DOMENICA XIV DOPO PENTECOSTE (2022)

XIV DOMENICA DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Le Lezioni dell’Officio di questa Domenica sono spesso prese dal Libro dell’Ecclesiastico (Agosto) o da quello di Giobbe (Settembre). Commentando il primo, S. Gregorio dice: « Vi sono uomini così appassionati per i beni caduchi, da ignorare i beni eterni, o esserne insensibili. Senza rimpiangere i beni celesti perduti, i disgraziati si credono felici di possedere i beni terreni: per la luce della verità, non innalzano mai i loro sguardi e mai provano uno slancio, un desiderio verso l’eterna patria. Abbandonandosi ai godimenti nei quali si sono gettati si attaccano e si affezionano, come se fosse la loro patria, a un triste luogo d’esilio; e in mezzo alle tenebre sono felici come se una luce sfolgorante li illuminasse. Gli eletti, invece, per cui i beni passeggeri non hanno valore, vanno in cerca di quei beni per i quali la loro anima è stata creata. Trattenuti in questo mondo dai legami della carne, si trasportano con lo spirito al di là di questo mondo e prendono la salutare decisione di disprezzare quello che passa col tempo e di desiderare le cose eterne ». — Quanto a Giobbe viene rappresentato nelle Sacre Scritture come l’uomo staccato dai beni di questa terra: « Giobbe soffriva con pazienza e diceva: Se abbiamo ricevuti i beni da Dio, perché non ne riceveremo anche i mali? Dio mi ha donato i beni, Dio me li ha tolti, che il nome del Signore sia benedetto ». — La Messa di questo giorno si ispira a questo concetto. Lo Spirito Santo che la Chiesa ha ricevuto nel giorno di Pentecoste, ha formato in noi un uomo nuovo, che si oppone alle manifestazioni del vecchio uomo, cioè alla cupidigia della carne e alla ricerca delle ricchezze, mediante le quali può soddisfare la prima. Lo Spirito di Dio è uno spirito di libertà che rendendoci figli di Dio, nostro Padre, e fratelli di Gesù, nostro Signore, ci affranca dalla servitù del peccato e dalla tirannia dell’avarizia. « Quelli che vivono in Cristo, scrive S. Paolo, hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e bramosie. Camminate, dunque, secondo lo Spirito e voi non compirete mai i desideri della carne, poiché la carne ha brame contro lo Spirito e lo Spirito contro la carne: essi sono opposti l’uno all’altra » (Ep.).  Nessuno può servire a due padroni, dice pure Gesù, perchè o odierà l’uno e amerà l’altro, ovvero aderirà all’uno e disprezzerà l’altro. Voi non potete servire a Dio e alle ricchezze ». « Chiunque è schiavo delle ricchezze, spiega S. Agostino – e si sa che sono spesso fonte di orgoglio, avarizia, ingiustizia e lussuria –  è sottomesso ad un padrone duro e cattivo. (« Forse che questi festini giornalieri, questi banchetti, questi piaceri, questi teatri, queste ricchezze, si domanda S. Giovanni Crisostomo, non attestano l’insaziabile esigenza delle tue cattive passioni? » – 2° Nott., V Domenica di Agosto che coincide qualche volta con questa Domenica). Dio non condanna la ricchezza ma l’attaccamento ai beni di questa terra e il loro cattivo impiego) Tutto dedito alle sue bramosie, subisce però la tirannia del demonio: certamente non l’ama perché chi può amare il demonio? ma lo sopporta. D’altra parte non odia Dio, poiché nessuna coscienza può odiare Dio, ma lo disprezza, cioè non lo teme, come se fosse sicuro della sua bontà. Lo Spirito Santo mette in guardia contro questa negligenza e questa sicurezza dannosa, quando dice, mediante il Profeta: Figlio mio, la misericordia di Dio è grande » (Eccl., V, 5 ),— (Queste parole sono prese dal 1° Notturno della V Domenica di Agosto, che coincide qualche volta con questa Domenica: « Non dire: la misericordia di Dio è grande, egli avrà pietà della moltitudine dei miei peccati. Poiché la misericordia e la collera che vengono da Lui si avvicinano rapidamente, e la sua collera guarda attentamente i peccatori. Non tardare a convertirti al Signore e non differirlo di giorno in giorno: poiché la sua collera verrà improvvisamente e ti perderà interamente. Non essere inquieto per l’acquisto delle ricchezze, poiché non ti sopravviveranno nel giorno della vendetta ») – … ma sappi che « la pazienza di Dio t’invita alla penitenza » (Rom., II, 4). Perché chi è più misericordioso di Colui che perdona tutti i peccati a quelli che si convertono e dona la fertilità dell’ulivo al pollone selvatico? E chi è più severo di colui che non ha risparmiati i rami naturali, ma li ha tagliati per la loro infedeltà? Chi dunque vuole amare Dio e non offenderlo, pensi che non può servire due padroni; abbia egli un’intenzione retta senza alcuna doppiezza. Ed e così che tu devi pensare alla bontà del Signore e cercarlo nella semplicità del cuore. Per questo, continua egli, io vi dico di non avere sollecitudini superflue di ciò che mangerete e del come vi vestirete; per paura che forse, senza cercare il superfluo, il cuore non si preoccupi, e che cercando il necessario, la vostra intenzione non si volga alla ricerca dei vostri interessi piuttosto che al bene degli altri » (3° Nott.). Cerchiamo dunque, prima di tutto il regno di Dio, la sua giustizia, la sua gloria (Vang., Com.); mettiamo nel Signore ogni nostra speranza (Grad.), poiché è il nostro protettore (Intr.); è Lui che manda il suo Angelo per liberare quelli che lo servono (Off.) e che preserva la nostra debole natura umana, poiché senza questo aiuto divino essa non potrebbe che soccombere (Oraz.). L’Eucarestia ci rende Dio amico (Secr.) e, fortificandoci, ci dà la salvezza (Postcom.). Cerchiamo, dunque, prima di tutto di pregare nel luogo del Signore (Vers. dell’Intr.) e di cantarvi le lodi di Dio, nostro Salvatore (All.); poi occupiamoci dei nostri interessi temporali, ma senza preoccupazione.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et te, pater, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXXIII: 10-11.

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília.

[Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].

Ps LXXXIII: 2-3

V. Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit, et déficit ánima mea in átria Dómini.

[O Dio degli eserciti, quanto amabili sono le tue dimore! L’ànima mia anela e spàsima verso gli atrii del Signore].

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília.

[Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Custódi, Dómine, quǽsumus, Ecclésiam tuam propitiatióne perpétua: et quia sine te lábitur humána mortálitas; tuis semper auxíliis et abstrahátur a nóxiis et ad salutária dirigátur.

[O Signore, Te ne preghiamo, custodisci propizio costantemente la tua Chiesa, e poiché senza di Te viene meno l’umana debolezza, dal tuo continuo aiuto sia liberata da quanto le nuoce, e guidata verso quanto le giova a salvezza.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal V: 16-24

“Fratres: Spíritu ambuláte, et desidéria carnis non perficiétis. Caro enim concupíscit advérsus spíritum, spíritus autem advérsus carnem: hæc enim sibi ínvicem adversántur, ut non quæcúmque vultis, illa faciátis. Quod si spíritu ducímini, non estis sub lege. Manifésta sunt autem ópera carnis, quæ sunt fornicátio, immundítia, impudicítia, luxúria, idolórum sérvitus, venefícia, inimicítiæ, contentiónes, æmulatiónes, iræ, rixæ, dissensiónes, sectæ, invídiæ, homicídia, ebrietátes, comessatiónes, et his simília: quæ prædíco vobis, sicut prædíxi: quóniam, qui talia agunt, regnum Dei non consequántur. Fructus autem Spíritus est: cáritas, gáudium, pax, patiéntia, benígnitas, bónitas, longanímitas, mansuetúdo, fides, modéstia, continéntia, cástitas. Advérsus hujúsmodi non est lex. Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixérunt cum vítiis et concupiscéntiis.”

[“Fratelli: Camminate secondo lo spirito e non soddisferete ai desideri della carne. Perché la carne ha desideri contrari allo spirito, e lo spirito contrari alla carne: essi, infatti, contrastano tra loro, così che non potete fare ciò che vorreste. Che se voi vi lasciate guidare dallo spirito non siete sotto la legge. Sono poi manifeste le opere della carne: esse sono: la fornicazione, l’impurità, la dissolutezza, la lussuria, l’idolatria, i malefici, le inimicizie, le gelosie, le ire, le risse, le discordie, le sette, le invidie, gli omicidi ecc. le ubriachezze, le gozzoviglie e altre cose simili; di cui vi prevengo, come v’ho già detto, che coloro che le fanno, non conseguiranno il regno di Dio. Frutto invece dello Spirito è: la carità, il gaudio, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la mansuetudine, la fedeltà, la modestia, la continenza, la castità. Contro tali cose non c’è logge. Or quei che son di Cristo han crocifisso la loro carne con le sue passioni e le sue brame”].

C’è una lotta, una guerra formidabile, una battaglia che si combatte fieramente e dappertutto e sempre: si combatte in ciascuno di noi. Per un misterioso congegno, noi, siamo due in uno e uno in due. Siamo, lo sanno tutti, anima e corpo, ma corpo e anima pur insieme uniti come sono a formare un sol uomo, rappresentano ciascuno tendenze diverse, addirittura contrastanti. La materia ci trascina nel torbido mondo dei piaceri più bassi: mollezza, ozio, dissipazione, egoismo e poi crudeltà se occorre. La materia ci trascina verso il mondo animale, anzi un mondo animale degenere e corrotto. È un fatto che noi possiamo sperimentare, che sperimentiamo anzi, senza volerlo, in noi stessi. Lo sperimentiamo con un altro fatto, del pari innegabile. Ed è che dentro di noi, contro di noi, contro questi travolgimenti passionali, queste degenerazioni brutali, qualche cosa, qualcheduno protesta; come se si trovasse, perché si trova, a disagio, nel trionfare di queste basse voglie. Questo qualcuno è lo spirito che, dice San Paolo « concupiscit adversus carnem ». Veramente, questa concupiscenza dello spirito, è una frase ardita. La realtà si è che lo spirito ha delle sue voglie, delle sue tendenze, che non sono quelle della carne. E noi sentiamo in noi, nelle ore migliori della vita, una sete di purezza, di sobrietà, di laboriosità, di sacrificio, di dominio della bestia: sogni angelici ci traversano l’anima e ce la attirano verso il cielo. Istinti angelici da quanto sono brutali quegli altri. Istinti che si rafforzano dentro di noi, colla educazione, coll’altrui buon esempio, colla saturità cristiana dell’ambiente in cui siamo chiamati a vivere. Ma istinti ai quali contrasta e maledice il corpo, proprio come contro quelli del corpo eleva l’anima l’istintivo suo veto. In questa lotta è la tragedia della nostra vita morale. È il segreto della nostra debolezza. È per questo che facciamo spesso quello che non vorremmo, che quasi non vogliamo e non facciamo quello che vorremmo. Quanti uomini vorrebbero essere fedeli alle loro mogli, vorrebbero dare esempi luminosi di buon costume ai loro figli… vorrebbero; e intanto, pur riconoscendo che fanno male, che amareggiano il cuore di una povera donna, che dànno cattivo esempio ai figlioli, profanano il santuario domestico e cercano fuori di esso illecite gioie. Quanti giovani si vergognano, si pentono della vita materiale, animalesca che conducono, e intanto non hanno forza di troncarla: « vident meliora, probantque, deteriora sequuntur ». Ma se in questo congegno di lotta interna è il segreto della nostra debolezza, v’è anche quello della nostra gloria. Abbiamo una bella battaglia da vincere. Essere un po’ sulla terra, ancora sulla terra « sicut angeli Dei in cœlo.» Andare verso l’alto, verso il cielo malgrado questa palla di piombo, che, ahimè, portiamo al piede. Gli Angeli nascono Angeli, lo sono: noi dobbiamo diventarlo. – Il Cristianesimo è stato e rimane il grande alleato dello spirito nella lotta contro la carne, Gesù è venuto apposta tra noi per dare man forte allo spirito. E da Lui in poi, e grazie a Lui, la vittoria nonché possibile, è diventata frequente tra i suoi discepoli. L’umanità vede oggi a frotte i cavalieri autentici dello spirito, gli uomini che collo spirito hanno mortificato, compresso i fasti della carne, e si rivelano in questa trionfale spiritualità di vita, si rivelano guidati dallo Spirito di Dio. Aggreghiamoci alla falange dei vincitori, non accodiamoci, codardi, alle orde dei vinti.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

 Graduale

Ps CXVII:8-9
Bonum est confidére in Dómino, quam confidére in hómine.

[È meglio confidare nel Signore che confidare nell’uomo].

V. Bonum est speráre in Dómino, quam speráre in princípibus. Allelúja, allelúja
 

[È meglio sperare nel Signore che sperare nei príncipi. Allelúia, allelúia].

Alleluja

XCIV: 1.
Veníte, exsultémus Dómino, jubilémus Deo, salutári nostro. Allelúja.

[Venite, esultiamo nel Signore, rallegriamoci in Dio nostra salvezza. Allelúia.]

 Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.
Matt VI: 24-33

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nemo potest duóbus dóminis servíre: aut enim unum ódio habébit, et álterum díliget: aut unum sustinébit, et álterum contémnet. Non potéstis Deo servíre et mammónæ. Ideo dico vobis, ne sollíciti sitis ánimæ vestræ, quid manducétis, neque córpori vestro, quid induámini. Nonne ánima plus est quam esca: et corpus plus quam vestiméntum? Respícite volatília coeli, quóniam non serunt neque metunt neque cóngregant in hórrea: et Pater vester coeléstis pascit illa. Nonne vos magis pluris estis illis? Quis autem vestrum cógitans potest adjícere ad statúram suam cúbitum unum? Et de vestiménto quid sollíciti estis? Consideráte lília agri, quómodo crescunt: non labórant neque nent. Dico autem vobis, quóniam nec Sálomon in omni glória sua coopértus est sicut unum ex istis. Si autem fænum agri, quod hódie est et cras in clíbanum míttitur, Deus sic vestit: quanto magis vos módicæ fídei? Nolíte ergo sollíciti esse, dicéntes: Quid manducábimus aut quid bibémus aut quo operiémur? Hæc enim ómnia gentes inquírunt. Scit enim Pater vester, quia his ómnibus indigétis. Quaerite ergo primum regnum Dei et justítiam ejus: et hæc ómnia adjiciéntur vobis”.

[“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Nessuno può servire due padroni: imperocché od odierà l’uno, e amerà l’altro; o sarà affezionato al primo, e disprezzerà il secondo. Non potete servire a Dio e alle ricchezze. Per questo vi dico: non vi prendete affanno né di quello onde alimentare la vostra vita, né di quello onde vestire il vostro corpo. La vita non vale ella più dell’alimento, e il corpo più del vestito! Gettate lo sguardo sopra gli uccelli dell’aria, i quali non seminano, né mietono, né empiono granai; e il vostro Padre celeste li pasce. Non siete voi assai da più di essi? Ma chi è di voi che con tutto il suo pensare possa aggiuntare alla sua statura un cubito? E perché vi prendete cura pel vestito? Pensate come crescono i gigli del campo; essi non lavorano e non filano. Or io vi dico, che nemmeno Salomone con tutta la sua splendidezza fu mai vestito come uno di questi. Se adunque in tal modo riveste Dio un’erba del campo, che oggi è e domani vien gittata nel forno; quanto più voi gente di poca fede? Non vogliate adunque angustiarvi, dicendo: Cosa mangeremo, o cosa berremo, o di che ci vestiremo? Imperocché tali sono le cure dei Gentili. Ora il vostro Padre sa che di tutte queste cose avete bisogno. Cercate adunque in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia; e avrete di soprappiù tutte queste cose”].

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

FIDUCIA IN DIO

Le parole più rasserenanti del Vangelo forse sono queste che Gesù ora ci rivolge: « Non angustiatevi, come fanno quelli che non han fede, dicendo: cosa mangeremo o cosa berremo o di che cosa ci vestiremo? Il Padre vostro sa quello che vi bisogna ». Com’è consolante sapere che dietro la gigantesca macchina dell’universo, c’è Dio nostro Padre che tutto guida e intanto non distoglie mai da noi suoi figli la dolce mano paterna! Alla sua affermazione Gesù aggiunse tre argomenti perché la nostra convinzione fosse profonda. a) « La vita non vale più del pane e il corpo non vale più del vestito? Se Dio, senza alcun merito o sforzo da parte vostra, vi ha dato la vita e il corpo, a maggior ragione vi darà il cibo e le vesti. b) « E poi guardate gli uccelli dell’aria che non seminano né mietono: sono mantenuti dal Padre celeste. Se mantiene i passeri, trascurerà voi che valete infinitamente di più?… Guardate anche i gigli del campo come crescono senza filare né tessere: sono vestiti dal Padre celeste con un raso bianco che farebbe sfigurare il manto del re Salomone. Se veste i gigli, lascerà voi ignudi, o gente di poca fede? c) « Inoltre, coll’affannarvi, potete forse prolungare d’un giorno la vostra vita al di là del limite stabilito? Come non siete capaci di prolungare la vita, così non siete capaci di mantenerla, se il Padre non provvede per voi ». Infine, Gesù pose la condizione essenziale per ottenere i favori della Provvidenza: « Cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia; e avrete ogni altra cosa per soprappiù ». Eliminiamo subito un’idea erronea che potrebbe già essere nata ascoltando questo brano evangelico: se io ho fede in Dio e nella sua Provvidenza, è dunque inutile lavorare? Provvidenza non significa pigrizia: bisogna industriarci come se tutto dipendesse da noi, ma con tale serenità come se tutto dipendesse da Dio. Dio vuole che lavoriamo, che guadagniamo il nostro pane con il sudore della nostra fronte, ma vuole che questo lavoro sia senza inquietudine e lasci lo spirito libero e sollecito, prima d’ogni altra cosa, della gloria di Dio e della salvezza dell’anima. C’è pure da ricordare che la fiducia nella Provvidenza divina poggia su tre punti: 1) credere che esiste un Dio amorosissimo e padre; 2) credere che questo Dio Padre ci vuol condurre alla felicità eterna; 3) credere che i mezzi e le vie con cui Dio Padre ci conduce al nostro fine sono tutti per il nostro meglio, anche se li sentiamo dolorosi e incomprensibili. Quest’ultimo è il punto difficile dove si riconoscono i veri figli di Dio che lo amano e pongono in Lui fiducia piena, serena. – 1. FIDUCIA PIENA. Si racconta di un Santo eremita di nome Paolo che, abbandonate le molte ricchezze che possedeva, si ritirò nel deserto, pensoso unicamente della propria santificazione e della gloria di Dio. Ogni giorno un corvo discendeva a lui con nel becco un mezzo pane, quanto bastava per il suo quotidiano sostentamento. Una volta veni’ a trovarlo S. Antonio abate, e mentre s’intrattenevano in devoti colloqui, ecco discendere il corvo con un pane intero. « Provvidenza del buon Dio! — esclamò commosso Paolo . — Sono anni e anni che ricevo un mezzo pane: ma oggi ne occorreva il  doppio. Vedi che non è mancato! ». Sembrerebbero leggende che forse potevano accadere ai tempi antichi dei Padri del deserto. Eppure, leggete la vita del Santo Cottolengo che è dei tempi nostri, andate a Torino a visitare la « Piccola Casa della Divina Provvidenza », e vedrete le cose più meravigliose di un corvo con un pezzo di pane nel becco. Son migliaia di lire che occorrono ogni giorno: e ogni giorno non mancano. Sono quintali e quintali di farina e di carne che occorrono ogni giorno: e ogni giorno non mancano. Non si sa da che parte arrivino; ma infallibilmente arrivano, anche se non li porta un corvo. Oh Provvidenza di Dio, come sfolgori vicina a noi! ma i nostri occhi sono chiusi e non ti possono vedere. C’è troppa gente di poca fede a cui trema il cuore quando dovrebbe abbandonarsi alla Provvidenza, e mentre chiama aiuto con una mano, con l’altra s’attacca al fango in cui affonda. Costoro non hanno fiducia piena nella Provvidenza. Facciamo alcuni esempi, per essere pratici. V’ha di quelli che nella preghiera affidano a Dio i loro bisogni, e poi si lamentano, lo insultano, sparlano di Lui come se fosse un addormentato, un distratto, un ritardatario, un ingiusto, un crudele. Altri fanno accendere il lumino in chiesa o anche fanno celebrare una Messa, ma poi s’arrangiano con furberie illecite, con falsità e imbrogli e furti, più o meno gravi. Altri ancora vanno in chiesa, ma poi lavorano anche di festa temendo quasi che l’aiuto di Dio sia insufficiente. Ci sono di quelli che ascoltano e leggono il Vangelo, invocano il Signore che li illumini, ma la loro fiducia è così scarsa da lasciare il posto alla superstizione. Interrogano la fattucchiera che fa il gioco delle carte, si fanno leggere il destino sulle mani, chiedono la spiegazione dei sogni, fanno ballare i tavolini spiritici. Farò un ultimo caso di questa gente che non vorrebbe arrischiar nulla: non perdere l’appoggio del mondo, ottenere gli aiuti di Dio. È il caso di quei coniugi che illudono di conciliare la devota pratica dei primi venerdì d’ogni mese per ottenere le grazie del Sacro Cuore, e poi con la scusa della miseria, della salute, dell’età violano la legge sacrosanta del matrimonio. A tutti costoro io debbo per dovere ripetere l’ammonimento del Signore: « Nessuno può servire a due padroni. Non potete servire a Dio ed a Mammona ». – 2. FIDUCIA SERENA. Una tempesta selvaggia sconvolgeva l’oceano ed il naviglio era sballottato sulla schiuma rabbiosa come un guscio di noce. I passeggeri sembravano impazziti dalla paura: non avevano più colore, né voce. Soltanto un fanciulletto correva avanti e indietro: ridendo a trilli per le cadute e il barcollamento a cui era costretto: era il figlio del pilota. Quando, come a Dio piacque, la nave uscì dalla tempesta e tutti si sentirono rifluire la vita al cuore, qualcuno prese in braccio il fanciulletto e gli disse: « Ma tu, piccolo folletto, non avevi paura di andare ai pesci? ». Rispose: « Paura? è mio padre che guida la nave ». Ah se ciascuno di noi, nei momenti trepidi, riuscisse a ripetere con tutta l’anima le parole del figlio del pilota: « Paura di che? mio padre è al timone! »; oppure sapesse dire l’espressione del Vangelo: « Io non sono solo perché il Padre è con me » (Giov., XVI, 32); oppure quell’altra che è nei Salmi: « Il Signore è la mia guida: non mancherò mai di nulla… quand’anche camminassi per una valle d’ombre mortali, non temerò perché voi siete con me » (Salmi, XXII, 1-4); dimostrerebbe davvero una filiale e serena fiducia nella Provvidenza. Non ignoro le obbiezioni e le difficoltà contro questa serena fiducia: ho pregato tanto, ho gridato a Lui dal profondo del mio cuore e non m’ha ascoltato; gli sono stato fedele tutta la vita e ora un bacillo divora i miei polmoni implacabilmente; ho patito calunnie e ingiustizie e non m’ha difeso di fronte all’iniquità; dov’è la Provvidenza se un fulmine ha privato cinque orfanelli del padre, se l’inondazione ha devastato il campo dei buoni, se l’epidemia ha travolto bambini ed innocenti? Se una di queste prove ci fosse riserbata nella vita, Cristiani, preghiamo Iddio che ci trovi radicati fortemente nella fede. Ma fin d’ora ricordiamoci: a) le vie del Signore non sono come le nostre; ma poiché Egli è Padre, certamente sono per il nostro maggior bene; b) il dolore ha una funzione di castigo, e allora accettandolo scamperemo dal castigo eterno; di purificazione, e allora ci rende migliori liberandoci dalle scorie terrene; di prova, e allora se resteremo fedeli a Dio ci serberà meravigliose ricompense; c) i Santi non hanno perso la serena fiducia in casi più terribili dei nostri, e Dio li ha confortati. Giuseppe: è tradito dai fratelli e venduto ai mercanti d’Egitto: ma da schiavo diventerà viceré. Tre fanciulli sono buttati nella fornace ardente, ma le ali invisibili d’un Angelo li difendono dalle voraci fiamme. Il profeta Elia è perseguitato a morte e fugge; ma un Angelo gli porta da mangiare un pane ristoratore. San Paolo Apostolo aveva fiducia serena e incrollabile in mezzo ad ogni traversia. « Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?… Chi mi separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione o l’angoscia; la persecuzione o la fame, o la nuda miseria; il pericolo o il pugnale?… No: né la morte né la vita, né le cose presenti né le future, né alcuna creatura, mi potrà mai separare dall’amore di Dio in Cristo Gesù (Rom., VIII). Persuadiamoci di questo: per quelli che cercano anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia tutte le cose si risolvono in bene. – Nell’ultima cena, nell’ora delle intimità, Gesù disse ai suoi Apostoli: « Quando v’inviavo in missione senza bastone, né sacco, né argento, né tunica di scorta, se vi è forse mancato qualche cosa?». Risposero: « Nulla ». (Lc., XXII, 35). Da allora in poi quanti Cristiani vivono sulla parola del Signore, con una fiducia nella Provvidenza, piena e serena! S. Giovanni Crisostomo. nel secolo IV diceva ai suoi uditori: « Non crediate che questi comandamenti del Signore siano superiori alle forze umane, perché vì sono molti che li praticano. Che tu l’ignori, non è cosa che debba stupire: anche Elia credeva d’essere solo a servire Dio e invece erano in più di settemila. Tu non vuoi credere, perché non li vuoi imitare ». Ebbene, io vi dico che oggi, dopo venti secoli, quelli che si fidano del Signore sono ancora di più. — IL MONDO. Racconta S. Agostino, nel suo libro sulla città di Dio, che il Senato Romano aveva deciso d’innalzare una statua a Gesù Cristo: « di divinità la repubblica ne ha già parecchie, — pensavano quei bravi senatori, — ed aggiungerne una ancora non fa certamente male a nessuno ». Ma la cosa non andò così liscia come si sarebbe potuto immaginare. Innalzata che fu la statua di Nostro Signore nel Pantheon di Agrippa in mezzo a tutti gli altri simulacri, per due o tre mattine di seguito la trovarono sola e diritta nel tempio deserto, mentre le statue d’ogni altro idolo, sfracellate, giacevano fuori di quel tempio. Il significato del prodigio non è oscuro, anzi ce lo manifestano splendidamente le parole stesse di Gesù nel brano evangelico di questa domenica. « A due padroni non si può servire: o l’uno o l’altro bisogna amare, o l’uno o l’altro bisogna odiare ». In uno stesso tempio non ci può stare l’immagine di Cristo e quella di Bacco. In uno stesso cuore non c’è posto per Dio e l’Avarizia, per il Signore e il mondo, insieme. Press’a poco queste parole diceva Gesù sopra una collina solitaria, emergente dalla sponda destra del lago di Tiberiade. Da lontano appariva nel sole la città di Cafarnao. Il declivio verdissimo di erbe nuove s’ingemmava allora di gigli. Stormi di uccelli volteggiavano nella tranquillità azzurra dell’aria (F. Didon, Gesù Cristo, volume I, c. IV). Qualcuno degli ascoltatori pensava in suo cuore: « Va bene fuggire l’avarizia: ma chi mi mantiene, chi mi veste? Bisognerebbe trovarsi ne’ panni miei e poi, altro che il tempo di servire il Signore!… ». « Guardate, guardate gli uccelli nel cielo! — proruppe Gesù. — Come sono beati! Non seminano, non mietono, eppure Dio non li lascia morire di fame. Guardate, guardate i gigli nel prato! non vanno a coltivare come gli uomini, non stanno a filare come le donne: eppure, quanto sono belli! Dio li veste così. « Ma se Dio fa questo per gli uccelli del cielo, per le erbe del prato, non siete voi da più di un uccello e da più di un’erba? Il vostro Padre celeste sa bene quello che vi abbisogna, e ve lo darà per giunta se prima cercate il regno di Dio e la giustizia ». Nemo potest duobus dominis servire. Chi sono questi due padroni? L’uno è Dio che ci presenta i beni eterni e infiniti del paradiso, l’altro è il mondo che ci presenta i beni fugaci e avvelenati della terra. « Che vi è mai di comune fra la giustizia e la nequizia, tra lo splendore e il tenebrore, tra Cristo e il mondo? » diceva S. Paolo agli abitanti di Corinto. Ed è appunto della fuga del mondo che debbo parlare a voi che vivete nel mondo. Né vi sembri strano: i frati, i religiosi di questi avvisi non ne hanno bisogno, perché già dal mondo vivono separati; non così voi a cui è facile dimenticare d’essere Cristiani per vivere come mondani. Il mondo comincia dapprima col pretesto del cibo, del vestito, della famiglia, della posizione a distrarvi dal fine eterno, e poi vi perverte. Guardatevi dunque dal mondo che distrae, dal mondo che perverte. – 1. IL MONDO CHE DISTRAE. Stanco e polveroso camminava un pellegrino con lo sguardo fisso all’orizzonte se mai sopra il biondo del grano, sopra il verde del bosco, spuntasse il cupolone del santuario a cui muoveva per sciogliere un voto. A sera giunse davanti a un albergo: dalle finestre usciva un dolce suon di musica misto a un profumo di vivande apparecchiate. Si fermò a leggere l’insegna. Subito gli venne incontro l’oste e con inchini e sorrisi e preghiere lo trasse dentro. Allora da ogni angolo della sala gli vennero accanto i camerieri lindissimi chi per un servizio, chi per un altro; chi gli portava piatti ricolmi e fumanti, chi bottiglie umide e polverose. « Desidera altro? Siamo a’ suoi cenni ». « Che luogo incantato! — diceva il pellegrino. — Che lieto vivere! peccato che non mi posso fermare ». E tutti a supplicarlo di rimanere ancora, per una notte almeno, per un mese, per sempre. « Vorrei, ma non posso… » rispose; « una inflessibile necessità mi sforza ad andare ». E s’alzò. Ma ecco improvvisamente l’oste porgergli il foglio dei conti: una enormità! Tutto gli faceva pagare, anche i sorrisi, anche le moine, a peso d’oro e di sangue. Balbettò alcune scuse, e fu invano: si trovò sulla strada, di notte, solo e senza più nemmeno il danaro per compiere l’offerta votiva. Dall’alto le stelle lo videro piangere un pianto amaro, ma inutile, e udirono il suo singhiozzo lontano disperso dai fiati del vento. Cristiano, è il santo Cardinale Bellarmino che ci suggerisce questo esempio. Sicut caupones hospitem divertentem peramanter excipiunt sed in discessu severo vultu rigorose erigunt, ita mundus (BELLARM., Conc., 17). Ogni uomo che viene al mondo è in viaggio verso il santuario eterno ove dovrà consegnare una votiva offerta di opere buone. Ma sul cammino, come un oste col suo albergo, sta il mondo con la sua lusinga. Guai a quelli che si abbandonano a lui, dimenticando la propria anima, il cammino della virtù, e il cielo che li attende! Si troveranno alla fine delusi, e con più niente nelle mani: dall’alto le stelle udranno anche il loro inutile singhiozzo dissolversi nella notte eterna. E l’osteria principale con cui il mondo riesce a distrarre dal fine molti uomini è quella appunto che oggi Gesù ci svela nel santo Vangelo: « La preoccupazione esagerata per il cibo del corpo, per le vesti della persona, per le case da abitare, per i campi da sfruttare ». Per queste cose, si dimentica di avere degli obblighi con Dio e con la propria anima; per queste cose ci sono uomini che non trovano più il tempo di pregare, di ascoltare la Messa, di comunicarsi, di istruirsi nella fede, di fare qualche opera buona: il mondo è riuscito a distrarli dall’affare più importante. Ma ditemi, se v’incogliesse una seria malattia, tutte le vostre sollecitudini d’impegni e d’affari v’impedirebbero di trovare dei giorni, delle settimane di riposo e di cura? Certamente no. E perché allora vi impediranno di curare la salute della vostra anima che forse è tanto malata? Ma neanche se aveste tutte le brighe di un Papa nel governo della Chiesa universale, vi sarebbe permesso di trascurare « il Regno di Dio e la sua giustizia! » Quando Bernardo da Pisa fu eletto, da monaco che era, al sommo pontificato, tanto s’ingolfò nelle occupazioni esteriori che accompagnano questa dignità suprema che sembrava avesse rinunciato alla preghiera e alla cura della propria anima: ma il santo di Chiaravalle, come lo seppe, non dubitò di mandargli a dire che si trovava fuori di strada. Ma neanche se aveste tutte le brighe di un re nel governo del suo regno, vi sarebbe permesso di trascurare « il Regno di Dio e la sua giustizia! » Guardate Davide ch’era pure re e guerriero: nel turbinio dei pubblici affari, trovava momenti per ritirarsi e pregare sette volte al giorno. Septies in die laudem dixi tibi (Salmi, CXVIII, 164). Ed a mezza notte sorgeva dal suo letto reale e meditava la legge del Signore. Media nocte surgebam ad confitendum tibi (Salmi, CXVIII, 62). – 2. IL MONDO PERVERTE. Dopo aver distratto gli uomini con le brighe esagerate dell’avarizia e del cibo e del vestito, il mondo ha in suo potere molte armi di pervertimento: i teatri, i balli, la moda. E noi siamo fragili. S. Gabriele dell’Addolorata, passata la prima giovinezza tra le lusinghe del mondo, si rifugiò in religione, e nei primi mesi di convento pensando al suo amico Filippo Giovannetti ch’era studente nel Liceo di Spoleto e temendo per lui che si trovava in molte tentazioni di peccato, gli scriveva così: « Hai ragione di dire che ilmondo è pieno di pericoli e d’inciampi, e che è cosa ben difficile poter salvare l’unica  anima nostra: non per questo ti devi perdere di coraggio. « Ami la tua salvezza? fuggi i compagni cattivi. Ami la tua salvezza? Fuggi i teatri: ah che purtroppo è vero, e lo so per esperienza, come sia quasi impossibile entrare in essi con la grazia di Dio ed uscirne senza averla perduta o messa in gran pericolo! « Ami la tua salvezza? fuggi le conversazioni, poiché in tali luoghi tutto congiura contro l’anima nostra. Fuggi finalmente i libri cattivi, poiché è indicibile il male che essi possono fare nel cuore di tutti; ma specialmente nel cuore di un giovane… « Dimmi, poteva io pigliarmi più divertimenti e più spassi di quelli che mi son preso nel secolo? E bene, che me ne resta ora? A te lo confesso: non altro che amarezza ». (GERMANO, Vita di S. Gabriele, pag. 93). Cristiani, non chiudete il cuor vostro alla parola d’un Santo, alla parola del Vangelo: — Fuggite il mondo. Oggi S. Gabriele scrive anche a voi giovani che rincasate a notte tarda dopo lunghe serate passate chi sa dove e chi sa come, mentre la vostra mamma non patendo prender sonno piange e prega tenendo l’orecchio se mai risuoni il vostro passo su per le scale; anche a voi giovani che non conoscete più la dolcezza delle ore passate in chiesa o all’oratorio o accanto alla vostra famiglia, ma continuamente vi stordite in giuochi, in gite, in divertimenti. – Oggi S. Gabriele scrive anche a voi fanciulle e donne che, dimenticando d’essere le mistiche lampade delle case, volete essere le stupide lucciole delle strade; e senza vergogna v’aggirate di giorno e di sera per le piazze, per le vie, senza bisogno, senza modestia; anche per voi che, malvestite e peggio accompagnate, scalate montagne ed inforcate biciclette. Oggi S. Gabriele scrive a tutti i suoi consigli preziosi: perché quelle assidue visite rese principalmente a determinate persone, in determinate case e circostanze? Perché sciupare tanto tempo in quei trattenimenti di piacere, in quelle conversazioni inutili in cui si ascoltano, a spese del prossimo, tutti i rumori del mondo, in cui si apprende dagli altri ciò che dovremmo ignorare, in cui gli altri apprendono da noi ciò che essi pure non dovrebbero mai sapere? Una buona volta cessiamo d’essere schiavi del male, fuggiamo dal mondo, usciamo da questa Babilonia, terra di maledizione. Fugite de medio Babylonis! (Jer., LI, 6). Credete voi che il fuoco dell’ira di Dio s’è rovesciato tutto sulle città della Pentapoli? v’illudete forse che il braccio del nostro Signore ora sia inerme ed ognuno possa ridere della sua legge impunemente? Ricordatevi di Loth a cui Iddio mandò gli Angeli per avvisarlo che fuggisse dalla corrotta Sodoma: egli ubbidì, si ritirò sui monti solitari; e fu salvo. Chiunque non l’avrà imitato e, nonostante gli avvisi dei Santi e dei Sacerdoti, non amerà il ritiro nella sua casa e nella sua chiesa, io vi dico che verrà sepolto sotto una pioggia di fuoco ben più terribile di quella che travolse i Sodomiti. – Attendete, se non sarà così. Jeu, figlio di Josafat, entrava vittorioso nella città. Ora la perfida Gezabele, avendo saputo del suo arrivo e sperando di piacere a lui, si cerchiò gli occhi di nero, si adornò procacemente la testa e si pose alla finestra per sorridere a lui. Ed Jeu levando le pupille la vide. « Chi è colei?» domandò. Ma poi si curvò all’orecchio di quattro servi e disse: « Salite e buttatela giù ». Alcuni minuti dopo fu vista Gezabele volare dalla finestra al suolo: il muro fu imbrattato di sangue e gli zoccoli del cavallo la calpestarono. A sera quando fu mandato per seppellirla trovarono soltanto il cranio, i piedi e l’estremità: i cani l’avevano divorata (IV Re, IX, 36-37). Gezabele è simbolo dell’anima che vuol piacere al mondo. Adora il corpo, mettiti alla finestra, sorridi ai vizi che passano in trionfo: e intanto non senti dietro a te il passo fatale della morte che viene a buttarti già nella fossa del cimitero, mentre i demoni come cani famelici già dilatano le fauci per divorarti. — LA PROVVIDENZA. … Gesù ci solleva in un’altra atmosfera; non ci accorgiamo di far parte di una famiglia dove le preoccupazioni non hanno ragione di essere: nei cieli vi è un Padre che pensa a tutti. Mi sembra che in questa luce anche la vita diventi più bella! Davvero che il Cristiano è l’uomo felice, è l’uomo della vera allegria perché crede che c’è la Provvidenza verso la quale egli ha dei doveri. – 1. C’È LA PROVVIDENZA La vita di ogni Santo è un argomento per l’esistenza della Divina Provvidenza. Ricordiamo, ad esempio, la storia di S. Vincenzo de’ Paoli fatto schiavo dei musulmani. Sacerdote di fresco ordinato, s’accingeva a tornare da Marsiglia dove si era recato per un’opera d’apostolato. Un ricco e buon signore gli propose di prendere la via di mare invece che la via di terra per la quale s’era già deciso. Le condizioni erano lusinghiere: risparmio di tempo, di fatica, di denaro; ottima compagnia. Accettò la proposta, credendo d’accondiscendere al suggerimento d’un uomo mentre era la Provvidenza che lo attirava nel suo piano. Infatti, la nave fu assalita dai pirati turchi, e dopo una lotta disperata, tutti i passeggeri furono imprigionati e portati barbaramente a Tunisi. Qui S. Vincenzo fu venduto, come una bestia, sul mercato. Lo comprò un pescatore, ma trovatolo incapace e inesperto per la caccia, lo vendette a un vecchio medico il quale lo occupava a mantenere il fuoco nei fornelli su cui preparava certe strane medicine. Dov’era in quei momenti la Provvidenza? Che aiuto gli dava, se tutto il giorno era angariato senza un momento di sosta, senza che fosse mai consentita a lui Sacerdote novello la consolazione di celebrare Messa e di recitare il Breviario? Un altro al suo posto si sarebbe perso di fede e scoraggiato. Lui invece pregava incessantemente e confidava. Dov’era dunque in quei momenti la Provvidenza? Era là, vicina a lui, che vigilava e disponeva tutto secondo un amoroso e misterioso disegno che gli occhi degli uomini spesso non possono neppure intravvedere. Effettivamente le cose parevano volgere in peggio. Il vecchio medico musulmano l’aveva rivenduto a un Cristiano rinnegato che s’era accasato con una donna turca, e questi lo maltrattava e gli faceva lavorare tutto il giorno la terra. La padrona però, qualche volta, mentre egli zappava nel campo, scambiava con lui qualche parola sulla fede cristiana, e ascoltava volentieri il canto delle lodi di Dio. Passarono alcuni mesi e la grazia, a poco a poco segretamente penetrando, trionfò: non solo la padrona si convertì, ma seppe indurre il marito a riabbracciare la fede ripudiata. E dopo che entrambi furono illuminati dalla verità e accesi dalla carità di Cristo, di comune accordo diedero la libertà allo schiavo loro Vincenzo. Anzi, consapevoli che proprio da quello schiavo paziente e umile avevano ricevuto una libertà più grande e più preziosa di quella che gli donavano, la libertà dalla schiavitù dell’errore e di satana, come segno di riconoscenza lo vollero accompagnare nella via del ritorno. Due anni, due lunghi anni erano passati dal giorno in cui era caduto in mano dei pirati, durante i quali non aveva avuto nessuna notizia dei suoi cari, e del suo sacerdozio non aveva potuto vivere che il carattere scolpito indelebilmente nell’anima. Parrebbero anni perduti, anni di rovina. Eppure, senza di essi non avremmo avuto un Santo dal cui cuore sgorgò un fuoco di carità immenso. C’è dunque la Provvidenza di Dio; c’è il Signore « che ha disposto quanto esiste, in peso, numero e misura » (Sap., XI, 21), « Che governa con forza le cose dal principio alla fine e tutto dispone con soavità » (Sap., VIII, 1). « Il piccolo ed il grande è Lui che li ha fatti, ed ha cura egualmente dell’uno e dell’altro » (Sap., VI, 8). « Come l’aquila stimola i suoi piccoli al volo e stendendo le sue ali li protegge, li aiuta e nel pericolo li soccorre » (Deut., XXXII, 11) così il Signore, dopo che ci ha messi nel gran mare della vita, non cessa di vegliare sulla nostra coscienza. Se non che i pensieri e le vie della Provvidenza non sono come i nostri pensieri e i nostri disegni, ma più belli e più grandi. Bisogna credere e fidarsi. – 2. DOVERI VERSO LA PROVVIDENZA. A Torino, se passate per via Cottolengo, vi trovate davanti ad una porta stretta, con sopra un umile cartello che dice: « Piccola Casa della Divina Provvidenza ». Sia pure per curiosità, entrate dentro perché tutti dicono che è la casa dei miracoli. Non lasciatevi però ingannare dal nome perché non è una semplice casa ma una città, la cittadella del dolore. « Quelli che hanno trovato chiuse le porte di tutti gli ospedali, i veri rifiuti dell’umanità soltanto lì possono trovare un po’ di riposo. L’ha fondata un Sacerdote, San Giuseppe Benedetto Cottolengo, che non teneva mai un centesimo in tasca: anzi, una volta che gli era avanzato un po’ di denaro, lo buttò dalla finestra. E la Provvidenza non gli è mai mancata perché la sua fiducia non aveva un limite. Se all’ora del pranzo non si trovava neppure un po’ di farina: il Santo non se ne angustiava: stavolta toccava al Signore! Chiamava tutti in chiesa, cominciava il Rosario, cantava il Magnificat od il Te Deum finché non si fosse sentito bussare alla porta: c’erano uomini con carri di farina, di frumento, di pasta. Chi mai aveva mandato quegli uomini con tanta grazia di Dio? Qualcuno certamente, ma i nomi non si seppero mai. Quanti, oggi, i ricoverati? Dicono che siano ottomila, ma il numero preciso non lo si vuol sapere: a contarli e a mantenerli tocca alla Provvidenza a cui dai dormitori, dalle corsie, dai corridoi, nel lavoro, nel riposo, nel dolore, sale la voce del ringraziamento e della fiducia. In tutte le ore, di giorno e di notte, davanti al Tabernacolo ci sono sempre suore raccolte in preghiera. Cristiani, se vogliamo che Dio pensi a noi, noi dobbiamo pensare a Lui. Confidenza e fiducia! Se il Signore ha cura dei suoi nemici, vorrà abbandonare i suoi amici? Siam forse meno degli uccelli dell’aria e dei gigli del campo? « Se gli occhi del Signore sono sopra i giusti e le sue orecchie nella loro preghiera » (Salmi, XXXIII, 16). « Speri in Lui chi lo ha conosciuto » (Salmi, XI, 11). Quando sembra che il cielo sia chiuso e nessuno più si ricordi di noi, è proprio il momento di raddoppiar la preghiera. Ringraziamento. Se non casca foglia che Dio non voglia, quel che Dio vuole non è mai troppo. Sia che ci mandi la gioia, sia che permetta il dolore, sempre diciamogli grazie. « Se abbiamo goduto — esclama Giobbe — quando ricevemmo del bene, perché mai non accettiamo anche il dolore? Il Signore ha dato ed il Signore ha tolto: sia benedetto il suo Nome nei secoli ». –  In un suo viaggio verso Roma S. Ambrogio fu ospite nella magnifica villa di un gran signore. Ma quando seppe che in quella casa la sofferenza non era mai entrata: « Raccogli subito — disse al servo — raccogli subito le nostre cose e andiamo via. Non voglio stare in questa casa! Se non c’è nessun dolore è segno evidente che non c’è Iddio ». Così la pensavano i Santi! Ricordiamo queste parole quando le avversità ci vorrebbero far sospettare che Iddio ci abbia dimenticati. È proprio allora che ci è vicino.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIII:8-9

Immíttet Angelus Dómini in circúitu timéntium eum, et erípiet eos: gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus.

[L’Angelo del Signore scenderà su quelli che Lo temono e li libererà: gustate e vedete quanto soave è il Signore].

Secreta

Concéde nobis, Dómine, quǽsumus, ut hæc hóstia salutáris et nostrórum fiat purgátio delictórum, et tuæ propitiátio potestátis.

[Concédici, o Signore, Te ne preghiamo, che quest’ostia salutare ci purifichi dai nostri peccati e ci renda propizia la tua maestà].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

… de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:

Santo, Santo, Santo il Signore Dio degli esérciti I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nell’alto dei cieli.)

Preparatio Communionis

Orémus:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Comunione spirituale

Communio

Matt VI:33
Primum quærite regnum Dei, et ómnia adjiciéntur vobis, dicit Dóminus.

[Cercate prima il regno di Dio, e ogni cosa vi sarà data in più, dice il Signore.]

 Postcommunio

Orémus.
Puríficent semper et múniant tua sacraménta nos, Deus: et ad perpétuæ ducant salvatiónis efféctum.

[Ci purífichino sempre e ci difendano i tuoi sacramenti, o Dio, e ci conducano al porto dell’eterna salvezza].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA XIII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XIII dopo PENTECOSTE (2022)

La Chiesa ci fa leggere in questo tempo nel Breviario il principio del libro dell’Ecclesiaste: « Vanità delle vanità, dice l’autore sacro, tutto è vanità. Si dimentica ciò che è passato, e le cose che debbono ancora venire non lasceranno ricordi presso quelli che verranno più tardi. Io ho vedute tutte le cose che avvengono sottoil sole, ed ecco che sono tutte vanità e afflizione dell’anima. Iperversi difficilmente si correggono e infinito è il numero degli insensati » (7° Nott.). « Dopo che Salomone poté contemplare la luce della vera sapienza, dice S. Giovanni Crisostomo, uscì in questa esclamazione sublime e degna dei cielo: « Vanità delle vanità, tutto è vanità! ». A vostra volta, se volete, potete rendere simile testimonianza. È vero che nei secoli passati, Salomone non era tenuto a una diligente ricerca della sapienza, poiché l’antica legge non considerava vanità il godimento dei beni superflui; tuttavia, malgrado questo stato di cose, si può vedere quanto siano vili e dispregevoli. Ma noi, chiamati a virtù più perfette, saliamo a cime più alte, ci esercitiamo in opere più difficili. Che dire di più se non che ci è stato comandato di regolare la nostra vita su virtù celesti, che non hanno nulla di materiale e che sono tutta intelligenza? » (2° Nott.). Queste virtù celesti sono per eccellenza, le tre virtù teologali: « fede, speranza, carità » che l’Orazione ci fa chiedere a Dio affinché noi « non amiamo se non quello che Egli ci comanda ». Ed è per questo motivo che la Chiesa fa leggere in questo giorno [‘Epistola di S. Paolo ai Corinti, che ha per oggetto la fede in Gesù Cristo, fede che agisce mediante la carità e che ci fa mettere, come già Abramo, la nostra speranza nel divino Salvatore. Infatti solo per questa fede operante e confidente, le anime coperte dalla lebbra del peccato vengono guarite come ci mostra il Vangelo. I dieci lebbrosi che rappresentano in qualche modo le trasgressioni fatte dagli uomini ai dieci comandamenti, scorgono il loro divino Medico e, ponendo subito in Lui ogni speranza:« Maestro, abbi pietà di noi! » gridano. La fede loro è operante, perché quando Cristo li mette alla prova dicendo: « Andate, mostratevi ai sacerdoti », essi vanno senza esitare e, andando, sono guariti. Ma questa guarigione è confermata da uno solo di quelli che tornò indietro per mostrare la sua riconoscenza a Gesù. « Quando uno di essi si vide guarito, tornò sui suoi passi, glorificando Dio ad alta voce e cadendo con la faccia a terra ai piedi di Gesù, lo ringraziò ». Gesù allora gli disse: « Va, la tua fede ti ha salvato ». Questo mostra che è la fede in Gesù che salva le anime. Ora se è la fede in Gesù che salva le anime, la Chiesa ha precisamente da Gesù la missione di far penetrare nelle anime questa fede mediante la predicazione e la lettura. Questo passo del Vangelo ci indica anche l’espulsione dei Giudei che sono stati ingrati verso Colui che era venuto per guarirli, mentre i Gentili gli sono stati fedeli. Dei dieci lebbrosi infatti nove erano Giudei e uno solo non lo era, ed è a questo solo — che era Samaritano, e tornò indietro a ringraziare il Salvatore — che Gesù dice: La tua fede t’ha salvato. Da ciò si vede non essere soltanto ai figli d’Abramo secondo il sangue che è stata fatta questa promessa, ma ancora a tutti coloro i quali sono suoi figli perché partecipi della sua fede in Gesù Cristo. Infatti, è per questa fede che la promessa di vita eterna fatta ad Abramo si estende a tutti i popoli. Così l’Orazione della III Profezia del Sabato Santo dice che « col Battesimo, Dio, moltiplicando i figli della promessa stabilisce Abramo, suo servo, padre di tutte le genti secondo la profezia ». « Fate, soggiunge la quarta Orazione, che tutti i popoli della terra diventino figli d’Abramo e partecipino della grandezza toccata in sorte al popolo d’Israele ». I Gentili ccupano dunque il posto dei Giudei. « I nove, commenta S. Agostino, gonfi d’orgoglio, credevano di umiliarsi col ringraziare; e non ringraziando sono stati riprovati e rigettati dall’unità che si trova nel numero dieci (vi erano dieci lebbrosi), mentre l’unico che ringrazia è approvato dall’unica Chiesa. — Così per il loro orgoglio, i Giudei perdettero il regno dei cieli dove regna la più grande unità; mentre il Samaritano, sottomettendosi al Re col suo ringraziamento, ha conservata l’unità del regno per la sua devozione piena di umiltà » (Mattutino). I Giudei entreranno in massa nel regno dei cieli alla fine del mondo, allorché crederanno in Gesù, ed è a ciò cui fa allusione l’Introito quando essi chiedono che la loro esclusione dalla Chiesa non sia irrevocabile: « Ricordati, o Signore, della tua alleanza, non abbandonare le anime dei poveri alla fine.  Perché, o Dio, ci hai rigettati? Perché la tua collera si è accesa contro le pecore del tuo ovile? ». E la Chiesa chiede a Dio « d’essere propizio al suo popolo, e, placato dal sacrificio che gli viene offerto, di perdonare la sua ingratitudine » (Secr.). Quanto ai Gentili, essi dicono a Gesù che ripongono in Lui tutta la loro speranza (Off.) perché si è fatto loro rifugio di generazione in generazione (All.) e li nutre del suo pane celeste, come fece per gli Ebrei nel deserto, allorché dette la manna che conteneva ogni sapore ed ogni dolcezza (Com.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et te, pater, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXIII: 20; 19; 23
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te.

[Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le anime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Ps LXXIII: 1

Ut quid, Deus, reppulísti in finem: irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ?

[Perché, o Signore, ci respingi ancora? Perché arde la tua ira contro il tuo gregge?]

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te.

[Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, da nobis fídei, spei et caritátis augméntum: et, ut mereámur asséqui quod promíttis, fac nos amáre quod prǽcipis.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

[Onnipotente e sempiterno Iddio, aumenta in noi la fede, la speranza e la carità: e, affinché meritiamo di raggiungere ciò che prometti, fa che amiamo ciò che comandi.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti S. Pauli Apóstoli ad Gálatas.

