DOMENICA VI DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA VI DOPO PENTECOSTE (2022)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Un solo pensiero domina tutta la liturgia di questo giorno: bisogna distruggere in noi il peccato con profondo pentimento e chiedere a Dio di darci la forza per non ricadervi. Il Battesimo ci ha fatto morire al peccato e l’Eucarestia ci dà la forza divina necessaria per perseverare nel cammino della virtù. La Chiesa, ancora tutta compenetrata del ricordo di questi due Sacramenti che ha conferito a Pasqua e a Pentecoste, ama parlarne anche « nel Tempo dopo Pentecoste ». – Le lezioni del 7° Notturno, quali si leggono nel Breviario, raccontano, sotto la forma di apologo, la gravità della colpa commessa da David. Per quanto pio egli fosse, questo grande Re aveva lasciato entrare il peccato nel suo cuore. Volendo sposare una giovane donna di grande bellezza, di nome Bethsabea, aveva ordinato di mandare il marito di lei Uria, nel più forte del combattimento contro gli Ammoniti, affinché restasse ucciso. Così sbarazzatosi in questo modo di lui, sposò Bethsabea che da lui già aveva concepito un figlio. Il Signore mandò il profeta Nathan a dirgli: « Vi erano due uomini nella città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva pecore e buoi in gran numero, il povero non aveva assolutamente nulla fuori di una piccola pecorella, che aveva acquistata e allevata, e che era cresciuta presso di lui insieme con i suoi figli, mangiando il suo pane, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno: essa era per lui come una figlia. Ma essendo venuto un forestiero dal ricco, questi, non volendo sacrificare nemmeno una pecora del suo gregge per imbandire un banchetto al suo ospite, rapì la pecora del povero e la fece servire a tavola ». David sdegnatosi, esclamò: « Come è vero che il Signore è vivo, questo uomo merita la morte ». Allora Nathan disse: « Quest’uomo sei tu, poiché hai preso la moglie di Uria per farla tua sposa, mentre potevi sceglierti una sposa fra le giovani figlie d’Israele. Pertanto, dice il Signore, io susciterò dalla tua stessa famiglia (Assalonne) una disgrazia contro di te ». David, allora, pentitosi, disse: Nathan: « Ho peccato contro il Signore ». Nathan riprese: « Poiché sei pentito il Signore ti perdona; tu non morrai. Ma ecco il castigo: il figlio che ti è nato, morrà ». Qualche tempo dopo infatti il fanciullo morì. E David umiliato e pentito andò a prostrarsi nella casa del Signore e cantò cantici di penitenza (Com.). « David, questo re cosi grande e potente, dice S. Ambrogio, non può mantenere in sé neppure per breve tempo il peccato che pesa sulla sua coscienza: ma con una pronta confessione, e con immenso rimorso, confessa il suo peccato al Signore. Così il Signore, dinanzi a tanto dolore, gli perdonò. Invece gli uomini, quando i Sacerdoti hanno occasione di rimproverarli, aggravano il loro peccato cercando di negarlo o di scusarlo; e commettono una colpa più grave, proprio là dove avrebbero dovuto rialzarsi. Ma i Santi del Signore, che ardono dal desiderio di continuare il santo combattimento e di terminare santamente la vita, se per caso peccano, più per la fragilità della carne che per deliberazione di peccato, si rialzano più ardenti alla corsa e, stimolati dalla vergogna della caduta la riparano coi più rudi combattimenti; cosicché la loro caduta invece d’essere stata causa di ritardo non ha fatto altro che spronarli e farli avanzare più celermente » (2° Nott.). Da ciò si comprende la scelta dell’Epistola nella quale S. Paolo parla della nostra morte al peccato. Nel Battesimo siamo stati seppelliti con Cristo, la nostra vecchia umanità è stata crocifissa con Lui perché noi morissimo al peccato. E come Gesù dopo la risurrezione è uscito dalla tomba, così noi dobbiamo camminare per una nuova via, vivere per Dio in Gesù Cristo (Ep.). E qualora avessimo la disgrazia di ricadere nel peccato, bisogna domandare a Dio la grazia di esserci propizio e di liberarcene (V. dell’Intr., Crad., All., Secr.), ridonandoci la grazia dello Spirito Santo, poiché da Lui parte ogni dono perfetto (Oraz.). Poi bisogna accostarci all’altare (Com.) per ricevervi l’Eucaristia la cui virtù divina ci fortificherà contro i nostri nemici (Postcom.) e ci manterrà nel fervore della pietà (Oraz.), poiché il Signore è la forza del suo popolo che lo condurrà per sempre (Intr.). Per questo la Chiesa ha scelto per Vangelo la narrazione della moltiplicazione dei pani, figura dell’Eucaristia, che è il nostro viatico. La Comunione, identificandosi con la vittima del Calvario, non solamente perfeziona in noi gli effetti del Battesimo, facendoci morire con Gesù al peccato, ma ci fa trovare al santo banchetto la forza che ci è necessaria per non ricadere nel peccato e per « consolidare i nostri passi nei sentieri del Signore » (Offert.). E in questo senso S. Ambrogio, commenta questo Vangelo. Cristo disse: « Io non voglio rimandarli digiuni per paura che essi muoiano per via. Il Signore pieno di bontà sostiene le forze; se qualcuno soccomberà non sarà per causa del Signore Gesù, ma per causa di se stesso. Il Signore pone in noi elementi fortificanti; il suo alimento è la forza, il suo alimento è il vigore. Così, se per vostra negligenza, avete voi perduta la forza che avete ricevuta, non dovete incolpare gli alimenti celesti che non mancano, ma voi stessi. Infatti Elia, quando stava per soccombere, non camminò per quaranta giorni ancora, avendo ricevuto il cibo da un Angelo? Se voi avete conservato il cibo ricevuto, camminerete per quarant’anni e uscirete dalla terra d’Egitto per giungere alla terra immensa che Dio ha promesso ai nostri Padri.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVII: 8-9 Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum.

[Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.]

Ps XXVII: 1 Ad te, Dómine, clamábo, Deus meus, ne síleas a me: ne quando táceas a me, et assimilábor descendéntibus in lacum.

[O Signore, Te invoco, o mio Dio: non startene muto con me, perché col tuo silenzio io non assomigli a coloro che discendono nella tomba.]

Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum.

[Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.]

Oratio

Orémus.

Deus virtútum, cujus est totum quod est óptimum: ínsere pectóribus nostris amórem tui nóminis, et præsta in nobis religiónis augméntum; ut, quæ sunt bona, nútrias, ac pietátis stúdio, quæ sunt nutríta, custódias.

[O Dio onnipotente, cui appartiene tutto quanto è ottimo: infondi nei nostri cuori l’amore del tuo nome, e accresci in noi la virtú della religione; affinché quanto di buono è in noi Tu lo nutra e, con la pratica della pietà, conservi quanto hai nutrito.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom. VI: 3-11

“Fratres: Quicúmque baptizáti sumus in Christo Jesu, in morte ipsíus baptizáti sumus. Consepúlti enim sumus cum illo per baptísmum in mortem: ut, quómodo Christus surréxit a mórtuis per glóriam Patris, ita et nos in novitáte vitæ ambulémus. Si enim complantáti facti sumus similitúdini mortis ejus: simul et resurrectiónis érimus. Hoc sciéntes, quia vetus homo noster simul crucifíxus est: ut destruátur corpus peccáti, et ultra non serviámus peccáto. Qui enim mórtuus est, justificátus est a peccáto. Si autem mórtui sumus cum Christo: crédimus, quia simul étiam vivémus cum Christo: sciéntes, quod Christus resurgens ex mórtuis, jam non móritur, mors illi ultra non dominábitur. Quod enim mórtuus est peccáto, mórtuus est semel: quod autem vivit, vivit Deo. Ita et vos existimáte, vos mórtuos quidem esse peccáto, vivéntes autem Deo, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

[“Fratelli, quanti siamo stati battezzati in Gesù Cristo, siamo stati battezzati nella morte di Lui. Per il battesimo siamo stati, dunque, sepolti con Lui nella morte; affinché a quel modo che Gesù Cristo risuscitò dalla morte, mediante la gloria del Padre, così, anche noi viviamo una nuova vita. Infatti, se siamo stati innestati a Lui per la somiglianza della sua morte, lo saremo anche per quella della resurrezione; ben sapendo che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso in Lui, affinché il corpo del peccato fosse distrutto, sicché non serviamo più al peccato. Ora, se siamo morti con Cristo crediamo che vivremo pure con Cristo; perché sappiamo che Cristo risuscitato da morte non muore più: la morte non ha più dominio su di Lui. La sua morte fu una morte al peccato una volta per sempre; e la sua vita la vive a Dio. Alla stessa guisa, anche voi consideratevi morti al peccato e viventi a Dio in Cristo Gesù Signor nostro”.]

NOVITÀ MONDANA E NOVITA’ CRISTIANA.

La novità è una delle sollecitudini, potremmo anche dire delle manie del giorno. Dalla donna vana, che cerca la novità della moda, al letterato ambizioso che cerca la novità dell’arte, all’uomo grave che vuole la novità in politica, novità si vuole su tutta la linea. Povere cose vecchie! e come siete: screditate oggi! e come diventate vecchie e spregevoli rapidamente! Il Cristianesimo ha l’aria di non assecondare troppo questi fremiti di novità, queste ansie per la novità, il Cristianesimo colla santa immutabilità dei suoi dogmi, il Cristianesimo con la forza delle sue vetuste tradizioni. Qualcuno lo dipinge volentieri per metterlo alla berlina, tutto volto al passato, imbalsamatore di cadaveri. E certo il Cristianesimo non folleggia, come il mondo irrequieto, dietro la novità e le novità. Il mondo ha la mania di correre, muoversi, agitarsi, come un epilettoide: il mondo… il Cristianesimo, pacato senza essere ozioso, ha la preoccupazione ben più sacra di arrivare. Il suo ideale non è il nuovo, è il vero, è il bene. Diversità di temperamenti e di orientazioni. Ma nella epistola di quest’oggi ai Romani troviamo una frase che mostra la unilateralità di quella rappresentazione arcaica, la cui mercè altri vorrebbe far onta al Cristianesimo. « Camminiamo (dice San Paolo ai primi Cristiani) nella novità della vita… morti a ciò che c’è in noi di vecchio e di stantio…» La parola di San Paolo ci riporta per incanto ai giorni in cui il Vangelo apparve e fu una grande novità nel mondo… Novità assoluta, profonda di fronte al mondo pagano, novità, non allo stesso modo e nello stesso senso, ma novità anche di fronte al mondo giudaico. Aria nuova che irrompe in un ambiente chiuso parve il Vangelo ai Giudei, aria nuova in un ambiente chiuso, mefitico, così parve ai pagani il Vangelo. Novità la stessa unità di Dio, nonché è molto più il mistero della Trinità, mistero l’amore della Incarnazione, Redenzione, cose non mai più udite, cose contrarie a quelle che si erano udite fino allora. – E nuovi sentieri tracciava questa novità ideale alla vita della umanità. L’umanità operosa da secoli, colla sua operosità, aveva scavato false strade simili a quelle carreggiate che nel fango della strada mal fatta scavano i veicoli. Erano ormai antichi quei sentieri, infossati. Si chiamavano i sentieri dell’orgoglio, della voluttà, dell’egoismo: roba consolidata dal tempo, staremmo per dire dal tempo consacrata. C’era un tipo d’uomo fatto così, orgoglioso, sensuale, egoista, violento. Il Cristianesimo è venuto a scancellare, a disfare, a seppellire questo tipo in nome e a vantaggio d’un altro tipo, altro in tutto e per tutto altro, diverso e perciò nuovo. E nuovo perché fresco, perché vivo davvero. Questa vita d’orgoglio, di sensualità, d’egoismo, era una parvenza di vita, una illusione: febbre più che vita vera e propria. Il febbricitante non s’accorge sempre della sua febbre, non se ne accorge subito: ma a poco a poco sì: l’organismo si strugge; si fiacca. Nostro Signore Gesù è venuto ad uccidere e vivificare; uccidere quella vecchia infelicissima incrostazione di cattive consuetudini ch’era la umanità, e far vivere su quelle rovine, di quelle rovine una umanità nuova… nuova di zecca, e nuova per sempre. Noi siamo, noi dobbiamo essere questa umanità, perennemente viva e fresca, perché perennemente buona, vittoriosa del male e sul male. Il battesimo fa questa morte e questa vita nuova, ma dal battesimo in poi noi non dobbiamo invecchiare, tornando indietro, ringiovanire dobbiamo, andando avanti, andando in su « in novitate vite ambulemus ». E la nostra novità è la nostra giovinezza perenne.

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Ar.Mediolani, 1-3-1938]

Graduale

Ps LXXXIX: 13; LXXXIX: 1 Convértere, Dómine, aliquántulum, et deprecáre super servos tuos.

V. Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie. Allelúja, allelúja.

[Vòlgiti un po’ a noi, o Signore, e plàcati con i tuoi servi.

V. Signore, Tu sei il nostro rifugio, di generazione in generazione. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XXX: 2-3 In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me: inclína ad me aurem tuam, accélera, ut erípias me. Allelúja.

[Te, o Signore, ho sperato, ch’io non sia confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e allontanami dal male: porgi a me il tuo orecchio, affrettati a liberarmi Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Marcum.

Marc. VIII: 1-9 In illo témpore: Cum turba multa esset cum Jesu, nec haberent, quod manducárent, convocatis discípulis, ait illis: Miséreor super turbam: quia ecce jam tríduo sústinent me, nec habent quod mandúcent: et si dimísero eos jejúnos in domum suam, defícient in via: quidam enim ex eis de longe venérunt. Et respondérunt ei discípuli sui: Unde illos quis póterit hic saturáre pánibus in solitúdine? Et interrogávit eos: Quot panes habétis? Qui dixérunt: Septem. Et præcépit turbæ discúmbere super terram. Et accípiens septem panes, grátias agens fregit, et dabat discípulis suis, ut appónerent, et apposuérunt turbæ. Et habébant piscículos paucos: et ipsos benedíxit, et jussit appóni. Et manducavérunt, et saturáti sunt, et sustulérunt quod superáverat de fragméntis, septem sportas. Erant autem qui manducáverant, quasi quatuor mília: et dimísit eos.

(In quel tempo: Radunatasi molta folla attorno a Gesú, e non avendo da mangiare, egli, chiamati i discepoli, disse loro: Ho compassione di costoro, perché già da tre giorni sono con me e non hanno da mangiare; e se li rimanderò alle loro case digiuni, cadranno lungo la via, perché alcuni di essi sono venuti da lontano. E gli risposero i suoi discepoli: Come potremo saziarli di pane in questo deserto? E chiese loro: Quanti pani avete? E risposero: Sette. E comandò alla folla di sedersi a terra. E presi i sette pani, rese grazie e li spezzò e li diede ai suoi discepoli per distribuirli, ed essi li distribuirono alla folla. Ed avevano alcuni pesciolini, e benedisse anche quelli e comandò di distribuirli. E mangiarono, e si saziarono, e con i resti riempirono sette ceste. Ora, quelli che avevano mangiato erano circa quattro mila: e li congedò).

Omelia

G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956).

LA FAME DELLE TURBE

Migliaia di persone avevano seguito Gesù in un luogo deserto, lontano dall’abitato. Eran tre giorni che lo seguivano: eppure non sentivano che il desiderio di rimanere con Lui, di udire la sua parola, di imparare le opere di salvezza. Ma al terzo giorno il Signore ebbe pietà di loro: « Da tre giornate sono con me e ora non hanno di che mangiare! Se li rimandassi digiuni perirebbero nel ritorno, poiché molti sono venuti da lontano ». Ordinò allora di farli sedere tutti in terra, sull’erba verde. Ma non si trovarono che sette pani e pochi pesciolini, ed erano migliaia di bocche. Non importa: Gesù benedice quel poco che c’era e lo distribuisce. Ecco: quattro mila persone si saziano e sopravanzano sette panieri di roba. In questo episodio evangelico, più che la miracolosa moltiplicazione dei pani, ci deve stupire come le turbe per tre giorni non abbiano avuto fame che di Gesù, della sua parola, delle sue opere. Oggi invece il mondo non ha che una brama sola: arricchire e godere. I luoghi di divertimento e di traffico brulicano giorno e notte, mentre Gesù Eucaristico è abbandonato nel suo tabernacolo, mentre i sacerdoti invano ripetono le parole di Dio, mentre le opere che dànno gloria al Signore sono trascurate. Bisogna ridestare in noi la mirabile fame di quelle turbe, Fame dell’Eucaristia: perché chi non mangia di questo Cibo morrà in eterno. Fame della parola di Dio: perché non di pane materiale soltanto ha bisogno l’uomo, ma anche e soprattutto di una parola che scende dalle labbra del Signore. Fame di opere buone, perché sono l’unico tesoro che la morte non distruggerà. – 1. FAME DELL’EUCARISTIA. Nei primi decenni del sec. XV, predoni di terra e di mare avevano invaso la Groenlandia, messo a fil di spada una parte della popolazione cristiana, e il rimanente tratto in schiavitù. Tutte le chiese erano state rase al suolo e tutti i Sacerdoti uccisi. Più volte i poveri Groenlandesi avevano ricorso a Roma, dov’era Papa Innocenzo VIII, ma inutilmente. Il mare tutto all’intorno della loro inospite spiaggia s’ara agghiacciato così che da ottant’anni nessuna nave straniera aveva potuto approdare. Privi di Vescovo e di Sacerdoti, molti già avevano dimenticata la fede dei loro padri, ritornando ai vizi del paganesimo. Solo pochi avevano saputo conservarsi fedeli alla Religione. Essi avevano ritrovato un corporale, quello su cui nell’ultima Messa celebrata dall’ultimo prete groenlandese aveva riposato il Corpo del Signore. Ogni anno lo esponevano alla pubblica venerazione: intorno ad esso i vecchi tremando e piangendo pregavano, intorno ad esso le mamme conducevano i loro figliuoli perché imparassero a conoscere Gesù. Intorno ad esso, tutti si stringevano come affamati intorno a una bianca mensa su cui non era rimasto più se non il profumo della vivanda: «Signore! — esclamavano — mandaci presto il Sacerdote che consacri, dacci ancora, una volta almeno, la tua Carne da mangiare e il tuo Sangue da bere, altrimenti anche noi perderemo la fede, e morremo da pagani » (L. PASTOR, Storia dei Papi, vol. III, pagg. 448-449). – Come ci deve far meditare quest’episodio commovente! Noi abbiamo Gesù sempre vicino a noi. Eppure pensate quante chiese rimangono deserte per tutta la giornata, senz’altro segno di vita che una fiammella che trema sull’altare. Pensate al numero grande dei Cristiani che nelle città tumultuose ha dimenticato perfino di fare Pasqua. Pensate a tutti quelli che lo ricevono senza voglia, una volta all’anno, con il cuore freddo e immerso nei desideri mondani e magari peccaminosi. Pensate a tutte le volte che noi avremmo potuto riceverlo e non l’abbiamo ricevuto. Non l’abbiamo ricevuto per la pigrizia di levarci mezz’ora prima dal sonno, non l’abbiamo ricevuto per rispetto umano, temendo quasi d’apparire bigotti; non l’abbiamo ricevuto perché a Gesù preferimmo tenere in cuore quella relazione illecita, quell’affetto impuro; quel rancore vendicativo. Gli uomini non hanno più fame del Pane di vita: come faranno a vivere? – 2. FAME DELLA PAROLA DI DIO. S. Efrem, stando in orazione, sentì una voce che diceva: « Efrem, mangia ». Stupito di quel grido e non sapendo donde venisse, il santo rispose: « E che cibo mi darai? ». La voce allora aggiunse: « Va’ da Basilio: egli ti istruirà e ti porgerà il cibo eterno ». Subitamente corse in cerca del Vescovo Basilio e lo trovò in chiesa che predicava. Allora conobbe che la parola di Dio era il cibo che doveva mangiare. Come il pane materiale è necessario per sostentare il corpo, così la divina parola è necessaria per sostentare l’anima. Un’anima priva di questo spirituale alimento si consuma di fame e va miseramente a perire. Perché in tanti Cristiani la fede è illanguidita, così da far temere per la loro eterna salvezza? Perché non hanno più fame della parola di Dio. Come non si può tenere accesa una lampada senza versarci ogni giorno un po’ d’olio, così in mezzo ai pericoli del mondo è impossibile conservare la fede senza ascoltare le prediche e la spiegazione della dottrina cristiana. E senza la fede non si può né piacere a Dio né entrare in paradiso. La parola di Dio non solo è necessaria per illuminare la mente, ma anche per fortificare la nostra volontà nel bene. La terra, quando non è bagnata dall’acque isterilisce e non produce che rovi e spine; così anche il nostro cuore, quando la celeste rugiada della parola di Dio non lo fecondi più. Eppure ci sono dei Cristiani che non solo hanno dimenticato l’obbligo della dottrina cristiana, del quaresimale, delle Missioni, ma non vogliono ascoltare più nemmeno la spiegazione del Vangelietto festivo. A costoro ripeterò alcune terribili parole di s. Ilario. Mentre saliva il pulpito s’accorse che alcune persone uscivano dalla chiesa per non annoiarsi della predica che stava per fare. Egli le fermò sulla soglia e gridò: « Ora potete ben fuggir dalla Chiesa, ma un giorno non potrete più uscir dall’inferno ». – 3. FAME DI OPERE BUONE. S. Benedetto aveva preannunciato il momento della sua morte. I discepoli lo sostenevano, ed egli, levate le mani in cielo, pregando morì. Due frati in quel momento ebbero una visione: videro una via piena di molti stendardi tutta splendente; essa partiva dalla cella di Benedetto e allungandosi verso oriente attingeva il cielo. Intanto s’udì una voce dall’alto che disse: « Questa è la via che Benedetto si è preparato con le sue opere durante la vita: per essa ora ascenderà al Cielo ».  Se la morte ci colpisce quest’oggi, quali stendardi ci sarebbero sulla via dell’eternità a dir le nostre opere buone? Che cosa abbiamo fatto finora di bene? Tanta smania di riempire i granai, di mettere danari alle banche, di farci un posto più comodo nel mondo e nessuna briga di radunare qualche cosa per la vita eterna, e farci un posto nel cielo. Eppure, di tutte le cose terrene non una ci potrà confortare nel terribile momento della morte, mentre invece anche il più piccolo atto buono assumerà allora un gran valore. Dobbiamo desiderare di farci dei meriti presso il Signore, dobbiamo aver fame delle opere di giustizia e di misericordia. Voi forse vi abbandonate ai balli, ai teatri; e intanto ci sono degli orfani che muoiono di fame, e intanto c’è un missionario che vede le anime perire e non le può salvare per mancanza di mezzi. Voi forse passate la vita nei caffè, nei ritrovi, e bevete fino a sazietà e più ancora; e intanto c’è un povero vecchio infermo che desidererebbe una goccia di vino per scaldarsi le vene e non l’ha. – Voi forse tutta la domenica consumate in gite sui monti o sui laghi e poi non c’è tempo di visitare un ammalato, e di fargli dimenticare almeno per un istante la sua infelicità. Voi forse sprecate danaro e danaro in abiti sfarzosi, in feste magnifiche, in profumi, in fiori e ci sono le opere della vostra parrocchia che languiscono per mancanza di chi le sostenga. Intanto che possiamo, facciamo opere buone, che tutte le troveremo, come San Benedetto sulla splendida strada che ci condurrà alla vita eterna. Imitiamo le turbe. Cerchiamo prima Gesù; la sua parola, il suo regno, ed il pane materiale ci verrà dato per giunta. – LA PROVVIDENZA. Si studiassero i miracoli di Cristo! Ognuno vi sentirebbe la voce di Dio — dice S. Agostino, — ognuno vi troverebbe un profondo insegnamento per la sua anima. Interrogemus ipsa miracula Christi; habent enim, si intelligantur, linguam suam. Quand’è così, rivolgiamo la nostra attenzione al miracolo che oggi il Vangelo ci ricorda, e raccogliamo la voce e l’insegnamento del Signore, in esso racchiuso. Gesù si trovò circondato da moltitudine grande, che per tre giorni lo seguì bramosa d’udire ogni parola che dicesse, di vedere ogni gesto che facesse. Allora il Signore disse ai discepoli raccolti vicino a Lui: « Sentite: io ho compassione di questo popolo che da tre giorni si trattiene con me, ed ora non ha più da mangiare. Con che cuore posso io rimandarli a casa digiuni, se molti venuti da lontano cadranno sfiniti lungo la strada del ritorno?… ».— « Maestro! — obiettarono i discepoli tristemente. — Siamo nel deserto e son quattro mila bocche… ». Ma Dio non udiva nemmeno questi dubbi umani e piccini. « Ditemi: avete con voi qualcosa? ». « Sette pani e scarsi pesciolini di companatico ». Oh Cristiani, com’è buono il Signore; non ha sopportato nemmeno che stessero in piedi; e come li vide comodamente seduti all’ombra e sulla fresca erbetta, diede a ciascuno pane e pesce a sazietà. A colazione finita, si raccolsero nientemeno che sette ceste di roba avanzata. Ed ora, secondo il consiglio di S. Agostino, interroghiamo il miracolo di Cristo per sentire che insegnamento ci dà. Migliaia d’uomini che per seguire Gesù abbandonano le loro case, senza pensare al vitto e alle altre mondane faccende; un Dio che, mosso a compassione di loro, provvede miracolosamente, sovrabbondantemente alla loro fame: tutto ciò non ci predica ad alta voce che la Provvidenza c’è e che nostro indispensabile obbligo è di confidare in Lei?1. LA PROVVIDENZA C’È. Troverete moltissimi Cristiani che, fino a quando tutto va bene, se la spassano allegramente: e non riflettono che ogni loro fortuna è dono della Provvidenza. Perciò non un pensiero mai di gratitudine per il Signore, non uno sforzo di corrispondenza a tante grazie, non un’offerta… Ma lasciate che la miseria bussi alla porte della loro casa; che la disoccupazione inaridisca le fonti d’entrata; che la malattia li costringa in un letto di sofferenze per settimane lunghe, che la morte strappi a loro dintorno qualche persona cara, allora si ricorderanno tosto della Provvidenza, ma per mormorare contro di essa, ma per calunniarla, ma per bestemmiarla, ma per negarla. « La Provvidenza perché non m’aiuta? che cosa ho fatto di male da meritarmi queste tribolazioni? son io solo peccatore su questa terra? O la Provvidenza è ingiusta o non c’è… ». La Provvidenza non c’è!? credono che uno Stato non si possa possa ben governare senza la saviezza e il consiglio di uno che lo diriga; credono che una casa non possa mantenersi senza la vigilanza ed economia d’un padre di famiglia; credono che una nave non possa navigare l’oceano senza l’attenzione e la perizia del pilota; eppure affermano che il mondo — questo grande stato, questa grande famiglia, questa nave immensa che solca gli spazi — possa andare avanti così, senza Provvidenza alcuna. Ma non è a codesta gente illogica e senza coerenza, che noi andiamo a chiedere se la Provvidenza esista. Ben altri ce ne fanno testimonianza sicura e autorevole. È Giobbe, privato di terra e di casa, senza più danaro né figli, senza nemmeno la salute e l’onore, che a Sofar, uno dei tre amici venuti a trovarlo, così afferma la Provvidenza: … interroga le bestie e ti ammaestreranno, / gli uccelli dei cieli e te lo mostreranno; / parlane alla terra, ed essa ti risponderà / e te lo spiegheranno i pesci del mare. / Chi non sa che tutte queste cose / le ha fatte la mano del Signore? / Egli nel cui potere è l’anima d’ogni vivente / e lo spirito d’ogni uomo formato di carne. (Giob., XII, 7-10) – È il santo re Davide che, raccogliendo il suo popolo, diceva: « Son vecchio ormai, e dalla mia giovinezza ne sono passati degli anni!… eppure vi garantisco che un uomo giusto non lo vidi mai abbandonato, né vidi mai un suo figliuolo mendicare un tozzo di pane » (Salmo XXXVI, 25). L’amabilissimo Gesù riprese l’invito di Giobbe e interrogò le bestie della terra e gli uccelli dell’aria. « Non v’angustiate per il vostro vivere: di quel che mangerete. Né per il vostro corpo: di quel che vestirete. Guardate gli uccelli dell’aria che non seminano, né mietono, né colmano granai, eppure il Padre celeste li nutre. Pensate i gigli come crescono, eppure né lavorano, né filano: or vi dico che nemmeno Salomone, in tutta la sua splendidezza, fu vestito mai come uno di essi… « Considerate i corvi che non hanno campi né granai, e di fame non muoiono, poiché Dio li mantiene… « Del resto cinque passerette non si possono comprare sul mercato con un solo quattrino? eppure neanche una di essa è dimenticata da Dio. Non temete dunque! voi costate assai più d’infiniti passeri… « Ma io vi dico che tanta e tale è la cura della Provvidenza per voi, che i vostri capelli sono contati fino all’ultimo, e non uno vi sarà tolto dal capo senza che Dio lo sappia… ». Dio!… Nessuno ha potuto mai dubitare della sua potenza e della sua sapienza. Ma Gesù ci ha svelato che Egli è misericordiosissimo, Gesù ha voluto che noi levassimo gli occhi e le mani a Lui e lo chiamassimo: — Padre! Padre nostro che sei in cielo…. Si può ancora essere increduli della Provvidenza, se Dio è nostro Padre? C’è un padre che a suo figlio dà uno scorpione, se gli domanda un pesce? a sua figlia dà un sasso, se gli domanda un pezzo di pane? Dunque la Provvidenza c’è. – 2. AFFIDIAMOCI AD ESSA. Una volta che Santa Caterina era assai tribolata, Gesù le apparì e disse: « Tu pensa a me! Io, sollecito d’ogni tuo cruccio, penserò a te ». Ecco il segreto per metterci nelle mani della Provvidenza. Quando le croci, le disgrazie, le persecuzioni ci fanno pressura d’ogni parte, dimentichiamole per un momento e mettiamoci a pensare seriamente al Signore; a pregarlo, ad onorarlo con opere buone, ad ubbidirlo nelle sue leggi, ed Egli, che tutto può, comincerà a pensare alle nostre croci, alle disgrazie nostre, alle persecuzioni che ci tormentano. Guardate i quattromila Giudei che seguirono il Maestro nel deserto: quando si accorsero d’aver fame e di non aver pane e di essere lontani d’ogni panettiere, forse che incominciarono a temere di morir affamati, e fuggirsene indietro, a bestemmiare contro il Figlio di Dio che li aveva ingannati? No: essi pensarono solo ad ascoltare la parola di Gesù, a imparare i suoi esempi; così furono provveduti di tutto e ne sopravanzò. Se Dio è con noi, chi potrà essere contro di noi? non la fame, non la miseria, non la malattia, non la calunnia, non la morte. Ricordate del resto che alla Provvidenza sapientissima è bastato un filo di ragno per difendere un santo da frotte di omini con lancia e spada. Uditelo l’esempio di S. Felice di Nola, di cui vi gioverà, nei momenti di sfiducia, il ricordarvi! Già da tempo era cercato a morte, ed egli costretto a fuggire da un luogo all’altro, era giunto a ripararsi in un nascondiglio tra le muraglie sfasciate. Era appena entrato che sopraggiunsero i nemici; ma intanto un ragno s’era calato da una crepa e distendeva i primi fili attraverso l’ingresso del rifugio di S. Felice. « Qui è impossibile sia entrato! — esclamarono. — Non vedete come sono intatti i fili del ragno? », e passarono via. E Felice fu salvo una volta ancora. Senza una illimitata fiducia nella Provvidenza, come vi spieghereste le imprese dei santi, la loro forza, la loro serenità? S. Giovanni Crisostomo viveva abbandonato nelle braccia di Dio, come un bimbo sul seno materno. Si era fatto un motto di questo suo stato d’animo: « sia glorificato Iddio in ogni evento » e lo ripeteva con la stessa pace nei giorni più oscuri e nei più luminosi della vita. « Glorificato Iddio! » disse quando nell’entusiasmo del popolo lo consacrarono Vescovo. « Glorificato Iddio! » disse ancora quando le folle traevano al suo pulpito bramose d’ascoltarlo e gli stilografi raccoglievano velocemente ogni parola che cadesse dalla sua bocca d’oro. « Glorificato Iddio! » ripeté anche quando cacciato in esilio dalla perfida imperatrice Eudossia, volgendosi indietro vide la sua chiesa di S. Sofia, il suo palazzo ruinare in fiamme tra le urla del popolo e dei soldati. E quando, il 14 settembre 407, legato e malmenato mentre lo spingevano verso Pitio sul Mar Nero, fu sorpreso dai dolori di morte, raccolse le ultime forze e disse ancora: « Glorificato Iddio in ogni evento ». – Senza la fiducia nella Provvidenza, come S. Camillo de Lellis, S. Gerolamo Miani, S. Giovanni Bosco, il Cottolengo avrebbero potuto ricoverare e mantenerne migliaia di persone, migliaia di infelici? Leggete le loro storie: giungevano certe sere in cui il danaro mancava, il vestito mancava, la farina mancava: soltanto non mancava la fiducia nella Provvidenza. E la Provvidenza provvedeva farina, vestito, danaro. Considerate infine chi sono quelli che negano la Provvidenza: o sono i disperati incapaci di sopportare il peso della loro vita, incapaci di avere un po’ di coraggio per qualsiasi cosa buona, o sono gente che pone la propria fiducia in altri uomini. Scuotono il giogo di Dio, grande e paterno, per imporsi il giogo di omuncoli, gretti e invidiosi. Maledictus homo qui confidit in homine (Gerem., XVII, 5). – Ho serbato, in ultimo, la difficoltà più grave: quella che ciascuno di voi aveva sulla punta della lingua e m’avrebbe già rivolto fin dal principio, se l’avesse potuto. « Se la Provvidenza c’è, perché allora mi ha messo in queste angosciose circostanze? Se Dio è padre, perché non m’aiuta? ». Dici bene: Dio è padre. Anzi è madre. Ma qualche volta anche le madri, per addestrare i loro bambini, fingono di abbandonarli, correndo a rimpiattarsi in qualche luogo vicino. E il loro cuore materno freme di gioia udendosi chiamare con tanta forza d’amore dalla loro creatura spaurita, e non tardano a volare ad essa, stringendosela fortemente, levarle dagli occhi con le dita le lagrime grosse. Così, mi pare, Dio fa talvolta con noi. Si nasconde, finge di abbandonarci nella solitudine: ma i nostri gemiti spauriti fanno fremere il suo Cuore misericordiosissimo. Coraggio; noi non lo vediamo: ma ci è vicino, e non tarderà a riabbracciarci più fortemente, a rasciugarci colle sue mani onnipotenti e materne le nostre lagrime grosse. « Oh se io avessi un segno — dirà forse qualcuno di voi, — se io avessi almeno un segno che mi rassicurasse che è proprio così, sentirei la forza necessaria a portare la mia croce, aspettando in tranquillità… ». E il segno l’avete: il Crocifisso. Guardate il Crocifisso. Se il Padre che è nei cieli ha lasciato il suo Unigenito morire inchiodato per nostro amore, forse che non avrà provvidenza di noi? — LA MISERICORDIA DI DIO. Misereor super turbam. Ho compassione di questo popolo che cammina e non ha da mangiare. La Storia Sacra ci presenta spesso gli uomini stanchi in cammino. Ora sono gli Israeliti per quarant’anni vaganti verso una terra di beatitudine promessa: e Dio li sostentò di manna. Ora è il vecchio profeta perseguitato che, spossato dalla fuga, si abbandona sulla terra, sotto un albero, aspettando la morte; e Dio lo confortò con pane e con vino. E nel Vangelo, due volte le turbe sono sorprese dalla fame nel deserto: e due volte Gesù le nutre di pane e di pesce. Questa gente in viaggio verso un arduo destino è un simbolo dell’umanità che ascende verso la salute eterna. Ma nessuno vi potrebbe giungere, se Dio non avesse misericordia di noi, Consideriamo le tre espressioni più grandi di questa divina misericordia: la pazienza col peccatore; la confessione; la comunione. – 1. LA PAZIENZA DI DIO COL PECCATORE La vita del Venerabile Queriolet, contemporaneo di S. Vincenzo de’ Paoli, ne è la più bella prova: si direbbe inventata per questo se non fosse veramente testimoniata dai suoi biografi. Fino a 30 anni, quest’anima impetuosa aveva vissuto in una continua alternativa di confessioni e di peccati. Poi fu preso da un tale odio satanico contro Cristo, che partì verso Costantinopoli per farsi maomettano. Dio l’aspettava sul cammino: in una foresta di Germania fu assalito dagli assassini, che uccisi i due compagni suoi, lui pure volevano finire. Davanti alla morte Queriolet tremò e fece voto alla Vergine di convertirsi se avesse potuto scampare. E scampò. Ma non si convertì: e non avendo potuto farsi maomettano, tornò in Francia e si fece ugonotto. Ma Dio lo rincorreva come il pastore dietro all’agnello che disvia. Una notte oscura di temporale è svegliato da un fragore scrosciante; il fulmine era caduto sulla sua casa ed abbruciava il tetto e il soffitto; pioveva dentro. Queriolet balza come una belva, stringe i pugni e bestemmia. Ma Dio non è sfiduciato, non è stanco di lui, lo persegue anche quando il più umile degli uomini già si sarebbe vendicato almeno col disinteressamento. A Loudun una povera donna sconosciuta lo ferma e gli dice: « Tu hai un voto senza compimento: ti ricordi la foresta di Germania quando ti volevano finire? ». Queriolet trema come in quel giorno tra le mani dei briganti. Come mai quella donna sapeva quello che egli a nessuno aveva svelato? Forse Dio suscitava quella donna per lui? Ma Dio, dunque, aveva ancora misericordia da chiamarlo così? Questo pensiero lo vinse: finalmente. E dopo alcuni anni Queriolet, risorto per non più cadere, meraviglia tutti con le sue virtù. Quel Dio che, agli angeli caduti una sola volta, non diede perdono, ha compassione dell’uomo ogni volta che lo vede traviare. Questo pensiero vinca pure ogni nostra diffidenza: in qualsiasi foresta di peccati ci fossimo smarriti, avessimo incappato anche nel demonio assassino d’anime, torniamo a Dio, Egli ci aspetta. – 2. LA MISERICORDIA DI DIO NELLA CONFESSIONE. I poeti antichi cantavano di una fontana misteriosa che gli dei avevano largito agli uomini: la fontana della giovinezza. I vecchi, quando v’entravano, lasciavano le rughe e gli acciacchi e riuscivano brillanti di giovinezza, cinti del diadema del loro ventesimo anno. Gli ammalati pallidi e stremati riuscivano col colore e col vigore della sanità. Oh, con quanto ardore i vegliardi tremuli si volgevano indietro, dal freddo orlo della tomba, sospirando a questa fontana misteriosa. Quante volte gli inquieti infermi dal loro letto vi sospiravano! Ma invano. Questa fontana zampillava solo nella mente dei poeti e distendeva le sue acque solo nei loro carmi. Quello però che gli dei falsi non avevano saputo dare ai loro amici, il nostro Dio vero l’ha preparato per i suoi nemici. Sì, l’uomo che col peccato, diventando nemico di Dio, diventa pure vecchio, rugoso, brutto e malato, ha nella Confessione una fontana di giovinezza che facendolo amico di Dio, lo rifà giovane e brillante. I Giudei avevano molta superbia per una vasca con cinque portici, a Betsaida. Talvolta lo Spirito scendeva a commuovere lo specchio dell’acqua: chiunque si fosse allora gettato dentro nel bagno, sarebbe stato guarito da qualsiasi male. Ma Dio è stato più misericordioso con noi: ci ha dato una vasca, dove, non appena in certe rare ore, ma sempre, facilmente ci guarisce dal male del peccato: la Confessione. S. Giovanni nella sua prima lettera afferma: «Il sangue di Gesù Cristo ci lava da ogni peccato » e nell’Apocalisse dice: « Ci ha lavati dai nostri peccati nel suo sangue ». Il romanziere francese, Paolo Bourget, prima della sua conversione scriveva: « Mio Dio! se ci fosse qualche acqua salutare in cui annegare il ricordo di tutte le febbri malsane!… Ma quest’acqua non esiste ». Sì, sì! esiste. La Confessione, – 3. LA MISERICORDIA DI DIO NELLA COMUNIONE. Ci fu una volta un figliuolo, che nonostante fosse idolatrato da suo padre, pure fuggì di casa, e con i suoi amici se ne andò in terra lontana. Fuori dallo sguardo paterno, senza freno e senza ritegno, commise ogni turpitudine, e accontentò il capriccio di ogni passione. Ma in quella terra lontana passò la carestia, e quel figliuolo fu sorpreso senza un soldo e senza un pane. E dovette girare di paese in paese, stracciato, lurido, famelico, cercando un mestiere. E trovò soltanto un uomo che gli fece fare il porcaio. E quel figliuolo fuggito da una ricca casa faceva il porcaio e aveva fame: di soppiatto allungava le mani nel trogolo e rubava le ghiande. Avrebbe desiderato, riempirsi il ventre anche con le ghiande che mangiavano i porci, e nessuno glie ne dava, neppure una manata. – Un giorno che la fame lo martoriava si ricordò che nella casa del suo ricco padre c’era pane bianco: tanto pane bianco. Si ricordò che tutti, perfino i servi ne potevano mangiare a sazietà… Non ne poté più. Buttò il suo bastone in mezzo ai porci che grugnivano e fuggì attraverso i prati lanciando un grido sublime. « Basta, tornerò da mio Padre ». Cristiani! quand’anche noi fossimo fuggiti dalla paterna casa di Dio verso la città dei peccati, quand’anche avessimo riempito la nostra anima col cibo dei porci e avessimo tuffato le nostre mani nel loro trogolo, gridiamo: « Basta! ». Il pensiero del Pane che la misericordia di Dio con tanta abbondanza distribuisce nella sua casa, il pensiero di questo Pane, che solo ci può sfamare, ci spinga ritornare sopra un via di santità e di purezza. Dio ci aspetta nella Comunione: nella Comunione che è il segno supremo del suo amore. Nella Comunione ha voluto rimanere con noi: « le mie delizie sono tra i figli dell’uomo ». Nella Comunione ha voluto sacrificare tutto per noi: la sua gloria divina, la sua maestà umana. E da infinito si fece piccolo come un boccone di pane. Nella Comunione ha voluto darci da mangiare la sua carne e da bere il suo sangue. – Meditando la misericordia di Dio, S. Caterina esclamava: « Oh, s’io potessi salire la vetta più eccelsa e di là gridare a tutto il mondo addormentato nei peccati: — O uomini! l’Amore non è amato! — ». Davvero. L’amore di Dio è troppo spesso un pretesto per abusare. E si abusa della sua pazienza, della Confessione e della Comunione.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XVI: 5; XVI: 6-7 Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine.

[Rendi fermi i miei passi sui tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino: porgi l’orecchio ed esaudisci la mia preghiera: fa risplendere le tue misericordie, o Signore, Tu che salvi quelli che sperano in Te.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, et has pópuli tui oblatiónes benígnus assúme: et, ut nullíus sit írritum votum, nullíus vácua postulátio, præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche, e accogli benigno queste oblazioni del tuo popolo; e, affinché di nessuno siano inutili i voti e vane le preghiere, concedi che quanto fiduciosamente domandiamo realmente lo conseguiamo.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXVI: 6 Circuíbo et immolábo in tabernáculo ejus hóstiam jubilatiónis: cantábo et psalmum dicam Dómino.

[Circonderò, e immolerò sul suo tabernacolo un sacrificio di giubilo: canterò e inneggerò al Signore].

Postcommunio

Orémus.

Repléti sumus, Dómine, munéribus tuis: tríbue, quæsumus; ut eórum et mundémur efféctu et muniámur auxílio.

[Colmàti, o Signore, dei tuoi doni, concédici, Te ne preghiamo, che siamo mondati per opera loro e siamo difesi per il loro aiuto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA V DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA V DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La liturgia di questa Domenica è consacrata al perdono delle offese. La lettura evangelica mette in risalto questa lezione non meno che quella d’un passo delle Epistole di S. Pietro, la cui festa è celebra in questo tempo: infatti la settimana della V Domenica di Pentecoste era in altri tempi detta settimana dopo la festa degli Apostoli. – Quando David riportò la sua vittoria su Golia, il popolo d’Israele ritornò trionfante nelle sue città e al suono dei tamburi cantò: « Saul ha ucciso mille e David diecimila! ». Il re Saul allora si adirò e la gelosia lo colpì. Egli pensava: « Io mille e David diecimila: David è dunque superiore a me? Che cosa gli manca ormai se non d’essere re al mio posto? » Da quel giorno lo guardò con occhio malevolo come se avesse indovinato che David era stato scelto da Dio. Così la gelosia rese Saul cattivo. Per due volte mentre David suonava la cetra per calmare i suoi furori, Saul gli lanciò contro il giavellotto e per due volte David evitò il colpo con agilità, mentre il giavellotto andava a conficcarsi nel muro. Allora Saul lo mandò a combattere, sperando che sarebbe rimasto ucciso. Ma David vittorioso tornò sano e salvo alla testa dell’esercito. Saul allora ancor più perseguitò David. Una sera entrò in una caverna profonda e scura, ove già si trovava David. Uno dei compagni disse a quest’ultimo: « È il re. Il Signore te lo consegna, ecco il momento di ucciderlo con la tua lancia ». Ma David rispose: « Io non colpirò giammai colui che ha ricevuto la santa unzione e tagliò solamente con la sua spada un lembo del mantello di Saul e uscì. All’alba mostrò da lontano a Saul il lembo del suo mantello. Saul pianse e disse: « Figlio mio, David, tu sei migliore di me ». Un’altra volta ancora David lo sorprese di notte addormentato profondamente, con la lancia fissata in terra, al suo capezzale e non gli prese altro che la lancia e la sua ciotola. E Saul lo benedisse di nuovo; ma non smise per questo di perseguitarlo. Più tardi i Filistei ricominciarono la guerra e gli Israeliti furono sconfitti; Saul allora si uccise gettandosi sulla spada. Quando apprese la morte di Saul non si rallegrò ma, anzi, si stracciò le vesti, fece uccidere l’Amalecita che, attribuendosi falsamente il merito di avere ucciso il nemico di David, gli annunciò la morte apportandogli la corona di Saul, e cantò questo canto funebre: « O montagne di Gelboe, non scenda più su di voi né rugiada, né pioggia, o montagne perfide! Poiché su voi sono caduti gli eroi di Israele, Saul e Gionata, amabili e graziosi, né in vita, né in morte non furono separati l’uno dall’altro » (Bisogna riaccostare questo testo a quello nel quale la Chiesa dice, in questo tempo, che S Pietro e S. Paolo sono morti nello stesso giorno). – Da tutta questa considerazione nasce una grande lezione di carità, poiché come David ha risparmiato il suo nemico Saul e gli ha reso bene per male, così Dio perdona anche ai Giudei; non ostante la loro infedeltà, è sempre pronto ad accoglierli nel regno ove Cristo, loro vittima, è il Re. Si comprende allora la ragione della scelta dell’Epistola e del Vangelo di questo giorno: predicano il grande dovere del perdono delle ingiurie… « Siate dunque uniti di cuore nella preghiera, non rendendo male per bene, né offesa per offesa » dice l’Epistola. « Se tu presenti la tua offerta all’altare, dice il Vangelo, e ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia la tua offerta davanti all’altare, e va prima a riconciliarti con tuo fratello ». — David, unto re di Israele. dagli anziani a Ebron, prende la cittadella di Sion che divenne la sua città, e vi pose l’arca di Dio nel santuario (Com.). Fu questa la ricompensa della sua grande carità, virtù indispensabile perché il culto degli uomini nel santuario sia gradito a Dio (id.). Ed è per questo che l’Epistola e il Vangelo ribadiscono che è soprattutto quando noi ci riuniamo per la preghiera che dobbiamo essere uniti di cuore. Senza dubbio la giustizia di Dio ha i suoi diritti, come lo mostrano la storia di Saul e la Messa di oggi, ma se esprime una sentenza, che è un giudizio finale, è soltanto dopo che Dio ha adoperato tutti i mezzi ispirati dal suo amore. Il miglior mezzo per arrivare a possedere questa carità è d’amare Dio e di desiderare i beni eterni (Or.) e il possesso della felicità (Epist.) nella dimora celeste (Com.), ove non si entra se non mediante la pratica continua di questa bella virtù.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI: 7; 9 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus.

[Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Ps XXVI: 1 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timébo?

[Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò?]

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus.

[Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Oratio

Orémus.

Deus, qui diligéntibus te bona invisibília præparásti: infúnde córdibus nostris tui amóris afféctum; ut te in ómnibus et super ómnia diligéntes, promissiónes tuas, quæ omne desidérium súperant, consequámur.

[O Dio, che a quanti Ti amano preparasti beni invisibili, infondi nel nostro cuore la tenerezza del tuo amore, affinché, amandoti in tutto e sopra tutto, conseguiamo quei beni da Te promessi, che sorpassano ogni desiderio.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet III: 8-15

“Caríssimi: Omnes unánimes in oratióne estóte, compatiéntes, fraternitátis amatóres, misericórdes, modésti, húmiles: non reddéntes malum pro malo, nec maledíctum pro maledícto, sed e contrário benedicéntes: quia in hoc vocáti estis, ut benedictiónem hereditáte possideátis. Qui enim vult vitam dilígere et dies vidére bonos, coérceat linguam suam a malo, et lábia ejus ne loquántur dolum. Declínet a malo, et fáciat bonum: inquírat pacem, et sequátur eam. Quia óculi Dómini super justos, et aures ejus in preces eórum: vultus autem Dómini super faciéntes mala. Et quis est, qui vobis nóceat, si boni æmulatóres fuéritis? Sed et si quid patímini propter justítiam, beáti. Timórem autem eórum ne timuéritis: et non conturbémini. Dóminum autem Christum sanctificáte in córdibus vestris.”

[Carissimi: Siate tutti uniti nella preghiera, compassionevoli, amanti dei fratelli, misericordiosi, modesti, umili: non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma al contrario benedite, poiché siete stati chiamati a questo: a ereditare la benedizione. In vero, chi vuole amare la vita e vedere giorni felici raffreni la sua lingua dal male e le sue labbra dal tesser frodi. Schivi il male e faccia il bene, cerchi la pace e si sforzi di raggiungerla. Perché gli occhi del Signore sono rivolti al giusto e le orecchie di lui alle loro preghiere. Ma la faccia del Signore è contro coloro che fanno il male, E chi potrebbe farvi del male se sarete zelanti del bene! E anche se aveste a patire per la giustizia, beati voi! Non temete la loro minaccia, e non vi turbate: santificate nei vostri cuori Gesù Cristo”].

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929]

LA PACE

Anche l’Epistola di quest’oggi è tolta dalla I. lettera di S. Pietro. È naturale che, scrivendo ai Cristiani dispersi dell’Asia minore, tenga sempre presente la condizione in cui si trovano: sono pochi fedeli tra numerosi pagani, e sono sotto la persecuzione di Nerone. Come devono diportarsi? devono vivere in stretta unione fra di loro, mediante la misericordia, la compassione, la condiscendenza; essendo stati chiamati al Cristianesimo a render bene per male, affinché abbiano per eredità la benedizione celeste. Non trattino con la stessa misura quelli che fanno loro del male. La vita felice è per chi raffrena la lingua, evita il male e procura di aver pace con il prossimo. Del resto i giusti non sono abbandonati dal Signore, e nessuno può loro nuocere, se sono zelanti del bene. Quanto alla persecuzione, beati loro se hanno a soffrire qualche cosa per la Religione cristiana. Siano, quindi, calmi, senza ombra di timore: onorino, invece, e temano Gesù Cristo. Anche noi, dobbiamo procurare di vivere una vita felice, per quanto è possibile tra le miserie e le persecuzioni di questo mondo. Sforziamoci di vivere in pace, ciò che ci è possibile con l’aiuto di Dio, anche tra le tempeste di quaggiù.

Graduale

Ps LXXXIII: 10; 9

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice super servos tuos.

[O Dio, nostro protettore, volgi il tuo sguardo a noi, tuoi servi]

V. Dómine, Deus virtútum, exáudi preces servórum tuórum. Allelúja, allelúja

[O Signore, Dio degli eserciti, esaudisci le preghiere dei tuoi servi. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XX: 1

Alleluja, alleluja Dómine, in virtúte tua lætábitur rex: et super salutáre tuum exsultábit veheménter. Allelúja.

[O Signore, nella tua potenza si allieta il re; e quanto esulta per il tuo soccorso! Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt. V: 20-24

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nisi abundáverit justítia vestra plus quam scribárum et pharisæórum, non intrábitis in regnum coelórum. Audístis, quia dic tum est antíquis: Non occídes: qui autem occídent, reus erit judício. Ego autem dico vobis: quia omnis, qui iráscitur fratri suo, reus erit judício. Qui autem díxerit fratri suo, raca: reus erit concílio. Qui autem díxerit, fatue: reus erit gehénnæ ignis. Si ergo offers munus tuum ad altáre, et ibi recordátus fúeris, quia frater tuus habet áliquid advérsum te: relínque ibi munus tuum ante altáre et vade prius reconciliári fratri tuo: et tunc véniens ófferes munus tuum.”

(In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Se la vostra giustizia non sarà stata più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli. Avete sentito che è stato detto agli antichi: Non uccidere; chi infatti avrà ucciso sarà condannato in giudizio. Ma io vi dico che chiunque si adira col fratello sarà condannato in giudizio. Chi avrà detto a suo fratello: raca, imbecille, sarà condannato nel Sinedrio. E chi gli avrà detto: pazzo; sarà condannato al fuoco della geenna. Se dunque porti la tua offerta all’altare e allora ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta all’altare e va prima a riconciliarti con tuo fratello, e poi, ritornato, fa la tua offerta).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956).

A PROPOSITO DELLA CARITÀ CRISTIANA

« A proposito della carità cristiana, come stai di coscienza? ». « Quanto alla carità sono a posto: io non faccio del male a nessuno, sono gli altri invece che ne vogliono a me e me ne fanno; non tocco mai roba d’altri, sono gli altri che non rispettano la mia ». Se anche noi siamo tra questi che alla svelta e alla buona accomodano la coscienza su un punto estremamente delicato, rischiamo, secondo il Vangelo di questa Domenica, di finire in compagnia degli Scribi e dei Farisei. Dice infatti Gesù: « Se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Sapete che fu detto in antico: non uccidere, se non vuoi essere condannato. — Ma io vi dico che non basta più non uccidere per non essere condannati: bisogna non adirarsi, non insultare, non tenere rancore. Con questi sentimenti in cuore nessuno può degnamente avvicinarsi all’altare: ritorni indietro prima a riconciliarsi col suo fratello, e poi s’accosti al Signore ». La legge antica di Mosè, scritta per un popolo fanciullo e rozzo, colpiva gli atti e le abitudini esteriori; la legge nuova di Gesù, data ad uomini spiritualmente più sviluppati, colpisce più interiormente. Non basta tagliare la pianta, bisogna svellere dal suolo le recondite radici che la possono rigenerare. Le radici dell’omicidio o d’ogni rissa brutale e cruenta sono la collera e il rancore covati nell’animo. Gesù colpisce il peccato alla sua radice. Osserviamo con umile attenzione il nostro cuore, esaminando se non vi siano rimaste propaggini maligne o parassite pronte a esplodere in parole e in atti che offendono la carità. – Distinguerò tre qualità di cuori umani: cuore malevolo, un poco simile a quello dei farisei, che non fa il male, ma forse lo desidera e ha invidia del bene; cuore benevolo, simile a quello umile e mite di Gesù, pronto a compatire, aperto al soccorso generoso; tra questi due v’è il cuore indelicato che non ha sentimenti maligni, ma neanche le finezze della bontà cristiana. – 1. CUORE MALEVOLO. È quello che si fa un male del bene altrui: come Caino che si rodeva il cuore per la fortuna che toccava ai sacrifici di suo fratello, che riuscivano graditi a Dio. È quello che si fa una malattia della salute altrui: par quasi che il benessere degli altri sia sottratto a lui. È quello che si fa un’umiliazione delle lodi altrui: le sente come un’ombra che oscura le sue ostentate qualità, vorrebbe dissiparle rivelando difetti nascosti, colpe passate, ma senza farsi accorgere del suo malanimo. È quello che si sente lieto quando sopraggiunge qualche danno al prossimo e magari lo compiange ma con parole che nel loro tono tradiscono il maligno piacere che dentro gusta. Agli occhi di chi ha il cuore malevolo le virtù del prossimo prendono l’aspetto odioso del vizio. Ecco una persona pia che frequenta la Chiesa, e vive raccolta e laboriosa nella sua casa: ma agli occhi del malevolo essa è una bigotta ammuffita. Ecco una persona generosa che volentieri offre per le opere buone della parrocchia, per i poveri, per le missioni; ma agli occhi del malevolo essa è una vanitosa che desidera comparire e aspira a qualche ufficio onorifico. Se una persona è prudente e riservata per non mordere la fama di nessuno, subito vien giudicata doppia e infingarda. – 2. CUORE INDELICATO. Senza essere avviluppati da queste malevole radici, ci sono però molti cuori che non hanno delicatezza alcuna verso il prossimo e i suoi diritti. Pagano sempre i loro debiti, è vero: ma non si fanno scrupolo di pagare il più presto possibile, di regolare senza dilazioni infinite la fattura del commerciante. Non pensano gli incomodi che recano, i crucci che impongono, le bestemmie che fanno dire. Altri hanno l’istinto dell’onestà e non ruberebbero un quattrino. Ma se nel saldare un conto s’accorgono d’uno sbaglio in loro vantaggio, si guardano bene dall’avvisare, o dal portare indietro quelle lire che sono tenute indebitamente. Così senza rimorsi rimettono in circolazione le monete false, ingannando gli altri con la scusa di essere stati a loro volta ingannati. Altri ancora non defraudano la mercede agli operai o ai servi; ma credono d’essere furbi economi quando riescono a far lavorare il più possibile e a pagare il meno possibile, approfittando di circostanze speciali per sfruttare il dipendente. Non è economia questa, ma nel Cristianesimo si chiama ingiustizia. Ci sono di quelli che non maltrattano i loro dipendenti: ma non una parola di correzione spirituale, d’amore, di elevazione. Eppure, quanto bene potrebbero fare per la loro posizione sociale se provvedessero un poco anche all’educazione morale delle persone a loro sottomesse! E riguardo all’elemosina non c’è forse molto da rimproverarci? Se si scorge un povero per strada si passa a tempo sul marciapiede opposto e si volge altrove lo sguardo. Se gira di casa in casa la questua per qualche opera urgente della parrocchia, o raccomandata dall’Arcivescovo o dal Papa, ci sono porte sorde che non sentono battere. Ed è Cristo sofferente che chiede per via, è Cristo bisognoso che batte alla porta. – 3. CUORE BENEVOLO. Il gesto della donna pietosa che uscì incontro a Gesù grondante sudore e sangue, e gli asciugò col suo bianco lino il volto adorabile, non sarà più dimenticato. Ma anche la delicata giustizia, la fine carità con cui i cuori benevoli trattano e consolano il prossimo, non sarà mai dimenticata da Gesù. Il Cristiano sa bene che nel prossimo è ancora Gesù, quel Gesù che ha detto di fare agli altri come vorremmo che gli altri facessero a noi; e che ogni delicatezza usata verso il più misero degli nomini la riterrà rivolta verso di Lui. Due cose sa fare il cuore benevolo per conservare la pace, per diffondere la gioia in mezzo al prossimo. Sa sopportare, scusare, accettare volentieri e quasi con gioia tutti quei contrasti che dipendono da diversità di carattere. Soltanto facendo così è possibile la concordia nelle famiglie e tra gli amici. Sa inoltre sopportare, accogliere, accettare volentieri con indulgente affetto i contrasti voluti dal prossimo, non senza qualche malizia. Il cuore benevolo vince il male col bene. – S. Francesco di Paola fabbricava il suo monastero. Egli stesso lavorava come un semplice operaio. Un giorno, che trasportava sulle spalle una trave enorme, incontrò un amico pure gravato d’un peso. « Aiutami, amico! » supplicò il santo. Ma l’altro gli rispose: « Come volete che v’aiuti se io stesso sono insufficiente a portare il mio peso? ». Il santo insisté: « Aiutami, non essere di così poca fede! ». L’altro impietosito lasciò appoggiare la cima della trave enorme sulla sua spalla e la sentì leggera e sopportabile. Anzi sentì che anche il suo peso si era fatto lieve e con sua meraviglia s’accorgeva di camminare più speditamente di prima. Cristiani, se vogliamo che la vita ci diventi facile e gioiosa, curviamoci con carità cristiana verso il peso dei nostri fratelli. – – IL PERDONO. Qual è il comandamento più difficile della nostra santa religione? Non la verginità. Gesù l’ha insegnata ma non l’ha imposta a tutti. Le anime generose sono libere di consacrarsi a Dio attraverso questo occulto martirio. Non la povertà. Se Gesù dalla montagna disse che i poveri son beati, non comandò però che tutti vendessero la loro roba per distribuire il danaro ai poveri, ritirarsi poi negli eremi o nei conventi. Il comandamento più difficile del Cristianesimo è l’amore dei nemici. Questo è per tutti: non solo i frati, non solo le monache, ma tutti devono amare e perdonare ai loro nemici. – Gesù diceva alle turbe: « Avete sentito che bisognava amare il prossimo e si poteva odiare il nemico; ma Io vi dico: amate i vostri nemici, beneficate quelli che vi odiano, pregate per i vostri persecutori e calunniatori. Se la vostra giustizia sarà solo come quella dei farisei che amano gli amici e odiano i nemici, non entrerete mai nel paradiso. E quand’anche venite all’altare, con nelle mani un dono e con nel cuore un astio, tornate pure indietro che la vostra supplica non sarà ascoltata fin tanto che non avrete pace col vostro fratello ». Vade reconciliari fratri tuo. E non dice Cristo: … reconciliari inimico tuo perché tra i Cristiani, figli del medesimo Dio di carità, non dovrebbe esistere nemmeno la parola nemico, ma solo quella di fratello. Se alcuno nel suo cuore nutre un rancore, consideri come l’esempio di Dio, l’esempio dei santi, il nostro guadagno stesso ci spingono a perdonare. – 1. L’ESEMPIO DI DIO. Un re volle un giorno tirare i conti con i ministri. E cominciò da uno che gli doveva mille talenti; ma il poveretto non aveva nemmeno il becco di un quattrino. Il re, come era legge, comandò che fosse venduto lui, la sua donna, i suoi figli, la sua roba. Lo sventurato si buttò a terra, s’aggrappò ai ginocchi del sovrano, e tra i singhiozzi giurava che gli avrebbe reso fino l’ultimo soldo, purché avesse avuto pazienza d’aspettare. Il re, che aveva un Cuor d’oro, non solo pazientò un poco, ma sempre: e gli condonò tutto il debito. Quel ministro fece un salto di gioia e uscì. Combinazione volle che incontrasse un suo collega che gli doveva una somma di denari. Vederlo, saltargli addosso, fu la medesima cosa. E tenendolo per la strozza gli urlava negli orecchi: « Pagami, che è ora ». Quel servo, soffocato e nero in quella morsa, gemeva : « Porta pazienza e vedrai che ti pagherò proprio tutto ». Ma il ministro lo fece imprigionare (Mt., XVIII).  Questa limpida parabola del Signore ci presenta come in uno specchio l’esempio della generosità di Dio e della grettezza umana. Estote misericordes sicut et Pater vester misericors est (S. Lc., VI, 36). Siate misericordiosi come Dio. Come Dio che pendente dalla croce, schernito e scarnificato, stende le sue braccia per stringere in un palpito d’amore i suoi crocifissori e grida: « Padre, perdona! ». Solo Dio poteva dare quest’esempio. E ce lo diede affinché gli uomini imparassero. Ma se gli uomini non l’impareranno, neppure a loro verrà perdonato. – 2. L’ESEMPIO DEI SANTI. Perché l’esempio di un Dio non sembrasse a taluni troppo lontano dalla natura nostra piccina, il Signore suscitò i Santi a praticare il comandamento dell’amore più sublime. E Santo Stefano, lapidato fuori le mura della città, congiunse le mani e pregò per quelli che l’uccidevano. E Sant’Ambrogio, per molti anni, diede il vitto ad uno che l’aveva aggredito. E san Carlo perdonò all’uomo brutale che aveva sparato contro di lui mentre pregava la Vergine nella cappella. E sublime è pure il perdono di S. Giovanna d’Arco, la fanciulla venuta di Lorena a salvare la Francia dagli Inglesi. La povera Giovanna, dopo aver levato l’assedio d’Orléans, dopo aver condotto Carlo VII di trionfo in trionfo fino all’incoronazione di Reims, fu disprezzata, abbandonata e tradita. Dio ormai le significava che la sua missione era compiuta: solo, mancava il supremo sacrificio della vita. A Compiégne fu fatta prigioniera, venduta agli Inglesi, che la condannarono al rogo. Ed apparve sulla piazza a Rouen a solo diciott’anni condannata a morire e non tremava: e non venne nessun francese a salvarla, e non venne il re a salvarla; il re banchettava lontano senza un palpito di compassione per la fanciulla venuta di Lorena a salvare la Francia e la corona. Quando le fiamme avvolsero in una tormentosa aureola quelle membra innocenti, ella alzò gli occhi pieni di speranza, e gridò a voce alta che perdonava al re, ai Francesi, ed anche agli Inglesi che la bruciavano. Si isti et istæ cur non ego? Ma io non posso vincere la ripugnanza che sento a perdonare a quella persona …  » — Esagerazione, risponde S. Gerolamo, Dio non comanda cose impossibili. Ma quella persona mi ha fatto del male! ». — Non c’è bisogno di perdonare a quelli che ci fan del bene. « Ma cosa dirà il mondo? ». — Dirà che siete un Cristiano. « Ma il mio onore? ». — Il vostro onore è nell’obbedienza a Dio. « Ma quella persona non merita il mio perdono! ». — L’ha meritato Gesù Cristo. Non dobbiamo perdonare perché meritano il nostro, perdono, ma perché Gesù Cristo l’ha detto: Ego autem dico vobis: diligite inimicos vestros.« Ma approfitterà del mio perdono per diventar peggiore ».— Sia pure: ma voi diventate migliore. – 3. IL NOSTRO GUADAGNO. Plinio racconta che Druso, tribuno della plebe, odiava Quinto Cepione; andava lungo il Tevere meditando la vendetta; voleva ucciderlo, voleva coprirlo di calunnie. E l’odio l’accecò: volle bere il veleno, pensando che tutto il popolo avrebbe imputato la sua morte a Quinto, e ne avrebbero fatto giustizia sommaria. Chi non perdona è stolto come Druso, e ingoia la sua condanna: una triplice condanna. La condanna da parte di Dio, perché viola il suo comando principale. Mihi vindicta (Ebr., X, 30). La condanna da parte di Cristo, perché rifiuta il distintivo dei suoi discepoli. hoc conognoscent omnes quia discipuli mei estis. (Giov., XIII, 35). La condanna da parte di noi stessi, ed ogni volta che preghiamo ripetiamo la condanna. Dimitte nobis sicut et nos dimittimus (Mt., VI, 12). E Dio dirà: De ore tuo, te iudico. Dopo che Giuseppe ebbe sepolto le ossa del vecchio padre sulla terra di Chanaan, ritornò in Egitto con i fratelli. Ma questi cominciarono a temere: « Chi sa dicevano, che morto il padre, non si abbia a ricordare dell’antica ingiuria e non voglia renderci tutto il male che abbiamo fatto? » (Genesi, L, 14-17). E, tremando, gli mandarono a dire: « Tuo padre, morendo, ti chiamava per nome per scongiurarti di perdonare ai tuoi fratelli… È tuo padre morente che ti prega… » Giuseppe, al ricordo del padre morto, scoppiò in lacrime, e disse: « Non temete: Io nutrirò voi e i vostri figli ». Cristiani, che nel cuore, forse da anni, nutrite un astio, o un odio, o una vendetta contro il vostro prossimo, perdonate! È Gesù Cristo morente che ve lo manda a dire. — I PECCATI CONTRO IL PROSSIMO. Oltre all’omicidio e al furto ci sono altri peccati che offendono il prossimo, e ci tolgono la grazia. Udite la parola di Gesù: « Se la vostra giustizia sarà appena come quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete sentito che c’è un comandamento: non uccidere: chi uccide è reo di giudizio. Ma io vi dico che basta essere in ira col proprio fratello per diventare colpevoli. Basta dirgli un insulto per essere condannati. Basta un’ingiustizia per meritarsi il fuoco della geenna. Se taluno nell’avvicinarsi all’altare sentirà d’aver qualche cosa contro il suo prossimo, prima vada a far pace, e poi ritorni a far l’offerta, che allora soltanto sarà gradita ». Dunque, in noi nulla deve essere ostile al prossimo: non il cuore, non la mente, non la bocca. Non il cuore con l’odio, non la mente col giudizio temerario, non la bocca con la mormorazione e la calunnia. Questo è l’insegnamento nuovo di Gesù. Chi lo rifiuta, non è Cristiano, perché i Cristiani — secondo la definizione di Cristo — son quelli che si amano tra di loro. – 1. NON IL CUORE CON L’ODIO. La mattina della Pentecoste del 1066, per ragione della sua fede, il diacono Arialdo fu orribilmente percosso e ferito nella chiesa della Metropolitana, così che per la città s’era sparsa la voce che fosse morto. Gli amici del santo ed i suoi seguaci, riavutisi dal primo sgomento, accorrono a salvarlo. Insanguinato e fuori dei sensi lo trasportano nella vicina chiesa di Rosone, ora detta di S. Sepolcro. Intanto, sotto l’atrio e sulla piazza, s’affollano migliaia di ardenti e valorosi Milanesi, in arme, pronti a combattere per la salute d’Arialdo e per l’integrità della fede cattolica e romana. Già da tutti si anelava alla rivincita, già Erlembaldo Cotta « che aveva gli occhi d’aquila e il petto di leone » sventolava il temuto vessillo di Pietro, simbolo certo di vittoria, già si pregustava il piacere di una giusta vendetta, quando apparve in mezzo Arialdo. Aveva fasciata la testa e ancora grondava sangue. « Figliuoli! » gridò, reggendosi a stento sulla persona dolorante. « Figliuoli, amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano. Per il grande mistero che oggi celebriamo, per il precetto che Cristo ci diede, vi prego e vi comando: deponete le armi. Fate la pace ». (PELLEGRINI, I santi Arialdo ed Erlembaldo, pag. 320). Ecco come agivano i santi! Ecco come dobbiamo agire noi, se, come i santi, vogliamo essere gli imitatori di Gesù. Le cause principali dei rancori che dividono gli uomini sono tre: l’antipatia, l’interesse, la superbia. a) Io non gli perdono, — dicono alcuni — perché ha un carattere che m’è insopportabile, la mia anima si ribella al solo vederlo ». Un Cristiano non si deve lasciar guidare dalla simpatia o dal bello o dal brutto umore, ma bensì da principii di fede. E la fede c’insegna che per quanto ci spiaccia, per quanto non sia di nostro gusto, tuttavia è nostro fratello, come noi è figlio di Dio, come noi è cittadino del cielo, come noi salvato da Gesù, come noi erede delle eterne promesse. b) « Io non gli perdono, — dicono altri ancora — perché mi ha rovinato negli interessi, ha rubato il pane a’ miei figlioli, ha tentato di rovesciare la mia fortuna ». Sia pure: ma alimentando l’odio in cuor vostro, credete forse di guadagnare? Per consolarvi dei mali patiti, ve ne aggiungete un altro e gravissimo: la perdita della vostra anima. Sì, perché sta scritto che colui che non perdona, non sarà perdonato. Per vendicarsi di un’eredità terrena che vi è stata contesa, voi rifiutate la eredità eterna. c) « Io non gli perdono, — dicono infine altri — perché mi ha disonorato in pubblico e in privato: ha divulgato ciò che era segreto, mi ha addossato colpe immaginarie ». Prima di tutto domandatevi se il vostro prossimo non abbia diritto di muovere questi medesimi rimproveri contro di voi, domandatevi se non avete mai malignato sulla buona fama degli altri. E poi, con l’odio, potete cancellare le impressioni sinistre che quei discorsi hanno diffuso? Non è forse meglio rispondere alle cattive lingue col mostrare una condotta irreprensibile piuttosto che col rancore? Certo che perdonare ai nostri offensori, chiunque siano, è un atto che costa. Se non costasse nulla non c’era nemmeno bisogno che Gesù Cristo ce ne facesse un comandamento. – 2. NON LA MENTE CON IL GIUDIZIO TEMERARIO. Un arguto filoso cinese (Lich Tze) ci racconta questo casetto: « Un tale che aveva perduto un’accetta cominciò a nutrire dei sospetti sul figlio del vicino. Senza farsi accorgere, lo teneva d’occhio: il modo di camminare, l’aspetto, le parole, le movenze, gli sembravano proprio quelle di un ladro. Non c’era nemmeno da dubitare. Per caso un giorno, vuotando la fossa del concime, ritrovò l’accetta perduta. Allora tornò a guardare il figlio del vicino: il modo di camminare, l’aspetto, le parole, le movenze, gli sembrano in tutto e per tutto quelle di un gentiluomo ». Credo che non solo in Cina, ma anche altrove avvenga così. È troppo facile lasciarsi andare a giudizi precipitati! Si incontra, in un giorno d’allegria, un uomo un po’ alticcio, e subito si dice: quello è un ubriacone. Una mancanza che pensavamo fatta in segreto viene a sapersi in pubblico; si sospetta di qualche persona e subito si giudica: è una spia. Si è vista, una volta o due, una donna che nelle strette della miseria ha preso qualche frutto dal campo d’un vicino, e tosto si pensa: è una ladra. C’è un povero che sul cammino ci domanda un soldo d’elemosina, lo si guarda e si conclude: — deve essere un impostore che al suo paese ha casa e terra al sole — e non gli si dà niente. Ebbene, quelli che si comportano così hanno la mente contraria al prossimo. « Perché giudichi il tuo fratello? — scrive S. Paolo. — Perché lo disprezzi? Chi te ne ha dato il diritto? Un giorno tutti staremo alla pari davanti al tribunale di Cristo » (Rom., XIV, 10). Non giudicare che allora non sarai giudicato. – 3. NON LA BOCCA CON LA MORMORAZIONE. Inventare un difetto o una colpa, per togliere l’onore al prossimo, è un atto così vile e ripugnante, di cui tutti sentono la gravità. Invece non tutti sentono la gravità della mormorazione. « Ma io ho detto soltanto la verità ». Non basta per iscolparti. Quante cose, pur vere, sul conto tuo che non vuoi che gli altri mettano in circolazione! « Ma erano cose che si sapevano già da tutti ». Se si sapevano da tutti, era proprio inutile che le avessi a contare un’altra volta. E invece tu hai goduto delle cadute altrui, tu con piacere diabolico le vai dipingendo a vivi colori dinanzi agli occhi degli altri. È un peccato di superbia la mormorazione; perché ci svela la pagliuzza che è nell’occhio del prossimo e ci nasconde la trave ch’è nel nostro. È un peccato di bassa invidia, perché ci spinge a macchiare e sminuzzare l’onore di quelle persone che ci fanno ombra. È una malignità a sangue freddo, perché va a colpire una persona assente che non può difendersi. È un peccato di scandalo, perché trascina al male quelli che ascoltano. È un peccato d’ingiustizia perché ruba al prossimo quello che gli è più caro: l’onore. Quando la lingua diventa nera e virulenta — ha detto un medico dell’antichità — la morte è vicina. Ebbene, si vedono persone che vanno in chiesa, ascoltano la Messa, recitano il Rosario: eppure la loro lingua è nera per la mormorazione e velenosa come un serpente. Cattivo segno, perché sulla loro anima sta la condanna di Gesù: Reus erit gehennæ ignis. – Condussero davanti a Gesù un’anima caduta in grave peccato. Gesù poteva odiarla perché aveva offeso la sua divina maestà; poteva giudicarla perché aveva infranto la legge più sacra; poteva parlare male di lei che male aveva agito. Eppure si curva sulla terra in un silenzio grande. « Pronuncia la tua sentenza, Maestro! » urlavano gli Scribi e i Farisei. Costretto da quelle insistenze, il Signore si drizza ed esclama: « Chi tra voi è senza peccato, per primo scagli la pietra contro di lei ». O Cristiani! se ancora non vi siete persuasi che nulla in voi vi deve essere contrario all’amore del prossimo, né il cuore né la mente né la bocca, io vi ripeterò la parola di Gesù: « Se la vostra coscienza non vi rimprovera nulla davanti a Dio, scagliate pure la vostra pietra contro il vostro fratello ». – Ma perché questa condanna d’insufficienza alla giustizia degli Scribi e dei Farisei? Per due motivi che raccomando alla vostra attenzione: 1) perché curavano soltanto le apparenze; 2) perché dicevano e non facevano. – 1. CURAVANO SOLTANTO LE APPARENZE In una delle sue prediche, S. Antonio di Padova raccontava questo episodio. Una giovane figliuola commise un giorno un peccato molto grave che la gettò in uno stato indicibile d’amarezza, di confusione, di inquietudine. « Come avrò io il coraggio di raccontare questa nefandezza al mio confessore? Che penserà di me? Che dirà egli? ». Intanto si confessa senza dire tale colpa: si accosta sacrilegamente alla santa Comunione, lacerata da terribili rimorsi. Si trova come in un inferno. Agitata giorno e notte dai rimproveri della coscienza e dal timore di dannarsi, per esserne liberata si dà alle lagrime, ai digiuni, alla preghiera… ma invano! La memoria dei suoi sacrilegi le sta sempre nel cuore come una lama che tremi nella piaga. Le viene il pensiero di entrare in convento, farsi monaca ed ivi fare una confessione generale; e infatti vi entra e comincia la confessione. Ma tosto assalita dalla vergogna, accenna alla sua colpa in una maniera così indeterminata che il confessore non poté capir nulla. La sua agitazione divenne insopportabile, e implacabile, per quanto facesse di penitenze e di preghiere. E tutte le sue consorelle la stimavano per una santa; a lei ricorrevano per consigli e direzione e finalmente la elessero loro superiora. Continuando in questa vita ipocrita, fu sorpresa da grave malattia e ridotta in fin di vita. Poteva confessarsi, almeno allora, ma non lo fece per la maledetta vergogna di farsi conoscere così come era. Qualche giorno dopo la sua morte, stando le religiose in orazione per lei, apparve loro in sembianze orribili e disse: « Mie sorelle, non pregate per me; io sono dannata all’inferno per aver sempre taciuto un peccato commesso nell’età di diciotto anni e per essermi tante volte accostata sacrilegamente alla santa Comunione ». Che cosa le era giovata tutta l’ammirazione e la stima delle sue consorelle? Cosa le era fruttato l’essere stata eletta superiora con quei sacrilegi sull’anima? E che importa a noi apparire esternamente buoni, zelanti della legge di Dio, quando nel cuore avessimo il peccato, l’inclinazione sempre assecondata al vizio? Anche le tombe all’esterno sono sontuose, forse artistiche e di grande valore: ma a che serve questa arte per colui che vi è sepolto? Vi accontentereste voi di un piatto all’esterno molto bello, pulito, elegante, ma poi nell’interno sporco e ributtante? E allora stiamo attenti a quello che passa nell’intimo del nostro cuore, altrimenti siamo Scribi e Farisei. – 2. DICEVANO E NON FACEVANO. « Fate pure tutto quello che vi diranno gli Scribi e i Farisei: essi sono i successori di Mosè nell’insegnare la Legge. Ma non fate come essi sogliono fare, perché dicono e poi non fanno » (Mt., XXIII, 1.3). Altro difetto che Gesù rimprovera a questa gente e che non vuole sia commesso dai suoi è la incoerenza, la disuguaglianza tra quello che dicevano e quello che poi di fatto mettevano nella pratica. Ci raccontano S. Epifanio e S. Girolamo, che vissero fra i Giudei, che ancora ai loro tempi c’erano di questi Farisei che continuando le consuetudini dei loro antenati, scrivevano sopra piccole strisce di pergamena le parole della Legge e poi le applicavano alle vesti perché spesso il loro sguardo leggesse i voleri di Dio e perché li avessero a disposizione per dirli agli altri. Ma a che servivano questi accorgimenti esteriori, quando non sapevano praticare i precetti appresi e fatti apprendere agli altri? Anche i demoni dell’inferno conoscono molto bene tutti i comandamenti di Dio! Si presentò, una volta, ad un vecchio anacoreta un giovane tutto pieno di desiderio di perfezione, per chiedergli che dovesse fare per divenire perfetto: « Devi imitare — rispose seriamente il vecchio — i cani da caccia! Quando scorgono una lepre non si accontentano di abbaiare, di far capire che hanno visto la selvaggina, ma la rincorrono con tutta forza, non badano a difficoltà della strada, né si danno pace finché l’abbiano raggiunta. Allo stesso modo devi fare tu riguardo alla santità: tendere ad essa… finché non l’abbia conseguita; così e solo così potrai essere perfetto ». E S. Marciano solitario, sorpreso un giorno nella sua spelonca da un cacciatore, ed interrogato da lui, cosa mai facesse là dentro solo ed ozioso: « E tu — rispose — cosa fai? ». « Io, come vedi, prendo le lepri e i cervi: mia occupazione è la caccia ». « Ed io, in questo luogo, vado a caccia del mio Dio né mai cesserò dall’inseguirlo finché non l’abbia raggiunto in possesso eterno ». Conoscere, dire e poi non fare è il mestiere dei Farisei condannati da Gesù; è il mestiere, per usare, in senso inverso, il paragone forse troppo rude, ma tanto chiaro di quel padre del deserto, di quei cani da caccia che abbaiano quando vedono la lepre o il cervo, ma non fanno un passo per raggiungerli. Paragonateli pure così a quei genitori che dicono ai figliuoli di andare alla chiesa per la S. Messa e per la Dottrina cristiana e loro per i primi non vanno. Fin quando i figli sono piccoli ubbidiranno, perché temono la forza e il castigo; ma lasciate crescere ancora qualche anno e capiranno subito che se i genitori per i primi non fanno quello che dicono, è segno che forse si può anche non ubbidire e accontentare i propri comodi. Anche le nostre campane chiamano il popolo alla Chiesa, mentre esse non vanno: ma le campane non hanno l’anima da salvare. Sulle strade quante volte voi trovate le pietre che dicono al passeggero dove si può andare, da una parte o dall’altra, ma sono forse dei secoli che dicono la stessa cosa e non hanno mai fatto un passo. ma dalle pietre non si pretende di più. Dagli uomini invece il Signore ha il diritto di richiedere le azioni. « Non colui che dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre ». – Per lo stanco pellegrino che attraversa il deserto il vedere da lungi le palme che si innalzano magnifiche verso il cielo è una festa di gioia. In mezzo alle sabbie infuocate, sotto un cielo bronzeo, esse parlano di frescura e di ristoro. E sono e dànno davvero ombra confortatrice le foglie ampie e folte, e sono davvero ristoro i frutti gustosi e nutrienti. Proprio come la palma ha da essere il Cristiano. Deve avere belle le foglie delle apparenze e delle parole, ma soprattutto deve essere « ricco dei frutti delle opere buone. » Iustus ut palma florebit (Ps., XCI,.13).

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XV: 7 et 8. Benedícam Dóminum, qui tríbuit mihi intelléctum: providébam Deum in conspéctu meo semper: quóniam a dextris est mihi, ne commóvear.

[Benedirò il Signore che mi dato senno: tengo Dio sempre a me presente, con lui alla mia destra non sarò smosso.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris: et has oblatiónes famulórum famularúmque tuárum benígnus assúme; ut, quod sínguli obtulérunt ad honórem nóminis tui, cunctis profíciat ad salútem.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche, e accogli benigno queste oblazioni dei tuoi servi e delle tue serve, affinché ciò che i singoli offersero a gloria del tuo nome, giovi a tutti per la loro salvezza.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXVI: 4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. 

[Una cosa sola chiedo e chiederò al Signore: di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita].

Postcommunio

Orémus.

Quos cœlésti, Dómine, dono satiásti: præsta, quæsumus; ut a nostris mundémur occúltis et ab hóstium liberémur insídiis.

(O Signore, che ci hai saziato col dono celeste; fa che siamo mondati dalle nostre occulte mancanze, e liberati dalle insidie dei nemici.)

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA IV DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA IV DOPO PENTECOSTE (2021)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Il pensiero che domina tutta la liturgia di questo giorno è la fiducia in Dio in mezzo alle lotte e alle sofferenze di questa vita. Essa appare nella lettura della storia di David nel Breviario e da un episodio della vita di S. Pietro, di cui è prossima la festa. Quando Dio scacciò Saul per il suo orgoglio, disse a Samuele di ungere come re il più giovane dei figli di Jesse, che era ancora fanciullo. E Samuele l’unse, e da quel momento lo Spirito di Dio di ritirò da Saul e venne su David. Allora i Filistei che volevano ricominciare la guerra, riunirono le loro armate sul versante di una montagna; Saul collocò il suo esercito sul versante di un altra montagna in modo che essi erano separati da una valle ove scorreva un torrente. E usci dal campo dei Filistei un gigante, che si chiamava Golia. Esso portava un elmo di bronzo, una corazza a squame, gambiere di bronzo e uno scudo di bronzo che gli copriva le spalle; aveva un giavellotto nella bandoliera e brandiva una lancia il cui ferro pesava seicento sicli. E sfidando Israele: « Schiavi di Saul, gridò, scegliete un campione che venga a misurarsi con me! Se mi vince, saremo vostri schiavi, se lo vinco io, voi sarete nostri schiavi » – Saul e con lui tutti i figli d’Israele furono allora presi da spavento, Per un po’ di giorni il Filisteo si avanzò mattina e sera, rinnovando la sua sfida senza che nessuno osasse andargli incontro. Frattanto giunse al campo di Saul il giovane David, che veniva a trovare i suoi fratelli, e quando udì Golia e vide il terrore d’Israele, pieno di fede gridò: « Chi è dunque questo Filisteo, questo pagano che insulta l’esercito di Dio vivo? Nessuno d’Israele tema: io combatterò contro il gigante ». « Va, gli disse Saul, e che Dio sia con te! » David piese il suo bastone e la sua fionda, attraversa il letto del torrente, vi scelse cinque ciottoli rotondi e si avanzò arditamente verso il Filisteo. Golia vedendo quel fanciullo, lo disprezzò: « Sono forse un cane, che vieni contro di me col bastone? » E lo maledisse per tutti i suoi dèi. David gli rispose: « Io vengo contro di te in nome del Dio d’Israele, che tu hai insultato: oggi stesso tutto il mondo saprà che non è né per mezzo della spada, né per mezzo della lancia, che Dio si difende: Egli è il Signore e concede la vittoria a chi gli piace ». Allora il gigante si precipitò contro David: questi mise una pietra entro la sua fionda e dopo averla fatta girare la lanciò contro la fronte del gigante, che cadde di colpo a terra. David piombò su di lui e tratta dal fodero la spada di Golia, Io uccise tagliandogli la testa che innalzò per mostrarla ai Filistei. A questa vista i Filistei fuggirono e l’esercito di Israele, innalzato il grido di guerra li insegui e li massacrò. « I figli d’Israele, commenta S. Agostino, si trovavano da quaranta giorni di fronte al nemico. Questi quaranta giorni per le quattro stagioni e per le quattro parti del mondo, significano la vita presente durante la quale il popolo cristiano non cessa mai dal combattere Golia e il suo esercito, cioè satana e i suoi diavoli. Tuttavia questo popolo non avrebbe potuto vincere se non fosse venuto il vero David, Cristo col suo bastone, cioè col mistero della croce. David, infatti, che era la figura di Cristo, usci dalle file, prese in mano il bastone e marciò contro il gigante: si vide allora rappresentata nella sua persona ciò che più tardi si compi in N. S. Gesù Cristo. Cristo, infatti, il vero David, venuto per combattere il Golia spirituale, cioè il demonio, ha portato da sé la sua croce. Considerate, o fratelli, in qual luogo David ha colpito Golia: in fronte ove non c’era il segno della croce; cosicché mentre il bastone significava la croce, cosi pure quella pietra con la quale è colpito Golia rappresentava Cristo Signore. » (2° Notturno). Israele è la Chiesa, che soffre le umiliazioni che le impongono i nemici. Essa geme attendendo la sua liberazione (Ep.), invoca il Signore, che è la fortezza per i perseguitati (All.), « Il Signore che è un rifugio e un liberatore » (Com.), affinché le venga in aiuto « per paura che il nemico gridi: Io l’ho vinta » (Off.). E con fiducia essa dice: « Vieni in mio aiuto, o Signore, per la gloria del tuo nome, e liberami » (Grati.). « Il Signore è la mia salvezza, chi potrò temere? Il Signore è il baluardo della mia vita, chi mi farà tremare? Quando io vedrò schierato contro di me un esercito intero, il mio cuore sarà senza paura. Sono i miei persecutori e i miei nemici che vacillano e cadono » (Intr.). Cosi sotto la guida della divina Provvidenza, la Chiesa serve Dio con gioia in una santa pace (Or.); il che ci viene mostrato dal Vangelo scelto in ragione della prossimità della festa del 29 giugno. Un evangeliario di Wurzbourg chiama questa domenica, Dominica ante natalem Apostolorum. Infatti è la barca di Pietro che Gesù sceglie per predicare, è a Simone che Gesù ordina di andare al largo, ed è infine Simone, che, dietro l’ordine del Maestro, getta le reti, che si riempiono in modo da rompersi; infine è Pietro che, al colmo dello stupore e dello spavento, adora il Maestro ed è scelto da Lui come pescatore d’uomini. « Questa barca, commenta S. Ambrogio, ci viene rappresentata da S. Matteo battuta dai flutti, da S. Luca ripiena di pesci; il che significa il periodo di lotta che la Chiesa ebbe al suo sorgere e la prodigiosa fecondità successiva. La barca che porta la sapienza e voga al soffio della fede non corre alcun pericolo: e che cosa potrebbe temere avendo per pilota Quegli che è la sicurezza della Chiesa? Il pericolo s’incontra ove è poca fede; ma qui è sicurezza poiché l’amore è perfetto » (3° Nott.). Commentando il brano di Vangelo molto simile a questo (vedi mercoledì di Pasqua) ove S. Giovanni racconta una pesca miracolosa, che ebbe luogo dopo la Resurrezione del Salvatore, S. Gregorio scrive: « che cosa significa il mare se non l’età presente nella quale le lassitudini e le agitazioni della vita corruttibile assomigliano a flutti che senza tregua si urtano e si spezzano? Che cosa rappresenta la terra ferma della riva, se non la eternità del riposo d’oltre tomba? Ma poiché i discepoli si trovavano ancora in mezzo ai flutti della vita mortale, si affaticano sul mare, mentre il Signore, che si era spogliato della corruttibilità della carne, dopo la Risurrezione era sulla riva » (3° Notturno del mercoledì di Pasqua). In S. Matteo il Signore paragona « il regno dei cieli a una rete gettata in mare che raccoglie ogni sorta di pesci. E quando è piena, i pescatori la tirano a riva e prendono i buoni e rigettano i cattivi ». Orsù, coraggio: mettiamo tutta la nostra confidenza in Gesù. Egli ci salverà, mediante la Chiesa, dagli attacchi del demonio, come salvò per mezzo di David l’esercito d’Israele che temeva il gigante Golia.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI: 1; 2 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt.

[Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.] Ps XXVI:3

Si consístant advérsum me castra: non timébit cor meum.

[Se anche un esercito si schierasse contro di me: non temerà il mio cuore.]

Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt.

[Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.]

Oratio

Orémus.

Da nobis, quæsumus, Dómine: ut et mundi cursus pacífice nobis tuo órdine dirigátur; et Ecclésia tua tranquílla devotióne lætétur.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore, che le vicende del mondo, per tua disposizione, si svolgano per noi pacificameìnte, e la tua Chiesa possa allietarsi d’una tranquilla devozione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 18-23.

“Fratres: Exístimo, quod non sunt condígnæ passiónes hujus témporis ad futúram glóriam, quæ revelábitur in nobis. Nam exspectátio creatúræ revelatiónem filiórum Dei exspéctat. Vanitáti enim creatúra subjécta est, non volens, sed propter eum, qui subjécit eam in spe: quia et ipsa creatúra liberábitur a servitúte corruptiónis, in libertátem glóriæ filiórum Dei. Scimus enim, quod omnis creatúra ingemíscit et párturit usque adhuc. Non solum autem illa, sed et nos ipsi primítias spíritus habéntes: et ipsi intra nos gémimus, adoptiónem filiórum Dei exspectántes, redemptiónem córporis nostri: in Christo Jesu, Dómino nostro”.

[“Fratelli: Ritengo che i patimenti del tempo presente non hanno proporzione con la gloria futura, che deve manifestarsi in noi. Infatti il creato attende con viva ansia la manifestazione dei figli di Dio. Poiché il creato è stato assoggettato alla vanità non di volontà sua; ma di colui che ve l’ha assoggettato con la speranza che anch’esso creato sarà liberato dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo, invero, che tutta quanta la creazione fino ad ora geme e soffre le doglie del parto. E non solo essa, ma anche noi stessi, che abbiamo le primizie dello Spirito, anche noi gemiamo in noi stessi attendendo l’adozione dei figliuoli di Dio, cioè la redenzione del nostro corpo”].

IL RE DELLA MUNIFICENZA.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

L’epistola d’oggi comincia con una frase celebre del grande Apostolo San Paolo. Già di queste frasi San Paolo ce ne ha lasciate molte. Era anche, umanamente parlando, uno scrittore così poderoso! « I dolori del tempo non sono proporzionati alle gioie dell’eternità » o più alla lettera « le sofferenze di questo mondo non sono coadeguate alla futura gloria che in noi dovrà manifestarsi ». – Se c’è un uomo che abbia molto faticato e sofferto a questo mondo, è proprio lui, San Paolo. Faticato più di tutti i suoi colleghi, lo dice lui con ispirato accento; e scusate se è poco! E pari alle fatiche i dolori ineffabili del suo apostolato, irto di difficoltà materiali, di morali contraddizioni; una vita così angosciosa da parere una morte, da poter egli chiamarla tale. « Quotidie morimur » E non crediamo, che Paolo non sentisse tutto questo peso e tutte queste punture: era un forte, non era un insensibile. Anzi la sua era una sensibilità squisita. Soffriva atrocemente. Soffriva quando esercitava l’apostolato con quella sua foga impetuosa, soffriva quando era costretto all’inazione — a starsene, anche lui, uomo di azione, di zelo, « le braccia al sen conserte ». In tutto questo martirio apostolico, apostolato martirizzatore, c’era un conforto per S. Paolo, il vero, il grande conforto. Guardava in su, “i0 guardava in là”. Tutto questo martirio doveva finire a trasformarsi: alla lotta doveva subentrare la vittoria, alla fatica il riposo, al patimento la gioia, alla umiliazione la gloria. L’Apostolo vi guarda con una fede inconcussa, che diviene speranza irremovibile. E trova che il premio sperato e promesso, promesso e sperato, è di gran lunga superiore alla posta che si richiede. « Non sunt condigno passiones huius temporis ad futuram gloriam que revelabitur în nobis; » parole auree che ciascun fedele può e deve ripetere per conto proprio, soggetto com’è ai dolori della prova, aperto come deve essere alla speranza del premio.Ma dunque, dirà qualcuno più saputello, ma dunque San Paolo è un calcolatore? che impiega il suo capitale al 100 per uno? anzi all’infinito per uno? e di questo buon affare egoisticamente si compiace? e lo predica perché buono a tutti? Adagio alle conseguenze stiracchiate… Ben diversa da quella del calcolatore avido ed egoista, la figura spirituale di San Paolo e di quanti ripetono fidenti il suo gesto e la sua parola! Paolo è un innamorato di Dio del quale sa due cose; che Egli chiede ai suoi figliuoli e ai suoi soldati parecchio, che Egli darà loro moltissimo. Questa ricompensa Paolo non può non accettarla; ma accettandola, accettandola come ricompensa divina alla fatica umana, poiché è ricompensa, e Dio vuol che lo sia, accettandola dunque così, San Paolo vuole sentirla ancora più come una misericordia che una giustizia; vuol sentire nel Dio rimuneratore il Dio generoso. E il mezzo logico per rimanere in quella forma di sentimento è presto trovato. Pur meritandolo, nel senso che bisogna porre noi le condizioni « sine qua non » del premio che i desiderî avanza, il premio rimane sempre più un dono che un premio; premio per un decimo, dono per novantanove centesimi. Dio va con la sua ricompensa ben al di là del punto dove arriverebbero i nostri meriti. Tra il nostro «facere et pati» e il suo rimunerare non c’è proporzione, questo supera a dismisura quello. E ciò perché Dio è Dio e lo sarà sempre, è il Re della munificenza, della magnificenza. Re e Padre ha benignamente mascherato e maschera (prendete la parola con un po’ di grano di sale) il suo dono finale con la giustizia di un premio « corona justitiæ, » ma ha pagato e paga il suo premio con la esattezza del matematico e la tirchieria del mercante, colla generosità del principe. A noi l’essergli, come Padre, di ciò doppiamente grati.

Graduale

Ps LXXVIII: 9; 10 Propítius esto, Dómine, peccátis nostris: ne quando dicant gentes: Ubi est Deus eórum?

V. Adjuva nos, Deus, salutáris noster: et propter honórem nóminis tui, Dómine, líbera nos.

[Sii indulgente, o Signore, con i nostri peccati, affinché i popoli non dicano: Dov’è il loro Dio?

V. Aiutaci, o Dio, nostra salvezza, e liberaci, o Signore, per la gloria del tuo nome.]

Allelúja

Alleluja, allelúja Ps IX: 5; 10 Deus, qui sedes super thronum, et júdicas æquitátem: esto refúgium páuperum in tribulatióne. Allelúja

[Dio, che siedi sul trono, e giudichi con equità: sii il rifugio dei miseri nelle tribolazioni. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam. Luc. V: 1-11

In illo témpore: Cum turbæ irrúerent in Jesum, ut audírent verbum Dei, et ipse stabat secus stagnum Genésareth. Et vidit duas naves stantes secus stagnum: piscatóres autem descénderant et lavábant rétia. Ascéndens autem in unam navim, quæ erat Simónis, rogávit eum a terra redúcere pusíllum. Et sedens docébat de navícula turbas. Ut cessávit autem loqui, dixit ad Simónem: Duc in altum, et laxáte rétia vestra in captúram. Et respóndens Simon, dixit illi: Præcéptor, per totam noctem laborántes, nihil cépimus: in verbo autem tuo laxábo rete. Et cum hoc fecíssent, conclusérunt píscium multitúdinem copiósam: rumpebátur autem rete eórum. Et annuérunt sóciis, qui erant in ália navi, ut venírent et adjuvárent eos. Et venérunt, et implevérunt ambas navículas, ita ut pæne mergeréntur. Quod cum vidéret Simon Petrus, prócidit ad génua Jesu, dicens: Exi a me, quia homo peccátor sum, Dómine. Stupor enim circumdéderat eum et omnes, qui cum illo erant, in captúra píscium, quam céperant: e simíliter autem Jacóbum et Joánnem, fílios Zebedaei, qui erant sócii Simónis. Et ait ad Simónem Jesus: Noli timére: ex hoc jam hómines eris cápiens. Et subdúctis ad terram návibus, relictis ómnibus, secuti sunt eum”.

(“In quel tempo mentre intorno a Gesù si affollavano le turbe per udire la parola di Dio, Egli se ne stava presso il lago di Genesaret. E vide due barche ferme a riva del lago; e ne erano usciti i pescatori, e lavavano le reti. Ed entrato in una barca, che era quella di Simone, richiese di allontanarsi alquanto da terra. E stando a sedere, insegnava dalla barca alle turbe. E finito che ebbe di parlare, disse a Simone: Avanzati in alto e gettate le vostre reti per la pesca. E Simone gli rispose, e disse: Maestro, essendoci noi affaticati per tutta la notte, non abbiamo preso nulla; nondimeno sulla tua parola getterò La rete. E fatto che ebbero questo, chiusero gran quantità di pesci: e si rompeva la loro rete. E fecero segno ai compagni, che erano in altra barca, che andassero ad aiutarli E andarono, ed empirono ambedue le barchette, di modo che quasi si affondavano. Veduto ciò Simon Pietro, si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: Partiti da me, Signore, perché io con uomo peccatore. Imperocché ed egli, e quanti si trovavano con Lui, erano restati stupefatti della pesca che avevano fatto di pesci. E lo stesso era di Giacomo e di Giovanni, figliuoli di Zebedeo: compagni di Simone. E Gesù disse a Simone: Non temere, da ora innanzi prenderai degli uomini. E tirate a riva le barche, abbandonata ogni cosa, lo seguitarono”).

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956).

IL CRISTIANO VERO

« Le volpi hanno la loro tana e gli uccelli il loro nido: soltanto il Figliuol dell’uomo non ha neppure un sasso dove posare la guancia ». Uno dei discepoli, ch’era appena venuto alla sequela di Gesù, attirato forse da chi sa quali miraggi di gloria e di ricchezza, si spaventò a questa rude professione di povertà che il Maestro faceva in faccia a tutti. Dunque, pensava, anch’io per essere suo seguace dovrò privarmi di tutto, rinunziare a tutto: dovrò essere più povero delle volpi, più povero degli uccelli ». Ed a questa considerazione il coraggio gli venne meno, ed escogitò un pretesto per fuggirsene via. « Maestro! a casa mia ho lasciato un padre vecchio, e forse ora è già infermo: permetti ch’io vada ad assisterlo fin tanto che chiuda gli occhi nel sonno della morte, poi ritornerò ». Ma Gesù, che vedeva la viltà della sua anima, gli rispose: « Lascia che i morti supelliscano i morti ». (Mt., VIII, 22). Nel Vangelo di questa domenica è narrato invece un episodio che magnificamente contrasta con quello che vi narrai. Gesù da una barca aveva parlato al popolo raccolto sulla riva pietrosa del lago, poi disse al padrone della navicella che era Simon Pietro: « Guadagna il largo e getta le reti per pescare ». Simone e gli altri ch’eran con lui risposero: — Maestro, tutta notte abbiam lavorando senza prendere nulla: ma, poiché tu lo comandi, noi getteremo ancora le reti. E fu un colpo così fortunato, che le maglie minacciavano di rompersi. Simon Pietro, cadendo in ginocchio, gridò: « Signore, ritirati da me che sono un miserabile ». Anche Andrea, Giacomo e Giovanni erano stupiti. Gesù allora disse: « Lasciate le reti e seguitemi che vi farò pescatori d’uomini » Fu un impeto di volontà e di entusiasmo che assalì i quattro pescatori in quel momento. Tirarono a secco le barche, e abbandonando sulla riva le reti, le vele e perfino i pesci del miracolo, andarono dietro a Lui. Relictis omnibus, secuti sunt eum. Quale vi par che sia il vero Cristiano? Quel giovane che ebbe paura della povertà di Cristo e cercò di fuggirsene via, o questi quattro uomini che hanno lasciato, senza rimpiangere, e la famiglia e i compagni e tutta la loro sostanza sulla riva del lago? Questi, soltanto questi sono i veri Cristiani. Cristiano è solo colui che s’è distaccato dalle cose terrene in mezzo a cui vive, e segue le orme di Gesù. Relictis omnibus, secuti sunt eum. Vediamo dunque se noi siamo dei veri Cristiani, o se invece siamo Cristiani soltanto perché ci han battezzati da piccoli, mentre tutta la nostra vita è contro Cristo e il suo Vangelo. – 1. DISTACCO DELLE COSE TERRENE. Giuseppe Flavio, lo storico dei Giudei, narra di Mosè fanciullo una mirabile cosa. La figlia del Faraone che si chiamava Termutis non aveva figliuoli e desiderando aver successori al trono, presentò a suo padre il piccolo Mosè, che ella aveva salvato dalle acque del Nilo e gli chiese che in mancanza d’ereditari diretti e riconosciuti dalla legge, volesse riguardare come erede della corona quel fanciullo ebreo. Faraone accolse con bontà il voto della figlia e subito, per gioco, pose la corona d’oro sulla fronte del piccolo Mosè. Questi corrugò la fronte, e quasi quella corona gli scottasse in giro alla tempia, se la strappò dal capo, la gettò per terra, e la calpestò coi suoi piedini. Iddio forse già gli faceva sentire nel cuore la sua voce, quella voce che lo avrebbe chiamato a salvare il popolo oppresso e a condurlo nella terra promessa. Guai se Mosè si fosse lasciato abbagliare dallo splendore di quell’oro e di quelle gemme! Guai se si fosse lasciato sedurre dalle seducenti mollezze della corte del re! Il popolo di Israele sarebbe rimasto nella brutale schiavitù, e Mosè stesso non sarebbe diventato il gran condottiero, ma avrebbe sciupato la sua vita come un ignavo cortigiano. Anche il mondo cerca di allettarci ponendo davanti a noi la corona de’ suoi beni: sono gli onori, sono le ricchezze, sono i piaceri. Non lasciamoci ingannare: il mondo è un traditore. Egli ci accarezza, ma per ingannarci, egli ci attrae, ma per ucciderci. Blanditur ut fallat, allicit ut occidat (San Cipriano). Il libro della Sapienza ha paragonato i beni del mondo alla spuma del mare: come la spuma del mare essi sono amari, come la spuma del mare essi sono fugaci. Sono amari: fingete un uomo affamato che volesse saziarsi di fieno. Arriverà egli a soddisfarsi di un tale alimento e quietar la sua fame? ma, anzi ne proverà acerbi dolori; perché il fieno è un cibo adatto allo stomaco di un giumento, ma non a quello di un uomo. Ora come lo stomaco non può saziarsi di fieno, perché non è pasto conforme alla sua natura, così l’anima nostra non potrà mai saziarsi dei beni meschini di questa terra. L’anima nostra non si quieta se non in Dio e nell’amor di Dio, tutto il resto le è amarezza e afflizione. Sono fugaci: ma supposto anche che le cose di quaggiù ci potessero rendere lieti, fino a quando noi le potremo godere? Come un’acqua che fugge, come un’ombra che passa, come un sogno che svanisce, così sono le gioie di questo mondo. E quelli che vi si attaccano rimarranno a mani vuote. Noi ci affanniamo notte e giorno per far danari, per ottenere quell’onore, per soddisfare quella passione; dite, che sarà di tutto questo fra venti, fra trent’anni o fors’anche domani, quando la morte ci strapperà via da queste miserie? O uomini, esclamava il Salmista, perché vi rodete il cuore per beni falsi? Perché correte dietro alla vanità? Filii hominum usquequo gravi corde? ut quid diligitis vanitatem et quæritis mendacium? (Ps., IV, 3). – 2. SEGUIRE GESÙ. Alessandro Magno era venuto a sapere che nel suo esercito v’era un soldato di nome Alessandro, che non voleva più avanzare con lui perché aveva paura della guerra. L’imperatore macedone lo fece chiamare e gli disse: « Tu disonori il mio nome. Se vuoi portare il nome del tuo re, come lui devi essere valoroso, come lui devi lanciarti nella battaglia, con lui, dovunque egli vada, tu devi correre. Altrimenti cambia quel nome glorioso che non ti si addice e prendine un altro ». Il medesimo rimprovero, e forse più acerbo, potrebbe ripetere Gesù a molti Cristiani: « Vi chiamate Cristiani e perché allora non seguite Cristo che è il vostro imperatore? Perché avete paura di patire quello che Egli innanzi a voi patì? Perché disprezzate quello che Egli ama, e amate quello che Egli disprezza? Se siete veri Cristiani, fate le opere di Cristo, seguitelo dovunque Egli vada ». Il Cristiano dunque è colui che pur vivendo nel mondo, si distacca dalle cose mondane per seguire Cristo. Seguire Cristo significa rendersi simili a Lui. Gesù nacque povero entro una stalla, visse povero in una bottega, morì povero e nudo su d’una croce. Se vuoi essere Cristiano, non devi porre nella ricchezza il fine di tua vita, non devi disprezzare la povertà, ma amarla. Gesù fu generoso: donava parole di conforto agli afflitti, donava carezze ai bambini, donava la salute agli infermi, donò il paradiso a un ladro, donò il suo sangue e la sua vita per noi. Se vuoi essere Cristiano vero, tu pure devi essere generoso col tuo prossimo: perdonare le offese, aiutarlo quando è affaticato, assisterlo quando è malato, soccorrerlo quando è nella miseria. Gesù fu paziente: patì il freddo, la fame, la sete, la stanchezza, la povertà. Fu calunniato, accusato, percosso, crocifisso, e non aperse la sua bocca divina neppure a un lamento. E come puoi pretendere d’essere un Cristiano se continuamente ti lamenti delle tue croci, se bestemmi la Provvidenza, se non ti vuoi rassegnare alla sua volontà? Chi mi vuol seguire — ha detto Gesù — rinneghi le sue passioni e porti in pace la sua croce ». – Essere Cristiano significa credere che l’unica cosa necessaria al mondo è salvare la propria anima. Per salvarci l’anima Cristo s’incarnò, patì sotto Ponzio Pilato, risuscitò. Per salvarci l’anima Cristo istituì la S. Chiesa, e i Sacramenti, e vive perennemente in mezzo a noi nel santo Tabernacolo. Dunque: essere ricchi, guadagnare molto, acquistare titoli e gloria non conta niente: esseri sani, amati, giovani, belli, non conta niente. L’anima è tutto. Dice un’espressiva leggenda che un ricchissimo e sapiente uomo aveva un giorno noleggiato una vecchia barca col suo più vecchio barcaiolo per godersi una gita sul lago. Lui vestito di nero, elegantissimo, con tirata attraverso il petto una grossa catena d’oro e di gemme, teneva in mano un libro di filosofia. Il barcaiolo, con nude le braccia e il collo di bronzo, con la camicia stracciata, puntava i remi nell’acqua con sicurezza e vigore, Durante la traversata, il ricco cominciò a parlare. Hai visto qualche volta il carnevale di Venezia, con la sua ricchezza, con la sua pazza allegria? Non hai mai avuto tu la fortuna di avere un palazzo in quella città stupenda? ». Il barcaiolo sgranò gli occhi, sognando dietro a quella visione di piacere, e poi scrollando il capo rispose: « No ». « Infelice! » aggiunse l’altro « tu hai perso un quarto della tua vita. Ma, senti: «Hai studiato tu le letterature straniere, hai provato tu l’intima gioia che l’anima gusta leggendo i capolavori del genio umano? ». Il barcaiolo non comprende e scrolla il capo: « No ». « Infelice! hai perso metà della tua vita ». Intanto s’era annuvolato, e la breva soffiava gagliarda. « Senti – disse ancora l’uomo ricco e dotto – tu non hai mai avuto l’onore di vedere il re, di parlare con lui, di mangiare alla sua mensa tra l’invidia di una folla intera? » « No ». « Allora tu hai perso tre quarti della tua vita ». Erano ancora in mezzo al lago e scoppiò secco, fragoroso, orribile, il primo tuono. La tempesta era sopra alla vecchia barcaccia e la squassava. I remi nello sforzo supremo si schiantarono. Il barcaiolo vecchio e povero si voltò all’uomo ricco e sapiente e afferrandolo per un braccio gli gridò: « Sai nuotare? ». « No ». « Infelicissimo! Hai perso tutta la vita ». E subito si slanciò nell’acqua e riuscì a toccare la sponda: l’altro calò in fondo al lago. – Quando la tempesta della morte incoglierà la nostra fragile barchetta che attraversa il lago della vita, che ci varranno allora i beni di quaggiù? Dite, o avari, che ne farete delle vostre ricchezze? Dite, o superbi, che ne farete dei vostri onori? Dite, o disonesti, che ne farete delle vostre passioni? A picco scenderete, affogando in fondo all’inferno. Ma il Cristiano vero che avrà seguito Cristo con fede e con abnegazione, che avrà vissuto per la sua anima immortale, spiccherà il nuoto e toccherà felicemente la sponda del paradiso. — SARAI PESCATORE D’UOMINI. Quella mattina la turba era così numerosa che Gesù, per far sentire a tutti la sua parola, dovette portarsi sul lago. Lungo la spiaggia sabbiosa due barchette, di ritorno dalla pesca notturna, erano là ferme mentre i pescatori stavano lavando le reti. Proprio la barca di Pietro ebbe la fortuna di accogliere il dolce Maestro, ed egli, il futuro Apostolo, lasciando da parte il lavoro che lo teneva occupato, salì col Nazareno, pronto ad eseguire i suoi cenni. Scostatosi un po’ dalla riva, cominciò a parlare del Regno di Dio: il tiepido sole illuminava quell’incanto di natura e di grazia. Quando ebbe finito, disse a Simone: « In alto! lontano dalla riva; e poi gettate le reti ad una gran pesca! ». A vigorosi colpi di remi, subito si trovarono in alto lago: non si sentiva più il rumore della folla, erano soli, con Gesù, sulle onde leggermente increspate, sotto il limpido cielo d’oriente. « Maestro, noi tutta la notte abbiamo faticato e non abbiamo preso neppure un pesciolino. Però sebbene il giorno sia già inoltrato, ho fiducia nella tua parola e lascio cadere la rete ». Così disse Pietro, ed eseguì come aveva detto. Prese tale una quantità di pesci che quasi rompevano le maglie della rete se non fossero venuti in aiuto quelli che stavano sull’altra barca. Entrambe le barche furono così riempite che solo a fatica si riuscì a condurle a riva. Il miracolo era troppo evidente e Pietro, stupito, esclamò: « Allontanati, o Signore, da me che sono un peccatore! ». Ma Gesù l’aveva compiuto apposta per annunciare agli Apostoli che un giorno avrebbero preso, nella rete del Vangelo, tutto il mondo. Lo fece capire a Pietro dicendogli: « Non aver paura! da questo momento tu devi essere un conquistatore non di pesci ma di uomini vivi! ». Arrivati che furono a riva, quei pescatori lasciarono ogni cosa e seguirono Gesù. Cristiani, dopo che ci ha fatto sentire la divina parola della fede, dopo che ci fatto conoscere i miracoli della sua vita e della sua Chiesa, anche a noi Gesù dice: « Sii forte, non aver paura. Tu pure sarai un pescatore, un conquistatore di anime ». Nessuno, proprio nessuno che voglia essere vero Cristiano può disinteressarsi del prossimo. Gesù non vuol salvare il mondo da solo: vuol farci l’onore grande di chiedere il nostro aiuto. Ebbene oggi l’esempio di Pietro nella pesca miracolosa, che è simbolo della conquista delle anime, ci fa vedere in che modo possiamo essere davvero pescatori di uomini. Osservate: sono due i comandi di Gesù. Duc in altum! Prendi il largo! lontano dalla folla, dagli uomini: vicini soltanto a Lui con la preghiera. Laxate retia vestra! Calate le vostre reti per la pesca. Faticate, date le vostre energie per conquistare le anime. L’ubbidienza di Pietro a questi comandi ci ha dato il miracolo della cattura dei pesci. L’ubbidienza nostra agli stessi comandi ci darà i miracoli della salvezza delle anime. – 1. DUC IN ALTUM. Chi lo racconta è proprio lei, la piccola Santa di Lisieux, nella sua autobiografia (Cap. V). Una domenica quando alla fine della Messa chiuse il suo libro di preghiere, una fotografia che rappresentava Gesù crocifisso, sporse un po’ fuori lasciandole vedere solamente una delle mani ferite e sanguinose del Redentore. Provò allora un senso nuovo ineffabile: il suo cuore parve spezzarsi dal dolore alla vista di quel Sangue prezioso che cadeva per terra senza che nessuno si desse premura di raccoglierlo. Fece il proposito di starsene continuamente a piè della croce per raccogliere quella divina rugiada di salute e spargerla poi sulle anime. Da quel giorno in poi il grido di Gesù morente: Ho sete! non fece che risonare al suo cuore, per accendervi un nuovo vivissimo fuoco. Voleva dissetare il suo Diletto con lo strappare ad ogni costo i peccatori dalle fiamme dell’inferno. Ed il suo buon Maestro le mostrò che i suoi desideri gli erano accetti. Aveva sentito parlare di un gran delinquente — di nome Panzini — condannato a morte per orrendi delitti. La sua impenitenza faceva temere della sua eterna salute e la piccola Santa volle impedire quest’ultima ed irreparabile sventura, impiegando, pure di giungervi, tutti i mezzi spirituali che le era dato d’immaginare. Per la salvezza di quel disgraziato offriva i meriti infiniti di Gesù Cristo e i tesori di Santa Chiesa, le suppliche e qualche mortificazione. La preghiera fu esaudita. L’indomani della esecuzione della sentenza, ella apre con premura il giornale e che vede?… Il Panzini era salito sul patibolo senza confessione e senza assoluzione; già i carnefici lo trascinavano verso il punto fatale, quando come riscosso da una improvvisa ispirazione, si volta, prende il Crocifisso presentatogli dal Sacerdote, e bacia tre volte quelle piaghe santissime. Ogni volta che assistiamo al divin Sacrificio della Messa, noi dovremmo saper scorgere con lo sguardo infallibile della fede la Passione di Cristo che si rinnova per la salvezza delle anime. Troppo spesso però quel sangue cade per terra perché mancano quelli che sappiano raccoglierlo e versarlo sopra le anime. Tocca a noi versarlo alle anime e poi a Gesù offrire quelle anime stesse rinfrescate dalla rugiada del Calvario. Questo lo possiamo fare con la preghiera, con qualche mortificazione, con le opere buone di cui potremmo riempire le nostre giornate. Quanti delinquenti, quanti poveri infelici potrebbero salvarsi in paradiso se ci fossero dei cuori ardenti che sanno, come la piccola Santa, tendere l’orecchio al « Sitio » di Gesù morente. Se pregassimo spesso pei nostri fratelli che vivono male, non sopra un giornale qualunque, ma sul libro della nostra vita, leggeremmo un giorno che siamo stati capaci… di far imprimere un bacio di eterna salvezza sulle piaghe insanguinate del Crocifisso. « Il mondo è pagano; il mondo va male ». Così si va dicendo. Non è colpa in parte dei Cristiani? Andrà meglio quando vorremo; e, poiché la preghiera è uno dei mezzi più efficaci di conversione, quando vorremo pregare. Così ci insegna anche il Vangelo della pesca miracolosa. Pietro ha ottenuto il miracolo quando ha preso il largo, si è staccato dalla riva rumorosa e distratta per essere solo, con Gesù! Questa compagnia si ha soltanto quando si prega. – 2. LAXATE RETIA VESTRA IN CAPTURAM. Dopo una notte intera di grande fatica, senza la soddisfazione di un esito buono, doveva pure essere stanco Pietro. Eppure, al comando del Maestro dimentica ogni stanchezza e si mette a cominciare da capo. Il miracolo diremmo quasi che lo meritava. Così per pescare le anime ci vuol fatica, il lavoro, l’azione esterna, che si congiunga con la preghiera fervente. S. Giovanni Evangelista, nelle sue visite alle chiese dell’Asia, si incontrò una volta con un giovane che gli pareva animato da ottime disposizioni e desideroso di farsi Cristiano. L’Apostolo doveva partire ed allora lo affidò al Vescovo con la raccomandazione più viva di istruirlo e di assisterlo come un deposito sacro. Il giovane dapprima corrispondeva benissimo allo zelo del suo protettore, ma poi… a poco a poco le compagnie cattive gli fecero perdere il suo primo fervore, il gusto delle cose sante. Finì per mettersi in una truppa di delinquenti che vivevano di rapine e disordini. Passarono parecchi anni e S. Giovanni ritorna e domanda al Vescovo cosa fosse avvenuto del suo giovane amico. « Ohimè! è morto, è morto alla grazia. Trascorre la vita su quelle montagne con una masnada di uomini perduti ». S. Giovanni non dubita un istante e vecchio com’è: « Datemi un cavallo ed una guida — egli dice — io lo voglio salvare ad ogni costo; devo ricondurlo qui ancora ». Dopo fatiche inaudite, su per scoscendimenti pericolosissimi il santo vegliardo giunge al covo dei ladri. Appena fu veduto arrivare, quel povero infelice, in preda ai rimorsi, si mise a fuggire disperatamente. E S. Giovanni a inseguirlo e a dirgli « O figliuolo, mio caro figliuolo, perché mi fuggi? Fermati, senti tuo padre. È Gesù Cristo che mi manda a te ». E non si fermò dall’inseguirlo finché il giovane fu vinto dal suo amore. L’Apostolo non ne poteva più dalla stanchezza, ma quella sera poteva dire che in cielo si faceva festa perché un’anima era salvata. Il lavoro, la sofferenza è la moneta con cui si compera il potere di fare del bene. Quanti nella loro giovinezza hanno avuto una buona educazione nella fama e nella scuola. Attorno alle loro anime si sono prodigate nell’abnegazione tante buone persone che han seminato nell’anima i germi della virtù. Per loro non è proprio del tutto scomparso il ricordo del giorno che han fatto la prima Comunione. Ma poi… le compagnie cattive, le passioni, il rispetto umano, le prime colpe han distrutto quanto avrebbe dovuto sempre durare e poiché la vicinanza dei buoni era un rimprovero duro sono fuggiti lontani col corpo, certo coll’anima imbrattata dal vizio.  Eppure, anche costoro bisogna salvare: lo vuole il sangue di Cristo sparso su di essi, nell’età innocente. Se aspettiamo che vengano essi per i primi non ricaveremo nulla. È necessario andare a loro per riconquistarli al Cristo della loro giovinezza. Col buon esempio, con la parola amorevole, con un buon libro, con un dolce invito, col sorriso sul volto. Certo costa fatica e la salvezza delle anime, che è costata il Sangue di Cristo, non si può ottenere se non sulla via del Calvario, con la fatica, con la Croce. Anche L’Apostolo si sentiva sfinito, gli sfuggiva davanti la preda, ma finalmente ottenne la vittoria. – Un sacerdote si lamentava col santo Curato d’Ars di aver tutto tentato per convertire la sua parrocchia ma senza risultato. « Tutto tentato? Avete fatto ferventi preghiere, avete digiunato qualche volta? Ricordate che finché non avrete sofferto per le vostre pecorelle, non potete dire di aver tutto tentato per ricondurle a Dio! Col buon esempio, con la parola amorevole, con un buon libro, con un dolce invito, col sorriso sul volto. Certo costa fatica e la salvezza delle anime, che è costata il Sangue di Cristo, non si può ottenere se non sulla via del Calvario, con la fatica, con la Croce. Anche l’Apostolo si sentiva sfinito, gli sfuggiva davanti la preda, ma finalmente ottenne la vittoria. — IL LAVORO SANTIFICATO.  È doloroso uscire per i campi dopo una tempesta. Qua e là per i sentieri fradici, ritorna il contadino: a passi lenti, curvo, muto. E con gli occhi dolenti guarda le piante sradicate e smozzicate, guarda le biade orribilmente trinciate a mezzo mentre i raccolti sotto ai cespi e nei solchi biancheggiano ancora i chicchi di gragnuola. Lontano, intanto, soffiano gli ultimi lampi dispersi e muore il brontolìo cupo del tuono, ma egli ha gli occhi pieni di lacrime. Tutto è perduto: invano ho rivoltato la terra, invano ho seminato, invano ho sudato per giorni e giorni nei solchi: tutto è perduto ». Quanto è mai rincrescevole, dopo aver molto lavorato, non ricavare alcun profitto dal proprio lavoro. Questo rincrescimento ci sarà tutto nel grido di straziante meraviglia che lanceranno non pochi Cristiani all’alba dell’eternità, quando dopo una vita di lavoro e di sudori, s’accorgeranno d’aver perduto tutto. Questo rincrescimento c’era pure nel compassionevole lamento di Pietro: « Maestro, tutta la notte ho lavorato, e non ho raccolto niente ». Gesù guardò il suo Apostolo nella barca, stanco e senza pesce e gli disse: « Prendi il largo, e getta la rete a pescare ». E Pietro ubbidì: « In verbo tuo laxabo rete ». Quella volta fu così fortunato che per il peso dei pesci si rompevano perfin le reti e fu necessario chiamar l’aiuto d’altri pescatori. Allora Simon Pietro si buttò ai piedi di Gesù gridando: « Signore! va via da me, che sono peccatore ». Nel mondo si lavora molto; non è certo l’ozio che condannerà la maggior parte degli uomini; eppure davanti alla morte non pochi si troveranno nella più squallida miseria: perché il lavoro non fu santificato secondo la parola di Dio. Chi non vuol lavorare invano tutta la notte della vita, chi non vuol trovarsi senza un pesce all’alba dell’altra vita, deve santificare il suo lavoro secondo la parola di Dio. E Dio vuole che il lavoro non leda il diritto altrui, rispetti la dignità della nostra natura, sia fatto con mente retta e con retto cuore. – 1. GIUSTIZIA NEL LAVORO. Viveva in una città un capomastro molto ingordo, che temeva sempre gli finisse il pane in bocca prima della fame. Per ciò, si prendeva molti impegni di costruzione che poi non arrivava a soddisfare. Ma una volta andarono da lui i clienti indispettiti a protestare di togliergli dalle mani i loro affari se avesse tirato ancora per le lunghe. E quel poverino si vide costretto a cominciare una grossa fabbrica, quantunque s’andasse incontro ad una stagione crudissima e troppo infausta per costruire solidamente. I suoi operai tentarono di ribellarsi: gelava l’acqua nel secchio e avevano le mani intorpidite che non potevano trasportare mattoni. Il capomastro inferociva e li costringeva al lavoro con la minaccia di licenziarli. E la fabbrica crebbe su, lenta ma solenne. Ma quando venne l’aprile e i raggi tiepidi batterono su quei muri ghiacciati, cominciarono a cedere: cadde la volta e tutta la casa s’accovacciò in un mucchio di rovine, fragorosamente. Come fu stolto quel capomastro! Ma S. Giovanni Crisostomo dice che sono più stolti quelli che cercano nel lavoro ingiusti guadagni. Qui ædificat domum suam, impendiis alienis, quasi qui colligit lapides suos in hyeme. Edifica d’inverno il venditore che tiene due pesi e due misure; il commerciante che falsifica la merce; il contadino che raccoglie dove non ha seminato; l’avvocato che difende una lite ingiusta e moltiplica le scritture per aggravare di spese al povero cliente; lo strozzino che presta il denaro con esagerato interesse. Contro costoro risuona la rovente parola di S. Giacomo: «Su, o ricchi, piangete, ululate per la miseria in cui verrete a trovarvi, nonostante le vostre ingiuste ricchezze. Il vostro danaro marcirà e le vostre vesti di seta saranno rose dalle tignole. La ruggine consumerà l’oro vostro e l’argento, e la ruggine sarà contro di voi e come fuoco divorerà le vostre carni. Avete raccolto tesori d’ira per l’ultimo giorno. Ecco: già la mercede che avete defraudato agli operai che hanno mietuto nei vostri campi, leva un grido al Signore degli eserciti. Come si ingrassano gli animali per il giorno dell’uccisione, così voi vi siete ingrassati nei banchetti e nell’ingiustizia per il dì della vendetta di Dio (V, 1-5). – 2. RISPETTO DELLA DIGNITÀ UMANA. Il primo infaticabile lavoratore è Dio: « Pater meus operatur — diceva Gesù — et ego operar » (Giov., V, 17). Ma Dio, ponendo mano a creare e cielo e terra, divise la sua opera in sei giorni. Il settimo riposò. Forse che non poteva fare tutto in un sol giorno? Forse che gli sopraggiunse stanchezza come un faticato pellegrino che sosta per via? No: era la legge del lavoro che Egli voleva promulgare fin dal principio del mondo. Non è l’uomo fatto per il lavoro, ma è il lavoro fatto per l’uomo. E se, scacciando Adamo dal paradiso, gli disse: « Maledetta la terra per quello che hai fatto: con grandi fatiche le strapperai il tuo pane a oncia a oncia » gli aggiunse poi: « Lavora sei giorni e fa in essi ogni opera tua: ma il settimo è il giorno del riposo sacro al Signore, tuo Dio. Non fare in esso lavoro alcuno: né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il bestiame e neppure l’ospite che ha varcato le tue soglie ». Ed è ragionevole che sia così. L’uomo non è un animale bruto: ma ha un’anima e un cuore; anima e cuore che hanno destini non solamente terreni e temporali, ma oltremondani ed eterni. Ma come potrà pensare a questi suoi destini se voi lo tenete, ogni giorno, condannato nel solco del campo, o tra il rullo delle motrici? Se non gli concedete mai di sostare in questa ridda di lavoro, per elevare i suoi pensieri a Dio e alla vita sua futura? « Ma sa, dicono alcuni, è il mestiere che vuole così: i calzolai, i sarti… ». — Il mestiere è forse superiore alla legge di Dio? « Se non lavoro, perdo gli avventori ». — Meglio perdere gli avventori che Dio. « Si mangia anche di festa ». — È vero: ma alla festa si beve anche, e si sciupa forse di più che il guadagno di due o tre giorni. « Ma quando i miei figliuoli hanno fame, non viene la religione a portar loro un pane ». — È forse morto di fame qualche figlio di un buon operaio? Oh, non è la religione che farà mancare il pane alla tua famiglia, ma altri motivi. « Ma io ho bisogno di mettere da parte qualche cosa per l’avvenire ». — Qui t’aspettavo. In manu Dei prosperitas hominis (Eccl., X, 5). Dio non fa mai fruttare il lavoro di festa. Ti parrà di guadagnare: verrà poi un cattivo figliuolo a sperperare, verrà la disoccupazione, la malattia, verrà la mano di Dio e tu angosciosamente dovrai ripetere: « Ho lavorato tutta la vita, e non ho avanzato niente! ». Per totam noctem laborantes, nihil cepimus. – 3. RETTITUDINE D’INTENZIONE NEL LAVORO. Talvolta nelle vie di qualche metropoli si osserva un doloroso contrasto. Un giovane spazzacamino sporco di fuliggine: ha nere le mani e le dita; ha nero il viso che si direbbe di bronzo se due occhi non brillassero di lagrime e due labbra rosse non tremassero di fame; ha nero il vestito lacero ai gomiti e consunto ai ginocchi. Accanto a lui che soffre passa la dama splendente: ha una collana di diamanti al collo, ha diamanti agli orecchi, diamanti sulle dita, diamanti sulla veste di seta. Il diamante e il carbone! l’uno adorna e splende, l’altro sporca e annerisce. Eppure, in sostanza, questi due corpi sono di un medesimo elemento: il carbonio. Solo che il carbone è carbonio impuro, e il diamante è carbonio puro e cristallizzato. Oh, se potessimo prendere il carbone e purificarlo, riempiremmo il mondo di diamanti! Quello che non possiamo fare sul carbone, possiamo però farlo sul lavoro e trasformarlo in un diamante d’infinito valore, con un processo assai facile che ci ha insegnato S. Paolo: « Sive manducatis, sive bibitis, sive aliquid facitis, omnia in gloriam Dei facite ». Poveri che lavorate molto! non è necessario per diventar santi che voi facciate cose straordinarie, che andiate come gli Apostoli a predicare il Vangelo, che diate come i martiri il vostro sangue, che maceriate come gli anacoreti il vostro corpo, basta lavorare con intenzione di piacere a Dio.  Si smetta, dunque, quella turpissima abitudine di profanare il santo lavoro con la bestemmia e con i discorsi impuri! Bestemmie e turpiloqui sono uccelli rapaci che rubano tutta la vostra sostanza; questi sono la ruggine che vi farà esclamare: « Per totam noctem laborantes nihil cepimus ». -. La natura è maestra dell’uomo. Ecco due insetti molto laboriosi: il ragno e l’ape. Il ragno lavora da mane a sera a stendere sui soffitti la tua trama bigia e sottile: e va, senza posa, da una trave all’altra, allunga, connette, incrocia i fili e vi disegna poligoni concentrici. L’ape, invece, passa di fiore in fiore e sugge quell’essenza che poi tramuterà, nel ronzio dell’arnia, in dolcissimo miele. E poi passerà la massaia: e mentre adirata distrugge con la scopa l’opera del ragno, sorriderà beata davanti al favo colmo. Così è nel mondo. Tutti lavorano: chi secondo la parola di Dio e chi secondo la parola del demonio. Ma quando passerà il Signore distruggerà adirato l’opera degli uni e premierà l’opera degli altri.

 IL CREDO

 Offertorium

Orémus Ps XII: 4-5 Illúmina óculos meos, ne umquam obdórmiam in morte: ne quando dicat inimícus meus: Præválui advérsus eum.

[Illumina i miei occhi, affinché non mi addormenti nella morte: e il mio nemico non dica: ho prevalso su di lui.]

Secreta

Oblatiónibus nostris, quæsumus, Dómine, placáre suscéptis: et ad te nostras étiam rebélles compélle propítius voluntátes.

[Dalle nostre oblazioni, o Signore, Te ne preghiamo, sii placato: e, propizio, attira a Te le nostre ribelli volontà.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XVII: 3 Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus: Deus meus, adjútor meus.

[Il Signore è la mia forza, il mio rifugio, il mio liberatore: mio Dio, mio aiuto.]

Postcommunio

Orémus. Mystéria nos, Dómine, quæsumus, sumpta puríficent: et suo múnere tueántur. Per …

[Ci purifichino, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri che abbiamo ricevuti e ci difendano con la loro efficacia.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

FESTA DEL PREZIOSISSIMO SANGUE DI CRISTO (2022)

FESTA DEL PREZIOSISSIMO SANGUE DI N. S. GESÙ CRISTO (2022)

Doppio di 1^ classe. • Paramenti rossi.

La liturgia, ammirabile riassunto della storia della Chiesa, ci ricorda ogni anno che in questo giorno fu vinta, nel 1849, la Rivoluzione che aveva cacciato il Papa da  Roma. A perpetuare il ricordo di questo trionfo e mostrare che era dovuto ai meriti del Salvatore, Pio IX, allora rifugiato a Gaeta, istituì la festa del Preziosissimo Sangue. Essa ci ricorda tutte le circostanze in cui fu versato. Questo sangue adorabile il Cuore di Gesù lo ha fatto circolare nelle sue membra; perciò, come nella festa del Sacro Cuore, anche oggi Vangelo ci fa assistere al colpo di lancia che trafisse il costato del divino Crocifisso e ne fece colare sangue e acqua. Circondiamo di omaggi il Sangue prezioso del nostro Redentore, che il sacerdote offre a Dio sull’altare. – Il gran Sacerdote, attraversando il Tempio, entrava una volta all’anno nel Santo dei Santi col sangue delle incoscienti e forzate vittime, immolate sull’altare degli olocausti. Questo sangue dava soltanto una purezza legale ed esteriore. Il Cristo è salito fino al vero Santo dei Santi, che è il cielo ed ha presentato al Padre il suo sangue, spontaneamente e liberamente versato sulla croce. Gesù è dunque il mediatore del Nuovo Testamento, e il suo sangue espia i peccati dapprima degli Israeliti, e poi di tutti gli uomini.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Apoc V:9-10
Redemísti nos,Dómine, in sánguine tuo, ex omni tribu et lingua et pópulo et natióne: et fecísti nos Deo nostro regnum.

[Ci hai redento, Signore, col tuo sangue, da ogni tribù e lingua e popolo e nazione: hai fatto di noi il regno per il nostro Dio.]


Ps LXXXVIII :2
Misericórdias Dómini in ætérnum cantábo: in generatiónem et generatiónem annuntiábo veritátem tuam in ore meo.

[L’amore del Signore per sempre io canterò con la mia bocca: la tua fedeltà io voglio mostrare di generazione in generazione.]


Redemísti nos, Dómine, in sánguine tuo, ex omni tribu et lingua et pópulo et natióne: et fecísti nos Deo nostro regnum.

[Ci hai redento, Signore, col tuo sangue, da ogni tribù e lingua e popolo e nazione: hai fatto di noi il regno per il nostro Dio.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui unigénitum Fílium tuum mundi Redemptórem constituísti, ac ejus Sánguine placári voluísti: concéde, quǽsumus, salútis nostræ prétium sollémni cultu ita venerári, atque a præséntis vitæ malis ejus virtúte deféndi in terris; ut fructu perpétuo lætémur in cœlis.

[O Dio onnipotente ed eterno, che hai costituito redentore del mondo il tuo unico Figlio, e hai voluto essere placato dal suo sangue, concedi a noi che veneriamo con solenne culto il prezzo della nostra salvezza, di essere liberati per la sua potenza dai mali della vita presente, per godere in cielo del suo premio eterno.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebrǽos.
Hebr IX: 11-15
Fratres: Christus assístens Póntifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum et cinis vítulæ aspérsus inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ídeo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem earum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

(Fratelli, quando Cristo è venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraversando una tenda più grande e più perfetta, che non è opera d’uomo – cioè non di questo mondo creato – è entrato una volta per sempre nel santuario: non con il sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue, avendoci acquistato una redenzione eterna. Se infatti il sangue di capri e tori, e le ceneri di una giovenca, sparse sopra coloro che sono immondi, li santifica, procurando loro una purificazione della carne; quanto più il sangue di Cristo, che per mezzo di Spirito Santo si offrì senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire al Dio vivente? Ed è per questo che egli è mediatore di una nuova alleanza: affinché, essendo intervenuta la sua morte a riscatto delle trasgressioni commesse sotto l’antica alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna, oggetto della promessa, in Cristo Gesù nostro Signore.]

Graduale

1 Joann 5:6; 5:7-8
Hic est, qui venit per aquam et sánguinem, Jesus Christus: non in aqua solum, sed in aqua et sánguine.

[Questo è colui che è venuto con acqua e con sangue: Cristo Gesù; non con acqua soltanto, ma con acqua e con sangue.]

1 Joann 5:9
V. Tres sunt, qui testimónium dant in cœlo: Pater, Verbum et Spíritus Sanctus; et hi tres unum sunt. Et tres sunt, qui testimónium dant in terra: Spíritus, aqua et sanguis: et hi tres unum sunt. Allelúja, allelúja.

[V. In cielo, tre sono i testimoni: il Padre, il Verbo, lo Spirito Santo; e i tre sono uno. In terra, tre sono i testimoni: lo Spirito, l’acqua, il sangue; e i tre sono uno. Alleluia, alleluia]

1 Joann V:9
V. Si testimónium hóminum accípimus, testimónium Dei majus est. Allelúja

[V. Se accettiamo i testimoni umani, Dio è testimonio più grande. Alleluia.]

Evangelium
Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann XIX: 30-35
In illo témpore: Cum accepísset Jesus acétum, dixit: Consummátum est. Et inclináto cápite trádidit spíritum. Judæi ergo – quóniam Parascéve erat -, ut non remanérent in cruce córpora sábbato – erat enim magnus dies ille sábbati -, rogavérunt Pilátum, ut frangeréntur eórum crura et tolleréntur. Venérunt ergo mílites: et primi quidem fregérunt crura et altérius, qui crucifíxus est cum eo. Ad Jesum autem cum venissent, ut vidérunt eum jam mórtuum, non fregérunt ejus crura, sed unus mílitum láncea latus ejus apéruit, et contínuo exívit sanguis et aqua. Et qui vidit, testimónium perhíbuit; et verum est testimónium ejus.

[In quel tempo, quand’ebbe preso l’aceto, Gesù disse: «Tutto è compiuto!». Poi, chinato il capo, rese lo spirito. Allora i Giudei, essendo la Parascève, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era, infatti, un gran giorno quel sabato – chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e portati via. Andarono, dunque, i soldati e spezzarono le gambe al primo, e anche all’altro che era stato crocifisso con lui. Quando vennero a Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe: ma uno dei soldati gli trafisse con la lancia il costato, e subito ne uscì sangue ed acqua. Colui che ha visto ne rende testimonianza, e la sua testimonianza è veritiera.]

OMELIA

[D. Massimiliano M. Mesini: Sermoni al Sangue Preziosissimo di Gesù Cristo per il mese di Giugno (poi Luglio) – Tip. Malvolti, RIMINI, 1884]

Christum Dei Filium, qui suo nos redemit Sanguine, venite adoremus!

Già terminato ha il suo corso il bellissimo fra mesi dell’anno, il Maggio. Esso passò tra lieta primavera, tra il profumo dei fiori, che olezzano soavissimi alla Regina del cielo e della terra, Maria. Ma un’altra primavera, altri fiori oh! Quanto tornarono a lei più graditi. I fiori, io voglio dire, delle virtù più elette, che la pietà dei Cristiani si studiò di cogliere nel giardino della devozione dì per dì in tutto il corso del mese. E voi pure, o carissimi ascoltanti, voi pure coglieste questi fiori con una diligenza tutta speciale ;, con un trasporto tutto proprio dell’amor vostro verso la Vergine benedetta. Ed intrecciata poi di tutti questi fiori di virtù come una vaghissima ghirlanda, la offriste fra lieti cantici, fra soavi armonie, fra i più teneri palpiti del cuor vostro. E Maria, io ne son sicuro, ve ne ripagò largamente, empiendovi l’anima dei più eletti favori, delle grazie più segnalate; ch’Ella non si lascia vincere in amore, e vuol più beneficarci di quello che noi desiderare sappiamo. Onorata Ella da voi in tutto il Maggio, ora lascia libero il campo alla pietà vostra, o Cristiani dilettissimi, perché nel Giugno (ora nel Luglio – ndr. -) si volga tutta a far omaggio al Preziosissimo Sangue del suo Divin Figliuolo Gesù Cristo. E ciò fa di buon grado, giacché fu Ella, che per opera dello Spirito Santo concependo l’Uomo-Dio nell’alvo purissimo, gli empì di questo Sangue le vene: Ella, che il vide piovere dall’aperte ferite, stando immobile appiè della croce, e che ogni titolo e merito ed ogni sua gloria bella da questo Divin Sangue riceve; giacché Ella è così grande, perché fu Madre dell’Uomo – Dio, il Redentore, e Redentore fu Uomo – Dio spargendo appunto dall’aperte vene il suo Sangue. Né sola Maria ha caro che voi in questo mese onoriate il Sangue Prezioso di Cristo, ma in ciò si associa all’Eterno Padre e al Verbo Divino. Però a destarne sempre più viva nei vostri animi la divozione io vengo in questa prima sera a mostravi:

1.° che l’onorare con pie considerazioni ed omaggi il Sangue sparso da Gesù è graditissimo a Dio Padre, e a Gesù stesso:

2.° vengo a dirvi, come dobbiate considerar questo Sangue, perché ne torni buon pro alle anime vostre.

Qual cosa, o ascoltanti dilettissimi, qual cosa mai potrà tanto tornar gradita a Dio, quanto il considerare lo spargimento del Sangue di Gesù Cristo? Ad esso Egli mirava fin dall’eternità vagheggiandolo  in mente qual causa istrumentale della Redenzione del genere umano, e fin dai secoli più remoti rappresentandolo con quella pompa di ombre, e figure, che precedettero il tempo della luce, e della realtà. Osservaste voi mai un pittore, allorché accingevasi a mettere in tela il suo disegno? Non fa egli che tirare rozzamente sulla tela le prime linee, ed i contorni del disegno medesimo per poi con più vivi colori abbellirlo, e perfezionarlo. Così Iddio veniva come dando un abbozzo del gran Redentore del mondo al suo popolo in uomini e fatti dell’antico testamento, che facevano intravedere quel molto di più, che avrebbe fatto, quando la figura resterebbe sorpassata dal figurato. Eccovi infatti Abele, l’innocente Abele, che pastore di pecore è immagine di Gesù, buon Pastore delle anime. Invidiato dal fratello perché le sue offerte sono gradite a Dio, è da lui invitato ad uscire a diporto nell’aperta campagna con melate parole che coprono il più orribile tradimento. L’innocente Abele è d’improvviso assalito, atterrato già versa il suo sangue ed ucciso sen muore, rappresentando il Redentore, che dovea pur Egli versare il Sangue, ucciso da quegl’ingrati che nella immensa sua carità fiacea suoi fratelli. La voce del sangue sparso da Abele, cel dicon le Sante Scritture, levasi intanto dalla terra al cielo domandando vendetta. Oh! come meglio parlerà il Sangue uscito dalle vene di Gesù: Sanguinis aspersiones melius loquentem, quam Abel (Hebr. XII, 24). Esso chiederà perdono, e perdono otterrà, rimanendo soddisfatta la Divina Giustizia, e lavata ogni macchia di peccato. Eccovi pure Isacco, che vassene al Moria per esservi sacrificato dall’istesso suo padre Abramo, immagine di Gesù Cristo, che dovrà andare sulle vette del Calvario a compiervi il sanguinoso sacrificio della croce, obbedendo alla volontà del suo Divin Genitore: Factus obediens ad mortem, mortem autem crucis (Phil. II). E quando Iddio ordinava agli Israeliti nell’Egitto di tingere del sangue dell’agnello svenato, le porte delle case dicendo: Vi sarà questo come segno, ed io vedrò quel sangue, e trapasserò oltre, né cadrà su voi la terribile piaga che metterà a morte i primogeniti Egiziani: Vèdebo sanguinem, et transibo vos, nec erit in vobis plaga disperdens (Esod. XII), non metteva forse innanzi agli occhi una figura della tanto maggior efficacia e virtù, che avrebbe il Sangue sparso dell’Agnello Divino? Videbo Sanguinem et transibo vos, diceva l’Eterno anche a noi, o ascoltanti dilettissimi, a noi, a cui doveva essere condonata la morte eterna, ai nostri peccati dovuta. Videbo Sanquinem, et transibo vos, nec erit in vobis plaga disperdens, ripetea pura noi, che pel Sangue di Gesù Cristo dovevamoandar franchi da tante miserie, e castighi temporali. Sì, non altro che ombre, figure, abbozzi eran quelli, con che Iddio rappresentava il Figliuol suo, qual già appariva fin d’allora alla sua mente tutto sanguinoso, Vestitus … veste aspersa sanguine (Apoc. XIX); ma ombre, figure, abbozzi, che ben danno a vedere le grandi cure che prendevasi l’Eterno Padre di questa grande effusione di Sangue fin dall’eternità, e come dai tempi più remoti la vagheggiasse in mente formandone sue delizie a compimento dei sublimi suoi disegni. E però che fate voi, o ascoltanti, quando venite a riandar nel vostro pensiero la gran cosa, ch’è questo Sangue, in questo mese ad esso consacrato, se non occuparvi di ciò, a cui era volta con tanto studio ed amore la mente del Divin Padre? Che fate voi, quando prestate ossequj a questo Sangue, se non onorare ciò ch’Egli apprezzava cotanto, e cotanto onorava ? E vi par egli, che a Dio non torni assai gradito un siffatto pio esercizio, sì tenera divozione? Quanto poi una sì tenera devozione è pur cara a Gesù Cristo stesso! Chi dubitar ne potrebbe? Il suo desiderio più ardente fu appunto di versare il Sangue per la salute dell’umano genere. A questo già anelava quando incarnandosi nel purissimo seno di Maria veniva di Sangue riempiendo le vene. Ed appena poi nato affrettavasi nella Circoncisione a spargerne le prime stille, che erano il preludio di quel molto, che un dì avrebbe versato e nell’Orto, e nel Pretorio e in sul Calvario. Ed in seguito? Egli non visse, e non respiro che per la croce; egli non fè che parlar di battesimo di Sangue: Baptismo habeo baptizari, et quomodo coarctor, usquedum perficiatur? (Luc XII)). ed avvicinandosi l’ora della sua passione, non può più contenerei suoi ardenti desiderj, e bisogna che li manifesti con quelle celebri parole: Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum, antequam patiar (S. Luc. XXII). Ed allorché poi tutto appar sanguinoso sotto la fiera tempesta dei flagelli, e Sangue in gran copia glicavan le spine, che trafiggongli il capo, e rivi di Sangue mandano e mani e piedi trapassati da chiodi, si lamenta fors’Egli di sì barbara crudeltà? Ah! no, miei cari uditori. Qual agnello mansueto sotto le forbici di chi lo tosa non manda un lagno, perché Egli da sé volenteroso a tanto patir si assoggetta, Oblatus est, quia ipse voluit (Is. LIII); perché vede così finalmente compiute le sue brame, ed operata la redenzione. Onorate pur dunque con pie considerazioni ed ossequj il Sangue di Gesù Cristo, e siate sicuri, di dar gusto al suo cuore, tanto più ch’Egli stesso ve lo raccomanda. Hoc facite in meam commemorationem, (S. Luc. XXII) Ei disse, instituendo  lasciandovi la santa Eucaristia: voleva cioè, che voi aveste: memoria della sua acerba passione, della sua morte dolorosa e del Saugue sparso nella medesima. Questo ha caro, di questo vi fa anzi un precetto. Né a ciò voi potreste riuscir meglio, che considerando il suo Sangue Prezioso, di cui votate vi  furon le vene. Così mostrerete ancora la vostra tenera riconoscenza verso il così grande beneficio della redenzione, e verso un così amoroso benefattore. E siccome non vi ha cosa, che ributti tanto, quanto la sconoscenza; così non potrà non essere grandemente accetto a Gesù Cristo il vostro animo grato con queste significazioni di un intero mese. Ma perché vi tornino profittevoli i vostri ossequi, le vostre considerazioni intorno al Sangue di Gesù Cristo, fa d’uopo, che non sieno fatte in un modo qualunque, ma con uno sguardo della mente, che sia dapprima riflessivo. Più d’una volta facilmente vi venne fatto d’aver presente agli occhi qualche oggetto, e di vederlo direi quasi senza vedere, perché sopra pensiero, distratti di mente voi non vi ponevate alcuna riflessione. Che vi giovò allor quella vista? Nulla, affatto nulla, non essendo nessuna immagine chiara rimasta scolpita nella vostra mente a modo d’averne distinta conoscenza. Or applicate il medesimo al caso nostro. Che potrebbe giovarvi, o carissimi, il praticare il pio esercizio del mese di Luglio in onore del sangue di Gesù Cristo direi quasi per semplice usanza, e per tener dietro solamente agli altri, senza volgere attento lo sguardo della vostra mente ad esso nelle vostre considerazioni? Che potrebbe giovarvi venire ai sermoni, che si tengono in questa chiesa, e lasciar intanto passeggiar nella testa altri pensieri, e lasciarvi recare altrove dalla distrazione? Che vi gioverebbe lasciarvi tirar forse anche dalla passione a coltivar nella testa altri pensieri non del tutto innocenti, e forse anche peccaminosi? Ah! io vi dico adunque con le parole del profeta Geremia: Attendite, et videte. Non con occhio fugace tra pensieri vani che vi rubano la mente, ed a sé la legano, voi dovete contemplare Gesù tutto tinto del suo Sangue tenendo il modo di coloro che, vedendo non veggono: Videntes non vident. Ma dovete far tutto con guardo riflessivo. Allora succederà a voi ciò che avviene in contemplando una bellezza della natura, la quale se è suardata di proposito, rapisce: Attendite et videte. Ma non basta che nel vostro sguardo vi sia grande riflessione; bisogna che vi sia anche ripetizione di atti, senza di che non si otterrebbe un pieno effetto. Che fa uno che voglia conoscer bene una pittura, e rilevarne i pregi singolari che mano maestra vi sparse con arte sovrumana? Si contenta egli di mirarla una volta sola? O non piuttosto vi torna sopra con l’occhio più e più fiate, ben persuaso, che tutto il suo bello non gli si svela ad un tratto? Uno sguardo adunque ripetuto della vostra mente anche voi dovete, o ascoltanti, rivolgere al Crocefisso specialmente in questo mese; e quanto più sarà frequente la vostra contemplazione, più chiaro lume risplenderà alla vostra mente, e meglio sarà mosso a ben fare l’animo vostro: Recogitate, recogitate eum (Hebr. XII). Quali sono le api non solo più ricche di miele, ma del miele più scelto, e più squisito? Quelle senza fallo, che non vagabonde vanno qua e là aleggiano, ma che si posano più lungamente sui fiori, succhiandone i sapori più eletti. Volete voi lavorare nel vostro spirito atti di virtù gradevoli al cielo? Fermatevi con riflessionee più volte sul vostro Redentore grondante sangue … Recogitate, recogitate eum. Guardate: due sorte di spettatori trovavansi sulla cima del Calvario presenti al luttuoso dramma della crocifissione. Fuvvi chi con uno sguardo momentaneo mirava passando con un piglio indifferente; e fuvvi chi si diede a considerare a lungo gli strazi, e quel Sangue, che piovea a rivi da tante ferite, ad udire le voci, ad ammirare i prodigi, a contemplare i misteri del Redentore, che così dissanguato agonizzava. Qual fu il frutto, che ne colsero i primi? Nessun altro, che beffarlo, deriderlo, disprezzarlo aggiungendo ancora le più orribili bestemmie: Prætereuntes a blasphemabant cum, moventes capita sua (S. Matth. XXVII). Gli altri invece si sentivano tocchi nell’anima, e ritornarono ravveduti percuotendosi il petto. Omnis turba eorum, ecco le molto espressive parole dell’Evangelista, ommis turba corum, qui simul aderant ad spectaculum istud, et videbant quae fiebant, percutientes pectora sua revertabuntur (S. Luc. XXIII). Ah! Su adunque, che ciascuno di voi, o uditori, posandosi in questo mese sotto l’albero della Croce a considerare con molta frequenza Gesù grondante Sangue possa ripetere quelle parole della Cantica: Sub umbra illius, quem desideraveram, sedi, per poter poi cogliendone buon frutto soggiungere: Et fructus illius dulcis gutturi meo. Ma la vostra riflessione deve andare ancora più oltre, trasportandovi a discernere nel Sangue di Gesù Cristo il Sangue d’un Uomo – Dio, e penetrando fino al cuor suo per vederne gli affetti. Per l’unione ipostatica del Verbo, questo Sangue allora appare degno, che noi gli prestiamo culto di latria, che lo inchiniamo ed adoriamo con tutti gli onori, che si rendono alla Divinità: Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi, quia per sanctam Crucem tuam redimisti mundum. Chi poi mettendosi per quella via, che, trapassato il costato, aperse la lancia, e penetrando col guardo della mente insino al cuor del Crocifisso, non lo vedrà pieno d’immensa carità per noi? E qual cuore poi al vedere tanta carità d’un Uomo-Dio non si sentirà spinto anch’esso ad amare? Sia pur freddo e di ghiaccio ancora: ponendosi entro la ferita del costato accanto al cuor di Gesù, il così arde di amore, non potrà non fare a meno di accendersi, e d’infiammarsi tutto. In ultimo lo sguardo della vostra mente non deve andar disgiunto dallo sguardo del cuore, e del cuor ben disposto a trarne vero profitto, acciocché voi non siate nel numero di coloro di cui parla Ugone: Videntes oculo intellectus, non vident oculo affectus. Poco, o nulla gioverebbe infatti prestar un qualche ossequio al Sangue Prezioso di Gesù Cristo, e mettersi a considerarlo e meditarlo con la mente, quando il cuore è vizioso, e indifferente e avverso a Cristo. Come l’occhio della fronte viziato e debole non può vedere la luce del sole, così l’occhio dell’anima macchiato dai vizi non può ben vedere la luce bella, buona, e divina, che dalle ferite, donde sgorga il sangue di Cristo, si spande; Solem, nisi sanus, così S. Ambrogio, et vehemens oculus aspicîit, nec bonum potest videro. nisi anima bona (Ambr. de Iaac). Non può vedere con profitto nel Sangue di Gesù Cristo il bagno che monda le anime, un animo insozzato nel fango della terra, che di questo fango si delizia, e vi è ostinatamente attaccato con l’affetto. Non può conoscere ed imparare a suo pro nelle piaghe e nel Sangue di Gesù Cristo l’amore alla mortificazione ed alla tribolazione chi pensa solo a dilettare la carne con tante morbidezze, ed a secondarne le voglie scorrette. Non può, contemplando Cristo confitto ad una croce e tutto sanguinoso, apprendervi con giovamento il disprezzo del mondo chi da grande superbia lascia dominarsi, ed anela ognora a pompe e grandezze. Non può nel Sangue di Gesù Cristo sparso in sì gran copia trovare quell’ardentissima fiamma di carità, a cui scaldarsi, chi questo sangue rimira con disprezzo, chi lo bestemmia, chi lo calpesta con ogni sorta di peccato. Ah! tutti questi ben potranno vedere con l’occhio dell’intelletto, ma con l’occhio cuore, dell’affetto non veggono: Videntes oculo intellectus, non vident oculo affectus. Sia dunque ben disposto il vostro cuore; ed allora vi tornerà assai vantaggioso il dimorare col pensiero in sul Calvario ai piedi della croce. Come Pietro al vedere Gesù trasfigurato in tanta gloria sulle cime del Taborre non poté far a meno di esclamare: Bonum est nos hic esse; così vol, bonum est nos hic esse, esclamerete contemplando il Redentore grondante Sangue, edaggiungerete con Bernardo: Oh! quanto è buono,oh! quanto è giocondo, quanto è vantaggioso il dimorare noi qui col pensiero e con l’affetto: facciamqui tre tabernacoli, uno nelle piaghe dei piedi, unoentro le piaghe delle mani, un terzo nell’amoroso costato del Salvatore, dove ci sia dato riposare e vigilare: Faciamus hic tria tabernacula, unum in latere, ubi pedibus, unum in manibus, aliud.. in latere, ubi quiescere et vigilare. Ma parmi che sorga qui a dire una voce: dunque noi che siam peccatori, nessun profitto caveremo del Mese di Luglioin onore del Sangue Preziosissimo? E donde traete questa voi questa conseguenza? Ah! veniteci bendisposti, o peccatori, con Vero desiderio almeno di convertirvi, ed io vi so dire, che voi pure sperimenterete la virtù di questo Divin Sangue. Per voi anzi specialmente venne Gesù Cristo in terra a spargerlo. Pertanto io invito giusti, e peccatori, e così conchiudo il mio discorso di eccitamento a far ben questo Mese. Venite tutti, venite. Consideriamo tutti con guardo assai penetrante Gesù Cristo Figliuolo di Dio, prestiamogli il più riverente ossequio, adoriamo Lui, che col suo Sangue ci redense: Christum Dei filium, qui suo nos redemit Sanguine, venite, adoremus. Venite, o giusti, e fin da questa primasera esclamate contemplando Gesù Crocifisso: Salvete, o piaghe di Cristo, pegni d’immenso amore, da cui perenni rivi sgorgano di Sangue rosseggiante: salvete, Christi vulnera, immensi amoris pignora, quibus perennes rivuli manant rubentis sanguinis. Voi vincete in isplendore le stelle, le rose ed il balsamo nella fragranza. Voi avanzate in pregio le preziose pietre dell’Indie, e superate in dolcezza i favi di miele, Per voi è schiuso, alle nostre menti un gratissimo asilo. Qua entro non penetra giammai il furor dei nemici, che ne minacciano. Venite anche voi, o peccatori; o quanti da funeste macchie di delitti avete l’anima imbrattata: chi si lava in questo bagno di salute sarà mondato: Venite quotquot criminum funesta labes inficit: in hoc salutis balneo qui se lavat, mundabitur.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
1 Cor X:16
Calix benedictiónis, cui benedícimus, nonne communicátio sánguinis Christi est? et panis, quem frángimus, nonne participátio córporis Dómini est?

[Il calice dell’eucarestia che noi benediciamo non è forse comunione del sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo non è forse comunione col corpo di Cristo?]

Secreta

Per hæc divína mystéria, ad novi, quǽsumus, Testaménti mediatórem Jesum accedámus: et super altária tua, Dómine virtútum, aspersiónem sánguinis mélius loquéntem, quam Abel, innovémus.

[O Dio onnipotente, concedi a noi, per questi divini misteri, di accostarci a Gesù, mediatore della nuova alleanza, e di rinnovare sopra il tuo altare l’effusione del suo sangue, che ha voce più benigna del sangue di Abele.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Hebr IX: 28
Christus semel oblítus est ad multórum exhauriénda peccáta: secúndo sine peccáto apparébit exspectántibus se in salútem.

[Il Cristo è stato offerto una volta per sempre: fu quando ha tolto i peccati di lutti. Egli apparirà, senza peccato, per la seconda volta: e allora darà la salvezza ad ognuno che lo attende.]

Postcommunio

Orémus.
Ad sacram, Dómine, mensam admíssi, háusimus aquas in gáudio de fóntibus Salvatóris: sanguis ejus fiat nobis, quǽsumus, fons aquæ in vitam ætérnam saliéntis:

[Ammessi, Signore, alla santa mensa abbiamo attinto con gioia le acque dalle sorgenti del Salvatore: il suo sangue sia per noi sorgente di acqua viva per la vita eterna].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA III DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA NELL’OTTAVA DELLA FESTA DEL SACRO CUORE e III DOPO LA PENTECOSTE. (2022)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La liturgia di questo giorno esalta la misericordia di Dio verso gli uomini: come Gesù « che era venuto a chiamare non i giusti, ma i peccatori », cosi lo Spirito Santo continua l’azione di Cristo nei cuori e stabilisce il regno di Dio nelle anime dei peccatori. Questo ricorda la Chiesa nel Breviario e nel Messale. — Le lezioni del Breviario sono consacrate quest’oggi alla storia di Saul. Dopo la morte di Eli gli Israeliti si erano sottomessi a Samuele come a un nuovo Mosè; ma quando Samuele divenne vecchio il popolo gli chiese un re. Nella tribù di Beniamino viveva un uomo chiamato Cis, che aveva un figlio di nome Saul. Nessun figlio di Israele lo eguagliava, nella bellezza, ed egli sorpassava tutti con la testa. Le asine del padre si erano disperse ed egli andò a cercarle e arrivò al paese di Rama ove dimorava Samuele. Ed egli disse: « L’uomo di Dio mi dirà, ove io le potrò ritrovare ». Come fu alla presenza di Samuele, Dio disse a questi: « Ecco l’uomo che io ho scelto perché regni sul mio popolò ». Samuele disse a Saul: « Le asine che tu hai perdute da tre giorni sono state ritrovate ». Il giorno dopo Samuele prese il suo corno con l’olio e lo versò sulla testa di Saul, l’abbracciò e gli disse: « Il Signore ti ha unto come capo della sua eredità, e tu libererai il popolo dalle mani dei nemici che gli sono d’attorno ». « Saul non fu unto che con un piccolo vaso d’olio, – dice S. Gregorio – perché in ultimo sarebbe stato disapprovato. Questo vaso conteneva poco olio e Saul ha ricevuto poco, perché  la grazia spirituale l’avrebbe rigettata » (Matt.). « In tutto – aggiunge altrove – Saul rappresenta i superbi e gli ostinati » (P. L. 79, c. 434). S. Gregorio dice che Saul mandato « a cercare le asine perdute è una figura di Gesù mandato da suo Padre per cercare le anime che si erano perdute » (P. L. 73, c. 249). « I nemici sono tutt’intorno in circuitu », continua egli; lo stesso dice il beato Pietro: « Il nostro avversario, il diavolo, gira (circuit) attorno a voi ». E come Saul fu unto re per liberare il popolo dai nemici che l’assalivano, cosi Cristo, l’Unto per eccellenza, viene a liberarci dai demoni che cercano di perderci. – Nella Messa di oggi il Vangelo ci mostra la pecorella smarrita e il Buon Pastore che la ricerca, la mette sulle spalle e la riporta all’ovile. Questa è una delle più antiche rappresentazioni di Nostro Signore nell’iconografia cristiana, tanto che si trova già nelle catacombe. L’Epistola ci mostra i danni ai quali sono esposti gli uomini raffigurati dalla pecorella smarrita. « Vegliate, perché il demonio come un leone ruggente cerca una preda da divorare. Resistete a lui forti nella vostra fede. Riponete in Dio tutte le vostre preoccupazioni, poiché egli si prende cura di voi (Ep.), Egli vi metterà al sicuro dagli assalti dei vostri nemici (Grad.), poiché è il difensore di quelli che sperano in lui (Oraz.) e non abbandona chi lo ricerca (Off.). Pensando alla sorte di Saul, che dapprima umile, s’inorgoglisce poi della sua dignità reale, disobbedisce a Dio e non vuole riconoscere i suoi torti, « umiliamoci avanti a Dio » (Ep.) e diciamogli: « O mio Dio, guarda la mia miseria e abbi pietà di me: io ho confidenza in te, fa che non sia confuso (Int.); e poiché senza di te niente è saldo, niente è santo, fa che noi usiamo dei beni temporali in modo da non perdere i beni eterni (Oraz.); concedi quindi a noi, in mezzo alle tentazioni « una stabilità incrollabile » (Ep.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV: 16; 18 Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus.

[Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

Ps XXIV: 1-2 Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam.

[A te, o Signore, elevo l’ànima mia: Dio mio, confido in te, ch’io non resti confuso.]

Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus.

[Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

Oratio

Orémus.

Protéctor in te sperántium, Deus, sine quo nihil est válidum, nihil sanctum: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, te rectóre, te duce, sic transeámus per bona temporália, ut non amittámus ætérna.

[Protettore di quanti sperano in te, o Dio, senza cui nulla è stabile, nulla è santo: moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché, sotto il tuo governo e la tua guida, passiamo tra i beni temporali cosí da non perdere gli eterni.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet V: 6-11 “Caríssimi: Humiliámini sub poténti manu Dei, ut vos exáltet in témpore visitatiónis: omnem sollicitúdinem vestram projiciéntes in eum, quóniam ipsi cura est de vobis. Sóbrii estote et vigiláte: quia adversárius vester diábolus tamquam leo rúgiens circuit, quærens, quem dévoret: cui resístite fortes in fide: sciéntes eándem passiónem ei, quæ in mundo est, vestræ fraternitáti fíeri. Deus autem omnis grátiæ, qui vocávit nos in ætérnam suam glóriam in Christo Jesu, módicum passos ipse perfíciet, confirmábit solidabítque. Ipsi glória et impérium in sæcula sæculórum. Amen”.

(“Carissimi: Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti nel tempo della visita. Gettate ogni vostra sollecitudine su di lui, poiché egli ha cura di voi. Siate temperanti e vegliate; perché il demonio, vostro avversario, gira attorno, come leone che rugge, cercando chi divorare. Resistetegli, stando forti nella fede; considerando come le stesse vostre tribolazioni sono comuni ai vostri fratelli sparsi pel mondo. E il Dio di ogni grazia che ci ha chiamati all’eterna sua gloria, in Cristo Gesù, dopo che avete sofferto un poco, compirà l’opera Egli stesso, rendendoci forti e stabili. A lui la gloria e l’impero nei secoli dei secoli”).

LE PERSECUZIONI.

Non più l’Apostolo della carità Giovanni, oggi parla l’Apostolo dell’autorità, il Duce, San Pietro. Odor di battaglia intorno al capo e ai gregari, quell’odor di battaglia che è così frequente nella storia della Chiesa… « Tu, che da tanti secoli soffri, combatti e preghi…» Il Duce rincuora la sua truppa, la rincuora a modo suo, ma la rincuora in modo e forma che sarà utile sempre. Sotto la raffica resistono meglio talvolta gli alberi che invece di irrigidirsi superbi, piegano e flettono. Sotto la raffica del vento, sotto la tempesta della persecuzione il Cristiano deve umiliarsi con un gesto che non è umiliazione, è prudenza, è dignità, perché deve umiliarsi non agli uomini, ma a Dio: « sub potenti manu Dei » dice il testo, di quel Dio che se non vuole, permette le tribolazioni della sua Chiesa, dei suoi figliuoli più cari; potente anche quando agli occhi superficiali Egli sembra debole; di quel Dio che vigila anche quando pare agli increduli, ai cattivi che Egli dorma. – Lo pensavano forse che Dio dormisse alcuni di quei neofiti, di quei poveri Cristiani della prima ora che entrati appena nella barca di San Pietro in cerca di tranquillità, di sicurezza, la vedevano così terribilmente sbattuta dalle onde. Dorme Dio, dicevano, ci ha abbandonati. Ai quali l’Apostolo della autorità, il Duce ricorda che Egli è sollecito, da buon Padre amoroso, dei suoi figli, «ipsì est cura de vobis». Veglia non visto. Il che però, se deve sgombrar la viltà dell’animo dei fedeli perseguitati, non vi deve accendere il fuoco fatuo della presunzione. – Visti, vigilati, aiutati da Dio, appunto perciò, i fedeli devono combattere con tutte le loro forze, come se Dio li avesse lasciati soli a se stessi. Sobrii e attenti; ecco il programma che il Duce traccia ai suoi militi nella aspra guerra spirituale in cui sono impegnati. Sobrii perché la carne non frenata con la sobrietà, vince essa lo spirito e vigili, per non essere sorpresi, per non cader vittime di una imboscata qualsiasi. Il gran nemico, da buon condottiero, qual è anche lui, colla sua genialità malefica, questo tenta e vorrebbe: sorprendere coloro che vuol abbattere. Veglino e tengano desta con maggior diligenza la fede. « Fortes in fide». La fede è per essi, pei Cristiani, l’«ubì consistam» della loro vittoriosa resistenza. Credenti, sono forti; scettici, dubbiosi sono vinti. Che importa se alla loro fede si fa guerra? guerra nella loro piccola comunità? guerra al loro piccolo gruppo? No, la guerra non è così ristretta: è mondiale, dappertutto dove la fede cristiana si afferma, la lotta pagana si impegna, vincolo nuovo di tutta la grande fraternità, confraternità. – Il Duce lo rammenta con una specie di santo orgoglio, perché la Chiesa non cerca la lotta, ma neanche la teme, non la teme neanche quando essa prende estensioni inaudite: il mondo intero. Tutto questo fa pensare ad una persecuzione imperiale da parte di Roma pagana. Il Duce è forte, coraggioso, audace, senza ombra di spavalderia, perché sa di poter contare sull’appoggio indefettibile di un altro Duce. Egli, Pietro, è un Vicario, un sostituto, un facente funzione di… il Capo reale, invisibile è Gesù Cristo. Ed Egli ha il suo stile. Lascia soffiar la tempesta sui suoi per un po’ di tempo: «modicum ». Le tribolazioni della vita sono tutte brevi: le persecuzioni dei malvagi passano, anche quelle che paiono ai pazienti più lunghe, anche quelle che i carnefici, i persecutori, credono eterne: passano, sono temporanee, La Chiesa ha per sé l’eternità. La “vera” Chiesa non muore… E quando il vento impetuoso che pareva eterno è passato, inesorabilmente passato, si trova che invece di scalfire il gran monumento che è la Chiesa, l’ha spolverato, invece che fracassare i cieli, li ha purificati. Lezione magnifica, buona sempre, opportuna per chi temesse le persecuzioni, opportuno per chi desiderasse scatenarle…

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)]

Graduale

Ps LIV: 23; 17; 19 Jacta cogitátum tuum in Dómino: et ipse te enútriet.

[Affida ogni tua preoccupazione al Signore: ed Egli ti nutrirà.]

V. Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam ab his, qui appropínquant mihi. Allelúja, allelúja.

[Mentre invocavo il Signore, ha esaudito la mia preghiera, liberandomi da coloro che mi circondavano. Allelúia, allelúia]

Ps VII: 12 Deus judex justus, fortis et pátiens, numquid iráscitur per síngulos dies? Allelúja.

[Iddio, giudice giusto, forte e paziente, si adira forse tutti i giorni? Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.

S. Luc. XV: 1-10

“In illo témpore: Erant appropinquántes ad Jesum publicáni et peccatóres, ut audírent illum. Et murmurábant pharisæi et scribæ, dicéntes: Quia hic peccatóres recipit et mandúcat cum illis. Et ait ad illos parábolam istam, dicens: Quis ex vobis homo, qui habet centum oves: et si perdíderit unam ex illis, nonne dimíttit nonagínta novem in desérto, et vadit ad illam, quæ períerat, donec invéniat eam? Et cum invénerit eam, impónit in húmeros suos gaudens: et véniens domum, cónvocat amícos et vicínos, dicens illis: Congratulámini mihi, quia invéni ovem meam, quæ períerat? Dico vobis, quod ita gáudium erit in cœlo super uno peccatóre pœniténtiam agénte, quam super nonagínta novem justis, qui non índigent pœniténtia. Aut quæ múlier habens drachmas decem, si perdíderit drachmam unam, nonne accéndit lucérnam, et evérrit domum, et quærit diligénter, donec invéniat? Et cum invénerit, cónvocat amícas et vicínas, dicens: Congratulámini mihi, quia invéni drachmam, quam perdíderam? Ita dico vobis: gáudium erit coram Angelis Dei super uno peccatóre pœniténtiam agénte”.

(“In quel tempo andavano accostandosi a Gesù de’ pubblicani e de’ peccatori per udirlo. E i Farisei e gli Scribi ne mormoravano, dicendo: Costui si addomestica coi peccatori, e mangia con essi. Ed Egli propose loro questa parabola, e disse: Chi è tra voi che avendo cento pecore, e avendone perduta una, non lasci nel deserto le altre novantanove, e non vada a cercar di quella che si è smarrita, sino a tanto che la ritrovi? e trovatala se la pone sulle spalle allegramente; e tornato a casa, chiama gli amici e i vicini, dicendo loro: Rallegratevi meco, perché ho trovato la mia pecorella, che si era smarrita? Vi dico, che nello stesso modo si farà più festa per un peccatore che fa penitenza, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza. Ovvero qual è quella donna, la quale avendo dieci dramme, perdutane una, non accenda la lucerna, e non iscopi la casa, e non cerchi diligentemente, fino che l’abbia trovata? E trovatala, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi meco, perché ho ritrovata la dramma perduta. Così vi dico, faranno festa gli Angeli di Dio, per un peccatore che faccia penitenza”).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956).

L’AMORE DI DIO VERSO IL PECCATORE

Facciamo una questione: Dio ama i peccatori? Senza dubbio ama gli uomini giusti che vivono secondo la sua legge; come pure ama quelli che si pentono e convertono anche se hanno trascorso molti anni in una pessima dissipazione. Ma gli uomini che, tuttora peccando sotto il suo sguardo, lo disprezzano e lo offendono, il Signore li ama? La questione fu già risolta dalla mente acutissima di S. Agostino, il quale disse che Dio ama ancora i poveri peccatori, soltanto odia i peccati che commettono. Il mondo invece fa l’opposto di Dio. Ama i peccati, e n’è immerso, ma si erge implacabile giudice a respingere nell’abbiezione i peccatori. Nel mondo ogni giorno si ripete quello che avvenne al tempo di Gesù, quando i Farisei avrebbero voluto che il Figlio di Dio scacciasse via da sé i pubblicani e i peccatori, che lo circondavano desiderosi d’emendarsi. Ma il misericordioso Redentore non si lasciò intimorire dalle recriminazioni di quei superbi e crudeli, e giustificò la sua condotta con due parabolette. La prima è quella della pecora smarrita. A un pastore di cento pecore ne manca una: subito lascia le novantanove al sicuro e va in cerca e non si dà pace finché non ritrova la smarrita. Ritrovatala che l’abbia, se la pone pien di gioia sulle spalle e la porta a casa dove fa festa con i vicini e gli amici. L’altra parabola è quella della moneta perduta. A una donna che aveva dieci monete ne manca una: subito si dà alla ricerca, accende la lucerna, spazza la casa e scruta attentamente, finché non l’abbia ritrovata. Poi chiama le vicine e le amiche a partecipare alla sua gioia. Conchiudendo ciascuna parabola, Gesù svelò che il pastore in cerca della pecora smarrita, che la massaia in cerca della moneta perduta, è Dio che cerca di salvare il peccatore, Dio che fa festa coi suoi Angeli e coi Santi ad ogni uomo che si converte. Com’è forte e disinteressato l’amore di Dio, e come è diverso dal nostro! Il nostro è pieno d’orgoglio, di pretensioni, di tornaconto, di vendette; invece, l’amore di Dio abbraccia anche chi lo disconosce e lo vuole disconoscere, chi lo oltraggia e lo vuole oltraggiare, chi si sdraia nel fango e si ostina a restarci. Par quasi che Dio abbia bisogno del peccatore per la sua gloria, mentre la sua gloria è infinita per se stessa e nessuno gliela può aumentare o diminuire; par quasi che ne abbia bisogno per la sua beatitudine, mentre la sua beatitudine è egualmente piena anche senza di esso. È l’amore che spinge così il Padrone dell’universo in cerca di un pulviscolo ribelle; è l’amore purissimo che non avendo bisogno di nulla non vuole che donare: dona la sua gloria, la sua gioia, la sua vita. Sotto tre aspetti considereremo l’amore di Dio verso il peccatore: amore che crea e conserva; amore che redime; amore che sollecita senza stancarsi mai. – 1. AMORE CHE CREA E CONSERVA. a) Immenso e disinteressato è l’amore di Dio che crea. Spesse volte si sente dire: « Se l’avessi saputo, non mi sarei fidato di quella persona!… ». Lo dice l’industriale quando s’accorge della slealtà del suo socio. L’aveva tolto dalla vita stentata di impiegatuccio d’ufficio, e benché non avesse capitale, l’aveva messo a parte della sua azienda, ed ora si trova da lui perfidamente tradito e rovinato. « Ah se l’avessi saputo!… » Dice così anche il padre adottivo quando s’accorge che il figlio raccolto dalla strada e dalla miseria, ammesso nella sua mensa, al suo amore, alla sua eredità, ora con pessima ingratitudine disonora il suo nome e gli avvelena il cuore di dispiaceri. « Ah se l’avessi saputo!… ». Ma Dio quando crea l’uomo, vede chiaramente che quella sua creatura a cui dona l’esistenza, in cui mette il suo amore infinito, si ribellerà a Lui ingratamente, lo tradirà per volgersi a persone e a cose, lo disprezzerà tante volte preferendogli un’ora d’impuro stordimento sensuale. Dio sa, eppure Dio che non ha bisogno di nulla, di nessuno, crea l’uomo perché il suo amore non vuol ricevere, ma dare: e dà l’inestimabile dono della vita. b) Se immenso è l’amore di Dio che crea il peccatore, immenso è pure quando lo conserva. Se noi fossimo ciechi e qualcuno ci ridonasse la vista; se fossimo paralizzati e qualcuno ci rimettesse in moto le membra; se fossimo chiusi in un manicomio colpiti da una malattia mentale e qualcuno ci restituisse l’uso della ragione, di quanto amore e riconoscenza circonderemmo quel salvatore! Ebbene Dio ad ogni momento ci dà forza di vedere, di camminare, di ragionare. Se per un istante solo cessasse di infonderci la sua forza, noi ci spegneremmo come un fanale in mezzo alla via a cui non arrivi più energia dalla sorgente elettrica. c) Per intravvedere ancora meglio gli abissi incomprensibili dell’amore divino, bisogna riflettere che Egli conserva la vista anche in quel momento stesso in cui gli occhi si volgono a spettacoli, a letture, a oggetti pericolosi, si fissano su persone con l’avidità del desiderio impuro. Conserva l’agilità, il movimento, il nerbo alle membra anche in quel momento che il corpo è fatto strumento di nequizia. Conserva la ragione anche allora che la mente moltiplica pensieri d’incredulità o di vendetta. Chi è colui, così forsennato, che sostenuto da una paterna mano sulla bocca d’una voragine, morde rabbiosamente quella mano che lo tiene? Questo forsennato è il peccatore. Ma l’amore di Dio è più forte d’ogni umana forsennatezza e non lo lascia precipitare nell’inferno. Si ricordi però l’uomo peccatore questa terribile verità: Dio non salva nessun per forza. – 2. AMORE CHE REDIME. Non c’è amore più grande di quello che sa morire per le persona amata (Giov. XV, 13). Sulla terra è rarissimo, ma non introvabile: qualche madre ha saputo morire per il proprio figlio, qualche amico è morto per salvare un amico. Sulla terra però non c’è nessuno — ed è S. Paolo che lo dice (Rom., V, 6-9) – a cui basti il cuore di morire per salvare un suo nemico, un ingiusto. Ebbene, questo ha saputo fare l’amore di Gesù, il quale patì e morì per salvare noi che il peccato aveva reso colpevoli e nemici suoi. Sotto i selvaggi colpi della flagellazione, Gesù guardava i manigoldi imbestialiti che lo battevano allegramente, e diceva in cuor suo: « Io li amo fino a dare per loro quella carne e quel sangue che mi strappano ». Salendo al Calvario, impiagato e sanguinante, Gesù vedeva lungo la strada molte facce indifferenti, o curiose, o malvage, e diceva in cuor suo: «Io li amo e vado a morire spontaneamente per loro che si ridono di me ». Dall’alto del patibolo il Figlio di Dio udiva le imprecazioni, le risa, la maligna gioia dei suoi nemici e diceva in cuor Suo: « È per loro che mi lascio crocifiggere: Io li amo tanto e dono volentieri la vita per salvarli dalla perdizione ». Nel cortile del pretorio tra i manigoldi flagellatori, lungo la via dolorosa tra la folla urlante e maledicente, sotto la croce, il Salvatore ha visto anche la nostra faccia, il nostro gesto di scherno e d’odio. Anche noi l’abbiamo crocifisso, perché anche noi abbiamo peccato. Ed Egli, vedendoci, anche per noi disse: « L’amo tanto, e muoio volentieri per lui che non mi ama ». In un libro che narra storie del tempo in cui era diffusa la schiavitù, si legge che un giovane schiavo venne dai musulmani condotto sul mercato per essere venduto. Gli legarono le mani dietro la schiena e gli appesero al collo una grossa spada e gli dissero: « Se nessuno ti ricatta, a sera ti uccideremo con questa spada ». Il povero giovane, con voce che si faceva sempre più straziante man mano che il giorno procedeva, supplicava tutti quelli che passavano di riscattarlo. Già il sole tramontava e le ombre s’allungavano: al meschino pareva di perdere la vista, tanto era l’orrore che lo invadeva. Finalmente, quando il sole s’annidò ad occidente, passò di là un ricco Cristiano, che lo riscattò. La riconoscenza di quel giovane non si può dire a parole. Noi pure eravamo schiavi di satana nel potere del quale ci avevano messi i nostri peccati, e se la sera, cioè la morte, fosse discesa sopra di noi in tale condizione, per noi sarebbe stata finita per sempre. Gesù ci vide, ci amò, ci riscattò non con denaro, ma con sangue vivo, col suo sangue divino. La crudeltà più vergognosa è che, riscattati, noi corremmo a trafiggere il nostro Salatore con quella spada che ci avrebbe dovuto dare la morte eterna, cioè il peccato. Ma l’amore più grande è che Gesù sapeva che l’avremmo ricompensato così, e ci ha riscattati egualmente, morendo per. noi. – 3. AMORE CHE SOLLECITA. Il profeta Isaia, ispirato dal Signore, una volta disse al popolo di Israele: « Le orecchie udranno sempre la parola di uno che dietro alle spalle ti avvisa: ecco la via, in essa cammina » (Is; XXX; 21). Quanto è vera questa profezia, e come davvero l’amore di Dio corre dietro al peccatore incessantemente e lo sollecita! a) Lo sollecita col rimorso. « Perché vuoi correre alla perdizione? Se non ti persuade il mio amore, ti persuada almeno la tua disgrazia; se non mi vuoi dar retta, non dimenticare almeno te stesso ». b) Lo sollecita beneficandolo. Gli dà salute, lavoro, consolazioni, sostentamento. Alcuni osservando il peccatore fortunato, mormorano della bontà di Dio, come se facesse un’ingiustizia a loro, e dicono: « Non mette conto di esser buono; guardate quell’uomo che vive quasi senza religione com’è fortunato! ». C’è caso perfino che lo stesso peccatore prenda occasione dei benefici con cui l’amore di Dio lo sollecita, per bravarlo insolentemente: « Ho peccato, e che cosa mi è capitato di triste? ». c) Lo sollecita castigandolo. Le malattie, gli insuccessi, le umiliazioni, le delusioni, sono mezzi con cui l’amore di Dio amareggia il mondo perché il peccatore si decida a distaccarvi il cuore. – Gesù, approdando una volta sulla sponda orientale del lago di Genezareth, si vide correre incontro un uomo, posseduto da uno spirito immondo. Lo sventurato aveva dimora fra i sepolcri sparsì sulla collina, e quando il demonio l’agitava, si batteva coi sassi e urlava. Appena vide Gesù, corse a Lui e con grida gli disse: « Che t’importa di me, Gesù Figliuolo di Dio? Vattene via, ti scongiuro; non tormentarmi ». Gesù con la forza invincibile del suo amore, comandò al demonio di uscire da quel corpo. E il giovane fu guarito. Orbene, Cristiani: non è impossibile che qualche anima ascoltando le meraviglie dell’amore divino verso il peccatore, abbia a ripetere il grido dell’indemoniato: « Che t’importa di me, Gesù! Lasciami stare nelle mie abitudini, nel mio fango; non tormentarmi così coi rimorsi, colle prediche, con le tue grazie… « Lasciami stare, che sono troppo cattivo per convertirmi! » Ma nessuno può essere cattivo quanto il Signore è buono. « Lasciami stare, che sono anni e anni di vergogna e di miserie, ed ormai è troppo tardi! ». Ma non è mai tardi, fin che c’è un filo di vita. Dio può compiere in un punto ciò che un uomo non saprebbe fare in cinquant’anni. « Lasciami stare; che cosa ne vuoi fare di me? » Dio vuol farne un trofeo della sua bontà; vuole mostrare in te la grandezza del suo perdono. Signore! non ascoltare le nostre grida di paura e di passione: « considera che noi non comprendiamo noi stessi e che non sappiamo ciò che vogliamo e che ci allontaniamo infinitamente da ciò che desideriamo ». Signore; dacci la forza di credere al tuo Amore, perché troppo grande da comprendere per le piccole e deboli creature che siamo. — L’ANIMA. Davanti alle due parabole, che or ora ho letto nel Messale, mi torna su dal cuore la parola che S. Paolo gridò nell’Aeropago di Atene: « Noi siamo progenie divina; se così non fosse, perché Dio si sarebbe preso tanta cura di noi? Quando un uomo si allontana dal suo Creatore e lo oltraggia, Egli non pensa che a ricondurlo a sé: si comporta come un pastore che possiede cento pecore delle quali una si sia smarrita. Nel deserto ove di solito venivano condotte d’inverno le greggi, appena si levavano i primi fiati tiepidi della primavera, tutte le colline si coprivano di una leggera peluria verde. Ed una pecora, più avida delle altre, attratta da una miglior pastura, si era sottratta agli occhi del guardiano. Che farà allora il padrone del gregge? Confida le novantanove pecore alle cure di altri pastori necessari per un numero così grande, e va alla ricerca della scomparsa: la trova, se la stringe al collo, la riporta indietro gridando: « Amici: festa festa! ho ritrovato quella che era perduta ». Quando un uomo sfugge dalle mani amorevoli del suo Creatore per intrufolarsi nella polvere e nelle immondezze, Egli non pensa che a risollevarlo fino al suo Cuore: si comporta come una madre di famiglia che possiede dieci dramme delle quali una si sia smarrita. La buona massaia stava, forse, contandole sulle mani, quando si accorse che una mancava. Come fare a ritrovarla in quella sua camera mal rischiarata in mezzo ai molti oggetti disseminati sul pavimento? Accende la lucerna, scopa, fruga, scruta: vede un luccicore: è lei. Se la stringe tra le dita e corre fuori gridando: « Amiche: festa, festa! ho ritrovato quella che era perduta ». « Oh, se sapeste! — disse Gesù a tutta la gente che aveva ascoltato le due parabole; — Oh, Se sapeste quanta gioia v’è nel cielo per ogni peccatore che si converte!… ». Queste parole del Signore, o Cristiani, esigono tutta la vostra attenzione. Forse che Dio, forse che gli Angeli, forse che i Santi farebbero tanto caso per una sola anima d’uomo, se essa non avesse un prezzo infinito? Se essa non contenesse qualche cosa di divino, forse il Padre dell’universo n’andrebbe in cerca con tanta brama? Eppure al valore dell’anima chi ci pensa? – 1. VALORE DELL’ANIMA. S. Giovanni l’Evangelista, sollevato un giorno in estasi vide in cielo un segno misterioso e grande: una Signora vestita di sole, coronata di stelle, con sotto i piedi la luna. Molti hanno cercato d’interpretare il senso di questa visione: chi nella Signora riconobbe la Vergine Maria, e chi la Chiesa. Però non si può dar torto a S. Bernardino da Siena, che affermò che quella Donna significa l’anima umana. Infatti: l’anima in grazia è splendida più che se fosse vestita coi raggi del sole; è coronata di stelle, perché gli Angeli, mistiche stelle del paradiso, la circondano ammirati; ha la luna sotto i piedi perché tutte le cose create in suo confronto sono da calpestarsi. Ma pur lasciando la visione dell’Evangelista, ragioniamo per un momento sulla preziosità dell’anima. La preziosità di qualunque oggetto deriva dalla sua intrinseca fattura, dalla sua utilità, dalla sua rarità. 1) Orbene, preziosissima è l’anima per la sua intrinseca fattura. Essa venne creata da Dio. Un quadro di Raffaello, una statua di Michelangelo sono valutati con prezzi favolosi, perché sono usciti dalle mani di artisti famosi: e l’anima nostra non esce forse dalle mani dell’Artista Supremo? Notate ancora che essa venne creata da Dio, a sua somiglianza: porta quindi in sé qualche cosa della bellezza, della grandiosità, della sapienza di Dio. Come Dio è uno nell’essenza e trino nelle Persone, così l’anima è una nell’essenza ma ha tre facoltà: memoria, intelletto e volontà. Come Dio è invisibile, così essa è invisibile. Come Dio è eterno, così essa, una volta creata, più non muore. Come Dio è libero, così essa pure è libera. 2) L’anima è pure preziosissima per riguardo alla sua utilità: l’anima nostra ragionevole è ciò che ci distingue dalle bestie; ciò che ci fa capaci d’amare Dio, di servirlo liberamente, ed un giorno nel cielo, confortati dalla grazia, di goderlo per tutta l’eternità. Cicerone, quantunque pagano, intuiva il valore dell’anima quando diceva che essa era tutto l’uomo. Homo constat ex anima. Purtroppo, molti Cristiani vivono come se essa non contasse per niente. 3) La preziosità di un oggetto si deduce ancora dalla sua rarità: ebbene, di anima ce n’è una sola, E quella perduta, tutto è perduto; e quella salvata, tutto è salvato. Ma se questo ragionamento ancor non vi persuade, lasciatevi almeno convincere dal conto in cui il Figlio di Dio e il principe del male hanno tenuto le anime. Che non fa il Demonio, che non tenta, che non promette pur di conquistarne una? « Hæc omnia tibi dabo — dice egli a Gesù mostrandogli dalla vetta d’un monte i regni della terra, — si cadens adoraveris me!» (Mt., IV, 9). satana è pronto a cedere un mondo intero per avere un’anima, e noi gliela abbandoniamo per così poco! Propter pugillum hordei, et fragmen panis (Ezech., XIII, 19). Per il capriccio di un’ora, per un interesse vile, per una golosità bestiale. « Che stoltezza, esclama San Bernardo, stimar così poco quell’anima che perfino il demonio ha in sì gran prezzo! ». – Che non fa Gesù, che non tenta, che non promette per salvare le anime nostre? Egli ha lasciato gli Angeli in cielo ed è corso per tutte le strade della terra in cerca dell’uomo, pecorella perduta! Egli, come la massaia, ha messo a soqquadro il mondo per sollevarci fuori dalla nostra miseria! Egli si è fatto calunniare, tradire, battere a sangue, sputare in volto, e crocifiggere per la nostra anima. « Badate — ci avvisò S. Pietro — che foste redenti non con oro o con argento disprezzabile, ma con tutto il sangue prezioso dell’Agnello ». – 2. CURA DELL’ANIMA. Racconta un poeta latino che un giovane preso dalla follia di scialacquare patrimoni interi, stemperò nell’aceto una perla preziosissima e la bevve in un sorso (Horat., Sat. II, 3, 240). Un fremito d’indignazione ci scuote solo al ricordo di tanta storditezza. Ma che diranno gli Angeli quando vedono gli uomini sperdere la propria anima per una boccata di piacere acetoso? Bisogna aver cura della propria anima, come la saggia e onorevole madre ha cura del suo figlio unico: ella lo istruisce, lo fortifica, lo nutre; così noi dobbiamo istruire, fortificare, nutrire la nostra anima in ogni giorno della vita. 1) Dobbiamo istruirla. Nelle scienze profane? senza dubbio possiamo raccogliere anche da esse qualche sprazzo di luce; ma la vera luce dell’anima è la scienza sacra, è il catechismo, è la dottrina di Gesù. « Io sono la luce del mondo che illumina ogni anima ». Da qui deriva in noi l’obbligo di frequentare la Chiesa e le prediche, di non lasciar mancare alle anime dei nostri figli l’istruzione religiosa. Ricordatevi che lo Spirito Santo ha lanciato una terribile maledizione contro quelli che rifiutano la sua scienza: « Quia tu repulisti scientiam, repellam te » (Osea, IV, 6). 2) Dobbiamo fortificarla. I giovani per crescere vigorosi si esercitano alla corsa, al salto, alla lotta; l’anima pure deve essere esercitata a correre sulla via del bene, a saltare le occasioni pericolose, a lottare contro i nemici spirituali. È questo un lavoro non scevro di sforzi: ma nessuno può salvarsi senza fatica, anzi il progresso della nostra anima è proporzionato alla violenza che avremo fatto contro noi stessi. Tantum proficies, quantum tibi ipsi vim intuleris. 3) Dobbiamo nutrirla. L’anima è cosa tutta celeste, e non ha cibo se non dì cielo: la preghiera e la Comunione. Che cosa è di un corpo che non si nutre? Muore: così è dell’anima che non prega e non si comunica frequentemente. Or voi capite perché S. Paolo scrive ai Cristiani di Tessalonica: « Pregate senza interruzione ». Molti domandano con insistenza: «Riuscirò a salvare la mia anima? ». A costoro rispondo con un grazioso fatterello che il P. Segneri amava, sorridendo, raccontare dal pulpito. C’era sulla piazza d’Atene un famoso indovino che a tutti dava pronostici e predicava il futuro e svelava il passato. Or ecco, un giorno, gli si accostò per gabbarlo un uomo che teneva una passera chiusa nel pugno. « Sai dirmi, — gli chiese. — se è viva od è morta? ». Ma l’astuto pensava tra sé così: se egli dirà morta, io lascerò ch’essa voli e lo smentirò; se egli la dirà viva, io la stringerò col pollice e la farò morire. Ma l’indovino fu più furbo del furbo tentatore, e così rispose: « Signore, la vostra passera è tal quale la volete voi: Se viva, viva; se morta, morta ». Tutti gli astanti applaudirono. Cristiani, quella sagace risposta io potrei girarla a voi. La vostra anima sarà tal quale la volete voi, se salva, salva; se dannata, dannata. Anima vestra in manibus vestris. (Ps. CXVIII, 109). Sono assai certo che tutti voi la volete salva; ma allora abbiatene gelosamente cura: istruitela, fortificatela, nutritela. — Se la bianca agnella, se la dramma splendente sono simbolo dell’anima, io penso che senza sforzo possono anche significare la virtù più bella che adorna l’anima, la virtù che la imbianca e la fa risplendere: la castità. Senza di questa virtù che valgono all’uomo, che valgono alla donna tutti gli altri meriti, fossero anche nove come le dramme o novantanove come le pecore? Ascoltate, dunque, una parola che vi faccia apprezzare questa gemma spirituale troppo conculcata nel mondo. Così vi sentirete sospinti a custodirla con ogni fatica se la possedete; così, se una orribile disgrazia ve l’ha fatta smarrire, ancora sì come il pastore e come la donna della parabola non vi darete pace se non dopo averla ricuperata. – 1. CHE COS’È LA CASTITÀ. Un giovane era tormentato dal desiderio cocente di possedere una perla di valore. E forse già aveva inquisito nei più ricchi mercati, forse già aveva fatto scandagliare nel profondo delle acque, forse aveva frugato nelle viscere della terra: invano. Ma un giorno, dopo lunga brama, ne trovò una: così bella, così rara, così fulgente che fu estasiato. Sussultante per la letizia che gli traspariva dalle pupille, va, vende tutto quello che aveva e la compra. Abiit et vendidit omnia quæ habuit et emit ea (Mt., XIII, 46). Questa perla che supera ogni prezzo, per cui i Santi fecero gettito di ogni mondana cosa e persino della vita, è dentro al nostro cuore. È la castità. « Io sento nel mio corpo una legge che si oppone alla legge della mia mente. La carne desidera contro lo spirito e lo spirito contro la carne» (Rom., VII, 23). Quello che ha provato S. Paolo, è pure il combattimento che noi tutti, giorno per giorno, esperimentiamo. Or bene, sottomettere il senso alla ragione, rendere il corpo servo dell’anima: ecco la perla della castità. Questa virtù ha due gradi: il primo eroico, non obbliga tutti, ma solo quelli a cui il Signore concede l’immensa grazia di consacrarsi a Lui unicamente in verginità perfetta. Il secondo, comune, obbliga alla castità assoluta tutti coloro che non sono legati dal vincolo matrimoniale, e alla castità coniugale quelli invece che sono sposati. Comunque, in qualsiasi grado, la castità è sempre la perla più preziosa del mondo. La castità è bellezza! Pensate com’è bella la primavera quando passa per le nostre contrade. Il cielo si fa profondo e azzurro, l’aria tiepida e profumata; tornano le rondini dalle terre lontane, tornano le allodole a cantare nell’alto; i campi, pizzicati dal raggio del sole nuovo, tremano di gioia e si coprono di erbette tenere; i giardini erompono in fiori rossi, bianchi, pallidi e screziati; gli uomini sorridono e sì sentono più giovani e più buoni. Come una primavera magnifica è bella l’anima casta. La Santa Scrittura non ha parole sufficienti a lodarla: è bella, dice, come la neve; bella come il giglio; bella come il sole; bella come il cielo stellato. La castità è amabilità. Gesù ne era affascinato. Ha voluto per madre la Regina dei vergini; per custode un uomo vergine; per discepolo prediletto Giovanni il vergine; per amici i piccoli fanciulli ridenti di purezza. E piuttosto che nascere in Betlemme, la città dell’impudico Erode, ha preferito venire al mondo nella stalla tra le bestie; ed in giro alla sua cuna gli Angeli chiamarono i casti pastori. Non soltanto Dio, ma anche noi sentiamo il fascino della purezza: davanti ad una persona casta ci sentiamo attratti come da un mistico profumo che s’espanda dal suo cuore. La castità è forza. Non i deboli, non le anime infrollite posseggono questa virtù, ma sono i forti, quelli che non piegano come le canne ad ogni soffio di passione, ma resistono indomiti, come le querce. Ma non sono solo forti contro il demonio, ma anche con Dio sono forti i casti, perché alle loro suppliche Iddio non nega mai nulla. O anime caste! usate della vostra potenza presso Dio, sollevate le vostre ferme preghiere al cielo e fate scendere sulla terra la rugiada dei favori divini. La castità è nobiltà. Il vergine profeta nell’Apocalisse vide l’aristocrazia del Cristianesimo. Essa non era composta di ricchi, di scienziati, di conti, di re, ma solo di casti. Questi cantavano un cantico che nessun altro sapeva, e stavano vicino all’Agnello più che gli Angeli; sì, poiché se la purezza dell’Angelo è più felice, questa dell’uomo è più gloriosa e lodevole. La castità è amore. Essa ingentilisce il cuore, lo rende buono, riconoscente, compassionevole, affettuoso. Gli impuri sono egoisti e crudeli che ogni diritto calpestano pur di godere: invano i genitori aspettano l’amore dei figli, se questi non crescono puri; invano gli sposi sì promettono vicendevole affetto, se non è rispettata la castità coniugale. – 2. COME SI CONSERVA. Nel 1581 passava in Italia la serenissima Donna Maria d’Austria figlia di Carlo V Imperatore. Tutti i principi erano invitati ad accoglierla, e, tra questi, anche il giovane figliuolo di Don Ferrante, marchese di Castiglione, Luigi Gonzaga. Che magnifica festa in quella giornata d’autunno, e che animazione gioiosa ad ogni balcone, ad ogni finestra! Tutti volevano vederla. Ed ecco finalmente compare: tutti agitano i fazzoletti di seta e fissano lo sguardo. Il piccolo Luigi che si trovava al balcone d’un palazzo signorile, in quel momento alzò la sua mano a far festa, ma chiuse gli occhi: la figlia del grande imperatore passava ed egli non la vide. Alcuni penseranno che questi sono scrupoli ed esagerazioni: anche S. Luigi sapeva bene che non v’era nessun peccato a vedere la principessa, ma sapeva anche che la gemma preziosa della castità noi la portiamo in vasi fragili, e talvolta basta un solo sguardo per smarrirla sciaguratamente. Ad ogni svolta di via, ad ogni ora del giorno e della notte, il nemico delle anime mostre ci può capitare addosso e colpirci. Quali armi abbiamo dunque per difenderci? Cristiani, questo genere di demoni non lo si scaccia se non con la mortificazione e l’orazione. a) Mortificazione del corpo: attenti agli occhi, perché come dice la Scrittura « dalle finestre entra nell’anima la morte »; attenti alla lingua perché dice l’Apostolo che ci sono certi peccati che tra i Cristiani non si debbono neppure nominare, sicut decet sanctis. b) Mortificazione del cuore: attenti alle amicizie con persone di sesso diverso. Queste amicizie si presentano dapprima in un aspetto di genialità innocente » fors’anche virtuosa: ma poco appresso si trasmutano in morbida sensibilità, e poi in peccaminosa sensibilità. Anche il serpente ha la lingua vezzosa e le squame lucide; pure, sotto sì belle apparenze, nasconde la morte. Anche il baleno splende luminoso agli occhi nell’atto stesso che uccide la persona. c) Alla mortificazione unite la preghiera e canterete vittoria sul nemico tremendo. Pregate Maria: S. Giovanni, l’Apostolo vergine, fece di Maria la sua madre adottiva, la sua fida compagna. Accepiît in sua. Fate anche voi così: Ella stia sempre al vostro fianco e col suo manto vi difenda da ogni peccato. Pregate Gesù: il Salvatore che è morto per la salute delle anime non sarà sordo ai nostri gridi di soccorso. Fate ancor questo: unitevi frequentemente alla sua carne eucaristica, all’Ostia santa, al Cielo divino: troverete un pane di castità e un vino di candore. – Cadeva la notte. Nella sua celletta piena d’ombra, Santa Caterina da Siena ripensava alla festa che finiva. Rivide gli stendardi vagamente agitati dai giovani, rivide la folla addensata nel Campo sotto il sole di Luglio, e i palchi gremiti di dame sfarzose. In quel momento entrò il demonio a tentarla: « Anche tu, Caterina, potrai essere tra loro. Perché ti sei tagliata i capelli biondi, perché porti cilicio sul corpo delicato, perché vuoi farti monaca? Vedi quest’abito? Non è forse più bello del rude saio claustrale? ». Nell’incerto lume della sera, la santa credé vedere davanti un giovane svelto che le presentava una ricca veste, fatta coi petali molli delle rose. Mentre Caterina rimaneva dubbiosa, le apparve la santa vergine Maria. Come già il tentatore anch’Ella aveva sul braccio una veste splendida, ricamata d’oro e di perle, raggiante di pietre preziose. « Devi sapere, o figliuola, — disse la Madre di Gesù con la sua voce dolce che fa piangere di consolazione quanti la odono, – devi sapere che le vesti cavate fuori e intessute dentro il costato del mio Figlio, per te ucciso, superano in valore qualunque preziosità di vesti lavorate da altre mani che dalle mie ». Allora Caterina, tutta ardente di desiderio e tremante di umiltà, chinò la testa e la Vergine la rivestì della tunica celeste. Cristiani, ad ogni anima che viene nel mondo si fa davanti il demonio con la sua veste intessuta con le rose dei piaceri carnali e vergognosi, e la Vergine Maria, con la sua veste di purità cavata dal Crocifisso e intessuta dalle sue mani. Guardatevi bene dall’accettare quella del demonio! le rose cadrebbero e vi sentireste in breve sepolti nelle spire ardenti dell’inferno. Scegliete quella della Madonna, perché essa sola è di uno splendore immortale: con essa soltanto potrete entrare in paradiso. È la veste nuziale.

IL CREDO

 Offertorium

Orémus: Ps IX: 11-12 IX: 13 Sperent in te omnes, qui novérunt nomen tuum, Dómine: quóniam non derelínquis quæréntes te: psállite Dómino, qui hábitat in Sion: quóniam non est oblítus oratiónem páuperum.

[Sperino in te tutti coloro che hanno conosciuto il tuo nome, o Signore: poiché non abbandoni chi ti cerca: cantate lodi al Signore, che àbita in Sion: poiché non ha trascurata la preghiera dei poveri.]

 Secreta

Réspice, Dómine, múnera supplicántis Ecclésiæ: et salúti credéntium perpétua sanctificatióne suménda concéde.

[Guarda, o Signore, ai doni della Chiesa che ti supplica, e con la tua grazia incessante, fa che siano ricevuti per la salvezza dei fedeli.]

COMUNIONE SPIRITUALE

 Communio

Luc XV: 10. Dico vobis: gáudium est Angelis Dei super uno peccatóre poeniténtiam agénte.

[Vi dico: che grande gaudio vi è tra gli Angeli per un peccatore che fa penitenza.]

 Postcommunio

Orémus.

Sancta tua nos, Dómine, sumpta vivíficent: et misericórdiæ sempitérnæ praeparent expiátos.

[I tuoi santi misteri che abbiamo ricevuto, o Signore, ci vivifichino, e, purgandoci dai nostri falli, ci preparino all’eterna misericordia.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

FESTA DEL SACRO CUORE DI GESÙ (2022)

FESTA DEL SACRATISSIMO CORE DI GESÙ (2022)

VENERDÌ DOPO L’OTTAVA DEL CORPUS DOMINI.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Doppio di Ia cl. con Ottava privilegiata di 3° ordine. – Param. bianchi.

Il Protestantesimo nel secolo XVI e il Giansenismo nel XVIII avevano tentato di sfigurare uno dei dogmi essenziali al Cristianesimo: l’amore di Dio verso tutti gli uomini. Lo Spirito Santo, che è spirito d’amore, e che dirige la Chiesa per opporsi all’eresia invadente, affinché la Sposa di Cristo, lungi dal veder diminuire il suo amore verso Gesù, lo sentisse crescere maggiormente, ispirò la festa del Sacro Cuore. L’Officio di questo giorno mostra « il progresso trionfale del culto del Sacro Cuore nel corso dei secoli. Fin dai Primi tempi i Padri, i Dottori, i Santi hanno celebrato l’amore del Redentore nostro e hanno detto che la piaga, fatta nel costato di Gesù Cristo, era la sorgente nascosta di tutte le grazie. Nel Medio-evo le anime contemplative presero l’abitudine di penetrare per questa piaga fino al Cuore di Gesù, trafitto per amore verso gli uomini » (2° Notturno). — S. Bonaventura parla in questo senso: « Per questo è stato aperto il tuo costato, affinché possiamo entrarvi. Per questo è stato ferito il tuo Cuore affinché possiamo abitare in esso al riparo delle agitazioni del mondo (3° Nott.). Le due Vergini benedettine Santa Geltrude e Santa Metilde nel XIII secolo ebbero una visione assai chiara della grandezza della devozione al Sacro Cuore:. S. Giovanni Evangelista apparendo alla prima le annunziò che « il linguaggio dei felici battiti del Cuore di Gesù, che egli aveva inteso, allorché riposò sul suo petto, è riservato per gli ultimi tempi allorché il mondo invecchiato raffreddato nell’amore divino si sarebbe riscaldato alla rivelazione di questi misteri (L’araldo dell’amore divino. – Libro IV c 4). Questo Cuore, dicono le due Sante, è un altare sul quale Gesù Cristo si offre al Padre, vittima perfetta pienamente gradita. È un turibolo d’oro dal quale s’innalzano verso il Padre tante volute di fumo d’incenso quanti gli uomini per i quali Cristo ha sofferto. In questo Cuore le lodi e i ringraziamenti che rendiamo a Dio e tutte le buone opere che facciamo, sono nobilitate e diventano gradite al Padre. — Per rendere questo culto pubblico e ufficiale, la Provvidenza suscitò dapprima S. Giovanni Eudes, che compose fin dal 1670, un Ufficio e una Messa del Sacro Cuore, per la Congregazione detta degli Eudisti. Poi scelse una delle figlie spirituali di S. Francesco di Sales, Santa Margherita Maria Alacoque, alla quale Gesù mostrò il suo Cuore, a Paray-le-Monial il 16 giugno 1675, il giorno del Corpus Domini, e le disse di far stabilire una festa del Sacro Cuore il Venerdì, che segue l’Ottava del Corpus Domini. Infine Dio si servì per propagare questa devozione, del Beato Claudio de la Colombière religioso della Compagnia di Gesù, che mise tutto il suo zelo a propagare la devozioni al Sacro Cuore». (D. GUERANGER, La festa del Sacro Cuore di Gesù). – Nel 1765, Clemente XIII approvò la festa e l’ufficio del Sacro Cuore, e nel 1856 Pio IX l’estese a tutta la Chiesa. Nel 1929 Pio XI approvò una nuova Messa e un nuovo Officio del Sacro Cuore, e vi aggiunse una Ottava privilegiata. Venendo dopo tutte le feste di Cristo, la solennità del Sacro Cuore le completa riunendole tutte in un unico oggetto, che materialmente, è il Cuore di carne di un Uomo-Dio e formalmente, è l’immensa carità, di cui questo Cuore è simbolo. Questa festa non si riferisce a un mistero particolare della vita del Salvatore, ma li abbraccia tutti. È la festa dell’amor di Dio verso gli uomini, amore che fece scendere Gesù sulla terra con la sua Incarnazione per tutti (Off.) che per tutti è salito sulla Croce per la nostra Redenzione (Vang. 2a Ant. dei Vespri) e che per tutti discende ogni giorno sui nostri altari colla Transustanziazione, per applicarci i frutti della sua morte  sul Golgota (Com.). — Questi tre misteri ci manifestano più specialmente la carità divina di Gesù nel corso dei secoli (Intr.). È « il suo amore che lo costrinse a rivestire un corpo mortale » (Inno del Mattutino). È il suo amore che volle che questo cuore fosse trafitto sulla croce (Invitatorio, Vang.) affinché ne scorresse un torrente di misericordia e di grazie (Pref.) che noi andiamo ad attingerecon gioia (Versetto dei Vespri); un acqua, che nel Battesimo ci purifica dei nostri peccati (Ufficio dell’Ottava) e il sangue, che, nell’Eucaristia, nutrisce le nostre anime (Com.). E, come la Eucaristia è il prolungamento dell’Incarnazione e il memoriale del Calvario, Gesù domandò che questa festa fosse collocata immediatamente dopo l’Ottava del SS. Sacramento. — Le manifestazioni dell’amore di Cristo mettono maggiormente in evidenza l’ingratitudine degli uomini, che corrispondono a questo amore con una freddezza ed una indifferenza sempre più grande, perciò questa solennità presenta essenzialmente un carattere di riparazione, che esige, la detestazione e l’espiazione di tutti i peccati, causa attuale dell’agonia che Gesù sopportò or sono duemila anni. — Se Egli previde allora i nostri peccati, conobbe anche anticipatamente la nostra partecipazione alle sue sofferenze e questo lo consolò nelle sue pene (Off.). Egli vide soprattutto le sante Messe e le sante Comunioni, nelle quali noi ci facciamo tutti i giorni vittime con la grande Vittima, offrendo a Dio, nelle medesime disposizioni del Sacro Cuore in tutti gli atti della sua vita, al Calvario e ora nel Cielo, tutte le nostre pene e tutte le nostre sofferenze, accettate con generosità. Questa partecipazione alla vita eucaristica di Gesù è il grande mezzo di riparare con Lui, ed entrare pienamente nello spirito della festa del Sacro Cuore, come lo spiega molto bene Pio XI nella sua Enciclica « Miserentissimus » (2° Nott. dell’Ott.) e nell’Atto di riparazione al Sacro Cuore di Gesù, che si deve leggere in questo giorno davanti al Ss. Sacramento esposto.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXXII: 11; 19
Cogitatiónes Cordis ejus in generatióne et generatiónem: ut éruat a morte ánimas eórum et alat eos in fame.

[I disegni del Cuore del Signore durano in eterno: per strappare le ànime dalla morte e sostentarle nella carestia.]


Ps XXXII: 1
Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.

[Esultate nel Signore, o giusti, la lode conviene ai retti.]

Cogitatiónes Cordis ejus in generatióne et generatiónem: ut éruat a morte ánimas eórum et alat eos in fame.

[I disegni del Cuore del Signore durano in eterno: per strappare le ànime dalla morte e sostentarle nella carestia.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui nobis in Corde Fílii tui, nostris vulneráto peccátis, infinítos dilectiónis thesáuros misericórditer largíri dignáris: concéde, quǽsumus; ut, illi devótum pietátis nostræ præstántes obséquium, dignæ quoque satisfactiónis exhibeámus offícium.  

[O Dio, che nella tua misericordia Ti sei degnato di elargire tesori infiniti di amore nel Cuore del Figlio Tuo, ferito per i nostri peccati: concedi, Te ne preghiamo, che, rendendogli il devoto omaggio della nostra pietà, possiamo compiere in modo degno anche il dovere della riparazione.]


Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios. Eph III: 8-19

Fratres: Mihi, ómnium sanctórum mínimo, data est grátia hæc, in géntibus evangelizáre investigábiles divítias Christi, et illumináre omnes, quæ sit dispensátio sacraménti abscónditi a sǽculis in Deo, qui ómnia creávit: ut innotéscat principátibus et potestátibus in cœléstibus per Ecclésiam multifórmis sapiéntia Dei, secúndum præfinitiónem sæculórum, quam fecit in Christo Jesu, Dómino nostro, in quo habémus fidúciam et accéssum in confidéntia per fidem ejus. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis ei in terra nominátur, ut det vobis, secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo, et longitúdo, et sublímitas, et profúndum: scire étiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei.

[Fratelli: A me, minimissimo di tutti i santi è stata data questa grazia di annunciare tra le genti le incomprensibili ricchezze del Cristo, e svelare a tutti quale sia l’economia del mistero nascosto da secoli in Dio, che ha creato tutte cose: onde i principati e le potestà celesti, di fronte allo spettacolo della Chiesa, conoscano oggi la multiforme sapienza di Dio, secondo la determinazione eterna che Egli ne fece nel Cristo Gesù, Signore nostro: nel quale, mediante la fede, abbiamo l’ardire di accedere fiduciosamente a Dio. A questo fine piego le mie ginocchia dinanzi al Padre del Signore nostro Gesù Cristo, da cui tutta la famiglia e in cielo e in terra prende nome, affinché conceda a voi, secondo l’abbondanza della sua gloria, che siate corroborati in virtù secondo l’uomo interiore per mezzo del suo Spirito. Il Cristo abiti nei vostri cuori mediante la fede, affinché, ben radicati e fondati nella carità, possiate con tutti i santi comprendere quale sia la larghezza, la lunghezza e l’altezza e la profondità di quella carità del Cristo che sorpassa ogni concetto, affinché siate ripieni di tutta la grazia di cui Dio è pienezza inesauribile.]

Graduale

Ps XXIV:8-9
Dulcis et rectus Dóminus: propter hoc legem dabit delinquéntibus in via.
V. Díriget mansúetos in judício, docébit mites vias suas.

[Il Signore è buono e retto, per questo addita agli erranti la via.
V. Guida i mansueti nella giustizia e insegna ai miti le sue vie.]
Mt XI: 29

ALLELUJA

Allelúja, allelúja. Tóllite jugum meum super vos, et díscite a me, quia mitis sum et húmilis Corde, et inveniétis réquiem animábus vestris. Allelúja.

[Allelúia, allelúia. Prendete sopra di voi il mio giogo ed imparate da me, che sono mite ed umile di Cuore, e troverete riposo alle vostre ànime. Allelúia]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joannes XIX: 31-37
In illo témpore: Judǽi – quóniam Parascéve erat, – ut non remanérent in cruce córpora sábbato – erat enim magnus dies ille sábbati, – rogavérunt Pilátum, ut frangeréntur eórum crura, et tolleréntur. Venérunt ergo mílites: et primi quidem fregérunt crura et alteríus, qui crucifíxus est cum eo. Ad Jesum autem cum veníssent, ut vidérunt eum jam mórtuum, non fregérunt ejus crura, sed unus mílitum láncea latus ejus apéruit, et contínuo exívit sanguis et aqua. Et qui vidit, testimónium perhíbuit: et verum est testimónium ejus. Et ille scit quia vera dicit, ut et vos credátis. Facta sunt enim hæc ut Scriptúra implerétur: Os non comminuétis ex eo. Et íterum alia Scriptúra dicit: Vidébunt in quem transfixérunt.

[In quel tempo: I Giudei, siccome era la Parasceve, affinché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era un gran giorno quel sabato – pregarono Pilato che fossero rotte loro le gambe e fossero deposti. Andarono dunque i soldati e ruppero le gambe ad entrambi i crocifissi al fianco di Gesù. Giunti a Gesù, e visto che era morto, non gli ruppero le gambe: ma uno dei soldati gli aprì il fianco con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua. E chi vide lo attesta: testimonianza verace di chi sa di dire il vero: affinché voi pure crediate. Tali cose sono avvenute affinché si adempisse la Scrittura: Non romperete alcuna delle sue ossa. E si avverasse l’altra Scrittura che dice: Volgeranno gli sguardi a colui che hanno trafitto.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.)

AMOR PER AMORE

Al popolo di Israele « dalla testa dura » (Deut., IX, 6) Iddio aveva concesso leggi di un’elementare e palpitante giustizia: occhio per occhio, dente per dente, ferita per ferita, rottura per rottura (Lev., XXIV, 20). Altra giustizia non avrebbe potuto intendere quel popolo fuor di questa grossa del taglione. A noi invece, istruiti dai precetti salutari e dagli esempi del Vangelo, raffinati dallo Spirito Santo disceso in Noi, è possibile comprendere una giustizia più profonda e più completa: quella del perdono e del bene, « Chi vi odia, amatelo! chi vi fa del male, beneficatelo! » (Mt., V, 44). E ben questo il significato della festa d’oggi in cui pare che il Figlio di Dio venga incontro a ciascuno di noi come lo vide Santa Margherita Maria Alacoque: « Ecco quel cuore il quale ha tanto amato gli uomini… Rendigli in contraccambio il tuo cuore, rendigli il tuo amore ». S. Giovanni il prediletto ne aveva intuito i palpiti ardenti, e nell’ultima cena piegò la testa giovanile sul petto divino per ascoltarli. Ma le anime mistiche e privilegiate non bastano a Gesù, Egli volle mostrare a tutti il suo Cuore. Perciò; dopo la morte, un soldato con la lancia squarciò il suo costato. Le piaghe di un cadavere non si rimarginano più; e quella ferita del Cuore di Cristo resta aperta nei secoli, e « attraverso alla ferita visibile noi vediamo la ferita invisibile dell’amore ». (S. BONAVENTURA, Vitis mystica, c.. II). Più nessuno, per quanto debole di vista o freddo di spirito, potrà negare quell’Amore. Invano ha tentato di negarlo Tommaso il Gemello, uno dei dodici. Gesù riapparendo lo chiamò e disse: « Incredulo! metti la tua mano dentro a questa piaga ». E dovette intingere le sue dita in quel Cuore, e gridare come se le sentisse scottare una tremenda fiamma: « Dio mio! Signor mio! ». Cristiani, a tutti quanti ancora non si sono arresi alle dolci attrattive del Signore, a chi spreca i pochi anni della vita nel peccato o nella tristezza, Gesù rivolge il suo amoroso e doloroso rimprovero: « Incredulo! metti la tua gelida mano dentro questa piaga del mio Cuore: è Cuore ardente d’amore; è Cuore ferito d’amore ».

1. È CUORE ARDENTE D’AMORE

Almeno prima di morire il Signore un giorno di trionfo non ha voluto negarselo. Era un dorato mezzodì d’aprile: Gesù dal colle degli Ulivi scese verso la città. Ed ecco la frotta dei discepoli e molta gente accorsa incontro cominciò a trar dal cuore gridi di esultanza e di adorazione. « Viva il re che viene! Benedetto il Figlio di Davide! Gloria in cielo! Pace in terra! ». Alcuni Farisei, sospettosi e astiosi, all’udir questo incontenibile frastuono si rivolsero a Gesù: « Maestro, falli smettere questi urlatori ». Ed Egli, senza fermarsi, rispose: « Io vi dico che se anche costoro tacessero, griderebbero le pietre » (Lc., XIX, 37-40). Ma ci sono dunque delle anime più sorde più dure più immobili delle pietre di montagne? È dunque più facile strappare dai sassi una voce di riconoscenza, un fremito d’affetto, che non dal cuore degli uomini? Troppa gente vive come se non intendesse i palpiti del Cuore di Gesù. Poteva questo Sacro Cuore far di più a noi? ah, lo gridino le pietre!

a) Lo gridino le pietre della grotta di Betlemme, che per le prime videro in gracile carne l’Unigenito dell’Onnipotente. Pensate: tutto il genere umano, fatto nemico del Creatore per la colpa del primo padre Adamo, gemeva sotto la schiavitù del demonio. Non poteva uscire da così miseranda rovina e riconciliarsi con Dio perché privo di un mediatore che valesse a tanto; né v’era tra le creature chi potesse compensare l’ingiuria fatta all’infinita Maestà e sollevare gli uomini dall’abisso profondo ov’erano precipitati. Essi stessi, lungi dall’implorare pietà, si erano allontanati dal Creatore e, abbandonatisi ciecamente al disordine, dormivano smemorati in braccio alla morte. Ebbene, chi pensò ad essi? chi si prese cura dell’infelicissimo loro destino? Fu il divin Cuore che ebbe pietà di tutti gli uomini e decise di spezzare le loro catene, di operare la loro salvezza. E come fece? Lo gridino le pietre della grotta: nacque bambino per crescere vittima di sacrificio, per soddisfare in sovrammisura alla giustizia del Padre. Chi avrebbe osato chiedere un sì grande rimedio? Chi anche solo avrebbe potuto immaginarlo? Eppure, quello che nessun uomo avrebbe saputo immaginarlo, immaginò e fece l’Amor di Dio.

b) E se l’uomo non l’intende lo gridino pure le pietre delle strade palestinesi. Esse videro Gesù passare sotto le sferze del vento invernale e sotto le vampate del solleone in cerca di anime; lo videro raccogliere dalla polvere bambini e stringerli al Cuore; lo videro consolare, insegnare, guarire, da ogni male. Esse lo attesero invano molto per offrirgli un’ora di sonno e di ristoro. « Gli uccelli hanno un nido, le volpi una tana; soltanto il Figlio dell’Uomo non ha pietra dove posare la guancia » (S. Lc. IX, 58).

c) Lo gridino ancora le pietre del deserto, quelle che videro Gesù moltiplicare pane e companatico per sfamare parecchie migliaia di bocche. « Questa folla mi fa compassione: e non mi basta il Cuore di rimandarla digiuna indietro; forse qualcuno potrebbe sentirsi male lungo il cammino » (Mt., XV, 32). Il Figlio di Dio sentiva dunque tremare le fibre del suo Cuore d’uomo anche per le nostre sofferenze corporali. – E dire che per nostro amore Egli, non tre giorni appena, ma quaranta sopportò il digiuno: ed alla fine si rifiutò di cambiare in pani le bollenti pietre del deserto che satana gli presentava (Mt., IV, 4). Quanta tenerezza e profondità d’affetto!

d) Lo gridi pure la pietra che ostruiva il sepolcro di Lazzaro. Gesù stava davanti ad essa diritto, ed aveva a’ suoi fianchi Marta e Maria, e dietro a Lui molti dolenti e molti curiosi. « Come vide le sorelle piangere, e altra gente piangere, lo prese un tremito di commozione che tutto lo conturbò ». Invano forse cercò di dominarsi, e « scoppiò a piangere ». Quando i Giudei videro quelle lagrime sgorgare dal suo Cuore premuto dalla compassione, fu un lungo mormorare di meraviglia: «Guardate come l’amava!» (Giov.. XI, 33 ss.). E a noi, Cristiani, le lagrime del Cuor di Gesù sulla tomba dell’amico, o quelle altre sulla città ingrata non destano neppure un sincero brivido di commozione o di meraviglia?

e) Se poi tacciamo, grideranno le pietre del Cenacolo. Essendo venuto il tempo di sua partenza, Gesù non seppe lasciarci senza un qualche dono, e il dono fu quale soltanto il Cuore suo poteva trovare. Quando Luigi XVI uscì dalla prigione per andare al palco di morte, incontrò il suo fedel servo Clery, che piangeva dirottamente sulla sventura del suo sovrano. Il re angosciato volle lasciargli un ricordo. Ristette un momento pensando, e poi portata la mano alla fronte, strappò dal suo capo una ciocca de’ suoi capelli incanutiti precocemente e glieli donò. Clery ringraziandolo, se li strinse al petto. Ma il Cuore di Gesù disponendo colla sua onnipotenza di mezzi pari al suo desiderio, trovò un ricordo che realizzasse il sogno dell’amore, di star cioè sempre colla persona amata. « Questo — disse agli amati discepoli ed agli uomini — è il mio corpo, e questo è il mio sangue: rinnovate questo sacramento in mia memoria ». Qual dono è mai l’Eucaristia! Noi abbiamo sull’altare il Cuore vero di Gesù nel suo Corpo vivo: noi l’adoriamo, l’amiamo.

f) Ma il supremo atto d’amore del Sacro Cuore, lo gridano le pietre del Calvario; quelle che nell’istante della morte, più sensibili di molti cuori umani, si spaccarono e tremarono. Diceva un giorno il nostro Signore: « Non c’è palpito più grande che dar la vita per gli amati ». Ed Egli giunse fin qui: con un grido d’immenso amore, emise lo spirito.

Dopo questa breve rassegna dei principali atti d’Amore del Sacro Cuore verso di noi, bisogna ricordare la legge a cui accennammo in principio: « Cuore per cuore, Amor per amore ».

2. È CUORE FERITO D’AMORE

Purtroppo, la terribile ingratitudine umana ha disconosciuto la profonda giustizia dell’amore. Perciò il Sacro Cuore è ferito da molte spine, e dalla lancia. Il colpo della lancia, che non poté sentire perché già morto, gli ha lasciato una piaga viva che lo costrinse a lamentarsi. « Ecco quel Cuore che ha tanto amato gli uomini e non riceve in compenso che ingratitudine per i disprezzi, le irriverenze, i sacrilegi, le freddezze che hanno per me, specialmente nel Sacramento di amore ». Una vecchia biografia di S. Domenico riferisce il seguente racconto. Una donna di costumi dubbi, contrariamente alle sue abitudini, una sera trovavasi sola in casa. A un tratto sente bussare alla porta. Va ad aprire. Un uomo bellissimo, ma in preda a una tristezza profonda, le chiede ospitalità. La donna gli serve parte della sua cena. Ma ecco che sul tovagliolo dell’ospite, una macchia di sangue è apparsa. La donna cambia il tovagliolo, ma dopo alcuni istanti, esso è di nuovo, sopra al cuore, rosso di sangue. La misera allora capisce: quell’uomo è il Crocifisso del Calvario, quel Cuore che sanguina è il prezzo del peccato. Cristiani, c’è della gente che fa sanguinare ancora il Cuore di Gesù; e c’è della gente che lo lascia indifferentemente sanguinare.

a) Lo fan sanguinare i peccatori. E tra tutti i peccati mortali — se non mi sbaglio — due specialmente trafiggono, nel Cuore, Gesù ai nostri tempi: il peccato impuro, e la trascuranza della Messa nei giorni festivi. Gesù rinnova sull’altare il supremo atto d’amore che un giorno compì sul Calvario: ed è pauroso pensare che molte anime neppure una volta alla settimana vengano ad assistervi. Che dovrà dire Gesù? « Io mi immolo per la loro salvezza, ed essi sono spensieratamente perduti nei loro affari, divertimenti, chiacchiere, come se il sacrificio del Figlio di Dio non li riguardasse ».

Gesù è venuto in terra a svelarci i tesori del suo Cuore perché ivi ponessimo i nostri affetti e i desideri di felicità. Ma l’impuro sazia il proprio cuore di affetti illeciti o vili, si fa adoratore d’una creatura, pone la sua felicità in soddisfazioni vergognose e degradanti. Così, con un oltraggio senza nome, il Redentore vede il suo Cuore respinto per una manata di ghiande; e il suo Cuore sanguina.

b) Lo lascian sanguinare i tiepidi, perché non si sentono di far nulla per consolare Gesù. Vivono senza gravi offese, ma non si accostano frequentemente all’Eucaristia, ma non pregano con fervore, ma non si sforzano d’acquistare gentilezza e candore di coscienza. Essi trattano con enorme spilorceria quell’amore che si prodiga senza misure. Inoltre, i tiepidi lasciano soffrire il Cuore di Gesù, perché non fanno nulla per riparare altri oltraggi coi quali fu ripagato Gesù per causa dell’amore che ci porta, mentre uno degli scopi principali della devozione al Sacro Cuore è appunto la riparazione. Come potranno sentire dispiacere delle colpe altrui, se indifferentemente passano sulle proprie? Come avranno zelo della salvezza del prossimo, se mettono la propria in grande pericolo? Avviene così che molti ascoltano tranquillamente bestemmiare, sparlare della fede, dir cose invereconde. E molti altri non si preoccupano di nessuna opera buona, né di missioni, né di poveri, né di chiese. E molti ancora non pregano mai per i loro compagni, o parenti, o amici traviati; non hanno cura di porre nella loro casa la immagine del Sacro Cuore, di consacrare a Lui la propria famiglia. Si racconta di un illustre pittore cristiano (Ippolito Flandrin) che dipingendo in una chiesa di Nimes ebbe la bella ispirazione di scrivere nella piega della veste di Cristo, e proprio sul Cuore, il nome di suo padre, di sua madre, della sua sposa, e dei suoi figlioli. Dopo molti anni, quando già il pittore era morto, fu scoperta quell’iscrizione: quei suoi cari nomi stavano ancora scritti sul Cuore di Gesù. – Anche noi, gettata via ogni ingratitudine e ogni tiepidezza, con la preghiera, con la mortificazione, con le opere di zelo scriviamo il nostro nome, il nome dei nostri cari, il nome delle persone che vogliamo specialmente salve, sul Cuore divino. Esso è il libro della vita.

CONCLUSIONE

Nella mattina della festa di S. Giovanni Evangelista, nel convento di Helfta in Germania, a Santa Geltrude apparve il discepolo prediletto, il quale le fece gustare le dolcezze intime ch’egli aveva provato nell’ultima cena, riposando il capo sul Cuore del Signore. La vergine benedettina estasiata non poté tenersi dal domandare: « Perché avete tenuto un così assoluto silenzio su ciò, non facendone alcun cenno nei vostri scritti, almeno per edificazione delle anime nostre? ». E l’Evangelista rispose che il conoscere la dolcezza di quei palpiti era riserbato al tempo avvenire, « affinché il mondo invecchiato, intendendo questi misteri, riacquistasse nell’amore divino un po’ di calore » (Révélations de Sainte Geltrude, Paris, 1878, 1. IV, c. IV, pag. 28). Quel tempo è giunto: il mondo è ormai invecchiato e i misteri del Cuore divino sono stati rivelati. Oh guai a quelli che non riscalderanno la loro fede alle fiamme di questo amore! dovranno penare orribilmente alle fiamme della vendetta infernale! Non illudiamoci però. Quest’amore che il Sacro Cuore domanda non è fatto di parole o di sterili sentimentalismi, ma di opere. Le opere sono la prova dell’amore. « Se mi amate; osservate i miei comandamenti » (Giov., XIV, 15). S. Paolo che aveva compreso bene il mistero del Sacro Cuore, aveva saputo amarlo bene. Sentite da lui come: « Più d’una volta per suo amore mi sono sentito la morte alle calcagna; una volta a sassate; tre volte fui in pericolo di naufragio. Per suo amore ho viaggiato tutta la vita tra innumerevoli pericoli: pericolo di terra e di acqua, di città e di foreste, di briganti e di nemici. Per suo amore ho provato e fame e sete e freddo e nudità; senza contare il lavoro di ogni giorno » (II Cor., XI, 23-28). Eppure, dice ancora San Paolo, « né spada, né malattia, né persecuzione, né angoscia mi potrà strappare dal cuore l’amore verso Gesù » (Rom., VIII, 35). E lancia al mondo un grido come di sfida: « Si quis non amat Dominum nostrum Jesum Christum anathema sit! », che noi possiamo tradurre così: « Se alcuno non ama il Sacro Cuore di Gesù Cristo è scomunicato ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps LXVIII: 21

Impropérium exspectávi Cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni

[Obbrobrii e miserie si aspettava il mio Cuore; ed attesi chi si rattristasse con me: e non vi fu; cercai che mi consolasse e non lo trovai.]

Secreta

Réspice, quǽsumus, Dómine, ad ineffábilem Cordis dilécti Fílii tui caritátem: ut quod offérimus sit tibi munus accéptum et nostrórum expiátio delictórum.

[Guarda, Te ne preghiamo, o Signore, all’ineffabile carità del Cuore del Tuo Figlio diletto: affinché l’offerta che Ti facciamo sia gradita a Te e giovi ad espiazione dei nostri peccati].

Præfatio
de sacratissimo Cordis Jesu

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui Unigénitum tuum, in Cruce pendéntem, láncea mílitis transfígi voluísti: ut apértum Cor, divínæ largitátis sacrárium, torréntes nobis fúnderet miseratiónis et grátiæ: et, quod amóre nostri flagráre numquam déstitit, piis esset réquies et poeniténtibus pater et salútis refúgium. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes: Sanctus ...

 [È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che hai voluto che il tuo Unigenito, pendente dalla croce, fosse trafitto dalla lancia del soldato, così che quel cuore aperto, sacrario della divina clemenza, effondesse su di noi torrenti di misericordia e di grazia; e che esso, che mai ha cessato di ardere d’amore per noi, fosse pace per le anime pie e aperto rifugio di salvezza per le ànime penitenti. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joannes XIX: 34

Unus mílitum láncea latus ejus apéruit, et contínuo exívit sanguis et aqua.

[Uno dei soldati gli aprì il fianco con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua.]

Postcommunio

Orémus.
Prǽbeant nobis, Dómine Jesu, divínum tua sancta fervórem: quo dulcíssimi Cordis tui suavitáte percépta;
discámus terréna despícere, et amáre cœléstia:

[O Signore Gesù, questi santi misteri ci conferiscano il divino fervore, mediante il quale, gustate le soavità del tuo dolcissimo Cuore, impariamo a sprezzare le cose terrene e ad amare le cose celesti:]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

ACTUS REPARATIONIS ET CONSECRATIONIS

Iesu dulcissime, cuius effusa in homines caritas, tanta oblivione, negligentia, contemptione, ingratissime rependitur, en nos, ante altaria [an: conspectum tuum] tua provoluti, tam nefariam hominum socordiam iniuriasque, quibus undique amantissimum Cor tuum afficitur, peculiari honore resarcire contendimus. Attamen, memores tantæ nos quoque indignitatis non expertes aliquando fuisse, indeque vehementissimo dolore commoti, tuam in primis misericordiam nobis imploramus, paratis, voluntaria expiatione compensare flagitia non modo quæ ipsi patravimus, sed etiam illorum, qui, longe a salutis via aberrantes, vel te pastorem ducemque sectari detrectant, in sua infìdelitate obstinati, vel, baptismatis promissa conculcantes, suavissimum tuæ legis iugum excusserunt. Quæ deploranda crimina, cum universa expiare contendimus, tum nobis singula resarcienda proponimus: vitæ cultusque immodestiam atque turpitudines, tot corruptelæ pedicas innocentium animis instructas, dies festos violatos, exsecranda in te tuosque Sanctos iactata maledicta àtque in tuum Vicarium ordinemque sacerdotalem convicia irrogata, ipsum denique amoris divini Sacramentum vel neglectum vel horrendis sacrilegiis profanatum, publica postremo nationum delicta, quæ Ecclesiæ a te institutæ iuribus magisterioque reluctantur. Quæ utinam crimina sanguine ipsi nostro eluere possemus! Interea ad violatum divinum honorem resarciendum, quam Tu olim Patri in Cruce satisfactionem obtulisti quamque cotidie in altaribus renovare pergis, hanc eamdem nos tibi præstamus, cum Virginis Matris, omnium Sanctorum, piorum quoque fìdelium expiationibus coniunctam, ex animo spondentes, cum præterita nostra aliorumque peccata ac tanti amoris incuriam firma fide, candidis vitæ moribus, perfecta legis evangelicæ, caritatis potissimum, observantia, quantum in nobis erit, gratia tua favente, nos esse compensaturos, tum iniurias tibi inferendas prò viribus prohibituros, et quam plurimos potuerimus ad tui sequelam convocaturos. Excipias, quæsumus, benignissime Iesu, beata Virgine Maria Reparatrice intercedente, voluntarium huius expiationis obsequium nosque in officio tuique servitio fidissimos ad mortem usque velis, magno ilio perseverantiæ munere, continere, ut ad illam tandem patriam perveniamus omnes, ubi Tu cum Patre et Spiritu Sancto vivis et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

[ATTO DI RIPARAZIONE AL SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ

Gesù dolcissimo, il cui immenso amore per gli uomini viene con tanta ingratitudine ripagato di oblìo, di trascuratezza, di disprezzo, ecco che noi prostrati dinanzi ai tuoi altari intendiamo riparare con particolari attestazioni di onore una così indegna freddezza e le ingiurie con le quali da ogni parte viene ferito dagli uomini l’amantissimo tuo Cuore.

Ricordando però che noi pure altre volte ci macchiammo di tanta indegnità e provandone vivissimo dolore, imploriamo anzitutto per noi la tua misericordia, pronti a riparare con volontaria espiazione, non solo i peccati commessi da noi, ma anche quelli di coloro che errando lontano dalla via della salute, o ricusano di seguire Te come pastore e guida ostinandosi nella loro infedeltà, o calpestando le promesse del Battesimo hanno scosso il soavissimo giogo della tua legge.

E mentre intendiamo espiare tutto il cumulo di sì deplorevoli delitti, ci proponiamo di ripararli ciascuno in particolare: l’immodestia e le brutture della vita e dell’abbigliamento, le tante insidie tese dalla corruttela alle anime innocenti, la profanazione dei giorni festivi, le ingiurie esecrande scagliate contro Te e i tuoi Santi, gli insulti lanciati contro il tuo Vicario e l’ordine sacerdotale, le negligenze e gli orribili sacrilegi ond’è profanato lo stesso Sacramento dell’amore divino, e infine le colpe pubbliche delle nazioni che osteggiano i diritti e il Magistero della Chiesa da Te fondata.

Oh! potessimo noi lavare col nostro sangue questi affronti! Intanto, come riparazione dell’onore divino conculcato, noi Ti presentiamo — accompagnandola con le espiazioni della Vergine Tua Madre, di tutti i Santi e delle anime pie — quella soddisfazione che Tu stesso un giorno offristi sulla croce al Padre e che ogni giorno rinnovi sugli altari: promettendo con tutto il cuore di voler riparare, per quanto sarà in noi e con l’aiuto della tua grazia, i peccati commessi da noi e dagli altri e l’indifferenza verso sì grande amore con la fermezza della fede, l’innocenza della vita, l’osservanza perfetta della legge evangelica specialmente della carità, e d’impedire inoltre con tutte le nostre forze le ingiurie contro di Te, e di attrarre quanti più potremo al tuo sèguito. Accogli, Te ne preghiamo, o benignissimo Gesù, per intercessione della Beata Vergine Maria Riparatrice, questo volontario ossequio di riparazione, e conservaci fedelissimi nella tua ubbidienza e nel tuo servizio fino alla morte col gran dono della perseveranza, mercé il quale possiamo tutti un giorno pervenire a quella patria, dove Tu col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni, Dio, per tutti i secoli dei secoli. Così sia.] .

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, sacra Communione et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitatione, si quotidie per integrum mensem reparationis actus devote recitatus fuerit.

Fidelibus vero, qui die festo sacratissimi Cordis Iesu in qualibet ecclesia aut oratorio etiam (prò legitime utentibus) semipublico, adstiterint eidem reparationis actui cum Litaniis sacratissimi Cordis, coram Ssmo Sacramento sollemniter exposito, conceditur:

Indulgentia septem annorum;

Indulgentia plenaria, dummodo peccata sua sacramentali pænitentia expiaverint et eucharisticam Mensam participaverint (S. Pæn. Ap., 1 iun. 1928 et 18 mart. 1932).

[Indulg. 5 anni; 7 anni nel giorno della festa – Plenaria se recitata per un mese con Confessione, Comunione, Preghiera per le intenzioni del Sommo Pontefice, visita di una chiesa od oratorio pubblico. – Nel giorno della festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, 7 anni, e se confessati e comunicati, recitata con le litanie de Sacratissimo Cuore, davanti al SS. Sacramento solennemente esposto: Indulgenza plenaria].

LITANIA SACRATISSIMI CORDIS IESU

Tit. XI, cap. II

Indulg. septem annorum; plenaria suetis condicionibus, dummodo cotidie per integrum mensem litania, cum versiculo et oratione pia mente repetita fuerint.

Pius Pp. XI, 10 martii 1933

KYRIE, eléison.

Christe, eléison.

Kyrie, eléison.

Christe, audi nos.

Christe, exàudi nos.

Pater de cælis, Deus, miserére nobis.

Fili, Redémptor mundi, Deus, miserére.

Spiritus Sancte, Deus, miserére.

Sancta Trinitas, unus Deus, miserére nobis.

Cor Iesu, Filii Patris ætèrni, miserére.

Cor Iesu, in sinu Virginis Matris a Spiritu Sancto formàtum, miserére.

Cor Iesu, Verbo Dei substantiàliter unitum, miserére.

Cor Iesu, maiestàtis infinitæ, miserére nobis.

Cor Iesu, templum Dei sanctum, miserére.

Cor Iesu, tabernàculum Altissimi, miserére.

Cor Iesu, domus Dei et porta cæli, miserére.

Cor Iesu, fornax ardens caritàtis, miserére.

Cor Iesu, iustitiæ et amóris receptàculum, miserére.

Cor Iesu, bonitàte et amóre plenum, miserére.

Cor Iesu, virtùtum omnium abyssus, miserére.

Cor Iesu, omni laude dignissimum, miserére.

Cor Iesu, rex et centrum omnium córdium, miserére.

Cor Iesu, in quo sunt omnes thesàuri sapiéntiæ et sciéntias, miserére.

Cor Iesu, in quo habitat omnis plenitùdo divinitàtis, omiserére.

Cor Iesu, in quo Pater sibi bene complàcuit, miserére.

Cor Iesu, de cuius plenitudine omnes nos accépimus, miserére.

Cor Iesu, desidérium cóllium æternórum, miserére.

Cor Iesu, pàtiens et multæ misericórdiaæ, miserére.

Cor Iesu, dives in omnes qui invocant te, miserére.

Cor Iesu, fons vitae et sanctitàtis, miserére nobis.

Cor Iesu, propitiàtio prò peccàtis nostris, miserére.

Cor Iesu, saturàtum oppróbriis, miserére.

Cor Iesu, attritum propter scelera nostra, miserére.

Cor Iesu, usque ad mortem obédiens factum, miserére.

Cor Iesu, làncea perforàtum, miserére.

Cor Iesu, fons totius consolatiónis, miserére.

Cor Iesu, vita et resurréctio nostra, miserére.

Cor Iesu, pax et reconciliàtio nostra, miserére.

Cor Iesu, victima peccatórum, miserére.

Cor Iesu, salus in te speràntium, miserére.

Cor Iesu, spes in te moriéntium, miserére.

Cor Iesu, deliciæ Sanctórum omnium, miserére.

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi,parce nobis, Dòmine.

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, exàudi nos, Dòmine,

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserére nobis.

V. Iesu, mitis et hùmilis Corde.

R. Fac cor nostrum secùndum Cor tuum.

Orèmus.

Ominipotens sempitèrne Deus, réspice in Cor dilectissimi Filii tui, et in laudes et satisfactiónes, quas in nòmine peccatórum tibi persólvit, iisque misericórdiam tuam peténtibus tu véniam concede placàtus, in nòmine eiùsdem Filii tui Iesu Christi:

Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculórum.

R. Amen.

[Litanie del S. Cuore di Gesù

(Signore, abbi pietà di noi

Cristo, abbi pietà di noi.

Signore, abbi pietà di no:

Cristo, ascoltaci

Cristo, esaudiscici.

Dio, Padre celeste, abbi pietà di noi (ogni volta)

Dio, Figlio Redentore del mondo, abbi …

Dio, Spirito Santo, ….

Santa Trinità, unico Dio …

Cuore di Gesù, Figlio dell’Eterno Padre, abbi pietà di noi (ogni volta)

Cuore di Gesù, formato dallo Spirito Santo nel seno della Vergine Madre …

Cuore di Gesù, sostanzialmente unito al Verbo di Dio …

Cuore di Gesù, di maestà infinita …

Cuore di Gesù, tempio santo di Dio …

Cuore di Gesù, tabernacolo dell’Altissimo, …

Cuore di Gesù, casa di Dio e porta del Cielo, …

Cuore di Gesù, fornace ardente di carità, …

Cuore di Gesù, ricettacolo di giustizia e di amore, …

Cuore di Gesù, pieno di bontà e di amore, …

Cuore di Gesù, abisso di ogni virtù, …

Cuore di Gesù, degnissimo di ogni lode, …

Cuore di Gesù, Re e centro di tutti i cuori, …

Cuore di Gesù, in cui sono tutti i tesori di sapienza e di scienza, …

Cuore di Gesù, in cui abita la pienezza della divinità, …

Cuore di Gesù, in cui il Padre ha posto le sue compiacenze, …

Cuore di Gesù, dalla cui abbondanza noi tutti ricevemmo, …

Cuore di Gesù, desiderio dei colli eterni, …

Cuore di Gesù, paziente e misericordiosissimo, …

Cuore di Gesù, ricco con tutti coloro che ti invocano, …

Cuore di Gesù, fonte di vita e di santità, …

Cuore di Gesù, propiziazione pei peccati nostri. …

Cuore di Gesù, satollato di obbrobrii, …

Cuore di Gesù, spezzato per le nostre scelleratezze, …

Cuore di Gesù, fatto obbediente sino alla morte, …

Cuore di Gesù, trapassato dalla lancia, …

Cuore di Gesù, fonte d’ogni consolazione,

Cuore di Gesù, vita e risurrezione nostra, …

Cuore di Gesù, pace e riconciliazione nostra. …

Cuore di Gesù, vittima dei peccati, …

Cuore di Gesù, salute di chi in Te spera, …

Cuore di Gesù, speranza di chi in Te muore, …

Cuore di Gesù, delizia di tutti i Santi, …

Agnello di Dio che togli peccati del mondo, perdonaci o Signore.

Agnello di Dio che togli peccati del mondo, esaudiscici, o Signore

Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi.

V. Gesù, mansueto e umile di cuore,

R. Rendi il nostro cuore simile al tuo.

Preghiamo

O Dio onnipotente ed eterno, guarda al Cuore del tuo dilettissimo Figlio, alle lodi ed alle soddisfazioni che Esso ti ha innalzato, e perdona clemente a tutti coloro che ti chiedono misericordia nel nome dello stesso tuo Figlio Gesù Cristo, che vive e regna con te, Dio, in unità con lo Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli.

R. Così sia.]

DOMENICA SECONDA DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA NELL’OTTAVA DEL CORPUS DOMINI II DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La Chiesa ha scelto, per celebrare la festa del Corpus Domini, il giovedì che è fra la domenica nella quale il Vangelo parla della misericordia di Dio verso gli uomini e del dovere che ne deriva per i Cristiani di un amore reciproco (l^ dopo Pentecoste) e quella (II dopo Pentecoste) nella quale si ripetono le stesse idee (Epist.) e si presenta il regno dei cieli sotto il simbolo della parabola del convito di nozze (Vang.). [Questa Messa esisteva coi suoi elementi attuali molto prima che fosse istituita la festa del Corpus Domini. Niente infatti poteva essere più adatta all’Eucaristia, che è il banchetto ove tutte le anime sono unite nell’amore a Gesù, loro sposo, e a tutte le membra mistiche. Niente poi di più dolce che il tratto nel quale si legge nell’Ufficio la storia di Samuele che fu consacrato a Dio fin dalla sua più tenera infanzia per abitare presso l’Arca del Signore e diventare il sacerdote dell’Altissimo nel suo santuario. La liturgia ci mostra come questo fanciullo offerto da sua madre a Dio, serviva con cuore purissimo il Signore nutrendosi della verità divina. In quel tempo, dice il Breviario, « la parola del Signore risuonava raramente e non avvenivano visioni manifeste », poiché Eli era orgoglioso e debole, e i suoi due figli Ofni e Finees infedeli a Dio e incuranti del loro dovere. Allora il Signore si manifestò al piccolo Samuele poiché « Egli si rivela ai piccoli, dice Gesù, e si nasconde ai superbi », e S. Gregorio osserva che « agli umili sono rivelati i misteri del pensiero divino ed è per questo che Samuele è chiamato un fanciullo ». E Dio rivelò a Samuele il castigo che avrebbe colpito Eli e la sua casa. Ben presto, infatti l’Arca fu presa dai Filistei, i due figli di Eli furono uccisi ed Eli stesso morì. Dio aveva così rifiutato le sue rivelazioni al Gran Sacerdote perché tanto questi come i suoi figli, non apprezzavano abbastanza le gioie divine figurate nel « gran convito » di cui parla in questo giorno il Vangelo, e si attaccavano più alle delizie del corpo che a quelle dell’anima. Così, applicando loro il testo di S. Gregorio nell’Omelia di questo giorno, possiamo dire che « essi erano arrivati a perdere ogni appetito per queste delizie interiori, perché se n’erano tenuti lontani e da parecchio tempo avevano perduta l’abitudine di gustarne. E perché non volevano gustare la dolcezza interiore che loro era offerta, amavano la fame che fuori li consumava». I figli d’Eli, infatti prendevano le vivande che erano offerte a Dio e le mangiavano; ed Eli, loro padre, li lasciava fare. Samuele invece, che era vissuto sempre insieme con Eli, aveva fatto sue delizie le consolazioni divine. Il cibo che mangiava era quello che Dio stesso gli elargiva, quando, nella contemplazione e nella preghiera gli manifestava i suoi segreti. « Il fanciullo dormiva » il che vuol dire, spiega S. Gregorio, «che la sua anima riposava senza preoccupazione delle cose terrestri ». « Le gioie corporali, che accendono in noi un ardente desiderio del loro possesso, spiega questo santo nel suo commento al Vangelo di questo giorno, conducono ben presto al disgusto colui che le assapora per la sazietà medesima; mentre le gioie spirituali provocano il disprezzo prima del loro possesso, ma eccitano il desiderio quando si posseggono; e colui che le possiede è tanto più affamato quanto più si nutre ». Ed è quello che spiega come le anime che mettono tutta la loro compiacenza nei piaceri di questo mondo, rifiutano di prender parte al banchetto della fede cristiana ove la Chiesa le nutre della dottrina evangelica per mezzo dei suoi predicatori. « Gustate e vedete, continua S. Gregorio, come il Signore è dolce ». Con queste parole il Salmista ci dice formalmente: «Voi non conoscerete la sua dolcezza se voi non lo gusterete, ma toccate col palato del vostro cuore l’alimento di vita e sarete capaci di amarlo avendo fatto esperienza della sua dolcezza. L’uomo ha perduto queste delizie quando peccò nel paradiso: ma le ha riavute quando posò la sua bocca sull’alimento d’eterna dolcezza. Da ciò viene pure che essendo nati nelle pene di questo esilio noi arriviamo quaggiù ad un tale disgusto che non sappiamo più che cosa dobbiamo desiderare. » (Mattutino). « Ma per la grazia dello Spirito Santo siamo passati dalla morte alla vita » (Ep.) e allora è necessario come il piccolo e umile Samuele che noi, che siamo i deboli, i poveri, gli storpi del Vangelo, non ricerchiamo le nostre delizie se non presso il Tabernacolo del Signore e nelle sue intime unioni. Evitiamo l’orgoglio e l’amore delle cose terrestri affinché « stabiliti saldamente nell’amore del santo Nome di Dio » (Or.), continuamente « diretti da Lui ci eleviamo di giorno in giorno alla pratica di una vita tutta celeste » (Secr.) e « che grazie alla partecipazione al banchetto divino, i frutti di salute crescano continuamente in noi » (Postcom.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XVII: 19-20.

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.

[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene] Ps XVII: 2-3

Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus.

[Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.]

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.

[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]

Oratio

Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis.

[Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III: 13-18

“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”

[“Carissimi: Non vi meravigliate se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida; e sapete che nessun omicida ha la vita eterna abitante in sé. Abbiam conosciuto l’amor di Dio da questo: che egli ha dato la sua vita per noi; e anche noi dobbiam dare la vita per i fratelli. Se uno possiede dei beni di questo mondo e, vedendo il proprio fratello nel bisogno, gli chiude le sue viscere, come mai l’amor di Dio dimora in lui? Figliuoli miei, non amiamo a parole e con la lingua, ma con fatti e con sincerità”].

VERA E FALSA CARITÀ.

Noi andiamo o fratelli, coll’Apostolo della carità e con il suo veramente divino apostolato, di meraviglia in meraviglia. Domenica scorsa l’Apostolo San Giovanni ha messo la carità in cielo. Dio è Carità — ha pronunziato una parola di sublimità incomparabile. Questa domenica, dal cielo più alto discende sul terreno più umile; scrive parole di una incomparabile praticità: « Miei figliuoli, non amiamo a chiacchiere… o più letteralmente ancora, non amiamo colla bocca, colle parole, amiamo coll’opera, se vogliamo amare per davvero ». Dove è chiaro che si tratta di quell’amore che merita nome di carità e della carità che corre le vie della terra, tra uomo e uomo. L’Apostolo ha l’orrore della carità falsa, apparente — che sembra carità e non è carità, come un banchiere (i banchieri sono i devoti, gli apostoli, i mistici della moneta, della vera, s’intende) detesta, abborre, abbomina la moneta falsa — che pare e non è, che par oro ed è orpello. E qual è questa carità falsa? È proprio la carità che non fa e parla. Il non fare ne costituisce il non essere, e il parlare le dà l’apparenza. La parola buona, caritatevole, vuota di opere; non è più abito, è maschera, è commedia. Come frequente allora e adesso la commedia della carità! Come facile e frequente (appunto perché tanto facile) l’impietosirsi gemebondo sulla miseria del prossimo. Poverino qua! Poverino là! E come frequente la esaltazione verbale della carità: facile e frequente il panegirico della filantropia! E quanti, sfogato così il loro istinto retorico e sentimentale, si credono, si sentono in pace con la loro coscienza! Credono di aver fatto tutto, perché hanno parlato molto! L’Apostolo della carità è terribilmente e semplicemente realista. Che cosa serve tutta questa logorrea? A che cosa serve per chi soffre la fame, il freddo, lo sconforto della vita? Nulla. Le parole lasciano il tempo che trovano. E che sincerità in queste parole infeconde, sistematicamente, regolarmente infeconde di opere! Che razza di cuore, di carità ha colui che vede il suo prossimo in bisogno, e non fa nulla per sollevarlo? Vede aver fame e non gli dà da mangiare? aver sete e non gli amministra da bere? – Fare bisogna, se si vuole che la carità sfugga all’accusa, al sospetto di simulazione, di ipocrisia. L’opera è la figlia dell’amore, ne è la prova sicura e perentoria. Fare, notate, dice l’Apostolo, anziché semplicemente dare, perché il dare è una forma particolare del fare. Fare quello che si può con le persone che si amano fraternamente davvero. – Fare per gli altri quello che, a parità di condizione, faremmo e vorremmo che gli altri facessero per noi. Fare e molto, e bene, e sempre. Fare non per farsi vedere, ma per renderci benefici. Fare del bene, non fare del rumore. C’è più carità in una goccia di operosità, che in un mare di chiacchiere. E allora il grande quesito che noi dobbiamo proporci se vogliamo esaminarci bene sul capitolo della carità, la virtù che ci assomiglia a Dio, il grande quesito è questo: che cosa, che cosa abbiamo fatto, che cosa facciamo? cosa, cosa, non parole!

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch. Mediolani, 1-3-1938]

Graduale

Ps CXIX: 1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me.

[Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]

Alleluja

Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja

[O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]

Ps VII:2

Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja.

[Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.

Luc. XIV: 16-24

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit cœnam meam”.

(“In quel tempo disse Gesù ad uno di quelli che sederono con lui a mensa in casa di uno dei principali Farisei: Un uomo fece una gran cena, e invitò molta gente. E all’ora della cena mandò un suo servo a dire ai convitati, che andassero, perché tutto era pronto. E principiarono tutti d’accordo a scusarsi. Il primo dissegli: Ho comprato un podere, e bisogna che vada a vederlo; di grazia compatiscimi. E un altro disse: Ho comprato cinque gioghi di buoi, o vo a provarli; di grazia compatiscimi. E l’altro disse: Ho preso moglie, e perciò non posso venire. E tornato il servo, riferì queste cose al suo padrone. Allora sdegnato il padre di famiglia, disse al servo: Va tosto per le piazze, e per le contrade della città, e mena qua dentro i mendici, gli stroppiati, i ciechi, e gli zoppi. E disse il servo: Signore, si è fatto come hai comandato, ed evvi ancora luogo. E disse il padrone al servo: Va per le strade e lungo le siepi, e sforzali a venire, affinché si riempia la mia casa. Imperocché vi dico, che nessuno di coloro che erano stati invitati assaggerà la mia cena”

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

LA CENA EUCARISTICA

Un uomo fece una grande cena e invitò molti. All’ora della cena mandò un suo servo a dire ai convitati: « Venite che è pronta ». Ma presero tutti a scusarsi. Il primo disse: « Ho comprato un podere, e bisogna che vada a vederlo: ti prego di scusarmi ». Un altro disse: « Ho comprato cinque paia di buoi e vo’ a provarli: ti prego di scusarmi ». Un altro ancora sgarbatamente rispose: « Ho preso moglie, e non posso venire ». Quando il servo ritornato riferì questi rifiuti, il padrone esclamò: «Va’ per le strade e lungo le siepi, e chiunque trovi forzalo a venire qua, che si riempia la mia casa; perché io ti assicuro che nessuno di coloro invitati prima assaggerà la mia cena ». Sotto il velo di questa parabola, Gesù Cristo ha nascosto tutto il suo amore, e tutta la nostra ingratitudine. L’uomo che fece una grande cena, è Lui che istituì la Santa Comunione, in cui non un pane qualsiasi si mangia, ma il pane di vita disceso dal cielo, il pane che toglie la fame per sempre. Gli invitati che cercarono dei pretesti per non venire, siamo noi che preferiamo vivere tra le nostre basse faccende e tra i peccati piuttosto che accorrere al sacro banchetto dell’Eucaristia, ove la Carne di un Dio è fatta cibo, e il sangue di un Dio è fatto bevanda. In questo momento, mentre Gesù Cristo ci guarda dall’altare, meditiamo la grandezza della sua Cena Eucaristica, e l’ingratitudine dei nostri rifiuti. – 1. LA GRAN CENA. Una notte, nel convento di Chiovia, risuonò un urlo di orrore: «I tartari! I tartari! ». Questo popolo feroce, nemico degli uomini e di Dio, con carri, con armi e con fiaccole, era alle porte della città, pronto a metterla a ferro e a fuoco. Nelle vie s’udiva lo strepito degli uomini, i pianti delle donne e dei fanciulli che fuggivano portando con sé le cose più care. Anche i monaci erano già fuggiti dal convento; ed anche S. Giacinto, che ne era il priore, stava per fuggire. Quando udì, o gli parve d’udire, una chiara voce chiamarlo per nome: « Giacinto! ». Si accorse che quel richiamo veniva dalla chiesa, usciva dal santo Tabernacolo. Giacinto, tu fuggi e mi lasci qui solo? Che cosa mangerai domani e dopo domani, se dimentichi il Cibo della tua vita? Come potrai resistere alle orde dei barbari, e ai pericoli della fuga, se non avrai da mangiare?». Giacinto allora entrò in chiesa, prese il SS. Sacramento e fuggì. Anche la nostra vita è agitata e piena d’affanni come una fuga. Non fuggiamo noi, attraverso a pene e a fatiche, davanti alla morte che c’incalza inesorabilmente? E tutt’intorno ci assediano i nostri nemici, il mondo, la carne, i demoni. Chi potrà sostenere le nostre deboli forze in queste lotte continue? Quale cibo potrà nutrire la nostra anima debole e paurosa? La santa Eucaristia. Ecco la gran Cena che Gesù imbandisce ogni giorno per noi. a) S. Agostino, profondamente commosso davanti al sacramento dell’Eucaristia, diceva: « Dio è sapientissimo: eppure negli abissi immensi della sua sapienza, non poteva inventare un dono più grandioso di questo. Dio è onnipotente: eppure nella sua onnipotenza non poteva fare prodigio più meraviglioso di questo. Dio è ricchissimo: eppure nella sua inesauribile generosità non poteva farci un dono più prezioso di questo ». Che cosa v’è di più grande, di più meraviglioso, di più prezioso di Dio? Certamente nulla. Ebbene, nella santa Comunione, noi riceviamo Dio. Quante volte abbiamo invidiato la fortuna di quei pastori che nella notte di Natale poterono vedere e abbracciare il celeste Bambino! Quante volte abbiamo con invidia pensato ai Re Magi, che depositarono i loro doni nelle manine stesse di Gesù! Quante volte abbiamo agognato la bella sorte del vecchio Simeone, che nel tempio di Gerusalemme ha stretto sul suo cuore il Figlio di Dio, e l’ha coperto di baci e di pie lacrime!… Ebbene, nella santa Comunione non solo possiamo vedere, adorare, abbracciare Gesù, ma possiamo riceverlo nel più intimo dell’anima nostra, possiamo unirci a Lui e incorporarci a Lui in una maniera ineffabilmente divina. O sacrum convivium in quo Christus sumitur! O santo banchetto in cui ci nutriamo di Cristo! b) E chi saranno i pochi fortunati che vengono ammessi a questa Cena? Forse soltanto quelle anime che non caddero nemmeno una volta nel peccato, o che fuggirono dal mondo e vivono nei chiostri con penitenza e preghiera? Ah no: non vi sono privilegi. Tutti i Cristiani vi sono invitati: poveri e ricchi, deboli e forti, ignoranti e dotti, pur che non siano in peccato mortale. E ciascuno più riceve e più gusta, quanto più vi porta di fede, di umiltà, di purezza, di dolore dei peccati. O sacrum convivium in quo Christum sumitur! O santo banchetto in cui ci nutriamo di Cristo! c) Ma e quando si potrà andare a questo Convito? Forse una volta in vita o forse soltanto in specialissime circostanze? Forse converrà fare un lungo e faticosi viaggio, o almeno pellegrinare scalzi a Roma o a Gerusalemme? No: non vi è tempo, non vi è circostanza speciale, non occorrono penosi viaggi, ma Gesù Cristo sempre c’invita, nelle sue Chiese sempre ci attende a questo banchetto divino. O sacrum convivium in quo Christus sumitur! O gran cena in cui si mangia Cristo! – 2. L’INGRATO RIFIUTO. Santa Maria Maddalena de’ Pazzi girava sotto i portici e tra le celle silenziose del suo convento, stupita, esclamando: « L’Amore non è amato, l’Amore non è amato! ». E aveva ragione. Chi non stupisce che un Dio dopo tante prodigiose invenzioni per farsi amare sia lasciato tutto solo nei Tabernacoli, ed a stento gli uomini trovino il tempo e la voglia di riceverlo una volta all’anno? Perché non vediamo le anime ogni giorno affollarsi intorno alla Mensa del Signore come rametti d’ulivo? Sicut novellæ olivarum in circuitu mensæ tuæ (Salm., CXXVII, 3). a) « Ho comprato un podere e bisogna che vada a vederlo; ti prego di scusarmi ». Quest’uomo che rifiuta l’invito perché ormai anche lui è diventato un padrone di terre, e non ha bisogno d’andare a cena da nessuno, raffigura bene quelli che ricusano d’accostarsi frequentemente alla Comunione per superbia. « Lasciamo che facciano di spesso la Comunione le donnicciole, i bigotti, gli ignoranti; alla gente come noi basta accostarsi a Pasqua ». Poveri infelici! che si credono ricchi e doviziosi, che si vantano di non aver bisogno di nessuna cosa e di nessuna persona, e invece non sanno d’essere meschini, e miserabili, e poveri, e ciechi, e nudi (Apoc., III, 17). b) « Ho comperato cinque paia di buoi e vo’ a provarli: ti prego di scusarmi ». Quest’uomo che rifiuta l’invito per gettarsi anima e corpo a lavorare con i suoi cinque paia di buoi, raffigura quelli che stanno lontani dai Santi Sacramenti perché sono affogati con tutti e cinque i loro sensi nella farragine degli interessi materiali. « Non ho tempo d’accostarmi alla sacra Mensa — dicono costoro — non ho tempo; ho la bottega, ho un magazzino, devo andare al mercato, alla fiera, devo attendere alla famiglia ». — Avete la famiglia, ve lo concedo; avete la bottega, il mercato, gli affari, ve lo concedo; ma non avete anche l’anima? E perché allora date tutto al corpo e niente all’anima? Possibile che non troviate un’ora di tempo alla settimana, un’ora al mese per la vostra anima quando sciupate delle sere e delle giornate nei teatri, nel gioco, nelle compagnie? – Il peggio è poi che alcuni, non solo non frequentano la santa Comunione, ma distolgono anche gli altri di casa dal frequentarla. Onde se la moglie, se la madre, se la sorella per comunicarsi indugiano alquanto più del consueto in chiesa, ecco sossopra ogni cosa, e una tempesta di villanie le travolge al loro ritorno. c) « Ho preso moglie, perciò non posso venire ». Avete notato com’è villana la risposta di questo invitato? Non chiede scusa, ma dice soltanto: non posso venire. Non può, perché non vuole. Raffigura costui quelli che hanno nausea della santa Comunione, perché vivono nella disonestà. Non possum venire: il loro cuore è pieno di desideri cattivi, hanno affogato la loro anima nei piaceri più immondi: sono coniugati che per mesi ed anni conculcano le leggi sante del matrimonio. Costoro vanno alla mensa dei demoni, perciò non possono venire alla mensa del Signore (I Cor., X, 21). Costoro non possono venire ai casti amplessi di Gesù, perché si tengono strettamente abbracciati al fango. Amplerati sunt stercora (Th., IV, 5). — Un mattino seduto sotto le querce verdi del capo Montenero, Lamartine assisteva al levar del sole. Ogni creatura pareva protesa verso oriente. Ad un tratto, grande regale ardente, l’astro apparve ad incendiar co’ suoi raggi il Mediterraneo. Allora il poeta scoppiò in un grido d’immensa ammirazione: « È lui! È la vita! ». Ah, il grido del poeta come dovrebbe essere il nostro! Conosco un altro sole, il sole divino di cui Michelangelo diceva il nostro esser solo l’ombra: Gesù. Quando ogni mattina si leva tra le mani del sacerdote sull’altare, quando irraggia così bianco dal sacro ostensorio, dovremmo sentire una irrefrenabile fame di Lui, dovremmo accorrere alla sacra Mensa, cantando: « È lui! È la vita! ».

IL BANCHETTO DEI POVERI E DEI MALATI. Uno perché doveva contrattare una casa, un altro perché voleva provare al giogo alcuni buoi di recente acquisto, un terzo perché si sposava; e tutti mancarono all’invito. Nella gran sala del banchetto, intanto, già le vivande fumavano, e il buon vino spargeva inutilmente il suo vellicante aroma. Oh, i ricchi avevano preferito starsene lontani a far grossi guadagni sulle cose e sui campi; oh, i sani e i giovani avevano preferito trascorrere quelle ore nei piaceri e nell’allegria della vita! Il magnifico padrone aveva dunque sciupato la gran cena? Doveva dunque rimaner solo e triste nel suo palazzo come un recluso in una bella e ariosa prigione? Crucciato e adirato chiamò il servo e gli comandò: « Corri! Corri su tutte le piazze, per tutte le contrade della città: e quanti poveri incontrerai e quanti stroppiati e ciechi e zoppi e malati d’ogni male troverai, introducili tutti qui ». Ubbidisce il servo e poi torna: « Signore, come hai comandato, così si è fatto: ma vi è posto ancora ». « Ebbene, — ricomandò il padrone, — corri! Corri nelle campagne, lungo le siepi: ogni uomo che vedi, sforzalo a venire finché si riempia la mia casa ». Poi traendo un lungo respiro dal cuore, esclamò con voce terribile: «Io vi assicuro che nessuno di coloro che hanno rifiutato l’invito, assaggerà la mia cena in eterno ». – La parabola che Gesù raccontò un sabato, sedendo a mensa in casa d’un importante Fariseo, dalla Santa Chiesa vien proposta da meditare in questi giorni consacrati al culto dell’Eucaristia. È l’Eucaristia la gran cena che il Figlio di Dio ha preparato per gli uomini in questo mondo. Non è il pane della terra che ci dà da mangiare, non è il vino dai nostri vigneti che ci dà da bere: è il suo Corpo divino, è il suo Sangue versato per noi e per molti nella remissione dei peccati. Eppure quanti, ancora oggi, rinnovano l’ingratitudine di quegli invitati che addussero delle vane scuse per non mangiare la cena! Se voi domandaste a molti Cristiani perché si comunicano raramente, perché tralasciano persino la Pasqua, sentireste rinnovarsi quegli antichi pretesti: « Non ho tempo, sono costretto a lavorare anche alla domenica; ho comprato una casa, ho dei buoi da provare; ho le passioni da accontentare ». Gesù nel suo Tabernacolo, come il padrone della parabola, è offeso dall’abbandono in cui lo lasciano gli uomini, e ripete ai sacerdoti suoi umili servi il comando « Correte! Correte per le piazze e le vie della città, per le strade e lungo le siepi delle campagne e persuadete tutti i poveri e tutti gli ammalati a venire da me ». Et pauperes ac debiles et cæcos et claudos introduc huc. Non è della miseria materiale, non è delle malattie del corpo che Gesù intende direttamente parlare, ma della miseria dell’anima e delle malattie spirituali. In questo senso, chi di noi può dire di essere ricco, di essere sano? Allora veniamo a ristorarci più frequentemente al banchetto Eucaristico che fu appunto imbandito per noi che siamo poveri di virtù, per noi che siamo ammalati nell’anima. – 1. IL BANCHETTO DEI POVERI. Quando Giacobbe entrò nella casa di Labano, tutte le cose cominciarono a prosperare: aumentò l’estensione dei poderi, aumentò il numero dei servi e del bestiame, aumentarono le masserizie e le ricchezze. « Guarda, disse un giorno Giacobbe a Labano — ben poco tu possedevi prima che io arrivassi, ora sei molto ricco (Genesi, XXX, 30). Queste parole, con più verità, a noi le ripete Gesù quando lo riceviamo nella santa Comunione: « Guarda com’eri povero prima che io entrassi nell’anima tua, ora per tutti i doni che Io ti ho portato sei diventato ricchissimo ». E in verità, che cosa abbiamo noi senza Gesù? Ci illudiamo di essere ricchi e di non aver bisogno di niente, ed invece, privi di Lui siamo miseri e miserabili e poveri e ciechi e nudi. Orbene, chi si accosta al banchetto eucaristico avrà tutto ciò di cui abbisogna e più ancora. Anzitutto avrà Gesù nel suo cuore. Sì, il Figlio di Dio, il Verbo incarnato, Colui per il quale sono troppo piccoli i cieli, scende ad abitare nell’anima del Cristiano che si comunica. « Che cosa ci può ancora negare l’Eterno Padre — esclamava San Paolo — dopo averci dato perfino il suo Unigenito? » Nulla. Con Gesù, avrà la vita vera. « Io sono il pane di vita — diceva il Signore a Cafarnao. — Chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete, chi mangia me vive in eterno ». E questo è vero non solo per l’anima nostra, ma anche per il corpo: la Comunione deposita nella nostra carne un germe d’immortalità. « Come morrà colui che si ciba della Vita? » pensava S. Ambrogio; dopo che i nostri corpi saranno stati purificati dalla prova del sepolcro, quel lievito di vita che l’Eucaristia, ha deposto in noi si ridesterà, e gloriosi risorgeremo all’ultimo giorno. Con Gesù, avrà la forza. Bande di Saraceni, ebbri di sangue e di strage, una notte assaltarono il convento delle clarisse in Assisi. In mezzo ai pianti e alle preghiere delle sante vergini, sorella Chiara corre alla cappella, prende la pisside, e per divina ispirazione, la protende dall’alto verso i barbari che davano la scalata al monastero. Subito i primi sono accecati da una luce improvvisa, e da una forza prodigiosa rovesciati gli uni sugli altri: tutti, travolti da un misterioso timore, fuggono. Il demonio, il mondo, le passioni e le tentazioni sono come bande di feroci Saraceni che di quando in quando tentano la scalata dell’anima nostra. Noi siamo deboli e paurosi come timide suore, inermi contro un esercito di barbari armati: ma se noi corriamo, come Santa Chiara, a Gesù, se noi porteremo l’Eucaristia in cuore, diverremo terribili e invincibili. Dove gli Apostoli trovarono il coraggio di portare il seme di Gesù fino all’ultime terre? dove i Martiri trovarono la forza di lasciarsi straziare a brano a brano? dove le anime vergini, ancor oggi, trovano la costanza di non lasciarsi contaminare dal male? Nella Comunione. Con Gesù, avrà la ricchezza e la bellezza dell’anima. Santa Rosa da Lima nel vedere il Sacramento dell’amore, sentiva la sua anima rifulgere come se tutta fosse rivestita di gemme e il sole le raggiasse dal cuore. Questo, che noi poveri peccatori non sentiamo, deve pure avvenire, in una certa misura, anche nel nostro cuore quando riceviamo Gesù. Le imperfezioni sono bruciate dal fuoco dell’amore, e l’anima nostra rivestita d’una splendida veste fa invidia perfino agli Angeli. Oggi, queste cose non sappiamo comprenderle, ma un giorno le conosceremo chiaramente: chi sa quale rincrescimento proveremo allora di non esserci comunicati più spesso. – 2. IL BANCHETTO DEI MALATI. Una antica tradizione racconta che la Sacra Famiglia, fuggendo in Egitto, fu sorpresa dalla notte presso una spelonca. Era la spelonca dei ladroni del deserto. Tuttavia, vi fu accolta con ospitalità, rozza ma benevola, dalla moglie del capobanda: era forse l’afflizione che rendeva umana quella donna. Ella aveva un fanciullo, la sola gioia innocente ch’ella possedeva in mezzo alla colpa e alla selvatichezza che la circondava, ma quel fanciullo aveva orridamente chiazzato di bianco la testa, le sopracciglia, la pelle; ahimè, era la bianchezza della lebbra. Nel covo dei delitti entrò dunque l’innocenza: Maria e Gesù, la moglie del ladro e il fanciullo lebbroso passarono insieme la notte. Ma appena. l’alba apparve nel cielo d’oriente, la Sacra Famiglia s’accinse a riprendere la fuga: Maria intanto chiese dell’acqua per astergere il Bambino dalla polvere del deserto e dall’ombre del sonno. Poscia partirono: ma la moglie del ladro sentì che un alito misterioso circondava quei profughi e rimase sulla porta della spelonca, con stretto sul cuore il suo piccolo lebbroso, per vederli allontanare verso l’Egitto. E come sparvero dietro le dune, ella, sospinta da un presagio divino, prese l’acqua che aveva servito a lavare Gesù e con essa lavò pure il suo Dismas, lebbroso. Ed ecco quelle carni già consunte da male implacabile, farsi subitamente rosee profumate quanto l’occhio d’una madre poteva desiderarle. Passarono molti anni. Dismas crebbe e divenne capo dei ladroni, e sulle sabbie del deserto fece delitti di sangue e di furto, tanto che la gente rabbrividiva udendo il suo nome. Ma, infine, la giustizia lo ghermì e con altri fu messo in croce sopra un colle vicino a Gerusalemme. Attaccato al legno dell’infamia, travagliato dall’agonia cocente, udiva di tratto in tratto le parole dolorose e misteriose pronunciate dal Crocifisso che gli stava vicino. Lo guardò: era coronato di spine e il cartello della sua condanna lo diceva RE dei Giudei. In quel momento la sua anima vide, e con fede esclamò: « Signore ricordati di me all’entrar nel tuo regno ». « Oggi stesso — gli rispose il Nazareno — sarai meco in Cielo ». Alla sera di quel Venerdì, Gesù il Figlio di Maria e Dismas il figlio della moglie del ladro si trovarono insieme in Paradiso. Quanti Cristiani sono tormentati nell’anima da un’implacabile lebbra! Forse è la lebbra dell’impurità: da anni questa passione li domina, da anni hanno cercato di liberarsene invano, da anni fatalmente si abbandonano sulla china dei peccati e della perdizione ultima ed eterna. Forse è la lebbra dell’avarizia; una sete febbrile di far danaro e di accumulare roba li sospinge ad essere crudeli coi poveri, ingiusti col prossimo, tiranni con la famiglia, fraudolenti nella società. Forse è la lebbra dell’incredulità: si è tralasciata la preghiera, si sono dimenticati i Sacramenti, si è abbandonata la dottrina cristiana e l’anima è in preda a mille dubbi sull’esistenza di Dio, sulla vita futura, sull’inferno… si vorrebbe non credere a più niente per vivere in balìa delle passioni. Forse è la lebbra della superbia: non si accettano osservazioni, si vuol sempre comandare senza ubbidire mai, si nutrono i rancori e le invidie, non ci si umilia e chiedere perdono. Ebbene: per queste malattie Gesù a noi ha lasciato non già un’acqua che ha toccato il suo volto, come quella che lasciò a Dismas, ma un banchetto in cui ci nutriamo della sua Carne divina e del suo Sangue preziosissimo: la santa Comunione È solo la santa Comunione che ci può guarire da tutti i mali della vita spirituale, e dall’ultimo e più terribile che è la morte. Quando sul letto dell’agonia vedremo entrare il Viatico noi pure con la fede del buon ladrone diremo a Gesù: « Signore, ricordati di me ora che sei nel tuo regno ». Ed Egli, se nella vita l’avesse ricevuto spesso e bene, ci ripeterà in cuore la consolante parola: « Oggi stesso sarai con me in paradiso ». — Assuero, il re di cento ventisette province distese dall’India fino all’Etiopia, nel terzo anno del suo regno imbandì un gran convito. Esso fu apparecchiato nell’arboreto ch’era piantato e coltivato di mano del re. Difendevano i convitati dal sole tende di lino sottile di color turchino sostenute da corde a colonne di marmo. Il vino era, senza misura, distribuito in tazze d’oro e le vivande in vasellame prezioso. A metà del convito Assuero ordinò che partecipasse anche la regina Vasthi; ma questa ricusò e spregiò il comando del re. Allora Assuero emanò un decreto per cui la regina Vasthi veniva scacciata dalla reggia per sempre, e per sempre non avrebbe assaggiato la cena del re (Ester, I). Qui, Assuero è immagine di Gesù Cristo, che nell’arboreto della Chiesa, di sua mano piantato, e coltivato, imbandisce un banchetto prelibatissimo: l’Eucaristia. Guai all’anima nostra, se imitando la regina Vasthi ricuserà d’intervenire frequentemente e con devozione a questa cena divina! Essa pure verrà scacciata dal Cielo per sempre, e per sempre non assaggerà il cibo della beatitudine eterna. Nemo vivorum illorum, qui vocati sunt, gustabit cœnam meam.

– IL CONVITO DOMENICALE. « Di quelli che han rifiutato, nessuno gusterà la mia cena; mai più! ». La parabola, nel suo significato più vero, è contro i Giudei, è contro i ricchi Farisei che, inorgogliti perché Gesù aveva mangiato in casa d’uno di loro, s’illudevano che essi soltanto avrebbero un giorno potuto entrare in paradiso. Il paradiso è appunto la cena sontuosa a cui molti sono stati invitati, e tra i primi i Giudei. Essi però hanno rifiutato l’invito, uccidendo il Messia e disprezzando il suo Vangelo: ecco, quindi, che resteranno esclusi dal cielo, ed in loro vece tutti entreranno quelli che risponderanno alla divina chiamata. Ma io voglio spiegare la parabola del Signore ad un altro significato, assai utile per noi, e dico che la cena grande a cui il buon Dio c’invita è la santificazione della domenica. E non è la domenica un’immagine della eterna cena del paradiso? E non  è la domenica cristiana un nutriente e soave convito delle anime nostre? – 1. LA DOMENICA È LA CENA DELLE ANIME. Osservate come è buono il Signore. Egli è il padrone di ogni cosa, e avrebbe pieno diritto di tenersi tutto per sé: tutte le piante, tutti gli animali, tutti i luoghi, tutti i tempi. Invece come nel Paradiso terrestre, lasciato ogni albero all’uomo, una pianta sola si riservò ad esperimento di ubbidienza; come al tempo dei Patriarchi, lasciato ad essi ogni frutto ed ogni bestia, solo poca primizia del gregge e del campo ritenne; come di tutta la terra, si riserva appena qualche spazio ove edificare le sue chiese; così di sette giorni, uno soltanto ha voluto per sé: la domenica. Poteva esserci più largo di così? e di meno che cosa mai ci avrebbe potuto richiedere? « Figliuoli! — ci dice per bocca di Mosè — Sei giorni ho lavorato per darvi il sole e le stelle, la terra e i mari, le piante e gli animali e per plasmare i vostri corpi e ravvivarli di un’anima immortale: al settimo però cessai. Ebbene, come ho fatto Io, fate anche voi così. Lavorate sei giorni, il settimo lo darete a me ». Poteva esserci più padre? « Lo darete a me!… » Forse per farci lavorare il doppio, il triplo… per Lui? Forse per gravarci — da padrone qual è — di penitenze e di asprezze? No. « Lo darete a me, perché Io voglio farvi riposare, Io voglio che veniate in casa mia ad una cena gaudiosa ». Dite: sulla terra c’è un altro padrone, buono come questo? Per sei giorni gli uomini sono nei campi, nelle fabbriche, negli uffici; le donne pure sono costrette alla fatica di un laboratorio o di una casa, mentre i figli sono alla scuola o trascurati per le vie. È tutto uno stridere di macchine, un incomposto vociar di operai affannati, un fischiar di sirene: c’è appena tempo di trangugiare un po’ di cibo senza assaporarlo e alla sera si ritorna pallidi e stanchi alla casa povera di luce, povera di parole. Poche ore di sonno, e poi ecco bisogna balzare a nuova fatica e riprendere quegli abiti trascurati e improntati del duro lavoro. Ben venga la domenica, gaudiosa cena delle anime! Un lieto scampanio s’intende nella prim’alba, che arriva a tutti come una voce di fratelli e d’amico: « Nella chiesa! — ci dice — tutto è pronto ». E dai portoni dei ricchi, dagli usci dei poveri, i padri escono coi loro bambini e le mamme vengono con le loro bambine: tutti sono puliti e ben vestiti, tutti si sorridono e sono lieti, tutti davanti all’altare di Dio si siedono vicino: il ricco e il povero, il servo e il padrone, tutti eguali. Per sei giorni abbiamo stentato, oggi si riposa in letizia. Per sei giorni vestimmo male. oggi ci adorniamo con religiosa modestia. Per sei giorni siamo stati nelle case delle creature, servi delle creature, oggi si va nella casa del Creatore, si serve Lui, si parla con Lui, si mangia con Lui il pane della parola di Dio. Per sei giorni si è vissuto per le cose terrene, oggi si vive per quelle celesti. Com’è bella la domenica cristiana, giorno di Dio, giorno dell’uomo, mistica cena delle anime! – 2. SCORTESIA D’INVITATI. Purtroppo, questo giorno santo, benefico all’anima e al corpo, alla famiglia e alla società quanto è profanato! Oh se Gesù, una qualche festa, ripassasse attraverso alle nostre campagne e alle nostre città, forse ancora prenderebbe lo staffile per flagellare i profanatori del suo giorno! E forse dalla sua bocca divina gli sgorgherebbe il lamento che confidò ad un’anima privilegiata: « I Giudei mi hanno crocifisso in Venerdì, ma i Cristiani mi crocifiggono in Domenica ».

a) Villam emi! Ho comprato una villa e perciò non posso venire. Ancora questa è una delle scuse che molti Cristiani usano per rifiutare il banchetto festivo. Andare a Messa, andare a Dottrina… io che sono ricco, che ho un palazzo, che sono rivestito di autorità, che ho molte e difficili incombenze?! Alla Messa sono obbligati i poveri, gli ignoranti: ma che cosa deve dire la gente se s’accorge che sento anch’io il bisogno di santificare la festa?!… Ci sono di quelli poi che, senza giungere a questo eccesso, credono che per santificare le feste basti assistere alla santa Messa; e, ascoltatala in qualche modo, pensano a tutt’altro che ad opere di pietà. Costoro trattano Dio come un esoso tiranno a cui si deve concedere meno che si può, e considerano la pietà come una medicina velenosa da prendersi con estrema parsimonia. E tra costoro si trovano quelli che cercano la Messa più spiccia, quelli che giungono sempre in ritardo, o assistono svogliati e disattenti, chiacchierando con disturbo e scandalo degli altri; e spesso ancora con tale abbigliamento e positura da offrire pascolo alla leggerezza, all’ambizione, alla lussuria. Ma basterà una mezz’oretta di Messa per tutta la festa? Ricordate che chi non assiste mai alla Dottrina Cristiana, se anche non si può dire che viola il precetto festivo, certo è difficile che schivi il peccato grave per trascuranza d’istruzione religiosa.

b) Juga boum emi! Ho comprato dieci buoi e devo provarli sotto l’aratro, perciò non posso venire. Questa è un’altra delle scuse con cui i Cristiani violano il banchetto festivo: « Ho un affare da concludere, ho un raccolto maturo da fare, ho un urgente lavoro da finire… ». È l’avarizia, e la bramosia del guadagno maledetto li spinge a diventare come macchine e come bestie, e negarsi il santo riposo. Come fa pena, in domenica, vedere le ciminiere fumare; udire la romba dei martelli e dei motori;

c) Uxorem duri! Ho preso moglie e perciò non voglio venire. È questa la più terribile scusa per profanare il banchetto festivo: « Ho voglia di godermela e non di santificare la festa ». Il giorno della preghiera è diventato il giorno del piacere, giorno della purezza è diventato il giorno della carne trionfante; il giorno della gioia è diventato il giorno dell’orgia. Guardate: l’osteria sì, ma non la Messa; la passeggiata, ma non il catechismo, l’ozio, ma non la preghiera; la disonestà, ma non i sacramenti; il demonio, ma non il Signore. – Nei pomeriggi festivi, le nostre chiese e gli oratori vanno disertandosi: dov’è la gioventù? Le vie sono rigurgitanti, le sale da ballo sono un vortice infernale, gli spettacoli mondani e procaci sono le false sirene. — La persecuzione di Diocleziano infieriva contro i Cristiani, nel 304, con tale violenza, che s’era perfino illuso l’imperatore di poter sradicare dalla terra il nome di Cristo. Tra i più aspri rigori di leggi e di spionaggi Anisia, una giovane di Tessalonica, uscì di casa per recarsi dove i Cristiani celebravano i sacri riti, giacché era giorno di domenica. Uscendo da una porta della città, un soldato la fermò, dicendole: « Dove vai a quest’ora? ». La fanciulla si trovò scoperta, e confessò: « Sono cristiana, e vado a santificare il giorno del Signore ». Soggiunse il soldato: « Vieni con me ad adorare il Sole ». La giovane sì rifiutò e fece per proseguire il suo cammino. Quegli allora le strappò il velo con cui si copriva per modestia il suo volto. Anisia grido: « Il mio Dio ti punirà ». A queste parole il soldato s’accese di furore, e con la sua spada trafisse la giovane santa che cadde mentre la sua anima bianca entrava nell’eterna domenica in cielo (XXX Dicembre, Martirologio). L’intercessione e l’esempio di sant’Anisia faccia ravvedere molti profanatori della festa, prima che il Signore nella sua ira abbia a dir contro di loro quelle tremende parole della Santa Scrittura: « Io vi getterò in faccia lo sterco delle vostre solennità » (Malach., II; 3).

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps VI: 5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam.

[O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]9

Secreta

Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem.

[Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XII: 6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi.

[Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]

Postcommunio

Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus.

[Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

FESTA DEL CORPUS DOMINI (2022)

FESTA DEL CORPUS DOMINI (2022)

Doppio di I cl. con Ottava privilegiata di 2° ordine.

Paramenti bianchi.

Dopo il dogma della SS. Trinità, lo Spirito Santo ci rammenta quello dell’Incarnazione di Gesù, facendoci celebrare con la Chiesa il Sacramento per eccellenza che, riepilogando tutta la vita del Salvatore, dà a Dio gloria infinita e applica alle anime in tutti i momentii frutti della Redenzione (Or.) ». Gesù ci ha salvati sulla Croce e Eucarestia, istituita alla vigilia della passione di Cristo, ne è il perpetuo ricordo (Or.). L’altare è il prolungamento del Calvario, la Messa annuncia « la morte del Signore » (Ep.). Infatti Gesù vi si trova allo stato di vittima; poiché le parole della doppia consacrazione ci mostrano che il pane si è cambiato in Corpo di Cristo, e il vino in Sangue di Cristo; di modo che per ragione di questa doppia consacrazione, che costituisce il sacrificio della Messa, le specie del pane hanno una ragione speciale a chiamarsi « Corpo di Cristo», benché contengano Cristo tutto intero, poiché Egli non può morire, e le specie del vino una ragione speciale a chiamarsi « sangue di Cristo », per quanto anche esse contengano Cristo tutt’intero. E così il Salvatore stesso, che è il sacerdote principale della Messa, offre con sacrificio incruento, nel medesimo tempo che i suoi sacerdoti, il suo Corpo e il suo Sangue che realmente furono separati sulla croce, e che sull’altare lo sono in maniera rappresentativa o sacramentale. – D’altra parte si vede che l’Eucarestia fu istituita sotto forma di cibo (All.) perché possiamo unirci alla vittima del Calvario. L’Ostia santa diviene così il « frumento che nutre le nostre anime » (Intr.). E a quel modo che il Cristo, come Figlio di Dio, riceve la vita eterna dal Padre, così i Cristiani partecipano a questa vita eterna (Vang.) unendosi a Gesù mediante il Sacramento che è il Simbolo dell’unità (Secr.). Così, questo possesso anticipato della vita divina sulla terra mediante l’Eucarestia, è pegno e principio di quella di cui gioiremo pienamente in cielo (Postcom.). « Il medesimo pane degli Angeli che noi mangiamo ora sotto le sacre specie, dice il Concilio di Trento, ci alimenterà in cielo senza veli », poiché saremo faccia a faccia nel cielo, Colui che contempliamo ora con gli occhi della fede sotto le specie eucaristiche. – Consideriamo la Messa come centro di tutto il culto eucaristico della Chiesa; consideriamo nella Comunione il mezzo stabilito da Gesù per farci partecipare più pienamente a questo divino Sacrifizio; così la nostra devozione verso il Corpo e il Sangue del Salvatore ci otterrà efficacemente i frutti della sua redenzione. Per comprendere il significato della Processione che segue la Messa, richiamiamo alla mente come gli Israeliti onoravano l’Arca d’Alleanza che simboleggiava la presenza di Dio in mezzo a loro. Quando essi eseguivano le loro marce trionfali, l’Arca santa avanzava portata dai leviti, in mezzo a una nuvola d’incenso, al suono degli strumenti di musica, di canti, e di acclamazioni di una folla entusiasta. Noi Cristiani abbiamo un tesoro molto più prezioso, perché nell’Eucaristia possediamo Dio stesso. Siamo dunque santamente fieri di fargli scorta ed esaltiamo, per quanto è possibile, il suo trionfo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXX: 17.
Cibávit eos ex ádipe fruménti, allelúia: et de petra, melle saturávit eos, allelúia, allelúia, allelúia.
Ps 80:2

[Li ha nutriti col fiore del frumento, allelúia: e li ha saziati col miele scaturito dalla roccia, allelúia, allelúia, allelúia.]

Exsultáte Deo, adiutóri nostro: iubiláte Deo Iacobj.

[Esultate in Dio nostro aiuto: rallegratevi nel Dio di Giacobbe.]


Cibávit eos ex ádipe fruménti, allelúia: et de petra, melle saturávit eos, allelúia, allelúia, alleluja

[Li ha nutriti col fiore del frumento, allelúia: e li ha saziati col miele scaturito dalla roccia, allelúia, allelúia, allelúia] .

Oratio

Orémus.
Deus, qui nobis sub Sacraménto mirábili passiónis tuæ memóriam reliquísti: tríbue, quǽsumus, ita nos Córporis et Sánguinis tui sacra mystéria venerári; ut redemptiónis tuæ fructum in nobis iúgiter sentiámus:

[O Dio, che nell’ammirabile Sacramento ci lasciasti la memoria della tua Passione: concedici, Te ne preghiamo, di venerare i sacri misteri del tuo Corpo e del tuo Sangue cosí da sperimentare sempre in noi il frutto della tua redenzione:]

Lectio

Léctio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor XI: 23-29
Fratres: Ego enim accépi a Dómino quod et trádidi vobis, quóniam Dóminus Iesus, in qua nocte tradebátur, accépit panem, et grátias agens fregit, et dixit: Accípite, et manducáte: hoc est corpus meum, quod pro vobis tradétur: hoc fácite in meam commemoratiónem.
Simíliter ei cálicem, postquam cenávit, dicens: Hic calix novum Testaméntum est in meo sánguine. Hoc fácite, quotiescúmque bibétis, in meam commemoratiónem. Quotiescúmque enim manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat. Itaque quicúmque manducáverit panem hunc vel bíberit cálicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini. Probet autem seípsum homo: et sic de pane illo edat et de calice bibat. Qui enim mánducat et bibit indígne, iudícium sibi mánducat et bibit: non diiúdicans corpus Dómini.

(Fratelli: Io l’ho appreso appunto dal Signore, ciò che ho trasmesso anche a voi: che il Signore Gesù la notte che fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso le grazie, lo spezzò, e disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che sarà offerto per voi: fate questo in memoria di me. Parimenti, dopo aver cenato, prese il Calice, e disse: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. Tutte le volte che Lo berrete, fate questo in memoria di me. Poiché ogni volta che mangerete questo pane, e berrete questo calice, annunzierete la morte di Signore fino a che egli venga. Perciò chiunque mangerà questo pane, o berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso, e poi mangi di questo pane e beva di questo calice. Poiché chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna, non distinguendo il corpo del Signore.)

Né dagli uomini, né dagli altri Apostoli – dice s. Paolo – io so ciò che vi ho insegnato sull’Eucaristia; ma Gesù Cristo stesso me l’ha rivelato. Non tralascia la circostanza del tempo; la notte stessa, dice egli, in cui il Salvatore fu tradito da uno dei suoi Apostoli, dato in mano de’ suoi nemici e trattato con la peggior crudeltà, istituì questo divin Sacramento, pegno il più prezioso del suo amore, ed attestato il più splendido della sua tenerezza. Colà propriamente fu fatto il testamento di questo amabile Padre, col quale dà tutto se stesso ai suoi figli, poche ore davanti la sua morte. S. Paolo entra quindi in molte particolarità di quanto avvenne in quella sì meravigliosa istituzione. È da osservare che l’Apostolo e tutti gli Evangelisti hanno voluto raccontare fin le minime circostanze di tale istituzione. Il Salvatore prese il pane. Gesù Cristo non poteva prendere che pane senza lievito, il solo di cui era permesso servirsi nel fare la Pasqua: onde con ragione nella Chiesa romana si consacra con pane azzimo. Egli ringrazia il Padre suo della potestà che gli ha comunicato; i quali atti di ringraziamento eran sempre il preludio quand’era per operare le meraviglie più straordinarie. Quindi avendo spezzato il pane che teneva in mano, disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, che sarà dato per voi. Non disse: prendete e mangiate questo pane; ma prendete e mangiate, questo è il mio corpo; la sostanza che Io vi offro sotto queste specie, è il corpo mio, non è più pane. Poiché il Verbo eterno, la stessa verità, dice: Questo è il mio corpo; siamone convinti, dice s. Giovanni Grisostomo, crediamolo senza esitanza, riguardiamolo con gli occhi di una fede viva. Questo è il mio corpo: tale è la virtù e la forza delle parole della consacrazione, di produrre, come causa efficiente, ciò che esse esprimono. Perché tali proposizioni si trovino vere, bisogna solamente che la cosa che esse indicano esista dopo che son pronunziate. Ciò che Gesù Cristo prese in mano, non era che pane; ma appena Egli ebbe pronunziate le parole: Questo è il mio corpo, tutta la sostanza del pane fu annichilata, ed in ciò che Gesù Cristo diede a mangiare ai suoi Apostoli non restò altra sostanza che il suo proprio corpo, il quale indi a poche ore doveva esser dato in mano ai suoi nemici, saziato d’obbrobri, flagellato e crocifisso. Non vi restavan del pane che le sole apparenze, cioè il colore, la figura, il peso, il sapore, che si dicono comunemente specie. Nel Nuovo Testamento non abbiamo nulla di più formale, di più preciso, di meglio indicato che questa realtà del corpo e del sangue di Gesù Cristo nell’adorabile eucaristia. Ogni volta che si parla di questo divino mistero, o nel sesto capitolo di s. Giovanni, o in tutti gli altri Evangelisti, od in s. Paolo, sempre vi si parla di una presenza e di un mangiare realmente e corporalmente il corpo ed il sangue di Gesù Cristo. Il senso delle figure non vi entra affatto, anzi n’è escluso positivamente, poiché il corpo che Gesù Cristo dette a mangiare a’ suoi Apostoli era il medesimo, secondo la sua parola, di quello che abbandonava alle ignominie della sua passione e alla croce per riscattarci. Questo è il mio corpo, che sarà dato per voi. Ora senz’essere Manicheo, nessuno ardirebbe dire che il corpo del Figliuolo di Dio non è stato dato alla morte che in figura. Dal tempo degli Apostoli fino ai nostri giorni, tutta la Chiesa ha sempre creduto che il corpo di Gesù Cristo è realmente e veramente offerto in Sacrifizio, distribuito ai fedeli nella Comunione, e realmente presente nell’eucaristia; e noi non potremmo parlare della presenza reale di Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento in modo più chiaro, più formale, più preciso di quel che hanno fatto i Padri dei primi secoli. – Voi mi direte forse, dice s. Ambrogio, che questo pane che vi si dà a mangiare nella comunione è pane usuale e ordinario. È vero che prima delle parole sacramentali questo pane era pane; ma dopo la consacrazione, in luogo del pane si trova il corpo di Gesù Cristo. Ecco che deve essere indubitabile per noi. Ma come si può fare, continua il medesimo Padre, che ciò che è pane sia il corpo di Gesù Cristo? E risponde: Per la consacrazione, la quale non contiene, se non che le proprie parole Gesù Cristo; poiché, prosegue egli, in tutto ciò che precede la consacrazione, il sacerdote parla in suo nome, quando loda e benedice il Signore, ovvero prega per il re e per il popolo; ma quando arriva alla consacrazione, il sacerdote non parla più in suo nome, ma Gesù Cristo medesimo che parla per la bocca del sacerdote. È dunque, a dir propriamente, la parola di Gesù Cristo medesimo che opera questo sacramento; quella parola, io dico, che dal nulla ha create tutte le cose. Egli ha parlato, continua il medesimo Padre, e tutte le cose sono state fatte; ha comandato, ed ogni cosa è uscita dal nulla. Or, prima della consacrazione, non vi era affatto il corpo di Gesù Cristo, non eravi che pane ordinario: ma dopo la consacrazione, io ve lo ripeto, non vi è più pane, ma è il corpo di Gesù Cristo. Se s. Ambrogio avesse avuto a rispondere ai Protestanti dei nostri giorni, avrebbe egli potuto parlare in modo più preciso e più chiaro? – S. Cirillo, patriarca di Gerusalemme, che viveva nel IV secolo, spiegando al suo popolo le principali verità della religione, gli dice: La dottrina di s. Paolo sul divino mistero dell’Eucaristia deve più che bastare a stabilir la vostra credenza circa un sì augusto sacramento. Questo grande Apostolo ci diceva nella lezione che avete udita, come la notte istessa che questo divin Salvatore doveva esser tradito, prese del pane, e rendute le grazie, lo spezzò e disse: Prendete e mangiate; questo è il mio corpo. E parimente prendendo il calice, disse: Bevete, questo è il mio sangue. Dopo dunque che Gesù Cristo ha detto del pane che aveva preso: Questo è il mio corpo, chi è che oserà di avere il minimo dubbio? E poiché il medesimo Gesù Cristo ha detto così affermativamente: Questo è il mio sangue, chi potrà mai dubitare di questa verità, e dire che non è realmente il suo sangue? E come! dice egli, colui che ha cangiato l’acqua in vino alle nozze di Cana, non meriterà che crediamo che Egli cangi il vino nel suo prezioso sangue? Sotto le specie del pane e del vino, continua il medesimo Padre, il Salvatore ci dà il suo corpo ed il suo sangue; in guisa che noi portiamo veramente Gesù Cristo nel nostro corpo, quando riceviamo il suo: Sic enim efficimur Christiferi, cum corpus ejus et sanguinem in membra nostra recipimus. I pani della proposizione dell’antico Testamento sono aboliti: noi non abbiamo nel Nuovo che questo pane celeste e questo calice di salute, i quali santificano l’anima e il corpo. E perciò, conclude egli, guardatevi bene dall’immaginarvi che ciò che vedete non sia che pane e vino: è realmente il corpo e il sangue di Gesù Cristo: bisogna che la fede corregga l’idea che ve ne danno i sensi. Guardatevi bene dal giudicarne con gli occhi o dal sapore, ma la fede vi renda certa e indubitabile questa verità, essere il corpo e il sangue di Gesù Cristo che voi ricevete. Queste sono le parole di s. Cirillo. Ecco quale è stata la fede dei primi fedeli sull’eucaristia. Si è sempre creduto nella Chiesa, dal primo giorno della sua nascita fino a noi, che la sostanza del pane e del vino si cangi nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù Cristo: ed è ciò che la Chiesa chiama transustanziazione, cioè cangiamento di sostanza; e per la virtù onnipotente delle parole di Gesù Cristo, che il sacerdote pronunzia in nome del Salvatore, si opera questo portento. Se Dio poté cangiare la moglie di Lot in una statua di sale, la verga di Aronne in un serpente, e l’acqua in vino alle nozze di Cana, dicevano i Padri della Chiesa quando istruivano i novelli battezzati per la prima comunione, perché questo medesimo Dio non potrà cangiare il pane ed il vino nel suo sacro corpo e nel suo prezioso sangue nel sacramento dell’eucaristia? – Ogni volta che mangerete di questo pane, dice Gesù Cristo, e berrete di questo calice, annunzierete la morte del Signore, fino a tanto che Egli venga. Il sacrifizio incruento di Gesù Cristo non differendo che nel modo dal sacrifizio cruento del medesimo Salvatore, deve richiamare alla mente di quelli che vi partecipano, la memoria della morte di Gesù Cristo. Con queste parole: Fino a tanto che egli venga, s. Paolo ci mostra che il sacramento dell’eucaristia durerà sino alla fine del mondo. Chiunque, pertanto, mangerà di questo pane o berrà di questo calice indegnamente, dice il s. Apostolo, sarà reo di delitto contro il corpo e il sangue di Gesù Cristo. Questa espressione prova in modo convincente la presenza reale del corpo e del sangue di Gesù Cristo. Qual orrore non dobbiamo avere del peccato che commettono coloro, i quali fanno comunioni sacrileghe! non è un sacrifizio che essi offrono, dice s. Giovan Grisostomo, è un omicidio che commettono; non è un nutrimento che prendono, è un veleno. Colui che mangia questo pane e beve di questo calice indegnamente, mangia e beve la sua condanna, per la colpa di non discernere il corpo del Signore; cioè egli ha in se stesso la prova visibile del suo peccato; e il suo processo, per così dire, è bell’e fatto. Questo divin Salvatore è il suo giudice, questo pane di vita è il decreto della sua morte. Sacrilegio, tradimento, nera ingratitudine, crudele ipocrisia, quanti delitti in una sola Comunione fatta indegnamente! E quali ne sono gli effetti? Spessissimo l’induramento e l’impenitenza finale.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Graduale

Ps CXLIV: 15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno,

[Gli occhi di tutti sperano in Te, o Signore: e Tu concedi loro il cibo a tempo opportuno,]

V. Aperis tu manum tuam: et imples omne animal benedictióne. Allelúia, allelúia.

[Apri la tua mano: e colma ogni essere vivente della tua benedizione,]
Ioannes VI: 56-57


Caro mea vere est cibus, et sanguis meus vere est potus: qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo. Alleluia.

[La mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui. Alleluia.]

Sequentia
Thomæ de Aquino.

Lauda, Sion, Salvatórem,
lauda ducem et pastórem
in hymnis et cánticis.

Quantum potes, tantum aude:
quia maior omni laude,
nec laudáre súfficis.

Laudis thema speciális,
panis vivus et vitális
hódie propónitur.

Quem in sacræ mensa cenæ
turbæ fratrum duodénæ
datum non ambígitur.

Sit laus plena, sit sonóra,
sit iucúnda, sit decóra
mentis iubilátio.

Dies enim sollémnis agitur,
in qua mensæ prima recólitur
huius institútio.

In hac mensa novi Regis,
novum Pascha novæ legis
Phase vetus términat.

Vetustátem nóvitas,
umbram fugat véritas,
noctem lux elíminat.

Quod in coena Christus gessit,
faciéndum hoc expréssit
in sui memóriam.

Docti sacris institútis,
panem, vinum in salútis
consecrámus hóstiam.

Dogma datur Christiánis,
quod in carnem transit panis
et vinum in sánguinem.

Quod non capis, quod non vides,
animosa fírmat fides,
præter rerum órdinem.

Sub divérsis speciébus,
signis tantum, et non rebus,
latent res exímiæ.

Caro cibus, sanguis potus:
manet tamen Christus totus
sub utráque spécie.

A suménte non concísus,
non confráctus, non divísus:
ínteger accípitur.

Sumit unus, sumunt mille:
quantum isti, tantum ille:
nec sumptus consúmitur.

Sumunt boni, sumunt mali
sorte tamen inæquáli,
vitæ vel intéritus.

Mors est malis, vita bonis:
vide, paris sumptiónis
quam sit dispar éxitus.

Fracto demum sacraménto,
ne vacílles, sed meménto,
tantum esse sub fragménto,
quantum toto tégitur.

Nulla rei fit scissúra:
signi tantum fit fractúra:
qua nec status nec statúra
signáti minúitur.

Ecce panis Angelórum,
factus cibus viatórum:
vere panis filiórum,
non mitténdus cánibus.

In figúris præsignátur,
cum Isaac immolátur:
agnus paschæ deputátur:
datur manna pátribus.

Bone pastor, panis vere,
Iesu, nostri miserére:
tu nos pasce, nos tuére:
tu nos bona fac vidére
in terra vivéntium.

Tu, qui cuncta scis et vales:
qui nos pascis hic mortáles:
tuos ibi commensáles,
coherédes et sodáles
fac sanctórum cívium.
Amen. Allelúia.

[Loda, o Sion, il Salvatore, loda il capo e il pastore,  con inni e càntici.
Quanto puoi, tanto inneggia:  ché è superiore a ogni lode,  né basta il lodarlo.
Il pane vivo e vitale  è il tema di lode speciale,  che oggi si propone.
Che nella mensa della sacra cena,  fu distribuito ai dodici fratelli,  è indubbio.
Sia lode piena, sia sonora,  sia giocondo e degno  il giúbilo della mente.
Poiché si celebra il giorno solenne,  in cui in primis fu istituito  questo banchetto.
In questa mensa del nuovo Re,  la nuova Pasqua della nuova legge  estingue l’antica.
Il nuovo rito allontana l’antico,  la verità l’ombra,  la luce elimina la notte.
Ciò che Cristo fece nella cena,  ordinò che venisse fatto  in memoria di sé.
Istruiti dalle sacre leggi,  consacriamo nell’ostia di salvezza  il pane e il vino.
Ai Cristiani è dato il dogma:  che il pane si muta in carne,  e il vino in sangue.
Ciò che non capisci, ciò che non vedi,  lo afferma pronta la fede,  oltre l’ordine naturale.
Sotto specie diverse,  che son solo segni e non sostanze,  si celano realtà sublimi.
La carne è cibo, il sangue bevanda,  ma Cristo è intero  sotto l’una e l’altra specie.
Da chi lo assume, non viene tagliato,  spezzato, diviso:  ma preso integralmente.
Lo assuma uno, lo assumino in mille:  quanto riceve l’uno tanto gli altri:  né una volta ricevuto viene consumato.
Lo assumono i buoni e i cattivi:  ma con diversa sorte  di vita e di morte.
Pei cattivi è morte, pei buoni vita:  oh che diverso esito  ha una stessa assunzione.
Spezzato poi il Sacramento,  non temere, ma ricorda  che tanto è nel frammento  quanto nel tutto.
Non v’è alcuna separazione:  solo un’apparente frattura,  né vengono diminuiti stato  e grandezza del simboleggiato.
Ecco il pane degli Angeli,  fatto cibo dei viandanti:  in vero il pane dei figli  non è da gettare ai cani.
Prefigurato  con l’immolazione di Isacco, col sacrificio dell’Agnello Pasquale,  e con la manna donata ai padri.
Buon pastore, pane vero,  o Gesú, abbi pietà di noi:  Tu ci pasci, ci difendi:  fai a noi vedere il bene  nella terra dei viventi.
Tu che tutto sai e tutto puoi:  che ci pasci, qui, mortali:  fa che siamo tuoi commensali,  coeredi e compagni dei santi del cielo.  Amen. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangéli secúndum S. Ioánnem.
Ioann VI: 56-59


In illo témpore: Dixit Iesus turbis Iudæórum: Caro mea vere est cibus et sanguis meus vere est potus. Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in illo. Sicut misit me vivens Pater, et ego vivo propter Patrem: et qui mandúcat me, et ipse vivet propter me. Hic est panis, qui de coelo descéndit. Non sicut manducavérunt patres vestri manna, et mórtui sunt. Qui manducat hunc panem, vivet in ætérnum.

[Gesù disse un giorno alle turbe della Giudea: « La mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, resta .in me, e Io in lui. Come il Padre vivente ha mandato me, e io vivo per il Padre; così chi mangerà da me, vivrà per me. Questo è il pane che discese dal cielo. Non come i vostri padri, che mangiarono la manna e morirono: chi mangia di questo pane, vivrà in eterno » (Giov. VI, 56-59). ]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1958.

LA SANTA MESSA

A Cafarnao Gesù promise con parole nitide e ferme che avrebbe istituito l’Eucaristia:

« Io sono il Pane Vivo disceso dal cielo. La mia carne è veramente buon cibo ed il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui. E vivrà in eterno ». È questo un tale prodigio d’Amore, che molti quando per la prima volta lo sentirono annunziare, non ci poterono credere e se ne andarono via da Gesù. Gesù non piuttosto che raccorciare sulla nostra misura il suo Amore immenso, li lasciò andare. Quello che aveva promesso, mantenne fedelmente quella sera in cui sarebbe stato tradito. Consacrò il pane e il vino e li distribuì dicendo: « Prendete e mangiate: questo è il mio corpo. Prendete e bevete: questo è il calice del mio sangue che sarà sparso per voi e per molti in remissione dei peccati ». Da quella sera gli uomini ebbero sulla terra una partecipazione del convito del Paradiso. Grande veramente è il banchetto Eucaristico: in esso si riceve Gesù Cristo medesimo, il quale si unisce a noi, infonde nel nostro cuore e nella nostra volontà il suo amore e il suo volere, e poi insieme a noi si offre al Padre, glorifica la SS. Trinità, e ci rende così degni della vita eterna e divina. Troppo grande mistero, troppo bello, perché la nostra piccola mente possa arrivare a capirlo! Rinnoviamo la fede. – Noi fermamente crediamo, garantiti come siamo dalla infallibile parola del Figlio di Dio: « Questo è il mio Corpo: prendete e bevete. Fate questo in memoria di me ». Quando il Sacerdote nella santa Messa ripete queste parole consacratorie, il medesimo Gesù che troneggia glorificato nel cielo, si fa presente sull’altare. Com’è possibile ciò? Ci sono dunque due Gesù, uno in cielo e uno sull’altare? Ci sono tanti innumerevoli Gesù quanti sono i tabernacoli, quante sono le particole consacrate? No: non c’è che un solo Gesù, Il Salvatore non può essere moltiplicato: è soltanto la presenza che viene moltiplicata. Senza dubbio è un grande mistero. Tenterò con un paragone di farci intorno un poco di luce. Ecco, io in mezzo alla Chiesa lancio una parola sola, questa: « Gesù! ». Che parola avete sentito voi? Tutti, la stessa identica parola. Eppure voi siete molti, e ciascuno di voi l’ha sentita intera per conto suo, nella sua anima, come se fosse stato qui solo nella chiesa. Dunque la medesima e unica parola è diventata presente in ciascuno di voi. In un modo simile, ma assai più concreto, il medesimo identico Gesù è presente interamente e realmente in ciascuna ostia. Dopo aver rinnovata la fede, dopo aver accennata alla più elementare difficoltà, svolgerò il mistero eucaristico nel suo aspetto più essenziale, quello della santa Messa.

1. IL GRANDE SACRIFICIO DELLA S. MESSA

Il sacramento dell’Eucaristia s’incentra tutto nella Messa: è in essa che si genera Gesù Eucaristico e che viene immolato per la remissione dei nostri peccati, è solo per essa che vien distribuito in nutrimento delle anime; è per un prolungamento di essa che resta aspettando giorno e notte ed accogliendo quanti hanno bisogno e desiderio di Lui. È il medesimo sacrificio del Calvario che durante la S. Messa si rende presente e attuale sull’altare, benché senza più dolore né spargimento di sangue. Con la S. Messa veramente il Nome di Dio può essere santificato sulla terra come lo è in cielo. Il cielo è l’infinita, luminosa basilica dove l’unico Sacerdote, Gesù Cristo, rende continuamente alla SS. Trinità tutta la gloria che già le donò con la sua sanguinosa immolazione sul Calvario: « Osservate — avverte Bossuet — come Egli si avvicina al Padre, e gli presenta le piaghe irrimarginabili, ancor vermiglie di quel divino sangue della Nuova Alleanza, versato nel doloroso Venerdì quando morì per la redenzione delle anime » (Sermone sull’Ascensione). La terra a sua volta è la vasta cripta dove il Papa, i Vescovi, e all’incirca 400 mila preti celebrano quotidianamente la S. Messa cioè prestano il loro ministero affinché l’unico Sacerdote Gesù Cristo, anche quaggiù possa rioffrire a Dio il suo corpo e il suo sangue, che per la prima volta gli offrì tra gli spasimi della croce. Dunque quel medesimo Gesù che S. Giovanni vide come un Agnello immolato sull’altare sublime del cielo, lo possediamo anche noi come Agnello immolato sugli altari di questa terra. In Paradiso gli Angeli e i Santi non restano inattivi attorno al grande Sacerdote, ma a Lui s’uniscono, si offrono con Lui. Così deve avvenire sulla terra: « Quando assistiamo al divin Sacrificio — dice S. Gregorio Magno — è necessario che sacrifichiamo anche noi stessi con la contrizione del cuore… La Vittima divina non ci gioverà presso Dio se non ci facciamo anche noi vittime congiunte ad essa» (Dial., LIV). Dunque, assistendo alla S. Messa dobbiamo metterci sulla patena d’oro, piccole ostie accanto alla grande Ostia, offrirci a Dio senza riserve. La S. Messa diventa allora un dramma vissuto, e assistervi non significa far da spettatore più o meno commosso, ma prendervi una parte tutt’altro che indifferente: unirci a Gesù, consacrificarci con Lui. Che vuol dire questo? Innanzi tutto, vuol dire accettazione amorosa di tutte le pene e di tutte le contrarietà inevitabili della nostra vita. Poi vuol dire rinuncia a tutti quei piaceri, quelle abitudini che possono essere desiderati dalla nostra natura corrotta, ma che la legge di Dio proibisce. Senza questo duplice sacrificio non si potrà mai partecipare veramente alla santa Messa. Se ci sono poi anime generose che desiderano consacrificarsi più pienamente, dirò che ogni giorno sono innumerevoli le occasioni per prepararci a sentire sempre meglio la S. Messa; lo stesso alzarci di buon mattino è sacrificare la nostra pigrizia; adempiere coscienziosamente il nostro dovere è sacrificare la negligenza, a tavola si può sacrificare la nostra golosità; in compagnia si può sacrificare il desiderio di dire o di ascoltare cose inutili, o peggio; con l’elemosina si può sacrificare la nostra avarizia. Il Card. Mercier diceva: «Che cos’è un Cristiano? Cristiano è uno che va a Messa ». Quando la Messa è vissuta come abbiamo spiegato, la definizione è perfetta.

2. COME VI PARTECIPANO GLI UOMINI

Tutti i fedeli sono invitati al gran banchetto eucaristico della santa Messa, ed invitati tutti i giorni. Non squillano per questo ogni alba le campane, voci di Dio che chiama alla sua grande cena? Tutti i fedeli sono poi obbligati sotto pena di peccato mortale a sentire la S. Messa ogni domenica e ogni festa di precetto. A questo proposito potremmo distinguere tre categorie di Cristiani.

a) Quelli che rifiutano. E sono molti, specialmente uomini, che non ascoltano più la Messa nemmeno nei giorni festivi. Moltissimi che la tralasciano saltuariamente, senza preoccuparsi del grave peccato che commettono. Se li avvisate vi capiterà di sentire qualcuna di queste risposte: « Sono all’officina tutta la settimana: ho solo la festa per lavorare il mio giardino, il mio campo… Non ho quindi tempo di venire in chiesa » oppure: .« Non ho che la domenica per riposarmi un po! per riordinare le cose di casa; e non voglio sciuparla. Ed anche: «La Messa, che noia! se poi c’è la predica, mi prendono le vertigini. Si aspetta solo la domenica per potere andare in lieta compagnia a godere l’aria dei monti e dei laghi!…. La ragione profonda di questa condotta è unica: essi non sanno il male che si fanno e la gloria che negano a Dio; essi non capiscono più il sacrificio della Croce né il sacrificio dell’Altare che lo rinnova; essi non sono più Cristiani.

b) La seconda categoria è di quelli che a Messa tornano ancora, ma più per abitudine che per interiore convinzione. Vanno perché ci sono sempre andati fin da bambini: perché è quasi uno svago e possono incontrarsi con quella persona, o dare uno sguardo a quell’altra; perché non vogliono sentire i rimproveri dei buoni genitori o della buona moglie. Arrivano in ritardo ed escono prima della fine: preferiscono stare dietro le colonne e non vedono nulla di quello che avviene sull’altare; e di solito si fermano in fondo addossati alla porta. Non hanno corona, non hanno libro di preghiera; non aprono bocca. Rimangono là con un’aria tra di svagati ed annoiati, a cui soprattutto preme che il momento d’andarsene arrivi presto. – La loro condotta morale in famiglia, in ufficio o in officina non è migliore di chi non ha l’usanza della Messa; ed è spesso per colpa loro che capita d’udire: « Chi va in chiesa è peggiore degli altri ».

c) V’è però la categoria dei buoni Cristiani, per i quali la Messa domenicale è un sacrosanto dovere ed un soave conforto. Tra questi s’incontrano belle anime capaci di considerevoli sacrifici, pur di soddisfare al precetto festivo. Di essi molti hanno imparato anche a capire e a seguire liturgicamente il divin Sacrificio. Sanno che tutti i Cristiani formano un Corpo mistico di cui Cristo è il centro vitale. Sanno pure che le anime in stato di grazia vivono della vita stessa di Cristo. Sanno di consacrarsi insieme a Lui per la gloria del Padre. Leggono il messalino o qualche provvido libretto che riporta le orazioni della S. Messa, e gustano la profondità e la bellezza di quelle preghiere, e vivono il dramma divino che passa fra la terra e il cielo.

CONCLUSIONE

S. Francesco Borgia aveva un divino istinto che lo guidava verso l’Eucaristia. E benché alcune volte non si sapeva dove fossero conservate le sacre specie, da quel divino istinto egli era condotto verso di esse infallibilmente (Brev. Ambr., 1 ott). Cristiani, un dolce desiderio deve pur spingere anche noi verso l’Eucaristia, specialmente verso la Messa. Ogni Messa è un tesoro di gloria per Dio, di grazia per noi: perché non siam presi dalla divina avarizia di accumulare queste ricchezze, che neppure la morte ci potrà rapire? Perché, se lo possiamo, non ascoltare la Messa ogni giorno?

Ebbene, quanti la salute cagionevole e le preoccupazioni tengono via dalla Messa quotidiana, rivolgano pur da lontano i loro pensieri a Gesù che in quel momento, s’immola. Il Signore gradirà la loro spirituale offerta d’amore.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Levit. XXI: 6
Sacerdótes Dómini incénsum et panes ófferunt Deo: et ideo sancti erunt Deo suo, et non pólluent nomen eius, allelúia.

[I sacerdoti del Signore offrono incenso e pane a Dio: perciò saranno santi per il loro Dio e non profaneranno il suo nome, allelúia.]

Secreta

Ecclésiæ tuæ, quǽsumus, Dómine, unitátis et pacis propítius dona concéde: quæ sub oblátis munéribus mýstice designántur.

[O Signore, Te ne preghiamo, concedi propizio alla tua Chiesa i doni dell’unità e della pace, che misticamente son figurati dalle oblazioni presentate.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

1 Cor XI: 26-27
Quotiescúmque manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat: itaque quicúmque manducáverit panem vel bíberit calicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini, allelúia.

[Tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore, finché verrà: ma chiunque avrà mangiato il pane e bevuto il sangue indegnamente sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.
Fac nos, quǽsumus, Dómine, divinitátis tuæ sempitérna fruitióne repléri: quam pretiósi Corporis et Sanguinis tui temporalis percéptio præfigúrat:

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che possiamo godere del possesso eterno della tua divinità: prefigurato dal tuo prezioso Corpo e Sangue che ora riceviamo].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ (2022)

FESTA DELLA SANTSSIMA TRINITÁ (2022)

64

O Dio, uno nella natura e trino nelle Persone, Padre, Figlio e Spirito Santo, causa prima e fine ultimo di tutte le creature, Bene infinito, incomprensibile e ineffabile, mio Creatore, mio Redentore e mio Santificatore, io credo in Voi, spero in Voi e vi amo con tutto il cuore.

Voi nella vostra felicità infinita, preferendomi, senza alcun mio merito, ad innumerevoli altre creature, che meglio di me avrebbero corrisposto ai vostri benefìci, aveste per me un palpito d’amore fin dall’eternità e, suonata la mia ora nel tempo, mi traeste dal nulla all’esistenza terrena e mi donaste la grazia, pegno della vita eterna.

Dall’abisso della mia miseria vi adoro e vi ringrazio. Sulla mia culla fu invocato il vostro Nome come professione di fede, come programma di azione, come meta unica del mio pellegrinaggio quaggiù; fate, o Trinità Santissima, che io mi ispiri sempre a questa fede e attui costantemente questo programma, affinché, giunto al termine del mio cammino, possa fissare le mie pupille nei fulgori beati della vostra gloria.

[Fidelibus, qui festo Ss.mæ Trinitatis supra relatam orationem pie recitaverint, conceditur: Indulgentia trium annorum;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus (S. Pæn. Ap.,10 maii 1941).

[Nel giorno della festa della Ss. TRINITA’, si concede indulgenza plenaria con le solite condizioni: Confessione [se impediti Atti di contrizione perfetta], Comunione sacramentale [se impediti, Comunione Spirituale], Preghiera secondo le intenzioni del S. Padre, S. S. GREGORIO XVIII]

Canticum Quicumque


(Canticum Quicumque * Symbolum Athanasium)


Quicúmque vult salvus esse, * ante ómnia opus est, ut téneat cathólicam fidem:
Quam nisi quisque íntegram inviolatámque serváverit, * absque dúbio in ætérnum períbit.
Fides autem cathólica hæc est: * ut unum Deum in Trinitáte, et Trinitátem in unitáte venerémur.
Neque confundéntes persónas, * neque substántiam separántes.
Alia est enim persóna Patris, ália Fílii, * ália Spíritus Sancti:
Sed Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti una est divínitas, * æquális glória, coætérna majéstas.
Qualis Pater, talis Fílius, * talis Spíritus Sanctus.
Increátus Pater, increátus Fílius, * increátus Spíritus Sanctus.
Imménsus Pater, imménsus Fílius, * imménsus Spíritus Sanctus.
Ætérnus Pater, ætérnus Fílius, * ætérnus Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres ætérni, * sed unus ætérnus.
Sicut non tres increáti, nec tres imménsi, * sed unus increátus, et unus imménsus.
Simíliter omnípotens Pater, omnípotens Fílius, * omnípotens Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres omnipoténtes, * sed unus omnípotens.
Ita Deus Pater, Deus Fílius, * Deus Spíritus Sanctus.
Ut tamen non tres Dii, * sed unus est Deus.
Ita Dóminus Pater, Dóminus Fílius, * Dóminus Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres Dómini, * sed unus est Dóminus.
Quia, sicut singillátim unamquámque persónam Deum ac Dóminum confitéri christiána veritáte compéllimur: * ita tres Deos aut Dóminos dícere cathólica religióne prohibémur.
Pater a nullo est factus: * nec creátus, nec génitus.
Fílius a Patre solo est: * non factus, nec creátus, sed génitus.
Spíritus Sanctus a Patre et Fílio: * non factus, nec creátus, nec génitus, sed procédens.
Unus ergo Pater, non tres Patres: unus Fílius, non tres Fílii: * unus Spíritus Sanctus, non tres Spíritus Sancti.
Et in hac Trinitáte nihil prius aut postérius, nihil majus aut minus: * sed totæ tres persónæ coætérnæ sibi sunt et coæquáles.
Ita ut per ómnia, sicut jam supra dictum est, * et únitas in Trinitáte, et Trínitas in unitáte veneránda sit.
Qui vult ergo salvus esse, * ita de Trinitáte séntiat.
Sed necessárium est ad ætérnam salútem, * ut Incarnatiónem quoque Dómini nostri Jesu Christi fidéliter credat.
Est ergo fides recta ut credámus et confiteámur, * quia Dóminus noster Jesus Christus, Dei Fílius, Deus et homo est.
Deus est ex substántia Patris ante sǽcula génitus: * et homo est ex substántia matris in sǽculo natus.
Perféctus Deus, perféctus homo: * ex ánima rationáli et humána carne subsístens.
Æquális Patri secúndum divinitátem: * minor Patre secúndum humanitátem.
Qui licet Deus sit et homo, * non duo tamen, sed unus est Christus.
Unus autem non conversióne divinitátis in carnem, * sed assumptióne humanitátis in Deum.
Unus omníno, non confusióne substántiæ, * sed unitáte persónæ.
Nam sicut ánima rationális et caro unus est homo: * ita Deus et homo unus est Christus.
Qui passus est pro salúte nostra: descéndit ad ínferos: * tértia die resurréxit a mórtuis.
Ascéndit ad cælos, sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis: * inde ventúrus est judicáre vivos et mórtuos.
Ad cujus advéntum omnes hómines resúrgere habent cum corpóribus suis; * et redditúri sunt de factis própriis ratiónem.
Et qui bona egérunt, ibunt in vitam ætérnam: * qui vero mala, in ignem ætérnum.
Hæc est fides cathólica, * quam nisi quisque fidéliter firmitérque credíderit, salvus esse non póterit.

MESSA

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Doppio di I° classe. – Paramenti bianchi.

Lo Spirito Santo, il cui regno comincia con la festa di Pentecoste, viene a ridire alle nostre anime in questa seconda parte dell’anno (dalla Trinità all’Avvento – 6 mesi), quello che Gesù ci ha insegnato nella prima (dall’Avvento alla Trinità – 6 mesi). Il dogma fondamentale al quale fa capo ogni cosa nel Cristianesimo è quello della SS. Trinità, dalla quale tutto viene (Ep.) e alla quale debbono ritornare tutti quelli che sono stati battezzati nel suo nome (Vang.). Così, dopo aver ricordato, nel corso dell’anno, volta per volta, pensiero di Dio Padre Autore della Creazione, di Dio Figlio Autore della Redenzione, di Dio Spirito Santo, Autore della nostra santificazione, la Chiesa, in questo giorno specialmente, ricapitola il grande mistero che ci ha fatto conoscere e adorare in Dio l’Unità di natura nella Trinità delle persone (Or.). — « Subito dopo aver celebrato l’avvento dello Spirito Santo, noi celebriamo la festa della SS. Trinità nell’officio della domenica che segue, dice S. Ruperto nel XII secolo, e questo posto è ben scelto perché subito dopo la discesa di questo divino Spirito, cominciarono la predicazione e la credenza, e, nel Battesimo, la fede e la confessione nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo ». Il dogma della SS. Trinità è affermato in tutta la liturgia. È in nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo che si comincia e si finisce la Mesa e l’Ufficio divino, e che si conferiscono i sacramenti. Tutti i Salmi terminano col Gloria Patri, gli Inni con la Dossologia e le Orazioni con una conclusione in onore delle tre Persone divine. Nella Messa due volte si ricorda che il Sacrificio è offerto alla SS. Trinità. — Il dogma della Trinità risplende anche nelle chiese: i nostri padri amavano vederne un simbolo nell’altezza, larghezza e lunghezza mirabilmente proporzionate degli edifici; nelle loro divisioni principali e secondarie: il santuario, il coro, la navata; le gallerie, le trifore, le invetriate; le tre entrate, le tre porte, i tre vani, il frontone (formato a triangolo) e, a volte le tre torri campanili. Dovunque, fin nei dettagli dell’ornato il numero ripetuto rivela un piano prestabilito, un pensiero di fede nella SS. Trinità. — L’iconografia cristiana riproduce, in differenti maniere questo pensiero. Fino al XII secolo Dio Padre è rappresentato da una mano benedicente che sorge fra le nuvole, e spesso circondata da un nimbo: questa mano significa l’onnipotenza di Dio. Nei secoli XIII e XIV si vede il viso e il busto del Padre; dal secolo XV il Padre è rappresentato da un vegliardo vestito come il Pontefice.Fino al XII secolo Dio Figlio è rappresentato da una croce, da un agnello o da un grazioso giovinetto come i pagani rappresentavano Apollo. Dal secolo XI al XVI secolo apparve il Cristo nella pienezza delle forze e barbato; dal XIII secolo porta la sua croce, ma è spesso ancora rappresentato dall’Agnello. — Lo Spirito Santo fu dapprima rappresentato da una colomba lecui ali spiegate spesso toccano la bocca del Padre e del Figlio, per significare che procede dall’uno e dall’altro. A partire dall’XI secolo fu rappresentato per questo sotto forma di un fanciullino. Nel XIII secolo è un adolescente, nel XV un uomo maturo come il Padre e il Figlio, ma con una colomba al disopra della testa o nella mano per distinguerlo dalle altre due Persone. Dopo il XVI secolo la colomba riprende il diritto esclusivo che aveva primieramente rappresentare lo Spirito Santo. — Per rappresentare la Trinità si prese dalla geometria il triangolo, che con la sua figura, indica l’unità divina nella quale sono iscritti i tre angoli, immagine delle tre Persone in Dio. Anche il trifoglio servì a designare il mistero della Trinità, come pure tre cerchi allacciati con il motto Unità scritto nello spazio lasciato libero al centro della intersezione dei cerchi; fu anche rappresentata come una testa a tre facce distinte su un unico capo, ma nel 1628 Papa Urbano VIII proibì di riprodurre le tre Persone in modo così mostruoso. — Una miniatura di questa epoca rappresenta il Padre e il Figlio somigliantissimi, il medesimo nimbo, la medesima tiara, la medesima capigliatura, un unico mantello: inoltre sono uniti dal Libro della Sapienza divina che reggono insieme e dallo Spirito Santo che li unisce con la punta delle ali spiegate. Ma il Padre è più vecchio del Figlio; la barba del primo è fluente, del secondo è breve; il Padre porta una veste senza cintura e il pianeta terrestre; il Figlio ha un camice con cintura e stola poiché è sacerdote. — La solennità della SS. Trinità deve la  sua origine al fatto che le ordinazioni del Sabato delle Quattro Tempora si celebravano la sera prolungandosi fino all’indomani, domenica, che non aveva liturgia propria. — Come questo giorno, così tutto l’anno è consacrato alla SS. Trinità, e nella prima Domenica dopo Pentecoste viene celebrata la Messa votiva composta nel VII secolo in onore di questo mistero. E poiché occupa un posto fisso nel calendario liturgico, questa Messa fu considerata costituente una festa speciale in onore della SS. Trinità. Il Vescovo di Liegi, Stefano, nato verso l’850, ne compose l’ufficio che fu ritoccato dai francescani. Ma ebbe vero, principio questa festa nel X secolo e fu estesa a tutta la Chiesa da Papa Giovanni XXII nel 1334. — Affinché siamo sempre armati contro ogni avversità (Or.), facciamo in questo giorno con la liturgia professione solenne di fede nella santa ed eterna Trinità e sua indivisibile Unità (Secr.).

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus 

Tob XII: 6.

Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam.

[Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]

Ps VIII: 2

Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in univérsa terra!


[O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!]

 Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam.

[Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]

Oratio

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui dedísti fámulis tuis in confessióne veræ fídei, ætérnæ Trinitátis glóriam agnóscere, et in poténtia majestátis adoráre Unitátem: quaesumus; ut, ejúsdem fídei firmitáte, ab ómnibus semper muniámur advérsis. 

[O Dio onnipotente e sempiterno, che concedesti ai tuoi servi, mediante la vera fede, di conoscere la gloria dell’eterna Trinità e di adorarne l’Unità nella sovrana potenza, Ti preghiamo, affinché rimanendo fermi nella stessa fede, siamo tetragoni contro ogni avversità.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom XI: 33-36.

“O altitúdo divitiárum sapiéntiæ et sciéntiæ Dei: quam incomprehensibília sunt judícia ejus, et investigábiles viæ ejus! Quis enim cognovit sensum Dómini? Aut quis consiliárius ejus fuit? Aut quis prior dedit illi, et retribuétur ei? Quóniam ex ipso et per ipsum et in ipso sunt ómnia: ipsi glória in sæcula. Amen”. 

[O incommensurabile ricchezza della sapienza e della scienza di Dio: come imperscrutabili sono i suoi giudizii e come nascoste le sue vie! Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi gli fu mai consigliere? O chi per primo dette a Lui, sí da meritarne ricompensa? Poiché da Lui, per mezzo di Lui e in Lui sono tutte le cose: a Lui gloria nei secoli. Amen.]

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. (Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

DIO È CARITÀ.

La gloria del Cristianesimo, della Rivelazione cristiana, che ha per oggetto suo primo Dio, è di avere saputo e di saper parlare alla nostra mente e al nostro cuore, appagando i due supremi bisogni dell’anima: sapere e amare. Ce n’è per le intelligenze più aristocratiche, ce n’è per i cuori più umili, quelle si arrestano pensose, questi si fermano giocondi.  Oggi l’Epistola della domenica ha una parola delle più sublimi e delle più consolanti. Dio è carità: «Deus charitas est». Dio è un fuoco, una promessa, un suono infinito di amore, di bontà, di carità. La carità è il suo attributo, per noi Cristiani più alto, più caratteristico. Vedete, o fratelli, le armonie mirabili del dogma, della morale di N. S. Gesù Cristo. La carità è il grande comandamento della sua Legge, così grande che può parere e dirsi in qualche modo il solo: in realtà riassume, compendia in sé tutti gli altri. È « preceptum magnum in lege ». Bisogna amar Dio e tutti quelli e tutto ciò che Egli desidera vedere amato da noi. Amare Dio! Che gran parola! Se Dio permettesse all’uomo di amarlo, pensando quanto Egli è grande, quanto noi siamo piccini, dovremmo riguardarlo come una concessione straordinaria da parte di Dio. Ebbene, no, Dio non ci permette: Egli ci comanda di volerGli bene, come figli al Padre, come amici all’Amico. Ma noi Gli dobbiamo voler bene, perché (ecco il dogma) Egli è buono, anzi è la stessa bontà, una bontà non contegnosa, non fredda, una bontà calda, espansiva: è carità. Questo dogma corrisponde a quel precetto: nel precetto si raccoglie tutta la morale, in quel precetto e in questo dogma si compendia la storia dogmatica dei rapporti di Dio con noi. La carità è la chiave della creazione, della Redenzione, della Santificazione. Noi siamo da tanti secoli ormai abituati a sentirci predicare questo ritornello: Dio è carità, che rimaniamo quasi indifferenti. Ma quei primi che raccolsero queste parole dalle labbra di Gesù e poi dagli Apostoli, ne rimasero estatici. Per secoli i Profeti avevano con una commossa eloquenza celebrato la grandezza di Dio e la Sua giustizia. Certo non avevano dimenticato la misericordia, attributo troppo prezioso perché nella sinfonia profetica potesse mancare. Ma la grande predicazione profetica era la predicazione della grandezza e della giustizia: volevano incutere il timore di Dio in quel popolo dalla dura cervice e dal cuore incirconciso. E parve una musica nuova e dolce questa del Figlio di Dio, di Gesù: Dio è bontà, è amore, è carità: vuole essere amato. E lo so, e l’ho detto e lo ripeto: al ritornello ci abbiamo fatto l’orecchio. Ma siamo noi ben convinti di questo dogma? Crediamo noi davvero, crediamo noi sempre alla bontà di Dio? Purtroppo l’amara interrogazione ha la sua ragion d’essere. Perché crederci davvero vuol dire amare Dio fino alla follia come facevano i Santi, e ciò è più difficile in certi momenti oscuri della vita, è un po’ difficile sempre. La carità di Dio è anch’essa misteriosa come sono misteriosi tutti gli attributi di Dio, dato che Dio stesso è mistero. – Oggi la Chiesa ce lo ricorda celebrando la SS. Trinità, il primo mistero della nostra fede, e cantando con le parole di Paolo: « O altitudo divitiarum sapientiæ et scientiæ Dei! » – Dio è un abisso dove la ragione da sola si smarrisce, guidata dalla fede cammina quanto quaggiù è necessario ed è possibile, come chi tra le tenebre ha una piccola, fida lucerna. È un abisso, è un mistero anche l’amore di Dio. Dobbiamo accettarlo, crederlo. Perciò l’Apostolo definisce i Cristiani così: gli uomini che hanno creduto e credono alla carità di Dio. « Nos credidimus charitati ». Ma credendo, e solo credendo a questo mistero della bontà, della carità di Dio per noi, per tutti, ci si rischiara il buio che sarebbe altrimenti atroce della nostra povera esistenza: ci si illumina quel sovrano dovere di amare anche noi il nostro prossimo che renderebbe tanto meno triste il mondo e la vita se noi ne fossimo gli esecutori fedeli. Il Dio della carità accenda nei nostri cuori la Sua fiamma e faccia splendere ai nostri sguardi la Sua luce!

 Graduale 

Dan III: 55-56. Benedíctus es, Dómine, qui intuéris abýssos, et sedes super Chérubim, 

[Tu, o Signore, che scruti gli abissi e hai per trono i Cherubini.]

Alleluja

Benedíctus es, Dómine, in firmaménto cæli, et laudábilis in sæcula. Allelúja, 

[V.Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, alleluia.]

Dan III: 52 V. Benedíctus es, Dómine, Deus patrum nostrórum, et laudábilis in sæcula. Allelúja. Alleluja. 

[Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, allelúia]

Evangelium

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum Matthæum. Matt. XXVIII: 18-20

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Data est mihi omnis potéstas in coelo et in terra. Eúntes ergo docéte omnes gentes, baptizántes eos in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti: docéntes eos serváre ómnia, quæcúmque mandávi vobis. Et ecce, ego vobíscum sum ómnibus diébus usque ad consummatiónem sæculi”. 

« Gesù disse a’ suoi discepoli: Ogni potere mi fu dato in cielo ed in terra: andate adunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, insegnando loro di osservare tutte le cose, che io vi ho comandate: ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino al termine del secolo ».

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

UN DIO SOLO IN TRE PERSONE

Apparso sopra una montagna di Galilea, il Signore risorto disse agli Apostoli queste parole solenni: « Andate! battezzate e istruite tutte le genti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ». È meraviglioso: con ciò che non si capisce si dovevano istruire le genti. Il mistero della Trinità è come il sole che non si può guardare ma che illumina tutte quante le altre cose. In sé è incomprensibile, ma rende comprensibile tutto quanto l’universo. Meraviglioso, ma reale fatto storico. Le nazioni moderne sono debitrici della loro civiltà a questo altissimo mistero. Chi ha disperso gli innumerevoli e assurdi idoli che ricevevano l’incenso sopra gli altari di Roma? Il mistero dell’unità e trinità di Dio. Chi ha liberato gli uomini dal fatalismo implacabile che li prostrava sotto la verga ferrea d’un cieco destino? Chi ha insegnato a loro che sono liberi e responsabili, che devono amarsi ed aiutarsi? La fede in Dio Padre che crea e provvede, in Dio Figlio che si fa uomo e muore per salvarci, in Dio Spirito Santo che non disdegna di santificare le anime nostre abitando in esse. Ed ora se « popoli interi si trovano nel pericolo di ricadere in una barbarie peggiore di quella in cui ancora giaceva la maggior parte del mondo all’apparire del Redentore » (Enc. « Divini Redemptoris » sul Comunismo ateo) qual è la causa, se non lo spegnersi della fede del mistero della Trinità? È con questo mistero che Pio XI combatteva il paganesimo risorgente: « Il nostro Dio è il Dio personale, trascendente, onnipotente, infinitamente perfetto, Uno nella Trinità delle Persone e Trino nella Unità dell’Essenza Divina… » (Enc. « Mit brennender Sorge »). S. Pietro con la voce del Papa, ancora dunque istruisce le nazioni nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. In questo nome del Dio Uno e Trino è riposta non solo la vera civiltà dei popoli, ma anche la nostra santificazione e la nostra salvezza eterna.  Che significa questo mistero? Da chi ci fu rivelato? Perché ci fu rivelato? Ecco tre domande a cui oggi bisogna dare una concisa e chiara risposta. – 1. IL MISTERO DELL’UNITÀ E TRINITÀ DI DIO. Dio è uno solo: Egli è infinito, eterno, onnipotente. Ha creato e governa tutto quanto esiste: le cose visibili e le invisibili. In Dio vi sono Tre Persone. Distinte: perché l’una non è l’altra ed ha ciascuna il proprio nome. Padre si chiama la prima Persona, e non procede da alcuno. Figlio si chiama la seconda Persona, ed è generata dal Padre. Spirito Santo si chiama la terza Persona, e procede dal Padre e dal Figlio insieme. Distinte, ma uguali sono le Persone Divine: ugualmente eterne, onnipotenti, infinite. Ciascuna è ugualmente Dio come le altre due: però non sono tre Dei, perché hanno un’unica e comune natura divina. Non è assurdo: perché la fede non ci fa credere che uno è uguale a tre, che tre è uguale a uno. Dio è uno, se consideriamo la sua natura. Dio è trino se consideriamo le Persone da cui quell’unica natura divina è posseduta. Dunque, anche nel mistero della Trinità, una natura è una, non tre; tre Persone sono tre, non una. Ma come avviene che un’unica natura divina sia identicamente in Tre Persone? È incomprensibile. Invano ricorriamo a dei paragoni. Guardate l’elettricità: è forza che muove, è luce che illumina, è calore che riscalda, eppure è sempre, la medesima energia. Guardate l’anima nostra: è memoria, intelligenza, volontà; eppure, è sempre quell’unica anima. Questi paragoni a qualche cosa servono; ma troppo poco ci fan capire, quasi niente. È più facile mettere nel cavo delle nostre mani tutta l’acqua dell’oceano, che non mettere nella nostra piccola testa la immensa verità della Vita di Dio. Dio è troppo grande per essere capito da cervelli minuscoli come i nostri. Crediamo e adoriamo umilmente il Mistero. – 2. DA CHI CI FU RIVELATO. Come abbiamo saputo l’esistenza di ciò che non comprendiamo? Gesù, Figlio di Dio, la seconda Persona della SS. Trinità, ce l’ha rivelato. Nei primi tempi della sua vita pubblica ha predicato la fede nel Padre celeste. « Considerate — diceva — gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non hanno granaio; e il vostro Padre celeste li nutre. Considerate i gigli del campo come fanno a crescere: non filano, non tessono; eppure, Salomone stesso con tutto il suo splendore non ha mai vestito così bene come loro. Dunque, non mettetevi in pene per le cose di questa vita, per il mangiare, il bere, il vestire… Così fanno i pagani che non credono. Non valete di più dei passeri e dei fiori? Ma il Padre vostro sa che cosa avete veramente bisogno » (Mt., VI, 26-32). Poi, a poco a poco, si è dato a conoscere come il Figlio di Dio, dicendo d’avere la stessa potenza, sapienza e natura del Padre. Si ricordino le parole che disse al cieco nato: « Credi tu nel Figlio di Dio? « E chi è? ». «Tu lo vedi: colui che ti parla », (Giov., IX, 35-37). Si ricordi anche quello che rispose all’Apostolo Filippo, il quale voleva vedere il Padre: « Chi vede me, Filippo, vede il Padre » (Giov., XIV, 9). Da ultimo, ha annunciato agli apostoli la discesa dello Spirito Santo, ed ha fatto loro comprendere che quest’altra Persona divina, che manderà a loro, da parte del Padre, compirà in essi la sua rivelazione e la sua opera, e abiterà in essi allo stesso modo del Padre e del Figlio (Giov., XVI, 7-13). Il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, ospiti divini dell’anima, verranno a lei nel Battesimo; saranno per lei l’amico che consola, la sorgente che vivifica, il Dio che si adora. Dopo la rivelazione di questi segreti della vita divina, Gesù giustamente può dire ai suoi discepoli: « Non siete servi, ma miei amici: perché il servo non sa quello che fa il Padrone, voi invece lo sapete. Vi ho chiamati amici perché vi ho fatto conoscere tutto quello che ho udito dal Padre mio » (Giov., XV, 14-15). Noi dunque crediamo al mistero della Trinità, perché ci fu rivelato da Gesù Cristo stesso. – 3. PERCHÈ CI FU RIVELATO. Un filosofo con sciocca superbia domandava a che cosa servivano al mondo il mistero della Trinità e gli altri misteri della Religione (ROUSSEAU). Nonostante la sua intelligenza e la sua scienza, con tale domanda non si mostrava per niente più acuto di quel contadino ignorante che rispose al suo parroco: « Che importa a me, se sono una o tre Persone: non li debbo mantenere io ». Il dogma della Trinità non solo è la confidenza più sublime che il Signore abbia fatto a noi sue povere creature, ma da qui provengono i nostri migliori sentimenti d’amor di Dio e d’amore del prossimo. a) Ci fu dunque rivelato perché meglio amassimo Dio. Infatti, questo mistero mostra il Re dei re, il Signore dei signori, Colui che solo possiede l’immortalità e la potenza, che abita in una luce inaccessibile, occuparsi continuamente di noi. — Dio Padre creò l’universo per noi: perché noi vedendo e godendo, le cose belle e buone, comprendessimo il suo amore e la sua gloria. Poi ci adottò come suoi figliuoli facendoci parte già fin d’ora della sua vita, e un giorno della sua gloria. — Dio Figlio s’è degnato di rivestirsi della nostra carne e delle nostre debolezze, soffrendo e morendo per la nostra redenzione. Ha voluto abitare tra noi, e farsi nostro cibo. — Lo Spirito Santo, amore consostanziale del Padre e del Figlio, abita nelle anime in grazia, le illumina, le infiamma, le santifica. Queste idee sono non solo grandi, ma affettuose e consolanti. Provocano il nostro amore. b) Il mistero ci fu rivelato anche perché amassimo meglio il prossimo. Nostro Signore Gesù Cristo ha improntato i motivi più alti dell’amore tra noi al domma della Trinità. Nell’ultima cena, pregò suo Padre per i discepoli così: « Come voi, Padre, amate me e io amo Voi, così essi amino e siano una sola cosa tra di loro » (Giov., XVII, 21). Ecco perché nei secoli di maggior fede numerosi ospedali si fondarono dedicati alla SS. Trinità. La più bella e grande preghiera che possiamo rivolgere alla SS. Trinità è la Messa; la più buona e gradita azione che possiamo compiere in suo amore è la carità verso il prossimo. – A Catania nel 304 moriva per la fede cristiana il diacono Euplio. L’avevano sottoposto per lunghe ore alla tortura perché rinnegasse. Aveva tanta sete e si contorceva di dolore: « Disgraziato! — gli gridò il giudice. — Adora Marte, Apollo, Esculapio; avrai da bere ». Il martire rispose: « Io adoro il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: essi mi daranno da bere tra qualche momento l’acqua viva della gioia eterna ». E s’accasciò piegato sulle ginocchia e con la fronte protesa come a bere a un fiume invisibile. Era morto. Anche a noi il mondo, in questi anni di vita terrena, ci offre i suoi idoli: « Adora il Piacere, adora il Danaro, adora l’Orgoglio: sarai felice! ». Rispondiamogli come il martire siciliano: «Io adoro il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: essi mi daranno l’unica vera felicità ». Così la santa Chiesa, madre pietosa, nell’ora estrema potrà raccomandarci a Dio con sincerità: « Riempi, Signore, della tua pace, quest’anima che ritorna… benché abbia talvolta peccato, tuttavia non negò, ma credette nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo » (Commend. anim.). – – IL GRANDE MISTERO NELLA VITA PRATICA. « … Andate, dunque: istruite le genti! battezzate le genti nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo! Coraggio, perché Io sarò con voi, tutti i giorni, fino alla consumazione dei secoli ». Queste parole, che sono le ultime del Vangelo di S. Matteo, contengono esplicitamente il mistero principale della nostra santa fede: unità e Trinità di Dio. Gesù comanda a’ suoi Apostoli che insegnino a tutti gli uomini, perché la fede di ogni uomo, in ogni istante, deve essere sigillata da questo mistero. Nasciamo: ed ecco il sacerdote battezzarci nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Viviamo: ed ecco che ogni atto della nostra vita spirituale, l’assoluzione e ogni benedizione, ci è data in nome della Trinità augusta. Moriamo: ed ecco che noi facciamo ritorno al Padre che ci ha creati, al Figlio che ci ha redenti, allo Spirito Santo che ci ha santificati. L’uomo stesso è formato ad immagine della Trinità, e sopra di lui è riflesso il lume di Dio (Ps., IV, 7). Nel mattino dei secoli, quando Dio scese sulla terra a creare l’uomo, disse: « Facciamo l’uomo a nostra somiglianza ». E S. Bernardo osserva che in noi v’è una trinità creata: la mente che comprende, il cuore che ama, la volontà che comanda le azioni. Con questa trinità creata, ch’è in noi, rendiamo gloria alla Trinità Increata: rendiamo gloria colla mente credendo, col cuore amando, colla volontà imitando in noi il Mistero divino, per quanto ci è possibile. – 1. COLLA MENTE: CREDIAMO. Nelle litanie della Madonna, che tante volte abbiamo recitato, una ve n’ha una che mirabilmente esprime il gran Mistero: « Sancta Trinitas Unus Deus ». Sancta Trinitas! In Dio vi sono tre Persone che si chiamano: Padre, Figlio e Spirito Santo. Sono uguali in tutto: né il Padre è più vecchio del Figlio, né lo Spirito Santo è più giovane del Padre e del Figlio; ma tutti e tre sono eterni allo stesso modo. Così come è onnipotente il Padre, così è onnipotente il Figlio e lo Spirito Santo. Per questo non si devono confondere: altro è la Persona del Padre, altro quella del Figlio, altro quella dello Spirito Santo. Eppure, non sono tre Dei ma un Dio solo. Unus Deus! Non si dice che in Dio vi sono tre Persone e che queste Persone sono una Persona sola; e neppure si dice che vi sono tre Nature e che formano una Natura sola: questo è assurdo. Il mistero dice soltanto che in Dio vi sono tre Persone che formano una Natura sola, la divina; e perciò formano un Dio solo … Unus Deus. Questo è il Mistero grande. Nessuno può comprenderlo; ma tutti debbono crederlo, se vogliono salvarsi. E noi lo crediamo perché ci è stato rivelato da Dio stesso, — gli uomini non possono inventare le cose che non capiscono, — il Quale non può ingannare. Questo è il Mistero principale. Ma allora perché la Trinità non significa nulla nella pratica di troppi Cristiani? Il Padre?… Lo Spirito Santo?… ma chi pensa a loro?… se anche non esistessero, nulla cambierebbe nella vita di molti pretesi credenti. C’è da temere che, anche nei paesi cattolici, molte anime non raggiungeranno il Paradiso, perché non conoscono e non credono abbastanza il più grande dei Misteri. Non così i Santi. S. Francesco Saverio, nelle terre dell’estremo oriente, in mezzo ai barbari che voleva convertire, ripeteva così sovente la sua diletta giaculatoria: O sancta Trinitas! che i selvaggi ancora idolatri, avevano contratto l’abitudine di ripeterla, pur senza conoscerne il significato. – 2. COL CUORE: AMANDO. Dobbiamo amare Dio Padre, perché ha fatto suoi figli adottivi noi povere creature miserabili. Figli adottivi di un Dio! Potergli dire: « Padre nostro che sei nel cielo! ». Ah, chi trascura il Padre, trascura la propria grandezza, la propria divinizzazione! Dobbiamo amare Dio Figlio, che per noi si è fatto uomo, ha provato tutte le nostre ambasce, ha sudato sangue per noi, è morto per noi. Senza di Lui, nessuno più sarebbe entrato in Paradiso. Dobbiamo amare Dio Spirito Santo perché Egli abita nelle anime senza peccato mortale, le illumina, le fortifica, le conduce alla vita eterna. Senza Lui, nessuno potrebbe farsi santo, nessuno potrebbe nemmeno invocare il nome di Gesù. L’amore verso la Trinità divina deve apparire specialmente dalle preghiere. E sono due preghierine, quanto piccole altrettanto stupende, che fanno piacere a Dio: il Segno della croce e il Gloria. Il Segno della croce: con esso noi rendiamo testimonianza al cielo e alla terra he crediamo in Dio Uno — in nomine — e Trino — Patris, Filii et Spiritus Sancti. – Enrico IV dopo aver curvato la fronte a Canossa si ribellò perfidamente, un’altra volta, al Papa, e scese con l’esercito all’assedio di Roma. Al secondo assalto, nonostante la tenace resistenza degli assediati, riusciva ad incendiare la cerchia delle mura. Un pauroso anello di fuoco stringeva l’eterna città, da cui non si levava altro che il rantolo dei morenti e il pianto delle donne esterrefatte. Allora sugli spalti di una torre, splendido e pallido tra il bagliore e il fumo dell’incendio, apparve il Papa Gregorio VII e con gesto solenne e calmo segnò le fiamme irrompenti col Segno della croce. Subito ogni fuoco si spense come sotto un invisibile acquazzone. Tutte le volte che anche voi vi sentirete accerchiati dal nemico infernale, tutte le volte che vi troverete in angustia o in pericolo, date gloria alla Trinità santissima sol Segno della croce, un grande aiuto e sollievo ne sgorgherà per l’anima vostra. Troppo di rado o con troppo rispetto umano o con troppa irriverenza molti Cristiani si segnano col Segno della croce. L’altra preghiera, sublime e facile, è il Gloria Patri. « Gloria al Padre e al Figliuolo e allo Spirito Santo: come era nel principio, e ora, e sempre, nei secoli dei secoli. Amen ». S. Caterina da Siena sempre, salendo o scendendo le scale, a ogni momento, salutava Dio così. Una volta si vide accanto una gran luce: « Gloria al Padre… » guarda e nella luce vede Gesù che al suo fianco saliva la scala « E a Te… » continuò la santa rapita di gioia, « e allo Spirito Santo! ». Sarebbe un errore credere che occorra essere una religiosa insignita di favori straordinari, o un dotto provvisto d’una scienza teologica prodigiosa per pregare a questo modo. Il Mistero e l’uso del Mistero, Dio l’ha rivelato per tutti. – Pier Giorgio Frassati è un giovanotto di Torino; è uno studente fra i mille, ma molto legato alla sua fede. Quando legge nella vita di S. Caterina il bell’episodio che vi ho testé narrato, ne fu entusiasta: per strada, in casa, sui tram, svegliandosi di notte, nelle pause del lavoro e dei divertimenti, anch’egli cominciò a lodare Dio: « Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo! ». Perché non lo potremo imitare noi? Perché non lo potrà imitare ciascun operaio, ciascuna madre di famiglia? Non siamo Cristiani anche noi, come cristiana era santa Caterina e Pier Giorgio ch’è morto pochi anni fa, lasciando un grande esempio?… – 3. COLLA VOLONTÀ: AGENDO. Volonterosamente dobbiamo agire per imitare in noi la Trinità santa. « Siate perfetti come perfetto è il Padre mio » ci dice Gesù nel Vangelo. Anzitutto, alla divina Trinità si oppone la trinità infernale: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi, la superbia della vita. Contro questa belva a tre teste, dobbiamo dirigere la nostra lotta. Poi imitiamo la Santissima Trinità nell’amare il prossimo come noi stessi, così da formare un cuor solo e un’anima sola. «Sono tre che danno testimonio in cielo: — scrive S. Giovanni — il Padre, il Verbo, lo Spirito Santo; ma questi Tre sono Uno (I Giov., V, 7). E Gesù nell’ultimo discorso prima di morire così prega per noi « Che questi siano una sol cosa, come noi siamo una cosa sola » (Giov., XVII, 22). Le tre Persone della Trinità si comunicano tutto ciò che tra di loro è comunicabile: anche noi facciamo parte di ogni bene nostro a coloro che ne hanno bisogno. Non ci sia odio tra i Cristiani, ma solo l’amore che unifica e rende bella la vita. Così si faceva nei primi tempi quando la moltitudine dei credenti era un cuor solo e un’anima sola. – Non è inutile ricordare che uno dei mezzi più sicuri per onorare e piacere alla infinita ed eterna Trinità è quello di amare la Regina del Cielo. Sì, Maria figliuola prediletta da Dio Padre, Maria, Madre senza macchia di Dio Figlio, Maria, intemerata sposa di Dio Spirito Santo, è potentissima presso la Trinità. Per questo nelle litanie dopo aver detto: Sancta Trinitas Unus Deus subito aggiungiamo: Sancta Maria, ora pro nobis! Per questo noi la Madonna — Figlia, Madre, Sposa — la preghiamo devotamente ora e nell’ora della morte, affinché dopo aver creduto in questa vita il gran Mistero, Ella ci conduca nell’altra a vederlo. – – IL MISTERO PRINCIPALE.  Dopo il tempo dell’Avvento e del Natale, in cui si ricorda l’amore che spinse Dio Padre a concederci il suo Unigenito, dopo il tempo della Quaresima e della Pasqua, in cui si ricorda l’amore che spinse Dio Figlio a vivere trentatré anni con noi e morire fisso in croce per noi, dopo le solennità della Pentecoste, in cui si ricorda l’amore che spinse Dio Spirito Santo a discendere ad abitare le nostre membra e la nostra anima, ben venga la festa della Santissima Trinità in cui, come in conclusione, ogni Cristiano sciolga l’inno dell’adorazione e della riconoscenza a tutte ed insieme le divine Persone: « Gloria al Padre! Gloria al Figlio! Gloria allo Spirito Santo! Ieri, oggi, domani e nei secoli ». Tre Persone divine; uguali ma distinte, e che pure formano un Dio solo, è il mistero principale della nostra santa fede, è il mistero che rende il popolo cristiano superiore ad ogni altro popolo. Mai nessuno avrebbe potuto pensarlo se il Figlio di Dio non ce l’avesse confidato. E non l’ha confidato agli antichi Egiziani, che adoravano il sole e la luna e talvolta le bestie; non l’ha confidato ai Greci intelligenti e sapienti che avevano molte divinità e talune viziose e usurpatrici più degli uomini; non l’ha confidato agli Israeliti, la gente eletta: noi soltanto fummo scelti a sapere il segreto della vita di Dio. Cristiani, osservate come tutta la nostra vita è piena di questo grande mistero. S’ode un vagito nella vostra casa: è nato un bambino. Vi affrettate a portarlo in chiesa, e davanti alla vasca battesimale il sacerdote lo rigenera nell’unico Nome di tre Persone: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo. S’ode un rantolo nella vostra casa: qualcuno muore. Mentre voi piangete ecco, ancora il prete che pronuncia sull’agonizzante le ultime preghiere: « Lascia questo mondo, anima cristiana, e torna all’unico tuo Dio ». E poi ne nomina tre: « Torna al Padre che ti creò, torna al Figlio che ti redense, torna allo Spirito che ti santificò ». Non solo quando si nasce, non solo quando si muore, ma ogni giorno, dentro di voi e fuori di voi, il mistero grande vi avvolge. Quando al mattino aprite gli occhi alla nuova giornata, quando alla sera stanchi li rinchiudete sotto le tenebre notturne, voi segnate il vostro corpo col segno della croce e pronunciate alcune parole . « Nel Nome… un solo nome dunque… e poi ne fate tre: quello del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ». Quando col rimorso e col dolore dell’anima, vi inginocchiate nel sacramento della Penitenza, è sempre nel nome di Dio — uno e trino — che vi è concesso il perdono: « Io ti assolvo nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo ». Quando assistete alla S. Messa, non avete mai pensato che è il Sacrificio offerto alla Trinità divina? Sanctus! Sanctus! Sanctus! Dominus Deus Sabaoth. Il Signore Iddio delle armate è detto Santo tre volte, per indicare le tre divine Persone. Quando vi curvate sotto la mano del sacerdote voi sentite la divina benedizione scendere sulle vostre teste con queste parole: Benedicat vos omnipotens Deus… L’Unico onnipotente vi benedica… e poi ecco tre nomi: Pater, Filius, Spiritus Sanctus. Uno e tre! Un Dio solo e tre Persone! Ecco il centro della nostra vita vera. Eppure ci sono molti Cristiani che ignorano, o non sanno più, che cosa sia questo mistero principale della nostra santa fede. S. Giovanni Evangelista, scrivendo ai Cristiani dell’Asia Minore, dice: « Tre sono  in cielo: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo; e questi tre sono una sola cosa ». Più breve e più chiaro di così è difficile a noi uomini esprimere il mistero principale. Attendete a due punti: c’è un Dio solo, un’unica natura divina. « Ascolta, Israele! diceva Mosè al suo popolo — il Signore nostro è l’unico Dio. Queste parole che io oggi ti bandisco, staranno nel tuo cuore e le ripeterai ai tuoi figliuoli ». Ma in questo Dio solo, in questa unica natura divina ci sono tre Persone: il Padre che genera il Figlio, il Figlio che è dal Padre generato e lo Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio. Attendete ancora: il Figlio non è più giovane del Padre né lo Spirito Santo è più giovane del Figlio: ma le santissime Persone tutte e tre sono egualmente eterne, egualmente immense, egualmente onnipotenti. I teologi hanno cercato molti paragoni per farci intendere il gran mistero: la lunghezza, la larghezza, la profondità d’un corpo non formano tre corpi; la grandezza, la luce, il calore del sole non formano tre soli; la radice, il tronco, i rami son formano tre alberi; il colore, l’odore, la figura d’una rosa non formano tre rose; la memoria, l’intelligenza, la volontà non formano in noi tre anime. Ma, — a dir la verità, — anche questi confronti servono a ben poco. La nostra mente si smarrisce, noi non comprendiamo: eppure è così, non può essere che così. Gesù Cristo l’ha rivelato. V’era nel deserto un’altissima montagna, la cui cima si drizzava nel più alto cielo, ed era sempre avvolta dalle nubi e percossa dai fulmini così che nessuno aveva potuto vederla mai. Era la vetta del Sinai ove Dio abitava. Ai piedi della montagna il popolo degli israeliti levando gli occhi tremava e adorava la terribile presenza del Signore. Nel deserto di questa vita, Iddio ha posto questo mistero, eccelso come una montagna che attraversa il cielo e nasconde la sua cima tra le nubi del Paradiso. Noi levando gli occhi a considerare questa incomprensibile verità, sentiamo la terribile grandezza del Signore e dal labbro ci fugge il grido profetico: « Veramente tu sei un Dio nascosto ».2. I NOSTRI RAPPORTI CON LA Trinità. Col Padre: Nelle antichissime leggende dei Greci si racconta che questo popolo non avrebbe potuto mai conquistare la città di Dio senza una vittima umana. Ed allora ecco il re Agamennone prendere la sua figliuola e sacrificarla. Molto più buono del re della leggenda è stato Dio Padre con noi. Invano gli uomini avrebbero cercato di conquistare la città eterna del Paradiso, poiché la maledizione di Adamo pesava sulle coscienze di tutti i suoi figli e non avrebbe permesso a nessuno di varcare la soglia del Cielo. Ed ecco allora Dio Padre concedere al mondo il suo eterno Figlio, la seconda Persona della Trinità augusta, perché morisse sulla croce, in espiazione del nostro peccato. Che cosa eravamo noi davanti a Dio, se non delle piccole creature e, per giunta peccatrici? Eppure, il Padre ci amò fino al punto di lasciarsi chiamare Padre anche da noi: Lui l’eterno, l’onnipotente, l’infinito, da noi mortali, buoni a nulla, cattivi. Poteva contentarsi di essere il nostro Creatore, il nostro padrone e di considerarci come sue cose, suoi servi; invece no, ha voluto adottarci come figli, ha voluto che dal nostro cuore si levasse questo grido magnifico: « Padre nostro che stai in cielo! » Giusto, sì, ma Padre. Terribile, sì, quando non può farne a meno, ma anche allora, e sempre, Padre. Col Figlio: E il Verbo si è fatto carne per apportarci la vita, la vita soprabbondante, la vita di Dio che Adamo aveva perduto. E nacque dal seno verginale di Maria: bastava un sospiro, una voce, uno sguardo, — e ne cresceva, — per redimerci, ed invece ha voluto amarci fino alla fine. Fino alla fine dei patimenti sulla croce; fino alla fine dell’amore nell’Eucaristia. Il Figlio di Dio è diventato fratello nostro maggiore, è diventato il nostro modello: « Come ho fatto io, fate ancor voi ». Il Figlio di Dio è il nostro Giudice nel giorno finale: nelle sue mani il Padre ha deposto ogni giudizio. Il Figlio di Dio è la nostra gloriosa risurrezione. « Quando Cristo, vita nostra sarà apparso nell’alto cielo anche noi saremo con Lui elevati in gloria » (Col., III, 4). Con lo Spirito Santo: Quando non c’è il peccato in noi, lo Spirito Santo è dentro di noi: i nostri corpi divengono la sua dimora. Non lo sentite quando vi suggerisce le buone ispirazioni? quando vi mette nelle bocca ferventi parole di preghiera? quando lotta per voi contro i demoni che vi prendono d’assalto? quando vi riempie di gioia per il bene compiuto e di timore per il male da evitare? O dulcis hospes animæ … lo chiama la Chiesa. Dolce ospite dell’anima! ma noi Cristiani, ci riputiamo fortunati di questa abitazione della terza Persona della Trinità? O forse nessuno vi fa attenzione, nessuno se ne preoccupa? O forse continuamente lo scacciamo lontano da noi come un intruso, Lui, lo Spirito santificante, l’eterno, l’onnipotente, l’uguale al Padre e al Figlio? – Il conquistatore della terra promessa s’era portato in Sichem a morire. Gli anziani, i capi, i giudici, i magistrati accorsero da lui con tutte le tribù per ascoltare le sue ultime parole. E Giosuè disse: « Togliete di mezzo a voi gli dei stranieri, Auferte deos alienos de medio vestri (Jos., XXIV, 23). Queste son pure le ultime parole di questa predica. Cristiani, avete sentito come è grande e come è buono Dio?! Avete sentito ch’Egli è Uno e Trino, e che altro Dio non c’è fuori di Lui: strappate dunque dal vostro cuore ogni dio straniero. L’avaro si è fatto un dio col danaro, il superbo si è fatto un dio colla propria ambizione, l’impuro si è fatto un dio con la propria carne. Via questi falsi dei! non questi sono il Dio che noi adoriamo. Egli è Uno e Trino: a Lui gloria e amore nei secoli. Amen.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

 Tob XII: 6. Benedíctus sit Deus Pater, unigenitúsque Dei Fílius, Sanctus quoque Spíritus: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. 

[Benedetto sia Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Secreta

Sanctífica, quæsumus, Dómine, Deus noster, per tui sancti nóminis invocatiónem, hujus oblatiónis hóstiam: et per eam nosmetípsos tibi pérfice munus ætérnum. 

[Santífica, Te ne preghiamo, o Signore Dio nostro, per l’invocazione del tuo santo nome, l’ostia che Ti offriamo: e per mezzo di essa fai che noi stessi Ti siamo eterna oblazione.]

Præfatio de sanctissima Trinitate

… Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in unius singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre cotídie, una voce dicéntes:

[ …veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola Persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce: ]…

Sanctus,

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt coeli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Tob XII:6. Benedícimus Deum coeli et coram ómnibus vivéntibus confitébimur ei: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. 

[Benediciamo il Dio dei cieli e confessiamolo davanti a tutti i viventi: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Postcommunio 

Orémus.

Profíciat nobis ad salútem córporis et ánimæ, Dómine, Deus noster, hujus sacraménti suscéptio: et sempitérnæ sanctæ Trinitátis ejusdémque indivíduæ Unitátis conféssio.

[O Signore Dio nostro, giòvino alla salute del corpo e dell’ànima il sacramento ricevuto e la professione della tua Santa Trinità e Unità.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA DI PENTECOSTE (2022)

DOMENICA DI PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Pietro in Vincoli.

Doppio di I Cl. con Ottava privilegiata di I ord. –

 Paramenti rossi

Il dono della sapienza è un’illuminazione dello Spirito Santo, grazie alla quale la nostra intelligenza contempla le verità della fede in una luce magnifica e ne prova una grande gioia ». (P. MESCHLER.)

Gesù aveva posto le fondamenta della Chiesa durante la sua vita apostolica e le aveva comunicato i. suoi poteri dopo la sua Resurrezione. Lo Spirito Santo doveva compiere la formazione degli Apostoli e rivestirli della forza che viene dall’Alto (Vangelo). Al regno visibile di Cristo succede il regno visibile dello Spirito Santo, che si manifesta scendendo sui discepoli di Gesù. La festa della Pentecoste è la festa della promulgazione della Chiesa; perciò, si sceglie la Basilica dedicata a S. Pietro, capo della Chiesa, per la Stazione di questo giorno. Gesù, ci dice il Vangelo, aveva annunciato ai suoi la venuta del divin Paracleto e l’Epistola ci mostra la realizzazione di questa promessa. All’ora Terza il Cenacolo è Investito dallo Spirito dì Dio: un vento impetuoso che soffia improvvisamente intorno alla casa e l’apparizione di lingue di fuoco all’interno, ne sono i segni meravigliosi. — Illuminati dallo Spirito Santo (Orazione) e riempiti dall’effusione dei sette doni, (Sequenza), gli Apostoli sono rinnovati e a loro volta rinnoveranno il mondo intero (Introito, Antifona).E la Messa cantata all’ora terza, è il momento in cui noi pure « riceviamo lo Spirito Santo, che Gesù salito al cielo, effonde in questi giorni sui figli di adozione » (Prefatio), poiché ognuno dei misteri liturgici opera dei frutti di grazia nelle anime nostre nel giorno anniversario in cui la Chiesa lo celebra. Durante l’Avvento, dicevamo al Verbo: «Vieni, Signore, ad espiare i delitti del tuo popolo»; ora diciamo con la Chiesa allo Spirito Santo: Vieni, Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in noi il fuoco dell’amor tuo » (Alleluia). È la più bella e la più necessaria delle orazioni giaculatorie, poiché lo Spirito Santo, il « dolce ospite dell’anima », è il principio di tutta la nostra vita soprannaturale.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Sap I: 7. Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja.

[Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Ps LXVII: 2 Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus.

[Sorga il Signore, e siano dispersi i suoi nemici: e coloro che lo òdiano fuggano dal suo cospetto].

Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja

[Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Oratio

Orémus.

Deus, qui hodiérna die corda fidélium Sancti Spíritus illustratióne docuísti: da nobis in eódem Spíritu recta sápere; et de ejus semper consolatióne gaudére.

[O Dio, che in questo giorno hai ammaestrato i tuoi fedeli con la luce dello Spirito Santo, concedici di sentire correttamente nello stesso Spirito, e di godere sempre della sua consolazione.]

Lectio

Léctio  Actuum Apostolórum. Act. II: 1-11

“Cum compleréntur dies Pentecóstes, erant omnes discípuli pariter in eódem loco: et factus est repéente de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis: et replévit totam domum, ubi erant sedentes. Et apparuérunt illis dispertítæ linguæ tamquam ignis, sedítque supra síngulos eórum: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, et coepérunt loqui váriis linguis, prout Spíritus Sanctus dabat éloqui illis. Erant autem in Jerúsalem habitántes Judaei, viri religiósi ex omni natióne, quæ sub coelo est. Facta autem hac voce, convénit multitúdo, et mente confúsa est, quóniam audiébat unusquísque lingua sua illos loquéntes. Stupébant autem omnes et mirabántur, dicéntes: Nonne ecce omnes isti, qui loquúntur, Galilæi sunt? Et quómodo nos audívimus unusquísque linguam nostram, in qua nati sumus? Parthi et Medi et Ælamítæ et qui hábitant Mesopotámiam, Judaeam et Cappadóciam, Pontum et Asiam, Phrýgiam et Pamphýliam, Ægýptum et partes Líbyæ, quæ est circa Cyrénen, et ádvenæ Románi, Judaei quoque et Prosélyti, Cretes et Arabes: audívimus eos loquéntes nostris linguis magnália Dei.” 

[“Giunto il giorno della Pentecoste, i discepoli si trovavano tutti insieme nel medesimo luogo. E all’improvviso venne dal cielo un rumore come di vento impetuoso, e riempì tutta la casa, dove quelli sedevano. E apparvero ad essi delle lingue come di fuoco, separate, e se ne posò una su ciascuno di loro. E tutti furono ripieni di Spirito Santo, e cominciarono a parlare varie lingue, secondo che lo Spirito Santo dava loro di esprimersi. Ora abitavano in Gerusalemme Giudei, uomini pii, venute da tutte le nazioni che sono sotto il cielo. Quando si udì il rumore la moltitudine si raccolse e rimase attonita perché ciascuno li udiva parlare nella sua propria lingua. E tutti stupivano e si meravigliavano, e dicevano: «Ecco, non son tutti Galilei, questi che parlano? E come mai, li abbiamo uditi, ciascuno di noi, parlare la nostra lingua nativa? Parti, Medi ed Elamiti, e abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle regioni della Libia in vicinanza di Cirene, e avventizi romani, Giudei e Proseliti, Cretesi e Arabi li abbiamo uditi parlare nelle nostre lingue delle grandezze di Dio”.]

LINGUE E FUOCO.

Il miracolo delle lingue, il gran miracolo del giorno della Pentecoste, è stato mirabilmente descritto di sul testo sacro del nostro Manzoni.

« Come la luce rapida / piove di cosa in cosa / E i color varii suscita / Ovunque si riposa; / Tal risonò molteplice — La voce dello Spiro; / l’Arabo, il Parto, il Siro, / In suo sermon udì ».

Ma quel miracolo ne significava un altro che cominciava da quel giorno a diventar realtà mercè la diffusione, allora inaugurata ufficialmente, del Santo Vangelo, del verbo di Cristo. La divisione delle lingue — la chiamo così per aderire al racconto biblico nella sua integrità e nel suo spirito — fu un castigo non proprio per la materialità delle lingue molteplici che si cominciarono a parlare, ma perché gli uomini, da Babele in poi, non si intesero più, non si capirono, non si amarono, si contrastarono in odî e in guerre fratricide. Si divisero. Era il castigo dell’orgoglio quella divisione delle anime di cui era espressione chiara la varietà delle lingue. Il linguaggio, divinamente dato agli uomini perché intendessero, serviva a confonderli, a separarli. I figli, abbandonando la casa paterna, di fratelli che ivi erano, diventarono stranieri prima gli uni agli altri, per diventare nemici poi. Tutto questo si capovolge a Gerusalemme, nella Pentecoste dello spirito, che continua e suggella e propaga la redenzione di N. S. Gesù Cristo. I figli ritrovano il Padre, imparano di nuovo a parlare con Lui, sentirlo ed esserne sentiti « Loquentes variis linguis », sì, ma « loquentes magnalia Dei ». Non più gli Dei falsi e bugiardi, ma Dio unico, vivo e vero. Non più solo un simbolo ferreo di questa unità divina nell’unico Tempio, come al giorno della legge e dei profeti, ma un unico santuario delle anime, un solo Dio, il Dio predicato, il Dio comunicato da N. S. Gesù Cristo alla umanità, un solo Dio nei cuori. E ciascuno canta nella sua lingua materialmente, o in lingua diversa: « loquentes variis linguis, » ma tutti capiscono. « Audivimus eos loquentes ». «L’Arabo, il Parto, il Siro in suo sermon l’udì. » Mirabile fusione di popoli che comincia attraverso la fusione delle anime, fusione meravigliosa di anime che comincia attraverso la riconciliazione umile e fervente con Dio… E continuerà così di secolo in secolo nella Chiesa e mercè di essa, piena com’è dello Spirito Santo. Un numero crescente di popoli i più diversi, per colpa della vecchia babele, formeranno via via una sola famiglia, un solo popolo: « populus eius, » il popolo di Dio. Parleranno il linguaggio intimo della stessa fede: « una fides ». Il verbo, la parola più vera, più umana, non è quella che suona materialmente sulle labbra; è quella che squilla, che splende nell’intelletto, di cui l’esterna è un’eco, come spiega profondamente San Tommaso. Uniamoci sempre più, in questa lingua interiore con l’accettazione umile della verità rivelata, della verità cristiana, quella verità di cui lo Spirito Santo è maestro intimo a ciascuno di noi, se ciascun di noi accetta il Magistero solenne e autorevole della Chiesa. Parliamo la lingua divina della stessa fede, « una fides » e i nostri cuori batteranno all’unisono della stessa carità. Ci capiremo senza parlare, magari: quelli che si amano davvero si capiscono così. E lavoriamo perché la cerchia dei popoli che in Gesù Cristo e nella Sua Chiesa ritrovano il segreto di una verità, diventi sempre più larga.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

ALLELUJA

Allelúja, allelúja

Ps CIII: 30; Emítte Spíritum tuum, et creabúntur, et renovábis fáciem terræ. Allelúja.

[Manda il tuo Spírito e saran creati, e sarà rinnovata la faccia della terra. Allelúia.

[Hic genuflectitur:]

Veni, Sancte Spíritus, reple tuórum corda fidélium: et tui amóris in eis ignem accénde.

[Vieni Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli: ed accendi in essi il fuoco del tuo amore]

Sequentia

Veni, Sancte Spíritus,

et emítte cælitus lucis tuæ rádium.

Veni, pater páuperum; veni, dator múnerum; veni, lumen córdium.

Consolátor óptime, dulcis hospes ánimæ, dulce refrigérium.

 In labóre réquies, in æstu tempéries, in fletu solácium.

O lux beatíssima, reple cordis íntima tuórum fidélium.

Sine tuo númine nihil est in hómine, nihil est innóxium.

Lava quod est sórdidum, riga quod est áridum, sana quod est sáucium.

 Flecte quod est rígidum, fove quod est frígidum, rege quod est dévium.

Da tuis fidélibus, in te confidéntibus, sacrum septenárium.

Da virtútis méritum, da salútis éxitum, da perénne gáudium. Amen. Allelúja.

[Vieni, o Santo Spirito,
E manda dal cielo,
Un raggio della tua luce.

Vieni, o Padre dei poveri,
Vieni, datore di ogni grazia,
Vieni, o luce dei cuori.

O consolatore ottimo,
O dolce ospite dell’ànima
O dolce refrigerio.

Tu, riposo nella fatica,
Refrigerio nell’ardore,
Consolazione nel pianto.

O luce beatissima,
Riempi l’intimo dei cuori,
Dei tuoi fedeli.

Senza la tua potenza,
Nulla è nell’uomo,
Nulla vi è di innocuo.

Lava ciò che è sòrdito,
Irriga ciò che è àrido,
Sana ciò che è ferito.

Piega ciò che è rigido,
Riscalda ciò che è freddo,
Riconduci ciò che devia.

Dà ai tuoi fedeli,
Che in te confidano,
Il sacro settenario.

Dà i meriti della virtú,
Dà la salutare fine,
Dà il gaudio eterno.
Amen. Allelúia. ]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XIV: 23-31

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Si quis díligit me, sermónem meum servábit, et Pater meus díliget eum, et ad eum veniémus et mansiónem apud eum faciémus: qui non díligit me, sermónes meos non servat. Et sermónem quem audístis, non est meus: sed ejus, qui misit me, Patris. Hæc locútus sum vobis, apud vos manens. Paráclitus autem Spíritus Sanctus, quem mittet Pater in nómine meo, ille vos docébit ómnia et súggeret vobis ómnia, quæcúmque díxero vobis. Pacem relínquo vobis, pacem meam do vobis: non quómodo mundus dat, ego do vobis. Non turbátur cor vestrum neque formídet. Audístis, quia ego dixi vobis: Vado et vénio ad vos. Si diligere tis me, gaudere tis utique, quia vado ad Patrem: quia Pater major me est. Et nunc dixi vobis, priúsquam fiat: ut, cum factum fúerit, credátis. Jam non multa loquar vobíscum. Venit enim princeps mundi hujus, et in me non habet quidquam. Sed ut cognóscat mundus, quia díligo Patrem, et sicut mandátum dedit mihi Pater, sic fácio.”

[“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Chiunque mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo da lui, e faremo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole. E la parola, che udiste, non è mia: ma del Padre, che mi ha mandato; queste cose ho detto a voi, conversando tra voi. Il Paracleto poi, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel nome mio, Egli insegnerà a voi ogni cosa, e vi ricorderà tutto quello che ho detto a voi. La pace lascio a voi; la pace mia do a voi; ve la do Io non in quel modo, che la dà il mondo. Non si turbi il cuor vostro, né s’impaurisca. Avete udito, come io vi ho detto: Vado, e vengo a voi. Se mi amaste, vi rallegrereste certamente perché ho detto, vado al Padre: conciossiaché il Padre è maggiore di me. Ve l’ho detto adesso prima che succeda: affinché quando sia avvenuto crediate. Non parlerò ancor molto con voi: imperciocché viene il principe di questo mondo, e non ha da far nulla con me. Ma affinché il mondo conosca, che Io amo il Patire, e come il Padre prescrissemi, così fo”].

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

I DOVERI VERSO LO SPIRITO SANTO.

Prima di morire Gesù aveva fatto questa promessa agli Apostoli: «Il Padre, in nome mio, vi manderà lo Spirito Santo, il Consolatore: Egli tutto vi insegnerà, vi suggerirà tutto ». Erano passati appena dieci giorni da che Gesù era salito in Paradiso, ed ecco un impeto gagliardo di vento scoscendere il cielo e commuovere tutta la casa dove in orazione stavano raccolti i discepoli con la Madre Vergine Maria. E furono viste delle lingue di fuoco posarsi sopra il capo di ciascuno: tutti si sentirono inabitati dallo Spirito Santo, e cominciarono a parlare in varie lingue, così che gli stranieri ch’erano in Gerusalemme in quei giorni li udirono predicare nella propria loquela, e ne restarono meravigliati. Anche noi, o Cristiani, abbiamo ricevuto lo Spirito Santo: nel Battesimo, e più copiosamente nella Cresima, quando il Vescovo impose le mani sopra la nostra testa. Si legge nella vita di S. Angela da Foligno che la santa andò un giorno in pellegrinaggio alla tomba di S. Francesco d’Assisi. Ed ecco una voce le risuona all’orecchio: « Tu hai fatto ricorso al mio servo Francesco, ma ti farò ora conoscere un altro appoggio. Io sono lo Spirito Santo che sono venuto a te e voglio darti una gioia che ancora non hai gustata. Io ti accompagnerò, sarò presente in te… ti parlerò sempre… e se tu mi ami non ti abbandonerò mai ». S. Angela, paragonando i suoi peccati con questo favore infinito, esitava a credere. E quella voce continuò: « Io sono lo Spirito Santo che vive interiormente in te ». La santa allora fu invasa da una gioia paradisiaca. Ciò che lo Spirito Santo, per una grazia speciale, rivelava a quell’anima, la Chiesa l’insegna a tutti i Cristiani. « Non sapete dunque — ci dice S. Paolo — che lo Spirito Santo abita in voi? Che le vostre membra sono il suo tempio e che la nostra anima è sigillata col suo sigillo? ». – Lo Spirito Santo, la terza Persona della Santissima Trinità, l’Uguale al Padre e al Figlio, Dio col Padre e col Figlio, abita in noi, ospite dell’anima nostra. Pensate che grande grazia, e che profondo mistero! Ma quanti non ci pensano mai! Quanti lasciano il divin Paracleto abbandonato in un cantuccio del loro cuore, come certi poveri genitori mal visti in casa dalla nuora e mal sopportati dai giovani figli! Non è così che va trattato il Re del Cielo, che sceglie come sua dimora l’anima nostra. Noi abbiamo dei precisi doveri verso di Lui.

1. Spiritum nolite extinguere (I Thess., V, 19).

2. Nolite contristare Spiritum Sanctum! (Ef., IV, 30).

3. Nolite resistere Spiritui Sancto! (Atti, VII, 51).

Questi tre avvisi della Sacra Scrittura vanno meditati attentamente oggi ch’è Pentecoste. – 1. NON ESTINGUETE LO SPIRITO SANTO. Durante l’ultima persecuzione dei Cattolici in Armenia, una compagnia di soldati Turchi arrivò alla chiesetta d’un villaggio abbandonato. A colpi di scure demolirono le porte e vi penetrarono urlando. Vagava ancora per la navata il profumo dell’incenso, e pareva quasi vi echeggiasse l’eco dell’ultima preghiera, un vecchio e un bimbo ammalato pregavano. Perché non erano partiti anch’essi? Furono scorti, e mentre tentavano di fuggire, furono sfracellati sulla soglia del tempio. Ogni croce fu infranta, ogni immagine fu lordata: fu spezzato l’altare e sui gradini di marmo sedettero questi empi a bivaccare. Che diabolica profanazione! Ma non meno tragica è la profanazione che scaccia lo Spirito Santo, non da un tempio inanimato, non da una chiesa fatta di pietre e di calce, ma da un tempio vivente: dall’anima propria! Spiritum nolite extinguere! Ogni volta che si commette un peccato mortale si soffoca il fuoco dello Spirito Santo, ch’è dentro di noi. Dove c’è lo spirito del mondo e del demonio, non ci può stare lo Spirito di consolazione e di verità. Soprattutto dove c’è lo spirito immondo della sensualità, là non può abitare lo Spirito di Dio. O Cristiani! non soffocate in voi lo Spirito Santo e non soffocatelo negli altri coi vostri scandali. – 2. NON CONTRISTARE LO SPIRITO SANTO. Ma senza arrivare all’eccesso d’estinguere in noi lo Spirito Santo col peccato mortale, si può amareggiargli in molti modi la sua permanenza nel nostro cuore. Anzitutto coi peccati di lingua. Egli è disceso sopra gli Apostoli nel cenacolo sotto il simbolo di una lingua di fuoco, per insegnarci che ogni parola che va contro all’amor di Dio, lo offende. Lo offende anche ogni parola insincera. Nei primi tempi del Cristianesimo, quando lo Spirito Santo viveva in una intimità sensibile con la Chiesa nascente, un uomo di nome Anania con la sua moglie Safira vendettero un loro campicello, e portarono una parte soltanto del ricavo a S. Pietro, dicendogli ch’era tutto il prezzo. Ma Pietro disse mestamente: « Anania? Perché hai voluto dire il falso? hai mentito allo Spirito Santo. E tu Safira, perché ti sei accordata col marito ad amareggiare lo Spirito Santo? » (Atti, V). Nolite contristare Spiritum Sanctum! quanta poca sincerità c’è nella vita di molti Cristiani: nelle loro relazioni familiari, nei commerci, e perfino nella Confessione, ove vorrebbero dire e non dire, accusarsi e scusarsi. Intanto lo Spirito Santo, che è Spirito di verità, è amareggiato. In genere gli atti che contristano lo Spirito Santo sono tutti quelli che noi diciamo, con troppa disinvoltura, peccati veniali. Certi discorsi di mormorazione, certe parole leggere, certe imprecazioni d’impazienza non fanno piacere a Dio che abita in noi. Quel giovane che sciupa tante ore in ozio, che lascia libertà ai suoi occhi, che in chiesa tiene un contegno annoiato e distratto, non sa che contrista lo Spirito Santo? Non lo sa quella donna che brama soltanto di adornarsi i capelli o il vestire senza serietà, che non vigila sull’anima de’ suoi figliuoli perché crescano innocenti bastandole soltanto che siano sani nel corpo? Non lo sanno tutti quei Cristiani che vivono una vita tiepida, senza entusiasmo per il bene, senza fervore per la preghiera, senza amore per l’Eucaristia, non lo sanno che lo Spirito Santo, ch’è in loro, si contrista e geme? – 3. NON RESISTETE ALLO SPIRITO SANTO. Lo Spirito Santo non è in noi come cosa morta, ma viva. E si fa sentire in due modi: col sospingerci al bene o col respingerci dal male. a) Col sospingerci al bene. Il diacono Filippo camminava sulla bianca strada solatìa che da Gerusalemme discende in Gaza. Ed ecco un nugolo di polvere levarsi in lontananza, e giungere al suo orecchio lo strepito d’un cocchio che s’avvicinava. Allora lo Spirito gli disse: « Filippo, allunga il passo e raggiungi in fretta questo cocchio ». Il diacono non resistette, ma subito ubbidì. E vi trovò nientemeno che un ministro di Candace, regina degli Etiopi, il quale aveva bisogno di uno che gli insegnasse la vera religione. Filippo lo convertì, e, fermato il cocchio vicino a una fontanella, lo battezzò (Atti, VIII). Quante volte l’Ospite delle anime nostre ci invita dolcemente a fare il bene ed i suoi sforzi restano vani, perché noi gli resistiamo! Quante volte ci ha detto, come a Filippo sulla strada di Gaza piena di sole, « avvicinati a quella famiglia, aiutala in quello che puoi, dì loro una buona parola di religione e di speranza » e noi invece abbiamo scrollato le spalle. – Accede, et adiunge te ad currum istum. C’è un uomo che ti ha offeso e tu gli porti odio. Avvicinati a lui, donagli perdono, dimentica il passato. C’è forse una persona, lontana dal Signore o che vive scandalosamente: voi la conoscete, voi potete con la vostra amicizia dirle un rimprovero, strapparla dalla via infernale. Non resistete allo Spirito Santo. Non resistete neppure quando vi suggerisce di pregare di più, di mortificarvi di più, di farvi santi. b) E neppure quando vi respinge dal male. Un duca di Milano, Ludovico il Moro, a tradimento caduto in mano dei Francesi, il 10 aprile 1500, languì per dieci anni in una oscura segreta del castello di Loches, dove sul muro lasciò scritto con la punta di un chiodo queste parole: « Colui che non è contento » Molti Cristiani, se vogliono essere sinceri, al termine della loro giornata potrebbero ripetere le sconsolate parole: «Io sono colui che non è contento ». Ma chi è che diffonde nel loro cuore questo implacato fastidio della malinconia? Lo Spirito Santo. E perché? per respingerli dal male in cui vivono. Egli è venuto come fuoco divorante sulla terra, e che altro vuole se non abbruciare? Non resistetegli più! Che anche il vostro cuore sia acceso di quel fuoco disceso dal cielo! Una volta gustato lo Spirito Santo, tutti i piaceri del mondo e del peccato insipidiscono. Gustate Spiritu desipit omnis caro (GREGORIO MAGNO). – Ci sono due città, in questo mondo, che portarono in sé il sigillo della vendetta di Dio. Gerusalemme, — e voi ricordate la sua distruzione — che commise delitto contro la seconda Persona della Trinità santissima, crocifiggendo il Figlio di Dio. Costantinopoli che commise delitto contro la terza Persona della Trinità, lo Spirito Santo. È a Costantinopoli che si bestemmiò contro lo Spirito Santo dicendo che procede solo dal Padre e non dal Figlio. Noi sappiamo invece che il mistero rivelato insegna che, senza diminuzione di dignità né di uguaglianza, lo Spirito Santo procede dal Padre e insieme dal Figlio. Filioque procedit. È a Costantinopoli che incominciò lo scisma che doveva strappare alla Chiesa l’Europa Orientale. E Dio abbandonò la città alla sua vendetta. Era proprio — notate la coincidenza — la seconda festa di Pentecoste del 1453, all’una di notte. I Turchi, sfondate le mura e infranta ogni resistenza, si precipitarono per le vie urlando, incendiando, rubando, massacrando. Penetrano nelle case e uccidono i bambini dormenti nel loro letto; i vecchi e i malati sono passati a fil di spada; gli uomini e le donne, trascinati con la corda al collo, sospinti a colpi di staffile, sono venduti schiavi, e gettati in fondo alle navi, e incatenati ai banchi di remaggio. Ogni Chiesa fu violata; fu violata anche Santa Sofia la magnifica cattedrale: i Vangeli e i libri di preghiera gettati sulla piazza, e le vesti sacerdotali servirono a soldati per divertirsi grottescamente. Quando l’alba fosca si levò ad illuminare la città fumante di macerie e di incendi le pallide torme dei prigionieri videro sull’alto d’una colonna, stroncata e sanguinante, la testa dell’imperatore Costantino Paleologo. Oggi ancora, dopo quasi cinque secoli, la maledizione dello Spirito Santo pesa come un incubo affannoso sopra la città. – La storia ci deve pur insegnare qualche cosa. Non soffochiamo lo Spirito Santo. Non contristiamo lo Spirito Santo. Non resistiamo allo Spirito Santo. Guai, se un giorno, stanco della nostra ostinazione, abbandonasse l’anima nostra non alla barbarie del Turco ma alla ferocia del demonio.

– APPARVERO COME LINGUE DI FUOCO. Fu terribile la vendetta di Dio sopra le città del peccato. Quando il Signore non riuscì a trovare neppure un gruppo di giusti, decise di mandare un grande castigo: il diluvio di fuoco. Ardentissime fiamme caddero come pioggia dal cielo ed in poco tempo distrussero ogni anima vivente. Il puzzo dei peccati degli uomini aveva provocato la nausea di Dio e venne il giorno della maledizione. Ma dal santo raccoglimento del Cenacolo di Gerusalemme, si alzava al cielo olezzante come l’incenso, il profumo soave della preghiera. Da dieci giorni gli Apostoli insieme a Maria, la Santissima Madre di Gesù, affrettavano con voti il compimento delle divine promesse: finalmente venne il giorno delle benedizioni. Non scese il fuoco del castigo, ma quello del premio. Non il fuoco della vendetta, ma la fiamma della misericordia: non bisognava più punire il peccato, ma diffondere la grazia e il perdono a tutte le genti. Il mattino della Pentecoste, cinquanta giorni dopo la Pasqua, ecco un impeto gagliardo di vento irrompe dal cielo e commuove tutta la casa dove si pregava con tanto fervore. Apparvero allora delle fiamme che si posarono sopra il capo di ciascuno; tutti si sentirono ripieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in varie lingue. Gli stranieri che in quei giorni erano a Gerusalemme li udirono predicare nella propria loquela e ne restarono tutti meravigliati. Lo Spirito Santo, in una forma invisibile, ma vera e reale, è disceso anche sopra ciascuno di noi nel Sacramento del Battesimo e poi ancora nella S. Cresima. Fin da piccoli, quando, sulle ginocchia materne, abbiamo imparato ad amare il Signore, abbiamo ricordato la terza Persona della SS. Trinità. Ma poi abbiamo pensato assai raramente, forse mai; e nella pratica della nostra vita ci portiamo avanti come se Egli non esistesse o fosse una Persona che non c’interessi. Se oggi vogliamo conoscere cosa fa in noi lo Spirito Santo e cosa dobbiamo noi per possederlo nelle anime nostre, osserviamo il segno con cui si è manifestato agli Apostoli: il fuoco. Come il fuoco distrugge, così lo Spirito Santo distrugge il peccato. Come il fuoco trasforma, così lo Spirito Santo trasforma il nostro cuore e le azioni nostre. – 1. IL FUOCO Distrugge. Quante volte capita di leggere sopra i giornali che il fuoco ha distrutto molte case, intere contrade, ha recato incalcolabili danni. Guai a lasciar cadere un fiammifero acceso sopra un fienile, in un cascinale. In poche ore andrebbe miseramente distrutta ogni cosa. Questo fuoco bisogna temerlo e poiché di solito avviene per disgrazie impreviste, tutti assicurano quanto posseggono. Ma il fuoco dello Spirito Santo non è un fuoco che si debba temere: sarebbe il massimo della stoltezza sottrarre i nostri peccati — l’unico possesso veramente nostro — alla distruzione che ne fa lo Spirito di Dio. Una volta Sansone, accompagnato dai suoi genitori, si recava nel villaggio di Tamnata. Ed ecco che, giunti alle vigne di quel piccolo paese, viene loro incontro un leone feroce, che mandava ruggiti spaventosi. Suo padre e sua madre, madidi di un freddo sudore, restarono immobili per l’orrore. Egli invece no! Lo Spirito del Signore investì Sansone che, senza nulla in mano, squarciò il leone, con la facilità con cui avrebbe fatto a pezzi un capretto. Cristiani, il demonio, come un leone ruggente, gira attorno di noi cercando di poterci divorare. Mentre noi muoviamo i nostri passi nel cammino della vita, verso una patria che non è di quaggiù, con nell’anima una viva aspirazione ad una felicità che ancor non vediamo, l’angelo delle tenebre ci arresta il passo. Il peccato è il nostro maggiore nemico, più nocivo di qualsiasi male perché ci toglie l’amicizia di Dio ed è la rovina dell’anima. Che valgono davanti al Signore le benevolenze degli uomini, le raccomandazioni presso i grandi? quando dovremo comparire alla presenza di Dio, bisognerà avere la purezza del cuore. È tanto grande l’orrore di Lui verso il peccato che la condanna all’inferno sarà inevitabile e così il leone infernale dopo averci ferito durante la vita ci azzannerà orribilmente dopo la morte per renderci eternamente infelici. Ma noi lo possiamo vincere. Basta invocare lo Spirito Santo ed Egli colla sua forza ci darebbe quel vigore che infuse nell’anima di Sansone. Col suo aiuto anche noi diventiamo formidabili: lo Spirito Celeste ha ben la potenza di vincere gli spiriti infernali. Se dunque siamo nel peccato e ce lo vogliamo ad ogni costo togliere, se la tentazione ci vuol strappare la vita dell’anima, invochiamo lo Spirito Santo colle stesse parole della Chiesa: « Hostem repellas longiuspacemque dones protinusductore sic te prævio, — vitemus omne noxium ». « Respingi lontano il nemico, e donaci  presto la pace, così che guidati da te, possiamo evitare ogni male ». – 2. IL FUOCO TRASFORMA. Una massa informe di ferro che non serve a nulla, messa a contatto del fuoco, diventa molle, splendente e la si può trasformare in oggetti necessari ed utili alla vita e al lavoro. Moltissimi prodotti animali e vegetali che, lasciati così come sono, non possono saziare la fame dell’uomo, quando il fuoco li ha fatti cuocere, diventano il cibo sano che alimenta la vita e ridona le forze. Ma una trasformazione più intima e mirabile fa nelle anime il fuoco divino dello Spirito Santo. Sotto la sua azione silenziosa, ma attiva e feconda, l’uomo, libero già dal peccato, a poco a poco si accende nell’amore di Dio, gusta le cose celesti, ascolta le ispirazioni sante. La venuta dello Spirito Santo nell’anima nostra è il principio della divinizzazione che la sua permanenza andrà poi continuando. Sì! Perché avere lo Spirito di Dio è proprio essere a parte della vita stessa di Dio. Quando Samuele, ispirato dal Cielo, versò sopra il capo di Saulle un’ampollina di olio per consacrarlo Re, gli rivolse queste parole: « Lo Spirito del Signore ti investirà e sarai cambiato in tutt’altro uomo! » (I Re, X, 6). « Finora hai vissuto una vita campestre, sei stato sollecito soltanto delle tue pecore e dei tuoi armenti; hai trattato cose basse e vili; ma adesso avrai in mente pensieri nobili ed alti; il tuo modo di vivere dovrà diventare distinto e regale; gli affari che avrai tra mano non saranno mai indegni di un re ». Il popolo non lo sapeva che Saul era il re eletto, ma quando poté osservare a lungo la condotta di lui fu così meravigliato che andava dicendo: « Saul!? Che è mai diventato il figliuolo di un povero pastore! ». Cristiani, sono ancora più grandi le cose che fa lo Spirito Santo nell’anima dell’uomo. Vedete. Se Egli non fosse in noi nessun uomo mai avrebbe pensato di chiamarsi figliolo di Dio, né di invocare Dio come Padre. Soltanto in Paradiso noi potremo capire meglio la nostra dignità sublime. Quante anime un giorno emetteranno un grido di sorpresa, scoprendo tutta quell’interna meravigliosa grandezza che portavano in sé e che forse ignorarono! Non ci ha dunque lo Spirito Santo resi più grandi del re Saulle? Allora, se è così, la nostra vita sia conforme a tanta dignità. Se abbiamo vissuti i nostri giorni passati accontentando di più lo spirito cattivo che non l’Ospite divino bisognerà da qui innanzi assolutamente cambiare. Direte forse che fa onore allo Spirito Santo colui che pensa sempre alle miserie della terra, ai suoi guadagni, peggio, ha la fantasia sempre ingombra di luride immagini? Direte dunque che accontenta lo Spirito Santo chi, anche senza disprezzare la legge di Dio, non ha mai un palpito per una vita più santa, mai uno sforzo per salire più in alto? Leggiamo nella vita del Ven. Olier che egli spesso sentiva una voce interna, la quale con soavità imperiosa gli sussurrava: « Vita divina! Vita divina! ». La sua esistenza « rassomigliava ad una santa domenica ». Deve essere così anche di noi. Ogni giorno sentiamola la voce dello Spirito Santo che ci chiama alla vita divina della grazia e della virtù e la nostra esistenza sarà davvero una perenne domenica. – Si quis Spiritum Christi non habet, hic non est eius. « Se alcuno non ha lo Spirito di Cristo, non è de’ suoi ». Così l’Apostolo Paolo ai fedeli di Roma. Cristiani, pesiamo bene queste parole. Non essere di Cristo vuol dire non essere redenti, vuol dire non essere salvati dalla sua vita e dalla sua morte sopra la croce. Infelice colui che non ha lo Spirito Santo! Ma se uno distrugge il peccato e si sforza di vivere nell’amore di Dio, lo Spirito Santo viene in lui: egli diventa fratello di Cristo, figlio adottivo di Dio, erede del Paradiso.

– CREDO LO SPIRITO SANTO. S. Paolo ad Efeso incontrò un piccolo gruppo di fedeli: forse erano dodici (Act.,  XIX). Chiese a loro: « Credete voi nello Spirito Santo e l’avete ricevuto? ». Quelli, meravigliati, si guardarono in faccia e poi risposero: « Lo Spirito Santo? se non sappiamo nemmeno che vi sia uno Spirito Santo!… » S. Paolo ebbe un tremito di compassione, e soggiunse: « Ma come allora avete potuto essere battezzati? ». La medesima compassione ed il medesimo rimprovero, l’Apostolo potrebbe muovere ancora a non pochi Cristiani che, se non ignorano lo Spirito Santo, vivono però come se l’ignorassero. Per loro, dunque, fu vano il miracolo della Pentecoste? Erano trascorsi cinquanta giorni dalla Resurrezione e tutti i discepoli erano raccolti nel cenacolo. E venne dal cielo, improvvisamente, un suono, come si fosse levata un’impetuosa ala di vento: tutta la casa tremò. Apparvero allora delle lingue come di fuoco, che si posarono sopra ciascuno dei convenuti. « Et repleti sunt omnes Spiritu Sancto…» (Atti, II, 4). Chi è lo Spirito Santo di cui gli Apostoli ricevettero la primizia? Fin dalle ginocchia materne abbiamo imparato ad adorarlo come la terza Persona della SS. Trinità. Ma se oggi, in cui la Chiesa commemora il mistero della sua discesa, volessimo conoscerlo meglio, osserviamo i segni coi quali si manifestò. Scese come vento: il vento che libera il cielo da ogni nube, significa come lo Spirito Santo libera l’anima nostra da ogni errore e dubbio. Egli è Spirito di verità. Scese come un gagliardo tremito che scosse e riempì tutto il cenacolo, per significare come sa scuotere le anime, renderle capaci di parlare, d’agire, di morire da eroi. Egli è Spirito di fortezza. Scese come un fuoco: il fuoco che riscalda e dilata è simbolo dell’amore che lo Spirito Santo avrebbe acceso nel cuore dei fedeli. Egli è Spirito d’amore. – 1. SPIRITO DI VERITÀ. Il cattivo esempio del padre e soprattutto i divertimenti e la passione impura trascinarono nell’errore del Manicheismo una delle più belle intelligenze: Agostino di Tagaste. E nell’errore sentiva bisogno di un maestro potente che lo strappasse dai grossi vapori in cui soffocava, verso una regione di serenità. Studiò Platone, ascoltò S. Ambrogio. E benché, di giorno in giorno, s’avvicinasse alla verità, non poteva mai raggiungerla. Un giorno, con l’animo spasimante per l’interno martirio, si pose sotto una ficaia e sospirava a Dio con lacrime: «Signore, fino a quando dovrò brancolar nel dubbio così? ». Poi s’addormentò. Ma in quel momento s’udì un grido: « Prendi e leggi ». Agostino balza a quella voce, pallido e tremante, sospinto da un forza interiore, prende un libro, l’apre a caso e legge: « Rimoviamo da noi le opere delle tenebre e  rivestiamoci con le armi della luce ». E fu un raggio che cadde dall’alto, i suoi occhi videro, la sua anima vide: pianse e credette. Di chi era quel grido misterioso? Chi poté, in un attimo, persuaderlo, deciderlo, convincerlo? Non un uomo: perché gli uomini insegnano lentamente attraverso numerose parole. Non un uomo: perché ci sono delle verità che ripugnano alla carne e al sangue, delle verità che infrangono la superbia della nostra ragione, di cui nessuno ci può persuadere se non Colui che conosce tutte le vie del cuore: lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo ammaestrò S. Agostino come già aveva ammaestrato e illuminato gli Apostoli. Gli Apostoli erano rozzi e duri a comprendere: … stulti et tardi corde ad credendum.. erano materiali e non giudicavano che coi sensi:

nisi videro, non credam. Cristo stesso s’indignava talvolta con loro: tanto tempore vobiscum sum, et nondum cognovistis me? Ma disceso lo Spirito Santo, da stolti divennero sapienti, da increduli divennero la base e la colonna della fede. Quante volte anche noi, forse, abbiamo sentito risuonare un grido come Agostino, o abbiamo internamente visto una luce nuova come gli Apostoli. Quante volte anche noi, forse, leggendo un buon libro, ascoltando una predica anche in mezzo alle occupazioni quotidiane ci siam visti illuminare interiormente e liberare da ogni dubbio. Era lo Spirito Santo che c’insegnava la verità. – 2. SPIRITO DI FORTEZZA. A Siracusa, davanti al tribunale di Pascasio, venne trascinata la vergine Lucia. La timida giovinetta non tremava, ma diceva al giudice: « Tu osservi i decreti del tuo Cesare e io osservo la legge del mio Dio e giorno e notte ». Pascasio diabolicamente ordinò di condurla in luogo infame e poi di farla passare di tortura in tortura. Ma come i soldati la presero per condurla via, non riuscirono a smuoverla d’un passo, e le caddero intorno. Si ricorse alla forza dei buoi, ma la vergine di Cristo rimase ferma come rocca. Tutti gridavano alla strega e le gettavano addosso amuleti e scongiuri. Pascasio le disse: « Qual è l’arte magica che ti dona tanta forza? » E santa Lucia le rispose: «È lo Spirito Santo: io lo sento in me che dice: mille cadranno alla mia sinistra e diecimila alla tua destra, ma non ti toccheranno ». La vergine, glorificata ormai, pregava Dio a gradire la sua vita. Un soldato le tagliò il capo, ed ella si trovò in Paradiso. Anche l’anima nostra, in questo mondo, ha molti nemici che la vorrebbero trascinare in luogo infame e poi di peccato in peccato: è il demonio, sono le passioni, il mondo con le sue lusinghe, lo stimolo dei sensi, i cattivi compagni. Chi potrà sostenerci nella dura guerra della vita, se ci sentiamo così deboli e proclivi al male? Colui che fortificò la fanciulla di Siracusa: lo Spirito Santo che è Spirito di fortezza. Non erano anche gli Apostoli delle persone deboli? Tutti eran fuggiti nell’ora delle tenebre, e Pietro tre volte spergiurò prima che il gallo cantasse. Ma disceso lo Spirito Santo, rimproverarono intrepidamente ai Giudei il deicidio. « Voi avete rifiutato il Santo, il Giusto. Voi avete domandato grazia per un ladro omicida ed avete fatto morir l’Autore della vita ». I Giudei, spaventati, gridavano: «Tacete! Tacete! ». E quelli: « Non possiamo tacere ». Non possumus non loqui. « Possiamo soffrire, possiamo morire, ma non possiamo tradir l’Evangelo. E  dalle parole passarono ai fatti, dai fatti al supremo testimonio del sangue. Quale vergogna per noi, che pur avendo ricevuto lo Spirito Santo, siamo ancora così vili! Per noi, che siam Cristiani dimentichi del Cristianesimo, per noi che oggi forse, lo Spirito Santo sconfessa. Non vi sono più persecuzioni cruente; ma un’altra persecuzione s’è levata nella Chiesa; quella del mondo e della sua tirannia. È legge del mondo che, con qualsiasi mezzo, bisogna guadagnarsi un posto. È legge del mondo che perdonare è viltà. È legge del mondo che il piacere impuro è un bisogno di natura. E noi, forse, ne siamo schiavi? – 3. SPIRITO D’AMORE. Mentre S. Paolo si trovava a Cesarea, ospite della casa di Filippo, arrivò un certo Agabo, profeta. Costui prese la cintura di Paolo e si legò le mani e i piedi. Gli astanti guardavano, stupiti. Ma egli, profetando, disse: « In questo modo verrà legato dai Giudei in Gerusalemme quell’uomo a cui appartiene la cintura ». (Atti, XXI, 11). Filippo, le sue quattro figlie, i discepoli di Cesarea scoppiarono in pianto a quel triste presagio e s’inginocchiarono davanti a Paolo scongiurandolo a non tornar più a Gerusalemme. Ma Paolo rispose: « Non piangete così, che le vostre lacrime fanno male al mio cuore. Per conto mio sono pronto, non solo ad essere legato. ma anche a morire in Gerusalemme per il nome di Gesù ». Quanto amore! La morte non lo spaventava, ma non poteva veder piangere quei Cristiani: meglio spargere tutto il proprio sangue ma non una lacrima di loro. Ed è ancora Paolo che raccomanda ai fedeli: « Se alcuno vi maledirà, e voi beneditelo! Se alcuno vi farà del male, e voi fategli del bene! Benedite e amate ». E altrove dice: « Piangete coi piangenti, e allietatevi coi lieti. Io mi son fatto malato con i malati: mi sono fatto tutto a tutti ». Quando i primi Cristiani vedevano qualche povero nella Chiesa, ciascuno faceva colpa a se stesso di quella miseria e mettevano tutti i loro beni in comune perché tutti godessero egualmente. Gli uomini che così parlano e agiscono sono i medesimi che prima della discesa dello Spirito Santo litigavano per salvare il primo posto, e invocavano fuoco dal cielo sopra le città che li accoglievano male. E lo Spirito Santo, che è Spirito d’amore, quale trasformazione ha operato nel nostro cuore? Quante invidie, quanti rancori, quante vendette trovano ancora posto tra noi! E com’è avara la nostra mano nel largire e nell’aiutare! L’amor del prossimo è un segno dell’amor di Dio: solo quando saremo capaci di amare il prossimo come noi stessi, solo allora ameremo Dio più di noi stessi. – Ignazio d’Antiochia, trascinato in catene fino a Roma, scrive ai Romani queste parole: « Credetemi: è nel pieno vigore della vita che esprimo il desiderio di morire. In me ogni concupiscenza è crocifissa: solo v’è un’acqua viva e parlante, con un mormorio lungo e misterioso: « vieni al Padre! ». Quest’acqua viva, che ha voce, è la grazia dello Spirito Santo disceso in tutti noi. «Vieni al Padre!» ci dice quando il dubbio offusca la nostra fede. «Vieni al Padre!» ci sussurra quando le tentazioni vorrebbero travolgerci. « Vieni al Padre!» ci mormora quando l’odio, l’avarizia, l’invidia vorrebbero disseccarci il cuore. Ascoltiamo questa voce: non attiriamoci il tremendo rimprovero: dura cervice et incircumcisis cordibus, vos semper Spiritui Sancto resistitis.

IL CREDO

Offertorium

Orémus – Ps LXVII: 29-30

Confírma hoc, Deus, quod operátus es in nobis: a templo tuo, quod est in Jerúsalem, tibi ófferent reges múnera, allelúja.

[Conferma, o Dio, quanto hai operato in noi: i re Ti offriranno doni per il tuo tempio che è in Gerusalemme, allelúia].

Secreta

Múnera, quæsumus, Dómine, obláta sanctífica: et corda nostra Sancti Spíritus illustratióne emúnda.

[Santifica, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che Ti vengono offerti, e monda i nostri cuori con la luce dello Spirito Santo].

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Acts II: 2; 4

Factus est repénte de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis, ubi erant sedéntes, allelúja: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, loquéntes magnália Dei, allelúja, allelúja.

[Improvvisamente, nel luogo ove si trovavano, venne dal cielo un suono come di un vento impetuoso, allelúia: e furono ripieni di Spirito Santo, e decantavano le meraviglie del Signore, alleluja, alleluja.]

Postcommunio

Orémus.

Sancti Spíritus, Dómine, corda nostra mundet infúsio: et sui roris íntima aspersióne fecúndet.

[Fa, o Signore, che l’infusione dello Spirito Santo purifichi i nostri cuori, e li fecondi con l’intima aspersione della sua grazia] .

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA