STORIA DEL BUON LADRONE di mons. J. J. GAUME (1)

STORIA

DEL BUON LADRONE

DEDICATA AL SECOLO XIX.

DI MONSIGNOR GAUME

[Prato, Tip. Guasti. 1879]

PREFAZIONE

Dedica di questa Istoria al secolo decimonono. — Ragioni di questa  dedica. — Il secolo decimonono trova nel buon Ladrone il suo  modello. — Colpevole al pari di lui, come lui può e deve pen­tirs i.— La sua conversione è la soluzione unica di tutti i  problemi sociali. — Risposta alle difficolta. — Utilità di questa  Istoria: essa rivela molti fatti curiosi, dimenticati o poco noti: — Dessa unisce la Storia evangelica con la Storia profana: —  apre l’anima ai più nobili sentimenti, l’ammirazione e l’ amore; — ed è un preservativo o un rimedio possente contro lo  scoraggiamento e la disperazione.

I.

Io amo i Santi che non furono sempre santi. Se  parrà strana una tal propensione; è ella forse degna  di biasimo ? Un illustre dottore della Chiesa la spiega  e la giustifica con queste parole: « Noi comprendiamo,  dice s. Ambrogio,  l’utilità dei peccati de’ santi, ed il  perché la Provvidenza li permise. Destinati a servirci  di modello, è bene per noi che abbiano alcuna volta  errato. Se non ostante le insidie di che sovrabbonda il  cammin della vita, non avessero eglino mai messo il  piè in fallo percorrendolo, noi ci perderemmo d’animo,  e deboli come ne siamo, ci sentiremmo tentati a crederli di una natura superiore alla nostra e quasi divina,  soggetta a fallire peccando. Persuadendoci di essere di altra inferiore natura,  un tal concetto ci distoglierebbe da una imitazione  riguardata come impossibile. Quindi è che la grazia di Dio ha lasciato anche a loro sentire un po’ la propria debolezza, affinché la loro vita fosse per noi un modello  di accessibile imitazione, ed i loro atti fossero una doppia  lezione di fedeltà e di penitenza. Il perché, quando io  leggo le loro cadute, vedo che parteciparono della mia  debolezza, e ravvisandoli non esenti da infermità,  prendo fiducia di poter correre dietro ai loro passi » [S. Ambrogio, In prior. Davidis apolog., cap. II.]

II.

Or ecco la storia di un gran peccatore, divenuto un  gran santo. Essa  è  dedicata ad un gran peccatore, che ha il più urgente bisogno di divenire un gran santo. Il secolo decimonono è il nome di questo gran peccatore. Nel colpevole illustre richiamato alla sua memoria, gran peccatore, gran ladro e gran santo, il secolo deci­monono riconoscerà esattamente quello che egli è, e  quel che deve essere. – Il dire di questo secolo che è un gran peccatore  ed un gran ladro, al pari di quello del Calvario, non  è un calunniarlo. Il dire che dee pentirsi, e pentirsi senza ulteriore  indugio, egli è un mostrargli la sola via di salute, che  gli resta. – Il dire che può pentirsi, egli è un ridestare in esso la fiducia ed incoraggiare i suoi sforzi. Uopo è stabilire queste tre proposizioni per giustificare la dedica di questa storia, e dimostrarne la convenienza  e l’utilità.

III.

1.° Dire del secolo decimonono che è un gran peccatore, e come quello del Calvario, un gran Ladro,  non è un calunniarlo. — Un secolo si caratterizza non già per i fatti ch’esso presenta, ma sì per lo spirito generale che lo  distingue. Questo spirito si rivela nelle idee dominanti  in fatto di politica e di religione. Alla loro volta codeste idee hanno la loro espressione nella condotta dei governi,  nelle istituzioni, nelle leggi, nei pubblici costumi e nelle  occupazioni e passatempi preferiti, nei libri e nei gior­nali che godono del favor popolare. In una parola, un  secolo si caratterizza per l’insieme delle sue aspira­zioni e tendenze intellettuali, religiose e sociali. – Che in questo secolo vi abbiano delle individualità  più o meno numerose, non partecipanti al general mo­vimento, e che queste diano segno della loro indipen­denza, con atti isolati o collettivi in opposizione allo spirito dominante, non perciò il secolo conserva meno il carattere che lo distingue, e per il quale si è in diritto  di definirlo. Ciò sia detto per mostrare che noi siamo ben lontani dal voler sminuire e molto meno negare il  bene che oggigiorno si fa, pur sostenendo il nostro giu­dizio sul secolo decimonono considerato nel suo insieme. Veniamo alle prove. Qual è mai lo spirito del secolo decimonono? È desso cattolico, o no ? Per farne retto ed imparziale  giudizio, non è da prendersi in esame presso una sola  nazione. Ragion vuole che, nelle loro generali manifestazioni, siano considerate tutte le nazioni almeno dell’Occidente. – È forse lo spirito cattolico che regna nella Russia,  nella Prussia, nella Svezia, nella Danimarca, nell’Inghilterra, in tutti i paesi protestanti e scismatici, vale  a dire per lo meno, nella metà dell’Europa? E qual è lo spirito che domina nelle nazioni, che diconsi ancora  cattoliche, Francia, Spagna, Austria, Portogallo, Italia?  Come nazioni tendono esse al Cattolicesimo, o alla parte  opposta? Cosa puerile sarebbe il discutere una siffatta  questione: il solo proporla è lo stesso che risolverla.

IV.

Or il secolo decimonono faccia il suo esame di co­scienza. V’ha una legge, la più santa di tutte le leggi,  e madre di tutte le leggi degne di questo nome; una  legge discesa dal cielo e data da Colui, innanzi al quale deve curvarsi ogni fronte, star muto ogni labbro, pie­garsi ogni ginocchio; una legge che ha la sanzione di  ricompense e pene temporali ed eterne; una legge,  della quale il battesimo rende l’osservanza ben più  rigorosa pei popoli cristiani, che per le nazioni infedeli. Questa legge, che si compone di dieci articoli, si chia­ma il  Decalogo. – Or di questi dieci articoli, qual è quello che il  secolo decimonono osservi sul serio, e secondo lo spirito  del divino legislatore, in Russia, in Francia, in Italia e presso le altre nazioni d’Europa? O piuttosto qual è quella nazione che, da nord a mezzogiorno non li violi tutti apertamente ed ostinatamente? Egli è doloroso a dirsi; ma al veder la condotta del secolo decimonono, non si può mettere in dubbio che per esso Iddio è non un so qual vecchio re quasi detronizzato, i cui consigli, le cui prescrizioni, i cui divieti, le cui promesse e minacce, oggetto d’indifferenza per gli uni, e di scherno per gli altri, non pesano più sulla vita delle nazioni, come nazioni, di quello che sul piatto di una bilancia una leggerissima piuma. – Dove trovate voi la parte di Dio nella, politica dei e, nei discorsi e negli atti officiali dei governi? Si potrà nominare un solo uomo di stato veramente cristiano in tutta la moderna Europa? Il secolo decimonono non fa ora dei codici nei quali non si rincontra una sola volta il nome di Dio? Qual secolo anche pagano, ha mai proferito e lasciato proferire tante bestemmie contro quel nome adorabile, e contro tutto ciò, che Egli adombra della sua divina maestà? Tranne quella della spada, qual potenza è sacra per esso? E son tuttavia sacri per esso i giorni riserbati al riposo? E qual’è l’andazzo dei pubblici costumi? Depositaria della divina autorità e ministra delle sue leggi, la Chiesa è ella pel secolo decimonono l’oggetto di un’esemplare venerazione? Promotrice e guardiana della vera civiltà, riceve forse la Chiesa il ben meritato omaggio di una positiva riconoscenza, e di un filiale attaccamento?

V.

Se non ché, la violazione audacissima della più  santa delle leggi non è già la più grande iniquità del secolo decimonono. V’ha una differenza enorme tra la  reità d’un figlio, che disobbedisce al padre, riconoscen­do pur sempre la paterna autorità, e quella di un figlio,  che non solo trasgredisce i paterni comandi, ma nega  ancora la paterna autorità. E di questa reità è imputabile il secolo decimonono. Non contento di ribellarsi a Dio ed alla sua Chiesa  disconosce la loro autorità: « Io sono norma e regola a me medesimo, così nel pensare, nel discorrere e  nell’operare. Che bisogno ho io di Gesù Cristo e della  sua Chiesa? Qual’uopo ho del Papa? Combattere la  loro tirannica autorità è mio buon diritto; scuoterne il giogo è mia gloria, e liberarne la umanità egli è aprire ad essa un’èra di libertà, di progresso e di felicità. » Ed  ecco per chi vuole intenderlo il perpetuo ritornello del secolo decimonono in tutta la sua estensione, e l’ultima  parola del suo modo di pensare più o meno officiale. – Quindi ciò che per  l’addietro non era mai avvenuto,  i titoli dei suoi pubblici fogli sono:  Il Libero Pensiero, La Morale Indipendente, e pur anche l’Àteo.

VI.

Di là proviene ancora il tutto nuovo carattere del  male all’epoca nostra. In tutti i tempi v ’ebbero degli errori; ma la legale riconoscenza dei dritti dell’errore  nelle nazioni cattoliche, ch’è quanto dire la patente  concessa ai falsi monetarii della verità di batter falsa  moneta pubblicamente; ma società formate in piena  luce col fine palese di tener lontano come un malefico  il Cristianesimo dalla culla del bambino, dal capezzale  del moribondo, e se sia possibile, di  soffocarlo nel fango; ecco ciò che nel secolo decimonono solamente si è ve­duto avverarsi. – Del pari in tutti i tempi v’ebbero delitti e misfatti  contro la proprietà ed i buoni costumi; ma l’apologia  del furto e della disonestà, e con essa la glorificazione  del suicidio, ecco altresì quel che non si ritrova, col  lascia-passare delle opinioni, se non nel secolo decimonono. Finalmente in tutti i tempi vi furono tumulti e  ribellioni contro le legittime potestà; ma la teoria della rivoluzione e del regicidio, anzi la consacrazione del principio dell’uno e dell’altra, con la proclamazione  legale della sovranità dell’uomo, ecco ciò che invano si cercherebbe fuorché nel secolo decimonono. Nega­zione dell’autorità divina e della coscienza umana, si  è questo il distintivo carattere della sua perversità. A giudizio di ogni spirito imparziale, essa è ben al  di sopra di quella dei secoli precedenti. « Chi può senza fremere risovvenirsi (diceva il conte de Maistre) del  frenetico fanatismo del sedicesimo secolo, e delle spa­ventevoli scene di che fece spettacolo al mondo! Qual furore sopratutto contro la Santa Sede! Noi tuttora  arrossiamo per la natura umana, leggendo nelle storie del tempo le sacrileghe ingiurie vomitale da quei novatori villani contro la romana gerarchia. « Nessuno dei nemici della fede si è mai ingannato. Tutti, battendosi contro Dio, si battono invano; ma tutti sanno ove bisogna battere. Ciò che v’ha di più  notevole si è, che a misura che i secoli passano, gli  attacchi contro l’edificio cattolico si fan sempre più  poderosi, di maniera che, sempre dicendo:  Non si può andar più, oltre, si rimane sempre ingannati. » [Du Pape, t. II, p. 271.] E di  tal verità è prova evidentissima il nostro secolo.

VII.

Il decimonono secolo è dunque un gran peccatore;,  ma soprattutto un gran Ladro.  La borsa o la vita era  stata fin qui la parola del ladro di pubblica strada. — La borsa e la vita è la parola del secolo decimonono. Di  due specie sono i beni dell’uomo, i beni del corpo, e  i beni dell’anima. Beni del corpo, la borsa; beni dell’anima, la vita. Il ladro di pubblica strada prende la  borsa e lascia la vita; il secolo decimonono prende la  borsa e la vita. – Esso prende la borsa. Non è ancora compito un  secolo che la Chiesa Cattolica era la più ricca proprie­taria del mondo. La Francia, la Spagna, il Portogallo, l’Italia ed una parte notabile dell’Alemagna erano  coperte di proprietà della Chiesa. Essa oggigiorno non ha più nulla di proprio, e se alcuna cosa le rimane, è per la precaria tolleranza degli spogliatori quali  son sempre disposti, come pur confessano,  a stendervi l’avida mano. – In questo stesso momento l’Italia finisce di vendere  i beni della Chiesa; e gran mercé di Dio se al Capo  augusto di quella ricchissima Chiesa rimane un angolo di terra indipendente su cui riposare il capo. E questo piccolo possesso, oppugnato da mille sofisti, e sempre  minacciato dalle armi degli invasori, uopo è difenderlo a costo del più puro sangue, senza potersi ripromettere che lo sarà sempre con fortunato successo. Certo giam­mai il furto sacrilego fu praticato in simile proporzione  e con sì sfacciata impudenza!

VIII.

Uno è il diritto di proprietà, ed è ugualmente sacro nella persona del prete come in quella di qualsiasi uomo del secolo. Violatore di questo diritto nell’ ordine reli­gioso, il secolo decimonono non poteva a lungo rispet­tarlo nell’ordine sociale. E con quale impassibilità non ha esso spogliato Re e Principi di sangue reale! La storia conta già più di  sessanta troni rovesciati da esso. E ben superiore è il numero dei re e delle regine, dei principi e delle prin­cipesche famiglie spogliate dei loro diritti ereditari, e della loro personale fortuna, espulsi, esiliati; di sovrani  divenuti vassalli, ed erranti per le diverse contrade dell’Europa, cercando un’ospitalità che non sempre  vien loro accordata. – Non parliamo delle provincie ingiustamente invase,  né delle nazionalità soppresse, né delle mostruose tasse  imposte ai vinti a profitto dei loro depredatori. Notiamo  soltanto che a tutte queste ingiustizie, a tutti questi  furti a mano armata, il secolo decimonono impresse il proprio suggello della sua perversità. Col suo più mellifluo tuono di voce, esso li chiama annessioni, risultati inevitabili delle aspirazioni dei popoli, conseguenza le­gittima del nuovo diritto.

IX.

Come il torrente che scende dalla montagna e si  precipita nella valle che copre di arena e di fango e  che devasta; così il furto esercitato nelle alte regioni  è disceso negli ordini inferiori della società. Tra tutti gli altri, il secolo decimonono è il secolo delle subite  scandalose fortune; scandalose per la loro rapidità,  scandalose per la loro enormità, scandalose per i mezzi adoperati a farne acquisto. Per quanto poco iniziato uno sia di ciò che avviene, e non potrebbonsi nelle diverse carriere amministrative,  industriali, commerciali, finanziarie indicar persone,  che quindici o venti anni addietro potevano dirsi poveri,  e che ora posseggono un patrimonio di milioni? Come  persuadersi che questi rapidi acquisti di ricchezze siano  esclusivo frutto di onesto lavoro, il prodotto legittimo  di un’ industria, o di mezzi non condannevoli né avanti  a Dio né avanti agli uomini? Fin qui l’opinion pubblica  si ricusa di crederlo.

X.

E che pensare poi della giustizia del secolo decimonono nelle transazioni commerciali ed anche nelle  ordinarie relazioni di compra e vendita? È stato detto  già: di tutte le scienze moderne, quella che ha progre­dito più è la scienza del rubare. Pare che la chimica  non sia stata inventata per altro, che per falsificare  più abilmente i prodotti dell’industria, e fino le sostanze  alimentari. Se dobbiamo credere alle rimostranze, ai lamenti  che sentiamo farsi per ogni dove, ed ai processi che  del continuo si tengono nei tribunali, vi han pochi, i  quali possano dire: « Son certo che il vino che io bevo non è punto adulterato, e che sostanze nocive non v’hanno nel pane ch’io mangio, nell’olio che mi fa lume. – « Io sono egualmente sicuro che non v’ha cotone  in quella stoffa ch’io compro, perché la credo di refe,  di seta, o di lana, e che non v’è frode nella fabbri­cazione degli oggetti che acquisto per mio uso, e che  ognuno rifugge dall’ingannarmi sulla misura e sul peso,  e dal vendermi per buone delle merci danneggiate, o d’infima qualità. – « In fine io ho la certezza che nella mia casa non  v’ha frode alcuna, e che né i miei domestici, né i miei  operai, né tampoco i sarti o le sarte mi rubino in modo  alcuno, e che se talvolta vi ha furto, la è cosa ben rara  e seguita sempre da un sincero pentimento, e da una  giusta riparazione. »

XI.

Ma ciò non è tutto. Posseduto da uno sfrenato amore della ricchezza, il secolo decimonono ha posto in voga due cose, che ad ogni istante compromettono la giu­stizia, cioè, il ciarlatanismo e la concorrenza illimitata. Di che mai dal principio alla fine dell’anno, son ripiene  le ultime pagine dei giornali ? Di annunzii. E le canto­nate delle città di che sono tappezzate? Di avvisi  stampati di ogni colore e di ogni dimensione. E questi annunzii ed avvisi che dicono mai? Essi  dicono che, in virtù di novelli processi e di condizioni eccezionalmente fortunate, si vende a buon mercato,  e tale da non credersi, tutto ciò che v’ha di meglio, e di più bella apparenza in fatto di tessuti o di derrate d’ogni genere. Voi correte a comprare, e siete rubato. Essi dicono che sì scoprirono talune preparazioni medicinali di tanta efficacia da guarire le malattie più ribelli ad ogni rimedio. Voi comprate e siete rubato. Essi dicono che si è formata una società con un capitale di più milioni per dar vita ad una industria, il cui successo è talmente sicuro, che oltre l’interesse della loro moneta gli azionisti riceveranno ricchi divi­dendi. Sedotti dall’esca del guadagno, rassicurati dai nomi che figurano nel manifesto, i gonzi accorrono, e ne dividono la sorte. – Il ricco, l’artigiano, il domestico recano, chi le sue  rendite, chi i suoi risparmi, e chi il suo salario; e per accrescere il numero dei creduli, nei primi anni gli interessi sono regolarmente pagati. Vi si aggiunge pur anco un dividendo, che peraltro resta ad aumento del capitale sociale; e ben tosto non vi han più né inte­ressi, né dividendi, né capitale; tutto è perduto. In questa specie di furti, il secolo decimonono può vantarsi  di portare la palma su tutti.

XII.

E non meno a tutti gli altri secoli va esso innanzi  per la novella invenzione che dicesi concorrenza illi­mitata. Come applicazione della libertà rivoluzionaria, la concorrenza illimitata ha per iscopo di produrre più che uno può al miglior mercato possibile; e chi non vede in essa una permanente tentazione di frode e di furto? Il mio vicino vende a tal prezzo gli stessi pro­dotti ch’ io vendo ; acquista credito, e la sua concor­renza cagiona la mia rovina, e m’impedisce di far fortuna. È dunque necessario ch’io venda a più basso prezzo di lui. Ma se impiego le stesse materie, se fo uso dello stesso metodo di fabbricazione usato finora, il prezzo di fattura rimarrà sempre Io stesso così per me, come per lui, e gli avventori continueranno a preferirlo. Come dunque eludere la difficoltà ? Alterando le ma­terie prime con la mescolanza di altre affini e di minor costo, e ponendo minor cura nella fabbricazione: in una  parola rubando.

XIII.

Il seguente fatto riassume tutte queste specie di falsificazioni nate dalla concorrenza illimitata. Regnava il Buon Luigi Filippo, e i Deputati della Gironda domandavano  la riduzione della imposta sui vini. Con una patetica esposizione rappresentavano la misera condizione dell’industria vinicola, e particolarmente le gravezze insop­portabili, che pesavano sulla loro provincia. Un deputato di non so qual’altro dipartimento dirigendosi all’ora­tore, gridò dicendo: « Io domando, come voi, non sola­mente la riduzione, ma la soppressione del diritto fiscale sul vino, se voi potrete provarmi che in commercio vi ha un solo ettolitro di vino di Bordò che sia pretto e vero Bordò, » Si tacque allora il deputato della Gironda, la camera rise, e la domanda fu rigettata. più furto, ma è abilità, saper fare. A forza di raggiri indefinibili, sappiate procurarvi cento mila lire di rendita, e voi certamente avrete la riputazione di uomo abile. Abbiatene due cento mila, e sarete un grand’uomo, al quale saranno accessibili tutte le sale di ricevimento aristocratiche. – Senza che gli sia pur passato pel capo di farlo im­prigionare come un nemico dell’umana società, o di separarlo da essa come un pazzo della più pericolosa natura, il decimonono secolo ha inteso un sofista proclamare questa massima: La proprietà è il furto.

XV.

È tale l’aberrazione del senso morale, che a pre­venire i tremendi effetti di un siffatto principio, uomini di stato stimaronsi obbligati a pubblicare dei volumi per confutarlo. I loro sforzi furon essi coronati di buon successo? Mi è lecito dubitarne. Dopo come per l’in­nanzi, grandi furti ebbero luogo, poche o nessune restituzioni. Al tempo istesso, il socialismo minaccia la società. E che sono mai il socialismo, il comunismo, il dritto al lavoro, la democrazia universale, la grande repub­blica mazziniana, la rivoluzione in una parola, se non il furto eretto a principio? Incoraggiata dagli uni, glorificata dagli altri, più o meno ben accolta da quanti non son cattolici di vecchia data, la rivoluzione può, per le future sue rapine, come per le sue passate ingiustizie, contare su quel decreto d’indennità, al quale il secolo decimonono ha dato corsoe valore: È un fatto compiuto.Ed ecco nell’ordine materiale accennate alcune delle attinenze del secolo decimonono col principio della giu­stizia. Ora vediamo quali sono esse nell’ordine morale.

XVI.

Per colpevole che e’ sia, il furto della borsa può passare per un peccato da nulla in confronto col furto della vita. La verità è la vita dell’uomo, è il suo pane,  il suo vino, l’aria sua respirabile; è il suo padre e la sua madre, come già fu detto nelle lingue orientali. La verità è la sua fede, la sua speranza, la sua consola­zione; è la bussola che dirige l’esistenza, e la forza  che dà lena a portarne il peso. La verità è lo scudo  che protegge l’onore, la innocenza, la forza nelle in­certezze dello spirito, contro gli smoderati desideri del  cuore, e contro le insidie e le lusinghe del mondo. – Il più reo pertanto di tutti i furti sì è quello della  verità. Spogliandone quell’essere, da un canto sì misero, che si chiama uomo, egli è un renderlo cieco, e con­dannarlo a brancolare nel vuoto; egli è un farlo zim­bello d’ogni fantasma, e sospingerlo barbaramente di  precipizio in precipizio; egli è un cangiarlo in bestia immonda alternativamente e crudele, in fino a che, torturato da dubbi, perda ogni lume di ragione; o che  stanco di una vita senza norma e senza scopo, invochi il nulla e ponga fine ai suoi giorni.

XVII.

Il decimonono secolo è egli reo di un simile furto?  E n’è egli veramente reo più che ogni altro secolo? Non si ha che aprir gli occhi per rispondere a simili  interrogazioni. Che sono mai quei milioni di scritti cat­tivi, opuscoli, libri, giornali, canzoni, farse, opere tea­trali, romanzi, incisioni, stampe di ogni formato ed anche del più basso prezzo, che ogni sera, dal principio alla fine dell’anno, partono da tutte le capitali d’Europa, se non bande di ladroni, che in tutti i luoghi abitati, e fin nei più umili villaggi, vanno a pervertire le menti, a profanare i cuori, ad assassinare le anime? Al giovine han tolto il rispetto alla paterna autorità, alla donzella il pudore, al ricco la pietà, al povero la rassegnazione, a tutti il sentimento cristiano, la vita soprannaturale, e con essa ogni conforto nel presente,  ogni speranza nell’avvenire; inestimabili tesori com­perati al prezzo del sangue di un Dio, e deposti col Battesimo nel cuore del cristiano.

XVIII.

E che sia cosi, il fatto non può revocarsi in dubbio.  Agli ottimisti più dichiarati esso rivelasi per lo stra­ripamento della vita materiale. Come ai tempi che pre­cedendo il diluvio, l’uomo del nostro secolo, perduta la vita dello spirito è fatto carne, ed i movimenti del suo cuore invece di sollevarsi in alto, vanno abbas­sandosi. Soggiogare la materia, sorprendere i segreti della materia, manipolare e trasfigurar la materia, glorifi­carsi nella materia; consumar tutta la vita nei godi­menti della materia; nulla vedere, nulla desiderare e nulla ammettere fuori della materia; sprezzare, deri­dere, calunniare, perseguitare coloro che gli propongono  altra cosa che la materia: ecco 1’uomo qual è fatto dai  ladroni della verità. – A tutti questi ladroni mille volte più rei di quelli  che forzano gli scrigni, il secolo decimonono lascia  libero il campo. Essi sono i suoi veri figli, e s’ispirano  del suo spirito e realizzano il suo pensiero. Al punto di vista morale egualmente che al punto di vista ma­teriale, dire che il secolo decimonono è un ladro, ed un gran ladre, non è dunque un calunniarlo.

XIX.

2.°  Il dir poi che esso deve pentirsi, e pentirsi al più presto,  è un indicargli la sola via di salute che gli ri­manga. — Ripetere che la situazione dell’Europa è grave, estremamente grave; che la presente società è  malata e seriamente malata; che nell’antico mondo,  come nel nuovo, fermentano elementi di dissoluzione universale: egli è questo un esprimere delle verità triviali; tanto son esse ora conosciute. Indarno i piaggiatori non cessano di cullare colle loro lodi il secolo decimonono. « La tua educazione è perfetta, gli dicono, e tu hai bene di che vantarti al  paragone dei secoli precedenti. Tu sei abbastanza forte per avanzarti nella via del progresso. Giammai non fu  il mondo più illuminato, più libero e prosperoso. Giam­mai le grandi nazioni dell’Europa non furono gover­nate con maggior sapienza, e maggior gloria. Le agitazioni che provi, non sono che superficiali: nè mai  l’edifìcio sociale riposò sopra più solide basi. » – Ma il secolo decimonono non è perciò completamente  rassicurato. Un segreto istinto lo avverte, non essere egli nell’ordine, e tutto ciò che è fuor dell’ordine non può  durare. L’ordine porta seco la pace, e la pace non si trova in alcun luogo. Vero è che in questo momento tutte le parole dei re suonano pace; ma tutte le loro  braccia fanno apparecchi di guerra. Per ogni dove da  un giorno all’ altro la guerra minaccia di venire ai fatti. Di qui ha origine quel sentimento sconosciuto  nelle epoche regolarmente costituite, la paura. – Il secolo decimonono prende di assalto città stimate  inespugnabili; ed ha paura. Con un pugno di soldati riporta lontane e strepitose vittorie su potenti nemici; ed ha paura. Sei milioni di baionette vegliano a ras­sicurarlo; ed ha paura. Esso domina gli elementi, sop­prime le distanze, moltiplica le meraviglie della sua industria; ed ha paura. L’oro cola in gran copia dalle sue mani; nei suoi vestimenti la seta ha preso luogo  della rustica stoffa di lana; la natura tutta quanta è fatta tributaria del suo lusso; la sua vita è somigliante al festino di Baldassarre; ed ha paura. Le nazioni te­mono delle nazioni: i re dei popoli: i popoli dei re. La società ha paura del presente ed ancora più dell’avvenire: e troppo generale è questo sentimento per non dover essere ben fondato.

XX.

Perché mai il secolo decimonono ha tanta paura? Noi lo abbiamo già detto: egli è perché sente bene di non essere nell’ordine. E perché non è esso nell’or­dine? Perché è reo di peccato, e di gravissimo pec­cato. Il suo capitale delitto è quello di essere in piena insurrezione contro Dio, re e legislatore supremo, e contro la Chiesa depositaria dei diritti di Dio, ed organo delle sue volontà. – « Dappoiché non vogliono conciliarsi collo spirito che mi anima, né accettare un ordine sociale che mi è a grado, né approvare la libertà, la civiltà, il pro­gresso, com’io l’intendo, Iddio e la Chiesa facciano i fatti loro; io più non voglio che su di me abbiano  influenza ed impero. Io saprò ben vivere e prosperare senza di essi, lungi da essi e, loro malgrado: Nolumus hunc regnare super nos. » Tal’è senza che si possa negare, il grido d’insensata ribellione, che tutte riassume le generali aspira­zioni del secolo decimonono. Noi la diciamo insensata e ben a ragione. Questo secolo pretende di vivere e  prosperare volgendo le spalle al Cristianesimo ed alla Chiesa. Ma tra associati, la separazione esige la liquidazione.  Che dunque il Cristianesimo e la Chiesa riprendano, e  ne hanno bene di diritto, tutto quello che han dato al secolo decimonono, e che gli danno tutto giorno e a tutte le ore, di lumi, di credenze, di costumi, di principii sociali, di libertà, di utili istituzioni, di rispetto al principio di autorità e di proprietà; e vedremo  quello che rimarrà al secolo decimonono. La insurrezione dell’uomo intanto non vale a de­tronizzare Iddio. L’orgoglio di un vermicciolo non  istrappa la folgore dalla mano dell’Onnipotente. Come  la calamita attira il ferro, così il peccato attira il castigo. Checché si faccia per divagarsi e vivere spen­sierato, il secolo decimonono comprende una tale ine­sorabile attrazione; e quindi è che ha paura. Come mai sottrarsi al castigo e sostituire la fiducia alla paura? Per trovare la soluzione del definitivo  problema, mille pensatori si affaticano e studiano. Ogni giorno gli uomini di differenti partiti recano il loro progetto di scampo e di salvezza. Gli uni si fan cam­pioni dell’assolutismo, e combattono la democrazia ed il sistema costituzionale. Gli altri esaltano la pura de­mocrazia, e mostrano i pericoli dell’ assolutismo, e l’inefficacia del regime costituzionale. Molti levano alle stelle il regime costituzionale, ed hanno in orrore la democrazia al pari dell’assolutismo. E quei che sono  indifferenti sulla forma dei governi, si confidano di ri­generare l’Europa, per virtù dell’industria, della pub­blica istruzione e della materiale prosperità. – Quindi a mille a mille le teorie economiche, po­litiche e sociali; ed assolute affermazioni, e negazioni  assolute. Quindi molte e nobili intelligenze che consu­mano le loro forze in una sterile agitazione. Quindi insomma, quella gran guerra dell’ignoranza, – Magnum inscientiæ bellum, di cui dice la Scrittura, che non lascia  nelle anime se non dubbi, stanchezza e sconforto, e nelle società vani conati, e prove, e riprove eterne. Babele certamente non fu teatro di una maggiore con­fusione d’idee e di linguaggio. Il secolo decimonono ha dato ragione a tutte le  opinioni. L’una dopo l’altra ha fatto saggio di tutte le svariate forme di governo. L’industria è divenuta la sua vita, l’istruzione la sua più sollecita cura, il benessere materiale il suo Nome; ma non perciò è  guarito.

XXI

Dopo tante inutili esperienze, tante contraddittorie  soluzioni, il cattolico osa pur esso proporre la sua, e perché non usare anch’egli di un diritto che ognuno  si arroga? Per lui non è questo solamente un diritto, ma un dovere, poiché nel comune pericolo ogni uomo è soldato. A differenza di tutte le altre, la soluzione del cat­tolico non è un palliativo, nè un’utopia. Non è il parto  di una mente umana, ma è proposta da Quello stesso,  che fece sanabili tutte le nazioni. Essa è unica, e Iddio non ne conosce altra. Essa è quella, che da sei mila anni invariabilmente propone  alle genti, trascinate all’orlo del precipizio dalle loro iniquità. Tutte le volte che essa fu abbracciata, i problemi sociali più complicati e difficili furono risoluti all’istante; svanirono i pericoli, restaurato fu l’ordine, e la pace tornò a discendere sulla terra. Essa è forzata, perché radicale: ed è radicale perché sola ripone ogni cosa al suo posto: Dìo in alto e l’ uomo a basso. Né è soltanto radicale. Legislatore e padre, Iddio volle che fosse pur facile, e la espresse in una sola parola: PENTIMENTO.

XXII.

Se dunque il secolo decimonono riconoscendo di aver forviato, risolve di rientrare nel buon sentiero e pentirsi, ei sarà salvo; altrimenti no; mille volte no. E si prenda ben sul serio la cosa; non si tratta qui, come diranno sicuramente certuni, di una soluzione mistica, totalmente estranea alla scienza politica e sociale, e conseguentemente di una soluzione di poca importanza rispetto alle cose di questo mondo. In vero così la discorrono coloro che han nome di sapienti, ma che non hanno la scienza, la quale procede dalla verità e conduce alla verità èVani enim sani omnes homines, in quibus non subest scientia Dei. Sap. XIII 1]: uomini presuntuosi che non dubitano di nulla perché non si accorgono di nulla, buoni soltanto a traviare i popoli colle loro utopie; e la cui vista, disse già s. Agostino, non va al di là del loro naso. Il vero si è che questa soluzione è talmente politica, talmente sociale, talmente decisiva nelle cose di questo mondo, che senza di essa tutte le soluzioni, tutti gli espedienti non han dato, né potranno dare mai alcun durevole risultato. Senza di essa, certamente potrete reprimere una sommossa come a Parigi nelle giornate di giugno 1848; ma ciò è reprimere una manifestazione della rivoluzione, ma non un vincere la rivoluzione. Potrete battere Garibaldi sulla via che conduce a  Roma, come avvenne a Mentana nel 1867, ma questo è arrestare nella sua marcia un figlio della rivoluzione, non già vincere la rivoluzione. Come or ora fece il Corpo Legislativo Francese, potrete con un voto solenne confermare la conserva­zione di quel che rimane al santo Padre dell’antico  suo stato; ma ciò è sospendere l’adempimento dei voti  della rivoluzione, non un vincere la rivoluzione. Tutti questi atti ed altri della medesima specie son  tanto meno vittorie, in quanto che i sedicenti nemici della rivoluzione cadono nella più manifesta contraddi­zione. Se eglino con una mano si oppongono alla rivo­luzione, coll’altra le somministrano giornalmente no­vello vigore. E che altro mai si fa pubblicando e lasciando del continuo pubblicare, in tutte le lingue, le dottrine della rivoluzione in fatto di religione, di politica e di filosofia, non che di storia e di letteratura? Pretendete di tener saldo e conservare l’edificio, e lo lasciate minare! Volete raffrenare l’impeto del torrente, e ne accrescete le forze! Un fatto si distrugge con un altro; ma la rivolu­zione non è un fatto. La rivoluzione è un principio, una potenza morale, un’idea: e le idee non si uccidono a colpi di fucile. Queste non possono esser vinte che da idee contrarie. L’idea rivoluzionaria è l’uomo in  alto, e Dio in basso. Quindi la rivoluzione non sarà mai vinta, che quando si tornerà a riporre Dio in alto, e l’uomo in basso. E Dio non può essere posto in alto e l’uomo in basso che dal pentimento.

XXIII.

Giudichi imparzialmente di ciò lo stesso secolo de­cimonono. Alla presente situazione, sì piena di pericoli e d’incertezze, non v’hanno che due soluzioni, e due  solamente, la rivoluzionaria e la cattolica. Nella sua ultima formula, la soluzione rivoluzionaria  è il rovesciamento completo dell’ordine religioso e  sociale stabilito dal Cristianesimo; rovesciamento se­guito dalla barbarie assoluta, e quel che è peggio, dalla barbarie letterata, e forse dall’una e dall’altra:  perocché sarà l’uomo posto in alto, e  Dio in basso in  tutte le cose. – Nella sua ultima formula, la soluzione cattolica è  la restaurazione universale dell’ordine religioso e so­ciale; restaurazione seguita da un’ èra di pace e di prosperità, perocché sarà Dio ricollocato in alto e 1’uomo in basso. Ora il primo, indispensabile elemento della soluzione cattolica è il  pentimento. Così, e solamente così possono essere risoluti, nell’interesse dei governanti e dei governati i minacciosi problemi che ci incalzano: tra questi ricorderemo so­lamente la gran questione del momento: la Questione  Romana. Al punto in cui si trova attualmente la questione  romana sfida la sagacia di tutti i diplomatici e di tutti  i congressi. Ond’è che solo il pentimento delle nazioni  può risolverla. Sol esso può far rientrare nelle anime dei re e dei popoli il sentimento protettore della de­bolezza oppressa, ed il religioso rispetto dell’altrui  proprietà. Solo per conseguenza può esso emendare la commessa ingiustizia. Solo esso può, intorno agli stati della Chiesa resi al legittimo possessore, rialzare la barriera di venerazione e di amore, che sì lungo tempo conservò intero e tranquillo il dominio temporale della Santa Sede, e con la sovranità temporale assicurò la  indipendenza necessaria all’oracolo del supremo capo  della vera Chiesa di Dio. – Non bisogna farsi illusione; il voto pronunziato dalla nostra Camera Legislativa il 5 dicembre 1867 non  risolve punto la questione romana. Esso non è che un  primo passo nella buona via, e speriamo che non sia l’ultimo: altrimenti lo  statu quo quale ci si promette,  sarebbe sotto ogni aspetto, una cosa ben deplorabile. Dal punto di vista politico, sarebbe esso per la Fran­cia una incancellabile vergogna. Con qual diritto gli  Italiani si sono impadroniti delle più importanti provincie della Santa Sede? Calpestando la firma posta  dalla Francia alle stipulazioni di Villafranca ed al trat­tato di Zurigo; stipulazioni e trattato che nel modo più solenne garantivano la inviolabile integrità degli Stati della Chiesa, e ciò che accresce la gravità dell’insulto la si è che nelle provincie usurpate si ritrova la dote, che la figlia primogenita della Chiesa, la Francia,  ebbe già costituita alla sua Madre. – E la Francia, la quale non avrebbe che a parlare  per essere obbedita, soffrirà senza far motto simili  oltraggi? Ma allora che diventa il nostro onor nazio­nale? Chi mai vorrà fidarsi più della nostra parola?  Rovinare una nazione nei suoi materiali interessi, è  un danno che può ripararsi: rovinarla moralmente,  egli è un fallo irreparabile. Dal punto di vista religioso, per una parte sarebbe lo stesso che consacrare l’ingiustizia, e sullo spoglio sacrilego dei due terzi del patrimonio Pontificio far valere l’iniqua teorica del fatto compiuto. E dall’altra  parte ridurre il Sommo Pontefice al possesso del lembo di terra che gli rimane, sarebbe un condannarlo alla mendicità. Si vedrebbe, diciamolo pur francamente,  l’applicazione del programma di quel libercolo di trista memoria:  Il Papa ed il Congresso. Lo che sarebbe  lasciare al Papa il Vaticano, il suo cameriere, il suo cuoco,  ed il suo giardino con qualche jugero di terra  di più. E che altro mai sarebbe questo se non proprio il trionfo della rivoluzione? Si passino pure in rivista tutte le questioni di un ordine più o meno elevato, che or tengono l’Europa in una irrimediabile agitazione, e si arriverà sempre alla  medesima necessaria, inevitabile soluzione; il  pentimento. Del rimanente tal’è, in diversi termini, l’assioma di geometria sociale, contenuto nel famoso detto:  La ri­voluzione incominciala con la proclamazione dei diritti dell’uomo, non finirà che con la restaurazione dei diritti di Dio. Deh! possa finalmente il secolo decimonono prender  sul serio il suo partito; e chiudendo l’orecchio a chi  vuole addormentarlo adulandolo, ed agli utopisti che lo fan traviare, provvedere alla propria salvezza, rien­trando nelle condizioni di vitalità divinamente prescritte  alle nazioni!

XXIV.

3.°Il dire che può esso pentirsi, egli è un ridestare in lui la fiducia ed un incoraggiarne gli sforzi. – Qui si affaccia l’obbiezione prevista fin dal prin­cipio, e della quale, quanto altri, sentiamo tutta la forza. « Domandare che il secolo decimonono si penta, è un tentar l’impossibile; lo sperarlo sarebbe follia.  La proposta soluzione altro dunque non è che un’utopia. » Una parola in risposta. Più volte nel corso della sua esistenza, il popolo Ebreo si pentì: si pentirono pur essi i Niniviti, e una gran parte del mondo pagano si pentì all’annunzio  della verità evangelica: più tardi tutte le nazioni, venute successivamente alla fede, si pentirono. Perché dunque il secolo decimonono non potrebbe far ciò che  tante altre generazioni han potuto? Gli mancano forse motivi e mezzi per compiere un atto sì salutare? Noi Io sappiamo purtroppo: ciò che ad esso manca è la volontà. Questa manca ai governanti ed ai gover­nati: manca ai doviziosi e ai negozianti: manca alla  maggior parte di coloro che formano lo spirito pubblico, scienziati, giornalisti, uomini di lettere; e manca alle  masse, grossolanamente ignoranti, e stupidamente in­credule. Pure mancherà essa lor sempre? Ben doloroso sa­rebbe il pensarlo. Fin qui senza dubbio, il decimonono  secolo si è mostrato ribelle alla voce di Dio ed alla  voce della Chiesa, che non si rimasero di chiamarlo al  pentimento. A più riprese, la Chiesa gli ha parlato per  bocca del più mansueto dei Pontefici; e Iddio gli ha pur  esso parlato col doppio linguaggio dei benefici, e dei castighi. – Dopo l’eccezionale benefìcio di una pace di quarant’anni, di che esso non volle profittare, vennero eccita­menti di una specie diversa. Per non farne una lunga enumerazione, l’anno scorso (ciò che non era mai av­venuto) tutti i flagelli di Dio ad una volta piombarono sul mondo. La peste negli uomini e negli animali; la misteriosa malattia delle uve, dei pomi di terra, della  canna di zucchero e dei vegetali; la fame, la guerra, i terremoti; lo straripamento dei fiumi, e la invasione degli insetti voraci. Fuvvi giammai avvertimento più chiaro e più solenne?

XXV.

Malgrado l’immenso danno, il pubblico benessere non fu seriamente alterato, ed il secolo decimonono, rimasto sordo alla voce della Provvidenza, nulla ha cangiato nelle sue sciagurate abitudini; ma non è esausto il calice dell’ira divina. Fino a che non fu colpito dalla giustizia umana, istrumento della giustizia divina, il Ladrone del Cal­vario proseguì la sua vita di delitti e di brigantaggio; egli non pensava a pentirsi. Ma inchiodato che fu sulla croce, fu tu tt’altro. Nelle strette del dolore, ed in faccia  alla morte, torno in sé; ascoltò la sua coscienza, si  pentì, e fu salvo. Lasciate che l’angelo della giustizia versi fino alla  feccia sul mondo ribelle il calice dell’ira divina. Senza un pronto pentimento, come quello di Ninive, quel calice sarà senza fallo versato. Tal si raccoglie qual si semina: e sì nell’ordine morale, come nel fìsico, questa legge è del pari inflessibile. Allorché dunque pel secolo decimonono sarà venuto  il momento di raccogliere quel che ha seminato di dot­trine sovversive intorno alla religione, alla società, alla proprietà, alla famiglia; e seminato a piene mani ogni giorno su tutta la faccia dell’Europa, non ostante i gridi di allarme di tutti gli uomini sensati, verranno allora i mietitori, e saranno quali si fecero. Sciami di  selvaggi civilizzati, che arruolati in mille tenebrose sètte, si mostreranno in pieno giorno, e faran sentire al mondo spaventato ciò che siano le moltitudini am­maestrate a non creder nulla, fuorché alle disordinate passioni. – Infiammati di un odio senza freno e lungamente contenuto, i novelli barbari faranno quel che già fecero i barbari di altra età. Strumenti della divina giustizia,  come già Nabucco a Gerusalemme, Attila nelle Gallie, Genserico a Roma, quando avranno compita la loro  trista missione, incendiato, saccheggiato, massacrato e dispersa questa civiltà corrotta e corruttrice, che il mondo cristiano affascina e desola, come desolò già il mondo pagano; quando finalmente oppresso dal socia­lismo e dalla barbarie, il secolo decimonono sarà stremato di forze e di coraggio, allora, ci giova sperarlo, griderà: Misericordia! Esso imiterà il modello che la divina provvidenza pare aver fatto per lui, e del quale quest’opera gli ri­chiama la consolante memoria. A solo fine di rialzar l’animo depresso dei più disperati peccatori e dei più cor­rotti secoli (dicono i padri della Chiesa), il Redentore del mondo volle coronare la sua vita con questo splen­dido esempio di misericordia.

XXVI.

E perché il secolo decimonono non vorrà farne suo pro? La scuola della sventura è per eccellenza la scuola della virtù e del ravvedimento. Non con altro mezzo che con la croce il Figlio di Dio ha salvato il mondo, e sulla croce soltanto si salvano le anime e i popoli. Senza dubbio il nostro secolo è un gran peccatore, e quel che è peggio un peccatore indurito. Ma se la voce delle sue iniquità grida vendetta, vi ha un’altra voce che grida misericordia: e come Iddio vuol perdonare, sempre avviene così. E qual’è mai la voce che domanda grazia pel secolo decimonono? La è la voce delle opere cattoliche per ogni dove moltiplicate, per ogni dove animate di novella attività; pie associazioni di carità, pellegrinaggi pubblici, ordini religiosi, apostolato della donna, propagazione della fede e missioni alle più remote parti del mondo. Ella è la voce di tutta quanta la Chiesa, che proclamando il domma dell’Immacolata Concezione di Maria, obbliga in certo modo la Regina degli Angeli a far prova della sua gran potenza; la Madre delle misericordie a disarmare lo sdegno di Dio; l’Èva novella a schiacciare anche una volta la testa del serpente. Ella è la voce degli eroici sacrifici, lo spettacolo dei quali impone l’ammirazione, e rivela tesori dj fede, riposti in cuori di venti anni. La è la voce del sangue il più puro generosamente versato per la causa di Dio e della Chiesa. La è la voce della lunga agonia dell’immortale Pio IX calunniato, tradito, spogliato e perseguitato come il suo divino maestro, e mansueto come Lui. – E chi può dire quanto pesino sulle divine bilance tante lacrime, tante preghiere, tante elemosine, tanti sacrifici, tante opere sante generosamente effettuale, e tante sofferenze accettate con la coraggiosa rassegnazione dei martiri? Quel che noi sappiamo si è che in questo solamente è fondata la speranza del secolo decimonono.

XXVII.

Gli verrà obbiettato. « L’opera vostra non conseguirà il suo intento. Il secolo decimonono è un essere collet­tivo. P arlare ad esso è parlare a tutti in generale: e parlare a tutti in generale, egli è lo stesso che non parlare ad alcuno. Predicazione nel deserto, vano rumore di cembalo risonante, tal sarà la vostra parola. Che val dunque cotesto libro? Quale importanza può avere?  In un secolo come il nostro, dove mai troverà lettori? »

XXVIII.

A che val questo libro? Senza dubbio il secolo decimonono è un essere collettivo; ma l’essere collettivo  si compone d’individualità. E queste hanno orecchie  per sentire, una coscienza per giudicare, e mente e cuore per volere. Arrivando ad esse la parola, indiriz­zata a tutti, si individua e può diventare efficace. Del  rimanente, tal è la condizione di ogni parola pubblica,  scritta o parlata; e potrà dirsi che sia del tutto inutile? Oggi pure, come sempre, la parola è quella che governa  il mondo.

XXIX

Riflettiamo poi che per esercitare una potente in­fluenza, non è necessario che la parola s’impadronisca  di tutti, e neppur di un gran numero al tempo stesso. – Nel bene, come nel male, le rivoluzioni furono sempre il fatto delle minorità. Dodici apostoli rivoluzionarono il mondo. In ciascuno dei diciotto secoli trascorsi si son veduti poveri Missionari levare in rivoluzione cristia­namente intere popolazioni. Il medesimo avviene delle rivoluzioni in senso opposto. Anche oggidì, qualunque sia la grandezza del male, datemi dodici Re, sinceramente convertiti come uomini e come Re; meno ancora; quanti giusti si richiedevano per salvar Sodoma; e non dubitate, avverranno cose maravigliose. Oltre la naturale tendenza ad imitare i  grandi, i popoli del secolo decimonono, bisogna render  loro questa giustizia, son malvagi meno dei loro governi.

XXX.

« Ma i Re non si convertiranno. In luogo di farsi e chiamarsi, come Costantino,  Vescovi al di fuori o come Carlo Magno, i Servitori di Gesù Cristo e i  Sergenti della Chiesa, dimenticheranno sempre più a quali con­dizioni venne lor confidato il potere. Perdendo affatto l’istinto della propria conservazione, eglino e i popoli andranno incontro a inevitabili catastrofi. A che dunque gioverà questo libro? » – Nel pubblicar questa storia, noi prendemmo di mira il bene generale ed il bene particolare. Inutile, a vostro giudizio, pel primo fine, lo sarà pure del tutto pel  secondo? Indicare il solo rimedio ai mali che tanto ci gravano, e alle calamità che ne minacciano; eccitare lo zelo di alcune sante vittime le cui lacrime ed espiazioni possono  far piegare dal lato della misericordia la divina bilancia:  sarà dunque nulla? Far conoscere in tutte le sue parti una meraviglia incomparabilmente più bella che tutti i capo-lavori  dell’Esposizione universale: sarà dunque nulla? – « Se è egli ben fatto, dice la Scrittura, di tener  nascosti i segreti dei Re, è cosa lodevole di rivelare e  annunziare le opere di Dio. » [Tob., XII, 7]. – Or tra tutti i prodigi  della sua destra, havvene uno che sia tanto degno di esser tramandato di generazione in generazione, e cono­sciuto fino all’estremità della terra, quanto quello della conversione del Buon Ladrone? Trarre il mondo dal nulla con una parola, egli è un miracolo dell’Onnipotenza. Con altra parola far di una pietra un figlio di Abramo, egli è un miracolo più grande ancora. Ma di un veterano del delitto, di un  masnadiero già sospeso al patibolo, sul quale espia tutta una vita di furti e di opere di sangue, farne in men ch’io noi dico, un Apostolo, un evangelista, un santo canonizzato ancor vivo, è tale un prodigio che tuttii  secoli non videro il simile, e che nel suo genere supera  tutti gli altri.

XXXI.

« Qual’ importanza può egli aver questo libro? » Non tutti quelli che san leggere sono associati ai perniciosi giornali, grandi o piccoli, né fan loro pasto dei romanzi. Se un troppo gran numero si contenta di mangiar paglia e fieno, ven’ha, grazie al cielo, pur molti di quelli, che conservano gusti più puri, e che vogliono un nutrimento più sano. Sarà forse senza importanza offrire ad essi un ali­mento, che risponda ai loro nobili istinti? Sarà senza importanza forse soddisfare una legittima  curiosità, rilevando delle circostanze, il cui interesse è proporzionato alla grandezza eccezionale del fatto a cui  si attengono? Sarà egli senza importanza, specialmente oggigiorno,  mantenere o risvegliare nelle anime i sentimenti che  le nobilitano e le santificano: l’ammirazione, la confi­denza, l’amore? E non solamente risvegliarli, ma con lo spettacolo di un sublime modello, elevarli al più alto grado di potenza? Sarà senza interesse per tante vittime dello scorag­giamento e della disperazione, trovare nel buon Ladrone la risposta perentoria ai loro dubbi, la calma delle loro  agitazioni di spirito, la guarigione dei loro sinistri pen­sieri, ed una protezione potente presso il Padre delle misericordie?

XXXII.

« In un secolo come il nostro, dove troverà esso lettori? » Egli è pur troppo vero, che il secolo decimonono,  più che ogni altro, è affascinato dalla vanità delle cose mondane e periture. Ciò nondimeno si con­tano ancora nobili intelligenze e dei nobili cuori, i quali vivono altra vita che quella dei sensi. A motivo appunto  dell’atmosfera di piombo, che col suo peso li soffoca, queste anime sentono più costante e più vivo il bisogno di respirare un aer puro, di conoscere ed ammirare  tutt’altra cosa che la materia e le sue manipolazioni,  di sperare ed amare ben altra cosa che pane e sensuali soddisfazioni. E tali saranno i lettori di questo libro.

XXXIII.

Il fatto cui n arra ha luogo nelle regioni superiori  del mondo morale, del quale fa rilevare le sorprendenti  realtà. Due elementi prodigiosamente combinati l’hanno  prodotto: la grazia di Dio nella pienezza della sua effi­cacia e nella rapidità della sua azione; e la cooperazione  dell’uomo in tutta l’energia della sua fede. Contemplandolo, abbiamo sotto gli occhi uno spettacolo che  rende l’anima estatica e ne esalta l’ammirazione. Sommariamente ricordato nell’Evangelio, questo fatto unico e più bello a considerarsi che la stessa  creazione del mondo, fu accompagnato da circostanze generalmente poco conosciute e nondimeno, per più  rapporti, di un serio interesse. Queste da un canto aprono dei nuovi orizzonti allo studio dell’antichità;  dall’altro canto, rannodando la storia sacra alla profana, rischiarano il sacro testo, raffermano la fede del cri­stiano, e danno una smentita di più a chi non presta  piena fede al racconto evangelico. Il metterle in rilievo è, fra gli altri, intento di quest’opera.

XXXIV.

Ingolfarsi nelle cose materiali, e per naturale con­seguenza, la ignoranza del mondo morale, delle sue leggi e delle sue magnificenze, non è la sola piaga del1’epoca nostra. Altre ve ne hanno vive non meno, e che di giorno in giorno tendono a dilatarsi: e da que­ste non son esenti gli stessi cristiani. Per gli uni par­liamo dell’indebolimento della fede; per gli altri del  manco di fiducia nella misericordia di Dio. – Questa fede, la quale se raggiungesse la grandezza  di un granello di senapa varrebbe a traslocar le mon­tagne; questa fede che nella persona dei primi cristiani  vinse l’intero mondo, e nei loro discendenti potrebbe  rigenerarlo; questa fede che dà ali alla preghiera, la conduce fino al trono di Dio, e ve la mantiene fino a  che l’Altissimo l’abbia esaudita; fede che in ogni tempo ha operato un sì gran numero di strepitose conversioni,  ed ottenuto contro ogni speranza, tanti insigni favori,  questa fede, nelle grandi masse, va pur troppo visi­bilmente mancando.

XXXV.

Ora come ravvivarla? Col mezzo di grandi e luminosi esempi, « Come il fuoco, dice un antico autore, non è mai così necessario quanto nel rigore dei più ge­lidi inverni; così gli esempi di grandi e luminose virtù non son mai più utili ed opportuni, che quando il mondo è pieno di grandi vizi. Ed ancorché questi esempi non siano di persone viventi, ma di già morte da tanti se­coli; ciò nondimeno, come le reliquie dei loro corpi, benché ridotti in polvere, hanno ancora una virtù di­vina da far miracoli, e le loro stesse immagini valgono talvolta, per la divina grazia, ad operare la conver­sione dei peccatori; così la storia della loro vita è una delle più preziose reliquie che di loro ci rimangono, e l’immagine della bellezza della loro anima, la quale è immortale, può ben tirare le benedizioni del Signore  nello spirito e nel cuore dei lettori, per la virtù che  lo Spirito Santo ha impressa in quelle antiche e mira­bili fatture della sua grazia, e per la potenza dell’intercessione di quei gran santi a pro di coloro che li invocano leggendo la loro vita. E queste parole non bastano a dimostrare l’utilità della storia del buon Ladrone? Se havvi un più grande  esempio di fede e di tutti gli effetti della sincera fede;  l’amor di Dio, il disprezzo del rispetto umano, il co­raggio a tutta prova, certo i Padri della Chiesa nol  conobbero. E farlo rivivere, non è forse apprestare un rimedio di grande efficacia ad una delle più gravi in­fermità del secolo nostro?

XXXVI.

Veniamo alla diffidenza della misericordia di Dio. Questa infelice disposizione, che in molte anime altronde fedeli costituisce come il fondo della lor vita, ne forma  anche il tormento e il pericolo. Vedendo in Dio più un  giudice severo che un padre misericordioso, essa fa trovar duro e pesante un giogo dall’istesso Nostro Si­gnore dichiarato soave e leggero; offusca la pietà, frange l’energia del bene, e ingenera il tedio e lo sco­raggiamento. – Ben fortunate le sue vittime se non le conduce alla finale disperazione dopo aver abbandonato il freno a tutte le loro passioni. O non è dessa sanabile, o la guarigione di questa terribile malattia è nella storia che noi prendiamo a narrare. Dopo aver veduto spa­lancarsi la porta del cielo ad un ladro insigne, chi po­trebbe più disperare? Quis hic desperet, sperante ladrone!

XXXVII

A coloro poi che sotto qualsiasi forma di condotta  avessero avuto la disgrazia d’imitarne la vita, il Buon Ladrone insegna imitarlo nella sua morte. – Sia pur  gravata di delitti e d’iniquità la vostra coscienza (egli lor dice) e presso al termine la vostra vita, un istante di sincero pentimento basta per chiudervi le porte dell’inferno ed aprirvi quelle del cielo. Ricordatevi soltanto che Quegli che ha promesso il perdono, non ha già pro­messo il domani. Profittate adunque dei giorno che ancor vi rimane. Bentosto verrà la notte e non avrete più tempo a pentirvi. » – L’istoria del Buon Ladrone non è solamente un in­coraggiamento per i più gran peccatori, ma è pur anche un punto di appoggio pel sacerdote, il quale è chiamato ad assistere al peccatore moribondo negli Ergastoli, nelle Prigioni, negli Ospedali, nel tugurio del povero, e troppo spesso ancora nel palazzo del ricco. Quanto mai gli bisogna contare sui tesori dell’infinita miseri­cordia di Dio! Potrà egli vederla brillare di una luce più  rassicurante, che nella conversione di Disma crocifisso? Render popolare questa mirabile conversione, egli è un secondare i disegni pietosi del Padre delle misericordie, del Dio d’ogni consolazione. Egli è un prevenire  la disperazione, non già un incoraggiare al male; pe­rocché sul Calvario, presso la Croce a destra v’è pur la croce a sinistra. Egli è uno stimolo non già al di­sprezzo, ma all’amore di un Dio, la cui paterna bontà, come la giustizia, confonde la ragione umana. Possa quest’opera contribuire a formare in coloro  che la leggeranno, disposizioni conformi alle intenzioni mille volte adorabili di Colui che venne a cercare e salvare, senz’alcuna eccezione, quei che si erano per­duti. « Venit enim Filius hominis quærere et salvum facere quod perierat [Luc. XIX, 10] ».

 

 

J.-J. Gaume: IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (14)