[Gal. III: 16-22]

“Fratres: Abrahæ dictæ sunt promissiónes, et sémini ejus. Non dicit: Et semínibus, quasi in multis; sed quasi in uno: Et sémini tuo, qui est Christus. Hoc autem dico: testaméntum confirmátum a Deo, quæ post quadringéntos et trigínta annos facta est lex, non írritum facit ad evacuándam promissiónem. Nam si ex lege heréditas, jam non ex promissióne. Abrahæ autem per repromissiónem donávit Deus. Quid igitur lex? Propter transgressiónes pósita est, donec veníret semen, cui promíserat, ordináta per Angelos in manu mediatóris. Mediátor autem uníus non est: Deus autem unus est. Lex ergo advérsus promíssa Dei? Absit. Si enim data esset lex, quæ posset vivificáre, vere ex lege esset justítia. Sed conclúsit Scriptúra ómnia sub peccáto, ut promíssio ex fide Jesu Christi darétur credéntibus”.

[“Fratelli: Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua discendenza. Non dice la scrittura: E ai suoi discendenti, come si trattasse di molti; ma come parlando di uno solo: E alla tua discendenza; e questa è Cristo. Ora, io ragiono così; un’alleanza convalidata da Dio non può, da una legge venuta quattrocento anni dopo, essere annullata, così da rendere vana la promessa. Poiché, se l’eredità viene dalla legge, non vien più dalla promessa. Ma Dio l’ha donata ad Abramo in virtù d’una promessa. Perché dunque la legge? È stata aggiunta in vista delle trasgressioni, finché non venisse la discendenza a cui era stata fatta la promessa, e fu promulgata per mezzo degli Angeli per mano di un mediatore. Ora non si dà mediatore di uno solo, e Dio è uno solo. Dunque la legge è contraria alle promesse di Dio? Niente affatto. Se fosse stata data una legge capace di procurarci la vita, allora, sì, la giustizia verrebbe dalla legge. Ma la Scrittura ha racchiuso tutto sotto il peccato, affinché la promessa, mediante la fede in Gesù Cristo, fosse data ai credenti»”.

UNO SGUARDO AL CROCIFISSO

S. Paolo aveva insegnato ai Galati che la giustificazione non dipende dalla legge di Mosè, ma dalla fede in Gesù Cristo, morto per noi in croce. Ma Gesù Crocifisso. dipinto tanto vivamente dall’Apostolo ai Galati, era stato ben presto dimenticato da essi, lasciatisi affascinare da coloro che insegnavano dover noi attendere la nostra salvezza dalla legge. S. Paolo, rimproverata la loro stoltezza, nota come Gesù, morendo sulla croce, maledetta dalla legge, libera i Giudei dalla maledizione, e conferisce a tutti, Giudei e Gentili, che si uniscono nella fede in Gesù Cristo, lo Spirito promesso. Passa poi a far osservare come vediamo nell’epistola di quest’oggi, che la promessa dei beni celesti, fatta ad Abramo e alla sua discendenza cioè al Cristo, nel quale si sarebbero unite tutte le nazioni a formare un solo popolo, essendo incondizionata, fatta ad Abramo direttamente da Dio, e da Dio confermata, aveva tutto il carattere d’un patto irremissibile. Non poteva, quindi, venir indebolita o modificata dalla legge di Mosè venuta 430 anni dopo, con un contratto temporaneo. La legge, del resto, non escludeva la promessa, dal momento che essa non poteva giustificare e dare la vita, come fa la promessa. E neppure fu inutile; perché, facendo conoscere i numerosi doveri da compiere, senza porgere l’aiuto necessario, metteva l’uomo nella condizione di dover sperimentare tutta la propria debolezza e di sentir la necessità d’un Redentore; e di riconoscere, per conseguenza, che le celesti benedizioni non possono essere effetto della legge, ma della promessa, e che non si ottengono che con la fede in Gesù Cristo. Gesù Cristo, che morendo in croce, adempie le promesse fatte da Dio, sarà l’argomento di questa mattina. – Gesù Cristo Crocifisso, così presto dimenticato dai Galati, fermi la nostra attenzione.

 [A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

Graduale

Ps LXXIII:20; 19; 22.

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum: et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem.


[Signore, abbi riguardo al tuo patto: e non dimenticare per sempre le ànime dei tuoi poveri.]

Exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam: memor esto oppróbrii servórum tuórum. Allelúja, allelúja


[V. Sorgi, o Signore, e difendi la tua causa e ricordati dell’oltraggio a Te fatto. Allelúia, allelúia].

Alleluja

Ps LXXXIX: 1
Dómine, refúgium factus es nobis a generatióne et progénie. Allelúja.

[O Signore, Tu fosti il nostro rifugio in ogni età. Allelúia.]

Evangelium


Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XVII: 11-19

In illo témpore: Dum iret Jesus in Jerúsalem, transíbat per médiam Samaríam et Galilaeam. Et cum ingrederétur quoddam castéllum, occurrérunt ei decem viri leprósi, qui stetérunt a longe; et levavérunt vocem dicéntes: Jesu præcéptor, miserére nostri. Quos ut vidit, dixit: Ite, osténdite vos sacerdótibus. Et factum est, dum irent, mundáti sunt. Unus autem ex illis, ut vidit quia mundátus est, regréssus est, cum magna voce magníficans Deum, et cecidit in fáciem ante pedes ejus, grátias agens: et hic erat Samaritánus. Respóndens autem Jesus, dixit: Nonne decem mundáti sunt? et novem ubi sunt? Non est invéntus, qui redíret et daret glóriam Deo, nisi hic alienígena. Et ait illi: Surge, vade; quia fides tua te salvum fecit.”  

[“In quel tempo andando Gesù in Gerusalemme, passava per mezzo alla Samaria e alla Galilea. E stando por entrare in un certo villaggio, gli andarono incontro dieci uomini lebbrosi, i quali si fermarono in lontananza, e alzarono la voce dicendo: Maestro Gesù, abbi pietà di noi. E miratili, disse: Andate, fatevi vedere da’ sacerdoti. E nel mentre che andavano, restarono sani. E uno di essi accortosi di essere restato mondo, tornò indietro, glorificando Dio, ad alta voce: e si prostrò per terra ai suoi piedi, rendendogli grazie: ed era costui un Samaritano. E Gesù disse: Non sono eglino dieci que’ che son mondati? E i nove dove Sono? Non si è trovato chi tornasse, e gloria rendesse a Dio, salvo questo straniero. E a lui disse: Alzati, vattene, la tua fede ti ha salvato”]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

LA LEBBRA E I LEBBROSI

«Chiunque a giudizio del sacerdote è colpito dalla lebbra, venga espulso dagli abitati: con vesti senza cucitura, con nuda la testa, finisca la sua vita grama nella solitudine dei boschi e dei campi. Avverta di tenersi turata la bocca con la cocca del vestimento, perché l’alito impuro non oltrepassi la chiostra dei denti a contaminare l’aria che è per i sani. E se mai taluno, ignaro o incauto, starà avvicinandosi, lo arresti gridando da lungi il suo male: « Immondo! Immondo! » (Lev., XIII, 44). Or bene, avvenne che alle porte di un villaggio dieci lebbrosi videro passare il Figlio di Dio, e da lontano a gran voce lo chiamarono: « Gesù! Maestro! Misericordia anche di noi ». – In mezzo alla letizia dell’aria, della luce, del verde, Gesù scorse una massa di carne di un biancore orribile: addossati l’uno all’altro erano dieci lebbrosi. Qualcuno aveva i piedi gonfi e crepati, qualche altro alzava le braccia e le mani smozzicate dalle piaghe, e tutti erano ulcerosi, sformati, calvi, biancastri come la calce. Voi sapete quel che avvenne allora: come il Signore li abbia mandati dai sacerdoti, come nell’andare furono guariti, come uno solo su dieci sentì riconoscenza da tornare indietro; e costui era un samaritano. – Ora c’importa più che tutto notare come la lebbra dei corpi è un’espressiva immagine della lebbra delle anime: il peccato; e come il lebbroso corporale è una espressiva immagine del lebbroso: il peccatore. – 1. LA LEBBRA. Un mattino sereno, passeggiando sotto un arioso pergolato, il re di Francia discorreva col duca di Champagne. Diceva il re: « Qual è la malattia più atroce e schifosa da cui l’uomo può essere incolto? « Io dico la lebbra » rispose l’altro senza esitare neppure un attimo. «Ecco, son del vostro parere anch’io » soggiunse Luigi IX. E proseguì: « Duca se vi trovaste in tali contingenze da essere costretto a scegliere tra lebbra ed un peccato, che fareste voi? ». « Oh, sceglierei il peccato! » scattò a dire con un’incrinatura ironica nella voce. Re Luigi però aveva oscurato la fronte d’una nube di tristezza: « Sbaglio enorme il vostro », rispose alfine, e sospirava. « Sbaglio enorme, perché il peccato è una perfida lebbra che neppure cessa con la morte, ma perseguita di là ancora, sempre. Duca di Champagne, se mi amate, non v’incresca cambiar parere » (JOINVILLE, Histoire de St. Louis, c. 94). Che ve ne pare delle parole di S. Luigi IX re di Francia? Se avessimo la sua fede, se fossimo Cristiani integri e sinceri non dubiteremmo un istante a dargli ragione. Perché milioni di martiri sono corsi a morire nel fuoco, tra le belve, sotto il ferro? … per evitare il peccato. Perché migliaia d’anacoreti si sono flagellati ogni giorno nel deserto, tra la fame e la sete? Per evitare il peccato. Pessima lebbra è il peccato. a) Prima ancora che l’uomo fosse sulla terra, v’erano in cielo bellissimi angeli: uno di essi splendeva come il sole che nasce e tutti godevano gioie inenarrabili. Guardateli ora nel profondo inferno: non luce, ma tenebre li circonda, non gioie eterne, ma eterni tormenti, non ali ma catene, non cantici d’esultanza ma orribili bestemmie. Chi da Angeli li ha tramutati in demoni? Che malattia ha potuto deformarli così? la lebbra del peccato. « Per il peccato Dio non perdonò agli angeli, ma li precipitò nell’abisso e li consegnò alle catene dell’inferno per essere tormentati e riservati al giudizio » (II Petr., II, 4). b) Non sempre la terra fu una valle di lacrime. Da principio esisteva un giardino di delizie, ove nessuna stagione era intemperata, ove i fiori non cadevano e i frutti non cessavano, ove gli uccelli del cielo e gli animali del suolo, miti e graziosi, attendevano i cenni dell’uomo. E l’uomo e la donna, beati e immorituri, abitavano il giardino della delizia. Ma tutto cessa improvvisamente: la terra si fa ingrata e dura al lavoro, le malattie e la morte, le discordie e gli omicidi, affliggono i poveri mortali. Chi da paradiso felice ha trasformato la terra in spinosa valle di pianto? Che malattia ha reso noi così fragili e tristi da fortunati che eravamo? la lebbra del peccato! « Per il peccato, sia maledetta la terra del tuo lavoro, tra le fatiche le strapperai il nutrimento per tutti i giorni della tua vita, finché non ritornerai alla terra dalla quale fosti cavato: giacché polvere sei e in polvere ritornerai» (Gen., III, 19). c) Non solo in cielo, non solo in terra, ma ancora dentro di noi, gravissime sono le conseguenze del peccato. Dopo il peccato originale, si è incarnato il Verbo, la seconda Persona della Santissima Trinità, e ci ha redenti: ci ha rifatti figli adottivi di Dio. Ora attendete a questo pensiero importantissimo. Per poter essere adottati bisogna essere della medesima specie di colui che adotta: per poter essere adottati dagli uomini bisogna appartenere alla specie umana, giacché una bestia non potrà mai diventare figlio adottivo di nessun uomo. Ma noi pure non siamo della medesima specie di Dio, che anzi per natura siamo da Dio più lontani di quello che l’animale è lontano dall’uomo. Come mai allora possiamo essere figli adottivi di Dio? Ecco la grande meraviglia: Dio nel santo Battesimo ci dona, per i meriti di Gesù Cristo, una misteriosa partecipazione della sua natura che ci divinizza: Efficiamini divinæ consortes naturæ (II Petr., I, 4). Questo preziosissimo regalo di Dio all’anima nostra si chiama « Grazia ». È la grazia che ci rende quasi di natura divina. È la grazia che ci rende, per ciò, figli adottivi di Dio, fratelli minori di Cristo. È la grazia che ci costituisce legittimi eredi dei beni eterni. La Grazia è la nostra ricchezza, è la nostra salute, è la nostra gioia, per sempre. Soltanto adesso potete intravvedere che razza di lebbra è il peccato, quando vi dico che ci priva della grazia. Via fugge inorridito lo Spirito Santo! Via fuggono gli Angeli del Signore! Decaduti e abietti restiamo; restiamo come un ramo secco sull’albero, come un braccio morto al corpo. La lebbra toglie i capelli e le ciglia, sforma il corpo con piaghe biancastre. Il peccato toglie ogni spirituale bellezza e sforma l’anima con macchie paurose. La lebbra puzza di lontano e obbliga gl’infelici colpiti a soffocare gli aliti fetenti sul lembo della veste. Il peccato pure manda triste odore: e S. Filippo Neri e Santa Caterina da Siena ebbero grazia di sentirlo materialmente accostandosi alle anime peccatrici. La lebbra gonfia i piedi e le mani, e fa cadere le unghie e le dita; il peccato impedisce di camminare sulla via dritta e di lavorare per la vita eterna. La lebbra rende fioca la voce e nebbiosa la pupilla: il peccato rende deboli le preghiere e oscura la vista della fede. Quando lungo i fiumi dell’esilio il profeta Geremia pensava alla bella, alla grande, alla regale Gerusalemme, rovesciata nella rovina miseranda, senza tempio, senza case, senza vie, fatta un rovaio e un covo di rettili e di gufi, piangeva sconsolatamente: Come siede solitaria/ la città piena di popolo!/ È diventata come vedova la Signora delle genti; / la sovrana delle province fu sottoposta al tributo. (Lam., I). Ecco, sopra un’anima caduta in peccato, il profeta può ripetere con verità la sua lamentazione dolorosa. – 2. I LEBBROSI. Pensando a queste cose, affiora nella coscienza una scottante domanda: – Io, non sono forse lebbroso? La piaga ulcerosa del peccato non travaglia da giorni, da mesi, da anni, la mia anima disgraziata? Maria, la sorella di Mosè, aveva cominciato a covare gelosia ed odio contro il fratello: sparlava di lui e incitava gli altri a ribellarsi ai suoi ordini. C’era da temere una sollevazione. (Num. XII). Ma ecco, subitamente bianca di lebbra come neve (Num. XII). Pensate se nelle vostre famiglie voi pure come Maria siete la cagione di discordie, di lunghi rancori; pensate se tra il vostro prossimo voi pure, come Maria disonoratei superiori religiosi e civili con calunnie, con ingiurie… Se fosse così anche l’anima vostra, essa già è infetta di lebbra. È ancora detto nella Santa Scrittura che Ozia, re di Guida, divenuto potente e superbo di cuore, volle entrare nel santuario a bruciare l’incenso che a nessuno era concesso di ardere se non ai ministri di Dio. E mentre teneva in mano il turibolo e minacciava con gran collera i sacerdoti inorriditi per il sacrilegio, gli si sviluppò la lebbra sulla fronte, là dinanzi ai leviti, nella casa del Signore, presso l’altare dei profumi. Ozia fu dunque lebbroso e, coperto dal male, abitò segregato da tutti, fino alla fine dei suoi giorni. (II Paral. XXVI). – Pensate se non anche voi, come quel re, avete mancato di rispetto alle cose sante, specialmente al Nome di Dio e della Vergine con la bestemmia: poiché a nessuno è concesso di pronunciarli se non in devozione e in preghiera. Se fosse così anche l’anima vostra è già infetta di lebbra. Di un altro lebbroso racconta la Storia Sacra: Giezi, il servo del profeta Eliseo. Costui, avendo visto che il suo padrone aveva guarito un ricco capitano di Siria dalla lebbra senza nulla accettare, nascostamente lo rincorse e si fece dare quei doni che Eliseo aveva rifiutati. A sera, tornando carico d’argento e di vesti, incontrò il profeta, che gli disse « Giezi, tu ha venduto l’anima tua ed hai ricevuto denaro e roba; ma anche la lebbra del capitano di Siria s’attaccherà a te e alla tua discendenza in perpetuo. Giezi si trovò da quel momento lebbroso, e bianco come la neve. Pensate, Cristiani, se non mai come Giezi, servo del profeta, avete venduto l’anima per argento e per roba, o per meno ancora. Magari per compiacenza di una creatura, per un’ora di passione, per un pensiero cattivo… Se così fosse, l’anima vostra è già infetta di lebbra. – Il grande legislatore degli Israeliti aveva promulgato una legge che cominciava così: « Sta bene attento a non contrarre il flagello della lebbra…» (Deut., XXIV, 8). Cristiano, chiunque tu sia, ascolta oggi in altri termini la legge antica: « Sta bene attento a non contrarre il morbo del peccato… ». È questo una lebbra che non inquina il corpo ma l’anima; non dagli uomini ti separa, ma dai santi e dagli Angeli; non fuori dell’abitato ti caccia, ma fuori dal paradiso a bruciare nel fuoco eterno. — LA CONFESSIONE. Gli uomini del mondo hanno una grande smania di piacere alle creature. Molta cura pongono nei profumi, nei capelli, nell’eleganza del loro vestire: vanno ricercando le stoffe più delicate, vanno seguendo le fogge più strane per adornare l’esteriore del loro corpo, che spesso divien lo scandalo del prossimo. Oh, se avessimo almeno altrettanta cura di piacere a Dio!… invece, no. E mentre sospirano dietro la bellezza materiale e sciocca dei corpi, trascurano la vera bellezza che è nell’anima. E mentre anche con sofferenza sanno usare tutti i soccorsi della vanità per rendersi avvenenti; non vogliono ricorrere al facile e divino espediente che rende bella e graziosa l’anima: la confessione. Questo è appunto il senso mistico del Vangelo di oggi. Nelle folte campagne di una borgata giudaica viveva un gruppo di dieci lebbrosi, tra cui uno almeno era samaritano. Ma il male aveva sopito tra loro ogni dissidio nazionale, curvandoli tutti sotto la medesima piaga, il medesimo destino. Con occhi terribilmente dilatati, e non protetti più dalle sopracciglia ch’erano cadute a pelo a pelo, con orecchie ingrossate e deformi, con dita smozzicate, e con tutto il corpo in tormento, andavano per quella terra dolorando, quando Gesù passò di là. Tutti, senza avvicinarsi, ché la gente li avrebbe lapidati, levarono a Lui un grido straziante: « Gesù! pietà di noi ». Gesù si volse a quelle carni martoriate, a cui d’umano non restava niente fuor che la voce crucciosa, e disse: « Andate, presentatevi ai sacerdoti ». Ite: ostendite vos sacerdotibus. Andando, un nuovo flusso di sangue ascese per le loro vene; ogni piaga stagnò; tessuti corrosi si rinnovarono subitamente: per virtù di miracolo furono mondati e tornarono belli. Nel mondo c’è pure un’altra lebbra che fa strage, non nei corpi, ma nelle anime: il peccato. Il peccato, infatti, ci priva d’ogni bellezza e ci rende cancrenosi e fetenti davanti a Dio. E come gli immondi di lebbra erano scacciati fuori dalle città e dai paesi con sassi e con ingiurie, così gli immondi di peccato sono scacciati via dal paradiso, via da Dio e dagli Angeli suoi, e solo il demonio hanno compagno. È strano però che gli uomini, che non sapevano sopportare nelle loro case la puzza della lebbra, sanno tenere nel loro cuore marcio il fetore del peccato. Eppure, è soprattutto per la lebbra spirituale che Gesù disse: ostendite vos sacerdotibus. Andate, aprite tutte le vostre miserie al Sacerdote nella confessione, poiché la confessione guarisce e preserva dalla lebbra del peccato. – 1. LA CONFESSIONE GUARISCE DAL PECCATO. Nelle vite dei Padri c’è un’espressiva leggenda che a tutti piaceva sentire, in quei primi tempi. In una certa città viveva un uomo peccatore. Quantunque i richiami al bene non gli fossero mancati, pure s’era pazzamente buttato nel vortice della colpa, suscitando intorno uno scandalo rumoroso. Un Vescovo santo, nel vederlo passare, corse al suo cammino e cominciò a piangere amarissimamente per ciò ch’egli, più sollecito a piacere al mondo che a Dio, non si curava della rovina della sua anima piena di peccati, come il corpo di un lebbroso è pieno di piaghe. Mentre il Vescovo pregava e piangeva sulla nuda terra, vide venire verso lo sciagurato una cornacchia nerissima. Il santo, levandosi, la prese e l’immerse nell’acqua: l’uccello subito si tramutò in candida colomba. Il giorno dopo il peccatore, che aveva pur visto il miracolo, venne ai piedi del Vescovo con le lacrime agli occhi; e colui che prima era nerissimo per tanto peccare, fu lavato dalla confessione e divenne candido agli occhi di Dio, come anima graziosissima. Ecco un simbolo della confessione che guarisce l’anima dalle nere brutture del peccato. Se gli uomini potessero, così facilmente, con la sola confessione guarire i malati del corpo, chi sa come sarebbero sempre affollati i confessionali!… Invece, siccome si tratta dell’anima, gli uomini preferiscono trattenere la lebbra in cuore, vivere nella maledizione di Dio e degli Angeli, ma non presentarsi al Sacerdote. Non è l’anima da più del corpo, infinitamente? « Non ho bisogno di confessarmi davanti a un uomo, forse più colpevole di me,  — si dice: so intendermela direttamente con Dio ». Allora rispondetemi: a chi tocca stabilire le condizioni del perdono? all’offeso o all’offensore? senza dubbio, all’offeso. Ma l’offeso è Dio. E quel Dio ha voluto guarire i lebbrosi nel corpo solo mandandoli ai sacerdoti, ha stabilito di guarire i lebbrosi nell’anima solo per il ministero dei suoi Sacerdoti. « È tanta — si dice — la vergogna che sento! » È appunto questa umiliazione che vi renderà meno indegni del perdono divino. —. Ma il mio peccato è troppo grande per aver perdono… ». Non bestemmiate, così come Caino, la misericordia del Signore. Se il vostro peccato è grande, la bontà di Dio è più grande ancora. – 2. LA CONFESSIONE PRESERVA DAL PECCARE. S’era presentato a S. Filippo Neri un giovane sfiduciato. Il santo lo raccolse tra le sue braccia, lo riscaldò col suo palpito di padre e le sue braccia, lo riscaldò col suo palpito di padre, e gli disse tante parole incoraggiandolo a cominciare una vita nuova. Il giovane, ad occhi chiusi, ascoltò fino alla fine, poi rispose: « È inutile, padre ». « Perché dici così? ». – « Perché non so resistere: ho già tentato altre volte, ed ho fatto sempre peggio. Adesso non voglio nemmeno formare un proposito; per non aver poi il rimorso di trasgredirlo ». S. Filippo gli sorrise, raggiando fuori da quei suoi occhi grandi la luce ed il calore della sua anima santa. « Non disperare. C’è un rimedio che fa per te, è facile. Prometti a Dio che ti forzerai con tutta l’energia a non cadere per un giorno, e torna domani. » A domani il giovane torna. « E così? » gli dice, sorridendo, S. Filippo. « E così, risponde il giovane, oggi non sono caduto. Solo un momento d’incertezza; ma fu un attimo. Pensai che dovessi tornare qui, stasera, a confessarmi e respinsi la tentazione. Ma io ho paura per domani, per dopo… ». Non temere : prega e torna domani e dopo. E quel giovane torna domani e dopo, e poi torna tutti gli otto giorni, sempre più lieto, con l’anima pura e preservata dai peccati. Davvero che la confessione è un freno meraviglioso a reprimere i nostri istinti e i cattivi desideri! Il solo pensiero di confessare il peccato, e confessarlo presto, ci rattiene spesse volte sull’orlo dell’abisso. Ma quando l’uomo ha scosso il giogo della confessione, e non si confessa che una volta sola all’anno (povera confessione pasquale!) che meraviglia se di volta in volta si ripetono i medesimi peccati, o si aumentano? Credetelo: non si può essere buoni Cristiani senza la confessione e frequente confessione! (Nell’impossibilità attuale, si ricorre all’esame di coscienza – generale e particolare quotidiano – e pluriquotidiano, alla contrizione perfetta del cuore, al proposito di non più peccare e fuggirne le occasioni, col desiderio implicito di confessarsi appena possibile con un Sacerdote provvisto di missione canonica conferita da un Vescovo con Giurisdizione una cum il Santo Padre Gregorio XVIII -. ndr, -). Essa è ciò che c’è, praticamente, di più utile nella Religione. E perché, allora, nessuna pratica religiosa è più trascurata, più calunniata, più odiata di questa? Perché c’è di mezzo il demonio. Ma voi volete dar ascolto al demonio? – Le vie, le piazze, il sagrato della cattedrale di Tours erano assai frequentati dalla gente disgraziata. Alcuni, rasenti il muro, ciechi; altri, seduti nella polvere, sciancati: donne con grucce e fanciulli cenciosi: tutti ostentavano la propria miseria e i propri stracci alla pietà e, più ancora, alla borsa dei cittadini. Talvolta, tutta questa umanità pezzente si spaventava improvvisamente, come se passasse una folata di vento a ruzzolarsi sul selciato: chi si nascondeva dietro le porte, chi imbucava un vicolo vicino, e, chi poteva, fuggiva lontano. « Che c’è? ». « Viene Martino, il Vescovo della città ». « E per questo? ». Ma è un santo: che fa miracoli…  « Oh fortuna! ». « Oh disgrazia! Se ci prende, ci risana: e allora più nessuno ci farà la carità; e saremo costretti a lavorare ». – Ci sono altre persone che fan miracoli nelle anime: e sono i Sacerdoti che guariscono dalla lebbra del peccato. E c’è una turba d’uomini che fugge via da loro che non li vuol vedere, che non si vuol confessare. La Messa alla festa, sì; qualche offerta a S. Antonio, pure; qualche lumino per la Madonna, anche. Ma la confessione, no, no! Perché? Perché se si confessano dovranno promettere di non peccare più; di restituire, di lasciare quella compagnia. Invece queste cose non piacciono a loro. — IL SACERDOTE. Ite: ostendite vos sacerdotibus. Gesù, che da solo aveva guarito il sordomuto, che da solo aveva dato la vista al cieco nato, che col solo comando della sua voce destò Lazzaro da morte, perché ha voluto che i dieci lebbrosi andassero dai sacerdoti? Fu per insegnarci il grande potere che dovevano avere i Sacerdoti della nuova legge, di cui quelli giudaici erano una figura. Gesù non doveva rimanere sempre sulla terra: eppure le anime nostre avrebbero sempre sentito bisogno di Lui, della sua parola viva che risuona alle nostre orecchie sensibili, del suo ministero. Ed allora Gesù istituì il Sacerdozio: e mandando i dieci lebbrosi ai sacerdoti di Gerusalemme per essere guariti, ci voleva insegnare come ogni potere sopra le anime nostre Egli avrebbe affidato ai suoi Sacerdoti. Ite: ostendite vos sacerdotibus. Il Sacerdote, dunque, è colui che visibilmente perpetua Cristo nei secoli; è un altro Cristo. Alter Christus. Allora avrà la medesima sorte: sarà anch’egli il segno della contraddizione; ed anch’egli come il Maestro avrà gioia ed umiliazione, dignità e disprezzo; molta gioia e molto dolore. – 1. DIGNITÀ DEL SACERDOTE. L’uomo più grande di tutto il Vecchio Testamento è, senza dubbio, Mosè. Giovanetto ancora pascolava la greggia sul monte, quando vide un roveto che ardeva e che gli affidò tutto il popolo da condurre. Sul Sinai il Signore gli darà le tavole della legge e quando scenderà dal monte due raggi di luce circonderanno la sua fronte. Ebbene: il Sacerdote è il Mosè del Nuovo Testamento, ma più grande, ma più divino: a lui Dio ha affidato la nuova Legge e il nuovo popolo, e attorno alla sua fronte brillano tre raggi di luce che rappresentano il triplice potere di cui è insignito: istruire, nutrire, guarire le anime. a) Istruire: quando Gesù risuscitò da morte apparve agli Apostoli e disse loro: « Andate in tutto il mondo e predicate la mia dottrina a tutte le genti ». Da quel giorno i Sacerdoti furono i maestri della terra, e la luce che, splendendo sul candelabro, rischiara tutti coloro che sono nella casa. Rischiara i piccoli: e i Sacerdoti, con pazienza ed umiltà, si consacrano ad innestare in quelle piccole anime il germoglio che li farà onesti cittadini e sinceri Cristiani. Rischiara i giovani: è il Sacerdote che negli oratorii e nei circoli insegna alla gioventù le prime battaglie della vita, è dal Sacerdote che imparano ad essere puri e forti. Rischiara i popoli: dal pulpito, ogni festa e più spesso, insegna la via che ognuno nella sua condizione deve percorrere se vuol raggiungere il paradiso. « Uno solo è il Maestro » sta scritto nel Vangelo, ed è Gesù Cristo. Ma Gesù Cristo insegna per la bocca de’ suoi Sacerdoti. Quindi: « Uno solo è il Maestro » possiamo ripetere noi, ed è il Sacerdote. b) Un altro potere, e più grande, fu dato ai Sacerdoti, quello di nutrire le anime. Quaggiù sulla terra noi siamo come il vecchio Elia: siamo perseguitati dal demonio e dalle nostre passioni, abbiamo tanto da patire in questa valle di lagrime; talvolta, come il vecchio Profeta ci sentiamo scoraggiare e dal labbro ci sfugge il grido di angoscia: « Signore, fammi morire che sono troppo stanco ». Ma ecco l’Angelo di Dio: è il Sacerdote che alle nostre anime stanche e sfinite dona un pane misterioso: la Santa Comunione. È il Sacerdote che ogni giorno sull’altare rinnova l’ultima cena di Gesù Cristo e sopra la bianca ostia ripete le parole della consacrazione e Dio alla sua voce discende suoi nostri altari e si fa cibo alle anime nostre. c) Infine al Sacerdote fu dato il potere di sanare le anime dai peccati: ed ogni giorno al confessionale si rinnova il miracolo dei dieci lebbrosi. « Ma chi può perdonare i peccati! » esclamavano un giorno i Giudei scandalizzati, « chi può perdonare i peccati se non Dio? ». Ed il Sacerdote non ha poteri divini? Egli è un altro Cristo: Alter Christus.  – 2. DOLORE DEL SACERDOTE. Se il Sacerdote è la dignità più grande sulla terra, Dio gli ha però riserbati i sacrifici più duri. Gesù ai due figliuoli di Zebedeo che volevano diventare suoi ministri, uno alla destra ed uno alla sinistra, domandò: «Potete voi bere il calice di dolori ch’io berrò? ». « Possiamo! ». Questa parola ogni Sacerdote la ripete presentandosi alla sacra ordinazione: Dominus pars hæreditatis meæ et calicis mei. Ed ecco che la tonsura, quasi corona di spine, gli segna la testa; e la stola quasi fune gli avvince il collo, e la pianeta quasi croce gli viene addossata; e così s’incammina all’altare come Cristo al Calvario. Sul Calvario Cristo si sacrificò per il popolo, e il Sacerdote deve sacrificare la sua vita per il popolo. Pro hominibus constituitur (Hebr., V, 1). Forse che gli uomini lo ricompensarono con amore? Troppo spesso il mondo perseguita il Sacerdote come un giorno ha perseguitato Gesù. Il discepolo non è da più del maestro. I primi preti tutti subirono il martirio: e chi fu messo in croce e chi fu gettato in pasto alle belve, e chi fu immerso nell’olio bollente, e a chi fu stroncata la testa. E poi, giù nei secoli, la storia del Sacerdozio fu una storia di dolore. Noi sappiamo che dalla Francia, non molti anni or sono, furono scacciati: ed essi lasciarono le loro opere d’amore e di bene ed esulando si volgevano a benedire e a pregare per la patria che li maltrattava. – Durante la persecuzione messicana (1927), un sacerdote fu martirizzato. Si chiamava Librando Arreola. « Perché m’imprigionate? ». « Perché sei un prete ». « È forse un delitto esserlo? ». Ma era l’odio contro Cristo che li inferociva sopra quella santa creatura. E nell’oscurità della prigione, con la scure, gli tagliarono via tutte e due le mani. E ghignando gli dissero: « Così non dirai più la Messa… ». Egli allora nello spasimo atroce alzò i moncherini grondanti, ed asperse i carnefici col suo sangue: « O Dio, perdona… ». E poiché si sentiva morire per il dissanguamento, raccolse le ultime forze, nell’agonia esclamò: « O America, ascoltami: io muoio, ma Dio non muore.. ». – Un uomo, abbandonato a tutti i vizi e tormentato dal demonio, avendo sentito che S. Domenico era in Bologna, corse a vederlo, ascoltò la sua Messa, e poi si presentò a lui per baciargli la mano. Appena diede il bacio, ne sentì un tal profumo di paradiso, quale mai aveva gustato in vita sua fino allora. Meravigliosamente si spense in lui il fuoco della lussuria, e si convertì a una vita cristiana. Ite: ostendite vos sacerdotibus. O Cristiani, quando le tentazioni vi sopraffanno, quando il demonio tormenta nei peccati l’anima vostra, presentatevi anche al Sacerdote per ascoltare la S. Messa o meglio per confessarvi. Anche voi come quell’uomo di Bologna sentirete un profumo di paradiso, anche voi come i dieci lebbrosi sarete mondati.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIII:15-16
In te sperávi, Dómine; dixi: Tu es Deus meus, in mánibus tuis témpora mea.

[O Signore, in Te confido; dico: Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono le mie sorti.]

Secreta

Popitiáre, Dómine, pópulo tuo, propitiáre munéribus: ut, hac oblatióne placátus, et indulgéntiam nobis tríbuas et postuláta concedas.

[Sii propizio, o Signore, al tuo popolo, sii propizio alle sue offerte, affinché, placato mediante queste oblazioni, ci conceda il tuo perdono e quanto Ti domandiamo.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Sap XVI: 20
Panem de cælo dedísti nobis, Dómine, habéntem omne delectaméntum et omnem sapórem suavitátis.

[Ci hai elargito il pane dal cielo, o Signore, che ha ogni delizia e ogni sapore di dolcezza.]

Postcommunio

Orémus.
Sumptis, Dómine, coeléstibus sacraméntis: ad redemptiónis ætérnæ, quǽsumus, proficiámus augméntum.

[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, ricevuti i celesti sacramenti, progrediamo nell’opera della nostra salvezza eterna.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2022).

Semidoppio.- Paramenti verdi.

Nell’ufficio divino si effettua in questo tempo la lettura delle Parabole o Proverbi di Salomone. « Queste parabole sono utili per conoscere la sapienza e la disciplina, per comprendere le parole della prudenza, per ricevere l’istruzione della dottrina, la giustizia e l’equità affinché sia donato a tutti i piccoli il discernimento e ai giovani la scienza e l’intelligenza. Il savio ascoltando diventerà più savio e l’intelligente possederà i mezzi per governare! (7° Nott.). Salomone non era che la figura di Cristo, che è la Sapienza incarnata come leggiamo nel Vangelo di questo giorno: « Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete, poiché io ve lo dico, molti profeti e re hanno voluto vedere quello che voi vedete e non hanno potuto; e ascoltare quello che voi ascoltate e non hanno inteso ». « Beati, dice S. Beda, gli occhi che possono conoscere i misteri del Signore, dei quali è detto: « Voi li avete rivelati ai piccoli ». Beati gli occhi di questi piccoli, ai quali il Figlio degnò rivelarsi e rivelare il Padre. Ed ecco un dottore della legge che ha pensato di tentare il Signore e l’interroga sulla vita eterna (Vang.). Ma il tranello che tende a Gesù Cristo mostra come era vero quello che il Signore aveva detto rivolgendosi al Padre: « Tu hai nascoste queste cose ai saggi e ai prudenti e le hai rivelate ai piccoli» (2° Nott.). — « Figlio mio, dice Salomone, il timor di Dio è il principio della sapienza. Se i peccatori vogliono attirarti non acconsentir loro. Se essi dicono: Vieni con noi, tendiamo agguati all’innocente, inghiottiamolo vivo e intero com’è inghiottito il morto che scende nella tomba; noi troveremo ogni sorta di beni preziosi, riempiremo le nostre case di bottini; figlio mio, non andare con loro, allontana i tuoi passi dal loro sentiero. Poiché i loro passi sono rivolti al male ed essi si affrettano per versar sangue. E s’impadroniscono dell’anima di coloro che soggiogano » (7» Nott.). — Cosi i demoni agirono col primo uomo, poiché quando Adamo cadde nel peccato, lo spogliarono di tutti i suoi beni e lo coprirono di ferite. Il peccato originale, infatti, priva l’uomo di tutti i doni della grazia e lo colpisce nella sua stessa natura. La tua intelligenza è meno viva e la sua volontà meno ferma, poiché la concupiscenza che regna nelle sue membra lo porta al male. Per fargli comprendere la sua impotenza — poiché, dice S. Paolo, la nostra attitudine a intendere viene da Dio (Ep.) — Jahvé stabilì la legge mosaica che gli dava precetti senza dargli la forza di compierli, ossia senza la grazia divina. Allora, l’uomo comprendendo che gli bisognava l’aiuto di Dio per essere guarito, per volere il bene, per realizzarlo e per perseverare in esso fino alla fine, rivolse il suo sguardo al cielo: « O Dio, gridò, e non deve giammai cessare di gridare: O Dio, vieni in mio aiuto; Signore, affrettati a soccorrermi! Siano confusi coloro che cercano l’anima mia » (Intr.). — « Signore, Dio della mia salute, io ho gridato verso di te tutto il giorno e la notte » (All.). E Dio allora risolse di venire in aiuto dell’uomo e poiché i sacerdoti ed i leviti dell’antica legge non avevano potuto cooperare con Lui, mandò Gesù Cristo, che si fece, secondo il pensiero di S. Gregorio, il prossimo dell’uomo, rivestendosi della nostra umanità per guarirla (3° Nott.). Queste è quanto ci dicono l’Epistola e il Vangelo. La legge del Sinai, scolpita in lettere su pietre, spiega S. Paolo, fu un ministero di morte perché, l’abbiamo già visto, non dava la forza di compiere ciò che comandava. Cosi l’Offertorio ci mostra come Mosè dovette Intervenire presso Dio per calmare la sua ira provocata dai peccati del suo popolo. La Legge della grazia è Invece un ministero di giustificazione, perché lo Spirito Santo che fu mandato alla Chiesa nel giorno della Pentecoste, giorno in cui la vecchia legge fu abrogata, dava la forza di osservare i precetti del decalogo e quelli della Chiesa. Cosi S. Paolo dice: « La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica » (Ep.). E il Vangelo ne fa la dimostrazione nella parabola del buon Samaritano. All’impotente legge mosaica, rappresentata in qualche modo dal sacerdote e dal levita della parabola evangelica, il buon Samaritano che è Gesù, sostituisce una nuova Legge estranea all’antica e viene Egli stesso in aiuto dell’uomo. Medico delle nostre anime, versò nelle nostre ferite l’unzione della sua grazia, l’olio dei suoi sacramenti e il vino della sua Eucaristia. Per questo la liturgia canta, in uno stile ricco di immagini, la bontà del Signore, che ha fatto produrre sulla terra il pane che fortifica l’uomo, il vino che rallegra il suo cuore, e l’olio che dona al suo viso un aspetto di gioia (Com.). « Io benedirò, dice il Graduale, il Signore in tutti i tempi: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra ». Noi dobbiamo imitare verso il nostro prossimo quello che Dio ha fatto per noi e quello di cui il Samaritano è l’esempio. « Nessuna cosa è maggiormente prossima delle membra che il capo, dice S. Beda: amiamo dunque colui che è fratello del Cristo, cioè siamo pronti a rendergli tutti i servizi sia temporali che spirituali dicui potrà aver bisogno » (3° Nott.). Né la legge mosaica, né il Vangelo separano l’amore verso Dio dall’amore di chi dobbiamo ritenere come prossimo: amore soprannaturale nella sua origine, poiché procede dallo Spirito Santo; amore soprannaturale nel soggetto perché è Dio nella persona dei nostri fratelli. Il prossimo di questo uomo ferito non è, come pensavano i Giudei, colui che è legato per vincoli di sangue, ma colui che si china caritatevolmente su di esso per soccorrerlo. L’unione in Cristo, che giunge fino a farci amare quelli che ci odiano e perdonare a quelli che ci hanno fatto del male, perché Dio è in essi, o è chiamato ad essere in essi, è il vero amore del prossimo. Perfezionati dalla grazia, noi dobbiamo imitare il Padre nostro del cielo, che, calmato dalla preghiera di Mosè, figura di Cristo, colmò di beni il popolo che l’aveva offeso (Off., Com.). — Uniti dunque con Cristo, [Questa unità dei Cristiani e del Cristo fa sì che si chiami Gesù il Samaritano, cioè lo straniero, per indicare che i Gentili imiteranno Cristo mentre i Giudei increduli lo disprezzeranno], curviamoci con Lui verso il prossimo che soffre. Questo sarà il miglior modo di diventare, per la misericordia divina, atti a servire Dio onnipotente, degnamente e lodevolmente, e di ottenere che, rialzati dalla grazia, noi corriamo, senza più cadere, verso il cielo promesso (Oraz.) . « Gesù, dice S. Beda il Venerabile, mostra in maniera chiarissima che non vi è che un solo amore, il quale deve essere manifestato non solo a parole ma con le buone opere, ed è questo che conduce alla vita eterna ». (3° Nott.). – La gloria dei ministero di Mosè fu assai grande: raggi miracolosi brillavano sul volto del legislatore dell’antica legge, allorché discese dal Sinai. Ma questo ministero era inferiore al ministero evangelico. Il primo era passeggero: il secondo doveva surrogarlo e durare per sempre. Il primo era scritto su tavole di pietra, era il ministero della lettera; il secondo è tutto spirituale, è il ministero dello spirito. Il primo produceva spesso la morte spirituale spingendo alla ribellione con la molteplicità dei suoi precetti difficili ad adempirsi; il secondo è accompagnato dalle grazie dello Spirito d’amore, che gli Apostoli distribuiscono alle anime. L’uno è dunque un ministero che provoca i terribili giudizi di Dio, e l’altro è un ministero che giustifica gli uomini davanti a Dio, perché dona ad essi lo Spirito che vivifica. – « Quest’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico, dice S. Beda, è Adamo che rappresenta il genere umano. Gerusalemme è la città della pace celeste, della beatitudine dalla quale è stato allontanato per il peccato. I ladri sono il demonio e i suoi angeli nelle mani dei quali Adamo è caduto nella sua discesa. Questi lo spogliarono di tutto: gli tolsero la gloria dell’immortalità e la veste dell’innocenza.. Le piaghe che gli fecero, sono i peccati che, intaccando l’integrità dell’umana natura, fecero entrare la morte dalle ferite aperte. Lo lasciarono mezzo morto, perché se lo spogliarono della beatitudine della vita immortale, non riuscirono a togliergli l’uso della ragione colla quale conosceva Dio. Il sacerdote e il levita che, avendo veduto il ferito, passarono oltre, indicano i sacerdoti e i ministri dell’Antico Testamento che potevano solamente, con i decreti della legge, mostrare le ferite del mondo languente, ma non potevano guarirle, perché era loro impossibile – al dire dell’Apostolo – cancellare i peccati col sangue dei buoi e degli agnelli. Il buon Samaritano, parola che significa guardiano, è lo stesso Signore. Fatto uomo, s’è avvicinato a noi con la grande compassione che ci ha mostrata. L’albergo è la Chiesa ove Gesù stesso conduce l’uomo, ponendolo sulla cavalcatura perché nessuno, se non è battezzato, unito al corpo di Cristo, e portato come la pecora sperduta sulle spalle del buon Pastore, può far parte della Chiesa. I due danari sono i due Testamenti sui quali sono impressi il nome e l’effigie del Re eterno. La fine della legge è Cristo. Questi due denari furono dati all’albergatore il giorno dopo, perché Gesù il giorno seguente la sua risurrezione aprì gli occhi dell’intelligenza ai discepoli di Emmaus e ai suoi Apostoli perché comprendessero le sante Scritture. Il giorno seguente, infatti, l’albergatore, ricevette i due danari, come compenso delle sue cure verso il ferito perché lo Spirito Santo, venendo su la Chiesa, insegnò agli Apostoli tutte le verità perché potessero istruire le nazioni e predicare il Vangelo » (Omelia del giorno).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Introitus

Ps 33:12
Veníte, fílii, audíte me: timorem Dómini docébo vos.
Ps 33:2
Benedícam Dóminum in omni témpore: semper laus ejus in ore meo.
V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sǽcula sæculórum. Amen.
Veníte, fílii, audíte me: timorem Dómini docébo
vos.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 2 Cor III: 4-9.

“Fratres: Fidúciam talem habémus per Christum ad Deum: non quod sufficiéntes simus cogitáre áliquid a nobis, quasi ex nobis: sed sufficiéntia nostra ex Deo est: qui et idóneos nos fecit minístros novi testaménti: non líttera, sed spíritu: líttera enim occídit, spíritus autem vivíficat. Quod si ministrátio mortis, lítteris deformáta in lapídibus, fuit in glória; ita ut non possent inténdere fili Israël in fáciem Moysi, propter glóriam vultus ejus, quæ evacuátur: quómodo non magis ministrátio Spíritus erit in glória? Nam si ministrátio damnátionis glória est multo magis abúndat ministérium justítiæ in glória.

[“Fratelli: Tanta fiducia in Dio noi l’abbiamo per Cristo. Non che siamo capaci da noi a pensar qualche cosa, come se venisse da noi; ma la nostra capacità viene da Dio, il quale ci ha anche resi idonei a essere ministri della nuova alleanza, non della lettera, ma dello spirito; perché la lettera uccide ma lo spirito dà vita. Ora, se il ministero della morte, scolpito in lettere su pietre, è stato circonfuso di gloria in modo che i figli d’Israele non potevano fissare lo sguardo in faccia a Mosè, tanto era lo splendore passeggero del suo volto; quanto più non sarà circonfuso di gloria il ministero dello Spirito? Invero, se è glorioso il ministero di condanna, molto più è superiore in gloria il ministero di giustizia”].

TUTTO E NIENTE.

Alessandro Manzoni ha colto ancora una volta perfettamente nel segno quando parlando di Dio, come ce Lo ha rivelato N. S. Gesù Cristo, come noi Lo conosciamo alla sua scuola, ha detto che Egli atterra e suscita; due gesti contradditori, all’apparenza, ed entrambi radicali. Quando fa le cose sue, Dio non le fa a mezzo: se butta giù, atterra, inabissa; e se tira su, suscita, sublima: a questo radicalismo, e a questa completezza d’azione divina corrisponde anche quello che s. Paolo dice nella lettera d’oggi, messo a riscontro di ciò che afferma altrove. Ecco qua: oggi San Paolo dice ciò che è verissimo che, cioè, noi da soli siam buoni a nulla: neanche a formare un piccolo pensiero. Nel concetto di San Paolo e di tutti, è la cosa a noi più facile, assai più facile volere che fare. Il pensiero è il primo gradino della scala, il più ovvio, il più semplice. Non importa: neanche quello scalino l’uomo può fare da sé, proprio da sé, ci vuole l’aiuto di Dio. Il quale dunque, è tutto Lui e noi di fronte a Lui siamo un bel niente, uno zero. È un fiero e giusto colpo assestato al nostro orgoglio che ci fa credere di essere un gran che e di potere fare noi, proprio noi, chi sa che cosa. L’uomo ha degli istinti orgogliosamente, dinamicamente, mefistofelici. Noi vorremmo essere tutto: noi ci illudiamo di poter fare tutto. E invece ogni nostra capacità viene da Dio: « sufficientia nostra ex Deo est. » Il che non vuol dire che questa capacità (sufficientia) non ci sia. C’è ricollegata con Dio. E allora San Paolo appoggiato a Dio, immerso nell’umile fiducia in Lui, tiene un tutt’altro linguaggio, che par una negazione ed è invece un’integrazione del precedente. « Omnia possum in Eo qui me confortat » io posso tuto in Colui che mi conforta; dal niente siamo passati al tutto. Lo stesso radicalismo. Prima, nessuna possibilità e adesso nessuna impossibilità. Prima l’uomo buttato a terra, proprio umiliato (humus, vuol dire terra), adesso esaltato fino alle stelle, proclamato in qualche modo onnipotente. La contradizione non c’è perché chi dice così non è lo stesso uomo che viene considerato, non è lo stesso uomo di cui si parla. L’uomo che non può tutto, che è la stessa impotenza, è l’uomo solo o piuttosto l’uomo isolato da Dio, lontano effettivamente ed affettivamente da Lui: ramo reciso dal tronco, tralcio separato dalla vite, ruscello a cui è stata tolta la comunicazione colla sorgente e che perciò non ha più acqua. L’uomo isolato così è sterile, infecondo nel bene, può scendere, non può salire. Ma riattaccatelo a Dio, mettetelo in comunicazione viva, piena, conscia, voluta, e la situazione si modifica dalla notte al giorno. L’anima che sente questo contatto nuovo, sente un rifluire in se stessa di nuove, sante, inesauste energie. Non poteva nulla senza il suo Dio, adesso può tutto unita a Lui. « Omnia possum in Eo quì me confortat. » E’ il grido magnanimo e non ribelle dei Santi, appunto perché la loro onnipotenza la ripetono da Dio, tutta e solo da Lui. Solo realizzando spiritualmente quel niente e quel tutto, solo vivendo tutta quella umiltà e tutta questa fede, si raggiunge l’equilibrio tra la sfiducia e la presunzione.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XXXIII: 2-3.

Benedícam Dóminum in omni témpore: semper laus ejus in ore meo.

[Benedirò il Signore in ogni tempo: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra.]

V. In Dómino laudábitur ánima mea: áudiant mansuéti, et læténtur.

[La mia anima sarà esaltata nel Signore: lo ascoltino i mansueti e siano rallegrati.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps LXXXVII: 2

Dómine, Deus salútis meæ, in die clamávi et nocte coram te. Allelúja.

[O Signore Iddio, mia salvezza: ho gridato a Te giorno e notte. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.

Luc. X: 23-37

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Beáti óculi, qui vident quæ vos videtis. Dico enim vobis, quod multi prophétiæ et reges voluérunt vidére quæ vos videtis, et non vidérunt: et audire quæ audítis, et non audiérunt. Et ecce, quidam legisperítus surréxit, tentans illum, et dicens: Magister, quid faciéndo vitam ætérnam possidébo? At ille dixit ad eum: In lege quid scriptum est? quómodo legis? Ille respóndens, dixit: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo, et ex tota ánima tua, et ex ómnibus víribus tuis; et ex omni mente tua: et próximum tuum sicut teípsum. Dixítque illi: Recte respondísti: hoc fac, et vives. Ille autem volens justificáre seípsum, dixit ad Jesum: Et quis est meus próximus? Suscípiens autem Jesus, dixit: Homo quidam descendébat ab Jerúsalem in Jéricho, et íncidit in latrónes, qui étiam despoliavérunt eum: et plagis impósitis abiérunt, semivívo relícto. Accidit autem, ut sacerdos quidam descénderet eádem via: et viso illo præterívit. Simíliter et levíta, cum esset secus locum et vidéret eum, pertránsiit. Samaritánus autem quidam iter fáciens, venit secus eum: et videns eum, misericórdia motus est. Et apprópians, alligávit vulnera ejus, infúndens óleum et vinum: et impónens illum in juméntum suum, duxit in stábulum, et curam ejus egit. Et áltera die prótulit duos denários et dedit stabulário, et ait: Curam illíus habe: et quodcúmque supererogáveris, ego cum redíero, reddam tibi. Quis horum trium vidétur tibi próximus fuísse illi, qui íncidit in latrónes? At ille dixit: Qui fecit misericórdiam in illum. Et ait illi Jesus: Vade, et tu fac simíliter.”

[“In quel tempo Gesù disse a’ suoi discepoli: Beati gli occhi che veggono quello che voi vedete. Imperocché vi dico, che molti profeti e regi bramarono di vedere quello che voi vedete, e no videro; e udire quello che voi udite, e non l’udirono. Allora alzatosi un certo dottor di legge per tentarlo, gli disse: Maestro, che debbo io fare per possedere la vita eterna? Ma Egli disse a lui: Che è quello che sta scritto nella legge? come leggi tu? Quegli rispose, e disse: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuor tuo, e con tutta l’anima tua, e con tutte le tue forze, e con tutto il tuo spirito; e il prossimo tuo come te stesso. E Gesù gli disse: Bene hai risposto: fa questo e vivrai. Ma quegli volendo giustificare se stesso, disse a Gesù: E chi è mio prossimo? E Gesù prese la parola, e disse: Un uomo andava da Gerusalemme a Gerico, e diede negli assassini, i quali ancor lo spogliarono; e avendogli date delle ferite, se n’andarono, lasciandolo mezzo morto. Or avvenne che passò per la stessa strada un sacerdote, il quale vedutolo passò oltre. Similmente anche un levita, arrivato vicino a quel luogo, e veduto colui, tirò innanzi: ma un Samaritano, che faceva suo viaggio, giunse presso lui; e vedutolo, si mosse a compassione. E se gli accostò, e fasciò le ferite di lui, spargendovi sopra olio e vino; e messolo sul suo giumento, lo condusse all’albergo, ed ebbe cura di esso. E il dì seguente tirò fuori due danari, e li diede all’ostiere, e dissegli: Abbi cura di lui: e tutto quello che spenderai di più te lo restituirò al mio ritorno. Chi di questi tre ti pare egli essere stato prossimo per colui che diede negli assassini? E quegli rispose: Colui che usò ad esso misericordia. E Gesù gli disse: Va’, fa’ anche tu allo stesso modo.”]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

AMA IL PROSSIMO COME HANNO FATTO GESÙ E I SANTI

Per salvarsi è necessario amare il Signore con tutto il cuore e sopra tutti gli interessi del mondo. Ma nessuno s’illuda di amare il Signore con tutto il cuore, se nel medesimo tempo non ama il suo prossimo come se stesso. Un dottore della legge si levò allora a domandare a Gesù: « Chi è il mio prossimo? ». Il Maestro divino, che vede nel cuore di tutti, vide in quello del dottore che l’interrogava la malizia di metterlo in imbarazzo, perciò gli rispose facendogli una domanda, in un modo che equivale a questo: « Se ti trovassi abbattuto sopra una strada deserta, ferito e lì lì per morire dissanguato, da chi vorresti essere soccorso? » « Da tutti: dal primo che passa ». – «Anche se fosse uno sconosciuto? ». « Si ». « Anche da uno straniero, da un nemico politico, da un nemico personale? ». « Da chiunque ». « Ebbene — concluse Gesù — va: e tu pure fa così. Chiunque ha bisogno di te, parente o conoscente, connazionale o straniero, amico e nemico, quegli è il tuo prossimo ». E perché il dottore della legge non dimenticasse mai più il precetto dell’amore del prossimo, narrò di un uomo aggredito dai ladri, sulla strada che da Gerusalemme discende a Gerico. Eccolo dunque, il povero uomo, bastonato e tramortito sul margine brullo e arrossato dal suo sangue. Passò un sacerdote e poi un levita: ma né l’uno né l’altro gli volsero la testa. Passò finalmente uno straniero, un Samaritano che n’ebbe misericordia; gli fasciò le piaghe dopo averle lavate con olio e vino; lo sollevò sulla sua cavalcatura; lo trasportò all’albergo più vicino dove lo assisté per tutta la notte. Il domani, diede all’oste un anticipo, dicendogli: « Non lesinare: se ci sarà da aggiungere, al mio ritorno sarai soddisfatto ». Ma la morale della parabola tocca anche ciascuno di noi, non appena quel dottore della legge: Et tu fac similiter: « anche tu devi fare lo stesso ». Tra quanti ci diciamo Cristiani, chi si sente il coraggio di praticare ogni giorno il Vangelo così? Intorno a noi, sulla nostra strada, ci sono persone che hanno bisogno, che soffrono: come il sacerdote e come il levita della parabola, noi passiamo oltre, tranquillando la coscienza con interessati e comodi pretesti. Così dietro a noi, per causa nostra, molti maledicono la Religione, perché la vedono deformata nella nostra condotta egoistica. Ci siamo fabbricati un Cristianesimo, come un vestito su misura: e la misura sono i nostri comodi e i nostri interessi. Non è questo il Cristianesimo che salva, ma quello di Gesù Cristo e dei Santi. Bisogna, (per quanto concerne il Vangelo di oggi), amare il prossimo come hanno fatto e insegnato i Santi. – 1. COME GESÙ. La grazia più bella che possiamo chiedere è quella che S. Paolo augurava ai Cristiani di Efeso: « Che voi possiate comprendere quale sia la larghezza e altezza e profondità dell’amore di Cristo! Possiate conoscere come esso sorpassi ogni idea che ce ne possiamo formare! » (Ef., III, 18). – Nessun atteggiamento ci fa comprendere meglio i sentimenti di Cristo verso il prossimo di quello che prese nell’ultima cena in ginocchio per lavare i piedi agli Apostoli: l’amore del prossimo è una così bella e così buona cosa che bisognerebbe pregare il prossimo di lasciarsi servire, di lasciarsi lavare i piedi. a) Ricordiamo alcuni detti del Signore. « Il mio precetto è questo: che vi amiate tra di voi » ( Giov., XV, 12). Un solo comandamento ha dunque chiamato suo, ed è quello dell’amor del prossimo. Ed ha aggiunto che riconoscerà per suoi discepoli soltanto quelli che l’eseguiranno fedelmente. Non appena ci diede il precetto, ma ne ha pure accennato l’applicazione e l’estensione. « Chi ha due vesti, ne doni una a chi non ne ha; similmente faccia per il cibo ». « Fate del bene anche a quelli che vi odiano, si perseguitano, vi calunniano ». Ci ha pure spiegato il motivo profondo del nostro amore per il prossimo: « Qualunque cosa avrete fatto per il più oscuro degli uomini, sarà come se l’aveste fatta a me ». Bisogna vedere Dio nel bisognoso: soccorrerlo per amor di Dio, nonostante i suoi possibili torti o indegnità. Ci ha fatto anche balenare la grande ricompensa riserbata agli esecutori del suo ordine d’amore: «Venite, o benedetti dal Padre mio, voi mi avete amato nel prossimo: venite nel Regno che vi è stato preparato » (Mt., XXV, 34). b) Ricordiamo ora alcuni fatti del Signore. Ama i bambini, rimprovera chi glieli allontana; maledice chi li scandalizza; li propone a modello per il loro ingenuo e umile candore. Ama i poveri, di essi si circonda, e non si rifiuta mai alle loro richieste; non avanza tempo neanche per prendersi un boccone, neanche per pregare come vorrebbe. Ama gli ammalati: si commuove davanti alle loro piaghe: trema in cuore ascoltando i loro gemiti; per loro compie quasi tutti i miracoli. Ama gli stranieri: guarisce il servo del Centurione di Cafarnao: la figlia della Cananea; il Samaritano lebbroso. Ama i peccatori e si paragona al buon pastore in cerca della pecorella smarrita, al vecchio padre che aspetta il ritorno del figlio prodigo. Entra in casa di Zaccheo e lo converte: siede sull’orlo del pozzo attendendo la Samaritana: non lascia lapidare la disgraziata adultera. Ama il suo traditore: a tavola gli dà il boccone della preferenza; sì lascia baciare da lui, sapendo già tutto; lo chiama amico mentre è fatto da lui imprigionare. Ama i suoi crocifissori, li scusa per la loro ignoranza, prega per loro, muore per loro. Ha dato la vita per ciascuno di noi che tante volte l’abbiamo crocifisso coi nostri peccati; è morto in vece nostra che gli eravamo nemici; e per questo amore ci ha colmati di ogni benedizione. – 2. COME I SANTI. Quando vogliamo intendere bene il Vangelo, guardiamo alla vita dei Santi.  Guardiamo dunque ai Santi per capire il precetto dell’amore al prossimo. Cominciamo dalla Madonna. Che fece quando seppe di sua cugina la quale si trovava in condizioni speciali? corse a servirla per tre mesi. Che fece quando si accorse della figura che avrebbero fatto nel banchetto di nozze due sposi di Cana, venendo a mancare il vino? tanto pregò che ottenne un miracolo. Un poco almeno di squisita carità ella doveva averla imparata dai suoi genitori, i santi Gioachino ed Anna, i quali dividevano i loro beni in tre parti: la prima era per i poveri; la seconda era destinata ai bisogni del tempio ; la terza se la tenevano per il sostentamento della famiglia. S. Paolo: « Fede, speranza, carità, tre cose: ma la carità è più grande ». Per ciò egli si faceva tutto a tutti. S. Francesco d’Assisi baciò un lebbroso sulla piaga, dopo averlo beneficato; regalò il vestito che aveva indosso a un povero; vendette per i poveri in una chiesa il libro del Vangelo, perché val più metterlo in pratica che saperlo a memoria. S. Vincenzo de’ Paoli, vinto dalla tenerezza del suo cuore alla vista di un giovane forzato, si pose al suo posto e lasciò che quello andasse in libertà. Per alcune settimane stette al banco dei galeotti, legato ai polsi e alle caviglie con catene che gli lasciarono il segno finché campò. Potrei ricordare infiniti altri esempi e del Cottolengo e di Don Bosco, ma preferisco lasciare la parola al S. Curato d’Ars che aveva venduto perfino le lenzuola per i poveri che, se un povero picchiava alla porta, non s’accontentava di mandargli un tozzo di pane, ma usciva per vederlo, confortarlo, accarezzarlo. Il Santo Curato disapprovava l’orgoglio di certi benefattori i quali fanno elemosina per amor del mondo e non per amor di Dio. Diceva: « Molti non fanno elemosina che per essere veduti, lodati, ammirati. Altri si lamentano di non essere mai ringraziati abbastanza. Non istà bene: se fate carità per amor di Dio, vi sì dice grazie o no, poco importa ». Il Santo Curato insegnava a vedere nel prossimo bisognoso il Signore. Diceva: « Molte volte crediamo recare sollievo a un povero, e si trova che quegli è il Signore Nostro. Vedete S. Giovanni di Dio: soleva egli lavare i piedi ai poveri prima di porli a mangiare. Un dì chinandosi sui piedi di un povero, li vide trafitti. Levò il capo commosso a quella vista e gridò: — Siete Voi dunque, o Signore! — E Nostro Signore gli rispose: — Giovanni, io mi compiaccio vedendo come tu hai cura dei miei poverelli. — E disparve ». – Il Santo Curato non voleva sentire che si sparlasse dei poveri. Diceva: « Non si devono mai disprezzare i poveri, perché questo disprezzo ricade su Dio. V’ha chi dice: — Oh questo povero non merita soccorso, perché usa male dell’elemosina che riceve. — Ne faccia pure quell’uso che vuole: il povero sarà giudicato sull’uso che avrà fatto della vostra elemosina; ma voi sarete giudicati sull’elemosina che avreste potuto fare e non avete fatto ». – Pietro I, re di Portogallo, disse: « In quel giorno in cui il re non dona nulla, egli non merita d’essere chiamato re ». E noi diciamo: « Nel giorno in cui il Cristiano non presta alcun aiuto, non compie alcun bene, per il suo prossimo non merita d’essere chiamato Cristiano ». Infatti, quando aveva bisogno d’esser nutrito, Cristo gli ha dato la sua Carne; quando aveva bisogno d’essere dissetato, Cristo gli ha offerto il suo Sangue; quando indebitato fino al collo aveva bisogno di condono, Cristo l’ha assolto. Come qualcuno può credersi Cristiano, se in cambio di questi beni celesti non sa distaccarsi per amor di Dio dai piccoli e passeggeri beni terrestri? « È più felice chi dà, che chi riceve » ha detto il Signore. — IL VERO AMORE DEL PROSSIMO. Gesù istruiva. Lontano sullo sfondo verde biancheggiava al sole la strada che da Gerico ascende a Gerusalemme. Magister, quid faciendo vitam æternam possidebo? Per aver vita eterna, chi non lo sa, bisogna amar Dio. Ma volete sapere se amate veramente Dio? guardate se amate il prossimo. Gesù Cristo ha fuso i due precetti e ne ha fatto uno solo, uno nuovo, che è tutta l’essenza del Cristianesimo: la carità cristiana. Perciò dice S. Paolo: Si charitatem non habuero nihil sum (I Cor. XIII, 2).1. NON OGNI AMORE È CARITÀ. S. Francesco, in uno dei capitoli generali in cui si raccoglievano i frati del terz’ordine per formare la regola, propose che i suoi frati dovessero farsi obbligo di raccogliere da terra e custodire sul cuore tutti i pezzi di carta, o qualsiasi oggetto su cui erano scritte le parole della Consacrazione, o anche i nomi di Dio e del Signore. I nuovi dell’Ordine però non vollero trasmettere ai frati questa espressione, così delicata, di una pietà che non poteva rassegnarsi a vedere le parole sante profanate, e rispose a Francesco che l’adempimento di una tale regola sarebbe troppo incomodo per i frati. Allora fu visto il giullare di Dio, il fratello di Madonna Letizia, farsi triste in volto ed ingoiare un amaro singhiozzo. E da quel momento, come disse l’amico al suo fedele Leone, non fu più che un uomo malato e ferito a morte. Vi sono degli altri oggetti, ben più preziosi dei pezzi di carta, su cui sta scritto non solo il Nome di Dio, ma tutta l’immagine di Dio: il nostro prossimo che soffre. I poveri, gli ammalati, i tribulati, non sono i brandelli di umanità, attraverso alle cui carni martoriate traluce l’immagine di Dio? Ecco perché noi dobbiamo amare il prossimo: e questa intenzione di amare in lui l’immagine di Dio trasforma il nostro amore in carità. Se alcuno amasse una persona perché gli è simpatica, il suo amore non è carità, ma è istinto che guida anche le bestie. Se alcuno amasse una persona solo perché ha ricevuto dei benefici, il suo amore non è carità, ma è riconoscenza. Anche il leone feroce sentì questo affetto, dice la favola, verso la scimmia che gli aveva levato la spina. Se alcuno amasse una persona perché ricca e potente, e comunque perché capace di soccorrerla e proteggerla, il suo amore non è carità, ma è interesse: Charitas non quærit quæ sua sunt (I Cor., XIII, 5). Amor di carità era quello di santa Giovanna di Chantal che curava gli ammalati, li portava nella sua casa, e baciava le loro piaghe.« Ma che cosa fate?! »  le osservarono un giorno.« Io bacio le piaghe di Cristo ».Tutte queste parole non sono altro che una amplificazione di una riga di catechismoche forse avevamo dimenticata: carità è… amare il prossimo come se stessi per amor di Dio.2. NON OGNI CARITÀ È CARITÀ CRISTIANA. Gesù Cristo, imponendoci il precetto dell’amore, disse: Mandatum novum do vobis. Eppure anche in antico si amava il prossimo: ma era un amore secondo la carne o secondo il mondo, e non era l’amore secondo Cristo. « Voglio che vi amiate, dice Gesù, come io ho amato voi ». Sicut dilexi vos. Amar il prossimo, come siamo stati amati da Cristo: ecco la carità cristiana. Ma il divin Maestro ci ha amati fino a sacrificare per noi tutti i suoi interessi, fino al sacrificio completo di sé. Egli, per nostro amore, da ricco si è fatto povero sulla terra brulla: ecco il sacrificiodei suoi beni. Egli da padrone si è fatto schiavo: ecco il sacrificio della sua libertà. Egli dallo splendore del cielo è sceso nello squallore di una stalla, e rimane annichilito in un piccolo tabernacolo: ecco sacrificato l’interesse della sua gloria. E sulla croce, sanguinante e spasimante, non ha sacrificato per noi tutta la sua vita? Ut diligatis invicem sicut dilexi vos (Giov., XIII, 34). Se vogliamo essere Cristiani, così dobbiamo amare il nostro prossimo. Non già come il sacerdote e il levita che passarono accanto al trafitto e gli diedero soltanto una sterile occhiata di compassione, ma come il samaritano che non guardò alla premura dei suoi affari, alla fatica, ai danari; non guardò nemmeno ch’era un suo nemico, un cane di Giudeo. Carità cristiana è carità pronta, ad ogni disinteresse e sacrificio; sacrificio di danaro: quod superest date; sacrificio di onori; e perfino sacrificio della propria vita: et nos debemus pro fratribus animas ponere (I Giov., III, 16). Così il missionario, così la suora che, per amor di Cristo, assistono gli ammalati contagiosi.C’era un buon uomo che ogni mattina alzandosi guardava il crocifisso appeso al suo letto con una sguardo ineffabile, e si faceva questa domanda: « A chi posso essere utile oggi, o Signore? ». Fatevi tutti questa domanda! Fanciulli che vivete ancora nella vostra casa, con la vostra mamma, con vostro padre, coi vostri fratelli; uomini che passate la giornata nelle botteghe o negli uffici; buone donne che conoscete tante sventure, fatevi questa domanda, ogni mattina, mentre vi alzate guardando il crocifisso: « A chi posso essere utile oggi, o Signore? ». Non capite che la vita non ha ragione d’essere se non si fa del bene? Non sentite voi la sera che la nostra giornata è perduta, e perduta per sempre se in essa, nemmeno un poco, siamo stati utili al nostro prossimo? Non sentite voi un’amarezza dopo una giornata d’egoismo, in cui non abbiamo pensato che a noi, non abbiamo vissuto che per noi? Ogni giorno fissiamoci un bene da compiere, secondo il nostro stato e le nostre forze, designiamo la persona che ha bisogno di noi; cerchiamo la maniera più delicata per farle quel po’ di bene di cui ha tanta necessità. Oh, come il buon Dio, così buono, ci sorriderà!LA CORREZIONE Fraterna. Non appena al dottore della legge, il Maestro ha imposto il suo comandamento d’amore: vade et tu fac similiter, ma anche a ciascuno di noi. Non appena per colui che incappa nei ladri di danaro, per colui che ha le piaghe nella carne dobbiamo usare misericordia, ma anche e specialmente per colui che incappa nei ladri di anime, per colui che ha piaghe nello spirito. È sopra queste piaghe che io vorrei insegnarvi a versare olio e vino. Purtroppo, l’egoismo e l’indifferenza ha reso gretto il cuore nostro. E non è raro di udire dalla bocca dei Cristiani la disumana parola di Caino: « Num custos fratris mei ego sum? « Sono io forse il custode del mio prossimo? ». Anima sua, borsa sua; s’arrangi. Chi vuol traviare travii; chi si vuol perdere, si perda: che importa a me? Non m’interessano gli altri, è già fin troppo se bado a me. « Che importa a voi? a voi non interessa? — grida S. Giovanni Crisostomo. — Egli è il fratello vostro, figlio come voi di quel Padre che avete in cielo; rigenerato ancor egli di quel sangue che fu il vostro riscatto; rinato ancor egli da quel fonte, da cui traeste vita di grazia; educato da quella Chiesa che riconoscete per Madre; pasciuto da quella mensa che Cristo vi ha imbandito con la sua carne; destinato egli pure a quell’eredità che sopra le stelle v’aspetta… E avete cuore di dire che a voi non importa, che a voi non interessa? Oh indolenza degna di mille fulmini! » Mille fulminibus vindicanda. Dopo queste parole, non occorre più ch’io vi dimostri la necessità di aiutare il prossimo a salvare l’anima, a risorgere dai peccati, a correggersi dai difetti. Solo resta che della correzione fraterna si esponga chi la deve fare, e come la si deve fare e come la si deve ricevere.1. CHI DEVE FARE LE CORREZIONE. Il profeta Geremia un giorno esclamò: « Io vedo nell’orto un segno misterioso una verga ritta con su la cima come un occhio che vigila » Virgam Vigilantem video (Ger., I, 11). Se nell’orto della parrocchia, della famiglia, dell’officina, dell’anima ci fosse sempre una verga vigilante, pronta a curvarsi e a fermare chi sbaglia! Poiché se tutti sono dall’amore vicendevole obbligati a correggere, alcune persone hanno un obbligo speciale che deriva dall’ufficio e dal posto che tengono. Tra questi, i primi sono i pastori d’anime, i quali devono con ogni sforzo impedire ai fedeli affidati alla loro cura spirituale di cadere nell’abisso del peccato e dell’inferno. Guai al sacerdote che per timore, per vergogna, per compiacenza, non alza la voce. Guai a me, se starò muto davanti alla vostra rovina! Insta opportune, importune, argue, obsecra increpa în omni patientia et doctrina (II Tim., IV, 2). Poi vengono i genitori, che devono considerare uno dei loro più sacri doverì, ed una delle loro più temibili responsabilità, quella di formare la mente e il cuore dei loro figliuoli. Se per troppa debolezza li lasceranno crescere capricciosamente, un giorno la loro memoria sarà maledetta. Non raramente s’incontrano persone che dicono, singhiozzando: « Oh se mio padre fosse stato più severo! Oh se mia madre si fosse curata più attentamente di me… ora è troppo tardi ». Perciò San Paolo inculca: « Educate illos in disciplina et in correptione Domini » (Ef., VI, 4). Ci sono inoltre i padroni, i quali devono dare ai loro domestici ed operai non solo la ricompensa materiale, ma pure l’esempio delle virtù cristiane, ed impegnarsi coi loro buoni consigli e rimproveri a farli camminare per la strada del retto, del giusto, dell’onesto. Infine, dirò che anche gli amici hanno uno speciale obbligo nella correzione. Altrimenti, a che gioverebbe l’amicizia? altrimenti cosa significherebbe il detto santo: chi trova un amico, trova un tesoro? — Sovente la parola di una persona che si ama ci fa più impressione, e s’insinua meglio nel cuore nostro. – 2. COME SI DEVE CORREGGERE. Ma come costoro debbono correggere, per riuscire a far del bene? 1) Con la preghiera. — Salvare un’anima, distogliere dal male, sollevare dal peccato, non sono cose a cui bastano le nostre forze. Io so di alcune mamme che non comandano mai nulla di importante ai loro figli, e non fanno a loro nessun rimprovero vero senza aver prima pregato il loro Angelo custode. 2) Con la prudenza. — E la prima cosa che prudenza vuole è che il correttore sia scevro di quel difetto che riprende negli altri. Con le mani unte non si tolgono le macchie. Se un padre è un bestemmiatore non avrà certo efficacia quando corregge suo figlio a non bestemmiare. Un avaro è ridicolo quando raccomanda la generosità. Hypocrita! Ejice primum trabem de oculo tuo (Mt., VII, 5). La prudenza vuole ancora che si studi il modo più adatto alla persona che sbaglia. È passato in proverbio un medico che si metteva in tasca varie ricette, già scritte per molte sorta di malattie. Al momento opportuno cacciava la mano in tasca, e tirando fuori la prima che ne veniva, la porgeva al malato dicendo: « Dio te la mandi buona ». Non si medicano, né si correggono tutti a una maniera. Per alcuni è necessario una correzione aspra, altri non sopportano che quelle lievi. Talvolta bisognerà versare vino che bruci e disinfetti, talvolta olio che lenisca. Infine, la prudenza vuole ancora che la correzione non sia fatta in pubblico, per son umiliare, ma in segreto; ma con amore. 3) Con fortezza. — Guai al chirurgo che si lascia impietosire dai gemiti del paziente! Ma guai anche a quelli che, costretti dal loro ufficio, hanno timore a correggere! Ricordate S. Ambrogio che non tremò davanti all’Imperatore Teodosio, ma fermandolo sulla soglia del duomo di Milano gli disse: « Così non potete entrare nel tempio di Dio! fate prima penitenza ». Ricordate il profeta Natan, che non temé di entrare nella reggia di Davide a dirgli: Tu es ille vir! Ricordate Giovanni il Battista che ci rimise la testa, ma non balbettò a dire all’adultero monarca: Non licet! – 3. COME RICEVERE LE CORREZIONI. Taide, donna famosa nell’antichità per le sue scorrettezze, invecchiata già e sparuta, si presentò allo specchio, e vedutasi qual non voleva vedersi rugosa e sfiorita, infranse tutti gli specchi della casa e non volle più vederne uno. La correzione veritiera è come uno specchio piano che mostra noi a noi, che mette davanti alle nostre pupille le nostre deformità. Chi odia lo specchio è perché vuole rimanere sporco, chi non ama la correzione è perché vuole rimanere nel vizio. La correzione invece si deve accogliere: 1) Con umiltà: non scusare il proprio fallo, ma sinceramente ammetterlo, poiché Salomone dice che il giusto è il primo ad accusar se stesso. Justus prior est accustor sui (Prov., XVIII, 17). 2) Con docilità. — Non basta accogliere gli avvisi, bisogna poi studiarsi di metterli in pratica. Un giorno Dio ci domanderà conto di tutte le correzioni che ci furono date. 3) Con riconoscenza. — Serbiamo riconoscenza al medico che guarisce il corpo se pure con operazioni dolorose, serbiamo riconoscenza al maestro che ci corregge i compiti e le parole nostre, serbiamo riconoscenza anche al bambino che ci indica la vera strada quando ci troviamo sulla falsa: perché riconoscenza non serberemo anche per chi ci cura i mali dell’anima, per chi corregge gli errori del cuore, per chi c’insegna la dritta via del cielo? Se voi aveste sul volto una macchia che vi rendesse ridicoli, non sareste contenti che qualcuno vi avvisasse? Ma quanto è raro trovare uomini che amino d’essere ripresi! Argue sapientem et diligit te (Prov., IX, 8). –  Ritorniamo alla parabola. « Abbi cura di lui: — disse il samaritano all’oste, porgendogli due danari. — E quanto spenderai di più te lo pagherò al mio ritorno ». Pagare per guarire un altro. Questa carità squisita è fatta da molte anime nell’ordine spirituale. Quando ogni correzione sembra infruttuosa, si fanno avanti queste generose e promettono a Dio, divino albergatore, di pagare a costo di sacrifici tutte le grazie che Egli si degnerà di elargire all’anima traviata. Buone mamme che offrono i loro mali e la loro vita per la conversione dei loro figli; buone spose e sante sorelle che liete sopportano lunghe giornate di patimento per la salvezza dello sposo o del fratello. Candide suore dei conventi di clausura che soffrono e scontano i peccati di gente che non conoscono nemmeno!… Costoro sono i più somiglianti al samaritano. Vade et tu fac similiter.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Exod XXXII: 11;13;14

Precátus est Moyses in conspéctu Dómini, Dei sui, et dixit: Quare, Dómine, irascéris in pópulo tuo? Parce iræ ánimæ tuæ: meménto Abraham, Isaac et Jacob, quibus jurásti dare terram fluéntem lac et mel. Et placátus factus est Dóminus de malignitáte, quam dixit fácere pópulo suo.

[Mosè pregò in presenza del Signore Dio suo, e disse: Perché, o Signore, sei adirato col tuo popolo? Calma la tua ira, ricordati di Abramo, Isacco e Giacobbe, ai quali hai giurato di dare la terra ove scorre latte e miele. E, placato, il Signore si astenne dai castighi che aveva minacciato al popolo suo.]

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, propítius inténde, quas sacris altáribus exhibémus: ut, nobis indulgéntiam largiéndo, tuo nómini dent honórem.

[O Signore, Te ne preghiamo, guarda propizio alle oblazioni che Ti presentiamo sul sacro altare, affinché a noi ottengano il tuo perdono, e al tuo nome diano gloria.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

Communis
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessione dicéntes:

(È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode:)


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps CIII: 13; 14-15

De fructu óperum tuórum, Dómine, satiábitur terra: ut edúcas panem de terra, et vinum lætíficet cor hóminis: ut exhílaret fáciem in oleo, et panis cor hóminis confírmet.

[Mediante la tua potenza, impingua, o Signore, la terra, affinché produca il pane, e il vino che rallegra il cuore dell’uomo: cosí che abbia olio con che ungersi la faccia e pane che sostenti il suo vigore.]

 Postcommunio

Orémus.
Vivíficet nos, quǽsumus, Dómine, hujus participátio sancta mystérii: et páriter nobis expiatiónem tríbuat et múnimen.

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che la santa partecipazione di questo mistero ci vivifichi, e al tempo stesso ci perdoni e protegga.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

FESTA DEL CUORE IMMACOLATO DELLA SS. B. VERGINE MARIA (2022)

FESTA DEL CUORE IMMACOLATO DELLA SS. B. VERGINE MARIA (2022)

La devozione al Cuore Immacolato.

(Dom P. Guéranger, l’Anno liturgico, vol. II, Ed. Paoline, Alba, 1957)

La devozione al Cuore Immacolato di Maria è antica come il Cristianesimo. Lo Spirito Santo l’insegnò per mezzo di san Luca, l’evangelista dell’infanzia del Salvatore: « Maria conservava nel suo Cuore e meditava tutte queste cose ». « E la Madre di Gesù conservava tutte queste cose nel suo Cuore» (Lc. II, 19; 51). La devozione, che porta i fedeli a rendere a Maria l’onore e l’amore che a Lei si devono, ha qui la sua origine. I più grandi Dottori della Chiesa cantarono le perfezioni del suo Cuore: sant’Ambrogio, sant’Agostino, san Giovanni Crisostomo, san Leone, san Bernardo, san Bonaventura, San Bernardino da Siena, le due grandi monache sante, Gertrude e Metilde… Nel secolo XVII, san Giovanni Eudes « padre, dottore e apostolo del culto al Sacro Cuore » (Bolla di Canonizzazione) si fece dottore e apostolo del culto al Cuore purissimo di Maria e dal dominio della pietà privata, lo introdusse nella Liturgia cattolica.

Oggetto della devozione.

Di questa devozione egli ci dice: « Nel Cuore santissimo della prediletta Madre di Dio, noi intendiamo e desideriamo soprattutto venerare e onorare la facoltà e capacità naturale e soprannaturale di amare che la Madre dell’amore tutta impegnò nell’amare Dio e il prossimo. Poiché sia che il cuore rappresenti il cuore materiale che portiamo in petto, organo e simbolo dell’amore, o piuttosto la memoria, la facoltà d’intendere con cui meditiamo, la volontà, che è radice del bene e del male, la finezza dell’anima per la quale si fa la contemplazione, in breve, tutto l’interno dell’uomo (noi non escludiamo alcuno di questi sensi) intendiamo e vogliamo soprattutto venerare e onorare prima di ogni cosa e sopra ogni cosa, tutto l’amore e tutta la carità della Madre del Salvatore verso di Dio e verso di noi » (Devozione al Sacro Cuore di Maria, Caen, 1650, p. 38 e Cuore ammirabile, 1. I, c. 2). – La cosa più dolce per un figlio è onorare la madre e pensare all’amore di cui è stato oggetto. San Bernardo, parlando del Cuore di Gesù, ci dice: « Il suo Cuore è con me. Il Cristo è mio capo. Come potrebbe non essere mio, tutto quello che appartiene alla mia testa? – Gli occhi della mia testa sono miei e allo stesso modo questo cuore spirituale è veramente mio cuore. È veramente mio e io possiedo il mio cuore con Gesù» (Vigna mistica, c. 3). Possiamo dire allo stesso modo del Cuore di Maria: una madre è tutta di suo figlio e gli appartiene con i suoi beni, il suo amore, la sua vita stessa. – Un figlio può sempre contare sul cuore della madre. – Noi tutti siamo figli della Santa Vergine, che ci accolse con Gesù nel suo seno nel giorno dell’Incarnazione. Ci generò nel dolore sul Calvario e ci ama in proporzione di quanto a Lei siamo costati. – Essa ha offerto al Padre, per noi, quanto aveva di più caro. Gesù! Ha detto il suo fiat per l’immolazione, lo ha dato a noi e come l’avrebbe dato senza dare se stessa?

Confidenza nel Cuore Immacolato.

Maria ridice a noi le parole di Gesù: Venite a me voi tutti e vi consolerò… Ci sorride e ci chiama come a Lourdes e nessuno, per la sua indegnità, ha motivo di starne lontano. Il Cuore di Maria fu sede della Sapienza, dimora per nove mesi del Verbo fatto carne, formò il Cuore stesso di Gesù e gli insegnò la misericordia verso gli uomini, pulsò all’unisono col Cuore di Gesù e per quel cuore fu ornato dei più preziosi doni di grazia. Cuore materno per eccellenza, resta il rifugio dei poveri peccatori. Per questo fu fatto immacolato e ne sgorgò soltanto sangue purissimo, il sangue dato a Gesù, perché lo versasse per la nostra salvezza. È il Cuore depositario e custode delle grazie meritate dal Signore con la sua vita e con la sua morte e sappiamo che Dio non distribuì mai, né distribuirà grazie ad alcuno se non per le mani e il Cuore di Colei, che è tesoriera e dispensatrice di tutti i doni. È il Cuore, infine, che ci è stato dato con quello di Gesù, « non solo per modello, ma perché sia il nostro, perché, essendo membra di Gesù e figli di Maria, dobbiamo avere con il nostro Capo e con la nostra Madre un solo cuore e dobbiamo compiere tutte le nostre azioni con il Cuore di Gesù e di Maria » (S. Giov. Eudes, Cuore ammirabile, 1. XI, c. 2).

Consacrazione al Cuore Immacolato.

Se la consacrazione individuale di un’anima a Maria le assicura le grazie più grandi, quali frutti non potremo attendere dalla consacrazione del genere umano fatta dal Sommo Pontefice? La Vergine stessa si degnò farci sapere che desiderava tale consacrazione e, rispondendo al desiderio della Madonna di Fatima, S. S. Pio XII, il giorno otto dicembre 1942, pieno di confidenza nell’intercessione della Regina della pace, solennemente consacrò il genere umano al Cuore Immacolato di Maria. Le nazioni cattoliche si sono unite al supremo Pastore.

La festa del Cuore di Maria era stata concessa a parecchie diocesi e a quasi tutte le Congregazioni religiose, che la celebravano in date differenti. S. S. Pio XII l’estese a tutta la Chiesa e la fissò al giorno 22 Agosto.

La maternità di Maria data dall’Incarnazione, fu proclamata in modo solenne sul Calvario da Gesù morente. Dandoci sua madre. Gesù ci diede la prova più grande del suo amore e Maria, accettando di divenirlo, ci mostrò quanto il suo Cuore possedesse di tenerezza e di misericordia. Maria non si sentì mai madre come in quel momento in cui vedeva il Figlio soffrire e morire in croce, intendeva che ci confidava e ci donava a Lei, e accettò di estendere l’affetto che nutrì in vita per Gesù, non solo su san Giovanni, ma su noi tutti, sui carnefici del suo Figlio, su tutti quelli che erano stati causa della morte di Lui. – Quando il centurione venne ad aprire il cuore di Gesù già morto, la spada predetta dal vecchio Simeone penetrò nell’anima, nel Cuore di Maria e produsse una ferita che, come quella del Salvatore, resterà sempre aperta.

Santa Messa

Paramenti bianchi – Doppio di II Classe

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

 Hebr IV: 16.
Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio opportúno.


[Accostiamoci al trono delle grazie con piena e sicura fiducia, per avere misericordia e trovare grazia che ci soccorrano al tempo opportuno]

XLIV: 2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea regi.
Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio opportúno.

[Vibra nel mio cuore un ispirato pensiero, mentre al Sovrano canto il mio poema].

Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio opportúno.

[Accostiamoci al trono delle grazie con piena e sicura fiducia, per avere misericordia e trovare grazia che ci soccorrano al tempo opportuno]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui in Corde beátæ Maríæ Vírginis dignum Spíritus Sancti habitáculum præparásti: concéde propítius; ut ejúsdem immaculáti Cordis festivitátem devóta mente recoléntes, secúndum cor tuum vívere valeámus.

[O Dio onnipotente ed eterno, che nel cuore della beata Vergine Maria hai preparato una degna dimora allo Spirito Santo: concedi a noi di celebrare con spirito devoto la festa del suo cuore immacolato e di vivere come piace al tuo cuore].

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XXIV: 23-31
Ego quasi vitis fructificávi suavitátem odóris: et flores mei, fructus honóris et honestátis. Ego mater pulchræ dilectiónis, et timóris, et agnitiónis, et sanctæ spei. In me grátia omnis viæ et veritátis: in me omnis spes vitæ, et virtútis. Transíte ad me omnes qui concupíscitis me, et a generatiónibus meis implémini. Spíritus enim meus super mel dulcis, et heréditas mea super mel et favum. Memória mea in generatiónes sæculórum. Qui edunt me, adhuc esúrient: et qui bibunt me, adhuc sítient. Qui audit me, non confundétur: et qui operántur in me, non peccábunt. Qui elúcidant me, vitam ætérnam habébunt.

[Come una vite, io produssi pàmpini di odore soave, e i miei fiori diedero frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell’amore, del timore, della conoscenza e della santa speranza. In me si trova ogni grazia di dottrina e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, voi tutti che mi desiderate, e dei miei frutti saziatevi. Poiché il mio spirito è più dolce del miele, e la mia eredità più dolce di un favo di miele. Il mio ricordo rimarrà per volger di secoli. Chi mangia di me, avrà ancor fame; chi beve di me, avrà ancor sete. Chi mi ascolta, non patirà vergogna; chi agisce con me, non peccherà; chi mi fa conoscere, avrà la vita eterna].

Graduale

Ps. XII: 6
Exsultábit cor meum in salutári tuo: cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi.

[Il mio cuore esulta nella tua salvezza. Canterò al Signore perché mi ha beneficiato, inneggerò al nome del Signore, l’Altissimo.]

Ps XLIV: 18
Mémores erunt nóminis tui in omni generatióne et generatiónem: proptérea pópuli confitebúntur tibi in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[Ricorderanno il tuo nome di generazione in generazione, e i popoli ti loderanno nei secoli per sempre. Alleluia, alleluia].

Magníficat ánima mea Dóminum: et exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo. Allelúja.

Luc 1: 46; 47

[L’anima mia magnifica il Signore, e si allieta il mio spirito in Dio, mio Salvatore. Alleluia].

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann XIX: 25-27
In illo témpore: Stabant juxta crucem Jesu mater ejus, et soror matris ejus María Cléophæ, et María Magdaléne. Cum vidísset ergo Jesus matrem, et discípulum stantem, quem diligébat, dicit matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus. Deinde dicit discípulo: Ecce mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua.

[In quel tempo, stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Maria Maddalena. Gesù, dunque, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che amava, disse a sua madre: «Donna, ecco tuo figlio». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

OMELIA

[P. V. STOCCHI, S. J.: “DISCORSI SACRI”, Tipogr. Befani, ROMA, 1884]

DISCORSO XXIV.

SANTISSIMO CUORE DI MARIA

Qui me invenerit, inveniet vitam.

(PROV. VIII, 35.)

Fino da quando da chi mi tiene il luogo di Dio mi fu posto sopra le spalle il carico alla natura poco soave, di predicare la parola di Dio in tanta iniquità di tempi, il mio cuore e i miei occhi si conversero subito alla stella benedetta del mare, alla Madre immacolata di Dio e Madre nostra Maria, e posi incontanente le mie povere fatiche sotto gli auspici e sotto il patrocinio di Lei, alla quale fino dagli anni primi della mia vita ho dedicato tutte le cose mie e me medesimo. Da Lei Madre di grazia, di luce, di fortezza e di verità sperai forza e vigore, da Lei grazia e virtù, da Lei efficacia e dono per condurre le anime a Gesù Cristo, da Lei insomma ogni cosa, e se nulla hanno operato le povere mie fatiche, se qualche frutto ha secondato il sudore e il travaglio della parola di Dio seminata da me, tutto il inerito è stato sempre di Maria della quale la misericordia e il patrocinio e nel corpo e nell’anima tocco tutto giorno con mano. Essendo così, è naturale che io ardentemente desideri di fare alcuna cosa che sia cara a questa Vergine gloriosa per attestarle la mia gratitudine; e fra le altre è mio costume di argomentarmi di tirare a Lei i cuori di tutti persuadendo a tutti che trovata Maria, troveranno la vita conforme a quello: qui me invenerit inveniet vitam. E per riuscire in questo intento soavissimo io ho per costume di non lasciare che trascorra alcun corso di predicazione, nella quale io abbia parte, senza favellare del Cuore benedetto di Maria, additandolo a tutti come porto unico e soavissimo di pace, di sicurezza, di misericordia. Tale io ho trovato il Cuore di Maria per me, tale l’ho sempre mostrato agli altri, tale a voi, se mi udirete, lo mostrerò stamattina signori miei. Vi parlerò del cuore di Maria pianamente e devotamente, quanto mi sarà possibile, cercando di innamorarne tutti e specialmente i poveri tribolati, gli afflitti e i peccatori, e beato me se riuscirò nell’intento. Innamorarsi del Cuore di Maria è come far suo quel Cuore benedetto; chi ha fatto suo il cuore di chi che sia è padrone di tutto l’uomo. E che bramerà di vantaggio chi abbia fatto suo il Cuor di Maria?

1. È cosa che si ripete ogni giorno nella santa Chiesa cattolica, e che mille volte ridetta torna sempre gradita come se nuova fosse al popolo cristiano, che nulla è più amabile più soave più salutare del pensiero, del nome, della memoria della Madre di Dio. Maria! Basta pronunziare questo nome perché palpiti ogni cuore, perché sorrida ogni labbro, perché ogni tristezza si dilegui, perché ogni petto si riempia di giubilo. Come, se dando luogo i nembi, la stella del mattino scintilla tremula nell’azzurro del firmamento, o come se dopo la pioggia si colori tra le nubi la variopinta gloria dell’iride, così dice Bernardo, tra le tenebre di questa terra sgombrano le nuvole, riede il sereno, chetano i turbini e fiorisce la pace, quando s’invoca Maria: Maria nella quale tutto innamora, il nome, il grado, la grazia, la gloria, la dignità. Tutto questo è verissimo e io mi glorio di predicarlo, né tacerò le glorie e le misericordie di tanta Madre, finché il cuore nel petto mi palpita, e si snoda alla parola la lingua. Con tutto ciò dilettissimi dopo avere detto Maria, provatevi a dire Cuore di Maria, voi sentite subito di avere detto qualche cosa di più caro, di più tenero, di più soave che dicendo semplicemente Maria. Accade a noi o Madre benedetta quando menzioniamo il tuo Cuore quello che ci accade quando menzioniamo il Cuore del tuo Figliuolo. Io dico Gesù, e il nome di Gesù è miele alle labbra, melodia alle orecchie, giubilo al cuore, ma se dopo avere detto Gesù passo innanzi e dico Cuore di Gesù, sento l’anima mia essere percossa di affetti insoliti verso il mio Redentore e me ne rendo questa ragione. Quando io dico Gesù, mi si rappresenta al pensiero nella pienezza della sua magnificenza della sua potestà il Verbo incarnato. Lo vedo quindi non solamente uomo ma Dio, non solamente amico e fratello, ma Pontefice e Re, non solamente Padre ma Giudice. Non così quando dico Cuore di Gesù. Il cuore è simbolo dell’amore, è sede dell’amore, è organo dell’amore. Chi dice Cuore dice amore, chi vede il cuore vede l’amore, e quando nomino il Cuore di Gesù, sparisce il Giudice, il Re, l’Onnipotente a cui ogni ginocchio si curva in Cielo ed in terra, e vedo solo l’amante delle anime, il Pastor buono, il vero padre ed amico dell’uman genere morto in croce per me. E anche in questo o Madre benedetta Voi vi rassomigliate al vostro Figliuolo. Io dico Maria, e nominandovi vedo Voi tutta quanta. Non vedo solamente la più amabile e misericordiosa creatura che abbia fatto il Signore, ma vedo ancora la augusta Regina della terra e del Cielo, l’innalzata al consorzio della Trinità sacrosanta, la piena e soprappiena di santità. E allora sento di amarvi, ma all’amore si mesce la riverenza, e per alta ammirazione la mia fronte si curva davanti a Voi. Eppure noi abbiamo bisogno di accostarci a Maria con fidanza filiale. E però passiamo avanti e diciamo Cuore di Maria. Ed ecco alla menzione del cuore sparisce la grande, la Regina, la sublime, la tutta santa, e altro più non vediamo fuorché la Madre piena di misericordia e di amore. Vengono quindi al dolce richiamo del tuo cuore, vengono gli uomini al tuo cospetto o Maria e ti raccontano i loro dolori e ti partecipano le gioie, ti svelano le proprie miserie e ti chiedono le tue ricchezze, i nostri peccati, i nostri peccati medesimi non ci sgomentano vedendo il tuo cuore, e scoprendoli a te, sentiamo rilevarsi l’anima e speriamo la misericordia e il perdono. E questo è il motivo perché in questi miseri tempi Maria ha svelato straordinariamente il suo Cuore. Ha voluto alla nostra generazione pervertita dalla empietà offrire un’esca dolcissima e un porto di salute e di pace. E gli uomini hanno inteso quest’arte di amore, e veduto il Cuor di Maria come trovato avessero un centro di attrazione invincibile, a quello sono corsi e in quello hanno trovato vita, salute, grazia, ogni bene: e più facile sarebbe contare le stelle del cielo e le arene del mare che le misericordie e le grazie d’ ogni maniera, che la devozione al suo Cuore ha espugnato a Maria. No, quando si fa capo al suo Cuore, Maria non resiste.

2. Ma entriamo alquanto più addentro e scandagliamo la ragione intima di tanta forza di attraimento che esercita sugli uomini il Cuore benedetto di Maria e la troveremo, per cosi dire, naturale nell’ordine soprannaturale della grazia. Mi aiuti Maria perché il concetto della mente esprima adeguatamente la lingua. Uno degli spettacoli più misteriosi e più teneri che la natura appresenti è l’amore dei figliuoli verso la madre, e viceversa l’amore della madre verso i figliuoli. Ferì questo spettacolo la mente e gli occhi del divino Crisostomo, e lo espresse con viva eloquenza così. Mostra a un pargoletto lattante ancora e ignaro di tutto una regina coronata di gemme e vestita di oro dall’una parte, dall’altra mostragli la sua madre avvolta nei cenci e coperta di povertà e di squallore e vedrai. Nulla intende quel piccioletto nulla conosce, ma con tutto ciò non cura la regina, la sprezza, la sdegna, la risospinge, ma non così colla madre. Si ravviva tutto vedendola, brilla, sorride, e protendendo verso di essa con l’animo la persona, si scaglia e quasi si avventa per abbracciarla. Che è mai questa attrattiva, questo impeto e questa foga che rapisce quell’animo inconsapevole verso la madre? Che sia, non domandare che io non lo so, so che è cosa verissima e potentissima ed è un senso, un istinto ideato dalla mente divina e dalla divina mano inserito nell’anima, che stabilisce, corrobora, illeggiadrisce le relazioni naturali tra figlio e madre, tra madre e figlio. Essendo così, qual luogo tiene Maria nell’ordine mirabile della redenzione e della grazia? Tiene il luogo di Madre. Mirabil cosa. Gesù Cristo è venuto in terra per stabilire tra gli uomini una famiglia collegata coi vincoli dell’amore e della fede, la quale in terra si inizi, e si consumi e perfezioni nel Cielo. In questa famiglia è un Padre ed è pio, un primogenito ed è Gesù Cristo, fratelli moltissimi di ogni popolo, d’ogni tribù, di ogni lingua. Ma alla buona economia della casa è richiesto che ogni famiglia abbia una madre, che divida col padre l’autorità, che vegli con occhio amoroso la prole, e sopraintenda agli uffici più intimi e più delicati di casa. Ora Dio non ha voluto che a questa gran famiglia della sua Chiesa una madre mancasse, ed ottima di tutte le madri le ha dato Maria. E Madre la saluta la Chiesa, e il vocabolo col quale ogni Cristiano appella Maria è il dolce nome di Madre. Né questa è squisitezza o esagerazione mistica, ma verissima dottrina cattolica: e i Padri di tutti i secoli con consenso pienissimo insegnano che, come Gesù Cristo è il nuovo Adamo miglior dell’antico, Capo del genere umano rigenerato, così è Maria l’Eva novella Madre per grazia di tutti quelli che Gesù Cristo rigenerò alla salute; e sono celebri i paralleli che tra Eva e Maria tessono Ireneo, Epifanio, Agostino e Bernardo. Voleva quindi ogni ragione che, come nell’ordine della natura Dio inserisce nei figli un attraimento arcano verso la madre per cui anche il pargoletto inconsapevole la discerne tra mille e a lei corre e in lei si abbandona, così nell’ordine della grazia un affetto arcano, una propensione quasi istintiva fosse inserita verso Maria. E questo affetto questa propensione lo Spirito Santo medesimo inserisce nei petti cristiani sino da allora che nel santo Battesimo muoiono all’antico Adamo e rinascono al nuovo Adamo che è Gesù Cristo. In quelle acque sacrosante nelle quali veniamo rigenerati, insieme colla grazia santificante e cogli abiti delle virtù soprannaturali che ci si infondono, ci si infonde ancora l’abito dell’amore a Maria. E per negare che questo affetto ce lo troviamo quasi inserito nel cuore bisogna chiudere gli occhi alla luce, bisogna negare quello che ci dice ragionando altamente nel nostro cuore l’intimo senso. Pigliare quel pargoletto e quella pargoletta che pendono ancora dal seno materno, mostrate loro la immagine di Maria. Vedrete un’arcana simpatia, una tenerezza, una propensione, un attraimento di quell’anima innocente verso la benedetta fra le donne. Insegnategli a giungere le tenere mani e a balbettare con labbro infantile Maria, e vedrete con quanta facilità con quanto diletto quel dolce nome si stampa in quella memoria e in quel cuore, e dal cuore viene sul labbro, e sarete costretti a dire che lo Spirito Santo diffuso nei loro cuori generi questo affetto, generato lo nutrisca, nutrito lo perfeziona. Quindi è che questo affetto, se il peccato e l’iniquità non lo spengono, insieme colla fede cresce cogli anni e ci appresenta quello spettacolo che tutto giorno e agli altri porgiamo noi stessi, e noi stessi ammiriamo negli altri. Se ci stringe un pericolo, chi invochiamo per soccorso? Maria. Se ci rallegra insolazione chi ringraziamo per gratitudine? Maria. Se un ci preme, chi invochiamo per refrigerio? Maria. Se ci assedia una necessità a chi ci volgiamo per sovvenimento? A Maria. Si vede, o si vede e si tocca con mano in questa gran famiglia cristiana quello che si vede in ogni ben composta famiglia, e come in quella in ogni necessità, in ogni pena, in ogni consolazione, i figli fanno capo alla madre e tratti quasi da una dolce necessità ne la chiamano a parte; così anche in questa. E come nella famiglia un figlio che non ama la madre, che la disconosce e le fa villania, si ha in conto di mostro snaturato e maledetto dagli uomini e da Dio; così fra i Cristiani quelli che non amano, che non curano, che hanno alieno e avverso l’animo da Maria, sono pochi perché sono mostri, e i mostri non sono mai un gran numero. Anche fra i Cristiani di vita prodigata e perduta troverete di rado alcuno che non serbi nel petto qualche scintilla di amore a Maria, e questo è pegno di salute e ancora di misericordia, e basta perché non se ne debba disperare la conversione. Ma se qualcuno se ne trova o Dio guai a lui; fa orrore, mette spavento appunto come un mostro, e fra i segni di riprovazione non ce n’è alcuno che sia più terribile di una non so quale alienazione e avversione di animo da Maria. Questa avversione questo allenamento si è sempre visto negli eresiarchi più atroci e più empì, e Lutero diceva, siccome è noto, tutta l’anima mia si ribella e non posso patire in pace che mi si dica che la mia speranza è Maria. Infelice, cui il demonio invasava il petto del veleno e dell’odio che lo consuma contro la sua nemica. Quest’odio vediamo rinnovellato ai dì nostri nei settari che si sono venduti alle congreghe d’inferno, e fanno guerra a Maria, ne bestemmiano il nome, ne distruggono il culto e le immagini, anime reprobe e destinate all’inferno. Da questi infuori, regna in tutti i cuori cattolici l’amore, la tenerezza e una propensione filiale verso Maria. Ma che dico solo tra i Cattolici? Domandate donde trae suo principio la conversione degli eretici alla Chiesa Cattolica e sentirete che il primo passo fu un pio affetto che sentirono nascersi in petto verso Maria. Interrogate il missionario che si aggira per le barbare spiagge dell’Australia e della Polinesia come fa ad attrarre a sé quei barbari e di bestie farli uomini e di uomini Cristiani? Sotto un padiglione di verzura adorna di veli e di fiori che dà il paese, campeggia una cara immagine di Maria. Il selvaggio dal folto dei macchioni e dal cupo degli antri dove si intana vede quella cara sembianza e si accosta, e attonito domanda chi sia quella matrona sì augusta e sì amabile? Ode che è la Madre di Dio, e tirato e vinto quasi da catena amorosa dal nome di Maria è condotto a Gesù Cristo e alla Chiesa. Non vi faccia meraviglia. L’anima, disse sapientemente Tertulliano, è naturalmente cristiana, e avendo col Cristianesimo proporzione sì grande, non può non avere propensione naturale verso chi è la Madre di Gesù Cristo e del Cristianesimo, delle membra e del capo. Ma se Maria è la Madre universale andate al suo cuore. La madre più che altro si governa col cuore, e se volete espugnarla ragionate poco e date opera di guadagnarle il cuore: guadagnato il cuore è già vinta. Maria è Madre andiamo al suo cuore, preghiamola pel suo Cuore, espugniamo il suo Cuore: la impresa è facile, ed otterremo ogni cosa.

