimproverandolo, “il sangue del tuo germano, gli disse, dalla terra, su cui è sparso, alza voci e clamori che giungono al cielo”. – “Sanguis fratris tui clamat ad me de terra” (Ge. IV, 19). Così abbiamo dal sacro testo; ma il sacro testo non dice che Adamo aprisse bocca a correggere il crudel fratricida. E perché? Risponde Teodoreto, che Adamo, come uomo intelligente, ben prevedeva le amare risposte del figlio uccisore, se l’avesse rimproverato; e perciò il suo delitto, il mal esempio, l’obbligò a rigoroso silenzio. “Come! detto gli avrebbe probabilmente Caino, voi mi riprendete per l’uccisione d’un uomo, mentre voi avete uccisa tutta l’umana generazione! Mi rimproverate per la morte di mio fratello, voi che avete dati a morte più dannevole tutti i vostri figli che sono e che saranno sino alla fine del mondo? Io poi ho peccato per un movimento d’insidia, per un trasporto di collera, e voi solo per il gusto meschino di un vilissimo pomo”. Tutti questi acerbi rimbrotti si aspettava Adamo, perciò si tacque, vedendosi spogliato d’autorità per correggere. – Così avviene tutto dì. Quel padre è un figliuol giocatore che nel giuoco perde il tempo, lo studio, il danaro, il buon nome. Vede la necessità di correggerlo, ma come può, s’egli giorno e notte ha le carte e i dadi alla mano? Con qual animo, dice S. Gregorio Magno, pretenderà medicar l’altrui piaga colui che porta in faccia la stessa medesima piaga? “Qua praesumptione mederi properat, qui in facie vulnus portat?” (Pur. 2 Past. C. 9). Quella madre sa ed osserva che la propria figlia è libera, nemica del ritiro, che tratta, che parla, che ride, che si trattiene con tutti; ma come impedire questi pericolosi disordini se essa tiene un’eguale condotta? Quell’altro padre vorrebbe i suoi figli dediti alla pietà, frequenti alla Chiesa, alla parola di Dio, ai santi Sacramenti; ma come avvisarli o punirli per la loro indevozione, se egli mai non si lascia vedere in Chiesa o in casa a piegar le ginocchia in qualche pubblica o privata preghiera? Ma diamo, che dai genitori si correggono i viziosi figliuoli, che autorità e forza potrà avere la riprensione, se quel che si pronunzia colla parola si distrugge coll’opera?

II. Se non che il perdere col mal esempio l’autorità di correggere è il meno: quello che monta incomparabilmente di più, è la lacrimevole perdizione degli scandalizzati figliuoli. La prima scuola, solete voi dire, è quella dì casa. Gli esempi domestici fanno più d’impressione che gli stranieri. La tenera età è più disposta a copiare l’immagine del vizio che della virtù. La gioventù non ha bisogno di sprone per gettarsi alla strada della dissolutezza, e la corrotta natura pendente al male trova ne’ mali costumi de’ genitori come una specie di guarentigia a impunemente seguirli. Di Abia, figlio di Roboamo, dice la divina Scrittura che camminò in tutti i peccati di suo padre, “ambulavit in omnibus peccatis patris sui” (III Re, XIII, 3). Notate la frase: le scelleratezze del proprio padre furono per lui come tante pedate impresse sulla polvere o sull’arena, sulle quali camminò come l’empio suo genitore, “ambulavit in omnibus peccatis patris sui”. – Se poi al mal esempio tacito s’aggiungesse l’espresso, poveri figli! Così non fosse, come odono sovente di bocca del padre o della madre certe massime affatto opposte a quelle del santo Vangelo. “Non ti far pecora, o figlio, ma come cane mostra e adopera i denti contro chi t’offende”, “ché tanti riguardi! E’ un codardo che non sa vendicarsi e farsi portar rispetto”. – “Bisogna farsi ricchi per essere rispettati e temuti. Chi ha danaro ha tutto, e può far di tutto”. – “La coscienza è per chi la teme, e chi la teme sarà sempre povero”. Oh Dio! oh Dio! che diabolica scuola. Non vi credo capaci, uditori miei cari, di questo linguaggio pestifero, scandaloso, anticristiano, contentatevi invece ch’io vi metta sott’occhi un altro scandalo indiretto, a cui non si bada gran fatto. – Per meglio spiegarmi premetto quel che di Gerosolima diceva piangendo il Profeta Geremia. Paragona egli quell’infelice città ad uno struzzo nel deserto, “Filia populi mei crudelis quasi struthio in deserto” (Theren. IV, 3). Osserva Plinio, e con esso altri indagatori della natura (checché ne dica qualche viaggiatore) che lo struzzo ne’ deserti dell’Africa e dell’America lascia cader le sue uova in sull’arena, e le abbandona. La provvidenza si cura delle medesime, e di giorno col calore del sole, e di notte col calor mantenuto nella sottoposta arena fa che le uova si schiudano e fuori saltellino i piccoli struzzoli che sull’arena stessa trovano l’opportuno alimento. La divina provvidenza non vuol fare altrettanto a riguardo dei figli vostri: a voi, alla vostra cura li ha commessi, or che sarà se voi li abbandonate? E appunto da questo abbandono nascono quegli scandali indiretti non conosciuti, e perciò più pericolosi e dannevoli. Torme di fanciulli si vedono a trastullar tutto il dì in mezzo alle piazze e alle contrade, abbandonati a se stessi, come tanti struzzoli, e vanno intanto imparando sconce parole e maliose azioni, e il padre trascurato e la madre indifferente non badano che a levarsi il fastidio d’averli intorno. Fatti più adulti si lasciano in maggior libertà, vanno, vengono di giorno, di notte, praticano compagni malvagi, contraggono amicizie sospette: l’ozio che insegna ogni malizia, il giuoco che dissipa lo spirito, il libero conversare che corrompe il costume, formano la giornaliera occupazione. Tanti disordini, gli scandali che danno, gli scandali che ricevono, vanno tutti a carico dei genitori, che per una insensata trascuratezza hanno ad essi lasciata la briglia sul collo. Che dirò delle figlie anch’esse abbandonate come struzzoli nel deserto? Col pretesto di divozione si lasciano andare liberamente à certe novene, che cominciano avanti l’aurora, a certe feste di Chiese rurali, a campagne, a passeggi, a festini …. Adagio, è vero, ma sono accompagnate da quel nostro parente uomo onesto, da quel nostro parente uomo dabbene. Peggio, io vi rispondo, e vel ripeto, peggio! Se quel tal uomo avesse nome, fama ed apparènza di libertino, non gli affidereste la vostra figlia, e non fidandovi, voi e la figlia vostra non correreste alcun rischio. Per lo contrario, col fidarvi non siete sicuri, potete esser traditi. Si fidò Giacobbe, e concesse a Dina sua figlia un’innocente curiosità, e Dina fu rapita, fu disonorata, ed egli ferito dal più acèrbo dolore. Il mal esempio dato, il mal esempio non impedito rovina i figliuoli, ed è finalmente causa lacrimevole dell’eterna perdita de’ genitori.

III. Il Faraone, per politica di stato fece gettare nell’acque del Nilo tutti appena nati i maschi degli Ebrei. Erode per gelosia di regno, fece trucidare in Betlemme e ne’ suoi contorni tutti i bambini dai tre anni in giù per assicurarsi nella strage di tutti la morte di uno solo, il nato Re d’Israele. Or questi uccisi bambini furon veduti da S. Giovanni nel divino suo Apocalisse, sotto l’altare di Dio, e uditi alzar al cielo voci e clamori, gridando vendetta: “Usquequo Domine, … non vindicas sanguinem nostrum?” (cap. VI, 10). Fino a quando, o Signore, tarderete a vendicare il sangue innocente?- Ora io dico così: tanto i primi fanciulli sommersi nel Nilo, quanti i secondi trucidati da Erode son salvi: i primi come circoncisi e figli d’Abramo: i secondi non solo sono salvi, ma santi e martiri dalla Chiesa venerati sugli altari; e pure domandano a Dio vendetta. Or che sarà se i figliuoli scandalizzati dai genitori piomberanno all’inferno? Se invece di essere affogati in un fiume, saranno immersi in uno stagno di fuoco inestinguibile? Se invece di aver sofferto il taglio momentaneo della spada di Erode, si troveranno per sempre sotto la spada inesorabile della divina Giustizia? Vendetta, grideranno allora a più alta voce, vendetta contro i nostri padri, contro le nostre madri, che dopo averci data la vita temporale ci hanno tolta con gli esempi malvagi la vita spirituale ed eterna: vendetta contro coloro che non ci hanno dato la vita … se non per darci una doppia morte. – Padri e madri, volete dire che la giustizia di Dio sarà sorda a queste lamentevoli voci? E se le ascolta, come fuor di dubbio le ascolterà, che sarà di voi, che sarà dell’anime vostre? Voi siete perduti. Se foste causa della perdita dell’anima d’uno a voi straniero, dovreste temere la perdita della vostra; quanto più dovrà crescere il vostro timore e se per vostra disavventura foste cagione della perdita de’ figli vostri? Miei dilettissimi, se la coscienza vi rimprovera il mal esempio dato, e le omissioni apportatrici di scandalo alla vostra prole, altro rimedio non trovo per liberarvi da tanto pericolo, che pentimento sincero riguardo al passato, e riparo nell’avvenire ai dati scandali col buon esempio.

Omelia della Domenica XIX dopo Pentecoste

Domenica XIX dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XXII, 1-14)

giudiz.univ. giotto. part.

Piccolo numero degli eletti

“Molti sono i chiamati, pochi gli eletti”. È questo il grave, il sentenzioso, il tremendo epifonema con cui Gesù Cristo conchiude l’evangelica parabola: “Multi sunt vocati pauci vero electi”. Molli furono infatti i chiamati da un Re che volle solennizzare le nozze del proprio figlio. Alcuni francamente negarono d’intervenirvi, altri produssero scuse di affari di campagna, di negozi di città. Uccisero altri i servi mandati ad invitarli. Uno finalmente si presentò, ma senza veste nuziale, e tutti questi furono per sempre esclusi dal regale convito. Il Re che fa le nozze al proprio figlio è l’eterno Padre, il figlio è Gesù che ha sposato l’umana nostra natura unendola con unione ipostatica alla sua divinità. Negl’invitati a queste mistiche nozze, vale a dire alla fede e alla penitenza, sono espressi gl’increduli che con franca negativa si rifiutano: in quei che allegano scuse, i peccatori che da un tempo all’altro differiscono la loro conversione: negli uccisori dei servi, quei che soffocano le sante ispirazioni e i movimenti della grazia: finalmente in colui che s’introduce senza veste nuziale, quegli infelici privi della carità e della santificante grazia.Che meraviglia perciò che pochi siano quei che si salvano, se la moltitudine dei chiamati si oppone ai disegni, ai desideri di Dio che li vuol salvi? Questa formidabile verità, che pochi sono fra i cristiani adulti quei che si salvano, io prendo a dimostrarvi colla ragione e coll’autorità. Udite, o fedeli, il soggetto del mio e del vostro salutare spavento.

I . Il Regno dei cieli ci vien rappresentato nel S. Vangelo a guisa di alta rocca da vincersi a forza d’armi, da conquistarsi con violenza d’estremo valore. “Regnum coelorum vim patitur, et violenti rapiunt illud(Matt. XI, 12). Ora una rocca è difficile a superarsi quando vi concorre l’arduità del sito, la moltitudine dei nemici, la debolezza degli assediatori. L’arduità del sito, primamente non può esser maggiore. Si tratta di salire al cielo nel regno di Dio e dei beati, ov’essi son giunti a stento per molte tabolazioni, pel disprezzo del mondo, per l’austerità della vita, per l’esercizio della penitenza, per le sofferte persecuzioni, per lo spargimento del sangue, pel sacrificio della vita. Senza violentar se stesso non può lo spirito sollevarsi da terra. Il corpo è un peso che tira al basso. “Una pietra dice S. Tommaso, perché dall’alto d’una torre discenda a terra, non ha bisogno di forza, basta aprir la mano; ma perché da terra arrivi alla cima, onde discese, è necessaria forza di braccio e destrezza di mano”. “Facilis discensus Averni” (Virgil.), l’intese anche un Gentile, ascender su per le vie del cielo, “hoc opus, hic labor”. L’acque del fiume Giordano secondo la natural pendenza andavano a seppellirsi nel mar morto; per far che con corso retrogrado tornassero addietro fu necessaria l’arca del Signore e l’ opera de’ sacerdoti. Per andar dopo morte a seppellirsi nell’inferno, basta lasciare operar la natura; e la natura corrotta, i sensi e le malnate passioni ci porteranno infallibilmente laggiù; ma per tornare alla nostra sorgente, al nostro principio, che è Dio, ci vuol la forza e l’efficacia della sua grazia e la nostra cooperazione, conviene vincere le ritrosie della guasta natura, superare gli ostacoli al bene, l’inclinazione al male, mortificare l’opere della carne, vivere secondo lo spirito e menar sulla terra una vita celeste. – Cresce la difficoltà per la moltitudine dei nemici. La vita dell’uomo, dice il Santo Giobbe è una vera milizia su questa terra. “Militia est vita hominis super terram” (Cap. VII, 1). Bisogna star sempre coll’armi alla mano, ed oh con quanti nemici abbiamo a combattere! Nemici interni, nemici esterni, nemici visibili, nemici invisibili: tutti i sentimenti del nostro corpo sono altrettanti nemici, tutte le nostre passioni, l’irascibile, la concupiscibile, la superbia, l’avarizia, la gola, l’invidia, sono fiere racchiuse nel serraglio del nostro cuore, che ci fa sentire i loro ruggiti, e ci minacciano de’ loro morsi: nemico l’intelletto facile a deviare dal vero, soggetto a mille impressioni malvagie, nemica la memoria fomento di perverse rimembranze, nemica la volontà inclinata ad ogni specie di male. Si aggiunge all’esercito di tanti nemici il mondo, il demonio, la carne, i mali esempi, i cattivi consigli, le false massime, l’erronee dottrine, i libri seducenti, gli scandali passati in costume. Oh Dio, quanti inciampi, quanti pericoli, quanti lacci! Di questi lacci vide S. Antonio Abate tutta sparsa la faccia della terra, e S. Agostino forse alludendo a questa visione, “ecco, dice, il mondo ha tesi innanzi ai nostri piedi infiniti lacci; e chi potrà scansarli?” “Ecce ante pedes tetendit laqueos infinitas, et quis effugiet? (Apud Rossig.). – Cresce vie più la difficoltà di conquistare il regno dei cieli per la debolezza dei combattenti. Chi più debole ed incostante dell’uomo? Una canna è di lui men fievole, un vetro è di lui men fragile. Mirate i nostri progenitori nel terrestre paradiso, creati nell’originale giustizia, senza stimolo di passioni; e pure la vista di un pomo, due parole del demonio nascosto nel corpo di un serpente, bastarono a sedurli ed a farli prevaricare. Mirate Saul prima da Dio eletto e a Dio fedele e poi disubbidiente e riprovato. Davide santo, Profeta, uomo secondo il cuor di Dio, per uno sguardo diviene adultero e omicida; Giuda, oggi Apostolo, domani apostata; Tertulliano prima padre della Chiesa, apologista della religione cristiana, indi eretico Montanista; Lucifero, famoso Vescovo di Cagliari già difensore della fede cattolica, e dopo morto scismatico. Io vidi, dice S. Agostino, cadere a terra cedri del Libano, colonne della Chiesa, condottieri del gregge di Cristo, della rovina dei quali non avrei mai ammesso minimo dubbio, siccome mai avrei dubitato di un Gregorio Nazianzeno e di un Ambrogio. Oh Dio! quanto è grande, quanto è deplorabile l’umana fragilità! Chi si terrà sicuro? Chi si fiderà delle proprie forze? Chi in vista dell’altrui rovina non temerà della propria? – Che pochi siano quei che van salvi, dopo la ragione ce ne convince l’autorità. Apriamo le divine Scritture e riscontriamo prima le immagini che al dir dell’Apostolo “in figura facto, sunt nostri, (ad Cor. X, 6), poi le sentenze che comprovano questa spaventosa verità. Dal diluvio universale, che affogò tutta l’umana generazione, quanti furono gli scampati? Solo otto persone, Noè, e la sua famiglia. Dall’incendio delle popolose città di Pentapoli quanti fuggirono? Quattro soltanto. Lot con la consorte e due sue figlie. Di seicento mila Israeliti abili all’armi, senza contar le donne e i fanciulli, usciti dall’Egitto per entrare nella terra promessa, quanti vi posero piede? Due soli, Giosuè e Caleb). Molte, dice Gesù Cristo nel Vangelo di S. Luca, furono le vedove in Israele ai tempi d’Elia angustiate per la gran fame, e ad una sola, la vedova di Sarepta, fu recato soccorso. Molti furono i lebbrosi ne’ giorni d’Eliseo, e uno solo fu risanato, cioè Naaman Siro. La terra è infetta dai suoi abitatori, soggiunge Isaia, e perciò sulla faccia della medesima si spargerà la maledizione ad esterminarla. Pochi restarono ad abitarla “relinquentur homines pauci” (XXIV, 6), e saranno tanto pochi che potranno rassomigliarsi a quelle rare e poche olive che restano sull’albero dopo essere stato bene scosso e perticato, e a quegli scarsi grappoli d’uva che in un’abbondante vendemmia sfuggono all’occhio dell’attento vignaiuolo. Tutti corrono al pallio, ricorda San Paolo, ma un solo è quello che arriverà a conseguirlo, “omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium(1 Cor. IX, 24). E giacché di S. Paolo abbiamo fatto menzione, udite come parla di sé questo vaso di elezione, questo grande Apostolo già rapito fino al terzo cielo. “Miei cari, per grazia di Dio la mia coscienza di nulla mi rimorde”, “nihil mihi conscius sum(1 Cor. IV, 4), ma non per questo mi tengo per giusto, “sed non in hoc iustificatus sum”. Anzi castigo il mio corpo per tenérlo a guisa di schiavo insolente soggetto alla ragione ed alla fede, perché temo che procurando colla mia predicazione l’altrui salvezza, io non divenga un misero riprovato, “ne cum aliis praedìcaverim, ipse reprobus efficiar” (1 Cor. IX, 27). – Ma che cercare esempi e figure quando in chiari termini precisi parla l’Incarnata Sapienza, la stessa Verità, Cristo Gesù? Interrogato Egli se pochi sono quei che si salvano, “si pauci sunt qui salvantur(Luc. XV, 24)? Rispose: “Angusta è la porta del cielo, fate ogni sforzo per entrarvi”, “contendite intrare per angustam portam”, così in S. Luca. Passate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la strada che mena alla perdizione, e molti son quelli che per questa si avviano, “et multi sunt qui intrant per eam”. E di nuovo esclamando ripete: “oh quanto è stretta la porta e angusta la strada che conduce alla vita!” e pochi son quei che a questa si appigliano, “et pauci sunt qui inveniunt eam” (Cap. VII, 14). Così in S. Matteo. In somma conchiude, “molti sono i chiamati alla fede, alla penitenza, alla salute, ma pochi sono gli arrendevoli a queste chiamate, per conseguenza pochi sono gli eletti” “multi sunt vocati, pauci vero electi(Matt. XX, 10). A questa irrefragabile autorità appoggiati i santi Padri Agostino, Girolamo, Gregorio, Crisostomo, Anselmo, Efrem, Teodoro, Basilio, tutti concordano che dei cristiani adulti che possono colla libertà dell’arbitrio cooperare alla propria salute, il maggior numero sia dei reprobi, non degli eletti. Per non esser prolisso non vi reciterò le loro sentenze: basterà per tutti S. Giovanni Crisostomo. Predicando questi nella gran città di Costantinopoli, tutta allora cristiana, città la più numerosa di popolo dopo Roma, arrivò a dire che di una sì vasta popolazione, appena cento avrebbero nazione, e di questi cento aveva pure alcun dubbio: “Non possut in tot millibus inveniri centum qui salventur, quia et de his dubito”. Forse allora era meno corrotto il costume. E che avrebbe detto a’ tempi nostri in vedere la religione derisa, la devozione schernita, la Chiesa perseguitata, la bestemmia in costume, la disonestà in trionfo, la sevizia dei mariti, l’infedeltà delle mogli, fuggita la frequenza nei divorzi, la scostumatezza dei figli, la licenza delle zitelle, la frode nei contratti, l’usura nei prestiti, la prepotenza nelle liti, la facilità negli spergiuri, la profanazione delle Chiese, lo scandalo delle mode, lo scandalo nelle pitture, lo scandalo nelle canzoni, nei libri osceni, nei libri eretici? Mio Dio, che torbido rovinoso torrente d’ogni iniquità inonda la terra! E dopo ciò; farà sorpresa il dire che pochi si salvano? Ah, miei dilettissimi, se per bene vostro io vi son cagione di spavento, perdonate per pietà, ad uno ch’è più di voi spaventato: “Territus, terreo(D. Aug.). – Misero me! mi salverò? mi perderò? Sarò nel numero de’ pochi salvi? O in quello dei molti riprovati? Io son vicino alla tomba, i capelli son bianchi, le forze mancano, la vista è debole, poco mi resta di vita. Che sarà di me al tremendo giudizio di Dio? Che sentenza mi toccherà? propizia o contraria? Se do uno sguardo alla mia coscienza aggravata di tante colpe, se rifletto alla difficoltà della salute, io mi do per perduto. La divina giustizia io l’ho irritata: la divina misericordia non me la rendo propizia. Fui peccatore, son peccatore, non rimedio al passato, non profitto del presente, non provvedo all’avvenire. Ah! che dovunque mi volgo non trovo che oggetti di spavento e di disperazione. In tanto orrore di me stesso mi resta una sola speranza: Maria, rifugio dei peccatori, mi getto a’ vostri piedi, mi nascondo sotto del vostro manto, difendetemi dalla giusta collera di un Dio da me troppo indegnamente offeso. In questo giorno in cui tutto il popolo cristiano a voi ricorre e tanto vi onora, [cadeva in questa domenica la solennità di Nostra Signora del Rosario], non rigettate dal vostro cospetto un peccator ravveduto. Madre dolcissima, avvocata de’ peccatori, difendete la mia causa, dite al vostro Figlio che son pentito delle mie colpe e delle sue offese, che più non peccherò, che voglio da qui innanzi vivere nel numero dei pochi per salvarmi coi pochi. Pochi sono i cristiani timorati, casti, sobri, pii, giusti, umili, limosinieri, devoti, sarò di questo numero? Se il mondo è perverso e pervertitore, ne starò lontano; vivrò come Abramo in mezzo a’ Caldei, vivrò come Tobia nella prevaricazione d’Israele, avrò sempre vivo alla mente il ricordo di S. Giovanni Climaco : “Vive cum paucis, si vii regnare cum paucis”.

Omelia della Domenica XVIII dopo Pentecoste

Domenica XVIII dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo IX, 1-8)

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Carità verso gli Infermi

Due esempi assai luminosi di carità ci presenta la odierna evangelica storia. Il primo nella persona di alcuni uomini di Cafarnao, che adoprano ogni fatica ed ogn’industria per procurare la sanità di un povero paralitico, con recarlo al cospetto di Gesù Cristo. Il secondo in Gesù Cristo medesimo, che rimette i peccati a quel misero infermo, e spiritualmente lo risana. Il primo esempio riguarda la salute corporale, il secondo la spirituale. Ed ecco in ciò tutta la nostra istruzione. Quando il Signore visita le nostre famiglie con qualche malattia, come sono trattati i nostri infermi in rapporto al corpo? Come sono trattati riguardo all’anima? Vediamo se possiamo paragonarci ai pietosi Cafarnaiti per la carità corporale, e al misericordioso Redentore per la spirituale carità. Ohimè! Uditori miei cari, che io temo invece di questa doppia carità, di riscontrare in alcuno di voi una vera e forse non conosciuta crudeltà! L’importante argomento richiede tutta la vostra attenzione.

I. – Il primo esempio di una carità tutta singolare, ed oltre modo industriosa ci presentano i già indicali uomini di Cafarnao. Quattro di questi, come narra l’Evangelista S. Marco (II, 3), toltosi sulle braccia un paralitico disteso nel suo letticciuolo vogliono presentarlo al divin Salvatore; ma la casa, ove Egli trovavasi era così piena zeppa di popolo, che per ogni tentativo e sforzo immaginabile non fu possibile romper la folla, e farsi strada. Ma che? Si avvidero di una scala esteriore, che portava fino alla sommità della medesima casa. Ivi giunti, scoprirono il tetto, e, fatta una larga apertura, calarono giù con funi il letto e l’infermo a’ piedi di Gesù Cristo. – Che dite, ascoltanti, di questa carità? È tale la vostra per procurare a qualche infermo di vostra famiglia la corporale salute? Vi spinge a tentar ogni mezzo, a cercar ogni modo, onde possa ricuperare la pristina sanità? Sì, è tale; ma quando? Quando si tratta di persona a voi necessaria, che colle fatiche o col traffico o coll’impiego sostiene la casa, e guai se venisse a mancare: soffrirebbe un rovescio la desolata famiglia. Io non condanno, lodo anzi la vostra sollecitudine, il vostro impegno per quell’ infermo a voi sì caro e necessario. Ma se questa stessa persona, cotanto cara e vantaggiosa, per vecchiezza, o per altro infausto accidente, si rende inabile, come l’odierno paralitico, e divenga inutile, non è egli vero che svaniscono allora tutte le cure, le assistenze, i soccorsi, e si riguarda come un imbarazzo di casa, come un peso notevole, di cui non vedete l’ora di esserne sgravati? Così avvenne al S. Giobbe: finché come principe Idumeo colle sue ricchezze fu occhio al cieco, piede allo zoppo, padre dell’orfano e del pupillo, sostegno delle vedove, consolator de’ miseri, riscosse da tutti stima, venerazione ed applausi. Quando poi spogliato di tutti i suoi beni, coperto di piaghe, lo videro steso su di vile letamaio, i falsi amici, e perfino l’insultante consorte, lo abbandonarono in braccio alla sua miseria e al suo dolore. “Fratres mei praeterierunt me sicut torrens, qui raptim transit in convallibus” (Iob. VI, 13). I miei più cari (se ne lagnò dolcemente quest’esemplare di pazienza), i miei più stretti congiunti mi hanno trattato in quella guisa che si usa con un torrente. Finché questo nell’aprile, o nell’autunno abbonda di acque, ad esse accorre il pastore per abbeverare la greggia, il contadino per innaffiare le piante; poi nella estate arsiccia manca e si dissecca, l’alveo suo asciutto viene calpestato dal contadino, dal viandante, dal pastore e dall’armento: “Praeterierunt me sicut torrens”. – “Ma, direte voi, se vi trovaste presente a vedere quanto son tediosi e incontentabili i nostri infermi, e singolarmente i vecchi; se udiste il continuo loro brontolare, e le indiscrete loro lagnanze, degnereste di qualche compassione quei che debbono trattare con essi, e loro prestare assistenza e servitù. Si rifletta inoltre che abbiamo i nostri affari, campagna, impieghi, negozi, e non possiamo trovarci sempre ad essi intorno”.E se vi dirò che quel tanto, che asserite difficile, aspro, gravoso e quasi impossibile, l’avete già praticato, che risponderete? Vi sovviene di quella vostra vecchia parente a letto inferma? Per aver parte nel suo testamento, o donazione irrevocabile de’ suoi beni, quanti giorni perdeste, quante notti vegliaste, quanta pazienza, quanta buona grazia usata avete per non disgustarla, per incontrare il suo genio! Non vi han ritirato dall’assisterla né le sue querele, né i mali odori, né i più bassi servigi.Confessate adunque che la brama di divenire eredi, che la mira alle sue sostanze, che, in una parola, l’interesse è quella gran molla che vi ha fatto agire, sopportare, e tutto vi ha reso facile e leggiero. Ha bel dire l’Apostolo che la carità è paziente, è benigna, e tutto soffre, e tollera tutto : “Charitas patiens est, benigna est … omnia suffert, omnia sustinet” (Ad Cor. XIII, 4. 7.) Tutto ciò nella massima parte de cristiani opera bensì l’interesse, ma non la carità. O nostra confusione!

II. – Il secondo esempio di carità l’abbiamo nella Persona di Gesù Cristo. Appena Egli si vide innanzi in quella strana forma il paralitico, “confida, gli disse, confide fili, remittuntur tibi peccata tua”. Figliuol mio, abbi fede, i tuoi peccati ti son rimessi. Ma come, mio buon Salvatore? Vi vien cercata la salute del corpo, e Voi cominciate a dargli quella dell’anima? Per nostra istruzione parla ed opera così il nostro divin Maestro, e ci avvisa che più della corporal sanità ci deve star a cuore la salvezza dell’anima. – Che diremo ora di quei cristiani, i quali avendo in casa un infermo colto da grave malattia, non l’avvisano del suo pericolo, e non si curano, o neppur pensano a farlo munire dei SS. Sacramenti? Più che da dire, vi sarebbe da piangere. – Qual è l’ordinario costume del mondo, allorché giace a letto un infermo? Accorrono i congiunti, gli amici, portati da un certo dovere di parentado, e di urbanità; le prime visite passano in complimenti: i discorsi sogliono aggirarsi sulle novelle della città, o de’ pubblici fogli; indi parlando della qualità del morbo: “Eh, dice uno, questa è una febbre effimera, il sudore è in moto, ben presto sarete franco”. “Il polso non mi dispiace, ripiglia un altro, la lingua è morbida, fatevi, coraggio, non c’è luogo a temere”. Si lagna però il povero infermo, che oppresso nell’animo, tormentato nel corpo non trova riposo. Ed ecco nuove lusinghe: “buon segno quanto il male si sente: avete più apprensione che male, non temete, una nuova crisi vi libera affatto, fra pochi giorni ci rivedremo al ridotto, alla caccia, alla villeggiatura”. Ad un infermo aggravato si parla, così? Sapete che parlare è questo? Ve lo dirò con tutto rispetto, ma insieme con tutta verità. Quest’è un parlare da demonio. Udite con pazienza. – Colà nel terreno paradiso disse a’ nostri progenitori il grande Iddio: “In quel giorno, che voi gusterete il frutto di quest’albero, che vi proibisco, sarete colti da inevitabile morte: “Morte moriemini”. Eva parlando di quel pomo col rio serpente. “Se noi, disse, ci diamo a mangiarne, forse morremo”: “Ne forte moriamur”. Il demonio nel corpo del serpente l’assicura, che non saranno soggetti alla morte: “Nequaquim moriemini”. Osservate, Iddio parla con affermativa certezza, Eva con dubbio, il demonio con negativa sicurezza. Io non dico che parliate come Dio con affermare, che quel malato morrà: a Dio solo è noto l’avvenire; ma nemmeno dovete parlar da demonio con assicurarlo che non morrà. Parlate, se vi piace, all’umana, come Eva in senso dubbioso: non fate il profeta né per la morte, né per la vita: dite, che essendo la malattia seria, pericolosa, sarebbe bene provvedere ad ogni sinistro avvenimento: che i santi Sacramenti giovano anche alla salute del corpo, che in pericolo di morte corre stretta obbligazione di riceverli, che il male potrebbe occupare la testa, e non esser più in tempo. – Se tale sarà il vostro linguaggio, sarà da uomini sensati, sarà da buoni cristiani; ma lusinghe, no, ma sicurezze, molto meno, per non parlare da demoni. – Torniamo all’infermo. Le buone parola, le buone speranze non lo fanno star meglio: cominciano i vaneggiamenti, succedono i deliqui, crescono i sintomi maligni: il medico stringe le labbra, dimena il capo, dà a conoscere che ne teme, e ne dispera. Chi si accosta intanto al letto di questo moribondo? Chi l’avvisa del suo pericolo? Chi esorta quest’anima ad aggiustar le partite di sua coscienza, a prepararsi con buona confessione al gran passaggio dal tempo all’eternità? Dove troveremo noi un altro Isaia, che si conduce alla stanza dell’infermo re di Giuda, e via su, gli intima, disponetevi alla partenza, che la morte a voi si avvicina! “Dispone domui tuae, quia morieris tu, et non vives(Is. XXXVIII, 1). Pensate: piange la moglie nell’estrema desolazione, piangono i figli e non hanno cuore, si scusano i parenti, si ritirano gli amici, il medico si affida al confessore, il confessore riposa sul medico, e intanto il povero moribondo fa strada, e se ne va, senza saperlo, in braccio alla morte ed alla eternità. – Lo so: egli è questo un tremendo castigo della divina giustizia per chi aspetta a ravvedersi in quegli estremi, castigo, per cui chi più ne abbisogna è meno avvertito. Ad un uomo dabbene, ad un buon cristiano niuno ha difficoltà di parlare di confessione, e del santo viatico. – Ad un uomo di mondo, massime di qualche qualità secondo il mondo, ognun si ritira, ognuno si scusa. Castigo di Dio per parte del moribondo, crudeltà per conto di chi l’assiste. Non si fa già così quando lo stesso infermo giace sepolto in mortale letargo. Si adopera allora ogni più violento rimedio per invogliarlo e torlo dalle fauci di morte; e perché non si fa altrettanto per destarlo da peggiore letargo di morte spirituale ed eterna? Avete timore di disgustarlo? “meglio, dice S. Agostino, esser severo con carità, che ingannar con dolcezza”: “Melius est cum severitate diligere, quam cum suavitate decìpere(Lib. IX, conf.). Indorate quanto volete la pillola amara, ma non cessate di porgerla. Eppure qualche volta si avvisa. Ma chi dà la spinta all’avviso? La carità? Eh pensate: Fra tanti parenti, amici o vicini, v’è finalmente chi dice: Olà, l’infermo fa cammino, va a precipizio, e non si parla ancor di Sacramenti? Che si dirà di voi, padre, madre, figli, consorte, se lo lasciate morir così? Tutti la colpa in faccia al parentado e presso il pubblico sarà la vostra, tutto il vostro il disonore. Ho inteso. L’umano rispetto ottiene la carità. Ma ohimè! il malato è già ai momenti estremi, presto confessori, sacerdoti, Sacramenti: ma il confessore non si trova, non si sa chi sia, o non giunge a tempo, e l’infelice se ne muore senza alcuno spirituale aiuto, senz’alcun sussidio della Chiesa, e senza neppure aver potuto salvare l’apparenza. O parenti crudeli, o nemici del proprio sangue! “Inimici hominis, domestici eius” (Matt. X, 31). – Ah! fedeli amatissimi, imitiamo i pietosi Cafarnaiti in procurare ai nostri infermi la sanità corporale, ma ad esempio di Gesù Cristo siamo assai più solleciti della salute dell’anima, e della loro eterna salvezza. Sia nostra premura l’avvertirli in tempo, acciò possano ben disporsi a ricevere salutarmente i santi Sacramenti, e a noi non resti il rancore di averli abbandonati nel maggior bisogno, la colpa di averli privati di tanto bene, il rimorso della loro forse eterna dannazione.

Omelia della Domenica XVII dopo Pentecoste

Omelia della Domenica XVII dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XXII, 34-46)

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Amore di Dio.

“Maestro, quale di tutti i comandamenti della legge è il più grande?!” Fu questa la maliziosa interrogazione che fece a Gesù Cristo un dottor della legge, come ci narra S. Matteo nel sacrosanto Evangelo della corrente Domenica. – La mira di quel dottor Fariseo, al dir di un interprete, era di costringere Gesù ad una dichiarazione della maggioranza di alcun dei precetti riguardanti l’esercizio del divin culto o di altro spettante alle leggi scritte da Mose, per aprirsi strada a questioni. Troncò il maligno suo disegno il Redentore col rispondere: “Ecco il massimo di tutti quanti i precetti: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuor tuo, con tutta l’anima tua, con tutta la mente tua: “Diliges Dominum Deum tuum ex loto corde tuo, et in tota anima tua, et in tota mente tua”. È questo il primo e massimo comandamento. Egli è il massimo per la sovrana autorità di un Dio che l’ha imposto, è il massimo per quel commercio che passa tra i più nobili movimenti del nostro cuore e il suo principio che è Dio, e il massimo pel suo fine; è ricompensa d’eterna vita per quei che l’osservano. Se desiderate conoscere i modi coi quali deve da noi osservarsi questo grande e massimo comandamento, due sono necessariamente richiesti. Fissateli bene, cristiani amatissimi. Siamo obbligati ad amare Dio con amore di “preferenza”, lo vedremo da prima: siamo obbligali ad amare Dio con amor di “operazione”, lo vedremo dappoi, se mi favorite di benigna attenzione.

I. – La prima indispensabile qualità del nostro amore verso Dio è la “preferenza”. Non siamo già tenuti ad amare Dio con un amor tenero e sensibile. La tenerezza e la sensibilità, onde talvolta cert’anime si sentono dilatare il cuore, e spargono dolci lacrime, non é da Dio comandata. Possono essere naturali effetti di un temperamento sensibile e facile al pianto. – Né pur ci vien imposto di amare Dio con un amore sforzato; ma con amor libero e volontario; onde riflette l’angelico dottor S. Tommaso che Iddio nell’intimarci questo suo precetto non si servì del verbo “Amabis”, ma del verbo “Diliges” per significarci che vuol essere amato con un amore, che seco porta una scelta ultronea, una spontanea elezione. – Non ci vien finalmente comandato con rigor di precetto un amore intenso, fervido e di sfera sublime. Il Signore ebbe riguardo alla nostra fiacchezza e non ci prescrisse il grado di questo amore, ma la sostanza soltanto. E qual è di quest’amor la sostanza? Ecco, la “preferenza”: vale a dire un amore di stima, di prelazione, di apprezzamento. Questi termini che hanno una sola significazione vogliono essere spiegati a favor de’ men colti. Iddio comanda d’esser amato da noi. Ora, siccome Dio è superiore a tutte le creature presenti e possibili, così dev’essere amato da noi sopra le creature tutte, presenti e possibili. E siccome da Dio portano e a Dio sono inferite tutte le cose create, così il nostro amore per le cose create deve da Dio discendere e riferirsi allo stesso Dio. Un cuore, un’anima che abbia questo amore, preferisce Iddio a sé stessa e ad ogni altra creatura: prepondera nel suo affetto più Dio, che qualunque altro bene creato: stima più Dio, che il mondo tutto: apprezza tanto Dio che non soffre che altr’oggetto venga con esso a paragone e competenza; e se l’umana, o diabolica tentazione forma un tal paragone e competenza, il cuore l’abbomina, l’odia, la distrugge e fa che in sé trionfi la stima e l’adesione, al suo Dio. – Dall’esempio e dalle parole dell’Apostolo Paolo meglio comprenderemo la qualità dell’amor di Dio a noi prescritto. Sfidava egli le creature tutte a separarlo, se era ad esse possibile, dalla carità dell’Uomo-Dio, dall’amor di Gesù Cristo. “Quis me separabit a charitate Christi(Ad Rom. VIII, 35)? “Forse la tribolazione, l’angustia, la fame, la nudità, la persecuzione, la spada? Eh no, che né la morte, né la vita, né l’altezza degli onori, né il profondo dell’avvilimento, né creatura alcuna potrà separarmi dalla carità di Dio, dall’amore di Gesù Cristo.” – Non crediate già, uditori, che qui S. Paolo abbia parlato con enfasi di fervore, come Apostolo disceso dal terzo cielo. No, egli qui parla da semplice cristiano, e dice il puro, il preciso a cui è obbligato qualunque privato fedele. Da ciò ne viene che ciascuno di noi è strettamente tenuto ad essere nelle medesime disposizioni di animo e di volontà, nelle quali protestava di essere il gran Dottor delle genti, onde ognun di noi è obbligato a dire in tutta osservanza e realtà: mediante l’aiuto di Dio, che mai non manca, non vi sarà creatura alcuna, che mi entri nel cuore fino ad escluderne Iddio. “Non altitudo”, non le cariche onorevoli e lucrose, se a quelle debbo ascendere per una via d’ingiustizia, o di simonia, o per altra strada obliqua. “Necque profundum”, non l’abbassamento e la depressione; e se da questa potesse togliermi la calunnia, o l’impostura, o la vendetta, io tutto sacrificherò all’Altissimo, e morrò nel profondo dell’abiezione piuttosto che trarmene con mezzi illeciti: non la fame coi suoi malvagi consigli, non la tribolazione coi suoi tentativi, non la persecuzione coi suoi pericoli, non finalmente la spada del tiranno, né qualunque altra creatura avrà forza in me di staccarmi da Dio, di farmi oltrepassare i suoi ordini e trasgredire i suoi comandi. Ecco l’amore solo, fermo, sostanziale di “preferenza”, di stima, che Dio rigorosamente c’impone nel primo precetto; perciocché Dio non sarebbe più Dio, se più di esso Lui, o al par di Lui, si potesse da noi amare lecitamente qualche altra cosa. Ma quest’amore di preferenza sarebbe un amor di semplice disposizione, se fosse disgiunto dall’opere: vi dissi perciò in secondo luogo, che deve essere amor di “operazione”.

II. – Dio, che si appella dall’Evangelista S. Giovanni, carità per essenza, “Deus charitas est” (Joan. IV, 16), si chiama altresì dall’Apostolo, fuoco consumatore, “Deus noster ignis consumens est” (Hebr. XII, 21). – Questo mistico fuoco, di cui Dio arde per noi, soggiunge il nostro divin Salvatore, “son venuto dal cielo a portarlo su questa terra; e qual altro è il mio desiderio, se non che si accenda in tutti i cuori?” “Ignem veni mittere in terram, et quid volo, nisi ut accendatur” (Luc. XII, 49)? – Osservate ora il fuoco, egli è il più attivo di tutti gli elementi. La terra quando produce e quando riposa: l’aria talora è agitata e talora tranquilla: l’acqua ora scorre, ora è stagnante. Solo il fuoco è sempre in moto, sempre agisce; e se cessa di agire, di accendere, di consumare, cessa altresì dall’esistere. Tal è appunto l’amore verso Dio, dice il Magno Gregorio, “operatur magna, si est, si autem renuit operari, amor non est” (Hom. 30 in Evan.). Vi son opere per Dio, per la sua gloria, pel suo servizio? Dunque vi è amore; non vi son opere? … non vi è amore. L’opera, prosegue lo stesso S. Pontefice, è la prova più autentica dell’amore. “Probatio dilectionis exhibitio est operis” (Ibid.). Infatti perché l’Eterno Padre amò il mondo ci diede il Figlio suo Unigenito per Salvatore. “Sic Deus dilexit mundum, ut filium suum Unigenitum daret” (Joan. III, 16). E suo Figlio stesso per dare la maggior prova al mondo di quanto amava il celeste suo Genitore, andiamo, disse ai suoi discepoli, a compiere quel sacrificio, che placherà la sua giustizia, che comproverà la sua gloria, “ut cognoscat mundus quia diligo Patrem … surgite, eamus” (Joan. XIV, 31). Persuasi ora che le opere sono i veridici contrassegni dell’amore, se mi chiedete quali debbano da noi praticarsi, vi risponderà Gesù Cristo nel Vangelo di S. Giovanni: “Se voi amate, dice Egli, fatemelo conoscere coll’osservanza dei miei comandamenti, “si diligitis me, mandata mea servate” (Joan, XIV, 15). Invano vi lusingate di amarmi, se non mi ubbidite. Così è: i comandamenti della natura, del Decalogo, del Vangelo, della Chiesa, de’ legittimi superiori, son tutti comandamenti di Dio. Se da noi sono osservati, possiamo avere una morale certezza, che regna in noi l’amor di Dio, un solo però che venga trasgredito basta ad estinguere questo amore e dar morte all’anima nostra. “Qui non diligit, manet in morte” (Jo. III, 14). – Ad agevolare poi l’osservanza de’ divini precetti è espediente mettere in pratica i mezzi opportuni all’intento. Scelgo fra tanti, quei che ci suggerisce S. Lorenzo Giustiniani, e sono “Libenter de Deo cogitare, libenter Deo dare, libenter pro Deo pati” (Lib. De L. vitae c. 11). Riandiamo i sensi di questo gran Santo, che forse avremo da confonderci. “Libenter de Deo cogitare”. Un cuore che ama ha sempre presente al pensiero l’oggetto amato. Corre questo costume riguardo agli oggetti terreni, non corre per nostra sventura rapporto a Dio. Ditemi in grazia, fedeli amatissimi: il vostro primo pensiero nello svegliarvi lo date a Dio? Fra giorno vi occupate mai della memoria di Dio? Pensate mai che Iddio vi è presente, che è testimonio di ogni vostra azione? Vi tornano a mente i benefizi da Lui ricevuti, le grazie, che ogni dì vi comparte? Oh Dio! Si pensa al negozio, al lucro, alla lite, al divertimento, alla campagna, al lavoro, alla famiglia, insomma a tutto, ma non a Dio. Io già non vi condanno se pensate alla casa, ai figli, ai campi, alle officine, agli affari, e a tanti altri vostri giusti interessi. Possono essere questi pensieri una parte delle obbligazioni del vostro stato. Ma di grazia fra tanti e tanti pensieri non vi potrebbe aver luogo un pensiero per Dio? Possibile che Egli debba essere escluso dalla vostra mente per modo, che in tutto il dì non si trovino in essa neppur alcune reliquie di pensieri per Dio, “reliquiae cogitationum”, giusta la frase del re Profeta! O sconoscenza della creatura dimenticata di quel Dio, in cui vive, in cui si muove, per cui esiste! – In secondo luogo , “libenter Deo dare”. L’amore è liberale. Chi ama Dio dà a Lui volentieri il suo tempo per onorarLo, per supplicarLo. Gli fa di buon grado parte di sue sostanze nella persona dei poveri. Dava più volte al giorno il suo tempo a Dio il Profeta Daniele; dava di sue sostanze ai bisognosi il buon Tobia. I cristiani moderni san fare miglior uso del tempo e delle sostanze? Le ore della notte alla veglia e al riposo: le ore del giorno se le dividono il pranzo, la cena, la conversazione, le visite, il giuoco, il passeggio; e a Dio che resta? … e a Dio che si dà? Una Messa alle Domeniche, chissà come sentita, qualche volta un rosario detto tra il sonno e l’accidia, una predica per curiosità, una confessione all’anno, una comunione alla Pasqua. Caino non è più solo, che a Dio offriva le spighe più smunte del proprio campo. – Ora chi nega a Dio il tempo al suo culto, come gli sarà liberale in sovvenire i suoi poverelli? Il ricco Epulone neghittoso verso Dio, crudele verso Lazzaro ha i suoi successori. Altro che amor di Dio! Finalmente, “libenter pro Deo pati”. Ella è questa una gran prova di amore, patir volentieri per l’oggetto amato. Voi avete in casa quella suocera incontentabile, quella nuora arrogante, quel marito collerico, quella moglie fastidiosa, quel figliuolo che v’inquieta il giorno, che vi disturba la notte, quell’infermo che vi cruccia, quel vicino che vi molesta, e per che non farvi merito colla pazienza, perché non dare a Dio un segno del vostro amore col patir qualche poco per Chi ha tanto patito per voi? – Tanto si soffre per le creature, tanto si stenta pel mondo, e nulla si vuol soffrire per Dio! Deh! non sia più così. Il nostro amore verso Dio sia da qui innanzi amor di “preferenza”, di prelazione, di stima; ed acciò non resti sterile nella pura immaginativa si porti alla pratica, si dimostri colle opere, “non diligamus verbo, neque lingua, sed in opere et veritate” (I Jo. IV). Allora sì che il nostro amore sarà come l’oro fra i metalli, come il sole tra i pianeti, come il fuoco fra gli elementi. Questo mistico fuoco non si estinguerà per morte, passerà anzi ad accrescere la sua fiamma nella celeste sfera, ove si vive di puro amore, e ove Iddio ci conduca.