QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
« … La questione sociale, e le controversie che ne derivano circa il metodo e la durata del lavoro, la fissazione del salario, e lo sciopero, non sono soltanto di natura economica, e perciò non sono tali da potersi risolvere prescindendo dall’autorità della Chiesa, essendo invece fuori dubbio che (la questione sociale) è principalmente morale e religiosa, e che per ciò va risolta principalmente secondo le leggi morali e religiose … » In questa lettera Enciclica scritta ai Vescovi tedeschi, S. S. Pio X chiarisce con chiarezza i presupposti de debbano animare la questione sociale non in termini esclusivi di condizione socio-economica autoregolata, ma soprattutto in chiave religiosa ispirata alla Chiesa Cattolica ed al suo Magistero, senza cedere ad alcun principio interconfessionale o acattolico, come preteso da alcune parti sociali. Oggi naturalmente questo pensiero viene considerato offensivo della libera espressione personale ed autodeterminante, scaturita da ideologie falsamente libertarie, senza regole e principi sperimentati e validi sotto nessun profilo pratico, tutt’altro. È ciò che stiamo sperimentando sulla nostra pelle da diversi decenni, e che purtroppo sperimenteremo in modo sempre più drammatico, viste le strade impervie battute da ideologie economiche e politiche dichiaratamente anticristiane, anzi meglio sarebbe definirle antiumane e lesive degli interessi più elementari di cittadini e Stati. Rileggiamo allora attentamente la lettera cercando di coglierne gli aspetti che coinvolgono la dottrina della “vera” Chiesa, Maestra infallibile dei popoli che sola può dare stabilità e pace sociale, custodire anche gli interessi materiali in vista di quelli soprannaturali che conducono alla salvezza dell’anima ed alla eterna beatitudine.
san Pio X Singulari quadam
Lettera Enciclica
24 settembre 1912
Uno speciale affetto e benevolenza verso i Cattolici di Germania, i quali, uniti a questa Sede Apostolica da un grande spirito di fede e di obbedienza, sogliono combattere con generosità e con forza in favore della Chiesa, ci ha spinto, venerabili fratelli, a rivolgere tutto il nostro zelo e la nostra cura all’esame della controversia sulle associazioni operaie, che tra di essi si agita; sulla quale controversia, in questi ultimi anni, già più volte ci avevano dato informazioni, oltre alla maggior parte di voi, anche prudenti e autorevoli persone di entrambe le tendenze. E con tanto zelo ci siamo dedicati a questa cosa, in quanto, nella coscienza dell’Apostolico Ufficio, comprendiamo che è Nostro sacro dovere sforzarci di far sì che questi Nostri carissimi figli conservino la dottrina cattolica nella sua purezza e integrità, e di non permettere in alcun modo che la stessa loro fede sia messa in pericolo. È chiaro infatti che, se non vengono tempestivamente esortati a vigilare, c’è pericolo che essi, a poco a poco e quasi senza accorgersene, si adattino a una specie di Cristianesimo vago e non definito, che si suol chiamare interconfessionale, e che si diffonde sotto la falsa etichetta di comunità cristiana, mentre evidentemente nulla vi è di più contrario alla predicazione di Gesù Cristo. E inoltre, essendo Nostro sommo desiderio di favorire e rafforzare la concordia tra i Cattolici, vogliamo rimuovere qualsiasi causa di dissensi, che, disperdendo le forze dei buoni, non possono giovare se non agli avversari della Religione; ché anzi desideriamo vivamente che i nostri anche con i loro concittadini che non professano la Religione Cattolica coltivino quella pace che è indispensabile al governo dell’umana società e alla prosperità dello stato. – Sebbene poi, come abbiamo detto, ci fosse noto lo stato della questione, abbiamo tuttavia voluto, prima di darne un giudizio, chiedere il parere di ciascuno di voi, venerabili fratelli, e ognuno di voi ha risposto alla Nostra richiesta con quella diligenza e con quella prontezza che la gravità della questione richiedeva. In primo luogo dunque proclamiamo che è dovere di tutti i Cattolici – dovere che va scrupolosamente e completamente adempiuto tanto nella vita privata quanto nella vita sociale e pubblica – di mantenere fermamente e di professare senza timidezza i principi della verità cristiana, insegnati dal Magistero della Chiesa Cattolica, soprattutto quelli che il Nostro predecessore ha formulato con tanta sapienza nell’enciclica Rerum novarum;i quali principi sappiamo essere stati seguiti sopra ogni altro dai Vescovi di Prussia, riuniti a Fulda nel 1900, ed essere stati esposti sommariamente da voi stessi, quando Ci avete risposto che cosa pensate intorno alla presente controversia. E precisamente qualunque cosa un Cristiano faccia, anche se nell’ordine delle cose terrene, non gli è lecito trascurare i beni soprannaturali; anzi deve, conformemente alle regole della dottrina cristiana, tutto dirigere al bene supremo come a fine ultimo. E tutte le sue azioni, in quanto moralmente buone o cattive, cioè conformi o no alla legge naturale e divina, sono soggette al giudizio e alla giurisdizione della Chiesa. – Tutti coloro, singoli o associati, che si gloriano del nome di Cristiani, devono, se non dimenticano il proprio dovere, alimentare non le inimicizie e le rivalità tra le classi sociali, ma la pace e il mutuo amore. – La questione sociale, e le controversie che ne derivano circa il metodo e la durata del lavoro, la fissazione del salario, e lo sciopero, non sono soltanto di natura economica, e perciò non sono tali da potersi risolvere prescindendo dall’autorità della Chiesa, “essendo invece fuori dubbio che (la questione sociale) è principalmente morale e religiosa, e che per ciò va risolta principalmente secondo le leggi morali e religiose”. – Quanto poi alle associazioni operaie, sebbene il loro scopo sia di procurare agli associati dei vantaggi in questa vita, tuttavia meritano la più alta approvazione, e sono da considerare più delle altre adatte ad assicurare una vera e durevole utilità ai soci, quelle che sono state costituite prendendo come principale fondamento la Religione Cattolica, e che seguono apertamente le direttive della Chiesa; e più volte Noi lo abbiamo dichiarato, quando se ne è offerta l’occasione in un paese o in un altro. Da ciò discende che si devono costituire e con ogni mezzo aiutare tali associazioni confessionali cattoliche, non solo nei paesi cattolici, ma anche in tutti gli altri, dovunque si ritenga possibile venire incontro per mezzo di esse ai bisogni dei soci. Se poi si tratta di associazioni che direttamente o indirettamente toccano la religione o la morale, non sarebbe in alcun modo da approvare che nei suddetti paesi si volessero favorire e diffondere le associazioni miste, ossia composte di Cattolici e non cattolici. Infatti se non altro, a causa di tali associazioni, a non piccoli pericoli si espongono, o almeno si possono trovare esposti, sia l’integrità della fede dei nostri fedeli, sia la dovuta obbedienza alle leggi e ai precetti della Chiesa Cattolica; pericoli del resto, che abbiamo visto espressamente messi in rilievo, venerabili fratelli, nella maggior parte delle vostre risposte su questo punto. – Perciò facciamo molto volentieri ogni elogio a tutte le associazioni operaie puramente cattoliche esistenti in Germania, desideriamo che ogni loro iniziativa in favore delle masse operaie abbia successo, e auguriamo ad esse sviluppi sempre più felici. Con questo, tuttavia, non intendiamo negare che sia lecito ai Cattolici lavorare, con cautela, insieme con gli acattolici, per procurare all’operaio una sorte migliore e per una più equa retribuzione e condizione di lavoro, o per qualunque altro fine utile e onesto: ma preferiamo che per tale scopo le associazioni cattoliche e non cattoliche si uniscano per mezzo di quel genere di patto opportunamente escogitato che si chiama Cartello. – A questo proposito, venerabili fratelli, non pochi di voi Ci domandano che Noi vi permettiamo di tollerare i cosiddetti sindacati cristiani, come sono ora costituiti nelle vostre diocesi, dato che essi abbracciano un numero di operai molto maggiore di quello delle associazioni puramente cattoliche e che molti inconvenienti ne verrebbero se tale tolleranza non fosse permessa. In considerazione della speciale situazione del Cattolicesimo in Germania, Noi riteniamo di dover accogliere tale richiesta, e dichiariamo che si può tollerare e permettere che i Cattolici facciano parte anche di quelle associazioni miste, che esistono nelle vostre diocesi, fino a che per nuove circostanze tale tolleranza non cessi di essere opportuna o lecita; purché, tuttavia, si prendano le precauzioni necessarie per evitare i pericoli che, come abbiamo detto, sono inerenti a tal genere di associazioni. – Prima di tutto si deve curare che gli operai cattolici che fanno parte di questi sindacati, siano anche iscritti alle associazioni di operai cattolici denominate Arbeitervereine. Che se per questo essi devono fare qualche sacrificio, soprattutto pecuniario, siamo certi che, nel loro zelo per la conservazione della loro fede non lo faranno malvolentieri. Fortunatamente, infatti, accade che queste associazioni cattoliche, sotto l’impulso del clero, che con la sua guida e vigilanza le dirige, molto contribuiscono a tutelare nei loro membri la purezza della fede e l’integrità dei costumi, e ad alimentare il loro spirito religioso con molteplici esercizi di pietà. Senza dubbio, perciò, i dirigenti di queste associazioni, ben conoscendo i nostri tempi, vorranno insegnare agli operai quei precetti e quelle norme, soprattutto circa i doveri di giustizia e di carità, che ad essi è necessario e utile ben conoscere, per potersi comportare, nei sindacati, in modo retto e conforme ai principi della dottrina cattolica. – Inoltre, perché i sindacati siano tali che i Cattolici vi si possano iscrivere, è necessario che si astengano da qualsiasi manifestazione teorica o pratica, contrastante con la dottrina e i precetti della Chiesa e dell’Autorità Ecclesiastica competente; e parimenti che nulla di men che accettabile sotto questo aspetto vi sia nei loro scritti, discorsi, o attività. Considerino perciò i Vescovi uno dei più sacri doveri osservare diligentemente come si comportino queste associazioni, e vigilare che i Cattolici non soffrano alcun danno dai loro rapporti con esse. E i Cattolici stessi, iscritti ai sindacati, non permettano mai che i sindacati anche come tali, nel curare gl’interessi temporali dei membri, professino o facciano cose che in qualsiasi modo contrastino con i principi insegnati dal supremo Magistero della Chiesa, con quelli specialmente che abbiamo sopra richiamato. A tale scopo, ogni qualvolta si agitino questioni relative a materie che toccano i costumi, e cioè alla giustizia e alla carità, i Vescovi vigileranno con la massima attenzione affinché i fedeli non trascurino la morale cattolica, né da essa menomamente si allontanino. – Siamo d’altronde sicuri, venerabili fratelli, che voi curerete che sia scrupolosamente e completamente osservato quanto nella presente vi abbiamo ordinato e che, data l’importanza della cosa, Ci terrete spesso e accuratamente informati. Poiché però abbiamo avocato a Noi questa cosa, e spetta a Noi, sentito il parere dei Vescovi, darne un giudizio, comandiamo a tutti i buoni Cattolici di astenersi d’ora in poi da qualunque discussione tra di loro su questa materia; e Ci piace sperare che essi, in spirito di fraterna carità e pienamente sottoposti all’autorità Nostra e dei loro pastori, faranno in modo completo e leale quello che comandiamo. Che se sorgesse in essi qualche difficoltà, essi hanno a loro disposizione il modo di risolverla; consultino i loro Vescovi, e questi deferiranno la questione al giudizio di questa Sede Apostolica. Resta ora da dire – si deduce facilmente da quanto abbiamo esposto – che come da una parte a nessuno sarebbe lecito accusare di fede sospetta e combattere a questo titolo coloro che, costanti nella difesa della dottrina e dei diritti della Chiesa, vogliono tuttavia, con retta intenzione, appartenere, e realmente appartengono, ai sindacati misti, dove l’autorità ecclesiastica, secondo le circostanze del luogo, ha ritenuto opportuno di permettere l’esistenza di tali sindacati; così d’altra parte, sarebbe altamente da riprovare che si svolgesse attività ostile contro le associazioni puramente cattoliche – mentre si deve con ogni mezzo aiutare e favorire tal genere di associazioni – e che si volesse seguire e quasi imporre un tipo interconfessionale,anche se sotto il pretesto di ridurre a un modello uniforme tutte le associazioni di Cattolici esistenti in ciascuna diocesi. – Frattanto, mentre facciamo voti perché la Germania cattolica progredisca sia nel campo religioso che in quello politico, imploriamo per questo caro popolo il particolare aiuto di Dio onnipotente e la protezione della vergine Madre di Dio, che è anche la Regina della pace; e, come pegno dei doni divini e testimonianza della Nostra speciale benevolenza, impartiamo di tutto cuore l’apostolica benedizione a voi diletto Nostro figlio e venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo.
Roma, presso San Pietro, il 24 settembre 1912, anno decimo del Nostro pontificato.
« … Prevenite il male dove fortunatamente ancor non si mostra; estinguetelo con prontezza dov’è sul nascere; e dove per sventura sia già adulto, estirpatelo con mano energica e risoluta. Di ciò gravando la vostra coscienza, vi imploriamo da Dio lo spirito di presenza e fortezza necessaria … » Sono queste le vigorose parole del santo Pontefice Pio X a sigillo della sua lettera Enciclica che imponeva ai Vescovi di vigilare attentamente sulla scelta dei Sacerdoti e dei predicatori autorizzati. Quanta cristiana saggezza il Santo Padre infonde in questo documento forte, autoritario sì, ma di una forza che tende a tutelare l’operato dei Sacerdoti secondo lo spirito evangelico fatto proprio dalla Chiesa di Cristo in particolare nei decreti immutabili ed inviolabili del Santo Concilio di Trento. Queste norme impartite nella presente lettera, se seguite completamente, avrebbero garantito un Sacerdozio cattolico idoneo a formare alla fede ed alla morale evangelica l’intera società. Ed è appunto dai seminari che le logge di perdizione degli empi demolitori della struttura ecclesiastica hanno cominciato a scardinare lentamente ma inesorabilmente la purezza d’animo dei giovani Sacerdoti, la cui formazione si sarebbe poi propagata fino alle più alte sfere della Gerarchia fino a creare le condizioni del “colpo di mano” del ’58 con la cacciata del legittimo canonico Papa, la sua sostituzione usurpante con una serie di fantocci gestiti da logge e conventicole di “Illuminati” fino a far apparire la Chiesa di Cristo una combriccola di sacrileghi ministri senza fede e pronti ad eretiche innovazioni, introdotte con subdola e menzognera azione fino ad impregnare l’anima dell’intera società un tempo animata da salutari principi cristiani. Oggi questo abominio è sotto gli occhi di tutti, di coloro che hanno dormito, ed ancora dormono, il sonno della infingarda abulia, di coloro che usano tonaca e talare, o incarichi e prebende varie per fini personali materiali e di avidità, per non parlare dei vizi malcelati di innominabili e ributtanti pruriti che fanno orrore solo a nominarli. Ecco perché dobbiamo necessariamente pensare e credere che la vera Chiesa di Cristo, sua Sposa immacolata senza macchia e senza rughe, sgorgata dal costato ferito di Gesù morto sulla croce, sia “eclissata” secondo la tipica espressione profetica usata dalla Vergine Madre nelle sue apparizioni a La Salette.
san Pio X Pieni l’animo +
Lettera Enciclica
Riafferma i concetti dell’Enciclica “Il fermo proposito” e richiama i Vescovi d’Italia alla maggiore cautela e severità nella scelta dei sacerdoti e dei predicatori.
Pieni l’animo di salutare timore per la ragione severissima, Che dovremo rendere un giorno al Principe dei pastori Gesù Cristo a riguardo del gregge da Lui affidatoCi, passiamo i dì Nostri in una Continua sollecitudine, a preservare, quanto è possibile, i fedeli dai mali perniciosissimi, onde è afflitta di presente l’umana società. Teniamo perciò come detta a Noi la parola del profeta “Parla senza mai stancarti, fa’ che la tua voce sia forte come una tromba“(Is. LVIII, 1);e non manchiamo, ora di viva voce ed ora per lettere, di avvertire, di pregare, di riprendere, eccitando sopra tutto lo zelo dei Nostri fratelli nell’episcopato, onde spieghi Ciascuno la più sollecita vigilanza sulla porzione dell’ovile, a cui lo Spirito Santo lo ebbe preposto. – Il motivo, che Ci spinge a levare di nuovo la voce, è del più grave momento, Trattasi di richiamare tutta l’attenzione del vostro spirito e tutta l’energia del Nostro pastorale ministero contro un disordine, di cui già si provano i funesti effetti: e, se con mano forte non si svelle dalle più ime radici, Conseguenze ancor più fatali si proveranno con l’andar degli anni. – Abbiamo infatti sott’occhile lettere di non pochi fra voi, o Venerabili Fratelli, lettere piene di tristezze e di lacrime, le quali deplorano lo spirito d’insubordinazione e d’indipendenza, che si manifesta qua e là in mezzo al clero. – Purtroppo, un’atmosfera di veleno corrompe largamente gli animi ai nostri giorni; gli effetti mortiferi sono quelli che già descrisse l’apostolo San Giuda 1: “Macchiano perfino la carne, disprezzano ogni dominio e bestemmiano la maestà” (Iud. 8); oltre cioè alla più degradante corruzione dei costumi, il disprezzo aperto di ogni autorità e di coloro che la esercitano. Ma che tale spirito penetri comecchessia fino nel santuario e infetti coloro, ai quali più propriamente convenir dovrebbe la parola dell’Ecclesiastico: “Loro nazione èl’obbedienza e il diletto (III, 1);è cosa questa che Ci ricolma l’animo d’immenso dolore. – Ed è soprattutto fra i giovani sacerdoti che si funesto spirito va menando guasto, spargendosi in mezzo ad essi nuove e riprovevoli teorie intorno alla natura stessa dell’obbedienza. E, ciò ch’è più grave, quasi ad acquistar per tempo nuove reclute al nascente stuolo dei ribelli, di tali massime si va facendo propaganda più o meno occulta tra i giovani, che nei recinti dei seminari si preparano al sacerdozio. – Pertanto, o Venerabili Fratelli, sentiamo il dovere di fare appello alla vostra coscienza, perché, deposta ogni esitazione, con animo vigoroso e con pari costanza diate opera a distruggere questo mal seme, fecondo di esizialissime conseguenze. Rammentate ognora che lo Spirito Santo vi ha posti a reggere. Rammentate il precetto di San Paolo a Tito: “Rimprovera con tutta autorità. Nessuno ti disprezzerà” (II, 15). Esigete severamente dai sacerdoti e dai chierici quella obbedienza che, se per tutti i fedeli è assolutamente obbligatoria, pei sacerdoti costituisce parte precipua del loro sacro dovere. – A prevenire però di lunga mano il moltiplicarsi di questi animi riottosi, gioverà moltissimo, Venerabili Fratelli, l’aver sempre presente l’alto ammonimento dell’Apostolo a Timoteo: “Non imporre ad alcuno troppo facilmente le mani” (I Tim. V, 22). È la facilità infatti nell’ammettere alle sacre Ordinazioni, quella che apre naturalmente la via ad un moltiplicarsi di gente nel santuario, che poi non accresce letizia. – Sappiamo esservi città e diocesi, ove, lungi dal potersi lamentare scarsità nel clero, il numero dei sacerdoti è di gran lunga superiore alla necessità dei fedeli. Deh! qual motivo, o Venerabili Fratelli, di rendere così frequente la imposizione delle mani? Se la scarsità del clero non può essere ragione bastevole a precipitare in negozio di tanta gravità, là dove il clero sovrabbonda al bisogno nulla è che scusi dalle più sottili cautele e da somma severità nella scelta di coloro, che debbono assumersi all’onore sacerdotale. Né l’insistenza degli aspiranti può menomare la colpa di siffatta facilità. Il sacerdozio, istituito da Gesù Cristo per la salvezza eterna delle anime, non è per fermo un mestiere od un uffizio umano qualsiasi, al quale ognun che lo voglia e per qualunque ragione abbia diritto di liberamente dedicarsi. Promuovano adunque i Vescovi, non secondo le brame o le pretese di chi aspira, ma come prescrive il Tridentino, secondo la necessità delle diocesi; e nel promuovere in tal guisa, potranno scegliere solamente coloro che sono veramente idonei, rimandando quelli che mostrassero inclinazioni contrarie alla vocazione sacerdotale, precipua tra esse la indisciplinatezza e ciò che la genera, l’orgoglio della mente. – Perché poi non manchino i giovani che porgano in sé attitudine per essere assunti al sacro ministero, torniamo, Venerabili Fratelli, ad insistere con più premura su ciò che già più volte raccomandammo, sull’obbligo cioè che vi corre, gravissimo dinanzi a Dio, di vigilare e promuovere con ogni sollecitudine il retto andamento dei vostri seminari. Tali avrete i sacerdoti, quali voi li avete educati. – Gravissima è su ciò la lettera che vi diresse, in data 8 dicembre 1902, il Nostro sapientissimo Predecessore, quasi testamento del suo diuturno Pontificato. Nulla Noi vogliamo aggiungervi di nuovo: richiamiamo solo alla vostra memoria le prescrizioni in essa contenute; e raccomandiamo vivamente che al più presto sieno messi in esecuzione i Nostri ordini, emanati per organo della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, sulla concentrazione dei seminari specialmente per gli studi della filosofia e della teologia, a fine di ottenere così il grande vantaggio derivante dalla separazione dei seminari piccoli dai seminari maggiori, e l’altro non meno rilevante della necessaria istruzione del clero. – I seminari siano gelosamente mantenuti nello spirito proprio, e rimangano esclusivamente destinati a preparare i giovani, non a civili carriere, ma all’alta missione di ministri di Cristo. – Gli studi di filosofia, di teologia e delle scienze affini, specialmente della Sacra Scrittura, si compiano, tenendosi alle Pontificie prescrizioni, e allo studio di San Tommaso, tante volte raccomandato dal venerato Nostro Predecessore e da Noi nelle Lettere Apostoliche del 23 gennaio 1904. I Vescovi poi esercitino la più scrupolosa vigilanza sui maestri e sulle loro dottrine, richiamando al dovere coloro, che corressero dietro a certe novità pericolose, ed allontanino senza riguardo dall’insegnamento quanti non approfittassero delle ricevute ammonizioni. Il frequentare le pubbliche università non sia permesso ai giovani chierici se non per molto gravi ragioni e con le maggiori cautele per parte dei Vescovi. – Sia onninamente impedito che dagli alunni dei seminari si prenda parte comecchessia ad agitazioni esterne; e perciò interdiciamo loro la lettura di giornali e di periodici, salvo per questi ultimi, e per eccezione, qualcuno di sodi principi, stimato dal Vescovo opportuno allo studio degli alunni. – Si mantenga con sempre maggior vigore e vigilanza l’ordinamento disciplinare. – Non manchi da ultimo in verun seminario il direttore spirituale, uomo di prudenza non ordinaria ed esperto nelle vie della perfezione cristiana, il quale, con cure indefesse, coltivi i giovani in quella soda pietà, che è il primo fondamento della vita sacerdotale. Queste forme, o Venerabili Fratelli, ove siano da voi coscienziosamente e costantemente seguite, vi porgono sicuro affidamento di vedervi crescere intorno un clero, il quale sia vostro gaudio e corona vostra. – Se non che il disordine d’insubordinazione e d’indipendenza, finora da Noi lamentato, in taluni del giovane clero va assai più oltre, con danni di gran lunga maggiori. Imperocché non mancano coloro, i quali sono talmente invasi da sì reprobo spirito, che, abusando del sacro ministero della predicazione, se ne fanno apertamente, con rovina e scandalo dei fedeli, propugnatori ed apostoli. – Fin dal 31 luglio 1894, il Nostro Antecessore, per mezzo della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, richiamò l’attenzione degli Ordinari su questa grave materia. Le disposizioni e le norme date in quel Pontificio documento Noi le manteniamo e rinnoviamo, onerando su di esse la coscienza dei Vescovi, perché non abbiano ad avverarsi mai in veruno di loro le parole di Nahum profeta: “I tuoi pastori hanno dormito” (III, 18). – Nessuno può avere la facoltà di predicare, “se prima non sia stato provato nella vita e nei costumi” (Conc. Trid., Sess. V, cap. 2, De Reform.). I sacerdoti in altre diocesi non debbono ammettersi a predicare senza le lettere testimoniali del proprio Vescovo. – La materia della predicazione sia quella indicata dal divin Redentore, là dove disse: “Predicate il vangelo” (Marc. XVI, 15), “insegnando loro di conservare tutte le cose che vi ho affidate” (Matth. XXVIII, 20). Ossia, come commenta il Concilio di Trento, “annunciando loro i difetti che devono abbandonare e le virtù che devono seguire per poter sfuggire alla pena eterna e conquistare la gloria Celeste” (Loc. cit.). – Quindi si bandiscano del tutto dal pulpito gli argomenti più acconci alla palestra giornalistica ed alle aule accademiche che al luogo santo; si antepongano le prediche morali a conferenze, il men che possa dirsi infruttifere; si parli “non con le parole persuasive della sapienza umana, ma mostrando lo spirito e la virtù” (I Cor. II, 4). Perciò la fonte precipua della predicazione devono essere le Sacre Scritture, intese, non già secondo i privati giudizi di menti il più delle volte offuscate dalle passioni, ma secondo la tradizione della Chiesa, le interpretazioni dei Santi Padri e dei Concili. – Conformemente a queste norme, Venerabili Fratelli, egli è d’uopo che voi giudichiate coloro, ai quali vien da voi commesso il ministero della divina parola. E qualora troviate che talun di essi, più cupido degli interessi propri che di quelli di Gesù Cristo, più sollecito di plauso mondano che del bene delle anime, se ne allontani; e voi ammonitelo, correggetelo; se ciò non basti, rimovetelo inesorabilmente da un ufficio di cui si manifesta affatto indegno. – La quale vigilanza e severità tanto più dovete adoperare, perché il ministero della predicazione è tutto proprio di voi ed è parte precipua dell’ufficio episcopale; e chiunque oltre di voi lo esercita, lo esercita in nome vostro ed in vostro luogo; ond’è che resta sempre a voi di rispondere innanzi a Dio del modo col quale viene dispensato ai fedeli il pane della parola divina. – Noi, per declinare da parte Nostra ogni responsabilità, intimiamo ed ingiungiamo a tutti gli Ordinari di rifiutare e di sospendere, dopo le caritatevoli ammonizioni, anche durante la predicazione, qualsivoglia predicatore, sia del clero secolare sia del regolare, il quale non ottemperi pienamente alle ingiunzioni della precitata istruzione emanata dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari. Meglio è che i fedeli si contentino della semplice omelia e della spiegazione del catechismo fatta dai loro parroci, anziché dover assistere a predicazioni che producono più male che bene. – Un altro Campo, dove tra il giovane Clero si va trovando pur troppo ansia ed eccitamento a professare e propugnare la esenzione da ogni giogo di legittima autorità, è quello della cosi detta azione popolare cristiana. Non già, o Venerabili Fratelli, perché questa azione sia in sé riprovevole o porti di sua natura al disprezzo dell’autorità; ma perché non pochi, fraintendendone la natura, si sono volontariamente allontanati dalle norme che a rettamente promuoverla furono prescritte dal Predecessore Nostro d’immortale memoria. – Parliamo, ben l’intendete, della istruzione che circa l’azione popolare cristiana emanò, per ordine di Leone XIII, la Sacra Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari, il 7 gennaio 1902, e che fu trasmessa a ciascun di voi, perché nella rispettiva diocesi ne curasse l’esecuzione. – Questa istituzione altresì Noi manteniamo, e colla pienezza di Nostra podestà ne rinnoviamo tutte e singole le prescrizioni, come pure confermiamo e rinnoviamo tutte le altre da Noi stessi all’uopo emanate nel Motu proprio del 18 dicembre 1903 “De populari actione christiana moderanda“,e nella lettera circolare del diletto figlio Nostro il Cardinale segretario di Stato, in data 28 luglio 1904. – In ordine alla fondazione e direzione di fogli e periodici, il clero deve fedelmente osservare quanto è prescritto nell’art. 42 della Costituzione Apost. “Officiorum“ (25 gennaio 1897): “Agli uomini del clero… è vietato, salvo il permesso degli Ordinari, assumere l’incarico di dirigere giornali o fogli periodici“. Parimente, senza il previo assenso dell’Ordinario, niuno del clero può pubblicare scritto di sorta sia di argomento religioso o morale, sia di carattere meramente tecnico. Nelle fondazioni di circoli e società gli statuti e regolamenti debbono previamente esaminarsi ed approvarsi dall’Ordinario. – Le conferenze sull’azione popolare cristiana o intorno a qualunque altro argomento, da nessun sacerdote o chierico potranno essere tenute senza il permesso dell’Ordinario del luogo. – Ogni linguaggio, che possa ispirare nel popolo avversione alle classi superiori, è e deve ritenersi affatto contrario al vero spirito di carità cristiana. – Il similmente da riprovare nelle pubblicazioni cattoliche ogni parlare, che ispirandosi a novità malsana, derida la pietà dei fedeli ed accenni a nuovi orientamenti della Chiesa, nuove aspirazioni dell’anima moderna, nuova vocazione sociale del clero, nuova civiltà cristiana, e simili. I sacerdoti, specialmente i giovani, benché sia lodevole che vadano al popolo, debbono nondimeno procedere in ciò col dovuto ossequio all’autorità e ai comandi dei superiori ecclesiastici. E pure occupandosi, con la detta subordinazione, dell’azione popolare cristiana, deve essere loro nobile còmpito “di togliere i figli del popolo alla ignoranzadelle cose spirituali ed eterne, e con industriosa amorevolezza avviarli ad un vivere onesto e virtuoso; riaffermare gli adulti nello fede dissipandone i contrari pregiudizi, e confortarli alla pratica della vita cristiana; promuovere tra il laicato cattolico quelle istituzioni che si riconoscono veramente efficaci almiglioramento morale e materiale delle moltitudini; propugnar sopra tutto i principi di giustizia e carità evangelica, ne’ quali trovano equo temperamento tutti i diritti e i doveri della civil convivenza.. Ma abbiano sempre presente, che anche in mezzo al popolo il sacerdote deve serbare integro il suo augusto carattere di ministro di Dio, essendo egli posto a capo dei fratelli animarum causa (San Greg. M., Regul. Past. Pars. II, c. VII); qualsivoglia maniera di occuparsi del popolo a scapito della dignità sacerdotale, con danno dei doveri e della disciplina ecclesiastica, non potrebbe essere che altamente riprovata“(Ep. Encicl., 8 dicembre 1902). – Del resto, Venerabili Fratelli, a porre un argine efficace a questo fuorviare di idee ed a questo dilatarsi di spirito di indipendenza, colla Nostra autorità proibiamo d’oggi innanzi assolutamente a tutti i chierici e sacerdoti di dare il nome a qualsiasi società che non dipenda dai Vescovi. In modo più speciale, nominatamente, proibiamo ai medesimi, sotto pena pei chierici di inabilità agli Ordini sacri e pei sacerdoti di sospensione ipso facto a divinis, di iscriversi alla Lega democratica nazionale,il cui programma fu dato da Roma-Torrette il 20 ottobre 1905, e lo Statuto, pur senza nome dell’autore, fu nell’anno stesso stampato a Bologna presso la Commissione provvisoria. – Sono queste le prescrizioni, che avuto riguardo alle condizioni presenti del clero d’Italia, ed in materia di tanta importanza, esigeva da Noi la sollecitudine dell’Apostolico ufficio. – Ora altro non ci resta, che aggiungere nuovi stimoli al vostro zelo, Venerabili Fratelli, affinché tali disposizioni e prescrizioni Nostre abbiano pronta e piena esecuzione nelle vostre diocesi. Prevenite il male dove fortunatamente ancor non si mostra; estinguetelo con prontezza dov’è sul nascere; e dove per sventura sia già adulto, estirpatelo con mano energica e risoluta. Di ciò gravando la vostra coscienza, vi imploriamo da Dio lo spirito di presenza e fortezza necessaria. E a tal fine vi impartiamo dall’intimo del cuore l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 28 luglio 1906, anno III del Nostro Pontificato.
« … Spacciano infatti alcuni e fanno credere a molti che la così detta questione sociale sia soltanto economica, laddove sta con ogni certezza che essa è principalmente morale e religiosa, e che perciò bisogna scioglierla a tenore delle leggi morali e religiose. Raddoppiate pure la mercede all’operaio, diminuitegli le ore di lavoro, abbassategli il prezzo dei generi; ma se voi lo lasciate, come troppo accade, imbeversi di certe dottrine, e specchiarsi in certi esempi che lo attirino a spogliarsi del rispetto di Dio e corrompere i costumi, fatiche e sostanze gli andranno in rovina … »; tale è uno dei passaggi più importanti di questa Enciclica “sociale” di S. S. Leone XIII tesa ad illustrare ed a chiarire il vero significato del termine “democrazia cristiana” – espressione così male interpretata ed attuata nella nostra Nazione ingannata da uomini avidi ed interessati solo al potere ed alle laute prebende che ne derivavano e che tutto erano fuorché Cristiani – e che ancor più oggi serve a monito ed insegnamento agli uomini, siano essi semplici cittadini, magnati dell’economia, dirigenti politici, governanti di Nazioni e popoli. Tutto andrà in rovina senza il timore di Dio e l’osservanza della vera pratica religiosa, anteponendovi interessi materiali e ricerca del mero benessere economico, come tristemente osserviamo nel mondo contemporaneo che, imbrattato da roboanti ed infruttuose teorie economiche e socio-politiche, vive in una miseria crescente, non solo spirituale e morale, ancorché di beni essenziali alla vita. Senza Dio e la pratica di una sincera e devota “vera” Religione, effettivamente l’uomo nulla può raggiungere in ogni ordine di cose, piombando in un profondo abisso ove la penuria morale e spirituale genera inevitale penuria materiale.
LEONE XIII
Graves de communi re
Lettera Enciclica
Le gravi dispute sopra l’economia sociale che da qualche tempo perturbano e non in una sola Nazione la concordia degli animi, crescono ogni giorno e s’accalorano tanto da impensierire giustamente e preoccupare anche gli uomini più prudenti. Furono i falsi principii filosofici e morali, purtroppo largamente diffusi, che originarono siffatte contese. Indi le invenzioni moderne dell’industria, la rapidità delle comunicazioni e una infinità di macchine volte a diminuire l’opera manuale e crescere il lucro inasprirono la questione. Da ultimo per le mire colpevoli di uomini turbolenti, rincruditosi il conflitto tra i ricchi e i proletari, le cose furono condotte a tal punto che gli Stati, già da spessi sconvolgimenti commossi, minacciano di essere travolti in grandi sciagure. Noi fin dagli esordi del Nostro Pontificato avvertimmo la gravità del pericolo che indi sovrastava alla società, e credemmo proprio del Nostro ufficio ammonir solennemente i Cattolici dei gravi errori contenuti nelle teorie del socialismo, e delle conseguenti rovine; rovine quanto mai funeste non meno alla prosperità della vita, che alla probità dei costumi ed alla Religione. A ciò mirava l’Enciclica “Quod Apostolici muneris“, del 28 Dicembre 1878. – Sennonché, vedendo che i medesimi pericoli s’aggravavano sempre più con danno maggiore tanto pubblico che privato, Noi provvedemmo di nuovo, tornando con ogni impegno sull’argomento. E con l’Enciclica “Rerum Novarum” del 15 Maggio 1891 trattammo ampiamente dei diritti e doveri su cui era spediente che convenissero in reciproco accordo le due classi sociali dei capitalisti e dei lavoratori, e mostrammo ad un tempo i rimedi derivanti dalle dottrine evangeliche, che Ci sembrarono soprattutto efficaci a tutelare la causa della giustizia e della Religione e a togliere ogni contesa tra i vari ordini di cittadini. – Né fallì, coll’aiuto di Dio, la Nostra fiducia. Perché anche i dissidenti dai Cattolici, toccati dalla verità dei fatti, non esitarono a dichiarare che alla Chiesa ben s’addice il vanto di accorrere provvida alla salute di tutte le classi sociali e principalmente dei diseredati dalla fortuna. I Cattolici poi colsero dai Nostri ammonimenti frutti abbastanza copiosi. In effetti ne trassero incoraggiamento e lena ad ottime imprese, e ne derivarono ancora la luce desiderata per continuare con più sicurezza e più felicemente tal maniera di studi. Ond’è che le lor dissensioni in parte cessarono, in parte si mostrarono più calme. Quanto ai fatti, si riuscì con costanza di propositi a introdurre ed estendere utili istituzioni, quali il segretariato del popolo, le casse rurali, le società di mutuo soccorso e di previdenza, le operaie, ed altrettali società ed opere, con che provvedere agl’interessi dei proletari particolarmente in quei luoghi ove erano più negletti. – Così dunque, sotto gli auspici della Chiesa s’iniziò fra i Cattolici una comunanza d’azione e sollecitudine d’istituzioni in aiuto alla plebe, che tanto spesso lotta non meno con le insidie e i pericoli che con la povertà e le sventure. Questa specie di previdenza popolare non si usò da prima contraddistinguerla con denominazioni particolari; perché quelle di socialismo cristiano, e di socialisti cristiani introdotte da alcuni, caddero meritamente in disuso. Dipoi parve bene a parecchi di dirla azione popolare cristiana; in qualche luogo quelli che metton mano a siffatte opere si chiamano sociali cristiani; altrove si prendono il titolo di democrazia cristiana, dicendo democratici cristiani quelli che se ne occupano; per contrapporla alla democrazia sociale, propugnata dai socialisti. – Di queste due ultime denominazioni, se non la prima di sociali cristiani, certo l’altra, di democrazia cristiana, suona male a molti tra i buoni, perché vi veggon sotto un che di ambiguo e pericoloso. Ne temono per più di una ragione: cioè perché credono che così si possa coprire un fine politico per portar al potere il popolo, promovendo questa forma di governo in luogo di altre; che per tal modo, mirando al bene della plebe, e mettendo in disparte gl’interessi delle altre classi, sembri rimpicciolirsi l’azione della Religione cristiana; e che finalmente sotto la speciosità del nome si voglia in certo modo nascondere il proposito di sottrarsi alle legittime autorità nell’ordine civile ed ecclesiastico. Ora considerando che qua e là si eccede in tali dispute fino all’acrimonia, sentiamo il dovere di imporre un limite alla presente controversia, e di regolare il pensiero dei Cattolici sopra un tale argomento: intendiamo inoltre dettare alcune norme che rendano la loro azione più larga e assai più salutare alla società. – Non può sorgere alcun dubbio intorno agl’intenti della democrazia sociale e intorno a quelli a cui convien che miri la democrazia cristiana. Infatti la prima, sia pur che non tutti trascorrano ai medesimi eccessi, da molti è portata a tanta malvagità da non tenere in alcun conto l’ordine soprannaturale, cercando esclusivamente i beni corporali e terreni, e collocando tutta la felicità umana in tale acquisto e in tale godimento. Vuol quindi che il governo venga in mano della plebe, affinché livellando quant’è possibile le classi, le torni facile il passo all’eguaglianza economica; tende perciò a sopprimere ogni diritto di proprietà, e a mettere tutto in comune, il patrimonio dei privati e perfino gli strumenti per guadagnarsi la vita. Al contrario la democrazia cristiana, per ciò stesso che si dice cristiana, ha necessariamente per sua base i principi della Fede; e provvede al vantaggio dei ceti inferiori, ma sempre in ordine ai beni eterni per cui son fatti. Per essa adunque nulla deve essere più inviolabile della giustizia; il diritto di acquisto e di possesso deve volerlo integro, e tutelare le diverse classi, membra necessarie di una società ben costituita; esige in una parola che l’umano consorzio ritragga quella forma e quel temperamento che le diede il suo autore Iddio. Resta dunque non esservi tra la democrazia sociale e la cristiana nulla in comune, e correre tra loro tal differenza quale è tra la setta del socialismo e la professione del Cristianesimo. – Non sia poi lecito di dare un senso politico alla democrazia cristiana. Perché, sebbene la parola democrazia, chi guardi alla etimologia e all’uso dei filosofi, serva ad indicare una forma di governo popolare, tuttavia nel caso nostro, smesso ogni senso politico, non deve significare se non una benefica azione cristiana a favore del popolo. I precetti della natura e del Vangelo, in quanto trascendono di proprio diritto i fatti umani, è necessario che non dipendano da alcuna forma di governo civile, ma possano convenire con tutti, sempre inteso che non ripugnino all’onestà e alla giustizia. Essi pertanto sono e restano fuori dei partiti e della mutabilità degli eventi, di guisa che, in qualunque modo la società si regga, i cittadini possano e debbano tenersi agli stessi precetti, secondo i quali ci è ingiunto di amar Dio sopra tutte le cose e il prossimo come noi stessi. Questa è la disciplina costante della Chiesa; così gli Stati, indipendentemente dal governo lor proprio. Ciò posto, l’intendimento e l’azione dei Cattolici che mirano a promuovere il bene dei proletari non deve punto proporsi di preferire e preparar con ciò una forma di governo invece d’un’altra. – In somigliante modo bisogna rimuovere dal concetto della democrazia cristiana l’altro inconveniente, cioè che, mentre essa mette ogni impegno nel cercare il vantaggio delle classi più basse, non sembri trascurare le superiori, che pure non valgono meno alla conservazione e al perfezionamento della società. Al che provvede quella legge di carità cristiana, di cui abbiam ora ragionato, e che comanda di abbracciare indistintamente tutti gli uomini in quanto sono parte di una sola e medesima famiglia e figli di un solo benignissimo Padre, e redenti dallo stesso Salvatore e chiamati alla medesima eredità eterna. Appunto come ne ammaestra e ammonisce l’Apostolo: “Un solo corpo e un solo spirito, come siete ancora stati chiamati ad una sola speranza della vostra vocazione. Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra di tutti e per tutte le cose e in tutti noi“. (Eph. IV, 4-6). Quindi per l’unione naturale della plebe con le altre classi, resa anche più stretta dallo spirito di fratellanza cristiana, tutto ciò che di bene si fa per sollevare la plebe, ridonda anche a vantaggio di quelle; tanto più che per raggiungere l’intento è conveniente e necessario il loro concorso, come diremo appresso. – Guardisi parimenti ognuno dal ricoprire sotto la denominazione di democrazia cristiana il proposito d’insubordinazione o di opposizione alle legittime autorità. Già la legge, tanto naturale che cristiana, ingiunge il rispetto ai diversi poteri civili e l’obbedienza ai loro giusti comandi. Il che conviene fare sinceramente e per sentimento di dovere, cioè per coscienza, come ben s’addice ad uomo e Cristiano; come insegna lo stesso Apostolo là dove dice: “Ogni anima sia soggetta alle potestà superiori” (Rom. XIII 1-5). Si comporta poi tutt’altro che cristianamente chi ricusa di sottostare a coloro che sono rivestiti di autorità nella Chiesa; e da prima ai Vescovi, che salva l’universale autorità del Pontefice Romano, “lo Spirito Santo pose a pascere la Chiesa di Dio, acquistata da lui col proprio sangue” (Act. XX, 28). Chi pensa ed opera diversamente mostra di aver dimenticato quel solenne precetto dello stesso Apostolo: “Siate obbedienti ai vostri prelati, e siate ad essi soggetti. Imperocché vegliano essi, come dovendo render conto delle anime vostre” (Hebr. XIII, 17). Parole queste che tutti i fedeli devono profondamente imprimere nel cuore e cercar di mettere in pratica nella loro condotta; più che mai i sacerdoti, considerandole con ogni diligenza, non cessino di inculcarle agli altri, non solo con la predicazione, ma più ancora con l’esempio. – Ora, dopo aver richiamato questi punti di dottrina che altre volte all’uopo abbiamo più dichiaratamente e di proposito trattato Ci ripromettiamo che cessi qualsiasi discordia sul nome di democrazia cristiana e ogni sospetto di pericolo sul suo significato. E ce lo ripromettiamo a buon diritto. Perché, prescindendo da quelle opinioni, sulla natura e sugli effetti della democrazia cristiana, che non mancano di qualche esagerazione o errore, nessuno certo troverà di riprovar un’azione che mira, come vuole la natura e la divina legge, a quest’unico fine di ricondurre a condizioni men dure quelli che campano del lavoro manuale, sì che riescano gradatamente a provvedere alle necessità della vita. Possano quindi in famiglia e in pubblico liberamente soddisfare ai doveri morali e religiosi; sentano di non esser bestie ma uomini, non pagani ma Cristiani; quindi e più facilmente e con più ardore si volgano a ciò che solo è necessario, vale a dire al sommo bene per cui siamo nati. Tale vuoi essere il programma, tale lo scopo di coloro che desiderano con animo veramente cristiano arrecare un opportuno sollievo alla plebe e salvarla dalla peste del socialismo. – E a bello studio Noi abbiam qui toccato dei doveri morali e religiosi. Spacciano infatti alcuni e fanno credere a molti che la così detta questione sociale sia soltanto economica, laddove sta con ogni certezza che essa è principalmente morale e religiosa, e che perciò bisogna scioglierla a tenore delle leggi morali e religiose. Raddoppiate pure la mercede all’operaio, diminuitegli le ore di lavoro, abbassategli il prezzo dei generi; ma se voi lo lasciate, come troppo accade, imbeversi di certe dottrine, e specchiarsi in certi esempi che lo attirino a spogliarsi del rispetto di Dio e corrompere i costumi, fatiche e sostanze gli andranno in rovina. Una quotidiana esperienza c’insegna che gran parte degli operai, sebbene lavorino meno e ricevano più larga mercede, se tengono una condotta depravata e priva di Religione, vivono d’ordinario in una deplorevole miseria. Togliete dagli animi quei sentimenti che sono il frutto di una educazione cristiana; togliete la previdenza, la moderazione, la parsimonia, la pazienza e somiglianti virtù morali che la stessa ragione ci detta, e vedrete che ogni maggiore sforzo per ottenere gli agi del vivere cadrà in nulla. E quest’è veramente la causa onde Noi non abbiamo mai esortato i Cattolici a fondar società ed altrettali istituzioni per un miglior avvenire della plebe, senza raccomandare ad un tempo di fondarle sotto gli auspici della Religione e avvalorarle del suo costante aiuto. – Tanto più poi Ci sembra degna di lode la benefica azione dei Cattolici verso i proletari, perché essa si svolge nel medesimo campo in cui la carità, accomodandosi alle esigenze dei tempi, lavorò, mai sempre attiva e con buon esito sotto l’amorosa ispirazione della Chiesa. La qual legge di scambievole carità ch’è quasi un perfezionamento di quella di giustizia, non solo impone di dare a ciascuno il suo, e di non attraversare i diritti di alcuno, ma anche di favorirsi l’un l’altro, “non in parole e colla lingua, ma coll’opera e con verità” (Joan. XIII, 18); memori della sentenza che Cristo rivolge amorosamente ai suoi. “Un nuovo comandamento do a voi, che vi amiate l’un l’altro, come io vi ho amati. Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore l’uno per l’altro” (Joan. XIII, 34-35). E tale studio di reciproco aiuto, benché importi soprattutto una sollecitudine del bene non caduco delle anime, non deve poi dimenticare i bisogni e i conforti della vita. Al qual proposito è da ricordarsi che allorquando i discepoli del Battista domandarono a Cristo: “Sei tu quegli che sei per venire, ovvero si ha da aspettare un altro?” (Matth. XI, 3), Egli per dimostrare il motivo della missione affidatagli tra gli uomini, trasse argomento dalla carità, richiamandoli al vaticinio d’Isaia: “I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, si annunzia ai poveri il Vangelo” (Matth. XI, 5). E ragionando del giudizio finale e della distribuzione dei premi e delle pene, dichiarò che avrà uno speciale riguardo a quella carità con che gli uomini si saranno reciprocamente trattati. Né può non destar meraviglia com’Egli abbia trapassato qui in silenzio le opere di carità spirituali, rammentando soltanto quelle della beneficenza corporale: “Ebbi fame e mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e mi ricettaste; ignudo e mi rivestiste; ammalato e mi visitaste; carcerato e veniste da me” (Matth. XXV, 35-36). – Cristo a questi ammaestramenti di duplice carità spirituale e corporale aggiunse i propri esempi, e ognuno sa quanto sieno luminosi. E torna grato il rammentar qui quel grido uscito dal suo cuore paterno: “Misereor super turbam” (Mi fa compassione questo popolo. — Marc. VIII, 2); e il pronto divisamento di soccorrere anche con un miracolo. Onde di tanta sua misericordia rimane l’encomio: “Fornì sua carriera facendo del bene e sanando tutti coloro che erano oppressi dal diavolo” (Act. X, 38). Gli Apostoli con religiosa diligenza seguirono fin da principio questa sua scuola di carità; e quelli che abbracciarono in appresso la Fede trovarono istituzioni di varie maniere per sollevare le miserie del prossimo. Istituzioni che, continuamente aumentando, sono effettivamente un ornamento illustre e proprio del Cristianesimo e della civiltà che ne deriva; cosicché gli uomini retti non si saziano dall’ammirarli, specialmente perché si è tanto inclinati a cercar il proprio comodo e a non curare l’altrui. – Né vuolsi escludere da questi modi di beneficenza l’offerta del danaro in elemosina; onde Cristo disse: “Fate elemosina di quel che vi avanza” (Luc. XI, 41). I socialisti la riprovano e vorrebbero sopprimerla, come ingiuriosa all’ingenita nobiltà dell’uomo. Ma, se si fa secondo le norme del Vangelo (Matth. VI, 2-4) e l’uso cristiano, no certo che non ingenera burbanza in chi la dà, né vergogna in chi la riceve. È poi tanto lungi dal vero che sia indecorosa all’uomo, che anzi serve a stringere i vincoli della società umana, fomentando una scambievole amorevolezza. – Perché nessuno è tanto ricco che non abbisogni di alcuno, e nessuno è tanto povero che non possa in alcuna cosa giovare altrui: sta in natura che gli uomini con confidenza e con benevolenza reciprocamente si domandino e portino aiuto. Per tal modo infatti la giustizia e la carità, con l’equità e mitezza di Cristo, abbracciano di concerto e meravigliosamente l’organismo dell’umana società, e ne guidano provvidenzialmente i membri al conseguimento del bene individuale e comune. – Vuolsi parimenti ascrivere a lode di siffatta carità, se non pensa solo ai soccorsi del momento, ma anche ad istituzioni permanenti; così i bisognosi ne avranno un vantaggio più stabile e sicuro. Ed è anche più commendevole il voler informare ad uno spirito di parsimonia e previdenza gli artieri e gli operai, in modo che possano coll’andar degli anni provvedere almeno in parte ai propri bisogni. Cosa che da un lato alleggerisce i doveri dei ricchi verso i proletari, e dall’altro mette in un certo decoro i proletari stessi; perché mentre li stimola a prepararsi un avvenire men disagiato, li allontana dai pericoli, li contiene dalle intemperanze delle passioni e li avvia ad una buona condotta morale. Ricavandosene adunque una utilità di sì gran rilievo e sì adatta ai tempi, conviene davvero che la carità dei buoni vi cooperi con ogni sforzo destra ed accorta. – Resti fermo adunque che questa azione dei cattolici a favore e sollievo della plebe consuona appieno con lo spirito della Chiesa e ne rispecchia ottimamente i perpetui esempi. Poco poi importa che questo complesso di opere passi sotto il nome di azione cristiana popolare o assuma quello di democrazia cristiana, purché si osservino col dovuto ossequio e nella loro integrità gli ammonimenti da Noi dati. Invece importa molto che in cosa di sì grave momento si conservi tra i Cattolici unità d’intenti e concordia di volontà e d’azione. E non importa meno che questa stessa azione, moltiplicando aiuti d’uomini e di cose, ingrossi e si dilati. Bisognerà principalmente procurar la benevola cooperazione di coloro che per nascita, per censo, per ingegno e per educazione godono di maggiore autorità tra i cittadini. Se manchi questa cooperazione, troppo poco si potrà intraprendere di ciò che conduce al conseguimento dei desiderati vantaggi del popolo. Certo la via sarà tanto più sicura e breve, quanto più sarà molteplice e intensa la cooperazione dei cittadini più ragguardevoli. E vorremmo che essi considerassero che non si trovano liberi di curare o meno la sorte degl’infimi, ma che vi sono veramente obbligati. Perché il cittadino non vive soltanto a sé, ma anche alla comunità; cosicché quel contributo che alcuni non possono portare al ben comune, lo portino altri con maggiore larghezza. Della gravità in siffatto dovere ne avverte la stessa superiorità dei beni ricevuti, alla quale seguirà senza dubbio un conto più rigoroso da rendersi a quel Dio che li largì; ne avverte la colluvie dei mali, che potrebbe diventare più tardi rovinosa a tutte le classi, se a tempo non vi si porti rimedio; di guisa che chi non si dà pensiero di sostenere la causa dei miseri agisce da imprevidente tanto per sé che per la comunità. – Né è da temere invero che, se quest’azione sociale e di spirito largamente attecchisce e schiettamente prospera, abbiano a inaridirsi altre istituzioni che ci provengono dalla pietà e dalla previdenza degli avi e durano da molto tempo e sono in fiore, oppure che scompaiano assorbite dalle istituzioni nuove. Che anzi le altre, per essere mosse da uno stesso spirito di Religione e di carità e non per essere punto di lor natura ripugnanti, possono di leggieri accordarsi e combinare sì bene da poter ancor meglio ovviare, gareggiando nelle benemerenze, alle necessità della plebe e ai pericoli che diventano ogni giorno più gravi. – La triste realtà grida, e grida alto, che fa d’uopo di coraggio e di unione, perché già ci sta di fronte un cumulo troppo ampio di sventure, e incombono paurose minacce di sconvolgimenti esiziali, massime per l’ingrossare dei socialisti. Copertamente s’insinuano nel cuore degli Stati; tra le tenebre di occulte congreghe ed in pubblico, colle conferenze e con gli scritti, aizzano le moltitudini alle sommosse; rigettando ogni freno di Religione, tacciono dei doveri e non esaltano se non i diritti, ed infiammano così turbe sempre più grosse di bisognosi, che per la loro miseria più facilmente cedono all’inganno e son trascinate all’errore. — Si tratta qui dei sommi interessi della società e della Religione; tutti i buoni devono come cosa sacra, tutelare l’onore dell’una e dell’altra. – Affinché poi l’accordo degli animi abbia la desiderata stabilità è necessario ancora astenersi da tutte quelle questioni che urtano e dividono. Si schivino quindi, in articoli di giornali e nelle conferenze popolari, certe controversie molto sottili e di quasi nessuna utilità, le quali difficilmente approdano ad una soluzione, mentre poi richiedono per bene intenderle conveniente capacità e non volgare coltura. Già è proprio della umana debolezza il rimanere nel dubbio di molte cose e il discordare in molte opinioni; ma quelli che cercano il vero con retto cuore conviene che nella incertezza della disputa serbino equanimità, modestia e scambievoli riguardi, affinché, se discordano le opinioni, non si facciano discordi anche le volontà. Qualunque poi sia l’opinione che alcuno porta in una questione ancor dubbia, abbia sempre l’animo disposto a piegarsi con religioso ossequio alle decisioni della Sede Apostolica. – E questa azione dei Cattolici eserciterà certo un più largo influsso se tutte le società, pur serbando la propria autonomia, muovansi sotto l’impulso di un’unica direzione. E in Italia questa direzione vogliamo che spetti all’Opera dei Congressi e Comitati cattolici, che più volte si meritò le Nostre lodi; alla quale il Nostro Predecessore e Noi medesimi affidammo l’incarico di dirigere il movimento cattolico sempre sotto gli auspici e la guida dei Vescovi. Altrettanto si faccia presso le altre nazioni, che abbiano qualche simile società principale, a cui legittimamente siasi affidato un tale incarico. – Di per sé poi si fa manifesto quanto i sacri ministri debbano adoperarsi in tutto questo movimento di cose che legano direttamente insieme gl’interessi della Chiesa e del popolo cristiano, e quanto valgano allo scopo i molteplici mezzi della loro dottrina, prudenza e carità. Noi stessi, e non una volta, parlando ad Ecclesiastici, abbiamo creduto bene di affermare essere opportuno ai nostri giorni di andare al popolo e farsela salutarmente con esso. Più spesso poi con Lettere, anche da non molto tempo dirette a Vescovi e ad altre persone ecclesiastiche (Al Generale dell’Ordine dei Frati Minori, il 26 Novembre 1898) lodammo cotesta amorosa sollecitudine per il popolo, chiamandola tutta propria dell’uno e dell’altro clero. Però tutti nel compiere tali opere si diportino con grande cautela e prudenza, ponendo mente all’esempio dei Santi. Il poverello ed umile Francesco, il padre degl’infelici Vincenzo de’ Paoli, ed altri molti in tutte le età della Chiesa, seppero così regolare le assidue lor cure verso il popolo, che senza uno stemperato affaccendarsi e senza dimenticare se stessi, attesero con pari ardore alla perfezione dello spirito. E qui Ci piace di mettervi innanzi alquanto più esplicitamente un modo d’azione in cui non solo gli Ecclesiastici, ma tutti gli amici della causa del popolo, possono diventarne senza grande difficoltà assai benemeriti. E consiste nell’inculcare con fraterna amorevolezza nell’animo del popolo questi ammonimenti. Cioè che si guardino affatto dalle rivolte e dai rivoltosi; che rispettino inviolabilmente i diritti altrui; che prestino volenterosi e col dovuto ossequio l’opera loro ai padroni; che non sentano disgusto della vita domestica, pur feconda di tanti beni; che pratichino anzitutto la Religione, e ne traggano il più valido conforto nelle difficoltà della vita. E ad ottener meglio l’intento servirà certo l’additare il singolar modello della Santa Famiglia Nazarena e commendarne la protezione, il proporre l’esempio di coloro che dalla stessa lor misera sorte seppero trar buon partito per sollevarsi alla cima delle virtù, e da ultimo l’alimentare la speranza del premio riservatoci in una vita migliore. – Chiudiamo ora insistendo di nuovo sopra un avvertimento già dato. Tanto gli individui quanto le società, nell’attuare qualsivoglia deliberazione al presente scopo, si rammentino che devono una piena obbedienza all’autorità dei Vescovi. Non si lascino ingannare da un certo zelo di carità irrompente, il quale se tenta di menomare il dovere dell’obbedienza, non è sincero, né fecondo di solida utilità, né grato a Dio. Iddio si compiace di coloro che, sacrificando le proprie opinioni, ascoltano i prelati della Chiesa, come Lui medesimo, e propizio assiste alle loro imprese ancorché ardue e benignamente le conduce al desiderato compimento. A ciò corrispondano esempi di virtù specialmente di quelle, onde il Cristiano si addimostra nemico dell’ignavia e dei piaceri, benevolo dispensatore del soverchio a vantaggio altrui, costantemente invitto ai colpi di sventura. Perché questi esempi hanno gran forza ad eccitare salutarmente gli animi del popolo, forza che è tanto maggiore quanto sono più ragguardevoli i cittadini in cui si ammirano. – Ecco, o Venerabili Fratelli, quanto vi esortiamo ad eseguire secondo l’opportunità dei luoghi e delle persone con tutta la diligenza e la sollecitudine che vi è propria; su di che vogliamo ancora che nelle consuete vostre adunanze conferiate insieme. E la vostra vigilanza e la vostra autorità si faccia sentire regolando, frenando, resistendo; specie affinché sotto pretesto di bene non si rilassi il vigore della disciplina ecclesiastica, e non si turbi l’ordine onde Cristo informò la sua Chiesa. — Nell’opera adunque retta, concorde e progressiva di tutti i cattolici appaia più splendidamente che la tranquillità dell’ordine e la vera prosperità dei popoli fioriscono principalmente sotto la direzione e col favore della Chiesa, a cui s’appartiene il santissimo ufficio di ammonire secondo i precetti cristiani ognuno del suo dovere, di avvicinare in fraterna carità i ricchi e i poveri, di rialzare e rinvigorire gli animi nelle avverse vicende. – L’esortazione, sì piena di carità apostolica, che San Paolo rivolgeva ai Romani, ravvalori gli ammonimenti e i desideri Nostri: “Io vi scongiuro… Riformate voi stessi col rinnovamento della vostra mente… Chi fa altrui parte del suo, lo faccia con semplicità; chi presiede, sia sollecito; chi fa opere di misericordia, lo faccia con ilarità. Dilezione non finta: aborrimento del male, affezione al bene: amandovi scambievolmente con fraterna carità: prevenendovi gli uni gli altri nel rendervi onore. Per sollecitudine non tardi: lieti per la speranza: pazienti nella tribolazione: assidui nell’orazione: entrando a parte dei bisogni dei santi: praticando ospitalità. Rallegrarsi con chi si rallegra, piangere con chi piange: avendo gli stessi sentimenti l’uno per l’altro: non rendendo male per male: avendo cura di ben fare, non solo agli occhi di Dio ma anche a quelli di tutti gli uomini” (XII, 1-17). – Auspice di tali beni discenda sopra di voi, o Venerabili Fratelli, sopra il clero e il popolo a voi affidati, l’Apostolica Benedizione che con effusione d’animo v’impartiamo nel Signore.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 18 gennaio 1901, anno XXIII del Nostro Pontificato.
28. Nella Liturgia Latina e Greca si recita il Simbolo; la sua recitazione nella Messa, stabilita prima nella Chiesa Orientale, venne poi trasferita in quella Occidentale, come risulta dal terzo Concilio di Toledo del 589, che letteralmente dice: “In tutte le Chiese della Spagna o della Galizia, secondo la norma delle Chiese Orientali, del Concilio di Costantinopoli, cioè di centocinquanta Vescovi, si reciti il Simbolo della Fede, in modo che prima di dire l’Orazione Domenicale, sia recitato a chiara voce dal popolo” (can 2, tomo 5, p. 1009 della Collezione di Filippo Labbe). Per cui, dal momento che i Padri del Concilio di Toledo, stabilendo l’ordine di recitare il Simbolo nella Messa, si sono riferiti al Rito Orientale, è lecito riconoscere che questa disciplina, istituita per prima in Oriente, si era poi diffusa in Occidente: come dicono il Cardinale Bona nel Rerum Lyturgicarum (libro 2, cap. 8, n. 2) e il Giorgio nel De Lyturgia Romani Pontificis (tomo 2, cap. 20, n. 2, p. 176). Ma, continuando l’argomento, Amalario (nel libro De Divinis Officiis, cap. 14), dopo che, fondandosi sull’autorità di San Paolino nella Lettera a Severo, riferì che nella Chiesa di Gerusalemme solo al Venerdì Santo vigeva la consuetudine di esporre al popolo, da adorare, la Croce dalla quale pendette Cristo, attribuisce a questa abitudine greca l’adorazione della Croce, che nell’Ufficio del Venerdì Santo si fa tutt’oggi in ogni Chiesa Latina. Il Trisagio Sanctus Deus, Sanctus Fortis, Sanctus Immortalis, miserere nobis è una pia e frequentissima preghiera nella Liturgia greca, come giustamente annota Goario nelle postille all’Eucologio nella Messa di San Giovanni Crisostomo (p. 109). L’origine di questa invocazione si trae dal miracolo che a metà del secolo quinto accadde nella città di Costantinopoli. Mentre l’imperatore Teodosio, il patriarca Proclo e tutto il popolo pregavano Dio all’aperto, per essere liberati dalla prossima sciagura che li sovrastava a causa del violento terremoto, si vide un fanciullo che all’improvviso fu rapito in cielo; egli, poi, rimandato a terra riferì di aver udito gli Angeli cantare il suddetto Trisagio: per cui – poiché tutto il popolo per ordine del Patriarca Proclo cantava devotamente detto Trisagio – la terra si calmò dal terribile terremoto da cui era scossa, come narra Niceforo nel libro 14, cap. 46 e correttamente prosegue il Sommo Pontefice Felice III nella terza Epistola a Pietro Fullone, che si ha nella Collezione del Labbe, tomo 4. Lo stesso Trisagio al Venerdì Santo si canta nella Chiesa Occidentale in Greco e in Latino come puntualmente avverte il Cardinale Bona, Rerum Lyturgicarum (libro 2, cap. 10, n. 5). La benedizione dell’acqua alla vigilia dell’Epifania deriva dal Rito della Chiesa Greca, come diffusamente dimostra Goario nell’Eucologio, ovvero Rituale Greco; ora si fa questa funzione nello stesso giorno anche nella Chiesa Greca di Roma, come è ricordato nella nostra citata Costituzione 57 (paragrafo 5, n. 13), e contemporaneamente si concede che i fedeli siano aspersi della stessa acqua benedetta. Sul passaggio di questo Rito dalla Chiesa Orientale ad alcune Chiese Occidentali si può vedere quello che raccolse l’erudito Martene nel De antiqua Ecclesiae disciplina in Divinis celebrandis Officiis (tomo 4, cap. 4, n. 2) e ciò che si asserisce nella dissertazione di Padre Sebastiano Paolo della Congregazione della Madre di Dio, stampata a Napoli nel 1719 e il cui titolo è De ritu Ecclesiae Neritinae exorcizandi aquam in Epiphania, dove, fra l’altro (parte 3, p. 177 e ss.) opportunamente avverte i Vescovi, nelle cui diocesi da gran tempo si introdussero Riti derivanti dalla Chiesa Greca, che non si diano troppo da fare per eliminarli, affinché il popolo non si agiti e perché non sembrino disapprovare il modo d’agire della Sede Apostolica la quale, com’è stata al corrente di quei Riti, permise tuttavia di conservarli e di frequentarli. Egli cita anche a p. 203 la lettera del Cardinale Santoro del titolo di Santa Severina, del 1580, scritta a Fornario, Vescovo di Neritino, su questo stesso argomento e sulla benedizione dell’acqua per l’Epifania, che si fa in quella Diocesi. Del pari è Greco il Rito di spogliare e lavare l’altare il Giovedì Santo. Di questo Rito si può trovare traccia nel secolo quinto; di esso parla San Saba nel suo Typico, ossia dell’ordine di recitare l’Ufficio Ecclesiastico per tutto l’anno. Egli, secondo la testimonianza di Leone Allazio, De libris Ecclesiae Graecae dissertatio (I, p. 9), morì nel 451. Se si potesse affermare che l’Ordine Romano edito da Ittorpio fu composto per disposizione del Pontefice San Gelasio, il Rito di lavare gli altari il Giovedì Santo sarebbe quasi coevo nella Chiesa Latina alla consuetudine dei Greci, dacché il Papa San Gelasio morì nel 496. Ma essendo incerto se l’Ordine Romano pubblicato da Ittorpio sia eminente per così grande antichità e poiché, dopo di lui, lo spagnolo Sant’Isidoro fu il primo tra i Latini che parlò di questo Rito, e lo stesso Sant’Isidoro morì nel 636, è lecito che questo Rito dell’Oriente sia venuto in Occidente. Fino ai nostri tempi esso è osservato in alcune Chiese Latine, con l’approvazione dei Romani Pontefici, e nella Basilica Vaticana ogni anno si compie con grande solennità. Il Suarez, Vescovo di Vasione e Vicario della stessa Basilica, e Giovanni Crisostomo Battello, Arcivescovo di Amaseno, che era elencato tra i beneficiati minori di quella Basilica, pubblicarono due sofisticatissime dissertazioni, nelle quali illustrarono il Rito predetto. Stando così le cose, dagli esempi e dai fatti si evince chiaramente ciò che poco prima abbiamo detto, cioè che la Sede Apostolica non tralasciò, tutte le volte che lo trovò conforme a ragione, o di estendere a tutta la Chiesa Latina Riti che appartenevano alla Chiesa Greca, o di permettere che alcuni Riti importanti, che derivarono dalla Chiesa Greca, in alcune Chiese Latine fossero osservati.
29. Già poco prima parlammo del Trisagio, del modo meraviglioso con cui il suo canto fu introdotto nelle Sacre Liturgie della Chiesa Greca. Avendo tuttavia Pietro Fullo soprannominato Gnafeo, fautore dell’eresia degli Apollinaristi che si chiamano Teopasciti, osato aggiungere al Trisagio queste parole “Che fu crocifisso per noi“, come ampiamente ricorda Teodoro Lettore nelle Collectanearum, libro I, ed avendo alcune Chiese Orientali, soprattutto Siriache e Armene, per opera di certo Giacomo Siro, secondo la testimonianza di Niceforo (libro 18, cap. 52), accolto questa aggiunta; i Romani Pontefici, con quella vigile cura e sollecitudine che in casi simili furono soliti avere, non tralasciarono di opporsi al nascente errore e di interdire l’aggiunta fatta al Trisagio, respingendo l’interpretazione per la quale, riferendosi il Trisagio alla sola persona del Figlio, non alle tre Divine persone, si provvedeva a che fosse eliminato qualsiasi sospetto di eresia, sia perché restava sempre il pericolo di aderire al dogma eretico, sia perché la presunzione della mente umana non poteva riferire al solo Cristo l’inno cantato dagli Angeli in onore della Santissima Trinità. Il Lupo giustamente – dopo che aveva riferito che da Felice III e dal Concilio Romano era stata condannata l’aggiunta fatta al Trisagio – così dice: “L’inno cantato dagli Angeli sempre Santi alla sola Divina Trinità, affidato alla Chiesa da Dio stesso e dagli stessi Santi Angeli attraverso il sullodato fanciullo, confermato dall’allontanamento delle sciagure incombenti sulla Regia Città e inteso nel medesimo senso e ragione da tutto il Sinodo Calcedonese (parla sia dei Vescovi adunati nel predetto Concilio, sia degli altri contrari all’aggiunta fatta al Trisagio), tutto ciò attesta costantemente che per umana presunzione non poteva riferirsi al solo Cristo” (Concilio Trullano, note al can. 81). San Gregorio VII, con lo stesso zelo religioso, riprovò quell’aggiunta nella sua prima lettera del libro 8 scritta all’Arcivescovo, ossia al Patriarca degli Armeni. Lo stesso sostenne Gregorio XIII in alcune sue lettere scritte in forma di Breve al Patriarca dei Maroniti il 14 febbraio 1577. Il 30 gennaio 1635, essendo poi stata sottoposta all’esame della Congregazione di Propaganda Fide la Liturgia degli Armeni, ed essendo stato, fra l’altro, oggetto di più accurata discussione se l’aggiunta fatta al Trisagio poteva essere tollerata, per il motivo che sembrava potesse essere riferita alla sola persona del Figlio, fu risposto che ciò non si doveva permettere e che l’aggiunta doveva essere assolutamente eliminata. Il Sommo Pontefice Gelasio, nella sua lettera nona ai Vescovi della Lucania, cap. 26, riprovò la cattiva consuetudine, già entrata, secondo la quale le donne servivano la Messa al Sacerdote celebrante; ed essendo passato lo stesso abuso ai Greci, Innocenzo IV nella lettera che scrisse al Vescovo di Tuscolo lo condannò severamente: “Le donne non osino servire all’altare, ma siano inesorabilmente allontanate da questo ministero“. Con le stesse parole viene proibito da Noi nella nostra Costituzione citata più volte Etsi Pastoralis (§ 6, n. 21, tomo 1 del nostro Bollario). Il Giovedì Santo, a venerare il ricordo dell’Ultima Cena, si fa una funzione sacra nella quale si consacra il pane che si conserva per un anno intero perché con esso vengano ristorati i candidati alla morte, che chiedono per sé la Sacra Comunione in forma di Viatico, e talora al pane consacrato si aggiunge una piccola parte di vino consacrato. Siffatto Rito è descritto da Leone Allazio nel suo Trattato De Communione Orientalium sub specie unica (n. 7). Il Sommo Pontefice Innocenzo IV, nella citata lettera al Vescovo di Tuscolo, interdisse tale Rito ai Greci con queste parole: “Non conservino l’Eucaristia consacrata il Giovedì Santo per un anno col pretesto degli infermi per comunicare con essa se stessi” e aggiunse che avrebbero sempre l’Eucaristia preparata per gli infermi, ma da rinnovare ogni quindici giorni. Arcudio, nel trattato De concordia Ecclesiae Occidentalis et Orientalis, libro 3, capitoli 55 e 56, non tralasciò di indicare le assurdità che derivavano da quel Rito, supplicando i Romani Pontefici perché lo abrogassero definitivamente. Decise questo Clemente VIII nella sua Istruzione e anche Noi ci prestammo nella nostra Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 6, n. 3 e ss.) Nel Concilio di Zamoscia, esaminato da due Congregazioni, cioè del Concilio e di Propaganda Fide (De Eucharistia, § 3) si legge che se in qualche luogo vige ancora il Rito di consacrare l’Eucaristia il Giovedì Santo e di bagnarla con qualche goccia di Sangue e di conservarla per gli infermi per un anno intero, in seguito non lo si faccia più; ma i Parroci conservino l’Eucaristia per gli infermi, rinnovandola ogni otto o quindici giorni. La stessa via percorsero i Padri del Concilio Libanese, da Noi approvati, come risulta dal De Sacramento Eucharistiae (cap. 12, n. 24). Da questi esempi viene provato che la Sede Apostolica mai trascurò di proibire ai Greci alcuni Riti – quantunque da molto tempo durassero presso di loro – tutte le volte che essi erano perniciosi e cattivi.
30. Della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, come sopra dicemmo, si disputò principalmente tutte le volte che si trattò dell’Unione della Chiesa Greca e Orientale con la Latina ed Occidentale. L’esame di questo articolo presentò come tre aspetti; così fu redatto secondo questi tre capitoli. Primo: se la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio fosse dogma di Fede, e circa questo primo punto fu sempre risposto fermamente che non si doveva in alcun modo dubitare che la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio era da annoverarsi tra i dogmi di fede, e non c’era cattolico che non lo credesse e non lo professasse. Secondo: posto che questo era dogma di fede, se era lecito nel Simbolo della Messa aggiungere la parola Filioque quantunque essa non si trovasse né nel Concilio di Nicea né in quello di Costantinopoli, dal momento che dal Concilio di Efeso era stato decretato di nulla aggiungere al Simbolo Niceno: “Il Santo Sinodo stabilì che a nessuno è lecito professare, redigere o disporre un’altra Fede, all’infuori di quella stabilita dai Santi Padri che si radunarono a Nicea con lo Spirito Santo“. Per quanto riguarda questo secondo punto, si confermò che non solo era lecito, ma era anche molto conveniente che questa aggiunta si facesse al Simbolo Niceno, dal momento che il Concilio di Efeso aveva proibito soltanto le aggiunte contrarie alla Fede, o temerarie e diverse dal comune sentire, ma non quelle ortodosse e dalle quali qualche articolo di Fede implicitamente contenuto nel Simbolo venisse dichiarato in maniera più esplicita. Terzo: se, posto come indubbio dogma la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio e riconosciuto il potere della Chiesa di aggiungere al Simbolo la voce Filioque, si poteva permettere che Orientali e Greci nella Messa recitassero il Simbolo a quel modo che usavano un tempo, prima dello scisma, come a dire che tralasciassero la voce Filioque. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, la disciplina della Chiesa non fu sempre la stessa; talora permise agli Orientali e ai Greci di recitare il Simbolo senza il Filioque, allorché era risultato per certo che da loro erano accettati i primi due punti, o articoli, e che, se ad essi veniva negato ciò che con tanto amore chiedevano, veniva chiusa la possibilità dell’auspicata Unione. Talora poi si volle che dai Greci e dagli Orientali fosse recitato il Simbolo con l’aggiunta Filioque quando a buon diritto si poteva dubitare che essi non volevano recitare il Simbolo con l’aggiunta perché aderivano all’errore di coloro che opinavano e asserivano che lo Spirito Santo non procedeva dal Padre e dal Figlio, o che dalla Chiesa non si poteva fare al Simbolo quell’aggiunta Filioque. Due Sommi Pontefici, il Beato Gregorio X nel Concilio di Lione ed Eugenio IV in quello di Firenze usarono con i Greci il primo modo di comportamento per i motivi indicati, come consta dalla Collezione dei Concilii di Arduino (tomo 9, p. 698, D e tomo 9, 395, D). Altro modo, per le ragioni parimenti sopra esposte, abbracciò e osservò il Sommo Pontefice Nicolò III allorché rimproverò all’imperatore Michele di non agire in buona fede e di non stare a quello che aveva promesso nel patteggiare l’Unione che aveva stipulato e confermato con il Pontefice suo Predecessore Gregorio X. Documento di questo fatto, tratto dall’Archivio Vaticano, è stampato negli Annali di Raynaldo (Anno 1278, § 7). La stessa strada percorsero Martino IV e Nicolò III. E quantunque di questi Pontefici, sull’argomento, gli scrittori ci abbiano lasciato notizie divergenti, tuttavia Pachimere che allora affidava alla memoria dei posteri la storia di Costantinopoli (libro 6, cap. 14) dice apertamente che essi non seguirono l’indirizzo concessivo dei suoi Predecessori, ma vollero che dagli Orientali e dai Greci si recitasse il Simbolo con l’aggiunta del Filioque per togliersi il dubbio della loro Fede ortodossa, “per avere una certezza concreta della Fede e del parere dei Greci: il loro pegno sarà idoneo, se avranno pronunciato il Simbolo come i Latini“. Lo stesso Pontefice Eugenio, che nel Concilio di Firenze aveva concesso agli Orientali che senza quella parola Filioque potessero recitare il Simbolo, ricevendo nell’unità di Santa Chiesa gli Armeni, ordinò agli stessi che usassero il Simbolo aumentato della predetta aggiunta, come si può vedere nella Collezione dei Concili di Arduino (tomo 9, p. 435, B), per la ragione che aveva saputo che gli Armeni, non come i Greci, erano contrari a questa aggiunta. Il Romano Pontefice Callisto III, mentre mandava a Creta Fra Simone, domenicano, insignito dell’incarico di Inquisitore – nell’isola di Creta, nella quale si erano ritirati molti Greci fuggendo dalla città di Costantinopoli, di cui due anni prima si erano impadroniti i Turchi – comandò di osservare attentamente che i Greci recitassero il Simbolo con l’aggiunta Filioque, come narra Gregorio Trapezonzio nella sua lettera Ad Cretenses (tomo I, Graeciae Orthodoxae, presso Allazio, p. 537); ciò è confermato anche da Giacomo Échard, tomo I dell’opera Scriptorum Ordinis Sancti Dominici (p. 762). Forse il Papa temeva che i predetti Greci, come coloro che venivano da Costantinopoli, fossero meno sicuri in quel dogma di Fede. Nelle due formule della professione di Fede, che già sopra abbiamo ricordate (una delle quali Gregorio XIII aveva prescritto ai Greci, e l’altra Urbano VIII agli Orientali) non è contenuto null’altro che quanto fu stabilito nel Concilio di Firenze. Nelle due Costituzioni – una di Clemente VIII (che è la 34 del vecchio Bollario Romano,tomo 3, § 6), e l’altra nostra che comincia Etsi Pastoralis (nel nostro Bollario, tomo I, pars I) – ambedue edite per i Vescovi latini nelle cui Diocesi abitano dei Greci e degli Albanesi che osservano il Rito Greco, purché costoro dichiarino che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, e riconoscano che la Chiesa ha il potere di aggiungere al Simbolo la parola Filioque, non sono obbligati a recitare il Simbolo con questa aggiunta, a meno che, tralasciandola, non ci sia pericolo di scandalo, o in qualche luogo sia ormai invalsa la consuetudine di recitare il Simbolo con l’aggiunta del Filioque; o finalmente si reputi necessario che si dica il Simbolo con l’aggiunta predetta per manifestare l’indubbia prova della loro retta Fede. Rettamente non solo i Padri del Concilio di Zamoscia (tit. I De Fide Catholica), ma anche i Padri del Concilio Libanese (parte I della stessa opera, n. 12), per rimuovere ogni scrupolo stabilirono provvidenzialmente che tutti i Sacerdoti soggetti alle loro leggi usino il Simbolo secondo la consuetudine della Chiesa Romana con la particella Filioque.
31. Da quello che è stato detto finora si conclude chiaramente che la Sede Apostolica, sullo stesso argomento, talvolta per particolari circostanze, considerata l’indole di certe popolazioni, consentì di usare un certo modo, che tuttavia non permise affatto che fosse usato da altri per circostanze diverse e per le diverse caratteristiche di luoghi e di popoli. Per la qual cosa, per soddisfare all’incarico assunto, non resta altro che dimostrare che la stessa Sede Apostolica, mentre riconobbe certi popoli Orientali e Greci, fu più severa nell’uso di qualche Rito Latino, lo permise benevolmente, soprattutto se la consuetudine di usare questo Rito fiorì fin dai tempi più antichi e i Vescovi non solo non sono mai stati contrari ma o tacitamente o espressamente lo approvarono. Essendo stati portati in precedenza perspicui esempi di ciò, quando parlammo di quella categoria di Orientali e di Greci che, mantenendo in gran parte i propri Riti e venerando parimenti i Riti Latini e Orientali, abbracciarono qualche nostro Rito, ci asterremo da un’inutile ripetizione richiamando qui ciò che sopra fu esposto chiaramente in questa stessa Lettera. Aggiungeremo soltanto due esempi, presi dai Maroniti, a quelli già addotti. Da alcuni secoli i Maroniti usano i paramenti Pontificali e Sacerdotali della stessa forma che prescrive il Rito Latino, come nel citato Concilio Libanese del 1736 si legge (cap. 12 sul Sacramento dell’Eucaristia, n. 7). Il Sommo Pontefice Innocenzo III nella lettera al Patriarca Geremia del 1215, che inizia Quia Divinae Sapientiae bonitas, li esorta a conformarsi alla Chiesa Latina negli ornamenti pontificali. Per questa ragione lo stesso Pontefice e i suoi successori mandarono loro in dono paramenti sacri, calici e patene, come narra il Patriarca Pietro nelle due lettere mandate a Leone X, riportate nella Collezione dei Concilii di Filippo Labbe (tomo 14, p. 346 e ss.). Ora, nel citato Concilio Libanese al cap. 13, per unanime decisione e con la nostra approvazione, gli stessi Maroniti, quanto alla Messa dei Presantificati, hanno abbracciato il Rito Latino, celebrandola soltanto il Venerdì Santo, tralasciando, per cause giuste e gravi, la disciplina dei Greci i quali celebrano solo la Messa dei Presantificati nei giorni del digiuno quaresimale, eccetto il sabato, la domenica e la festa dell’Annunciazione della Beata Vergine, se per caso cade in Quaresima, secondo quanto prescritto nel Concilio Trullano (can. 52). In questi giorni il Sacerdote divide il Pane consacrato in tante particelle quanti sono i giorni che seguiranno, nei quali si celebra la Messa dei Presantificati, in cui si mangia il Pane Eucaristico, che prima consacrò, conservando nel Ciborio le altre particole consacrate, perché nei giorni seguenti, in cui celebrerà la Messa dei Presantificati, ne mangi e ne distribuisca anche agli altri presenti che ne facciano richiesta, come diffusamente ricorda Leone Allazio (Prolegomeni a Gabriele Naudeo, La Messa dei Presantificati, p. 1531, n. 1).
32. Qualcuno potrebbe ritenere che si debba concludere questa Lettera, poiché in essa è già stato risposto alle domande poste dal Sacerdote Missionario di Balsera: cioè Non si deve cambiare nulla, e sono qui indicate le regole precise che devono seguire i Missionari i quali cercano di portare gli Orientali all’Unità e alla Santa Fede Cattolica dallo scisma e dagli errori; né si comporta secondo le regole dei Canoni e delle Costituzioni Apostoliche colui che, nel convertire gli Orientali, cerca di togliere di mezzo il Rito Orientale e Greco, in ciò che è tollerato e ammesso dalla Sede Apostolica, o agisce in modo che coloro che si convertono abbandonino il Rito che fino allora seguirono, e abbraccino il Latino. Tuttavia, prima di por fine a questa Lettera è molto conveniente che si tocchino alcuni argomenti che appartengono propriamente alle questioni poste da detto Missionario, alle quali già fu risposto che non si deve cambiare nulla.
33. Inoltre, se nella città di Balsera dimorano Cattolici di Rito orientale, Armenio Siriaci, e mancano di una Chiesa particolare, si radunano nella Chiesa dei Missionari Latini, dove Sacerdoti di Rito Orientale celebrano il Divino Sacrificio e le altre cerimonie nei loro Riti, e i Laici intervengono alla Messa e ricevono i Sacramenti, non c’è molto da fare per difendere il principio che non si deve cambiare nulla come è stato scritto: e ciò che fu valido prima, deve essere conservato in futuro, permettendo ai predetti Sacerdoti e Laici che nella Chiesa Latina continuino a fare quello che hanno fatto finora. Infatti nel diritto canonico è stabilito che il Rito Orientale e Greco non si deve mescolare con quello Latino, come si può vedere nella Decretale di Celestino III presso Gonzales (cap. Cum secundum; De temporibus Ordinationum), e nella Decretale di Innocenzo III (cap. Quanto; De consuetudine, cap. Quoniam, De Officio Iudic. Ordinar.),e nella Decretale di Onorio III (cap. Litteras: De celebrat. Missar.), ma a nessun diritto si può affermare che la miscela di Riti, vietata da qualche Costituzione Apostolica, sia concessa per il fatto che l’Armeno, il Maronita, o il Greco secondo il proprio Rito celebrino nella Chiesa Latina il Sacrificio della Messa o altre cerimonie col popolo del proprio Rito, o viceversa il Latino faccia la stessa cosa nella Chiesa degli Orientali: mentre c’è una certa causa legittima, di cui nella presente fattispecie non si può in alcun modo dubitare, quando gli Orientali non hanno una loro Chiesa nella città di Balsera, che se ad essi non si aprisse la Chiesa dei Latini, mancherebbero assolutamente di un posto dove potessero celebrare il Sacrificio della Messa ed esercitare col popolo del proprio Rito quello che c’è da fare: essi devono essere tenuti in Santa Unione e riscaldati.
34. Sarebbe proibita la miscela di Riti, se il Latino celebrasse con pane fermentato e desse ai Latini l’Eucaristia consacrata a quel modo. La stessa cosa si dovrebbe dire se gli Orientali, che non abbracciarono la consuetudine del pane azimo, celebrassero in azimo e distribuissero alla loro gente l’Eucaristia così consacrata. Quindi i Vescovi latini cui sono soggetti gli Italo-Greci devono curare che i Latini si comunichino sempre in azimo e i Greci, dove hanno una propria parrocchia, sempre in fermentato, come è stabilito nella nostra Costituzione Etsi Pastoralis 57 (n. 6 e n. 14, tomo 1 del nostro Bollario). Sarebbe pure vietata la miscela del Rito se un Sacerdote Latino celebrasse la Messa ora in Rito Latino, ora Greco, o se un Sacerdote Greco celebrasse ora in Greco ora in Latino. Ciò è proibito nella Costituzione di San Pio V che inizia Providentia (21, tomo 4, parte 2 del nuovo Bollario stampato a Roma dove sono revocate tutte le facoltà che in precedenza erano state concesse ad alcuni Sacerdoti in questa materia). A questa Costituzione di San Pio V è conforme anche la nostra citata (§ 7, n. 10). Ché se ai Sacerdoti della Compagnia di Gesù che sono a capo dei Collegi delle Nazioni Orientali eretti a Roma e che abbracciando la regola della predetta Compagnia erano passati dal Rito Greco al Latino fu concesso, come sopra accennato, di celebrare talvolta la Messa in Rito Greco e Orientale, questo fu fatto, come sopra spiegato, perché gli alunni che devono praticare il Rito Greco e Maronita imparino a celebrare la Messa nel predetto Rito e secondo il medesimo a celebrare i Divini Uffici per tutta la vita. Ma le particolari circostanze di questo caso singolare dicono che non si possono portare ad esempio per ottenere simili indulti: ciò è così vero che quantunque il Cardinale Leopoldo Kollonitz abbia esposto al nostro Predecessore Clemente XI che avrebbe giovato molto alla Chiesa Cattolica se si fosse permesso ai Missionari Latini di celebrare, in Ungheria, col Rito Greco tutte le volte che lo richiedesse la necessità, lasciando loro la libertà di tornare al Rito Latino, lo stesso Pontefice riflettendo che, secondo le leggi canoniche, ciascuno doveva restare nel suo Rito e non era lecito al Sacerdote celebrare ora in Rito Latino, ora in Rito Greco, rifiutò di concedere la facoltà richiesta dal predetto Cardinale, come risulta dalla lettera in forma di Breve che indirizzò allo stesso Cardinale il 9 maggio 1705 (pubblicata nel tomo 1, Epistolar. et Brev. selectior. Eiusdem Pontificis, typis editor, p. 205).
35. Questi ed altri esempi che si potrebbero citare facilmente riguardano la miscela dei Riti proibita dalle leggi della Chiesa. In verità, come già abbiamo detto, non si potrà mai chiamare miscela dei Riti proibita se, per una causa legittima, il Sacerdote di Rito Orientale, approvato dalla Sede Apostolica, viene ammesso nella Chiesa dei Latini per celebrarvi la Messa e le altre funzioni ed amministrare i Sacramenti al popolo della sua Nazione. Vediamo che ciò avviene pubblicamente a Roma dove ai Sacerdoti Armeni, Copti, Melchiti e Greci sono aperti i nostri templi per celebrarvi la Messa, per soddisfare la loro devozione, quantunque abbiano le loro Chiese particolari dove potrebbero celebrare: purché tuttavia portino con sé i paramenti sacri e le altre cose che sono necessarie a celebrare la Messa secondo il loro Rito e li accompagni un collaboratore della loro Nazione per servire i celebranti, e dai custodi e dai Rettori della Chiesa si provveda in modo che, per la novità della cosa, non si determinino turbolenze e tumulti fra gli astanti, come più dettagliatamente si dice nell’Editto che il 13 febbraio 1743 fu promulgato per Nostro ordine per gli Ecclesiastici e i Laici Orientali abitanti a Roma a mezzo del nostro Venerabile Fratello Giovanni Antonio, allora del titolo dei Santi Silvestro e Martino ai Monti, Presbitero, ora Vescovo di Tuscolo, Cardinale di Santa Romana Chiesa, chiamato Guadagni, nostro Vicario generale in Roma e relativo distretto. Tuttavia per questo argomento Ci sembra di fare moltissimo, e tosto lo indicheremo. A metà circa del secolo XV, com’è noto, Maometto II espugnò Costantinopoli con la forza e alcuni Greci, che avversavano gli errori degli Scismatici e avevano conservato la comunione con la Chiesa Latina, si erano trasferiti a Venezia e qui erano restati. Il Cardinale Isidoro, greco di stirpe, essendo giunto in quella città, riferì al Senato il desiderio del Romano Pontefice che venisse assegnato agli uomini di questo Rito Greco un tempio nel quale potessero esercitare le loro funzioni. La commossa compassione del Senato concesse alla gente profuga la Chiesa di San Biagio dove per la durata di molti anni in una determinata cappella della stessa Chiesa i Greci fecero i Divini Offici in Rito Greco, e nelle altre cappelle i Latini in Rito Latino, come attesta Flaminio Cornelio, scrittore di gran fama: “Per alcuni anni gli Uffici di ambedue i Riti furono fatti in una sola Chiesa, se pure in diverse Cappelle” (Decad. 14. Venetarum Ecclesiarum, p. 359). Ciò avvenne fino a quando, aumentato il numero dei Greci, alla predetta Chiesa di San Biagio comune a Latini e Greci, fu dato un altro tempio che fosse proprio e riservato ai Greci.
36. Questo riguarda i Greci che, per celebrare, sono accolti nelle Chiese Latine. Ma perché sia mostrato più chiaramente che da ciò non segue nessuna miscela rituale condannata dalle leggi della Chiesa, non sarà senza significato parlare anche dei Latini che per dire Messa e assolvere i Divini Offici sono ammessi per giusti motivi nelle Chiese dei Greci. Ciò non solo confermerà il pensiero suesposto, ma anche contribuirà moltissimo a dimostrare quanto siano necessarie tra i Cattolici, sia pure di Rito diverso, l’unione e la benevolenza degli animi. Nella Russia Bianca i Ruteni Cattolici che chiamano Uniati hanno molte Chiese, e poche i Latini e, ciò che conta di più, molto distanti dai villaggi dei Latini che abitano tra i Ruteni. I Latini talora per lungo tempo mancavano della Messa di Rito Latino, per la ragione che trattenuti dai loro affari non potevano fare un così lungo cammino per recarsi alle Chiese Latine; né i Preti Latini potevano facilmente andare nelle poche Chiese Latine che si trovano nella Russia Bianca a celebrare la Messa, per la ragione che le Chiese erano separate da troppo lungo cammino dal loro domicilio. Perciò affinché i Latini non mancassero per troppo tempo della Messa in Rito Latino, restava solo che i Sacerdoti Latini, a comodità dei Latini, celebrassero Messe Latine nelle Chiese Rutene. Ma anche con questa soluzione esisteva una difficoltà: gli altari dei Greci non hanno la Pietra sacra, dal momento che essi celebrano sugli Antimensi che sono lini consacrati dal Vescovo nei cui angoli sono messe le reliquie dei Santi. Pertanto i Sacerdoti Latini erano costretti a portare con sé la Pietra sacra, con non lieve incomodo e attenzione, perché nel viaggio non si spezzasse. A tutti questi ostacoli, con l’aiuto di Dio, fu trovato e applicato un rimedio opportuno: poiché, consenzienti anche gli stessi Ruteni, fu concesso ai Preti Latini di celebrare la Messa in Rito Latino nelle Chiese Rutene e sopra i loro Antimensi e, questo sembrò ancor più sbrigativo, che i Sacerdoti Ruteni, andando talora in Chiese Latine per celebrarvi la Messa, dicessero la Messa sulle nostre Pietre sacre. Tutto questo si può ricavare dalla nostra Costituzione Imposito Nobis (n. 43, tomo 3 del nostro Bollario).
37. È inoltre molto importante per il nostro argomento ciò che subito aggiungeremo. Discutono fra di loro gli studiosi se, secondo la vecchia disciplina, nelle Basiliche della Chiesa Occidentale ci fossero uno o più altari. Sostiene la prima tesi Schelestrato (part. 1 Actor. Ecclesiae Orientalis, cap. 2, De Missa privata in Ecclesia Latina); ma per contro il Cardinale Bona (Rerum Lyturgicarum, lib. 1, cap. 14, n. 3), basandosi sull’autorità di Walfrido (cap. 4), dimostra che nella Basilica romana di San Pietro vi erano più altari. Se però si parla di Templi e Basiliche Orientali e Greche, è chiaro che in esse non esisteva che un solo altare, anche se orane esistono in gran numero, come si deduce dalla descrizione lineare di questi Templi che ne fecero il Du Cange in Costantinopoli Cristiana, il Beveregio nelle note alle Pandette dei Canoni e il Goario nell’Eucologio dei Greci. E poiché nel Tempio di Sant’Atanasio, che a Roma è tenuto dai Greci, ci sono molti altari, Leone Allazio nella lettera a Giovanni Morini Sui Templi più recenti dei Greci, n. 2, non esitò ad asserire che in quella Chiesa non c’era nulla di greco all’infuori del Bema, cioè del recinto che, da tutte le parti della Chiesa, evidenzia l’Altar maggiore. A quell’Altare, al quale il Sacerdote ha celebrato la Messa, non può un altro Sacerdote nello stesso giorno offrire una seconda volta la Messa. Di questa disciplina dei Greci parlano Dionisio Barbalibeo, Giacobita, Vescovo di Amida, in Spiegazione della Messa, e Ciriaco, Patriarca dei Giacobiti presso Gregorio Barebreo, pure Giacobita, nel suo Direttorio che cita Assemano nella Biblioteca Orientale (tomo 2, p. 184 e tomo 3, parte 1, p. 248). Circa la stessa disciplina il Cardinale Bona (citato, cap. 14, n. 3), così lasciò scritto: “Nelle loro Chiese hanno un unico altare e non giudicano lecito che nello stesso giorno si ripeta la Messa entro le mura del Tempio“. Eutimio, Arcivescovo di Tiro e Sidone, e Cirillo, Patriarca Antiocheno dei Greci, durante il Pontificato di Clemente XI, Benedetto XIII e Clemente XII più volte chiesero se dovevano abbandonare la vigente disciplina che vietava si offrisse un secondo sacrificio della Messa nello stesso giorno e allo stesso altare. Ma fu sempre risposto loro che nulla si doveva cambiare, e si doveva conservare appieno il vecchio Rito. Poiché si era diffuso nel popolo l’errore che non si offriva un secondo Sacrificio della Messa nello stesso giorno, allo stesso altare dove un altro Sacerdote aveva celebrato, perché il Sacerdote che celebrava dopo, usandogli stessi paramenti che aveva usato il primo, rompeva il digiuno, perciò nella nostra Enciclica al Patriarca antiocheno dei Greci Melchiti e ai Vescovi cattolici a lui soggetti, prescrivemmo che con ogni impegno curassero di eliminare questo errore tra il popolo, in modo tuttavia da conservare integro lo spirito secondo il quale all’altare dove celebrò un Sacerdote, è escluso vi celebri un altro Sacerdote lo stesso giorno, come si può vedere nella nostra Costituzione che comincia Demandatam (87, tomo 1 del nostro Bollario).
38. Infine, un tempo fu comune il Rito nella Chiesa Occidentale e Orientale che i Preti offrissero il Sacrificio della Messa assieme al Vescovo. I documenti di questa disciplina furono raccolti da Cristiano Lupo nell’Appendice al Sinodo di Calcedonia (tomo 1, Ad Concilia generalia et provincialia, p. 994 della prima edizione), dove interpreta queste parole di Bassiano “Con me celebrava la Messa, con me comunicava“, e da Giorgio, nella Liturgia Pontificia (tomo 2, p. 1 e ss., e tomo 3, p. 1 e ss.). Ora il Rito della concelebrazione nella Chiesa Occidentale è caduto in disuso, meno che nell’ordinazione dei Sacerdoti, che il Vescovo conduce, e nella consacrazione dei Vescovi, che viene compiuta dal Vescovo con altri due Vescovi assistenti. Ma nella Chiesa Orientale sopravvisse e vige tuttora un uso più frequente della concelebrazione dei Preti col Vescovo o con un altro Sacerdote, che sostiene la persona del primo Celebrante; questo uso si riferisce alle Costituzioni che si chiamano Apostoliche, libro 8, e al Canone ottavo tra quelli che si dicono Apostolici. Dovunque questa consuetudine è in vigore tra i Greci e gli Orientali, non solo è approvata ma anche si ordina di custodirla, come consta dalla nostra stessa Costituzione sopra citata Demandatam (§ 9).
39. Da questo Rito Greco e Orientale che fin qui abbiamo ricordato, alcuni colsero l’occasione di mettere in dubbio se per le Messe private, che si dicono da un solo Sacerdote, ci possa essere posto nella Chiesa Orientale e Greca del momento che, come abbiamo detto, nelle Chiese Greche esiste un solo altare, uno solo è offerto al sacrificio della Messa e i Sacerdoti concelebrano col Vescovo o con un Sacerdote che fa da primo Presbitero. I Luterani non trascurarono di mandare a Geremia, Patriarca di Costantinopoli, la Confessione di Augusta, nella quale si sopprimono le Messe private, sollecitandolo ad accettarla; ma siccome l’uso e la disciplina della Messa privata nella Chiesa Orientale si desumono e sono rivendicati dal Canone 31 del Concilio Trullano e dalle Note che su di esso compose Teodoro Balsamon, pertanto il Rito della frequente concelebrazione dei Sacerdoti col Vescovo rimase, e parimenti la consuetudine delle Messe private restò intatta nella Chiesa Orientale. Perciò i tentativi dei Luterani si conclusero nel nulla: ad essi fu risposto che era condannato dagli Orientali, come dagli Occidentali, l’uso malvagio di coloro che per l’immondo desiderio di ricevere l’offerta sono spinti all’altare, a differenza di coloro che, secondo pietà e religione celebrano le Messe private per offrire a Dio un sacrificio accettabile. Ciò appare dagli Atti della Chiesa Orientale contro i Luterani (Schelestrato, cap. 1, De Missis privatis in Ecclesia Graeca, verso la fine). A comodo dei Sacerdoti che desiderano offrire il Sacrificio della Messa, salva sempre la consuetudine che ad un solo altare si offra un solo sacrificio nei singoli giorni, i Greci cominciarono a costituire le Paracclesie di cui parla Leone Allazio nella citata lettera a Giovanni Morini. Le Paracclesie non sono altro che Oratori i contigui alla Chiesa nei quali è stato eretto un altare dove i Sacerdoti celebrano la Messa che non possono celebrare in Chiesa perché all’altare in essa costruito ha celebrato un altro Sacerdote.
40. Altri poi, da questa disciplina degli Orientali e dei Greci, giustamente pensarono che c’era da temere che i Sacerdoti latini venissero esclusi in perpetuo dal celebrare Messe nelle Chiese Greche, perché, come sopra si è detto, in esse esiste un unico altare dove nello stesso giorno un Sacerdote solo può celebrare; né i Sacerdoti Latini potevano celebrare nelle Paracclesie, in quanto costruite solo per i Greci. Ma ad eliminare il timore, in questo periodo si vede che per lo più nelle Chiese Greche viene costruito un secondo altare, nel quale da parte dei Preti Latini si possa offrire il Divino Sacrificio. Goario espose tre forme dei Templi Greci nell’Eucologio Greco; la terza di esse presenta un secondo altare posto per i Preti Latini, come dice lo stesso Goario nel luogo citato, e come prosegue lo Schelestrato (opera sopra indicata, p. 887). Nelle Chiese della Comunità dei Maroniti e dei Greci esistenti in Roma, oltre l’altare maggiore, ci sono altri altari nei quali si celebra la Messa da parte dei Preti Latini; nella nostra Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 6, nn. 8 e 9, tomo 1 del nostro Bollario), nella quale si offre agli Italo-Greci una sicurissima regola di agire, si vieta ai Sacerdoti latini di celebrare nei Templi Greci all’altare maggiore, se non lo richieda in tutti i modi una necessità e si abbia il consenso del Parroco greco. Inoltre, nella stessa Costituzione si concede ai Greci la possibilità di erigere nei loro Templi, oltre l’altare maggiore, altri altari nei quali i Sacerdoti latini se vogliono, possano celebrare il sacrificio della Messa.
41. Da quanto abbiamo detto finora sembra sia già chiaramente dimostrato che, come prima, così in futuro si deve permettere ai Cattolici Armeni e ai Siriaci che abitano a Balsera misti ai Latini, e che mancano di una Chiesa propria, che si radunino in quella latina e in essa svolgano le sacre funzioni col proprio Rito: tanto più che non solo non ne deriva alcuna miscela di Riti condannata dalla Chiesa, ma si esercitano i doveri dell’ospitalità o, meglio, si adempiono precetti equitativi del diritto, che esige che a chi non ha un luogo opportuno a fare quelle cose che di diritto deve compiere, il luogo stesso venga concesso volentieri. Perciò non resta altro che ordinare che tutto venga fatto secondo le leggi della dovuta carità, e cioè che agli Orientali venga assegnata una cappella o una parte della Chiesa nella quale possano celebrare le loro funzioni, e per quanto si può fare ci si adoperi affinché in alcune ore i Latini e in altre gli Orientali facciano le loro funzioni. Se capiterà di fare altrimenti, subentrerà un motivo immediato di quei dissensi che tanto tormentarono i due nostri predecessori Leone X e Clemente VII; contro i patti stipulati nel Concilio di Firenze da Eugenio IV affinché non si recasse alcuna molestia ai Greci nel compimento dei propri Riti e delle proprie cerimonie, ai predetti Pontefici fu riferito che alcuni Latini andavano nelle Chiese dei Greci e celebravano la Messa in Rito Latino presso il loro altare con l’intenzione di creare ai Preti greci ostacolo ad offrire il Sacrificio secondo il loro Rito e a poter fare le loro funzioni. Di conseguenza i Greci, talvolta anche nei giorni di festa, mancavano del Sacrificio della Messa: “Non si sa con quale spirito (si parla dei Preti latini) talora occupano gli altari di dette Chiese parrocchiali e ivi, contro la volontà degli stessi Greci, celebrano la Messa e forse altri Divini Uffici, così che i detti Greci spesso restano senza aver udito la Messa, con grande agitazione d’animo, nei giorni festivi e negli altri giorni in cui erano soliti ascoltarla“. Questi lamenti papali riporta il documento che comincia Provisionis nostrae e che si trova nell’Enchiridion dei Greci (stampato a Benevento nel 1717, p. 86). Non è certo necessario che aggiungiamo le nostre lamentele, che non sarebbero più lievi né sarebbero prive di rimedi opportuni, se mai si riferisse a Noi che a Balsera, dai nostri Latini, viene impedito agli Orientali di compiere le loro funzioni nelle Chiese Latine.
42. Una seconda questione succede a questa prima: riguarda gli Armeni e i Siri. Si disquisisce se essi, nello stabilire il tempo della Pasqua e delle Feste che da essa dipendono, possano usare il vecchio Calendario, o piuttosto debbano seguire il nuovo, corretto, quando celebrano le funzioni sacre nelle Chiese Latine, e si dica fino a qual punto sia lecito da parte loro l’uso dell’antico Calendario, o tale indicazione riguardi anche quegli Orientali che hanno la loro Chiesa, ma così angusta e così piccola che non potendo tutti radunarsi in essa, per la maggior parte sono costretti a entrare nelle Chiese Latine.
43. Non è ignoto ad alcuno ciò che dai santi Papi Romani Pio e Vittore, e anche dal Concilio di Nicea fu stabilito circa la retta celebrazione della Pasqua. Tutti ugualmente sanno che dal Concilio Tridentino fu riservato al Romano Pontefice la correzione del calendario e che essendo papa Gregorio XIII la cosa fu risolta con tutti i relativi calcoli. Pertanto Bucherio nel Commentario alla dottrina dei tempi, nella prefazione al lettore scrisse: “A computare la certezza del tempo pasquale, all’ordine del Papa Gregorio XIII provvide largamente il nostro Clavio“. Egli fu un Sacerdote della Compagnia di Gesù, matematico preparatissimo, il quale diede al Pontefice un egregio contributo nella correzione del Calendario. Furono portati al Pontefice anche i calcoli di certo Luigi Lilio, il quale aveva trascorso molti anni nel comporli. Valutato e soppesato tutto in molte Congregazioni, alla presenza in consiglio di uomini eruditissimi, uscì nel 1582 la Costituzione che fissava le regole del Calendario; essa comincia: Inter gravissimas (n. 74, nel vecchio Bollario, tomo 2).
44. Abrogato il vecchio Calendario con questa Costituzione Pontificia, fu comandato ai Patriarchi, ai Primati, agli Arcivescovi, ai Vescovi, agli Abati e agli altri Prelati di servirsi del nuovo Calendario, corretto, come si può leggere nella stessa Costituzione, come si deduce dagli Annali dello stesso Pontefice (stampati a Roma nel 1742, tomo 2, p. 271). Per la verità, non essendosi fatta parola degli Orientali nella Costituzione, nasce il quesito se la stessa riguardi gli Orientali; tale questione investe non solo i dottori, come si può vedere in Azorio, Istituzioni morali (tomo 1, libro 5, cap. 11, quaest. 7), presso Baldello nella sua Teologia morale (tomo 1, libro 5, disput. 41); ma fu anche proposta e discussa in un convegno di Scienziati del 4 luglio 1631 nel palazzo del Cardinale Panfili che, salito al Papato, prese il nome di Innocenzo X. Allora uscì questa risoluzione: “I sudditi dei quattro Patriarchi d’Oriente non sono legati dai nuovi decreti pontifici se non in tre casi: primo, in materia dei dogmi di Fede; secondo, se il Papa esplicitamente nelle sue Costituzioni ne faccia menzione e disponga di essi; terzo, se implicitamente disponga di essi nelle stesse Costituzioni come nei casi di indirizzi al futuro Concilio“: viene riportata questa risoluzione sia dal Verricello (De Apostolicis Missionibus, libro 3, quest. 83, n. 4), sia nella nostra opera La canonizzazione dei Santi (libro 2, cap. 38, n. 15).
45. Noi consideriamo questa questione conclusa, non essendovi alcuna urgenza ora per discuterne. A Noi basterà indicare che cosa ha fatto la Sede Apostolica a questo proposito, quando dai fatti precedenti si evince che è quanto mai ragionevole la risposta che “non si deve cambiare nulla” data al quesito. Agli Italo-Greci che vivono tra di noi e vengono sottoposti al governo dei Vescovi Latini nelle cui Diocesi sono domiciliati, fu comandato dalla Sede Apostolica di conformarsi al nuovo Calendario, come si può vedere nella nostra citata Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 9, nn. 3 e ss. del tomo 1 del nostro Bollario). Il clero della Collegiata di Santa Maria del Grafeo, della città di Messina, che pratica il Rito Greco, osserva il nuovo Calendario scrupolosamente, come si può vedere nell’altra nostra Costituzione Romana Ecclesia (81, par. 1 dello stesso tomo 1 del nostro Bollario); tuttavia ciò fu comandato non così severamente che talvolta, richiedendolo gravi ragioni, non si sia lasciato posto ad un indirizzo concessivo. Gli Armeni cattolici residenti a Liburni non volevano sottoporsi al Calendario gregoriano ed inoltrarono suppliche a Innocenzo XII di poter usare il vecchio Calendario. Nella Congregazione del Sant’Officio il 20 giugno 1674 era stato approvato questo decreto: “Richiamata di nuovo la lettera 10 aprile del Nunzio Apostolico di Firenze circa le richieste fattegli dagli Armeni di pregare nella Messa per il Patriarca degli Armeni e circa la celebrazione della Pasqua e delle altre feste secondo il loro Rito, cioè secondo il calcolo vecchio che esisteva prima della correzione del calendario, e circa la celebrazione della Pasqua, ecc. ; riferita la Scrittura mandata dalla Sacra Congregazione di Propaganda Fide circa il modo di pregare nella Messa per il Patriarca Armeno, si risponda al Nunzio che, circa il permesso di pregare nella Liturgia per il Patriarca degli Armeni, la Sacra Congregazione sta ai decreti emanati il 7 giugno 1673, e cioè che non si può, e quindi è vietato. Quanto alla celebrazione della Pasqua e delle altre feste, restarono del pari ancorati ai decreti: cioè nella celebrazione della Pasqua e delle altre feste gli Armeni residenti a Liburni devono osservare il Calendario Gregoriano“. Poiché gli Armeni si rifiutarono di ottemperare a questo decreto, l’esame del caso fu affidato alla particolare Congregazione di Cardinali eminenti per dottrina, tra i quali erano il cardinale Gianfrancesco Albano, che poi divenne Papa, e il cardinale Enrico Norisio, uomo famoso tra i letterati. La stessa Congregazione tenutasi il 23 settembre 1699 emise questo decreto confermato dal Pontefice nello stesso giorno: “Discussa profondamente la cosa e considerate tutte le circostanze del fatto, stabilirono, secondo quanto è proposto, che si può chiudere un occhio con i Cattolici Armeni abitanti a Liburni; circa l’uso del vecchio Calendario, coloro che ritengono peculiare la Chiesa, si dispongano ad ogni modo all’osservanza del Calendario Gregoriano e frattanto al beneplacito della Sede Apostolica, con l’aggiunta, inoltre, di questa condizione: che nei giorni di precetto, secondo il Calendario Gregoriano, si astengano dalle opere servili e ascoltino la Santa Messa“.
46. Se si vuol parlare dei Greci Orientali, consta che talora avevano il desiderio di usare il nuovo Calendario corretto, ma questo non ebbe alcun risultato. Tra gli articoli e le condizioni poste ai Ruteni nell’Unione sotto Clemente VIII fu inserita, trattata e risolta anche quella dell’accettazione del Calendario; ad essa fu data la seguente risposta: “Assumeremo il Calendario nuovo se si può fare secondo l’antico“, come si può leggere nell’opera di Tomaso da Gesù (p. 329). Quantunque quella risposta presentasse una certa ambiguità, sappiamo che di quell’argomento non si trattò più, né su questo articolo pronunciò alcun giudizio il Teologo deputato ad esaminare la questione, come appare dalla stessa opera a p. 335 e ss. Talvolta gli Orientali stessi spontaneamente accettarono il nuovo Calendario, come si può apprendere dal più volte citato Concilio provinciale dei Maroniti del 1736: “Tanto nei digiuni quanto nelle feste dell’anno, sia mobili, sia immobili, comandiamo espressamente che il Calendario Romano, emendato con tanto merito per la nostra Nazione dal Sommo Pontefice Gregorio XIII, sia osservato in tutte le nostre Chiese e il suo metodo ed uso, come anche il Canto Ecclesiastico, comandiamo che in ogni Chiesa siano insegnati ai fanciulli dai Maestri“. Ma tutte le volte che gli Orientali non accondiscesero, ci fu il giustificato timore che nascessero tumulti e dissensi se si fosse ingiunto loro l’uso del Calendario nuovo. La Sede Apostolica permise che gli Orientali e i Greci abitanti in remote regioni conservassero la loro antica disciplina, cioè conservassero il vecchio Calendario, attendendo un’occasione più propizia per introdurre l’uso del Calendario nuovo e corretto. Sull’argomento sono concordi anche i decreti della Congregazione di Propaganda Fide e della Sacra Inquisizione, come si apprende, quanto alla prima, dai decreti del 22 agosto 1625 e 30 aprile 1631; quanto alla seconda, dai decreti del 18 luglio 1613 e del 14 dicembre 1616. Anzi, la cosa si spinse a tal punto che anche ai Missionari fu permesso l’uso del vecchio Calendario quando si trattenevano in quelle regioni in cui resisteva solo l’uso del vecchio Calendario, come si può sapere da alcuni decreti emanati dalla Congregazione di Propaganda Fide il 16 aprile 1703 e il 16 dicembre 1704.
47. Resta da parlare dell’ultimo quesito, cioè del digiuno. I Siri e gli Armeni cattolici, secondo il loro Rito, in tempo di digiuno si astengono dal mangiar pesci: ma vedendo che i Latini li mangiano ed è impossibile o almeno difficilissimo che si possano astenere dai pesci, che vedono i Latini mangiare, perciò si propone come conforme a ragione che si dia ai Missionari la facoltà di dispensare: ma prudentemente, ed escluso ogni scandalo, e surrogando con qualche buona azione l’astinenza dai pesci. Questa sarebbe un’occasione adattissima per discutere della vetustà del digiuno presso gli Orientali e della sua legge, sia pure più severa, tuttavia sempre osservata: ma per non diffonderci più del necessario diciamo solo che la Sede Apostolica si oppose ai Patriarchi tutte le volte in cui vollero attenuare l’antico rigore del digiuno prescritto ai propri sudditi. Pietro, Patriarca dei Maroniti, concesse agli Arcivescovi e Vescovi a lui soggetti di nutrirsi di carne come i Laici, quantunque secondo l’antica disciplina si astenessero dalle carni; e permise a tutto il popolo, in tempo di Quaresima, di mangiar pesci e bere vino, quantunque ciò fosse ad essi proibito. Ma il Papa Paolo V, spedendo una lettera in forma di Breve al Patriarca successore di Pietro il 9 marzo 1610, comandò che, abrogato ciò che Pietro aveva concesso, le cose venissero rimesse nella primitiva condizione. Durante il nostro Pontificato furono chiamate all’esame l’eccessiva facilità e indulgenza di Eutimio, Arcivescovo di Tiro e Sidone, e di Cirillo, Patriarca Antiocheno presso i Greci Melchiti; e furono disapprovate, come appare dalla nostra Costituzione Demandatam (87, § 6, tomo 1 del nostro Bollario): “Noi, con la nostra autorità, espressamente revochiamo l’innovazione e l’attenuazione delle astinenze, giudicando che si dimostrano di eccessivo detrimento all’antica disciplina delle Chiese Greche, quantunque altrove, venendo meno l’autorità della Sede Apostolica, vengano ritenute di nessuna importanza, e comandiamo che non abbiano alcun effetto in futuro e che ad esse non si dia esecuzione, ma in tutto il territorio del Patriarcato Antiocheno sia conservata la lodevole consuetudine derivata dagli antenati di astenersi ogni Mercoledì e venerdì dell’anno dal consumare pesce, come viene scrupolosamente osservato anche dagli altri popoli confinanti, dello stesso Rito Greco“. È assurdo asserire che si deve dare la dispensa o piuttosto una facoltà generale di dispensare perché gli Orientali, vedendo che i Latini si nutrono di pesci in tempo di digiuno, siano spinti facilmente non per un certo disprezzo, ma vinti dall’umana fragilità, a mangiare pesce in giorno di digiuno. Con questo argomento, se valesse qualcosa, prima di tutto nascerebbe una gran confusione di Riti; poi a seguire questa linea, ne conseguirebbe che i Latini vedendo i Greci vivere con particolari istituzioni, che non sono permesse ai Latini (sono anzi proibite) potrebbero chiedere la dispensa, perché fosse lecito a loro fare quello che vedono fare i Greci, dichiarando che essi riconoscono il Rito Latino, ma per la fragilità della natura non lo possono più a lungo praticare.
48. Sono queste le cose che giudicammo doversi esporre in questa nostra Enciclica, non solo per chiarire le ragioni su cui si fondano le risposte date al Missionario, che propose le questioni esposte all’inizio, ma anche perché a tutti sia chiara la benevolenza con la quale la Sede Apostolica abbraccia gli Orientali, mentre ordina che si conservino i loro antichi Riti che non si oppongono né alla Religione Cattolica né all’onestà; né chiede agli Scismatici, che tornano all’Unità Cattolica, di abbandonare i loro Riti, ma solo che abiurino le eresie, desiderando fortemente che i loro differenti popoli siano conservati, non distrutti, e che tutti (per dire molte cose con poche parole) siano Cattolici, non Latini.
Concludiamo infine questa nostra Lettera, impartendo la Benedizione Apostolica a chiunque la legga.
Roma, presso Santa Maria Maggiore, 26 luglio 1755, anno quindicesimo del Nostro Pontificato
Questa lunga lettera Enciclica del Sommo Pontefice Benedetto XIV, fu scritta per regolare i rapporti fra le consuetudini ed i riti orientali ed occidentali all’interno della Chiesa Cattolica, per armonizzare le condotte dei pastori dei fedeli dell’una e dell’altra parte in modo da rispettare le consuetudini proprie, approvate già dalla Santa Sede, senza alterare minimamente i principii fondamentali della fede cattolica. Trattasi di un documento ben articolato e ricco di particolarità storiche e dottrinali, …fra l’altro, autorizza i Siriaci e gli Armeni che assistono alle cerimonie religiose nelle Chiese latine a conservare i loro riti; nega ai Missionari la facoltà di dispensarli dall’astinenza dai pesci in tempo di digiuno; precisa quando è permessa la Comunione sotto le due specie; illustra l’origine e l’intangibilità del Sanctus Deus, Sanctus Fortis, Sanctus Immortalis, miserere nobis; ribadisce quale dogma di fede la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio (Filioque); indica le regole cui devono attenersi i Missionari che cercano di portare gli Orientali e i Greci all’unione e alla fede cattolica dallo scisma e dagli errori; raccomanda infine l’adozione del Calendario Gregoriano. Questo è l’esempio del vero ecumenismo, portare tutti nell’unico ovile di Cristo sotto un solo Pastore, nulla a che vedere con gli apostati usurpanti posconciliari, gli adoratori delle pachamame e dello sterco di vacca indiana. Abbiamo diviso, per la sua lunghezza, in due parti la lettera per consentirne un maggiore approfondimento e goderne l’interessante prezioso contenuto.
Benedetto XIV Allatæ sunt (1)
1. È giunta alla Congregazione dei Nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa preposti agli affari di Propaganda Fide la lettera di un Sacerdote assegnato come missionario alla città di Balsera, che comunemente chiamano Bassora, che dista da Babilonia quindici giorni di viaggio e che è celeberrima dal punto di vista commerciale. In tale lettera credette opportuno esporre che in quella città risiedevano molti cattolici di rito orientale, cioè Armeni o Siriani che, mancando di una loro Chiesa specifica, si recano nella chiesa dei missionari latini dove i loro Sacerdoti offrono il Santo Sacrificio secondo i loro riti particolari e compiono altre sacre cerimonie. I laici intervengono a questi sacrifici e ricevono i Sacramenti dai medesimi Sacerdoti. Per cui colse l’occasione per chiedere se i predetti Armeni e Siriani debbono osservare il loro rito o se si debba togliere la varietà nella stessa Chiesa, nella quale anche i Latini, come abbiamo detto, si radunano e non sembri più logico che Armeni e Siriani, lasciato il vecchio calendario, abbraccino quello nuovo nelle questioni che riguardano i tempi della solennità pasquale e della Comunione annuale, come pure della Quaresima e i giorni delle feste, sia mobili, sia immobili. Andando oltre, poiché ai predetti Armeni di Balsera e ai Siriani si comanda di osservare il nuovo calendario, chiese se ciò si deve prescrivere anche agli altri Orientali che hanno un tempio particolare ma così angusto che è ritenuto inidoneo ad ospitare le sacre funzioni in modo decoroso, così che per lo più si recano nella Chiesa dei Latini.
2. Inoltre lo stesso Missionario sottopose alla predetta Congregazione perché – mentre ai Cattolici Orientali Armeni e Siriani viene comandato, nei giorni di digiuno, di astenersi dai pesci – vi sono parecchi tra di loro che non osservano affatto ciò, spinti da un certo disprezzo, ma in parte trascinati dalla fragilità della natura, in parte dal fatto che vedono che i cattolici latini hanno un’altra tradizione: perciò non sembri strano se si dà al Missionario la facoltà di permettere, non a tutti, ma in particolare a questi o a quelli, di usare il pesce in tempo di digiuno, in modo che non nasca scandalo alcuno e siano obbligati a fare altra opera di pietà in luogo dell’astinenza dai pesci.
3. Questi quesiti, come abbiamo detto, furono sottoposti dal suddetto Missionario alla Congregazione di Propaganda Fide che, secondo il costume, rimise la stessa cosa da esaminare all’altra Congregazione generale dell’Inquisizione. Questa si riunì davanti a Noi il 13 marzo del corrente 1755 e con il consenso unanime dei Cardinali fu risposto che “nulla doveva essere innovato“. Ciò Noi stessi abbiamo confermato con la Nostra autorità, spinti soprattutto dal Decreto in altri tempi emanato dalla predetta Congregazione di Propaganda Fide il 31 gennaio 1702, che poi fu confermato e rinnovato non una volta sola ed è di questo tenore: “Referente R. P. D. Carlo Agostino Fabrono, Segretario, la Sacra Congregazione ordinò di comandare, come col presente decreto si comanda, a tutti e ai singoli prefetti di Missioni apostoliche e ai Missionari, che nessuno di essi in seguito, per qualunque occasione o con qualunque pretesto, osi dispensare i cattolici di qualunque Nazione Orientale da digiuni, orazioni, cerimonie e simili prescritti dal Rito proprio delle stesse Nazioni, e approvati dalla Santa Sede Apostolica. Inoltre la stessa Sacra Congregazione stabilì che non era lecito né è lecito ai predetti Cattolici allontanarsi dalla consuetudine e dall’osservanza del proprio Rito, approvato, come sopra, dalla Santa Chiesa Romana. Tale decreto, così confermato e rinnovato, gli stessi Eminentissimi Padri comandarono si dovesse osservare per intero e senza alcuna esitazione da tutti e singoli i suddetti Prefetti e Missionari“. Tale decreto riguarda i cattolici della Chiesa Orientale e i loro Riti approvati dalla Sede Apostolica. A tutti è noto che la Chiesa Orientale consta di quattro Riti: il greco, l’armeno, il siriaco e il copto, i quali Riti si intendono tutti compresi nell’unico nome di Chiesa Greca o Orientale, così come sotto il nome di Chiesa Latina Romana si comprendono il Rito Romano, Ambrosiano, Mozarabico e i vari Riti particolari degli Ordini Regolari.
4. È così chiaro il senso del decreto che non ha bisogno di alcuna spiegazione, per cui questa Nostra Lettera Enciclica ha lo scopo che questa legge sia conosciuta da tutti, per essere osservata con maggiore diligenza. Giustamente si può dubitare infatti che le questioni proposte dal Missionario di Balsera dipendano dalla ignoranza dei decreti che già molto tempo prima furono emanati. Ma poiché da molti altri e frequenti indizi siamo indotti a ritenere che i Missionari latini mettano ogni cura e impegno in questo: per convertire gli Orientali dallo scisma e dall’errore all’unità e alla Santa Cattolica Religione, tolgono di mezzo il rito orientale o almeno lo indeboliscono e attirano i Cattolici Orientali ad abbracciare il rito latino, non per altra ragione, se non col desiderio di amplificare la Religione e di fare opera buona e gradita a Dio, perciò reputammo consentaneo (poiché ci siamo decisi a scrivere) con questa Nostra Enciclica, di comprendere nella forma più breve tutto ciò che, a parere di questa Sede Apostolica, devono tenere di norma gli Orientali tutte le volte che si convertono alla Religione Cattolica, e quello che si deve osservare coi Cattolici Orientali che sono nei luoghi dove non abitano Latini o i Cattolici Latini quando dimorano con gli Orientali Cattolici.
5. Per certo non si può ignorare quanto abbiano fatto i Romani Pontefici, fin dai primi tempi della Chiesa, per ridurre ad unità gli Orientali, dopo il funesto scisma di Fozio, che al tempo del Sommo Pontefice San Nicola I, allontanato con la forza Sant’Ignazio, patriarca legittimo, occupò la Sede di Costantinopoli. San Leone IX, Nostro predecessore, mandò i suoi ambasciatori a Costantinopoli per eliminare siffatto scisma, che, sopito per circa due secoli, Michele Cerulario aveva rinfocolato; ma i suoi tentativi caddero nel nulla. Successivamente, Urbano II invitò gli Orientali al Concilio di Bari ma ne ricavò poco frutto, quantunque Sant’Anselmo, arcivescovo di Canterbury, abbia messo ogni cura per conciliarli con la Chiesa Romana, ed abbia loro manifestato gli errori in cui si trovavano con la luminosità della propria dottrina. Nel Concilio di Lione che il beato Gregorio X aveva indetto, l’imperatore Michele Paleologo e i Vescovi greci abbracciarono l’unità della Chiesa Romana; ma poi, cambiato parere, si allontanarono nuovamente da essa. Nel Concilio di Firenze (sotto il Papa Eugenio IV), dove si erano recati Giovanni Paleologo e Giuseppe, patriarca di Costantinopoli, con gli altri Vescovi Orientali, fu stabilita l’Unione e accettata con la firma di ognuno. Nello stesso Concilio le Chiese degli Armeni e dei Giacobiti ritornarono all’obbedienza della Sede Apostolica; poi il Pontefice Eugenio, partito da Firenze per Roma, ricevette anche gli ambasciatori del Re degli Etiopi e ridusse all’obbedienza della Sede Romana i Siri, i Caldei e i Maroniti. Ma poiché, come si legge nel Vangelo di San Matteo, il seme che cade sulla pietra non reca alcun frutto, perché non ha dove mettere le radici: “Questi sono coloro che ricevono con gioia la parola di Dio, ma non hanno in sé radice: per cui quando vengono la tribolazione e la persecuzione a cagione della parola, subito si scandalizzano” (Mt 13,20-21), così appena Marco Arcivescovo di Efeso, come un nuovo Fozio, cercò di distruggere l’Unione e cominciò ad alzare la voce contro di essa, subito il frutto desiderato andò perduto completamente.
6. Inoltre si dimostrerebbe ignorante di storia chi non sapesse che l’unione con gli Orientali fu fatta e confermata in modo che si accettasse il dogma della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, così che ammettevano come lecita l’aggiunta della parola Filioque fatta nel Credo, e che il pane fermentato e l’azimo fossero materia dell’Eucaristia. Così abbracciarono il dogma del Purgatorio, della visione beatifica e del Primato del Romano Pontefice; in una sola parola, fu messa ogni cura per eliminare gli errori contrari alla Fede Cattolica, ma mai si fece sì che venisse alcun danno al venerabile Rito orientale. Ma anche chi ignorasse la presente disciplina della Chiesa, sulla quale non si fosse sufficientemente documentato, sappia che i Romani Pontefici, per nulla trattenuti dagl’insuccessi dei tempi passati, sempre pensarono di riportare i Greci all’Unione, come poco sopra abbiamo indicato: sempre insistettero e ancor oggi insistono, così come dalle loro parole e dai loro comportamenti chiaramente si comprende.
7. Nell’undicesimo secolo a Costantinopoli, ad Alessandria e nel Patriarcato Gerosolimitano si trovavano diverse Chiese latine, nelle quali si osservava il Rito latino, così come a Roma non mancavano Chiese greche nelle quali si celebravano i sacri Riti in Rito greco. Michele Cerulario, l’empio instauratore dello scisma, comandò di chiudere le Chiese latine. Invece Leone IX, Pontefice Romano, non restituì pan per focaccia, quantunque lo potesse fare con estrema facilità, e non chiuse a Roma i templi dei Greci, ma volle fossero aperti. Perciò, lamentandosi dell’ingiustizia compiuta contro i Latini, nella sua prima lettera, al cap. 9, così scrive: “Ecco, sotto questo aspetto, la Chiesa Romana quanto è più discreta, moderata e clemente di voi? Infatti, essendoci dentro e fuori Roma molti monasteri e Chiese dei Greci, nessuno di essi è turbato o gli è proibito seguire la tradizione avita o la specifica tradizione: ché anzi è persuaso ed esortato ad osservarle“.
8. All’inizio del secolo decimoterzo, avendo i Latini conquistato Costantinopoli e il Sommo Pontefice Innocenzo III avendo stabilito di istituire in quella città un Patriarca latino a cui obbedissero non solo i Latini, ma anche i Greci, tuttavia non dimenticò di dichiarare pubblicamente che egli non voleva interferire nei Riti greci, a meno che consuetudini da loro accolte costituissero un pericolo per le anime o fossero in contrasto con l’onestà della Chiesa. La decretale di questo Papa, data nel Concilio Lateranense IV, è riportata nel tomo VII della collezione dei Concili di Arduino, nel cap. Licet de Baptismo “Quantunque vogliamo eccitare i Greci ad obbedire e a ritornare alla Sede Apostolica, oggi vogliamo onorarli sostenendo, per quanto possiamo con l’aiuto di Dio, i loro costumi e i loro Riti, non vogliamo tuttavia sostenerli in quello che costituisce pericolo per le anime o deroga all’onestà della Chiesa“. Onorio III, poi, che successe subito a Innocenzo, usò le stesse parole quando scrisse al Re di Cipro che desiderava due Vescovi per alcune popolazioni del suo Regno, uno Latino per i Latini che colà abitavano, e l’altro Greco per i Greci che abitavano nei medesimi territori. Questa lettera di Onorio si legge stampata negli Annali di Rainaldo (Anno di Cristo 1222, n. 5).
9. Di documenti siffatti abbonda il secolo decimoterzo. A questo secolo appartiene la lettera di Innocenzo IV a Daniele, re di Russia, presso Rainaldo (Anno 1247, n. 29), il quale, lodando la speciale devozione del Re alla Chiesa Cattolica, concede che si conservino nel Regno stesso i Riti che non ripugnavano alla Fede della Chiesa Cattolica, così scrivendo: “Perciò, carissimo Figlio in Cristo, propensi alle tue suppliche, ai Vescovi ed agli altri Sacerdoti di Russia, permettiamo che sia lecito ad essi operare secondo il loro uso a fermento e permettiamo, in forza della presente, che possano osservare gli altri loro Riti che non siano contrari alla Fede Cattolica che la Chiesa Romana professa“. Qui viene a proposito la lettera dello stesso Innocenzo IV ad Ottone, Cardinale tuscolano, legato della Santa Sede nell’isola di Cipro, a cui aveva affidato l’incarico di comporre alcune controversie che erano nate tra Latini e Greci, come si apprende dalla sua Costituzione, che comincia “Sub Catholicae” e che nel vecchio Bullario, tomo I, è registrata al numero 14: “Ma poiché alcuni Greci da tempo tornati alla devozione della Sede Apostolica a questa obbediscono con reverenza, conviene che, tollerando, per quanto possiamo con Dio, i costumi e i Riti loro, li conserviamo nell’obbedienza alla Chiesa Romana, senza concessioni ai pericoli delle anime e all’onestà della Chiesa“.
Dopo avere disposto nella stessa lettera ciò che si doveva fare dai Greci, enumerò quello che pensava si dovesse loro permettere. Conclude con queste parole: “Ricordate poi all’Arcivescovo di Nicosia e ai suoi Suffraganei latini di non inquietare e molestare i Greci e nessuno dopo la nostra deliberazione“. Lo stesso Pontefice Innocenzo IV, nominando Lorenzo Minorita suo penitenziere, come delegato apostolico e dandogli piena autorità su tutti i Greci che abitavano nel Regno di Cipro, nei patriarcati Antiocheno e Gerosolimitano e anche sui Giacobiti, Maroniti e Nestoriani, questo soprattutto gli raccomandò: di mettere sotto la sua autorità tutti i Greci, difendendoli da tutte le molestie che potevano essere loro recate dai Latini: “Ti raccomandiamo che proteggendo con l’autorità apostolica i Greci di quelle parti, con qualunque nome vengano chiamati, tu non permetta che siano turbati da molestie o violenze recate dai Latini, facendo chiedere piene scuse e comandando ai Latini stessi che cessino completamente da cose simili“. Queste sono le parole di Innocenzo al predetto Delegato Apostolico che sono riportate da Rainaldo (Anno 1247, n. 30).
10. Alessandro IV, succeduto immediatamente al Pontefice Innocenzo, essendosi accorto che la volontà del suo Predecessore era stata vana e venendo a sapere che le agitazioni tra i Vescovi Greci e Latini esistevano ancora nel Regno di Cipro, comandò ai Vescovi Latini che lasciassero andare gli Ecclesiastici Greci ai loro Sinodi, e dichiarandoli soggetti ai decreti sinodali aggiunse la seguente condizione: “Accogliere e osservare gli Statuti Sinodali che non siano contrari ai Riti Greci della Fede Cattolica e che siano tollerati dalla Chiesa Romana“. Aderendo a tale lodevole esempio, Elia Vescovo di Nicosia nel 1340 nei suoi decreti sinodali inserì questa dichiarazione: “Con questo non intendiamo proibire ai Vescovi greci e ai loro sudditi di seguire i loro Riti, che non siano contrari alla Fede Cattolica, in conformità del patto pubblicato da Alessandro, Romano Pontefice di felice memoria, fra Greci e Latini nel Regno di Cipro, e rispettato“. Tutto questo si può vedere nella collezione di Filippo Labbe (edizione di Venezia, tomo 14, p. 279, e tomo 15, p. 775).
11. Sulla fine del secolo decimoterzo si colloca la citata Unione dei Greci e dei Latini concordata nel Concilio Generale di Lione, sotto il beato Gregorio X, Sommo Pontefice, che mandò a Michele Paleologo la Confessione di Fede e il decreto di Unione confermato dal Concilio e giurato dai Legati Orientali, affinché lo stesso Imperatore e gli altri Vescovi Greci lo sottoscrivessero. Tutto fu fatto dall’Imperatore e dagli Orientali, aggiuntavi però questa condizione che è contenuta nella stessa lettera riportata nella sua Raccolta da Arduino: “Ma chiediamo alla Vostra Grandezza di restare nei nostri Riti, che usavamo prima dello scisma, Riti che non sono contrari alla Fede né contro i Divini Comandamenti” (Arduino, tomo 8, p. 698). Quantunque la risposta di Gregorio Papa a questa lettera degli Orientali sia andata perduta, tuttavia poiché egli reputò abbastanza sicura l’Unione da essi accettata e sottoscritta, da ciò naturalmente si deduce che questa condizione fu da lui accettata e approvata. E in verità Nicolò III, successore di Gregorio, per mezzo dei suoi ambasciatori che mandò a Costantinopoli, con queste parole rivelò fino in fondo il suo animo, come si ha presso Rainaldo nell’anno di Cristo 1278: “Circa gli altri Riti dei Greci, la stessa Chiesa Romana vuole che i Greci, per quel che Dio permette, possano perseverare in quei Riti che abbiano l’approvazione della Sede Apostolica purché con essi non si violi l’integrità della Fede Cattolica, né si deroghi ai sacri statuti dei Canoni“.
12. Per quel che riguarda il secolo decimoquinto, può bastare la sopra citata Unione stabilita nel Concilio di Firenze che, approvata da Papa Eugenio, Giovanni Paleologo sottoscrisse con questa nota: “Purché non si muti alcunché dei nostri Riti“, come si può vedere dalla Raccolta di Arduino (tomo 9, p. 395). Ma non avendo in animo di elencare i singoli provvedimenti che furono presi dai Romani Pontefici nei secoli successivi, ne sottolineeremo alcuni principali dai quali si conosca manifestamente che essi hanno fatto ogni tentativo affinché gli Orientali cancellassero da se stessi gli errori che occupavano i loro animi, ma nel contempo con chiari argomenti i Pontefici avevano manifestato che volevano protetti e difesi i Riti che i loro antenati, prima dello scisma, con l’approvazione della Sede Apostolica, avevano praticato; né mai avevano chiesto agli Orientali che, se volevano essere cattolici, abbracciassero il Rito latino.
13. Nella raccolta di documenti greci, edita a Benevento, si hanno due Costituzioni, di Leone X e di Clemente VII, nelle quali si sgridano violentemente quei Latini che censuravano nei Greci l’osservanza delle norme che nel Concilio di Firenze erano state loro permesse; soprattutto perché celebravano la Messa con pane fermentato, prendevano moglie prima di adire ai Sacri Ordini, e la conservavano dopo aver ricevuto l’ordinazione, e perché davano l’Eucarestia sub utraque specie anche ai bambini. Pio IV nella Costituzione Romanus Pontifex (n. 75, tomo 2, dell’antico Bollario), mentre stabilisce che i Greci abitanti nelle Diocesi dei Latini sono soggetti ai Vescovi Latini, subito aggiunge: “Con questo tuttavia non intendiamo che i Greci siano sottratti al loro Rito Greco o che siano impediti dagli Ordinari locali o da altri in alcun modo“.
14. Gli Annali di Gregorio XIII raccolti da Padre Maffeo e stampati a Roma nel 1742 riportano molte cose che lo stesso Pontefice fece, sia pure con esito poco felice, per convertire alla Fede Cattolica i Copti e gli Armeni. Ma si confanno soprattutto al nostro argomento quelle che si leggono nella Costituzione 63 (nel nuovo Bollario al tomo 4, parte 3), e in altre due, cioè la 157 e la 173 dello stesso Bollario (tomo 4, parte 4) a proposito della fondazione in Roma di tre Collegi istituiti dallo stesso Pontefice per Greci, Maroniti e Armeni, nei quali volle che gli alunni delle dette Nazioni fossero educati in modo che restassero sempre nei loro Riti Orientali. Fu celeberrima l’Unione dei Ruteni con la Sede Apostolica al tempo di Papa Clemente VIII di felice memoria, i cui documenti si leggono negli Annali del Venerabile Cardinale Baronio dove si espone il decreto fatto dagli Arcivescovi e Vescovi Ruteni per realizzare l’Unione, a questa condizione: “Salve e osservate per intero le cerimonie e i riti del culto Divino e dei Santi Sacramenti, secondo la tradizione della Chiesa Orientale, correggendo soltanto quei particolari che potrebbero impedire l’Unione stessa, in modo che si faccia tutto secondo l’antico costume, come fu una volta” (edizione romana dell’anno 1596, tomo VII, p. 682). Ma poco dopo a turbare la pace, si diffuse la voce che nell’Unione erano stati tolti tutti i Riti che i Ruteni avevano usato nella divina salmodia, nel sacrificio della Messa, nell’amministrazione dei Sacramenti e nelle altre sacre cerimonie. Paolo V nel 1615 in una lettera apostolica sotto forma di Breve, che è stampata nella stessa Raccolta di Greci, dichiarò la sua volontà solennemente con queste parole: “Purché non contrastino con la verità e con la dottrina della Fede Cattolica e non escludano la comunione con la Chiesa Romana, non c’è stata né c’è l’intenzione, il pensiero e la volontà nella Chiesa Romana di togliere o far scomparire con la citata Unione (i Riti Orientali): né che ciò si potesse dire od opinare, ché anzi i detti Riti per apostolica benignità ai Vescovi e al Clero Ruteno furono permessi, concessi e dati“.
15. Da qui si può facilmente arguire che le Chiese che in seguito i Romani Pontefici concessero in Roma ai Greci, ai Maroniti, agli Armeni, ai Copti, ai Melchiti, e che tuttora esistono, apertamente fanno le sacre funzioni, ciascuna secondo il proprio Rito. Qui si potrebbe citare opportunamente come Papa Clemente VIII nella sua Costituzione 34 (paragrafo 7 del vecchio Bollario) fissò un Vescovo greco a Roma, affinché amministrasse gli Ordini secondo il Rito greco, per gli Italo-Greci che abitavano le diocesi latine. Successivamente da Clemente XII, nostro immediato Predecessore, con la Costituzione Pastoralis fu aggiunto un altro Vescovo greco, che ha sede nella Diocesi di Bisignano, per ordinare gli Italo-Greci, affinché quelli che abitano lontano da Roma non siano costretti a fare un lungo cammino per ricevere gli Ordini dal Vescovo greco residente a Roma secondo la citata Costituzione di Clemente VIII; nemmeno ai Vescovi Cattolici dei Maroniti, dei Copti e dei Melchiti, che talvolta vengono a Roma, viene negata la facoltà di conferire gli Ordini secondo il proprio Rito alle persone del proprio popolo, purché ne siano idonee. Del pari qui si potrebbe aggiungere che ogni volta in cui sembrò dovesse modificarsi qualcosa nella disciplina degli Orientali o degli Italo-Greci, la Sede Apostolica lo fece precisando subito che nulla doveva toccarsi del Rito Orientale o dichiarando apertamente che si dovevano accettare le cose che si stabilivano per gl’Italo-Greci abitanti fra noi e soggetti alla giurisdizione dei Vescovi Latini, e che in nessun modo esse devono estendersi ai Greci Orientali che, separati da noi da lungo tempo, vivono sotto i loro Vescovi Greci Cattolici.
16. Ciò si apprende da quanto è stato approvato dal Sinodo provinciale dei Ruteni avvenuto nella città di Zamoscia nel 1720, di cui dovemmo occuparci personalmente, come Segretario della Congregazione del Concilio, su mandato di Benedetto XIII di felice memoria. È lecito ritenere che egli assecondasse le proposte dei Padri dello stesso Concilio, dai quali diversi Riti vigenti fra i Greci erano stati temperati o aboliti con propri decreti. Infatti, nel 1724 approvò il predetto Sinodo con una lettera apostolica in forma di Breve, tuttavia con la seguente dichiarazione: “Con la nostra approvazione del Sinodo nulla si pensi siasi derogato alle Costituzioni dei Romani Pontefici nostri predecessori e ai decreti dei Concili i generali, emanati circa i Riti greci che, nonostante questa approvazione, debbono sempre restare in vigore“. La stessa cosa si deduce da molte nostre Costituzioni che sono contenute nel nostro Bollario circa i Riti dei Copti, dei Melchiti, dei Maroniti, dei Ruteni e degli Italo-Greci in genere, e in ispecie, circa i Riti del clero della Chiesa collegiata messinese detta di Santa Maria “de Grafeo”, e infine del Rito Greco da osservare nell’Ordine di San Basilio. Nella Costituzione 87 (cf. stesso Bollario, tomo 1), sui Riti dei Greci Melchiti così si legge: “Sui Riti e i costumi della Chiesa Greca abbiamo decretato che in primis si deve stabilire che a nessuno fu, né è lecito, a qualunque titolo, o colore, o per qualunque autorità o dignità, anche se patriarcale, o episcopale, innovare alcunché o introdurre qualcosa che diminuisca l’integra ed esatta osservanza degli stessi“. Inoltre, nella precedente Costituzione 57, che comincia Etsi Pastoralis (al § 9, n. 1 che riguarda gli Italo-Greci) si dispone: “Poiché i Riti della Chiesa Orientale, partiti in non piccola parte dai Santi Padri, o trasmessi dai nostri antenati, si sono talmente fissati negli animi dei Greci e degli altri, i Pontefici Romani nostri Predecessori ritennero preferibile e più prudente approvare o permettere tali Riti, che in parte non sono contrari alla Fede Cattolica, né generano pericolo nelle anime, o derogano alla chiarezza della Chiesa, che ricondurli alle norme del cerimoniale romano“. Esi legge: “Inoltre, ciò che in qualunque regione concedemmo agli Italo-Greci (o consentimmo, dichiarammo, prescrivemmo, ordinammo, interdicemmo o proibimmo), o in Oriente fu concesso ai Greci residenti sotto la giurisdizione di propri Vescovi, Arcivescovi o Patriarchi cattolici, o in qualsiasi altra Nazione Cristiana che pratichi Riti approvati o permessi dalla Santa Sede, a qualunque titolo o giuridico, o di consuetudine, o in qualunque altro legittimo modo attribuito, o da Costituzioni Apostoliche, o da decreti di Concili generali o particolari, o delle Congregazioni dei nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa in materia di Riti Greci o di altri Riti Orientali, intendiamo che non sia pregiudicato da alcun patto o che ad esso si porti pregiudizio” (Ivi, § 9, n. 24).
17. Quindi, tralasciate molte altre testimonianze, diremo liberamente che i Pontefici Romani hanno messo ogni assidua cura per sconfiggere le eresie da cui partì lo scisma tra la Chiesa Orientale e Occidentale, e perciò richiesero la detestazione e l’abiura da quegli orientali che domandano di tornare all’unità della Chiesa o da coloro sui quali si deve indagare se veramente appartengono all’unità della Sede Apostolica. Sono due le professioni di fede, la prima delle quali fu prescritta da Gregorio XIII (tomo 2 dell’antico Bollario Romano, n. 33); l’altra fu stabilita da Urbano VIII fra gli Orientali. Ambedue furono stampate dalla tipografia della Congregazione di Propaganda Fide, la prima nel 1623, l’altra nel 1642. Poiché nel 1665 il Patriarca di Antiochia, siriano di Ierapoli, e l’Arcivescovo dei Siri che abitano nella stessa città di Ierapoli, avevano trasmesso a Roma la loro professione di Fede, che era stata data da esaminare a padre Lorenzo de Lauria, conventuale, allora consultore del Santo Officio e poi Cardinale di Santa Romana Chiesa, questi il 28 aprile dello stesso anno produsse per iscritto il suo parere, che fu approvato dalla Congregazione e che si conclude con queste parole: “Va tutto bene, ma c’è da segnalare a chi di dovere, che in seguito curino che sia emessa la professione di Fede prescritta da Urbano VIII di felice memoria per gli Orientali, perché essa contiene l’abiura di molte eresie e altre cose necessarie per quelle zone“.
18. Avendo il nemico, per seminare zizzania, spinto l’animo di taluni a tal punto di malizia da spargere errori nei Messali, nei Breviari e nei Rituali dai quali gli ecclesiastici e gli altri del clero venissero avvelenati, con decisione opportuna e dopo accurato esame i Romani Pontefici curarono la stampa, per i tipi della Congregazione di Propaganda Fide, del Messale Copto e Maronita, e così pure Slavo e simili. Né si deve passare sotto silenzio quanta cura e fatica siano costate nel correggere l’Eucologio greco, che uscì negli ultimi mesi, emendato, dalla Tipografia della stessa Congregazione. L’esame di quest’opera fu iniziato con grande impegno sotto il Papa Urbano VIII e tralasciato dopo non molto tempo; di nuovo fu ripreso recentemente sotto Clemente XII, nostro immediato Predecessore; Dio ottimo massimo Ci diede questa gioia, dopo molte veglie, fatiche e discussioni compiute nel tempo del Nostro Pontificato da Cardinali, Vescovi, Teologi e studiosi di lingue orientali, che accuratamente ricercando, leggendo e rileggendo, valutando tutto ciò che doveva essere letto e consultato, ci hanno dato un’opera di assoluta profondità, realizzata con sistematica accuratezza e scrupolosa cura: un’opera, che guardiamo con ammirazione, nella quale non fosse assolutamente toccato il Rito greco, ma restasse intatto ed integro quantunque nei tempi precedenti tra i nostri teologi non siano mancati quelli che totalmente ignari delle liturgie orientali e dei Riti che vigevano nella Chiesa Orientale prima dello scisma riprovavano tutto quello che era contrario al Rito della Chiesa Occidentale, il solo che conoscevano bene. Per dirla in una parola, curando il ritorno dei Greci e degli Scismatici Orientali alla Religione Cattolica, massima preoccupazione dei Romani Pontefici fu di estirpare radicalmente dalle coscienze gli errori di Ario, Macedonio, Nestorio, Eutiche e Dioscoro, dei Monoteliti e di altri, nei quali erano sciaguratamente incappati, salvi tuttavia e intatti i Riti e la disciplina che osservavano e professavano prima dello scisma, e ciò che si fonda nelle loro venerande, antiche Liturgie e nei Rituali. I Romani Pontefici non richiesero mai che tornando alla Fede Cattolica dovessero abbandonare il loro Rito e abbracciare quello Latino: ciò avrebbe portato con sé tale devastazione della Chiesa Orientale e dei Riti Greci che non solo non fu mai tentato, ma fu, ed è, totalmente alieno dai propositi di questa Santa Sede.
19. Da quello che finora fu riferito ampiamente, facilmente si possono trarre molte conclusioni. Primo: da quel Missionario che cerca di indurre all’unità, con l’aiuto di Dio, gli Scismatici orientali e i Greci e ad allontanare dal loro animo gli errori contrari alla Fede Cattolica che i loro antenati abbracciarono, per avere un motivo purchessia per dividersi dall’unità della Chiesa e per sottrarsi all’obbedienza e all’ossequio al Romano Pontefice, come capo della stessa Chiesa, devono essere esperiti tutti i tentativi e tutte le cure, e questo soltanto. Per quel che riguarda gli argomenti che il Missionario deve usare, dal momento che gli Orientali aderiscono assai ai propri Padri antichi, la cosa è già stata fatta dall’operosa assiduità del diligentissimo Leone Allazio e di altri famosi Teologi, i quali dimostrarono, senza ombra di errore, che tra di loro concordano ampiamente gli antichi e più rinomati Greci e i nostri Padri della Chiesa occidentale in tutto ciò che riguarda il dogma e nella confutazione degli errori nei quali gli Orientali e i Greci sono ora miseramente caduti. Per cui lo studio di questi libri indubbiamente recherà la massima utilità. Per la verità, i Luterani nel secolo scorso tentarono di trarre gli Orientali e i Greci nei loro errori. Lo stesso tentarono i Calvinisti, strenui nemici della presenza reale di Cristo nel Sacramento dell’Eucaristia e della transustanziazione del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue, e attirarono dalla loro parte il patriarca Cirillo, come si dice. Tuttavia, come i Greci, ancorché Scismatici, si accorsero che con le eresie di Lutero andavano contro l’autorità dei loro antichi Padri, in particolare dei Santi Cirillo, Giovanni Crisostomo, Gregorio Nisseno, Giovanni Damasceno, e contro i veri argomenti che vengono dalle loro Liturgie per affermare la reale presenza e transustanziazione, non tollerarono di essere ingannati né vollero in alcun modo recedere dalla verità cattolica. Tutto ciò si deduce dallo Schelestrato nella dissertazione Del perpetuo consenso della Chiesa Orientale contro i Luterani sotto il titolo Della transustanziazione (tomo 2, p. 717), degli Atti della Chiesa Orientale. Gli stessi in due Sinodi condannarono unanimi il patriarca Cirillo, cioè i dogmi Calvinisti passati sotto il suo nome, come si può vedere presso Cristiano Lupo (parte 5, Concili generali e provinciali, e soprattutto nella dissertazione Di alcuni luoghi, cap. 9, in fine). Da ciò brilla innanzi tutto una speranza non lieve, che le opinioni dei vecchi Padri, sottoposte ai loro occhi, combattano i loro nuovi errori, favoriscano più che mai il nostro Dogma Cattolico, rendano facile la via del loro ritorno e li spingano a vera conversione. Poi si può dedurre una seconda conseguenza, cioè che non solo non è necessario agli Orientali e ai Greci, per essere richiamati sulla via dell’unità, che siano toccati e cambiati i loro Riti; in verità ciò fu sempre alieno dalle decisioni della Sede Apostolica, che in questa materia dei sacri Riti seppe distinguere la zizzania dal grano, quando fu necessario. Tentativi siffatti erano molto contrari alla desideratissima Unione, come ben disse Tommaso di Gesù Sulla conversione di tutte le genti (libro 7, cap. 2): “Si deve anche mostrare che la Chiesa Romana approva e consente che ciascuna Chiesa aderisca ai propri Riti e alle proprie cerimonie, dal momento che gli Scismatici sono attaccatissimi ai propri Riti. E perché il sospetto infondato di doverli perdere non li allontani dalla Chiesa Romana, si deve opportunamente lavorare perché si persuadano che si conservano le loro cerimonie“. Infine, da quanto abbiamo detto sopra si deduce questo terzo principio: il Missionario che desidera convertire lo Scismatico orientale, non cerchi di indurlo a seguire il Rito Latino; questo solo dovere viene affidato al Missionario: richiamare l’Orientale alla Fede Cattolica, non indurlo al Rito Latino.
20. Fatta nel Concilio di Firenze l’Unione che sopra abbiamo ricordata, alcuni Latini Cattolici, che abitavano in Grecia, stimarono fosse loro lecito passare dal Rito Latino al Greco, attratti forse da quella libertà che era stata riservata ai Greci, di trattenere, dopo l’Ordine Sacro, le mogli che avevano sposato prima di ricevere l’Ordine. Ma Nicolò V, Pontefice Massimo, non trascurò di porre un rimedio opportuno a questa corruzione, come si deduce dalla sua Costituzione (tomo 3, parte 3 del Bollario edito di recente a Roma, p. 64): “Giunse al nostro orecchio che nei luoghi che in Grecia sono soggetti ai Cattolici, molti Cattolici, col pretesto dell’Unione, passano spudoratamente ai Riti Greci. Siamo molto meravigliati e non cessiamo di meravigliarci, non sapendo che cosa sia che li spinse, dalla disciplina e dai Riti nei quali sono nati e cresciuti, a trasferirsi in Riti forestieri: infatti, anche se i Riti della Chiesa Orientale sono lodevoli, non è lecito tuttavia mischiare i Riti delle Chiese, né ciò mai permise il Sacrosanto Sinodo Fiorentino“. Dal momento che il Rito Latino è quello che usa la Santa Romana Chiesa, che è Madre e Maestra delle altre Chiese, deve preferirsi a tutti gli altri Riti. Da ciò si deduce che non è lecito passare dal Rito Latino a quello Greco, né a quelli che una volta dal Rito Greco o Orientale passarono a quello Latino è pacifico tornare all’antico Rito Greco come appar chiaro dalla Nostra Costituzione Etsi Pastoralis (nel Nostro Bollario, tomo 1, 57, par. 2, n. 13), a meno che non intervengano delle circostanze rilevanti, che persuadano a dare una dispensa per questa ragione, come in passato e anche ora avviene nel Collegio dei Maroniti di questa nostra Urbe, nel quale, quando si trovi qualche Sacerdote della Compagnia di Gesù che, entrando in Congregazione, ottenne la dispensa di passare al Rito Latino, talvolta da esso viene dispensato, così da celebrare la Messa nella Chiesa di detto Collegio in Rito Siriaco e Caldaico e recitare l’Ufficio divino secondo lo stesso Rito. Per di più, può insegnare lo stesso Rito agli alunni ospiti nel medesimo Collegio. Ciò appare chiaramente da diversi decreti del Santo Officio, uno datato 30 dicembre 1716, uno 14 dicembre 1740, nonché da un altro più recente che Noi abbiano ordinato di spedire il 19 agosto 1752.
21. Ciò riguarda il passaggio dal Rito Latino al Greco. Ora poi parlando del passaggio dal Rito Orientale e Greco a quello Latino, si può liberamente affermare che questo passaggio è interdetto non come il primo; tuttavia non è lecito al Missionario indurre il Greco e l’Orientale, desiderosi di tornare all’Unità della Chiesa Cattolica, ad abbandonare il proprio Rito, poiché da questo modo di agire possono derivare gravissimi danni, come sopra abbiamo detto. I Cattolici Melchiti volentieri una volta passavano dal Rito Greco a quello Latino: ma ciò fu loro proibito, e i Missionari furono ammoniti a non consigliare quel transito, il cui permesso è riservato al giudizio esclusivo della Sede Apostolica, come è manifesto nella Nostra Costituzione Demandatam del Bollario (tomo 1, 85, paragrafo 35): “Inoltre a tutti e ai singoli Melchiti Cattolici, che osservano il Rito Greco, proibiamo espressamente di passare al Rito Latino. A tutti i Missionari comandiamo, a prezzo delle pene che più sotto verranno indicate e di altre che verranno stabilite a nostro giudizio, di non presumere di far passare chiunque di essi dal Rito Greco al Latino, né lo permettano a coloro che lo desiderano, senza avere consultato la Sede Apostolica“. Dello stesso tenore sono i decreti di Urbano VIII, Nostro Predecessore, circa il Rito Greco-Ruteno, emessi in sua presenza dalla Congregazione di Propaganda Fide il 7 febbraio e il 7 luglio 1624. Quantunque sembrasse giusto lasciare libera facoltà agli Italo-Greci di passare dal Rito Greco al Latino, dal momento che sono tra noi e sono soggetti ad un Vescovo latino, tuttavia si è stabilito che si richieda l’autorità della Sede Apostolica se si tratta di Ecclesiastici, sia Secolari, sia Regolari; se poi Laici e Secolari hanno chiesto questo passaggio, basta il permesso del Vescovo, che può moderatamente concedere per giuste e legittime cause a certe persone, ma mai ad un’intera comunità. In questa fattispecie occorre sempre l’autorità della Sede Apostolica, come si può vedere nella Nostra spesso citata Costituzione Etsi Pastoralis (17, § 2, n. 14 primo tomo del nostro Bollario).
22. Se si volesse sostenere gli Orientali e i Greci che, abiurando l’eresia e ritornando all’Unità, a buon diritto possono essere attratti e sollecitati a denunziare i propri Riti e ad abbracciare interamente il Rito Latino, tanto più che in altri tempi fu approvato, ed ancor oggi si approva, che gli Orientali e i Greci seguano qualche Rito Latino, viene risposto che non è opportuno. Infatti, gli Orientali e i Greci costituiscono come due categorie. La prima è di coloro che, non contenti in nessun modo di quanto è stato loro permesso dalla Sede Apostolica per conservare l’Unione, sono portati fuori dai confini dell’onestà, sostenendo che quanto è compiuto da loro avviene a buon diritto, e che sono in errore i Latini che non sollecitano le stesse cose. Ad esempio il pane azimo: i Greci e gli Orientali, per essere Cattolici, devono dichiarare che il pane, sia azimo, sia fermentato, è materia valida del Sacramento dell’Eucaristia e che bisogna che ogni Chiesa segua il proprio Rito. Pertanto, chiunque contesta il Rito Latino, che nella consacrazione dell’Eucaristia usa il pane azimo, si allontana dalla verità e cade in errore. Il monaco Ilarione nella sua Orazione Dialettica che Leone Allazio tradusse dal greco in latino (tomo 1 della Graecia Ortodossa, edito dai tipi della Congregazione di Propaganda Fide nel 1652, p. 762) così si esprime: “Vi ho scritto, Greci amicissimi, non accusando il vostro pane che, adorando, venero come il nostro azimo, ma per lamentare e dire che voi non vi comportate né onestamente, né come si conviene a un cristiano, quando offendete il pane azimo dei Latini con parole e con fatti, e vi ostinate nell’ingiuria: in ambedue infatti, come si è detto, è contenuto Cristo“. Ecco un esempio della libertà lasciata alla Chiesa Orientale e Greca: coloro che in essa sono insigniti dei Sacri Ordini e anche del Sacerdozio possono tenere le mogli che presero prima dell’Ordinazione, come chiaramente reca il Canone Aliter (dist. 31, cap. “Cum olim, de Clericis coniugatis”) I Romani Pontefici, riflettendo che questo non era contrario né al diritto Divino né a quello naturale, ma solo alle regole ecclesiastiche, ritennero opportuno lasciare questa consuetudine vigente tra i Greci e gli Orientali perché, frapponendo l’autorità Apostolica con il proposito di estirparla, non si desse loro l’occasione di allontanarsi dall’Unità, come spiega bene Arcudio nella sua Concordia (libro 7, cap. 33). Tuttavia, chi lo crederebbe? Non mancarono, né mancano, tra i Greci e gli Orientali, taluni che ingiuriano la Chiesa Latina in quanto contraria al matrimonio perché, seguendo l’esempio degli Apostoli, ha conservato e conserva il celibato nei suoi Suddiaconi, Diaconi e Presbiteri. Si può leggere Incmaro di Reims (tomo 2, epist. 51 delle sue opere). Un terzo esempio lo recano parecchi Copti, il cui Rito prescrive che dopo il Battesimo sùbito si amministri la Cresima; tale costume non c’è nella Chiesa Occidentale, che nei Confermandi per lo più richiede una età tale che possano distinguere il bene dal male. La Chiesa Romana non si oppone all’antica consuetudine dei Copti. Ma (chi lo crederebbe?) tra loro vi sono alcuni che rifiutano però il Battesimo dei Latini perché dopo il Battesimo non viene amministrata la Cresima. Perciò nella nostra Costituzione 129 che inizia Eo quamvis tempore (tomo 1 del nostro Bollario), giustamente sono ripresi e condannati: “Come alla bontà e alla pazienza della Sede Apostolica può sembrare coerente che i Copti perseverino nella loro consuetudine, così non si deve tollerare che essi considerino con ripugnanza il Battesimo conferito in Rito Latino e separatamente dalla Cresima“.
23. Un altro gruppo è costituito da quegli Orientali e dai Greci che mantenendo in gran parte i loro Riti e insieme venerando i Riti Occidentali e Latini, ne seguono alcuni, per vecchia consuetudine rispettata dai loro Vescovi, e inoltre espressamente o tacitamente confermata dalla Sede Apostolica. In questa categoria si possono mettere gli Armeni e i Maroniti che lasciarono il pane lievitato e fanno l’Eucaristia col pane azimo come i Latini, come testimonia Abramo Echellense nel suo Eutichio Vendicato, p. 477. Diversi attribuiscono questa disciplina degli Armeni a San Gregorio Illuminatore, primo Vescovo degli Armeni, che all’inizio del quarto secolo, sotto il re Tiridate, conseguì la corona del martirio; altri al Pontefice San Silvestro, oppure la dichiarano accettata da San Gregorio Magno nelle trattative iniziate con la nazione Armena e che sono indicate dal Sommo Pontefice Gregorio IX nelle sue lettere al re di Armenia, riferite da Rainaldo (anno 1139, n. 82). Che quella disciplina sia stata data agli Armeni dalla Chiesa Romana è testimoniato dal Patriarca degli stessi Armeni Silense Gregorio in una lettera ad Aitone, padre di Leone, re di Armenia, cenobita, come si legge presso Clemente Galano nella Conciliazione della Chiesa Armena con la Romana (tomo I, p. 449): “Per cui da Santa Romana Chiesa abbiamo ricevuto l’unione dell’acqua (col vino nel calice) come dalla stessa abbiamo ricevuto il pane azimo, la Mitra Vescovile e il modo di segnare la Croce“. Del pari è antichissima e immemorabile presso i Maroniti la consuetudine del pane azimo, come si sa da Morini nella Prefazione alle Ordinazioni dei Maroniti e dalla Biblioteca Orientale di Assemano il Vecchio (tomo 1, p. 410). Inoltre è testimoniata dal Sinodo Nazionale svoltosi sul monte Libano nel 1736 e da Noi confermata nella Nostra Costituzione Singularis (31, tomo 1 del Nostro Bollario), nella quale, cap. 12, sul Sacramento dell’Eucaristia, quando si parla del pane azimo, si leggono queste parole: “Il quale costume nella nostra Chiesa e presso gli Armeni in Oriente dura da tempo immemorabile, e possiamo citare documenti autentici di questo fatto“. Con questo esempio degli Armeni e dei Maroniti, il Cardinale Bessarione, al quale per primo fu affidata l’Abbazia di Grottaferrata in Diocesi di Tuscolo, ottenne che i Monaci Greci che in essa si trovavano potessero consacrare in azimo, come si può leggere nella Nostra Costituzione 33, Inter multa (paragrafo Ut autem, tomo 2° del nostro Bollario). Questo fu sempre osservato, e anche oggi si osserva, nella Chiesa collegiata di Santa Maria di Grafeo, posta in Diocesi di Messina, al cui clero è consentito di mantenere il Rito Greco (come si può leggere nella nostra Costituzione 81, che comincia Romana Ecclesia (§ 1, tomo 1 del nostro Bollario), la loro disciplina e di celebrare l’Eucaristia in lievitato, quantunque, parlando in generale, i preti Italo-Greci operino in Italia e nelle isole adiacenti, e i Sacerdoti, sia di Rito Latino, o Greco, siano spesso avvertiti di non trascurare di consacrare l’Eucaristia e distribuirla ciascuno secondo il proprio Rito, come è dichiarato nella nostra Costituzione che comincia Etsi Pastoralis (57, § 1, n. 2 e § 6, n. 10 e ss. del nostro Bollario,tomo 1).
24. In alcuni secoli si affermò l’uso di dare l’Eucaristia ai fanciulli dopo il Battesimo, con la convinzione che ciò era necessario all’eterna salute dei fanciulli, ma per puro Rito e tradizione allora in auge, come saggiamente dissero i Padri del Concilio di Trento (sess. 21, cap. 4). Tra gli errori degli Armeni condannati dal Sommo Pontefice Benedetto XII, il cinquantottesimo presso Rainaldo (Anno 1341, § 66), viene registrato quello, secondo il quale, alla salute eterna dei fanciulli e per la validità del Battesimo ad essi conferito, oltre la Cresima si doveva amministrare loro anche l’Eucaristia. Nella Chiesa Occidentale da quattrocento e più anni non si dà ai fanciulli l’Eucaristia dopo il Battesimo. Ma non si può negare che nei libri dei Rituali Orientali si cita il Rito della Comunione da dare ai fanciulli dopo il Battesimo. Assemano il Giovane (Codice Liturgico, libro 2, p. 149), riporta la regola dell’amministrazione del Battesimo presso i Melchiti; e a p. 309 espone l’ordine del Battesimo dei Siri, stampato da Filosseno di Mabbügh, Vescovo Monofisita; a p. 306 ne riporta un altro preso dal vecchio Rituale di Severo, patriarca di Antiochia, antesignano dei Monofisiti; nel libro 3 dello stesso Codice (p. 95 e p. 130), riporta due altri ordini osservati tra gli Armeni e i Copti nel dare il Battesimo: in tutti si comanda che ai fanciulli dopo il Battesimo si dia l’Eucaristia. San Tommaso (part. 3, quest. 80, art. 3), asserisce che questa consuetudine durò presso alcuni Greci fino ai suoi tempi. Arcudio, poi, nel libro 3, De Sacramento Eucharistiae, cap. II, scrive che questa era la disciplina dei Greci, ma alcuni di loro a poco a poco l’abbandonarono per le difficoltà che incontravano nell’amministrare la Comunione ai fanciulli dopo il Battesimo. Negli atti del Sinodo celebrato sul monte Libano il 18 settembre 1596 sotto Sergio, Patriarca di Antiochia dei Maroniti, e che fu presieduto da padre Girolamo Dandino, gesuita, legato del papa Clemente VIII, si leggono queste parole: “Poiché a stento si può dare la Comunione di Cristo ai fanciulli senza grande indecenza e senza offesa al venerabile Sacramento, per il futuro tutti i Sacerdoti si guardino di ammetterli prima dell’uso di ragione” (Ivi, can. 7). Dello stesso parere sono i Padri del Concilio di Zamoscia del 1720 (nel § 3 del De Eucharistia). Altrettanto viene confermato negli Atti del Concilio del Libano del 1736, come si legge nel Santissimo Sacramento dell’Eucaristia (cap. 12, n. 13), le parole del quale sono queste: “Nei nostri antichi Rituali, come nel vecchio Ordine Romano e nelle Eucologie Greche, al Ministro del Battesimo viene prescritto chiaramente di curare i bimbi purificati dal Battesimo e dalla Cresima col Sacramento dell’Eucaristia; tuttavia per la reverenza dovuta a questo augustissimo Sacramento e poi perché non è necessario alla salvezza degli’infanti e dei fanciulli, prescriviamo che agli infanti, quando vengono battezzati, l’Eucaristia non venga data a nessuna condizione, nemmeno sub specie Sanguinis”. La stessa cosa fu stabilita nella Costituzione per gli Italo-Greci, Etsi Pastoralis (nel nostro Bollario, 57, § 2, n. 7, tomo 1).
25. Dell’uso di dare l’Eucaristia sub utraque specie anche ai laici, secondo la disciplina orientale e greca, parlano diffusamente Arcudio nella Concordia occidentale e orientale nell’amministrazione dei Sacramenti (libro 3, cap. 4), e Leone Allazio nella prima annotazione De Ecclesiae Occidentalis atque Orientalis consensione (p. 1614 e ss.). Nel Collegio greco che fu eretto a Roma, come dicemmo, da Gregorio XIII, fu stabilita la legge che il Greco si conservi in quel Rito, come attesta Leone Allazio nel suo Tractatus de aetate et interstitiis (p. 21), secondo le Costituzioni del Collegio stesso, confermate dal Sommo Pontefice Urbano VIII: gli alunni ogni otto giorni devono confessarsi, e comunicarsi ogni quindici giorni, nonché nelle feste solenni e nelle domeniche di Avvento e di Quaresima, osservando il Rito Latino; nelle feste più solenni, cioè a Pasqua, Pentecoste e Natale è loro comandato di ricevere l’Eucaristia sub utraque specie col Rito Greco, cioè con pane lievitato, intinto nel Sangue, per fare la qual cosa il Sacerdote usa un piccolo cucchiaio, che mette nella bocca di chi si comunica. Lo stesso Rito si osserva con tutti gli altri Greci, che in quei giorni convengono per la Messa solenne, o che negli altri giorni dell’anno nella Chiesa del Collegio Greco chiedono che venga loro amministrata l’Eucaristia con Rito Greco. Ma per gli Italo-Greci nella ricordata Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 6, n. 15), l’Eucaristia sub utraque specie è permessa solo in quei luoghi in cui è conservato il Rito di questa Comunione; ma negli altri luoghi, dove lo stesso Rito è obsoleto, la Comunione sub utraque specie è proibita. Da questa disciplina o Rito della Comunione sub utraque specie, pur accettato in tutta la Chiesa Orientale, alcuni Greci e Orientali a poco a poco si sono allontanati. Luca Olstenio, uomo famoso, nella lettera a Bertoldo Nimisio, che si legge stampata negli opuscoli Greci e Latini di Leone Allazio (p. 436), riferisce di aver dato l’Eucaristia nella Basilica Vaticana a un Sacerdote abissino che, dovendo comunicarsi, si era accostato con altri alla Sacra Mensa. Avendogli amministrato la Comunione sotto l’unica specie del pane, allo stesso ed anche agli altri uomini della Chiesa di Etiopia fu chiesto se, secondo il Rito della loro patria erano soliti prendere l’Eucaristia sub unica specie, tanto nella liturgia solenne quanto nella quotidiana partecipazione all’Eucaristia, nonché quando in immediato pericolo di morte la recavano come Viatico. Egli attesta che da essi fu risposto che sempre si amministrava l’Eucaristia sotto l’unica specie del pane e che questa era l’antica disciplina che ancora durava nella Chiesa Etiopica. Tra i quesiti posti al Sommo Pontefice Gregorio XIII dal Patriarca dei Maroniti si trova questo: “Noi celebriamo la Messa solo in azimo; ma i nostri laici si comunicano sub utraque specie”. Gli rispose il Papa: “Se vogliono consacrare in azimo non sembra che si debba loro proibire, ma i Laici piano piano devono essere allontanati dalla Comunione sub utraque specie; infatti tutto il Cristo è contenuto in una sola specie e nell’uso del calice c’è gran pericolo di effusione“, come è possibile leggere nella lodata opera di Tomaso da Gesù De conversione omnium gentium (p. 486 e ss.). Anche i Padri del Concilio del Libano celebrato nel 1736 (part. 2, cap. 12, n. 21), aderendo a questo orientamento così stabilirono: “Aderendo alle leggi della medesima Santa Romana Chiesa, vi ordiniamo e comandiamo letteralmente che a nessun laico o chierico con Ordini Minori venga data la Comunione sub utraque specie ma solo sub una, quella del pane“, permettendo ai soli Diaconi di ricevere nella Messa solenne l’Eucaristia sub utraque specie, cioè prima sotto la specie del pane e poi sotto quella del vino, rimosso tuttavia l’uso del cucchiaio, che sopra abbiamo ricordato: “Ma ai Diaconi concediamo e permettiamo, soprattutto nella Messa solenne, di poter ricevere l’Ostia intinta nel Sangue dai Sacerdoti, purché sia evitato l’uso del cucchiaio che abbiamo stabilito doversi abolire totalmente“.
26. Da ultimo, senza allontanarci dall’Eucaristia, qui parleremo di un altro Rito Orientale e Greco per cui il Sacerdote, dopo la consacrazione e prima della consumazione, vuota nel calice un po’ di acqua tiepida. Matteo Blastaris in Syntagmate Alphabetico (cap. 8, tomo 2), Synodicon Graecorum (p. 153), ricorda questo Rito e ne spiega il significato. Eutimio, Arcivescovo di Tiro e di Sidone, nel 1716 pose al Sommo Pontefice Clemente XI alcuni quesiti, uno dei quali era perché ai Melchiti di Siria e di Palestina si doveva proibire di versare acqua tiepida nel Sangue divino dopo la Consacrazione; fu risposto, con l’aggiunta di un’accurata e ricca spiegazione, approvata dallo stesso Pontefice e per suo ordine trasmessa ai Superiori delle Missioni di Terra Santa, di Damasco, di Tiro e di Sidone. Fu ingiunto allo stesso Arcivescovo di non proibire che ciò si facesse, trattandosi di vecchio Rito, studiato dalla Sede Apostolica e permesso ai Sacerdoti Greci anche a Roma; da ciò si deduce l’ardore di Fede che deve bruciare verso tanto Mistero. Simile risposta il 31 marzo 1729 per ordine del Papa Benedetto XIII fu data a Cirillo di Antiochia, Patriarca dei Greci. Lo stesso Rito è permesso agli Italo-Greci nella citata Costituzione 57, Etsi Pastoralis (nel nostro Bollario, § 6, n. 2, tomo 1). Nelle Congregazioni che subito dopo si ebbero per la correzione dei libri ecclesiastici della Chiesa Orientale, al fine di usare una diligenza quanto mai accurata, essendosi disputato molto e a lungo se si dovesse proibire il Rito di versare acqua tiepida nel calice dopo la Consacrazione, avendo il Cardinale Umberto di Selva Candida in precedenza parlato moltissimo con veemenza contro questo Rito, il 1° maggio 1746 fu risposto che non si doveva rinnovare nulla, e questo rescritto fu poi confermato da Noi; si scoperse infatti che le ragioni addotte da questo Cardinale non erano di alcun peso. Tuttavia i Padri del Concilio radunati a Zamoscia nel 1720 per gravi motivi proibirono ai Sacerdoti Ruteni di versare acqua tiepida nel calice dopo la Consacrazione, come si può leggere al paragrafo sulla celebrazione delle Messe: “Proibisce per grave ragione e abroga la consuetudine tollerata nella Chiesa Orientale di versare acqua tiepida nelle Specie consacrate del calice, dopo la Consacrazione, prima della Comunione“.
27. Di questi ed altri esempi consimili, che si potrebbero facilmente aggiungere, si avvalgono coloro che sono più propensi al passaggio dal Rito Orientale e Greco a quello Occidentale e Latino, o certamente coloro che credono di agire con pieno diritto, quando, convertendo lo Scismatico orientale all’unità della Chiesa, cercano di condurlo da un Rito che era solito osservare prima di unirsi a noi, ed è fermamente conservato ed osservato da tutti gli altri Orientali e Greci, per antica disciplina. In verità, né gli esempi sopra citati, né gli altri che si potrebbero addurre recano alcuna prova in loro favore, perché nel passaggio dal Rito Orientale e Greco all’Occidentale e Latino si toglie tutto quello che è prescritto dal Rito Greco e non è conforme al Rito Latino; ciò non accade negli esempi che sopra sono stati portati nei quali, se si toglie qualche peculiare solennità del Rito Greco, il Rito stesso tuttavia e tutto quello che in esso è prescritto vengono conservati intatti; sia perché togliere anche una certa parte del Rito, salve le altre parti dello stesso, non è materia di un uomo privato, ma è necessario intervenga la pubblica autorità, cioè quella del Capo Supremo di tutta la Chiesa, qual è appunto il Romano Pontefice. Infatti la Sede Apostolica è la sola che, per diritto proprio, tutte le volte che ritenne giusto, cancellò qualche Rito dalla Chiesa Orientale e lo trasferì nell’Occidentale o permise che qualche Rito Greco venisse praticato in qualche Chiesa latina. La stessa Sede Apostolica, tutte le volte che apprese che qualche Rito pericoloso o indecoroso si era intrufolato nella Chiesa Orientale, lo condannò, lo disapprovò e ne proibì l’uso. Infine la stessa Sede Apostolica, dopo che vide che talune popolazioni Orientali o Greche erano fortemente decise nell’uso e nella difesa di qualche Rito Latino e in particolare quando il Rito stesso risale a un’epoca antica e da tutti è generalmente accettato, e dal Vescovo è espressamente o tacitamente approvato, confermò il Rito stesso, tollerandolo e per ciò stesso approvandolo.
Breve è questa lettera Enciclica che S. S. Leone XIII indirizza al Primate di Irlanda per trasmettere i sensi del suo paterno affetto verso il popolo a lui spiritualmente soggetto colpito da attacchi ripetuti alle proprie ataviche tradizioni cattoliche e al tenace attaccamento alla Cattedra di San Pietro. Era già iniziata da tempo la ribellione dei popoli europei alla Chiesa Cattolica, unica vera Chiesa fondata e voluta dal Figlio di Dio incarnato ed affidata al suo Vicario in terra, il Santo Padre, il Papa, Pastore universale dei fedeli e dei prelati del collegio apostolico a lui associati. I ripetuti attacchi si sono poi moltiplicati sia dall’esterno della Santa Chiesa, sia soprattutto dal suo interno, infiltrata dalla quinta colonna dei marrani e degli adepti delle logge di perdizione che sono giunti a ribaltare, come sappiamo, tradizione divina, dottrina, culto ecclesiastico, pubblica morale e tutto quanto di sacro la Chiesa conservava, con il conciliabolo di stampo massonico, roncallo-montiniano, i cui effetti funesti sono sotto gli occhi delle persone ancor sane di mente dell’intero contesto umano. I vari focolai di ribellione al Cristo, di cui quello irlandese costituiva un segnale piccolo ma importante, si sono ingigantiti e moltiplicati convergendo sul fulcro dell’intero Cristianesimo, il Santo Padre, cacciato da Roma, impedito e sostituito da fantocci, burattini manipolati e teatranti ipocriti, canonicamente falsi e teologicamente eretici fino a sfociare nell’apostasia esoterico-pagana attuale nella quale sono immerse la totalità delle Nazioni un tempo fedeli seguaci del Credo evangelico e del Magistero infallibile della Sposa di Cristo, sgorgata dal costato del Cristo morto sulla croce. Ma certi che le porte del male e degli inferi non prevarranno mai sulla vera Chiesa di Cristo, e che il calcagno della Santa Vergine schiaccerà alfine il capo del dragone maledetto e dei suoi servi immondi fin nello stagno di fuoco eterno, leggiamo con serenità questo breve documento.
+ Leone XIII Etsi cunctas
Lettera Enciclica
Sebbene Noi abbracciamo con paterno sentimento di carità tutti e ogni singolo componente del gregge del Signore di cui Ci fu affidata la cura, tuttavia le Nostre premure e il Nostro pensiero si rivolgono in particolare a coloro che avvertiamo afflitti da qualche difficoltà. Sperimentiamo infatti in Noi stessi ciò che dalla natura è stato prescritto ai genitori, cioè d’incoraggiare e proteggere, primi tra gli altri, quei figli che sono stati colpiti da qualche sventura. Perciò con singolare benevolenza abbiamo sempre nutrito un affetto particolare per i Cattolici d’Irlanda, messi a dura prova da varie e insistenti disgrazie; per consuetudine li avemmo molto più cari, poiché furono ammirevoli per pazienza e tenacia, in quanto nessun dolore valse a distruggere o a diminuire il loro avito sentimento religioso. – Noi li abbiamo spesso ammoniti, e in questi ultimi tempi abbiamo emesso un decreto: cioè, abbiamo decretato e ammonito in quanto vedevamo che tali provvedimenti da una parte erano coerenti con la verità e la giustizia, e dall’altra giovevoli ai vostri interessi. Infatti, il Nostro animo non può rivolgersi a voi col rischio di nuocere in qualche modo alla causa per la quale si batte l’Irlanda, qualora s’interferisca in modo da essere giustamente riprovati. Pertanto, affinché sia più esplicita questa Nostra volontà nei confronti degl’Irlandesi, mandiamo costà dei doni, una parte dei quali consiste in paramenti, vasi e ornamenti d’arredo sacro, che destiniamo alle Chiese Cattedrali d’Irlanda perché sia più splendido il decoro della casa di Dio e del culto divino; l’altra parte consiste in offerte di minor pregio che Noi stessi abbiamo valorizzato con la benedizione e che sono strumenti atti a favorire la pietà dei singoli; con essi abbiamo voluto compensare i privati, come ti spiegheremo in modo più esplicito. Non dubitiamo che questo Nostro gesto possa rendere più evidente che il Nostro paterno amore verso gli Irlandesi è rimasto sempre immutato. Di questo amore essi saranno ancor più degni in futuro, se sapranno perseverare in una disposizione d’animo docile e fiducioso verso di Noi, se eviteranno attentamente gl’inganni di coloro che non esitano a interpretare i Nostri suggerimenti nel senso peggiore per sradicare, se fosse possibile, quel nobile ossequio verso la Chiesa cattolica che è da annoverare tra i più insigni meriti degl’Irlandesi, e che hanno ricevuto dai padri e dagli avi come un’importante e nobilissima eredità. – Invocando tutti i più preziosi doni della grazia celeste, a te, Venerabile Fratello, al Clero e al popolo che tu governi, e a tutta l’Irlanda, impartiamo con molto affetto l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 21 dicembre 1888, nell’anno undecimo del Nostro Pontificato.
«… Ma poiché sono i peccati, da noi commessi al cospetto di Dio (cf. Bar. VI, 1), che ci tengono lontani da Lui e ci gettano miseramente nella rovina, non basta, come del resto è noto a voi tutti, venerabili fratelli, elevare al Cielo assidue preghiere; non basta portarsi numerosi attorno agli altari della Vergine santissima per deporvi offerte, fiori e suppliche; ma è necessario altresì rinnovare i costumi in pubblico e in privato, in modo da porre così quelle solide basi, sulle quali soltanto poggia l’edificio della vita domestica e civile, edificio non discordante e caduco, ma omogeneo e duraturo … ». Questo monito, rivolto ai popoli tutti dal Santo Padre Pio XII in questa Enciclica scritta in tempi di guerra particolarmente duri e dolorosi, trova pure oggi la sua profonda validità, in tempi minacciati da orgogliose antiumane follie perpetrate da capi di popoli irresponsabili, corrotti ed asserviti a gruppi elitari di dominio mondiale animati da un odio satanico verso Dio, il suo Cristo e la sua Chiesa, ed in definitiva verso tutti gli uomini e specialmente i Cristiani osservanti la dottrina cattolica. Il Sommo Pontefice, con poche ed incisive espressioni, offre la ricetta più valida per poter efficacemente contrastare gli odi tra i popoli e portare ad essi la pace vera, la pace fondata sulla umana giustizia e sul rispetto della legge di Dio così come proclamata dalle sentenze evangeliche e dalla dottrina cattolica della vera Chiesa Cattolica romana, l’unica porta di accesso alla beatitudine eterna. Finché non si seguirà il percorso tracciato dal Santo Padre in questa lettera Enciclica e in analoghi documenti, non avremo purtroppo una vera e duratura pace, ma lotte, sventure, disastri e calamità di ogni tipo che potremmo evitare con alcuni banali accorgimenti in sintonia con la volontà divina. Ma oggi l’umanità sembra molto lontana dal considerare queste verità elementari, e corre dietro a false illusioni di uomini avidi e avvolti nella melma della lussuria e dell’inganno. Un giorno molti saranno gli uomini che si pentiranno di non aver fatto proprie queste parole per poter evitare i disastri delle guerre sulla terra, ed lo stagno di fuoco nella vita eterna.
PIO XII
LETTERA ENCICLICA
COMMUNIUM INTERPRETES DOLORUM
PUBBLICHE PREGHIERE PER LA PACE FRA I POPOLI
Interpreti dei dolori comuni, da cui quasi tutti i popoli già da lungo tempo sono così amaramente oppressi, nulla intendiamo tralasciare che miri a sollevare e in qualche modo lenire l’immensità delle miserie o ad affrettare la fine del terribile conflitto. Ma ben sappiamo che le risorse umane sono insufficienti a risanare queste sventure; ben sappiamo che gli umani accorgimenti, quando specialmente sono accecati dall’odio dalla vendetta, difficilmente giungono a una giusta ed equa composizione e a una fraterna concordia. È necessario pertanto innalzare frequenti preghiere al Padre dei lumi e delle misericordie (cf. Gc 1, 17; 2 Cor 1, 3), il quale solo può, in così grave smarrimento e agitazione di spirito, far sentire a tutti che troppe sono ormai le rovine e smisurato il cumulo delle stragi, troppe le lacrime, troppo il sangue sparso; di guisa che esigenze sia divine che umane assolutamente impongono che cessi al più presto questo spaventoso flagello. – Perciò, all’avvicinarsi del mese di maggio, consacrato in modo particolare alla vergine Madre di Dio, come già negli anni passati, così ora desideriamo esortare tutti di nuovo – i bambini specialmente e gli innocenti fanciulli – affinché implorino dal divino Redentore, per intercessione della sua Madre santissima, che i popoli in preda alle discordie, alle lotte e a ogni sorta di disgrazie possano alfine essere liberati dai lutti e dalle lunghe angosce. Ma poiché sono i peccati, da noi commessi al cospetto di Dio (cf. Bar 6, 1), che ci tengono lontani da lui e ci gettano miseramente nella rovina, non basta, come del resto è noto a voi tutti, venerabili fratelli, elevare al Cielo assidue preghiere; non basta portarsi numerosi attorno agli altari della Vergine santissima per deporvi offerte, fiori e suppliche; ma è necessario altresì rinnovare i costumi in pubblico e in privato, in modo da porre così quelle solide basi, sulle quali soltanto poggia l’edificio della vita domestica e civile, edificio non discordante e caduco, ma omogeneo e duraturo. Ricordino per conseguenza tutti e traducano nella vita pratica gli ammonimenti del profeta: «Tornate a me, dice il Signore degli eserciti, e io tornerò a voi:..» (Zc l, 3); e parimenti riflettano su quelle parole del grande vescovo d’Ippona: «Cambia il cuore, e si cambierà anche l’azione: estirpa la cupidigia e semina la carità».(2) « Desideri la pace? Opera giusto e avrai la pace: poiché la giustizia e la pace si sono baciate (Sal. LXXXIV, 11). Se non ami la giustizia, non avrai la pace: infatti la giustizia e la pace si amano e sono tra loro talmente unite, che se fai giusto, troverai la pace che bacia la giustizia… Se dunque vuoi venire alla pace, opera giusto: allontanati dal male e segui il bene, questo significa amare la giustizia; e quando avrai lasciato il male e avrai fatto il bene, cerca la pace e seguila ». Se tutti i fedeli saranno così animati e disposti, non vi è dubbio che le loro preghiere saliranno gradite al trono dell’Altissimo e otterranno dal Signore placato i conforti e i doni, di cui al presente tanto abbiamo bisogno. – Ben conoscete di quali doni, di quali aiuti e di quali conforti abbiamo bisogno in questo travagliato momento. In primo luogo, però occorre domandare a Dio che le menti e i cuori degli uomini siano illuminati e rinnovati dagli insegnamenti della dottrina cristiana, dai quali solamente può venire la salvezza privata e pubblica, affinché questa devastatrice lotta di popoli e di continenti cessi di incrudelire, e i cittadini di ogni classe, ricongiunti dal vincolo dell’amicizia, dall’immenso cumulo delle rovine si accingano a ricostruire, sotto l’insegna della giustizia e della carità, l’edificio umano. Ma si deve inoltre chiedere al Redentore divino e alla sua santissima Madre in spirito di preghiera e di penitenza che sia vera e sincera la pace che porrà termine a questa guerra funesta e sanguinosa. – Non è purtroppo facile, fra tanto sconvolgimento di cose, mentre gli animi di molti sono ancora agitati da sentimenti di vendetta, venire a una pace, che sia ugualmente contemperata dall’equità e dalla giustizia, che soddisfi con fraterna carità le aspirazioni di tutti i popoli ed elimini i germi latenti delle discordie e delle rivalità. Per conseguenza quelli in modo speciale hanno bisogno dei lumi celesti, cui incombe il gravissimo compito di risolvere tale problema, dal cui giudizio dipende la sorte non pure della loro nazione, ma anche dell’umanità intera e delle future generazioni. Per questo motivo bramiamo che tutti rivolgano a Dio calde e intense preghiere e particolarmente i fanciulli durante il mese di maggio implorino dalla Madre della Divina Sapienza l’assistenza soprannaturale a coloro, la cui sentenza dovrà decidere la causa di tutti i popoli. E considerino questi e attentamente riflettano davanti a Dio che tutto ciò che sorpassasse i limiti della giustizia e dell’equità, certamente, presto o tardi, tornerebbe a enorme danno dei vinti e dei vincitori, perché ivi si nasconderebbe il seme di nuove guerre. – Desideriamo inoltre che quanti volentieri risponderanno a questa Nostra esortazione, non dimentichino la triste condizione di quelli che, o profughi ed esuli da lungo tempo attendono con ansia di rivedere il focolare domestico, o relegati nei campi di concentramento aspettano, dopo la guerra, la giusta libertà, o infine giacciono infermi negli ospedali. A questi infelici e a tutti gli altri, per i quali il presente conflitto è stato causa di angosce e dolori, voglia concedere la benignissima Madre di Dio le celesti consolazioni, e accordare la forza di quella cristiana pazienza, mercé la quale anche le sofferenze più acute diventano tollerabili e conducono a meritare la felicità eterna. – Sarà vostra premura, venerabili fratelli, di comunicare queste Nostre paterne esortazioni e voti ai fedeli alle vostre cure affidati; ai quali – e principalmente a voi tutti e singoli – impartiamo, auspicio dei doni celesti e pegno della Nostra benevolenza, l’apostolica benedizione.
Roma, presso San Pietro, il 15 aprile, domenica del Buon Pastore, dell’anno 1945, VII del Nostro pontificato.
Questa stupenda Enciclica è un prezioso gioiello che il Sommo Pontefice Leone XIII volle comporre e dedicare alla memoria del santo di Assisi, di cui si celebrava il settimo centenario della nascita « … Ora, parte principalissima della vita cristiana è lo spirito di sacrificio, simboleggiato nella croce che ogni seguace di Cristo deve portare sulle proprie spalle. Questo sacrificio comporta il distacco dalle cose sensibili, il rigido controllo di se stessi, il sopportare con calma e pazienza le avversità. Infine, signora e regina di tutte le virtù è la carità verso Dio e il prossimo. La forza di essa è tale che allevia le molestie inseparabili dall’adempimento del dovere: per quanto gravi siano gli affanni della vita, essa sa renderli non solo sopportabili, ma addirittura soavi… » è questo uno dei passaggi iniziali nel quale si indica un rimedio utile in ogni tempo per ridare pace e stabilità alle singole anime ed alle società e popoli tutti, specie in quelli che hanno completamente dimenticato lo spirito vero del Cristianesimo autentico di cui erano un tempo fautori e testimoni. Veramente centrale è poi questo fattore, lo spirito di sacrificio, nella nostra attuale società moderna, nella quale anzi esso viene totalmente bandito per dare spazio solo a comodità, piaceri, benessere materiale, acquisizione e godimento di beni sensibili nella assoluta dimenticanza dell’unico obiettivo dell’uomo, l’acquisizione dei beni celesti e dei meriti sovrannaturali che conducono alla eterna felicità del cielo. Questo nome, che salvò dalla rovina la Chiesa di Cristo, è lo stesso di chi oggi porta, nella inversione completa dei valori cristiani, alla dannazione eterna per mezzo di eresie ed apostasia la più spudorata, con l’adorazione di idoli demoniaci – Pachamama docet – la commistione a culti esoterici o pagani, o anticattolici, messi su di uno stesso piano e ritenuti paritari con l’unica vera Religione istituita dall’Uomo-Dio, Nostro Signore Gesù Cristo che ha sempre proclamato che omnes dii gentium dæmonia… Cristo unito a belial … quale orrore perseguito da finti scellerati sacrileghi prelati, cultori di turpi vizi e servi dichiarati di satana… Che torni il Santo serafico e ricostruisca dalle fondamenta la vera Chiesa, rimettendo al suo posto il vero ed unico Sommo Pontefice, il Vicario di Cristo in terra, ristabilendo la sana e robusta dottrina evangelica praticata nella carità, e riportando in vita il culto unicamente gradito a Dio Padre: l’immolazione non cruenta del Figlio suo incarnato nella “vera” santa Messa cattolica. Torna S. Francesco, venite Signore Gesù…
+ Leone XIII Auspicato concessum
Lettera Enciclica
Opportunamente è concesso al popolo cristiano di celebrare nel giro di pochi anni la memoria di due uomini che, chiamati in cielo all’immortale corona della santità, lasciarono in retaggio sulla terra un illustre stuolo di seguaci, quasi perpetui germogli delle loro virtù. Infatti, dopo le secolari feste in onore di Benedetto, padre e legislatore dei monaci in Occidente, ecco prossima, non dissimile, l’occasione di rendere pubbliche onoranze a Francesco d’Assisi, compiendosi il settimo centenario della sua nascita. In tale circostanza abbiamo ragione di ravvisare una benigna disposizione della provvidenza divina. Effettivamente, porgendo alla venerazione delle genti il giorno natalizio di così eccelsi Patriarchi, sembra che Dio voglia ridestare il ricordo dei loro altissimi meriti e fare intendere ad ognuno che gli Ordini religiosi da essi fondati non meritavano di essere tanto maltrattati, specialmente in quei paesi nei quali lo sviluppo della civiltà e della fama crebbe in forza del loro impegno e del loro zelo operoso. – Noi certo nutriamo fiducia che codeste solenni commemorazioni non abbiano a passare infruttuose per il popolo cristiano, che a buon diritto considerò sempre come amici gli appartenenti agli Ordini religiosi, e come già rese tributo di grande devozione e riconoscenza al nome di Benedetto, così ora gareggerà nell’apprestare pompose feste e molteplici omaggi alla memoria di Francesco. E codesta nobile gara di affetto e di riverenza non sarà ristretta alla regione nella quale il santissimo uomo vide la luce, o alle vicine contrade consacrate dalla sua presenza, ma largamente si estenderà ad ogni parte del mondo dove risuona il nome di Francesco o fioriscono le sue istituzioni. – Noi certamente approviamo più che mai questo ardore di animi per uno scopo tanto valido; Noi, che fin dall’adolescenza Ci abituammo ad ammirare e ad onorare di particolare devozione Francesco d’Assisi, Ci gloriamo d’essere iscritti alla famiglia Francescana; più di una volta per devozione salimmo gioiosi e veloci il sacro monte dell’Alvernia, dove ad ogni pie’ sospinto Ci si affacciava alla mente la figura del Santo: quella solitudine così ricca di memorie teneva come assorto il Nostro spirito, che silenzioso lo contemplava. – Ma, per lodevole che sia codesto entusiasmo, da solo non basta. Infatti, bisogna ben persuadersene, gli onori che si preparano a San Francesco torneranno particolarmente accetti a lui, cui sono indirizzati, se riusciranno fruttuosi a chi li rende. Ora il più sostanziale e non passeggero profitto consiste in questo, che gli uomini prendano qualche tratto di somiglianza dalla sovrana virtù di colui che ammirano e procurino di rendersi migliori imitandolo. Se, con l’aiuto di Dio, faranno ciò, certamente sarebbe stato trovato un opportuno ed efficace rimedio ai mali presenti. Perciò vogliamo rivolgerci a Voi con questa Lettera, Venerabili Fratelli, non solo per rendere pubblica testimonianza della Nostra devozione a Francesco, ma per eccitare altresì il Vostro zelo a promuovere insieme con Noi la salute dell’umano consorzio, mercé il rimedio che abbiamo indicato. – Gesù Cristo, Redentore del genere umano, è la perenne ed inesausta sorgente di tutti i beni che ci vengono dalla infinita misericordia divina, talché Egli medesimo, che salvò una volta l’umanità, la viene salvando in tutti i secoli: “Infatti non esiste sotto il cielo altro nome dato agli uomini, mercé il quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At IV,12). Pertanto, se per effetto di debolezza o di colpa il genere umano si veda nuovamente caduto così in basso da aver bisogno di un aiuto poderoso che lo sollevi, è necessario che ricorra a Gesù Cristo, tenendo per certo che è il più valido e più fidato rifugio. Infatti, è così ampia e così forte la sua divina virtù, che è in grado di far cessare ogni pericolo e di sanare ogni male. Il rimedio verrà senza fallo solo che l’umana famiglia sia ricondotta a professare la fede cristiana e ad osservarne i santi precetti. In tali difficoltà, quando è maturo il momento segnato nei pietosi consigli dell’Eterno, Dio ordinariamente suscita un uomo, non uno dei tanti, ma sommo e straordinario, e a lui affida il compito di rendere la salvezza alla società. Ora questo è quanto succedeva sullo scorcio del secolo duodecimo e alquanto dopo, e l’artefice della grande opera riparatrice fu Francesco. – Sono abbastanza conosciuti quei tempi con le loro qualità e buone e cattive. Profonda e robusta era la fede cattolica; infervorati dal sentimento religioso, molti ritenevano bello salpare per la Palestina, risoluti a vincere o a morire. Ciononostante, i costumi erano oltremodo licenziosi e nulla si era più necessario per gli uomini che ripristinare la vita cristiana. Ora, parte principalissima della vita cristiana è lo spirito di sacrificio, simboleggiato nella croce che ogni seguace di Cristo deve portare sulle proprie spalle. Questo sacrificio comporta il distacco dalle cose sensibili, il rigido controllo di se stessi, il sopportare con calma e pazienza le avversità. Infine, signora e regina di tutte le virtù è la carità verso Dio e il prossimo. La forza di essa è tale che allevia le molestie inseparabili dall’adempimento del dovere: per quanto gravi siano gli affanni della vita, essa sa renderli non solo sopportabili, ma addirittura soavi. – Di siffatte virtù nel secolo duodecimo c’era grande scarsità, dato che troppi erano attaccati perdutamente alle cose umane, o folleggiavano per smisurata cupidigia di onori e di ricchezze, o conducevano una vita di lusso e lascivie. La prepotenza di pochi dominava ad oppressione del misero e disprezzato popolo minuto; e da colpe siffatte non andavano esenti neanche coloro che, per dovere d’ufficio, avrebbero dovuto essere d’esempio agli altri. A misura che la carità scemava, prevalevano le quotidiane perniciose passioni: invidia, rivalità, odii, con tanta foga di ostilità, che ad ogni più piccolo pretesto le città limitrofe si sfidavano in disastrose guerre, e i cittadini di una stessa città barbaramente si combattevano gli uni contro gli altri. – Tale il secolo in cui giunse Francesco. Egli però con mirabile semplicità e pari costanza, con la parola e con l’esempio volle offrire agli sguardi del mondo corrotto la schietta immagine della perfezione cristiana. – Infatti, come padre Domenico di Guzman difendeva in quei tempi l’integrità della dottrina cattolica, e con la luce della rivelazione fugava i pravi errori dell’eresia, così Francesco, secondando l’impulso di Dio che lo guidava a grandi imprese, riuscì a ricondurre molti Cristiani alla virtù e a richiamare persone da molto tempo deviate alla imitazione di Cristo. Certamente non fu il caso che reco all’orecchio del giovane quelle sentenze del Vangelo: “Non vogliate avere né oro, né argento, né danaro nelle vostre borse, né bisacce per il viaggio, né due vesti, né scarpe, né bastone” (Mt X, 9-10). E: “Se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai e dà ai poveri… e vieni, e seguimi” (Mt XIX, 21). Accogliendo queste parole come dette espressamente per lui, egli si spoglia di tutto, perfino degli abiti, e sceglie la povertà come compagna e alleata per la vita futura; sceglie quali fondamenti del suo Ordine quelle massime di perfezione che con tanta decisione e generosità di cuore aveva abbracciato. Nello stesso tempo, in mezzo alle voluttuose usanze e alle affettate delicatezze dei suoi tempi, egli procede negletto e squallido nella persona; va mendicando di porta in porta; e, ciò che molti stimano assolutamente amaro, non solo sopporta gli scherzi della plebaglia, ma se ne alimenta con mirabile gioia. Evidentemente aveva scelto la stoltezza della Croce di Cristo e l’aveva apprezzata come sapienza assoluta; e avendone compreso il profondo ed augusto mistero, vide e conobbe di non potere meglio collocare altrove la propria gloria. Con l’amore della Croce entrò nel cuore di Francesco un’ardente carità che lo spinse a propagare coraggiosamente il nome di Cristo e ad esporsi per tale motivo anche con evidente pericolo della vita. Con questo amore egli abbracciava tutti gli uomini; ma i più miserabili e i più squallidi erano per lui i prediletti, in modo che sembrava porre le sue particolari compiacenze appunto in quei miseri, che il mondo superbo suole maggiormente respingere. In questo modo egli fu grandemente benemerito di quella fraternità con la quale – restituita e perfezionata – Cristo Signore raccolse il genere umano in una sola famiglia, sottoposta al potere di un solo Dio, Padre comune di tutti. Con il corredo di tante virtù, e particolarmente con tale austerità di vita, quest’uomo illibatissimo prese a formare se stesso, quanto gli fu possibile, sul modello di Gesù Cristo. Ma un altro segno della particolare provvidenza di Dio in ordine a Francesco sembra doversi ravvisare nelle speciali ragioni di estrinseca somiglianza che egli ebbe col divin Redentore. Infatti, come a Gesù, così a Francesco avvenne di nascere in una stalla, e di essere posto pargoletto a giacere in terra su poca paglia proprio come Gesù. In quel momento, come a completare la somiglianza, secondo quanto si narra, armoniosi cori di Angeli e dolci armonie si diffusero per il cielo. E come Cristo radunò intorno a sé gli Apostoli, così Francesco raccolse alcuni discepoli che mandò poi per la terra a predicare la pace cristiana e la salute eterna delle anime. Poverissimo, atrocemente beffeggiato, ripudiato dai suoi, seguendo l’esempio di Gesù Cristo non volle per sé alcuna cosa su cui posare il capo. Infine, come ultima nota di somiglianza, nel monte dell’Alvernia, come in un suo Calvario, ricevute per via di prodigio, sino allora inaudito, le sacre stimmate, fu nella sua carne in certo modo crocifisso. – Ricordiamo un avvenimento celebre non soltanto per la grandezza del miracolo, ma anche quale testimonianza per i secoli. Mentre un giorno stava assorto nella sublime contemplazione dei dolori di Cristo e, sitibondo di quelle ineffabili amarezze, intimamente si univa al Redentore, ecco apparire improvvisamente dal cielo un Angelo: come se da questi si fosse sprigionata repentinamente una misteriosa forza, Francesco sentì trapassarsi le mani e i piedi come da chiodi, ed aprirsi come da acuta lancia il costato. Da quel momento gli rimase in cuore una fiamma di traboccante carità, e nel corpo per tutto il resto della sua vita una viva ed autentica immagine delle piaghe di Gesù Cristo. – Codeste straordinarie manifestazioni, meritevoli di essere celebrate da un cantore angelico anziché umano, rivelano abbastanza quale uomo fosse Francesco, e quanto degno della missione di far rivivere in mezzo ai suoi contemporanei i costumi cristiani. “Va’, e ripara la mia casa che crolla” aveva detto a Francesco nella umile chiesuola di San Damiano una voce sovrumana. Né meno meravigliosa fu la visione offerta al Pontefice Innocenzo III, secondo la quale Francesco fu additato in atto di sostenere coi propri omeri le vacillanti mura della Basilica Lateranense. Il significato di tali portenti è evidente: indicavano chiaramente che Francesco sarebbe stato in quei tempi non lieve presidio e sostegno per la Chiesa di Cristo. Egli infatti diede subito inizio all’impresa. – Quei dodici che furono i primi a seguirlo furono altresì il piccolo seme, che, fecondato da Dio e benedetto dal Pontefice Massimo, fu visto in breve tempo crescere in ricchissima messe. Ad essi, formati secondo gli esempi di Cristo, Francesco assegna varie regioni d’Italia e d’Europa da evangelizzare, e ne manda alcuni con precisi compiti anche in Africa. Senza alcun indugio essi vanno: poveri, senza cultura, rozzi, essi osano tuttavia presentarsi in pubblico; e sulle strade, per le piazze, senza alcuna preparazione di luogo né pompa di eloquio richiamano le genti al disprezzo del mondo e al pensiero dell’eternità. Incredibile il copioso frutto che coronò le fatiche di quegli operai che sembravano così inetti! Infatti, le turbe si affollavano intorno ad essi, avide di ascoltarli, e quindi, compunte e pentite, si convertivano, dimenticavano le ingiurie ricevute e, spenti i dissidi, tornavano a consigli di pace. È incredibile a dirsi con quale trasporto degli animi, quasi spinta, la gente era rapita dietro Francesco. Ovunque passava, si determinavano grandi assembramenti e spesso dai castelli e dalle città più numerose tanti uomini indistintamente gli chiedevano di essere ammessi alla professione della sua Regola. – Pertanto, nel santissimo uomo nacque l’idea di fondare il Terzo Ordine che, senza rompere i vincoli della famiglia e delle cose domestiche potesse accogliere persone d’ogni condizione, di ogni età e dell’uno e dell’altro sesso. Saggiamente egli lo volle regolato, non tanto con particolari statuti, quanto con l’applicazione delle leggi stesse del Vangelo, delle quali nessun Cristiano ha motivo di sgomentarsi: cioè osservare i comandamenti di Dio e della Chiesa; evitare fazioni e risse; nulla frodare; non brandire armi, se non in difesa della Religione e della patria; essere temperanti nel vitto, modesti nel vestito; guardarsi dal lusso, fuggire le seduzioni di balli e di spettacoli irreligiosi. È facile comprendere che da siffatta istituzione, salutare per se stessa e mirabilmente opportuna in quei tempi, dovettero derivare grandissimi vantaggi. Di tale opportunità giunge conferma dal fatto che altre associazioni somiglianti germogliarono dalla famiglia Domenicana e da altri Ordini religiosi. – Molti, di modeste condizioni e di altissimo rango, pieni di ardore e di zelo correvano ad iscriversi al Terz’Ordine di San Francesco. Furono tra i primi il re di Francia Luigi IX, e Sant’Elisabetta d’Ungheria: dietro a questi vennero, con l’andare degli anni, molti Pontefici, Cardinali, Vescovi, Re e Principi; tutti stimarono non sconveniente con la loro dignità l’abito francescano. – I Terziari, nel difendere la Religione Cattolica, diedero belle prove di pietà e di forza, e se a motivo di queste virtù si attirarono l’ira dei tristi, ebbero sempre di che consolarsi con il più onorevole e più desiderabile dei conforti: l’approvazione dei savi e degli onesti. Addirittura Gregorio IX, Nostro Predecessore, encomiandone pubblicamente la fede e il coraggio, non si peritò di far loro scudo della propria autorità e di chiamarli, a grande onore: “Milizia di Cristo, nuovi Maccabei”. Né era immeritata la lode. Infatti, in quel gruppo di uomini operava un grande aiuto per il pubblico benessere: essi, tenendo fisso lo sguardo alle virtù ed alle leggi del loro fondatore, si adoperavano il più possibile di far rifiorire in seno alle corrotte città i pregi della vita cristiana. Certo, grazie all’opera ed all’esempio dei Terziari, si videro spesso estinte o mitigate le discordie di parte, tolte di mano ai faziosi le armi, allontanate le cagioni di litigi e di contese: procurati sollievi agl’indigenti e agli abbandonati, frenata la lussuria, divoratrice delle sostanze e strumento di corruzione. Conseguentemente la pace domestica e la tranquillità pubblica, l’integrità dei costumi e la mansuetudine, il retto uso e la tutela della proprietà, che sono i migliori elementi di civiltà e di benessere, rampollano, come da propria radice dal Terz’Ordine: e se codesti beni non andarono perduti, l’Europa deve esserne in gran parte riconoscente a Francesco. – Ma più di ogni altro paese va debitrice a Francesco l’Italia, la quale, come fu particolarmente teatro delle sue virtù, così ne sperimentò più che mai i benèfici effetti. – In verità, in tempi di oppressioni e di prepotenze, egli stendeva costantemente la destra al debole e all’oppresso: e, ricco nella suprema povertà, non omise mai di alleviare l’indigenza altrui, dimentico della propria. – Sul suo labbro la nascente lingua italiana conobbe le prime espressioni; nei suoi cantici popolari espresse quella forza di carità e di poesia che la dotta posterità non ritenne indegni di ammirazione. Pensando a Francesco, il genio italiano più qualificato trasse motivo d’ispirazione, tanto che sommi artisti gareggiarono nel fissare le sue opere con pitture, sculture ed intagli. L’Alighieri trovò in Francesco materia per i suoi versi più forti e leggiadri; Cimabue e Giotto per le loro composizioni immortali, degne delle luci del Parrasio; illustri architetti per grandiose opere quali il sepolcro del Poverello o la Chiesa di Maria degli Angeli, che è stata testimone di tanti miracoli. A questi santuari vengono pellegrini da ogni parte ad onorare l’Assisiate padre dei poveri, al quale, come si spogliò di tutti i beni terreni, affluirono per divina misericordia copiosi doni celesti. – Pertanto, è chiaro che bastò quest’uomo a ricolmare d’innumerevoli benefici la società religiosa e la civile. Ma siccome quel suo spirito essenzialmente cristiano si porge a meraviglia ai bisogni di tutti i tempi e di tutti i luoghi, non è da mettere in dubbio che le istituzioni di Francesco siano per tornare profittevoli anche nell’età nostra. Questo, in quanto i nostri tempi si assomigliano in molti punti a quelli di allora. La divina carità, come nel secolo duodecimo, si è raffreddata non poco, e non è di poco conto lo scompiglio dei doveri dei Cristiani, o per ignoranza o per negligenza. Prevalendo ora costumi e tendenze poco dissimili, molti consumano la vita andando avidamente in cerca di comodità terrene e di sensuali piaceri. Perdendosi nel lusso, disperdono i propri beni e agognano l’altrui; esaltando la fratellanza universale, se ne fanno campioni più a parole che a fatti, poiché è l’egoismo che vince, e la schietta carità verso i deboli e gli indigenti si fa ogni giorno più rara. In quel secolo la multiforme eresia degli Albigesi, spargendo ribellione contro il potere della Chiesa, aveva scompigliato contemporaneamente l’ordine civile e aveva spianato la via ad una specie di Socialismo. Oggi parimenti vanno crescendo i fautori e i propagatori del Naturalismo, i quali rifiutano pertinacemente ogni soggezione alla Chiesa, e di grado in grado logicamente avanzando, non lasciano intatta neppure la potestà civile; predicano la violenza e la rivolta popolare; vagheggiano l’abolizione della proprietà terriera; lusingano le passioni dei proletari; scuotono le fondamenta di ogni ordinata convivenza, sia domestica, sia civile. – In mezzo a tanti e così gravi mali, ben comprendete, Venerabili Fratelli, come una speranza non piccola di sollievo si possa ragionevolmente riporre nelle istituzioni francescane, solo che vengano richiamate al vigore di prima. Al rifiorire di esse, rifiorirebbero agevolmente la fede, la pietà e ogni virtù cristiana; sarebbe rintuzzata la smisurata brama dei beni di quaggiù, e non si avrebbe più in uggia quello che oggi viene considerato dai più il maggiore e il più insopportabile dei pesi, cioè la mortificazione delle voglie per mezzo della virtù. Stretti da fraterna concordia, gli uomini si amerebbero scambievolmente, e nei poveri e negli afflitti rispetterebbero, come è dovere, l’immagine di Gesù Cristo. Inoltre, coloro che sono intimamente convinti dello spirito cristiano, sentono come obbligo di coscienza di dover obbedire all’autorità legittima e di rispettare i diritti di chicchessia; questa disposizione di animo è il più efficace mezzo per recidere alla radice ogni disordine, ogni violenza, tutte le ingiustizie, il desiderio di novità, l’odio fra i diversi ordini sociali, che sono i principali moventi ed insieme le armi del Socialismo. Infine, anche la difficoltà che travaglia le menti degli uomini di governo sul modo di equamente comporre le ragioni dei ricchi e dei poveri, resta mirabilmente sciolta una volta che sia scolpita negli animi la persuasione che la povertà non è per se stessa spregevole: occorre che il ricco sia caritatevole e munifico; che il povero sia rassegnato e attivo, e poiché nessuno dei due è nato per i mutabili beni della terra, gli uni con la sofferenza, gli altri con la liberalità si procurino di raggiungere il cielo. – Per queste ragioni Noi da lungo tempo e vivamente desideriamo che ognuno, secondo le proprie forze, sproni se stesso ad imitare Francesco d’Assisi. A tale scopo, come nel passato avemmo sempre particolarmente a cuore il Terz’Ordine dei Francescani, così ora, chiamati per somma benignità di Dio a gestire il supremo Pontificato, approfittiamo di questa ricorrenza per esortare i fedeli a non negare il proprio nome a questa santa milizia di Gesù Cristo. – Già in molte parti si contano in gran numero Cristiani dell’uno e dell’altro sesso che si sono messi con animo volenteroso sulle orme del Serafico Padre. – Lodiamo in essi ed approviamo di gran cuore siffatto zelo, ma vorremmo che esso aumentasse ancora e si propagasse ulteriormente soprattutto per opera Vostra, Venerabili Fratelli. Raccomandiamo principalmente che coloro che vestiranno i sacri segni della Penitenza tengano presente l’immagine del Santo fondatore, e si sforzino di modellare se stessi su quella: senza di che non sarebbe sperabile alcun bene. Pertanto studiatevi di far conoscere e apprezzare, come merita, il Terz’Ordine; fate in modo che i pastori di anime ne illustrino accuratamente lo spirito, la pratica facilità, i molti favori spirituali di cui è ricco, i vantaggi che se ne attendono per gl’individui e per la società. – E tanto maggiormente ci si deve adoperare a questo scopo, in quanto gli affiliati al primo e al secondo Ordine Francescano sono sbattuti presentemente da un’indegna procella. Voglia il cielo che per la protezione del beato loro Padre escano presto da tanta tempesta rinvigoriti e fiorenti! E voglia il cielo altresì che le genti cristiane si rechino volonterose ed in gran numero ad abbracciare il Terz’Ordine, come già un tempo correvano da ogni parte ai piedi dello stesso Francesco! Questo con il massimo calore e con il più giustificato diritto speriamo dagli Italiani i quali, per la comunanza della terra natale e per la più larga copia dei benefìci ricevuti, devono a Francesco maggior gratitudine e devozione. Così dopo sette secoli il popolo Italiano e tutto il mondo cristiano si vedrebbero un’altra volta tratti dallo scompiglio alla tranquillità, dalla rovina alla salvezza per virtù del figlio di Assisi. – Imploriamo concordemente questa grazia dallo stesso Francesco, principalmente in questi giorni; imploriamola anche da Maria Vergine Madre di Dio, che di patrocinio e di doni singolarissimi rimeritò sempre la devota pietà del suo servo fedele. – Frattanto, come pegno dei doni celesti e come testimonianza della Nostra singolare benevolenza, con effusione di cuore nel Signore impartiamo a Voi, Venerabili Fratelli, a tutto il Clero e al popolo a ciascuno affidato, l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 17 settembre 1882, anno quinto del Nostro Pontificato.
« … chi mai, riguardando a tanta mole di opere intraprese specialmente a vantaggio degli Orientali, non si sente crescere forte nel cuore la speranza che il benignissimo Redentore degli uomini Cristo Gesù, mosso a pietà della sorte lacrimevole di tanti uomini erranti lungi dal retto sentiero, e favorendo i Nostri sforzi, vorrà finalmente ricondurre le sue pecorelle nell’unico ovile sotto l’unico Pastore? » Questo è uno dei passaggi “ecumenici” della lettera Enciclica scritta sulla promozione degli studi orientali desiderata dal Sommo Pontefice S. S. Pio XI per favorire il riavvicinamento alla santa Sede degli scismatici orientali erranti nelle tenebre. Il vero ecumenismo è l’accoglienza di ogni uomo nell’unica vera Chiesa istituita da Nostro Signore Gesù Cristo ed affidata al suo Vicario ed ai successori apostolici in unione con il Sommo Pontefice. Non si tratta certo dell’accozzaglia di infedeli adoratori di idoli di ogni sorta in posizione di parità con il culto divino voluto da Dio nella Chiesa a sua gloria, quel minestrone di volgarità, idolatria, riti pagani ed esoterici visti nella falsa chiesa dell’uomo – ad esempio nella cittadina del Santo serafico ove obbrobri infernali furono posti accanto ad immagini mariane ed oggetti liturgici almeno in apparenza, così da mettere in scena un teatrino buonista di ispirazione massonica, ove il Cristo fu posto accanto a beliaal ed ai suoi empi adoratori creando orrore e confusione grande tra i già fin trioppo disorientati ed ingannati cristiani. Che spettacolo demoniaco, al quale il Signore non mancherà di corrispondere con un altro Tito che distruggerà fin dalle radici il tempio che Cristo aveva voluto per sé ed i suoi adoratori. Il tempio di Gerusalemme ed i Giudei decidi furono divelti in poche ore come fuscelli gettati nel fuoco divoratore e dispersi su tutto il pianeta, maledetti ancora oggi. Cosa attende i Cristiani falsi ed apostati del nostro tempo dopo duemila anni di Cristianesimo così mal ripagato, tradito, violato e rifiutato? Non osiamo immaginarlo, ma volendolo, non è difficile intravedere i castighi feroci che ci attendono e che già scorgiamo all’orizzonte.
LETTERA ENCICLICA RERUM ORIENTALIUM DI SUA SANTITÀ PIO XI AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI ED AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI CHE HANNO PACE E COMUNIONE CON LA SEDE APOSTOLICASULLA PROMOZIONE DEGLI STUDI ORIENTALI
Venerabili Fratelli, salute e Apostolica benedizione.
Con quanto zelo i Nostri predecessori si siano adoperati, nei secoli passati, per promuovere gli studi e una conoscenza più profonda del mondo orientale fra i fedeli, e in modo particolare fra i Sacerdoti, è noto a chiunque abbia percorso anche affrettatamente gli Annali della Chiesa Cattolica. Essi sapevano infatti assai bene che la causa sia di molti danni precedenti, sia della dolorosissima scissione che aveva strappato dalla radice dell’unità molte Chiese, un giorno floridissime, derivava come necessaria conseguenza specialmente dal vicendevole ignorarsi, dalla poca stima e dai pregiudizi nati nel tempo dei lunghi dissidî, e vedevano quindi che a tanti mali non si potrebbe recare rimedio se non rimovendo tali impedimenti. Ora, per accennare per sommi capi ad alcuni documenti storici di quei tempi, appunto, in cui cominciarono a rallentarsi gli antichi vincoli dell’unione e che attestano le cure sollecite del Romani Pontefici in questa vicenda, tutti conoscono con quale benevolenza, non solo, ma anzi con quale venerazione Adriano II accolse i due Apostoli degli Slavi, Cirillo e Metodio, e con quali prove di particolare stima li volle onorati; ed inoltre lo zelo con cui favorì la celebrazione dell’ottavo Concilio ecumenico, il Costantinopolitano quarto, inviandovi anche i suoi legati mentre, da poco, tanta parte del gregge di Cristo era stata così lacrimevolmente staccata dal Romano Pontefice, divinamente costituito Pastore Supremo. E simili sacre riunioni, intese a provvedere agli interessi della Chiesa fra gli Orientali, nel corso dei tempi si andarono successivamente rinnovando, come quando a Bari, presso la tomba di San Nicolò di Mira, il celebre Dottore di Aosta e Arcivescovo di Canterbury, Sant’Anselmo, con la sua dottrina e la santità esimia destò in tutti ammirazione; o a Lione, dove da Gregorio X erano stati insieme chiamati quei due luminari della Chiesa, l’Angelico Tommaso e il Serafico Bonaventura, benché poi l’uno morisse nello stesso viaggio, e l’altro in mezzo alle gravi fatiche del Concilio; o a Ferrara e a Firenze, dove grandemente si segnalarono quelle due glorie insigni dell’Oriente cristiano, Bessarione di Nicea ed Isidoro di Kiev, più tardi creati Cardinali, e dove la verità del dogma cristiano, stabilitasi con solidi argomenti e come perfusa dell’amore di Gesù Cristo, parve aprire la via alla riconciliazione dei Cristiani d’Oriente col Supremo Pastore. – Le poche cose fin qui rammentate, Venerabili Fratelli, sono senza dubbio prova della paterna provvidenza e dello zelo di questa Sede Apostolica verso le nazioni orientali; esse sono certamente le più note, ma per la loro stessa natura piuttosto rare. Ma molti altri sono i vantaggi che, senza alcuna interruzione, derivarono a favore di tutte le regioni d’Oriente da parte della Chiesa Romana con la continua e, per così dire, quotidiana elargizione di benefìci, massime con l’invio di religiosi, che spendessero la vita stessa a vantaggio dei popoli orientali. Infatti, sostenuti, per così dire, dall’autorità di questa Sede Apostolica, sorsero, specialmente dalle famiglie religiose di San Francesco d’Assisi e di San Domenico, quei magnanimi che, eretti domicili e fondate nuove province del loro Ordine, non solo coltivarono con immensi travagli la Palestina e l’Armenia, con la teologia e le altre scienze spettanti a religione e civiltà, ma anche le altre regioni, in cui gli Orientali, soggetti al dominio dei Tartari o dei Turchi, con la violenza tenuti separati da Roma, con ciò stesso erano sprovvisti d’ogni migliore cultura e specialmente di sacri studi. Queste insigni benemerenze e lo spirito della Sede Apostolica mostrarono di aver ben compreso, fin dal secolo XIII, i Professori dell’Università di Parigi, che, assecondandone i desideri, fondarono, come si ricorda, accanto alla loro stessa Università, un collegio orientale, intorno a cui Giovanni XXII, Nostro Antecessore, alcun tempo dopo chiedeva con premura a Ugone, Vescovo di Parigi, quali frutti producesse nello studio delle lingue orientali. – Non meno notabili sono altri fatti, attestatici dalla storia di quell’epoca. Il sapientissimo Umberto de Romanis, Maestro generale dell’Ordine dei Predicatori, scrivendo in un suo libro « degli argomenti che sembrava si dovessero trattare nel Concilio ecumenico da celebrarsi a Lione », raccomandava in particolare quali cose necessarie per guadagnare gli animi degli Orientali, la conoscenza e la correttezza della lingua greca « in quanto per mezzo delle varie lingue la diversità delle genti si riunisce nell’unità della fede »; da qui l’abbondanza di libri Greci e similmente un’opportuna provvista di libri nostri tradotti nelle lingue orientali; e parimenti insegnava ai suoi frati, riuniti in Capitolo generale a Milano, di tenere in gran conto la conoscenza e lo studio delle lingue orientali, e di coltivarle nell’intento di rendersi abili e pronti alle missioni presso quei popoli, se tale fosse il volere di Dio. Similmente il dottissimo Ruggero Bacone dell’Ordine di San Francesco, carissimo a Clemente IV, Nostro predecessore, non solo scrisse con molta erudizione sulle lingue dei Caldei, degli Arabi e dei Greci, ma ne spianò anche agli altri la conoscenza. Emulando i loro esempi, il celebre Raimondo Lullo, uomo di straordinaria erudizione e pietà, molte cose e con più vivace ardore, proprio dell’indole sua, chiese ai Nostri predecessori Celestino V e Bonifacio VIII, e ne ottenne parecchie, per quei tempi assai ardite, circa il modo di promuovere gli affari e gli studi Orientali; il designare, fra gli stessi Cardinali, uno che presiedesse a siffatti studi; infine del modo di intraprendere frequenti sacre missioni sia tra i Tartari, i Saraceni ed altri infedeli, sia fra gli scismatici, da ricondurre all’unità della Chiesa. – Ma assai più celebre e più degno di speciale menzione è quello che, come si narra, per suggerimento ed esortazione di lui, sappiamo essersi decretato nel Concilio Ecumenico Viennese e da Clemente V, Nostro predecessore, promulgato. In esso scorgiamo già quasi abbozzato il moderno Nostro Istituto Orientale: « Con l’approvazione di questo Sacro Concilio, abbiamo provveduto che si debbano erigere scuole delle diverse lingue qui appresso menzionate, ovunque si trovi a risiedere la Curia Romana, come pure nelle Università di Parigi, di Oxford, di Bologna e di Salamanca, ordinando che in ciascuno di tali luoghi si tengano professori cattolici, che abbiano sufficiente conoscenza delle lingue ebraica, greca, araba, e caldaica; vale a dire due periti di ciascuna lingua, perché vi reggano le scuole e traducano in latino con fedeltà libri da quelle lingue; altri poi insegnino agli altri con diligenza le lingue stesse e ne comunichino con l’accurato loro insegnamento la perfetta conoscenza, acciocché sufficientemente istruiti in tali lingue, possano produrre per grazia di Dio il frutto sperato, propagando salutarmente la fede fra gli stessi popoli infedeli … ». E poiché tra le stesse popolazioni dell’Oriente, in quel tempo, a cagione dei pubblici sconvolgimenti e dello sperpero della maggior parte dei mezzi che potevano aiutare la scienza, era appena possibile coltivare in più alte discipline le menti degli studiosi, per quanto perspicacissimi, voi sapete, Venerabili Fratelli, come i Nostri predecessori mettessero ogni cura perché, mentre nelle principali Università di quell’epoca si avevano già cattedre proprie per gli studi Orientali, molto più, alla luce di questa Alma Città, si erigessero alcuni istituti più adatti, quasi seminari dai quali poi alunni di quelle stesse nazioni, diligentemente provveduti di ogni ornamento di dottrina, potessero uscire in campo ben preparati a combattere la buona battaglia. Di qui, anzitutto, l’erezione in Roma di monasteri e di collegi per i Greci e i Ruteni, poi la costruzione di case per i Maroniti e gli Armeni; e ciò, con quale vantaggio delle anime e progresso della scienza, è comprovato chiaramente dalle opere sia liturgiche sia di altri argomenti, pubblicate a cura della Sacra Congregazione di Propaganda Fide, come pure dai preziosi codici orientali, raccolti diligentemente e gelosamente custoditi dalla Biblioteca Vaticana. – Né qui è tutto, perché i Nostri più vicini predecessori, come sopra dicemmo, ben sapendo che a favorire la carità e la stima vicendevoli avrebbe assai giovato una migliore conoscenza delle cose orientali fra i popoli dell’Occidente, si adoperarono con ogni mezzo per procurare un vantaggio tanto rilevante. Ne è prova Gregorio XVI il quale, innalzato al Sommo Pontificato nell’anno stesso in cui doveva essere inviato presso l’Imperatore di Russia Alessandro I, aveva studiato con ogni diligenza quanto riguardava le cose russe; ne è prova Pio IX il quale, prima e dopo il Concilio Vaticano, aveva caldamente raccomandato la diffusione degli studi sui riti e sulle tradizioni orientali; ne è prova Leone XIII, il quale dimostrò tanto amore e sollecitudine pastorale non solo per i Copti e gli Slavi, ma per tutti gli Orientali, al punto che, oltre la nuova Congregazione detta degli Agostiniani dell’Assunzione, stimolò altre famiglie religiose ad applicarsi o a perfezionarsi nello studio delle cose orientali, fondò per gli Orientali stessi nuovi Collegi nelle loro regioni e in questa medesima Città, onorò coi più grandi encomi l’Università aperta a Beyrouth dalla Compagnia di Gesù, ancor oggi floridissima e a Noi carissima; ne è prova Pio X il quale, eretto in Roma il Pontificio Istituto Biblico, accese nuovo ardore in molti animi per le cose e le lingue orientali, non senza lietissima raccolta di frutti. – L’immediato Nostro predecessore Benedetto XV, emulando con ardentissimo zelo tale paterna provvidenza verso i popoli orientali, al punto che la considerò quale sacra eredità ricevuta da Pio X per recare aiuto e incremento, per quanto possibile, alle cose orientali, non solo istituì una Sacra Congregazione per i riti e per gli affari Orientali, ma « determinò di fondare in questa Città, capitale del mondo cristiano, una propria sede di superiori studi orientali, provvista di tutti i mezzi richiesti dalla odierna cultura, e insigne per professori peritissimi nelle diverse discipline e studiosissimi dell’Oriente », dotata della facoltà di conferire « lauree dottorali nelle discipline ecclesiastiche che riguardano i popoli Cristiani Orientali » [6]; volle inoltre che essa fosse aperta non solo agli Orientali, anche se tuttora separati dalla cattolica unità, ma altresì e specialmente ai sacerdoti latini, sia che desiderassero arricchirsi di sacra erudizione, sia che volessero dedicarsi al sacro ministero fra gli Orientali. Sommamente degni di lode sono pertanto quei dottissimi professori, i quali per circa quattro anni si adoperarono ad istruire nelle discipline orientali i primi alunni dell’Istituto. – Tuttavia, allo svolgimento di provvidenziale Istituto era di non lieve ostacolo il trovarsi sì vicino al Vaticano, ma troppo distante dal centro più abitato della città. Pertanto, Noi, effettuando ciò che Benedetto XV aveva desiderato fare, ordinammo che l’Istituto Orientale si trasferisse nella sede dell’Istituto Biblico, come quello che più gli si avvicinava per genere di studi e per intenti, ma lo volemmo distinto e con l’intenzione di dotarlo di sede propria, non appena lo permettessero le circostanze. Inoltre, perché nell’avvenire non venisse mai a mancare un corpo di professori adatti all’insegnamento delle scienze orientali, e ritenendo di poter più facilmente ottenere ciò affidando sì importante impresa ad un Ordine religioso, con Nostra lettera del 14 settembre 1922 ordinammo al Preposito Generale della Compagnia di Gesù che, per il suo amore e per l’obbedienza dovuta alla Santa Sede e al Vicario di Cristo, superando qualsivoglia difficoltà, prendesse su di sé tutta la cura dell’Istituto, a queste condizioni: che restandone a Noi e ai Nostri successori la direzione suprema, debba il Preposito Generale della Compagnia di Gesù fornire soggetti idonei per i difficili uffici del Preside e dei professori, e che in perpetuo, o personalmente, o per mezzo del Preside, proponga direttamente a Noi e ai Nostri successori, per l’approvazione, le persone che crederà di destinare alle varie cattedre dell’Istituto, e tutti i provvedimenti che sembrino giovevoli alla conservazione e al progresso sempre maggiore dell’Istituto stesso. – Pertanto, allo spirare ormai del sesto anno dal giorno in cui, non senza una certa divina ispirazione, giudicammo di prendere questi provvedimenti, Ci si conceda di ringraziare di tutto cuore Iddio per i lietissimi frutti che già hanno coronato le Nostre fatiche. Infatti, il numero degli alunni e degli uditori, se, come porta la natura stessa dell’Istituto, non fu né sarà mai ingente, non fu nemmeno così esiguo da non doverCi intimamente rallegrare al vedere ormai un’eletta schiera di uomini, che va ogni giorno crescendo, i quali potranno fra breve uscire dall’ombra di questa palestra in campo aperto, forniti di tale, corredo di scienza e di pietà, da potersene sperare non lievi vantaggi per gli Orientali. – E qui, mentre grandemente encomiamo quegli Ordinari, Vescovi e Superiori delle famiglie religiose che, assecondando volonterosamente i Nostri desideri, hanno inviato a Roma, dalla più varia diversità di nazioni e di paesi, dall’Oriente e dall’Occidente, alcuni loro sacerdoti perché fossero istruiti nelle cose orientali; e mentre esortiamo anche i Superiori delle altre istituzioni più diffuse nel mondo di seguire sì bell’esempio, non trascurando di inviare, per formarli alle scuole di questo Nostro Istituto Orientale, quegli alunni che trovino a tali studi più atti e più propensi, lasciateCi, Venerabili Fratelli, richiamarvi alla memoria l’argomento da Noi trattato, non è molto, con una certa larghezza, nell’Enciclica «Mortalium animos ». E chi potrebbe ormai ignorare i discorsi che si vanno moltiplicando intorno all’attuazione di una certa unione del tutto contraria alla mente di Gesù Cristo, Fondatore della Chiesa, da promuoversi fra tutti i Cristiani? O chi non ha inteso parlare delle dispute che spesso si tengono in moltissime parti specialmente dell’Europa e dell’America, dispute di gravissima importanza, in cui si tratta delle popolazioni orientali o unite con la Chiesa Romana, o da essa tuttora separate? Orbene, se gli alunni dei nostri Seminari, istruiti come sono durante tutto il corso degli studi (cosa questa certamente di cui si ha da esser lieti) circa gli errori dei Novatori, ne sanno facilmente scorgere e sciogliere le capziose argomentazioni, non sono poi, almeno d’ordinario, tanto forniti di dottrina da poter dare sicuro parere in questioni di cose e costumi orientali, o dei legittimi riti da essi adoperati e da ritenersi così religiosamente nella cattolica unità, richiedendo tal genere di gravi argomenti uno studio particolare e diligentissimo. – Perciò, non dovendosi trascurar nulla di quanto può giovare al desiderato ritorno di sì cospicua parte del gregge di Cristo all’unione con la sua vera Chiesa, o a favorire maggiormente la carità verso coloro che, diversi nei riti, aderiscono però intimamente con la mente e col cuore alla Chiesa Romana e al Vicario di Cristo, caldamente esortiamo e scongiuriamo voi, Venerabili Fratelli, a voler ciascuno scegliere almeno uno dei vostri sacerdoti, il quale, ben Istruito nelle questioni orientali, sia in grado di ammaestrare in esse gli alunni del Seminario. Sappiamo benissimo che l’erezione di una speciale Facoltà, come suol dirsi, di studi orientali è piuttosto ufficio delle Università Cattoliche; e Ci congratuliamo di cuore che ciò si sia già cominciato a fare, col Nostro stesso consiglio e aiuto, a Parigi, a Lovanio e a Lilla; come pure godiamo che in parecchie altre sedi di studi, anche a spese dello Stato, e col consenso e l’esortazione dei Vescovi, di recente siano state fondate cattedre di queste discipline orientali. Ma non sarà difficile preparare, per ciascun Seminario teologico, qualche Professore, il quale, insieme con la propria materia, o di storia o di liturgia o di diritto canonico, possa spiegare almeno alcuni degli elementi degli studi orientali. In tal modo, rivolgendo la mente e il cuore degli alunni alle tradizioni e ai riti degli Orientali, ne seguirà necessariamente un vantaggio non lieve, né soltanto a favore degli Orientali, ma degli stessi alunni, i quali, com’è naturale, ne attingeranno una più profonda cognizione della teologia cattolica e della disciplina latina, e insieme concepiranno un più vivo amore per la vera Sposa di Cristo, mentre ne ammireranno la meravigliosa bellezza ed unità nella stessa varietà dei riti, risplendere, in qualche modo, più fulgida. E appunto per la considerazione dei vantaggi che derivano alla causa cristiana dalla formazione dei giovani, quale l’abbiamo descritta, abbiamo stimato Nostro dovere di non badare a fatiche pur di assicurare all’Istituto Orientale, da Noi così confermato, una vita non solo sicurissima ma, per quanto è possibile, florida di sempre nuovi progressi. Perciò non appena Ce ne fu dato modo, gli assegnammo una sede propria presso Santa Maria Maggiore sull’Esquilino destinando all’acquisto e all’adattamento del convento di Sant’Antonio anzitutto una somma che Ci era pervenuta dalla liberalità di un munifico Prelato passato, non è molto, a miglior vita, e di un pio signore degli Stati Uniti di America, per i quali perciò desideriamo e chiediamo la più larga ricompensa dei celesti premi. Né si deve passare sotto silenzio l’aiuto che dalla Spagna Ci è pervenuto per la costruzione, nella nuova sede dello stesso Istituto, di una più ampia e più conveniente biblioteca. Nel lodare questo esempio di liberalità, Noi che per la pratica e l’esperienza di tanti anni passati nella prefettura delle Biblioteche Ambrosiana e Vaticana, possiamo ben comprendere quanto importi fornire questa nuova biblioteca di tutti quei mezzi, dai quali professori e alunni, come da vene nascoste e talora ignorate, ma ricchissime, possano attingere comodamente notizie del mondo orientale e diffonderle a pubblica utilità, senza atterrirCi per le difficoltà, che prevediamo molte e gravi, attenderemo con tutte le forze a procurare quanto riguarda le regioni, usanze, lingue e riti orientali, gratissimi a coloro che, per la devozione che nutrono verso il Vicario di Cristo, con offerte o di denaro, o di libri, o di codici, o di quadri o di altri simili monumenti e orme dell’Oriente cristiano, Ci verranno in aiuto, secondo le loro forze, a compiere un’opera tanto grande. – E di qui, come speriamo, avverrà che le nazioni orientali, vedendo coi propri occhi tanti splendidi monumenti della pietà, della dottrina, delle arti dei loro antenati, per ciò stesso apprenderanno in quale onore sia tenuta dalla Chiesa Romana la vera, la legittima, la perenne « ortodossia » e con quale diligenza sia conservata, difesa e propagata. Da questo spettacolo, come ben si può sperare, come colpiti dal più valido degli argomenti, massime se al vicendevole scambio di studi si aggiunga il motivo della carità di Cristo, perché moltissimi Orientali, ripensando alle glorie avite e deposti i pregiudizi, non dovrebbero affrettarsi a quella desideratissima unità, fondata su una professione di fede, non già mutila, ma intera ed aperta, quale si addice a veri adoratori di Gesù Cristo, che debbono stare uniti in un solo ovile sotto un solo Pastore? – Mentre dunque con i desideri e con le preghiere domandiamo a Dio che presto spunti un giorno sì lieto, potrà essere utile, Venerabili Fratelli, accennare, sia pure brevemente, al metodo con cui presentemente il Nostro Istituto Orientale impiega l’opera e le fatiche sue, secondando i Nostri voleri, per raggiungere un obiettivo così importante. Doppio è il genere di studi cui attendono diligentemente i Professori; l’uno è, per così dire, ristretto nell’ambito delle pareti domestiche, l’altro esce alla luce con pubblicazioni di documenti dell’Oriente cristiano, o fin qui non mai pubblicati, per ingiuria dei tempi dimenticati. – Orbene, per quanto concerne la formazione dei giovani, oltre la teologia dogmatica dei dissidenti, la spiegazione dei Padri orientali, e quanto riguarda l’introduzione scientifica agli studi orientali o la storia, la liturgia, l’archeologia e le altre materie sacre e le varie lingue di quelle nazioni, ricordiamo volentieri e di preferenza che, finalmente, abbiamo potuto aggiungere alle bizantine le istituzioni islamiche, cosa forse non più udita, fino ai nostri tempi, nelle Università romane. Infatti, per un tratto singolare di bontà della divina Provvidenza, potemmo incaricare di questa cattedra utilissima un Professore il quale, Turco di origine, indi, per divina ispirazione, dopo lunghi studi fattosi Cristiano e ordinato sacerdote, ci parve adattissimo a insegnare a quanti eserciteranno il sacro ministero fra i suoi connazionali, il modo di trattare con buon esito la causa di Dio uno indivisibile e della legge evangelica, sia con i meno istruiti come con le persone più colte. – Né di minore importanza, per la diffusione del cattolicesimo e per il conseguimento della legittima unità fra i Cristiani, riescono le opere che si pubblicano per cura e studio dell’Istituto Orientale. Infatti i volumi intitolati «Orientalia Christiana », editi in questi ultimi anni — i più dai Professori dell’Istituto stesso, altri preparati per consiglio dello stesso Istituto da altri studiosi, assai versati in cose orientali — o espongono le condizioni antiche o moderne che riguardano questo o quell’altro popolo e che ai nostri sono per lo più sconosciute; o da documenti finora nascosti traggono nuova luce per illustrare la storia dell’Oriente, e narrano le relazioni, sia dei Monaci orientali, sia degli stessi Patriarchi con questa Sede Apostolica, e le provvidenze dei Pontefici Romani nel tutelarne i diritti e beni; o confrontano e riscontrano con la verità cattolica le sentenze teologiche dei dissidenti intorno alla Chiesa e ai Sacramenti; o illustrano e commentano codici orientali. Infine, per non dilungarci nell’enumerazione, non v’è nulla che tocchi la dottrina, l’archeologia e le altre scienze sacre o che abbia qualche attinenza con la cultura orientale — come, per esempio, le orme della civiltà greca conservatesi nell’Italia meridionale — che a tali uomini sembri alieno dai diligentissimi loro studi. – Stando così le cose, chi mai, riguardando a tanta mole di opere intraprese specialmente a vantaggio degli Orientali, non si sente crescere forte nel cuore la speranza che il benignissimo Redentore degli uomini Cristo Gesù, mosso a pietà della sorte lacrimevole di tanti uomini erranti lungi dal retto sentiero, e favorendo i Nostri sforzi, vorrà finalmente ricondurre le sue pecorelle nell’unico ovile sotto l’unico Pastore? – E ciò massimamente vedendo quanto grande parte della divina Rivelazione si sia religiosamente tra essi conservata: l’ossequio sincero verso il Signor nostro Gesù Cristo, il singolare amore e la pietà verso la purissima sua Madre, l’uso stesso vigente dei Sacramenti. Perciò avendo Iddio nella sua bontà disposto di servirsi del ministero degli uomini, e in ispecie dei Sacerdoti, per compiere l’opera della Redenzione, che altro resta, Venerabili Fratelli, se non di tornare a pregarvi e scongiurarvi il più caldamente che possiamo, affinché non soltanto siate uniti a Noi di mente e di cuore, ma vi adoperiate voi pure, con le fatiche vostre, perché più presto spunti il giorno, da tanto tempo sperato, quando potremo salutare il ritorno non di pochi soltanto, ma della maggior parte dei Greci, degli Slavi, dei Rumeni e delle altre nazioni orientali, fin qui separate, alla pristina unione con la Chiesa Romana? Ripensando a ciò che Noi, con l’aiuto di Dio, abbiamo intrapreso e intendiamo compiere per ottenere più presto tanta consolazione, Ci sembra di poterCi paragonare a quel padre di famiglia, che Gesù ci rappresenta in atto di pregare gli invitati alla cena « che venissero, perché tutto era già apparecchiato » (Luca, XIV, 17). Applicando tali parole al nostro caso, ardentemente esortiamo tutti, e ciascuno di voi in particolare, a voler con ogni mezzo unirvi a Noi nel promuovere gli studi delle cose orientali per realizzare il grande intento. In tal modo, rimossi finalmente tutti gl’impedimenti che si frappongono alla desideratissima unione, sotto gli auspici della Beata Vergine Immacolata Madre di Dio, e dei Santi Padri e Dottori dell’Oriente ed Occidente cristiano, potremo abbracciare, reduci nella casa paterna, i fratelli e figli da sì lungo tempo da noi dissidenti, e ormai a noi strettissimamente uniti da quella carità che posa come sopra solido fondamento sulla verità e sulla intiera professione della legge cristiana. – E affinché alle Nostre iniziative arrida un felicissimo esito, auspice dei doni celesti e a testimonianza della Nostra paterna benevolenza, a voi, Venerabili Fratelli, e a tutto il gregge affidato alle vostre cure, impartiamo con ogni affetto l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 8 del mese di settembre, nella festa della Natività della B. V. M., dell’anno 1928, settimo del Nostro Pontificato.
“Il Sacerdozio cattolico, divino nella sua origine, soprannaturale nella sua essenza, immutabile nel suo carattere, non è tale istituzione che possa accomodarsi alla volubilità delle opinioni e dei sistemi umani (…) Il Sacerdote è sopra tutto costituito maestro, medico e pastore delle anime, e guida ad un fine che non si chiude nei termini della vita presente …. ” – Due espressioni lapidarie che in poche parole riassumono concetti fondamentali nel Cristianesimo come voluti da Cristo, citate dal Sommo Pontefice nel corso di questa lettera Enciclica scritta ai Vescovi italiani perché si adoperassero a formare Sacerdoti santi e guide per portare il popolo alla eterna felicità. Inutile dire, purtoppo che questi auspici forono quasi completamente disattesi da ecclesiastici in gran parte modernisti, tra cui molti erano aderenti in modo occulto, a logge massoniche. I risultati non si fecero attendere, come sappiamo, tanto da profilare l’apostasia massiccia di religiosi, chierici e fedeli, migrati senza battere ciglio, nell’antichiesa conciliabolare, e lo scisma dal Vicario di Cristo, S. S. Gregorio XVII estromesso nel corso del Conclave del 26 ottobre 1958 e sostituito dal designato usurpante massone 33 Roncalli. Se fossero state seguite le indicazioni di Leone XIII, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente, ed il Signore non avrebbe punito così duramente la sua Chiesa con l’eclissarla e farla apparire un baraccone circense (senza offesa per i circensi!) in balia di nocchieri apparentemente ubriachi o francamente impazziti. Ma godiamoci questa lettera scritta in italiano sperando che quanto prima possano tornare utile ad una Chiesa finalmente rinata dalle ceneri spirituali di pazzi dinamitardi che hanno ucciso ed uccidono anime infinite riscattate dal preziosissimo sangue di Cristo.
Leone XIII Fin dal principio
Lettera Enciclica
La formazione del clero in Italia 8 dicembre 1902
Fin dal principio nostro pontificato ponendo Noi mente alle gravi condizioni della società, non tardammo a riconoscere, come uno dei più urgenti doveri dell’Apostolico ufficio fosse quello di rivolgere specialissime cure alla educazione del Clero. Vedevamo infatti che ogni nostro divisamento ad operare nel popolo una restaurazione di vita cristiana sarebbe tornato invano, ove nel ceto ecclesiastico non si serbasse integro e vigoroso lo spirito sacerdotale. Pertanto, mai non cessammo, quanto era da Noi, di provvedervi, sia con opportune istituzioni, sia con parecchi documenti diretti a tale intento. Ed ora una particolare sollecitudine verso il Clero d’Italia Ci muove, Venerabili Fratelli, a trattare ancora una volta un argomento di grande rilievo. Belle invero e continue testimonianze esso ne porge di dottrina, di pietà, di zelo; tra le quali Ci piace di additar con lode l’alacrità onde, secondando l’impulso e la direzione dei Vescovi, coopera al movimento cattolico che Ci è sommamente a cuore. Non possiamo tuttavia dissimulare la preoccupazione dell’animo Nostro al vedere come da qualche tempo vada qua e là serpeggiando una cotal brama d’innovazioni inconsulte, così, rispetto alla formazione, come all’azione multiforme dei sacri ministri. Ora è facile avvisare le gravi conseguenze che sarebbero a deplorarsi, ove a siffatte tendenze innovatrici non si apportasse pronto rimedio. Ond’è che a preservare il clero italiano dalle influenze perniciose dei tempi, stimiamo cosa opportuna, Venerabili Fratelli, richiamare in questa Nostra lettera i veri e invariabili principi che debbono regolare l’educazione ecclesiastica e tutto il sacro ministero. Il Sacerdozio cattolico, divino nella sua origine, soprannaturale nella sua essenza, immutabile nel suo carattere, non è tale istituzione che possa accomodarsi alla volubilità delle opinioni e dei sistemi umani. Partecipazione del sacerdozio eterno di Gesù Cristo, esso deve perpetuare fino alla consumazione dei secoli la missione stessa dal divin Padre affidata al suo Verbo Incarnato: “Sicut misit me Pater, et ego mitto vos” (1Gv XX, 21). Operare la salute eterna delle anime sarà sempre il grande mandato, a cui esso non potrà mai venire meno; come, per fedelmente attuarlo, non dovrà mai cessare di ricorrere a quei soprannaturali presidi e a quelle norme divine di pensiero e di azione che gli diede Gesù Cristo, quando inviava i suoi Apostoli per tutto il mondo a convertire i popoli al Vangelo, Quindi S. Paolo nelle sue lettere vien ricordando, non essere altro il sacerdote che il “legato“, il “ministro di Cristo“, il “dispensatore dei suoi misteri” (2Cor. V, 20; VI, 4; 1Cor IV, 1), e ce lo rappresenta quasi collocato in luogo eccelso (cf. Hb. V,1), quale intermediario fra il ciclo e la terra per trattare con Dio gl’interessi sommi dell’uman genere, che sono quei della vita sempiterna. Tale il concetto che i Libri santi ne danno del Sacerdozio cristiano, cioè di un’istituzione soprannaturale, superiore a tutti gl’istituti terreni e affatto separata da essi come il divino dall’umano. – La stessa alta idea emerge chiara dalle opere dei Padri, dal Magistero dei Romani Pontefici e dei Vescovi, dai decreti dei Concili, dall’unanime insegnamento dei Dottori e delle Scuole cattoliche. Che anzi tutta la tradizione della Chiesa è una voce sola nel proclamare che il Sacerdote è un “altro Cristo”, e che il Sacerdozio “si esercita bensì in terra, ma va meritamente annoverato tra gli ordini del cielo” (S. Io. Chrysostomus, De Sacerdotio, lib. III, n. 4), “poiché gli sono date da amministrare cose del tutto celesti, e gli è conferito un potere che Dio non affidò neppure agli Angeli”; potere e ministero che riguardano il governo delle anime, ossia “l’arte delle arti”. Perciò educazione, studi, costumi, quanto insomma si attiene alla disciplina sacerdotale, venne sempre dalla Chiesa considerato come un tutto a sé, non pur distinto, ma separato altresì dalle ordinarie norme del vivere laicale. – Tal distinzione e separazione deve dunque rimanere inalterata anche ai tempi nostri, e qualunque tendenza ad accomunare o confondere l’educazione e la vita ecclesiastica con la educazione e la vita laicale, ha da giudicarsi riprovata nonché dalla tradizione dei secoli cristiani, ma dalla dottrina stessa apostolica e dagli ordinamenti di Gesù Cristo. – Certamente nella formazione del clero e nel ministero sacerdotale ragion vuole che si abbia riguardo alle varie condizioni dei tempi. Quindi è ben lungi da Noi il pensiero di rigettare quei mutamenti che rendano l’opera del Clero sempre più efficace nella società in mezzo a cui vive; che anzi appunto per tale considerazione Ci è sembrato conveniente di promuovere in esso una più solida e squisita coltura, e di aprire un campo più largo al suo ministero. Ma ogni altra innovazione che potesse recare qualche pregiudizio a ciò ch’è essenziale al Sacerdote, dovrebbe riguardarsi come affatto biasimevole. Il Sacerdote è sopra tutto costituito maestro, medico e pastore delle anime, e guida ad un fine che non si chiude nei termini della vita presente. Ora non potrà egli mai corrispondere appieno a così nobili uffici, se non sia, quant’è mestieri, versato nella scienza delle cose sacre e divine; se non sia fornito a dovizia di quella pietà che ne fa un uomo di Dio; se non ponga ogni cura in avvalorare i suoi insegnamenti colla efficacia dell’esempio, conforme all’ammonimento dato ai sacri pastori dal Principe degli Apostoli: “Forma facti gregis ex animo” (1Pt 5,3). Comunque volgano i tempi, e le condizioni sociali cangino e si tramutino, queste sono le proprie e massime doti che debbono rifulgere nel Sacerdote cattolico, giusta i principi della fede; ogni altro corredo naturale ed umano in certo commendevole, ma non avrà rispetto all’ufficio sacerdotale, che una secondaria e relativa importanza. – Se pertanto è ragionevole e giusto che il Clero si pieghi, fin dove è lecito, ai bisogni dell’età presente, è altresì doveroso e necessario che alla prava corrente del secolo, non che cedere, fortemente resista. E ciò, mentre risponde naturalmente all’alto fine del sacerdozio, vale altresì a renderne più fruttuoso il ministero, crescendogli decoro e procacciandogli rispetto. – Ora è noto pur troppo come lo spirito del naturalismo tenti inquinare ogni parte anche più sana del corpo sociale: spirito che inorgoglisce le menti e le ribella ad ogni autorità; che avvilisce i cuori e li volge alla ricerca dei beni caduchi, trascurati gli eterni. Di questo spirito, così malefico e già troppo diffuso, grandemente è a temere che qualche influsso non possa insinuarsi anche fra gli ecclesiastici, massime fra i meno esperti. Tristi effetti ne sarebbero, il venir meno a quella gravità di condotta, che tanto si addice al Sacerdote; il cedere con leggerezza al fascino di ogni novità; il diportarsi con indocilità pretenziosa verso i maggiori; il perdere quella ponderatezza e misura nel discutere che tanto è necessaria, particolarmente in materia di fede e di morale. Ma effetto ben più deplorevole, perché congiunto col danno del popolo cristiano, ne seguirebbe nel sacro ministero della parola, inducendovi un linguaggio non conforme al carattere di banditore del l’Evangelo. – Mossi da tali considerazioni, Noi sentiamo di dover nuovamente e con più vivo studio raccomandare, che innanzi tutto i Seminari siano con gelosa cura mantenuti nello spirito proprio, così rispetto all’educazione della mente come a quella del cuore. – Non si perda giammai di vista, ch’essi sono esclusivamente destinati a preparare i giovani non ad uffici umani, per quanto legittimi ed onorevoli, ma all’alta missione, poc’anzi accennata, di ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1). – Da tale riflesso, tutto soprannaturale, sarà sempre agevole, come notammo già nella Enciclica al Clero di Francia data l’8 settembre 1899, ritrarre norme preziose non pure per la retta formazione dei chierici, ma per allontanare altresì dagl’Istituti, nei quali si educano, ogni pericolo così interno come esterno, d’ordine morale o religioso. – Rispetto agli studi, poiché il clero non dev’essere estraneo agli avanzamenti d’ogni buona disciplina, si accetti pure quanto di veramente buono ed utile si riconosca negl’innovati metodi: ogni tempo suole contribuire al progresso del sapere umano, Però vogliamo che su tal proposito siano ben ricordate le prescrizioni Nostre intorno allo studio delle lettere classiche, e principalmente della Filosofia, della Teologia, e delle scienze affini: prescrizioni che demmo in più documenti, massime nella detta Enciclica, di cui Ci piace perciò trasmettere a voi un esemplare. unito alla presente. – Sarebbe al certo desiderabile che i giovani ecclesiastici potessero tutti com’è dovere, fornire il corso degli studi sempre all’ombra dei sacri Istituti. Ma poiché gravi ragioni talora consigliano che alcuni di essi frequentino le pubbliche Università, non si dimentichi con quali e quante cautele i Vescovi debbano ciò loro permettere. Vogliamo del pari che si insista sulla fedele osservanza delle norme contenute in altro più recente documento, in special modo per quanto concerne le letture od altro che potesse dare occasione ai giovani di prender parte comecchessia ad agitazioni esterne. Così gli alunni dei Seminari, facendo tesoro di un tempo prezioso è colla massima tranquillità degli animi, potranno raccogliersi tutti intorno a quegli studi che li rendono maturi ai grandi doveri del sacerdozio, singolarmente al ministero della predicazione e delle confessioni. Ben si rifletta, quanto grave sia la responsabilità di quei Sacerdoti che, in tanto bisogno del popolo cristiano, trascurano di prestar l’opera propria nell’esercizio di questi sacri ministeri; e di coloro altresì che non vi portano una illuminata operosità: sì gli uni come gli altri mal corrispondono alla propria vocazione in cosa che troppo importa alla salute delle anime. E qui dobbiamo richiamare l’attenzione vostra, Venerabili Fratelli, sulla speciale Istruzione che volemmo data in ordine al ministero della divina parola; e desideriamo che se ne traggano più copiosi frutti. Rispetto poi al ministero delle confessioni, si rammenti quanto severe suonino le parole del più insigne e mite dei moralisti verso coloro che non dubitano di sedere inetti nel tribunale dipendenza; e come non meno severo sia il lamento dell’insigne Pontefice Benedetto XIV, che poneva tra le maggiori calamità della Chiesa il difetto nei confessori di una scienza teologica morale qual s’addice alla gravità di così santo ufficio. – Ma al nobile scopo di preparare degni ministri del Signore è necessario, Venerabili Fratelli, che sia volto, e con sempre maggior vigore e vigilanza, oltre l’ordinamento scientifico, anche il disciplinare e l’educativo dei vostri Seminari. – Non vi si accolgano che giovani i quali offrano fondate speranze di voler consacrarsi in perpetuo al ministero ecclesiastico.Si tengano segregati dal contatto e più dalla convivenza con giovani non aspiranti al sacerdozio: tale comunanza potrà per giuste e gravi cause tollerarsi a tempo e con singolari cautele, finché non sia dato di pienamente provvedere, conforme allo spirito della disciplina ecclesiastica. Si rimandino quanti nel corso della loro educazione manifestassero tendenze meno convenevoli alla vocazione sacerdotale, e nell’ammettere i chierici agli Ordini sacri si usi somma ponderazione, giusta l’ammonimento gravissimo di San Paolo a Timoteo: “Manus cito nemini ìmposueris” (1 Tm V, 22). In tutto ciò conviene posporre qualsiasi altra considerazione, che sarebbe sempre da ritenersi inferiore a quella rilevantissima della dignità del sacro ministero. Importa poi grandemente, che a formare negli alunni del santuario un’immagine viva di Gesù Cristo, nel che si assomma tutta l’educazione ecclesiastica, i moderatori e gl’insegnanti alla diligenza e alla perizia propria del loro ufficio congiungano l’esempio di una vita al tutto sacerdotale. La condotta esemplare di chi presiede, massime ai giovani, è il linguaggio più eloquente e persuasivo per ispirare negli animi loro il convincimento dei propri doveri e l’amore al bene. Un’opera di tanto rilievo richiede principalmente dal direttore di spirito prudenza non ordinaria e cure indefesse; onde un tale ufficio, che desideriamo non manchi in verun Seminario, vuol essere affidato ad ecclesiastico molto esperto nelle vie della perfezione cristiana. – Ed a lui non sarà mai abbastanza raccomandato d’infondere e coltivare negli alunni colla maggiore sodezza quella pietà la quale è per tutti feconda, ma specialmente per il clero, di utilità inestimabili (cf. 1Tm IV, 7-8). Perciò sia egli sollecito di premunirli altresì da un pernicioso inganno, non infrequente tra i giovani, cioè di lasciarsi talmente prendere all’ardore degli studi, da non curar poi a dovere il proprio avanzamento nella scienza dei Santi, Quanto più la pietà avrà messo radici profonde nei chierici, tanto meglio saranno temprati a quel forte spirito di sacrificio, ch’è al tutto necessario per zelare la gloria divina e la salvezza delle anime. – Non mancano, la Dio mercé, nel clero italiano Sacerdoti che diano nobili prove di quanto possa un ministro del Signore, penetrato di siffatto spirito, mirabile la generosità di quei tanti che per dilatare il regno di Gesù Cristo, corrono volenterosi in lontane terre ad incontrare fatiche, privazioni e stenti d’ogni maniera, ed anche il martirio. – Di questa guisa, scorto da provvide ed amorevoli cure nella conveniente coltura dello spirito e dell’ingegno, verrà a grado a grado formandosi il giovane levita, quale lo richiedono la santità della sua vocazione ed i bisogni del popolo cristiano. Il tirocinio in verità non è breve; eppure vorrà essere protratto anche oltre il tempo del Seminario. Conviene infatti che i giovani Sacerdoti non siano lasciati senza guida nelle prime fatiche, ma vengano confortati dalla esperienza dei più provetti che ne maturino lo zelo, la prudenza, e la pietà; ed è spediente altresì che, ora con esercitazioni accademiche, ora con periodiche conferenze, si allarghi l’uso di tenerli continuamente esercitati negli studi sacri. È manifesto, Venerabili Fratelli, che quanto abbiamo sin qui raccomandato, lungi dal menomamente nuocere, giova anzi in singolare modo a quella operosità sociale del Clero, da Noi in più occasioni inculcata come necessaria al nostri giorni. Poiché coll’esigere la fedele osservanza delle norme da Noi richiamate, si viene a tutelare ciò che di siffatta operosità dev’essere l’anima e la vita. – Ripetiamo dunque anche qui, e più altamente, esser mestieri che il Clero vada al popolo cristiano, insidiato da ogni parte, e con ogni sorta di fallaci promesse adescato segnatamente dal socialismo ad apostatare dalla fede avita; subordinando però tutti la propria azione all’autorità di coloro, “cui lo Spirito Santo ha costituito Vescovi per reggere la Chiesa di Dio”; senza di che seguirebbe confusione e disordine gravissimo, a detrimento anche della causa che hanno a difendere e a promuovere. – Anzi a tal fine desideriamo che i candidati al sacerdozio, sul termine della loro educazione nei Seminari, vengano convenientemente ammaestrati nei documenti pontifici che riguardano la questione sociale e la democrazia cristiana, astenendosi peraltro, come più sopra abbiamo detto, dal prendere qualsiasi parte al movimento esterno. Fatti poi Sacerdoti si volgano con particolare studio al popolo, stato sempre l’oggetto delle più amorose cure della Chiesa, Togliere i figli del popolo alla ignoranza delle cose spirituali ed eterne, e con industriosa amorevolezza avviarli ad un vivere onesto e virtuoso; raffermare gli adulti nella Fede dissipandone i contrari pregiudizi, e confortarli alla pratica della vita cristiana; promuovere tra il laicato cattolico quelle istituzioni che si riconoscano veramente efficaci al miglioramento morale e materiale delle moltitudini; propugnare sopra tutto i principi di giustizia e carità evangelica, nei quali trovano equo temperamento tutti i diritti e i doveri della civile convivenza: tale è nelle precipue sue parti il nobile compito della loro azione sociale. Ma abbiano sempre presente, che anche in mezzo al popolo il Sacerdote deve serbare integro il suo augusto carattere di ministro di Dio, essendo esposto a capo dei fratelli, principalmente “animarum causa” ( S. Gregorio M., Regula Past.. parte II, e. VII.). Qualsivoglia maniera di occuparsi del popolo, a scapito della dignità sacerdotale, con danno dei doveri e della disciplina ecclesiastica, non potrebbe esser che altamente riprovata. – Ecco quanto, Venerabili Fratelli, la coscienza dell’Apostolico ufficio C’imponeva di far rilevare, considerate le condizioni odierne del Clero d’Italia. Non dubitiamo, che in cosa di tanta gravità ed importanza, alla sollecitudine Nostra voi saprete congiungere le più solerti ed amorose industrie del vostro zelo, ispirandovi specialmente ai luminosi esempi del grande Arcivescovo, San Carlo Borromeo. Pertanto a dare effetto a queste Nostre prescrizioni, avrete cura di farne argomento delle vostre regionali Conferenze, e di consigliarvi su quei provvedimenti pratici che secondo i particolari bisogni delle singole Diocesi vi sembreranno più opportuni. Ai divisamenti ed alle deliberazioni nostre non mancherà, ove sia d’uopo, il presidio della Nostra autorità. – Ed ora con parola che ne viene spontanea dall’intimo del Nostro cuore paterno, Ci volgiamo a voi, quanti siete sacerdoti d’Italia, raccomandando a tutti e a ciascuno, che mettiate ogni impegno nel corrispondere sempre più degnamente allo spirito proprio della vostra eccelsa vocazione. A voi ministri del Signore diciamo con più ragione che non disse S, Paolo ai semplici fedeli: “Obsecro itaque vos ego vinctus in Domino, ut digne ambuletis vocatione, qua vocati estis” (Eph IV,1). L’amore della comune Madre la Chiesa rinsaldi e rinvigorisca tra voi quella Concordia di pensiero e di azione, che raddoppia le forze e rende più feconde le opere. In tempi tanto infesti alla Religione e alla società, quando il Clero di ogni nazione è chiamato ad unirsi compatto per la difesa della fede e della morale cristiana, si appartiene a voi, figli dilettissimi, cui particolari vincoli congiungono a questa sede Apostolica, precedere a tutti gli altri con l’esempio, ed essere i primi nella illimitata obbedienza alla voce e ai comandi del Vicario di Gesù Cristo. – Così le benedizioni di Dio scenderanno copiose, quali Noi le invochiamo, a mantenere il Clero d’Italia sempre degno delle illustri sue tradizioni. – Auspice intanto dei divini favori sia l’apostolica benedizione, che a voi, Venerabili Fratelli, ed a tutto il Clero alle vostre cure affidato, con effusione di cuore impartiamo.
Dato a Roma, presso S. Pietro, nel dì sacro alla Immacolata Concezione di Maria, 8 Dicembre 1902, anno vigesimo quinto del Nostro Pontificato.