3. Ma Dio tanto amore ha infuso e propensioni affettuose così mirabili nel cuore del popolo cristiano verso Maria, avrà poi lasciato imperfetta l’opera sua, e non avrà acceso una fiamma di amore corrispondente nel cuore di tanta Madre? Voi intendete bene che questa mia domanda significa questo. Se ci ama Maria, e il nostro cuore ha risposto a quest’ora, se ci ama Maria? E non è il medesimo dire Maria e dire la più tenera e amorosa di tutte le madri? Le opere di Dio sono perfette nell’ordine della natura, ma nell’ordine della grazia sono perfette infinitamente di più. Ora la natura con la sua mano innesta nel petto dei figli l’amore verso la madre, ma nel cuore delle madri inserisce un amore molto più veemente molto più tenero, molto più sviscerato e costante. Vedrete quindi moltissimi figli disamorati delle loro madri, ma madri che non amino i figli le troverete rarissime, e appena qualcuna che vi metterà come snaturata sdegno e ribrezzo. Ora volendo Dio dare in Maria al mondo una madre, inserì nel cuore degli uomini un grande amore di Lei, ma nel cuore di Lei accese verso di noi un amore che non ha paragone altro che coll’amore che per noi arde nel cuore di Gesù. E per questo affetto cominciò il Signore l’opera sua fino da quando questa futura Madre di Dio e degli uomini fu concetta, e le collocò in petto un cuore somigliante a quello che da Lei preso avrebbe Gesù, perché Maria, dice sapientemente S. Efrem Siro, è un’opera fatta solamente pel Verbo incarnato, di forma tale che se il Verbo non si fosse dovuto incarnare Maria non sarebbe stata nel mondo introdotta. A questo cuore poi lavorato apposta per amare gli uomini, Gesù medesimo che creato lo aveva, dette colla sua mano stessa la perfezione e la tempera, e lo empié del suo amore medesimo e lo scaldò della sua medesima fiamma. E chi ne può dubitare? Gesù prese carne dei sangui purissimi sgorgati dal Cuore di Maria, Gesù albergò nove mesi nel santuario verginale dell’utero di Maria, e quei due cuori palpitarono di un medesimo palpito e vissero di una medesima vita. Che faceva quei nove mesi che tenne compresso il claustro delle viscere materne, che faceva dico, il Cuore di Gesù? Ardeva di amore smisurato ed ineffabile verso i figliuoli degli uomini. Come dunque non doveva accendere il Cuore di Maria del suo medesimo ardore e temperarlo alla fucina delle fiamme che consumavano il suo? Ma che sarà stato poi durante quei trentatré anni che Ella dimorò con Gesù pellegrina celeste sopra la terra? Ci dice il Vangelo che questa Verginella prudente teneva sempre gli occhi in quel modello divino e tutto esaminava notava tutto, e quello che Gesù faceva e quel che diceva, e le comunicazioni mirabili col Padre, e le predilezioni verso i figliuoli degli uomini, e le propensioni, e i desideri e gli affetti, e nulla le sfuggiva e faceva tesoro di tutto, e tutto conservava dentro al suo cuore e tutto ponderava, tutto pensava, tutto seco medesima conferiva con diligenza celeste. Conservabat omnia verba hæc in corde suo. (Luc. II, 51) Avete udito? Teneva assiduamente il suo Cuore alla scuola del Cuore di Gesù e lo formava su quel modello divino con sollecitudine tenera, gelosa, assidua, squisita. Conservàbat omnia verba hæc in corde suo. E che altro da quel Cuore poteva imparare il tuo Cuore o Maria fuor che ad amare quantunque immeritevoli, quantunque ingrati i figliuoli degli uomini? Ma che fa mestieri procedere per argomenti a mostrare l’amore di Maria verso gli uomini? Basta aver occhi per vedere com’Ella tutti mirabilmente fornisce gli uffici di ottima madre. A che prove conoscete se una madre ama veramente i figliuoli? Alle opere. Vedete non vive altro che per la sua famiglia, altro non cerca, di altro non si briga,non pensa ad altro. Ora in ogni famiglia ben ordinata, chi guardi bene vedrà che essendoci una madre e un padre sono tra questo quasi domestico magistrato compartiti gli uffici. L’autorità paterna è un’autorità grave e robusta, la materna, amorosa e soave, il padre sopraintende ai negozi che escono fuori delle pareti domestiche, e regola le relazioni esterne della famiglia, la madre è una autorità casalinga a cui appartengono le cure tenui ed interne. Alle cure grandi e rilevanti attende il padre, la madre dà opera alle incombenze minute. Però la madre si tiene davanti da mane a sera la sua famigliuola e vede tutto, tutto procura, nulla le sfugge. Al modo medesimo passano le cose in questa gran famiglia della Chiesa, dice Bernardo. Ci è Dio nostro Padre e Gesù Cristo nostro Fratello e da loro scende ogni bene. Ma ci è anche una Madre a cui appartiene il governo e l’economia domestica di questa famiglia ed essa è Maria. Si tiene Ella però davanti tutti i figli della santa Chiesa Cattolica, e tutti ci vede, ci conosce tutti, tutti ci custodisce, tutti ci veglia, vede tutte le nostre necessità, indaga i bisogni e a tutti e pensa e provvede. E questo povero figlio è peccatore, è peccatrice questa povera figlia: e questo è tribolato, quest’altra è afflitta: e quale è infermo e quale in pericolo: a questo tende insidie il demonio, quest’altro il mondo lusinga: questa sta per cedere a un seduttore, quell’altro incatenano i lacci di una occasione: vede Maria vede, il Cuore materno incenerisce, l’amore la sollecita e non ha pace. Si volge al Figlio, si appresenta al trono della Trinità sacrosanta, e supplica e implora a questo la conversione, la salute a quell’altro, a chi la forza e la grazia, a chi la speranza, a chi la consolazione, a chi lo scampo e la vita, a chi la vittoria contro il maligno in vita e in morte. Però è sempre attorno pel Paradiso, e i santi Padri leggiadramente la chiamano del Paradiso la faccendiera. Però come nella famiglia i figlioletti chiamano più la madre che il padre, così nella Chiesa cattolica si chiama Maria continuamente, Maria… Maria. Non udite? Maria si grida dal mare se minaccia procella, e se l’onda è tranquilla le si insegna a salutarla Stella del mare: Maria si invoca dalla terra o volgono prosperi e felici i successi o corrono torbidi e avversi. Dai letti del dolore si chiama Maria, nelle angustie e nelle distrette Maria s’invoca. Ed Ella? Ed Ella come Colei che tota suavis est ac plena misericordiae, che tutta è soave e piena di misericordia, omnibus sese exorabilem, dice Bernardo, omnibus clementissimam præbet, omnium necessitatibus amplissimo quodam miseratur affectu. Con quel suo Cuore buono, largo, benfatto, generoso, benefico, a tutti si porge esorabile, clementissima a tutti, e con amplissimo affetto s’intenerisce alle necessità di tutti. Però ogni tempio, ogni lido, ogni terra, ogni spiaggia è piena dei monumenti e dei voti che attestano, che Cuore sia quello di Maria, e quei monumeni e quei voti gridano in loro linguaggio, Maria ha un cuore grande, tenero, gentile, benefico: chi fa capo a quel Cuore non patisce ripulsa: omnium necessitatibus amplissimo quodam miseratur affectu.

4. E perché Maria fosse tale, Dio volle esercitare e perfezionare col dolore il Cuor suo immacolato, verginale, santissimo, innocentissimo. Avrete sentito dire che Maria dal momento che divenne Madre di Dio divenne Madre ancor di dolore, e portò sempre infitta nel mezzo al Cuore una spada. È verissimo e così fu, e così conveniva che fosse. Perché osservate. Una madre buona e degna di questo nome ama tutti egualmente i figliuoli suoi: non ha parzialità per nessuno: sono tutti frutti delle sue viscere, li ama tutti ad un modo. Ma se tra i figli alcuno ne sia pel quale sperimenti più tenerezza qual è? È quello per cui ha molto patito. Il cuore di ogni madre è fatto così, il dolore patito genera amore, e il figliuolo delle lacrime e del dolore è il figliuolo prediletto. Essendo così, Dio che ci ha dato per figli a Maria, e ha costituito Lei nostra Madre perché tutti ci avesse in grado di prediletti ha voluto che tutti fossimo per Lei figli di dolore. Già fin da quando aperse le sue viscere al Verbo di Dio intese che quel figliuolo destinato ad essere vittima del genere umano sarebbe per Lei figliuolo di lacrime: ma lo intese anche meglio poco di poi. Aveva appena da quaranta giorni partorito Gesù e Madre fortunata e incomparabile portava al tempio il frutto delle sue viscere, quando torbido e rabbuffato le si fece incontro un vegliardo per nome Simeone e presole di tra le braccia il bambino, questo bambolo, esclamò: è posto in ruina e in resurrezione di molti, e in bersaglio di contradizione: e tu donna preparati perché per conto di Lui una spada ti trapasserà il cuore da parte a parte. Intese allora Maria tutto il mistero e capi che quel figlio all’età di trentatré anni le morirebbe crocifisso. Povero Cuore da quel giorno in poi non ebbe più lieta un’ora, e come Gesù dal presepio al calvario ebbe sempre nel cuore la croce, così tu o Maria avesti sempre nel cuore la spada. Cresceva Gesù, crescendo in età sempre diveniva più vezzoso, più giocondo, più bello, lo irraggiava la sapienza, lo infiorava la grazia, Dio e gli uomini si compiacevano in esso, le spose e le madri di Sion ti predicavano beata, e tu tacevi: ma chi ti avesse letto nel cuore avrebbe letto le parole della desolata Noemi: non mi chiamate felice ma amara perché il Signore mi ha ripiena di amaritudine: e il significato di queste parole si sarebbe inteso quel giorno che ti sarebbe conferito il grado di Madre degli uomini. Orsù dilettissimi, rispondete: quando e dove Maria veramente ci partorì e diventò Madre di noi? Nel gran giorno del dolore là sul Calvario. Stabat iuxta crucem Iesu Mater Eius. (Joan. XIX, 25.) Pendeva Gesù dalla croce sanguinolento olocausto: ai piedi della croce stava Maria. Presso Maria, rappresentante nostro, stava Giovanni. Maria trambasciava di dolore, Gesù la vide, e additandole Giovanni le disse: ecco il tuo figliuolo, e a Giovanni: ecco la Madre tua. Allora divenne Maria Madre nostra, e in Giovanni tutti quanti ci accettò per figliuoli, e Gesù consumò l’opera gettandole in petto una parte di quella fiamma che nel suo Cuore allora ardeva per noi. Coraggio o carissimi, coraggio: Maria ci ama, siamo suoi figli e non figli in qualunque modo, ma figli del suo dolore, e però prediletti, e quando ci vede ricordandosi quel che ha patito s’intenerisce, il suo Cuore non regge più e dimentica tutto e solo sente le voci dell’amore. Tutta la terra è piena delle misericordie di Maria verso i figliuoli degli uomini che si cantano in ogni lingua, si magnificano da ogni labbro. Come mai in tal Regina tanto amore verso una generazione scortese, ingrata, villana? Non vi stupite, gli uomini sono figliuoli del suo dolore. Nessuno, dunque, abbia temenza di accostarsi a Maria. Ogni temenza sarebbe irragionevole. Andate pure e sappiate che quando un figliuolo la supplica, il cuor suo non resiste. Guardatela ha il Cuore in mano e par che vi dica son Io sì, son Io, son vostra Madre, accostatevi e vedrete che Cuore è questo.

5. E però è che la anta Chiesa tutti invita, tutti sprona a rifuggire al Cuor di Maria: ma di preferenza appresenta quel Cuore ai peccatori, che pei peccatori sembra che sia aperto principalmente in questi tempi novissimi, onde la devozione al Cuore di Maria è ordinata principalmente alla conversione dei peccatori. Intendo, intendo. Datemi una madre tenera, sviscerata quanto volete dei suoi figliuoli, datemela a vostro talento imparziale verso tutti i frutti delle sue viscere, vedrete con tutto ciò, che se uno dei suoi figliuoli o le cade infermo e il morbo si aggrava, o geme prigioniero, o vaga tribolato e ramingo sembra che questa madre muti natura. Non sembra più imparziale né eguale con tutti i figli: sembra invece che dimentichi tutti gli altri, che non li curi: tutte le sollecitudini sembrano essere pel figliuolo che tribola e che patisce, sembra che in lui si concentri tutto l’affetto. La vedete quindi o assisa di dì e di notte alla sponda del letto molcere le angosce e alleviare i dolori del caro infermo: o sollecita di sapere le novelle del prigioniero diletto, e dell’amato ramingo, di altro non favella se parla, ad altro non pensa se tace, non ode volentieri che si parli di altri fuorché di loro. Sono tribolati, hanno ragioni sovrane sul cuor materno. Ora chi sono in questa gran famiglia che Dio ha dato a Maria i poveri peccatori? Sono figli prigionieri, sono figli raminghi, son figli infermi. Infermi della pessima malattia del peccato, raminghi ed esuli dalla casa del Padre, prigionieri del diavolo già condannati all’inferno. Li vede Maria e ne sa la miseria incomparabile, e il suo Cuore materno si strugge e si consuma di dolore e di amore. Poveri figli non sanno quello che fanno, sono ciechi, sono travolti da infelicissimo errore: si perdono e non intendono il loro male. Ah! il Cuor di Maria non ha pace, grida mercé al suo Figlio, li cerca, li scuote, li sollecita, li invita, li alletta, e con tenere voci da mane a sera li chiama, e poiché non ascoltano si volge ai figli fedeli, e voi, dice, voi aiutatemi, se mi amate, aggiungete la vostra voce alla mia, e uniti insieme riconduciamo al Padre questi profughi sconsigliati e cari. Peccatori, sentite a quando a quando quelle voci al cuore, quelle grida della coscienza lacerata, quegli impeti, quegli impulsi a tornare al Padre? Sono le voci di Maria che vi chiama, ah! se avete cuore umano nel petto consolate il dolore e rasserenate il cuore di questa Madre. Su rispondete, parlate. Quem fructum habuistis in quibus nunc erubescitis? (Rom. VI, 21). Vi è messo conto a partirvi dalla casa del Padre? A mettervi per le vie tribolate dell’iniquità? A cambiare il giogo di Gesù colla catena del diavolo? O cari anni della vostra innocenza! O giorni felici della coscienza serena! Allora passavano i dì tranquilli, allora correvano placide e dolci le notti, allora guardavate il cielo con lieto sembiante, allora invocavate con dolce affetto i nomi di Gesù e Maria, il presente era giocondo, non vi atterriva il futuro, la pace del cuore si dipingeva nell’occhio sereno e nel volto. E ora? E ora non ci è più pace. Torbidi i giorni, tetre le notti, la coscienza s’indraga siccome un serpe, pochi momenti di ubriaca voluttà e poi tempesta e fremito nel cuore, e il tumulto e la rabbia del cuore vi si dipinge negli occhi torvi, nel volto arroncigliato, nelle parole rabbiose, nei modi protervi. Su dunque sorgete, poveri assetati di pace, tornate al Padre. Ma vi manca la lena, il giogo del peccato vi grava verso la terra, vi stringe i piedi la catena inveterata di satana. Ecco vi si apre in buon punto il Cuor di Maria. Alzate gli occhi: guardate quella benedetta sembianza, contemplate quegli occhi, quel cuore, quel dolce atto d’invito e poi non confidate se vi riesce. O sì, sì confidiamo, confidiamo tutti o Maria. Il tuo nome infonde fiducia, rincuora la tua sembianza, ma se contempliamo il tuo Cuore, forza è che ci diamo per vinti, perché esercita un’attrattiva che ci trascina. Trahe nos dunque trahe nos Maria. Mostraci, mostraci cotesto Cuore. In odorerm curremus unguentorum, (Cant. IV, 10) correremo all’odore dei tuoi profumi, e riconciliati con Dio e salvi con Te e per Te, cominceremo nel Tempo e continueremo nella eternità a cantare o clemens, o dulcis, Virgo Maria.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Luc. 1: 46; 1: 49
Exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo; quia fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus.

[L’anima mia esulta perché Dio è mio Salvatore, perché il Potente ha operato per me grandi cose e il Nome di Lui è Santo.]

Secreta

Majestáti tuæ, Dómine, Agnum immaculátum offeréntes, quǽsumus: ut corda nostra ignis ille divínus accéndat, cui Cor beátæ Maríæ Vírginis ineffabíliter inflammávit.

[Offrendo alla tua maestà l’Agnello immacolato, noi ti preghiamo, o Signore: accenda i nostri cuori quel fuoco divino che ha infiammato misteriosamente il cuore della beata Vergine Maria.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de Beata Maria Virgine

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitate beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]


Sanctus,

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann XIX: 27
Dixit Jesus matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus: deinde dixit discípulo: Ecce mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua.

[Gesù disse a sua Madre: «Donna, ecco il Figlio tuo». Poi al discepolo disse: «Ecco la Madre tua». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

Postcommunio

Orémus.
Divínis refécti munéribus te, Dómine, supplíciter exorámus: ut beátæ Maríæ Vírginis intercessióne, cujus immaculáti Cordis solémnia venerándo égimus, a præséntibus perículis liberáti, ætérnæ vitæ gáudia consequámur.

[Nutriti dai doni divini, ti supplichiamo, o Signore, a noi che abbiamo celebrato devotamente la festa del suo Cuore immacolato, concedi, per l’intercessione della beata vergine Maria: di essere liberati dai pericoli di questa vita e di ottenere la gioia della vita eterna.]

V. Ite, Missa est.
R. Deo grátias.

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA XI DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XI DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio – Paramenti verdi.

La Chiesa nella liturgia di questo giorno ci insegna come Dio accordi il suo aiuto divino a tutti quelli che lo domandano con confidenza. Ezechia guarì da una malattia mortale, grazie alla sua preghiera, come pure liberò il suo popolo dai nemici; mercè la sua preghiera sulla croce, Gesù cancella i nostri peccati (Ep.) e risuscita il suo popolo a nuova vita mediante il Battesimo di cui è simbolo la guarigione del sordo muto, dovuta pure alla preghiera di Cristo (Vang.). Così, dato che per la virtù dello Spirito Santo, Gesù cacciò il demonio dal sordo muto e che i sacerdoti di Cristo cacciano il demonio dall’anima dei battezzati, si comprende come questa XI Domenica dopo Pentecoste si riferisca al mistero pasquale ove, dopo aver celebrata la risurrezione di Gesù si celebra la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa, e si battezzano i catecumeni nello Spirito Santo e nell’acqua affinché, come insegna S. Paolo seppelliti con Cristo, con Lui resuscitino. – Il regno delle dieci tribù (regno d’Israele) durò 200 anni circa (938-726) e contò 19 re. Quasi tutti furono malvagi al cospetto del Signore e Dio, allora, per castigarli, dette il loro paese ai nemici. Salmanassar, re d’Assiria, assediò Samaria e trascinò Israele schiavo in Assiria nell’anno 722. I pagani, che presero il posto nel paese; non si convertirono totalmente al Dio d’Israele e furono detti samaritani dal nome di Samaria. — Il regno di Giuda durò 350 anni circa (938-586) ed ebbe 20 re. Una sola volta questa stirpe regale fu per perire, ma venne salvata dai sacerdoti che nascosero nel tempio Gioas, al tempo di Atalia. Parecchi di questi re furono malvagi, altri finirono come Salomone nel peccato, ma quattro furono, fino alla fine, grandi servi di Dio. Questi sono Giosafat, Gioathan, Ezechia, Giosia. L’ufficio divino parla in questa settimana di Ezechia, tredicesimo re di Giuda. Egli aveva venticinque anni quando diventò re e regnò in Gerusalemme per ventinove anni. Durante il sesto anno del suo regno Israele infedele fu tratto in schiavitù. « Il re Ezechia, dice la Santa Scrittura, pose la sua confidenza in Jahvè, Dio d’Israele e non vi fu alcuno uguale a lui fra i re che lo precedettero o che lo seguirono; così Jahvè fu con lui ed ogni sua impresa riuscì bene ». Allorché Sennacherib, re d’Assiria, voleva Impadronirsi di Gerusalemme, Ezechia salì al Tempio e innalzò una preghiera a Dio, pura come quelle di David e Salomone. Allora il profeta Isaia disse a Ezechia di non temere nulla poiché Dio avrebbe protetto il suo regno. E l’Angelo di Jahvè colpì di peste centosettantacinque mila uomini nel campo degli Assirii. Sennacherib, spaventato, ritornò a marce forzate a Ninive ove morì di spada. Dio accordò più di cento anni di sopravvivenza al regno di Giuda pentito, mentre aveva annientato il regno d’Israele impenitente. — Ma Ezechia cadde gravemente malato e Isaia gli annunciò che sarebbe morto: « Ricordati, o Signore, disse allora il re a Dio, che io ho proceduto avanti a te nella verità e con cuore perfetto, e che ho fatto ciò che a te è gradito » (Antifona del Magnificat). E Isaia fu mandato da Dio ad Ezechia per dirgli: « Ho intesa la tua preghiera e viste le tue lacrime; ed ecco che ti guarisco e fra tre giorni tu salirai al Tempio del Signore ». Ezechia infatti guari e regnò ancora quindici anni. Questa guarigione del re che uscì, per cosi dire, dal regno della morte il terzo giorno, è una figura della risurrezione di Gesù. Così la Chiesa ha scelto oggi l‘Epistola di S. Paolo nella quale l’Apostolo ricorda che il Salvatore è « morto per i nostri peccati, è stato seppellito ed è resuscitato « nel terzo giorno » e che per la fede in questa dottrina noi saremo salvi come l’Apostolo stesso. Per questo stesso motivo è preso per l’Introito il Salmo 67, nel quale lo stesso Apostolo ha visto la profezia dell’Ascensione (Ephes., IV, 8).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et te, pater, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXVII: 6-7; 36

Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.

[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]


Ps LXVII: 2
Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus.

[Sorga Iddio, e siano dispersi i suoi nemici: fuggano dal suo cospetto quanti lo odiano.]

Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.

[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui, abundántia pietátis tuæ, et merita súpplicum excédis et vota: effúnde super nos misericórdiam tuam; ut dimíttas quæ consciéntia metuit, et adjícias quod orátio non præsúmit.

[O Dio onnipotente ed eterno che, per l’abbondanza della tua pietà, sopravanzi i meriti e i desideri di coloro che Ti invocano, effondi su di noi la tua misericordia, perdonando ciò che la coscienza teme e concedendo quanto la preghiera non osa sperare.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV: 1-10
“Fratres: Notum vobis fácio Evangélium, quod prædicávi vobis, quod et accepístis, in quo et statis, per quod et salvámini: qua ratione prædicáverim vobis, si tenétis, nisi frustra credidístis. Trádidi enim vobis in primis, quod et accépi: quóniam Christus mortuus est pro peccátis nostris secúndum Scriptúras: et quia sepúltus est, et quia resurréxit tértia die secúndum Scriptúras: et quia visus est Cephæ, et post hoc úndecim. Deinde visus est plus quam quingéntis frátribus simul, ex quibus multi manent usque adhuc, quidam autem dormiérunt. Deinde visus est Jacóbo, deinde Apóstolis ómnibus: novíssime autem ómnium tamquam abortívo, visus est et mihi. Ego enim sum mínimus Apostolórum, qui non sum dignus vocári Apóstolus, quóniam persecútus sum Ecclésiam Dei. Grátia autem Dei sum id quod sum, et grátia ejus in me vácua non fuit.”

[“Fratelli: Vi richiamo il Vangelo che vi ho annunziato, e che voi avete accolto, e nel quale siete perseveranti, e mediante il quale sarete salvi, se lo ritenete tal quale io ve l’ho annunciato, tranne che non abbiate creduto invano. Poiché in primo luogo vi ho insegnato quello che anch’io appresi: che Cristo è morto per i nostri peccati, conforme alle Scritture; che fu seppellito, e che risuscitò il terzo giorno, conforme alle Scritture; che apparve a Cefa, e poi agli undici. Dopo apparve e più di cinquecento fratelli in una sol volta, dei quali molti vivono ancora, e alcuni sono morti. Più tardi appare a Giacomo, e quindi a tutti gli Apostoli. Finalmente, dopo tutti, come a un aborto, appare anche a me. Invero io sono l’ultimo degli Apostoli, indegno di portare il nome di Apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per la grazia di Dio, però sono quel che sono; e la sua grazia in me non è rimasta infruttuosa.”].

LA SINTESI DEL CREDO IN S. PAOLO.

Una delle cose che ci stupiscono davanti a certi monumenti costrutti dalla mano dell’uomo, monumenti materiali, è la loro antichità. Quando dinanzi all’arco di Tito, ancora così ben conservato nelle sue linee maestose, e anche in certi, in molti particolari secondarî, possiamo dire: ha duemila anni circa… ci pare d’aver fatto un grande elogio. Eppure questo è monumento morto. Noi ci troviamo oggi dinanzi a un monumento vivo, una costruzione ideale, cioè di idee, di concetto, di verità: il Credo, quello che voi sentite cantare ogni domenica. Ebbene il Credo ha duemila anni di vita. E noi ci troviamo oggi davanti al primo Credo, quale lo insegnava Paolo ai suoi convertiti. Non c’è tutto, c’è però la sostanza, il midollo centrale. Alcuni articoli sono sottintesi come presupposto necessario e implicito: altri saranno da lui stesso accennati altrove come corollari, ma il nucleo centrale è il Cristo Gesù, e Gesù è crocifisso e risorto. La sostanza, il centro del Vangelo è lì. Dio, Dio Creatore fa parte del credo religioso; cioè proprio di ogni religione che voglia essere appena appena non indegnissima di tal nome. Anche i Giudei credono in Dio Creatore e Signore del cielo e della terra. San Paolo non ricorda questo articolo, qui dove sintetizza il suo Credo, il Credo dei suoi Cristiani, non perché  essi possano impunemente negare Dio, ma perché è troppo poca cosa per noi l’affermarlo Creatore. Il nostro Credo incomincia dove finisce il Credo della umanità religiosa. Ed eccoci a Gesù Cristo. Uomo-Dio, Dio incarnato, uomo divinizzato, mistero di unione che non è confusione e non è separazione. Ebbene, questi due aspetti che in Gesù Cristo Signor nostro si sintetizzano, San Paolo li scolpisce, da quel maestro che è, nella Crocifissione e nella Resurrezione di Lui. « Io, dice Paolo ai suoi fedeli — suoi… da lui istruiti, da lui battezzati, da lui organizzati, — io vi ho prima di tutto trasmesso quello che ho ricevuto anch’io, vale a dire: che Cristo è morto per i nostri peccati, come dicono le Scritture, che fu sepolto ». È il poema, grandioso poema, e vero come la più vera delle prose, delle umiliazioni di N. S. Gesù Cristo: l’affermazione perentoria e suprema della sua vera e santa umanità: patire, morire, patir sulla Croce, morire sulla Croce. – San Paolo tutto questo lo ha predicato ai Corinzi, come egli stesso dice altrove, con santa insistenza. A momenti pareva che non lo sapessero: era inebriato della Croce; ossessionato dal Crocefisso. Lo predicava con entusiasmo. E veramente questo Gesù che soffre e muore è così nostro. È così vicino a noi. Non potrebbe esserlo di più. « In labore hominum est: » è anch’egli soggetto al travaglio degli uomini. Travaglio supremo, supremo flagello: la morte. Tanto più ch’Egli è morto non solo come noi, ma per noi, per i nostri peccati e per la nostra salute; per i nostri peccati, causa la nostra salute, scopo e risultato della Redenzione. Ma per le loro cause sono morti anche gli eroi: Gesù Cristo è quello che è, quello che Paolo predica, la Chiesa canta nel Credo: Figlio di Dio unigenito, e la prova, la dimostrazione: la Sua Resurrezione. Uomo muore, Dio vive di una vita che vince la morte, e va oltre di essa immortale. Perciò Paolo continua: «Vi ho trasmesso che Cristo risuscitò il terzo giorno, come dicono le Scritture ». E della Resurrezione cita i testimonî classici, primo fra tutti Cepha, ultimo lui, Paolo, ultimo degli Apostoli, indegno di portarne il nome, ma Apostolo come gli altri. La morte univa Gesù a noi, la vita non lo separa da Noi. Gesù Crocifisso è il nostro amore mesto e forte. Gesù Risorto è la nostra grande speranza, primogenito quale Egli è di molti fratelli. Da venti secoli la Chiesa canta questo inno di fede, di speranza, d’amore.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XXVII: 7 – :1
In Deo sperávit cor meum, et adjútus sum: et reflóruit caro mea, et ex voluntáte mea confitébor illi.

[Il mio cuore confidò in Dio e fui soccorso: e anche il mio corpo lo loda, cosí come ne esulta l’ànima mia.]
V. Ad te, Dómine, clamávi: Deus meus, ne síleas, ne discédas a me. Allelúja, allelúja

[A Te, o Signore, io grido: Dio mio, non rimanere muto: non allontanarti da me.]

Alleluja

Allelúia, allelúia
Ps LXXX: 2-3
Exsultáte Deo, adjutóri nostro, jubiláte Deo Jacob: súmite psalmum jucúndum cum cíthara. Allelúja.

[Esultate in Dio, nostro aiuto, innalzate lodi al Dio di Giacobbe: intonate il salmo festoso con la cetra. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Marcum.
Marc VII: 31-37
In illo témpore: Exiens Jesus de fínibus Tyri, venitper Sidónem ad mare Galilaeæ, inter médios fines Decapóleos. Et addúcunt ei surdum et mutum, et deprecabántur eum, ut impónat illi manum. Et apprehéndens eum de turba seórsum, misit dígitos suos in aurículas ejus: et éxspuens, tétigit linguam ejus: et suspíciens in coelum, ingémuit, et ait illi: Ephphetha, quod est adaperíre. Et statim apértæ sunt aures ejus, et solútum est vínculum linguæ ejus, et loquebátur recte. Et præcépit illis, ne cui dícerent. Quanto autem eis præcipiébat, tanto magis plus prædicábant: et eo ámplius admirabántur, dicéntes: Bene ómnia fecit: et surdos fecit audíre et mutos loqui.

[“In quel tempo Gesù, tornato dai confini di Tiro, andò por Sidone verso il mare di Galilea, traversando il territorio della Decapali. E gli fu presentato un uomo sordo e mutolo, e lo supplicarono a imporgli la mano. Ed egli, trattolo in disparte della folla, gli mise le sua dita nelle orecchie, e collo sputo toccò la sua lingua: e alzati gli occhi verso del cielo, sospirò e dissegli: Effeta, che vuol dire: apritevi. E immediatamente se gli aprirono le orecchie, e si sciolse il nodo della sua lingua, e parlava distintamente. Ed egli ordinò loro di non dir ciò a nessuno. Ma per quanto loro lo comandasse, tanto più lo celebravano, e tanto più ne restavano ammirati, e dicevano: Ha fatto bene tutte le cose: ha fatto che odano i sordi, e i muti favellino!”


Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano, 1957)

LA MUTOLEZZA SPIRITUALE

Gli presentarono un uomo sordo e muto perché lo guarisse. Ed Egli, sempre buono, lo trasse in disparte dalla folla, e gli toccò le orecchie e la lingua. Poi levò lo sguardo al cielo e gemendo gli disse nel dialetto di Palestina: « Effeta! » — Apriti. — E subito, sotto il comando della voce divina, le sue orecchie, rimaste chiuse fino allora, udirono, e la sua lingua, muta fino allora, parlò. Perché Gesù davanti a quell’uomo sordo e muto guardò in alto tristemente e gemette? Il Maestro divino col suo sguardo che abbraccia l’universo e trapassa i secoli, in quel povero disgraziato scorgeva tanti sordi e muti spirituali, più compassionevoli e sventurati di quel meschino. — Ci sono uomini sordi alla parola di Dio: i Sacerdoti, mandati da Gesù ad annunziare il suo Vangelo nel mondo, gridano nelle chiese per far giungere nei cuori gli insegnamenti divini. Eppure, quanti non vengono mai alla predica, o, se vengono, a mala pena, sbuffando, sopportano un predichino di pochi minuti! Quanti raccolgono la divina parola con un orecchio e con un altro la disperdono! — Ci sono uomini sordi alle buone ispirazioni: da tempo, forse, il Signore punge col rimorso certi cuori induriti ed essi non si convertono, non migliorano la vita; da tempo forse il Signore chiama certe anime buone ad una vita più perfetta, allo stato religioso, e quelle non si decidono mai. — C’è poi la sordità caratteristica dei figliuoli, che non vogliono mai ascoltare le parole dei genitori, e non pensano che i genitori hanno ricevuto l’autorità da Dio e che facendo il sordo con loro, lo fanno con Dio. Ma è soprattutto della mutolezza spirituale che io intendo parlare: non è forse una delle malattie più diffuse in questi tempi nostri? Si potrebbe considerarla sotto un quadruplice aspetto: un mutismo di preghiera; un mutismo di confessione; un mutismo di rancore; un mutismo di rispetto umano. – 1. UN MUTISMO NELLA PREGHIERA. Nel secolo VI i Goti e i Greci si disputavano il dominio d’Italia. Gli eserciti erano accampati sulle falde del Vesuvio, pronti alla battaglia. Contro al vecchio e terribile Narsete capo dei Greci, i Goti avevano eletto un giovane audace fino alla temerità e valoroso fino alla morte. In lui i soldati imperiali, appena scoppiata la mischia, tesero l’arco e incoccarono le saette; ma Teia era protetto da un alto scudo di pelle. Giungevano i dardi sibilanti, s’infiggevano rabbiosi nel cuoio, e infissi tremavano invano. Ma tratto tratto lo scudo diventava così pesante di ferro che bisognava cambiarlo. In uno di questi momenti Teia lasciò il suo petto scoperto davanti al nemico: fu un istante e bastò. Una saetta avvelenata lo colpì nel cuore e cadde. La vita nostra, ha detto lo Spirito Santo, è una battaglia. Il demonio ch’è più forte e più furbo di noi cerca coi dardi velenosi di farci cadere in peccato. Iddio, per questa lotta, ci armò di uno scudo invincibile: la preghiera (S. AMBROGIO, De obitu Valent.). Ma guai a noi se anche un istante solo lo deponiamo: basterebbe quello istante al demonio per trovarci inermi e per colpirci. È necessario pregare sempre e non smettere mai (Lc., XVIII, 1) perché il demonio sempre ci tenta e non si stanca. Invece, quanti Cristiani passano le lunghe giornate, le settimane intere, muti con Dio. Per loro il Signore quasi non esiste: lavorano, sudano, si logorano, sono oppressi dalla sventura, sono tormentati dalle tentazioni, ma l’aiuto di Dio non lo chiedono mai. Poveretti! Essi non ricordano più che se il Signore non edifica la casa, inutilmente lavorano quei che la costruiscono; se il Signore non custodisce la città, inutilmente vigilano le sentinelle (Ps. CXXVI). Beati quelli che hanno fatto della preghiera il respiro della loro anima! Beate le mamme che hanno imparato ad accudire alle loro faccende recitando giaculatorie, beati gli uomini che tra il rullo sordo delle officine mormorano brevi orazioni! È così che S. Paolo voleva i Cristiani: « Bramo che gli uomini preghino in ogni luogo… ». (I Tim., II, 8). Ed egli ne dava l’esempio: anzi una tradizione ricorda che quando lo decapitarono sulla via Ostiense presso la terza pietra miliare, la sua testa già stroncata abbia pregato ancora, ripetendo tre volte il nome di Gesù. – 2. UN MUTISMO NELLA CONFESSIONE. Quando il Conte di Carmagnola fu sconfitto dai Milanesi, il governo veneto lo condannò a morte come un traditore. Ed il terribile Consiglio dei Dieci ordinò che venisse trascinato con le mani legate dietro la schiena sulla Piazzetta di S. Marco, e giustiziato tra due colonne: ma prima però gli avessero a porre in bocca una spranga di ferro. Oh se il conte di Carmagnola in quegli ultimi istanti avesse potuto parlare! Avrebbe detto parole strazianti, avrebbe invocato la pietà del popolo per i suoi bambini innocenti: e tutto il popolo commosso, sarebbe insorto e l’avrebbe salvato. Ma quella inesorabile verga di ferro gli sprangava la bocca. Ogni uomo che commette peccato mortale è reo di tradimento, di quel tradimento che Giuda fece nell’orto degli ulivi; e Dio lo condanna alla morte eterna dell’inferno. Oh se il peccatore non si ostinasse a fare il muto, ma parlasse, ma confessasse al Sacerdote il suo peccato, la bontà di Dio cancellerebbe la sua condanna, e gli perdonerebbe! Oh se Giuda non si fosse chiuso nella sua muta disperazione, ma fosse corso, invece che all’albero del suicidio, all’albero della croce, e là, piangendo avesse aperto la sua bocca a confessare il suo peccato, dall’alto Gesù morente avrebbe detto anche a lui quella parola di perdono che già aveva detto al ladro. O uomini, che a fatica trovate la via del confessionale una volta l’anno, e forse nemmeno, ricordatevi che è il demonio che con le sue mani vi tiene chiusa la bocca, perché non vuole che ritorniate ad essere buoni! Ed intanto la vita fugge e la morte è qui vicina: ma se non vi confessate di frequente e bene in vita non sperate di fare una buona confessione sul letto di morte. In quel momento il nemico dell’anima vostra avrà maggior interesse di chiudervi la bocca con la spranga ferrea del silenzio. E voi cadrete nel baratro dell’inferno: allora aprirete le labbra per maledire la vostra stoltezza, ma inutilmente: sarà troppo tardi. –  3. MUTISMO PER RANCORE. Sapete come si potrebbe paragonare l’anima di non pochi Cristiani? Ad un crivello, in cui vi sono molti fori per i quali sfugge il grano buono e rimangono soltanto le pagliuzze. Così anche molte anime, che pur si credono buone, lasciano cadere dalla memoria i benefici e le belle virtù del prossimo per ricordare soltanto le offese e i difetti. Perciò il mondo è pieno di rancore e di mutismo per rancore. Quante volte vediamo un fratello che non saluta suo fratello, che non parla più con lui; un figlio che non parla co’ suoi genitori, una cognata con la propria cognata, un vicino con il suo vicino… È bandita così la pace dai focolari domestici e dai paesi che pur si dicono cristiani: e dove è bandita la pace è pure scacciato Gesù Cristo che a questo mondo è venuto a portare la pace. Una volta i Cristiani si distinguevano dall’amore vicendevole che si portavano, dalla pazienza con cui si compativano e s’aiutavano, ma oggi i Cristiani fanno anch’essi; troppo sovente, come quelli che non hanno fede. Basta una parola, uno sgarbo, uno sbaglio e subito ci adontiamo, rompiamo ogni relazione, ci odiamo cordialmente. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum (Rom. XII, 21). Non lasciarti vincere dall’offesa, ma vinci nell’amore ogni odio. Massimiliano, il giovane imperatore del Messico, prima d’essere ingiustamente fucilato, ricordando il precetto di Gesù, esclamò: « Perdono a Lopez il suo tradimento e al Messico il suo delitto! ». Tutti piangevano: e quando lo videro immobile sulla terra, piansero anche i suoi nemici. – 4. MUTISMO PER RISPETTO UMANO. A Torino, nel palazzo del Signor Gaetano della Rovere, S. Luigi Gonzaga vide un vecchio che credeva di rallegrare un crocchio di giovani con qualche parola poco pulita. Non poté tacere: e, ardendo nel volto, gridò: « Vecchio! e non hai vergogna di parlare così? Le parole cattive fanno marcire il cuore ». Ogni giorno sul tram, in strada, in officina, all’osteria si può trovare quale persona maleducata che bestemmia, o deride la Chiesa e i preti, o fa discorsi luridi. Eppure, dove sono quelli che hanno il coraggio di gridare una parola franca di biasimo? Dove sono quelli che hanno il santo ardire di far chiudere quelle bocche blasfeme ed impure? Se ci fosse qui il profeta Isaia potrebbe lanciare a tutti il suo rimprovero: « Muti! Muti! Voi siete come cani che non sanno nemmeno latrare ». Se si trattasse di difendere il nostro onore, scatteremmo come molle, ma perché si tratta dell’onore di Dio, sentiamo vergogna o poco ce ne importa. Nel giorno del giudizio supremo anche Cristo avrà vergogna di noi e della nostra viltà di fronte al Padre Celeste e agli eletti del paradiso. Che cosa si dovrebbe dire poi a certi padri e a certe madri? Vedono i figli battere una cattiva strada, mettersi in pericoli manifesti per la loro anima; vedono le loro figlie vestire una moda indegna di persone oneste, le vedono frequentare compagnie sospette, le vedono ritornare a sera tarda… e tacciono. Muti! Muti come cani che non sanno nemmeno latrare. Un giorno non lontano piangeranno sopra i loro figliuoli che saranno diventati il loro crepacuore; saranno lacrime inutili come una pioggia caduta sulla pietra. – Oggi Gesù passa anche davanti a noi, e noi pure forse trova colpiti d’una qualche mutolezza spirituale: o di preghiera, o di confessione, o di rancore, o di rispetto umano. Anche davanti a noi mestamente egli alza gli occhi al cielo e freme e geme. O Cristiani! Che il gemito del Figlio di Dio non passi invano, anche questa volta, sopra la nostra anima muta! — DI ALCUNE MERAVIGLIE DEL CREATO. Se poi ci fosse capitato di assistere a qualche miracolo, di vedere i morti risorgere, i sordi riacquistare l’udito, i muti parlare, gli storpi camminare, oh! Certo anche la nostra voce si sarebbe unita a quella delle turbe del Vangelo per esclamare: « Ha fatto bene tutte le cose! ». Sentimenti giusti e degni di un cuore cristiano. Ma, fratelli, non dimentichiamoci che, pur vivendo lontani dal tempo in cui Gesù viveva quaggiù sulla terra, noi, verso il Signore, possiamo e dobbiamo diportarci come facevano un giorno le turbe. Se non cadono più sotto i nostri occhi i miracoli, ci sono però altre meraviglie osservando le quali altro non ci resta che lodare il Signore il quale davvero ha fatto bene tutte le cose. Sarebbe uno sbaglio pensare soltanto al passato ed invidiare la vita mortale di Gesù sulla terra e poi non curarci neppure di quanto ogni giorno possiamo vedere coi nostri occhi e meditare nel nostro cuore. Oggi vi voglio parlare appunto di alcune meraviglie che il Signore, nella sua bontà, ha compiuto nel mondo materiale e nel mondo spirituale. A pensarci bene vedremo che ben poco dobbiamo invidiare alle turbe di Galilea, mentre invece dovremmo pentirci di essere stati troppo ingrati e freddi col Signore e di non avere più spesso esclamato di Lui: « Ha fatto bene tutte le cose! ». – 1. ALCUNE MERAVIGLIE CHE SI VEDONO. Pensate, per esempio, al sole, a questo astro maggiore della natura che Iddio fa sorgere ogni giorno tanto sui giusti che sopra i cattivi. È tale, da solo, una meraviglia, che molti popoli antichi avvolti nelle tenebre della superstizione, lo hanno adorato come fosse una divinità. Questa massa enorme di fuoco il Signore l’ha posta in mezzo a molti pianeti che gli girano attorno come soldati col loro capitano. Fosse troppo vicino alla terra la abbrucerebbe col suo caldo, fosse invece eccessivamente lontano non le giungerebbe più il calore e la luce richiesta. Il Santo re Davide assomiglia il sole ad uno sposo, splendido nei suoi vestiti da nozze, che avanza circondato da una festa radiosa. Provate a pensare che sarebbe mai di tutto il creato se il sole non ci fosse più. Invece col dolce tepore dei suoi raggi mattinieri sveglia la natura che dorme e le imprime il bacio dell’amore di Dio. E difatti, al suo primo saluto rispondono gli uccelli col loro cinguettio chiacchierino, rispondono le erbe e i fiori che drizzano su in alto i loro steli ed aprono le corolle olezzanti ai più grati profumi. Perfino le onde del mare s’acquietano al suo apparire, perfino gli uomini cominciano più volentieri la loro giornata di fatica e di sudore. Ma se il sole ci fosse sempre, noi ci stancheremmo: ed ecco la notte ristoratrice a portare il suo riposo agli uomini ed alla natura, a compensare quasi con la sua freschezza il calore e l’aridità del giorno. Ecco ancora l’avvicendarsi bello delle varie stagioni nel corso non breve di un anno intero. L’autunno semina a mani piene, l’inverno prepara e rafforza i germogli, la primavera offre l’incanto dei fiori, l’estate porta la gioia dei frutti. Se dopo il sole, voi pensate alla terra, alla madre terra che agli uomini dona la varietà delle pietre e dei marmi onde costruire le case, la ricchezza del cotone, del lino, della lana, della seta con cui fabbricarsi le vesti, l’abbondanza dei frutti onde non solo saziare la fame ma allietare il gusto in mille maniere, voi non potete fare altro che innalzare l’inno della riconoscenza e dell’amore a Dio che ha fatto bene tutte le cose. Il creato è un inno sublime, è una musica bella che canta la grandezza e soprattutto la bontà del Signore. Ma ogni cosa è fatta per l’uomo, ogni essere il Creatore l’ha voluto perché meno triste fosse la dimora di colui che è il re del creato. Questo è lo scopo della creazione in tutta la moltitudine immensa delle cose necessarie oppure soltanto utili. Ma tocca poi all’uomo capire il suo dovere e servirsi delle cose create per salire verso il Creatore. Il Santo re Davide quando cantava sulla cetra le lodi di Dio chiamava tutto il creato a benedire il Signore: aveva capito che « i cieli narrano la gloria di Dio, e il firmamento annunzia le opere delle sue mani, Un giorno getta all’altro la parola della lode e una notte trasmette all’altra le notizie: e queste non sono parole né discorsi di cui non si sappia intendere la voce » (Ps., XVIII, 1-4). – 2. ALCUNE MERAVIGLIE CHE NON SI VEDONO. Bello, interessante lo studio degli astri, lo studio della terra che noi abitiamo, ma, o Cristiani, c’è un’altra astronomia, un’altra geografia che non si vede ma pure esiste ed è sublime e stupenda: è il mondo soprannaturale, la vita dei figlioli di Dio, è tutto il meraviglioso intreccio di quelle verità che si studiano sopra il Catechismo e che la Chiesa insegna ai piccoli e ai grandi. Saremmo ingenui se noi pretendessimo in pochi minuti di far passare sia pure brevemente tutto quanto fa parte della vita dell’anima cristiana: solo gettiamo uno sguardo sopra qualche astro splendente di luce più bello in questo panorama che Dio soltanto può comprendere bene. La grazia. — Cosa sia proprio, noi non lo sappiamo: ma è certo che se non abbiamo il peccato mortale noi la possediamo dal giorno in cui abbiamo ricevuto il S. Battesimo. S. Caterina da Siena vide un giorno, per favore divino, un’anima priva di peccato e divinizzata dalla grazia. Era tanta la bellezza di quella visione e la dolcezza che ne ridondava in lei ammirante che sarebbe venuta meno se Dio non l’avesse sostenuta. – Quando a Lisieux, nella clausura delle carmelitane, morì S. Teresa del Bambino Gesù, tutte le suore sentirono per le sale, per le celle del convento un finissimo olezzo di violette, tanto che sembrava ritornata la primavera. AI contrario, ci furono dei Santi a cui il Signore fece vedere l’anima in peccato mortale. Il ribrezzo, il puzzo, lo schifo che ne provarono fu tale da farli morire, se Dio non li avesse sostenuti. Dunque, o Cristiani, la grazia è lo splendore, è il profumo, è la vita, è il sole dell’anima. Guai se questo sole si spegne! E allora teniamolo acceso, conserviamolo sempre radioso col fuggire il peccato. Solo il peccato è la vera rovina dell’anima, scomparsa la grazia, l’anima è arida e secca come il deserto, è fredda come il ghiaccio, in una parola, è morta come la terra senza sole. La grazia è vita, ma perché possa durare occorre che sia alimentata. Nutrimento di questa vita sono i Sacramenti e sopra tutti il Sacramento dell’Eucaristia. Attorno all’Ostia bianca tutto è silenzio, ma io sfido chiunque a trovare una meraviglia più grande della Santa Eucaristia. Se la grazia è qualche cosa di sublime, l’Eucaristia è ancora più grande. La grazia è creata da Dio nell’anima, ma l’Eucaristia, contiene Gesù Cristo stesso, il Figliuolo di Dio, il dispensatore della grazia divina che ci ha meritato con la sua Passione. – Le pensiamo noi queste cose quando andiamo in chiesa a sentire la S. Messa? Restiamo persuasi quando passiamo davanti ai nostri templi? Se è così, in chiesa bisogna diportarci bene, bisogna pregare con gusto, bisogna accostarci di spesso alla S. Comunione: chi non mangia muore. Cristiani, le anime nostre, hanno ricevuto il dono di una vita divina, ed hanno bisogno di un frequente cibo divino per non morire, avviciniamole spesso al candore santo dell’ostia bianca e poi custodiamole sempre con la massima cura perché hanno toccato Gesù. – In una notte fiammante di stelle una donna ed un uomo guardavano il firmamento con gli occhi torbidi di peccati. « Martino — disse la donna — guarda come è bello il cielo! ». « Sì! — rispose Lutero — è bello ma non è fatto per noi! ». Cristiani, per gustare le bellezze del cielo bisogna avere la grazia di Dio. Oh allora il cielo stellato e le meraviglie della natura ci fanno pensare con un desiderio immenso alla vita di gloria che si raggiunge con la vita della grazia. — APRI L’ANIMA ALLA PREGHIERA. I gesti di Gesù in questo miracolo, ci ricordano il rito del santo Battesimo. È ancora Gesù che nella persona del suo ministro tocca l’orecchio e bagna di saliva le labbra del battezzando, e ripete il suo comando miracoloso: « Apriti! ». Apriti! e l’anima ch’era sorda e muta alla vita soprannaturale si apre alla grazia che da ogni parte scaturisce in lei e la rende una nuova creatura, innestata a Cristo come un tralcio nel tronco della vite, figlia anch’essa di Dio e perciò erede delle divine sostanze. Questi sono gli effetti del Battesimo. Ma l’immenso tesoro di grazie che Dio pone in noi deve essere accuratamente conservato, rinnovato, accresciuto con una continua preghiera. È necessario che il battezzato preghi sempre senza mai cessare. In un libro molto noto di letteratura umoristica si parla di un buffo barone (quello di Münchhausen) il quale pretendeva di sollevarsi da terra aggrappandosi ai capelli. Illusi nella medesima stoltezza sono quei Cristiani che pensano di vivere il loro Battesimo e di salvarsi senza pregare continuamente, soltanto aggrappati alle proprie forze. – Nell’ordine soprannaturale noi, colle nostre forze, non possiamo tener fronte ai nostri nemici spirituali così astuti e così forti. Non possiamo nella nostra debolezza sostenere il peso della legge di Dio e osservare i comandamenti. Non possiamo compiere il minimo atto di virtù. Esplicita la parola di Gesù Cristo: « Senza di me non potete far nulla » (Giov., XV, 5); è ben esplicita la parola dell’Apostolo Paolo: « Noi non siamo capaci di pensare, da per noi stessi, qualche cosa di buono; la nostra capacità è da Dio » (II Cor, III, 5). Da ciò risulta che la preghiera è il linguaggio indispensabile della vita cristiana e che ogni mutismo in proposito è ingiustificabile. – LA PREGHIERA È IL LINGUAGGIO DELLA VITA CRISTIANA. Lo Spirito Santo provoca continuamente l’anima battezzata con queste parole: « apriti alla preghiera! ». Anzi Egli stesso forma nel profondo dei cuori quei gemiti inenarrabili, quegli atti di domanda fiduciosa che attraversano i cieli e vanno a toccare il cuore di Dio. – a) Quando alla vista di un cielo stellato, d’un ridente mattino, d’un campo promettente copioso raccolto, d’una cerchia di monti, di un’azzurra conca di lago, dello sconfinato orizzonte del mare, voi assurgete ad ammirare la grandezza, la bellezza, la forza di Dio Autore di tutte le cose; quando considerando le vicende degli uomini e i casi stessi della vostra vita voi intravvedete la trama della sapienza e della bontà di Dio che tutto dispone soavemente; e nel medesimo tempo di fronte alla Maestà Divina sentite la nullità del vostro essere, e v’inchinate col vostro pensiero profondamente davanti a Lui, riconoscendolo per vostro Padre, allora l’anima vostra si eleva a Dio: voi pregate. Questa è preghiera di adorazione. È un dovere la preghiera di adorazione; è un dovere del figlio riconoscere suo padre; del suddito riconoscere il suo sovrano; del servo riconoscere il suo padrone; della creatura riconoscere il suo Creatore. È poi una delle forme più belle di preghiera, perché l’anima non chiede nulla per sé, dimentica se stessa e si immerge in Dio: lo loda, lo adora, lo benedice, lo glorifica per nessun motivo interessato, ma solo per la sua gloria. Propter magnam gloriam tuam! – b) Quando ripensando ai molti e segnalati benefici ricevuti da Dio, voi sentite in fondo all’anima vostra sgorgare l’onda della gratitudine verso di Lui, e mentre il cuore si effonde in teneri affetti, il labbro non sa contenere calde espressioni di ringraziamento, allora l’anima vostra si eleva a Dio: voi pregate. Questa è preghiera di ringraziamento. È un dovere la preghiera di ringraziamento, perché è un dovere del beneficato essere riconoscente dei benefici ricevuti. Un soldato indigeno durante la guerra africana faceva questa pungente osservazione: « I soldati bianchi, quando si sentono colpiti dalla disgrazia, allora implorano soccorso: aiutami, buon Dio! buon Dio, aiutami! Quando invece tutto procede bene, a loro gusto, allora se ne fregano di Dio, anzi lo bestemmiano con le parole e lo insultano con le opere ». Quel soldato nero forse esagerava, ma diceva una dolorosa verità. Infatti, quanti sospiri, quante novene, lumini, fiori per ottenere una grazia! ed ottenutala, intenti a godersela, si dimentica il benefattore. I più grandi benefici del Signore sono tre: — la Creazione; e di questo lo dovete ringraziare con le preghiere del mattino e della sera; — la Incarnazione del suo Figlio; e di questo lo dovete ringraziare con la S. Messa ogni domenica e ogni festa di precetto. E perché fuggire via prima delle tre «Ave Maria » finali? È forse segno di riconoscenza?  — la vostra divinizzazione mediante la grazia santificante; e di questo lo dovete ringraziare con la fuga dalle occasioni di peccato.  – c) Quando alla considerazione dei vostri sbagli, vi sentite profondamente penetrati di umiliazione e di dolore per le offese fatte a Dio, e inorridendo alla vostra perfidia e miseria cominciate a rivolgervi a Lui implorando perdono, allora l’anima vostra si eleva a Dio: voi pregate. Questa è preghiera di propiziazione. È un dovere la preghiera di propiziazione perché è dovere dell’offensore chiedere perdono all’offeso, dichiararsi pronto alla riparazione. – d) Quando nei dubbi, nei pericoli, nelle lotte, nelle tribolazioni, nelle amarezze, voi sentite il bisogno di Dio e a Lui ricorrete chiedendo aiuti materiali e spirituali, invocando specialmente per l’anima luce, assistenza, forza di adempire fedelmente la Sua divina volontà, allora l’anima vostra si eleva a Dio: voi pregate! Questa è la preghiera di domanda. È un dovere la preghiera di domanda (o impetrazione), perché è un dovere indeclinabile per ciascuno di provvedere alla propria eterna salvezza, e così raggiungere il fine vero per cui è stato creato. Siccome nel presente ordine di Provvidenza Dio ha legato la concessione delle sue grazie alla preghiera, è ben chiara la conseguenza che ne deriva: chi prega si salva, chi non prega si danna. – INGIUSTIFICABILE MUTISMO Ho l’impressione incresciosa che in questo nostro tempo si preghi troppo poco. -a) La società moderna, in quanto tale, non prega più: le nazioni sono diventate o atee o indifferenti. Nei parlamenti e dai governi non si nomina più il nome di Dio, né per invocarlo, né per ringraziarlo. – La famiglia moderna va perdendo il suo linguaggio cristiano. Il Rosario in troppe case non risuona più, e quella sua dolce e intima monotonia non solleva più i cuori oppressi dalla faticosa giornata. b) Degli individui, molti non aprono più bocca col Signore: moltissimi aprono ancora la bocca ma non il cuore e non è preghiera la loro. Sono Cristiani che non possono vivere, e in realtà non vivono, in grazia di Dio. In essi il Battesimo è ridotto a un’energia soffocata, a un germe isterilito. satana, ritornandovi con la sua tirannia, li ha rifatti sordi e muti: sordi agli inviti di Dio, muti a chiamarlo e a rispondergli. — Non prego, perché è inutile pregare: Dio vede bene che al mondo ci sono anch’io e sa già i miei bisogni. Dio sa che ci sei al mondo, ma tu non sai che al mondo c’è anche Dio, Dio sa i tuoi bisogni, ma tu non sai i suoi desideri e le sue volontà sopra di te. — Non prego perché non ho mai ottenuto nulla. Senza dubbio tu sbagli le cose da chiedere. Dio non nega mai nulla di ciò che è necessario o utile alla nostra salvezza eterna. I beni temporali che gli vai chiedendo, tu non puoi sapere se siano favorevoli o dannosi alla tua anima. Fidati di Lui. Guai se ascoltasse tutte le sciocchezze che gli chiediamo! Molte nostre preghiere assomigliano a quelle di una fanciulla che pregava perché cessasse la febbre di sua madre così: « Fate che la febbre scenda a zero, fate che  scenda a zero ». — Non prego, perché non ho ottenuto nulla anche quando chiedevo beni spirituali. T’inganni: non ti avrà esaudito in quella forma che t’aspettavi. Dio non ha promesso di esaudirci a modo nostro, ma al suo. S. Monica aveva pregato che Dio non lasciasse partire dall’Africa il suo Agostino, altrimenti non si sarebbe convertito più. Dio lo lascia partire per l’Italia. Monica dunque non fu esaudita? Anzi meglio e più presto: in Italia Agostino doveva convertirsi e porre le basi della sua santità. — Non prego perché non ho fede: mi pare di buttar via il tempo a parlare con nessuno. Appunto perché la tua fede è quasi spenta hai bisogno di pregare di più. La preghiera è l’olio della lampada della fede. S. Tommaso d’Aquino, il più sapiente dei santi e il più santo dei sapienti, diceva: « Ho visto più luce ai piedi del Crocifisso che in tutti i libri dei sapienti ». L’uomo che non prega è un viaggiatore sperduto in una foresta e senza lume. — Non prego perché sono sempre quel medesimo peccatore. E lo sarai, finché non ti metterai a pregare veramente. Senza preghiera si è incapaci di essere puri, di essere umili, di perdonare, di amare. –  Ma la più grave disgrazia di quelli che non pregano è che a poco a poco si rendono incapaci di pregare. È un incensiere spento, che non solleverà più alle sfere celesti una nube di profumo attesa e gradita. È un’arpa dalle corde consunte e infrante, che non vibrerà più nessuna nota che s’accordi ai canti angelici.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXIX:2-3
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me, nec delectásti inimícos meos super me: Dómine, clamávi ad te, et sanásti me.