CAPITOLO XXVIII

FINE DELLA RISPOSTA ALLE OBIEZIONI

Non contenti all’avere distrutto la prima obbiezione che viene opposta al ritorno dei classici cristiani, dimostrando che la restaurazione generale delle scienze, delle lettere e delle arti è anteriore al Rinascimento, noi prendemmo l’offensiva affermando che quello è l’epoca e la cagione principale del decadimento e della corruzione della lingua latina in Europa. Questo è ciò che ci rimane a provare. Noi non sappiamo più il latino! Ecco quello che ripetono, a chi li vuole ascoltare, gli uomini i più interessati a sostenere il contrario. Vari anni fa, un eminente funzionario della francese Università diceva in una pubblica scrittura: « L’insegnamento è limitato ad un piccolo numero, è inutile e pericoloso per la più parte di coloro che sono compresi in questo numero, è incompiuto e cattivo per tutti. Anche il greco ed il latino, questi oggetti speciosi degli studi collegiali, sono male insegnati: prova ne sia che tutti gli studenti ignorano il greco, e che nessuno sa bene il latino. Del rimanente, per il valore scientifico dell’insegnamento in Francia esiste un’infallibile pietra di paragone: e sono gli esami detti del baccellierato. Ebbene! io lo dichiaro francamente; sette anni fa io diedi per la prima volte di tali esami, e da sette anni in qua non ho trovato un solo candidalo su dieci, che rispondesse soltanto passabilmente (Lettera del sig. Gaziano Attutali, profess. di lat.. alla Facoltà diLettere di Tolosa.) ».Noi non sappiamo più il latino ! Ecco ciò che il senso intimo dice piano ad ognuno di noi! Uscendo di collegio, appena se i più valorosi fossero stati capaci di leggere senza dizionario una pagina di Cicerone o di Tacito; ma per fermo non un solo sarebbe stato nel caso di sostenere una conversazione od una discussione latina un po’ estesa. Oggi è anche peggio; la nostra memoria non conserva del latino se non ricordanze così indebolite, che ad eccezione di coloro i quali fecero, per istato loro, della lettura delle opere latine 1’occupazione ordinaria della loro vita, noi non oseremmo arrischiarci a spiegare un passo d’ un autore alcun che difficile, né forse tradurlo senza traduzione, ed ancor meno scrivere in latino i nostri pensieri. [stendiamo un velo pietoso sul sistema scolastico italiano, nel quale non solo gli studenti sono incapaci di balbettare anche qualche sillaba, ma ancor più gli insegnanti – si fa per dire – non hanno più alcuna nozione delle lingue barbare del passato, sia per ciò che concerne grammatica e sintassi, sia per quanto attiene alla letteratura – ndr. -] Noi non sappiamo più il latino! Ecco ciò che provano i fatti. Che sia vero, ad esempio, che il discorso in latino, pronunciato da tempo immemorabile al gran concorso dei collegi di Parigi da una delle sommità universitarie, si farà d’ora in poi in francese, per risparmiare alla dotta corporazioue i quolibet coi quali il latino dei suoi professori fu accolto da più anni? Che sia vero che uno dei motivi per cui non s’insegna più in latino né la filosofia, né il diritto Romano, sia la difficoltà, non oso dire per il professore, ma pei discepoli, di esprimere chiaramente e facilmente i loro pensieri in tale lingua? Non solo noi non sappiamo più né parlare, né scrivere latino, ma neppure giudicarne. Il fatto seguente è noto a tutta Francia. – Verso l’anno 1825, il dottissimo cardinale Mai, bibliotecario di Propaganda, scoperse una parte della Repubblica di Cicerone e la fece stampare. Alcuni esemplari ne giunsero a Parigi. Fra le persone, nelle cui mani vennero dapprima, eranvi un sostituto d’uno dei grandi collegi della Capitale ed un padre di famiglia, il cui figliuolo seguitava il corso di esso collegio. Ora, il maestro aveva giudicato conveniente di tradurre in francese una pagina ritrovata di Cicerone e di darla per tema ai suoi discepoli: egli era sicurissimo che nessuno potrebbe saccheggiare (copiare altrove il lavoro). Il padre, esaminando a caso il tema di suo figlio, conosce donde fu tolto e detta ei medesimo al figliuolo la pagina latina di Cicerone. La copia viene rimessa con le altre. Il sostituto trovandosi occupato, il tema è corretto dal professore titolare, che non sa donde sia stato tolto. Dopo un maturo e coscienzioso esame, ei riconosce che cinque discepoli avevano tradotto meglio che non colui il quale aveva copiato; in modo che Cicerone non fu se non il sesto della classe di colui! – Noi non sappiamo più il latino! Eppure si consacrano sei o sette anni ad impararlo; si spendono in libri ed in professori somme immense. Sembra, vedendo la grande importanza che è data a questo studio, che noi dovremmo essere i più solenni latinanti del mondo. Donde mai deriva siffatto indebolimento nella conoscenza d’un idioma sul quale riposa però tutto quanto il sistema della nostra pubblica istruzione ? Oltre varie cagioni, la cui esposizione ci trarrebbe troppo lungi, una ve n’ha che devo indicare, sia perché è la prima, sia per giustificare la proposizione enunciata più sopra. Lo studio d’una lingua morta presenta già di per se difficoltà abbastanza grandi. Queste difficoltà crescono quando la lingua da studiare è quella di un popolo, le cui idee, i cui sentimenti, la cui religione, le cui istituzioni, i cui usi, la cui vita pubblica e privata sono totalmente diverse dalle nostre. Il giovinetto non trova né nella sua prima educazione, né nella società in mezzo alla quale egli vive, alcuna o quasi alcun’idea corrispondente a quella del mondo di cui è condannato a studiare la lingua; egli deve indovinare ed il senso delle parole ed il senso del pensiero. In questo mondo affatto nuovo per lui, egli non sa come orizzontarsi; il più delle volte cammina a tastoni, si vede fermato da difficoltà insormontabili ch’egli sfugge cadendo in contro-sensi, e finisce con disgustarsi di uno studio che rimane sempre per lui come una fatica, senza mai essere un piacere. – Ecco (ne chiedo a testimoni tutti coloro che fecero le loro classi), ciò che avvenne ad ognuno di noi. Lo stesso succedette a tutti i nostri predecessori dopo il Rinascimento del paganesimo letterario. Ci si fa studiare la lingua latina pagana, cioè la lingua di una società che non ha nessun rapporto con la nostra; una lingua il cui procedere traspositivo non rassomiglia in nulla al procedere logico della nostra lingua materna; una lingua, il cui fondo si compone d’idee, di fatti e di cose, alla cui intelligenza nulla ci ha preparati. Quindi, l’estrema difficoltà d’imparare; quindi, l’imperfetta conoscenza che noi acquistiamo di questa lingua, per non dire l’ignoranza nella quale rimaniamo. – Diversamente avveniva prima del regno del paganesimo classico. Si studiava dapprima la lingua latina cristiana. Questa sola parola lascia trasparire quante difficoltà di meno si opponevano ai progressi del giovinetto. Come madre delle nostre lingue moderne, la lingua latina cristiana presenta relazioni mirabili, e numerose, con l’idioma materno. Aprendo il suo libro latino, il giovane discepolo ritrovava lo stesso procedere semplice e naturale; poco o nulla di inversioni; lo stesso fondo d’idee ch’egli aveva acquistato nella sua prima educazione. La sua intelligenza cristiana indovinava senza pena una parte dei pensieri nascosti sotto una forma estranea. Ei si orizzontava agevolmente in quel mondo che non era più nuovo per lui. A ciascun passo incontrava nomi, fatti, cose, con cui le sue prime letture, la conversazione con sua madre, le istruzioni del sacerdote lo avevano da lungo tempo reso famigliare. Lo studio del latino non era quasi più per lui se non un affare di memoria. Bentosto il piacere congiungevasi al lavoro, perché l’intelligenza entrava facilmente di mezzo, e quegli imparava rapidamente la lingua latina cristiana, la parlava senza pena e la scriveva correttamente. Ecco quanto attestano tutti i monumenti di quella epoca. – Ciò è vero, dicono, ma ei non conosceva la lingua del secolo di Augusto, la bella latinità. Rispondo primieramente, ch’ei conosceva almeno uno dei due idiomi latini. In questo era a noi superiore, poiché dimenticando la lingua latina cristiana per darci esclusivamente allo studio della lingua latina pagana, noi riuscimmo a non sapere né luna né l’altra. Rispondo poi che nulla è più falso quanto il credere e il dire che prima del Rinascimento gli spiriti colti ignorassero la lingua del secolo di Augusto, la bella latinità. Me ne appello alla buona fede di tutti gli eruditi, e li prego di dire se prima del Rinascimento si possedessero, si leggessero, si ammirassero con minore intendimento e buon gusto, di quello che poscia fu fatto, le grandi opere dell’ antichità? Rispondo finalmente che la bella latinità non è solo, come noi provammo, la latinità del secolo di Augusto, ma ancora, e soprattutto, la latinità dei grandi secoli cristiani. – La prima obbiezione che noi esaminammo è dunque falsa del tutto, giacché riposa per intero su una confusione d’idee e di parole condannate dai fatti, ma ostinatamente conservata nella discussione dai partigiani del paganesimo classico. – La seconda obbiezione consiste nel dire che il rimedio, cioè la sostituzione dei classici cristiani ai classici pagani, è impossibile, poiché il baccellierato richiede imperiosamente lo studio degli autori profani. Ed io chiedo, per prima risposta, se sia o no vero, che l’uso esclusivo dei libri pagani nell’educazione è uno dei motivi che maggiormente contribuirono a corrompere i costumi, a pervertire le idee da tre secoli in qua, ed a condurre la società sull’orlo dell’abisso in cui siamo minacciati di vederla sparire? Chiedo inoltre se si possa o no continuare, per una considerazione qualunque, un simile sistema? Supposto che il baccellierato sia un invincibile ostacolo all’adozione di un cammino contrario, ne segue che la questione è impegnata tra la società ed il baccellierato: e poiché la è questione di vita o di morte, ne conchiudo semplicemente che bisogna sopprimere il baccellierato per lasciar vivere la società. Se dunque la società è ancora guaribile, e se i l rimedio proposto è necessario, noi siamo in diritto di affermare che un tal rimedio è possibile. Rispondo di più, che i classici cristiani non sono solo necessari alla Francia, ma all’Europa intera. Ora, grazie a Dio, l’Europa intera non è condannata al baccellierato. Libero dunque ad essa di fare, quando voglia, la riforma che può assicurare 1’avvenire. Finalmente rispondo, che i l Consiglio Superiore stabilito dalla nuova legge sulla pubblica istruzione può pure, quando lo voglia, modificare il programma degli esami da subirsi dai futuri baccellieri. Invece di non farvi figurare se non autori pagani, esso può, senza danno per la letteratura, per la società, per la religione, diminuirne il numero, e chiedere che i giovani cristiani siano tenuti di conoscere a l meno i principali autori cristiani. Può eziandio (il che è ben più conforme alla libertà) contentarsi di esigere dal candidato che sappia il latino, senza obbligarlo ad impararlo in un’opera piuttosto che in un’altra. Oso affermare che, così facendo, il Consiglio Universitario renderà il maggior servizio possibile alla patria, e se eccita le ingiurie dei tristi, avrà per compenso l’approvazione di tutti gli uomini saggi, che seriamente si occupano dell’avvenire. – Passando dal ragionamento alla pratica, noi sosteniamo che simile rimedio è benissimo applicabile. Qui è il luogo di dire tutto quanto il nostro pensiero. Una grande legge sociale fu violata nel XVI secolo. La fonte cristiana, destinata a togliere la sete alle generazioni cristiane, fu mutata in una fonte pagana, e l’educazione diventata pagana produsse una società pagana, ed in seno a questa società noi vedemmo svilupparsi tutte le idee e tutti i vizi del paganesimo. Noi chiediamo un termine a sì strana aberrazione; noi chiediamo che l’ordine venga ristabilito nell’educazione per rientrare nella società; noi chiediamo in conseguenza che i filosofi ed i retori di Atene o di Roma non siano più i soli, né i principali pedagoghi della gioventù cristiana; che autori cristiani adempiscano oramai sì nobile, sì delicata funzione. – Vogliamo noi con ciò escludere gli autori profani? Quando lo volessimo, noi non saremmo se non gli echi dei più grandi uomini e dei più grandi secoli della storia moderna. Ma rassicuratevi, noi vogliamo semplicemente che l’accessorio cessi di essere il principale. Ora, in fatto di educazione cristiana, voi ci concederete senza pena che il paganesimo è solamente l’accessorio, e che a questo titolo il suo posto non deve essere se non secondario. Giacché voi gli date importanza, noi vi concediamo che il giovinetto cristiano abbia a conoscere due società, quella di cui è figliuolo e che deve un giorno servire e onorare; e l’altra ch’egli può ignorare senza danno per la sua felicità o per quella dei suoi simili. Gli autori cristiani sono gli organi della prima, gli autori pagani della seconda: a voi sta di fissare il loro posto rispettivo. Qui io vi vedo uscir fuori con una nuova impossibilità. Voi dite: « Non è possibile studiare a un tempo gli autori cristiani e gli autori pagani; il tempo delle classi non lo permette. Non adottando se non classici profani, appena se ne possono spiegare alcuni, e fra quelli che si spiegano non ve n’ha quasi alcuno che si veda per intero. Il maggior numero dei giovani escono dalla retorica senza avere mai letto, ed ancor meno spiegato Virgilio, Ovidio, Orazio e Quinto Curzio da capo a fondo. Che sarà se voi date loro anche autori cristiani? ». Ecco appunto l’inconveniente dell’uso dei classici pagani nell’educazione. La difficoltà estrema d’imparare la lingua d’una società totalmente diversa dalla nostra, condanna la gioventù ad uno studio lungo e ingrato, e le toglie il tempo di leggere gli autori; a più forte ragione poi di sviscerarne alcuno. Un tale inconveniente sparisce, almeno in gran parte, se voi fate studiare prima la lingua latina cristiana (Bisognerebbe pure modificare il metodo attuale d’imparare le lingue. Un metodo che richiede sei o sette anni per imparare una lingua che in fin dei conti non si sa poi, non può essere essenzialmente buono). La facilità con cui il discepolo la impara, gli lascia tempo da leggere molto latino. Alla sua volta questa lettura abbondante gli dà una meravigliosa facilità per capire la lingua latina pagana, di cui, in fine, le parole sono in generale le stesse che quelle dell’idioma cristiano. D’altra parte, quand’egli fosse vero che 1’uso dei classici cristiani diminuisse un poco lo studio dei classici pagani, qual danno tanto grave ne potrebbe mai derivare? Conoscere un po’ meno Fedro ed Esopo, ed un poco più la Sacra Scrittura; un po’ meno Ovidio e Virgilio, ed un poco più i Salmi e i Profeti; un po’ meno Cicerone e Demostene, ed un poco più San Gregorio e San Crisostomo, sarebbe forse ciò un nuocere allo sviluppo dell’intelligenza, un falsare l’educazione, un compromettere la società, un oltraggiare il senso comune? Noi crediamo dunque, e l’esperienza lo conferma, che cominciando dal far imparare esclusivamente la lingua latina cristiana, non solo si possano vedere i principali autori pagani che servono di presente da classici, ma anche vederli molto meglio. Il giovinetto conoscerà tutto ciò che egli conosce, e lo conoscerà meglio. Di più, conoscerà una lingua ed autori che non conosce in verun modo. Cosi rassicuratevi, il baccellierato che inspira tanta sollecitudine, nulla avrà a soffrire. Soltanto la sua influenza sarà meno funesta alla gioventù ed alla società: ecco tutto. – Ho io d’uopo di aggiungere, che, nella sua forma attuale, il baccellierato non ha alcuna promessa d’immortalità? che l’interesse il più serio dell’avvenire richiede ch’esso venga o soppresso o profondamente modificato? Il mezzo di ucciderlo o di mutarlo è precisamente il mezzo che noi proponiamo. Inutile ancora il dire che per buona sorte il baccellierato non è obbligatorio per il clero; che il clero può dunque immediatamente e con gran vantaggio adottare i classici cristiani. Ora, si “È ANCORA DAL CLERO CHE DEVE COMINCIARE, COME TUTTE LE ALTRE, QUESTA RIFORMA DECISIVA PER LA RELIGIONE E PER LA SOCIETÀ. Per ultima obbiezione si dice: « Il rimedio sarà inefficace, poiché con classici cristiani il professore può sempre, quando Io voglia, formare discepoli pagani ». Rispondo in primo luogo, che la cosa sarà meno focile che noi sia oggidì. In secondo luogo rispondo, che con classici cristiani, i cattivi professori diventeranno sempre più rari, e che i buoni diventeranno eccellenti: è questo il caso di applicare il proverbio: Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei. Rispondo in terzo luogo, che, se con classici cristiani un cattivo professore può formare discepoli pagani, un buon professore non può, in regola generale, con classici pagani formare discepoli cristiani : tre secoli di esperienza stanno dietro di me per provarlo. Ecco la grandissima differenza che separa l’uno e l’altro sistema. Ridotta alla sua più semplice espressione, questa diversità significa che, se i classici cristiani non possono, per colpa degli uomini, salvare in Europa la religione e la società, i classici pagani, malgrado tutti gli sforzi degli uomini, perderanno infallibilmente e senza scampo la religione e la società nell’Europa intera. Quando pure le probabilità di successo fossero ancora più deboli che voi non supponete, io domando se sia lecito esitare un sol momento sull’uso dei classici cristiani. Fra due rimedii, dei quali l’uno ucciderà per fermo l’ammalato, e l’altro offre qualche probabilità d’efficacia, la coscienza non ingiunge forse al medico, in modo sacrosanto, di rigettare il primo e di servirsi del secondo?

[Oggi il buon Abate Gaume stramazzarebbe apprendendo che la gioventù attuale si forma con i libri del maghetto Henry Potter, dei Ninjia, dei Pokemon. Ma per fortuna ora egli vive nella Eternità beata e gode dei frutti del suo instancabile lavoro di “allerta alla società!” Che il Signore lo abbia in gloria! – ndr.-]. (Continua)

DOMENICA II dopo PENTECOSTE

Introitus Ps XVII:19-20.

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me. [Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.] Ps XVII:2-3

Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus. [Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.] Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]

Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis. [Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III:13-18

“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”

I Omelia

[Mons. Bonomelli. Omelia, vol III – Torino 1899, Omel. V]

“Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere stati tramutati dalla morte alla vita, perciò amiamo i fratelli. Chi non ama, resta nella morte. Chiunque odia il fratello suo è un micidiale; ora voi sapete, che nessun omicida ha la vita eterna in sé. In questo poi abbiamo conosciuto la carità di Dio, ch’Egli diede per noi la sua vita, e noi dobbiamo per i fratelli dare la vita. Ora se alcuno ha dei beni di questo mondo, e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio alberga in costui? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non in parole e colla lingua, ma coi fatti e colla verità. „ (S. Giovanni, I . c. III, vers. 13-18). –

Voi stessi avrete compreso, che queste sentenze debbono appartenere all’apostolo della carità, S. Giovanni. Gli scritti di questo diletto discepolo di Gesù Cristo, e specialmente la prima delle sue lettere, dalla quale è tolto il brano che avete udito, hanno un carattere tale, una fisionomia sì spiccata, che è impossibile non riconoscerne tostamente l’autore. – Pressoché tutte le sue sentenze sono un’armonia continuata, una variazione stupenda di due soli motivi fondamentali, l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Nessuno degli autori ispirati del nuovo Testamento meglio di lui mise in luce l’indole e la natura della legge di grazia, che è l’amore, secondo quella sentenza di nostro Signore, che disse: “La legge ed i profeti si compendiano nella carità “Ex quo universa lex pendet et prophetæ”.– Nessuna meraviglia pertanto che negli scritti di Giovanni, e nominatamente nella prima lettera, siano frequentissime le ripetizioni. Narra S. Girolamo, che l’evangelista e l’Apostolo della carità, già nonagenario, era portato a braccia dai discepoli in mezzo alla radunanza dei fedeli, affinché rivolgesse loro qualche parola di edificazione. Ed egli non faceva che ripetere queste parole: “Miei figlioletti, amatevi tra di voi. „ Annoiati i fedeli, gli domandarono, perché dicesse sempre la stessa cosa; ed egli, scrive S. Girolamo, diede una risposta degna di lui: “Perché, disse, è comando del Signore, e se questo si osserva, basta. „ La lettera, che abbiamo di lui, sì direbbe essere la fedele ripetizione della esortazione, che l’Apostolo faceva alle pie adunanze, delle quali fa cenno Girolamo. – Se voi pertanto udrete, anche in questa omelia. ripetuta più e più volte la stessa verità dell’amore fraterno, non vogliate meravigliarvi: né annoiarvi: è precetto del Signore, e se questo si adempie, basta. Seguitiamo dunque il maestro e l’Apostolo della carità, e meditiamone le sante parole. Perché possiate intendere meglio la spiegazione dei versetti sopra riferiti, è mestieri rifarci alquanto indietro e rilevare il nesso che corre tra loro. Quelli che fan male, dice S. Giovanni, perciò stesso che fan male, si mostrano seguaci del demonio, e figli di Dio si palesano quelli che fanno bene. Il grande annunzio, portato sulla terra da Gesù Cristo è l’amore dei fratelli. Il mondo, cioè i cattivi, i seguaci del demonio odiano naturalmente i buoni, i figli di Dio: essi cominciano da Caino, che odiò ed uccise il fratel suo, Abele e continuano sino a noi. Per il che, dice Giovanni: “Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. „ È questa la ripetizione alla lettera d’una sentenza di Gesù Cristo che leggiamo nel Vangelo dello stesso Giovanni: ” Voi non siete del mondo, anzi io vi ho eletti dal mondo, per questo il mondo vi odia „ (XV, 19). Il santo Apostolo non vuole che ci meravigliamo di questo odio del mondo contro i discepoli di Gesù; eppure a me sembra cosa piena di meraviglia, perché quasi incredibile. Questi cristiani, a somiglianza del divino loro Maestro, non fan male a chicchessia; amano tutti come fratelli, a tutti fanno quel bene che possono, anche ai loro nemici più implacabili: sono umili, modesti, pazienti, casti, adorni di tutte le virtù, formano lo stupore degli stessi pagani. Nessuno dunque poteva odiarli, tutti dovevano amarli, od alla men peggio tollerarli. Nondimeno essi sono fieramente odiati, e S. Giovanni afferma che nessuno doveva stupirne: “Nolite mirari si odit vos mundus”. Come ciò? Come si spiega questa contraddizione manifesta del mondo? Il mondo, cioè gli uomini tristi generalmente odiano i buoni e li devono odiare: le tenebre sono nemiche della luce e i tristi sono nemici dei buoni; la virtù di questi è un rimprovero continuo e amaro per quelli: la condotta dei buoni è la condanna dei malvagi, sveglia nei loro cuori il rimorso, li umilia, li offende, li ferisce, e perciò non vorrebbero vederli, né udirli, e se fosse possibile li vorrebbero sbanditi dalla terra. L’odio dei malvagi contro dei buoni, più che dalla ragione, e dalla riflessione, deriva dall’istinto, nasce dalla natura delle cose; è l’odio del lupo per l’agnello, del cane che si getta sulla lepre: non provocati e nemmeno stimolati dalla fame, il lupo sbrana l’agnello, il cane insegue e addenta la lepre, e l’uomo tristo si strugge di odio contro il virtuoso. Il mondo ha odiato e perseguitato gli Apostoli, tutti i Santi, il Santo dei santi, Gesù Cristo: e noi stupiremo che odi e perseguiti quelli che camminano dietro a Lui? – Il mondo ci odia, come Caino odiò Abele, e i Giudei odiarono Cristo: quale conforto possiamo avere? Questo: “Noi sappiamo di essere stati tramutati dalla morte alla vita „ – Che importa a noi l’essere odiati e perseguitati da questo mondo perverso? Noi camminavamo nelle tenebre dell’errore: eravamo noi pure figli di questo mondo riprovato e morti a Dio; ora, per sua grazia, siamo usciti da queste tenebre, ci siamo separati da questo mondo, siamo sfuggiti alla morte, e pel Battesimo e per la fede siamo entrati nel regno della vita. E come lo sappiamo noi? Quale prova ne abbiamo? Questa è sicurissima: “Che amiamo i fratelli, – Quoniam diligimus fratres„ Segno infallibile che abbiamo la vita della grazia, a cui risponderà a suo tempo la vita della gloria, è il sentire in noi stessi l’amore verso de’ fratelli. Non dubito punto, che con la parola fratelli, qui usata, S. Giovanni intenda non solo i fratelli nella fede, ma tutti indistintamente gli uomini, anche non credenti e nemici, perché anche questi sono fratelli. E invero S. Giovanni in questo luogo vuol mettere sottocchio ai suoi lettori cristiani il contrassegno indubitato, ch’essi sono nel regno della vita divina, e lo mette nella carità fraterna. Se questa carità fosse stata circoscritta ai pochi cristiani, che allora esistevano, ad esclusione di tutti gli altri, come poteva essere un segno ch’essi erano trasportati nel regno della vita, nel regno di Gesù Cristo? Anche gli Ebrei, anche i pagani, fino ad un certo punto si amavano tra loro, almeno i congiunti, almeno gli amici, i conoscenti, i connazionali, mase noi pigliamo questa parola “fratelli, nel senso amplissimo, in quantoché abbraccia tutti gli uomini, allora ci dà veramente il carattere sovraumano e divino della carità. “Noi, così S. Giovanni, abbiamo una prova d’essere figli di Dio in questo che amiamo tutti gli uomini e tutti li teniamo in conto di fratelli, anche quando ci odiano, ci calunniano e ci perseguitano. „ Questo amore universale, sì generoso e sì costante all’uomo è impossibile con le sole forze della natura: esso non può venire che dall’alto, da Dio stesso, è dono al tutto suo, e perciò in esso noi abbiamo la certezza d’essere veri seguaci di Gesù Cristo, e d’avere nei nostri cuori la sua grazia: “Nos scimus, quoniam translati sumus de morte ad vitàm, quoniam diligimus fratres”. – Accennata la carità verso dei fratelli, questo segno caratteristico dei discepoli di Gesù e della trasformazione meravigliosa operata dalla grazia, S. Giovanni, seguendo il suo stile, dirò meglio, il bisogno del suo cuore, mostra il pregio di questa virtù, e scrive: “Chi non ama, dimora nella morte: „ “Qui non diligit, manet in morte”. Chi non ama, cioè chi non ha l’amore dei fratelli, l’amore operoso, che scaturisce dalla grazia, è in peccato, e perciò, ancorché vivo nel corpo, è morto nell’animo. L’anima, per fermo, è immortale per se stessa, come apprendiamo dalla fede e sappiamo dalla ragione: ma priva della grazia, è separata da Dio, e perciò priva della fonte d’ogni vita. Il corpo come e perché è vivo? È vivo in quanto e perché è unito all’anima, che tutto lo penetra ed informa. Separate l’anima dal corpo: che vedete voi? Esso è morto, e va tosto disfacendosi. Così fate che l’anima sia separata dalla grazia, ossia da Dio, essa è come morta. Ora non apparisce la sua morte agli occhi del corpo, come nella stagione invernale non apparisce quali siano gli alberi vivi e quali morti: ma aspettate la bella stagione ed allora vedrete morti i morti e vivi i vivi, Similmente quanto all’anima, e per ragion dell’anima anche quanto al corpo: aspettate la seconda venuta di Gesù Cristo, aspettate: Rispunti il sole di eterna giustizia e vedrete che cosa voglia dire la morte dell’anima e del suo compagno eterno. – L’anima senza la grazia o senza la carità, è in stato di morte. Questa idea della morte desta nello scrittore ispirato un’altra idea analoga, ma che rischiara e ribadisce la prima: “Chiunque odia il fratel suo è omicida. Parmi chiaro che per S. Giovanni il non avere amore per i fratelli è un odiarli, ancorché per sé il non amare non sia sempre odiare, giacché si concepisce uno stato di indifferenza, quasi medio tra l’amore e l’odio. Ma in questo luogo l’Apostolo dice chiaramente: “Chi non ama, odia, e chi odia il fratello è omicida. „ Omicida di chi? Di sé o del fratello? Si può intendere che è omicida di sè, perché non avendo in sé la carità verso il fratello, anzi odiandolo, pecca gravemente, e perciò uccide l’anima sua, e in questo senso disse benissimo S. Ambrogio, che “chi odia, anzitutto uccide se stesso, „ Qui odit, non alium prius quam seipsum occidit”. Ma non sembra questo il senso più ovvio e naturale della sentenza apostolica: essa sembra esigere che l’ucciso non sia chi odia, ma l’odiato. Ma come può dire che chi odia il fratello lo uccide? Non è questa una esagerazione? Tra l’odiare e l’uccidere una persona corre una differenza grandissima. E vero l’odio non è l’omicidio, e guai al mondo se l’uno fosse sempre l’altro: ma ricordiamoci, o fratelli, di un’altra sentenza del Vangelo simile a questa: “Chi avrà rimirata una donna con desiderio di lei, dice Gesù Cristo, ha già commesso peccato con lei in cuor suo „ (Matt. V, 28). Il che vuol dire, che il solo pensiero deliberato di commettere peccato, dinanzi a Dio è come commesso, perché Dio vede e giudica i cuori; similmente in questo luogo S. Giovanni vuol dire: badate, o figliuoli, di non albergare nel vostro cuore odio contro il fratello, perché quell’odio vi porterà a volere il suo male e a desiderare di torgli la vita e a toglierla di fatto. Ed in vero, donde le risse, i ferimenti e gli omicidi? Dall’odio. L’odio partorisce l’omicidio e in quanto ne è causa si può chiamare omicida chi lo accoglie in cuore. Scrive S. Girolamo (Epist. 36 Ad castor.). Grazie a Dio, non sono molti quelli che odiano il fratello: ma quelli che lo vedono di mal occhio, che nutrono rancore contro di lui, che non sanno dimenticare un’offesa ricevuta, spesso immaginaria, che tengono chiuso cuore con lui e se non l’odiano, certo non l’amano, pur troppo sono molti, e non è il caso anche tra persone che si reputano devote. Che dire di costoro? Dio solo legge nei cuori e pesa sulla sua bilancia le colpe degli uomini: ma ciò che è indubitato è, che di questo difetto di carità comunemente non si tiene calcolo o leggero, tantoché le stesse persone non se ne curano. Eppure vi è sempre colpa e tale che spesso apre la via all’odio manifesto. Carissimi! stiamo in guardia e non lasciamo penetrare nel nostro cuore questo mal seme, che traligna facilmente in odio. – Ora, domanda l’Apostolo, qual è la pena riserbata all’omicida? La morte. Dunque, chi odia non può avere la vita eterna. E qui S. Giovanni torna da capo all’idea della carità ed al modello supremo della carità, che è Gesù Cristo, ed esclama: “E in questo noi abbiamo conosciuto la carità di Dio, che Egli diede per noi la sua vita. „ Gli uomini troppo spesso odiano e tolgono la vitaai fratelli loro: Gesù Cristo per contrario ama tutti gli uomini, e li ama per guisa che dà per essi la sua vita. Quale e quanta carità! Qual modello da imitare! E non è fuor di proposito l’osservare come San Giovanni in questo luogo chiami Gesù Cristo Dio, giacché dice espressamente, che noi abbiamo conosciuto l’amore di Dio nel fatto che Egli egli diede la sua vita per noi. Ora chi diede la sua vita e si immolò per noi? Gesù Cristo! Dunque Gesù Cristo in questa sentenza è chiamato Dio. E che dobbiamo apprendere da Gesù Cristo, modello supremo di carità? ” Egli diede per noi la sua vita e noi dobbiamo porre la nostra per i fratelli. „ Questa sentenza di nostro Signore significa forse che noi possiamo sacrificare la vita dell’anima, la vita eterna per la salvezza spirituale dei fratelli nostri? Più che una follia sarebbe un’empia bestemmia il solo pensarlo: la vita dell’ anima è il supremo nostro bene, e per esso tutto devesi sacrificare, non mai esso ad altro bene quale che sia. La vita, di cui parla S. Giovanni e che noi dobbiamo sacrificare per i fratelli, non può essere che la vita del corpo. Ma come? direte voi. Siamo noi obbligati a dare la vita per i fratelli nostri? È questo un Debemus, come dice il sacro testo? E sempre? Ma in tal caso noi saremmo tenuti ad amare il prossimo più di noi stessi, mentre il Vangelo e la stessa natura ci impongono di amare il prossimo come noi stessi, cioè ad imitazione dell’amore, che dobbiamo a noi medesimi. – La risposta è piana e manifesta. L’ ordine della carità vuole che amiamo noi stèssi più dei fratelli, perché ciascuno è più prossimo a sé che non io sia il fratello, e perciò per regola ordinaria nessuno è tenuto a dare la sua vita per salvare quella del fratello. E se lo fa, che diremo noi? Se per salvare chi travolto dalla corrente d’un fiume, chi è circondato da un incendio, altri si getta nel fiume e si slancia tra le fiamme, diremo che viola l’ordine della carità, che merita biasimo? Ce ne guardi il cielo: nessuno è obbligato a far questo, onde se non lo fa, non pecca, perché non viola nessuna legge: ma se 1o fa noi lo saluteremo come un eroe e ci inchineremo riverenti dinanzi a tanta grandezza d’animo, a questo martire glorioso della carità, a questo imitatore del divino Maestro, che diede la vita per noi! – E se accadesse che per salvare la vita spirituale del fratello fosse necessario far getto della mia temporale, sarei io tenuto ad immolarla? Senza dubbio sarei tenuto ad immolarla quando fossi tenuto per ufficio, che tengo. Onde in ogni tempo noi vedemmo sacerdoti, parrochi, vescovi, pastori di anime non esitare un istante a sfidare la morte al capezzale degli appestati negli ospedali e nei lazzaretti per offrir loro i conforti della Religione. Se il soldato, fedele al suo dovere, non paventa la morte sui campi di battaglia per la difesa della patria, per gli interessi della terra, come potremmo esitar noi ad affrontare la morte, allorché si tratta degli interessi del cielo, dell’acquisto della patria superna? No, non vi è sulla terra spettacolo più sublime di colui che offre il sacrificio della propria vita per salvare la vita temporale del fratello: che dovrà essere quando l’offre per salvare non la vita temporale, ma 1’eterna del fratello? – Dopo aver parlato della carità verso dei fratelli in genere e del supremo suo grado, che consiste in dare per essi, se è necessario, anche la vita, il nostro Apostolo discende alla pratica applicazione più comune della carità, e così prosegue: “Se alcuno ha beni in questo mondo, e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio albergherà in costui? „ – La carità, la vera carità si manifesta nelle opere: vuoi tu conoscere se questa carità alberga nel tuo cuore? Guarda alle opere: la bontà dell’albero si conosce e si giudica dai frutti e non dalle foglie. Vedi tu il fratello che soffre la fame? che mal vestito trema dal freddo? che non ha tetto, che lo copra? Che non ha un giaciglio su cui passare la notte? Che infermo non ha chi lo assista? che soffre e non ha chi lo conforti? Qui si vedrà alla prova la tua carità. A te sfamarlo, vestirlo, trarlo, soccorrerlo colla limosina, o meglio ancora, se è possibile, col dargli lavoro, limosina che non umilia: a te, se non puoi aiutarlo del tuo, farti suo avvocato presso chi può soccorrerlo: a te rivolgergli una parola di consiglio, di conforto, aprirgli il tuo cuore affinché egli ti apra il suo. – Il mondo, atterrito, ode grida di minaccia e vede turbe di uomini, che si aggirano per le vie chiedenti pane o lavoro: vede un esercito immenso di sofferenti, che aspettano o vagheggiano 1’ora dello sconvolgimento sociale: il fragore della bufera (che vale dissimularlo?) più e più si avvicina: la marea monta, monta sempre e finirà col passare come un torrente di lava, su tutto il continente, distruggendo tutto ciò che troverà sul suo passaggio. Vi è un rimedio, che ci salvi da tanta rovina? Sì, vi è; ma non è riposto nei discorsi, nei trattati, nei libri dei dotti e nemmeno nelle leggi e nella forza armata, a difesa delle leggi. Esso sta riposto nella gran legge della carità: gli istruiti, i ricchi, i grandi si abbassino, amino davvero i loro fratelli, li ammaestrino, li soccorrano: li soccorrano nel loro superfluo, e sopratutto si mescolino a loro, formino con essi una sola famiglia per quella carità, che tutto pareggia, e la bufera sarà dissipata. La soluzione del tremendo problema, che si agita intorno a noi, è tutta in questi due periodi di S. Giovanni: “Se qualcuno ha beni di questo mondo, e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuderà il suo cuore verso di lui, come mai la carità di Dio albergherà in esso? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non con parole e con la lingua, ma colle opere e in verità. „ Ecco il rimedio infallibile ai mali, che ci minacciano; ecco la vera e pratica soluzione del problema che ci affanna: la eguaglianza, figlia non della forza e della ingiustizia, ma della carità volontaria. – Chiuderò la mia omelia, ripetendo le parole di due Padri della Chiesa: il primo parla al Vescovo e, fatta proporzione, ai preti; l’altro a voi, o laici. Udite il primo, S. Bernardo: “Guai a te, vescovo. Non ti è lecito spiegar lusso con i beni della Chiesa e sprecare in cose superflue: non ti è lecito arricchire: non ti è lecito portare in alto i consanguinei: non ti è lecito fabbricare palazzi: tutto ciò che oltre il vitto necessario ed il semplice vestito tieni dalla Chiesa, non è tuo: è rapina, è sacrilegio! „ – Udite il secondo, o laici: ” Forse che tu non sei spogliatore, tu, che reputi tuo ciò che hai ricevuto per distribuirlo altrui? Quel pane, che tieni per te, è pane dell’affamato: appartiene all’ignudo quella veste, che conservi nell’armadio: allo scalzo spettano quei calzari, che si consumano in casa tua: è denaro del povero quello che crudelmente possiedi. Ondeché tu fai ingiuria a tanti poveri, quanti sono quelli, ai quali potresti porgere soccorso. „

Graduale

Ps CXIX:1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me. [Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]

V. Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja [O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]

Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja. [Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. R. Gloria tibi, Domine! Luc XIV:16-24

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit coenam meam”.

Omelia II

Omelia della DOMENICA II dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

Numero dei Peccati.

E perché al primo rifiuto degl’invitati nell’odierna parabola vien fulminata sentenza fatale di esclusione perpetua dal regno di Dio? Un uomo di qualità, imbandita una grande cena, mandò il suo servo ad invitare molti. Il primo di questi invitati si scusò con dire, aver lui fatto acquisto di una villa, e conveniva si conducesse sul luogo a vederla. Il secondo allegò per scusa aver comprato cinque paia di buoi, e doveva andar a provarli se erano idonei all’aratro. Disse il terzo, che di fresco aveva presa moglie, e gli era impossibile venir al convito. Offeso da questi villani rifiuti quel personaggio, altamente si protestò che niun di costoro si sarebbe mai più assiso alla sua mensa, mai più avrebbe gustato della sua cena. Quest’uomo qualificato, al dir di S. Cirillo e del magno Gregorio, riportati dall’angelico dottor S. Tommaso (in Cat. Aurea), egli è Dio che ha imbandita una lauta mensa delle carni immacolate del divino agnello, ha spedito il suo servo, cioè i ministri della sua Chiesa ad invitar tutti i fedeli, a partecipare di così santo e salutare convito; ma molti ingrati corrispondono a tanta bontà con un rifiuto. E perché, io ripeto, dopo il primo rifiuto gl’invitati dell’indicata parabola sono fulminati con fatale sentenza? Ecco, uditori, una risposta, che racchiude una spaventosissima verità. Compirono con quel rifiuto la misura della loro malvagità. Che in fatti vi sia un certo numero di peccati da Dio stabilito universalmente per tutti, dopo il quale non resti più luogo a perdono, e qual possa essere in particolare per ciascuno quello stesso numero, è ciò che formerà il soggetto della presente spiegazione.

Che il grande Iddio, che tutto ordina dispone ed eseguisce in numero, peso e misura, abbia determinato un certo numero di peccati, compiuto il quale più non accordi perdono, è cosa certa, dice S. Agostino, comprovata dal giudizio di Dio medesimo nelle divine Scritture: “Esse certum peccatorum numerum atque mensuram, ipsius Dei iudicio certissime comprobatur”. Promette infatti Iddio ad Abramo la fertilissima terra di Canaan, ma tu, soggiunge non entrerai al possesso della medesima, finché non sian compiute le iniquità degli Amorrei: “Necdum enim completæ sunt iniquitates Amorrhæorum” (Ge. XV, 16), Gesù Cristo, rinfacciando ai caparbi scribi e ai superbi farisei l’empietà delle loro massime, e la scostumatezza delle loro opere. Compite, dice ad essi, compite la misura dei malvagi vostri genitori: “et vos implete mensuram patrum vestrorum” (Matth. XXV, 32). Lo stesso finalmente conferma l’apostolo nella prima sua epistola (cap. II, 15) a quei di Tessalonica. A rendervi più sensibile questa importantissima verità fatevi tornare a mente l’universale diluvio, allorché Iddio, per castigare con esempio inaudito il peccato della disonestà, tutta sommerse l’umana generazione. Poteva l’onnipotente Iddio in un sol giorno, in un’ora, in un istante affogare nell’acque il mondo intero, pure volle impiegarvi lo spazio di giorni quaranta di pioggia dirotta. Fu questo, dice S. Giovanni Crisostomo, un tratto di misericordia, acciocché in vista di un castigo che aveva cominciamento e progresso, potessero i rei aver tempo a salvarsi; ma fu altresì ripiglia Origene, un atto di sua tremenda giustizia; perciocché nei primi giorni andarono in fondo quei che compito avevano il numero de’ propri peccati, e così nei giorni susseguenti gradatamente restarono sommersi coloro che ripiena avevano la misura dei loro delitti: “Quam mensurasn credendam et fuisse completam ab iis , qui diluvio perierunt(Orig.). Mi chiedete ora qual sia per ciascuno in particolare questa determinata misura? Questa per alcuni è più ampia, per altri è più ristretta. Apriamo di nuovo le divine Scritture: ah, diceva Iddio a Mosè, io voglio una volta disfarmi queste tue genti; e assegnando la cagione della sua collera. È già la decima volta, soggiunge, che questa malnata genìa provoca, il mio furore: “Tentaverunt me iam per decem vices” (Num. XIV, 22). – Lo stesso Dio, parlando dei popoli di Damasco, dice ad Amos profèta: Io perdonerò a questo popolo le sue scelleratezze la prima, la seconda, la terza volta, e non più: “Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum” (Am. I, 3). Ma, Signore, non siete sempre il Dio delle misericordie tanto la prima, che la seconda, la quarta e la centesima fiata? Io sono in natura, in sostanza, in ogni tempo, ma per il popolo di Damasco nol sarò in effetto, se non fino alla terza volta, ma non per la quarta. “Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum”. Ecco dunque per gli Ebrei nel deserto, che la loro misura arriva fino a dieci, e per quel di Damasco fino a tre. Vi sono o esser vi possono ancor più corte misure? O giudizi di Dio tremendi, profondi, inscrutabili! Vi sono purtroppo numeri più ristretti, misure più scarse. Per alcuni talvolta il primo peccato è l’ultimo. Così avvenne agli Angeli nel cielo empireo, così agl’invitati nell’odierna parabola. – Fissate bene le prove di questa formidabile verità, ditemi, fedeli amatissimi, siete voi nello stato d’innocenza? Mi giova il crederlo. Ah! se così, tenetevi ben cara questa gemma preziosa, guardatevi bene di macchiare la candida stola della vostra battesimale integrità, perché il primo peccato potrebbe forse essere l’ultimo, potrebbe cadere su voi quel fulmine improvviso e irreparabile, che colpì gli Angeli prevaricatori, e i convitati dell’odierno Vangelo, come già vi accennai. Se poi, perduta la prima tavola dell’innocenza, vi siete appigliati alla seconda della penitenza, se, abbandonata la strada di perdizione, vi siete incamminati in quella della salute, deh! Per pietà non tornate addietro, non date un passo, non mettete un piede fuor di questa via, perché il primo passo potrebb’essere per voi un precipizio, una caduta, che vi sprofondasse nel baratro sempiterno.Se finalmente foste ancora nello stato di peccato, stato d’inimicizia con Dio, stato di dannazione, uscite per carità da stato sì pericoloso, non aggiungete colpa a colpa, peccato a peccato; perché la bilancia che sta in mano alla divina giustizia è già carica dal peso de’ vostri reati e va ondeggiando, sostenuta, a non preponderare a vostro danno, dalla divina misericordia; ma un altro peccato, che vi si accresca, può farla tracollare a vostra rovina. – Forse alcun di voi andrà dicendo fra sé: “conviene dire che la misura de’ miei peccati sia ben dilatata ed estesa: poiché dopo tanti che ne ho commessi senza numero, senza fine, in ogni genere, in ogni modo, la giustizia di Dio non mi ha fatto sentire neppure il fischio del suo flagello; invece io vivo sano, vegeto, robusto e prosperoso. – Perdonatemi se vi compiango, e uditemi con pazienza. Un orologio montato a svegliarino corre con un leggiero moto e poco si fa sentire tutta la notte, ma giunto al punto fissato da chi lo caricò, ecco un’improvvisa rivoluzione di ruote, uno strepito di martelli, un sì forte trambusto, che sveglia chi anche profondamente dormiva. – Voi al presente dormite tranquillo in seno al peccato, sentite però a qualche ora un leggiero movimento, il rimorso cioè della rea coscienza, che non sa tacere; pur proseguite il vostro sonno, o piuttosto il vostro letargo; ma al giungere di quel punto fatale determinato dal padrone della vita e della morte, si scaricherà su di voi la giusta sua collera, vi sveglierete dalla profonda letargia, aprirete gli occhi, e vedrete il mondo che vi fugge, la morte che v’incalza, l’eternità che vi assorbe, l’ira di Dio che vi sta sopra in atto di fulminarvi, e sprofondarvi all’abisso. Succederà a voi come a tanti pari vostri, uomini di bel tempo, che nel fior dell’età, nel più bello dei loro sozzi piaceri, venuto il fatal punto, furono all’improvviso precipitati all’inferno: “Ducunt in bonis dies suos, et in puncto, notate bene, et in puncto ad inferna discendunt” [finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli negli inferi] (Job. XXI, 13). Questo terribile punto fissato dalla mano dell’Onnipotente, arrivò già per i superbi e rivoltosi Core, Datan e Abiron, “si aprì loro la terra sotto de’ piedi, e vivi vivi piombarono nel profondo dell’inferno”: “Descenderuntque vivi in infernum” (Num. XVI, 33). Questo formidabile punto non preveduto arrivò per l’incestuoso Ammone, e la mano di Dio lo colse sedente a lauto convito, che fu il palco funesto della sua morte. Questo punto non preveduto giunse per l’empio Baldassarre, e la divina vendetta lo colpì, mentre giaceva in un profondo sonno, trucidato dalle spade nemiche de’ Medi e dei Persiani. Questo punto arrivò per Sisara generale di grande armata, addormentato nel padiglione di Giaele, da lungo chiodo dall’una all’altra tempia miseramente trafitto. Questo punto arrivò per l’orgoglioso Oloferne, mentre sepolto nel sonno e nel vino, lasciò la testa sotto la spada della forte Giuditta. Questo punto, a finirla, arrivò per tanti libertini dei nostri tempi, increduli, scostumati, scandalosi, da noi conosciuti, che nella debolezza dei loro animi, e nella bruttezza dei loro vizi affettavano spirito forte, e mascherato patriottismo, colpiti da improvvisa morte nel fiore degli anni, senza sacramenti, senza un segno di religione, senza un atto di cristiana pietà. Per tutti quest’infelici, non è egli evidente che si avverò l’oracolo dello Spirito Santo per bocca di Giobbe: “Ducunt in bonis dies suos, et in puncto – notate di nuovo – et in puncto ad inferna descendunt”? Questo divino oracolo, questa tremenda minaccia si compirà in chiunque mette la sua felicità nelle terrene cose, nei vietati piaceri, nello sfogo delle brutali passioni, in chiunque non teme Dio, non si cura di Dio, calpesta le sue leggi e mena una vita peggiore delle bestie insensate. Sì, miserabili, seguite pure la via del piacere, vedrete ove andrà a terminare: impegolatevi nelle crapule, ubriacatevi nelle sensualità, coronatevi di rose; anche i montoni s’incoronano di fiori, e si lasciano carolare sul prato, ma son già destinati alla scure ed al macello. Cantino pure nella prigione quei scioperati malfattori, si divertano con giuochi villani, con tresche brutali; intanto la sentenza del loro supplizio è già pronunziata dal giudice e spiccata dal tribunale, ed essi nol sanno, e proseguono a ridere ed a cantare. Voi li compiangete; ma ecco il vostro caso precisamente (perdonatemi se vi parlo con evangelica libertà pel bene che vi voglio, per l’amore che vi porto), ecco, diceva, precisamente il caso vostro. È fissato, peccatori restii, il punto di vostra sorte, siete posti sulla bilancia come Baldassarre, tanti peccati farete e non più, tanti saranno i vostri giorni e non più: suonerà per voi l’ultima ora, la vostra sentenza è già scritta in cielo, la vostra condanna è in moto, già ne sento il tuono, già ne veggo il fulmine diretto a togliervi di questa terra, e ad inabissarvi all’inferno. – Ma dove mi trasporta l’amore di giovarvi, peccatori miei cari? Perdonate lo zelo di chi vi amareggia a fin di sanarvi, di chi vi minaccia a fin di salvarvi. Confortate il vostro cuore, e ditegli ch’è ancor luogo a sperare. La misura de vostri peccati è ampia, è vero, ma non è ancor compita: si compie, dice S. Agostino, quando una improvvisa morte colpisce un’anima impenitente; ma fin che Dio vi soffre in vita, è segno che non sono ancor chiuse le viscere della sua misericordia. Cessate da quest’ora dal più peccare: cancellate or ch’è tempo accettevole il chirografo delle colpe con lacrime di contrizione sincera, provvedete ai vostri novissimi, riformate la vostra condotta, intraprendete la via di salute: all’invito che oggi vi fa per mia bocca Iddio pietoso, non allegate scuse, come i convitati dell’odierno Vangelo: un rifiuto vi può costare la vita temporale ed eterna: ricordatevi che il primo peccato può essere l’ultimo, e il sigillo fatale della vostra eterna riprovazione. Che Iddio vi guardi!

Credo …

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Ps VI:5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam. [O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]

Secreta

Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem. [Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]

Communio

Ps XII:6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi. [Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]

Postcommunio

Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza.]

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -III- di mons. J. J. Gaume [capp. XI-XIII]

MORTE al CLERICALISMO -III- [capp. XI-XIII]

CAPITOLO XI

SACRIFICIO UMANO

I.

Abele, Noè, Abramo e gli altri Patriarchi offrivano sacrifici al Signore. satana se ne avvide, e tosto, scimmia di Dio, o piuttosto suo ambizioso rivale, vuole avere anch’esso i suoi sacrifici. E tanta fu sin dal principio la sua formidabile potenza, che ottenne fino dal popolo di Dio vittime umane. È vero che gli Ebrei, durante il loro soggiorno in Egitto, non offrirono mai nessun sacrificio agl’idoli; ma appena usciti dalla schiavitù, cominciarono ad adorare il vitello d’oro.

II.

Bentosto, al contatto delle abominevoli nazioni di Chanaan, immerse nella più licenziosa e sanguinaria idolatria, dovevano essi lasciarsi corrompere e troppo spesso partecipare al loro culto. Il Signore, a premunire il suo popolo contra lo scandalo, dettò a Mose quell’articolo di legge: « Chiunque sacrificherà agli dèi stranieri, sarà punito di morte: qui immolat diis occidetur.» [Exod. XXII» 20]. Poscia il medesimo divieto é rinnovato con pena più grave. « Se qualcuno, dice il Signore, sacrifica a Moloch uno dei suoi figli, sarà punito di morte, e tutto il popolo lo lapiderà; che se il popolo trascurando i miei ordini, non ne fa conto, sterminerò Io stesso il colpevole, la sua famiglia, e tutti coloro i quali avranno acconsentito al suo delitto. » [Levit. XX, 2-5].

III.

Malgrado questi divieti reiterati e le pene terribili comminate contro i prevaricatori, gli Ebrei affascinati dal demonio e dall’esempio dei popoli che essi avevano missione di sterminare, si lasciano trascinare all’idolatria. Disertori del vero Dio, si vedono troppo spesso offrire vittime agl’idoli. Questo è il rimprovero che Mose stesso sul punto di morire fa ad essi: « Hanno offerte vittime agl’idoli, e non a Dio; a dèi sconosciuti, non adorati giammai da’ loro padri. » [Deut XXXII, 19].

IV.

Quali erano queste vittime? Ce lo dice Davide. Delineando a grandi tratti la storia dei suoi antenati, li accusa d’avere offerto al demonio numerose vittime umane e soprattutto vittime preferite, giovanetti dell’uno e dell’altro sesso. « Si mischiarono ai gentili; impararono le loro opere; adorarono i loro idoli, ed immolarono i loro figli e le loro figlie ai demoni!; sparsero il sangue innocente, il sangue dei loro figli e delle loro figlie, cui sacrificarono agl’idoli di Chanaan: quos sacrificaverunt sculptilibus Chanaan. » 1 1.[ Ps. CV; 35, 36].

V.

Trecento anni dopo Davide, Isaia ci mostra il sacrificio umano sempre in vigore presso gli Ebrei, suoi contemporanei. « Non siete voi, loro dice, figli scellerati, una razza menzognera, voi che cercate la vostra consolazione negl’idoli, sotto alberi fronzuti, immolando i fanciulli nelle caverne dei torrenti: Immolantes parvulos in lorrentibtus. » [VII, 5]. – Cento anni dopo Isaia, il Profeta Geremia prova la persistenza del sacrificio umano presso i suoi compatrioti, e ci dice di qual maniera compievasi: « Essi inondarono di sangue la valle dei figli di Ennon; offriron sacrifici agli dèi stranieri, ed innalzaron altari a Baal, per bruciarvi i loro figli in onore di Baal. Et ædificaverunt excelsa Baalim, ad comburendos filios suos igni in holocaustum Baalim. » [XIX, 4, 5].

VI.

Cento anni dopo Geremia, udiamo il Profeta Ezechiele levar la voce contro lo stesso scandalo. « Voi avete, dice il Signore, preso i vostri figli e le vostre figlie, cui avete messo al mondo per me, e li avete immolati agl’idoli per servir loro di pascolo: Et immolasti eis ad devorandum. » [XVI, 20] – Il medesimo rimprovero è nel Profeta Osea il quale ci avvisa che non solo si sacrificavano fanciulli, ma ancora uomini fatti, a somiglianza di tutti i popoli pagani: Immolate homines, vitulos adorantes. [XIII, 2]. Finalmente, il libro della Sapienza ne rivela le abominevoli turpitudini che accompagnavano i sacrificii umani: Filios suos sacrificantes, obscura sacrificia facientes, insaniæ plenas vigilias habentes, etc. [XIV, 23, 27]. – Avveniva lo stesso presso tutt’ i popoli pagani, presso i Romani in particolare, i cui anfiteatri erano ogni giorno accompagnati da terme o fornice». Dopo d’aver preso un bagno di sangue umano, si andava a prendere un bagno di lussuria. Ecco quanto avveniva ogni giorno nella bella antichità.

VII.

La principale divinità dei Cananei, alla quale gli Ebrei immolavano i loro fanciulli, era Moloch. È qui il luogo di far conoscere questo spaventevole demonio. Moloch passava pel Signore degli dèi. Con tal titolo, il suo culto era più comune e più celebre che quello di tutti gli altri dèi, maschi o femmine. Era onorato in due principali maniere, consacrando a lui i fanciulli, ovvero immolandoli in suo onore.

VlII.

La prima maniera consisteva in far passare queste innocenti creature fra due siepi di fuochi accesi, i quali mettevano capo alla statua di Moloch. Il che appellavasi iniziare a Moloch. Cotesto atto d’idolatria era proibito sotto pena di morte. Nondimeno gli Ebrei non se ne astenevano. Era una parodia sacrilega del battesimo. [IV Reg.„ XXIII, 10 ) – [Ier., XXII, 23].

IX.

La seconda maniera, la cui sola memoria fa fremere, aveva luogo come segue: Moloch era rappresentato da una mostruosa statua di bronzo, di forma umana, sormontata da una testa di vitello; aveva larghissime mani, sopra le quali deponevansi le piccole vittime; e un braciere ardente scaldava la statua che era concava. Il fanciullo posto su queste mani incandescenti era ben tosto consumato. Gli spettatori esclamavano che egli era morto tra gli abbraccia di Moloch, che il sacrificio era gradito al dio, e che il fanciullo era sollevato al cielo. Per soffocare le grida dilanianti delle innocenti vittime, i sacerdoti del dio facevano una musica assordante. – Credesi che il Moloch, al quale gli Ebrei sacrificavano i loro fanciulli, avesse una testa di vitello, in memoria del vitello che essi avevano adorato nel deserto. – Se, malgrado i lumi, di cui il Signore li aveva favoriti, malgrado la pena di morte comminata a chiunque sacrificasse agli idoli, gli Ebrei si mostravano talmente inchinati all’idolatria, che per molti secoli inondarono del sangue dei loro figliuoli gli altari dei falsi dèi, si può giudicare anticipatamente di ciò che doveva aver luogo presso le nazioni infedeli. Ne daremo un cenno nel corso di questa opera.

CAPITOLO XII

ASIA ANTICA. — I FENICI. — I SIRI. — I MOABITI. — I GRECI

I.

Uno dei più antichi e celebri popoli del mondo fu quello de’ Fenici. Il loro paese, contrada della Siria, stendevasi lunghesso il mare, dall’Antilibano fino all’imboccatura del fiume Belo. Commercianti attivi ed ardimentosi, essi fabbricarono molte illustri città, Tiro, Sidone, Berito, Biblo, Acri, ed altre ancora. Naviganti audaci, percorsero per molti secoli i diversi mari conosciuti a quell’epoca. Si crede pure che navigassero l’Oceano Atlantico, e facessero il giro dell’Africa. Checche sia di ciò,eglino ricoprirono le coste e le isole del Mediterraneo di lor colonie e di loro stazioni coloniali; fra le quali Cartagine, la rivale di Roma, Ippona, Utica, Gades, Palermo, Lilibeo.

II

Quanto corrotto, altrettanto attivo, nessun popolo poteva esser meglio scelto da Satana, per propagare l’idolatria nel mondo, ed in particolare l’uso barbaro del sacrificio umano, che presso di loro risaliva alla più remota antichità. Uno dei più antichi storici, loro compatriotta, Sanconiatone, i cui scritti ci sono stati conservati da un altro loro compatriotta, Filone di Biblo, cosi si esprime: « Presso i Fenici è un’antica usanza, che nei gravi pericoli, a prevenire una rovina universale, i capi della città e della nazione consegnano i loro più cari figliuoli, per essere immolati, come prezzo del riscatto, agli dèi vendicatori. – È per questo che Crono, re di quel paese, quegli stesso che dopo la sua morte fu consacrato nell’astro che porta il suo nome, avendo avuto da una ninfa della contrada, di nome Anobret, un figlio unico, cui per questa ragione appellò Ieoud, come anche oggidì s’appellano in Fenicia i figli unici; essendo il paese minacciato da grandi pericoli di guerra, rivesti quel figlio degli attribuiti della sovranità, e l’immolò sull’altare, che aveva egli stesso preparato. [Apud Euseb. Præp. evang. lib. IV., c. XVI].

III.

A Laodicea di Siria una vergine era immolata ogni anno a Minerva. « La Scrittura stessa riferisce che Mesa, re dei Moabiti, rifiutando di pagare a Ioram, re d’Israele, il tributo che era solito di pagare al padre, Ioram marciò contro lui insieme con Giosafat, re di Giuda, e col re d’Edom. Mesa, vedendosi stretto e non potendo più resistere a tanti nemici, prese con se settecento uomini di guerra, per forzare il campo del re d’Edom; ma non vi riusci. Allora prendendo il suo primogenito, il quale doveva regnare dopo lui, l’offri in olocausto sulle mura della città, in presenza degli assedianti. » [IV. Reg., III].

IV.

Tali sacrifìci, dice lo storico, erano accompagnati da cerimonie misteriose. Quali erano queste cerimonie? A giudicarne per analogia, egli è verisimile che consistessero in preghiere, in evocazioni, in pratiche superstiziose, e nella partecipazione al sacrifìcio per la manducazione della vittima in tutto, o in parte; al qual proposito, io fo qui un’osservazione, che mi vien sotto la penna. – Noi vedremo che presso la più parte degli idolatri moderni, il sacrifìcio umano è seguito dalla manducazione della vittima. Credere che l’antropofagia sacra fosse sconosciuta presso i popoli del mondo antico, sarebbe un errore. Fino al secolo nono essa vigeva nella Cina, a Pegu, a Giava e nelle nazioni dell’Indocina. I condannati a morte, i prigionieri di guerra erano uccisi e divorati. Si portavano a mensa pasticci di carne umana. [Annales de phil. chret, t. VI, Serie 4, p. 162. »]. – Vicini ai Fenici, i cittadini di Domata, città d’Arabia, immolavano ogni anno un fanciullo che sotterravano sotto l’altare, ov’era sacrificato, e che loro teneva luogo di statua. [Apud Euseb. Praep. evang. Ub. IV, c. XVI.]. Questo accadeva presso gli Ebrei, presso i Fenici, e presso le nazioni vicine, avanti la predicazione del clericalismo. E oggidì vogliono sterminarlo! E si dice che tutte le religioni sono egualmente buone!

V.

Prima di abbandonare l’alta Asia, trasportiamoci al Giappone. Nessun luogo della terra è sfuggito all’impero del demonio, il quale ha avuto dappertutto il suo culto omicida. Il grande e bel paese del Giappone gli ha pagato il suo tributo. Si sa che i Giapponesi idolatri riconoscono più di centomila dèi, che essi appellano Kamis. Certi animali, i quali passano per servitori dei Kamis, vi sono onorati come divinità protettrici. Quello che meglio è servito è la volpe (inari): i Giapponesi onorano soprattutto quella color grigio come la più intelligente. La consultano negli affari più spinosi: le innalzano un tempietto nell’interno delle loro case, e le offrono in sacrificio fagioli e riso rosso. Se gli alimenti spariscono, si crede che la volpe li ha mangiati, e l’esito dell’affare sarà felice; se mai restano intatti, guai!

VI.

Nei tempi più antichi, olocausti umani erano offerti alle divinità malefiche, quali Kiou-Sisiou, il dragone a nove teste del monte Toka-Kousi. Poscia il sacrificio si ridusse a diverse vivande, di riso, di pesci, di caprioli. Una volta avvenendo la morte dei grandi, veniano sotterrati vivi con essi un certo numero dei loro amici e dei loro servi. Più tardi non si sotterrarono più, ma da se stessi s’aprivano il ventre. E questa usanza si perpetuò sino alla fine del sedicesimo secolo. [HisL gèn. de* ini*, t. I, art. 2, p. 468. — Eccellente opera per lo spirito come pel cuore, e dilettevole]. Questo succedeva nel Giappone, avanti la predicazione del clericalismo! Ed oggidì vogliono sterminarlo! E si dice che tutte le religioni sono egualmente buone! Terminando la nostra escursione nell’alto Oriente, gettiamo uno sguardo sulla Tartaria. Allorché i Tartari marciano al combattimento, il generale passa una rivista delle otto bandiere riunite, e si rinnova una cerimonia barbara, usitata, dicesi, da tempi immemorabili fra quei popoli. S’immola un cavaliere, e tutti gli altri, dal semplice soldato al comandante delle otto bandiere, vanno a bagnare la punta delle loro lance nel sangue ancora fumante. [Ann. de la Foi, n. 116, p. 12]. – Discendiamo ora ai Greci. Quanto ai nostri studi classici, questo popolo è riputato il più civile, il più forbito, il più perfetto dei popoli della bella antichità. Parlando cosi i nostri maestri, non han guardato, e non ci han mostrato che la superficie. Il considerar le cose sotto il rapporto dei costumi e della barbarie, avrebbe guastato i loro elogi. Ora la storia del sacrificio umano presso i Greci riduce quegli elogi al loro giusto valore.

VII.

Fra tutti i riti sacri, prescritti da Mose al popolo di Dio, io non so se ve ne sia uno più misterioso e più celebre di quello del capro emissario. Due capri, nutriti a tal uso, erano menati al gran sacerdote all’ ingresso del tabernacolo. Carichi di tutt’i peccati del popolo, l’uno era immolato in espiazione, l’altro cacciato nel deserto, per denotare 1′ allontanamento dei flagelli meritati. Il sacrificio aveva luogo ogni anno, verso l’autunno, alla festa solenne delle espiazioni.

VIII.

Il grande omicida di essi premura di contraffare questa divina istituzione, ma la contraffece a suo modo: invece del sangue d’un capro pretése il sangue di un uomo. Ascoltiamo i pagani stessi raccontare nella loro calma glaciale l’orribile costume. – Nelle repubbliche della Grecia, e specialmente in Atene, nutrivansi a spese dello Stato alcuni uomini vili, ed inutili. Avveniva una peste, una carestia, o un’altra calamità? Si prendevano due di queste vittime, e s’immolavano per purificare e liberare la città. Queste vittime si chiamavano Demosioi, nutriti dal popolo; Pharmakoi, purificatori; Katharmata, espiatori.

IX.

« Era costume d’immolarne due la volta; uno per gli uomini, ed uno per le donne, a render senza dubbio più completa la parodia dei due capri emissarii. E affinché tutti potessero godere della festa, si sceglieva un luogo acconcio pel sacrificio. Uno degli arconti, o dei principali magistrati, era incaricato di curarne tutti i preparativi, e di vigilarne tutti i particolari.

X.

Il corteggio mettevasi in cammino, accompagnato da cori di musici superbamente organizzati. Durante il tragitto, si percuotevano sette volte le vittime con rami di fico, e con cipolle selvatiche, dicendo: Siate la nostra espiazione ed il nostro riscatto. « Arrivati al luogo del sacrificio, gli espiatori erano bruciati sopra un rogo di legno selvaggio, e le loro ceneri gettate al vento nel mare, per la purificazione della città inferma. « L’immolazione che da principio fu accidentale, addivenne periodica, e ricevette il nome di Feste delle Targelie. La si faceva in autunno, e durava due giorni, durante i quali i filosofi celebravano con allegri banchetti la nascita di Socrate e di Platone. » [Annales de phil. chrèt., luglio 1861, p. 46 e seg.].

XI.

Nella medesima categoria si può annoverare il sacrificio annuale, offerto dagli Ateniesi a Minosse. Gli Ateniesi avendo fatto morire Androgeo, furono assaliti dalla peste e dalla carestia. L’oracolo di Delfo, interrogato sulla causa della doppia calamità, e sul mezzo di mettervi fine, rispose: « La peste e la carestia cesseranno, se voi designerete a sorte sette giovanetti e sette giovanette vergini per Minosse. Le imbarcherete sul mare sacro, in isconto del vostro delitto. Cosi vi renderete favorevole il Nume» [Ex Acnomao, apud Euseb., Præp. evang., lib. V, cap. XIX].

XII.

Questo non è né un’allegoria, né una favola, è un fatto storico attestato dalla doppia testimonianza degli storici pagani, e degli storici cristiani. – Le povere vittime erano condotte nell’isola di Creta e rinchiuse in un labirinto, dove erano divorate da un mostro, mezzo uomo e mezzo toro, che non si nutriva che di carne umana. [Questo mostro era un aborto della natura, alla cui formazione Satana aveva avuto parte. La sua esistenza non è più dubbiosa di quella, per esempio, de’ fauni, di cui parlano Plinio, S. Girolamo, e S. Atanasio.

XIII.

« Chi è dunque questo Apollo (l’oracolo di Delfo), questo Dio liberatore, cui consultano gli Ateniesi? domanda Eusebio agli autori pagani, storici del fatto. Senza fallo, egli esorta gli Ateniesi al pentimento ed alla pratica della giustizia. Ma che importano tali cure per questi eccellenti dèi, o piuttosto per questi demoni perversi? Loro bisognano al contrario azioni del medesimo genere, senza misericordia, feroci, inumane, aggiungendo, come dice il proverbio, la peste alla peste, la morte alla morte. « Apollo ordina ad essi di inviare ogni anno al Minotauro sette giovanetti e sette giovanette, scelti fra i loro figli. Per una sola vittima, quattordici vittime innocenti! E non una sola volta, ma sempre; di maniera che sino al tempo della morte di Socrate, ossia più di cinquecento anni dopo, l’odioso tributo non era ancora soppresso presso gli Ateniesi. Questa fu in effetti la causa del ritardo dell’esecuzione della sentenza capitale pronunziata contro questo filosofo. » [S. Euseb. ibid. lib. V, c. XVIII].

XIV.

Senza contare le Targelie, ecco durante cinquecento anni settemila vittime umane, il fiore della giovinezza ateniese, immolata al demonio! E non si cessa di vantarci la bella antichità: Atene soprattutto, come il tipo inimitabile della civiltà!

CAPITOLO XIII.

I GRECI

(Continuazione)

I.

Non era solamente Atene, la Repubblica modello, che sacrificava vittime umane, ma era tutta la Grecia. Ogni anno al mese di maggio, il sesto giorno della nuova luna, la città di Rodi immolava un uomo a Saturno. Col tempo questa costumanza fu modificata, ma non soppressa. A vece d’un prigioniero, o d’uno schiavo, sacrificavasi un condannato a morte. Arrivata la festa dei Saturnali, si conduceva quest’uomo fuori le mura, in faccia alla dea Aristobula, e lì, fattogli bere del vino, era scannato.

II.

A Salamina s’immolava regolarmente un uomo ad Àgi aura, figlia di Cecrope e della ninfa Aglauride. L’infelice condannato a morte era condotto da alcuni giovani nel tempio della dea, e faceva correndo tre volte il giro dell’altare; dopo la qual cosa, il sacerdote lo feriva di lancia nello stomaco, e consumavalo interamente su di un rogo preparato a tale effetto.

III.

Diciamo di passaggio ciò che aveva luogo in Egitto, il paese dei dotti. Ad Eliopoli gli Egiziani erano usi d’immolare degli uomini alla dea, conosciuta in Occidente sotto il nome di Giunone. Questi uomini erano scelti nella stessa maniera, che i tori sacri; venivano bollati. Se ne immolavano tre nello stesso giorno.

IV.

A Scio, isola dell’arcipelago greco, si squartava un uomo per immolarlo a Bacco; altrettanto si faceva a Tenedo ed a Sparta in onore del Dio Marte. Aristomene, re di Messina, scannò trecento Spartani in onore di Giove d’Itome, credendo che ecatombe di tal fatta e cosi numerose dovessero piacergli. Tra le vittime era anche Teopompo, re di Sparta.

V.

A Pella, città di Tessaglia, s’immolava un uomo dell’Acaia in onore di Peleo e di Chirone. I Lizii, popolo di Creta, sgozzavano un uomo in onore di Giove; i Lesbi in onore di Bacco; ed i Focesi immolavano in olocausto un uomo a Diana. Eretteo Ateniese immolò la sua propria figliuola a Proserpina.

VI.

Oltre queste immolazioni periodiche, gli Ateniesi ne casi d’avversità non esitavano punto, al pari degli altri popoli della bella antichità, di ricorrere, quando gli dèi volevano, ai sacrifici umani. Giunto il momento di dar battaglia alla flotta di Serse, « mentre Temistocle, scrive Plutarco, sacrificava sopra la trireme capitana, gli furono presentati tre prigionieri, bellissimi d’aspetto, pomposamente vestiti, e d’oro adornati, i quali, per quanto se ne diceva, figliuoli erano di Sandauce, sorella del re, e di un principe nominato Artacto.

VII.

« Come Eufrantide, l’indovino, ebbe veduti costoro, nel tempo medesimo appunto che dalle vittime si alzò una gran fiamma lucida e pura, e che si udì uno starnuto a destra, in segno di buon augurio, preso per mano Temistocle, gli ordinò di sacrificare, facendo sue preghiere, tutti e tre quei giovanetti a Bacco Omeste (divoratore di carne cruda); poiché in un tal sacrificio consisteva la salvezza e la vittoria dei Greci. Sbigottissi Temistocle nel sentire un vaticinio si atroce; ma il popolo, siccome addivenir suole ne’ gran pericoli e nelle cose difficili, sperando salvezza piuttosto per i mezzi inusitati e stravaganti, che pei consueti e convenevoli, invocava ad una voce il Nume, e nel punto medesimo condotti i prigionieri all’altare, volle a forza che fatto fosse il sacrifìcio, come ordinato avea l’indovino » [Plutarco, Vita di Temistocle, c. XIII, n. 3]. Lo steso storico Plutarco dice che tutti i Greci immolavano in comune vittime umane, prima di muovere contra i nemici 8 ]Apud Euseb., lib. IV, c. XVI].

VIII.

Quale che siasi 1’origine greca o germanica dei Pelasgi, noi li collochiamo qui, perché abitarono la magna Grecia. Tutti sanno che la magna Grecia era contrada situata all’estremità orientale d’Italia. Colà, come in ogni altro luogo, satana domandava il sangue dell’uomo, e sopratutto il sangue dell’innocenza, « Citerò, dice Eusebio, un testimonio non sospetto della ferocia sanguinaria dei demoni, nemici implacabili di Dio e degli uomini: Dionigi d’Alicarnaso, scrittore versatissimo nella storia romana, da lui tutta abbracciata in un opera scritta colla più grande accuratezza.

IX.

« I Pelasgi, dice egli, restarono poco tempo in Italia, grazie agli dèi che vegliavano sugli Aborigeni. Prima della distruzione della città, la terra era minacciata dalla siccità, di modo che niun frutto maturava sugli alberi. Le biade se germinavano e fiorivano, non potevano però produrre la spiga. Il foraggio non bastava più al nutrimento del bestiame. Le acque perdevano la loro salubrità, e delle fontane quali diseccavano nell’estate, quali per sempre.

X.

« Una sorte simile colpiva gli animali domestici e gli uomini. Perivano pria di nascere o poco dopo la nascita. Se alcuni scampavano alla morte, erano sopraffatti da infermità o da deformità d’ogni maniera. Per colmo di mali, le generazioni pervenute al loro intero sviluppo, erano in preda a malattie ed a mortalità, che sorpassavano tutti i calcoli di probabilità. – « In tale strettezza, i Pelasgi consultarono gli oracoli per sapere quali déi loro inviavano queste calamità, per quali trasgressioni, ed infine per quali atti religiosi potevano sperarne la cessazione. Il dio diede quest’oracolo: Ricevendo i beni che avevate domandati, non avete reso quel che avevate fatto voto d’offrire; ma ritenete presso di voi i più preziosi ». Infatti, i Pelasgi avevan fatto voto d’ offrire in sacrifizio a Giove, ad Apollo ed ai Cabiri la decima di tutti i loro prodotti.

XI.

« Allorché quest’oracolo fu loro annunziato, non poterono comprenderne il senso. In tale perplessità uno dei vegliardi lor disse: Voi vi ingannate a partito, se pensate che gli dèi vi richiedano ingiuste restituzioni. È vero che voi avete dato fedelmente le primizie delle vostre ricchezze, ma nulla avete dato dell’umana generazione, ch’è l’offerta più preziosa per gli dèi. Se soddisfate a questo debito, gli dèi si placheranno, e vi saranno propizi. – « Gli uni trovarono questa soluzione pienamente ragionevole, gli altri ci videro sotto una insidia. In conseguenza proposero di consultare il Nume per sapere se veramente conveniva a lui di ricevere la decima degli uomini. Deputano dunque una seconda volta dei ministri sacri, e il Nume rispose affermativamente.

XII.

« Ben tosto si levarono delle difficoltà fra essi pel modo di pagare questo tributo. La dissensione ebbe luogo primieramente tra i capi delle città; poscia scoppiò fra i cittadini, che supponevano causa di ciò i magistrati. Città intere furono distrutte, una parte degli abitanti abbandonò il paese, non potendo sopportar la perdita degli esseri, che loro erano più cari, e la presenza di coloro che li avevano immolati. – « Tuttavia i magistrati continuarono ad esigere rigorosamente il tributo, parte per essere accetti agli dèi, parte per timore d’essere accusati d’aver risparmiate delle vittime; sino a che la razza dei Pelasgi, trovando la sua esistenza insopportabile, si disperse in lontane regioni. » [“Multæ propterea migrationes, quae Pelasgam gentem varias in terras longe lateque deportarunt”. Dion. D’Alicarn., Storia, lib. I]. – Ecco quel che prima della predicazione del clericalismo avveniva presso i Greci tanto celebrati. Ed oggidi vogliono sterminarlo! E si dice che tutte le religioni sono egualmente buone!

De Segur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE [risp. XXXIII-XXXVI]

 

XXXIII.

A CHE SERVE LA CONFESSIONE?

R. Primieramente, bisogna che serva a qualche cosa buona, perché è un’istituzione divina, e Dio non opera senza motivo. Ma di più voi domandate a che serve la confessione? Confessatevi e vedrete a che serve. – Vedrete, che serve a divenir buono da malvagio, vedrete che serve a correggersi dei vizi, e ad avanzare a gran passi nelle virtù le più eroiche. – A che serve la confessione? Domandatelo a quel fattorino, a quel povero ragazzo, che vergognose abitudini degradavano e il cui vituperio si imprimeva già sulla sua faccia. Eccovelo tutto cambiato nel fisico come nel morale. Che fece dunque egli mai? Si confessò, si confessa…. Per lo avanti ei non si confessava. – A che serve la confessione? Domandatelo a quell’operaio poc’anzi sì libertino, sì passionato per la bettola, attualmente così casto, così sobrio, così ordinato, così laborioso; diventato in poco tempo il modello de’ suoi compagni! La sua moglie ed i suoi figli trovano che la confessione serve a qualche cosa. – A che serve la confessione? Domandatelo a quella povera donna nel colmo della miseria, carica di prole, maltrattata dal suo marito…. Ella volle più volte, l’infelice, andare a finire le sue pene in un fiume… II pensiero di Dio. e de’ suoi figli la ritenne. Essa s’avvicina al confessore… io non so ciò che le dica; ma eccovi, essa entra in casa colla pace nel cuore e quasi colla gioia sul volto. Essa sopporta dolcemente le sue pene; soffre senza lagnarsi i duri trattamenti del suo marito… Costui si meraviglia per il di lei cambiamento, poi l’ammira, poi l’ama, poi l’imita. Numerate: un suicidio di meno: una madre conservata a sei o sette figli; una buona unione, ed una famiglia virtuosa di più! – Dopo questa povera donna, è un servitore che da lunghi anni faceva dei piccoli profitti un po’ arrischiati, alle spese del suo padrone. Un rimorso l’ha turbato, va a trovare il prete… Se il padrone tien l’occhio a suoi affari, può vedere che la spesa scema senza che il treno della sua casa sia diminuito…. E riceve un bel giorno un biglietto di quattro o cinque cento franchi da mano sconosciuta. – Numerate: un marìuolo di meno; forse il vitupero della galera risparmiato ad un’onorevole famiglia, un onesto servitore di più. – A che serve la confessione? Domandatelo ai poveri di quel comune. Il ricco proprietario del luogo li lasciava nella loro miseria; spendeva per sé tutta la sua immensa fortuna Dopo qualche tempo si confessa… ed eccolo diventato il padre degli infelici; previene le loro privazioni… Le persone povere conoscono che la confessione serve a qualche cosa! La confessione è il segreto della virtù.  È dessa che rende, che conserva la pace del cuore, senza cui non v’ha felicità. È dessa, che previene un’infinità di delitti, e di disgrazie. È dessa, che solleva il povero peccatore, la cui debolezza l’ha diviso da Dio! È dessa soprattutto, che consola il moribondo pronto a comparire avanti il suo Dio, e il suo Giudice. – Qual cambiamento vedreste nel mondo, se tutti sì confessassero sinceramente, seriamente, come si deve fare! Le leggi e la gendarmeria non avrebbero più guari ad esercitarsi. Vi sarebbe in questa sola legge della Chiesa: “Tu confesserai i tuoi peccati almeno una volta all’anno” di che rigenerare il mondo ed arrestare tutte le rivoluzioni. Giudicate adunque dell’albero dai suoi frutti. La stessa cosa è della confessione, come di tutta la religione, essa non ha altri nemici che le passioni.

XXXIV.

IO NON HO BISOGNO DI CONFESSARMI. NON HO NIENTE DA RIMPROVERARMI , NON HO NE’ UCCISO, NE’ RUBATO, NE’ FATTO TORTO A PERSONA. NON AVREI NULLA A DIRE.

R. È questo il risultato del vostro esame di coscienza? Mio buono amico, l’una delle due cose: O siete un uomo eccezionale, o non vedete chiaro nella vostra coscienza. Volete che ve la dica francamente? lo son certo, che voi siete un uomo simile agli altri, e che la seconda ipotesi sola è la vera. — Voi non avete niente a rimproverarvi? — Esaminiamo un poco — Sarebbe singolare che io vedessi più chiaro di voi in voi stesso! – 1.° Primieramente come state voi in riguardo a Dio? Voi mi confesserete, che Gli dovete qualche cosa! Non è per niente che Egli è vostro creatore, vostro padrone, vostro padre, vostro ultimo fine! L’adorate voi? Lo pregate voi ciascun giorno? Lo ringraziate dei suoi favori? Gli domandate perdono delle mancanze che commettete contro la sua legge? Obbedite voi a questa legge? Colui, che dovrebbe essere la prima occupazione della vostra vita vi ha parte anche solo in qualche cosa? I poveri selvaggi idolatri adorano i loro falsi Dei. E voi, che conoscete il Dio vivente, e vero, non vivete voi, come se non esistesse? Ecco dunque un punto, che avevate molto male esaminato, quando or ora mi dicevate, che non avevate niente a rimproverarvi, e che eravate impicciato a trovare qualche cosa a dire al vostro parroco. – 2.° E nei doveri verso gli altri siete voi più fedele? Mettete la mano sulla coscienza. Ancor là quante miserie! Carità fraterna, efficace, e sincera; affabilità, e prontezza in servir gli altri; misericordia verso i poveri, indulgenza per le mancanze dei vostri fratelli; rispetto per la loro riputazione; perdono delle ingiurie; aiuto scambievole; buon esempio; doveri di cittadini; doveri verso la famiglia, doveri di buon figlio e di buon padre, doveri di buono sposo; doveri di buon padrone o di buon servo; doveri di buono e fedele amico; doveri di operai coscienziosi, o di padroni giusti ed umani ecc.; la lista è ben lunga. Gli adempite voi tutti? – Anche in ciò una buona materia per la vostra prossima confessione! – 3,° Sui vostri doveri verso voi stesso, credo potervi assicurare che se voi non praticate la religione vi ha ancora a dire di più. Osservate: Avete un’anima; qual cura ve ne prendete? Vivete quasi come non ne aveste. Quando fate del bene, quali motivi vi animano? Sapete che è l’intenzione che fa l’azione, come dice il proverbio. Un’intenzione cattiva rende cattive le azioni anche le migliori in apparenza. È egli dunque il motivo del dovere che vi fa agire? È il desiderio di compiere la volontà di Dio, di piacere a Dio, o non è piuttosto l’interesse personale, l’ostentazione, il desiderio d’essere stimato ed apprezzalo dal mondo? Come state voi di sobrietà, di temperanza? Come state voi soprattutto di castità? Se vostra figlia facesse in vostra presenza ciò che voi fate avanti Iddio che vede tutto, voi la scaccereste di vostra casa come un’infame !… Se un altro dicesse alla vostra moglie, a vostra sorella, a vostra figlia, ciò che diceste tante volte a mogli, a giovanette, che pensereste voi di lui? non lo giudichereste ben colpevole? Non siete dunque insozzato di ciò che macchia gli altri? Potremmo spingere ben più avanti questo esame del far vostra coscienza; la cava, credetemi, non è punto esaurita. Eccovi ben molto per convincervi se volete esserne convinto, che malgrado la vostra perfetta innocenza, avete tutto il necessario per fare un’eccellente, lunga o soda confessione. Voi avete da una parte i peccati: vi feci conoscere i più gravi; d’altra parte avete, non ne dubito, una buona volontà. Voi conoscete qualche buon prete che sarà lieto di ricevervi e di perdonarvi in nome di Dio. Andate adunque a trovarlo e con buone disposizioni. Non vi ha che il primo passo che alquanto costi; la difficoltà passa ben tosto; la gioia rimane. — « Ma è già da molto tempo che non vi sono stato! »—perciò ne avete maggior bisogno. —«Ma io ne ho troppe a direi » — Tanto meglio; i pesci grossi sono i migliori. I confessori amano assai più i gran peccatori che i piccoli; dacché però ben si pentono. — «Ma giammai mi sovverrei di tutto!» — A che serve ciò? Dite quel che vi ricordate; pentitevi di tutto, e Dio che conosce la buona volontà vi perdonerà tutto. Il pentimento è la cosa principale nella confessione. Credetemi, andate a confessarvi. Vedrete che sarete contento e meravigliato di voi quando avrete finito. La vera felicità sulla terra è la pace del cuore frutto della buona coscienza.

XXXV.

CONOSCO DE’DEVOTI CHE NON SONO MIGLIORI DEGLI ALTRI UOMINI. CERTUNI CHE SI CONFESSANO NON SONO MIGLIORI PER CIÒ.

R. Ciò prova 1.° O che questi non sono sinceri, o almeno che sono poco istruiti nella religione, praticandone l’esteriore, ma non ne curando lo spirito di cui devesi soprattutto occupare. – 2.° Oppure che la loro indole è stranamente ribelle, giacché un’influenza cosi potente non li rende migliori del comune degli uomini. – 3.° Ovvero (e ciò è il più probabile) che voi non li giudicate con imparzialità, e che siete ingiusto con essi.  – I cristiani, notatelo bene, non lasciano d’esser uomini dacché sono cristiani. Essi conservano la debolezza, l’inconseguenza della nostra povera umana natura, che il peccato sì profondamente corruppe; la loro condotta, da quel tempo, non è sempre d’accordo coi loro principi, i loro desideri, le loro risoluzioni. – Ma se ]a religione non corregge tutti i difetti di carattere, se non distrugge interamente e subito tutte le imperfezioni, almeno le diminuisce e le distrugge a poco a poco. Essa ordina incessantemente di combatterle; offre mezzi semplicissimi e potentissimi per diventare non solo buoni, ma perfetti quanto il comporta l’umana condizione. Osservate i santi: guardate S. Francesco di Sales, S. Francesco Zaverio, S. Vincenzo de’ Paoli, non erano altro che veri cristiani! – Così pure le anime rette e coraggiose che usano questi mezzi, si correggono prontamente, e finiscono per diventare migliori, poi buone, poi perfette. Ciò che è certo si è che la maggior parte di quelli che gridano contro i devoti sono, il più delle volte, dieci volte più malvagi di questi; vedono la festuca nell’occhio del loro vicino, e non s’accorgono della trave che hanno nel proprio. La religione non può che render migliore. Colui che ha difetti, essendo cristiano, avrebbe questi medesimi difetti, e maggiori ancora, se non Io fosse. E di più egli avrebbe il grande, e capitale difetto che voi avete, voi che lo biasimate d’essere religioso: di non rendere cioè a Dio il culto d’adorazione, di preghiera, e d’ubbidienza, ch’Egli esige da tutti gli uomini.

XXXVI.

COME IL CORPO DI GESÙ CRISTO PUÒ EGLI ESSERE PRESENTE NELL’EUCARISTIA? CIÒ È IMPOSSIBILE.

R. Non ho che una cosa a rispondervi; ma essa basta: Ciò è; dunque è possibile. Ciò e; dunque lo dovete credere, benché voi non comprendiate come ciò possa essere. Dico adunque, che ciò è, che Gesù Cristo è veramente, e sostanzialmente presente nella santa Eucaristia, e che dopo la Consacrazione della Messa non vi ha più pane sull’altare, tra le mani del sacerdote, ma il corpo e il sangue di nostro signore Gesù Cristo vivente, velato sotto le umili specie del pane e del vino. – Per convincervene, io non vi farò vedere tutti i secoli cristiani dagli apostoli fino a’ nostri giorni, che credono, adorano, proclamano altamente questa presenza reale di Gesù Cristo nel acramento dell’Eucaristia. Sarebbe senza dubbio gran cosa il vedere i più grandi ingegni, i più profondi, e più saggi dottori, adorare colla fede la più perfetta il sacrosanto mistero dell’altare… Ma oltre che ciò ci condurrebbe a troppo lunghe spiegazioni, io non voglio fare di ciò che un affare di buona fede; si è ad essa sola, che io mi rivolgo, e non voglio, che citarvi testualmente quasi senza commenti le parole medesime di Gesù Cristo, che dice essere l’Eucaristia Lui stesso, il suo corpo, il suo sangue, la sua carne. – Due volte egli parla dell’eucaristia nel Vangelo: La prima per prometterla (un anno circa avanti la sua passione), la seconda (la vigilia della sua passione), per instituirla, e compiere così la sua promessa.  – 1.° La prima parola è in S. Giovanni, al capo VI ; eccovela, la propongo al vostro buon senso. – « In verità, in verità vi dico: Chi crede in me ha la vita eterna. » Egli sulle primo esige fede alla sua parola; perché ciò che va a dire è il mistero più grande della fede. « Io sono il pane di vita… Io sono il pane vivo, che son disceso dal cielo: chi di un tal pane mangerà, vivrà eternamente. E il pane che io darò, ella é la carne mia per la salute del mondo [Notate questa parola: Gesù Cristo promette questo pane misterioso; ancora non lo dona; lo darà più tardi: « Il pane che io darò. » Non è dunque, come dicono i protestanti, una maniera figurata di parlare della dottrina che predicava, perché questa dottrina la donava; non si può promettere ciò che si è già donato, e ciò che si dona.] – I Giudei, ai quali egli parlava, dissero allora ciò che voi dite: Come può Egli dare la sua carne a mangiare? Come mai ciò può essere? — E non lo volevano credere. Osservate, come nostro Signor Gesù Cristo loro afferma di nuovo la sua presenza reale nel pane eucaristico. « In verità, in verità vi dico: se non mangerete la carne del Figliuolo dell’uomo, e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne, e beve il mio sangue, ha la vita eterna; ed Io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Imperocché la mia carne è veramente cibo, e il sangue mio veramente bevanda. Chi mangia la mia carne, e beve il mio sangue sta in me, ed Io in lui. Chi di questo pane mangia, vivrà eternamente. » – Che ne dite? Non credete voi alla parola di Gesù Cristo stesso, che v’assicura, l’Eucaristia essere il suo corpo e il suo sangue con una chiarezza d’espressioni cosi forte e viva, che i protestanti cercano e ricercano invano da trecento anni, ed arrovellano il cervello per sottrarsi a questa evidenza? – 2.° Se questa prima parola di Gesù Cristo è chiara come la verità stessa, la seconda che è la parola medesima dell’istituzione dell’Eucaristia non lo è di meno. La vigilia della sua passione, nostro Signore, dopo la cena prende del pane tra le sue mani divine e venerabili, lo benedice, e lo presenta ai suoi apostoli dicendo: « Prendete e mangiatene tutti; perchè questo è il mio corpo. » – Non è ciò chiaro? « Questo, ciò che tengo in mano e che vi presento, è, che? il mio corpo. » Quindi concede ai suoi Apostoli, che furono i suoi primi preti, l’ordine ed il potere di fare ciò che egli ha fatto, aggiungendo queste parole : « E ogni qual volta farete ciò, lo farete in memoria di me: » cioè come io stesso or ora ho fatto. Uomini di buona fede udite e giudicate; questo è il mio corpo !!! – Per me, io vi dichiaro, questa sola parola mi basta, e non solamente essa è per me una prova sfolgorante della presenza di Gesù Cristo nella Eucaristia, ma essa mi prova d’una maniera non meno irrefragabile la sua divinità… Giammai un uomo disse, poté dire una simile cosai… Due osservazioni molto semplici vi faciliteranno inoltre la fede al mistero dell’Eucaristia. – 1.° Il corpo di Gesù Cristo nell’Eucaristia è in uno stato glorificato, soprannaturale, tutto differente dallo stato del corpo umano quale noi lo vediamo in questa vita. – Ciò, che era impossibile nello stato mortale terrestre e passibile, diventa possibile nello stato immortale, celeste, ed impassibile— Non si può dir dell’uno ciò, che si dice dell’altro. – Così il ferro, il rame, non possono prendere la forma dello stampo, quando sono nel loro stato ordinario. Esponeteli all’azione del fuoco, metteteli in fusione, nello stato di liquido: essi prenderanno facilmente questa forma. Questo cambiamento di stato rende possibile ciò che non lo era dapprima. — Lo stesso noi possiamo dire del corpo di nostro Signore nel Sacramento dell’altare. Quand’anche sì dimostrasse, che è assolutamente impossibile, che nello stato in cui l’abbiamo osservato, egli sia presente nei santo Sacramento, ciò non proverebbe l’impossibilità di sua presenza in uno stato nuovo e che sfugge alla nostra analisi. – 2.° La natura ci offre numerosi esempi di questo cambiamento, che vi pare impossibile, d’una sostanza in un’altra. Quello che colpisce di più è il nutrimento del corpo. Il pane che mangio è cambiato per l’opera misteriosa della digestione nel mio corpo, nella mia propria carne, e nel mio proprio sangue. La sostanza del pane è cambiata in quella del mio corpo. – Ciò che Dio opera ciascun giorno naturalmente in noi, perché non lo potrà operare in modo soprannaturale nel mistero dell’Eucaristia? Voi vedete dunque, che non è impossibile, che per la divina onnipotenza, il pane ed il vino siano cambiati sui nostri altari nella sostanza del corpo e del sangue di nostro Signor Gesù Cristo, e che la Chiesa insegnando la sua presenza reale nel santo Sacramento, non insegna, come lo pretendono alcuni ignoranti e sciocchi, un’assurdità, una cosa impossibile, e ripugnante alla ragione. – Ora come si opera quest’ammirabile prodigio? Io non so, ed i più grandi dottori non lo sanno più che gli altri. È il mistero della fede, il segreto di Dio. Ciò che sappiamo, è che esiste, e ciò basta. Per questa adorabile presenza Gesù Cristo, il Re delle anime, la vita dei cristiani, il capo della Chiesa, il rifugio dei peccatori, l’amorevole e dolce Salvatore, il consolatore di tutti i dolori, è incessantemente in mezzo a’ suoi figli… Dio, e uomo nello stesso tempo, è il vivo legame, che ci unisce a suo Padre, e al nostro Padre. Egli l’adora perfettamente, supplisce all’imperfezione dei nostri omaggi. Egli domanda misericordia per i continui peccati del mondo. – Egli è presente a tutte le umane generazioni, che ama e che egualmente salvò, per ricevere da ciascuna di esse sino alla fine del mondo l’omaggio delta fede, dell’adorazione, del culto e delle preghiere. Se il santo Sacramento è il mistero della fede, è pur anco, e molto più, il mistero dell’amore!… Crediamo, amiamo, ed adoriamo.

S. GIUSEPPE SPOSO DI MARIA VERGINE: 19 MARZO.

GIUSEPPE SPOSO DI MARIA VERGINE

19 MARZO.

[da: I SANTI PER OGN GIORNO DELL’ANNO – S. Paolo ed. 1933-]

 Giuseppe, il più grande dei Santi che la Chiesa veneri dopo la SS. Vergine, era di stirpe reale; ma allo splendore della corte, alla ricchezza della reggia, alla gloria delle armi e allo sfoggio del sapere, aveva sostituito lo splendore delle sue virtù, la ricchezza della grazia, l’umiliazione e lo studio continuo di conoscere e fare la volontà di Dio. La sua vita quanto è grande altrettanto fu nascosta e sconosciuta: nessuno storico scrisse le sue memorie, ma della sua santità, dei suoi meriti e della sua dignità abbiamo le più belle testimonianze scritturali. – Iddio nei suoi arcani disegni aveva destinato Giuseppe ad essere il custode del Salvatore, Gesù Cristo, e della Vergine sua Madre. – Giuseppe infatti ebbe in isposa una vergine il cui nome era Maria. Di questo matrimonio, che doveva servire all’adempimento dei disegni divini, Dio stesso se ne prese cura particolare. Maria, divenendo Madre, metteva in sicuro la sua onestà, trovava in Giuseppe un aiuto ed un sostegno per la vita, un compagno fedele che l’assistesse nei suoi viaggi, un consolatore nelle ore del dolore e della sofferenza. – Il Vangelo ci fa vedere come a S. Giuseppe fosse ignoto il grande prodigio che lo Spirito Santo aveva operato in Maria. Infatti da ultimo egli s’accorse che la sua sposa era incinta. Di fronte a questo fatto, di cui non aveva cognizione, si trovò fortemente angustiato. E poiché tanta era la carità e la venerazione che egli nutriva per la sua santa sposa, per non diffamarla, aveva divisato in cuor suo di abbandonarla clandestinamente. E già stava per eseguire il suo divisamento quando al Signore piacque rivelare al suo fedele servo il grande mistero della Incarnazione. Un Angelo apparve a Giuseppe nel sonno e gli rivelò che la gravidanza di Maria era miracolosa e che la virtù dell’Altissimo aveva operato nel casto seno di Lei il corpo adorabile del Salvatore. – Quando nella pienezza dei tempi il Desiderato delle genti venne ad abitare fra gli uomini, S. Giuseppe, riverente ed umile con la santa Vergine, fu il primo ad adorarlo. – Gesù Cristo se da una parte fu segno d’indomato amor, dall’altra, fin dalla culla, fu pure segno d’inestinguibile odio. Il primo infelice avversario del Divin Maestro, fu il triste re di Giudea, Erode. Quest’uomo di perversi costumi e di smodata ambizione, avendo udito che nella terra di Betlemme era nato un bambino, che sarebbe stato un grande re, temette del suo regno. – Ordinò quindi, che tutti i bambini del territorio di Betlemme da due anni in giù, fossero uccisi senza riserva. – Ma Giuseppe, avvertito dall’Angelo in sogno, sorge prontamente e preso Maria con il Bambino riparò in Egitto. – All’entrata del Messia in Egitto tacquero gli oracoli, le statue delle false divinità tremarono: « Gli idoli dell’Egitto cadranno al suo cospetto! » – Morto Erode, San Giuseppe dall’Angelo fu avvertito di fare ritorno ed egli premuroso rimpatriò. Temendo però di Archelao, succeduto nel trono al padre Erode, fu da Dio avvertito di stanziarsi in Galilea. Si ritirò a Nazaret, dove, ricco di meriti, si spense fra le braccia di Gesù e di Maria. Per questo S. Giuseppe s’invoca come protettore dei moribondi.

FRUTTO. — Anche noi possiamo imitare questa creatura straordinaria nell’unione con Gesù Cristo, camminando sempre alla presenza del Signore, conversando nel nostro cuore con Gesù.

PREGHIERA. — Dio, che con ineffabile provvidenza, ti sei degnato eleggere il beato Giuseppe a sposo della tua Santissima Madre, fa che venerandolo in terra qual nostro protettore, meritiamo di averlo intercessore in Cielo.

 Per dedicare se stesso e la propria famiglia al gran Patriarca San Giuseppe.

INVITO A QUESTA DEDICA,

Questa pia pratica consiste nel porre sotto la speciale tutele del Santo se stesso e la propria famiglia, con quanto ad essa appartiene di beni e di sostanze, promettendo a lui come caparra di devozione, una vita veramente cristiana, e ripromettendosi da Lui come premio una protezione singolare in tutte le cose.Si fa nel modo che viene indicato qui appresso con quella maggior solennità che si conviene ad una festa tutta religiosa e domestica: e sebbene essa appartenga a tutti i fedeli, appartiene nondimeno più particolarmente ai Capi di casa, ai quali è motivo di speciale fiducia nel Santo il sapere che anch’Egli fu nella medesima carriera, che fu anch’Egli Capo di casa, che tenne le veci di Padre al Figliuolo di Dio, che ebbe sollecitudini affannose, che sostenne travagli, fatiche e tribolazioni per la sua famigliuola, non che il sapere che se la sua carità è generosa con tutti i fedeli, essendo Patrono di tutta la Chiesa, generosissima si mostra con le famiglie che con un culto particolare pongono sè medesime sotto l’ombra del suo manto.Oh quante benedizioni pioveranno sui figliuoli, che sono le speranze più trepide delle famiglie cristiane, non che sulle loro sostanze e sui loro affari! Quanti aiuti in tutte le vicende della vita potranno i Capi di casa ripromettersi da s. Giuseppe!I vantaggi che da questa dedica derivano sono certamente inestimabili. Nei paesi dov’è in uso, si tiene come una salvaguardia contro tutti i pericoli di anima e di corpo, come una calamita che attira le benedizioni del cielo.Valgano per ogni stimolo a praticarle, le parole memorabili che s. Teresa scrisse sulla devozione a questo Santo:Non mi ricordo d’averlo finora supplicato di cosa alcuna, ch’Egli non m’abbia consolata. I favori e le grazie grandi che, mediante l’intercessione di questo Santo, ho ricevuto da Dio, ed i pericoli da’ quali egli mi ha liberata sì nell’anima che che nel corpo, sono cose meravigliose…. Vorrei persuadere ad ognuno la devozione verso questo glorioso Patriarca per la grande esperienza che ho dei beni grandi ch’egli ci ottiene da Dio, domando solo per amor di Dio, che chi non mi crede, ne faccia la prova, e vedrà coll’esperienza che gran bene egli sia l’esser divoto di questo Patriarca.

PRATICA DI QUESTA DEDICA

.1 – Si premette da tutta la famiglia la Novena in preparazione al giorno in cui si vuol fare la dedica.

2 – La vigilia del giorno a ciò destinato tre elemosine a tre famiglie povere, in memoria delle tre persone componenti la Sacra Famiglia.

3 – Nel giorno della Dedica, tutte, se è possibile, le persone della famiglia si accostano ai SS. Sacramenti.

4 – In un’ora da scegliersi ad arbitrio dal capo di casa, si colloca alla presenza di tutta la famiglia, il quadro o immagine del Santo in un luogo visibile. Poscia prostrati dinanzi ad essa, si recitano le preghiere, in onor dei Dolori e delle allegrezze del Santo, terminate le quali, il capo di casa, gli raccomanda tutta la famiglia coll’orazione di dedica posta alla fine di questa istruzione.

5 – Il giorno 19 di ogni mese si distingue con qualche ossequio al Santo, e si tiene accesa la lampada dinanzi la sua Immagine, in pegno e memoria della devozione che gli si professa. Se la povertà non permettesse la tenue spesa del lume, si supplisce col recitare davanti all’immagine 3 Pater, Ave e Gloria.

6 – Nelle tribolazioni, nelle malattie, nei bisogni di qualunque specie, si ricorre al Santo con quella confidenza che merita un Protettore cosi amoroso e così potente, e gli si domanda con fervide preghiere provvedimento e conforto.

7 . Durante l’anno si fanno ad onor suo tre Comunioni:

La 1° nel giorno della sua festa, 19 Marzo;

La 2° nel giorno del patrocinio, 3 Dom. dopo Pasqua;

la 3° nel giorno del suo Sposalizio, 23 Gennaio.

In una poi di queste tre feste si rinnova la Dedica nella maniera medesima con cui fu fatta la prima volta.

VANTAGGI DI QUESTA DEDICA.

Chi sano brama vivere,

e lieto i giorni chiudere,

ricorra con fiducia

di san Giuseppe ai meriti.

Che Sposo alla Vergine,

Ed ajo al divin Figlio,

Grazia non v’ha che neghisi

A chiunque a lui si dedica.

Orazione per la dedica a s. Giuseppe.

O glorioso Patriarca s. Giuseppe, che da Dio foste costituito capo e custode della più santa tra le famiglie, degnatevi di esser dal cielo Capo e Custode anche di questa che vi sta prostrata dinanzi, e domanda di esser ricevuta sotto il manto del vostro patrocinio. Noi fin da questo momento, vi eleggiamo a Padre, a Protettore, a Consigliere, a Guida, a Padrone, e poniamo sotto la vostra speciale custodia le nostre anime, i nostri corpi, le nostre sostanze, quanto siamo e quanto abbiamo, la nostra vita, lanostra morte. Voi riguardateci come vostri figli, e come cose vostre. Difendeteci da tutti i pericoli, da tratte le insidie e da tutti gl’inganni de’ nostri nemici visibili ed invisibili. Assisteteci in tutti i tempi, in tutte le necessità. Consolateci in tutte le amarezze della vita, ma specialmente nelle agonie della morte. Dite una parola per noi a quell’amabile Redentore, che bambino portaste nelle vostre braccia, e a quella Vergine gloriosa di cui foste dilettissimo Sposo; deh! impetrate da essa quelle benedizioni che vedete esser giovevoli al nostro vero bene, alla nostra eterna salvezza. Ponete insomma questa famiglia nel numero di quelle che vi sono più care ed essa procurerà con una vita veramente cristiana di non rendersi mai indegna del vostro efficacissimo patrocinio. Così sia.

[da Manuale di Filotea del sac. G. Riva, XXX ed. Milano 1888 – impr.-]

GIACULATORIA

per cui Pio TX, 3 Giugno 1874, concesse una volta al giorno

100 giorni d’Indulgenza.

“S. Giuseppe amico del Sacro Cuore, pregate per noi”.

CULTO PERPETUO DI S. GIUSEPPE

PRATICA DEL CULTO PERPETUO.

Chiunque voglia partecipare ai vantaggi di tal Culto perpetuo approvato da S. S. Pio IX il 20 Gennajo 1859, non ha bisogno di alcuna autorizzazione per fondarlo, né di inscrizione particolare per appartenervi. Basta che 30 o 31 persone del medesimo sentimento si prefiggano di non mancare, nel giorno che ciascuno avrà scelto, alle seguenti pratiche, cioè:

  1. Accostarsi ai ss. Sacramenti, e non potendo, supplire con un atto di contrizione e colla Comunione spirituale.
  2. Assistere con ispeciale divozione alla santa Messa in memoria della Presentazione di Gesù al tempio.
  3. Fare almeno un quarto d’ora di meditazione sulle di lui tribolazioni.
  4. 4. Tenersi raccolto nello spirito, e passar il giorno in memoria di S. Giuseppe.
  5. Fare qualche atto di mortificazione, o qualche opera di misericordia o spirituale o corporale.
  6. Recitare 7 Pater, Ave, Gloria in memoria de’ suoi Dolori e delle sue Allegrezze.
  7. Chiudere la giornata colla visita al ss. Sacramento e coll’offerta del cuore a s. Giuseppe.

Chi consola s. Giuseppe in vita sarà dallo stesso Patriarca soccorso in morte.

INDULGENZE DEL CULTO PERPETUO,

PIO IX i l 30 Gennajo 1856, approvando il Culto Perpetuo lo arricchì delle seguenti Indulgenze: 1. Indulg. Plen. Nel giorno della ascrizione, in quello che si è scelto da santificarsi, e m articulo mortis; 2. Indulg. Plen. il 19 Marzo, festa di s. Giuseppe; la III Dom. dopo Pasqua in cui festeggia suo Patrocinio, il 23 Genn. festa del suo Sposalizio e in tutte le feste di precetto di Maria Vergine ; 3. Indulg. di 7 anni e 7 quarantene in ogni giorno in cui si adempirà qualche duna delle cose sopra descritte.

INDULGENZE PEL MESE D I MARZO DEDICATO A S. GIUSEPPE.

Il Sommo Pontefice Pio IX con Rescritto della Segreteria dei Brevi, 11 Giugno 1855 concesse a tutti i fedeli che dedicano l’intero mese di Marzo in onore del glorioso Patriarca san Giuseppe: 300 giorni d’Indulg. in ciascun giorno del mese e la Plen. in un giorno ad arbitrio, in cui veramente pentiti, confessati e comunicati, pregheranno secondo la mente di S. Santità. Le dette Indulg. sono concesse dallo stesso Pontefice anche a coloro che, legittimamente impediti nel mese di Marzo, dedicheranno un altro mese qualunque in onore dello stesso S. Patriarca. Con altro Decreto, 27 Aprile 1865, le surriferite Indulgenze vennero estese a qualunque pratica di devozione venga fatta in tutti i giorni del mese a somiglianza della pia pratica del mese Mariano. Inoltre lo stesso Pontefice, 4 Febbr. 1877, dichiarò che le medesime Indulg. possono lucrarsi dai fedeli che compiono questo devoto esercizio in modo da terminare il mese colla festa di S. Giuseppe (19 Marzo).

Domenica II dopo l’EPIFANIA

cana

Introitus Ps LXV:4 Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime.

Introito Ps 65:4 Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo. Ps LXV:1-2 Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus. [Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo. Ps 65:1-2 Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: canta salmi al suo nome e gloria alla sua lode].

Orémus. Omnípotens sempitérne Deus, qui coeléstia simul et terréna moderáris: supplicatiónes pópuli tui cleménter exáudi; et pacem tuam nostris concéde tempóribus.

[O Dio onnipotente ed eterno, che governi cielo e terra, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo e concedi ai nostri giorni la tua pace].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom XII:6-16 Fratres: Habéntes donatiónes secúndum grátiam, quæ data est nobis, differéntes: sive prophétiam secúndum ratiónem fídei, sive ministérium in ministrándo, sive qui docet in doctrína, qui exhortátur in exhortándo, qui tríbuit in simplicitáte, qui præest in sollicitúdine, qui miserétur in hilaritáte. Diléctio sine simulatióne. Odiéntes malum, adhæréntes bono: Caritáte fraternitátis ínvicem diligéntes: Honóre ínvicem præveniéntes: Sollicitúdine non pigri: Spíritu fervéntes: Dómino serviéntes: Spe gaudéntes: In tribulatióne patiéntes: Oratióni instántes: Necessitátibus sanctórum communicántes: Hospitalitátem sectántes. Benedícite persequéntibus vos: benedícite, et nolíte maledícere. Gaudére cum gaudéntibus, flere cum fléntibus: Idípsum ínvicem sentiéntes: Non alta sapiéntes, sed humílibus consentiéntes. R. Deo gratias.

[Epistola Lettura della Lettera, del B. Paolo Ap. ai Romani. Rom XII:6-16 [Fratelli: Abbiamo doni diversi a seconda della grazia a noi data: chi ha la profezia, se ne serva secondo le norme della fede; chi il ministero, eserciti il ministero; chi ha il dono di insegnare insegni; chi di esortare esorti; chi dà del suo lo faccia con semplicità; chi sta al comando governi con sollecitudine; chi fa opera di misericordia lo faccia con gioia. L’amore sia senza simulazione. Aborrite il male, attenetevi al bene; Vogliatevi bene gli uni gli altri con amore fraterno; Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore; Non siate pigri nello zelo; siate ferventi nello spirito; servite il Signore; siate lieti nella speranza; pazienti nella tribolazione; perseveranti nella preghiera: Partecipi delle necessità dei santi: Propugnatori di ospitalità. Benedite i vostri persecutori: benedite e non maledite. Godete con chi è nella gioia, piangete con chi piange: abbiate tra voi gli stessi sentimenti: Non aspirate a cose alte, ma accontentatevi delle umili.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! Joann II:1-11 In illo témpore: Núptiæ factæ sunt in Cana Galilaeæ: et erat Mater Jesu ibi. Vocátus est autem et Jesus, et discípuli ejus ad núptias. Et deficiénte vino, dicit Mater Jesu ad eum: Vinum non habent. Et dicit ei Jesus: Quid mihi et tibi est, mulier? nondum venit hora mea. Dicit Mater ejus minístris: Quodcúmque díxerit vobis, fácite. Erant autem ibi lapídeæ hýdriæ sex pósitæ secúndum purificatiónem Judæórum, capiéntes síngulæ metrétas binas vel ternas. Dicit eis Jesus: Implete hýdrias aqua. Et implevérunt eas usque ad summum. Et dicit eis Jesus: Hauríte nunc, et ferte architriclíno. Et tulérunt. Ut autem gustávit architriclínus aquam vinum fáctam, et non sciébat unde esset, minístri autem sciébant, qui háuserant aquam: vocat sponsum architriclínus, et dicit ei: Omnis homo primum bonum vinum ponit: et cum inebriáti fúerint, tunc id, quod detérius est. Tu autem servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc fecit inítium signórum Jesus in Cana Galilaeæ: et manifestávit glóriam suam, et credidérunt in eum discípuli ejus.

[Séguito del S. Vangelo secondo Giovanni. R. Gloria a Te, o Signore! Joann II:1-11 In quel tempo: Vi furono delle nozze in Cana di Galilea, e li vi era la Madre di Gesù. E alle nozze fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la Madre di Gesù disse a Lui: Non hanno più vino. E Gesù rispose: Che ho a che fare con te, o donna? La mia ora non è ancora venuta. Disse sua Madre ai domestici: Fate tutto quello che vi dirà. Orbene, vi erano lì sei pile di pietra, preparate per la purificazione dei Giudei, ciascuna contenente due o tre metrete. Gesù disse loro: Empite d’acqua le pile. E le empirono fino all’orlo. Gesù disse: Adesso attingete e portate al maestro di tavola. E portarono. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino, non sapeva donde l’avessero attinta, ma i domestici lo sapevano; chiamato lo sposo gli disse: Tutti servono da principio il vino migliore, e danno il meno buono quando sono brilli, ma tu hai conservato il vino migliore fino ad ora. Così Gesù, in Cana di Galilea dette inizio ai miracoli, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui. R. Lode a Te, o Cristo.

Omelia della Domenica II dopo l’Epifania

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Giovanni II, 1-11)

Gesù onorava di sua presenza un convito di nozze in Cana della Galilea, così ci narra l’odierno Vangelo. Dunque il matrimonio, dice S. Agostino, ha Dio per autore. Dunque il matrimonio, soggiunge S. Paolo, è santo, ed è nella Chiesa di Cristo un gran sacramento. “Sacramentum hoc magnum est… in Christo et in Ecclesia” (ad Ephes.V, 32). Della santità del matrimonio potrei, uditori amatissimi, tenervi ragionamento, se non credessi più profittevole parlarvi di alcuni obblighi annessi allo stato del matrimonio stesso. E per ciò fare il modo facile a intendersi, e ritenersi da tutti, contentatevi ch’io mi serva di cose sensibili, che fissino l’mmaginativa, e possano ritenersi più agevolmente nella memoria de’ meno istruiti. L’arca del Testamento è un simbolo assai espressivo delle obbligazioni del matrimonio. Su quella stavano due Cherubini d’oro, figura de’ due sposi, l’amore e le intenzioni de’ quali devono esser pure come puro è 1″oro. L’arca era formata di legni incorruttibili, simbolo della reciproca inviolabile fedeltà. Nel seno dell’arca si conservavano le tavole della legge data da Dio a Mosè sul Sinai, la verga d’Aronne, e un vaselletto di manna, piovuta già nel deserto (ad Heb. IX,4). In questi ultimi oggetti io raffiguro tre principali obbligazioni de’genitori verso i propri figliuoli: Istruzione, correzione e custodia. Ripigliamo: tavole della Legge, ecco l’istruzione: verga d’Aronne, ecco la correzione: vaselletto di manna, ecco la custodia della propria prole. Ciò ch’io passo ad esporvi con la maggiore a me possibile chiarezza.

I. Due erano, come voi sapete, le tavole della divina legge. Conteneva la prima i comandamenti che riguardano Dio, la seconda quei che al prossimo si appartengono. Padri e madri, siccome il grande Iddio impose a Mosè di promulgare al suo popolo i precetti scritti dal suo dito in quelle tavole, così lo stesso Dio comanda a voi di intimarli, e d’istruirne la vostra prole. Questo comando del Signore esattamente adempì il buon Tobia (IV). “Figliuol mio, diceva sovente all’unico suo figlio, abbi sempre il tuo Dio presente allo spirito, guardati dal trasgredire alcuno dei suoi comandamenti, guardati da qualunque peccato: fa’ volentieri limosina a’ poverelli, e noli far volto duro sopra l’altrui miserie: da’ prontamente agli operai la loro mercede, e non fare ad altri quel male che non vorresti fosse fatto a te. Oh se i padri e le madri con frequenti esortazioni facessero penetrare queste massime sante nell’animo de’ teneri figli, quanto si vedrebbe fiorire nelle città cristiane la Religione e il buon costume! Se tratto tratto dicessero come la madre de’ Maccabei: “figliuoli chi vi ha data la vita, non siam in noi precisamente: Dio è l’autore del vostro essere. Da esso venite, a Lui dovete ritornare. Questa terra, su cui vi ha posti, è un esilio, un luogo di prova. Chi opera il bene avrà Iddio per premio, chi fa il male avrà Dio per nemico. Un po’ più presto, o un po’ più tardi io e voi dovremo sloggiare di questo mondo, e comparire al suo tremendo giudizio; il peccato è quel solo, che può trarci addosso una sentenza di eterna morte. Odiate adunque il peccato, o figli, fuggite da questo e dai malvagi compagni come dalla faccia del serpente”. Queste e simili debbon essere le istruzioni de’genitori, se bramano salvi i propri figli e sé stessi. Ma i miei figliuoli, dirà alcun di voi, non mi danno ascolto, le mie parole se le porta il vento, ed essi son sempre più perversi. Sentite; le tavole del Decalogo erano di pietra, e il dito di Dio vi scrisse i precetti della sua legge. Quand’anche il cuor de’ figli nostri fosse di pietra, non cessate d’istruire, replicate le ammonizioni, gli avvisi, i buoni consigli, e vi assicuro che’ resteranno impressi nella loro mente. “Gutta cavat lapidem”. Verrà un giorno, che memori delle salutari vostre istruzioni, e delle buone massime loro inculcate, diranno: benedetto quel mio padre, egli sempre mi raccomandava il timor santo di Dio. ora mi leggeva e mi faceva leggere un libro spirituale, ora mi narrava i fatti più celebri della sacra Scrittura. Benedetta quella mia madre, essa m’istruiva nella cristiana dottrina, non ammetteva scuse per dispensarmi dalle quotidiane preghiere, mi voleva sempre sotto i suoi occhi; qualche volta mi sembrava troppo precisa, ora conosco il bene che mi fece, e i pericoli da’ quali mi liberò. Così i vostri ammaestramenti, a guisa di buona semente, produrranno a suo tempo il frutto desiderato. Tanto più che voi padri e madri, avete per natura e per grazia del Sacramento le più idonee disposizioni a muovere il cuore de’ vostri figli, a formarne lo spirito, a regolarne i costumi, a riformarne i difetti. È necessario però agli insegnamenti congiungere i buoni esempi. Se raccomandate alla vostra famiglia il timor di Dio, e poi vi fate sentire a nominarLo invano, o a bestemmiarLo col proferire il suo santo Nome nell’impeto della vostra collera, se ad essi inculcate la frequenza de’ Sacramenti, e voi ne state lontani; se li mandate alla Chiesa e voi vi portate all’osteria: voi distruggete colle opere quel ch’edificaste colle parole. Sostenete per carità coll’esempio cristiano la cristiana istruzione… la via de’ documenti e de’ precetti è troppo lunga, e il più delle volte senza successo, la più corta ed efficace è il buon esempio. L’intendeva anche un Gentile : “Longum iter per praecepta; breve et effìcax per exempla”.

II. L’istruzione però non basterebbe, se ai dati tempi si escludesse l’opportuna correzione. Deve questa esser simile alla verga di Aronne, che non era un ramo d’albero selvaggio, ma di mandorlo, pianta fruttifera, e perciò la correzione riuscirà vantaggiosa, se sarà figlia della ragione, della prudenza e della carità, carità che finga sdegno per apportare rimedio, come fa il chirurgo che ferisce la piaga a fin di sanarla. Se per l’opposto il vostro correggere sarà effetto di collera, sfogo di rabbia e di furioso trasporto, non n’aspettate buon esito; mancherete all’avviso che vi dà l’Apostolo, di non provocare i vostri figli a concepir ira contro di voi, “Patres, nolite ad indignationem, provocare filios vestros(ad COL. III, 21). La verga d’Aronne era flessibile, e in una notte si coprì prodigiosamente di fiori. Alla qualità della colpa, della persona e dell’età va adattata la correzione. Le mancanze de’ figlioletti meritan verga, ma dolce e flessibile, ma fiorita per discreta moderazione: da queste regole quanto si discostano comunemente i genitori! Quel fanciullo rompe un vaso, versa un liquido: e la madre di esso, lo batte senza riguardo, e lo vuol morto, Lo stesso poi proferisce una parola scandalosa, e gli ride in faccia. Che razza di procedere è questo? L’interesse nel primo caso è quel che spinge una correzione ingiusta; nel secondo quel che va corretto si approva col riso. Non si approvano è vero certe colpe più notabili degli adulti, ma la troppa indulgenza, ma la trascuratezza in castigarli ridonda poi in danno de’ figli rei e de’ negligenti genitori. Che disgusto non provò Davide pe’ suoi due figliuoli Ammone e Assalonne? Sa che il primo ha fatto violenza a Tamar sua sorella, e non si legge che aprisse bocca ad un rimprovero. Gli arriva notizia, che il secondo ha ucciso Ammone a tradimento, e non si dà premura d’aver in mano il delinquente; e perciò nella più grande amarezza piange inutilmente uno trucidato in un convito, l’altro trafitto in un bosco: un proporzionato castigo avrebbe impedito la morte d’entrambi. Castigate i figli vostri, o padri e madri, se non volete disgusti, castigateli se volete salvarvi. Dio ve lo comanda; dovete ubbidire. Non vi lasciate sedurre da natural tenerezza, o da un falso amore. Non è amore, ma odio quel che risparmia al figlio reo il meritato castigo. Lo dice lo Spirito Santo: “Qui parcit virgae odiit fìlium suum” (Prov. XVIII). Ho detto se volete salvarvi, dal Sacerdote Eli apprendete il vostro obbligo e il vostro pericolo. Riprese egli le scandalose azioni de’ figli suoi, pe’ quali il popolo si allontanava dal tempio e da’ sacrifizi; ma siccome invece d’una giusta severità e rigorosa punizione, si contentò di poche parole, Iddio gli fece intimare dal profeta Samuele la perdita dei propri figli in un sol giorno, e quel che più importa, perdette egli non solo la vita temporale, colpito da subitanea morte, ma, secondo l’opinione de’ santi Cirillo e Giovanni Damasceno, anche la vita eterna!

III. Devono finalmente i genitori aggiungere all’istruzione, ed alla correzione l’esatta custodia della loro prole. La manna era custodita nell’arca del Testamento. Pareva dovesse bastare l’essere riposta in una delle sue cassette; no, non bastava, dice S. Paolo (ad Ebr. IX, 4) chiusa in un’urna, e da Dio conservata incorrotta! Usate voi somigliante cautela per custodire la vostra figliolanza? Oh Dio! su questo punto così declamava innanzi al suo popolo di Antiochia S. Giovanni Crisostomo, acceso di santo zelo: dovrò dirlo, o dovrò tacerlo? ma che giova il tacere per non contristarvi, se il mio silenzio vi fosse nocevole? Io vedo in questa vostra città che molti di voi hanno più cura degli asini e dei cavalli, che de’propri figliuoli. “Maiorem asinorum et equorum, quam filiorum curam habent(Hom. 60). E forse che non può dirsi lo stesso di noi? Si ha più cura della vacca, della capra, della gallina, dell’uccello di gabbia, che della propria famiglia, che del proprio sangue; ond’è che si lasciano i figli tutto giorno in abbandono, come i cani alla strada; e se questo è un gran delitto riguardo ai figli qual sarà in rapporto alle figlie? Oh la mia figlia è innocente! Se la lascerete in libertà perderà la sua innocenza. La manna nel deserto appena vedeva il sole si dileguava. Io la lascio, è vero, andare a quella campagna, a quel passeggio, a quel festino, ma con persone oneste, buoni amici e stretti parenti. Voi vi fidate troppo, io piango la vostra figlia e voi. Ma io l’ho data in custodia a un mio congiunto, uomo di senno e di tutta probità. Sarebbe stato meglio, che si fosse offerto ad accompagnarla uno scapestrato, ché così non vi sareste fidati, e non fidandovi, voi e la figlia vostra eravate sicuri. Vi fidate? dunque arrischiate. Bisogna dire che voi, o padre, conosciate poco il mondo, e che a voi, o madre, non sia mai occorso di trovarvi in qualche cimento. Possibile che la vostra esperienza non vi faccia aprir gli occhi, e non vi renda più cauti! Con questo di più, che forse nella vostra adolescenza e giovinezza non v’erano tanti lacci, tant’inciampi, tanta dissolutezza come nel secolo presente, secolo presso che somigliante a quel di Noè avanti il diluvio, secolo in cui, rotto ogni freno all’impudenza, si aggirano ingordi avvoltoi intorno alle incaute colombe, lupi rapaci in cerca di agnelle non custodite. – Non volete restar persuasi sul pericolo delle vostre figlie se non avrete cent’occhi? Imparatelo da Dina unica figliuola di Giacobbe. Questa savia donzella si presenta un dì al suo buon genitore dicendogli.- siavi qui nelle vicinanze di Siehem, contentatevi ch’io vada a vedere come sono abbigliate le donne Sichimite. Qual più innocente domanda? Ah Giacobbe, chi presago dell’avvenire avesse potuto dire all’orecchio di questo patriarca: Giacobbe, non accordare chesta licenza, che troppo ti costerà d’amarezza, di lacrime e di pericoli. Ma Giacobbe che nulla prevede, consente e permette. Va Dina per vedere ed è veduta, e l’esser veduta, rapita, disonorata fu una cosa stessa. Giunge al padre la contristante notizia, e ne piange, arriva ai fratelli, e van sulle furie, dissimulano per poco la vendetta, armati poi assalgono quella città, e mettono a ferro, a fuoco uomini, donne, bambini, case, campagne. I paesi vicini temono una egual sorte; onde tutti gridano all’armi contro i forestieri assassini. Ed ecco il buon Giacobbe e tutta la famiglia in evidente pericolo della vita, costretto a darsi a fuga precipitosa e notturna per selve, per balze e per dirupi. Che dite ora di quella domanda innocente, e di quella incolpabile licenza? Che avverrà delle figlie vostre, alle quali sì facilmente accordate la conversazione, il passeggio il ballo, il festino, il teatro? Ah per carità aprite gli occhi sulle altrui disgrazie. Tante ne vedete, e ne sapete meglio di me. Che aspettate voi dunque? Deh, ve ne prego, ammaestrare i vostri figli, tenete sempre innanzi agli occhi loro le tavole della divina legge, e datene loro l’esempio coll’osservarla; maneggiate la verga per loro correzione: custoditeli in fine come una manna, come un prezioso deposito che Iddio vi ha affidato, e di cui vi domanderà strettissimo conto. E così voi a’ vostri figli, e a voi medesimi procurerete una temporale ed eterna felicità, ch’io vi desidero.

Credo

Communio Joann II:7; II:8; II:9; II:10-11 Dicit Dóminus: Implete hýdrias aqua et ferte architriclíno. Cum gustásset architriclínus aquam vinum factam, dicit sponso: Servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc signum fecit Jesus primum coram discípulis suis.

Communio Joann 2:7; 2:8; 2:9; 2:10-11 [Dice il Signore: Empite d’acqua le pile e portate al maestro di tavola. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino disse allo sposo: Hai conservato il vino migliore fino ad ora. Questo fu il primo miracolo che Gesù fece davanti ai suoi discepoli].

Postcommunio Orémus. Augeátur in nobis, quaesumus, Dómine, tuæ virtútis operatio: ut divínis vegetáti sacraméntis, ad eórum promíssa capiénda, tuo múnere præparémur.

Preghiamo. Cresca in noi, o Signore, Te ne preghiamo, l’opera della tua potenza: affinché, nutriti dai divini sacramenti, possiamo divenire degni, per tua grazia, di raccoglierne i frutti promessi.

LA CIRCONCISIONE DI GESU’

LA CIRCONCISIONE DI GESU’

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[da “I Sermoni” – S. Antonio di Padova]

«Quando furono passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione del bambino» (Lc II,21). In questa prima parte ci viene insegnato, in senso anagogico (mistico), come tutti i giusti, nella risurrezione finale, saranno circoncisi di ogni corruzione. Ma poiché nel Verbo circonciso avete sentito una parola «circoncisa», anche ne parleremo circoncisamente (brevemente) della sua circoncisione. Cristo fu circonciso soltanto nel corpo, perché nulla c’era da circoncidere nel suo spirito. Infatti «egli non commise peccato, e non si trovò inganno sulla sua bocca» (lPt II,22). E neppure contrasse il peccato [di origine] perché, come dice Isaia: «Salì su una nuvola leggera» (Is XIX,1), assunse cioè una carne immune da peccato. – Venendo tra i suoi, poiché “i suoi non l’avrebbero accolto” (Gv.I, 11), dovette essere circonciso, affinché i giudei non avessero contro di Lui dei pretesti, con il dire: E un incirconciso, dev’essere eliminato dal popolo perché, come è scritto nella Genesi, “il maschio al quale non è stato reciso il prepuzio, sarà eliminato dal suo popolo” (Gen XVII, 14). Sei un trasgressore della legge, non vogliamo uno che è contro la legge. – Fu quindi circonciso per almeno tre motivi: primo, per osservare la legge – si dovette compiere il mistero della circoncisione finché non fu sostituito dal Sacramento del Battesimo -; secondo per togliere ai giudei il pretesto di calunniarlo; terzo, per insegnarci la circoncisione del cuore, della quale dice l’Apostolo: “La circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene dagli uomini, ma da Dio» (Rm II, 29). – “Passati gli otto giorni prescritti”. Vediamo il significato di queste tre cose: il giorno ottavo, il bambino e la sua circoncisione. La nostra vita si svolge, per così dire, in un giro di sette giorni (settenario): segue poi il «giorno ottavo» (ottonario) della risurrezione finale. Dice l’Ecclesiaste: «Da’ la loro parte a sette, e anche a otto, perché non sai che cosa di male potrà venire sulla terra» (Eccle XI, 2). – Come dicesse: fa’ che i sette giorni della tua vita prendano parte alle opere buone (siano impegnati nell’operare il bene), perché poi ne riceverai la ricompensa nel giorno ottavo, quello della risurrezione; in quel giorno sopra la terra, cioè per coloro che amano la terra, ci sarà un male così grande, quale nessun uomo potrà immaginare. – Allora l’aia sarà ripulita, il grano sarà separato dalla paglia, le pecore saranno divise dai capri (cf. Mt III, 12; XXV, 32; Lc III,17). La ripulitura dell’aia simboleggia la revisione che sarà operata nell’ultimo giudizio. Il grano raffigura i giusti che saranno accolti nei granai del cielo. Dice Giobbe: «Te ne andrai nella tomba, pieno di anni, come si ammucchia il grano a suo tempo» (Gb V, 26). La tomba indica la vita eterna, dove i giusti entreranno carichi di opere buone, e saranno al riparo dagli attacchi dei demoni, come uno che si nasconde in una tomba per sfuggire agli uomini. La paglia invece, cioè i superbi, superficiali e incostanti, saranno bruciati nel fuoco. Di essi dice Giobbe: «Saranno come paglia al soffio del vento e come pula che l’uragano disperde» (Gb XXI,18). Gli agnelli o le pecore, cioè gli umili e gli innocenti, saranno posti alla destra di Dio: «Come un pastore pascerà il suo gregge, con il suo braccio radunerà gli agnelli, li solleverà al suo petto ed egli stesso porterà le pecore gravide» (Is. XL,11). – Osserva che in queste quattro parole: pascerà, radunerà, solleverà e porterà, si possono ravvisare le quattro prerogative delle quali sarà dotato il corpo dei giusti nel giorno ottavo, cioè nella risurrezione finale. – Pascerà con lo splendore: «Dolce è la luce, e agli occhi piace vedere il sole» (Eccle XI,7); e i giusti splenderanno come il sole nel regno di Dio (cf. Mt XIII,43). Se l’occhio ancora corruttibile tanto si diletta dell’illusorio splendore di un misero corpo, quanto più grande sarà quel piacere di fronte al vero splendore di un corpo glorificato? Radunerà con l’immortalità: la morte dissolve e divide, l’immortalità riunisce e raduna. Solleverà con l’agilità: ciò che è agile si solleva facilmente. Porterà con la sottigliezza: ciò che è sottile [una veste] si porta senza fatica. Invece i capri, cioè i lussuriosi, saranno appesi per i piedi ganci dell’inferno. Infatti il Signore, per bocca di Amos, minaccia le vacche grasse» (cf. Am IV, 1), cioè i prelati della Chiesa superbi e lussuriosi: «Ecco, verranno per voi i giorni in cui [i demoni] vi appenderanno ai ganci, e getteranno i rimanenti di voi in caldaie bollenti. Uscirete per le brecce uno contro l’altro; e sarete scagliati contro l’Hermon» (Am IV, 2-3), che s’interpreta «scomunica», perché i superbi e i lussuriosi, scomunicati e maledetti dalla chiesa trionfante sprofonderanno nell’eterno supplizio. – Tutto questo, cioè la gloria e la pena, sarà dato a ciascuno nel giorno ottavo, cioè nella risurrezione, secondo ciò che ha fatto nella settimana di questa vita. Dice in proposito la Genesi: «Giacobbe servì sette anni per [avere] Rachele, e gli sembrarono pochi giorni tanto grande era l’amore che nutriva per lei» (Gen XXIX, 20). Infatti era una donna molto bella di forme e di aspetto avvenente (Gen XXIX. 17). E continua: «Passata la settimana, prese Rachele in moglie» (XXIX, 28). E più avanti dice: «Di giorno mi divorava il caldo e il gelo di notte, e il sonno fuggiva dai miei occhi» (Gen XXXI, 40). – O amore della bellezza! O bellezza dell’amore! O gloria della risurrezione, quante cose riesci a far sopportare all’uomo, per giungere alle nozze con te! Il giusto fatica per tutti i sette giorni della sua vita nell’indigenza del corpo e nell’umiltà del cuore: di giorno, cioè quando gli sorride la prosperità nel calore della vanagloria; e di notte, vale a dire quando sopravvengono le avversità e viene tormentato dal gelo della tentazione del diavolo. E così il sonno e il riposo fuggono da lui perché ci sono battaglie all’interno e paure all’esterno (cf. 2Cor VII, 5). Teme il mondo, è combattuto in se stesso, e tuttavia in mezzo a tante sofferenze i giorni gli sembrano pochi a motivo della grandezza dell’amore. Infatti «per chi ama nulla è difficile (Cicerone). – O Giacobbe, ti scongiuro: lavora con pazienza, sopporta con umiltà perché, finita la settimana della presente miseria, conquisterai le bramate nozze della gloriosa risurrezione, nella quale sarài finalmente circonciso di ogni fatica e di ogni schiavitù di corruzione. – «Passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione del fanciullo». In lat. è detto puer, fanciullo, non vecchio. Nella risurrezione finale ogni eletto sarà circonciso, perché risorgerà per la gloria, come dice Plinio, senza alcun difetto, senza alcuna deformità. Sarà ben lontana ogni infermità, ogni incapacità, ogni corruzione, ogni inabilità e ogni altra carenza indegna di quel regno del sommo Re, nel quale i figli della risurrezione e della promessa saranno uguali agli angeli di Dio (cf. Lc. XX, 36); allora ci sarà la vera immortalità. – La prima condizione dell’uomo fu il poter non morire; per causa del peccato gli fu inflitta la pena di non poter non morire: seconda condizione; lo attende, nella futura felicità, la terza condizione: non poter più morire. Allora usufruiremo in modo perfetto del libero arbitrio, che al primo uomo fu dato in modo che «potesse non peccare»; sarà appunto perfetto quando questo libero arbitrio sarà tale da «non poter peccare». – O giorno ottavo, tanto desiderabile, che in modo così meraviglioso, circoncidi dal bambino tutti i mali!

J.-J. GAUME: IL SEGNO DELLA CROCE [lett. 5-8]

J.-J. Gaume: IL SEGNO DELLA CROCE [lett. 5-8]

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LETTERA QUINTA.

30 novembre.

Ho detto, mio caro Federico, che il segno della croce è un segno che nobilita, perché quanto è divino, nobilita. Questa sola ragione basterebbe; ma nondimeno continuandomi dico, che questo segno ci nobilita comecchè desso è il segno del fiorе della umanità. V’hanno mai pensato i compagni tuoi? Chi non si segna, ed ancor più, chi ha onta di questo segno, resta misto e confuso con i pagani, i musulmani, i giudei, gli eretici, i cattivi cattolici, infine con le bestie; è quanto dire, con la feccia della creazione. Che ne pensi tu? Non dobbiamo andare superbi di un segno che ci distingue sì nobilmente da tutti quelli che non lo hanno? – Il figlio ascrive a gran ventura essere membro di una famiglia veneranda per l’antichità sua, illustre per le gesta, rispettabile per le virtù, potente per le ricchezze. Egli pensa parimente del suo blasone. Lo fa scolpire in pietra, in marmo, in argento, in oro, in agata, ed in rubini; lo pone sulla sua abitazione, lo fa modellare su la mobilia, designare sul vasellame, e su i pannolini, lo fa incidere sul suo suggello, dipingere sulla sua carrozza, orna di esso i fornimenti de’ suoi cavalli, vorrebbe scolpirlo sulla propria fronte. Se tu ne togli la vanità, egli ha ragione. La sua condotta proclama altamente la legge per eminenza sociale, la solidarietà. La gloria degli avi, è gloria de’ figli, è un patrimonio di famiglia. – Come cattolico, il segno della croce è mio stemma. Esso dice a me ed a tutti la nobiltà della mia schiatta, la sua antichità, le sue gesta, le glorie e le virtù sue. Come non andarne superbo? Io rinunzierei al sangue illustre, che mi corre per le vene! Indegno di avere un gran nome, rigetterei vigliaccamente la legge della solidarietà gettando nel fango le mie insegne gentilizie, ed al vento la ricca eredità degli avi miei. – Gli uomini sono lieti di appartenere ad una grande nazione aristocratica. Lo Spagnuolo d’essere Spagnuolo, l’Inglese d’essere Inglese, ed il Francese d’essere Francese, l’Italiano di essere Italiano, come tutte le altre grandi nazioni. Dimmi, amico mio, qual è la nazione più grande, e la più aristocratica del globo? V’ha una nazione che tutte vinca in antichità, che conti fra i suoi membri un numero, che avanzi quello delle nazioni testé nominate? Una nazione che per i suoi lumi brilli come il sole nel firmamento; che essenzialmente espansiva, a prezzo di proprio sangue abbia sottratto il genere umano alla barbarie, e gli dia modo da non ricadérvi, e che la storia ed il mappamondo ne facciano fede? Una nazione che veda e sola, nel mezzo de’ suoi figli, quanto l’uomo ha conosciuto di meglio in fatto di genio e di virtù, di scienza e di coraggio, legioni intere di dottori, di vergini, di martiri, di oratori, filosofi, artisti, i grandi legislatori, i buoni re, i guerrieri illustri di tutte le parti del mondo; una nazione altrettanto più aristocratica, che tutte le altre da essa debbono ripetere la loro superiorità? Checché si dica, e checché si faccia, la storia ha nominato la grande NAZIONE CATTOLICA. IO le appartengo: il segno della croce è il suo stemma: potrei averne onta? – Dio stesso ha voluto mostrare con strepitosi miracoli, quanto sia in onore agli occhi suoi la persona ed il membro che fa il segno della croce. Santa Èdita figlia di Edgaro re d’Inghilterra sin dalla infanzia fu tenerissima del segno della croce. Questa giovane principessa, uno de’ più belli fiori olezzanti verginità, che abbia ornato l’antica isola dei santi, nulla operava senza che innanzi segnasse In fronte ed il petto dello stemma de’ cattolici. A sfogo di sua devozione fece edificare una chiesa in onore di S. Dionisio, e pregò S. Dunstan arcivescovo di Canterbury per la solenne dedicazione. Il santo consenti volentieri, e nelle diverse conversazioni che tenne seco lei, ammirò che la giovane principessa, come i primi cristiani si segnava frequentemente col pollice la fronte. Tale divozione tornò si cara al santo, ch’egli fe’ voti a Dio perché benedicesse questo pollice, e Io preservasse dalla corruzione della tomba. La preghiera fu esaudita. Quinci a poco tempo la vergine moriva al 23° anno dell’età sua ed apparsa al santo gli disse: disumate il mio corpo, desso è incorrotto, eccetto le parti di che feci mal uso nella leggerezza della mia infanzia. Queste parti erano gli occhi, i piedi e le mani, eccetto il pollice con che faceva in vita il segno della croce. – Al punto di vista dell’onore gli avi nostri avevano eglino torto di fare si soventemente il segno della croce? E noi; abbiamo noi ragione di non più farlo? Ah! ch’eglino avevano ben altrimenti da noi la coscienza di loro nobiltà, ed il sentimento della dignità loro. Così ripetendosi di continuo nobiltà obbliga, non mi meraviglio che abbiano formato una società unica negli annali del mondo per l’eroismo di sue virtù: fra poco l’intenderai. – II primo sentimento, che il segno della croce sviluppa in noi nobilitandoci agli occhi nostri istessi, è il rispetto di noi medesimi. Il rispetto di noi medesimi! io dico, caro amico, una grande parola. Volgo Io sguardo all’intorno, e vedo un secolo, un mondo, una gioventù che non rifinisce di parlare di dignità umana, di emancipazione, di libertà. Queste parole vuote di senso, o che uno ne raccolgono cattivo, rende il secolo, il mondo, la gioventù insofferente d’ogni maniera di governo ed impaziente del giogo d’ogni autorità divina, civile e paterna, corre all’impazzata dicendo a quanti incontra: Rispettami! – Benissimo; ma se vuoi essere rispettato, comincia tu a rispettar te stesso. Il rispetto degli altri a nostro riguardo, è in ragione di quello che noi stessi abbiamo per noi. La crudeltà, l’ipocrisia, il sensualismo, il vizio orpellato, nascosto, ricco, coronato, possono inspirare timore, ma ottenere rispetto giammai. Ora l’uomo attuale giovane o vecchio che sia, che non si segna dello stemma cattolico si rispetta? Facciamo un saggio di autopsia. – La parte più nobile dell’uomo è l’anima, e di questa la facoltà, che vince in dignità le altre, è l’intelligenza. Vaso prezioso, formato dalla mano di Dio a raccogliere la verità, e solo la verità, di modo, che quanto non è verità la rende immonda e profana. L’uomo attuale rispetta la intelligenza, le lascia libero il cammino alla verità? Egli non ha che disgusto per le sorgenti pure, dond’essa deriva; oracoli divini, sermoni, libri ascetici o di filosofia cristiana lo appenano ed annoiano. – Se tu discendi al fondo di queste intelligenze battezzate, ti crederai in un bazar. Tu vi ritroverai un rimescolio d’ignoranze, di baje, di frivolezze, pregiudizii, menzogne, errori, dubbi, obbiezioni, negazioni, empietà, inezie. Tristo spettacolo che mi ricorda lo struzzo morto ultimamente a Lione. Tu sai che l’autopsia del suo stomaco rivelò l’esistenza di un vero arsenale di pezzi di ferro, di legno, di corde ecc. Ecco di che nutre la sua intelligenza l’uomo, che non fa più il segno della croce: ecco com’egl la rispetta! Ed il suo cuore? Dispensami, caro Federico, dal rivelartene le ignominie. I moti suoi in vece d’essere ascendenti, sono discendenti, non si eleva spaziandosi a volo di aquila, ma si striscia sulla terra; non si nutre, come l’ape, del profumo dei fiori, ma, qual mosca schifosa, fa suo pasto ogni maniera di lordura. Non v’ ha violazione di legge che lo spaventi, né immondizia che eviti. Tu puoi bene convincertene, che la bocca parlando per la pienezza del cuore, la sua gola è spiraglio di sepolcro in putrefazione. Ed il suo corpo? Giovane che trovi indegno di te fare il segno della croce, tu credi essere un grande spirito, ma tu fai pietà! Ti credi indipendente, e sei schiavo; tu non vuoi onorarti facendo quanto fa il fiore della umanità, e per giusto castigo, tu fai quanto esegue il rifiuto della umana famiglia. La tua mano non segna la fronte del segno divino, ed essa toccherà quanto non dovrebbe mai toccare. Tu non vuoi ornare del segno protettore i tuoi occhi, le labbra ed il petto, ed i tuoi occhi s’insozzeranno guardando quanto non dovrebbero guardare, le tue labbra mute ciarliere, loquace» muti, come dice un gran genio [S. Aug. Medit. XXXV, 2], diranno quanto non dovrebbero dire, e diranno quello che dovrebbero tacere; il tuo petto, profano altare, brucerà di un fuoco, il cui solo nome fa onta. È questa la tua storia intima; potrai negarla, ma cancellarla giammai. Dessa è scritta su questa carta con inchiostro, ma è letta in tutte le parti del tuo essere, scrittavi con sanguigni caratteri di colpa, in sanguine peccati. – E la sua vita! L’uomo che non fa più il segno della croce, perde la stima della sua vita. Egli la vilipende, ne fa spreco, e mai la prende sul serio. Fare della notte giorno, e del giorno notte; poco lavoro e molto sonno, cibi delicati, senza nulla negare al gusto; consumarsi pel tempo, senza alcuna considerazione per l’eternità, ciò è a dire, tessere della tela di ragno, fare de’ castelli di carta, prender mosche, in usa parola: usar della vita come padrone, non è prenderla al serio. Prender la vita al serio è fare di essa l’uso voluto da Colui che ce l’ha confidata, e che ce ne domanderà conto non in confuso, ma dettagliatamente; non ad anni, ma per minuto. – Quando il disprezzatore del segno divino, che doveva nobilitarlo inspirandogli sentimenti di rispetto per l’anima ed il corpo suo, è stanco della iniquità e delle inezie, che cosa farà egli? Soventemente egli rigetta la vita come un peso insopportabile. Considerandosi qual bestia priva di timore e di speranza oltre la tomba, si uccide. – Qui, mio caro, come potrò io tutta esprimerti la pena dell’animo mio? Quanto diceva l’Apostolo delle meraviglie del cielo, che l’occhio non ha visto, né l’orecchio sentito, né lo spirito concepito nulla di simile, è mestieri dirlo al presente gemendo, arrossendo e tremando. No, in nessuna epoca, sotto nessun clima, nel mezzo di nessun popolo, ancorché pagano ed antropofago, l’occhio non ha visto, l’orecchio non ha sentito, lo spirito non ha concepito quello che noi vediamo, intendiamo e tocchiamo con mano; qual cosa? Il suicidio. Il suicidio è su di una scala senza paragone nell’istoria. In Francia solamente cento mila suicidi nel corso degli ultimi trentanni. Cento mila! ed il numero va sempre più crescendo – Ora, io son sicuro, benché senza prova, che di questi cento mila, novanta nove mila avevano perduto l’uso di fare il segno della croce seriamente, sovente, e con ogni religione. Credi ciò come tredicesimo articolo del simbolo. A domani.

 

LETTERA SESTA.

Il 1 dicembre.

Segno divino, distintivo del fiore della umanità, stemma del cattolico: tal è, mio caro Federico, il segno della croce considerato sotto il primo punto di vista. Se è vero che nobiltà obbliga, io non conosco, per inspirare all’uomo il sentimento della sua dignità ed il rispetto di se stesso, un mezzo più semplice, più facile, e più efficace del segno della croce, fatto soventemente, attentamente e religiosamente. Questa è una delle ragioni di sua esistenza. Questo segno, dice un Padre [“Magna haecest custodia, quae propter pauperes gratis datur sine labore propter infirmos, cum a Deo sit haec gratia, Signum fidelium et timor daemonum. Neque propterea quod est gratuitum, contemnas hoc signaculum; sed ideo magis venerare benefactorem”. S. Cyril. Hier. Catech. XIII], è custodia potentissima, gratuita pe’ poveri, facile pei deboli. Benefizio divino e spavento di satana, a vece di disprezzarlo perché gratuito, aumenti in te la riconoscenza. Io aggiungo, che l’eloquenza della croce eguaglia la sua potenza. Qual cosa insegna dessa all’uomo? Vediamolo. Ignoranti, il segno della croce è un libro, che e istruisce. Creazione, Redenzione, Glorificazione! Tutta la scienza teologica, filosofica, sociale, politica, isterica, divina ed umana, è raccolta in queste tre parole. Scienza del passato, scienza del presente e dell’avvenire, tutta è in esse e per esse, lume del mondo, base dell’intelligenza umana! Supponi un istante che il genere u-mano dimentichi queste tre parole, o che ne sconosca il vero senso: qual cosa mai diverrebbe? Agglomerazione di atomi che si muovono nel vuoto senza direzione e senza scopo; cieco nato senza guida e senza bastone; mistero inesplicabile a se stesso; infelice senza consolazione; un forzato senza speranza. Ecco l’uomo e la società! – Creazione, Redenzione, Glorificazione: queste tre parole sono più necessarie alla umanità che il pane che lo vive, e l’aria che desso respira. Sono necessarie a tutti, a ciascuno ora, e sempre. Esse sole allietano la vita e tutte le vite, l’azione e tutte le azioni, la parola e tutte le parole, il pensiero ed ogni pensiero, la gioia e tutte le gioie, la tristezza e tutte le tristezze, il sentimento ed ogni sentimento. – Ciò posto, la semplice ragione insegna che Dio doveva per se stesso stabilire un mezzo facile, universale, permanente, per dare a tutti questa conoscenza fondamentale, e darla non una sola volta, ma rinnovarla di continuo come rinnova l’aria, che respiriamo. – A qual dottore sarà commesso siffatto insegnamento? A S. Paolo, Santo Agostino, e S. Tommaso ? Forse ai geni d’Oriente, e d’Occidente? No. Questi dottori parlano un linguaggio, che tutti non comprendono, è mestieri di un dottore che parli una lingua intelligibile a tutti, al selvaggio dell’Oriente, ed al civilizzato della vecchia Europa. – Chi sarà dunque il mio dottore? Tu l’hai nominato, è il segno della croce. Esso, e lui solo raccoglie in se le condizioni esatte. Esso non muore, è da per tutto, la sua lingua è universale. Un solo instante richiede per insegnare la lezione, ed un momento solo basta a tutti per apprenderla. In prova di quanto dico, permetti ch’io ti disveli un mistero. Il Verbo incarnato, che Isaia chiama a ragione il Precettore del genere umano, aveva risoluto di morire per noi. V’erano molti generi di morte: la lapidazione, la decapitazione, precipitato da luogo eminente, l’acqua, il fuoco, e che so io? Fra tutte queste specie di morti perché ha egli scelto la croce? – Un profondo teologo ha risposto da molti secoli. Una delle ragioni perché la divina ed infinita saggezza scelse la croce, è per fermo, che un leggero movimento di mano basta a segnar su di noi lo strumento del divino supplizio; segno luminoso e potente, che c’insegna quanto è da sapere, e in che troviamo valida difesa contro i nostri avversari (1). il) [“Noluit Dominus lapidari, aut gladio truncari, quod videlicet nos semper nobiscum lapides aut ferrum forre non possumus, quibus defendamur. Elegit vero crucem, quae levi manus motu exprimitur, et contra inimici versutias munimur”. (Aicuin, De divin. off. c. XVIII)]. – Ecco il segno della croce stabilito catechista del genere umano. Ma è egli vero che desso soddisfi, com’è dovere, a tale uffizio, tu mi domandi, e ch’esso ripeta a segno le tre grandi parole: Creazione, Redenzione, Glorificazione? Non solo le ripete, ma le esplica con tale autorità, profondità e chiarezza da essere tutto cosa sua. – Con autorità, divina nella sua origine, è organo di Dio stesso. Con profondità e chiarezza: siine tu stesso giudice. Quando tu porti la mano dalla tua fronte al petto dicendo “in nome”, il segno della croce t’insegna l’indivisibile unità dell’essenza divina. Per solo questa parola, sii tu un fanciullo, od una semplice femmina, tu sei più sapiente che tutti i filosofi del Paganesimo. Qual progresso in un solo istante! – Dicendo “del Padre” un nuovo ed immenso raggio di luce è immerso nell’intelligenza tua. Il segno della croce ti apprende la esistenza di un Essere, Padre di tutti i padri, Principio eterno dell’essere da cui traggono la loro origine tutte le creature celesti e terrestri, visibili ed invisibili. A questa parola si dissipano per te le nebbie, che lungo venti secoli nascosero agli occhi del mondo pagano l’origine delle cose. – Tu continui dicendo: “e del figlio”, ed il segno della croce continua ad ammaestrarti. Ti dice che il Padre de’ padri ha un Figlio simile a sé. E facendoti portar la mano sul petto quando tu pronunzi il suo nome t’insegna che questo Figlio eterno del Padre s’è reso Figlio dell’uomo nel seno di una Vergine, per riscattare il mondo. L’uomo è dunque scaduto dall’altezza di uno stato migliore. Una novella luce questa parola apporta alla tua intelligenza! La coesistenza del bene e del male, il terribile dualismo che sperimenti in te stesso, questa riunione di nobili istinti e d’inclinazioni abbiette, d’azioni sublimi e di atti ignobili, la necessità della lotta, la possibilità ed i mezzi della riabilitazione: tutti questi misteri la cui profondità straziava la filosofia pagana, non sono più ravvolti fra tenebre per te. – Tu finisci dicendo: “e dello Spirito Santo”. Questa parola compie l’insegnamento della croce. Per essa tu sai che v’ha un Dio, Unità di essenza e Trinità di Persone: tu formi un’idea giusta dell’Essere per eccellenza, dell’Essere completo che non sarebbe tale se non fosse uno e trino. Se la prima Persona è necessariamente potenza, la seconda dev’essere sapienza e la terza amore. Questo amore essenzialmente benefico compisce l’opera del Padre che crea, e quella del Figlio che riscatta; Esso santifica l’uomo e lo conduce alla gloria. – Per la direzione della vita delle nazioni e dell’individuo, per i re come per i sudditi, qual luminoso insegnamento! Se Aristotele, Platone, Cicerone, tutti gli antichi pensatori, filosofi, legislatori e moralisti, fatigati dallo studio e stanchi di dubbi insolubili avessero risaputo la esistenza di un Maestro, che insegnasse con la profondità e chiarezza della Croce, avrebbero corso l’intero mondo per vederlo, stimandosi felici di passare la vita ad intenderne l’insegnamento. – Pronunziando il nome dello Spirito Santo tu compisci la Croce, e con ciò tu non solo conosci il Redentore, ma ancora lo strumento della redenzione. Di siffatto modo, nel mentre che desso inonda lo spirito di vivida luce, apre nel cuore una inesauribile fonte di amore, di che parleremo altrove. Ma attendendo, dimmi se torna possibile insegnare con minor numero di voci, e con simile eloquenza, e con lingua sì accessibile i tre grandi dogmi, Creazione, Redenzione, Glorificazione, ippomoclio del mondo morale, e principio generatore della umana intelligenza? Essere creato, essere riscattato, essere destinato alla gloria , ecco quello che sei, o uomo ! – Che cosa ne pensi tu, caro amico, è far della teologia questo? Ma se la teologia è la scienza di Dio, dell’uomo e del mondo; se la filosofia, conoscenza ragionata di Dio, dell’uomo, del mondo è figlia della teologia; se dalla teologia e dalla filosofia derivano tutte le scienze, la politica, la morale, l’istoria, ne segue, che il segno della Croce è il dottore più sapiente e meno verboso che abbia mai insegnato. – Vuoi tu sapere quale sia il posto, che questo segno venerando ha nel mondo? Te lo dirò domani.

 

SETTIMA LETTERA.

3 dicembre.

Caro Amico

Quelli che fanno del segno della croce un oggetto di disdegno e disprezzo, non sospettano neppure il ministero che da esso si esercita nel mondo. Eglino appartengono alla categoria degli esseri, sì numerosa di presente, che non sospetta nulla, perché non conosce nulla. Liscia per un istante il tuo seggio da giudice, dammi la tua mano, ed uniti facciamo un piccolo viaggio nel mondo antico e moderno. – Visitiamo innanzi la brillante antichità, prima che l’umanità sapesse segnarsi, e pellegrini dalla verità percorriamo l’Oriente e l’Occidente. Menfi, Atene, Roma queste tre grandi centri di lume ci chiamano alla scuola de’ saggi. Quali cose dicono questi illustri maestri sui punti che più è imposto conoscere? Il mondo è eterno, o è creato? se è stato creato, è perché? l’autore della natura è corporeo, o spirituale? è desso eterno, libero, indipendente? È uno solo, o sono molti? Risposta: espressioni imperfette, incertezze, contraddizioni. – Che cosa è il bene, e che cosa è il male? Donde vengono essi? come si trova nel mondo e nell’uomo? V’ha un rimedio pel male, o è irreparabile? Qual n’è il rimedio? chi lo possiede? come ottenerlo? come applicarlo? – Risposta: vane parole, incertezze, contraddizioni manifeste. Che cosa ò l’uomo? ha egli un’anima, e qual n’è la natura? È fuoco, è un soffio, è uno spirito, una materia aeriforme? Quest’anima è destinata a perire col corpo, o gli sopravvive? Se gli sopravvive, qual n’è la destinazione? Qual è lo scopo della sua esistenza? A tutte queste questioni ed a mille altre, qual’è la profonda, e filosofica risposta? vane parole, incertezze, contraddizioni manifeste! Ahi! Pretesi grandi uomini, e grandi popoli impotenti a dire la prima parola di risposta a queste grandi questioni, voi non siete che de’ grandi ignoranti! Che c’importa che voi sappiate formar de’ sistemi, sottilizzar sofismi, inondare di vostra facondia le scuole, i senati e gli areopaghi: condurre de’ carri nel Circo, fabbricare città, dare delle battaglie, conquistare delle Provincie, rendere la terra ed il mare tributari alle vostre concupiscenze? Quando voi ignorate chi voi siate, donde venite, e dove andate, voi non siete, per parlarvi come uno de’ vostri, che un’essere più o meno grasso dell’armento di Epicuro, Epicuri de grege porci.– Ecco il mondo avanti il segno della croce! questo eloquente segno apparso, queste vergognose tenebre si son dissipate. Il genere umano, letterato ed ignorante che fosse, ha appreso la scienza di se stesso, del mondo, di Dio, e ripetendola di continuo l’ha impressa nel fondo dell’ anima di modo, da non più dimenticarla. – Checché se ne dica, [mercé l’uso di questo segno della croce in tutte le classi della società, sia nelle città che nelle campagne, il mondo cattolico de’ primi secoli e del medio evo, conservò in un grado sconosciuto innanzi e dopo lui la scienza divina, madre di tutte le altre, e lume della vita. Né poteva essere altrimenti; che se nel corso di quarant’anni, un uomo si ripete seriamente dieci volte al giorno un errore qualunque, egli finirà coll’esserne completamente imbevuto, e si identificherà con esso. Perché non sarà Io stesso per la verità? – Desideri tu la contro prova di quanto dico? Continuiamo il nostro viaggio e passiamo nel mondo moderno. Desso ha abbandonato il segno della croce. Di poi quel fatale momento, esso non ha a’ suoi fianchi l’ammonitore, che gli ripeta a ciascun momento i tre dogmi necessari alla sua vita morale; esso li dimentica, o per lui è un come non fossero. Or vedi qual sia divenuta la sua scienza. Come del mondo di altri tempi tu ascolti le vergognose sue vane parole sui principi i più elementari della religione, sul diritto, sulla famiglia e sulle proprietà. Qual fondo di vanità alimenta le sue conversazioni! Di che mai sono pieni i suoi libri di politica e filosofia? alla luce di quali fiaccole cammina la sua vita pubblica e privata? I giornali! di questi nuovi padri della Chiesa, qual’ è il tuo pensiero? In quel torrente di parole, con che inondano ogni giorno la società, qual sana idea potrai tu ritrovare sul conto di Dio, dell’uomo e del mondo? – Qual cosa mai conosce questo mondo moderno, questo secolo di lumi, che ignora come si faccia il segno della croce? Esso conosce, né più né meno di quello, che i pagani suoi maestri e modelli conoscevano. Desso conosce ed adora il dio “Me”, il dio Commercio, il dio Cotone, il dio Scudo, il dio Ventre, Deus venter. Esso conosce ed adora la Dea Industria, la Dea Vapore, la Dea Elettricità. Per soddisfare alle sue cupidigie, conosce ed adora la scienza della materia, la chimica, la fisica, la meccanica, la dinamica, i sali, le essenze, le quintessenze, i solfati, i nitrati, i carbonati. Ecco i suoi dei, il suo culto, la sua teologia, la filosofia, la politica, la morale, la sua vita! Un altro passo nel progresso e sarà scienziato alla maniera de’ contemporanei di Noè, destinati a morire pel diluvio. [Matth. XXIV, 37, 38, 39. – Luc. XVII, 38. – Gen. VI.12]. – Per quelli tutta la scienza era riposta nel conoscere ed adorare gli dei moderni; a bere, a mangiare, a fabbricare, vendere e comprare, maritare e maritarsi. L’uomo aveva concentrato la sua vita nella materia, egli stesso era divenuto carne; e com’essa ignorante e lordo. – Quale di tutte queste tendenze manca al mondo moderno? La sua scienza benché meno avanzata di quella de’ giganti non ne ha forse la natura? Non sapendo, né facendo più il segno della croce si materializza; ed in virtù della legge di gravitazione morale, cade necessariamente nello stesso stato in che trovavasi il genere umano innanzi che apprendesse saper fare il segno della croce! – “Ignoranti, il segno della croce è un libro, che c’istruisce”. A questo nuovo punto di vista, tu puoi giudicare se i nostri padri avevano torto facendolo continuamente. Che l’ignoranza contemporanea, grandemente da deplorare, debba essere attribuita, in gran parte, all’abbandono di questo segno, tu ne sarai fra poco senza manco convinto. – Che cosa è l’ignoranza? L’ignoranza è l’indigenza dello spirito. In fatto di religione, dessa importa soventemente l’indigenza del cuore, per difetto di forza a praticare la virtù, ed evitare il male. Perché questa debolezza? l’uomo trascura i mezzi capaci di ottenergli la grazia, o di renderla efficace, fra i quali primeggia, come più ‘comune, più pronto e facile, la preghiera. E fra tutte le preghiere la più facile, la più pronta e la più comune, ed altresì, può essere la più efficace, è il segno della Croce. Ecco un nuovo studio per te, e per i primi cristiani, una nuova giustificazione. – “Poveri, il segno della Croce è un tesoro, che ci arrichisce”. Povero è colui che ciascun giorno passando di porta in porta accatta il suo pane: Creso era un povero, Cesare un povero, Alessandro un povero, gl’imperatori ed i re, le imperatrici e le regine sono de’ poveri mendicanti, e mendicanti coronati, ma sempre mendicanti e non altro. Chi è l’uomo, per quanto ricco si supponga, che non debba ciascun giorno alla porta del gran Padre di famiglia dire: Dateci il nostro pane quotidiano? Il più possente de’ monarchi può formare un granello di frumento? – Vita fisica e morale, mezzi di conservazione per l’una e per l’altra, l’uomo ha tutto ricevuto, quid habes quod non accepisti? – Nulla egli possiede di proprio, neppure un capello del suo capo, e quanto egli ha ricevuto, non l’ha ricevuto una sola volta per sempre. La sua indigenza è continua in tutti i giorni, in tutte le ore, in tutti i minuti secondi. Se Dio cessasse di tutto donargli egli perirebbe all’istante. Di che segue, mio caro Federico, una legge del mondo morale, a che per fermo, i tuoi compagni non hanno giammai riflettuto: dico la legge della preghiera. – I popoli pagani d’altri tempi, gli idolatri ed i selvaggi dei nostri, hanno, più o meno, perduto il patrimonio delle verità tradizionali, ma nessuno ha perduto la conoscenza della legge della preghiera. Sotto di una, od altra forma, il genere umano di poi ch’egli è apparso sul globo, l’ha invariabilmente osservato. L’istinto della conservazione, più forte che tutte le passioni, e più eloquente che i sofismi, gli ha appreso che da questa invariabile fedeltà dipenderebbe la sua esistenza. Non s’è-ingannato! Il giorno in cui una preghiera umana o angelica non si elevasse verso Dio, ogni rapporto tra la creatura ed il Creatore, tra il ricco e il povero, cesserebbe il corso della vita, sarebbe all’istante medesimo sospeso. – Non è questo il profondo mistero che il verbo incarnato ha rivelato al mondo, dicendo: È mestiere sempre pregare, e non desistere dalla preghiera: “Opportet semper orare et nunquam deficere?” – Osserva quanto v’ha d’imperativo in queste parole. Il legislatore non invita, ma comanda, e siffatto comando è necessità, assoluto, “oportet”, nè ammette intermittenza alcuna né di giorno né di notte, per l’osservanza della legge oportet semper. Fino a che innanzi a Dio il genere umano è un povero, la legge della preghiera non sarà modificata, nè sospesa, e come ché il genere umano sarà sempre un povero, la legge della preghiera conserverà il suo impero fino agli ultimi giorni del mondo: et nunquam deficere. Il mondo fisico stesso è stato organizzato in vista dell’osservanza continua di questa legge conservatrice del mondo morale, che il passaggio successivo del sole d’un emisfero all’altro tiene la metà del genere umano svegliato per pregare. – Ora una delle preghiere la più potente è il segno della Croce, per comune sentir dell’intero genere umano. Egli lo ha creduto, perché lo ha appreso, e non ha potuto apprenderlo che da Dio, da cui tutto ha appreso. Ho detto il genere umano tutto intiero a disegno. I tuoi compagni può essere che credano che il segno della Croce cominciato col cristianesimo, o per lo meno, che l’uso ne sia stato circoscritto presso il popolo ebreo ed il popolo cattolico. La mia prima lettera ti farà avvisato della confidenza, che la loro opinione merita.

 

LETTERA OTTAVA.

3 dicembre.

Mio caro Federico

Il tuo orecchio, come quello di ben molti altri, farà lo zufolo alla prima frase di questa mia lettera. “Il segno della croce rimonta all’origine del mondo”. Esso è stato eseguito da tutti i popoli, ancorché pagani, nelle solenni preghiere, e nelle contingenze, in che era da ottenere una qualche grazia decisiva. Innanzi tratto è da osservare, che questa proposizione non contraddice a quanto abbiamo detto nella precedente lettera; avvegnacché ieri fu parola del segno della croce nella sua forma completa, e perfettamente compresa, com’ è in uso da poi il Cristianesimo; oggi 1’è della forma elementare, benché reale, e più o meno misteriosa per quelli, che ne usavano avanti la predicazione del Vangelo. Uno schiarimento ti sembra necessario; ed eccolo. – Il segno della croce è si naturale all’uomo, che presso tutti i popoli, in tutte le religioni, ed in tutte le epoche, non s’è messo egli in rapporto con Dio per lo mezzo della preghiera senza eseguirlo. Hai tu conoscenza di un qualche popolo che pregasse con le braccia pendenti? Per me, lo ignoro; solo conosco che i pagani, gli ebrei, ed i cattolici, hanno pregato facendo questo segno della croce. V’hanno sette modi di fare questo segno. Le braccia distese: l’intero nomo diviene segno di croce. Le mani congiunte, e le dita commesse insieme; ecco cinque segni di croce. – Le mani applicate l’una contro l’altra, ed un pollice sovrapposto all’altro, nuovo segno di croce. Le mani congiunte innanzi al petto, formano un altro segno di croce. Le braccia al petto conserte ti presentano di nuovo la croce. Il dito pollice della mano destra passando sotto l’indice e posandosi sul medio forma un altro segno di croce, limitatissimo, come fra poco vedremo. – In fine, la mano destra passando dal mezzo della fronte al petto e da questo alle spalle, lo rappresenta più esplicitamente, come tu a pezza conosci. – Sotto l’una o l’altra di queste forme, il segno della croce è stato conosciuto e praticato dappertutto e sempre, nelle circostanze solenni con una conoscenza più o meno chiara della sua efficacia. – Giacobbe è sul punto di morire. Dodici figli, futuri patriarchi di dodici grandi tribù, lo circondano. Il santo patriarca, per divina inspirazione predice a ciascun di loro quanto ad essi accadrebbe nel seguito de’ secoli. Alla vista di Efraim e di Manasse, i due figli di Giuseppe, il vecchio è commosso ed implora sopra di loro tutte le divine benedizioni (Genes. XLVII, 13. seq.]. – Ad ottenerle qual cosa mai fa egli? Incrocia le braccia, dice la scrittura, e poggia la mano sinistra sul capo del figlio che aveva a destra, e la mano destra su quello, che aveva a sinistra. Ecco il segno della croce, sorgente eterna di benedizioni! – La tradizione non s’è ingannata; Giacobbe era la figura del Messia. In questo momento solenne, parole ed azioni, tutto nel patriarca doveva essere profetico. Giacobbe, dice san Giovanni Damasceno, incrocia le mani per benedire i figli di Giuseppe, forma il segno della croce, nulla v’ha di più evidente. [“Jacob, alternates cancellatisque manibus, filios Joseph benedicens, signum Crucis manifestissime scripsit”. (De fide orthod. lib. I, c. 18)]. – Fin da’ tempi apostolici, Tertulliano constata lo stesso fatto, e dalla stessa interpretazione. «L’antico Testamento, dic’egli, ci mostra Giacobbe che benedice i figli di Giuseppe con la mano sinistra sul capo di quello che aveva a destra, e la destra sulla testa di chi era a sinistra. In questa posizione, esse formavano la croce ed annunziavano le benedizioni di che il Crocifisso sarebbe inesauribile fonte » [“Sed est hoc quoque de veteri Sacramento, quo nepotes suos ex Joseph, Ephraim et Manasse, Jacob, impositis capitibus et intermutatis manibus, benedixerit; et quidem ita transversim obliquatis in se, ut Christum deformantes, jam tunc protenderet benedictionem in Cristum futuram” (De Baptism)].Sormontiamo i tempi della cattività in Egitto ed arriviamo a Mose. Nel mezzo del deserto gli Ebrei si trovano di rincontro ad Achimalec, che alla testa di fortissima oste sbarra loro la via, ed una battaglia decisiva è inevitabile. Che farà Mose? A vece di restare nel piano e dar coraggio ai combattenti d’Israele col gesto e con la voce, egli ascende il monte, che resta a cavaliere del campo di battaglia, e durante la zuffa che fa egli il legislatore inspirato da Dio? Il segno della croce; non altro che questo segno, lungo tutto il tempo dell’azione, non leggendosi che abbia pronunziato parola alcuna. Egli tiene le mani aperte e le braccia distese verso il cielo, facendo di se un segno di croce, Dio lo vede in tale atteggiamento e la vittoria è riportata (1). (Exod. XVII, 10]. – Non credere che vana supposizione sia questa. Ascolta quanto ne dicono i Padri. “Amalec, esclama san Giovanni Damasceno, sono queste mani distese in croce, che ti hanno vinto!” [“Manus Crucis extensae Amalech repulerunt”. (De Fide Ortodox. lib. IV, c. 12.)]. – Ed il gran Tertulliano: «Perchè… Mosè, quando Giosuè combatte Amalec, fa quanto mai ha fatto, cioè, pregare in piedi e con le braccia distese? In circostanza sì decisiva era da pregare, per rendere più efficace la sua preghiera, in ginocchio, battendosi il petto, e con la fronte prostrata nella polvere. Niente di tutto questo: e perchè? La battaglia, contro Amalec prefigurava la guerra del Verbo incarnato contro Satana, ed il segno della croce, col quale questi riporterebbe la vittoria » [“Jam vero Moyses quid utique nunc tantum, cum Jesus adversus Amalech praeliabatur, expansis manibus orat residens, quando in rebus tam altonitis, magia utique genibus depositis, et manibus caedentibus pectus, et facie numi volutami, orationem commendare debuisset; nisi quia illic, ubi nomen Domini dimicabat, dimicaturae quandoque adversus diabolum crucis quoque erat habitus necessarius, per quam Jesus victoriam esset relaturus?” (Contra Marcion. lib. III]. Ed il filosofo martire san Giustino, che arriva fino agli apostoli: « Mosè sul monte fino al tramonto del sole, con le braccia distese sostenute da Ur e da Aronne, che cosa è mai, se non il segno della croce » [“Moyses expansis manibus in colle ad vesperam usque permansi!, cum manus ejus susteiitarentur, quod sane ìiullam nisi crucis figuram exhibebat”. (Dialog, cum Tryph. n. III.). – Insensibili ai miracoli di paterno amore, di che erano oggetto gli Ebrei pronunziavano male voci contro Mosè, e contro Dio. Dalle parole passano ai fatti, ed irrompono a rivolta ostinata. Ma la pena è pronta, e con i medesimi caratteri della colpa. De’serpenti, rettili spaventevoli, il cui veleno brucia qual fuoco, si gettano sui colpevoli facendone strazio con i loro morsi, e coprono il campo di morti e di morenti. Alla preghiera di Mosè Dio si placa; per mettere in fuga i serpenti, e guarire gl’innumerevoli infermi, qual mezzo indica Egli? Delle preghiere? no. Dei digiuni? nemmeno. Un altare, o una colonna di espiazione? nulla di tutto questo. Comanda si faccia un segno di croce permanente e visibile a tutti, segno che ciascun infermo farà col desiderio guardandola, e tale sarà la potenza di questo segno, che un solo sguardo restituirà la perduta sanità. Il significato di questo segno divinamente comandato non è oscuro, poiché il vero segno della Croce, il segno della Croce vivente per tutta l’eternità, N. Signore stesso ha rivelato al genere umano che il segno del deserto era sua immagine. « Come Mose elevò nel mezzo del deserto il serpente, così è mestieri che il Figlio dell’uomo sia elevato, affinché chiunque crede in lui non perisca, ed abbia vita eterna” [Joan. III, 15]. – Se i limiti di una lettera lo permettessero, noi percorreremmo insieme gli annali del popolo figurativo, e vedresti, mio caro, che in tutte le importanti occasioni, che sono pervenute a nostra notizia, esso fece ricorso al segno della croce. Lascia che io ten citi qualcuna. Nei sacrifizii il sacerdote, secondo il rito prescritto, elevava l’ostia, e la trasportava dall’oriente all’occidente, come ci dicono gli stessi Ebrei, e con ciò formava una figura della croce, e con un movimento simile il gran sacerdote ed i semplici sacerdoti benedicevano il popolo dopo i sacrifizii [Duguet. Traitt. de la croix de N. S. c. VIII]. – Dalla chiesa giudaica, questo segno è passato nella chiesa cristiana. I primi fedeli ammiratori dell’antico modo di benedire con la figura della croce, ed ammaestrati dagli apostoli del misterioso significato di questo segno lo hanno continuato accompagnandolo con le parole che lo spiegano. – Le abominazioni di Gerusalemme erano giunte al loro colmo, quando Dio mostrò al profeta Ezechiele il personaggio misterioso, che doveva attraversare la città e segnare del T la fronte de’ gementi sulla iniquità della colpevole capitale [Ezecb. IX, 4]. – Ai fianchi di esso camminavano sei individui muniti di armi micidiali con ordine di massacrare quanti non trovassero marcati del segno salutare. Come non vedervi una figura del segno della croce, ch’è fatto sulla nostra fronte? I Padri della Chiesa l’intendono a questa maniera, e fra gli altri, Tertulliano e S. Girolamo. Come, questi dicono, il segno del T impresso sulla fronte di quelli che gemevano sulla iniquità di questa città, li protesse contro gli angeli sterminatori; così il segno della croce, di che l’uomo segna la sua fronte, è certo argomento ch’egli non sarà la vittima di satana, né degli altri nemici del suo bene, s’egli geme sinceramente sulle abominazioni che questo segno combatte [Tertull. adv. Marc. 1, III , c. 22 – Hier, in Exech. c. X]. – I Filistei hanno ridotto Israele alla più umiliante delle servitù. Sansone comincia a liberarla, ma sventuratamente il forte d’Israele è sorpreso, incatenato, privato della vista degli occhi, ed i Filistei si servono di lui come di trastullo nelle loro feste. Sansone medita la vendetta, e con un sol colpo vuole schiacciare migliaia di nemici, e la Provvidenza ha siffattamente disposto, che il suo disegno col segno della croce venga eseguito. Posto fra due colonne, sostegno dell’edilizio, dice S.Agostino, il forte d’Israele distende le sue braccia in forma di croce, ed in tale atteggiamento fortissimo, scuote le colonne, le abbatte, e schiaccia i nemici suoi, e come il Crocifisso, di che era figura, muore sepolto nel suo trionfo [“Jam hic imaginem crucis attendite: expansas enim manas ad duas columnas, quasi ad duo signa crucis extendit; sed adversarios suos interemptos oppressit, et illius passio interferito facta est persequentium” (Serm. 107. de lemp).] – David pieno di amarezze è ridotto agli estremi, che possa patire un re! Un figlio parricida, i sudditi in rivolta, un trono vacillante, la vecchia età che si avanza, lo appenano tanto, ch’egli n’è prostrato. Qual cosa fa il monarca inspirato per lenire la forza del dolor suo? Prega. Ma come? Facendo il segno della croce (2). (2) [“Expandi manus meas ad te”. (Ps. LXXXIII, CXLII, etc. etc.]. – Salomone compisce il tempio di Gesusalemme, ed il magnifico edilizio è consacrato con pompa degna di un tale sovrano; resta solo attirare le benedizioni divine sulla nuova casa del Dio d’Israele, ed ottenerne i favori per quelli, che vi pregheranno, Salomone all’uopo prega il Signore ed in atteggiamento di croce. “In piedi, dinanzi l’altare del Signore, dice il sacro testo, al cospetto di tutto il popolo d’Israele, distende le mani verso il cielo, e dice: Signore, Dio d’Israele, non v’ha un Dio simile a voi ne’ cieli e sulla terra. Guardate la preghiera del vostro servo. I vostri occhi guardino questa casa notte e dì, onde le preci del vostro servo, e del vostro popolo sieno esaudite” [“Stetit autem Salomon ante altare Domini in conspectu ecclesiae Israel, et expandit manus suas in eoelum, et ait: Domine Deus Israel, non est similis tui, Deus in ccelo desuper,et super terram deorsum réspice ad orationem servi tui, et ad preces ejus ut sint oculi aperti super domum hanc nocte et die, ut exaudías deprecationem servi tui, et populi tui Israel” III Reg. VIII, 22, 23, 28, 2», 30). – Credere che i soli patriarchi, i giudici, i veggenti d’Israele conoscessero il segno della croce, e lo praticassero sarebbe un ingannarsi; tutto il popolo lo conosceva e ne’ pubblici pericoli religiosamente ne usava. Sennacherib marcia di vittoria in vittoria, la maggior parte della Palestina è soggiogata, Gerusalemme è minacciata. Vedi tu quel che questo popolo, uomini, femmine e fanciulli, operano per respingere l’inimico? Come Mosè si rendono immagine della croce; eglino invocano il Signore delle misericordie, e distese le mani, le innalzano verso il cielo, ed il Signore li esaudì [“Et invocaverunt Dominum misericordem , et expandentes manus suas, extulerunt ad Coelum et sanctus Dominus Deus audivit cito vocem ipsorum”. [Eccli. XLVIII, 22].- Ma un altro pericolo li minaccia. Eliodoro s’avanza seguito dall’esercito per saccheggiare il tesoro del tempio, di già ha passato la soglia, un’istante ed il sacrilegio sarà compiuto. I Sacerdoti prostesi sul suolo innanzi all’altare del Signore pregavano; ma nulla arresta il sacrilego spogliatore: il popolo invoca a suo soccorso l’arma tradizionale, prega facendo il segno della croce : tu sai il resto. (II Macab. III, 20]. – Se non è da porre in dubbio che pregare con le braccia distese è un formare la figura dalla croce, tu vedi chiaro ed aperto, che, da’ tempi i più remoti, i giudei hanno conosciuto e praticato il segno della croce, per un istinto più o meno misterioso della sua onnipotenza. – Domani noi vedremo se i pagani erano meno istruiti.

 

 

La strana sindrome di nonno Basilio 36

nonno

Caro direttore, ancora una volta abuso della sua cortesia, rivolgendomi a lei un po’ per confidarmi con un amico, un po’ alla ricerca di un conforto ed un aiuto nella speranza lei possa trovare un rimedio al mio attuale stato mentale, nel quale persiste, come altre volte le ho accennato, il “buco” mnemonico e certe altre strane manifestazioni secondarie. I miei nipoti cercano come possono di aiutarmi, e per la verità ce la mettono tutta, anche se Mimmo, in particolare, spesso mi fa innervosire per le sue trovate stravaganti in materia religiosa, che a suo dire fanno parte di una Chiesa oggi rinnovata ed evoluta, ma che io, memore degli insegnamenti della buon’anima dello zio Tommaso, trovo assurde, ridicole e a volte blasfeme ed eretiche. Devo riconoscergli che sta però impegnandosi per meglio comprendere i fondamenti del Cattolicesimo. L’altra settimana ad esempio, ero nel mio studiolo, con in mano un testo di teologia di San Tommaso d’Aquino. Per la verità si trattava delle cosiddette XXIV tesi del Tomismo redatte a suo tempo da padre Guido Mattiussi e mons. Biagioli su commissione di S. Pio X. Le devo fare però un po’, se permette, un po’ di cappello, per meglio far comprendere a lei ed ai suoi lettori i termini della questione che si è andata sviluppando. Come lei certamente saprà, la filosofia di San Tommaso d’Aquino, il” dottore Angelico”, è stata da sempre il fulcro degli insegnamenti cattolici, croce e delizia degli studenti dei Seminari e delle Università. Inutile ricordarle che al Concilio di Trento, al centro dell’assemblea conciliare c’erano la Bibbia e la Somma Teologica del nostro “Angelico”. Successivamente, in varie occasioni e tempi diversi, i Pontefici di Santa Romana Chiesa hanno sottolineato la bontà degli scritti dell’aquinate, … le cito così giusto le encicliche famose al riguardo: di Leone XIII, la “Aeterni Patris” del 1879, la “Fausto appetente die” di Benedetto XV del 1921, nonché la “Studiorum ducem” del 1923, di Pio XI. In questo periodo, cioè fine dell’800 ed inizio del ‘900 si comprese che le fondamenta dottrinali della teologia Cattoliche erano come traballanti sotto i colpi di etero-teologie debordanti dal protestantesimo anglo-teutonico, dal gallicanesimo sempre strisciante e dalle mal occultate deliranti tesi gnostiche, sparse un po’ tra tutti i fermenti culturali, politici e filosofici, dall’Umanesimo in avanti, fino all’Illuminismo, al Romanticismo, al marxismo e via di seguito, fermenti generati, influenzati e spinti, oltre che dalle logge massoniche, dai soliti marrani della “quinta colonna” ben celata nei posti di rilevanza oramai indebitamente conquistati della Chiesa Cattolica, le cui teste si era levate presuntuosamente già ai tempi del Concilio Vaticano, condotto con grande impegno ed energia da Pio IX che ne aveva respinto i tentativi di “golpe” . Ecco quindi che i Pontefici, ben solleciti nella cura delle pecore e degli agnelli loro affidati, cercarono di correre ai ripari, iniziando dalle fondamenta filo-teologiche dell’istruzione di base da rinforzare nei Seminari diocesani e in tutto il clero. Fu così che Pio X, incaricò nell’inverno del 1914 il padre Gesuita Guido Mattiussi di precisare il pensiero di San Tommaso nelle questioni più gravi in materia filosofica, e di condensarle in pochi enunciati chiari ed inequivocabili. Ai lavori partecipò pure Mons. Giuseppe Biagioli, professore di teologia al Seminario di Fiesole. Terminato il lavoro, nell’estate del 1914, il card. Lorenzelli, prefetto della Congregazione degli Studi, presentò le XXIV tesi compilate dal Mattiussi e Biagioli a San Pio X, che le approvò il 27 luglio del 1914; il suo successore, Benedetto XV, stabilì che le Tesi “esprimono la genuina dottrina di San Tommaso e son proposte come sicure norme direttive”. Il Magistero, ancora con Papa Benedetto XV, il 7 marzo 1917 decise che le XXIV Tesi dovessero essere proposte come “regole sicure di direzione intellettuale”. Nel 1917 il CIC nel canone 1366 par. 2 diceva “il metodo, i principi e la dottrina di S. Tommaso devono essere seguiti santamente e con rispetto religioso”, riassumendo i concetti delle encicliche sopra menzionate. Le faccio queste citazioni praticamente a memoria (che è sì malandata, ma in queste cose rinasce come a nuova vita), anche perché così rivivo un po’ i tempi in cui lo zio Tommaso, buona anima di sacerdote, ci teneva lezioni che, apparentemente barbose e mal digerite dai noi altri scapestrati nipoti, nel tempo si sono poi dimostrate efficaci nel mantenere la nostra fede granitica. In particolare era la solita Felicina, la nipote secchiona, a ricordare meglio di tutti i documenti che lo zio ci faceva conoscere e che lei ripeteva a memoria tra la nostra meraviglia, condita da un pizzico di invidia, e la soddisfazione mal celata dello zio che ne andava fiero …. Beh altri tempi, direttore, altra tempra … altra gente, gente di cui si è perso lo stampo, purtroppo! Ma torniamo al nostro piccolo. Ero dunque intento a sfogliare queste tesi che lo zio Tommaso ci sottolineava accuratamente per farci meglio comprendere i passaggi più ostici e farli entrare nelle nostre “zucche” piene di segatura, come egli definiva le nostre menti distratte da tutt’altre faccende. In questo frangente fa capolino Mimmo, mio nipote, col suo fare un po’ sfrontato, un po’ sornione, … “Ah capiti giusto “a fagiuolo”, gli dico, so che stai preparando un esame di filosofia e questo ti potrebbe aiutare; ascolta, stavo qui rileggendo la XVI tesi tomistica [l’unione dell’anima con il corpo], …” – “ … e che ci devo fare io, con la tesi sedicesima?”, mi risponde il nipotastro sfrontato. – “Questa è una tesi molto importante di S. Tommaso, come del resto tutte le altre, tra loro concatenate da un “unicum” inattaccabile …, infatti qui si legge che: «L’anima razionale è unita al corpo in maniera tale da esserne l’unica forma sostanziale. È per essa che l’uomo è uomo, animato, vivente, corpo, sostanza e ente. Quindi l’anima dà al corpo ogni grado essenziale di perfezione; inoltre comunica al corpo l’atto d’essere per il quale essa stessa è ciò che è ed esiste». L’anima umana è la forma sostanziale del corpo. Ora la forma sostanziale di un composto è unica poiché una sola sostanza – per il principio evidente di ‘identità’ e ‘non contraddizione’ – non può essere, nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto, una sostanza ed un’altra essenzialmente diversa. Per esempio, l’oro non può essere, nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto, oro e ferro avendo contemporaneamente la forma sostanziale di oro e di ferro. Questo spiegherebbe già da solo l’assurdo dell’anima vagante da un corpo all’altro, come nei deliri gnostici recepiti dalle filosofie orientali. San Tommaso spiega: “L’anima è ciò per cui il corpo umano possiede l’essere in atto e ciò è proprio della forma, che dà l’essere. Perciò l’anima umana è forma del corpo” (De Anima, 1, resp.; ivi, 1, ad 7). L’Angelico riporta due argomenti a dimostrazione di questa affermazione: 1°) l’unione dell’anima col corpo non può essere accidentale (come vorrebbe lo spiritualismo esagerato di Platone e Cartesio, che comunque sposano entrambi sotto diverse apparenze, tesi gnostiche), perché, quando l’anima si separa dal corpo, in quest’ultimo non rimane più nulla di umano se non l’apparenza. Il cadavere non ancora putrefatto sembra ancora un corpo umano, ma non lo è più in quanto non è vivo e non è un corpo organico. Perciò se l’anima fosse unita solo accidentalmente al corpo, come un marinaio alla nave o un cavaliere al cavallo, non darebbe la specie al corpo e alle di lui parti; infatti il cavaliere non dà la natura specifica al cavallo altrimenti il cavallo dovrebbe essere di specie umana; invece l’anima informa e specifica il corpo e le sue parti; ne è prova il fatto che, separandosi l’anima dal corpo per la morte dell’uomo, le singole parti mantengono il loro nome che indica la loro specie solo in maniera equivoca. Per esempio, la parola ‘occhio’, parlando di un morto, è un concetto equivoco poiché l’occhio del morto non è un organo che può vedere, ma è materia in putrefazione; così pure la parola ‘corpo’ riferita ad un morto è un concetto equivoco poiché il corpo non è vivente, ma è una materia cadaverica in putrefazione. 2°) Inoltre l’unione del corpo giova all’anima sia nell’essere che nell’agire: “L’anima è unita al corpo per la sua perfezione sostanziale, ossia per formare con lui una sostanza umana completa, perché la sola anima senza il corpo non sarebbe un uomo ma un fantasma, ed anche per la perfezione accidentale dell’azione. Per esempio, la conoscenza intellettiva dell’anima è acquisita attraverso i sensi e ‘niente si trova nell’intelletto se prima non è passato attraverso la conoscenza sensibile’; infatti questo modo di agire è connaturale all’uomo, che è un composto di anima e corpo” (De Anima, 1, ad 7). Mimmo, qui ripensavo al tuo amico, convinto che l’anima possa trasmigrare prendendo il corpo come un soprabito che si cambia nelle varie stagioni. Vedi come il dottore Angelico è così stringente nella sua logica razionale, e questo in tutta la sua opera. Ecco perché tutta la filosofia moderna si basa sulla “critica della ragione”, in modo da poter sostenere qualsiasi corbelleria che, ammanta da astrusità ed amenità varie, abbia sapore di novità per gli sciocchi ed rimbecilliti lettori. Ascolta ancora qui cosa scrive l’Aquinate: “L’anima pur potendo sussistere per se stessa, non forma da sé una specie o una sostanza completa, ma entra nella specie umana come forma. Così l’anima è sia la forma del corpo sia una sostanza” (De Anima, 1, resp.). E ancora: L’uomo è una sola persona, che non è la sola anima né il solo corpo, ma l’unione sostanziale di anima e di corpo. L’uomo non è solo anima e il corpo non è la “prigione dell’anima” come voleva Platone e tutta la marmaglia di gnostici antichi e moderni, orientali ed occidentali, occulti e palesi, altrimenti l’uomo sarebbe un fantasma; parimenti l’uomo non è solo corpo, come vorrebbero i materialisti, altrimenti sarebbe un cadavere senza vita. Il comune modo di parlare testimonia questa verità, infatti diciamo: “io conosco, io voglio, io sento, io soffro, io cammino, io vedo”, come pure diciamo: “la mia anima o intelligenza conosce, il mio corpo cammina”, ossia la parola “io”, che indica tutto l’uomo, designa sia la parte spirituale sia quella materiale di noi stessi, secondo il buon senso e il senso comune di tutti gli uomini dotati di sana ragione”. Ad un certo punto, come se si risvegliasse da un lungo torpore, Mimmo dice: “il composto è quindi inscindibile …” . ma certo Mimmo, ascolta: “L’anima razionale dà la vita  o l’animazione al corpo, poiché essa è “principio di vita”. Un puro corpo senza anima è un cadavere inanimato e non un corpo organico. 3)  L’anima è un co-principio sostanziale, che assieme al corpo forma la sostanza completa umana: la sola anima o il solo corpo non sono un uomo, ma la loro unione sostanziale forma l’uomo. Quindi senza corpo non c’è l’uomo, ma un angelo o un fantasma, e senza anima c’è solo un cadavere. … La materia e la forma si uniscono come la potenza e l’atto per costituire un solo soggetto o una sola sostanza completa. La materia di per sé è incompleta, è un co-principio sostanziale e deve essere completata da una forma per dar luogo ad un corpo completo, così pure la potenza o capacità di essere se non riceve l’atto non arriverà mai all’essere: solo se attuata essa sarà un ente completo in atto d’essere e non più una capacità soltanto in divenire. La potenza sta all’atto, come la materia alla forma. Ora l’atto e la forma attuano ed informano la potenza e la materia come il più perfetto completa il meno perfetto. Quindi l’anima informa e perfeziona il corpo, dandogli l’essere e la specie; per esempio l’anima razionale dà la specie umana  al corpo e poi l’essere, mentre la specie animale è data dall’anima sensibile e la specie vegetale è data dall’anima vegetativa”. Vedi Mimmo l’anima dà al corpo tutti i gradi di perfezione essenziale, ossia il corpo dell’uomo essendo informato dall’anima razionale riceve da questa le perfezioni proprie della specie umana, che sono la vita razionale, intelligente e libera, l’immortalità e la resurrezione per riunirsi all’anima dopo la morte”. Ed ecco che con una tazza di tè fumante arriva pure Caterina, l’altra mia nipote, che ascoltando la conversazione e conoscendo bene i termini della questione, si inserisce a bruciapelo, e mi fa: “che ne pensi, nonno, della tesi teologica secondo la quale, in un’autorità, anche ecclesiale, o addirittura pontificale, ci sarebbe da distinguere una componente formale da una materiale?”. “Ma certo Caterina, il dottore Angelico lo specifica chiaramente, ma solo per dire che le due cose da sole non possono esistere. Così come l’anima senza il corpo, sarebbe un fantasma, ed un corpo senza anima sarebbe un cadavere fresco non ancora putrefatto”. “Quindi secondo te un Vescovo o anche un Papa non potrebbe essere solo materialiter … sai ho sentito dei miei amici all’università dibattere su una tesi di un certo frate domenicano, secondo il quale è possibile che ci sia un Papa materiale, cioè eletto dai cardinali in un Conclave, ma senza che abbia autorità divina per difetto di intenzione, per cui non avrebbe la “forma”. “Questo, scusami Caterina, mi meraviglia molto, perché tu mi dici che sia la tesi di un domenicano, ed io mi rifiuto categoricamente di credere che un chierico dell’Ordine dei Predicatori, lo stesso di San Tommaso, quindi che dovrebbe conoscere bene il pensiero del suo confratello, possa aver detto queste cose … diciamo strane, solo per carità cristiana. È come dire che una statua di bronzo resta tale anche senza il rame!. Ma se manca il rame la statua è di stagno, può conservare una vaga forma, ma non ha le caratteristiche certamente del bronzo. E poi, che Papa sarebbe questo, uno che mancando di divina autorità, quindi di assistenza dello Spirito Santo, non sarebbe più né infallibile né pastore “Cristo in terra”, non certo in grado di garantire l’indefettibilità della Chiesa e del Magistero? Mi meraviglio di te, Caterina, questo sarebbe un ennesimo gallicanesino, un sedevacantismo velato che mette in condizioni, anzi impone la non obbedienza, contraddicendo in pieno non solo il Magistero Cattolico, ma pure le parole del divin Maestro, che ci ha garantito in eterno la sua presenza in Pietro e nei suoi discendenti ininterrottamente. Quindi il divino Maestro sarebbe un bugiardo ingannatore!? Questo è semplicemente un assurdo teologico frutto di un gallicanesimo sempre strisciante … dimmi, scommetto che questo “sapientone” domenicano è un francese, proveniente magari da qualche setta scismatica che si autodefinisce tradizionalista, depositaria della fede autentica della Chiesa?!”- “Si, infatti è un francese, ed i suoi ordini, addirittura un millantato episcopato, sono sospetti e mancano di giurisdizione”. – “Beh ragazzi, riprendo, siamo al solito trucchetto, magari basandosi su qualche brandello teologico, fuori contesto, di qualche illustre teologo, si riesce sempre a far abboccare qualche pesce sprovveduto finito fuori dalle altre reti del mortale pescatore … mi viene giusto alla mente, scherzi della memoria, un testo di Domenico Palmieri il “Tractatus de Romano Pontifice”, che parlava delle due componenti, formali e materiali del Papa, ma opportunamente faceva osservare che “le due successioni – materia e formale – sono necessarie, né l’una potrà esistere senza l’altra, …”. E poi ragazzi, ma vi pare che in duemila anni il Magistero Apostolico non sia mai stato nemmeno sfiorato da una tale ipotesi che, solo per carità cristiana, definisco “strana”, non conforme in nulla all’insegnamento Evangelico. Gesù ci ha promesso fino all’ultimo giorno un successore di Pietro con tutte le caratteristiche e le necessarie componenti, formale e materiale, nessuna esclusa. Ora se questo vale per un semplice uomo, o un’animale o qualsiasi essere vivente, come compiutamente ci dimostra il dottore Angelico, figuriamoci se nel Papa, l’uomo più importante del mondo intero, perché rappresentante dell’Uomo-Dio, ci possa essere solo una componente dell’essere, tale da rassomigliarlo ad uno “zombi” in carne ed ossa, ad un Franceskain qualsiasi [oh … mi si è inceppata la tastiera, mi scusi …] … e che Papa è uno che non ha Giurisdizione divina, che non ha assistenza dello Spirito Santo per governare la Chiesa di Cristo, non ha Infallibilità in materia di fede e costume? … no, vedete: la successione apostolica materiale, sia per elezione legale sia per presa di possesso con la forza o al di fuori della legge, non è sufficiente perché vi sia una successione apostolica legittima, perché l’autorità è la forma con la quale qualcuno è costituito vero successore degli Apostoli. L’elezione legale non è sufficiente perché qualcuno sia costituito e sia ritenuto vero successore degli Apostoli formalmente, questo è chiaro, … ma poteva mai il Figlio di Dio ingannarci nel prometterci un fantoccio o uno zombi, o un Franceskain [è la seconda volta che mi si inceppa la tastiera …mah … ecco … Frankenstain!] al posto del suo Vicario? … e poi la questione non è più di pertinenza teologica, poiché è stata definitivamente fissata da bolle, encicliche e concilii ecumenici legittimi sottoposti all’autorità papale, per cui a nessuno è dato impugnare tali sentenze, come specificato bene in “Execrabilis”, la bolla di Pio II Piccolomini e ribadito nel Conc. Vaticano nella costituzione “Pastor Aeternus”! E poi diceva il Vescovo di Ippona, “Roma locuta, causa finita”! … E come ribadiva il professore dello zio Tommaso: “Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti”! – Caterina. Stavolta sei stata tu a deludermi, ed io pensavo che tu potessi facilmente zittire i tuoi colleghi studenti che discutono tali imbecillità! Direttore sono avvilito, affranto, deluso, questi giovani sono veramente allo sbando e non sanno distinguere una statua di bronzo da una di stagno, figuriamoci poi a ragionar di filosofia o teologia … ed io ostinato con il Santo Predicatore di Aquino … mi conforti anche lei, direttore, vedo già il fumo nero che mi assale e mi ottunde tutti i sensi, non capisco più nulla, resto in apnea per non soffocare, non ricordo … ma com’è che la Chiesa è finita in mano ad impostori, falsi teologi affabulatori, vescovi senza giurisdizione, preti senza missione, che disastro, direttore mi dica che è solo un incubo che sto vivendo, che sono malato … si, preferisco la malattia e finanche la morte a questo obbrobrio, … ci sarà una cura per questo malore, mi aiuti, preghi la Santa Vergine ed il buon Dio per me, perché venga infine fuori da questa “eclissi” della memoria. Mi farò risentire appena starò meglio. Stia bene … almeno lei!