Messa della Domenica I dopo l’Epifania

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Introitus Prov XXIII:24; XXIII:25 Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te Ps LXXXIII:2-3 Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit et déficit ánima mea in átria Dómini, V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te

Introito Prov XXIII:24; 23:25 [Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato. Ps 83:2-3 Quanto sono amabili i tuoi tabernacoli, o Signore degli eserciti: anela e si strugge l’ànima mia nella casa del Signore, V. Gloria al Padre, e al Figlio, e allo Spirito Santo. R. Come era nel principio è ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen. Esulti di gàudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato].

Orémus. Dómine Jesu Christe, qui, Maríæ et Joseph súbditus, domésticam vitam ineffabílibus virtútibus consecrásti: fac nos, utriúsque auxílio, Famíliæ sanctæ tuæ exémplis ínstrui; et consórtium cénsequi sempitérnum:

Colletta Preghiamo. O Signore Gesú Cristo, che stando sottomesso a Maria e Giuseppe, consacrasti la vita domestica con ineffabili virtú, fa che con il loro aiuto siamo ammaestrati dagli esempii della tua santa Famiglia, e possiamo conseguirne il consorzio eterno:

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses. Col III:12-17

Fratres: Indúite vos sicut elécti Dei, sancti et dilécti, víscera misericórdiæ, benignitátem, humilitátem, modéstiam, patiéntiam: supportántes ínvicem, et donántes vobismetípsis, si quis advérsus áliquem habet querélam: sicut et Dóminus donávit vobis, ita et vos. Super ómnia autem hæc caritátem habéte, quod est vínculum perfectiónis: et pax Christi exsúltet in córdibus vestris, in qua et vocáti estis in uno córpore: et grati estóte. Verbum Christi hábitet in vobis abundánter, in omni sapiéntia, docéntes et commonéntes vosmetípsos psalmis, hymnis et cánticis spirituálibus, in grátia cantántes in córdibus vestris Deo. Omne, quodcúmque fácitis in verbo aut in ópere, ómnia in nómine Dómini Jesu Christi, grátias agéntes Deo et Patri per ipsum. R. Deo gratias.

Epistola Lettura della Lettera del B. Paolo Ap. ai Colossesi. Col 3:12-17 [Fratelli: Come eletti di Dio, santi e amati, rivestitevi di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di pazienza, sopportandovi e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno ha da dolersi di un altro: come il Signore vi ha perdonato, cosí anche voi. Ma al di sopra di tutto questo rivestitevi della carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché siete stati chiamati a questa pace come un solo corpo: siate riconoscenti. La parola di Cristo àbiti in voi abbondantemente, istruitevi e avvisatevi gli uni gli altri con ogni sapienza, e, ispirati dalla grazia, levate canti a Dio nei vostri cuori con salmi, inni e cantici spirituali. E qualsiasi cosa facciate in parole e in opere, fate tutto nel nome del Signore Gesú Cristo, rendendo grazie a Dio Padre per mezzo di Lui.]

Graduale Ps XXVI:4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. Ps LXXXIII:5. Beáti, qui hábitant in domo tua, Dómine: in saecula sæculórum laudábunt te. Allelúja, allelúja, Isa XLV:15 Vere tu es Rex abscónditus, Deus Israël Salvátor. Allelúja.

Graduale Ps 26:4 Una sola cosa ho chiesto e richiederò al Signore: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita. Ps 83:5. Beati quelli che àbitano nella tua casa, o Signore, essi possono lodarti nei secoli dei secoli. Allelúia, allelúia, Isa 45:15 Tu sei davvero un Re nascosto, o Dio d’Israele, Salvatore. Allelúia.

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.

R. Gloria tibi, Domine! Luc II:42-52 Cum factus esset Jesus annórum duódecim, ascendéntibus illis Jerosólymam secúndum consuetúdinem diéi festi, consummatísque diébus, cum redírent, remánsit puer Jesus in Jerúsalem, et non cognovérunt paréntes ejus. Existimántes autem illum esse in comitátu, venérunt iter diéi, et requirébant eum inter cognátos et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Jerúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos et interrogántem eos. Stupébant autem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis ejus. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit Mater ejus ad illum: Fili, quid fecísti nobis sic? Ecce, pater tuus et ego doléntes quærebámus te. Et ait ad illos: Quid est, quod me quærebátis? Nesciebátis, quia in his, quæ Patris mei sunt, opórtet me esse? Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis. Et Mater ejus conservábat ómnia verba hæc in corde suo. Et Jesus proficiébat sapiéntia et ætáte et grátia apud Deum et hómines. R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Luc 2:42-52 [Quando Gesú raggiunse i dodici anni, essendo essi saliti a Gerusalemme, secondo l’usanza di quella solennità, e, passati quei giorni, se ne ritornarono, il fanciullo Gesú rimase a Gerusalemme, né i suoi genitori se ne avvidero. Ora, pensando che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, dopo di che lo cercarono tra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a cercarlo a Gerusalemme. E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, mentre sedeva in mezzo ai Dottori, e li ascoltava e li interrogava, e tutti gli astanti stupivano della sua sapienza e delle sue risposte. E, vistolo, ne fecero le meraviglie. E sua madre gli disse: Figlio perché ci ha fatto questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo. E rispose loro: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi di quel che spetta al Padre mio? Ed essi non compresero ciò che aveva loro detto. E se ne andò con loro e ritornò a Nazareth, e stava soggetto ad essi. Però sua madre serbava in cuor suo tutte queste cose. E Gesú cresceva in sapienza, in statura e in grazia innanzi a Dio e agli uomini.]

Omelia della Domenica FRA L’OTTAVA e I dopo l’Epifania

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Luca II, 42-52)

Perdita di Dio.

Maria e Giuseppe perdono il fanciullo Gesù, giunto all’età di dodici anni. Credevano, come ci narra S. Luca nell’ odierno Vangelo, ch’Ei fosse in lor comitiva, insieme con altri molti della Galilea, che discendevano da Gerusalemme dopo la celebrazione d’una festa solenne; ma giunti ad un ospizio sull’imbrunir della sera, si mirano intorno e non veggono il divino Fanciullo. L’attendono ma inutilmente: ne domandano ai compagni del loro viaggio, ma nessuno ne sa dare conto: lo cercano fra gli amici e fra i congiunti, ma tutto è vano: immaginate qual dovett’essere il loro affanno. Pensavano bensì che qualche giusto e ragionevole motivo tratteneva Gesù da essi lontano; ma questo riflesso non era bastevole a consolarli. Oh con quanta amarezza passarono quella notte! Al primo spuntar del giorno si posero a rifare il cammino dall’ospizio a Gerusalemme, e al terzo dì finalmente lo ritrovarono nel Tempio, che in mezzo ai dottori li interrogava con loro stupore, e con meraviglia del popolo circostante. “Eh! figlio, prese a dirgli la Vergine Madre, figlio, io e il vostro nutrizio padre siamo andati in cerca di Voi colla mestizia nel volto e colla doglia nel cuore” : “Fili… pater tuus et ego dolentes quaerebamus te”. Maria e Giuseppe perdono Gesù e, come osserva il venerabile Beda con altri sacri espositori, Lo perdono senza loro minima colpa, e pure tanto si attristano di questa perdita, e tanto si affannano per ritrovarLo. Quanto è mai diversa la condotta di molti cristiani! Perdono questi Gesù per propria colpa, perdono Dio e la sua grazia per lo peccato, e pur non si commuovono, non si contristano, non se ne pigliano pensiero. Così è: quanto sono sensibili e premurosi per la perdita di cose temporali, altrettanto sono stupidi e indolenti per la perdita di Dio. – E questo è appunto ciò che v’invito a meco compiangere, uditori devoti. Non ha bisogno di prova la prima parte del mio assunto; cioè, che per l’ordinario gli uomini della perdita dei beni terreni son tutti in pena ed in contristamento; pure diamo così di volo uno sguardo alle sacre pagine, per riscontrarne fra molti alcuni esempi. Perde Esaù la primogenitura, e alza clamori, e trae dal petto ruggiti a guisa di leone piagato a morte, “irrugiit clamore magno” ( Gen XXVII, 34) . Perde Cis le sue giumente, spedisce Saulle suo figlio ad andarne in cerca. Saulle, per quanto si aggiri per valli, per monti e per foreste, non gli vien fatto trovarle; e preso il consiglio del suo servo compagno, va a consultarne Samuele gran profeta in Israele. Perde il suo figliuol prodigo le sostanze assegnategli per sua porzione dal suo buon padre, ed è inconsolabile. Perde quel pastore, descritto in parabola nel santo Vangelo, una pecorella, e lascia nel deserto l’armento intero, e ne va in traccia per balze e per dirupi. Perde, a finirla, quella donna evangelica una dramma, moneta di poco valore, e mette tutta sossopra la casa finche non la ritrovi. Ma a che rammentar cose antiche? Non è questo il naturale effetto che producono nel cuor dell’uomo le cose smarrite? e la pena ordinaria di chi più o meno è attaccato ai beni di questa terra? Compatiamo la misera umanità, qualora per gravi infortuni è posta in cimento, qualora o per naufragio si perdono ricche mercanzie, o per sentenza contraria liti di somma importanza, o per prepotenza pingui eredità. Compatiamo ancora coloro, che per un anello, per un orecchino, per un fazzoletto ricorrono al parroco, acciò avvisi il popolo di quegli oggetti smarriti, e loro ricordi il proprio dovere per la necessaria restituzione. – Non si possono costoro né riprendere, né disapprovare, se usano diligenze, se adoprano mezzi per riavere ciò che hanno perduto. Ma di grazia perché almeno non si tiene questa pratica, quando per grave reato si perde Dio e la sua amicizia? Perché non si fa ricorso alla Vergine Madre, ai Santi del cielo, al confessore, acciò vi aiutino a ricuperare la grazia, e a riconciliarvi con Dio? Perché tanta sollecitudine per le perdite temporali, e tanta indifferenza, tanta freddezza per la perdita di Dio, perdita incalcolabile infinitamente maggiore della perdita d’un mondo intero? – Bramate sapere onde nasce tanta stupidezza? Ecco tre cagioni, alle quali, per ben comprenderle, vi prego porgere l’attento orecchio. La prima cagione, per cui, perduto Dio per lo peccato, non si sente il dolore di perdita, sì grande, è perché non c’è lume, non c’è fede, non c’è cognizione di Dio. Avviene a molti ciò che non di rado accade ad un fanciullo non ancor giunto all’uso di ragione. Perde questi una gemma preziosa, e non la cura, e non vi pensa: perde una carta dipinta, una palla da giuoco, un palco da trastullo, ed è inconsolabile, piange, singhiozza, pesta coi piedi la terra. Ed ecco il nostro caso. Perdiamo i beni fallaci, che un giorno bisogna lasciare, e siamo trafitti; si perde il sommo bene, ch’è Dio, e siamo insensibili. E fino a quando, o uomini già adulti e forse incanutiti, amerete ancora i pregiudizi dell’infanzia?Usquequo… diligìtis infatiam? ( Prov. I. 22) Se conosceste che dir voglia perdere Dio, piangereste a lacrime di sangue. La spada più acuta, che ferisce il cuor d’un dannato, la pena più atroce che lo tormenta, è quel fisso contristante pensiero, quell’interna voce di acerbo rimprovero, che gli dice ad ogn’istante: “ubi est Deus tuus?” dov’è quel Dio che ti creò, quel Dio che ti ha redento, quel Dio che ti voleva salvo? dov’è, infelice, tu l’hai perduto! “Ubi est Deus tuus?” Dov’ è quel Dio che nello stato di tua dannazione è l’oggetto dell’ odio tuo, e al tempo stesso lo scopo del tuo desiderio, come unico rimedio a’ tuoi tormenti, dov’è? Questo Dio non è più per te, non è più tuo. Conosci ora per tua pena quel che conoscere non volesti per tua malizia. – La seconda cagione dell’umana insensibilità nella perdita di Dio è una fiducia ingannevole, una speranza fallace di riacquistare Iddio perduto con una penitenza futura. È vero, dice colui, dice colei, che sono in disgrazia di Dio, ch’Egli contro di me è giustamente sdegnato; ma voglio ben io riconciliarmi con Lui; non voglio vivere in questo stato, in cui non vorrei morire: perciò dato ch’io avrò compimento ai miei affari, ultimato quel negozio, finita quella lite, collocata la famiglia, quando avrò un tempo più comodo, più quiete, penso ben prevalermene per ricuperare tanto bene perduto, e non perdere me stesso. Ahi miei cari, queste vostre proteste non fan che mitigare il rimorso di vostra coscienza, e il dolore della vostra perdita; vi lusingano, vi addormentano in seno al peccato, con una speranza tanto più traditrice, quanto più lusinghiera. Accade a voi come a quel giocatore, che sente meno la pena del danaro perduto, perché spera in un altro giuoco rifarsi del danno sofferto; e questa speranza per lo più moltiplica le sue perdite, e lo getta in rovina. E poi se in questo tempo che differite la vostra conversione vi cogliesse la morte, che sarebbe di voi? Oh allora presi dallo spavento, chiamato in nostro aiuto un confessore, più facilmente ci volgeremo a Dio con un cuor contrito, e pieni di fiducia nella sua misericordia.. Non più, miei dilettissimi, non più: questo è il maggior degl’inganni. Questa, seducente speranza ha popolato l’inferno; Iddio, dice S. Agostino, vi promette perdono, se in tempo vi convertite, non vi promette né tempo, né perdono, se differite. – Ma torniamo al nostro argomento. La terza, forse più forte cagione della nostra insensibilità nella perdita di Dio, è perché, se si perde Dio in questa vita, pure si godè dello stesso Dio. E come? Ecco: tutti i beni, che anche dai peccatori si gustano su questa terra, sono altrettante stille emanate da quell’oceano immenso di bontà ch’è Dio. Il sole che c’illumina, l’aria che ci pasce, i fiori che ci dilettano, le piante che ci ricreano, i frutti che ci nutriscono, tutte insomma le creature, o inanimate o sensibili o ragionevoli, son tutti beni che discendono da Dio sommo bene; ond’è che se il peccatore perde Dio bene infinito, pur gode Iddio ne’ beni sparsi nelle sue creature, e non si avvede della perdita del fonte, perché si disseta ai ruscelli. Ma quando poi l’anima sciolta dai legami del corpo comparirà, spirito ignudo, abbandonato e solo, innanzi a Dio, conoscerà allora che Dio è l’unico bene; l’infinito bene; che fuor di Lui in quel nuovo mondo altro bene non v’è, con cui trattenersi, con cui sfamarsi. E perciò una delle due, o l’anima è amica dì Dio, e troverà in Dio come in suo centro ogni bene, o di Dio nemica, e da Lui ributtata e divisa, non avrà più un attimo, un’ombra di bene. Non più mondo in quel terribile istante, non più corpo, non più creature. Piaceri, onori, gradi, ricchezze, amici, congiunti, tutto è finito; Dio, Dio solo è l’unico eterno, incommutabile bene, e fuori di Lui né si può sperare, anzi né pur si può immaginare, o fingere un altro bene. – Vogliamo noi, uditori carissimi, aspettare al mondo di là a conoscer la perdita del sommo bene, che è Dio? Ah anime mie care non vi sarà allora più riparo all’inganno, più rimedio all’errore, non più tempo a profittevole ravvedimento. Dovremo allora esclamare con quel Sovrano, di cui parla la storia: “Omnia perdidimus”. Sedotto questi da lusinghiera beltà, e da furiose passioni invasato, corse a precipizio le vie del piacere, dell’errore e dell’empietà, e giunse in fine a quel termine da Dio a tutti costituito, al quale non si può passar oltre. Infermo, aggravato, giacente a letto, conobbe, come il grande Alessandro, che bisognava morire; “decidit in lectum, et cognovit quia moreretur” ( Mac. I), e data in giro una mesta occhiata a’ suoi favoriti, ahi me disgraziato! esclamò, che ho perduto la fede, la reputazione, l’amor de’ sudditi, la sanità, e fra poco sarò per perdere la vita, il regno, l’anima e Dio, “omnia perdidimus”. Tanto dovrà ripetere un’anima che abbia perduto Dio per colpa e per pena, “omnia perdidimus”. – Infelice pertanto chi aspetta a conoscere la sua disavventura quando non è più in tempo di ripararla. Infelicissimo chi aspetta a cercare Dio quando non si può più ritrovare. Cari ascoltanti, facciamo senno, ravviviamo la fede, apriamo gli occhi sul massimo nostro interesse. Ora in questo tempo accettevole, che ci accorda il pietoso Signore, andiamo in cerca di Dio, e sarà facile il trovarLo, “Quærite Dominum dum inveniri potest (Isai. LV, 6). In punto di morte , ahi! che forse Lo cercheremo .invano. No, peccatori fratelli miei, con Dio non si burla, “Deus non irridetur”. Cercate Dio in vita, perché in morte nol troverete! Non son io che vel dico, lo dice a me, lo dice a voi l’infallibile Verità, lo dice Gesù Cristo, “quæretis me, et non invenietis(Joan. VII, 34). E in un altro luogo ce lo ripete in termini di maggiore spavento: mi cercherete, e morrete in seno al vostro peccato: “Quæretis me, et in peccato vestro moriemini” (Joan. VIII, 21). – Che facciamo dunque? fino a quando noi stolti figliuoli degli uomini ameremo la vanità, e terremo dietro ai beni fuggevoli e bugiardi di questa terra? Deh! se ci cale l’eterna nostra salvezza, procuriamo essere di quella santa generazione, che altro non cerca, che Dio. Cerchiamo Dio sull’esempio e sulla scorta di Maria Vergine, e di S. Giuseppe, cerchiamoLo nel tempio ai piedi degli altari, a piedi dei suoi ministri; che poi dopo il breve corso di nostra vita Lo vedremo nel tempio della beata eternità, e al primo incontro sarà per noi oggetto di consolazione perpetua, come lo fu di temporanea alla Vergine Madre, ed al suo nutrizio padre. Che Dio ce ne faccia la grazia.

Credo…

Secreta Placatiónis hostiam offérimus tibi, Dómine, supplíciter ut, per intercessiónem Deíparæ Vírginis cum beáto Joseph, famílias nostras in pace et grátia tua fírmiter constítuas.

Secreta [Ti offriamo, o Signore, l’ostia di propiziazione, umilmente supplicandoti che, per intercessione della Vergine Madre di Dio e del beato Giuseppe, Tu mantenga nella pace e nella tua grazia le nostre famiglie].

Communio Luc II:51 Descéndit Jesus cum eis, et venit Názareth, et erat súbditus illis.

Communio Luc 2:51 [E Gesú se ne andò con loro, e tornò a Nazareth, ed era loro sottomesso].

Postcommunio S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Quos coeléstibus réficis sacraméntis, fac, Dómine Jesu, sanctae Famíliæ tuæ exémpla júgiter imitári: ut in hora mortis nostræ, occurrénte gloriósa Vírgine Matre tua cum beáto Joseph; per te in ætérna tabernácula récipi mereámur:

Postcommunio V. Il Signore sia con voi. R. E con il tuo spirito. Preghiamo.[O Signore Gesú, concedici che, ristorati dai tuoi Sacramenti, seguiamo sempre gli esempii della tua santa Famiglia, affinché nel momento della nostra morte meritiamo, con l’aiuto della gloriosa Vergine tua Madre e del beato Giuseppe, di essere accolti nei tuoi eterni tabernacoli].

MESSA DELL’EPIFANIA

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Introitus

Malach III:1; 1 Par XXIX:1

Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium.

Ps LXXI:1 Deus, judícium tuum Regi da: et justítiam tuam Fílio Regis. V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium

[Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero. Ps 71:1 – O Dio, concedi al re il tuo giudizio, e la tua giustizia al figlio del re. V. Gloria al Padre, e al Figlio, e allo Spirito Santo. R. Come era nel principio è ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen. Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero.]

Orémus.

Deus, qui hodiérna die Unigénitum tuum géntibus stella duce revelásti: concéde propítius; ut, qui jam te ex fide cognóvimus, usque ad contemplándam spéciem tuæ celsitúdinis perducámur.

[O Dio, che oggi rivelasti alle genti il tuo Unigenito con la guida di una stella, concedi benigno che, dopo averti conosciuto mediante la fede, possiamo giungere a contemplare lo splendore della tua maestà.]

Lectio Léctio Isaíæ Prophétæ. Is LX:1-6

Surge, illumináre, Jerúsalem: quia venit lumen tuum, et glória Dómini super te orta est. Quia ecce, ténebræ opérient terram et caligo pópulos: super te autem oriétur Dóminus, et glória ejus in te vidébitur. Et ambulábunt gentes in lúmine tuo, et reges in splendóre ortus tui. Leva in circúitu óculos tuos, et vide: omnes isti congregáti sunt, venérunt tibi: fílii tui de longe vénient, et fíliæ tuæ de látere surgent. Tunc vidébis et áfflues, mirábitur et dilatábitur cor tuum, quando convérsa fúerit ad te multitúdo maris, fortitúdo géntium vénerit tibi. Inundátio camelórum opériet te dromedárii Mádian et Epha: omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes.

[Lettura del Profeta Isaia: Sorgi, o Gerusalemme, sii raggiante: poiché la tua luce è venuta, e la gloria del Signore è spuntata sopra di te. Mentre le tenebre si estendono sulla terra e le ombre sui popoli: ecco che su di te spunta l’aurora del Signore e in te si manifesta la sua gloria. Alla tua luce cammineranno le genti, e i re alla luce della tua aurora. Leva gli occhi e guarda intorno a te: tutti costoro si sono riuniti per venire a te: da lontano verranno i tuoi figli, e le tue figlie sorgeranno da ogni lato. Quando vedrai ciò sarai raggiante, il tuo cuore si dilaterà e si commuoverà: perché verso di te affluiranno i tesori del mare e a te verranno i beni dei popoli. Sarai inondata da una moltitudine di cammelli, dai dromedarii di Madian e di Efa: verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore.]

Graduale

Isa LX:6; LX:1 Omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes. V. Surge et illumináre, Jerúsalem: quia glória Dómini super te orta est. Allelúja, allelúja [Verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore. Sorgi, o Gerusalemme, e sii raggiante: poiché la gloria del Signore è spuntata sopra di te. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Matt II:2. Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum. Allelúja.

[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni per adorare il Signore. Alleluja.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum

Gloria tibi, Domine!

Matt II:1-12

Cum natus esset Jesus in Béthlehem Juda in diébus Heródis regis, ecce, Magi ab Oriénte venerunt Jerosólymam, dicéntes: Ubi est, qui natus est rex Judæórum? Vidimus enim stellam ejus in Oriénte, et vénimus adoráre eum. Audiens autem Heródes rex, turbatus est, et omnis Jerosólyma cum illo. Et cóngregans omnes principes sacerdotum et scribas pópuli, sciscitabátur ab eis, ubi Christus nasceretur. At illi dixérunt ei: In Béthlehem Judae: sic enim scriptum est per Prophétam: Et tu, Béthlehem terra Juda, nequaquam mínima es in princípibus Juda; ex te enim éxiet dux, qui regat pópulum meum Israel. Tunc Heródes, clam vocátis Magis, diligénter dídicit ab eis tempus stellæ, quæ appáruit eis: et mittens illos in Béthlehem, dixit: Ite, et interrogáte diligénter de púero: et cum invenéritis, renuntiáte mihi, ut et ego véniens adórem eum. Qui cum audíssent regem, abiérunt. Et ecce, stella, quam víderant in Oriénte, antecedébat eos, usque dum véniens staret supra, ubi erat Puer. Vidéntes autem stellam, gavísi sunt gáudio magno valde. Et intrántes domum, invenérunt Púerum cum María Matre ejus, hic genuflectitur ei procidéntes adoravérunt eum. Et, apértis thesáuris suis, obtulérunt ei múnera, aurum, thus et myrrham. Et re sponso accépto in somnis, ne redírent ad Heródem, per aliam viam revérsi sunt in regiónem suam,

[Seguito ✠ del Santo Vangelo secondo Matteo. R. Gloria a Te, o Signore! Matt II:1-12

Nato Gesú, in Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco arrivare dei Magi dall’Oriente, dicendo: Dov’è nato il Re dei Giudei? Abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo. Sentite tali cose, il re Erode si turbò, e con lui tutta Gerusalemme. E, adunati tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, voleva sapere da loro dove doveva nascere Cristo. E questi gli risposero: A Betlemme di Giuda, perché cosí è stato scritto dal Profeta: E tu Betlemme, terra di Giuda, non sei la minima tra i príncipi di Giuda: poiché da te uscirà il duce che reggerà il mio popolo Israele. Allora Erode, chiamati a sé di nascosto i Magi, si informò minutamente circa il tempo dell’apparizione della stella e, mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e cercate diligentemente il bambino, e quando l’avrete trovato fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo. Quelli, udito il re, partirono: ed ecco che la stella che avevano già vista ad Oriente li precedeva, finché, arrivata sopra il luogo dov’era il bambino, si fermò. Veduta la stella, i Magi gioirono di grandissima gioia, ed entrati nella casa trovarono il bambino con Maria sua madre qui ci si inginocchia e prostratisi, lo adorarono. E aperti i loro tesori, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non passare da Erode, tornarono al loro paese per un altra strada. – Lode a Te, o Cristo.]

Sermone di san Leone Papa

Sermone 2 sull’Epifania

Gioite nel Signore, o dilettissimi, di nuovo dico, gioite: perché dopo breve intervallo di tempo dalla solennità della Nascita di Cristo, risplende la festa della sua manifestazione: e colui che in quel giorno la Vergine diede alla luce, il mondo l’ha riconosciuto quest’oggi. Infatti il Verbo fatto uomo dispose il suo ingresso nel mondo in tal maniera, che il bambino Gesù fu manifestato ai credenti e occultato ai suoi persecutori. Fin d’all’ora dunque «i cieli proclamarono la gloria di Dio, e il suono della verità si sparse per tutta la terra» (Ps. 18,1), quando una schiera d’Angeli apparve ai pastori per annunziare loro la nascita del Salvatore, e una stella fu di guida ai Magi per venire ad adorarlo; affinché dall’oriente fino all’occidente risplendesse la venuta del vero Re, perché così i regni d’Oriente appresero dai Magi gli elementi della fede, ed essi non rimasero nascosti all’impero Romano. – Poiché anche la crudeltà d’Erode, che voleva soffocare in sul nascere il Re che gli era sospetto, serviva, a sua insaputa, a questa diffusione della fede; ché, mentre intento a un atroce delitto perseguitava, con un massacro generale di bambini, l’ignoto bambino, ovunque più solennemente si spargeva la fama della nascita annunziata dal dominatore del cielo, rendendola più pronta e più atta alla divulgazione, e la novità d’un segno nuovo nel cielo e l’empietà del crudelissimo persecutore. Allora pertanto il Salvatore fu portato anche in Egitto, affinché questo popolo, in preda a vecchi errori, fosse preparato, con una grazia secreta, a ricevere la sua prossima salute; e affinché, prima ancora d’aver bandito dall’animo la superstizione, ricevesse già ospite la stessa verità. – Riconosciamo dunque, o dilettissimi, nei Magi adoratori di Cristo, le primizie della nostra vocazione e della nostra fede; e con animo esultante celebriamo i princìpi di questa beata speranza. Poiché fin d’allora cominciammo ad entrare nell’eterna eredità: fin d’allora ci si scoprirono i passi misteriosi della Scrittura intorno a Cristo; e la verità, che la cecità dei Giudei non accolse, sparse la sua luce in tutte le nazioni. Onoriamo dunque questo santissimo giorno in cui l’Autore della nostra salute s’è fatto conoscere: e quello che i Magi adorarono bambino nella culla, noi adoriamolo onnipotente nei cieli. E come quelli coi loro tesori offrirono al Signore dei mistici doni, così ancor noi sappiamo cavare dai nostri cuori dei doni degni di Dio.

Omelia di san Gregorio Papa

Omelia 10 sul Vangelo

Come avete udito, fratelli carissimi, nella lettura del Vangelo, un re della terra si turba alla nascita del Re del cielo: ciò perché ogni grandezza terrena rimane confusa allorché si manifesta la grandezza del cielo. Ma noi dobbiamo cercare perché, alla nascita del Redentore, un Angelo apparve ai pastori nella Giudea, mentre non un Angelo, ma una stella condusse i Magi d’Oriente ad adorarlo. Perché cioè i Giudei, servendosi della ragione per conoscerlo, era giusto che lo annunziasse loro una creatura ragionevole, vale a dire, un Angelo: mentre invece i Gentili, perché non sapevano servirsi della ragione, vennero condotti a conoscere il Signore non per mezzo d’una voce, ma con dei segni. Onde anche Paolo dice: «Le profezie sono date ai fedeli e non agl’infedeli; i segni al contrario agl’infedeli e non ai fedeli» (1Cor. 14,22). E così a quelli son date le profezie, perché erano fedeli, non già infedeli; e a questi sono dati i segni, perché erano infedeli, e non fedeli. – Ed è a notare, che allorquando il nostro Redentore sarà giunto all’età d’uomo perfetto, gli Apostoli lo predicheranno agli stessi Gentili, mentre bambino e non ancora capace di parlare con gli organi corporali, una stella lo annunzia alla Gentilità: ciò senza dubbio perché l’ordine della ragione richiedeva che fossero dei predicatori che parlassero per farci conoscere il Signore, quando lui stesso avesse parlato, e che dei muti elementi l’annunziassero quando egli non parlava ancora. Ma in tutti i prodigi che apparvero sia alla nascita del Signore, sia alla morte di lui, noi dobbiamo considerare quale fu la durezza di cuore di quei Giudei, i quali non lo riconobbero né al dono della profezia, né ai suoi miracoli. – Tutti infatti gli elementi resero testimonianza alla venuta del loro autore. E per parlare di essi secondo il linguaggio umano: i cieli lo riconobbero Dio, perché inviarono subito la stella. Lo riconobbe il mare, perché sotto i suoi piedi si dimostrò traversabile. Lo riconobbe la terra, perché tremò alla morte di lui. Lo riconobbe il sole, perché nascose la luce dei suoi raggi. Lo riconobbero i sassi e le pareti, perché al momento della sua morte si spezzarono. Lo riconobbe l’inferno, perché restituì i morti che teneva. E tuttavia, colui che tutti gli insensibili elementi riconobbero per Signore, i cuori degli infedeli Giudei ancora non lo riconoscono per Dio, e, più duri dei sassi, non si vogliono aprire al pentimento.

Omelia di S.S. Gregorio XVII per

EPIFANIA (1977)

Parrebbe, cari fedeli, che l’odierna solennità sia destinata soltanto a ricordare il fatto della venuta dei Magi, che avete sentito raccontare ora nella lettura del Santo Vangelo (Mt II, 1-12), ma non è così. Questa solennità ha un respiro molto più ampio, e questo respiro molto più ampio ci è indicato dalle letture che hanno preceduto quella del Vangelo. – Ma quello che impressiona è il cantico – perché in realtà è un cantico -, che abbiamo sentito leggere nella prima lettura ed è tolto dal cap. LX del profeta Isaia (vv. 1-6). Questo capitolo ha un andamento non solo poetico, ma trionfale, ed è questo che dobbiamo cogliere ed è questo che ci dà la dimensione forse più profonda di questa solennità. Cosa dice Isaia in quel cantico? Dice questo: rinnova la promessa contenuta già nel cap. 54 della stessa profezia del ritorno dall’esilio che doveva ancora accadere – sarebbe accaduto quasi tre secoli dopo -, dall’esilio babilonese, e pertanto canta la ricostruzione di Gerusalemme. Ma come è solito nella letteratura tanto del Vecchio quanto del Nuovo Testamento, dal fatto contingente nel tempo l’agiografo si leva alla considerazione universale e dalla Gerusalemme materiale, capitale della Palestina, sorge contemplare un’altra Gerusalemme, un’altra città, un altro regno. La chiama Gerusalemme, ma in senso figurato, che aduna tutto il mondo, che porta tutto il mondo, da tutte le genti, con tutte le lingue, con tutti i canti, verso Colui che deve venire. Cioè la prima lettura ci dice questo: che l’Epifania, manifestazione globale di Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, è anche e soprattutto la vocazione di tutte le genti alla fede, cioè la chiamata delle genti a Gesù Cristo. Ed è questo il punto sul quale io voglio attirare la vostra attenzione. – La chiamata di tutte le genti costituisce un mistero, e ve ne accorgerete da quello che sto per dire. Ed un mistero sotto diversi aspetti. Anzitutto la chiamata di tutte le genti non significa la connversione di tutte le genti, per la ragione che Dio chiama, ma lascia liberi, perché rispetta la libertà che ha donato; è coerente Iddio, non lo siamo noi, generalmente, ma Lui sì. Rispetta questa libertà, che è il fondamento del valore personale, del merito personale dell’uomo. Pertanto chiamata universale non significa cammino universale, anche se questo cammino universale è adombrato nel cantico di Isaia. Chiamata delle genti: noi restiamo un po’ sopra pensiero, perché ne vediamo molte riottose, ne vediamo molte poco fedeli, ne vediamo molte ancora nelle tenebre. Sì, il Vangelo è annunziato fino agli estremi della terra – tant’è vero che il giorno di Natale è sentito da tutto il mondo, cristiani e non cristiani -, ma le cose non sono così completamente perfette e limpide. Questa chiamata delle genti lascia il cielo coperto, soltanto si vede qua e là qualche sprazzo di sereno e questo è un mistero per noi, ma non tanto. Perché? Per questo motivo: nella Sacra Scrittura è asserito che Dio vuole salvi tutti gli uomini (cfr. I Tim II, 4) e non vuole che alcuno di essi perisca. – Questo è quello che vuole Dio: desiderio divino, ma non desiderio tale da pigliar per il collo gli uomini. Però indica che Dio da parte Sua fa tutto perché tutti gli uomini siano salvi. Ed è proprio da quest’affermazione della Sacra Scrittura che la dottrina cattolica ha derivato un’affermazione dottrinale certa e che non può essere messa in dubbio: che Dio dà a tutti gli uomini la grazia necessaria per salvarsi. È questo il mistero: come, quando, in che modo noi non lo constatiamo; lo sappiamo, perché l’ha detto, ma non lo constatiamo. E a questo punto sul margine del corpo visibile, societario, gerarchico della Chiesa siamo obbligati a spaziare sul mare immenso di cui non conosciamo i confini, cioè sulla moltitudine di quegli uomini che furono, che sono e che saranno e che attraverso un filo sottile e segreto, non iscritto nei fatti esterni e umani, Dio chiama a sé, ne ascolta anche la più piccola risposta affermativa data nel semplice ordine naturale, la accoglie e porta a perfezione, compiendo Lui, al di la della constatazione esterna, quanto occorre perché si abbia l’atto di fede esplicita nei misteri principali della Trinità e dell’Incarnazione ed implicita su tutto il rimanente corpo rivelato e perché si abbia l’atto di adesione a Dio, e attraverso questo atto di fede e di amore possa avvenire la salvezza. Badate che questo mare va all’infinito. Chi lo può contare? E il mistero di Dio! Non è un mistero nel fatto che esiste, è un mistero nel modo per cui si realizza. Per cui la famiglia di Dio non è larga quanto è compresa negli annuari. No, molto di quelli che sono compresi negli annuari della Chiesa ci sono ben poco e alcuni che sembrano esserci e scritti a caratteri anche a rilievo non ci sono affatto, perché hanno perduta la fede e l’hanno corrotta; e senza fede, che è adesione alla verità certa, è impossibile – parlo con le parole della Scrittura -, è impossibile piacere a Dio (cfr. Eb XI,6). Ma i confini del Regno di Dio veramente si estendono su tutta la terra, e noi, che qualche volta possiamo essere colti da un pensiero di superbia, come ad essere i privilegiati, i vicini, i carismatici, noi dobbiamo umilmente riconoscere che al di là del cerchio visivo dei nostri poveri occhi esistono tante altre anime che piacciono a Dio, che sono sulla via della salvezza. Ne esistono anche tante che hanno detto di no e diranno di no. Ci saranno giusti e ci saranno reprobi all’ultimo giudizio di Dio – ce lo dice il Vangelo -, ma ci sono tanti altri che dicono di sì. Dio non concede a noi per ragioni Sue, che forse in parte possiamo intuire, di avere la visione dettagliata di questo stupendo e trionfale accorrere da tutte le genti a Cristo Redentore, al Verbo di Dio incarnato, ma sappiamo che c’è ed è questo che rende grande il giorno della Epifania del Signore festa. Io consiglierei alle medesime di studiarsi meglio il catechismo e la Sacra Scrittura, perché forse capirebbero quello che non hanno mai capito. E l’augurio che faccio a loro e, se qui dentro ci fosse qualcuno che avrebbe bisogno di questo augurio, lo faccio anche a lui!

Credo …

 

Antif. All’Offertorio

Orémus Ps LXXI:10-11 Reges Tharsis, et ínsulæ múnera ófferent: reges Arabum et Saba dona addúcent: et adorábunt eum omnes reges terræ, omnes gentes sérvient ei.

[I re di Tharsis e le genti offriranno i doni: i re degli Arabi e di Saba gli porteranno regali: e l’adoreranno tutti i re della terra: e tutte le genti gli saranno soggette.]

Secreta

Ecclésiæ tuæ, quæsumus, Dómine, dona propítius intuere: quibus non jam aurum, thus et myrrha profertur; sed quod eisdem munéribus declarátur, immolátur et súmitur, Jesus Christus, fílius tuus, Dóminus noster: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

[Guarda benigno, o Signore, Te ne preghiamo, alle offerte della tua Chiesa, con le quali non si offre più oro, incenso e mirra, bensì Colui stesso che, mediante le medesime, è rappresentato, offerto e ricevuto: Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore: Lui che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. Amen.]

Communio

Matt II:2 Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum.

[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni ad adorare il Signore.]

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Præsta, quaesumus, omnípotens Deus: ut, quæ sollémni celebrámus officio, purificátæ mentis intellegéntia consequámur. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

[V. Il Signore sia con voi. R. E con il tuo spirito. Preghiamo. Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che i misteri oggi solennemente celebrati, li comprendiamo con l’intelligenza di uno spirito purificato. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. Amen.]

DOMENICA FRA L’OTTAVA DELLA NATIVITA’

DOMENICA FRA L’OTTAVA

DELLA NATIVITÀ’ DEL SIGNORE

 Introitus Sap XVIII:14-15. Dum médium siléntium tenérent ómnia, et nox in suo cursu médium iter háberet, omnípotens Sermo tuus, Dómine, de coelis a regálibus sédibus venit

[Mentre tutto era immerso in profondo silenzio, e la notte era a metà del suo corso, l’onnipotente tuo Verbo, o Signore, discese dal celeste trono regale].

Ps XCII:1 Dóminus regnávit, decórem indútus est: indútus est Dóminus fortitúdinem, et præcínxit se.

[Il Signore regna, rivestito di maestà: Egli si ammanta e si cinge di potenza]..

Orémus. Omnípotens sempitérne Deus, dírige actus nostros in beneplácito tuo: ut in nómine dilécti Fílii tui mereámur bonis opéribus abundáre:

[Colletta: Onnipotente e sempiterno Iddio, indirizza i nostri atti secondo il tuo beneplacito, affinché possiamo abbondare in opere buone, in nome del tuo diletto Figlio]

Lectio:

Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Gálatas. Gal IV:1-7

Patres: Quanto témpore heres párvulus est, nihil differt a servo, cum sit dóminus ómnium: sed sub tutóribus et actóribus est usque ad præfinítum tempus a patre: ita et nos, cum essémus párvuli, sub eleméntis mundi erámus serviéntes. At ubi venit plenitúdo témporis, misit Deus Fílium suum, factum ex mulíere, factum sub lege, ut eos, qui sub lege erant, redímeret, ut adoptiónem filiórum reciperémus. Quóniam autem estis fílii, misit Deus Spíritum Fílii sui in corda vestra, clamántem: Abba, Pater. Itaque iam non est servus, sed fílius: quod si fílius, et heres per Deum.

 [Fratelli: Fin quando l’erede è minore di età, benché sia padrone di tutto, non differisce in nulla da un servo, ma sta sotto l’autorità dei tutori e degli amministratori, fino al tempo prestabilito dal Padre. Così anche noi, quando eravamo minori d’età, eravamo servi degli elementi del mondo. Ma quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, affinché redimesse quelli che erano sotto la legge, e noi ricevessimo l’adozione in figli. Ora, poiché siete figli, Iddio ha mandato lo spirito del suo Figlio nei vostri cuori, il quale grida: Abba, Padre. Perciò, ormai nessuno è più schiavo, ma figlio, e se è figlio, è anche erede, per la grazia di Dio].

Sequéntia sancti Evangélii secundum Lucam

Luc II:33-40

“In illo témpore: Erat Ioseph et Maria Mater Iesu, mirántes super his quæ dicebántur de illo. Et benedíxit illis Símeon, et dixit ad Maríam Matrem eius: Ecce, pósitus est hic in ruínam et in resurrectiónem multórum in Israël: et in signum, cui contradicétur: et tuam ipsíus ánimam pertransíbit gládius, ut reveléntur ex multis córdibus cogitatiónes. Et erat Anna prophetíssa, fília Phánuel, de tribu Aser: hæc procésserat in diébus multis, et víxerat cum viro suo annis septem a virginitáte sua. Et hæc vídua usque ad annos octogínta quátuor: quæ non discedébat de templo, ieiúniis et obsecratiónibus sérviens nocte ac die. Et hæc, ipsa hora supervéniens, confitebátur Dómino, et loquebátur de illo ómnibus, qui exspectábant redemptiónem Israël. Et ut perfecérunt ómnia secúndum legem Dómini, revérsi sunt in Galilaeam in civitátem suam Názareth. Puer autem crescébat, et confortabátur, plenus sapiéntia: et grátia Dei erat in illo”.

Laus tibi, Christe!

[In quel tempo: Giuseppe e Maria, madre di Gesù, restavano meravigliati delle cose che si dicevano di lui. E Simeone li benedisse, e disse a Maria, sua madre: Ecco egli è posto per la rovina e per la resurrezione di molti in Israele, e sarà bersaglio di contraddizioni, e una spada trapasserà la tua stessa anima, affinché restino svelati i pensieri di molti cuori. C’era inoltre una profetessa, Anna, figlia di Fanuel, della tribù di Aser, molto avanti negli anni, vissuta per sette anni con suo marito. Rimasta vedova fino a ottantaquattro anni, non usciva dal tempio, servendo Dio notte e giorno con preghiere e digiuni. E nello stesso tempo ella sopraggiunse, e dava gloria al Signore, parlando di lui a quanti aspettavano la redenzione di Israele. E quando ebbero compiuto tutto secondo la legge del Signore, se ne tornarono in Galilea, nella loro città di Nazaret. E il fanciullo cresceva e si irrobustiva, pieno di sapienza: e la grazia di Dio era con lui.]

OMELIA

DELLA DOMENICA FRA L’OTTAVA

DELLA NATIVITÀ’ DEL SIGNORE

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

[Vang. sec. S. Luca II, 33-40]

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Gesù posto in rovina e risurrezione di molti.

 Ecce positus est hic in ruinam, et resurrectionem Multorum”. Ella è questa una parte della celebre profezia che fece il santo vecchio Simeone alla Vergine Madre alloraché, in adempimento della legge di Mose, presentò il suo divin Figliuolo al Tempio, come ci narra San Luca dell’odierno sacrosanto Vangelo. “Questo pargoletto tuo figlio, le disse, sarà per molti causa di risurrezione e di salute, e per altri molti occasione di rovina e di morte” – “positus est hic in ruinam, et resurrectionem multorum”. Ma come, dirà forse alcun di voi, non è Egli Gesù, il nostro Salvatore, la nostra luce, la nostra vita? Come dunque può essere insieme cagion di nostra perdita, e di nostra rovina? A questa interrogazione, a questa difficoltà darò risposta e scioglimento del corso della presente spiegazione, se per poco d’ora mi favorite della gentile vostra attenzione. Gesù adunque è per molti causa di salute, e per molti altri occasione di rovina? Così è! Non sorprenda, uditori miei, che una stessa causa produca effetti diversi. La luce si fa candida nel giglio, pallida nella viola, e nella rosa vermiglia, e pur è sempre la stessa luce. L’ape e la serpe da un medesimo fiore suggono l’umore stesso, e pur nel seno dell’ape quel sugo si cambia in miele, nel sen della serpe si cangia in veleno. La manna nel deserto per molti era cibo leggero e nauseante, e per altri era cibo avente in sé ogni squisito sapore. Così Gesù luce del mondo, fior nazzareno, manna dal ciel disceso, sempre buono, sempre uguale in se stesso, per la malizia degli uomini riesce diverso nei suoi effetti, e ciò in speciale maniera, o si riguardi la sua fede, o la sua legge, o i suoi sacramenti. Vediamolo a parte a parte. – La fede in Gesù Cristo è la sola che salva. Questa fede, che ha origine dal principio del mondo, allor che dopo la caduta dei nostri progenitori venne loro promesso un liberatore, fu quella che li salvò colla penitenza di tutta lor vita. Abele innocente, Seth temente Iddio, il giusto Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giobbe, Tobia, Davide, in una parola tutti i patriarchi e profeti e tutti quei personaggi santissimi, i nomi dei quali stanno nel libro della vita, e nell’antico Testamento, si sono salvati per la fede in Gesù Cristo, poiché non vi è altro nome in cui si possa essere salvezza, e siccome noi ci salviamo per la fede in Cristo già venuto, così si salvarono essi per la fede in Cristo venturo, unendo alla loro fede le più eccellenti virtù. Tale essere deve la nostra fede, fede viva, operante, fede osservatrice della divina legge, seguace degli esempi del Redentore, ed Egli allora si potrà e si dovrà dire esser causa benefica di nostra resurrezione e salvezza, “positus est hic in resurrectionem multorum”. Udite com’Egli medesimo si esprime nel suo santo Vangelo: “Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me (e in Cristo non può dirsi che veramente creda chi con la fede non unisce l’opere buone da Lui prescritte) ancorché fosse morto per il peccato, risorga a nuova vita di grazia, e vivrà in eterno”. Ego sum resurrectio et vita; “qui credit in me, etiamsi mortuus fuerit, vivet, et omnis qui credit et credit in me, non morietur in æternum” (Io. XI, 25, 26). – Che diremo ora di quelli sconsigliati, che spargono dubbi circa la cristiana credenza, bestemmiano quel che ignorano, e col carattere della fede in Gesù Cristo impresso nell’anime loro nel santo Battesimo, accoppiano vita e costumi da epicurei e da maomettani? Diremo non per insultarli, quel che di ciascun d’essi pronunzia l’Evangelista Giovanni: è già giudicato chiunque non crede, “qui non credit, iam judicatus est” (Io. III, 17): diremo che convien pregare il Padre dei lumi acciò rischiari la mente di quei che giacciono nelle tenebre e nelle ombre di morte. Diremo che un cuor retto, un animo non vizioso, un costumato cattolico, mai si rivolta contro la fede. Solo della fede è nemico un cuor guasto, uno spirito corrotto da ree passioni. E perché? Perché fede e peccato, fede e viziose abitudini, fede e sregolate passioni, sono tra loro in necessaria guerra; onde ne segue che chi non vuol abbandonare il peccato, e del peccato non vuol soffrire i rimorsi, si arma, si scaglia contro la fede, come sua nemica, per tentare se per questa via gli riesca di far tacere i latrati, e mitigare i rimorsi della rea coscienza. Ed ecco in ciò come Gesù Cristo, che per costoro esser doveva, per mezzo della sua fede, pietra fondamentale e causa di salute vien dalla loro incredulità trasformato in pietra d’inciampo ed occasione di rovina: “positus est hic in ruinam”. – Va del pari con la fede di Gesù Cristo la santa sua legge. Anch’essa ha il suo principio dall’origine del mondo, anzi da Dio medesimo, che è la legge eterna. Tre leggi, direte voi, son note a tutti, una che chiamasi di natura, l’altra scritta, la terza Evangelica. No, miei carissimi, sono tre nomi diversi, ma una sola è la legge. In quella guisa ch’è sempre lo stesso uomo quel che bambino vagisce in cuna, quel che cresce in giovane adulto, quel che poi nella virilità arriva ad essere uomo perfetto; così la legge di natura scritta da Dio nel nostro cuore fu una legge bambina; passò ad essere una legge adulta quando dal dito di Dio fu scritta sulle tavole a Mosè; e finalmente fu legge perfetta, quando uscì dalla bocca dell’incarnata Sapienza Cristo Gesù, e si promulgò col suo santo Vangelo; ma è sempre una stessa legge nel suo principio, nel suo progresso e nella sua perfezione; ond’è che Gesù Cristo si protestò altamente che non era venuto al mondo per togliere la legge, ma per adempirla e perfezionarla “Non veni volvere legem, sed adimplere” (Io. V, 17). – In questa legge divina, e nell’osservanza della medesima sta la salute e la vita, e perciò a quel giovane, che domandò al redentore per qual mezzo poteva conseguire la vita eterna, rispose: “serva mandata” (Matth. XIX, 17). Questi comandamenti li sapete dalla vostra infanzia. Adora ed ama il tuo Dio, non profanare il suo santo nome, santifica le feste a Lui consacrate, rispetta, ubbidisci, soccorri i tuoi genitori, non togliere ai tuoi simili né roba, né vita, né fama, astieniti dal vizio impuro, dallo spergiuro, e dal desiderio perfino di tutto ciò che non è tuo, ma del tuo prossimo. Ecco la legge, ecco la via per andar salvi. Nella fedele osservanza di questa legge è riposta la nostra giustificazione e salute. “Factores legis iustificabuntur” (Ad Rom. II, 13). Sarà Gesù allora causa propizia del nostro risorgimento e della nostra salvezza, “positus est hic in resurrectionem”. – or questa legge così cauta e salutare come da noi viene adempiuta? Ohimè un’altra legge regna nel cuore dell’uomo: le legge del peccato e della carnale concupiscenza, Oh quanti  osservatori conta questa legge tiranna! Un’altra legge si fa ubbidire con minore efficacia: la legge del mondo perverso e perversore, che consiglia, che comanda odio ai nemici, vendetta degli affronti, oppressione degli umili, disprezzo dei maggiori. Legge del mondo che approva le usure e i monopoli, che autorizza la frode e la bugia nei contratti, che fa prevalere l’impegno alla giustizia, il danaro all’onestà, l’interesse all’anima e a Dio. E non è questo il secolo della pressoché universale depravazione della legge dell’Altissimo? Non sarà iperbole, se noi ripeteremo nell’amarezza dell’animo ciò a Dio rivolto diceva piangendo il Re Profeta: “Tempus faciendi, Domine”. Questo è il tempo, o Signore, in cui per le umane azioni non vi è più né regola né freno, e la vostra legge francamente si disprezza e si calpesta … “tempus faciendi, Domine, dissipaverunt legem tuam” (Ps. CXVIII). Qual meraviglia poi, se per questi prevaricatori della divina legge sia posto Gesù in loro spirituale ed eterna rovina? “Positus est hic in ruinam multorum”, – Finalmente Gesù nei suoi sacramenti è causa di vita, e occasione di morte. Tra questi per esser breve, mi restringo ai due più frequentati, la Penitenza cioè, e l’Eucaristia. Rapporto al primo vi accostate al tribunale di penitenza in spirito di umiltà, e col cuore contrito (appressatevi pure con fiducia a questa salubre Probatica, e ne uscirete risanati. Sarà Cristo, per mezzo del suo ministro, il pietoso Samaritano, che col vino della sapienza e con l’olio della misericordia medicherà le vostre ferite, se foste morti alla grazia, Egli sarà il vostro risorgimento, “positus est in resurrectionem”. – Ma se invece senza esame, senza dolore, senza sincerità nelle accuse, senza proposito e volontà di lasciare il peccato e l’occasione dello stesso, vi presentaste ai piedi del Sacerdote, voi avrete il mal incontro. Il sangue adorabile di Gesù-Cristo, che con la sacramentale assoluzione s’applica all’anima vostra, si cangerà in materia di dannazione; discenderà sopra di voi questo sangue tremendo come disceso su gl’imperversati Giudei di rovina e di sterminio. – carissimi miei, tenetevi a mente questa figura, che parmi assai spiegante ed istruttiva. Ecco là nella prigione Giuseppe in mezzo a due carcerati: uno è il coppiere, l’altro il panettiere del faraone. Tutti e due han fatto un sogno, e ne domandano a Giuseppe l’interpretazione. Io, dice il primo, sognando premeva a mano un grappolo d’uva nella coppa del mio sovrano. Buon presagio, rispose il divino interprete, tu sarai rimesso in grazia del tuo signore, e ristabilito nel tuo impiego. E a me, soggiunge l’altro, pareva di portare un canestro pieno di pani e di ciambelle per la regia mensa, e mentre mi stava sul capo, una torva di corvi e di altri uccelli rapaci nol lasciarono vuota la cesta. Cattivo pronostico, rispose Giuseppe: tu sarai sospeso ad un legno, ed i corvi e gli avvoltoi si divoreranno le tue carni. Tanto disse e tanto avvenne! Applicate la figura, uditori miei. Siede sul sacro tribunale il sacerdote, interprete della divina volontà, e giudice da Dio costituito, portate ai piedi suoi un cuore come un grappolo del coppiere, premuto dal dolore e mutato in un altro cuore, cioè di cuor peccatore in cuore penitente, come l’uva di grappolo cangiata in vino. Consolatevi, voi avrete buone risposte, sarete ammessi al perdono, ritornerete in grazia del vostro Dio, risorti a nuova vita. – Se per l’opposto accostandovi al sacro ministro porterete solo in mente e nella memoria le vostre colpe, come il canestro sul capo del panettiere tanto da farne al confessore una fredda narrazione, ma senza dolore d’averle commesse, senza proposito di emendarvi, senza volontà di restituire la roba altrui, di abbandonare le occasioni pericolose, di adempiere le obbligazioni del proprio stato, guai per voi! O vi saran date giuste come da giuste ma funeste risposte, o se riceverete la sacramentale assoluzione, vi aggraverete di un nuovo e maggiore peccato e morendo in questo misero stato, i demoni faranno di voi orrido strazio; perché la sacramentale confessione, da Gesù Cristo istituita per salvarvi, l’avete praticata per perdervi, e l’abuso sacrilego che fatto ne avete ha trasformato Gesù Salvatore in vostro nemico e in vostra rovina. Positus est in ruinam. – Lo stesso avviene nel sacramento della santissima Eucaristia. Ogni fedele che con cuore e con l’anima monda, almeno da grave peccato, si pasce delle carni dell’Immacolato Agnello di Dio, riceve conforto, ristoro ed aumento di grazia santificante, e Gesù, che è pane di vita, vita gli dà spirituale ed eterna. – Se poi taluno ardisse mangiar questo divin pane con la coscienza rea di colpa mortale, si mangerebbe quest’indegno, dice l’Apostolo, il suo giudizio e la sua condanna. Osservate soggiunge l’Angelico, come lo stesso pane celeste per l’anime buone è cibo di vita, per le malvagie è cibo di morte. “Mors est malis, vita bonis: vide par is sumptionis quam sit dispar exitus”. – Si legge nel libro quinto dei Numeri, che se un marito per ragionevole sospetto temuto avesse della fedeltà della proprii consorte, era autorizzato dalla legge di Mosè a condurla innanzi al sacerdote. Questi, a depurare il dubbio, raccolta dal pavimento del Tabernacolo poca polvere e mescolatala con acqua, la dava a bere alla donna sospetta. Se questa era rea, quella bevanda, come fosse potentissimo veleno, la faceva sull’istante cadere morta ai piedi dei circostanti, se innocente, senza soffrire alcun nocumento ritornava a casa sua fra gli applausi dei congiunti e dei cittadini. Lo stesso, vedete, miei cari, lo stesso avviene, sebbene in modo invisibile, nella santa Eucaristica Comunione. Guai a quell’anima che conscia di peccato mortale dalla man del sacerdote riceve la sacra particola! Sarà questa per lei micidiale veleno. Buon per quell’altra che se ne pasce con cuore innocente e con un cuor purgato da vera penitenza; fra gli applausi degli Angeli avrà vita e salute e pegno di vita eterna. – Ed ecco come Gesù Cristo positus est in ruinam et resurrectionem multorum”. Ah dunque, miei cari, teniamoci ben stretti alla fede di Gesù Cristo, ch’è la sola che salva: osserviamo la sua legge, che è la necessaria condizione per salvarci: siam peccatori? Andiamo ai suoi piedi al tribunale di penitenza col cuore umiliato e contrito, e saremo giustificati: accostiamoci alla sacra mensa colle debite disposizioni, e Gesù sarà per noi cibo, vita, salute, seme d’immortalità, pegno della futura gloria, che per sua grazia ci conceda.

Credo

Antif. All’Offertorio

Ps XCII:1-2 Deus firmávit orbem terræ, qui non commovébitur: paráta sedes tua, Deus, ex tunc, a saeculo tu es.

[Iddio ha consolidato la terra, che non vacillerà: il tuo trono, o Dio, è stabile fin da principio, tu sei da tutta l’eternità].

Secreta

Concéde, quaesumus, omnípotens Deus: ut óculis tuæ maiestátis munus oblátum, et grátiam nobis piæ devotiónis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat.

[Concedi, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che questa offerta, presentata alla tua maestà, ci ottenga la grazia di una fervida pietà e ci assicuri il possesso della eternità beata].

Communio Matt II:20 Tolle Púerum et Matrem eius, et vade in terram Israël: defúncti sunt enim, qui quærébant ánimam Púeri.

[Prendi il bambino e sua madre, e va nella terra di Israele: quelli che volevano farlo morire sono morti].

Post communio

Per huius, Dómine, operatiónem mystérii, et vitia nostra purgéntur, et iusta desidéria compleántur. [Per l’efficacia di questo mistero, o Signore, siano distrutti i nostri vizii e compiuti i nostri giusti desideri]

Omelie del S. NATALE –

 

Omelie del S. NATALE

S. S. Gregorio XVII

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Messa del Giorno (1973)

La difficilissima pagina del Vangelo (Gv I, 1-18) che avete ora ascoltato, che costituisce il prologo del quarto Evangelo, quello di Giovanni, dà però la risposta di due gravi domande. – La prima è: chi è Colui del quale oggi celebriamo la natività? La seconda: ma che cosa è venuto a fare? Vediamo la risposta che dà il difficilissimo brano, che evidentemente non possiamo commentare adeguatamente per limiti di tempo, e non solo di quello. Chi è? La risposta è questa: è Dio, è il Verbo di Dio. Naturalmente a questo punto dobbiamo sentire la maestà del Signore. Noi facciamo distinzioni in questo mondo, e in tutto il creato del resto, tra maestà, amore, giustizia, misericordia, e via discorrendo. In Dio tutto è unico, tutto s’identifica: la maestà è l’amore, l’amore è la giustizia, la giustizia è la misericordia. Per noi tutte queste cose sono distinte e divise, perché siamo piccoli, siamo imperfetti e pertanto non siamo infiniti. E Dio. Ma è il Verbo. Che cosa significa questo? Significa che in Dio c’è un rapporto d’intelletto. Il primo termine di questo rapporto intellettuale si chiama il Padre; il secondo termine si chiama il Verbo, il Figlio. E perché si usa la parola “Verbo”? E maggiormente propria la parola greca “Logos”, usata nel testo originale da Giovanni l’Evangelista. La parola “Verbo” significa la parola; ma quale parola? La parola intellettuale, cioè l’idea. Ed è questo il termine, imperfetto certo, ma vero, che serve ad identificare il secondo termine di questo eterno rapporto di intelletto che è in Dio. Siamo obbligati ad entrare nella vita di Dio oggi. Facciamolo con riverenza infinita, perché le cose divine a noi non possono arrivare se non calate e pertanto rimpicciolite nei termini delle nostre rappresentazioni intellettuali. Ma la constatazione di questi termini, che sono veri, ma che non possono adeguare la realtà rappresentata, deve infondere in noi un senso profondo di rispetto, di ammirazione, di adorazione. Ecco Colui che è nato a Betlemme. E’ così. Se non fosse così, perché tanta festa? Perché si dovrebbe oggi il mondo fermare? Perché oggi si ferma il mondo, anche quello non cristiano, e c’è in questo nostro povero mondo un momento di fede per tutti e, penso, anche di pace per tutti. – La seconda domanda: ma che cosa è venuto a fare? Do la risposta che dà il testo letto. E venuto per essere con gli uomini. Come mai si è fatto uomo? Come si è fatto uomo? Ha assunto una natura umana, identica alla nostra, anima e corpo. Strano? No, difficile, strano no. Dio, che ha creato tutto, anche la natura umana, può assumere tutto quello che crede ed elegge per esser vicino alle Sue creature, e nessuno ha diritto di meravigliarsi di quello che fa Iddio. Noi comunichiamo con i nostri simili mediante la fonazione, la voce; possiamo usare anche dei gesti e possiamo usare dei simboli, la scrittura. Non abbiamo altro per comunicare coi nostri simili. Dio ha tutto, tutto è nelle Sue mani. La docilità dell’atto creativo è la docilità di qualunque assunzione nei termini della Provvidenza Divina. Difficile sì, strano no. Naturalmente, qui c’è il mistero. E perché si è fatto uomo per essere con gli uomini? Con che scopo? Non certo un viaggio turistico sul nostro pianeta; queste sono sciocchezze che vanno bene per i circhi! La ragione è un’altra, e qui c’è una questione che bisogna affrontare. Chi ha ascoltato con attenzione il prologo giovanneo dianzi letto avrà notato che in tutto il brano non si fa alcun cenno alla Redenzione dal peccato. Forse è dimenticata? No. E che questo brano vuol ricordare al mondo la prima ed essenziale ragione per cui il Figlio di Dio si è fatto uomo. La questione sta in questo: se il Figlio di Dio si fosse fatto uomo unicamente per riparare il peccato – il che è ero -, l’iniziativa di quest’opera grande dell’Incarnazione e della Redenzione la avrebbe avuta il peccato, il male, e sarebbe affermare il pessimismo e negare Dio, e non è così. Se non avessimo questa pagina del Vangelo, avremmo dovuto piegare la fronte ad un mistero di più. Questa pagina del Vangelo ci dà la quiete. E come se dicesse: “State tranquilli: l’iniziativa non è del male, ma del bene”. L’iniziativa è di Dio, perché ha voluto. Dice il testo evangelico: ecco perché è venuto, la ragione assoluta che avrebbe avuto valore anche se non ci fosse stato il peccato negli uomini: rendervi figli di Dio (Paolo avrebbe spiegato dopo: “adottivi”). Ecco lo scopo. Siccome veniva per questo scopo, ha assunto anche l’altro: redimere dal peccato. E per questo motivo, è per quello che è rivelato da questo brano del Vangelo che noi sappiamo, che la precedenza l’ha il bene non il male, che la vittoria l’ha il bene non il male. E da questo deduciamo che il bene vivifica sempre e il male si distrugge da sé. Attenzione a quelli che vogliono mettersi dalla parte del male: sappiano che il male si distrugge da sé. Oltre alle altre umiliazioni, ha anche questa. E ben gli sta! – Ecco che cosa è venuto a fare il Figlio di Dio: a fare di noi dei figli adottivi di Dio stesso. E questa filiazione in noi rappresenta una dignità obiettiva, non semplicemente morale. Le dignità umane, quando non sono date per un Sacramento – c’è un unico caso: il Sacramento dell’Ordine che realmente e essenzialmente distingue da tutti coloro che non l’hanno, essenzialmente -, le dignità umane sono cose accidentali, sovrapposte, che cambiano nulla della realtà di chi porta le denominazioni, gli onori, gli attributi. Invece esser figli di Dio cambia totalmente ed obiettivamente il valore della nostra natura, della nostra vita, dei nostri atti, del nostro destino eterno, tutto. È il grande annuncio. Questo grande annuncio a Natale ha sentito il cantico degli Angeli, ma vi prego di guardare a quello che ha preceduto il cantico degli Angeli. Perché gli uomini potessero essere a suo tempo, in un altro piano di Provvidenza, disposti a capir meglio qualcosa, Dio ha sparso a piene mani la bellezza, l’infinita varietà, la bontà delle cose nel creato, e tutte le cose sono una rivelazione divina, talmente chiara a chi ha l’anima pura, talmente profonda a chi ha il sentimento immacolato, da far sì che in realtà Dio sia la cosa più evidente che c’è nel mondo, perché ogni cosa parla e parla di Lui. E la bellezza è l’anticamera del bene e il bene è l’anticamera di Dio. E tutto questo è stato predisposto in un’infinita festosità di cose, in una sequela di luci e di colori e di cose sorprendenti, e abbiamo davanti a noi non soltanto la storia che svolta le sue pagine, ma tutto quanto questo creato che raggiunge i suoi cicli, ne aspetta altri, ne annuncia; è una festosità incontenibile che Dio ha messo in natura, perché quando fosse arrivato il piano soprannaturale, che nessuno poteva esigere, gli uomini fossero pronti, guardando le cose, a intendere i gesti stupendi del loro Creatore. – Ecco la risposta del prologo giovanneo. Risolve delle questioni grandi ed è nostro dovere far sì che le questioni si risolvano. Non possiamo permettere che le questioni diventino un peso inutile, doloroso e nefasto per l’anima degli uomini.

Sermone di san Leone Papa

Sermone 1 sulla Natività del Signore

O dilettissimi, è nato il nostro Salvatore esultiamo. Poiché non può esser luogo a tristezza allorché nasce la vita: la quale, dissipando il timore della morte, ci riempie di gioia per la promessa dell’eternità. Nessuno è escluso di partecipare a tanta allegrezza. Tutti hanno lo stesso motivo di letizia: perché nostro Signore, distruttore del peccato e della morte, siccome non trovò nessuno libero da reato, così è venuto per liberar tutti. Esulti il giusto, perché è vicino alla palma: gioisca il peccatore, perché è invitato al perdono: prenda animo il Gentile, perché è chiamato alla vita. Infatti il Figlio di Dio nella pienezza dei tempi fissata dalla imperscrutabile profondità del divino consiglio, assunse la natura umana per riconciliarla col suo autore, affinché l’inventore della morte, il diavolo, fosse vinto con quella stessa natura onde aveva vinto. – In questo conflitto impegnatosi per noi, si combatté con grande e ammirabile lealtà, poiché l’onnipotente Signore combatté contro il crudelissimo nemico non nella sua maestà, ma nella nostra infermità: opponendogli la stessa forma e la stessa natura soggetta sì, alla nostra mortalità, ma scevra d’ogni peccato. Giacché è alieno da questa natività ciò che si legge di tutti gli uomini: «Nessuno è senza macchia, neppure il bambino, la cui vita sulla terra è appena di un giorno» (Job. XIV,4). Nulla dunque della concupiscenza della carne entrò in questa natura singolare, niente ci s’infiltrò della legge del peccato. Viene scelta una Vergine regale, della stirpe di David, la quale dovendo portare nel seno il sacro rampollo, prima che corporalmente concepisse l’Uomo-Dio spiritualmente. E affinché, ignara del disegno celeste, non si spaventasse a sì inusitato annunzio, apprende mediante colloquio angelico quel che lo Spirito Santo doveva operare in lei: così ella che presto diverrà Madre di Dio, non teme più alcun danno per il suo pudore. – Rendiamo dunque grazia, o dilettissimi, a Dio Padre per il suo Figlio, nello Spirito Santo: poiché «per l’infinita sua carità onde ci amò, ebbe pietà di noi» (Ephes. II,4): e «mentre eravamo morti per i peccati, ci ha reso la vita in Cristo» (Coloss. III,9), perché noi fossimo in lui nuova creatura e nuova opera. «Deponiamo dunque l’uomo vecchio colle sue azioni» (Coloss. 3,9); e fatti partecipi della nascita di Cristo, rinunziamo alle opere della carne. Riconosci, o Cristiano, la tua dignità: e, «divenuto partecipe della divina natura» (2 Petri I,4), non volere con una indegna condotta ritornare all’antica abiezione. Ricorda di qual capo e di qual corpo sei membro. Rifletti, che «strappato alla potestà delle tenebre» (Coloss. I,13), sei stato trasferito nella luce e nel regno di Dio.

Omelia di san Gregorio Papa

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Omelia 8 sul Vangelo

Poiché per grazia del Signore oggi abbiamo a celebrare tre Messe solenni, non possiamo discorrere a lungo della lettura del Vangelo; però che ne diciamo qualche cosa, sia pur brevemente, ce l’obbliga la stessa Natività del nostro Redentore. Perché dunque alla nascita del Signore si fa il censimento dell’impero, se non per far comprendere che appariva nella carne colui che doveva registrare i suoi eletti nell’eternità? D’altra parte, per mezzo del Profeta, dice dei reprobi: «Siano cancellati dal libro dei viventi, e non siano iscritti coi giusti» (Ps. LXVIII, 29). Egli poi opportunamente nasce in Betlemme, dacché Betlemme vuol dire casa del pane. Difatti lui stesso dice: «Io sono il pane vivo che son disceso dal cielo» (Joann. VI,51). Pertanto il luogo dove nasce il Signore fu chiamato innanzi casa del pane; perché là doveva certamente apparire nella natura umana colui che doveva ristorare internamente le anime dei suoi eletti. Egli nasce non in casa del suoi parenti, ma in viaggio: alfin di mostrarci senza dubbio che per la sua umanità assunta nasceva quasi in luogo straniero.

Omelia di sant’Ambrogio Vescovo

Libro 2 al cap. 2 di Luca, verso la metà

Considerate gl’inizi della Chiesa nascente: Cristo nasce, e i pastori già vegliano, come per raccogliere nell’ovile del Signore i greggi delle nazioni che sino allora vivevano come pecore, affin di preservarle, nelle profonde tenebre della notte, dagli assalti di bestie spirituali. E giustamente i pastori vegliano seguendo l’esempio del buon pastore. Così il gregge è il popolo, la notte è il mondo, i pastori sono i sacerdoti. Senza dubbio anche quegli è pastore cui è detto: «Sta vigilante e conferma gli altri» (Apoc. III, 2). E il Signore non solo ha stabilito i vescovi per difendere il gregge, ma ha destinato anche gli Angeli.

Omelia di sant’Agostino Vescovo

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Trattato 1 su Giovanni, verso la metà

Affinché tu non abbia del Verbo un’idea bassa, come se si trattasse di parole umane, ascolta ciò che devi pensarne: «Dio era il Verbo» (Joann, I,1). Ora venga fuori non so quale infedele Ariano a dirci che il Verbo di Dio fu fatto. Come può essere che il Verbo di Dio sia stato fatto, quando Dio per mezzo del Verbo ha fatto tutte le cose? Se esso Verbo di Dio fu fatto, per qual altro verbo fu egli fatto? Se tu dici che esso è stato fatto da un verbo del Verbo, allora io rispondo che esso è l’unico Figlio di Dio. Se poi non ammetti un verbo del Verbo, concedi allora che non è stato fatto quegli per il quale tutto fu fatto. Perché non poté fare se stesso Colui per il quale tutto fu fatto. Credi dunque all’Evangelista.

S. S. Gregorio XVII – Omelia del S. NATALE – S. Messa nella Notte (1975)

S. S. Gregorio XVII

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Omelia del S. NATALE – S. Messa nella Notte (1975)

Era notte, come è notte ora. E siamo certi che era notte, perché il testo stesso parla dei pastori sollecitati ad accorrere ad adorare il Bambino, mentre vegliavano di notte il gregge. Era notte. Vorrei che riflettesse su questo fatto: non c’era luce. Possiamo credere che l’unica luce in una fredda notte invernale fosse soltanto quella delle stelle. Non c’era nessuno: alcun conforto, alcun sussidio alcuna assistenza, alcun consenso, alcun amico. Non c’era splendore, non c’era gloria, non c’erano applausi. Nessuno in terra. E questo il punto: era notte. Si direbbe che una mano divina nel fatto allora e nella narrazione oggi separi i due campi: è questo che dobbiamo imparare. Venendo al mondo il Figlio di Dio a questo modo ci richiama a una verità, o meglio, a una distinzione semplice e fondamentale per la saggezza di tutta la vita umana: tra quello che conta e quello che non conta, quello di cui non possiamo fare a meno e quello del quale possiamo fare a meno, restando pienamente quello che siamo. – Che cosa c’era quella notte? Un bimbo che nasceva: era il Figlio di Dio. C’era una Madre, che è anche Madre nostra. C’era un uomo custode di entrambi: S. Giuseppe. Non sappiamo che ci fossero altri. Sì, la leggenda – è leggenda -, che ha interpretato assai male un testo di Isaia, ha messo accanto al presepio un asino e un bue. Poveretti, ci sarebbero stati bene, e non è detto che non ci fossero, ma non lo sappiamo. Comunque, a fare a meno di un asino e di un bue occorre poco. C’era una grandezza divina che non ha bisogno di vestirsi di nessuna pompa umana, c’era un’umiltà profonda, quasi scalpellata nella stessa roccia della grotta che ancora esiste, c’era l’atto di obbedienza. Nella Lettera agli Ebrei S. Paolo ci ricorda che Cristo, entrando nel mondo, ha detto e ha scritto in capo alla sua vita allora: “Sono qui, o Padre, per fare la tua volontà” (cfr. Eb X, 9). È questo quello che conta: quello che vien da Dio, quello che può appartenere a Dio, quello che può non essere rifiutato da Dio, quello che è nella verità, perché l’umiltà non è altro che la verità della nostra condizione, quello che è la saggezza, perché non c’è altra saggezza che quella dell’obbedienza verso Chi ha il diritto di imporci la norma, e nessuno questo diritto lo può contestare a Dio che è il Creatore. La distinzione tra quello che conta e quello che non conta: perché gli uomini imparassero, perché gli uomini sapessero quello che è una priorità della loro estimazione e quello che può essere confinato al secondo, al terzo, al decimo posto. La notte ha la sua eloquenza, perché la notte toglie le apparenze, come se quella notte dovesse insegnare all’umanità di non credere mai troppo e spesse volte nulla alle apparenze. Questa è la saggezza di questa santa notte.- Noi sappiamo che poi intervennero gli Angeli e cantarono il cantico che abbiamo udito poc’anzi. Ma questo non appartiene più alla storia degli uomini, questo appartiene soltanto a quell’ordine soprannaturale del quale solo l’umiltà e l’obbedienza del Figlio di Dio ha potuto darci notizia e certezza. – Penso che il miglior augurio che io vi possa fare, cari, per Natale sia quello di distinguere bene tra quello che conta e quello che non conta, tra quello che è sostanza e quello che è apparenza, tra quello che può valere di fronte al cielo e quello che a lungo andare vale niente anche di fronte alla terra.

 

Omelia della DOMENICA IV DELL’AVVENTO

Omelia della DOMENICA IV DELL’AVVENTO

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Luca III, 1-6)

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Via del Piacere.

L’odierno Evangelio mi porta col veloce pensiero alle sponde del Giordano. Seguitemi, ascoltatori devoti. Ecco innanzi a noi il divin precursore Giovanni, che per comando di Dio predica il battesimo della penitenza per la remissione de’ peccati. Non già che quel battesimo avesse in sé una tale virtù, ma perché era una preparazione per arrivare alla remissione de’ peccati, col partecipare de’ meriti del Redentore. Predica dunque la penitenza il Battista, e la predica quasi più colla presenza, che colla voce, più coll’esempio, che colle parole. Osservatelo pallido nel volto, smunto nelle membra, mezzo coperto di rozze spoglie d’agnelli, e di ruvida pelle di cammello: il suo vitto son le locuste del campo e poco miele della selva, la sua bevanda è l’acqua del fiume o del fonte. Comincia la sua predica intimando alle turbe accorse ad ascoltarlo a preparare la via del Signore, “parate viam Domini”. A questo fine fu mandato il Battista nella Giudea, e a questo stesso oggetto io vengo a voi, miei dilettissimi; e vi dico, se volete per la prossima solennità preparare la via del Signore, acciò Egli venga a voi, abbandonate le strade del mondo, tornate addietro dalle vie del peccato e del seducente piacere. L’uscir da queste lubriche vie, sarà lo stesso che disporre i retti sentieri, pei quali l’aspettato Salvatore del mondo venga a rinascere nel Vostro cuore: “parate”, dunque, “parate viam Domini, rectas facite semitas eius”. Per animarvi in questo salutare intraprendimento, io vi farò vedere in una maniera facile e sensibile, quanto la via del mondano piacere sia ingannevole, e quanto dannosa, tanto per la vita presente, che per la vita futura. Se riesco a disingannarvi, io benedirò il Signore, e voi mi saprete grato del vostro disinganno. Di grazia ascoltatemi attentamente. – La via del piacere, (com’io me la figuro) comincia con una porta grandiosa, alta, magnifica, a modo di superbo arco trionfale. La struttura che la rende stupenda è tutta a colonne, a statue vagamente disposte, e a vasi d’ogni forma la più leggiadra. Sull’architrave sui capitelli stanno alati genietti, e di questi chi sparge fiori, chi suona cetre, chi spiega vesti preziose, chi fa le monete d’oro e d’ argento, e chi sul limitare di questa porta col riso sulle labbra, col cenno grazioso delle mani invita ad entrare i passeggeri. Entriamo dunque, uditori: la porta è bella, la strada sarà migliore. “… Adagio, dite voi, adagio, tanti inviti, tanti allettamenti fan nascere un ragionevole sospetto, che qualche inganno si nasconda sotto così lusinghevoli apparenze”. Ottimamente, questo è pensare e riflettere da uomini prudenti, … facciamo dunque così, vediamo qual sorte hanno incontrata coloro che sono entrati per questa porta, e si sono avviati per questa strada. Si possono questi considerare distinti in due schiere. Molti sono entrati e non sono più usciti, altri non pochi sono tornati indietro. Quei che sono entrati senza più uscire, sono primieramente tutti gli uomini che passeggiavano su questa terra a’ tempi di Noè innanzi il diluvio. Correvano questi velocemente la via del piacere, e del piacere più sordido e più fangoso. “Omnis quippe caro corraperat viam suam” (Gen VI, 12). Gridava intanto Noè dai palchi della sua arca: “… ciechi, insensati, tornate indietro, se proseguite, Iddio sdegnato vi coglierà nel più bello del vostro cammino, sarete fra non molto sommersi in un diluvio di acque micidiali”; ma gl’ingannati, rapiti dal dolce delle impure loro voglie, sordi al loro bene, sordi al loro male, sordi alle divine minacce, conobbero troppo tardi e senza rimedio il proprio errore, e la fallacia della via da essi battuta. – Spingete ora lo sguardo entro quella porta da noi immaginata: vedete voi quella lunga, lunghissima strada, che dall’una e dall’altra parte vi presenta un funesto spettacolo di ventiquattromila Ebrei pendenti da altrettanti patiboli? Mirateli se potete senza orrore, e poi dite: ecco quanto loro costò un brutale piacere, contro il divieto di Dio e di Mosè, con le donne Madianite “Occisi sunt viginti quatuor millia . . . in patiboli” (Num XXV, 9 e 4). E chi son eglino quegl’infelici stesi su quel campo, sparso di tronche membra e di teste recise, inondato di tanto sangue, ancor tiepido, ancor fumante? Poco avanti fra canti e suoni, sazi dalla crapula ed allegri dal vino, menavano danze e carole intorno a un idol d’oro, ed ora trucidati dalle spade levitiche in numero di quasi ventiquattro mila, c’insegnano che l’allontanarsi da Dio, che il piacer della gola, e gli estremi del gaudio e dell’allegria, vanno a finire in lutto ed in sterminio. – Passeggia per questa strada Sansone allettato dalle lusinghe di Dalila, e sebbene da’ propri genitori richiamato ad uscirne, non dà ascolto, persiste nel suo cammino, e i suoi piaceri gli fan perdere la libertà, la vista, la riputazione e la vita. Anche Ammone figlio di Davide entra in questo sentiero, rapito dall’avvenenza dì Tamar, e il sozzo incestuoso piacere gli tira addosso un nembo di pugnalate, mentre sedeva a lauto banchetto. Anche i sordidi vecchioni tentatori della casta Susanna corrono la stessa via; e dopo aver sedotte molte figlie d’Israele, s’incontrano finalmente in questa santa matrona, che eroicamente ributtandoli, coll’esecrazione di lutto il popolo, restano sepolti sotto una tempesta di pietre. Di mille altri potrei mostrarvi lo stesso. Per amor di brevità fermiamoci qui, e ditemi uditori miei, non è egli vero che questa strada è fatale per chi vi entra? Le notizie fin qui son molto cattive. Vediamo se si sono trovati contenti almeno quei che ne uscirono! – Il primo che mi viene avanti egli è un re vestito di ruvido cilizio, con un tozzo di pane alla mano, sparso di cenere, e bagnato di lacrime. Ah, sì, lo ravviso, questi è Davide penitente, che abbandonata la via del piacere, si va protestando che odia e abbomina questa strada d’iniquità: “viam iniquam odio habui(Ps. CXVIII, 128). Un altro mi si presenta. È questi un giovane rabbuffato, pallido, smunto, lacero, mezzo ignudo. Nol conoscete? Egli è il Prodigo, che ritorna da quelle remote contrade che ha corso per qualche tempo affianco delle meretrici “vivendo luxuriose”, ed ora a passo avanzato si conduce a’ piedi del suo buon padre, a pregarlo che voglia ammetterlo per l’ultimo de’ suoi servitori. E questa donna, nobile all’aspetto e al portamento, che si strappa dal crine le gioie e i vani ornamenti, ella è la Maddalena, che pentita de’ suoi traviamenti, corre a lavare di lacrime i piedi al divin Redentore. Una turba immensa, a finirla, sgombra da questa strada, turba di gente d’ogni età, d’ogni sesso e d’ogni clima, ed hanno tutti il pianto sul volto, il digiuno a fianco, il flagello alla mano per vendicare in sé stessi i loro errori nella via seducente dell’iniquità e della perdizione, confessando altamente d’esserne stanchi e pentiti, “lassati sumus in via iniquitatis, et perditionis” (Sap. V, 7). – Che dite ora, miei riveriti ascoltanti? Le notizie da ogni parte son pessime, e senza ricorrere ad antichi esempi, l’esperienza ci fa vedere sovente di queste scene volubili, che dopo una vista dilettevole si cangiano in prospetti di orrore. Voi come più pratici del mondo ne potete narrare a me. Quanti amatori del secolo, gente data al bel tempo, ai giuochi, alle gozzoviglie, agli amori, sono passati dalle delizie alle miserie, da’ piaceri agli affanni, dagli onori all’avvilimento, da uno stato comodo allo spedale, o a morir sulla paglia! – Concedo: la strada del piacere è larga, amena, spaziosa, lo dice il Vangelo, “spatiosa est via”, ma dice altresì che conduce alla perdizione. Or se una via piana, fiorita, deliziosa vi portasse ad un precipizio, avreste voi sì poco senno da incamminarvi per quella? E non sapete ch’è proprio de’ traditori il far precedere le lusinghe, i vezzi, gli allettamenti per riuscire negl’iniqui disegni, ed ingannare gl’incauti ? Caino vuol tradire Abele, e in aria di buon fratello l’invita a diporto, a spaziarsi in un campo. Gioabbo con un saluto, con una carezza al mento di Amasa gli pianta un pugnale nel fianco. Assalonne per vendicarsi d’Ammone l’invita a sontuoso banchetto. Triffone vuol disfarsi del temuto Gionata Maccabeo, e gli offre il comando della sua armata. Giuda tradisce il suo divino Maestro e si serve d’un bacio. In somma quel che gli uomini praticano cogli uccelli, e coi pesci, usano i traditori a sedurre gl’incauti ad ingannar gl’innocenti. – Ma se voi non siete irragionevoli, non sarà una gran pazzia lasciarvi tirar nella rete per un meschino piacere? – Sarà dunque pazzia per voi, giovane mio, l’associarvi con quella brigata di scostumati compagni, che vi traggono al giuoco per spogliarvi, che vi portano alle crapule, ai furti, alle case sospette, alle ree amicizie per non avere il rossore d’esser soli nei bagordi e negli stravizzi, o per voltarne tutta la colpa a voi. – Sarà pazzia per voi lasciarvi tirar dalla gola e imbandire la mensa de’ rubati polli, vendemmiare l’altrui vigna e bere alla salute di chi in coltivarla vi ha speso danari e sudori, per poi temere e tremare per continua paura, di venir ricercato da ministri di giustizia, d’essere scoperto per ladro, ed in pericolo d’infamia, di prigionia e di galera. – E non sarà maggior pazzia per voi, o figlia incauta se vi lasciate adescare dalle dolci lusinghe, dall’amorose parole, da’ seducenti biglietti, dai donativi, dalle promesse anche giurate di matrimonio di quei traditori, che insidiano la vostra onestà, ed han per costume vantarsi della vostra debolezza e della loro riuscita? Non sarete la prima, se vi fidate, se vi arrendete, ad essere abbandonata alla vostra confusione, costretta a ritirarvi per nascondere il vostro fallo, a passare i giorni amari in mesta solitudine, a piangere inutilmente la vostra caduta e la vostra stoltezza, e bestemmiare l’empio traditore, che intrepido giura di non conoscervi, insensibile alle vostre lacrime, insultante alla vostra infamia, infamia che porterete fino alla tomba. – Vedete, miei dilettissimi, che non v’ho parlato sin qui se non di temporali infortuni, i quali sono gli effetti infallibili degli smodati piaceri. Or che diremo quando la fede c’insegna che la via del piacere conduce all’eterna perdizione? Così è, miei cari, conviene disingannarsi. Gli amatori del mondo e de’ fallaci suoi beni, dopo aver gustato per pochi giorni il dolce delle proprie soddisfazioni, vanno, quando non se l’aspettano, a piombare negli abissi infernali. “Ducunt in bonis dies suos, et in punctu ad inferno, descendant” (Iob. XII, 13). Ci descrive con una ingegnosa parabola la cecità e stoltezza di costoro S. Giovanni Damasceno. – Un cert’uomo faceva viaggio in un deserto, quando all’improvviso si vede venir incontro una feroce pantera. Spaventato a questa vista si dà a precipitosa fuga, e nel fuggire agitato e contuso, cade senz’avvedersene dall’orlo d’un precipizio profondissimo: se non che, com’è proprio di chi cade, stender le braccia, fortunatamente si appiglia ad un albero piantato poco sotto il margine del precipizio stesso. Qui si tiene stretto, e va respirando. Osserva però che la pantera non cessa di minacciarlo, e che l’albero, su cui si è salvato dal peso della persona, va declinando al basso, e gli si stacca da terra or l’una, or l’altra radice. Abbassa finalmente lo sguardo, e mira con raccapriccio in fondo del precipizio un enorme dragone, che a bocca spalancata, e artigli aperti sta aspettando la sua caduta. In questa situazione di tanto orrore, in mezzo a tanti oggetti di spavento, leva gli occhi in alto, e osserva in cima di quella pianta un favo di miele, che per l’abbondanza spande su quelle foglie il dolce liquore. A questa vista esulta di giubilo, e allegro e contento non conosce più il suo pericolo, si dimentica della minacciosa pantera, dell’albero che declina, delle radici che si staccano, del dragone che l’attende, e invece, … chi il crederebbe? Col riso in bocca e tutto intento a raccogliere colla punta del dito quelle gocce di miele, le assapora con gusto e se ne pasce con gioia, e si stima felice. La parabola, uditori, vi sorprende? Cesserà la sorpresa in sentirne l’applicazione: l’uomo appena comparso in questa valle di pianto, che si può chiamare un deserto, in qualità di viaggiatore, viene minacciato dalla morte come da rabbiosa pantera. Fugge egli in certo modo l’incontro, ma cade nel comune pericolo di morte, che ad ogn’istante può coglierlo. Si salva egli, diciamo così, sull’albero del proprio corpo. Quest’albero, questo corpo in ogni giorno, in ogni stagione va declinando con il peso degli anni. Si staccano le radici colle infermità, col mancar della vista, col cadere dei denti, col debilitarsi le forze. Intanto al fondo dell’abisso lo sta aspettando il dragone infernale, ed egli in mezzo a tanti pericoli dimentico della morte, della caducità della vita, del baratro su cui sta pendente, e del dragone d’inferno, che per le sue colpe ha diritto, e brama d’attenderlo, s’occupa tutto a raccogliere alcune stille di miele or da questo, or da quel sensuale piacere, e solo intento ad appagare i suoi sensi, a soddisfare le sue voglie, si crede al colmo della contentezza e della felicità. – O uomo miserabile, o cieco e insensato figliuolo di questo secolo! Quel che ora non temi, sarà un giorno il soggetto delle tue lacrime e dell’inutile tuo pentimento. Al termine della strada del piacere, sta il letto della tua morte. Dalla sponda di questo darai un’occhiata alla via che hai corsa; pensa se sarai contento d’averla battuta. Deh! per tuo bene intraprendi in questi sacri giorni la via del Signore; questa è la sola che può condurti all’ eterna salvezza.

Omelia della Domenica III di AVVENTO

Omelia della DOMENICA III DELL’AVVENTO

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Giovanni I, 19-28)

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Superbia.

 Avevano i Giudei concepita una sì alta opinione di Giovanni il Battista per la sua vita irreprensibile, per l’austera penitenza, per la zelante predicazione, che credettero esser egli il Messia da Dio promesso, e da gran tempo da loro aspettato. Spedirono perciò da Gerosolima Sacerdoti e Leviti ad interrogarlo chi egli fosse, e s’era il Cristo tanto desiderato dalla loro nazione. Giovanni non si dimenticò di sé stesso.. Ben lungi dall’arrogarsi un nome sì glorioso, prese anzi motivo da un’interrogazione lusinghiera di vieppiù umiliarsi; “ … ed io, rispose, e ripeté la seconda e la terza volta, io non sono Cristo. Questi vive, ed è in mezzo a voi, e voi nol conoscete; dopo di me si farà manifesto, ed è tanto nella dignità e nella grandezza a me superiore, ch’io neppur son degno di sciogliere i legacci dei suoi calzari!”. “ Chi dunque sei tu? Tornarono a chiedergli, forse Elia, o alcun dei Profeti?” Non sono Elia, rispose, non sono Profeta, ma sono una voce, che va gridando nel deserto: preparate la via del Signore, “ego vox clamantis in deserto; parate viam Domini”. – Fin qui l’odierno Vangelo. Che dite, ascoltatori, di questa umiltà del Precursore di Gesù Cristo, del maggiore fra i Santi? Gl’inviati a far tante interrogazioni erano Farisei, gente gonfia della più fina superbia, dovevan confondersi in sentire l’umile confessioni del Battista. Ma no! Di guarigione difficilissima è un tal vizio; ed oh quanto regna nel mondo, e la virtù a questo opposta oh quanto nel mondo è sconosciuta! Contro di questa superbia è diretta la presente spiegazione, e per ridurre me stesso e voi a sbandirla dal nostro cuore, io passo a dimostrarvi prima il castigo di questa passione detestabile, poscia il rimedio nella virtù della cristiana umiltà …

I. Il castigo della superbia secondo l’ordine stabilito dalla giustizia di Dio, che necessariamente odia i superbi, è comprovato dalla speranza e dalla storia di tutti i secoli, è una vergognosa caduta. Il superbo si può paragonare ad un epilettico. Porta seco quest’infelice una malattia, che o per improvviso sconcerto del Cerebro, o per istraordinaria alterazione de’ nervi, ovunque lo colga, lo getta a terra, senza che possa stendere un braccio a suo riparo, fossa pur egli sull’orlo d’un precipizio. Tal è un superbo. Con questa legge però, dice un gravissimo autore (Scupoli), che quanto egli s’innalza superbamente, tanto miseramente precipita, e l’altezza del suo esaltamento è la precisa misura della profondità della sua caduta. Infallibile è il detto evangelico: “Qui se exàltat, humiliabitur” (Luc. XIV, 11). Né ciò deve far meraviglia, entra; qui il reale Profeta, conciossiachè la superbia un mostro, che ha un sol piede, e perciò non può a lungo contenersi in dritta positura. Immaginate un uomo, che si tenga sopra un piede solo. Con qualche sforzo si terrà diritto per poco d’ora, ma non potrà a lungo durare in quella situazione violenta. Se poi a quest’uomo si accosti una mano che l’urti, un nemico che lo spinga, sarà necessariamente stramazzato a terra. – E questa appunto la più viva. immagine della superbia, onde il citato re Profeta, a Dio rivolto, Signore, diceva, “non veniat mihi pes superibiæ, et manus pcccatorìs non moveat me” (Ps. XXV). E poi soggiunge. “Ibi ceciderunt qui operantur iniquitatem .. expulsi sunt, nec potuerunt stare”. Un’esperienza funesta, prosegue lo stesso reale Salmista, mi mostrò quanto sia certa e inevitabile la caduta de’ superbi. Ben mi ricordo d’un Saul, che sebbene da Dio riprovato, pure, sulle armi fidando e sui suoi armati, fu sconfitto da’ Filistei vincitori, e per disperato rimedio a sottrarsi dai loro insulti, si lasciò cadere sulla punta della sua spada applicata al petto. “Non salvatur Rex per multam virtutem (Ps. XXII, 16). Ben mi rammento del superbissimo Filisteo gigante, dispregiatore delle falangi del popolo di Dio, che. sfidando a singolar tenzone i prodi d’Israele, fu a terra steso pel colpo di un semplice pastorello qual io già fui, “et gigas non salvabitur in multitudine virtutis suæ” (). Ben mi si sveglia l’acerba memoria del mio figlio Assalonne, che per sfrenata ambizione di regnare mi mosse guerra, e in questa abbattuto, mentre sperava salvarsi su veloce destriero, per quel mezzo stesso sospeso pei suoi capèlli ad un ramo perdé la vita, ferito da tre colpi di lancia. “Fallax equus ad salutem in abundantia virtutis suae non salvabitur”:(ib. V. 17). – Un ritratto al naturale d’un gran superbo, e del suo straordinario e obbrobrioso castigo, ci presenta il Profeta Daniele nella persona di Nabucco re di Babilonia. Stava passeggiando costui nella sua reggia tutto gonfio; tutto in compiacenza di sé stesso, “in aula Babilonis deambalabat”; (Dan., IV, 26) e inebriato dalla propria stima si fa a rispondere a chi non l’interroga, a chi neppur è presente, “responditque” (Reg. XXVII). E come avesse intorno la turba de’suoi adulatori, “ … e non è questa, dice egli, quella gran città, quella Babilonia da me edificata? “Et ait: nonne haec est Babilon magna, quam ædificavi?” (Ibid.). Falso; Babilonia fu edificata da Belo, e da lui soltanto ingrandita: bugia manifesta, vizio proprio de superbi millantatori, che alla propria gloria fanno anche servir la menzogna. Indi crescendo la sua pazza alterigia, attribuisce alla forza di sua virtù, e a lustro della sua gloria, quanto vi ha di splendido e di grandioso nella sua reggia e nel suo regno, “in domum regni, in robore fortitudinis meae, et in gloria decoris mei” (Ibid.). Nello stesso, tempo in cui parlando il borioso si pascea di vento, ecco una voce improvvisa discende dal cielo: “a te Nabucco, a te si parla, tu sarai privo di regno, cacciato dalla reggia, e dalla comunanza degli uomini e da strana mania spinto al bosco e alla foresta, abiterai colle fiere, e ti pascerai come bestia irragionevole di fieno e d’erbe selvagge”. “Regnum tuum transibit a te, et ab hominibus eiicient te, et cum bestiis et feris habitatio tua, foenum quasi bos comedes” (Idem). – Fin qui il castigo di questi superbi umiliati è piuttosto nell’ordine delle umane cose, ed è meno a temersi. Quel che deve incutere timore e tremore è lo spirituale castigo, per cui si chiude al superbo il fonte d’ogni grazia celeste. “Deus superbis resistit” (Jacob. IV, 6). Io, dice il Crisostomo, amerei meglio aver tutt’i peccati del mondo coll’umiltà del pubblicano, che le virtù di tutti i santi del cielo con la superbia del fariseo. Con la prima si dileguano tutte le colpe, come neve in faccia al sole: con la seconda si dissipano tutte le virtù, come polvere in faccia al vento. Iddio neppur un istante soffrì nel cielo empireo il superbo Lucifero: la sua superbia da angelo lo fece demonio. Le ruinose cadute degli Eresiarchi s’attribuiscono tutte da S. Girolamo alla superbia. “Haereticorum mater superbia”. Oltre la perdita inestimabile della grazia e dell’eterna salute, permise Iddio a loro perpetua confusione che cadessero nel fango della disonestà, castigo proprio de’ superbi, che avvilisce lo spirito altero fino ad abbassarlo alla condizione de’ bruti. Così l’Anticristo, che sarà il più superbo degli uomini, sarà altresì’, dice il Profeta Daniele, il più immerso nelle carnali immondezze, “erit in concupiscentiis fæminarum” (Dan XI, 37).

II. A tanto male quale rimedio? Gesù Cristo, dice il Pontefice S. Gregorio, medico celeste, ha prescritto a tutt’i vizi l’opportuno rimedio; agli avari la liberalità, ai disonesti la continenza, agl’iracondi la mansuetudine, e l’umiltà ai superbi. Quest’ultima si distingue in umiltà d’intelletto e umiltà del cuore. L’umiltà d’intelletto è una cognizione del proprio essere, secondo i lumi della ragione e della fede. Per acquistarla basta uno sguardo al passato, al presente, e al futuro. “Semper in mente habea”, avviso di S. Bernardo, “quid fuisti? quid es? quid eris?” (in for. Honest. vitae). Uno sguardo al passato. Quid fuisti? Che cosa ero io venti, trenta, cinquanta, cento anni addietro: un nulla. Senza di me esisteva questo gran mondo. Se Dio s’eccettui , io né pur era nel numero delle cose possibili. Era dunque infinitamente più di me un filo d’erba, un atomo di polvere; dappoiché dall’essere al non essere passa un’infinita distanza. Era io dunque un nulla. Così è, così di sé stesso diceva il reale Profeta, “substantia mea tamquam nihilum ante te” (Ps. XXXVIII, 6); e il nulla di che può gloriarsi, di che può insuperbire? Uno sguardo al presente. Quid es? Che cosa è l’uomo se si separi il prezioso dal vile? Cioè quel che è dell’uomo, e quel ch’è di Dio? In quanto al corpo egli è un composto di quattro tra loro contrari elementi, che per la minima alterazione cagionano in noi tante infermità, tante doglie, tanti malori. Egli è, dice S. Bernardo, un vaso pieno di putredine, “vas stercorum”, un letamaio, di cui non può trovarsi il più vile, “vilius sterquilium numquam vidisti”. La putredine, soggiunge il S. Giobbe, è come il padre che lo genera, la madre che lo nutrisce, la sorella che l’accompagna col seguito di vilissimi vermi, Putredini dixi: Pater meus es: mater mea, et soror mea, vermibus”. (Giob. XVII, 14). Gran cose! Entra qui Papa Innocenzo parlando del disprezzo del mondo, gran cosa! Gli alberi producono foglie verdeggianti, fiori odoriferi, gustosi, e l’uomo vili e molesti insetti, putridi umori, flemme stomachevoli, fecce puzzolenti. O vergognosa condizione dell’umana viltà! “O indigna vilitatis humanæ conditio!”( 8 c. 3). In quanto poi allo spirito, è vero essere egli uno spirito nobilissimo, una immagine viva del suo Creatore, ma questa eccellente prerogativa non è sua propria. Ed oh quanto fu deformata dal peccato originale immagine sì bella! Ferita l’anima nelle sue facoltà, leso restò l’intelletto e propenso all’errore, lesa la volontà ed inclinata al male. Immaginate un serraglio di fiere selvagge, che affamate digrignano, ed alzano ruggiti, e poi dite, tal’è il cuore dell’uomo prevaricato, le cui passioni ne fanno crudo governo. Sente ora le spinte dell’iracondia, ora gl’impulsi della concupiscenza, quando l’odio l’infiamma, quando l’agghiaccia l’accidia, la superbia lo gonfia, l’invidia lo strugge, l’avarizia lo dissecca. In questo ammasso di tante disordinate pendenze, di tanti brutali appetiti, di che l’uomo potrà invanire, di che gloriarsi? – Uno sguardo finalmente al futuro. “Quid eris”? Che sarà un giorno di questo grande uomo? Già si sa, la morte lo spoglierà di tutto, lo toglierà per sempre dall’umana società, lo getterà a marcire in un sepolcro, ove divorato da schifosissimi vermi diverrà un nudo scheletro, che si ridurrà poi in tanta “polvere da poter entrare nel concavo di una mano, e con un soffio di bocca disperdersi per l’aria. “Quid superbis”, si può qui giustamente insultare all’umana alterigia, “quid superbis, terra, et cinis?” (Eccles. X, 9). Ma questo non è il tutto. Verrà tempo in che non si saprà se quest’uomo sia mai stato al mondo, perirà la sua memoria, e cadrà il suo nome in dimenticanza totale e perpetua: “oblivione delebitur nomen eius(Eccli. VI,4). Queste serie riflessioni ben ponderate ci portano all’umiltà di cognizione e d’intelletto. Ma ciò non basta. Anche un Filosofo è capace di quest’umile cognizione di se stesso. All’umiltà dell’intelletto fa d’uopo accoppiare l’umiltà del cuore. Gesù Cristo, come riflette il mellifluo dottore, non ebbe né aver poteva l’umiltà di intelletto, poiché quantunque vero uomo e in sembianza di peccatore, come vero ed eterno Figliuol di Dio, conosceva la sua divina eccellenza e l’infinito suo merito; “sciebat se ipsum”. (Serm. 42 in Cant.) Non pertanto per farsi nostro esemplare si è voluto appigliare all’umiltà del cuore, e di questa s’è fatto e proposto nostro maestro, invitandoci ad imitarlo, “discite a me, quìa mitis sum, et humilis corde”. (Matth. XI, 29). In effetti, Egli volle nascere umile e povero in una capanna, visse umile ed abbietto in una bottega, morì umile ed umiliato sopra una croce; e con queste divine lezioni ed eroici esempi d’estrema umiliazione potrà fra i cristiani trovarsi un superbo? Oh Dio! Cristo umile soffre gl’insulti e i disprezzi, e il cristiano superbo disprezza i suoi simili; Cristo umile nasce, vive e muore da vero povero, il cristiano superbo, a costo dell’anima propria e della sua eterna salute, vuol vivere e morire da malvagio ricco; Cristo umile implora perdono per i suoi crocifissori, il cristiano superbo vuol vendicarsi dei suoi nemici. Che strano diabolico contrapposto è mai questo? Un seguace di Gesù Cristo che fa tutto il rovescio di quanto insegnò e praticò Gesù Cristo, come merita il nome di cristiano, come può sperare di regnare un giorno con Cristo chi col fatto è nemico di Cristo? – Non ci lusinghiamo, miei cari. Quanto è necessario il battesimo per tutti i figli d’Adamo; quanto è necessaria la penitenza per i caduti in colpa mortale, tanto è necessaria l’umiltà per entrare nel regno de’ Cieli, “nisi effìciamini sicut parvuli, non intrabitis in regnum cælorum” (Matth. XVIII, 3). Colle stesse formule sta espressa nelle divine Scritture questa triplice necessità. A finirla. Tutt’i Beati del Cielo furono tutti umili, cominciando da Gesù Cristo, e dalla sua santissima Madre: tutti gli abitatori dell’inferno tutti i superbi, cominciando da Lucifero, e da’ suoi seguaci. La superbia è quella che danna, l’umiltà è quella che salva. Vedeste il castigo, udiste il rimedio, la scelta sta in vostra mano.

 

Omelia della Domenica II di AVVENTO

Omelia della DOMENICA II DELL’AVVENTO

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XI, 2-10)

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Miracoli di Gesù Cristo.

E perché il Battista stretto in catene nel castello di Macheronte manda due de’ suoi discepoli a interrogar Gesù Cristo, s’Egli era o no il Messia aspettato da tutte le genti? Ben Lo conobbe con lume profetico fin dal ventre materno, e in riva al Giordano, e nella carcere istessa ove gli arrivò la fama de’ suoi prodigi. Or perché spedisce ambasciata a chiedere quel che non ignorava? Ecco il perché: voleva che i suoi discepoli conoscessero Gesù per il promesso Salvatore del mondo, come egli il conosceva. E per qual mezzo? Per mezzo de’ miracoli che avrebbe operato in loro presenza. Infatti giunti al suo cospetto i due inviati, “andate, disse loro, e riferite a Giovanni ciò che udiste e vedeste con gii occhi vostri: ai ciechi s’è data la vista, ai zoppi libero e retto il passo, ai lebbrosi la mondezza, ai sordi l’udito”. Ammirate, uditori, l’eccellente maniera di rispondere più coll’opere, che colle parole. I miracoli adunque da Cristo operati son quelli che danno a conoscere la sua Persona, la sua divinità; e ciechi son quelli, e ciechi di pura malizia, che di tali prodigi o negano l’evidenza, o non ne ravvisano l’autore. Contro di questi ciechi è diretta la presente spiegazione, per illuminarli, se fia possibile, o piuttosto per aggiungere lume a voi, miei fedeli carissimi, che siete figli della luce per ferma cristiana credenza. Di grazia non perdete una parola di quanto son per dirvi colla solita discreta brevità. – V’è sempre stata nel mondo, e volesse Iddio che non vi fosse tutt’ora, una certa razza di gente perversa, che non vuol vedere, che non vuol intendere, per non esser astretta a lasciar il male ed ad operare il bene. Lo disse sin da’suoi tempi il reale Profeta, “noluit intellìgere, ut bene ageret” (Ps. XXXV, 3). Tali erano né più né meno i Farisei, questi uomini superbi, che il divin Redentore chiamava ciechi, e guide di ciechi, “cæci et duces cæcorum” (Matth. XV, 14), vedevano i miracoli di Gesù Cristo, e pur non volevano vederli; li vedevano operati alla vista del pubblico, alla loro presenza, sotto degli occhi propri in modo da non poterli per alcun verso negare, (e qui è da notarsi, uditori, tratto mirabile d’altissima provvidenza, che niun de’ nemici di Cristo abbia mai negato infatti, l’opere sue prodigiose, non gli Ebrei, non i Gentili, non i profani scrittori), li vedevano, dissi, i caparbi Farisei, e non volendo vederli, a tutt’altra cagione ne attribuivano la virtù, che alla sua Persona, molto meno alla sua Divinità. Dicevano pertanto: “Come può costui per divina virtù far miracoli, se non osserva la legge di Mosè, se non santifica il sabato, se opera contro il precetto di Dio?” – “E voi, Gesù rispondeva, che vi vantate osservatori della legge Mosaica, non portate nel giorno festivo del sabato ad abbeverare i vostri giumenti? e se il vostro somaro cade per via, non vi affaticate a sollevarlo da terra? S’io poi senz’uso di braccia, senz’altra fatica raddrizzo gli storpi, illumino i ciechi, do l’udito ai sordi, la favella ai muti, la sanità agl’infermi, sono da voi incolpato violatore del giorno santo, e del precetto di Dio e di Mosè?” – Queste divine risposte chiudevano la bocca agli accusatori maligni per poi aprirla a nuove imposture. “Tu, dicevano, fra le altre opere meravigliose discacci i demoni dai corpi ossessi, è vero, ma li discacci in nome di Beelzebù principe de’ demoni”. – “Ma come? rispondeva il mansueto Signore, se i maligni spiriti, da me sforzati ad uscire dai corpi invasati, si lagnano ch’io son venuto a tormentarli, che su di loro esercito un troppo rigoroso potere, e confessano ch’Io son il Cristo promesso? E poi, un regno diviso in contrari partiti sarà desolato e distrutto. Come dunque potrà sussistere il regno di satana principe dei demoni, se egli e i suoi satelliti sono tra loro in divisione ed in contrasto? Quest’opere mie sono finalmente a vantaggio dell’uomo, tanto pel corpo quanto per lo spirito, e glorificano il mio Padre celeste, ripugna dunque ch’Io mi valga d’un nome nemico dell’uomo, e nemico di Dio”. – “Seguite ad ascoltarmi, soggiungeva il Divino Maestro, o abitatori di Gerusalemme, o popoli della Palestina. L’opere che in nome del Padre mio io vo facendo a benefizio di tutti voi vi danno di me la più autentica testimonianza, e provano la verità delle mie parole, ch’Io sono il Figliuolo di Dio, ch’Io e il mio Padre siamo due quanto alle Persone, ed un solo Dio riguardo all’essenza, “Ego et Pater unum sumus” (Io. X, 30). Non credete alle mie parole? credete ai fatti, credete all’opere, e se opere non fo degne di Dio mio Padre, non mi prestate fede”: “Si non facio opera Patris mei, nolite credere” (ib. 37). Se poi da me son fatte, “si autem facio”, e non potete ignorarle, credetemi, “operibus credite”. Son pur opere mie i ciechi illuminati, i zoppi raddrizzati: e per me i muti hanno acquistato la favella e i sordi l’udito: dalla forza di mie parole son mondati i lebbrosi, sono prosciolti gli energumeni, son risanati d’ogni genere infermi: al mio volere obbediscono il mare e i venti: le febbri, i malori, i demoni e la morte, che ha restituiti i cadaveri d’una stesa sul letto, d’un altro condotto alla tomba, d’altro già fracido e fetente, da quattro giorni sepolto. Di questi miracoli son testimoni i vostri occhi, sugli occhi vostri son tuttavia i risanati, i prosciolti, i risuscitati. Voi non osate, né potete negarli. Sentite or dunque; i miracoli sono i caratteri, sono i sigilli della divina onnipotenza. Iddio non lascia, né può lasciare in mano a veruno i suoi sigilli per testificare la menzogna, per autorizzare l’impostura; dunque quanto insegna, quanto di sé asserisce l’Operatore di tali miracoli, è una incontrastabile verità, verità da Dio confermata, da Dio suggellata, verità che quel che vi parla sotto l’umana forma è il Figlio di Dio, il Verbo eterno, un Dio fatto uomo, un Uomo-Dio. – A queste prove convincentissime che risolvono i Farisei, gli Scribi, i capi del Sinedrio? Credono i prodigi, non credono alle parole; credono i miracoli, non ne ammettono le conseguenze. – “Che facciamo noi, s’interrogano intanto a vicenda, radunati a concilio presso il Pontefice Caifa, che facciamo noi? Quest’uomo, questo Nazareno fa molti e grandi prodigi,” … “Quid facimus, quia hic homo multa sìgna facit” (Io. XI, 47)? Ecco chiara e manifesta la confessione della verità de’ miracoli di Gesù Cristo. “Homo hic multa signa fæcit”, e di questa confessione quale si fu il risultato? Eccolo: “cogitaverunt ut interficerent eum”. Decisero a voti concordi di toglierLo dal mondo. Possibile tanta nequizia, e tanto accecamento? Così fu. La loro malizia li rese ciechi, e indurì i loro cuori, “excæcavit oculos eorum, et indurexit cor eorum” (Io. XI, 40). – E forse che a’ giorni nostri non succede altrettanto? Noi abbiamo innanzi agli occhi molti e stupendi miracoli, e pure … i miracoli, voi m’interrompete, dopo quei di Gesù Cristo eran frequenti nella Chiesa nascente, perché necessari, dice il Magno Gregorio (Hom. 29 in Ev.), come ad una tenera pianta è necessario un frequente inaffiamento; ora però che la Chiesa è come un albero alto, cresciuto, che stende i suoi rami dall’uno all’altro confine dell’universo, non v’ è più necessità di miracoli, sono al presente assai rari, e non mai ne abbiamo veduto. E pure, io ripeto, molti e stupendi miracoli vi stanno dinanzi, se volete distinguerli. Mirate quel santo Crocifìsso, quell’altare, queste sacre immagini, questa Chiesa, son questi autentici monumenti, testimoni parlanti de’ miracoli operati da Gesù Cristo, dagli Apostoli e da’ loro successori nella propagazione della cattolica fede. I nostri maggiori, i nostri antichi padri erano ciechi adoratori d’idoli falsi e insensati: regnava in queste nostre contrade la pagana superstizione. Chi alle statue di Giove, di Saturno, di Venere, di Mercurio, e di tanti altri creduti, adorati qual Dei, ha sostituita la croce, il crocefisso, le immagini di Maria e de’ Santi? Non la forza dell’armi, non l’allettamento de’ sensi, non qualunque altra passione o violenza, ma l’intima persuasione della verità: e questa verità con qual mezzi è penetrata nella mente e nel cuore di gente idolatra? Coi miracoli, miei cari, coi miracoli; imperciocché al dilemma del grand’Agostino conviene ridursi: o il mondo dalla cieca superstiziosa idolatria si è convertito alla fede di Cristo per via di miracoli, o senza miracoli. Se per via di miracoli, dunque è fuor di questione la loro realtà. Se senza miracoli ha il mondo abbandonato il paganesimo, una setta, un culto tutto a seconda dell’umane passioni, ed ha infranto i simulacri di quei numi protettori dei vizi, e dei viziosi, Giove degli adulteri, Venere degl’impudichi, Mercurio dei ladri, Bacco degli ubriachi, ed ha invece abbracciato una legge, legge evangelica, che umilia lo spirito, che impone al cuore, che proibisce non solo ogni opera malvagia, ma d’esse il desiderio, l’affetto e la volontaria compiacenza; egli è questo il maggiore di tutti i miracoli. Miracolo che tutt’ora sussiste, e questa Chiesa, e quel fonte battesimale, e questi altari, e quella croce ne sono gli effetti e le prove, anzi il miracolo stesso, ed altrettanti miracoli.Ed in vero, quando il divino Redentore risuscitò Lazzaro quatriduano fu un miracolo stupendissimo, e ne restarono sorprese e tocche sensibilmente le molte astanti qualificate persone, venute da Gerusalemme a far visita di condoglianza alle sue sorelle Marta e Maddalena; e se tale fu nel primo istante, nel primo giorno che questo avvenne, fu sempre tale il secondo, il terzo giorno, e tutti quegli anni che durò la vita di Lazzaro; laonde si poteva dir Lazzaro un miracolo vivente, un continuo miracolo. Per simile modo quel santo Crocifisso, che adoriamo, è un miracolo permanente che ci rammemora il massimo de’ prodigi, un mondo convertito, un mondo fatto adoratore d’un Uomo-Dio confitto in Croce; ed una Croce, conchiude sant’Agostino, pria patibolo infame di empì malfattori, passata dal luogo de’ supplizi all’onor degli altari e degli incensi, e collocata in fronte ai re, agl’imperatori, “a locis suppliciorum ad frontes ìmperatorum” (Enar. in ps. XXXVIII, 2). – Prodigi son questi che durano pur tuttavia, e dureranno sino alla consumazione dei secoli; e i secoli che sono decorsi dalla loro origine non scemano punto la loro realtà, la provano anzi e più la confermano. Chi dunque non vorrà riconoscerli? I simili ai Farisei, i ciechi di malizia, che gli hanno per abitudine sotto lo sguardo materiale, ma applicar non vogliono l’intelletto a comprenderne l’evidenza e la forza; e nella volontaria loro cecità si fanno un vanto di sparger dubbi, ed affettar talento e bello spirito, con tacciarli di pregiudizi superstiziosi. Non vi sorprenda, o fedeli, la loro arditezza. Hanno i meschini in ciò il loro interesse. Gli Ebrei avevano risoluto d’uccidere Gesù Cristo operatore di miracoli, per timore di perdere il grado e l’autorità che avevano sul popolo, “tollent nostrum locum et gentem” (Io. XI, 48). I miscredenti temono perdere la quiete dell’animo, la pace del cuore, che si lusingano trovare ne’ piaceri del senso. E siccome fede e peccato non si comportano, ed altronde non vogliono desistere dal peccare, perciò la fede diventa loro nemica; nemica che turba le loro coscienze, che amareggia i loro piaceri colle terribili verità che presenta dopo una morte certa. Oh Dio! un giudizio a rigor di pura giustizia, un giudice inesorabile, un Dio punitore degli empì, un supplizio eterno sono oggetti fastidiosi e funesti, sono nubi oscure minaccianti fulmini e tempeste, che gli empì pensano dissipare con una negativa, la quale sebbene non li assicuri, almeno li palpa, e li anima a lusingarsi che non esista quel che ricusano vedere, ed hanno interesse a non credere. Poveri ciechi! preghiamo per essi, e se per nostra sventura fossimo colpiti ancor noi da una eguale cecità, deh portiamoci ai pie’ di Gesù luce del mondo, e col cieco di Gerico, e col penitente Profeta preghiamolo di cuore, che dissipi le nostre tenebre, e ci conceda la vista dell’anima, “Domine ut videam. Deus meus, illumine tenebras meas” (Luc. XVIII, 41; Ps. XVII, 29), Signore, le nostre passioni ci han tolto ogni lume di ragione e di fede, confessiamo la nostra cecità, ed il conoscerla e il contestarla è già un principio di luce che viene da Voi. Deh! dunque compite le vostre misericordie, comandate che in noi sia fatta la luce, “fiat lux”, luce che ci faccia conoscere l’eterne verità, che indirizzi i nostri passi nella via dei vostri precetti, nella strada della salute. Sarà questo forse il maggiore dei vostri miracoli, quanto più di quella della corporale cecità, è eccellente e preziosa la guarigione della cecità dello spirito.

Omelia della Domenica I di AVVENTO

Omelia della DOMENICA I DELL’AVVENTO

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

(Vangelo sec. S. Luca XXI, 25-33)

giudice

Giudizio Universale.

La santa Chiesa, amatissima nostra Madre, per disporre i suoi figli alla nascita del divin Salvatore, ed a venerare in ispirito di fede, d’esultazione e di riconoscenza questa sua prima discesa dal cielo per la nostra salvezza, ci fa menzione nel Vangelo di questa prima Domenica del sacro Avvento, della seconda sua venuta, allorché nella consumazione de’ secoli, sopra luminosa nube, in aria di gran maestà, sederà giudice d’un mondo intero. Comincia questa Madre, sollecita del nostro bene, ad atterrirci colla rimembranza del tremendo universale Giudizio, acciò, mossi a vera penitenza, andiamo incontro a questi sacri giorni all’aspettato sommo pacifico Re con un cuor purificato e mondo da ogni lordura di colpa’, da ogni macchia di rea affezione, In adventu summi Rcgis, è questa l’esortazione diretta a tutti i suoi figli, “mundentur corda hominun, ut digne ambulemus in occursum illius”. Secondiamo, o fedeli, i suoi amorosi disegni. – Facciamo un confronto della prima colla seconda venuta; della prima come Salvatore del mondo, della seconda come Giudice del mondo; osserviamone la gran differenza. Nella prima vedremo risplendere la sua grande misericordia, nella seconda la sua tremenda giustizia; misericordia e giustizia, che debbono risolverci a profittare della grazia d’un Dio Redentore pietoso, per evitare la giusta collera d’un Dio Giudice inesorabile. – La misericordia e la giustizia sono fra gli altri quegli attributi, che Iddio fa più risplendere nel governo del mondo. La misericordia però suole sempre precedere la giustizia. Se ne protesta Iddio medesimo per bocca del suo Profeta Geremia: “Ego sum Dominus, qui facio misericordiam et iudicium; e perciò dopo aver fatta spiccare la sua gran misericordia nella prima venuta, farà conoscere nella seconda la sua tremenda giustizia. Osserviamolo col proposto confronto. – Apparve al mondo il divin Verbo fatto uomo, quando sotto l’imperò di Cesare Angusto si godeva in quel regno, e in tutti i popoli confinanti, una pace universale. Ed era ben convenevole che al nascere del Principe della pace, riconciliatore tra gli uomini e Dio, si trovasse per alta sua disposizione il mondo in pace. – Non così, non così nella sua seconda comparsa nel giorno estremo. Forieri del suo arrivo saranno le guerre, le sedizioni, le calamità, le pestilenze, scosse orribili di rovinosi tremuoti, cieli in iscompiglio, sole ottenebrato, luna sanguigna, stelle minaccianti caduta, lampi di orrore, tuoni di spavento, fulmini di eccidio e di sterminio. “Haec autem omnia initia sunt dolorum ( Matt. XXIV, 8). – Alla grotta di Bettelemme gli Angeli, cantando le glorie dell’Altissimo, annunziarono la pace agli uomini di buona volontà, ed ai pastori la nascita del Salvatore del mondo, e Gli inviarono a riconoscerLo ed adorarLo. – Gli angeli stessi, non più di pace annunziatori, a suon di tromba ferale chiameranno tutta l’umana generazione a comparire nella gran valle al cospetto di Cristo giudice, non più locato in umile presepio, ma sedente in trono di maestà; “Populi, populi in valle concisionis(Gioel. III). – Così rimbomberà altamente lo squillo delle angeliche trombe dall’oriente all’occaso, dal meriggio al settentrione: olà, o morti, è Dio che parla, “surgite mortui”; sepolcri apritevi, cimiteri scuotetevi, mare restituisci i tuoi naufraghi, terra i tuoi sepolti, “Surgite mortui,venite ad iudicium; e questa voce tremenda risuona nel Cielo, discende nel Purgatorio, penetra nell’Inferno; ed ecco da tutte parti uscir anime qual giuste, qual malvagie a rivestirsi dei loro corpi, ecco tutta risuscitata la carne, ecco tutt’i figli di Adamo incamminarsi alla valle, ed ecco altri Angeli discendere dal cielo a metter ordine nella gran folla, a separare i reprobi dagli eletti, i capri immondi dalle innocenti pecorelle. – Nel mondo Caino conviveva con Abele, Esaù con Giacobbe; Giuda con Giovanni; or non si offre più tal mescolanza: “Exibunt Angeli, et separabunt malos de medio iustorum” (Matt. 13) . Separazione amara, separazione eterna, che divide il padre timorato dal figlio perverso, la moglie pudica dall’infedele consorte, l’amico dall’amico, il fratel dal fratello; separazione …. ma torniamo al confronto. – Discese dal cielo il Figliuol di Dio la prima volta in qualità di buon Pastore per andare in cerca della pecora smarrita, cioè della perduta umana generazione. I peccatori furono sempre l’oggetto delle sue amorose ricerche; il trattar con essi, il tenerli a colloquio, l’assidersi alla lor mensa per ridurli a conversione, erano delizie del suo cuore, fino a prender le difese delle Maddalene, e delle donne adultere, fino a fare scusa, e ad implorare dal Padre perdono ai propri crocifissori. – Tutto l’opposto nel dì finale. In aria di giudice inesorabile discenderà dall’alto de’ cieli a far giusta vendetta di tutt’i peccatori della terra; saranno questi l’oggetto dell’ ira sua, il bersaglio delle sue saette: se da pastore li cercò, se da padre gli accolse, se li difese, se gli scusò, se per essi interpose le sue preghiere, ora scoprirà in faccia a un mondo intero le loro colpe più abbominevoli : “Revelabo pudenda tua et ostendam gentibus . . ignominìam tuam” (Naum III). Che rossore intanto per chi su questa terra passò per uomo giusto, per donna onesta, vedere scoperti i furti di uno, le oscenità dell’altra, le nequizie d’entrambi! Io, dirà altamente Cristo Gesù, sono il testimonio e il giudice di tutte le più recondite scelleratezze: “ego sun testis, et iudex” (Gerem. XXIX, 53). Non sono stati i soli Farisei sepolcri imbiancati, lupi mascherati da agnelli, voi, voi lo foste falsi devoti, ipocriti, impostori, teologi bugiardi, sacerdoti sacrileghi. Voi il foste, figlie sedotte, mogli adultere, che nascondeste l’ignominia de’ vostri falli agli occhi del mondo, ma nasconderli non poteste agli occhi miei. Il foste voi cristiani di nome e di apparenza, ma nella mente e nel cuore apostati, e miscredenti: vi comunicaste alla Pasqua per non decadere di stima, per non perdere l’impiego: compariste difensori della vedova e del pupillo, ma foste drudi dell’una, ed assassini dell’altro: giudicaste le cause, ed ebbe in voi più forza una vil femminetta, che la legge e la giustizia. Potenti del secolo abusaste del grado e dell’autorità per opprimere i subalterni, gli operai, i creditori: impiegaste i Legati pii a far lauti i vostri conviti: pagaste quei vostri debiti con altrettanti spergiuri. Voi, Religioso, voi Ecclesiastico, ascendeste sulla nave di Pietro per andare a diporto, per scansare il lavoro, per fuggire la milizia: la sana dottrina da voi vangata era un manto ai disordini di vostra vita, l’onor del carattere un pretesto alla vostra superbia. – Ad accrescere la vostra confusione, ecco qui la mia Croce, quella Croce, che per vostra salvezza ho portata al Calvario, e sulla quale confitto ho tramandato lo spirito. “Tunc parebit signum Filii hominis” (Matt. XXIV, 30) . All’ apparir di questo legno trionfale piangeranno tutte le generazioni della terra, “et tunc plangent omnes tribus terræ”: piangeranno per consolazione i giusti, per disperazione i malvagi. O santa Croce, lagrimando per gioia, diranno gli eletti, che grazia, che sorte per noi l’averti abbracciata! tu fosti la guida dei nostri passi, tu l’arme delle nostre vittorie, tu l’arca di nostra salvezza, tu la chiave per aprirci le porte del cielo. Piangeranno i reprobi per disperato cordoglio, i Giudei ai quali la Croce fu oggetto di scandalo, i Gentili, che la reputarono una stoltezza, cristiani, che della Croce furon nemici, e nemici del Crocefisso. – Qual saranno le nostre lacrime, uditori miei cari, in quel dì funestissimo? Che ci dice la nostra coscienza? che cosa ci fa sperare? che cosa ci fa temere? – Torniamo al confronto. Gesù nel corso di sua vita mortale non fu conosciuto dal riprovato mondo, “mundus eum non cognovit” (Giov. I) e perché non conosciuto per figlio di Dio, dice S. Paolo, fu crocifisso, “si cognovissent, numquam Dominum gloriæ crucifìxissent” (1 Cor. II, 8); si farà però ben conoscere in quel giorno finale, “cognoscetur Dominus iudicia faciéns” (Ps. IX). Mi conoscete? dirà pertanto rivoltatosi ai reprobi, mi conoscete? Ebrei, io son quel Re da burla che voi prendeste a schiaffi là nel pretorio del presidente romano, quel re da scena, trastullo delle vostra insolenze, e bersaglio de’ vostri sputi. Eretici, mi ravvisate? Io sono quel Cristo, la cui mistica veste laceraste sacrilegamente, dalla cui Chiesa fuggiste per seguire lo spirito privato d’una licenziosa libertà di coscienza. Atei, miscredenti, ecco quel Dio che negaste esistente, che appunto in negarLo, vostro malgrado, mostraste di temerLo, ma d’un timore che accrebbe immensamente la vostra nequizia. Mi conoscete o Cristiani? Di Cristiani aveste il nome, ma non i costumi. Il battesimale carattere impresso nelle anime vostre vi fa più rei. Disse Faraone a Mosè che non mi conosceva, “nescio Dominum” (Es. V, 2); ma era un Pagano. Voi diceste altrettanto coi pensieri contrari alla verità da me rivelate, colle parole contrarie alla mia maestà, coll’opere contrarie alla mia legge. Miratemi in volto, vasi d’ira e di riprovazione, oggetti dell’odio mio necessario e sempiterno. Io son quel Dio che vi creò, quell’Uomo-Dio, il cui sangue conculcaste con tante confessioni bugiarde, con tante comunioni sacrileghe, quell’ Uomo-Dio, a cui faceste oltraggio in propria casa, in sua presenza con tanta libertà di parlare, di sguardi, d’indegne azioni. Io tacqui allora, io sopportai per tanti anni, “tacui, patiens fui” (Isai. XLII, 14); ora però dell’ira mia ripieno e ridondante, non posso più contenermi, “nunc ut partorienti loquar”. Voi Angeli al mio trono assistenti, voi Santi che qui sedete a giudicare tutte le tribù d’Israele, fate giudizio tra me e la vigna mia, “iudicate inter me et vineam meam” (Isai. V, 3). Io venni al mondo non per giudicare il mondo, ma per salvarlo. Volli nascere in una capanna, viver negletto in una bottega per confondere la sua superbia: predicai il mio Vangelo, lo confermai coll’esempio, e coi miracoli, lo consacrai col mio sangue, e colla mia morte per dargli vita, per insegnarli la via della salute; egli non profittò di questa visita di mia misericordia, soffra ora il rigore della mia giustizia, “nunc iudicium est mundi” (Giov. XII). Mondo iniquo, stolti ed empì seguaci del riprovato mondo, andate maledetti da me lontani per sempre, andate a quell’inferno che non temeste, a quell’eterno fuoco che non credeste, “discedite a me maledicti in ignem æternum” (Matt. XXV, 41). Ma no, fermatevi ancor un istante, e sia il colmo delle vostre sciagure il vedere come da me si ricompensano quei, che, profittando della mia prima venuta, mi sono stati fedeli. Orsù, anime mie care, fide pecorelle della mia greggia, osservatrici de’ miei precetti, seguaci dei miei esempi, Giobbi pazienti, casti Gioseffi, Lazzari mendici, Sacerdoti depressi, Religiosi avviliti, cristiani perseguitati, venite, che siete i benedetti da me e dal Padre mio, venite dopo le fatiche al riposo, dopo le pene al godimento, dopo l’umiliazione alla gloria, dopo la guerra al trionfo: venite ad aver meco in eterno comune il regno. “Venite, bcnedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum” (Matt. XXV, 34). E voi mi state più innanzi o malvagi? lungi dal mio cospetto, anime maledette, invano comprate col sangue mio, invano redente colla mia morte, voi non siete più mie, Io non sono più vostro. “Vos non populus meus, et ego non ero vester” (Osea, I, 9). Olà, apriti o terra in immensa voragine, spalanca l’orrenda bocca o inferno, o togli al mio sguardo la massa dannata de’ miei caparbi nemici. Così va: chi non mi rispettò Redentore nel tempo, mi provi giudice e punitore per tutta l’eternità. – Fratelli miei amatissimi, che sarà di noi in quel terribile giorno? Interroghiamone la nostra coscienza, argomentiamolo dalla nostra buona o mala condotta. Oh Dio! se la nostra coscienza ci fa temere, se la nostra condotta ci fa tremare, che facciam noi? Piangiamo ora a’ piedi di Gesù Salvatore le nostre colpe, dacché innanzi ad Esso giudice sarà inutile il nostro pianto.

 

Omelia della Domenica XXIV dopo Pentecoste

Omelia della Domenica XXIV dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XXIV, 15-35) 

giudizio

Giudìzio Finale.

Il giudizio universale, che ci dipinge con i più tetri colori l’odierno Vangelo, vien predetto da Gesù Cristo e stabilito alla fine del mondo, affinché la sentenza, da Lui pronunziata in segreto nel giudizio particolare all’istante della morte, sia palese agli Angeli ed agli uomini al cospetto di tutto il mondo. Vuole in quel terribile giorno, che giorno dai profeti si appella d’ira, di tribolazione, d’angustia, di calamità, di misericordia, di tenebre, di caligine, e di vendetta; vuole, dissi, che la sua giustizia sia pubblicamente riconosciuta dai buoni, e dai malvagi, vuole che il corpo partecipi dei beni e de mali dell’anima, abbia la sua ricompensa o il suo castigo, vuole in fine al presente con questo minacciato giudizio finale atterrire i malvagi, confortare i buoni e per gli uni e per gli altri giustificare la sua provvidenza. Son questi i punti che scelgo a materia e partizione della presente Omelia: e senza più trattenervi in lungo preambolo dico: Giudizio universale di Dio terrore degli empi, giudizio universale di Dio, conforto dei giusti, giudizio universale di Dio giustificazione di sua provvidenza. L’importante argomento tutta si merita la vostra attenzione.

I – Giudizio universale di Dio terrore degli empi. – Lo so che quanto l’empietà è più inoltrata tanto men crede e tanto men teme le divine minacce. Ma che pro il credere, che pro il non credere, che pro il non temere, se appunto per questo si rinnoverà in essi la luttuosa catastrofe avvenuta ai loro simili nei tempi di Noè? Dai palchi dell’Arca che egli andava fabbricando, io son d’avviso che più d’una volta alzasse la voce e, “verrà un giorno, dicesse ai curiosi spettatori, verrà un formidabile giorno, in cui aperte le cateratte del cielo cadranno le acque a vendicar le vostre colpe, a spegnere le fiamme impure della corrotta vostra generazione, acque micidiali, acque che tutte allagheranno orribilmente la terra, e voi, cercando invano sui più alti monti scampo e salvezza, sarete tutti sommersi nell’onde sterminatrici d’un universale diluvio. Aveva un bel gridare il buon patriarca, a quella minacciosa predizione, a quel funestissimo annunzio niun si commosse, e ben lontani dal crederlo, fu preso in derisione il salutevole avviso: né pur ai fatti s’arrese quella cieca gente, e vide colla massima indifferenza arrivar le tigri, i leoni, gli elefanti, ingombrar l’aria e la terra bestie d’ogni pelo, uccelli d’ogni piuma e tutti ricoverarsi in seno all’Arca. – Cristiani ascoltanti, “sìcut in dìebus Noe, ita erit adventus filii hominis” (Matt. XXIV, 37). Verrà un giorno somigliante al tempo di Noè, in cui il figliuol dell’uomo Cristo Gesù in aria di tremenda Maestà, preceduto dal segno trionfale della sua Croce, seduto sopra luminosa nube, in contegno di Giudice inesorabile, discenderà dal Cielo, giorno estremo di tutti i giorni, in cui pioverà fuoco dal cielo e tutta ridurrà in cenere la faccia della terra, giorno in cui la maggior parte degli uomini sarà sommersa in un diluvio d’eterno fuoco. “Sicut in diebus Noe, ita erit adventus filii hominis”. Or chi mi ascolta? Il mondo, il gran mondo nè pur vi pensa, o come di cosa lontana né si risente, né si commuove, e l’empio giunto al profondo dell’empietà non crede, non teme e se la passa con un disprezzo. “Impius, cum in profundum venerit peccatorum, contemnit (Prov. XVIII, 3). Ma questo non temere, direi ai miscredenti, se mi ascoltassero, questo disprezzare è appunto il colmo della vostra cecità e il contrassegno più certo che sopra di voi cadrà quel fulmine che non temete. Non temettero gli antidiluviani il minacciato universale eccidio e vi restarono sommersi. Ma che dissi, non temete? Affettate di non temere, e quanto più ostentate trepidezza e bravura, tanto più scoprite il vostro spavento. Un ente di ragione, una cosa seconda voi non esistente e che non esisterà giammai, non deve formare il soggetto dei vostri pensieri, nè dei vostri discorsi, né dei vostri scherni, ma voi studiando ragioni a non credere, cercando motivi a non temere, ma voi impugnando in voce, in iscritto le verità rivelate, e spogliando gli inconcussi gli argomenti che le convalidano con un disprezzo autorevole, date a conoscere che in far tutto ciò avete dell’interesse, che riguardate la religione come nemica, e come tale la fate scopo delle vostre saette e delle vostre irrisioni: segni evidentissimi che vi spaventa e che la temete appunto per questo che non volete temerla. – Temete pure e non aspettate a temere in faccia alla morte. Tanti increduli pari a voi, e di voi più intrepidi in vita, han fatto impallidire la Filosofia del secolo, e al punto estremo chi s’è ricreduto, chi s’è stretto al Crocifisso, chi ha chiamato i sacerdoti prima vilipesi, chi ha invocato i soccorsi della religione prima perseguitata. Né crediate che questi infelici fossero in vita senza spavento. La gioventù, la sanità, i piaceri, le passioni sopivano i reclami della sinderesi che più vivamente si facevano sentire al primo mal di capo, alla prima febbre, alla prima disgrazia. – Disingannatevi dunque, o spiriti di questo secolo che vantate fortezza, che con tutti gli sforzi dell’intelletto e della volontà non riuscirete giammai a far tacere i latrati della rea vostra coscienza che a vostro dispetto parla, vi punge, vi condanna e vi minaccia un giudizio appena morti, un giudizio nella consumazione dei secoli.

II. Voi sì che siete comprese da timore, ma da timor salutare, o anime giuste, in pensare quale sarà la vostra sorte in quel gran giorno, se colle pecorelle innocenti, o coi capri lascivi, se alla destra cogli eletti, o alla sinistra coi reprobi. Confortatevi però, il temer Dio ed i rigori della sua giustizia è proprio dei santi. Tremava per l’orrore un S. Girolamo al rammentare il finale giudizio, e gli pareva sentirsi rimbombare all’orecchio le squillo dell’angelica tromba, che sveglierà tutti i morti e li chiamerà ad esser giudicati nella gran valle. Tremava un S. Cipriano gran santo anche senza il martirio, e guai a me, diceva piangendo, quando dovrò comparire al giudizio! Temete ancor voi anime buone, che il vostro timore si deve cangiare in conforto. Chi salvò Noè colla sua famiglia? Il timore del creduto divino castigo: per questo esso, i figli suoi e le rispettive consorti si mantennero giusti e a Dio fedeli, e in seno all’arca benedissero Dio che li salvò. – Cristiani timorati, voi al presente siete derisi dal mondo, la vita devota che menate è riputata stoltezza, in quel giorno si cangerà linguaggio; e noi, diranno i vostri derisori, noi fummo gli stolti, noi gli insensati, “nos insensati vitam illorum æstimabamus insaniam(Sap. V, 4-5) , ci pareva loro condotta zotica, disonorata, “et finem illorum sine honore; ed eccoli ora nel numero dei figliuoli di Dio, “ecce quomodo computati sunt inter filios Dei”. Voi vedove desolate, voi pupilli oppressi, voi poveri abbandonati, ridotti nelle più strette angustie da prepotenti, da liti ingiuste, da usurarie estorsioni, voi spogliati dei vostri averi, voi defraudati de’ vostri sudori, starete in quella valle in luogo di sicurezza, stabunt justi in magna constantia adversus eos qui se angustiaverunt et abstulerunt labores eorum(V. 1), e i vostri oppressori tremeranno in alzare a voi lo sguardo, inorriditi, confusi e disperati per l’imminente perdita di loro eterna salute, “videntes turbabuntur timore horribili … in subitatione insperatæ salutis(v. 2).

III. Seguite ad ascoltarmi, o anime giuste, ed ammirate la divina Provvidenza che nel giustificare sé stessa vi porge nuovi conforti. Un giudizio particolare al fin dei nostri giorni deciderà di nostra eterna sorte. Così c’insegna la Fede. Dunque qual necessità d’un giudizio universale alla fine del mondo? Per molte ragioni, risponde l’Angelico S. Tommaso: basti indicarne una sola al nostro proposito. La divina Provvidenza viene sovente incolpata, e sulle lingue cristiane s’ascoltano talvolta certe tronche parole, certe mal misurate esclamazioni che s’accostano alla vera bestemmia. “O Signore, dice taluno, dov’è la vostra Provvidenza? L’empio è esaltato come i cedri del Libano, e l’uomo dabbene è depresso come il fango delle piazze; trionfano i malvagi, gemono i buoni. Sfoggia da grande il ladro civile, l’uomo onesto è quasi sempre povero. Par che convenga esser iniquo per esser fortunato. Santa fede! Divina Provvidenza! Ohimè ch’io vacillo. Così si parla di quell’altissima Provvidenza, di cui s’ignorano le tracce ammirabili. E vero che la Provvidenza stessa anche su questa terra le tante volte giustifica sé medesima e fa vedere che la prosperità dei malvagi è come polvere in faccia al vento, che il peccato non fa fortuna, che le Giezabelle non vanno sempre in gala, che gli Acabbi non sempre godono l’altrui, che i Nabbucchi non sono sempre adorati, che gli Epuloni non siedono sempre a convito; ma è vero altresì che la Provvidenza medesima, vuole al cospetto dell’universo far a tutti conoscere la somma equità e l’inscrutabile sapienza, con cui ha governato l’umane cose; ha perciò stabilito un giorno d’universale sindacato, un giorno di giustificazione per sé, di premio per i buoni, di castigo per i malvagi.Non vi meravigliate più dunque, o fedeli, veder talvolta oppresso il giusto, prosperato il miscredente: poiché dopo il breve corso di questa vita, alla fine di tutti i giorni si vedrà che il sommo Iddio con provvido e sapiente consiglio ha permessa la persecuzione de’ tiranni per conoscere la pazienza de’ Martiri. Si vedrà ch’Egli ha provato i suoi eletti, come l’oro nel fuoco per renderli più puri per virtù, più ricchi per merito: che per l’opposto ha permesso l’esaltazione degli empi, per temporanea mercede di qualche naturale virtù, riservati al giorno delle vendette come vittime coronate di fiori, destinate alla scure.E per finire là onde cominciai, non abbiamo l’esempio assai luminoso nella persona del Patriàrca Noè e in quella de’ scioperati spettatori della sua Arca? “Veniva; riflette S. Agostino, deriso Noè come uomo di buona pasta. Chi lo tacciava di semplice, chi d’illuso, perché sull’idea d’un futuro andava con tanto zelo fabbricando quella macchina che non vedeva mai fine; ed egli sopportando in pace le derìsioni, le beffe attendeva infaticabile al suo lavoro e all’adempimento del divino comando: quegli in ozio, in conviti, in amori; Noè in travaglio, in pazienza, in sudori; quegli intenti a goder del presente; Noè applicato a provvedere al futuro. Intanto chi l’indovinò? Chi colse nel punto? Uno sguardo su quell’acque mortifere che tutta hanno allagata la terra, sulle quali galleggiano i gonfi cadaveri de’ derisori del buon Patriarca”.Un altro sguardo a Noè, egli salvo fra un mondo perduto benedice Iddio che lo salvò, benedice il sudore che sparse, la fatica che sostenne, la pazienza che praticò. Uditori miei cari, applicate la facile immagine. Quel che avvenne nei giorni di Noè, avverrà nel dì finale quando a giudicare la terra discenderà dal cielo l’Uomo-Dio Cristo Gesù “Sicut in diebus Noe, ita erit adventus Filii hominis”. Staranno i giusti nella gran valle in luogo di sicurezza, come da un’arca di salute vedranno il naufragio dei miseri loro persecutori, “Stabunt iusti in magna constantia adversus eos, qui se angustiaverunt”. Vedranno gli empi con occhio livido l’altrui fortuna e inutilmente si rideranno sulla propria sciagura.Peccator videbit et irascetur, denti bus suis fremet et tabescet” ( Ps. III, 10). Giudicate or voi da qual parte sarà meglio trovasi in quel giorno, se con Noè e con i giusti , o con gl’increduli e coi perversi.