[O Signore, Ti esalterò perché mi hai accolto e non hai permesso che i miei nemici ridessero di me: Ti ho invocato, o Signore, e Tu mi hai guarito.]

Secreta

Réspice, Dómine, quǽsumus, nostram propítius servitútem: ut, quod offérimus, sit tibi munus accéptum, et sit nostræ fragilitátis subsidium.

[O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno al nostro servizio, affinché ciò che offriamo a Te sia gradito, e a noi sia di aiuto nella nostra fragilità.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:


Sanctus,

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:


Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Prov III: 9-10
Hónora Dóminum de tua substántia, et de prímitus frugum tuárum: et implebúntur hórrea tua saturitáte, et vino torculária redundábunt.

[Onora il Signore con i tuoi beni e con l’offerta delle primizie dei tuoi frutti, allora i tuoi granai si riempiranno abbondantemente e gli strettoi ridonderanno di vino.]

Postcommunio  

 Orémus.
Sentiámus, quǽsumus, Dómine, tui perceptióne sacraménti, subsídium mentis et córporis: ut, in utróque salváti, cæléstis remédii plenitúdine gloriémur.

[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, mediante la partecipazione al tuo sacramento, noi sperimentiamo l’aiuto per l’ànima e per il corpo, affinché, salvi nell’una e nell’altro, ci gloriamo della pienezza del celeste rimedio.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

FESTA DELLA B. V. MARIA ASSUNTA IN CIELO – 15 AGOSTO 2022

FESTA DELLA B. V. MARIA ASSUNTA IN CIELO

15 AGOSTO (2022)

[D. G. LEFEBVRE O. S. B.: Messale romano – L.I.C.E. –R. BERRUTI, TORINO 1936]

Doppio di I classe con Ottava Comune – Paramenti bianchi.

In questa festa, la più antica e la più solenne del Ciclo Mariano (VI secolo), la Chiesa invita tutti i suoi figli sparsi nel mondo a unire la loro gioia (Intr.), la loro riconoscenza (Pref.) a quella degli Angeli che lodano il Figlio di Dio, perché sua Madre è entrata in questo giorno, con il corpo e con l’anima, nel cielo (All.). Nella Basilica di Santa Maria Maggiore si celebra a Natale il Mistero, che è il punto di partenza di tutte le glorie della Vergine ed ancora si celebra oggi l’Assunzione, che ne è l’ultimo. Maria, porta in sé l’umanità di Gesù al momento dell’incarnazione del Verbo; oggi è Gesù, che riceve a sua volta il corpo di Maria in cielo. Ammessa a godere le delizie della contemplazione eterna, la Madre ha scelto ai piedi del suo divin Figlio la miglior parte, che non le sarà giammai tolta (Vang., Com.).

In altri tempi si leggeva il Vangelo della Vigilia, dopo quello del giorno, a fine di dimostrare che la Madre di Gesù è la più fortunata tra tutte, perché meglio d’ogni altra, « Ella ascoltò la parola di Dio ». Questa Parola, questo Verbo, questa Sapienza divina che stabilisce, sotto l’Antica Legge, la sua dimora nel popolo d’Israele (Ep.), è discesa sotto la Nuova Legge in Maria. Il Verbo si è incarnato nel seno della Vergine e ora negli splendori della celeste Sion Egli l’ha colmata delle delizie della visione beatifica. Come Marta, la Chiesa sulla terra si dedica alle sollecitudini delle quali necessita la vita presente ed ancora come Marta, la Chiesa reclama l’aiuto di Maria (Or., Secr., Postc). Una processione fu sempre fatta nel giorno della festa dell’Assunzione. A Gerusalemme era formata dai numerosi pellegrini che andavano a pregare sulla tomba della Vergine e contribuirono così all’istituzione di questa solennità. Il clero di Costantinopoli faceva anch’esso nel giorno della festa dell’Assunzione di Maria una processione. A Roma, dal VII al XVI secolo, il corteo papale, al quale prendevano parte le rappresentanze del Senato e del popolo, andava in quel giorno dalla chiesa di San Giovanni in Laterano a quella di Santa Maria Maggiore. Questo si chiamava fare la Litania.

Assunzione della Beata Maria Vergine.

[Appendice al Messale ut supra]

Doppio di I classe con Ottava Comune. – Paramenti bianchi.

La credenza nell’Assunzione corporea di Maria SS. era già radicata da secoli nel cuore dei fedeli, profondamente persuasi che la Vergine, sin dal momento del suo transito da questa terra al Cielo, era stata glorificata da Dio anche nel corpo, senza che dovesse attendere che questo risorgesse, insieme con quello di tutti gli altri, alla fine del mondo. Cosi la festa dell’Assunzione, celebrata già verso il 500 in Oriente, costituì la più antica e la maggiore solennità dell’anno in onore di Maria SS. Tuttavia la realtà dell’Assunzione corporea di Maria in Cielo non fu oggetto di una solenne definizione da parte del Papa se non il 1° novembre 1950. In tale giorno, il Sommo Pontefice Pio XII proclamò dogma di fede che « Maria, terminata la carriera della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste quanto all’anima e quanto al corpo. – Questa definizione, maturata lentamente, ma incessantemente nei diciannove secoli che seguirono al beato transito di Maria da questa terra, ha ed avrà un’eco incalcolabile nella dottrina come nella vita cristiana. – Una delle sue conseguenze pratiche sarà quella di attirare vieppiù l’attenzione dei fedeli sulla futura glorificazione nostra non solo quanto all’anima, ma anche quanto al corpo. Come Adamo ci rovinò nell’una e nell’altro, così Gesù ci redense non solo quanto all’anima, ma anche quanto al corpo, cosicché l’anima del giusto è destinata ad una beatitudine immensa mediante la visione beatifica di Dio, ed il corpo alla sua volta verrà risuscitato, trasformato e configurato a quello glorioso del Cristo. Per Maria SS. la glorificazione corporea avvenne alla fine della sua carriera mortale; per gli altri giusti non avverrà che alla fine del mondo; ma se devono attenderla, non possono però dubitarne; la loro redenzione è certissima e sarà completa e perfetta (Rom. VIII, 23; Ef. IV, 30). Avendo già realizzato pienamente in se stessa il disegno divino della nostra redenzione, Maria SS. è per noi, colla sua Assunzione corporea, un altro modello, oltre quello di Gesù, della divinizzazione dell’anima mediante la visione beatifica e della glorificazione del corpo cui tutti siamo chiamati e che tutti dobbiamo meritare con le buone opere e con le sofferenze di questa vita cristianamente sopportate. Come del Cristo, così saremo coeredi di Maria SS., se soffriremo con Lei e come Lei (Rom. VIII, 17). – D’altra parte, l’Assunta non soltanto ci ricorda quale sia la nostra meta soprannaturale e la via per raggiungerla, ma ci presta anche il suo validissimo aiuto. A quel modo che una buona mamma mira sempre a rendere partecipi della sua felicità tutti i suoi figli, così la Madre nostra celeste regna in Paradiso sempre sollecita della salvezza di tutti gli uomini. S. Paolo ci rappresenta Gesù che vive alla destra del Padre, sempre pregando per noi (Rom. VIII, 34; Ebr. VII, 25); la Chiesa, alla sua volta, ci dice che la Vergine è stata assunta in cielo, affinché fiduciosamente s’interponga presso Dio per noi peccatori (Segreta della Vigilia). – Affine di perpetuare anche nella Liturgia il ricordo della definizione del dogma dell’Assunzione di Maria SS., la Santa Sede ha pubblicato una nuova Messa in onore dell’Assunta, ordinando di inserirla nel Messale il giorno 15 d’agosto, in luogo di quella antica (A. A. S. 1950, pag. 703-5).

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confiteor

Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nobis omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.


S. Indulgéntiam,
absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

Introitus

Ap XII:1
Signum magnum appáruit in cœlo: múlier amicta sole, et luna sub pédibus ejus, et in cápite ejus coróna stellárum duódecim

[Un gran segno apparve nel cielo: una Donna rivestita di sole, con la luna sotto i piedi, ed in capo una corona di dodici stelle].

Ps XCVII:1
Cantáte Dómino cánticum novum: quóniam mirabília fecit.

[Cantate al Signore un càntico nuovo: perché ha fatto meraviglie].


Signum magnum appáruit in coelo: múlier amicta sole, et luna sub pédibus ejus, et in cápite ejus coróna stellárum duódecim

[Un gran segno apparve nel cielo: una donna rivestita di sole, con la luna sotto i piedi, ed in capo una corona di dodici stelle].

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui Immaculátam Vírginem Maríam, Fílii tui genitrícem, córpore et ánima ad coeléstem glóriam assumpsísti: concéde, quǽsumus; ut, ad superna semper inténti, ipsíus glóriæ mereámur esse consórtes.

[Onnipotente sempiterno Iddio, che hai assunto in corpo ed ànima alla gloria celeste l’Immacolata Vergine Maria, Madre del tuo Figlio: concédici, Te ne preghiamo, che sempre intenti alle cose soprannaturali, possiamo divenire partecipi della sua gloria].

Lectio

Léctio libri Judith.
Judith XIII, 22-25; XV:10

Benedíxit te Dóminus in virtúte sua, quia per te ad níhilum redégit inimícos nostros. Benedícta es tu, fília, a Dómino Deo excelso, præ ómnibus muliéribus super terram. Benedíctus Dóminus, qui creávit coelum et terram, qui te direxit in vúlnera cápitis príncipis inimicórum nostrórum; quia hódie nomen tuum ita magnificávit, ut non recédat laus tua de ore hóminum, qui mémores fúerint virtútis Dómini in ætérnum, pro quibus non pepercísti ánimæ tuæ propter angústias et tribulatiónem géneris tui, sed subvenísti ruínæ ante conspéctum Dei nostri. Tu glória Jerúsalem, tu lætítia Israël, tu honorificéntia pópuli nostri.

[Il Signore ti ha benedetta nella sua potenza, perché per mezzo tuo annientò i nostri nemici. Tu, o figlia, sei benedetta dall’Altissimo piú che tutte le donne della terra. Sia benedetto Iddio, creatore del cielo e della terra, che ha guidato la tua mano per troncare il capo al nostro maggior nemico. Oggi ha reso cosí glorioso il tuo nome, che la tua lode non si partirà mai dalla bocca degli uomini che in ogni tempo ricordino la potenza del Signore; a pro di loro, infatti, tu non ti sei risparmiata, vedendo le angustie e le tribolazioni del tuo popolo, che hai salvato dalla rovina procedendo rettamente alla presenza del nostro Dio. Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la gloria di Israele, tu l’onore del nostro popolo!]

Graduale

Ps XLIV:11-12; 14.
Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam, et concupíscit rex decórem tuum.

[Ascolta, o figlia; guarda e inclina il tuo orecchio, e s’appassionerà il re della tua bellezza.]

V. Omnis glória ejus fíliæ Regis ab intus, in fímbriis áureis circumamícta varietátibus. Allelúja, allelúja.

[V. Tutta bella entra la figlia del Re; tessute d’oro sono le sue vesti. Allelúia, allelúia].


V. Assumpta est María in cælum: gaudet exércitus Angelórum. Allelúja.  

[Maria è assunta in cielo: ne giúbila l’esercito degli Angeli. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc 1:41-50
“In illo témpore: Repléta est Spíritu Sancto Elisabeth et exclamávit voce magna, et dixit: Benedícta tu inter mulíeres, et benedíctus fructus ventris tui. Et unde hoc mihi ut véniat mater Dómini mei ad me? Ecce enim ut facta est vox salutatiónis tuæ in áuribus meis, exsultávit in gáudio infans in útero meo. Et beáta, quæ credidísti, quóniam perficiéntur ea, quæ dicta sunt tibi a Dómino. Et ait María: Magníficat ánima mea Dóminum; et exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo; quia respéxit humilitátem ancíllæ suæ, ecce enim ex hoc beátam me dicent omnes generatiónes. Quia fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus, et misericórdia ejus a progénie in progénies timéntibus eum.”

[In quel tempo: Elisabetta fu ripiena di Spirito Santo, e ad alta voce esclamò: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno! Donde a me questo onore che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, infatti, che appena il tuo saluto è giunto alle mie orecchie, il bimbo ha trasalito nel mio seno. Beata te, che hai creduto che si compirebbero le cose che ti furono dette dal Signore! E Maria rispose: L’ànima mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore, perché ha guardato all’umiltà della sua serva; ed ecco che da ora tutte le generazioni mi diranno beata. Perché grandi cose mi ha fatto colui che è potente, e santo è il suo nome, e la sua misericordia si estende di generazione in generazione su chi lo teme.]

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

L’ASSUNTA

Le realtà più grandi, le consolazioni più vere quaggiù non si possono vedere, né sperimentare. Dobbiamo crederle con la fede, dobbiamo aspettarle con la pazienza. Potessimo vedere e godere quello che oggi si celebra in cielo! Di tutti i miliardi di corpi umani che ebbero il soffio della vita sulla terra, due soli non conobbero il disfacimento e la corruzione del sepolcro, e sono già lassù, gloriosi: il corpo di Cristo e il corpo di Maria; quello della Madre Vergine e quello di suo Figlio nato da lei per opera dello Spirito Santo, Madre e Figlio non mai disgiunti nell’anima, non potevano essere disgiunti col corpo. E in giro a Maria, radiosa col suo corpo virgineo, tutto il paradiso converge e si fa più bello e più lieto. Gli Angeli a ghirlande infinite volandole intorno ripetono il saluto dolcissimo che fu trovato per primo da uno di loro: « Ave, o piena di grazia! ». I Patriarchi, i Profeti dell’Antico Testamento non si saziano di guardare in quel volto, in quegli occhi misericordiosi, e le dicono: .« Salve Regina! quanto t’abbiamo aspettato senza poterti vedere: e morendo il nostro sguardo estremo si volgeva ad oriente, sospirando che tu sorgessi, mistica aurora che porti il Sole di giustizia e di salvezza, Gesù! ». E gli Apostoli vanno ricordando con Lei i giorni trepidi della vita terrena: quand’Ella premurosa e delicata veniva a trovare Gesù stanco e addolorato. Quando stette quasi sola sotto la croce, quando lo videro risorto, quando discese lo Spirito divino su tutti raccolti in giro a Lei nel cenacolo. E i Martiri avvolti nella fiammante porpora del suo sangue, e i Vergini vestiti di gigli eterni, e tutti i Santi, con tenerissimo amore si svolgono a Lei, perché ciascuno vede che per Lei ha meritato lo gloria che ha, e per Lei è entrato in paradiso. Ella è la mediatrice d’ogni grazia. Ella è la porta del cielo. Ma la parola più soave e più profonda non le può essere detta che dal suo Gesù. L’eterno Figlio di Dio si piega su Lei e le dice: « Mamma! », I trionfi eterni cogli Angeli e coi Santi non fanno però a Maria dimenticare gli altri suoi figliuoli, pellegrini ancora sulle strade dell’esilio. E noi della terra dobbiamo unirci ora con quei del cielo e glorificare il mistero della sua Assunzione. Meditando: come avvenne; qual segno di gloria sia per Lei; qual pegno di misericordia per noi.

1. COME AVVENNE

Delle persone amate noi desideriamo sapere tante notizie, ed anche le più particolareggiate ci sono più preziose e care. E quando non riusciamo ad averne di sicure, cerchiamo con insistenza almeno le più probabili. E quando non ne riceviamo delle nuove, andiamo tra noi ripassando quelle vecchie. Ogni buon Cristiano con questa affettuosa volontà parla o ascolta di Maria, la sua dolcissima e celeste Madre. L’ultima volta che nella Sacra Scrittura si parla della Madonna è negli « Atti degli Apostoli », ove si dice che dopo l’Ascensione in cielo del suo Figlio diletto, Ella tornò con gli Apostoli in Gerusalemme, e si ritirò insieme con loro nel Cenacolo. Essi preferivano stare al piano superiore per darsi con maggiore entusiasmo e con meno disturbo alla preghiera, mentre aspettavano, com’era stato loro promesso, la discesa dello Spirito Santo. Ci possiamo domandare: « Perché mai Gesù Cristo, allorché salì al cielo non si condusse dietro la sua Madre? Lui che la volle insieme sul Calvario, perché non la portò insieme nell’Ascensione; perché gli piacque di prolungarle i giorni della vita terrena, giorni che non potevano essere che sbiaditi per Lei dopo che il suo Gesù non era più sulla terra? ». È che gli Apostoli e i Discepoli avevano bisogno proprio di Lei, del suo incoraggiamento, del suo compatimento materno, del suo consiglio. Infatti, la Madonna mise su casa insieme a S. Giovanni, e, con tutta probabilità, almeno nei primi tempi abitò in Gerusalemme. Troppi ricordi, dolorosi e soavi, la tenevano legata alla città di Davide. E poi Gerusalemme era un centro donde gli Apostoli partivano per le loro prime esperienze evangelizzatrici e dove si davano di quando in quando appuntamento. Così Ella poteva essere presente ad ogni loro partenza, ad ogni ritorno. Così essi potevano raccogliersi intorno a Lei, raccontarle i primi risultati, ed anche gli insuccessi, forse lasciavano curare da Lei le ferite ricevute dagli ingrati uomini. E la Madonna li ascoltava con tenerissima comprensione materna, benediceva affettuosamente quegli evangelizzatori gagliardi e pronti alla morte, e sapeva dir loro una parola piena di forza e di soavità, parola in cui sensibilmente tremava l’eco della voce di Gesù. – Ma poi i viaggi degli Apostoli si fecero sempre più lunghi, i loro ritorni sempre giù rari. Qualcuno non ritornava più: l’avevano ucciso. Sicché la sua missione di attrice e di madre amorosa verso la Chiesa nascente era ormai finita; l’altissima santità, nella quale Ella doveva risplendere nei secoli eterni, era ormai raggiunta. Perciò, prima che gli Apostoli si disperdessero per l’ultima volta e per sempre per le strade del mondo, Ella, avendoli quasi tutti intorno a sé, li salutò, poi chiuse gli occhi come se dormisse dolcemente. Ma era morta. Quanti anni aveva la Madonna quando morì? secondo la tradizione e il calcolo più probabile, doveva aver superato la sessantina, ma di poco. Di che male morì la Madonna? Tutta una tradizione santa è concorde nell’assicurare che l’Immacolata non morì se non d’amore, avverando così alla lettera le parole della Sacra Scrittura: « Dicite Dilecto meo, quia amore langueo ». (Cant. V, 8). A noi, così materiali e rudi di cuore, può recar meraviglia che si possa morire consunti da una fiamma d’amore divino. Ma pensate che anche un amore semplicemente umano può consumare ed estenuare la vita. Quanto più lo potrà un amore divino, incomparabilmente più ardente e forte! S. Filippo Neri conobbe un monaco d’Aracoeli che continuamente stava a letto tutto languido, e s’andava spegnendo a poco a poco, senza aver altra infermità che d’amore. E lui stesso, S. Filippo Neri, per un impeto d’amore divino sentì gonfiarsi talmente il petto, che due costole gli si incurvarono grandemente. E la cosa fu documentata da medici valenti, tra cui quell’Andrea Cesalpino, che fu tra i primi a scoprire e a indagare la circolazione del sangue. E S. Teresa d’Avila, non ebbe il cuore ferito sensibilmente da un trafittura d’amore divino? Ora se queste cose sono potute avvenire nei Santi, che cosa fu di Maria, il cui amore da solo superava quello di tutti i Santi messi assieme? Se Dio non avesse impedito che il suo amore soprannaturale ridondasse nel corpo, una vampa immensa l’avrebbe consunta fin dai primi anni di sua vita, perché fin dal principio Ella era colma d’amore divino. Orbene, quando a Dio piacque, quando nei suoi disegni eterni giunse il tempo di liberarla dall’esilio, l’eterno immenso amore non più impedito comunicò una scintilla al cuore di Maria. Fu abbastanza per metterla in una dolcissima consumazione d’ardore febbrile e santo. Sempre più irresistibile le risonava nell’anima una voce che la chiamava incessantemente: « Vieni, levati, o unica prediletta! Passato è l’inverno, dileguate son le nebbie gelide: sono apparsi i fiori nella nostra contrada, i fiori della tua corona. Levati, e vieni: sarai incoronata ». Veni coronaberis! Di comunione in comunione, (ed era probabilmente S. Giovanni che a Lei porgeva suo Figlio sotto il velo eucaristico), crescendo sempre a dismisura gli assalti d’amore, finirono per vincere la sua fibra. Le membra virginee si sciolsero, e spirò. Ma quel corpo, dal quale era nato il Salvatore del mondo, non doveva corrompersi nella sepoltura. – Un racconto antichissimo che già passava sulla bocca dei cristiani del V secolo, ed anche prima, così narra: « Come gli Apostoli, che le stavano intorno, la videro addormentarsi nel sonno della dolce morte, pieni di riverenza portarono il corpo ad un sepolcro già preparato e ve lo chiusero. Intanto s’udiva per l’aria un canto soavissimo, una melodia celestiale, che durò per tre giorni. Al terzo giorno, arrivò S. Tommaso. Dolente di non esser giunto a tempo per dare l’estremo saluto alla Vergine morente, bramò di vedere ancora una volta la sacra spoglia della Madre di Gesù. Andarono tutti insieme al sepolcro e lo discopersero: invece della salma videro fiori. Allora s’accorsero che la Vergine Madre era giaciuta nella tomba quanto era durata l’angelica melodia: tre giorni come il suo Figlio divino. Poi era risorta e salita al cielo. Perciò resero con gaudio ineffabile gloria a Colui che chiamava in paradiso quel corpo dal quale s’era degnato di nascere ». Dunque per virtù e grazia divina la Madonna risuscitò, e viva in anima e corpo trionfa lassù, al fianco del suo Unigenito. La terra non possiede più nulla di Lei, ma da tutti i cieli piove incessantemente la sua misericordia e la sua consolazione sulla nostra valle del pianto.

2. SEGNO DI GLORIA PER MARIA

Nel mistero che oggi celebriamo sono da considerarsi particolarmente tre aspetti come quelli che ci rivelano tre glorificazioni della virtù di Maria.

a) Maria risuscita. La risurrezione fu il trionfo del suo immacolato concepimento, e della sua verginità perpetua. Noi sappiamo come la morte e la conseguente corruzione del sepolcro siano un castigo dovuto al peccato. Orbene Maria è senza peccato: senza la più lieve ombra d’imperfezione trascorse i suoi giorni sulla terra; e perfino dal peccato originale che tutti i discendenti d’Adamo contraggono necessariamente, Ella fu esente per sommo privilegio. Era giusto dunque che la corruzione della morte non toccasse quel santo suo corpo. Anche tutti gli altri corpi degli uomini peccatori risusciteranno alla fine del mondo, quando le tremende trombe angeliche squilleranno. Ma questo corpo verginale e castissimo di Maria meritava d’essere svegliato molto tempo prima, e in più dolce maniera. Il suo diletto Figlio non la lasciò a lungo preda della morte, ma dopo tre giorni soltanto andò a destarla: « Svegliati, t’affretta: l’eterna primavera per te è già venuta ». Infine, scrive S. Giovanni Damasceno, conveniva che questa oliva sempre verdeggiante, simbolo della pace tra cielo e terra, mai non si sfrondasse e fosse trapiantata intatta dalla triste riva del mondo alla sponda del fiume d’eternale dolcezza che irriga la santa città del paradiso.

b) Maria sale in alto. L’ascesa fu il trionfo della sua umiltà. Non si era Ella chiamata la serva del Signore, quando un Arcangelo stesso si chinava a riverire la sua altissima elezione e santità? Non visse, la Regina del cielo, povera e ignota a tutti, nella casa d’un fabbro, ubbidendogli, servendolo, accudendo alle quotidiane umili faccende domestiche? E Lei che non si lasciò vedere nelle poche ore di trionfo durante l’ingresso in Gerusalemme, rimase sotto la croce segnata a dito e derisa forse come la madre d’un falso profeta, d’un preteso re, d’un seduttore di folle. Era giusto dunque che quel Dio, che dà la sua grazia agli umili e la ritoglie ai superbi, esaltasse la Vergine umilissima sopra tutti i cori degli Angeli e dei Santi.

c) Maria entra in cielo. Quest’ingresso in paradiso col suo corpo è il trionfo della sua maternità divina. Che cosa può mai essere la gioia d’una madre terrena nel riabbracciare dopo dieci o quindici anni un figlio carissimo, confrontata con l’abbraccio eterno di Maria col suo Gesù? Poté rivedere quel volto che tante volte aveva accarezzato, quegli occhi amorosissimi e profondi in cui tante volte aveva spiato le divine volontà, quelle mani che ella aveva, adorando, baciate… Tutto lo strazio subìto durante la settimana di passione le veniva incomparabilmente ricompensato e per tutta l’eternità. Sempre vicino al suo Figlio e al suo Dio, beata della sua infinita beatitudine. Tutto il cielo ora la segnava a dito: « Ecco, ecco la gran Madre di Dio! ».

3. PEGNO DI MISERICORDIA PER NOI

In una terribile siccità, dalla terra arida e screpolata, Elia vide levarsi una nuvoletta, che sull’orizzonte dapprima non pareva più vasta d’un piede d’uomo. Ma ecco quella nuvoletta dilatarsi meravigliosamente, occupare tutto il cielo e poi disfarsi in pioggia fresca, ristoratrice, benefica. Simile a quella nuvoletta saliente è la Madonna Assunta. Ella, andando in cielo non ha dimenticato i suoi figliuoli rimasti sulla terra, ma su tutti fa piovere un’onda incessante di grazie. Perciò il mistero dell’Assunzione è per noi un pegno di misericordia: è un aiuto, una speranza, un conforto.

.a) È un aiuto nei bisogni. Ora infatti abbiamo presso: Dio la Vergine, la Vergine ch’è potente, ch’è Madre. Se ella; al banchetto delle nozze di Cana potè piegare la volontà di Gesù a favore di due sposi, oggi seduta al banchetto del cielo, collocata nell’atto del suo grande ufficio di mediatrice, può ottenerci ogni bene che noi le chiediamo. Ella ha ricevuto tutti i poteri per donarci grazie, e solo desidera di esercitarli. Infelici quelli che non sanno chiedere a Maria! I cuori che non la pregano mattina e sera, che non l’invocano nell’ora del pericolo, che hanno dimenticato le sue novene e feste, non sanno che cosa può Maria.

b) È una speranza di santificazione e di salvezza. La Vergine è stata portata in alto perché tutti abbiano a rispecchiarsi in Lei, ad imitarla. Leviamo gli occhi nostri alla sua eccelsa perfezione e poi abbassiamoli sulla nostra miseria. Se confrontassimo la sua fede ardente con la nostra incredulità, la sua umiltà col nostro egoistico orgoglio, e specialmente confrontassimo il suo candore liliale e perenne con la nostra sensualità, quanto dovremmo arrossire! Almeno oggi, da codesto confronto, s’accenda in noi un desiderio veemente e uno sforzo costante d’imitare le sue virtù. Se abbiamo veramente un tale desiderio e facciamo un tale sforzo, non c’è che da nutrire la più grande speranza di santificazione e di salvezza. Maria è la Madre nostra ed è più desiderosa Lei d’accorrere in aiuto della nostra debolezza e insufficienza, di quanto lo possiamo essere noi. Diciamole dunque frequentemente: « Sancta Domina Dei Genîtrix, sanctificationes tuas transmitte nobis ».

c) È un conforto. Perché la Vergine fu assunta nel più eccelso gaudio del paradiso anche col corpo? Perché ebbe forza e generosità d’accettare i dolori più profondi. Il suo esempio e il suo aiuto ci conforti a portare ogni giorno, con cristiana serenità e fiducia, la nostra parte di dolore. Il premio che accanto a Lei ci è riserbato illumini le nostre ore di oscurità e di abbattimento. Non ci sia cruccio nel cuor nostro che la Madonna ignori: a lei tutto come a una mamma bisogna confidare. Confidiamole specialmente le angustie e le lotte spirituali dell’anima nostra: Ella che ha vinto il male in ogni parte, che ha schiacciato sotto il suo calcagno il capo del serpente, non può lasciare inesaudita l’implorazione di certi trepidi istanti. – Ma l’istante in cui soprattutto avremo bisogno del suo conforto è quello estremo dell’agonia. Istante d’abbandono straziante, d’angoscia indicibile, di tremori. Nessuno di questo mondo ci potrà confortare in quell’istante da cui dipende il nostro eterno destino. Nessuno, ma la Madonna lo potrà. E lo farà. Con una vita pura e devota meritiamo che la Madonna ci assista, e ci stringa al suo seno nel momento dell’estremo passaggio. Sul cuore di Maria, nessun timore. Poggiati su un cuore risorto scenderemo nella tomba con la certezza di rivivere. Poggiati al cuore di Lei che è morta d’amore, sarà concesso anche a noi almeno di morire nell’amore di Dio, cioè nella sua grazia. È ben questa la preghiera che ogni giorno, che più volte al giorno, i figli rivolgono alla Madre: « Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi: ora, e nell’ora della nostra morte, Così sia ». — O DOLCE VERGINE MARIA ASSUNTA. Dal domma dell’Assunzione sgorga una preziosissima grazia, che fa dolce il nostro vivere e fa dolce il nostro morire.

1. FA DOLCE IL NOSTRO VIVERE.

.a) Per noi che abbiamo una natura sensibile, riesce molto duro pensare a persone intensamente amate senza poter dare loro un volto e una figura. Ora, se pensando alla cara e santa Madonna le diamo un volto per sorriderci, mani per prenderci per mano o carezzarci maternamente, e pupille lucenti per vederci, questo non è un’illusione fantastica del sentimento, ma è la consolante realtà assicurataci incrollabilmente dalla definizione dommatica del 1° novembre 1950. Riflettete. Quel volto che ha sorriso sulla povera culla del piccolo Verbo Incarnato provocandone il primo sorriso, quel dolce volto c’è ancora. E sorride anche a noi ogni volta che riportiamo vittoria sui nostr duri egoismi, sulle nostre sensibilità torbide. Col suo sorriso ci infonde il desiderio della castità, ci provoca a compiere atti di fede, di speranza e di carità, ci sprona ad essere ogni giorno più buoni e più generosi. Quelle mani che si posarono tante volte sulla testa del Figlio di Dio, il Quale le cresceva in casa, che diligenti e puntuali gli preparavano la parca mensa e gli rammendavano le umili vesti, quelle mani ci sono ancora. E sono vive: vanno in cerca della nostra testa per disperdervi con la loro carezza ogni ombra di malinconia che non è secondo Dio; vanno in cerca delle nostre mani per renderle pure, pronte al gesto di carità, agili nelle opere buone. Quegli occhi che contemplarono le ferite e gli squarci che i peccati di ciascuno di noi hanno fatto nel corpo liliale del suo Unigenito, quando le giaceva disteso sulle ginocchia, esanime e insanguinato, quegli occhi ci sono ancora. E ci guardano, ci seguono dappertutto, dolenti, amorosissimi, supplichevoli. Ci supplicano di non rendere inutili le atroci piaghe che il suo Gesù ha sopportato per noi.

b) Un secondo pensiero ci aiuta a sentire la dolcezza che dall’Assunta piove sul nostro vivere. La Madonna tutta viva, anima e corpo, è in cielo. Che fa in cielo? Gode la visione beatifica di Dio. Nella luce di questa visione, Ella partecipa della scienza infinita del Signore. Perciò conosce tutti e ciascuno di viso, di nome, personalmente. Di ciascuno di noi sa il passato, il presente e l’avvenire: ogni momento del nostro vivere è davanti a Lei con una chiarezza maggiore della nostra. Ci sono quaggiù ore di gioia o di angoscia, di successo o di accasciamento in cui ogni uomo dice tra i sospiri: « Lo sapesse la mia mamma! » Nessuna gioia nostra è piena, nessun dolore è consolato, se la nostra mamma è assente e ignora. Orbene, che dolcezza il domma dell’Assunzione corporea di Maria ci infonde, dandoci di poter dire con verità in quelle ore trepide: « La Madonna lo sa. Il suo materno cuore di carne palpita di gaudio o di dolore all’unisono col mio inquieto cuore di figlio ». La Madonna è in cielo, tutta viva, anima e corpo. Che fa in cielo? Quello che ci ha detto che Gesù, risorto e asceso, sta davanti al divin Padre semper vivens ad interpellandum pro nobis (Hebr., VII, 25). E la Madonna, risorta e assunta, sta davanti al divin Figlio similmente semper vivens ad interpellandum pro nobis. La grande orante! Prega per la Chiesa universale, militante e purgante; prega per l’umanità intera, santa e peccatrice; prega per il Papa, per i Vescovi e i sacerdoti; prega per i poveri, per gli ammalati, per i tribulati, per i tentati, per gli infermi, per gli abbandonati, per i disoccupati… Prega per ciascuno di noi, non già con una preghiera generica e confusa, ma precisa e specifica, perché Ella sa ad uno ad uno i nostri bisogni, anche i più segreti. c) La Madonna, assunta in cielo, ci è sempre vicina. Occorre liberarci da un’illusione fantastica che potrebbe diminuire assai la dolcezza del domma dell’Assunzione: quella di pensare il cielo come una regione remota; stupenda, sì, ma lontana da noi, in alto, oltre le nuvole, oltre le stelle. No, non è così. Il cielo è dove è Dio, e Dio è dappertutto. Nella Sacra Scrittura il cielo appare vicino, vicinissimo all’uomo. Forse l’uomo ci vive in mezzo senza poterlo vedere, sentire, gustare. Giacobbe è nel deserto: e il cielo si spalanca al suo fianco in guisa di scala che dalla terra sale a Dio. Dei pastori vegliano sui monti a custodia del gregge: il cielo si chiude su quei pascoli con l’annuncio del Natale. Giuseppe dorme nel suo povero letto: la porta del cielo s’apre proprio in quella cameretta per lasciar uscire un Angelo a comunicargli un avvertimento divino. Saulo cammina verso Damasco: il cielo gli attraversa con irruenza la strada e lo rovescia a terra. La Madonna è stata assunta in cielo, ma ciò non le può togliere di stare accanto ai suoi figliuoli. Non c’è solitudine, non c’è lontananza di oceani o di deserti, non ostacolo di monti, di muraglie o di porte sbarrate che possa impedire all’Assunta di starci vicini tutta viva com’è, in anima e corpo. Quando il sangue ribolle per fermenti di corruzione, quando il corpo coi ribelli istinti appesantisce il volo dell’anima, Ella ci è vicina e dalla incorrotta carne, dal suo virgineo sangue emana una virtù che placa i sensi, spegnendo gli impuri ardori. Quando le creature ci incantano colle fosforescenze della loro opaca bellezza, colle promesse fallaci d’arcane felicità, Ella ci è vicina e dai suoi occhi purissimi emana una luce che rende persone e cose trasparenti come un velo, dietro al quale appare Dio: Dio solo e la sua gloria congiunta alla nostra vera felicità. – 2. FA DOLCE IL NOSTRO MORIRE. La singolare nobiltà e tragicità dell’uomo è di essere l’unico vivente che sa di dover morire. Pensate a quello che fu la cupa tristezza di tutti i secoli antichi di fronte alla morte. La sopravvivenza dell’anima era generalmente conosciuta, ma era immaginata come un’esistenza umbratile, squallida, senza nessuna delle intense vibrazioni di cui è ricca questa vita, un’esistenza colma soltanto di struggenti rimpianti verso i beni terrestri perduti per sempre. E non soltanto nei popoli pagani, ma in quel popolo stesso che era il detentore della vera religione nell’Antico Testamento il pensiero della tomba diffondeva un tragico orrore, di cui abbiamo ripetute e chiare testimonianze nei libri ispirati. «Lascia, — gemeva Giobbe (X, 2-5) — che io un poco mi rassereni ancora, prima che vada, per non più ritornare, nella regione delle tenebre e delle ombre funeree, regione buia e nebulosa ove è cupa confusione e fosco bagliore ». E l’Ecclesiaste constata amaramente che la vita anche più diseredata sulla terra è sempre preferibile allo squallore d’oltre tomba. « A ognuno che vive resta almeno qualche speranza, perciò val meglio un cane vivo che un leone morto… I morti non sanno niente, né più attendono ricompensa, essendo dimenticata la loro memoria » (IX, 5). Ed è ancora Giobbe che sente d’invidiare la sorte delle piante che, tagliate alla radice, rimettono i polloni nella carezza dell’aria azzurra e del tiepido sole. « L’uomo invece, morendo, è finito… una volta coricatosi, più non si alza finché durino i cieli, né dal suo sonno più nessuno lo sveglia » (XIV, 7-12). Ma dopo che Gesù è venuto e ci ha parlato, dopo che è morto per noi e per noi è risorto, la morte è tutt’altra cosa. Per il Cristiano, nel confronto tra la vita di là e la vita di qua, è questa che ci scapita, tanto quella è intensa di gioia, di luce e di bene. Noi sappiamo che val meglio un attimo di là che cento anni in questa valle d’esilio. Noi non invidiamo le piante che, una volta tagliate, ripullulano con virgulti dalle radici, perché, falciati dalla morte, siamo certi di ripullulare incomparabilmente più vivi e più integri. S. Paolo sospirava: « Potessi disciogliermi da qui e stare con Cristo, quanto sarebbe meglio! Tuttavia, se è per il vostro bene, mi rassegno a stare quaggiù » (Fil., 1, 23-24). – Il vecchio Vescovo d’Antiochia, S. Ignazio, supplicava i Romani a non brigare per evitargli la condanna e il martirio. « Una cosa sola concedetemi: lasciate che io sia immolato a Dio! È bello tramontare al mondo per risorgere in Dio… lasciate che io raggiunga la pura luce! Un’acqua viva mormora dentro di me e mi dice: vieni al Padre » (Lettera ai Romani, passim.). – S. Teresa d’Avila esclamava: « O morte, o morte, in te è la vita, e io non so come ti possa temere » (Opere, Milano, 1932, pag. 1632). S. Teresa di Lisieux rispondeva a chi la voleva confortare nell’agonia: « Ci vuol coraggio per vivere, e non per morire » (Autobiografia, c. XII). – E ora il domma dell’Assunta è stato definito per renderci più chiare, più presenti, più sensibili queste cristiane e consolantissime certezze. La morte non esiste più, esiste unicamente la vita eterna. Già Una che era in tutto simile a noi, tranne che nel peccato, è stata risuscitata e assunta in cielo per la virtù del suo Figliuolo. Con Lei la nostra risurrezione è incominciata. Tra poco risorgeremo anche noi; risorgeranno tutti. È solo questione di un po’ di tempo: e i millenni, visti dall’eternità, sono brevi come un giorno già trascorso. Sicut hesterna dies quæ prateriit. È indubitabile che questa Madre risuscitata e assunta ci sarà vicina nel momento della morte. Migliaia di volte l’abbiamo invitata per quell’ora … et in hora mortis nostræ. Non sarebbe Madre, non sarebbe Lei se mancasse all’appello che le fu ripetuto innumerevoli volte. Dunque l’Assunta verrà, non mancherà in quell’ora. E con le sue labbra risorte bacerà la nostra fronte sudata e gelida, con le sue mani risorte ci prenderà le mani stanche e inerti. Dolce morire di noi risorgendi fra Gesù e Maria risorti! – Per un figlio non c’è gioia più grande di quella di sapere sua madre felice. Se vogliamo bene alla Madonna come a madre, se per lei alberghiamo in cuore tenerezza di figli, sopra le dolcezze che la sua Assunzione può dare al nostro vivere e al nostro morire, dobbiamo sentire che ve n’è un’altra più grande: quella di sapere con assoluta certezza che Maria nostra Madre è felice, già tutta felice, anima e corpo. Dalla pienezza della sua felicità questa nostra dolcissima Mamma pensa a noi e trepida per noi. Ci vuole vicino a Lei, nella sua gioia, per sempre. Perciò ci supplica: « Fuggite il peccato, vivete in grazia, Salvate l’anima se volete salvare anche il corpo, e trasfigurarlo come il mio nella beata Assunzione al cielo ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Gen III:15
Inimicítias ponam inter te et mulíerem, et semen tuum et semen illíus.

[Porrò inimicizia tra te e la Donna: fra il tuo seme e il Seme suo.]

Secreta

Ascéndat ad te, Dómine, nostræ devotiónis oblátio, et, beatíssima Vírgine María in coelum assumpta intercedénte, corda nostra, caritátis igne succénsa, ad te júgiter ádspirent.


[Salga fino a Te, o Signore, l’omaggio della nostra devozione, e, per intercessione della beatissima Vergine Maria assunta in cielo, i nostri cuori, accesi di carità, aspirino sempre verso di Te.]

Præfatio  …

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

… de Beata Maria Virgine

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Assumptione beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

Sanctus,

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis


Orémus:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Luc 1:48-49
Beátam me dicent omnes generatiónes, quia fecit mihi magna qui potens est.

[Tutte le generazioni mi diranno beata, perché grandi cose mi ha fatto colui che è potente.]

Postcommunio

Orémus.
Sumptis, Dómine, salutáribus sacraméntis: da, quǽsumus; ut, méritis et intercessióne beátæ Vírginis Maríæ in coelum assúmptæ, ad resurrectiónis glóriam perducámur.


[Ricevuto, o Signore, il salutare sacramento, fa, Te ne preghiamo, che, per i meriti e l’intercessione della beata Vergine Maria Assunta in cielo, siamo elevati alla gloriosa resurrezione.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2022).

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La liturgia di questa Domenica ci insegna il vero concetto dell’umiltà cristiana che consiste nell’attribuire alla grazia dello Spirito Santo la nostra santità; poiché le nostre azioni non possono essere soprannaturali, cioè sante, se non procedono dallo Spirito Santo, che Gesù ha mandato agli Apostoli nel giorno della Pentecoste e che dona a tutti quelli che glielo chiedono. Dunque la nostra santificazione è impossibile se vogliamo raggiungerla da soli, perché, abbandonati a noi stessi noi non siamo che impotenti e peccatori. Dobbiamo a Dio se evitiamo il peccato, se ne otteniamo il perdono, se riusciamo a fare il bene, poiché nessuno può pronunciare neppure il santo nome di Gesù con un atto di fede soprannaturale, che affermi la sua regalità e divinità, se non mediante lo Spinto Santo. L’orgoglio è, dunque, il nemico di Dio, perché si appropria dei beni che solo lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno nella misura che crede conveniente e impedisce alla potenza divina di manifestarsi nelle nostre anime in modo da farci credere che noi bastiamo a noi stessi. Come Dio potrebbe perdonarci (Oraz.), se noi non vogliamo riconoscerci colpevoli? Come potrebbe aver compassione di noi ed esercitare su noi la sua misericordia (Oraz.), se nel nostro cuore non vi è nessuna miseria riconosciuta cui il suo Cuore divino possa compatire? L’umile, invece, riconosce il proprio nulla perché sa che solo a questa condizione discenderà su lui la virtù di Cristo. Mentre la Chiesa sviluppa in questa Domenica tali pensieri, le letture, che fa durante questa settimana nel Breviario, danno due esempi di orgoglio e di grande umiltà. Dopo la figura del profeta Elia che si oppone così fortemente a quella di Achab e di lezabele, dei quali nell’ufficio è ricordato il terribile castigo, vi è quella del giovane Gioas che contrasta fortemente con quella di Atalia. Figlia di Achab e di lezabele, empia come sua madre, Atalia sposa il re di Giuda Ioram, che morì poco dopo. Allora la regina si trovò padrona del regno di Giuda e per esserlo per sempre fece massacrare tutta la famiglia di David. Ma losabeth, sposa del gran sacerdote Joiada tolse dalla culla l’ultimo nato della famiglia reale e lo nascose nel Tempio. Questi si chiamava Gioas. Per sei anni Atalia regnò ed innalzò templi in onore del dio Baal perfino nell’atrio del Tempio. Nel settimo anno il gran sacerdote attorniato da uomini risoluti e armati, mostrò Gioàs che allora aveva sette anni e disse: « Voi circonderete il fanciullo regale e se qualcuno cercherà di passare fra le vostre file, lo ucciderete! ». E quando il popolo si riversò nell’atrio, all’ora della preghiera, Joiada fece venire avanti Gioas, l’unse e lo coronò al cospetto di tutta l’assemblea che applaudi’ e gridò: «Viva il Re!». Quando Atalia intese queste grida, uscì dal palazzo ed entrò nell’atrio e quando vide il giovane re assiso sul palco, circondato dai capi e acclamato dal popolo col suono delle trombe, stracciò le sue vesti e gridò: « Congiura! Tradimento! ». Il gran sacerdote ordinò di farla uscire dal sacro recinto e quando essa giunse nel suo palazzo venne uccisa. La folla allora saccheggiò il tempio di Baal e non lasciò pietra su pietra. E il re Gioas si assise sul trono di David, suo avo; regnò quarant’anni a Gerusalemme e si dedicò a riparare e abbellire il Tempio (All., Com.). La Scrittura fa di lui questo bell’elogio: « Gioas fece quello che è giusto agli occhi di Dio » È questa l’Antifona del Magnificat dei Vespri alla quale fa eco quella dei II Vespri che è tratta dal Vangelo di questo giorno: « Questi (il pubblicano) ritornò a casa sua giustificato e non quello (il fariseo), poiché chi si esalta sarà umiliato e chi s’umilia sarà esaltato ». – « Quelli che si innalzano sono visti da Dio da lontano, dice S. Agostino. Egli vede da lontano i superbi, ma non perdona loro. « L’umile invece, come il pubblicano, si riconosce colpevole! ». Egli si batteva il petto, si castigava da sé, e Dio perdonava a quest’uomo perché confessava la sua miseria. Perché meravigliarsi che Dio non veda più in lui un peccatore dal momento che si riconosce da sé peccatore? Il pubblicano si teneva lontano ma Dio l’osservava da vicino » (Mattutino). Così l’umile fanciullo Gioas fu gradito a Dio perché la sua condotta avanti a Lui era quale doveva essere. Egli fece ciò che era giusto agli occhi del Signore. Atalia, invece, orgogliosa ed empia, non fece ciò che era giusto avanti al Signore, e sdegnò e insultò quelli che facevano il loro dovere, poiché l’orgoglio verso Dio si manifesta ogni giorno nel disprezzo verso il prossimo. Dice Pascal che vi sono due categorie di uomini: quelli che si stimano colpevoli di tutte le mancanze: i Santi; e quelli che si credono colpevoli di nulla: i peccatori. I primi sono umili e Dio li innalzerà glorificandoli, i secondi sono orgogliosi e Dio li abbasserà castigandoli. « Il diluvio, dice S. Giovanni Crisostomo, ha sommerso la terra, il fuoco ha bruciato Sodoma, il mare ha inghiottito l’esercito degli Egiziani, poiché non è altri che Dio, il quale abbia inflitto ai colpevoli questi castighi. Ma, dirai tu, Dio è indulgente. Tutto ciò allora non è che parola vana? E il ricco che disprezzava Lazzaro non fu punito? … e le vergini stolte non furono discacciate dallo Sposo? E quegli che si trova nel banchetto con le vesti sordide non verrà legato mani e piedi e non morrà? E colui che richiederà al compagno i cento denari non sarà dato al carnefice? Ma Dio si fermerà solo alle minacce? Sarebbe molto facile provare il contrario e dopo quello che Dio ha detto e fatto nel passato possiamo giudicare quello che farà nell’avvenire. Abbiamo piuttosto sempre in mente il pensiero del terribile tribunale, del fiume di fuoco, delle catene eterne nell’inferno, delle tenebre profonde, dello stridore dei denti e del verme che avvelena e rode » (2° Nott.). Questo sarà il mezzo migliore per rimanere nell’umiltà, che ci fa dire con la Chiesa: « Ogni volta che io ho invocato il Signore, questi ha esaudita la mia voce. Mettendomi al sicuro da quelli che mi perseguitavano, li ha umiliati, Egli che è prima di tutti i tempi » (lntr.). « Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dei tuoi occhi, perché i tuoi occhi vedono la giustizia » (Grad.). « Signore, io ho innalzata l’anima mia verso te, i miei nemici non mi derideranno perché quelli che hanno confidenza in te non saranno confusi » (Off.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

.Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis tuis, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.

S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LIV: 17; 18; 20; 23
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.

[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.

[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, 9salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, qui omnipoténtiam tuam parcéndo máxime et miserándo maniféstas: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, ad tua promíssa curréntes, cœléstium bonórum fácias esse consórtes.

[O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto perdonando e compatendo, moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché quanti anelano alle tue promesse, Tu li renda partecipi dei beni celesti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XII: 2-11
Fratres: Scitis, quóniam, cum gentes essétis, ad simulácra muta prout ducebámini eúntes. Ideo notum vobis facio, quod nemo in Spíritu Dei loquens, dicit anáthema Jesu. Et nemo potest dícere, Dóminus Jesus, nisi in Spíritu Sancto. Divisiónes vero gratiárum sunt, idem autem Spíritus. Et divisiónes ministratiónum sunt, idem autem Dóminus. Et divisiónes operatiónum sunt, idem vero Deus, qui operátur ómnia in ómnibus. Unicuíque autem datur manifestátio Spíritus ad utilitátem. Alii quidem per Spíritum datur sermo sapiéntiæ álii autem sermo sciéntiæ secúndum eúndem Spíritum: álteri fides in eódem Spíritu: álii grátia sanitátum in uno Spíritu: álii operátio virtútum, álii prophétia, álii discrétio spirítuum, álii génera linguárum, álii interpretátio sermónum. Hæc autem ómnia operátur unus atque idem Spíritus, dívidens síngulis, prout vult.

[“Fratelli: Voi sapete che quando eravate gentili correvate ai simulacri muti, secondo che vi si conduceva. Perciò vi dichiaro che nessuno, il quale parli nello Spirito di Dio dice: «Anatema a Gesù»; e nessuno può dire: «Gesù Signore», se non nello Spirito Santo. C’è, sì, diversità di doni; ma lo Spirito è il medesimo. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore; ci sono operazioni differenti, ma è il medesimo Dio che opera tutto in tutti. A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia d’utilità. Mediante lo Spirito a uno è data la parola di sapienza, a un altro è data la parola di scienza, secondo il medesimo Spirito. A un altro è data nel medesimo Spirito la fede; nel medesimo Spirito a un altro è dato il dono delle guarigioni: a un altro il potere di far miracoli; a un altro la profezia; a un altro il discernimento degli spiriti; a un altro la varietà delle lingue, a un altro il dono d’interpretarle. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, il quale distribuisce a ciascuno come gli piace”].

UNITA’ NELLA VARIETA’ E VICEVERSA.

Gli uomini piccoli si rivelano colle loro unilateralità. C’è chi al mondo non vede, non vuole, non ama che la unità, una unità esagerata che diviene, né essi se ne dolgono, uniformità; c’è chi non vede, non vuole, non ama che la varietà, la diversità, una diversità che diviene, così esagerata, del che ad essi non cale, confusione babelica, caos. Per i primi tutti dovrebbero pensare allo stesso identico modo in tutto e per tutto, fare tutti la stessa cosa, farla tutti allo stesso modo. Per gli altri il rovescio, tutti pensare e agire diversamente. Estremismi opposti, figli della stessa micromania. Il Vangelo, il Cristianesimo ci si rivela grande e divino anche per quella formula « unitas in varietate » che è la sua divisa. N. S. Gesù ha detto una parola nella quale è lo spunto di quello che oggi dice San Paolo nel brano domenicale della Epistola prima ai Corinzi: « nella casa di mio Padre vi sono molte dimore. » La Casa è una, una la Chiesa, Casa di Dio, edificio classico e prediletto di Gesù Cristo; una per unità di culto. Se non fosse così, non sarebbe divina. Una nelle cose essenziali, sostanziali. Ma in questa bellissima e forte e compatta e vigorosa unità non si esaurisce la vita della Chiesa; se no saremmo nell’uniformità plumbea. La casa è una e le stanze, anzi i piani sono molti e diversi. San Paolo riprende il pensiero evangelico e dice testualmente così: « Or vi sono (nella Chiesa) distinzioni (ossia varietà) di doni, ma non c’è che un medesimo Spirito; e c’è distinzione nei ministeri, ma non c’è che un medesimo Signore; e c’è distinzione nei modi di operare, ma non c’è che un medesimo Dio, il quale opera ogni cosa in tutti ». Varietà, continua l’Apostolo, utile al corpo sociale, come, dico io, la varietà dei cibi è utile al corpo umano. Di questa varietà non bisogna né scandalizzarsi, né abusare. Alcuni estremisti se ne sono scandalizzati. Per esempio: i Greci, che poi si separarono dalla Chiesa, si scandalizzarono quando fu aggiunta una paroletta « Filioque » al Credo di Nicea, senza domandarsi se essa stonava o sintetizzava, armonizzava col Credo nel suo insieme, nel suo spirito. Altri ne abusano e vorrebbero portare la diversità dappertutto, dappertutto le novità, dimenticando l’aureo principio: «in necessariis unitas ». Varietà che nel campo pratico, l’operare e il modo dell’operare sono ben altrimenti ricche e accentuate che non siano nel campo teorico. Quante diversità, salva la unità essenziale, nei riti! Quante nell’azione dei Santi! Ecco qua dei Santi e delle spirituali famiglie dei Santi che son tutto calcolo e prudenza; altri e altre che sono tutta spontaneità e ingenuità. Santi che edificano monasteri grandiosi come spirituali reggie, quasi ad affermare la maestà dello spirito, e santi che fabbricano modestissimi conventini; Santi che sono tutto zelo e severità, altri il cui zelo realissimo è fatto di mansuetudine. Paolo che va a destra, Barnaba che va a sinistra e camminano per le vie di un unico apostolato. Ma lo Spirito è uno; lo spirito di Dio, spirito di verità d’amore. Rallegriamoci di questa varietà che è ricchezza e rispettiamola; rallegriamoci di questa unità e cerchiamola, lieti per conto nostro ciascuno del posto che gli è toccato nella casa del Padre, nella vigna del Signore, non smaniosi di cambiarlo, avidi solo di occuparlo degnamente.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XVI: 8; LXVIII: 2
Custódi me, Dómine, ut pupíllam óculi: sub umbra alárum tuárum prótege me.

[Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio: proteggimi sotto l’ombra delle tue ali.]

V. De vultu tuo judícium meum pródeat: óculi tui vídeant æquitátem.

[Venga da Te proclamato il mio diritto: poiché i tuoi occhi vedono l’equità.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

 Ps LXIV: 2
Te decet hymnus, Deus, in Sion: et tibi redde tu votum in Jerúsalem. Allelúja.

[A Te, o Dio, si addice l’inno in Sion: a Te si sciolga il voto in Gerusalemme. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc XVIII: 9-14.
In illo témpore: Dixit Jesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisæus, et alter publicánus. Pharisæus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, injústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Jejúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri. Dico vobis: descéndit hic justificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.” 

 [“In quel tempo disse Gesù questa parabola per taluni, i quali confidavano in se stessi come giusti, e deprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio: uno Fariseo, e l’altro Pubblicano. Il Fariseo si stava, e dentro di sé orava così: Ti ringrazio, o Dio, che io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri; ed anche come questo Pubblicano. Digiuno due volte la settimana; pago la decima di tutto quello che io posseggo Ma il Pubblicano, stando da lungi, non voleva nemmeno alzar gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: Dio, abbi pietà di me peccatore. Vi dico, che questo se ne tornò giustificato a casa sua a differenza dell’altro: imperocché chiunque si esalta, sarà umiliato; e chi si umilia, sarà esaltato”].

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

SUPERBIA

Gesù aveva sedato la burrasca del lago, ma non disse mai: « Imparate da me a comandare all’acqua e al vento ». Gesù aveva moltiplicato il pane e il pesce, ma non disse mai: « Imparate da me a moltiplicare il cibo e la bevanda ». Neppure quando ebbe guarito i lebbrosi, gli storpi, i ciechi, i muti disse: « Imparate da me a sanare le malattie ». Però a tutti comandò: « Da me dovete imparare ad esserne umili e miti di cuore ». Umili e miti! Invece molti erano gonfi di sé, sprezzanti degli altri. Allora il Maestro contò una parabola. « Al tempio di Gerusalemme, nello stesso giorno e nella stessa ora, si trovarono due uomini: uno era fariseo, l’altro pubblicano. Stando in piedi, il primo cominciò la sua preghiera: Signore! La legge ordina di digiunare una volta all’anno; ed io digiuno due volte alla settimana. La legge ordina al coltivatore di pagare la decima dei suoi prodotti; ed io, non solo di quelle che raccolgo nel campo ma anche di quello che acquisto al mercato, pago la decima. Signore! dopo tutto ciò, non è meraviglia che tu sia stato come costretto a riempirmi di grazie. Poiché, tutti lo possono dire, io non sono un ingordo di roba altrui, non sono frodatore nel commercio, non sono un disonesto adultero: queste cose le lascio a certa gente come quel disgraziato pubblicano, laggiù… » Laggiù, infatti, lontano dall’altare, dove sapeva risiedere un Dio giusto, v’era un umile pubblicano che neanche ardiva levar gli occhi al cielo, e si batteva il petto e gemeva: — O Dio, sii buono con me che son gran peccatore. A questo punto Gesù terminò la parabola e conchiuse: « Vi dico che costui ritornò a casa sua giustificato, ma l’altro no: perché chi si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà esaltato ». Tanto chiara è la parabola, che ogni spiegazione sarebbe di troppo. Piuttosto vediamo se anche contro di noi è rivolta: Dixit ad quosdam qui în se confidebam tamquam iusti, et aspernabantur ceteros: la disse per quelli che si stimano perfetti e disprezzano tutti gli altri. Oh la superbia! ora è smascherata: essa è vanteria di sé e sprezzo degli altri. Il contrario precisamente di come Gesù ci vuole: umili e miti.1. PER QUELLI CHE SI STIMANO PERFETTI. S. Giovanni Climaco, raccogliendosi intorno i suoi monaci, amava spesso raccontare la cattiva figura che fece un giorno la cornacchia. Si era essa fatto prestare da ciascun uccello una piuma colorita, e con quelle adornandosi, si vantava di essere più bella di tutti. Gli uccelli indignati di tanta superbia vollero indietro ciascuno la propria piuma: apparve allora agli occhi di tutti la deformità naturale della cornacchia, che svergognata in mezzo alle risa dei compagni, voleva morirsene di rabbia. « È cosa vergognosa — concludeva S. Giovanni Climaco — insuperbire delle piume altrui: ma il vantarsi dei doni ricevuti da Dio come se si trattasse di roba nostra è il colmo della pazzia. Il Dio nostro resiste ai superbi; se il superbo si gonfia appropriandosi i suoi doni, subito Egli li riprende, ed il disgraziato millantatore resta deforme spoglio tra le risa maligne dei demoni ». La favola della cornacchia sarà ingenua, però non manca d’opportunità neppure oggi, per noi. Vediamo un po’ queste penne di cui ci gloriamo. Per molti sono le dignità umane: hanno un posto di fiducia nel paese, nella città; sono consultati in casa, inchinati per le strade, onorati da per tutto. Costoro, dimenticando che ogni autorità viene da Dio, che ogni onore è un peso in favore degli altri, si curano soltanto di emergere e di raccogliere gli incensi delle lodi, come fossero piccole divinità. Per altri invece le piume di cornacchia sono le ricchezze: perché hanno un palazzo, una casa, servi, automobile, vesti lussuose, danaro in quantità si credono superiori ad ognuno meno ricco di loro; quasi che anch’essi non fossero figliuoli peccatori di Adamo, ma appartenenti ad una stirpe privilegiata. Altri ancora, e non sono pochi, insuperbiscono per la bellezza del loro volto, per la compitezza della loro persona. Quanto al corpo che cosa eravate voi? chiede San Bernardo; che cosa sarete più tardi? Voi eravate un vero niente, voi sarete vermi e cenere. Ci sono infine di quelli che son gonfi del loro sapere. Ebbene, infinitamente maggiore è il numero delle cose che ignorano di quelle che conoscono; ed il numero di quelli che sanno più di loro è pur esso grandissimo. E poi bisogna ricordare che gli uomini dotti sono umili, poiché la superbia è madre dell’ignoranza. Non io negherò che in tutte queste cose, — dignità, ricchezza, bellezza, scienza — vi sia un certo valore. Ma donde vengono esse? Sono opera delle nostre mani? Che cosa abbiamo di non ricevuto? Perfino il Fariseo di questo s’era persuaso e ne ringraziava il Signore: « O Dio, ti dico grazie… ». Ma poi se ne vantava come se non avesse nulla ricevuto. E noi l’imitiamo. Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis? (I Cor., IV, 7).2. PER QUELLI CHE SPREZZANO GLI ALTRI. I santi han sempre avuto per divisa il motto: « Tutto per Dio »; ma i superbi vi hanno sostituito quest’altro: « Tutto per sé ». Essi si credono altrettanti soli in giro a cui tutte le stelle e i pianeti si raccolgono e girano. Per ciò, se qualche cosa non piega davanti a loro, la disprezzano: disprezzo che, a volta a volta, si cambia in giudizi maligni, in invidia, in odio. Il disprezzo che i superbi hanno per il loro prossimo appare facilmente nei giudizi malevoli: tacciono i meriti altrui e palesano solo i difetti. Di meriti anzi negli altri essi non ne scorgono, ma, se proprio sono costretti a far qualche concessione, per non sembrare malintenzionati, sanno dosare la lode con molte riserve, reticenze, insinuazioni: « Sì, senza dubbio è buono… lo dicono tutti, ma… tempo addietro! Sì, è laborioso, ma… ma!… Sì è onesto, è devoto, ma…, a frequentarlo un po’, a stargli vicino!… ». E sempre, come una vipera in mezzo ai fiori, c’è quel terribile « ma » della superbia. Quando poi si tratta di scoprire i difetti altrui, essi hanno occhi di lince mentre a vedere i propri hanno occhi di talpa. Essi si usurpano l’autorità di giudicare tutto e tutti, e non pensano che Dio solo è giudice: « Sono io il loro giudice! » (Ger., XXIX, 23). A loro non toccherà certo la bella morte di quel santo monaco, che sentendo prossima la fine sorrideva: « Non avete paura del tribunale di Dio? » — gli fu chiesto. « Io non ho mai giudicato nessuno, — rispose — e non sarò giudicato ». Ma chi invece, come il Fariseo nel tempio, avrà giudicato gli altri per rapaci, ingiusti, adulteri, lui stesso davanti a Dio sarà tenuto per tale. L’invidia, che insieme al disprezzo occupa il cuor del superbo, si manifesta in due modi: o col dispiacere del bene altrui o col piacere dell’altrui male. Saul era sempre stato il re forte, il re vincitore; ma ecco che un giorno, dai campi in cui pascolava il gregge, arriva David. Esso pure è forte e vincitore. Lo applaude il popolo e dice: « Valoroso è Saul, ma David lo è di più. Mille ne uccise Saul e diecimila David ». Saul sente, ne riceve un colpo al cuore: diviene intrattabile, taciturno, cupo fino a impazzirne. Ecco l’invidia: rincrescimento del bene altrui. Quando davanti alla fortuna d’un nostro vicino, quando davanti alla gioia di un nostro parente, noi ci sentiamo afflitti, ricordiamoci che la superbia ha invaso il nostro cuore e se lo fa schiavo. Se lo fa schiavo fino al punto di desiderare il male agli altri, e di goderne allora che sono colpiti. Da lungo tempo quel negoziante ha guardato con l’occhio torbido d’invidia il fiorente negozio di un suo collega; ma ecco che il suo sguardo si schiarisce e brilla di piacere maligno, ora che crede di constatare una disavventura dell’invidiato. E quel medesimo contadino che si è sempre afflitto per la fertilità del campo d’un altro, quella donna che si è irritata per la bellezza d’un’altra, quello stesso uomo che s’angustiava per gli onori ottenuti da un altro, quanto si rallegrano appena gli invidiati incontrano una disgrazia, una malattia, una calunnia! Guai a chi si lascia trascinare dalla superbia per queste vie! Giungerà fino a procurare egli stesso al prossimo quel male che tarda a venire. Non è così che Caino ha ucciso Abele? Non è così che gli undici fratelli han venduto Giuseppe? che Saul ha vibrato la lancia contro David? che la gente di Palestina rovinò i pozzi d’Isacco? « Aveva seminato Isacco in quella terra, e, l’anno stesso, ne raccolse il centuplo, avendolo benedetto il Signore. S’arricchì, divenne grande e potente, ebbe armenti e servi. Per questo i Palestinesi si rodevano d’invidia e gli riempirono di terra i pozzi che servivano di beveraggio al gregge ed innaffiamento agli orti ». (Gen., XXVI 12-14). Ancora una cosa è da aggiungersi: ed è che nessun cuore è pieno di odio come quello del superbo. Il superbo non bada per il sottile se i suoi pensieri, le sue parole le sue azioni offendono gli altri. Che cosa sono questi altri in suo confronto? Egli è il centro del mondo. Ma quando l’offeso è lui, fosse pure leggera l’offesa, allora non dimentica, non perdona: e aspetta settimane e settimane l’occasione propizia per una vendetta completa. Vi sentirete rinfacciare un torto di cui non vi eravate nemmeno accorti, un’ingiuria d’antica data, uno sbaglio di cui avevate già fatto le scuse e date riparazione. Dio può dimenticare e perdonare le offese, ma il superbo, no! – Povero S. Bernardo! Era stato assalito dal demonio della superbia e nella tentazione aveva titubato un istante. Subito comprese che il Signore s’era da lui ritirato. Sentiva il cuore indurito come un sasso, e l’anima arida come terra senz’acqua. Voleva piangere, ma non una lacrima cadeva dagli occhi; voleva pregare, ma i salmi non gli volevano uscire dalla bocca; voleva meditare, ma la mente s’annebbiava come una vetta durante il temporale. Vagava come un fantasma angosciato sotto gli archi del chiostro, e guardava con interiore sofferenza i suoi monaci lieti e fervorosi: Heu! omnes montes în circuito meo visitat Dominus, ad me autem non appropinquat. A tutti i Cristiani che si lagnano di non ottenere grazie, di non avere pace, e di essere dimenticati da Dio ripeterò le parole di S. Bernardo: « Non senza ragione sono abbandonato. Ti signoreggiò la superbia: quella del cuore, per cui tu non pensi che a te e alle tue virtù, quella della bocca, per cui tu non parli bene che di te e delle tue cose, mentre degli altri e delle loro cose non sai che criticare; quella dell’azione per cui tu cerchi sempre il primo posto, non fai il bene che per essere lodato, non vuoi perdonare le offese, non vuoi rallegrarti con quelli che godono, non vuoi dolerti con quelli che soffrono: quella del vestito, per cui vuoi parere più ricco, più bello, più istruito di quello che sei. Ti signoreggia la superbia: perciò Dio s’avvicina a tutti gli altri cuori umili e miti, ma non al tuo ». Heu!… ad me autem non appropinquat! (In Cantica, sermo LIV, 8). – CUOR CONTRITO ED UMILIATO. Dico vobis descendit hic iustificatus in domum suam. Quante volte anche noi siamo andati al tempio per confessare i nostri peccati davanti a Dio e al suo ministro: siamo sempre ritornati a casa nostra giustificati? Se le nostre confessioni furono simili a quella del superbo Fariseo che accusava i peccati degli altri e le proprie virtù, non solo non siamo stati perdonati ma abbiamo fatto sacrilegio. Iddio perdona soltanto a quelli che hanno un cuore umile e contrito. Cor contritum et humiliatum Deus non spernit. (Ps., L. 19). Ed umile era il cuore del Pubblicano che si riconosceva con gemiti peccatore: Deus propitius esto mihi peccatori. L’umiltà infatti non è che sincerità, e consiste nel riconoscerci quali noi siamo: senza nascondere nulla di ciò che abbiamo commesso, senza aggiungere nulla di ciò che abbiamo tralasciato. Contrito era il cuore del Pubblicano. La contrizione non è un dolore sensibile come il male di testa o di denti; non consiste in piangere o sospirare: la contrizione è un dispiacere del cuore che sente d’aver offeso Dio e promette di non offenderlo più. Per ciò sul cuore si batteva il Pubblicano: percutiebat pectus suum. Dal cuore, ha detto Gesù, escono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri,, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie (Mc., VII, 21); e dal cuore esce anche la contrizione dei peccati. La confessione del pubblicano c’insegna le due condizioni necessarie a un vero peccatore: sincerità e dolore. Le voglio spiegare con due esempi. – 1. Sincerità. Cromazio prefetto di Roma era malato di un male strano che nessun medico sapeva guarire. Gli dissero allora che in Roma v’erano due  Cristiani che compivano guarigioni miracolose, e, chi sa, avrebbero forse guarito ancor lui. Cromazio li fece chiamare: erano Sebastiano e Policarpo. « Cromazio — dissero i due santi al prefetto pagano — se tu vuoi guarire, dacci in mano tutti gli idoli della tua casa, ché noi vogliamo distruggerli ». « Se è necessario — rispose a malincuore, — io v’insegnerò dove sono, e voi prendeteli ch’io non oso ». Sebastiano e Policarpo presero tutte le immagini dei falsi dei e le frantumarono, poi tornarono da Cromazio. Ma Cromazio non era guarito; anzi stava peggio. « Cromazio! » dissero i santi, guardandolo fisso nella nube ch’era nel bianco dei suoi occhi, « Cromazio, tu hai mentito: nella tua casa ci sono idoli ancora ». Ed il prefetto dovette confessarlo: egli ne aveva nascosti alcuni nella sua camera vicino a lui, perché gli erano più cari. Solo quando si decise a consegnare anche quelli, poté guarire. Così è pure nella Confessione; quelli che tengono nascosti nel più fondo della loro anima anche un solo peccato mortale, non saranno perdonati neppur degli altri, anzi si incolpano di un pessimo sacrilegio. S. Giovanni Crisostomo esclamava: « O uomo, che cosa è peggiore: fare il male o dirlo? Se dunque al cospetto di Dio non hai avuto rossore a far male, perchè hai vergogna a dirlo davanti agli uomini? Se non hai avuto vergogna a macchiarti, perché  avrai vergogna a lavarti? ». In tre modi la superbia ci fa mancare di sincerità in confessione: non accusando, accusando per metà, scusando. Non accusando: anche il Fariseo ha fatto così, egli ha taciuto le sue colpe, per dir soltanto le proprie virtù, per dir soltanto i peccati degli altri. Ma uscì dal tempio senza giustificazione. Infelici noi se taciamo, di proposito, anche un peccato solo, profaneremmo il sangue di Cristo, e cominceremmo il primo anello d’una catena maledetta: la catena che ci strapperà giù nell’inferno. Accusando per metà: alcuni dicono d’aver un po’ d’ambizione, e non dicono che per questa ambizione hanno seguito una moda pagana, ed hanno suscitato discorsi e passioni cattive. Altri dicono d’aver detta qualche bugia, e non dicono che questa bugia l’hanno detta in confessione, oppure non dicono che dalla loro bugia è derivato un grave danno al prossimo. Scusando: ci sono di quelli, infine, che mentre si confessano involgono i lori peccati in una miriade di scuse, quasi quasi, in faccia a Dio son loro che ne avanzano. Non c’è umiltà in queste confessioni, e per ciò non c’è perdono. – 2. DOLORE. Santa Caterina da Genova, nata da una delle più ricche e nobili famiglie della città, contro sua voglia, costretta dai genitori sposò Giuliano Adorno. Ma la bontà di Dio permise che le fosse dato un marito contrario e difforme alla sua vita, il quale consumò il patrimonio nei giochi e la fece soffrire moltissimo. Ella, stanca del lungo martirio, aveva cessato d’essere buona, cercando qualche consolazione nelle delizie e nelle vanità del mondo. Ma il giorno arriva che queste dilettazioni stancano, che sotto le belle apparenze si trovan frutti di cenere e tosco; allora l’anima scontenta anela di sciogliersi dai legami del peccato e implora. Era appunto in questo stato di tristezza quando la sorprese una mirabile e dolorosa visione. La porta di casa si aperse d’un tratto da sola, e in un’aureola luminosa Gesù con la croce in spalla entrò ospite silenzioso nelle sue stanze. Camminava faticosamente senza parlare: dalla testa coronata, dalle spalle flagellate, dagli occhi piangenti grondava sangue per modo che tutta la casa ne pareva bagnata. Caterina si gettò in ginocchio esclamando: « O Amore, mai più, mai più peccati! Se bisogna, sono disposta a confessare le mie colpe in pubblico ». Voleva dir altro e la parola non le usciva, voleva piangere e non poteva: uno scroscio come di fiume cadente le rimbombava negli occhi, sotto le palpebre chiuse. Era il giorno dopo la festa di S. Benedetto del 1473. Quando vi accostate al Sacramento della confessione pensate voi che i vostri peccati sono stati la vera causa della passione di Cristo? pensate voi che quel perdono che implorate vi è concesso solo per il sangue versato da Cristo? Che fu l’agonia del Getsemani, che fu l’umiliazione dei tribunali di Caifa e di Pilato, che fu la morte in croce a liberarci dal fuoco della maledizione eterna; lo pensate voi quando vi confessate? Non si può pensare a questo attentamente senza gridare dal profondo dell’anima il grido di Santa Caterina da Genova: « O Amore, mai più, mai più peccati! ». Dite: che dolore può avere certa gente che va a confessarsi come si va all’osteria, senza pregare, senza esame di coscienza, senza riflettere che s’accosta al sangue del Figlio di Dio? Che dolore possono avere taluni che prevedendo di doversi confessare presto, accrescono il numero dei peccati dicendo: — confessarne dieci e confessarne venti è la stessa fatica? E quelli che trascinano la loro vita in un’altalena di confessioni e di peccati, e non si decidono mai, e non si sforzano mai di cambiar vita, come possono illudersi di avere il dolore dei peccati? E senza dolore non c’è perdono. – Si presentò a S. Antonio di Padova un gran peccatore per confessarsi: ma era tanto confuso che non gli riusciva d’articolar parola e dava in singhiozzi. Il santo gli disse: « Va, scrivi i tuoi peccati e poi ritorna ». Il penitente ubbidì. Poi tornò: e leggeva i suoi peccati come li aveva scritti. Appena ebbe terminato di leggere vide che dalla carta era scomparsa ogni traccia di scrittura e restava solo il foglio candido. Così sarà dell’anima nostra quando ci confesseremo con l’umiltà e con il dolore del pubblicano descritto da Gesù nella sua parabola bella. Ogni macchia di peccato svanirà dal nostro cuore e apparirà soltanto il candore dell’innocenza riacquistata. E dal Cielo Gesù che ci segue, si rivolgerà a’ suoi Apostoli ancora e agli Angeli e dirà: « Io vi dico che costui torna a casa giustificato ». Dico autem vobis descendit hic iustificatus in domum suam. L’UMILTÀ –  Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato. Essere giustificato, ottenere il perdono delle nostre colpe e poter possedere la grazia di Dio, per l’anima è cosa essenziale: sta qui tutta la vita cristiana! Ma bisogna avere l’umiltà del pubblicano, bisogna presentarsi al Signore adorno di questa virtù, coi segni di possederla davvero. – 1. COSA È L’UMILTÀ. Michelangelo lavorava per la Cappella Sistina. Doveva dipingerne la volta e da parecchi mesi, con passione indomita si affaticava attorno ai disegni. Finalmente, quando tutto fu pronto, diede inizio alla esecuzione. Saliva al mattino sui ponti e non scendeva che al calar del sole. Il lavoro presentava difficoltà enormi. Doveva starsene tutto il giorno disteso o rannicchiato sull’impalcatura, colla faccia verso l’alto. La volta era tanto vicina che spesso pareva lo volesse schiacciare. Che fatica scegliere i colori giusti! Che fatica cambiare ed intingere il pennello; quando poi lo sollevava in alto verso la volta, gli cadevano addosso le gocce di pittura che gli sporcavano tutta la faccia. Ci vollero lunghi mesi di questo martirio, ma alla fine su quelle pareti lasciò capolavori di fama imperitura. Ma almeno doveva metterci il suo nome? Dopo tanta fatica ne aveva tutto il diritto, eppure non volle. Invece del suo nome scrisse un alfa ed un omega per indicare che a Dio riferiva ogni gloria; al Signore principio e fine d’ogni cosa creata, consacrava il frutto dei suoi lunghi sudori. Cristiani, sulle nostre opere e su quello che è in nostro possesso, noi abbiamo meno diritto di scriverci sopra il nostro nome che non ne avesse Michelangelo. Fossero pure dei capolavori, come i dipinti della Sistina, noi dobbiamo mettervi il Nome Santo di Dio. L’umiltà sta appunto in questo, riconoscere i diritti di Dio su quello che noi possediamo, a Lui riferire ogni gloria ed onore. Trenta, cinquanta, cento anni fa nessuno di noi era al mondo: il Signore ci ha dato la vita! È forse un merito nostro se abbiamo salute, se possiamo lavorare, se ci sentiamo ripieni di vita? L’oggi ed il domani è nelle mani di Dio e da parte nostra non potremmo allungare di un solo minuto i giorni della esistenza quaggiù. Se poi guardassimo i beni dell’anima, vi troveremmo sopra il nome di Gesù. È scritto collo stesso suo sangue poiché la grazia e la gloria sono i frutti della sua Passione. Oseremmo cancellare quel nome divino e sostituirlo col nostro? Quid habes quod non accepisti? Si autem accepisti quid gloriaris quasi non acceperis? (I Cor., IV, 7). – 2. SEGNI DELL’UMILTÀ. S. Tommaso d’Aquino, colla sua sapienza, aveva meravigliato il mondo. Sulle cattedre delle più celebri Università del suo tempo, negli scritti profondi e chiari, dai pulpiti più famosi e affollati mostrava di avere una delle più grandi intelligenze della umanità. Un giorno, nel convento di Bologna, passeggiava sotto i portici, assorto in contemplazione. Come al solito, teneva lo sguardo rivolto al Cielo. Un frate domenicano entra allora in Convento e neppur sospettando che parlava col grande Dottore si accosta e gli dice: « Fratello, seguitemi in città! Debbo fare la questua e mi fu dato licenza di farmi accompagnare dal primo religioso che qui avessi incontrato ». S. Tommaso sorridente accetta ed è tutto felice di attraversare Bologna stendendo umilmente la mano. Ma… alle prime porte cominciano le più alte meraviglie ed il povero frate s’accorge di avere con sé Tommaso d’Aquino. Gli si butta ai piedi, gli domanda perdono e vuole subito far ritorno al convento. Ed il Santo: « No, fratello, proseguiamo per amore di Cristo. Torneremo quando avremo finito! ». Parlar di umiltà non è cosa difficile, che anzi… lo facciamo così volentieri! Ma saremmo ben stolti se soltanto per questo pensassimo di essere umili. Forse, anche quando preghiamo, noi ci accontentiamo di parole. Domandiamo al Signore che ci dia l’umiltà, ma… e perché non chiediamo che ci mandi umiliazioni? Il nome di umiltà è qualche cosa di astratto, ma se la virtù non vuol essere un nome, deve constare di fatti concreti. Sarà umile colui che ubbidisce ai suoi genitori e superiori senza discussioni di sorta, non già per servire all’occhio dell’uomo, ma soltanto per la gloria di Dio. Potrà dirsi davvero Cristiano chi dimentica che Gesù si è fatto ubbidiente fino alla morte in Croce? La vita è una lotta che bisogna vincere: ma è l’uomo ubbidiente che canterà la vittoria. Ha l’umiltà chi accetta i consigli degli altri e li segue nel suo operare. È umile davvero chi ama gli inferiori e li tratta con amore fraterno. Quando c’è umiltà il padrone vuol bene all’operaio che lavora sotto di lui; il ricco non disprezza il povero che gli tende la mano; il dotto va volentieri insieme a quelli che sono ignoranti. Non è forse vero che un po’ di umiltà renderebbe più bella la vita sociale, e ancor più dolce la vita domestica? – Non tutti quelli che vanno in paradiso han predicato il Vangelo ai popoli infedeli; non tutti hanno versato il sangue o perduta la vita per amore di Cristo; non tutti hanno la stola sacerdotale o vengono dal chiostro. Ma tutti, nessuno escluso, devono aver praticato l’umiltà perché verrà esaltato solo colui che si sarà umiliato.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXIV: 1-3
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.

[A Te, o Signore, ho innalzata l’anima mia: o Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire: che non mi irridano i miei nemici: poiché quanti a Te si affidano non saranno confusi.]

Secreta

Tibi, Dómine, sacrifícia dicáta reddántur: quæ sic ad honórem nóminis tui deferénda tribuísti, ut eadem remédia fíeri nostra præstáres.

[A Te, o Signore, siano consacrate queste oblazioni, che in questo modo volesti offerte ad onore del tuo nome, da giovare pure a nostro rimedio.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

… de sanctissima Trinitate
:
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps L: 21.
Acceptábis sacrificium justítiæ, oblatiónes et holocáusta, super altáre tuum, Dómine.

[Gradirai, o Signore, il sacrificio di giustizia, le oblazioni e gli olocausti sopra il tuo altare.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quos divínis reparáre non désinis sacraméntis, tuis non destítuas benígnus auxíliis.

[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché benigno non privi dei tuoi aiuti coloro che non tralasci di rinnovare con divini sacramenti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA IX DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA IX DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B.; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

La liturgia di questo giorno insiste sui castighi terribili che la giustizia di Dio infliggerà a quelli che avranno rinnegato Cristo. Morranno tutti e nessuno entrerà nel regno dei cieli. Coloro invece che in mezzo a tutte le avversità di questa vita saranno rimasti fedeli a Gesù, saranno un giorno strappati alle mani dei loro nemici ed entreranno al suo seguito nel cielo, ove Egli entrò nel giorno della sua Ascensione, che la Chiesa ha celebrato nel Tempo Pasquale. Questi pensieri sulla giustizia divina sono conformi, in questa IX Domenica dopo Pentecoste, colla lettura che la liturgia fa della storia del profeta Elia nel Breviario. – Dopo la morte di Salomone, le dodici tribù di Israele si divisero in due grandi regni: quello di Giuda e quello d’Israele. Il primo formatosi con le due tribù di Giuda e di Beniamino, ebbe per capitale Gerusalemme: il secondo si compose di dieci tribù con capitale Sichem, poi Samaria. A questo secondo regno appartenne il profeta Elia, che abitava il deserto di Galaad in Samaria. Uomo virtuoso e austero, vestiva una tunica di peli di cammello con ai fianchi una cintura di cuoio: « pieno di zelo per il Dio degli eserciti », uscì tre volte dal deserto per minacciare Achab, VII re di Israele, e la regina Iezabele, che avevano trascinato il popolo all’idolatria; per mandare a morte i 450 profeti di Baal che confuse sul Monte Carmelo; e per annunciare al re, impossessatosi della vigna di Naboth, che sarebbe stato ucciso, e alla regina, che era stata il cattivo genio di Achab, che il suo sangue sarebbe scorso ove era scorso il sangue di Naboth e i cani avrebbero divorate le sue carni. Per tutti questi motivi, Elia fu perseguitato dagli Israeliti, da Achab e da lezabele e dovette fuggire sul monte Horeb per scampare alla morte. Quando più tardi Ochozia, figlio di Achab, divenne re, Elia gli fece dire di non consultare Belzebù, il dio di Accaron, come aveva intenzione, ma il Dio d’Israele. Ochozia allora gli mandò un capitano con cinquanta soldati per indurlo a scendere dalla montagna e rendergli conto delle sue parole. Elia rispose al capitano: « Se io sono un uomo di Dio, scenda dal cielo un fuoco che divori te e i tuoi cinquanta », E scese il fuoco e divorò lui e i suoi cinquanta uomini » (Breviario). Più tardi, Elia andò verso il Giordano con Eliseo e allorché ebbero attraversato il fiume, un carro di fuoco con cavalli di fuoco separò l’uno dall’altro ed Elia sali al cielo in un turbine. Eliseo allora si rivestì del mantello che Elia aveva lasciato cadere e ricevette doppiamente il suo spirito. E tutti i discepoli di Elia dissero: «lo spirito di Elia si è posato su Eliseo ». E mentre Eliseo andava verso Bethel, alcuni ragazzi lo schernirono dicendo: « Sali, sali, calvo! ». Ed Eliseo li maledisse nel nome di Dio che essi offendevano: due orsi uscirono dalla foresta e sbranarono 42 di quei fanciulli. — Per tutta la sua vita Elia, con la sua parola di  fuoco, difese i diritti di Dio. Più tardi Giovanni Battista, « pieno dello Spirito e della virtù di Elia », si presentò vestito come lui ed abitante come lui nel deserto, e difese allo stesso modo gli stessi diritti di Dio, annunziando la separazione che farà Cristo venturo della paglia dal buon grano »: raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia in un fuoco che non si estinguerà. –   « Elia, dice S. Agostino, rappresenta il Salvatore e Signore nostro. Come infatti Elia soffrì persecuzioni da parte dei Giudei; nostro Signore, il vero Elia, fu rigettato e disprezzato dal medesimo popolo. Elia lasciò il paese suo; Cristo abbandonò la sinagoga e accolse i Gentili (2° Nott.). « Dio liberò Elia dai suoi nemici elevandolo al cielo, Dio innalzò Cristo in mezzo ai suoi nemici e lo fece salire il giorno dell’Ascensione in cielo ». « Liberami, o Signore dai miei nemici, dice l’Alleluia, e allontanami da quelli che insorgono contro di me ». Elia, trasportato in un carro di fuoco è, secondo i Padri, la figura di Cristo, che sale al Cielo. Il Graduale è il versetto del Salmo VIII, che la liturgia usa nel giorno dell’Ascensione: « Signore, Dio nostro, come è ammirevole il tuo nome su tutta la terra: poiché la tua magnificenza si solleva al di sopra dei cieli. » E l’Introito aggiunge: « Ecco che Dio viene in mio aiuto e che il Signore accoglie la mia anima. Oh, Dio! salvami nel tuo nome e liberami nella tua potenza ». Questo trionfo di Gesù su quelli che lo odiano, figurato da quello di Elia su coloro che lo disprezzano, sarà anche il nostro se « non tenteremo Cristo », cioè se eviteremo l’idolatria, l’impurità, la mormorazione » (Ep.) rimanendo fedeli alla grazia. Poiché « se Gesù continua a immolarsi sui nostri altari per applicarci i frutti della sua redenzione » (Secr.), e se « mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue,  noi dimoriamo in Lui e Lui in noi » (Com.), si è perché, « uniti a Lui », (Postcom.); osserviamo fedelmente i suoi comandamenti, che sono più dolci del miele » (Off.). S. Paolo ci dice infatti che « Dio, il quale è fedele, non permetterà che noi siamo tentati al di sopra delle nostre forze, ma con la tentazione ci darà anche il mezzo di uscirne affinché possiamo perseverare » (Ep.). Supplichiamo dunque il Signore d’accogliere benignamente le preghiere che noi gli indirizziamo e di fare in modo che gli chiediamo solo quanto gli sia gradito, affinché ci possa sempre esaudire (Oraz.). – Ma la Giustizia divina non si accontenta di proteggere il giusto contro i suoi nemici e di ricompensarlo per la sua fedeltà; essa punisce anche quelli che fanno il male. Elia minacciò il regno di Israele infedele e fece cadere il fuoco dal cielo sui suoi nemici (Brev.); « Gli Israeliti, che tentarono Iddio con le loro mormorazioni, perirono per mezzo dei serpenti di fuoco » (Ep.), e Gerusalemme sulla quale Gesù pianse, minacciandole castighi perché lo respingeva, fu distrutta dalla guerra e dall’incendio (Vang.). « Ventitremila Ebrei perirono in un sol giorno per la loro idolatria, e molti furono colpiti a morte dall’Angelo sterminatore per le loro mormorazioni ». Ma tutti questi avvenimenti, spiega S. Paolo, furono permessi da Dio, e narrati per servire di nostro ammaestramento » (Ep.). Più di un milione di Giudei perirono nella distruzione di Gerusalemme, perché avevano rifiutato il Messia e il Vangelo (Vedi I Domenica dell’Avvento e XXIV dopo Pentecoste). Gesù ha sempre paragonata questa fine tragica alle catastrofi che segneranno la fine del mondo, quando Dio verrà a giudicare il mondo col fuoco. Allora il Giudice divino opererà la separazione dei buoni dai cattivi e mentre ricompenserà i primi, allontanerà dal regno di Dio tutti quelli che lo avranno rinnegato per la loro incredulità e i loro peccati, come cacciò dal Tempio, che è la figura della Chiesa terrestre e celeste, tutti i venditori che avevano trasformato la casa di Dio in una spelonca di ladri (Vang.). « Il male ricada sui miei avversari, chiede il Salmista e, fedele alle tue promesse, distruggili, o Dio, mio protettore! » (Intr.). Allora, infatti il tempo della misericordia sarà passato e non vi sarà più che quello della giustizia ». « Frattanto colui che crede di essere in alto guardi di non cadere!», dice l’Apostolo (Ep.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nos omnípotens Deus, et, dimíssis peccatis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.

S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LIII: 6-7.
Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.

[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’anima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Ps LIII: 3
Deus, in nómine tuo salvum me fac: et in virtúte tua libera me.

[O Dio, salvami nel tuo nome: e liberami per la tua potenza.]


Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.

[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’ànima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Páteant aures misericórdiæ tuæ, Dómine, précibus supplicántium: et, ut peténtibus desideráta concédas; fac eos quæ tibi sunt plácita, postuláre.

[Porgi pietoso orecchio, o Signore, alle preghiere di chi Ti supplica, e, al fine di poter concedere loro quanto desiderano, fa che Ti chiedano quanto Ti piace.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.
1 Cor X: 6-13
Fatres: Non simus concupiscéntes malórum, sicut et illi concupiérunt. Neque idolólatræ efficiámini, sicut quidam ex ipsis: quemádmodum scriptum est: Sedit pópulus manducáre et bíbere, et surrexérunt lúdere. Neque fornicémur, sicut quidam ex ipsis fornicáti sunt, et cecidérunt una die vigínti tria mília. Neque tentémus Christum, sicut quidam eórum tentavérunt, et a serpéntibus periérunt. Neque murmuravéritis, sicut quidam eórum murmuravérunt, et periérunt ab exterminatóre. Hæc autem ómnia in figúra contingébant illis: scripta sunt autem ad correptiónem nostram, in quos fines sæculórum devenérunt. Itaque qui se exístimat stare, vídeat ne cadat. Tentátio vos non apprehéndat, nisi humána: fidélis autem Deus est, qui non patiétur vos tentári supra id, quod potéstis, sed fáciet étiam cum tentatióne provéntum, ut póssitis sustinére.

[“Fratelli: Non desideriamo cose cattive, come le desiderarono quelli. Non diventate idolatri, come furono alcuni di loro, secondo sta scritto: «Il popolo si sedette a mangiare e bere; poi si alzarono a tripudiare. Né fornichiamo, come fornicarono alcuni di loro, e caddero in un giorno 23 mila. Né tentiamo Cristo come lo tentarono alcuni di loro, e furono uccisi dai serpenti. Né mormorate come mormorarono alcuni di loro, ed ebbero morte dallo sterminatore. Or tutte queste cose accadevano loro in figura, e sono state scritte per ammaestramento di noi, che viviamo alla fine dei tempi. Colui, pertanto che si crede di stare in piedi, badi di non cadere. Nessuna tentazione vi ha sorpreso se non umana. Dio, poi, che è fedele, non permetterà che siate tentati sopra le vostre forze: ma con la tentazione preparerà anche lo scampo, dandovi il potere di sostenerla”.]

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

IL TIMOR DI DIO

Essere Cristiani non vuol dire essere esenti dalla vigilanza, e da una attenta vigilanza. Nell’Epistola della Domenica di Settuagesima abbiam visto come l’Apostolo per incoraggiare i Corinti alla perseveranza, oltre il proprio esempio, portò l’esempio dei Giudei, i quali, quantunque usciti in gran numero dall’Egitto, dopo aver ricevuto grandi benefici dal Signore, solamente in numero di due poterono entrare nella terra promessa. L’Epistola di quest’oggi continua quel brano. Vi sono enumerate alcune prevaricazioni dei Giudei ed i castighi che ne seguirono, e si esortano i Corinti a non imitarne l’esempio; poiché quanto avvenne agli Israeliti sarà figura di quanto avverrà a noi Cristiani, se abuseremo delle grazie del Signore. – E noi non abuseremo certamente delle grazie del Signore, se avremo il timor di Dio, il quale:

1 Ci fa evitare il peccato,

2 Ci rende diffidenti di noi,

3 Ci lascia calmi e fiduciosi in Dio, durante le prove.

Graduale 

Ps VIII: 2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in universa terra!

[Signore, Signore nostro, quanto ammirabile è il tuo nome su tutta la terra!]


V. Quóniam eleváta est magnificéntia tua super cœlos. Allelúja, allelúja

[Poiché la tua magnificenza sorpassa i cieli. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps LVIII: 2
Alleluja, Alleluja

Eripe me de inimícis meis, Deus meus: et ab insurgéntibus in me líbera me. Allelúja.

 [Allontànami dai miei nemici, o mio Dio: e liberami da coloro che insorgono contro di me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIX: 41-47
“In illo témpore: Cum appropinquáret Jesus Jerúsalem, videns civitátem, flevit super illam, dicens: Quia si cognovísses et tu, et quidem in hac die tua, quæ ad pacem tibi, nunc autem abscóndita sunt ab óculis tuis. Quia vénient dies in te: et circúmdabunt te inimíci tui vallo, et circúmdabunt te: et coangustábunt te úndique: et ad terram prostérnent te, et fílios tuos, qui in te sunt, et non relínquent in te lápidem super lápidem: eo quod non cognóveris tempus visitatiónis tuæ. Et ingréssus in templum, coepit ejícere vendéntes in illo et eméntes, dicens illis: Scriptum est: Quia domus mea domus oratiónis est. Vos autem fecístis illam speluncam latrónum. Et erat docens cotídie in templo”.

[“In quel tempo avvicinandosi Gesù a Gerusalemme, rimirandola, pianse sopra di lei, e disse: Oh? se conoscessi anche tu, e in questo tuo giorno, quello che importa al tuo bene! ma ora questo è a’ tuoi occhi celato. Conciossiachè verrà per te il tempo, quando i tuoi nemici ti circonderanno di trincea, e ti serreranno all’intorno, e ti stringeranno per ogni parte. E ti cacceranno per terra te e i tuoi figliuoli con te, e non lasceranno in te pietra sopra pietra; perché non hai conosciuto il tempo della visita a te fatta. Ed entrato nel tempio, cominciò a scacciare coloro che in esso vendevano e comperavano, dicendo loro: Sta scritto: La casa mia è casa di orazione; e voi l’avete cangiata in spelonca di ladri. E insegnava ogni giorno nel tempio”.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

I MOMENTI DELLA GRAZIA

Quando dall’alto del monte degli ulivi apparve la città, distesa in basso nella limpida luce del mattino, Gesù cominciò a piangere. E disse: « Gerusalemme! conoscessi tu pure, e fosse almeno in questo giorno, quel che giova alla tua pace! Invece sono cose nascoste ai tuoi occhi. Io vedo venire sopra di te dei giorni nei quali i nemici ti circonderanno da ogni parte, e distruggeranno i tuoi figli con te. Ecco non resterà pietra su pietra, perché non volesti conoscere il tempo che fosti visitata ». Poi il Figlio di Dio riprese la via e discese trionfalmente in città. E quell’ingresso era un richiamo ancora, l’ultimo richiamo che Gesù faceva al suo popolo perché ascoltasse la sua voce, e si assicurasse un santo avvenire. Anche questa visita estrema fu vana. Urlava la città di folle gioia nella vana speranza di un messia conquistatore e politico che restituisse alla nazione l’antica potenza e prosperità materiale: intanto non vedeva quel che vedevano gli occhi profetici di Gesù; la sua miseranda rovina sotto il ferro e il fuoco dei Romani. Perciò il Figlio di Dio piangeva. E non deve forse piangere anche davanti a certe anime più chiuse e più sorde al suo richiamo della stessa città giudaica? Non sentite la sua voce rotta dal pianto ripetere sul vostro cuore il suo lamento? « Conoscessi, almeno in questo giorno, quel che giova alla tua pace… ». E come per Gerusalemme ci fu un limite, oltre il quale fu colma la misura della sua malvagità, e cadde su di lei il castigo terribile, così anche per ciascun cuore ci sono dei limiti, nascosti ai nostri occhi, ma non a quelli di Gesù che vede di là da essi la nostra rovina finale. Bisogna persuadersi che la grazia di Dio ha i suoi momenti: chi ne abusa, procrastinando, non vede quel che giova alla sua pace; non vede che va incontro alla perdizione eterna. Se almeno oggi lo vedesse! Dunque, due pensieri: la grazia ha i suoi momenti; ad essi bisogna corrispondere subito. – 1. LA GRAZIA HA I SUOI MOMENTI. Dice S. Paolo che ci sono tempi e giorni speciali per convertirci: tempus acceptabile, dies salutis (II Cor., VI, 2). Sono i giorni e i tempi in cui la grazia viene a noi. Essa viene in un triplice modo: mostrandoci la nostra miseria, sventando le lusinghe del mondo, attirandoci all’amore di Dio. a). Mostrandoci la nostra miseria. La conversione di un’anima incomincia sempre con una luce oscura che fa vedere lo stato miserevole della coscienza. Immaginate un pellegrino, lontano da ogni casa, di notte smarrito. Non trovando altro riparo, entra in una caverna, e vinto dalla stanchezza si addormenta. Quel luogo è nido di serpenti e rettili velenosi, ma egli in sull’entrare non se n’è accorto tanto che era pieno di sonno, e tanto il luogo era oscuro. Supponete ora, che nel cuor della notte qualcuno entri nella caverna con in mano una fiaccola: il pellegrino si sveglia d’improvviso e scopre in ogni crepaccio e sul suolo vicino a lui schifosi rettili e grovigli di bisce. Che orrore! Che tremito per ogni vena! Come la luce della fiaccola nella caverna, così viene talvolta la grazia nella coscienza del peccatore che ha smarrito la dritta via della salvezza e s’è addormentato in mezzo alle sue ree abitudini. Allora dai suoi occhi cade un velo: le sue iniquità, le azioni vergognose, i suoi peccati, gli appaiono come li vede il Signore. Egli stesso inorridisce e ha schifo di sé, si meraviglia d’essere caduto tanto in basso, si chiede per quale misericordia Dio abbia potuto sopportarlo, invoca dal profondo dello spirito la divina pietà. Tra i momenti propizi alla grazia per illuminarci sulla nostra vera condizione spirituale, io conto il tempo della divina parola, in cui tratto tratto ascoltiamo una frase o una verità che ci tocca sul vivo, e ci illumina tutta una situazione insospettata di miserie e di bassezze. Vi conto anche certi interni rimorsi che picchiano contro la coscienza pietrificata e ne fanno sprizzare scintille e lampi di provvida luce. Vi conto infine la lettura di qualche libro spirituale, del giornale cattolico; della parola buona d’un amico o d’un parente; i salutari avvisi di un santo confessore. b) La grazia viene a noi, sventando le lusinghe del mondo, dalle quali eravamo ingannati. Momenti di tale grazia sono certe umiliazioni che ci persuadono a poco a poco come l’onore mondano è un fiato di vento. Anche certi tradimenti, certe slealtà fattici da persone in cui ponevamo la nostra fiducia e il nostro amore, per le quali forse avevamo perfino sacrificato il nostro interesse e magari la legge di Dio, sono grazie che stroncano i legami colla creatura e lasciano libero il cuore nostro di sollevarsi a Dio. Anche la morte di qualche persona cara, le malattie, anche le disgrazie e i dissesti finanziari sono spesso rudi colpi della grazia che vuol farci sperimentare la vanità e l’insufficienza dei beni terreni. Come la buona madre nasconde al suo figliuolo malato convalescente cibi e bevande che gli sarebbero cagione di ricaduta, così la grazia divina ci strappa con violenza da quelle persone, da quegli affetti, da quelle abitudini che ci farebbero continuamente ricadere in peccato. c) Infine la grazia ci visita con soavi attrazioni alla preghiera, al bene, a Dio. Quando ci prende un fastidio dei divertimenti del mondo, delle chiacchere vane o maliziose degli uomini, e nel medesimo tempo un secreto presagio di pace ci spinge a raccoglierci nella solitudine della casa nostra o della chiesa, e ci pare che se provassimo a pregare, a confessarci bene, ad ascoltare fedelmente e cordialmente la Messa, ci troveremmo più felici, questo è un momento della grazia che ci attrae dolcemente. Se avvicinandoci alla serena gioia di un’anima innocente, se vedendo persone umili e piene di carità per il prossimo, abbiamo sentito una sincera e forte aspirazione ad imitarle, era pur quello uno dei momenti in cui la grazia ci attira al bene ed alle opere. virtuose. Chi neppure una volta ha sentito il desiderio d’essere santo — ha scritto un convertito — non è un uomo, ma una bestia. Penso che ci siano per tutti certi momenti in cui il cuore desidera d’essere più puro, più buono, più leale, più giusto: ebbene, questi sono i momenti della grazia che ci attira più vicino a Dio, che è la stessa Purezza, Bontà, Lealtà, Giustizia. Cristiani, quando spira il vento favorevole, è folle il nocchiero che non apre le vele: si mette a rischio d’essere trattenuto da una calma fatale o d’essere poi incolto dalla burrasca. Così, colui che, navigando sul mare della vita, non approfitta della grazia, corre rischio d’essere abbandonato alle proprie forze e di perdere la felicità eterna. – 2. BISOGNA CORRISPONDERVI SUBITO. S. Giovanni Bosco se ne andava una sera, sull’imbrunire, per un bosco sui colli astigiani, quando un uomo, sbucato d’un tratto davanti a lui, gli intimò: « O la borsa o la vita ». La borsa non l’ho e la vita sta in mano a Dio » rispose il Santo; ma già dalla voce aveva riconosciuto che l’aggressore era un uomo che egli aveva istruito e beneficato nelle prigioni di Torino. Gli disse allora: « Antonio, ti riconosco: Son queste le tue promesse? ».- « Padre — balbettò l’altro — vi lascio andare in pace ». « Come posso andare in pace, mentre ti vedo sull’orlo dell’inferno! È di te che ho paura ». Al brigante cominciò a tremare il cuore e disse: « Padre, vi prometto che presto cambierò vita, che presto andrò ancora a confessarmi ». Ma Don Bosco gli afferrò l’anima con tutta la violenza della sua santità. « No, non presto: io voglio subito: adesso qui ». Sedutosi su una pietra abbracciò il penitente e ne ascoltò la confessione. Poi si fece da lui accompagnare fino a casa, dove gli diede una medaglia della Madonna e un po’ di danaro. Se non avesse corrisposto immediatamente alla grazia, quel brigante non si sarebbe convertito più. Non presto, ma subito; è necessario. Molti altri invece assomigliano alla statua del « Pensieroso » scolpita da Michelangelo in Firenze. (È la statua di Giuliano de’ Medici duca d’Urbino, nella Cappella Medicea). Davanti ad essa si fermò, attorniato da un gruppo di giovani, S. Filippo Neri e con la sua consueta arguzia disse: « Questa statua pensa e ripensa, ma non si decide mai. Proprio come quelli che vorrebbero provvedere all’anima, lasciare il peccato: ma non si decidono mai e dicono: a domani, a domani ». « Mi convertirò quando metterò su casa » dice il giovane che vive licenziosamente. « Mi convertirò, quando sarò più vecchio » dicono le persone sposate, a cui sembra grave la legge di Dio sull’uso del matrimonio. « Mi convertirò un altro anno, un’altra Pasqua, nel prossimo corso d’esercizi o di missioni » dicono quelli che sono ingolfati negli affari e nel tramestio mondano. «Io col prete m’arrangerò sul letto di morte » pensano certi che vivono tra abitudini cattive, e quasi senza più un barlume di fede. Intanto fabbricano i loro castelli su tre fondamenti di cui non possono essere sicuri: il tempo, la forza di volontà, la grazia. « Mi convertirò a Pasqua, quando metterò su casa, quando sarò vecchio, sul letto di morte… »; così si ode dire. Ma chi ti assicura un altro anno, un’altra Pasqua, una vita lunga fino alla vecchiezza? E se la morte ti cogliesse non lentamente in un letto, ma su di una sedia, sul pavimento della bottega, in mezzo alla strada? — Inoltre è illogico sperare di vincere con minore fatica un nemico a cui intanto si lasci il tempo di fortificarsi. Il vizio è come una pianta: più s’aspetta e più s’abbarbica. E se ora rifuggi dalla fatica di sradicarlo, come puoi illuderti d’avere poi energie sufficienti? — Da ultimo è temerario pretendere un giorno quella grazia di Dio che ora rifiuti e disprezzi. « Con Dio non si scherza impunemente » ha detto l’apostolo Paolo. Tommaso Moro ad un suo collega libertino soleva ripetere: « Cambia vita, che è tempo ». « Non temete, amico: in caso di morte improvvisa, me la caverò con una giaculatoria ». Una volta, cavalcando lungo il Tamigi, quel disgraziato fu sbalzato da sella e cadde in acqua. Gli amici accorsi fecero a tempo ad udire le sue grida: non erano giaculatorie, ma bestemmie. In punto di morte il cuore butta fuori quello che durante la vita si è messo dentro. — Gesù entrando nella città di Gerico vide un pubblicano appollaiato sopra un albero. Si fermò e disse: « Zaccheo, vien giù subito, perchè oggi io voglio albergare nella tua casa ». Confuso, commosso, il pubblicano scivolò lungo il tronco e corse ad aprir la porta di casa sua al Redentore. Da quel momento fu salvo per l’eternità. (Lc., XIX, 1-10). Cristiani, Gesù si ferma davanti all’albero frondoso delle nostre cattive abitudini dove ci siamo appollaiati, e ci chiama per nome: «Vieni giù subito, perché oggi io voglio albergare nel tuo cuore ». Chi oggi rifiuta il dolce invito, per quale stolta speranza pretende che Gesù ripassi un altro giorno? Subito abbandoniamo la pericolosa dimora del peccato, ed apriamo l’anima alla grazia che salva. – LE LACRIME DI GESÙ. Piansero i Profeti della Legge Antica. Dio usò i loro occhi per versare lacrime sul suo popolo. Amos, fuggendo la luce del sole splendente sulle colpe umane, scende nel luogo delle tenebre, grida al vento d’oriente e d’occidente il castigo di Dio: e quando attorno a lui vede molti figli d’Israele, con un tremito nella voce e col dolore che sale acuto dal cuore, così a loro parla: « Figli miei, sapete che faccio il dì? sapete che faccio la notte? Sono fissi nella mia mente i vostri peccati e sono piene le mie pupille di pianto. E quando m’assopisco subito mi sveglio ed ho gli occhi bagnati da lacrime ed ho il cuore spezzato dal dolore ». Poi parla al Signore e gli dice: « Jahvé, che debbo fare per la tua gente? ». « Profeta, risponde Iddio, va sulle piazze, corri nelle vie, entra nelle case: e piangi; entra nelle botteghe degli artigiani, penetra nel palazzo di giustizia e dì a tutti costoro: piangete con me i vostri peccati, piangete fino alla tomba ». Anche Geremia pianse sopra le iniquità degli uomini, e diceva: « Ah! mio Dio, ah! mio Dio: m’avete dato la cura di un popolo ribelle, che dirò a lui? ». E Dio gli rispose così: « Mostra quello che io soffro e fa così: afferra a ciocche i tuoi capelli, strappali di colpo, gettali nell’abisso; perché il peccato di questo popolo ha acceso il mio furore » « Ma, Signore, e la tua ira quando cesserà? ». « Vestiti di sacco, mettiti la cenere sulla testa e piangi: piangi così che dì e notte il tuo volto sia bagnato, sì che i peccati del popolo siano lavati ». Anche al profeta Gioele Dio impose di piangere per i peccati, con queste parole: « Piangi la perdita delle anime, come lo sposo che ha perduto la sposa, e da quel dì è inconsolabile e cerca con i deserti di Siria e i colli di Palestina; e non hanno tregua le sue lacrime ». Piansero dunque i profeti della Legge Antica, l’uno dopo l’altro: ma il loro pianto era un preannunzio e una figura del pianto del Figlio di Dio, che sarebbe venuto a salvare l’umanità; le loro lacrime non avevano valore se non perché si univano misteriosamente a quelle che il Redentore avrebbe versato. Bisognava che il Redentore venisse e bisognava che piangesse sui nostri peccati e ottenerci il perdono divino. Venne finalmente Gesù; ed il Vangelo odierno ci narra il suo pianto. Cavalcava tra le acclamazioni del popolo ed il suo viaggio verso Gerusalemme pareva un trionfo e invece era un martirio. Tanto è vero che quando dall’alto dell’oliveto la capitale apparve distesa sotto il suo sguardo, Gesù si fermò a mirarla tristemente e pianse. Pianse vedendo i palazzi e il tempio che sarebbero stati rasi al suolo, ma soprattutto pianse vedendo il cuore di tanti uomini colmo come un sepolcro di corruzione e di miseria. « Gerusalemme, ah, se in questo giorno avessi conosciuto anche tu quello che occorreva per la tua pace, ma ormai ciò è nascosto ai tuoi occhi. Eppure verranno giorni sopra di te, quando i tuoi nemici scaveranno trincee, ti premeranno d’ogni parte, spezzeranno i tuoi figliuoli contro il suolo, non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai conosciuto il tempo della tua visita ». Noi siamo commossi assai delle lacrime divine e spontaneamente ci vengono dal cuore queste due riflessioni: perché piange Gesù e che cosa ottengono le sue lagrime. – 1. PERCHÉ GESÙ PIANGE. Se qualcuno avesse osato interrogare Gesù perché piangesse, indubbiamente si sarebbe sentito rispondere: « Piango perché gli uomini hanno peccato; piango perché  gli uomini non vogliono accogliere il mio amore ». Ma davanti agli sguardi divini di Gesù non era distesa appena Gerusalemme, ma tutta la storia del mondo. Il suo pianto non si fermò appena sui Giudei dalla dura cervice, ma discese anche su di noi che abbiamo peccato e che non vogliamo accogliere il suo amore. Pianse dunque anche su noi: vide le nostre povere anime ingrate e le sue pupille si riempirono di lacrime. Pianse sulla nostra gioventù che cresce lontana da Lui; che non sa più pregare ma sa bestemmiare, non conosce più il sorriso innocente degli occhi divini, ma ha gli occhi pieni di cupi desideri e il cuore pieno di fango. E pianse sugli uomini che hanno perso la via della chiesa e conoscono solo quella delle sale di divertimento, ed hanno sul labbro il motto equivoco ed hanno nell’anima l’odio feroce e la discordia. E pianse sulle donne che l’hanno dimenticato, che si ribellano alla loro missione materna e non sanno più portare la croce senza l’imprecazione contro la Provvidenza. Pianse sul nostro orgoglio, sulla nostra smania di piaceri e di onori. Ed Egli s’è umiliato tanto ed ha sofferto acerbamente! Pianse sulle nostre vendette, ed Egli morì con la parola del perdono. Pianse sui nostri sguardi cattivi, sui nostri discorsi osceni, sui nostri atti bassi e vergognosi: ed Egli era così santo, innocente, sopra ogni peccato!… Almeno avessimo udito il suo lamento e l’avessimo meditato; invece il nostro cuore è rimasto, rimane duro da non conoscere mai il tempo della visita del Salvatore. Ci visita spesso Gesù, ci passa vicino; e noi siamo così distratti dal rumore delle terra che non ce ne accorgiamo. Ci visita con le carezze, quando benedice il lavoro della terra e la fatica dell’officina; e noi non siamo neanche un po’ riconoscenti. Ci visita col rimorso di coscienza, con una buona parola d’un amico, con la frase acerba del predicatore: e noi abusiamo. Non ancora oggi ci siamo convertiti a Lui, oggi in cui grida di più all’anima nostra con angoscia rotta e con amore desolato: « Gerusalemme, mia città, getta lontano il tuo manto d’ignominia, abbandona le orge che ti hanno sedotta: e ritorna al tuo Signore ». Convertere ad Dominum Deum tuum. – 2. L’EFFICACIA DEL PIANTO DI GESÙ. S. Vincenzo de’ Paoli amava con tutta l’anima un giovane che era cresciuto bene, come un giglio in una serra; ma che poi s’era abbandonato al vizio. Il Santo; ogni volta che lo vedeva, non riusciva a trattenere il pianto. « Ebbene, gli disse un giorno S. Vincenzo, non posso più esortarti a lasciare la strada cattiva, perché vedo che delle mie parole e delle mie lagrime non tieni conto. Ti chiedo però una cosa ancora ». « Quale? », domandò il giovane. « Prendi questa immagine e guardala, ogni sera, prima di addormentarti ». Il giovane accontentò la stranezza del santo e promise. La sera vide quell’immagine per la prima volta: e fu scosso e prese il sonno solo dopo un’ora: lo sguardo dolorante del Maestro Divino lo fissava, incatenava i suoi occhi, l’anima sua. E la sera dopo, ebbe paura a guardare, a stento riuscì a mantenere la parola. Ma Gesù sofferente lo guardava, sempre, tutta la notte, così che non poté dormire. Ed al mattino si recò da S. Vincenzo. « Padre, non ne posso più: le lacrime di Gesù hanno vinto ». Questo non è che un piccolo episodio in cui il pianto di Gesù ha ottenuto una conversione: ma voi capite subito quanto valgono le lacrime divine, il pianto che ha fatto la seconda Persona della Santissima Trinità, il Figlio di Dio. Lacrime di valore infinito ci hanno meritato una cosa divina, la grazia, la partecipazione della vita divina, l’essere figli adottivi di Dio. – O Angeli santi, grida Nieremberg, ditemi dunque: che cosa è la grazia? Cherubini, voi così pieni di scienza, ditemi: che cosa è la grazia che è costata tanto al nostro Dio? ». Che ha fatto il digiuno di Gesù? il suo lavoro, i suoi sudori? Che hanno fatto i suoi flagelli, le sue spine, il suo pianto? Hanno meritato la grazia santificante all’anima nostra. E voi sapete che cosa è un’anima in grazia? Quando Giovanni la vide in cielo, era così bella che pareva Dio e si prostrò ad adorarla; ma ella gridò: «che fai? son tua sorella ». Quando a S. Caterina la mostrò il Signore, la Santa fu così meravigliata da dire: se io non sapessi che v’ha un Dio solo, crederei questa esserne uno ». Quando Bossuet meditò sulla sua bellezza, scrisse così: « Chi vedesse un’anima dove Dio regna con la sua grazia, crederebbe vedere Dio stesso, come si vede un secondo sole in un terso cristallo dov’esso si rifletta con tutti i suoi raggi ». Quando il S. Curato d’Ars ne parlava faceva dire così al Signore: « Io l’ho fatta sì grande che io solo posso bastarle: io l’ho fatta sì pura che solo il mio corpo le può servire di alimento ». Lacrime di valore infinito, hanno meritato tante e tante conversioni; così che per i lamenti del Buon Pastore quante pecorelle sono ritornate all’ovile; così che per le lacrime del Buon Pastore quanti figli prodighi sono venuti ancora alla casa paterna; così che per le premure amorose, come quelle della donna di casa, quante dramme si trovano ancora con l’impronta dell’immagine di Dio! Lacrime di valore infinito, ci hanno ottenuto di conservare la grazia. Volete sapere quanto costa l’anima nostra? Domandatelo al demonio che ogni dì vi tenta, anche quando meno pensate all’anima, anche quando pregate. Così potrete anche misurare quanto valgono le lacrime di Gesù. Invece noi stimiamo tanto poco la grazia e l’anima nostra e stiamo in peccato; un orgoglioso la vende per un pensiero di orgoglio, un avaro per un po’ di terra, un lussurioso per un attimo di piacere, un ubriaco per un bicchiere di vino, un vendicativo per un pensiero di vendetta… Invece noi lasciamo di nutrirla col SS. Sacramento, con la S. Comunione, lasciamo aperta la porta e lasciamo entrare il ladro di giorno, di notte, la lasciamo assalire, ferire, morire… Quanto poco stimiamo l’anima in grazia, quanto poco stimiamo le lacrime di Gesù! – « Gettate uno sguardo, esclama commosso Bossuet, contemplate Gesù lacrimoso, doloroso: voi siete nati da quelle lacrime, voi siete stati generati da quei dolori: e la grazia che vi santifica si riversa su voi assieme alle sue lacrime. Figli di dolore, figli di pianto… ». « Ecco l’Uomo »: fu detto ai Giudei nel dì del dolore. Era l’Uomo nuovo che sostituiva l’uomo vecchio, era l’Uomo nuovo che veniva a piangere sui peccati dell’uomo, a darci la grazia, a farci figli di Dio. Da allora cessò il pianto dei profeti: e come ci fu poi un solo Sacrificio a cui partecipano i figli della grazia, così ci fu un sol pianto a cui parteciparono i figli redenti nel dolore. Tanto valsero le lacrime di Gesù.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XVIII: 9-12
Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulcióra super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.

[La legge del Signore è retta e rallegra i cuori, i suoi giudizii sono piú dolci del miele e del favo: e il servo li custodisce.]

Secreta

Concéde nobis, quǽsumus, Dómine, hæc digne frequentáre mystéria: quia, quóties hujus hóstiæ commemorátio celebrátur, opus nostræ redemptiónis exercétur.

[Concedici, o Signore, Te ne preghiamo, di frequentare degnamente questi misteri, perché quante volte si celebra la commemorazione di questo sacrificio, altrettante si compie l’opera della nostra redenzione.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

Sanctus

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann VI: 57
Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo, dicit Dóminus.

[Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me, ed io in lui, dice il Signore.]

Postcommunio

Orémus.
Tui nobis, quǽsumus, Dómine, commúnio sacraménti, et purificatiónem cónferat, et tríbuat unitátem.

[O Signore, Te ne preghiamo, la partecipazione del tuo sacramento serva a purificarci e a creare in noi un’unione perfetta.]

ORDINARIO DELLA MESSA

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi

Durante la festa di Pentecoste la Chiesa ha ricevuto la manifestazione dello Spirito Santo e la liturgia di questo giorno ce ne mostra le felici conseguenze. Questo Spirito ci rende figli di Dio, tanto che possiamo dire in tutta verità: Padre nostro; siamo quindi assicurati dell’eredità del cielo (Ep.): ma per questo bisogna che, vivendo per opera di Dio, noi viviamo secondo Dio (Oraz.), lasciandoci indurre in tutto dallo Spirito di Dio (Ep.), cosi Egli ci accoglierà un giorno nei tabernacoli eterni (Vang.). Sta qui la vera sapienza di cui ci parla la storia di Salomone, della quale in questa settimana si continua la lettura nel Breviario; qui sta la grande opera alla quale il re dedicò tutta la sua vita. – Salomone costruì il Tempio del Signore nella città di Gerusalemme, secondo la volontà di David suo padre, che non aveva potuto edificarlo egli stesso per le continue guerre che i nemici gli avevano mosso contro. Salomone impiegò tre anni a preparare il materiale, cioè le pietre che ottantamila uomini estraevano dalle cave di Gerusalemme e il legno di cedri e cipressi che trentamila uomini abbattevano sul Libano nel regno dell’Iram (V. Domenica prec.). – Quando tutto fu pronto si cominciò, nel 480° anno dopo l’uscita dall’Egitto, la costruzione che durò sette anni. Pietre da taglio, legno e fregi ornamentali erano stati così esattamente misurati prima, che i lavori si compivano nel più grande silenzio. Nella casa di Dio non si sentiva colpo di martello, né ascia, né altro strumento di ferro durante il tempo che si edificava. Salomone prese come piano quello del tabernacolo di Mosè; ma gli diede proporzioni più vaste e vi accumulò tutte le ricchezze che poté. I soffitti e i pavimenti di legni preziosi erano rivestiti da placche di oro, gli altari e le tavole erano ricoperti di oro, i candelabri e i vasi erano di oro massiccio. Tutte le mura del tempio erano ornate da cherubini e da palmizi coperti di oro. A lavori terminati, Salomone consacrò con grande solennità questo Tempio al Signore. In presenza di tutti gli Anziani di Israele e di un popolo immenso appartenente alle dodici tribù, i sacerdoti trasportavano l’Arca dell’alleanza nella quale si trovavano le tavole della legge di Mosè, sotto le ali spiegate di due cherubini, ricoperte di oro e alte dieci cubiti, che si innalzavano nel santuario. Si immolarono anche migliaia di pecore e di buoi e, quando i sacerdoti uscirono dal Sancta Sanctorum, una nube riempì la casa del Signore. Allora Salomone levando gli occhi verso il cielo, domandò a Dio di ascoltare le suppliche di tutti quelli, Israeliti o estranei, che sarebbero venuti in differenti circostanze, felici o infelici, nella loro vita, a pregarlo in questo luogo che era stato a Lui consacrato. Gli domandò anche di esaudire tutti quelli che, con la faccia rivolta verso Gerusalemme e verso il Tempio, gli avrebbero indirizzato le loro suppliche, per mostrare che Egli aveva scelta questa casa per sua residenza e che non vi era in nessun luogo altro Dio, che quello d’Israele. – Le feste della Consacrazione del Tempio durarono quattordici giorni in mezzo a sacrifici e banchetti sacri. E il popolo se ne tornò benedicendo il re e sentendo riconoscenza per tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele dal giorno dell’alleanza sul Sinai. Il Signore apparve allora una seconda volta a Salomone e gli disse: « Ho esaudita la tua preghiera, ho scelto e benedetto il tempio che mi hai innalzato; là saranno sempre i miei occhi e il mio cuore per vegliare sul mio popolo fedele ». Nella Messa di questo giorno la Chiesa canta alcuni versetti di sei Salmi differenti che riassumono tutti i pensieri espressi da Salomone nella sua preghiera: « Il Signore è grande e degno di lode nella città del nostro Dio, sulla sua montagna santa » (l’Intr., Alt.). « Chi è dunque Dio se non il Signore?» (Off.). È nel suo tempio che si riceve la manifestazione della sua misericordia » (Intr.) e che « si prova e si sente quanto il Signore sia dolce » (Com.), poiché Egli è « per tutti quelli che sperano in Lui, un Dio protettore e un luogo di rifugio » (Grad.), — Come il regno di Salomone fu una specie di abbozzo e di figura del regno di Cristo (2° Nott.), cosi il tempio che egli innalzò a Gerusalemme non fu che una figura del cielo nel quale Dio risiede ed esaudisce le preghiere degli uomini. È sulla montagna santa e nella città di Dio (All.) che noi andremo un giorno a lodarlo per sempre. L’Epistola ci dice che se noi vivremo di Spirito Santo, facendo morire in noi le opere della carne saremo figli di Dio, e che da quel momento, eredi di Dio e coeredi di Cristo, entreremo nel cielo che è il luogo della nostra eredità. Ed il Vangelo completa questo pensiero dicendoci, sotto forma di una parabola, quale sia l’uso che dobbiamo fare delle ricchezze d’iniquità per assicurarci l’entrata nei tabernacoli eterni. Un fattore infedele, accusato di aver dissipato i beni del padrone, si procura degli amici con i beni che questi gli aveva affidato, per avere, dopo essere stato cacciato, « persone pronte ad accoglierlo nelle proprie case ». I figli della luce, dice Gesù, contendano per zelo coi figli del secolo, e, imitando la previdenza di questo fattore, utilizzino i beni, che Dio ha messi a disposizione loro per venire in. aiuto dei bisognosi e si faccianoamici nel cielo, perché quelli che avranno sopportato cristianamente le privazioni sulla terra entreranno lassù e renderanno testimonianza ai loro benefattori nel momento in cui tutti dovranno rendere conto al divino Giudice della loro amministrazione (Vang.)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis tuis, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

Introitus

Ps XLVII: 10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Ps XLVII: 2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus.

[Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]

Ps XLVII: 10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus.

[Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; così che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 12-17

Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fíli Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.

(“Fratelli: Non abbiam alcun debito versa la carne per vivere secondo la carne. Se, pertanto, vivrete secondo la carne, morrete; se, al contrario, con lo spirito farete morire le opere della carne, vivrete. Poiché, quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Invero, non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma avete ricevuto lo spirito di adozione in figliuoli, per il quale gridiamo «Abba! (o Padre)». E lo Spirito Santo stesso attesta al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Ora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo”).

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.]

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Che grande parola ha detto il Cristianesimo agli uomini quando ha detto loro: voi siete figli di Dio! Fuori del Cristianesimo, osservate, l’uomo o è avvilito o è adulato. Gli spregiatori dicono all’uomo: sei una scimmia, appena un poco più perfezionato. Gli adulatori dicono: sei un Dio, sei Dio… E gli uni e gli altri dicono parole che hanno sapore di falsità e riescono moralmente funeste; perché è funesta l’abbiezione del bruto, come è funesto l’orgoglio di un falso iddio, di un idolo. Il Cristianesimo appaga e non solletica i nostri istinti, le nostre aspirazioni di grandezza, quando ci dice: voi siete figli di Dio. Purtroppo noi abbiamo fatto l’abitudine a questa parola, ed essa, che dovrebbe riempirci di gioia e di legittimo orgoglio, per poco non ci lascia indifferenti. – Ma non fu così per le prime generazioni cristiane. San Paolo si esalta, si entusiasma analizzando e quasi assaporando la frase. Per meglio gustarla e illuminarla, Paolo contrappone la sorte nostra, di noi Cristiani, a quella dei Giudei, che furono pure per tutto il mondo antico, e prima che venisse Gesù, i depositari della religione vera. Ma quella loro religione era pervasa da un suo spirito, perché dominata da una sua idea. Lo spirito onde l’anima giudaica era pervasa nel suo momento religioso, ben s’intende, era spirito di timore, anzi di timore servile, perché per il fedele giudeo cresciuto alla scuola di Mosè e della sua Legge, Dio era il Padrone, il grande, il vero padrone, il Re, il Sovrano, alla guisa orientale. L’anima, davanti a quel padrone, temeva e tremava. Era la forza specifica della sua adorazione. San Paolo ne aveva fatta l’esperienza: aveva tremato anche lui e sofferto insieme e goduto di quel timore. Più sofferto che goduto, perché la sua anima avrebbe voluto aprirsi a sensi più nobili, come sono i sensi dell’affetto. Ma la vecchia legge non glielo consentiva. Ed ecco sopraggiungere Gesù, non più semplice profeta, e servo, ma Figlio di Dio veracemente, propriamente. Ed ecco annunziare agli uomini, coll’autorità sua di Figlio, che Dio è per noi e vuole essere Padre « Pater noster; » Padre già per diritto e fatto di creazione, ma assai più e meglio per diritto e fatto di redenzione; Padre dacchè ci ha dato per fratello vero il vero e unico suo Figlio. – Chiamarsi così per noi non è più una usurpazione — come non fu usurpazione per Gesù il dirsi eguale al Padre — non è una metafora: è un diritto. Guardate — dirà un altro Apostolo agli stessi primi Cristiani, — quale carità ci ha usato il Signore, dandoci nome e realtà di suoi figlioli: « ut filì Dei nominemur et simus ». Il Cristianesimo ha fatto e fa lievitare in noi, in noi esalta tutti quegli elementi che già costituiscono un fondo di sbiadita rassomiglianza con Dio. Esalta col lume della fede il lume dell’intelletto, orma di Dio nella nostra anima; ci solleva a quelle verità che sono il segreto di Dio, che nessuno dei principi di questo mondo sarebbe arrivato a scoprire. Esalta la nostra coscienza e la spinge a desiderare e volere forme nuove e più atte al bene. È qui anzi, nella fornace dell’amore al bene, della carità, che si compie questa meravigliosa trasformazione del Cristiano in figlio di Dio, simile — non uguale, privilegio questo di Gesù Cristo — simile al Padre. Trasformazione dovuta alla grazia, ma alla cui completa realizzazione noi dobbiamo collaborare, operando da figli di Dio. I filosofi dicono che l’opera segue l’essere e lo dimostrano. « Operari seguitur esse ». Siamo figli di Dio! E operiamo allora da figli di Dio, non da estranei, non da nemici. Siano divine le nostre opere, sia divina la nostra condotta. Per fortuna, quale sia la divina condotta di un uomo noi lo sappiamo, guardando a N. S. Gesù Cristo, l’Uomo-Dio. Verrebbe voglia di riepilogare con parola evangelica questa condotta divina, superiore sovrannaturale in un binomio: spirito e verità. Seguiamo le ispirazioni dello spirito e non le suggestioni della carne; queste fanno l’uomo animale, bruto, inferiore, degenere; lo spirito, al contrario, ci dà l’uomo superiore, spirituale. E della verità siamo solleciti ed entusiasti: Dio in ciascuno di noi… Se procederemo così secondo spirito e verità, avremo la soddisfazione arcana e profonda di sentirci davvero figli di Dio: quello che pareva sogno superbo, sarà diventato per noi realtà consolante.

Graduale

Ps LXX: 1

V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XLVII:2

Alleluja, Alleluja.

Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja.

[Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. (Luc XVI: 1-9)

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula

 (“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Eravì un ricco, che aveva un fattore, il quale fu accusato dinanzi a lui, come so dissipato avesse i suoi beni. E chiamatolo a sé, gli disse: Che è quello che io sento dire di te? Rendi conto del tuo maneggio; imperocché non potrai più esser fattore. E disse il fattore dentro di sé: Che farò, mentre il padrone mi leva la fattoria? non sono buono a zappare; mi vergogno a chiedere la limosina. So ben io quel che farò, affinché, quando mi sarà levata la fattoria, vi sia chi mi ricetti in casa sua. Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, disse al primo: Di quanto vai tu debitore al mio padrone? E quegli disse: Di cento barili d’olio. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo; mettiti a sedere, e scrivi tosto cinquanta. Di poi disse a un altro: E tu di quanto sei debitore? E quegli rispose: Di cento staia di grano. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo, e scrivi ottanta. E il padrone lodò il fattore infedele, perché prudentemente aveva operato: imperocché i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce. E io dico a voi: Fatevi degli amici per mezzo delle inique ricchezze; affinché, quando venghiate a mancare, vi dian ricetto ne’ tabernacoli eterni”).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – 1957, Milano)

ABILITÀ NEGLI AFFARI

La più strana parabola del Vangelo è quella dell’astuto fattore. Doveva essere uno di quegli uomini incantatori, svelti a parlare e più svelti a fare: rubava senza scrupoli, e scialava senza rincrescimenti. Il padrone, quasi ipnotizzato da tanta e tale scaltrezza, gli aveva affidato la gestione di tutti i suoi beni, ciecamente. E ci vollero accuse, denunzie, prove prima di fargli aprire gli occhi. Finalmente si risvegliò come da un sonno, e chiamato il fattore, gli disse a bruciapelo: « Belle cose ascolto di te! Portami i conti, e vattene che sei licenziato ». La folgore si scaricò tanto inaspettata che lo scaltrissimo fattore si trovò smarrito. « E adesso che cosa farò io, che il padrone mi leva la fattoria? A zappare non son buono, a limosinare mi vergogno ». Fu un attimo di stordimento, poi ritrovò la sua tremenda presenza di spirito: e approfittò delle ultime ore di potere per farsi degli amici che lo aiutassero nell’imminente disavventura. E Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, con la disinvolture dell’uomo abituato a falsare le ricevute, disse al primo: « Quanto devi al padrone? » E quello rispose: « Cento barili d’olio ». « Prendi la tua fattura presto, siedi e scrivi cinquanta ». Poi disse ad un altro: «E tu quanto devi? ». E quello: « Cento staie di grano ». « Prendi la tua fattura e scrivi ottanta ». Il padrone, che ormai stava all’erta, scoprì tosto ogni cosa. Ma non potè trattenersi un’espressione di sbigottita ammirazione: « Che scaltrezza in quest’uomo, Che abilità negli affari! ». – A questo punto Gesù fece l’applicazione morale della parabola. « Perché i figli della luce non mettono nel bene quell’avvedutezza e quell’abilità che i figli delle tenebre mettono nel male? Perché mentre sanno che nella fattoria di questo mondo possono restare per poco tempo e poi saranno dalla morte scacciati fuori, non procurano di farsi degli amici che diano a loro ricetto nei tabernacoli eterni? ». Non è difficile, Cristiani, rispondere a queste domande. Ci sono degli uomini che negli affari e raggiri terreni hanno un occhio da lince, un coraggio da leone; ma negli affari celesti sono ciechi come talpe, timidi come conigli. Guardate quanto e qual progresso ha fatto il nostro secolo nell’arte distruggitrice della guerra, nella maniere corrompitrice del piacere e del godimento; e dov’è il progresso nell’arte di amare il Signore, di salvare l’anima? C’è dunque un’abilità sviata e un’abilita giusta negli affari. La prima è quella dei figli di questo secolo che, simili all’astuto fattore, nell’ingranaggio degli affari del mondo stritolano la coscienza e la giustizia e l’anima intera. L’altra è quella dei figli della luce, che soprattutto e prima di tutto, mettono la loro abilità negli affari eterni del regno di Dio e della salvezza dell’anima. – 1. L’ABILITÀ DEI FIGLI DI QUESTO SECOLO. Nessuno può negare audacia e abilità ai fratelli di Giuseppe. S’erano accorti che il loro fratello minore con l’ubbidienza aveva conquistato la preferenza del padre; inoltre, dei presagi misteriosi nel sonno predicevano loro che un dì avrebbero dovuto riconoscerlo come principe e dipendere da un suo cenno. Perciò, spogliatolo della tunica, dapprima lo nascosero in una cisterna: poi portarono la tunica al padre, non senza prima averla intrisa nel sangue d’una pecora svenata, e gli fecero credere che una belva avesse divorato il fanciullo; in realtà il fanciullo era stato da loro venduto a dei mercanti che lo portarono lontano lontano, in Egitto. Tutto era riuscito bene, e rimasero così dominatori della situazione familiare. Se non che una forza maggiore di loro, la carestia, li costrinse a recarsi in Egitto a prendere il grano per non morire di fame. Dovettero inginocchiarsi davanti al viceré, supplicarlo di un po’ di pane, giurare di mettersi a suo servizio. Quel viceré, lo riconobbero poscia, era il loro fratello Giuseppe. Lo avevano venduto per non sottomettersi a lui, e appunto per averlo venduto sono costretti a sottomettersi. L’abilità dei figli di questo secolo si squaglia alla fine e le frodi ordite si risolvono in loro danno. – Ricordiamo un altro esempio della Storia Sacra. Nabot possedeva una vigna non lontana dal palazzo del re di Samaria, e gli era molto cara perché era stata bagnata dal sudore dei suoi padri, i quali l’avevano lasciata a lui in eredità. Ma il re la voleva per farsene un giardino; e insieme alla regina Gezabele ordì questo astuto tranello. Furono subornati due perfidi uomini che accusarono Nabot in tribunale di aver bestemmiato contro Dio e contro il re; così l’infelice fu condannato alla lapidazione, ed il re guadagnò la vigna e se la godette. Non passò molto tempo e i cani leccavano il sangue del re ucciso in guerra, della regina gettata sulla strada da un balcone. Non si deve però credere che tutti quelli che con ingiustizia e scaltrezza si procurano una fortuna materiale abbiano sempre un castigo sensibile in questo mondo. Agli occhi di Dio i beni materiali hanno così poco valore, che sono sparsi sulle case dei buoni come su quelle dei peccatori. Ma il peccatore s’illude d’essere astuto; perché, mentre con frodi e abilità si fabbrica una prosperità materiale, perde i valori spirituali ed eterni, e va incontro all’inferno. Reca meraviglia pensare che anche tra quelli che si dicono Cristiani l’abilità iniqua dei figli del secolo trova dei seguaci. Alcuni raggiungono un posto desiderato sparlando, mormorando, calunniando quelli che prima l’occupavano o che erano rivali. Altri pensano di aumentare le rendite con maneggi illeciti, con l’infedele amministrazione dei beni altrui, con smoderati guadagni. Altri infine ricorrono all’adulazione, alla menzogna, all’inganno, alla corruzione di impiegati e amministratori con promesse di denaro. Gli uomini come sono ancora poco Cristiani! si credono astuti se, a scapito dei beni eterni, riescono ad ammassare beni materiali e caduchi. Chiamano sciocchi quelli che osservano i comandamenti di Dio con loro svantaggio, e non immaginano che da un momento all’altro può risuonare al loro orecchio l’annuncio spaventoso: Lo stolto sei tu! poiché stanotte morrai, e le sostanze che con tanta abilità hai radunate di chi saranno? a che ti gioveranno? » (Lc., XII, 20). – 2. L’ABILITÀ DEI FIGLI DELLA LUCE. I figli della luce, a base d’ogni loro abilità, pongono questa parola del Signore: Che giova all’uomo guadagnare anche il mondo intero, se poi la sua anima subisce una perdita? » (Mt., XVI, 26). I figli della luce fissano lo sguardo e il cuore nei beni immortali: l’amore di Dio, il Paradiso, la grazia, la pace dell’innocenza, il tesoro della virtù. E quando li abbassano a considerare le cose del mondo, gli onori umani e i piaceri della carne e le allegrie terrene, a loro sembrano vili come una spazzatura. Pertanto, sono convinti che il più grasso guadagno materiale non potrà mai compensare la più piccola perdita spirituale. – Uno splendido avvenire brillava davanti al giovane Saulo di Tarso. Possedeva tutte le invidiabili qualità per fare carriera ed in breve avrebbe raggiunto uno dei primi posti nella sua nazione e nella sua religione. Israelita puro sangue della tribù di Beniamino, apparteneva al movimento d’avanguardia come Fariseo, dirigeva le più audaci spedizioni punitive contro la nascente Chiesa. Quando gli sembrava dovesse raccogliere i primi frutti della sua ardimentosa vita, improvvisamente si ritirò nel deserto, e di là uscì mutato completamente. Fu deriso, compianto, calunniato, scacciato, perseguitato a sangue dagli stessi che prima l’ammiravano: ma niente lo poté smuovere. « Quelli che erano per me guadagni, io li stimai perdite, in confronto a Cristo. Credo proprio che tutte le cose siano una perdita di fronte all’eccellenza della cognizione di Cristo Gesù, mio Signore; per amor del quale mi sono privato di tutto, e tutto tengo in conto di spazzatura allo scopo di guadagnarmi Cristo » (Filipp., III, 7-8). Certo che agli occhi dei figli di questo secolo la prudenza e l’abilità dei figli della luce è giudicata una grulleria. Quella povera madre di famiglia che lavora tutto il giorno, perché balza dal letto per tempissimo e va in chiesa ogni mattina? È una sciocchezza inspiegabile sprecare le ore del riposo migliore. E quel giovane che passa la domenica in chiesa con la messa e con la dottrina, invece di recarsi alle passeggiate e ai divertimenti, non è forse un incapace di godere la vita? Quando i fratelli di S. Tommaso d’Aquino seppero ch’egli aveva deciso di farsi domenicano, lo credettero fuori di senno. Ricco, sano, bello, intelligente, abbandonare il castello natio e chiudersi nell’ombra melanconica di un chiostro?!… Pensarono di rinsavirlo imprigionandolo, e mandandogli un’impudica lusingatrice. Sappiamo con quale forza ed abilità vinse la tentazione della donna e dei fratelli. Prese un  tizzone acceso e sì scagliò contro la sciagurata, poi seppe fuggire dalla domestica reclusione. – Quando S. Filippo Neri umilmente nascondeva le sue virtù e la sua grande santità facendo il giullare davanti a uomini illustri che dall’estero arrivavano apposta a consultarlo, non venne forse giudicato uno sciocco? E quando S. Giovanni Bosco cominciò a manifestare il suo zelo per le anime, a creare tutto quel mirabile movimento di bene che ancora ammiriamo, non fu forse giudicato pazzo e come tale non si tentò di rinchiuderlo in un manicomio? – Ci fu un uomo che vendette quello che aveva, casa, roba, vestiti, tutto, per comprare un campicello spinoso e sassoso che molti non avrebbero preso neppur per regalo. Tutti lo consideravano come uno stolto. Ma poi si seppe che nascosto in quel campicello, sotto quei sassi e quei rovi, c’era un tesoro favoloso. Allora compresero che quell’uomo era stato il più furbo di tutti. Ebbene, i figli della luce sanno che sotto i rovi e i sassi della umiliazione e della mortificazione sta nascosto il tesoro della vita eterna. Essi, più furbi di tutti, rinunciano alle misere cose di quaggiù, per la conquista di quell’immenso bene. I figli delle tenebre son come gli Egiziani felici e superbi che a cavallo e in cocchio dorato corrono ad affogare nel mar Rosso; i figli della luce, nel nome del Signore, con la pazienza, con la carità, con le buone opere, vanno verso la terra promessa. Hi in curribus et hi in equis, nos autem în nomine Domini (Ps. XIX, 8). – Quando Gesù ebbe terminato di contare questa parabola, alzò la voce come per farsi udire non solo dai presenti, ma anche da quelli che sarebbero nati dopo, negli anni venturi, e conchiuse: « I figli di questo secolo sono, nel loro genere, molto più scaltriti dei figli della luce. Anche voi con le cose di quaggiù in terra fatevi degli amici lassù in cielo: così quando la morte vi scaccerà da questo mondo, essi vi faranno accoglienza nelle tende eterne ». Filii huius sæculi prudentiores! Questa parabola del divin Maestro per alcuni istanti noi mediteremo: essa contiene un rimprovero ed un lamento. Noi pure, Cristiani, siamo fattori, ma non forse astuti come quello della parabola. – 1. ANCHE NOI SIAMO FATTORI. È una verità tanto chiara, eppure troppo dimenticata. Ecco un uomo che vive lontano dalla Chiesa, senza preghiera, senza sacramenti, senza istruzione cristiana. La voce della coscienza in certe pause si leva e grida: « La tua anima è fuor di strada! ». Ma quegli scrolla le spalle e mormora: « Della mia anima faccio come voglio io ». Eh, no! tu sbagli di grosso: tu sei il fattore della tua anima, e devi fare come ti prescrive il padrone. Ecco una fanciulla di nessuna serietà che veste, senza modestia, le mode più provocanti al male. Qualche amica assennata l’avverte: « Guarda che dai scandalo ». Ma quella inviperita, stride: « Mi vesto come mi piace ». Eh no! qui c’è un equivoco: t’illudi di essere la padrona del tuo corpo, ma invece non sei che la custode e come tale sei tenuta alle prescrizioni del vero padrone. Ecco ancora un padre di famiglia. Io lo prendo in disparte e gli ragiono così: « Sentite. Voi mandate il vostro figliuolo a servire in quell’albergo, in quel ritrovo: perderà senza dubbio la fede e il buon costume. Voi mandate la vostra figliuola in quell’officina, in quella famiglia; la costringete, ogni giorno, a passare delle ore sui treni pigiati, lei quattordicenne appena. Voi, da due anni, fate soffrire la vostra maggiore negandole il permesso di ritirarsi in convento dove il Signore la vuole… « Quante storie! — mi risponde. — I figliuoli sono miei e ho diritto di sfruttarli meglio che posso ». Eh no, benedetto uomo! voi avete preso un qui pro quo: voi siete soltanto il responsabile dei vostri figli, il padrone è un altro! A chiarire quest’idea quanto opportuna non è mai la parabola del fattore: quella che or ora avete sentito! Il gran ricco è Dio, mentre ciascuno di noi è raffigurato nel fattore che deve custodire, fertilizzare, amministrare una fattoria più o meno vasta, più o meno preziosa. La fattoria della nostra anima: essa è prediletta dal gran Padrone, perché vi ha impresso la sua immagine, perché l’ha comperata col prezzo di un Suo Figliuolo, perché bagnata dal sangue divino di questo suo Figlio Unigenito morto in croce. Noi dobbiamo difenderla dal demonio che, come un porco, cerca di sforzare le siepi e gettarsi dentro ad insozzarla. Noi dobbiamo liberarla da ogni vizio che vi spunti come erba cattiva. Noi dobbiamo farla fruttificare con frutti di virtù e di buone opere. La fattoria del nostro corpo: ecco è il tempio dello Spirito Santo. Ricordate S. Paolo che nelle sue lettere frequentemente scrive: « Voi siete la casa in cui Dio abita. Il vostro corpo è come una chiesa ». Dobbiamo quindi avere un gran rispetto della nostra carne, circondarla di modestia, di temperanza. Soprattutto dobbiamo conservarla pura da ogni disonestà. – La fattoria della famiglia: chi ha un padre e una madre dovrà ubbidirli e aiutarli. Chi ha una moglie dovrà amarla come Cristo comanda. Chi ha figliuoli dovrà educarli secondo i comandamenti della Religione. Se prima di questa sera il gran Padrone ci chiamasse a palazzo e ci dicesse: « Qua i conti di tua famiglia » cosa potrebbe rispondere ciascuno di noi? « Che cosa ne hai fatto della tua consorte? Perché ne hai conculcato la virtù spingendola ai peccati nefandi e ai delitti? ». « Che cosa ne hai fatto dei tuoi figliuoli? Io non li vedo all’oratorio, non li vedo alla dottrina, non li sento chiamarmi né mattino né sera. E quella tua figliuola: tu la sopporti vestita così, leggera così? ». « Qua i conti, che per te è finita! Redde rationem villicationis tuœ ». – La fattoria del tempo. Chi tiene un prestito per due anni non avrà da rendere solo l’interesse di un anno. E chi abita una casa per dieci anni, non darà appena l’affitto di cinque. E perché allora, o Cristiani, non meditiamo che ogni anno che passa aumenta la nostra responsabilità di fattori? Perché tramandiamo indifferentemente, di giorno in giorno, di anno in anno, un’opera buona o anche la nostra stessa conversione? – Udite come fu ingenuo un contadino. Arrivato alla sponda di un fiumiciattolo, dovendo traghettare al di là, cominciò a sedersi sull’erba fresca. E come si ricordava che sarebbe  che sarebbe stato necessario oltrepassarlo, diceva: « Aspetterò che l’acqua sia trapassata tutta via, passerò sull’asciutto ». E aspetta e aspetta, venne la morte ed egli era ancora là. Proprio come quel contadino goffo siete ancora voi se, dimenticando che il tempo non è vostro e che l’avete in prestito, rimandate sempre l’ora delle buone azioni (HORATIUS, I Ep., II, 42: … vivendi qui recte prorogat horam. — Rusticus expectat dum defluit annis). – 2. MA NON FORSE ASTUTI . Come sa d’amara tristezza il lamento di Gesù: « Sì! sono più scaltri nei loro affari i figli del mondo ». Il mondo promette cose vili e fugaci e tutti gli corrono dietro con affannosa brama; Iddio promette cose eterne e sublimi e una torpida noia circonda i cuori degli uomini » (De Imit., lib., III, cap. 2). Confrontate gli avari con voi. L’avaro prima di spendere un soldo ci pensa una notte, e lo guarda e lo soppesa sulla mano, e lo accarezza, e nel cederlo gli par di cedere anche una fibra del cuore. Il Cristiano invece, non di un soldo appena, ma fa gettito di un immenso tesoro, — quale è la grazia di Dio, — in un momento, senza esitare, senza rimorsi pur di godere un piacere proibito. L’avaro come traffica! non perde tempo, non s’acquieta, sta in vedetta di ogni buona occasione e vende quello che vale di meno per quello che vale di più. Il Cristiano invece non s’interessa delle ricchezze spirituali e se gli capita la tentazione vende il Cielo per comprare la terra, vende il Paradiso per comprare l’inferno. L’avaro se talvolta è implicato in un fallimento, se talvolta un affare gli riesce in perdita, gli manca il fiato, gli manca l’appetito, gli manca il sonno: il Cristiano, se il demonio gli ha rapito l’innocenza, la grazia, ogni virtù, vive indifferentemente la vita di prima come se nulla di triste gli fosse capitato. L’avaro, e con lui ogni uomo previdente, si assicura sulla vita, sulla roba, sul lavoro, contro la grandine o contro l’incendio o contro il furto: il Cristiano non è previdente, non vuole esserlo. Non si assicura con le indulgenze dal fuoco del purgatorio, non si assicura dai furti del demonio con la mortificazione dei sensi. Et ego vobis dico: facite vobis amicos de mammona iniquitatis! (Lc., XVI, 9). Nessuno trascuri l’avviso del Signore: con le cose di questo mondo conquistiamo l’altro mondo. E giacché le parole del Vangelo mirano direttamente ad inculcarci l’elemosina, udite una leggenda dei libri ebraici. « Due uomini andavano un giorno nel vicino bosco a tagliar legna. Un astrologo, che non la sbagliava mai, vedendoli esclamò: « Questi due escono, ma non ritorneranno vivi ». Uscendo dalla città, i due incontrarono. un vecchio che diceva: « Fatemi la carità: da tre giorni patisco la fame ». Essi presero l’unica pagnotta che avevano portato con sé, e ne diedero metà al vecchio, che mangiandola fece questa preghiera: « Dio vi conservi oggi in vita, come oggi voi avete conservato me ». « Alla sera, prima che le stelle tornassero in cielo, i due uomini, con la legna in spalla, rientrarono in città. « Come! — dissero alcuni all’astrologo — non avevi assicurato che costoro sarebbero morti? ». « Rispose l’astrologo: « Strano davvero! ci voglio veder chiaro ». Esaminato il fascio della legna che riportavano, trovò nel carico dell’uno la metà di un serpente, l’altra metà nel carico dell’altro. Sorpreso domandò allora: « Che buona azione avete mai compiuta oggi? ». E quelli si fecero a raccontare la storia del vecchio. « Che cosa posso farci io — esclamò l’astrologo — se il Signore si lascia commuovere da una mezza pagnotta? » (Talmud, Ieruscialmì, Sciabbath 6). Quanti che avrebbero dovuto perire nell’inferno morsicati dal serpente antico e maligno, noi un giorno vedremo placidamente entrare nella città del paradiso! Come mai! — esclameremo. — Che buona azione hanno compiuto? ». E allora comprenderemo che la generosità verso il prossimo, verso le missioni, verso la parrocchia ha meritato loro la grazia di convertirsi prima di morire. — L’ASTUZIA DEI FIGLI DEL SECOLO. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — E questo lamento che sta nella parabola di Gesù, è vero anche per noi. Quanto interesse per le cose mondane e quanto disinteresse per le cose del cielo! Quanta astuzia nel fare il male e quanta trascuratezza nel fare il bene! Impariamo dai figli del secolo. – 1. FIGLI DEL SECOLO E I MISTERI DELLA NATURA. Quando Michele Montgolfier, con un pallone di carta gonfiato d’aria calda dimostrò a Parigi che l’uomo poteva volare nei cieli, un poeta esclamava: « O uomo! che più ti resta? tu hai saputo scoprire le origini del tuono; hai saputo imprigionare il lampo e disperderlo nelle voragini della terra; hai saputo descrivere l’orbita alle stelle e misurare la loro distanza; tutto hai saputo scoprire e domare: la terra, il fuoco, il mare, il cielo, le fiere ». E veramente l’uomo, « con brando e con fiaccola » ascende arditamente alla conquista del mondo anche sacrificando la propria vita. Plinio, soffocato dalle ceneri e dai lapilli ardenti, muore a Stabia per scrutare l’eruzione del Vesuvio. Colombo con tre caravelle si slancia nel mistero tenebroso dell’oceano. Galileo consuma la vista e la vita a scrutare le macchie del sole. Clemente Adler, uno dei primi aviatori, cade in un mattino umido, con le gambe sfracellate sotto l’apparecchio, ma con lo sguardo nei cieli che aveva tentato di violare. È una sete d’ignoto e di conquista che sospinge i figli del secolo. Si può dir così anche dei figli della luce? Anche per essi c’è un mondo da conoscere e da conquistare: il mondo dello spirito. S’incontrano talvolta dei Cristiani che confondono le tre Persone della Sacra Famiglia con le tre Persone della SS. Trinità; che confondono l’Immacolata Concezione con il virginale concepimento di Maria; che non sanno bene che cosa ricevono nella santa Comunione. Eppure, ogni festa, queste sublimi verità si spiegano nella Chiesa. Ma i figli della luce non vengono ad istruirsi, e non hanno vergogna della loro supina ignoranza, mentre arrossirebbero di non sapere certe nozioni d’elettricità. Quanta ammirazione nel mondo per l’uomo che slancia il suo veicolo ad una folle velocità, che in poche ore attraversa l’oceano, che con una forza bestiale di pugno atterra un suo simile. E per l’uomo che sa vincere l’astutissimo demonio, conservarsi nell’equilibrio del bene anche in mezzo a tanto male, volare nei cieli della santità, per l’uomo che in pochi anni, come S. Luigi, S. Stanislao, S. Teresa del Bambin Gesù, sa raggiungere la cima della perfezione cristiana, nulla o fors’anche un sorriso di compatimento. – 2 I FIGLI DEL SECOLO E GLI INTERESSI MATERIALI. È triste la partenza degli emigranti. Con gli occhi lacrimosi, col cuore martoriato da mille sentimenti, ascendono la nave e dalla tolda si rivoltano a salutare. Povera gente che varca i mari verso un destino ignoto! Lasciati i loro cari, la loro casa, il loro campicello, il paese dei loro giuochi e dei loro sogni, la patria, tutto; ma perché? Perché sperano di tornare un giorno ricchi, riabbracciare i loro vecchi e i loro figli cresciuti e passare con loro beatamente gli ultimi giorni. Anche i figli della luce devono pensare al loro avvenire: quando questo mondo finirà, ed entreranno nei regni eterni. Eppure, sono pochi quelli che sanno distaccarsi dai luoghi, dalle persone, dalle cose terrene per accumulare meriti per il cielo. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — Napoleone per conquistare un regno patì freddo e fame, stanchezza e sonno, e si espose più volte alla guerra. Eppure, il suo regno non fu che una meteora ed egli moriva, lacrimando, sulla scogliera brulla in mezzo al mare. Cesare, sospirando l’impero di Roma, combatté le difficili guerre coi Galli, e le più difficili con i suoi rivali; eppure egli raggiunse appena le soglie del sognato impero, che cadde, pugnalato, ai piedi della statua di Pompeo. Alessandro combatté con una forza di volontà non mai vista sopra la terra e quando ottenne la signoria del mondo lo raggiunse la morte, e con lui si sfasciò il suo impero. Ma se i figli del secolo sanno patire ineffabili tormenti, superare terribili difficoltà  per raggiungere il regno d’un giorno, perché i figli della luce non sapranno sopportare piccoli patimenti, combattere le passioni, respingere la lusinga del mondo per conquistarsi un regno eterno di felicità inimmaginabile? Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — LE RICCHEZZE E IL LORO USO. Il Signore è paziente e grande nella sua fortezza. Quegli che fa tremare i monti e disseccare gli oceani, un giorno disse a Nahum, suo profeta: «Va a Ninive ed annuncia i castighi di Javé ». Il messo di Dio accorse e predicò sulla piazza ad un popolo numeroso come l’arena del mare. « Voi avete fatto più gran numero d’affari che non sono le stelle del cielo. Ma ecco che il nemico famelico vi tiene d’occhio: e quando vi avrà visto ben pasciuti si getterà sopra di voi come una nube di cavallette sui campi biondi di spighe. Prenderanno l’argento, prenderanno l’oro e non vedranno la fine delle ricchezze nascoste nei vostri vasi. Le case saranno rovinate e le sostanze disperse: dissipata, et scissa et dilacerata » (Nah., II, 10). Quello che disse il Signore al suo profeta, lo dice Gesù a noi oggi nel Vangelo. Il padrone dové ammirare tanta scaltrezza. « Che canaglia, ma che furberia! »: furberia però dei figli delle tenebre, dei cattivi immersi negli affari materiali e nelle ricchezze del secolo. Ma c’è un’altra furberia, la vera che devono imparare i figli della luce, quelli che guardano in alto, nella regione del sole. Che debbono fare i figli della luce? I beni acquistati in eredità, accumulati col guadagno, ottenuti con mezzi forse non del tutto onesti, sono chiamati « mammona di iniquità »: occasione, frutto, mezzo di ingiustizia. Quelli che li hanno a disposizione sono semplici amministratori, come l’economo della parabola: bisogna ch’essi stiano attenti a non defraudare il Padrone che sta nei cieli, ma ad amministrarli bene, a prelevare qualche cosa per i poveri, per essere ricevuti in cielo assieme a loro, che sono gli amici di Dio. Altrimenti la loro furberia sarà quella dei figli del secolo, e se la scamperanno in vita, non la scamperanno in morte: e le sostanze loro saranno et dissipata et scissa et dilacerata. « Ed io vi dico: fatevi degli amici per mezzo delle ricchezze materiali e dei beni di fortuna, affinché, quando veniate a morire, vi diano ricetto nelle tende eterne ». – 1. L’USO CATTIVO. Seneca, che fu un filosofo pagano, andava torturandosi un dì il cervello per sapere dov’è la vera sapienza. Gli accadde d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argilla, ma s’accorse che aveva in cuore tanta brama d’aver vasellame d’oro: concluse che quello non era un uomo saggio. Gli venne poi d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argento beveva in una coppa d’oro; lo interrogò e seppe che mangiava e viveva con tanta semplicità come se il vasellame fosse d’argilla; e concluse: questi è l’uomo saggio. Anche il Signore Gesù aveva detto chi erano i ricchi saggi ed i ricchi stolti, quando distinse due specie di poveri, quelli di spirito e quelli di mezzi. I poveri di spirito sono anche i ricchi, quando non sono attaccati ai beni della terra e non dimenticano quelli del cielo, e vivono in semplicità, con l’animo medesimo con cui vive anche il povero. Quando è così, buone sono le ricchezze, dice S. Agostino, perché sono usate come vuole Dio, per operare il bene. E la Scrittura chiama beato quel ricco « che si è elevato sino alla comprensione del povero e dell’indigente ». Ma quanto è difficile essere savi fra le ricchezze! Sentite ancora Gesù: «In verità vi dico: un ricco entrerà difficilmente nel regno dei cieli. E aggiunge: è più facile per un cammello passar per la cruna d’un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli »: e nel Vangelo di quest’oggi le ricchezze sono da lui chiamate mammona iniiquitatis, perché spesso sono frutto, occasione, mezzo di iniquità. La S. Scrittura chiama la cupidigia simulacrorum servitus; ah! quanto è vera l’espressione, quando l’idolo di cui s’è schiavi è la ricchezza! Per l’avidità di possedere, quanti mali acquisti fa l’uomo! speculatore, gioca sul danaro altrui con false notizie; capitalista, sfrutta il bisogno con un interesse da usuraio; industriale, non ripaga equamente l’operaio; commerciante, altera il peso, la misura, la merce; operaio, inganna il padrone. Così le ricchezze sono frutto di iniquità. Quando le ricchezze si hanno, divengono spesso mezzo di peccato: e si pongono nello scrigno avaramente o si spendono all’osteria, nelle sale, nei teatri, per i piaceri, per il fango; così come il ricco Epulone e come il Figliuol Prodigo. Ah, è troppo inumano che il denaro grondi sudore altrui o sprema sangue, ah! è troppo vergognoso che divenga mezzo di peccato. Domandate alle famiglie in dissidio la causa perché son divise, e vi risponderanno: il denaro; domandate alla società la causa dell’odio, delle inimicizie, delle lotte fra il ricco ed il povero, e vi risponderà: il denaro; domandate a quell’uomo perché ha perso la fede, l’onore e vi risponderà: per il denaro; domandate a quell’altro perchè ha dimenticato il suo dovere e vi risponderà: per il denaro. Denaro, sempre denaro; ah! è una ben triste occasione di peccato, il denaro! E se poteste domandare a tanti e a tanti perché sono nell’inferno, ancora con un gesto disperato e con un singulto orribile vi risponderebbero: per il denaro. Morì il ricco e fu sepolto nell’inferno ». La furberia dei figli del secolo non chiude quelle porte di fuoco. – 2. L’USO BUONO. Nell’Antico Testamento e vi erano due specie di sacrificio: un sacrificio che uccide la vita e un sacrificio che dona la vita. Noi conosciamo bene il primo: la giustizia divina, che fulmina e scuote e strappa i cedri del Libano, esigeva sacrifici di sangue che spruzzava di rosso l’altare, sacrifici di fuoco che consumava la vittima. Ma vi era l’altro sacrificio di cui parla l’Ecclesiastico: Qui facit misericordiam offert sacrificium. (Eccl., XXXV, 4). Se con sacrificio di sangue si onora la giustizia divina offesa, col sacrificio dell’elemosina si onora la bontà divina, dolce e amabile che vuole la vita del peccatore, che non ha pensieri di afflizione, ma pensieri di pace. « Beati questi misericordiosi, perché otterranno misericordia » disse Gesù nel Nuovo Testamento, e la otterranno più splendida nel dì finale. Nel dì finale il Re dirà a coloro che sono a destra: « Venite benedetti, perché  ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; sete e mi avete dato da bere; ero pellegrino e mi avete ricoverato; nudo e mi avete vestito; malato e mi avete curato, prigioniero e mi avete visitato ». « Quando, o Signore, abbiamo fatto questo? ». – «Ve lo dico in verità, tutto quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me medesimo ». Ora le capite le parole del Vangelo: « Colle ricchezze fatevi amici che vi riceveranno in cielo »; quanti, dopo averle udite e dopo averle meditate, hanno distribuito ai poveri i loro averi, hanno riparato alla ingiustizia, hanno reso la merce defraudata: e si sono fatti amici in cielo. Ora le capite le parole della Sacra Scrittura: « La elemosina copre non solamente i peccati, ma la moltitudine dei peccati »; « come l’acqua estingue il fuoco, così l’elemosina estingue la colpa ». Ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che non si considera un padrone assoluto, ma nel tempo e secondo i limiti che il Padrone Assoluto Eterno ha stabilito: ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che, quando ha soddisfatto alla propria necessità, alla convenienza della sua posizione, alla esigenza della sua famiglia, il resto lo dà ai poveri. Ora capite che l’elemosina diviene frutto, mezzo, occasione di giustizia. Chi ha rubato e non trova l’antico padrone, chi ha danneggiato e non può riparare il danno, chi ha ereditato male e non può far più nulla; tutti costoro con l’elemosina convertono mammona iniquitatis in frutti di giustizia che raccoglieranno in cielo. Colui che penetra nel cuore e nell’anima del tapino per diffondere un po’ di luce fra tanto odio, per portare la pace e la grazia del Signore fra tanta miseria e fra tanta colpa, costui conquista anime e fa veramente amici in cielo: l’elemosina è occasione di tanto bene. « Chiudi la limosina nel seno del povero, e questa pregherà per te contro ogni male: essa è come sigillo dinanzi a Dio che segnerà il libro di vita, essa è come pupilla dell’occhio di Dio e irraggerà di luce in cielo » (Eccli., XXIX, 15). – V’è nella vita del B. de la Colombière questo piccolo episodio autentico. Un ricco gentiluomo di Francia era morto dopo aver vissuto la vita galante di società. Il primo marzo del 1680 un’umile e santa suora della Visitazione lo vede mentre prega in coro e ascolta le sue parole: « Ah! quanto è grande Iddio, e giusto e santo! Nulla è piccolo ai suoi occhi, tutto è pesato, punito, ricompensato ». « Avete ottenuto misericordia? » domanda la suora. « Sì, per le elemosine ai poveri ». E sparve. Costui ha trovato in cielo i poveri suoi amici: e fu salvo. Li troveremo anche noi, che ci spaventiamo, guardando ai nostri peccati e al giudizio di Dio?

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVII: 28; XVII: 32

Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine?

[Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]

Secreta

Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant.

[Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXXIII: 9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo.

[Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]

Postcommunio

Orémus.

Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum.

[O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA VII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA VII dopo PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

In questa settimana non si poteva scegliere una lettura migliore nel Breviario, del doppio racconto degli ultimi giorni di David — poiché, dice S. Girolamo, « tutte le energie del corpo si indeboliscono nei vecchi, mentre solo la sapienza aumenta in essi » (2° nott.) — e della storia di suo figlio Salomone, che fu celebre fra tutti i re per la sapienza. – David, sentendo avvicinarsi il momento della morte, designò come suo successore, fra i suoi figli, Salomone, il diletto da Dio. E Natan profeta, condusse Salomone a Gihon, ove il sacerdote Sadoc prese dal tabernacolo l’ampolla d’olio e unse Salomone; si suonò la tromba e tutto il popolo disse: « Viva il Re Salomone! ». David disse a suo figlio: « Sarai tu a innalzare il tempio del Signore. Mostrati forte e sii uomo! Osserva fedelmente i comandamenti del Signore, affinché si compia la parola che pronunciò su me: « Il tuo nome si è affermato e i tuoi discendenti regneranno per sempre! Tu agirai secondo la tua sapienza, poiché sei un uomo saggio ». E David s’addormentò coi suoi padri e fu sepolto nella città che porta il suo nome dopo aver regnato sette anni a Ebron e trentatré anni a Gerusalemme, la fortezza inespugnabile che egli aveva preso ai Filistei. E Salomone si assise sul trono di suo padre, ed il suo regno fu ben sicuro. Era un giovane di diciassette anni, amava il Signore e gli offriva olocausti. – Iddio apparve in sogno a Salomone e gli disse. « Chiedi tutto quello che vuoi e io te lo darò ». Salomone gli rispose: « Signore, io non sono che un fanciullo per regnare al posto di David, mio padre; accordami la sapienza affinché io possa discernere il bene dal male e conduca il tuo popolo sulle tue vie ». E Dio aggiunse: « Ecco io ti dono un cuore saggio e intelligente, tale che tu supererai tutti i sapienti che furono e quelli che verranno, e ciò che tu non mi hai chiesto (lunga vita, ricchezza, trionfi) te lo darò in più ». Secondo la promessa del Signore, Salomone non solo fu il più sapiente, ma il più splendido e possente re d’Israele. Tutti i re gli apportavano i loro doni e tutte le nazioni che fino allora avevano disprezzato Israele, ne ricercavano l’alleanza. La regina di Saba venne a consultarlo e rimase piena di ammirazione per tutto quello che vide e intese da lui. Il Faraone, re d’Egitto, gli dette la figlia in isposa; Hiram, re di Tiro, fece con lui alleanza e un trattato, pel quale, in compenso del grano, dell’orzo, del vino, dell’olio, che le campagne della Palestina producevano abbondantemente, gli forniva legni preziosi delle foreste del Libano, e operai per la costruzione del tempio. Salomone insegnò al popolo il timor di Dio e questi lo protesse in tutte le imprese e lo aiutò quando il suo fratello maggiore avrebbe voluto regnare in sua vece. Così si realizzarono le parole che Salomone medesimo pronunciò e che S. Girolamo ci ricorda nell’ufficio di oggi: « Non disprezzare la sapienza e questa ti difenderà. Mettiti in possesso della sapienza e acquista la prudenza; impadronisciti di essa ed essa ti esalterà, tu sarai glorificato da essa e, quando l’avrai abbracciata, ti metterà sul capo splendori di grazia e ti coprirà di una gloriosa corona ». « Infatti colui che giorno e notte, commenta S. Girolamo, medita la legge del Signore, diventa più docile con gli anni, più gentile, più saggio col progresso del tempo e negli ultimi giorni raccoglie i più dolci frutti dei suoi lavori d’altri tempi » (2° Nott.). – Laddove, « Quale frutto, chiede l’Apostolo, avete tratto dal peccato, se non la vergogna e la morte eterna? », mentre « ricevendo Dio voi producete frutti di santità e guadagnate la vita eterna » (Ep.). E nostro Signore dice nel Vangelo: « Si riconosce l’albero dai suoi frutti. Ogni albero buono porta frutti buoni e ogni albero cattivo porta frutti cattivi ». E aggiunge: « Non sono già quelli che mi dicono: Signore, Signore, che entreranno nel regno dei cieli, ma quelli che fan la volontà del Padre mio che è nei cieli • Cosi, commentando l’Introito di questo giorno, S. Agostino dice « È necessario che le mani e la lingua siano d’accordo: che l’una glorifichi Dio e che le altre agiscano ». La vera sapienza non consiste solamente nell’intendere le parole di Dio, ma nel realizzarle; né pregare Dio, ma anche nel mostrargli con le opere che lo amiamo ». « Il Vangelo – dice S. Ilario – ci avverte che le parole dolci e gli atteggiamenti mansueti debbono essere valutati dai frutti delle opere e che bisogna apprezzare qualcuno non secondo quello egli si mostra a parole, ma secondo quello che si mostra ai fatti, perché spesso la veste dell’agnello serve a nascondere la ferocità dei lupi. Dunque, attraverso la nostra maniera di vivere noi dobbiamo meritare la beatitudine eterna, di modo che noi dobbiamo volere il bene, evitare il male e obbedire di tutto cuore ai precetti divini per essere gli amici di Dio mediante il compimento di questi propositi » (3° Nott.). – Salomone, il re pacifico, non è che una figura del Cristo: il suo segno che tutti acclamano (Intr., Alt.) annuncia quello del Messia che è il vero Re della pace; Salomone, il più saggio dei re, presagisce il Figlio di Dio del quale il Padre disse sul Tabor: « Ascoltatelo » (Grad.). Egli presagisce la Sapienza incarnata che ci insegnerà il timor di Dio (id.) e il modo per distinguere il bene dal male (Vang.). Gli olocausti, fatti al tempo della consacrazione del Tempio di Salomone (Off.) sono, come quello di Abele (Secr.), ombra dell’unico Sacrificio cruento, che Cristo offrì sul Calvario; che coronò in cielo, ove entrò dopo aver ottenuta la vittoria su tutti i suoi nemici. Questo dichiara il Salmo XLVI (Intr.), nel quale i Padri hanno visto, sotto il simbolo dell’Arca dell’alleanza che il popolo di Dio fa passare, in mezzo alle acclamazioni, dai campi di battaglia sulla montagna di Sion, una figura dell’Ascensione di Gesù nel regno celeste.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLVI:2.  Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.

[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Ps XLVI: 3 Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis: Rex magnus super omnem terram.

[Poiché il Signore è l’Altissimo, il Terribile, il sommo Re, potente su tutta la terra.]

Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.

[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Oratio

Orémus.

Deus, cujus providéntia in sui dispositióne non fállitur: te súpplices exorámus; ut nóxia cuncta submóveas, et ómnia nobis profutúra concédas.

[O Dio, la cui provvidenza non fallisce mai nelle sue disposizioni, Ti supplichiamo di allontanare da noi quanto ci nuoce, e di concederci quanto ci giova.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom VI: 19-23

“Fratres: Humánum dico, propter infirmitátem carnis vestræ: sicut enim exhibuístis membra vestra servíre immundítiæ et iniquitáti ad iniquitátem, ita nunc exhibéte membra vestra servíre justítiæ in sanctificatiónem. Cum enim servi essétis peccáti, líberi fuístis justítiæ. Quem ergo fructum habuístis tunc in illis, in quibus nunc erubéscitis? Nam finis illórum mors est. Nunc vero liberáti a peccáto, servi autem facti Deo, habétis fructum vestrum in sanctificatiónem, finem vero vitam ætérnam. Stipéndia enim peccáti mors. Grátia autem Dei vita ætérna, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

“Fratelli: Parlo in modo umano, a motivo della debolezza della vostra carne. Come deste le vostre membra al servizio dell’immondezza e dell’iniquità per commettere l’iniquità; così ora date le vostre membra al servizio della giustizia per la santificazione. Perché quando eravate servi del peccato, eravate liberi rispetto alla giustizia. Ma qual frutto aveste allora da quelle cose, delle quali adesso arrossite? Giacché il loro termine è la morte. Ma adesso, affrancati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per vostro frutto la santificazione e per termine la vita eterna. Perché la paga del peccato è la morte, ma il dono grazioso di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore…” (Rom. VI, 19-23).

DUE LIBERTA’.

C’è un giudice nel vocabolario. Il vocabolario nostro dispone di una sola parola, per la realtà vera e per il suo surrogato: così ad esempio, ci si chiama caffè tanto il moca o il portorico, caffè vero e proprio, come il caffè maltus miserabile surrogato. Monete si chiamano le vere e le false. E libertà si chiama la falsa e la vera, la libertà liberale e la libertà cristiana. San Paolo con una genialità stupenda definisce nel brano della lettera sua ai Romani che oggi si legge alla S. Messa, la libertà falsa, la pagana d’allora, la liberale d’adesso, che è poi la libertà pagana rediviva. Una volta dice ai Cristiani, alludendo ai giorni ormai passati e superati del loro paganesimo, una volta (quando non eravate ancora Cristiani, ma pagani), voi eravate « liberi dalla giustizia e servi del peccato ». Parole testuali d’un sapore evidentemente ironico nella prima parte ai Romani: « Eravate liberi dalla giustizia ». Bella libertà! La libertà di uno spiantato che dicesse: eccomi qua, mi sono liberato dai danari: la libertà di un malato che dicesse anche lui con una falsa soddisfazione: mi sono liberato dalla salute. Liberazione da equivoca, o, piuttosto, uso equivoco della parola « liberazione », la quale suona uno svincolarsi da un peso, da una disgrazia, non da una fortuna o di una grazia. – Ebbene, è proprio sullo stesso equivoco che giuocano i liberali vecchi e nuovi, quando parlano di libertà, e intendono con tal parola il liberarsi, l’affrancarsi dalla legge, l’esserne emancipati. Si gloriano i liberali della loro libertà, come di una cosa bella, buona, onorifica, gloriosa; ma la loro libertà non è altro che emancipazione dalla legge. I pagani antichi, quelli di cui San Paolo parla direttamente, erano fuori dalla legge, liberi da essa, perché non la conoscevano o la conoscevano poco; i moderni liberali, perché l’hanno calpestata e dimenticata. Paolo però nota subito molto bene l’equivoco di quella libertà, osservando che i fautori, i glorificatori di essa, erano perciò stesso schiavi del peccato: del male! Ed è proprio così. Automaticamente chi si sottrae alla luce, entra nel regno delle tenebre. Automaticamente chi si sottrae alla legge del bene, cade sotto il giogo della legge del male. E qui è proprio il caso di parlare di giogo. Giogo pesante, obbrobrioso quello del male, del peccato. Catena del peccatore il peccato, vischio in cui rimane impigliato chi una volta ci casca dentro. « Qui facit peccatum servus est peccati: » servo del vino l’ubriacone, servo della donna, schiavo di essa l’uomo, corrotto. – A questa pseudo libertà di quando erano ancora pagani, S. Paolo contrappone il quadro della libertà di cui veramente godono ora che sono Cristiani. – I termini sono letteralmente invertiti. Allora liberi (per modo di dire; anzi per antifrasi liberi) dall’onestà, dal bene e schiavi del male, oggi liberi dal peccato, dal male e schiavi della giustizia. Ah, questa è libertà vera! La libertà dal male, da malvagi istinti, dalle ree consuetudini, è questa è servitù nobile e degna; la servitù del bene, della giustizia, della legge. Sì, perché — e lo dice equivalentemente S. Paolo — servire alla giustizia; alla verità, alla bontà, significa ed importa servire a Dio. S. Paolo, l’Apostolo, sente la grandezza, la poesia di tale servizio divino. Un servizio, nel quale c’è un segreto di vita e di gioia e di gloria, mentre nel servizio del male c’è un segreto opposto d’ignominia e di morte. Il male uccide. « Stipendium peccati mors: » uccide in tutti i sensi, perché  uccide in senso pieno. E potremmo dire che: « Stipendium legis vita » vita del tempo, vita nell’eternità.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XXXIII: 12; XXXIII: 6

Veníte, fílii, audíte me: timórem Dómini docébo vos. –

V. Accédite ad eum, et illuminámini: et fácies vestræ non confundéntur.

[Venite, o figli, e ascoltatemi: vi insegnerò il timore di Dio.

V. Accostatevi a Lui e sarete illuminati: e le vostre facce non saranno confuse.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps XLVI: 2 Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis. Allelúja.

[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt VII: 15-21

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Atténdite a falsis prophétis, qui véniunt ad vos in vestiméntis óvium, intrínsecus autem sunt lupi rapáces: a frúctibus eórum cognoscétis eos. Numquid cólligunt de spinis uvas, aut de tríbulis ficus? Sic omnis arbor bona fructus bonos facit: mala autem arbor malos fructus facit. Non potest arbor bona malos fructus fácere: neque arbor mala bonos fructus fácere. Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum, excidétur et in ignem mittétur. Igitur ex frúctibus eórum cognoscétis eos. Non omnis, qui dicit mihi, Dómine, Dómine, intrábit in regnum coelórum: sed qui facit voluntátem Patris mei, qui in cœlis est, ipse intrábit in regnum cœlórum.”

[“In quel tempo disse Gesù a’ suoi discepoli: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono da voi vestiti da pecore, ma al di dentro son lupi rapaci: li riconoscerete dai loro frutti. Si coglie forse uva dalle spine, o fichi dai triboli? Così ogni buon albero porta buoni frutti; e ogni albero cattivo fa frutti cattivi. Non può un buon albero far frutti cattivi; né un albero cattivo far dei frutti buoni. Qualunque pianta che non porti buon frutto, si taglia, e si getta nel fuoco. Voi li riconoscerete adunque dai frutti loro. Non tutti quelli che a me dicono: Signore, Signore, entreranno nel regno de’ cieli; ma colui che fa la volontà del Padre mio che è ne’ cieli, questi entrerà nel regno de’ cieli”]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

GUARDATEVI DAI FALSI PROFETI

Gli uomini hanno una grande tendenza al falso: e mentre, rare volte, si lasciano vincere dalla verità che appare con numerose prove, troppo spesso, invece, cedono cecamente all’errore tosto che si presenta. Viene Gesù in mezzo ai Giudei e dice: « Io sono il Figlio di Dio ». E lo prova sotto ai loro occhi, guarendo gli ammalati, moltiplicando i pani, comandando al mare e al cielo, risuscitando i morti, e risuscitando perfino se stesso, morto già da tre giorni. Eppure i Giudei non gli credettero. Cent’anni dopo, viene un fanatico e dice: «Io sono il Figlio della Stella: Barcochba ». E non guarisce, e non moltiplica il pane, e non risuscita i morti. Anzi, conduce i Giudei alla rivolta e li lascia poi massacrare dai Romani tra le rovine di Gerusalemme, ed egli stesso perisce con loro: sui loro petti squarciati fu costruita una città, sacra al divo sole del Campidoglio. Eppure tutti erano corsi dietro a Barcochba, in un delirio d’entusiasmo. Attendite a falsis prophetis! ci grida Gesù dal suo Vangelo, perché essi verranno sotto lana d’agnelli. Se quest’allarme del divin Maestro fu opportuno in tutti i tempi, forse non lo fu mai come ai nostri. In verità: la mala razza dei falsi profeti non ha mai ripullulato così, non ha mai saputo così bene imitare la lana d’agnello, come al tempo d’oggi. Guardiamoli in faccia questi mistificatori della verità, per conoscerli bene. V’hanno i falsi profeti della cattedra. V’hanno i falsi profeti della penna. V’hanno i falsi profeti della vita. – 1. I FALSI PROFETI DELLA CATTEDRA. Appena i dodici Apostoli diffusero il Vangelo nel mondo, quel Vangelo che a loro aveva insegnato il Figlio di Dio e aveva spiegato lo Spirito Santo, subito si levarono i dottoroni a falsificarlo. E furono dapprima gli Gnostici che si vantavano d’aver trovato la sublime dottrina di Cristo, mentre invece i dodici rozzi pescatori non avevano saputo capire che la scorza esterna della verità. E poi si levò falsamente a profetare Ario che negava la divinità vera di Cristo. E poi si levò Nestorio a dire che in Cristo v’erano due persone distinte. E dopo di lui Eutiche a dir che il Cristo non era un uomo vero. E poi Fozio, e poi Lutero… tutti falsi profeti. Ma in quei tempi apparivano ad uno ad uno ed era facile scoprirli, da ogni parte si gridava al lupo, sicché gli incauti soltanto si lasciavano mangiare. – Ai nostri tempi invece i falsi profeti sono così numerosi che quasi ci si è avvezzati un poco a vederli e a sentirli. E in ogni scuola, dalla cattedra spesso vomitano nelle giovanette anime dei nostri figliuoli i loro errori. Se io vi dicessi che questa chiesa, ove pregate Dio, con i suoi marmi, con le sue colonne, con le sue pitture, è sorta senza mano d’uomo né mente d’architetto, ma per uno spontaneo sovrapporsi di pietra su pietra, per un automatico distendersi di travi e di volte, che direste voi? Eppure questo hanno insegnato senza vergogna falsi profeti della cattedra: hanno detto che tutto il mondo s’è fatto da solo perché non c’è un Dio che poteva crearlo. Se io vi dicessi che non è vero che noi nei confronti degli altri animali non abbiamo sostanziale diversità e che finiremo come le bestie, che direste voi? Eppure, questo l’hanno insegnato i falsi profeti della cattedra: volevano persuadersi d’essere bestia per vivere da bestia. Se io vi dicessi che non è vero che voi siete in chiesa, che non è vero che voi esistete così come credete: ma che tutto quello che vedete, toccate, compite, non è che un sogno; un sogno è pure Dio, i sacramenti, il paradiso e l’inferno, che direste voi? E questo l’hanno insegnato i falsi profeti della cattedra. E lo insegnano ancora. Attendite a falsis prophetis! (Mt., VII, 15) che vogliono assidersi a maestri e con parole schioppettanti come fuochi artificiali in diverse salse ammanniscono sempre il medesimo errore: negare Dio. Uno solo è il Maestro! c’è scritto nel Vangelo: È Gesù Cristo parlante nel Papa. Ascoltate lui solo. Una sola è la cattedra; è quella del Papa di Roma. E finalmente, grazie a Dio, anche in Italia è sorta una scuola dove si diffonde(va) la parola vera del Papa e di Cristo: l’Università Cattolica. Sosteniamola con la preghiera, con l’amore, col danaro. – 2. I FALSI PROFETI DELLA PENNA. I falsi profeti della penna. Racconta una leggenda indiana, che, presso le cime dell’Himalaya, s’apre un’orrida caverna dove si nasconde una fiera malefica, avida di sangue. E quando il sole scende dietro la giogaia del Pamir, esce la mala bestia e ascende la vetta. Ascendendo, per diabolica virtù, nasconde le sue membra deformi e fetenti sotto ai petali dei fiori, trasforma il suo ululato in un canto d’uccello, e brilla nell’umido raggio della luna. Ma se qualcuno, lusingato dagli astuti richiami, arriva lassù, ecco che ogni lume si spegne, da sotto ai petali riappare l’artiglio, e il canto d’uccello ritorna ruggito di belva che d’un salto è sopra l’incauto, e gli sugge il sangue del cuore. Ecco il simbolo del falso profeta della penna. Con tutti gli artifizi dell’arte retorica, col fascino della curiosità, coll’abilità dei disegni, con la gaiezza dei colori attira a leggere il libro, la rivista, il giornale; ma poi, mentre il lettore si pasce dietro alle immaginazioni cattive, riappare il lupo che divora l’innocenza e la fede. E il lupo è nascosto davvero in certi giornali ove le notizie più recenti si frammischiano alle oscenità e alle bestemmie e alle eresie. C’è un lupo nascosto in moltissimi romanzi dove per pagine e pagine cola una broda schifosa, si descrivono brutalità e sogni demoniaci. C’è un lupo nascosto anche in molte stampe dove si finge una tinta soave di Cristianesimo, ma per sorridere cinicamente, e far sottintesi ad ogni riga. So che ci sono molto scuse: Cosa c’è dentro leggere quel libro: è tanto interessante; a certe frasi, alla mia età non ci sì bada… Cosa c’è dentro leggere quel giornale: è l’unico che mi piace, l’ho sempre letto e non mi ha mai fatto male. Cosa c’è dentro… C’è dentro il diavolo ruggente che assalta le anime per divorarle: leo rugiens circuit quærens quem devoret. – 3. I FALSI PROFETI DELLA VITA. Sua madre gli aveva detto: « Bisogna partire… tra qualche anno ritornerai tra le braccia della tua vecchia mamma che t’aspetterà solitaria al focolare della tua infanzia: trascorreremo allora i giorni più felici, insieme. Ti vorrei accompagnare, perché è duro e faticoso all’uomo viaggiare solo. Ma non posso: cerca dunque un amico che t’accompagni per la via. La tua bellezza è attraente e molti ti si presenteranno per ingannarti: scegli un compagno che ti  sia l’Angelo che custodì Tobia nel suo cammino. « Mamma » disse il figlio « qual è il nome dell’amico che vuoi per me? ». E la madre, abbracciandolo un’ultima volta, gli mormorò un nome e, mentre il fanciullo s’allontanava, gli gridava dietro:  « Lui solo! Lui solo! ». Egli partì mesto e solo per la via polverosa del mondo. E mentre camminava passò davanti al suo sguardo come un’ombra luminosa, e una voce risuonò: « Mi vuoi compagno per il tuo cammino? ».— Dimmi il tuo nome. «Io sono la Gloria ».— Prosegui per la tua via che non è questo il nome che la madre mi disse. E quando fu più lontano un dolce fremito cominciò a salirgli per le vene, e gli giungeva una voce fluttuante come un canto che venisse dai prati di trifoglio fioriti: « Mi vuoi compagno per il tuo cammino? ». — Dimmi il tuo nome. « Io sono il Piacere ». — Prosegui per la tua via che non è questo il nome che la madre mi disse. E quando fu ancora più lontano udì come il fruscio di ruote di gomme frenate sul liscio della strada, e gli parve d’udire una voce tra il tintinnio di collane e monete: « Mi vuoi compagno per il tuo cammino? ». — Dimmi il tuo nome. « Io sono la ricchezza ». — Prosegui per la tua via che non è questo il nome che la madre mi disse. E fu sera. Il pellegrino stanco si sentiva spaventato di quella solitudine vasta ma poi provò tutto a un tratto un sentimento di forza, ed una voce cara ma energica gli disse: « Mi vuoi compagno per il tuo cammino? ». — Dimmi il tuo nome. « Io sono il Dovere ».— Oh, vieni, vieni! ecco il nome che la madre mi disse. La vita dell’uomo è un viaggio. « Voi dovete fare questo viaggio sulla terra, – ci dice Dio creandoci — ed alla fine del viaggio Io v’aspetterò per abbracciarvi. Guardatevi dai falsi compagni ». Saranno adulatori che, presentandovi il miraggio della gloria, vi trascinano per vie illeciti.  Saranno compagni che vi lusingheranno col piacere, tentando forse di coprire con belle parole l’azione cattiva. Saranno compagni che ci lusingheranno col loro danaro, tentando forse di comprare la falsa giustizia. Attendite a falsis prophetis! — E li conoscete dalle loro opere, perché la pianta cattiva da frutti cattivi.  Ma se troverete qualcuno che dà frutti buoni, che ama il suo dovere, ed osserva i precetti ed i comandamenti, quello è un vero profeta, è un santo; andategli dietro. – Come sono provvidi alcuni avvisi, a caratteri cubitali, davanti ai pericoli: « Attenti alla svolta! Attenti al passaggio a livello! Attenti al burrone! Attenti al cane! ». E Gesù Cristo, al punto più pericoloso per l’anima nostra, lancia il suo grido: « Attenti ai falsi profeti! ». – – I FALSI PROFETI – Iddio, che fin dal principio del mondo ha separato la luce dalle tenebre, il giorno dalla notte, l’acqua dalla terra, solo alla fine del mondo separerà i buoni dai cattivi, i veri profeti dai falsi. Intanto noi siamo costretti a vivere in una promiscuità insidiosa e a trovarci, talvolta, con compagni, maestri, superiori, che ci attirano a perdizione. All’erta! « Guardatevi dai falsi profeti, — raccomandò Gesù — che vengono vicino con lane d’agnelli, con belati di pecore: ma invece sono lupi rapaci ». Quando il Maestro disse queste parole la prima volta era sulla montagna, e i discepoli tutti come se il lupo travestito dovesse sopraggiungere allora, si strinsero alla sua persona persuasi che solo da Lui potesse l’insidia venire sventata. « Come faremo noi, poveri ingenui, a riconoscerli? » — sembravano dire. « Come fate — li rincuorò Gesù — a distinguere le piante buone e le cattive? Dai frutti: pianta buona dà frutto buono, pianta cattiva dà frutto cattivo. Certo voi non coglierete mai un grappolo d’uva dallo spineto, né un fico dal roveto. Così è degli uomini: non guardate alle loro parole, perché non quelli che diranno « Signore! Signore! » entreranno in paradiso; ma guardate alle loro azioni. « Uomo buono fa buone azioni, uomo cattivo fa cattive azioni ». L’immagine di Gesù che si strinse d’attorno i suoi Apostoli per salvaguardarli dai falsi profeti deve aver molto impressionato i Cristiani dei primi tempi, se dall’inizio del secolo III essa è ricordata nelle pitture delle catacombe. Su di una volta del cimitero di Pretestato è dipinto il Pastore buono che stende la mano destra a proteggere sette agnelli. Ma questi alzano il muso e gli occhi pieni di spavento come se un pericolo grave li minacciasse. Difatti dalla parte sinistra s’avanzano due animali per far nocumento: l’asino e il porco. Ma già il Pastore buono ha levato contro di essi il suo lungo vincastro e li tiene lontani (WILPERT, Le pitture delle catacombe, vol. I, tav. 51). Questa ingenua rappresentazione che ha rallegrato gli occhi di molti martiri non simboleggia forse la storia perenne della Chiesa lungo tutti i secoli? Sempre il gregge del Signore è minacciato da due sorta di falsi profeti: gli uni, rappresentati dall’asino, sono quelli che tentano con errori di corrompere il sacro deposito della fede: gli altri, rappresentati bene dal porco, sono quelli che tentano di corrompere i buoni costumi e la purezza della vita cristiana. Intanto la interessante pittura delle catacombe, senza ch’io me ne fossi accorto, ha diviso due punti: I falsi profeti della fede; I falsi profeti dei costumi. – 1. I FALSI PROFETI DELLA FEDE. Ritornava da Betel, dove Dio l’aveva mandato per un’importante ambasciata un uomo giusto. Quand’ecco, sulla strada, incontra un falso profeta che gli dice « Vieni con me, a casa mia, e prenderemo insieme un po’ di cibo ». L’uomo giusto gli rispose: « Non posso venire con te, né mangiare, né bere, con chiunque sia: me l’ha proibito il Signore ». E l’altro con lusinghevole voce cominciò a scalzare il suo proposito: « Anch’io sono profeta simile a te; e se a te il Signore ha fatto questa proibizione, a me è comparso un Angelo e mi ha ingiunto: — conducilo a casa tua e confortalo con una cenetta ». L’ingenuo credette alle parole dell’astuto e gli andò dietro e mangiò il pane e bevve l’acqua del falso profeta. Ma alla sera, alcuni uomini che transitavano per un sentiero solitario, videro disteso un cadavere e accanto un leone: era il cadavere dell’infelice ingannato. Esterrefatti ritornarono in città e divulgarono la cosa (III Re, XIII). Questo fatto della Storia Sacra c’insegna assai chiaramente la fine che faranno le anime che, dimentiche degli avvisi di Gesù e de’ suoi ordini, si avvicineranno ai falsi profeti della fede: finiranno preda del leone infernale. E mi è piaciuto ricordare lo spaventoso episodio perché specialmente in questi tempi i Protestanti in ogni città e in ogni paese d’Italia hanno organizzato una lotta accanita per strappare molti dalla vera fede cattolica. Per essi s’addice bene la figura del falso profeta, descritto dal Vangelo, che s’avvicina in veste di pecora, ma che nell’intrinseco è belva rapace. Infatti, essi hanno sulle labbra parole pie, si dicono evangelici e anche cattolici, predicano del Signore e della salvezza dell’anima, danno elemosine, diffondono libri e bibbie a pochissimo prezzo. Ma strappate a loro queste lane d’agnelli e sentirete che essi non vogliono né la Madonna Madre di Dio, né il Papa capo infallibile della Chiesa. A nome di Cristo, dal suo altare, io alzo il grido d’allarme. Attendite a falsis prophetis. Ma non è solo dai Protestanti e dagli altri eretici definiti che vi dovete guardare. Guardatevi specialmente da tutti quelli che non amano il Papa. « Sono Cristiano anch’io — vi diranno forse — sono Cattolico anch’io al pari di te, ma non sento bisogno di ubbidire ad ogni comando del Papa, di rispettare ogni sua parola, di pregare per il suo trionfo… ». Chi non è col Pontefice, non è con la Chiesa di Cristo e quindi è un profeta dell’errore. E se anche un Angelo vi annunciasse una dottrina diversa da quella che la Chiesa e il Papa insegnano, non credetegli perché  quell’angelo è un demonio trasfigurato. Se poi desiderate una norma pratica che vi salvi da ogni astuzia dei falsi profeti della fede, seguite questi due consigli: 1) Istruitevi nella Dottrina Cristiana. Gesù è venuto dal Cielo sulla terra per insegnarci queste sublimi verità, e voi le trascurate? Come oserete sperare salvezza? Dottrina cristiana! Dottrina cristiana! 2) Fuggite la compagnia di chi non ama il Papa o la Madonna e disprezza la santa Eucaristia: tutte le eresie si riducono a questi tre punti. Ricordate quello che di S. Giovanni Apostolo narra S. Ireneo. Era, una volta, entrato in un casa, ma come s’accorse che v’era dentro l’eretico Cerinto, non un minuto volle indugiarvi e fuggì gridando: « Indietro, indietro! Temo che il tetto di questa casa mi rovini addosso per la presenza di un simile uomo ». E di S. Policarpo si racconta che in Roma, dov’era appena venuto, s’incontrò con Marcione che era un eresiarca. « Policarpo! — gli disse; — non mi conosci? io sono Marcione ». « Oh se ti conosco! — gli rispose il santo. — Tu sei il primogenito del demonio ». Agnosco diaboli primogenitum. – 2. I FALSI PROFETI DEI COSTUMI. Fra tutti i vizi che contaminano il mondo moderno, non ve n’ha uno più diffuso del vizio impuro. Sembra quasi che in questo secolo il porco sferri l’assalto più furioso al gregge di Cristo. Ha invaso tutte le età, tutte le condizioni, tutti i luoghi. Nolite proiicere margaritas vestras ante porcos. (Mt., VII, 6). E i profeti falsi che sorgono a difenderlo non sono pochi. « Non è un peccato, dicono, — è un bisogno della natura. L’uomo può fare quello che vuole, purché né uccida, né rubi. Quelli che dicono di essere puri, sono impostori più corrotti degli altri ». Le letture, le amicizie, i divertimenti sono le armi più terribili e più infiorate che i falsi profeti dei costumi maneggiano a distruzione delle anime. Le letture. — Ancor oggi, come all’inizio dei tempi, l’uomo è collocato alla presenza di due alberi che producono frutti diversi: l’albero della stampa del bene, l’albero della stampa del male. Il primo dà illustrazioni pudiche e belle, giornali utili e seri, libri buoni e di sincero godimento; l’altro dà frutti di peste e di morte. Ed ancora si ripete la scena del paradiso terrestre. Dall’albero delle stampe cattive ci parla il falso profeta, con la voce carezzevole del serpente antico: « Perché i preti vi proibiscono queste illustrazioni, questi romanzi? Hanno paura che diventiate più bravi di loro e non restiate più sottomessi alla loro parola. Non dovete forse sapere quello di cui parla tutto il mondo? Voi solo non guarderete né leggerete quello che si vede e si legge ora da per tutto? Ah! che nel giorno in cui li leggerete, diverrete altrettanti dei ». Ed ecco tanti giovani e tante fanciulle anche, ecco tanti uomini di ogni età e condizione, cedere al falso profeta, accoglierlo in casa magari segretamente e poi… e poi… lasciare la propria innocenza a brano a brano nella bocca delle bestia feroce « Galeotto fu il libro e chi lo scrisse! », ci grida Dante dalla sua « Commedia ». Le amicizie. — Talvolta il falso profeta sì presenta sotto i sembianti d’un amico, specialmente di sesso diverso. Non vi getterà, no, tutto d’un colpo al fondo dell’abisso: ma vi spingerà lentamente ed un po’ alla volta. Comincerà ad adescarvi con la sua bella figura, coi modi gentili, con il carattere gioviale, con qualche biglietto: in principio si ascolta volentieri, poi si sorride, poi si risponde, poi si cede. Certo è che una volta che vi siete dati in mano a un tal falso profeta, non siete più liberi, divenite cosa sua, la sua preda. « Coraggio, che facciamo di male? », vi dirà. Intanto divorerà la vostra anima e vi trasformerà in un essere abbietto come lui. Questa trasformazione mi pare che bene la raffigura Dante nell’« Inferno ». Nell’ottavo girone, egli vide arrivare di furia un serpente di sei piedi, e avventarsi addosso a un’anima dannata e stringersela membro a membro come un’edera s’abbarbica a un tronco, fino a formare con esso un sol corpo mostruoso che si allontanò lentamente. Alcuni che pure assistevano alla paurosa scena, esclamavano: « Ohimè Agnel, come ti muti! » (Inf., XXV, 67). Quante volte si potrebbe ripetere accanto ad anime rovinate dalle cattive amicizie il grido straziante « O Agnel, tu che ti dai in braccio a quell’amico perverso, come cambi! Già incomincia la metamorfosi e presto striscerai con lui nella melma. Ohimè, Agnel! ». I divertimenti. — Di certe sale, di certi divertimenti, non voglio dire che una parola, una sola: ed è quella che S. Agostino dice del suo amico Alipio che s’era recato a teatro con tutti i più feroci propositi di non peccare. « Levatesi per certa avventura d’un gladiatore alte grida, aprì gli occhi e guardò. Guardò: da quel momento non fu più Alipio » (Conf. libr. VI, cap. 8). – Se S. Paolo fosse vivo ancora, udite, Cristiani, che così vi scriverebbe in questa mattina: « Io vi prego, o fratelli, che abbiate gli occhi addosso a quelli che pongono inciampi e errori contro la dottrina che voi avete imparato, e ritiratevi da loro. Perché questi tali non servono il Cristo Signore nostro, ma il loro ventre… » (Rom. XVI, 17 s.). « Vi sono ancora molti chiacchieroni e seduttori, che mettono a soqquadro tutte le famiglie, insegnando cose che non convengono. Ma la mente e la coscienza dì essi è immonda… » (Tit., I, 10 S.). Se alle mie parole non volete ubbidire, ubbidite almeno a queste, che sono di S. Paolo. – LE OPERE BUONE – Dante descrivendo nel suo poema immortale il paradiso, dice d’avere sentito parole come queste: senza la fede in Cristo crocifisso, nessuno può salvarsi. Ma la fede non basta, occorrono le opere. Perciò nel giorno del giudizio, molti pur avendo avuto la fede e sentito molte prediche e Messe, si vedranno dalla parte dei dannati perché non fecero le opere della loro fede; mentre certi poveri e ignoranti Etiopi saranno dalla parte degli eletti e tenderanno le mani a condannare quelli che vissero nel centro della cristianità. … molti gridan: « Cristo Cristo!» / che saranno in giudizio assai men prope a Lui, che tal che non conosce Cristo. (XIX, 106-108). Questa persuasione Dante se l’è fatta meditando sul Vangelo di questa domenica. Dice infatti il Maestro divino: « Non tutti coloro che dicono: Signore, Signore, entreranno nel Regno dei Cieli, ma quelli che avranno fatto la volontà del Padre mio, ubbidendo ai suoi comandamenti ». Non tutti coloro che dicono Signore, Signore, entreranno nel Regno de’ Cieli! non tutti coloro che pronunciano qualche preghiera e rendono qualche omaggio a Dio, otterranno la vita eterna. Non omnis qui dicit mihi: Domine, Domine intrabit in regnum cœlorum; sed qui facit voluntatem Patris mei qui in coelis est, ipse intrabit in regnum cœlorum (Mt., VII, 21). Tutta la vita nostra quaggiù dev’essere spesa a meritarci il Regno de’ Cieli. Per giungere ad esso non c’è altro mezzo che fare la volontà del Padre, compiere opere buone. Vediamo la necessità delle opere e quali opere noi dobbiamo fare. – 1. NECESSITÀ DELLE OPERE BUONE. Un uomo aveva nella sua vigna un albero di fico che coltivava con ogni cura. D’inverno lo rivestiva di paglia e ne copriva le radici perché fossero difese dai rigori del freddo. Quando il tiepido aprile svegliava le prime gemme, lo bagnava mattino e sera, ed a suo tempo lo tagliava opportunamente per dargli maggior vigoria. A tempo opportuno venne per cercarvi dei frutti, ma non trovò che foglie verdi, abbondanti. Allora disse al vignaiuolo: « Ecco sono tre anni che vengo a cercare frutto da questo fico e non ne trovo. Troncalo dunque e fanne legna da ardere. Perché deve occupare inutilmente il terreno? » Ma quegli rispose: « Signore, lascialo stare ancora per quest’anno, finché io gli abbia scavato tutto intorno una fossa e vi metta del letame: e se darà frutto, bene; se no, lo taglierai » (Lc. XIII, 6-9). Noi siamo gli alberi che Dio ha piantato nella sua vigna, circondandoci di mille premure. È Lui che ci ha chiamato alla vita, a preferenza di tanti esseri rimasti nel numero delle cose soltanto possibili. Se i nostri occhi possono contemplare le bellezze del creato, lo dobbiamo soltanto a Dio. Se le nostre labbra pronunciano il dolce nome del padre e della mamma, se possono esprimere i pensieri ed i sentimenti più cari, è tutto per la bontà del Signore. Ma Egli ci ha dato un dono ancora più grande, che supera i doni materiali quanto il Cielo è superiore alla terra, quanto Dio sta sopra l’uomo: il dono della grazia che ci divinizza. L’albero dell’umanità, in principio, era puro e bello; ma, per la disobbedienza dei progenitori, da albero di vita divenne albero di morte. Allora Dio in un eccesso d’amore per l’uomo mandò il suo Figlio Unigenito perché bagnasse col sangue divino l’albero inselvatichito dell’umanità, e quel sangue prezioso rinnovasse le sue linfe e le rendesse feconde di frutti preziosi e degni del Cielo. Ha forse l’agricoltore trascurato qualche cosa perché possa la pianta scusare di essere sterile? Nulla; non ha proprio trascurato nulla. Dopo ciò, se appressandosi ad essa troverà foglie e nient’altro che foglie, il Padrone sarà costretto a dire: « Perché mai ingombra il terreno? Sia sradicata e gettata nel fuoco ». Cristiani, se la nostra vita non è ripiena di opere buone, se l’amore che diciamo di avere per Iddio non è fattivo, noi ingombriamo il terreno. Nella Chiesa di Dio siamo degli esseri inutili che sciupano il tempo e sprecano una linfa fertilissima che per nostra colpa diventa sterile. Ed allora nessuna meraviglia se ci incombe una sentenza terribile. Excidatur et in ignem mittatur. Ma io — dirà qualcuno — non faccio nulla di male! Non importa; non sei un dannoso ma sei inutile, perché non fai nulla di bene. Excidatur. Venga tagliato come un albero secco, non ostante che sia ancor verde gli sia tolta qualunque comunicazione col sangue di Cristo, sia cioè staccato per sempre da Cristo che per lui si è incarnato ed è morto inutilmente. Rendere Cristo inutile! È la massima sventura che possa toccare ad un Cristiano. In ignem mittatur. Sia gettato nell’inferno colui che era fatto per il paradiso. Arda per sempre nelle fiamme divoratrici colui che avrebbe dovuto essere abbeverato dal torrente delle grazie di Dio. Il Signore però ci vuol bene, e quantunque forse da più di tre anni siam piante sterili, vuol lasciarci ancora un anno — altro tempo di prova. Continuerà le sue cure amorose, anzi… farà di più, ci darà maggiori grazie, ma poi non ci sarà misericordia. Per le piante ostinatamente sterili non c’è altra sorte che il taglio ed il fuoco. – 2. QUALI OPERE NOI DOBBIAMO FARE. A 43 anni S. Filippo svolgeva in Roma il suo ministero sacerdotale. I giovani, i ragazzi lo conoscevano tutti e dovunque lo trovassero gli facevano festa, gli si stringevano attorno affascinati dal suo celestiale sorriso. Quante anime rubava al demonio e conduceva nelle vie del Signore! Gli afflitti avevano da lui parole dolci che scendevano fino al cuore; i dubbiosi trovavano in S. Filippo la guida esperta e sicura, i tentati la forza ed il coraggio per le lotte più aspre. Le personalità più distinte per virtù e sapere, perfino principi e prelati ricorrevano a lui per lumi e consigli. Ma un giorno la visione di un apostolato più vasto, in terre lontane, cominciò a rapirlo ed acceso di giovanile entusiasmo sognava le Indie. Venti dei suoi sacerdoti eran già pronti a seguirlo per salpare dal porto, quand’ecco incontra un santo religioso dell’ordine Cistercense. Ispirato da Dio: « No! — esclama— No! Padre Filippo, ritorni indietro, le sue Indie sono là, a Roma ». E Padre Filippo ubbidiente, allegro ritorna a Roma a far amare il Signore nella letizia del cuore. – Molte volte noi… sogniamo ad occhi aperti ed andiamo dicendo: se mi trovassi in altre condizioni, tra persone migliori, con meno faccende, se fossi in luogo più adatto, quanto bene farei, come lo amerei il Signore, che bella vita sarebbe la mia. Questa è un’illusione. A ciascuno di noi il Signore ha segnato una strada da battere e tutti, nessuno escluso, dobbiamo guadagnarci il Cielo nello stato e nella condizioni in cui ci ha posti. – Due sposi Cristiani servono Iddio nel vicendevole affetto che han giurato dinanzi all’altare. Se poi il Signore dà ad essi dei figli, non li devono, no, rifiutare quasi fossero insopportabili pesi, ma li accolgano come pegni preziosi da educare alla vita cristiana. Una mamma che pensasse, pentita, al convento, cui non era chiamata, perché strillano i bimbi di giorno e di notte bisogna continuamente curarli, sbaglierebbe certamente. « Le tue Indie sono là vicino alla cuna della tua creatura! » Un padre che rimpiangesse una vocazione … che non ha mai avuto, solo perché i figliuoli devono mangiare ed è il suo sudore che li dovrà mantenere, perderebbe ogni merito. « Le tue Indie sono lì, in quel campo che devi dissodare, vicino  all’incudine su cui devi battere, in quell’officina che ogni giorno vi accoglie ». « Sia che mangiate, sia che beviate o facciate qualunque altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio »? Non è dunque necessario stare tutto il giorno in ginocchio! Anche nelle officine, nei campi, nelle banche, per le vie, noi possiam fare tante opere sante. L’osservanza della legge di Dio, i doveri del nostro stato: ecco le opere che il Signore vuole da noi. In paradiso, accanto ai Pontefici, ai Dottori, ai Sacerdoti, ai martiri, ci saranno, risplendenti di gloria, anche gli umili figli del popolo che forse conoscevano appena le preghiere essenziali, ma sapevano molto bene fare ogni giorno la volontà di Dio. – Una leggenda narra così.  Uscì dal suo corpo un’anima umile umile, tanto che tutti l’avevano trascurata: l’Angelo suo custode la guidò nel cammino dell’altra vita. Quando fu sopra le stelle e il sole fulgente e la luna argentea, ella cominciò a tremare sbigottita di tanta altezza e luce. « Non temere, — disse l’Angelo a lei, — tu stai per entrare nel Regno dei Cieli ». Ma i Santi, quando la videro, bisbigliarono: « Com’è piccina! Non ha la stola bianca delle Vergini, non ha la tunica rossa dei Martiri, non la divisa degli Ordini religiosi… Chi sarà? Giunta davanti al trono di Dio, l’Angelo aprì il libro della sua vita. Disse poi: « Qui son notate due cose: nell’anima sua sorrise sempre la grazia, nel suo cuore ci fu sempre una giaculatoria: sia fatta la volontà di Dio. Nient’altro. Qual è il suo posto in cielo? ». « Basta, rispose il buon Dio, basta così, per avere il primo posto in cielo ». Non vuole di più da noi il Signore, non opere straordinarie, non grandi digiuni o lunghe penitenze, non miracoli: no; ma la vita semplice, con le sue croci quotidiane, con l’adempimento esatto del proprio dovere; e in tutto vuole si faccia la sua volontà. Così si può arrivare fino ai primi posti del paradiso!

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Dan III: 40

“Sicut in holocáustis aríetum et taurórum, et sicut in mílibus agnórum pínguium: sic fiat sacrifícium nostrum in conspéctu tuo hódie, ut pláceat tibi: quia non est confúsio confidéntibus in te, Dómine”.

[Il nostro sacrificio, o Signore, Ti torni oggi gradito come l’olocausto di arieti, di tori e di migliaia di pingui agnelli; perché non vi è confusione per quelli che confidano in Te.]

Secreta

Deus, qui legálium differéntiam hostiárum unius sacrifícii perfectione sanxísti: accipe sacrifícium a devótis tibi fámulis, et pari benedictióne, sicut múnera Abel, sanctífica; ut, quod sínguli obtulérunt ad majestátis tuæ honórem, cunctis profíciat ad salútem.

[O Dio, che hai perfezionato i molti sacrifici dell’antica legge con l’istituzione del solo sacrificio, gradisci l’offerta dei tuoi servi devoti e benedicila non meno che i doni di Abele; affinché, ciò che i singoli offrono in tuo onore, a tutti giovi a salvezza.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXX: 3. Inclína aurem tuam, accélera, ut erípias me.

[Porgi a me il tuo orecchio, e affrettati a liberarmi.]

Postcommunio

Orémus. Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et ad ea, quæ sunt recta, perdúcat.

[O Signore, l’opera medicinale (del tuo sacramento), ci liberi misericordiosamente dalle nostre perversità e ci conduca a tutto ciò che è retto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA