DOMENICA FRA L’ASCENSIONE (2022)

DOMENICA FRA L’ASCENSIONE (2022)

Semidoppio. • Paramenti bianchi.

Noi celebreremo l’Ascensione del Signore rettamente, fedelmente, devotamente, santamente, piamente, se, come dice S. Agostino, ascenderemo con Lui e terremo in alto i nostri cuori. I nostri pensieri siano lassù dove Egli è, e quaggiù avremo il riposo. Ascendiamo ora con Cristo col cuore e, quando il giorno promesso sarà venuto lo seguiremo anche col corpo. Rammentiamoci però che né l’orgoglio, né l’avarizia, né la lussuria salgono con Cristo; nessun nostro vizio ascenderà con il nostro medico, e perciò se vogliamo andare dietro il Medico delle anime nostre, dobbiamo deporre il fardello dei nostri vizi e dei nostri peccati » (Mattutino). Questa Domenica ci prepara alla Pentecoste. Prima di salire al cielo Gesù, nell’ultima Cena ci ha promesso di non lasciarci orfani, ma di mandarci il Suo Spirito Consolatore (Vang., All.) affinché in ogni cosa glorifichiamo Dio per Gesù Cristo (Ep.). — Come gli Apostoli riuniti nel Cenacolo, anche noi dobbiamo prepararci, con la preghiera e la carità (Ep.) al santo giorno della Pentecoste, nel quale Gesù, che è il nostro avvocato presso il Padre, ci otterrà da Lui lo Spirito Santo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI: 7, 8, 9 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te, allelúja: tibi dixit cor meum, quæsívi vultum tuum, vultum tuum, Dómine, requíram: ne avértas fáciem tuam a me, allelúja, allelúja.

[Ascolta, o Signore, la mia voce, con la quale Ti invoco, allelúia: a te parlò il mio cuore: ho cercato la Tua presenza, o Signore, e la cercherò ancora: non nascondermi il Tuo volto, allelúia, allelúia.]

Ps XXVI: 1 Dóminus illuminátio mea et salus mea: quem timébo?

[Il Signore è mia luce e la mia salvezza: di chi avrò timore?].

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te, allelúja: tibi dixit cor meum, quæsívi vultum tuum, vultum tuum, Dómine, requíram: ne avértas fáciem tuam a me, allelúja, allelúja.

[Ascolta, o Signore, la mia voce, con la quale Ti invoco, allelúia: a te parlò il mio cuore: ho cercato la Tua presenza, o Signore,e la cercherò ancora: non nascondermi il Tuo volto, allelúia, allelúia.]

Oratio.

Orémus. –

Omnípotens sempitérne Deus: fac nos tibi semper et devótam gérere voluntátem; et majestáti tuæ sincéro corde servíre.

[Dio onnipotente ed eterno: fa che la nostra volontà sia sempre devota: e che serviamo la tua Maestà con cuore sincero].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet IV: 7-11

“Caríssimi: Estóte prudéntes et vigiláte in oratiónibus. Ante ómnia autem mútuam in vobismetípsis caritátem contínuam habéntes: quia cáritas óperit multitúdinem peccatórum. Hospitáles ínvicem sine murmuratióne: unusquísque, sicut accépit grátiam, in altérutrum illam administrántes, sicut boni dispensatóres multifórmis grátiæ Dei. Si quis lóquitur, quasi sermónes Dei: si quis minístrat, tamquam ex virtúte, quam adminístrat Deus: ut in ómnibus honorificétur Deus per Jesum Christum, Dóminum nostrum.”

[“Carissimi: Siate prudenti e perseverate nelle preghiere. Innanzi tutto, poi, abbiate fra di voi una mutua e continua carità: poiché la carità copre una moltitudine di peccati. Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri senza mormorare: ognuno metta a servizio altrui il dono che ha ricevuto, come si conviene a buoni dispensatori della multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia come fossero parole di Dio: chi esercita un ministero, lo faccia come per virtù comunicata da Dio: affinché in tutto sia onorato Dio per Gesù Cristo nostro Signore.”]

La carità, dice letteralmente la odierna Epistola, copre una moltitudine di peccati: sentenza che ha una notissima parafrasi popolare nella esclamazione posta dal Manzoni in bocca a Lucia di fronte all’Innominato: Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia! Sentenza, che, a voler sottilizzare, presenta, ossia presenterebbe una certa difficoltà. Che cosa significa propriamente? Che cosa vuol dire l’Apostolo? La carità di cui parla che cancella o copre (le due metafore, appunto perché metafore, si possono equivalere) che carità è? La carità verso Dio? E allora la sentenza è una tautologia. Sfido, quando un’anima ha la carità i peccati sono belli e svaniti; come quando uno ha caldo, il freddo se n’è bello e ito. La carità verso il prossimo nei limiti soprattutto pratici, in cui essa è possibile anche senza amor di Dio? Certo bisogna intenderla così, così l’intende il buon senso cristiano. Giacché di fatto ci può essere, c’è un certo amor del prossimo anche là dove e quando ancora non arda completo l’amore verso Dio. C’è della gente che ha cuore e non ha fede. Che ha cuore, ma non osserva ancora tutt’intiera la legge. C’è della gente che ha molto, ha parecchio da farsi perdonare da Dio. – Ebbene l’Apostolo riprende l’insegnamento del Maestro: per essere perdonati (da Dio) bisogna perdonare (agli uomini); perché Dio sia buono con noi, dobbiamo noi essere buoni coi nostri fratelli. I casi son due; e ve li espongo, perché uno dei due può essere benissimo il caso vostro. Il miglior caso è questo: un uomo ha da poco o da molto disertato i sentieri della bontà, della verità forse; ma adesso comincia a rientrare in se stesso, ad accorgersi della cattiva strada, per cui si è messo, a sentirne dolorosamente il disagio… Non parliamo ancora di conversione, ma di un lontano principio di essa. Non parliamo di fuoco, ma la scintilla c’è: un oscuro desiderio della casa paterna improvvidamente abbandonata, del Padre che vi attende il prodigo figlio. Che fare? e che cosa consigliare a quest’anima? Non, s’intende, come mèta integrale e finale, ma come primo avviamento operoso e pratico e profondo? Fa’ del bene al tuo prossimo, tutto il bene che puoi, il maggior bene che tu possa. Fa’ del bene, fa’ della carità, anche se, per avventura, tu avessi smarrito la fede o l’avessi smozzicata ed informe. Fa del bene. Perché, lo ha detto così bene San Vincenzo: è mistero la SS. Trinità, mistero la Incarnazione del Verbo, e davanti al mistero può ribellarsi, orgogliosa la tua ragione, ma non è mistero che un tuo fratello soffra la fame e che tu potresti sfamarlo con le briciole del pane che ti sopravanza. E allora: da bravo, coraggio! Comincia di lì. Dà del pane a chi ha fame. Fa’ quest’opera buona; esercita questa carità. È carità che farà del bene anche a te, bene materiale, ma anche un po’ spirituale a colui che lo riceve; bene spirituale a te che lo dai. Ti farà del bene, ti renderà più buono, meno cattivo, sarebbe più esatto dire: diminuirà, sia pur di poco, ma diminuirà la tua lontananza da Dio benedetto. Anzi, questo lo farà anche se tu non lo pensi e non ne abbia l’intenzione; come medicina fa del bene anche al malato che la prende senza sapere che è medicina, senza desiderare di guarire. La carità avvicina l’uomo all’uomo e avvicina l’uomo a Dio. Lo rende meno dissimile da Lui, meno difforme da Lui. E Dio ce lo ha detto, ce lo ha detto Gesù Cristo: Vuoi essere perdonato? Perdona. Dio tratta noi nella stessa misura e forma che noi trattiamo i nostri fratelli. Spietati noi coi fratelli? Spietato Dio con noi; tutto giustizia e niente misericordia. Misericordiosi noi coi fratelli nostri? Misericordioso Dio con noi; pieno di misericordia e di perdono. – Non si potevano saldare più nettamente, profondamente le due cause: l’umana e la divina, la filantropia e la carità! E questa saldatura mi permette di dire una parola anche a quelli che fossero o si fingessero buoni Cristiani: siate caritatevoli, fate carità, abbiate misericordia anche voi, perché innanzi tutto non c’è un Cristiano senza torti con Dio; ma se ci fosse, non dovrebbe fare a Dio il torto di essere senza cuore pei figli di Lui, suoi fratelli, di vantarsi o credersi perfetto, senza carità, senza misericordia.

(p. G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Graduale

Allelúja, allelúja.
Ps XLVI: 9
V. Regnávit Dóminus super omnes gentes: Deus sedet super sedem sanctam suam. Allelúja.

[Il Signore regna sopra tutte le nazioni: Iddio siede sul suo trono santo.
Allelúia.]

Joannes XIV: 18
V. Non vos relínquam órphanos: vado, et vénio ad vos, et gaudébit cor vestrum. Allelúja.

[Non vi lascerò orfani: vado, e ritorno a voi, e il vostro cuore si rellegrerà. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XV: 26-27; XVI: 1-4

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Cum vénerit Paráclitus, quem ego mittam vobis a Patre, Spíritum veritátis, qui a Patre procédit, ille testimónium perhibébit de me: et vos testimónium perhibébitis, quia ab inítio mecum estis. Hæc locútus sum vobis, ut non scandalizémini. Absque synagógis fácient vos: sed venit hora, ut omnis, qui intérficit vos, arbitrétur obséquium se præstáre Deo. Et hæc fácient vobis, quia non novérunt Patrem neque me. Sed hæc locútus sum vobis: ut, cum vénerit hora eórum, reminiscámini, quia ego dixi vobis”.

[In quel tempo: Disse Gesù ai suoi discepoli: Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio. Vi ho detto queste cose perché non abbiate a scandalizzarvi. Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me. Ma io vi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, ricordiate che ve lo detto già.

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

COSCIENZE MALATE

È triste quando si spegne la luce degli occhi: ogni cosa perde la linea e il colore, ed una oscurità senza tempo né mutamenti benda il volto del povero cieco. È triste quando si spegne la luce dell’intelligenza: l’anima è strappata via a forza e sepolta viva nella materia che la rende incapace d’agire. Il povero deficiente è al mondo quasi come un vegetale, senza saperlo; ha uno spirito immortale, e non sa d’averlo. Ma più triste ancora è quando si spegne la luce della coscienza: l’uomo ha sani gli occhi ma non vede, ha intelligenza aperta ma non capisce; non vede e non capisce che corre verso la sua finale e irrimediabile rovina. Le altre sventure sono la privazione di un grande bene, ma solo per i pochi anni della vita terrena. Questa ci sospinge verso la perdita di tutto il bene, e per tutta l’eternità. La coscienza vale assai più della scienza; ed il mondo più che gli uomini di scienza ha bisogno di uomini di coscienza, cioè di santi. – Che cos’è dunque la coscienza? Essa è un incorruttibile tribunale interiore che giudica ogni atto, ogni parola, ogni pensiero e di ciascuno pronuncia la sua sentenza: questo è buono e tu sei meritevole; questo è cattivo e tu sei riprovevole. Esso è l’eco della voce di Dio che ci parla senza strepito, che ci muove senza violenza. Non pretendete che Gesù vi appaia corporalmente come a S. Pietro e vi fermi bruscamente sulla strada per imporvi di convertirvi o di pregare. Neanche pretendete che Dio vi mandi visibilmente la Madonna o qualche Angelo. Se rientrate in voi, se la vostra coscienza non è stata guastata dall’impurità e dall’orgoglio, allora sentirete realmente quello che Dio vuole e quello che non vuole da voi. Potete ora comprendere la grande importanza che la coscienza ha nella vita dell’uomo. E potete ora comprendere l’enorme disgrazia di chi l’ha pervertita. Costui cammina verso l’abisso dell’iniquità, e siccome la coscienza è guasta, lo lascia smemorato nel suo traviamento, quasi illuso di camminare verso la giustizia. È questa la terribile illusione che Gesù denunciò prima di morire ai suoi Apostoli. «Verrà l’ora in cui chi vi scaccerà e vi ucciderà crederà di fare una buona cosa e penserà di dare gloria a Dio. Povere coscienze ottenebrate che non conoscono più né il Padre né me! Voi però non scoraggiatevi. Vi manderò lo Spirito Santo che vi darà la forza anche di morire per rendermi testimonianza ». La grave parola del Signore ci persuade a considerare le malattie della coscienza, specialmente quelle che sono le più disastrose, perché danno l’illusione di essere onesti e religiosi. Ci sono tre tipi di coscienze malate: la coscienza cieca; la coscienza farisaica; la coscienza pervertita. – 1. COSCIENZA CIECA. Quando l’aeroplano in volo entra nella nebbia, al pilota trema un poco il cuore. Manca ogni visibilità: di sopra e di sotto, a destra e a sinistra non c’è che una informe e flottante massa grigiastra. Dove sarà? Non avrà deviato dalla giusta rotta? È tempo di discendere? Come abbassarsi di quota se non si vede nulla? Un ostacolo improvviso, una collina, un campanile, potrebbero determinare la rovina. – Nessuna paura; c’è il marconista in continuo collegamento coi campi d’aviazione che gli segnalano le condizioni opportune per atterrare; ci sono perfettissimi strumenti di misurazione che indicano di momento in momento la quota d’altezza, la velocità di volo, la direzione. Intanto l’aeroplano vola ciecamente nella nebbia. E se la radio non funzionasse più? Se gli istrumenti di misurazione si fossero guastati senza che nessuno se ne accorgesse? Basterebbe un minimo errore di calcolo. Allora ogni cosa più orribile può accadere. Qualche anno fa un aeroplano smarritosi nella nebbia si fracassava a tutta velocità contro la collina di Lanzo Torinese, spiaccicandovi otto persone. La vita nostra, quaggiù sulla terra, è in tutto simile a un volo nella nebbia, la nebbia dei sensi. Noi non vediamo Dio, non vediamo il Paradiso che è la meta a cui tendiamo, non vediamo a che altezza e a che punto siamo del nostro viaggio. Ma abbiamo però la coscienza, dove ci sono strumenti perfetti di misurazione morale, e dove arrivano i radiogrammi del Signore. Appena con qualche peccato si esce dalla giusta rotta, allora nella coscienza si fa sentire una punta come di spina confitta, come di tarlo che rode. Guai a chi non bada e disprezza queste segnalazioni preziose! La coscienza si vendica facendosi sempre più fioca, fin che si spegne. Allora l’uomo è un disperso nella nebbia dei suoi istinti. Quel danaro, quella roba di mal acquisto non gli scotta più: per lui è come se fosse di guadagno legittimo. Quella lite maliziosamente intentata e con raggiri vinta non gli rimorde più: per lui è come se avesse sostenuto un proprio diritto. Quegli scherzi equivoci, quelle impudenti libertà di parola e di mano, quegli spettacoli corruttori, ora gli sembrano innocui divertimenti, una maniera allegra e piacevole di passar la vita. Ma se la rupe della morte gli si adergesse improvvisa davanti?… Ah! che disastro: altro che quello dell’aeroplano contro la collina di Lanzo Torinese. – 2. COSCIENZA FARISAICA. Quando la luce vera si spegne nella coscienza, è facile che s’accendano falsi fanali che deformano la visuale. Ne deriva così quella coscienza farisaica che fu bollata a parole roventi dal Signore. Di essa voglio ora ricordare due caratteristiche.

a) La coscienza farisaica è una lampada cieca che proietta la luce sugli altri e tiene nell’ombra chi la porta. I farisei vedevano il fuscellino nell’occhio del prossimo, e non s’accorgevano di avere una trave nel proprio. I farisei scovavano macchie e scandali dappertutto, anche nelle azioni più buone, eccetto che in sé e nella propria condotta. I farisei avevano da sparlare di tutti, eccetto che di sé. « O Dio — pregava un fariseo nel tempio fulminando indietro uno sguardo di disprezzo, — ti ringrazio che non sono come gli altri uomini; tutti ladroni, ingannatori, adulteri come quel pubblicano laggiù » (Lc., XVIII, 11). – I farisei non ci sono più, ma il fariseismo è una malattia che è rimasta, e forse un poco ammorba anche la nostra anima. Che cos’è questa smania di osservare gli sbagli degli altri, di essere tra i primi a lanciare contro di essi la pietra, di mormorare, di sprezzare tutti? Segno che c’è una trave nel nostro spirito e non la vediamo. Che cos’è quest’altra smania di criticare continuamente i preti, il Vescovo e lo stesso Papa, come si fosse più parrocchiani del parroco e più Cattolici del Papa? Segno è che non si è buoni parrocchiani né buoni Cattolici.

b) Altra caratteristica della deformata coscienza farisaica è di fissarsi sulle cose minime e trascurare le massime. I farisei scolavano mosche per ingoiare cammelli. Facevano l’offerta al tempio e poi divoravano le case delle vedove e degli orfani. Temevano di contaminarsi entrando nella casa d’un pagano come Pilato e non temevano di contaminarsi facendo ammazzare il Signore. Ci può essere ancora chi fa consistere tutta la sua religione soltanto in cose esteriori: qualche preghiera a fior di labbra; la messa bassa alla festa; qualche piccola offerta nelle cassette dell’elemosina; dare il nome a qualche pia confraternita. Ma poi nessuna giustizia con gli operai, o col padrone; nessuna carità e compassione per il prossimo che soffre o che chiede; nessuno scrupolo di vivere anni ed anni in peccato mortale, conservando un’abitudine o un affetto proibito dalla legge di Dio. Come i farisei, questi Cristiani puliscono l’esterno del piatto e del bicchiere, e dentro lo lasciano colmo di immondezze e di ingiustizie. – 3. COSCIENZA PERVERTITA. « Viene l’ora — ha detto Gesù — in cui chi vi uccide crederà di rendere ossequio a Dio ». Non molto tempo dopo questa profezia, l’Apostolo Paolo fu arrestato in Gerusalemme e custodito dal tribuno romano. Ebbene, quaranta persone fecero un voto a Dio, invocando sopra di sé le più fiere maledizioni se non l’avessero mantenute. Il voto era questo: non toccare cibo né bevanda, sino a che non avessero ucciso Paolo. Decisero d’attendere il momento in cui il tribuno l’avrebbe condotto dalla prigione al tribunale del Sinedrio, per strapparlo fuori dalle mani delle guardie e finirlo. Fortuna volle che un nipotino di Paolo, un figlio di sua sorella, venne a sapere la cosa e arrivò in tempo a sventare la congiura (Atti, XXIII, 12-21). Fu però ucciso dopo qualche anno a Roma, dove anche S. Pietro e dove anche numerosi Cristiani furono uccisi come nemici della civiltà e della patria, e degli dei dell’Impero. Forse che oggi non ci sono uomini che con giuramento si legano a perseguitare i preti e i buoni Cristiani, a odiare il Papa, a distruggere la Chiesa? Sono nazioni intere che scacciano i ministri e i fedeli del Signore, accusandoli di disfattismo, di nemici della grandezza patria, di sostenitori delle ingiustizie sociali. Si organizzano perfino i bambini, e quando a schiere passano davanti a qualche chiesa o immagine religiosa, si insegna a loro di levare il pugno chiuso e gridare: «No! No!» Ah, quelle piccole mani che Gesù accarezzava, quelle candide voci che facevano tremare il cuore del Figlio di Dio! Ma quando è possibile questo pervertimento totale della coscienza? « Quando – risponde Gesù nel Vangelo — non si conosce più il Padre né me ». Invano, o Cristiani, deprecheremo da noi e dalla nostra patria questo orrendo male, se non ci mettiamo a conoscere il Padre e il Figlio che ci ha mandato. Conoscerlo con l’intelligenza: istruzione cristiana. Conoscerlo con le opere: vita cristiana.

I TESTIMONI DI CRISTO. Gesù ascese al cielo. Più nessuno con questi occhi potrà vederlo, né con queste orecchie udirlo, senza un miracolo. Chi, dunque, testimonierà a tutti coloro che non l’hanno né visto né udito, ch’Egli veramente è il Figlio di Dio, ucciso e risorto? Lo Spirito Santo e gli uomini. « Quando. verrà lo Spirito di Verità e di Consolazione che io vi manderò dal Padre, Egli attesterà per me ». E la testimonianza dello Spirito Santo nella Chiesa è perenne e duplice: esterna, con i miracoli e le profezie; interna, con la luce e la grazia che, infuse nel cuore, inducono l’uomo alla fede e alla santità. Ma Gesù dopo quella dello Spirito Santo, ha voluto anche la testimonianza degli uomini. « Voi pure — soggiunse il Maestro divino, — mi farete da testimoni. Né vi faccio mistero di quel che v’aspetta: Vi scomunicheranno dalle loro sinagoghe, vi imprigioneranno: ecco, vien l’ora in cui chi vi uccide, s’illuderà di rendere ossequio a Dio. Coraggio! in quel momento ricordatevi che Io ve ne avevo parlato ». Su questa testimonianza umana per il Cristo, intendo fermare brevemente la vostra attenzione. Essa nei secoli non è mai mancata, né mancherà per l’avvenire; sempre, suscitati dallo Spirito Santo, sorgeranno uomini pronti a testificare per il Figlio di Dio con la morte cruenta o con la vita eroica. Ma anche da noi Gesù aspetta una testimonianza: perciò non sarà certo inutile farci una domanda in proposito. – 1. LA TESTIMONIANZA DEI MARTIRI. Il sangue dei martiri è una voce di verità. Pietro e Giovanni erano stati trascinati in Sinedrio, in cospetto di Anna e di Caifa, i due che avevano condannato Gesù. « In nome di chi osate predicare e compire prodigi? » fu domandato a loro. E Pietro rispose: « Capi del popolo, in nome di Gesù Cristo Signore nostro, quello che voi avete crocifisso e che Dio risuscitò da morte ». E tutto il Sinedrio a minacciarli: « Guardatevi bene dal parlare ancora di Lui con qualunque persona ». Pietro e Giovanni esclamarono: « Non possiamo tacere ciò che udimmo e vedemmo ». Non enim possumus non loqui (Atti, IV, 20). E da quel giorno in Gerusalemme, in Antiochia, in Roma, senza paura e senza riposo, la voce di Pietro annunciò il Vangelo; per farlo tacere, dovettero ucciderlo sul colle Vaticano, nell’anno 67. Giovanni, l’Apostolo prediletto a cui era stata affidata Maria, fu trasportato a Roma ove si lasciò immergere in una caldaia d’olio bollente. Scampato prodigiosamente, fu condannato all’esilio nell’isola di Patmos. E Giacomo, parente di Gesù, fu gettato dal pinnacolo del tempio di Gerusalemme, fu lapidato mentre pregava per i suoi nemici, e finalmente finito da un gualchieraio con un arnese del mestiere. E Andrea, a Patrasso, in Grecia, fu messo in croce: per tre giorni da quel pulpito testimoniò la divinità di Cristo alla gente che, piangendo, l’ascoltava. E dopo gli Apostoli sono migliaia di fanciulli e di fanciulle, di uomini e le donne che intrepidi versano il loro sangue. Il diacono Lorenzo vedendo il Papa San Sisto II, di cui era al servizio, trascinato al martirio, ne invidia la sorte e lo supplica, piangendo, di condurlo seco a morire. Non furono rari gli episodi come quello della morte del pontefice Caio. Nelle catacombe, nel giorno di Pasqua, moltissimi Cristiani s’erano adunati: il pontefice Caio era all’altare. Mentre l’ostia si cangiava nel Corpo di Cristo, e il popolo raccolto adorava, si sentirono forti grida: « Morte ai Cristiani! ». Queste grida partivano dagli sgherri di Diocleziano penetrati colà per tradimento. La folla, senza scomporsi proseguì ad adorare Cristo eucaristico. I soldati, sguainate le spade, colpirono a destra e a sinistra. « Figli carissimi, — gridò il pontefice Caio, — Cristo è morto ed è risorto per noi. Coraggio: Egli vuole incoronarci ». E tutti ad una voce gridarono: « Noi siamo Cristiani! ». La strage continuò ma nessuno diede un lamento. Le madri serrando al seno i figliuoli, dicevano: « Andiamo in Cielo: ecco arriva il Signore a prenderci ». Il pontefice Caio disse alla sua volta: « Anch’io sono Cristiano! ». E la sua testa stroncata rotolò sui gradini dell’altare. Non si deve pensare che la stagione dei martiri sia finita da quei primi secoli: anche ai nostri tempi abbiamo avuto gloriosi martiri. È del 1861 il martirio di Teofano Vénard, missionario francese nell’Asia (Tonchino): prima di morire ha voluto scrivere ad ognuno dei suoi cari una lettera di ricordo. « È mezzanotte: intorno alla mia gabbia non si vedono che lance e lunghe spade. In un angolo della camera un gruppo di soldati gioca alle carte, un altro gruppo gioca ai dadi. A due metri da me una lampada proietta la sua tremula luce sul mio foglio di carta cinese e mi permette di tracciarti queste linee. Io aspetto di giorno in giorno la mia sentenza Forse domani io sarò condotto alla morte. Morte felice, non è vero? Morte desiderata che conduce alla vita… ». « Mio caro Enrico — scrive al fratello — non consumare la tua vita nelle vanità del mondo… Resistere alle inclinazioni della carne ed assoggettarla allo spirito, stare in guardia contro le insidie del demonio e le pratiche del mondo, osservare i precetti della Religione, questo è essere uomo. Ti ho scritto queste parole in un momento solenne: fra alcune ore, io sarò messo a morte per la Fede di Gesù Cristo… Addio, fratello; vieni a trovarmi in cielo ». Il 2 febbraio 1861 gli fu troncata la testa. A questi fatti, ci ritorna spontanea la bella frase d’un gran pensatore: « Io credo a dei testimoni che si lasciano sgozzare » (PASCAL). – 2. LA TESTIMONIANZA DEI SANTI. In mezzo alla tenebra notturna, Dio accese le stelle, che splendono lontane e miti fino al levare del sole: il navigante sbattuto dall’onde, il pellegrino sperduto negli intrichi del bosco, le guardano e ritrovano la via sicura. Come le stelle, così sono i santi in mezzo alle tenebre del mondo: i santi sono i pallidi riflessi della faccia splendente di Dio. Gli uomini incerti tra le passioni e gli errori, rivolgono a loro lo sguardo, intravedono la felicità e la verità, ritrovano il cammino della vita cristiana. Quanti, pensando a S. Francesco d’Assisi, il poverello di Dio, sentirono la forza di staccare il cuore dall’avarizia! Altri, per l’esempio di S. Domenico, fuggirono le eresie che guastano la fede; altri ancora, davanti all’umiltà di S. Carlo Borromeo, compresero che gli onori del mondo sono nebbia al vento; altri innumerevoli da S. Luigi Gonzaga han ricevuto la forza di domare la passione impura e di resistere tutta la vita come gigli intatti e candidi. Sanctis tuis maxima lux (Sap., XVIII, 1). Dai tuoi santi, o Gesù, una gran luce si diffonde che dirada la nostra oscurità e illumina il nostro cammino. Essi sono i tuoi testimoni: chi li avvicina si sente attratto da una forza misteriosa come quella che usciva un giorno dalla tua veste; chi li ascolta parlare, coglie nel timbro della loro voce e nel senso della loro parola un’eco della tua voce, o Signore, e della tua parola viva che giunge a noi dai secoli lontani: chi li vede mortificarsi aspramente, beneficare generosamente, morire gaudiosamente vede sulla loro faccia una somiglianza con Te. Quando un santo passa sulla terra, sono sempre numerosissimi quelli che comprendono la testimonianza che egli dà a Gesù Cristo, e perciò sono moltissimi che sempre van dietro a Lui. Chi può dire quanti frati, a piedi scalzi, han seguito e seguiranno le orme di San Francesco? Chi può dire quanti hanno studiato e predicato per imitare S. Domenico? Guardate i missionari che ogni anno partono intrepidamente verso barbare contrade, incoraggiati dalla protezione di S. Francesco Saverio! Guardate i Gesuiti che ancora numerosissimi difendono con lo studio e con le opere la Chiesa Cattolica, sospinti dallo spirito del loro fondatore S. Ignazio! Sono migliaia di giovani che ogni anno nelle istituzioni salesiane sentono la carezza del Santo Don Bosco; sono migliaia di infelici, rifiutati dall’umana società, che sono accolti nella Piccola Casa della Divina Provvidenza a Torino, dove palpita il cuore del Cottolengo; sono migliaia di persone, in ogni parte della terra, di ogni condizione sociale, che nella loro anima furono commossi dalla testimonianza di Santa Teresa del Bambino Gesù. È vero che il mondo disprezza i Santi, come anche il pipistrello disprezza la luce; è vero che sono creduti ignoranti, gente illusa e malata, gente che non ha capito il piacere della vita. A chi crederemo noi? Alla testimonianza del mondo, o alla testimonianza dei Santi? – Ecco: presso i Romani ci fu un processo famoso. Emilio Scabro, uomo integerrimo di costumi e amante della giustizia, fu accusato da un certo Varo, persona iniqua e scellerata e bugiarda. Il giudizio davanti al popolo si svolge brevemente così: «Cittadini! Emilio Scabro afferma, Varo nega: a chi credete voi?» Bastò questo per salvare Emilio Scabro da ogni accusa. Le opere sono la prova delle parole. Guardate le opere dei Santi e confrontatele son quelle del mondo. – 3. LA NOSTRA TESTIMONIANZA. a) La prima testimonianza che Gesù aspetta da ciascuno di noi è quella del buon esempio. « Tu vai in Chiesa, e sei peggiore degli altri! ». Quest’insulto che i nemici dei Cristiani lanciano sovente, qualche volta ha un fondamento di realtà: le opere non corrispondono alla fede professata. Il grande Apostolo scrive: Exemplum esto fidelium in verbis, in caritate, in fide. in castitate. Esaminatevi la coscienza sulla guida di queste parole.

In verbis. Le dottrine della fede devono essere studiate e professate a fronte alta. Invece che fate voi, uomini di poca fede? Il Vangelo dice, per esempio, che bisogna far penitenza, e nei vostri colloqui d’altro non si parla se non di godimento e di piaceri. Il Vangelo lancia la maledizione al mondo ed ai suoi scandali: invece senza tanti riguardi voi dite che il mondo vi piace e troppo spesso discorrete di scandali con parole meno pudiche. Il Vangelo dice di non giudicare nessuno, eppure giorno non passa senza mormorazioni e denigrazioni.

In caritate. Il Vangelo in ogni povero che soffre, in ogni opera buona, ci mostra Gesù che soffre e chiede: invece noi ci attacchiamo così al danaro che l’elemosina ci fa paura.

In fide. Voi tutti credete che nell’Ostia Santa ci sia Dio, credete che Egli è Pane e Forza dell’anima vostra: e come va che non lo ricevete? che non lo visitate?

In castitate. Credete che il peccato sia la lebbra dell’anima, e ve lo tenete addosso tranquillamente per settimane e per mesi. Credete che il vostro Corpo sia tempio dello Spirito Santo, e poi non lo rispettate? Queste sono false testimonianze, che Gesù rifiuta e condanna: «Siate testimoni suoi con i discorsi, con l’amore, con la fede, con la castità ». – b) Oltre al buon esempio, noi possiamo e dobbiamo testimoniare Cristo con l’Azione Cattolica. Intorno ad ogni parrocchia fioriscono numerose istituzioni che non solo mirano a conservare ed aumentare nei singoli la fede, ma anche a propagarla in altri che vivono lontano dall’altare di Dio. Gli oratorî, i circoli maschili e femminili, le associazioni per gli uomini e per le donne cattoliche sono benedette e volute dal Santo Padre, Queste opere aspettano la vostra cooperazione: amatele, interessatevi, iscrivetevi, beneficatele! Ed ancora non è una bella maniera di far da testimoni a Cristo col partecipare al Terz’ordine di S. Francesco, o alla Compagnia del SS. Sacramento? Adorare l’Eucaristia, avere il giorno e l’ora stabiliti per servirlo in un modo particolare, fargli da scorta nelle processioni in divisa d’onore, accompagnarlo al capezzale dei moribondi, non è questa una edificante testimonianza? –  Ma forse ciascuno, pur convinto in cuor suo di dover dare a Cristo la propria testimonianza, si sente debole e pieno di timore e di umano rispetto. Anche gli Apostoli erano così dapprima, ma poi venne lo Spirito Santo e li trasformò. Prepariamoci anche noi con la preghiera e con la purità di coscienza alla prossima Pentecoste: lo Spirito Santo trasformerà noi pure in uomini nuovi che nella famiglia e nella società faranno da testimoni impavidi e integerrimi a Cristo.

– IL RISPETTO UMANO. Abramo, quando condusse sul monte suo figlio per sacrificarlo a Dio, compì un atto di eroismo, forse unico nella storia. Alcuni han detto che suo merito grande fu l’obbedienza con la quale accettò, senza replicare, un comando durissimo. Altri han detto che fu la fede sua ferma per la quale credette che sarebbe diventato padre d’una innumerabile generazione, mentre con la sua mano doveva spegnere la vita del suo unigenito. Ma il vescovo S. Zenone, pur riconoscendo e l’obbedienza e la fede di Abramo, disse che il suo merito più grande fu la fortezza con la quale si espose alle dicerie di tutti e ai motteggi dei maligni. Tutti si sarebbero levati contro di lui, l’avrebbero chiamato tigre in sembianze d’uomo, assassino in sembianze di padre. Un padre che assiste alla morte di suo figlio senza una lacrima, che anzi ha la crudeltà egli stesso di affondare la lama in quel piccolo cuore… e, forse, lo avrebbero condannato, credendo di rendere giustizia davanti a Dio. Ma Abramo camminò diritto, non ascoltando che il verbo di Dio. Ed in questo sta la sua grandezza: aver superato ogni rispetto umano. Il rispetto umano: ecco il male della nostra società. Ed è contro questo male che Gesù ci mette in guardia quando dice: « Lo Spirito Santo che io manderò dal Padre, renderà testimonianza di me. Ma anche voi dovete rendermi testimonianza in faccia agli uomini; e coraggiosamente: perché ci saranno di quelli che vi derideranno, che rifiuteranno la vostra compagnia nelle sinagoghe: anzi verrà il tempo che chi vi ucciderà crederà di rendere onore a Dio. Queste cose ve le ho dette perché non abbiate a scandalizzarvi ». E noi sappiamo come siano vere queste parole. E forse noi stessi abbiamo già sentito il pungolo dello scherno e delle persecuzioni, e fors’anche talvolta il coraggio ci è venuto meno. Perché non avvenga mai così, consideriamo come il rispetto umano ci renda odiosi davanti a Dio e davanti agli uomini. – 1. CI RENDE IGNOBILI DAVANTI A DIO. Il rispetto umano è apostasia e rende inutile ogni divina grazia. Una delle umiliazioni più atroci che Gesù patì nella sua passione, fu certamente sotto il pretorio di Ponzio Pilato, procuratore di Giudea. Tutti l’accusavano e Gesù taceva. Pilato aveva paura di quel silenzio di Gesù. Ogni anno alla festa di Pasqua era costumanza di liberare un prigioniero, quello qualsiasi che la folla chiedeva. Quell’anno c’era in carcere un rivoluzionario che aveva anche commesso un omicidio in una rivolta: Barabba. Pilato si rivolse al popolo e domandò: «Volete Gesù 0 Barabba? ». Allora su tutta la folla passò il soffio istigator dei sacerdoti e dei seniori. Pilato chiese ancora: « Gesù o Barabba? ». E tutto il popolo urlò: « Barabba! ». Ma come! non era Gesù il maestro, il benefattore, il taumaturgo, colui che guariva gli ammalati e asciugava il pianto agli afflitti? Non importa. Libero Barabba! Il medesimo affronto, in un modo più velato ma non meno vero, rivolgono a Dio quelli che si lasciano dominare dalle dicerie o dalle minacce dei cattivi. Essi preferiscono il mondo a Dio; i giudizi del mondo ai giudizi divini. Il giovane che nell’opificio, sentendo parole blasfeme o turpi, non ha il coraggio d’impor silenzio e finge, magari, d’acconsentire; l’uno che mangia di grasso nei giorni proibiti pur di non suscitar lo scherno dei compagni d’osteria; la donna che tralascia i Sacramenti per non sembrare una piuzza, tutti costoro rifiutano Dio e si volgono al mondo; vogliono Barabba e crocifiggono Cristo. Il rispetto umano, dunque, è un’apostasia: non solo, ma è anche un grave male dell’anima, che rende inutile ogni grazia divina per la salvezza. Può bene Iddio suscitargli in cuore delle disposizioni. a una vita più cristiana, può suggerire propositi di conversione: ma l’uomo preso dal rispetto umano per la paura della gente lascia abortire le buone ispirazioni. Dio può ben fargli sentire una predica che lo illumini, che lo convinca: ma egli non ha il coraggio di mostrarsi convinto. Dio può mandargli anche una malattia che lo conduca all’orlo della vita e gli faccia guardar nell’abisso dell’eternità; ma poi, guarito, c’è ancora il medesimo spettro: che cosa diranno? che cosa faranno? Perfino in punto di morte ci sono uomini vittime ancora del rispetto umano e ritardano il Viatico e l’Olio Santo perché non vogliono essere creduti moribondi. E per vergogna di vivere come Cristiani, muoiono come cani.  – 2. CI RENDE IGNOBILI DAVANTI AGLI UOMINI. Il rispetto umano è una viltà e una schiavitù. — Eusebio, il padre del grande Costantino, passò in rivista le sue schiere. Poi, fermato in mezzo al campo, esclamò  « Chi di voi è Cristiano, venga alla mia destra ». Tutti sapevano quanto Eusebio fosse ancora attaccato all’idolatria: ed Eusebio sapeva pure che molti de’ suoi soldati erano Cristiani. Alcuni coraggiosi, con passo deciso, si posero alla sua destra: « Noi siamo Cristiani ». L’imperatore li guardò con fiero cipiglio: « Solo voi? ». Ma nessun altro si mosse. « Allora » conchiuse Eusebio, « voi formerete la mia legion d’onore e tutti gli altri Cristiani siano espulsi dalle mie schiere: perché come oggi hanno avuto vergogna del loro Dio davanti all’imperatore, domani in faccia al nemico avranno vergogna del loro imperatore ». Non migliore di questa è la ricompensa del mondo per quelli che si fanno vilissimi schiavi; il mondo schernisce i forti per invidia, ma disprezza i deboli per la loro viltà. E nessuno si fida d’un uomo che non ha il coraggio delle proprie idee. Così i disgraziati perdono Dio per correre dietro al mondo che ha schifo della loro viltà. Il rispetto umano è anche una schiavitù. Il maggior dono che Dio ha fatto all’uomo, creandolo, è la libertà. Per fin questa rinnega l’uomo dominato dal rispetto umano. Che v’è di più vergognoso che regolarsi secondo il capriccio altrui? Dentro c’è un’idea, una convinzione, una fede… e la si soffoca per timore che a qualcuno possa dispiacere. E si diventa la canna che piega ad ogni urto e la banderuola che gira sul tetto: un giorno si è Cristiani e un giorno pagani, a seconda del vento che tira. O Cristiani, conserviamo quella dignità che Dio ci diede, creandoci uomini. Siamo orgogliosi dell’integra e diritta libertà che Cristo ci ha acquistato col suo sangue, ed il mondo, a suo dispetto, sarà costretto a rispettarci.- Dio un giorno si pentì d’aver creato l’uomo e Noè già fabbricava la rozza nave.  Per lunghi anni il patriarca picchiò i martelli e sudò a congiungere i legnami piallati. E S. Giovanni Crisostomo descrive gli scherni degli uomini corrotti contro il pio Noè. « O vecchio che rimbambisci! O falso profeta: non vedi com’è terso il cielo mentre tu minacci diluvio? ». E Noè picchia il martello senza posa. E quelli: « Tutti amano goder aria libera e cielo spazioso e costui vuol farsi una cassa di legno per chiudersi vivo con la sua famiglia e con le bestie e con la roba». E Noè ha finito l’arca e vi entra. E la gente a correre in giro con urla, con fischi, con feroci dispetti. Ma dopo sette giorni le cateratte del cielo s’aprirono con fragore immenso: ogni fonte straboccò, ogni fiume straripò, e le onde del mare inondarono la terra. Tutti perirono nel diluvio universale: ma l’arca galleggiava sull’acque verdastre, E Noè lodava il Signore. La nostra vita, quaggiù, per noi, è come l’Arca di Noè. Ogni opera buona è motivo di scherno e di persecuzione per i nemici di Dio. Non cediamo, non vergogniamoci del Vangelo. Non erubesco Evangelium. Quando il rispetto umano sta per renderci vili, ricordiamoci delle parole che Cristo ci dirà nel giudizio: «Perché tu hai avuto vergogna di me, davanti agli uomini, io pure avrò vergogna di te, davanti al Padre mio ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XLVI:6. Ascéndit Deus in jubilatióne, et Dóminus in voce tubæ, allelúja.

 Secreta

Sacrifícia nos, Dómine, immaculáta puríficent: et méntibus nostris supérnæ grátiæ dent vigórem.

[Queste offerte immacolate, o Signore, ci purífichino, e conferiscano alle nostre ànime il vigore della grazia celeste.].

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joannes. XVII:12-13; 15 Pater, cum essem cum eis, ego servábam eos, quos dedísti mihi, allelúja: nunc autem ad te vénio: non rogo, ut tollas eos de mundo, sed ut serves eos a malo, allelúja, allelúja.

[Padre, quand’ero con loro ho custodito quelli che mi hai affidati, allelúia: ma ora vengo a Te: non Ti chiedo di toglierli dal mondo, ma di preservarli dal male, allelúia, allelúia.]

Postcommunio.

Orémus.

Repléti, Dómine, munéribus sacris: da, quæsumus; ut in gratiárum semper actióne maneámus.

[Nutriti dei tuoi sacri doni, concedici, o Signore, Te ne preghiamo: di ringraziartene sempre.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

FESTA DELL’ASCENSIONE (2022)

ASCENSIONE DEL SIGNORE (2022).

Stazione a S. Pietro,

Doppia di I cl. con ottava privilegiata di III ord. – Paramenti bianchi.

Nella Basilica di S. Pietro, dedicata a uno dei principali testimoni dell’Ascensione del Signore, si celebra oggi (Or.) l’anniversario di questo mistero, che segna il termine della vita terrena di Gesù. Durante i quaranta giorni, che seguirono la sua Risurrezione, il Redentore pose le basi della sua Chiesa, alla quale doveva poco dopo mandare lo Spirito Santo. L’Epistola e il Vangelo di questo giorno riassumono tutti gli insegnamenti del Maestro. Gesù lascia quindi questa terra, e tutta la Messa è la celebrazione della Sua gloriosa elevazione in cielo dove gli fanno scorta le anime liberate, dal Limbo (Ali.) che entrano al suo seguito nel regno celeste, ove partecipano più ampiamente alla sua divinità (Pref.). — L’Ascensione ci predica il dovere di innalzare i nostri cuori a Dio e infatti, l’Orazione ci fa chiedere di abitare in ispirito con Gesù nelle regioni celesti, dove siamo chiamati ad abitare un giorno con il corpo. Durante tutta l’Ottava si recita il Credo: «Credo in un solo Signore Gesù Cristo Figlio unico di Dio… che è asceso al cielo, dove siede alla destra del Padre ». Il Gloria dice pure: « Signore, Figlio unico di Dio Gesù Cristo, tu che siedi alla destra  del Padre, abbi pietà di noi. Nel Prefazio proprio che si recita fino alla Pentecoste, si rendono grazie a Dio pel fatto che « il Cristo risorto, dopo essere apparso a tutti i suoi discepoli, si sia innalzato in cielo sotto i loro sguardi ». Durante tutta l’Ottava si recita ugualmente un Communicantes proprio a questa festa; con esso la Chiesa ci ricorda che « celebra il giorno sacrosanto nel quale Nostro Signore, Figlio unico di Dio, si degnò di introdurre nella gloria e porre alla destra del Padre la nostra fragile carne ». alla quale si era unito nel Mistero dell’Incarnazione. – Ogni giorno la liturgia ci ricorda, all’Offertorio (Suscipe Sancta Trinitas) e al Canone (Unde et memores) che essa, secondo l’ordine del Signore, offre il Santo Sacrificio « in memoria della beatissima passione di Gesù Cristo, della sua risurrezione dalla tomba, e della sua gloriosa Ascensione al cielo ». Infatti l’uomo è salvato solo per l’unione dei misteri della Passione e della Risurrezione con quello dell’Ascensione. « Per la tua morte e per la tua sepoltura, per la tua santa risurrezione, per la tua mirabile Ascensione, liberaci, Signore » (lit. dei Santi). — Offriamo a Dio il Sacrifizio divino « in memoria della gloriosa Ascensione del Figliuol Suo » affinché, liberati dai mali presenti, giungiamo con Gesù alla vita eterna (Secr.).

Incipit


In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus


Acta 1:11.
Viri Galilæi, quid admirámini aspiciéntes in cœlum? allelúia: quemádmodum vidístis eum ascendéntem in cœlum, ita véniet, allelúia, allelúia, allelúia.


[Uomini di Galilea, perché ve ne state stupiti a mirare il cielo? allelúia: nello stesso modo che lo avete visto ascendere al cielo, così ritornerà, allelúia, allelúia, allelúia].

Ps XLVI:2
Omnes gentes, pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exsultatiónis.


[Applaudite, o genti tutte: acclamate Dio con canti e giubilo.]

Viri Galilæi, quid admirámini aspiciéntes in cœlum? allelúia: quemádmodum vidístis eum ascendéntem in cœlum, ita véniet, allelúia, allelúia, allelúia.

[Uomini di Galilea, perché ve ne state stupiti a mirare il cielo? allelúia: nello stesso modo che lo avete visto ascendere al cielo, così ritornerà, allelúia, allelúia, allelúia].

Oratio

Orémus.
Concéde, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, qui hodiérna die Unigénitum tuum, Redemptórem nostrum, ad coelos ascendísse crédimus; ipsi quoque mente in coeléstibus habitémus.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che noi, che crediamo che oggi è salito al cielo il tuo Unigenito, nostro Redentore, abitiamo anche noi col nostro spirito in cielo].

Lectio

Léctio Actuum Apostólorum.
Act 1:1-11

Primum quidem sermónem feci de ómnibus, o Theóphile, quæ coepit Iesus facere et docére usque in diem, qua, præcípiens Apóstolis per Spíritum Sanctum, quos elégit, assúmptus est: quibus et praebuit seípsum vivum post passiónem suam in multas arguméntis, per dies quadragínta appárens eis et loquens de regno Dei. Et convéscens, præcépit eis, ab Ierosólymis ne discéderent, sed exspectárent promissiónem Patris, quam audístis -inquit – per os meum: quia Ioánnes quidem baptizávit aqua, vos autem baptizabímini Spíritu Sancto non post multos hos dies. Igitur qui convénerant, interrogábant eum, dicéntes: Dómine, si in témpore hoc restítues regnum Israël? Dixit autem eis: Non est vestrum nosse témpora vel moménta, quæ Pater pósuit in sua potestáte: sed accipiétis virtútem superveniéntis Spíritus Sancti in vos, et éritis mihi testes in Ierúsalem et in omni Iudaea et Samaría et usque ad últimum terræ. Et cum hæc dixísset, vidéntibus illis, elevátus est, et nubes suscépit eum ab óculis eórum. Cumque intuerétur in coelum eúntem illum, ecce, duo viri astitérunt iuxta illos in véstibus albis, qui et dixérunt: Viri Galilaei, quid statis aspiciéntes in coelum? Hic Iesus, qui assúmptus est a vobis in coelum, sic véniet, quemádmodum vidístis eum eúntem in coelum.

“Io primieramente ho trattato, o Teofìlo, delle cose che Gesù prese a fare e ad insegnare in fino al dì, ch’Egli fu accolto in alto, dopo aver dato i suoi comandi per lo Spirito Santo agli Apostoli ch’Egli aveva eletti. Ai quali ancora, dopo aver sofferto, si presentò vivente, con molte e sicure prove, essendo da loro veduto per lo spazio di quaranta giorni e ragionando con essi delle cose del regno di Dio. E trovandosi con essi, comandò loro che non si partissero da Gerusalemme, ma aspettassero la promessa del Padre, che, diss’Egli, avete da me udita. Perocché Giovanni battezzò con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo fra pochi giorni. Essi adunque, stando con Lui, lo domandarono, dicendo: Signore, sarà egli in questo tempo, che tu restituirai il regno ad Israele? Ma Egli disse loro: Non spetta a voi conoscere i tempi e le stagioni, che il Padre serba in poter suo. Ma voi riceverete la virtù dello Spirito Santo, che verrà sopra di voi e mi sarete testimoni e in Gerusalemme e in tutta la Giudea e nella Samaria e fino alle estremità della terra. E dette queste cose, levossi a vista loro: e una nuvola lo ricevette e lo tolse agli occhi loro. E com’essi tenevano ancora fissi gli occhi in cielo, mentre se ne andava, ecco due uomini si presentarono loro in candide vesti e dissero loro: Uomini Galilei, perché state riguardando verso il cielo? Questo Gesù che è stato accolto in cielo d’appresso voi, verrà nella stessa maniera che l’avete veduto andarsene in cielo -.

Alleluia


Allelúia, allelúia.

Ps XLVI:6.8
Ascéndit Deus in iubilatióne, et Dóminus in voce tubæ. Allelúia.

[Iddio è asceso nel giubilo e il Signore al suono delle trombe. Allelúia.]

Ps LXVII:18-19.
V. Dóminus in Sina in sancto, ascéndens in altum, captívam duxit captivitátem.
Allelúia.

 [Il Signore dal Sinai viene nel santuario, salendo in alto, trascina schiava la schiavitú. Allelúia.]

Evangelium


Sequéntia
sancti Evangélii secúndum Marcum.
Marc XVI:14-20

In illo témpore: Recumbéntibus úndecim discípulis, appáruit illis Iesus: et exprobrávit incredulitátem eórum et durítiam cordis: quia iis, qui víderant eum resurrexísse, non credidérunt. Et dixit eis: Eúntes in mundum univérsum, prædicáte Evangélium omni creatúræ. Qui credíderit et baptizátus fúerit, salvus erit: qui vero non credíderit, condemnábitur. Signa autem eos, qui credíderint, hæc sequéntur: In nómine meo dæmónia eiícient: linguis loquantur novis: serpentes tollent: et si mortíferum quid bíberint, non eis nocébit: super ægros manus impónent, et bene habébunt. Et Dóminus quidem Iesus, postquam locútus est eis, assúmptus est in cœlum, et sedet a dextris Dei. Illi autem profécti, prædicavérunt ubíque, Dómino cooperánte et sermónem confirmánte, sequéntibus signis.

“In quel tempo: Gesú apparve agli undici, mentre erano a mensa, e rinfacciò ad essi la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano prestato fede a quelli che lo avevano visto resuscitato. E disse loro: Andate per tutto il mondo: predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo: chi poi non crederà, sarà condannato. Ed ecco i miracoli che accompagneranno coloro che hanno creduto: nel mio Nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, maneggeranno serpenti, e se avran bevuto qualcosa di mortifero non farà loro male: imporranno le mani ai malati e questi guariranno. E il Signore Gesù, dopo aver parlato con essi, fu assunto in cielo e si assise alla destra di Dio. Essi se ne andarono a predicare per ogni dove, mentre il Signore li assisteva e confermava la loro parola con i miracoli che la seguivano.”

Recitato il Vangelo, viene spento il Cero pasquale, né più si accende, se non il Sabato di Pentecoste per la benedizione del Fonte.

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

IL MONDO INVISIBILE

Siamo al quarantesimo giorno della Risurrezione. Gesù condusse gli Apostoli fuori della città e li menò in cima al Monte Oliveto, rifacendo il cammino che aveva percorso con loro esattamente sei settimane addietro, la sera del Giovedì santo. Ma quale differenza di spirito! Allora verso la notte dell’agonia, ora verso il giorno del trionfo. Sulla cima Egli alzò un’ultima volta le mani a benedire i suoi Apostoli, poi i piedi forati si staccarono da terra, ed elevandosi in alto, partì da loro. Tutti tenevano il volto rivolto in su, guardando Lui che rimpiccioliva nella profondità del Cielo, illagato di luce; poi venne una nuvola e lo tolse alla loro vista, Cristo ormai era nella gloria del Padre, seduto alla sua destra. Quando gli Apostoli abbassarono gli occhi sulla terra che parve a loro sempre scolorata, sentirono che i desideri del cuore erano rimasti lassù, dietro allo scomparso, né giammai li potevano distogliere di lassù. A noi sarebbe parso meglio che Gesù non se ne fosse andato, che tutti avessero potuto vederlo con gli occhi, toccarlo con le mani, ascoltarlo con le orecchie. Ma se così fosse avvenuto la nostra fede avrebbe avuto minor merito, inoltre il nostro amore sarebbe stato meno puro e ancor troppo sensibile. Infine, v’è un’altra ragione, sulla quale intendo insistere. Se Gesù fosse rimasto in questo mondo visibile, non ci saremmo più abituati a sollevare pensieri e desideri al mondo invisibile che è il più importante, « poiché le cose visibili sono temporanee, mentre le cose invisibili sono eterne » (II Cor., IV, 18). Come una madre si nasconde per farsi cercare dai suoi piccini, così Gesù si è nascosto nel mondo invisibile perché noi ci sforzassimo di cercarlo « pur andando a tastoni » e di cercarlo là dove importa tenere il cuore, cioè il mondo invisibile. « Ricercate, dunque, le cose dell’alto, ove il Cristo dimora » (Col. III, 1). E perché ci fosse più facile questo contatto col mondo invisibile, Egli partendo promise di mandare lo Spirito Santo. Questa invisibile Persona divina avrebbe aiutato i buoni a distaccarsi dai beni passeggeri e insufficienti della terra, ed avrebbe condannato i cattivi che si avvinghiano perdutamente a questo mondo che si vede e che si tocca.

1. L’ESISTENZA DEL MONDO INVISIBILE

Ci sono dunque due mondi e lo diciamo nel « Credo » della Santa Messa: quello delle cose visibili e quello delle cose invisibili. Noi siamo nati in mezzo al primo, e sappiamo bene di che cosa sia formato: del sole e delle stelle, dell’aria e dell’acqua, dei monti. e delle pianure, delle piante e delle bestie, e soprattutto degli uomini e delle loro nazioni. Ma c’è pure un altro mondo, assai più vero di questo, assai più meraviglioso, assai più vicino a noi. Anzi ci viviamo in mezzo, eppure le nostre mani non lo toccano, e i nostri occhi non lo vedono, i nostri orecchi non lo sentono. Non meravigliamoci se i nostri sensi sono incapaci di percepire il mondo invisibile, perché essi non colgono che una minima parte di ciò che esiste: la più grande, la più bella realtà sfugge a loro. Se io dicessi ad un buon uomo della Etiopia, ignaro ancora della civiltà europea, che intorno a lui, anzi attraverso il suo stesso corpo passano parole misteriose, grida di gioia e urli di dolore, suoni d’ogni strumento e cori poderosi, egli mi guarderebbe stupefatto e penserebbe ch’io intenda raccontargli favole. Non può credere perché non ha mai visto le valvole per captare le onde marconiane. Prima che scoprissimo la radio, anche a noi europei simili cose apparivano un sogno irrealizzabile. Ebbene, Cristiani: se a qualcuno sentendomi parlare del mondo invisibile venisse il sospetto che sia tutto un sogno, si ricordi che noi ora siamo nelle condizioni di quel buon uomo d’Etiopia. Ci mancano le valvole adatte per captare le realtà del mondo invisibile. Ma un giorno, il giorno della nostra morte, le avremo. Intanto viviamo di fede; la fede nell’ascensione di Cristo nel mondo invisibile.

2. LE REALTÀ DEL MONDO INVISIBILE

a) La prima realtà del mondo invisibile è Dio. Colui che ha creato i cieli visibili, il sole abbarbagliante, i fiori coloriti, gli uomini che si vedono tra di loro, è invisibile. Il Dio onnipotente che esiste più realmente e più intensamente di tutti noi, non lo possiamo trovare coi nostri sensi. Un Vescovo francese al tempo di Luigi XIV, andò a visitare un’illustre famiglia e là domandò a un fanciullo di 8 anni, un ragazzetto sveglio, dopo d’aver preso un’arancia da un cestello che era sulla tavola: « Fanciullo mio ti voglio dare questa arancia, se tu mi dici dov’è Dio ». « E io, Mons. Vescovo, vi darò un intiero cestello pieno d’arance, se voi mi dite dove Dio non è ». Dio è dappertutto, eppure non lo vediamo. « Se uno è solo — è scritto nella Sacra Scrittura — io sono con lui. Rimuovi la pietra e li mi troverai, incidi il legno ed io son lì ». Anzi S. Paolo ha detto che noi siamo immersi in Dio: in Lui siamo, viviamo e respiriamo. Persuadiamoci, dunque di questa verissima realtà: non siamo mai soli, mai inosservati. Un Padre amorosissimo ci accompagna, un terribile osservatore ci scruta ogni momento la mente e il cuore. Ma una volta, il Dio invisibile ha voluto diventare una cosa che si vede. Per sua somma ineffabile misericordia, prese umana carne nel seno della Vergine Maria, e nacque in questo mondo sensibile. Per più di trent’anni visse come uno qualunque di noi: parlava; beveva, mangiava, camminava, soffriva. Poi ritornò nel suo mondo invisibile, dove ci ha promesso di preparare un posto per ciascuno di noi. Da allora più nessuno l’ha potuto vedere, eccetto qualche rarissimo e fortunato uomo. Lo vide, pochi anni dopo la sua scomparsa, Paolo quando nelle vicinanze di Damasco fu da Lui improvvisamente assalito, gettato nella polvere, disarmato e vinto amorosamente. Lo vide ancora, molti secoli dopo, Francesco d’Assisi sulla cima di una montagna, mentre sorgeva il sole, e si ebbe nel cuore uno smisurato amore per gli uomini, e nel corpo cinque piaghe spasimose. Lo vide pure, tre secoli fa, un’umile suora nel suo convento, Margherita Maria Alacoque e a lei diede grazia di rivelare le promesse e la devozione del suo Sacro Cuore. Per tutti noi però è come s’Egli non si fosse mostrato mai, tanto poca è l’esperienza che abbiamo della sua presenza. Ma nelle inesauste risorse del suo amore ci ha dato un segno che si vede e che si tocca, per dirigerci senza sbagliare verso la sua Persona che non si vede e non si tocca. Questo segno è la bianca e sottile Ostia consacrata: dove c’è quella, possiamo dire con certezza più che matematica che ivi c’è Gesù, vivo e vero, che non visto ci vede, che non udito ci ascolta. L’Eucarestia è il ponte che congiunge il mondo visibile col mondo invisibile. Con che amore, con che tremore dovremmo desiderarla e riceverla!

b) La seconda realtà del mondo invisibile sono gli Angeli. Voi tutti sapete che una notte alcuni pastori di Betlemme hanno visto gli Angeli, li hanno sentiti parlare, li hanno sentiti cantare mentre trasvolavano a schiere, e a schiere. Dicevano: « Gloria a Dio nel cielo, pace in terra agli uomini di buona volontà ». Tutti ricordano ancora che mentre S. Pietro dormiva nella prigione di Gerusalemme, proprio nella notte precedente il giorno fissato per ucciderlo, sopraggiunse un Angelo, che lo svegliò scuotendolo nel fianco, gli tolse le catene e gli disse. « Presto: buttati addosso il mantello e vieni con me ». Pietro senza rendersi conto di quello che faceva, ubbidì. Credeva fosse un sogno, ma si trovò nella strada libero e solo sotto le stelle. che illanguidivano ai primi soffi dell’alba (Atti, XII, 6-10). – Non so, se avete sentito che S. Filippo Neri volendo scansare una carrozza che gli veniva incontro in una corsa indiavolata, stava per cadere in una fossa profonda. E vi sarebbe caduto se una mano energica e pronta non l’avesse afferrato per un braccio: guardò e vide un Angelo che lo teneva stretto. Che meraviglie sono queste? Ma dunque degli Esseri splendidi e buoni ci sono ai fianchi senza che li possiamo vedere? Sì; essi vigilano sulle parrocchie, sulle nostre case, su ciascuno di noi. Nel regno del mondo sono soltanto i ricchi che possono permettersi il lusso di farsi servire; nel regno di Dio, tutti, anche il più miserrimo e diseredato, ha per servo e custode un Angelo. Come? chi è da più serve chi è da meno? Sì, perché il regno di Dio è regno d’Amore e non c’è gioia più cara che rendersi utili e donare agli altri. Vicini a noi miseri e indegni c’è sempre un Angelo splendido, amoroso, vigile, fedele, pronto all’aiuto: e non ci pensiamo. Vicino a ciascuna persona c’è un Angelo: e non ci badiamo. Nella nostra casa ci sono tanti Angeli: e non ce ne curiamo. Che perversa e ingrata ignoranza! c) Nel mondo invisibile abita infine la Madonna coi Santi. La Madre di Gesù, la tenerissima Madre nostra, essa pure è a noi invisibile. Si lasciò vedere nel secolo scorso a una fanciulla dalla grotta di Lourdes, ed ora spesse volte in quel luogo tocca e guarisce chi la chiama con fede e con amore, senza però farsi vedere. E con Lei sono tutti i Santi della Chiesa; con Lei son tutti i nostri cari morti che ci hanno preceduti col segno della fede. Non dobbiamo illuderci che siano lontani, che siano in un mondo al di là delle stelle, distaccati da noi fino alla nostra morte: no, ci sono vicini, facciamo con loro una medesima famiglia, che vive della medesima vita, che ama col medesimo Amore. Solo che essi non si rendono più presenti ai nostri sensi: come attori usciti dalla scena, ma che sono ancora là, sul palco, invisibili dietro le quinte.

CONCLUSIONE

Un poeta inglese ha immaginato l’impressione di Adamo quando. vide per la prima volta discendere l’oscurità della notte. Tutte le cose cominciarono a trascolorare, a perdere i loro contorni, a liquefarsi in una massa informe e scura. Sembrava che fosse la fine di tutto il mondo. Ma ecco improvvisamente luccicare la prima stella della sera. Espero; ecco l’esercito degli astri, ecco inaspettato sorgere il prodigio della luna. Tutta la creazione si fè più vasta allo sguardo del primo uomo attonito. Come avrebbe potuto immaginare che celate nella luce del giorno ci fossero tutte quelle cose? Come avrebbe potuto sapere, mentre erano visibili moscerini, insetti e foglie, che palpitavano nel cielo innumerevoli e immensi astri? (JOSEPH BLANCO WHITE, To Night). – Cristiani, quando intorno a noi discenderà la sera della morte, nessuna paura ci sgomenti: se questo mondo opaco delle cose visibili sembrerà svanire nel buio, da quel buio un altro mondo splendidissimo, e immenso, e beato affiorirà: il mondo invisibile. E lo vedremo. Vedremo Dio come è: vedremo la dolce e adorabile umanità di Cristo; vedremo il posto che Egli è salito a prepararci; ed ivi abiteremo con la Madonna, gli Angeli e i Santi e i nostri cari. E ripensando a questi giorni terreni, esclameremo attoniti: « Com’era poca e pallida cosa quella vita che allora ci sembrava tutto! ».

IL CREDO

Offertorium


Orémus
Ps XLVI:6.
Ascéndit Deus in iubilatióne, et Dóminus in voce tubæ, allelúia.
[Iddio è asceso nel giubilo e il Signore al suono delle trombe. Allelúia.]

Secreta


Súscipe, Dómine, múnera, quæ pro Fílii tui gloriósa censióne deférimus: et concéde propítius; ut a præséntibus perículis liberémur, et ad vitam per veniámus ætérnam.

[Accetta, o Signore, i doni che Ti offriamo in onore della gloriosa Ascensione del tuo Figlio: e concedi propizio che, liberi dai pericoli presenti, giungiamo alla vita eterna.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio


Ps LXVII: 33-34
Psállite Dómino, qui ascéndit super coelos coelórum ad Oriéntem, allelúia.

[Salmodiate al Signore che ascende al di sopra di tutti i cieli a Oriente, allelúia.]

Postcommunio


Orémus.
Præsta nobis, quǽsumus, omnípotens et miséricors Deus: ut, quæ visibílibus mystériis suménda percépimus, invisíbili consequámur efféctu.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente e misericordioso, che di quanto abbiamo ricevuto mediante i visibili misteri, ne conseguiamo l’invisibile effetto].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA QUINTA DOPO PASQUA (2022)

DOMENICA V DOPO PASQUA (2022)

Semidoppio. – Paramenti- bianchi.

La liturgia continua a cantare il Cristo risorto e ci invita, in questa settimana delle Rogazioni, ad unirci a quella preghiera con la quale il Salvatore ha chiesto a Dio di far partecipe, con l’Ascensione, la propria umanità di quella gloria che, come Dio, possiede fin dall’eternità (Off.). Anche noi possederemo un giorno questa gloria, poiché ci ha liberati dal peccato con la virtù del Suo Sangue (Intr., Comm.). Poiché Gesù Cristo partendosi da noi ci ha lasciato come consolazione « di poter pregare in nome suo, onde la nostra gioia sia perfetta », cosi domandiamo a Dio « per nostro Signore » di non rimanere senza frutto nella conoscenza di Gesù, affinché, credendo alla sua generazione da parte del Padre, (Vang.) noi meritiamo di entrare con lui nel Regno di suo Padre.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Isa. XLVIII: 20

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiate usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja.

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

Ps LXV: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: dà a Lui lode di gloria].

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

 Orémus.

Deus, a quo bona cuncta procédunt, largíre supplícibus tuis: ut cogitémus, te inspiránte, quæ recta sunt; et, te gubernánte, éadem faciámus.

[O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi súpplici di pensare, per tua ispirazione, le cose che son giuste; e, sotto la tua direzione, di compierle.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli.

Jac. I: 22-27

Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit. Qui autem perspéxerit in legem perfectam libertátis et permánserit in ea, non audítor obliviósus factus, sed factor óperis: hic beátus in facto suo erit. Si quis autem putat se religiósum esse, non refrénans linguam suam, sed sedúcens cor suum, hujus vana est relígio. Relígio munda et immaculáta apud Deum et Patrem hæc est: Visitáre pupíllos et viduas in tribulatióne eórum, et immaculátum se custodíre ab hoc sæculo.

“Carissimi: Siate osservanti della parola, e non uditori soltanto, che ingannereste voi stessi. Perché se uno ascolta la parola e non l’osserva, egli rassomiglia a un uomo che contempla nello specchio il suo volto naturale. Contemplato, se ne va, e subito dimentica come era. Ma chi guarda attentamente nella legge perfetta della libertà, e persevera in essa, diventando non un uditore smemorato, ma un operatore di fatti, questi sarà felice nel suo operare. – Se alcuno crede d’essere religioso, e non frena la propria lingua, costui seduce il proprio cuore, e la sua religione è vana. Religione pura e senza macchia dinanzi a Dio e al Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni, e conservarsi incontaminati da questo mondo”.

STUDIO E CURIOSITA’.

L’esposizione cristiana — ed è il Cristianesimo che noi, sulle orme degli Apostoli veniamo esponendo in queste spiegazioni — oscilla tra le verità più alte, trascendenti addirittura ed i concetti più umili, più pratici. Qualche volta il pensiero apostolico vola, tal altra cammina per vie piane, quasi trite. Abbiamo volato con Paolo, camminiamo oggi con S. Giacomo. Il quale è molto preoccupato dei pericoli della speculazione pura, anche religiosa. È facile illudersi e credere, per illusione, che il parlare molto di una cosa, o il meditarla profondamente, lo specularvi d’intorno voglia dire amarla per davvero. Illusione funesta sempre; ma più funesta quando la materia della illusione, sia religiosa; quando si creda religiosità o religione perfetta la speculazione teologica la più sottile e più alta. La speculazione ci vuole, perché noi uomini, anche nel campo religioso siamo esseri intelligenti, razionali: vogliamo capire. È un bisogno ed un dovere, è un ossequio a Dio: l’ossequio dell’intelligenza. Ma non basta, ma non è la cosa più importante. Perciò l’Apostolo dice ai fedeli: siate osservanti della Legge, non solo curiosi di essa. Mettetela in pratica, non appagatevi di conoscerla a perfezione. E continua osservando che il fare diversamente, il preferire la speculazione curiosa all’osservanza pratica, il guardare e sentire al fare, ancora il separare quello da questo, è un’illusione, un auto inganno. – E dopo avere insistito su questo concetto fondamentale, non con l’abilità del sofista, ma collo zelo dell’apostolo, conclude in un modo e con una formula anche più severamente e modestamente pratica, che per le sue qualità apparenti, può anche scandalizzare, ma che importa rammentare sempre per fare del buon Cristianesimo, fare della religione autentica. La quale consiste, dice l’Apostolo (e adopera la parola « religione pura ed immacolata presso Dio e il Padre ») nel « visitare i pupilli e le vedove tribolate ed oppresse, custodendo il proprio cuore senza macchia fra la corruttela del nostro secolo ». Visitare i pupilli e le vedove tribolate, oppresse; notoriamente i deboli sono stati il bersaglio della perversità vile. E nessuno è così tipicamente debole come la vedova coi suoi orfanelli. Le anime pagane approfittano di queste debolezze per opprimerle e spogliarle ed angariarle: prendono quel poco che c’è, spogliano di quel nulla che è rimasto. Le anime pagane… le quali proprio così, proprio in questo assalto ostile, cupido avido al poco benessere di questi deboli, si rivelano tali: pagane. Ed è inutile che ostentino così facendo, così trattando il prossimo, sentimenti buoni di adorazione, di amore per il loro Dio, per Iddio. L’abito religioso su queste anime egoistiche è una maschera, che non inganna nessuno, certo non inganna Dio. La pietà verso di Lui si rivela e traduce in modo irrefragabile solo nella carità operosa, benefica verso i poveri, anzi verso quei poveri che non sono più poveri, verso quelli dei quali chi fa il bene non ha nulla da umanamente ripromettersi, tanto sono poveri e miseri! I pupilli e le vedove, bersagliati, oppressi. Il linguaggio apostolico è di una singolare chiarezza. Senza questa carità o attuata, o almeno sinceramente voluta, non c’è religione, c’è una lustra di Cristianesimo. Ma basta questa carità, perché si possa dire religiosa un’anima? Basta? Delicato problema, ma a cui si può sicuramente rispondere: Se c’è in un’anima carità sincera, senza secondi fini, senza alterazioni innaturali, c’è la religione, almeno embrionalmente. Non c’è ancora la pienezza, c’è già il principio: non c’è ancora l’albero, c’è già il germe. Non siamo all’arrivo; siamo alla partenza per… verso la religione, verso Dio. Ecco perché noi possiamo predicare a tutti i nostri uditori, a quelli che hanno ancora la fede e a quelli che non l’hanno forse mai avuta, che forse l’hanno disgraziatamente perduta: siate caritatevoli, cioè fate la carità, e avrete nell’anima l’aurora e il meriggio di Dio.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Alleluja

Allelúja, allelúja.

Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúja.

[Il Cristo è risuscitato e ha fatto sorgere la sua luce su di noi, che siamo redenti dal suo sangue. Allelúia.]

Joannes XVI: 28

Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúja.

[Uscii dal Padre e venni nel mondo: ora lascio il mondo e ritorno al Padre. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann XVI:23-30

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Amen, amen, dico vobis: si quid petiéritis Patrem in nómine meo, dabit vobis. Usque modo non petístis quidquam in nómine meo: Pétite, et accipiétis, ut gáudium vestrum sit plenum. Hæc in provérbiis locútus sum vobis. Venit hora, cum jam non in provérbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiábo vobis. In illo die in nómine meo petétis: et non dico vobis, quia ego rogábo Patrem de vobis: ipse enim Pater amat vos, quia vos me amástis, et credidístis quia ego a Deo exívi. Exívi a Patre et veni in mundum: íterum relínquo mundum et vado ad Patrem. Dicunt ei discípuli ejus: Ecce, nunc palam loquéris et provérbium nullum dicis. Nunc scimus, quia scis ómnia et non opus est tibi, ut quis te intérroget: in hoc crédimus, quia a Deo exísti.

[“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: In verità in verità vi dico, che qualunque cosa domandiate al Padre nel nome mio, ve lo concederà. Fino adesso non avete chiesto cosa nel nome mio: chiedete, e otterrete, affinché il vostro gaudio sia compito. Ho detto a voi queste cose per via di proverbi. Ma viene il tempo che non vi parlerò più per via di proverbi, ma apertamente vi favellerò intorno al Padre. In quel giorno chiederete nel nome mio: e non vi dico che pregherò io il Padre per voi; imperocché lo stesso Padre vi ama, perché avete amato me, e avete creduto che sono uscito dal Padre. Uscii dal Padre, e venni al mondo: abbandono di nuovo il mondo, e vo al Padre. Gli dissero i suoi discepoli: Ecco che ora parli chiaramente, e non fai uso d’alcun proverbio. Adesso conosciamo che tu sai tutto, e non hai bisogno che alcuno t’interroghi: per questo noi crediamo che tu sei venuto da Dio”].

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

LA PREGHIERA E LA VITA ETERNA

Lontano dalla casa paterna, in cammino verso una terra ignota, Giacobbe giunse sul finir del giorno in una landa solinga e brulla. Era stanco; e, presa una delle pietre che erano colà, se la mise sotto il capo e si addormentò. In sogno vide una scala drizzata in alto, il cui piede poggiava sul deserto e la cui cima toccava il firmamento. Dio stesso era seduto sul gradino supremo, e due lunghe teorie d’Angeli, l’una che discendeva l’altra che ascendeva, percorrevano la scala misteriosa, recando messaggi. Quando il patriarca si svegliò dal suo sonno, disse: « Veramente il Signore abita in questo luogo, ed io non lo sapevo » (Gen., XXVIII, 16). Di questa scala misteriosa, oggi, vi voglio parlare. Non crediate cercarla lontano da voi, perché il luogo donde essa s’innalza è il vostro cuore. Questa scala è la preghiera. Per essa gli Angeli, messaggeri di amore, salgono e scendono: salgono portando a Dio i bisogni, le necessità, i desideri degli uomini e scendono portando agli uomini le grazie, i doni, i favori di Dio. E il Signore noi lo troviamo sempre in cima a questa scala, sempre pronto a tendere l’orecchio misericordioso per raccogliere il gemito e il sospiro che sale dal basso. Che mirabile cosa è la preghiera! Una volta Dio adirato sta per lanciare lo sterminio contro il popolo d’Israele. Mosè prega: e Dio ritira la sua vendetta. Un’altra volta il popolo eletto, dopo una giornata di battaglia, è sorpreso dalla sera senza aver potuto dare il colpo decisivo; eppure era necessario che il nemico non avesse una notte in mezzo da potersi rifare. Allora Giosuè prega: ed ecco il sole arrestarsi sull’orizzonte e prolungare la giornata di qualche ora. Tre fanciulli innocenti son cacciati per ordine d’un re iniquo nella fornace ardente. Nel fuoco pregano: e la fiamma perde la sua natura distruggitrice e li accarezza senza bruciarli. Daniele è calato in una caverna piena di leoni, affamati. Il profeta prega e le belve accovacciate a’ suoi piedi gli fanno una fedele compagnia. La terra di Palestina è tormentata dall’arsura; ogni erba è morta, e i campi gemono, screpolandosi per il secco. Elia prega: e il cielo in poco tempo si annuvola e piove. Ma perché dovrò io contare altri esempi? Udite tutti la parola che Gesù Cristo ci grida oggi dal suo Vangelo: Amen, Amen! In verità, in verità! « Qualunque cosa chiederete al padre in mio nome, l’otterrete: ve lo dico Io! Su dunque, domandate, perché il Padre vi ama ed è contento se gli chiedete grazie Domandate! Petite, ut gaudium vestrum sit plenum. Da soli, con le nostre forze soltanto, non siamo capaci che di fare il male. Ogni nostro dovere, anche il più piccolo è superiore alle nostre energie: è necessario per compiere salutarmente che Dio ci aiuti con la sua grazia. Ma, di solito, non si ottiene grazia se non per la preghiera. Tanto meno poi si può entrare in Paradiso, senza di essa: si entrerà senza il battesimo di acqua, ma senza la preghiera, no! Domandate, se volete la vostra allegrezza ». Ma perché allora un dovere tanto essenziale è così trascurato? Perché nel mondo non si prega più? La preghiera è indispensabile agli uomini. Eppure non si prega. Ecco la contraddizione che dobbiamo meditare per ricavarne un proposito di salvezza. – LA PREGHIERA È INDISPENSABILE. A Roma, Daria la santa sposa di Crisanto fu imprigionata, perché era cristiana ed aveva convertito una folla di donne dall’idolatria alla vera religione. Ogni tormento fu escogitato per lei; ogni seduzione diabolica fu messa in opera per rovesciare la sua virtù. Da ultimo fu condotta in luoghi infami, ma Daria levati gli occhi e le mani al cielo pregò. Ed ecco vicino a lei apparire un leone fulvo e maestoso, pronto ad azzannare chiunque osasse molestarla ancora. Dum in oratione fixa est, leonis tutela a contumelia divinitus defenditur (Brev. Ambr., Die XXI Oct.). O Cristiani, e la nostra anima in questa vita non è circondata da terribili nemici come santa Daria? Quanti tormenti il demonio non escogita anche per noi! Quante tentazioni non mette in opera! Anzi il mondo intiero, in mezzo al quale viviamo, è una tentazione continua, esasperante. Tutte le condizioni della vita, tutte le cose che ci attorniano, sembrano d’accordo in una lega infernale per tramare la nostra perdita. Se siamo ricchi, le ricchezze ci fanno dimenticare l’anima inclinandoci verso i sedimenti sensuali. Se siamo poveri, la povertà ci inasprisce, e ci fa maledire la Provvidenza divina. Quando gli affari vanno bene ci abbandoniamo all’allegria mondana. Quando vanno male, ci lasciamo abbattere dalla disperazione. Quando ci troviamo onorati e collocati in alto, subito la superbia ci gonfia. Quando siamo calunniati e disprezzati, l’odio e la vendetta mordono il nostro cuore. Se siamo giovani e sani, ci sono le passioni gagliarde dei sensi. Se siamo vecchi e malati, ci sono i malumori e le mormorazioni. Nel fondo di miseria in cui è costretto a vivere, quale speranza di salute resta ancora all’uomo? la preghiera. Essa è il leone della nostra forza. Non c’è salvezza, senza la preghiera! Non siete Cristiani, senza la preghiera! a) Ecco un’anima che trovasi alle prese con una tentazione sensuale che la domina, con una abitudine di peccato dalla quale è tiranneggiata: di giorno e di notte, in solitudine e in compagnia. Essa si lamenta, vorrebbe liberarsene, e la forza le manca. C’è un rimedio solo: la preghiera. Come la lucerna trema se l’olio scarseggia, e si spegne se l’olio le manca, così la fede è incerta quando si prega poco, ed è morta quando non si prega più. « Signore! — gridava S. Pietro — aiuta la mia fede, ché io temo ». b) Ecco infine altre anime: accasciate sotto il peso delle tribolazioni, sono stanche di patire, sono stanche di piangere. Eppure, nuove disgrazie, altri dispiaceri costringono a patire ancora, a piangere ancora. Anche per queste c’è un rimedio, ed uno solo: la preghiera. Come i polmoni sofferenti hanno bisogno di un largo e fresco respiro, così il loro cuore ambasciato ha bisogno di tanta preghiera. « C’è qualcuno di voi in tristezza? — scrive S. Giacomo — Preghi e gli passerà » (Giac., V, 13). E Gesù buono dice: «Voi che faticate e sopportate venite a me per ristorarvi ». Per andare a Gesù bisogna salire la scala dell’orazione. – EPPURE NON SI PREGA. La fanteria e la cavalleria numerosissima di Oloferne assediò un giorno la città di Betulia. Alcune spie si presentarono al capitano sanguinario e gli dissero: « Oloferne! se vuoi vincere gli Israeliti senza combattere, togli a loro l’acqua e metti guardie a tutte le fontane, sicché non vi possano attingere senza perire a fil di spada ». Oloferne tagliò l’acquedotto che dava da bere alla città; e poiché vide che non lungi dalle mura v’erano delle fonti, a cui di sfuggita gli assediati correvano a bere, ordinò che fossero custodite in ogni momento. Passati venti giorni in cui al popolo di Betulia si distribuiva l’acqua a dosi sempre più scarse, la città non ebbe più goccia da bere. Allora uomini e donne, giovani e fanciulle, si radunarono a piangere e ad urlare. « Noi moriamo di sete davanti agli occhi del nostro nemico. Arrendiamoci tutti spontaneamente all’arbitrio di Oloferne » (Giud., VII). Oloferne, o Cristiani, è il demonio ed il suo antico stratagemma non l’ha dimenticato. Far morire le anime di sete! Togliete la preghiera dal mondo, e tutto il mondo assetato si abbandonerà a discrezione nelle mani dell’eterno nemico. Volgete lo sguardo intorno: perché il mal costume e l’incredulità dilagano? Perché tanta rovina di anime? Perché non si prega più! Io parlo di tante famiglie dove non solo si è dimenticato l’Angelus Domini a mezzogiorno, ma anche il Rosario alla sera. Io parlo di tanti e di tante che passano tutte le mattine e le sere senza pregare Dio, ed è molto per loro farsi un segno della croce mentre si spogliano o si vestono. Parlo di tutti quelli che non hanno provato ad ascoltare altra Messa, fuor di quella di precetto, che non hanno provato a ricevere la santa Comunione se non in tempo pasquale. Parlo di quelli che hanno l’abitudine di mormorare o di bestemmiare, ma non quella di ripetere ferventi giaculatorie. Povera gente, come farà a salvare l’anima? Ma io non sono capace di pregare. Non immaginate che per pregare sia necessario un lume speciale, una secreta conoscenza dei misteri della fede, un metodo scientifico. Niente di tutto questo: la preghiera è il sospiro che si leva dall’anima commossa davanti alla sua miseria. L’anima parla a Dio, come un amico all’amico; s’affligge d’averlo offeso; si sforza di piacere a Lui, e a Lui solo. Quando parlate con vostro padre, quando gli narrate i vostri crucci e gli chiedete aiuto, forse che andate rimuginando le parole, e almanaccate le cose che gli dovete dire? No: ognuno dice quello che dal suo cuore trabocca. Così dobbiamo fare con Dio, ch’è nostro Padre, quando preghiamo. – Ma io non ho tempo di pregare, sono troppo occupato dagli affari. O Cristiani, chi dice così non ha capito niente di quello che è la preghiera. Senza la preghiera non potete salvare l’anima; e salvar l’anima è l’affare più vero e più necessario. Ma io m’annoio a pregare e mi distraggo continuamente. È perché il vostro cuore è immerso nelle vanità del mondo: voi amate le creature, le ricchezze, le passioni e non volete bene al Signore. Anche gli Israeliti quando cominciarono a riempire il loro ventre coi frutti della terra, perdettero il gusto della manna che scendeva dal cielo (Gios., V, 12). Ma io non prego più perché non ottengo niente. O non pregate bene, o non pregate abbastanza, oppure v’ingannate. Anche quando sembrerà a voi di non essere esauditi, ricordatevi che Dio nella sua bontà sta preparandovi grazie molto più grandi di quelle che gli chiedete. – Il convento di S. Francesco da Paola in Calabria era aggrappato alla costa d’un monte. Forse per lo sgelo, e forse per altro, un mattino di primavera si staccò dalla vetta un macigno colossale che rotolando di balza in balza devastava le foreste ed ogni cosa sul suo cammino. All’orrendo rimbombo i frati escono in cortile e vedono: fu un urlo di terrore. Ma S. Francesco, ch’era in mezzo a loro, sollevò le mani e pregò. Ecco il macigno balzare un’ultima volta e poi fermarsi miracolosamente, non molto sopra al convento. Qual forza misteriosa lo aveva arrestato nella discesa irrefrenabile? La preghiera. Nella vita, ci sono dei giorni in cui sopra il nostro capo sta per cadere un macigno e schiacciarci: forse è una sciagura materiale e più spesso è una sciagura spirituale. Talvolta è sopra la nostra famiglia che gravita la sventura, talvolta è sopra un’intera nazione. Oh se non ci fosse la preghiera ad arrestare la valanga della vendetta di Dio? Oh se non ci fossero tante anime nei conventi e nelle clausure e nelle famiglie stesse che pregano per i peccati del mondo, quanti si troverebbero addosso la morte, improvvisa come un macigno che rotoli dall’alto, e dalla morte sarebbero già stati travolti nell’eterna rovina!

I DIFETTI DELLA PREGHIERA. « Come si spiega allora, — pensano alcuni, — che molte volte ho pregato ed il Signore ha fatto il sordo con me? » Non diamo la colpa al Signore quando la colpa è tutta nostra: se non abbiamo ottenuto è perché abbiamo pregato male. Non accipitis eo quod male petatis (Giac. IV, 3). E S. Agostino spiega: « Non ricevete o perché voi siete cattivi, o perché domandate cose cattive, o perché pregate malamente ». Non accipitis eo quod mali, mala, male petatis. Consideriamo, ad uno ad uno, questi difetti che rendono vana la nostra preghiera. – EO QUOD MALI. Il re Antico si vide perduto (II Macc., IX). Era stato scacciato da Persepoli vergognosamente; ed anche i suoi generali, Nicanore e Timoteo, erano stati sconfitti dai Giudei. Il Signore poi, che tutto vede, lo faceva spasimare con un lancinante dolore di visceri. E quasi non bastasse, mentre spingeva a corsa impetuosa il suo cocchio, il cavallo impennatosi lo sbalzò sulla strada, ammaccandolo in tutte le membra. Quando quest’uomo perfido, che aveva sognato di comandare alle onde del mare e di pesare sulla sua stadera le cime dei monti, si vide sbattuto a terra, quando vide la sua carne sfasciarsi e marcire viva in un fetore a cui egli stesso non sapeva più resistere, allora rivolse a Dio la sua preghiera. « È giusto ch’io mi sottometta al Signore… ». E pregandolo, promise che avrebbe dato libertà a Gerusalemme che poco prima aveva pensato di ridurre a cimitero; promise di restituire l’oro e l’argento che aveva sacrilegamente rubato nel tempio; promise di rispettare quei Giudei che non reputava degni neppur di sepoltura ma che avrebbe voluto sterminare e lasciarli in preda agli avvoltoi e alle belve; promise perfino di farsi circoncidere e diventare anch’egli uno del popolo di Dio. Quante promesse! E quale fervore in questa preghiera! Eppure i dolori non cessarono, eppure non guarì. Tra le montagne selvagge e rocciose, lungi dal suo paese, abbandonato da tutti, come l’ultimo miserabile del mondo, disperatamente moriva Antioco, il re. Perché Dio, che è sì buono, non ha esaudito la sua preghiera? Orabat hic autem scelestus (Macc. IX, 13). Con cuore iniquo e senza aver rinnegato alla sua malizia, costui pregava Dio, a quo non esset misericordiam consecuturus, dal quale non avrebbe giammai ottenuto grazia. Pensiamo un poco: noi, che spesso ci lamentiamo di non essere esauditi nella preghiera, come stiamo di coscienza? Come pretendere che Dio ci ascolti se siamo in peccato? Il peccato ci fa servi del demonio: e noi dopo aver servito il demonio, abbiamo il coraggio di domandare la paga al Signore? Il peccato ci fa nemici di Dio: e noi pretendiamo che Egli aiuti i suoi nemici i quali si beffano in Lui, e saranno peggio che prima? Il Signore non è come gli uomini che vedono appena la vernice esterna, ne scruta nel cuore. Possono essere belle e buone le parole che gli diciamo, ma se il nostro animo è cattivo non saremo esauditi; bensì riceveremo il rimprovero che Gesù lanciò in faccia agli ipocriti farisei: « Questa gente mi onora con la bocca, ma il loro cuore è lontano da me. Vi dico che mi onora inutilmente ». (Mt. XV, 8). Quante volte ancor noi abbiamo pregato con la bocca mentre il nostro cuore era lontano: con una creatura, con un divertimento, con una passione, col demonio. Perciò non fummo esauditi. – EO QUOD MALA. « Finora, — diceva Gesù, — non avete chiesto cosa alcuna nel mio nome: domandatela e la riceverete ». Che cosa significa domandare nel Nome del Salvatore? Significa chiedere cose che riguardano la nostra eterna salvezza. A quanti Gesù potrebbe rispondere la parola che disse ai figli di Zebedeo: « Voi non sapete cosa domandate » (Mt. XX, 22). Purtroppo la nostra debolezza ci china verso terra e ci mette la benda sugli occhi circa l’ultimo fine della vita. Infatti, che cosa si domanda da tanti? Forse la luce della verità, forse l’amore della virtù, l’aumento della grazia? No, non è così. Si domanda una vita senza croci, piena di ricchezze, di onori, si domanda che questa terra che è valle d’esilio diventi un paradiso. E spesso questi beni sono la rovina di molte anime. Quanti se non fossero stati ricchi ora sarebbero in Paradiso; quanti se non fossero saliti tanto in alto tra gli uomini, ora non sarebbero discesi tanto in basso tra i demoni; quanti, se a tempo opportuno avessero avuto una croce, una malattia, la morte, ora non gemerebbero per sempre nel fuoco eterno! Ecco perché Iddio, che ha la vista più lunga della nostra, non sempre ci esaudisce quando gli chiediamo i beni del mondo. Chi è quella madre che darebbe a suo figlio per giocare un rasoio, le forbici, gli aghi? E voi pensate che Dio non faccia per le anime nostre quello che anche noi sappiamo fare con i nostri figliuoli? Il Signore disse un giorno a Salomone: « Domandami quel che vuoi e l’avrai ». Oh se facesse a noi questa domanda! Chiederemmo subito una vita lunga come quella di Matusalem, una forza terribile come quella di Sansone; chiederemmo ricchezze infinite. Invece Salomone rispose: « Dammi, o Signore, lo spirito della sapienza che guidi i miei passi sulla retta strada, e non ti abbia ad offendere mai ». E Dio fu commosso da questa risposta e aggiunse: « Giacché non mi hai domandato un bene fugace del mondo, ma un bene eterno, abbiti non solo la sapienza, ma anche un regno florido e ricchezze, e onori, tutto ». Ricordiamo anche noi, quando preghiamo, la parola di Gesù: « Cercate soprattutto il regno di Dio e la sua giustizia; il resto vi sarà dato per giunta ». – EO QUOD MALE PETATIS. La preghiera talvolta non è esaudita perché fatta male: senza umiltà, senza sostanza, senza fiducia. a) Senza umiltà: Due uomini entrano nel tempio a pregare. Uno è un fariseo, l’altro è un pubblicano. Il fariseo, dritto davanti a Dio, non fa che esaltare se stesso e umiliare gli altri: « Grazie, o Signore, che non m’hai fatto un ladro, un ingiusto, un disonesto come gli altri, come quel pubblicano là in fondo ». Il pubblicano invece, là in fondo, non osava neppure levare gli occhi dal suolo e si batteva il petto e singhiozzava: « Signore, sii buono anche con me che son peccatore ». « Guardate — concluse Gesù, narrando la Parabola, — guardate che dal tempio uscì giustificato solo il povero ed umile pubblicano (Lc., XVIII, 14). b) Senza costanza: Un uomo, a mezzanotte in punto, batte alla porta d’un suo amico. « Amico, prestami tre pani. M’è capitata gente che ha fame in casa, ed io non ne ho più, nemmeno una briciola ». L’amico non viene neppure alla finestra e di dentro gli risponde: « Senti, mi dispiace, ma ho già chiuso tutta la casa. Io sono a letto, i miei figli anche: non vorrai farci alzare per darti del pane!… ». L’altro in piedi davanti alla porta chiusa non si scoraggia e comincia a battere. Batte una volta, due, tre… L’amico non può più dormire. Se non per amicizia, ameno per levarsi quella seccatura, si alza e lo esaudisce (Lc., XI, 5). Dunque bisogna pregare, senza scoraggiarsi, fin quando si ottiene quel che si domanda. Oportet semper orare et numquam deficere. Non lasciamoci vincere dal silenzio del Signore: più tarda la grazia e più bella sarà. Trenta anni ha pregato santa Monica per il suo figliuolo, ma poi quale grazia! Suo figlio fu un santo. c) Senza fiducia: Una donna vien dalla terra di Chanaan per far la sua preghiera a Gesù: « Signore! Figliuolo di Davide, pietà di me, che ho una figlia indemoniata! ». Gesù non la guarda, non le risponde nemmeno una parola. Non respondit ei verbum. Ma essa vuol essere esaudita. Gli va dietro, e non guardata piange, e non ascoltata prega, tanto che gli Apostoli ne sentono compassione: « Maestro — dicono — lasciala andare, non vedi come grida? — Gesù allora si volge e le dice burberamente: « Io son venuto per i Giudei e non per i Cananei ». La povera donna non è vinta da questo reciso rifiuto: vuole essere esaudita e va dietro sempre e non guardata piange e non ascoltata prega. Non capisci, — la rimprovera Gesù, — ch’io non posso strappare il pane di bocca ai figli per darlo ai cani? ». E quella donna accetta d’essere come un cane, anzi si chiama cagnolino; e nell’impeto della sua fede, risponde: « Sì, è vero, ma i cagnolini hanno le briciole che cadono dalla mensa del padrone. Anche per me, dunque una briciola, anche per mia figlia indemoniata una briciola… ». Gesù allora non poté più resistere e le rispose: « La tua fede è grande; sia fatto come tu vuoi ». In quel momento sua figlia guariva. È questa la fiducia delle nostre preghiere? –  Quando il re Demetrio mandò contro i Giudei un esercito poderoso, un capitano espertissimo, Giuda Maccabeo, raccolse i suoi soldati impauriti, e raccontò loro una visione che li rallegrò tutti. « Non temete! — disse; — nel cuor della notte m’è apparso un personaggio venerando per età e gloria e circonfuso di una magnifica maestà. A me che meravigliato guardavo, una voce disse: « Questi è l’amico dei fratelli e del popolo d’Israele, questi è colui che molto prega per noi e per la città santa: Geremia è, il profeta di Dio ». Allora Geremia, stendendo la destra, mi consegnò una spada d’oro, dicendomi: « Ricevi la spada santa dono di Dio, con la quale abbatterai i nemici d’Israele mio popolo ». Confortati da queste parole, i valorosi attaccarono battaglia, pregando. La vittoria fu compiutamente splendida: ritornando giubilanti attraverso i campi insanguinati s’accorsero che il capitano dei nemici era tra i morti. Allora, alzato un grido di trionfo, benedissero il Signore onnipotente (II Macc., XV). Cristiani, che siete impauriti davanti agli assalti continui delle tentazioni e del mondo, Cristiani che siete oppressi dalle tribolazioni, Cristiani che soffrite stanchi e aggravati, alzate gli occhi al cielo: nella gloria di Dio Padre v’è Uno sempre intento a pregare per noi. Semper vivens ad interpellandum pro nobis (Ebr., VII, 25). Assai più fortunati noi siamo dei guerrieri di Giuda, perché chi intercede senza posa per noi, non è un profeta, non è un semplice uomo, ma è lo stesso Figlio di Dio, Gesù Cristo. Ecco perché Egli stesso, nel suo Vangelo, ha promesso che la nostra preghiera sarà sempre esaudita: « Se voi domandaste qualsiasi cosa al Padre, in mio Nome, non vi sarà negata. Ma finora non avete mai pregato in mio Nome: su! Domandate e avrete; chiedete ed ogni vostra brama sarà compiuta ». La preghiera è la spada d’oro che Cristo consegna a ciascuno di noi: solo con essa supereremo ogni lotta della vita e abbatteremo il nostro nemico d’inferno. Solo con essa si sono formati i santi: noi ci meravigliamo davanti alla purezza di S. Luigi Gonzaga, all’umiltà di S. Carlo Borromeo, alla carità di S. Filippo Neri, come di cose favolose e impossibili. Sì, sarebbero state davvero cose favolose e impossibili, se questi uomini avessero pregato così poco e così male come noi. – Questa volta non è della preghiera in generale che vi voglio parlare. Già tutti avete sentito e siete convinti che la preghiera è necessaria all’anima, come al corpo il respiro; che chi prega si salva e chi non prega si danna. Oggi invece vi parlerò di un dovere quotidiano, dovere indispensabile che distingue il Cristiano di fede viva, dal Cristiano di fede morta. Nell’Antico Testamento, v’era una legge che obbligava gli Ebrei ad offrire due sacrifici al giorno: uno all’alba, l’altro al tramonto. Unum offeretis mane et alterum ad vesperum (Num., XXVIII, 4). Nel Nuovo Testamento, noi pure dobbiamo innalzare, al principio e alla fine di ogni giorno, un sacrificio di lodi che appunto si chiama preghiera del mattino e della sera.LA PREGHIERA DEL MATTINO. Milton, nel suo poema Il Paradiso perduto, descrive Adamo che, appena creato, apre gli occhi a contemplare le meraviglie del mondo. Vede i fiori coloriti, il verde dei boschi, vede l’azzurro del firmamento disteso sulla sua testa, e rapito in estasi manda un grido. « Mi slanciai e saltai verso il cielo come per toccarlo!» fa dire il poeta al primo uomo. Spontaneo come quello di Adamo deve essere, tutte le mattine appena apriamo gli occhi, lo slancio del nostro cuore impaziente di elevarsi a Dio. Comincia un altro giorno: un’altra pagina del libro di nostra vita. Oh se tutte le pagine cominciassero col santo Nome di Dio, di Gesù Salvatore, di Maria madre amorosissima, del nostro Santo protettore, del nostro Angelo custode, come ci troveremmo lieti quando, finita l’ultima pagina, dovremo consegnare il libro nelle mani della Giustizia Divina!…  Tutto prega alla mattina. Ecco ad oriente il cielo si sbianca: non sentite in questo momento come un invito universale a pregare? Venite adoremus Dominum, qui fecit nos! È la voce dei monti che si districano dalle tenebre; è la voce delle valli che come cappe smeraldine, si riempiono di luce; è la voce delle acque vicine o lontane, è la voce dei campi delle piante dei fiori; è la voce dei passeri che garriscono insieme sulla gronda del vostro tetto; è la voce del sole levante, del sole bello radioso, del sole, immagine di Dio nel suo grande splendore. Questi milioni di voci, che sorgono da ogni parte della terra, sono voci di adorazione e di ringraziamento: ma è una musica senza parole. Ci vogliono le parole: ma queste non le può dire che l’uomo. Non le potete dire che voi. E non le direte? Iddio ha sempre avuto un gran desiderio delle primizie. Dalla storia sacra conosciamo che i primi frutti del campo erano per Lui; i primi agnelli del gregge; le prime bestie dell’armento; il primo figliuolo d’ogni famiglia era per Lui. Questo suo amore per le cose prime, incontaminate, Dio lo conserva ancora ed esige da noi la primizia di ogni giorno. Il mondano quando si sveglia pensa ai piaceri, perché suo dio è la passione ed a lei offre le sue primizie. L’uomo avaro e affarista pensa all’interesse, perché suo dio è il danaro, e a lui offre le sue primizie. L’uomo superbo è smanioso d’emergere pensa agli onori, perché suo dio è l’ambizione e a lei offre le sue primizie. Ma noi, che siamo Cristiani di nome e di fatto, noi che per Dio abbiamo il Signore del cielo e della terra, il Creatore delle visibili cose e delle invisibili, doniamo a Lui le primizie di ogni nostra giornata. Ci sono alcuni che, per pigrizia o per occupazioni, spesse volte cedono alla tentazione di rimandare le preghiere: « Le dirò. dopo; prima devo far questa o quella osa; prima devo mangiare… ». L’esperienza insegna che orazioni tramandate sono orazioni tralasciate. E poi, se anche avessimo a dirle più tardi, non sarebbero primizie e perderebbero molto di valore. Nella santa scrittura Dio si paragona ad un viaggiatore mattutino che sta in piedi vicino alla porta, e batte perché gli sia aperto. Ecce sto ad ostium et pulso. Cristiani, non siate maleducati con Dio! Non fatelo attendere in anticamera! Ma la prima parola di ogni giorno sia: « avanti, Signor mio e Dio mio ». Per fortuna a questo mondo ci sono cuori generosi. Non solo si accontentano al mattino delle preghiere comuni, ma vogliono offrire a Dio una grande primizia: la S. Messa. Beate queste anime, a cui è dato di capire quello che altri non capiscono. Nel primo scampanio esse ascoltano la squilla del Gran Re e accorrono in Chiesa. Se è vero che il lavoro impedisce a molti d’ascoltare la S. Messa ogni giorno, è non meno vero che altri la trascurano per la sola pigrizia di alzarsi per tempo. Segno è che non riescono a comprendere che tesoro si gettano dietro le spalle. Io ripeterò le parole che S. Ambrogio diceva ai Milanesi: « È una vergogna che il primo raggio del sole vi trovi inerti nel letto, e che la luce venga a colpire occhi ancora imbambolati da una sonnolenta spossatezza; questo raggio ci rimprovera il lungo tempo perduto per i meriti e l’oblazione del sacrificio spirituale. Prevenite dunque l’aurora!… » (In Ps., CXVIII, n. 22). Si legge nel Vangelo che, essendosi Gesù avvicinato al letto di una fanciulla di dodici anni per risuscitarla, la prese per mano dicendo: « Fanciulla, alzati ». Ecco ciò che vi dice la mattina Gesù: vi comanda d’alzarvi e vi porge la mano. È una mano divina: stringetela, adoratela, baciatela con le vostre preghiere. Così trascorreranno i giorni e gli anni: alla fine dei secoli sentirete ancora la medesima voce, e vedrete la medesima mano: « Alzati! ». Sarà il risveglio di un giorno senza tramonto.LA PREGHIERA DELLA SERA. Una sera, uno dei più grandi ingegni del medioevo, il celebre Lanfranco, allora studente e più tardi Vescovo di Cantorbery, camminava verso Roano. Nel traversare una foresta, fu assalito e derubato dai ladri che poi lo legarono, mani e piedi, ad un albero e, tiratogli il cappuccio sugli occhi, lo abbandonarono. Tremante di spavento, umido di rugiada notturna, immobile, con gli occhi sotto il nero del cappuccio, comprese d’essere esposto a certa morte. Lontano s’udiva l’urlo di qualche belva randagia… Perduta ogni speranza umana, si ricordò di Dio, si ricordò ch’era sera e che era bene pregarlo. Cominciò le orazioni che fanciulletto tante volte aveva recitate, giunte le manine, a piè del letto; ma dopo le prime parole non seppe proseguire: non le ricordava più. Confuso e vergognoso di se stesso, si rivolse a Dio singhiozzando così: « Come, o Signore, da tanto tempo studio nelle università, e non so a memoria neppure la maniera d’invocarvi e di pregare ». Allora fece voto di consacrarsi a Dio, se fosse potuto scampare da quel pericolo. E così fu, poiché all’alba seguente alcuni viandanti lo liberarono. Lanfranco corse tosto nel convento più vicino e si fece monaco. Ed al tramonto d’ogni sera, quando la campanella invitava a preghiera, egli arrossendo s’inginocchiava. Anche ai nostri tempi, e più numerosi che mai ci sono uomini a cui si può applicare questo racconto in tutta la sua estensione. Anche essi sono in viaggio, devono attraversare la foresta del mondo anch’essi, e nemmeno mancano assassini e bestie feroci. Anch’essi alla fine della loro giornata sono forse caduti nelle mani del nemico delle anime; sono stati presi, legati col legame del peccato… Una cosa sola potrebbe liberarli: la preghiera. Ma essi non sanno più pregare; ne hanno perduta l’abitudine, hanno dimenticato perfino le parole. Da mesi e da anni, alla sera, si gettano stanchi ed infelici a dormire senza mai levare il cuore a Dio, senza neppure un segno di croce forse, così come le bestie sopra il loro strame. Ah, Cristiani, nessuno di noi rimanga in questo povero stato! Alla sera ricordiamoci dell’obbligo di ringraziare Dio che un altro giorno ha concesso alla nostra vita, un giorno pieno talvolta di gioie e talvolta di dolori, e sempre di grazie e di benedizioni. Ricordiamoci dell’obbligo di domandare perdono a Dio di tante offese nuove aggiunte alla grave somma delle vecchie. Infine, ricordiamoci di supplicarlo perché la notte passi tranquilla e il giorno veniente ci trovi migliori. – Tra le orazioni della sera, due pratiche non si possono trascurare: il santo Rosario e l’Esame di coscienza. L’una è una dolce catena di rose mistiche che lega i figli coi genitori e tutta la famiglia con la Vergine Maria; l’altro è un piccolo conto delle perdite e dei guadagni spirituali. « Sentite; — diceva ai primi Cristiani S. Giovanni Crisostomo, — voi tutti avete un registro in cui scrivete ogni giorno le entrate e le uscite; certamente non andrete mai a dormire prima d’aver fatto i vostri conti; ma la vostra coscienza non è anch’essa un libro aperto in cui dovete notare ogni sera il guadagno e la perdita, l’amore e l’ingratitudine? Ogni sera quindi, prima d’addormentarvi, prendete a tu per tu la vostra anima e ditele: « Su anima mia, su facciamo i conti: che bene hai fatto? che male hai fatto? ». Allora vi sorgerà spontaneo l’atto di ringraziamento per l’aiuto ricevuto dal Cielo, l’atto di dolore per la nostra cattiveria, e il sincero proposito di un migliore domani.- Infelici le case ove discende la notte senza preghiera! Intorno ad esse invano s’aggirano gli Angeli invisibili, invano aspettano nella malinconia. Infelici le famiglie dove la madre trascura questo suo dovere, dove il padre manca per divertirsi nelle osterie, dove i figliuoli cresciuti nell’età e nel male sono in giro, chi sa dove… chi sa dove… E ritorneranno a notte alta, sotto le stelle numerose nel cielo: ma nessuna stella è accesa nell’anima loro. – « Diciamo le preghiere della sera »disse alla  sua donna un padre di famiglia  sofferente da anni di una seria malattia. Da un pezzo nella casa si era dimenticato di pregare, ma dopo che il Signore aveva mandato quella prova, un barlume di fede era ritornato. Appena la madre incominciò le orazioni, rientrarono i figliuoli adulti dai loro divertimenti serali e rimasero a bocca chiusa, distratti. Il povero padre li sogguardava, e lagrime silenziose gli rigavano la faccia patita. «Che hai da piangere? », gli chiese la donna sottovoce. «Io morrò: — rispose amaramente, — e quando sarò sotterra nemmeno un suffragio riceverò dai miei figliuoli: essi hanno dimenticato le preghiere; non sanno pregare più ». La madre allibì, e tremò tutta. Il cuore le diceva ch’ella senza colpa non era della cattiva educazione religiosa dei figli. Oh quanti genitori, sentendosi morire, usciranno in quel grido straziante! « Quando sarò sotterra non un suffragio avrò dai miei figliuoli: essi non pregano, né sanno pregare più! ».  E la colpa di chi sarà stata?..

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps LXV: 8-9; LXV: 20

Benedícite, gentes, Dóminum, Deum nostrum, et obœdíte vocem laudis ejus: qui pósuit ánimam meam ad vitam, et non dedit commovéri pedes meos: benedíctus Dóminus, qui non amóvit deprecatiónem meam et misericórdiam suam a me, allelúja.

[Popoli, benedite il Signore Dio nostro, e fate risuonare le sue lodi: Egli che pose in salvo la mia vita e non ha permesso che il mio piede vacillasse. Benedetto sia il Signore che non ha respinto la mia preghiera, né ritirato da me la sua misericordia, allelúia].

Secreta

Súscipe, Dómine, fidélium preces cum oblatiónibus hostiárum: ut, per hæc piæ devotiónis offícia, ad cœléstem glóriam transeámus.

[Accogli, o Signore, le preghiere dei fedeli, in uno con l’offerta delle ostie, affinché, mediante la pratica della nostra pia devozione, perveniamo alla gloria celeste].

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCV: 2

Cantáte Dómino, allelúja: cantáte Dómino et benedícite nomen ejus: bene nuntiáte de die in diem salutáre ejus, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore, allelúia: cantate al Signore e benedite il suo nome: di giorno in giorno proclamate la salvezza da Lui operata, allelúia, allelúia].

Postcommunio

Orémus.

Tríbue nobis, Dómine, cæléstis mensæ virtúte satiátis: et desideráre, quæ recta sunt, et desideráta percípere.

[Concedici, o Signore, che, saziati dalla forza di questa mensa celeste, desideriamo le cose giuste e conseguiamo le desiderate.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2022)

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La liturgia di questo giorno esalta la giustizia di Dio (Intr., Vang.) che si manifesta col trionfo di Gesù e l’invio dello Spirito Santo. « La destra del Signore ha operato grandi cose risuscitando Cristo da morte » (All.) e facendolo salire al cielo nel giorno dell’Ascensione. È bene per noi che Gesù lasci la terra, poiché dal cielo Egli manderà alla sua Chiesa lo Spirito di verità (Vang.), per eccellenza, che viene dal Padre dei lumi (Ep.). Lo Spirito Santo ci insegnerà ogni verità (Vang., Off., Secr.), esso « ci annunzierà » quello che Gesù gli dirà e noi saremo salvi se ascolteremo questa parola di vita (Ep.). Lo Spirito Santo ci dirà le meraviglie che Dio ha operate per il Figlio (Intr., Off.) e questa testimonianza della splendida giustizia resa a Nostro Signore consolerà le anime nostre e ci sarà di sostegno in mezzo alle persecuzioni. Siccome, secondo quanto dice S. Giacomo, «la prova della nostra fede produce la pazienza e questa bandisce l’incostanza e rende le opere perfette », noi imiteremo in tal modo la pazienza del nostro Dio « e del Padre nostro », nel quale « non vi è né variazione né cambiamento » (Ep.), e « i nostri cuori saranno allora là dove si trovano le vere gioie » (Or.). Lo Spirito Santo convincerà inoltre satana e il mondo del peccato che hanno immesso mettendo a morte Gesù (Vang., Comm.) e continuando a perseguitarlo nella sua Chiesa.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVII:1; 2
Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Ps XCVII: 1
Salvávit sibi déxtera ejus: et bráchium sanctum ejus.

[Gli diedero la vittoria la sua destra e il suo santo braccio.]

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui fidélium mentes uníus éfficis voluntátis: da pópulis tuis id amáre quod prǽcipis, id desideráre quod promíttis; ut inter mundánas varietátes ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gáudia.

[O Dio, che rendi di un sol volere gli ànimi dei fedeli: concedi ai tuoi pòpoli di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti; affinché, in mezzo al fluttuare delle umane vicende, i nostri cuori siano fissi laddove sono le vere gioie.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli
Jas I 17-21
Caríssimi: Omne datum óptimum, et omne donum perféctum desúrsum est, descéndens a Patre lúminum, apud quem non est transmutátio nec vicissitúdinis obumbrátio. Voluntárie enim génuit nos verbo veritátis, ut simus inítium áliquod creatúræ ejus. Scitis, fratres mei dilectíssimi. Sit autem omnis homo velox ad audiéndum: tardus autem ad loquéndum et tardus ad iram. Ira enim viri justítiam Dei non operátur. Propter quod abjiciéntes omnem immundítiam et abundántiam malítiæ, in mansuetúdine suscípite ínsitum verbum, quod potest salváre ánimas vestras.


[Caríssimi: Ogni liberalità benefica e ogni dono perfetto viene dall’alto, scendendo da quel Padre dei lumi in cui non è mutamento, né ombra di vicissitudine. Egli infatti ci generò di sua volontà mediante una parola di verità, affinché noi siamo quali primizie delle sue creature. Questo voi lo sapete, miei cari fratelli. Ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento all’ira. Poiché l’uomo iracondo non fa quel che è giusto davanti a Dio. Per la qual cosa, rigettando ogni immondezza e ogni resto di malizia, abbracciate con animo mansueto la parola innestata in voi, la quale può salvare le vostre ànime.]

L’Apostolo S. Giacomo, detto il Minore, era venuto a conoscere che tra i Cristiani convertiti dal Giudaismo e disseminati fuori della Palestina serpeggiavano gravi errori, nell’interpretazione della dottrina loro insegnata, specialmente rispetto alla necessità delle buone opere. Inoltre, in mezzo alle tribolazioni cui andavano soggetti, c’era pericolo che riuscissero a farsi strada le vecchie abitudini. Per premunire contro l’errore questi suoi connazionali dispersi, e per richiamarli a una vita più austera, S. Giacomo scrive loro una lettera. In essa si insiste sulla necessità che alla fede vadano congiunte le buone opere. Si danno, poi, varie norme, perché tanto nella vita privata, quanto nelle relazioni sociali siano guidati da uno spirito veramente cristiano; e vengono confortati nelle loro tribolazioni. L’Epistola è tolta dal cap. 1 di questa lettera. Da Dio deriva ogni bene. Da Lui abbiamo avuto il dono inestimabile della vita della grazia, per mezzo della predicazione del Vangelo, parola di verità. Questa parola di verità ciascuno deve accogliere con prontezza, con semplicità, con spirito di mansuetudine.

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps CXVII:16.
Déxtera Dómini fecit virtútem: déxtera Dómini exaltávit me. Allelúja.

[La destra del Signore operò grandi cose: la destra del Signore mi ha esaltato. Allelúia.]


Rom VI:9
Christus resúrgens ex mórtuis jam non móritur: mors illi ultra non dominábitur. Allelúja.

[Cristo, risorto da morte, non muore più: la morte non ha più potere su di Lui. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem

Joannes XVI: 5-14

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Vado ad eum, qui misit me: et nemo ex vobis intérrogat me: Quo vadis? Sed quia hæc locútus sum vobis, tristítia implévit cor vestrum. Sed ego veritátem dico vobis: expédit vobis, ut ego vadam: si enim non abíero, Paráclitus non véniet ad vos: si autem abíero, mittam eum ad vos. Et cum vénerit ille, árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício. De peccáto quidem, quia non credidérunt in me: de justítia vero, quia ad Patrem vado, et jam non vidébitis me: de judício autem, quia princeps hujus mundi jam judicátus est. Adhuc multa hábeo vobis dícere: sed non potéstis portáre modo. Cum autem vénerit ille Spíritus veritátis, docébit vos omnem veritátem. Non enim loquétur a semetípso: sed quæcúmque áudiet, loquétur, et quæ ventúra sunt, annuntiábit vobis. Ille me clarificábit: quia de meo accípiet et annuntiábit vobis.

[In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Vado a Colui che mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Ma perché vi ho dette queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ma io vi dico il vero: è necessario per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito, ma quando me ne sarò andato ve lo manderò. E venendo, Egli convincerà il mondo riguardo al peccato, riguardo alla giustizia e riguardo al giudizio. Riguardo al peccato, perché non credono in me; riguardo alla giustizia, perché io vado al Padre e non mi vedrete più; riguardo al giudizio, perché il principe di questo mondo è già condannato. Molte cose ho ancora da dirvi: ma adesso non ne siete capaci. Venuto però lo Spirito di verità, vi insegnerà tutte le verità. Egli infatti non vi parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito: vi annunzierà quello che ha da venire, e mi glorificherà, perché vi annunzierà ciò che riceverà da me.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

« VADO A COLUI CHE MI HA MANDATO »

Finita la Cena, l’ultima Cena della sua vita terrestre, Gesù disse agli Apostoli tenerissime cose. E soggiunse: « Ed ora torno a Colui che mi ha mandato ». Non era la prima volta, quella sera, che il Maestro parlava di partire: durante la Cena, quando stavano mangiando l’agnello pasquale e poi dopo, al momento solenne in cui aveva consacrato il pane ed il vino, Gesù aveva lasciato capire che era giunta la sua ultima ora. Non aveva anzi mancato di accennare chiaramente che lo attendevano ore di persecuzione e di sangue. Eppure, nessuno dei suoi parlava. « Come? — disse Gesù — non parlate? Vi ho detto che vado a Colui che mi ha mandato e nemmeno uno di voi mi domanda: dove vai? ». Gli Apostoli erano tristi, molto tristi, perché presagivano cose oscure, ma nessuno di loro, neppure S. Pietro, neppur S. Giovanni, sapeva certo quello che stava per succedere; tuttavia, pareva non si dessero cura di conoscerlo dal loro Maestro. Era forse cosa da poco l’andare al Padre ed affrontare la morte? Per questo Gesù esce in un accento di dolce rimprovero; quella noncuranza lo feriva: almeno i suoi prediletti era giusto si interessassero della sua Persona! Gesù sapeva che non era una negligenza colpevole quella che rendeva gli Apostoli così taciturni: la eccessiva tristezza aveva fatto dimenticare quanto, in quegli istanti, era necessario chiedere. Noi, invece, proprio per colpevole negligenza ci dimentichiamo di chiedere a noi medesimi: « Dove vai? ». Anche noi, vedete, come Gesù, andiamo al Padre. Quando preghiamo, allorché ci rechiamo alla Chiesa e ci accostiamo ai Santi Sacramenti, siamo i figli che si avvicinano al Padre: la Chiesa, i Sacramenti sono fatti apposta per renderci sempre più figlioli degni del Padre Celeste. E questo è cosa da poco? Eppure quante volte andiamo in Chiesa, senza domandarci: « Quo vadis? ». Anche noi, come Gesù, siamo incamminati alla morte: e la morte è proprio cosa da nulla? Eppure, sono troppo rari i momenti in cui pensiamo ad essa. Quest’oggi il Signore vuol farci riflettere che alle cose importanti bisogna pensare di più. – ANDIAMO A DIO QUANDO CI RECHIAMO IN CHIESA. Mentre un reggimento di fanteria soggiornava ad Orléans, il parroco della Cattedrale aveva osservato che ogni giorno, nel pomeriggio, dalla una alle tre un soldato se ne stava, riverente ed immobile, in mezzo alla Chiesa. Dopo la genuflessione, era là ritto per due ore continue con lo sguardo al Tabernacolo. Si recò un giorno a visitar la Cattedrale un capitano, ed il curato gli raccontò la cosa. « Se aspetta pochi minuti, Ella stessa potrà vedere ». Scoccò l’ora, ed ecco giungere il buon soldato che si mette al suo posto. Il capitano lo guarda, lo riconosce, e chiamatolo a sè: « Che fai, a quel luogo? » « Due ore di sentinella al mio Dio » rispose con franchezza il soldato. « A Parigi i grandi Ministri hanno le loro guardie; qui il mio generale ne ha due, il colonnello una… e il Re dei re, Gesù Cristo, non ne avrà alcuna? Ci vengo io, per due ore, perché Gesù Cristo io Lo amo ». « Far la sentinella al Re dei re » ecco quanto dovremmo pensare quando ci rechiamo alla Chiesa. Proviamo a riflettere e forse dovremo dire che noi trattiamo Dio più male di una persona qualunque di questo mondo. Domandiamoci invece: « Dove vai? » e dall’interno del cuore ascoltiamo una voce identica a quella di Gesù: « Vado a Colui che mi ha mandato ». – Nella Chiesa, nel Tabernacolo c’è Iddio che mi ha creato a preferenza di molti altri che non videro e non vedranno mai la vita. Colui che ha fatto dal nulla tutte le cose, al quale ubbidiscono i cieli, la terra il mare è là nascosto sotto poche specie di pane. Ci vuole il rispetto! Ma soprattutto ci vuol l’amore, la confidenza, i sentimenti dei figli. Sì, perché le nostre Chiese racchiudono l’Amore infinito. Esse non devono sembrarci fredde ed oscure, ma calde e piene di soave raccoglimento, c’è il fuoco di Colui che è venuto per accendere la Vita; c’è la luce di Cristo che è Verità e Via ad ogni uomo che viene in questo mondo. Attorno agli altari di Dio pensiamo pure alle parole del Signore: « Tremate nel mio Santuario »; ma soprattutto pensiamo a Gesù che ci dice: « Venite a me, voi che siete affaticati! ». Saremo sentinelle di Cristo, non per forza, ma sempre solo per amore. – ANDIAMO A DIO, COLL’AVVICINARSI OGNI GIORNO ALLA MORTE. Si dice che a Pio IX sia capitato una volta di confessare un gran peccatore, che era venuto di lontano. Il Papa ascoltò difatti la sua confessione e fu edificato dall’esattezza che il penitente vi pose. Ma quando si trattò di dargli una penitenza, il forestiero non volle accettarne alcuna di quelle che il Santo Padre volle imporgli: nessuna gli andava a genio. Per digiunare era troppo debole; di leggere e di pregare non aveva tempo; gli affari poi gli rendevano impossibile qualunque pellegrinaggio. Il Papa allora ne pensò una bella. Aveva un anello d’oro con scritte queste parole: Memento mori! « Ricordati che devi morire! ». Lo volle regalare a quell’uomo ponendogli per penitenza che sempre lo portasse in dito ed almeno una volta al giorno leggesse e meditasse le parole che vi erano incise: « Ricordati che devi morire! » Contentissimo di una penitenza così leggera se ne andò quel penitente, ma di lì a non molto pensò lui stesso ad aggravare le sue mortificazioni. La vista di quell’anello lo penetrò talmente del pensiero della morte, che non cessava mai di dire: « Dal momento che sono condannato alla morte e dovrò presto ritornare a Dio, ciò che più importa è dunque fare una buona morte! Che cosa serve cercar di risparmiare ciò che la morte verrà presto a distruggere? ». Siamo stati creati da Dio ma qui sulla terra non dovremo starci sempre. Uno dopo l’altro andremo a finire nella terra del cimitero. Verrà un giorno che le campane suoneranno i mesti rintocchi per noi: una cassa, un funerale, qualche lagrima e poi … tutto quaggiù sarà finito. Ma se la morte fosse tutta qui ci sarebbe ben poco di male. Invece la morte ci porta al tribunale di Dio, e al cospetto di Cristo giudice dovremo rispondere di tutti i momenti della nostra vita. Saremo giudicati del male che abbiamo commesso e del bene che non abbiamo fatto. A quel Giudice giusto non sfuggirà neppure il minimo pensiero cattivo su cui fermiamo apposta la nostra mente; i peccati che avessimo stoltamente taciuto in confessione là saranno palesati e condannati. E la sentenza sarà irrevocabile: o l’Inferno per sempre, o il Paradiso per sempre. Se  è così perché non pensarci spesso? Perché non domandarci frequentemente: « Dove vai? ». Tant’è se la morte avanza inesorabile e, volere o no, bisognerà subirla: a che pro allontanarne il pensiero? Scriviamo allora se non sopra un anello d’oro, nella nostra mente: Ricordati che devi morire! Quando il desiderio dei danari tenterà di farti ribelle alla legge di Dio: Ricordati che devi morire! Se il fuoco delle passioni impure volesse bruciare qualche comandamento: Ricordati che devi morire. Se ti senti la smania di far bella comparsa e ti punge la brama di essere applaudito: Ricordati che devi morire! Soprattutto alla sera, quando, stanchi delle fatiche del giorno, ci corichiamo per prendere un po’ di riposo, ci accompagni il pensiero della morte. Verrà così spontaneo l’esame di coscienza sulle azioni della giornata e se mai ci fosse qualche cosa di male, un atto di dolore, un bacio al Crocifisso, il proposito di confessarci al più presto rinsalderà l’amicizia con Dio. Del resto noi siamo ancora nei gaudi pasquali: Cristo ha vinto, ha distrutto la morte. Ma questa vittoria non fu soltanto sua: con Cristo han vinto la morte coloro che gli sono uniti per mezzo della grazia: Se abbiamo nel cuore la grazia di Dio non abbiamo ragione di temere la morte. Essa è vinta; i vincitori siamo noi! – Quando saremo morti, ci porteranno qui, in chiesa, ed attorno al nostro cadavere i Sacerdoti ed i fedeli invocheranno la pace di Cristo e la preghiera dei Santi. Possano allora queste sante pareti parlar bene di noi al tribunale di Dio! Possa Gesù dal Suo Tabernacolo sorriderci ancora come nei giorni della nostra vita. Felici noi se in questa Casa di Dio avremo imparato la strada per giungere alla Reggia dei Cieli.

Quo vadis? Ogni Cristiano dovrebbe sempre rivolgersi questa domanda e poter dire con Gesù: « Io vado a Colui che mi ha mandato ». Invece quanti vivono senza mai pensare allo scopo principale della loro vita! Si dice che il poeta Aleardo Aleardi, dovunque andasse, portava con sé una bandiera per spiegarla ai piedi del letto ove dormiva, affinché i suoi occhi al primo svegliarsi potessero contemplare il simbolo del risorgimento italiano per cui egli aveva consacrato i suoi giorni e il suo ingegno. Se ogni mattina tutti i Cristiani richiamassero alla loro mente il fine della loro vita, anche le loro azioni sarebbero migliori. E se ogni giorno sventolasse davanti al loro occhi la bandiera dell’eternità a cui sono destinati, non perderebbero tanto tempo prezioso dietro alle vanità del mondo. Seneca, considerando l’affannoso correre degli uomini verso gli onori, i danari, i piaceri, quantunque non avesse fede, disse una saggia parola: « ludus formicarum ». E Salomone disse una parola più vera: « vanitas vanitatum ». E S. Paolo un parola più forte: « tutto ciò che non conduce al fine per me è una perdita, anzi è un’immondezza; io mi slancio verso la mèta segnata, e voi, fratelli, siate i miei imitatori ». Ad destinatum persequor (Filipp., III, 14). O Cristiani, avete meditato qual è il vostro fine? E se già lo conoscete, vi slanciate con tutte le forze, come dice l’Apostolo, trascurando ogni lusinga del mondo e sorpassando ogni difficoltà pur di raggiungerlo? Sono questi i due pensieri che sgorgano dal Vangelo e scendono oggi verso l’anima nostra: conoscere il nostro fine, tendere ad esso. Raccogliamoli. – CONOSCERE IL NOSTRO FINE. Quando Ottone III imperatore di Germania, sospinto dalla fama della santità straordinaria e dei miracoli che operava S. Nilo, si recò a visitarlo, gli offrì magnifici doni; ma il Santo, ringraziandolo umilmente, lo assicurò che nella sua povertà era così ricco da non bisognare di nulla. « Se non volete gradire i miei regali, — soggiunse allora l’imperatore, — almeno domandatemi qualche grazia, perché non si dica che un monarca sia venuto a chiedervi consiglio a mani vuote ». « Questo sì, — ripigliò il Santo, illuminandosi nel volto — questo sì! Ho una grazia, una sola e mi sta molto a cuore: pensate al vostro fine ». L’imperatore promise che avrebbe approfittato di quel ricordo. E fortunato lui, perché a ventidue anni appena, quando l’attendevano grandiosi trionfi politici, quando la sua promessa sposa, che veniva di Grecia, navigava verso l’Italia portandogli in dote tesori e terre, egli a Paternò moriva. Una grazia sembra che Gesù da questo Vangelo chieda a noi pure: pensiamo al nostro fine, perché troppo infelici saremmo se la morte ci sorprendesse mentre viviamo una vita senza scopo. Ma per conoscere il nostro fine è necessario prima conoscere il nostro principio. Donde veniamo? Questa vita chi ce la diede? Cento anni fa il mondo esisteva: ma vi erano gli uomini, le città, gli stati. Ma noi non eravamo ancora. Chi ci ha creati? Dio. «Le tue mani, o Signore, mi hanno fatto e plasmato tutto intiero ». Così è scritto anche nel libro di Giobbe (X, 8). Egli si è servito dei nostri genitori per darci la vita come si serve della terra per portarci, dell’aria per vivificare i nostri polmoni, dell’acqua per dissetarci. E infatti possono i genitori prolungare la vita dei loro figliuoli o impedirne la morte? No, perché non essi sono i creatori della vita. Ma se Dio è il nostro Creatore, noi siamo cose sue. L’utensile non è di colui che l’ha fabbricato con le proprie mani? E Iddio ci ha fabbricati con le sue mani dal fango della terra e ci ha soffiato sul volto un soffio di vita; perciò, Egli è il nostro padrone. Il campo non è di colui che l’ha comperato col proprio danaro e l’ha dissodato con il proprio sudore? E Dio appunto ci ha comperati col proprio sangue dalla schiavitù del demonio in cui eravamo caduti e ci ha santificati con la sua grazia; perciò, Egli è il nostro Salvatore. Ma perché Dio ha creato e redento l’uomo? Forse perché accumulasse ricchezze? L’avaro lo crede ma s’inganna. Forse perché insuperbisse negli onori? L’ambizioso lo pensa, ma cade in errore. Forse perché s’abbandonasse ai piaceri del senso? Il voluttuoso lo dice, ma si perde. No, Dio non ha potuto creare le cose che per se stesso. « Sono io il Signore — Egli dice — Io che ho creato i cieli e li ho distesi, che ho forgiato la terra e ciò che in essa germina; che dò il respiro a quelli che abitano in essa, e la vita a quelli che si muovono sopra di essa. Sono Io il Signore, tale è il mio nome, Io non darò la mia gloria ad un altro » (Is. XLII, 5). « Per me, per me solo opererò; ascoltami Giacobbe, ascoltami Israele! Sono io il primo e l’ultimo; io il principio, io la fine! » (Is., XLVII, 11-12). – Dunque l’uomo è creato per la gloria di Dio. Ma in qual modo possiamo noi dar gloria a Dio? Salvando l’anima nostra con l’osservanza dei comandamenti. Così, raggiungendo la nostra felicità eterna, noi raggiungiamo il fine ultimo che è la gloria di Dio. « Ascoltiamo tutti insieme, — dice lo Spirito Santo nell’Ecclesiastico, — l’ultima parola di ogni cosa: temi il Signore e osserva i suoi comandamenti perché questo è tutto l’uomo ». Hoc est enim omnis homo (Eccl., XII, 13). – TENDERE AL NOSTRO FINE. In una famiglia, il padre stava male. La madre angosciata manda il figlio di dieci anni a chiedere il medico. Il giovanetto parte. Mentre il malato si aggrava, si aspetta con ansietà, due ore, tre ore, quattro ore… e non arriva nessuno. Quando ritorna è già sera. « Figlio mio, — esclama la madre, — perché hai tardato tanto? È il medico, dov’è? ». « No, non l’ho veduto. — Risponde ingenuamente il figlio — Io ero partito per andare in cerca di lui; ma, strada facendo, ho veduto farfalle dalle ali bianche chiazzate d’oro e d’azzurro, e così belle che io non ho potuto trattenermi dal perseguirle di fiore in fiore, senza mai venire a capo. Per questo ho fatto tardi. Madre mia, quanto erano belle quelle farfalle! ». La condotta di questo fanciullo che si diverte a correre dietro alle farfalle, invece di cercare il medico per il padre agonizzante, ci desta un fremito d’indignazione. Ma ritorciamo contro di noi il nostro sdegno. Dio ci manda sopra la terra per trattare un affare importantissimo, anzi l’unico importante: si tratta di dare a Lui la sua gloria e di assicurare a noi la nostra felicità. Se ci comanda, è perché ne ha diritto, giacché noi Gli apparteniamo come cosa tutta sua. Orbene, che cosa facciamo noi spesse volte? Come quel fanciullo noi ci trastulliamo a correr dietro a farfalle tutta la giornata. In verità non sono come farfalle quei divertimenti, quei piaceri, quelle mode, quegli onori e tutti i beni effimeri di questa vita? Quo vadis? Dove vai? « A colui che mi ha mandato » rispose Gesù; e a Dio che ci ha creati, dobbiamo rispondere noi. Ma tende davvero al suo fine quel padre di famiglia che fa sentire tante cattive parole ai suoi figli nei momenti di collera, e che a loro non dà mai il buon esempio di accostarsi ai Sacramenti? Tende proprio al suo fine quella madre che alle figlie insegna più la vanità che il timore di Dio e che si fida di esse come se al mondo non vi fossero pericoli? Tende al suo fine quel giovane che non ascolta mai un po’ di parola di Dio e che non pensa ad altro fuor che a divertirsi nel giuoco e nei piaceri? Quo vadis? Ciascun di noi faccia i suoi conti, e interroghi se stesso, dove egli vada, correndo per quella strada che ha già intrapresa. –  Quando Loth doveva separarsi da Abramo, gli fu detto « Guarda tutta la terra d’intorno: tu sei padrone di scegliere la destra o la sinistra ». Loth alzò gli occhi e vide una contrada fertile, dolce, amabile, ridente, tal quale il suo cuore la sognava. Subito lasciò ad Abramo la regione che gli parve meno deliziosa ed egli con i suoi armenti discese in basso ad abitare i paesi di Sodoma. Et habitavit in Sodomis (Gen. XIII,12). Ben presto però, osserva S. Ambrogio, dovette pentirsi della sua imprudenza: sopra le sue terre vennero dei re nemici e lo fecero prigioniero; e appena riuscì a sfuggire dalle loro mani, ecco che una pioggia di fuoco discese dal cielo e distrusse le sue possessioni. È questo appunto che avverrà a molti Cristiani che nella vita han voluto scegliere la parte dorata e ridente dei piaceri e hanno trascurato la parte aspra del loro dovere. Il fuoco della morte distruggerà a loro ogni cosa. Se anche noi stiamo in questo numero e, dimenticando il fine per cui siamo stati creati, abbiamo soltanto pensato a vivere più comodamente che ci fosse stato possibile, oggi che la grazia di Dio ha aperto i nostri occhi, ripetiamo il gemito di Giobbe « … Signore! Dammi ancora un po’ di tempo perch’io pianga il mio sbaglio e lo ripari prima che mi tocchi d’andare senza ritorno nella regione tenebrosa e caliginosa della morte ». Antequam vadam et non revertar ad terram tenebrosam ed opertam mortis caligine.

.- « Quando verrà lo Spirito Santo convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio ».Queste severe parole — che or ora ho letto nel Vangelo, — Gesù le pronunziòche si faceva già sera, l’ultima sera di sua vita terrena. Nel cenacolo grande, ingiro alla mensa stavano gli Apostoli: il Figlio di Dio, nel mezzo, parlava tristemente. Non gli restavano che poche ore, e poi l’agonia, la cattura, il processo, lamorte. Egli sapeva tutto ed esclamò: « È meglio che me ne vada; perché se non vo, non discenderà lo Spirito Santo: appena me ne sarò andato, ve lo manderò. Maquando Egli verrà, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio »Il peccato era quello dei Giudei che invece di riconoscere in lui il Figlio di Dio, lo  chiamarono ossesso; la giustizia era quella che il Sinedrio e il Pretorio avrebbero. conculcato uccidendo barbaramente l’innocente Figlio dell’Uomo; il giudizio era l’infame sentenza con cui il tribunale di Caifa e di Pilato avrebbe condannato alla croce. Gesù Cristo, sentenza così infame che non poteva essere provocata se non da satana, principe di questo mondo. Ma egli è già giudicato (Cfr.: J. LAGRANGE, L’Evangelo di Gesù Cristo, Morcelliana, pag. 515). Disse ancora il Maestro divino: «Lo Spirito Santo ben saprà glorificarmi ». Ille me clarificabit. E con questo pensiero, senza esitare mosse incontro alla passione. crudele, alle umiliazioni brutali, agli insulti demoniaci che il mondo gli aveva. preparato.Il mondo e lo Spirito Santo! il primo disconosce, accusa, condanna Cristo; ma il secondo rovescerà il mondo in eterna rovina e Cristo, per Lui, sarà difeso, amato e glorificato dagli eletti. A meglio farvi comprendere le parole del Vangelo, mi son posto in cuore di svilupparvi due pensieri: che cosa è il mondo e perché dobbiamo. fuggirlo. – CHE COSA È IL MONDO. Ritornato Cristoforo Colombo dall’America, tosto si diffuse in tutta Europa la notizia di quella regione meravigliosa ove i frutti ingrossavano fino a schiantar le piante per troppo peso, ove ogni montagna nascondeva oro e ogni fanciullo si trastullava con perle. Accorsero allora uomini bramosi di godimento e di ricchezza. Con molte lusinghe avvicinavano gli indigeni e, ingannandoli, barattavano campanelli, specchietti, trastulli con verghe d’oro e d’argento. E se taluno, più accorto, non voleva cedere la sua ricchezza vera per quelle cianfrusaglie, con violenza veniva costretto ed ucciso. Il fremito d’indignazione che sentite a tali ignobili scaltrezze e crudeltà, vi può aiutare a comprendere che sia il mondo. Il mondo è un mercato diabolico. Satana conosce che per i meriti di Gesù Cristo Salvatore, noi siamo diventati possessori di inestimabili ricchezze; conosce anche la nostra ingenuità che spesse volte ci rende simili agli antichi selvaggi d’America, incapaci a valutare i nostri tesori. Ed egli, il maligno e il rapace, s’aggira sulla piazza del mondo per i suoi infernali baratti: quanti per la passione d’un momento gli cedono la gioia eterna! quanti per un piatto di lenticchie, per un pugno di orzo, per un bicchiere di vino, rinunciano al convito divino del Paradiso! Quanti ancora per l’amicizia con una donna pericolosa, con un uomo scostumato, si distaccano dall’amicizia di Gesù!… Povera gente, apri finalmente gli occhi! Non vedi che il mondo fin ora non ha fatto che illusi, infelici, vittime? Non vedi che te pure tradisce con i suoi specchietti, con i suoi campanelli, con le sue cianfrusaglie di cui non una ti verrà buona nel momento della morte? Ma se proprio vogliamo farci un’idea del mondo, ascoltiamo la parola di Gesù: Nel mondo non c’è verità. « Pregherò il Padre che mandi a voi lo Spirito della verità, che il mondo non può né ricevere, né conoscere » (Giov., XIV, 17). Non meravigliatevi dunque se vedrete tante frodi e tante ingiustizie, se udrete tante bestemmie e tante eresie. Nel mondo non c’è amore: « Siccome voi non siete del mondo, il mondo vi odia: egli non ama che i suoi » (Giov.; XV, 19). Ma anche i suoi ama per rovinarli eternamente. Nel mondo non c’è pace. « Dono e lascio a voi la mia pace: non io faccio come il mondo! » (Giov., XIV, 27). Provate, Cristiani, a pensare quando avete gustato la pace vera nella vostra vita dal giorno della prima Comunione: forse dopo i divertimenti del mondo, forse dopo aver ceduto ai desideri del mondo? No! ma solo quando lontani dal mondo, vi siete stretti a Gesù con una buona Confessione e Comunione. Nel mondo non c’è salvezza. È certo che nessuno si può salvare, se non per Gesù Cristo. Or bene Gesù Cristo ha escluso il mondo dalla sua redenzione. « Per il mondo io non prego!» (Giov., XVII, 9). Il mondo dunque non è la società in cui vivete, ma quella parte di società che vive nemica a Cristo e al suo Vangelo: dimentica di Dio, aggiogata alle passione, inebriata di piacere sensuale. A parlare propriamente il mondo è l’armento di satana: satana n’è il pastore e il principe. – FUGA DAL MONDO. S. Anselmo, rapito in estasi; vide un giorno un immenso fiume che travolgeva tutte le immondizie della terra, di modo che nessuna cloaca si trovò più schifosa di quella. Sulle nere e schiumose onde della fiumana, trasportati in rapina, biancheggiavano molti cadaveri di uomini, donne, ragazzi, ricchi, poveri, coi ventri rigonfi di melma. Avendo il Santo domandato che significasse quella visione, così gli fu risposto: «Il fiume è il mondo; e gli annegati sono i suoi amatori ». Vivesse ancora S. Anselmo, la sua visione non muterebbe, anzi si presenterebbe più spaventosa. Per questo è mio dovere alzare la voce, e ripetere il grido del profeta Geremia: « Fuggite da questa Babilonia, se volete salvare l’anima vostra » (LI, 6). In questa fuga, vi conforteranno i seguenti pensieri: 1) L’amore di Dio e l’amore del mondo non possono coabitare in uno stesso cuore; non si può con un occhio guardare l’azzurro del cielo e con l’altro il fango della terra. O il dovere glorioso o il piacere vergognoso! O Cristo o satana! S. Paolo, S. Giovanni, gli Apostoli e i loro successori hanno sempre predicato contro il mondo, i suoi teatri, le sue danze, le sue feste; con grande fermezza respingevano ogni neofito che non avesse voluto rinunciare ai piaceri del mondo. Quanta fede, quanta forza noi ammiriamo in quei primi Cristiani che rompevano assolutamente ogni relazione cogli idolatri, sfidavano l’odio dei tiranni, la rabbia dei carnefici! O secoli dei martiri, quanto siete lontani da noi! 2) Non basta fuggire il mondo, ma ciascuno deve industriarsi di mettere nell’amore di Dio e delle cose pudiche e sante quella smania che prima aveva per le cose mondane e peccaminose. « Risanate il vostro amore; — esclama S. Agostino –  e quell’impeto che prima vi spingeva al mondo, ora vi trasporti al Creatore del mondo » (In Ps., XXXIV). 3) Non scordiamoci di essere stranieri e pellegrini sulla terra: «Io vi avviso o fratelli, il tempo è breve: quelli adunque che sono sposati vivano mortificandosi come se non lo fossero; quelli che piangono come se non piangessero; quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano cose come se non possedessero; quelli che si servono del mondo come non se ne servissero: tutto passa e svanisce come un’ombra » (I Cor., VII, 29-31). – La regina Elisabetta d’Inghilterra aveva tra i nobili della sua corte uno splendido ballerino di nome Tommaso Pondo. Come egli danzava, tutti, in un delirio di applausi, gridavano: « Replica ancora la danza! Almeno una volta ancora! ». Ma un giorno era così stanco, che le forze non lo ressero ad un altro sforzo. Eppure anche la Regina diceva: « Replica! Replica! ». E Tommaso per compiacerla danzò; ma negli ultimi giri, la vertigine l’incolse. E cadde. Tutti risero. E la Regina disse anch’essa: « Alzati bue! ». Egli udì l’insulto: si morse le labbra e s’alzò. Al giorno dopo fuggì a casa sua lontano tra i monti: e più nessuno lo vide alla corte. Le ricompense del mondo sono sempre simili a queste. Fin tanto che la giovinezza, l’ingegno, il danaro ci sorreggono, mille lodi e mille sorrisi: ma appena una disgrazia, una malattia, un dissesto finanziario ci abbatte, non altro dobbiamo aspettarci che l’abbandono e l’insulto amaro: « Alzati bue! ». – « O mondo! — diceva un’anima piena di nobile sdegno — tu prometti ogni bene e non dài che mali; assicuri vita e rechi morte; annunci gioia e concedi amarezza: offri dei fiori, ma sono fiori sgualciti che avvizziranno senza lasciare frutto. Guai a chi si confida in te! felice chi ti contrasta! più beato chi può lasciarti senza ferita! » (Serm., XXX, nelle Op. S. Aug.). – « È necessario per voi ch’io vada; perché s’io non vado, il Paracleto non verrà » — Lo Spirito Santo non poteva venire prima della morte di Cristo perché gli uomini erano ancora schiavi del peccato originale; era necessario che Gesù morendo ci redimesse, affinché lo Spirito Santo, che non abita in un corpo soggetto al peccato, potesse venire in noi. « È  necessario per voi ch’io vada: perché vi possa preparare un posto, e quando lo avrò preparato, ritornerò da voi, e vi prenderò con me; e starete per sempre dove sarò io ». Noi in Paradiso, prima della morte di Cristo, non potevamo andare: era necessario che Gesù morendo entrasse per il primo e ce lo aprisse, perché anche noi dietro a lui vi potessimo entrare. Dunque, com’è stato buono, più che una mamma, Gesù. con noi! Prima di partire ha pensato a noi, per la nostra vita e per. la nostra morte. Per la nostra vita ci ha promesso lo Spirito Santo; per la nostra morte ci ha promesso che tornerà Lui a prenderci e a portarci dove Egli sta. Ciò che importa, adesso, è sapere quello che dobbiamo fare perché lo Spirito Santo abiti in noi in questa vita, e perché nell’ora della nostra morte venga Gesù a prenderci e condurci in Cielo. – PERCHÈ LO SPIRITO SANTO ABITI IN NOI. La Vergine siracusana, santa Lucia, fu accusata al governatore Pascasio perché rifiutava la mano d’un giovane idolatra. Essa si difese e disse: « Non ho promesso fedeltà a nessun uomo, ma solo a Dio ». Il governatore, adirato, comandò: « Fra i tormenti la si costringa a tacere! A lui rispose Lucia: « Le parole non mancheranno mai sulle labbra dei servi di Dio. L’ha detto Gesù: Quando vi troverete davanti ai re ed ai magistrati, non angustiatevi per le cose che dovete dire; lo Spirito Santo che è in voi vi suggerirà tutto » – « Dunque, lo Spirito Santo è in te? ». « Sì: coloro che vivono casti e pii sono templi dello Spirito Santo ». Allora il governatore maligno aggiunse: « Penserò a farti cessare di essere casta e pia e non sarai più il tempio dello Spirito Santo ». Ma la vergine, levate le mani e gli occhi al cielo, pregava. Ecco, o Cristiani: perché lo Spirito Santo abiti in noi è necessario vivere pii e casti. Pii: con la frequenza dei Sacramenti, con la preghiera in casa ed in chiesa. Casto: con l’onestà della vita, con la fuga dalle occasioni cattive, con l’amore alla propria famiglia. È vicina la Pentecoste, la grande festa che ricorda la discesa dello Spirito Santo sopra gli Apostoli: prepariamo i nostri cuori con una vita casta e pia. E se alcuno sentisse pesare sulla sua coscienza una grave colpa, si purifichi con la santa Confessione, altrimenti lo Spirito Santo non verrà in lui e non sentirà gli effetti della sua presenza. « Quando verrà lo Spirito consolatore — ha detto Gesù — egli v’insegnerà ogni verità ». Beate le anime caste e pie, perché da Lui saranno consolate! In ogni dolore, in ogni croce proveranno una soave dolcezza, perché lo Spirito Santo presente in loro, ascolterà ogni gemito e preparerà per essi una ricompensa eterna. Beate le anime caste e pie, perché da Lui saranno ammaestrate, e comprenderanno come tutte le cose di quaggiù non sono altro che un inganno, e non val la pena d’attaccare il cuore nostro ad esse. – PERCHÈ GESÙ RITORNI NELL’ORA DI NOSTRA MORTE. L’ora più terribile della vita è quella di nostra morte. Soffrire i mali dell’agonia che ci strapperanno stille di freddo sudore; chiuder gli occhi e non riaprirli più a vedere le persone e le cose amate; andar via da questo mondo senza portar via niente con noi, neppure un soldo, neppure un frustolo di pane; e non sapere dove si va e come sarà… Al di là della morte chi verrà a prenderci? Gesù o il demonio? Oh, se fossimo sicuri che verrà Gesù a condurci dove Egli è, a star sempre con Lui, a non morir più, a godere eternamente, come sarebbe dolce la morte! Sarebbe il termine d’ogni dolore, anzi l’inizio della gioia senza confine. Ebbene, Gesù ha promesso che tornerà a prendere i suoi discepoli per dare ad essi quel posto che si sono guadagnati in Paradiso. Quando il cappellano entrò nella stanza della santa di Lisieux morente, cercò di confortarla ad accettar la morte con rassegnazione. « Padre! — rispose santa Teresa, — non c’è bisogno di rassegnazione se non per vivere. A morire io provo gioia: perché Gesù stesso verrà a prendermi. E quando si è con Gesù non si muore ma si entra nella vita ». Beati quelli che muoiono bene! Morire bene: ecco lo scopo di tutto il nostro vivere. Ma noi sappiamo che nulla s’impara se non con l’esercizio e con la pratica Come s’impara a fabbricare? fabbricando. Come s’impara a morire? morendo. « Ogni giorno io muoio », diceva San Paolo; ed ogni giorno moriva al mondo, ai piaceri, alle lusinghe del demonio e delle passioni. Da questo si spiega com’egli potesse scrivere: « Io bramo di morire per trovarmi con Cristo ». Cupio dissolvi et esse cum Christo. «Io bramo di morire perché la morte è un guadagno per me » (Filip., I, 21,23). Sulla tomba di Scoto, filosofo francescano, fu scritto « Semel sepultus bis mortuus ». Fu sepolto una volta sola e morì due volte: la prima, mentre viveva facendo penitenza e rinnegando se stesso. Se vogliamo morir bene, anche noi ogni giorno dobbiamo imparare a morire: devono morire nella nostra mente i cattivi pensieri; devono morire sulle nostre labbra le parole cattive di bestemmia, di impurità, di odio, di mormorazione; devono morire nella nostra vita le opere cattive, solo deve vivere in noi la volontà di Dio. Solo così Gesù ritornerà a prenderci nell’ora di nostra morte. – Moriva un bambino di sei anni: s’accorgeva di morire, ma non aveva paura. Volgendosi alla mamma che singhiozzava, ingenuamente le chiedeva: « Mamma, domani, quando sarò in cielo e mi verrà sonno, Gesù a dormire mi metterà nella cuna o mi prenderà sulle sue braccia? ». Sulle braccia di Gesù tu dormi ora, o piccolo innocente! Ma anche noi se sapremo conservare il nostro cuore buono e puro come quello di un bambino, anche noi Gesù prenderà sulle sue braccia, nell’ora di nostra morte. E sia così.

IL CREDO

Offertorium


Orémus.
Ps LXV:1-2; LXXXV:16
Jubiláte Deo, univérsa terra, psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja.

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: venite e ascoltate, tutti voi che temete Iddio, e vi narrerò quanto il Signore ha fatto all’ànima mia, allelúia.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes effecísti: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo degli scambi venerandi di questo sacrificio ci rendesti partecipi dell’unica somma divinità: concedici, Te ne preghiamo, che come conosciamo la tua verità, così la conseguiamo mediante una buona condotta.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann XVI:8
Cum vénerit Paráclitus Spíritus veritátis, ille árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício, allelúja, allelúja.

[Quando verrà il Paràclito, Spirito di verità, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, allelúia, allelúia]

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, Dómine, Deus noster: ut per hæc, quæ fidéliter súmpsimus, et purgémur a vítiis et a perículis ómnibus eruámur.

[Concédici, o Signore Dio nostro, che mediante questi misteri fedelmente ricevuti, siamo purificati dai nostri peccati e liberati da ogni pericolo.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA III DOPO PASQUA (2022)

DOMENICA III DOPO PASQUA (2022)

Semidoppio. • Paramenti bianchi.

La Chiesa è nella gioia perché Gesù è risuscitato e ci ha fatti liberi (All.). Essa dà quindi gloria a Dio (Intr.) e ne canta le lodi (Off.). «Ancora un poco di tempo e non mi vedrete più, aveva detto Gesù nel Cenacolo, allora piangerete e vi lamenterete; ancora un poco di tempo e mi rivedrete e il vostro cuore si rallegrerà» (Vang.). Gli Apostoli, vedendo Gesù risuscitato, provarono quella gioia che risuona ancora nella liturgia pasquale; e come la Pasqua è un’immagine della Pasqua eterna, questa gioia è la stessa che avrà la Chiesa quando, dopo aver, nel dolore, generato anime a Dio, vedrà Gesù apparire trionfante nel cielo alla fine dei secoli, tempo assai breve, se paragonato all’eternità (Mattutino). « Egli allora cambierà la nostra afflizione in un gaudio che nessuno potrà più rapirci » (Vang.). Questo gaudio santo comincia già su questa terra, poiché Gesù non ci lascia orfani, ma viene a noi per mezzo dello Spirito Santo; e nella grazia sua siamo colmati di gioia nella speranza di una felicità avvenire. Non attacchiamoci ai vari piaceri del mondo, dice San Pietro, noi che siamo stranieri e viandanti avviati verso il cielo al seguito del divino Risuscitato, ma osserviamo i precetti tanto positivi, quanto negativi del Vangelo (Ep.), affinché, facendo professione di Cristianesimo, possiamo evitare quello che disonora questo nome e praticare quanto vi è conforme (Or.) e giungere cosi alla celeste Gerusalemme. «Uno dei sette Angeli mi disse: Vieni e ti mostrerò la novella sposa, la sposa dell’Agnello. E vidi Gerusalemme che scendeva dal cielo, ornata dei suoi monili, alleluia. Come è bella la sposa che viene dal Libano, alleluia » (Respons.). L’eucaristico e divino alimento delle anime nostre protegga i nostri corpi (Postcomm.), affinché mitigando in noi l’ardore dei desideri terrestri, ci faccia amare i beni celesti (Secr.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Ps LXV: 3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui.

[Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.]

Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.

[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio 

Orémus. –

Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári.

[O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano Cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli: 1 Pet II: 11-19

“Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

(“Carissimi: Io vi scongiuro che da stranieri e pellegrini vi asteniate dai desideri sensuali, che fanno guerra all’anima. Tenete una buona condotta fra i gentili, affinché, mentre sparlano di voi quasi foste malfattori, considerando le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà. Per amor di Dio siate, dunque, sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Poiché questa è la volontà di Dio, che, operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Diportatevi da uomini liberi, che non fate della libertà un mantello per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Dio, rendete onore al re. Servi, siate con ogni rispetto sottomessi ai padroni, e non soltanto ai buoni e benevoli, ma anche agli indiscreti; poiché questa è cosa di merito; in Gesù Cristo Signor nostro”).

L’obbedienza e l’autorità come principio

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Tutta l’Epistola di questa domenica, terza domenica di Pasqua, è degna del suo autore umano e delle circostanze storiche in cui gli accadde di scrivere. San Pietro, Apostolo dell’autorità tratta precisamente dell’autorità per garantirne i diritti. Ma non si circoscrive nel suo mondo religioso, non chiede obbedienza solo ai pastori d’anime, va oltre ei direbbe guardi di preferenza, almeno a momenti, l’autorità civile. Certo egli pensa a quel mondo romano che dopo essere stato il mondo della violenza, volle essere il mondo della legge. E si preoccupa, il Pontefice, ormai romano anch’esso, di quel mondo in cui vive, se ne preoccupa in due modi, per due ragioni. Intanto quel mondo ha un suo valore spirituale, morale, vero e proprio in quanto non è pio e non vuol essere il mondo della violenza bruta e dell’arbitrio personale, quel mondo non bisogna guastarlo per pretesa, neppur per pretesi interessi spirituali superiori come certi fanatici sarebbero pronti a fare; bisogna conservarlo. Il Cristianesimo assume il suo ufficio di conservatore della civiltà. Conservarlo per se stesso, conservarlo anche per creare uno scandalo civile alle coscienze di fronte all’invito religioso del Vangelo. – Ma per conservare quel mondo civile bisogna custodire, rafforzare il principio, uno dei principi su cui regge, che è proprio l’autorità col suo correlativo: l’obbedienza. L’autorità principio unificatore, l’autorità rappresentanza dell’interesse collettivo di fronte alla somma degli interessi individuali, somma concorrente. – Il Cristianesimo per bocca dei suoi primi propagandisti più autorevoli, Pietro e Paolo, vi apporta il suggello di una vera e propria consacrazione, il paganesimo, in fondo, ha avuto – se è limitato al concetto di autorità per forza, o delle autorità entusiasmo – nell’un caso e nell’altro, un concetto personale dell’autorità, la persona del monarca (comunque poi si chiami chi comanda). Nel paganesimo, e dovunque il paganesimo, il laicismo civile risorge, comanda il più forte, in ragione ed in nome della sua forza. Il monarca è il potente, uomo o classe. – Che se poi si esce da questa situazione così precaria e avvilente, vuoi per chi comanda, vuoi per chi obbedisce, è per il rotto della cuffia dell’entusiasmo, il mito, il feticcio. Il monarca è Cesare, tutti lo acclamano e lo adulano. Di fronte alla sua autorità personale e mitologizzata l’obbedienza è servilità, una schiavitù dorata, schiavitù sempre. Il monarca nei due casi comanda, s’impone perché è lui. Il padrone sono me. Si fabbrica sull’arena mobile. Se la forza vien meno? Se l’entusiasmo si sgonfia? Che cosa succede? Dove va a finire la società di cui l’autorità è anima, vita, forza stabile, è verso la spersonalizzazione dell’autorità. L’autorità principio sostituita dall’autorità persona. E noi abbiamo di questo sforzo una formula magica nell’epistola di oggi. – « Obbedite ai vostri capi legittimi anche quando, anche se essi sono cattivi ». È l’ipotesi più terribile. La bontà e la qualità che sembra essenziale in chi comanda. Passi pure la mancanza di genio, d’ingegno, ma la bontà! La funzione del comando è proprio una funzione morale e moralizzatrice. E l’Apostolo è ben lontano dal negare in chi comanda l’utilità, la preziosità della bontà. Un buon monarca è il più grande dono di Dio a un popolo. Ma non bisogna edificare lì; neppur lì, su questa facoltà preziosissima. Guai! Si tornerebbe al personalismo; l’obbedienza è alla discrezione dei sudditi e possono giudicare le qualità personali. E perciò obbedite ai vostri capi sempre, perché sono capi, qualunque siano le loro qualità o i loro difetti… anche ai personalmente cattivi. Purché non comandino il male, purché non si erigano comandando né contro Dio, né contro la coscienza. – I Cristiani sono così i sudditi migliori, i più fidati dell’impero … d’ogni impero, d’ogni stato civile, diremmo oggi in linguaggio moderno. E perciò sono ciechi i governi che combattono il Cristianesimo; si danno la zappa sui piedi. Sono miopi i governi che accarezzano la religione per secondi fini, sono savi oltreché onesti, i governi che favoriscono senza ipocrisie, equivoci e sottintesi il Cristianesimo: lavorando in apparenza per la religione, lavorano in realtà abilmente ed efficacemente per sé.

Alleluja

Allelúja, allelúja. Ps CX: 9 Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo:alleluja.

[Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.]

Luc XXIV: 46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja.

[Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Joannes XVI: 16; 22

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabímini, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.”

 (“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Un pochettino, e non mi vedrete; e di nuovo un pochettino, e mi vedrete: perché io vo al Padre. Dissero però tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che è quello che egli ci disse: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto e mi vedrete, e me ne vo al Padre? Dicevano adunque che è questo che egli dice: Un pochetto? non intendiamo quel che egli dica. Conobbe pertanto Gesù che bramavano d’interrogarlo, e disse loro: Voi andate investigando tra di voi il perché io abbia detto: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto, e mi vedrete. In verità, in verità, vi dico, che piangerete e gemerete voi, il mondo poi godrà: voi sarete in tristezza, ma la vostra tristezza si cangerà in gaudio. La donna, allorché partorisce, è in tristezza, perché è giunto il suo tempo, quando poi ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’affanno a motivo dell’allegrezza, perché è nato al mondo un uomo. E voi dunque siete pur adesso in tristezza; ma vi vedrò di bel nuovo, e gioirà il vostro cuore, e nessuno vi torrà il vostro gaudio”.).

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

GIOIA TRISTE E TRISTEZZA LIETA

Il Vangelo questa volta ci riferisce un momento dell’ultima sera che Gesù, prima di muovere incontro alla sua agonia sanguinosa, volle passare nell’intimità degli amici più caramente diletti. Il cuore di tutti era occupato dalla prossima fine del Signore, il quale la vedeva con certezza e precisione di particolari, mentre i discepoli la presagivano con timore e confusione. « Ancora un poco, e non mi vedrete più; ma dopo un altro poco mi vedrete ancora ». Queste parole misteriose significavano la vicina morte e sepoltura che avrebbe sottratto al loro sguardo l’amato Maestro; sottratto per poco però, perché sarebbe risorto al terzo giorno per non più morire. Ma nessuno le comprese a pieno, onde si misero tutti in ansia. Gesù per calmarli dolcemente aggiunse: « Vi dico che voi gemerete e piangerete, mentre il mondo se la godrà. Ma come la donna quando giunge l’ora della sua maternità è presa da tristezza, poi dimentica ogni angoscia per la gioia d’avere un bambino, così voi: ora che me ne vado siete presi da tristezza, ma quando tornerò a vedervi, il vostro cuore godrà. E nessuno vi potrà allora strappare la vostra gioia » – Questo è il brano evangelico che commenteremo. Una volta un pagano di nome Petronio e di soprannome « arbitro delle eleganze », tra i canti e le lusinghe di un festino, bevve l’ultimo sorso di una splendida coppa. Poi disperatamente la scagliò sul pavimento ove s’infranse, indi si ritirò nel suo bagno a segarsi le vene. Ancora si suonava: e si rideva, ed egli moriva dissanguato. Così è la coppa del mondo: riso e festa e liquore inebriante, e poi in fine l’amarezza e da ultimo la disperazione della morte. Invece Gesù disse una volta a Giacomo e Giovanni, i due figli di Zebedeo: « Potete voi bere il mio calice? ». Era il calice della umiliazione, del rinnegamento, del martirio. Essi risposero: « Lo possiamo ». E dietro l’amarezza, i figli di Zebedeo vi trovarono la pace e l’amore ardente e puro, vi trovarono da ultimo la vita e la gioia eterna. Dunque, Gesù e il mondo si presentano a noi, ciascuno col suo calice, e c’invitano a bere. Il calice del mondo dà la gioia al primo contatto ma una gioia esteriore e breve e poi lascia uno sgomento intimo e infine un dolore eterno. Il calice di Gesù dà la sofferenza al primo contatto, ma una sofferenza esterna e breve: e poi diffonde una dolce serenità nel cuore e infine un gaudio immenso ed eterno. A quale calice appresseremo le nostre labbra avide di felicità? a quello della tristezza lieta o della gioia triste? – IL CALICE DELLA GIOIA TRISTE. Per due motivi la gioia del mondo è triste: perché è esteriore, perché dura poco. – a) Un grande scrittore norvegese descrive un naviglio poderoso e sicuro che porta di mare in mare uomini, mercanzie, ricchezze. La ciurma è gaia e baldanzosa, ed anche i passeggeri sono presi nel gorgo di quella allegria. A bordo si agitano mille bandierine, si balla, si suona, si cantano le giulive canzoni della terra nativa. Improvvisamente, un giorno, senza alcun palese motivo, un’ansia strana sbianca la faccia di qualche uomo. Che è successo? C’è una falla nella chiglia? Minaccia carestia? È caduto qualcuno in mare? No, no. Solo, da poppa a prua, circola una voce: « C’è un morto nella stiva… ». (Ibsen, Epistola poetica a Georg Brandes). – Simile alla gioia di quel naviglio è quella del mondo. Cercate sotto a tante illusioni di felicità, dopo tante ore di stordimento, dopo tanti giorni vissuti nella dissipazione e troverete un cadavere: l’anima soffocata, l’anima infracidita. La coscienza di essere rovinati nell’intimo è come una macchia nera che affiora sulla gioia vana dei mondani e l’amareggia tutta. E poi, il mondo offre la gioia nelle cose secondarie, e non risponde agli interessi più importanti. « Vieni con me — ci dice — che ti faccio godere ». « Volentieri: ma dove mi conduci? dove mi troverò? » « Non pensare a queste cose: adesso godi ». Ma si può veramente godere in mille bazzecole, senza aver prima conchiuso sicuramente gli affari principali, quelli che riguardano la propria esistenza? Eppure, la gioia sia del mondo è fatta così. – b) Non solo è fatta così, ma, quel ch’è peggio, essa è passeggera e ci abbandona in breve. Il profeta Giona fuori delle mura di Ninive aveva trovato un luogo meraviglioso per riposarsi e dormire i suoi sonni. Un’edera fronzuta aveva formato una specie di pergola, così densa che non lasciava passare i brucianti raggi del sole, né soffi caldi del vento: con gran sollievo si cacciò sotto quella frescura e dormì. Nella notte però un invisibile vermicciuolo rosicchiò la radice dell’edera, che accartocciò le foglie e si seccò. Al giorno dopo cominciò a soffiare un vento caldo opprimente, e il sole dardeggiava ferocemente sul capo di Giona ormai senza riparo. Il profeta soffocava e gemeva: « Meglio per me morire che vivere sfortunato così » (Giona, IV, 5-8). E quand’anche un uomo potesse assicurarsi onori, piaceri, danari per tutta la vita, non potrà certo assicurarsi contro il verme insonne del tempo che gli divora la stessa vita. Chi può godere spreoccupatamente in una casa, le cui fondamenta sono rose da un fiume sotterraneo? Se pensa che forse fra un anno, fra sei mesi franerà, che forse in una notte mentr’egli dorme sarà travolto, un’inquietudine assillante gli rende triste ogni gioia. Ebbene, la gioia del mondo è fatta così. – IL CALICE DELLA TRISTEZZA LIETA. Per due motivi la tristezza del calice di Gesù è lieta: perché è passeggera e superficiale; perché ci conduce a un gaudio immenso ed eterno. – a) La tristezza del Cristiano è passeggera, poiché egli sa di essere in viaggio. « Mi spiace, signore, che ella debba restare in piedi » dicevano ad un viaggiatore sul treno: ed egli sorridendo rispose: « Non si cruccino per me: è tanto breve il mio percorso! ». In questa vita noi siamo come su di un treno in corsa. Dobbiamo però stare in piedi e vigili contro il demonio, contro le nostre passioni, contro il mondo, qualche volta poi dobbiamo stare in piedi perché ci mancano i mezzi di star comodi, o perché qualche angoscia non ci permette di restare tranquilli. Ma che importa! Noi sappiamo che il nostro percorso è breve: poi scenderemo alla nostra città, entreremo nella nostra casa dove tutto è preparato per accoglierci secondo il nostro desiderio. Anzi, meglio ancora. Inoltre, la tristezza del Cristiano è superficiale. Quando egli soffre o per resistere al male, o per fare il proprio dovere, o per accettare la volontà misteriosa di Dio, egli sente in fondo al suo cuore percosso dal dolore scaturire un’onda di pace. È la certezza di diventare migliore, di assomigliare di più a Gesù Cristo di cui è seguace, di piacere di più a Dio, d’essere da Lui più amato. – « Ho 72 anni, — diceva quel caro vecchio di S. Leonardo da Porto Maurizio — e non sono stato infelice neppure un’ora ». Forse che gli erano mancati affanni e croci? tutt’altro. Ma la tristezza del vero Cristiano è irrigata da una sorgente di pace e di letizia che a poco a poco la sommerge. « Ho 72 anni, — esclamò invece il grande poeta Goethe, — e non sono mai stato un’ora felice ». Eppure non gli era mancata né la ricchezza, né l’applauso di re e di popoli, né l’esperienza di tanti piaceri. Ma la gioia mondana è irrigata da una sorgente amara. – b) Ma ciò che fa più lieta la tristezza del Cristiano è il gaudio immenso ed eterno che sta dietro di essa. È la vita felice scevra di pene e travagli, di dolorî e timori; è la vita pienamente felice sotto lo sguardo di Dio, in compagnia di Dio, derivata da Dio; è la stessa vita di Dio eternamente felice. Tutto ciò a cui s’è rinunziato, tutto ciò che abbiamo sacrificato per essere buoni, per essere di Cristo, si ritrova ancora tutto infinitamente aumentato nella vita eterna in Cristo. Omnia autem vestra sunt: vos autem Christi. Ora la certezza e la grandezza del premio rende dolce la fatica che ce lo merita, sopportabile la via spinosa che ad esso ci porta, accettabile la lotta che ce lo conquista. – L’operaio che lavora in mezzo ai gas e ai rumori dell’opificio canta per la speranza della paga. Il viandante che cammina per regioni deserte e pericolose, sotto l’acqua o sotto il sole, di notte o di giorno, nonostante la stanchezza, canta perché s’avvicina alla sua casa, ai suoi. Il soldato che combatte nella trincea, tra una battaglia e una battaglia, canta per la gioia di fare una patria più libera e più forte. Ma una speranza assai più grande di tutte queste nasce dalla sofferenza del Cristiano e la fa lieta. Perciò egli fatica e canta; cammina e canta, combatte e canta.

– « Un poco ancora e poi non mi vedrete più: un poco ancora e poi mi rivedrete ». Udendo queste parole che indicavano la prossima sua morte e resurrezione, gli Apostoli non ne afferrarono il senso; e camminando a fianco dietro a Lui bisbigliavano tra loro e dicevano: « Che cosa vuol dire il Maestro? Che è mai questo: un poco ancora? ». Il Signore s’accorse di quella incomprensione e spiegò amorevolmente il suo pensiero così: « In verità, in verità! voi gemerete, voi piangerete mentre il mondo godrà. Ma un poco ancora e poi la tristezza vostra diverrà allegrezza che più nessuno vi potrà rapire ». In queste parole di Gesù Cristo notate una dolcissima verità. Egli annuncia i gemiti e i pianti della sua morte imminente, ma subito conforta l’anima dicendo che dureranno poco: « Un poco ancora e poi mi rivedrete per sempre ». Così nella nostra vita noi gemeremo e piangeremo, ma i pianti e i gemiti dureranno poco, perché verrà il Paradiso a portarci un’allegrezza senza fine. Un poco ancora! In questa parola è racchiuso tutto il motivo della nostra rassegnazione nei dolori, tutto il motivo della nostra perseveranza nella virtù. – RASSEGNAZIONE. Ogni mattino, quando ci alziamo, ci troviamo di fronte a delle croci. Ecco in famiglia c’è una persona cara gravemente ammalata. Ogni rimedio è inutile, ogni cura è vana: di ora in ora ella se ne va lontano lontano, e ci sentiamo morire con lei. Forse ci siamo appena tolto dal braccio una striscia di crespo nero, che siamo costretti a metterne un’altra come una benda che copra una nuova ferita, quando l’altra non s’è ancora rimarginata. Ahimè! la ferita non è al braccio, ma al cuore. – Ecco negli affari, dopo tante fatiche, dopo tanti viaggi e notti insonni, siamo ridotti in terribili contingenze; l’avvenire ci si prospetta davanti a colori foschi; i nostri figliuoli ci chiedono pane ed educazione, e non possiamo prevedere che cosa daremo a loro. – Ecco nei campi, dopo tanti sudori e tante spese per lavori e concimi, una tempesta, una brinata, una siccità dissolvono le nostre speranze come il vento sparpaglia le nubi. Ecco nella società, dove ci sforziamo di essere onesti e generosi, una persona cattiva ci fa del male, ci attenta nell’onore, ci tradisce, ci rende lo zimbello del vicinato. Insomma, si chiamerà dolore domestico, triste peso del presente, timore dell’avvenire, pena per vedere tormentati i nostri cari, astio vicendevole, separazione, malattia, speranza delusa, ma la croce ci accompagna sempre nella nostra vita. Credere di trovare una casa, un focolare senza queste ferite più o meno profonde, è una illusione. E allora? Allora ricordiamo la dolce parola di Gesù che va alla morte: « Un poco ancora ». Pazienza un poco ancora, o Cristiani; voi che siete tribolati, voi che dopo una tribolazione ne trovate un’altra, pazienza un poco ancora, che passerà tutto. Che cosa è la nostra vita? Un soffio; per quanto doloroso, sarà sempre breve. Perciò unite le vostre sofferenze a quelle del Crocifisso, sopportate in dolce rassegnazione, e acquisterete un gaudio senza fine. – PERSEVERANZA. Fare una buona confessione a Pasqua, fare degli ottimi propositi è abbastanza facile; difficile invece è perseverare nel bene. Facile è dire: « Sono superbo, sarò umile ». Ma appena qualcuno ci schiaccia la coda, subito dalla pianta dei piedi fino alle tempie il sangue rigurgita, e non ne possiamo più. « Fino a quando, o Signore, dovrò umiliarmi? » Pazienza, ancora un poco. – Facile è dire: « Sono voluttuoso, sarò casto ». Ma quando nello studio, nell’officina, si è costretti ad ascoltare discorsi immondi, avvicinare persone tentatrici, quando per giorni interi i pensieri disonesti fanno guerra nella nostra anima, ne non ne possiamo più e ci vien fatto d’esclamare: « Fino a quando dovrò lottare così? » Pazienza, ancora un poco. È facile dire: « Sono violento, sarò dolce ». Ma se in casa la moglie non è attenta, ma se un figlio commette uno sbaglio, ma se lavorando si guasta un arnese, subito ci viene tra i denti una bestemmia e ci sforza le labbra per uscire, ma subito una forza terribile vuole agitarci come ossessi. Nello sforzo duro di contenerci, che ci fa sudare, noi ci sentiamo stanchi. « Fino a quando, o Signore, dovrò comprimermi così?» Pazienza, ancora un poco. Gran Dio, che lotta e che guerra crudele! Ci sono dentro noi due uomini di cui uno deve necessariamente morire: ma attenti, non è tanto facile ucciderlo, essendo da una parte sostenuto dall’inferno e dall’altra dal mondo. E di giorno e di notte saranno già dieci mesi, dieci anni, vent’anni forse che dura questo duello a morte. ed ohimè, quante ferite, e che dolori, ma fortunatamente anche quante vittorie! Ma fino a quando dovremo durarla così? La vita è breve; pazienza, ancora un poco. – Ricordate gli Israeliti nel deserto. Per lo spazio di quaranta giorni si trattenne Mosè con Dio sul monte Sinai per ricevere le tavole della legge. Ed essi aspettavano ogni dì la sua discesa, e l’aspettarono con desiderio per trentacinque giorni, mantenendosi fedeli a Dio, osservanti dei riti, ubbidienti ad Aronne. Ma poi non vedendolo tornare, si stancarono d’attenderlo: « Fino a quando — dicevano — dovremo noi rimanere in aspettativa? ». E allora come avevano veduto fare in Egitto, cambiata la modestia in dissolutezza, la pietà in gioco, la religione in idolatria, si fabbricarono un vitello d’oro e con matta insolenza l’adorarono. Dopo nemmeno cinque giorni arrivò, raggiante di fulgore, Mosè; stritolò quel vitello infame, spezzò le tavole e comandò che a fil di spada fossero passati tutti gli idolatri: ne restarono uccisi ventitré mila. Disgraziati Israeliti, avessero avuto pazienza di aspettare ancora cinque giorni! Ma più disgraziati quei Cristiani che, stanchi di lottare contro le passioni, si abbandonarono al demonio; essi per avere cinque giorni di falso godimento si procurarono una eternità di pene atroci. – Quando Filippo, padre d’Alessandro il grande, vide il modello della città d’Atene che cento ambasciatori gli presentavano, se ne invaghì tanto che proruppe in quella risoluzione: « O col ferro o con l’oro questa città deve essere mia ». Ecco che Gesù Cristo in questo brano di Vangelo ci presenta il modello della Città celeste del Paradiso: « Dopo questo po’ di tristezza — ci dice — io vi vedrò di nuovo e godrà il vostro cuore, e nessuno vi potrà più rapire la vostra gioia! » O giorno meraviglioso quando entreremo in cielo! I nostri occhi vedranno il Salvatore, le nostre orecchie udranno le armonie angeliche, i nostri cuori gusteranno dolcezze eterne, la nostra anima abiterà dimore splendenti e olezzanti. Nel conquistare questa città ci lasceremo spaventare da quel « poco ancora » di rassegnazione alle croci e di perseveranza nelle virtù, che è necessario? « Costi quel che costi — diciamo noi pure insieme a Filippo re — costi quel che costi, ma il Paradiso deve essere mio! ».

– Era l’ultima volta che Gesù parlava a’ suoi discepoli prima di morire. Guardandoli con la tenerezza di un padre che sta per partire, li mette in guardia dai pericoli del mondo, e dalle illusioni di un roseo avvenire. Diceva: « Tra poco e non mi vedrete; un altro poco e mi rivedrete ». Gesù alludeva alla sua morte vicina, e alla sua resurrezione. Gli Apostoli non capivano nulla e Gesù, che leggeva a loro negli occhi, aggiunse: « In verità vi dico che voi gemerete e piangerete; il mondo invece godrà ». Non scandalizzatevi; Cristiani, se Dio ha spartito le cose del mondo così che ai cattivi toccassero le gioie e ai buoni rimanessero soltanto le lacrime e i dolori. Non scandalizzatevi perché nel Vangelo d’oggi c’è una parola che spiega tutto: « Modicum! ». Spesso ci capita d’ascoltare i Cristiani a lamentarsi: « A questo mondo più s’è cattivi e più si ha fortuna. C’è della gente che non va in Chiesa, non rispetta nessuna legge, eppure è sempre beata: non malattie in casa; non odiosità fuor di casa; hanno roba; hanno danaro; hanno tutto. Noi invece non possiamo mai tirare avanti liberamente: è la morte, è una disgrazia, è un affare che va a male, e sempre c’è da piangere… ». Ricordiamoci della parola del Signore: « Modicum »: poco. Quaggiù tutto dura poco. Poco il dolore e poco la gioia. Non dobbiamo attaccare quindi il nostro cuore a cose che durano tanto poco; ma dobbiamo cercare il nostro bene dove durerà sempre: in Paradiso. Meditiamo la parola di Gesù, e ne otterremo conforti e speranze per il travaglio duro della nostra vita. – VOI PIANGERETE MENTRE IL MONDO GODRÀ. Quando noi osserviamo la vita pagana delle nostre città, e nei giorni di festa anche nei piccoli paesi, così buoni una volta, ci par di riudire il canto dei voluttuosi, come è scritto nel libro della Sapienza: « Circondiamo le nostre tempia di rose prima che marciscano: non ci sia piacere da noi non provato, non ci sia peccato da noi sconosciuto ». Coronemus nos rosis! È una folla di uomini, di donne, di giovanetti che, a coronarsi di queste rose, si riversano ogni giorno nelle sale dei teatri, dei cinematografî, dei balli… E dentro si vede, si ascolta, si ride, si salta; e si vende l’anima al diavolo. Intanto si perde l’amor della propria casa, dei propri figli; i figli sono spine per questi gaudenti, e allora li rifiutano conculcando ogni legge umana e divina. Coronemus nos rosis! È un’altra folla di persone che avida legge i libri, riviste, giornali. Sono romanzacci dove le infamie più vergognose riempiono le pagine; sono novelle fetide di corruzione e di incredulità; sono figure impudiche che ridestano nei sensi il fuoco delle passioni. A quelle letture la mente si popola di fosche immagini, il cuore si accende a desideri impuri, la notte è profanata da sogni brutti. L’anima è invasa da una nebbia grassa che non lascia intravedere Dio: e non si prega più. Coronemus nos rosis! È un’altra folla ancora che vive soltanto per il gioco, e nel gioco consuma il tempo e magari tutto il denaro della famiglia. Per il gioco commettono ingiustizie, si tralascia il rosario in famiglia, si perde la Messa e la dottrina cristiana. Quanta gioventù sciupa tutta la festa negli sports! Che cosa ci potranno dare, domani se non hanno mai sentito parlare della loro anima, dei loro doveri? La rosa del piacere si vuole e non la spina del dovere. Voi, invece, o buoni Cristiani, voi soffrite nella mortificazione del vostro corpo e delle vostre passioni, voi soffrite nell’osservanza della legge di Dio. Ed è giusto che sia così, ce lo dice Tertulliano: « Nostræ cœnæ, nostræ nuptiæ nondum sunt » (De Spect., 28). Il tempo dei nostri festini e delle nostre nozze non è giunto ancora, per ciò non possiamo gioire coi mondani. Quaggiù siamo in viaggio: e quando si cammina non ci si può fermare a divertirsi, altrimenti non si arriva più alla mèta. Quaggiù abbiamo dei grandi affari: amare Dio, salvare l’anima. Ma se qualcuno ha la testa nei divertimenti, non può combinare nessun affare buono. Quaggiù è tempo di battaglia: i soldati che in guerra s’abbandonano alle mollezze, come quelli d’Annibale a Capua, non avranno forza per vincere. Consoliamoci però, non sarà sempre così. Anzi questo tempo è breve: Modicum. Un poco, e poi le rose dei mondani marciranno, e le nostre spine fioriranno un’eterna primavera. – IL VOSTRO PIANTO DIVERRÀ GIOIA. Un giorno a S. Giovanni fu concesso di contemplare i Santi in gloria. Stavano nella luce, nella gioia, nel canto, davanti al trono dell’Agnello. Vestivano con lunghe stole bianche ed agitavano nelle mani palme stupende. S. Giovanni rimase estatico. Uno di essi, vedendo senza dubbio lo stupore dell’Apostolo, gli domandò: « Questi che vedi vestiti di bianche stole, chi sono? Donde vennero? ». E Giovanni dovette confessare la propria ignoranza. « Sappi, gli fu detto allora, che essi sono venuti da una grande tribolazione ». Venir dalla tribolazione! Ecco il miglior titolo per godere in Paradiso. Rallegratevi tutti voi che soffrite, perché siete sulla via del gaudio; tra poco ogni vostra lacrima sarà un sorriso; ogni vostra pena una eternità di gioie. È sulla via della gioia quel giovane onesto che, mentre vede i suoi compagni correre ai divertimenti, frequenta la Chiesa e l’oratorio. È sulla via della gioia quel buon padre di famiglia che è pronto a patir anche la fame, pur di non violare la legge del Signore! È sulla via della gioia quella buona donna, dimenticata da tutti, forse disprezzata anche da quelli che tanto ama, che tutto riceve dalle mani di Dio e soffre con rassegnazione. – Vediamo ora un’altra scena del Vangelo. La scena è divisa in due. In basso un orribile abisso pieno di fuoco; e nel fuoco un uomo brucia e urla: « Abramo! Abramo! » In alto una regione purissima di luce, di melodie. In quella luce, tra quei fiori, tra le musiche, vi è un altro uomo che beatissimo gode. « Abramo! Abramo! », si urla disperatamente dall’abisso ardente. Abramo ascolta quel pianto lungo e straziante. « Abramo, abbi pietà di me. Mandami Lazzaro e digli che col suo dito mi lasci cadere una goccia d’acqua sulla lingua, ché son tutto una fiamma ». E Abramo a lui: « Ti ricordi quando tu vestivi di porpora e bisso e banchettavi ogni giorno nel tuo palazzo? Allora Lazzaro pieno di ulceri giaceva sulla tua porta, e bramava le briciole cadute dalla tua mensa per placare la sua fame. Ma nessuno gliene dava: solo i cani gli lambivano le piaghe cancrenose. Sappi dunque ché tu in vita avesti le gioie, e Lazzaro ebbe i dolori. Ora, e per sempre, Lazzaro godrà e tu soffrirai ». Ecco, o Cristiani, i due destini dell’uomo: goder per pochi anni e soffrire per tutta l’eternità, oppure, soffrir per pochi anni e godere per tutta l’eternità. Quale scegliete per voi? – La sponda è fiorita e dolce è il pendio. In lontananza si estende radioso il sole che tramonta, un vasto strato d’acqua che somiglia ad uno specchio. Sopra una barchetta abbellita da nastri, dei giovani in abito festivo si divertono graziosamente cantando. Sulla riva, un fanciullo sorride e tende le braccia. « Vieni! Vieni! », dicono i gitanti. « Sì, Sì! ». E nel momento in cui il piccolo legno tocca il lido, nel momento in cui il fanciullo si slancia, un braccio vigoroso lo trattiene e lo porta via. È suo padre. « Cattivo! » dice il fanciullo tentando di svincolarsi. Il giorno dopo, una barca vuota e sbattuta dalle onde venne a cozzare contro la sponda. Il fanciullo ancor triste e di cattivo umore, a quella vista comprese la disgrazia a cui era sfuggito; e gettandosi al collo del padre, lo baciò, singhiozzando di tenerezza: « Grazie, Grazie! ». Quante volte ancor noi, mentre sognavamo giorni tranquilli, affari deliziosi, onori, gioie, mentre sognavamo di slanciarsi in barca a traversare, cantando, il lago della vita, abbiamo sentito un braccio vigoroso strapparci dalle nostre illusioni. Era una disgrazia, una malattia, una calunnia, la miseria, l’umiliazione… O meglio, era la vigorosa mano del nostro Padre celeste. Noi in quel momento abbiamo imprecato contro Dio, e forse ancora oggi imprechiamo… Ma verrà un giorno in cui sapremo il perché d’ogni nostra pena e comprenderemo come sarebbe stata la nostra rovina, quella gioia che noi tanto agognavamo. Allora anche noi, come il fanciullo della leggenda, getteremo le braccia in collo a Dio, e piangendo di riconoscenza, gli diremo: « Grazie, buon Dio, d’avermi fatto soffrire! ». – IL DOLORE CRISTIANO. Mundus gaudebit; vos autem contristabîmini, sed tristitia vestra vertetur in gaudium. S. Agostino dice che due amori hanno fatto due città del mondo: Civitates duas fecerunt amores duo.L’uno è l’amore di Dio che ha formato la città dei buoni, i quali vivono nel dolore e nel rinnegamento d’ogni passione. L’altro è l’amore dell’io che vuol la soddisfazione delle proprie voglie ed ha formato la città del mondo che ama la pazza gioia. Mundus gaudebit.Ma perché Gesù ha voluto serbare il dolore per i buoni? Ecco: dal giorno che Adamo e Eva si ribellarono per superbia a Dio, nella nostra natura, ferita dal morso del demonio, si levò un istinto peccaminoso che prepotentemente ci spinge verso ciò che è proibito.Sul nostro occhio è venuto come un velo di polvere che ci fa piacere ciò che ci dovrebbe far paura, che ci tinge di bei colori ciò che in realtà è assai brutto. L’inganno di cui si sentiva vittima anche San Paolo quando scriveva: « Non comprendo quel che faccio: poiché il bene ch’io voglio non lo compio, mentre il male che non vorrei lo faccio ».Per vincere quest’inganno è necessaria un’acqua che deterga quella polvere dai nostri occhi, che ci faccia vedere le cose secondo la fede e non secondo il mondo.Quest’acqua misteriosa sono le lacrime: il dolore. Allora non lamentiamoci della nostra croce, ma portiamola con gioia dietro a Gesù Cristo che ce ne ha dato il primo e insuperabile esempio.Il dolore è la medicina amara che ci guarisce: esso ci stacca dalle cose mondane e ci merita il Paradiso. – CI SI STACCA DALLE COSE VANE DEL MONDO. A Cortona viveva una donna assai ricca. Il suo nome era tristamente famoso: Margherita. Ella non aveva altra ambizione che quella di apparire, null’altra brama che di godere. Chissà quanti richiami Dio aveva già lanciati al suo cuore ardente: ma sempre invano. Deus quos amat castigat. Una sera Iddio la chiamò col dolore. L’uomo, col quale conviveva, non era tornato come al solito, colle prime ombre della notte: eppure dall’alba era partito col suo cane per la caccia. Margherita s’impensierì, poi si agitò, poi non ebbe più pace in quell’aspettativa crudele. Finalmente s’udì un lungo latrare: era il cane fedele, ma col pelo arruffato, ma con macchie di sangue sul pelo. E con più giri circondò la padrona e coi guaiti le significò che l’invitava a seguirlo. Era notte. E Margherita corse nel buio, per viottoli sassosi e spinosi dietro alla bestia che abbaiava incessantemente. Quando il cane si fermò, nel folto dei cespugli, la donna intravvide il cadavere intriso di sangue. Urlò di dolore, pianse, si stracciò le vesti come una pazza. Ma da quella sera i suoi capelli furono cosparsi di cenere, le sue gote rigate di pianto, le collane e le perle vendute per i poveri, gli abiti di seta cambiati con sacco, la sua splendida dimora abbandonata per la nuda cella del convento. E cominciò a pregare, a vegliare, a macerarsi, ad amar Dio con l’ardenza dei Serafini. La gaudente divenne la penitente, la peccatrice si fece una santa. Chi ebbe tanta forza da strapparla così decisamente dalla sua perduta via? Il dolore. – Ed anche noi possiamo vedere ai nostri giorni queste belle trasformazioni operate dal dolore e dalla croce. Chi ha persuaso quell’uomo, che da molti anni non faceva la Pasqua, ad accostarsi ai sacramenti? La morte di una sua bambina; un disastro finanziario; un’umiliazione in società. Quand’è che quella donna è tornata modesta, seria? Dopo la morte di suo marito, dopo quella malattia che l’ha condotta in fin di vita, dopo quella tribolazione in famiglia. Le disgrazie, le croci ci privano delle gioie quaggiù. Ma che cosa sono questi beni terreni? Sentiamo Salomone: « Ho detto allora a me stesso: godiamo di tutti i beni, andiamo in mezzo a tutte le delizie…; mi feci palazzi e giardini, limpidi laghi bagnavano al basso le mie foreste; possedevo numerosi greggi e le mandrie più belle d’Israele; avevo vasi d’oro e d’argento; avevo servi ed ancelle, cantori e cantatrici. Avevo tutte le delizie degli uomini. Niente ho negato alle brame degli occhi miei, nessuna voluttà ho negato al mio cuore. Chi più di me ha divorato tutto il fremito gioioso dei piaceri, e l’ebbrezza dei sensi? Ed ho veduto che il riso è una menzogna e la gioia un inganno. Niente sotto il sole ha valore: tutto è vanità e amarezza dell’anima ». Il cuore dello stolto sogni la gioia! Mundus gaudebit. Il cuore del sapiente ha cara la tristezza! Vos autem contristabimini. Se il dolore non fa altro che distaccare da una falsa felicità, non lamentiamoci più contro la divina Provvidenza, ma baciamo con riconoscenza quella mano che ci percuote per nostro bene. – CI MERITA IL PARADISO. In una chiesa di Pisa, Cristo apparve a S. Caterina da Siena, mostrandole due corone: l’una d’oro, l’altra di spine. E le diceva: « Tu devi portare queste due corone ma in tempi differenti: se porti ora quella d’oro, quella di spine l’avrai per tutta l’eternità ». Caterina rispose: « O Signore, voi sapete che la mia scelta è fatta da lungo tempo… ». E stendendo le braccia, prese la corona di spine, la baciò e se la pose in capo. Ecco perché i santi, che sono i veri sapienti della vita, hanno portato con gioia la croce; anzi l’hanno cercata con desiderio. Il fratello di S. Pietro Apostolo era giunto nelle sue peregrinazioni apostoliche fin nell’Acaia, ove s’attirò le ire del proconsole. Fu rinchiuso in un carcere e poi condannato al supplizio della croce. Ma quando, accompagnato dagli sgherri, legato, battuto, egli vide da lontano comparire la sua croce, le protese le braccia ed eruppe in un cantico stupendo: « Salve, crux! quæ diu fatigata, requiescis exspectans me suscipe me, et redde Magistro meo ». Salve, o croce, bramata da lungo tempo! prendimi nelle tue braccia e rendimi a Gesù.Questi devono essere i sentimenti dei veri Cristiani davanti alle tribolazioni della vita. Senza patire non si entra nel regno eterno della gioia. Per multas tribulationes oportet nos intrare in regnum Dei (Atti, XIV, 21).Il Paradiso è l’eredità dei figli di Dio. E non si è figli di Dio, se non si è fratelli di Gesù Cristo, unico Figlio naturale di Dio.Ma come si può pretendere di essere fratelli di Cristo, quando cerchiamo la corona di rose mentre Egli è coronato di spine? Quando ci rifiutiamo di portar, come lui, la nostra croce? Si quis vult post me venire abneget semetipsum, tollat crucem suam. Prendiamo dunque la nostra croce da portare, ed il pensiero del premio che ci aspetta c’infonderà coraggio: Quia non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam. – Suor Teresa del Bambino Gesù aveva avuto l’incarico di assistere una suora vecchia e inferma. Tutte le sere alle sei meno dieci doveva interrompere la sua meditazione per condurla in refettorio. Questo servizio le costava assai, perché sapeva la difficoltà o meglio l’impossibilità di contentare la povera inferma. Quando la vedeva scuotere l’orologio a polvere doveva armarsi di santo coraggio e cominciare una sequela di cerimonie. Doveva smuovere e tirare una panca, ma sempre al medesimo modo, sorreggerla per la vita e accompagnarla leggermente. Se per disgrazia le sfuggiva un passo falso, subito si sentiva un aspro rimbrotto « Ma buon Dio, andate troppo lesta, così mi fate rovinare ». Se poi andava piano « Muovetevi dunque, non sento più la vostra mano. Lo dicevo che eravate troppo giovane per accompagnarmi! ». Una sera d’inverno, che faceva freddo ed era buio, mentre compiva questo penoso ufficio, la piccola santa udì venir da lontano il suono armonioso di molti strumenti: e subito si presentò alla sua fantasia la ricca sala dorata, le luci, i profumi, il fruscìo delle vesti di seta e le mille cortesie. Mundus gaudebit! Ed ella era là, sola: nel freddo, nel buio, nello squallore ruvido del chiostro; ella che era pur giovane e ricca; ella che era stata abituata alle squisitezze d’una soave famiglia signorile: era là con gli occhi pieni di lacrime accanto a quella vecchia monaca crucciosa che la tormentava… Vos autem contristabimini! Ma ora la piccola santa non soffre più. Ora ogni cuore le offre un palpito, ogni Chiesa un altare. Ed ella è beata e gloriosa tra le armonie degli Angeli ed il sorriso del suo Sposo diletto Gesù. Così sarà pure dei nostri dolori, se sapremo accettarli come Cristiani. Tristitia vestra vertetur in gaudium.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps CXLV: 2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja.

[Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]

Secreta

His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia.

[In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joannes XVI: 16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja.

[Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis.

[Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

DOMENICA SECONDA DOPO PASQUA (2022)

DOMENICA II DOPO PASQUA (2022)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

Questa Domenica è chiamata la Domenica del Buon Pastore (Questa parabola fu da Gesù pronunziata il terzo anno del suo ministero pubblico allorché, alla festa dei Tabernacoli, aveva guarito a Gerusalemme il cieco nato. Questi è dai Giudei cacciato dalla Sinagoga, ma Gesù gli offre la sua Chiesa come asilo e paragona i farisei ai falsi pastori che abbandonano il loro gregge). Infatti, San Pietro, che Gesù risuscitato ha costituito capo e Pastore della sua Chiesa, ci dice nell’Epistola che Gesù Cristo è il pastore delle anime, che erano come pecore erranti. Egli è venuto per dare la propria vita per esse ed esse gli si sono strette intorno. Il Vangelo ci narra la parabola del Buon Pastore che difende le pecore contro gli assalti del lupo e le preserva dalla morte (Or.), e annunzia pure che i pagani si uniranno agli Ebrei dell’Antica Legge e formeranno una sola Chiesa e un solo gregge sotto un medesimo Pastore. Gesù le riconosce per sue pecorelle ed esse, come i discepoli di Emmaus « i cui occhi si aprirono alla frazione del pane » (Vang., 1° All., S. Leone, lezione V), riconoscono a loro volta, all’altare ove il sacerdote consacra l’Ostia, memoriale della passione, che Gesù « il Buon Pastore che ha dato la sua vita per pascer le pecorelle col suo Corpo e col suo Sangue » (S. Gregorio, lezione VII). Levando allora il loro sguardo su Lui (Off.), esse gli esprimono la loro riconoscenza per la sua grande misericordia (Intr.). « In questi giorni, dice S. Leone, Io Spirito si è diffuso su tutti gli Apostoli per l’insufflazione del Signore e in questi giorni il Beato Apostolo Pietro, innalzato sopra tutti gli altri, si è sentito affidare, dopo le chiavi del regno, la cura del gregge del Signore » (2° Notturno). È questo il preludio alla fondazione della Chiesa. Stringiamoci dunque intorno al divino Pastore delle anime nostre, nascosto nell’Eucarestia, e di cui il Papa, Pastore della Chiesa universale, è il rappresentante visibile.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXXII: 5-6. Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Ps XXXII: 1. Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.

[Esultate, o giusti, nel Signore: ai buoni si addice il lodarlo.]

Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúja: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui in Filii tui humilitate jacéntem mundum erexísti: fidelibus tuis perpétuam concéde lætítiam; ut, quos perpétuæ mortis eripuísti casibus, gaudiis fácias perfrui sempitérnis.

[O Dio, che per mezzo dell’umiltà del tuo Figlio rialzasti il mondo caduto, concedi ai tuoi fedeli perpetua letizia, e coloro che strappasti al pericolo di una morte eterna fa che fruiscano dei gàudii sempiterni].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. [1 Petri II: 21-25]

Caríssimi: Christus passus est pro nobis, vobis relínquens exémplum, ut sequámini vestígia ejus. Qui peccátum non fecit, nec invéntus est dolus in ore ejus: qui cum male dicerétur, non maledicébat: cum paterétur, non comminabátur: tradébat autem judicánti se injúste: qui peccáta nostra ipse pértulit in córpore suo super lignum: ut, peccátis mórtui, justítiæ vivámus: cujus livóre sanáti estis. Erátis enim sicut oves errántes, sed convérsi estis nunc ad pastórem et epíscopum animárum vestrárum.

[Caríssimi: Cristo ha sofferto per noi, lasciandovi un esempio, affinché camminiate sulle sue tracce. Infatti Egli mai commise peccato e sulla sua bocca non fu trovata giammai frode: maledetto non malediceva, maltrattato non minacciava, ma si abbandonava nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava; egli nel suo corpo ha portato sulla croce i nostri peccati, affinché, morti al peccato, viviamo per la giustizia. Mediante le sue piaghe voi siete stati sanati. Poiché eravate come pecore disperse, ma adesso siete ritornati al Pastore, custode delle anime vostre].

In queste due parole « mors et vita » si compendia tutta la storia dell’umanità, individua e sociale. Due parole che si integrano a vicenda pur sembrando diametralmente contrarie, parole la cui sovrana importanza dal campo fisiologico si riverbera nel mondo spirituale. Che cosa è il Cristianesimo? Dottrina di vita, o dottrina di morte? Amici e nemici hanno agitato il problema, delicato e difficile anche per la varietà dei suoi aspetti, grazie ai quali quando fu imprecato al Cristianesimo dai neo pagani, come a dottrina velenosa e deprimente di morte, si poté rispondere e si rispose da parte nostra, rivendicando al Cristianesimo l’amore, il culto della vita; e quando invece da noi si esalta la dinamica vitale del Cristianesimo, si poté e si può dagli avversari rammentare tutto un insieme cristiano di austere parole di morte. La soluzione dell’enigma ce la dà San Pietro nella Epistola odierna. Il Cristianesimo è tutto insieme un panegirico di vita e un elogio di morte; ci invita a respirare la vita a larghi polmoni, ci invita ad accettare quel limite immanente della vita che è la morte. Tutto sta nel determinare bene: a che cosa dobbiamo morire per essere Cristiani? e a che cosa dobbiamo rinascere? Ce lo dice San Pietro in due parole dopo averci rimesso davanti l’esempio di N. S. Gesù Cristo, che prese sopra di sé i nostri peccati, espiandoli in « corpore suo super lignum. » Noi Cristiani dobbiamo morire al peccato, vivere alla giustizia. Morire al peccato, come chi dicesse morire alla morte, negare la negazione. Negare la negazione è la formula scultoria della affermazione. Morire alla morte è formula di vita…. e noi dobbiamo morire al peccato, cominciando dal convincerci che il peccato è morte, e che quindi si vive davvero morendo a lui. Purtroppo, il grande guaio è la riputazione che il peccato si è venuto usurpando. Il male morale si è usurpato una fama di cosa viva e vivificatrice. Noi viviamo, dicono con orgogliosa e fatua sicurezza quelli che si godono la vita e cioè la sfruttano, la sciupano, quelli che lasciano la briglia sciolta a tutte le passioni, non escluse le più vergognose e mortifere. Noi viviamo, dicono i seguaci del mondo; i loro divertimenti, le loro dissipazioni, i loro giochi, i loro folli amori, le loro vanità gonfie e vuote, tutto questo chiamano vita, esaltano come se fosse veramente tale. E della vita tutto questo simula le apparenze. Ma è febbre, calore sì, ma calore morboso; troppo calore… anche il precipitare è un moto, ma chi vorrebbe muoversi a quel modo? chi vorrebbe considerare come forma classica di moto il precipitare, la corsa pazza d’una automobile priva dei suoi freni? Così si muovono, così vivono i mondani. A guardar bene, sono come quei prodighi che vivono mangiando il capitale. Bella forma di economia! Il peccato ci logora, ci sciupa; è usura, logoramento delle nostre risorse più vitali. Così in realtà chi vive nel peccato, muore ogni giorno più alla vera vita. Chi folle, persegue l’errore, atrofizza, a poco a poco, quella capacità di rintracciar il vero che solo merita il nome di intelligenza, di vita intellettuale. Chi ama il fango, la materia, paralizza, a poco a poco, quella capacità di amare spiritualmente che è la vera forma di amare. Il programma della nostra vita cristiana deve essere un altro, tutt’altro; vivere per la giustizia. Gesù Cristo voleva che la giustizia fosse per noi cibo e bevanda. Beati quelli e solo quelli che hanno fame e sete di giustizia. Questo ardore per la giustizia è nell’uomo vita vera e duratura. Parola sintetica quella parola giustizia: tutto ciò che è diritto, che è vero, che è alto, che è dovere nostro, volontà di Dio. In questo mondo superiore devono appuntarsi le nostre volontà, dirigersi i nostri sforzi. Lì è vita, la forza, l’entusiasmo, la gioia vera, umana. Il cristianesimo ci ha fatto sentire la nostra vocazione autentica. Siamo una razza divina. Le razze inferiori possono vivere di cose basse: le superiori solo di cose alte. Razza divina, noi abbiamo bisogno proprio di questo cibo divino che è la giustizia. Di questo, con questo viviamo. Senza di esso, fuori di esso è la morte.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Alleluja

Allelúja, allelúja Luc XXIV: 35.

Cognovérunt discípuli Dóminum Jesum in fractióne panis. Allelúja

[I discepoli riconobbero il Signore Gesú alla frazione del pane. Allelúia].

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ. Allelúja.

[Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.

Joann X: 11-16.

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis: Ego sum pastor bonus. Bonus pastor ánimam suam dat pro óvibus suis. Mercennárius autem et qui non est pastor, cujus non sunt oves própriæ, videt lupum veniéntem, et dimíttit oves et fugit: et lupus rapit et dispérgit oves: mercennárius autem fugit, quia mercennárius est et non pértinet ad eum de óvibus. Ego sum pastor bonus: et cognósco meas et cognóscunt me meæ. Sicut novit me Pater, et ego agnósco Patrem, et ánimam meam pono pro óvibus meis. Et alias oves hábeo, quæ non sunt ex hoc ovili: et illas opórtet me addúcere, et vocem meam áudient, et fiet unum ovíle et unus pastor”.

(“In quel tempo Gesù disse ai Farisei: Io sono il buon Pastore. Il buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle. Il mercenario poi, o quei che non è pastore, di cui proprie non sono le pecorelle, vede venire il lupo, e lascia lo pecorelle, e fugge; e il lupo rapisce, e disperde le pecorelle: il mercenario fugge, perché è mercenario, e non gli cale delle pecorelle. Io sono il buon Pastore; e conosco le mie, e le mie conoscono me. Come il Padre conosce me, anch’io conosco il Padre: e do la mia vita per le mie pecorelle. E ho dell’altre pecorelle, le quali non sono di questa greggia: anche queste fa d’uopo che io raduni: e ascolteranno la mia voce, e sarà un solo gregge e un solo pastore”.)

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

LE BUONE PECORELLE

La pastorizia era molto diffusa in Palestina al tempo di Gesù. Vaste torme di pecore pascolavano sui dorsi delle colline, e durante la notte venivano rinchiuse in recinti circondati da un basso muricciolo di pietre a secco. Un guardiano solo custodiva molti greggi riuniti insieme, finché al mattino venivano i pastori e ciascun chiamava le proprie pecore e le conduceva a pascolare con sé. Capitava in certe notti, che il ladro desse la scalata al muretto di cinta; o anche, che il lupo affamato balzasse nel chiuso a divorare qualche pecora. Allora il guardiano, se poteva, gridava, e difendeva il gregge; ma se c’era da rischiare la propria pelle, fuggiva al sicuro. E le pecore? peggio per loro e per il loro padrone! Del resto non era certo per amor delle pecore che i pastori le allevavano e le ingrassavano: ma per spogliarle della lana con cui si facevano un soffice vestito; per venderle e guadagnarsi soldi; per ucciderle e mangiarne la carne. No; non così è il pastore Gesù. Se vede il ladro o il lupo venire non fugge, ma l’affronta. Ama le sue pecorelle: cerca quella che è perduta, riconduce quella che è smarrita, fascia quella che è ferita, consola quella che è malata. Di tutti i pastori è il solo che non uccide, ma dà la propria vita per le pecore. Perciò Egli solo poté dire con verità: « Io sono il buon Pastore: il buon pastore che dà la vita per le sue pecorelle ». Tre segni ha dato il buon Pastore per distinguere le sue buone pecorelle: le mie pecorelle mi riconoscono (Giov., X, 14); le mie pecorelle ascoltano la mia voce (Giov., X, 16); le mie pecorelle mi seguono (Giov., X, 4).Esaminiamo ciascuna di queste caratteristiche, per conoscere se apparteniamo al suo gregge. 1 – LE MIE PECORELLE MI RICONOSCONO. C’è una misteriosa forza che fa volgere l’ago calamitato alla stella polare, come c’è un segreto istinto che guida i bambini a distinguere la loro madre fra tutte le donne; così la fede nel cuore del Cristiano sincero pone una dolce attrazione verso Gesù Cristo, ed una capacità speciale di riconoscerlo quando egli è nascosto – Lo riconosce nascosto nella Gerarchia della Chiesa: nel Papa, nel Vescovo, nel Parroco, nel Sacerdote. Perciò li ama, li venera, li difende, prega per loro. Se essi soffrono, egli pure soffre con loro; se si rallegrano, egli pure si rallegra con loro, e sente con la Chiesa, perché vive e sente con Gesù.  — Lo riconosce nascosto nel prossimo, specialmente nei poveri, negli ammalati nei sofferenti. Non ha forse detto il Signore che chi dà un bicchiere d’acqua a un assetato lo dà a Lui; chi soccorre il bisognoso soccorre Lui; chi assiste un ammalato assiste Lui; chi consola un cuore addolorato consola il suo cuore.  — Lo riconosce nascosto nella santa Eucaristia. Il tabernacolo è come la capanna di Betlemme dove l’Eterno Pastore nacque. Là era avvolto da pochi panni, qui nel tabernacolo è fasciato dalle bianche apparenze del pane. Le campane se chiamano alla Messa e alle funzioni parrocchiali sono la voce degli Angeli osannanti e ancora invitanti ad adorare il Signore. La lampada dell’altare è l’immagine della stella che indicò ai Magi il luogo dove si trovava Gesù. Essa accesa e palpitante indica a chiunque entra che nella chiesa c’è Qualcuno, c’è il buon Pastore. 2 – LE MIE PECORELLE ASCOLTANO LA MIA VOCE. Appena veniva giorno, i pastori della Palestina andavano sulla porta del recinto, ciascuno chiamava le sue pecore. Ogni pecora conosceva la voce del suo pastore, e non si muoveva se non a quel noto ed atteso richiamo. In questa giornata del mondo, in cui ci è toccato di vivere, che confusione di voci e di richiami! Quanti falsi pastori lanciano il loro grido, e quante pecore illuse lo raccolsero. Le pecorelle illuse hanno dimenticato la voce del loro pastore: cioè hanno dimenticato il Catechismo studiato da bambini, non ricordano più che qualche breve preghiera; non frequentano mai la spiegazione della dottrina cristiana; non leggono la buona stampa. S. Paolo ad evitare traviamenti aveva dato ai primi Cristiani una regola tanto utile e sicura: «Se qualcuno vi annunziasse un Vangelo diverso da quello che vi ho predicato, fosse anche un angelo, non credetegli, ché vi inganna ». Ma ora per molti questa regola non basta più. Come fanno a sapere se una dottrina è contraria al Vangelo di Gesù Cristo, se l’hanno dimenticato? Così restano facile preda d’ogni falso profeta e pastore che li incanti con splendide promesse di libertà e di piacere. Invece le buone pecorelle ascoltano la voce del buon pastore e la distinguono tra mille. Che cosa dice questa voce? « Beati i poveri »: quelli cioè che non vivono per la ricchezza della terra, ma per la gloria di Dio; quelli che sanno sopportare in pace le proprie privazioni e sanno generosamente donare ai bisognosi il loro aiuto. « Beati i miti »: che non nella violenza e nella prepotenza mettono i loro diritti, ma nella persuasione, nella comprensione, nel perdono. « Beati quelli che piangono », accettando i misteriosi disegni della bontà di Dio, credendo al suo amore anche nelle malattie, nelle angustie, nelle oppressioni. « Guai a voi o ricchi » che esasperate con l’egoistico godimento la sofferenza del misero che ha fame, o non ha lavoro, o non guadagna abbastanza per sostentare sé e la sua famiglia. « Guai a voi immersi nella consolazione » dei sensi, fino a dimenticare Dio e l’anima. – 3. LE MIE PECORELLE MI SEGUONO. S. Vincenzo de’ Paoli continuamente si domandava: « Che cosa farebbe Gesù se fosse al mio posto? ». Farsi questa domanda, praticarne coraggiosamente la risposta della coscienza, significa mettere i nostri passi sulle orme di Gesù. Facciamo qualche cosa di concreto. « Come pregherebbe Gesù se fosse al mio posto? come farebbe pregare la mia famiglia? ». Oppure domandiamoci: « Se Gesù fosse al mio posto, in quell’officina con quei compagni, in quell’esercizio con quegli affari, in quell’ufficio con quegli impiegati come lavorerebbe? con quali pensieri, con quali parole, con quali atti, con quale giustizia? ». Domandiamoci ancora: « Se Gesù fosse al mio posto, come passerebbe la domenica? Non rispetterebbe il riposo festivo? dove andrebbe al pomeriggio? s’accontenterebbe. d’una Messa distratta e rosicchiata in principio e in fine? ». – Un’altra domanda: « E come Gesù agirebbe con quella persona che m’ha offeso, che disconosce i miei diritti?… Farebbe l’irremissibile? ». Basta così. Ciascuno ne ha più che a sufficienza, se vuol essere Cristiano sul serio, se vuol davvero esercitarsi a seguire Cristo. – Terminerò con due fatti significativi. All’epoca in cui gli imperatori romani perseguitavano i Cristiani, avvenne nel cortile del pretorio di Imola uno spettacolo orribile. Un vecchio, dalla faccia buona e veneranda; spogliato, stava legato a una colonna: intorno una frotta spietata di fanciulli che gli picchiavano sulla testa le loro lavagnette, che gli facevano» le aste sanguinose sulla pelle con gli stiletti metallici che allora usavano nelle scuole. Chi era quell’uomo così ferocemente martirizzato? Era Cassiano. Venuto a predicare la fede cristiana nella città, cominciò ad aprire una scuola; e mentre insegnava ai fanciulli a leggere e ascrivere e a crescere onesti e bravi, parlava loro Gesù Salvatore. Naturalmente si venne a sapere la cosa e il governatore di Imola lo condannò alla morte e volle che fosse lacerato dai suoi stessi alunni. Sanguinante per ogni vena, con la carne tutta a brandelli, il vecchio maestro guardò un’ultima volta i crudeli alunni che tanto aveva amato e beneficato, poi morì. – Molti secoli dopo, non lontano da quelle parti, passava un altro maestro con altri alunni: era il Beato Giovanni Colombini coi suoi primi seguaci. Giunsero a un largo prato nel quale era una grandissima quantità di fiori. I seguaci del Beato, accesi da fervore di spirito, fecero sedere per terra il loro maestro, e prestissimamente lo ricopersero con tanti fiori che di lui non si vedeva più niente. Ed essendo stato alquanto tempo così nascosto sotto quel velo floreale lo incominciarono a discoprire: e quando gli ebbero levati i fiori di sopra il viso videro la sua santa faccia tanto risplendente che con gran fatica i loro occhi potevano fissarla. A poco a poco quello splendore venne meno. Era un riflesso della incontenibile gioia del buon Pastore di sentirsi compreso e riamato. Cristiani: a Gesù nostro Maestro e Pastore vorremo dare il supplizio di Cassiano o l’omaggio amoroso del Beato Colombini? Lo vorremo trafiggere con gli strumenti dei suoi beneficî, o lo vorremo coprire con fiori dei nostri atti di virtù? Le buone pecorelle sono esse la gioia e la gloria del loro Pastore.

LA PECORA FUOR DELL’OVILE. Bisogna anzitutto sapere che, ai tempi di Gesù, in Palestina, non era così facile fare il pastore come adesso sulle nostre montagne. Se l’allevamento del gregge fu sempre una delle occupazioni principali degli ebrei, cominciando dagli antichi patriarchi ricchi di terra e di bestiame fino a quei semplici pastorelli che nella notte di Natale accorsero per i primi alla capanna del neonato Messia, pure il mestiere non era senza pericoli. Talvolta, fuor dal deserto pietroso e giù dal monte selvoso, sospinto dalla fame, s’avanzava qualche leone o qualche lupo; allora se a custodire i branchi stava un qualunque stipendiato, questi subito se la dava a gambe, e, pur di salvare la propria pelle, lasciava che la belva azzannasse quante pecore volesse; ma se invece ci stava il padrone, — il vero pastore a cui premeva il proprio gregge — questo affrontava il leone e il lupo, e, a rischio di farsi sbranare, o l’uccideva o lo faceva fuggire. Udite come Davide descrive i pericoli che aveva incontrato da fanciullo, quando conduceva a pasturare la greggia di suo padre: «Nell’oscurità della notte, ho sentito più volte il leone e l’orso avvicinarsi adagio adagio al chiuso, saltare improvvisamente lo steccato, ghermire un ariete, e fuggire come un lampo. Ma io l’inseguivo e col bastone lo costringevo ad abbandonare la preda. La bestia feroce con gli occhi sanguigni si rivoltava contro di me: cominciava allora una lotta a corpo a corpo, ma non avevo paura: la prendevo per la gola e la strangolavo » (I Re, XVII, 34 s.). O come doveva esser bello Davide, quando con la faccia e le mani graffiate dall’unghia felina, ritornava stringendosi sul cuore l’ariete tremante ma salvo: dal chiuso intanto tutto il gregge, quasi consapevole del pericolo scampato, gli belava incontro e sul cielo saliva una grande aurora! – « Altre pecore ho ancora, — soggiunse Gesù — che son fuori del mio ovile. Bisogna ch’Io le chiami, ch’io le radduca. Il mio sogno è di far tutta la terra un solo ovile sotto un solo Pastore ». – In queste feste pasquali, dal tabernacolo, Gesù, osservando migliaia e migliaia di persone sfilare davanti ai cancelli dell’altare per cibarsi dell’Eucaristia, ancora ha esclamato: « Io sono il buon Pastore. E alle mie pecorelle dò da mangiare il mio corpo e da bere il mio sangue e le conduco sul sentiero del paradiso ». Però ha dovuto dire anche quelle altre parole: « Ho delle pecore che non sono dentro al mio ovile. Non sono venute a mangiare la mia pasqua. Eppure bisogna che vengano, bisogna che ascoltino la mia voce ». Forse la pecorella rimasta fuor dell’ovile è qualcuno di nostra famiglia: lo sposo, il padre, un fratello, la sorella magari. Forse è un nostro dipendente: un servo, un operaio. Forse è un amico, un conoscente, e forse è una persona che non conosciamo nemmeno. Può darsi un altro caso: la pecorella è entrata nell’ovile, ha fatto pasqua, o meglio, l’hanno buttata dentro, l’hanno sospinta a far la Comunione. Dio non voglia che quell’anima, pressata dalle suppliche di una buona mamma, d’una santa sposa abbia commesso un sacrilegio; però, si capisce che non è convertita; è già tornata alle bestemmie, alle compagnie, alle relazioni di prima, alla trascuratezza di prima. Cristiani, un obbligo sacrosanto incombe sulla nostra coscienza: condurre a Gesù la pecora ch’è fuor dell’ovile. Non è difficile se, dopo aver compreso che cos’è l’anima e quanto vale, voi usate tre mezzi: il buon esempio, la preghiera, la mortificazione. – L’AMORE PER LE ANIME. La schiavitù di Babilonia era finita, e gli isr. eliti a scaglioni rimpatriavano: ma le loro case erano distrutte, le loro vigne inselvatichite, il tempio di Salomone rovinato. Esdra, ch’era uno dei capi del popolo ed uno dei più ardenti restauratori della patria e del culto di Dio, attraversando il deserto s’incontrò in una donna dolentissima. Aveva il capo sparso di cenere, le vesti lacerate, gli occhi in lacrime; e dalle labbra le usciva una lamentazione straziante. Esdra le si avvicina e le domanda: « Donna, perché ti disperi? », « Ho perduto il mio figlio unico — rispose la disgraziata — proprio nel giorno delle sue nozze ». « O stolta tra le madri! ti disperi per il figlio che, presto o tardi, dovevi sempre perdere, e non hai neppure una lacrima sopra Gerusalemme arsa, sopra il tempio distrutto? ». E allungò la sua mano al di là del deserto donde emergevano le rovine della città e le colonne infrante del tempio di Dio. Stulta super ommes mulieres! A quante persone si potrebbe ripetere, con maggior ragione, l’aspro rimbrotto di Esdra; Per le disgrazie corporali e materiali tante grida e tante preoccupazioni, mentre per le disgrazie spirituali quando il demonio col peccato distrugge la città di Dio ch’è in noi, rovescia il tempio di Dio che è l’anima nostra, nessun lamento, nessuna cura. Dunque, l’anima è la cosa più inutile che ci sia a questo mondo? Si ammala un padre: ecco tutta la famiglia spasima dalla paura di perderlo; non io vorrò biasimare quest’amore. Poniamo invece: un padre che bestemmia, che perde la Messa, che mangia di grasso: ecco che tutta la famiglia è tranquilla come se niente fosse. È questa mancanza d’amor spirituale che io detesto. Un figlio va alla guerra: ecco la sua madre che lo bacia singhiozzando, gli fa mille raccomandazioni, e se lo stringe sul cuore quasi per nasconderlo ancora nel suo seno e sottrarlo ai pericoli di morte. Ecco invece un figlio, od anche una figliuola, che vanno a divertimento, a certi divertimenti… con certe compagnie. Là nessuna bomba e nessuna palla potrà uccidere o ferire il loro corpo; però è senza dubbio, rimarrà uccisa la loro anima. Eppure, la madre sorride a loro che partono, contenta che i suoi figliuoli si divertano così; Oh madri, aprite gli occhi perché siete ricadute nel paganesimo! Ancora: un vostro servo, un vostro amico è stato assaltato dai ladri e fu derubato di tutto. Appena la notizia vi giunge all’orecchio voi correte da lui, lo consolate, vi date in giro per una colletta che ripari almeno in parte il suo danno … Ottimi e cristiani sono questi sentimenti. Ma perché, se il ladro infernale ha derubato della grazia e di ogni vi0tù l’anima di un vostro servo o amico, voi non ve ne darete alcun pensiero ed affanno? Non è la grazia più del danaro? Non sono le virtù più della roba? Sì, ma troppi sono i Cristiani senz’amore per l’anima del loro prossimo. – Gesù per le anime ha dato trentatré anni di vita, e la morte di croce; e noi non diamo nemmeno un battito del nostro cuore. Sono passati dunque i tempi in cui le madri innalzando al Cielo i loro piccini esclamavano; « Piuttosto che la morte della sua anima venga quella del suo corpo? » Speriamo di no perché altrimenti bisognerebbe dire che più nessuno capisce chi è Gesù e che cos’è un’anima. – I MEZZI PER SALVARLE. Buon esempio. Non immaginate che per tirare all’ovile la pecora che è fuori, occorra trasformarvi in predicatori. Le prediche sono efficaci in Chiesa, non sempre fuori. Prediche, dunque, non con le parole, ma col buon esempio. « Chi va in Chiesa è peggiore degli altri » rispose una nuora alla vecchia suocera che l’invitava ad accostarsi frequentemente alla Comunione. Quella tacque, ma continuò ad amare in silenzio la giovane sposa della sua casa, raddoppiò i sacrifici per aiutarla, per assisterla nelle malattie, per renderle sorrisi ad ogni sgarbatezza. Passò qualche anno ed una mattina la nuora, vedendola andare per tempo in Chiesa, la rincorse e quasi piangendo le disse: « Mamma, conducetemi con Voi, perché voglio diventar buona come voi ». Preghiera. C’erano due sorelle che avevano un fratello solo, e l’amavano con tutto il cuore. Questo fratello s’ammalò e morì. Esse corsero dal Signore, lo supplicarono con le lacrime, lo condussero al sepolcro. E Gesù resuscitò Lazzaro, fratello di Marta e Maria. Quante sorelle sono afflitte perché non il corpo ma l’anima dei loro cari fratelli è quatriduana fetida! Bisogna pregare Gesù, pregarlo bene senza stancarsi; la grazia tarderà un anno, dieci anni, trent’anni come a S. Monica, ma deve venire perché queste grazie Gesù non le nega mai. Sacrificio. Le piccole mortificazioni sono quelle che strappano le più grandi grazie dal cielo. Una sposa aveva tentato ogni mezzo per ritrarre il marito dal vizio dell’ubriachezza, aveva anche pregato, senza ottenere niente. Ebbe un giorno una ispirazione: promise alla Vergine di non bere più nessun liquore alcoolico, e la Madonna le fece la grazia. Un padre non riusciva a tenere in casa alla sera il suo figliuolo maggiore; l’amicizia di tristi compagni lo trascinava sopra una strada cattiva. Né avvisi, né minacce erano bastati: ricorse alle mortificazioni. Rinunciò a fumare il venerdì e il sabato; rinunciò in tali giorni a uscire la sera. Conosco delle mamme che mangiano di magro due giorni alla settimana, perché qualche loro figliuolo non vuol più sapere di rispettare il venerdì. Conosco dei padri che offrono ogni settimana alle Missioni il frutto di Piccole soddisfazioni negate per ottenere la grazia di conservare buona tutta la famiglia. – In un libro che si chiama De Civitate Dei, S. Agostino dice che a’ suoi tempi sì usava deporre sull’altare di S. Stefano molti fiori, i quali, quando venivano tolti di là e posti sopra gli infermi, subitamente guarivano ogni infermità! Una volta uno di tali fiori fu posto sugli occhi di una fanciulla cieca e riebbe la vista. Un’altra volta venne ad ammalarsi gravemente un certo signore di nome Marziale, uomo ricco e potente ma pagano. Il suo genero, ch’era un fervente Cristiano e prese dei fiori che stavano sull’altare e celatamente li pose sotto il capo di Marziale. E avendo dormito l’ammalato sopra quei fiori, appena si destò, cominciò a gridare con gran voce che voleva andare dal Vescovo della città. E non trovandosi il Vescovo, venne a lui un prete ed egli con grande devozione si fece battezzare. Raccogliamo il simbolo: qualche persona cara, ammalata nell’anima, forse non ha fatto pasqua, forse l’ha fatta male. È una sorella cieca alle cose di Dio che guarda soltanto alle vanità della moda del mondo: è un fratello, un padre, uno sposo, un figlio lontano dalla Chiesa, dai Sacramenti, dalla virtù. Bisogna ricondurre la pecora che è fuor dell’ovile. Portiamo pur noi sull’altare dei santi, della Vergine di Dio i nostri fiori di buon esempio, di preghiera, di mortificazione; essi diventeranno miracolosi e cacceranno per virtù divina ogni infermità spirituale.

I DOVERI DEI GENITORI. In certe città indiane l’idolatria ha suscitato un fanatismo orribile. Ogni anno, quando ricorre la festa del dio, si vedono scene raccapriccianti. Mentre tra i fiori e i profumi e i suoni di trombe e urla del popolo passa il cocchio con l’idolo dalla faccia mostruosa, sempre, qualche madre, con le proprie mani, lancia sotto la ruota stritolante del carro un suo bimbo, in offerta al dio. Povere mamme! Ma non sono forse più sventurate certe mamme e certi padri, non dell’India, ma dei nostri paesi civili e Cattolici? Oh! non i corpi dei loro figliuoli sacrificano sotto il carro del demonio che passa nel mondo, ma le anime! Quelle piccole anime, create da Dio, belle per la sua gloria, sono stritolate per la negligenza o i mali esempi dei genitori, sotto le unghie del demonio. Eppure Iddio ad ogni famiglia ha preposto un padre e una madre perché fossero il pastore buono del piccolo gregge domestico, come Cristo è pastore di tutto il mondo. « Io sono il pastore buono » dice Gesù nel Vangelo, « e so dar la vita per le mie pecorelle. Il mercenario invece, che non è pastore vero, quando vede venire il lupo fugge, perché le pecore non sono sue: et non pertinet ad eum de ovibus  ». E che cosa importa, a certi genitori snervati, dell’anima dei loro figlioli, quando non sanno resistere ai loro.capricci? Quando non vegliano a custodia, ma dormono ancora mentre il lupo è giunto e fa stragi? Quando essi stessi con la loro condotta insegnano la mala via a quelle anime ignare che Dio gelosamente aveva loro affidato. Et non pertinet ad eos de ovibus. La molle indulgenza, la non vigilanza, il cattivo esempio rendono i padri e madri pastori mercenari nella loro famiglia. – LA MOLLE INDULGENZA. Pochi anni or sono, in una grande città d’Italia moriva di broncopolmonite una giovane, perché aveva preso freddo, uscendo accaldata da un ballo. Nella piccola stanza del terzo piano s’erano radunati i parenti a salutarla per l’estrema volta e a confortarla nel misterioso passaggio. Tutti tacevano: s’udiva solo l’ansimar faticoso della malata. Ognuno in cuor suo sentiva compassione di quel povero fiore che appassiva mentre sarebbe stato il tempo di spiegare i colori nel sole della vita. Ad un tratto entrò nella stanza una donna pallida e piangente. La morente accennò col tremito delle labbra di voler parlare. «Mamma! » E poi raccolse tutte le forze in un grido incredibile: « Oh, se tu non mi avessi lasciata andare al ballo, la prima volta, mamma! ora non morirei così. Oh, questo grido straziante, dal letto di morte, dal limitare dell’eternità, non pochi figli ve lo grideranno dietro, o genitori! È invalsa una sacrilega moda di tenere i figliuoli da piccoli come balocchi, e grandi come tiranni. E i genitori cominciano a truccarli come tanti giocattoli o marionette; a trattarli come tanti idoletti; e poiché non li vogliono sentir piangere, ogni loro capriccio, anche il più stravagante, deve essere accontentato. E crescono questi figliuoli moderni, e in loro indisturbate crescono le passioni come la gramigna nel campo del pigro. Crescono i figliuoli ed entrano nella vita senza aver imparato a rinunciare a una vogliuzza grama, simili a quel susino che l’agricoltore, per timore di vederlo appassire, non ha potato a suo tempo. Il susino frondeggia oziosamente, me non dà frutto. Ma chi potrà imporre a questi figli, fatti adulti, un freno che rattenga le lore passioni? – Non era per questo, o genitori, che Dio vi ha concesso i figli: non perché voi, come il pastore mercenario, lasciaste in balìa del lupo i vostri agnelli. Ricordate  il grido straziante di quella fanciulla morente: « Mamma, non morirei così!… » Non morirei così disonorata se tu mi avessi punito quel primo giorno in cui mi vedesti tra le mani un frutto rubato. Non morirei così senza religione, se la prima volta che mi coricai senza la preghiera, m’avessi risvegliato e fatto pregare ancora, se quando violai il precetto festivo m’avessi costretto ad alzarmi una settimana intera, di buon mattino, ad ascoltare la santa Messa. Non morirei così bestemmiatore se la prima volta che davanti ai miei genitori ripetei invanamente il nome di Dio, m’avessero dato uno schiaffo sulle labbra, invece di sorridermi come a una precocità d’ingegno. Mamma, non morirei così!… – LA NON VIGILANZA. Somnolentia pastorum est gaudium luporum. — Si dice che un viaggiatore si sia fermato in un paesello per studiare i costumi popolari. Incontrò una massaia ed attaccò discorso. « Quante galline mantenete? ». « Quindici, Signore » rispose precisa la massaia. «E dove le avete? ». « Ecco » rispose la donna, accennando: « cinque sono chiuse in pollaio, tre crocitano sull’aia, le altre vagano nel cortile ». Il viaggiatore parve soddisfatto e cambiò argomento. « Quanti figli avete? ». « Cinque o sei ». « E dove sono? ». La donna sgranò gli occhi e rispose: « Chi lo sa dove sono!?. Non ho mica tempo di correrci dietro tutto il giorno! ». « Come? » fece stupito quel signore. « Sapete dove sono le vostre galline, e non te dove sono i vostri figliuoli? ». E non è appena in quel paesello che avveniva così. Ci sono genitori che non dormono tranquilli di notte, per custodire nei loro cassetti qualche gemma e qualche anello d’oro, e non vigilano sui loro figliuoli. Ma non sanno che l’anima dei loro figli è una gemma di cielo, è un anello di Dio? Ci sono genitori che a sera s’addormentano placidamente ed hanno fuor di casa, senza sapere dove, qualche figliuolo. Ma potrebbero dormire se avessero lasciato fuor dall’uscio un oggetto prezioso, o fuor del pollaio una gallina? Dove sono i vostri figliuoli, o genitori, mentre voi siete al lavoro, siete in casa, siete in chiesa? Avete indagato con chi vanno? Quali libri leggono? « Ma noi siam di mestiere e abbiamo affari… e non troviam tempo per vigilare sui nostri figliuoli ». Ecco la scusa di molti genitori. Ma il primo mestiere, il primo affare non è quello di educare i propri figliuoli? Tutto il resto è secondario. – La madre di S. Teodoro lavorava in un albergo. Ma quando s’accorse che il suo bambino, crescendo, poteva essere cattivamente impressionato da quello che si vedeva, diceva e si sentiva in quel luogo, fuggì col suo piccolo tesoro nel deserto. Patì fame e sete, ma il suo figlio fu santo. Giobbe, avendo saputo che i suoi figli s’erano radunati a banchetto, levò a Dio fervente preghiera, perché in quell’occasione li avesse a preservare da ogni peccato. – Quante volte, o genitori, avete saputo che i vostri figli si trovano in cattive occasioni: all’officina, nello studio, in caserma. Avete pregato, voi? – IL CATTIVO ESEMPIO. Qualche anno fa i giornali pubblicavano l’incendio di un teatro di varietà. È mezzanotte: salone addobbato con motivi decorativi di carta a rosoni e a tralci; domina l’allegria e la sete del piacere. D’improvviso un lampo si proietta dal palcoscenico: e una lingua di fuoco scoppiettante, uscita fuori dai tendaggi laterali, si arrampica su su fino al soffitto, si propaga in tutti i sensi, perseguendo le decorazioni di carta. Grida di spavento, fumo, fuoco: è un inferno. Intanto le attrici si sono trovata preclusa la via del salvamento: corrono nelle loro cabine; ma il fuoco le ha raggiunte. E tra di esse c’era una mamma, c’era una bimba che s’iniziava a quella vita sciagurata. E sono morte. Noi pensiamo con angoscia a quella mamma che aveva venduto la sua figliuola ad un’arte così pericolosa; a quella mamma. che, stolta, le insegnava il misurato passo della danza e della corruzione; a quella mamma che ha trascinato la sua creatura nel fumo e nel fuoco d’un teatro, e, Dio non voglia, dell’inferno. Forse nell’ultimo spasimo quella povera bimba avrà tese le sue mani, imprecando alla mamma. O genitori: questo esempio non suscita in voi nessun rimorso? Chi insegnò a quel fanciullo a profanare il nome di Dio, se non la madre che ad ogni piccola stizza l’ha sulla lingua? Chi gli ha insegnato a bestemmiare il Corpo e il Sangue del Redentore se non il padre nelle sue collere? Chi gli ha insegnato a profanar la festa, se non l’esempio dei suoi di casa che lavorano, che trascurano la santa Messa? Che meraviglia se quel figlio ama le osterie, quando suo padre ama l’ubriachezza? Che meraviglia se quella fanciulla non è ritirata né modesta, quando la sua mamma si perde dietro alla vanità del vestire e del trattare? Se un figlio dovesse cadere nell’inferno per il mal esempio dei suoi genitori, oh come li maledirebbe! e da quelle fiamme uscirebbe contro di loro un grido d’imprecazione per tutta l’eternità. – Nell’arca dell’alleanza accanto alla manna che Dio per i suoi figli raminghi aveva fatto piovere sul deserto, si custodiva pure la verga vigilante di Aronne. Nell’arca di ogni famiglia si deve custodire la manna e la verga: la manna che è simbolo d’amore, ma anche la verga che insegna il cammino, la verga che sferza i disviati.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps LXII:2; LXII:5  Deus, Deus meus, ad te de luce vígilo: et in nómine tuo levábo manus meas, allelúja.

Secreta

Benedictiónem nobis, Dómine, cónferat salutárem sacra semper oblátio: ut, quod agit mystério, virtúte perfíciat.

[O Signore, questa sacra offerta ci ottenga sempre una salutare benedizione, affinché quanto essa misticamente compie, effettivamente lo produca].

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joannes X: 14. Ego sum pastor bonus, allelúja: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ, allelúja, allelúja.

[Io sono il buon pastore, allelúia: conosco le mie pecore ed esse conoscono me, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Præsta nobis, quaesumus, omnípotens Deus: ut, vivificatiónis tuæ grátiam consequéntes, in tuo semper múnere gloriémur.

[Concédici, o Dio onnipotente, che avendo noi conseguito la grazia del tuo alimento vivificante, ci gloriamo sempre del tuo dono.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA IN ALBIS (2022)

DOMENICA IN ALBIS o OTTAVA DI PASQUA.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Pancrazio.

Privilegiata di 1 classe. – Doppio maggiore. – Paramenti bianchi.

Questa Domenica è detta Quasimodo (dalle prime parole dell’Introito) o in Albis (anticamente anche post Albas), perché i neofiti avevano appena la sera precedente deposte le vesti bianche, oppure anche Pasqua chiusa, poiché in questo giorno termina l’ottava di Pasqua (Or.). Per insegnare ai neofiti (Intr.) con quale generosità debbano rendere testimonianza a Gesù, la Chiesa li conduceva alla Basilica di S. Pancrazio, che all’età di quattordici anni rese a Gesù Cristo la testimonianza del sangue. Così devono fare i battezzati davanti alla persecuzione a colpi di spillo cui sono continuamente fatti segno; devono cioè resistere, appoggiandosi sulla fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, risorto. In questa fede, dice S. Giovanni, vinciamo il mondo, poiché per essa resistiamo a tutti i tentativi di farci cadere (Ep.). È quindi di somma importanza che questa fede abbia una solida base e la Chiesa ce la dà nella Messa di questo giorno. Base di questa fede è, secondo quanto dice S. Giovanni nell’Epistola, la testimonianza del Padre, che, al Battesimo del Cristo (acqua), lo ha proclamato Suo Figliuolo, del Figlio che sulla croce (sangue) si è rivelato Figlio di Dio, dello Spirito Santo che, scendendo sugli Apostoli nel giorno della Pentecoste, secondo la promessa di Gesù, ha confermato quello che il Redentore aveva detto della propria risurrezione e della propria divinità. Nel Vangelo vediamo infatti come Gesù Cristo, apparendo due volte nel Cenacolo, dissipa l’incredulità di San Tommaso e loda quelli che han creduto in Lui senza averlo veduto.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

1 Pet II, 2.

Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja.

[Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia,]

Ps LXXX: 2. Exsultáte Deo, adjutóri nostro: jubiláte Deo Jacob.

[Inneggiate a Dio nostro aiuto; acclamate il Dio di Giacobbe.]

– Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja.

[Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia.]

Oratio

Orémus.

Præsta, quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui paschália festa perégimus, hæc, te largiénte, móribus et vita teneámus.

[Concedi, Dio onnipotente, che, terminate le feste pasquali, noi, con la tua grazia, ne conserviamo il frutto nella vita e nella condotta.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joannis Apóstoli. – 1 Giov. V: 4-10.

“Caríssimi: Omne, quod natum est ex Deo, vincit mundum: et hæc est victoria, quæ vincit mundum, fides nostra. Quis est, qui vincit mundum, nisi qui credit, quóniam Jesus est Fílius Dei? Hic est, qui venit per aquam et sánguinem, Jesus Christus: non in aqua solum, sed in aqua et sánguine. Et Spíritus est, qui testificátur, quóniam Christus est véritas. Quóniam tres sunt, qui testimónium dant in coelo: Pater, Verbum, et Spíritus Sanctus: et hi tres unum sunt. Et tres sunt, qui testimónium dant in terra: Spíritus, et aqua, et sanguis: et hi tres unum sunt. Si testimónium hóminum accípimus, testimónium Dei majus est: quóniam hoc est testimónium Dei, quod majus est: quóniam testificátus est de Fílio suo. Qui credit in Fílium Dei, habet testimónium Dei in se”.  – Deo gratias.

“Carissimi: Tutto quello che è nato da Dio vince il mondo: e questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede. Chi è che vince il mondo, se non colui che crede che, Gesù Cristo è figlio di Dio? Questi è Colui che è venuto coll’acqua e col sangue, Gesù Cristo: non con l’acqua solamente, ma con l’acqua e col sangue. E lo Spirito è quello che attesta che Cristo è verità. Poiché sono tre che rendono testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo: e questi tre sono una cosa sola. E sono tre che rendono testimonianza in terra: lo spirito, l’acqua e il sangue: e questi tre sono una cosa sola. Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è maggiore. Ora, la testimonianza di Dio che è maggiore è questa, che Egli ha reso al Figlio suo. Chi crede al Figlio di Dio, ha in sé la testimonianza di Dio” (1 Giov. V, 4-10).

Il Vangelo ci presenta la storia come una grande lotta del bene contro il male, della verità contro l’errore, e viceversa. A chi la vittoria? Ai figli di Dio, risponde la Epistola di quest’oggi, dovuta a San Giovanni, l’autore del quarto Vangelo. L’insieme delle forze del male, le negative forze dell’errore, delle tenebre e del gelo, ha un nome classico: si chiama il mondo; l’antitesi, l’antagonista di Dio, l’anti-Dio. Un anti-Dio in carne ed ossa, realissimo a suo modo, d’una realtà empirica e grossolana. Gente che c’è, che parla, che si agita, che si dà delle grandi arie e del gran daffare, che assume volentieri pose trionfatrici. Apparenza e menzogna nota, proclama l’Apostolo. La Vittoria non è del mondo, il mondo è l’eterno sconfitto. Vince Dio e chi nasce da Dio: i figli di Dio. Un altro termine prediletto del quarto Vangelo, che qui riappare: i nati di Dio. E chi è che nasce da Dio? A chi è perciò riservata la vittoria? Potremmo adoperare una frase del quarto Vangelo: « Hi qui credunt in nomine eius: » i credenti in Lui. C’è la frase precisa anch’essa nella nostra Epistola: « gli uomini di fede ». La Vittoria che vince, abbatte, schiaccia il mondo, è la nostra fede: « Hæc est Victoria quæ vincit mundum, fides nostra! – La nostra fede! Fede, badate, non credulità. C’è l’abisso fra le due cose, per quanto molti le scambino. La credulità è una debolezza di mente. Il credenzone è un vinto, vinto dalle illusioni a cui (stolto!) egli dà una consistenza che non hanno. Perché anche senza essere credenzoni o troppo creduli, si può avere una fede non, davvero religiosa o punto religiosa. Si può aver fede in un uomo; si può aver fede in un’idea, non divina. La fede di cui parla il Vangelo è sempre e sola fede religiosa, sanamente, profondamente religiosa: la fede, grazie alla quale noi siamo i figli di Dio, è qualcosa che viene da Lui e va a Lui. Fede buona nella Bontà; una fede, certezza immota, assoluta, profonda. – Il mondo non ha questa fede. Il mondo è scettico. Ha della fede, non la fede; degli idoli; non Iddio, il mondo. Non crede nella bontà amorosa e trionfatrice. Crede alle passioni, non alla ragionevolezza. Crede ai ciarlatani, non agli Apostoli. Crede all’astuzia, non alla verità. Noi siamo invece uomini di fede, gli uomini della fede, noi Cristiani. Noi crediamo alla carità, alla bontà di Dio, della Realtà più profonda, più vera, più alta: Dio! È la formula che adopera per altre volte lo stesso Apostolo: « nos credidimus charitati. » Sono tutte formule che si equivalgono: siamo figli di Dio, crediamo nel Suo nome, abbiamo fede nella Sua bontà. Questa fede è la nostra forza. Chi crede davvero alla Bontà sovrana, dominatrice, divina, è buono; comincia dall’essere o per essere buono. Egli stesso combatte, lotta per bontà, lotta fiduciosamente, colla fiducia della vittoria. Perché sa di essere dalla parte di Dio e di avere Iddio dalla parte propria. « Si Deus prò nobis quies contra nos? » Credere alla vittoria è il segreto per conseguirla. E infatti nella storia, chi l’abbracci nel suo meraviglioso complesso, trionfa la bontà, trionfa Dio. Lo scettico ha dei trionfi apparenti e momentanei… i minuti. La fede ha per sé i secoli: trionfa con infinito stupore di chi credeva superbamente di aver potuto costruire un edificio sulla mobile arena dello scetticismo. Teniamo alta come segnacolo di vittoria la bandiera della nostra fede.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Alleluja

Alleluia, alleluia – Matt XXVIII: 7. In die resurrectiónis meæ, dicit Dóminus, præcédam vos in Galilæam.

[Il giorno della mia risurrezione, dice il Signore, mi seguirete in Galilea.]

Joannes XX:26. Post dies octo, jánuis clausis, stetit Jesus in médio discipulórum suórum, et dixit: Pax vobis. Allelúja.

[Otto giorni dopo, a porte chiuse, Gesù si fece vedere in mezzo ai suoi discepoli, e disse: pace a voi.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XX: 19-31.

“In illo témpore: Cum sero esset die illo, una sabbatórum, et fores essent clausæ, ubi erant discípuli congregáti propter metum Judæórum: venit Jesus, et stetit in médio, et dixit eis: Pax vobis. Et cum hoc dixísset, osténdit eis manus et latus. Gavísi sunt ergo discípuli, viso Dómino. Dixit ergo eis íterum: Pax vobis. Sicut misit me Pater, et ego mitto vos. Hæc cum dixísset, insufflávit, et dixit eis: Accípite Spíritum Sanctum: quorum remiseritis peccáta, remittúntur eis; et quorum retinuéritis, reténta sunt. Thomas autem unus ex duódecim, qui dícitur Dídymus, non erat cum eis, quando venit Jesus. Dixérunt ergo ei alii discípuli: Vídimus Dóminum. Ille autem dixit eis: Nisi vídero in mánibus ejus fixúram clavórum, et mittam dígitum meum in locum clavórum, et mittam manum meam in latus ejus, non credam. Et post dies octo, íterum erant discípuli ejus intus, et Thomas cum eis. Venit Jesus, jánuis clausis, et stetit in médio, et dixit: Pax vobis. Deinde dicit Thomæ: Infer dígitum tuum huc et vide manus meas, et affer manum tuam et mitte in latus meum: et noli esse incrédulus, sed fidélis. Respóndit Thomas et dixit ei: Dóminus meus et Deus meus. Dixit ei Jesus: Quia vidísti me, Thoma, credidísti: beáti, qui non vidérunt, et credidérunt. Multa quidem et alia signa fecit Jesus in conspéctu discipulórum suórum, quæ non sunt scripta in libro hoc. Hæc autem scripta sunt, ut credátis, quia Jesus est Christus, Fílius Dei: et ut credéntes vitam habeátis in nómine ejus.” – 

 “In quel tempo giunta la sera di quel giorno, il primo della settimana, ed essendo chiuso le porte, dove erano congregati i discepoli per paura de’ Giudei, venne Gesù, e si stette in mezzo, e disse loro: Pace a voi. E detto questo, mostrò loro le sue mani e il costato. Si rallegrarono pertanto i discepoli al vedere il Signore. Disse loro di nuovo Gesù: Pace a voi: come mandò me il Padre, anch’io mando voi. E detto questo, soffiò sopra di essi, e disse: Ricevete lo Spirito Santo: saran rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saran ritenuti a chi li riterrete. Ma Tommaso, uno dei dodici, soprannominato Didimo, non si trovò con essi al venire di Gesù. Gli dissero però gli altri discepoli: Abbiam veduto il Signore. Ma egli disse loro: se non veggo nello mani di lui la fessura de’ chiodi, e non metto il mio dito nel luogo de’ chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo. Otto giorni dopo, di nuovo erano i discepoli in casa, e Tommaso con essi. Viene Gesù, essendo chiuse le porte, e si pose in mezzo, o disse loro: Pace a voi. Quindi dice a Tommaso: Metti qua il dito, e osserva le mani mie, e accosta la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma fedele. Rispose Tommaso, e dissegli: Signor mio, o Dio mio. Gli disse Gesù: Perché  hai veduto, o Tommaso, hai creduto: beati coloro che non hanno veduto, e hanno creduto. Vi sono anche molti altri segni fatti da Gesù in presenza de’ suoi discepoli, che non sono registrati in questo libro. Questi poi sono stati registrati, affinché crediate che Gesù è il Cristo Figliuolo di Dio, ed affinché credendo otteniate la vita nel nome di Lui” (Jov. XX, 19-31). »

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

LA FEDE IN CRISTO RISORTO

Già è venuta anche la sera di Pasqua. Le porte sono serrate, la tavola preparata, e tutti sono di nuovo timorosi e raccolti nel cenacolo, come tre giorni innanzi, quand’Egli mangiò con loro per l’ultima volta prima di morire. I cuori, la sala, il silenzio, tutto è pieno della Sua assenza. Egli manca. No, che è presente! D’improvviso, infatti, risuonò la sua voce: «Pace a voi ». Gli Apostoli sbigottirono. Che densità ha questo corpo se può penetrare in una camera a porte chiuse? Se ci indugiamo in questa difficoltà, dovremmo allora farcene prima un’altra: che peso aveva questo corpo quando fu visto camminare a fermi passi sull’acqua senza affondare? Domande e questioni inutili: Egli è l’Onnipotente. Ma perché nessuno sospettasse d’aver davanti un fantasma, Gesù, fattosi in mezzo a loro, dava le sue mani da toccare, mostrava il suo costato con lo squarcio della lanciata. Essi lo guardavano, l’ascoltavano, lo toccavano con la gioia insaziata dei bambini che, dopo un sogno pauroso, accarezzano il padre ritornato in mezzo a loro: era Lui, era di carne, era vivo! Ecco li investiva del potere di rimettere i peccati. « Ricevete — disse — lo Spirito Santo: a chi perdonerete i peccati saranno perdonati, a chi non li perdonerete non saranno perdonati ». Tre sere prima il sacramento dell’Eucaristia, ora il sacramento della Confessione: in mezzo le giornate della passione e della morte e della resurrezione. Intendete il valore della circostanza: questi due sacramenti sono i mezzi essenziali per partecipare ai meriti della sua Passione e Resurrezione. Però, uno dei dodici, Tommaso, non era nel cenacolo quella sera. Quando glielo dissero, rispose di no, che non l’avrebbe mai creduto, se prima non avesse veduto coi suoi occhi, non toccava con le sue mani. Otto giorni dopo fu preso in parola. Ancora le porte erano chiuse, e risuonò la sua voce: « La pace sia con voi. Gesù di nuovo era là, e rivolgendosi a Tommaso disse: « Vieni a mettere il dito nelle piaghe delle mie mani! vieni a mettere la tua mano nel mio costato! ». L’incredulo vinto s’arrese esclamando: « Signore mio e Dio mio! ». E Gesù soggiunse: « Hai creduto, perché hai veduto: beati coloro che non vedono e credono ». Questa beatitudine è per noi. Già San Pietro con un accento quasi d’invidia scriveva ai primi Cristiani d’Asia: « Voi non avete visto Gesù Cristo, eppure l’amate; e ancor oggi, senza vederlo, voi credete in Lui ed esultate di una gioia ineffabile e piena di gloria ». Quante generazioni si sono successe da quel momento! Tutti i veri Cristiani di ogni tempo senza veder Cristo risorto, hanno gridato a Lui con lo slancio del cuore: « Signore mio e Dio mio!». E la beatitudine del Signore si è avverata in loro; come si avvera in noi, se profondamente crediamo. Per chiunque crede in Gesù Cristo risorto, la fede diviene luce, diviene forza. LA FEDE È LUCE. Gesù Cristo ha affermato di sé: « Prima che Abramo fosse, io sono ». Dunque se prima ancor di nascere a Betlemme già esisteva, Egli può dirci che cosa ci sia in quel buio che precede la nostra vita. Gesù Cristo inoltre è tornato vivo dalla morte. Dunque, ci può dire che cosa ci sia in quel buio che noi vediamo al di là della tomba. Ed in realtà Egli ce l’ha detto. Prima di noi, prima d’ogni cosa, Dio è: Dio che ci amava benché ancora non esistessimo, che ci ha creati appunto perché ci amava e desiderava d’essere riamato. Questo Dio vivente da tutta l’eternità genera un Figlio; dal mutuo amore del Padre e del Figlio procede una terza divina Persona che si chiama Spirito Santo. Il Dio che ci ha creati è uno nella natura, è trino nelle Persone. Una seconda cosa ci ha detto Gesù: di esser Lui il Figlio di Dio, d’essersi fatto uomo per salvarci. Chiunque crede in Lui sarà salvo, perché non solo gli perdonerà i peccati, ma gli manderà lo Spirito Santo che lo santificherà e lo renderà figlio adottivo di Dio, partecipe della vita divina. Una terza cosa ci ha detto ancora: al termine della vita ci troveremo di fronte a Lui, che ci giudicherà dei nostri pensieri, dei nostri affetti, delle nostre azioni, delle nostre omissioni. Chi troverà nel peccato condannerà nel fuoco eterno; e chiamerà invece nel suo paradiso il servo fedele a vedere nella gioia quei misteri che quaggiù ha creduto nel dolore e nella speranza. – S. Tommaso fa un confronto tra i più grandi filosofi dell’antichità e gli umili Cristiani del suo tempo. Quegli ingegni poderosi, Aristotile e Socrate e Platone, dopo tanto speculare non erano riusciti a darsi una risposta sicura alle domande più assillanti intorno al nostro destino, e vissero nell’ansietà. Invece, — osserva S. Tommaso — anche il più umile Cristiano, il più modesto per intelligenza, sa rispondere con assoluta certezza ai più importanti problemi della vita: donde veniamo, che cosa è necessario fare, dove andiamo, che cosa ci attende dopo la morte. È Gesù Cristo che li ha resi tanto sapienti. Ma ai tempi di S. Tommaso la fede era un dono generale: oggi è assai più raro. Le parole di Cristo ancora splendono come fari nella caligine del mondo, ma troppi preferiscono le tenebre alla sua luce divina. Cristiani, levate lo sguardo, drizzate l’intenzione, movete i passi verso la luce di quelle verità: non apprezzerete mai abbastanza il dono della fede. LA FEDE È FORZA. Tre sono i dubbi che paralizzano le nostre energie nell’operare: il dubbio dell’errore, dell’inutilità, dell’incapacità. E se poi sbaglio? E se poi non ci guadagno niente? E se non sono capace di resistere? Ebbene, la fede, togliendo questi tre interrogativi, moltiplica le nostre forze. – a) La fede ci indica la via infallibile della vita. Nessun timore di sbagliare, non c’è che da percorrerla. Pensate al Vescovo d’Antiochia, S. Ignazio, quando lo trascinavano a Roma per essere dato in pasto alle belve del circo. Scortato da dieci soldati che erano dei leopardi per la loro brutalità, egli cammina con una grande certezza nel cuore. La certezza di non sbagliare a sacrificarsi per il Signore, e questa certezza gliela infondeva la fede in Gesù risorto. Diceva: « Io so che Cristo è risorto nella carne, che vive tuttora. Quando Egli si avvicinò a Pietro e ai suoi compagni volle che lo toccassero perché fossero persuasi della sua realtà. Io lo vedo e lo tocco con la fede » (Epistola agli Smirnei). Per chi vede e tocca con la fede Gesù, né le sofferenze, né i pericoli, né le minacce, né la morte, gli fan paura. – b) Il secondo dubbio che trattiene l’uomo dall’agire intensamente è l’incertezza del guadagno. L’operaio che presagisce di non esser pagato non vuol lavorare. L’industriale che sospetta di essere coinvolto in un fallimento non accetta commissioni di lavoro. Ma il Cristiano che vive di fede non può dubitare del suo guadagno: egli ha dinanzi agli occhi una ricompensa immancabile, immensa, eterna, di fronte alla quale ogni fatica e ogni patimento di quaggiù è poca e fuggevole cosa. «Io penso — esclama S. Paolo — che i patimenti del tempo presente non hanno proporzione con la gloria ventura » (Rom., VIII, 18). Per questo si rallegrava in mezzo alle tribolazioni, persuaso che ognuna di esse, pazientemente tollerata, gli fruttava un grado più alto nella visione e nell’amore di Dio. « Dai Giudei cinque volte mi sono preso trentanove colpi; dai Romani tre volte fui battuto con le verghe; in Damasco il governatore di Re Areta aveva messo una taglia sulla mia vita e potei sfuggire facendomi calare da una finestra in una cesta lungo una muraglia; a Listri fui lapidato; tre volte ho fatto naufragio e rimasi un giorno e una notte in balia delle onde, provai pericoli sui fiumi, pericoli tra gli assassini, pericoli tra i miei connazionali e tra gli stranieri, pericoli nella città e nella campagna; e poi il lavoro, la fatica, la fame, il freddo, la nudità…» (II Cor., XI, 23-33). Donde traeva questa forza da leone? Dalla certezza della sua fede nella resurrezione di Cristo. « Se Cristo non fosse risorto, vana è la nostra fede; e quelli che sono morti in Cristo, sono perduti; e noi che in questa vita gli crediamo, siamo i più miserabili degli uomini. Ma Cristo è veramente risuscitato dai morti…» (I Cor., XV, 19-20). Allora a Paolo basta il coraggio di lanciare alla morte la più audace sfida che mai sia risuonata su questa terra: « Per me, morire è un guadagno ». – c) Ma io, — penserà qualcuno — non sono Paolo, non sono Ignazio: non so credere né operare così. Ecco la terza ansia che paralizza le forze umane: il senso della propria insufficienza e il conseguente scoraggiamento. Quante anime sfiduciate si lamentano di non poter pregare, di non saper resistere alle seduzioni dell’impurità, d’essere incapaci di sopportare! Neanche i santi da soli avrebbero potuto fare quello che hanno fatto; ma la fede ci ricorda che Dio è la nostra forza e il nostro sostegno, e quando Dio è con noi nessuno potrà prevalere contro di noi, né il mondo né il demonio, né la nostra debolezza. Pensate alla timidezza e alla incapacità degli Apostoli prima che le loro buone volontà esitanti fossero afferrate e trasformate dalla forza dello Spirito Santo. – Sulla porta del tempio di Gerusalemme c’era uno storpio, il quale campava la vita chiedendo l’elemosina. Passarono di là S. Pietro e S. Giovanni e lo guarirono nel Nome di Gesù. Egli balzò in piedi, li prese per le mani e tenendoli stretti entra con loro nel tempio giubilando (Atti, III, 1-11). La nostra anima, ad essere sinceri, dobbiamo forse assomigliarla a quello storpio. Indecisa tra il bene e il male, tra la piazza e il tempio, tra Dio e il mondo, non ha la sfrontatezza di vivere senza freni ma neanche il coraggio di darsi decisamente e totalmente al Signore, entrando nel tempio della sua grazia e delle sue leggi. Siede impotente sulla soglia, e si volta indietro a chiedere al mondo un poco delle sue soddisfazioni e dei suoi piaceri. Vorrebbe darsi al Signore, ma ha paura delle rinunzie e dei sacrifici che egli le deve imporre; d’altra parte il timore dell’inferno, e un innato senso di nobiltà le vieta d’affondare nei peccati. Soltanto S. Pietro e S. Giovanni, l’Apostolo delle fede e quello dell’amore, la possono guarire nel Nome di Gesù. Abbiamo bisogno cioè di una grande fede in Gesù Risorto, vivo e vicino a noi; abbiamo bisogno di un grande amore per Lui che spenga in noi ogni malsano amore del mondo. Stretti per mano alla fede e all’amore del nostro Redentore Risorto, entreremo nel tempio della vita Cristiana, e procederemo nella nostra santificazione. Signore, fa ch’io ti creda sempre più! Fa ch’io ti ami sempre più.

.- Non sulla gioia dei discepoli, non sulla incredulità di Tommaso, ma sull’augurio del Maestro divino dobbiamo fermare la nostra attenzione. « A voi sia Pace! ». Risorgendo da morte non altra parola, non altro dono recò ai suoi se non la pace: quella che Egli aveva firmata tra Dio e l’umanità con il suo sangue. Pax vobis! è pur questo ancora il dono e la parola che Gesù reca ad ognuno che ha compiuto in questi giorni il suo dovere pasquale, e credo che nessuno tra voi resti escluso. Dopo d’aver confessati bene i peccati, dopo d’esservi cibati della Sacra Ostia, avete sentito la sua voce ripetervi in fondo al cuore: « A te sia pace. Dio è placato e ti ama ». Sì, oggi tutti siamo in pace col Cielo; io lo spero. Però quel che importa è che questa pace non duri appena una o due settimane, ma sempre. Non venga più, dunque, il peccato a rapirci il dono della risurrezione. Nessuno si renda meritevole del rimprovero che S. Paolo fece ai Galati. Aveva a loro annunziato il Vangelo, li aveva battezzati, li aveva entusiasmati nella Religione nostra: ma appena fu lontano, quelli dimenticarono ogni cosa e ritornarono alla vita di prima. S. Paolo lo seppe, e scrisse a loro una lettera di rimproveri e di lacrime: « In così poco tempo avete saputo abbandonare Cristo? Avete cominciato nel fervore e finite nella disonestà! O stolti, chi vi ha illusi a disubbidire alla verità?». O insensati Galatæ, quis vos fascinavit non obœdire veritati? (Galat., III, 1). Non basta dunque aver fatto pace con Dio, bisogna adesso mantenerla, continuando in grazia, poiché soltanto chi avrà perseverato fino alla fine si salverà. Perseveranza ci vuole! e la perseveranza dipende da Dio e da noi. Se dipende da Dio preghiamolo; se dipende da noi, vigiliamo. – DIPENDE DA DIO: PREGHIAMOLO. Udite un paragone che una volta portava Gesù alle turbe. « Se alcuno pensa di edificare una torre, prima si ritira in casa e calcola un progetto preventivo di spesa e considera se le sue ricchezze basteranno a tener fronte all’impresa, e se mai qualche amico lo aiuti con prestiti… ma non si mette all’opera all’impensata, altrimenti correrebbe il rischio di non poter condurre a termine la costruzione e di abbandonarla a mezzo, fra lo scherno della gente: « Guardate il tale! ha cominciato a fabbricare e non ha potuto finire» (Luc.; XIV, 28-30). Or bene, noi dobbiamo cominciare l’ardua fabbrica d’una vita nuova, una vita di pace e in grazia: se ci ritiriamo a riflettere sui mezzi che disponiamo, bisogna concludere che da soli ci mancano le forze per durarla anche un giorno solo. C’è però un nostro grande Amico, ricchissimo e potentissimo, che appena lo preghiamo, supplisce ad ogni nostra debolezza: Dio. Senza la preghiera è quindi impossibile la perseveranza. Ma con la preghiera ogni difficoltà sparisce, ogni tentazione si dissolve, la nostra debolezza trionfa. Prima che S. Agata fosse martirizzata, il tiranno volle tentare ogni seduzione per indurla al peccato; ma ogni sua arte riuscì inutile perché la santa pregava. « Sarebbe più facile, — disse il tiranno — sarebbe più facile ammollire i macigni e il diamante, cambiare il ferro in piombo, anziché cambiare l’animo di Agata e sviarla dall’amore di Gesù Cristo e dal proposito della castità ». Che bella testimonianza! Noi invece siamo come fogliette di pioppo tremanti ad ogni vento; siamo come cera che si liquefa al primo caldo; siamo come rugiada che svanisce al primo raggio. Quante volte è bastato un pensiero ozioso, uno sguardo, una parola, un sorriso per travolgerci in rovina! Perché? Perché non si può perseverare senza l’aiuto di Dio. Quest’aiuto, che il Signore pietoso non nega mai, lo si ottiene con la preghiera e con i Sacramenti. – Per essere più preciso, vi ricorderò che Dio ha diviso il tempo in giorni, in settimane, in mesi, in anni: e noi ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, ogni anno abbiamo bisogno del conforto divino a perseverare. Ed allora ogni giorno ci sia la preghiera del mattino e della sera col Rosario; ogni settimana, nel giorno festivo, la Messa e la spiegazione della Dottrina cristiana; ogni mese la Confessione e la Comunione, — questo è solo un mio consiglio ma tanto giovevole; ogni anno la Pasqua sia santificata con un esame di coscienza generale e con l’adempimento esatto del dovere pasquale. Queste pratiche non vi sembrino esagerate: siamo pronti a ben maggiori fatiche per conservare le ricchezze del mondo, e ci rifiuteremo vilmente quando si tratta di conservare la pace e la grazia, che sono ricchezze di paradiso? D’altronde a chi le eseguirà, io assicuro da parte di Dio la perseveranza fino alla fine. – DIPENDE DA NOI: VIGILIAMO. S. Gerolamo dice che noi viaggiamo carichi d’oro: è il gran tesoro della grazia di Dio, della pace sua santa. Non lasciamoci derubare. Temiamo i ladri astuti e feroci che stanno nascosti dentro e fuori di noi. Vigiliamo, ché nel cammino della vita dobbiamo essere non degli sventati, ma dei prudenti. Vigilate! Quando Antonio fu all’età di trentacinque anni volle recarsi in un antico romitaggio, dove avrebbe potuto lodare Dio in tutta povertà e penitenza. Ma l’infernale nemico tentò d’impedire il proposito eroico e gettò, sulla via per dove doveva passare, un dischetto d’argento. « Lo raccoglierà, — pensava il demonio, — tornerà indietro per spendere la moneta, o donarla: e poi probabilmente dimenticherà il romitaggio ». Ma appena S. Antonio vide il dischetto d’argento luccicare davanti a’ suoi passi, conobbe l’inganno, e gridò come se il demonio lo potesse sentire. « Quest’argento sia teco in perdizione ». Una fiammetta, una boccata di fumo e il dischetto scomparve. L’astuzia del tentatore non è mutata neppure dopo mill’anni. Egli sa del vostro proposito di perseverare dopo la Pasqua e sulla strada per dove passate getta, come luccicanti monete, i suoi inganni. È quel ballo, è quella persona, è quel ritrovo, è quel piacere, è quel libro… Non raccogliete, per amor di Dio, il dischetto d’argento infernale: fuggite l’occasione! e voi pure gridate: « Questa lusinga sia teco in perdizione ». In un attimo ogni tentazione, tutto si dissolverà in vano fumo, davanti ai vittoriosi. Resistete giorno per giorno! « Ma io sono giovane e come potrò resistere per venti e quarant’anni in una vita pura, ritirata, cristiana? Ho già provato altre volte: per un giorno, per una settimana ho resistito, ma poi le forze mancarono, le passioni ingagliardirono, e cedetti… ». Risponderò ancora con un esempio dei Padri del deserto, assai sperimentati nei combattimenti spirituali. Vivevano nell’eremo due Egiziani, che da poco avevano abbracciato quella vita santa, e, si capisce, il demonio li spingeva ad abbandonarla. Per superare questa tentazione, essi decisero di aspettare fino alla stagione seguente: « Ecco l’inverno! — si dicevano; — passiamolo ancora qui: del resto è tanto breve; ce ne andremo a primavera ». L’inverno passava ancora in santità ed orazione. « Ecco la primavera! — dicevano poi; — è cosa tiepida che piace perfino nel deserto. Ce ne andremo in autunno ». E così di stagione in stagione, rimasero cinquant’anni nella solitudine e morirono in pace. Altrettanto fate voi, o Cristiani, che desiderate perseverare in grazia. « Da Pasqua a Pentecoste non ci sono cent’anni: resistete fino allora: poi dopo una bella Confessione e una fervorosa Comunione, deciderete. — E da Pentecoste alla Sagra o all’Ufficio Generale, o alle S. Quarant’ore, o al Giorno dei morti… non è un’eternità: resistete fino allora ». E così di periodo in periodo, tutta la vita passerete nella santa perseveranza di Pasqua. – Tre convalescenti si presentarono al medico. Erano appena usciti da malattia gravissima, e tutti e tre — temendo la ricaduta — ricorsero pieni di fiducia al loro dottore per domandargli consigli. I consigli furono uguali a tutti: prendere maggior nutrimento; astenersi da certe bevande e da certe vivande irritanti; accorrere dal medico senza indugi appena i sintomi del male riprendessero a manifestarsi. Il primo convalescente, ritornato a casa sua, dimenticò ogni prescrizione medica, anzi se ne rise: ma d’improvviso il male lo riprese e lo strappò nella tomba. Il secondo convalescente preferì ascoltare per metà i consigli del dottore: prese maggior nutrimento, ma non si astenne dai cibi proibiti; e neppure lui godette salute. Il terzo invece eseguì scrupolosamente ogni comando e, appena temeva un assalto del vecchio male, ricorreva al suo medico: così poté campare lieto e sano fino alla più tarda età. Tra i fedeli che dopo la santa Pasqua vogliono perseverare nella salute dell’anima, noi distinguiamo tre categorie. Alcuni non ricordano nemmeno uno dei consigli ricevuti in confessione: maggior nutrimento di preghiere, ed essi non pregano mai; astensione dai cibi irritanti, ed essi amano invece cose, luoghi, persone pericolose; farsi vedere frequentemente dal medico, ed essi non si confessano più d’una volta all’anno. Costoro ricadranno in peccato peggio di prima, e sempre con minor speranza di risollevarsi. Altri prendono sì un maggior nutrimento di preghiere, una maggior frequenze di sacramenti; ma non fuggono le occasioni peccaminose. Costoro non potranno mai perseverare, perché chi ama il pericolo in esso perisce. Infine, c’è un piccolo gruppo che eseguisce scrupolosamente i tre consigli. E vi assicuro che son costoro quelli che non perderanno mai la pace pasquale e cammineranno con Gesù risorto fino alla morte e poi per sempre di là. In quale categoria ci poniamo noi?

– Quando una persona ritorna da un lungo viaggio, riporta, per i suoi cari che l’attendono, qualche ricordo di quelle terre sconosciute e misteriose. E Gesù risorto, ritornando ai suoi discepoli che l’aspettavano, volle portare un dono che facesse loro immaginare quanto si debba godere in paradiso: la pace. Ed entrato quella sera, a porte chiuse, nel cenacolo, stette in mezzo a loro e disse: — Pace! — E mostrava il suo petto piagato, e le palme delle mani piagate. La pace. Ecco il gran dono di Dio, ecco quello che anche ai nostri tempi gli uomini cercano affannosamente invano. E pace non vi è più nelle famiglie, ove le sante leggi che la custodivano sembrano infrante. E pace non vi è nelle nazioni, che ormai disperano di raggiungerla, poi che la videro svanire come nebbia ogni volta che sognarono d’averla abbracciata. Perciò, oggi, dopo tanti secoli, dalle pagine del suo Vangelo risorge il Maestro Divino e dice alla gente, mostrando il suo petto e le sue palme piagate: « Quello che invano avete altrove cercato, è qui: io sono la vostra pace ». Stetit Jesus in medio discipulorum et dixit eis: Pax vobis! E veramente solo quando Gesù sarà in mezzo alla nostra mente, in mezzo al nostro cuore, in tutta la nostra vita, solo allora avremo la pace. Ma Gesù vive nella nostra mente per la fede, che placa ogni dubbio e dissipa ogni ombra. Ma Gesù vive nei nostri cuori quando ci siamo confessati e la grazia di Dio è tornata a sorridere in noi. Ma in Gesù è tutta la nostra vita quando non vogliamo se non ciò che Egli vuole. « Pax vobis!» pace che vien dalla mente, che vien dal cuore, che viene da ogni nostra azione. – LA FEDE DONA LA PACE ALLA MENTE. Santa Perpetua, perché cristiana, fu trascinata davanti al giudice e condannata alle fiere. Questa donna, così gentile e affettuosa che un giorno era stata rimproverata dal rigorista Tertulliano perché baciava il suo bambino con troppo amore, non tremò davanti alla morte, ma parve sorridere. Quando in mezzo al circo, in cospetto del popolo africano, vide contro di lei venir la mucca infuriata, congiunse le mani e si protese verso la bestia come se si preparasse a pregare sulla culla del suo bimbo addormentato. Al primo assalto fu travolta dalla polvere, ma non le fu recato alcun male. Ed ella si alzò da terra senza turbarsi e riannodò modestamente le chiome che s’erano scompigliate nell’urto e scosse la polvere dagli abiti, ed aspettò la morte come si aspetta una sorella che venga… Ma chi poteva dare a una donna tanta serena pace da curarsi ancora del decente aspetto della sua persona, proprio quando la soprastava un tragico martirio? La fede. Dice la fede: quaggiù non è la nostra dimora, ma solo una valle di patire. Dice la fede: chi perde la vita per amor del Signore, la ritroverà. Ella credeva fermamente, e di che cosa poteva temere? Oh se si avesse fede, non si bestemmierebbe la Provvidenza di Dio quando ci manda le croci! Se si credesse un po’ di più alle verità del Vangelo che il prete ogni festa spiega nella Chiesa, nel mondo non ci sarebbe tanta gente che ad ogni piccola sventura cerca la morte! Guardate i fanciulli: essi sono sempre beati: perché credono alla loro mamma. Noi pure saremo beati, se crederemo a Dio nostro Padre, con la fede d’un fanciullo. Ecco perché Gesù risorto rimproverò Tommaso il gemello e gli disse: « Tommaso non essere incredulo. Beati quelli che, pur non vedendo, crederanno ». – LA CONFESSIONE DONA LA PACE AL CUORE. Un missionario del secolo XVIII predicava in un paese alpestre di Francia. Narra il P. Monsabré che una volta entrò in quella chiesa ad ascoltarlo anche un ufficiale di cavalleria avvolto nel suo mantello. Il suo sguardo nero e profondo era irrequieto e sembrava un lampo che guizzasse fuori dalla nuvolaglia che s’accozzava in quel cuore in tempesta. Tratto tratto ansimava, premendosi la mano sul cuore tumultuoso. E Dio volle che il missionario parlasse proprio della confessione. La parola suadente del prete gli penetrava in cuore e alla fine risolvette di buttarsi ai piedi del confessore. Il missionario lo raccolse con amore e lo aiutò a confessarsi davanti a Dio. Quando quell’ufficiale dall’ampio mantello uscì dalla Chiesa, piangeva e volgendosi ad alcune persone disse: « In vita mia non ho provato una pace così pura e così soave come quella che il ministro di Dio mi ha procurato col mettermi in grazia. E credo che neppure il re, che servo da trent’anni, può essere più felice di me ». Pasqua è venuta: ma è venuta la pace nei nostri cuori? Se in noi non c’è pace è forse perché ci siamo confessati male, o fors’anche non ci siamo confessati? Il peccato è come un tarlo che rode senza posa il nostro povero cuore: ed esso non muore se non col perdono di Dio che si riceve ai piedi del confessore. Ecco perché Gesù, apparendo quella sera nel cenacolo, dopo aver detto: « La pace sia con voi » si curvò sopra degli Apostoli e alitando sopra le loro fronti disse: « Ricevete lo Spirito Santo. A chi perdonerete, sarà perdonato; a chi non perdonerete non sarà perdonato ». Come il Divin Padre aveva mandato Gesù, così ora Gesù manda i suoi discepoli a portare la pace nel mondo. Ma pace non ci può essere se non nella coscienza pura. E Dio istituì perciò il Sacramento della purificazione. – L’OSSERVANZA DELLA LEGGE DI DIO METTE LA PACE IN OGNI NOSTRA AZIONE. Un giorno Dio comandò a Saul di muovere sopra gli Amaleciti, di saccheggiare e incendiare ogni cosa. E Saul piombò contro i nemici di Dio e stravinse: però volle risparmiare il re, forse per far più bello il suo trionfo; volle ancora risparmiare alcune pecore col pretesto di sacrificarle a Dio. Di ritorno dalla guerra, il profeta mosse ad incontrarlo e gli disse: « Hai tu distrutto ogni cosa? » – « Ho compiuto la parola del Signore »  rispose Saul. Ma in quel momento le pecore belarono. « Ma io odo un belare d’agnelli » disse il profeta. Saul titubò un istante cercando una scusa: « Fu il popolo che ha voluto che si risparmiassero i capi migliori per farne sacrificio ». Samuele si adirò. « Poiché tu hai gettato dietro alle tue spalle la parola di Dio, ecco: Dio ti ripudia e non ti vuol più re ». È il caso di molti Cristiani. Durante la quaresima hanno ravvivato la loro fede, nei giorni di Pasqua hanno fatto anche la Comunione, eppure nel loro cuore non sentono la pace che Gesù risorto portò ai suoi discepoli. Oh, non basta la fede, quando non si agisce ancora nella luce della fede! Oh, non basta la confessione quando si conservano in cuore certi attaccamenti al peccato. Et quæ est hæc vox gregum? Cos’è questo belar d’agnelli? Non aveva Dio imposto la distruzione d’ogni cosa? E perché allora si è voluto continuare in certe amicizie, in certe compagnie, in certi desideri che la legge del Signore proibisce? Perché in fondo al cuore cova ancora quell’astio o quell’attacco alla roba d’altri? Perché si è voluto risparmiare il re degli Amaleciti, ossia la propria passione predominante? Qual meraviglia allora se la pace del Signore non è venuta dentro di noi? La pace di Dio è solo nell’osservanza dei comandamenti di Dio. Pax multa diligentibus legem tuam, Domine! –  Irrequietum est cor nostrum, donec requiescat in Te. L’anima ardente di S. Agostino cercava la pace. E dalle spiagge della sua Africa d’oro si volge alle mondane cose con tormentose domande: chiedendo pace. Ma gli aranceti e gli olivi in fiore di Tagaste e tutto il verde pendio sembravano rispondergli: Quello che tu cerchi non è qui tra le nostre fronde agitate dal vento: cerca più in su! E S. Agostino cerca il mare: ma le onde e gli infiniti increspamenti del mare nel loro perpetuo ondulamento gli rispondono: « Quello che tu cerchi non è qui nelle nostra eterna agitazione: più in su!» E S. Agostino leva gli occhi sopra il cielo stellato della sua Africa d’oro. Ma gli astri dicono: «Quello che tu cerchi non è qui: ché noi siamo, come il tuo cuore, sempre vaganti: più in su ». « Dio! ». – Egli solo, quando vive nella nostra mente, nel nostro cuore, in tutta la vita nostra, Egli solo è la nostra pace. Ipse est pax nostra (Ef., II, 14).

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Matt XXVIII:2; XXVIII:5-6.

Angelus Dómini descéndit de coelo, et dixit muliéribus: Quem quaeritis, surréxit, sicut dixit, allelúja.

[Un Angelo del Signore discese dal cielo e disse alle donne: Quegli che voi cercate è risuscitato come aveva detto, alleluia.]

Secreta

Suscipe múnera, Dómine, quaesumus, exsultántis Ecclésiæ: et, cui causam tanti gáudii præstitísti, perpétuæ fructum concéde lætítiæ.

[Signore, ricevi i doni della Chiesa esultante; e, a chi hai dato causa di tanta gioia, concedi il frutto di eterna letizia.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

[Joannes XX: 27] Mitte manum tuam, et cognósce loca clavórum, allelúja: et noli esse incrédulus, sed fidélis, allelúja, allelúja.

[Metti la tua mano, e riconosci il posto dei chiodi, alleluia; e non essere incredulo, ma fedele, alleluia, alleluia.]

Postcommunio

Orémus.

 Quæsumus, Dómine, Deus noster: ut sacrosáncta mystéria, quæ pro reparatiónis nostræ munímine contulísti; et præsens nobis remédium esse fácias et futúrum.

[Ti preghiamo, Signore Dio nostro, che i sacrosanti misteri, che tu hai dato a presidio del nostro rinnovamento, ci siano rimedio nel presente e nell’avvenire].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

SECONDA FESTA DI PASQUA

SECONDA FESTA DI PASQUA

[Mons. G. Bonomelli: Nuovo Saggio di OMELIE III ed., Vol. II – Marietti ed. Torino, 1899]

Omelia XIII.

“Pietro disse: Fratelli, con tutta certezza io ho compreso, che Dio non è accettatore di persona; che anzi chiunque lo teme ed opera la giustizia, a qualunque nazione egli  appartenga, gli è accetto. Iddio mandò la parola ai figli d’Israele, annunziando la pace per Gesù Cristo (è questi il Signore di tutti); voi conoscete ciò che è avvenuto per tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; come Iddio unse Gesù di Nazaret di Spirito Santo e di potenza, il quale andò attorno facendo beneficii e liberando quanti erano posseduti dal demonio, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutto ciò ch’egli fece nel paese dei Giudei e in Gerusalemme. Essi, i Giudei, lo uccisero, sospendendolo ad un legno. Dio lo ha risuscitato il terzo giorno ed ha fatto che fosse conosciuto, non già a tutto il popolo, ma a testimoni preparati da Dio, cioè a noi che abbiamo mangiato e bevuto con Lui, dopo ché fu risorto dai morti. Ed Egli ci comandò di predicare al popolo e di attestare, ch’esso è costituito da Dio giudice dei vivi e dei morti. A lui rendono testimonianza tutti i profeti, che nel suo nome si riceve la remissione dei peccati da quanti credono in Lui „ (Atti apost, X, 34-43).

Nulla di più conveniente quanto il ricordare ai fedeli il grande mistero della risurrezione di Gesù Cristo anche in questa seconda festa della santa Pasqua. E perciò la Chiesa ci fa leggere nell’Epistola della Messa odierna il compendio di un bellissimo discorso, nel quale S. Pietro annunzia il miracolo della risurrezione ad alcuni Gentili. E perché conosciate la ragione di questo discorso di S. Pietro, compendiato da S. Luca, è necessario fare un po’ di storia. – I profeti in modo chiarissimo avevano annunziato che il futuro Messia avrebbe chiamato al conoscimento della verità anche i Gentili: Cristo più e più volte l’aveva insegnato agli Apostoli, anzi fatto loro un comando formale di predicare il Vangelo dovunque e battezzare tutte le genti. Gli Apostoli, pertanto, sapevano benissimo che anche i Gentili dovevano essere chiamati alla fede ed alla Chiesa di Gesù Cristo; ma trovavano una fiera opposizione, non solo nei Giudei avversi al Vangelo, ma ciò che era peggio, anche nei Giudei già divenuti cristiani. Questi, ancorché credenti in Gesù Cristo, non sapevano persuadersi, che i Gentili dovessero essere pareggiati a loro, figliuoli di Abramo: non potevano tollerare che ricevessero il battesimo come loro, se prima non professavano il mosaismo e non si sottomettevano alla circoncisione. Gli Apostoli, ancorché conoscessero perfettamente la volontà di Cristo, erano sospesi quanto al modo e al tempo di procedere in cosa sì grave e sì delicata per non offendere troppo apertamente questi Giudei cristiani, sì deboli nella fede. Aspettavano che la Provvidenza aprisse loro la via, e l’aperse col fatto narrato da San Luca nei versetti precedenti a quelli, che vi ho recitati. A Cesarea viveva un centurione romano, della coorte detta Italica; era gentile, ma religioso, pio, caritatevole, pregava Dio, che lo illuminasse: e come lui era tutta la sua famiglia. Un giorno gli apparve un Angelo e gli impose di chiamare Pietro, che si trovava a Joppe, l’odierna Giaffa. Vi mandò due suoi domestici e un soldato fedele, e Pietro, a cui Iddio con una mirabile visione aveva fatto conoscere, che l’ora di chiamare alla fede anche i Gentili era venuta, andò con loro a Cesarea, entrò nella casa di Cornelio, dov’erano raccolti molti altri Gentili: vi fu ricevuto come un Angelo del cielo. A questo gruppo di Gentili, che cercavano la verità con tanto amore, che vivevano piamente, Pietro rivolge il discorso, del quale lo scrittore degli Atti apostolici ci ha conservato un brevissimo sunto. – Ora commentiamolo. S. Pietro parlava ad una piccola radunanza di Gentili, che l’avevano chiamato affinché li istruisse: due miracoli erano avvenuti, l’apparizione dell’angelo a Cornelio ela visione manifestata a Pietro, ed entrambi i miracoli erano evidentemente volti a provare, che anche i Gentili dovevano essere ricevuti nella Chiesa. Ciò posto, nulla di più naturale di queste prime parole di S. Pietro: “Con tutta certezza ho compreso, che Dio non è accettatore di persona. „ Comprendo, dice l’apostolo, Il che ora è venuto il tempo della salute anche |per i Gentili: la volontà di Dio ora è manifesta: “Egli non è accettatore di persona. „ E una espressione ripetuta più volte nei Libri del nuovo Testamento, e significa che nella distribuzione dei suoi doni il Signore non guarda alle qualità personali di nazione o di patria, d’ingegno, di dottrina, di ricchezza o povertà, od altre doti, come sogliono fare gli uomini. Iddio non è tenuto di dare le sue grazie a chicchessia appunto perché sono grazie. Nondimeno per sua bontà e perché l’ha promesso, le grazie necessarie a salute, mediatamente o immediatamente, le dà a tutti. – Ciò non toglie ch’Egli poi sia più largo con gli checon gli altri, secondochè a Lui piace secondo i consigli della sua sovrana sapienza, che a noi non è dato di scrutare. – Credevano i Giudei d’avere essi soli diritto alla fede, perché figli di Abramo, e ne volevano esclusi i Gentili, perché Gentili. No, dice S. Pietro, Dio non guarda se siano Giudei o Gentili, non distingue gli uni dagli altri, ed offre a tutti la sua grazia, perché tutti sono opera delle sue mani e per tutti Gesù Cristo è morto. Una cosa sola Dio esige, ed è “che lo si tema e si operi la giustizia: chi fa questo, a qualunque nazione e gli appartenga, è accetto a Dio. „ Qui si affaccia una difficoltà: noi sappiamo per fede, che nessun uomo può fare cosa alcuna che lo renda accetto a Dio, se prima non riceve la sua grazia, e qui il Principe degli Apostoli afferma ch’egli, Dio, ha per accetto, ossia dà la grazia a chi lo teme e opera la giustizia: sembra dunque che le opere buone dell’uomo debbano precedere la grazia, che è errore manifesto ed eresia. Come, dunque, si ha da intendere? Ecco, o carissimi. Le grazie di Dio sono come una catena, nella quale un anello tira con sé l’altro. Dio comincia e dà la prima grazia ai poveri Gentili, giacché in questo luogo si parla a Gentili: li muove a pregare, a fare limosine, a cercare la verità; se essi corrispondono a questa grazia prima, per una cotale convenienza e per la bontà e promessa di Dio si rendono in qualche modo meritevoli d’altre grazie maggiori, finché si compia l’opera della loro conversione e santificazione. Il timore adunque di Dio e l’opera della giustizia, di cui parla San Pietro, e che a Dio rendono accetto l’uomo, suppongono sempre la grazia precedente, senza della quale l’uomo non può né cominciare, né proseguire opera buona alcuna. Voi – il paragone è di S. Francesco di Sales – voi, viaggiando verso la patria, stanchi vi addormentate all’ombra d’un albero. Il sole, continuando il suo cammino, drizza i suoi raggi sul vostro volto e vi costringe ad aprire gli occhi: voi allora vi accorgete che l’ora è tarda, che bisogna ripigliare il cammino: vi alzate alla luce del sole proseguite la via. Fu il sole che vi destò, il sole che vi mostrò la via da percorrere, e alla luce del sole camminaste. Così fa la grazia di Dio col peccatore, col Gentile: comincia a fargli conoscere la verità, lo eccita a fare alcune opere, che lo preparano alla conversione, e finalmente lo converte, rinnova il suo cuore, lo rende figlio di Dio, e cominciando con la grazia attuale, finisce con la abituale e santificante. – Ma ascoltiamo S. Pietro. Dio dà la a tutti senza far distinzione tra Giudeo e Gentile, ed io, dice l’Apostolo, son venuto ad annunziarvela. Sappiate adunque che Dio mandò la parola ai figliuoli d’Israele, „ cioè fece loro conoscere la verità per mezzo della parola o della predicazione di Gesù Cristo, predicazione annunziatrice della pace, che deve stabilirsi tra Dio e gli uomini, riconciliando questi con quello; predicazione di Gesù Cristo, che è, sappiatelo bene, il Signore di tutti, perciò Signore degli Ebrei non mene che dei Gentili, e dispensatore egualmente a tutti delle sue grazie. – E qui S. Pietro in poche parole accenna alla predicazione di Gesù Cristo, che ebbe principio nella Galilea, dopo il battesimo ricevuto da Giovanni, e poi si sparse ampiamente per tutta la Giudea. Voi conoscete, prosegue S. Pietro, come Iddio unse Gesù da Nazaret di Spirito Santo e potenza. I Gentili, ai quali parlava S. Pietro, senza dubbio dovevano, almeno per fama, conoscere Gesù Cristo e le opere che aveva compiuto, giacché il fatto qui narrato avvenne cinque o sei anni circa dopo la sua morte, e grande era il rumore che si era levato in tutta la Palestina e cresceva ogni giorno mercé la predicazione degli Apostoli. E che unzione è questa, della quale parla il sacro testo? Un’unzione qualunque suppone chi la dà e chi la riceve, e naturalmente significa non solo una applicazione esterna del liquido, che si adopera, ma una penetrazione intima del medesimo, a talché la parte unta ne rimane, a così dire, tutta imbevuta. Che cosa raffigura questa unzione? Senza dubbio la grazia divina, che a guisa d’olio o di balsamo tutta penetra e imbeve l’anima, risanandola, nutrendola, rafforzandola e trasformandola. Chi è colui, che dà questa unzione, che sparge questo balsamo divino? È Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo, con un solo e medesimo atto. E perché poi qui si attribuisce al solo Spirito Santo? Non sono esclusi il Padre ed il Figlio, ma si nomina il solo Spirito santo, perché questa unzione o grazia è dono di Dio, è atto di amore, e lo Spirito Santo è l’Amore sostanziale del Padre e del Figlio, e però dice un rapporto particolare allo Spirito santo. E chi è colui che riceve questa unzione dello Spirito Santo? È Gesù Cristo in quanto uomo. Nell’atto istesso, in cui l’anima sua fu creata e congiunta al corpo, e anima e corpo congiunti alla Persona del Verbo di Dio in guisa che Egli poté dire: Io sono Dio, ed io sono Uomo; in quell’istante istesso dalla Persona del Verbo si riversò nell’umanità assunta tutta la pienezza della grazia quanta ve ne capiva: l’umanità assunta, anima e corpo, fu come una massa d’oro posta in mezzo ad un fuoco immenso, che tutta la investe; la penetra, la trasforma, senza mutare la sua natura di oro. È questa l’unzione che Gesù in quanto uomo ricevette, e in quell’istante divenne Re e Sacerdote e Mediatore dell’umanità tutta. S. Pietro poi dice che questa unzione fu anche unzione di potenza, accennando al potere stabile e proprio di operare miracoli, che Gesù ebbe nell’atto stesso, in cui si compì l’unione ipostatica. E questa potenza sovraumana e divina, che Gesù Cristo ebbe per l’unione personale, la esercitò a benefìcio degli uomini: Pertransiit benefaciendo: liberando i corpi e le anime dalla tirannica signoria del peccato e del demonio. In queste parole S. Pietro annunziò a quei buoni Gentili la divinità di Gesù Cristo, e le prove della sua divinità, che furono i miracoli onde fu ripiena la sua vita pubblica. Ecco, grida S. Pietro, ecco le prove della divinità di Gesù Cristo, della sua missione e della nostra, i miracoli; e di questi miracoli, continua il Principe degli Apostoli coll’accento della più profonda convinzione, che gli sgorga dall’anima, noi, noi stessi siamo testimoni. Noi l’abbiamo seguito in Giudea, a Gerusalemme: noi l’abbiamo visto darsi nelle mani dei suoi nemici, i Giudei: noi l’abbiamo visto appeso ad un legno e messo a morte: noi, noi, al terzo dì l’abbiamo veduto risorto, come aveva promesso: Egli apparve a noi, così Pietro prosegue come rapito da un sacro entusiasmo; no, non si mostrò a tutti, ma a quelli che erano stati alla sua scuola e preparati all’ufficio di annunziare la sua dottrina; si mostrò a noi in guisa che non ci fu, né ci è possibile ingannarci: noi 1’abbiamo veduto, noi abbiamo mangiato, noi abbiamo bevuto con Lui. Come, dunque, potevamo dubitare della sua risurrezione, e perciò della verità delle dottrine per lui insegnate? Voi vedete, o cari, come il Principe degli Apostoli dopo aver esposta la vita di Cristo e accennati i suoi miracoli, collochi la prova massima e irrecusabile della divinità di Gesù Cristo e del dovere di credere alla sua dottrina sul fatto, sul miracolo splendidissimo fra tutti della sua risurrezione. E veramente questo è la corona ed il suggello di tutti gli altri; la risurrezione è per se stessa il sommo dei miracoli, perché il ridare la vita a chi non l’ha domanda una potenza al tutto divina: Dio solo è padrone della vita; perché qui è un morto, anzi uno ucciso dai suoi nemici, che si è dato in loro mano vivo e morto, che risuscita se stesso; perché predisse la sua morte e il modo della morte, e predisse la risurrezione e ne determinò il tempo, e perché volle che gli stessi suoi nemici ne fossero testimoni. – In tutta la sua vita appellò costantemente a questo miracolo della risurrezione e a questo miracolo, per così dire, ridusse tutte lo prove della sua missione, onde questo miracolo è come la conferma degli altri, e tutti li lega insieme e formano tal fascio di prove, che schiacciano la ragione più esigente e più ribelle. S. Pietro dice che Gesù-Cristo si mostrò risorto “non a tutto il popolo, ma sì a testimoni preordinati o preparati da Dio. „ Perché ciò? Non sarebbe stato meglio che Gesù risuscitato si fosse dato a vedere, non ai soli Apostoli e discepoli, ma a tutti, anche ai suoi nemici, e a questi sopra tutto? In tal guisa non li avrebbe umiliati e conquisi e chiusa la bocca della incredulità? Senza dubbio Dio così poteva fare, ma se non lo fece, è forza conchiudere che non era questa la via che meglio conveniva ai disegni della sua sapienza. Era troppo giusto che le sue apparizioni dopo la risurrezione fossero riserbate ai suoi cari discepoli, quasi premio della loro fedeltà e conforto ai patimenti sofferti e argomento fortissimo, che li doveva sostenere nella missione loro affidata di annunziare da per tutto il Vangelo del Maestro. Né punto era scemata la certezza della risurrezione di Gesù Cristo, poiché gli Apostoli, i discepoli e i testimoni della medesima pel numero, per la qualità, per la varietà delle apparizioni erano tanti e tali da togliere qualunque ombra di dubbio e da generare la più assoluta certezza del miracolo. Che si poteva volere di più? Oltrediché è da por mente che Iddio dà e deve dare gli argomenti e le prove, che mettano al di sopra d’ogni dubbio la verità della fede, ma lascia e sta bene che lasci sempre libero l’assenso dell’uomo, affinché non gli sia tolto il merito della fede istessa ed abbia modo di rendere omaggio alla autorità divina, che gli dice: Credi. Ponete che Gesù Cristo si fosse mostrato solennemente a tutti, ai suoi nemici e crocifissori: che ne sarebbe avvenuto? O avrebbe quasi a forza estorto il loro assenso, o questi, perfidiando, avrebbero negato l’apparizione istessa, spiegandola coi sofismi sempre pronti a servigio delle passioni: quelli che negarono tanti miracoli di Gesù Cristo, e specialmente l’ultimo della risurrezione di Lazzaro, avrebbero trovato modo di revocare in dubbio anche la solenne apparizione di Cristo, se loro fosse stata concessa. – Iddio dispone ogni cosa con ordine e soavità; Egli rispetta la libertà dell’uomo, e porge alla sua ragione prove sufficienti della verità, ma rifiuta di appagare la sua curiosità e secondare la sua pervicacia e i suoi capricci. – S. Pietro chiude il suo discorso con queste due sentenze: “Gesù ci comandò di predicare al popolo e di attestare ch’egli è costituito giudice da Dio dei vivi e dei morti. A Lui rendono testimonianza i profeti, che si riceve nel suo nome la remissione dei peccati da quanti credono in Lui. „ Gesù Cristo si dice costituito Giudice dei vivi e dei morti, che è quanto dire, Egli ha potere sovrano su tutti gli uomini, buoni e cattivi, viventi e già morti, e renderà a suo tempo a ciascuno secondo le opere sue. Verità fondamentale, con cui si termina ogni simbolo, che deve scuotere ogni uomo, il quale pensi al suo avvenire, e che S. Pietro non poteva tacere a quei Gentili, che l’avevano chiamato e volevano udire la novella dottrina. Il giudizio divino, che sarà fatto alla fine dei secoli, ci attende tutti. Guai a coloro, che si troveranno innanzi a Lui schiavi del peccato! Bisogna liberarci dai peccati ottenerne il perdono prima di quel giorno; e chi ce lo darà questo perdono dei peccati? Lui stesso, che deve essere il nostro giudice, Gesù Cristo. Tutti i Profeti, annunziando la sua venuta, ci attestano che la remissione dei peccati non ci può venire che da Gesù Cristo, il quale ha dato il prezzo del nostro riscatto, ha versato per noi il suo sangue ed è divenuto la nostra riconciliazione, la nostra redenzione e santificazione, come scrive san Paolo. E come otterremo noi questa remissione dei nostri peccati? “Credendo in Lui. „ Non già che per ottenerla basti la sola fede, come dissero alcuni eretici; ma credendo in Lui e facendo ciò che Egli insegna. La fede sola senza le opere a nulla giova; essa ci segna la via che dobbiamo battere, ci dice ciò che dobbiamo fare per salvare le anime nostre, e in questo senso le Scritture sante affermano che la fede ci salva; così diciamo assai volte: Il medico mi ha salvato, il maestro mi ha appreso la verità, l’amico mi ha messo sulla buona via, in quanto che m’hanno suggerito il rimedio efficace, m’hanno insegnato ciò che dovevo fare per apprendere la verità, mi hanno consigliato di tenere la retta via; ma certamente questi beni non sono opera esclusivamente del medico, del maestro o dell’amico. È sempre la stessa fondamentale verità, che si ribadisce: la fede è il principio e la radice della giustificazione: è il seme, che germoglia la spiga e l’albero. Se voi non aveste il seme non potreste mai avere la spiga e l’albero: ma potreste avere il seme senza avere la spiga e l’albero quando lo spegneste, oppure non fosse debitamente coltivato, irrigato dall’acqua e riscaldato dal sole. Senza la fede è impossibile la vita cristiana: ma perché la fede ci salvi e produca i suoi frutti si domanda l’opera nostra, dirò meglio, la nostra cooperazione. Conservate adunque con somma cura il seme della fede e con l’opera vostra rendetela feconda e fruttuosa. Se noi riandiamo al discorso di S. Pietro, troviamo che è come l’epilogo del Catechismo, il compendio del Simbolo. Ci insegna che Dio offre a tutti la sua grazia, Giudei e Gentili, purché facciano quanto per loro è possibile; che Iddio mandò il Figliuol suo Gesù Cristo; annunziò la verità e la confermò coi miracoli; ch’Egli patì e morì in croce e risuscitò da morte; che la sua risurrezione, il massimo dei miracoli, è indubitata, perché gli Apostoli e i discepoli tutti lo videro; che Gesù Cristo è il giudice supremo dei vivi e dei morti, che per Lui solo si può avere la remissione dei peccati, facendo ciò ch’Egli con la fede ci insegna. Eccovi in queste poche parole compendiato il Simbolo.

DOMENICA DI PASQUA (2022)

DOMENICA DELLA RISURREZIONE.


Solennità delle Solennità.
Stazione a Santa Maria Maggiore
Doppio di I cl. con ottava privilegiata. – Paramenti bianchi.
Come a Natale, così a Pasqua, la più grande festa dell’anno,
la Stazione si tiene a S. Maria Maggiore.

Il Cristo risuscitato rivolge anzitutto al divin Padre l’omaggio della sua riconoscenza (Intr.). La Chiesa a sua volta ringrazia Iddio di averci, con la vittoria del Figlio Suo, riaperto la via del Cielo e lo prega di aiutarci a raggiungere questo bene supremo (Oraz.) Come gli Ebrei mangiavano l’Agnello pasquale con pane non lievitato, dice S. Paolo, così noi pure dobbiamo mangiare l’Agnello di Dio con gli azzimi di una vita pura e santa (Ep., Com.) cioè, esente dal fermento del peccato. Il Vangelo e l’Offertorio ci mostrano la venuta delle Marie che vogliono imbalsamare il Signore. Esse trovano una tomba vuota, ma un Angelo annunzia loro il grande Mistero della Risurrezione. Celebriamo con gioia questo giorno nel quale Cristo, risuscitando, ci ha reso la vita (Pref. di Pasqua) ed affermiamo con la Chiesa, che « il Signore è veramente risuscitato » (Inv.); secondo il suo esempio, operiamo la nostra Pasqua, o passaggio, vivendo in modo da poter dimostrare che noi siamo risuscitati con Lui.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps CXXXVIII: 18; CXXXVIII: 5-6.

Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuisti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja. 

[Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.]

Ps CXXXVIII: 1-2.

Dómine, probásti me et cognovísti me: tu cognovísti sessiónem meam et resurrectiónem meam. 

[O Signore, tu mi provi e mi conosci: conosci il mio riposo e il mio sòrgere.]

Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuísti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja.

[Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.]

Oratio

Deus, qui hodiérna die per Unigénitum tuum æternitátis nobis áditum, devícta morte, reserásti: vota nostra, quæ præveniéndo aspíras, étiam adjuvándo proséquere. 

[O Dio, che in questo giorno, per mezzo del tuo Figlio Unigénito, vinta la morte, riapristi a noi le porte dell’eternità, accompagna i nostri voti aiutàndoci, Tu che li ispiri prevenendoli.] 

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 1 Cor V: 7-8

“Fratres: Expurgáte vetus ferméntum, ut sitis nova conspérsio, sicut estis ázymi. Etenim Pascha nostrum immolátus est Christus. Itaque epulémur: non in ferménto véteri, neque in ferménto malítiae et nequitiæ: sed in ázymis sinceritátis et veritátis.” 

[“Fratelli: Togliete via il vecchio fermento, affinché siate una pasta nuova, voi che siete già senza lievito. Poiché Cristo, che è la nostra pasqua, è stato immolato. Pertanto celebriamo la festa non col vecchio lievito, né col lievito della malizia e delle perversità, ma con gli azimi della purità e della verità”.] .

Fratelli: Togliete via il vecchio fermento.

Comunque si vogliano intendere queste parole, che l’Apostolo indirizza ai Corinti, è certo che li esorta a vivere santamente, lontani da ogni peccato, tanto più che si avvicinava la solennità di Pasqua. « Non c’è uomo che non pecchi », dice Salomone (3 Re, VIII, 46). E si pecca non solo venialmente: da molti si pecca mortalmente con la più grande indifferenza. Forse cesserà il peccato di essere un gran male, perché è tanto comune? Una malattia non cessa di essere un gran male, perché molto diffusa; e il peccato non cessa di essere il gran male che è, perché commesso da molti. Dio, autorità suprema, ci dice: «Osservate la mia legge e i miei comandamenti» (Lev. XVIII, 5). E noi non ci curiamo della sua legge e dei suoi comandamenti, che mettiamo sotto i piedi. Quale guadagno abbiamo fatto col peccato, e qual vantaggio riceviamo dal non liberarcene? Se non hai badato al peccato prima di commetterlo; consideralo almeno ora che l’hai commesso. Col peccato avrai acquistato beni, ma hai perduto Dio. Avrai avuto la soddisfazione della vendetta; ma ti sei meritato un condegno castigo; perché « quello che facesti per gli altri sarà fatto per te: sulla tua testa Dio farà cadere la tua mercede » (Abdia, 15). Se non aggraverà su te la sua mano in questa vita, l’aggraverà nella futura. Avrai provato godimenti terreni, ma hai perduto il diritto ai godimenti celesti. Ti sei attaccato a ciò che è momentaneo, ma hai perduto ciò che è eterno. Ti sarai acquistata la facile estimazione degli uomini, ma hai perduto l’amicizia di Dio. Hai abusato un momento della libertà; ma sei caduto nella schiavitù del peccato. « Che cosa hai perduto, che cosa hai acquistato?… Quello che hai perduto è più di quello che hai acquistato » (S. Agostino Enarr. in Ps. CXXIII, 9). – Il peccatore, però, da questo stato di perdita può uscire, rompendo le catene del peccato. Egli lo deve fare. Dio stesso ve lo incoraggia: « Togliti dai tuoi peccati e ritorna al Signore » (Eccli. XVII, 21), dice egli. « Io non voglio la morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via, e viva… E l’empietà dell’empio non nuocerà a lui, ogni qual volta egli si converta dalla sua empietà » (Ezechiele XXXIII, 11…. 12). Non si è alieni dal ritornare a Dio; ma non si vuole far subito. Si vuole aspettare in punto di morte. Ma la morte ha teso le reti a tutti i varchi, e frequenti sono le sue sorprese. Può coglierci da sani, quando nessuno ci pensa; può coglierci da ammalati; quando non si crede tanto vicina, o si crede di averla già allontanata. Non sono pochi quelli che muoiono senza Sacramenti, perché si illudono che la malattia non sia mortale, o che il pericolo sia stato superato. E poi, non è da insensati trattare gli affari della più grande importanza, quando non si possono trattare che a metà, con la mente preoccupata in altre cose? E nessuno affare può essere importante quanto la salvezza dell’anima nostra; ed è imprudenza che supera ogni altra imprudenza volerlo trattare quando il tempo ci verrà a mancare, quando non avremo più la lucidità della mente. – Nessuno che è condannato a portare un peso, aspetterebbe a levarselo di dosso domani, se potesse levarselo quest’oggi. Nessuno che ha trovato una medicina che può guarire una malattia recente, si decide a prenderla quando la malattia sarà inveterata. Nel nostro interno c’è la malattia del peccato; non lasciamola progredire. Un medico infallibile, Gesù Cristo, ci ha dato una medicina per la nostra guarigione spirituale, la confessione; non trascuriamola.

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

Alleluja 

Alleluia, alleluia Ps. CXVII:24; CXVII:1 Hæc dies, quam fecit Dóminus: exsultémus et lætémur in ea. 

[Questo è il giorno che fece il Signore: esultiamo e rallegriàmoci in esso.] 

V. Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus. Allelúja, allelúja. 

[Lodate il Signore, poiché è buono: eterna è la sua misericòrdia. Allelúia, allelúia.] 

1 Cor V:7 V. Pascha nostrum immolátus est Christus. 

[Il Cristo, Pasqua nostra, è stato immolato.]

Sequentia

“Víctimæ pascháli laudes ímmolent Christiáni. Agnus rédemit oves: Christus ínnocens Patri reconciliávit peccatóres. Mors et vita duéllo conflixére mirándo: dux vitæ mórtuus regnat vivus. Dic nobis, María, quid vidísti in via? Sepúlcrum Christi vivéntis et glóriam vidi resurgéntis. Angélicos testes, sudárium et vestes. Surréxit Christus, spes mea: præcédet vos in Galilaeam. Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére. Amen. Allelúja.” 

[Alla Vittima pasquale, lodi offrano i Cristiani. – L’Agnello ha redento le pecore: Cristo innocente, al Padre ha riconciliato i peccatori. – La morte e la vita si scontrarono in mirabile duello: il Duce della vita, già morto, regna vivo. – Dicci, o Maria, che vedesti per via? – Vidi il sepolcro del Cristo vivente: e la gloria del Risorgente. – I testimonii angelici, il sudario e i lini. – È risorto il Cristo, mia speranza: vi precede in Galilea. Noi sappiamo che il Cristo è veramente risorto da morte: o Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi. Amen. Allelúia.]

Evangelium 

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum Marcum. 

 Marc. XVI:1-7.

“In illo témpore: María Magdaléne et María Jacóbi et Salóme emérunt arómata, ut veniéntes úngerent Jesum. Et valde mane una sabbatórum, veniunt ad monuméntum, orto jam sole. Et dicébant ad ínvicem: Quis revólvet nobis lápidem ab óstio monuménti? Et respiciéntes vidérunt revolútum lápidem. Erat quippe magnus valde. Et introëúntes in monuméntum vidérunt júvenem sedéntem in dextris, coopértum stola cándida, et obstupuérunt. Qui dicit illis: Nolíte expavéscere: Jesum quǽritis Nazarénum, crucifíxum: surréxit, non est hic, ecce locus, ubi posuérunt eum. Sed ite, dícite discípulis ejus et Petro, quia præcédit vos in Galilǽam: ibi eum vidébitis, sicut dixit vobis.” 

[In quel tempo: Maria Maddalena, Maria di Giacomo, e Salòme, comperarono degli aromi per andare ad úngere Gesú. E di buon mattino, il primo giorno dopo il sàbato, arrivarono al sepolcro, che il sole era già sorto. Ora, dicevano tra loro: Chi mai ci sposterà la pietra dall’ingresso del sepolcro? E guardando, videro che la pietra era stata spostata: ed era molto grande. Entrate nel sepolcro, vídero un giovane seduto sul lato destro, rivestito di càndida veste, e sbalordirono. Egli disse loro: Non vi spaventate, voi cercate Gesú Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui: ecco il luogo dove lo avevano posto. Ma andate, e dite ai suoi discepoli, e a Pietro, che egli vi precede in Galilea: là lo vedrete, come vi disse.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

LE CARATTERISTICHE DELLA RESURREZIONE DI CRISTO

Prima che l’aurora sorgesse di là dal crinale dei monti, una silenziosa comitiva di donne ascendeva verso il sepolcro. Andando, qualcuna ruppe il silenzio e disse: « Chi ci smuoverà la pietra enorme che ostruisce la bocca della sepoltura? ». Ed ecco da lontano apparire il sepolcro: era aperto. Si scorgeva, rovesciata sull’erba del giardino, la bianca pietra dischiusa. Maria Maddalena impallidì, non seppe proseguire, tornando sui propri passi, corse a Pietro e a Giovanni, e come li vide scoppiò in un grido dolorose, « hanno involato il Signore, e non sappiamo dove l’abbiano messo ». Intanto le altre donne che s’erano fatte coraggio a proseguire entrarono nel sepolcro: due Angeli, uno a destra e l’altro a sinistra, vegliavano in attesa. Erano bianchi e risplendevano come il sole. « Chi cercate? » chiese un Angelo. « Gesù di Nazareth, che fu crocifisso tre giorni fa » risposero le donne. « È risuscitato: non è qui! ». Le donne, tremando di paura e di gioia, uscirono dalla grotta e ruppero in un grido di trionfo. E come fu la resurrezione di Cristo? Anzi tutto fu vera: Surrexit vere (Lc. XXIV, 34). Poi non conobbe più morte, ma continuò e continuerà eternamente nella gloria e nella luce. Jam non moritur: mors illi ultra non dominabitur (Rom., VI, 9). Verità e costanza: ecco i due caratteri della resurrezione di Cristo, i quali debbono pure essere i caratteri della nostra risurrezione. – RESURREZIONE VERA. Quando pecchiamo mortalmente, in una maniera spirituale noi moriamo. Ecco perché la Chiesa in questo tempo impone a tutti i fedeli di accostarsi ai santi Sacramenti: essa non può sopportare che il giorno della resurrezione del Salvatore sia celebrato da cuori morti. O Cristiani, siete tutti risorti? Avete tutti fatta la Pasqua? Chi non l’ha fatta, ancora non è risorto: le tenebre del peccato ancora involgono e soffocano la sua anima. – E a quelli che già hanno adempito il precetto io domando: siete risorti veramente? Non tutti quei che sembrano resuscitati, lo sono. Un grande scrittore, sentendosi ammalato gravemente, chiamò un sacerdote per confessarsi. Il prete gli impone di bruciare un’opera abbastanza licenziosa che stava componendo. Egli si fa pregare lungamente, ma poi a malincuore s’arrende. Il confessore se ne va. Un amico arriva e comincia a rimproverare l’artista  del suo sacrificio. « Come? e tu hai rinunziato a quel libro che ti doveva rendere famoso? … e tu, con le tue mani, hai avuto il coraggio di gettare nelle fiamme la tua gloria più bella? ». Lo scrittore abbozzò un lievissimo e furbesco sorriso e aggiunse a bassa voce: Taci. In fondo al cassetto, nascosta, ne ho conservata una copia ». Il Signore tolga che qualche Cristiano abbia imitato quell’artista! Accostandosi al sacramento della Confessione, costretto dal confessore, promise di bruciare nel fuoco dell’amor di Dio quell’impura relazione; di finirla con quei guadagni illeciti, di abbandonare i rancori e i desideri di vendetta; di riparare gli scandali. Ma poi gli si è avvicinato il demonio e gli ha detto: « Come? vuoi privarti dei piaceri più belli? ridurti a vivere la vita insipida dei frati? ». E l’infelice, nascosto in fondo al cuore, ha conservato un idolo, una passione, l’affetto ad un peccato. S’illude d’essere risorto ma non lo è: il demonio con sottile catena lo tiene ancora nel sepolcro. – Resurrexit vere. Gesù ha dimostrato d’essere veramente risorto: col mangiare frequentemente cogli Apostoli, coll’apparire a molti luminoso e impassibile, col mostrare all’incredulo Tommaso le sue mani piagate. Così anche il Cristiano deve dimostrare che la sua resurrezione è vera: col mangiare frequentemente il Pane Eucaristico, coll’apparire mutato in famiglia e fuori, col mostrare le proprie opere buone. – Resurrexit vere. Iddio aveva detto al suo popolo schiavo in Egitto di istituire la festa di Pasqua: prendessero il sangue d’un agnello ucciso e ne aspergessero lo stipite e l’architrave della casa, Erit autem sanguis vobis in signum (Es., XII, 13-19). A mezzanotte passò l’Angelo sterminatore in tutte le case non asperse di sangue ed uccise tutti i primogeniti, da quelli di Faraone che sedeva sul trono a quelli della schiava che era in carcere. Questo che una volta avvenne in figura, oggi avviene in realtà. L’agnello ucciso è Cristo. E Dio comanda che ad ogni Pasqua ogni Cristiano deterga la propria anima col sangue dell’Agnello che nel sacramento della Penitenza perdona i peccati. – Quelle anime che non portano l’aspersione del Sangue di Cristo, quando la morte scenderà intorno a noi come una notte scura, saranno percosse dalla vendetta di Dio. – RESURREZIONE COSTANTE. Gesù Cristo risorgendo da morte più non muore, dice S. Paolo, e la morte non lo dominerà più. Donde viene allora che la nostra resurrezione pasquale dalla morte del peccato alla vita della grazia è così poco costante? La ragione principale è perché si trascurano le precauzioni dovute: la vita di preghiera e di penitenza; la fuga delle persone e dei luoghi e delle letture funeste all’innocenza. L’anima che ritorna a Dio dopo i traviamenti del mondo, io la somiglio a un convalescente, tremante e pallido: basta un colpo d’aria, un boccone mal digerito per farlo ricadere e miseramente perire. È necessario quindi un riguardo estremo a tutto ciò che anche lontanamente può offendere la salute. Così anche per l’anima: Gesù Cristo ce lo insegna. Risorto a vita impassibile non aveva più nulla da temere da tutti i suoi nemici, tuttavia Egli non si espone in mezzo a Gerusalemme, sulle pubbliche piazze; ma compare soltanto a’ suoi più intimi, quasi che ancora fosse soggetto alla morte. È temerario esporsi alle occasioni del male e pretendere che la grazia di Dio ci sostenga. « Che cosa dirà il mondo, — pensano alcuni — s’io d’un colpo cambio il tenore di vita? Si mormorerà alle mie spalle, si riderà… ». Lasciate dire; pensate che il mondo mormorerà e riderà di voi anche se continuerete sulla via del male. « Ma io ho degli impegni, dei legami d’amicizia, dei doveri indispensabili e non posso lasciare quella persona, quel luogo… ». Ricordatevi però che il vostro primo impegno è quello d’arrivare in Paradiso; il dovere vostro più indispensabile è quello di salvare l’anima; l’amicizia a cui doveste tenere di più è quella di Dio. « Ma io dovrei rovinare i miei affari, rompere i miei commerci, diminuire il mio guadagno… ». Si perda tutto, ma non si perda Dio. Se i vostri affari sono poco puliti, se i vostri commerci sono ingiusti, se il vostro guadagno è un furto, bisogna troncarla. E del resto se non la troncate voi liberamente, verrà poi la morte a farvela finire e sarà peggio. « Ritornerò ancora in quei luoghi, con quelle persone — pensano alcuni; — ma non farò nulla di male, anzi attirerò al bene gli altri… ». Ecco l’angelo delle tenebre che si trasforma in Angelo di luce, Chi vi ha costituiti guida e pastore dei vostri fratelli? Non lasciatevi ingannare dalla vostra. insipienza. Deus, tu scis insipientiam meam et confusionem meam! (Ps., LXVIII, 6). Soltanto con la fuga di tutte le occasioni che la passata esperienza vi ha insegnato come pericolose, soltanto con la via di penitenza e di preghiera renderete costante la vostra resurrezione. – Una tradizione racconta che una donna di Naim, — forse la vedova a cui Gesù aveva resuscitato il figlio unico, — informata troppo tardi dell’arresto del Maestro, arrivò a Gerusalemme ch’era domenica mattina. Ancora nessuno c’era nelle vie per domandargli dove l’avessero trascinato, e nemmeno immaginava che l’avessero crocifisso, tanto le doveva sembrare enorme. Rimase dubbiosa nel lume nuovo del giorno che sorgeva, ferma davanti al pretorio di Ponzio Pilato. Quando, abbassando gli occhi, le parve di vedere macchie di sangue sulle pietre della strada. « Il sangue! Il Maestro dunque è passato di qui ». Seguì quella striscia rossa e, a poco a poco, si trovò fuori dell’abitato dove la strada saliva a un’altura detta Calvario: quando fu quasi alla cima, le parve a un tratto che il sole sorgesse a due passi da lei, e nel globo ardente del sole ella vide una figura candida: Gesù. Subito spaventata si gettò a terra, e si coprì la faccia. Ma il Maestro la rialzò dolcemente e le disse: « Non temere: sono risorto per non più morire ». – V’è una striscia rossa nella vita che conduce l’anima a Gesù: la mortificazione il dolore, il rinnegamento delle proprie passioni cattive. Non scoraggiamoci: come quella donna di Naim, seguiamo passo passo le sanguinose impronte di Gesù. E al sommo della vita, il Maestro apparirà anche a noi raggiante di gloria e di gioia come un sole, e ci dirà: « Non temere! io sono risorto per non più morire. Tu pure, risorgerai, né morirai più ».

Alleluia! Cristo è risorto: la morte fu vinta; fu vinto il peccato; fu vinto l’inferno. Alleluia! squillano le campane nel cielo di primavera, in ogni angolo del mondo sotto ogni latitudine. Alleluia! oggi risuona sui monti silenziosi, oggi, sulle pianure tumultuanti. Alleluia! Oggi si ripete tra gli ardori della zona equatoriale come fra le capanne incavate nel ghiaccio dagli esquimesi; accanto alla pagoda di Brahama, presso la moschea di Maometto: dovunque un missionario cattolico ha levato una croce, ha innalzato un altare. È Pasqua: è il giorno sospirato, il principio d’ogni nostra letizia, il fine d’ogni dolore. Cristo non è più lacero, non è più crocifisso, non è più morto; ma integro, glorioso, trionfante. Alleluia! Dal giorno della Resurrezione tutto è diventato gioia per i veri discepoli di Gesù Cristo: gioia è vivere; gioia è morire; gioia è risorgere nella propria carne. – GIOIA È VIVERE. Vi sembrerà strano udire che gioia sia per noi la vita quando continuamente sperimentiamo d’essere in una valle di lacrime, ove non passa giorno senza una pena.  Eppure è così: noi abbiamo il mezzo per trasformare la nostra vita di sofferenza in una vita di santa letizia. Ce lo insegna S. Paolo: Ut quomodo Christus resurrexit a mortuis, ita et nos in novitate vitæ ambulemus. Come Cristo risuscitò da morti, così ancor noi dobbiamo risorgere dal peccato e camminare per una via nuova. Sopra questa strada nuova del bene, dell’onestà, della fede noi troveremo la gioia di vivere. Guardate il popolo di Israele fuggitivo dal servaggio brutale degli Egizi: Faraone col ferro alla mano; coi carri, con un esercito d’armati li rincorre, li incalza, li raggiunge, ormai è sopra a loro; gli Israeliti ansanti sono stretti tra il mare che mugghia davanti, e le lance che trafiggono alle spalle. Terribile agonia. Alza Mosè la verga e tocca le onde: ecco, e i flutti si calmano e il mare si divide dal mare ed una strada si apre sul fondo e tutto il popolo del Signore si precipita per quella. Il sentiero riesce così delizioso che invece d’arena e di ghiaia è lastricato di fiori. Campus — così lo descrive la Storia Sacra — germinans flores de profundis aquarum. Questa è un’immagine delle anime devote che fanno veramente Pasqua: voltano le spalle all’Egitto dei mondani piaceri e dei peccati e camminano dietro a Gesù risorto. Voltiamo anche noi le spalle alla nostra vita passata lontano dalla legge di Dio,  dai santi Sacramenti, e proveremo nel nostro cuore una gioia ed un pace non gustata fin qui. Davide esclama: « Il Signore non lascia mancar nulla a quelli che camminano nell’innocenza ». Non dico che non ci saranno più dolori; ma anche i dolori toccati dalla croce di Gesù, come da una verga miracolosa, diverranno gioie essi pure. « Ogni pena mi è diletto » canta S. Francesco. E santa Teresa di Lisieux meravigliata, diceva: « Come va, Signore, che anche in mezzo ai dispiaceri non posso più patire? ». GIOIA È MORIRE. La cosa più paurosa che v’è sulla terra è la morte. Sentirsi male in tutto il corpo, non trovar sollievo un istante per giorni e veder il mondo sfumar in una nebbia densa, non sentir più nulla, scendere sotterra nell’oscurità, tra le zolle grevi e fredde del camposanto… Oh è terribile! Ma Gesù Cristo, risorgendo per propria virtù, ha reso lieta la morte e piena di beate speranze. Per il navigante che ha traversato gli oceani in burrasca è forse spaventoso entrare un bel mattino nelle acque placide del porto? Per il soldato che è vissuto mesi e mesi nel fango d’una trincea, tra l’ululo dei proiettili; e gli scoppi terribili delle bombarde è forse spaventoso il giorno in cui potrà ritornare al suo paesello, nella sua casa, rivedere suo padre che l’attende sulla soglia, con le braccia spalancate per comprimerlo in estasi sul suo cuore? Per l’operaio che ha lavorato duramente per tutta la settimana, e s’è logorato sulla fatica, è forse spaventoso il sopraggiungere della sera del sabato, quando lo chiamerà il padrone, per donargli una generosissima ricompensa? Così è la morte per i veri Cristiani. « Per me — scriveva s. Paolo — morire è un guadagno (Philip., I, 21). io desidero la morte, perché mi unirà a Cristo (Philip., I, 23). Ma quando, finalmente, sarò liberato da questo corpo mortale? » (Rom., VII, 24). Il vecchio Vescovo Ignazio d’Antiochia, pochi giorni prima del martirio così scriveva ai Romani: « Quando godrò la felicità di essere dilaniato dalle belve feroci? « Ah, si affrettino a farmi morire e a tormentarmi; di grazia, non si risparmino. Se le belve non verranno da me, le obbligherò io a sbranarmi ». – « Perdonatemi, figliuoli, questi trasporti! so quello ch’è bene per me. Che mi si faccia soffrire il fuoco, le croci, le zanne delle bestie feroci; sono pronto a tutto purché possa godere Gesù Cristo ». Ecco che cos’è la morte: il principio dell’eterno godimento. I primi Cristiani chiamavano il giorno della morte dies natalis, giorno di nascita perché chi ha vissuto cristianamente, morendo nasce alla vera vita, quella del Paradiso. Santa Teresa esclamava: « Io muoio di non poter morire ». E quando in Roma scoppiò la peste, S. Luigi Gonzaga con le lacrime scongiurò i superiori suoi di lasciarlo andare negli ospedali ad assistere gli appestati. « Ma non sai che la peste ti può colpire, e tu sei tanto giovane? ». Il Santo desiderava la morte. Ed una sera tornò a casa dopo aver assistito i moribondi, dopo aver baciato le loro piaghe violacee, tornò giulivo, ma con il male nel sangue. — Padre, — diceva al suo confessore prima di morire — mi permette che mi flagelli. « Non vedi che neppure ne hai la forza? ». — Mi farò battere, da capo a piedi, da un compagno. « Non parlare così… ». Lieta è la morte per i Cristiani perché dietro la morte c’è la vita. C’è il Paradiso. C’è Gesù risorto, là, ad aspettarli nella sua gioia eterna. – GIOIA È LA RESURREZIONE DELLA CARNE. Una madre, a cui da poco tempo eran morti due figlioli, udì parlare del giudizio finale e della resurrezione della carne. « Dunque, — diceva estasiata — i miei due figliuoli li vedrò ancora, ancora potrò accarezzarli? Vedrò il loro viso buono, li bacerò ancora, ma non più piangendo come li baciai, freddi freddi, prima di ricomporli nella bara. Ma quando sarà? ». « Quando le trombe degli Angeli squilleranno l’ora del giudizio finale ». E quella madre, quasi impaziente di rivedere i suoi figli: « E perché — disse — quel giorno non è domani? ». Chi non piange qualche caro parente defunto? forse la madre, forse un fratello, forse lo sposo? Quante volte non ci assale un violento desiderio di rivederne le fattezze, di riguardare nei loro occhi mesti; di riudire la loro voce quale l’udimmo in ore beate? Ebbene, il mistero della Pasqua ci dona una grande consolazione. Noi li rivedremo: non solo rivedremo i loro spiriti, ma anche i loro corpi gloriosi, li rivedremo così come li abbiamo conosciuti e amati sopra la terra. La resurrezione di Gesù Cristo è garanzia della nostra resurrezione. I membri di un corpo devono essere conformi alla testa. Ora, Cristo nostro capo è risorto con la sua carne da morte e non muore più. Per conseguenza gli uomini che sono le membra di Cristo risorgeranno essi pure coi loro corpi e non morranno più. Ma, allora, il terribile giorno dell’ira di Dio — dies iræ — per i Cristiani sarà un giorno di gioia, il giorno della gioia completa. Alleluia! È passato l’inverno della maledizione, è venuta la primavera dell’amore; è passata la schiavitù del demonio, comincia il dolce regno di Dio. Alleluia! gioia è la vita; gioia è la morte; gioia il risorgere. Ma chi ci rese così lieta l’esistenza? Gesù Cristo. Fu Lui, con la sua incarnazione, con la passione, con la resurrezione. Se dopo tutto questo c’è ancora qualcuno che non ama nostro Signor Gesù Cristo, sia scomunicato (S. PAOLO).

Alleluia! La resurrezione spirituale che ogni Cristiano deve compiere, è il principio della gloriosa resurrezione dei nostri corpi. Omnes quidem resurgemus (I Cor, XV, 51). – LA NOSTRA SPIRITUALE RESURREZIONE. Un granello di frumento un giorno cadde dalle mani del seminatore nel solco violetto d’un campo smosso di recente: e sparì nella terra.  Il granello sentendosi oppresso mormorò « Io muoio ». Caddero le piogge autunnali a macerare il terreno ed una grande umidità penetrò fino a lui. Il povero granello sentendosi tutto rammollito mormorò con un fil di voce: « Io muoio ». Non  più calore, non più luce, non più sole. Il granello, sentendosi fradicio, sospirò senza voce: « È finita! ». No, no, piccolo granello, non è finita! Ed eccolo mandar fuori impercettibili radici, e poi uno stelo esile come un ago, che passò nella terra e giunse nel sole, poi crebbe fino a dare una spiga stupenda. Ecco simboleggiato quello che ogni Cristiano deve compiere in se stesso dopo che Cristo è morto e risorto per noi. Dobbiamo cominciare una vita nuova: ma prima però è necessario distruggere la vecchia vita: quella in cui il peccato ci ha induriti e chiusi come un seme. Bisogna quindi lasciarci cadere nel solco sotto la terra: ossia ritirarci nel silenzio della chiesa e nella preghiera, e decidere quello che bisogna fare per la salute nostra eterna. Decidere con fermezza e con coraggio, se vogliamo veramente risorgere. Non importa se bisognerà lasciare certe abitudini che ci sono care o comode; non importa se saremo costretti sotto al duro giogo della mortificazione nei nostri sensi, e se ci sembrerà di morire come il piccolo granello di frumento. Via, dunque, dal nostro cuore affetti o relazioni impure: basta con quei luoghi, con quelle amicizie, con quei divertimenti; basta con gli odi, con le gelosie, con l’avidità del denaro, della roba altrui. Bisogna risorgere! Non spaventatevi se questa resurrezione dello spirito vuol dire prima sacrificio e rinnegamento: Iddio saprà infondere a queste lotte intime e dure tanta gioia che voi stessi ne sarete meravigliati. Ernesto Psicari, il convertito nipote di Renan, esclamava: « Mio Dio! Non avrei mai creduto che fosse così facile e così soave l’amarti! ». – LA NOSTRA CORPORALE RESURREZIONE. S. Monaco scita, gran servo di Dio, morendo, atteggiò le labbra a un sorriso. I circostanti, piangendo, gli chiesero perché sorridesse ed egli rispose semplicemente: Ho sorriso perché voi avete paura della morte, mentre essa è così amabile! ». Ed aveva ragione. Ma cos’è la morte, dopo che Cristo l’ha vinta, risorgendo? Non è più l’inesorabile dea che con la falce spinge nelle tenebre i poveri uomini, ma essa per il Cristiano non è che una breve partenza dell’anima dal corpo. È l’anima che saluta il suo corpo: « A rivederci, fratello! abbiamo combattuto insieme la battaglia del Signore, abbiamo servito il nostro padrone, gioendo e patendo insieme. Ora sei stanco e ti lascio riposare: ma dopo il tuo breve sonno, allo squillar della tromba angelica, ritornerò a riprenderti, ma per godere, sempre, senza stancarti più! ». – Ecco perché S. Francesco cantava: « Lodato sia il mio Signore, per la sorella morte corporale! ». Resurrexit: non est hic. O morte, dov’è la tua vittoria? Se Cristo, primizia dei dormienti, è risorto, anche noi tutti dobbiamo risorgere nella nostra carne. Omnes quidem resurgemus: è dogma di fede. Cristo è il nostro capo: noi siamo le sue membra: e tutti con Lui formiamo un corpo unico. Ma ogni membro segue le sorte del capo: e s’Egli muore, tutte le membra morranno; ma s’Egli risorge tutte le membra risorgeranno. Cristo è passato — avanti a noi — con la sua voce; e vuole che tutti lo seguano, portando la croce. Ma Cristo è gloriosamente risorto: e perché tutti quelli che l’avranno seguito nel patimento, non lo dovranno seguire nella gloria? La morte è pena del peccato: ma il peccato fu asterso da Cristo: anche la morte, dunque, dovrà essere infranta. Resurgemus! È questo il grido di Giobbe: «So che il mio Redentore vive. Ma so anche che, nell’ultimo giorno, io pure risorgerò a vederlo con questi occhi miei ». È il grido dei Maccabei morenti: « Tu, o tiranno, potrai disperdere le nostre povere ossa, ma il Re immortale le farà risorgere ». È la parola chiara e infallibile di Dio: « Io sono resurrezione e vita » E allora: dove è, o morte, la tua vittoria se discendiamo nella fossa solo per aspettare la resurrezione? Et exspecto resurrectionem! – Prepariamoci alla gloriosa resurrezione dei corpi, con la resurrezione dal peccato e dalla tiepidezza. Filippo II di Spagna vegliò una notte intera per scrivere una lettera di somma importanza al Papa. Quand’ebbe finito, distratto dalla fatica e dal sonno, invece di versarvi la sabbia per asciugare, vi rovesciò l’inchiostro. Filippo impallidì: ma poi raccogliendo il suo coraggio, disse: « Cominciamo da capo ». Oh! se nella nostra vita ci sono stati dei momenti di sonno e di distrazione, in cui abbiamo rovesciato l’inchiostro dei peccati sull’anima nostra, oggi — che è Pasqua — è proprio il momento opportuno di dire: « Cominciamo da capo ».

 IL CREDO

Offertorium 

Orémus 

Ps. LXXV: 9-10.

Terra trémuit, et quiévit, dum resúrgeret in judício Deus, allelúja. 

[La terra tremò e ristette, quando sorse Dio a fare giustizia, allelúia.]

Secreta

Súscipe, quaesumus, Dómine, preces pópuli tui cum oblatiónibus hostiárum: ut, Paschálibus initiáta mystériis, ad æternitátis nobis medélam, te operánte, profíciant. 

[O Signore, Ti supplichiamo, accogli le preghiere del pòpolo tuo, in uno con l’offerta di questi doni, affinché i medesimi, consacrati dai misteri pasquali, ci servano, per opera tua, di rimedio per l’eternità.] –

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio 

1 Cor V: 7-8

Pascha nostrum immolátus est Christus, allelúja: itaque epulémur in ázymis sinceritátis et veritátis, allelúja, allelúja, allelúja.

[Il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato, allelúia: banchettiamo dunque con gli àzzimi della purezza e della verità, allelúia, allelúia, allelúia.]

Postcommunio 

 Orémus.

Spíritum nobis, Dómine, tuæ caritátis infúnde: ut, quos sacraméntis paschálibus satiásti, tua fácias pietáte concordes. 

[Infondi in noi, o Signore, lo Spirito della tua carità: affinché coloro che saziasti coi sacramenti pasquali, li renda unanimi con la tua pietà.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA DELLE PALME (2022)

DOMENICA DELLE PALME [2022]

Semidoppio Dom. privil. di I cl. – Paramenti violacei.

La liturgia di oggi esprime con due cerimonie, l’una tutta piena di gioia, l’altra di tristezza, i due aspetti secondo i quali la Chiesa considera la Croce. Anzi tutto vengono la Benedizione e la Processione delle Palme. Esse traboccano di una santa allegrezza che ci permette, dopo venti secoli, di rivivere la scena grandiosa dell’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme. Poi c’è la Messa di cui i canti e le letture si riferiscono esclusivamente al doloroso ricordo della Passione del Salvatore.

I . — Benedizione delle Palme e Processione.

A Gerusalemme, nel IV secolo, si leggeva in questa Domenica nel luogo medesimo dove i fatti s’erano svolti, il racconto evangelico che ci descrive Cristo, acclamato come Re d’Israele, che prende possesso della sua capitale. In realtà, Gerusalemme non è che l’immagine del regno della Gerusalemme celeste. Poi un Vescovo,montato su un asino, andava dal sommo del Monte Oliveto alla chiesa della Risurrezione, circondato dalla folla che portava delle palme, cantando inni ed antifone. Questa cerimonia era preceduta dalla lettura del passo dell’Esodo riguardante l’uscita dall’Egitto. Il popolo di Dio, accampato all’ombra dei palmizi, vicino alle dodici fonti dove Mosè gli promette la manna, è il popolo cristiano che servendosi di rami dei palmizi attesta che il suo Re, Gesù,viene a liberare le anime dal peccato, conducendole al fonte battesimale e nutrendole con la manna eucaristica.La Chiesa di Roma, adottando questo uso, pare verso il IX secolo, ha aggiunto i riti della Benedizione delle Palme, da cui deriva ilnome di Pasqua fiorita dato a questa Domenica. Questa cerimonia è una specie di messa con Orazione propria, Epistola, Vangelo e Prefazio proprio. La consacrazione è sostituita dalla benedizione delle palme e la comunione dalla distribuzione di queste palme.Queste cerimonie hanno un significato simbolico. « Dio, — dice la Chiesa — per un ordine meraviglioso della sua Provvidenza, ha voluto servirsi anche di queste cose sensibili per esprimere l’ammirabile economia della nostra salvezza » poiché « questi rami di palme segnavano la vittoria che stava per esser riportata sul principe della morte e i rami d’ulivo annunciavano l’abbondante effusione della misericordia divina ». « Infatti la colomba annunciò la pace alla terra per mezzo d’un ramoscello d’ulivo », « e le grazie che Dio. moltiplicò su Noè all’uscita dall’arca, e su Mosè che abbandonava. l’Egitto con i figli d’Israele, sono una figura della Chiesa» «che muove incontro a Cristo con opere buone» «con le opere che germogliano dai rami di giustizia » (Orazioni della Benedizione delle Palme). Questo corteo di Cristiani che, con le palme in mano e con il canto dell’osanna sulle labbra, acclamano ogni anno, in tutto il. mondo, attraverso tutte le generazioni, la regalità di Cristo, è composta di tutti i catecumeni, dei penitenti pubblici, e dei fedeli che i sacramenti del Battesimo, della Eucaristia e della Penitenza associeranno, nelle feste di Pasqua, a questo trionfatore glorioso. « È noi, che con integra fede rammentiamo il fatto e il suo significato « …ti preghiamo, Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio, per lo stesso Signor Nostro Gesù Cristo affinché, ciò che il tuo popolo fa oggi esternamente, lo compia spiritualmente, riportando vittoria sul nemico ». Questo rappresenta la processione che si arresta alla porta della Chiesa. Alcuni coristi sono nell’interno, i loro canti s’alternano con quelli dei sacerdoti (Gloria, laus et honor). Processione delle Palme).: da una parte sono i « cori angelici », dall’altra i soldati di Cristo, ancora impegnati nel. combattimento, che acclamano per turno il Re della gloria. Ben presto la porta si apre allorché il suddiacono vi avrà bussato per tre volte con l’asta della croce; così la croce di Gesù ci apre il cielo e la processione entra in Chiesa, come gli eletti entreranno un giorno con Cristo nella gloria eterna. — Conserviamo religiosamente nella nostra casa un ramoscello di olivo benedetto. Questo sacramentale, in virtù della preghiera della Chiesa, ci farà ottenere i favori del cielo e renderà più ferma la nostra fede in Gesù che, pieno di misericordia (simboleggiata dall’olivo, di cui l’olio mitiga le piaghe), ha vinto (vittoria simboleggiata dalle palme) il demonio, il peccato e la morte.

2. — Messa della Domenica delle Palme.

La benedizione delle palme si faceva a Santa Maria Maggiore, che a Roma rappresenta Betlemme, dove nacque Colui che i Magi proclamarono « Re dei Giudei ». La processione andava da questa Basilica a quella di S. Giovanni Laterano nella quale si teneva altre volte la Stazione, poiché, essendo dedicata al Santo Salvatore, essa rievoca il ricordo della Passione di cui tratta la Messa . — Il trionfo del Salvatore deve essere preceduto dalla « sua umiliazione fino alla morte e fino alla morte di croce » (Ep.) umiliazione che ci servirà di modello « affinché mettendo a profitto gli insegnamenti della sua pazienza possiamo renderci partecipi anche della sua risurrezione » (Or.).

Benedictio Palmorum

Ant. Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. O Rex Israël: Hosánna in excélsis. [Osanna al Figlio di David, benedetto Colui che  viene nel nome del Signore. O Re di Israele: Osanna nel più alto dei cieli!]
Orémus.
Bene dic, quǽsumus, Dómine, hos palmárum ramos: et præsta; ut, quod pópulus tuus in tui veneratiónem hodiérna die corporáliter agit, hoc spirituáliter summa devotióne perfíciat, de hoste victóriam reportándo et opus misericórdiæ summópere diligéndo. Per Christum Dominum nostrum.

[Bene ☩ dici Signore, te ne preghiamo, questi rami di palma e concedi che quanto il tuo popolo ha celebrato materialmente in tuo onore, lo compia spiritualmente con somma devozione, vincendo il nemico e corrispondendo con profondo amore all’opera della tua misericordia. Per Cristo nostro Signore.]

De distributione ramorum

Ant. Púeri Hebræórum, portántes ramos olivárum, obviavérunt Dómino, clamántes et dicéntes: Hosánna in excélsisI

[I fanciulli ebrei, portando rami di olivo, andarono incontro al Signore, acclamando e dicendo: Osanna nel più alto dei cieli.].


D
ómini est terra et plenitúdo eius, orbis terrárum et univérsi qui hábitant in eo. Quia ipse super mária fundávit eum et super flúmina præparávit eum.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes …

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ.
Quis est iste rex glóriæ? Dóminus fortis et potens: Dóminus potens in prǽlio.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes…

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ. Quis est iste rex glóriæ? Dóminus virtútum ipse est rex glóriæ.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini. .

[I fanciulli Ebrei stendevano le loro vesti sulla via e acclamavano dicendo: Osanna al Piglio di David! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!]


Omnes gentes pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exultatiónis.
Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis, rex magnus super omnem terram.
Ant. Púeri Hebræórum  …
Subiécit pópulos nobis: et gentes sub pédibus nóstris.
Elegit nobis hereditátem suam: spéciem Iacob quam diléxit.
Ant. Púeri Hebræórum

Ascéndit Deus in iúbilo: et Dóminus in voce tubæ.
Psállite Deo nostro, psállite: psállite regi nostro, psállite.
Ant. Púeri Hebræórum …

Quóniam rex omnis terræ Deus: psállite sapiénter.
Regnávit Deus super gentes: Deus sedit super sedem sanctam suam.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Príncipes populórum congregáti sunt cum Deo Abraham: quóniam Dei fortes terræ veheménter elevati sunt.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.

[Matth. XXI, 1-9]

“In illo témpore: Cum appropinquásset Jesus Jerosólymis, et venísset Béthphage ad montem Olivéti: tunc misit duos discípulos suos, dicens eis: Ite in castéllum, quod contra vos est, et statim inveniétis ásinam alligátam et pullum cum ea: sólvite et addúcite mihi: et si quis vobis áliquid dixerit, dícite, quia Dóminus his opus habet, et conféstim dimíttet eos. Hoc autem totum factum est, ut adimplerétur, quod dictum est per Prophétam, dicéntem: Dícite fíliae Sion: Ecce, Rex tuus venit tibi mansuétus, sedens super ásinam et pullum, fílium subjugális. Eúntes autem discípuli, fecérunt, sicut præcépit illis Jesus. Et adduxérunt ásinam et pullum: et imposuérunt super eos vestiménta sua, et eum désuper sedére tecérunt. Plúrima autem turba stravérunt vestiménta sua in via: álii autem cædébant ramos de arbóribus, et sternébant in via: turbæ autem, quæ præcedébant et quæ sequebántur, clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini”.

[In quel tempo: avvicinandosi a Gerusalemme, arrivato a Bètfage, vicino al monte degli ulivi, Gesù mandò due suoi discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio dirimpetto a voi, e subito vi troverete un’asina legata con il suo puledro: scioglietela e conducetemela. E, se qualcuno vi dirà qualche cosa, dite: il Signore ne ha bisogno; e subito ve li rilascerà». Ora tutto questo avvenne perché si adempisse quanto detto dal Profeta: «Dite alla figlia di Sion : Ecco il tuo Re viene a Te, mansueto, seduto sopra di un’asina ed asinello puledro di una giumenta». I Discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro detto. Menarono l’asina ed il puledro, vi misero sopra i mantelli e Gesù sopra a sedere. E molta gente stese i mantelli lungo la strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li spargevano sulla via, mentre le turbe che precedevano e seguivano gridavano: «Osanna al Figlio di Davide; benedetto Colui che viene nel nome del Signore».]

De processione cum ramis benedictis

Procedámus in pace.

Occúrrunt turbæ cum flóribus et palmis Redemptóri óbviam: et victóri triumphánti digna dant obséquia: Fílium Dei ore gentes prædicant: et in laudem Christi voces tonant per núbila: «Hosánna in excélsis».

[Con fiori e palme le folle vanno ad incontrare il Redentore e rendono degno ossequio al Vincitore trionfante. Le nazioni lo proclamano Figlio di Dio e nell’etere risuona a lode di Cristo un canto: Osanna nel più alto dei cieli!]

Cum Angelis et púeris fidéles inveniántur, triumphatóri mortis damántes: «Hosánna in excélsis».

[Facciamo di essere anche noi fedeli come gli Angeli ed i fanciulli, acclamando al vincitore della morte: Osanna nel più alto dei cieli!]


Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: «Hosánna in excélsis».

[Immensa folla, convenuta per la Pasqua, acclamava ai Signore: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!]
Cœpérunt omnes turbæ descendéntium gaudéntes laudáre Deum voce magna, super ómnibus quas víderant virtútibus, dicéntes: «Benedíctus qui venit Rex in nómine Dómini; pax in terra, et glória in excélsis».

[Tutta la turba dei discepoli discendenti dal monte Oliveto cominciò con letizia a lodar Dio ad alta voce per tutti i prodigi che aveva veduti dicendo: Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in terra e gloria nell’alto dei cieli.]

Hymnus ad Christum Regem

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Israël es tu Rex, Davidis et ínclita proles: Nómine qui in Dómini, Rex benedícte, venis.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Coetus in excélsis te laudat caelicus omnis, Et mortális homo, et cuncta creáta simul.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Plebs Hebraea tibi cum palmis óbvia venit: Cum prece, voto, hymnis, ádsumus ecce tibi.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi tibi passúro solvébant múnia laudis: Nos tibi regnánti pángimus ecce melos.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi placuére tibi, pláceat devótio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta placent.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium

[Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Tu sei il Re di Israele, il nobile figlio di David, o Re benedetto che vieni nel nome del Signore.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
L‘intera corte angelica nel più alto dei cieli, l’uomo mortale e tutte le creature celebrano insieme le tue lodi.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Il popolo Ebreo ti veniva dinanzi con le palme, ed eccoci dinanzi a te, con preghiere, con voti e cantici.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Essi ti offrivano il tributo del loro omaggio, quando tu andavi a soffrire; noi eleviamo questi canti a te che ora regni.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Ti piacquero essi: ti piaccia anche la nostra devozione, o Re di bontà, Re clemente, a cui ogni cosa buona piace.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.]

Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Psalmus CXLVII
Lauda, Jerúsalem, Dóminum: * lauda Deum tuum, Sion.
Quóniam confortávit seras portárum tuárum: * benedíxit fíliis tuis in te.
Qui pósuit fines tuos pacem: * et ádipe fruménti sátiat te.
Qui emíttit elóquium suum terræ: * velóciter currit sermo ejus.
Qui dat nivem sicut lanam: * nébulam sicut cínerem spargit.
Mittit crystállum suam sicut buccéllas: * ante fáciem frígoris ejus quis sustinébit?
Emíttet verbum suum, et liquefáciet ea: * flabit spíritus ejus, et fluent aquæ.
Qui annúntiat verbum suum Jacob: * justítias, et judícia sua Israël.
Non fecit táliter omni natióni: * et judícia sua non manifestávit eis.
Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Fulgéntibus palmis prostérnimur adveniénti Dómino: huic omnes occurrámus cum hymnis et cánticis, glorificántes et dicéntes: «Benedíctus Dóminus».

[Di festosi rami ornati, ci prostriamo al Signor che viene: a Lui incontro corriamo tra inni e canti, Lui glorifichiamo dicendo: Benedetto il Signore!]

Ave, Rex noster, Fili David, Redémptor mundi, quem prophétæ praedixérunt Salvatórem dómui Israël esse ventúrum. Te enim ad salutárem víctimam Pater misit in mundum, quem exspectábant omnes sancti ab orígine mundi, et nunc: «Hosánna Fílio David. Benedíctus qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis».

[Ave, o nostro Re, Figlio di David, Redentore del mondo, preannunciato dai Profeti come Salvatore venuto per la casa d’Israele. Il Padre mandò Te come vittima di redenzione per il mondo; T’aspettavano tutti i santi sin dall’origine del mondo, ed ora: Osanna, Figlio di David. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei Cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

Ingrediénte Dómino in sanctam civitátem, Hebræórum púeri resurrectiónem vitæ pronuntiántes,
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».
Cum audísset pópulus, quod Jesus veníret Jerosólymam, exiérunt óbviam ei.
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».

[Mentre il Signore entrava nella città santa, i fanciulli ebrei proclamavano la risurrezione alla vita,
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!
Avendo il popolo sentito che Gesù si avvicinava a Gerusalemme, gli mosse incontro
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

[Signor Gesù Cristo, Re e Redentore nostro, in onore del quale abbiamo cantato lodi solenni, portando questi rami, concedi propizio che la grazia della tua benedizione discenda dovunque questi rami saranno portati e che la tua destra protegga i redenti togliendo di mezzo a loro ogni iniquità ed illusione diabolica. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.]

Introitus

Ps XXI: 20 et 22.

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

[Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Ps XXI:2 Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? longe a salúte mea verba delictórum meórum.

[Dio mio, Dio mio, guardami: perché mi hai abbandonato? La salvezza si allontana da me alla voce dei miei delitti].

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

[Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Oratio

Omnípotens sempitérne Deus, qui humáno generi, ad imitandum humilitátis exémplum, Salvatórem nostrum carnem súmere et crucem subíre fecísti: concéde propítius; ut et patiéntiæ ipsíus habére documénta et resurrectiónis consórtia mereámur.

[Onnipotente eterno Dio, che per dare al genere umano un esempio d’umiltà da imitare, volesti che il Salvatore nostro s’incarnasse e subisse la morte di Croce: propizio concedi a noi il merito di accogliere gli insegnamenti della sua pazienza, e di partecipare alla sua risurrezione.]

Epistola

Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses. Phil II: 5-11

“Fratres: Hoc enim sentíte in vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei esset, non rapínam arbitrátus est esse se æqualem Deo: sed semetípsum exinanívit, formam servi accípiens, in similitúdinem hóminum factus, et hábitu invéntus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit illum: ei donávit illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut in nómine Jesu omne genuflectátur cœléstium, terréstrium et inférnorum: et omnis lingua confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei Patris.”

[“Fratelli: Siano in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, essendo della natura di Dio, non ritenne come una preda la sua parità con Dio, ma spogliò se stesso, prendendo la natura dì servo, divenuto simile agli uomini, e all’aspetto riconosciuto quale uomo. Abbassò, se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Perciò Dio lo ha sublimato, e gli ha dato un nome superiore a ogni altro nome; perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, sulla terra e nell’inferno, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre”.]

LA GRANDE UMILIAZIONE.

Entriamo oggi nella Settimana Santa, durante la quale la Chiesa ci fa rivivere giorno per giorno; starei per dire ora per ora il mistero della passione e della morte di Gesù, segreto della nostra Redenzione. San Paolo nel brano della sua Epistola a quei di Filippi che forma la lettura di questa domenica ci dà la chiave, il segreto, la filosofia di questo mistero. Come ci redime N. Signore Gesù? Disfacendo pezzo per pezzo l’opera del peccato. Egli è il novello Adamo, antitesi dell’antico. La Passione è la negazione delle colpe antiche. Il riscontro ha persino dei lati materiali: da un giardino all’altro, dal giardino delle colpe all’orto dell’espiazione. Là e qua un albero; là l’albero della morte, qua l’albero della vita, la Croce. È la colpa d’Adamo la colpa classica e tipica, che cosa è essa mai? Due parole la descrivono, la definiscono, due brevi tremende parole: orgoglio e piacere, piacere ed orgoglio. L’orgoglio primeggia per chi approfondisce le cose. E la grande, la classica espiazione sarà il rovescio: umiltà e dolore. Un capolavoro di umiltà, come la colpa classica fu un capolavoro di orgoglio. Ci sono anche i capolavori del male. Paolo canta questa eroica umiltà del Verbo Incarnato, Gesù Cristo; l’accento del suo discorso è lirico, la sostanza è d’una logica stringente. L’umiltà è nei due poli: Verbo — Incarnato, Dio — uomo. Era nella forma di Dio, dice San Paolo, poteva senza scrupolo, senza timor di usurpazione dirsi uguale a Dio, senza timore d’ingiustizia e di usurpazione, non come Adamo che usurpò, volle usurpare quella uguaglianza. Era nella forma di Dio e volle prendere forma di schiavo. « Humiliavit semetìpsum formam servi accipìens ». Padrone, volle diventare servo. È la forma specifica e logicamente efficace della umiliazione espiatrice. Perché l’orgoglio del colpevole Adamo era stato un orgoglio ribelle, un orgoglio affermatosi proprio lì, non voler obbedire alla legge, accettare la servitù, sottostare alla padronanza e signoria divina: ribellione alla legge. La soggezione volontaria distrugge, disfà la volontaria ribellione. Tanto più e tanto meglio perché dalle due parti le cose si spingono all’eroismo, l’eroismo della morte. Adamo affrontala morte con la sua ribellione. C’è la taglia della morte come sanzione del precetto di Dio, ed Adamo malgrado questa sanzione calpesta questo divieto. Eroico, malamente, maeroico, eroico di un eroismo protervo, ma eroismo. Splendidamente, nobilmente eroica sarà l’espiazione di Gesù obbediente, nota San Paolo, fino alla morte, e che morte! La più ignominiosa e la più crudele. La più ignominiosa perché l’umiltà eroica del sacrificio ubbidiente sia autentica e perché all’umiltà il sacrificio del Martire del Golgota accoppi il dolore, lo strazio — antitesi e antidoto del piacere. Non si potrebbe essere più brevi, succosi e profondi di quello che è San Paolo in queste poche linee, le quali ci rivelano non solo il mistero intimo di quella colpa e di questa espiazione, ma di ogni colpa e di ogni espiazione, di ogni colpa per farla detestare, di ogni espiazione per farla amare. Ma l’antitesi continua anche nella catastrofe dei due drammi. Perché l’epilogo del dramma della colpa è un disastro: il ribelle è battuto, l’orgoglioso è, giustamente, umiliato. Nello sforzo di erigersi oltre misura, si esaurisce e si accascia il gigante, il Capaneo, Adamo. Nello sforzo nobile della sua umiliazione si aderge Gesù o, per usare la propria frase di San Paolo, quel Dio davanti a cui Gesù (nella sua e colla sua umanità) si è umiliato « lo esaltò e gli diede un Nome superiore ad ogni altro, affinché in quel Nome e davanti ad esso tutti genuflettano in cielo, in terra e negli abissi ». L’epilogo dell’apoteosi per l’umiltà. Cerchiamo di essere primi in questa genuflessione; cerchiamo di farla più che nessun altro, alla scuola di Paolo, conscia e profonda.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Graduale

Ps LXXII:24 et 1-3 Tenuísti manum déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me: et cum glória assumpsísti me.

[Tu mi hai preso per la destra, mi hai guidato col tuo consiglio, e mi ‘hai accolto in trionfo.]

Quam bonus Israël Deus rectis corde! mei autem pæne moti sunt pedes: pæne effúsi sunt gressus mei: quia zelávi in peccatóribus, pacem peccatórum videns.

[Com’è buono, o Israele, Iddio con chi è retto di cuore. Per poco i miei piedi non vacillarono; per poco i miei passi non sdrucciolarono; perché io ho invidiato i peccatori, vedendo la prosperità degli empi.]

Tractus

Ps. XXI: 2-9, 18, 19, 22, 24, 32

Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti?

Longe a salúte mea verba delictórum meórum.

Deus meus, clamábo per diem, nec exáudies: in nocte, et non ad insipiéntiam mihi.

Tu autem in sancto hábitas, laus Israël.

In te speravérunt patres nostri: speravérunt, et liberásti eos.

Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: in te speravérunt, et non sunt confusi.

Ego autem sum vermis, et non homo: oppróbrium hóminum et abjéctio plebis.

Omnes, qui vidébant me, aspernabántur me: locúti sunt lábiis et movérunt caput.

Sperávit in Dómino, erípiat eum: salvum fáciat eum, quóniam vult eum.

Ipsi vero consideravérunt et conspexérunt me: divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt mortem.

Líbera me de ore leónis: et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

Qui timétis Dóminum, laudáte eum: univérsum semen Jacob, magnificáte eum.

Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: et annuntiábunt coeli justítiam ejus.

Pópulo, qui nascétur, quem fecit Dóminus.

[Dio, Dio mio, volgiti a me: perché mi hai abbandonato?
V. La voce dei miei delitti allontana da me la mia salvezza.
V. Dio mio, grido il giorno, e non rispondi: la notte, e non c’è requie per me.
V. Eppure tu abiti nel santuario, o gloria d’Israele.
V. In te confidavano i nostri padri: confidavano, e tu li liberavi.
V. A te gridavano, ed erano salvati: in te confidavano, e non avevano da arrossire.
V. Ma io sono un verme, e non un uomo: lo zimbello della gente, e il rifiuto della plebe.
V. Tutti quelli che mi vedevano, si facevano beffe di me: storcevano la bocca e scrollavano il capo.
V. Ha confidato nel Signore, lo salvi, giacché gli vuol bene.
V. Essi mi osservarono e tennero gli occhi su di me: si spartirono le mie vesti, e tirarono a sorte la mia tunica.
V. Salvami dalle zanne del leone: dalle corna degli unicorni salva la mia pochezza.
V. Voi che temete il Signore, lodatelo: voi tutti, o prole di Giacobbe. glorificatelo.
V. Sarà chiamata col nome del Signore la generazione che verrà; e i cieli annunzieranno la giustizia di lui.
V. Al popolo che sorgerà, e che sarà opera del Signore.]

Evangelium

Pássio Dómini nostri Jesu Christi secúndum Matthǽum.

[Matt XXVI:1-75; XXVII:1-66].

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: J. Scitis, quid post bíduum Pascha fiet, et Fílius hóminis tradétur, ut crucifigátur. C. Tunc congregáti sunt príncipes sacerdótum et senióres pópuli in átrium príncipis sacerdótum, qui dicebátur Cáiphas: et consílium fecérunt, ut Jesum dolo tenérent et occíderent. Dicébant autem: S. Non in die festo, ne forte tumúltus fíeret in pópulo. C. Cum autem Jesus esset in Bethánia in domo Simónis leprósi, accéssit ad eum múlier habens alabástrum unguénti pretiósi, et effúdit super caput ipsíus recumbéntis. Vidéntes autem discípuli, indignáti sunt, dicéntes: S. Ut quid perdítio hæc? pótuit enim istud venúmdari multo, et dari paupéribus. C. Sciens autem Jesus, ait illis: J. Quid molésti estis huic mulíeri? opus enim bonum operáta est in me. Nam semper páuperes habétis vobíscum: me autem non semper habétis. Mittens enim hæc unguéntum hoc in corpus meum, ad sepeliéndum me fecit. Amen, dico vobis, ubicúmque prædicátum fúerit hoc Evangélium in toto mundo, dicétur et, quod hæc fecit, in memóriam ejus. C. Tunc ábiit unus de duódecim, qui dicebátur Judas Iscariótes, ad príncipes sacerdótum, et ait illis: S. Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? C. At illi constituérunt ei trigínta argénteos. Et exínde quærébat opportunitátem, ut eum tráderet. Prima autem die azymórum accessérunt discípuli ad Jesum, dicéntes: S. Ubi vis parémus tibi comédere pascha? C. At Jesus dixit: J. Ite in civitátem ad quendam, et dícite ei: Magíster dicit: Tempus meum prope est, apud te fácio pascha cum discípulis meis. C. Et fecérunt discípuli, sicut constítuit illis Jesus, et paravérunt pascha. Véspere autem facto, discumbébat cum duódecim discípulis suis. Et edéntibus illis, dixit: J. Amen, dico vobis, quia unus vestrum me traditúrus est. C. Et contristáti valde, coepérunt sínguli dícere: S. Numquid ego sum, Dómine? C. At ipse respóndens, ait: J. Qui intíngit mecum manum in parópside, hic me tradet. Fílius quidem hóminis vadit, sicut scriptum est de illo: væ autem hómini illi, per quem Fílius hóminis tradétur: bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille. C. Respóndens autem Judas, qui trádidit eum, dixit: S. Numquid ego sum, Rabbi? C. Ait illi: J. Tu dixísti. C. Cenántibus autem eis, accépit Jesus panem, et benedíxit, ac fregit, dedítque discípulis suis, et ait: J. Accípite et comédite: hoc est corpus meum. C. Et accípiens cálicem, grátias egit: et dedit illis, dicens: J. Bíbite ex hoc omnes. Hic est enim sanguis meus novi Testaménti, qui pro multis effundétur in remissiónem peccatórum. Dico autem vobis: non bibam ámodo de hoc genímine vitis usque in diem illum, cum illud bibam vobíscum novum in regno Patris mei. C. Et hymno dicto, exiérunt in montem Olivéti. Tunc dicit illis Jesus: J. Omnes vos scándalum patiémini in me in ista nocte. Scriptum est enim: Percútiam pastórem, et dispergéntur oves gregis. Postquam autem resurréxero, præcédam vos in Galilaeam. C. Respóndens autem Petrus, ait illi: S. Et si omnes scandalizáti fúerint in te, ego numquam scandalizábor. C. Ait illi Jesus: J. Amen, dico tibi, quia in hac nocte, antequam gallus cantet, ter me negábis. C. Ait illi Petrus: S. Etiam si oportúerit me mori tecum, non te negábo. C. Simíliter et omnes discípuli dixérunt. Tunc venit Jesus cum illis in villam, quæ dícitur Gethsémani, et dixit discípulis suis: J. Sedéte hic, donec vadam illuc et orem. C. Et assúmpto Petro et duóbus fíliis Zebedaei, coepit contristári et mæstus esse. Tunc ait illis: J. Tristis est ánima mea usque ad mortem: sustinéte hic, et vigilate mecum. C. Et progréssus pusíllum, prócidit in fáciem suam, orans et dicens: J. Pater mi, si possíbile est, tránseat a me calix iste: Verúmtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. C. Et venit ad discípulos suos, et invénit eos dormiéntes: et dicit Petro: J. Sic non potuístis una hora vigiláre mecum? Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma. C. Iterum secúndo ábiit et orávit, dicens: J. Pater mi, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum, fiat volúntas tua. C. Et venit íterum, et invenit eos dormiéntes: erant enim óculi eórum graváti. Et relíctis illis, íterum ábiit et orávit tértio, eúndem sermónem dicens. Tunc venit ad discípulos suos, et dicit illis: J. Dormíte jam et requiéscite: ecce, appropinquávit hora, et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum. Súrgite, eámus: ecce, appropinquávit, qui me tradet. C. Adhuc eo loquénte, ecce, Judas, unus de duódecim, venit, et cum eo turba multa cum gládiis et fústibus, missi a princípibus sacerdótum et senióribus pópuli. Qui autem trádidit eum, dedit illis signum, dicens: S. Quemcúmque osculátus fúero, ipse est, tenéte eum. C. Et conféstim accédens ad Jesum, dixit: S. Ave, Rabbi. C. Et osculátus est eum. Dixítque illi Jesus: J. Amíce, ad quid venísti? C. Tunc accessérunt, et manus injecérunt in Jesum et tenuérunt eum. Et ecce, unus ex his, qui erant cum Jesu, exténdens manum, exémit gládium suum, et percútiens servum príncipis sacerdótum, amputávit aurículam ejus. Tunc ait illi Jesus: J. Convérte gládium tuum in locum suum. Omnes enim, qui accéperint gládium, gládio períbunt. An putas, quia non possum rogáre Patrem meum, et exhibébit mihi modo plus quam duódecim legiónes Angelórum? Quómodo ergo implebúntur Scripturae, quia sic oportet fíeri? C. In illa hora dixit Jesus turbis: J. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus comprehéndere me: cotídie apud vos sedébam docens in templo, et non me tenuístis. C. Hoc autem totum factum est, ut adimpleréntur Scripturæ Prophetárum. Tunc discípuli omnes, relícto eo, fugérunt. At illi tenéntes Jesum, duxérunt ad Cáipham, príncipem sacerdótum, ubi scribæ et senióres convénerant. Petrus autem sequebátur eum a longe, usque in átrium príncipis sacerdótum. Et ingréssus intro, sedébat cum minístris, ut vidéret finem. Príncipes autem sacerdótum et omne concílium quærébant falsum testimónium contra Jesum, ut eum morti tráderent: et non invenérunt, cum multi falsi testes accessíssent. Novíssime autem venérunt duo falsi testes et dixérunt: S. Hic dixit: Possum destrúere templum Dei, et post tríduum reædificáre illud. C. Et surgens princeps sacerdótum, ait illi: S. Nihil respóndes ad ea, quæ isti advérsum te testificántur? C. Jesus autem tacébat. Et princeps sacerdótum ait illi: S. Adjúro te per Deum vivum, ut dicas nobis, si tu es Christus, Fílius Dei. C. Dicit illi Jesus: J. Tu dixísti. Verúmtamen dico vobis, ámodo vidébitis Fílium hóminis sedéntem a dextris virtútis Dei, et veniéntem in núbibus coeli. C. Tunc princeps sacerdótum scidit vestiménta sua, dicens: S. Blasphemávit: quid adhuc egémus téstibus? Ecce, nunc audístis blasphémiam: quid vobis vidétur? C. At illi respondéntes dixérunt: S. Reus est mortis. C. Tunc exspuérunt in fáciem ejus, et cólaphis eum cecidérunt, álii autem palmas in fáciem ejus dedérunt, dicéntes: S. Prophetíza nobis, Christe, quis est, qui te percússit? C. Petrus vero sedébat foris in átrio: et accéssit ad eum una ancílla, dicens: S. Et tu cum Jesu Galilaeo eras. C. At ille negávit coram ómnibus, dicens: S. Néscio, quid dicis. C. Exeúnte autem illo jánuam, vidit eum ália ancílla, et ait his, qui erant ibi: S. Et hic erat cum Jesu Nazaréno. C. Et íterum negávit cum juraménto: Quia non novi hóminem. Et post pusíllum accessérunt, qui stabant, et dixérunt Petro: S. Vere et tu ex illis es: nam et loquéla tua maniféstum te facit. C. Tunc cœpit detestári et juráre, quia non novísset hóminem. Et contínuo gallus cantávit. Et recordátus est Petrus verbi Jesu, quod díxerat: Priúsquam gallus cantet, ter me negábis. Et egréssus foras, flevit amáre. Mane autem facto, consílium iniérunt omnes príncipes sacerdótum et senióres pópuli advérsus Jesum, ut eum morti tráderent. Et vinctum adduxérunt eum, et tradidérunt Póntio Piláto praesidi. Tunc videns Judas, qui eum trádidit, quod damnátus esset, pæniténtia ductus, réttulit trigínta argénteos princípibus sacerdótum et senióribus, dicens: S. Peccávi, tradens sánguinem justum. C. At illi dixérunt: S. Quid ad nos? Tu vidéris. C. Et projéctis argénteis in templo, recéssit: et ábiens, láqueo se suspéndit. Príncipes autem sacerdótum, accéptis argénteis, dixérunt: S. Non licet eos míttere in córbonam: quia prétium sánguinis est. C. Consílio autem ínito, emérunt ex illis agrum fíguli, in sepultúram peregrinórum. Propter hoc vocátus est ager ille, Hacéldama, hoc est, ager sánguinis, usque in hodiérnum diem. Tunc implétum est, quod dictum est per Jeremíam Prophétam, dicéntem: Et accepérunt trigínta argénteos prétium appretiáti, quem appretiavérunt a fíliis Israël: et dedérunt eos in agrum fíguli, sicut constítuit mihi Dóminus. Jesus autem stetit ante praesidem, et interrogávit eum præses, dicens: S. Tu es Rex Judæórum? C. Dicit illi Jesus: J. Tu dicis. C. Et cum accusarétur a princípibus sacerdótum et senióribus, nihil respóndit. Tunc dicit illi Pilátus: S. Non audis, quanta advérsum te dicunt testimónia? C. Et non respóndit ei ad ullum verbum, ita ut mirarétur præses veheménter. Per diem autem sollémnem consuéverat præses pópulo dimíttere unum vinctum, quem voluíssent. Habébat autem tunc vinctum insígnem, qui dicebátur Barábbas. Congregátis ergo illis, dixit Pilátus: S. Quem vultis dimíttam vobis: Barábbam, an Jesum, qui dícitur Christus? C. Sciébat enim, quod per invídiam tradidíssent eum. Sedénte autem illo pro tribunáli, misit ad eum uxor ejus, dicens: S. Nihil tibi et justo illi: multa enim passa sum hódie per visum propter eum. C. Príncipes autem sacerdótum et senióres persuasérunt populis, ut péterent Barábbam, Jesum vero pérderent. Respóndens autem præses, ait illis: S. Quem vultis vobis de duóbus dimítti? C. At illi dixérunt: S. Barábbam. C. Dicit illis Pilátus: S. Quid ígitur fáciam de Jesu, qui dícitur Christus? C. Dicunt omnes: S. Crucifigátur. C. Ait illis præses: S. Quid enim mali fecit? C. At illi magis clamábant,dicéntes: S. Crucifigátur. C. Videns autem Pilátus, quia nihil profíceret, sed magis tumúltus fíeret: accépta aqua, lavit manus coram pópulo, dicens: S. Innocens ego sum a sánguine justi hujus: vos vidéritis. C. Et respóndens univérsus pópulus, dixit: S. Sanguis ejus super nos et super fílios nostros. C. Tunc dimísit illis Barábbam: Jesum autem flagellátum trádidit eis, ut crucifigerétur. Tunc mílites praesidis suscipiéntes Jesum in prætórium, congregavérunt ad eum univérsam cohórtem: et exuéntes eum, chlámydem coccíneam circumdedérunt ei: et plecténtes corónam de spinis, posuérunt super caput ejus, et arúndinem in déxtera ejus. Et genu flexo ante eum, illudébant ei, dicéntes: S. Ave, Rex Judæórum. C. Et exspuéntes in eum, accepérunt arúndinem, et percutiébant caput ejus. Et postquam illusérunt ei, exuérunt eum chlámyde et induérunt eum vestiméntis ejus, et duxérunt eum, ut crucifígerent. Exeúntes autem, invenérunt hóminem Cyrenaeum, nómine Simónem: hunc angariavérunt, ut tólleret crucem ejus. Et venérunt in locum, qui dícitur Gólgotha, quod est Calváriæ locus. Et dedérunt ei vinum bíbere cum felle mixtum. Et cum gustásset, nóluit bibere. Postquam autem crucifixérunt eum, divisérunt vestiménta ejus, sortem mitténtes: ut implerétur, quod dictum est per Prophétam dicentem: Divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem. Et sedéntes, servábant eum. Et imposuérunt super caput ejus causam ipsíus scriptam: Hic est Jesus, Rex Judæórum. Tunc crucifíxi sunt cum eo duo latrónes: unus a dextris et unus a sinístris. Prætereúntes autem blasphemábant eum, movéntes cápita sua et dicéntes: S. Vah, qui déstruis templum Dei et in tríduo illud reædíficas: salva temetípsum. Si Fílius Dei es, descénde de cruce. C. Simíliter et príncipes sacerdótum illudéntes cum scribis et senióribus, dicébant: S. Alios salvos fecit, seípsum non potest salvum fácere: si Rex Israël est, descéndat nunc de cruce, et crédimus ei: confídit in Deo: líberet nunc, si vult eum: dixit enim: Quia Fílius Dei sum. C. Idípsum autem et latrónes, qui crucifíxi erant cum eo, improperábant ei. A sexta autem hora ténebræ factæ sunt super univérsam terram usque ad horam nonam. Et circa horam nonam clamávit Jesus voce magna, dicens: J. Eli, Eli, lamma sabactháni? C. Hoc est: J. Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquísti me? C. Quidam autem illic stantes et audiéntes dicébant: S. Elíam vocat iste. C. Et contínuo currens unus ex eis, accéptam spóngiam implévit acéto et impósuit arúndini, et dabat ei bíbere. Céteri vero dicébant:S. Sine, videámus, an véniat Elías líberans eum. C. Jesus autem íterum clamans voce magna, emísit spíritum.

Hic genuflectitur, et pausatur aliquantulum. …

Et ecce, velum templi scissum est in duas partes a summo usque deórsum: et terra mota est, et petræ scissæ sunt, et monuménta apérta sunt: et multa córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt. Et exeúntes de monuméntis post resurrectiónem ejus, venérunt in sanctam civitátem, et apparuérunt multis. Centúrio autem et qui cum eo erant, custodiéntes Jesum, viso terræmótu et his, quæ fiébant, timuérunt valde, dicéntes: S. Vere Fílius Dei erat iste. C. Erant autem ibi mulíeres multæ a longe, quæ secútæ erant Jesum a Galilaea, ministrántes ei: inter quas erat María Magdaléne, et María Jacóbi, et Joseph mater, et mater filiórum Zebedaei. Cum autem sero factum esset, venit quidam homo dives ab Arimathaea, nómine Joseph, qui et ipse discípulus erat Jesu. Hic accéssit ad Pilátum, et pétiit corpus Jesu. Tunc Pilátus jussit reddi corpus. Et accépto córpore, Joseph invólvit illud in síndone munda. Et pósuit illud in monuménto suo novo, quod excíderat in petra. Et advólvit saxum magnum ad óstium monuménti, et ábiit. Erat autem ibi María Magdaléne et áltera María, sedéntes contra sepúlcrum.

 [In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: J. Sapete bene che tra due giorni sarà Pasqua, e il Figlio dell’uomo verrà catturato per essere crocifisso. C. Si radunarono allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo nell’atrio del principe dei sacerdoti denominato Caifa, e tennero consiglio sul modo di catturar Gesù con inganno, e così poterlo uccidere. Ma dicevano: S. Non però nel giorno di festa perché non sorga un qualche tumulto nel popolo. C. Mentre Gesù si trovava in Betania nella casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che portava un vaso d’alabastro, pieno d’unguento prezioso, e lo versò sopra il capo di lui che era adagiato alla mensa. Ma nel veder ciò, i discepoli se ne indignarono e dissero: S. Perché tale sperpero? Poteva esser venduto quell’unguento a buon prezzo, e distribuito [il denaro] ai poveri. C. Ma, sentito questo, Gesù disse loro: J. Perché criticate voi questa donna? Ella invero ha fatto un’opera buona con me. I poveri infatti li avete sempre con voi, mentre non sempre potrete avere me. Spargendo poi questo unguento sopra il mio corpo, l’ha sparso come per alludere alla mia sepoltura. In verità io vi dico che in qualunque luogo sarà predicato questo vangelo, si narrerà altresì, in memoria di lei, quello che ha fatto. C. Allora uno dei dodici, detto Giuda Iscariote, se ne andò dai capi dei sacerdoti, e disse loro: S. Che mi volete dare, ed io ve lo darò nelle mani? C. Ed essi gli promisero trenta monete di argento. E da quel momento egli cercava l’occasione opportuna per darlo nelle loro mani. Or il primo giorno degli azzimi si accostarono a Gesù i discepoli e gli dissero: S. Dove vuoi tu che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? C. E Gesù rispose loro: J. «Andate in città dal tale e ditegli: Il Maestro ti fa sapere: Il mio tempo oramai si è approssimato; io coi miei discepoli faccio la Pasqua da te». C. E i discepoli eseguirono quello che aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta poi la sera [Gesù], si era messo a tavola coi suoi dodici discepoli; e mentre mangiavano, egli disse: J. In verità vi dico che uno di voi mi tradirà. C. Sommamente rattristati, essi cominciarono a uno a uno a dirgli: S. Forse sono io, o Signore? C. Ma egli in risposta disse: J. Chi con me stende [per intingere] la mano nel piatto, è proprio quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo, è vero, se ne andrà, come sta scritto di lui; ma guai a quell’individuo, per opera del quale il Figliuolo dell’uomo sarà tradito! Era bene per lui il non esser mai nato! C. Pigliando la parola, Giuda, che poi lo tradì, gli disse: S. Sono forse io, o Maestro? C. Gli rispose [Gesù]: J. Tu l’hai detto. C. Stando dunque essi a cena, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo porse ai suoi discepoli, dicendo: J. Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo. C. E preso un calice, rese le grazie, e lo dette loro, dicendo: J. Bevetene tutti. Questo è il mio Sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per molti in remissione dei peccati. E vi dico ancora, che non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio. C. Recitato quindi l’inno, uscirono, diretti al Monte oliveto. Disse allora Gesù: J. Tutti voi in questa notte proverete scandalo per causa mia. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che sarò resuscitato, vi precederò in Galilea. C. In risposta, Pietro allora gli disse: S. Anche se tutti fossero scandalizzati per te, io non mi scandalizzerò mai. C. E Gesù a lui: J. In verità ti dico che in questa medesima notte, prima che il gallo canti, tu mi avrai già rinnegato tre volte. C. E Pietro gli replico: S. Ancorché fosse necessario morire con te, io non ti rinnegherò. C. E dissero lo stesso gli altri discepoli. Arrivò alfine ad un luogo, nominato Getsemani, e Gesù disse ai suoi discepoli: J. Fermatevi qui, mentre io vado più in là a fare orazione. C. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a farsi triste e ad essere mesto. E disse loro: J. È afflitta l’anima mia fino a morirne. Rimanete qui e vegliate con me. C. E fattosi un poco più in avanti, si prostrò a terra colla faccia e disse: J. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. In ogni modo non come voglio io [si faccia], ma come vuoi tu. C. E tornò dai suoi discepoli e li trovò che dormivano. Disse quindi a Pietro: J. E cosi, non poteste vegliare un’ora con me? Vegliate e pregate, perché non siate sospinti in tentazione. Lo spirito, in realtà, è pronto, ma è fiacca la carne. C. Di nuovo se ne andò per la seconda volta, e pregò, dicendo: J. Padre mio, se non può passar questo calice senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. C. E ritornò di nuovo a loro, e li ritrovò addormentati. I loro occhi erano proprio oppressi dal sonno. E, lasciatili stare, andò nuovamente a pregare per la terza volta, dicendo le stesse parole. Fu allora che si riavvicinò ai suoi discepoli e disse loro: J. Dormite pure e riposatevi. Oramai l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo; ecco che è vicino colui che mi tradirà. C. Diceva appunto così, quando arrivò Giuda, uno dei dodici e con lui una gran turba di gente con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore, aveva dato loro questo segnale, dicendo: S. Quello che io bacerò, è proprio lui; pigliatelo. C. E, senza indugiare, accostatosi a Gesù, disse: S. Salve, o Maestro! C. E gli dette un bacio. Gesù gli disse: J. Amico, a che fine sei tu venuto? C. E allora si fecero avanti gli misero le mani addosso e lo catturarono. Ma ecco che uno di quelli che erano con Gesù, stesa la mano, sfoderò una spada e, ferito un servo del principe dei sacerdoti, gli staccò un orecchio. Allora gli disse Gesù: J. Rimetti al suo posto la spada, perché chi darà di mano alla spada, di spada perirà. Credi tu forse che io non possa pregare il Padre mio, e che egli non possa fornirmi all’istante più di dodici legioni di Angeli? Come dunque potranno verificarsi le Scritture, dal momento che deve succedere così? C. In quel punto medesimo disse Gesù alle turbe: J. Come un assassino siete venuti a prendermi, con spade e bastoni. Ogni giorno io me ne stavo nel tempio a insegnare, e allora non mi prendeste mai. C. E tutto questo avvenne, perché si compissero le scritture dei Profeti. Dopo ciò, tutti i discepoli lo abbandonarono, dandosi alla fuga. Ma quelli, afferrato Gesù, lo condussero a Caifa; principe dei sacerdoti, presso il quale si erano radunati gli scribi e gli anziani. Pietro però lo aveva seguito alla lontana fino all’atrio del principe dei sacerdoti; ed, entrato là, si era messo a sedere coi servi allo scopo di vedere la fine. I capi dei sacerdoti intanto e tutto il consiglio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per aver modo di metterlo a morte; ma non trovandola, si fecero avanti molti falsi testimoni. Per ultimo se ne presentarono altri due, e dissero: S. Costui disse: Io posso distruggere il tempio di Dio, e in tre giorni posso rifabbricarlo. C. Levatosi su allora il principe dei sacerdoti, disse [a Gesù]: S. Io ti scongiuro per il Dio vivo, che tu ci dica, se sei il Cristo, figlio di Dio. C. Gesù rispose: J. Tu l’hai detto. Anzi vi dico che vedrete altresì il Figlio dell’uomo, assiso alla destra della Potenza di Dio, venir giù sulle nubi del cielo. C. Il principe dei sacerdoti allora si strappò le vesti, dicendo: S. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. È reo di morte! C. Allora gli sputarono in faccia e lo ammaccarono coi pugni. Altri poi lo schiaffeggiarono e gli dicevano: S. Indovina, o Cristo, chi è che ti ha percosso. C. Pietro intanto se ne stava seduto fuori nell’atrio. Or gli si accostò una serva e gli disse: S. Anche tu eri con Gesù di Galilea. C. Ma egli, alla presenza di tutti, negò, dicendo: S. Non capisco quello che dici. C. Mentre poi stava per uscire dalla porta, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: S. Anche lui era con Gesù Nazareno! C. E di nuovo egli negò giurando: S. Io non conosco quest’uomo! C. Di lì a poco gli si avvicinarono coloro che si trovavano là, e dissero a Pietro: S. Tu sei davvero uno di quelli, perché anche il tuo accento ti da a conoscere per tale. C. Cominciò allora a imprecare e a scongiurare che non aveva mai conosciuto quell’uomo. E a un tratto il gallo cantò; allora Pietro si rammentò del discorso di Gesù: «Prima che il gallo canti, tu mi avrai rinnegato tre volte»; ed uscito di là, pianse amaramente. Fattosi poi giorno, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo congiurarono insieme contro Gesù per metterlo a morte; e, legatolo, lo portarono via e lo presentarono al governatore Ponzio Pilato. Il traditore Giuda, allora, visto che Gesù era stato condannato, sospinto dal rimorso, riportò ai capi dei sacerdoti e agli anziani i trenta denari, e disse: S. Ho fatto male, tradendo il sangue d’un innocente! C. Ma essi risposero: S. Che ci importa? Pensaci tu! C. Gettate perciò nel tempio le trenta monete d’argento, egli si ritirò di là, andando a impiccarsi con un laccio. I capi dei sacerdoti per altro, raccattate le monete, dissero: S. Non conviene metterle colle altre nel tesoro, essendo prezzo di sangue. C. Dopo essersi consultati tra di loro, acquistarono con esse un campo d’un vasaio per seppellirvi i forestieri. Per questo, quel campo fu chiamato Aceldama, vale a dire, campo del sangue; e ciò fino ad oggi. Così si verificò quello che era stato predetto per mezzo di Geremia profeta: «Ed hanno ricevuto i trenta denari d’argento, prezzo di colui che fu venduto dai figliuoli d’Israele, e li hanno impiegati nell’acquisto del campo d’un vasaio, come mi aveva imposto il Signore». Gesù pertanto si trovò davanti al governatore, che lo interrogò, dicendogli: S. Sei tu il re dei giudei? C. Gesù gli rispose: J. Tu lo dici. C. Ed essendo stato accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. Gli disse allora Pilato: S. Non senti di quanti capi d’accusa ti fanno carico? C. Ma egli non replicò parola, cosicché il governatore ne rimase fortemente meravigliato. Nella ricorrenza della festività [pasquale] il governatore era solito di rilasciare al popolo un detenuto a loro piacimento. Ne aveva allora in prigione uno famoso, chiamato Barabba. A tutti coloro, perciò che si erano ivi radunati, Pilato disse: S. Chi volete che io vi lasci libero? Barabba, oppure Gesù, chiamato il Cristo? C. Sapeva bene che per invidia gliel’avevano condotto lì. Mentre intanto egli se ne stava seduto in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: S. Non aver nulla da fare con quel giusto, perché oggi in sogno ho dovuto soffrire tante ansie per via di lui! C. Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani sobillarono il popolo, perché fosse chiesto Barabba e fosse ucciso Gesù. In risposta allora il governatore disse loro: S. Chi volete che vi sia rilasciato? C. E quei risposero: S. Barabba. C. Replicò loro Pilato: S. Che ne farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo? C. E ad una voce, tutti risposero: S. Crocifiggilo! C. Disse loro il governatore: S. Ma che male ha fatto? C. Ed essi gridarono più forte, dicendo: S. Sia crocifisso! C. Vedendo Pilato che non si concludeva nulla, ma anzi che si accresceva il tumulto, presa dell’acqua, si lavò le mani alla presenza del popolo, dicendo: S. Io sono innocente del sangue di questo giusto; è affar vostro! C. E per risposta tutto quel popolo disse: S. Il sangue di lui ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! C. Allora rilasciò libero Barabba; e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. I soldati del governatore poi trascinarono Gesù nel pretorio e gli schierarono attorno tutta la coorte; e lo spogliarono, rivestendolo d’una clamide di color rosso. Intrecciata poi una corona di spine, gliela posero in testa, e nella mano destra [gli misero] una canna. E piegando il ginocchio davanti a lui, lo deridevano col dire: S. Salve, o re dei Giudei. C. E dopo avergli sputato addosso, presagli la canna, con essa lo battevano nel capo. E dopo che l’ebbero schernito, gli levarono di dosso la clamide, gli rimisero le sue vesti, e lo condussero via per crocifiggerlo. Nell’uscire [di città], trovarono un tale di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a pigliare la croce. E arrivarono a un luogo, detto Golgota, cioè, del cranio. E dettero da bere [a Gesù] del vino mescolato con fiele; ma avendolo egli gustato, non lo volle bere. E dopo che l’ebbero crocifisso, se ne divisero le vesti, tirandole a sorte. E ciò perché si adempisse quello che era stato detto dal Profeta, quando disse: «Si sono divisi i miei abiti ed hanno messo a sorte la mia veste». E, postisi a sedere, gli facevano la guardia. E al di sopra del capo di lui, appesero, scritta, la causa della sua condanna: – Questi è Gesù, re dei Giudei -. Furono allora crocifissi insieme con lui due ladroni: uno a destra ed uno a sinistra. E quelli che passavano di li, lo schernivano, crollando il capo, e dicevano: S. Tu che distruggi il tempio di Dio e che lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso; se sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla croce. C. Parimenti anche i capi dei sacerdoti lo deridevano, beffandosi di lui cogli scribi e cogli anziani del popolo, e dicendo: S. Salvò gli altri, e non può salvare se stesso. Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo. Confidò in Dio. Se vuole, Iddio lo liberi ora! O non disse che era Figliuolo di Dio? C. E questo pure gli rinfacciavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. Si fece poi un gran buio dall’ora sesta fino all’ora nona. E verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: J. Eli, Eli, lamma sabacthani; C. cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed alcuni che erano li vicini, sentitolo, dissero: S. Costui chiama Elia! C. E subito uno di loro, correndo, presa una spugna, l’inzuppò nell’aceto, e fermatala in vetta a una canna, gli dette da bere. Gli altri invece dicevano: S. Lasciami vedere, se viene Elia a liberarlo. C. Ma Gesù, gridando di nuovo a gran voce, rese lo spirito. Si genuflette per un momento. Ed ecco che il velo del tempio si divise in due parti dall’alto in basso; e la terra tremò; e le pietre si spaccarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di Santi che vi erano sepolti, resuscitarono. Usciti anzi dai monumenti dopo la resurrezione di Lui, entrarono nella città santa e comparvero a molti. Il centurione poi e gli altri che con lui facevano la guardia a Gesù, veduto il terremoto e le cose che succedevano, ne ebbero gran paura e dissero: S. Costui era davvero il Figliuolo di Dio. C. C’erano pure lì, in disparte, molte donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea per assisterlo, tra le quali era Maria Maddalena, e Maria di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Essendosi poi fatta sera, arrivò un uomo, ricco signore di Arimatea, chiamato Giuseppe, discepolo anche lui di Gesù. Egli si era presentato a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù; e Pilato aveva dato ordine che ne fosse restituito il corpo. E, presolo, Giuseppe lo avvolse in un lenzuolo pulito, e lo pose in un sepolcro nuovo, che si era già fatto scavare in un masso; e, dopo aver ribaltata alla bocca della tomba una gran lapide, se ne andò. Erano ivi Maria Maddalena e l’altra Maria, sedute di davanti al sepolcro.]

OMELIA

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e … Soc. Ed. Vita e Pens. VI ed. Milano, 1956]

DOMENICA DEGLI ULIVI

Fu un giorno d’entusiasmo. La bella stagione esultava nel cielo sereno e sui campi in giro. Dall’alto dell’Oliveto le turbe strappavano i rami dalle siepi e li agitavano nell’aria esclamando: « Benedetto il Re che viene in nome del Signore! Benedetto nell’altissimo cielo! ». Intanto il piccolo esercito fervente discendeva nel calore del sole, tra il verde e gli inni. Gerusalemme, apri le porte! Quante volte udisti dal labbro de’ tuoi profeti che sarebbe giunto un re di pace, quante volte l’hai sospirato nelle sventure! Or eccolo viene il tuo Re, mansueto; e cavalca un asinello. Solenne, col volto ardente, con gli occhi lucidi di pianto Gesù entrò nella città regina. La terra non conobbe trionfo più bello di questo. Si eran visti dei re venire a possesso della loro capitale circondati dalla potenza dei soldati, e da una folla curiosa: orgoglio di trionfatore e curiosità di popolo, ecco tutto il loro trionfo. Si erano visti conquistatori ritornare in patria in mezzo a tutta la pompa della vittoria: il trionfatore stava sul carro tirato da quattro cavalli bianchi: i veterani e le legioni procedevano innanzi cantando le lodi consuete; ma, dietro, aggiogati barbaramente venivano i vinti, imprecando alla sorte, alla vita, a Roma. Questi trionfi erano costati fiumi di sangue, incendi di città, lacrime d’infinite madri… Non così il trionfo del Figlio di Dio: egli è Re di pace. Ecce rex mansuetus. Intorno a Lui non l’urlo guerriero delle coorti, non il fragore degli scudi, non la fosca rabbia dei vinti incatenati che verranno uccisi nei giochi, o venduti schiavi; ma una fila di ammalati che Egli ha guariti, di poveri che Egli ha evangelizzato, di fanciulli che Egli colmava di carezze. E forse c’era anche il paralitico della piscina e forse c’era colui chiamato nato cieco, e certamente c’era Lazzaro il risuscitato da morte. E tutti levavano rami d’albero. Di quale albero? S. Matteo non lo dice: ma poiché li scerpavano dalle siepi del monte Oliveto, non potevano essere che rami d’ulivo. L’ulivo: il simbolo della pace. Quale altra fronda potevano scegliere gli Ebrei per agitare al passaggio del Re mansueto? Quale altra fronda possiamo noi agitare davanti a Cristo che ritorna trionfante nella santa Pasqua? – La Chiesa, in questa domenica, ad ogni fedele dona un ramo di ulivo benedetto. È con l’ulivo in mano che dobbiamo prepararci a far Pasqua: ossia, è con la pace del cuore. Ma non si può aver pace nel cuore, se prima non si è in pace col prossimo e in pace con Dio. – L’ULIVO È PACE COL PROSSIMO. Giovanni Gualberto viveva, allora, la spensierata vita. Ricco, aitante, abile in armi, amava allegre compagnie della gioventù fiorentina e i giochi e i divertimenti. Una sera, un gentiluomo di Toscana venne a rissa con suo fratello, e glielo uccise. Giovanni, curvo sul cadavere insanguinato, strinse i pugni contro l’assassino che fuggiva e giurò, terribile, di farne vendetta. Passarono dei mesi. Un giorno di Venerdì Santo, in un vicolo, egli s’incontra con la figura d’un torvo cavaliere. Lo riconosce: è l’assassino di suo fratello. Era giunto l’istante della vendetta: quella vendetta che aveva giurato sul sangue fumante, che aveva covato in cuore per giorni e giorni, che aveva sognato nei silenzi della notte, era lì, davanti a lui, e l’affascinava. Mandò un urlo di belva, snudò la spada, e gli fu sopra. Ma quegli, tremando, si buttò in ginocchio nella via deserta e gemette: « Per amore di quel Gesù che oggi muore in croce perdonando a’ suoi crocifissori, tu perdonami! ». C’era nell’aria un silenzio misterioso: le campane tacevano per la morte del Signore. Giovanni sentiva il sangue fargli impeto sulle tempia e sul petto: il pensiero di Gesù morente in croce e perdonante lo dominò.  « Alzati! — disse infine nello sforzo eroico di superarsi. — Nulla ti posso negare di ciò che domandi in nome del Salvatore. Ti dò la vita e l’amicizia e tu prega Dio che mi perdoni com’io perdono a te ». E si abbracciarono. — Quando le campane della Resurrezione squillarono nel cielo di Firenze, nessuno in cuore, provò tanta gioia come Giovanni, poiché nessuno meglio di lui s’era preparato alla Pasqua. E Gesù risorto gli fece la bella grazia di farsi santo: S. Giovanni Gualberto. – Pasqua è imminente: già il Re di pace viene, e vuol trovare pace sul suo passaggio. Guai a quelli che s’accosteranno alle sante feste con odio nel cuore. Gesù non li riconoscerà come suoi discepoli. «Io distinguerò fra tutti i miei discepoli per l’amore che si vorranno tra loro » ha detto un giorno. Nessuno di noi ha ricevuto un’offesa grande come quella che ricevette S. Giovanni Gualberto; e s’egli ha saputo perdonare, nessuno di noi potrà scusarsi da questo dovere. – In quante famiglie non c’è pace: sono fratelli in rissa fra loro, sono cognati, sono nuore che tutto il giorno passano in mormorazioni, in calunnie amare, in alterchi irosi, in silenzio pieno di rancore. Sono veri Cristiani? dicono di esserlo, e di fatto sono battezzati, ma Gesù non li riconosce: «I miei discepoli si amano gli uni e gli altri ». In quanti paesi non c’è pace: una famiglia contro un’altra famiglia, un inquilino contro un altro inquilino, un proprietario contro un proprietario: è per la casa, è per la terra, è per la roba, e intanto c’è odio cordiale. Sono paesi cristiani? Dicono di esserlo, hanno anche una bella chiesa, ma Gesù non li riconosce: «I miei discepoli si amano gli uni e gli altri ». È duro perdonare e amare chi ci fece del male; è un martirio secreto e tremendo ha detto S. Gregorio, che solo conosce chi l’ha provato. Ma Gesù lo vuole, lo comanda: Ego autem dico vobis diligite inimicos vestros. S. Giovanni Gualberto, all’assassino di suo fratello che in nome di Gesù gli chiedeva perdono, rispose: « Nulla ti posso negare di ciò che domandi in nome del Salvatore ». E noi avremo coraggio di negare questo perdono al nostro prossimo, quando è Gesù stesso che ce lo chiede? Oggi, quando tra le mani stringerete il rametto d’ulivo per festeggiare il Re mansueto che viene, ricordatevi che quell’ulivo significa pace col prossimo. – L’ULIVO È PACE CON DIO. Dio è bontà e trova la sua gioia nell’abitare tra gli uomini. Ma quando l’uomo preferisce i suoi piaceri alla legge del Signore e cade in peccato, Dio non lo può sopportare. Fugge da lui, come noi fuggiamo dal serpente; non lo conta più tra i suoi fedeli, tra i suoi amici, tra i suoi figli. L’uomo, allora, cerca altrove la sua pace, ma non la può trovare perché non c’è pace quando s’è in collera con Dio. Iniquitates vestræ diviserunt inter vos et Deum vestrum (Is., LIX, 2). C’è una muraglia tra Dio e voi: è la muraglia della vostra avarizia che non dice mai basta, fosse anche roba d’altri; è la muraglia della vostra superbia che non vuol correzioni né rimproveri; è la muraglia della vostra sensualità, che non vuol freni alle sue sregolatezze. Non si può far Pasqua in collera col Signore; non si può muovere incontro al Re di pace che viene, se tra noi e Lui c’è una muraglia. Bisogna abbatterla con la confessione. – Una domenica degli Ulivi, Santa Gertrude fu presa da scoraggiamento. Le sembrava troppo difficile migliorare la sua vita, e che per lei fosse impossibile diventar santa. Gesù le apparve e la chiamò. « Guarda, le disse, non è difficile, non è impossibile. Basta una cosa sola: che tu dica: voglio ». Ci sono molti che dicono di non poter perdonare certe offese, e neppure dimenticare. Ci sono altri che non vogliono confessarsi perché dicono di non saper resistere a certe tentazioni, a certe abitudini. O Cristiani, non è impossibile, non è difficile correre incontro a Gesù con il ramo d’ulivo, basta volerlo. Volere la pace col prossimo. Volere la pace con Dio. – CIRCOSTANZE DELL’INGRESSO IN GERUSALEMME. Bisognava che una volta almeno Gesù si presentasse al popolo come Messia: scelse, per il suo trionfo d’un giorno, l’ultima domenica della sua vita mortale. I Giudei pretendevano che il Messia arrivasse sulle nuvole ma Egli invece volle arrivare cavalcando un asinello che non aveva mai portato il basto. I discepoli vi avevano adattati i propri mantelli a far da sella. Veniva da Betania e la folla dei suoi amici cominciò a levar grida di gioia, a mettere le vesti sul suo passaggio, a tagliare rami di palma per agitarle o gettare avanti a Lui sulla strada. « Osanna al Figlio di Davide! — si gridava. — Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Evviva il Re d’Israele ». – Noi siamo ora giunti a quel tempo in cui si rinnova questa venuta del Salvatore. La comunione pasquale non è forse l’entrata nel nostro cuore del Figlio di Davide sotto le umili apparenze del pane e del vino? Ed oggi come allora in diversi modi è ricevuto dalle diverse anime. Ci sono anime sante e generose. Ci sono anime farisaiche, insensibili, incostanti. Ci sono anime che vengono da lontano, infangate di gravi peccati, ma piene di buona volontà.  Queste tre categorie d’anime si possono trovare significate in tre circostanze avvenute l’una all’inizio, l’altra a mezzo, e l’ultima alla fine del viaggio trionfale del Signore: il Padrone dell’asinello; il pianto di Gesù; la supplica d’alcuni forestieri. – IL PADRONE DELL’ASINELLO. Quando l’umile drappello si trovò dirimpetto alle case di Betfage, Gesù disse a due dei suoi, probabilmente Pietro e Giovanni: « Andate là, slegate l’asino che troverete, e menatelo qui ». Gli inviati eseguirono a puntino gli ordini. Arrivando alle case, subito scorsero la bestia legata presso una porta sulla strada e la sciolsero. Venne fuori il padrone e disse: « Che cosa fate? ». Gli risposero: « Ne ha bisogno il Signore ». A quella richiesta, subito rilasciò loro l’asinello. Chi era costui? senza dubbio un discepolo segreto di Gesù, sconosciuto agli Apostoli stessi. Ma che bell’anima! Non una difficoltà, non una scusa, non un rincrescimento: lo vuole Gesù, e basta. Non era il solo che amava così profondamente, così generosamente Gesù. Quattro giorni dopo. Pietro e Giovanni ne troveranno un altro. Neppure quest’altro era da loro conosciuto: lo individuarono per un’anfora piena d’acqua che portava, poiché tale era il segno dato loro dal Maestro. Gli dissero: «Il Signore ha bisogno di una stanza dove mangiare la Pasqua con i suoi discepoli ». L’altro subito li condusse in casa, nel salone del piano superiore, e l’adornò con tappeti e cuscini e preparò tutto l’occorrente per un banchetto solenne (Mc., XIV, 12-16). Di queste belle anime i successori di Pietro e Giovanni, cioè i sacerdoti, ne trovano ancora ogni anno. Le vedono accostarsi alla confessione e alla comunione pasquale con una piena dedizione di sé, dei loro affetti, delle loro case, al Signore. Sono i veri discepoli del Signore, ignoti al mondo, ignoti a tutti. Qualunque sacrificio, — di tempo, di danaro, di affetto, di salute, — domandi a loro Gesù essi senza calcolare. glielo dànno. Si sono forse lamentate le palme quando davano i loro rami per adornare la strada del Signore? E queste sante e generose anime si concedono a’ Gesù come le palme. E come le palme fioriranno, « Iustus ut palma florebit ». – IL PIANTO DI GESÙ. A metà cammino, quando il fervoroso corteo giunse in cima al monte degli ulivi, ai loro occhi apparve Gerusalemme, tutta bianca nel sole di mezzogiorno. Gesù la guardò e si mise a piangere. « Conoscessi, almeno oggi, quel che giova alla tua pace! Ma poiché non vuoi conoscere Colui che ti visita, i tuoi figli periranno, e di te non resterà pietra su pietra » (Lc., XIX, 41-44). Benché in mezzo all’esultanza e alle acclamazioni, Gesù non si lascia né travolgere né illudere dal favore popolare. Egli passa le apparenze e penetra nella secreta realtà delle anime. Perciò piangeva. a) Piangeva vedendo che molti gli venivano perfidamente incontro col sorriso sulle labbra, ma con in cuore il tradimento. Ed ancora Gesù Eucaristico, dall’alto del suo altare, tra la moltitudine che viene a riceverlo per la Pasqua, vede di quelli che s’inginocchiano alla balaustra ed hanno il tradimento in cuore. Lo tradiscono con quel peccato taciuto in confessione per vergogna; oppure con quell’abitudine a cui non si vuole rinunciare nonostante gli avvisi del confessore; o anche con quella ingiustizia di danaro o di roba a cui non si vuole riparare. b) Piangeva sul colle degli ulivi vedendo che v’erano di quelli accorsi solo per curiosità, quasi ad uno spettacolo, senza il minimo sentimento d’amore o di fede. Ed ancora dal santo altare Gesù vede che alcuni s’accostano alla Comunione pasquale solo per abitudine, forse per accontentare qualche persona di famiglia, o peggio per rispetto umano: ma non hanno nessuna preparazione, nessun pentimento, nessuna voglia di migliorare l’anima. c) Piangeva sapendo bene che quei medesimi che gli gridavano « osanna! », cinque giorni dopo gli avrebbero gridato « crucifige! », e avrebbero deriso la sua agonia sotto la croce. Ed ancora Gesù sa che ci sono di quelli che fanno Pasqua, e prima che siano passati cinque giorni già sono ritornati a crocifiggerlo nel loro cuore. Che gli è giovato dare il proprio sangue per costoro? d) Pianse il Salvatore in faccia della città che lo riceveva, ma che nonostante sarebbe stata distrutta. Già gli pareva di sentire attraverso le acclamazioni il rantolo disperato dei morenti, già gli pareva di vedere col suo sguardo profetico attraverso alle palme e gli ulivi avanzarsi il ferro e il fuoco dell’esercito sterminatore. Ma forse ancora Gesù vede che certe anime lo ricevono, e nonostante non si salveranno: vede già intorno a loro il bagliore del fuoco eterno che le divorerà per sempre. vede già intorno a loro il rauco grido del demonio vincitore. – LA SUPPLICA DEI FORESTIERI. A sera, quando già la folla s’era dispersa per prendere il cibo e i clamori s’erano quasi spenti, un gruppo di forestieri, convenuti in Gerusalemme per la Pasqua, volevano avvicinarsi a Gesù, conoscerlo da vicino, parlargli a cuore aperto. Ma non osavano: erano pagani e temevano d’essere respinti. Allora presero in disparte uno dei dodici, Filippo, e gli dissero: « Vorremmo vedere Gesù: non potresti presentarci? ». Filippo lo disse ad Andrea: poi tutti e due lo dissero a Gesù. Gesù ricevette quei forestieri, i quali poterono sentire bene mentre diceva: «Se il grano di frumento caduto nella terra non muore, resta solo; ma se muore porta molto frutto. Chi ama la sua vita, la perde; chi odia la sua vita in questo mondo, la salverà per la vita eterna ».  Quei buoni forestieri dovevano comprendere il mistero di queste parole; essi che erano decisi ad odiare la loro vita passata, a morire agli istinti del peccato, per vivere accanto a Gesù nella vita eterna. Se in mezzo alla folla dei Cristiani che in questi giorni si accosterà alla Pasqua. ci sono alcuni che vengono dalle lontananze del peccato, che sono forestieri da anni ed anni nella Chiesa, e desiderano finalmente di avvicinarsi a Gesù, di confidare con Lui, non abbiano nessun timore. Se mai la sfiducia per i loro molti peccati li assale, lo dicano al ministro del Signore nella santa Confessione, così come quei forestieri lo dissero a Filippo: e il sacerdote li presenterà, purificati dal sacramento, a Gesù. – Una leggenda piena di senso cristiano («Il velo della Veronica» di Selma Lageriòf) racconta che l’imperatore Tiberio giaceva ammalato nell’isola di Capri: una lebbra inguaribile lo divorava. La sua vecchia e fedele nutrice, avendo sentito che in Palestina c’era un uomo di nome Gesù che guariva i lebbrosi, decise di andarlo a consultare. Partì per la Palestina. Quand’ella arrivò e cercò di lui, le dissero di correre se voleva giungere a tempo per trovarlo vivo. Lo vide infatti madido di sudore e di sangue camminare sotto la croce verso il luogo del supplizio. Presa da compassione, tese il suo velo per asciugare quel volto grondante… e sul velo restarono impressi i lineamenti divini. E lo riportò al padrone. Appena il moribondo imperatore vide il volto di Cristo, e quegli occhi brucianti fissi su di lui, esclamò dolorosamente: « È questo l’uomo? Egli mi guarisce. Perché l’hai lasciato morire? ». Poi s’inginocchiò davanti a quel velo e mostrandogli le sue mani scarnate e devastate dalla lebbra diceva: « Tutti gli altri e io, siamo selvaggi e crudeli. ‘Tu, tu, sei l’Uomo: abbi pietà di me. Niente fuor che il tuo sguardo può guarirmi ». E si levò sanato. – Cristiani! il peccato è la lebbra che ancora devasta e divora l’uomo. Ma la santa Chiesa, madre amorosa e fedele, per guarirci non si limita a portarci dalla Palestina il velo coi lineamenti sanguinosi del Volto, ma sotto il bianco velo del pane eucaristico ci porta realmente e vivo Gesù, il Figlio di Dio, il Salvatore. Non col bacio di Giuda, ma con l’innocenza di Giovanni e col pentimento di Pietro avviciniamoci all’Ostia consacrata. Non con l’ipocrisia perfida dei Farisei, ma con la generosità del padrone dell’asino, o con le cordiali disposizioni di quei forestieri che lo volevano vedere da vicino, apriamo il cuore nostro a Gesù. Egli ci guarirà. Egli ci santificherà. . IL SACRILEGIO EUCARISTICO. Ecco, o Cristiani, che la Pasqua è vicina e le folle escono un’altra volta incontro a Gesù che viene nella santa Comunione. Ma io non vorrei che ancora Gesù, pallido in fronte, pianga; non vorrei che qualcuno lo accolga, con in cuore il tradimento. Sarebbe una colpa atroce! Eppure può darsi: tanto per togliersi la seccatura della moglie, delle sorelle, della madre, tanto per non far diverso dagli altri, si va a far Pasqua senza le disposizioni necessarie. Una confessione mal fatta: senza pensarci, senza dolore, senza sincerità. Poi… il sacrilegio orribile. Perché nessuno osi ricevere così il Messia nel suo cuore, vi dirò che il sacrilegio eucaristico è il peccato più ingiurioso a Dio, è il peccato più nocivo a noi. – IL PECCATO PIÙ INGIURIOSO A DIO. A Berna nel 1287. Alcuni giudei deliberarono di sorprendere ed avere nei loro artigli un figlio di Cristiani, onde sfogare la rabbia diabolica che li coceva. Uno di questi spiò e attrasse con doni dalla strada nella sua casa un tenero e candido giovinetto di nome Rodolfo, senza che nessuno se ne accorgesse. Ben tosto lo condusse in una cantina profonda, oscura e lurida, dove il fanciullo spaurito scoppiò in pianto. Non ci fu pietà: con un pugnale lo punzecchiò in tutte le parti finché il misero finì di stillar sangue e di vivere. Quando il bestiale carnefice risalì, alla luce del sole, s’avvide che le sue mani e i suoi abiti erano intrisi di sangue, subito corse a detergersi, ma dopo replicate lavande s’accorse che era fatica inutile: il sangue innocente indelebile rosseggiava sulla mano e sulla faccia (Vogel, Vita di S. Rodolfo.19 aprile). Simile a questo è il delitto dell’uomo sacrilego. Non un fanciullo qualunque, ma il Figliuolo della Vergine Maria egli attira nella oscura e lurida cantina del suo cuore. Gli muove incontro col sorriso, con le mani giunte, in mezzo a persone amiche, e poi quando l’ha ricevuto, si fa reo del Corpo e del Sangue di un Dio. Quicumque manducaverit panem hunc, vel biberit calicem Domini indigne, reus erit Corporis et Sanguinis Domini (I Cor., XI, 27). L’uomo non vedrà le macchie di sangue sulla sua mano e sulla sua faccia. Ma gli Angeli le vedono, quelle macchie, le vede Iddio, le vede il demonio… Il peccatore che si comunica indegnamente commette un delitto più odioso di quello degli Ebrei quando sul Calvario han messo in croce Gesù. Se i Giudei avessero conosciuto la gloria del Signore, dice S. Paolo, non l’avrebbero crocifisso mai: essi credevano soltanto di uccidere un uomo, il figlio d’un falegname di Nazareth. Ma il sacrilego che sotto il velo eucaristico tradisce il Signore della gloria, il Figlio dell’Altissimo, il re dei secoli immortale sa che la sua offesa colpisce direttamente Dio e non ha scusa. – Il delitto dei Giudei riuscì utile agli uomini: il sangue da essi versato fu lavacro per le anime nostre. L’Agnello da essi immolato fu la nostra riconciliazione con Dio. Ma quando il sacrilego crocifigge Gesù sull’altare, che utilità ne deriva per sé e degli altri? Nessuna, fuori che maledizione e sventura. Ci sono poi alcune circostanze che possono attenuare la colpa dei Giudei. I sacerdoti e i capi del popolo l’avevano cercato a morte perché Gesù aveva smascherato la loro ipocrisia davanti al popolo chiamandoli sepolcri imbiancati; ma il sacrilego tradisce mentre Gesù si curva a baciarlo, lo uccide mentre Gesù gli sussurra: « Amico mio! ». E poi, non è detto che i crocifissori fossero proprio i ciechi, gli storpi, i lebbrosi guariti da lui: ma il sacrilego è un cieco che Gesù ha illuminato con la fede, è uno storpio che Gesù ha raddrizzato coi buoni consigli, è un lebbroso che Gesù ha mondato più volte con la confessione. Non è un estraneo, ma un beneficato: si inimicus meus maledixisset mihi, sustinuissem utique: tu vero!… (Ps., LIV, 13). Quale oltraggio per il Verbo divino! la veste preziosa è gettata all’immondezzaio, il santo al cane, la perla al porco. Quale oltraggio per il Padre adorabile, che amò l’uomo così da concedergli il suo Unigenito, vederlo invece tradito e deriso! Quale oltraggio per lo Spirito Santo, che con tanta cura ha preparato il seno verginale di Maria ove il Salvatore avrebbe preso umana carne, vederlo in un tempio di idoli! Quale oltraggio alla Vergine Madre, che tremando lo baciava, e adorando lo portava sulle sue braccia, vederlo maltrattato da un miserabile peccatore! – IL PECCATO PIÙ NOCIVO ALL’UOMO. Come la religione non conosce un delitto più enorme del sacrilegio eucaristico, così non v’ha punizione più terribile di questa: « Colui che mangia e beve indegnamente, mangia e beve la sua rovina ». Qui enim manducat et bibit indigne, iudicium tibi manducat et bibit (I Cor., XI, 29). Ancora par di sentire il fremito d’orrore del Vescovo Cipriano, nel fatto ch’egli narra. Una donna ardì accostarsi alla santa Comunione con l’odio nel cuore contro una sua vicina. Nell’atto che stava per inghiottire la sacra Particola, si sentì come un coltello taglientissimo squarciare la gola. Tutti videro allora che da quell’apertura uscì l’Ostia consacrata, e ritornò nella pisside. La donna infelice, annerita come la fuliggine, si rovesciò sul pavimento e smaniando morì, con grande spavento di tutti i fedeli. Io non dico che Iddio ripeterà il miracolo per ogni uomo che indegnamente si comunica; ma certo il sacrilego sente il suo petto tagliato dal coltello acuto del rimorso; sente nel suo cuore gli urti spasimosi della divina maledizione: è l’Ostia santa che inorridita de’ suoi peccati vuol fuggire da lui. E buon per lui, se Gesù fuggisse davvero, che non si stringerebbe in seno la propria sciagura. Vedete: se voi date del cibo a un vivo, lo fortificate; ma se sforzate la mascella d’un morto per dargli da mangiare lo fate marcire più presto. Guai a quelli che ricevono la Eucaristia, che è pane dei vivi, e sono morti alla grazia! Che direste voi di un ladro che dopo aver accumulato in casa sua la roba rubata invita il giudice del tribunale a fargli visita? La medesima sfrontatezza è compita dal sacrilego che pone Gesù in cospetto dei peccati che rimangono in cuore. Quando l’Arca dell’alleanza passava tra il popolo di Dio erano vittorie e trionfi e grazie che l’accompagnavano. Quando invece passava tra i nemici erano le pestilenze, le stragi, gli incendi, le sciagure che facevano deserto e silenzio d’intorno ad essa Altrettanto avviene quando nei cuori passa l’Eucaristia. Sei suo amico? vita e vittoria. Sei suo nemico? sventura e morte. Ce ne fa riprova la fine disperata di Giuda, il primo profanatore dell’Eucaristia. Si riconosce colpevole, ma non si pente. Piange, ma le sue lacrime non lavano il delitto. Grida: — io ho peccato! — e il suo peccato non gli è rimesso. Muore desolato, muore riprovato. Appeso all’albero del fico, vede da lontano il cadavere di Gesù appeso all’albero della croce. La sua anima vuol fuggire dal dolore e le sue viscere scoppiano in mezzo per lasciarla precipitare nell’inferno, Crepuit medius (Act., I, 18). Il Figlio dell’Uomo sarà tradito: ma guai a quell’uomo, dal quale sarà tradito! Væ homini illi per quem Filius hominis tradetur! – Nella battaglia avvenuta a Pietra del Soccorso, i Filistei s’impadronirono dell’arca dell’alleanza che il popolo d’Israele aveva abbandonato sul campo della sconfitta. Ora i nemici presero l’Arca di Dio e la collocarono di fronte all’idolo di Dagon. Il dì seguente, allo spuntar del giorno, Dagon era prostrato in terra, bocconi davanti all’Arca. Fu rimesso in piedi: di nuovo, alla mattina dopo, Dagon era rovesciato sul pavimento, ma la testa e le due palme stroncate stavano sulla soglia del tempio (I Re, V, 1-5). Se l’Arca di Dio non poteva coabitare con l’idolo immondo in uno stesso tempio, tanto più l’Eucaristia non può coabitare con il peccato in uno stesso cuore. Cristiani, non costringere il Santo ad unirsi all’immondo. O solo l’Eucaristia o solo il peccato. Chi costringe la santa Particola a discendere in un’anima inquinata, farà la fine di Dagon; sarà maledetto e stritolato nella vita eterna.LA PALMA. Le folle, nell’amore al Profeta taumaturgo, non sanno meglio esprimere la loro contentezza che strappando rami di palma per agitarli e gettarli sulla via dove deve passare Gesù. Le palme che nelle terre di Oriente si innalzano al cielo superbe, protendendo all’intorno il ventaglio dei loro rami, sono il simbolo più espressivo delle vittorie e del trionfo. Le turbe agitando le palme a Gesù che veniva lo salutavano ed acclamavano Re del suo popolo e Messia sospirato da secoli. Alla venuta di Gesù nel nostro cuore nella Comunione pasquale anche noi, o Cristiani, dobbiamo portare ed agitare le palme: palme che significano vittoria e trionfo sopra noi stessi; palme che significano vittoria contro il rispetto umano che vorrebbe togliere la santa franchezza del bene. – Nelle prime pagine della storia leggendaria di Roma si trova l’episodio di Muzio Scevola. Gli Etruschi, venuti col re Porsenna, avevano cinto di assedio la città di Roma per potersene impadronire. Ma quel soldato intrepido, uscito dalle mura, si introdusse nel campo nemico per uccidere il re. Però invece del re ferì il suo segretario. Arrestato mentre fuggiva e condotto dinanzi al sovrano, questi lo prese a minacciare per indurlo a tradire la patria. Muzio Scevola, per nulla intimorito, stende la sua destra sul fuoco per punirla dell’errore commesso ed esclama: «E proprio dei Romani l’essere forti nell’agire e nel soffrire ». – O Cristiani, nel giorno del nostro Battesimo abbiamo promesso di combattere contro i nemici della nostra salvezza: prima fra tutti il nostro corpo, le nostre passioni. Ciascuno porta in sé un tiranno che cinge di assedio le forze dell’anima e vuol toglierci il Signore. Dobbiamo uscire dalle mura della nostra freddezza, del nostro egoismo per uccidere od almeno sconfiggere sempre questo ingiusto aggressore che non ha il diritto di superarci. Spesso forse ci capita di sbagliare il colpo, di non vincere come dovremmo se pure non restiamo del tutto sconfitti. Ebbene, ripetiamo ancor noi le parole dell’eroe di Roma, cambiando opportunamente la frase: « Facere et pati fortia christianum est! È dei Cristiani soffrire ed operare con forza ». Se è vero che portiamo il triste germe del male è vero anche che ciascuno di noi ha in se stesso una grande forza di bene. Basta saper sfruttare le sane energie dell’anima nostra. Se ti senti portato alla superbia, pensa che la tua grandezza vien dal Signore, che tutto dipende da Lui, che la vera ambizione sta nell’ubbidire alla santa sua legge. Se ti senti portato alle cose create, se il tuo cuore si attacca ad affezioni umane, pensa che soltanto Iddio è degno di tutto l’amore, solo Lui può appagare le aspirazioni più belle del tuo affetto. Vuole da te che lo ami davvero: nessuno sa amare più di quanto ha saputo amarti il Signore. Se la sapienza di coloro che non avevano conosciuto il Signore stava nel programma: « Conosci te stesso! » la vera sapienza dei figliuoli di Dio aggiunge qualche cosa di più: « Conosci te stesso, cioè la tua dignità di Cristiano, le tue belle capacità di vittoria e di bene; e poi vinci te stesso, la tua parte cattiva, per trionfare in Dio. Nel Signore vincerai e con Lui sarà eterno il tuo godimento ». Del resto la battaglia non è difficile; basta saper incominciare e fidarci soltanto di Dio che stimola ed aiuta la nostra debolezza. – LA PALMA È VITTORIA CONTRO IL RISPETTO UMANO. Un ricco marchese di Francia, trovandosi un giorno con un gruppo di personalità distinte, fu invitato a far la conoscenza con Ernesto Renan, lo scrittore tristemente famoso che osò scrivere una vita di Gesù Cristo in cui sacrilegamente bestemmiò la divinità del Redentore. Ernesto Renan già stava porgendo la mano, ma quel signore ritirando la sua, esclamò ad alta voce, in pubblico: «Io non stringerò mai questa mano che ha schiaffeggiato il mio Signore! » – Quante volte, o Cristiani, noi abbiamo promesso di essere forti, di compiere il nostro dovere, di non aver paura a manifestare la nostra fede colle azioni. Ma ci siamo spaventati dello scherno che ci poteva venire dai nostri compagni, da quelli che ci avrebbero visti e siamo stati vili, siamo stati dei vinti. Così abbiamo dato mano, abbiamo quasi aiutato, siamo divenuti amici di quelli che schiaffeggiano il Signore. Guardate che forza non ha avuto quel ricco marchese di fronte a tante persone. Bisogna che anche noi ci abituiamo ad essere forti, ad essere di carattere. Non sono eroi soltanto quelli che vincono una battaglia sul campo di guerra: costa assai di più vincere il rispetto umano sul pacifico campo della nostra vita, nei rapporti quotidiani con tanti nostri vicini. Un atto di valore tante volte è cosa di un momento. Un gesto di eroismo farà conoscere il vostro nome, ci procurerà applausi ma la fortezza di credere e di esser Cristiani spesso ci attira lo scherno aperto od il sorriso maligno. Teniamo in mente la parola del Signore: « Non abbiate paura di coloro che uccidono il corpo e poi non possono far altro. Ma io vi insegnerò chi dobbiate temere: Temete Colui che dopo aver tolta la vita, ha potestà di mandare all’inferno. Questo sì, vi dico, temetelo! ». (Lc., XII, 4-5). – Dice il proverbio che ride bene chi ride ultimo. Gli ultimi a ridere non saranno i cattivi; di essi avrà vergogna il Figliuol di Dio nel giorno del giudizio (Lc. IX, 26). Gli ultimi a godere, e per sempre, saranno i buoni, i forti. Soltanto essi regno dei cieli, nella Gerusalemme celeste, agiteranno le palme della vittoria attorno all’Agnello. – Nei primi anni del 1700 si combatteva una guerra per decidere il successore al trono di Spagna. Filippo d’Angiò, nipote di Luigi XIV re di Francia, era il pretendente più forte alla corona ed il 10 dicembre del 1710 vinceva la battaglia decisiva che gli apriva le porte di Madrid, la città capitale di Spagna. Alla sera, stanco del combattimento, il giovane principe stava per andare a riposare quando un suo Maresciallo lo pregò che gli concedesse di preparargli il letto. Avuto il permesso, il Maresciallo fece portare una gran quantità di bandiere tolte al nemico e, postele una sopra l’altra, invitò il principe ad adagiarsi su quelle coltri gloriose. Era il letto della vittoria. Voi, o Cristiani, avete già capito ciò che questo fatto ci può insegnare. Dobbiamo noi pure combattere per decidere chi deve regnare nel nostro cuore noi, oppure le nostre passioni. Strappiamo tante bandiere al nemico e gli atti di fortezza che compiamo quaggiù saranno al momento della nostra morte un letto di gloria sul quale chiuderemo lieti gli occhi, per essere risvegliati nel regno dei Cieli.

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps LXVIII:21-22.

Impropérium exspectávit cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni: et dedérunt in escam meam fel, et in siti mea potavérunt me acéto.

[Oltraggio e dolore mi spezzano il cuore; attendevo compassione da qualcuno, e non ci fu; qualcuno che mi consolasse e non lo trovai: per cibo mi diedero del fiele e assetato mi hanno dato da bere dell’aceto.]

Secreta

Concéde, quæsumus, Dómine: ut oculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis devotionis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat.

[Concedi, te ne preghiamo, o Signore, che quest’ostia offerta alla presenza della tua Maestà, ci ottenga la grazia della devozione e ci acquisti il possesso della Eternità beata.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt XXVI:42.

Pater, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum: fiat volúntas tua.

[Padre mio, se non è possibile che questo calice passi senza chi lo beva, sia fatta la tua volontà.]

Postcommunio.

Orémus.

Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii: et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur.

 [O Signore, per l’efficacia di questo sacramento, siano purgati i nostri vizi e appagati i nostri giusti desideri.].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA