DOMENICA IV DI QUARESIMA (2022)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Croce in Gerusalemme.

Semidoppio; Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei o rosacei.

In questa settimana la Chiesa, nell’Ufficio divino, legge la storia di Mosè (Le lezioni del 1° Notturno e i responsori della Domenica e della settimana sono presi dal libro dell’Esodo. È un riassunto di quanto si leggeva anticamente). La riassumono due idee. Da una parte Mosè libera il popolo di Dio (2a lezione della Domenica) dalla cattività dell’Egitto e gli fa passare il mar Rosso (Idem 4° e 5° Respons.). Dall’altra egli lo nutre con la manna nel deserto (2° respons. di martedì.); gli annunzia che Dio gli invierà « il Profeta » che è il Messia; gli dà la legge del Sinai (6° e 7° respons. della Domenica) e lo conduce verso la terra promessa ove scorrono latte e miele (2° e 3° respons. di lunedì) . –  Nelle catacombe troviamo rappresentata l’Eucaristia per mezzo di un bicchiere di latte o di miele, intorno al quale volano delle api simbolizzanti le anime). Là un giorno sarà costruita Gerusalemme (Com.) e il suo Tempio, fatto ad immagine del Tabernacolo nel deserto, là le tribù di Israele saliranno per cantare ciò che Dio ha fatto per il suo popolo (Intr., Grad., Com.). « Lascia andare il mio popolo perché mi onori nel deserto », aveva detto Dio, per mezzo di Mosè, a Faraone. La Messa di oggi mostra la realizzazione di queste figure. Il vero Mosè, difatti è Cristo, che ci ha liberati dalla schiavitù del peccato (id.) e ci ha fatto passare attraverso le acque del Battesimo; che ci nutre della sua Eucaristia, della quale ne è figura la moltiplicazione dei pani (Vang.), e che ci fa entrare nella vera Gerusalemme, cioè nella Chiesa, figura dei Cielo ove noi canteremo per sempre « il cantico di Mosè e dell’Agnello » (Apocalisse), per ringraziare il Signore della sua bontà infinita a nostro riguardo. È dunque naturale che in questo giorno la Stazione si tenga in Roma a Santa Croce in Gerusalemme. Sant’Elena, madre di Costantino, che abitava sul Celio una casa conosciuta coi nome di casa Sessoriana, trasformò questa casa in un santuario per riporvi le insigni reliquie della S. Croce: e questo santuario rappresenta, in qualche modo, Gerusalemme a Roma. Così l’Introito, il Communio e il Tratto parlano di Gerusalemme che S. Paolo paragona nell’Epistola al Monte Sinai. Là il popolo cristiano canterà in mezzo alla gioia « Lætare » (Intr., Epist.) per la vittoria ottenuta da Gesù sulla Croce a Gerusalemme, e sarà evocato il ricordo della Gerusalemme celeste le cui porte ci sono state riaperte da Gesù con la sua morte. Questa è la ragione per cui in altri tempi si benediceva in questa chiesa e in questo giorno una rosa, la regina dei fiori, perché così la ricordano le formule della benedizione; — uso consacrato dall’iconografia cristiana — essendo il cielo rappresentato da un giardino fiorito. Per questa benedizione si usano paramenti rosacei e così tutti i sacerdoti possono oggi celebrare coi paramenti di questo colore. Questo uso da questa Domenica è passato alla 3a di Avvento, che è la Domenica Gaudete « Rallegratevi » e che nel mezzo dell’Avvento, viene ad eccitarci con una santa allegrezza a proseguire coraggiosamente la nostra laboriosa preparazione alla venuta di Gesù (Il diacono si riveste della dalmatica e il suddiacono della tunica, segni di gioia. L’organo fa sentire la sua voce armoniosa e l’altare è ornato di fiori.). A sua volta la Domenica Lætare (Rallegratevi) è una tappa in mezzo all’osservanza quaresimale. « Rallegriamoci, esultiamo di gioia », ci dice l’Introito, perché morti al peccato con Gesù durante la Quaresima, presto risusciteremo con Lui mediante la Confessione e la Comunione pasquale. Per questa ragione il Vangelo parla nello stesso tempo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, simbolo dell’Eucaristia, e del Battesimo, che si riceveva una volta proprio nel tempo di Pasqua, e l’Epistola fa allusione alla nostra liberazione per mezzo del sacramento del Battesimo (altre volte ricevuto dai catecumeni a Pasqua). E se noi abbiamo avuto la sventura di offendere Dio gravemente, la Confessione pasquale, ci darà la liberazione. Così l’Epistola ci ricorda, con l’allegoria di Sara e di Agar, che Gesù Cristo ci ha liberati dalla schiavitù del peccato.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Is LXVI: 10 et 11

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI: 1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ.

[Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV: 22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

“Fratelli: Sta scritto che Àbramo ebbe due figli, uno dalla schiava, e uno dalla libera. Ma quello della schiava nacque secondo la carne, quello della libera, invece, in virtù della promessa. Le quali cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono le due alleanze. L’una del monte Sinai, che genera schiavi, e questa è Agar. Il Sinai, infatti, è un monte dell’Ambia, che corrisponde alla Gerusalemme presente, la quale è schiava coi suoi figli. Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera, ed è la nostra madre. In vero sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorisci; prorompi in grida di gioia, tu che sei ignara di doglie, poiché i figli della derelitta son più numerosi che quelli di colei che ha marito. Quanto a noi, fratelli, siamo, come Isacco, figli della promessa. E come allora chi era nato secondo la carne, perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. Ma che dice la Scrittura? Scaccia la schiava e il suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede col figlio della libera. Perciò, noi, o fratelli, non siamo figli della schiava, ma della libera, in virtù di quella libertà con cui Cristo ci ha affrancati”. (Gal. IV, 22-31) .

LA SCHIAVITÙ DELLA LEGGE E LA LIBERTA’ DI GESÙ CRISTO.

Colla Epistola di questa domenica noi tocchiamo, fratelli, un punto fondamentale nella dottrina di San Paolo, non oserei dire famigliarissimo oggi ai nostri Cristiani. La ragione è, in parte nelle mutate condizioni religiose dell’età nostra di fronte a quella che fu davvero l’età di San Paolo. Fervevano allora le dispute fra i Giudei e i Cristiani, quelli attaccati alla loro legge, la legge di Mosè e questi fieri della Religione nuova, la Religione del Vangelo di Cristo. La Legge era la sintesi del giudaismo, di quella che oggi chiamiamo la Sinagoga; essa abbracciava tutto l’insieme, per allora, poderoso di aiuti che per secoli e millenni la religione dei Patriarchi e dei Profeti fornì agli ebrei per portarli a Dio. Per allora, ho detto: perché noi sappiamo che quella economia religiosa era un’economia passeggera, transeunte. Un altro ordine di cose doveva inaugurare Iddio nella pienezza dei tempi. Infatti, quando venne N. S. Gesù, e parlò Lui il Verbo suo nuovo, e operò e patì, allora l’umanità accettò il Vangelo, sentì la povertà (relativa) del precedente regime; come chi riesce ad andare oggi in automobile sente la povertà (relativa) delle vecchie carrozze, anche le più veloci e famose. In Paolo questo sentimento fu acutissimo, quasi spasmodico. Aveva respirata con orgoglio l’atmosfera della legge negli anni del suo bollente nazionalismo religioso; dalla chiusa torre della legge aveva guardato con orgoglio il resto dell’umanità, si era irritato fino alla crudeltà quando degli Israeliti come lui, avevano cominciato a parlare di un’altra cosa che non era più la legge e che la superava e si proponeva di sostituirla. E un bel giorno egli Paolo, fece la esperienza di quella novità che aveva fino allora odiata e bestemmiata. – Amò Gesù, ne accettò il Vangelo, la novella buona: buona e nuova. L’accettò con tutta la sua anima. E fu un senso di liberazione. Non la liberazione da un appoggio, che ti fa cadere più in basso; no; liberazione, invece, da un peso, la vera liberazione che ti fa ascendere più in alto, dal mondo della luce, pura e fredda, la sua anima era passata nel mondo del calore. Il mondo della luce era la legge. Proprio così. La legge, qualunque essa sia, divina od umana, religiosa e civile, ti fa vedere la strada: ecco tutto. Non ti aiuta a percorrerla. In questo la legge somiglia alla filosofia, antica e moderna, anche la filosofia morale ci fa vedere il bene ed il male, ma l’anima ripete col vecchio sapiente: vedo il meglio e l’approvo come tale con la mente, seguo il peggio con la mia volontà. Mancano le forze, l’energia. Gesù ha portato questo al mondo: l’energia che si chiama amore, carità. Il bene non pesa più. Il giogo, senza cessare di essere severo, anzi essendolo diventato anche di più, si è alleggerito. Gesù aveva detto: Il mio giogo è soave, il peso ne è più leggero… in confronto, si intende, del vecchio giogo legale. Lo aveva detto Gesù e lo ripete sotto altra forma e lo corrobora con ragionamenti adatti a quei Farisei con i quali Egli discuteva: sottili, sofistici, disquisitori ai quali Paolo tiene testa bravamente. E noi dobbiamo riprendere questo insegnamento di libertà non per liberarci dalla Legge morale, ma per sentirci liberi dalla legge per liberarci dalla perfidia, non per amare meno la legge Divina, ma per amarla di più, per osservarla più generosamente e più liberamente. È  la libertà vera dei figli di Dio.

Graduale

Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.

[Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis.

[V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus

Ps. CXXIV: 1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem.

[Quelli che confidano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi abita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum.

[V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI:1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilææ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

 “In quel tempo Gesù se ne andò di là dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade; e seguivalo una gran turba, perché vedeva i miracoli fatti da lui a pro dei malati. Salì pertanto Gesù sopra un monte, e ivi si pose a sedere co’ suoi discepoli. Ed era vicina la Pasqua, solennità de’ Giudei. Avendo adunque Gesù alzati gli occhi e veduto come una gran turba veniva da lui, disse a Filippo: dove compreremo pane per cibar questa gente? Lo che Egli diceva per far prova di lui; imperocché egli sapeva quello che era per fare. Risposegli Filippo: Duecento denari di pane non bastano per costoro, a darne un piccolo pezzo per uno. Dissegli uno de’ suoi discepoli, Andrea, fratello di Simone Pietro: Evvi un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che è questo per tanta gente? Ma Gesù disse: Fate che costoro si mettano a sedere. Era quivi molta l’erba. Si misero pertanto a sedere in numero di circa cinquemila. Prese adunque Gesù i pani, e rese lo grazie, li distribuì a coloro che sedevano; e il simile dei pesci, nuche ne vollero. E saziati che furono, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. Ed essi li raccolsero, ed empirono dodici canestri di frammenti dei cinque pani di orzo, che erano avanzati a coloro che avevano mangiato. Coloro pertanto, veduto il miracolo fatto da Gesù, dissero: Questo è veramente quel profeta che doveva venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che erano per venire a prenderlo per forza per farlo loro re, si fuggì di bel nuovo da sé solo sul monte” (Io. VI, 1-15).

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA PROVVIDENZA E NOI

Filippo e la Provvidenza è l’argomento del brano evangelico che esporremo; la Provvidenza e noi, sarà poi l’argomento della nostra riflessione. Gesù predicava alle turbe e forse non s’accorgeva che il tempo passava e veniva sera. Alcuni degli Apostoli credettero prudenza avvisare il Maestro: « Si fa tardi e siamo in un luogo deserto: licenzia il popolo in tempo che torni per mangiare ». Gli si avvicinò anche Andrea, il fratello di S. Pietro, e gli disse: « Guarda che qui ci sono appena cinque pani d’orzo e due pesci salati. Li ho visti in mano di un monello. Una vera miseria per tanta gente ». Infatti si sarebbero potuto contare più di cinquemila persone. A questo momento Gesù, che sapeva ciò che avrebbe fatto, si rivolse a Filippo, fingendosi in grave imbarazzo. « E adesso come fare? Dove compreremo il pane? ». Filippo, già così facile a preoccuparsi, fu preso da sgomento. Gli parve un caso disperato per parecchi motivi, ma soprattutto per quello dei soldi. Disse: « Anche a spendere duecento danari (circa 160 lire, forse l’intero capitale del collegio apostolico) non avremo neppure quel tanto di pane che basti per darne un morsellino a ciascuno ». Gesù lo conosceva troppo bene per sciupare parole ad ispirargli fiducia nella Provvidenza; con un uomo così concreto e aderente al sensibile, non le teorie, ma i fatti contavano. Ordinò dunque a tutti di sedere sull’erba folta; e, fattosi portare i pani e i pesci del ragazzo, elevò gli occhi al cielo perché ognuno capisse da che parte veniva l’abbondanza. Poi cominciò la distribuzione: cinquemila persone ebbero pane e companatico a sazietà. Anzi Gesù badava a dire: « Raccogliete gli avanzi perché non si deve sprecare niente ». E gli avanzi colmarono dodici ceste. Mentre la folla, in quella dolce sera, gridava il suo riconoscente entusiasmo a Gesù, e lo proclamava Messia e Re, io penso che Filippo sia rimasto là con gli occhi meravigliati davanti alle dodici ceste. Cristiani, badate che il miracolo della moltiplicazione dei pani non fu operato appena per Filippo; ma anche per tutti noi che come lui abbiamo bisogno di credere nella Provvidenza. Orbene, se nell’ora della prova vogliamo che non ci manchi il coraggio di credere nella Provvidenza, dobbiamo abituarci a riconoscerla nei fatti ordinari e quotidiani. Riconoscerla col pensiero fino alla più profonda convinzione; riconoscerla con la pratica fino a conformarvi in ogni momento le nostre azioni. – RICONOSCERE LA PROVVIDENZA COL PENSIERO. Ad Abramo, seduto davanti alla sua tenda, apparvero un giorno tre Angeli e gli annunciarono meravigliose promesse per lui e per sua moglie Sara, da parte di Dio onnipotente. Ma Sara, che donnescamente origliava dietro la porta, ascoltando quei discorsi, rise con un cotal riso tra di stupore e d’incredulità. Possibile che Dio onnipotente e beato si prenda tanto interesse di un vecchio e d’una vecchia? (Gen., XVIII, 1-10). Può darsi che a parecchi Cristiani ascoltando le mie parole sulla Provvidenza di Dio, che ci sostiene in ogni istante, che ci attornia d’amorosissime cure come non farebbe neppure una madre per il suo figliuolo, venga sulle labbra il sorriso stupido e incredulo di Sara. Possibile che Dio si prenda tanta cura di me? In mezzo a miliardi d’uomini, possibile che Dio s’interessi dei miei casi come se a lui irmportassero qualcosa? Sì, Dio si prende minuta e amorosa cura di tutti e di ciascuno. Questa è la più elementare verità. Mi viene in mente la profonda osservazione di S. Agostino a proposito della moltiplicazione dei pani. « Il governo di tutto il mondo è un miracolo più grande che non saziare cinquemila uomini con cinque pani. Ma quel miracolo nessuno l’ammira; questo fa stupire tutti, non perché sia più grande, ma perché è più raro ». (Dal Trattato XXIV su S. Giovanni). E vi par giusto di non sentire nessuna ammirazione e nessuna riconoscenza verso Dio solo per il fatto che invece di farci un dono una volta tanto, ce lo fa ogni giorno, più volte al giorno? Quella forza divina che moltiplicava il pane tra le dita di Gesù non è la stessa forza divina che moltiplica i granelli di frumento nei solchi del campo? Là in un attimo perché il bisogno urgeva, qui in più mesi perché meno urgente è il nostro bisogno. – Osserviamo: come la Provvidenza operi nella natura. Cristiani, pensate voi che sia assolutamente necessario che i semi germinano sempre, che il sole sorga tutti i giorni, che ogni anno venga la primavera? Potrebbe darsi che domani il grano gettato nel solco non spunti più, che il sole non si levi più all’oriente, che la primavera non ritorni più: sarebbe la nostra fine. E se non è ancora capitato, se non capiterà né oggi, né domani, è perché in cielo abbiamo un Padre tenerissimo che sa tutti i nostri bisogni. E ogni autunno Egli dice ai chicchi di grano sparsi nei solchi: « Germinate perché i miei figliuoli l’anno prossimo avranno bisogno di pane. E i chicchi ogni autunno metton fuori la linguetta verde. Ogni giorno Egli dice al sole: « Levati su anche questa mattina, perché i miei figlioli e le loro bestie e le loro case hanno bisogno di luce e di caldo ». E il sole, adagio, adagio, sempre a tempo, sempre ubbidiente, si alza su. E ogni anno Egli dice alla primavera: « Ritorna, che la terra ha riposato abbastanza; ora i miei figliuoli hanno bisogno di giorni più lunghi e più dolci, di vento e di germogli e di fiori, tanti fiori…». E la primavera, sempre a tempo, sempre ubbidiente, ritorna e rinnova ciò che tocca, e getta da per tutto manate e grembiulate di fiori. – Osserviamo ora la misconoscenza degli uomini ingrati. Ma gli uomini, nella loro dotta ignoranza, dicono: « Siamo noi che ci manteniamo sani e che lavoriamo con le nostre forze ». Rispondete allora: « Chi è che muove con tanta regolarità quella pompetta aspirante e premente che è il vostro cuore? Se accelera o se ritarda appena di pochi battiti al minuto, voi cadete ammalati: se si ferma un quarto d’ora, siete un pezzo di carne fredda e inerte. A questo pensiero non vi sentite voglia di ringraziare, di abbracciare con immensa gratitudine quel caro Macchinista che con affettuosa attenzione vigila e regola il motorino del vostro cuore? » – Dicono ancora gli uomini, nella loro cieca superbia: « Siamo noi col nostro cervello che scopriamo le leggi, che inventiamo le macchine! ». Rispondete allora: « Chi ha inventato quella mirabile e insuperabile macchina che siete voi? È vero che sapete guidare il vapore acqueo e l’energia elettrica in complessi ordigni; ma chi ha saputo mettere il cervello nella vostra scatola cranica, e guidare il sangue nell’intrigo delle vene e delle arterie, e disporre i fasci di nervi docili al comando della vostra volontà? ». – Dicono infine gli uomini oltracotanti: « Siamo noi che fecondiamo e che concimiamo anche coi concimi chimici la terra, siamo noi i produttori del grano »; come se loro avessero messo dentro al seme la forza di svilupparsi in spiga; come se loro avessero dato alla terra la fecondità; come se loro con gli argani ogni mattina tirassero su il sole e ogni sera lo calassero giù dalla volta celeste, e coi loro ventilatori facessero «il vento, il nuvolo, il sereno, e ogni tempo ». – RICONOSCERE LA PROVVIDENZA CON LA PRATICA. Voglio ora concretizzare questi pensieri con una parabola. C’era un povero che di suo non aveva nulla di nulla, neppure l’aria che respirava, neppure l’acqua che beveva. Ogni mattina, alla stessa ora, percorreva la stessa strada rasente un muraglione, fino ad una porta enorme, perennemente chiusa. Quivi tirava un anello di ferro che penzolava da una catena di ferro e udiva suonare dentro un campanello, lontano e fioco come nel mistero. Dopo alcuni respiri incominciava a cogliere un passo che s’avvicinava, poi uno scricchiolio: ecco, sull’alto del portone a destra, sollevarsi un’assicella come una palpebra, e sgusciare giù un pacchetto con roba da mangiare, o roba da vestire; o medicine, o frutta, a seconda del tempo e del bisogno. Il povero prendeva e se ne andava: nessuna persona appariva, nessuna parola s’udiva. Così puntualmente ogni mattina, da anni a perdita di memoria, che quasi gli pareva fosse stato sempre così, e dovesse sempre per necessità avvenire così: la stessa manovra, lo stesso effetto immancabile. Un giorno, s’avvicinò a quel povero una persona che gli chiese: « Chi ti mantiene? ». L’altro con tutta naturalezza rispose: « Il mio lavoro. Se non camminassi ogni mattina, se non manovrassi l’anello attaccato alla catena, potrei morire di fame davanti al portone ». – «Il portone… » riprese la persona sconosciuta, e sorrise di tanta ingenuità. « Non sai che dietro a quel portone vive in clausura volontaria la Regina Madre, che prega e lavora giorno e notte per i poveri che vanno a bussare alla sua porta? Sbalordito si guardava addosso, e non sapeva capacitarsi d’essere vissuto non d’altro cibo se non di quello che la Regina Madre ogni giorno gli donava; si toccava i panni, meravigliato che per lui avessero filato, tessuto, cucito le mani della Regina. Allora corse al portone, e appoggiandosi con le mani, col cuore, con la bocca, gridava dentro tutta la sua riconoscenza: «Grazie! Grazie! ». L’uomo sulla terra è quel povero che di suo ha nulla di nulla. Egli vive col suo lavoro applicato alla natura, come quel povero con la sua piccola manovra applicata al portone. Bisogna saper riconoscere dietro la natura e le sue leggi, una amorosa Regina che vive e lavora nascostamente per noi; questa Regina è la Provvidenza; è l’amore paterno di Dio attraverso la terra come dietro una porta fa crescere il grano e la vite per noi, che attraverso il sole e le nuvole come dietro una porta fa discendere la luce e l’acqua. Noi non vediamo mai la mano di Dio, ma vediamo il suo dono che giunge fino a noi; proprio come quel povero davanti al portone non vedeva le mani della Regina ma accoglieva il dono che gli faceva discendere. Di qui derivano alcune importantissime conseguenze pratiche: 1) Una sincera riconoscenza. Si è tanto grati a un amico che nel nostro giorno genetliaco ci regala una scatola di sigari, e perché non saremo grati a Dio che ha regalato noi a noi stessi, cioè ci ha dato e ci conserva la vita? Si era tanto grati alla Befana quando ci metteva nelle calze un giocattolo o un dolce, e perché non saremo grati a Dio che ogni mattina ci fa trovare nelle calze il dono meraviglioso delle nostre gambe? Potrebbe accadere di non alzarci più, e allora le nostre calze inerti e appesantite penzolerebbero dalla sedia. Quand’è così, ciascuno che ha intelligenza e cuore, deve fermamente promettere di pregare mattino e sera alcuni minuti per ringraziare la bontà di Dio Padre che ci dà la vita, e di farsi sempre il segno della croce mezzogiorno e sera prima di mangiare per ringraziare la bontà di Dio Padre che ci moltiplica il pane e il companatico. 2) Una illimitata fiducia nella Provvidenza. Nei momenti difficili fare tutte quello che possiamo (Gesù non volle fare a meno dei cinque pani e dei due pesci); nelle ore dell’abbondanza non sprecare mai (Gesù ha imposto di raccogliere i frammenti); poi serenamente credere che il Signore non ci abbandoni. 3) Soprattutto non bisogna dimenticare mai che la nostra meta è il Regno dei cieli. Con tutte le forze preoccupiamoci di salvare l’anima che Dio avrà cura del nostro corpo. (La turba si preoccupò della parola di Dio più che del cibo). – In un tempo di carestia viveva nel paese di Sarefta una povera vedova con un figliuolo. Oramai non le restava più nulla da vivere, se non un pugno di farina e un ampollino d’olio: un pasto ancora, e poi lo spettro della fame. Mentre faceva legna alle porte della città, passò il profeta Elia, più povero di lei, che le chiese un po’ d’acqua e un po’ di pane. La donna titubò, poi si fece coraggio e, fatto cuocere quel pugno di farina, glielo portò. Ma quando cercò di preparare la cena per sé e per il figliuolo trovò ancora tanta farina e tanto olio quanto ne bastava. E da quel giorno la vedova di Sarefta diede per elemosina da mangiare ad Elia, e da quel giorno fino al termine della carestia non mancò mai un pugno di farina nel sacchetto e un po’ d’olio nell’ampollino (III Re, XVII, 8-16). Mi rivolgo a tutti, o Cristiani; ma specialmente ai poveri perché hanno il cuore più buono. Siate generosi verso i più poveri di voi, siate la Provvidenza del vostro prossimo, e nel nome di Dio vi assicuro che la farina e l’olio non mancheranno mai nella vostra casa.

« Non è senza motivo che Gesù Cristo compia il miracolo davanti agli Apostoli e che di loro appunto si serva per sfamare le turbe. Anche questa volta avrebbe potuto, senza l’aiuto di alcuno, far piovere manna dal cielo; avrebbe potuto sfamare cinquemila persone come un giorno ha sfamato Elia senza costringere i discepoli ad una faticosa distribuzione. Ma Egli voleva insegnare a loro e a tutti i Cristiani dell’avvenire il precetto della carità verso i bisognosi; Egli voleva insegnare a tutti i ricchi che il Signore moltiplica nelle loro mani il pane e il danaro solo perché ne abbiano a distribuire ai poveri » (Masillon). Applichiamo, dunque, alla nostra anima questa riflessione utilissima che possiamo ridurre a due pensieri: nonostante le vane scuse della nostra avarizia a tutti incombe il dovere della elemosina; nonostante le vane pretese del nostro orgoglio questo dovere esige dolcezza ed umiltà. – IL DOVERE DELL’ELEMOSINA, perché siamo obbligati ad aiutare il prossimo? Perché Gesù Cristo, facendosi uomo in una maniera misteriosa si è unito tutta l’umanità, e di tutti gli uomini fatto un solo corpo: il suo Corpo mistico. Per ciò, chi odia o ingiuria o perseguita il prossimo, odia o ingiuria o perseguita lo stesso Cristo. Quando Paolo, pieno di ferocia contro i Cristiani, correva verso Damasco per farne l’esterminio, una forza lo rovesciò da cavallo, ed intese una voce dirgli: « Perché mi perseguiti?» « Ma tu chi sei? » rispose Paolo accecato. « Io sono Gesù che tu perseguiti ». — Notate come Cristo non dice: tu perseguiti i miei discepoli; perché Egli è una cosa sola con i suoi, e chi perseguita il prossimo perseguita Lui. Per ciò è vero anche che aiutando o beneficando il prossimo, si aiuta e benefica Gesù. « Chiunque avrà dato un bicchiere d’acqua chiara anche all’ultimo povero l’avrà data a me!» così è scritto nel Vangelo. Ora accadde che S. Elisabetta d’Ungheria, una sera che il duca suo marito era assente, udì gemere alla sua porta. Accorre, e trova un piccolo lebbroso abbandonato da tutti. Ella pietosamente l’accoglie, lo prende, e lo corica nel letto suo stesso. Più tardi, il duca tornò e seppe tutto. Che spavento! la sua casa contaminata da un morbo schifoso e insanabile, contaminato anche il suo letto! Furiosamente corre nella stanza per scacciare il povero lebbroso. Ma, avvicinandosi al letto, vide la figura di Gesù crocifisso disteso tra le coltri. Nel povero dunque dobbiamo vedere la figura di Gesù sofferente. Eppure, con quante scuse cerchiamo di schivare questo dovere e di nascondere a noi stessi la nostra avarizia? Ricorderò soltanto i due pretesti per non fare elemosina, che mi sembra d’intravvedere anche nell’episodio evangelico. – a) Ho a stento il necessario, e non mi cresce nulla da dare via. E poi ho figli a cui procurare una posizione; ho impegni non leggeri anch’io; ho il decoro della mia famiglia da conservare… Anche Andrea diceva così: « Abbiam qui soltanto cinque pani e due pesci: bastano appena per dare un boccone a ciascuno di noi dodici… Ma Gesù respinge questa grettezza: « Porta qui! — comanda — Io benedirò e voi distribuite a tutti». La maggior parte di noi, Cristiani, so bene che non nuota nella ricchezza, e che ha un margine di superfluo assai ristretto. Ma via, quante elemosine si potrebbero ancora facilmente distribuire senza danno alcuno né della salute nostra né della borsa familiare! Certi divertimenti mondani, certe golosità, certe ricercatezze di vestiti, certi giochi, certa smania di comparire, certi sciocchi ninnoli di casa, potrebbero anche suggerirci la maniera per trovare danaro d’offrire alle opere buone e ai poveri. Del resto, se per adempiere il dovere dell’elemosina dovessimo anche imporre qualche volta anche una pesante rinuncia, ricordiamoci che chi non sa far sacrifici non ama; e chi non ama non è Cristiano. – b) Sono tempi di miseria: la disoccupazione è molta, la stagione è cattiva. Ecco la seconda scusa. Doveva essere pur quella di alcuni tra i discepoli. « Siamo in un deserto, in montagna, e non è cosa facile trovare cibo, se diamo agli altri anche questo po’ di roba, dove ne troveremo per noi? ». Ma Gesù rispose: « Appunto perché siamo in luogo solitario dove non riuscirà a nessuno di trovare vivande, a me non basta l’animo di rimandarli digiuni: distribuite dunque i cinque pani e i due pesci ». Anch’io, Cristiani, riconosco la giustezza delle vostre osservazioni, però vi faccio riflettere così: se la penuria del tempo, se la scarsità della stagione, se la difficoltà dei commerci si fa sentire sulla nostra borsa e sulla nostra vita, che cosa sarà allora per tanti infelici che non possiedono proprio nulla, e forse sono malati? che cosa sarà di tante opere buone che vivono unicamente di carità? se la penuria del tempo, se la scarsità della stagione, se la difficoltà dei commerci è tale da proibirci ogni elemosina, perché non proibisce a tanta gente i balli, i teatri mondani, le ubriachezze, le mode lussuose? e poi questi anni di scarsità non sono forse un castigo di Dio, perché in anni di abbondanza non siamo stati generosi con Lui, come avremmo potuto e dovuto? E se fosse così, quale mezzo migliore di placare l’ira di Dio che aiutare i poveri, e le opere buone? MANIERA DI COMPIERLO. La più cristiana maniera dell’elemosina è di farla con modestia e dolcezza. a) Dicono che ci sia un fiore di misterioso profumo. I pellegrini che passano lungo le prode dov’egli sboccia, subitamente si fermano a deliziarsi in quell’olezzo: e poi si danno bramosamente a cercarlo smuovendo le erbe e i rovi. Ma appena occhio umano riesce a scovare la corolla fatata, subito il fiore si reclina sullo stelo, avvizzisce, e muore. Questo, o Cristiani, è il fiore della beneficenza. Esso sboccia soltanto nella modestia: quando invece si suona la tromba, quando si gridano nomi, quando si stampa sul giornale, la carità cristiana avvizzisce e muore. Quante elemosine perdute per l’eternità! L’orgoglio le ha distrutte. Molti illudendosi di accumulare frutti per il cielo, a cagione dell’orgoglio non fanno che ammassare foglie secche. « Non sappia la sinistra quello che fa la destra » ha detto Gesù; quel Gesù che a sfamare cinquemila persone col pane del miracolo non si è posto sulla piazza di Gerusalemme o sulla riva del lago dove ferveva il traffico, ma si è nascosto sui greppi di una montagna solitaria. – b) Oltre che in modestia, il dovere dell’elemosina vuol essere compito in dolcezza. Troppo spesso si accompagna l’offerta con parole di malcontento, di mormorazione, di imprecazione: « Insomma, tutti i momenti ce n’è una: ora le Missioni, ora il Seminario, ora l’Università cattolica, ora la Chiesa… È un’esagerazione, è un succhiarci il sangue! ». Troppo spesso, mentre si porge al povero la nostra moneta, gli si mostra una faccia così scura da intimorirlo; gli si rimprovera magari la forza, la pigrizia, l’ipocrisia, il vagabondaggio: «Va, che sei un lazzarone! Sei grande e grosso! ti piace la vita libera! hai nascosto il libretto di banca! Mangiatore a tradimento! ». Non è così, Cristiani, la maniera di soccorrere il prossimo; e la carità che gli facciamo non dà diritto d’insultarlo. – Giulio Salvadori; professore dell’Università cattolica di Milano, morto nel 1928 in concetto di santità, incontrò una volta un povero che gli chiese l’elemosina. Il mite professore si mise tosto le mani in tasca, ma il borsellino l’aveva dimenticato a casa. Si fece tutto rosso, e con voce umiliata e con l’occhio velato di pianto disse: « Mi scusi. sono senza portamonete ». Il povero guardò quella figura esile e luminosa che gli chiedeva perdono, e in cuor suo, forse, provò più consolazione per quella bontà che non per l’offerta che avrebbe potuto ricevere. Ci sono poi di quelli che prima di fare l’elemosina, usano mille circospezioni, fanno indagini, e non si dedicano mai ad aprire la mano per timore di beneficare qualcuno che non se lo merita. Non io sconsiglierò la prudenza, però è meglio sbagliare in larghezza che avere il rimorso di aver fatto soffrire un povero, scacciandolo senza aiuto alcuno. – Ho letto in certi libri che il momento più terribile del giudizio finale sarà la comparsa dei poveri in giro al Cristo maestro. « Eravamo nudi — grideranno contro di noi — e non ci ha vestiti. Eravamo affamati e ci ha lasciato morire di fame. Eravamo ammalati e ci ha lasciati su d’una strada. Eravamo ignoranti e non ci ha istruiti. Noi eravamo senza Vangelo e senza Battesimo — diranno i poveri infedeli — egli non ha fatto nulla per i missionari… ». È vero, Cristiani, questo sarà il momento più terribile; ma sarà anche il momento più beato per quelli che avranno avuto viscere di misericordia. Un giorno si presentò un povero a Santa Caterina da Siena e le chiese l’elemosina per l’amor di Dio. La santa che si trovava nella Chiesa dei Frati Predicatori non aveva nulla con sé, perciò disse al mendicante: « Vieni a casa mia e ti darò in abbondanza ». Ma quello insistette: « Se avete qualche cosa, datemela subito, qui, che io non posso aspettare ». Caterina si frugò indosso ansiosamente, trovò una crocetta d’argento e con gioia la consegnò al povero che s’allontanò soddisfatto. La notte seguente Nostro Signore apparve alla santa: teneva in mano la piccola croce, ornata di gemme preziose. « Conosci tu questa crocetta? ». « Certamente, — rispose Caterina, — ma non era così bella ». «Tu me la donasti ieri: la virtù della carità la rese splendida così. Io ti prometto che nel giorno del giudizio, in cospetto dell’assembramento completo degli Angeli e degli uomini, io mostrerò questa crocetta perché la tua gioia sia infinita ». O Cristiani, quando Gesù maestoso apparirà a giudicare ciascuno di noi, non terrà proprio niente nelle sue mani?…

Questa folla assetata di verità che segue Gesù per aspro cammino fin nel deserto, dimenticando la povera natura con le sue necessità, ci insegna quale conto dobbiamo noi fare dei beni terreni. Quæ sursum sunt quærite! La nostra dimora non è questa, ma è lassù in Paradiso, cerchiamo dunque i beni non di terra, ma del Paradiso. – Ma intanto noi siamo in esilio, a contendere con le dure esigenze della vita materiale, perciò non possiamo totalmente prescindere dalle cose terrene: poiché alcuni beni sono necessari alla nostra vita; altri, quantunque superflui, possono allietarci l’esistenza e li possiamo veder raffigurati in tutto quel pane che è sopravanzato alla fame della folla; in fine ci sono ancora quaggiù dei beni che ci elevano sopra gli altri uomini dandoci una maggior gloria e potenza. Deduciamo dal santo Vangelo di questa domenica in qual modo dovremo noi diportarci con questi diversi beni terreni e fugaci, se non vogliamo perdere l’unico bene celeste ed eterno. I BENI NECESSARI ALLA VITA TERRENA. Gesù un giorno, in mezzo ai suoi dodici, disse stupendamente così: « Non crucciatevi per il vitto, e come vi procurerete da mangiare; non crucciatevi per le vesti e di come vi procurerete da vestire. La cosa più importante è l’anima: tutto il resto passa e finisce. Guardate i corvi che non seminano, non coltivano, non mietono, non hanno granai: eppure non muoiono di fame. Guardate i gigli che non hanno niente, non sanno neppur filare: ebbene, non sono nudi, ma hanno un vestito che non ebbe l’eguale neanche Salomone nei giorni della sua gloria. Ma se il Signore ha tanta premura per i corvi e per i gigli, quanta non ne avrà per voi, creati per amarlo in tutta l’eternità!… ». Queste parole infondono nell’anima di ciascuno una quieta fiducia nella divina Provvidenza che dal Cielo ci sorveglia e conosce ogni nostro bisogno. Quærite primus regnum Dei. La nostra premura principale deve essere per ciò che è più importante: la vita eterna. Il resto ci sarà aggiunto, se però non è di impedimento.  E così hanno fatto le turbe: hanno cercato per primo il bene della loro anima senza preoccuparsi del corpo e delle sue necessità, e nel deserto non sono morti né di fame, né di sete. Facite homines discumbere… et distribuit discumbentibus quanmem volebant…. impleti sunt. Quando il popolo di Israele, emigrante dall’Egitto, si trovò affamato nella solitudine del deserto, la Provvidenza di Dio fece piovere per loro la manna. Ci furono degli ingordi che per la gretta paura di non averne abbastanza, ne raccolsero per più giorni. Ma al giorno dopo, protendendo la loro avida mano ai vasi colmi, trovarono che la celeste manna s’era tramutata in vermi schifosi. Cristiani: quegli uomini. che dimenticano gli interessi dell’anima per il cibo materiale e le cose, siano pur necessarie, della vita corporale, dopo la giornata di questa vita, troveranno il frutto dei loro sudori tramutato in vermi. – I BENI SUPERFLUI ALLA VITA TERRENA. Sulla terra non ci sono appena uomini che hanno da sudare per vivere giorno per giorno; ma ci sono anche quelli che vivono in una discreta agiatezza ed alla cui mensa c’è sempre qualche cosa che sopravanza. Ebbene, è per essi la lezione che il divin Maestro c’insegna oggi dal deserto: « Colligite fragmenta, quæ superaverunt, ne pereant ». Nel castello dei signori d’Aquino c’era qualche cosa di più del semplice necessario. Ed era un immenso piacere per il giovanetto Tommaso quando poteva raccogliere un poco di quel superfluo per distribuirlo ai poverelli di Cristo. Il padre suo che vedeva ogni giorno scomparire dalle dispense non poche vivande, rimproverò acerbamente il figliuolo e gli proibì di distribuire ai poveri qualsiasi altra cosa senza il suo permesso. Il giovane però, che non ragionava più con la prudenza degli uomini, ma con la prudenza di Dio, continuò ancora a sfamare i poveri ed a colmare la loro indigenza coll’abbondanza della casa paterna. Ma una volta fu sorpreso dal padre con un grosso fardello sotto il braccio. « Voglio vedere che cosa tieni! » gridò il genitore accigliato, precludendogli la via. Il figliuolo impallidì, quasi tremando. Ma il padre non si piegò: « Voglio vedere!… ». Il piccolo Tommaso guardò il padre con occhi pieni di lagrime, poi aprì il mantello e … lasciò cadere. E apparve, sotto gli occhi attoniti del padre e del figlio, un gran fascio di freschissime rose. Tutto quello che noi diamo ai poveri non è perduto, ma è raccolto: « manus pauperis est gazophilacium Christi », ha detto S. Giovanni Crisostomo. Tutto quello che noi diamo ai poveri per amor di Cristo, si tramuterà in fiori per la nostra immarcescibile corona del Paradiso. Invece quello che si consuma in esagerati divertimenti, in teatri, nei caffè, nei giuochi, nelle intemperanze, questo non è raccolto e perisce. Colligite fragmenta quæ superaverunt, ne pereant. Quello che si consuma nel seguire le mode pazze e costose, in vesti di seta, in pellicce finissime, in collane, gingilli, questo certo non è raccolto, ma perisce. E talvolta con queste mode sciocche, e forse indecenti, si ha il coraggio di presentarsi al tempio di Dio, dove ci sono i poveri che cercano piangendo quello che Dio dà ai corvi e ai gigli: un pane quotidiano e una veste. IL BENE DELL’ONORE MONDANO. Avendo Gesù conosciuto che il popolo sarebbe accorso per farlo re — ut facerent eum regem — fuggì segretamente sui monti. Questo esempio si ripercosse nella vita di tutti i santi: leggendo la vita di questi eroi, traspare da ogni loro azione quanto abborrissero da ogni onore, dopo che il loro Maestro aveva preferito fuggire sui monti, piuttosto che lasciarsi proclamare re da quella folla che aveva mangiato il suo pane. E deve essere stato commovente nel palazzo del marchese Gonzaga assistere ad una strana festa. Erano stati invitati tutti i parenti e l’aristocrazia delle corti amiche. Che cosa poteva arridere di più alla mente sognatrice di un giovane che la lusinga dello splendore, della potenza, della corona? Ed ecco: invece, in mezzo a quegli illustri personaggi, apparire il primogenito del Marchese Ferrante Gonzaga, che, senza rimpiangere, solennemente respinse da sé lo splendore, la potenza e la corona marchionale. Getta via i suoi abiti preziosi per indossare una tunica nera, e nascondersi nel convento e confondersi coi poveri e coi sofferenti fino a curarne le piaghe infettive. E quando la peste contratta nell’assistere gli ammalati lo condurrà a morte, egli sorridendo chiuderà gli occhi per vedere quale splendore, quale potenza, quale splendida ed eterna corona gli portano gli Angeli, in compenso ai mondani onori che egli ha respinto per imitare Gesù Cristo. Ma perché Gesù è fuggito quando volevano farlo re? perché gli onori del mondo sono falsi e in sé e da parte di chi li offre. Bugiardi in sé. — 1) Perché c’ingannano: ci fanno credere che siamo più degli altri, e forse ne siamo peggiori, « dicis: quod dives sum locupletatus et nullius egeo: et nescis quia tu es miser et miserabilis et pauper et cœcus et nudus » 2) Perché sono fugaci: e lo dimostra il profeta Ezechiele con una similitudine: « Assur si è innalzato come un altissimo cedro. Il cielo l’ha dissetato con la sua rugiada, la terra l’ha nutrito con la sua sostanza. Ed egli si rizzò nella sua superbia: bello nella sua verdura e foltissimo di rami. Gli uccelli volavano a porre il nido sotto le sue braccia, e i popoli sotto ai suoi rami cercavano ombra ». Ma la fortuna è troppo breve: il Signore lo colpisce dalla radice e cade a terra. – Bugiardi da parte di chi ci onora. — Le turbe volevano proclamare Gesù re, non per un affetto puro; ma per egoismo, per il proprio pane. Gesù sapeva moltiplicare il pane, e quelli nella speranza che a’ suoi sudditi non l’avrebbe mai lasciato mancare, lo vogliono per loro re. Amen, amen dico vobis: quæritis me non quia vidistis signa, sed quia manducastis ex panibus. E quando spiegò che Egli portava al mondo il pane delle anime, l’Eucaristia, tutti lo abbandonarono e più nessuno lo gridò re. – La regina Isabella di Spagna aveva ricchezze, regni, onori, bellezza e tutto quanto nel mondo si può desiderare. Tre giorni dopo la sua morte fu vista da un suo ammiratore: senza ricchezze, senza regni, senza onori, schifosa. Ecco dove vanno a finire tutti i beni temporali e gli onori. Non illudiamoci. Operamini non panem qui perit; sed qui permanet in vitam æternam (Giov.,VI, 27). Procuratevi non già il pane per riempirvi; ma un cibo che nutrisce per la vita eterna.

IL CREDO

 Offertorium

Orémus Ps CXXXIV: 3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra.

[Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

COMUNIONE SPIRITUALE

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

Communio

Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine.

[Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quæsumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus.

[Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

FESTA DELL’ANNUNZIATA (2022)

FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE (2022)

MESSA

Doppio di 1° classe – Paramenti bianchi.

Oggi commentiamo il più grande avvenimento della storia: l’Incarnazione di nostro Signore (Vang.) nel seno di una Vergine (Ep.). In questo giorno il Verbo si è fatto carne. Il mistero dell’Incarnazione fa sì che a Maria competa il titolo più bello: quello di « Madre di Dio » (Or.) in greco « Theotocos »; nome, che la Chiesa d’Oriente scriveva sempre in lettere d’oro, come un diadema sulle immagini e sulle statue. « Avendo toccato i confini della Divinità » (Card. Cajetani in 2° – 2æ q. 103, art. 4) col fornire al Verbo di Dio la carne, alla quale si unì ipostaticamente, la Vergine fu sempre onorata di un culto di sopravenerazione e di iperdulia: « Il Figlio del Padre ed il Figlio della Vergine sono un solo ed unico Figlio », dice San Anselmo. Maria è da quel momento la Regina del genere umano e tutti la devono venerare (Intr.). al 25 marzo corrisponderà, nove mesi più tardi, il 25 dicembre, giorno nel quale si manifesterà al mondo il miracolo che non è conosciuto oggi che dal cielo e dall’umile Vergine. La data del 25 marzo, secondo gli antichi martirologi, sarebbe anche quella morte del Salvatore. essa

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLIV: 13, 15 et 16
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.]


Ps XLIV: 2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi.

[Dal mio cuore erompe una fausta parola: canto le mie opere al Re].

Ps XLIV: 2.
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui de beátæ Maríæ Vírginis útero Verbum tuum, Angelo nuntiánte, carnem suscípere voluísti: præsta supplícibus tuis; ut, qui vere eam Genetrícem Dei crédimus, ejus apud te intercessiónibus adjuvémur.

[O Dio, che hai voluto che, all’annuncio dell’Angelo, il tuo Verbo prendesse carne nel seno della beata Vergine Maria: concedi a noi tuoi sùpplici che, come crediamo lei vera Madre di Dio, così siamo aiutati presso di Te dalla sua intercessione.]


Lectio

Léctio Isaíæ Prophétæ
Is VII: 10-15
In diébus illis: Locútus est Dóminus ad Achaz, dicens: Pete tibi signum a Dómino, Deo tuo, in profúndum inférni, sive in excélsum supra. Et dixit Achaz: Non petam ei non tentábo Dóminum. Et dixit: Audíte ergo, domus David: Numquid parum vobis est, moléstos esse homínibus, quia molésti estis et Deo meo? Propter hoc dabit Dóminus ipse vobis signum. Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium, et vocábitur nomen ejus Emmánuel. Butýrum ei mel cómedet, ut sciat reprobáre malum et elígere bonum.

[In quei giorni: Così parlò il Signore ad Achaz: Domanda per te un segno al Signore Dio tuo, o negli abissi degli inferi, o nelle altezze del cielo. E Achaz rispose: Non lo chiederò e non tenterò il Signore, E disse: Udite dunque, o discendenti di Davide. È forse poco per voi far torto agli uomini, che fate torto anche al mio Dio? Per questo il Signore vi darà Egli stesso un segno. Ecco che la vergine concepirà e partorirà un figlio, il cui nome sarà Emmanuel. Egli mangerà burro e miele, affinché sappia rigettare il male ed eleggere il bene].

Graduale

Ps 44:3 et 5
Diffúsa est grátia in lábiis tuis: proptérea benedíxit te Deus in ætérnum.
V. Propter veritátem et mansuetúdinem et justítiam: et dedúcet te mirabíliter déxtera tua.


[La grazia è riversata sopra le tue labbra, perciò il Signore ti ha benedetta per sempre,
V. per la tua fedeltà e mitezza e giustizia: e la tua destra compirà prodigi].

Tractus


Ps XLIV: 11 et 12
Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam: quia concupívit Rex speciem tuam.

[Ascolta e guarda, tendi l’orecchio, o figlia: il Re si è invaghito della tua bellezza.]


Ps XLIV: 13 et 10
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: fíliæ regum in honóre tuo.

[Tutti i ricchi del popolo imploreranno il tuo volto, stanno al tuo seguito figlie di re.]


Ps XLIV: 15-16
Adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus afferéntur tibi.
V. Adducéntur in lætítia et exsultatióne: adducéntur in templum Regis.

[Le vergini dietro a Lei sono condotte al Re, le sue compagne sono condotte a Te.
V. Sono condotte con gioia ed esultanza, sono introdotte nel palazzo del Re].

Evangelium
Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam
Luc 1:26-38
In illo témpore: Missus est Angelus Gábriel a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Joseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus. Quæ cum audísset, turbáta est in sermóne ejus: et cogitábat, qualis esset ista salutátio. Et ait Angelus ei: Ne tímeas, María, invenísti enim grátiam apud Deum: ecce, concípies in útero et páries fílium, et vocábis nomen ejus Jesum. Hic erit magnus, et Fílius Altíssimi vocábitur, et dabit illi Dóminus Deus sedem David, patris ejus: et regnábit in domo Jacob in ætérnum, et regni ejus non erit finis. Dixit autem María ad Angelum: Quómodo fiet istud, quóniam virum non cognósco? Et respóndens Angelus, dixit ei: Spíritus Sanctus supervéniet in te, et virtus Altíssimi obumbrábit tibi. Ideóque et quod nascétur ex te Sanctum, vocábitur Fílius Dei. Et ecce, Elísabeth, cognáta tua, et ipsa concépit fílium in senectúte sua: et hic mensis sextus est illi, quæ vocátur stérilis: quia non erit impossíbile apud Deum omne verbum. Dixit autem María: Ecce ancílla Dómini, fiat mihi secúndum verbum tuum.

[In quel tempo: L’Angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, ad una Vergine sposata con un uomo della stirpe di Davide che si chiamava Giuseppe, e il nome della Vergine era Maria. Ed entrato da lei, l’Angelo disse: Ave, piena di grazia: il Signore è con te: benedetta tu tra le donne. Udendo ciò ella si turbò e pensava che specie di saluto fosse quello. E l’Angelo soggiunse: Non temere, Maria, perché hai trovato grazia davanti a Dio, ecco che concepirai e partorirai un figlio, cui porrai nome Gesù. Esso sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo; e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre, e regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe, e il suo regno non avrà fine. Disse allora Maria all’Angelo: Come avverrà questo, che non conosco uomo ? E l’Angelo le rispose. Lo Spirito Santo scenderà in te e ti adombrerà la potenza dell’Altissimo. Perciò quel santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco che Elisabetta, tua parente, ha concepito anch’essa un figlio, in vecchiaia: ed è già al sesto mese, lei che era chiamata sterile: poiché niente è impossibile a Dio. E Maria disse: si faccia di me secondo la tua parola.]


OMELIA

(M. PIANO: Discorsi Evangelici – T. I., Milano, Omobono e Manini stamp., 1877)

Et ingressus Angelus ad eam dixit, Ecce concipies, et paries filium, et nomen ejus Jesu.

[Luc. 1]

Il Vangelo di quest’oggi ci ricorda la divina missione dell’Angelo Gabriele ad annunziare alla Vergine Maria, che doveva concepire e partorire il Figliuol di Dio, e diventar Madre di Dio medesimo. Madre di Dio! Oh gran dignità! Oh dignità sublimissima non mai udita nei secoli passati e superiore ad ogni creato intendimento! Dignità da tener in ammirazione non che la terra, ma il cielo tutto! Una povera verginella figlia di Gioachino e d’Anna diventar madre di Dio, del Re de’ re, del Dominator de’ dominanti, del Monarca dell’universo! Oh merito, oh virtù, oh santità senza pari! oh pienezza di grazia mirabilissima! Chi mai potrà arrivare a comprenderla? E che hanno dunque a far qui tutte le grandi donne, la Noemi, la Ruth, la Debora, l’Ester, la Giuditta, la Susanna, le due Sara, una moglie di Abramo, l’altra di Tobia, cotanto celebrate nel vecchio Testamento? Che hanno a far qui la Vergine, le donne piangenti, e Marta, e Maria Maddalena, e Salome cotanto rinomate nel Testamento nuovo? Che hanno a fare tutte le altre Vergini, Vedove e Martiri sì lodate nel Cristianesimo? Ah! che il loro merito, la virtù, la santità loro tuttoché grandi, a fronte di Maria sola scompariscono del pari che scompajon le stelle allo spuntare del sole, a somiglianza del quale ella fu da Dio eletta: electa ut sol. Dirò di più, e dirò vero. Suppongansi accumulati insieme tutti i meriti, le virtù tutte, le santità di tutti i Patriarchi, Profeti, Apostoli, Martiri, Santi e Sante che sono senza numero; vi si accoppino quelli ancora degli Angeli e Spiriti celesti che sono a migliaja, a milioni. Che gran cumulo di grazia € di santità! Chi può misurarlo? E pur tutto questo gran cumulo posto al confronto di Maria egli è come un nulla. – No, adunque, Vergine Santissima ed Immacolata (esclamerò anch’io qui con Chiesa Santa), per questo solo che diventaste Madre di Dio, no, che io non so con quali bastevolmente esaltarvi: quibus te laudibus efferam, nescio: quia quem cæli capere non poterant tuo gremio contulisti. – Che farò io dunque questa mattina, che farete voi,uditori miei? Ah! dilettissimi, ascoltiamo per poco l’annunzio dell’Angelo a Maria, la risposta diMaria all’Angelo, e vi troveremo di che ammirare grandemente, e molto ancora per noi da imparare. – Incominciamo. Solinga se ne stava la Vergine Maria nella cameretta di sua casa là in Nazaret, tutta occupata in santi pensieri, in opere degne della sua virtù; quando all’improvviso entrovvi  l’Arcangelo Gabriele, che così prese a salutarla: ave, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus: Dio vi salvi, o piena di grazia; il Signore è con voi, voi siete la benedetta fra le donne. Qual più innocente saluto? Qual più santo annunzio? Doveva pure di gioja tutto e di consolazione giubilare il cuore di lei? mà no: ella anzi si turbò, e mutola e pensierosa andava colla sua mente investigando, quale specie di saluto fosse cotesto: turbata est… et cogitabat, qualis esset ista salutatio. Ma e perché mai turbarsi cotanto; e cotanto pensare e ripensare? Ah! dilettissimi;.. erasi Ella di già, dicono i santi Padri Agostino ed Antonino, erasi già con voto di perpetua verginità tutta a Dio consacrata per esser santa non sol di spirito, ma anche di corpo. È però ben sapendo quanto piaccia a Dio, ed in quanto pregio abbiasi a tenere questa virtù, che, al dire di s. Giovanni Grisostomo, rende le creature umane eguali agli Angeli, anzi simili, dice s. Basilio, a Dio stesso, un neo solo di sospetto bastò a turbarla per tema che la sua purità potesse soffrire qualche detrimento. Trovavasi Ella sola nella sua cella; e sebben fosse già assuefatta alle visioni, ai colloqui angelici, nulladimeno, riflette qui il grande sant’Ambrogio, tanto era lo zelo ch’Ella aveva della propria verginità, che al vedere l’Angelo Gabriele in figura d’uomo, comunque risplendente di maestà e modestia, quell’aspetto virile pose in apprensione il suo spirito, e la conturbò: ad virilis sexus speciem peregrinam turbatur aspectus virginis. E tant’oltre andava l’apprensione e turbamento di lei, che l’Angelo stesso ripigliando la parola ebbe ad animarla; ad incoraggiarla, perché temesse di nulla; accertandola che Ella aveva trovata grazia presso il Signore Iddio: ne timeas, Maria, invenisti enim gratiam apud Dominum. Quindi continuando egli a parlare: ecco, le disse, ecco voi concepirete, sì, nel vostro seno, voi partorirete un Figlio, il cui nome sarà Gesù; ma Egli sarà qualche cosa di ben grande, e si chiamerà Figliuolo dell’Altissimo: ecce concipies, et paries Filium, et vocabis nomen ejus Fesum. Hic erit magnus; et Filius Altissimi vocabitur. – E qui nuovi motivi occorsero di turbamento alla Vergine Santissima. Coll’angelico discorso conobbe chiaramente che doveva concepire e partorire e diventar Madre di Dio: quinci doppiamente affanata: turbata est in sermone ejus, benché rassegnatissima ai voleri di Dio era insieme penetrata dalla più profonda umiltà; onde diceva in cuor suo, e come mai povera meschinella qual mi son’io, come mai merito di salire tant’alto a diventare Madre di Dio, genitrice di chi mi generò; di chi mi diè l’essere e la vita? Come mai posso meritare io una dignità sì eccelsa, che dopo quella di Dio non ha l’eguale? Come corrispondervi? Come potrò io debitamente corrispondervi? Quindi tornando col pensiero alla sua purissima verginità; sì, diceva, facciasi pure in me la volontà di Dio, mio gran Signore e padrone: io so ch’egli è onnipossente, ché può far cose superiori alla mia ed altrui intelligenza; ma so insieme che io feci voto a Dio di perpetua verginità, ed intanto ne so, né comprendo come mai io possa esser madre e vergine tutt’assieme. E così quanto più ella s’internava in questo pensiero, più rimaneva conturbata: Ma Dio immortale! E perché conturbarsi cotanto la Santissima Vergine dopo un sì bel saluto dell’Angelo accompagnato dalle più consolanti espressioni? Ah! dilettissimi, lo dirà per me il mellifluo s. Bernardo. Lo stesso angelico saluto, tuttoché consolantissimo fu quello che tanto la turbò, e tanto le diè da pensare e ripensare. E perché mai? Perché sentissi benedire fra le donne, mentre fu sempre suo desiderio di essere benedetta fra le vergini: turbata est eo quod benedictam se audissetin mulieribus, quæ semper in virginibus benedici desiderabat; e perciò dubitando che la maternità di Dio potesse offendere il candore del giglio suo virginale, non sapeva finir di turbarsi,pensando e ripensando alla qualità d’un tale saluto: turbata est in sermone ejus, et cogitabat qualis esset ista salutatio. E però a chiarirsi di questo affliggente dubbio rivolta all’Angelo così fecesi ad interrogarlo: E come potrà mai avvenir ciò che voi mi annunziate, se io consecrai a Dio la mia verginità, né posso, né debbo soffrirne la minima lesione? Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco? Ed allora fu che l’Angeloavendola assicurata che lo Spirito Santo sarebbe disceso su di Lei, e che la virtù dell’Altissimo l’avrebbe fecondata, talché sarebbe divenuta madre sì, ma rimasta vergine illibatissima; allora fu che Ella piegò il capo e prestò il suo pieno consenso: ecce Ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum? ecco l’Ancella del Signore; si faccia pure, si faccia, ma precisamente come voi avete detto: fiat, fiat, ma secundum verbum tuum; quasiché volesse dire: nasca pure da me il Figliuol di Dio, si riscatti pure il mondo, si distrugga il peccato, s’incateni il demonio, si faccia giubilare il cielo; tutto va bene; tutto mi piace, ma a questa condizione che la mia verginità non soffra il minimo discapito; altrimenti l’aver per Figlio un Dio, il diventar Regina del cielo, non basterebbe a tormi il rammarico d’aver perduta la gioja inestimabile della mia verginale purità: fiat, fiat secundum verbum tuum. – Oh! fiat, esclama qui tutto attonito s. Giovanni Damasceno, e con esso lui s. Tommaso da Villanova; oh! fiat, potentissimo fiat: imperciocchè siccome proferito da Dio, il tutto all’istante. Rimase fatto: dixit et facta sunt; così appena uscì dalla bocca di Maria questa voce, che subito nel suo seno restò formato l’intiero corpo del Figliuol di Dio per opera onnipotente dello Spirito Santo, e nel momento stesso vi si unì la divinità; cosicché in tal istante la Vergine Maria divenne vera e reale Madre di Dio, come lo definirono i due gran Concilii di Efeso e di Laterano; ché il negarlo sarebbe la più empia eresia. Infatti, se le altre madri sono vere madri dei loro figliuoli, sebbene ne abbiano generato il solo corpo, al quale poi Iddio infuse l’anima; così la Vergine Maria fu vera e reale Madre di Dio, sebben ne abbia generato il corpo soltanto, a cui poi nell’istante medesimo vi si unì l’anima e la divinità. – Ed oh! dignità stupendissima di Maria! Di semplice verginella diventar Madre di Dio, di quel gran Dio che comanda al cielo ed alla terra, al cui confronto tutti i Re, nati e nascituri non sono che un nulla; di quel gran Dio, che forma l’ammirazione, la gloria, la felicità di tutti i Santi e Spiriti celesti! O preminenza non solo superiore ad ogni creata dignità, ma preminenza, dice l’angelico Dottore, che ha dell’infinito per ragion del bene, infinito di cui Ella è Madre. Nel vero, per quella relazione che ha una madre col figlio, tanta è più eccelsa la dignità della madre; quanto più sublime è quella del figlio: Dunque se infinita è la condizione del Divin Figlio di Maria, anche la condizione di Maria, che ne è la Madre dell’infinito. Quindi. a ragione disse s. Bonaventura, che Dio può ben fare un mondo maggiore di quello che fece, un maggior cielo di quel che creò, ma tuttoché onnipossente non potrà mai fare cosa maggiore di Maria Madre di Dio: majorem mundum posset facere Deus, majus cœlum, sed majorem quam Matrem: Dei facere non posset. Ma forseché questo gran mistero dell’Annunziazione di Maria e dell’Incarnazione. del Verbo non ha da risvegliare in noi che sentimenti e grande meraviglia e di ammirazione altissima? Ah! dilettissimi, da questo mistero abbiamo pur anco ben molto da imparare a nostro grande vantaggio. Udiste, o donne, udiste o fanciulle, o giovinette! La Vergine Maria paventò perfino la visita ed il saluto di un Angelo mandato dal Cielo, e voi non temete, non dirò solo le visite frequenti, ma la familiarità, la dimestichezza, le tresche, gli amoreggiamenti dì coloro che alla perfine non son Angeli, ma figli di Adamo, pieni di sregolate passioni e libertini talora che, per valermi della frase della divina Sacra Scrittura, hanno eli occhi pieni di lussuria: habent oculos plenos adulterii; e voi non temete di costoro, non dirò solo i saluti, ma i discorsi  Indegni, gli inviti e le richieste oscene? Voi non temete, non dirò soltanto la presenza, ma la compagnia da solo a sola? Lupus ad oviculam, esclama s. Bernardo: la pecora sola col lupo, e la pecora non teme: , , ah! Guai, guai; e voi invece di resistere loro con un serio contegno, con brusche negative, voi anzi ridete loro in faccia; e con gli sguardi, coi sogghigni fomentate in esso loro vieppiù la passione? Ah! Infelici siete, ben si vede che voi pure, al par di loro libertine siete ed impudiche. – Udite, torno a dire, o femmine e voi tutti quanti qui siete uomini e giovani! La Vergine Maria, anziché rinunziare alla sua integrità verginale, amava meglio rinunziare alla sublime dignità di Madre di Dio; voi per un sozzo momentaneo piacere, per un regalo, per un vile guadagno, per una sperata protezione, per una simulata promessa di matrimonio, voi rinunziate, perdete, gettate via la gioia inestimabile della purità verginale verginale, della continenza coniugale, della castità vedovile, e sagrificando insieme onore e riputazione, vendete l’anima al demonio. Heu! sclamava perciò il massimo dottore s. Girolamo: piget dicere, quod quotidie virgines ruant: oh! quante giovinette, mi rincresce dirlo, ma pur troppo è vero, quante donzelle,quanti giovani che rinunziano all’angelica virtù della purità, e cadono nel peccato obbrobriosamente.Ed è questa la maniera di imitare la Verginee di esserne devoti, di meritarvi la sua protezione? Udiste voi, o ambiziosi e superbi, che tanto anelate alle cariche onorifiche, ai posti lucrosi, alle dignità, e non temete di giungervi per vie torte ed inique senza merito e senza abilità per sostenerle, talché sareste capaci di qualunque delitto, se con esso foste sicuri di giungere alla regia dignità, udiste? Ah! sì che avete ascoltato: imparate, dunque, una volta a reprimere la vostra ambizione, la vostra superbia. La Vergine Maria, tuttoché piena di grazia e santissima, talmente era umile e tanto stimavasi immeritevole d’ogni onore,d’ogni dignità, che al sentirsi annunziare dell’Angelo, e qualificare Madre di Dio, invece di rallegrasene od invanirsene, tutta ne rimase afflitta e conturbata: turbata est in sermone ejus, ed avrebbe amato meglio morire mille volte che commettere un solo peccato veniale contro il voto di verginità da Lei emesso; anzi tanto ardeva di zelo nell’osservarlo che quand’anche ne fosse stata da Dio dispensato, piuttosto che rinunziarvi, avrebbe amato meglio rinunziare alla dignità sua altissima. E fu appunto per la sua profondissima umiltà che ella fa da Dio cotanto esaltata, come ebbe poi a dirlo Ella stessa a nostro grande esempio: quia respexit humilitatem Ancillæ suæ, ecce ex hoc beatam me dicent omnes generationes. – Dunque, miei dilettissimi, s’egli è articolo di fede che la Vergine Maria è vera Madre di Dio, e come tale è divenuta regina degli Angeli, imperatrice del cielo e della terra, quella che tiene il primo luogo lassù nella corte celeste sedendo alla destra del suo Divin Figlio, chi mai potrà misurare fin dove s’estenda la sua potenza presso l’Altissimo? Ah no, le diceva perciò a lei rivolto il suo divoto s. Ildelfonso, no, che a placare il divin Giudice, ad impetrarne grazie, un’altra non possiam trovare più potente di Voi, che meritaste di essere Madre dello stesso Giudice: ad placandam iram Judicis potentiorem quam te invenire non possumus, quæ Redemptoris et Judicis meruisti esse Matrem. Siano pur potenti ed efficaci le preghiere, le intercessioni degli Angeli, degli Arcangeli, dei Cherubini, dei Serafini, degli Spiriti tutti celesti e dei Santi; ma eglino finalmente sono tutti ministri, tutti servi di Dio; omnes sunt administratorii spiritus; la Vergine Maria, Ella è sua Madre; e però quanto più sono distanti da Lei in dignità, ed in merito, tanto più sono inferiori in potenza presso Dio. – Ah! fedeli miei, e che dobbiamo noi temere, se otteniamo che ne sia protettrice la santissima Vergine Maria? Quali grazie, favori e benefizj non possiamo noi sperare da Dio ad intercessione di Lei, che è sua dilettissima Madre, sol che ne siamo devoti, e ricorrendo a Lei con grande fiducia non accogliamo entro di noi verun suo nemico, o se pure l’abbiamo, pentiti d’averlo ricoverato, siam pronti a cacciarlo via per sempre? Ed a questo proposito non siavi discaro udire un fatto di storia. Narrasi che un giorno al santo Abate Siriaco avvenne una visione per la quale gli parve che all’uscire un dì dalla sua cella, trovasse innanzi la porta la santissima Vergine Maria tutta di maestà risplendente e di gloria, e che tosto pieno di giubilo insieme e di rispetto, dopo averla profondamente riverita la supplicò, che non isdegnasse entrare nella sua povera cella, persuaso, che colla sua presenza l’avrebbe tutta santificata. Ed Ella, come volete – gli disse – che io venga nella vostra cella, se dentro v’è un mio nemico. Ciò detto, scomparve subito, lasciando il santo Abate tutto di mestizia pieno ed addolorato. Rientrato nella cella, né sapendo, qual mai potesse essere il nemico della beatissima Vergine, dopo varie indagini e ricerche, finalmente vi trovò un libro dell’eretico Nestorio, che le negava la dignità di vera Madre di Dio: appena lo vide, lo maledisse, e perché un sì empio di lei nemico non restasse più nella sua camera un solo istante, tutto sdegnoso lo cacciò subito sul fuoco. Ora, miei cari, applichiamoci il fatto. Sapete qual è il peggior nemico della Beatissima Vergine? Egli è il peccato mortale; questo è quello, che offendendo, oltraggiando, ingiuriando il suo divin Figlio Gesù Cristo, Lei insieme ingiuria ed oltraggia, e profondamente ferisce il suo bel cuore. Se mai dunque annida in noi questo suo giurato nemico, deh! subito cacciamolo via; via cacciamo quel libro pestilenziale contrario alla fede, ai buoni costumi; via quell’amicizia, quella pratica scandalosa, via la superbia, l’avarizia, la lussuria, la disonestà con tutti gli altri vizj capitali; odiamoli, detestiamoli, risoluti di mai più dar loro ricetto nell’anima nostra: ed allora sarà, che noi diverremo suoi veri devoti: allora sarà che, ricorrendo a Lei supplichevoli, e pieni di fiducia nella sua materna bontà e misericordia, Ella colla sua protezione verrà nel nostro cuore ad apportarci quei lumi, quelle grazie e benedizioni che impetrate ci avrà dal suo divin Figlio, medianti le quali degni saremo di godere della sua amicizia e della sua gloria per tutti i secoli de’ secoli. Così sia.

IL CREDO

Offertorium

Luc 1:28 et 42
Ave, Maria, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

[Ave, María, piena di grazia: il Signore è con te: benedícta tu tra le donne, e benedetto il frutto del tuo ventre].

Secreta

In méntibus nostris, quǽsumus, Dómine, veræ fídei sacraménta confírma: ut, qui concéptum de Vírgine Deum verum et hóminem confitémur; per ejus salutíferæ resurrectiónis poténtiam, ad ætérnam mereámur perveníre lætítiam.

[Conferma nelle nostre menti, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri della vera fede: affinché noi, che professiamo vero Dio e uomo quegli che fu concepito dalla Vergine, mediante la sua salvifica resurrezione, possiamo pervenire all’eterna felicità.]

Præfatio

de Beata Maria Virgine
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admitti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Is 7:14
Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel.

[Ecco, una vergine concepirà e partorirà un figlio: al quale si darà il nome di Emmanuel]

Postcommunio

Orémus.
Grátiam tuam, quǽsumus, Dómine, méntibus nostris infúnde: ut, qui. Angelo nuntiánte, Christi Fílii tui incarnatiónem cognóvimus; per passiónem ejus et crucem, ad resurrectiónis glóriam perducámur.

[La tua grazia, Te ne preghiamo, o Signore, infondi nelle nostre anime: affinché, conoscendo per l’annuncio dell’Angelo, l’incarnazione del Cristo Tuo Figlio, per mezzo della sua passione e Croce giungiamo alla gloria della resurrezione.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

DOMENICA III DI QUARESIMA (2022)

DOMENICA III DI QUARESIMA (2022)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Lorenzo fuori le mura.

Semidoppio, Dom. privil. di I cl. • Paramenti violacei.

L’assemblea liturgica si tiene in questo giorno a S. Lorenzo fuori le mura che è una delle cinque basiliche patriarcali di Roma. In questa chiesa si trovano i corpi di due diaconi Lorenzo e Stefano. L’Orazione del primo (10 agosto) ci fa domandare di estinguere in noi l’ardore dei vizi come questo Santo superò le fiamme dei suoi tormenti; e quella del secondo (26 dicembre) ci esorta ad amare i nostri nemici come questo Santo che pregò per i suoi persecutori. Queste due virtù: la castità e la carità, furono praticate soprattutto dal patriarca Giuseppe, di cui la Chiesa ci fa la narrazione nel Breviario proprio in questa settimana. Giuseppe resistette alle cattive sollecitazioni della moglie di Putifarre e amò i fratelli fino a rendere loro bene per male. (Nel sacramentario Gallicano – Bobbio – , Giuseppe è chiamato il predicatore della misericordia; e la Chiesa, nella solennità di S. Giuseppe, proclama in modo speciale la sua verginità.). Quando Giuseppe raccontò ai fratelli i suoi sogni, presagio della sua futura gloria, essi concepirono contro di lui tanto odio, che presentatasi l’occasione, si sbarazzarono di lui gettandolo in una cisterna senza acqua. Di poi lo vendettero ad alcuni Ismaeliti che lo condussero in Egitto e lo rivendettero ad un nobile egiziano di nome Putifarre. Fu appunto lì che Giuseppe resistette energicamente alle sollecitudini della moglie di Putifarre e divenne per questo il modello della purezza (la Chiesa nel corso di questa settimana, – Epistola e Vangelo di sabato – legge ì brani della donna adultera e di Susanna. I Padri della Chiesa spesso hanno messo in rapporto quest’ultima con Giuseppe). – « Oggi, dice S. Ambrogio, vien offerta alla nostra considerazione la storia del pio Giuseppe. Se egli ebbe numerose virtù, la sua insigne castità risplende in modo del tutto speciale. È giusto quindi che questo santo Patriarca ci venga proposto come lo specchio della castità » (Mattutino). Giuseppe accusato ingiustamente dalla moglie di Putifarre, fu messo in prigione: egli si rivolse a Dio, lo pregò di liberarlo dalle sue catene. L’Introito usa espressioni analoghe a quelle della preghiera di Giuseppe: « I miei occhi sono rivolti senza tregua verso il Signore, poiché Egli mi libererà dagli inganni ». « Come gli occhi dei servi sono fissi verso i padroni, continua il Tratto, cosi io volgo il mio sguardo verso il Signore, mio Dio, fino a quando non avrà compassione di me ». Allora « Dio onnipotente riguarda i voti degli umili, e stendi la tua destra per proteggerli » (Orazione). Faraone difatti fece uscire Giuseppe dalla prigione, lo fece sedere alla sua destra e gli affidò il governo di tutto il suo regno. Giuseppe prevenne la carestia che durò sette anni; il Faraone allora lo chiamò « Salvatore del popolo ». (Il Vangelo dà una sola volta questo titolo a Gesù, quando parla alla Samaritana presso il pozzo di Giacobbe. Questo Vangelo è quello del Venerdì della stessa settimana, consacrato alla storia di Giuseppe). – In questa occasione i fratelli di Giuseppe vennero in Egitto ed egli disse loro: « Io sono Giuseppe che voi avete venduto. Non temete. Dio ha tutto disposto perché io vi salvi da morte ». La felicità di Giacobbe fu immensa allorché poté rivedere il figlio; egli abitò con i suoi figli nella terra di Gessen, che Giuseppe aveva loro data. « La gelosia dei fratelli di Giuseppe, dice S. Ambrogio, è il principio di tutta la storia di Giuseppe ed è ricordata nello stesso tempo per farci apprendere che un uomo perfetto non deve lasciarsi andare alla vendetta di un offesa o a rendere male per male » (Mattutino). È impossibile non riconoscere in tutto questo una figura di Cristo e della sua Chiesa. – Gesù, figlio della Vergine Maria (Vang.), è il modello per eccellenza della purità verginale. Il Vangelo lo mostra in lotta in modo speciale contro lo spirito impuro. Il demonio che egli scaccia col dito di Dio, cioè per virtù dello Spirito Santo, dal muto ossesso, era « un demonio impuro », dicono S. Matteo e San Luca. La Chiesa scaccia dalle anime dei battezzati il medesimo spirito immondo. Si sa che la Quaresima era un tempo di preparazione al Battesimo e in questo Sacramento il Sacerdote soffia per tre volte sul battezzato dicendo: « esci da lui, spirito impuro, e fa luogo allo Spirito Santo ». « Ciò che si fece allora in modo visibile, dice S. Beda nel commento del Vangelo, si compie invisibilmente ogni giorno nella conversione di quelli che divengono credenti, affinché dapprima scacciato il demonio esse scorgano poi il lume della fede, indi la loro bocca, prima muta, si apra per lodare Dio » (Mattutino). « Né gli adulteri, né gli impudichi, dice parimente S. Paolo nell’Epistola di questo giorno, avran parte nel regno di Cristo e di Dio. Non si nomini neppure fra voi la fornicazione ed ogni impurità. Specialmente in questo tempo di lotta contro satana, noi dobbiamo imitare Gesù Cristo di cui Giuseppe era la figura. Questo Patriarca ci dà ancora l’esempio della virtù della carità, come Gesù e la sua Chiesa. Gesù, odiato dai suoi, venduto da uno degli Apostoli, morendo sulla croce, pregò per i suoi nemici. Pregò Dio, ed Egli lo glorificò facendolo sedere alla sua destra nel suo regno. Nella festività di Pasqua, Gesù, per mezzo dei Sacerdoti, distribuirà il frumento eucaristico, come Giuseppe distribuì il frumento. Per ricevere la Santa Comunione, la Chiesa esige questa carità, della quale S. Stefano, le cui reliquie si conservano nella chiesa stazionale, ci diede l’esempio perdonando ai suoi nemici. Gesù esercitò questa carità in grado eroico « allorché offrì se stesso per noi » sulla croce (Ep.), di cui l’Eucaristia è il ricordo. — La figura di Giuseppe e la stazione di questo giorno illustrano in una maniera perfetta, il mistero pasquale al quale la liturgia ci prepara in questo tempo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV: 15-16.

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et pauper sum ego.

[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Ps XXIV: 1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam,

[A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego.

[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

 Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde.

[Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.

Ephes. V: 1-9

“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.”

[Fratelli: siate dunque imitatori di Dio come figlioli diletti, e vivete nell’amore, come Cristo che ci ha amati e ha dato per noi se stesso a Dio in olocausto come ostia di soave odore. La fornicazione, la impurità di qualsiasi sorta, l’avarizia non si senta neppur nominare fra voi, come a santi si conviene. Non oscenità, non discorsi sciocchi, non buffonerie, tutte cose indecenti; ma piuttosto il rendimento di grazie. Perché, sappiatelo bene, nessuno che sia fornicatore, o impudico, o avaro (che è un idolatra) ha l’eredità del regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi seduca con vani discorsi, perché a causa di questi vien l’ira di Dio sugli increduli. Dunque non vi associate con loro. Una volta eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Vivete come figli della luce. Or frutto della luce è tutto ciò che è buono, giusto e vero.]

PAROLE ALTE E SOAVI.

Se si paragonano queste esortazioni di San Paolo a quelle dei moralisti suoi contemporanei, pagani o giudei, e d’ogni tempo, purché non Cristiani, uno stupore ci invade e ci domina. Quanta altezza fin dalle prime battute dell’odierna epistola: « imitatores Dei estote, » siate imitatori di Dio. Non si può andar più in là, più in su. Specie se si rifletta che il Dio proposto a modello non è la divinità antropomorfica, malamente, fiaccamente antropomorfica del paganesimo, bensì la divinità austeramente, moralmente trascendente del Cristianesimo; non una divinità umanizzata a cui è difficile mostrarsi anche per l’uomo sub-umano, ma la divinità sublime e pura a cui l’uomo non s’accosta se non superando se stesso. Talché la formula pagana « sequere Deum » che altri potrebbe citare come equivalente a questa di San Paolo, per sminuire la nostra meraviglia, sarebbe fuor di proposito. Ma la meraviglia cresce quando noi sentiamo Paolo dir queste cose tanto difficili ed alte in tono d’infinita semplicità e dolcezza. «Imitate Dio, continua l’Apostolo, come figli carissimi voi che siete in Lui ». Vi è già una gran dolcezza nell’idea stessa della Paternità Divina; è, figlioli di Dio; figli, noi piccoli, di Lui che è così grande! Ma San Paolo accentua ancora la dolcezza di quella grande parola e ricorda ai Cristiani per eccitarli ad essere fedeli, eroici emulatori del Padre Celeste, che essi ne sono i figli carissimi, diletti; anzi prediletti. Figli che Dio veramente da Padre ha amati ed ama, ha amati nel giorno della creazione, riamati anche più teneramente e fortemente nel giorno della redenzione. Figli carissimi! Noi rasentiamo il mistero, siamo tuffati nel mistero dell’amore divino. Che Dio possa avere caro l’uomo! « quid est homo (vien fatto di esclamare) quod memor es eius » che cosa è l’uomo, perché occupi un posticino qualsiasi nei Tuoi pensieri! — e più nel Tuo cuore. Eppure è così. Di Dio noi siamo i figli carissimi. Perciò amorevole deve essere il nostro sforzo per accostarci a Dio, per riprodurlo nella nostra vita. « Ambulate in dilectione », camminate nell’amore, nell’atmosfera dell’amore. L’appello del Monarca è pieno di maestà, l’appello del padrone è pieno di forza, l’appello di Dio è appello di Padre al figlio, appello pieno di dolcezza, pieno d’amore. Ma nell’amore c’è il segreto dell’entusiasmo, e pei sentieri dell’amore, additati da Paolo a noi Cristiani, come i sentieri veramente nostri, le anime volano portate dal vento dell’amore. Nessun segreto migliore di questo per vincere l’altezza che si erge formidabile dinanzi a noi quando guardiamo come a nostra meta niente meno che a Dio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – (Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

 Graduale

Ps IX: 20; IX: 4

Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo.

[Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.

In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua.

[Voltano le spalle i miei nemici: stramazzano e periscono di fronte a Te.]

Tractus

Ps. CXXII: 1-3

Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in cœlis.

[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]

Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.

[Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]

Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri,

[E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi].

Miserére nobis, Dómine, miserére nobis.

[Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam. [Luc XI: 14-28]

“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”

“In quel tempo Gesù stava cacciando un demonio, il quale era mutolo. E cacciato che ebbe il demonio, il mutolo parlò, e le turbe ne restarono meravigliate. Ma certuni di loro dissero: Egli caccia i demoni per virtù di Beelzebub, principe dei demoni. E altri per tentarlo gli chiedevano un segno dal cielo. Ma Egli, avendo scorti i loro pensieri, disse loro: Qualunque regno, in contrari partiti diviso, va in perdizione, e una casa divisa in fazioni va in rovina. Che se anche satana è in discordia seco stesso, come sussisterà il suo regno? conciossiachè voi dite, che in virtù di Beelzebub Io caccio i demoni. Che se Io caccio i demoni per virtù di Beelzebub, per virtù di chi li cacciano i vostri figliuoli? Per questo saranno essi vostri giudici. Che se io col dito di Dio caccio i demoni, certamente è venuto a voi il regno di Dio. Quando il campione armato custodisce la sua casa, è in sicuro tutto quel che egli possiede. Ma se un altro più forte di lui gli va sopra e lo vince, si porta via tutte le sue armi, nelle quali egli poneva sua fidanza, e ne spartisce le spoglie. Chi non è meco, è contro di me; e chi meco non raccoglie, dissipa. Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, cammina per luoghi deserti cercando requie; e non trovandola, dice: Ritornerò alla casa mia, donde sono uscito. E andatovi, la trova spazzata e adorna. Allora va, e seco prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrano ad abitarvi. E la fine di un tal uomo è peggiore del principio”

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA SEDUZIONE DELLO SPIRITO IMMONDO

Le parole di Gesù, così gravi ed ammonitrici, si rivolgono ad ogni seduzione peccaminosa del demonio; ma principalmente si applicano alla seduzione del demonio impuro. È questi che gira notte e giorno per il mondo, senza pace mai; s’avvicina ai fanciulli ingenui e butta a loro in cuore manate di fango; s’avvicina ai giovani e li allontana dal focolare domestico; entra nelle famiglie e scuote la fedeltà coniugale e dissacra la santità del matrimonio; profana perfino le chiese provocando pensieri torbidi e sguardi cupidi in mezzo ai devoti… È questi che rese imbelle Sansone da gagliardissimo che era; sospinse Davide, uomo dalla coscienza timorata, all’incredibile delitto d’omicidio; che del sapiente Salomone fece un folle adoratore di statue. –  Come va allora che quelli che si lasciano sedurre dal demonio impuro si vantano e dicono di non vedervi nulla di male, di non sentirvi nulla di triste; anzi difendono il loro peccato come un bisogno della natura, una forma lieta di sviluppare e di godere più pienamente la vita? Proprio qui, sta il segno più terribile della loro ossessione. Sono dei posseduti ed hanno l’illusione d’essere i soli a goder la libertà; come i pazzi che credono d’esser i soli a ragionar bene. Se s’accorgessero della loro deplorevole condizione, con ogni sforzo cercherebbero d’evaderne: ma perché questo non avvenga, il demonio li illude. Primo rimedio è dunque disilluderli: mostrare loro che lo spirito immondo li ha resi ciechi e muti come il disgraziato che fu condotto in casa a Gesù. – LO SPIRITO IMMONDO RENDE CIECHI. Fra le tante storielle che germogliarono intorno alla figura di Carlo Magno nel buon tempo antico, ne ricordo una che ci può insegnare qualcosa. Il grande imperatore un giorno cominciò a disinteressarsi delle cose del regno, a infastidirsi d’ogni questione seria, con grande meraviglia e sgomento di tutta la corte che l’aveva sempre conosciuto instancabile e provvido reggitore. Si venne a sapere che il suo cuore era stato affascinato da una terribile e impura passione; la notizia si diffuse, tutti facevano nomi e commenti. Solo l’imperatore non s’accorgeva di nulla: né del disonore suo, né delle rovine a cui lasciava andare lo stato. Finalmente, con grande sollievo di tutti, quella donna morì. E fu peggio di prima. L’imperatore la fece rivestire di porpora ricamata d’oro, costellata di gemme, fece spargere profumi e fiori nella funebre stanza, vi fece anche collocare vino e frutta come per un convito di festa. Poi si mise là irremovibile, notte e giorno, parlando e sorridendo con quel cadavere. Venivano costernati i baroni della corte, e tentavano di convincerlo ch’era una vergognosa follìa trascurare un governo glorioso per quell’oscena adorazione. Non riuscirono a farsi capire. Venivano fremendo i paladini ad annunciargli che i Saraceni avevano invaso i confini del santo impero: era suonata l’ora di lasciare i morti ai morti, e d’accorrere con le lance e con le spade. E non si mosse. Al quarto o al quinto giorno di questa macabra pazzia, si squarciò la coltre di nuvole che da tempo copriva il cielo d’Aquisgrana, e un raggio vivissimo di sole penetrò nella stanza e illuminò la faccia della morta. L’imperatore esterrefatto mandò un grido. In quel momento per la prima volta vide che quel viso era disfatto orridamente, vide le chiazze che indicavano la putrefazione già avanzata, e sentì l’irrespirabile fetore di cui era invaso quel posto. Per la prima volta in quel momento vide anche se stesso nella miseranda abbiezione in cui aveva avvilito la dignità imperiale, vide il disprezzo e lo scherno che tutti gli rivolgevano; avrebbe voluto sparire sotterra, svanire nel nulla; si coperse gli occhi con le mani e singhiozzò disperatamente (Cfr.: F. PETRARCA; Fam. I, 3). – La leggenda contiene una profonda verità: che qualche re della terra sia diventato cieco fino alla follia per una passione impura, a noi è facile crederlo. Ma le leggenda è anche vera per ogni uomo che si lascia sedurre dallo spirito immondo, diventa cieco negli occhi dell’anima. Infatti, la sua anima, ebete e pigra, non capisce più le cose della Religione, non vede più il Regno di Dio: parlategli del Salvatore che è morto per noi, della Vergine Maria, della grazia e dei sacramenti, della virtù e del paradiso, e vi guarderà annoiato e stupidito. Non sa gustare più la dolcezza d’un casto amor coniugale e perfino gli si attutisce l’amore per i figli innocenti. Egli non può interessarsi che del suo fangoso piacere; I suoi pensieri e i suoi desideri come uccellacci volano sempre là. – Vanno i sacerdoti dall’uomo sedotto dallo spirito immondo con le prediche, con gli avvisi, con la buona stampa si sforzano di fargli capire ch’egli ha dimenticato la vita eterna e oltraggia la sua famiglia e la propria dignità di figlio di Dio per un corpo che sarà pasto ai vermi del sepolcro. Gli annunciano che lo spirito immondo con sette altri invade la sua anima, che bisogna combattere aspramente e discacciarli. Ma l’uomo sedotto dalla passione impura non capisce nessun ragionamento anzi odia e detesta i preti perché lo disturbano nel suo piacere: li chiama corvi perché gracidano contro di lui importuni richiami. Affogata la mente nei luridi fantasmi, ingolfato il cuore in turpi affetti, egli sente che, se un paradiso c’è, non è per lui. Ed allora, impotente a raggiungerlo, lo nega e nega tutta la religione. L’ordinaria spiegazione della miscredenza è qui: se non ci fosse l’impurità nei cuori, non ci sarebbe tanta incredulità nelle menti. Invece per questa passione Gesù deve sentirsi ripetere assai spesso le tristi parole con cui fu congedato da quei di Gerasa: « Vattene via da noi, lasciaci in pace coi nostri porci » (Mc., V, 17). Ciò che più impressiona è che nessun ragionamento vale a disincantare i sedotti dallo spirito immondo: potete dir loro che si abbrutiscono, che perdono l’anima, che i loro piaceri sono stordimenti fuggitivi, che la morte ridurrà quella creatura in un sacco di vermi, ma essi vedono tutto diverso, presi come sono dal demoniaco affascinamento. – Solo un raggio che venga dal cielo può rivelare a costoro, come già a Carlo Magno imperatore, che adorano un cadavere in putrefazione e che sono precipitati in una miseria vergognosa. Gesù, Figlio di Davide, manda questo raggio a tante anime accecate dallo spirito immondo! – LO SPIRITO IMMONDO RENDE MUTI. Tacciono le preghiere. Dapprima l’impuro perde il gusto di parlare col Signore: non lo vede più, non lo sente più, e perciò pregare gli par che sia un soliloquio vano. Allora recita le sue orazioni da svogliato, poi le tralascia in parte; poi le tralascia del tutto. Se pregasse, Dio sarebbe costretto ad esaudirlo: ma non merita d’essere udito e per questo lo lascia senza più voce. Tacciono le confessioni. Dapprima sono confessioni confuse con peccati confessati in fretta, a mezzo, barbugliandoli nella gola; poi sono confessioni sacrileghe, perché la vergogna ha chiuso la bocca proprio al momento più trepido; infine, l’impuro non si confessa più. Se si confessasse bene Dio sarebbe costretto a perdonargli: ma non merita d’essere perdonato e per questo lascia che rifiuti il gran mezzo di salvezza che è la Confessione. Tacciono i rimorsi. Osservate un ammalato: quando sopporta con piena apatia sino le mosche s’attacchino al suo volto, è segno che la sua fine è irrimediabile. Così quando troverete un peccatore che si lascia coprire dai peccati senza un moto di reazione, senza un brivido di rimorso, dite pure che la sua morte eterna è irrimediabile. A forza d’essere irritato, Dio chiude in se stesso la sua collera e abbandona l’impuro alla sua perniciosa tranquillità. Questi stupisce di non sentir più nessun turbamento di coscienza e s’immagina di non avere nulla da temere. Non s’accorge che il suo è un sopore simile a quello stato d’incoscienza che nei moribondi precede l’inevitabile morte. È questa la massima disgrazia: vivere in perfetto accordo col demonio che pacificamente occupa gli atrii del nostro spirito; rovesciare in noi l’augusto tribunale di coscienza; infrangere ogni sigillo della divina giustizia; spegnere ogni luce della santa verità di Dio. – A chi col peccato si è allontanato dalla propria felicità che consiste nel servire ed amare Dio, il più grande dono è il rimorso: ma guai a quelli che si rendono indegni anche di questo dono! Al loro male non resta più rimedio. – Isaia il profeta li ha visti come uomini « caduti nella notte agli angoli delle strade, così profondamente addormentati da sembrare morti » (Is., 51, 20). Inebriatisi a lungo nel vino dei loro piaceri, perdono ogni cognizione di Dio e ogni sentimento del loro male. – Come faremo a scampare da questa orrenda fine? Il cammino è tanto lubrico ed inclinato che bisogna badare molto seriamente ai primi passi. Chi non vigila su questi, s’abbandona all’impeto d’una irrefrenabile corsa. Attenti ai pensieri, attenti agli sguardi! Il maestro divino ha detto: « Chi avrà guardato con occhio torbido, con cuore cupido, già ha commesso peccato ».

– Raccogliamo per l’anima nostra, questa volta, una sola sentenza del Signore. « Omne regnum in seipsum divisum desolabitur ». È proverbio che sanno bene i demoni, i quali tra di loro non si fanno guerra né discordia. Lo sapevano anche gli antichi Romani quando nei loro libri scrivevano che perfino « le minime cose con la unione prosperano, mentre anche le massime con la divisione si sfasciano ». Ogni regno diviso sarà desolato: sia esso il regno di Dio interiore nell’anime nostre, sia esso il regno di Dio esteriore della santa Chiesa Cattolica. – DESOLAZIONE DEL REGNO DI DIO IN NOI. A farvi comprendere questo pensiero, permettete che mi rifaccia un po’ da lontano. Tutti conoscete, e molti per pratica, che cosa sia l’innesto, e che significhi innestare la pianta. Ecco un albero sterile selvatico: l’agricoltore vi innesta un rametto fruttifero: attecchisce, frondeggia e tutto l’albero fruttifica copiosamente. Ora immaginate un nuovo innesto: ecco un albero meraviglioso, unico al mondo per la bellezza de’ suoi frutti paradisiaci; ed ecco infiniti rametti di alberi incolti, spinosi, selvatici, sterili. C’è qualcuno che li prende e li innesta nell’albero prodigioso: una nuova linfa scorre in quei ramoscelli, una nuova vita li investe, gettano foglie, fiori, frutti bellissimi, come quelli dell’albero in cui furono innestati. Comprendete: quest’albero di vita è Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne per la nostra salvezza. Quando noi ricevemmo il Battesimo, siamo stati innestati in Lui: in quel momento cessammo d’essere rami sterili e selvatici e noi pure vivemmo della sua vita divina, diventammo noi pure figli di Dio, come Lui capaci di compiere opere divine meritevoli di premio eterno. Come il ramo è una cosa sola col tronco, noi siamo con Cristo una cosa sola; così che il Padre Celeste può chiamare ancora noi figli, costituire ancora noi eredi de’ suoi possessi eterni; così che guardando al cielo noi, come Gesù Cristo, possiamo chiamare Dio col dolce nome di Padre. – S. Paolo desiderava tanto che i Cristiani tutti comprendessero questa verità, che intendessero d’essere innestati in Cristo, che sentissero in loro palpitare la vita di Cristo; ne parla in ogni lettera, e per esprimersi non sa più quali parole escogitare: « noi siamo indissolubilmente uniti a Cristo: dobbiamo soffrire con Lui; essere crocifissi con Lui; morire con Lui; risuscitare con Lui; partecipare alla sua divinità; partecipare alla sua gloria; sedere con Lui alla destra di Dio Padre; regnare con Lui; ereditare con Lui la vita eterna ». – Il regno di Dio dentro di noi è questo: essere uniti al Figlio di Dio come membra al corpo, diventare divini, vivere e operare divinamente. Se lo Spirito Santo vi fa la grazia d’intendere almeno un poco il mistero della vita cristiana, potrete misurare la desolazione della nostra anima se il peccato mortale la divide da Cristo. Regnum divisum desolabitur. – Recidete un tralcio della vite: i pampini avvizziscono, i grappoli non maturano più, ma disseccano. Quando il peccato ci distacca da Cristo, ognuno diventa secco e inutile, ramo maledetto e condannato alle fiamme. Recidete una mano dal corpo; quella mano resta inerte, annerisce, imputridisce, pasto dei vermi. Così è l’anima staccata da Cristo sua vita: non può operare più per la vita eterna, annerisce di bruttezza senza più un raggio del primiero fulgore, imputridisce divorata dal verme che non muore e dal fuoco che non s’estingue. Potessimo vedere le persone come le vedono gli Angeli, quanti ci farebbero pietà e ribrezzo; rami secchi, membri putrefatti. Respirano, camminano, si divertono, e non si accorgono della loro stessa desolazione interiore. DESOLAZIONE DEL REGNO DI DIO NEL MONDO. Allarghiamo la nostra considerazione. Innestati nel Cristo non siamo appena noi, ma tutti quelli che nei secoli passati morirono nella grazia di Dio, tutti quelli che nel presente siamo nella grazia di Dio, tutti quelli che nei secoli dell’avvenire riceveranno la grazia di Dio. Questa è la Chiesa dove ciascun fedele è membro vivo nel Corpo di Cristo, Corpo mistico che va man mano crescendo fino alla fine del mondo, quando avrà raggiunto la sua statura perfetta. Come il Salvatore nostro ha voluto che la sua divinità si manifestasse sensibilmente attraverso la umanità, così ha stabilito che questo suo Corpo divino e mistico si rendesse visibile. Per ciò ha stabilito che la Chiesa avesse una gerarchia: in capo a tutto e a tutti sta il sovrano Pontefice, il successore di S. Pietro; poi vengono i Vescovi che devono tenersi ben uniti al Papa; poi vengono. i sacerdoti i quali devono tenersi ben uniti al loro Vescovo; poi vengono tutti i fedeli i quali devono tenersi ben uniti al loro parroco e ai loro sacerdoti. Guai a chi si strappa fuori da questa misteriosa catena! la desolazione lo attende. Omne regnum divisum desolabitur. – Guardate i protestanti che, da Lutero in poi, si sono staccati dal Papa: in fatto di religione sono diventati più disgraziati degli stessi pagani dell’Asia e dell’Africa. Non sanno neppur essi quello che credono e aspettano. Ma senza arrivare a questi eccessi di apostasia, ci sono altri modi in cui dagli stessi fedeli, talvolta, si tenta di desolare il Regno di Dio. Quando si parla male del Papa, si pretende di criticarlo, si ascoltano le calunnie che uomini e giornali cattivi lanciano contro di lui, si disubbidisce al suo comando, non è un voler dividersi da lui? Ma chi si stacca dal Papa, muore alla grazia. Regnum divisum desolabitur. Quando non ascoltiamo le parole del nostro Vescovo e gli avvertimenti del nostro parroco, quando non partecipiamo ai loro dolori e alle loro gioie di ministero, quando non li aiutiamo — per quello che ciascuno può — nelle opere di bene, non è un volerci staccare dal Regno di Dio, che è la Chiesa? Regnum divisum desolabitur. Quando non ci preoccupiamo che i nostri figli crescano nella santa religione e nel timore di Dio, quando non ci sentiamo viscere di carità per i figli di tanti infedeli che aspettano d’entrare nella Chiesa, non è già forse un segno di apatia, di ignoranza verso il Regno di Dio? Regnum divisum desolabitur. La Chiesa è una grande barca che unica galleggia sulla inondazione del mondo: ognuno che è dentro è salvo. Ma chiunque da quella barca si stacca, sia esso Un Vescovo, o un. prete, o un semplice cristiano, precipita nell’acqua e muore. – La nave che portava S. Francesco Saverio in India, s’era fermata per provvigioni all’isola di Socotera. Quegli isolani erano già stati evangelizzati, ma da moltissimi anni non avevano rivisto sacerdoti. Il Santo approfittò di quell’indugio per battezzare e predicare il Regno di Dio a quei cuori aperti alla grazia. Ma dopo qualche giornata la nave levò l’ancora. Tutta la folla, che invano aveva tentato di trattenere Francesco, piangeva sulla spiaggia; e le donne alzavano i loro piccoli e li protendevano verso il battello che s’allontanava, gridando: « Chi li istruirà ora nella fede, chi li conforterà nell’osservanza della legge del Signore? ». E i vecchi singhiozzavano dicendo amaramente: « E noi, chi ci assisterà alla morte? quale viatico avremo in quell’ora? chi ci potrà purificare prima di arrivare al cospetto di Dio?». Povera gente sperduta nell’oceano! Essi avevano compreso la bellezza del Regno di Dio, che moltissimi Cristiani oggi ignorano o trascurano.

– Diceva una volta un signore ad un santo parroco di campagna, nella cui parrocchia teneva una casa di villeggiatura estiva: «Ma signor Curato, ella ci predica ancora del demonio come se volesse intimorire dei bambini capricciosi e disobbedienti. Le sue parole andavano bene secoli or sono, quando gli uomini rapaci e feroci avevano bisogno di essere spaventati e rattenuti dal fuoco dell’inferno e dalla forma di satana; ma adesso che sappiamo trasvolare l’Atlantico, che abbiamo la radio, che siamo civili, possiamo farne a meno della favola del demonio ». Il vecchio ministro di Dio mormorò subito una preghiera, e guardando quel signore con lunghi occhi di compassione se ne allontanò dicendo così: «Tanto è vero che il demonio esiste, che costui è della sua ». – Cristiani, tutti coloro che dicono di non credere più all’esistenza del demonio sono suoi partigiani e vanno d’accordo con lui, spirito di tenebre e di menzogna: già lo dice anche Gesù nel Vangelo: «Se il demonio non fosse d’accordo coi suoi, come potrebbe durare il suo regno? Ogni regno diviso contro se stesso si sfascia, ogni città ed ogni famiglia discorde in se stessa non regge ». – Dunque, se il Vangelo è Vangelo anche per noi, bisogna credere che i demoni ci sono. La Sacra Scrittura li chiama con nomi terribili: volpe per la loro astuzia, serpe per il loro veleno, cane per la loro rabbia, drago per il loro incantesimo, leone per da loro voracità. E nel brano di oggi lo avete sentito chiamare Beelzebub, che — seconda della pronuncia — può voler dire: signore delle mosche, o, signore del concime, nomi che indicano entrambi che il suo regno è nei cuori marciti dal vizio. Se il suo nome è terribile, il giogo della sua schiavitù è più terribile ancora. Guardate l’ossesso guarito da Gesù com’era angariato in cecità e mutolezza! Ed io ricordo d’aver letto che in un esorcismo; il demonio interrogato del suo nome, rispose: siamo in tre e ci chiamiamo: Claudens mentem, Claudens cor, Claudens os ». Questa risposta ci può fornire tre pensieri. – CLAUDENS MENTEM. Io non so se quel signore, che ho ricordato in principio, tanto saputo da non credere più nemmeno al demonio, fosse superstizioso; ma indovinerei, credendo di sì. Ci è che il principe delle tenebre, ambiziosissimo di farsi tenere per quello che non è, brama acquistarsi onori divini. Che altro erano gli idoli degli antichi pagani, se non immagini del demonio? E che altro sono le superstizioni, così numerose anche ai nostri giorni, se non atti di culto al demonio? Così l’astuto serpente riesce a carpire adorazioni da quegli ingenui che non credono più alla sua esistenza. Parrebbe impossibile, eppure è vero. C’è della gente che non osa muovere un passo se alla catena d’oro dell’orologio manca il cornetto; che non si arrischia salire su un’automobile la quale non abbia spenzolante sul cristallo posteriore la mascherina porta-fortuna. C’è della gente che trema e tocca il ferro, se incontra un prete; che cambia strada, per non vedere uno zoppo; che smania di spavento se si rovescia il sale; che licenzia la serva, se sbadatamente ha messo sulla tavola le posate in croce. C’è della gente cui sussulta il cuore, se la gallina canta in gallesco, se i fanciulli giocano ai funerali, se un calabrone ronza per casa, se la legna cigola sul focolare… Ah, infedeli adoratori di satana! e lo adorano spaventati di mille sciocchezze, a costo di rendersi la vita noiosa e ridicola. Essi senza timore di Dio mangeranno di grasso al venerdì, ma non li indurrete mai a farvi una visita in quel giorno. Essi senza timore di Dio lavoreranno tutta la festa di precetto, ma non passeranno mai per una strada dove hanno visto un ago smarrito per terra. Si tratta d’ignoranza, — penserete forse, — ma non è appena questa. Ci sono anche persone istruite che credono ai sogni; eppure si vantano di non credere più al Catechismo. Ci sono persino professori, avvocati, che credono alle zingare luride: e sguaiate che indovinano il futuro e il passato; eppure non credono alla dottrina cristiana che predice il paradiso per i buoni e l’inferno per i cattivi. Ma come mai? il demonio con una tenebrosa siepe ha chiuso la loro mente alla luce di Dio. – CLAUDENS COR. A S. Clemente d’Ancira offrirono un vassoio colmo d’oro e di gemme, all’unica condizione che egli rinunciasse a Gesù. Ma il santo scrollò lentamente la testa e levando gli occhi al cielo disse « Signore, è mai possibile che il mio cuore si sazi di un piatto di metalli e di pietre? ». Eppure, quanti cuori d’uomini, creati per la beatitudine di Dio, si sono contentati anche molto di meno. Il demonio li ha chiusi ad ogni vera ricchezza, ad ogni vera bellezza, ad ogni vero amore. Claudens cor. a) Trovate delle persone che altra cura non sentono se non quella materiale, far danaro, far roba. Non capiscono altro ragionamento se non quello delle cifre: crediti, debiti. Non hanno altra gioia se non il guadagno, altro dolore se non la perdita. «Buona gente, — dite loro — ricordatevi che di tutti i vostri beni, fra dieci, vent’anni, al sopravvenir della morte, neppure una pagliuzza vi resterà. Procurate un tesoro di opere buone che vi segua per i bisogni dell’altro mondo ». Essi vi guarderanno senza capirvi… Il loro cuore è chiuso alla vera ricchezza. b) Trovetere della gente che altra esca non brama se non il cibo dei porci. I pensieri d’ogni ora, i discorsi d’ogni giorno, le azioni di tutta la loro vita sono impure. Da soli, in famiglia, nella società, sono divorati dalla cupa fiamma del piacere disonesto. Non c’è più legge, non c’è più pudore. « Buona gente, dite loro, voi siete diventati come bruti schifosi e fetidi: alzate gli occhi al cielo e vedete come è bello! uscite dalla palude livida e provate la gioia d’aver l’anima pura! ». Essì vi guarderanno con le pupille nebbiose, e non vi crederanno. Il loro cuore in putrefazione è chiuso ad ogni vera bellezza. c) Ma il cuore ove regna satana è chiuso anche al vero amore. Il demonio, ladro ed assassino, è principe dell’odio, e non sa che sia la dolcezza del santo amore. Anticamente costringeva le madri a sacrificargli i loro bambini: immolaverunt filios suos et filias suas demoniis; oggi non è meno crudele. Perché tante sanguinose guerre in tempi di vantata civiltà? perché tante ingiustizie contro i deboli? Perché tante insanabili discordie nelle famiglie? È tutta opera del demonio che chiude i cuori al vero amore che Gesù ha portato sulla terra. Claudens cor. – CLAUDENS OS. Chiude la bocca, perché in quelle anime dove egli regna, non escano i peccati nella Confessione, non entri Gesù nella Comunione. Nei casi d’ossessione incontrati dal P. Chevrier ve ne sono due assai caratteristici (VILLEFRANCHE, Vita del P. Chevrier, trad. Codaghengo, pag. 206 ss.). Nel primo si racconta di una giovane di nome Margherita che, agitata dallo spirito maligno, si era a lui consacrata ed aveva firmato col proprio sangue la promessa di non confessarsi mai. – Nel secondo, d’un infelice carcerato. Il P. Chevrier entrò nella sua prigione per gli esorcismi. Ma l’ossesso inquietissimo urlava: « Non toccatemi! ». Senza far caso alle sue minacce, il Padre lo fa legare con un cordone turchino benedetto: ed egli spezza il cordone. Lo fa legare con una fune ugualmente benedetta: egli rompe la fune. Gli si legano le mani ed i piedi con una catena di ferro ed egli infrange la catena. Ma quando, dopo non poca esitazione, fu deposta sul suo petto la santa Eucarestia, rimase immobile ed annientato. Si compirono allora gli esorcismi, ed il demonio abbandonò la sua vittima. – La Confessione e la Comunione sono le due spade della nostra vittoria contro il nemico infernale: la prima per scacciarlo, la seconda per tenerlo lontano. Ecco perché il demonio con ogni astuzia cerca di chiudere la bocca agli uomini che vuol tenere per suoi. E son molti quelli che, cedendo alla sua tirannia, vengono troppo di raro o mai, a ricevere questi due sacramenti. – Ricordate la leggenda di S. Giorgio. Una gentile fanciulla, figlia del re, era destinata come vittima del dragone. Relegata in un’isola, con grande tremito di paura, aspettava la sua morte certa. Ed ecco arrivare un cavaliere su fiero cavallo. « Gentile fanciulla — disse — perché piangi qui sola?  ». Ed ella rispose: « Nobile giovane, fuggi! io sono destinata alla bocca ingorda del dragone ». Ed ecco la bestia feroce mise il capo un po’ fuori dall’acqua del mare e cominciò forte a sibilare. Ma il cavaliere alzò il segno della croce, e d’un balzo diede un gran colpo con la lancia che teneva in mano, e l’abbatté! L’anima nostra figlia di Dio, o Cristiani, simile alla gentile fanciulla, era caduta per il peccato d’Adamo preda al dragone infernale. Ma venne Gesù Cristo, il cavaliere mobile e divino, e con la sua croce ha vinto il demonio. Si autem fortior eo superveniens vicerit eum, universa arma eius auferet. – Noi siamo deboli, ma il nostro Salvatore è invincibile: apriamo a Lui la nostra mente, il nostro cuore, la nostra bocca. Allora potremo elevare il grido del trionfo: « potenze avverse, fuggite! vince il leone della tribù di Giuda ».

– Quaggiù sulla terra — lo dice il Signore — ci sono due regni che si combattono senza mai aver pace: il regno di Beelzebub che tien schiave le anime e le rende mute; il regno di Dio che porta la libertà. C’è dunque da scegliere se vogliamo seguire Colui che è il nostro Salvatore oppure andar dietro ai vessilli di satana. Gesù è stato mandato dal Padre a ricondurre la umanità dalla schiavitù, in cui la teneva il demonio, alla libertà dei figli di Dio. E questa figliolanza divina, che è tutta un favore di Dio, Gesù ce l’ha procurata per mezzo della grazia. È la grazia che ci rende fratelli di Cristo e per ciò figlioli di Dio. Se dunque ci manca la grazia noi non siamo di Cristo e di Dio, ma siamo contro Cristo. contro Dio. Questa stessa figliolanza divina, che la grazia ci ha saputo portare, deve sempre manifestarsi nei fatti: le azioni che andiamo compiendo devono essere azioni di un figlio di Dio, devono essere azioni di un fratello di Cristo. Se dunque mancasse la retta intenzione che al nostro operare dia questo indirizzo, invece di raccogliere tanti frutti di bene noi disperderemmo le energie. Sono due pensieri che dobbiamo fissare. – È CONTRO GESÙ CHI HA PERDUTO LA GRAZIA.. La storia d’Italia, al sec. VIII, ricorda le vicende dei re Longobardi. Barbari ancora, alternano, con facilità che sorprende, la guerra e la pace, le ostilità e l’alleanza. Astolfo, divenuto re nel 749, ruppe subito col Papa la tregua giurata dai suoi predecessori, e colle truppe focose dei suoi uomini mosse contro la città di Roma prendendola d’assalto. Il Papa Stefano II va ad incontrarlo alle porte dell’urbe, gli si avvicina, lo prega di ritirarsi. Il re, sconfitto da quella maestà, così debole e pur così potente, domanda perdono e giura una tregua che doveva durare tre anni. Il suo proposito, perché non fosse di sole parole, volle scritto con atto solenne. Non era passato un anno ed Astolfo, violando la parola giurata, assale la città, la mette al saccheggio e, quasi fosse l’assoluto padrone, la costringe ad un grave tributo. Fu allora che il Romano Pontefice, per sollevare le calamità del suo popolo, ordinò preghiere e digiuni. Anzi il Papa in persona, nudi i piedi, con una grave croce sopra le spalle, effondendosi in lagrime, percorre in processione le vie di Roma, seguito dal Clero e dal popolo asperso di cenere. Davanti a tutto il corteo di penitenza e di pianto, su una croce, veniva portata la pergamena della tregua infranta dal re. Cristiani, quante tregue infrante, quante volte anche noi abbiamo rotto l’amicizia di Dio. Losca figura quella di Astolfo, ma forse qualche volta gli siamo assomigliati. Nel giorno del nostro Battesimo noi fummo portati alla Chiesa. Di fronte a Dio eravamo… dei barbari, degli stranieri che non vantavano diritto alcuno. Ma il Signore ci ha voluto bene, ci ha accolto nella sua terra ed ha stretto con noi non solo un patto di alleanza ma un vincolo di vera parentela. In quel giorno gli siamo divenuti figli adottivi. Il patto fu scritto non su un foglio di carta, ma nell’intimo dell’anima nostra, non in inchiostro ma col Sangue del Figlio di Dio, non con una penna qualunque ma col legno della Croce di Cristo. Eppure, noi col peccato mortale abbiamo dimenticato quel giorno così bello. Coll’esercito scomposto e barbaro delle nostre passioni abbiamo dato l’assalto alla città santa di Dio che era il nostro cuore adorno di grazia; in un momento di pazzia abbiamo infranto lo splendore dell’anima nostra, abbiamo distrutto le tracce del Sangue di Cristo, abbiamo resa inutile la morte stessa di Lui. Gesù fu obbligato a porre su la nuda sua croce la nostra amicizia infranta e mostrarla agli Angeli che avranno pianto il nostro spergiuro. Proprio sul legno benedetto della Croce, che ricorda la misericordia di Dio infinita, Gesù ha dovuto appendere, come Papa Stefano II, la prova vergognosa della nostra ingratitudine e della nostra cattiveria. Ma, se noi vogliamo, Gesù è ancora pronto a perdonare e per un atto di sincero dolore, scriverebbe ancora col suo sangue un’amicizia più bella. – NON RACCOGLIE CON GESÙ CHI NON HA RETTA INTENZIONE. S. Agostino, nelle sue Confessioni, racconta questo episodio. Mentre l’imperatore Teodosio era a Treviri a vedere i giochi del Circo, due dei suoi cortigiani vollero rinunciare a quei divertimenti per godersi qualche ora di libertà nei campi. Attraverso un bosco, giunsero ad una rozza capanna solitaria. Entrarono, ma non c’era nessuno. Squallide pareti, poche masserizie, una grande croce. Sopra una tavola tarlata, stava aperto un libro, logoro dall’uso continuo. Uno di loro lo prese in mano e si mise a leggere forte: era la vita di S. Antonio Abate. Intanto la grazia lavorava in quelle anime, e colui che leggeva deponendo il libro, cominciò: « Noi allora siamo su una strada sbagliata! Dove vanno a finire le nostre azioni? Che facciamo al servizio dell’imperatore? Sopportiamo fatiche, accettiamo umiliazioni, affrontiamo contrasti per divenire suoi favoriti: e poi… ci attiriamo invidie, calunnie e nulla più. Teodosio è un uomo mortale… potrà essere immortale la sua mercede? Lasciamo un padrone che dovrà morire, per servire Iddio che non muore mai! ». E tutti e due si fecero eremiti (Confessioni, lib. VIII, c. 6). – Anche noi, o Cristiani, abbiamo spesso bisogno di staccarci dalle cose del mondo per raccoglierci un poco nel fecondo silenzio di una meditazione severa. Se in questa solitudine dell’anima noi leggessimo gli esempi dei Santi e facessimo passare almeno qualche pagina della nostra vita, vedremmo, come quei cortigiani, quanti passi sono davvero perduti, quante azioni rimangono senza frutto, quanto tempo è miseramente sciupato. Manca la retta intenzione, manca l’offerta a Dio delle opere nostre ed allora rimane il vuoto. « Chi non raccoglie con me, disperde », dice Gesù nel Vangelo di oggi. Che direste voi di un contadino che lavora tutto l’anno il suo campicello e poi, quando giunge il tempo della messe, si vede disperso dalla bufera e dal vento tutto quanto il raccolto? È quello che capita all’anima di colui che non ha la retta intenzione. – Quando andiamo alla Chiesa soltanto per farci vedere o per una intenzione tutt’altro che santa, noi disperdiamo ogni cosa: non è con Gesù che facciamo il raccolto. Quando il lavoro di ogni giorno è compiuto unicamente per fare danaro, la nostra mercede l’abbiamo già ricevuta. Il padrone che abbiamo servito non è il Dio che non muore, ma è un tesoro che la ruggine può sempre corrompere ed i ladri possono rapirci. – Dovessimo fare le grandi elemosine di S. Carlo Borromeo, se ci manca la intenzione giusta, diventeremmo poveri anche davanti a Dio; facessimo pure le grandi penitenze dei padri del deserto, se non ci muove la gloria di Dio saremmo degli stolti: perdiamo i piaceri della terra e non acquistiamo quelli del cielo. – Supponete che un uomo abbia impiegato parecchi giorni e parecchie notti a comporre una lunga lettera da cui dipende un affare di capitale importanza, ma, dopo averla ben descritta, la consegnasse alla posta con l’indirizzo sbagliato. Poveretto! Ha sciupato tutto il suo tempo e ha concluso nulla! Cristiani, se le nostre azioni, da cui dipende la nostra salvezza eterna, le cominciamo senza la grazia di Dio o con una intenzione che non riguarda il Signore, noi sbagliamo indirizzo. O siamo andati contro Gesù o non abbiamo raccolto con Lui: le nostre mani rimangono vuote.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XVIII: 9, 10, 11, 12

Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.

[I comandamenti del Signore sono retti, rallegrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adempie.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.

[Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santifichi i corpi e le anime dei tuoi servi, onde possano degnamente celebrare il sacrificio.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXXIII: 4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te.

[Il passero si è trovata una casa, e la tortora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli eserciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che abitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei secoli dei secoli.]

Postcommunio

Orémus.

A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes.

[Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

FESTA DI SAN GIUSEPPE (2022)

FESTA DI SAN GIUSEPPE 2022

Sancta Missa

San Giuseppe, Sposo della B. V. Maria, Conf.

Doppio di 1* classe. – Paramenti bianchi.

La Chiesa onora sempre, con Gesù e Maria, San Giuseppe, specialmente nelle feste di Natale; ecco perché il Vangelo di questo giorno è quello del 24 dicembre. La Chiesa diede a questo Santo fin dall’VIII secolo, secondo un calendario copto, un culto liturgico nel giorno 20 luglio. Alla fine del XV sec. la sua festa fu fissata al 19 marzo e nel 1621 Gregorio XV l’estese a tutta la Chiesa. – 1870 Pio IX proclamò San Giuseppe protettore della Chiesa universale. Questo Santo, « della stirpe reale di Davide », era un uomo giusto (Vang.) e per il suo matrimonio con la Santa Vergine ha dei diritti sul frutto benedetto del seno verginale della Sposa. Una affinità di ordine legale esiste tra lui e Gesù, sul quale esercitò un diritto di paternità, che il Prefazio di San Giuseppe designa delicatamente con queste parole « paterna vice ». Senza aver generato Gesù, San Giuseppe, per i legami che l’uniscono a Maria, è, legalmente e moralmente, il padre del Figlio della Santa Vergine. Ne segue che bisogna con atti di culto riconoscere questa dignità o eccellenza soprannaturale di San Giuseppe. Vi erano nella famiglia di Nazareth le tre persone più grandi ed eccellenti dell’universo; il Cristo Uomo-Dio, la Vergine Maria Madre di Dio, Giuseppe padre putativo del Cristo. Per questo al Cristo si deve il culto di latria, alla Vergine il culto di iperdulia, a San Giuseppe il culto di suprema dulia. Dio gli rivelò il mistero dell’incarnazione (ìd.) e « lo scelse tra tutti gli uomini » (Ep.) per affidargli la custodia del Verbo incarnato e della Verginità di Maria [Toccava al padre imporre un nome al proprio figlio. L’Angelo, incaricando da parte di Dio di questa Missione Giuseppe, gli mostra con ciò che, nei riguardi di Gesù, ha gli stessi diritti che se egli ne fosse veramente il padre.]. – L’inno delle Lodi dice che: « Cristo e la Vergine assistettero all’ultimo momento San Giuseppe il cui viso era improntato ad una dolce serenità ». San Giuseppe salì al cielo per godere per sempre faccia a faccia la visione del Verbo di cui aveva contemplato cosi lungamente e da vicino l’umanità sulla terra. Questo santo è dunque considerato giustamente come il patrono ed il modello delle anime contemplative. Nella patria celeste San Giuseppe conserva un grande potere sul cuore del Figlio e della sua Santissima Sposa (Or.). Imitiamo in questo santo tempo la purezza, l’umiltà, lo spirito di preghiera e di raccoglimento di Giuseppe a Nazaret, dove egli visse con Dio, come Mosè sulla nube.

Incipit

In nómine Patris,et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCI : 13-14.
Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

 [Il giusto fiorisce come palma, cresce come cedro del Libano: piantato nella casa del Signore: negli atrii della casa del nostro Dio].

Ps XCI: 2.
Bonum est confiteri Dómino: et psállere nómini tuo, Altíssime.


[É bello lodarTi, o Signore: e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

[Il giusto fiorisce come palma, cresce come cedro del Libano: piantato nella casa del Signore: negli atrii della casa del nostro Dio].

Oratio

Orémus.
Sanctíssimæ Genetrícis tuæ Sponsi, quǽsumus, Dómine, méritis adjuvémur: ut, quod possibílitas nostra non óbtinet, ejus nobis intercessióne donétur:

[Ti preghiamo, o Signore, fa che, aiutati dai meriti dello Sposo della Tua Santissima Madre, ciò che da noi non possiamo ottenere ci sia concesso per la sua intercessione]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XLV: 1-6.

Diléctus Deo et homínibus, cujus memória in benedictióne est. Símilem illum fecit in glória sanctórum, et magnificávit eum in timóre inimicórum, et in verbis suis monstra placávit. Glorificávit illum in conspéctu regum, et jussit illi coram pópulo suo, et osténdit illi glóriam suam. In fide et lenitáte ipsíus sanctum fecit illum, et elégit eum ex omni carne. Audívit enim eum et vocem ipsíus, et indúxit illum in nubem. Et dedit illi coram præcépta, et legem vitæ et disciplínæ.

[Fu caro a Dio e agli uomini, la sua memoria è in benedizione. Il Signore lo fece simile ai Santi nella gloria e lo rese grande e terribile ai nemici: e con la sua parola fece cessare le piaghe. Lo glorificò al cospetto del re e gli diede i comandamenti per il suo popolo, e gli fece vedere la sua gloria. Per la sua fede e la sua mansuetudine lo consacrò e lo elesse tra tutti i mortali. Dio infatti ascoltò la sua voce e lo fece entrare nella nuvola. Faccia a faccia gli diede i precetti e la legge della vita e della scienza].

Graduale


Ps XX : 4-5.
Dómine, prævenísti eum in benedictiónibus dulcédinis: posuísti in cápite ejus corónam de lápide pretióso.

[O Signore, lo hai prevenuto con fauste benedizioni: gli ponesti sul capo una corona di pietre preziose.]

V. Vitam pétiit a te, et tribuísti ei longitúdinem diérum in sæculum sæculi.

[Ti chiese vita e Tu gli concedesti la estensione dei giorni per i secoli dei secoli].

Ps CXI: 1-3.
Beátus vir, qui timet Dóminum: in mandátis ejus cupit nimis.
V. Potens in terra erit semen ejus: generátio rectórum benedicétur.
V. Glória et divítiæ in domo ejus: et justítia ejus manet in sæculum sæculi.

[Beato l’uomo che teme il Signore: e mette ogni delizia nei suoi comandamenti.
V. La sua progenie sarà potente in terra: sarà benedetta la generazione dei giusti.
V. Gloria e ricchezza sono nella sua casa: e la sua giustizia dura in eterno].

Evangelium

Sequéntia + sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt 1: 18-21.

Cum esset desponsáta Mater Jesu María Joseph, ántequam convenírent, invénta est in útero habens de Spíritu Sancto. Joseph autem, vir ejus, cum esset justus et nollet eam tradúcere, vóluit occúlte dimíttere eam. Hæc autem eo cogitánte, ecce, Angelus Dómini appáruit in somnis ei, dicens: Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est. Páriet autem fílium, et vocábis nomen ejus Jesum: ipse enim salvum fáciet pópulum suum a peccátis eórum

[Essendo Maria, la Madre di Gesù, sposata a Giuseppe, prima di abitare con lui fu trovata incinta, per virtù dello Spirito Santo. Ora, Giuseppe, suo marito, essendo giusto e non volendo esporla all’infamia, pensò di rimandarla segretamente. Mentre pensava questo, ecco apparirgli in sogno un Angelo del Signore, che gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, cui porrai nome Gesù: perché egli libererà il suo popolo dai suoi peccati].

Sermone di san Bernardo Abbate
Omelia 2 su Missus, verso la fine


Chi e qual uomo sia stato il beato Giuseppe, argomentalo dal titolo onde, sebbene in senso di nutrizio, meritò d’essere onorato così da essere e detto e creduto padre di Dio; argomentalo ancora dal proprio nome, che, come si sa, s’interpreta aumento. Ricorda in pari tempo quel gran Patriarca venduto altra volta in Egitto; e sappi ch’egli non solo ha ereditato il nome di quello, ma ne ha imitato ancora la castità, ne ha meritato l’innocenza e la grazia. E se quel Giuseppe, venduto per invidia dai fratelli e condotto in Egitto, prefigurò la vendita di Cristo; il nostro Giuseppe, fuggendo l’invidia d’Erode, portò Cristo in Egitto. Quegli per rimaner fedele al suo padrone, non volle acconsentire alle voglie della sua padrona: questi, riconoscendo vergine la sua Signora madre del suo Signore, si mantenne continente e fu il suo fedele custode. A quello fu data l’intelligenza dei sogni misteriosi; a questo fu concesso d’essere il confidente e cooperatore dei celesti misteri. Il primo conservò il frumento non per sé, ma per tutto il popolo: il secondo ricevé la custodia del Pane vivo celeste e per sé e per tutto il mondo. Non v’ha dubbio che questo Giuseppe, cui fu sposata la Madre del Salvatore, sia stato un uomo buono e fedele. Voglio dire, «un servo fedele e prudente»

Omelia di san Girolamo Prete
Libr. 1 Commento al cap. 1 di Matteo


Perché fu concepito non da una semplice vergine, ma da una sposata? Primo, perché dalla genealogia di Giuseppe si mostrasse la stirpe di Maria; secondo, perch’ella non fosse lapidata dai Giudei come adultera: terzo, perché fuggitiva in Egitto avesse un sostegno. Il martire Ignazio aggiunge ancora una quarta ragione perché egli fu concepito da una sposata : affinché, dice, il suo concepimento rimanesse celato al diavolo, che lo credé il frutto non di una vergine, ma di una maritata. Prima che stessero insieme si scoperse che stava per esser madre per opera dello Spirito Santo» Matth. 1, 18. Si scoperse non da altri se non da Giuseppe, al quale per la confidenza di marito non sfuggiva nulla di quanto riguardava la futura sposa. Dal dirsi poi: « Prima che stessero insieme », non ne segue che stessero insieme dopo: perché la Scrittura constata ciò che non era avvenuto.

Omelia di sant’Ambrogio Vescovo
Lib. 4 al capo 4 di Luca, verso la fine


Guarda la clemenza del Signore Salvatore: né mosso a sdegno, né offeso dalla grave ingratitudine, né ferito dalla loro ingiustizia abbandona la Giudea: anzi dimentico dell’ingiuria, memore solo della clemenza, cerca di guadagnare dolcemente i cuori di questo popolo infedele, ora istruendolo, ora liberandone (gl’indemoniati), ora guarendone (i malati). E con ragione san Luca parla prima di un uomo liberato dallo spirito malvagio, e poi racconta la guarigione d’una donna. Perché il Signore era venuto per guarire l’uno e l’altro sesso; ma prima doveva guarire quello che fu creato prima: e non bisognava omettere (di guarire) quella che aveva peccato più per leggerezza di animo che per malvagità.

OMELIA

S. Giuseppe e le persecuzioni contro i Cattolici.

[A. Carmagnola: S. GIUSEPPE, Ragionamenti per il mese a lui consacrato. RAGIONAMENTO XIII. – Tipogr. e Libr. Salesiana. Torino, 1896]

Uno fra i tanti ammaestramenti che ci dà la storia è questo: che i buoni sono sempre stati ingiuriati, maltrattati, perseguitati dai cattivi. Difatti fin dal principio del mondo ci mostra Abele perché innocente e santo ucciso dal suo fratello Caino. In seguito ci mostra Giacobbe perché buono perseguitato dal suo fratello Esaù; e poi Giuseppe perché puro e casto venduto dai suoi fratelli, e dalla moglie di Putifarre fatto gettare dentro una prigione; Mosè perché fedele agli ordini di Dio ed esigente dagli altri la pratica dei medesimi, colpito dalle altrui mormorazioni ed ingiurie; Davide perché fatto secondo il cuor di Dio odiato a morte da Saulle; Elia perché santo profeta del Signore perseguitato dall’empia Gezabele e dallo scellerato Acabbo; Daniele, i tre fanciulli della fornace ardente, Eleazaro e cento e cento altri maltrattati perché osservatori esatti della santa legge di Dio. Né  questa è una dimostrazione, che appartenga unicamente alla storia sacra, della quale ho citato gli esempi, no, essa appartiene anche alla storia profana, imperciocchè la maggior parte delle ingiustizie, delle persecuzioni, delle scelleratezze, di tutti quanti i delitti di cui questa ci parla, sono l’effetto dell’odio dei malvagi contro dei buoni. Né di ciò vi deve esser meraviglia, giacché i buoni sono naturalmente un pugno negli occhi dei tristi. Questi vorrebbero operare il male, senza che alcuno li contrastasse menomamente e rinfacciasse la loro malvagità; ma poiché i buoni, anche senza volerlo direttamente, sono colla loro santa vita un contrasto continuo ed una continua riprensione alla vita malvagia dei tristi, perciò questi inveleniscono contro dei buoni e si fanno a perseguitarli in tutti i modi possibili. Or bene, il nostro caro S. Giuseppe, il quale fu dopo Maria il più gran Santo, l’uomo sommamente buono e giusto, sarà egli andato esente dai cattivi trattamenti dei malvagi? No, pur troppo. Tuttavia, egli sopportò i mali trattamenti con somma umiltà e pazienza, anzi con vera gioia. Nel che è opportunissimo esempio a noi Cristiani Cattolici, che appunto perché Cristiani Cattolici, siamo dal mondo perseguitati. Prendiamo adunque oggi questo esempio per noi tanto necessario. L’argomento è importantissimo; ponetevi perciò grande attenzione.

PRIMA PARTE.

Abbiamo ieri considerato come S. Giuseppe e Maria Santissima per obbedire all’editto del loro imperatore, lasciarono la città di Nazaret ove dimoravano e si recarono a Betlemme, distante circa quattro o cinque giorni di Cammino, Or bene è probabile che vi giungessero nel pomeriggio di quel giorno, che corrispondeva al nostro 24 Dicembre. Senz’altro si recarono tosto dal pubblico ufficiale per dare il proprio nome, né solamente il loro, ma eziandio quello di Gesù, che quanto prima doveva nascere. Così appunto pensano tra gli altri il Venerabile Beda e S. Alfonso Maria dei Liguori. Adempiuta per tal modo la prescrizione della legge, poiché cominciava a farsi notte, pensarono di cercare un luogo per ricoverarsi durante la medesima. Costumavasi in oriente, che presso le porte della città di qualche importanza fosse un fabbricato, più o meno vasto, destinato ad accogliere i forestieri e servir loro di ricovero. Chiamavasi con parola che presso a poco significa pubblico albergo. D’ordinario nulla c’era di più grossolano e povero, che cotesti alberghi od asili notturni. Quasi sempre l’albergo consisteva in un recinto quadrato con portico coperto lunghesso le mura; portico sostenuto da colonne di pietra o di legno, formanti quasi pilastri di arcata. Il suolo poi del portico era elevato alquanto a guisa di terrazza e ai viaggiatori serviva di letto per riposare e di mensa per mangiare. Ciascuno per altro doveva portar seco le stuoie o i tappeti e insieme gli alimenti. Lo spazzo quadrato del mezzo era destinato alle cavalcature, cammelli o giumenti, che fossero. Il certo si è che un luogo siffatto serviva assai più a mortificare le membra, che a dar loro un po’ di riposo. Qui adunque, siccome poveri, si presentarono Giuseppe e Maria a chiedere ospitalità. Ma la moltitudine degli arrivati era già così grande che, come dice il Vangelo, per essi non vi era più posto, non erat eis locus (Luc. II, 7). A Giuseppe dovette cascare il cuore, e ben possiamo immaginarci, che si sarà messo a supplicare: Un angolo, un brevissimo spazio, un posto pur che sia!… non per me, che non me ne importa di serenare la notte all’aperto,ma per questa povera mia sposa, la quale… oh Dio! Ma è inutile; l’albergo riboccava di forestierie gli si chiuse la porta in faccia.Ma qui bisogna considerare attentamente la cosa. Io dico adunque, che si allontanerebbe dal giusto assai chi pensasse che S. Giuseppe nell’esserestato respinto dal pubblico albergo, lo sia stato con cortesia ed umanità. Chi era alla testa del medesimo,per essere un uomo che stava in mezzo alla folla ed era seccato da mille istanze, doveva facilmente irritarsi. E ciò specialmente verso il fine ne della giornata in cui aveva già ricevuto tante noie. Quindi non è difficile il comprendere che cotesto pubblico ufficiale, nel licenziare S. Giuseppe da quel luogo, facesse uso di parole ingiuriose, di improperi e forse anche di imprecazioni, massime nel vedere il contegno così umile, così modesto, così riservato del Santo. Così pure,non è per nulla una supposizione infondata, che coloro i quali essendo già al possesso di un postonell’albergo, assecondando la baldanza, cheda ciò ne proveniva loro, si facessero a deridere e financo ad insultare S. Giuseppe e Maria, che per essere giunti troppo tardi, venivano messi alla porta con tanta mala grazia. Quindi è che non sembra ingannarsi punto la pietà secolare dei fedeli, allorché compatisce alle dolorose umiliazioni che Giuseppe e Maria dovettero soffrire in quella circostanza per i cattivi trattamenti che essi ricevettero: umiliazioni che tornavano loro tanto più gravi ed acerbe, non già per sé medesimi, ma per il Bambino Gesù, che era vicino a nascere, e che avrebbero voluto vedere da tutti sommamente onorato. Pertanto, dopo di essere stati così villanamente trattati alla porta del pubblico albergo, S. Giuseppe, secondo ché comunemente e giustamente si crede, volse in giro i suoi passi a cercare altrove, or in questa or in quell’altra casa un posto, se non per sé,almeno per la sua sposa. Ma anche a tutti questi altri luoghi non ricevette che repulse ed insulti, sicché colla pena più acerba nel cuore, come voi sapete, dovette poi invitare la sua Sposa Maria ad uscire di Betlemme e ricoverarsi con lei in una grotta della campagna.Ora, io mi fermo qui, e domando: Qual è la ragione principale, per cui S. Giuseppe non poté a Betlemme trovare albergo per la sua sposa e per sé? Quale la ragione per cui venne dai Betlemiti Respinto con ingiurie, villanie e mali trattamenti? Quale? Taluni dicono essere stata la povertà. Certamente questa è una forte ragione,giacché anche l’odierna esperienza ci dimostra che mentre si usano tanti riguardi verso le persone riccamente vestite, si trattano poi con alterigia e disdegno le persone vestite poveramente; e che ben aveva ragione l’Apostolo S. Giacomo di alzare la voce contro coloro che fanno questa distinzione di persone. Tuttavia, io penso che, la ragione principale per cui S. Giuseppe venne in tale circostanza fatto segno ai mali trattamenti dei Betlemiti, sia stata propriamente la sua bontà la sua giustizia. E difatti, se anche poveramente vestito, ma pur decentemente, come è da immaginare, egli si fosse presentato a quelle case confare energico, risoluto, autorevole, se egli avesse manifestato la sua discendenza dalla stirpe Di Davide, se più ancora egli avesse manifestato ai Betlemiti il grande mistero, che si nascondeva nel seno purissimo di Maria sua sposa, Par certo che che non solo non sarebbe stato respinto, mai Betlemiti sarebbero andati a gara per dargli ciascuno ospitalità in casa propria. Ma appunto. perché il vedevano presentarsi loro con aria umile, modesta, riservata, direi persino timida, perciò lo respingevano, aggiungendo persoprappiù le villanie e gli insulti. Sicché anche S. Giuseppe, propriamente perché buono e giusto, venne maltrattato dai malvagi. Ma forseché S. Giuseppe si adirò contro di essi? Forse che alle ingiurie rispose con ingiurie? O forse che di ciò mosse lamento contro la divina Provvidenza? Mai no. Il tutto sopportò con umiltà, con pazienza, persino con gioia. Egli pensava che quel Gesù che stava per nascere era stato dai profeti paragonato ad un agnello, che non si lamenta sotto le forbici del pastore che lo tosa, e che però avrebbe patito ogni sorta di scherni, ingiurie e di villanie e finalmente la passione e la morte senza lamentarsi mai, e già proponendosi l’esempio del futuro Redentore si animava con interna allegrezza ad imitarlo, giacché se egli allora penava e grandemente penava, non era per sé, ma unicamente per Gesù e per Maria. Ma quale fu la sorte di Giuseppe in questo avvenimento, tale eziandio fu mai sempre la sorte delle anime buone e giuste. Difatti gli Apostoli, che sono i primi fra i buoni che si presentano alla nostra ammirazione nel nuovo Testamento, furono subito perseguitati appena si misero a professare e predicare pubblicamente la fede e la morale di Gesù Cristo. Dopo gli Apostoli, i Martiri, i quali per la loro virtù nel mantenersi fermi alla fede di Gesù Cristo furono fatti morire con i più squisiti tormenti. Dopo i Martiri i Santi tutti, i quali o in un modo o in un altro furono dagli uomini maltrattati, svillaneggiati, calunniati, messi in catene, mandati in esilio sempre per la principale ragione della loro santità. Ma anche i Santi tutti come S. Giuseppe sopportarono sempre ogni dileggio e persecuzione con umiltà, pazienza e gioia, incominciando dagli Apostoli, dei quali sta scritto che se ne andavano allegri dal cospetto del Concilio, dove erano stati frustati, perché erano stati fatti degni di patire contumelie per il Nome di Gesù Cristo: ibant gaudentes a conspectu concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine Iesu contumeliam pati (Att. V, 41); e venendo su ai Martiri, che in mezzo ai loro tormenti trovavano ancora tanta forza da scherzare coi loro persecutori, come tra gli altri un S. Lorenzo; che diceva al tiranno: Suvvia, voltami dall’altra parte, ché da questa sono già abbastanza arrostito; fino agli ultimi Santi, i quali in mezzo alle persecuzioni hanno sempre lodato e benedetto Iddio, che si degnasse di renderli tanto simili al suo Divin Figliuolo Gesù, e chiamavano in grazia di essere sempre più disprezzati per Lui: Pati et contemni pro te. Or bene, tale eziandio è la sorte che tocca a noi Cristiani Cattolici, massime in questi ultimi tempi, appunto perché ci studiamo d’essere Cristiani Cattolici non solo di nome, ma anche di fatto, non solo in teoria, ma anche in pratica, perché insomma ci studiamo di essere giusti in mezzo ai tanti perversi che abbondano nel mondo. Ed in vero per cominciare dal Papa, e dai Vescovi che per la dignità, cui Iddio li ha sollevati, sono l’uno il duce supremo e gli altri i generali dei Cattolici, chi non sa quante villanie, quante ingiurie, quanti insulti sì lanciano contro di loro, massime allora che essi colla loro autorevole parola, collo zelo di cui sono santamente accesi si adoperano a piene forze per smascherare l’errore, per tenerne lontani gli incauti, per animar tutti all’adempimento dei loro doveri, compreso eziandio quello di cittadino? Oh allora non c’è calunnia, non c’è menzogna, non c’è impostura che contro di loro non si inventi; nei discorsi che si tengono, nei giornali che si stampano, nelle figure che si inventano si fa di tutto per vilipenderli, per accusarli, per condannarli. Questo, si blattera, è un Papa troppo superbo, il quale si ostina a reclamare per sé un regno che non gli compete e pretenderebbe vedere prostrati dinnanzi a sé mogi mogi tutti i sovrani del mondo; quest’altro è un Arcivescovo troppo intrigante e audace, che lascia di curare le anime dei suoi fedeli per intromettersi in affari che non gli spettano e fare il capo partito; quell’altro aspira ad avere nelle sue mani il regime di ogni ordine cittadino e così via via, assai di più di quello che per rispetto a sì grandi personaggi io non dico. – Di poi, dopo il Papa e i Vescovi, ecco i preti, che pei Cattolici sono come i capitani. Essi, voi lo sapete che non invento, sono insultati da per tutto e da tutti, sui giornali, nei romanzi, ai teatri, nelle sale di conversazione, dove loro si carica addosso ogni prepotenza, ogni ambizione, ogni vizio, sulle piazze, per le vie, dove non solo squadriglie di studenti, giovinastri e fanciulli tant’alti, ma eziandio persone che paiono volersi rispettare, li salutano coll’allegra fanfara dei qua qua e li riveriscono col bel titolo di corvaccio. E da ultimo venendo ai laici, che dire degli improperii, che si scaraventano contro di loro massime se sono uomini pubblici e che nei loro pubblici affari fanno coraggiosamente professione di Cattolicismo? Gli uh e gli oh, le maldicenze, le ingiurie, le fischiate sono per loro, massime in certe circostanze speciali, il pane quotidiano. Né ciò è men vero per i Cattolici, sebbene persone private. Che non si dice contro quel giovane, quella fanciulla, quella donna, quell’uomo, perché  frequentano la Chiesa e i Sacramenti, non bestemmiano e non partecipano a cattivi discorsi ed a male azioni? Che son bigotti, baciapile, succhiamoccoli e mille altre cose. Tant’è: anche i Cristiani Cattolici dei nostri giorni, appunto perché come Cristiani Cattolici cercano di evitar il male e fare il bene, sono villanamente insultati, maltrattati, perseguitati. Ma intanto che accade in ciò? Alcuni fra i Cattolici, nel vedersi continuamente fatti bersaglio all’ira dei tristi, si sfiduciano di una battaglia così lunga e finiscono a darla vinta al mondo e passare dalla parte dei malvagi; altri poi, per nulla curando l’insegnamento di Gesù Cristo, col quale ci mostra essere impossibile servire a due padroni, si studiano di regolarsi in modo da parer Cattolici coi Cattolici, liberali coi liberali e persino framassoni coi framassoni. Altri, infine, non entrando neppur essi nelle mire della divina Provvidenza, si lamentano del continuo della medesima e non sanno darsi pace perché non accorra sollecita a far presto trionfare la causa dei Cattolici perseguitati. Or bene, è questa la condotta che si deve tenere? Nossignori. Tale non fu la condotta di San Giuseppe: tale non fu quella di tutti gli altri Santi. Se vogliamo imitare il loro esempio ed imitandolo compiere il dovere, che abbiamo in faccia a Dio, dobbiamo tutti sopportare con umiltà, con pazienza e persino con gioia le persecuzioni dei malvagi. Oh! il disprezzo, l’insulto, la persecuzione è cosa che come a Cristiani non ci deve mancare. Gesù Cristo lo ha detto chiaro agli Apostoli, e nella persona degli Apostoli a tutti: Vos in mundo pressuram habebitis (Giov. XVI, 33): voi nel mondo patirete pressure. Vi malediranno, vi perseguiteranno, vi metteranno le mani addosso, ve ne faranno d’ogni sorta: non est discipulus super magistrum (Matt. X, 24); il discepolo non sarà trattato diversamente dal maestro: e come ora i maligni si scagliano contro di me, così un giorno si scaglieranno contro di voi. Così ha parlato Gesù Cristo, epperò l’Apostolo S. Paolo non è altro che l’eco fedele di Lui, quando dice che tutti quelli che vogliono vivere piamente in Gesù Cristo. soffriranno persecuzioni: Omnes qui pie volunt vivere in Christo Jesu persecutionem patientur. (2 Tim. III, 12). Ma appunto perciò è segno che noi non non siamo del mondo ed apparteniamo a Gesù Cisto. . Si de mundo essetis mundus quod suum esset diligeret. Se voi foste del mondo, vale a dire dei partiti anticattolici, questi vi farebbero mai sempre le loro carezze e vi prodigherebbero i loro favori: ma perché non siete tali, vi abbominano, vi maledicono, vi coprono di disprezzo: Propterea quia non estis de hoc mundo, mundus vos odit (Giov. XV, 19). E ciò non deve essere per tutti un grande eccitamento a soffrire le persecuzioni in pace, con umiltà, ed eziandio con gioia? l’essere. nella stessa mente di Dio separati dai malvagi, dai tristi, dagli ingiusti? e nel tempo stesso assomigliare così da vicino a Gesù Cristo? Coraggio adunque, coraggio! Prendiamo oggi da S. Giuseppe il grande esempio, risolviamo di praticarlo volonterosamente, ed un giorno ne avremo anche noi il premio avuto da S. Giuseppe.

SECONDA PARTE.

Gesù Cristo, che fu in sulla terra il primo disprezzato, è ora in cielo il primo esaltato: propter quod et Deus exaltavit illum et donavit illi nomen quod est super omne nomen. (Filipp. II, 9). Dopo Gesù Maria, e dopo Maria San Giuseppe, e poi tutti gli altri Santi, i quali, credetelo, se in cielo potessero ancora desiderar qualche cosa, desidererebbero certamente di poter venire ancora in terra per patire ed essere disprezzati di più di quel che lo siano stato. Or bene quella è pure la nostra sorte, se soffriremo ora volentieri le ingiurie, i disprezzi, le persecuzioni dei cattivi. Gesù Cristo lo ha detto, ed Egli non falla: Beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam, quoniam ipsorum est regnum cœlorum (Matt. V, 10). Beati quelli che soffriranno persecuzioni per la giustizia, perché di essi è il regno dei Cieli. Ora noi siamo i derisi, i disprezzati, i perseguitati, e i nostri avversari ridono, sghignazzano, trionfano. Ma verrà un giorno nel quale le sorti saranno ben mutate.È questa appunto la verità che il glorioso martire San Valeriano, sposo di Santa Cecilia, faceva così bellamente intendere al prefetto Almacchio, che poi lo condannava a morte:« Nel tempo dell’inverno io ho veduto alcuni uomini traversare la campagna e tutto allegri ed esultanti abbandonarsi ad ogni sorta di piaceri. Nel tempo stesso io scorgeva nei campi molti contadini, intenti gli uni a zappare la terra e a piantar viti, gli altri ad innestare alberi e a recidere col ferro i virgulti, che potessero recar nocumento alle piantagioni; e tutti di buona lena attendere con gran fatica ai lavori d’agricoltura. Gli uomini del piacere, avendo riguardato quei contadini, deridevano le loro fatiche e dicevano: O stolti che siete, lasciate un po’ questi lavori troppo gravosi e venite con noi a stare allegri ed a prender parte ai nostri spassi. Perché  mai compiere sì dure fatiche? Perché logorar la vita in un’occupazione sì triste? E dicendo tali cose davano in iscoppi di risa, battevano le mani e facevano degli insulti. Ma i contadini continuavano pazientemente a lavorare. Intanto passò la stagione delle piogge e del freddo e successero i bei giorni del sereno; e quei campi coltivati con tanti sudori si erano coperti di rigogliosa vegetazione; qua e là vedevansi i rosai vagamente fioriti: dai festoni delle viti pendevano magnifici grappoli, ed i rami degli alberi si curvavano sotto il peso di abbondanti e deliziosi frutti. E i contadini, le cui fatiche erano state schernite, erano in grande allegrezza, mentre gli sciocchi e frivoli abitatori della città, che si erano vantati di maggior saggezza, si trovavano nella più spaventosa penuria, e pentiti, ma troppo tardi, del tempo sprecato negli spassi, si lamentavano e andavano dicendo: Ecco là coloro, che noi insensati chiamavamo stolti; i loro sudori ci sembravano una vergogna; la vita, che essi menavano ci metteva orrore, tanto appariva miserabile agli occhi nostri; tenevamo per vili le loro persone e credevamo disonorarci coll’entrare in loro compagnia. Ma ora il fatto prova, che i saggi erano essi, e gli stolti noi, caduti adesso nella miseria e nella infelicità, disgraziati che siamo. Oh se avessimo faticato anche noi! Se anche noi avessimo fatto come quei contadini! Ma noi li abbiamo beffati in mezzo alle nostre passate delizie, ed ora eccoli essi circondati di fiori e coronati di gloria ». Così il martire S. Valeriano bellamente espose l’esito dell’apparente mistero d’ingiustizia che vi ha ora nel trionfo dei malvagi e nelle persecuzioni e sofferenze dei buoni. E tale appunto sarà il grido che metteranno fuori i tristi dalla loro bocca spumante di rabbia nel giorno dell’estremo giudizio: Nos insensati, vitam illorum æstimabamus insaniam et finem illorum sine honore: ecce quomodo computati sunt inter filios Dei et inter Sanctos sors illorum est (Sap. V, 4). E mentre noi, se avremo patito volentieri le persecuzioni e le maledizioni del mondo, ci sentiremo a benedire da Dio e ad invitare da Lui al possesso del regno dei cieli: Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi (Matt. XXV, 34): i malvagi si sentiranno invece da Dio medesimo a maledire per sempre: Discedite a me, maledicti, in ignem æternum. (Ibid.41). In quel giorno adunque in cui noi siamo insultati e perseguitati per la nostra fede, a somiglianza di S. Giuseppe rallegriamoci, pensando che in paradiso ci sta preparata una gran  mercede per i nostri patimenti: Gaudete et exultate in illa die, quoniam merces vestra copiosa est in cœlis (Matt. V, 12).

IL CREDO

Offertorium


Orémus
Ps LXXXVIII: 25.


Véritas mea et misericórdia mea cum ipso: et in nómine meo exaltábitur cornu ejus.

[La mia fedeltà e la mia misericordia sono con lui: e nel mio nome sarà esaltata la sua potenza].

Secreta

Débitum tibi, Dómine, nostræ réddimus servitútis, supplíciter exorántes: ut, suffrágiis beáti Joseph, Sponsi Genetrícis Fílii tui Jesu Christi, Dómini nostri, in nobis tua múnera tueáris, ob cujus venerándam festivitátem laudis tibi hóstias immolámus.

[Ti rendiamo, o Signore, il doveroso omaggio della nostra sudditanza, prengandoTi supplichevolmente, di custodire in noi i tuoi doni per intercessione del beato Giuseppe, Sposo della Madre del Figlio Tuo Gesù Cristo, nostro Signore, nella cui veneranda solennità Ti presentiamo appunto queste ostie di lode.]

Præfatio  de S. Joseph

… Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beáti Joseph débitis magnificáre præcóniis, benedícere et prædicáre. Qui et vir justus, a te Deíparæ Vírgini Sponsus est datus: et fidélis servus ac prudens, super Famíliam tuam est constitútus: ut Unigénitum tuum, Sancti Spíritus obumbratióne concéptum, paterna vice custodíret, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Coeli coelorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno: noi ti glorifichiamo, ti benediciamo e solennemente ti lodiamo di S. Giuseppe. Egli, uomo giusto, da te fu prescelto come Sposo della Vergine Madre di Dio, e servo saggio e fedele fu posto a capo della tua famiglia, per custodire, come padre, il tuo unico Figlio, concepito per opera dello Spirito Santo, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt 1: 20.


Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est. [Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo].

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, quǽsumus, miséricors Deus: et, intercedénte pro nobis beáto Joseph Confessóre, tua circa nos propitiátus dona custódi.
[Assistici, Te ne preghiamo, O Dio misericordioso: e, intercedendo per noi il beato Giuseppe Confessore, propizio custodisci in noi i tuoi doni].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA II. DI QUARESIMA (2022)

DOMENICA II DI QUARESIMA (2022)

Stazione a S. Maria in Domnica

Semidoppio. – Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

La Stazione a Roma si tiene nella chiesa di S. Maria in Domnica, chiamata così perché i Cristiani si riunivano, in altri tempi, la Domenica nella casa del Signore (Dominicum). Si dice che S. Lorenzo, distribuisse lì i beni della Chiesa ai poveri. Era una delle parrocchie romane del V secolo. Come nelle Domeniche di Settuagesima, di Sessagesima e di Quinquagesima, i testi dell’Ufficiatura divina formano la trama delle Messe della 2a, 3a, e 4a Domenica di Quaresima. – Il Breviario parla in questo giorno del patriarca Giacobbe che è un modello della più assoluta fiducia in Dio in mezzo a tutte le avversità. Assai spesso la Scrittura chiama il Signore, il Dio di Giacobbe o d’Israele per mostrarlo come protettore. « Dio d’Israele, dice l’Introito, liberaci da ogni male ». La Chiesa quest’oggi si indirizza al Dio di Giacobbe, cioè al Dio che protegge quelli che lo servono. Il versetto dell’Introito dice che « colui che confida in Dio non avrà mai a pentirsene ». L’Orazione ci fa domandare a Dio di guardarci interiormente ed esteriormente per essere preservati da ogni avversità ». Il Graduale e il Tratto supplicano il Signore di liberarci dalle nostre angosce e tribolazioni » e « che ci visiti per salvarci ». Non si potrebbe meglio riassumere la vita del patriarca Giacobbe che Dio aiutò sempre in mezzo alle sue angosce e nel quale, dice S. Ambrogio, « noi dobbiamo riconoscere un coraggio singolare e una grande pazienza nel lavoro e nelle difficoltà » (4° Lez. Della 3° Domenica di Quaresima).  – Giacobbe fu scelto da Dio per essere l’erede delle sue promesse, come prima aveva eletto Isacco, Abramo, Seth e Noè. Giacobbe significa infatti « soppiantatore »: egli dimostrò il significato di questo nome allorché prese da Esaù il diritto di primogenitura per un piatto di lenticchie e quando ottenne per sorpresa, la benedizione del figlio primogenito che il padre voleva dare a Esaù. Difatti Isacco benedì il figlio più giovane dopo aver palpato le mani che Rebecca aveva coperte di pelle di capretto e gli disse: « Le nazioni si prosternino dinanzi a te e tu sii il signore dei tuoi fratelli ». Allorquando Giacobbe dovette fuggire per evitare la vendetta di Esaù, egli vide in sogno una scala che si innalzava fino al cielo e per essa gli Angeli salivano e discendevano. Sulla sommità vi era l’Eterno che gli disse: « Tutte le nazioni saranno benedette in Colui che nascerà da te. Io sarò il tuo protettore ovunque tu andrai, non ti abbandonerò senza aver compiuto quanto ti ho detto. Dopo 20 anni, Giacobbe ritornò e un Angelo lottò per l’intera notte contro di lui senza riuscire a vincerlo. Al mattino l’Angelo gli disse: « Tu non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele (il che significa forte con Dio), perché Dio è con te e nessuno ti vincerà » (Il sacramentario Gallicano (Bobbio) chiama Giacobbe « Maestro di potenza suprema »).Giacobbe acquistò infatti la confidenza di suo fratello e si riconciliò con lui.Nella storia di questo Patriarca tutto è figura di Cristo e della Chiesa. – La benedizione, infatti, che Isacco impartì a suo figlio Giacobbe — scrive S. Agostino — ha un significato simbolico perché le pelli di capretto significano i peccati, e Giacobbe, rivestito di queste pelli, è l’immagine di Colui che, non avendo peccati, porta quelli degli altri » (Mattutino). Quando il Vescovo mette i guanti nella Messa pontificale, dice infatti, che « Gesù si è offerto per noi nella somiglianza della carne del peccato ». « Ha umiliato fino allo stato di schiavo, spiega S. Leone, la sua immutabile divinità per redimere il genere umano e per questo il Salvatore aveva promesso in termini formali e precisi che alcuni dei suoi discepoli « non sarebbero giunti alla morte senza che avessero visto il Figlio dell’uomo venire nel suo regno » cioè nella gloria regale appartenente spiritualmente alla natura umana presa per opera del Verbo: gloria che il Signore volle rendere visibile ai suoi tre discepoli, perché sebbene riconoscessero in lui la Maestà di Dio, essi ignoravano ancora quali prerogative avesse il corpo rivestito della divinità (3° Notturno). Sulla montagna santa, ove Gesù si trasfigurò, si fece sentire una voce che disse: « Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo ». Dio Padre benedì il suo Figlio rivestito della nostra carne di peccato, come Isacco aveva benedetto Giacobbe, rivestito delle pelli di capretto. E questa benedizione data a Gesù, è data anche ai Gentili a preferenza dei Giudei infedeli, come essa fu data a Giacobbe a preferenza del primogenito. Così il Vescovo mettendosi i guanti pontificali, indirizza a Dio questa preghiera « Circonda le mie mani, o Signore, della purità del nuovo uomo disceso dal cielo, affinché, come Giacobbe che s’era coperte le mani con le pelli di capretto ottenne la benedizione del padre suo, dopo avergli offerto dei cibi e una bevanda piacevolissima, cosi, anch’io, nell’offrirti con le mie mani la vittima della salute, ottenga la benedizione della tua grazia per nostro Signore ».Noi siamo benedetti dal Padre in Gesù Cristo; Egli è il nostro primogenito e il nostro capo; noi dobbiamo ascoltarlo perché ci ha scelti per essere il suo popolo. « Noi vi preghiamo nel Signore Gesù, dice S. Paolo, di camminare in maniera da progredire sempre più. Voi conoscete quali precetti io vi ho dati da parte del Signore Gesù Cristo, perché Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla santificazione in Gesù Cristo Signor nostro » (Epist.). — In S. Giovanni (I, 51) Gesù applica a se stesso l’apparizione della scala di Giacobbe per mostrare che in mezzo alle persecuzioni alle quali è fatto segno, Egli era continuamente sotto la protezione di Dio e degli Angeli suoi. « Come Esaù, dice S. Ippolito, medita la morte di suo fratello, il popolo giudeo congiura contro Gesù e contro la Chiesa. Giacobbe dovette fuggirsene lontano; lo stesso Cristo, respinto dall’incredulità dei suoi dovette partire per la Galilea dove la Chiesa, formata di Gentili, gli è data per sposa ». Alla fine dei tempi, questi due popoli si riconcilieranno come Esaù e Giacobbe.La Messa di questa Domenica ci fa comprendere il mistero pasquale che stiamo per celebrare. Giacobbe vide il Dio della gloria, gli Apostoli videro Gesù trasfigurato, presto la Chiesa mostrerà a noi il Salvatore risuscitato.

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV:6; XXIV:3; XXIV:22

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Ps XXIV:1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam.

[A te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Orémus.

Deus, qui cónspicis omni nos virtúte destítui: intérius exteriúsque custódi; ut ab ómnibus adversitátibus muniámur In córpore, et a pravis cogitatiónibus mundémur in mente.

[O Dio, che ci vedi privi di ogni forza, custodíscici all’interno e all’esterno, affinché siamo líberi da ogni avversità nel corpo e abbiamo mondata la mente da ogni cattivo pensiero.]

LECTIO

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses.

1 Thess IV: 1-7.

“Fratres: Rogámus vos et obsecrámus in Dómino Jesu: ut, quemádmodum accepístis a nobis, quómodo opórteat vos ambuláre et placére Deo, sic et ambulétis, ut abundétis magis. Scitis enim, quæ præcépta déderim vobis Per Dominum Jesum. Hæc est enim volúntas Dei, sanctificátio vestra: ut abstineátis vos a fornicatióne, ut sciat unusquísque vestrum vas suum possidére in sanctificatióne et honóre; non in passióne desidérii, sicut et gentes, quæ ignórant Deum: et ne quis supergrediátur neque circumvéniat in negótio fratrem suum: quóniam vindex est Dóminus de his ómnibus, sicut prædíximus vobis et testificáti sumus. Non enim vocávit nos Deus in immundítiam, sed in sanctificatiónem: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

[“Fratelli: Vi preghiamo e supplichiamo nel Signore, che, avendo da noi appreso la norma, secondo la quale dovete condurvi per piacere a Dio, continuiate a seguire questa norma, progredendo sempre più. Poiché la volontà di Dio è questa: la vostra santificazione: che vi asteniate dalla fornicazione, che ciascuno di voi sappia possedere il proprio corpo nella santità e nell’onestà, e non seguendo l’impeto delle passioni, come fanno i pagani che non conoscono Dio; che nessuno su questo punto soverchi o raggiri il proprio fratello: che Dio fa vendetta di tutte queste cose, come vi abbiamo già detto e dichiarato. Dio, infatti, non ci ha chiamati all’immondezza, ma alla santità: in Cristo Gesù Signor nostro”]

L’ONORE CRISTIANO.

C’è nell’epistola d’oggi una parola che colpisce: l’appello all’onore. Se ne fa tanto commercio, tanto uso ed abuso di questa parola nella letteratura e nella vita mondana. Il mondo considera un po’ l’onore come una sua scoperta, o, almeno, come un suo monopolio. L’onore è nel mondo, o si crede sia, il surrogato laico del dovere. Noi Cristiani, secondo questo modo assai diffuso di vedere, avremmo il dovere, la coscienza; il mondo avrebbe, lui, l’onore. Più trascendentale il primo, più concreto il secondo. E onore vuol dire un nobile senso della propria dignità, un cominciar noi ad avere per noi quel rispetto che pretendiamo dagli altri. – Ebbene San Paolo parla di onore come di un dovere ai primi Cristiani, ai Cristiani d’ogni generazione, come parla di santità. Dio ci vuol santi e noi dobbiamo diventarlo sempre di più come numero e come intensità. « Hæc et voluntas Dei sanctificatio vestra ». Di questa santità l’Apostolo specifica due elementi: purezza e carità, una carità assorbente e riassorbente in sé la giustizia. Purezza! e la purezza è il rispetto al proprio corpo, è la dignità della nostra condotta umana anche nel momento in apparenza più brutale della nostra vita. – C’è chi si lascia degradare nel suo corpo dalle ignobili passioni, dai miseri istinti di esso; ma c’è chi solleva e nobilita tutto questo: c’è chi possiede e domina nobilmente l’« io » inferiore e animale: trascinarlo in alto, umanizzarlo, divinizzarlo anche. È  una novità. I pagani non le pensano neppure queste belle, grandi cose, tanto sono lontani dal farle. Hanno evertito Dio, poveri pagani! È stata la prima forma di avvilimento e il principio funesto di tutte le altre. Mancò il punto a cui rifarsi, quasi sospendersi, e si rotolò in basso. San Paolo esprime lo schifo, il ribrezzo dei costumi pagani, corrotti e crudeli. Sono le due forme di bestialità su cui egli insiste e dalle quali scongiura i Cristiani di guardarsi, suggerendo le formule dell’onore: custodire onorato anche il proprio organismo, custodendolo santo. « Mori potius quam fœdari: » morire prima di disonorarsi, la cavalleresca formula ci torna alla memoria come una formula di sapore e di origine cristiana. L’onore non è più una convenzione, un quid di cui sono in qualche modo arbitri gli altri e che contro gli altri dobbiamo eventualmente difendere, è invece un quid di cui siamo arbitri noi stessi e che dobbiamo difendere contro gli istinti vergognosi degeneranti: difenderlo in nome e per l’onore stesso di Dio. Il mondo non farà che riprendere questa idea dell’onore per falsificarla strappandola al suo ambiente sacro, laicizzandola. Noi siamo i custodi vigili. Sdegnosi, colle opere più che con le parole, proclamiamo il programma: « mori potius quam fœdari ». Non tutto è perduto, nulla è perduto quando è salvo l’onore.

 Graduale

Ps XXIV: 17-18

Tribulatiónes cordis mei dilatátæ sunt: de necessitátibus meis éripe me, Dómine,

[Le tribolazioni del mio cuore sono aumentate: líberami, o Signore, dalle mie angustie.]

Vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea.

[Guarda alla mia umiliazione e alla mia pena, e perdònami tutti i peccati.]

Tractus Ps CV:1-4

Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus.

[Lodate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia.]

Quis loquétur poténtias Dómini: audítas fáciet omnes laudes ejus?

[Chi potrà narrare la potenza del Signore: o far sentire tutte le sue lodi?]

Beáti, qui custódiunt judícium et fáciunt justítiam in omni témpore.

[Beati quelli che ossérvano la rettitudine e práticano sempre la giustizia.]

Meménto nostri, Dómine, in beneplácito pópuli tui: vísita nos in salutári tuo.

[Ricórdati di noi, o Signore, nella tua benevolenza verso il tuo popolo, vieni a visitarci con la tua salvezza.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.

Matt XVII: 1-9

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus Petrum, et Jacóbum, et Joánnem fratrem eius, et duxit illos in montem excélsum seórsum: et transfigurátus est ante eos. Et resplénduit fácies ejus sicut sol: vestiménta autem ejus facta sunt alba sicut nix. Et ecce, apparuérunt illis Móyses et Elías cum eo loquéntes. Respóndens autem Petrus, dixit ad Jesum: Dómine, bonum est nos hic esse: si vis, faciámus hic tria tabernácula, tibi unum, Móysi unum et Elíæ unum. Adhuc eo loquénte, ecce, nubes lúcida obumbrávit eos. Et ecce vox de nube, dicens: Hic est Fílius meus diléctus, in quo mihi bene complácui: ipsum audíte. Et audiéntes discípuli, cecidérunt in fáciem suam, et timuérunt valde. Et accéssit Jesus, et tétigit eos, dixítque eis: Súrgite, et nolíte timére. Levántes autem óculos suos, néminem vidérunt nisi solum Jesum. Et descendéntibus illis de monte, præcépit eis Jesus, dicens: Némini dixéritis visiónem, donec Fílius hóminis a mórtuis resúrgat.”

[In quel tempo Gesù prese con sé Pietro, e Giacomo, e Giovanni, suo fratello, e li menò separatamente sopra un alto monte; e fu dinanzi ad essi trasfigurato. E il suo volto era luminoso come il sole, e le sue vesti bianche come la neve. E ad un tratto apparvero ad essi Mosè ed Elia, i quali discorrevano con lui. E Pietro prendendo la parola, disse a Gesù: Signore, buona cosa è per noi lo star qui: se a te piace, facciam qui tre padiglioni, uno per te, uno per Mosè, e uno per Elia. Prima che egli finisse di dire, ecco che una nuvola risplendente, li adombrò. Ed ecco dalla nuvola una voce che disse: Questi è il mio Figliuolo diletto, nel quale io mi sono compiaciuto: lui ascoltate. Udito ciò, i discepoli caddero bocconi per terra, ed ebbero gran timore. Ma Gesù si accostò ad essi, e toccolli, e disse loro: Alzatevi, e non temete. E alzando gli occhi, non videro nessuno, fuori del solo Gesù. E nel calare dal monte, Gesù ordinò loro, dicendo: Non dite a chicchessia quel che avete veduto, prima che il Figliuol dell’uomo sia risuscitato da morte.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

CREDO LA VITA ETERNA

Quando Gesù per la prima volta disse ai suoi Apostoli che in un giorno non lontano l’avrebbero messo in croce, essi furono presi da una grande delusione e da un grande abbattimento. Che Figlio di Dio era, se si lasciava schiacciare dai suoi nemici? Dov’era dunque il suo Regno per il quale avevano abbandonato e casa e famiglia e tutto? – Il Maestro comprese ch’era necessario sollevarli di coraggio. Ne scelse tre: Pietro, perché era il capo; Giacomo, perché era il primo degli Apostoli che sarebbe stato ucciso; Giovanni perché, essendo l’amico del cuore, lo voleva vicino in ogni segreto. Con loro salì un’alta montagna, e arrivò sulla cima che già spuntavano le prime stelle della sera. Come suo costume, Gesù si pose a pregare: e i tre, rimasti a qualche passo di lontananza, vinti dal sonno, dormivano sull’erba. Quando si risvegliarono, si trovarono davanti agli occhi uno spettacolo meraviglioso: Gesù era trasfigurato. Il suo volto raggiava come il sole, le sue vesti scintillavano come il riverbero della neve; ai fianchi Mosè ed Elia discorrevano con Lui, in un momento in cui i tre personaggi fecero per andarsene, Pietro gridò: « Maestro, com’è bello star qui! Piantiamo tre tende, e non scendiamo più al basso ». Il suo desiderio non fu accolto. Parlava ancora che già una nuvola di luce abbagliante avvolgeva tutti, e da essa risuonò una voce che abbatté gli Apostoli con la faccia contro terra: « Questi è il mio Figlio diletto! ». I tre, che stavano ancora prostrati, sentirono una mano che li toccava sulla spalla. Era Gesù; ma solo, con la faccia d’ogni giorno, col suo povero mantello di lana. «Vi raccomando — diceva — di non dir niente a nessuno finché non sarò risuscitato da morte ». Sull’onda di gioia che li ricolmava, tornò a galla il triste pensiero della morte. Ma ora non si scandalizzarono più, benché ancora non comprendessero bene. I nemici potranno mettere in croce il Figlio dell’uomo, ma non potranno spegnere l’immensa luce ch’Egli nascondeva sotto le umane apparenze. Questa luce avrebbe saputo ridare la vita al corpo esanime del Crocifisso. – Giovanni si ricorderà del volto sfolgorante di Gesù nell’ora del Calvario quando lo vedrà sfigurato di sputi e di sangue: e crederà che quella faccia agonizzante è quella del Figlio di Dio. – Giacomo si ricorderà d’aver visto e d’aver udito Mosè ed Elia, vivi e gloriosi benché morti da secoli, e senza paura curverà la testa sotto la spada di Erode Agrippa (Atti, XII, 2). Anch’egli andava a vivere nella gloria di Mosè e di Elia ai fianchi di Cristo. Anzi (lo racconta Eusebio, Hist. eccl., II, 9) era tanta la certezza d’entrare nella vita eterna, che il volto gli raggiava come se fosse già un poco trasfigurato. Sicché, colui che l’aveva trascinato al tribunale, vedendolo, credette e confessò d’essere egli pure Cristiano. Entrambi furono menati al supplizio, e, strada facendo, colui pregò Giacomo a perdonargli. L’Apostolo rifletté un momento. « La pace sia con te » gli disse poi e l’abbracciò. Un medesimo colpo staccò insieme due teste. Il ricordo della trasfigurazione sul Tabor non si cancellò più neppure dalla mente di Pietro, che ai primi Cristiani scriveva: « Figliuoli, la vita eterna non è una favola. Ce l’ha rivelato nostro Signore Gesù Cristo, il quale è il Figlio di Dio. Io con questi occhi l’ho visto trasfigurato nella gloria del Padre, io con queste orecchie ho udito la voce che lo proclamava Figlio diletto; proprio io, una volta che mi trovavo con Lui sulla montagna » (II Petr., I, 16-18). Non è solo per i tre Apostoli che Gesù s’è trasfigurato sul Tabor; ma anche per tutti noi. Per dare anche a noi una testimonianza della sua gloria di Figlio di Dio, gloria che tiene preparata per tutti i buoni Cristiani dopo la morte; per dare anche a noi la forza di combattere e di soffrire per amor del Paradiso. Che cos’è la vita eterna? Che conto ne facciamo? – CHE COS’È LA VITA ETERNA. Vedere Dio proprio come è; amare Dio come sulla terra si può amare un padre e una madre; godere quel che gode Dio, infinitamente quindi, senza più dolori; vivere con la sua stessa vita, cioè per sempre, senza esaurimenti, malattie, o morte. Cose che si possono dire ma non capire: sono troppo più grandi di noi. Può un bambino in fasce capire com’è la vita e la gioia di suo padre? No. Tanto meno possiamo capire noi, povere formicuzze, com’è la vita e la gioia di nostro padre Iddio, di cui un giorno Egli ci farà partecipi. A S. Paolo il Signore concesse di gustare per un momento un poco di Paradiso, ma non trovò parola che bastasse ad esprimere quella beatitudine: « Nessun occhio d’uomo ha mai visto ciò che io vidi; nessun cuore d’uomo ha mai gustato ciò che io gustai. Ebbene, lo tiene preparato per tutti quelli che l’amano » (I Cor., II, 9). Questo grido d’impotenza di San Paolo è la più commossa ed eloquente evocazione della vita eterna. – S. Caterina di Siena non sapeva scrivere. Un giorno ha una visione in cui le vien rivelato pallidamente un lembo di Paradiso. Un tale impeto di gioia la invade che prende una penna e d’improvviso scrive: lei, ignara d’alfabeto. Un’altra santa dello stesso nome, S. Caterina Vigri di Bologna, non sapeva musica né mai aveva preso tra le mani uno strumento. Essa è gravemente ammalata, è sul punto di morire. Dio le concede una primizia della vita eterna che l’aspetta. Le pare allora di trovarsi in un prato verde e fiorito, dov’era il trono del Re del Cielo, circondato da zone di santi, da aureole fiammanti d’Angeli. Accanto al trono vide la Vergine e dinanzi stava Davide in atto di cantare. Caterina sentì solamente queste parole del Salmo: « …et gloria eius in te videbitur ». Ritornata in sé, la santa moribonda afferra un piccolo liuto, e suona e canta miracolosamente, lei ignara d’ogni musica. Nel suo convento le monache conservano ancora quel liuto come reliquia. Se il fiume di gioia che letifica la città di Dio, spruzzando con una sola goccia l’anima nostra, la trasforma così miracolosamente, che sarà quando tutto il fiume, non appena una goccia, inonderà l’anima nostra? Quando avremo non questa carne pesante e incurvata al male, ma un corpo trasfigurato come quello di Cristo sul Tabor, adatto cioè a gustare quella gioia infinita? – CHE CONTO NE FACCIAMO. Nessuno può entrare nella vita eterna, se essa prima non entra in lui. E deve entrare in lui come luce nella sua mente, come forza nelle sue azioni. Che vale ripetere ogni giorno « credo nella vita eterna », se poi non se ne fa nessun conto nella maniera di pensare, nella maniera di agire? – Luce nella mente, perché il pensiero della vita eterna deve essere la stella a cui son volti i nostri pensieri. L’operaio che torna al sabato stanco dal lavoro, ma contento perché tiene in tasca la buona paga che ha meritato, deve pensare: « E in questa settimana che cosa ho guadagnato per la vita eterna? » – La madre di famiglia che si reca a riposo lieta perché ha provveduto all’educazione sana e intelligente dei suoi figliuoli, deve pensare: « E ho provveduto anche per la loro educazione alla vita eterna? Ho insegnato loro, mane e sera, a congiungere le mani, a pregare? ». L’uomo che va alla banca a deporre il frutto dei suoi risparmi, deve pensare: « E alla banca della vita eterna che cosa depongo? Che cosa ho dato in elemosina ai poveri e alle opere buone? » L’ammalato che soffre, che forse non potrà più riavere la salute o l’uso di qualche membro, pensa alla vita eterna e si consola. Anche il vecchio che sente ormai prossima la fine della vita, non si lascia prendere dalla cupa tristezza, ma pensa alla vita eterna e purifica la sua coscienza. « Ah tu non sai questa cosa atroce che ai vecchi avviene: uno specchio, e la  desolazione di vedersi ogni giorno più finiti!… » ha scritto in un suo lavoro un grande drammaturgo vecchio e senza fede. (Luigi Pirandello, in Quando si è Qualcuno). – Ma S. Paolo che credeva nella vita eterna e si sentiva quaggiù come un nomade in viaggio verso la città celeste, scrisse: « Abitiamo come sotto una tenda né ci deve rincrescere che si sfasci: Dio ci tiene preparata una dimora nei cieli, non costrutta da mano d’uomo né soggetta alla lima del tempo » (II Cor., V, 1). – Forza nelle azioni. Chi dava forza a S. Stefano di morire, così giovane e così tranquillo, sotto la crudele sassaiola? La vita eterna. « Io vedo i cieli aperti… » . S. Carpo vescovo d’una città d’Asia, vecchio e tremante, fu messo in croce: sorrideva tra gli spasimi. « Chi ti fa sorridere?» gli dicevano. Rispose. « Vedo la gloria di Dio e il cuore trasalisce di gioia ». Come facevano i Santi — domandano molti Cristiani — a vivere così puri, a digiunare così a lungo e così aspramente, se a noi riesce troppo difficile compiere un fioretto, astenerci dal grasso al venerdì, fuggire la sensualità del pensiero, della parola, della azione? La musica della vita eterna infondeva in loro meravigliose forze. – Sì legge di S. Nicola da Tolentino che mentre pregava di notte spesso udiva gli Angeli cantare. E tanta dolcezza gli inteneriva il cuore che sospirava: « Desidero di morire e stare con Gesù » (Brev. Ambr., 10 sett.). – Quando l’eco di questo concerto arrivava al beato Cafasso questi gridava: « O Paradiso! O Paradiso! chi pensa a te non conosce stanchezza ». Ora possiamo comprendere perché nelle cose della Religione siamo sempre stanchi e annoiati: perché non pensiamo abbastanza al Paradiso; perché non ci fermiamo mai ad ascoltare l’eco di quella divina musica.- Un poeta inglese (Wordsworth in The Excursion) racconta di un fanciullo in viaggio verso l’oceano che non ha mai visto, e da cui è misteriosamente attratto. Cammina lungo i fiumi, attraversa deserti e foreste. Quando la stanchezza lo prende o un pericolo lo spaventa o la solitudine lo scoraggia, allora mette al suo orecchio una conchiglia; tosto il suo viso si illumina di gioia, e novello ardimento gli corre in cuore. In quella conchiglia egli ode il lontano murmure del mare che lo chiama. Anche noi siamo fanciulli in viaggio verso l’oceano della vita eterna, che non abbiamo ancor visto ma da cui siamo misteriosamente attratti, perché creati per essa. – Camminiamo in mezzo ai pericoli e alle difficoltà di questa vita. Se talvolta le passioni o le tribolazioni staranno per stancarci, o per abbatterci, ricordiamoci allora di mettere al nostro orecchio, come conchiglia, qualcuna delle parole del Signore, dove c’è murmure della vita eterna che ci aspetta. Questa ad esempio: « Io vado a preparare un posto: per te ». (Giov. XIV, 2). Quest’altra: « Coraggio; che il tuo nome è scritto nel cielo » (Lc., X, 20). Sentiremo così gioia e ardire nel camminare sulla via diritta dei comandamenti e dell’amore fino alla meta suprema.

Domine, bonum est hic esse! Che cosa vedevano i suoi occhi, che cosa godeva la sua anima, quando Pietro gridò così: nemmeno lui avrebbe potuto poi dirlo, perché le gioie del Paradiso sono inesprimibili. Chissà però quante volte nella vita si sarà ricordato di quell’ora fugace! Nei momenti di tentazione, di tribolazione, di martirio, con la sua fantasia sarà ritornato sulla cima di questo monte, per ritrovare il coraggio di lottare e di sopportare fino alla fine. « Coraggio Pietro! — si sarà detto; — quello che hai gustato per un’ora, potrai gustarlo per un’eternità. Spera e avanti! ». Se anche noi avessimo una così viva speranza e ci potessimo dire: « Quello che San Pietro ha gustato per un’ora, io pure potrò gustare per l’eternità » non è vero che ci sentiremmo più forti nella tentazione e nella sofferenza? Gli è che al Paradiso ci crediamo scialbamente, e non lo desideriamo mai. E pensare che Dio, benché onnipotente e infinito nel suo amore, non poteva prepararci un dono più grande e più bello. – Che cos’è il Paradiso? È una gioia tanto grande e tanto bella, che quaggiù non riusciremo mai a capirla. Immaginate — scrive S. Gregorio Magno ne’ suoì Dialoghi — un bambino che sia nato e cresciuto in una sotterranea prigione: egli non ha mai visto un raggio di sole, non sa che siano le stelle, ignora la bellezza d’un paesaggio invaso dalla luce diurna, o tremante sotto il pallore lunare. Ebbene, la sua madre che sta nella prigione, accanto a lui, vuole istruirlo sulle bellezze del mondo. « Figlio mio, se tu sapessi come è raggiante di splendore il sole! È simile alla fiamma della nostra lampada, ma più grossa, grossa così che illumina da per tutto ». Poi gli mostra una foglia secca e marcia, rinvenuta in quel fondo a caso, gliela mostra dicendo: « Figlio mio, se tu sapessi quante foglie ci sono lassù! d’ogni colore, d’ogni forma, d’ogni profumo. Son vive, attaccate a rami con fiori e con frutti squisitissimi: se passa il vento fremono come una canzone, se scotta il sole danno frescura ed ombra ». Il fanciullo ascolta; sgrana gli occhi, sogna: ma non riesce ad immaginarsi nulla. « Così, conclude San Gregorio, è di noi: la nostra santa madre, la Chiesa, si sforza di insegnarci le gioie del cielo, ma noi che non abbiamo esperienza alcuna di esse, non possiamo comprendere. » Se quaggiù non possiamo comprendere il Paradiso, dobbiamo con desiderio sperarlo, e con tutte le energie conquistarlo. Mettiamoci davanti agli occhi l’eterno premio del cielo: nella tentazione sapremo lottare con forza. nella tribolazione sopportare con pace. – LOTTARE CON FORZA. Quando il prigioniero si ricorda della libertà perduta, morde con rabbia la sua catena e si sforza per romperla; quando l’ammalato, nell’arsura della febbre, nello strazio del delirio, si ricorda della sanità perduta, piange e chiama il medico che lo guarisca anche con la medicina amara e con il ferro tagliente; quando il navigante, in mezzo all’oceano burrascoso, si ricorda della sua patria lontana, del suo paese bello, della sua casa raccolta nel tepore della sua famigliola, sospira e giura di tornare presto e non partire più. Oh se il peccatore che da anni è prigioniero di satana, pensasse al Paradiso che ha perduto! Oh se il peccatore febbricitante di passione, straziato dai vizi si ricordasse dell’eterna felicità che s’è gettata dietro le spalle! Oh se l’uomo che naviga lontano dal Signore, per l’oceano dell’iniquità, pensasse al Cielo, la dolce patria eterna dove l’attendono i suoi genitori morti da un pezzo, ove si raccoglieranno i suoi figliuoli, ove si ricostruirà una famiglia nuova nel bacio di Dio! Tutti quelli che sperano il Paradiso, hanno in cuore una grande forza per lottare contro il demonio, per infrangere ogni legame, per tornare verso la libertà, la salvezza, la casa. – Un giovane da parecchi anni viveva di stenti e di umiliazioni amare: di padrone in padrone, era stato costretto a fare il guardiano di porci. Vestito di cenci, mal nutrito fino ad invidiare le ghiande de’ suoi animali, tutto il giorno era fra i grugniti e di notte dormiva sul giaciglio duro della stalla: povero figliuol prodigo! Ma ecco gli punge in cuore l’amore di suo padre, ecco gli passa davanti agli occhi la visione della sua casa lontana: quanto doveva star bene suo fratello, amato, accarezzato dal genitore; quanto dovevano essere felici in quel palazzo perfino i servi! Vesti decenti per tutti, vivande squisite a sazietà, scale di marmo e sale ariose, musica deliziante. A questo pensiero non sa più resistere e grida: « Surgam et ibo! ». Getta il bastone, lascia l’immondo gregge, e corre attraverso i campi e le siepi, verso suo padre, verso casa sua. – Ora potete comprendere perché tanti altri giovani si sdraiano nei peccati, fra il gregge immondo delle passioni impure, schiavi di un padrone che li umilia e li perseguita; essi non pensano mai all’amore di Dio Padre, alla casa celeste ove è abbondanza di ogni gioia. Infelici! hanno un tenerissimo Padre e vivono con l’aguzzino, hanno preparato una città di pietre preziose e vivono nel fango dei porci. – Quando il popolo d’Israele viveva nella schiavitù del Faraone d’Egitto e tutto il giorno lavorava a fabbricare e a trasportare mattoni e poi la sera veniva flagellato per paga, dove ha trovato la forza per ribellarsi a fuggire? « Popolo d’Israele – andavano ripetendo Mosè e Aronne, — Il Signore ci promette una terra buona assai, dove abitarono i nostri padri antichi dove gli alberi stillano miele e i fiumi scorrono come il latte ». Con questo desiderio nel cuore si sentirono capaci di fuggire, di traversare il mar Rosso, di percorrere il deserto. E come furono in cospetto della beata regione, per rincuorarli a combattere con forza e coraggio, vennero a loro mostrati alcuni frutti di quella terra: un grappolo d’uva che a portarlo occorsero due uomini con una stanga, e anche delle melagrane e dei fichi (Num.; XIII, 24-25). Ma io vorrei domandare schiettamente a ciascun di voi: « Quante volte in un mese, in un anno pensate al Paradiso?… ». Non c’è quindi da meravigliarsi, se nei momenti di tentazione, quando si tratta di scegliere fra una manciata di palanche mal guadagnate ed il Paradiso, si sacrifica il Paradiso; fra una creatura ed il Paradiso, si sacrifica il Paradiso; fra una passione di superbia o di lussuria, si sacrifica il Paradiso, – S. Filippo Neri quando gli offrirono la dignità cardinalizia, sentendo forse stimoli d’orgoglio in fondo al cuore, gettò in alto la berretta gridando: « Paradiso! Paradiso! ». E rinunciò ad ogni grandezza umana. – SOPPORTARE CON PACE. Udite un esempio che già raccontava fin da’ suoi tempi S. Leonardo da Porto Maurizio. Viveva in una cella oscura come una tomba un santo religioso, e spendeva la sua vita in opere di carità, in aspre discipline, in rigidi digiuni, in notturne preghiere. Andarono a fargli visita alcuni signori del mondo, e rimasero quasi spaventati di tanta austerità: « Come potete resistere anche un giorno solo voi qui? ». « Mettetevi alla finestra della mia cella », rispose l’uomo di Dio « e poi comprenderete ». Essi ubbidirono. « Ebbene! — aggiunse — che cosa vedete? ». « Nient’altro che una vecchia muraglia tagliata in quadro e attraverso il taglio un angolo di cielo largo come il palmo di una mano ». « È appunto questo piccolo angolo di cielo rispose il servo di Dio — che ha fatto tutta la mia pace e la mia consolazione. Ogni volta che la tristezza assale l’anima mia, io getto uno sguardo per la finestrella verso il cielo. Ah, Paradiso, Paradiso! nome caro al mio cuore ». E mentre diceva così, quei signori videro la sua faccia trasfigurarsi nell’estasi. O Cristiani angustiati da cupi pensieri, levate lo sguardo al cielo: le vostre rughe si spianeranno, i vostri crucci si dissolveranno. Voi madri, che dite di non aver più forza né pazienza a sopportare la croce, levate lo sguardo al cielo: tutto là è contato, anche il più lieve respiro; tutto là sarà ricompensato con infinita sovrabbondanza. – E gli ammalati, costretti nel letto da mesi, chiusi nelle corsie degli ospedali da anni, guardino attraverso la finestra l’azzurro che splende davanti ai loro occhi come una grandiosa promessa, nella loro anima ringiovaniranno e sentiranno nuova pace a sopportare, quasi fossero al primo giorno di sofferenza. – Mai come oggi ci sono al mondo tanti scoraggiati, tanti disperati, perché mai come oggi gli uomini hanno dimenticato il Paradiso. Si attaccano mani e piedi ai beni fugaci e falsi di quaggiù: poi viene la tribolazione, la calunnia, la miseria, la malattia e, sentendoseli sfuggire e svanire, piangono di rabbia, gridano d’imprecazione. In alto i cuori! Lassù è la vita eterna! Lassù è la mèta vera dei nostri desideri! – Contardo Ferrini, come confratello della Conferenza di S. Vincenzo de’ Paoli, visitava un vecchio povero, solo, infermo. Nel ripartire il vecchio lo ringrazia e gli dice: « È un soffio questa vita! Possa almeno con questa guadagnarmi la vita eterna … » . Il santo professore fu commosso da tanta pace e rassegnazione e pensò che se a quel cuore non avesse sorriso la speranza del Paradiso, sarebbe stato il cuore d’un infelice (C. FERRINI, Pensieri e preghiere, pag. 12). – Giovane, sano, intelligente, ricchissimo, rinunciare al marchesato che gli spettava per diritto di successione!?… È inconcepibile, se non in un pazzo. Eppure San Luîgi questo ha fatto il 2 novembre 1585. E non era pazzo. A quelli che lo guardavano con occhi di incomprensione, con parole di compatimento, Luigi quasi ridendo rispondeva: «Io vi dico che voglio andare ad acquistarmi una corona in cielo… ».

– Il mistero della trasfigurazione di Gesù è simbolo della nostra trasfigurazione. Ogni umana creatura ha in sé l’immagine divina del nostro Creatore, come un blocco di marmo contiene già la figura artistica che la mano di un Michelangelo estrarrà in statua perfetta. È questa l’immagine in cui noi dobbiamo trasformarci. « Diventate perfetti come è perfetto il Padre mio che sta in cielo » dice Gesù nel Vangelo; e S. Paolo scrive: « Rivestitevi di Cristo » Induimini Christum. Come il volto di Cristo e le sue vesti erano luminose, così anche i nostri pensieri e le nostre parole e le nostre azioni devono risplendere di luce davanti agli uomini, per dar gloria a Dio Padre. Chi non comincia questa trasfigurazione qui in terra, non arriverà mai alla completa trasfigurazione del Paradiso, quando la nostra faccia sarà davvero fulgida come il sole e il nostro manto candido come la neve, quando ci sarà dato d’innalzare per noi una tenda eterna, ove godremo tutta la gioia senza confine. « Come devo fare per trasfigurarmi? » domanderà qualcuno. Non è cosa complessa, risponderò. Occorrono soltanto due cose: la preghiera e la fatica. Non vi siete accorti che Gesù si è trasfigurato mentre pregava? E non avete badato che prima di trasfigurarsi Gesù ha scalato le rocce scabre del monte, ed anche in alto parlava di patimento? La preghiera e la fatica sono le nostre armi, e tutta la nostra vita; la preghiera e la fatica sono anche i due pensieri che vi voglio dire ora. – LA PREGHIERA E LA TRASFORMAZIONE. Più d’una volta mentre pregava, S. Filippo Neri fu visto raggiare dalla persona una soavissima luce, e staccarsi da terra e rimanere sollevato, come se il suo corpo più non pesasse. Questa meravigliosa trasfigurazione che la preghiera compie talvolta nel corpo dei Santi, sempre la compie nelle anime nostre quando preghiamo fervorosamente con fede e con umiltà. 1) Essa riempie di luce la nostra mente. — Mosè scendendo dal Sinai, poiché aveva parlato con Dio, aveva la mente così piena di splendore che due raggi gli uscivano dal capo simile a due fulgidissimi corni. Anche noi, quando preghiamo veramente e non soltanto pronunciamo macchinalmente le parole come grammofoni, ascendiamo ad un colloquio con Dio. È il Creatore che ascolta la nostra umile voce, che accoglie i sospiri dolenti del nostro cuore, che accetta i nostri desideri. Gli uomini del mondo se riescono a parlare con il Re, si fanno fotografare e poi lo annunciano su tutti i giornali: ma noi abbiamo la fortuna di parlare con Dio, il Re dei re, ad ogni momento, sempre che lo vogliamo. Come è stato buono il Signore a darci la preghiera! Come siamo ignoranti e distratti a farci rincrescere di pregare! – S. Tommaso quando aveva qualche difficoltà, pregava e subito nella sua mente si faceva luce. Così facciamo anche noi: quando abbiamo dei fastidi per la testa preghiamo ed avremo la calma; quando abbiamo tentazioni tormentose, preghiamo ed otterremo la vittoria; quando abbiamo dei dubbi sulla religione preghiamo ed otterremo la fede. 2) Essa riempie di luce le nostre azioni. — Una novizia bussa alla porta ed entra nella cella di S. Teresa del Bambino Gesù. Nel vano della finestra, ella sta cucendo un lavoro assai lestamente, quasi le urgesse di finirlo: ma la squallida stanzetta è inondata d’un tepore e d’un profumo primaverile, ma nel suo volto trema una gran gioia diffusa. La novizia rimane meravigliata come davanti a una visione: « A che pensa? » osò domandare. « Medito il Pater » rispose « È così dolce chiamare Dio Padre nostro… » e nei suoi occhi brillavano le lacrime. –  3) Essa riempie di luce il mondo intero. — S. Antonio, nato nel 251 a Coma da famiglia ricca, visse 70 anni nel deserto. Dormiva sopra una stuoia rozza, o addirittura in terra; campava d’acqua e di pane soltanto, e digiunava anche fin quattro giorni di seguito. Una volta andò a trovarlo un sapiente e gli domandò come potesse sopportare quella solitudine senza libri. Rispose: «Il mio libro è la natura delle cose create da Dio. Esse da sole, quando prego, mi schiudono i libri divini ». – Cristiani, quando pregate non è vero che tutto il mondo vi pare più bello e incita a pregare di più? Gli uccelli col loro gorgheggio, i fiumi coi loro mormorii, le stelle lucenti e pellegrine nel cielo, i monti verdi vicino e azzurri lontano, i fiori dei campi e dei giardini, tutto in una parola ci solleva e ci consola. Ecco perché tutte le cose S. Francesco chiamava fratelli e sorelle. – LA FATICA E LA TRASFIGURAZIONE. Buio ancora, fece passare tutta la sua gente al di là del torrente, gonfio e sonante; al di qua delle acque rimase egli solo: Giacobbe. Ma ecco staccarsi dalle ombre del bosco un uomo e venire minaccioso contro di lui: il torrente gli proibiva la fuga. Allora cominciò una lotta, corpo a corpo, terribile. Già il primo lume del mattino rideva sulla punta degli alberi e Giacobbe, non vinto, restituiva colpo a colpo, con forza rinnovellata. Lo straniero, stanco ormai, gli disse: « Lasciami andare: che già viene l’aurora ». Gli rispose il valido ebreo: « Non ti lascerò senza che tu mi benedica ». « Per benedirti, qual è il tuo nome? ». « Giacobbe ». – « Non soltanto Giacobbe ti chiamerai, ma anche Israele, ossia colui che ha saputo combattere la lotta con Dio ». Così detto, sparve come una nuvola leggera che si dissolve sopra la guazza mattutina. Era un Angelo (Gen., XXXII, 21-31). – Riconoscete l’Angelo di Dio che viene a lottare con noi: se vogliamo trasfigurarci, non dobbiamo vigliaccamente ricusare la fatica. Prendiamo il Crocifisso, e baciandolo, come cavalieri antichi baciavano la loro spada, diciamo così: « Gesù mio, avete lavorato e pianto abbastanza durante trentatré anni passati su questa terra. Oggi riposatevi. Tocca a me a combattere e a soffrire ». Tocca a me a combattere ed a soffrire, dovete ripetere anche nelle fatiche spirituali, quando non riuscite a domare il vostro carattere, quando vi pare impossibile strappare dal cuore quell’affetto impuro, quando siete scoraggiati nel perseguitare una passione. Senza lotta non c’è trasfigurazione. Quando sopra le punte degli anni vissuti brillerà l’aurora della vita eterna, se non avrete faticato rimarrà la vostra faccia nell’oscurità e le vostre vesti nelle tenebre infernali.

– Gesù è in mezzo a noi ma, ancora come una volta, è velato da una nube, essa è l’apparenza del pane, è la figura del suo sacerdote, la parola del Vangelo, Ma, benché velato così, non cessa di essere il Figlio diletto di Dio: e noi ascoltiamolo. « Hic est Filius meus dilectus: ipsum audite ». – UNA NUBE VELA GESÙ, PRESENTE NELL’EUCARISTIA. Un giorno, cupo e con una inquietudine che non sapeva placare, passeggia per Roma l’eretico Edoardo Manning. Gli archi, le rovine, i palazzi e tutta la gloria d’un mondo passato e d’un mondo che passerà, non gli avevano lasciato in cuore che amarezza e vuoto. Finalmente stanco, entrò nella chiesa di S. Luigi de’ Francesi: in mezzo a tremanti fiamme, in alto, nel silenzio, era esposta la piccola ostia bianca. Curvo giù nella chiesa qualche uomo adorava, qualche povera donna piangeva la sua pena. Edoardo che non credeva all’Eucaristia, alza gli occhi e rimane estatico: ma poi comincia a tremare e cade in ginocchio, e piange, egli ricco e sapiente, vicino alla povera donna ignorante. « Quanta pace, o Signore » esclama « essere davanti a te! Le parole di Pietro sul Thabor. – Che cos’era accaduto? Certo nel suo cuore travagliato da tante passioni, davanti a Gesù velato nella S. Eucaristia s’era fatta sentire la voce del cielo: « È il mio Figlio diletto: ascoltatelo ». E pochi giorni dopo, da anglicano si faceva cattolico e divenne il celebre Cardinale Manning. – E non è vero che la medesima voce, Dio la fa sentire a noi pure davanti al Tabernacolo? E perché allora, o Cristiani, tante scompostezze nella Chiesa? Perché tanta freddezza nelle Comunioni, perché troppa dimenticanza? Dei mesi, degli anni senza cibarsi di questo Pane quotidiano soprasostanziale? Perché tanto rispetto umano nell’inginocchiarci fino a terra, se lo incontriamo per via? « Hic est Filius meus dilectus: ipsum audite ». Ma se ora non lo vogliamo riconoscere, perché nascosto dietro la nube eucaristica, Egli non ci riconoscerà quando disvelato nella sua gloria, ci sarà davanti a giudicarci. – UNA NUBE VELA GESÙ PRESENTE NEL SUO SACERDOTE. Nel secolo scorso, secolo di ateismo e di corruzione, la Francia ha visto uno spettacolo strano. Erano uomini sapienti, che dopo aver consumata la vita sui libri, cercavano la verità in un povero paesello, ad uomo ignorante; erano uomini scoraggiati e afflitti che invano avevano cercato altrove la parola del conforto; gente, forse precipitata di burrone in burrone fino in fondo dell’abisso e della depravazione, che chiedeva una mano che la risollevasse; erano principi, erano prelati della Chiesa; erano ricchi; erano poveri; erano studiosi; erano ignoranti; era una folla che ogni giorno cercava il parroco d’Ars. Chi era quest’uomo che affascinava il cuore? Il sacerdote: l’umile, il povero, il più oscuro sacerdote di Cristo: ma dalle sue carni diafane dal digiuno e dalla penitenza, traspariva, come attraverso a una nube candida, la figura di Gesù, Sacerdos est alter Christus. « Rimarrò con voi fino alla fine dei secoli » disse Gesù, e rimase nella persona del sacerdoti. « Questo è il mio corpo… » dice il sacerdote consacrando, perché egli è Gesù. « Io ti assolvo… » ci dice nella confessione: ma chi può assolvere se non Gesù? E allora ecco il divin Padre davanti al Sacerdote dice: « Hic est Filius meus dilectus: ipsum audite ». Quanti non ascoltano il sacerdote! quanti lo disprezzano e lo perseguitano!… infelici: perseguitano Gesù. – UNA NUBE VELA GESÙ PRESENTE NEL SUO VANGELO. È il Vangelo che ci dipinge davanti agli occhi la divina figura del Salvatore: tutta la vita di Gesù, tutta la sua passione nel Vangelo è come rifatta sotto ai nostri sguardi. Nel Vangelo ci sono le parole più belle di Gesù, e la sua voce divina attraverso alle parole palpita ancora, discende nei cuori, e noi la riconosciamo. Perciò, additando il Vangelo, il divin Padre dice: « É il mio Figlio diletto che parla: ascoltatelo ». « Ipsum audite ». E lo ascoltò Francesco d’Assisi, quando giovanetto ancora s’era addormentato sulla bianca strada della Puglia, sognando le imprese guerresche, e qualche gesta onorevole: « Francesco, diceva Gesù con la parola del Vangelo, è da più il servo o il padrone? ». «Il Padrone» rispose Francesco e balzò in piedi per correre dietro il Padrone. – E lo ascoltò Francesco Saverio quando elegante, nobile, ricco, intelligente, sognava una vita piena di lusinghevoli onori e di gioie. « Che cosa importa all’uomo, gli diceva Gesù con la parabola del Vangelo, se guadagnasse anche il mondo intero e poi perdesse l’anima? » Si scuote il nobile Saverio, e s’imbarca verso terre avvolte da mistero per salvare la sua anima e quella di molti altri. E lo ascoltarono i Santi, Gesù parlante nel Vangelo. « Va, vendi ciò che hai e dallo ai poveri ». E la Calcide e la Tebaide si popolò di anacoreti. « Ipsum audite ». Ascoltate Gesù, quando dal Vangelo v’impone il suo dolce giogo, quando vi svela il valore che hanno tutte le cose mondane in confronto alle celesti. Eppure, per moltissimi Cristiani d’oggi, nessuna noia è paragonabile a quella d’un quarto d’ora di spiegazione del Santo Vangelo. – Dice la leggenda che S. Alessio, dopo tanti anni, ritornò a Roma, a casa sua, scalzo, con la tunica consumata, col bastone da pellegrino, sofferente, febbricitante appare sulla soglia: nessuno lo conosce, neppure la mamma. Ed egli gemendo chiede da mangiare e da dormire. – La madre, credendolo uno dei soliti accattoni, fece per scacciarlo, ma poi gli buttò una crosta di pane duro da mangiare e gli lasciò il sottoscala per dormire. Una notte il pellegrino morì: e la luce circonfuse il suo corpo patito e le campane da sole squillarono su tutta la città. Accorsero; e la madre riconobbe il figliuolo, ma era morto. E nello spasimo urlava: « O figlio mio morto, che non ti ho riconosciuto sotto le spoglie di un pellegrino!… ». Così diranno alcuni Cristiani in punto di morte: sotto il velo di poco pane era il mio Dio e non l’ho riconosciuto! Tra le parole del santo Vangelo parlava il mio Dio, e la sua voce non l’ho riconosciuta!…

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 47; CXVIII: 48

Meditábor in mandátis tuis, quæ diléxi valde: et levábo manus meas ad mandáta tua, quæ diléxi.

[Mediterò i tuoi precetti che ho amato tanto: e metterò mano ai tuoi comandamenti, che ho amato.]

Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quæsumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti.

[Guarda, o Signore, con occhio placato, al presente sacrificio, affinché giovi alla nostra devozione e salute.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps V: 2-4 – Intéllege clamórem meum: inténde voci oratiónis meæ, Rex meus et Deus meus: quóniam ad te orábo, Dómine.

[Ascolta il mio grido: porgi l’orecchio alla voce della mia orazione, o mio Re e mio Dio: poiché a Te rivolgo la mia preghiera, o Signore.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut quos tuis réficis sacraméntis, tibi etiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas.

[Súpplici Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché, a quelli che Tu ristori coi tuoi sacramenti, conceda anche di servirti con una condotta a Te gradita.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA I. DI QUARESIMA (2022)

DOMENICA I. DI QUARESIMA (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Giovanni in Laterano

Semidoppio. – Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

Questa Domenica è il punto di partenza del ciclo quaresimale (Secr.) cosicché l’assemblea liturgica si tiene oggi, fin dal IV secolo a S. Giovanni in Laterano, che è la basilica patriarcale del romano Pontefice edil cui nome rievoca’ la redenzione operata da Gesù, essendo questa Basilica dedicata anche al SS.mo Salvatore. Subito dopo il battesimo, Gesù si prepara alla vita pubblica con un digiuno di 40 giorni, nel deserto montagnoso, che si estende fra Gerico ele montagne di Giuda (Gesù si riparò, dice la tradizione, nella grotta che è nel picco il più elevato chiamato Monte della Quarantena). Là satana, volendo sapere se il figlio di Maria era il Figlio di Dio, lo tenta (Vang.). Gesù ha fame e satana gli suggerisce di convertire in pane le pietre. Allo stesso modo opera con noi e cerca di farci abbandonare il digiuno e la mortificazione in questi 40 giorni. È la concupiscenza della carne. – Il demonio aveva promesso al nostro primo padre che sarebbe diventato simile a Dio; egli trasporta Gesù sul pinnacolo del Tempio elo invita a farsi portare in aria dagli Angeli per essere acclamato dalla folla. Tenta noi ugualmente nell’orgoglio, che è opposto, allo spirito di preghiera e alla meditazione della parola di Dio. È l’orgoglio della vita. – Come aveva promesso ad Adamo una scienza uguale a quella di Dio, che gli avrebbe fatto conoscere tutte le cose, satana assicura Gesù che gli darà l’impero su tutte le cose se egli prostrato in terra lo adorerà (Lucifero, il più bello degli angeli, si credette in diritto, secondo alcuni teologi, all’unione ipostatica che l’avrebbe elevato alla dignità di figlio dì Dio. Egli cercò di farsi adorare come tale da Gesù, come l’anticristo si farà adorare nel tempio di Dio (II ai Tessal.) . Il demonio allo stesso modo cerca con noi, di attaccarci ai beni caduchi, quando stiamo per sovvenire il prossimo con l’elemosina e le opere di carità. È la concupiscenza degli occhi o l’avarizia. – Il Salmo 90 che Gesù usò contro satana, — poiché la spada dello Spirito, è la parola di Dio (Agli Efesini, VI, 17).— serve di trama a tutta la Messa e si ritrova nell’ufficiatura odierna. « La verità del Signore ti coprirà come uno scudo », dichiara il salmista. Questo salmo dunque è per eccellenza quello di Quaresima, che è un tempo di lotta contro satana, quindi il versetto 11: « Ha comandato ai suoi angeli di custodirti in tutte le tue vie », suona come un ritornello durante tutto questo periodo, alle Lodi e ai Vespri. Questo Salmo si trova intero nel Tratto e ricorda l’antico uso di cantare i salmi durante la prima parte della Messa. Alcuni dei suoi versetti formano l’Introito col suo verso, il Graduale, l’Offertorio e il Communio. In altra epoca, quest’ultima parte era formata da tre versetti invece di uno solo e questi tre versetti seguivano l’ordine della triplice tentazione riferita nel Vangelo. – Accanto a questo Salmo, l’Epistola, che è certamente la stessa che al tempo di S. Leone, dà una nota caratteristica della Quaresima. S. Paolo vi riassume un testo di Isaia: «Ti esaudii nel tempo propizio e nel giorno di salute ti portai aiuto » (Epist. e 1° Nott.). S. Leone ne fa questo commento: « Benché non vi sia alcuna epoca che non sia ricca di doni celesti, e che per grazia di Dio, ogni giorno vi si trovi accesso presso la sua misericordia, pure è necessario che in questo tempo le anime di tutti i Cristiani si eccitino con più zelo ai progressi spirituali e siano animate da una più grande confidenza, allorché il ritorno del giorno nel quale siamo stati redenti ci invita a compiere tutti i doveri della pietà cristiana. Così noi celebreremo, con le anime e i corpi purificati, questo mistero della Passione del Signore, che è fra tutti il più sublime. È vero che noi dovremmo ogni giorno essere al cospetto di Dio con incessante devozione e rispetto continuo come vorremmo essere trovati nel giorno di Pasqua. Ma poiché questa forza d’animo è di pochi, e per la fragilità della carne, viene rilassata l’osservanza più austera, e dalle varie occupazioni della vita presente viene distratta la nostra attenzione, accade necessariamente che la polvere del mondo contamini gli stessi cuori religiosi. Perciò è di grande vantaggio per le anime nostre questa divina istituzione, perché questo esercizio della S. Quaresima ci aiuti a ricuperare la purità delle nostre anime riparando con le opere pie e con i digiuni, gli errori commessi negli altri momenti dell’anno. Ma per non dare ad alcuno il minimo motivo di disprezzo o di scandalo, è necessario che il nostro modo di agire non sia in disaccordo col nostro digiuno, perché è inutile diminuire il nutrimento del corpo, quando l’anima non si allontana dal peccato » (2° Notturno). – In questo tempo favorevole e in questi giorni di salute, purifichiamoci con la Chiesa (Oraz.) « col digiuno, con la castità, con l’assiduità ad intendere e meditare la parola di Dio e con una carità sincera » (Epist.).

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XC: 15; XC: 16

Invocábit me, et ego exáudiam eum: erípiam eum, et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum.

[Mi invocherà e io lo esaudirò: lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni.]

Ps XC:1 Qui hábitat in adjutório Altíssimi, in protectióne Dei cœli commorábitur.

[Chi àbita sotto l’égida dell’Altissimo dimorerà sotto la protezione del cielo].

Invocábit me, et ego exáudiam eum: erípiam eum, et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum.

[Mi invocherà e io lo esaudirò: lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui Ecclésiam tuam ánnua quadragesimáli observatióne puríficas: præsta famíliæ tuæ; ut, quod a te obtinére abstinéndo nítitur, hoc bonis opéribus exsequátur.

[O Dio, che purífichi la tua Chiesa con l’ànnua osservanza della quaresima, concedi alla tua famiglia che quanto si sforza di ottenere da Te con l’astinenza, lo compia con le opere buone.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios. 2 Cor VI:1-10.

“Fratres: Exhortámur vos, ne in vácuum grátiam Dei recipiátis. Ait enim: Témpore accépto exaudívi te, et in die salútis adjúvi te. Ecce, nunc tempus acceptábile, ecce, nunc dies salútis. Némini dantes ullam offensiónem, ut non vituperétur ministérium nostrum: sed in ómnibus exhibeámus nosmetípsos sicut Dei minístros, in multa patiéntia, in tribulatiónibus, in necessitátibus, in angústiis, in plagis, in carcéribus, in seditiónibus, in labóribus, in vigíliis, in jejúniis, in castitáte, in sciéntia, in longanimitáte, in suavitáte, in Spíritu Sancto, in caritáte non ficta, in verbo veritátis, in virtúte Dei, per arma justítiæ a dextris et a sinístris: per glóriam et ignobilitátem: per infámiam et bonam famam: ut seductóres et veráces: sicut qui ignóti et cógniti: quasi moriéntes et ecce, vívimus: ut castigáti et non mortificáti: quasi tristes, semper autem gaudéntes: sicut egéntes, multos autem locupletántes: tamquam nihil habéntes et ómnia possidéntes.” –  Deo gratias.

[Fratelli: Vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti: «Nel tempo favorevole ti ho esaudito, e nel giorno della salute ti ho recato aiuto». Ecco ora il tempo favorevole, ecco ora il giorno della salute. Noi non diamo alcun motivo di scandalo a nessuno, affinché il nostro ministero non sia screditato; ma ci diportiamo in tutto come ministri di Dio, mediante una grande pazienza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angustie, nelle 9battiture, nelle prigioni, nelle sommosse, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con la purità, con la scienza, con la mansuetudine, con la bontà, con lo Spirito Santo, con la carità sincera, con la parola di verità, con la potenza di Dio, con le armi della giustizia di destra e di sinistra; nella gloria e nell’ignominia, nella cattiva e nella buona riputazione; come impostori, e siam veritieri; come ignoti, e siam conosciuti; come moribondi, ed ecco viviamo; come puniti, e non messi a morte; come tristi, e siam sempre allegri; come poveri, e pure arricchiamo molti; come privi di ogni cosa, e possediamo tutto]. (2 Cor VI, 1-10).

FAR FARE BUONA FIGURA A DIO.

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938) ]

Veramente S. Paolo in questo brano di lettera parla se non proprio ai sacerdoti, certo per i ministri di Dio. Per fortuna, ministri di Dio, in un certo senso almeno, lo siamo tutti noi Cristiani, dobbiamo esserlo, e perciò vale per noi tutti la esortazione fondamentale per gli Apostoli: evitare le brutte figure (morali) e fare bella figura (morale). E la ragione addotta è quella che rende la esortazione più interessante e più universale: col non fare brutta figura, fare anzi bella figura, noi, per… non far fare brutta figura, per far fare bella figura a Dio. Ne siamo i ministri: ecco perché le nostre belle o brutte figure rimbalzano su di Lui. Rappresentanti di Dio! Che grande parola. Ed essa è proprio matematicamente esatta, precisa quando si tratta di noi Sacerdoti, di noi apostoli veri e propri. La gente ci confonde un po’ con Dio; giudica Lui, giudica della Religione da quello che noi, proprio noi, siamo e facciamo. Ma giudizi analoghi gli uomini senza fede o con poca fede pronunciano davanti alla condotta di un fedele Cristiano. E se questi sono buoni, il volgo suddetto ne conclude che buona è la religione, buono è quel Dio di cui la religione si ispira e nutre. Ma viceversa con la stessa logica fa rimbalzare sulla religione, su Dio le nostre miserie. E conclude che la religione non serve a nulla, a nulla di buono e grande, quando nulla di grande e di buono essa produce in noi. – Il ragionamento per cui si giudica della religione in sé, della sua bontà ed efficacia universale da uno a pochi casi, è un ragionamento che vale fino ad un certo punto, zoppica, zoppica assai, alla stregua della logica pura ed ideale. Zoppica ma cammina. Non avrebbe il diritto di farlo ma lo si fa, con una facilità, una frequenza, una sicurezza impressionante. E di questo bisogna tener conto, che lo si fa, come teniamo conto, nella vita, di tanti altri fatti che ci appaiono o misteriosi o paradossali, ma sono fatti e « contra factum non valet argumentum. » Questo fatto deve metterci addosso un brivido ed un fuoco. Brivido di terrore pensando alla debolezza delle nostre spalle, al peso davvero formidabile. Si fa così presto noi a cadere. Quando e dopo che avremo ubbidito agli istinti egoistici e alla loro desolante miseria si dirà da parecchi: ecco che cosa è la religione! Ecco a cosa serve Dio! Noi avremo screditato, noi screditeremo, noi screditiamo ciò che al mondo vi è di più sacro. Sconquassiamo dei pilastri giganteschi della vita. Perciò prendiamo come programma nostro la parola di Paolo: « noi non diamo di scandalo in cosa alcuna. » E non fermiamoci, ma continuiamo: « anzi ci mostriamo in ogni cosa degni di raccomandazione. » Il che non sarà che un rifarci alla bella parola di Gesù Cristo: « veggano tutto il bene che voi fate, voi, miei discepoli, e glorifichino perciò il Padre che sta nei Cieli ». – Dicano amici e nemici osservandoci: come sono buoni i veri figli di Dio; come è buono il Padre celeste che li ispira e li guida.

 Graduale

Ps XC,11-12

Angelis suis Deus mandávit de te, ut custódiant te in ómnibus viis tuis.

In mánibus portábunt te, ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum.

[Dio ha mandato gli Ángeli presso di te, affinché ti custodíscano in tutti i tuoi passi. Essi ti porteranno in palmo di mano, ché il tuo piede non inciampi nella pietra.]

Tractus.

Ps XC: 1-7; XC: 11-16

Qui hábitat in adjutório Altíssimi, in protectióne Dei cœli commorántur.

V. Dicet Dómino: Suscéptor meus es tu et refúgium meum: Deus meus, sperábo in eum.

V. Quóniam ipse liberávit me de láqueo venántium et a verbo áspero.

V. Scápulis suis obumbrábit tibi, et sub pennis ejus sperábis.

V. Scuto circúmdabit te véritas ejus: non timébis a timóre noctúrno.

V. A sagitta volánte per diem, a negótio perambulánte in ténebris, a ruína et dæmónio meridiáno.

V. Cadent a látere tuo mille, et decem mília a dextris tuis: tibi autem non appropinquábit.

V. Quóniam Angelis suis mandávit de te, ut custódiant te in ómnibus viis tuis.

V. In mánibus portábunt te, ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum.

V. Super áspidem et basilíscum ambulábis, et conculcábis leónem et dracónem.

V. Quóniam in me sperávit, liberábo eum: prótegam eum, quóniam cognóvit nomen meum,

V. Invocábit me, et ego exáudiam eum: cum ipso sum in tribulatióne,

V. Erípiam eum et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum, et osténdam illi salutáre meum.

[Chi abita sotto l’égida dell’Altissimo, e si ricovera sotto la protezione di Dio.

Dica al Signore: Tu sei il mio difensore e il mio asilo: il mio Dio nel quale ho fiducia.

Egli mi ha liberato dal laccio dei cacciatori e da un caso funesto.

Con le sue penne ti farà schermo, e sotto le sue ali sarai tranquillo.

La sua fedeltà ti sarà di scudo: non dovrai temere i pericoli notturni.

Né saetta spiccata di giorno, né peste che serpeggia nelle tenebre, né morbo che fa strage al meriggio.

Mille cadranno al tuo fianco e dieci mila alla tua destra: ma nessun male ti raggiungerà.

V. Poiché ha mandato gli Angeli presso di te, perché ti custodiscano in tutti i tuoi passi.

Ti porteranno in palma di mano, affinché il tuo piede non inciampi nella pietra.

Camminerai sull’aspide e sul basilisco, e calpesterai il leone e il dragone.

«Poiché sperò in me, lo libererò: lo proteggerò, perché riconosce il mio nome.

Appena mi invocherà, lo esaudirò: sarò con lui nella tribolazione.

Lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni, e lo farò partécipe della mia salvezza».]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.

Matt IV: 1-11

“In illo témpore: Ductus est Jesus in desértum a Spíritu, ut tentarétur a diábolo. Et cum jejunásset quadragínta diébus et quadragínta nóctibus, postea esúriit. Et accédens tentátor, dixit ei: Si Fílius Dei es, dic, ut lápides isti panes fiant. Qui respóndens, dixit: Scriptum est: Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo, quod procédit de ore Dei. Tunc assúmpsit eum diábolus in sanctam civitátem, et státuit eum super pinnáculum templi, et dixit ei: Si Fílius Dei es, mitte te deórsum. Scriptum est enim: Quia Angelis suis mandávit de te, et in mánibus tollent te, ne forte offéndas ad lápidem pedem tuum. Ait illi Jesus: Rursum scriptum est: Non tentábis Dóminum, Deum tuum. Iterum assúmpsit eum diábolus in montem excélsum valde: et ostendit ei ómnia regna mundi et glóriam eórum, et dixit ei: Hæc ómnia tibi dabo, si cadens adoráveris me. Tunc dicit ei Jesus: Vade, Sátana; scriptum est enim: Dóminum, Deum tuum, adorábis, et illi soli sérvies. Tunc relíquit eum diábolus: et ecce, Angeli accessérunt et ministrábant ei.”

[Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. E avendo digiunato quaranta giorni e quaranta notti, finalmente gli venne fame. E accostatoglisi il tentatore, disse: Se tu sei Figliuol di Dio, di’ che queste pietre diventino pani. Ma egli rispondendo, disse: Sta scritto: Non di solo pane vive l’uomo, ma di qualunque cosa che Dio comanda.. Allora il diavolo lo menò nella città santa, e poselo sulla sommità del tempio, e gli disse: Se tu sei Figliuolo di Dio, gettati giù; imperocché sta scritto: che ha commesso ai suoi angeli la cura di te, ed essi ti porteranno sulle mani, affinché non inciampi talvolta col tuo piede nella pietra. Gesù disse: Sta anche scritto: Non tenterai il Signore Dio tuo. Di nuovo il diavolo lo menò sopra un monte molto elevato; e fecegli vedere tutti i regni del mondo, e la loro magnificenza; e gli disse: Tutto questo io ti darò, se prostrato mi adorerai. Allora Gesù gli disse: Vattene, Satana, imperocché sta scritto: Adora il Signore Dio tuo, e servi lui solo. Allora il diavolo lo lasciò; ed ecco che gli si accostarono gli Angeli, e lo servivano.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LA QUARESIMA

Di S. Eusebio si racconta che quand’era ancora diacono, mentre portava all’altare un calice preziosissimo, incespicando lo lasciò cadere. E il calice si spezzò. Rimase un istante esterrefatto: e guardava i rubini sfaldati, e gli smalti a frantumi, e la coppa divisa in due sul pavimento. Poi, dimentico che dietro alle sue spalle la chiesa era gremita di popolo, piangendo forte raccolse i frammenti e li depose sulla tavola dell’altare. Ed ecco miracolosamente ogni pezzo unirsi e saldarsi perfettamente così da ricostruire il calice prezioso, integro e intatto (Brev. Ambr., 12 agosto). – Ognuno di noi, dentro di sé, porta un calice di valore infinito, deterso col sangue di Cristo: l’anima propria. Ma forse, in un momento di passione, in un’ora di tentazione, in una brutta sera di carnevale, l’abbiamo lasciata cadere nel fango e nei sassi del peccato. E subito l’anima nostra s’è infranta, facendo fuggire lo Spirito Santo che in essa teneva la sua dolce dimora, perdendo lo splendore gemmeo della grazia per tingersi della lordura del peccato. Se è così, non ci rimane che imitare Eusebio: dimentichiamo tutto, curviamoci dentro di noi, e raccogliamo i brandelli della nostra anima dilaniata dal demonio, e piangendo collochiamola sull’altare di Dio: anche per essa si rinnoverà il prodigio del calice infranto. Ben venga allora la quaresima: in tutto l’anno non c’è tempo, più’ di questo, propizio per placare l’ira del Signore, né giorni più di questi favorevoli per rimediare ai danni dell’anima nostra. Perciò accogliete volentieri alcuni consigli che vi aiuteranno ad approfittare di queste settimane; per voi li desumo dal santo Vangelo.

1. Gesù lascia gli uomini, le loro case, i loro campi, le loro botteghe, le loro strade, e s’inoltra nel deserto ove il silenzio è re, e la solitudine è sovrana.

2. Gesù per quaranta giorni e quaranta notti non tocca cibo, ma prega.

3. Gesù, al demonio che viene a tentarlo perché converta le pietre in pane da mangiare risponde: « Non di solo pane ha bisogno l’uomo, ma soprattutto di ogni parola che sgorga dal labbro di Dio ». – Dall’esempio di Nostro Signore derivano a noi tre norme precise: Fuggiamo lontano da tutte le occasioni. Facciamo penitenza e preghiera.. Cibiamoci a sazietà della parola di Dio e dei suoi Sacramenti. – LONTANO DALLE OCCASIONI. A credere ai poeti antichi, ci fu una volta una fanciulla di nome Atalanta ch’era invincibile alla corsa. Moltissimi avevano con lei gareggiato ma erano rimasti vergognosamente vinti. Or venne Ippomene, uomo dal cuore astuto, e chiese di vincere la gara. Tutti già ridevano della sua sconfitta, quando egli cominciò a gettare sul cammino delle mele d’oro. Atalanta, meravigliata dal loro splendore, si fermava a raccoglierle, a guardarle: ma intanto gli spettatori emisero un altissimo grido. Ippomene l’aveva oltrepassata e in quel momento toccava la mèta. Si scosse a quegli applausi la fanciulla rapidissima, in un attimo comprese: le mele d’oro le caddero dalle mani. Invano; ella aveva per sempre perduto (Catullo II). Io non credo né ad Atalanta né ad Ippomene ma credo però all’anima ed al demonio. È l’anima nostra come un fanciullo che deve correre rapidamente al paradiso. Ma il demonio, dal cuore furbo e maligno, getta sul suo cammino le mele d’oro delle cattive occasioni: è quella compagnia, è quel ritrovo, è quella persona, è quel gioco. Cristiani: non fermatevi a raccogliere gli ingannevoli frutti del nemico nostro, altrimenti perderete la corsa della vita. – Fa ridere, o meglio fa piangere, l’ingenuità di quelle anime che propongono di non offender più il Signore, di passare una santa quaresima, e non vogliono abbandonare le loro abitudini e le funeste occasioni, e non vogliono ritirarsi nel deserto. – Dicono di convertirsi e poi si attaccano ancora a tutto quello che nel mondo si trova di più adatto a pervertirle. Dicono di non voler offendere Dio e intanto si danno alla lettura di giornali, di riviste e di libri sospetti empii ed immorali. Dicono di non voler offendere Dio, e si mettono in conversazioni in cui il pudore e la carità sono offesi ad ogni momento. Dicono di non voler offendere Dio, e indugiano in certe affezioni che ammolliscono il cuore e lo inclinano, a poco a poco, verso la colpa e il disonore. Dicono di non voler offendere Dio, e accorrono a spettacoli, a circoli o riunioni dove troveranno persone capaci di esercitare sulla loro anima mortifere impressioni. Dicono di non voler offendere Dio, e poi con la moda e coi belletti sono avide di vedere e di farsi vedere dal mondo. Non si illudano: con queste disposizioni è impossibile convertirsi. – MORTIFICAZIONE E PREGHIERA. La prima mortificazione che tutti dobbiamo fare è quella che dalla santa Chiesa ci è raccomandata: il digiuno e l’astinenza dalle carni nei giorni prescritti. Mangiar di grasso, senza dispensa o senza motivo ragionevole, è peccato mortale. Fa vergogna che molti Cristiani non sappiano rendere, per golosità o per rispetto umano, questo piccolo sacrificio a Gesù che non ha dubitato di dare per noi tutto il suo sangue. – E dopo aver mortificato la nostra carne, mortifichiamo la nostra avarizia: non deve mancare nella quaresima qualche elemosina. Con essa ringrazieremo Dio dei beni che ci ha largito, rallegreremo i poveri e la Chiesa, otterremo un più generoso perdono dei nostri peccati. E infine mortifichiamo il nostro orgoglio: se in cuore custodiamo qualche risentimento sia soffocato; se in famiglia ci piace dominare sopra gli altri, assoggettiamoci; se qualcuno ci fa delle osservazioni, accogliamole con bontà. Alla mortificazione aggiungete anche la preghiera. Ma una devozione, sopra tutte, io vi raccomando come la più opportuna in questo tempo: la « Via Crucis ». Almeno una volta alla settimana non mancate mai di compierla: i patimenti del Figlio di Dio ad uno ad uno passeranno davanti ai vostri occhi, si stamperanno nel vostro cuore, e comprenderete cose che non avevate mai comprese. Che meravigliose sorgenti d’amore e di virtù sono le piaghe del Crocifisso! Quando Longino con la lancia trapassò il Cuore di Gesù morto, si dice che alcune stille di sangue caddero sopra i suoi occhi, ch’erano malati, e improvvisamente li sanarono (PAPINI, Vita di Cristo, pag. 567). Se mediteremo con affetto la passione del Signore, qualche stilla del preziosissimo sangue pioverà anche sui nostri occhi che sono malati, e si lasciano ingannare dai falsi splendori di questo mondo. Sentiremo allora che una sola cosa è necessaria, salvare l’anima; sentiremo allora che la disgrazia più grande e più vera è soltanto il peccato. – LA PAROLA DI DIO E I SACRAMENTI. Fin dai primi secoli del Cristianesimo, la parola di Dio è stata il nutrimento spirituale con cui la Chiesa, nel decorso del digiuno quaresimale, ha nutrito i suoi figliuoli. « Non di pane soltanto ha bisogno l’uomo — ha risposto Gesù al demonio — ma soprattutto ha bisogno della parola che scende dal labbro di Dio ». Ci sono anime deboli, che ad ogni tentazione tremano e cadono miseramente: ascoltino le prediche della Quaresima e troveranno la forza spirituale di respingere gli assalti delle passioni. Salomone disse che il discorso di Dio è come uno scudo di fuoco. – Ci sono anime indurite nei vizi: da anni non si confessano più, non sentono più nemmeno i rimorsi dei gravi peccati che ogni giorno commettono. Costoro hanno un estremo bisogno di ascoltare le prediche della quaresima: dice la Sacra scrittura che la parola di Dio discende e rammollisce i cuori. Ci sono anime che ignorano la propria vocazione, che ignorano anche le verità principali della fede, che ignorano i propri doveri: anche queste non devono tralasciare le prediche della quaresima che illumineranno le loro menti. Dicono i Salmi che la parola di Dio è come una lucerna che rischiara la strada di quelli che camminano, ma tutte le volte fu abbruciata nel rogo di satana. – ADORA E SERVI SOLTANTO IL SIGNORE, RIBELLANDOTI ALLE PASSIONI CATTIVE. Un antico poeta greco. Alceo, grande amatore del vino, da tutte le stagioni cavava titoli per bere più solennemente. Nell’autunno — diceva — convien bere per onorare la vendemmia; nell’inverno per discacciar il freddo; nella primavera per ringiovanire con i prati; nell’estate per vincere il calore esteriore col calore interiore. Questa maniera di ragionare non dispiace nemmeno a moltissimi Cristiani! « In carnevale, dicono, bisogna star allegri perché è il tempo d’ogni pazzia. E in quaresima poi… bisogna star allegri ancora per uccidere la noia che altrimenti ne deriverebbe ». Così tutto l’anno, tutta la vita è una baldoria senza confine. E la mortificazione? Questa parola amara essi non la conoscono, non esiste nella loro religione del piacere in cui si adora il ventre. Quorum deus venter est. Davanti ad essi si presenta la gola: « Io ti darò l’ebbrezza del vino, il prurito delle vivande gustose, l’assopimento della sazietà… se tu mi adorerai ». E quelli adorano la gola, vivono per mangiare e per bere, non rispettano più la legge del digiuno e dell’astinenza.Davanti ad essi si presenta il corpo con i suoi reprobi sensi: « Io ti darò la beatitudine sfrenata, io ti farò il più felice degli uomini… se tu mi adorerai ». E quelli adorano il corpo con tutte le sue pigrizie, con tutte le sue lusinghe: «Io ti darò casa bella, campi vasti, molti servi, vesti lussuose: ti darò perfino l’onore che non meriti, le amicizie più desiderabili… se tu, prostrato, mi adorerai ». E quelli adorano il danaro e per lui consumano la vita, trascurano la famiglia, vendono l’anima e il paradiso. Eppure anche per costoro sta scritto: « Adorerai soltanto Iddio e lui servirai! »Non ci rincresca, o Cristiani, in questa santa quaresima imitare Gesù, Salvatore nostro, nei quaranta giorni che rimane nel deserto. Mortifichiamoci coll’ubbidienza. alle leggi della Chiesa che ci obbligano al digiuno e all’astinenza; mortifichiamoci con la preghiera più fervorosa e più frequente in casa e in Chiesa, mortifichiamoci con qualche elemosina elargita per amore di Dio.E se questo è poco, offriamo in spirito di penitenza il nostro faticoso lavoro quotidiano, il peso del nostro dovere adempito scrupolosamente, la rassegnazione generosa nei crucci della vita! E quelli che sono ammalati o gracili di salute, innalzino al cielo la loro sofferenza corporale.Tutti però facciamo mortificazione, perché tutti abbiamo peccato e possiamo peccare ancora. – Col desiderio della parola di Dio, con la fuga delle occasioni, con la mortificazione del nostro corpo, noi in questi quaranta giorni seppelliremo il vecchio cadavere che abbiamo ereditato da Adamo. E nel luminoso mattino della Pasqua, tra l’osannare di tutte le campane, e il gioioso rinverdire dei campi, risusciterà trionfante nell’anima nostra Gesù, il Figlio di Dio: vittoriosi della sua vittoria, ricchi della sua conquista, vivremo finalmente della sua vita. Solo così, con gaudio, celebreremo la Resurrezione del Signore.

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XC: 4-5:

Scápulis suis obumbrábit tibi Dóminus, et sub pennis ejus sperábis: scuto circúmdabit te véritas ejus.

[Con le sue penne ti farà schermo, il Signore, e sotto le sue ali sarai tranquillo: la sua fedeltà ti sarà di scudo.]

Secreta

Sacrifícium quadragesimális inítii sollémniter immolámus, te, Dómine, deprecántes: ut, cum epulárum restrictióne carnálium, a noxiis quoque voluptátibus temperémus.

[Ti offriamo solennemente questo sacrificio all’inizio della quarésima, pregandoti, o Signore, perché non soltanto ci asteniamo dai cibi di carne, ma anche dai cattivi piaceri.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XC: 4-5

Scápulis suis obumbrábit tibi Dóminus, et sub pennis ejus sperábis: scuto circúmdabit te véritas ejus.

[Con le sue penne ti farà schermo, il Signore, e sotto le sue ali sarai tranquillo: la sua fedeltà ti sarà di scudo.]

Postcommunio

Orémus.

Qui nos, Dómine, sacraménti libátio sancta restáuret: et a vetustáte purgátos, in mystérii salutáris fáciat transíre consórtium.

[Ci ristori, o Signore, la libazione del tuo Sacramento, e, dopo averci liberati dall’uomo vecchio, ci conduca alla partecipazione del mistero della salvezza.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

MERCOLEDI’ DELLE CENERI (2022)

MERCOLEDI DELLE CENERI,

Della Morte.

(S. LEONARDO DA PORTO MAURIZIO: Prediche quaresimale, vol. I. – Stamp. Mazzoleni, Bergamo, 1822)

Memento homo quia pulvis es, et în pulverem reverteris. Nolite thesaurizare vobis thesauros in terra.

I. Che la Chiesa per guarire le infermità dell’uomo stempri per primo antidoto alle sue piaghe la cenere, e gli porga prima medicina la morte, l’intendo; ma che l’uomo resistendo colla contumacia del male al vigore di sì gran meditamento, vada screditando le ceneri in faccia alla morte, raddoppi i disordini di una pessima vita, non lo capisco. Nasce l’uomo, e sin dai primi giorni. del viver suo dà in delirj; apprende come tesori ciò, che non è che vil cenere, apprende come cenere ciò che è un gran tesoro: reputa un gran bene il sommo dei suoi mali ed infortunj, reputa un gran male il suo vero bene: Dicit malum bonum, et bonum malum. A fermar questi capogiri entrano unitamente di mezzo il Vangelo e la Chiesa; il Vangelo lo spoglia di quei beni da lui stimati tesori: nolite thesaurizare vobis thesauros in terra. La Chiesa lo asperge di ceneri da lui aborrite come veri mali: memento homo quia pulvis es, et in pulverem reverteris. Ma se ben si considerano, i tesori del Vangelo, e le ceneri della Chiesa sono diversi vocaboli sì ma sono però le istesse cose; perché i tesori, che proibisce il Vangelo, sono vere ceneri, e le ceneri che e’ impone sul capo la Chiesa, sono veri tesori; né altra differenza vi è, se non che i tesori apparenti destinati dal Vangelo sono ceneri sollevate, i tesori veri, dei quali ci arricchisce la Chiesa, sono ceneri abbattute. Adesso capisco in che consista il rimedio più efficace dell’infermità dell’uomo; convien levar via dal mondo questa maledetta ipocrisia, che fa apparir bene quel che è male, e male quel che è bene; fa apparire un gran tesoro quel che è polvere, e polvere quel che è un gran tesoro. Risvegliatevi , se così è; acciecati mondani, e capite la gran verità della Chiesa: memento homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris. Ed acciò sappiate una volta discernere i tesori dalle polveri, e le polveri dai tesori e vi approfittiate della memoria della morte per ovviare i disordini della vita, vi propongo questa due gran verità, che serviranno per base di tutte te altre, che dovrò proporvi nel presente corso quaresimale: cioè la brevità di una vita, che sempre muore, di cui tutti siamo sicuri, perché tutti siamo mortali: Memento, quia pulvis es, e sarà il primo punto. L’immortalità di una morte, che non muore mai, di cui tutti portiamo pericolo, perché tutti siamo peccatori: Memento, quia in pulverem reverteris, e sarà il secondo. Ecco due prese di polvere atte a rimediare tutte le infermità dell’uomo. La prima polvere, che è polvere dei vivi: pulvis es con porci in mostra la brevità di una vita, che in un volo anzi in un lampo sparisce, ci farà disprezzare il presente, con farci conoscere, che non sono altro che cenere i suoi tesori; la seconda polvere, che è polvere dei morti: et in pulverem reverteris, con dimostrarci il pericolo. di una morte immortale, che non mai finisce, ci farà assicurare il futuro, con porci in possesso della beata eternità, in cui si goderanno i veri tesori. Se non altro tutti alla fine apprenderete, che per voi la memoria della morte è un gran tesoro, tutto il resto non è che poca polvere, che poca polvere; Nolite thesaurizare vobis thesauros in terra. Incominciamo? No …. – Prima d’incominciare, fermiamoci ancora; a voi mi rivolgo, o gran Vergine, o gran Madre. Eccomi su le mosse di questo corso quaresimale; e come mai potrò io camminare sicuro senza aver voi per mia guida in viaggio sì disastroso? Deh o gran Signora, se voi di lassù vedete, che io quaggiù; sia per andare in cerca di altro, che di anime. A Voi, e al figliuol vostro sì care, voi prego, o gran Madre, troncatemi pur ora e voce e vita, e concedete a questo popolo benedetto un ministro fedele qui loquatur ad cor Jerusalem. – Che vi è in grado altrimenti; a me non dà il cuore cominciare, senza prima ottener dalla vostra benefica mano, la S. Benedizione …. Benedite dunque; o gran Vergine questa mia povera lingua, e benedite altresì il cuore di chiunque mi ha da udire, acciò la mia lingua parli al cuore, e dal cuore ne riporti i frutti di vita, Si sì, beneditemi Madre pietosa, beneditemi…. Adesso sì, che con la benedizione della mia gran Madre, della mia gran Signora Maria, volontier incomincio.

II. Nasce l’uomo, e dal primo momento del vivere suo, comincia a morire, e a torto si lamenta, che un affare di tanta importanza, di quanta è il morire, si faccia. in un momento. Ahimè  che si muore in tutta la vita, e con la morte non meno si finisce di vivere che di morire. Gran cosa, tutti noi stiamo sul vivere molto, che non è in poter nostro; e sul viver bene, che si può, e si deve far da noi, ci stiam sì poco. Tutti noi apprendiamo per un gran male la morte del corpo, che presto passa, e anch’essa muore; e la morte dell’anima, che è immortale, e non finisce mai, l’apprendiam sì poco. Che delirj sono mai cotesti? la vita del corpo, che è una vita moribonda, una vita, che sempre muore, e si risolve in cenere, la teniamo cara, come un gran tesoro, e la vita dell’anima, che è il più gran tesoro, che possiamo avere in questa vita, la disprezziamo come: vilissima cenere. Con tutta ragione dunque, o pietosissima Madre, santa Chiesa per farci rientrare in noi stessi, c’intimate questa mane: Memento homo quia pulvis es. Ricordati uomo; che sei polvere:Polvere! sento chi mi ripiglia, come può dir questo con verità la Chiesa? se mi concede,che son uomo: memento homo, comedunque son polvere, e, se son polvere, comeson uomo? Quest’occhio sì brillante, concui io guardo, certamente or non è polvere;questa lingua, con cui io parlo non è polvere; questo mio. sembiante sì florido non è polvere, la polvere non parla, non sente, non vive. Io parlo, sento, e vivo,dunque non son polvere. Ah inganno! Dice benissimo, la Chiesa: pulvis es, pulvis es.La creta benché colorita con una. bella vernice non lascia di esser creta. Se voi dal più basso ufficio di garzon di stalla togliete un giovane per fargli apprender lettere, cinger spada, e costui vedendosi una bella livrea indosso, facesse delle insolenze, vo gli direste opportunamente: eh meschino! Va va, che ancor puzzi di stalla, e sta in mia mano rimandarti giù alla stalla: oh! Adesso non è più stalliere: bene, dite voi, se non è; lo fu, e lo sarà, stando in mio potere rimandarlo la, e tanto basta. Così per appunto disse Dio ad Adamo, che vedendosi adorno di scienza; e di grazia,cominciava ad alzare il capo con affettare di essere da più di quel che era: Eritis sicut Dii. Dio gli disse; Pulvis es; et in pulverem reverteris? Mi meraviglio di te povero figlio del fango Damasceno; sei polvere e ritornerai polvere, mentre vivi una vita moribonda, che sempre muore, ed altro non è, che un impasto di vilissima cenere.

III. Ma per disinganno della nostra superbia, e per fondamento di tutto il discorso preme non poco, che noi tutti veniamo a capire, che tanto Dio, come la Chiesa non isbagliano intimarci, che presentemente siamo polvere, non solo che saremo polvere: in pulverem reverteris ; ma che con tutta verità siamo polvere anche di presente … pulvis es. La ragione è chiara; perché l’uomo in qualsivoglia stato sì trovi, certo è, che fu polvere, ed ha da ritornare in polvere. Non vi pare legittima la conseguenza? Attendete. Apparisce Dio a Mosè nel deserto di Madian, e gli dice: porta al tuo popolo la nuova del vicino riscatto, e se non ti voglion credere; digli così: Qui est misit me ad vos. Quello che è mi ha inviato a voi. Quello che è? che nome è mai questo? anche Mosè è quello che è, anche Faraone è quello che è, anche il popolo;a cui dovea portar  l’imbasciata è quello che è. No, risponde S. Girolamo, solo di Dio si dice: qui est, perché solo Dio èquello che è; e la ragione la cava il Dottore dall’Apocalisse … qui est, qui erat, et qui venturus est: Quello che è, quel che fu,quel che sarà, quello veramente è quello che è, e questo è Dio, e perché Dio fu Dio, e sarà Dio, e però si dice, che Dio è quello che è: Qui est, qui erat, et qui venturus est. Ma chi non è insieme, e indivisamente quel che fu, e quel che sarà non è quello che è; ma è solamente ciò che fu, e ciò che sarà, e questi siamo noi. Volgete l’occhioal passato; che cosa siamo stati? polvere. Volgete l’occhio al futuro, che cosa saremo? polvere. Dunque se siamo stati polvere,e saremo polvere, adesso siamo polvere… Qui est. quod fuit? dice Salamone, ipsum quod futurum est. Quid est, quod factum est? ipsum quod faciendum est. Che cosa è quel che fu? quel medesimo, che sarà.Che cosa è quel che sarà? quel medesimo, che fu. Dunque nel passato si vede il futuro, e nel futuro si vede il passato E il presente dove si vede?… Salomone non lo dice, lo dirò io: il presente si vede e nel passato, e nel futuro; perché che cosa è il presente? non è altro che il passato del futuro, e il futuro del passato. Dunque se nel passato siamo stati polvere, e nel futuro saremo polvere, nel presente siamo polvere. Ma questa ragione sì speculativa, e metafisica non si comprende bene da tutti; convien dunque delucidarla in grazia dei meno intelligenti. Prendete in mano un oriuolo da polvere, e miratelo con attenzione; di sopra ha polvere, che ancor non è caduta, di sotto ha polvere, che già è caduta, e giace nel fondo; in mezzo ha polvere, ed è quel sottil filo, che, si muore, e cade da vetro in vetro; or questo sottil filo è la nostra vita, la quale è polvere, perché è l’istessa polvere, che fu di sopra, è l’istessa polvere che fu di sotto; e perché fu polvere, e sarà polvere, però è polvere; e infatti come un oriuolo, in cui già è caduta la polvere, parlò Isaia della nostra misera vita: finitis est pulvis, consummatus est miser, deficit qui conculcabat terram. – Or venite qua tutti, e toccate con mani la verità, che la nostra vita è una vita moribonda, una vita che sempre muore, e in un lampo sparisce, anzi per una gran parte già è morta; scuotete la polvere del vostro oriuolo, vedete quanta n’è già caduta. Qua, o giovane, dov’é la tua fanciullezza? passò; dunque ella è polvere già caduta. Qua, o uomo adulto: dov’è la tua gioventù? passò; dunque ella è polvere già caduta. Qua; o vecchio, dov’è la tua virilità? passò; dunque ella è polvere già caduta; sicché in te, o giovane, è morta la fanciullezza; in te, o uomo, è morta la gioventù; in te, o vecchio, è morta la virilità; dunque, la vostra vita non solo è vita moribonda, che sempre muore, ma per una gran parte già è morta. E voi vivete sì spensierati, come se foste immortali, come se mai aveste a morire? Oh inganno fallacissimo! Benedetta sia S. Chiesa, che ci risveglia questa mane; e ci disinganna con intimarci: Memento homo, quia pulvis es. Ricordati; uomo miserabile, che sei polvere; sentitela tutti: Pulvis es, pulvis es, voi, voi, uomo leggerissimo, che per quattro lodi, per aria v’invanite tanto: Pulvis es. Voi. o donna vana, che per un poco. di vernice, o di bel colore sul volto, ve ne andate tutta altera, e vi pavoneggiate; riscuotendo le adorazioni anche in mezzo alle Chiese, come se foste una. gran Dea: Pulvis es. Voi ambizioso a cui un poco di fumo dà sì fattamente negli occhi, che vi fa perder di vista e Dio, e l’anima, e l’eternità: Pulvis es. Voi, sensuale, che adorate quel vostro misero corpo, studiando tutta l’arte di compiacerlo con quei sozzi, e schifi diletti, deh aprite gli occhi, e studiate questa breve lezione che vi dà S. Bernardo: quid fuisti, quid es, quid eris… Che cosa foste? polvere. Che cosa siete? Che cosa sarete polvere. Pulvis es, pulvis es; siete polvere, e per gran parte polvere già caduta ; siete un cadavere, siete un po’di terra putridita e questo per punto fu il palar misterioso del Profeta Geremia: Terra, terra, terra audi vocem Domini. – Terra, terra,  terra ascolta la voce del. Signore. Santo Profeta a chi parlate voi? Parlo all’uomo. E perché dimandarlo alla terra tre volte? Perché in verità l’uomo è tre volte terra. È terra nella sua origine; è terra nel suo essere, è terra nel suo finire. È terra, se consideri il passato, è terra, se-rifletti al presente; è terra se pensi al futuro. E con tanto di terra sugli occhi, e con tanto di morte addosso, non ci risvegliamo questa mane? È possibile che si tiri innanzi quella vita scellerata con quella mala pratica, con quegli odj, con quei rancori, con quegli aggravj di roba altrui? E con la morte sì inviscerata nelle ossa sì seguiterà a viver così? Peccatori dove avete il senno? è possibile tanto d’insensibilità? non basta questo per riscuotervi, per farvi abbassare le ali a tutti?…

IV. Che tuoni sono mai questi, che rimbombano in questa Chiesa, e si sentono per la prima volta da questo Pergamo? Terra, cenere, morti, cadaveri! Dunque questo mondo sarà un vero cimitero? E tra noi, e i defunti non vi sarà differenza alcuna? Quelli son polvere, noi siamo polvere, eccoci tutti polvere. No la differenza c’è, e però attendete.. Osservaste mai in tempo d’estate, quando tutte le strade son polverose; nasce talvolta un vento impetuoso, che insinuandosi per mezzo alla polvere la solleva in alto, e ne fa giuoco per le vaste campagne dell’aria; vedete di grazia, come quella polvere, quasi dissi animata da quello spirito, or grandeggia a modo di torre, ora spiegasi a forma di padiglione, or aggruppasi come un globo di nuvole, or avventasi al volto dei passeggieri; va in qua in là, per questa, per quella via, alle porte, alle finestre, entro povere case, entro superbi palazzi, in cima alle torri più alte; in fondo alle valli più cupe, né siferma mai, finché dura il che la balza all’insù, la spinge al basso, conduce in giro, la sparge in largo, e ne fa mille giuochi: fermatosi poi il vento, ecco che la polvere ancora si ferma dove appunto il vento la lasciò, dentro casa, o sulla cima del tetto, o nel piano della campagna. E qual polvere, e qual vento è mai questo? La polvere siamo noi: Pulvis es, terra es, il vento è la nostra vita; lo disse il Profeta Giobbe; ventus est vita mea; levasi il vento ecco la polvere alzata: fermasi il vento, ecco la polvere caduta. Polvere alzata sono i vivi che vanno, che vengono, che entrano, che escono. Polvere caduta sono i morti, che giacciono in sepoltura, sopra la quale leggerete passim: hic jacet, hic jacet, e vuol dire: questa poca polvere, che sta sotto questa pietra, si sollevò tanti anni fa; si mantenne in aria per tanto tempo, e giunse al tale ed al tal posto alla tale, e tal dignità; adesso hic jacet, hic jacet ; sicché e vivi, e morti siam tutti polvere; i vivi son polvere alzata dal vento, i morti son polvere abbandonata dal vento; i venti che soffiano sono di due sorti; il primo è il vento della vita: ventus est vita mea. Il secondo è il vento della fortuna, che: porta in alto più l’uno, che l’altro. Questi due venti mancano sul più bello, e la polvere dà giù: Aufers spiritum eorum, ecco il vento: Aufers spiritum eorum, et deficient, et in pulverem suum revertentur. Ecco la polvere. Oh poveri mondani vi vedo pure fatti ludibrio dei venti! Ecco là colui che se ne sta in alto sull’auge delle sue grandezze; mirate come è riverito da tutti, corteggiato da tutti, applaudito da tutti, e quanto durerà? sinché dura il vento; e poi? e poi sarà polvere calpestata dai piedi dei più vili garzoni. Ecco là. quell’altro, che è nel fior dell’età, mirate come si dilata, come spiega i suoi affetti, come scorre per ogni prato, va a caccia dei passatempi, e sì ubbriaca dei più sozzi diletti, e quanto durerà? Sinché dura. il vento; e poi? e poi deficit, et in pulverem suum revertetur. Osservate quel mercante,che tutto ingolfato nei negozj ad altro non attende, che ad accumular ricchezze efar denaro, tutto traffichi, tutto corrispondenze, tutto rigiri, senza un momento di respiro, né per l’anima, né per l’eternità.Oh che polvere agitata! E quanto durerà? Sinchè dura il vento; e poi? e poi si poserà in un sepolcro, sopra di cui si leggerà scritto hic jacet, hic jacet. O vita mortale, aura fugace, polvere volante, che ti aggiri per aria con quei vasti, e vani disegni di gusti lusinghieri, di accumulate ricchezze, di ambite dignità, di potenza, di fama di gloria,di nome immortale dopo la morte, quanto durerai quanto? Te lo dirò io: quanto ha di stabilità un soffio di vento, che è senza regola, e senz’ordine: ubi sult spirat, et nescis unde veniat, aut quo vadat. Qua, umana. superbia, vedi chiara la verità! che la tua vita è una vita moribonda, una vita, che sempre muore, una vita, che non è che un soffio? Giù dunque, giù, giù, abbassa il capo, e confessa con tutta schiettezza, che in realtà sei polvere: memento, quia pulvis es. Che la tua vita non è che un soffio di vento: memento, quia ventus est vita tua, e che Iddio vendicatore quanto prima; Auferet spiritum iuum, et in pulverem tuum reverteris.

V. Or qui discorriamolo; miei cari peccatori, non essendo noi che un poco di polvere, e la nostra vita, che un poco di vento, come mai saremo sì temerarj a disprezzar la Legge santissima di quel Dio: qui potest corpus occidere et animam perdere; di quel Dio, che può in un baleno spargere all’aria questa nostra polvere, e calmare in un subito il turbine di sì impetuoso vento? Di quel Dio che può far cenere di questo nostro corpo, e mandare in precipizio per tutta l’eternità questa nostra povera anima? Dilettissimi peccatori, come ardirete di peccare, se rifletterete che peccando offendete quel Dio: che potest occidere, vi può far morire in tutti i tempi, e la mattina quando vi destate, e la sera quando vi coricate, e vi ritirate al riposo? potest occidere in ogni luogo; vi può far morire quando andate a spasso a quel giardino, quando giuocate in quella veglia, quando ballate in quel festino, quando giacete in quel letto, quando vi trovate in quella conversazione: potest occidere. Vi può far morire in tutti i modi: potest occidere in una stilla di acqua; così fece morire in un banchetto Alessandro, potest occidere in un acino di uva, così fece morire giocando un Fabio; potest occidere con un morso di animaluccio, così fece morire. Scherzando un Baldo; potest occidere in un boccone di fungo, così fece morire mangiando un Claudio: potest occidere con un accidente apopletico, con una goccia improvvisa, che già da molto tempo si va generando dentro di voi. Eh che sapete voi di quel che passa nell’intimo di voi stessi? Forse non potrebbe succedere ad alcun di voi, come a quel celebre capitano detto il Caldoro, che con sorte rara arrivato tra le battaglie all’età di 75 anni passeggiava lieto per il campo, e si gloriava di essere tuttavia sì disposto della persona, e sì vivace come fosse di venticinque anni. Non dubitate, che finì in un punto e di vantarsi e di vivere, perché percosso da un fiero accidente, fu stramazzato morto a terra; peccator mio, non potrebbe succedere l’istesso a voi? Deh appigliatevi all’esempio del s. Davidde, che considerando quante sia breve la nostra vita, a quanti accidenti sia esposta, a quanti rischi, si pasceva giornalmente di cenere: cinerem tanquam panem manducabam. Cenere come pane? Si mangiava la cenere come pane, perché siccome il pane è il cibo più comune, che si confà a tutte le complessioni, così la cenere, cioè la memoria della morte è l’alimento più sostanziale dell’anima per conservarla nella grazia di Dio: Cinerem tanquans panem manducabam

VI Ma chi non sa, che la maggior parte degli uomini vanno ingannati in questo punto? Non solo non vogliono mangiar la cenere come pane, ma hanno per oggetto di sommo orrore il sol pensarvi, si figurano lontano lontano, quel termine che è vicino vicino. Pertanto perdonatemi; o Savio; in quella vostra distribuzione dei tempi, che tassate a tutti, l’avete sbagliata: avete lasciato il meglio, avete posto il tempo del nascere, ed il tempo del morire, senza far menzione del tempo di vivere: Temps nascendi, tempus moriendi. È il tempo di vivere dov’è? mettetelo,;che ci va in ogni conto: Tempus…Ma se nell’atto stesso di porlo gli fuggedalla penna… Ma lo vogliono in ogni modo,ditelo: tempus vivendi, ma qual è il tempodi vita, dice Agostino, se il tempo che sivive, è lo stesso di quello che si toglie dallavita? Quanti anni avete voi? v’ interroga ilSanto; venti, trenta, quaranta. Ah ingannati!non dite che gli avete; dite che gli aveteperduti, perché: Quidquid temporis vivitur:, de spatio vivendi demitur. Or vedete quantov’ingannate, allorché scrivete a quell’amico,ci rivedremo nella prossima primavera; cela spasseremo in quel giardino, in quellavilla, vi sarà la. commedia, la veglia; vi saràla tale ;..sarà piucché lieta la conversazione.Ah meschini! interverrà a voi ciò che intervenne a quel ricco dell’Evangelo … Che andava facendo i suoi conti: Hobeo multa bona reposita in annos plurimos. Sì, sì, gli scrive contro Cirillo: habes: multa bona, sed annos plurimos unde poteris obtinere? Avete ì beni, avete i giardini, le ville, le conversazioni, le veglie, ma gli anni da goder questi beni, dove gli avete voi? Io vedo, che lo Spirito Santo per bocca del Savio vi stringe i panni addosso con quel tempus nacendi, tempus moriendi; e con questa cifra vi dà ad intendere e che la vita non è altro che un principio di morte. Vite principium; mortis exordium; anzi non facendo menzione della vita, vi vuol far capire che l’uomo che vive, è un defunto animato, una morto Spirante, un sensitivo cadavere; e tutta insieme finalmente la vita altro non è, che un corso, una fuga, un volo, un lampo, un precipizio alla morte. O vita umana, vita mortale, vita moribonda, fallacissima e fugacissima vita! Memento dunque quia pulvis es. – A voi l’intimo o boriosi, a voi, o superbi: a voi, che siete polvere innalzata dal vento, e vi agitate per l’aria. con tanti giri, e rigiri, ah che quanto. prima sarete polvere abbattuta! in pulverem. reverteris.

VII Il Memento, che con le parole della Chiesa ho intimato sin ora ai vivi: Memento homo, quia pulvis es, non è quello, che mì spaventa; tutto il mio timore l’ho riserbato per il memento, che ho da intimare ai morti, e sì rinchiude in quelle parole: et in pulverem reverteris. Ai vivi ho rammentato, che la prima polvere è de vivi: Pulvis es. La seconda polvere è polvere de’ morti: et in pulverem reverteris. Ai vivi ho rammentato che sono polvere sollevata, e quanto prima saranno polvere abbattuta. Ai morti devo rammentare, che sono polvere abbattuta, e quanto prima saranno polvere sollevata. Ai vivi dissi: Memento homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris. Dissi all’uomo, ricordati. uomo; che sei polvere, perché fosti polvere, ed hai da ritornare in polvere. Adesso dico alla polvere, ricordati polvere che sei uomo, perché fosti uomo, ed hai a ritornare ad esser uomo: Memento pulvis, quia homo es, et in hominem reverteris. Or qui discorriamola familiarmente: o noi crediamo, che la nostra polvere ha da ritornare ad esser uomo, o non lo crediamo? Se l’uomo finisce col solo ridursi in polvere, non ho più che dire: a che servono le prediche, a che le quaresime? Usciamo pur di chiesa,perché tutto è perdimento di tempo: ma se vostra polvere ha un dì a risuscitare e ritornare ad esser uomo, io non saprei ciò che mai vi abbia a dire. Ah dilettissimi, alme non fa paura la polvere, che ho da essere, mi fa paura quel che ha da esser lamia polvere: non temo la morte, temo l’immortalità,temo il pericolo d’una morte immortale, che non finirà mai (ed oh quanto è più importante la prima questa feconda verità!) Non temo il giorno delle ceneri,temo il giorno di Pasqua, in cui mi si ricorda la mia risurrezione ad una vita, o una morte immortale che non muore mai: Scio enim quod Redemptor meus vivit, et in novissimo die de terra surrecturus sum. Scio, non dice credo, ma scio, perché la verità è certezza dell’immortalità dell’uomo, è non solo di fede, ma anche scientifica.Per scienza, e ragion naturale la conobbero e Aristotele, e molti altri filosofi gentili: e pure a parlar con ingenuità, se rifletto al nostro modo di vivere, ritrovoche noi non siamo né come mortali, né come immortali. Non come mortali perché trattiamo le cose: di questa vita, come se questa vita fosse eterna Non come immortali, perché amo con tal dimenticanza della vita eterna, come se non vi fosse. Or qui sì, che mi sento accendere di un santo zelo, e non posso trattenermi, che a tutta voce non esclami: miseri mortali a che pensate voi? che scempiaggine è mai la vostra! sapete pure che avete a morire? sapete pure che dopo la morte avete a risuscitare e sapete pure che vi aspetta un’eternità che non ha fine? come dunque non temete una morte immortale? una morte che non finirà mai? Chi vi ha tolto il senno, dilettissimi? In che impiegate voi i vostri pensieri, le vostre sollecitudini? di che si tratta qui? dite dite, di che si tratta? non si tratta dell’anima? E di un’anima che è vostra, anziché è di voi? E di un’anima che è unica, e di un’anima che è immortale, e di un’anima, che se una volta si perde, la perdita è irrecuperabile? e di quest’anima immortale voi mostrate sì poca premura? ahimè! memento, vi dirò col Grisostomo, memento quod de anima loqueris: Che vogliate mettere a risico la roba, la sanità, la vita, l’onore, e tutto il resto, ve le passo: ma l’anima, ma l’anima che è eterna, perché cimentarla al pericolo di una morte immortale, di una morte, che non finirà mai? Deh aprite gli occhi, carissimi, e vi serva di freno quest’esempio moderno per trattenervi, e non lasciarvi andare al precipizio.

VIII. Una Principessa di grande stima avea un Paggio di buonissima indole da lei amato a tal segno, che più volte l’aveva onorato col titolo di figlio. Questo paggio avendo assistito alla mensa una mattina, in cui erano in palazzo molti convitati, finita la tavola, invece di andare a reficiarsi, si ritirò nella sua stanza, e così vestito si gettò sul letto. I Padroni stavano dopo la tavola in conversazione, e la servitù era tutta applicata a godersi gli avanzi di quel lauto convito, e il povero paggio solo con terribili convulsioni di stomaco stava ravvolgendosi per il letto in miserabil tormento; e perché il male consisteva in umori maligni come poi si scoprì con l’istesso rivolgersi gli giunse più facilmente al cuore; lo soffocò, e senz’anima, che comparisse mai ad ajutarlo, ne morì. Erano già passate alcune ore, il paggio non si vedeva comparire; andato un suo compagno alla stanza, lo vede disteso sul letto con le braccia qua e là in abbandono; lo scuote, credendo, che dormisse, ma il sonno era della morte. Ohimè! è morto, è morto, si sparge la nuova per il palazzo. La Principessa corre in persona a quello spettacolo, e vede il povero giovane età di quindici anni, quello, che tre ore prima aveva servito a tavola; lo vede colla livrea ancora indosso senza parola, e senza fiato. A quella a cominciò a bollire nel cuor della padrona una confusione di affetti, di dolore, di compassione tenerissima, di spavento orribile di sé medesima, di timor panico della morte, e lo mostrò la mattina seguente, in cui ordinati molti suffragi per quell’anima, mandò a chiamare un confessore dei più accreditati, e si confessò. Il confessore dalla qualità del caso, dal modo del racconto, e dal sentimento in cui la principessa si confessò, conobbe in lei una straordinaria mozione di affetti, e però le disse: Vorrei che V. Eccellenza questa mattina, comunicata che sarà, domandasse a Dio che cosa pretende da lei con averle fatto vedere un tale spettacolo. Lo farò. Comunicata che fu, si ritirò in sé stessa, e fatto un atto di viva fede disse: Signore mio, che pretendete da me con un avviso così terribile? parlate, Signore, perché, se sono stata sorda per l’addietro, non sarà così per l’avvenire. Stette così alquanto in silenzio, e con voce interna chiarissima si sentì dire: Vorrei vederti più apparecchiata alla morte di quello che non sei; quando si deporranno tanti capricci di testa? Quando  sì riformerà un vestir sì immodesto? Quando  si farà la pace tra te, e me tuo Dio? di che ti fidi? della gioventù? il paggio era più giovane di te; della sanità? Più sano e più robusto di te vera il paggio. Aspetti l’avviso di qualche lunga malattia? ecco, che anche senza malattia si muore? se la morte coglieva te, come ha colto il paggio, adesso dove ti troveresti con quel gruppo di coscienza non ancora sciolto, con quei debiti non soddisfatti, con quelle tante colpe personali, e tante altre, che sono a tuo carico, per esserne stata tu l’occasione? è possibile, che non temi una morte immortale, una morte che non morirà mai? Inorridì a questa scoperta la principessa, e piangendo a calde lagrime tornò a’ piedi del confessore, e le disse: Padre, non partirò dai vostri piedi, se non accordiamo questi due punti; l’uno un’esatta confession generale di tutto il passato; l’altro è un’esatta regola di vivere, e sedere, di trattare per l’avvenire. L’uno e l’altro si fece, e l’eseguì. con tanta esattezza, che dopo alcuni anni avvisata della morte, rispose ridendo; lodato sia Dio: sono già tanti anni, che aspetto questa nuova ogni dì.

IX. Via su, carissimi, risvegliatevi tutti; e seguitate l’esempio di questa savia principessa, che riformò sì bene la sua vita, che le fruttò un sommo contento in punto di morte, e lasciate che di bel nuovo v’intimi: memento pulvis, quia homo es, et in hominem reserteris. Polvere che fosti uomo, ricordati che sei uomo, e caduto a terranon hai da rimaner sempre polvere, ma la resurrezione della carne t’ha da impastareun altra volta in uomo: in hominem reverteris.Vi è per te un’altra nascita, vi è perte un’altra vita, vi é per te un altro mondo: Credis hoc? lo credete, Cristiani miei?e se lo credete, perché non mettete al confrontol’uomo momentaneo che siete, con l’uomo eterno che sarete? La vita istantaneache vivete, la morte che passa, con lamorte che non muore mai? Deh per le viscere di Gesù non vi vogliate più lungamente ingannare, riscuotetevi, ed abbiate pietà (ve ne prego con le braccia incrocicchiate sul petto) pietà, pietà delle povere anime. vostre, e per cominciar la quaresima con frutto, fate quel tanto che fece l’accennata. principessa, che ubbidiente al consiglio del confessore si ritirò in se stessa udì la voce di Dio, apprese il pericolo di una morte immortale che non muore mai, e fece quella bella conversione, che le raddolcì tutte le amarezze della morte. E per venire alla pratica, ecco la prima grazia che vi chieggo:in ogni giorno di questa quaresima ascoltate con divozione la santa Messa. Non me la negate, e in tempo della Messa raccogliete un poco in voi, e ognuno di voi a solo asolo con Dio pensi per quella mezz’ora e alla morte vicina, ed alla sua vita passata.Lasciate pure per quel tempo ogni altravozioncella, e ponderate questi due punti per impiegar bene questi due quarti d’ora:nel primo quarto, quanto son io vissuto,come son io vissuto nel tempo addietro? Oh quanta materia di pianto troverete qui!…Nel secondo quarto, quanto mi resta da vivere, e come ho io da vivere in avvenire! oh che bei proponimenti concepirà il vostro cuore… ve li replico quanto son io vissuto, e come son io vissuto per il passato nel primo quarto. Quanto mi resta da vivere, e come io ho da vivere per l’avvenire nel secondo. Oh benedetta quaresima, se ogni giorno per mezz’ora vi atterrete in questo gran pensiero, Allora sì che apprendendo quanto presto sparisca il volo, anzi il lampo d’una vita sì fallace, al tuono del Memento homo, quia pulvis es; et in pulverem reverteris, disprezzerete il presente, apprezzando il pericolo d’una morte immortale, che non muore mai al fulmine del Memento pulvis, quia homo es, et in hominem reverteris, assicurerete il futuro. – Riposiamo.

Motivo per l’Elemosina, ed altri avvisi

X. Thesaurizate vobis thesauros in Cœlo, i tesori detestati dal Vangelo sono ceneri; volete che siano veri tesori, metteteli nelle mani dei poveri, (Il detto di S. Lorenzo a Valeriano.) Per altro eccomi, popolo mio dilettissimo, venuto a voi per vento, per nevi, per ghiacci, e molti altri incomodi e disagi. Chi mi ha qui condotto? Sapete chì? un desiderio vivo di mettere in salvo le anime vostre; e mi protesto, che  non quæro vestra, sed vos, non quæ mea sunt, sed quæ Jesu Christi. Una grande impresa è la mia, e un grande affare è il vostro. Sarà mio ufficio additarvi la via della salute, sarà vostro impegno il camminare per essa, ed oh che affare di somma premura è per voi il salvarvi! Dilettissimi si tratta di salvare un’anima, anima sola, anima immortale, anima, che se una volta si perde, la perdita è irrimediabile; e per salvare quest’anima qual è il mezzo più essenziale, il più comune, di cui si serve Dio? Eccolo. La predicazione evangelica; e tanto basta per farvi capire l’obbligo immenso; e strettissimo, che avete di venire a sentire tutte le Prediche. Dissi, tutte, perché, come notano gravissimi autori, la salute dell’anima pende talvolta da un lume, da un tocco interiore da una ispirazione accettata; né voi potete sapere a quale delle prediche di questa quaresima sia annessa quella ispirazione efficace che ha da far il colpo nel vostro cuore; se a quelle Dei giorni festivi, o quelle dei giorni feriali; e però chi ha zelo di salvarsi vede benissimo, che senza un gran rischio di perdersi non ne deve lasciare neppure una. – Ma non basta venire. alla predica, bisogna anche attendere a ciò che si dice nella predica, e qui notate, che mentre si predica, parlano due, Dio è l’uomo. Dio come capo, e principale; l’uomo come mezzano e suo ministro. Sicché la predica è un complesso di umano, e di divino. Due cose vi concorrono a ben formarla, la voce di Dio e la voce dell’uomo; la voce di Dio è l’istessa in tutti i Predicatori, e per sentir questa dovete venire alla predica, perché questa è che ammollisce il cuore, dà la spinta al bene, e con virtù efficace trionfa del cuore dell’uomo; conforme dice il Salmista: Dabit soci suæ vocem virtutis. La voce poi dell’nomo è varia nei Predicatori, chi l’ha più elegante, più bizzarra, e fiorita; chi rozza, e disadorna. Sia però come si voglia, è sempre, dice Paolo: Æs sonans, et cymbalum tinniens. Ed ecco perché la maggior parte non profittano della predica, perché vengono per sentire la voce dell’uomo, non la voce di Dio, per notare lo stile, le arguzie, le figure. No no chi verrà alle mie prediche non si aspetti fiori; un tronco aspro, rozzo qual mi vedete, è incapace di bella verdura. Venite dunque per sentir, la voce interna di Dio, che in ogni predica picchierà alla porta del vostro cuore, e in questo modo spero che ne caverete un gran profitto. –  Padre, verremo ma con patto, con patto! che patto? con patto che non siate tanto lungo e lasciate certe invettive, o esagerazioni… già intendo: quel che tengo preparato in ogni predica è per trattenervi un’oretta in circa, ma perché io non sto attaccato alla carta, se talvolta lo spirito di Dio animerà la lingua dell’uomo, volete che tronchi il filo? non tornerebbe bene né a me, né a voi; tanto più, che l’esperienza m’insegna che quelle cose, che Iddio ispira nel fervor del dire, sono quelle, che riportano la vittoria. Voglio dire, se qualche volta a quell’oretta si facesse una piccola aggiunta non sarà lunghezza, ma condiscendenza allo spirito del Signore, che così disporrà. In quanto poi all’inveire, Isaia m’intima: Clama, ne cesses, quasi tuba exalta vocem tuam. Vuole, che la lingua del Predicatore faccia l’officio di tromba, non di lira; e S. Paolo mi fa intendere: Argue, obsecra, increpa. Non mi vuole adulatore, ma Predicatore, e Predicatore apostolico, voglio dire, che contro il vizio converrà gridare, ma sempre con rispetto al vizioso. Sgriderò, riprenderò la malizia dei peccatori, ma con quella venerazione somma, che si deve ad una udienza sì cortese. Quello che vi potete aspettar di buono si è, che tutto quello che vi dirò, lo dirò con un buon cuore, e di cuore, e potrete dire liberamente: quest’anno ci è toccato un Predicatore, che dice le cose all’apostolica, alla buona, ma dice col cuore, e di cuore; e direte il vero. Son povero Religioso, ma uomo: di parola, e quel che vi prometto, l’attenderò, dirò di cuore; e però venite, perché spero, che il mio Gesù con la sua grazia guiderà ai cuori quel che mi uscirà dal cuore.

Seconda Parte

XI. Fedeli cari, circa il punto massimo e fondamento del ritornare in polvere, e del dover morire sbagliano pochi, circa il quando sbagliano tutti, e giovani, e vecchi, e infermi, e sani, e gracili, e robusti. Ognuno pensa, e tutti muojono prima di quello che pensano, sapete perché? Perché nell’oriuolo della lor vita non considerano, né la polvere che è caduta, né la polvere che cade, ma considerano solo quella, che resta a cadere, e perché di questa non vedono il fine, si sognano tutti una vita lunga, come se fossero eterni. Oh inganno, oh inganno! la polvere che rimane nel nostro oriuolo è pochissima, cari peccatori, è pochissima breves dies hominis sunt. Ma fingiamo, che sia moltissima: quante volte accade che in un oriuolo da polvere, che si attraversi un piccolo atomo, una tenuissima scheggia, e voi vedete, che nel più bello del correre, e quando men si pensa perde il corso e si arresta? così avviene sovente a; una goccia che d’improvviso assale il cuore, una spina, che sì attraversa in gola, un impensato accidente ferma il corso alla vita, e si muore; ce lo dice pure a chiare note il S. Evangelo; cioè, che la morte. Ci sorprenderà, quando meno ce lo aspettiamo … Qua hora, ohimè, dicesse almeno quo anno, dicesse almeno quo mense, dicesse almeno quo die saressimo sicuri almen di un giorno. No no, qua hora non putatis, Filius hominis veniet. In quell’ora, in quel momento che meno ce lo aspetteremo, ci sorprenderà la morte, morte impensata, e però morte mala, morte pessima per noi, se non ci risvegliamo una volta. Da questa morte improvvisa, benché fortunata, e corroborate dai Sacramenti, fu sorpreso un giovine fresco e robusto di età, uno di questi per appunto, che si promettono molti anni divita; e successe il caso in una processione di penitenza, che facevasi in certa missione con grandissimo concorso, e commozione di popolo, in cui portavansi inalberati a vista di tutti alcuni stendardi. Fra questi uno ven’era, che rappresentava la morte in alta e gigantesca corporatura, la quale con una ano reggeva già bassata al taglio la falce, e con l’altra mostrava un orologio, che trasmetteva da un vetro all’altro gli ultimi granelli di polvere col motto sopra volante preso da Isaia: Finitus est pulvis. Il padre missionario sopra un palco. si fece collocare da un fianco quello stendardo, e additandola morte in quell’atteggiamento della falce in moto e dell’orologio sul finire, caricò con grande spirito il seguente pensiero. Peccatori miei dilettissimi, all’entrar, che facciamo in questo mondo, si volta l’orologio di nostra vita, e siccome. vi sono orologj diun quarto, di mezz’ora, di un’ora, di tre,e di sei ore, così la nostra vita si misura con orologj di 20, di 21, di 30, di 40 anni,la morte sta attenta: quando finitus est pulvis, e all’ultimo granellino scarica il colpo,e tronca la vita. Or chi di voi può sapere, quanta polvere ancor gli resti? Non mi state a dire; il tale ha sessant’anni, che vive, el’orologio suo ancor fila; se tutti gli orologj fossero uguali direste bene, e sarebbe ragionevole il vostro discorso; ma se vi sono orologj di pochi, e orologj di molti anni, perché volete voi argomentare dall’uno all’altro? a voi parlo, peccatore ostinatissimo:a che termine sta l’orologio di vostra vita?che ne sapete voi? chi sa che non siamo vicini all’ultimo granellino, chi lo sa?Quel giovane, che si trovava presente a questo discorso, prese per se queste parole,si partì col capo basso, andando seco stesso dicendo: Che so io, di qual misura sial’orologio di mia vita, e quanto di polvere mi resti a scorrere? e se fossi verso il fine?che sarebbe di me? Attuffato in questo pensiero entrò in una chiesa, si dispose alla confessione di cui aveva gran bisogno, e portatosi ai piedi di un confessore non solo si confessò con grande esattezza, e contrizione, ma persuasissimo, che gli restava poca polvere. per compire il corso di sua vita, si risolse a mutar totalmente costumi, e modo di vivere. Volete altro? Il  pensiero, che Dio gli mandò della brevità di sua vita, fu sì vero, che in quell’istesso giorno, in cui si confessò, nell’istesso se ne morì.

XII. Or qui contentatevi che io rubi a quel buon Missionario le parole, e tutto fuoco di zelo mi rivolgo a voi col dire: Dilettissimi peccatori, a che termine sta l’orologio di vostra vita? chi sa, che per molti di voi non sia sul finire? chi mi assicura che alcuni di voi prima di arrivare a casa non caschi morto per la via? e quando ciò non accada, chi mi assicura che per molti di voi non termini l’orologio prima di arrivare a Pasqua? In tutti i luoghi, nei quali ho predicato la quaresima, sempre è morto qualcheduno di quel popolo, dunque probabilmente in questo luogo ancora, prima che siamo a Pasqua, morirà alcun di voi; e a chi toccherà? sapete a chi? a chi meno se lo aspetta, a chi meno ci pensa. Che si fa dunque, e che più s’indugia a fare una vera e soda conversione? Deh contentatevi; che mi abbracci col mio Gesù Crocifisso, e con le ceneri in capo, e col Crocifisso alla mano, vada girando per le piazze, per le case, per le botteghe; entri là, dove si trattengono quei drappelli degli sfaccendati, quei circoli dei litiganti, quelle radunanze dei giocatori, e quivi a gran voce gridi penitenza, fratelli, penitenza! Deh lasciate i giuochi, o giovani, le liti, o pretendenti; le pratiche, o sensuali; non più amori, non più balli, non più veglie, o scapestrati, non più specchi, o donne vane, non più rancori, o vendicativi, non più furti, non più ingiustizie, o interessati. Penitenza, dilettissimi, penitenza. Ecco la trista nuova, questa mane con le parole di santa Chiesa: Pulvis es, et in pulverem reverteris. Siete polvere, e ritornerete in polvere,per ora polvere sollevata, sarete tra poco polvere abbattuta, dunque non più si tardi a smorbar tante oscenità, non più si tardi a sradicar tante oscenità, non più si tardi a sradicar tanti odj, non più si tardi a piangere amaramente i nostri peccati. Lacrime di compunzione esigono da noi gli apparati mesti di questa Chiesa. Le voci flebili dei Sacerdoti, e tante cerimonie sacre, che tutte  spirano compunzione, pentimento, e dolore, non ci invitano a piangere le nostre scelleratezze? Dunque ai piedi di questo Cristo non voci di un cuor contrito chiediamogli tutti umilmente perdono. Come! Avete avete voi ripugnanza a farlo? Ah se così. è, a quelle ceneri mi appello, a quelle ceneri che avete in capo; discopritele pure, manifestatele. Non le veggio io questa mane egualmente sparse, e su ì capi canuti, e su i crini biondi? E vecchj, e giovani non avete tutti le ceneri in capo? e che vi dicono quelle ceneri? Penitenza vi dicono, popolo mio dilettissimo, penitenza; pianti amari, dolor dei peccati, lacrime di vera compunzione. Ah mio Dio, che facciam noi! Avremo a viver sempre ostinati, sempre induriti nel mal fare? No, dilettissimi, no; deh, ubbidite tutti alla voce di Dio, tutti picchiatevi il petto, tutti rivolti a questo santo Crocifisso ditegli con le lagrime agli occhi; ah Gesù mio è venuto una volta per me il tempo di una vita santa; lo protesto; lo prometto e tutto contrito ai vostri piedi. Ah peccator, mio; lo dite di cuore? Ecco Gesù che vi abbraccia, ecco Gesù che vi consola, e per venire a capo del vostro proponimento, promettetegli una mezz’ora il dì in tutti i giorni di questa quaresima, meditando in tempo della messa quei due punti: quanto son io vissuto, e come son io vissuto. per l’addietro; quanto mi resta da vivere, e come ho da vivere in avvenire, e cavatene per frutto stabile di non commettere mai peccato mortale, ma particolarmente in questa quaresima. Ecco, popolo mio dilettissimo la gran grazia che vi chieggo questa mane, non peccate in questi santi giorni, rimirate tutti questo santo Crocifisso, promettetelo tutti a Gesù di non commetter peccato alcuno in questa quaresima, e vi riuscirà, se vi fisserete bene in capo il disinganno di S. Chiesa: Memento homo, quia pulvis es; et in pulverem reserteris, riflettendo, che la vostra vita è una vita moribonda, che sempre muore, e si risolve in cenere; e molto più, se v’imprimerete nel cuore, che questa cenere ritornerà ad essere uomo: Memento pulvis, quia homo es, et in hominem reverteris, con bene apprendere il pericolo di una morte immortale, che non muore mai. Ed ecco che, armati di queste due belle verità, troverete in pratica, che per voi la memoria è un gran tesoro, tutto resto è, che poca polvere, che poca cenere.

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2022)

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione: a S. Pietro.

Semidoppio Dom. privil; di II cl. – Paramenti violacei.

Come le tre prime profezie del Sabato Santo con le loro preghiere sono consacrate ad Adamo, a Noè, ad Abramo, così il Breviario e il Messale, durante le tre settimane del Tempo della Settuagesima, trattano di questi Patriarchi che la Chiesa chiama rispettivamente il «padre del genere umano », il « padre della posterità » e il « padre dei credenti ». Adamo, Noè e Abramo sono le figure del Cristo nel mistero pasquale; lo abbiamo già dimostrato per i due primi, nelle due Domeniche della Settuagesima e della Sessagesima, ora lo mostreremo di Abramo. Nella liturgia ambrosiana la Domenica di Passione era chiamata « Domenica di Abramo » e si leggevano, nell’ufficiatura, i “responsori di Abramo”. Anche nella liturgia romana il Vangelo della Domenica di Passione è consacrato a questo Patriarca. «Abramo vostro Padre, – disse Gesù, – trasalì di gioia nel desiderio di vedere il mio giorno: lo vide e ne ha goduto. In verità, in verità vi dico io sono già prima che Abramo fosse ». – Dio aveva promesso ad Abramo che il Messia sarebbe nato da lui e questo Patriarca fu pervaso da una grande gioia, contemplando in anticipo, con la sua fede, l’avvento del Salvatore e allorché ne vide la realizzazione, contemplò con novella gioia l’avvenuto mistero dal limbo ove attendeva con i giusti dell’antico Testamento, che Gesù venisse a liberarli dopo la sua Passione. Quando al Tempo di Quaresima si aggiunsero le tre settimane del Tempo di Settuagesima, la Domenica consacrata ad Abramo divenne quella di Quinquagesima, infatti le lezioni e i responsori dell’Ufficio di questo giorno descrivono l’intera storia di questo Patriarca. Volendo formarsi un popolo suo, nel mezzo delle nazioni idolatre (Grad. e Tratto), Dio scelse Abramo come capo di questo popolo e lo chiamò Abramo, nome che significa padre di una moltitudine di nazioni. « E lo prese da Ur nella Caldea e lo protesse durante tutte le sue peregrinazioni » (Intr., Or.). « Per la fede, – dice S. Paolo – colui che è chiamato Abramo, ubbidì per andare al paese che doveva ricevere in retaggio e partì senza saper dove andasse. Egli con la fede conseguì la terra di Canaan nella quale visse più di 25 anni come straniero. È in virtù della sua fede che divenne, già vecchio, padre di Isacco e non esitò a sacrificarlo, in seguito ad ordine di Dio, sebbene fosse suo figlio unico, nel quale riponeva ogni speranza di vedere effettuate le promesse divine d’una posterità numerosa. (Agli Ebrei, XI. 8,17) – Isacco infatti rappresenta Cristo allorché fu scelto «per essere la gloriosa vittima del Padre » (VI Orazione del Sabato Santo.); allorché portò il fastello sul quale stava per essere immolato, come Gesù portò la Croce sulla quale meritò la gloria colla sua Passione; allorché fu rimpiazzato da un montone trattenuto per le corna dalle spine di un cespuglio, come Gesù, l’Agnello di Dio ebbe, dicono i Padri, la testa contornata dalle spine della sua corona; e specialmente allorché liberato miracolosamente dalla morte, fu reso alla vita per annunziare che Gesù dopo essere stato messo a morte, sarebbe risuscitato. Così con la sua fede, Abramo, che credeva senza esitare ciò che stava per avvenire, contemplò da lungi il trionfo di Gesù sulla Croce e ne gioì. Fu allora che Dio gli confermò le sue promesse: «Poiché tu non mi hai rifiutato il tuo unico figlio, io ti benedirò, ti darò una posterità numerosa come le stelle del cielo e l’arena del mare (VI orat. del Sabato santo). Queste promesse Gesù le realizzò con la sua Passione. « Il Cristo, dice S. Paolo, ci ha redenti pendendo dalla croce perché la benedizione, data ad Abramo fosse comunicata ai Gentili dal Cristo, e così noi ricevessimo mediante la fede la promessa dello Spirito », cioè lo Spirito di adozione che ci era stato promesso. « Fa’, o Dio, prega la Chiesa nel Sabato Santo, che tutti i popoli della terra divengano figli di Abramo, e, mediante l’adozione, moltiplica i figli della promessa» (3a settimana dopo l’Epifania, feria 2a – martedì) . Si comprende ora perché la Stazione oggi si fa a S. Pietro, essendo il Principe degli Apostoli che fu scelto da Gesù Cristo per essere il capo della sua Chiesa e, in una maniera assai più eccellente che Abramo stesso, « il padre di tutti i credenti ». – La fede in Gesù, morto e risuscitato, che meritò ad Abramo di essere il padre di tutte le nazioni e che permette a tutti noi di divenire suoi figli, è l’oggetto del Vangelo. Gesù Cristo vi annunzia la sua Passione ed il suo trionfo e rende la vista ad un cieco dicendogli: La tua fede ti ha salvato. Questo cieco, commenta S. Gregorio, recuperò la vista sotto gli occhi degli Apostoli, onde quelli che non potevano comprendere l’annunzio di un mistero celeste, fossero confermati nella fede dai miracoli divini. Infatti bisognava che vedendolo di poi morire nel modo come lo aveva predetto, non dubitassero che doveva anche risuscitare ». (4° e 5° Orazione). L’Epistola, a sua volta mette in pieno valore la fede di Abramo e ci insegna come deve essere la nostra. « La fede senza le opere, scrive S. Giacomo, è morta. La fede si mostra con le opere. Vuoi sapere che la fede senza le opere è morta? Abramo, nostro padre, non fu giustificato dalle opere, quando offri suo figlio Isacco su l’altare? Vedi come la fede cooperò alle sue opere e come per mezzo delle opere fu resa perfetta la fede. Così si compie la Scrittura che dice: Abramo credette a Dio e gli fu imputato a giustizia e fu chiamato amico di Dio. Voi vedete che l’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede solamente » (3° Notturno). L’uomo è salvato non per essere figlio di Abramo secondo la carne, ma per esserlo secondo una fede simile a quella di Abramo. « In Cristo Gesù, scrive S. Paolo, non ha valore l’essere circonciso (Giudei), o incirconciso (Gentili), ma vale la fede operante per mezzo dell’amore ». « Progredite nell’amore, dice ancora l’Apostolo, come Cristo ci ha amati e ha offerto se stesso per noi in oblazione a Dio e in ostia di odore soave » (Ad Gal. 5, 6). – In questa domenica e nei due giorni seguenti, ha luogo in moltissime chiese, una solenne adorazione del SS.mo Sacramento, in espiazione di tutte le colpe che si commettono in questi tre giorni. Questa preghiera di espiazione, conosciuta sotto il nome di « quarant’ore », fu istituita da S.Antonio Maria Zaccaria (5 luglio) nella Congregazione dei Barnabiti, e si generalizzò, venendo riferita particolarmente a questa circostanza, sotto il pontificato di Clemente XIII, il quale nel 1765, l’arricchì di numerose indulgenze.

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXX: 3-4

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me.

[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guidami e assistimi.]

Ps XXX:2

In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me. –

[In Te, o Signore, ho sperato, ch’io non resti confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e sàlvami.]

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me.

[Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guídami e assistimi.]

Orémus.

Preces nostras, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: atque, a peccatórum vínculis absolútos, ab omni nos adversitáte custódi.

[O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le nostre preghiere: e liberati dai ceppi del peccato, preservaci da ogni avversità.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.

1 Cor XIII: 1-13

“Fratres: Si linguis hóminum loquar et Angelórum, caritátem autem non hábeam, factus sum velut æs sonans aut cýmbalum tínniens. Et si habúero prophétiam, et nóverim mystéria ómnia et omnem sciéntiam: et si habúero omnem fidem, ita ut montes tránsferam, caritátem autem non habúero, nihil sum. Et si distribúero in cibos páuperum omnes facultátes meas, et si tradídero corpus meum, ita ut árdeam, caritátem autem non habuero, nihil mihi prodest. Cáritas patiens est, benígna est: cáritas non æmulátur, non agit pérperam, non inflátur, non est ambitiósa, non quærit quæ sua sunt, non irritátur, non cógitat malum, non gaudet super iniquitáte, congáudet autem veritáti: ómnia suffert, ómnia credit, ómnia sperat, ómnia sústinet. Cáritas numquam éxcidit: sive prophétiæ evacuabúntur, sive linguæ cessábunt, sive sciéntia destruétur. Ex parte enim cognóscimus, et ex parte prophetámus. Cum autem vénerit quod perféctum est, evacuábitur quod ex parte est. Cum essem párvulus, loquébar ut párvulus, sapiébam ut párvulus, cogitábam ut párvulus. Quando autem factus sum vir, evacuávi quæ erant párvuli. Vidémus nunc per spéculum in ænígmate: tunc autem fácie ad fáciem. Nunc cognósco ex parte: tunc autem cognóscam, sicut et cógnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, cáritas, tria hæc: major autem horum est cáritas.”

[“Fratelli: Se parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutto lo scibile, e se avessi tutta la fede così da trasportare i monti, e non ho la carità, non sono nulla. E se distribuissi tutte le mie sostanze in nutrimento ai poveri ed offrissi il mio corpo a esser arso, e non ho la carità, nulla mi  giova. La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, non si gonfia, non è burbanzosa, non cerca il proprio interesse, non s’irrita, non pensa al male; non si compiace dell’ingiustizia, ma gode della verità: tutto crede, tutto spera, tutta sopporta. La carità non verrà mai meno. Saranno, invece, abolite le profezie, anche le lingue cesseranno, e la scienza pure avrà fine. Perché la nostra conoscenza è imperfetta, e imperfettamente profetiamo; quando, poi, sarà venuto ciò che è perfetto, finirà ciò che è imperfetto. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, giudicavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma diventato uomo, ho smesso ciò che era da bambino. Adesso noi vediamo attraverso uno specchio, in modo oscuro; ma allora, a faccia a faccia. Ora conosco in parte; allora, invece, conoscerò così, come anch’io sono conosciuto. Adesso queste tre cose rimangono: la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di esse è la carità”..]

I doni che qui enumera S. Paolo sono di grande importanza. Parlar lingue sconosciute; parlar come parlano tra loro gli Angeli in cielo; predire il futuro; intendere i misteri, spiegarli e persuaderli agli altri; avere il dono d’una fede, che all’occorrenza operi prodigi strepitosi, come il trasporto delle montagne; aver l’eroismo di distribuire tutte le proprie sostanze, di gettarsi nel fuoco o di sacrificare, comunque, la propria vita per salvare quella degli altri, non è certamente da tutti. Il possedere uno solo di questi doni, il compiere una sola di queste azioni, basterebbe a formare la grandezza di un uomo. S. Paolo, che doveva conoscer bene tutti questi doni, da quello di parlar lingue straniere a quello di voler sacrificarsi per il prossimo, afferma che son superati da un altro bene: la carità. È tanto grande la carità, che senza di essa tutti gli altri doni mancano di pregio. È vero che questi doni non sono inutili per coloro, in cui il favore di Dio li concede; ma sono inutili, senza la carità, per il bene spirituale di chi li possiede. Sono come il danaro che uno distribuisce agli altri, non serbando nulla per sé. Arricchisce gli altri, ed egli si trova in miseria. – Nelle relazioni col prossimo la carità ci fa esercitare la mansuetudine, la pazienza, la mortificazione dell’amor proprio, l’umiltà, il disinteresse. Essa ci spinge a toglier disordini, ad allontanare scandali, a sopprimere abusi, a evitar liti, a estinguere odi. Se tutti gli uomini nelle loro relazioni fossero guidati nella carità, non ci sarebbero più tribunali. La carità, insomma, indirizza, perfeziona, innalza, avvalora, santifica tutte le nostre azioni. – L’eccellenza della carità risalta ancor più dal fatto che durerà eternamente. La carità non verrà mai meno. In cielo non ci saranno più profezie, non ci sarà più il dono delle lingue, non essendovi alcuno che abbia bisogno di essere istruito. Ci sarà ancora, invece, la carità. Su questa terra abbiam bisogno della fede, della speranza e della carità, che sono come i tre organi essenziali della vita cristiana, e sono, quindi, indispensabili per la nostra santificazione. Ma la fede e la speranza cesseranno nell’altra vita. – Se quaggiù, non conoscendo Dio che per la fede, lo amiamo; quanto più deve crescere il nostro amore quando lo vedremo svelatamente? Quando contempleremo la sua bellezza che supera la bellezza delle anime più giuste e più sante; che supera la bellezza di tutti gli spiriti celesti più eccelsi; che supera tutto ciò che di bello e di buono si può immaginare, la nostra carità non avrà più limiti. Tutti gli ostacoli che quaggiù si oppongono alla carità, lassù saranno tolti. Tutto, invece, servirà ad accenderla. Se Dio non ci ha dato doni straordinari; se non abbiamo un forte ingegno, un’istruzione profonda: se non possediamo beni di fortuna: se la salute non è di ferro; se il nostro aspetto non è gradevole: non siamo inferiori, davanti a Dio, a tutti quelli che posseggono questi doni, qualora abbiamo la carità. Anzi siamo a essi immensamente superiori, se tutti questi loro doni non sono accompagnati dalla carità. Noi dobbiam curare di essere accetti agli occhi di Dio. In fondo, è un niente tutto quel che non è Dio. « Dio è Carità » (1 Giov. IV, 8). In questa fornace ardente accendiamo i nostri cuori qui in terra, se vogliamo andare un giorno a inebriarci in Dio su nel Cielo.

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

 Graduale:

Ps LXXVI: 15; LXXVI: 16

Tu es Deus qui facis mirabília solus: notam fecísti in géntibus virtútem tuam.

[Tu sei Dio, il solo che operi meraviglie: hai fatto conoscere tra le genti la tua potenza.]

Liberásti in bráchio tuo pópulum tuum, fílios Israel et Joseph

[Liberasti con la tua forza il tuo popolo, i figli di Israele e di Giuseppe.]

Tratto:

Ps XCIX: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra: servíte Dómino in lætítia,

V. Intráte in conspéctu ejus in exsultatióne: scitóte, quod Dóminus ipse est Deus.

V. Ipse fecit nos, et non ipsi nos: nos autem pópulus ejus, et oves páscuæ ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta: servite il Signore in letizia.

V. Entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio.

V. Egli stesso ci ha fatti, e non noi stessi: noi siamo il suo popolo e il suo gregge.]

Evangelium

Luc XVIII: 31-43

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus duódecim, et ait illis: Ecce, ascéndimus Jerosólymam, et consummabúntur ómnia, quæ scripta sunt per Prophétas de Fílio hominis. Tradátur enim Géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et postquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intellegébant quæ dicebántur. Factum est autem, cum appropinquáret Jéricho, cæcus quidam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam prætereúntem, interrogábat, quid hoc esset. Dixérunt autem ei, quod Jesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Jesu, fili David, miserére mei. Et qui præíbant, increpábant eum, ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans autem Jesus, jussit illum addúci ad se. Et cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Jesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit, et sequebátur illum, magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit laudem Deo.” –

[In quel tempo prese seco Gesù i dodici Apostoli, e disse loro: Ecco che noi andiamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quello che è stato scritto da1 profeti intorno al Figliuolo dell’uomo. Imperocché sarà dato nelle mani de’ Gentili, e sarà schernito e flagellato, e gli sarà sputato in faccia, e dopo che l’avran flagellato, lo uccideranno, ed ei risorgerà il terzo giorno. Ed essi nulla compresero di tutto questo, e un tal parlare era oscuro per essi, e non intendevano quel che loro si diceva. Ed avvicinandosi Egli a Gerico, un cieco se ne stava presso della strada, accattando. E udendo la turba che passava, domandava quel che si fosse. E gli dissero che passava Gesù Nazareno. E sclamò, e disse: Gesù figliuolo di David, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi lo sgridavano perché si chetasse. Ma egli sempre più esclamava: Figliuolo di David, abbi pietà di me. E Gesù soffermatosi, comandò che gliel menassero dinnanzi: E quando gli fu vicino lo interrogò, dicendo: “Che vuoi tu ch’Io ti faccia? E quegli disse: Signore, ch’io vegga. E Gesù dissegli: Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo. E subito quegli vide, e gli andava dietro glorificando Dio. E tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio.]

Omelia

VEDERE DIO NEL DOLORE

La primavera dell’anno 29 fioriva e fogliava su tutte le siepi, mentre Gesù passava nella valle del Giordano, diretto a Gerusalemme, dopo l’aspettavano quattro chiodi e una croce. Lo sapeva perfettamente. Eppure camminava deciso, davanti a tutti, come un giovane eroe che vada al trionfo; dietro a lui veniva il drappello dei dodici, sbigottiti, sospettando qualche cosa di grave. Dietro ai dodici, veniva un gruppo di persone formato da discepoli e da pellegrini incontrati lungo la strada, tutti con in cuore il triste presagio di tragici avvenimenti ormai maturi. Già più d’una volta Gesù aveva tentato di far capire agli Apostoli che Egli avrebbe redento il mondo, non con le armi e la ricchezza e i prodigi, ma con l’umiliazione e la sofferenza e l’amore che dona senza chiedere; invano. Ora che pochi giorni lo separavano dal sacrificio estremo, bisognava tagliar corto e parlar chiaro. «Ecco che noi andiamo a Gerusalemme. E là il Figlio dell’uomo sarà dato in mano dei suoi nemici che lo condanneranno a morte e poi lo consegneranno in potere dei Romani. Questi lo scherniranno, gli sputeranno sulla faccia, lo flagelleranno, infine lo faranno morire. Ma dopo tre giorni, egli risorgerà ». A queste parole tutti allibirono, come gente che s’accorga di un grande inganno che le sia stato fatto. « Addio, splendido e invidiato posto di ministri in un regno glorioso!… » sospiravano i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni. – Di questa loro delusione forse si rese interprete la madre, che s’avvicinò a Gesù e gli disse: « Maestro, nel tuo regno non metter in disparte i miei figliuoli, ma li  farai sedere al primo posto, uno a destra e l’altro a sinistra del tuo trono ». Le rispose Gesù: « Povera donna, non sapete ciò che chiedete. È mio ministro chi beve il calice dell’amarezza che Io berrò, chi subisce il battesimo di sangue in cui Io mi battezzerò ». Anch’ella come i figli non poteva capire che al Regno di Dio si arriverà solo attraverso il dolore e la umiliazione. Anche Pietro non lo poteva capire. Protestava che simili soprusi non si possono né si devono permettere; che se non li impediva Gesù, gli bastava l’ardimento di impedirli da solo. Il più chiuso, l’irrimediabilmente chiuso a intendere il mistero della sofferenza era Giuda. La passione dell’avarizia teneva la signoria del suo cuore. Da tempo seguiva Gesù solo per la speranza d’arricchire; ma ora che il suo sogno di ricchezza veniva infranto dalle stesse parole del Maestro, che preannunciavano oltraggi, patimenti e morte, decise di prendersi la rivalsa sulla stessa persona di Gesù: l’avrebbe venduto per farne danaro. – Doveva essere molto triste per il Figlio di Dio andare incontro alla morte per tutte quelle persone che non capivano il suo amore. Tutti, anche i migliori, erano ciechi. E proprio in un cieco si imbatterono, giunti che furono alle porte di Gerico. Un certo figlio di Timeo, che era solito mendicare sull’orlo della strada, gridava: « Gesù, figlio di Dio, abbi pietà del povero cieco ». Gli fecero capire di smetterla che assordava tutti; ma l’infelice gridava più forte. Il maestro divino fermandosi lo chiamò: «Che cosa vuoi da me? ». « Fammi vedere! ». « Guarda! La tua fede ti dà la vista ». A quelle parole di Gesù, il cieco acquistò il lume degli occhi, e, glorificando Dio gli andò dietro. Ma era più facile aprire gli occhi del corpo alla luce di questo mondo, che non aprire gli occhi degli uomini alla luce della fede e far loro vedere l’amore di Dio in mezzo alle tribolazioni. Eppure Gesù compirà questo prodigio: e dopo la discesa dello Spirito Santo, gli Apostoli non chiesero più né onori né ricchezze, ma andarono incontro alla sofferenza e alla morte pieni di gioia perché vedevano d’andare incontro al Signore. E come gli Apostoli, innumerevoli anime in ogni tempo si sentirono predilette da Dio appunto perché flagellate dai dolori. Ma ora il mondo non vuol altro che godere. Ora c’è bisogno che il Signore ripassi sulle nostre strade e si prenda un’altra volta pietà degli innumerevoli ciechi che non sanno vedere Dio nel dolore. E ve ne sono molti anche tra quelli che si credono buoni Cristiani. Vogliono essere redenti dalla croce, ma non vogliono portare la croce. Beati quelli che piangono e sopportano per amore: coi loro occhi detersi dalle lagrime vedono la vera luce e non si troveranno ingannati. – QUELLI CHE NON VEDONO. Dopo che i Romani presero a ferro e a fuoco Gerusalemme e la distrussero, i luoghi santi della passione di Gesù furono ricoperti dalle rovine, e sulla cima del Calvario vennero poi costruiti dei templi pagani con le statue di Venere e Bacco. Ma giunse la regina Santa Elena, madre di Costantino il Grande, e fece abbattere i templi e le statue degli idoli immondi e fece scavare in cerca delle sante reliquie sepolte. Ed ecco apparire tre croci. Una delle tre, era, senza dubbio, quella del Salvatore. Ma quale? Presero un uomo infermo e consecutivamente l’adagiarono su ciascuna. Al contatto con la terza si alzò guarito. « Abbiamo trovato la croce della nostra salvezza! » si gridò allora. Ma già tutti in ginocchio l’adoravano. – Nel mondo moderno quante anime inferme e travagliate dal demonio. Esse potrebbero guarire e salvarsi, ma non vogliono il rimedio: adagiarsi sulla loro croce. Hanno orrore della corona di spine, delle piaghe, delle umiliazioni del sangue. Eppure solo nel sangue, cioè nel sacrificio, c’è redenzione. Essi però non vedono questo: sono ciechi. – Distinguiamo tre gruppi di ciechi. Il primo gruppo di quelli che assolutamente respingono Gesù. Al posto della croce nel loro cuore hanno innalzato il tempio a Venere, la dea del piacere impuro, e a Bacco il dio del vino e d’ogni intemperanza di gola. Essi gridano a Cristo: « Non vogliamo che tu regni su di noi, perché porti la croce e imponi la quaresima. Vogliamo Venere, vogliamo Bacco. Perché ci concedono ogni piacere e il godimento della settimana grassa ». Se in questi giorni raccoglieste i discorsi che si fanno in treno, nei caffè, nei ritrovi, se leggeste i manifesti della pubblicità sui giornali o affissi sui muri o sparsi per le vie, v’accorgereste che i novelli pagani invasi dal cieco furore del piacere sono una moltitudine. Da per tutto si parla di veglioni, di cene notturne, di danze, di spettacoli inverecondi… Ciechi, che bevono senza vederlo l’eterno veleno! Ciechi che non sanno d’esserlo! E se anche lo sapessero, non vorrebbero guarire! – Un altro gruppo è di quelli che seguono Gesù fin tanto che si tiene sulle proprie spalle la croce, ma se l’appoggia un momento alle loro l’abbandonano e fuggono. M’è capitato di udire sulla bocca di Cristiani espressioni simili a queste: «Io non mi confesserò più, non mi comunicherò più: Gesù m’ha fatto morire il figlio unico. Oppure: «In chiesa non ci vado più; m’ha lasciato cadere in miseria, in un fallimento ». O anche: « Gli avevo chiesto quell’impiego, quel posto, la vittoria in quel concorso: v’è riuscito un altro che è senza fede. Non pregherò più: è inutile pregare ». Questi pure sono ciechi. Non vedono di essere come i Giudei che credevano in un Messia che venisse non a togliere il peccato e a farci figli di Dio, ma a portarci il pane per il ventre, l’onore per l’orgoglio, il benessere materiale sulla terra. – Il terzo gruppo è di quelli che al momento della prova tradiscono e vendono il Messia sofferente. E sono coloro che frequentano la Messa e magari i primi venerdì del mese; ma se a loro capita un guadagno illecito di denaro: un bacio a Cristo e un calcio al settimo comandamento. Se in loro insorge un desiderio fosco, un affetto proibito, o se capita a loro un incontro adescante, non vogliono imporsi il freno della mortificazione: un bacio a Cristo e un calcio al sesto comandamento. Anche questi son ciechi. Non vedono che per un pugno di soldi, per un’ora di stordimento folle, hanno venduto Gesù, il Figlio di Dio e loro Salvatore. Non vedono che non sono più Cristiani. – QUELLI CHE VEDONO. S. Teresa d’Avila in uno dei suoi viaggi, attraversando un fiume gonfio per un recente temporale, vide la sua barca rapita dalla corrente vorticosa sul punto di affondare. In quel momento, come in una visione, le apparve la sua vita, tutta la sua vita di sofferenze e d’angosce spese per servire Dio. E udì la voce di Gesù mormorarle in cuore: « Così io tratto i miei amici ». Ed ella, con la confidenza che usava col Signore anche nelle ore più trepide, rispose: « È appunto per questo che ne avete così pochi! ». Intanto la barca, superato il pericolo, s’agganciava alla riva. Questo fatto dapprima c’insegna che la vita del vero credente è austera. Quanti sacrifici gli sono domandati ogni giorno! Sacrifici di ambizioni personali, sacrifici e affezioni inebrianti, sacrifici forse d’un focolare sognato invano. Cristo è esigente: Egli porta la croce e l’ombra delle due aste tocca tutti quelli che salva. L’arguta risposta della santa c’insegna ancora che sono pochi i coraggiosi. Che sanno rispondere alle esigenze di Gesù. Ma a questi pochi generosi è data una nuova vista: essi vedono una nuova realtà, la più vera, la più profonda. Essi nel dolore vedono l’amore di Dio: infatti è un mezzo di espiazione, di preservazione, di santificazione. – Il dolore è espiazione per il peccatore. Per quanto gravi e numerosi siano stati i peccati della vita passata, l’accettazione fedele e docile delle sofferenze quotidiane sopportate in unione a quelle di Cristo ci otterrà amplissima misericordia. Né le tribolazioni parranno mai intollerabili; anzi dovremo sempre dire con riconoscenza amorosa: « Che cosa sono questi brevi patimenti in confronto dell’inferno che ho meritato? ». – Il dolore è preservazione al giusto. Nel tempo che Davide soffriva per la persecuzione del re Saul, e per salvarsi fuggiva di luogo in luogo, non cedette mai a desideri cattivi, non oltraggiò mai la donna d’altri, non nascose con l’omicidio il proprio peccato. Ma quando felice, ben pasciuto, ozioso si pose sulla terrazza della reggia, allora la tentazione lo travolse. Chissà quanti in cielo benediranno i giorni della malattia, della sventura, perché da quelle sofferenze furono preservati da fatali cadute! – Il dolore è santificazione per tutti. Ci stacca dalle gioie fallaci del mondo, e ci fa sentire che la vita non è che una notte da passarsi in un cattivo albergo. Ci rende sempre più Cristiani, cioè più simili al nostro Capo che fu schernito, flagellato, ucciso. Infine, ci rende capaci di un premio più grande in cielo. «Per un solo patimento tollerato con gioia ameremo per sempre di più il Signore » (Epistolario di S. Teresa del Bambino Gesù). – È risaputo il fatto di S. Venceslao. D’inverno, quando la città dormiva sepolta nel sonno, nella neve e nell’oscurità, il re usciva dalla reggia a piedi scalzi e faceva il giro delle chiese della sua capitale. Un solo servo gli veniva dietro; ma il rigore del gelo era tale che il povero scoraggiato si lamentava e piangeva. Venceslao si rivolse e con voce piena di affetto compassionevole gli disse: « Metti i tuoi piedi sulle orme dei miei passi ». L’altro ubbidì: e sentiva che le orme dei piedi del re comunicavano a lui un dolce tepore. Quasi non sentiva più freddo. Signore, ch’io veda! ch’io veda sul cammino oscuro e gelato del dolore l’orma dei tuoi piedi redentori! – Se Gesù darà agli occhi dell’anima nostra questa vista il dolore non ci farà più spavento. Metteremo i nostri piedi tremanti sulle orme insanguinate dei suoi piedi divini: un ardore e una forza sconosciuta alla natura penetrerà in noi. Non è questo forse quello che ha provato il cieco di Gerico? Appena ebbe la vista, dice il Vangelo che glorificando Dio seguì i passi di Gesù. Ma dove andavano i suoi passi? A Gerusalemme, a patire e a morire.

– Nella Storia Sacra si racconta di una città dove le acque erano diventate melmose e imbevibili. Gli abitanti ricorsero al profeta Eliseo, il quale fattosi portare un vaso colmo di sale, lo versò nelle fonti inquinate. Da quel momento le acque rifluirono limpide e potabili (IV Re, II, 19-21). Nel tempo del carnevale le acque del mondo davvero si fanno melmose ed esalano miasmi pestiferi di corruzione. I buoni Cristiani costretti a viverci in mezzo sono in un grave pericolo di contagio, se non ricorrono alla disinfezione. Ed ecco la santa Chiesa imitare il gesto del profeta Eliseo, e con materna preoccupazione versare nelle anime il sale che purifica, preserva. Questo sale è la memoria della Passione di nostro Signore. – Essa infatti, proprio in questa domenica, ci fa meditare quelle righe di Vangelo in cui Gesù predice agli Apostoli la sua crocifissione imminente. – Di queste misteriose e dolorose previsioni, gli Apostoli non capivano nulla; se qualcosa ne capivano, non volevano crederci, tanto pareva loro orribile. Erano ciechi nell’anima come lo era nel corpo l’infelice che incontrarono nelle vicinanze di Gerico, a cui Gesù diede la vista con un miracolo. Anche agli Apostoli si sarebbero poi aperti gli occhi a intendere il mistero della croce. Anche i nostri occhi sono stati aperti alla luce della fede. Perciò, in questa domenica che il mondo chiama « grassa » per i piaceri sensuali e le folli allegrie a cui molti s’abbandonano, ripensando alle parole del Signore sulla sua passione dobbiamo sentirci commossi. Ci deve sgorgare dal cuore la preghiera di S. Agostino: « Signore, fammi sentire tutto il tuo dolore e tutto l’amore che provasti nella tua passione: tutto il dolore per accettare ogni mio dolore quaggiù; tutto l’amore per rifiutare ogni amore mondano ». – SENTIRE IL DOLORE DELLA PASSIONE DI GESÙ PER ACCETTARE OGNI NOSTRO DOLORE. – a) Sei forse povero? È duro arrabattarsi da mane a sera nella miseria; sempre con l’acqua dei debiti alla gola; assillati dall’affitto da pagare, dalle vesti e dal cibo da provvedere: tremanti per la paura di possibili umiliazioni. Più duro ancora quando tu, o povero, volgendo intorno gli occhi offuscati da tante preoccupazioni, e privazioni, vedi che in una notte sola si può sperperare e che a te assicurerebbe un anno di pigione e di riscaldamento: in una veste da ballo da maschera si può impiegare ciò che a te basterebbe per ricoprire decentemente il corpo intirizzito di tutti i tuoi figliuoli; in liquori, dolci e profumi si può irritare uno stomaco già sazio, mentre tu non hai neppure il sufficiente per te e per i tuoi. Ebbene, bisogna che tu, o povero, sappia oltrepassare l’ingiuriosa baldoria del carnevale, e senta di là da essa la sofferenza di Gesù. Il Figlio di Dio, pur essendo padrone dell’universo, ha voluto vivere quaggiù nella povertà: nacque in una stalla; visse lavorando manualmente per trent’anni; durante la vita pubblica, più povero dell’uccello che ha un nido, più povero della volpe che ha una tana, Egli non aveva dove posare la testa stanca; sulla croce patì perfino la sete. Col suo esempio volle insegnarti che il valore dell’uomo non è nelle cose che possiede, ma nelle virtù dell’anima; ed in mezzo alla povertà è più facile all’uomo essere ricco di virtù che non in mezzo alle ricchezze. – b) Sei forse malato? o è malato qualcuno dei tuoi cari? È penoso trascinare una vita tra letto e lettuccio, penoso anche aver qualche persona cara malata in casa, o all’ospedale, o al sanatorio. Più penoso però si fa questo dolore quando nel carnevale risuonano intorno le risa, i canti, i suoni dei gaudenti. Questi hanno salute da sprecare, nei peccati; altri, dopo tante preghiere non ottengono neppure quel minimo d’energie che è necessario per non essere di peso al prossimo e a sé nella vita. Ebbene, bisogna che gli ammalati o i loro parenti sappiano oltrepassare la disfrenata allegria carnevalesca, e sentano di là da essa la sofferenza di Gesù. Il Figlio di Dio, pure essendo innocente, ha voluto subire nella sua carne atroci tormenti: i tormenti della flagellazione, della coronazione di spine, della crocifissione. Non aveva membro che non fosse una piaga. Egli scontava per noi i nostri peccati di sensualità. Noi invece abbiamo sempre qualche cosa di nostro da scontare; e poi sollevando lo sguardo a Lui, sentiamo che ogni nostro dolore non solo ci purifica, ma ci rende più simili a Lui, e quindi partecipi in maniera più grande del suo merito e del suo premio. – Qualunque pena sia la nostra, nella passione del Signore trova il suo perché e la sua consolazione. – c) Siamo decaduti dalla nostra dignità, dalla nostra condizione sociale? È veramente doloroso; ma pensiamo a Lui disceso dalle altezze del cielo su questa bassa terra piena d’affanni. – d) Gli uomini ci deridono, ci calunniano, ci perseguitano ingiustamente? È dolorosissimo; ma pensiamo a Lui accusato d’aver in corpo il demonio, di aver sobillato il popolo alla rivolta, d’aver bestemmiato. – e) Ci troviamo soli al mondo, ingannati dagli amici, abbandonati dai parenti, incompresi da tutti? Pensiamo a Lui tradito con un bacio da Giuda, lasciato solo dagli Apostoli che nell’ora della prova, prima dormirono poi, fuggirono, a Lui che gemendo disse questa misteriosa invocazione: « Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». – SENTIRE NELLA PASSIONE L’AMORE DI GESÙ PER RIFIUTARE OGNI AMORE MONDANO. Quando S. Agnese fu richiesta in nozze dal figlio del governatore di Roma, si trovò nella drammatica alternativa di rinunciare all’amor di Gesù Cristo o di rinunziare alla vita. Ed ella a tutto rinunziò, anche alla vita, ma non all’amore di Gesù. «Sono già stata promessa — rispose — ad un altro amante ben più eccellente di te. La sua generosità è incomparabile, la sua potenza non conosce limiti, il suo amore non teme sacrifici. Suo Padre è Dio, sua Madre è una Vergine; i suoi servi sono gli Angeli; il sole e la luna sono gli ornamenti della sua casa; il suo profumo risuscita i morti, il suo contatto guarisce i malati. A Lui solo io conservo la fede. E tu vattene, o sorgente di peccato, o lusinga di morte ». – Se l’anima nostra comprendesse di che amore immenso è stata prevenuta, e quale testimonianza le fu data dal Signore nella sua passione, dovrebbe ripetere le risolute parole di S. Agnese ad ogni profferta peccaminosa di qualsiasi creatura. Nessuna creatura è grande e dolce come Gesù. Nessuno ci può far felici come Gesù. Nessuno ci amò fino alla morte, e alla morte di croce, come Gesù. Perciò quando il mondo coi suoi affetti sensibili, coll’attacco al denaro e alla roba, con i barbagli dell’onore, vorrà affascinarci, noi gli risponderemo con S. Agostino: « Perché tante lusinghe? ciò che io amo è più dolce di ciò che prometti. Mi prometti piaceri? è più piacevole Dio. Mi prometti onori e innalzamenti? è più alto il regno di Dio. Mi prometti inutili e dannose curiosità? solo Dio è verità. Mi prometti amore e felicità? solo Gesù è morto per mio amore ». Vattene dunque, o sorgente di peccato, o lusinga di morte. – Come è possibile amar Dio, che non si vede? se lo si vedesse!… C’è forse bisogno di veder Dio con gli occhi del corpo per poterlo amare? Non basta sapere che Egli esiste, che siamo visti da Lui che non vediamo, che ci è vicino, ci sente, ci ama infinitamente? L’esule relegato in una isola remota in mezzo all’oceano pensa alla sua famiglia lontana, lavora, ed ama. Il pellegrino lontano dalla sua patria, dalla sua casa, cammina ed ama. Il prigioniero, nell’oscuro carcere, non vede i suoi cari, eppure ad ogni istante sospira ed ama. Anche noi, pur essendo esuli relegati su questa terra, pellegrini in mezzo alle fugaci illusioni del mondo, prigionieri nel carcere delle cose sensibili, possiamo e dobbiamo amare Dio che adesso non vediamo, che un giorno vedremo a faccia a faccia. Il nostro cuore sia dunque un santuario: arda sempre in esso la lampada del divino amore. – All’inizio della vita pubblica Gesù entrò nella sinagoga del suo paese, e, salito sull’ambone, aprì a caso il libro dei profeti e lesse: « Lo spirito del Signore è sopra di me. Io son venuto a rendere la vista ai ciechi ». – Visum cæcis di Gesù è scritto nelle profezie; ma non è appena la vista materiale degli occhi del corpo che Egli ha portato dal cielo: sarebbe stata poca cosa, giacché dopo qualche anno gli occhi del corpo ritornano a spegnersi nell’oscurità della morte. È soprattutto la vista dell’anima, la fede che Gesù ci dona! – Per vedere gli oggetti esterni abbiamo bisogno degli occhi del corpo: ma vi sono attorno a noi cose spirituali, che rimangono invisibili a questi occhi: Iddio, l’anima, Gesù Eucaristico, le verità eterne. Per questo occorrono le pupille della fede. Ma come vi sono i ciechi del corpo, così vi sono i ciechi dell’anima. E sono numerosissimi. Guardate il mondo in questa settimana ultima di carnevale, e credo che non farete fatica a comprendere che è un gran cieco; che non ha la luce di verità che Gesù Cristo diede agli uomini col suo Vangelo. Guardate il mondo e poi riflettete se anche voi non siate, come lui, ciechi, o se rischiate di diventarlo. – IL MONDO È CIECO. Un sapiente, che aveva consumato la sua vita nello studio delle cose e degli uomini, udì che v’era una città ove tutti gli abitanti erano stolti: ciechi nell’anima. Vi volle andare. Ed ecco vicino alle mura si incontra con due ambasciatori che s’allontanavano dalla città spronando terribilmente i cavalli. « Fermi, fermi, dove andate?» chiese a loro il sapiente. « Noi non lo sappiamo; per ora non ci interessa; al nostro ritorno ce ne informeremo ». « Sono stolti davvero » conchiuse in cuor suo il sapiente. Ma nel mondo, quanti più stolti e più ciechi di loro! Vivono quaranta, cinquant’anni e non si chiedono mai donde vengono, dove vanno. Da chi furono creati, e per qual fine. Essi, come la pecora nel prato, mangiano, bevono, si divertono e altro non sanno. Non sanno quello che c’è sul piccolo catechismo e che ogni bambino sa; non sanno quello che Gesù da venti secoli va insegnando a tutti. Hanno gli occhi, ma non vedono la luce della fede. – Entra per la porta della città. Nella prima via incontra un giovanetto esile e pallido con sulle spalle magre un fascio enorme di legna: a lato gli cammina un cavallo muscoloso, senza né briglia, né freno. « Ma perché »; domandò il sapiente, « ti spezzi la schiena, mentre non getti in groppa al tuo cavallo il fastello, che per esso sarebbe leggero? ». Il giovane rispose: « Non vorrei affaticarlo con troppo peso ». « Stolto davvero! » conchiuse in cuor suo il sapiente. Ma nel mondo, quanti più stolti di lui! Temono di castigare il corpo che è il cavallo dell’anima, e non gli impongono il peso di un’astinenza benché leggera, non gli negano neppure il più bizzarro capriccio. E intanto sovraccaricano l’anima con un fascio di peccati; e non pensano che per risparmiare il corpo, perderanno anche l’anima, perché il fascio dei peccati deprimerà e anima e corpo all’inferno. Più avanti, in una piazza, trovò un uomo alto e robusto che da una stecchita donnicciuola con un filo di seta veniva trascinato a un pozzo per esservi gettato dentro. « Con l’unghia del dito mignolo, con un soffio di fiato, rompi quel filo! Liberati dalla morte! » gli gridava il sapiente. Ma quello con un’aria stupida rispondeva: « Non posso ».  « Davvero che è stolto » concluse in cuor suo il sapiente. Ma quanti nel mondo son più stolti e più ciechi di lui! Prigionieri di una passione impura si lasciano imprigionare col filo dell’abitudine viziosa. E lentamente vanno al precipizio infernale, e, ciechi, non se ne accorgono. Avvisati più volte da qualche amico, da qualche sacerdote, dai rimorsi, rispondono che non possono rompere quel filo. – Entrò finalmente in un’osteria. Era allagata dal vino: sotto i tavoli, sotto le sedie, sotto il banco, tutto era intriso di vino. E le botti aperte continuamente ne lasciavano fluire. « Oste, oste! tu perdi tutto il vino! ». Ma l’oste, che vicino a una finestra con le caviglie nel liquido prezioso faceva un gioco solitario con le carte, rispose: « Prima, voglio finire questo ». «Davvero che è stolto » conchiuse in cuor suo il sapiente. Ma quanti nel mondo più stolti e più ciechi di lui! Lasciano fluire, per giornate, per mesi, per anni un nobilissimo e prezioso tempo senza far nulla per la vita eterna, e solo si occupano di chiacchiere, di mormorazioni, di guadagni, di mode, di divertimenti. – Cieco è il mondo sempre, ma specialmente nei giorni del Carnevale. Da per tutto si organizzano festini danzanti, veglioni, commedie, mascherate: ma intanto non si vede che tristamente Gesù ritorna a Gerusalemme per essere tradito, flagellato, crocifisso con tre ore d’agonia. Cieco è il mondo, e non s’accorge che per un pugno d’orzo vende di nuovo Cristo e per un pezzo di carne marcita uccide le anime immortali (Ezech., XIII, 19). – SIAMO CIECHI FORSE ANCHE NOI? Curioso è quello che capitò a Seneca, filosofo pagano. Sua moglie, che si chiamava Arpante, dormendo era diventata improvvisamente cieca. Svegliatasi, e non vedendo filo di luce, fece aprire la finestra della stanza. Invano: non scorgendo ancora nulla, disse che era notte oscura. Ma quella notte non aveva alba; allora disse che la stanza era divenuta oscura. Si fece condurre in un’altra che trovò egualmente nera; passò in una terza e poi in tutte quelle del palazzo: ma in tutte era tenebra fittissima e dovette rassegnarsi a tornare nella prima. Seneca, raccontando questo fatto disse: « Cosa incredibile ma vera: mia moglie era cieca e non volle crederlo: credette piuttosto che dal mondo era scomparsa la luce e vi erano sottentrate le tenebre ». – Il caso eccezionale di questa donna è purtroppo comune a non pochi ciechi spirituali, che sono veramente ciechi e non lo sanno: non sanno, non credono, non vedono ciò che dovrebbero sapere in fatto di Religione. Per guarire da un male, la prima cosa è sapere di essere ammalati per potersene convenientemente curare. Ora io vorrei dirvi alcuni segni che vi possono indicare se avete la disgrazia della cecità spirituale. Tra i figli, è cieco colui che non vede come la felicità sta nell’aiutare, nell’obbedire, nel rispettare i propri genitori. – Tra i padri, cieco è colui che non vede come il bene della famiglia deriva dagli esempi che egli dà, sia colle parole, sia colle azioni. – Tra le madri, cieca è quella che non vede lo strettissimo obbligo di non permettere alle figlie conversazioni e divertimenti pericolosi. – Tra i coniugi, cieco è quello che non vede quale orribile delitto sia la infedeltà.  – Tra i celibi, cieco è colui che non sa di dover vivere castamente coi pensieri, cogli affetti, con le parole, con le opere, Tra i ricchi e tra i poveri, cieco è colui che non sa che il furto è peccato che non si perdona senza restituzione. Oh, se qualcuno comprende d’aver gli occhi dell’anima malati o spenti, oggi imiti l’esempio di Bartimeo. Deponga il mantello cencioso delle vecchie abitudini e d’un balzo corra a Gesù che passa e dica: « Ut videam! ». Che io veda la vanità di tutte le cose mondane; che io veda la bruttezza del peccato, il quale mi si presenta con iridescenti colori; veda i pericoli dell’anima immortale; ch’io veda la bellezza della vita eterna. All’ombra di una vecchia e scrostata muraglia era là buttato un povero cieco che ad ogni rumor di passi levava un rantolo e chiedeva almeno un quattrino. Un gruppetto di monelli lo volle burlare: ad uno ad uno passandogli davanti gli mettevano in mano una moneta falsa: e di quelle si rallegrava l’infelice, come di un grande guadagno. Ma venuta la sera, quando il cieco tentò di comprarsi un po’ di cibo per la sua molta fame, gli gettarono indietro le sue false monete, rimbrottandolo: « Cosa credete? Che siamo ciechi anche noi? Via di qua! ». – Quanti Cristiani ciechi nell’anima si lasciano ingannare dalle false monete del mondo, del demonio e delle passioni mondane: gli onori mondani, un contratto lucroso, un abito elegante, i trilli e le capriole d’una ballerina, una morbosa corrispondenza. Venuta la sera della vita, compariranno alle porte dell’eternità con in mano le loro opere. Ma gli Angeli della giustizia di Dio li condanneranno: « Monete false sono le vostre. Foste ciechi. Via di qua ».

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 12-13

Benedíctus es, Dómine, doce me justificatiónes tuas: in lábiis meis pronuntiávi ómnia judícia oris tui.

[Benedetto sei Tu, o Signore, insegnami i tuoi comandamenti: le mie labbra pronunciarono tutti i decreti della tua bocca.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet.

[O Signore, Te ne preghiamo, quest’ostia ci purifichi dai nostri peccati: e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXXVII: 29-30

Manducavérunt, et saturári sunt nimis, et desidérium eórum áttulit eis Dóminus: non sunt fraudáti a desidério suo.

[Mangiarono e si saziarono, e il Signore appagò i loro desiderii: non furono delusi nelle loro speranze.]

Postcommunio

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui coeléstia aliménta percépimus, per hæc contra ómnia adversa muniámur. Per eundem …

[Ti preghiamo, o Dio onnipotente, affinché, ricevuti i celesti alimenti, siamo muniti da questi contro ogni avversità.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA DI SESSAGESIMA (2022)

DOMENICA DI SESSAGESIMA (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Paolo fuori le mura.

Semidoppio Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

Come l’ultima Domenica, e come le Domeniche seguenti, fino a quella della Passione, la Chiesa « ci insegna a celebrare il mistero pasquale, a traverso le pagine dell’uno e dell’altro Testamento ». Durante tutta questa settimana, il Breviario parla di Noè. Vedendo Iddio che la malizia degli uomini sulla terra era grande, gli disse: « Sterminerò l’uomo che ho creato… Costruisciti un’arca di legno resinoso. Farò alleanza con te e tu entrerai nell’arca ». E le acque si scatenarono allora sulla terra per quaranta giorni e quaranta notti. L’arca galleggiava sulle onde che si elevarono sopra le montagne, coprendole. Tutti gli uomini furono trasportati come festuche nel turbine dell’acqua » (Grad.). Non rimase che Noè e quelli che erano con lui nell’arca. Dio si ricordò di Noè e la pioggia cessò. Dopo qualche tempo Noè apri la finestra dell’arca e ne fece uscire una colomba che ritornò con un ramoscello freschissimo di ulivo. Noè comprese che le acque non coprivano più la terra. Dio gli disse: « Esci dall’arca e moltiplicati sulla terra ». Noè innalzò un altare e offri un sacrificio. E l’odore di questo sacrificio fu grato a Dio (Com.). L’arcobaleno apparve come un segno di riconciliazione fra Dio e gli uomini. – Questo racconto si riferisce al mistero pasquale poiché la Chiesa ne fa la lettura il Sabato Santo. Ecco come Essa l’applica, nella liturgia, a nostro Signore e alla sua Chiesa. « La giusta collera del Creatore sommerse il mondo colpevole nelle acque vendicatrici del diluvio, Noè solo fu salvo nell’arca; di poi l’ammirevole potenza dell’amore lavò l’universo nel sangue [Inno della festa del prezioso Sangue]. È il legno dell’arca che salvò il genere umano, e quello della croce, a sua volta, salvò il mondo. « Sola, dice la Chiesa, parlando della croce, sei stata trovata degna di essere l’arca che conduce al porto il mondo naufrago » [Inno della Passione]. La porta aperta nel fianco dell’arca, per la quale sarebbero entrati quelli che dovevano sfuggire al diluvio e che rappresentavano la Chiesa, è, come spiega la liturgia, una figura del mistero della redenzione, perché sulla croce Gesù ebbe il costato aperto e da questa porta di vita, uscirono i Sacramenti che donano la vera vita alle anime. Il sangue e l’acqua che ne uscirono sono i simboli dell’Eucaristia e del Battesimo » [7a lettura nella festa del prezioso Sangue].  « O Dio, che, lavando con le acque i delitti del mondo colpevole, facesti vedere nelle onde del diluvio una immagine della rigenerazione, affinché il mistero di un solo elemento fosse fine ai vizi e sorgente di virtù, volgi lo sguardo sulla tua Chiesa e moltiplica in essa i tuoi figli, aprendo su tutta la terra il fonte battesimale per rigenerarvi le nazioni » [Benedizione del fonte battesimale nel Sabato Santo]. Ai tempi di Noè dice S. Pietro, otto persone furono salvate dalle acque; a questa figura corrisponde il Battesimo che ci salva al presente » [Epistola del Venerdì di Pasqua]. — Quando il Vescovo benedice, nel Giovedì Santo, l’olio che si estrae dall’ulivo e che servirà per i Sacramenti, dice: « Allorché i delitti del mondo furono espiati mediante il diluvio, una colomba annunziò la pace alla terra per mezzo di un ramo di Ulivo che essa portava, simbolo dei favori che ci riservava l’avvenire. Questa figura si realizza oggi, quando, le acque del Battesimo avendo cancellati tutti i nostri peccati, l’unzione dell’olio dona alle nostre opere bellezza e serenità ». Il sangue di Gesù è « il sangue della nuova alleanza » che Dio concluse per mezzo del suo Figlio con gli uomini. «Tu hai voluto, dice la Chiesa, che una colomba annunziasse con un ramoscello di ulivo la pace alla terra ». Spesso nella Messa, che è il memoriale della Passione, si parla della pace: « Pax Domini sit semper vobiscum ». « Il sacramento pasquale, dirà l’orazione del Venerdì di Pasqua, suggella la riconciliazione degli uomini con Dio». Noè è in modo speciale il simbolo del Cristo a causa della missione affidatagli da Dio di essere « il padre di tutta la posterità » (Dom. di settuag., 6a lettura). Di fatti Noè fu il secondo padre del genere umano ed è il simbolo della vita rinascente. « I rami d’ulivo, dice la liturgia, figurano, per le loro fronde, la singolare fecondità da Dio accordata a Noè uscita dall’arca » (Benediz. Delle Palme). Per questo l’arca è stata chiamata da S. Ambrogio, nell’ufficio di questo giorno, « seminario » cioè il luogo che contiene il seme della vita che deve riempire il mondo. Ora, ancora più di Noè, Cristo fu il secondo Adamo che popolò il mondo di una generazione numerosa di anime credenti e fedeli a Dio. Ed è per questo che l’orazione dopo la 2a profezia, consacrata a Noè il Sabato Santo, domanda al Signore ch’Egli compia, nella pace, l’opera della salute dell’uomo decretata fin dall’eternità, in modo che il mondo intero esperimenti e veda rialzato tutto ciò che era stato abbattuto, rinnovato tutto ciò che era divenuto vecchio, e tutte le cose ristabilite nella loro primiera integrità per opera di colui dal quale prese principio ogni cosa, Gesù Cristo Signor nostro » Per i neofiti della Chiesa — dice la liturgia pasquale — (poiché è a Pasqua che si battezzava) la terra è rinnovellata e questa terra così rinnovellata germinat resurgentes, produce uomini risorti » (Lunedi di Pasqua. Mattutino monastico). In principio, è per mezzo del Verbo, cioè della sua parola, che Dio creò il mondo (ultimo Vangelo). Ed è con la predicazione del suo Vangelo che Gesù viene a rigenerare gli uomini. « Noi siamo stati rigenerati, dice S. Pietro, con un seme incorruttibile, con la parola di Dio che vive e rimane eternamente. E questa parola è quella per la quale ci è stata annunziata la buona novella (cioè il Vangelo) » (S. Pietro, I, 23). Questo ci spiega perché il Vangelo di questo giorno sia quello del Seminatore, ( « la semenza è la parola di Dio »). » Se ai tempi di Noè gli uomini perirono, ciò fu a causa della loro incredulità, dice S. Paolo, mentre mediante là sua fede Noè si fabbricò l’Arca, condannò il mondo e diventò erede della giustizia, che viene dalla fede» (Ebr. XI, 7). Così quelli che crederanno alla parola di Gesù saranno salvi. S. Paolo dimostra, nell’Epistola di questo giorno, tutto quello che ha fatto per predicare la fede alle nazioni. L’Apostolo delle genti è infatti il predicatore per eccellenza. Egli è il « ministro del Cristo » cioè colui che Dio scelse per annunziare a tutti i popoli la buona novella del Verbo Incarnato. « Chi mi concederà – dice S. Giovanni Crisostomo, – di andare presso la tomba di Paolo per baciare la polvere delle sue membra nelle quali l’Apostolo compì, con le sue sofferenze, la passione di Cristo, portò le stimmate del Salvatore, sparse dappertutto, come una semenza, la predicazione del Vangelo? » (Ottava dei SS. Apostoli Pietro e Paolo – 4 luglio). La Chiesa di Roma realizza questo desiderio per i suoi figli, celebrando, in questo giorno, la stazione nella Basilica di S. Paolo fuori le mura.

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLIII: 23-26

Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? exsúrge, et ne repéllas in finem: quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? adhæsit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádjuva nos, et líbera nos.

[Risvégliati, perché dormi, o Signore? Déstati, e non rigettarci per sempre. Perché nascondi il tuo volto dimentico della nostra tribolazione? Giace a terra il nostro corpo: sorgi in nostro aiuto, o Signore, e líberaci.]

Ps XLIII: 2 – Deus, áuribus nostris audívimus: patres nostri annuntiavérunt nobis.

[O Dio, lo udimmo coi nostri orecchi: ce lo hanno raccontato i nostri padri.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui cónspicis, quia ex nulla nostra actióne confídimus: concéde propítius; ut, contra advérsa ómnia, Doctóris géntium protectióne muniámur. – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[O Dio, che vedi come noi non confidiamo in alcuna òpera nostra, concédici propizio d’esser difesi da ogni avversità, per intercessione del Dottore delle genti. – Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. – Amen.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

2 Cor XI: 19-33; XII: 1-9.

“Fratres: Libénter suffértis insipiéntens: cum sitis ipsi sapiéntes. Sustinétis enim, si quis vos in servitútem rédigit, si quis dévorat, si quis áccipit, si quis extóllitur, si quis in fáciem vos cædit. Secúndum ignobilitátem dico, quasi nos infírmi fuérimus in hac parte. In quo quis audet, – in insipiéntia dico – áudeo et ego: Hebraei sunt, et ego: Israelítæ sunt, et ego: Semen Abrahæ sunt, et ego: Minístri Christi sunt, – ut minus sápiens dico – plus ego: in labóribus plúrimis, in carcéribus abundántius, in plagis supra modum, in mórtibus frequénter. A Judaeis quínquies quadragénas, una minus, accépi. Ter virgis cæsus sum, semel lapidátus sum, ter naufrágium feci, nocte et die in profúndo maris fui: in itinéribus sæpe, perículis fluminum, perículis latrónum, perículis ex génere, perículis ex géntibus, perículis in civitáte, perículis in solitúdine, perículis in mari, perículis in falsis frátribus: in labóre et ærúmna, in vigíliis multis, in fame et siti, in jejúniis multis, in frigóre et nuditáte: præter illa, quæ extrínsecus sunt, instántia mea cotidiána, sollicitúdo ómnium Ecclesiárum. Quis infirmátur, et ego non infírmor? quis scandalizátur, et ego non uror? Si gloriári opórtet: quæ infirmitátis meæ sunt, gloriábor. Deus et Pater Dómini nostri Jesu Christi, qui est benedíctus in saecula, scit quod non méntior. Damásci præpósitus gentis Arétæ regis, custodiébat civitátem Damascenórum, ut me comprehénderet: et per fenéstram in sporta dimíssus sum per murum, et sic effúgi manus ejus. Si gloriári opórtet – non éxpedit quidem, – véniam autem ad visiónes et revelatiónes Dómini. Scio hóminem in Christo ante annos quatuórdecim, – sive in córpore néscio, sive extra corpus néscio, Deus scit – raptum hujúsmodi usque ad tértium coelum. Et scio hujúsmodi hóminem, – sive in córpore, sive extra corpus néscio, Deus scit:- quóniam raptus est in paradisum: et audivit arcána verba, quæ non licet homini loqui. Pro hujúsmodi gloriábor: pro me autem nihil gloriábor nisi in infirmitátibus meis. Nam, et si volúero gloriári, non ero insípiens: veritátem enim dicam: parco autem, ne quis me exístimet supra id, quod videt in me, aut áliquid audit ex me. Et ne magnitúdo revelatiónem extóllat me, datus est mihi stímulus carnis meæ ángelus sátanæ, qui me colaphízet. Propter quod ter Dóminum rogávi, ut discéderet a me: et dixit mihi: Súfficit tibi grátia mea: nam virtus in infirmitáte perfícitur. Libénter ígitur gloriábor in infirmitátibus meis, ut inhábitet in me virtus Christi.”

[“Fratelli: Saggi come siete, tollerate volentieri gli stolti. Sopportate, infatti, che vi si renda schiavi, che vi si spolpi, che vi si raggiri, che vi si tratti con arroganza, che vi si percuota in viso. Lo dico per mia vergogna: davvero che siamo stati deboli su questo punto. Eppure di qualunque cosa altri imbaldanzisce (parlo da stolto) posso imbaldanzire anch’io. Sono Ebrei? anch’io: sono Israeliti? anch’io; discendenti d’Abramo? anch’io. Sono ministri di Cristo? (parlo da stolto) ancor più io. Di più nelle fatiche; di più nelle prigionie: molto di più nelle battiture; spesso in pericoli di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno. Tre volte sono stato battuto con verghe, una volta lapidato. Tre volte ho fatto naufragio, ho passato un giorno e una notte nel profondo del mare. In viaggi continui tra pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli da parte dei mei connazionali, pericoli da parte dei gentili, pericoli nelle città, pericoli del deserto, pericoli sul mare, pericoli tra i falsi fratelli; nella fatica e nella pena; nelle veglie assidue; nella fame e nella sete; nei digiuni frequenti nel freddo e nella nudità. E oltre le sofferenze che vengono dal di fuori, la pressione che mi si fa ogni giorno, la sollecitudine di tutte le Chiese. Chi è debole, senza che io ancora non sia debole? Chi è scandalizzato, senza che io non arda? Se bisogna gloriarsi, mi glorierò della mia debolezza. E Dio e Padre del nostro Signor Gesù Cristo, che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco il governatore del re Areta, faceva custodire la città dei Damascesi per impadronirsi di me. E da una finestra fui calato in una cesta lungo il muro, e così gli sfuggii di mano. Se bisogna gloriarsi (certo non è utile) verrò, dunque, alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo, il quale, or son quattordici anni, (se col corpo non so; se senza corpo non so; lo sa Dio) fu rapito in paradiso, e udì parole arcane, che a un uomo non è permesso di profferire. Rispetto a quest’uomo mi glorierò; quanto a me non mi glorierò che delle mie debolezze. Se volessi gloriarmi non sarei stolto, perché direi la verità; ma me ne astengo, affinché nessuno mi stimi più di quello che vede in me o che ode da me. E affinché l’eccellenza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, m’è stata messa una spina nella carne, un angelo di satana, che mi schiaffeggi. A questo proposito pregai tre volte il Signore che lo allontanasse da me. Ma egli mi disse: «Ti basta la mia grazia; poiché la mia potenza si dimostra intera nella debolezza». Mi glorierò, dunque, volentieri delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo”]

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche,

Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

La lettura di questo lungo brano della seconda lettera di San Paolo ai Corinzi ci fa pensare alle orazioni più celebri del foro profano in difesa propria: Demostene, Cicerone. C’è tutto l’impeto di quei discorsi immortali. Nulla come un giusto amor di se stesso rende eloquente l’uomo. Ho detto giusto amor di sé, il che significa la fusione di due motivi della più singolare efficacia; l’egoismo, forza così pratica, e la giustizia, forza così ideale. Nella foga dell’autodifesa Paolo ricorda rapido, incisivo, travolgente i suoi martirii: « dall’abisso dei dolori di ogni genere che ho sofferto » si solleva ai doni celesti di che Dio lo ha letteralmente ricolmato. Quadro magnifico fatto di ombre e di luci ugualmente poderose. – Ma quando calmata la prima ammirazione che ci ha suggerito quel confronto con le pagine apologetiche anzi autoapologetiche più celebri della letteratura umana, ci si rifà a meditare il testo, si scopre una superiorità morale ineffabile dell’Apostolo sui profani oratori. Questi difendono, nelle loro arringhe fiammanti, ardenti i loro equi interessi. E l’equità toglie all’amor proprio ciò che da solo avrebbe di basso. Ma quando Paolo assume con un tono alto e sonoro, senza un’ombra di esitazione la sua difesa, egli difende una grande causa. Chiamato da Gesù Cristo a predicare il Vangelo nel mondo pagano, Paolo giudeo si gettò in questo apostolato a lui commesso con lo slancio della sua natura vulcanica; Paolo fu bersaglio immediato e poi via via crescente ai colpi di coloro che in quei giorni avrebbero voluto il Vangelo o tutto e solo o principalmente per i Giudei, e i Gentili o esclusi dal banchetto cristiano o ammessi ai secondi posti. Ire terribili come tutte le ire nazionali, che si scaldano per di più al fuoco delle religioni, roba incandescente. Per paralizzare un lavoro come quello di Paolo che essi credevano funesto, questi Cristiani rimasti più scribi e farisei che divenuti Cristiani veri, apponevano alla figura di Paolo, l’ultimo arrivato nel collegio apostolico, la figura veneranda dei veterani, dei compagni personali di Gesù Cristo, degli intemerati discepoli che non avevano come Paolo lordato mai di sangue le loro mani, sangue cristiano. Quelli erano apostoli, non costui; un aborto di apostolato. Colpivano l’uomo in apparenza; in realtà attentavano alla grande causa dell’apostolato cristiano, libero e universale. Un apostolato a scartamento ridotto essi volevano; un timido apostolato cristiano, schiavo del giudaismo, dal giudaismo tenuto alla catena. Non sentivano, né la vera grandezza della Sinagoga che era quella di mettersi tutta a servizio della Chiesa, né la vera grandezza della Chiesa ch’era quella di abbracciare il mondo. Tutto questo Paolo difende in realtà, difendendo, esaltando in apparenza se stesso. E perché tutto questo Egli difende, la sua apologia acquista un calore di eloquenza e una dignità di contenuto affatto nuovo. E perché d’orgoglio personale non rimanga neppure l’ombra, dopo che l’Apostolo ha parlato con un senso altissimo di dignità, rivendicando il suo giudaismo, dolori e glorie della sua attività apostolica, parla l’uomo. Un povero uomo egli è, e si sente, il grande Apostolo; pieno di miserie fisiche che si risolvono in umiliazioni morali. Quelle debolezze gli dicono ogni giorno ch’egli non è se non un debole strumento nelle mani del Forte, che lavora in lui per la santità interiore, per la sua apostolica propaganda, lavora la grazia di Gesù Cristo. Le sue maggiori glorie sono così le sue umiliazioni, documenti e prove del Cristo presente, « inhabitat in me virtus Christi».

Graduale

Ps LXXXII: 19; LXXXII: 14

Sciant gentes, quóniam nomen tibi Deus: tu solus Altíssimus super omnem terram.

[Riconòscano le genti, o Dio, che tu solo sei l’Altissimo, sovrano di tutta la terra.]

Deus meus, pone illos ut rotam, et sicut stípulam ante fáciem venti.

[V. Dio mio, ridúcili come grumolo rotante e paglia travolta dal vento.]

 Ps LIX: 4; LIX: 6

Commovísti, Dómine, terram, et conturbásti eam. Sana contritiónes ejus, quia mota est. Ut fúgiant a fácie arcus: ut liberéntur elécti tui.

[Hai scosso la terra, o Signore, l’hai sconquassata. Risana le sue ferite, perché minaccia rovina. Affinché sfuggano al tiro dell’arco e siano liberati i tuoi eletti.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam

Luc VIII: 4-15

“In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Jesum, dixit per similitúdinem: Exiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres cœli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtæ spinæ suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Hæc dicens, clamábat: Qui habet aures audiéndi, audiat. Interrogábant autem eum discípuli ejus, quæ esset hæc parábola. Quibus ipse dixit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris autem in parábolis: ut vidéntes non videant, et audientes non intéllegant. Est autem hæc parábola: Semen est verbum Dei. Qui autem secus viam, hi sunt qui áudiunt: déinde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audierint, cum gáudio suscipiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus credunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod autem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus et divítiis et voluptátibus vitæ eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod autem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.”

[« In quel tempo radunandosi grandissima turba di popolo, e accorrendo a lui da questa e da quella città, disse questa parabola: Andò il seminatore a seminare la sua semenza: e nel seminarla, parte cadde lungo la strada, e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono. Parte cadde sopra le pietre; e nata che fu, seccò, perché non aveva umido. Parte cadde tra le spine; e le spine, che insieme nacquero, la soffocarono. Parte cadde in buona terra; e nacque, e fruttò cento per uno. Detto questo, esclamò: Chi ha orecchie da intendere, intenda. E i suoi discepoli gli domandavano, che parabola fosse questa. Ai quali egli disse: A voi è concesso d’intendere il mistero di Dio; ma a tutti gli altri (parlo) per via di parabole, perché vedendo non veggano, e udendo non intendano. La parabola adunque è questa. La semenza è la parola di Dio. Quelli che (sono) lungo la strada sono coloro che la ascoltano; e poi viene il diavolo, e porta via la parola dal loro cuore, perché non si salvino col credere. Quelli poi che la semenza han ricevuta sopra la pietra, (sono) coloro i quali, udita la parola, la accolgono con allegrezza; ma questi non hanno radice, i quali credono per un tempo, e al tempo della tentazione si tirano indietro. La semenza caduta tra le spine, denota coloro i quali hanno ascoltato; ma dalle sollecitudini, e dalle ricchezze, e dai piaceri della vita a lungo andare restano soffocati, e non conducono il frutto a maturità. Quella che (cade) in buona terra, denota coloro i quali in un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata, e portano frutto mediante la pazienza »]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

SEME E TERRENI: PAROLA DIVINA E CUORI

« Udite! Il seminatore uscì a seminare. Nell’ampio gesto della semina, una parte del grano cadde lungo la strada; gli uccelli lo beccarono. Un’altra parte cadde sopra un suolo roccioso appena ricoperto da un velo di terra: spuntò, ma non potendo metter radici, fu bruciato via dal sole. Una terza parte cadde tra le spine: e fu soffocato prima che mettesse spiga. Un’altra parte cadde in terreno buono: diede frutto, dove il trenta, dove il sessanta, dove il cento per uno. Chi ha orecchio per udire, oda ». -. Di questa parabola abbiamo la spiegazione dello stesso Gesù che l’ha detta. Infatti i più diligenti, i più intimi de’ suoi discepoli, in un momento in cui era solo, gli chiesero il significato: « Come? voi non avete compreso questa parabola? Il seme è la parola divina, i terreni diversi sono i diversi cuori che l’ascoltano ». Approfondiamo devotamente la spiegazione del Signore. – IL SEME CIOÈ LA DIVINA PAROLA. In due modi Gesù Cristo ha voluto rimanere in mezzo a noi: primo, nella verità della sua carne con la santa Eucaristia; secondo, nella verità della sua parola con la santa predicazione. E come noi crediamo che sotto le apparenze del pane e del vino c’è veramente presente vivo e reale il Corpo di Cristo nato da Maria Vergine, così dobbiamo credere che sotto le apparenze della voce e del gesto del sacerdote che predica è ancora la parola di Cristo che risuona. – a) Bisogna rinnovare la fede nella parola di Dio. — Quando Paolo, minacciando strage contro i Cristiani, fu vicino a Damasco, Gesù stesso gli apparve per convertirlo, e dopo averlo atterrato e accecato gli disse: « Io sono Gesù che tu perseguiti ». Ed egli, tutto tremante e stupefatto, chiese: « Signore; che vuoi che faccia? ». « Levati, entra in città, ove ti sarà detto da Anania quello che devi fare ». (Atti, IX, 1-6). – Al Signore sarebbe costato nulla insegnare direttamente a Paolo tutte le verità, dal momento che l’aveva creduto degno di quel miracoloso prodigio. Ma Dio volle servirsi del ministero sacerdotale di Anania, perché tutti sapessero che anche il dottore delle genti ricevette la parola di Dio dalle labbra di un sacerdote. « Chi ascolta voi, ascolta me! », disse ai discepoli il Figlio di Dio. E Paolo ascoltò e credette ad Anania come avrebbe ascoltato e creduto allo stesso Gesù. È con questa fede che ascoltiamo la divina parola? Se dopo tante prediche non ci siamo convertiti, né abbiamo migliorato, segno che a noi manca la fede di Paolo e che ascoltiamo la parola di Dio come fosse quella di un uomo. – b) Bisogna sentirne la necessità. — La Santa Chiesa ha imposto sotto pena di peccato mortale di ascoltare la Messa ogni domenica; ma non ha imposto sotto pena di peccato mortale di ascoltare ogni domenica la predica. Eppure osserva audacemente S. Bernardino di Siena: « Se di queste due cose tu non ne potessi fare che una, o udire la Messa o udire la predica, per la tua anima è assai più pericoloso tralasciare la predica. Infatti, crederesti tu nel santo Sacramento dell’altare se non fosse stata la predicazione che hai udito? Tutta la tua fede vien dall’udito ». Il santo non ha torto. Oggi ci sono moltissimi che vengono tardi alla Messa per eludere in tutto o in parte la predica. Che gioverà a loro udire la Messa, se non la capiscono più? Che gioverà a loro confessarsi e comunicarsi qualche volta all’anno, se non sanno più confessarsi e comunicarsi bene? D’altra parte, nessuno si creda istruito abbastanza da fare a meno della parola di Dio. Talete, quel gran sapientone che conosceva tutte le parti del cielo ma non il cortile di casa sua, una volta contemplando le stelle cadde in una fossa. Egli è l’immagine di chi, vantando una grande scienza, ignora le cose più elementari e finisce col cadere in ruzzoloni morali e magari nel baratro dell’inferno. Che vale saper tante cose, se ignori quella di non romperti l’osso del collo, cioè di salvare l’anima? – I Terreni, CIOÈ I CUORI. La parola di Dio è un seme meraviglioso. Creò il mondo, diede la vista ai ciechi, la salute ai malati, risuscitò i morti, convertì i peccatori. Se questo seme non produce frutto, colpa è del terreno cioè del cuore che lo riceve. Gesù distinse in quattro gruppi diversi gli ascoltatori: – a) Il primo raffigurato nella strada è di quelli che offrono alla parola divina un cuore calpestato e duro, dove il Vangelo non riesce a penetrare. Viene satana come un uccello di malaugurio e becca via la semente rimasta inerte a fior di suolo. Son quei fedeli che ascoltano la predica con un orecchio e la lasciano uscire dall’altro. Non tengon giù niente. Ma un ammalato che non ritiene il cibo non farà mai l’uomo; e così costoro non sapranno mai fare i Cristiani. – Nella Storia Sacra si racconta che il Re di Babilonia Nabucodonosor aveva fatto un sogno che lo mise nella più alta costernazione e nella più inaspettata sorpresa. Quel sogno gli rivelava l’avvenire del suo regno. Ma appena svegliato la visione dileguò dalla sua memoria, e non poteva ricordarsi di nulla (Dan., II, 3). E la parola di Dio com’è ascoltata da certi uditori è simile a un tal sogno? Hanno udito grandi verità; venne posto davanti ai loro occhi la visione del loro eterno avvenire, ma: appena usciti di chiesa, essi non vi pensano più, non ricordano più nulla. – b) Il secondo gruppo, raffigurato nel suolo roccioso velato da un esile strato di terra, dove il seme può germogliare ma non metter radici, così che alla prima dardeggiata di sole vien secco, è di quegli ascoltatori che si lasciano convincere dalla parola di Dio, e promettono di praticarla, e la praticano con entusiasmo finché non costa nulla. Ma alla prima difficoltà, al primo sacrificio; alla prima occasione, al primo rispetto umano, abbandonano la parola di Dio, e vanno verso il loro comodo o il loro piacere. Il regno dei cieli patisce violenza: ma costoro non sanno sostenerla; e la loro casa spirituale come quella ch’è costruita sulla sabbia senza profondità di fondamenta è destinata a sfasciarsi alle prime alluvioni. – c) Il terzo gruppo raffigurato nel terreno invaso dalle spine, è di quelli che sentendo le prediche vorrebbero convertirsi, ma sono assorbiti dagli affari, hanno l’anima invasa o dalla seduzione della ricchezza o dalla corruzione della lussuria. Quando Paolo era prigioniero a Cesarea, fu presentato dal procuratore romano a Re Agrippa e alla sua regale sorella Berenice. La gran sala delle udienze era gremita di illustri personalità civili e militari. L’Apostolo cominciò a parlare con tanto ardore del Figlio di Dio morto per noi e risorto, della giustizia e della purità che Egli esige per condurci alla salvezza nel regno dei cieli, che il Re commosso esclamò: «Paolo, quasi tu mi persuadi a diventar Cristiano ». Paolo col cuore gonfio di speranza rispose: « Quasi o senza quasi, volesse Iddio che non solo tu, ma quanti oggi mi ascoltano diventassero Cristiani come son io ». Ma nessuno di quelli si convertì. Avevano tutti il cuore gravato dalle sollecitudini mondane, cominciando dal Re Agrippa che aveva nel cuore innominabili passioni. Perciò il seme della divina parola germogliava in loro, ma veniva soffocato prima di dar frutti. – d) Bisogna ricordare anche il quarto gruppo che è di quelli che la parola di Dio ascoltano, custodiscono in cuore, e fanno fruttificare. – In Listri trovavasi un uomo impotente nelle gambe, il quale non aveva mai saputo camminare. Ma stava a sentire i ragionamenti di Paolo con tanta fede e attenzione, che l’Apostolo miratolo negli occhi gli disse: « Alzati dritto sui tuoi piedi ». E saltò su e camminava. Se con quell’ardore di fede e di buona volontà sentissimo sempre la parola di Dio, anche noi salteremmo su dai nostri difetti e dalle peccaminose abitudini e cammineremmo dritti nella via del Signore. – Il Vangelo si ascolta in piedi. Così vuole la liturgia; ma dovete comprendere bene il significato di tale disposizione. Il Vangelo si ascolta in piedi: per mostrare con l’atteggiamento della nostra persona il rispetto e la fede nella parola di Dio. Il Vangelo si ascolta in piedi: per mostrarci nell’atteggiamento di chi, ascoltando ordini, è pronto a correre per eseguirli.

Questa del seminatore è la prima parabola raccontata da Gesù. Cristiani, ricavate subito una conclusione: la parola di Dio è sempre feconda e preziosa in sé; quando resta sterile, o non produce tutto quel frutto che dovrebbe, è colpa del cuore che ascolta, o perché duro come una strada, o perché ghiaioso, o perché rimboschito come una siepe. Dunque, ci sono cuori dove il seme resta seme, e cuori dove germoglia, ma non fa spiga. E cuori dove produce il suo frutto. – DOVE IL SEME RESTA SEMPRE SEME. C’era un figliuolo, — racconta Gesù nel Vangelo, — che a tutti gli ordini e gli avvisi di suo padre rispondeva di sì; ma poi non li eseguiva mai e faceva solo e sempre il suo talento. Purtroppo i discendenti di questo figliuolo si sono moltiplicati nella Chiesa. Sono gli innumerevoli Cristiani che accettano tutte le verità della loro fede, ascoltano le prediche, ma in pratica vivono come a loro piace. La parola di Dio, essi la leggono come la parola d’un romanzo, essi l’ascoltano come la parola d’una commedia: chiuso il libro, terminato lo spettacolo, ogni compito è esaurito. Sanno che nel Battesimo hanno ricevuto in sé una vita divina, soprannaturale: ma vivono come se fossero fatti solo di corpo e di anima, e non anche di Grazia. Sanno che c’è il paradiso, ma agiscono come se non dovessero mai morire, e il Cielo fosse l’isola immaginaria del tesoro. Sanno che c’è l’inferno: ma s’abbandonano alla lussuria e all’avarizia spassosamente quasi che non fossero i due binari della via di perdizione. A questo modo, il seme resta sterile seme; la parola, vana parola. Onde consegue un duplice male: Il male che fanno a se stessi, perché non s’avvedono di mettere insieme ciò che è inconciliabile: Dio e il mondo, le funzioni liturgiche e i divertimenti lussuriosi, i sacramenti e i vizi. Il male che fanno agli altri, perché, a cagione della loro condotta, la fede è screditata e derisa. Sono questi cattivi Cristiani che diffondono l’ateismo, impedendo a molti di vedere la luce di Dio. Garcia Moreno, nella sua giovinezza, amava la fede, ma lasciava alquanto a desiderare nella pratica. Trovandosi in esilio a Parigi, e passeggiando, con alcuni amici increduli, parlava loro con entusiasmo della Religione. Ma uno dei suoi ascoltatori l’interruppe bruscamente: « Ella parla molto bene. Ma la pratica corrisponde alla sua fede? Ma i fatti rispecchiano le parole? ». Garcia Moreno, incapace di fingere, abbassò gli occhi e tacque un momento. Poi riprese con voce sommessa ma risoluta: « Sono attaccato con un argomento personale che oggi può sembrare valido: domani, indubbiamente, non lo sarà più ». Appena a casa, si chiuse in camera a riflettere; pregò a lungo, e la sera uscì a cercare un confessore, Dal giorno dopo in poi, tutta la sua vita fu uno sforzo energico di lealtà, affinché la pratica coincidesse con la fede, i suoi atti corrispondessero alle sue parole. – Tutti noi abbiamo bisogno di raccoglierci un momento, di verificare le posizioni dell’anima nostra; tutti abbiamo bisogno di trovare la lealtà, il coraggio e la coerenza di Garcia Moreno. – DOVE IL SEME GERMOGLIA MA NON SI FA SPIGA. Un signore che possedeva molte ricchezze, ascoltando la parola di Gesù, si sentì commosso, e si mise alla sua sequela. Ad un tratto Gesù si voltò e gli disse: « Se vuoi essere perfetto, vendi quello che hai e distribuisci il ricavato ai poveri ». Quel giovane allora si fermò, si staccò dal gruppo dei discepoli, e se ne andò per un’altra strada tristemente. In lui sono raffigurati i Cristiani che accolgono e praticano la parola di Dio fin dove è possibile senza sacrifici e rinunce; che seguono Gesù fin dove la sua strada coincide con quella del loro interesse. Ma a questo modo, la parola divina che esige mortificazioni e distacchi non può far frutto nel cuore che glieli nega. Facciamo qualche caso concreto. Dice la parola di Dio: « Padre, sia fatta la tua volontà come in cielo, così in terra ». Bella e dolce parola, che il Cristiano sa ripetere fedelmente, fin quando insieme alla volontà del Padre può fare anche la propria: e intanto s’immagina di aver molta fede e molto amor di Dio. Niente di male fin qui. Ma giunge quel momento, in cui la volontà del Padre contrasta i suoi comodi. Ad esempio essa impone di prendere tutti i figli che crede mandare ed esige il rischio degli agi, della tranquillità, del vano decoro, forse anche della salute. Che avviene allora? Troppo spesso avviene che il Cristiano dica: « Padre, facciano gli Angeli in cielo la tua volontà, che io faccio il comodo mio ». – Dice la parola di Dio: « Con le ricchezze procuratevi degli amici che vi possano accogliere nelle case eterne quando la morte vi farà sloggiare da queste terrene » (Lc. XVI, 9). E non vuol già dire che sono obbligati a fare elemosina soltanto i ricchi, ma tutti, perché tutti, dovendo morire, hanno bisogno d’amici che li accolgano nelle dimore celesti. I ricchi e quelli che hanno in sovrabbondanza vi sono obbligati per i primi, ma i poveri non sono esentati, perché ci sono dei più poveri di loro a cui possono e devono portare aiuto e consolazione. Molti però non arrischiano mai, se non delle elemosine insignificanti; così credono di guadagnare il paradiso se c’è, e, d’altra parte, di non perderci molto, se non c’è. La loro fiducia nella parola divina è scarsa e irreale. Dice ancora la parola di Dio: « Beati quelli che piangono perché saranno consolati. Beati quelli che soffrono persecuzioni per causa della giustizia perché il regno dei cieli sarà per loro… ». È facile accogliere e ripetere questa parola quando gli occhi sono asciutti, c’è il sorriso sulle labbra, e la fortuna è prospera. Ma quando il cuore è oppresso davvero, e una dopo un’altra le sventure ci perseguitano, e forse siamo calunniati e conculcati innocentemente, allora molti sono quelli che si ribellano e negano la bontà e la giustizia di Dio, e invidiano coloro che se la godono a dispetto d’ogni comandamento del Signore, e invocano le consolazioni presenti e peccaminose del mondo. Cristiani, le consolazioni del mondo sono danaro falso e volgare, ma in contanti. La parola di Dio è un tesoro immenso e verace, ma in cambiali. Chi ha fede le accetta, e arrischia tutto per tutto! – DOVE PRODUCE CONSOLANTE FRUTTO. Dove produce consolante frutto la parola di Dio è proprio nel cuore che, fidando in essa, arrischia tutto per tutto. Ivi avvengono due mirabili effetti: i peccati spariscono, le virtù fioriscono. Racconta la leggenda che dovunque passava Gesù Bambino fuggendo verso l’Egitto, tutti gli idoli si frantumavano. Questa leggenda è una realtà per la parola di Dio. Dov’essa entra, ogni idolo si frantuma e dispare: l’idolo dell’orgoglio, dell’egoismo, della lussuria, dell’avarizia. Mano a mano che il cuore si libera da queste malvage schiavitù, la parola dì Dio vi accende un desiderio sempre più forte di conoscere intimamente il Signore, per amarlo più ardentemente e servirlo più fedelmente. Intanto anche la vita pratica si trasforma tutta, perché di ciascun vero Cristiano si può ripetere quello che fu scritto di S. Epifanio: « Illustrava coi suoi atti la parola di Dio che aveva letto o che aveva ascoltato ». Quelli poi che avvicinano uno di questi coerenti Cristiani, vedono un riflesso di luce divina, una trasparenza di Gesù Cristo. Pare a loro di entrare come in un tempio e di trovarsi alla presenza di Dio: sentono i pensieri sollevarsi a cose nobili, il cuore ardere di desideri puri, e tutto il loro essere sospira a diventar migliore. – S. Agostino asserisce di sua madre S. Monica che con la sua condotta faceva sentire Dio vicino: lo sentì per primo suo marito Patrizio, lo sentì poi il figlio che convertì e divenne santo, lo sentirono tutti quelli che la conobbero. In lei veramente la parola di Dio aveva trovato un cuore docile e produceva il cento per uno. – Quando i primi missionari di Roma arrivarono in Inghilterra a predicare la parola del Signore, il re d’una di quelle province, avendo ascoltato gli ardenti e convinti discorsi di Paulinus, sentì il desiderio di farsi Cristiano. Ma prima adunò l’assemblea dei notabili per prendere un consiglio. Uno di quei notabili si alzò in mezzo all’assemblea e prese a parlare con uno splendido paragone: « Immaginiamo, o re, di essere tutti raccolti nella tua sala per un banchetto. Fuori è una notte invernale: il vento urla tra le piante, e la neve mista a pioggia turbina e sbatte sulle finestre. Dentro è un dolce tepore e una bella luce: si mangia e si discorre allegramente. Ed ecco un uccello smarrito, entrato chi sa come da una finestra, attraversa la sala, sorvola la mensa e scompare per la finestra opposta. Uscito dal buio, di nuovo dal buio inghiottito: solo un momento di luce, un battito d’ali nel tepore. Così, ora è la vita dell’uomo, un attimo appare e poi dispare. Donde venga, dove vada, poi non sappiamo. Buio prima e buio dopo, noi sappiamo quell’attimo appena che la vita dura nella luce e nel calore del sole. Ora è arrivato al nostro paese uno che conosce con certezza il mistero, egli sa donde veniamo, dove andiamo, sa a che tende il nostro breve cammino sulla terra. La mia ragione mi dice che bisogna ascoltarlo e fare come ci insegna ». Cristiani, gli uomini, anche i più dotti, non hanno mai saputo spiegare il mistero della nostra vita. È venuto sulla terra Gesù Cristo a portarci la verità e la vita. Egli ha provato con miracoli e colla sua santità di essere Figlio di Dio, e ci ha rivelato infallibilmente donde veniamo e dove andiamo, e che cosa intanto dobbiamo fare. La sua parola divina risuonata due mila anni fa, non si è spenta, ma suona ancora di bocca, in bocca, sulle labbra dei sacerdoti, ci dice che bisogna ascoltare la parola di Dio, meditarla e praticarla.

Gesù terminò la parabola del seme e del seminatore con queste parole: « Chi vuol capire, capisca ». Ma anche quelli che erano più vicini, i discepoli, non avevano inteso il significato delle parole di Gesù e desideravano di capire. Per quanto cercassero di interpretarle tra di loro, non ci erano riusciti. Sapevano però che Gesù era tanto buono, sempre pronto a soddisfare il desiderio di verità e perciò gli si fecero attorno con tanta schiettezza a domandargli qualche spiegazione. Se i discepoli non l’avessero chiesto, Gesù non avrebbe spiegato nulla ed anch’essi sarebbero rimasti all’oscuro di cose tanto belle sul Regno di Dio. Ma perché dimostrarono il desiderio di imparare, Gesù parlò e capirono bene. Così dobbiamo fare anche noi. Se Gesù è il Maestro, noi dobbiamo essere i suoi alunni desiderosi di conoscere e di far conoscere la sua Verità. – CERCARE LA VERITÀ. Il Sabato Santo d’ogni anno, a Gerusalemme, il Vescovo scende nella cripta del Sepolcro di Cristo, ed ivi accende un fuoco benedetto. Allora la folla dei fedeli e dei pellegrini si affrettano ad accendere a quel fuoco le fiaccole, per portarle ciascun alle proprie case. Tutti quanti i Cristiani che sono a Gerusalemme, in quel giorno accorrono alla Basilica fin dalle prime ore per prendere il fuoco sacro. Cristiani, non a Gerusalemme soltanto, non nella sola Settimana Santa, ma oramai da secoli c’è una fiamma che arde nelle nostre Chiese e su tutti sparge la sua splendida luce. Non dico della S. Eucaristia in cui l’Amore infinito si è nascosto per stare sempre con noi, ma della luce della verità cristiana. – Gesù si è nascosto sotto le apparenze del pane e del vino per essere il cibo delle anime e si è nascosto anche sotto la parola del Sacerdote per essere il mistico nutrimento delle nostre intelligenze. – Prima di salire al cielo disse ai suoi: « Andate per tutto il mondo, ammaestrate tutte le genti. Quello che ho detto soltanto a voi, predicatelo ovunque, anche dall’alto dei tetti ». Ed i Vescovi, i Parroci, i Sacerdoti raccolgono questo divino comando e ripetono a noi quanto Cristo ha insegnato. – Non è dunque la parola dell’uomo che voi sentite in Chiesa, ma è proprio Gesù che sotto altre apparenze continua a predicare. È con questo pensiero, con questa persuasione che noi veniamo a sentir le prediche? Questa luce piena di amore è un uomo che a noi la trasmette, ma questo uomo, come il Vescovo di Gerusalemme, accende nel Sepolcro di Cristo, meglio ancora, la attinge dal Cuore stesso di Gesù. Domandiamoci allora qual sia mai la nostra frequenza alla dottrina Cristiana, alle sacre predicazioni. Si fanno tutti un obbligo di apprendere qualche mestiere onde procacciarsi il pane, di imparare a leggere, a scrivere, a fare dei conti e come mai tanta ignoranza anche dei primi elementi del sillabario del Cristiano? Si fa, e giustamente, tanta lotta contro l’analfabetismo, ma purtroppo, in fatto di Religione, gli analfabeti sono ancora molti. Eppure i misteri della nostra fede, la salvezza dell’anima, i doveri del nostro stato non sono cose meno necessarie di una professione che ci dia da vivere. C’è di mezzo Iddio e con Dio non si scherza. – DARE LA VERITÀ. Il rombo assordante dei cannoni, il fischiar delle palle era appena cessato: i soldati eran tornati alle loro trincee e le tenebre della notte, opprimenti come un manto funebre, coprivano quel teatro di tanto terrore. Qua e là, disseminati in disordine, cadaveri orribilmente deformi, membra staccate, armi in frantumi. Rompevano il silenzio i gemiti dei feriti, i rantoli dei morenti che chiamavano Dio e la mamma lontana. Ministro del Dio di pace, passava tra le miserie umane il Cappellano militare in cerca di anime, quando lo colpì un lamento lungo, che toccava il cuore. « Prete, aiutami a morire bene! » — S’affretta, accorre e trova un povero giovane, sfigurato, con sul volto il pallore della morte. « Prete! aiutami a morire bene; dammi Gesù! ». Il sacerdote, commosso, soffocato quasi dai singhiozzi lo confessa, gli dà il viatico, gli amministra l’olio santo. Il soldato era già in agonia ma ebbe ancora la forza di imprimere un bacio sulla mano del prete e dirgli: « Grazie! ». Fu l’ultima sua parola; poi le sue labbra si chiusero per sempre. – Mi pare che questa scena di guerra possa essere un simbolo di quanto avviene al mondo. La vita è una battaglia contro satana ed il suo regno. Ogni giorno si combatte non coi cannoni o le mitragliatrici ma colle tentazioni impure, coi pensieri di superbia, con l’attacco alla roba della terra. Ma benché tutti possano vincere e passare illesi tra il fuoco, purtroppo sono molti i feriti che nell’attacco perdono sangue e forse anche la vita. Sopra di questo campo di feriti e di morti cadono le tenebre dell’ignoranza che oscurano il sole e la luce di Dio. Ma tendete l’orecchio e sentirete da quei feriti sprigionarsi un grido di supplica che vi dice: « Dateci Gesù! insegnateci a morire bene! ». Così inconsciamente vi dicono tanti infelici che non hanno la pace del cuore perché nessuno ha saputo portar loro Gesù. Quel continuo non essere contenti, quel cercare sempre nuove forme di godere perché ci si sente presi da una indicibile noia non è forse una supplica muta, uno spasimo irrequieto verso il Dio della pace? Voi non siete cappellani di guerra, non siete sacerdoti ma, Cristiani, a tutti incombe il dovere di pensare anche all’anima dei nostri fratelli! Se non altro, almeno colla preghiera, tutti possono avere da noi quell’aiuto soprannaturale che è il solo di cui l’anima ha veramente bisogno. Se tutte le volte che recitiamo il Pater noster, dicessimo davvero col cuore le parole: Sanctificetur Nomen tuum, adveniat Regnum tuum, sarebbe già qualche cosa. Preghiamo e offriamo perché la verità sia conosciuta dai popoli ancora pagani: le Missioni e i Missionari sono dunque interessi nostri. Preghiamo e offriamo perché la verità non si oscuri in questa patria nostra, destinata da Dio a tenere alta nel mondo la fiaccola della vera civiltà: l’Università Cattolica del Sacro Cuore è pure interesse nostro. E poi ciascuno faccia tutto quello che può per dare al prossimo la Verità. Voi specialmente, o genitori, cui il Signore ha concesso dei figliuoli da educare, siate davvero i sacerdoti della vostra famiglia. Fate imparare le orazioni del mattino e della sera, anzi voi stessi recitatele insieme. Attenti se studiano il Catechismo, se imparano le verità della fede. La strada che per prima i figliuoli devono imparare, sia quella della chiesa dove si insegna a vivere bene. È Gesù che voi dovete dare. Avete tutto il dovere di allontanare dai vostri figliuoli l’influsso di satana. Accanto alla vostra casa, forse nello stesso cortile, allo stesso lavoro, avete ai fianchi persone che ignorano la fede o la mescolano malamente con mille superstizioni. Quando vediamo che una buona parola, un invito alla Chiesa può tornare opportuno, dopo di aver pregato, non lasciamo passare l’occasione di fare del bene. – Un Re ebbe, un giorno, desiderio di conoscere i suoi sudditi e di offrire a loro il dono del suo amore. Mandò il suo araldo a battere di porta in porta. Batté il primo portone che incontrò, e disse: « Ospite, è la parola del re ». Ma nessuno gli rispose. Batté a una seconda porta, e disse: « Aprite, è la parola del Re ». E gli fu risposto: Non voglio scomodarmi ad aprire, gridala, se vuoi, dal di fuori » L’araldo afflitto per la scortese accoglienza passò innanzi. E arrivò ad un’altra porta. Battè ancora: « Aprite, è la parola del Re ». Subito fu aperto e dal di dentro una voce supplicò: « Ch’io senta la benedetta parola del mio Re! ». Quest’uomo fu condotto alla reggia, ed ebbe lui solo il dono dell’eterno Amore del Re! – Cristiani, l’araldo che Iddio manda a noi, è il sacerdote che reca il messaggio della divina parola alla soglia del nostro cuore. Nessuno si è mai pentito d’avergli aperta la porta del cuore; nessuno si è mai pentito d’aver cercato la Verità del Vangelo, d’averla additata agli altri. – Chi apre il cuore alla parola di Dio, è chiamato alla reggia eterna del cielo a godere il dono dell’eterno Amore del Re.

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVI: 5; XVI:6-7

Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine.

[Rendi fermi i miei passi nei tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino. Inclina l’orecchio verso di me, e ascolta le mie parole. Fa risplendere la tua misericordia, tu che salvi chi spera in Te, o Signore.]

Secreta

Oblátum tibi, Dómine, sacrifícium, vivíficet nos semper et múniat.

[Il sacrificio a Te offerto, o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XLII:4

Introíbo ad altáre Dei, ad Deum, qui lætíficat juventútem meam.

Mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut, quos tuis réficis sacraméntis, tibi étiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas.

[Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, affinché quelli che nutri coi tuoi sacramenti, Ti servano degnamente con una condotta a Te gradita.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA DI SETTUAGESIMA (2022)

DOMENICA DI SETTUAGESIMA (2022)

 [Stazione a S. Lorenzo fuori le mura].

Semidoppio. – Dom. Privil. di 2a cl. – Paramenti violacei.

Per comprendere pienamente il senso dei testi della Messa di questo giorno, bisogna, studiarli in corrispondenza delle lezioni del Breviario, perché, nel pensiero della Chiesa, la Messa e l’Ufficio sono una cosa sola. Le lezioni e i responsori dell’Ufficio della notte durante tutta questa settimana sono tratti dal libro della Genesi e narrano la creazione del mondo e quella dell’uomo; la caduta dei nostri primi genitori e la promessa di un Redentore; di più l’uccisione di Abele e le generazioni di Adamo fino a Noè. — « In principio, – dice il Libro Santo, – Dio creò il cielo e la terra e formò l’uomo su la terra e lo pose in un giardino di delizie perché Lo coltivasse» (3° e 4° resp.). Tutto ciò è una figura. – Il regno dei Cieli – spiega S. Gerolamo – è detto simile ad un padre di famiglia che prende degli operai per coltivare la sua vigna. Ora, chi più opportunamente può essere rappresentato nel padre di famiglia se non il nostro Creatore, il quale regge con la sua provvidenza ciò che ha creato e che governa i suoi eletti in questo mondo, così come il padrone ha i servi in sua casa? E la vigna che Egli possiede è la Chiesa Universale, dal giusto Abele fino all’ultimo eletto che nascerà alla fine del mondo. E tutti quelli che, con fede retta si sono applicati e hanno esortato a fare il bene, sono gli operai di questa vigna. Quelli della prima ora, come quelli della terza, della sesta e della nona, designano l’antico popolo di Israele, il quale, dopo l’inizio del mondo, sforzandosi nella persona dei suoi santi, di servire Dio con fede sincera, non hanno cessato, per così dire, di lavorare nella coltivazione della vigna. Ma all’undecima ora sono chiamati i Gentili e a loro sono Indirizzate queste parole: « Perché state qui tutto il giorno senza far nulla? » (3° Notturno). Dunque, tutti gli uomini sono chiamati a lavorare nella vigna del Signore, cioè a santificarsi e a santificare il prossimo glorificando con questo mezzo Dio, poiché la santificazione consiste a non cercare il nostro bene supremo che in Lui. Ma Adamo venne meno al suo compito. « Poiché tu hai mangiato il frutto che io ti avevo proibito di mangiare, – gli disse il Signore – la terrà sarà maledetta e ne trarrai il nutrimento con gran fatica. Essa non produrrà che spine e rovi. Tu mangerai il tuo pane, prodotto dal sudore della tua fronte fino a che non sarai tornato alla terra donde fosti tratto». «Esiliato dall’Eden dopo la sua colpa – spiega S. Agostino – Il primo uomo trascinò alla pena di morte e alla riprovazione tutti i suoi discendenti, guasti nella sua persona come nella loro sorgente. Tutta la massa del genere umano condannato cadde in disgrazia, o piuttosto si vide trascinata e precipitata di male in male (2° Notturno). « I dolori della morte m’hanno circondato, dice l’Introito; e la Stazione ha luogo nella Basilica di S. Lorenzo fuori le mura, contigua al Cimitero di Roma. « È assai giusto, aggiunge l’Orazione, che noi siamo afflitti per i nostri peccati ». Cosi la vita cristiana è rappresentata da S. Paolo nell’Epistola come una arena dove bisogna lottare per riportare la corona. La mercede della vita eterna, dice anche il Vangelo, viene concessa solo a quelli che lavorano nella vigna di Dio e, dopo il peccato, questo lavoro è penoso e duro. « O Dio, domanda la Chiesa, accorda ai tuoi popoli che sono designati da te sotto il nome di vigne e di messi, che dopo aver sradicato i rovi e le spine, sono atti a produrre frutti in abbondanza, con l’aiuto del nostro Signore » (or. del Sabato Santo – Or. Dopo l’8° profezia). « Nella sua sapienza – dice S. Agostino – Dio preferì ricavar il bene dal male anziché permettere che non accadesse nessun male » (6° lezione). Dio ebbe difatti pietà degli uomini e promise loro un secondo Adamo che ristabilisse l’ordine turbato dal primo. Grazie a questo novello Adamo essi potranno riconquistare il cielo sul quale Adamo aveva perduto ogni diritto essendo stato cacciato dall’Eden, che era l’ombra d’una vita (migliore) » (4° lezione). « Tu sei, Signore, il nostro soccorso nel tempo del bisogno e dell’afflizione » (Graduale); « presso di te è la misericordia » (Tratto); « fa che risplenda la tua faccia sopra il tuo servo e salvami nella tua misericordia » (Com.). Infatti, « Dio che creò l’uomo in una maniera meravigliosa, lo redense in modo più meraviglioso ancora (Oraz. dopo la 1° prof. del Sab. Santo), poiché l’atto della creazione del mondo al principio non sorpassa in eccellenza l’immolazione del Cristo, nostra Pasqua, nella pienezza dei Tempi ». Questa Messa, studiata in relazione alla caduta di Adamo, ci mette nella disposizione voluta per cominciare il tempo di Settuagesima e per farci comprendere la grandezza del mistero pasquale al quale questo Tempo ha per scopo di preparare le anime nostre. – Per corrispondere all’appello del Maestro che viene a cercarci fin nell’abisso dove ci ha sprofondati il peccato del nostro primo padre (Tratto), andiamo a lavorare nella vigna del Signore, scendiamo nell’arena e incominciamo con coraggio la lotta la quale si intensificherà sempre più nel tempo della Quaresima.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XVII:5; 6; 7
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.  

[Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]


Ps XVII: 2-3
Díligam te, Dómine, fortitúdo mea: Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus.

[Ti amerò, o Signore, mia forza: Signore, mio firmamento, mio rifugio e mio liberatore.]

Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.

[Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]

Oratio

Orémus.
Preces pópuli tui, quǽsumus, Dómine, cleménter exáudi: ut, qui juste pro peccátis nostris afflígimur, pro tui nóminis glória misericórditer liberémur.

[O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo: affinché, da quei peccati di cui giustamente siamo afflitti, per la gloria del tuo nome siamo misericordiosamente liberati.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

1 Cor IX: 24-27; X: 1-5

Fratres: Nescítis, quod ii, qui in stádio currunt, omnes quidem currunt, sed unus áccipit bravíum? Sic cúrrite, ut comprehendátis. Omnis autem, qui in agóne conténdit, ab ómnibus se ábstinet: et illi quidem, ut corruptíbilem corónam accípiant; nos autem incorrúptam. Ego ígitur sic curro, non quasi in incértum: sic pugno, non quasi áërem vérberans: sed castígo corpus meum, et in servitútem rédigo: ne forte, cum áliis prædicáverim, ipse réprobus effíciar. Nolo enim vos ignoráre, fratres, quóniam patres nostri omnes sub nube fuérunt, et omnes mare transiérunt, et omnes in Móyse baptizáti sunt in nube et in mari: et omnes eándem escam spiritálem manducavérunt, et omnes eúndem potum spiritálem bibérunt bibébant autem de spiritáli, consequénte eos, petra: petra autem erat Christus: sed non in plúribus eórum beneplácitum est Deo.

[“Fratelli: Non sapete che quelli che corrono nello stadio corrono bensì tutti, ma uno solo riceve il premio? Correte anche voi così da riportarlo. Ognuno che lotti nell’arena si sottopone ad astinenza in tutto: e quelli per ottenere una corona corruttibile; noi, invece, una incorruttibile. Io corro, appunto, così, non già come a caso; così lotto, non come uno che batte l’aria; ma maltratto il mio corpo e la riduco in servitù: perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia riprovato. Non voglio, infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, e tutti passarono a traverso il mare, e tutti furono battezzati in Mosè nella nube e nel mare; e tutti mangiarono dello stessa cibo spirituale; e tutti bevettero la stessa bevanda spirituale; (bevevano infatti della pietra spirituale che li seguiva; e quella pietra era Cristo): pure della maggior parte di loro Dio non fu contento”].

Quando si tratta di vivere secondo la legge del Vangelo, tutto spaventa, tutto ripugna, tutto scoraggisce. Dio ci promette invano una gloria pura e durevole; invano ci offre una corona preziosa che non appassisce mai, una felicità piena, sovrabbondante, perfetta; e tutto ciò per qualche giorno, per qualche ora, per qualche momento di mortificazione. Vi sono scuse per tutte le età; non si ha mai salute abbastanza, siamo giovani troppo, troppo occupati, troppo delicati; ovvero siamo in età troppo avanzata; l’astinenza, il digiuno, sono al di sopra delle nostre forze. Ma pensiamoci bene, la corona che ci è preparata nel cielo non sarà ella al di sopra dei nostri meriti, e non l’avremo forse per sempre? Eleviamo dunque lo spirito nostro e il cuore verso Dio, chiedendogli quella rettitudine d’intenzione, quel distaccamento da ogni creatura, quella sobrietà di cui parla l’Apostolo, per la quale si usa dei beni di questo mondo come non facendone uso. O felice digiuno, ove l’anima tiene tutti i sensi privi del superfluo! O santa astinenza, ove l’anima saziata della volontà di Dio, non si nutrisce più della propria! Essa ha, come il suo divino Maestro, un altro pane col quale si nutrisce: pane che è al di sopra d’ogn’altra sostanza; che estingue tutti gli altri desiderj; vera manna che scende dal cielo, e ci fa pregustare l’eterne delizie. Prepariamoci a riceverla coll’astenerci, secondo il nostro potere, dal pane ordinario e comune, che è il nutrimento del nostro corpo.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Graduale

Ps IX: 10-11; IX: 19-20

Adjútor in opportunitátibus, in tribulatióne: sperent in te, qui novérunt te: quóniam non derelínquis quæréntes te, Dómine.

[Tu sei l’aiuto opportuno nel tempo della tribolazione: abbiano fiducia in Te tutti quelli che Ti conoscono, perché non abbandoni quelli che Ti cercano, o Signore]

Quóniam non in finem oblívio erit páuperis: patiéntia páuperum non períbit in ætérnum: exsúrge, Dómine, non præváleat homo.

[Poiché non sarà dimenticato per sempre il povero: la pazienza dei miseri non sarà vana in eterno: lévati, o Signore, non prevalga l’uomo.]

Tractus

Ps CXXIX:1-4

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam. O

[Dal profondo ti invoco, o Signore: Signore, esaudisci la mia voce.]

Fiant aures tuæ intendéntes in oratiónem servi tui.

[Siano intente le tue orecchie alla preghiera del tuo servo.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit?

[Se baderai alle iniquità, o Signore: o Signore chi potrà sostenersi?]

Quia apud te propitiátio est, et propter legem tuam sustínui te, Dómine.

[Ma in Te è clemenza, e per la tua legge ho confidato in Te, o Signore.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

[Matt XX: 1-16]

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Simile est regnum coelórum hómini patrifamílias, qui éxiit primo mane condúcere operários in víneam suam. Conventióne autem facta cum operáriis ex denário diúrno, misit eos in víneam suam. Et egréssus circa horam tértiam, vidit álios stantes in foro otiósos, et dixit illis: Ite et vos in víneam meam, et quod justum fúerit, dabo vobis. Illi autem abiérunt. Iterum autem éxiit circa sextam et nonam horam: et fecit simíliter. Circa undécimam vero éxiit, et invénit álios stantes, et dicit illis: Quid hic statis tota die otiósi? Dicunt ei: Quia nemo nos condúxit. Dicit illis: Ite et vos in víneam meam. Cum sero autem factum esset, dicit dóminus víneæ procuratóri suo: Voca operários, et redde illis mercédem, incípiens a novíssimis usque ad primos. Cum veníssent ergo qui circa undécimam horam vénerant, accepérunt síngulos denários. Veniéntes autem et primi, arbitráti sunt, quod plus essent acceptúri: accepérunt autem et ipsi síngulos denários. Et accipiéntes murmurábant advérsus patremfamílias, dicéntes: Hi novíssimi una hora fecérunt et pares illos nobis fecísti, qui portávimus pondus diéi et æstus. At ille respóndens uni eórum, dixit: Amíce, non facio tibi injúriam: nonne ex denário convenísti mecum? Tolle quod tuum est, et vade: volo autem et huic novíssimo dare sicut et tibi. Aut non licet mihi, quod volo, fácere? an óculus tuus nequam est, quia ego bonus sum? Sic erunt novíssimi primi, et primi novíssimi. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fissare degli operai per la sua vigna. Avendo convenuto con gli operai un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. E uscito fuori circa all’ora terza, ne vide altri che se ne stavano in piazza oziosi, e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà giusto. E anche quelli andarono. Uscì di nuovo circa all’ora sesta e all’ora nona e fece lo stesso. Circa all’ora undicesima uscì ancora, e ne trovò altri, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché nessuno ci ha presi. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti dunque quelli che erano andati circa all’undicesima ora, ricevettero un denaro per ciascuno. Venuti poi i primi, pensarono di ricevere di più: ma ebbero anch’essi un denaro per uno. E ricevutolo, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora e li hai eguagliati a noi che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo. Ma egli rispose ad uno di loro, e disse: Amico, non ti faccio ingiustizia, non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi quel che ti spetta e vattene: voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso dunque fare come voglio? o è cattivo il tuo occhio perché io son buono? Così saranno, ultimi i primi, e primi gli ultimi. Molti infatti saranno i chiamati, ma pochi gli eletti.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

PRETESTI DI RIFIUTARE L’INVITO DI DIO

Si era alle soglie della primavera, e sui colli palestinesi i lavori delle vigne erano incominciati. Il Signore prese lo spunto dal lavoro della stagione e imbastì la sua parabola. Il padrone d’una vigna uscì ad ingaggiare operai a giornata. Era costumanza d’allora che i disoccupati desiderosi d’impiego si raggruppassero alla porta della città. Quivi, prima del sole, arrivò il nostro padrone. Prese quanti uomini poté trovare, e contrattò con loro il prezzo che venne fissato a un danaro. Buona paga per quei tempi, tanto che tutti accettarono volentieri. – I lavori dovevano essere arretrati e la stagione precoce: già le gemme si muovevano e c’era da sarchiare, da potare, da legare i tralci. Occorreva mano d’opera. Perciò il padrone uscì una seconda volta tre ore dopo, verso le nove del mattino, trovò altri operai e prese anche quelli. Eppure non bastavano ancora; uscì una terza volta a mezzo giorno, ed una quarta volta alle tre pomeridiane, e a quanti incontrava diceva: « Andate anche voi nella mia vigna, vi darò una paga conveniente ». Gli urgeva di finire in quel giorno. Ed uscì una quinta volta, che mancava soltanto un’ora al tramonto. Vide un crocchio di sfaccendati a godersi l’ultimo tepore di quel sole primaverile. « Perché state qui a sciupar tempo? ». – « Perché nessuno ci ha preso a giornata ». – « Ma andate nella mia vigna: c’è da fare anche per voi ». E fu sera. Ogni lavoro cessò. Il padrone ordinò al fattore di pagare gli operai, cominciando dagli ultimi venuti. Essi ricevettero un danaro. Allora alcuni, ma specialmente quelli che avevano lavorato tutto il giorno, cominciarono a borbottare. « Questi ultimi prendono come noi che abbiamo sopportato il peso e il caldo d’una giornata intera!… Non c’è giustizia! ». – Ma il padrone li udì, e affrontato il capoccia dei malcontenti: « Amico — gli disse — non ti fo torto: a te dò né più né meno del contratto. Prendi e vattene. Se agli altri voglio dar del mio, tu che ci perdi? Qui c’è giustizia; e c’è anche amore ». – La parabola racchiude molti punti da meditare, ma noi fermiamoci ora su uno solo, questo: il padrone della vigna chiama a lavorare tutti quelli che incontra, chiunque siano, in qualunque momento della giornata. Il padrone è Dio; la vigna è la Santa Chiesa di cui a ciascuno è affidata una porzione, cioè quella della propria anima; le varie ore della giornata sono le diverse età della vita. Ma purtroppo sono molti quelli che agli inviti ripetuti del Signore a provvedere al lavoro della propria santificazione, si esimono adducendo qualche pretesto. I pretesti più comuni sono due: le proprie condizioni sociali che impediscono di Pensare all’anima; il proprio carattere che non si riesce a modificare. PRIMO PRETESTO: IL PROPRIO STATO – Il proprio stato è determinato dal mestiere o dalla professione, dalla famiglia, e dall’ambiente sociale. Non è raro sentire così: « Non posso vivere la vita cristiana nelle condizioni in cui mi trovo: col mio mestiere, con la famiglia che ho, nell’ambiente in cui vivo, mi è impossibile ». Vi mostrerò che tutti sono pretesti che presso Dio non ci scusano, e sotto i quali sta mascherato il demonio o la nostra pigrizia. – a) Il pretesto del mestiere o della professione. — Il ricco crede che le ricchezze gli siano un’insuperabile ostacolo alla vita cristiana, perché impongono esigenze e abitudini contrarie al Vangelo e di cui non può fare a meno. Il povero invece sospira dietro i ricchi perché possono andare in automobile anche in paradiso: loro hanno danaro per far elemosine e per far dir Messe; loro hanno tutto il tempo e tutti i comodi per andare in chiesa. L’esercente dà colpa al mestiere se manca al precetto festivo, se è costretto ad arrangiarsi torcendo un tantino il collo alla giustizia. L’operaio accusa il lavoro di impedirgli di pregare; accusa le strettezze familiari se vive da anni in peccato mortale: « Bel dire i preti! si trovassero al nostro posto! ». – La madre di famiglia s’illude che soltanto nel convento sia facile salvarsi. Il professionista incolpa la professione che lo assorbe giorno e notte e che lo mette in un groviglio di cose donde la coscienza esce compromessa. Eppure S. Giovanni ebbe una visione che dimostra come in ogni mestiere o professione sia possibile salvarsi. Rapito in estasi un giorno vide la moltitudine degli eletti in paradiso, segnati sulla fronte col glorioso sigillo della redenzione. Della tribù di Levi, che era nel popolo giudeo la tribù dei sacerdoti, vide ben dodicimila salvati. Quanti ne vide egli poi della tribù di Giuda, ch’era quella dei principi e della stirpe reale? ancora dodicimila. Ed altrettanti ne vide della tribù d’Efraim, ch’era quella dei commercianti, è degli artigiani… (Apoc., VII, 2-8). Dunque sia dalla tribù regale, come dal ceto popolare, come dalla casta sacerdotale i salvati erano moltissimi. Nel regno dei cieli accanto ad Abramo, che possedeva immense ricchezze, c’è il mendico Lazzaro, che non aveva neppure le briciole; accanto a Samuele giudice e governatore, c’è Abele pastore e coltivatore dei campi. – b) Il pretesto dell’ambiente familiare. — Si racconta di un giovane monaco c’era molto suscettibile, e bastava la minima disattenzione d’un compagno nel parlare o nel fare, perché tosto s’accendesse di rabbia, e uscisse in parole più che scortesi, e poi perdesse il raccoglimento e la voglia di pregare. Onde disse a se medesimo: «Voglio andare nel deserto dove non c’è persona che mi possa turbare: là in un momento diventerò santo ». E così fece. Ma tornando un dì alla sua grotta con una scodella piena d’acqua, avendola posta in terra, o fosse stato il vento o fosse stato il demonio, la trovò rovesciata. Subito gli montò il sangue alla testa, si precipitò sulla scodella come fosse una cosa viva, e la percosse col piede. Passato quel momento di furia, rinsavì, e guardando mestamente i cocci disse: « Ecco, anche nel deserto mi prendono le arrabbiature: il male non era dunque nell’ambiente, ma in me. Non era il convento da abbandonare ma il difetto… ». E ritornò a vivere dov’era prima, imparando a sopportare i diversi caratteri dei monaci, e facendo violenza contro la sua orgogliosa passione predominante. Di modo che, coll’aiuto di Dio e coll’andar del tempo, divenne un santo monaco, e visse in gran pace di cuore (S. ANTONINO; Opera a ben vivere, Firenze, Fiorentina, 1923, p. 47). La storia di questo monaco dovrebbe insegnar molto a tanti genitori che dan la colpa dei loro peccati ai figli, di tante donne che si scusano di non potersi santificare a motivo di loro marito, o viceversa. Sono pretesti. « Se non avessi quel figliuolo, se non ci fosse quella cognata, e mio marito avesse un altro carattere, se non ci fosse quella malattia, quella miseria… » e così sognando una condizione familiare che non avranno mai, tralasciano di santificarsi a quella condizione dove realmente vivono, e dove soltanto possono salvare l’anima. Occorre fare come quel giovane monaco: abbandonare il deserto delle fantasie, ritornare per sé e per gli altri, pregare… S. Rita da Cascia divenne santa con un marito ubriacone. – c) Il pretesto dell’ambiente sociale. — Bisognerebbe — pensano alcuni per scusarsi — che il mondo fosse diverso: che non ci fossero quei luoghi di divertimento, se non incontrassi quegli amici, che non lavorassi in quell’ufficio, in quell’officina, se non servissi in quella casa… bisognerebbe che tutti agissero onestamente. Forse che i primi Cristiani, quelli che seppero dare anche il sangue per la fede, vissero in un mondo migliore del nostro? Forse che i santi fiorirono appena nei chiostri, non anche alla corte dei re (S. Elisabetta regina d’Ungheria, S. Luigi re di Francia, S. Enrico imperatore tedesco, S. Edoardo re d’Inghilterra), non anche sotto le armi (S. Sebastiano, S. Martino, S. Giovanna d’Arco)? Forse che non sono uomini del nostro tempo i professori Contardo Ferrini e Giulio Salvadori, i dottori Necchi e Moscati?… – Non è l’ambiente sociale da incolpare, ma la fiacca nostra volontà, la paura dei sacrifici. – SECONDO PRETESTO: IL PROPRIO TEMPERAMENTO. « Bisognerebbe essere fatti come i santi — dicono molti. — Non sentire quello se sento io, tutto il giorno; non avere un sangue infiammabile come il mio ». a) Ebbene, i santi erano proprio fatti come noi; sentivano gli stessi stimoli perversi, ma non si lasciavano travolgere; avevano lo stesso sangue infiammabile ma non si lasciarono incendiare. – Che cosa sperimentava S. Paolo se non le stesse nostre passioni, quando scriveva: «C’è una forza nella mia carne che fa guerra alla legge di Dio e vorrebbe farmi schiavo del peccato: ah, chi mi libererà da questa tortura? » (Rom. VII, 23-24). Ed era forse per divertimento che S. Bernardo si buttò nudo sulla neve, e San Francesco sulle spine della siepe? – S. Teresa del Bambino Gesù, quando a quindici anni si trovò nella rude clausura del Carmelo di Lisieux, ella che veniva da una ricca famiglia nido d’ogni squisita dolcezza, fu presa da un irresistibile bisogno d’essere amata, d’essere accarezzata. E se passava davanti alla cella della Madre Superiora, la prendeva una folle tentazione d’entrare; di avere da lei almeno una dolce parola, almeno uno sguardo affettuoso, un palpito muto di compatimento. Il suo cuore di fanciulla espansiva si ribellava alla gelida austerità di quella vita: le sarebbe tanto piaciuto diventare la beniamina di qualche suora, e ritrovare sotto le altre forme quell’amore umano a cui aveva rinunziato. « Ah; è per questo che sei venuta al Carmelo?…» diceva allora a se stessa in tono di rimprovero; e si afferrava alle sbarre della scala, perché il vento della tentazione non la trasportasse là dove non voleva. Se avesse ceduto, la Chiesa avrebbe una grande santa di meno.  – Anche a lei dunque la virtù costava, come costa a tanti giovani e a tante figliuole quando vorrebbero uscir di casa; cercare un incontro, un colloquio, uno sguardo come costa a tutti quelli che vogliono tenere il proprio cuore sotto la custodia della legge santa di Dio. b) Forse qualcuno penserà che i santi avevano grazie speciali, per cui la vittoria spirituale era, se non facile, sicura: È vero, senza dubbio, che essi ebbero grazie particolarissime. Ma non è meno vero che le grazie non mancano neppure a noi « Padre! — disse una volta a S. Antonino arcivescovo di Firenze una buona mamma raccomandandogli il figlio un po’ sviato. — Pregate Dio che gli tenga la sua santa mano in testa ». «Sì — rispose il santo — Ma voi pregate il vostro figliuolo che tenga la testa ferma sotto quella santa mano ». La mano in testa, Dio la tiene sempre anche su noi; ma purtroppo non sempre noi ci teniamo sotto la testa. La parola evangelica racchiude un conforto e un monito. Un conforto, perché qualunque sia la nostra età e il nostro passato, Dio c’invita. Un monito, perché nessuno sa, se rifiutando il presente invito, Dio tornerà a chiamarci in un’altr’ora. E se la sera della vita ci sorprendesse ancora oziosi?… – Un re di Persia chiamò i tre più famosi sapienti del suo regno e chiese qual cosa al mondo stimassero più orribile. Il primo rispose: « La più orribil cosa è cadere ammalati ». Il secondo rispose: « La più orribil cosa è diventar vecchi ». Il terzo pensò a lungo, e disse: « La più orribil cosa è trovarsi davanti la morte ed accorgersi che tutta la vita fu sciupata in futilità ». Questo, Cristiani, è orribile davvero. Lavoriamo alacremente nella vigna dell’anima nostra, perché non ci capiti di sperimentarlo. – Togliamo il velo della parabola degli operai chiamati alla diversa ora. Il padre di famiglia, già l’avete indovinato, è lo stesso Cristo; la vigna da lavorare è l’anima da salvare con l’esercizio quotidiano delle virtù e delle buone opere; gli operai siamo tutti noi, grandi e piccini, ricchi e poveri, invitati fin dalla tenera puerizia, chiamati in ogni età, sollecitati fin nella tarda vecchiezza. – Nella parabola tutti quelli a cui fu rivolto l’invito, l’accettarono. Nella vita, purtroppo, avviene ben diversamente, e molti sono quelli che non si mettono a lavorare. Consideriamo le risposte più consuete ch’essi dànno al Signore, e mettiamo a nudo lo specioso pretesto ivi nascosto: Non vengo: ora è troppo presto. Non vengo: ormai è troppo tardi. Non vengo: fan tutti così. ORA È TROPPO PRESTO. Questa scusa è specialmente dei giovani, ma è anche di molti che già sono in là con gli anni. Ad ogni modo, la si dica in qualsiasi età, essa è sempre stoltissima. E per due motivi: primo, perché non è mai troppo presto mettersi a salvar l’anima; poi, perché non si sa mai quanto manca a sera. – a) Non è mai troppo presto mettersi a salvar l’anima. San Giovanni Crisostomo non riusciva a capire come si potesse pensare il contrario, e moltiplicava i paragoni, per rendere a tutti evidente l’inescusabile sciocchezza di ritardare la propria conversione. – Diceva: Se un uomo: s’ammala, subito chiama il medico, e lo paga senza farsi rincrescere, e gli obbedisce con scrupolosa esattezza, sottoponendosi a cure fastidiose, lunghe, dolorose anche. Invece per l’anima, che da anni è inferma, è ferita, aspetta. Che cosa si aspetta? che sia incancrenita irrimediabilmente? Diceva ancora: Se un improvviso incendio s’appicca alla nostra casa, subito si grida, si corre, si implora aiuto, si porta acqua da tutte le parti, si trepida finché il fuoco non sia del tutto spento. Invece per l’anima invasa dalle fiamme dell’ira, dell’odio, della lussuria, non si grida aiuto nella preghiera, non si corre tosto alle fonti del Salvatore, cioè ai Sacramenti; ma si aspetta. Che cosa si aspetta? Che sia bruciata irrimediabilmente? E ancora diceva: — Se casca un bambino nel torrente, suo padre o sua madre, adendo il suo grido, si precipitano rapidi come il vento. Invece d’un bambino, è caduta l’anima nostra nel torrente dei peccati, nell’abisso della rovina: voi udite la sua straziante implorazione; e rispondete: « adesso è troppo presto ». Che cosa si aspetta? che sia affogata irrimediabilmente? – Se una compagnia di navigazione trasportasse un carico prezioso su di una nave che fa acqua, con massima solerzia e fatica i marinai attenderebbero notte e giorno a riparare le falle, a manovrare le pompe, a difendere i motori, per guadagnare il porto. Ma non vedete che l’anima vostra è una nave che fa acqua d’ogni parte? E voi dite: « Adesso è troppo presto ». Che cosa aspettate? che sia sprofondata irrimediabilmente. – b) Un altro motivo rende ancora più deprecabile la stoltezza, la cecità degli uomini che differiscono il lavoro per la salvezza della loro anima: l’incertezza dell’ora della sera. Pensiamo che nella vita la sera non ha un’ora fissa come nella giornata, ma può prescindere bruscamente a mezzo la puerizia, o la fanciullezza, o la virilità. Quando meno l’aspettiamo, quell’ora discende. Che sarà di noi se c’incoglie senza aver lavorato intorno alla vigna dell’anima nostra? Resteremo privi della mercede promessa, cioè della beata vita eterna, e saremo condannati a un tormento senza fine. Scuotiamoci dunque dall’ozio spirituale, mettiamoci a lavorare; perché non ci venga meno quella mercede che solo importa. Chi deve accostarsi ai sacramenti, s’accosti subito; chi ha una restituzione da fare,  restituisca; chi ha una passione da vincere, la vinca; chi ha un’occasione da abbandonare, l’abbandoni. Ognuno adempia i doveri del proprio stato; santifichi le feste del Signore, rispetti le leggi della Chiesa; faccia secondo le sue possibilità l’elemosina. – ORMAI È TROPPO TARDI. Quest’astuto perditore di anime che è il demonio, dopo averle rovinate coll’indurle a procrastinare, tenta di perderle gettandole nella disperazione. « Ormai è troppo tardi ». Quest’amara parola può essere pronunciata con un triplice senso di scoraggiamento: o per mancanza di tempo, o per mancanza di forze, o per mancanza di fiducia in Dio. – Per mancanza di tempo. Se un uomo, in un momento di lucidità interiore, contemplando la sua vita tutta immersa nell’iniquità, persuaso che occorrerebbero molti anni di penitenza e di pianto per riparare a tanti scandali, cancellare tanti peccati, mi dicesse: « Per me è troppo tardi: non c’è più tempo », io gli risponderei con la parabola d’oggi: « Coraggio, operaio dell’undecima ora! Alla sera della vita saremo giudicati dall’amore con cui avremo lavorato. In pochissimo tempo si può lavorare con tanta generosità e intensità d’amore da raggiungere la misura d’una lunga serie d’anni ». – Per mancanza di forze. Se un altro uomo, dopo aver dissipato tutti i sentimenti del suo cuore versandoli nel fango, dopo aver impresso una rigida piega nel male a tutte le sue energie, ormai si sentisse incapace di raddrizzarle nel bene, e rimpiangendo l’antica innocenza disperasse di poterla riacquistare e mi dicesse: « Per me è troppo tardi: non ho più forze per essere buono », io gli risponderei con la parabola d’oggi: « Coraggio, operaio dell’undecima ora! La grazia di Dio può fare ciò che è impossibile alla natura. Se le forze sono illanguidite, essa può rinvigorirle; se sono esaurite, essa può ricrearle al bene. La grazia rinvergina il cuore, purgandolo dai maligni fermenti, ridona il candore dell’innocenza, il profumo della bontà ». – Per mancanza di fiducia in Dio. Se, infine, un altro uomo ancora, aprendo di colpo gli occhi sulla moltitudine dei suoi peccati, sulla gravità delle sue ribellioni, più non osasse sollevare lo sguardo al cielo, e mi dicesse: « Per me è troppo tardi: non c’è più perdono », io gli risponderei: « Coraggio, operaio dell’undecima ora! Nessuno può diventare cattivo quanto Dio è buono. L’iniquità di tutti gli uomini insieme è una goccia in confronto all’oceano senza rive della misericordia divina ». – Insomma, sotto qualsiasi forma d’abbattimento il demonio vi possa tentare, Cristiani, ricordatevi sempre degli operai dell’undecima ora. È uno dei punti più commoventi e incoraggianti di tutto il Vangelo. Il giorno se ne andava di già, eppure furono ancora chiamati; si misero al lavoro, quando gli altri riunivano gli arnesi; avevano appena dimostrata la loro volontà che furono chiamati alla ricompensa. E la ricompensa fu grande, fu piena come se avessero lavorato una giornata intera. Non è mai troppo tardi per lavorare alla nostra salvezza. Finché c’è un fiato di vita, l’ora undecima non è finita. – FAN TUTTI COSÌ. C’è una terza risposta che molti dànno a Cristo per esimersi dal lavoro spirituale a cui li invita: « Fan tutti così! ». Il Signore dice a quel padre di famiglia, a quell’impiegato, o a quell’operaio: «Tu approfitti di una forma di guadagno che non è lecita: smettila, e pensa all’anima tua che deperisce ». Egli sente una irrequietudine nella coscienza, capisce che nei suoi atti c’è qualcosa di torbido, ma risponde: « Fan tutti così! Soltanto io devo fare lo scrupoloso, l’ingenuo, lo sciocco, e trascurare il mio interesse?… ». Anche ai tempi di Noè, caro Cristiano, tutti ridevano, ballavano, mangiavano, ed egli solo, il buon patriarca, s’affannava a costruire un arnese strano che sembrava una pazzia; ma poi venne il diluvio. Buon per Noè che non fece come avevano fatto tutti. – Il Signore dice a certi sposi: « La vostra maniera d’intendere la vita coniugale è gravemente peccaminosa… Oltraggiate Dio, infangate la vostra dignità umana e cristiana, dissacrate e contaminate la famiglia ». Essi sentono nel cuore, ad intervalli almeno, una strana malinconia, un malessere di non sentirsi a posto, un timore di sventura, ma rispondono: « Fan tutti così. Ci canzonerebbero come insipidi cretini se ci mettessimo ad osservare la legge di Dio. Il medico, la levatrice, gli amici, i conoscenti, tutti ci segnerebbero a dito, quasi fossimo incapaci di prendere la vita come va ». Anche ai tempi di Loth, cari Cristiani, tutta una città corrotta e depravata rideva malignamente di lui e della sua famiglia, perché viveva secondo il giusto e l’onesto: ma poi piovve il fuoco su Gomorra. Buon per Loth che non fece come avevano fatto tutti. Ricordiamo la sentenza con cui termina la parabola d’oggi, i chiamati sono molti, ma gli eletti pochi. Quale conseguenza dovremo tirare da siffatto proverbio? Questa: Viviamo coi pochi per salvarci coi pochi. Che cosa fanno i molti? – Voi lo vedete: pensano a guadagnare denari e roba, pensano a divertirsi sfogando tutte le passioni, pensano a godere più che possono in questo mondo. Il loro paradiso è quaggiù. – Che cosa fanno i pochi? Voi lo sapete: temono e amano il Signore; mortificano le disordinate passioni, abbondano in opere buone; vivono da pellegrini sulla terra, perciò, pur usando secondo il bisogno delle cose di questo mondo, si guardano bere dall’attaccarvi il cuore; sanno che la loro patria è il cielo, perciò sopportano volentieri i sacrifici quotidiani, e stanno sempre preparati alla morte. La quale, del resto, a loro non fa tanta paura. Seguiamo i pochi. – Molti secoli fa, un Papa (Papa Formoso del sec. IX) aveva fatto eseguire bellissime pitture nella basilica di S. Pietro. Poi vennero giorni di crudele prepotenza, i suoi avversari lo presero e lo gettarono nel Tevere in piena. Passò molto tempo, e i monaci scopersero sulla riva del fiume, quasi alla foce, il cadavere del Pontefice. Lo ricomposero degnamente, e in processione lo trasportarono pregando, a Roma. Quando il feretro entrò in S. Pietro, si racconta che le immagini dei Santi da lui fatte dipingere, sorrisero e s’inchinarono all’arrivo del suo cadavere. – Cristiani, ogni opera buona, ogni lavoro che facciamo intorno all’anima nostra, sono pitture eseguite per la basilica eterna del cielo. Quando, trasportati dagli Angeli, dopo la morte, vi entreremo, esse ci sorrideranno, si inchineranno al nostro arrivo. Saranno la nostra consolazione, e l’omaggio che presenteremo a Dio per ricevere da Lui la ricompensa.

Seduto ad un tavolo, davanti a dei mucchietti di danari, l’amministratore chiamava gli operai, cominciando dagli ultimi venuti. Questi che avevano lavorato appena un’ora, e per di più quando il calore e il sudore non fastidiva, ricevettero un danaro. Allora coloro che avevano sarchiato fin dal mattino cominciarono a sperare più del convenuto: e invece anch’essi ricevettero un danaro. Perciò, postisi a mormorare, senza riguardo alcuno, dicevano: « È una ingiustizia bell’e buona! Sgobbare tutta la santa giornata, lasciarci bruciare il cervello sotto il sole, e poi… e poi essere trattati come avessimo lavorato un’ora appena! ». Alzarono talmente la loro voce villana che il padrone, venuto ad assistere la paga, udì. Non fece complimenti: acciuffò il più impertinente e gli disse: « Camerata, che c’è da borbottare? Se voglio regalare il mio danaro a chi più mi piace, sarai tu a proibirmelo? Se hai l’occhio cattivo, io non cesso d’essere buono; e se anche a quest’ultimo voglio dare come a te, non ti faccio ingiustizia ». E tagliò corto; levando la voce così che tutti l’udirono, disse: « Prenditi ciò che ti spetta e vattene! ». Com’è vera ancora questa parabola del Signore! Come punge in pieno anche la nostra coscienza! Egli è buono, Egli è generoso, Egli è giusto: ma il nostro occhio è cattivo: Oculus tuus nequam est. Da qui hanno origine tutte le mormorazioni e le invidie, mormorazioni ed invidie che son la ruggine consumatrice della nostra vita. MORMORAZIONI. Quando l’itterizia colpisce un uomo, a questi la vista s’intorbida: un velo giallo si stende davanti al suo sguardo, su tutte le cose. Giallo egli trova il prato, giallo il lago, giallo il cielo, gialli i fiori, sempre e da per tutto quell’antipatico giallo… Vi è anche un’itterizia spirituale, e chi ne è sgraziatamente colpito vede male in tutti: anche le persone più integerrime per lui son macchiate, anche le azioni più diritte da lui sono male interpretate. Non contento di scovare i difetti altrui sente nella lingua il prurito di manifestarli ed è inquieto se non ha trovato modo di sfogare il suo veleno: ed ecco le innumerevoli mormorazioni. Ma chi mormora ha l’occhio cattivo: 1) perché tra molte virtù vede soltanto il difetto; 2) perché il difetto veduto esagera ed estende fino a farlo diventare un’abitudine; 3) perché vede solo le apparenze esterne e non la realtà interna. – a) Ecco una nuora che mormora della suocera: «Se sapeste, che donna incontentabile! ». Sarà anche vero; ma perché non ha visto come è donna precisa, laboriosa, paziente, pia?… Ecco un uomo che mormora d’un suo compagno»: « Se sapeste, come è goloso! ». Sarà vero anche; ma perché non ha visto come è laborioso, caritatevole, sincero?… Oculus tuus nequam. – b) Un tale fu visto una volta a rubare qualcosa e subito c’è chi prova gusto a mormorare di lui dicendo: «È un ladro ». Un altro una sera tornò a casa alticcio, e subito c’è chi si compiace a mormorare di lui, dicendo: «È un ubriacone» Una rondine non fa primavera, e perché deve bastare un atto o due per giudicare un uomo? Anche il sole si è fermato una volta per favorire la vittoria di Giosuè, ed un’altra volta s’è oscurato per piangere la morte del Salvatore: nessuno per questo dirà che il sole appaia immobile o sia scuro. Anche Noè e Loth una volta bevvero troppo: nessuno però oserà chiamarli alcoolizzati. Anche Pietro una volta tagliò l’orecchio a un servo, e spergiurò il vero: nessuno lo giudicherà un sanguinario o uno spergiuro. – c) E poi, benché un uomo sia stato vizioso per lungo tempo, non dobbiamo giammai osare di giudicarlo tale: chi può vedere nel suo interno? chi può dire che non sia convertito? È appunto quel che capitò a Simone il lebbroso quando disse a Gesù: « Vedi quella donna? è una peccatrice ». Si trattava della Maddalena. Ma l’imprudente mormoratore si udì rispondere: « Simone lebbroso: io ti dico che questa donna è più santa di te ». – Quanto sono sagge le parole di S. Francesco di Sales nella Vita Divota: « Poiché la misericordia di Dio è così grande che un sol momento basta per impetrare e ricevere la sua grazia, qual certezza possiamo avere se un uomo che ieri era peccatore lo sia anche oggi? Il giorno passato non deve pregiudicare il giorno presente: non c’è che l’ultimo giorno il quale può giudicare tutti gli altri ». – Davanti a queste fini considerazioni dei Santi, noi, così spregiudicati e grossolani ci sentiamo una vampa di rossore salire in volto, e ci sentiamo in cuore il pungolo di troppi rimorsi. « Ohimè! — diciamo col profeta Isaia — sono un uomo dalle labbra immonde e abito in mezzo ad un popolo dalle labbra immonde ». Anche a noi, o Signore, manda il tuo Serafino con in mano un carbone acceso per purificarci la bocca da ogni mormorazione (Isaia, VI; 55). – INVIDIA. Chi ha l’occhio cattivo tutto il corpo ha cattivo e torbido.E l’occhio cattivo l’hanno non solo i mormoratori, ma anche gli invidiosi il cui sguardo è pieno di malvagità come quello del demonio quando scorgeva Adamo beato nel terrestre paradiso. Ogni bene del prossimo li rattrista, come fosse cosa di loro spettanza ed a loro rapita. Ogni sventura del prossimo li rallegra, come fosse per loro un guadagno. Oculus nequam: occhio malvagio che tutto il corpo rende malvagio: mente, cuore, mani. La mente non sa più pensare in bene. Colui che prima ci pareva meritevole di lode, appena sorge l’invidia ci par tutto diverso da quel che era. Ciò che prima era devozione in lui, diventa ora per noi ipocrisia: quel che era generosità è ora audacia; quel che era forza ora è prepotenza. E non è ch’egli sia cambiato, è il nostro occhio che è cattivo. Il cuore non sa più avere pace. Se ascoltiamo le lodi della persona invidiata, subito una lama gelida taglia la nostra anima, come se quegli encomi fossero rimproveri per noi. Se riacquista salute dopo una malattia, ci sentiamo oppressi noi dalla febbre e dai deliri che l’hanno lasciato. Se il suo campo, la sua bottega, i suoi affari prosperano non possiamo dormire in pace, come se una forza maligna minacciasse la fortuna del nostro campo, della nostra bottega, dei nostri affari. – Il cuore dell’invidioso è il carnefice di se stesso e non solo deve soffrire per i propri dolori, ma anche per le gioie degli altri. – Le mani dell’invidioso sono capaci di tutto: di prendere un ferro e cacciarlo nel petto del proprio fratello, come fece Caino; di spingere l’innocente in una cisterna, come fecero i fratelli di Giuseppe; di rapire la vigna di un povero come fece Acab; di avvelenare l’acqua del pozzo come han fatto certi invidiosi per il selvaggio gusto di privare i Giudei d’un bene invidiato. – Udite! da tutti i villaggi, da tutte le città risuonano liete canzoni di vittoria. Il Filisteo è stato sconfitto e le fanciulle intonano un canto che ha questo ritornello: «Ne uccise Saul mille e David dieci mila ». Saul il re ascolta: ha invidia. Da quel giorno — dice la Scrittura — non poté più vedere Davide se non con occhi malvagi. Non rectis oculis Saul aspiciebat David a die illa. E l’occhio malvagio rese malvagio tutto il corpo. Malvagia la mente: «Come? — andava rimuginando in sé quell’invidioso —Ne hanno assegnato dieci mila a Davide e a me non ne dan che mille. Chi è? un fanciullo imberbe, il figlio di un mio servo di Betlem, un custode di mandre ». E non ricordava più che David era il vittorioso uccisore del gigante.Malvagio il cuore, che si era gonfiato d’odio implacabile: anzi, la Storia lo dice, uno spirito maligno era venuto in quel cuore invidioso ad abitare. Exagitabat cum spiritus nequam. Malvagia la mano che un giorno afferrò una lancia e la scagliò con la bramosia d’inchiodar Davide sul muro. Ma Davide per due volte sfuggì. –  Il vecchio Tobia era divenuto cieco: ma il suo figliuolo guidato da un Angelo portò a casa un pesce pescato nel Tigri; col fiele di quel pesce spalmò le spente pupille del padre dalle quali caddero subitamente delle squame biancastre. E il cieco riebbe la vista. Anche noi abbiamo gli occhi malati. Ed il Signore, oggi, per mezzo del suo Angelo che è il sacerdote, ci manda la parabola pescata nel suo Vangelo. Possa essa guarire la nostra vista. Ci faccia vedere come tutti siamo fratelli e membri di un corpo unico, il mistico Corpo di Cristo. Ci tolga ogni squama malvagia che c’induce a mormorare e a portare invidia al nostro prossimo.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XCI:2

Bonum est confitéri Dómino, et psállere nómini tuo, Altíssime.

[È bello lodare il Signore, e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Secreta

Munéribus nostris, quæsumus, Dómine, precibúsque suscéptis: et coeléstibus nos munda mystériis, et cleménter exáudi.

[O Signore, Te ne preghiamo, ricevuti i nostri doni e le nostre preghiere, purificaci coi celesti misteri e benevolmente esaudiscici.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps XXX: 17-18

Illúmina fáciem tuam super servum tuum, et salvum me fac in tua misericórdia: Dómine, non confúndar, quóniam invocávi te.

[Rivolgi al tuo servo la luce del tuo volto, salvami con la tua misericordia: che non abbia a vergognarmi, o Signore, di averti invocato.]

Postcommunio

Fidéles tui, Deus, per tua dona firméntur: ut eadem et percipiéndo requírant, et quæréndo sine fine percípiant.

[I tuoi fedeli, o Dio, siano confermati mediante i tuoi doni: affinché, ricevendoli ne diventino bramosi, e bramandoli li conseguano senza fine.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/