QUARESIMALE (XXXV)

QUARESIMALE (XXXV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711).


PREDICA TRENTESIMAQUINTA
Nella Feria desta della Settimana Santa.


Nella Passione del Redentore si dimostra la gravezza del peccato mortale.


Passio Domini Nostri Jesu Christi

Ahi, Ahi, che vedo? Sacre pareti, e perché vi rimiro spogliate d’addobbi, prive di
luce, e ricoperte di lutto? E perché senza arredo, e senza Sacrifici gli altari? Già sentii flebile il vostro canto o addolorati Sacerdoti; e che strane mutazioni son queste? Ma e dove è il mio Cristo? Io qui non lo vedo, privo di Lui, se Egli non mi assiste, come potrò proferir parola? Non avrò lingua che valga, spirito che possa. Deh Ministri riveriti del Tempio rendetemi l’amoroso mio bene: deh non tardate! Ahimè non v’è Gesù, sento rispondermi dallo sconsolato Clero, è morto Gesù! Morto Gesù? Misero, e che farò? Infermi, siete privi di medico, è disperata la vostra salute. Figli, deplorate pure la perdita del vostro Padre. Eccovi o vassalli senza sovrano, senza duce ai soldati. Eccovi tutti a guisa di pecorelle smarrite senza Pastore Divino. Qual sarà dunque il mio rifugio tra tante turbazioni? Non gli Apostoli, perché accorati li vedo posti in fuga; non gli Angeli, perché addolorati spargono lagrime; non la Vergine, perché trafitta nel cuore da duolo acutissimo; non l’Eterno Padre tutto intento a scaricar le pene de’ peccatori sopra l’innocenza del Figlio. Tu sola mi resti o croce amata. Tu sarai per me arca di salute, portandomi sicuro fra l’onde del Sangue d’un Dio morto per me, morto per noi. Tu colonna di fuoco, guidami senza inciampo, ed a guisa di mosaica verga, aprimi sicuro il sentiero nel Mar Rosso del Sangue Divino. Quei chiodi trafiggano l’animo de’ peccatori; quella spongia zuppa di fiele gli faccia conoscere il tossico del peccato; quei martelli spezzino il lor cuore indurato nelle colpe; servano le corde per raffrenar le passioni, la lancia uccida i vizi, e quel vivo Sangue grondato dalle vene di Gesù, esiga balsamo di lagrime veramente penitenti dagli occhi di quanti m’odono. O Crux Ave spes unica, hoc passionis tempore, piis adauge gratiam, reisque dele crimina.

Passio Domini Nostri Jesu Christi.

Voci di poche parole, ma che? Ogni lettera è una pena, ogni sillaba è una spada, ogni parola è una carneficina. Ascoltanti per narrarvi la dolorosissima passione e morte del Redentore, vero parto delle nostre iniquità, che vale a dir la più funesta tragedia, che mai si rappresentasse dal mondo, e fu sì strana che necessitò tutta la natura a partorir inauditi portenti. Il Sole addolorato si ritirò lasciando tra le tenebre il mondo. Si spaventarono scossi da fieri terremoti per compassione gl’interi monti di durissimi macigni, e le pietre stesse par che lacrimassero per il dolore. Or quando a me non riesca questa mane con un simile racconto farvi conoscere la gravezza del peccato mortale, converrà che io dica di voi: o vivete senza fede, o campate senza cervello, e di me converrà asserire col filosofo, oleum, operam perdidi. M’accingo dunque all’opra, e vi rappresento la gravezza del peccato col farvelo vedere punito da Dio non già in un mondo di scellerati affogati nell’acque del diluvio: non nelle Pentapoli, ridotto d’iniquità e perciò incenerita dal fuoco che miracolosamente cadde dal cielo; non nelle pestilenze che arrivarono ad uccidere trentamila persone in un sol dì; ma nel suo Unigenito Figliuolo, non perché sia peccatore, poiché peccatum non fecit, ma perché è Egli pagator della pena per i nostri peccati. Grande Iddio, che grande enormità bisogna che sia questo peccato, mentre Voi non solo lo volete punito nel vostro innocentissimo Figlio, ma punito altresì con tormenti acerbissimi. Peccatore, peccatrice, portati meco all’orto di Getsemani, e quivi attentamente rimira Cristo Figlio di Dio tutto mesto, tutto addolorato col cuor tutto in angosce, giacché cæpit pavere, tedere, et mestus esse. Ed odi il Profeta, che dice: attritus est propter scelera nostra, Egli è in tale stato per i nostri peccati. Ah peccato, maledetto peccato, tu dunque hai gettato con la faccia sul suolo, procidit in faciem suam, quel Monarca che dié l’essere a’ cieli vastissimi di mole, agilissimi di moto, che sopra vi sparse stelle fisse ed erranti in grandezza smisurata, in numero senza numero, in vaghezza bellissime. Tu dunque tieni prostrato a terra quel Signore che con un sol fiat formò una terra da ripartir in monti, da piegarsi in valli, da tendersi in pianure, e l’arricchì con selve, con miniere, con ogni specie di viventi. Quel Signore che con un sol fiat dié l’essere ad un mare fecondo di tanti pesci, padre di mostri, d’isole, di fiumi. Ah peccato mortale quanto sei grave, mentre abbatti nell’ombra tua quel Re che ben s’intitola: Rex Regum et Dominus Dominantium, quel Re che senza il di cui volere non batte palpebra animale che viva in terra, non guizza nell’onde pesce che vi nuoti, non spiega piuma augello che voli, e che con sole tre dita regge la gran machina dell’universo; né solo l’abbatti, ma tu sei quel che li cavi a viva forza sangue dalle vene distillato in sudori, ed in tal copia che ne scorre a rivi: Et factus est sudor ejus sicut gutte sanguinis decurrentis in terram. Voi vi stupite che la pena di Cristo nell’orto avesse tanto di forza da spremergli sudori di sangue, cesserà però la meraviglia, se rifletterete alle parole del Profeta: Dolor meus in conspectu meo semper, che nell’orto a Cristo gli si rappresentò tutta insieme la dolorosissima Passione, e questa gli portò tutta insieme un acerbissimo dolore. E perché meglio capiate la grandezza di questo dolore, figuratevi un poco la pena che avrebbe provato il re Baldassarre, il quale morì trucidato improvvisamente nel proprio letto a furia di pugnalate, se molto tempo prima si fosse sempre veduti avanti quei pugnali ignudi che gli si dovevano immergere nel seno. Così appunto seguì in Cristo, giacché nell’orto tutta in una occhiata vide la sua dolorosissima passione, flagelli, chiodi, disprezzi, strapazzi, croci, carnefici, ignominie e morti. O che pena! Miratelo dunque così asperso di sangue, mentre a me pare che a voi rivolto dica: Popule meus, quid feci tibi, aut quid molestus fui, responde mihi! Dimmi popolo mio, altrettanto ingrato, quanto amato, dimmi, in che ti offesi mentre tanto m’oltraggi con i peccati, fino a spremermi sudori di vivo Sangue. Miei UU., ecco il Figlio di Dio prostrato nell’orto di Getsemani, cioè a dire attraversato nelle strade peccaminose delle vostre colpe; voglio ora vedere se avrete ardir di porre il piè su questa faccia divina per passar a goder i vostri malnati piaceri. Interessato, passerai tu sul petto di Cristo, per arrivar’a quell’ingiusto guadagno. Vendicativo, passerai a calpestar Cristo per correre a danneggiar il tuo nemico. Sensuale non t’inorridisci di non metterti sotto pié Gesù, che ti sta dicendo: sopra di me hai da passar per andar a quella casa, a quel ballo, a quella veglia, a quegli amori, a quelle disonestà. – Appunto, i peccatori non odono, ed hanno gli occhi chiusi per conoscer la gravezza del peccato; onde è che l’eterno Padre, quasi che non bastasse aver punito il peccato con i sudori di sangue sparsi dal Figlio, vuol punirlo con maggiori patimenti, acciò più spicchi la gravezza del delitto. Ecco pertanto, che Giuda l’indegno, portatosi dagli scribi con bocca sacrilega si fa intendere, quid vultis mihi dare, ego eum vobis tradam. Ah Giuda sacrilego, che fai? Tu Apostolo, tu discepolo amato del Signore, tu dunque ti fai capo per tradirlo? Cieli, qual calamità più deplorabile, qual afflizione più inconsolabile,
che ricevere il danno, donde s’aspettava l’aiuto? Ah indegno, sacrilego, stimaste trecento denari poco unguento di Maddalena, e sol trenta prezzi il Sangue di Cristo? O pazzo mercadante che sei, tu vendi Cristo a chi non lo stima; va’, e vendilo a Maria la peccatrice, che, se sopra la sua testa versò unguento di tanta valuta, considera a che prezzo ne comprerebbe la vita; va’, e vendilo ai Re Magi, che vennero fino dall’ultimo Oriente alla stalla di Betlemme per comprarne con tesori il gradimento della loro servitù. – Giuda non ode, e però stabilita la vendita di Cristo per trenta danari, accompagnato da sbirraglia, e soldatesca, ubbriacato dall’interesse, senza saper quel che faceva, al dir di Cirillo, s’invia all’orto, quivi trova Gesù, lo saluta, lo bacia, Ave rabbi, osculatus est eum. Ecco venduto Gesù, e perché? Ahi, che non ho cuore da dirlo. Giuseppe, voi ben sapete, che fu venduto per odio da ‘ fratelli traditori; ma o quanto diversamente da Gesù. Legano, i fratelli, Giuseppe con lunghissime corde, lo cavan fuori della cisterna per darlo in mano degli Ismaeliti; finalmente a guisa di schiavo, viene e legato, e posto sopra velocissimi dromedari, senza che gli giovino né le preghiere, né le lacrime. Povero Giuseppe, ti compatisco, sei venduto crudelmente da’ tuoi fratelli; consolati però alquanto, perché essi ti vendono, perché tu non abbia a morire, melius est ut venundetur. Questa grande ingiuria d’esser venduto per essere ucciso, non tocca a te, tocca a Gesù, Filius hominis tradetur, ut crucifigatur. Dio immortale, si può sentire barbarie più spietata? Io non ho mai letto, che nessun uomo venduto anche nelle battaglie più sanguinose, sia stato venduto per esser ucciso, ma so bensì, che per questo sono stati venduti, perché gli si conservi la vita; ma non è così per Cristo; Cristo è venduto, perché a guisa di vil giumento, sia condotto al macello. E Voi o Padre Eterno, permettete tradimenti sì esecrandi nella Persona del vostro Figlio? Sì, dice Dio, sì, perché i peccatori, vedendo punita l’ombra del peccato, ne arguiscano la gravezza, e più non pecchino, e per questo stesso non sono contento del tradimento, se non seguono gli effetti. Ecco dunque, che gli empi il cingono, come famelici lupi un innocente Agnello, e lo conducono a casa di Anna, ove precorsa la fama della di Lui prigionia, era di già aspettato. Deh spettacolo! Ecco il Re della gloria nell’umile sembiante di reo porre i piedi in quella sala, in cui siede, architetto di questa tragedia, l’iniquo Pontefice; trionfa la malizia, comanda l’ingiustizia. Ecco che gli assessori del concilio cospirano contro di Lui: sederunt principes, et adversum me loquebantur. Chi lo taccia nella dottrina, chi l’accusa come distruttore del Tempio, chi lo dichiara ribelle. Quando un soldato con mano temeraria ed armata di ferro, e vestita d’adulazione, non meno percuote la faccia, che gravemente macchia l’innocenza del Salvatore con quelle amare parole: Sic respondes Pontifici? Angeli, e che fate, vi dirò col Crisostomo, qui hæc intuemini, quomodo manus continere potestis? So pur che uno di voi, in vendetta d’una sola bestemmia, immerse la spada nel sangue di cent’ottanta cinque mila persone, non debiscit hic terra? E perché non t’apri o terra, tu, che non sostenesti i tumultuanti? Non Cœlum jaculatur fulmina. Cielo e perché non piombi fulmini sopra questi empi, tu che con fiamme ardenti, consumasti i soldati ad una voce d’Elia. Deh non lasciate impunita la mano di quel temerario, che certo altro non poteva esser che un ministro d’inferno: Unus assistens ministrorum. Niuna creatura si risente per vendicar l’oltraggio fatto al Creatore; e Gesù senza un principio di risentimento, accepit iniuriam, (come disse Ruperto) et servavit patientiam, tollerò pazientemente l’ingiuria per insegnarci che tali devono esser le vendette cristiane. – Confesso il vero, miei UU., che io inorridisco alla rimembranza di tanti patimenti ed oltraggi tollerati da Cristo. Ma perché, mio Dio, affligger tanto il vostro Divino Figliuolo? Se pur Voi volevate per mezzo suo la nostra redenzione e salute, bastava senza altro, un sospiro che uscisse dalle sue labbra divine. Così è, dice Dio, bastava un suo sospiro; ma intanto l’ho voluto sotto i rigori di tanti patimenti, in quanto bramavo che gli uomini dal veder che Io così ho trattato il mio Figlio per i peccati degli uomini, ne arguissero la gravezza dei medesimi peccati per sempre fuggirli. Oh mio Dio, torno a dirvi, bastava, perché gli uomini sapendo, che il vostro Divino Figliuolo avesse dato questo sospiro, che era di valor infinito, non avrebbero peccato. Taci, non è vero mi risponde Iddio; e non vedi tu, che quantunque Io le mostri la gravezza con aver sottoposto il mio Figlio a sudori di sangue, ai tradimenti d’un Giuda discepolo, ed alle ignominie nel tribunale di Caifa, alle ignominiose guanciate d’un temerario ministro, ad ogni modo peccano? E giacché non bastano a quel giovane lascivo, a quella donna impudica, a quell’usuraio, a quel mormoratore i patimenti tollerati dal mio Figlio finora, per fargli conoscer la
gravezza dei suoi errori, ecco, che sono contento di vederlo spasimare sotto de’ flagelli. Oh peccato, maledetto peccato, quanto sei spietato mentre sottoponi un Dio alle battiture per mano di carnefici. Giunto Cristo al Tribunale di Pilato, s’ode dalla bocca dell’infingardo presidente, vinto dalla fierezza del Popolo e dall’implacabile sdegno degli Giudei, l’orribile sentenza: Corripiam ergo illum, et dimittam. Piano, o Pilato, tu condanni senza dar le difese a chi ti si suppone per reo; una simil barbarie non si pratica neppure con gli uomini più ribaldi; giacché le leggi non consentono, che si condanni chi non ha fatto le difese, nunquid lex judicat hominem, nisi prius audierit ab ipso. Così è, ma non così si tratta con Cristo. Io so, che quando quei marinai che conducevano Giona, restarono chiariti esser lui il reo, e per lui star in pericolo d’annegarsi, non corsero già, senza udirlo, a gettarlo in mare; non per verità, ma gli vollero prima dar le difese, ne fecero consulta, ne formarono processo, e diligentemente l’interrogarono… chi sei tu, onde vieni, dove vai? E finalmente dovendolo pur sentenziare, mai vennero alla sentenza di morte, finché il misero non confessò di sua bocca il peccato e non giunse a dire: propter me tempestas orta est. Così si praticò con Giona reo da quei barbari, ma non così da’ Giudei con Cristo: si condanni senza sentirlo, vada sotto de’ flagelli. Ecco, che lo spogliano delle sue vesti. Cieli, accorrete con le vostre nuvole, e voi Angeli, perché non volate a ricoprire con le vostre ali il mio Gesù per liberarlo da tanta confusione. Ah Padre Eterno, perché non concedere al vostro Unigenito quelle grazie, che a tanti vostri servi partecipate, rendendoli invisibili allo sdegno de’ nemici, alla vendetta, alla crudeltà de’ tiranni. So pur che ad Agnese crebbero miracolosamente i capelli in modo che tutta la ricoprirono: Barbara fu nascosta sotto il manto d’un’insolita chiarezza, e le tele di ragno occultarono il Santo Martire Felice. Ma, quanto son pigre le creature insensate, tardi gli Angeli, lento l’Eterno Padre a sovvenirlo, tanto sono pronti a ferirlo i suoi nemici. Questi, spronati dall’ordine di Pilato, accesi dalle promesse de’ Giudici, inseriti da demoni, senza veruna compassione fecero un crudelissimo scempio delle Carni innocenti di Gesù: chi lo percuote con mazzi di spine, chi con nodosi bastoni, chi con verghe di ferro che armate d’uncino, col ritirar il colpo, tiravano seco a pezzo la carne, ed insieme gareggiavano i carnefici chi di loro meglio colpiva e più profondo ne lasciava nelle sacratissime spalle il solco, e quasi che angusto campo alla di loro barbarie fossero le sole spalle di Gesù, cingono il capo con le sferze, pestano il petto; l’impiagano: Caditur totoque sagris corpore dissipatur, nunco ventrem, nunc brachia, nunc crura cingunt, vulnera vulneribus, plagas plagis recentibus addunt; fu sentimento di S. Lorenzo Giustiniano. – Deh cessate, o manigoldi, cessate vi prego da tanta barbarie , dovria ormai bastare al vostro sdegno; non vedete che Ei è tutto sangue quello che vi sta sotto flagelli non è già un duro sasso, un pezzo di marmo; è Ei un uomo di complessione la più delicata e gentile che possa formar natura; ma che, quantunque al dir del Nazianzeno, scorresse a guisa di fiume il sangue, fluebat sanguis et de Paradiso illo cœlesti flumina manabant; ad ogni modo io parlo a sordi, a’ quali la crudeltà ha impietrito nel petto i cuori, ha tolta ogni pietà, non odono le mie voci, intenti solo ad aggiunger ferite a ferite, a rompergli l’ossa tanto che, se lo vedeste, miei riveriti ascoltanti, direste col Profeta che Egli è tutto una piaga: a planta pedis usque ad verticem capitis, non est in eo sanitas. – Ma, mio Dio, se volevate che il vostro Unigenito Figliuolo spargesse sangue, e così palesasse al mondo la gravezza del peccato, una sola stilla che avesse versato avrebbe fatto conoscere abbastanza quanto sia grave il peccato. Non è vero, dice Dio, non è vero, t’inganni, perché quantunque il mio Figlio n’abbia sparso non una stilla, ma un lago, ad ogni modo i peccatori non lo stimano di quel gran peso, ch’ei è, per
che di continuo lo commettono. Ad ogni modo quel mercante non cessa di far contratti illeciti, di spacciar la roba cattiva per buona, di guadagnar nell’usure. Ad ogni modo non lascia di mormorare quella lingua scomunicata, di spergiurar, di bestemmiare sacrilegamente. Ad ogni modo quel giovane si vuol distruggere negli amori; e quella giovane, che si è messa sotto de’ piedi la vergogna, vuol incenerire affatto la pudicizia. Se così è, mio Dio, che questi peccatori non vogliono stimar il peccato, quantunque lo veggano così punito nel vostro Gesù innocentissimo, grondante Sangue per noi sotto de’ flagelli. Che farete? che farò? darò nuovi segni della gravezza col sottoporre il mio Figlio a nuovi tormenti. O Peccato, maledetto peccato e quanto sei terribile, mentre da’ flagelli passi a tormentar Gesù con acutissime spine e pur Ei non ha, né può aver mai colpa, che sarà di voi, o peccatori, che sarà di voi che n’avete la colpa incarnata, incancherita fino dentro l’ossa. Ecco Gesù per scherno fatto re da burla, vestito d’uno straccio di consumata porpora, e coronato con una corona di pungentissime spine, la quale non solo gli cingeva le tempia, ma gli copriva il capo, né qui finisce la giudaica perfidia, e barbarie, o per dir vero i miei, i vostri peccati, poiché quelli empi prendono bastoni, la percuotono, e la calcano, sicché profondamente immersa, fino al cervello, con dolorosissimo squarcio uscivano le punture per la fronte, e per le tempia. A questo doloroso tormento, uniscono gli scherni, e per argomento d’un regno fallito, consegnandogli una canna per scettro, piegano le ginocchia, lo salutano e lo percuotono, et genuflexo illudebant Ei. Onde Crisostomo ebbe a dire: quod siebat in Christo, ultimus contumeliæ terminus erat. Chi può ridir, nonché comprendere, l’estrema agonia di Cristo nostro bene con sì fatto tormento. Questo solo delle spine, quando bene altri non n’avesse sofferti, bastava a togliergli la vita; quantula est spinæ punctura, quantum hominem domat, disse colui. Quel leone incontrato da San Girolamo nelle solitudini della Siria, per una spina fitta in un pie’ riempiva le selve d’urli e di strepito i boschi. Or se una spina nel piè d’un feroce leone, tanto lo crucia, che diremo di Cristo forato in tanti luoghi, e sì sensitivi e delicati, nei quali durando questa corona fino allo spirar fu continuo, né mai interrotto lo spasimo. Debuit plane mori, dice San Lorenzo Giustiniano, tanto dolore transfixus; ma se non morì, fu effetto dell’amor che lo preservò dalla morte, senza punto mitigargli la pena. Deh riconosci, o peccatore in queste spine, in questo sangue che gronda, la gravezza del tuo peccato, e però detestalo, e sollecito corri ad esporre le tue piaghe mortali alle punture di queste spine sacrosante, per farne uscire la velenosa putredine delle tue scelleraggini, altrimenti, io ti dico, che queste medesime spine ti trafiggeranno un dì talmente il che spremerai dolorosi sospiri, ma senza prò.

LIMOSINA.
Cristo oggi per voi dà il suo sangue, voi per Lui date il vostro denaro. Oggi è quel giorno, in cui Cristo si vende e si compra. Se Giuda lo vende per avarizia, voi potete comprarlo con liberalità. Cristo è vostro, se slargerete la mano con i poveri.


SECONDA PARTE

Così non fosse come quivi ci farà taluno, che ostinato ne’ suoi peccati, non ne vorrà confessar la gravezza, quantunque sappia che questi hanno esposto Gesù ai flagelli, alle spine. Se così è, mio Dio, bisognerà usar con costoro lo stratagemma di Pilato, e fargli veder cosa hanno operato con le loro iniquità. Orsù attenti UU.: dì tu Pilato ai circostanti: Ecce Homo; dico io a voi (e figuratevi di veder lo spettacolo che io vi rappresento) Ecce Homo. Ecco Gesù: eccolo piagato da capo a piedi. Eccolo grondante vivo sangue. Eccolo scarnificato fino all’ossa da duri flagelli. Eccolo re da burla, coronato di spine che trapanandogli il sacro capo gli fanno grondar rivi di sangue. Eccolo, più in sembianza di morto che di vivo. Ecco, ecco, o peccatori, la pietosa immagine delle vostre crudeltà. E voi non vi risolverete a detestar quel peccato, che per la sua gravezza ha causato tanto male? I fratelli di Giuseppe, doppo averlo venduto, per farlo creder dal lor padre divorato da qualche fiera, presero la veste dell’innocente fratello e, tinta di sangue, la mandarono a Giacobbe, a cui fecero dire: vide, si tunica filii tui fit, an non. Mira, se questo abito sì lacero sia del tuo figlio. Videte, videte, dirò io; mirate miei ascoltanti, se questo ha il vostro Gesù, Figlio del Padre Eterno, tutto livido, tutto lacero, tutto ferito, e poi dite, e direte bene: Færa pessima devoravit eum, la fiera più crudele, che trovar si possa in tutto l’universo; questa l’ha ridotto ad un tale stato. E qual è questa fiera? Il peccato mortale, quegli odii, quelle lascivie, quelle vanità, quelle mormorazioni, quell’interesse l’hanno scarnificato l’hanno svenato, l’hanno trasfigurato in modo che più non si conosce: færa pessima devoravit eum. È fiera passione il peccato, ma non agli occhi del peccatore che, quantunque veda sì maltrattato Gesù, non per questo vuole asserirne la gravezza; anzi lo stima cosa da nulla. Onde, mio Dio, se non ne date nuovi segni, non so qual profitto riportarne questa mane dalle vostre parole proferite per mia bocca. Bene, dice Dio, darò segni maggiori della gravezza del peccato, perché farò veder punito il mio Figlio per i peccati degli uomini con una condanna, la più luttuosa, che sia mai seguita al mondo. Cieli, e che sento? Non occorre altro, voglio trovar modo, che i peccatori confessino la gravezza del peccato, e perciò vengo a questi eccessi. Ecco, dunque, che Pilato spaventato al nome di Cesare, ed abbattuto dal brutto mostro dell’interesse, che fa tanta strage negli uomini, pensando che non gli bastasse, per non esser colpevole, lavarsi in pubblico le mani, se le lavò senza riflettere che tutta l’acqua del mondo non poteva mondar una lordura che neppur potevasi dallo stesso fuoco dell’inferno; concede la licenza bramata al popolo, che grida: crucifige, crucifige, e lo consegna alla croce. O barbarie, o crudeltà inaudita ne’ secoli. In questo mondo, non v’ha dubbio che molti innocenti sono stati condannati anche alla morte, o perché non si sia conosciuta la loro innocenza o per l’ingiustizia del Giudice; ma avvertite, che per questi che son morti innocenti, non sono stati fatti morire come innocenti, ma gli si sono inventati i delitti, si sono fatti apparire per rei, e come tali sono stati sentenziati e morti; Gesù solo è stato quello che è stato condannato a morte non solo innocente, ma dichiarato innocente. È innocente, ma muoia; è giusto, ma muoia; è benefico, ma muoia, nullam invenio in eo causam; si può trovar barbarie maggiore? Vi basta l’animo a voi metter le mani col ferro alla vita ad un vostro cagnolino che non v’abbia fatto mal veruno, ma sempre fedelmente servito? No, no, inorridite! E pure così si tratta Cristo, si dichiara innocente, e si condanna alla morte de’ rei; non accade altro, ecco Cristo condannato alla croce dalla perfidia de’ Giudei, mi disdico, dalla gravezza de’ nostri peccati. Or io rivolto a voi, miei UU., parlo: già i Giudei vollero Gesù Crocifisso, si agita di nuovo la medesima causa avanti di voi. Dite, su, miei UU., che volete, che si faccia del nostro Gesù? Dal vostro arbitrio dipende se s’abbia da uccidere o da liberare; da un cenno, da un sì, da un no, dalla vostra bocca aspetta Cristo la sentenza: lo volete libero o crocifisso? Vivo o morto? lo restituite a Maria, o lo consegnate al Carnefice? Qui non parlo del passato; già so, che da primi anni incominciaste a gridar Crucifigatur. Ciò che più mi trafigge l’anima, è che sento fin dal fondo di certi cuori ostinati quelle voci arrabbiate crucifige, crucifige; dunque io vi risponderò: Regem vestrum crucifigam. Che male vi fece mai questo buon Signore, che lo volete morto? In che mai vi disgusta, già che ne volete bever il Sangue svenato? Empi, scomunicati peccatori, voi siete sì peggiori di Giuda: gridò ei appena preso il denaro: peccavi, tradens sanguinem justum, si stimò degno di morte. E tu Cristiano lo vedi vicino a morte ed ad ogni modo stai risoluto di seguitar la tua libidinosa e sanguinaria vita, e gridi: Crucifige, crucifige. Volete dunque, o Peccatori, che Ei muoia? Muoia, muoia. Mio Signore, udite i lascivi prima di lasciar le loro disonestà, i superbi prima che perdonar le loro ingiurie, gl’ingordi, prima che restituir l’altrui roba, vi vogliono morto. Alla morte, mio Gesù, alla morte, bisogna morire. Ah peccato, maledetto peccato tu sei il carnefice crudele. E voi peccatori, non volete ancor conoscerne la gravezza, mentre ei è quello che consegna Gesù al piacer degli Ebrei per farlo morire? Ecco, che gli presentano l’obbrobrioso strumento di morte, la croce, ed Egli caramente se la stringe al seno, ed immedesimandosi quasi con quella per forza d’affetti, richiama subito alle labbra il cuore, e con mille tenerissimi baci, su di quella lo rovescia. Indi postasela sulle spalle, così addolorato per la corona di spine, così indebolito per il sangue versato, s’incammina verso il luogo del supplizio, ma per la sua stanchezza e per il peso della croce, abile a stancar un uomo ancorché robusto,
non tanto cammina, quanto strascina le sue misere membra. O impietà non più udita! O inumanità negli annali de’ tiranni più barbari non più letta! Si suol pur per pietà agli altri poveri delinquenti nasconder i coltelli e le mannaie, si velano loro gli occhi alla presenza de’ tormenti, gli usano in quel punto termini di molta carità; ma ahi, che a Cristo nostro innocentissimo Signore non si ha questa compassione; gli si pone per suo maggior tormento, non solo avanti agli occhi, ma sopra le sue divine spalle lo strumento dell’obbrobrioso supplizio. Giunto il nostro Gesù al Calvario distesa la croce, preparati i chiodi disposti i ministri, gli si comanda che sopra d’essa si corichi: obbedisce Cristo, e steso sopra della croce, distende subito quella destra, che sparge benedizioni, al chiodo. Conficcata questa, con incredibile scatenamento viene stirata la sinistra perché arrivi al foro. Il simile si fa de’ piedi, et crucifixerunt eum. E
con queste parole, vinte dall’atrocità del ifatto, le penne degli Evangelisti, compendiarono con mestissimo silenzio il principal mistero della nostra redenzione. Quel grande Alessandro, che con tante spese e sudori avea procurato di dar la morte a Dario; con tutto ciò, quando poi giunse al cospetto del suo cadavere esangue, non poté raffrenar le lacrime, anzi che toltasi la sua clamide d’indosso, con essa lo coprì, lo rinvolse. E contro al cadavere del mio Gesù, tutto lacero e stracciato, si cavan fuori le lance, per passare con un colpo spietato il cuore? Unus militum lancea latus ejus aperuit. A me non resta fiato da esclamare: ah lacrime, sospiri, pianti, voci di duolo venite al mio seno, ai miei occhi, alla mia lingua. Fu antico costume, al narrar delle sacre Carte, che scopertosi un omicidio, e non sapendosi l’uccisore, s’esponesse a pubblica vista il cadavere, e ne corresse l’obbligo a ciascuno de’ cittadini por la mano sopra l’estinto corpo, affermando con solenne giuramento non esser egli il reo d’un tal misfatto. A voi ora mi rivolto, RR. AA., e rinnovando l’antico costume, v’obbligo a stender la mano sopra l’estinto Gesù, e con solenne giuramento attestar non aver voi parte nel sacrilego deicidio. Avverti, tu sei spergiuro, o iracondo? Se ti chiami innocente, perché l’uccideste nelle vendette? Non tender la mano, o disonesto, le tue lascivie diedero la morte al Redentore. I vostri lussi, le vostre crapule, le irriverenze ne’ templi, gli strapazzi a’ genitori, le vanità immodeste, vi condannano per rei di morte data ad un Dio. Deh per pietà, se già il crocifiggeste con i peccati, non vogliate più crocifiggerlo con nuove iniquità, acciò che Egli non debba slontanarsi da voi anche visibilmente. Appunto allontanossi da un Cristiano colà nel Brasile. Commise questi una tal disonestà, allorché portava legata al collo. l’immagine di Gesù Crocifisso; dopo il calor del peccato, postasi la mano al petto, vi trovò bensì il laccio senza esser mutato, e sciolto il nodo, ma non Gesù, per quell’atto, doppiamente crocifisso. Stordito dalla novità, si rimirava d’intorno, ed alla fine corso l’occhio al più lontano e nascosto cantone della camera, ivi mira, ah disperato, il Signor Crocifisso, poiché ivi era fuggito per l’orrore delle sue impurità, ed ivi si stava accantonato il Monarca del mondo, che tollerando pazientemente la croce, non poteva sopportar la croce di quel disonesto ribelle. Ma che, il mirare dal reo, Cristo, e il disfarsi in pianto, fu tutto una cosa; se lo ripose sul petto, ma più dentro il cuore; lo legò col suo laccio, ma più con la carità; e per non perdere un’altra volta il suo caro fuggitivo, lavò in perpetue lacrime il fallo commesso, e serbò fede perpetua al suo amatissimo Gesù. Oh quante volte dovrebbe fuggirsene da molti il Crocifisso giacché molti l’hanno crocifisso con i peccati. Or, se errammo con questo Cristiano del Brasile, piangiamo altresì con lui, né mai più crocifiggiamo Gesù. Padre Eterno, io spero di potervi assicurare che questo popolo qui presente mai più crocifiggerà coi peccati il vostro Figliuolo Gesù. Ecco, che con le voci del cuore apertamente si protestano, Anima mea illi vivet: non vogliono più moderati affetti, non più sensuali piaceri: illi vivet. Vivrà ai suoi ossequi, alla sua gloria, all’osservanza della sua legge. Deh gradite Padre Eterno questi sentimenti, e confermate l’esecuzione d’essi col Sangue preziosissimo del vostro Unigenito, e mosso a compassione delle nostre iniquità; placatevi alla vista di queste piaghe, parce populo tuo; condonate le colpe sue a questo popolo che, umilmente prostrato ai vostri piedi, chiede il perdono, benedic hereditati tuæ, e dategli ora la vostra santa benedizione, per caparra dell’eterna in Cielo.

LIMOSINA

San Pier Damiano dice che in questo giorno in cui Cristo dà a noi la limosina, dando il suo corpo alla morte per noi, voi non avete da negar la limosina a’ suoi poverelli. Elemosynam fecit tibi, corpus suum tradendo, o tu elemosynam illi, fac, bucellam panis porrigendo pauperi. Starò a veder che Giuda venda Cristo per trenta danari, e voi non vogliate comprarlo con altrettanto danaro distribuito a’ poveri.

TERZA PARTE.

O non posso capire, come possa darsi il caso che chi considera un Dio morto in croce per redimerlo, possa indursi a peccare. Ma, oh ingratitudine, o pazzia dell’uomo, che non fa conto d’un sì gran benefizio, perché pecca. Arrossitevi, o Cristiani, al racconto di gratitudine praticata dai Gentili. Riferisce Senofonte, che Ciro re di Persia, avendo appresso di sé prigionieri Tigranes, Figlio del Re d’Armenia, e la di lui sposa Armena; rivolto un giorno a Tigranes, dissegli che pagherebbe a chi ponesse in libertà Armena vostra Consorte. Al che prontamente Tigranes: libenter vitam dabo, darei di buona voglia e sangue e vita. Risposta tanto stimata da Ciro, che ad ambedue concesse la libertà, parendogli che un affetto sì nobile, non una, ma cento ne meritasse. Or mentre lieti i due sposi tornavano alla patria, rivolto ad Armena Tigranes: vedeste, dissegli, o sposa, le grandezze immense di Ciro? Il superbo Palazzo, che per architettura eccede l’arte: vedeste l’oro, le gemme, gli abbigliamenti delle sale, i parati delle stanze, superano la stima. Le tavole d’avorio, le statue e di metallo e di marmo; le porte, le finestre intarsiate d’argento; le sedie, i letti, i padiglioni tessuti di broccato e tempestati di gemme? Non ha pari questa reggia, per certo, nel mondo. Sposa, che dite, non ammiraste un tanto splendor in corte sì magnifica? Allora Armena mostrossi totalmente nuova al discorso ed al racconto, e dissegli: nulla di ciò io vidi, amato consorte, né a me fu possibile applicar la vista a tali cose, mentre assorta, e quasi fuori di me, tutta ero intenta nella considerazione del vostro amore, che per la mia liberazione offerse sangue e vita, né fu possibile che in altro io potessi fissar le mie pupille, che in quello, che liberale del proprio sangue l’offriva tutto per me… nihil aliud spectare poteram, quam illum, qui vita sua me redempturum se confirmavit, ne ego servirem. Risposta fu questa superiore all’esser di donna; ma che avrebbe mai detto, se avesse trovato, non chi gl’avesse offerto e vita e sangue, e quanto avea per redimerla dalla cattività, ma l’avesse redenta come ha fatto per noi Cristo nostro Redentore? Io resto fuori di me, e voi non potrete far di meno di non darvi per vinti, al racconto. Io resto fuori di me, dico, al ricordarvi ciò che racconta Valerio Massimo d’un soldato di Gneo Pompeio, combattendo con uno di Sertorio, dopo vari colpi di spada, afferratolo per un braccio, lo trapassò con più ferite, e crudelmente l’uccise; indi curioso di vedere chi fosse, ed avido delle spoglie, gli scoprì il volto, e con orror riconobbe aver ucciso l’unico suo caro ed adorato fratello. Diede l’infelice all’accidente inaspettato un profondo sospiro, pianse e percosse il petto e tra le smanie d’un immenso dolore, chiedeva dell’errore replicato perdono al fratello estinto, ma non ne sentendo l’assoluzione, tutto frenetico , e tutto fuor di sé, impugnata quella medesima spada imbrattata di sangue fraterno, se la voltò con la punta al petto, e lasciandovisi cadere, spirò l’anima sopra il cadavere del fratello. Noi sappiamo, riveriti AA., che finora con i peccati Cristo, offendendolo, strapazzandolo, ed a guisa di nemico ferendolo con tante stoccate quanti finora sono stati i peccati, finalmente l’abbiamo ucciso. Può esser veramente, che le passioni furiose o l’ignoranza nostra ci abbiano tanto accecati sicché, bene non conoscessimo chi Egli fosse. Ma ora volete sapere chi era quel Cristo da voi barbaramente ucciso ed a qual stato e forma l’abbiano ridotto i vostri peccati, vi metterò avanti gli occhi l’oggetto più lacrimevole che mai vedesse il mondo. Testimoni qui v’invoco Angeli Santi, che in questo giorno sì amaramente piangeste, siate presenti a veder l’eccesso de’ nostri falli. E voi, Maria Addolorata, che in questo dì da spada di dolore foste trafitta, mirate ora dal Paradiso l’assassinio che abbiam fatto miseri noi del vostro Santissimo Figlio. Maria Regina di Scozia, essendogli stato ucciso il marito, venuta in Edemburgo, che è la città regia, si studiò di commuovere il popolo a pietà del morto principe comparve dunque tutta vestita a bruno, scapigliata nel crine, e tutta molle di pianto, e si fece portare avanti un lugubre stendardo in cui con vivi colori era dipinta la morte indegna dell’amato consorte; giaceva di steso il re trucidato, tutto intriso di sangue, con una sembianza egualmente amabile e miserabile, in atto di moribondo, esalando l’ultimo spirito sì malconcio dalle ferite de’ congiurati, che rendeva orrore. Tanto bastò, perché nel popolo si suscitasse un’altissima commozione, di modo tale che fremendo, riempì l’aria di clamori, e di gemiti. Io quanto a me non so figurarmi mezzo più opportuno per intenervi, che porvi avanti gli occhi lo stendardo funesto del Crocifisso Signore, e forse e senza forse, potrà più la vostra vista che la mia lingua ad ammollirvi. Ecco, ecco la dolorosa Immagine di Gesù, ecco il crudo scempio, che del Figlio di Dio han fatto i vostri, i miei peccati. Mirate come trafitto da spine nella testa, così l’hanno trafitto i miei pensieri d’amore, d’odio, di vendetta. Osservate quelle mani grondanti vivo sangue, così l’han traforate le mie mani rapaci, vendicatrici, così le mie mani stesse alla robba altrui, alle vendette; quella bocca è stata attossicata dalle parole licenziose, dalle mormorazioni, spergiuri, bestemmie etc. Quelli occhi trapassati anche essi da spine, ne sentirono le punture di quegli sguardi immodesti nelle piazze, nelle strade, nelle Chiese. Quei piedi traforati si dichiarano piagati da quei balli e salti fin d’allora che ti portaste a quelle case, a quei ridotti. Quel costato santissimo è aperto dalle brame indegne, che vi covaste, divise in tanti odii, in tanti amori, in tanti interessi pieni d’usure e tutte insomma quelle membra santissime si dichiarano maltrattate, percosse e lacerate dalle nostre iniquità. Se così è, guerra, guerra, vendetta, vendetta contro del peccato, né mai con esso facciam pace, giacché ha tolto a voi, mio Bene, la vita. Confessiamo la nostra indegnità, vi domandiamo perdono, misericordia, ed a questa ricorreremo nella adorazione de’ vostri santissimi piedi, dove prostrati, con vivo affetto diremo: Tu Rex gloria Christe; Tu Patris sempiternus es Filius. Tu devicto mortis aculeo, aperuisti credentibus regna Cœlorum. Te ergo quæsumus tuis famulis subveni, quos prætioso Sanguine redemisti.

QUARESIMALE (XXXVI)

DOMENICA DELLE PALME (2023)

DOMENICA DELLE PALME (2023)

Semidoppio Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

La liturgia di oggi esprime con due cerimonie, l’una tutta piena di gioia, l’altra di tristezza, i due aspetti secondo i quali la Chiesa considera la Croce. Anzi tutto vengono la Benedizione e la Processione delle Palme. Esse traboccano di una santa allegrezza che ci permette, dopo venti secoli, di rivivere la scena grandiosa dell’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme. Poi c’è la Messa di cui i canti e le letture si riferiscono esclusivamente al doloroso ricordo della Passione del Salvatore.

I . — Benedizione delle Palme e Processione.

A Gerusalemme, nel IV secolo, si leggeva in questa Domenica nel luogo medesimo dove i fatti s’erano svolti, il racconto evangelico che ci descrive Cristo, acclamato come Re d’Israele, che prende possesso della sua capitale. In realtà, Gerusalemme non è che l’immagine del regno della Gerusalemme celeste. Poi un Vescovo, montato su un asino, andava dal sommo del Monte Oliveto alla chiesa della Risurrezione, circondato dalla folla che portava delle palme, cantando inni ed antifone. Questa cerimonia era preceduta dalla lettura del passo dell’Esodo riguardante l’uscita dall’Egitto. Il popolo di Dio, accampato all’ombra dei palmizi, vicino alle dodici fonti dove Mosè gli promette la manna, è il popolo cristiano che servendosi di rami dei palmizi attesta che il suo Re, Gesù,viene a liberare le anime dal peccato, conducendole al fonte battesimale e nutrendole con la manna eucaristica.La Chiesa di Roma, adottando questo uso, pare verso il IX secolo, ha aggiunto i riti della Benedizione delle Palme, da cui deriva il nome di Pasqua fiorita dato a questa Domenica. Questa cerimonia è una specie di messa con Orazione propria, Epistola, Vangelo e Prefazio proprio. La consacrazione è sostituita dalla benedizione delle palme e la comunione dalla distribuzione di queste palme. Queste cerimonie hanno un significato simbolico. « Dio, — dice la Chiesa — per un ordine meraviglioso della sua Provvidenza, ha voluto servirsi anche di queste cose sensibili per esprimere l’ammirabile economia della nostra salvezza » poiché « questi rami di palme segnavano la vittoria che stava per esser riportata sul principe della morte e i rami d’ulivo annunciavano l’abbondante effusione della misericordia divina ». « Infatti la colomba annunciò la pace alla terra per mezzo d’un ramoscello d’ulivo », « e le grazie che Dio. moltiplicò su Noè all’uscita dall’arca, e su Mosè che abbandonava. l’Egitto con i figli d’Israele, sono una figura della Chiesa » « che muove incontro a Cristo con opere buone » « con le opere che germogliano dai rami di giustizia » (Orazioni della Benedizione delle Palme). Questo corteo di Cristiani che, con le palme in mano e con il canto dell’osanna sulle labbra, acclamano ogni anno, in tutto il. mondo, attraverso tutte le generazioni, la regalità di Cristo, è composta di tutti i catecumeni, dei penitenti pubblici, e dei fedeli che i sacramenti del Battesimo, della Eucaristia e della Penitenza associeranno, nelle feste di Pasqua, a questo trionfatore glorioso. « È noi, che con integra fede rammentiamo il fatto e il suo significato « …ti preghiamo, Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio, per lo stesso Signor Nostro Gesù Cristo affinché, ciò che il tuo popolo fa oggi esternamente, lo compia spiritualmente, riportando vittoria sul nemico ». Questo rappresenta la processione che si arresta alla porta della Chiesa. Alcuni coristi sono nell’interno, i loro canti s’alternano con quelli dei sacerdoti (Gloria, laus et honor). Processione delle Palme: da una parte sono i « cori angelici », dall’altra i soldati di Cristo, ancora impegnati nel. combattimento, che acclamano per turno il Re della gloria. Ben presto la porta si apre allorché il suddiacono vi avrà bussato per tre volte con l’asta della croce; così la croce di Gesù ci apre il cielo e la processione entra in Chiesa, come gli eletti entreranno un giorno con Cristo nella gloria eterna. — Conserviamo religiosamente nella nostra casa un ramoscello di olivo benedetto. Questo sacramentale, in virtù della preghiera della Chiesa, ci farà ottenere i favori del cielo e renderà più ferma la nostra fede in Gesù che, pieno di misericordia (simboleggiata dall’olivo, di cui l’olio mitiga le piaghe), ha vinto (vittoria simboleggiata dalle palme) il demonio, il peccato e la morte.

2. — Messa della Domenica delle Palme.

La benedizione delle palme si faceva a Santa Maria Maggiore, che a Roma rappresenta Betlemme, dove nacque Colui che i Magi proclamarono « Re dei Giudei ». La processione andava da questa Basilica a quella di S. Giovanni Laterano nella quale si teneva altre volte la Stazione, poiché, essendo dedicata al Santo Salvatore, essa rievoca il ricordo della Passione di cui tratta la Messa  — Il trionfo del Salvatore deve essere preceduto dalla « sua umiliazione fino alla morte e fino alla morte di croce » (Ep.) umiliazione che ci servirà di modello « affinché mettendo a profitto gli insegnamenti della sua pazienza possiamo renderci partecipi anche della sua risurrezione » (Or.).

Benedictio Palmorum

Ant. Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. O Rex Israël: Hosánna in excélsis.

[Osanna al Figlio di David, benedetto Colui che viene nel nome del Signore. O Re di Israele: Osanna nel più alto dei cieli!]

Orémus.
Bene dic, quǽsumus, Dómine, hos palmárum ramos: et præsta; ut, quod pópulus tuus in tui veneratiónem hodiérna die corporáliter agit, hoc spirituáliter summa devotióne perfíciat, de hoste victóriam reportándo et opus misericórdiæ summópere diligéndo. Per Christum Dominum nostrum.

[Bene ☩ dici Signore, te ne preghiamo, questi rami di palma e concedi che quanto il tuo popolo ha celebrato materialmente in tuo onore, lo compia spiritualmente con somma devozione, vincendo il nemico e corrispondendo con profondo amore all’opera della tua misericordia. Per Cristo nostro Signore.]

De distributione ramorum

Ant. Púeri Hebræórum, portántes ramos olivárum, obviavérunt Dómino, clamántes et dicéntes: Hosánna in excélsisI

[I fanciulli ebrei, portando rami di olivo, andarono incontro al Signore, acclamando e dicendo: Osanna nel più alto dei cieli.].


D
ómini est terra et plenitúdo eius, orbis terrárum et univérsi qui hábitant in eo. Quia ipse super mária fundávit eum et super flúmina præparávit eum.

Ant. Púeri Hebræórum, portántes …

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ.
Quis est iste rex glóriæ? Dóminus fortis et potens: Dóminus potens in prǽlio.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes…

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ. Quis est iste rex glóriæ? Dóminus virtútum ipse est rex glóriæ.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini. .

[I fanciulli Ebrei stendevano le loro vesti sulla via e acclamavano dicendo: Osanna al Piglio di David! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!]


Omnes gentes pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exultatiónis.
Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis, rex magnus super omnem terram.

Ant. Púeri Hebræórum  …

Subiécit pópulos nobis: et gentes sub pédibus nóstris.
Elegit nobis hereditátem suam: spéciem Iacob quam diléxit.
Ant. Púeri Hebræórum

Ascéndit Deus in iúbilo: et Dóminus in voce tubæ.

Psállite Deo nostro, psállite: psállite regi nostro, psállite.

Ant. Púeri Hebræórum …

Quóniam rex omnis terræ Deus: psállite sapiénter.


Regnávit Deus super gentes: Deus sedit super sedem sanctam suam.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Príncipes populórum congregáti sunt cum Deo Abraham: quóniam Dei fortes terræ veheménter elevati sunt.

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.

[Matth. XXI, 1-9]

“In illo témpore: Cum appropinquásset Jesus Jerosólymis, et venísset Béthphage ad montem Olivéti: tunc misit duos discípulos suos, dicens eis: Ite in castéllum, quod contra vos est, et statim inveniétis ásinam alligátam et pullum cum ea: sólvite et addúcite mihi: et si quis vobis áliquid dixerit, dícite, quia Dóminus his opus habet, et conféstim dimíttet eos. Hoc autem totum factum est, ut adimplerétur, quod dictum est per Prophétam, dicéntem: Dícite fíliae Sion: Ecce, Rex tuus venit tibi mansuétus, sedens super ásinam et pullum, fílium subjugális. Eúntes autem discípuli, fecérunt, sicut præcépit illis Jesus. Et adduxérunt ásinam et pullum: et imposuérunt super eos vestiménta sua, et eum désuper sedére tecérunt. Plúrima autem turba stravérunt vestiménta sua in via: álii autem cædébant ramos de arbóribus, et sternébant in via: turbæ autem, quæ præcedébant et quæ sequebántur, clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini”.

[In quel tempo: avvicinandosi a Gerusalemme, arrivato a Bètfage, vicino al monte degli ulivi, Gesù mandò due suoi discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio dirimpetto a voi, e subito vi troverete un’asina legata con il suo puledro: scioglietela e conducetemela. E, se qualcuno vi dirà qualche cosa, dite: il Signore ne ha bisogno; e subito ve li rilascerà». Ora tutto questo avvenne perché si adempisse quanto detto dal Profeta: «Dite alla figlia di Sion : Ecco il tuo Re viene a Te, mansueto, seduto sopra di un’asina ed asinello puledro di una giumenta». I Discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro detto. Menarono l’asina ed il puledro, vi misero sopra i mantelli e Gesù sopra a sedere. E molta gente stese i mantelli lungo la strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li spargevano sulla via, mentre le turbe che precedevano e seguivano gridavano: «Osanna al Figlio di Davide; benedetto Colui che viene nel nome del Signore».]

De processione cum ramis benedictis

Procedámus in pace.

Occúrrunt turbæ cum flóribus et palmis Redemptóri óbviam: et victóri triumphánti digna dant obséquia: Fílium Dei ore gentes prædicant: et in laudem Christi voces tonant per núbila: «Hosánna in excélsis».

[Con fiori e palme le folle vanno ad incontrare il Redentore e rendono degno ossequio al Vincitore trionfante. Le nazioni lo proclamano Figlio di Dio e nell’etere risuona a lode di Cristo un canto: Osanna nel più alto dei cieli!]

Cum Angelis et púeris fidéles inveniántur, triumphatóri mortis damántes: «Hosánna in excélsis».

[Facciamo di essere anche noi fedeli come gli Angeli ed i fanciulli, acclamando al vincitore della morte: Osanna nel più alto dei cieli!]


Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: «Hosánna in excélsis».

[Immensa folla, convenuta per la Pasqua, acclamava ai Signore: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!]

Cœpérunt omnes turbæ descendéntium gaudéntes laudáre Deum voce magna, super ómnibus quas víderant virtútibus, dicéntes: «Benedíctus qui venit Rex in nómine Dómini; pax in terra, et glória in excélsis».

[Tutta la turba dei discepoli discendenti dal monte Oliveto cominciò con letizia a lodar Dio ad alta voce per tutti i prodigi che aveva veduti dicendo: Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in terra e gloria nell’alto dei cieli.]

Hymnus ad Christum Regem

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.

Israël es tu Rex, Davidis et ínclita proles: Nómine qui in Dómini, Rex benedícte, venis.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.

Coetus in excélsis te laudat caelicus omnis, Et mortális homo, et cuncta creáta simul.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. Plebs Hebraea tibi cum palmis óbvia venit: Cum prece, voto, hymnis, ádsumus ecce tibi.

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.

Hi tibi passúro solvébant múnia laudis: Nos tibi regnánti pángimus ecce melos.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.

Hi placuére tibi, pláceat devótio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta placent.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium

[Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.

Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.

Tu sei il Re di Israele, il nobile figlio di David, o Re benedetto che vieni nel nome del Signore.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
L‘intera corte angelica nel più alto dei cieli, l’uomo mortale e tutte le creature celebrano insieme le tue lodi.

Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Il popolo Ebreo ti veniva dinanzi con le palme, ed eccoci dinanzi a te, con preghiere, con voti e cantici.

Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.

Essi ti offrivano il tributo del loro omaggio, quando tu andavi a soffrire; noi eleviamo questi canti a te che ora regni.

Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.

Ti piacquero essi: ti piaccia anche la nostra devozione, o Re di bontà, Re clemente, a cui ogni cosa buona piace.

Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.]

Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Psalmus CXLVII

Lauda, Jerúsalem, Dóminum: * lauda Deum tuum, Sion.

Quóniam confortávit seras portárum tuárum: * benedíxit fíliis tuis in te.

Qui pósuit fines tuos pacem: * et ádipe fruménti sátiat te.

Qui emíttit elóquium suum terræ: * velóciter currit sermo ejus.

Qui dat nivem sicut lanam: * nébulam sicut cínerem spargit.

Mittit crystállum suam sicut buccéllas: * ante fáciem frígoris ejus quis sustinébit?
Emíttet verbum suum, et liquefáciet ea: * flabit spíritus ejus, et fluent aquæ.

Qui annúntiat verbum suum Jacob: * justítias, et judícia sua Israël.
Non fecit táliter omni natióni: * et judícia sua non manifestávit eis. Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Fulgéntibus palmis prostérnimur adveniénti Dómino: huic omnes occurrámus cum hymnis et cánticis, glorificántes et dicéntes: «Benedíctus Dóminus».

[Di festosi rami ornati, ci prostriamo al Signor che viene: a Lui incontro corriamo tra inni e canti, Lui glorifichiamo dicendo: Benedetto il Signore!]

Ave, Rex noster, Fili David, Redémptor mundi, quem prophétæ praedixérunt Salvatórem dómui Israël esse ventúrum. Te enim ad salutárem víctimam Pater misit in mundum, quem exspectábant omnes sancti ab orígine mundi, et nunc: «Hosánna Fílio David. Benedíctus qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis».

[Ave, o nostro Re, Figlio di David, Redentore del mondo, preannunciato dai Profeti come Salvatore venuto per la casa d’Israele. Il Padre mandò Te come vittima di redenzione per il mondo; T’aspettavano tutti i santi sin dall’origine del mondo, ed ora: Osanna, Figlio di David. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei Cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

Ingrediénte Dómino in sanctam civitátem, Hebræórum púeri resurrectiónem vitæ pronuntiántes,
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».

Cum audísset pópulus, quod Jesus veníret Jerosólymam, exiérunt óbviam ei.
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».

[Mentre il Signore entrava nella città santa, i fanciulli ebrei proclamavano la risurrezione alla vita,

Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!
Avendo il popolo sentito che Gesù si avvicinava a Gerusalemme, gli mosse incontro
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

[Signor Gesù Cristo, Re e Redentore nostro, in onore del quale abbiamo cantato lodi solenni, portando questi rami, concedi propizio che la grazia della tua benedizione discenda dovunque questi rami saranno portati e che la tua destra protegga i redenti togliendo di mezzo a loro ogni iniquità ed illusione diabolica. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.]

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XXI: 20 et 22.

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

[Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Ps XXI:2 Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? longe a salúte mea verba delictórum meórum.

[Dio mio, Dio mio, guardami: perché mi hai abbandonato? La salvezza si allontana da me alla voce dei miei delitti].

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

[Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Omnípotens sempitérne Deus, qui humáno generi, ad imitandum humilitátis exémplum, Salvatórem nostrum carnem súmere et crucem subíre fecísti: concéde propítius; ut et patiéntiæ ipsíus habére documénta et resurrectiónis consórtia mereámur.

[Onnipotente eterno Dio, che per dare al genere umano un esempio d’umiltà da imitare, volesti che il Salvatore nostro s’incarnasse e subisse la morte di Croce: propizio concedi a noi il merito di accogliere gli insegnamenti della sua pazienza, e di partecipare alla sua risurrezione.]

Epistola

Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses. Phil II: 5-11

“Fratres: Hoc enim sentíte in vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei esset, non rapínam arbitrátus est esse se æqualem Deo: sed semetípsum exinanívit, formam servi accípiens, in similitúdinem hóminum factus, et hábitu invéntus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit illum: ei donávit illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut in nómine Jesu omne genuflectátur cœléstium, terréstrium et inférnorum: et omnis lingua confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei Patris.”

[“Fratelli: Siano in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, essendo della natura di Dio, non ritenne come una preda la sua parità con Dio, ma spogliò se stesso, prendendo la natura dì servo, divenuto simile agli uomini, e all’aspetto riconosciuto quale uomo. Abbassò, se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sublimato, e gli ha dato un nome superiore a ogni altro nome; perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, sulla terra e nell’inferno, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre”.]

LA GRANDE UMILIAZIONE.

Entriamo oggi nella Settimana Santa, durante la quale la Chiesa ci fa rivivere giorno per giorno; starei per dire ora per ora il mistero della passione e della morte di Gesù, segreto della nostra Redenzione. San Paolo nel brano della sua Epistola a quei di Filippi che forma la lettura di questa domenica ci dà la chiave, il segreto, la filosofia di questo mistero. Come ci redime N. Signore Gesù? Disfacendo pezzo per pezzo l’opera del peccato. Egli è il novello Adamo, antitesi dell’antico. La Passione è la negazione delle colpe antiche. Il riscontro ha persino dei lati materiali: da un giardino all’altro, dal giardino delle colpe all’orto dell’espiazione. Là e qua un albero; là l’albero della morte, qua l’albero della vita, la Croce. È la colpa d’Adamo la colpa classica e tipica, che cosa è essa mai? Due parole la descrivono, la definiscono, due brevi tremende parole: orgoglio e piacere, piacere ed orgoglio. L’orgoglio primeggia per chi approfondisce le cose. E la grande, la classica espiazione sarà il rovescio: umiltà e dolore. Un capolavoro di umiltà, come la colpa classica fu un capolavoro di orgoglio. Ci sono anche i capolavori del male. Paolo canta questa eroica umiltà del Verbo Incarnato, Gesù Cristo; l’accento del suo discorso è lirico, la sostanza è d’una logica stringente. L’umiltà è nei due poli: Verbo — Incarnato, Dio — uomo. Era nella forma di Dio, dice San Paolo, poteva senza scrupolo, senza timor di usurpazione dirsi uguale a Dio, senza timore d’ingiustizia e di usurpazione, non come Adamo che usurpò, volle usurpare quella uguaglianza. Era nella forma di Dio e volle prendere forma di schiavo. « Humiliavit semetìpsum formam servi accipìens ». Padrone, volle diventare servo. È la forma specifica e logicamente efficace della umiliazione espiatrice. Perché l’orgoglio del colpevole Adamo era stato un orgoglio ribelle, un orgoglio affermatosi proprio lì, non voler obbedire alla legge, accettare la servitù, sottostare alla padronanza e signoria divina: ribellione alla legge. La soggezione volontaria distrugge, disfà la volontaria ribellione. Tanto più e tanto meglio perché dalle due parti le cose si spingono all’eroismo, l’eroismo della morte. Adamo affronta la morte con la sua ribellione. C’è la taglia della morte come sanzione del precetto di Dio, ed Adamo malgrado questa sanzione calpesta questo divieto. Eroico, malamente, ma eroico, eroico di un eroismo protervo, ma eroismo. Splendidamente, nobilmente eroica sarà l’espiazione di Gesù obbediente, nota San Paolo, fino alla morte, e che morte! La più ignominiosa e la più crudele. La più ignominiosa perché l’umiltà eroica del sacrificio ubbidiente sia autentica e perché all’umiltà il sacrificio del Martire del Golgota accoppi il dolore, lo strazio — antitesi e antidoto del piacere. Non si potrebbe essere più brevi, succosi e profondi di quello che è San Paolo in queste poche linee, le quali ci rivelano non solo il mistero intimo di quella colpa e di questa espiazione, ma di ogni colpa e di ogni espiazione, di ogni colpa per farla detestare, di ogni espiazione per farla amare. Ma l’antitesi continua anche nella catastrofe dei due drammi. Perché l’epilogo del dramma della colpa è un disastro: il ribelle è battuto, l’orgoglioso è, giustamente, umiliato. Nello sforzo di erigersi oltre misura, si esaurisce e si accascia il gigante, il Capaneo, Adamo. Nello sforzo nobile della sua umiliazione si aderge Gesù o, per usare la propria frase di San Paolo, quel Dio davanti a cui Gesù (nella sua e colla sua umanità) si è umiliato « lo esaltò e gli diede un Nome superiore ad ogni altro, affinché in quel Nome e davanti ad esso tutti genuflettano in cielo, in terra e negli abissi ». L’epilogo dell’apoteosi per l’umiltà. Cerchiamo di essere primi in questa genuflessione; cerchiamo di farla più che nessun altro, alla scuola di Paolo, conscia e profonda.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Graduale

Ps LXXII:24 et 1-3 Tenuísti manum déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me: et cum glória assumpsísti me.

[Tu mi hai preso per la destra, mi hai guidato col tuo consiglio, e mi ‘hai accolto in trionfo.]

Quam bonus Israël Deus rectis corde! mei autem pæne moti sunt pedes: pæne effúsi sunt gressus mei: quia zelávi in peccatóribus, pacem peccatórum videns.

[Com’è buono, o Israele, Iddio con chi è retto di cuore. Per poco i miei piedi non vacillarono; per poco i miei passi non sdrucciolarono; perché io ho invidiato i peccatori, vedendo la prosperità degli empi.]

Tractus

Ps. XXI: 2-9, 18, 19, 22, 24, 32

Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti?

Longe a salúte mea verba delictórum meórum.

Deus meus, clamábo per diem, nec exáudies: in nocte, et non ad insipiéntiam mihi.

Tu autem in sancto hábitas, laus Israël.

In te speravérunt patres nostri: speravérunt, et liberásti eos.

Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: in te speravérunt, et non sunt confusi.

Ego autem sum vermis, et non homo: oppróbrium hóminum et abjéctio plebis.

Omnes, qui vidébant me, aspernabántur me: locúti sunt lábiis et movérunt caput.

Sperávit in Dómino, erípiat eum: salvum fáciat eum, quóniam vult eum.

Ipsi vero consideravérunt et conspexérunt me: divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt mortem.

Líbera me de ore leónis: et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

Qui timétis Dóminum, laudáte eum: univérsum semen Jacob, magnificáte eum.

Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: et annuntiábunt coeli justítiam ejus.

Pópulo, qui nascétur, quem fecit Dóminus.

[Dio, Dio mio, volgiti a me: perché mi hai abbandonato?
V. La voce dei miei delitti allontana da me la mia salvezza.
V. Dio mio, grido il giorno, e non rispondi: la notte, e non c’è requie per me.
V. Eppure tu abiti nel santuario, o gloria d’Israele.
V. In te confidavano i nostri padri: confidavano, e tu li liberavi.
V. A te gridavano, ed erano salvati: in te confidavano, e non avevano da arrossire.
V. Ma io sono un verme, e non un uomo: lo zimbello della gente, e il rifiuto della plebe.
V. Tutti quelli che mi vedevano, si facevano beffe di me: storcevano la bocca e scrollavano il capo.
V. Ha confidato nel Signore, lo salvi, giacché gli vuol bene.
V. Essi mi osservarono e tennero gli occhi su di me: si spartirono le mie vesti, e tirarono a sorte la mia tunica.
V. Salvami dalle zanne del leone: dalle corna degli unicorni salva la mia pochezza.
V. Voi che temete il Signore, lodatelo: voi tutti, o prole di Giacobbe. glorificatelo.
V. Sarà chiamata col nome del Signore la generazione che verrà; e i cieli annunzieranno la giustizia di lui.
V. Al popolo che sorgerà, e che sarà opera del Signore.]

Evangelium

Pássio Dómini nostri Jesu Christi secúndum Matthǽum.

[Matt XXVI:1-75; XXVII:1-66].

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: J. Scitis, quid post bíduum Pascha fiet, et Fílius hóminis tradétur, ut crucifigátur. C. Tunc congregáti sunt príncipes sacerdótum et senióres pópuli in átrium príncipis sacerdótum, qui dicebátur Cáiphas: et consílium fecérunt, ut Jesum dolo tenérent et occíderent. Dicébant autem: S. Non in die festo, ne forte tumúltus fíeret in pópulo. C. Cum autem Jesus esset in Bethánia in domo Simónis leprósi, accéssit ad eum múlier habens alabástrum unguénti pretiósi, et effúdit super caput ipsíus recumbéntis. Vidéntes autem discípuli, indignáti sunt, dicéntes: S. Ut quid perdítio hæc? pótuit enim istud venúmdari multo, et dari paupéribus. C. Sciens autem Jesus, ait illis: J. Quid molésti estis huic mulíeri? opus enim bonum operáta est in me. Nam semper páuperes habétis vobíscum: me autem non semper habétis. Mittens enim hæc unguéntum hoc in corpus meum, ad sepeliéndum me fecit. Amen, dico vobis, ubicúmque prædicátum fúerit hoc Evangélium in toto mundo, dicétur et, quod hæc fecit, in memóriam ejus. C. Tunc ábiit unus de duódecim, qui dicebátur Judas Iscariótes, ad príncipes sacerdótum, et ait illis: S. Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? C. At illi constituérunt ei trigínta argénteos. Et exínde quærébat opportunitátem, ut eum tráderet. Prima autem die azymórum accessérunt discípuli ad Jesum, dicéntes: S. Ubi vis parémus tibi comédere pascha? C. At Jesus dixit: J. Ite in civitátem ad quendam, et dícite ei: Magíster dicit: Tempus meum prope est, apud te fácio pascha cum discípulis meis. C. Et fecérunt discípuli, sicut constítuit illis Jesus, et paravérunt pascha. Véspere autem facto, discumbébat cum duódecim discípulis suis. Et edéntibus illis, dixit: J. Amen, dico vobis, quia unus vestrum me traditúrus est. C. Et contristáti valde, coepérunt sínguli dícere: S. Numquid ego sum, Dómine? C. At ipse respóndens, ait: J. Qui intíngit mecum manum in parópside, hic me tradet. Fílius quidem hóminis vadit, sicut scriptum est de illo: væ autem hómini illi, per quem Fílius hóminis tradétur: bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille. C. Respóndens autem Judas, qui trádidit eum, dixit: S. Numquid ego sum, Rabbi? C. Ait illi: J. Tu dixísti. C. Cenántibus autem eis, accépit Jesus panem, et benedíxit, ac fregit, dedítque discípulis suis, et ait: J. Accípite et comédite: hoc est corpus meum. C. Et accípiens cálicem, grátias egit: et dedit illis, dicens: J. Bíbite ex hoc omnes. Hic est enim sanguis meus novi Testaménti, qui pro multis effundétur in remissiónem peccatórum. Dico autem vobis: non bibam ámodo de hoc genímine vitis usque in diem illum, cum illud bibam vobíscum novum in regno Patris mei. C. Et hymno dicto, exiérunt in montem Olivéti. Tunc dicit illis Jesus: J. Omnes vos scándalum patiémini in me in ista nocte. Scriptum est enim: Percútiam pastórem, et dispergéntur oves gregis. Postquam autem resurréxero, præcédam vos in Galilaeam. C. Respóndens autem Petrus, ait illi: S. Et si omnes scandalizáti fúerint in te, ego numquam scandalizábor. C. Ait illi Jesus: J. Amen, dico tibi, quia in hac nocte, antequam gallus cantet, ter me negábis. C. Ait illi Petrus: S. Etiam si oportúerit me mori tecum, non te negábo. C. Simíliter et omnes discípuli dixérunt. Tunc venit Jesus cum illis in villam, quæ dícitur Gethsémani, et dixit discípulis suis: J. Sedéte hic, donec vadam illuc et orem. C. Et assúmpto Petro et duóbus fíliis Zebedaei, coepit contristári et mæstus esse. Tunc ait illis: J. Tristis est ánima mea usque ad mortem: sustinéte hic, et vigilate mecum. C. Et progréssus pusíllum, prócidit in fáciem suam, orans et dicens: J. Pater mi, si possíbile est, tránseat a me calix iste: Verúmtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. C. Et venit ad discípulos suos, et invénit eos dormiéntes: et dicit Petro: J. Sic non potuístis una hora vigiláre mecum? Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma. C. Iterum secúndo ábiit et orávit, dicens: J. Pater mi, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum, fiat volúntas tua. C. Et venit íterum, et invenit eos dormiéntes: erant enim óculi eórum graváti. Et relíctis illis, íterum ábiit et orávit tértio, eúndem sermónem dicens. Tunc venit ad discípulos suos, et dicit illis: J. Dormíte jam et requiéscite: ecce, appropinquávit hora, et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum. Súrgite, eámus: ecce, appropinquávit, qui me tradet. C. Adhuc eo loquénte, ecce, Judas, unus de duódecim, venit, et cum eo turba multa cum gládiis et fústibus, missi a princípibus sacerdótum et senióribus pópuli. Qui autem trádidit eum, dedit illis signum, dicens: S. Quemcúmque osculátus fúero, ipse est, tenéte eum. C. Et conféstim accédens ad Jesum, dixit: S. Ave, Rabbi. C. Et osculátus est eum. Dixítque illi Jesus: J. Amíce, ad quid venísti? C. Tunc accessérunt, et manus injecérunt in Jesum et tenuérunt eum. Et ecce, unus ex his, qui erant cum Jesu, exténdens manum, exémit gládium suum, et percútiens servum príncipis sacerdótum, amputávit aurículam ejus. Tunc ait illi Jesus: J. Convérte gládium tuum in locum suum. Omnes enim, qui accéperint gládium, gládio períbunt. An putas, quia non possum rogáre Patrem meum, et exhibébit mihi modo plus quam duódecim legiónes Angelórum? Quómodo ergo implebúntur Scripturae, quia sic oportet fíeri? C. In illa hora dixit Jesus turbis: J. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus comprehéndere me: cotídie apud vos sedébam docens in templo, et non me tenuístis. C. Hoc autem totum factum est, ut adimpleréntur Scripturæ Prophetárum. Tunc discípuli omnes, relícto eo, fugérunt. At illi tenéntes Jesum, duxérunt ad Cáipham, príncipem sacerdótum, ubi scribæ et senióres convénerant. Petrus autem sequebátur eum a longe, usque in átrium príncipis sacerdótum. Et ingréssus intro, sedébat cum minístris, ut vidéret finem. Príncipes autem sacerdótum et omne concílium quærébant falsum testimónium contra Jesum, ut eum morti tráderent: et non invenérunt, cum multi falsi testes accessíssent. Novíssime autem venérunt duo falsi testes et dixérunt: S. Hic dixit: Possum destrúere templum Dei, et post tríduum reædificáre illud. C. Et surgens princeps sacerdótum, ait illi: S. Nihil respóndes ad ea, quæ isti advérsum te testificántur? C. Jesus autem tacébat. Et princeps sacerdótum ait illi: S. Adjúro te per Deum vivum, ut dicas nobis, si tu es Christus, Fílius Dei. C. Dicit illi Jesus: J. Tu dixísti. Verúmtamen dico vobis, ámodo vidébitis Fílium hóminis sedéntem a dextris virtútis Dei, et veniéntem in núbibus coeli. C. Tunc princeps sacerdótum scidit vestiménta sua, dicens: S. Blasphemávit: quid adhuc egémus téstibus? Ecce, nunc audístis blasphémiam: quid vobis vidétur? C. At illi respondéntes dixérunt: S. Reus est mortis. C. Tunc exspuérunt in fáciem ejus, et cólaphis eum cecidérunt, álii autem palmas in fáciem ejus dedérunt, dicéntes: S. Prophetíza nobis, Christe, quis est, qui te percússit? C. Petrus vero sedébat foris in átrio: et accéssit ad eum una ancílla, dicens: S. Et tu cum Jesu Galilaeo eras. C. At ille negávit coram ómnibus, dicens: S. Néscio, quid dicis. C. Exeúnte autem illo jánuam, vidit eum ália ancílla, et ait his, qui erant ibi: S. Et hic erat cum Jesu Nazaréno. C. Et íterum negávit cum juraménto: Quia non novi hóminem. Et post pusíllum accessérunt, qui stabant, et dixérunt Petro: S. Vere et tu ex illis es: nam et loquéla tua maniféstum te facit. C. Tunc cœpit detestári et juráre, quia non novísset hóminem. Et contínuo gallus cantávit. Et recordátus est Petrus verbi Jesu, quod díxerat: Priúsquam gallus cantet, ter me negábis. Et egréssus foras, flevit amáre. Mane autem facto, consílium iniérunt omnes príncipes sacerdótum et senióres pópuli advérsus Jesum, ut eum morti tráderent. Et vinctum adduxérunt eum, et tradidérunt Póntio Piláto praesidi. Tunc videns Judas, qui eum trádidit, quod damnátus esset, pæniténtia ductus, réttulit trigínta argénteos princípibus sacerdótum et senióribus, dicens: S. Peccávi, tradens sánguinem justum. C. At illi dixérunt: S. Quid ad nos? Tu vidéris. C. Et projéctis argénteis in templo, recéssit: et ábiens, láqueo se suspéndit. Príncipes autem sacerdótum, accéptis argénteis, dixérunt: S. Non licet eos míttere in córbonam: quia prétium sánguinis est. C. Consílio autem ínito, emérunt ex illis agrum fíguli, in sepultúram peregrinórum. Propter hoc vocátus est ager ille, Hacéldama, hoc est, ager sánguinis, usque in hodiérnum diem. Tunc implétum est, quod dictum est per Jeremíam Prophétam, dicéntem: Et accepérunt trigínta argénteos prétium appretiáti, quem appretiavérunt a fíliis Israël: et dedérunt eos in agrum fíguli, sicut constítuit mihi Dóminus. Jesus autem stetit ante praesidem, et interrogávit eum præses, dicens: S. Tu es Rex Judæórum? C. Dicit illi Jesus: J. Tu dicis. C. Et cum accusarétur a princípibus sacerdótum et senióribus, nihil respóndit. Tunc dicit illi Pilátus: S. Non audis, quanta advérsum te dicunt testimónia? C. Et non respóndit ei ad ullum verbum, ita ut mirarétur præses veheménter. Per diem autem sollémnem consuéverat præses pópulo dimíttere unum vinctum, quem voluíssent. Habébat autem tunc vinctum insígnem, qui dicebátur Barábbas. Congregátis ergo illis, dixit Pilátus: S. Quem vultis dimíttam vobis: Barábbam, an Jesum, qui dícitur Christus? C. Sciébat enim, quod per invídiam tradidíssent eum. Sedénte autem illo pro tribunáli, misit ad eum uxor ejus, dicens: S. Nihil tibi et justo illi: multa enim passa sum hódie per visum propter eum. C. Príncipes autem sacerdótum et senióres persuasérunt populis, ut péterent Barábbam, Jesum vero pérderent. Respóndens autem præses, ait illis: S. Quem vultis vobis de duóbus dimítti? C. At illi dixérunt: S. Barábbam. C. Dicit illis Pilátus: S. Quid ígitur fáciam de Jesu, qui dícitur Christus? C. Dicunt omnes: S. Crucifigátur. C. Ait illis præses: S. Quid enim mali fecit? C. At illi magis clamábant,dicéntes: S. Crucifigátur. C. Videns autem Pilátus, quia nihil profíceret, sed magis tumúltus fíeret: accépta aqua, lavit manus coram pópulo, dicens: S. Innocens ego sum a sánguine justi hujus: vos vidéritis. C. Et respóndens univérsus pópulus, dixit: S. Sanguis ejus super nos et super fílios nostros. C. Tunc dimísit illis Barábbam: Jesum autem flagellátum trádidit eis, ut crucifigerétur. Tunc mílites praesidis suscipiéntes Jesum in prætórium, congregavérunt ad eum univérsam cohórtem: et exuéntes eum, chlámydem coccíneam circumdedérunt ei: et plecténtes corónam de spinis, posuérunt super caput ejus, et arúndinem in déxtera ejus. Et genu flexo ante eum, illudébant ei, dicéntes: S. Ave, Rex Judæórum. C. Et exspuéntes in eum, accepérunt arúndinem, et percutiébant caput ejus. Et postquam illusérunt ei, exuérunt eum chlámyde et induérunt eum vestiméntis ejus, et duxérunt eum, ut crucifígerent. Exeúntes autem, invenérunt hóminem Cyrenaeum, nómine Simónem: hunc angariavérunt, ut tólleret crucem ejus. Et venérunt in locum, qui dícitur Gólgotha, quod est Calváriæ locus. Et dedérunt ei vinum bíbere cum felle mixtum. Et cum gustásset, nóluit bibere. Postquam autem crucifixérunt eum, divisérunt vestiménta ejus, sortem mitténtes: ut implerétur, quod dictum est per Prophétam dicentem: Divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem. Et sedéntes, servábant eum. Et imposuérunt super caput ejus causam ipsíus scriptam: Hic est Jesus, Rex Judæórum. Tunc crucifíxi sunt cum eo duo latrónes: unus a dextris et unus a sinístris. Prætereúntes autem blasphemábant eum, movéntes cápita sua et dicéntes: S. Vah, qui déstruis templum Dei et in tríduo illud reædíficas: salva temetípsum. Si Fílius Dei es, descénde de cruce. C. Simíliter et príncipes sacerdótum illudéntes cum scribis et senióribus, dicébant: S. Alios salvos fecit, seípsum non potest salvum fácere: si Rex Israël est, descéndat nunc de cruce, et crédimus ei: confídit in Deo: líberet nunc, si vult eum: dixit enim: Quia Fílius Dei sum. C. Idípsum autem et latrónes, qui crucifíxi erant cum eo, improperábant ei. A sexta autem hora ténebræ factæ sunt super univérsam terram usque ad horam nonam. Et circa horam nonam clamávit Jesus voce magna, dicens: J. Eli, Eli, lamma sabactháni? C. Hoc est: J. Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquísti me? C. Quidam autem illic stantes et audiéntes dicébant: S. Elíam vocat iste. C. Et contínuo currens unus ex eis, accéptam spóngiam implévit acéto et impósuit arúndini, et dabat ei bíbere. Céteri vero dicébant:S. Sine, videámus, an véniat Elías líberans eum. C. Jesus autem íterum clamans voce magna, emísit spíritum.

Hic genuflectitur, et pausatur aliquantulum. …

Et ecce, velum templi scissum est in duas partes a summo usque deórsum: et terra mota est, et petræ scissæ sunt, et monuménta apérta sunt: et multa córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt. Et exeúntes de monuméntis post resurrectiónem ejus, venérunt in sanctam civitátem, et apparuérunt multis. Centúrio autem et qui cum eo erant, custodiéntes Jesum, viso terræmótu et his, quæ fiébant, timuérunt valde, dicéntes: S. Vere Fílius Dei erat iste. C. Erant autem ibi mulíeres multæ a longe, quæ secútæ erant Jesum a Galilaea, ministrántes ei: inter quas erat María Magdaléne, et María Jacóbi, et Joseph mater, et mater filiórum Zebedaei. Cum autem sero factum esset, venit quidam homo dives ab Arimathaea, nómine Joseph, qui et ipse discípulus erat Jesu. Hic accéssit ad Pilátum, et pétiit corpus Jesu. Tunc Pilátus jussit reddi corpus. Et accépto córpore, Joseph invólvit illud in síndone munda. Et pósuit illud in monuménto suo novo, quod excíderat in petra. Et advólvit saxum magnum ad óstium monuménti, et ábiit. Erat autem ibi María Magdaléne et áltera María, sedéntes contra sepúlcrum.

 [In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: J. Sapete bene che tra due giorni sarà Pasqua, e il Figlio dell’uomo verrà catturato per essere crocifisso. C. Si radunarono allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo nell’atrio del principe dei sacerdoti denominato Caifa, e tennero consiglio sul modo di catturar Gesù con inganno, e così poterlo uccidere. Ma dicevano: S. Non però nel giorno di festa perché non sorga un qualche tumulto nel popolo. C. Mentre Gesù si trovava in Betania nella casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che portava un vaso d’alabastro, pieno d’unguento prezioso, e lo versò sopra il capo di lui che era adagiato alla mensa. Ma nel veder ciò, i discepoli se ne indignarono e dissero: S. Perché tale sperpero? Poteva esser venduto quell’unguento a buon prezzo, e distribuito [il denaro] ai poveri. C. Ma, sentito questo, Gesù disse loro: J. Perché criticate voi questa donna? Ella invero ha fatto un’opera buona con me. I poveri infatti li avete sempre con voi, mentre non sempre potrete avere me. Spargendo poi questo unguento sopra il mio corpo, l’ha sparso come per alludere alla mia sepoltura. In verità io vi dico che in qualunque luogo sarà predicato questo vangelo, si narrerà altresì, in memoria di lei, quello che ha fatto. C. Allora uno dei dodici, detto Giuda Iscariote, se ne andò dai capi dei sacerdoti, e disse loro: S. Che mi volete dare, ed io ve lo darò nelle mani? C. Ed essi gli promisero trenta monete di argento. E da quel momento egli cercava l’occasione opportuna per darlo nelle loro mani. Or il primo giorno degli azzimi si accostarono a Gesù i discepoli e gli dissero: S. Dove vuoi tu che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? C. E Gesù rispose loro: J. «Andate in città dal tale e ditegli: Il Maestro ti fa sapere: Il mio tempo oramai si è approssimato; io coi miei discepoli faccio la Pasqua da te». C. E i discepoli eseguirono quello che aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta poi la sera [Gesù], si era messo a tavola coi suoi dodici discepoli; e mentre mangiavano, egli disse: J. In verità vi dico che uno di voi mi tradirà. C. Sommamente rattristati, essi cominciarono a uno a uno a dirgli: S. Forse sono io, o Signore? C. Ma egli in risposta disse: J. Chi con me stende [per intingere] la mano nel piatto, è proprio quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo, è vero, se ne andrà, come sta scritto di lui; ma guai a quell’individuo, per opera del quale il Figliuolo dell’uomo sarà tradito! Era bene per lui il non esser mai nato! C. Pigliando la parola, Giuda, che poi lo tradì, gli disse: S. Sono forse io, o Maestro? C. Gli rispose [Gesù]: J. Tu l’hai detto. C. Stando dunque essi a cena, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo porse ai suoi discepoli, dicendo: J. Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo. C. E preso un calice, rese le grazie, e lo dette loro, dicendo: J. Bevetene tutti. Questo è il mio Sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per molti in remissione dei peccati. E vi dico ancora, che non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio. C. Recitato quindi l’inno, uscirono, diretti al Monte oliveto. Disse allora Gesù: J. Tutti voi in questa notte proverete scandalo per causa mia. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che sarò resuscitato, vi precederò in Galilea. C. In risposta, Pietro allora gli disse: S. Anche se tutti fossero scandalizzati per te, io non mi scandalizzerò mai. C. E Gesù a lui: J. In verità ti dico che in questa medesima notte, prima che il gallo canti, tu mi avrai già rinnegato tre volte. C. E Pietro gli replico: S. Ancorché fosse necessario morire con te, io non ti rinnegherò. C. E dissero lo stesso gli altri discepoli. Arrivò alfine ad un luogo, nominato Getsemani, e Gesù disse ai suoi discepoli: J. Fermatevi qui, mentre io vado più in là a fare orazione. C. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a farsi triste e ad essere mesto. E disse loro: J. È afflitta l’anima mia fino a morirne. Rimanete qui e vegliate con me. C. E fattosi un poco più in avanti, si prostrò a terra colla faccia e disse: J. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. In ogni modo non come voglio io [si faccia], ma come vuoi tu. C. E tornò dai suoi discepoli e li trovò che dormivano. Disse quindi a Pietro: J. E cosi, non poteste vegliare un’ora con me? Vegliate e pregate, perché non siate sospinti in tentazione. Lo spirito, in realtà, è pronto, ma è fiacca la carne. C. Di nuovo se ne andò per la seconda volta, e pregò, dicendo: J. Padre mio, se non può passar questo calice senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. C. E ritornò di nuovo a loro, e li ritrovò addormentati. I loro occhi erano proprio oppressi dal sonno. E, lasciatili stare, andò nuovamente a pregare per la terza volta, dicendo le stesse parole. Fu allora che si riavvicinò ai suoi discepoli e disse loro: J. Dormite pure e riposatevi. Oramai l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo; ecco che è vicino colui che mi tradirà. C. Diceva appunto così, quando arrivò Giuda, uno dei dodici e con lui una gran turba di gente con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore, aveva dato loro questo segnale, dicendo: S. Quello che io bacerò, è proprio lui; pigliatelo. C. E, senza indugiare, accostatosi a Gesù, disse: S. Salve, o Maestro! C. E gli dette un bacio. Gesù gli disse: J. Amico, a che fine sei tu venuto? C. E allora si fecero avanti gli misero le mani addosso e lo catturarono. Ma ecco che uno di quelli che erano con Gesù, stesa la mano, sfoderò una spada e, ferito un servo del principe dei sacerdoti, gli staccò un orecchio. Allora gli disse Gesù: J. Rimetti al suo posto la spada, perché chi darà di mano alla spada, di spada perirà. Credi tu forse che io non possa pregare il Padre mio, e che egli non possa fornirmi all’istante più di dodici legioni di Angeli? Come dunque potranno verificarsi le Scritture, dal momento che deve succedere così? C. In quel punto medesimo disse Gesù alle turbe: J. Come un assassino siete venuti a prendermi, con spade e bastoni. Ogni giorno io me ne stavo nel tempio a insegnare, e allora non mi prendeste mai. C. E tutto questo avvenne, perché si compissero le scritture dei Profeti. Dopo ciò, tutti i discepoli lo abbandonarono, dandosi alla fuga. Ma quelli, afferrato Gesù, lo condussero a Caifa; principe dei sacerdoti, presso il quale si erano radunati gli scribi e gli anziani. Pietro però lo aveva seguito alla lontana fino all’atrio del principe dei sacerdoti; ed, entrato là, si era messo a sedere coi servi allo scopo di vedere la fine. I capi dei sacerdoti intanto e tutto il consiglio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per aver modo di metterlo a morte; ma non trovandola, si fecero avanti molti falsi testimoni. Per ultimo se ne presentarono altri due, e dissero: S. Costui disse: Io posso distruggere il tempio di Dio, e in tre giorni posso rifabbricarlo. C. Levatosi su allora il principe dei sacerdoti, disse [a Gesù]: S. Io ti scongiuro per il Dio vivo, che tu ci dica, se sei il Cristo, figlio di Dio. C. Gesù rispose: J. Tu l’hai detto. Anzi vi dico che vedrete altresì il Figlio dell’uomo, assiso alla destra della Potenza di Dio, venir giù sulle nubi del cielo. C. Il principe dei sacerdoti allora si strappò le vesti, dicendo: S. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. È reo di morte! C. Allora gli sputarono in faccia e lo ammaccarono coi pugni. Altri poi lo schiaffeggiarono e gli dicevano: S. Indovina, o Cristo, chi è che ti ha percosso. C. Pietro intanto se ne stava seduto fuori nell’atrio. Or gli si accostò una serva e gli disse: S. Anche tu eri con Gesù di Galilea. C. Ma egli, alla presenza di tutti, negò, dicendo: S. Non capisco quello che dici. C. Mentre poi stava per uscire dalla porta, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: S. Anche lui era con Gesù Nazareno! C. E di nuovo egli negò giurando: S. Io non conosco quest’uomo! C. Di lì a poco gli si avvicinarono coloro che si trovavano là, e dissero a Pietro: S. Tu sei davvero uno di quelli, perché anche il tuo accento ti da a conoscere per tale. C. Cominciò allora a imprecare e a scongiurare che non aveva mai conosciuto quell’uomo. E a un tratto il gallo cantò; allora Pietro si rammentò del discorso di Gesù: «Prima che il gallo canti, tu mi avrai rinnegato tre volte»; ed uscito di là, pianse amaramente. Fattosi poi giorno, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo congiurarono insieme contro Gesù per metterlo a morte; e, legatolo, lo portarono via e lo presentarono al governatore Ponzio Pilato. Il traditore Giuda, allora, visto che Gesù era stato condannato, sospinto dal rimorso, riportò ai capi dei sacerdoti e agli anziani i trenta denari, e disse: S. Ho fatto male, tradendo il sangue d’un innocente! C. Ma essi risposero: S. Che ci importa? Pensaci tu! C. Gettate perciò nel tempio le trenta monete d’argento, egli si ritirò di là, andando a impiccarsi con un laccio. I capi dei sacerdoti per altro, raccattate le monete, dissero: S. Non conviene metterle colle altre nel tesoro, essendo prezzo di sangue. C. Dopo essersi consultati tra di loro, acquistarono con esse un campo d’un vasaio per seppellirvi i forestieri. Per questo, quel campo fu chiamato Aceldama, vale a dire, campo del sangue; e ciò fino ad oggi. Così si verificò quello che era stato predetto per mezzo di Geremia profeta: «Ed hanno ricevuto i trenta denari d’argento, prezzo di colui che fu venduto dai figliuoli d’Israele, e li hanno impiegati nell’acquisto del campo d’un vasaio, come mi aveva imposto il Signore». Gesù pertanto si trovò davanti al governatore, che lo interrogò, dicendogli: S. Sei tu il re dei giudei? C. Gesù gli rispose: J. Tu lo dici. C. Ed essendo stato accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. Gli disse allora Pilato: S. Non senti di quanti capi d’accusa ti fanno carico? C. Ma egli non replicò parola, cosicché il governatore ne rimase fortemente meravigliato. Nella ricorrenza della festività [pasquale] il governatore era solito di rilasciare al popolo un detenuto a loro piacimento. Ne aveva allora in prigione uno famoso, chiamato Barabba. A tutti coloro, perciò che si erano ivi radunati, Pilato disse: S. Chi volete che io vi lasci libero? Barabba, oppure Gesù, chiamato il Cristo? C. Sapeva bene che per invidia gliel’avevano condotto lì. Mentre intanto egli se ne stava seduto in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: S. Non aver nulla da fare con quel giusto, perché oggi in sogno ho dovuto soffrire tante ansie per via di lui! C. Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani sobillarono il popolo, perché fosse chiesto Barabba e fosse ucciso Gesù. In risposta allora il governatore disse loro: S. Chi volete che vi sia rilasciato? C. E quei risposero: S. Barabba. C. Replicò loro Pilato: S. Che ne farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo? C. E ad una voce, tutti risposero: S. Crocifiggilo! C. Disse loro il governatore: S. Ma che male ha fatto? C. Ed essi gridarono più forte, dicendo: S. Sia crocifisso! C. Vedendo Pilato che non si concludeva nulla, ma anzi che si accresceva il tumulto, presa dell’acqua, si lavò le mani alla presenza del popolo, dicendo: S. Io sono innocente del sangue di questo giusto; è affar vostro! C. E per risposta tutto quel popolo disse: S. Il sangue di lui ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! C. Allora rilasciò libero Barabba; e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. I soldati del governatore poi trascinarono Gesù nel pretorio e gli schierarono attorno tutta la coorte; e lo spogliarono, rivestendolo d’una clamide di color rosso. Intrecciata poi una corona di spine, gliela posero in testa, e nella mano destra [gli misero] una canna. E piegando il ginocchio davanti a lui, lo deridevano col dire: S. Salve, o re dei Giudei. C. E dopo avergli sputato addosso, presagli la canna, con essa lo battevano nel capo. E dopo che l’ebbero schernito, gli levarono di dosso la clamide, gli rimisero le sue vesti, e lo condussero via per crocifiggerlo. Nell’uscire [di città], trovarono un tale di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a pigliare la croce. E arrivarono a un luogo, detto Golgota, cioè, del cranio. E dettero da bere [a Gesù] del vino mescolato con fiele; ma avendolo egli gustato, non lo volle bere. E dopo che l’ebbero crocifisso, se ne divisero le vesti, tirandole a sorte. E ciò perché si adempisse quello che era stato detto dal Profeta, quando disse: «Si sono divisi i miei abiti ed hanno messo a sorte la mia veste». E, postisi a sedere, gli facevano la guardia. E al di sopra del capo di lui, appesero, scritta, la causa della sua condanna: – Questi è Gesù, re dei Giudei -. Furono allora crocifissi insieme con lui due ladroni: uno a destra ed uno a sinistra. E quelli che passavano di li, lo schernivano, crollando il capo, e dicevano: S. Tu che distruggi il tempio di Dio e che lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso; se sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla croce. C. Parimenti anche i capi dei sacerdoti lo deridevano, beffandosi di lui cogli scribi e cogli anziani del popolo, e dicendo: S. Salvò gli altri, e non può salvare se stesso. Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo. Confidò in Dio. Se vuole, Iddio lo liberi ora! O non disse che era Figliuolo di Dio? C. E questo pure gli rinfacciavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. Si fece poi un gran buio dall’ora sesta fino all’ora nona. E verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: J. Eli, Eli, lamma sabacthani; C. cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed alcuni che erano li vicini, sentitolo, dissero: S. Costui chiama Elia! C. E subito uno di loro, correndo, presa una spugna, l’inzuppò nell’aceto, e fermatala in vetta a una canna, gli dette da bere. Gli altri invece dicevano: S. Lasciami vedere, se viene Elia a liberarlo. C. Ma Gesù, gridando di nuovo a gran voce, rese lo spirito. Si genuflette per un momento. Ed ecco che il velo del tempio si divise in due parti dall’alto in basso; e la terra tremò; e le pietre si spaccarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di Santi che vi erano sepolti, resuscitarono. Usciti anzi dai monumenti dopo la resurrezione di Lui, entrarono nella città santa e comparvero a molti. Il centurione poi e gli altri che con lui facevano la guardia a Gesù, veduto il terremoto e le cose che succedevano, ne ebbero gran paura e dissero: S. Costui era davvero il Figliuolo di Dio. C. C’erano pure lì, in disparte, molte donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea per assisterlo, tra le quali era Maria Maddalena, e Maria di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Essendosi poi fatta sera, arrivò un uomo, ricco signore di Arimatea, chiamato Giuseppe, discepolo anche lui di Gesù. Egli si era presentato a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù; e Pilato aveva dato ordine che ne fosse restituito il corpo. E, presolo, Giuseppe lo avvolse in un lenzuolo pulito, e lo pose in un sepolcro nuovo, che si era già fatto scavare in un masso; e, dopo aver ribaltata alla bocca della tomba una gran lapide, se ne andò. Erano ivi Maria Maddalena e l’altra Maria, sedute di davanti al sepolcro.]

OMELIA

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e … Soc. Ed. Vita e Pens. VI ed. Milano, 1956]

IL CULTO ESTERNO

Le dolorose profezie, che da secoli erano nei libri santi, ormai cominciavano ad avverarsi in Lui. Ma prima di finire come un ladro, voleva per un giorno trionfare come un re. Al mattino della domenica lasciò la bianca casa degli amici e s’incamminò verso Gerusalemme: andava per morirvi; e lo sapeva; e lo voleva. A metà strada si volse due discepoli e disse loro: « In quel villaggio che ci appare in faccia, c’è un puledro; andate a prenderlo per me. Se taluno vi dirà qualcosa, rispondete che lo vuole il Padrone ».  Sempre a piedi aveva camminato per tutta la vita; a piedi, in fango e in polvere, aveva percorso la Palestina intiera, da Cesarea di Filippi a Gerusalemme Almeno una volta, prima di morire, era giusto che il Re de’ secoli si avanzava cavalcando. Si sparse subito la voce del suo arrivo: la folla ch’era in città per la Pasqua gli venne incontro. Gente lo precedeva, gente lo seguiva. E moltissimi stesero le loro vesti sul suo cammino, e moltissimi tagliarono rami dagli alberi e li gettarono per la via. Erano questi, presso i popoli antichi, gli onori dei re. Così era stato proclamato sovrano d’Israele Iehu (IV Reg., IX, 13); così Giuda Maccabeo entrò in Gerusalemme riconquistata (II Macc., X, 6); così il popolo aveva accolto Arippa ed Alessandro, re di Siria; e così Gesù ha voluto, in quella domenica, trionfare. Intorno a lui, come un inno di vittoria, echeggiavano gli applausi: « Viva il Re che viene in nome del Signore! Pace in terra! Gloria in cielo! Viva il Re ». Ma quel giorno passò. E a sera, quando le ultime grida morivano soffocate tra le case, già nell’ombra si ordiva la congiura del Deicidio. Togliamo dal Vangelo un’osservazione soltanto, e comunissima. Non è raro udire certuni biasimare le manifestazioni esterne del culto cattolico, le processioni pubbliche, il canto del popolo, la pompa degli apparati. Il trionfale ingresso che Cristo ha voluto per sé prima di morire, ci mostra in qual conto dobbiamo tenere questi giudizi degli uomini di mondo. Non solo nell’occulto dell’anima nostra o della nostra casa, ma anche alla luce del sole, per le nostre strade, sulle nostre piazze, in faccia al mondo intero dobbiamo onorare Dio. Il culto esterno non è superstizione o ipocrisia: ma è giusto, è buono – 1. È GIUSTO a) È giusto perché è un dovere dell’uomo. In un’epoca di pace, Davide riposava placidamente nella sua reggia quando i suoi occhi indugiarono sul magnifico soffitto di cedro, ornato con arte e preziosità. « Come! — esclamò. — L’Arca di Dio sta sotto a una tenda di pelle, ed io, servo e creatura, abito una casa di cedro? Chiamò il profeta e Natan gli rispose: « Va: eseguisci tutto ciò che il cuore ti detta, poiché il Signore è teco » (II Reg., VII, 1-3). Ecco il sentimento in cui si fonda il dovere del culto esterno. Dite: non è giusto forse che al passaggio del Re tutto il popolo lo acclami e gli adorni il cammino? E allora perché non è molto più giusto che il nostro Dio, il Re dei Re, sia acclamato con pubbliche feste, con adorazioni e processioni solenni? Tutti vanno gloriosi quando possono avvicinare e onorare il sovrano della terra; ma purtroppo ci sono di quelli che hanno vergogna di avvicinare il Dio onnipotente ed eterno, hanno vergogna di indossare le gloriose divise delle confraternite, di partecipare alle commoventi cerimonie della settimana santa. b) Il culto esterno non solo è un dovere, ma è anche un bisogno. Un ateo aveva proibito alla sua donna di porre piede in Chiesa. Ella si sforzò d’ubbidire. Ma ecco, il più piccolo de’ suoi figliuoli si ammala, e nessun medico riesce a curarlo, nessuno riesce a guarirlo. La misera donna trema, smania, non ne può più: costruisce un altare in casa, vi accende molti ceri, vi colloca in mezzo l’immagine di Maria. L’ateo la vide singhiozzante, ginocchioni, in atto di protendere alla Madonna il piccolo morente. Immaginate, o Cristiani, se non ci fosse più la nostra Chiesa ove piangere, ove pregare, ove benedire l’amore, e santificare i figliuoli, e salutare i morti, che cosa sarebbe del nostro paese? Che cosa sarebbe della nostra vita se non ci fossero più le feste religiose, le processioni, le confraternite coi loro stendardi e con le croci, le associazioni cattoliche con la bandiera consacrata? Sarebbe simile alla vita delle bestie. Sì! Cicerone ha detto che l’uomo si distingue dalle bestie per la ragione; Quintiliano ha detto che l’uomo dalle bestie si distingue per la parola; ma Lattanzio ha detto meglio, dimostrando che l’uomo dalle bestie si distingue per il culto a Dio. Onde conclude che quegli uomini che non onorano Dio ogni giorno con qualche culto, in quel giorno si portano da bestie; e quei padri che non allevano i loro figli ossequiosi a Dio allevano i figli da bestie. – 2. È UTILE. S. Ambrogio in una lettera scritta a sua sorella racconta un fatto mirabile. La città di Milano, a quei tempi, era dominata da un’imperatrice ariana, che non poteva soffrire i trionfi dei Cattolici guidati dal loro Vescovo. Un giorno, dunque, in cui la chiesa dei Cattolici era gremita più che mai, questa donna mandò due compagnie di soldati, parte eretici e parte infedeli, con ordine che s’inoltrassero strepitosamente sino all’altare e mettessero in confusione ogni cosa, rovesciando, battendo e uccidendo tutti i Cattolici assistenti al divin culto. Entrano costoro nel sacro tempio con grida e con armi alla mano; rompono la piena del popolo con tumulto e spavento di tutti, si portano sino al recinto dell’altare. Quivi si fermano come incantati: i grandi doppieri dell’altare ardevano a loro davanti; gl’incensieri elevavano nuvole di profumo delicato; i canonici e i chierici, in ampio giro, erano curvi verso il mistero che si compiva; in alto, sul gradino supremo dell’altare, con gli occhi lucenti d’un chiaro oltramondano, il Vescovo Ambrogio celebrava il Sacrificio divino con lo sfarzo di abiti gemmati. A questo spettacolo non sanno resistere più; s’inginocchiano. E quando tutto il popolo incominciò una melodia serena e lenta, grosse lagrime caddero dai loro occhi. Molti di quegli idolatri chiesero il Battesimo, e alcuni eretici si convertirono. Quello, che tante prediche forse non avevano potuto fare in quegli animi, lo fece la bellezza del culto. Le funzioni della Chiesa, quando sono devote, parlano a tutti come un gran libro. Diderot, incredulo e rivoluzionario, ha scritto: « Io non ho mai veduto quella lunga fila di preti in abiti sacerdotali, quegli uomini robusti ed onesti raccolti nelle loro divise, quelle fanciulle dalle candide vesti e dalle azzurre cinture che spargono canti e fiori innanzi al Sacramento, senza che ne fossi commosso fino al fondo dell’anima e non mi venissero i lucciconi agli occhi ». Se grande è il fascino del culto esterno per gli idolatri, gli eretici, gli empi, maggiore ancora è per quelli che sono già buoni e che, per ciò, sono più disposti a comprenderlo. Davanti alle pubbliche cerimonie sentono la loro fede risvegliarsi, la loro mente e il loro cuore innalzarsi alle cose divine! Sentono veramente di esser fratelli in Gesù Cristo. Non solo gli altri, ma anche a noi, è utile il culto esterno. Maria di Stuart, regina di Scozia, nell’andare al supplizio s’incontrò in un crocifisso dipinto sul muro. Subito innalzò a lui le mani e gli occhi e i sospiri e chiese di potersi fermare alcuni istanti. Ma il duca di Kent, che venivale al fianco, la sospinse verso il patibolo dicendole: « Cristo bisogna averlo nel cuore ». La regina, senza scomporsi, gli rispose: « È vero. Ed è appunto per ravvivarne l’affetto nel cuor mio, che guardavo e sospiravo a quell’immagine ». Questa risposta è bella ed è vera. La nostra anima è avviluppata dai sensi; per questo domanda degli oggetti esterni e delle azioni sensibili e simboliche per risvegliare l’amore, per nutrire la speranza, per legare l’affezione. Del resto, a quelli che disprezzano le solennità pubbliche della Religione e chiamano ipocriti quelli che vi partecipano, a quelli che vantano di essere uomini probi, sinceri, generosi senza portare il baldacchino o segnarsi con l’acqua santa, io rivolgerei coscienziosamente una domanda: « È proprio vero che nel vostro interno glorificate Iddio, voi che disprezzate ogni cerimonia esterna? È proprio vero che la vostra anima serve a Dio, voi che non volete servire col vostro corpo? Avete almeno il cuore penitente, voi che sfoggiate un esteriore mondano? ». Siamo sinceri: troppo spesso a scagliarsi contro il culto esterno, sono quelli che a Dio han già negato il culto interno. – Terminerò con una risposta. Che bisogno ha Dio di tutte queste costosissime chiese, quando ci sono poveri senza tetto? Che bisogno ha Dio di tovaglie e di merletti, di oro e di gemme quando migliaia di fanciulli domandano pane? E poi, che cosa fanno, a Lui che ha creato il sole, i lumini dell’altare? A Lui che cammina di stella in stella le stazioni della « Via crucis » ed i nostri baci a un crocifisso di legno? – Risponderò: Non è Dio che ha bisogno di queste cose, ma siamo noi che abbiamo bisogno estremo di offrirgliele. Non siete persuasi? allora vi dirò che, prima di voi, c’è stato un altro a pensarla così: Giuda Iscariota. Egli ipocritamente biasimò il gesto di culto della Maddalena che aveva spezzato un vasetto di profumo sui piedi del Signore. — LA PALMA. Le folle, nell’amore al Profeta taumaturgo, non sanno meglio esprimere la loro contentezza che strappando rami di palma per agitarli e gettarli sulla via dove deve passare Gesù. Le palme che nelle terre di Oriente si innalzano al cielo superbe, protendendo all’intorno il ventaglio dei loro rami, sono il simbolo più espressivo delle vittorie e del trionfo. Le turbe agitando le palme a Gesù che veniva lo salutavano ed acclamavano Re del suo popolo e Messia sospirato da secoli. Alla venuta di Gesù nel nostro cuore nella Comunione pasquale anche noi, o Cristiani, dobbiamo portare ed agitare le palme: palme che significano vittoria e trionfo sopra noi stessi; palme che significano vittoria contro il rispetto umano che vorrebbe togliere la santa franchezza del bene. – 1. LA PALMA È ARRIVATA CONTRO NOI STESSI. Nelle prime pagine della storia leggendaria di Roma si trova l’episodio di Muzio Scevola. Gli Etruschi venuti col re Porsenna, avevano cinto di assedio la città di Roma per potersene impadronire. Ma quel soldato intrepido, uscito dalle mura, si introdusse nel campo nemico per uccidere il re. Però invece del re ferì il suo segretario. Arrestato mentre fuggiva e condotto dinanzi al sovrano, questi lo prese a minacciare per indurlo a tradire la patria. Muzio Scevola, per nulla intimorito, stende la sua destra sul fuoco per punirla dell’errore commesso ed esclama: « E proprio dei Romani l’essere forti nell’agire e nel soffrire ». – O Cristiani, nel giorno del nostro Battesimo abbiamo promesso di combattere contro i nemici della nostra salvezza: prima fra tutti il nostro corpo, le nostre passioni. Ciascuno porta in sé un tiranno che cinge di assedio le forze dell’anima e vuol toglierci il Signore. Dobbiamo uscire dalle mura della nostra freddezza, del nostro egoismo per uccidere od almeno sconfiggere sempre questo ingiusto aggressore che non ha il diritto di superarci. Spesso forse ci capita di sbagliare il colpo, di non vincere come dovremmo se pure non restiamo del tutto sconfitti. Ebbene, ripetiamo ancor noi le parole dell’eroe di Roma, cambiando opportunamente la frase: « Facere et pati fortia christianum est! È dei Cristiani soffrire ed operare con forza ». Se è vero che portiamo il triste germe del male è vero anche che ciascuno di noi ha in se stesso una grande forza di bene. Basta saper sfruttare le sane energie dell’anima nostra. Se ti senti portato alla superbia, pensa che la tua grandezza vien dal Signore, che tutto dipende da Lui, che la vera ambizione sta nell’ubbidire alla santa sua legge. Se ti senti portato alle cose create, se il tuo cuore si attacca ad affezioni umane, pensa che soltanto Iddio è degno di tutto l’amore, solo Lui può appagare le aspirazioni più belle del tuo affetto. Vuole da te che lo ami davvero: nessuno sa amare più di quanto ha saputo amarti il Signore. Se la sapienza di coloro che non avevano conosciuto il Signore stava nel programma: « Conosci te stesso! » la vera sapienza dei figliuoli di Dio aggiunge qualche mese di più: « Conosci te stesso, cioè la tua dignità di Cristiano, le tue belle capacità di vittoria e di bene; e poi vinci te stesso, la tua parte cattiva, per trionfare in Dio. Nel Signore vincerai e con Lui sarà eterno il tuo godimento ». Del resto la battaglia non è difficile; basta saper incominciare e fidarci soltanto di Dio che stimola ed aiuta la nostra debolezza. – 2. LA PALMA È VITTORIA CONTRO IL RISPETTO UMANO. Un ricco marchese di Francia, trovandosi un giorno con un gruppo di personalità distinte, fu invitato a far la conoscenza con Ernesto Renan, lo scrittore tristemente famoso che osò scrivere una vita di Gesù Cristo in cui sacrilegamente bestemmiò la divinità del Redentore. Ernesto Renan già stava porgendo la mano, ma quel signore ritirando la sua, esclamò ad alta voce, in pubblico: « Io non stringerò mai questa mano che ha schiaffeggiato il mio Signore! » – Quante volte, o Cristiani, noi abbiamo promesso di essere forti, di compiere il nostro dovere, di non aver paura a manifestare la nostra fede colle azioni. Ma ci siamo spaventati dello scherno che ci poteva venire dai nostri compagni, da quelli che ci avrebbero visti e siamo stati vili, siamo stati dei vinti. Così abbiamo dato mano, abbiamo quasi aiutato, siamo divenuti amici di quelli che schiaffeggiano il Signore. Guardate che forza non ha avuto quel ricco marchese di fronte a tante persone. Bisogna che anche noi ci abituiamo ad essere forti, ad essere di carattere. Non sono eroi soltanto quelli che vincono una battaglia sul campo di guerra: costa assai di più vincere il rispetto umano sul pacifico campo della nostra vita, nei rapporti quotidiani con tanti nostri vicini. Un atto di valore tante volte è cosa di un momento. Un gesto di eroismo farà conoscere il vostro nome, ci procurerà applausi ma la fortezza di credere e di esser Cristiani spesso ci attira lo scherno aperto od il sorriso maligno. Teniamo in mente la parola del Signore: « Non abbiate paura di coloro che uccidono il corpo e poi non possono far altro. Ma io vi insegnerò chi dobbiate temere: Temete Colui che dopo aver tolta la vita, ha potestà di mandare all’inferno. Questo sì, vi dico, temetelo! ». (Lc., XII, 4-5). – Dice il proverbio che ride bene chi ride ultimo. Gli ultimi a ridere non saranno i cattivi; di essi avrà vergogna il Figliuol di Dio nel giorno del giudizio (Lc. IX, 26). Gli ultimi a godere, e per sempre, saranno i buoni, i forti. Soltanto essi nel regno dei cieli, nella Gerusalemme celeste, agiteranno le palme della vittoria attorno all’Agnello. – Nei primi anni del 1700 si combatteva una guerra per decidere il successore al trono di Spagna. Filippo d’Angiò, nipote di Luigi XIV re di Francia, era il pretendente più forte alla corona ed il 10 dicembre del 1710 vinceva la battaglia decisiva che gli apriva le porte di Madrid, la città capitale di Spagna. Alla sera, stanco del combattimento, il giovane principe stava per andare a riposare quando un suo Maresciallo lo pregò che gli concedesse di preparargli il letto. Avuto il permesso, il Maresciallo fece portare una gran quantità di bandiere tolte al nemico e, postele una sopra l’altra, invitò il principe ad adagiarsi su quelle coltri gloriose. Era il letto della vittoria. Voi, o Cristiani, avete già capito ciò che questo fatto ci può insegnare. Dobbiamo noi pure combattere per decidere chi deve regnare nel nostro cuore: noi, oppure le nostre passioni. Strappiamo tante bandiere al nemico e gli atti di fortezza che compiamo quaggiù saranno al momento della nostra morte un letto di gloria sul quale chiuderemo lieti gli occhi, per essere risvegliati nel regno dei Cieli.

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps LXVIII:21-22.

Impropérium exspectávit cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni: et dedérunt in escam meam fel, et in siti mea potavérunt me acéto.

[Oltraggio e dolore mi spezzano il cuore; attendevo compassione da qualcuno, e non ci fu; qualcuno che mi consolasse e non lo trovai: per cibo mi diedero del fiele e assetato mi hanno dato da bere dell’aceto.]

Secreta

Concéde, quæsumus, Dómine: ut oculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis devotionis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat.

[Concedi, te ne preghiamo, o Signore, che quest’ostia offerta alla presenza della tua Maestà, ci ottenga la grazia della devozione e ci acquisti il possesso della Eternità beata.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Sancta Cruce

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui salútem humáni géneris in ligno Crucis constituísti: ut, unde mors oriebátur, inde vita resúrgeret: et, qui in ligno vincébat, in ligno quoque vincerétur: per Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che hai procurato la salvezza del genere umano col legno della Croce: cosí che da dove venne la morte, di là risorgesse la vita, e chi col legno vinse, dal legno fosse vinto: per Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la celebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt XXVI:42.

Pater, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum: fiat volúntas tua.

[Padre mio, se non è possibile che questo calice passi senza chi lo beva, sia fatta la tua volontà.]

Postcommunio.

Orémus.

Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii: et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur.

 [O Signore, per l’efficacia di questo sacramento, siano purgati i nostri vizi e appagati i nostri giusti desideri.].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

QUARESIMALE (XXXIV)

QUARESIMALE (XXXIV)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711).

PREDICA TRENTESIMAQUARTA
Nella Domenica delle Palme.

La corrispondenza alle voci di Dio, necessaria alla salute eterna.

Benedictus qui venit in nomine Domini.

Queste parole dell’odierno Vangelo sono voci a voi di giubilo, a me di tormento. Odo trionfi, e sento plausi tributati dalla ossequiosa Gerosolima al Redentore; ed a voi senza dubbio R. A. tripudia il cuore in petto, e l’alma in seno, mentre da vestimenta stese al suolo e da palme sparse in segno di gioia, ne arguite una risoluzione universale di Gerusalemme di volere udire sollecitamente le voci del suo Redentore. Non così segue in me, giacché dall’eremo di Chiaravalle mi risuonano alle orecchie le dolorose voci di San Bernardo. Ahi, ahi, che vedo! Vedo, che tanti e tanti voltano le spalle a Cristo, che viene a chiamarli a penitenza, non lo vogliono sentire. Si, sì, dirò con San Bernardo, queste sono le riflessioni che turbano una giornata sì allegra, hanc serenam diem obnubilant. Rovinò Gerosolima perché  non volle udir le voci del Signore, rovinerà ogn’anima che non voglia udir la parola di Dio, allorché Egli viene per far pace col peccatore ove, all’opposto, se corrisponderà, avrà salute eterna. Non v’è chi non sappia che quando si devono aver trattati di pace non tocca all’offeso domandarla all’offensore, ma bensì all’offensore chiederla all’offeso. Ogni dover vuole che quello il quale ha ingiuriato, vilipeso e maltrattato il suo prossimo sia altresì quello che a lui si umili, gli domandi perdono e pace. Tanto appunto ci narrano le Sacre Carte allorché ci raccontano che Benadad, re della Siria doppo aver oltraggiato, vilipeso e maltrattato in varie guise Acabbo Re d’Israele, egli fu che a questi inviò Ministri vestiti di sacco e cinti di corda, aspersi di cenere, i quali a nome suo gli domandassero con tutta sommissione perdono e pace. Ma o quanto diversamente vedo io oggi praticarsi con voi miei uditori. Ditemi per verità: Chi è l’offeso, voi da Dio, o Dio da voi? Ah, che senza dubbio voi siete quelli che avete offeso Dio, l’avete offeso con i pensieri, l’avete offeso con le parole, l’avete offeso con l’opere. Dunque, ogni dover voleva che voi foste i primi a spedire a Lui ossequiosi messaggeri, i quali a nome vostro, trattassero e concludessero questa pace di tanto rilievo, di tanta importanza. Eppure io vedo operarsi tutto l’opposto; mentisco forse a parlare in tal forma, o questo no? Ecco che Egli è quello, che ha mandato a voi i suoi predicatori evangelici, perché vogliate con esso far la pace, che vuol dire una buona e santa Confessione. Potrò io credere che dopo un sì lungo invito in questo corso Quaresimale, vi debba esserne pur uno che non sia per corrispondere? No per verità; e se ciò seguisse, guai a lui, si costituirebbe in uno stato miserabilissimo, sì per l’ingiuria che farebbe a Dio, sì per il danno grandissimo che risulterebbe a sé medesimo. E qual ingiuria mai maggiore potreste voi fare al vostro Dio di questa? Ditemi, se un vostro amico se ne venisse alla vostra casa per chiedervi un favore, per domandarvi una grazia, non gli fareste voi una grande ingiuria se gli diceste che se ne andasse e che tornasse un’altra volta? Certo che sì, e ve lo conferma lo Spirito Santo ne’ Proverbi al terzo, riprovando un tal fatto come ingiurioso, ne dicas amico tuo vade, revertere, cras dabo tibi. Or, che gran male sarebbe mai usar questo mal termine, non con un uomo eguale a voi, ma con Dio onnipotente, col Signore degli Eserciti, col Padrone dell’Universo; ma avvertite che qui non ferma il mal termine, qui non stagna l’enormità delle ingiurie, ma cresce a dismisura, perché qui non si tratta di ributtare uno che venga a domandarvi grazie e favori, ma uno che viene ad offrirvele, che brama di farvele; più, uno che vi vuol fare il servizio maggiore che possa mai farvisi, qual è dar la salute all’anima vostra. … Or io dico, se il solo fare aspettare un Signore sì eccelso, sì benefico e cortese ed il non rispondergli subito
subito, basterebbe per altamente offenderlo, giudicate voi qual ingiuria sarebbe non solo farlo aspettare qualche poco, ma chiudergli ostinatamente la porta perché non entri, che vale a dire, non dare orecchio agli inviti suoi. Sebbene motivo più gagliardo al peccatore per far la pace con Dio sarà non l’ingiuria che fa a Dio, ma il danno che fa a se stesso. Or che gran danno fate a voi peccatori, se ricusate un’occasione sì bella di convertirvi, che altro non è che far la pace con Dio. Dovete sapere che Iddio, sì come ha ab eterno ordinato, determinato il fine della vostra salute, così pure ha determinato il mezzo; e qual mezzo mai più efficace può darvi della Divina Parola? Or, se voi lo ricusate, non potrete con fondamento temere della vostra salute? Guai a Zaccheo se chiamato da Dio non scendeva dall’albero subito per alloggiarlo. Guai a Matteo, se alle voci di Cristo non rispondeva con lasciare dubito il Telonio. Che sarebbe mai stato della donna samaritana, se ella avesse ricusato d’udire le parole di Cristo, se gli avesse voltate le spalle, se non gli avesse in verun modo prestato orecchio, ma avesse detto: adesso ho altro che fare, sono assetata, sono arsa, e poi l’ora è tarda, hora est quasi sexta, conviene che io torni alle mie faccende domestiche. Ditemi, se così avesse operato e parlato questa donna, non è più che probabile che ella avrebbe seguitato la sua vita infame, che sarebbe rimasta negli errori della sua infedeltà, e che ora piangerebbe giù tra i dannati nell’inferno? E perché non devo io temere che sia per esser l’istesso se voi adesso non rispondete agli inviti di Cristo, che con voi vuol pace, e perciò vuol che vi convertite? E di fatto, perché si perdette Gerusalemme? per qual causa una città sì ricca, sì nobile, sì bella, capo d’imperio, sede di re, città regina delle città, che in più giri di mura cingeva più corone, per qual causa, dico, fu desertificata dal ferro, fu incenerita dal fuoco? Non per altro, perché non seppe valersi del tempo suo, non corrispose quando Dio la chiamò a penitenza, eo quod non cognoveris tempus visitationis tuæ. Poveri voi, miseri voi peccatori, sì simili a Gerusalemme: ricuserete le chiamate di Dio, poiché proverete ancor voi estermini; sapete quello che farà Iddio con voi? Vi tratterà da nemici giacché tali volete essere non facendo seco la pace e perciò potrete temere, che non mandi sopra di voi i suoi fulmini con severi castighi, ed anche con togliervi ad un tratto la vita; lo potrebbe certo far con voi, siccome l’ha fatto con altri simili a voi. Così la tolse ad un cavaliere d’una città in Toscana, il quale senza dare orecchio alle chiamate divine se ne andò agli spassi con i compagni, da uno de’ quali, per divina permissione, fu ferito da un colpo di archibugio, di modo tale che in tre giorni se ne passò all’altra vita. Miei UU. non ne mancano di questi casi, però fate pace con Dio, perché altrimenti vi potete aspettar di peggio. Sapete quello farà Iddio se voi non approffittate di questa bella occasione, se non vorrete la pace che Egli per mezzo mio v’offre: cesserà di visitarvi, cesserà di parlarvi più al cuore, vi volterà le spalle. O che gran castigo sarebbe mai questo, e voi non inorridite a queste proteste? Ben si vede, dunque, che non capite ciò che voglia dire voltarvi Dio le spalle, abbandonarvi; non vi parlar più al cuore vuol dire darvi il maggior castigo che possa uscire dal braccio formidabile della sua Onnipotenza; e non udite come Egli se ne dichiara per bocca del suo Profeta, veæ cum recessero ab eis, guai a voi, se io stanco delle vostre ripulse, mi risolverò d’abbandonarvi? O che gran castigo, o che gran danno sarà il vostro. Io non dico, miei UU. che Iddio allorché vi volterà le spalle sia per privarvi di quella grazia la quale è necessaria per non cadere in peccato; ma dico bensì che ne sarete assistiti sì languidamente, che per vostra colpa vi cadrete. Talché a vostro maggior danno seguirà che dopo la caduta sarete privi dell’aiuto più copioso, e così privi non vi risolverete a pentirvi di cuore e a ritornare a Dio. Poveri voi, e qual castigo mai maggiore potete sognarvi di questo: che Dio v’abbandoni in tal modo che Dio non vi parli più al cuore, e vi volti le spalle? Volete conoscer meglio che castigo sia questo, ditemi. Se il sole fosse a forte sdegnato con la terra, qual sarebbe il maggior castigo che potesse dargli? Forse cangiar tutti i suoi raggi in tanti fulmini, e tutti sopra d’essa scaricarli? Appunto, il castigo maggiore sarebbe nascondere il suo volto, non comparir più sull’orizzonte, allontanarsi da lei, poiché allora la misera resterebbe pigra, fredda, gelata. Non più verdeggerebbero i campi, non più fiorirebbero i prati, si seccherebbe ogni pianta, ogni fonte, ogni fiume s’imputridirebbe. Per castigar la terra, quando il sole fosse con essa adirato, nulla più vi vorrebbe che voltargli le spalle. E se l’anima stesse adirata col corpo, qual vendetta più atroce potrebbe prender di lui, quanto dirgli: io me ne vado, io ti lascio? Ed ecco che partita l’anima, diviene un cadavere, diventa un mucchio di vermi, di putredine, di sordidezza. Dio vi liberi dunque, miei UU., che Iddio da voi si slontani, vi volti le spalle, e lo farà se voi adesso non venite seco a far la pace. E questa pace, se non la volete ora che ve la offre, è molto probabile che ve la sentiate negare quando la domanderete, quærent pacem, non invenient. Questa appunto negò all’infelicissimo Imperatore Valente, ma che non fece prima di negargliela, acciocché egli rientrasse in sé stesso? Voi ben sapete che egli spedì un uomo santo per nome Isacio abitatore de’ monti, il quale pieno di Spirito Divino si fece innanzi all’Imperatore, allorché con grosso esercito a danno de’ Cattolici si portava, ed appressato a lui gridò ad alta voce: Imperatore, se non comandi che si aprano le Chiese da te chiuse, resterai morto. L’udì Valente, e lo schernì come pazzo. Non si perde d’animo Isacio, tornò il dì seguente, e con voce più alta replicò: Imperatore, o s’apron le Chiese, o morirai. A questa replica si turbò Valente, e tra sé considerava, se dovesse o prezzare o disprezzar quel le voci. Deliberò consigliarsi ed i consiglieri, anche essi Ariani, lo persuasero a castigar più tosto, che ad udire l’ardito monaco. Quanto si stabilì nel consiglio, tanto si eseguì. Poiché tornato la terza volta Isacio alle medesime minacce, ordinò l’imperatore che fosse gettato in una orribil fossa, e così ucciso e sepolto nel medesimo tempo. Ma che, appena passato l’esercito, Isacio per mano di tre bellissimi giovani fu levato da quelle miserie, e postosi in cammino raggiunse l’Imperatore, e con sembiante di fuoco … e credevi, disse, che io fossi morto? Eccomi per avvisarti di nuovo: ravvediti, apri le Chiese se vuoi riportar vittoria, altrimenti vi resterai. Ed è pur vero, che neppure a questa quarta denunzia l’ostinato Valente s’ammollì; anzi, dato in smanie, fece catturare Isacio per castigarlo poi ritornato che egli fosse da quella impresa. Ma Isacio rivolto a Valente gli disse: t’inganni, se pretendi castigar me, tu, tu sarai il punito, perché non potendo resistere al nemico, cederai, fuggirai, e finalmente caduto nelle loro mani morirai bruciato. Quanto Isacio disse, tanto seguì, perché fuggito Valente e nascosto in una casuccia gli fu dato fuoco, e così fu bruciato vivo. Che dite UU. che più poteva fare Iddio per convertire questo tempio? … Non avrà scusa nel giorno del Giudizio. Che più poteva Iddio far con voi, quante volte v’ha avvisato per mezzo di religiosi, di confessori, di predicatori, che lasciate la pratica, che restituiate il tolto, e facciate quella pace, e voi duri, e voi perversi, e voi ostinati. Tutto il male di Valente fu perché si vergognò di dar fede ad un povero monaco; tutto il vostro male verrà perché non volete dar fede a me, povero ministro di Dio. Deh date orecchie, quantunque io sia debole di talenti, sia peccatore; confesso d’esser il minimo di quanti parlano da’ sacri pergami; non è però che io non possa essere un altro Isacio per voi, sicché, se voi non mi ubbidirete, voi altresì non vi perdiate. Si corrisponda dunque alle chiamate di Dio. Non più peccati, non più peccati, o mia cara città. Deh non crescano più le zizzanie di tante disonestà, di tanti furti, di tanti odii in questo campo del Padrone evangelico, perché io temo che tanti siate quei servi, che si portino al Tribunale di Dio e lo preghino della licenza di portarsi al campo per sradicare e buttar nel fuoco la zizzania di tanti peccatori. Ecco, ecco, miseri voi, che quel formidabile corteggio di tutte quelle creature che stanno armate al Trono di Dio, ad ultionem inimicorum, grida con quegli Evangelici Famigli, vis, imus, colligimus ea; Vis, imus, gridano i fulmini e, scagliandoci dalle nuvole, andremo precipitosi con impeto spaventoso a diroccar quei palchi, ove con immodestie si conculca il vostro onore, a buttare a terra quelle sale, quelle camere che, con veglie balli e canti disonesti s’oltraggia la Maestà vostra. Vis, imus, gridano i venti, ecco che stanati dalle nostre caverne scoppieremo con orribile terremoto, e buttando a terra quelle abitazioni dentro delle quali si dà ricetto ad amori indegni, ad accordi, a macchine per la rovina del prossimo, ne seppelliremo vivi gli indegni. Vis, imus, gridano l’acque, eccoci, che scapperemo da nostri lidi, da’ nostri argini, e scorreremo con orribili inondazioni, a desertar quei poderi, che sì ingiustamente alimentano i vostri inimici. Vis, imus gridano le fiamme, ecco che ci spargeremo per le piazze, per le strade, per le case, e voleremmo con orribile scorreria ad incenerire quei carubbi, ove tanto sono le usure, ad incenerir quei ridotti, ove tanti si radunano a danno del prossimo, vis, imus, vis, imus, grida a Dio tutta la birreria che egli tiene sopra le nuvole … ignis, grando, nix, glacies, spiritus procellarum: noi faremo le vostre parti, noi dissiperemo i vostri nemici; scegliete pure, o tuoni, o folgori, o grandini, o procelle, tutti siam pronti, guai a voi, se non corrispondete, e respiro.

LIMOSINA.
Quando un padre di famiglia fa nella casa un majorascato non pretende già che il figlio maggiore abbia tutto, o questo no; ma pretende che conservando egli col dovuto decoro lo splendor della famiglia, mantenga col dovuto sostentamento i fratelli minori, né è mai stata intenzione del padre di famiglia che i fratelli minori non debbano aver da vivere. Ricchi, comodi, voi siete stati trattati da Dio come primogeniti, ma Dio non intende che voi spendiate il tutto a vostro capriccio, ma bensì, che manteniate ancora i vostri fratelli minori, che sono i poveri, altrimenti Dio vi toglierà la primogenitura ..

SECONDA PARTE.

Quanto di male vi sovrasta, se non corrispondete alle voci di Dio, altrettanto di bene vi annunzio, se voi gli corrispondete; né mi state a dire che non sarà possibile il vostro risorgere dagli odi, dalle disonestà, da’ giuochi etc. perché questa non ha da essere opera vostra sola, ma di quel Dio ma di quel Dio, che tutto può e che vuole la vostra salute, purché voi dal canto vostro la vogliate. Parlate con un infermo e sentirete che egli non stima mai possibile poter operare quelle cose che praticano i sani, correre, saltare, ballare. Eppur guarito che egli sia, fa tutto. Ricordatevi che Cristo disse a San Pietro allorché era debole, non potes me sequi modo, sequeris autem postea che è quanto dire, dice qui Sant’Agostino, eris sanus, sequeris me. Se corrisponderete a Dio che vi chiama, risanerete da’ vostri mali, e risanati vi farete santi. Vi confermi questa verità il fatto di Maria Egiziaca: or ditemi, se io fossi andato a parlar a questa donna del tutto immersa nelle dissolutezze, e gli avessi detto, allorché più dissoluta se ne stava in Alessandria: sappi, o Maria Egiziaca, che ha da venire un giorno in cui tu, non solamente rifiuterai ogni comodo, ogni spasso, ma ritirata negli orrori d’un bosco menerai una vita piena di tormenti; sappi che tu sarai quarantasette anni senza mai vedere faccia d’uomo, ed altro ai tuoi occhi non si farà vedere, salvo il volto di lupi, orsi, leoni e tigri; partirai dalla città con soli tre pani, e questi duri ed ammuffiti ti serviranno di sostentamento, e questi finiti ti ciberai a guisa di fiera con le erbe del bosco e con acqua di paludi; sappi, che nei rigori del verno tra le nevi e tra’ ghiacci non avrai né veste che ti ricopra, né tetto che ti alloggi; questi tuoi occhi, che ora ti brillano in fronte ed incatenano i cuori, ha da venir tempo, che per concederli un’ora di sonno gli hai da costringere a piangere amaramente e mattina e sera. Questo tuo petto ricetto di tanti affetti, e ricoperto di gioie, l’hai da percuotere con pugni, con sassi, e sempre l’hai da tenere tra singulti e tra sospiri. Ditemi miei UU. se io così avessi parlato ad Egiziaca, non avrei io presso di lei meritato il nome di stolto? Come, io – m’avrebbe detto – partir dalla città, abbandonare i comodi, io senza le dissolutezze, senza le delizie di cibo, io senza morbidezza di piume, io senza sensuali contenti? Non può essere, non sarà mai, prima morire che eleggermi una tal vita; e pure, miei UU., perché corrispose alle voci di Dio, non solamente elesse una tal vita, ma le parve facile, ma le riuscì gioconda, come ella stessa vicina a morte testificò all’Abbate Zosimo. Animo, animo, miei UU., corrispondete a Dio che vi chiama, e non dubitate che di peccatori diverrete Santi. Tanto intervenne a quel peccatore veduto da Paolo il semplice. Uditene la storia, e non dubitate, che se darete orecchio alle voci di Dio, di gran peccatori, diverrete gran santi. Se ne sta va Paolo, detto il semplice, alla porta della Chiesa per osservar santamente quelli che vi concorrevano, o buoni e rei; quando una mattina, vide un spettacolo orrendissimo poiché vide un peccatore tutto squallido, sozzo e mostruoso, il quale veniva tenuto tra catene da due diavoli ed aveva dietro, ma assai da lungi, il buon Angelo suo custode che il seguiva con volto malinconico e con lento passo. A tal vista proruppe Paolo in lacrime, ma tra poco altrettanto si consolò, perché all’uscire, che quel misero fece dalla Chiesa, non solo lo mirò libero da’ demoni, ma lo vide anche sì bello e sì risplendente, che quasi non lo distingueva dal suo Angelo custode, che non più turbato, ma del tutto allegro gli stava a lato. Corse allora Paolo frettoloso a quell’uomo, lo fermò, l’interrogò ed intese che, avendo dato luogo nel suo cuore alle voci di Dio, proferite per mezzo del predicatore, tornava a casa risoluto di mutar vita… Cari miei uditori, se non darete udienza alle voci di Dio, vi sovrasta il precipizio dell’anima. Se corrisponderete, assicuratevi che ancorché gran peccatori, diverrete gran santi.

Quaresimale(XXXV)

QUARESIMALE (XXXIII)

QUIARESIMALE (XXXIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711).

PREDICA TRENTESIMATERZA
Nella feria sesta della Domenica di Passione.

Il peccatore disonesto è per verità gran peccatore; grande per la qualità del fallo; grande per il numero de’ peccati; grande per la malizia con cui li commette.

Fornicatio autem, et omnis immunditia, nec nominetur in vobis sicut
decet Sanctos.
L’Apostolo San Paolo, Epist. Eph. 5.

Eccomi su questo pulpito stamane, risoluto di prendermela a faccia scoperta col brutto mostro della disonestà, giacché egli è quello che col piede indegno calpesta il più bel fiore della Cristianità, con l’alito pestilente l’avvelena, e col dente maligno la lacera. È vero, che d’un vizio di tal sorta neppure converrebbe parlarne o nelle contrade egiziane o nelle moschee de’ Turchi. È vero che l’Apostolo ci vieta eziandio il nominarlo, ma come può tacersi, mentre l’ammorbato lago delle sue abominazioni si è talmente dilatato che la povera colomba non ha ormai ove posare innocente il piede, e dappertutto s’incontrano sozzi amori. Entrate nelle case, ecco gli amori; andate nelle piazze, ecco gli amori, portatevi alla campagna … ecco gli amori. Che più? Penetrate i Santuari, le Chiese, e quivi pure troverete indegni amori: che occorre di più? Basti dire che talora le lordure si nascondono sotto gli abiti stessi più sacrosanti. Si, dico dunque, ne parlerò di questo brutto mostro. Ma tu, o sole, intanto nascondi per l’orrore i tuoi raggi. Me la prendo dunque con zelo apostolico contro de’ disonesti, i quali, dopo d’essersi satollati de’ frutti pestiferi di questa pianta infernale, si ricoprono poi con le sue fronde; spacciando che il loro fallo alla fine non è altro che una mera fragilità. Orsù, io voglio strapparvi d’intorno queste fronde d’una scusa del tutto bugiarda, la quale raddoppia più tosto la vostra malizia e farvi veramente toccar con mano, che un uomo disonesto è per verità gran peccatore. Qua, qua, alle strette, alle prese. Che cosa si richiede perché uno possa dirsi gran peccatore? Tre cose: la qualità de’ falli, il numero, la malizia. Vediamo se tutte tre concorrono in un disonesto, e poi negate, se potete, che il disonesto non sia un gran peccatore. Se vogliamo ben conoscere questa verità non bisogna che consideriamo il peccato della disonestà con l’occhio de’ disonesti per una debolezza, per una fragilità, per una quasi necessità di natura alla condizione dell’uomo troppo connaturale; ma bensì come ce lo rappresenta la Fede ed i sacri Dottori. – La Fede ce lo rappresenta per una colpa tale, che basta tenere un’anima sommersa nel fuoco per una eternità per colpa tale, che se Dio fosse capace di dolore, più disgusto gli recherebbe un peccato disonesto che non gli recano di consolazione tutti gli ossequi di quanti regnano in Cielo: colpa tale che mai potrebbe pagarsi adeguatamente da tutte le opere buone di mille mondi; ancorché fossero pieni d’anime sante, ed ognuna di loro fosse più Santa che ora non è la Vergine Santissima. Or io dico, una colpa sì pestifera potrà chiamarsi da gente battezzata il minor male che commetta l’uomo? Ah lingua sacrilega, lingua scomunicata! Taci, taci … E di’ piuttosto che questo peccato è una grandissima iniquità: nefas est, et iniquitas maxima. Né solo è grande in sé stesso il peccato della disonestà, ma è grande anche paragonato con gli altri. L’Angelico San Tommaso insegna che tra quei peccati o che offendono la carità del prossimo o di noi stessi, toltone l’omicidio, il più grave è la disonestà: più grave che non è il furto, che tanto s’odia, privandoci de’ nostri averi; più grande della detrazione della fama, della reputazione che dalle persone onorate si stima più della vita. E la ragione si è, perché i peccati de’ disonesti, sebbene non sono contro la vita d’un uomo già nato, come sono gli omicidi, sono però contro la vita di un uomo che può nascere, o privandolo affatto d’essa vita, o dandogliela con modo disordinato e contrario a quello che intende la natura. Oh che peccato è mai questo della disonestà! E se è tanto male in gente libera, che sarà se vi è parentela d’affinità? Peggio di consanguineità? Peggio, spirituale? Che farà se si manchi di fede al marito, alla consorte, se si manchi di fede a Dio oltraggiando il voto di castità? Che sarà se si irriti il Cielo ad incenerirti con i cittadini delle pentapoli nefande? Sebbene, che dico? I disonesti non sono capaci di prove sì chiare; merceché dalla Scrittura sono paragonati agli ubriachi privi di senno: Fornicatio, ebrietas auferunt cor. È necessario che io per convincerlo mi serva d’argomenti più grossi. Diciamo dunque così: quel peccato che la giustizia Divina ha sempre più severamente perseguitato in terra e più acerbamente punito, convien dire che sia quello che ella più abomina; giacché siccome i benefizi sono manifesti segni d’amore, così i castighi lo sono d’odio. Or se così è, o disonesti, bisogna, che voi affermiate queste due proposizioni: la prima, che niuno eccesso ha Iddio vendicato con pena più universale e più tremenda, di quello che abbia vendicato la disonestà; la seconda, che niuno altro eccesso è solito Egli di vendicare con simil pena. Angeli Santi, che foste ministri della Divina Giustizia; allorché rotte le cataratte del cielo, lasciaste cadere a diluvi le acque sopra la terra. Ecco rotto ogni lido a’ mari, ogni argine a’ fiumi; ecco, che il mondo si sommerge, uomini e donne, grandi e piccioli, nobili e plebei, principi e sudditi, monarchi e vassalli; tutti alla rinfusa restano sommersi sotto dell’acque. E perché, Angeli Santi, un mondo intero affogato sotto dell’acque? Eccone la ragione, rispondono quegli Spiriti Angelici. Dovete sapere, che gli uomini a quel tempo, s’erano ingolfati nelle abominazioni del senso, e però erano divenuti sì odiosi agli occhi divini, che Iddio non potendoli più sopportare ebbe a dire: non permanebit spiritus meus in homine in æternum, quia caro est, che vale a dire, come spiega la Glossa, troppo dato a’ vizi della disonestà; idest nimis implicatus peccatis carnalibus. Onde Iddio affogo’ i colpevoli, perché  infetti nelle disonestà affogò gli innocenti perché  non si infettassero: mostrando in tal forma nella morte degli uni e degli altri, l’odio che porta alle disonestà. Disonesti qua: un’occhiata a questo gran monte di cadaveri: specchiatevi, e nel vederlo dite, se vi dà l’animo, che la disonestà è il minor male che commetta l’uomo. Ditemi: se Iddio per eccessi simili mandasse in rovina tutta la vostra città, ardireste di dire che è poco peccato? E se passasse a mandare in rovina tutta l’Italia, direste che è un male di poco rilievo? No per certo. Ah iniqui! Ed ardirete di dire che l’esser disonesto è poco male, mentre ha tirato seco la rovina del mondo tutto? Da qui avanti, o disonesti, o negate fede alle Divine Scritture, o strappatevi di bocca quella lingua malvagia, prima che torniate a dire che la disonestà è il minor male che si commetta. O che gran male è la disonestà! Basta dire, come osserva San Tommaso di Villanuova, che Iddio non manda certe stragi universali per altro delitto che per questo. È comune opinione degli espositori, che la desolazione intimata già a Ninive, adbuc quadraginta dies, et Ninive subvertetur, non per altro seguisse che per la disonestà. Cari miei UU. se sono infettate da pestilenza le città, date la colpa alle lascivie; se sono scosse da terremoti, sicché non rimanga, quasi dissi, pietra sopra pietra: sia la colpa de’ disonesti. La disonestà porta le carestie, la disonestà arma le milizie, e se mi direte: Padre abbiamo riscontri che questi castighi, e particolarmente i terremoti, siano mandati da Dio, non per le disonestà, ma per il poco rispetto alle Chiese? Io vi rispondo che avete ragione. Ma ditemi, perché si rispettano poco le Chiese? Per parlarci disonestamente, per farci all’amore, come se si stesse ne’ postriboli, contrattandosi l’onor della maritata, la castità della donzella. – Il vizio della disonestà tanto abominevole agli occhi di Dio, è abominato anche da’ Santi in Cielo, dalle bestie in terra, da’ demoni dell’inferno. Era già Maria Maddalena de Pazzi ad abitare tra’ Serafini del Cielo, quando nel suo medesimo cadavere mostrò d’aborrir tanto un giovane impuro venuto a vederla … che così morta gli voltò le spalle. San Francesco di Paola abominò tanto una donna intaccata di questa pece che, essendo ella con le altre venuta in Napoli per baciare un dente del Santo racchiuso in un prezioso cristallo, il dente si ruppe per mezzo. Santa Francesca Romana passando d’avanti la porta d’una donna malvagia, ebbe a venir meno; ed a Santa Caterina di Siena si rendeva intollerabile il fetore di alcuni peccatori disonesti. Ma che gran cosa che sia in odio a’ Santi, mentre è abominato anche dalle bestie? Racconta Tommaso Cantipratense, come una certa femmina data in preda agli amori andava di male in peggio: quando Iddio per ravvederla, mentre ella dormiva gli si fece vedere assiso in trono in forma di giudice, assistito da numerose squadre d’Angeli ed Arcangeli, e da schiere beate di Vergini, Martiri e Confessori, e già stava per udire la sentenza di dannazione. Si raccomandò allora la giovane, ed ottenne la grazia di non esser condannata ma di aver tempo di far penitenza, e sentì dirsi: lascia veglie, lascia balli, lascia amori. Giovò questa visione per qualche tempo; ma perché era tanto invischiata in quei maledetti amori, tornò come prima a vagheggiare, ed a farsi vagheggiare barattando colpe, e con gli occhi, e con fatti. Volete altro? non potendo più Iddio tollerare la di lei disonestà, la buttò ammalata in un letto; indi a poco la mandò la morte, e passò all’altra vita senza Sacramenti. Sollevato il cadavere, secondo il costume, fu posto sopra una tavola in una camera: quando ecco si vedono entrare due cani mastini, che ben mostrarono d’essere avidi di saziarsi di quelle laide carni: s’avventarono, ma ne furono respinti la prima volta, non così nel secondo assalto; poi che addentarono fieramente quel cadavere, che tutto ridussero in pezzi, e con il loro urlo chiamarono quanti erano cani nella città a saziarsene. Né solo i disonesti sono in odio alle bestie, ma agli stessi demoni: sì, sì, a’ diavoli stessi. È certo che vari demoni sono occupati a tentarci, chi d’interesse, chi di vendetta, chi di superbia. A tentare di disonestà, credete voi che siano occupati i compagni di lucifero, che vale a dire, i più nobili? Appunto, i più vili, i più sozzi. Ecco le parole di San Tommaso: dicuntur magistri aliquot dæmones, qui memores antiquæ nobilitatis dedignatur de luxuria tentare. Non occorre altro: siete in odio, o lascivi, anche a’ diavoli; ed appunto uno di questi si lasciò vedere ad una rea femmina, allorché lordava col corpo l’anima e dissegli: ohibò, ohibò! Lasciandola ivi tramortita. – Dite ora, se potete, che il peccatore disonesto non sia un gran peccatore, mentre è in odio fino a’ diavoli. Dite, che la disonestà è il peccato più leggero; che io ve ne do la smentita; soggiungendo che in radice è il maggiore, perché e padre di furti, di risse, di omicidi, d’irriverenze alle Chiese, e di quanti prescrive precetti Dio e ne comanda la Chiesa. Datemi mente: confesserete ancor voi la gravezza della disonestà. E se sono detestabili i disonesti per la gravezza del fallo; niente meno lo sono per il numero delle loro lascivie; certo che con ogni ragione quel demonio che teneva gli uomini di disonestà si chiama nella Scrittura Sacra: Asmodeo che, secondo la forza della lingua santa vuol dire: abbondanza di peccati; perché chi si dà in preda a questo vizio ne commette tanti e tanti, che egli stesso non ne sa rinvenire il numero. O quanto mai cresce la gravezza di questo peccato per la moltitudine che se ne commettono! Sacri confessori se a’ vostri piedi si presenta un ladro, un assassino di strada, un bestemmiatore, è pur vero che sanno ridirvi il numero delle loro colpe: ma se vi viene un disonesto, tanti sono i peccati commessi ne’ pensieri, nelle parole, nell’opere, che non ve ne sa dire il numero, e se voi nuovamente l’interrogate: quanti? Egli vi risponde: non lo so, … ma lo sa il diavolo, se non lo sai tu, che li ha registrati tutti a tua dannazione. Quanto tempo è che divenisti infedele a Dio per osservar la fede di una donna infedele al suo consorte. Sono mesi, sento rispondermi, sono anni, ed i peccati commessi chi può saperli? Quanto tempo è, o femmina, che ti adorni disonestamente per piacere a chi non devi? Quanto tempo è che vivi nelle braccia del diavolo? Sono anni, ed i peccati chi li sa? Quanti, o Dio, a tre peccati mortali il giorno in quindici anni, sono più di sedici mila peccati mortali, e pure vi saranno tanti e tanti, e forse anche in questo luogo, che tra compiacenze malvagie, tra desideri iniquità, tra scandalosi tentativi ed opere consumate, arriveranno … Iddio sa a quanti peccati il giorno, e ciò non per lo spazio solo di quindici anni, ma di venti, ma di trenta e più; e però chi può sommare il conto delle loro colpe? E poi ardite di dire, che non sono nulla i peccati di senso; mentre non cedono, ma superano ogn’altro nel numero.  Aggiungete di più, che ogni peccato disonesto, e ben spesso come quel frutto del Malabar, che ognuno ne racchiude più di trecento; sguardi, cenni, parole,
mezzi malvagi, ond’è che giustamente San Pietro chiamò questo vizio: diletto che non ha fine: oculos habentes plenos adulteri, et incessabilis delicti; perché ben spesso si principia dagli anni più teneri, e non si finisce finché la morte non viene col suo freddo fatale a smorzar quelle fiamme di disonestà; trovandosi ben spesso chi a guisa del mongibello di fuori e bianco per la canizie, di dentro avvampa di lascivia. Prima che la Santa Fede dileguasse nella gran Città del Messico le tenebre della idolatria, ogn’anno si sacrificavano al demonio i cuori di ventimila fanciulli raccolti da tutto il Paese, e miseramente scannati. È bontà del nostro Iddio, che a nostri giorni e ne’ nostri Paesi non si pratichino sacrifici tanto inumani; ma è altresì malizia esecranda di satanasso l’aver tra’ Cristiani addomesticata sì fattamente questa furia infernale della disonestà, che per essa si sacrificano al demonio ogni dì un numero senza numero di Cristiani; e se gli sacrifica non solo il cuore materiale, ma l’anima ed il corpo; ed in ogni luogo, ed in ogni momento s’alza altare e si compisce l’orribile sacrificio. Dissi che gli si sacrifica non solo l’anima, ma tutto il corpo ancora, perché  gli altri peccatori offendono la loro anima; ma i disonesti offendono ancora il corpo: qui fornicatur in corpus suum peccat; di più se gli offre in olocausto perché non si riserba parte alcuna: non gli occhi, che come tante spie vanno sempre in cerca di nuovi oggetti; non le orecchie sempre attente ad udire laide canzoni e ragionamenti disonesti, non la lingua sempre occupata a promuoverli; non le mani, non i piedi tutti ministri d’oscenità. Dissi in ogni tempo ed  in ogni luogo; perché non dirò quale strada, qual piazza, ma qual casa, e qual Chiesa dove l’onestà abbia ai dì nostri un sicuro riparo, e qual tempo, ove ella possa quietamente posare? E non è vero che il sonno stesso non è in costoro innocente abbastanza, mentre aggirandosi per la fantasia quei fantasmi d’impurità che hanno un franco commercio tutta la giornata, espongono anche ad occhi chiusi in vista de’ miserabili disonesti, laide rappresentazioni che, quasi mercanzie di gran pregio, sono da loro comprate con un libero consenso, quando gli svegliano; e pagate allegramente con rinunziar per esse al Paradiso. Una vita dunque così pestifera, il di cui ordito sono perpetui desideri, perpetui incitamenti, ed il ripieno sono perpetui eccessi talora sconosciuti fino alle bestie; una vita, dunque, di tal sorta chiamerete fragilità? Il minor male che si commetta? Eh, che bisogna una volta gettar giù dalla faccia questa maschera che vi sta sì male; non bisogna più dire: che peccato è? Che mal è una fragilità? Bisogna bensì dire che mal è un numero senza numero di migliaia de’ più abominevoli peccati che commetta l’uomo, un numero senza numero di peccati, de’ quali si vergogna lo stesso demonio, un numero senza numero di peccati che allontanano l’anima affatto da Dio, più che comunemente non fanno gli altri; giacché al dire di San Tommaso: Homo per luxuriam maximè recedit a Deo, un numero senza numero di peccati per cui l’uomo è divenuto tutto del diavolo; così asserisce San Cipriano demon totum hominem agit in triumphum libidinis; un numero senza numero di quei peccati per i quali si riempie l’inferno; così attesta San Remigio exceptis parvulis per carnis vitium pauci salvantur. E questo è quel peccato che voi chiamate da nulla, e lo ricoprite col nome di fragilità, che la volete far comparire per una febbre necessaria allo sconcerto della vostra natura e per una necessità di condizione umana. Ah stolti indegni! Ben si vede che non solo siete ciechi, per aver gli occhi chiusi, ma siete ciechi perché ve li cavate, per non vedervi. Piacesse al Cielo che questa nostra cecità bastasse per alleggerire le vostre colpe; appunto non può essere, perché le vostre colpe sì gravi per la qualità, e sì intollerabili per il numero, si rendono gravissime, perché le commettete con una strana malizia. Uditemi. Chi pecca per abito, dice San Tommaso, non pecca per infermità, o fragilità, ma pecca per malizia. Ditemi: evvi ́mai niun peccatore, il quale più pecchi per abito del disonesto? No per certo, il peccatore disonesto, con atti tanto intensi e tante volte replicati, produce in sé un abito fortissimo. Un atto solo vizioso basta talora per formare una dura catena del male costume. O giudicate voi, le basteranno poi tanti e tanti, che vi si aggiungono
alla giornata: questi rinforzeranno ogni dì più quei legami infernali e li renderanno più difficili ogni volta che di a sbrigarsene, aggravabit compedes vestros, ut non egrediamini; ed ecco donde nasce principalmente quella adesione al bene creato, per la quale sebbene il peccator disonesto non è sempre il maggior di tutti secondo la sua specie; diventa il maggior di tutti nel suo individuo; tanto segue ad insegnare l’Angelico: si hoc peccatum secundum speciem non fit majus aliis: est majus in individuo quia fit cum adhæsione maxima. Ad Alessandro Magno furono donati alcuni cani sì bravi, i quali afferrata che avevano una volta la preda, non lasciavano mai più: e per farne la prova; ad un di essi, che aveva addentata una fiera, gli fu tagliata prima una zampa, e poi l’altra, indi le cosce, e poiché tuttavia teneva stretti i denti fu tagliato per il mezzo, e non bastando anche questo, gli fu reciso il collo; credereste, anche col collo reciso, e così morto seguiva a tener stretta la preda. Queste bestie così avide ed indivisibili da quelle fiere alle quali s’attaccano, sono il vero ritratto de’ disonesti, i quali quantunque si vedano della età già cadente fare in pezzi; benché provino la mancanza delle forze; pur seguono a tenersi co’ desideri quel diletto infelice che fugge loro dalle mani, finché tagliati per mezzo dalla morte, lasciano talora un buon legato all’amica; non volendo che neppure la sepoltura abbia tante ceneri da sorpassar l’ardor maledetto del loro amore. E questo operare, voi ardirete chiamare peccar per fragilità; ed il vivere in questa foggia farà commettere il minore de’ mali? Mi meraviglio di voi! Questo è un peccar da demonio vestito d’umane membra: questo è un non volere abbandonar il peccato, finché il peccato non abbandona: fornicati sunt et non cessaverunt. Dite pure, e direte con tutta verità, che il peccatore disonesto è per verità un gran peccatore, ed è pur vero che a tutte queste prove, vi son di quelli che tanto ardiscono dire: che cosa è un peccato di disonestà? Se così è, che posso io far di più: so io quello che farò, verrò a praticare stravaganze; e giacché i disonesti sono ottusi per le loro lascivie, né hanno mente per piegarsi alle ragioni, gli farò vedere con i propri occhi, e toccar con le proprie mani; quanto siano gran peccatori, con esser disonesti. Olà peccatori disonesti, fissate gli occhi in questo Cristo ed in vederlo così maltrattato, ravvisate la grandezza del vostro peccato: udite le parole dell’Eterno Padre, il Quale vi rende la ragione, perché Egli abbia posto su questa Croce il suo Figliuolo: propter scelus populi mei percussi eum, per la scelleraggine del mio popolo; qual è la scelleraggine popolare? Gli amori indegni, le sozze disonestà, le sue grandi lascivie. Eccolo, dunque, per questa scelleraggine popolare, lacero da capo a piedi. Eccolo confitto, e pendente in un legno, ricoperto di sangue, e di piaghe, trapassato da tante spine nel capo: eccolo agonizzante, privo d’ogni conforto. Questo è l’operato da te o disonesto, propter scelus populi mei percussi eum. Tu, dunque, con andare in quella casa, con mantenere quella pratica, col durare in quella occulta corrispondenza hai piagato, hai crocifisso il tuo Signore, il tuo Dio? Ed ardirai di chiamare fragilità un tale eccesso? Taci, e se vuoi apri bocca, aprirla solo per detestare le tue colpe, per domandare misericordia. Sebbene a che riscaldarmi? Merceché ai peccatori disonesti nulla premono i patimenti o la morte di Cristo. Non so pertanto chi mi tenga che io non venga qui a stravaganze. Una onorata fanciulla
vedendosi lungamente perseguitata da un giovine disonesto, tentò tutte le arti per rigettarlo: usò preghiere, adoprò ammonizioni; mischiò minacce; ma tutto invano, perché lo sfacciato giovine avendo un dì osservato esser sola rimasta in casa la donzella; ebbe ardire d’aprir la porta, salir le scale, giungere alla sala e finalmente arrivare alla camera della fanciulla, la quale in vedersi comparir davanti improvviso quel giovine indegno, s’impallidì, intimorì come alla vista d’un orribile serpente; e non sapendo in quello sbigottimento d’animo, in quella contusione di pensieri come difendersi, nel cercar che voleva scampo e nell’alzar che fece gli occhi per domandare aiuto dal Cielo, vide un gran Crocifisso, che ella teneva appeso nella sua stanza, e presolo, corse frettolosa alla porta della camera, e quivi attraversato alla soglia, lo collocò: indi con volto acceso, con guardo fosco, con voce più che femminile ripiena di tanto ardire gridò: vieni pure, vieni e sfogati, o scellerato; ma ecco d’onde ti convien passare: su questo Cristo. Se ti dà l’animo di prima conculcare le sue membra, io sto per dire, avrò pazienza, che poi profani le mie. Restò a tal atto quel giovine ed a quelle voci non so se più stupito per la novità, o se più confuso per la vergogna, cambiò il sembiante in mille colori, e prostrato a’ piedi di quel Cristo, parlò assai più con gli occhi che con la lingua; si disfece in pianto, si dolse dell’ardire; ne domandò il castigo; ne propose l’emendazione; ma se quel giovine miei UU. avesse operato tutto l’opposto, ed avesse posto il piede sulla faccia, sulle piaghe di quel Cristo, voi v’inorridireste al racconto; e se l’aveste potuto aver presente con le vostre, meritatamente l’avreste sbranato. Or sappiate che voi non potete entrare in quella casa; né potete penetrare in quella camera; non potete passare per quella strada, voi m’intendete; senza mettere i piedi sulle piaghe adorate di questo Cristo; se non visibile, almeno certo invisibile. Se così è, disonesti, saziatevi, conculcatelo, strapazzatelo: eccovelo sotto de’ piedi. O Dio! In che modo barbaro bisogna mai predicare! Andate pure, o disonesti, a sfogare i vostri capricci, che Gesù intanto si rimarrà a scontar con le sue pene i vostri delitti: voi andrete a posarvi su morbide piume, egli si rimarrà a spasimare sì duro patibolo: voi andrete ad inghirlandarvi di molli fiori; egli rimarrassi a languire fra spine acute: voi andrete a passar le ore in trastulli libidinosi, e Gesù rimarrà ad enumerarle fra mortali agonie. Voi finalmente a godere, e Cristo a patire. Possibile che ad ogn’altro si abbia da dare l’amore fuorché a Gesù? Qui non amat Dominum Jesum anathema sit; chi non ama Gesù gli sia strappato il cuore dal petto, sia scomunicato. Ma voi singolarmente vorrei l’amaste. Donzelle, voi che andate così perdute dietro a quei vostri innamorati: che pensate, che vogliono? Belle parole, belle promesse: ti piglierò; ti sposerò; ti renderò l’onor tuo, fin tanto che siano giunti a contaminare, a togliervi l’onestà; e dopo poi darvi de’ calci, voltarvi le spalle: non voler più saper nulla di voi. Eh via, siate voi le prime a sprezzarli, non li guardate più; mandateli alla malora. Ecco l’Amante vostro, eccolo, eccolo, donatevi a Lui; consacratevi à Lui! O che bell’Amante è Gesù. Questi errori malnati partano da voi, e tornino ad abitare negli abissi, donde sono usciti. Tra di noi chi ha da regnare? L’amor di Gesù, viva, viva Gesù, viva Gesù! Questo ricolmi i nostri cuori, e vi benedica.

LIMOSINA

Gli antichi Cristiani che ben conoscevano, la limosina esser il vero modo d’ottenere il perdono dei peccati, se non avevano con che far limosina, digiunavano e davano parte del loro cibo a’ poveri. Che dirò io di coloro i quali senza togliersi nulla di bocca hanno tanto che dare, son comodi, son ricchi, e pure non danno un soldo? E gli pare d’aver usato gran atto di carità se dicano al povero: Dio ve ne dia, andate in pace, perché molti li scacciano con le brutte.

SECONDA PARTE.

Voi avete inteso, miseri disonesti, siete gran peccatori, e quel che a me dà pena maggiore, è il vedere che quantunque siate in tante miserie, ad ogni modo non cercate rimedio al vostro male. Ditemi: quando mai si trova un disonesto che cerchi rimedio al suo male, che si raccomandi a Dio, che ricerchi l’aiuto di Maria; che a questo effetto digiuni, faccia limosina; in una parola, ponga qualche mezzo per sfangare dalle disonestà. Eripe me de luto. Sebbene, che dissi? Non pigliano rimedio al loro male? Dissi poco; farebbe meno male: il peggio è che non solo non li cercano, ma quando il confessore a guisa di medico dell’anime loro, gli prescrive il modo che devono tenere di loro vita per guarire; né  meno le ne prevalgono. Fate che un confessore imponga ad uno di questi languidi talora di trentotto anni, che per uscire dal letto delle loro invecchiate miserie, si comunichi per un anno, ogni mese ed ogni giorno per un anno ricorra con alcune poche orazioni alla Santissima Vergine, come rifugio de’ Peccatori. Voi vedrete, che in breve tempo, o se ne scorda; o si attedia; o lascia affatto la medicina preferitagli per guarire. E questi direte voi, che non peccano per somma malizia, mentre subito sposta, ed avvedutamente vogliono? Non occorre altro, il peccare disonesto è il peccare più malizioso di tutti; poiché non solo non cerca i rimedi, non li riceve, quando gli sono offerti; ma egli va sempre studiosamente cercando le occasioni, ed immergendosi in quelle nelle quali sono state maggiori le cadute… e poi direte, che peccano per fragilità! Che l’esser disonesto è il minor de mali? Chi così discorre, può dire d’aver totalmente perduto il senno. Se un nocchiero urta una volta in uno scoglio, e rompe la nave che guida, potrà per avventura darsene la colpa o alla fragilità del legno, o alla forza de’ venti o alla furia del mare: ma se ogni giorno rompesse una nuova barca, e se a bello studio andasse ad investire gli scogli, e se a questo fine spiegasse tutte le vele per andarvi con maggior impeto; chi potrebbe mai scusarlo con la debolezza del legno o con l’imperversare de’ venti? Così è de’ disonesti; vanno ad ogni veglia: si trattengono a guardare: stanno le femmine allo specchio, e poi dicono … fragilità ed arrivano a disprezzare questo peccato come peccato da nulla: rimediate al vostro male or che potete, e pius cum in profundum venerit contemnet ed intanto non si accorgono i meschini, che questo medesimo dipingere loro la disonestà per poco male è un’arte finissima del demonio affinché, non vedendo la rete, v’entrino allegramente, e dopo esservi entrati non ne escano mai più. Che si ha dunque da fare per liberarci da quelle disonestà, che ci costituiscono si gran peccatori? Raccomandarci a Dio, alla Vergine Santissima, ed a Lei a tale effetto ricorrere con qualche particolare devozione, portarsi da qualche buon confessore; scoprirgli tutte le nostre piaghe; pregarlo di rimedio sopra tutto fuggir balli, fuggir veglie, ritirarsi dagli amori, svilupparsi con ogni sforzo da tutti gli effetti peccaminosi, giacché si tratta di troppo, si tratta di perdere in eterno, per un diletto bestiale, quanto ci apparecchio’ Dio di bene in Paradiso, e di addossarci in eterno quanto Dio ci preparò di male nell’inferno. L’uomo disonesto non è, torno a dire, un peccatore ordinario, ma un peccatore grande; sì per la qualità de’ falli, sì per la moltitudine, sì per la malizia con cui il commette. Rimediate al vostro male or che potete, e Dio vi benedica.

QUARESIMALE (XXXII)

QUARESIMALE (XXXII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)


PREDICA TRENTESIMASECONDA
Nella Feria quinta della Domenica di Passione.

Si palesano le finezze di Dio per ridurre il peccatore a penitenza, e le miserie che li sovrastano, abusandosene.

Remittuntur ei peccata multa. San Luca al 7.

Non aveva ancora Marco Antonio Imperatore ben stretto lo Scettro in pugno nel comando di Roma e dell’Impero, quando la consorte Faustina tentò porgli in cuore sentimenti di vendetta contro Avidio Cassio ed altri suoi e rivali e ribelli. Ma rivoltosi il Monarca alla troppo appassionata consigliera, così rispose: Cassio, è vero, ha offeso un  Imperatore Romano che non è suo pari, e per questo stesso voglio perdonargli, per non farmi pari a lui nelle passioni . Ego ejus liberis parcam, et Genero, et Uxori, nihil enim est, quod Imperatorem Romanum melius commendes gentibus quam clementia; Io stimo che un imperatore di Roma non possa rendersi più glorioso presso le genti, che con la clemenza; sarà sempre mio assioma che per rendersi schiavo un mondo, non avrà Roma le migliori catene della clemenza. Questi erano o miei Uditori i sentimenti cortesi del monarca romano; ma o quanto di gran lurga maggiori sono quelli del Monarca Celeste. Egli pure dice: Nihil est, quod Imperatorem Cælestem magis commendet gentibus, quam clementia, e questa è quella, che oggi appunto pratica con la Maddalena, mentre gli concede il perdono di tutti i suoi peccati, che pur furono molti: remittuntur ei peccata multa. Rallegratevi pure anime peccatrici, se pur qui ve ne è alcuna; siete cadute questa volta in buone mani, in un Dio tutto clemenza, tutto bontà, tutto misericordia; e però altro non brama, che poter dire a ciascuno di voi: Remittuntur tibi peccata, ed acciocché tocchiate con mano, che io non mento, voglio questa mane mostrarvi quanto Dio faccia per ridurre a sé le anime, e potergli poi dire: remittuntur tibi peccata. Sia straordinaria l’attenzione, perché straordinaria riesca la confusione in quel peccatore che ostinato non si volesse arrendere alle finezze d’una tanta clemenza. Contentatevi che io sul bel principio vi spieghi l’operare di Dio con la bella differenza che passa tra due mestieri ambedue ordinati al medesimo fine; e sono la pesca e la caccia; ambedue questi mestieri non hanno altra mira che far preda; ma quanto diversamente operano! Il pescatore si studia di lusingare il pesce con cose dolci, con paste medicate con esche amabili, a procura quanto può di non spaventarlo, onde cerca di non esser veduto, sta in silenzio, e tende le sue insidie tra le tenebre della notte, e l’inganna di modo tale che il pesce, quantunque preso, quantunque prigione, talor non se ne avveda. Non così però fa il cacciatore: esce questi in campagna con gran strepito di cavalli e di cani, dà fiato al corno, e quasi voglia portar guerra alle selve, sfida con le grida a scappar dalla tana gli orsi e dalla grotta i cinghiali, e con lance, con spiedi e con archibugi dà fuga alle fiere, le assale, le trafigge, le ferma, le uccide, e spesso del lor sangue ne porta tinte le mani, macchiati i panni. Da questa diversità d’operare, voi con me ne deducete che uno vuol la preda per amore, l’altro per forza. Così è, ed appunto di queste due forme si serve Dio per guadagnare a sé i peccatori. E prima si serve di quella di pescatore, indi di cacciatore. Uditene Geremia, che apertamente ve l’esprime al 16. Ecce ego mittam eis Piscatores et piscabuntur eos, et post hæc mittam eis venatores, et venabuntur eos. Ponete cura, o miei UU., a quelle paroline post hæc, le quali significano che Dio si vuol valere prima della pesca, che è quanto dire delle dolci chiamate, et post hæc … e se queste non giovano, alla caccia, allo strepito, al sangue, alla morte. E che ciò sia vero, mirate quello che fa. Ecco, che si accorge che quel mercante tutto dedito all’interesse, falsifica pesi, scorta misure, bagna le seti, tiene all’umido i grappi; che quel nobile non paga mercedi, non soddisfa legati pii, e se ne vive pieno d’ambizione, e gonfio di vendette; vede che tanti e tanti, vivendo tra le lascivie si sono slontanati da Lui, recesserunt ab Eo, e però par che gli dica: e perché  avete potuto dare a me le spalle, ed al demonio il cuore? No, no, lo voglio io, Præbe mihi cor tuum, dammi il tuo cuore, ed indirizzalo per la strada del Paradiso, et dirige cor tuum per viam rectam. Ben si avvede che quella femmina tanto vana, va tanto lungi da Lui ed Egli le dice: revertere ad me et ego suscipiam te; lo so benissimo, tu vinta o dalla passione sfrenata dell’amore, o dalla ingordigia dell’interesse, sei caduta, m’hai trafitto il cuore, ad ogni modo son pronto a riceverti nello stesso cuore da te ferito. Dovrei senza altro, per avermi tu sì barbaramente offeso, muoverti guerra, eppure Io ti perdono, e ti chiedo pace. Cari miei uditori, quante volte avete sperimentato questi tratti di finissima dolcezza, usati da Dio per togliervi dal peccato? Egli si è diportato con voi a guisa d’una madre amorosa intorno ad un suo figlio ammalato, insieme e svogliato che, per farlo cibare si protesta di perdonargli ogni strapazzo e gli offre donativi. Tutto è vero, mio Dio, tanto voi praticate col peccatore egli simile a quel fiume colà nella Scitia, che ne’ calori più fervidi si fa gelato: egli, dico, alle vostre divine dolcezze sempre più s’indurisce. Mio Dio, giacché il Peccatore indurisce alle vostre finezze che con tanto amore lo chiamano a penitenza, non ve ne curate, e lasciate, che a briglia sciolta corra tanto che giunga fino all’inferno, ed ivi sprofondi per eternamente dimorarvi. No, no, dice Iddio; a me l’anima del peccatore costa sudori, sudori di sangue sparsi colà nell’orto del Getsemani; a me costa strapazzi, obbrobri e percosse tollerate ne’ tribunali d’Anna, Caifa e Pilato. Troppo mi preme la sua salute che tanto mi costò, e perciò voglio tentare tutti i mezzi per indurlo a lasciare la mala pratica, a deporre gli odii, a staccare il cuore da quell’interesse che l’accieca, e perché veda l’oppressione de’ pupilli, la rovina delle vedove che cagiona, e giacché non basta averlo pregato a vivere secondo i miei voleri, voglio ricordargli, per motivo d’obbedirmi, i benefizi che gli ho fatti. Sentite giovane, uomo o donna che siate, voi m’offendeste tutto dì con quei vostri sì scorretti costumi, con quegli spergiuri, con quelle bestemmie, eppure Io son quello che v’ho dato l’essere, avendovi cavato dal nulla; Io son quello, che v’ho organizzato quel corpo che avete, arricchito di tre potenze, memoria, intelletto e volontà; Io son quello che vi mando ricchezze, Io vi mandai quella eredità, Io vi riempii quelle casse d’argento, quegli scrigni di gioie; per me fruttano quei poderi, per me vi rendono quei censi, per me vi vivono gl’armenti, per me vi giungono in porto felicemente quelle mercanzie che vi sono di tanto guadagno. Io fui che vi conclusi quelle nozze tanto desiderate, che vi concessi quella figliolanza che tanto bramavi; per me godete quei titoli, quelle dignità, quegli onori. Chi vi liberò da quel colpo di quel rivale, se non Io? chi vi scansò da quelle insidie che vi tramava l’inimico? Chi v’esimé dalla voracità di quelle onde che stavano già per sommergere il legno? Chi vi sottrasse in somma da quei tanti pericoli se non Io? e perché dunque, se tanto v’ho beneficato, non solo in quanto spetta al corpo, ma molto più intorno all’anima; mentre v’ho comportato, v’ho tollerato ne’ peccati, acciò venisse a penitenza; perché  dunque rispondete con ingratitudine a’ miei benefizi? E non siete voi quello che più volte avete detto farvi Iddio assai più di quello che meritate? Avete pur confessato di propria bocca che, al pari d’ogn’altro siete stato favorito dalla mia beneficenza? Come è dunque possibile che una tal memoria non v’induca ad arrendervi a mutar vita? Non occorre altro; obblighi pure Iddio certa razza di peccatori con replicati benefici, e li troverà simili a quelli de’ quali scrisse il Martire Sant’Ignazio quibus cum benefeceris pejores fiunt; i benefici li fanno peggiori. Fu penna d’oro la vostra, o Clemente Alessandrino, allorché scriveste: nunc homines, tanto magis impii, quanto Deus benignior est, quanto Dio è dolce con certi peccatori, tanto essi sono amari verso di Lui, sicché possono assomigliarsi a quelle perfide vipere che tanto più si fanno crude, quanto più è dolce il canto che talora sentono. Orsù dunque, se così è, non più benefici, mio Signore, lasciate imperversare questi empi, e giacché vogliono perdersi, si perdano. No, no, dice Iddio, non lo comporta né il mio amore, né lo sborso del sangue fatto per riscattarli. Vuoi tu, che lasci perirli, mentre per loro mi sono sottoposto alla spietata flagellazione nel pretorio di Pilato, ove molti manigoldi, dandosi la muta l’un con l’altro mi flagellarono sì spietatamente, che con ritirare il colpo, ritiravano a brano a brano anche la carne, e ne fondavano i solchi fino alle ossa? Non sia mai vero; li aiuterò, perché si ravvedano; farò che quel lascivo, quell’interessato, quel vendicativo, s’imbatta in quel buon religioso, col quale venendo a discorrere dell’altra vita e della eternità, ne ritragga vivi sentimenti di compunzione, e li vada a confessare; farò che venga alla predica, ed ivi gli toccherò il cuore talmente che, se non sarà più che di sasso, certo s’intenerirà; gli manderò una ispirazione sì gagliarda al cuore, ed una cognizione sì viva dello stato miserabile in cui si trova, trovandosi in peccato mortale, che se non ha cieca affatto la mente, mi darà orecchio; gli farò capitar un libro in mano ove, leggendo la vita d’uno de’ miei Santi, s’arrossisca in vedersi tanto dissimile, e così si converta; farò che oda una Messa per le anime del Purgatorio, che visiti una immagine della Vergine mia Madre, e nel medesimo tempo non lascerò di picchiargli al cuore, e di fargli conoscere che sta con un piede nel mondo ed ormai con tutti due nell’inferno. Cercherò con queste batterie di ridurlo a penitenza. Ditemi, ha pur usati Iddio questi stratagemmi con voi, e voi? Eh, mio Dio, ancorché seguitiate, non vi riuscirà, perché un tal peccatore, per potersi rivoltare tra’ pantani del senso, non farà conto né delle parole de’ religiosi, né  della lettura de’ libri spirituali, di nulla, di nulla, volendo vivere a capriccio nelle proprie soddisfazioni, e così si paleserà sempre più ingrato, e perciò torno a dirvi, Signore: lasciatelo andare. No, no, non lo comporta il mio amore, replica Iddio; oltre di ché l’anima sua costa a me le ferite che tante acutissime spine fecero nella mia testa, e fu sì acerbo il dolore che una sola di quelle spine saria bastante, fissa in testa ad un leone, ad ucciderlo, e vuoi che lasci in abbandono un’anima che a me costa sì caro prezzo? Non sarà mai vero! Terrò bensì altra strada, e giacché né le preghiere, né i benefici, né gli stratagemmi del mio amore possono far breccia nel suo cuore, verrò alle minacce. Porgete le orecchie a quanto vi dico, o peccatori, è Dio che parla, e voi siete da Lui minacciati. Udite, ed inorridite; così si legge nel Levitico al 26: Urbes vestras redigam in solitudinem, disperdamque terram vestram, et evaginabo gladium meum post vos, eritque terra vestra deserta, et civitates vestræ dirutæ; Io, Io, dice Iddio, distruggerò da’ fondamenti, o gente peccatrice, le vostre città, e farò de’ vostri edifici polvere e pietre; Io, Io muterò i chiodi della mia Croce in coltelli, acciò vi fiano strumenti di piaghe orribili, come vi furono di salute, e farò che delle vostre città, terre ed averi, altro non rimanga salvo che la memoria, che vale a dire, carestie che vi affamino; terremoti che vi subissino; malattie che vi uccidano; pestilenze che vi desolino. Non sono queste, o miei uditori, minacce che debbano entrar per un orecchio ed uscire per l’altro, è Dio che parla, ed è quel Dio che, se la sa dire, la sa anche fare, e la farà, come l’ha anche eseguita altre volte; e perché vuole che siano e stimate, e credute, e temute; per questo, non in un solo lungo le intima, ma in molti. Dalle sacre Carte, per Isaia, si fa sentire egualmente formidabile, allorché dice: Veæ, veæ, qui trahitis iniquitatem, guai, guai a voi che principiaste a peccare, né mai la finite; e per Osea non meno spaventoso si fa udire, Veæ eis, cum recessero ab eis, guai a quei peccatori, che m’hanno abbandonato, perché li abbandonerò. Le vostre minacce, o mio Dio, non fanno un colpo al mondo nel cuore di quel peccatore, voi parlate al vento, e gridate al deserto, tanto è risoluto di condursi viva quella pratica alla sepoltura, allorché egli vi andrà morto, allora lascerà di mormorare, allora abbandonerà quei tanti vizi, che gli hanno oppresso il cuore, ed uccisa l’anima. Dunque, mio Dio, mutate modo: vi vuol altro che minacce con costoro, che sono appunto di quelli de quali scrisse San Saverio, isti facere que placent, volunt audire, que displicent non sustinent; dunque abbandonateli, toglieteli la vostra santa mano di testa, dateli in totale potere delle loro passioni; No, dice Iddio, no, non lo comporta il mio cuore amoroso, neppur lo comporta quell’obbrobrio a me sì doloroso di vedermi esposto con una canna in mano, coronato di spine, e schernito a guisa di re da scena, e con un tal patimento sofferto per l’anima del peccatore, vuoi, che l’abbandoni? Non sarà mai vero; farò così, gli farò sentire le minacce più da vicino, cioè nel nuovo testamento, poiché se quelle del vecchio, come troppo lontane, non gli facessero colpo glielo facciano queste. Udite le minacce di Cristo nel nuovo Testamento Veæ vobis, dice per San Luca, qui ridetis nunc, guai a voi che, invece di piangere, perché m’offendete, vi ridete d’avermi offeso, verrà tempo, che piangerete. All’Evangelista si soscrive Santa Brigida con una rivelazione avuta dal suo Gesù. Brigida, dice Cristo, se i peccatori, udite le mie minacce, diranno, aspettiamo ancora un poco, non è ancor tempo di mutar vita, io dico che siccome cacciai Adamo dal Paradiso terrestre, e flagellai Faraone con dieci piaghe, castigherò costoro prima di quello che si credono; giuro che, se non faranno penitenza, io mi vendicherò di loro nell’ira mia. Infelicissimi peccatori, che rispondete a queste voci di Dio? Deh riflettete, che i colpi di Dio saranno pesanti, onde a voi rivolto con San Lorenzo Giustiniano, esclamo: disce quæ peccatoribus Deus comminetur, ut Deum timeas, aprite le orecchie a queste divine minacce, per non ne avere a provare spietati gli effetti. Dio immortale, io so pure che, quando il leone ruggisce dall’alto, gl’animali tutti temono e tremano, e voi alle voci tremende di questo Leone di Giuda non vi atterrite? Dio, Dio, come è possibile che queste orribili minacce non vi atterriscano? Una gran principessa disse ad un gran cavaliere, vi meritereste che io vi facessi gettar la testa a’ piedi; ed è pur vero, che questa, quantunque non fosse minaccia di farlo decapitare, ad ogni modo, atterrito morì in tre dì accorato. E voi che fate che non temete, non tremate, non tramortite? Non occorre altro, Signore, costoro non vi credono, potete minacciare quanto volete, tanto vogliono continuare a peccare; la vera sarebbe lasciarli in impietate sua, voltargli le spalle; o questo no, dice Dio, non lo comporta il mio amore; non lo vogliono queste piaghe, che sono prezzo sborsato per la loro salute; userò loro un altro stratagemma, e dalle minacce della lingua passerò a mostrargli i castighi che sono usciti dal braccio mio onnipotente, a danni di chi non mi ha voluto obbedire. Sentite UU., voi strapazzate quel Dio che fece strage d’innumerabili Amorrei, non solo con le spade, ma per seppellirli anche vivi con grandini di pietre; quel Dio che nella città di Gerico piantò fiero coltello nelle viscere degli abitatori e fece che si troncassero alla rinfusa vene nobili e plebee, che senza riguardo s’immergessero le aste micidiali anche nel petto delle donzelle innocenti e de’ teneri pargoletti. Voi offendete quel Dio che fece sanguinoso sterminio di ventitré mila idolatri per vendicare l’ingiuria venutagli dalla adorazione del vitello d’oro, e ben dovevano cadere morti a’ piedi di quella bestia quelli che tante volte vi si erano inchinati vivi. Quel Dio che ricoprì le campagne empiendo i cuori di formidabile orrore con i tronchi e lacerati cadaveri di cento ottanta mila assiri. Quel Dio, che diede la morte, dopo innumerabili stenti, a seicento mila guerrieri che si portavano alla Terra di Promissione. Peccatori miei, vive, sì, vive anche oggi quel braccio tremendissimo di quel Dio, che farà scempio non inferiore nelle vostre vite, se non vi convertite a Lui con penitenza. Grande Iddio, tanto si teme quel giudice, e tanto si rende formidabile a’ malfattori non con altro che con mostrar loro le veglie, i cavalletti, le verghe, le manette, le funi con cui egli può tormentare, ed è possibile che non si abbia da temer quel Dio il quale ha un apparato immenso di mali che ogni dì Ei fa vedere nelle nostre case, nei nostri parenti, ne’ nostri amici, tormentati chi da dolori intensissimi di viscere, chi da crucio di denti, chi da spasmo di calcoli di pietre, di dolori di testa colici etc…. Nelle nostre città con terremoti, con pestilenze; nelle nostre campagne con tempeste che desertificano, con venti che bruciano; con inondazioni che portan via intere campagne; con mortalità negli armenti. Io non la so intendere; chi ha più strumenti da tormentare quel giudice terreno che voi tanto temete, o questo Giudice Celeste di cui vi ridete? Dico di più, che il giudice terreno ha il termine prescritto dalle leggi nel tormentare, tante ore di corda, e non più; tante di veglia, e non più. Quelli che può dare Iddio a voi, eccedono talora i confini degli anni, ed anni, a segno tale, che molti e molti per non vivere in quei tormenti, si sono dati la morte. Eh, temete questo Dio! Come è possibile che non vi moviate a queste verità? Ditemi, o Grande Iddio della eternità, avete voi forse bisogno, per popolare il Paradiso, di questi iniqui, di questi scellerati? No! Dunque, abbandonateli affatto, giacché si vede che l’ostinazione gli ha chiuso il cuore. Così dici tu, mi replica Iddio, ma non così parlo Io; a me, queste anime, benché perverse, sono costate la vita data sopra d’una Croce in mezzo a due ladri, a guisa d’un infame; il mio amore non comporta che Io li abbandoni fino all’ultimo, e però voglio dare l’ultima batteria a questi cuori ostinati, per vedere se vogliano una volta risolversi ad abbandonare il vizio; voglio che dagli stermini del corpo, si passi a mostrargli le rovine dell’anima. Non farete nulla, mio Dio, perché costoro tanto stimeranno l’anima in altri, quanto in sé, e la stimano sì poco che, quasi dissi, vi chiamano mercadante mal pratico, in aver comprata l’anima con tanto prezzo, mentre loro la danno per poco e niente. Non importa, il mio amore mi spinge a fare questa ultima prova. Ecco dunque, o peccatori, ciò che Iddio vi espone per mezzo di più rivelazioni, vi fa intendere lo sterminio di tante anime perdute, perché vissero come voi. Or trenta, or sessanta mila ne vide in un sol colpo dannate nel tribunale di Dio un’anima santa. Ecco vedersi cader colaggiù nell’inferno da un Servo di Dio, le anime in sì gran numero, che si eguagliavano ai fiocchi della neve, quando cade più folta. Vi confermi questa verità la bocca d’un dannato nella città di Parigi. Venne a morte un nobile cancelliere; era questi amatissimo dell’Arcivescovo, il quale su quell’ultimo andò a visitarlo, e lo pregò, che dopo la sua morte volesse apparirgli per dargli qualche ragguaglio di ciò che gli fosse accaduto all’altra vita. Promise il moribondo, e morì. In capo ad un mese, allorché l’Arcivescovo se ne stava studiando, si vide comparir l’amico già morto, si spaventò alla vista. Indi preso cuore, l’interrogò perché fosse venuto … per mantenervi la promessa, replicò il morto, e che gli faceva sapere esser egli dannato sì per la sua superbia, sì per le sue disonestà. Indi gli soggiunse, che all’inferno vi fioccano le anime del mondo, come le nevi fioccano nell’inverno sopra della terra, … sicut nix ruit de cœlo, ita animæ ruunt in infernum; e ciò detto, dato un strillo orribile, sparì. UU. miei, come fiocchi di neve si va all’inferno; quanta ragione, quanto motivo avete voi di temere se non vi ravvedete, e se ci balzate,  miseri voi, quis ex vobis poterit habitare cum ardoribus sempiternis, rispondete ad Isaia, come potrete stare tra quelle fiamme? Rispondimi donna che tanto accarezzi la tua carne, che la vesti con tanta delicatezza, che non puoi soffrire una punta d’ago, il quale t’insanguini leggermente la pelle, come potrai poi resistere a quelle mannaie, dalle quali ti sentirai smembrare, disossare, e tritare con eterna carnificina? Che dici uomo sì diligente in procacciarti tutti i tuoi comodi, poteris habitare cum ardoribus sempiternis, tu non puoi ora patire la puzza d’un poverino il quale ti si avvicini, come potrai reggere a quelle cloache d’inferno, dove resterai appestato per tutta l’eternità? Che dite voi, Sacerdote sì trascurato in adempire i vostri debiti, poteris habitare cum ardoribus sempiternis, voi, che non potete stare per lo spazio d’un’ora in quel Coro della vostra Chiesa modestamente, senza scomporvi, senza guardare, senza parlare? Come potrete stare per tutti i secoli eterni assiso non sopra un seggio di vita noce, ma bensì stirato negli eculei su letto di fuoco? Che dici vendicativo, che dici disonesto, che dici? poteris, poteris… Sebbene, perdonatemi, più che a voi, debbo io parlare a me. Che sarà di me se io non piango davvero i miei peccati, se cerco la stima, se procuro i comodi? come potrò stare a’ piedi di lucifero per un’intera eternità? Ed è pur vero, così non fosse, che qui vi farà qualche peccatore sì ostinato, che non vorrà arrendersi neppure alla denunzia di castighi sì formidabili, che pur sono il precipizio dell’anima. Si, se così è, che qui sia chi voglia seguitare ad esser empio ad onta di questo ultimo stratagemma di Dio per farlo ravvedere, lo sia, e se ama perire, perisca il misero. Esca, dunque, dalla di lui mente ogni raggio di luce celeste, e si adempia il detto d’Isaia, schiantandosi dalle loro viscere il cuor di carne, in sua vece ve se ne ponga uno di sasso. Vada pur di male in peggio, e così venga a cadere sopra di lui il castigo più spietato di Dio che è il non castigarlo in questa vita; ecco, che lo prendo dal Salmo centesimoquarto, e lo fulmino a danno degli ostinati. Inorridite: exacerbavit Dominum peccator, il peccatore ha esacerbato Iddio, adunque Iddio severamente lo castighi, qual sarà il castigo, secundum multitudinem iræ suæ non queret, lo lascerà con i suoi peccati in cuore e con la briglia sul collo; e da questo che ne verrà? Non quæret, e non curandosi più Iddio, il precipizio sarà indubitato. Eh mio Dio, giacché voi siete il gran Leone di Giuda, fate in pezzi questi capretti presciti, per darli in tutti i secoli a masticar nell’inferno; è dovere che una volta giungano colaggiù, ove già sono tanti anni che vi si incamminano, non vi sia più per loro misericordia, non vi ha più speranza d’emendazione; vadano, vadano colaggiù, ed il più fiero carnefice, che li tormenti, non sia né il fuoco, né i diavoli, né tutto il resto che compone quell’abisso di tormenti, ma la bontà vostra abusata … Or chiudasi l’inferno, mentre v’arde il peccatore ostinato.


LIMOSINA.
Vi sono ancora degli ostinati in non voler far limosine: bene. Or sentite Gedeone agli abitatori di Socoth là nel deserto, perché non vollero sovvenire i poveri suoi soldati affamati: fece questa terribile intimazione, cum reversus fuero conteram carnes vestras cum spinis, tribulisque deserti; al mio ritorno farò una vendetta sì esemplare della vostra crudeltà, che trascinerò i vostri corpi tra le macchie di questo incolto paese, affinché non ne rimanga memoria. UU., quanto è più possente Iddio che Gedeone, tanto sarà più terribile la vendetta che Egli eseguirà contro di quelli che sono ostinati in non sovvenire i poverelli, cum reversus fuero conteram. Farà Iddio un fascio di ricchi e delle ricchezze e di quanti, potendo, non sovvennero i poveri, e darà fuoco a tutto, senza che vi sia mai acqua che possa spegnere un sì grande incendio.

SECONDA PARTE

Io mi stupisco, come mai quelli i quali sanno che Dio ha la spada sfoderata contro di loro e li ferisce, e tanto pecchino, che Dio ha il flagello alla mano in tante disgrazie, che gli manda, e ad ogni modo l’oltraggiano. E prima di me, con occhio attonito si stupì Isaia, allorché disse: Ecce tu iratus peccavimus, tu sei adirato con noi, e tanto noi pecchiamo. Riflettete, ascoltanti, che il Profeta non dice peccavimus et tu iratus es, perché questo lo capirei; ma dice iratus es, peccavimus. O questa sì, che è cosa degna di sommo stupore, sapere che Iddio è adirato con noi, e tanto offenderlo. E non è vero, che taluno di voi è stato più perverso, dopo d’esser stato castigato ed avere conosciuta l’ira di Dio nelle tempeste che v’hanno desertato le campagne, e tanto avete peccato. Avete conosciuta l’ira di Dio nella mortalità dei vostri armenti, e tanto avete seguitato ad una accumular roba con danno del vostro prossimo. Iratus es, peccavimus; o questo sì che non intendo: avete conosciuta l’ira di Dio, allorché vi fu alla vita quel rivale per uccidervi, e tanto avete seguitato ad andare in quella casa. Non più, non più, verrà al castigo, accadrà a voi come all’infelice Nabucco. Sentitene il caso funesto. Si porta Daniele al cospetto di questo superbissimo principe, e con autorità di Profeta gli intima da parte di Dio che egli tra poco sarebbe scacciato dal trono e cambiato in fiera, sarebbe passato alla selva, per ivi vivere; che però l’esortava a ricomprare con limosine i suoi peccati, ad abbassar la sua alterigia, ad alimentar famelici, a vestire ignudi. Voi vi crederete, che l’empio regnante alle parole del Profeta balzasse giù dal trono, e buttatoglisi a’ piedi offrisse tutti i suoi tesori per ricattarsi dall’imminente castigo. Appunto, appunto; nulla perciò intimorito nonché compunto, seguitò a vivere più empiamente che mai. Un anno intero gli concesse Iddio di tempo per ravvedersi; quando ecco, che dalle minacce passò al castigo. Ecco che un dì, mentre se ne passeggiava orgoglioso per la sua sala, ammirando la sua reggia, esaltando la sua potenza… vox de Cœlo ruit, calò una voce precipitosa dal Cielo, la quale gridò: alle selve, alle selve; tibi dicitur Nabuchodonosor Rex, cum bestiis erit habitatio tua. Appena udite queste voci, si sentì subito l’empio Re cambiare e sembianza, e voglia e costumi; si squarciò le vesti sul petto, e mandando per voce un alto muggito, tutto apparve a guisa di bestia, e buttatosi per terra, se ne fuggì alla selva per viver da bestia. Cari miei uditori, quanto tempo è che Dio v’intima castighi, non un anno come a Nabucco, ma tre, ma quattro. Quanto tempo è che vi dice, che mutiate vita, che lasciate la pratica, etc.. E voi? Verrà al castigo, vi cambierà in bestia, e vi metterà ad abitar tra’ diavoli. – Racconta Plutarco, che a tempo suo cadde in Roma un fulmine, e non fece altro male, che sciogliere ad un soldato una scarpa. Li peccatori si figurano che i fulmini della Divina Giustizia siano di questa tempra; sicché, dopo il tuono di tante minacce, non debbono mai cadere, e pur cadendo, poco o nulla di male abbiano a fargli. Si figurano costoro un Dio simile a loro, che non odii il peccato, giacché essi non l’odiano; existimasti inique, quod ero tui similis, e quando pure credano che Egli abborrisca le ingiurie fatteli, se lo figurano come il re delle api, sempre col miele d’una misericordia continuata, e senza pungolo da vendicare i suoi oltraggi. Dio è misericordioso, sì, ma è anche giusto. È benigno tra noi quel principe, che piangendo soscrive la sentenza di morte contro il malfattore, ma non per questo lascia di soscriverla, perché  così vuole il giusto. È misericordioso Iddio e si duole d’avere a condannare quell’anima da lui creata per esser Stella del Cielo, alle fiamme dell’inferno; ma non resta però di condannarla, richiedendo così la sua Divina Giustizia, per la di lui ostinazione nel male. Lasciate, o peccatori, la mala vita, perché Iddio non potendo più soffrire la vostra ostinazione, lascerà di far con voi le amorose parti di Padre e si vestirà di quelle di Giudice, ed allora siete spediti. Che si ha dunque da fare? Ritornare a Dio, e ritornarvi sollecitamente con un’ottima Confessione, abbandonando col peccato l’occasione del peccato, altrimenti io vi dico, che Dio vi volterà le spalle, e vi dannerete. Non vi negherà mai la grazia sufficiente con cui vi potreste salvare, ma non vi salverete, perché non ve ne valerete. Pensate a’ casi vostri.

QUARESIMALE (XXXI)

QUARESIMALE (XXXI)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA TRENTESIMAPRIMA

Nella Feria quarta della Domenica di Passione.


Si mostra la nostra predestinazione esser congiunta con le nostre opere.

Oves meæ vocem meam audiunt, et ego cognosco eas, et sequuntur et ego vitam æternam do eis. San Gio: cap. 10.


Segretissimo agli uomini è il lavoro dell’eterna predestinazione, seguendo in ciò la grazia operare ordinario della natura, cui il più prezioso delle sue opere ed il più nascosto. Non lavora ella all’aperto de’ campi il tesoro de’ ricchi metalli, e delle pietre più preziose, ma gelosa intorno a fabbriche sì nobili, le perfeziona nell’occulto delle miniere, nel profondo de’ mari, celandole agl’occhi della curiosità. Or del pari, riveriti UU., ci avvisa Sant’Agostino: segue nell’affare di nostra predestinazione, Prædestinatio vocationis nostræ fit in occulto; occulto è in noi il bel lavoro della predestinazione eterna, occulta, la stabilità de’ divini decreti, occulto lo stato della grazia. Seminiamo, ma chi può assicurarci della raccolta? Combattiamo, ma chi può promettersi della corona? Corriamo, ma senza sapere se giungeremo alla conquista del Pallio. È vero, non v’ha dubbio, quanto io vi dico, ma è altresì vero potersi da noi arrivare alla certezza di questa incertezza. Si non es predestinatus fac ut prædestineris, potete sì, assicurarvi la beatitudine eterna, con l’incertezza della predestinazione. Attenti. Con le vostre opere va congiunta la vostra predestinazione, il vostro salvarvi. Vivete bene, miei UU., e poi aspettatevi pure che Dio si dichiari che voi, come sue pecorelle, bene udite la sua voce, Oves meæ vocem meam audiunt, e che, come a tali, vi conferisca la vita eterna, et ego vitam æternam do eis. Ecco il mio assunto. Se sarete predestinati, le vostre opere saranno buone, perirete quando siano cattive. Tanto vi dice la terra, tanto vi conferma il Cielo, anzi lo stesso inferno. Alessandro il Grande sospirava un chiodo, con cui fermare il giro alla ruota della fortuna incostante, suspiro clavum. A noi per inchiodare l’eterna fortuna in un regno di beatitudine, ci porge un sicuro strumento Sant’Agostino, allorché ci dice: Qui fecit te sine te, non salvabit te sine te.Tu venisti alla luce del mondo senza tuo aiuto. Non ti pensare però di potere arrivare al Paradiso senza la tua cooperazione, perché Iddio, non salvabit te sine te. Bestemmi pure quanto vuole dalle taverne di Ginevra, Calvino, e dalle bettole della Germania, Lutero che ora a costo di fiamme nell’inferno, sono costretti a confessar questa verità, che per acquistare il Paradiso ed essere nel numero de’ predestinati, vi vuol l’opera nostra cagionata dalla Grazia. Vi confermi questa verità quel gran Re e Profeta David, che per esser secondo il cuor di Dio potrà decifrarci quest’arcano, se vi vogliano le nostre opere per salvarci. Or sentite come egli parla. Dopo aver io saputo, dice, il coronato Re, che in Dio v’era podestà di riprovare e castigare, e v’era misericordia per eleggere e predestinare, non andrò investigando se son predestinato mi salverò, se son prescito mi dannerò; appunto, ma soggiunse quel che io considero, mio Dio, quel che io tengo per certo è, che Voi, mio Signore, siete così giusto, che darete a ciascheduno quello che con le sue opere buone o male avrà meritato, e se io vi servirò mi pagherete con premio
eterno, se io vi offenderò mi castigherete come è di giustizia. Quia tu reddes unicuique juxta opera sua. David, dunque, che era secondo il cuor di Dio, così parlava, e voi temerari, che siete giusta il cuor del diavolo, perché siete inviluppati in mille laidezze, nelle quali volete seguire la vostra vita, avrete ardir di dire che vi perdete, vi dannate, perché Dio v’ha riprovato. Né mentite scellerati, che non è iniquitas apud Deum, grida l’Apostolo. Rispondete: è Dio che vi fa camminare la strada della disonestà, che vi fa star tra quei vizi, con quel cuore pieno di sdegno, che arde di vendetta? Vi comanda forse Dio, che andiate ad uccidere l’inimico, che pratichiate quell’usura, succhiate il sangue a quei poverelli, spogliate quelle vedove, quei pupilli? È forse Iddio, che vi fa bestemmiare il suo santo Nome, e v’induce a mettervi sotto de piedi quanti precetti contiene il Decalogo, quanti ne prescrive la Chiesa? No, no; ma voi siete quelli che li trasgredite, e non volete salvarvi, perché volete vivere con la briglia sul collo, libero ad ogni vizio, dite dunque, e confessate, a vostro marcio dispetto, che non vi salvate perché non volete salvarvi. Se il sole bastasse da se medesimo a produrre l’oro nelle montagne, tutte le miniere ne sarebbero colme, ma perché, oltre gl’influssi del sole, si richiedono ancora le disposizioni della terra, per questo l’oro è sì raro, voglio dire, che se per salvarvi bastasse la sola volontà del Signore, tutti ci salveremmo, ma perché Egli richiede che alla sua Grazia si congiungano le nostre opere buone, per mancanza di queste tanti e tanti periscono. Orsù, miei UU., sollevatevi dalle bassezze di quella terra, per indagare anche dal Cielo questa verità. Su, portatevi sino alle stelle, ma prima di penetrare più addentro, sentite le parole di Paolo, giunto al terzo Cielo, giacché egli audivit arcana verba. Ego igitur, cosi dice, sic curro, non quasi in incertum, sic pugno, non quasi aerem verberans, pur soggiunge, castigo corpus meum, in servitutem redigo, ne cum aliis prædicaverim, ipse reprobus efficiar. È vero, dice Paolo, che Dio per sua infinita misericordia, e non per i miei meriti, mi ha eletto alla gloria in intenctione, ma non per questo m’ha dispensato in executione, di guadagnarmela con le mie opere, che però quando io non cooperi alla sua grazia, reprobus, reprobus efficiar. Intendila, o Cristiano, quantunque tu tenessi per certo d’essere predestinato, ad ogni modo non otterrai il Paradiso, se non te lo guadagni con le buone opere. Ditemi, Paolo giunto al terzo Cielo, ove pure poté avere qualche notizia di sé, ad ogni modo opera per ottenere il Cielo, e voi, o peccatori, che sempre state con la mente, col cuore, e con l’opere in terra, avrete ardir di dire: se son predestinato mi salverò, se son prescito, mi dannerò? Egli fu dottore delle genti ed affermò la salute esser congiunta con le nostre opere, e voi ammaestrati solo nella scuola dell’iniquità, avete ardir di dire, se son predestinato mi salverò etc… Via su, passate avanti a penetrare fin all’Empireo. Vedete voi là quel coro d’Angeli apparecchiati, con le ali sempre allestite al volo? Ditegli un poco perché discendono sì frequenti, ora ad illustrarvi la mente perché offuscata non acconsenta al peccato, ora v’inteneriscono il cuore perché produca affetti più devoti verso di Dio, perché vanno frapponendo intoppi ai santi vostri disegni, che se riuscissero, vi sarebbero di danno. Or io dico: perché o Angeli Santi vi prendete tanto incomodo, e lasciando quelle vostre sedie dorate, vi prendere santa sollecitudine di noi, e non sapere voi dove sia il gran catalogo, in cui a caratteri d’oro, stanno registrati i nomi delli eletti, e non vi dà l’animo d’aprirlo, e vedere se in esso siano scritti i nomi di quelli che con tanta efficacia voi custodite, perocché quando mai non vi fossero, farebbero male impiegate le vostre industrie. Eh che quelli Spiriti Beati quantunque vicini al Trono di Dio conoscono benissimo, che per esser ammesso alla loro compagnia vi vuole la nostra cooperazione; eppure sento, che dalla bocca di qualche scellerato esce quella indegna proposizione: se son predestinato mi salverò, etc. etc. Convien dunque dire, che chi così parla sia stato più degl’Angeli vicino al gabinetto più segreto della Divinità. Ah, sciocchi voltate gli occhi alla vostra vita scandalosa e poi fissateli nell’inferno, e sappiate che se in quel catalogo de’ dannati v’è il vostro nome, la vostra dannazione è provenuta dalle vostre opere. Ma io torno a dirvi, miei UU., che costoro così parlano, perché vogliono seguitare in quelle usure, in quei giuochi, in quegli odii, in quelle maledette amicizie, e per questo dicono: se sono predestinato mi salverò, se … etc…. Tacete, tacete, e se volete avere più chiare e certe notizie di questa verità accostatevi, né vi spaventate da quell’abisso di luce, accostatevi per interrogare lo stesso Dio sopra d’un affare canto rilevante. Ma ahimè, che restano abbagliate le nostre pupille e non siamo degni di parlare con l’eterno Monarca, onde Egli scoprendo le nostre brame ci rimette ad uno de’ suoi segretari. Voi ben sapete, UU. che i segretari, sono quelli che sanno i segreti de’ principi; quali sono i segretari di Dio? I Santi Profeti: ecco dunque, che uno di questi, Ezechiele, dice, Convertimini, et agite pænitentiam. Convertitevi a penitenza, operate bene; ma santo Profeta, noi vi riconosciamo per segretario veridico dell’Altissimo, ad ogni modo noi non sappiamo intendere il vostro parlare, quando ci dite … convertimini; sentite, o voi parlate agli eletti, o ai reprobi; se agli eletti, che importa loro convertirsi, mentre o presto o tardi andranno in Cielo; se ai reprobi, che importa loro convertirsi, mentre infallibilmente andranno all’inferno; No, non dico così io, replica Ezechiele, son segretario di Dio e so molto bene che dalle vostre opere dipenderà la vostra salute. Che dite, che rispondete, che risolvete? In somma il nostro salvarci è congiunto con le nostre operazioni, e pure tanto vi è chi sta ostinato e dice con le opere peccando, se non con le parole bestemmiando: se sono predestinato mi salverò, se prescito mi dannerò. Or via, per indagare questa verità mi contento che lasciate in disparte e David, quantunque fosse secondo il cuor di Dio, e Paolo Apostolo, benché giunto al terzo Cielo, ove sentì quæe non licet homini loqui, e gl’Angeli vostri custodi, che pur sono Principi del Soglio eterno, e quei Santi Profeti, che ebbero il segreto del gabinetto più recondito della Divinità. Consolateci, che, se invano tentaste i colloqui con la semplice Divinità, gli potete avere col Verbo, che, se sino dalla Stalla di Betlem si soggettò alle comuni miserie, Egli vi compatirà, e si compiacerà ascoltarvi. Parlate pure animosi, parlate, domandategli, se per salvarvi, ci vogliono le vostre operazioni, e non dubitate, che Egli non sia per darvi giusta la risposta, e dirvi sincera la verità, perché Egli al pari del Padre suo Eterno, sa i profondi Decreti della vostra predestinazione. Or sentite ciò che risponde alle vostre interrogazioni, e se date, dice, una volta questi vostri tumultuanti pensieri, e per portar calma al vostro cuore, vi basti riflettere a ciò che dissi, allorché fui interrogato da quel dottor di Legge di ciò che doveva far per salvarsi. In lege quid scriptum est: hoc fac, et vives, se tu vuoi salvarti, osserva i Divini Comandamenti, lascia il peccato, fa penitenza, vivi a Dio, hoc fac et vives. Giovine, che pensiero è il vostro, volete essere nel numero de predestinati? Lasciate quell’amicizia, quella pratica maledetta, che col precipizio della vostra casa, con danno della vostra roba, vita e reputazione vi fa correre all’inferno. Nobili, volete essere fra gl’eletti: pagate quelle mercedi ritenute, quei legati non soddisfatti; hoc fac, et vives; donne, se volete salvarvi, desistete dagl’amori, dagl’ornamenti immodesti, deponete quelle vanità scandalose che son lacci d’inferno, raffrenate quelli occhi, che non guardano senza ferire il cuore di colpa mortale, hoc fac et vives; non più crapule, non più mormorazioni, non più bestemmie UU. ecco il modo di salvarvi: si lascino le usure, o mercanti, si depongano gl’odi o vendicativi, ed ecco il modo vero d’assicurare la vostra predestinazione e tra tanta incertezza, rendervi certo il possesso del Cielo; hoc fac, et vives, così disse Cristo al dottor di Legge, serva mandata, osserva i Comandamenti, e sarai salvo. Non occorre dunque più fantasticare col vostro cervello, miei UU. e non predestinato mi salverò, se prescito mi perderò, poiché Cristo stesso vi dice che la salvezza è congiunta con le vostre opere e inoltre non sentite replicarvi dal Redentore, qui bona egerunt ibunt in vitam æternam, qui vero mala in ignem æternum, chi farà bene si salverà, chi male si dannerà etc. etc.. E pur vi son di quelli che, senza dar retta a’ detti di Cristo, replicano, se son predestinato mi salverò, se prescito mi perderò, a costoro così grossolani, voglio apportare un caso avvenuto in Atene, per veder di smentire la loro cecità. Un certo indovino, portatosi un giorno nella piazza di quella città, vantava un segreto commercio con le stelle e tutto indovinava a suo pro. Era questi, un dì cinto d’ogn’intorno da popolo curioso, e da tutti riportava con gl’applausi, quantità di denaro, quando, accostatosi uno de’ circonstanti per gabbarlo con una passera chiusa in pugno, gli chiese che indovinasse se ella era viva oppur morta, dicendo dentro di sé: se l’astrologo mi dirà che sia morta, io lascerò che ella voli, e così lo svergognerò, se viva, io con stringerla più, la farò morire, e tale la mostrerò; ma l’arte questa volta restò delusa da un’arte più fina, imperocché l’indovino, accortosi della trama, rispose con gran prontezza: la passera, tale è quale voi la volete, se viva, viva; se morta, morta. E così riportò duplicato il plauso schernendo lo schernitore stesso. Contentatevi ora che io mi valga di questa narrazione a mio proposito. Se sarà predestinata, o prescita l’anima vostra, io non sono per certo tanto stolto, che m’arroghi di poter dare un’accertata sentenza sopra d’una tanta e sì grande interrogazione, ma via per uscirne anche io con la mia, dirò che l’anima vostra è qual la volete. Con l’aiuto della grazia: fra’ vivi, se la volete viva e predestinata; tra’ morti se la volete morta e prescita. Anima vestra in manibus vestris. Intendiamola o Cristiani, vi salverete se opererete bene, vi dannerete se cattive saranno le opere vostre. Tutto bene Padre, ma noi sappiamo per fede che Dio sin ab æterno ha preveduto quello che sarà di noi, e quello appunto seguirà. Io non nego quanto mi dite, ma vi rispondo con San Vincenzo Ferrerio. Rappresentatevi, dice egli, un gran signore, il quale avendo proposto un nobil Palio a tutti coloro che se lo guadagneranno con correre velocemente ad una meta prescritta, salga di poi sulla cima d’un’alta torre per rimirarne i loro sforzi, le loro prove. Certo che da quel posto sublime egli scorge ad un tempo quei che, invece di correre al palio prendono una via del tutto opposta, quelli che, dopo avere cominciato bene, escono di strada senza più ritornarvi, e quelli altresì che ne uscirono, e poi vi ritornarono e finalmente quelli che dall’intrapresa carriera verso il suo termine mai cessarono di correre finché non vi giunsero. Or così Iddio ha proposto a chi osserva i suoi Divini Comandamenti il Paradiso per Palio, ed Egli pure vede con la sublimità della sua sapienza, a cui sono presenti, ad un modo, sì il passato, come il futuro; vede dico, che alcuni senza cominciare a correre per le vie segnate dalla sua legge, prendono una strada del tutto opposta, cominciando a peccare sin dalla fanciullezza, e non terminando fino alla morte; vede altri che cominciano bene e finiscono male; vede chi, uscito di strada vi ritorna per la penitenza; vede chi direttamente cammina sempre verso il suo fine, con una continuata innocenza; ma che siccome la vista di quel Re non è cagione che erri chi erra e che non giunga al palio chi non vi giunge. Così il prevedere Iddio, fin ab æterno, che i reprobi non giungeranno alla Gloria, non è cagione che essi non vi pervengano. Fate che i concorrenti giungano al palio, ed il Re li vede giunti. Fate che gli uomini muoiano in stato d’amicizia e di grazia, e Dio fin ab æterno li avrà veduti giunti alla corona. Concludiamo, dunque, che questo dire che cammina per le bocche scellerate: già è decretato quel che ha da essere di me, altro non ha per conseguenza, che voler vivere pessimamente; del resto ben conoscete ancor voi, che quæ seminaverit homo, hac metet. Tutto bene Padre, ma in tanto se son predestinato mi salverò, se prescito mi dannerò. O che voci d’inferno, e che potrò dir io di più, per levar questa pazzia di capo a più d’uno, e far che si creda questa irrefragabile verità: che l’opere sono quelle che salvano, e così, se colui vuol salvarsi, convien che lasci l’amicizia, lasci l’odio lasci l’interesse, le mormorazioni, le bestemmie, e colei d’esser sì scandalosa e voler la venerazione d’ogni cuore, altrimenti non vi salverete. Ho finito, non so più che dirmi, andate in pace: senza opere buone non vi salverete. Sebbene piano, odimi o peccatore, se tu non hai voluto credere che per essere predestinato vi vogliano le opere buone. Né a David secondo il cuor di Dio; né a San Paolo che giunse al terzo Cielo; né ai santi Profeti segretari della Divinità; né alle parole di Dio medesimo, ho trovato un soggetto a cui tu crederai, perché egli è tuo grande amico, e ben spesso si dà più fede all’asserzione d’un amico che all’autorità d’un grande. Questo è certo tuo grande amico perché fai quanto egli vuole, chi è? Il diavolo. Interroga dunque il demonio, se ci vogliano le opere per salvarti, e sentirai risponderti a forza di fatti, che sì! Sentite di grazia UU. È certo, che il demonio sa meglio di noi l’immutabilità de’ Divini Decreti; perché in Lui naturalia remanserunt, e senza dubbio sa meglio di noi che si salverà il predestinato e si dannerà il prescito, e pure quello che egli meno pensa è questo, ma solo attende a tentare indifferentemente tutti. Discorriamola un poco col demonio: tu sai, dico io, o spirito infernale, che Dio ha già determinato quello che ha d’essere; perché dunque tentare gl’uomini? Se quello è predestinato, certo si salverà benché tu lo tenti; se quello è reprobo si dannerà, senza che tu t’affatichi a tentarlo. Sì, tutto è vero, dice il demonio ma non per questo desisto dal tentare, perché so che l’uomo è libero, ed ha l’arbitrio assoluto, ed ognuno per santo che sia può divenir tristo e dannarsi; sì come ognuno per scellerato che sia, può farli santo e salvarsi; e so di più, che Dio: reddet unicuique juxta opera sua; tento perciò tutti, o buoni o cattivi, o predestinati o presciti che siano, e nulla lascio di fare perché si dannino. Ah peccatore! Il demonio benché sappia più di te, non lascia di tentarti, o prescito o predestinato che tu sia, e non guarda a’ decreti divini, ma alla libertà del tuo arbitrio, alla Giustizia Divina che ha da premiare il buono e castigare il reo, e tu vuoi andare perdendo il cervello con cercare se sei predestinato o prescito, averti che, se non operi bene ti troverai dannato.


LIMOSINA.
Uno de’ segni di predestinazione è l’essere elemosiniere. Cristo nel Giudizio Universale dà nome di benedetti ai predestinati … Venite Benedicti, e di maledetti a’ reprobi, … discedite maledicti, non per altro se non perché quelli furono, e questi non furono elemosinieri, a quelli dirà: esurivi, et dedistis, a questi: esurivi  et non dedistis mihi manducare.

SECONDA PARTE.

O per me, esco fuori di me, ogni qual volta considero che l’uomo nelle sue azioni mondane non si governa con pensar ciò che Dio ha decretato. Ditemi: chi pretende in questo mondo onori, dignità, cariche, ed offizi, chi cerca accumular ricchezze, ed ammassar tesori, non ha la mira a quello che Dio ha decretato ab æterno; non dice: se Dio ha determinato che io sia ricco, lo farò senza affaticarmi; no! Ma s’ingegna ed applica con diligenza a tutti i mezzi possibili per giungere a quello, che pretende. Deh sentitemi signor tale, lasciate pur li scrigni aperti, ove sono i vostri denari, e voi o signora non chiudete lo stipo delle vostre gioie, perché, se Dio, ab æterno, ha stabilito che non vi sia rubato non vi sarà tolto. Che direste a questo mio parlare? Padre, mi rispondereste non mi do pensiero di questi decreti divini che non fanno per me, quel che so di certo è che, se non guardo bene i miei denari, se non custodisco bene le mie gioie, si perderanno, mi saranno rubate. Quanto voi UU. direste con ragione a me in materia di gioie e di denari, tanto io dico a voi in materia d’anima. Se voi non custodirete l’anima, fortificandola di buone opere, non vi salverete; se voi la lascerete in abbandono vi sarà rubata dal diavolo. Dio immortale! Almeno si praticasse ne’ mali dell’anima la metà di quello; fino ed il medico avesse la bella sorte pratica ne’ mali del corpo; s’ammali l’uno tanto più pericoloso dell’altro, quanto l’anima è superiore al corpo. Piacesse a Dio, che a me fosse concessa una simile fortuna, e che col mio rappresentare a chi m’ode la necessità delle buone opere per salvarsi, l’inducesse a lasciare quei tanti vizi che gl’opprimono l’anima e ad abbracciar le virtù, che la conducano al Cielo. Miei UU. sumus adhuc in via, non è ancora terminata la carriera del nostro vivere, voglio dire che possiamo ottenere il premio del Paradiso; siamo ancora in battaglia, possiamo assicurar la vittoria, e già che contro di noi non è ancor pubblicata la sentenza, vi resta luogo alla grazia, satagite, dunque vi dirò con l’Apostolo Pietro: operate bene … ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis; eseguite dunque i consigli di San Pietro: vivete bene e vi salverete.

QUARESIMALE (XXXII)

QUARESIMALE (XXX)

QUARESIMALE (XXX)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA TRENTESIMA

Nella feria terza della Domenica di Passione

La mormorazione vizio detestabile, perché nello stesso tempo contamina chi mormora, di chi si mormora, e chi ode mormorare.


Et murmur multum erat in Turba.
San Gio: al cap. 7.

Sono ormai sei mila settecento e più anni, che a rovina del mondo tutto, ebbero principio i delitti della lingua, e fu allora che il serpente mormoratore d’inferno cacciò Eva dal Paradiso terrestre, e con le sue cadute ne derivano i nostri precipizi, quando susurrans serpens, scrisse un moderno, Evam de Paradiso excussit. Dalla lunghezza del tempo gran forza ha preso il vizio della lingua, che peggiore d’ogni altro si fa conoscere nella bocca del mormoratore perché, come dice San Bernardo, coll’arma pestifera della sua lingua ferisce nello stesso tempo in un sol colpo tre persone … tres lætaliter inficit et uno. Inficit colui, di cui mormora; inficit coloro con cui mormora; inficit finalmente quello, che mormora. Vediamo ad una ad una queste tre rovine per evitarle, e son da capo. – Non ha il diavolo ministro né più fedele, né più accurato nel servirlo del mormoratore, poiché non restringe le sue mormorazioni a sesso, mormorando con egual libertà e d’uomini, e di donne; non le limita ad età, poiché tanto si mette a lacerar la fama d’una piccola donzella, d’un innocente garzoncello, quanto d’una vecchia decrepita, e d’un uomo canuto. Non guarda a condizione, poiché la sua lingua è egualmente pronta ad imbrattarsi nella reputazione d’un grande, d’un Pastor sacro, come d’un vil plebeo. Arriva sino a lacerar la fama delle vergini, o legate con voto o consacrate ne’ chiostri, e de’ Ministri anche più accreditati degli Altari. Non ha, torno a dire, ministro il diavolo né più fedele, né più accurato, poiché anche in ogni luogo alza il suo trono. Andate alla campagna, agli orti, alle vigne, agli oliveti, e qui si fan largo le lingue mormoratrici. Entrate nei castelli, terri, città e qui nelle strade, nelle case, che più? Ne’ Templi, ed … o che ministri diabolici! A ministri sì fedeli, conviene che il diavolo assista con le sue astuzie, poiché non cessano di portargli guadagni d’inferno; ed il Santo David in più luoghi de’ suoi Salmi ne palesa il diabolico loro operare, … os tuum abundavit malitia. Vi sono alcuni, che se non s’empiono la bocca di mormorazioni non son quieti a guisa di quei parassiti che, non contenti di nutrirsi, voglion sempre piena la bocca. Né qui si ferma il santo David, poiché non solo asserisce che abbonda la malizia nella bocca del mormoratore, ma passa a mostrarne gl’inganni, onde dice: Lingua tua concinnabat dolos. Costoro furono appunto come lo scorpione, il quale finge d’accarezzare con le branche per ferire con la coda, mentre lodando talora uccidono il credito e scemano l’onore. Lingua tua concinnabat dolos … che vale a dire che mormorando adorna inganni, ed abbellisce infamie. Principiano questi dalle lodi, e nell’atto stesso di ambire, sanno cavar sangue. Lodano un giovine, ma con esprimerlo o libero nel parlare, o licenzioso nel guardo, sicché quel misero avrebbe avuto per meno male d’esser maledetto che lodato da quelle lingue che lodando vituperano, e celebrando infamano, simili appunto a quelle lodi di certe streghe sacrileghe, le quali assaturano le piccole creature col solo lodarle. Penderà dal petto d’un amante madre un caro figliolino, quando una di queste streghe messasi a lodarlo, gli dirà: o come è vago, o come è vezzoso il vostro figliolino; ed appena ciò detto, la creatura si ammala, principia a languire, ed a consumarsi come una candela di misture aromatiche, che si consuma senza sapersi come bruci. Lingua tua concinnabat dolos. Di tal sorta pure sono quelle lingue che principiano il discorso dalla compassione, e lo finiscono in crudeltà, mostrando dispiacere, ch’una persona, per altro di talenti, commetta poi certi errori; possono questi assomigliarsi ad un certo serpente, di cui dicono i naturalisti, che ha il capo candido, ma non ha denti in bocca, dalla quale però versa una spuma sì velenosa, che attossica quanti tocca; mostrano questa razza di mormoratori d’esser candidi, e sinceri di parlar per puro zelo, e di non aver denti in bocca da mordere; ma in verità sarebbe meglio che gl’avessero, giacché la spuma che gettano dalle labbra è più nociva, perché guidata con più artificio. Peggio, passa avanti il santo Profeta, e lo dichiara uomo di più lingue, Vir linguosus. Io per me non ho mai veduto persona che abbia più lingue in bocca, e se due ne avesse, so che non potrebbe parlare neppur con una; come dunque il santo David dice, un uomo di più lingue? Perché il mormoratore di tutto se stesso, forma lingue nefande. Voi vi troverete in una conversazione, ove per lode d’una donna, si dirà che ella è un vero ritratto della modestia, quando uno di coloro per ironia rivolto all’amico abbassa il capo, eccolo detrattore con la testa, la loda un altro, come specchio di cristiana pietà, ed un di quei serra l’occhio sinistro, e si fa mormoratore con gl’occhi. Si dichiara quello che la donna è un esemplare di ritiratezza, e che alla nobiltà della nascita accoppia l’onor della vita, quando s’osserva che uno del circolo o fa un cenno con la mano, o preme col suo il piede del vicino, sicché col piede senza strepito altamente si parla. Vir linguosus, uomo di più lingue è il mormoratore; ben ravvisato per tale da Salomone allorché scrisse: annuit oculis, terit pede, loquitur digito. E di lingue di serpente avvelenato d’un aspide, venenum aspidum sub labiis eorum, per additarci, che siccome il morso ed il veleno dell’aspide è insanabile, così la piaga che fa il mormoratore è irrimediabile. O quanto difficile è render la fama, è quasi impossibile. Vi aiuterete per restituirla, ma indarno. Mosè voleva far conoscere che egli era vero ministro del suo Signore, onde gettata la sua verga in terra, la fece subito trasformare in un orribile serpente, ma che? Appena la ritolse in mano, che subito la fece di serpe ritornare verga. Vollero gl’incantatori di Faraone far anch’essi una prova eguale, ma non gli riuscì; fecero, è vero cambiar le verghe in serpi, ma quelle serpi mai ritornarono all’esser di verghe. La virtù diabolica, miei UU., può arrivare a far del male, a cambiar le verghe in serpi, ma non può già rifare dal male, bene. Tanto succede ai mormoratori: vi riuscirà di far comparire quell’uomo da bene per un usurario, per un maledico, per un vendicativo; vi riuscirà di far credere che quella devozione sia una ipocrisia, che quella fanciulla sia macchiata, che quella maritata non sia fedele, ma non vi riuscirà di farli ritornare nel loro essere, e di reintegrarli di quel che gli avete levato. Calumniare, calumniare, diceva quell’infame politico, semper aliquid remanet. E se è irrimediabile, darà la morte, così è, così è, dice l’Angelico San Tommaso: Qui occidit fratrem suum, qui detrabit, pariter homicida esse monstratur. Che però la Sacra Scrittura alla lingua maledica dà il nome or di rasoio, or di saetta, or di spada per denotare le gravi piaghe che ella fa nel cuore del prossimo; e se la lingua de’ mormoratori non giunge per sé stessa a privare il prossimo di vita, giunge a privarlo per mezzo d’altri, mentre una gran parte delle più sanguinose fazioni sono causate dalle mormorazioni. Non ha il demonio, no, ministra più fedele della lingua, poiché se tante volte sono perite nobili casate, e belle prosapie, son caduti i regni più floridi, e le  regalità più gloriose, tutto è stato effetto, al dir di Plutarco, della lingua: Unius lingua dolo, proditione, urbes conciderunt, regna, res publica; così è, dice lo Spirito Santo: Os lubricum operatur ruinas. Voi vi crederete, che il mormoratore abbia finito d’adoperar l’arma terribile della sua lingua, mentre non solo con essa ha ferito, ma ucciso, come parla l’Angelico; appunto, appunto, sentite il Profeta, che segue: Lingua eorum transivit in terra, che è quanto dire che talora penetra la terra, fino alle ossa de’ poveri morti, di questi ancora mormora, anzi più, talora salgono in Cielo. Os suum posuerunt in Cœlum. Il leone, se trova una bestia uccisa, la mira e poi passa avanti, né la tocca. Non fanno già così questi indegni, mentre con la loro perfida lingua s’inoltrano fino all’ossa de’ trapassati, e sono sì temerari, che non considerano che, con dir male de’ morti, chiamano al lor sindacato come rei, quei che facilmente sono beati in Cielo. Né vi crediate, segue il santo Profeta, che queste loro mormorazioni siano rare, appunto, hoc opus eorum, questo è il mestiere che fanno dalla mattina alla sera, non già di passaggio, ma di proposito: Sedens adversus fratrem tuum loquebaris; sedens nell’anticamera di quel personaggio; sedens avanti l’uscio di quella bottega; sedens sopra le panche di quella Chiesa, mentre si aspettava la predica; sedens a quella mensa, a quella veglia, a quel fuoco; insomma hoc opus eorum qui detrabunt mihi; ecco l’occupazione degli uomini e delle donne dalla mattina alla sera: dir male degli altri. Gran cosa! Quelle persone ancora che non sanno dire tre parole in fila, sapranno durare tutto dì a mormorare simili a quelle rane che non hanno altra voce che per gracchiare. – Sinora ho detto del mal che fa il mormorare a quello, a quella, di cui mormora. Or vediamo adesso il mal che fa a quello, che sente mormorare: grandissimo, perché lo ponete in pericolo di dannarsi. Non me lo credete? Uditemi. Coloro alla presenza de’ quali mormorate, o son buoni o son cattivi: se son cattivi come voi, si compiaceranno d’aver compagni, e prenderanno un animo molto maggiore per seguitare con la loro maledica lingua a trinciare la riputazione di chi che sia. Voi ben sapete che il Profeta Reale, udita ch’ebbe la morte dello sventurato Saul pregò coloro che gliela significarono, a non palesar questo successo agli abitatori di Get, per non dargli occasione di parlare sulle calamità d’Israele, ne exultent filii incircumcisorum; ma voi mormoratori, che fate? Quando in quel circolo vi lavate la bocca di quel chierico, di quel religioso, di quella donna, di quella dama, fate che chi vi sente, prenda motivo di seguitarvi, di far lo stesso, anzi d’accrescere etc… Un empio solo che mormori, sveglia in chi sente, un insopprimibile talento di mormorare, a guisa di quell’importuna cicala che, col suo garrire, sveglia allo strepito quant’altre gli son vicine, etc. .. –  Quando poi questi che vi sentono mormorare non siano uomini empii, ma pii, ma da bene, o quanto è male, che voi fate all’anima loro; è facilissima cosa, che voi mormoriate di quelle cose, che essi non sapevano, come d’amori, d’onestà, etc… e così voi gl’insegnate le indegnità, e gli fate e pensar ed imparar quei mali a loro ignoti. Di più li ponete in pericolo di divenir mormoratori come voi, più, che dispregino quelle persone, delle quali mormorate, e se non altro, li ponete in stato di vanagloriarsi, e di dire col Fariseo, non sum, non sum sicut cæteri bominum. O quanti mali quanti mali! Voi poi, che talora vi trovate ne’ circoli ove si mormora, se non volete avere nelle orecchie quel diavolo, che ha nella lingua chi mormora, avete a seguire il consiglio del Boccadoro: habes, quod laudes, aures aperio, si vero malum velis dicere, obturo aures non enim stercus et cænum accipere sustine. Fratello, signore, signora, se volete parlar bene del prossimo, io v’ascolto, se male, chiudo le orecchie, perché non voglio sozzure di maldicenze. E quando la vostra condizione tanto non vi permetta, servitevi della proprietà del delfino, di cui narrano i naturali, che ode, ma par che non oda, giacché non appariscono le sue orecchie. Se voi non potete impedire che non si mormori, mostrate di non udire, non apparisca in voi né gradimento, né approvazione. Or che v’ho mostrato il danno che riceve quello di cui si mormora, e quello in presenza di cui si lacera, resta il terzo punto del male, che ne viene a quello che mormora. Primieramente dovete sapere, che siete in odio agli uomini: abominatio hominum detractor, i quali, benché vi ridano in faccia, v’abominano nel cuore, perché quel tradimento, che fate agli altri in presenza loro, lo farete di loro in presenza d’altri, e vi riconoscono per quei cani da macello, i quali godono d’imbrattarsi egualmente in ogni sangue le loro labbra; ma questo è un nulla; il peggio è, che siete odiati da Dio: detractores Deo odibiles, così parla l’istesso Dio. Siete odiati da Dio, dunque permetterà Iddio che vengano nella vostra casa quei vituperi, che ora scoprite in quella del vostro prossimo; impius, dice lo Spirito Santo, confundit, confundetur. Guai a questi mormoratori, guai a questi detrattori: Vir detractor, seguita a parlar Dio, non prosperabitur in terra. Siete odiati da Dio; dunque andranno sempre di male in peggio i vostri interessi, resteranno sterili i vostri campi, fulmini spietati inceneriranno i vostri armenti, orride tempeste termineranno le vostre campagne, orribili terremoti scuoteranno da’ fondamenti le vostre case. Siete nemici di Dio, dunque periranno le vostre consorti, i vostri mariti; si estinguerà la vostra casa con la morte immatura de’ figli, e voi, perché mormorate, vi ridurrete a tal miseria, che per sostentar la misera vita, vi converrà mendicare un tozzo di pane di porta in porta, Vir detractor non prosperabitur in terra, diluvieranno le disgrazie, le infermità, le morti sopra la vostra casa, la vostra famiglia, la vostra persona. Girate, girate pure le strade tutte di questa vostra città, voi che conoscete ogni famiglia, e troverete molti di questi detrattori, che prima vivevano con comodità nelle loro case, ed ora sono ridotti a stato tanto infelice così permettendolo Iddio per castigo della loro maldicenza. Ma che sarebbe, quasi dissi, poco il castigo narratovi; il peggio è, che qui non si ferma il giusto sdegno di Dio; non basta a Dio che i mormoratori siano miserabili nel corso della loro vita, li vuol tali anche nella morte, perché li vuole morti di morte improvvisa! O Dio! Cosa vuol dire essere odiati da Dio, o Dio! che disgrazie porta seco la mormorazione; ecco le parole delle sacre carte: Time Dominum fili mi, cum detractoribus ne commiscearis, quoniam repente consurget perditio eorum; mormoratori, la vostra morte sarà subitanea, repente, repente, può mentire Iddio, amplifica Dio, burla Dio? Se credete, che mentisca, burli, o amplifichi, non parlo con voi, perché butterei il tempo, predicando ad infedeli; ma se non mentisce, voi perirete di morte subitanea, o colpiti da una goccia, come il mormoratore Alcimo, che tanto sparlò di Giuda Macabeo, o inghiottiti dalla terra, come gl’empi detrattori di Mosè, repente consurget perditio eorum, vi troverete colti da quella morte che sola al mondo è bastevole a far tacere le vostre lingue sacrileghe. Riflettete dentro di voi a quanti fin’ora son morti di morte subitanea; e toccherete con mano, ch’erano per lo più detrattori. Temete dunque uomini e donne, temete, perché se mormorerete, morirete di morte improvvisa senza poter neppur proferire quel Santissimo Nome: Gesù! Gran castighi sono questi, non lo nego, morire di morte improvvisa, ma pure sarebbero comportabili se non ve ne fossero de’ maggiori. Chi è in odio a Dio, creda pure essergli dovuto ogni castigo. Ecco, che lo stesso Profeta passa a castighi molto maggiori, e più severi; Virum injustum idest detractorem,
spiega la Glossa, mala capient in interitu, al capezzale sì, alla candela benedetta, a quegli ultimi fiati, alla morte proverete ciò che voglia dire esser stato mormoratore, e come tale in odio a Dio. Vi sbatterete per quel letto agitati, come furie, vi lacererete con le vostre mani, come arrabbiati, le carni; morirete senza l’assistenza de’ Sacerdoti, passerete all’altra vita senza Sacramenti, tutto per divina permissione, perché foste mormoratori: Virum detractorem mala capient in interitu; O Dio saranno pur finiti i castighi contro i detrattori, mentre ora li vediamo morti; finiti? Mi risponde la glossa morale, spiegando le sopracitate parole, appunto, no, no! Quia mala gehenne eum capient, no, no, che non sono finiti i castighi divini, ve ne sono ancora, mala gehennæ, vi è la perdita irreparabile dell’anima, vi è l’eternità dell’inferno, vi è l’ardere ed il bruciare per sempre fin che Dio sarà Dio. Tu, o mormoratore in tutto il tempo di tua vita non la perdonaste mai ad alcuno, ma ti dilettasti sempre di detrarre, e di biasimare chiunque ti veniva in bocca, così Dio per tutta l’Eternità ti farà provare la sua eterna maledizione, se non fermerai quella lingua, che scocca saette nell’altrui fama, il tuo premio in fin di vita farà un’eterna morte: dilexisti, dice David, omnia verba præcipitationis lingua dolosa, ecco quello che ne seguirà … propterea Deus destruet te in finem, e vuol esprimere, secondo San Bernardo, idest irrevocabiliter per destructionem eternalem, quæ sine fine erit. Tanto appunto intervenne ad uno di questi mormoratori, il quale ridotto alla morte, sentendosi esortare ad avere fiducia nella Divina Misericordia, gridò con voce spaventevole: che misericordia? non vi è misericordia per me di Dio, già che io sì poca n’ebbi verso il mio prossimo; indi, orribil cosa, tratta fuori la lingua, accennò col dito, che la mirassero, e poi questa lingua … soggiunse, m’ha condannato, questa, con la quale m’avete sentito si spesso condannar altri; questa sa, che disperato io mi danni; così disse, e perché manifestamente apparisse, aver egli per giusto giudizio di Dio così parlato, se gli gonfiò tutta in un subito la lingua, sicché non potendola più ritirare a sé, cominciò a muggire come un toro, e così dopo penosissima agonia, morì nelle braccia del diavolo. Volete voi evitar simili castighi? ubbidite al Profeta Reale: Benedicite Dominum omni tempore, Iddio vi ha dato la lingua, non per mormorare, ma perché semper fit laus ejus in ore vestro, dirò io, risolvetevi dunque d’abbandonare vizio si mostruoso, benedicendo Dio nel vostro prossimo con la vostra lingua, acciocché Egli benedica voi in punto di morte.

LIMOSINA.
San Giacomo Apostolo chiama la lingua mormoratrice con questo vocabolo: universitas iniquitatis, quasi voglia dire, che chi è mormoratore, può dire d’aver in sé ogni vizio, merceché la mormorazione equivale a tutti. Cosa dovrà fare dunque il mormoratore per liberarsi da questa universalità di peccati? Una  buona limosina, giacché la limosina, dice Dio ne’ Proverbi, è quella, che operit universa delicta, universa delicta operit charitas! Anche tra gli uomini la liberalità ricopre i vizi, che però Filippo Re de’ Macedoni era solito di dire, che stava in sua mano cambiar le mormorazioni de’ sudditi verso di lui in lodi, perché bastava ch’aprisse la mano a donare.

SECONDA PARTE.

Siate pur benedetto, o Padre, Dio vi renda il merito di questa Predica. Tale appunto era necessaria in questa nostra patria, ve ne era un estremo bisogno, non si fa altro che mormorare ed udir mormorazioni; sicché godo dunque d’averla affrontata con speranza di frutto. Ma ditemi, chi siete voi, che così parlate? Io vi credo uomo da bene, donna d’ogni onore. Ma se voi poi foste nel numero di quelli e di quelle che tanto godono che si predichi contro chi mormora, perché vorrebbero vivere a lor modo secondo i loro capricci con ogni libertà, e che di loro non si parlasse, non si fiatasse, io contro di voi mi rivolterei, e con santo zelo v’imporrei un perpetuo silenzio. Come? Voi volete far tutto e far di tutto, e con ciò dar motivi continui che di voi si sparli, e poi volete che ognuno taccia? Tacete voi più indegni di loro. Vi sarà una donna, un Sacerdote che diranno: non siamo rispettati, si sparla di noi … ditemi, rispondo io, buona donna, reverendo Sacerdote, ne date occasione? Se ne date occasione, fanno male essi e peggio voi, e però prima a voi e poi a loro è dovuto il castigo. Voi vivete non da Sacerdote, ma da secolare, non avendo che la veste da religioso, la quale non basta per occultare le inimicizie, il trafficare, il mercantare, vi fate conoscere per puntiglioso, e si sa che la castità promessa non si osserva, e vi dolete poi che si mormori? Tacete e non ne date i motivi sì gagliardi. Già voi vedete, che una parte del mondo mormora dell’altra, né mai si cessa. Sentiamo le scuse che adducono molti per liberarsi dalla colpa. Padre, io non ho tanta malignità; se qualche volta parlo, parlo per zelo! … Non vorrei vedere ciò che non sta bene, lo zelo eh? Non siete già voi come le rane, le quali giacendo nel fango, gridano poi sempre, quasi rimproverando agli altri la loro sordidezza. Avvertite, che non vi senta il lupo di Plutarco che a voi farà il rimprovero che fece a certi guardiani d’armenti; udite: introduce Plutarco un lupo che, costretto dalla fame, passa alla mandria, addenta un agnello, quando destati i cani e svegliati i pastori, fu tale la fierezza di questi ed il latrar di quelli, che il povero lupo, per non perder la vita, lasciò la preda; tornato però la notte appresso la caccia, e giunto con la scorta dell’odore di carne cotta alla stessa capanna, quivi da una apertura dell’uscio, riconobbe che quegli stessi cani e quegli stessi pastori stavano banchettando chi con le ossa, e chi con le carni del più grasso vitello di tutto il gregge. Oh addio galantuomini, gridò meglio che poté con gli urli il lupo, così guardate gli armenti? Quantus tumultus si hoc ego fecissem, bel zelo abbaiare contro degli altri e far peggio degli altri, salvare un agnello, e rubare un giovenco. Se io rubai, lo feci per fame, ma voi per ingrassarvi tradite i padroni, sfiorate la greggia e scandalizzate etc… . Voi avete zelo di quella, etc. . dirò io, donna, e voi, che fate? Padre, non son nel numero di questi, ne dico salvo quel ch’è vero. Adagio, e da quando in qua si possono pubblicar i difetti, benché veri? Dunque, se un povero ecclesiastico, una povera donna cadono, potrà pubblicarsi? E da quando in qua, quello che succede in una camera si ha da dire per una Piazza? Quel che accade in una casa, si ha da pubblicare per la città? Quel che succede in un vicinato, si ha da scriver per tutto? Mi meraviglio di voi, chi ha peccato, tiene tuttavia della sua fama, giustamente il possesso … Io non trascorro tant’oltre, dice un altro, ma sol quello che so, lo confido a mio marito, all’amico; no, neppure ad uno dovete dirlo, audisti verbum adversus fratrem tuum, dice lo Spirito Santo, commoriatur in te; hai udito qualche fallo del prossimo, non lo dire a niuno; ma pensate voi se vogliono ubbidire? Appunto a guisa d’una donna di parto, par che si trovi in angosce, finché non trova a chi comunicare ciò ch’ha udito. Via, via, si muti linguaggio. Se così farete, sarà santificata la lingua di chi mormora, l’orecchio di chi ascolta, la vita di chi opera, ed in tal forma si giungerà da tutti a lodar Dio.

QUARESIMALE (XXXI)

QUARESIMALE (XXIX)

QUARESIMALE (XXIX)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMANONA
Nella feria seconda della Domenica di Passione.

Si mostra la stolta presunzione d’offendere Iddio sulla speranza della Divina Misericordia.

Si quis sitit veniat ad me, et bibat. San Gio: cap. 7.

Il premio e la pena sono le due basi che tengono il mondo in regola. Che meraviglia dunque se Cicerone, principe dell’eloquenza, colà nel terzo de Natura Deorum, apertamente dicesse, che non solo una repubblica, ma neppure una casa poter durare, mentre in quella non si tema il castigo per il vizio, non si speri il premio per la virtù; nec domus, nec respublica stare potestà, si in ea nec recte factis præmia extent ulla, nec supplicia peccatis. Del pari dunque camminano al reggimento del pubblico premi e pene; ma o quanto è male e quante turbolenze partorisce il non punire le colpe. Guai a noi se non si punissero i rei, si vedrebbero in breve tempo le città divenute selve di lupi depredatori. Stupisco però come gli uomini siano così stolti, che dalla clemenza d’un principe che perdona, ne ritraggano motivi di seguitare vita licenziosa; sarebbe tuttavia, quasi dissi, poco male, se così passassero le cose con i soli principi della terra. Anche con Cristo Re si pratica in tal modo, poiché gli uomini, quanto più lo considerano misericordioso, tanto più l’offendono, e perché Egli si dichiara, si quis sitis veniat ad me, per questo sperano aver aperte sempre le fonti delle Divine Misericordie, per affogarvi le loro colpe e seguono a peccare. Seguitate pure, dirò io, perché (e sarà l’assunto del mio discorso) se pretendete d’offendere Dio sulla speranza delle Divine Misericordie e sul fondamento delle vostre stravolte idee, vi troverete e castigati e perduti. – Perdonatemi o dotti: convien che io stamane me la prenda con i peccatori ignoranti, i quali discorrendo da pari loro, formano sciocchissimi sofismi, e su questi vogliono innalzare la fabbrica della loro salute. Dio è buono, dicono essi, ha sparso tutto il sangue per noi, è tutto misericordia, il Paradiso non è fatto per i Turchi, si salvò un ladrone, dunque, anche io porrò piede in Cielo. Poveri peccatori, che sì fattamente discorrendo continuate a menar vita licenziosa senza accorgervi che pretendete stringer l’ombra in pugno, la vostra speranza sulla bontà Divina, mentre continuiate a peccare, è giusto come l’arcobaleno, che altro non ha salvo l’apparenza. Voi dite, Dio è buono, e poi ne cavate per infallibile conseguenza: dunque si può peccare, questo è un discorrere da sciocchi; dunque, perché Dio è buono voi volete esser empi, poiché Dio riceve i penitenti voi volete continuare a peccare; perché Egli vi benefica come Padre, voi lo volete trattar da nemico. Dio immortale, ed è pur vero che neppur le vipere impastate di tossico, offendono se non sono offese, solo voi offendete Iddio non solo quando non vi offende, ma quando tutto bontà vi benefica. Voi temerari così dite: Dio è buono, quindi si passino i giorni negli amori, le notti nelle veglie scandalose! Dio è buono; dunque, irriverenze nelle Chiese, dunque si mormori in ogni circolo, si sparli in ogni piazza, si pecchi in ogni luogo. O che pazze conseguenze! Deducetene piuttosto un’altra, e dite: Dio è buono, dunque s’ami, s’onori, si adori, si osservino i suoi precetti. Fermatevi, che fate, e perché oltraggiate quel cavaliere sì buono con le parole, e perché percuoterlo con schiaffi vergognosi? È un peccato il solo pensare ad offenderlo, e non sapete la sua bontà perché dunque strapazzarlo? Per questo stesso sento rispondermi: perché è buono voglio strapazzarlo, maltrattarlo; questo è un parlar da pazzo, non è vero miei UU.? Orsù a noi. Dunque, un uomo vil fango della terra, perché è buono merita ossequi, e Iddio che è bontà infinita merita dispregi? Neppure un cane, quando sia buono deve strapazzarsi ed è pur vero che il privilegio d’un cane, d’un animale non l’ha Cristo, perché quantunque buono si vilipende, e si conculca con i peccati. Dio è buono! Ah che mi si spezza il cuore, dunque si bestemmi alla peggio il suo nome Santo, dunque s’inalberi uno stendardo, e vi si arruoli sotto un esercito di maritate sedotte, di vergini contaminate, e con una tal milizia si tenti di cacciarlo dal suo trono per costringerlo a nuovamente vivere in una stalla. O che conseguenza bestiale è mai quella… Dio è buono, dunque pecchiamo. Dite piuttosto, bonus es tu, in bonitate tua doce me justificationes tuas. – Non cavò già conseguenze sì storte Giuseppe il casto, casto ancorché giovane come abbiamo nella Genesi al cap. 36. Fu questi più volte tentato dalla padrona che era una di quelle maritate a cui pareva che il vincolo coniugale non servisse di freno, ma di stimolo alla incontinenza, fu dico tentato Giuseppe con quelle infame parole dormi mecum, al che gli rispose: ecce dominus meus omnibus mihi traditis, con quello  che segue. Il mio padrone, disse Giuseppe, è sì buono verso di me che mi ha quasi costituito padrone di tutto il suo, e come potrò io contaminare il suo letto: Quomodo potero peccare in Dominum meum, non sia mai vero no; così si discorre e così si opera. Deh mutate sin quaggiù o peccatori e dite: Iddio è buono, dunque non lo devo offendere, ma amare, perché il buono fu sempre amabile, e riflettete che se Egli è buono, come voi dite, tanto peggio sperate se non l’amate: Certe si talis est, qualem putas tanto iniquius agis, si non amas… non vi seguite a guisa di vipere di fiori per formar veleni. Ah Vergine amabilissima, mi si apre il petto per il dolore; dunque la bontà del vostro Figlio che dovrebbe essere stimolo acutissimo per amarlo, serve a’ peccatori di crudo carnefice per crocifiggerlo. O iniquità, o stoltezza insensata e crudele! – Da questa conseguenza così pestifera … Dio è buono, dunque si può peccare, si passa ad altra non meno indegna: Dio è misericordioso, dunque si può offendere. Confesso di vero, che io non so capire la sfacciataggine di questi peccatori, i quali fanno a Dio il maggior de’ mali, qual è l’offenderlo, e da Lui sperano il maggior de’ beni, qual è la sua misericordia per salvarsi. Tu dici: Dio è misericordioso, e per questo mi salverà, ed io ti rispondo che con tutta la Divina Misericordia, se seguirai a peccare probabilmente ti dannerà. È misericordioso Iddio, non è vero? … Padre sì, eppure lascia piombare nell’inferno tanti Turchi, tanti idolatri; ma questi Padre non hanno il Santo Battesimo, bene … è misericordioso, eppure ha lasciato cader nell’inferno tanti Cattolici … ma Padre perché vissero peggio di me; peggio di te non lo so, perché tu neppur stavi lontano da quei vizi che chiamano fuoco dal Cielo, e ne vuoi complice talora chi ti consegnò Iddio per indivisibile compagnia. Vissero peggio di te, hai tu fatto un sol peccato mortale? Appunto de’ soli pensieri ne conterai le centinaia; e pure Iddio con tutto che sia misericordioso lasciò pur piombare nell’inferno quell’infelice giovinetto della città d’Ingolstadio in Germania, il quale morto che fu per esserglisi rotta una vena del petto, ed averlo affogato mentre dormiva, comparve ad un suo maestro, che per lui voleva celebrare la Messa, e glielo vietò dicendogli che era dannato. Come dannato? Replicò il Padre, sapendo che era vissuto innocente. Ieri appunto, rispose lo scolaro, un cattivo compagno m’allettò alla colpa, commisi il peccato, me ne andai a letto con pensiero di confessarmi la mattina, ma rottamisi una vena del petto, restai soffocato e morto, e per un sol peccato mortale mi trovo dannato. Ditemi, la Misericordia di Dio è punto scemata con la condanna di questo miserabile per un sol peccato mortale? Certo che no, or vedi, se scemerà punto con lasciarvi piombar te, che de’ peccati mortali ne hai a centinaia, tu, che sei pieno d’usure, d’odio, d’amori indegni … noli contemnere misericordiam, dice San Bernardo, si non vis sentire justitiam. Pur sento chi temerariamente mi replica: E non volete che io speri di salvarmi ancorché continui a peccare, mentre Gesù per salvarmi ha sparso tutto il suo Sangue? Cristo ha sparso il suo sangue per noi, dunque pecchiamo! O che diabolico argomentare è mai questo, mentre dovreste piuttosto dedurre, Dio ha sparso il suo sangue per noi, dunque, noi spargiamolo per Lui; Dio ha sparso il suo sangue per liberarmi dalla morte, dunque, uccidiamolo! Che conseguenza!? sentite caso orribile, che si racconta nel Cristiano Istruito. – Si affronta a passare un soldato da un patibolo, di dove pendeva già impiccato un uomo, e veduto che si moveva, stimò, come di fatto era, che ancor non fosse morto, andò, lo staccò, lo ristorò, e levatoselo in groppa del suo cavallo seco lo conduceva per aiurarlo; quando colui, che aveva ricevuta la vita, immaginandosi che quel soldato portasse denari, gli tolse dal fianco lo stile, glie lo piantò più volte nella schiena, e l’uccise. Che dite? Così fate voi: Dio mi ha data la vita spargendo il suo sangue, ed io gli voglio dar la morte con i peccati. Se si è lasciato crocifiggere per voi, non dovete voi ribattergli i chiodi con nuove colpe, altrimenti sarebbe un pretendere che Cristo fosse a guisa di quelle piante che danno balsamo per ferire. Seguite pure a peccare sul fondamento d’aver sparso per voi il suo Santissimo Sangue, ed io v’assicuro, che questi chiodi saranno un giorno a voi fierissimi pugnali al cuore, queste spine serviranno di siepe alle porte del Paradiso perché non vi entriate; i flagelli e strumenti della sacra passione cacceranno voi all’inferno e si avvererà in voi quel di Salviano che: nullus difficilius evadit, quam qui se evasurum presumpserit, niuno più difficilmente scampa la dannazione, che chi troppo presuntuoso spera la Gloria. Padre, voi ci vorreste far disperare della Divina Misericordia, ma tanto vogliamo sperarci sul fondamento che questa è giunta a salvare un assassino di strada, quel buon ladrone. Orsù, già che siete ricorso al rifugio degli ostinati con dirmi, che uno scellerato ladrone nel Calvario con un memento Domine si salvò, e perché non potrete salvarvi ancora voi? Son dalla vostra; ma fo un passo più avanti, e vi dico, che nell’ultimo dì di vostra vita è troppo presto a far penitenza, a convertirvi a sperare nella Divina Misericordia. Piano, Padre. E che dite? Voi volete dir troppo tardi … No, no, troppo presto, perché io vi consiglio aspettare dopo morte; non vi meravigliate del mio discorso, perché io così argomento: Cristo risuscitò Lazzaro, chiamò a vita la figlia di Jajro, il figliuolo della vedova, dunque, morti che sarete resuscitati ancor voi, e vi userà questa misericordia che resuscitati facciate penitenza. Il mio argomento è più forte del vostro. Voi argomentate da uno ed io da tre. Ma via, già che mi avete nominato il buon ladrone discorriamola. Ditemi, sperereste voi, divenuto reo di qualche grave delitto, nella misericordia d’un principe che avesse perdonato ad un solo, e giustiziatene le migliaia? Certo che no; sì bene memini, dice San Bernardo, in toto cannone unum inveniri sic, salvatum, in tutta la Divina Scrittura si trova solamente questo ladro in tal forma salvato; sia pur vero, che fuori delle Divine Scritture se ne trovi qualche altro. Ma dall’altra parte si trovano milioni di dannati; come, dunque, potrete voi più sperare che temere, mentre de’ vissuti male taluno si salva, e tanti si dannano? Dice San Geronimo: Vix de centum millibus unus appena uno di centomila, che son vissuti male, se ne salva. Dio immortale io così la discorro, e dico, che quando anche de’ peccatori simili a voi avessero i più da salvarsi, tanto dovrebbe il timore farvi mutar vita. Sentite: Arnolfo Conte di Fiandra era travagliato da acutissimi dolori di pietra, determinarono i periti di venire al taglio, ma egli ne volle prima la prova in altri; fu eseguito il comando, e trovati venti che pativano del medesimo male, si venne con essi al taglio, e di venti uno solo ne morì. Se ne portò con allegrezza la nova ad Arnolfo, ma egli nel sentire che pur uno era morto, invece di rallegrarsi s’impallidì, sicché disse, può anche essere che io resti sul colpo, e perciò più timido per la morte d’uno, che speranzoso per la salute di diciannove, non volle sottoporsi al taglio. Or io dico, se così risolse essendone campati diciannove e morto uno, che avrebbe fatto se diciannove fossero stati i morti, ed uno il vivo? Via via medici, via chirurghi, a che m’esortate se la maggior parte muoiano? Ah Dio, ciò che nella cura del corpo, neppur si sognerebbe, nell’anima tutto dì si pratica, e si va dicendo: si è salvato il buon ladrone, mi salverò anche io. O che parlar da pazzo, si è salvato un ladrone, mi salverò anche io dopo una pessima vita. Qua voi sapete che a Giuseppe, la prigionia gli portò i primi onori dell’Egitto; andate a mettervi in ceppi, che così vi renderete illustri ed acquisterete il dominio de’ regni; Mardocheo fu calunniato e per mezzo della calunnia salì alle prime grandezze della Persia. Su presto, procacciatevi delle calunnie, e diverrete ricchi e potenti. Contentatevi che ad esempi sacri mescoli una relazione profana. Racconta Plinio d’un tal infermo, ch’aveva speso tutto il suo in medici e medicine per guarire da una ostinata cancrena; disperato si portò alla guerra, e messosi fra la mischia, da un colpo che gli volò su, la postema gli fu aperta e guarì. Se per disgrazia patite un simil male, su andate o alla guerra, o quando sentite qualche rissa nella vostra patria mettetevi tra quelle spade per esser feriti. Eh, che gli esempi rari non devono servire per regola. Se un empio si salva, è un miracolo, muta vita! Gridate pur quanto volete, che finalmente il Paradiso non è fatto per i Turchi, ma per noi; son con voi, per i Turchi che moriran da Turchi non è fatto il Paradiso; ma se non è fatto per i Turchi, molto meno sarà fatto per le bestie come sei tu, che sei un aspide, che vomiti veleno di pestiferi spergiuri; che sei una vipera, che con la tua lingua mormoratrice uccidi la fama del prossimo; che sei un rospo che non hai in bocca altro che tossico di bestemmie; che sei un drago velenosissimo, che getti spuma di laidi discorsi, di disoneste canzoni; che sei un basilisco, che con occhi avvelenati d’amori indegni uccidi l’anima di chi ti mira; che sei un cane mastino pieno di livore, e di brama di vendette; che sei un’animale immondo, perché stai nel fango delle disonestà fino alla gola: dunque se il Paradiso non è per i Turchi, molto meno per te, perché sei una bestia ne’ costumi; per tale appunto ti riconobbe San Girolamo, allorché commentò le parole d’Ezechiele, bæc dicit Dominus homo homo de domo Israel; sapete quello vuol dire con replicare la sacra Scrittura, homo homo, quasi che vi fossero uomini vuole che non fossero uomini? Asserire esservi uomini che non son uomini ma bestie, multi enim homines, ecco le parole del santo, habentes hominis faciem corporalem diversarum bestiarum assumunt imagines, e con prendere i peccatori immagini di bestie, ne prendono altresì i costumi, sicché vivono non più con la testa volta verso il Cielo, ma col capo chino alla terra. Voi ora non avete occhi per riconoscere ciò che in voi è di brutale, ma aspettate, non andrà molto, che al lume della candela benedetta accesa nella vostra agonia, aprirete gli occhi, e temo senza frutto. Quei che lavorano i tappeti, li tessono al rovescio, sicché, se esprimono un mostro non lo vedono sin tanto che, compita l’opera non si volti dall’altra banda, e non si esponga al suo lume. Con un’arte simile lavorate voi peccatori la vostra vita, mentre quantunque intrecciate orribilissimi mostri d’iniquità nella tela de’ vostri giorni, tuttavia lavorando alla rovescia non li vedete, e si può dire di voi come di quei miseri Giudei, nesciunt quid faciunt; sappiate, or vi dico, che voi, peccando, lavorate sulla tela della vostra vita ed alla cieca, mostri tali che hanno da essere distruggitori dell’anima vostra. Alla morte si rivolterà il tappeto, ed allora comparendo i bei lavori che faceste, vi ravviserete per quei che siete, e vostro malgrado confesserete che: se il Paradiso non è per i Turchi che vivono e muoiono da Turchi, molto meno è per chi potendo viver da uomo, ama piuttosto vivere da animale. Da questi sciocchi sofismi passano i peccatori a proposizioni indegne ed ardiscono di dire: se pecchiamo, non pecchiamo per fare ingiuria a Dio! Primieramente io vi dico, che questa vostra scusa prova tanto, che non prova niente, perché prova in sostanza che niuno de’ peccatori si dannerebbe, perché  niuno di loro, se non è divenuto un diavolo offende Dio per offenderlo; chiunque l’offende ha puro fine, comunemente, di scapricciarsi; in secondo luogo io vi rispondo che, siccome voi nel peccare non avete per scopo l’ingiuria che fate a Dio, ma le vostre soddisfazioni, così Iddio nel castigarvi severamente, o in questa vita o nell’altra, non pretenderà far danno a voi, ma pretenderà con la vostra pena far contrappeso alla deformità de’ vizi vostri. Padre, se voi chiamate debole scusa questa addottavi, certo non afferirete per tale la seguente: Or sentite è vero, si peccò, ma non ci disperiamo, perché fu necessità; e come si può di meno di non obbedire al padrone, se vuole gli assista di notte, se vuole che gli serva di guardia. Bisogna pure che io obbedisca, se voglio mantenermi la grazia di lui e vivere. Tacete, tacete bocche d’inferno, che asserite peccare per necessità, perché in così dire mostrate di stimar fallita la Divina Providenza, mentre non credete che ella possa fare le spese convenevoli a chi la serve. Deh aprite gli occhi, dice Agostino ed intendete, che chi v’à finora pasciuti ribelli a sé, con più ragione, vi pascerà riverenti e buoni, pascet te Deus contemnentem se, et deseret timentem? Non è possibile. Tacete adunque, e non adducete queste scuse, che appunto sono scuse per continuare nel vostro peccato che, se oggi vi alletta, domani vi tradirà. Ma se voi o Padre mi sbattete tutte le mie scuse non potrò dirvi altro se non che è vero, che pecco, né vedo modo di svilupparmi da’ peccati, e la causa di ciò bisogna riferirla a Dio. Che dici? Che bestemmi? A Dio? … Padre sì, a Dio: pecco, perché Dio m’ha fatto così, così m’ha impastato, e d’irascibile e di concupiscibile. A Dio, dunque, dai la colpa della tua mala vita? Dio dunque vuole le tue iniquità? Dio mi ha fatto così! dunque Dio per te non è quel sommo Bene che veramente Egli è, ma è per te un fiero tiranno, un fiero carnefice, perché avendoti fatto per peccare, t’ha fatto necessariamente per dannarti. O che bestemmie! Tali che dalla bocca di lucifero non possono uscir simili. Se così è, che Dio ti ha fatto così e, secondo il tuo dire sei necessitato a peccare, così discorro anch’io. Dio ha fatto così te, dunque non ti offendere quando sei ingiuriato, maltrattato, percosso, tradito, perché quelli che contro di te operano, son fatti così da Dio. Scancellate pure i vostri ordini o magistrati, o sovrani … non più leggi, non più statuti. Gli uomini al dire di questi empii son fatti da Dio in modo che bisogna che operino anche il male; dunque non servono i vostri ordini. Dio mi ha fatto così, questa è la natura che Dio m’ha data! Tacete temerari, non è questo modo di parlare, non è scusa che valga, è una difesa da stolto. Ditemi, se un orologio si ferma, se lentamente cammina, se talora non suona, o suona fuor di proposito, voi non dite già il maestro l’ha lavorato così, ma dite l’orologio è guasto. Ne mai vi potete dar a credere, che sia uscito guasto dalle mani di chi lo fece. Dunque, come ardite dire di voi stessi, che se siete cattivi, lo siete perché Dio v’ha fatti così e di tal natura, quasi che dalle mani di Dio siate usciti scellerati. Dite, e direte bene, l’orologio è guasto, io mi sono rovinato da me con darmi a’ vizi: convien pertanto che io mi ponga nelle mani di quell’Artefice stesso che mi fece, col mezzo d’una santa Confessione … Deus fecit hominem rectum: Iddio non mi ha fatto cattivo, da per me mi son fatto tutto il male. Questa vostra scusa dunque o peccatori, di dire Iddio m’ha fatto così, voi ben vedete, che non sussiste, e perciò non passerà al Divino Tribunale: sicché vi perderete. O che sarà mai, se ci perderemo, se ci danneremo, che volete dire? … vogliamo dire, che non saremo soli nell’inferno. Principi Cristiani per punire i delinquenti non ordinate che si fabbrichino carceri oscure, cittadelle penose, orride torri, due sole prigioni bastano nel mondo Cristiano, quella del Sant’Offizio, de’ pazzi l’altra, così disse un servo di Dio, e disse bene, perché o il peccatore crede che vi sia inferno, o non lo crede; se non lo crede, come eretico al Sant’Offizio, se lo crede e pecca, e dopo il peccato non si pente, egli è pazzo, vada alla prigione de’ stolti. Se andrò all’inferno non sarò solo … e che sciocco parlare… non sarai solo, dunque tanto peggio per te. In un chiostro sacrosanto di capuccini satresti solo? No, perché in tanti religiosi avreste tanti Angeli per compagni, e pur non ti dà l’animo d’andarviti a richiudere; come, dunque, ti figuri tollerabile l’inferno, perché non sarai solo? Tra di noi in questo mondo è qualche conforto aver compagni nelle miserie, perché, o ci soccorrono, o ci compatiscono; non così nell’inferno, dove ognuno coopera al mal dell’altro. Senti, dice Naum Profeta, nell’inferno stanno i dannati a guisa d’un gran fascio di spine, che così strette insieme l’una con l’altra si pungono, sicut spine se invicem complectuntur. La moltitudine nell’inferno non serve per sollievo, ma per tormento e perciò meglio sarebbe esser solo; ma non dubitare non sarai solo, perché con te vi sarà quel compagno complice nel tuo misfatto, quel sacerdote che ti assolve francamente, quel tuo padre che non ti castigò, certo non sarai solo, vi saranno quelle femmine con le quali ballaste, sparlaste, lo so, non sarai solo, perché avrai la compagnia di tanti diavoli, di tanti dannati. Pazzo che sei, dunque va’, e gettati da quella torre, perché altri vi si son gettati; va’ butta il tuo perché non sarai solo ad esser povero; va cacciati un pugnale in petto, perché non sarai solo ad aver commesso un simile sproposito; se vado all’inferno non sarò solo… hai ragione, affacciati a quella bocca d’inferno, e dà d’occhio a quelle anime disperate, rimirale tormentate da fiamme inestinguibili, e sappi che anche esse, mentre vissero fra noi seppero dire ad ogni aperta di bocca: Dio è buono, Dio è misericordioso, Dio ha sparso il suo Sangue per noi, il Paradiso non è per i Turchi, dunque ci salveremo; ma perché discorrevano senza lasciare il peccato, si sono dannati; anche essi dissero più volte io non ho intenzione d’offender Dio, ma di scapricciarmi, se pecco, pecco per necessità, ma queste scuse non gli furono ammesse, perché non buone anche molti si lasciarono uscir di bocca cose sacrileghe. Dio m’ha fatto così, non so che farmi, se andrò all’inferno, non sarò solo, ed or pagano le lor bestemmie con eternità di fuoco. Io non so più che dirmi, sol finisco con assicurarvi, che se sollecitamente non mutate vita, né più vi abusiate della Divina Misericordia con questi vostri sofismi, e sciocche conseguenze si verificherà in voi quel tremendo aforisma, in peccato vestro moriemini, morirete in peccato mortale, che vale a dire senza la grazia, e perciò rei di fiamme; dalle piume del letto passerete al fuoco dell’inferno, Dio non lo voglia!


LIMOSINA
Conduceva un gran limosiniero i mercanti al suo granaio, e… quanto mi darete, diceva loro, di questo monte di grano? Essi rispondevano, tanto danaro, conforme a ciò che pareva doversi ed egli replicava: sappiate, che io trovo chi me ne dà più assai. Se io vendo il grano a voi, voi mi date poco di più di quello mi costi; se io lo do a Cristo ne’ poveri, egli mi raddoppia sempre l’entrate, e mi dà per cumulo il Paradiso. E così li licenziava compunti, e distribuiva allegramente la sua raccolta tra mendici, come tra i più fruttuosi corrispondenti. Attendete ancor voi miei UU. ad un sì bel traffico, depositate nelle mani di Dio tutti i vostri averi. Il banco divino non è fallito, può mantenervi il centuplo già promessovi nel Vangelo; fate elemosina e ricordatevi che lo Spirito Santo dice: Elemosina non patitur animas ire ad tenebras, chi fa la limosina non va all’inferno.


SECONDA PARTE

Poveri noi, ci avete sbattuti tutti quei motivi che ci davano speranza di salute, sicché potremo disperare di salvarci. O questo no, perché il maggiore de’ peccati è disperare della Misericordia Divina. È ben vero che chi vuole questa Divina Misericordia convien che cessi da’ peccati, perché il voler far peccati sotto la coperta della Divina Misericordia è un volere che la Divina Misericordia serva quasi di fomento al peccato, e questo non sarà mai! Sapete chi può sperare nella Divina Misericordia con fondamento? Prima quelle persone che vivono senza peccato mortale e molto più se fanno ogni possibile per astenersi da’ veniali. Secondo quelle persone, che dopo aver corso la strada de’ vizi, pur pentiti una volta, più non peccano. Terzo: quelle persone che quantunque immerse ne’ peccati, desiderano ad ogni modo di emendarsi e sfangare da vizi. Queste tre sorti di persone sperano con fondamento; non così però quelli che vivono immersi nelle scelleraggini e sono anni che stanno allacciati con quella pratica, sicché i loro peccati sono senza numero, come le loro sfrenatezze senza ritegno. Pure così chi vive tra gli odii, tra le vendette, tra gli interessi etc…. Questi non accade, che sperino misericordia se non mutano vita. La Misericordia di Dio non si può sperare con far de’ peccati, ma con far del bene, spera in Domino, fac bonitatem, spera, dice il Santo David, ma fa del bene. Se ci è poi che desideri sapere perché la gente diviene ogni dì peggiore, eccolo: perché Dio non castiga subito. Se quando qualcheduno prorompe in qualche bestemmia gli si venisse subito ad inverminire la lingua, se quando uno commette un furto gli si seccassero le mani; se quando uno commette una frode gli si instupidisse la mente; se quando uno trascorre in qualche sorte di enorme disonestà, venisse subito ad esser ricoperto di schifosissima lebbra, vogliamo noi credere, che sarebbero tanti al mondo i bestemmiatori, i furbi, i fraudolenti, i lascivi? Ma perché Dio non ci castiga subito, perché talora par che taccia, perché talvolta prospera alcuni nelle enormità, per questo la gente prende animo ad oltraggiarlo, per questo imperversa, per questo insolentisce, per questo divien finalmente ogni dì peggiore, quasi che Iddio come esercita la pietà, così non sappia ancora a suo tempo esercitar la giustizia; no, no … senti ecclesiastico: dixeris peccavit, et quid mihi accidit triste? Altissimus enim patiens est reditor. Non dire è tanto tempo che io vivo a mio modo, e con tutto ciò le mie cose vanno molto prosperamente, godo un’ottima sanità, ho delle facoltà e mi crescono, ho de’ figli, e mi vivono, ho degli amici, e mi stimano, e se ho de’ nemici mi rispettano. No, ne dixeris…: è vero, che il Signore spesso tarda, ma sempre arriva. T’arriverà quando non te lo credi. Tu prendi animo dal vedere che Dio finora non ti ha mai castigato nelle tue colpe, ed io ti dico, che tu da ciò hai da prendere non animo, ma spavento. Vuoi che te lo dimostri? Il non averti Iddio castigato finora, come tu meritasti peccando, non può procedere se non da uno dei due capi, o dall’averti perdonato il castigo, ovvero dall’avertelo differito. Fingi però che Egli abbia perdonato; adunque ora hai da temer più, perché quanto più ti ha Egli perdonato per il passato, tanto meno è probabile che voglia perdonarti per l’avvenire, non si ritrovando mai principe sì melenso, che mai punisca, sempre perdoni. Che se Dio non ti ha perdonato il castigo, come è certissimo, ma te l’ha differito perché lo sconti dopo, o nella vita presente, o nella futura, tanto più hai da temere, perché: questo è segno che Dio ti vuol castigare tutto in una volta, e però tanto sarà più terribile il castigo tutto raccolto insieme sopra del tuo capo. Riflettete dunque che l’avervi Dio tollerato finora, non solo non ha da rendervi più arditi, ma più timidi!

QUARESIMALE (XXX)

DOMENICA DI PASSIONE (2023)

DOMENICA DI PASSIONE (2023)

Stazione a S. Pietro;

Semidoppio, Dom. privit. di I cl. • Paramenti violacei.

« Noi non ignoriamo, dice S. Leone, che il mistero pasquale occupa il primo posto fra tutte le solennità religiose. Durante tutto l’anno, col cercare di migliorarci sempre più, noi ci disponiamo a celebrare questa solennità in maniera degna e conveniente, ma questi ultimi e grandissimi giorni esigono ancor più la nostra devozione, poiché sappiamo che essi sono vicinissimi al giorno in cui celebriamo « il mistero cosi sublime della misericordia divina » (II Notturno). Questo mistero è quello della Passione del Salvatore di cui è ormai prossimo l’anniversario. Pontefice e mediatore del Nuovo Testamento, Gesù salirà ben presto sulla Croce e presenterà al Padre, il sangue, che Egli verserà entrando nel vero Sancta Sanctorum che è il Cielo (Ep.). « Ecco, canta la Chiesa, brilla il mistero della Croce, dove la Vita ha subito la morte e con la Sua morte ci ha reso la vita » (Inno dei Vespri). E l’Eucaristia è frutto dell’amore immenso di un Dio per gli uomini, poiché istituendola, Gesù ha detto: « Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi. Questo è il calice della nuova alleanza nel sangue mio. Fate questo in memoria di me » (Com.). Cosa fecero gli uomini in risposta a tutte queste bontà divine? « I suoi non lo ricevettero » dice S. Giovanni, parlando dell’accoglienza fatta a Gesù dai Giudei: » Gli fu reso il male per il bene » (4 Ant. della Laudi) e gli furono riservati solamente gli oltraggi « Voi mi disonorate » dirà loro Gesù. Il Vangelo ci mostra in fatti l’odio sempre crescente del Sinedrio, Abramo, [Dopo la festa dei Tabernacoli che ebbe luogo il terzo anno del suo ministero pubblico, Gesù pronunciò nel Tempio le parole del Vangelo d’oggi. Una parte dell’atrio era stata trasformata in deposito perché il Tempio non era ancora interamente ricostruito. I Giudei vi raccolsero delle pietre per lapidare Gesù che si nascose ai loro sguardi, la sua ora non essendo ancora, venuta.] il padre del popolo di Dio, aveva fermamente creduto alle promesse divine che gli annunciavano Cristo futuro e nel Limbo la sua anima che, avendo avuto fede in Gesù, non è stata colpita da morte eterna, si è rallegrata nel vedere il realizzarsi di queste promesse, con la venuta del Salvatore. I Giudei che avrebbero dovuto riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, più grande di Abramo e dei profeti perché  eterno, misconobbero il senso delle sue parole e, dopo averlo insultato trattandolo da invaso dal demonio e bestemmiatore, lo vollero lapidare (Vang.). « Non temere davanti ad essi, gli dice Dio in persona di Geremia, poiché io farò che tu non tema i loro volti. Poiché oggi Io ti ho reso come una città fortificata, come una colonna di ferro, come un muro di bronzo contro i re di Giuda, i suoi principi, i suoi sacerdoti ed il suo popolo. Essi combatteranno contro te, ma non prevarranno: perché Io sono con te, dice il Signore, per liberarti (I Notturno). « Io non cerco la mia gloria, dice Gesù; vi è qualcuno che la cerca e giudica » (Vang.). E per bocca del salmista, Egli continua: « Giudicami, Signore, e discerni la mia causa da quella della gente empia: liberami dall’uomo iniquo ed ingannatore ». Questo popolo «bugiardo» (Vang.) afferma Gesù, è il popolo Giudeo. « Liberami dai miei nemici, continua il Salmista; mi strapperai dalle mani dell’uomo iniquo » (Grad.). « Il Signore è giusto. Egli decapiterà i peccatori » (Tratto). Dio infatti, non permise agli uomini di mettere la mano su Gesù prima che la sua ora fosse giunta (Vang.) e quando l’ora dell’immolazione fu suonata, Egli strappò il Suo Figlio dalle mani dei malvagi, risuscitandolo. Questa morte e questa resurrezione erano state annunciate dai Profeti ed Isacco ne era stato il simbolo, allorché, mentre per ordine di Dio, stava per essere immolato da Abramo, suo padre, fu salvato da Dio stesso e sostituito da un ariete, che rappresentava l’Agnello di Dio sacrificato per il genere umano. Gesù doveva dunque nel suo primo avvento essere umiliato e soffrire; soltanto dopo Egli apparirà in tutta la Sua potenza: ma i Giudei, accecati dalle passioni, non ammisero che una sola venuta: quella che deve prodursi nella gloria e, scandalizzati dalla Croce di Gesù, lo respinsero. Per questo motivo, Dio li respinse a sua volta, mentre accolse con benevolenza coloro che hanno poste le loro speranze nella redenzione di Gesù, ed uniscono le loro sofferenze alle Sue. « Giustamente e per ispirazione dello Spirito Santo, dice S. Leone, i SS. Apostoli hanno ordinato digiuni più austeri durante questi giorni; affinché, con una comune partecipazione alla Croce di Cristo, noi pure facciamo qualche cosa che ci unisca a quello che Egli ha fatto per noi. Come dice l’Apostolo S. Paolo: « Se soffriamo con Lui, saremo anche glorificati con Lui ». Certa e sicura è l’attesa della promessa beatitudine là dove vi è partecipazione alla passione del Signore (IV Lezione). — La Stazione si tiene nella Basilica di S. Pietro, innalzata sull’area dove prima sorgeva il Circo di Nerone, dove il Principe degli Apostoli morì, come il suo Maestro, sopra una Croce. – In ricordo della Passione di Gesù, di cui si avvicina l’anniversario, pensiamo che, per risentirne gli effetti benefici, bisogna, come il Divin Maestro, saper soffrire persecuzioni per la giustizia, e quando, membri della «famiglia di Dio », siamo perseguitati con e come Gesù Cristo, chiediamo a Dio che « custodisca i nostri corpi e le nostre anime » (Or.).

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

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Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XLII: 1-2.

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea.

[Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Ps XLII:3

Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me de duxérunt et adduxérunt in montem sanctum tuum et in tabernácula tua.

[Manda la tua luce e la tua verità: esse mi guídino al tuo santo monte e ai tuoi tabernàcoli.]

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea.

[Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, familiam tuam propítius réspice: ut, te largiénte, regátur in córpore; et, te servánte, custodiátur in mente.

[Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, guarda propízio alla tua famiglia, affinché per bontà tua sia ben guidata quanto al corpo, e per grazia tua sia ben custodita quanto all’ànima.]

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebræos.

Hebr IX: 11-15

Fatres: Christus assístens Pontifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum, et cinis vítulæ aspérsus, inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ideo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

“Fratelli: Cristo, essendo venuto come pontefice dei beni futuri, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto, non fatto da mano d’uomo, cioè non appartenente a questo mondo creato, e mediante non il sangue di capri e di vitelli, ma mediante il proprio sangue, entrò una volta per sempre nel santuario, avendo procurato una redenzione eterna. Poiché se il sangue dei capri e dei tori e l’aspersione con cenere di giovenca santifica gli immondi rispetto alla mondezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, il quale, mediante lo Spirito Santo, ha offerto se stesso immacolato a Dio, monderà la nostra coscienza dalle opere morte, perché serviamo al Dio vivente? E per questo Egli è il mediatore del nuovo testamento, affinché, essendo intervenuta la sua morte a redimere dalle trasgressioni commesse sotto il primo testamento, quelli che sono stati chiamati conseguono l’eterna eredità loro promessa, in Gesù Cristo Signor nostro”. (Ebr. IX, 11-15).

Ci avviciniamo ai grandi misteri della Settimana Santa. La Passione di N. S. Gesù Cristo e la nostra Redenzione — la Redenzione nostra per mezzo della Passione sua — mistero centrale della nostra fede. Il valore del sacrificio di N. S. per noi ce lo illumina S. Paolo nel passo dell’Epistola agli Ebrei che oggi la Chiesa ci fa leggere. Sono poche parole, misurate, contate, direbbe Dante, ciascuna delle quali ha il suo peso e merita la sua attenzione. Eccovele nel loro contesto. Se il sangue degli animali (nella vecchia Legge, nell’economia religiosa ch’essa rappresentava) santifica quelli che sono macchiati d’una purificazione carnale, quanto più non monderà la nostra coscienza il Sangue di Gesù Cristo, che per lo Spirito Santo offrì se stesso immacolato a Dio. Offrì Gesù se stesso. Il Suo fu un sacrificio volontario. Gesù ha voluto soffrire, ha voluto fare la volontà del Padre, fino alla morte; a costo della morte. Nessuno lo costrinse. Volle. Il profumo d’ogni nostro sacrificio, qualunque  esso sia, per qualunque causa (buona, s’intende) sia fatto, è nella sua spontaneità. La bellezza di questo fiore che si chiama il sacrificio è in questa sua freschezza di volontà. « Oblatus est quia ipse voluit: » le parole profetiche di Gesù meravigliosamente si adempiono. Il Vangelo sottolinea questa bella libertà in Gesù, nei momenti in cui le apparenze di una violenza usatagli sono più accentuate: quando gli sgherri credono di essere venuti nel Getzemani a prenderlo di viva forza, quando Pilato crede di avere lui nella sua mano onnipotente di funzionario dell’Impero, la vita di Gesù. Libertà intiera, completa, profonda. E offrì se stesso. Ah fratelli miei! che differenza dai redentori o salvatori umani! e che rilievo ne ridonda per questo Salvatore Divino! Quanto è facile e frequente immolare gli altri: pagare con moneta altrui, versare l’altrui sangue! – Gesù ha versato il suo ed ha ardentemente desiderato si spargesse questo solo. Lo ha versato tutto. Il Suo sacrificio è stato un olocausto, senza riserva. La generosità della spontaneità si compie colla generosità, starei per dire, quantitativa del dono. Dà sempre molto chi dà tutto. E offrì se stesso immacolato. Senza macchia. Le vittime, simboliche, del V. T. vittime materiali dovevano essere materialmente così: pure senza macchia, senza macchia l’agnello, senza difetto il bove. Gesù non ebbe peccati suoi da espiare; ed ecco perché ha potuto così largamente espiare i peccati altrui. Le sofferenze, anche del peccatore sono sante, sono, a lor modo, belle. Ma quel sacrifizio sa di espiazione personale. È una giustizia, non una generosità. Il martire delle cause più alte doveva essere purissimo, lo fu. Gesù è l’agnello immacolato. Ci ha tenuto in modo particolare. « Chi di voi potrà convincermi di colpa? » ha detto, ha gridato ai suoi avversari. E offrì, liberamente se stesso (generoso olocausto) immacolato a Dio per « Spiritum sanctum ». A Dio. La causa che Gesù è venuto a difendere, che ha difeso da buon soldato col valore e la morte, colla predicazione, la passione, col Vangelo, con la Croce, è la causa di Dio, la causa religiosa. Perché sulle rovine degli Dei falsi e bugiardi regnasse il Dio vero e vivo, perché sulle rovine della Sinagoga sorgesse la grande, universale Chiesa, per questo che significava la maggior gloria di Dio, la maggiore, la vera felicità del genere umano. Egli è caduto martire, Egli si è offerto vittima del più grande sacrificio del mondo.

 [G. Semeria: Le Epistole delle Domeniche O. N. M.- d’I. Roma-Milano, 1939 – nihil obs. P. De Ambrogi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Cur. Arch.]

Graduale

Ps CXLII: 9, 10

Eripe me, Dómine, de inimícis meis: doce me fácere voluntátem tuam

Ps XVII: 48-49

Liberátor meus, Dómine, de géntibus iracúndis: ab insurgéntibus in me exaltábis me: a viro iníquo erípies me.

Tractus

Ps CXXVIII: 1-4

Sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

Dicat nunc Israël: sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

Etenim non potuérunt mihi: supra dorsum meum fabricavérunt peccatóres.

V. Prolongavérunt iniquitátes suas: Dóminus justus cóncidit cervíces peccatórum.

[Mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.

Lo dica Israele: mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.

Ma non mi hanno vinto: i peccatori hanno fabbricato sopra le mie spalle.

Per lungo tempo mi hanno angariato: ma il Signore giusto schiaccerà i peccatori.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VIII: 46-59

“In illo témpore: Dicébat Jesus turbis Judæórum: Quis ex vobis árguet me de peccáto? Si veritátem dico vobis, quare non créditis mihi? Qui ex Deo est, verba Dei audit. Proptérea vos non audítis, quia ex Deo non estis. Respondérunt ergo Judæi et dixérunt ei: Nonne bene dícimus nos, quia Samaritánus es tu, et dæmónium habes? Respóndit Jesus: Ego dæmónium non hábeo, sed honorífico Patrem meum, et vos inhonorástis me. Ego autem non quæro glóriam meam: est, qui quærat et jdicet. Amen, amen, dico vobis: si quis sermónem meum serváverit, mortem non vidébit in ætérnum. Dixérunt ergo Judaei: Nunc cognóvimus, quia dæmónium habes. Abraham mórtuus est et Prophétæ; et tu dicis: Si quis sermónem meum serváverit, non gustábit mortem in ætérnum. Numquid tu major es patre nostro Abraham, qui mórtuus est? et Prophétæ mórtui sunt. Quem teípsum facis? Respóndit Jesus: Si ego glorífico meípsum, glória mea nihil est: est Pater meus, qui gloríficat me, quem vos dícitis, quia Deus vester est, et non cognovístis eum: ego autem novi eum: et si díxero, quia non scio eum, ero símilis vobis, mendax. Sed scio eum et sermónem ejus servo. Abraham pater vester exsultávit, ut vidéret diem meum: vidit, et gavísus est. Dixérunt ergo Judaei ad eum: Quinquagínta annos nondum habes, et Abraham vidísti? Dixit eis Jesus: Amen, amen, dico vobis, antequam Abraham fíeret, ego sum. Tulérunt ergo lápides, ut jácerent in eum: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo.” Laus tibi, Christe!

“In quel tempo disse Gesù alla turbe dei Giudei ed ai principi dei Sacerdoti: Chi di voi mi convincerà di peccato. Se vi dico la verità, per qual cagione non mi credete? Chi è da Dio, le parole di Dio ascolta. Voi per questo non le ascoltate, perché non siete da Dio. Gli risposero però i Giudei, e dissero: Non diciamo noi con ragione, che sei un Samaritano e un indemoniato? Rispose Gesù: Io non sono un indemoniato, ma onoro il Padre mio, e voi mi avete vituperato. Ma io non mi prendo pensiero della mia gloria; vi ha chi cura ne prende, e faranno vendetta. In verità, in verità vi dico: Chi custodirà i miei insegnamenti, non vedrà morte in eterno. Gli dissero pertanto i Giudei: Adesso riconosciamo che tu sei un indemoniato. Abramo morì, e i profeti; e tu dici: Chi custodirà i miei insegnamenti, non gusterà morte in eterno. Sei tu forse da più del padre nostro Abramo, il quale morì? e i profeti morirono. Chi pretendi tu di essere? Rispose Gesù: Se io glorifico me stesso, la mia gloria è un niente; è il Padre mio quello che mi glorifica, il quale voi dite che è vostro Dio. Ma non l’avete conosciuto: io sì, che lo conosco; e se dicessi che non lo conosco, sarei bugiardo come voi! Ma io conosco, o osservo le sue parole. Abramo, il padre vostro, sospirò di vedere questo mio giorno: lo vide, e ne tripudiò. Gli dissero però i Giudei: Tu non hai ancora cinquant’anni, e hai veduto Abramo? Disse loro Gesù: In verità, in verità vi dico: prima che fosse fatto Abramo, io sono. Diedero perciò di piglio a de’ sassi per tirarglieli: ma Gesù si nascose, e uscì dal tempio” (Jo. VIII, 46 59).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

NON ASPETTATE A CONVERTIRVI

Era il giorno dopo la festa dei Tabernacoli, in Gerusalemme. Sotto il cielo arioso di ottobre, già ferveva la vendemmia che avrebbe dato il vino all’ultima cena e nelle anime maligne dei Giudei già ferveva l’odio che avrebbe versato tutto il sangue del Figlio di Dio. Gesù era nel cortile della tesoreria del tempio. In giro a Lui stavano le tredici porte con davanti le tredici casse che l’elemosina delle recenti feste aveva colmato di monete: qualcuno, passando, vi gettava un cupido sguardo. Egli allora si proclamò l’unico tesoro del mondo. Gli si fece subito attorno un cerchio di Farisei, che Gesù andava man mano smascherando, fino a chiamarli figli del diavolo, bugiardi come il diavolo. Cominciò allora un dibattito serrato dall’una e dall’altra parte. Le parole del Maestro, — come acqua gelida sul ferro rovente — cadevano sugli ascoltatori che rispondevano aspro e selvaggio. « Chi di voi mi convincerà di peccato? ». Più volte l’avevano accusato di violare il sabato, di mangiare coi peccatori, di sovvertire il popolo, di operare i miracoli per incantamento del demonio; ma queste accuse nessuno poi era riuscito a sostenerle. Ma Gesù li sfidava: « Chi di voi è capace di mostrare in me anche un peccato solo, venga fuori! ». La sfida divina passò tremenda davanti alla loro faccia e nessuno la raccolse: tutti digrignavano in silenzio. « Se adunque — esclamò vittorioso Gesù — voi stessi ammettete che sono impeccabile, se ammettete voi stessi che dico la verità, perché non mi credete? ». Scoppiò un ululo rabbioso come di cani che abbaiassero insieme: « Samaritano! Eretico sei! Hai indosso il demonio! ». Non potendolo vincere con le ragioni, s’illudevano di abbatterlo con gli oltraggi Il Maestro lasciò placare il tumulto, e poi proseguì con voce lenta e serena. « Ingiuriatemi pure. Non me ne importa; a difendermi l’onore ci pensa il Padre mio, che voi dite essere vostro Dio. Lo dite; in realtà però non lo conoscete perché non ascoltate la sua parola. Io sì, che lo conosco; e se vi dicessi di non conoscerlo, sarei un bugiardo come voi. Lo conosco, sì; e osservo la sua parola ». Alcuni sussurravano: « Cosa pretende di essere costui? Forse da più del nostro padre Abramo? ». « Sappiate che Abramo, padre vostro, sospirò di vedere i giorni della mia vita, li vide e tripudiò ». Fu uno scroscio di risa. « Non hai neppure cinquant’anni, e dici di aver veduto Abramo? Non sai che è morto da migliaia d’anni?… ». Gesù approfittò della loro beffa, per proclamarsi solennemente Dio eterno, che sempre era e sempre sarà. « In verità, in verità, uditemi! Prima che Abramo venisse al mondo, io sono ». Non gli risposero più, non l’ingiuriarono più. Egli aveva bestemmiato e, per la legge di Mosè, bisognava lapidarlo. Si buttarono sulle pietre, ammassate nel cortile della tesoreria per la fabbrica del tempio, e si sollevarono a scagliarle. Gesù era sparito. – Questo è il Vangelo del cuor duro. Cristiani, guardate se non somigli a quello dei Giudei anche il vostro cuore. In queste settimane di quaresima Gesù ha parlato in mezzo a voi con numerose prediche: avete sentito che al mondo non c’è tesoro fuori che Lui; vi siete persuasi che Egli solo ha parole di verità e di vita eterna, e allora perché non gli credete? Perché non decidete di cambiar vita e di convertirvi? – In questi giorni Gesù batte al vostro cuore: vuol entrare trionfalmente nella Santa Comunione pasquale. E forse c’è qualcuno che non ha ancor deciso di accostarsi ai Sacramenti; forse c’è qualcuno che, anche l’anno scorso, a sassate ha fatto fuggire il Signore dalla propria anima. Udite la maledizione di S. Agostino: « Væ illis quorum cordibus lapideis Deus fugit! ». Sventura a quelli che dal loro cuore, duro come il macigno, scacciano Dio. « Il predicatore della quaresima — pensano alcuni — ha mille ragioni. Ma non è questo il tempo d’ascoltarle: più tardi, quando la morte sarà vicina, farò una buona confessione e a tutto rimedierò. Adesso son giovane, sono sano, sono ricco… » — Sei un Giudeo dal cuor duro! — risponderò io a chi la pensa così. Adesso in questa Pasqua, è il momento giusto di convertirci. Per carità, non rimandiamo al letto di morte, perché allora la conversione sarà difficile e da parte nostra e da parte di Dio. – 1. DA PARTE NOSTRA. Un levita che abitava sul fianco della montagna di Efraim andò a Betlem in casa del padre di sua moglie. Fu accolto allegramente e vi rimase tre giorni, mangiando e bevendo, senza fastidi. Al quarto giorno il levita si leva, che era ancor notte, e vuol partire. Ma il suocero, tirandolo per un braccio, gli disse: « Prendi un po’ di pane per ristorarti lo stomaco; poi te ne andrai ». Sedettero insieme a far colazione. Mentre mangiavano e bevevano, il padre della donna gli disse: « Te ne prego resta qua tutto oggi! Staremo allegri ». L’altro voleva andarsene e già era sull’uscio, quando il suocero con grandi istanze lo fece restare, presso di sé. Il mattino seguente, balza dal letto il levita prima dell’aurora; e appena si fa chiaro egli s’accinge a partire. « Vuoi fare la strada digiuno? — gli diceva il suocero. — Che furia è mai la tua? Fa’ colazione e poi partirai ». Ed anche questa volta non gli seppe resistere e sedette ancora a mangiare e a chiacchierare. Quando fece per andarsene davvero col suo servo e con la sua moglie, il sole già declinava, « Guarda! — gli diceva il suocero. — Il giorno è ormai vicino al tramonto, e l’ombre si allungano di già. Resta con me anche stasera; un’ora di più d’allegria non ti farà male. Domani, a tuo bell’agio, tornerai a casa ». Questa volta il levita era deciso, e con la donna e con il servo partì. Ahimè! Era già sera. E la notte oscura lo costrinse a fermarsi nella città di Gaba; dove fu assaltato da una compagnia di ribaldi che gli uccisero la moglie (Giudici, XIX). Il levita di Efraim è una figura di quei Cristiani che rimandano sempre, a sera, a domani, a dopodomani il loro proposito, fintanto che non sono più in tempo. Venit nox quando nemo potest operari. Prolungare la vostra conversione fino alla vecchiaia o fino al letto di morte, vi dico che è una pazza imprudenza. a) Anzitutto, chi vi assicura che la vostra fine non sarà improvvisa? Un muro che crolla, un fulmine, un treno, un’automobile, una polmonite violenta, un nonnulla vi può strappare nel baratro eterno proprio dal bel mezzo dei vostri giorni. Vi hanno forse detto che la morte discenderà da voi lentamente e vi chiamerà da lontano prima che arrivi? O forse credete d’essere altrettanti Giosuè da comandare al sole della vostra vita e dirgli: « Fermati, che non ho ancora vinto la mia battaglia? ». Ricordatevi che già sono contati anche i vostri minuti secondi: non uno di meno vi sarà dato da campare. b) E poi, supposto che il tempo di chiamare un prete al vostro capezzale vi sia accordato, la violenza del male che starà per uccidervi sarà così indulgente da lasciarvi fare le vostre cose per bene? Mio Dio, e che cosa può fare un’anima peccatrice in quei momenti quando gli spasimi ed i rimorsi tutta la travagliano? La mente si annebbia; la lingua si fa grossa; la memoria va in confusione; il cuore si spegne; e voi pretendete di convertirvi allora? c) Ed infine, tenete a mente che quelle difficoltà che ora ostacolano la vostra conversione non diminuiranno in punto di morte. Dopo una vita intera sciupata nelle impurità, come pretendere che pochi giorni di malattia vi abbiano a rendere casti? I ricordi, i fantasmi, le persone stesse dei vostri peccati attornieranno il letto dell’agonia con più lusinghe; Il demonio non abbandonerà la sua preda al momento buono. La santa Scrittura lo dice: « L’ossa dell’impudico saranno riempite coi peccati della sua giovinezza, e nella fossa le sue disonestà scenderanno a dormire con lui » (Giobbe, XX, 11). Fate pure il caso di un avaro che ha faticosamente ammassato danaro e roba per vie ingiuste e odiose. Dove troverà la forza d’imporre agli eredi quelle restituzioni che egli non si è mai deciso a fare, quando lo poteva senza disonore alcuno? Anche questo è detto nella santa Scrittura: « L’avaro con la sua anima vomiterà le ricchezze inghiottite; il Signore gliele strapperà dal suo seno » (Giobbe, XX, 15). Cor durum male habebit in novissimo die. Non illudetevi: il cuore duro che non si lascia ammollire neppure dalla santa Pasqua, troverà sciagura nell’ultimo giorno (Eccl., III, 27). – 2. DA PARTE DI DIO. Antioco il Re, fuggiasco e vinto, cadde ammalato per male interno e per cupa malinconia. Le cose non erano andate come egli aveva previsto: allora, smontato dalla sua grande superbia, conobbe il castigo di Dio che lo faceva morire. Chiamò dunque tutti i suoi amici e disse loro: « Il sonno se n’è fuggito dagli occhi miei. Sono pieno d’acre amarezza. Oh in quale tribolazione sono venuto mai! Io che ero così lieto e riverito nella mia potenza! Adesso ripenso ai mali da me fatti a Gerusalemme, da dove ricchezze d’oro e d’argento e di bronzo asportai, e fin anche la gente ho disperso di là »; e cominciò a far propositi: dichiarò libere le città che voleva radere al suolo per farne sepolcro d’ammucchiati cadaveri; promise di dare la cittadinanza a tutti gli Ebrei mentre prima li voleva uccidere ed insepolti lasciarli ai pasti degli uccelli e delle fiere; pensò d’offrire arredi preziosi e molte rendite al tempio santo già da lui depredato.  Ma dopo d’aver narrato tutto questo, la Storia Sacra aggiunge una frase che mette addosso un brivido di paura: « Così dunque quello scellerato pregava il Signore, dal quale però non avrebbe ricevuto misericordia » (II Macc., 1X, 13). Disgraziato Antioco! era troppo tardi. Quel suo pentimento fatto solo davanti alla minaccia della morte non era sincero. Perciò io mi rivolgo a quei Cristiani di cuor duro, che le prediche quaresimali non valgono a disgelare, e dico: « Anche per voi il Signore ha lasciato scritto l’esempio di Antioco. Chi vi assicura che Dio sarà a vostra disposizione quando lo cercherete? ». So bene che la Bontà infinita ha così larghe braccia che accoglie chiunque a lei si rivolga per pentimento. Ma so pure che per pentirsi ci vuol la grazia del Signore, e chi vi ha detto che questa grazia vi sarà accordata in punto di morte? La misericordia di Dio ha un limite: questo limite può essere dopo dieci, dopo cento peccati e può essere dopo questa quaresima. Noi non lo sappiamo; sappiamo però che Gesù a quei Giudei dal cuor duro che lo misero in fuga a sassate, ha detto così: « Io me ne vado. Mi cercherete un giorno, ma invano: dovrete morire nel vostro peccato. (Giov., VIII, 21). – Questa è la domenica di Passione. Ormai, da oggi per quattordici giorni, tutta la liturgia non ha che una parola sola: la passione del Salvatore. Le prediche non parlano che di essa; i canti, le preghiere, la santa Messa non sono che un gemere lungo sui dolori del nostro Dio; nella chiesa ogni immagine, ancor che devota, è velata, sola campeggia la croce. Recolitur memoria passionis eius. Guai all’uomo peccatore che senza un fremito, senza un proposito fermo, senza un rimorso efficace guarderà alla morte di Gesù Cristo. Verrà anche per lui il momento di morire; fallito ogni rimedio, gli metteranno nelle mani già l’ultimo l’unico rimedio, il Crocifisso. Ma il Crocifisso lo guarderà con occhi minacciosi e gli dirà: « Tu non hai avuto pietà nessuna per la mia passione e per la mia morte e nei giorni melanconici della quaresima te ne ridevi di me e dei miei Sacramenti. Ora tocca a me ridere della tua morte ». Ego quoque in interitu vestro ridebo subsannabo (Prov., I, 26). — LA PAROLA DI DIO. Poche sono le pagine della storia che possono suscitare in noi tanta pietà, come quella che narra la fine di Luigi XVI. L’infelice re, sorpreso dalla rivoluzione mentre fuggiva, fu costretto a salire la ghigliottina. Dall’alto del palco ferale, pallido come se già lo coprisse l’ala della morte, guardò tutto il suo popolo e desiderò di porger il saluto estremo. « Popolo mio… ». Ma i tamburi rullarono disperatamente a seppellire la voce. Non lo volevano sentire. Una scena simile avvenne attorno a Gesù, nei giorni in cui viveva in Palestina. … Non fremiamo di sdegno contro i Giudei, perché di gente che non vuol ascoltare la parola di Dio ce n’è anche oggi, e non poca, e tra gli stessi Cristiani. E se non è col rullo dei tamburi, se non coi sassi, si sono trovati però più facili ripieghi per non essere disturbati dalla voce salutare del Sacerdote che annuncia la parola di Dio. Consideriamo noi invece l’importanza della parola di Dio e i motivi per cui la parola divina è resa infruttuosa. Lo spirito Santo diffonda il lume nella nostra mente e l’amore nel nostro cuore, poiché si tratta di valorizzare la sua parola.  – LA PAROLA DI DIO È ONNIPOTENTE. Il grande Salomone chiamò la parola di Dio «omnipotens sermo ». E disse egregiamente: a) La parola di Dio è onnipotente nell’ordine naturale. In principio, quando ancora e cielo e terra non erano che un ammasso informe e tenebroso come la bocca d’un abisso, echeggiò la parola di Dio. «Sia fatta la luce! » E fuori dal buio balzò magnifica la luce a rischiarare il giovane mondo. E così, dietro al grido di Dio che le chiamava fuori dal nulla, uscirono tutte le creature, e il velo azzurro del firmamento e le acque e la terra: e nel firmamento gli astri; e nelle acque i pesci; e sulla terra le piante con la virtù di produrre il seme, e gli uccelli, e l’uomo. È questa parola che un giorno placò la furia del mar di Genezaret e la raffica di vento che minacciava di travolgere una barca con dodici pescatori. È questa parola che snodò la lingua e riaprì l’udito ad un giovane sordo e muto. È per la virtù di questa parola che il paralitico, da trentotto anni languente sotto il portico della piscina, poté rizzarsi ancora, prendersi il pagliericcio e camminare verso casa sua. A questa parola, i poveri lebbrosi sentivano rifarsi i tessuti corrosi e piagati, sentivano una nuova onda di vita risalir per le vene. E quando questa parola echeggiò imperante sulla tomba d’un amico, perfin la morte inesorabile dovette ascoltarla: e il morto quatriduano balzò fuori alla vita. b) Onnipotente è questa parola nell’ordine soprannaturale. Gesù trova un uomo immerso negli affari e nelle esosità, che — forse — non aveva mai saputo sollevare d’un palmo il suo cuore sopra l’interesse materiale e gli disse: « Veni, sequere me! ». Quell’uomo è sconvolto: si sente un altro uomo e comincia ad amare ciò che prima aveva odiato, ad odiare ciò che prima aveva amato. C’era una donna, scandalo della città. Il suo cuore era in tumulto: la passione impura l’aveva bruciacchiato, l’aveva lordato come nelle brutture d’un trogolo, ed ora lo sbatteva come un vento di furiosa tempesta. Le dice Gesù: « Donna, va in pace e non peccare ancora ». E quel cuore si spense di ogni fuoco terreno e brutale e solo arse d’un amore purificante verso il Signore. E divenne santa e meritò di veder Gesù appena risorto. « Vox Domini confrigentis cedros » (Ps., XXVIII): è la voce di Dio come una scure che atterra ogni superbia degli uomini. « Vox Domini intercidentis flammam ignis »: è la voce di Dio come un’onda che sgorga da recondite scaturigini a spegnere nei cuori la fiamma delle passioni. « Vox Domini concutientis solitudinem » : è la voce di Dio che sa scuotere l’uomo intorpidito da lunghi anni nella colpa. «Vox Domini, in virtute! Vox Domini in magnificentia! ». c) Non crediate però che la parola di Dio diminuisca di virtù se a noi giunge attraverso la voce di un uomo. Appena uscì dalla bocca di Giosuè, il sole si arrestò nella sua corsa di fuoco. Appena uscì dal labbro di Mosè, le acque si divisero, ergendosi come una muraglia; e tutto il popolo traversò il Mar Rosso. Adoperata da Elia, il cielo si aperse o chiuse. Annunciata da pochi pescatori, si fece udire in tutto il mondo, fortificò i martiri nell’ora suprema, dissipò i falsi sillogismi dei filosofi, rovesciò la lussuria di Roma, e innalzò sul mondo rigenerato la purezza della croce. La parola di Dio non perde la sua efficacia anche se annunciata da indegni, indegnamente: ella è parola di Dio e prescinde dall’ingegno e dalla santità dei predicatori: opera per virtù propria come i Sacramenti, anzi — sotto questo aspetto – meglio dei Sacramenti, perché in questi si richiede alla validità l’intenzione del ministro, mentre la predicazione ne prescinde. Ecco la virtù della parola di Dio! Ma perché allora ai giorni nostri, in cui ella è annunciata così largamente, non produce quei mirabili effetti? Perché si ascolta male, o peggio, perché non si ascolta più. – 2. RESISTENZA UMANA ALLA PAROLA DIVINA. a) Gli uomini ascoltano male la parola di Dio. Al tempo delle eresie, Dio suscitò un magnifico annunciatore del Vangelo: S. Antonio da Padova. La gente accorreva da ogni parte al suo passaggio, così che le chiese erano troppo anguste, ed il Santo doveva predicare nelle piazze. Il demonio non poté darsi pace. E talvolta, per distrarre gli uditori, incendiava una casa vicina, tal altra faceva comparire un’invasione di lucertole che strisciavano sui piedi degli ascoltanti. Un giorno, mentre, tutti tacevano e ascoltavano con molto frutto, ecco sopraggiungere numerosi cavalieri a tutta corsa: e distribuivano lettere e plichi alle donne. E tutte incuriosite aprono e leggono e intanto perdono il frutto della divina parola. – Non crediate che il nemico delle anime oggi stia tranquillo: solo che non ha più bisogno di ricorrere a mezzi straordinari, perché i Cristiani troppo facilmente sono disposti ad abusare delle parole di Dio. Alcuni ascoltano la parola di Dio, come fosse parola dell’uomo. Ricercano i pensieri peregrini, e l’armoniosità dello stile che blandisca l’orecchio. Altri l’ascoltano come parola di Dio, ma quello che ricevono, tutto distribuiscono: « Questo accenno è proprio per la tal persona… questo difetto è caratteristico per quell’altra… oh, se ci fosse il tale a sentir queste parole! quadrano per lui… E per sé non tengono nulla: mentre tutta la predica era per loro. Altri ascoltano con spirito di malignità: e vanno a cercare in ogni frase delle maligne o personali allusioni. Altri l’ascoltano con spirito di mondanità: e mentre il ministro di Dio parla, essi volgono gli occhi in giro per vedere ed essere veduti. Altri ancora sembrano ascoltarla: ma il loro pensiero va e va… dietro, forse, dietro ad invisibili dispacci portati dagli invisibili cavalieri del demonio. Altri infine l’ascoltano, ma con mala voglia, con sbadigli e pisolini. b) Molti non ascoltano più la parola di Dio. « Non di solo pane vive l’uomo: ma di ogni parola che viene da Dio ». Dunque la parola di Dio è il nostro cibo sostanziale, e chi lo rifiuta si condanna a morire. Qualche pomeriggio di primavera, nella dolce stagione in cui pare che un palpito muovo di vita trascorra, fluttuando, nel mondo, vi accadde senza dubbio di vedere, seduto sulla soglia di casa, o per qualche viottolo solitario, qualche giovane malato di tisi. Vi cammina dolorosamente davanti: ha negli occhi dilatati l’ombra misteriosa della morte, ha le guance scarne, ha un tossire secco come colpetti all’uscio di uno che chiede d’entrare. Il medico scrolla la testa e dice: « Non vedrà le spighe mature. E il padre con un singhiozzo lacerante: «Ma perché, dottore?… ». « Non vedete? il cibo gli fa nausea: non mangia più ». E fa spavento pensare come ai nostri tempi, quest’etisia dell’anima fa stragi in mezzo agli uomini. Entrate in una chiesa, nei pomeriggi delle domeniche durante la spiegazione della dottrina: che solitudine! Pochi vecchi tremolanti e panche vuote. Ma perché? Se proprio volessimo indagare fino a fondo lo troveremmo il motivo: in alcuni un attacco vergognoso ai piaceri del senso, in altri l’insaziabile ingordigia dei beni terreni. Come possono costoro gustare una parola che è tutta austerità ed evangelica povertà? – Il re Artaserse si nutriva con cibi squisitissimi. Ma venuta la guerra, sconfitto, fuggiva ramingo ed affamato per le montagne. Vide una capanna: bussò ma per la sua fame trovò solo un ruvido pan d’orzo. Divorando però lo trovò gustosissimo e cominciò a lamentarsi con gli dei che fino a quel giorno gli avevano tenuto nascosto quel delizioso piacere. Così sarà di noi: quando avremo ascoltato con fede, con umiltà, con docilità la parola di Dio, vi sentiremo tanta dolcezza e tanto sapore spirituale, da esclamare con meraviglia: « Come mai non mi ero accorto prima? ».

IL CREDO

 Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 17, 107

Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: retríbue servo tuo: vivam, et custódiam sermónes tuos: vivífica me secúndum verbum tuum, Dómine.

[Ti glorífico, o Signore, con tutto il mio cuore: concedi al tuo servo: che io viva e metta in pràtica la tua parola: dònami la vita secondo la tua parola.]

Secreta

Hæc múnera, quaesumus Dómine, ei víncula nostræ pravitátis absólvant, et tuæ nobis misericórdiæ dona concílient.

[Ti preghiamo, o Signore, perché questi doni ci líberino dalle catene della nostra perversità e ci otténgano i frutti della tua misericórdia.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

 Communio

1 Cor XI: 24, 25

Hoc corpus, quod pro vobis tradétur: hic calix novi Testaménti est in meo sánguine, dicit Dóminus: hoc fácite, quotiescúmque súmitis, in meam commemoratiónem.

[Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi: questo càlice è il nuovo patto nel mio sangue, dice il Signore: tutte le volte che ne berrete, fàtelo in mia memoria.]

Postcommunio

Orémus.

Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos tuis mystériis recreásti, perpétuis defénde subsidiis.

[Assístici, o Signore Dio nostro: e difendi incessantemente col tuo aiuto coloro che hai ravvivato per mezzo dei tuoi misteri.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

QUARESIMALE (XXVIII)

QUARESIMALE (XXVIII)

DI FULVIO FONTANA

Sacerdote e Missionario
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ

Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)

IN VENEZIA, MDCCXI (1711)

PREDICA VENTESIMAOTTAVA
Nella Domenica di Passione.


Il Peccatore ha per nemici il Cielo, la Terra, l’inferno. È
nemico crudele di sé stesso, nemico di Gesù Cristo, ha per
nemico Iddio.

Quis ex vobis arguet me de peccato. San Gio: cap. 8.


È legge stabilita tra’ Persiani, che morto il loro re, si viva per cinque giorni senza legge; onde è, che cresciute le insolenze, ne seguono con mille inconvenienti, anche spietati omicidi. Ciò si permette per far conoscere al popolo la necessità d’un capo, e le gran calamità in cui si vive, mentre si vive senza legge. È legge stabilita nel cuore de’ peccatori vivere senza capo, privo di Dio, quantunque vedano che da ciò ne derivino rovine al corpo, precipizi all’anima. Anzi pare che vadano dicendo: Quis ex vobis arguet me? E che cosa è il peccato? Mio Redentore, e che cosa posso far io perché ne conoscano la gravezza? Altro non posso fare, che rivoltarmi verso di loro e con le parole d’Eliseo a quei facinorosi ladroni, dirvi: aperi Domine oculos istorum: Deh aprite gli occhi a chi vive cieco, e non conosce ciò che sia peccato mortale … Sapete ciò, che vuol dire commettere un peccato mortale? Vuol dire tirarsi addosso l’inimicizia più fiera che possa mai darsi. Sapete quello vuol dire vuol dire tirarsi addosso l’inimicizia del Cielo, della terra dell’inferno; più, vuol dire esser nemico spietato di sé stesso … peggio: esser nemico di Dio. V’è più male? certo, vuol dire avere per nemico Dio, e son da capo … Non v’ha dubbio, che chi commette un peccato mortale tira addosso la inimicizia di tutte le creature Celesti, poiché al pari del figliuol prodigo, dopo aver gettato via tutti i tesori della Grazia divina, ed essersi ridotto ad un’estrema mendicità, poté dire col medesimo peccavi in Cœlum, ho peccato contro del Cielo; e con aver peccato contro del Cielo vi siete nemicato quanti sono colassù Angeli e Beati. E che non potete temere, mentre tutti i Grandi del Paradiso vi son contrari? Né vi crediate, che il loro sdegno contro di voi sia ordinario: perché siccome in Cielo si fa straordinaria festa per la conversione di un peccatore: Gaudium erit in Cœlo super uno peccatore pœnitentiam agente… ogni ragion vuole, che tutta quella allegrezza che si fa in Cielo per un peccatore pentito, tutta si converta in odio contro di quell’indegno che oltraggia il Cielo con nuovi peccati. Ecco, dunque, che avete aperta nimicizia col Cielo, che vale a dire con gli Angeli e con i Santi. E tu, o peccatore, a questa verità non ti riscuoti? Come è possibile che tu voglia continuare ad aver nemici, quanti sono Beati in Paradiso, e perciò voglia continuare in quell’odio, in quell’interesse, in quella maledetta inimicizia? Ah misero peccatore! Hai inimicizia col Cielo: che farai? Chiama, se puoi, a tua difesa la terra; appunto non puoi, perché anche con la terra, con gli uomini hai aperta nimicizia per il peccato mortale, che covi in seno. Che il peccatore, miei UU., sia nemico di tutti gli uomini, che stanno sopra la terra, basta riflettere quanto di male faccia all’uomo il peccato. Tutte le disgrazie, tutte le miserie, tutte le infermità, tutti i dolori, tutte le agonie, tutti gli spasimi, tutte le carestie, tutti i fulmini, i terremoti, le pestilenze, le guerre, le morti, è di fede, miei UU., son vere figlie del peccato mortale. Dunque, il peccatore commettendo i peccati, arma tutte queste miserie contro degli uomini e così si rende loro nemico. Il seguente racconto vi faccia toccar con mano quanta nimicizia abbia il peccatore con gli uomini. Riferisce Sofronio d’una certa donna per nome Maria, la quale non contenta di essere iniquamente vissuta nella propria patria, se ne partì per portarsi in lontani paesi a far pubblico mercato di se stessa. Montò per tanto sopra di una nave presa alla vela, quand’ecco che il legno, quantunque avesse il vento in poppa, si ferma immobile a guisa di scoglio. Attoniti del successo, i naviganti ricorrono alle orazioni, ai voti, ed odono una voce del Cielo che grida: getta in mare Maria, gettala, gettala. Si cerca Maria, che più disobbediente di Giona mette in pericolo tutto il vascello, e ritrovatala si getta non in mare, ma si ripone sul battello per assicurarsi del volere divino; volete altro, appena la meschina fu posta su quel picciolo legno che girando tre volte intorno intorno, s’affondò, quasi non potesse reggere al peso delle colpe della sfortunata femmina. O quante volte si rinnovano queste prove benché tanto sensibili però male intese. Quella casa ha un capo molto assegnato e diligente, eppure le possessioni non rendono; i debiti s’aumentano, insorgono le liti, le malattie, le disgrazie tutte par che l’abbiano presa di mira. Sapete perché? Perché in quella famiglia v’è qualche peccatore: qualche figlio lascivo, qualche servo bestemmiatore, qualche donna impudica. O se si potesse sgravare quella casa di questo peso, voi vedreste cessare le liti, le nimicizie, le malattie. Finché tu continuerai in peccato, cresceranno le miserie, non saranno fertili i poderi, non corrisponderanno i censi: perché il peccato è nemico di tutte le creature, sempre le travagliata ed affligge. È indubitato che i peccati d’un solo talora mandano in rovina le famiglie e popoli interi. Di tanto ci assicura Origene. Uno peccante, ira super omnem populum venit. Che dissi Origene? Le Sacre Carte, Iddio. Portatevi in Giosuè al settimo, e sentitene il fatto. Avevano gl’Israeliti espugnata con rara felicità la città di Gerico, e però volendo seguire animosi il corso delle vittorie, s’incamminarono alla conquista di Hai, città senza paragone inferiore a Gerico e di grandezza e di forze: ma che? Giunti colà a fronte dell’inimico, furono sì vergognosamente respinti, che gli convenne voltar le spalle. A questa inaspettata fuga, immaginatevi che nel popolo si sollevò un bisbiglio non ordinario ed un pianto universale non sapendosi a che attribuir l’avergli Iddio sottratta la sua protezione; mentre dallo stesso Iddio erano colà stati chiamati per mieter palme e per raccogliere allori vittoriosi. Per indagarne dunque la cagione, ecco che Giosuè prostrato avanti all’Arca, prega, piange, si umilia ed intende che la cagione di tanta sciagura era stato un peccato commesso non già da tutti, ma da uno solo, e fu appunto quello che commise l’infelice soldato Acan, allorché vedendo andare a fuoco ed a fiamme Gerico, veduta una ricca sopravveste di porpora tra le spoglie, se ne invaghi’, la tolse contro gli ordini dati dal capitano, la preservò dall’incendio, e la nascose sotto il padiglione. Or per questo malfattore, benché occulto, Iddio tanto si adirò, che protestò di abbandonarli in eterno, se tutti non si univano a levarlo di vita: non ero ultra vobiscum, nisi conteretis eum: tanto è vero, soggiunge qui Salviano, che leditur scelere personali causa cunctorum. – Disgraziato peccatore, come nemico del Cielo e della terra, sei in odio agli Angeli, a’ Santi, ed a tutto il mondo, e sei sì infelice, che hai l’odio insino de’ diavoli: ma come può essere, che il peccatore sia nemico del diavolo, mentre il diavolo altro non brama se non che sia peccatore? È vero che il diavolo brama che il peccatore sia peccatore, e perciò lo tenta e gode che pecchi. Ma ne gode per quel male che l’uomo peccando fa a se stesso, dove che dall’altra parte gli dispiace il suo peccare, perché quel suo peccato, dovrà esser una volta allo stesso diavolo di maggior tormento, e sarà allora quando il peccatore sarà all’inferno. Volete la ragione, perché sarà di maggiore tormento al diavolo? Eccola: molti carboni insieme fanno più fuoco, e più si bruciano l’uno con l’altro. Così sarà nell’inferno: quanti più dannati vi saranno, tanto più tormenteranno i diavoli ed ecco il peccatore nemico anche de’ diavoli; perché tormentandoli diverranno loro nemici. E per non esser parziali di niuno, eccolo nemico anco de’ dannati stessi per la medesima ragione, perché l’uno con l’altro a guisa di tizzoni accenderanno maggiormente quelle fiamme nelle quali stanno sepolti: anzi i dannati saranno nemici più arrabbiati de’ diavoli, perché non avranno l’acerbo conforto tra loro tormenti d’esser carnefici, come l’hanno i demoni. Sebbene, come potrò credere, che il peccatore stimi questa inimicizia, mentre egli peccando diviene nemico ancora di sé medesimo? Si può sentir di peggio esser nemico di sé stesso con fare a se stesso ogni gran male. Sì, i peccatori sono nemici di sé stessi. Così li chiama Tobia: Hostes sunt animæ suæ. Sentite: un nemico, per quanto sia crudele, non vi spoglia mai d’altro che o delle ricchezze, o della libertà, o della vita: ed appunto di tutti tre questi beni spogliano i peccatori con i peccati l’anima loro. La spogliano di ricchezze, togliendole il bel tesoro della grazia, di cui un grado solo val tanto che se il mondo tutto fosse d’oro e di diamanti, non sarebbe sì ricco. La spogliano di tutti i meriti della buona vita passata. Sicché sentite ed inorridite. Quanto per l’addietro operaste di virtuoso, di cristiano, di pio, tutto perdete col peccato mortale; tanto denunciò Iddio per Ezechiele: Si avertit se justus a justitia sua, et fecerit iniquitatem secundum omnes abominationes, quas operari solet impius, numquid vivet? Signori no che non vivet. Ma che? omnes justitia ejus, quas fecerat non recordabuntur. Oh protesta da far raccapricciare anche un’anima di macigno! Tutte quelle opere buone, dice Iddio, le quali per l’addietro avete fatto, rimangono già sepolte in sì alta dimenticanza, che se una morte improvvisa vi togliesse dal mondo, mai mai per tutta l’eternità ne godreste alcun premio. Chi mai, Cristiani miei, potrebbe crederlo? Dunque, dirò io: se taluno di voi per l’addietro avesse, come un Domenico Loricato, afflitte sempre con stranissime guise di penitenze, le proprie carni, sicché le avesse ogni dì sminuite con digiuni, piagate con cilici, lacerate con flagelli, sbranate con catene ed ora morisse in quel peccato del quale a sorte è reo … cotante austerità non gli gioverebbero niente niente. Dunque, se taluno per l’addietro avesse qual altra Melania Romana distribuito in alimento de’ poveri tutte le sue sostanze, sicché avesse continuamente vestito i nudi, ricomprati schiavi, serviti infermi, sostentati i pupilli, ed ora morisse in quel peccato mortale: tante limosine non gli frutterebbero niente, niente, niente. E se voi tutti miei UU., aveste convertiti a Cristo più popoli con Francesco Xaverio; se aveste superato un’Alessio nel disprezzo del mondo; un Francesco d’Assisi nella povertà, umiltà, e poi moriste in peccato mortale: niente vi gioverebbero tante virtù, niente tanti meriti, niente tante penitenze, niente tanta santità? No, omnes justitiæ ejus, quas fecerat non recordabuntur. Ah peccatori, quanto siete nemici di voi stessi, mentre spogliate l’anima vostra di sì ricchi tesori; né contenti di quanto avete, le togliete la libertà; vendendola al diavolo, per un capriccio o d’odio o di senso o d’interesse: venundati sunt, ut facerent malum. E finalmente passano avanti con darle cruda morte. E che altro è alla fine il peccato mortale, che la morte dell’anima; mentre le toglie Iddio, che è la sua vita? Anima emissa, dice Agostino, mors corporis: Deus amissus, mors anima. Se si parte l’anima dal corpo … muore il corpo, se si parte Iddio dall’anima, ecco morta l’anima; che resta al corpo, quando è uscita l’anima? Il sepolcro! Che resta all’anima perduto Iddio? L’Inferno. Come dunque può negarsi che i peccatori non siano nemici di se stessi? Si, si, hostes sunt animæ fuæ, e nemici tali che tolgono tal ricchezza, tal libertà, tal vita. Qual fiera, qual tigre, qual pantera fu mai sì crudele contro se stessa, che giungesse a perdere volontariamente la libertà, dandosi nelle mani de’ cacciatori? E qual mai si trovò, che da se stessa, si svenasse, si uccidesse, si desse la morte? Solo il peccatore è quella fiera così spietata contro di sé. Miseri peccatori, nemici crudeli di voi stessi, mentre a voi stessi causate il maggior de’ mali che possa mai accadervi .. Sentite: Caligola il più fiero mostro che regnasse giammai fra gli uomini, desiderava che tutto il popolo Romano si riducesse ad avere una sola testa per poterla troncare in un sol colpo; io per me mi persuado però, che quando bene avesse potuto sortire effetto il desiderio bestiale d’un tal tiranno in alzare la mano a sì gran taglio, si sarebbe commosso, quel cuor di pietra, si farebbe ammollito; e riposta nel fodero la spada, benché assettata di sangue umano, non avrebbe saputo arrivare tant’oltre. Or miei uditori, tutte le volte, che acconsentite al peccato mortale fate di voi stessi scempio più atroce: privando di vita l’anima vostra, anima quæ peccaverit ipsa morietur. E tuttavia non tremate? E non solamente non vi cadde di mano il ferro per l’alto orrore; ma eseguite un colpo sì lagrimevole e si funesto! Passo avanti e dico che fate un scempio sì grande di voi stessi, che se tornasse di nuovo ad inondar il mondo nel diluvio, la strage di tutti gli uomini ora viventi sarebbe per se stessa infinitamente più leggera di quel che sia la morte che voi date all’anima vostra col peccato mortale, giacché la vita soprannaturale d’un’anima val più che non vale la vita naturale di tutti gli uomini possibili. Sentite se siete veramente nemici spietati di voi stessi. Se Dio desse licenza, ma senza limitazione, non ad un solo demonio, ma a tutti di rivoltarsi contro di voi ed essi a gara vi facessero quel più di male che potessero; sappiate che tutti insieme non potrebbero mai farvi tanto di male, quanto da voi stessi ve ne fate peccando. Dirò di più: se la Divina Giustizia con la spada sua onnipotente, volesse sopra di voi scaricare un colpo degno del suo braccio divino, certo con tutta la sua forza non potrebbe fare all’anima vostra quel male che voi stessi fate con acconsentire ad un peccato mortale; perché alla fine non potrebbe farvi altro male, che male di pena, là dove a voi stessi fate maggior male, perché è male di colpa. Oh Dio! quanto mai deve giubilare l’inferno, allorché voi peccate? Mentre vede che fate a voi stessi quel male che non può Egli con la sua onnipotenza. Chi può dunque negarvi il titolo che vi dà lo Spirito Santo di nemici delle anime vostre qui faciunt peccatum hostes sunt animæ suæ. Ti compatisco, o peccatore, perché ti ravviso nemico di te stesso, ma molto più, perché sei, oh Dio! Nemico di Dio … Ecco la figura, che di te mi rappresenta il santo Giobbe: mi ti fa vedere armato da capo a piedi col collo gonfio, e superbo, con la mano stesa in atto di voler combattere con l’onnipotenza: tetendit adversus Deum manum suam: contra Omnipotentem roboratus est. Non vi è pertanto perfezione in Dio, contro di cui non si armi con la sua iniquità il peccatore. Disprezza l’onnipotenza, vilipende la Sapienza, non teme la giustizia, conculca la Divina Misericordia. Ecco, ecco a quello che vi conduce quella passione di odio, d’amore d’interesse, ecco gli scogli ne’ quali date, mentre siete irriverenti nelle Chiese, disprezzatori de’ parenti, mormoratori, bestemmiatori; voi con oltraggiare le perfezioni Divine siete simili a quegli sciocchi popoli dichiarati nemici del sole, giacché contro di lui lanciavano nembi di saette. Certo non arrivavano a ferirlo; ciò però non procedeva dalla loro volontà, ma dalla sublimità del sole superiore a qualunque dardo; del resto, se il sole fosse stato loro vicino, e fosse stato capace di ferite mortali, chi non vede che, per quanto stava a quei perfidia, sarebbe stato ferito così fate voi, peccatori: per quanto è dal canto vostro, procurate di ferire Dio; e se non vi riesce, non è che resti dalla vostra malizia; resta perché Egli è quel Dio che è. Chi, dunque, negherà che veramente non siate nemici di Dio, sicché lo siete peccatori indegni, peccatrici scellerate; e giacché non volete confessarvi tali con la lingua, ecco che vi svergogno, e vi paleso per nemici di Dio con l’autentica irrefragabile de’ vostri fatti; e quel che è peggio non siete stati nemici di Dio con odio rimesso e moderato, ma con odio il più spietato, il più crudele, il più barbaro, che possa aversi. Ecco, ecco l’autentica della vostra inimicizia. Fissate gli occhi in questo Cristo, e negate se potete, che non siate nemici di Dio. Domandagli, o peccatore, un poco col Profeta: quid sunt plage iste? Che piaghe son queste, che avete nella vostra vita? E sentirai risponderti: queste son piaghe fattemi da’ peccatori miei nemici, queste piaghe de’ piedi me le facesti crudele quando ti portasti a quei balli, a quelle veglie, a quei corsi, a quei festini, a quelle conversazioni dalle quali sempre ne uscivi col peccato mortale. Queste piaghe delle mani me le hanno fatte quei memoriali indegni, che stendesti, quelle lettere cieche che mandasti a danno ora di questo, or di quello; quelle carte, che maneggiasti con tante frodi, con tant’inganni, con tanto pregiudizio della famiglia. Tu mi ponesti la corona di spine nelle tempie quando macchinasti la rovina del tuo prossimo; quando ordisti nella mente tua quelle insidie alla onestà di quella donzella, all’onore di quella maritata. Tu mi porgesti fiele per bevanda, allorché ti lasciasti uscir di bocca tanti giuramenti, tanti spergiuri, tante laidezze, tante bestemmie, tante mormorazioni; tu in somma, da vero nemico mi hai aperto questo costato, quando nel tuo cuore covasti gli odii, i rancori, le inimicizie; quando sì lungamente vi racchiudesti gli amori indegni? Tu insomma m’hai posto in questa croce con le tue scelleraggini; e con le tue indegnità mi ci hai fatto morire. Sarai contento; son morto per le tue mani; eppure ad ogni modo altro non bramo, che darti vita. Voi inorridite a questo mio parlare? Vi ho mostrato la nemicizia, che avete avuto con Dio, mentre gli avete ucciso il Figlio, e pur questo è nulla a paragone di quello che rimane. Voi siete nemici di Dio: gran parola! E pure è il lampo del tuono, è la folgore del fulmine, ecco il colpo. Atterritevi … ecco la saetta. Voi nemici di Dio; ecco la conseguenza, e Iddio è vostro nemico. Iddio è tuo nemico, va’ dove vuoi, che non hai sicurezza. Hai per nemico Iddio, o tu dorma, o tu vegli, o tu mangi. Avete Dio per nemico, e tanto ridete, non cadete a terra morti per lo spavento? Come è possibile? Un antico romano, di cui dovevasi trattar la causa in senato, sentendo che Tullio, oratore sì temuto, gli era contrario, s’accorò tanto che per disperazione s’uccise; ed a voi non par nulla aver un Dio per contrario! Poveri voi, che con aver nemico Dio, avete altresì nemiche tutte le creature; perché tutte insorgono alla difesa del suo Padrone; così seguì appunto allorché Semei ingiuriava di lontano il Re David; giacché subito i cortigiani s’offersero a gara di andar ciascuno di mano propria a staccargli la testa dal busto: Ego vadam, amputabo caput ejus. Ecco, dunque, che contro di voi, che avete Dio per nemico, grida la terra ego vadam, e lo subisserò nel mio fondo: ego vadam, grida l’acqua, e l’assorbirò ne’ miei gorghi: ego vadam, grida l’aria, e lo sconquasserò con i miei turbini: ego vadam, grida il fuoco, e lo consumerò con le mie fiamme: ego vadam, gridano i fiumi, inonderò le sue campagne. Che sarà dunque di te; se non levi di casa colei, se non perdoni, se non restituisci, se non ti penti di cuore? Ah! che mi pare, che i demoni gridino ad alta voce: questo è nostro… presto: Deus dereliquit eum; persequimini, et compræhendite eum, e sepellitelo nelle fiamme eterne d’inferno.

LIMOSINA.
Chi visse in peccato faccia limosina, per non tornarvi; chi lo covò lungamente la faccia maggiore; perché ha più bisogno di misericordia; chi non peccò slarghi la mano, per non tirarsi addosso la inimicizia di Dio.

SECONDA PARTE.

Voi, o peccatori siete nemici di Dio: bene avete inteso. Iddio è vostro nemico altresì e sappiate che questa inimicizia, che ha Dio contro di voi porta seco un odio tale di Dio verso di voi, che tale non l’hanno i demoni tutti dell’inferno verso un’anima dannata. Quando gli Ateniesi si ribellarono a Dario Re della Persia, lo toccarono talmente sul vivo con un tal disprezzo, che diede ordine ad un suo cameriere, che ogni mattina nel svegliarlo li dicesse così: Sire, ricordatevi degli Ateniesi; e ciò richiedeva a solo oggetto, che il tempo non gli diminuisse punto del suo sdegno, e della vendetta, che disegnava prendere contro de’ suoi ribelli. Iddio, o peccatori, non ha bisogno di sì fatta invenzione per ricordarsi che è vostro nemico; e perciò per mantenere sempre
accesa contro di voi l’ira sua giustissima, sappiate che il vostro peccato sta sempre presente al suo guardo; e non può cancellarsi, perché è scritto con filo di ferro, inciso nel diamante: Peccatum Juda scriptum est stylo ferreo, et ungue adamantino. Or io vorrei che i peccatori mi dicessero come mai fanno a vivere allegri, mentre sanno d’avere una inimicizia sì formidabile; ancor io son costretto ad entrare ne’ sentimenti dell’Angelico San Tommaso, il quale si protestava di non capire due cose: la prima come un Cristiano, che sa per fede che peccando diventa nemico di Dio, pure ardisca peccare. La seconda, come essendo già col suo peccato diventato nemico di Dio, possa poi passarsela allegramente, ed abbia passatempi per ricrearsi, abbia facezie per ridere, abbia sonni per riposare. Come farete dunque, o peccatori a vivere sì tranquilli nelle vostre iniquità? Scopritemi di grazia questo segreto ignoto anche alla mente dei maggiori savi che mai vedesse la terra. Tu donna infelice, infedele al tuo marito, come ti riesce a star quieta, mentre sei nemica di Dio? Tu giovine miserabile che tanto t’affliggi se quella amica ti guarda bieco, come fai a vivere sì allegramente, mentre sei tanto in odio a Dio? Tu, che se il tuo principe non ti volesse mai più vedere moriresti di cordoglio, e pure adesso con l’inimicizia formidabile del tuo Creatore non solo non muori di cordoglio, ma giungi fino a vantarti d’averlo offeso, giungi ad insuperbirtene, giungi per questo capo a reputarti più degli altri. Io per me, credo che non crediate, scusatemi … queste verità Cattoliche. Se non credete rinunziate al Battesimo e cancellate dal ruolo de’ fedeli il vostro nome. Credere d’aver nemico Dio e ridere e urlare e scherzare? Peccatore vien qua, dimmi un poco: con qual timore staresti, se sapessi d’aver per nemico un gran cavaliere, un principe, un re? quanto maggiore sarebbe il timore, se tu sapessi che egli assolutamente si vuol vendicare? Grandissimo; tu non me lo puoi negare. Or tu sai che sei nemico non d’un principe ma di Dio, in cujus manu funt omnium potestates: e non temi, e non tremi? Tanto più che sai, che assolutamente vuol vendicare con castigarti. Temilo, o peccatore; e tanto più temilo quanto, che non te lo sei reso nemico con avergli fatto una sola offesa: l’hai offeso tante volte, e sfacciatamente in più luoghi, per le strade, per le piazze, nelle case, nelle stesse Chiese; or se egli vorrà castigarti per una sola offesa, che gli abbia fatta, quanto più per tante! Temilo dunque, e molto più temilo, perché ti può raggiungere ovunque tu sia. Se hai un nemico in una città, puoi andar in un’altra; se in un regno, in un altro; ma Dio ti arriverà per tutto; quo ibo a Spiritu tuo, quo a facie tua fugiam? E dove andrò,
dice il Profeta, che tu non mi giunga? Si descendero in infernum ades; se mi nasconderò nel centro della terra, ivi tu sei: si ascendero in Cœlum, tu illic es; se mi porterò all’altezza de’ Cieli, quivi ti troverò: si sumpsero pennas meas diluculo, et habitavero in extremis maris; ancorché io mi porti di là da’ mari, tanto tu mi raggiungerai! Temilo dunque, o peccatore, perché hai un nemico che da per tutto può raggiungerti. E temilo molto più; perché già tu vedi che contro di te ha sfoderata la spada; e ti fa vedere i lampi del suo sdegno. Spada di Dio, che ti minaccia castighi maggiori, sono quella lite suscitata; lampo dell’ira di Dio è quella malattia, quella grandine, quella morte. Temilo insomma, perché è un Signore di sì alta potenza, che postquam occiderit corpus, babet potestatem mittere in gehennam; che dopo d’aver posto il corpo estinto in terra, ha potestà di seppellire l’anima nell’inferno. Temilo, o peccatore, e non voler più questa inimicizia col tuo Creatore. Ah no, no, no non è dovere; bisogna concludere questa pace ed ora a’ piedi di Cristo si ha da stabilire per sempre. Amor mio non più peccati, diceva la Beata Caterina da Genova; quanto dobbiamo dire ancor noi: non più peccati, non più bestemmie, non più ingiustizie, non più rancori, non più disonestà, purtroppo siamo stati ciechi per il passato a non temer questo Signore; ve ne chiediamo perdono. Eccoci pentiti, eccoci contriti. Evvi nessuno, UU., che ricusi domandare questo perdono? Se vi è si dichiari, e se vuol continuare la inimicizia con Dio; egli si protesta, che gli sarà nemico in vita, e gli pianterà la dannazione in cuore la morte. No no mio Dio; tutti con Voi vogliamo amicizia, e perciò tutti vi domandiamo misericordia, e pace; pace e misericordia. Se così è, miei UU., questo Cristo vi concede il perdono; vi dà la pace, con questa condizione però, che non torniate ad offenderlo.

QUARESIMALE (XXIX)