UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO XI – “ECCLESIAM DEI”

Questa lettera Enciclica indirizzata particolarmente ai Vescovi orientali, i così detti “uniati”, celebra le lodi del loro Santo martire S. Josafat nel terzo centenario del suo martirio. È un inno all’unità della Chiesa Cattolica sotto la guida di un unico pastore, il Vicario di Cristo, il successore del Principe degli Apostoli s. Pietro. Cenni storici, riferimenti dottrinali scritturali, momenti apologetici si fondono in un amalgama unitario in cui si sottolinea la natura divina della Chiesa governata da un unico Pastore in unico ovile secondo la volontà del divino fondatore e Redentore che per essa ha versato tutto il suo preziosissimo sangue. Ancora oggi questa lettera per noi è un monito ed un monumento dottrinale prezioso per comprendere la necessità dell’unica guida spirituale resa infallibile dall’opera dello Spirito Santo che la anima sovrannaturalmente. Questa Chiesa che dopo aver perso tanta umanità, anglicani, ortodossi, protestanti, si trova oggi ridotta ad un pugno di anime, il piccolo gregge di evangelica memoria, senza poter contare su di una guida liberamente operante dopo lo scisma della setta apostatica formata dall’eresiarca Montini e dal suo seguito del conciliabolo Vaticano e dell’idolo pachamana …. Castigo maggiore il Signore non poteva comminarci per punire la nostra infedeltà e gli infiniti disprezzi delle grazie elargite alla Chiesa e ai fedeli, nonostante la beatitudine celeste promessa e raggiungibile con uno sforzo minimo. Ritorniamo a Dio, non ad un Dio astratto, ma ad un Dio che ci chiama nella sua vera Chiesa onde operare nel mondo secondo l’autentico Spirito evangelico. Che San Giosafat ci aiuti a ritrovare questo spirito unitario per convogliarci tutti nell’unico ovile sotto un solo Pastore.

LETTERA ENCICLICA

ECCLESIAM DEI
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA,
IN OCCASIONE DEL
TRECENTESIMO ANNIVERSARIO DEL MARTIRIO DI
SAN GIOSAFAT, ARCIVESCOVO DI POLOTSK

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

La Chiesa di Dio, per ammirabile provvidenza, fu costituita in modo da riuscire nella pienezza dei tempi come un’immensa famiglia, che abbracci l’universalità del genere umano, e perciò, come sappiamo, fu resa divinamente manifesta, tra le altre sue note caratteristiche, per mezzo dell’unità ecumenica. Giacché Cristo Signor nostro non si appagò di affidare ai soli Apostoli la missione che Egli aveva ricevuta dal Padre, quando disse: « È data a me ogni potestà in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le genti » [1], ma volle pure che il Collegio apostolico fosse perfettamente uno, con doppio e strettissimo vincolo: intrinseco l’uno, con la stessa fede e carità che « è diffusa nei cuori … dallo Spirito Santo » [2]; l’altro estrinseco col regime di uno solo sopra tutti, avendo a Pietro affidato il primato sugli altri Apostoli come a perpetuo principio e visibile fondamento di unità. Quest’unità, al chiudersi della sue vita mortale, Egli con somma premura raccomandò loro; questa stessa, con ardentissime preci, domandò al Padre, e l’impetrò, « esaudito per la sua riverenza ». Pertanto la Chiesa si formò e si accrebbe in « un corpo unico » animato e vigoroso di un medesimo spirito, del quale poi « è capo Cristo, da cui tutto il corpo è compaginato e connesso per via di tutte le giunture di comunicazione »; e di esso per questa stessa ragione, è capo visibile colui che di Cristo tiene in terra le veci, il Pontefice Romano. In lui, come successore di Pietro, si avvera perpetuamente quella parola di Cristo: « Su questa pietra edificherò la mia Chiesa » ; ed egli, perpetuamente esercitando quell’ufficio che a Pietro fu affidato, non cessa mai di confermare, ove sia necessario, nella fede i suoi fratelli e di pascere tutti gli agnelli e le pecorelle del gregge del Signore. Orbene nessun’altra prerogativa mai « l’uomo nemico » avversò più ostilmente che l’unità di governo nella Chiesa, come quella cui va congiunta, « nel vincolo della pace », l’unità dello spirito; e se il nemico non poté giammai prevalere contro la Chiesa stessa, ottenne nondimeno di strappare dal seno di lei non piccolo numero di figli, e perfino popoli interi. A sì gran danno non poco conferirono sia le lotte delle nazionalità fra di loro, sia le leggi contrarie alla religione e alla pietà, sia anche l’amore soverchio ai beni perituri della terra. – Fra tutte la maggiore e la più lagrimevole fu la separazione dei Bizantini dalla Chiesa ecumenica. Sebbene fosse sembrato che i Concilii di Lione e di Firenze potessero porvi rimedio, tuttavia essa si rinnovò successivamente e perdura tuttora con immenso danno per le anime. Vediamo quindi come furono traviati e andarono, perduti, insieme con altri, gli Slavi orientali, benché questi fossero rimasti più a lungo degli altri nel seno della madre Chiesa. Si sa, infatti, che essi mantennero ancora qualche relazione con questa Sede Apostolica, anche dopo lo scisma di Michele Cerulario: e queste relazioni, interrotte dalle invasioni dei Tartari e dei Mongoli furono riprese successivamente e continuarono sin tanto che non ne furono impediti dalla caparbietà ribelle dei potenti. Ma in questa causa i Romani Pontefici nulla omisero di quanto spetta al loro ufficio; anzi alcuni di essi presero a cuore in modo speciale la salvezza degli Slavi orientali. Così Gregorio VII mandò con benignissima lettera auguri d’ogni celeste benedizione al principe di Kiev, « a Demetrio, re dei Russi ed alla regina sua consorte » negli inizi del loro regno, su richiesta del loro figlio presente in Roma. Così Onorio III inviò suoi legati alla città di Novgorod; e lo stesso fece Gregorio IX e, non molto dopo, Innocenzo IV, il quale vi spedì come legato un uomo di animo grande e forte, Giovanni da Pian del Carpine, lustro della famiglia francescana. Il frutto di tanta sollecitudine dei Nostri Predecessori si vide nell’anno 1255, quando si ebbe il ristabilimento della concordia e dell’unità, ed a celebrarlo a nome del Pontefice, e per sua autorità, il legato di lui, l’abate Opizone, incoronò, con solenne pompa, Daniele, figlio di Romano. E così, secondo la veneranda tradizione e le usanze più antiche degli Slavi Orientali, si ottenne che al Concilio di Firenze, Isidoro, Metropolita di Kiev e di Mosca, Cardinale della Santa Romana Chiesa, anche a nome e nella lingua dei suoi connazionali, promise di conservare santa e inviolata l’unità cattolica nella fede della Sede Apostolica. Pertanto questa restaurazione dell’unità durò a Kiev per molti anni; ma vi si aggiunsero poi nuove ragioni di rottura coi rivolgimenti politici, maturatisi negli inizi del secolo XVI. Senonché fu di nuovo felicemente rinnovata nel 1595, e l’anno successivo, al Concilio di Brest, promulgata per opera del metropolita di Kiev e di altri Vescovi Ruteni. Clemente VIII li accolse con ogni affetto, e pubblicando la costituzione «Magnus Domini » invitò tutti i fedeli a rendere grazie a Dio, « il quale ha sempre pensieri di pace, e vuole che tutti gli uomini siano salvi e pervengano alla conoscenza della verità ». – Ma perché tali unità e concordia si perpetuassero, Iddio, sommamente provvido, le volle consacrare, per così dire, col sigillo della santità e del martirio. Un così grande vanto è toccato a San Giosafat, Arcivescovo di Polotsk, di rito slavo orientale, che a buon diritto va riconosciuto come gloria e sostegno degli Slavi Orientali, poiché a fatica si troverà un altro che abbia dato al loro nome un lustro maggiore, o che meglio abbia provveduto alla loro salute, di questo loro Pastore ed Apostolo, specialmente per aver egli versato il proprio sangue per l’unità della santa Chiesa. Ricorrendo dunque il trecentesimo anniversario del suo gloriosissimo martirio, Ci è sommamente caro rinnovare la memoria di un così grande personaggio, affinché il Signore, invocato dalle suppliche più fervorose dei buoni, « susciti nella sua Chiesa quello spirito, di cui il beato Martire e Pontefice Giosafat era ripieno… tanto che diede la sua vita per le sue pecorelle », così che, crescendo tra il popolo lo zelo nel promuovere l’unità, ne abbia incrementato l’opera che gli fu tanto a cuore, finché si avveri quella promessa di Cristo e insieme il desiderio di tutti i Santi, che « vi sia un solo ovile ed un solo Pastore » . -Egli nacque da genitori separati dall’unità, ma, religiosamente battezzato col nome di Giovanni, incominciò fin dall’età più tenera a coltivare la pietà; e mentre seguiva lo splendore della liturgia slava, cercava soprattutto la verità e la gloria di Dio: e per questo, non per impulso di ragioni umane, si rivolse, fanciulletto ancora, alla comunione della Chiesa ecumenica, cioè cattolica, a cui giudicava di essere già destinato per la stessa validità del suo battesimo. Anzi, sentendosi mosso da ispirazione divina a ristabilire dappertutto la santa unità, comprese che molto avrebbe giovato a ciò il ritenere nell’unione con la Chiesa cattolica il rito orientale slavo e l’istituto monastico Basiliano. Perciò, accolto nell’anno 1604 fra i monaci di San Basilio, e mutato il nome di Giovanni in quello di Giosafat, si consacrò interamente all’esercizio di tutte le virtù, specialmente della pietà e della penitenza, dimostrando sempre un singolare amore per la Croce: amore che fino dai primi anni egli aveva concepito dalla contemplazione di Gesù Crocifisso. Così il metropolita di Kiev, Giuseppe Velamin Rutsky, il quale era a capo di quello stesso monastero in qualità di archimandrita, testimonia che « egli in breve tempo fece tali progressi nella vita monastica da poter esser maestro agli altri ». Sicché, appena ordinato sacerdote, Giosafat si vide eletto a governare il monastero in qualità di archimandrita. Nell’esercizio di tale ufficio non solo si adoperò a mantenere e a difendere il monastero e l’attiguo tempio, assicurandoli contro gli assalti nemici, ma inoltre, avendoli trovati pressoché abbandonati dai fedeli, fece di tutto per farli nuovamente frequentare dal popolo cristiano. E in pari tempo, avendo anzitutto a cuore l’unione dei suoi concittadini con la cattedra di Pietro, cercava da ogni parte argomenti giovevoli a promuoverla e a consolidarla, principalmente studiando quei libri liturgici che gli Orientali, e i dissidenti stessi, sono soliti usare secondo le prescrizioni dei Santi Padri. – Premessa una così diligente preparazione, egli si accinse quindi a trattare, con forza e soavità insieme, la causa della restaurazione dell’unità, ottenendo frutti così copiosi da meritare dagli stessi avversari il titolo di « rapitore delle anime ». Ed è veramente mirabile il gran numero delle anime da lui condotte all’unico ovile di Gesù Cristo, da tutti gli ordini e da tutte le classi sociali, plebei, negozianti, cavalieri, e anche prefetti e governatori di province, come narrano del Sokolinski di Polotsk, del Tyszkievicz di Novogrodesc, del Mieleczko di Smolensk. Ma ad un campo ben più vasto ancora estese il suo apostolato, quando venne nominato vescovo a Polotsk: apostolato che doveva essere di una straordinaria efficacia, mentre egli offriva l’esempio di una vita di somma castità, povertà e frugalità ed insieme di tanta liberalità verso gli indigenti da giungere fino ad impegnare l’omophorion per sovvenire alla loro miseria. Nel frattempo si manteneva rigidamente nell’ambito della religione, non occupandosi minimamente di negozi politici, sebbene a lui non mancassero più d’una volta grandi sollecitazioni ad ingerirsi delle cure e delle lotte civili, mentre infine si sforzava, con lo zelo insigne d’un Vescovo santissimo, ad inculcare senza posa, con la parola e con gli scritti, la verità. Egli infatti pubblicò diversi scritti, da lui redatti in forma del tutto adatta all’indole del suo popolo, quali sul primato di San Pietro, sul battesimo di San Vladimiro, un’apologia dell’unità cattolica, un catechismo fatto sul metodo del beato Pietro Canisio, ed altri simili. Siccome poi insisteva molto nell’esortare alla diligenza del proprio ufficio l’uno e l’altro clero, ridestatosi nei sacerdoti lo zelo del loro ministero, riuscì ad ottenere che il popolo, debitamente ammaestrato nella dottrina cristiana e nutrito da un’appropriata predicazione della parola di Dio, si avvezzasse a frequentare i Sacramenti e le sacre funzioni e si desse ad un tenore di vita sempre più corretta. E così, ampiamente diffuso lo spirito di Dio, San Giosafat consolidò stupendamente l’opera dell’unità, a cui si era dedicato. Ma soprattutto allora egli la consolidò, e consacrò anzi, quando per essa incontrò il martirio, e l’incontrò col più vivo entusiasmo e con la magnanimità più mirabile. Al martirio sempre pensava, spesso ne parlava. Il martirio si augurò in una celebre predica. Il martirio ardentemente domandava a Dio quale singolare beneficio, tanto che, pochi giorni prima della morte, quando fu avvertito delle insidie che gli si macchinavano: « Signore — disse — concedimi di poter versare il sangue per l’unità e per l’obbedienza della Sede Apostolica ». Il suo desiderio fu appagato la domenica 12 novembre 1623 quando, circondato dai nemici che andavano in cerca dell’Apostolo dell’unità, egli si fece loro incontro sorridente e benigno, e pregatili, ad esempio del suo Maestro e Signore, che non toccassero i suoi familiari, si diede da sé nelle loro mani; e mentre veniva crudelissimamente ferito, non cessò sino all’estremo di invocare il perdono di Dio sopra i suoi uccisori. – Grandi furono i vantaggi di un così famoso martirio, soprattutto tra i Vescovi Ruteni che ne trassero vivo esempio di fermezza e coraggio, come essi stessi attestarono, due mesi dopo, in una lettera spedita alla Sacra Congregazione di Propaganda: « Ci offriamo prontissimi a dare il sangue e la vita per la fede cattolica, come la diede già uno di noi ». Inoltre moltissimi, e fra questi gli uccisori stessi del Martire, fecero ritorno, subito dopo, al seno dell’unica Chiesa. – Il sangue dunque di San Giosafat, come tre secoli fa, anche e specialmente ora riesce pegno di pace e suggello di unità: specialmente ora, diciamo, dopo che quelle sfortunate province slave, sconvolte da torbidi e da sommosse, sono state insanguinate da guerre furiose e spietate. E a Noi sembra di udire la voce di quel sangue, « che parla meglio di quello di Abele », e di vedere quel martire rivolgersi ai fratelli Slavi ripetendo, come un tempo, con le parole di Gesù: « Le pecorelle giacciono senza pastore. Ho compassione di questa moltitudine ». E veramente, quanto miseranda è la loro condizione! Quanto terribili le loro angustie! Quanti esuli dalla patria! Quanta strage di corpi e quanta rovina di anime! Osservando le presenti calamità degli Slavi, certamente assai più gravi di quelle ch’ebbe a lamentare il nostro Santo, a stento Ci riesce, per il nostro affetto paterno, di frenare le lacrime. – Ad alleviare sì grande cumulo di miserie, Noi, per parte Nostra, Ci affrettammo, è vero, a recare soccorsi ai bisognosi, senza alcuna mira umana, senza far altra distinzione che non fosse quella della più stringente necessità. Ma la Nostra possibilità non poté arrivare a tutto. Anzi, non potemmo impedire che si moltiplicassero le offese contro la verità e la virtù, col disprezzo di ogni sentimento religioso, con il carcere e con la persecuzione, in più luoghi anche sanguinosa, dei Cristiani e degli stessi Sacerdoti e Vescovi. – Nella considerazione di tanti mali, Ci conforta non poco la solenne commemorazione dell’insigne Pastore degli Slavi, perché Ci porge propizia l’occasione di manifestare i sentimenti paterni che Ci animano verso tutti gli Slavi Orientali e di mettere loro dinanzi, come la sintesi di tutti i beni, il ritorno all’unità ecumenica della santa Chiesa. – Mentre invitiamo i dissidenti a tale unità, desideriamo ardentemente che tutti i fedeli, seguendo le orme e gli insegnamenti di San Giosafat, si studino, ciascuno secondo le proprie forze, a cooperare con Noi. Ed essi intendano bene che tale unità, meglio che con le discussioni e altri stimoli, è da promuovere con gli esempi e le opere di una vita santa, specialmente con la carità verso i fratelli Slavi e verso gli altri Orientali, secondo ciò che dice l’Apostolo, « avendo la stessa carità, una sola anima, uno stesso sentimento, senza nulla fare per ripicca o per vanagloria; ma per umiltà l’uno creda l’altro superiore a sé, badando ognuno non a ciò che torna bene per lui ma a quello che torna bene per gli altri ». A questo fine, come è necessario che gli Orientali dissidenti, deponendo antichi pregiudizi, procurino di conoscere la vera vita della Chiesa, senza voler imputare alla Chiesa Romana le colpe dei privati, colpe che essa per la prima condanna e cerca di correggere; così i Latini cerchino di conoscere meglio e più profondamente la storia e i costumi degli Orientali; perché appunto da quest’intima conoscenza derivò sì grande efficacia all’apostolato di San Giosafat. – Questo fu il motivo per cui cercammo di promuovere con rinnovato ardore l’Istituto Pontificio Orientale, fondato dal compianto Nostro Predecessore Benedetto XV, persuasi che dalla retta conoscenza dei fatti sorgerà il giusto apprezzamento degli uomini e parimenti quella schietta benevolenza, la quale, congiunta alla carità di Cristo, con l’aiuto di Dio, gioverà moltissimo all’unità religiosa. – Animati da tale carità, tutti sperimenteranno quanto l’Apostolo divinamente ispirato insegna: «Non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, perché egli è il Signore di tutti, ricco verso tutti coloro che l’invocano ». E, ciò che più importa, ubbidendo scrupolosamente al medesimo Apostolo, non solo deporranno i pregiudizi, ma anche le vane diffidenze, i rancori e gli odii: in una parola, tutte quelle animosità così contrarie alla carità cristiana, che dividono tra di loro le nazioni. Avverte infatti lo stesso San Paolo: «Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo creatore. Qui non c’è più Gentile e Giudeo … Barbaro e Scita, servo e libero, ma Cristo è tutto in tutti ». – In tal modo, con la riconciliazione degli individui e dei popoli, si otterrà anche l’unione della Chiesa col ritorno al suo seno di tutti quelli che, per qualsivoglia motivo, se ne separarono. E il compimento di tale unione avverrà non già per l’impegno umano, ma per bontà, di quel solo Dio che « non fa preferenza di persone », e che « non fece differenza alcuna tra noi e loro »; e così, uniti tra essi, godranno degli stessi diritti tutti i popoli, di qualunque schiatta o lingua, e quali si siano i loro riti sacri; riti che la Chiesa Romana sempre venerò e ritenne religiosamente, decretandone anzi la conservazione ed ornandosene come di vesti preziose, quasi « regina in manto d’oro con varietà d’ornamenti ». – Ma siccome questo accordo di tutti i popoli nell’unità ecumenica è anzitutto opera di Dio, e perciò da doversi procurare con l’aiuto e l’assistenza divina, ricorriamo con ogni diligenza alla preghiera, seguendo in ciò gli insegnamenti e gli esempi di San Giosafat, il quale nel suo apostolato per l’unità confidava soprattutto nel valore dell’orazione. – E sotto la guida e col patrocinio di lui, veneriamo con culto speciale il Sacramento dell’Eucaristia, pegno e causa principale dell’unità, quel mistero della fede per la quale quegli Slavi Orientali, che nella separazione dalla Chiesa Romana conservarono gelosamente l’amore e lo zelo, riuscirono ad evitare l’empietà delle peggiori eresie. Da qui è lecito sperare il frutto che la santa madre Chiesa domanda con pia fiducia nella celebrazione di questi augusti misteri, cioè che « Iddio conceda propizio i doni dell’unità e della pace, che misticamente vengono simboleggiati nelle oblazioni fatte all’Altare ». E questa grazia unitamente implorano nel santo Sacrificio della Messa i Latini e gli Orientali: questi « pregando il Signore per l’unità di tutti », quelli col supplicare lo stesso Cristo Signor nostro che « riguardando alla fede della sua Chiesa, si degni di pacificarla e unificarla secondo la sua volontà ». – Un altro vincolo di reintegrazione dell’unità con gli Slavi Orientali sta nella loro devozione singolare verso la gran Vergine Madre di Dio, in forza della quale molti si allontanano dall’eresia e si avvicinano maggiormente a noi. E in questa devozione, nella quale si segnalava assai, il nostro Santo altrettanto confidava moltissimo per favorire l’opera dell’unità: onde soleva con particolare venerazione onorare, all’usanza degli Orientali, una piccola icona della Vergine Madre di Dio, la quale dai Monaci Basiliani e dai fedeli di qualsiasi rito, anche in Roma nella chiesa dei santi Sergio e Bacco, è molto venerata con il titolo di « Regina dei pascoli ». Lei, dunque, invochiamo, quale benignissima Madre, con questo titolo specialmente, perché guidi i fratelli dissidenti ai pascoli della salute, dove Pietro, sempre vivente nei suoi successori, come Vicario dell’eterno Pastore, pasce e governa tutti gli agnelli e tutte le pecorelle del gregge di Cristo. – Infine, ai Santi tutti del Cielo ricorriamo come a nostri intercessori per una grazia così grande, a quelli soprattutto che presso gli Orientali maggiormente fiorirono un tempo per fama di santità e di sapienza, e fioriscono tuttora per venerazione e culto dei popoli. Ma primo fra tutti invochiamo a patrono San Giosafat, perché, come fu in vita fortissimo propugnatore dell’unità, così ora presso Dio la promuova e vigorosamente la sostenga. E così Noi lo preghiamo le supplichevoli parole del Nostro antecessore di immortale memoria, Pio IX: « Dio voglia che quel tuo sangue, o San Giosafat, che tu versasti per la Chiesa di Cristo, sia pegno di quell’unione con questa Santa Sede Apostolica, a cui tu sempre anelasti, e che giorno e notte implorasti con fervida preghiera da Dio, somma Bontà e Potenza. E perché tanto si avveri alfine, vivamente desideriamo di averti intercessore assiduo presso Dio stesso e la Corte del Cielo ».

Auspice dei divini favori e a testimonianza della Nostra benevolenza, impartiamo con ogni affetto Venerabili Fratelli, a voi, al clero e al popolo vostro l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro il 12 novembre 1923, anno secondo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. BENEDETTO XV – “IN PRÆCLARA SUMMORUM”

Questa volta non è un gran Santo della Chiesa e della fede cattolica, ad essere l’oggetto della lettera Enciclica del Sommo Pontefice, bensì il poeta medioevale Dante Alighieri nel centenario della sua morte. Il Sommo Pontefice rivendica l’importanza del poeta nel diffondere alcuni principi della religione cattolica enunciati nella sua Commedia. Su altri particolari sorvola o li scusa con indulgenza forse eccessiva, senza spiegare perché ad esempio il poeta fuggisse ramingo per tutto il territorio nazionale, la sua devozione all’imperatore e l’avversione per il potere pontificio con tanto di Papi collocati nel fondo degli inferi, e parteggiante per gli eretici “fraticelli”, senza volere approfondire nel contempo opere di dubbia morale cristiana come il Convivio o il De Monarchia, senza contare la sua “ispirazione” ultraterrena presa di sana pianta da un poema arabo a lui di poco precedente di Ibn al Arabi. Ma nel complesso, senza andare troppo per il sottile come per un’operazione di canonizzazione, di enunciati dottrinali o  teologici, viene enucleata gran parte del fondamento della fede cattolica dell’epoca in parte riferita a San Tommaso l’aquinate. Una lettura godibile che rinfresca memorie letterarie giovanili e riporta alla mente verità dogmatiche eterne.

LETTERA ENCICLICA
IN PRÆCLARA SUMMORUM

DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XV
AI DILETTI FIGLI PROFESSORI ED ALUNNI
DEGLI ISTITUTI LETTERARI E DI ALTA CULTURA
DEL MONDO CATTOLICO
IN OCCASIONE DEL VI CENTENARIO DELLA MORTE
DI DANTE ALIGHIERI

Diletti figli, salute e Apostolica Benedizione.

Nella illustre schiera dei grandi personaggi, che con la loro fama e la loro gloria hanno onorato il Cattolicesimo in tanti settori ma specialmente nelle lettere e nelle belle arti, lasciando immortali frutti del loro ingegno e rendendosi altamente benemeriti della civiltà e della Chiesa, occupa un posto assolutamente particolare Dante Alighieri, della cui morte si celebrerà tra poco il sesto centenario. Mai, forse, come oggi fu posta in tanta luce la singolare grandezza di questo uomo, mentre non solo l’Italia, giustamente orgogliosa di avergli dato i natali, ma tutte le nazioni civili, per mezzo di appositi comitati di dotti, si accingono a solennizzarne la memoria, affinché questo eccelso genio, che è vanto e decoro dell’umanità, venga onorato dal mondo intero.

Noi pertanto, in questo magnifico coro di tanti buoni, non dobbiamo assolutamente mancare, ma presiedervi piuttosto, spettando soprattutto alla Chiesa, che gli fu madre, il diritto di chiamare suo l’Alighieri.  Quindi, come al principio del Nostro Pontificato, con una lettera diretta all’Arcivescovo di Ravenna, Ci siamo fatti promotori dei restauri del tempio presso cui riposano le ceneri dell’Alighieri, così ora, quasi ad iniziare il ciclo delle feste centenarie, Ci è parso opportuno rivolgere la parola a voi tutti, diletti figli, che coltivate le lettere sotto la materna vigilanza della Chiesa, per dimostrare ancor meglio l’intima unione di Dante con questa Cattedra di Pietro, e come le lodi tributate a così eccelso nome ridondino necessariamente in non piccola parte ad onore della fede cattolica. – In primo luogo, poiché il nostro Poeta durante l’intera sua vita professò in modo esemplare la religione cattolica, si può dire consentaneo ai suoi voti che questa commemorazione solenne si faccia, come si farà, sotto gli auspici della religione; e che se essa avrà compimento in San Francesco di Ravenna, s’inizi però a Firenze, in quel suo bellissimo San Giovanni, a cui negli ultimi anni di sua vita egli, esule, con intensa nostalgia ripensava, bramando e sospirando di essere incoronato poeta sul fonte stesso dove, bambino, era stato battezzato.

Nato in un’epoca nella quale fiorivano gli studi filosofici e teologici per merito dei dottori scolastici, che raccoglievano le migliori opere degli antichi e le tramandavano ai posteri dopo averle illustrate secondo il loro metodo, Dante, in mezzo alle varie correnti del pensiero, si fece discepolo del principe della Scolastica Tommaso d’Aquino; e dalla sua mente di tempra angelica attinse quasi tutte le sue cognizioni filosofiche e teologiche, mentre non trascurava nessun ramo dell’umano sapere e beveva largamente alle fonti della Sacra Scrittura e dei Padri. Appreso così quasi tutto lo scibile, e nutrito specialmente di sapienza cristiana, quando si accinse a scrivere, dallo stesso mondo della religione egli trasse motivo per trattare in versi una materia immensa e di sommo respiro. – In questa vicenda si deve ammirare la prodigiosa vastità ed acutezza del suo ingegno, ma si deve anche riconoscere che ben poderoso slancio d’ispirazione egli trasse dalla fede divina, e che quindi poté abbellire il suo immortale poema della multiforme luce delle verità rivelate da Dio, non meno che di tutti gli splendori dell’arte. Infatti, tutta la sua Commedia, che meritatamente ebbe il titolo di divina, pur nelle varie finzioni simboliche e nei ricordi della vita dei mortali sulla terra, ad altro fine non mira se non a glorificare la giustizia e la provvidenza di Dio, che governa il mondo nel tempo e nell’eternità, premia e punisce gli uomini, sia individualmente, sia nelle comunità, secondo le loro responsabilità. Quindi in questo poema, conformemente alla rivelazione divina, risplendono la maestà di Dio Uno e Trino, la Redenzione del genere umano operata dal Verbo di Dio fatto uomo, la somma benignità e liberalità di Maria Vergine Madre, Regina del Cielo, e la superna gloria dei santi, degli Angeli e degli uomini. Ad esso si contrappone la dimora delle anime che, una volta consumato il periodo di espiazione previsto per i peccatori, vedono aprirsi il cielo davanti a loro. Ed emerge che una sapientissima mente governa in tutto il poema l’esposizione di questi e di altri dogmi cattolici.  – Se il progresso delle scienze astronomiche dimostrò poi che non aveva fondamento quella concezione del mondo, e che non esistono le sfere supposte dagli antichi, trovando che la natura, il numero e il corso degli astri e dei pianeti sono assolutamente diversi da quanto quelli ne pensavano, non venne meno però il principio fondamentale, che l’universo, qualunque sia l’ordine che lo sostiene nelle sue parti, è opera del cenno creatore e conservatore di Dio onnipotente, il quale tutto muove, e la cui gloria risplende in una parte più, e meno altrove; questa terra che noi abitiamo, quantunque non sia il centro dell’universo, come un tempo si credeva, tuttavia è sempre stata la sede della felicità dei nostri progenitori, e testimone in seguito della loro miserrima caduta, che segnò per essi la perdita di quella felice condizione che fu poi restituita dal sangue di Gesù Cristo, eterna salvezza degli uomini. Perciò Dante, che aveva costruito nel proprio pensiero la triplice condizione delle anime, immaginando prima del giudizio finale sia la dannazione dei reprobi, sia l’espiazione delle anime pie, sia la felicità dei beati, deve essere stato ispirato dalla luce della fede. – In verità Noi riteniamo che gl’insegnamenti lasciatici da Dante in tutte le sue opere, ma specialmente nel suo triplice carme, possano servire quale validissima guida per gli uomini del nostro tempo. Innanzi tutto i Cristiani debbono somma riverenza alla Sacra Scrittura e accettare con assoluta docilità quanto essa contiene. In ciò l’Alighieri è esplicito: « Sebbene gli scrivani della divina parola siano molti, tuttavia il solo che detta è Dio, il quale si è degnato di esprimerci il suo messaggio di bontà attraverso le penne di molti ». Espressione splendida e assolutamente vera! E così pure la seguente: « Il Vecchio e il Nuovo Testamento, emessi per l’eternità, come dice il Profeta » contengono « insegnamenti spirituali che trascendono la ragione umana », impartiti « dallo Spirito Santo, il quale attraverso i Profeti, gli Scrittori di cose sacre, nonché attraverso Gesù Cristo, coeterno Figlio di Dio, e i suoi discepoli rivelò la verità soprannaturale e a noi necessaria ». Pertanto Dante dice giustamente che da quell’eternità che verrà dopo il corso della vita mortale « noi traiamo la certezza che viene dall’infallibile dottrina di Cristo, la quale è Via, Verità e Luce: Via, perché attraverso essa giungiamo senza ostacoli alla beatitudine eterna; Verità, perché essa è priva di qualsiasi errore; Luce, perché ci illumina nelle tenebre terrene dell’ignoranza ». Egli onora di non minore rispetto « quei venerandi Concìli principali, ai quali tutti i fedeli credono senza alcun dubbio che Cristo abbia partecipato ». Oltre a questi, Dante tiene in grande stima « le scritture dei dottori, di Agostino e di altri ». In proposito, egli dice: « Chi dubita che essi siano stati aiutati dallo Spirito Santo, o non ha assolutamente visto i loro frutti o, se li ha visti, non li ha mai gustati ».

Per la verità, l’Alighieri ha una straordinaria deferenza per l’autorità della Chiesa Cattolica e per il potere del Romano Pontefice, tanto che a suo parere sono valide tutte le leggi e tutte le istituzioni della Chiesa che dallo stesso sono state disposte. Da qui quell’energica ammonizione ai Cristiani: dal momento che essi hanno i due Testamenti, e contemporaneamente il Pastore della Chiesa dal quale sono guidati, si ritengano soddisfatti di questi mezzi di salvezza. Perciò, afflitto dai mali della Chiesa come fossero suoi, mentre deplora e stigmatizza ogni ribellione dei Cristiani al Sommo Pontefice dopo il trasferimento dell’Apostolica Sede da Roma [ad Avignone], così scrive ai Cardinali Italiani: « Noi, dunque, che confessiamo il medesimo Padre e Figliuolo: il medesimo Dio e uomo, e la medesima Madre e Vergine; noi, per i quali e per la salvezza dei quali fu detto a colui che era stato interrogato tre volte a proposito della carità: “ Pasci, o Pietro, il sacrosanto ovile ”; noi che di Roma (cui, dopo le pompe di tanti trionfi, Cristo con le parole e con le opere confermò l’imperio sul mondo, e che Pietro ancora e Paolo, l’Apostolo delle genti, consacrarono quale Sede Apostolica col proprio sangue), siamo costretti con Geremia, facendo lamenti non per i futuri ma per i presenti, a piangere dolorosamente, di essa, quale vedova e derelitta; noi siamo affranti nel vedere lei così ridotta, non meno che il vedere la piaga deplorevole delle eresie ». – Dunque egli definisce la Chiesa Romana quale « Madre piissima » o « Sposa del Crocifisso », e Pietro quale giudice infallibile della verità rivelata da Dio, cui è dovuta da tutti assoluta sottomissione in materia di fede e di comportamento ai fini della salvezza eterna. Pertanto, quantunque ritenga che la dignità dell’Imperatore venga direttamente da Dio, tuttavia egli dichiara che « questa verità non va intesa così strettamente che il Principe Romano non si sottometta in qualche caso al Pontefice Romano, in quanto la felicità terrena e in un certo modo subordinata alla felicità eterna ». Principio davvero ottimo e sapiente, che se fosse fedelmente osservato anche oggi recherebbe certamente copiosi frutti di prosperità agli Stati.  – Ma, si dirà, egli inveì con oltraggiosa acrimonia contro i Sommi Pontefici del suo tempo. È vero; ma contro quelli che dissentivano da lui nella politica e che egli credeva stessero dalla parte di coloro che lo avevano cacciato dalla patria. Tuttavia, si deve pur compatire un uomo, tanto sbattuto dalla fortuna, se con animo esulcerato irruppe talvolta in invettive che passavano il segno, tanto più che ad esasperarlo nella sua ira non furono certo estranee le false notizie propalate, come suole accadere, da avversari politici sempre propensi ad interpretare tutto malignamente. Del resto, poiché la debolezza è propria degli uomini, e « nemmeno le anime pie possono evitare di essere insudiciate dalla polvere del mondo », chi potrebbe negare che in quel tempo vi fossero delle cose da rimproverare al clero, per cui un animo così devoto alla Chiesa, come quello di Dante, ne doveva essere assai disgustato, quando sappiamo che anche uomini insigni per santità allora le riprovarono severamente? – Tuttavia, per quanto si scagliasse nelle sue invettive veementi, a ragione o a torto, contro persone ecclesiastiche, però non venne mai meno in lui il rispetto dovuto alla Chiesa e la riverenza alle Somme Chiavi; per cui nella sua opera politica intese difendere la propria opinione « con quell’ossequio che deve usare un figlio pio verso il proprio padre, pio verso la madre, pio verso Cristo, pio verso la Chiesa, pio verso il Pastore, pio verso tutti coloro che professano la religione Cristiana, per la tutela della verità ». –  Pertanto, avendo egli basato su questi saldi principi religiosi tutta la struttura del suo poema, non stupisce se in esso si riscontra un vero tesoro di dottrina cattolica; cioè non solo il succo della filosofia e della teologia cristiana, ma anche il compendio delle leggi divine che devono presiedere all’ordinamento ed all’amministrazione degli Stati; infatti l’Alighieri non era uomo che per ingrandire la patria o compiacere ai prìncipi potesse sostenere che lo Stato può misconoscere la giustizia e i diritti di Dio, perché egli sapeva perfettamente che il mantenimento di questi diritti è il principale fondamento delle nazioni. – Indicibile, dunque, è il godimento che procura l’opera del Poeta; ma non minore è il profitto che lo studioso ne ricava, perfezionando il suo gusto artistico ed accendendosi di zelo per la virtù, a condizione però che egli sia spoglio di pregiudizi, ed aperto alla verità. Anzi, mentre non è scarso il numero dei grandi poeti cattolici che uniscono l’utile al dilettevole, in Dante è singolare il fatto che, affascinando il lettore con la varietà delle immagini, con la vivezza dei colori, con la grandiosità delle espressioni e dei pensieri, lo trascina all’amore della cristiana sapienza; né alcuno ignora che egli apertamente dichiara di aver composto il suo poema per apprestare a tutti vitale nutrimento. Infatti, sappiamo che alcuni, anche recentemente, lontani sì, ma non avversi a Cristo, studiando con amore la Divina Commedia, per divina grazia, prima cominciarono ad ammirare la verità della fede cattolica e poi finirono col gettarsi entusiasti tra le braccia della Chiesa. – Quanto abbiamo esposto fino ad ora è sufficiente per dimostrare quanto sia opportuno che, in occasione di questo centenario che interessa tutto il mondo cattolico, ciascuno alimenti il suo zelo per conservare quella fede che sì luminosamente si rivelò, se in altri mai, nell’Alighieri, quale fautrice della cultura e dell’arte. Infatti, in lui non va soltanto ammirata l’altezza somma dell’ingegno, ma anche la vastità dell’argomento che la religione divina offerse al suo canto. Se la natura gli aveva fornito un ingegno tanto acuto, affinato nel lungo studio dei capolavori degli antichi classici, maggiore acutezza egli trasse, come abbiamo detto, dagli scritti dei Dottori e dei Padri della Chiesa, che consentirono al suo pensiero di elevarsi e di spaziare in orizzonti ben più vasti di quelli racchiusi nei limiti ristretti della natura. Perciò egli, quantunque separato da noi da un intervallo di secoli, conserva ancora la freschezza di un poeta dell’età nostra; e certamente è assai più moderno di certi vati recenti, esumatori di quell’antichità che fu spazzata via da Cristo, trionfante sulla Croce. Spira nell’Alighieri la stessa pietà che è in noi; la sua fede ha gli stessi sentimenti, e degli stessi veli si riveste « la verità a noi venuta dal cielo e che tanto ci sublima ». Questo è il suo elogio principale: di essere un poeta cristiano e di aver cantato con accenti quasi divini gli ideali cristiani dei quali contemplava con tutta l’anima la bellezza e lo splendore, comprendendoli mirabilmente e dei quali egli stesso viveva. Conseguentemente, coloro che osano negare a Dante tale merito e riducono tutta la sostanza religiosa della Divina Commedia ad una vaga ideologia che non ha base di verità, misconoscono certo nel Poeta ciò che è caratteristico e fondamento di tutti gli altri suoi pregi. – Dunque, se Dante deve alla fede cattolica tanta parte della sua fama e della sua grandezza, valga solo questo esempio, per tacere gli altri, a dimostrare quanto sia falso che l’ossequio della mente e del cuore a Dio tarpi le ali dell’ingegno, mentre lo sprona e lo innalza; e quanto male rechino al progresso della cultura e della civiltà coloro che vogliono bandita dall’istruzione ogni idea di religione. È, infatti, assai deplorevole il sistema ufficiale odierno di educare la gioventù studiosa come se Dio non esistesse e senza la minima allusione al soprannaturale. Poiché sebbene in qualche luogo il « poema sacro » non sia tenuto lontano dalle scuole pubbliche e sia anzi annoverato fra i libri che devono essere più studiati, esso però non suole per lo più recare ai giovani quel vitale nutrimento che è destinato a produrre, in quanto essi, per l’indirizzo difettoso degli studi, non sono disposti verso la verità della fede come sarebbe necessario. – Volesse il cielo che queste celebrazioni centenarie facessero in modo che ovunque si impartisse l’insegnamento letterario, che Dante fosse tenuto nel dovuto onore e che egli stesso pertanto fosse per gli studenti un maestro di dottrina cristiana, dato che egli, componendo il suo poema, non ebbe altro scopo che « sollevare i mortali dallo stato di miseria », cioè del peccato, e « di condurli allo stato di beatitudine », cioè della grazia divina. – E voi, diletti figli, che avete la fortuna di coltivare lo studio delle lettere e delle belle arti sotto il magistero della Chiesa, amate e abbiate caro, come fate, questo Poeta, che Noi non esitiamo a definire il cantore e l’araldo più eloquente del pensiero cristiano. Quanto più vi dedicherete a lui con amore, tanto più la luce della verità illuminerà le vostre anime, e più saldamente resterete fedeli e devoti alla santa Fede.

Quale auspicio dei celesti favori ed a testimonianza della Nostra paterna benevolenza, impartiamo con affetto a voi tutti, diletti figli, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 aprile 1921, nell’anno settimo del Nostro Pontificato.  
 

BENEDICTUS PP. XV 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. BENEDETTO XV – “FAUSTO APPETENTE DIE”

Questa è una delle lettere Encicliche che Benedetto XV dedicò alla figura di Santi in occasione di alcune loro ricorrenze. Qui viene tratteggiata quella di San Domenico, maestoso personaggio sagace difensore della fede cattolica, della predicazione evangelica, della Cattedra del Vicario di Cristo e della Madre di Dio. Considerando i meriti del Santo e del suo Ordine, viene da chiedersi come mai uomini così dotti nelle scienze sacre, abbiano potuto seguire ed appoggiare le novità teologiche, morali e liturgiche del concoliabolo del 1963 e le innovazioni sacrileghe del Montini e dei successori suoi antipapi… come è possibile che si predichi con San Tommaso e si sposi la causa della novelle theologie? Da una parte la dottrina di sempre e poi le contraddizioni del modernismo postconciliare? Misteri dell’animo umano o forse demagogia infernale. Incredibile, roba da far rivoltare san Domenico nella tomba….

LETTERA ENCICLICA

FAUSTO APPETENTE DIE

DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XV
I PATRIARCHI, PRIMATI,
ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA
IN OCCASIONE DEL VII CENTENARIO DELLA MORTE
DI SAN DOMENICO DI GUZMÀN

Mentre si avvicina il lieto giorno nel quale, settecento anni fa, Domenico, grande astro di santità, passò dalle miserie terrene alle sedi dei beati, a Noi, che da tempo siamo fra i suoi più ferventi devoti, soprattutto da quando cominciammo a reggere la Chiesa di Bologna, che custodisce con religiosissima pietà le sue ceneri, a Noi — diciamo — giunge la grande gioia di poter esortare da questa Cattedra Apostolica il popolo cristiano a celebrare la memoria di un Santo così illustre. Così facendo, non solo intendiamo soddisfare la Nostra devozione, ma riteniamo anche di adempiere ad un grande dovere di gratitudine verso quel Santo legislatore e l’illustre Ordine da lui fondato. – Infatti, come egli fu del tutto uomo di Dio e veramente Dominicus [cioè: uomo del Signore], così fu tutto della santa Chiesa, la quale ha in lui un invincibile campione della Fede. L’Ordine dei Predicatori da lui istituito fu sempre valido baluardo in difesa della Chiesa Romana. Pertanto, non solo può dirsi che Domenico « fu ai suoi giorni ristoratore del tempio », ma che provvide alla difesa di esso anche per il futuro, avverandosi le parole profetiche che Onorio III scrisse nel confermare l’Ordine nascente: «… i frati del tuo Ordine saranno gli atleti della Fede e veri luminari del mondo ». – Certamente, come tutti sanno, per propagare il regno di Dio, Gesù Cristo non si è servito di nessun altro mezzo all’infuori della predicazione del Vangelo, cioè della viva voce dei suoi araldi che avevano il compito di diffondere ovunque la celeste dottrina. Egli disse: « Insegnate a tutte le genti ». « Predicate il Vangelo ad ogni creatura ». Perciò, mediante la predicazione degli Apostoli e soprattutto di San Paolo, alla quale seguì successivamente l’insegnamento dei Padri e dei Dottori, fu possibile illuminare le menti degli uomini con la luce della verità e infiammare gli animi all’amore di tutte le virtù. Utilizzando in pieno tale sistema per la santificazione delle anime, Domenico propose a se stesso e ai suoi discepoli « di partecipare agli altri il frutto delle proprie meditazioni »; perciò, oltre alla povertà, alla purezza dei costumi e all’obbedienza religiosa, impose agli appartenenti al suo Ordine il santo e solenne dovere di attendere allo studio indefesso della dottrina e alla predicazione della verità. – In realtà, tre sono i caratteri della predicazione domenicana: una grande solidità di dottrina, una fedeltà assoluta alla Sede Apostolica ed una singolare devozione verso la Vergine Madre. -Infatti, quantunque Domenico si sentisse chiamato alla predicazione fin dai suoi teneri anni, tuttavia egli non si accinse a questa missione se non dopo avere arricchito nell’Università di Palencia il suo intelletto nelle scienze filosofiche e teologiche, e, sotto la guida dei santi Padri, dopo avere largamente bevuto alle fonti della Sacra Scrittura e specialmente di Paolo. Ben presto si vide quanto fosse profonda la sua dottrina quando egli iniziò le sue dispute contro gli eretici: quantunque questi facessero ricorso a tutti i mezzi e alle più ardite sottigliezze dottrinali per combattere i dogmi della Fede, tuttavia era meraviglioso vedere come egli li confutasse e li respingesse. Ciò si verificò soprattutto a Tolosa, nella città considerata allora il centro e la capitale dell’eresia, dove erano convenuti i più dotti avversari. È concorde la testimonianza degli storici che egli, insieme con i suoi principali compagni, potenti in opere ed in parole, tenne fronte all’insolenza dell’eresia; e non solo impedì che essa si propagasse, ma con la sua eloquente carità addolcì così gli animi che ricondusse migliaia di eretici al seno della Madre Chiesa. Iddio stesso gli venne visibilmente in aiuto mentre combatteva per la Fede; come quando, avendo raccolto la sfida lanciatagli dagli eretici di gettare ciascuno nel fuoco il proprio libro, solo il suo non fu toccato dalle fiamme, restandone inceneriti tutti gli altri. Così, per opera di Domenico, l’Europa fu liberata dal pericolo dell’eresia Albigese. – Egli volle pure che i suoi figli fossero dotati ampiamente di solida dottrina. Infatti, appena ottenuta dalla Sede Apostolica l’approvazione del suo Ordine e la conferma del nobile titolo di Predicatori, egli fondò i suoi conventi il più vicino possibile alle più celebri Università, affinché più facilmente i suoi alunni potessero dedicarsi ad ogni genere di studi, e un maggior numero di studiosi si aggiungesse a questa nuova famiglia. In tal modo l’Istituto Domenicano ebbe fin da principio la caratteristica di Ordine dotto, e fu costantemente sua cura precipua di risanare i guasti profondi causati dai vari errori e di diffondere la luce della Fede cristiana, dato che nessuna cosa riesce di maggiore ostacolo alla eterna salvezza quanto l’ignoranza della verità e il pervertimento delle opinioni. Non deve pertanto stupire se tutti restarono colpiti e conquistati da questa nuova forma di apostolato, la quale, mentre si basava saldamente sul Vangelo e sulle dottrine dei Padri, tuttavia si faceva apprezzare per la vastità delle cognizioni in ogni disciplina. Sembrò addirittura che la stessa sapienza di Dio si manifestasse attraverso la parola dei frati domenicani, quando il nuovo Ordine ebbe predicatori ed assertori della Fede Giacinto di Polonia, Pietro Martire, Vincenzo Ferreri, e uomini prestigiosi per ingegno e dottrina come Alberto Magno, Raimondo da Pennafort e Tommaso d’Aquino, quel gran figlio di Domenico, per mezzo del quale specialmente si può dire che « Dio illuminò la sua Chiesa » -Perciò quest’Ordine fu sempre tenuto in grandissimo conto per il suo insegnamento della verità, e conseguì un altissimo onore quando la Chiesa fece sua la dottrina di Tommaso, salutando questo Dottore con i più insigni elogi dei Pontefici, e lo assegnò alle scuole cattoliche come maestro e patrono. Insieme a sì fervido zelo nel custodire e difendere la Fede, Domenico nutriva un profondo ossequio verso la Sede Apostolica. È noto infatti che essendosi egli inginocchiato dinanzi a Innocenzo III per consacrare tutte le sue energie alla difesa del Romano Pontificato, nella susseguente notte quel Nostro Antecessore vide in sogno Domenico sostenere vigorosamente coi suoi omeri la Basilica del Laterano vacillante. È altresì conformato dalla storia che mentre Domenico attendeva alla formazione dei suoi primi religiosi, pensò di raccogliere intorno a sé dei laici pii e devoti per creare una santa milizia che lavorasse alla difesa dei diritti della Chiesa e contemporaneamente resistesse validamente all’eresia. Da qui ebbe origine il Terz’Ordine Domenicano, il quale, diffondendo la pratica della perfezione cristiana in mezzo ai secolari, veniva a dare alla madre Chiesa un appoggio e un valido aiuto. – Tramandato dal Fondatore, l’attaccamento a questa Cattedra passò in eredità ai discepoli. Perciò, ogni volta in cui per il dilagare degli errori le menti umane erano smarrite o la Chiesa fu travagliata da rivolgimenti popolari o da prepotenze di prìncipi, questa Sede Apostolica trovò nei Domenicani dei validi patrocinatori della verità e della giustizia che l’aiutarono a conservare il prestigio della sua autorità. E chi non sa quanto sia stato ammirevole a questo riguardo la condotta di quella discepola di Domenico, Caterina da Siena, la quale, animata dalla carità di Gesù Cristo, superando incredibili difficoltà, ottenne quello che nessuno aveva potuto conseguire: persuadere cioè il Sommo Pontefice a far ritorno, dopo 70 anni, alla sua sede di Roma; e, lavorando successivamente, mentre la Chiesa d’Occidente era lacerata da un funesto scisma, a mantenere nella fede un gran numero di Cristiani, obbedienti al legittimo Pontefice? – Infine, pur tacendo di altri fatti gloriosi, non si può ignorare che dalla famiglia Domenicana sono usciti quattro Pontefici Romani di grande fama, l’ultimo dei quali, San Pio V, rese immortali servizi alla cristianità e alla società civile quando, dopo insistenti esortazioni, unì in alleanza le forze militari dei prìncipi cattolici alle proprie, e sconfisse per sempre, presso le isole Curzolari, le forze dei Turchi con l’auspicio e l’aiuto della Vergine Madre di Dio, che, a seguito di quell’avvenimento, ordinò fosse invocata quale « Aiuto dei Cristiani ». Questo episodio mette in splendida luce il terzo elemento che, come dicemmo, caratterizza la predicazione dei Domenicani: la particolarissima devozione verso la grande Madre di Dio. In proposito si narra che il Pontefice apprese per divina visione la vittoria di Lepanto nello stesso momento in cui avveniva, e mentre in tutto il mondo cattolico le pie confraternite invocavano Maria con la preghiera del santissimo Rosario, che il Fondatore dei Predicatori aveva istituita e che in seguito aveva diffuso in tutto il mondo attraverso i suoi discepoli. Infatti, amando la beatissima Vergine con affetto filiale e confidando al massimo grado nel suo patrocinio, Domenico si accinse a sostenere la causa della Fede. Pertanto, nella lotta contro gli eretici Albigesi, i quali, tra le altre verità della Fede, negavano la divina maternità e la verginità di Maria con tantissime ingiurie, egli, nel difendere strenuamente questi dogmi, invocava spessissimo il soccorso della stessa Vergine Madre con queste parole: « Considerami degno che io ti possa lodare, o santissima Vergine; dammi la forza contro i tuoi nemici ». Con quanta benevolenza la Regina dei cieli corrispondesse alla pietà del suo servo, lo si può facilmente comprendere dal fatto che Ella si servì di lui per insegnare alla Chiesa, sposa di suo Figlio, il suo santo Rosario; cioè quella preghiera che essendo contemporaneamente vocale e mentale — per l’intreccio della meditazione sui principali misteri della Religione accompagnata dalla recitazione di quindici Pater e di altrettante decine di Ave Maria — è adattissima ad eccitare e a mantenere nel popolo la carità ed ogni virtù. Quindi giustamente Domenico prescrisse ai suoi discepoli, quando predicavano la parola di Dio, di inculcare spesso e con impegno negli animi degli uditori questa forma di preghiera, della quale conosceva pienamente l’utilità. Sapeva infatti che Maria, per una parte, aveva tanto potere presso il suo Figlio divino che questi concede grazie all’umanità se non attraverso la mediazione e la decisione di Lei, e dall’altra che Ella è per natura così benigna e clemente che, essendo solita a soccorrere spontaneamente gl’infelici, non può assolutamente rifiutare il suo aiuto a coloro che lo chiedono. Pertanto, Colei che la Chiesa saluta abitualmente quale « madre di grazia e madre di misericordia », si è sempre rivelata tale, soprattutto quando si è pregato tramite il Rosario. Conseguentemente, i Pontefici Romani non tralasciarono alcuna occasione per esaltare con somme lodi il Rosario Mariano e per arricchirlo con i tesori dell’Indulgenza Apostolica. – Per la verità — come voi stessi comprendete, Venerabili Fratelli — l’Ordine Domenicano non è attualmente meno opportuno di quanto lo fosse ai tempi del suo Fondatore. Quanti sono, anche oggi, coloro che per mancanza del pane della vita, che è la celeste dottrina, periscono d’inedia; quanti, in mezzo a tanti errori, ingannati da una parvenza di vero, si allontanano dalla Fede! E come potrebbero i Sacerdoti, col ministero della divina parola, provvedere come si conviene a tutti questi bisogni, se non fossero pieni di zelo per la salute delle anime e ben preparati nelle scienze divine? Senza dire che non pochi sono gli ingrati e gli immemori fra i figli della Chiesa, i quali per ignoranza o per cattiva volontà, avversando il Vicario di Gesù Cristo, devono essere ricondotti all’amplesso del Padre comune! A sanare pertanto codesti ed altri mali di ogni genere di questo secolo, abbiamo bisogno della materna protezione di Maria! Perciò i Domenicani hanno dischiuso davanti a sé un campo d’azione quasi infinito, dove possono operare in modo assai utile per il bene comune. Conseguentemente Noi esortiamo quanti appartengono a tale Ordine a rinnovarsi in queste feste centenarie sul modello del loro santo Fondatore, e a diventare sempre più degni del loro grande Padre. Ovviamente, coloro che appartengono al primo Ordine daranno l’esempio, in proposito, agli altri, applicandosi con sempre maggior zelo alla predicazione della parola di Dio al fine di aumentare l’ossequio al successore di San Pietro, la devozione alla Vergine Madre e la conoscenza della verità. Ma anche dai Terziari Domenicani molto si aspetta la Chiesa se, conformandosi sempre più allo spirito del loro Patriarca, cercheranno d’istruire i figli del popolo nella dottrina cristiana. Noi desideriamo e Ci auguriamo che molti di loro si dedichino con assiduità a tale apostolato: si tratta infatti di cosa della massima importanza per la salvezza delle anime. Infine vogliamo che tutti i seguaci di Padre Domenico si prendano una cura speciale affinché il popolo cristiano renda abituale, ovunque, la pratica del Rosario Mariano, che Noi stessi, seguendo l’esempio dei Nostri Predecessori, e specialmente di Leone XIII di felice memoria, per l’occasione raccomandiamo vivamente in questi tempi calamitosi. Se ciò avverrà, riterremo assai fruttuosa la celebrazione di questa ricorrenza centenaria.- Frattanto, in auspicio delle grazie divine e quale testimonianza della Nostra benevolenza, impartiamo, Venerabili Fratelli, con tanto affetto nel Signore, l’Apostolica Benedizione a voi, al vostro clero e al popolo.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno 1921, festa dei Prìncipi degli Apostoli, nell’anno settimo del Nostro Pontificato.

BENEDICTUS PP. XV 

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. BENEDETTO XV – “PRINCIPI APOSTOLORUM PETRO”

Questa lettera Enciclica descrive la vita, le opere ed i meriti del diacono Efrem Siro dichiarato subito dopo dottore della Chiesa universale perché autore di importanti opere scritte in difesa della pura fede cattolica ed a gloria di Dio, nell’esaltazione della Vergine, dei Santi e del Vicario di Cristo in terra, fonte inesauribile per irrobustire la fede ortodossa cattolica con la sana e vera dottrina di Cristo. È certamente per i veri Cattolici modello ed ispirazione di pii e devoti pensieri onde animare lo spirito di carità languente attualmente in uno stato tanto penoso.

LETTERA ENCICLICA

PRINCIPI APOSTOLORUM PETRO

DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XV
AI PATRIARCHI, PRIMATI,
ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA
CHE PROCLAMA SANT’EFREM IL SIRO,
DOTTORE DELLA CHIESA UNIVERSALE
 

Venerabili Fratelli,
salute e Apostolica Benedizione.

Il divino Fondatore della Chiesa ha affidato a Pietro, Principe degli Apostoli, unito a Dio da una fede immune da ogni errore come « capo del coro Apostolico » e maestro e guida di tutti gli uomini, la missione di pascere il gregge di Colui che ha fondato la sua Chiesa sull’autorità del magistero visibile, perpetuo e sicuro dello stesso Pietro e dei suoi successori. Su questa mistica roccia, cioè sul fondamento di tutto l’ edificio della Chiesa, come su un cardine e un centro, deve poggiare la comunione della fede cattolica e della carità cristiana. – Che l’ufficio singolare del Primato conferito a Pietro sia quello di diffondere ovunque, e di difendere in tutti gli uomini il tesoro della carità e della fede, è attestato molto bene da Ignazio Teoforo, vissuto poco tempo dopo la generazione degli Apostoli. Nella mirabile lettera che durante il viaggio mandò alla Chiesa di Roma, e nella quale annunciava il suo arrivo nell’Urbe per subirvi il martirio nel nome di Cristo, diede una bellissima testimonianza del primato di quella Chiesa su tutte le altre, definendola « colei che presiede l’assemblea universale della carità. Con ciò intendeva dire che la Chiesa universale va guardata non solo come immagine della carità divina, ma anche che il beatissimo Pietro, unitamente al suo primato, ha lasciato in eredità alla Sede di Roma il suo amore verso Cristo, affermato con una triplice confessione, per poter infiammare dello stesso fuoco le anime di tutti i fedeli. – Profondamente convinti di questa doppia caratteristica propria dell’Autorità pontificia, i primi Padri, specialmente quelli che occupavano le cattedre più celebri dell’Oriente, ogni qual volta erano travagliati da ondate di eresie o da discordie intestine erano soliti ricorrere a questa Sede Apostolica, la sola capace di assicurare la salvezza in situazioni estremamente critiche. È noto che così hanno agito Basilio Magno e il grande difensore della fede di Nicea, Atanasio, e così pure Giovanni Crisostomo. Questi Padri, messaggeri della fede ortodossa, dai concìli dei Vescovi si appellavano al supremo giudizio dei Romani Pontefici, secondo le prescrizioni degli antichi canoni. Chi potrebbe dire che questi Pontefici abbiano mancato in qualche punto al mandato ricevuto da Cristo di confermare i fratelli? Anzi, per non mancare a questo loro dovere, alcuni sono partiti senza paura per l’esilio, come Liberio, Silverio e Martino; altri hanno coraggiosamente difeso la fede ortodossa ed i suoi sostenitori, che si erano appellati al Pontefice per rivendicare la memoria di coloro che erano morti. Sia di esempio Innocenzo I, il quale ordinò ai Vescovi d’Oriente d’inserire nuovamente il nome di Crisostomo nei dittici liturgici, e di citarlo insieme ai Padri ortodossi durante il santo Sacrificio. – Noi, che abbracciamo i popoli Orientali con non minore sollecitudine e affetto dei Nostri Predecessori, Ci rallegriamo che non pochi di essi, dopo una guerra spaventosa, abbiano recuperato la libertà e sottratto la religione al potere dei laici. Mentre questi popoli cercano di riorganizzare la loro vita politica, ciascuno secondo le proprie caratteristiche nazionali e secondo le istituzioni tradizionali, Noi siamo del parere che compiremmo un gesto molto adatto al momento ed alla loro situazione se proponessimo alla loro attenta imitazione e al loro fervente culto uno splendido esempio di santità, di dottrina e di amor patrio. Intendiamo parlare di Sant’Efrem il Siro, che Gregorio Nisseno paragona opportunamente al fiume Eufrate perché, « irrigata dalle sue acque, la moltitudine dei Cristiani ha prodotto centuplicato il frutto della fede ». Parliamo di quell’Efrem, che i messaggeri di Dio e i Padri e i Dottori ortodossi, da Basilio, Crisostomo e Girolamo a Francesco di Sales e Alfonso de’ Liguori sono unanimi nell’esaltare. Ci è gradito aggiungere la Nostra voce a quella dei citati annunciatori della verità, i quali, benché diversi fra loro per carattere e distanti per tempi e luoghi, formano tuttavia un coro armonioso di cui potresti facilmente riconoscere come direttore « l’unico e il medesimo Spirito ». – Venerabili Fratelli, se la presente Enciclica segue a breve distanza l’altra che vi abbiamo indirizzata in occasione del XV centenario della nascita di San Girolamo, la ragione è che i due grandi geni concordano in più punti. Infatti, Girolamo ed Efrem furono quasi contemporanei, entrambi monaci, entrambi abitanti della Siria, entrambi insigni per la conoscenza e l’amore dei Libri Sacri. A buon diritto potresti definirli « due luminosi candelabri », propriamente destinati da Dio ad illuminare l’uno i paesi occidentali, l’altro quelli orientali. Il contenuto dei loro scritti è intriso della stessa soavità e dello stesso spirito; di conseguenza, come in loro brilla la stessa e immutabile dottrina dei Padri latini e orientali, così i loro meriti e la loro gloria s’intrecciano e si fondono in un’unica corona. Non è ben certo quale delle due città, un tempo famosissime, Nisibi ed Edessa, abbia dato i natali al beato Efrem. Con certezza egli, congiunto nel sangue ai martiri dell’ultima persecuzione, ha ricevuto un’educazione cristiana dai suoi genitori. I quali, se non avevano avuto le comodità di una vita agiata, avevano però un titolo di gloria più nobile e magnifico, perché « avevano confessato Cristo in tribunale ». Da adolescente, Efrem — come si rammarica egli stesso nell’opuscolo delle sue Confessioni — resistette piuttosto debolmente e in modo troppo fiacco alle passioni che tormentano di solito quell’età; era di carattere focoso, facile all’ira, amante di litigi, piuttosto sbrigliato di mente e di lingua. Ma, essendo stato messo in carcere per un crimine non commesso, cominciò a disprezzare i beni e le vane attrattive del mondo. Così, appena si fu discolpato davanti al giudice, subito vestì l’abito del monaco e si diede tutto agli esercizi di pietà e allo studio delle Sacre Scritture. Essendosi guadagnato la simpatia di Giacomo, Vescovo di Nisibi (uno dei 318 Padri del Concilio di Nicea), il quale aveva fondato nella sua diocesi una scuola molto celebre di esegesi, Efrem non solo realizzò, ma superò le speranze del suo protettore nell’assiduo e penetrante commento della Bibbia, e in breve tempo divenne il più esperto di tutti gli esegeti di quella scuola, meritandosi il nome e la fama di «Dottore dei Siri ». Poco dopo, costretto ad interrompere gli studi delle Sacre Scritture a causa della minaccia sulla città da parte delle truppe persiane, esortò con tutte le sue forze i concittadini alla resistenza. Il pericolo, scongiurato una prima volta per le preghiere del Vescovo Giacomo, si ripresentò più grave dopo la sua morte. Assediata nuovamente, la città cadde in mano ai Persiani nel 363. Efrem, preferendo l’esilio al giogo degli infedeli, emigrò ad Edessa, dove si consacrò con grande zelo e quasi esclusivamente al compito di dottore della Chiesa. La casa dove abitava, posta su un colle alla periferia della città, fiorì presto, a guisa di una celebre accademia, per la grande celebrità di studiosi avidi di conoscere i Libri Sacri. Da lì uscirono quei sapienti interpreti delle Scritture, i quali formarono i loro discepoli nella stessa disciplina: Zenobio, Maraba, Sant’Isacco di Amida, che meritarono, per la profondità e il numero dei loro scritti, l’appellativo di «Grandi ». – Da quel ritiro si diffuse la fama della dottrina e della santità di Efrem, tanto che quando egli si recò a Cesarea per conoscere di persona Basilio Magno, questi, appresa la notizia del suo arrivo per ispirazione divina, lo accolse con grandi segni di riverenza, ed ebbe con lui dolcissimi colloqui su cose divine. Si dice che in quell’occasione Basilio l’abbia ordinato diacono con l’imposizione delle mani. -,Dal ritiro di Edessa Efrem non usciva mai, se non nei giorni stabiliti per rivolgere al popolo quei forti discorsi con cui difendeva i dogmi della fede contro le eresie di quel tempo. Per umiltà non osò aspirare al sacerdozio, ma preferì imitare alla perfezione Stefano nel grado inferiore del diaconato. Insegnava instancabilmente le Scritture e si dedicava alla predicazione della parola di Dio; educava nella salmodia le vergini consacrate a Dio; ogni giorno scriveva commentari per la spiegazione della Bibbia e per celebrare la fede ortodossa; aiutava i suoi compatrioti, soprattutto i poveri e i miserabili; metteva per primo in pratica, meglio che gli era possibile, ciò che doveva insegnare agli altri, per offrire in se stesso quel modello di santità che Ignazio Teoforo propone ai leviti quando li chiama soltanto Diaconi, cioè « comando di Cristo », dicendo che essi esprimono « il mistero della fede in una coscienza pura ». – Quanto grande e quanto attiva carità mostrò ai fratelli durante la grave carestia, benché fosse carico di anni e spossato dalle fatiche! Abbandonò la casa dove per tanti anni aveva vissuto una vita più celeste che umana e corse ad Edessa. Con parole severissime — che a Gregorio Nisseno sembrarono « come una chiave abilmente forgiata in modo divino » per aprire i cuori e gli scrigni dei ricchi — rimprovera coloro che avevano nascosto il frumento e li prega insistentemente di andare incontro almeno col superfluo al bisogno dei fratelli. Più che dalla necessità dei concittadini, i ricchi furono scossi dalla sua autorità. Col denaro raccolto Efrem preparava i letti per chi era distrutto dalla fame, allestendoli sotto i portici di Edessa; rifocillava coloro che erano sfiniti; soccorreva i pellegrini che arrivavano da ogni parte in città, in cerca di pane. Davvero si sarebbe detto che la Provvidenza l’avesse messo a difesa della patria! Non ritornò alla sua solitudine che l’anno seguente, quando il raccolto della nuova messe aveva assicurato l’abbondanza di viveri. – Assolutamente degno di menzione è il testamento da lui lasciato ai suoi concittadini, nel quale chiaramente risultano la sua fede, la sua umiltà e il suo singolare amore verso la patria. « Io, Efrem, sto per morire. Con timore e rispetto vi scongiuro, o abitanti della città di Edessa, di non permettere che io sia sepolto nella casa di Dio o sotto l’altare. Non è conveniente che un verme, che cola purulenza, sia sepolto nel tempio e nel santuario di Dio. Avvolgetemi nella mia tunica e nel mantello che ho sempre portato. Accompagnatemi con i salmi e con le vostre preghiere, e degnatevi di fare spesso delle offerte per la mia piccolezza. Efrem non ha mai avuto né borsa, né bastone, né bisaccia, né argento od oro, né mai ha acquistato o posseduto beni sulla terra. Come miei discepoli, mettete in pratica i miei precetti e il mio insegnamento, perché non veniate meno alla fede cattolica. Siate saldi specialmente nei riguardi della fede; guardatevi dagli avversari, cioè dagli operatori di iniquità, dagli spacciatori di vuote parole, e dai seduttori. E sia benedetta la città in cui abitate. Edessa, infatti, è città e madre di saggi ». Così Efrem cessò di vivere; ma non si spense il suo ricordo, che rimase sempre in benedizione in tutta la Chiesa universale. Perciò, da quando Efrem cominciò ad essere ricordato nella sacra liturgia, Gregorio Nisseno poté affermare: « Lo splendore della sua vita e della sua dottrina si irradiò sul mondo intero: infatti egli è conosciuto in quasi tutte le regioni dove splende il sole ». -Non è il caso di esporre qui in dettaglio tutto ciò che un uomo così grande ha scritto: « Si dice, d’altra parte, che abbia scritto 300 miriadi di versi, se si vogliono contare tutti ». I suoi scritti abbracciano pressoché tutta la dottrina della Chiesa; di lui ci restano i commentari sulla Sacra Scrittura e sui misteri della fede; le omelie sui doveri e sulla vita interiore; riflessioni sulla sacra liturgia; inni per le feste del Signore, della Beata Vergine e dei Santi, per le solennità dei giorni di preghiera e di penitenza, e per le cerimonie funebri. -;Tutti questi scritti testimoniano la sua candida anima, che giustamente si può definire lampada evangelica « che arde e splende », perché, illuminando la verità, ce la fa amare e professare. Anzi, Girolamo attesta che ai suoi tempi si usava leggere in pubblico, nelle assemblee liturgiche, gli scritti di Sant’Efrem non diversamente che le opere dei Santi Padri e dei Dottori ortodossi; e afferma ancora, parlando della traduzione delle opere del Santo dall’originale siriaco in greco, che « la stessa traduzione gli ha permesso di scoprire l’acutezza di un genio eccezionale ». – In verità, se va ad onore del santo Diacono di Edessa l’aver voluto che la predicazione della parola di Dio e la formazione dei discepoli poggiassero sulla Sacra Scrittura, interpretata secondo lo spirito della Chiesa, non minore gloria egli si è acquistata nella musica e nella poesia sacra; infatti era così esperto in queste arti, da essere chiamato « cetra dello Spirito Santo ». Da lui, Venerabili Fratelli, si può imparare con quali arti vada promossa nel popolo la conoscenza delle cose sante. Efrem infatti viveva in mezzo a popolazioni dal temperamento ardente, particolarmente sensibili alla dolcezza della musica e della poesia, tanto che fin dal secondo secolo dopo Cristo gli eretici si erano molto abilmente serviti di questi richiami per seminare i loro errori. Perciò, come il giovane David aveva ucciso il gigante Golia con la sua spada, Efrem oppone l’arte all’arte, veste la dottrina cattolica di versi e di musica, e così la insegna alle fanciulle e ai fanciulli, perché a poco a poco diventi familiare a tutto il popolo. Così egli non solo perfeziona la formazione dei fedeli nella dottrina cristiana e favorisce e nutre la loro pietà secondo lo spirito della sacra liturgia, ma contrasta anche con grande successo le eresie che andavano serpeggiando. -Quanta dignità abbia conferito alle sacre cerimonie il fascino di queste arti nobilissime, lo apprendiamo da Teodoreto, e ne troviamo conferma nell’ampia diffusione, sia tra i greci, sia tra i latini, della metrica propagata dal nostro Santo. Infatti, a quale altro autore potrebbe essere attribuita l’antifonia liturgica, con i suoi canti e con le sue solennità, importata da Crisostomo a Costantinopoli, da Ambrogio a Milano, e che poi si è diffusa in tutta Italia? E se questo « uso orientale», che nella capitale lombarda ha commosso così vivamente Agostino ancora catecumeno, e che, ritoccato da Gregorio Magno, è arrivato, perfezionato, fino a noi, non lo si deve in un certo qual modo, secondo il giudizio di critici competenti, al beatissimo Efrem, in quanto proviene dall’antifonia siriaca da lui diffusa? – Non c’é quindi da meravigliarsi se i Padri della Chiesa tengono in gran conto l’autorità di Sant’Efrem. Il Nisseno così scrive delle sue opere: « Scorrendo tutta la Scrittura, il vecchio e il nuovo Testamento, e scrutandone come nessun altro il senso profondo, l’ha interpretata con estrema acutezza parola per parola; dalla creazione del mondo fino all’ultimo libro della grazia, egli, illuminato dallo Spirito, nei suoi commentari ha chiarito i punti oscuri e difficili ». Il Crisostomo, aggiunge: « Il grande Efrem ha svegliato le anime intorpidite, consolato gli afflitti, formato, diretto ed esortato i giovani; specchio dei monaci, guida dei penitenti, spada e freccia contro gli eretici, scrigno delle virtù, tempio e luogo di riposo dello Spirito Santo ». In verità non è possibile lodare di più un uomo, che si riteneva così insignificante da chiamarsi l’ultimo di tutti e il più miserabile dei peccatori. – Dio, che « ha esaltato gli umili », onora con gloria eccelsa il beato Efrem e lo propone al nostro secolo come dottore di sapienza divina e modello delle più elette virtù. Ed oggi è il momento più opportuno per presentare questo modello, in quanto, finita la terribile guerra, pare stia per nascere un nuovo ordine di cose per le nazioni e particolarmente per i popoli dell’Oriente. Davvero un compito immenso, Venerabili Fratelli, e pieno di difficoltà s’impone a Noi, a ciascuno di voi e a tutti gli uomini di buona volontà, quello di restaurare in Cristo quanto rimane della civiltà umana e sociale, e di ricondurre a Dio e alla Chiesa santa di Dio l’umanità deviata: alla Chiesa cattolica, vogliamo dire, che, mentre si sfasciano le istituzioni del passato e regna una confusione generale in seguito a sconvolgimenti politici, è la sola a non vacillare e a guardare con fiducia all’avvenire: la sola nata immortale, fondata sulla parola di Colui che disse al beatissimo Pietro: « Su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa ». – Possano camminare sulle orme di Sant’Efrem tutti coloro che nella Chiesa hanno il compito d’insegnare agli altri; possano imparare da lui con quale instancabile zelo essi devono impegnarsi nella predicazione della dottrina di Cristo; la pietà dei fedeli non può infatti portare nessun frutto duraturo, se non è profondamente ancorata nei misteri e nei precetti della fede. Coloro, poi, che hanno l’incarico ufficiale di insegnare le scienze sacre, imparino dall’esempio del Dottore di Edessa a non distorcere, secondo l’arbitrio delle loro personali idee, le Sacre Scritture, e a non allontanarsi di un’unghia nei loro commentari dal senso tradizionale della Chiesa, perché « nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio ». E lo Spirito che ha parlato agli uomini per mezzo dei profeti è lo stesso che agli Apostoli « aprì la mente all’intelligenza delle Scritture », e costituì la Chiesa messaggera, interprete e custode della rivelazione, perché fosse « colonna e sostegno della verità ». – Coloro poi sui quali maggiormente si riflette la gloria di Efrem, portino, come si conviene, il peso di tale onore. Vogliamo parlare dell’illustre Famiglia dei monaci, la quale, nata in Oriente con Antonio e Basilio, si è estesa poi per molteplici rami nei paesi dell’Occidente e per tanti titoli è molto benemerita della società cristiana. I seguaci della perfezione evangelica non cessino mai di fissare il loro sguardo sull’anacoreta di Edessa e di imitarlo. Il monaco infatti tanto più sarà utile alla Chiesa, quanto più, davanti a Dio e agli uomini, mostrerà in se stesso ciò che il suo abito significa, cioè se, come hanno detto gli antichi Padri d’Oriente, sarà « il figlio della promessa » e se sarà, come bene lo definisce il beato San Nilo il Giovane, « l’Angelo, le cui opere sono la misericordia, la pace e il sacrificio di lode ». – Infine tutti coloro ai quali voi, Venerabili Fratelli, siete preposti, sia del clero sia dei fedeli, devono imparare dal beato Efrem che l’amore verso la patria terrena — i cui doveri si fondano sulla pratica della dottrina cristiana — non deve essere disgiunto dall’amore verso la patria celeste, e tanto meno anteposto: di quella patria, diciamo, che altro non è che il dominio intimo di Dio nelle anime dei giusti: dominio che qui inizia e che sarà perfetto nel cielo. Di tale patria la Chiesa Cattolica è veramente l’immagine mistica, perché, senza distinzione di nazioni e di lingue, accoglie tutti i figli di Dio in una sola famiglia sotto un solo Padre e Pastore. – Inoltre questo santissimo uomo insegna a cercare le sorgenti della vita interiore là dove Cristo le ha poste, cioè nei Sacramenti, nell’osservanza dei precetti evangelici e nel molteplice esercizio della pietà che la stessa liturgia presenta e l’autorità della Chiesa propone. A questo proposito, Noi vogliamo, Venerabili Fratelli, offrire alla vostra meditazione alcuni pensieri del nostro Efrem sul Sacrificio dell’Altare: « Il sacerdote pone con le sue mani Cristo sull’altare perché diventi cibo. Poi si rivolge al Padre come a un servo dicendo: Dammi il tuo Spirito, perché discenda sull’altare e santifichi il pane che vi è deposto perché diventi il Corpo del tuo Figlio unigenito. Il sacerdote gli racconta la passione e la morte di Cristo e gli mette sotto gli occhi le percosse; e Dio non si vergogna delle percosse del suo Figlio primogenito. Il sacerdote dice al Padre invisibile: Ecco, colui che è appeso alla Croce, è tuo Figlio, e le sue vesti sono cosparse di sangue, e il suo fianco è trafitto dalla lancia. Il sacerdote gli ricorda la passione e morte del suo Figlio diletto, come se se ne fosse dimenticato, e il Padre ascolta ed esaudisce le sue preghiere ». Di ciò che Efrem scrive sulla condizione dei giusti dopo la morte, niente si armonizza meglio con la dottrina costante della Chiesa, definita più tardi dal Concilio di Firenze: « Il defunto è condotto dal Signore ed è già introdotto nel regno dei cieli. L’anima del defunto è accolta in cielo ed è inserita come una perla nella corona di Cristo. E ora già dimora presso Dio e i suoi Santi ». – Ma chi potrebbe mettere in risalto la devozione di Efrem verso la Vergine Madre di Dio? «Tu, Signore, e tua Madre », esclama in un inno di Nisibi, « siete i soli che avete una bellezza perfetta sotto ogni riguardo: in Te, mio Signore, non c’é macchia, nella tua Madre non c’é alcun peccato ». Mai questa « cetra dello Spirito Santo » dà suoni più delicati che quando si propone di cantare le lodi di Maria, o la sua immacolata verginità o la sua divina maternità o il suo patrocinio sugli uomini pieno di misericordia. -‘Da non minore entusiasmo si lascia trasportare quando, dalla lontana Edessa, si volta a guardare verso Roma per esaltare con lodi il primato di Pietro: « Vi saluto, o santi re, o Apostoli di Cristo », così saluta il coro degli Apostoli, « Salute a voi, luce del mondo… La lampada è Cristo, il candelabro è Pietro, l’olio è il dono dello Spirito Santo. Salve, o Pietro, porta dei peccatori, lingua dei discepoli, voce dei predicatori, occhio degli Apostoli, custode del cielo, il primo di coloro che portano le chiavi ». E altrove: «Tu sei beato, Pietro, capo e lingua del corpo dei tuoi fratelli, di quel corpo, dico, che è composto di discepoli, i cui occhi sono figli di Zebedeo. Beati sono anche loro, perché contemplano quel trono del Maestro, che hanno chiesto per sé. Si sente la vera voce del Padre in favore di Pietro, che diventa una pietra irremovibile ». In un altro inno così fa parlare il Signore Gesù al suo primo Vicario in terra: « Simone, mio discepolo, Io ti ho costituito fondamento della santa Chiesa, ti ho chiamato in anticipo pietra perché tu sostenga tutto il mio edificio. Tu sei il sorvegliante di coloro che mi edificano la Chiesa sulla terra. Se volessero edificare qualcosa contro le regole, tu, che sei stato posto da me come fondamento, riprendili. Tu sei la sorgente di quella fontana a cui si attinge la mia dottrina; tu sei il capo dei miei discepoli; per mezzo tuo disseterò tutte le genti. È tua quella dolcezza vivificante, che io elargisco. Ti ho scelto perché tu fossi, nei miei disegni, come il primogenito e l’erede dei miei tesori. Ti ho dato la chiave del mio regno, ed ecco ti faccio signore di tutti i miei tesori . – Mentre ripensavamo nel Nostro intimo tutte queste cose, pregavamo con lacrime Iddio infinitamente buono affinché riconduca al seno e all’abbraccio della Chiesa Romana gli Orientali che una separazione ormai troppo lunga, contro la dottrina dei loro stessi antichi Padri che abbiamo ricordati, tiene miseramente lontani da questa Sede del beato Pietro. Con questa Sede, come testimonia Ireneo che dal suo maestro Policarpo aveva appreso le dottrine tramandate dall’Apostolo Giovanni, « è indispensabile che in virtù della sua supremazia ogni Chiesa sia in comunione, e così pure i fedeli di tutto il mondo ». – Intanto Ci è giunta una lettera con la quale i Venerabili Fratelli Ignazio Efrem II Rahmani, Patriarca Antiocheno dei Siri, Elia Pietro Huayek, Patriarca Antiocheno dei Maroniti, e Giuseppe Emanuele Thomas, Patriarca Babilonese dei Caldei, adducendo ragioni di grande rilievo, Ci chiedono con insistenza di voler accordare e confermare con la Nostra autorità Apostolica a Sant’Efrem il Siro, Diacono di Edessa, il titolo e gli onori di Dottore della Chiesa universale. A questa supplica si sono aggiunte anche lettere postulatorie di alcuni Cardinali della Santa Romana Chiesa, di Vescovi, di Abati e di Superiori di Istituti religiosi di rito greco e latino. Trovammo che la richiesta, in linea anche con i Nostri desideri, meritava di essere presa prontamente in considerazione. Sapevamo infatti che i Padri Orientali, che abbiamo citato, hanno sempre ritenuto il beato Efrem maestro di verità, messaggero di Dio e Dottore della Chiesa Cattolica. Sapevamo anche che la sua autorità, fin dall’inizio, aveva avuto grandissimo peso non solo presso i Siri, ma anche presso i popoli vicini: Caldei, Armeni, Maroniti e Greci. Tutti questi hanno tradotto, ciascuno nella propria lingua, le opere del Diacono di Edessa e sono soliti a leggerle nelle loro assemblee liturgiche e a rileggerle volentieri privatamente in casa, così che capita di trovare ancor oggi i suoi inni presso gli Slavi, i Copti, gli Etiopi e perfino presso i Giacobiti e i Nestoriani. Abbiamo pure considerato che quest’uomo prima d’ora è stato tenuto in grande onore dalla Chiesa Romana. Infatti, fin dai tempi antichi essa commemora il beato Efrem nel martirologio il 1° di febbraio, elogiando in particolare la sua santità e la sua dottrina; ma a Roma stessa, verso la fine del secolo XVI fu eretta sul Viminale una Chiesa in onore della Beatissima Vergine e di Sant’Efrem. D’altra parte, è un fatto noto e incontestabile che i Nostri Predecessori Gregorio XIII e Benedetto XIV, verso i quali gli Orientali hanno più di un motivo per essere riconoscenti, si sono adoperati affinché, prima il Voss e poi l’Assemani, raccogliessero con la maggior diligenza possibile le opere di Sant’Efrem e le pubblicassero e le divulgassero per illustrare la fede cattolica ed alimentare la pietà dei fedeli. Passando poi a fatti più recenti, il Nostro Predecessore Pio X, di santa memoria, nel 1909 approvò la Messa e l’Ufficio proprio in onore del Santo Diacono di Edessa scegliendo in gran parte dalla liturgia siriaca, e ne fece la concessione ai monaci Benedettini del Priorato Gerosolimitano dei Santi Benedetto ed Efrem. Considerate attentamente tutte queste cose, per supplire a ciò che ancora sembrava mancare alla gloria del grande anacoreta e nello stesso tempo per dare ai popoli dell’Oriente cristiano una testimonianza della carità apostolica con la quale pensiamo al loro interesse e al loro onore, Noi, con un recente atto ufficiale abbiamo affidato alla Congregazione dei Riti il compito di espletare secondo le prescrizioni dei sacri canoni e della disciplina attuale la richiesta esposta nella lettera citata. La proposta ebbe un così felice esito, che i Cardinali preposti a quella sacra Congregazione dichiararono per mezzo del loro Prefetto, il Nostro Venerabile Fratello Antonio Vico, Cardinale della Santa Romana Chiesa, Vescovo di Porto e di Santa Rufina, che anche loro desideravano ciò e umilmente Ci chiedevano la stessa cosa che gli altri avevano domandato con le lettere supplicatorie presentate. – Perciò, dopo aver invocato lo Spirito Paraclito, Noi, con la Nostra suprema autorità, conferiamo e confermiamo a Sant’Efrem il Siro, Diacono di Edessa, il titolo e gli onori di Dottore della Chiesa Universale, e stabiliamo che la sua festa, fissata il 18 giugno, sia celebrata dovunque allo stesso titolo con il quale viene celebrato il giorno della nascita degli altri Dottori della Chiesa Universale. – Pertanto, Venerabili Fratelli, mentre Ci rallegriamo di aver conferito questo aumento di gloria e di onore al Santo Dottore, confidiamo nello stesso tempo che in questi momenti così difficili la famiglia universale dei fedeli Cristiani trovi in lui un intercessore e protettore attivissimo e appassionato presso la divina clemenza. I Cattolici orientali avranno in questa decisione una nuova testimonianza della sollecitudine e dell’interessamento tutto particolare che i Romani Pontefici hanno verso le Chiese separate, e Noi, come i Nostri Predecessori, vogliamo che le loro legittime usanze liturgiche e le regole canoniche rimangano per sempre integre e intoccabili. Possano, con l’aiuto di Dio e la protezione di Sant’Efrem, cadere finalmente quelle barriere che con dolore vediamo tener divisa una notevole parte del gregge cristiano dalla mistica pietra, sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa. Spunti, quanto prima, quel giorno beato in cui nei cuori di tutti siano « come pungoli e come chiodi piantati profondamente » le parole della verità evangelica, « che mediante la schiera dei maestri ci sono state date da un unico pastore .

Intanto, come auspicio dei favori celesti e come testimonianza del Nostro amore paterno, impartiamo con affetto a voi, Venerabili Fratelli, a tutto il clero e al popolo a voi affidato l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 5 ottobre 1920, nel settimo anno del Nostro Pontificato.

 BENEDICTUS PP. XV

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. BENEDETTO XV – “PACEM DEI MUNUS PULCHERRIMUM”

Subito dopo la fine del primo conflitto mondiale che aveva procurato morte, devastazioni, rovine immense, S.S. sente il bisogno di indicare la via della riconciliazione e del perdono tra popoli non più belligeranti, ma che ancora covavano in cuore odio e rancore. Da par suo il Sommo Pontefice Vicario di Cristo, ricorda la dottrina insegnata da Cristo ed illustrata dagli Apostoli nei Vangeli, nelle Lettere ai fedeli, e dai Padri nei loro scritti cattolici. Il richiamo ai valori autentici cristiani fondati sull’amore di Dio e delle creature a sua immagine, gli uomini, è quanto mai urgente ed è l’unica vera soluzione all’odio tra fratelli che dovrebbero mirare tutti all’eterna beatitudine e all’incontro con Dio, compresi nel comune Corpo mistico del Redentore. Questo appello è ancor più urgente oggi in queste divisioni, lotte, ribellioni di popoli che funesta nazioni ed interi continenti, tra centinaia di focolai bellici fomentati dall’odio sparso tra le genti dal nemico dell’umanità. I rimedi sono sempre gli stessi, quelli mostrati dal Cristo e dalla dottrina della Chiesa qui riassunta dal Pontefice, e la preghiera con la pressante richiesta della pace che solo Dio può dare.

Benedetto XV
Pacem, Dei munus pulcherrimum

Lettera Enciclica

23 maggio 1920

Una vera pace è fondata sulla riconciliazione e sulla carità

1. La pace, gran dono di Dio, di cui – come dice S. Agostino – nessuna tra le cose mortali è più gradita, nessuna è più desiderabile e migliore; la pace per più di quattro anni così vivamente implorata dai voti dei buoni, dalle preghiere dei fedeli e dalle lagrime delle madri, finalmente ha cominciato a risplendere sui popoli, e Noi per i primi ne godiamo. Senonché troppe ed amarissime ansie conturbano questa gioia paterna; poiché, se quasi dovunque la guerra in qualche modo ebbe fine e furono firmati alcuni patti di pace, restano pur tuttavia i germi di antichi rancori; e voi comprendete, o Venerabili Fratelli, come nessuna pace possa aver consistenza né alcuna alleanza aver vigore, quantunque escogitata in diuturne e laboriose conferenze e solennemente sanzionata, se insieme non si sopiscano gli odi e le inimicizie per mezzo di una riconciliazione fondata sulla carità vicendevole. Intorno a questo argomento adunque, che è della più alta importanza per il bene comune, vogliamo Noi intrattenervi, o Venerabili Fratelli, e nel tempo stesso mettere in guardia i popoli che sono affidati alle vostre cure.

Azione senza sosta del Papa per la ricerca della pace.

2. Veramente fin da quando per arcano disegno di Dio fummo assunti a questa Sede di Pietro, mai Noi abbiamo tralasciato, finché divampò la guerra, di adoperarci senza sosta affinché tutte le nazioni del mondo riprendessero tra di loro al più presto cordiali relazioni. Perciò non cessammo di pregare, di rinnovare esortazioni, di proporre vie di accomodamento, di esperire insomma ogni tentativo per vedere di aprire, col divino aiuto, una qualche apertura ad una pace che fosse giusta, onorevole e duratura; e frattanto rivolgemmo ogni Nostra paterna premura per lenire ovunque quel cumulo immenso di dolori e di sventure d’ogni sorta che accompagnavano l’immane tragedia. Orbene, come fin dall’inizio del Nostro laborioso Pontificato la carità di Gesù Cristo Ci indusse ad adoperarci sia per il ritorno della pace, sia per mitigare gli orrori della guerra, così ora che una qualche pace è stata finalmente conchiusa, egualmente è la stessa carità che Ci spinge ad esortare tutti i Figli della Chiesa, o meglio, tutti gli uomini dell’universo, perché vogliano deporre gli inveterati rancori e dar luogo al reciproco amore ed alla concordia.

Il messaggio del Cristianesimo è stato chiamato “Evangelo dl pace”

3. Non occorre che Ci dilunghiamo troppo a dimostrare come l’umanità andrebbe incontro ai più gravi disastri, se, pur essendo conchiusa la pace, continuassero tra i popoli latenti ostilità ed avversioni. Non parliamo dei danni di tutto ciò che è frutto della civiltà e del progresso, come dei commerci e delle industrie, delle lettere e delle arti, le quali cose fioriscono soltanto in seno alla tranquilla convivenza dei popoli. Ma, ciò che più importa, ne verrebbe colpita la vita stessa del Cristianesimo che è essenzialmente fondato sulla carità, essendo chiamata la predicazione stessa della legge di Cristo “Evangelo di pace”. – Infatti, come voi ben sapete e più volte Noi abbiamo già ricordato, nessuna cosa fu così spesso e con tanta insistenza trasmessa dal divino Maestro ai suoi discepoli, quanto questo precetto della carità fraterna, come quello che in sé racchiude tutti gli altri e Gesù Cristo chiamò nuovo e suo un tale precetto e volle che esso fosse come la tessera di riconoscimento dei Cristiani, per cui si potessero facilmente distinguere dagli altri. Né diverso infine fu il testamento che Egli morendo lasciò ai suoi seguaci, quando pregò che si amassero fra loro, ed amandosi si sforzassero di imitare quella unità ineffabile che si riscontra tra le Persone della SS.ma Trinità: “Che siano tutti una sola cosa… come una sola cosa siam noi.., affinché siano consumati nell’unità”. – Gli Apostoli pertanto, seguendo le orme del divin Maestro, ed ammaestrati dalla viva sua voce, erano di una assiduità meravigliosa nell’esortare così i fedeli: “Sopra tutto poi abbiate perseverante fra voi stessi la mutua carità”. “E sopra tutte queste cose conservate la carità, la quale è il vincolo della perfezione”. “Carissimi amiamoci l’un l’altro; perché la carità è da Dio”. A questi avvertimenti di Gesù Cristo e degli Apostoli erano ben ossequenti quei nostri fratelli di tempi antichi, i quali, sebbene appartenenti a diverse nazioni talvolta in lotta tra loro, tuttavia, cancellando il ricordo delle contese con volontario oblio, vivevan in perfetta concordia. E veramente contrastava non poco una così intima unione di mente e di cuore da quelle mortali ostilità che allora divampavano in seno al consorzio umano.

Amare anche i nemici secondo il comandamento dl Gesù.

4. Ora, quanto si è detto fin qui per imprimere il precetto della carità, vale anche per il perdono delle offese, non meno solennemente comandato dal Signore: “Ma io vi dico: Amate i vostri nemici; fate del bene a coloro che vi odiano: e pregate per coloro che vi perseguitano e vi calunniano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli: il quale fa che si levi il suo sole sopra i buoni e sopra i cattivi”. Di qui quel gravissimo monito dell’Apostolo S. Giovanni: “Chiunque odia il suo fratello, è omicida. E voi sapete, che nessun omicida ha la vita eterna abitante in se stesso”. Finalmente, Gesù Cristo ci ha insegnato a pregare il Signore in modo che noi stessi domandiamo di essere perdonati a patto di perdonare agli altri: “E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Che se talvolta riesce troppo ardua e difficile l’osservanza di questa legge, a vincere ogni difficoltà, lo stesso Redentore del genere umano non solo ci assiste con la sua divina grazia ma anche col suo mirabile esempio, poiché mentre pendeva dalla croce, scusò presso il Padre coloro che così ingiustamente e iniquamente lo tormentavano, con quelle parole: “Padre, perdona loro: giacché non sanno quel che si fanno”. Noi pertanto, che per i primi dobbiamo imitare la misericordia e la benignità di Gesù Cristo, di cui, senza alcun merito, teniamo le veci, a suo esempio Noi perdoniamo di gran cuore a tutti e singoli i Nostri nemici che consapevoli o inconsci ricoprirono o coprono anche ora la persona e l’opera Nostra con ogni sorta di ingiurie, e tutti abbracciamo con somma carità e benevolenza non tralasciando alcuna occasione per beneficarli quanto più possiamo: e ciò stesso son tenuti a praticare i Cristiani veramente degni di tal nome, verso coloro dai quali, durante la guerra, ricevettero offesa.

Il triste spettacolo delle miserie derivanti dalla guerra.

5. Infatti la carità cristiana non si limita a non odiare i nemici e ad amarli come fratelli, ma vuole ancora che facciamo loro del bene; seguendo in ciò le orme del nostro Divin Redentore, il quale “compì la sua carriera, facendo del bene e sanando tutti coloro che erano sotto il potere del diavolo” e terminò il corso della sua vita mortale, spesa tutta nel beneficare immensamente gli uomini, versando per essi il suo sangue. Per cui disse S. Giovanni: “Da questo abbiamo conosciuto l’amore: poiché Egli ha dato la sua vita per noi: e noi pure dobbiamo dare la vita per i fratelli. Chi avesse dei beni di questo mondo, e vedesse il suo fratello in necessità, e gli chiudesse il suo cuore, come può essere in costui l’amore di Dio? Figlioli miei, non amiamo in parole e con la lingua, ma con le opere e con verità”. Mai però vi fu tempo in cui si dovessero più “dilatare i confini della carità” quanto in questi giorni di universale angustia e dolore; né mai forse come ora ebbe bisogno l’umanità di quella comune beneficenza che fiorisce dal sincero amore per il prossimo e che è piena di sacrificio e di fervore. Poiché, se volgiamo lo sguardo dovunque la guerra ha imperversato furibonda, ci si parano innanzi immense regioni desolate e squallide, moltitudini ridotte a tale estremo da mancare di pane, di indumenti e di letto; vedove ed orfani innumerevoli nell’attesa di un qualche soccorso; infine un’ingente schiera di esseri debilitati, specialmente bambini e fanciulli, i quali attestano nei loro corpicciuoli miseri l’atrocità della guerra.

La Chiesa ha sempre operato come il buon Samaritano.

6. A chi contempla tal quadro di miserie, da cui è oppresso il genere umano, s’affaccia spontaneo alla mente il ricordo di quel viandante evangelico, il quale, recandosi da Gerusalemme a Gerico, s’imbatté negli assassini, che, spogliatolo e copertolo di ferite, lo abbandonarono semivivo sulla via. I due casi si assomigliano grandemente; e come a costui si avvicinò pieno di compassione il Samaritano che versatogli sulle ferite olio e vino lo fasciò, lo condusse all’albergo e si prese cura di lui; così a risanare le ferite del genere umano è necessario che vi appresti la sua mano Gesù Cristo, di cui il Samaritano era figura ed immagine. – Tale appunto è l’opera ed il compito che la Chiesa per sé reclama come erede e custode dello spirito di Gesù Cristo; la Chiesa, diciamo, la cui intera esistenza è tutta intessuta di una mirabile varietà di benefici: essa, infatti, “quale vera madre dei Cristiani, ha tali tenerezze di amore per il prossimo che per tutti i vari malanni che travagliano l’anima col peccato, ha pronta ogni specie di medicina”; onde “tratta ed ammaestra puerilmente i fanciulli, i giovani con fortezza, i vecchi con placida calma, secondo che ciascuno è tale non solo di corpo ma anche di animo”. Questi modi cristiani di comportarsi poi, raddolcendo gli animi, sono di una straordinaria efficacia per ricondurre i popoli alla tranquillità.

Invito a tutti i cattolici, religiosi e laici, ad operare per ristabilire la concordia.

7. Perciò vi preghiamo, o Venerabili Fratelli, e vi scongiuriamo nelle viscere di carità di Gesù Cristo, adoperatevi pienamente non solo per stimolare i fedeli a voi affidati a deporre gli odi e a condannare le offese, ma anche per promuovere con più intensità tutte quelle opere di cristiana beneficenza, che siano di aiuto ai bisognosi, di conforto agli afflitti, di presidio ai deboli, che arrechino insomma un soccorso opportuno e molteplice a tutti coloro che hanno riportato dalla guerra una più grave disgrazia. Desideriamo che voi esortiate specialmente i vostri Sacerdoti, come ministri di pace, affinché siano assidui in questo che è il compendio essenziale della vita cristiana, cioè nell’inculcare l’amore verso i prossimi, anche se nemici, e “fatti tutto a tutti” in modo da essere di luminoso esempio, combattono ovunque contro l’inimicizia e l’odio, ben sicuri di fare cosa gratissima al Cuore amantissimo di Gesù e a Colui che, sebbene indegnamente, ne sostiene le veci qui in terra. A questo proposito si devono pure caldamente esortare e pregare i giornalisti e scrittori cattolici, perché “come eletti di Dio, santi ed amati”, vogliano rivestirsi “di viscere di misericordia e di benignità”, esprimendola nei loro scritti, con l’astenersi non solo dalle false e vane accuse, ma ancora da ogni intemperanza e asprezza di linguaggio, la quale, mentre è contraria alla legge cristiana, non farebbe altro che riaprire piaghe non ancora risanate, tanto più che gli animi già inaspriti da recenti ferite mal sopportano ogni più lieve ingiuria.

È necessaria la ripresa di relazioni amichevoli fra i popoli già in guerra fra loro.

8. Quanto noi abbiamo qui ricordato ai singoli circa il dovere che essi hanno di praticare la carità, intendiamo che sia pure esteso a quei popoli che hanno combattuto la grande guerra, affinché, rimossa, per quanto è possibile, ogni causa di dissidio e salve naturalmente le ragioni della giustizia, riprendano tra di loro relazioni amichevoli. Poiché non è affatto diversa la legge evangelica della carità tra gli individui da quella che deve esistere tra gli Stati e le nazioni, non essendo esse infine che l’insieme dei singoli individui. Dal momento poi che la guerra è cessata, non solo per motivi di carità ma anche per una certa necessità di cose, si va delineando un legame universale di popoli, spinti naturalmente ad unirsi fra loro da mutui bisogni, oltreché da vicendevole benevolenza, specialmente ora con l’accresciuta civilizzazione e con le vie di comunicazione mirabilmente moltiplicate.

Tolto il divieto ai Sovrani cattolici di venire a Roma in forma ufficiale.

9. E veramente questa Sede Apostolica non si stancò mai d’inculcare durante la guerra, come dicemmo, un tale perdono delle offese e la fraterna riconciliazione dei popoli, conformemente alla legge santissima di Gesù Cristo e secondo le stesse esigenze del consorzio civile; né permise che questi principi morali fossero dimenticati anche in mezzo alle rivalità e agli odi; ed ora, dopo i trattati di pace, questi principi li propugna e li proclama ancor più altamente; come ha fatto poc’anzi nella lettera ai vescovi della Germania e nell’altra indirizzata all’Arcivescovo di Parigi. E poiché a mantenere ed accrescere questa concordia tra le genti non poco contribuiscono le visite che i capi degli Stati e dei Governi usano reciprocamente farsi per sbrigare gli affari di maggiore importanza, Noi, considerando le mutate circostanze dei tempi e la piega pericolosa degli eventi, pur di cooperare a questo affratellamento dei popoli, non saremmo alieni dal mitigare in qualche modo il rigore di quelle condizioni che, abbattuto il Governo civile della Santa Sede, furono giustamente stabilite dai Nostri antecessori ad impedire la venuta dei Sovrani cattolici a Roma in forma ufficiale. Però nel tempo stesso solennemente proclamiamo che questa Nostra remissività, consigliata, o meglio voluta, come pare, dalla gravità di tempi che corrono, non si deve affatto interpretare quale una tacita rinunzia ai sacrosanti diritti, quasi che la Santa Sede si contenti dello stato anormale in cui si trova al presente. Che anzi “le proteste che i Nostri Predecessori fecero più volte, non affatto mossi da interessi umani ma dalla santità del dovere, per difendere cioè la dignità e i diritti di questa Sede Apostolica. Noi qui, in questa circostanza, le rinnoviamo per le identiche ragioni”, chiedendo ripetutamente e con maggior insistenza che, mentre si è pattuita la pace tra le nazioni, “cessi anche per il Capo della Chiesa questa condizione anormale, che gravemente nuoce, e per più motivi, alla stessa tranquillità dei popoli”.

Invito a costituire una Lega delle nazioni.

10. Ristabilite così le cose, secondo l’ordine voluto dalla giustizia e dalla carità, e riconciliate tra di loro le genti, sarebbe veramente desiderabile, o Venerabili Fratelli, che tutti gli Stati, rimossi i vicendevoli sospetti, si riunissero in una sola società o meglio famiglia dei popoli, sia per garantire la propria indipendenza, sia per tutelare l’ordine del civile consorzio. E a formar questa società fra le genti è di stimolo, per tacere molte altre considerazioni, il bisogno stesso generalmente riconosciuto di ridurre, se non è dato di abolire, le enormi spese militari che non possono più oltre essere sostenute dagli Stati, affinché in tal modo si impediscano per l’avvenire guerre così micidiali e tremende e si assicuri a ciascun popolo nei suoi giusti confini l’indipendenza e l’integrità del proprio territorio.

La Chiesa nei secoli passati ha sempre operato per l’unione dei popoli.

11. E una volta che questa Lega tra le nazioni sia fondata sulla legge cristiana, per tutto ciò che riguarda la giustizia e la carità, non sarà certo la Chiesa che rifiuterà il suo valido contributo, poiché, essendo essa il tipo più perfetto di società universale, per la sua stessa essenza e finalità è di una meravigliosa efficacia ad affratellare tra loro gli uomini, non solo in ordine alla loro eterna salvezza, ma anche al loro benessere materiale; li conduce cioè attraverso i beni temporali, in modo da non perdere gli eterni. Perciò sappiamo dalla storia, che da quando la Chiesa pervase del suo spirito le antiche e barbariche genti d’Europa, cessarono un po’ alla volta le varie e profonde contese che le dividevano, e federandosi col tempo in una unica società omogenea, diedero origine all’Europa cristiana, la quale, sotto la guida e l’auspicio della Chiesa, mentre conservò a ciascuna nazione la propria caratteristica, culminò in una compatta unità, fautrice di prosperità e di grandezza. Molto bene a questo proposito dice S. Agostino: “Questa città celeste, mentre vive esule quaggiù in terra, chiama a sé cittadini di ogni nazione, e compone di tutte le genti una sola società pellegrinante; non si cura di ciò che vi è di diverso nei costumi, nelle leggi e nelle istituzioni; cose tutte che, mirando alla conquista e al mantenimento della pace terrena, la Chiesa, invece di ripudiare o distruggere, gelosamente conserva; poiché, quantunque esse variino secondo le nazioni, vengono tutte indirizzate allo stesso fine della pace terrena, purché non impediscano l’esercizio della Religione che insegna ad adorare l’unico sommo e vero Dio” (20). E lo stesso Santo Dottore così parla alla Chiesa: “Tu, i cittadini, le genti e gli uomini tutti, rievocando la comune origine, non solo li unisci tra loro ma ancora li affratelli”.

Esortazione finale a tutti i popoli.

12. Noi pertanto, rifacendoci al principio del Nostro discorso, Ci rivolgiamo con affetto a tutti i Nostri figli e li scongiuriamo nel nome di Nostro Signor Gesù Cristo perché vogliamo dimenticare le reciproche rivalità ed offese, e stringersi nell’amplesso della carità cristiana, dinanzi a cui non vi sono stranieri; esortiamo inoltre vivamente tutte le nazioni affinché, sotto l’influsso della benevolenza cristiana, s’inducano a stabilire tra loro una vera pace e a collegarsi in un’unica alleanza, che, con l’aiuto della giustizia, sia duratura; infine facciamo appello a tutti gli uomini e popoli della terra perché aderiscano con la mente e con il cuore alla Chiesa Cattolica, e per la Chiesa, a Cristo Redentore del genere umano: così che possiamo loro rivolgere con tutta verità quelle parole di S. Paolo agli Efesini: “Ma adesso in Cristo Gesù, voi che eravate una volta lontani, siete diventati vicini, mercé il Sangue di Cristo. Poiché egli è nostra pace, egli che delle due cose ne ha fatta una sola, annullando la parete intermedia di separazione… distruggendo in se stesso le inimicizie. E venne ad annunziare la pace a voi, che eravate lontani, e pace ai vicini”. Né sono meno a proposito quelle parole che il medesimo Apostolo indirizzava ai Colossesi: “Non mentite più l’uno verso dell’altro, essendovi spogliati dell’uomo vecchio e di tutte le opere di lui, ed essendovi rivestiti del nuovo, di quello, il quale, si va rinnovando in proporzione della conoscenza, conformandosi all’immagine di colui che lo creò: dove non c’è Greco e Giudeo, circonciso e incirconciso, Barbaro e Scita, servo e libero: ma Cristo in ogni cosa ed in tutti”.

Frattanto, confidando nel patrocinio della Vergine Immacolata che testé volemmo fosse universalmente invocata “Regina della pace”, come pure in quello dei tre novelli Santi, umilmente imploriamo il divino Spirito Paraclito, perché “conceda propizio alla sua Chiesa il dono dell’unità e della pace” e con ulteriore effusione di carità, diretta alla comune salvezza, rinnovi la faccia della terra…

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. BENEDETTO XV – “PATERNO JAM DIU”

Il Santo Padre, nel tempo immediatamente seguente al primo conflitto mondiale, mosso dalla carità verso i fratelli più bisognosi dell’Europa centrale, in particolare i bambini, commosso dagli infiniti drammi umani, smuove i fedeli Cattolici ad aprirsi alla carità per alleviare le condizioni economiche di quei popoli travagliati dalle brutture di una guerra orribile. Ecco l’amore di un padre spirituale che al bisogno diviene anche benefattore materiale. Questo è un vero Pontefice, Vicario in terra del Dio uomo che si commuoveva fino al pianto nel vedere i bisogni temporali degli uomini che era venuto a redimere dalla schiavitù spirituale del demonio. Oggi più che mai abbiamo bisogno dell’intervento divino per evitare il baratro in cui stanno precipitando interi popoli e nazioni e le società un tempo cristiane oggi apostate dalla fede nel nostro Salvatore e Redentore.

PATERNO IAM DIU

ENCICLICA DI PAPA BENEDETTO XV

SUI BAMBINI DELL’EUROPA CENTRALE

AI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI

E ALTRI ORDINARI IN PACE E COMUNIONE CON LA SANTA SEDE

Venerabili Fratelli,

Salute e Benedizione Apostolica.

Era attesa e speranza del Nostro cuore paterno che, una volta terminato il terribile conflitto e ripristinato lo spirito di carità cristiana, le regioni desolate dalla carestia e dalla miseria, soprattutto nell’Europa centrale, potessero a poco a poco migliorare la loro condizione, grazie agli sforzi congiunti di tutti gli uomini buoni. Ma questa Nostra speranza non è stata realizzata dagli eventi. Infatti, da ogni parte ci giunge notizia che quelle popolose regioni sono prive di cibo e di vestiario in una misura che va al di là di ogni immaginazione, cosicché un deplorevole decadimento della salute è il risultato tra i meno resistenti, e specialmente tra i bambini. Questa loro disgrazia affligge il Nostro cuore tanto più che essi sono del tutto innocenti e persino ignari del sanguinoso conflitto che ha desolato quasi tutto il mondo; inoltre, essi rappresentano i germi delle generazioni future, che non possono non risentire della loro debilitazione.

2. Tuttavia, la nostra angoscia è stata in qualche modo alleviata dall’apprendere che uomini di buona volontà si sono riuniti in società per “salvare i bambini”. Non abbiamo esitato ad approvare e confermare con la nostra autorità, come era giusto, questo nobile piano. Infatti, esso corrisponde al grave dovere di affetto che sentiamo nei confronti di quella tenera età che è più cara al nostro Divino Redentore e che ha meno forza per sopportare e soffrire i mali. In effetti, l’avevamo già fatto in passato. Ricorderete che in tempi non lontani ci siamo adoperati con i nostri mezzi per soccorrere i bambini del Belgio che si trovavano in condizioni estreme di fame e di miseria, raccomandandoli alla pubblica carità dei Cattolici. La generosità di quest’ultima fu tale che in gran parte fu possibile provvedere alle necessità di tanti bambini innocenti e preservarne la vita e la salute. Infatti, non appena abbiamo rivolto la nostra esortazione per questo nobile scopo all’Episcopato degli Stati Uniti d’America, i nostri desideri sono stati generosamente soddisfatti dalla più ampia corrispondenza. Registriamo oggi questo felice risultato, non solo per rendere il tributo del Nostro elogio a uomini degni di essere ricordati negli annali della carità cristiana, ma anche per invitare con la Nostra voce e la Nostra autorità i Vescovi di tutto il mondo a prendere provvedimenti per attuare la Nostra proposta, e a impiegare a tal fine tutto il loro prestigio presso i loro greggi. Con l’approssimarsi del periodo natalizio, che commemora la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo, il nostro pensiero vola spontaneamente ai poveri bambini, specialmente nell’Europa centrale, che sentono più crudelmente la mancanza delle necessità della vita; e abbracciamo questa tenera età con tanta più sollecitudine in quanto richiama più esattamente l’immagine del Divino Bambino che sostiene per amore degli uomini nella grotta di Betlemme il rigore dell’inverno e la mancanza di ogni cosa. Nessuna circostanza potrebbe essere più opportuna di questa per indurci a sollecitare per i bambini innocenti la carità e la pietà dei cristiani e di tutti coloro che non disperano della salvezza del genere umano.

3. Perciò, Venerabili Fratelli, allo scopo di raggiungere nelle vostre rispettive diocesi l’obiettivo di cui abbiamo parlato, ordiniamo che il prossimo 28 dicembre, festa dei Santi Innocenti, si facciano preghiere pubbliche e si raccolgano le elemosine dei fedeli. Per aiutare su scala più ampia tanti bambini poveri in questa nobilissima gara di carità, oltre al denaro sarà necessario raccogliere cibo, medicine e vestiti, tutti elementi che mancano in queste regioni. Non è il caso di dilungarsi a spiegare come queste offerte possano essere convenientemente suddivise e inviate a destinazione. Questo compito può essere affidato ai comitati che sono stati costituiti per questo scopo e che possono provvedere in qualsiasi modo.

4. Infine, confidiamo che l’esortazione che, mossi dal dovere di quella paternità universale che Dio ci ha affidato, abbiamo fatto, sebbene rivolta principalmente ai cattolici, possa essere benevolmente ascoltata da tutti coloro che hanno sentimenti di umanità. Inoltre, per dare esempio agli altri, nonostante le continue richieste di aiuto che ci giungono da ogni parte, abbiamo deciso, nella misura delle nostre possibilità, di contribuire al soccorso di questi poveri bambini con la somma di 100.000 lire.

5. Nel frattempo, come auspicio dei felici risultati che ci aspettiamo dalla vostra benevolenza, impartiamo con tutto l’affetto a voi, Venerabili Fratelli, e al vostro clero e popolo, la Benedizione Apostolica.

Dato a San Pietro, Roma, il 24 novembre dell’anno 1919, nel sesto del Nostro Pontificato.

BENEDETTO XV

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. BENEDETTO XV – “IN HAC TANTA”

Il Santo Padre esalta in questa Lettera Enciclica la figura dell’apostolo della Germania, san Bonifacio, Santo che evangelizzò in lungo e largo quelle terre allora dedite all’idolatria ed all’errore. L’elemento che il Sommo Pontefice particolarmente sottolinea, è l’attaccamento del gran Santo alla Sede Apostolica romana alla quale segnalava ogni sua mossa e da cui accettava consigli ed ordini come da Dio stesso. Questo è l’esempio che tutti i Cristiani oggi dovrebbero seguire e la cui inosservanza è causa di disgrazie sociali e personali, soprattutto spirituali che conducono a certa dannazione. La condizione preliminare che conduce alla salvezza è proprio l’unione tenace al soglio di s. Pietro che rende la fede degna di meriti e grazie per la vita eterna. Modernisti, scismatici pseudotradizionalisti, eretici di ogni risma battono la via che conduce lontano dal Vicario di Cristo in terra, lontano da Cristo, da Dio e dalla eterna beatitudine. Che s. Bonifacio ci aiuti ad amare e seguire il Santo Padre validamente eletto, voce dell’unico ed invariabile Spirito Santo, anima della “vera” unica immutabile Chiesa.

Benedetto XV
In hac tanta

Lettera Enciclica

Ai Vescovi di Germania, rievocando il dodicesimo centenario della Missione Apostolica in quel Paese.

Fra tanti affanni e difficoltà d’ogni genere che Ci turbano in tempi cosi’ penosi e ancora più, per usare l’espressione dell’Apostolo, ” oltre queste preoccupazioni esteriori, la cura quotidiana che da Noi attende la Chiesa “, abbiamo seguito, cari Figli e Venerabili Fratelli, con la più viva apprensione lo svolgersi di questi avvenimenti imprevisti, improntati ad anarchia e a disordine, che si sono ultimamente svolti presso di voi e presso i vostri popoli e che ancora tengono gli animi sospesi nell’incertezza dell’avvenire. In questi momenti torbidi ed oscuri un raggio di luce sembra venire dal vostro paese, messaggio di speranze e di gioia: il lieto ricordo del saluto portato alla Germania, or sono dodici secoli, da Bonifacio, legato del Seggio Apostolico, che l’autorità del Pontefice aveva designato araldo del Santo Vangelo. Ci è quindi sommamente gradito l’intrattenerci ora con voi, perché reciproca consolazione ne venga ai nostri spiriti, e per esprimervi il Nostro paterno compiacimento. – Ci uniamo a voi in questa speranza e in questa gioia, e vi confermiamo il Nostro amore e la Nostra paterna benevolenza verso la vostra nazione, commemorando questa antica unione del popolo tedesco con la Sede Apostolica, da Noi vivamente desiderata.
Scaturirono da essa per la vostra patria i primi elementi della fede, che presto ebbero un superbo sviluppo, allorché dal Seggio Apostolico a un tale uomo fu affidata la legazione romana, resa nobile dalla gloria delle gesta compiute e sublimata dal sangue dei martiri. Dopo dodici secoli di questo felice inizio della religione cristiana, Noi vediamo giustamente prepararsi da voi, compatibilmente con le circostanze dei tempi, solennità secolari, che celebreranno con la memore riconoscenza degli uomini e con degne lodi, questa nuova era di civiltà cristiana, iniziata dalla missione e dalla predicazione di Bonifacio e sviluppata dai suoi discepoli e successori, per la salute e la prosperità della Germania. – Sappiamo, amati Figli e Venerabili Fratelli, che voi indirizzate questo lieto ricordo e questa felice celebrazione del passato a perfezionare il presente ed assicurare, per l’avvenire, l’unità e la pace religiosa, che Noi cosi vivamente desideriamo. Questo immenso bene, che emana solamente dalla fede e dalla carità cristiana, fu portato dal cielo da Gesù Cristo, nostro Dio e Signore, e da Lui affidato alla Sua Chiesa e al suo Vicario in terra, il Pontefice Romano, per custodirlo, propagarlo, difenderlo. Donde la necessità dell’unione con la Sede Apostolica; unione di cui Bonifacio fu l’araldo perfetto; di qui anche il sorgere di più strette relazioni di amicizia e buoni uffici fra la Santa Sede romana e la vostra nazione, che Bonifacio stesso ha cosi meravigliosamente avvicinato a Cristo e al Suo Vicario sulla terra. Evocandone il ricordo, facciamo voti perché questa unione e questa armonia perfetta si ristabiliscano presso tutti i popoli, si che “Cristo sia tutto in tutti” (Coloss. III, 11). E dopo tanti secoli, è impossibile ricordare senza un vivo sentimento di gioia ciò che così fedelmente gli scrittori di quell’epoca lontana, e particolarmente i compagni di Bonifacio, fra cui il noto Vescovo Willibaldo, riportarono intorno alle virtù e alle opere di questo Santo e soprattutto intorno all’inizio e al felice sviluppo della legazione romana a Lui affidata presso il popolo germanico. Per la lunga pratica di vita religiosa, che fin dalla più tenera età nella sua patria aveva abbracciato, e per l’esperienza di apostolato acquisita fra le nazioni barbare in qualche tentativo fatto, egli comprese come non avrebbe raccolto frutti durevoli senza il consenso e l’approvazione della Sede Apostolica e senza la sua missione e il suo mandato. Così, dopo aver rifiutato l’onorevolissima dignità d’abate e detto addio ai religiosi, suoi fratelli, malgrado le loro preghiere e le loro lacrime, egli parti e attraverso vaste terre e vie ignote di mari giunse felicemente alla sede dell’Apostolo Pietro. Qui s’intrattiene col Santo Padre Gregorio II, che allora sedeva sul seggio papale, e “gli racconta il suo viaggio, gli espone la ragione della sua venuta e il desiderio che da lungo tempo lo tormenta”. Il Papa accoglie questo Santo “col viso sorridente e lo sguardo pieno di dolcezza”. E non solo lo ammette più volte in udienza, ma “colloqui tiene con lui ogni giorno importanti” (Vita di San Bonifacio, di Willibaldo, c. V, 13-14) e infine gli affida nei termini più solenni e per lettere ufficiali, la missione di predicare il Vangelo fra i popoli della Germania. Le quali lettere (Ep. Exigit manifestata, inter Bonifacii epistulas XII, al. 2) spiegano meglio e mettono maggiormente in rilievo lo scopo e l’importanza della missione, di quanto non facciano gli scrittori di quell’epoca nel ricordare il mandato del “Seggio Apostolico” o del “Pontefice Apostolico”. – I termini che egli usa sono improntati ad una tale gravità e a tanta autorità, che difficilmente se ne possono trovare di più espressivi. “Lo scopo che tu ti sei proposto e che Ci rivela il tuo ardente amore per Cristo e la tua fede purissima che si è manifestata a Noi, esigono che Noi Ci serviamo di te come aiuto per la diffusione della parola divina, che la Provvidenza Ci ha affidato”. -Infine, dopo averne lodato la cultura, l’indole, i propositi, e l’autorità suprema del Seggio Apostolico, da Bonifacio stesso invocata, solennemente conclude: “Perciò, nel nome dell’indivisibile Trinità, per la saldissima autorità del Beato Pietro, Principe degli Apostoli, Noi, che da Lui abbiamo ereditato il Magistero della dottrina e che nella Santa Sede ne occupiamo il posto, riconosciamo la purezza della tua fede ed ordiniamo che tu, con la grazia infinita di Dio, vada tra quei popoli che vivono nell’ignoranza e nell’errore, per insegnar loro la verità, far loro conoscere l’avvento del regno di Dio e il nome Santissimo di Nostro Signor Gesù Cristo”. L’esorta infine ad osservare sempre nella somministrazione dei Sacramenti : “la forma rituale della Sede Apostolica” ed a ricorrere al Santo Pontefice ogni qualvolta egli ne avesse bisogno nell’esercizio del suo ministero. – Dopo questa lettera solenne, chi potrebbe dubitare della benevolenza di questo Santo Pontefice e del suo sincero e rispettoso affetto verso Bonifacio, e della sua paterna sollecitudine verso il popolo germanico, al quale inviava questo pio e tanto caro predicatore? La coscienza della sua missione, unita al profondo amore per Cristo, incitava continuamente all’azione quest’Apostolo; era per lui motivo di consolazione nei momenti più tristi, gli infondeva nuovo coraggio quando le forze sembravano abbandonarlo. Ciò si vide chiaramente al suo arrivo in Frisia e in Turingia quando, come narra un cronista dell’epoca, “secondo il mandato della Sede Apostolica, parlò della religione cristiana ai senatori, ai capi del popolo, indicando loro l’unica e vera via per la conoscenza di Dio e per la fede in Lui”. Questa coscienza della sua missione lo tenne lontano dall’ozio, impedendogli di desiderare il riposo e di fissarsi in un posto qualunque come in un porto tranquillo; e sempre lo indusse ad affrontare le più aspre difficoltà e i più umili lavori, unicamente per procurare di accrescere la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Con tale devozione e tale pietà religiosa che lo rendevano sottomesso alla volontà della Sede Apostolica, alla quale offriva il servizio tanto prezioso della sua opera, inviava a Roma lettere e messaggi, “si da rendere noto — fin dall’inizio della sua missione — al Venerabile Padre della Sede Apostolica tutto ciò che la grazia di Dio aveva per mezzo suo operato” e “chiedeva consiglio alla Sede Apostolica sulle quotidiane necessità della Chiesa di Dio e sulla salvezza dei popoli” (Vita di San Bonifacio, c. VII, 19) Un sentimento tutto particolare di venerazione animava lo spirito di Bonifacio, come egli, negli ultimi anni, ebbe a confessare in un momento disincerità al Papa Zaccaria: “Con l’approvazione e per ordine del Papa Gregorio II, di venerabile memoria, io mi legai per quasi trent’anni con un voto, quello cioè di vivere in amicizia e al servizio della Sede Apostolica; per questo motivo “io ero solito comunicare al Santo Pontefice Romano le mie gioie e i miei dolori, per poter insieme lodare Dio nei momenti felici, e per trovare nella sua parola e nei suoi consigli la forza di resistere alle mie pene” (Ep. LIX, al. 57). Si trovano qua e là preziosi documenti che attestano uno scambio ininterrotto di corrispondenza e un perfetto accordo di volontà fra questo insigne predicatore del Vangelo e la Sede Apostolica, accordo continuato e favorito successivamente da ben quattro Pontefici di gloriosa memoria. I Pontefici Romani non trascurarono alcuna occasione ed ebbero la massima cura per aiutare e favorire questo attivo Legato, mentre Bonifacio da parte sua nulla tralasciava e tutto il suo zelo e il suo operato erano rivolti a compiere santamente e largamente la missione ricevuta dal Pontefice, ch’egli venerava ed amava come figlio. – Papa Gregorio quindi, in considerazione dello sviluppo e dell’estensione acquistata dal campo evangelico affidata a Bonifacio e vedendo crescere la bella messe dei popoli, che per mezzo suo erano entrati nel grembo della Santa Chiesa, decise di conferire a lui il grado più alto del Sacerdozio, imponendogli l’Episcopato su tutta la provincia germanica.

E Bonifacio, che pure aveva resistito di fronte al suo intimo amico Willibaldo, accettò ed obbedì, non osando opporsi al desiderio di un sì grande Pontefice”. Il quale Pontefice Romano aggiunse a questo alto onore un altro favore del tutto particolare e degno d’essere segnalato ai posteri del popolo tedesco, poiché accordò l’amicizia della Sede Apostolica a lui e ai suoi soggetti per sempre (Vita di San Bonifacio, c. VII, 21). Gregorio aveva già dato chiara prova di una siffatta amicizia quando scriveva, rivolgendosi ai Re, ai Principi, ai Vescovi, agli Abati e a tutto il Clero, ai popoli barbari o noviziati della fede cristiana, per invitarli “a dare il loro appoggio e il loro concorso a questo grande servitore di Dio, mandato dalla Chiesa Cattolica Apostolica Romana per diffondere nel mondo la luce della verità”. – La particolare amicizia fra Bonifacio e la Sede Apostolica fu confermata dal successivo Pontefice Gregorio III, allorché Bonifacio gli mandò messaggeri per felicitarsi della Sua elezione Questi gli fecero conoscere il patto d’amicizia che il Suo predecessore aveva concluso con Bonifacio e i suoi e “lo assicurarono della completa dedizione del Suo umile servitore per l’avvenire” e infine, secondo quanto era stato loro segnalato, chiesero che “il missionario devoto fosse ancora beneficato dell’amicizia e del legame col Santo Pontefice e la Santa Chiesa” (Vita di San Bonifacio, c. VIII, 25)..Il Papa accolse i messaggeri con benevolenza, e dopo aver loro rimesso per Bonifacio nuove dignità, fra l’altro “il pallio dell’Arcivescovado, li rimandò al loro paese, carichi di doni e di diverse reliquie di Santi”. Si può a mala pena esprimere “la riconoscenza di questo Apostolo per tali dimostrazioni d’affetto e il conforto che al suo spirito derivò dalla benevolenza della Santa Chiesa verso di lui, colpito dalla misericordia divina” (Vita di San Bonifacio, c. VIII, 25 e segg.). Egli attinse nuove forze per intraprendere più grandi e difficili compiti: edificare nuovi templi, ospedali, monasteri, fondare nuovi villaggi; percorrere nuove regioni predicando il Vangelo; creare nuove diocesi e riformare le antiche, estirpandone i difetti, gli scismi e gli errori; gettare ovunque i germi della fede e della vita cristiana; diffondere i veri dogmi e le vere virtù; portare la civiltà fra nazioni barbare, spesso terribilmente crudeli, servendosi di discepoli ch’egli aveva educato alla pietà, e di alcuni compatrioti venuti d’Inghilterra. In mezzo a questo immenso lavoro, già nobilitato da importanti opere sante, fra le opposizioni, le sciagure, le inquietudini quotidiane, non ostante l’età avanzata che l’induceva a riposarsi dopo una cosi lunga fatica, egli non dava adito alcuno a sentimenti d’orgoglio, ne a desiderio dì riposo; aveva costantemente dinanzi agli occhi la missione da compiere e gli ordini del Pontefice. Perciò “data la sua intima unione col Papa e con tutto il clero, venne a Roma una terza volta, accompagnato dai suoi discepoli, per intrattenersi col Santo Padre e raccomandarsi alle preghiere dei Santi, poiché si sentiva molto avanti negli anni (Vita di San Bonifacio, c. IX, 27 e segg.). Ancora una volta egli fu affabilmente accolto dal Pontefice, “colmato di nuovi doni e di reliquie di Santi” e fornito di preziose e importanti lettere di raccomandazione come lo dimostrano quelle a noi pervenute..I due Gregori ebbero per successore Zaccaria, erede del loro Pontificato e del loro interessamento verso i tedeschi e il loro Apostolo. Non contenti di rinnovare l’antica unione, l’accrebbero ancor più colla testimonianza di una maggior fiducia — se ciò era possibile — e benevolenza verso Bonifacio. Il quale ebbe con Zaccaria lo stesso comportamento, come ne fanno fede i numerosi messaggi e le amichevoli lettere che furono scambiate. Fra le altre cose, che sarebbe troppo lungo riferire, il Papa si rivolge al suo Legato con questi termini affettuosi: “Sappia, carissimo Fratello, la tua santa fraternità, che ti amiamo al punto da desiderarti ogni giorno vicino a Noi, per averti nel Nostro consorzio quale ministro di Dio e della Chiesa di Cristo” (Ep. Susceptis, inter Bonifacii ep. LI, al. 50). A buon diritto quindi, qualche anno prima della sua morte, l’Apostolo della Germania così scriveva al Pontefice Stefano, successore di Zaccaria : “II discepolo della Chiesa Romana domanda costantemente dal più profondo dell’animo l’amicizia e l’unione con la Santa Sede Apostolica” (Ep. LXXVIII). Mosso da una fermissima fede, infiammato di pietà e di carità, Bonifacio conservò sempre intatta e non tralasciò giammai di raccomandarla a quelli che egli aveva formato con la parola evangelica, con una tale assiduità che sembrava volesse assegnarla loro per testamento, questa fedeltà e rara unione con la Sede Apostolica; fedeltà che egli sembrava avere attinto dapprima nella sua patria, nel segreto della vita monastica; fedeltà che in seguito aveva promesso a Roma attraverso un giuramento sul corpo del Beato San Pietro, capo degli Apostoli, prima di affrontare le difficili vie dell’Apostolato; fedeltà che egli aveva infine mostrato fra mille pericoli e mille lutti, come il simbolo del suo Apostolato e la regola della sua missione. – Sfinito dagli anni e dal lavoro intenso, sebbene si definisse umilmente “l’ultimo e il peggiore dei Legati che la Chiesa Cattolica Apostolica Romana avesse eletto onde predicare il Vangelo” (Ep. LXIII, al. 22), teneva ben alta questa missione romana ed amava chiamarsi, ringraziando Iddio : “il Legato della Santa Chiesa Romana per la Germania” desiderando essere il devoto servitore dei Pontefici successori di San Pietro e loro discepolo sottomesso e ubbidiente. Aveva profondamente fissato nell’animo, osservandola con ogni scrupolo, l’affermazione del martire Cipriano, testimone dell’antica tradizione cristiana: “Dio è uno, Cristo è uno, la Chiesa è una, ed una la Cattedra fondata con San Pietro per la parola del Divino Maestro” (San Cipriano, Ep. XLIII, 5); come anche il detto di Sant’Ambrogio, grande Dottore della Chiesa: “Dove è Pietro, là è la Chiesa; ove è la Chiesa, non esiste la morte, ma la vita eterna” (Enarr. in Ps. XL, n. 30); e ciò che infine insegnava il dotto Gerolamo: “La salvezza della Chiesa dipende dall’autorità del Sommo Pontefice, e se a Lui non viene attribuito un potere indipendente e sovrano. Egli avrà in seno alla Chiesa tanti eretici quanti preti” (Contro Lucif., 9). Questo è provato dalla triste storia delle antiche discordie e confermato dall’esperienza dei mali che ne sono derivati. Non dobbiamo richiamarci al passato in momenti come questi, in cui siamo oppressi da ogni genere di sventure e da sanguinose stragi, ma piuttosto dobbiamo deplorarlo, e lasciarlo in eterno oblio. Ciò che importa è invece ricordare e celebrare l’antica unione e gli intimi rapporti che legarono Bonifacio, primo Apostolo della Germania, e lo stesso popolo tedesco alla Sede Apostolica; unione da cui derivò per i Germanici la fonte della fede, e tanta prosperità e civiltà. – Sarebbe possibile, voi ben lo sapete, cari Figli e Venerabili Fratelli, segnalare prove e dettagli degni di essere citati, ma la cosa è così chiara e conosciuta, che non occorre indugiare con lunghi discorsi. Se Noi Ci siamo soffermati più a lungo di quanto fosse necessario su questo argomento, è stato perché Ci è piaciuto richiamare con voi questi antichi ricordi, al fine di trame consolazione per sopportare con maggior coraggio i momenti presenti, resi forti dalla speranza di un prossimo risorgere di questa unione e di questo attaccamento alla Chiesa, “nella speranza della pace e nei vincoli della carità”. D’altra parte, Ci è soprattutto gradito il fatto che l’esempio e le nobili virtù di Bonifacio, vostro predecessore, e in particolar modo i rapporti di amicizia e di unione, che abbiamo voluto celebrare in questa lettera, Ci siano oggi palesi nel vostro attuale comportamento, destando tutta la Nostra ammirazione. Si, egli vive ancora in voi, vive gloriosamente, l’Apostolo della vostra patria; egli vive, come si era definito: “il Legato della Chiesa Cattolica Romana per la Germania”; egli continua ancora la sua missione per mezzo delle sue preghiere, del suo esempio e del ricordo delle sue opere, per le quali “colui che è morto ancora parla”. Sembra con ciò che esorti il suo popolo ad essere unito con la Chiesa Romana, sicuro interprete ed araldo di Gesù Cristo, nostro Signore e Salvatore, che predica soprattutto ai suoi figli d’essere uniti. Invita i fedeli discepoli della Chiesa a rinsaldare più strettamente i vincoli della loro pietà religiosa; invita i dissidenti a ritornare con amore e con fiducia in seno alla Nostra Madre Chiesa, abbandonando gli antichi odi, le rivalità, i pregiudizi; invita tutti i credenti in Cristo, vecchi e nuovi, a perseverare con sentimento, perché da questa divina concordia fioriscano la carità e la pace del mondo. — Chi può non ascoltare questo invito e questa esortazione d’un padre?
Chi può disprezzare questo paterno avvertimento, questo esempio, queste parole? Poiché (per usare, la frase cosi bella e appropriata di un antico scrittore, vostro Compatriota, nel momento in cui celebrate il centenario della missione di Bonifacio nel vostro paese) se, come disse l’Apostolo, abbiamo avuto per educatori i nostri padri naturali e li veneriamo, a maggior ragione non dovremmo forse obbedire al padre delle anime? E non soltanto Iddio è nostro padre spirituale, bensì anche tutti coloro, la cui dottrina e il cui esempio ci indicano la via della verità, e ci esortano ad aderire fortemente alla religione. Come Abramo con la sua fede e la sua obbedienza, che rimangono per tutti un esempio, è chiamato il padre di tutti coloro che credono in Cristo, cosi San Bonifacio può essere chiamato il padre dei Germanici, dal momento che li ha iniziati alla fede cristiana con la sua predicazione, li ha rafforzati col suo esempio, e ha immolato la sua vita per loro, dando con ciò la più grande prova d’amore che sia possibile all’uomo concedere” (Vita di San Bonifacio del monaco Otlono, lib. I, cap. ult.). – Noi aggiungiamo pertanto, cari Figli e Venerabili Fratelli, sebbene già lo sappiate, che questa meravigliosa carità di Bonifacio non si è limitata alla nazione germanica, bensì ha abbracciato tutti i popoli, anche quelli ostili fra loro; ed è cosi che, secondo la legge dell’amore, l’Apostolo della Germania affratella particolarmente la vicina nazione di Francia, della quale fu saggissimo riformatore, e ai suoi compatrioti, “discendenti da stirpe inglese, egli, fratello di razza, Legato della Chiesa, universale e servitore della Sede Apostolica”, affida la diffusione della Teligione cattolica, loro già precedentemente annunciata dai Legati di San Gregorio Magno, per ristabilirla presso i Sassoni e i popoli affini, raccomandando loro di conservare preziosamente “l’unione e l’intima comunione degli spiriti”.

Poiché la carità — per usare ancora le parole dello scrittore più sopra citato — è la sorgente e il fine di tutti i beni, fermiamoci su questo punto, cari Figli e Venerabili Fratelli.

E confidiamo dunque con tutto cuore che sorga presto il giorno in cui, nel mondo turbato e sconvolto, i diritti di Dio onnipossente e della Chiesa, le loro leggi, il culto e l’autorità siano restaurati, così che la carità cristiana riviva per mettere un freno tanto alle guerre e agli odi furiosi, quanto alle discordie, alle eresie e agli errori che ovunque hanno invaso la terra, e per legare i popoli con un patto più saldo che non siano i poveri trattati degli uomini, cioè a dire per l’unità della fede soprattutto e per le relazioni, o meglio, per l’intima e antica unione con la Sede Apostolica, stabilita da Cristo come base della Sua famiglia sulla terra e consacrata dalla virtù, dalla saggezza, dalle fatiche di tanti Santi e dal sangue dei martiri, specialmente di Bonifacio. Una volta raggiunto sulla terra questo accordo di fede e di spiriti, Noi potremo a buon diritto rivolgere alla cristianità intera quanto il Papa Clemente, conscio della superiorità romana e dell’autorità della Santa Sede, scriveva ai Corinzi fin dai primi secoli del Cristianesimo: “Voi Ci procurerete immensa gioia se, obbedendo a ciò che vi abbiamo scritto, illuminati dallo Spirito Santo, metterete da parte l’ardore illegittimo della vostra rivalità, secondo la Nostra esortazione alla pace e alla concordia universale” (San Clem. Rom., Ep. I ai Corinzi, 63).
Possa l’Apostolo e Martire Bonifacio ottenere tutto ciò a Noi e soprattutto ai popoli che più direttamente sono i suoi, per origine o per elezione, perfezionando in Cielo ciò ch’Egli non cessò mai di ricercare sulla terra. “Tutti coloro che Dio si compiacque di inviarmi durante la mia missione, come uditori o come discepoli, io non cesso di invitare e di incitare alla sottomissione alla Sede Apostolica” (Ep. I, al. 49). – Frattanto, quale pegno di speranza e di felice risultato della vostra solennità, vi accordiamo di tutto cuore la Benedizione Apostolica; e per dare maggiore importanza a questa festa vi concediamo dal sacro tesoro della Chiesa i seguenti favori:

1. – In qualunque giorno del mese di giugno e luglio prossimo, salvo quelli della Pentecoste, del Corpus Domini e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, in tutte le Chiese e oratori pubblici o semipubblici della Germania, dove si festeggia il centenario, ogni prete potrà celebrare la Messa del Santo, sia durante il triduo, sia nel giorno stesso della festa.

2. – II giorno della festa i Vescovi potranno impartire di persona o per delega la Benedizione Papale.

3. – Chiunque visiterà le Chiese di Germania nel giorno della celebrazione del centenario, potrà acquistare ogni volta un’indulgenza plenaria secondo l’uso della Porziuncola.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 maggio 1919, anno V del Nostro Pontificato.

UN’ENICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. PIO X – “IL FERMO PROPOSITO”.

Enciclica importante, questa scritta in italiani da S.S. Pio X, che intendeva promuovere la diffusione dell’Azione Cattolica in Italia e nel mondo. Ciò su cui batteva il Sommo Pontefice era l’unità di intenti e di azione, ma soprattutto l’adesione al Magistero della Chiesa ed alla Cattedra di S. Pietro, elemento che ne garantiva l’immunità dottrinale ed il cadere in azioni sconsiderate o poco cristiane. Applichiamo anche a noi queste direttive, sia in gruppi, sia singolarmente per affrontare, come Corpo mistico di Cristo, le falangi infernali oggi scatenate e potenti come non mai. Solo uniti in questo Corpo mistico, che travalica i limiti territoriali di Stati e continenti, si può sperare nell’eterna salvezza dell’anima anche se questo dovesse costarci sacrifici, persecuzioni e martirio. Nel Corpo mistico e sotto la guida della Vergine Immacolata avremo sicura vittoria, … questa è la vera Azione Cattolica di questi giorni finali.

San Pio X
Il fermo proposito

Lettera Enciclica

Il fermo proposito, che fin dai primordi del Nostro Pontificato abbiamo concepito, di voler consacrare tutte le forze che la benignità del Signore si degna concederCi alla restaurazione di ogni cosa in Cristo, Ci risveglia nel cuore una grande fiducia nella potente grazia di Dio, senza la quale nulla di grande e di fecondo per la salute delle anime possiamo pensare od imprendere quaggiù. Nello stesso tempo però sentiamo più che mai vivo il bisogno di essere secondati unanimemente e costantemente nella nobile impresa da voi, Venerabili Fratelli, chiamati a parte dell’ufficio Nostro pastorale, da ognuno del Clero e dei singoli fedeli alle vostre cure commessi. Tutti in vero nella Chiesa di Dio siamo chiamati a formare quell’unico corpo, il cui capo è Cristo: corpo strettamente compaginato, come insegna l’Apostolo Paolo (Eph. IV, 16), e ben commesso in tutte le sue giunture comunicanti, e questo in virtù dell’operazione proporzionata di ogni singolo membro, onde il corpo stesso prende l’aumento suo proprio e di mano in mano si perfeziona nel vincolo della carità. E se in quest’opera di “edificazione Corpo di Cristo” (Eph. IV, 12) è Nostro primo ufficio d’insegnare, additare il retto modo da seguire e proporne i mezzi, di ammonire ed esortare paternamente, è altresì dovere di tutti i Nostri figliuoli dilettissimi, sparsi pel mondo, di accogliere le parole Nostre, di attuarle dapprima in se stessi e di concorrere efficacemente ad attuarle eziandio negli altri, ciascuno secondo la grazia da Dio ricevuta, secondo il suo stato ed ufficio, secondo lo zelo che ne infiamma il cuore. – Qui vogliamo soltanto ricordare quelle molteplici opere di zelo in bene della Chiesa, della società e degli individui particolari, comunemente designati col nome di azione cattolica, che fioriscono per grazia di Dio in ogni luogo e che abbondano altresì nella nostra Italia. Voi ben intendete, Venerabili Fratelli, quanto esse Ci debbano tornar care e quanto intimamente bramiamo di vederle rassodate e promosse. Non solo a più riprese ne abbiamo trattato a voce con parecchi almeno di voi, e col principali loro rappresentanti in Italia nell’occasione che essi Ci recavano in persona l’omaggio della loro devozione e del loro affetto filiale, ma altresì pubblicando Noi su questo argomento o facendo pubblicare con la Nostra Autorità vari Atti, che tutti già conoscete. Vero è che alcuni di questi, come richiedevano le circostanze per Noi dolorose, erano piuttosto diretti a rimuovere gli ostacoli al più spedito procedere dell’azione cattolica e a condannare certe tendenze indisciplinate, che con grave danno della causa comune si andavano insinuando. Però Ci tardava il cuore di rivolgere a tutti eziandio una parola di paterno conforto e di eccitamento acciocché sul terreno, per quanto è da Noi, sgombro dagli impedimenti, si continui ad edificare il bene e ad accrescerlo largamente. Ci è dunque ben grato di farlo ora con le presenti Nostre Lettere a comune consolazione, nella certezza che le parole Nostre saranno da tutti dolcemente ascoltate e seguite. – Vastissimo è il campo dell’azione cattolica, la quale per sé medesima non esclude assolutamente nulla di quanto, in qualsiasi modo, diretto od indiretto, appartiene alla divina missione della Chiesa. Di leggieri si riconosce la necessità del concorso individuale a tant’opera, non solo per la santificazione delle anime nostre, ma anche per diffondere e sempre meglio dilatare il Regno di Dio negli individui, nelle famiglie e nella società, procurando ciascuno, secondo le proprie forze, il bene del prossimo con la diffusione della verità rivelata, con l’esercizio delle virtù cristiane e con le opere di carità o di misericordia spirituale e corporale. Questo è il camminare degno di Dio, a che ci esorta San Paolo, così da piacergli in ogni cosa, producendo frutti di ogni opera buona e crescendo nella scienza di Dio: “Ut ambuletis digne Deo per omnia placentes: in omni opere bono fructificantes et crescentes in scentia Dei” (Coloss. I, 10). – Oltre a questi però v’è un gran numero di beni appartenenti all’ordine naturale a cui la missione della Chiesa non è direttamente ordinata, ma che pure sgorgano dalla medesima, quasi naturale sua conseguenza. Tanta è la luce della Rivelazione cattolica, che si diffonde vivissima su ogni scienza; tanta la forza delle massime evangeliche, che i precetti della legge naturale si radicano più sicuri ed ingagliardiscono; tanta infine l’efficacia della verità e della morale insegnate da Gesù Cristo, che lo stesso benessere materiale degli individui, della famiglia e della società umana si trova provvidenzialmente sostenuto e promosso. La Chiesa, pure predicando Gesù Cristo crocifisso, scandalo e stoltezza innanzi al mondo (I Cor. I, 23), è divenuta ispiratrice e fautrice primissima di civiltà; e la diffusione per tutto dove predicavano i suoi Apostoli, conservando e perfezionando gli elementi buoni delle antiche civiltà pagane, strappando dalla barbarie ed educando a civile consorzio i nuovi popoli che al suo seno materno si rifugiavano, diede all’intera società, bensì a poco a poco, ma con tratto sicuro e sempre più progressivo, quell’impronta tanto spiccata, che ancora oggi universalmente conserva. La civiltà del mondo è civiltà cristiana; tanto è più vera, più durevole, più feconda di frutti preziosi, quanto è più nettamente cristiana; tanto declina, con immenso danno del bene sociale, quanto all’idea cristiana si sottrae. Onde, per la forza intrinseca delle cose, la Chiesa divenne anche di fatto custode e vindice della civiltà cristiana. E tale fatto in altri secoli della storia fu riconosciuto e ammesso; formò anzi il fondamento inconcusso delle legislazioni civili. Su quel fatto poggiarono le relazioni tra la Chiesa e gli Stati, il pubblico riconoscimento dell’autorità della Chiesa nelle materie tutte che toccano in qualsivoglia modo la coscienza, la subordinazione di tutte le leggi dello Stato alle divine leggi del Vangelo, la concordia dei due poteri dello Stato e della Chiesa, nel procurare in tal modo il bene temporale dei popoli, che non ne abbia a soffrire l’eterno. – Non abbiamo bisogno di dirvi, o Venerabili Fratelli, quale prosperità e benessere, quale pace e concordia, quale rispettosa soggezione all’autorità e quale eccellente governo si otterrebbero e si manterrebbero nel mondo, se si potesse attuare ovunque il perfetto ideale della civiltà cristiana. Ma posta la lotta continua della carne contro lo spirito, delle tenebre contro la luce, di satana contro Dio, tanto non è da sperare, almeno nella sua piena misura. Onde continui strappi si vanno facendo alle pacifiche conquiste della Chiesa, tanto più dolorosi e funesti, quanto più la società umana tende a reggersi con principi avversi al concetto cristiano, anzi ad apostatare interamente da Dio. – Non per questo è da perdere punto il coraggio. La Chiesa sa che le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei; ma sa ancora che avrà nel mondo premura, che i suoi apostoli sono inviati come agnelli tra lupi, che i suoi seguaci saranno sempre coperti d’odio e di disprezzo, come d’odio e di disprezzo fu saturato il divino suo Fondatore. La Chiesa va quindi innanzi imperterrita, e mentre diffonde il Regno di Dio là dove non fu peranco pregiudicato, si studia per ogni maniera di riparare alle perdite nel Regno già conquistato. “Restaurare tutto in Cristo” è stata sempre la divisa della Chiesa, ed è particolarmente la Nostra nei trepidi momenti che traversiamo. Ristorare ogni cosa, non in qualsivoglia modo, ma in Cristo: “in Lui, tutte le cose che sono in Cielo ed in terra, soggiunse l’Apostolo (Eph. I, 10): ristorare in Cristo non solo ciò che appartiene propriamente alla divina missione della Chiesa di condurre le anime a Dio, ma anche ciò che, come abbiamo spiegato, da quella divina missione spontaneamente deriva, la civiltà cristiana nel complesso di tutti e singoli gli elementi che la costituiscono. – E poiché Ci fermiamo a quest’ultima sola parte della restaurazione desiderata, voi vedete, o Venerabili Fratelli, di quanto aiuto tornano alla Chiesa quelle schiere elette di Cattolici che si propongono appunto di riunire insieme tutte le forze vive, a fine di combattere con ogni mezzo giusto e legale la civiltà anticristiana, riparare per ogni modo i disordini gravissimi che da quella derivano; ricondurre Gesù Cristo nella famiglia, nella scuola, nella società; ristabilire il principio dell’autorità umana come rappresentante di quella di Dio; prendere sommamente a cuore gli interessi del popolo e particolarmente del ceto operaio ed agricolo, non solo istillando nel cuore di tutti il principio religioso, unico vero fonte di consolazione nelle angustie della vita, ma studiandosi di rasciugarne le lacrime, di raddolcirne le pene, di migliorare la condizione economica con ben condotti provvedimenti; adoperarsi quindi perché le pubbliche leggi siano informate a giustizia, e si correggano o vadano soppresse quelle che alla giustizia si oppongono: difendere infine e sostenere con animo veramente cattolico i diritti di Dio in ogni cosa e quelli non meno sacri della Chiesa. – Il complesso di tutte queste opere sostenute e promosse in gran parte dal laicato cattolico e variamente ideate a seconda dei bisogni propri di ogni nazione e delle circostanze particolari in cui versa ogni paese, è appunto quello che con termine più particolare e certo nobile assai suoi essere chiamato azione cattolica, ovvero azione dei Cattolici. Essa in tutti i tempi venne sempre in aiuto della Chiesa, e la Chiesa tale aiuto ha sempre accolto favorevolmente e benedetto, sebbene a seconda dei tempi si sia variamente esplicato. – Ed è infatti da notare qui subito, che non tutto ciò che potrà essere stato utile, anzi unicamente efficace nei secoli andati, torna oggi possibile restituire allo stesso modo: tanti sono i cangiamenti radicali che col correre dei tempi s’insinuano nella società o nella vita pubblica, e tanti i nuovi bisogni che le circostanze cambiate vanno di continuo suscitando. Ma la Chiesa nel lungo corso della sua storia ha sempre ed in ogni caso dimostrato luminosamente di possedere una meravigliosa virtù di adattamento alle variabili condizioni del consorzio civile, talché, salva sempre l’integrità e l’immutabilità della fede e della morale, e salvi egualmente i sacrosanti suoi diritti, facilmente si piega e si accomoda in tutto ciò che è contingente ed accidentale alle vicende dei tempi ed alle nuove esigenze della società. La pietà, dice San Paolo, a tutto si acconcia possedendo le promesse divine, così per i beni della vita presente, come per quelli della vita futura. “Pietas autem ad omnia utilis est, promissionem habens vitæ, quæ nunc est, et futuræ” (ITim. IV, 8). E però anche l’azione cattolica, se opportunamente cambia nelle sue forme esterne e nei mezzi che adopera, rimane sempre la stessa nei principi che la dirigono e nel fine nobilissimo che si propone. Perché poi nello stesso tempo torni veramente efficace, converrà diligentemente avvertire le condizioni che essa medesima impone, se ben si considerino la sua natura ed il suo fine. – Anzitutto dov’essere altamente radicato nel cuore che lo strumento vien meno, se non è acconcio all’opera che si vuol eseguire. L’azione cattolica (come si ritrae ad evidenza dalle cose anzidette) poiché si propone di ristorare ogni cosa in Cristo, costituisce un vero apostolato ad onore e gloria di Cristo stesso. Per bene compierlo ci vuole la grazia divina, e questa non si dà all’apostolo che non sia unito a Cristo. Solo quando avremo formato Gesù Cristo in noi, potremo più facilmente ridonarlo alle famiglie, alla società. E però quanti sono chiamati a dirigere o si dedicano a promuovere il movimento cattolico devono essere Cattolici a tutta prova, convinti della loro fede, sodamente istruiti nelle cose della Religione, sinceramente ossequienti alla Chiesa ed in particolare a questa suprema Cattedra Apostolica ed al Vicario di Gesù Cristo in terra; di pietà vera, di maschie virtù, di puri costumi e di vita così intemerata che tornino a tutti di esempio efficace. Se l’animo non è così temprato, non solo sarà difficile promuovere negli altri il bene, ma sarà quasi impossibile procedere con rettitudine d’intenzione e mancheranno le forze per sostenere con perseveranza le noie che reca seco ogni apostolato, le calunnie degli avversari, le freddezze e la poca corrispondenza degli uomini anche dabbene, talvolta perfino le gelosie degli amici e degli stessi compagni di azione, scusabili senza dubbio, posta la debolezza dell’umana natura, ma pure grandemente pregiudizievoli e causa di discordie, di attriti, di domestiche guerricciuole. Solo una virtù paziente e ferma nel bene, e nello stesso tempo soave e delicata, è capace di rimuovere o diminuire questa difficoltà, così che l’opera a cui sono dedicate le forze cattoliche non ne vada compromessa. Tale è la volontà di Dio, diceva San Pietro ai primitivi fedeli, che col ben fare chiudiate la bocca agli uomini stolti. “Sic est voluntas Dei, ut bene facientes obmutescere faciatis imprudentium hominum ignorantiam” (I Petr. II, 15). – Importa inoltre ben definire le opere intorno alle quali si devono spendere con ogni energia e costanza le forze cattoliche. Quelle opere devono essere di così evidente importanza, così rispondenti ai bisogni della società odierna, così acconce agli interessi morali e materiali, soprattutto del popolo e delle classi diseredate, che mentre infondono ogni migliore alacrità dei promotori dell’azione cattolica pel grande e sicuro frutto che da sé medesime promettono, siano insieme da tutti e facilmente comprese ed accolte volonterosamente. Appunto perché i gravi problemi della vita odierna sociale esigono una soluzione pronta e sicura, si desta in tutti il più vivo interesse di sapere e conoscere i vari modi onde quelle soluzioni si propongono in pratica. Le discussioni in un senso o nell’altro si moltiplicano ogni dì più e si propagano facilmente per mezzo della stampa. È quindi supremamente necessario che l’azione cattolica colga il momento opportuno, si faccia innanzi coraggiosa e proponga anch’essa la soluzione sua e la faccia valere con propaganda ferma, attiva, intelligente, disciplinata, tale che direttamente si opponga alla propaganda avversaria. La bontà e giustizia dei principi cristiani, la retta morale che professano i Cattolici, il pieno disinteresse delle cose proprie non altro apertamente e sinceramente bramando che il vero, il solo, il supremo bene altrui, infine l’evidente loro capacità di promuovere meglio degli altri anche i veri interessi economici del popolo, è impossibile non facciano breccia sulla mente e sul cuore di quanti ascoltano e non ne aumentino le file, fino a renderli un corpo forte e compatto, capace di resistere gagliardamente alla contraria corrente e di tenere in rispetto gli avversari. – Tale supremo bisogno avvertì pienamente il Nostro Antecessore di b. m. Leone XIII, additando soprattutto nella memoranda Enciclica “Rerum Novarum“ed in altri documenti posteriori, l’oggetto intorno al quale precipuamente doveva svolgersi l’azione cattolica, cioè “la pratica soluzione a seconda dei principi cristiani della questione sociale“. Noi pure, seguendo così sapienti norme, col Nostro Motu proprio del 18 Dicembre 1903 abbiamo dato all’azione popolare cristiana, che in sé comprende tutto il movimento cattolico sociale, un ordinamento fondamentale che fosse quasi la regola pratica del lavoro comune ed il vincolo della concordia e della carità. Qui dunque ed a questo scopo santissimo e necessarissimo devono anzitutto aggrupparsi e solidarsi le opere cattoliche, varie e molteplici nella forma, ma tutte egualmente intese a promuovere con efficacia il medesimo bene sociale.

Ma perché quest’azione sociale si mantenga e prosperi con la necessaria coesione delle varie opere che la compongono è soprammodo importante che i Cattolici procedano con esemplare concordia tra loro; la quale per altro non si otterrà mai, se non vi ha in tutti unità di intendimenti. Su tale necessità non può cadere dubbio di sorta alcuna; tanto chiari ed aperti sono gli insegnamenti dati da questa Cattedra Apostolica, tanta la viva luce che vi hanno sparso intorno coi loro scritti i più insigni tra’ cattolici d’ogni paese, tanto lodevole esempio che più volte, anche da Noi medesimi, si è proposto ai Cattolici di altre nazioni, i quali appunto per questa concordia ed unità di intendimenti, in breve tempo hanno ottenuto frutti fecondi e assai consolanti. – Ad assicurarne poi il conseguimento, tra le varie opere degne egualmente di lode, si è dimostrata altrove singolarmente efficace un’istituzione di carattere generale, che col nome di Unione popolare è destinata ad accogliere i Cattolici di tutte le classi sociali, ma specialmente le grandi moltitudini del popolo intorno ad un solo centro comune di dottrina, di propaganda e di organizzazione sociale. Essa infatti, poiché risponde ad un bisogno egualmente sentito quasi in ogni paese, e poiché la sua semplice costituzione risulta dalla natura stessa delle cose quali egualmente per tutto s’incontrano, non può dirsi che sia propria più di una nazione che di un’altra, ma di tutte, dove si manifestano gli stessi bisogni e sorgono i medesimi pericoli. La sua grande popolarità la rende facilmente cara ed accettevole e non disturba né impedisce alcun’altra istituzione ma piuttosto a tutte le istituzioni dà forza e compattezza poiché con la sua organizzazione strettamente personale sprona gli individui a entrare nelle istituzioni particolari, li addestra al lavoro pratico e veramente proficuo, ed unisce gli animi di tutti in un unico sentire e volere. – Stabilito così codesto centro sociale, tutte le altre istituzioni d’indole economica, destinate a risolvere praticamente e sotto i vari suoi aspetti il problema sociale, si trovano come spontaneamente raggruppate insieme nel fine generale che le unisce, mentre pure, a seconda dei vari bisogni a cui si applicano, prendono forme diverse e diversi mezzi adoperano, come richiede lo scopo particolare proprio di ciascuna. E qui Ci torna ben caro di esprimere la Nostra soddisfazione pel molto che in questa parte si è già fatto in Italia, con certa speranza che, posto l’aiuto divino, si faccia ancora assai più nell’avvenire, rassodando il bene ottenuto e dilatandolo con zelo sempre più crescente. Nel che si rese grandemente benemerita l’Opera dei Congressi e Comitati Cattolici, grazie all’attività intelligente degli uomini esimi che la dirigevano, e che a quelle particolari istituzioni furono preposti o le dirigono tuttora. E però tale centro od unione di opere d’indole economica, come fu da Noi espressamente conservata al cessare dell’anzidetta Opera dei Congressi, così dovrà continuare anche in seguito sotto la solerte direzione di coloro che le sono preposti. – Contuttociò, perché l’azione cattolica sia efficace sotto ogni rispetto, non basta che essa sia proporzionata ai bisogni sociali odierni; conviene ancora che si faccia valere con tutti quei mezzi pratici, che le mettono oggi in mano il progresso degli studi sociali ed economici, l’esperienza già fatta altrove, le condizioni del civile consorzio, la stessa vita pubblica degli Stati. Altrimenti si corre rischio di andare tentoni lungo tempo in cerca di cose nuove e mal sicure, mentre le buone e certe si hanno in mano ed hanno fatto già ottima prova; ovvero di proporre istituzioni e metodi propri forse di altri tempi, ma oggi non intesi dal popolo, ovvero infine di arrestarsi a mezza via non servendosi, nella misura pur concessa, di quei diritti cittadini che le odierne costituzioni civili offrono a tutti e quindi anche ai cattolici. E per fermarsi a quest’ultimo punto, certo è che l’odierno ordinamento degli Stati offre indistintamente a tutti la facoltà di influire sulla pubblica cosa, ed i Cattolici, salvo gli obblighi imposti dalla legge di Dio e dalle prescrizioni della Chiesa, possono con sicura coscienza giovarsene, per mostrarsi idonei al pari, anzi meglio degli altri, di cooperare al benessere materiale civile del popolo ed acquistarsi così quell’autorità e quel rispetto che rendano loro possibile eziandio di difendere e promuovere i beni più alti, che sono quelli dell’anima. – Quei diritti civili sono parecchi e di vario genere, fino a quello di partecipare direttamente alla vita politica del paese rappresentando il popolo nelle aule legislative. Ragioni gravissime Ci dissuadono, Venerabili Fratelli, dallo scostarsi da quella norma già decretata dal Nostro Antecessore di s. m. Pio IX e seguita poi dall’altro Nostro Antecessore di s. m. Leone XIII durante il diuturno suo Pontificato, secondo la quale rimane in genere vietata in Italia la partecipazione dei Cattolici al potere legislativo. Sennonché altre ragioni parimenti gravissime, tratte dal supremo bene della società, che ad ogni costo deve salvarsi, possono richiedere che nei casi particolari si dispensi dalla legge, specialmente quando voi, Venerabili Fratelli, ne riconosciate la stretta necessità pel bene delle anime e dei supremi interessi delle vostre Chiese e ne facciate dimanda. – Ora la possibilità di questa benigna concessione Nostra induce il dovere nei Cattolici tutti di prepararsi prudentemente e seriamente alla vita politica, quando vi fossero chiamati. Onde importa assai, che quella stessa attività, già lodevolmente spiegata dai Cattolici per prepararsi con una buona organizzazione elettorale alla vita amministrativa dei Comuni e dei Consigli provinciali, si estenda altresì a prepararsi convenientemente e ad organizzarsi per la vita politica, come fu opportunamente raccomandato con la circolare del 3 dicembre 1904 alla Presidenza generale delle Opere economiche in Italia. Nello stesso tempo dovranno inculcarsi e seguirsi in pratica gli altri principi che regolano la coscienza di ogni vero Cattolico. Deve egli ricordarsi sopra ogni cosa di essere in ogni circostanza e di apparire veramente Cattolico, accedendo agli offici pubblici ed esercitandoli col fermo e costante proposito di promuovere a tutto potere il bene sociale ed economico della Patria e particolarmente del popolo, secondo le massime della civiltà spiccatamente cristiana e di difendere insieme gli interessi della Chiesa, che sono quelli della Religione e della giustizia. – Tali sono, Venerabili Fratelli, i caratteri, l’oggetto e le condizioni dell’azione cattolica, considerata nella parte sua più importante, che è la soluzione della questione sociale, degna quindi che vi si applichino con la massima energia e costanza tutte le forze cattoliche. Il che però non esclude che si favoriscano e si promuovano anche altre opere di vario genere, di diversa organizzazione, ma tutte egualmente destinate a questo o quel bene particolare della società e del popolo ed a rifiorimento della civiltà cristiana sotto vari determinati aspetti. Sorgono esse per lo più grazie allo zelo di particolari persone e si diffondono nelle singole diocesi e talvolta si aggruppano in federazioni più estese. Ora, sempreché sia lodevole il fine che si propongono, siano fermi i principi cristiani che seguono e giusti i mezzi che adoperano, sono anch’esse da lodare e incoraggiare per ogni modo. E si dovrà lasciare loro una certa libertà di organizzazione, non essendo possibile, che dove più persone convengono insieme, si modellino tutte in medesimo stampo e si accentrino sotto un’unica direzione. L’organizzazione poi deve sorgere spontanea dalle opere stesse, altrimenti si avranno edifici bene architettati, ma privi di fondamento reale e perciò al tutto effimeri. Conviene pure tener conto dell’indole delle singole popolazioni. Altri usi, altre tendenze si manifestano in luoghi diversi. Quel che importa è che si lavori su buon fondamento, con sodezza di principi, con fervore e costanza, e se questo si ottiene, il modo e la forma che prendono le varie opere, sono e rimangono accidentali.

Per rinnovare ed infine accrescere in tutte indistintamente le opere cattoliche l’alacrità necessaria, e per offrire occasione ai promotori e ai membri delle medesime di vedersi e conoscersi scambievolmente, di stringere sempre meglio i vincoli della carità fraterna fra loro, d’animarsi l’un l’altro con zelo sempre più ardente all’azione efficace e di provvedere alla migliore solidità e diffusione delle opere stesse, gioverà mirabilmente il celebrare di tempo in tempo, secondo le norme già date da questa Santa Sede, i Congressi generali e parziali dei Cattolici italiani, che devono essere la solenne manifestazione della fede cattolica e la festa comune della concordia e della pace. – Ci resta a toccare, Venerabili Fratelli, di un altro punto di somma importanza, ed è la relazione che tutte le opere dell’azione cattolica devono avere rispetto all’Autorità ecclesiastica. Se bene si considerano le dottrine che siamo andati svolgendo nella prima parte di queste Nostre Lettere, si conchiuderà di leggieri, che tutte quelle opere che direttamente vengono in sussidio del ministero spirituale pastorale della Chiesa e che si propongono un fine religioso in bene diretto delle anime, devono in ogni menoma cosa essere subordinate all’autorità dei Vescovi, posti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio nelle diocesi loro assegnate. Ma anche le altre opere, che, come abbiamo detto, sono precipuamente istituite a ristorare e promuovere in Cristo la vera civiltà cristiana e che costituiscono nel senso spiegato l’azione cattolica, non si possono per niun modo concepire indipendenti dal consiglio e dall’alta direzione dell’Autorità ecclesiastica, specialmente poi in quanto devono tutte informarsi ai principi della dottrina e della morale cristiana; molto meno è possibile concepirle in opposizione più o meno aperta con la medesima Autorità. Certo è che tali opere, posta la natura loro, si debbono muovere con la conveniente ragionevole libertà, ricadendo sopra di loro la responsabilità dell’azione, soprattutto poi negli affari temporali ed economici ed in quelli della vita pubblica amministrativa o politica, alieni dal ministero puramente spirituale. Ma poiché i Cattolici alzano sempre la bandiera di Cristo, per ciò stesso alzano la bandiera della Chiesa, ed è quindi conveniente che la ricevano dalle mani della Chiesa, che la Chiesa ne vigili l’onore immacolato e che a questa materna vigilanza i Cattolici si sottomettano, docili ed amorevoli figliuoli. – Per la qual cosa appare manifesto quanto fossero sconsigliati coloro, pochi invero, che qui in Italia e sotto i Nostri occhi vollero accingersi a una missione che non ebbero da Noi, né da alcun altro dei Nostri Fratelli nell’episcopato, e si fecero a promuoverla, non solo senza il debito ossequio all’Autorità, ma perfino apertamente contro il volere di lei, cercando di legittimare la loro disobbedienza con frivole distinzioni. Dicevano anch’essi di alzare in nome di Cristo un vessillo; ma tal vessillo non poteva essere di Cristo, perché non recava tra le sue pieghe la dottrina del divin Redentore, che anche qui ha la sua applicazione: “Chi ascolta voi, ascolta me; e chi disprezza voi, disprezza me” (Luc. X, 16);”Chi non è meco è contro di me; e chi meco non raccoglie, disperde” (Ib. XI, 23),dottrina dunque di umiltà, di sommissione, di filiale rispetto. Con estremo rammarico del Nostro cuore abbiamo dovuto condannare una simile tendenza ed arrestare autorevolmente il moto pernicioso che già si andava formando. E tanto maggiore era il dolor Nostro, perché vedevamo incautamente trascinati per così falsa via buon numero di giovani a Noi carissimi, molti dei quali di eletto ingegno, di fervido zelo, capaci di operare efficacemente il bene, ove siano rettamente guidati. – Mentre però additiamo a tutti la retta norma dell’azione cattolica, non possiamo dissimulare, Venerabili Fratelli, il pericolo non lieve al quale, per la condizione dei tempi, si trova oggi esposto il Clero; ed è di dare soverchia importanza agli interessi materiali del popolo, trascurando quelli ben più gravi del sacro suo ministero. Il Sacerdote, elevato sopra gli altri uomini per compiere la missione che tiene da Dio, deve mantenersi egualmente al disopra di tutti gli umani interessi, di tutti i conflitti, di tutte le classi della società. Il suo proprio campo è la Chiesa, dove ambasciatore di Dio predica la verità ed inculca col rispetto dei diritti di Dio il rispetto ai diritti di tutte le creature. Così operando, egli non va soggetto ad alcuna opposizione, non apparisce un uomo di parte, fautore degli uni, avversario degli altri, né per evitare l’urto di certe tendenze o per non irritare in molti argomenti gli animi inaspriti si mette nel pericolo di dissimulare la verità o di tacerla, mancando nell’uno o nell’altro caso ai suoi doveri; senza dire che dovendo trattare ben spesso di cose materiali, potrebbe trovarsi solidale in obbligazioni dannose alla sua persona, e alla dignità del suo ministero. Non dovrà dunque prender parte ad associazioni di questo genere, se non dopo matura considerazione, d’accordo col suo Vescovo, ed in quei casi soltanto, ne’ quali l’aiuto suo è immune da ogni pericolo e torna di evidente profitto. Né in tal maniera si raffrena punto il suo zelo. Il vero apostolo deve “farsi tutto a tutti, per tutti salvare” (I Cor. IX, 22); come già il divin Redentore, deve sentirsi muovere a pietà le viscere, “mirando le turbe così vessate, giacenti quasi pecore senza pastore” (Matth. IX, 36). Con la propaganda efficace degli scritti, con l’esortazione viva della parola, col concorso diretto nei casi anzidetti s’adoperi adunque a fine di migliorare eziandio, entro i limiti della giustizia e della carità, la condizione economica del popolo, favorendo e promovendo quelle istituzioni che a ciò conducono, quelle soprattutto che si propongono di ben disciplinare le moltitudini contro l’invadente predominio del socialismo e che ad un tempo le salvano e dalla rovina economica e dallo sfacelo morale e religioso. In questo modo l’assistenza del clero alle opere dell’azione cattolica mira ad un fine altamente religioso, né tornerà mai d’impedimento, sarà anzi di aiuto al suo ministero spirituale, allargandone il campo e moltiplicandone il frutto. – Ecco, o Venerabili Fratelli, quanto Ci premeva esporre ed inculcare intorno all’azione cattolica da sostenere e promuovere nella nostra Italia. —Additare il bene non basta; è necessario eseguirlo in pratica. Nel che tornerà di grandissimo aiuto l’esortazione vostra altresì ed il paterno vostro immediato eccitamento al ben fare. Siano pure umili i principi, purché veramente si cominci, la grazia divina li farà crescere in breve tempo e prosperare. E tutti i Nostri diletti figliuoli, che si dedicano all’azione cattolica, ascoltino di nuovo la parola che Ci sgorga tanto spontanea dal cuore. Nelle amarezze onde siamo tuttodì circondati, se vi ha alcuna consolazione in Cristo, se alcun conforto Ci vien dalla carità vostra, se vi ha comunione di spirito e viscere di compassione, diremo Noi pure con l’Apostolo Paolo (Phil. II, 1-5), rendete compiuto il Nostro gaudio con la concordia, con l’identica carità, col sentimento unanime, con l’umiltà e debita soggezione, cercando non il proprio comodo, ma il bene comune, e trasfondendo nei vostri cuori quei medesimi sentimenti, che in sé nutriva Gesù Cristo, Salvatore nostro. Sia Egli il principio di ogni vostra impresa: “Quanto voi dite o fate, sia tutto nel nome del Signore Gesù Cristo” (Coloss. III, 17); sia Egli il termine d’ogni vostra operazione: “Conciossiaché da Lui, e per Lui, ed a Lui sono tutte le cose; a Lui gloria nei secoli” (Rom. XI, 36).Ed in questo giorno faustissimo, che ricorda gli Apostoli, quando, ripieni di Spirito Santo, uscirono dal Cenacolo a predicare al mondo il Regno di Cristo, discenda eziandio su tutti voi la virtù del medesimo Spirito e pieghi ogni durezza, ritempri gli animi freddi, e quanto è sviato rimetta sul retto sentiero: “Flecte quod est rigidum, fove quod est frigidum, rege quod est devium“.

Auspice intanto del divino favore e pegno del Nostro specialissimo affetto sia l’Apostolica Benedizione, che dall’intimo del cuore impartiamo a voi, Venerabili Fratelli, al vostro Clero e al popolo italiano.

Dato a Roma, presso San Pietro, nella Festa della Pentecoste, 11 Giugno 1905, del Nostro Pontificato anno II.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “MILITANTIS ECCLESIÆ”

Militantis Ecclesiae è una lettera Enciclica inviata ai Vescovi tedeschi in occasione del III centenario della morte di S. Pietro Canisio, grande diffusore della verità cattolica presso quei popoli martoriati dalla peste del protestantesimo in atto. Oltre alla vita ed alle opere del Santo, il Santo Padre si dilunga sapientemente sulla didattica scolastica, fruttuosa solo se basata e costruita come solido edificio sulla morale cattolica radicata sul dogma cristiano. Così possiamo vedere la differenza con l’attuale orientamento scolastico dei Paesi “laici”, che si guardano bene dal fornire i mezzi per la conoscenza e la pratica cristiana, imbevuti come sono, fino all’esasperazione, di “massonismo” pseudo ecumenico ed indifferentista, appoggiati da una finta chiesa modernista con cui condividono ideologia e “succulenti prebende”… Godiamoci questa magnifica lettera e, invocando la venuta di un novello Pietro Canisio, preghiamo con pazienza accelerando la venuta del Signore Gesù tutti uniti strettamente nel suo Corpo mistico, di cui sono membri solo i veri Cattolici, perché ripristini le condizioni di vita cristiana ed essi formino un’armata compatta sotto la guida dell’Immacolata contro le falangi infernali operanti in ogni struttura ed in ogni ambito.

Leone XIII
Militantis Ecclesiae

Lettera Enciclica

III centenario della morte del beato Pietro Canisio
(ora santo)

1 agosto 1897

Il bene della Chiesa militante, e così pure il suo onore, esorta a celebrare più spesso con rito solenne la memoria di coloro che per la loro straordinaria virtù e pietà furono innalzati alla gloria della Chiesa trionfante. Mediante questi segni di onore infatti si insinua il ricordo dell’antica santità, cosa sempre opportuna, utilissima poi in questi tempi infausti per la fede e la pietà. E proprio nel presente anno, per la benevolenza della divina provvidenza, è concesso a Noi di rallegrarci per il compiersi del terzo centenario della morte di Pietro Canisio, uomo di eccelsa santità, con l’unico intento di incitare gli animi dei buoni a quelle arti mediante le quali lui stesso venne in aiuto in modo tanto efficace alla società cristiana. Il nostro tempo infatti presenta non poche analogie con i tempi nei quali operò il Canisio, quando la bramosia di novità e l’avvento tumultuoso di una cultura più libera furono seguiti dallo smarrimento della fede e dalla decadenza dei costumi. Ad allontanare questa duplice peste da tutti, ma soprattutto dalla gioventù, si adoperò questo apostolo della Germania, secondo dopo Bonifacio, e non solo con opportune predicazioni o con la sottigliezza delle dispute, ma soprattutto con l’istituzione delle scuole e con la stampa di ottimi libri. Avendo seguito i suoi esempi preclari, anche molti altri uomini volonterosi del vostro popolo, usando le medesime armi contro un genere di nemici per nulla grossolano, mai trascurarono, per la difesa e la dignità della Religione, di custodire ogni nobile disciplina e di perseguire con animo ardente ogni esercizio delle arti oneste, con il favore e l’approvazione dei Romani Pontefici, che sempre si preoccuparono con grande sollecitudine di custodire l’antica grandezza delle lettere, e di far sì che ogni espressione di umana civiltà ricevesse di giorno in giorno sempre nuovi incrementi. E voi ben sapete, venerabili fratelli, che la cosa che sempre Ci è stata più cara è l’educazione corretta e salutare dell’adolescenza; a questo, per quanto Ci è stato possibile, abbiamo sempre guardato con attenzione. Ora poi utilizziamo volentieri la presente occasione, presentando l’esempio del valoroso condottiero Pietro Canisio agli occhi di coloro che negli accampamenti della Chiesa militano per Cristo, affinché, forti del pensiero che alle armi della giustizia si debbano associare le armi della cultura, possano più energicamente e vittoriosamente servire la causa della Religione. – Quanto sia stato gravoso l’impegno assunto da quell’uomo zelantissimo della fede cattolica, appare facilmente a coloro che considerano con attenzione il volto della Germania agli inizi della ribellione luterana. Modificati i costumi, di giorno in giorno sempre più degradati, fu facile il passaggio all’errore; e lo stesso errore poi condusse a maturazione la definitiva rovina dei costumi. Così, a poco a poco, molti si allontanarono dalla fede cattolica; quindi il virus del male si diffuse ampiamente in quasi tutte le province e contaminò uomini di ogni condizione e fortuna, al punto che nella mente di molti si consolidò l’opinione che la causa della Religione in questo regno fosse ormai totalmente perduta, e che non ci fosse ormai più alcun rimedio per curare la malattia. E senza dubbio non ci sarebbe stato più nulla da fare riguardo alle cose supreme, se Dio non fosse intervenuto con efficace soccorso. C’erano ancora in Germania uomini di antica fede, ragguardevoli per la cultura e lo zelo della Religione; c’erano i principi della Casa Bavarese e Austriaca, e soprattutto il re dei romani Ferdinando, primo del suo nome, per i quali era un dato indiscusso la protezione e la difesa con tutte le loro forze della causa cattolica. E Dio donò alla Germania in pericolo un nuovo e di gran lunga il più valido soccorso, la Compagnia di Gesù, nata opportunamente proprio in quella tempesta, e a questa, primo fra i tedeschi, diede il suo nome Pietro Canisio. – Non dobbiamo qui ora ripercorrere tutti gli aspetti dell’esemplare santità di quest’uomo; con quale impegno si sia preso cura della patria lacerata da dissidi e sedizioni, per ricostituire un comune sentire degli animi e l’antica concordia; con quale ardore abbia combattuto nelle dispute con i maestri dell’errore, con quali discorsi abbia incitato gli animi, quali fastidi abbia sopportato, quante regioni abbia percorso, quante faticose missioni abbia intrapreso per la causa della fede. Prendiamo in considerazione soltanto le armi della cultura; con quale costanza le ha esposte, con quale prudenza, con quale senso di opportunità! Quando ebbe fatto ritorno da Messina, dove si era recato come maestro della parola, subito si impegnò con singolare energia ad insegnare le sacre discipline nelle Università di Colonia, Ingolstadt e Vienna, e seguendovi la via regale della scuola cristiana dei dottori di sicura fama, aprì le menti dei tedeschi alla grandezza della teologia scolastica. Dal momento che in quel tempo i nemici della fede da questa si tenevano lontani con supremo disgusto, poiché su di essa si fondava principalmente la fede cattolica, proprio questo metodo di studio cercò di rimettere pubblicamente in auge nei licei e nei collegi della Compagnia di Gesù, che lui stesso aveva contribuito a realizzare con tanta fatica e lavoro. E lui stesso non si vergognò affatto di calarsi dalla sapienza più alta ai primi elementi degli studi letterari, e di accogliere fanciulli da istruire, scrivendo proprio per loro dei libri di letteratura e delle grammatiche. Contemporaneamente, dalle dimore dei principi, nelle quali teneva le sue orazioni, tornava spesso alle prediche al popolo, al punto che, mentre scriveva le cose più alte, sia in ordine a controversie dottrinali che sui costumi, metteva mano anche alla composizione di opuscoli che rafforzassero la fede del popolo e suscitassero e nutrissero la sua pietà. Degna di grande ammirazione per la sua utilità nel preservare dal laccio dell’errore gli inesperti fu la sua pubblicazione di una Summa della dottrina cattolica, opera densa e concisa, chiarissima nel suo limpido latino, non indegna dello stile dei padri della Chiesa. A questa splendida Opera, che fu accolta dai dotti in tutti i regni europei con unanime lode, sono inferiori per la mole, ma non per l’utilità, quei due famosissimi Catechismi, scritti da quel santo uomo ad uso degli indotti, uno per istruire sulla religione i fanciulli, l’altro per istruire su di essa gli adolescenti che si dedicano allo studio delle lettere, Tutti e due, non appena furono pubblicati, conobbero un così grande successo fra i Cattolici, da essere fra le mani di tutti coloro che insegnavano le verità fondamentali della fede cristiana; e non venivano usati soltanto nelle scuole, quasi come latte da sorbirsi dai fanciulli, ma venivano pubblicamente spiegati per l’utilità di tutti nelle chiese. È successo così che il Canisio per trecento anni è stato considerato il maestro comune dei Cattolici di Germania, al punto che nella coscienza del popolo queste due affermazioni avevano lo stesso significato, conoscere il Canisio, e tenere saldamente la verità cristiana. – Questi scritti del nostro santo indicano chiaramente a tutti i buoni la via da seguire. Sappiamo poi, venerabili fratelli, che questa gloria della vostra gente è magnifica: usatela con sapienza e in modo felice per promuovere con intelligenza e passione l’onore della patria e per conseguire il bene privato e pubblico. In verità è del massimo interesse che chiunque fra di voi è sapiente e buono, si adoperi con forza a favore della Religione; diriga al suo decoro e difesa ogni luce della mente e tutte le risorse delle scienze letterarie; e con il medesimo proposito, colga subito e si impadronisca con la conoscenza di qualsiasi cosa che in ogni ambito porti al bene, sia con l’incremento delle arti che della cultura. Infatti, se mai vi fu un tempo in cui, per la difesa del Cattolicesimo, fosse richiesto in modo speciale una grande cultura ed una grande erudizione, questo è proprio il nostro tempo, nel quale un più rapido progresso in ogni campo della cultura umana, offre talvolta ai nemici del nome cristiano lo spunto per combattere la fede. Per respingere l’attacco di costoro, bisogna far ricorso a forze di pari valore; occupare per primi le posizioni e strappare dalle loro mani le armi con le quali si sforzano di spezzare ogni legame fra le cose divine e quelle umane, I cattolici interiormente così preparati e a dovere formati, potranno facilmente dimostrare che la fede divina non solo non si contrappone alla cultura umana, ma è anzi di questa come il coronamento e il fastigio.
Anche in quelle cose in cui maggiore sembra essere la distanza, o in cui sembra esservi opposizione, la fede può molto facilmente accordarsi con la filosofia e ad essa associarsi, al punto di illuminarsi l’una con l’altra in modo sempre più grande; la natura non è nemica, ma compagna e ancella della religione.
Con il suo aiuto non solo tutte le conoscenze si arricchiscono, ma le lettere e tutte le arti ricevono maggiore vigore e vitalità. Quanto poi pervenga alle sacre dottrine di ornamento e di dignità dalle discipline profane, lo può facilmente comprendere chi ben conosce la natura umana, incline a tutto ciò che colpisce piacevolmente i sensi. Perciò, presso i popoli che eccellono sugli altri per la loro cultura, a stento si presta una qualche fiducia ad un sapienza rozza, e soprattutto i dotti non prestano attenzione a quelle cose che non si accompagnino ad una forma bella ed elegante. Ora noi siamo debitori ai dotti non meno che agli ignoranti: dobbiamo stare con i primi nel combattimento, dobbiamo sostenere questi ultimi quando vacillano e rafforzarli.
E’ qui in verità il campo si aprì davanti alla Chiesa con estrema larghezza. Infatti, appena essa riprese vigore dopo le lunghe persecuzioni, vi furono uomini di grande dottrina che con il loro ingegno e la loro scienza illustrarono quella fede che per l’innanzi uomini di grande coraggio avevano suggellato con il loro sangue. In questa lode per primi operarono concordi i padri, e lo fecero con tale vigore, che non potrà mai esserci nulla di più valido; e lo fecero il più delle volte con espressione dotta, degna delle orecchie dei romani e dei greci, Spronati quasi come da aculei dalla dottrina e dall’eloquenza di costoro, molti in seguito si gettarono con tutte le loro forze nello studio delle sacre verità, e raccolsero un patrimonio cosi’ grande di Sapienza cristiana, nel quale, in ogni successivo periodo della Chiesa, gli uomini fossero in grado di trovare tutto quanto potesse loro servire a sradicare le antiche superstizioni, o a distruggere i nuovi flagelli degli errori. In ogni tempo si trovò sempre una grande abbondanza di uomini dotti, anche in quel periodo in cui tutto ciò che vi era di più prezioso fu esposto alla furia e alla rapina dei barbari e quasi cadde nella trascuratezza e nella dimenticanza. Al punto che, se quegli antichi preziosi prodotti della mente e della mano dell’uomo, se quelle cose che un tempo furono in sommo onore presso i romani e i greci non andarono completamente perdute, tutto questo deve essere ascritto a merito del lavoro e della diligenza della Chiesa. – Dal momento che lo studio della scienza e delle arti apporta alla Religione una luce così grande, senza alcun dubbio coloro che si sono totalmente consacrati agli studi è necessario che adoperino tutta la loro solerzia non solo per pensare, ma anche per agire, affinché le loro conoscenze non rimangano chiuse in loro stessi e sterili. I dotti quindi mettano i loro studi a servizio della comunità cristiana e dedichino il loro tempo libero al bene comune, e cosi’ le loro conoscenze non sembreranno restare inconcludenti, ma saranno congiunte con la realtà dell’azione. Questa azione si evidenzia soprattutto nell’educazione dei giovani; e quest’opera è di così grande valore che richiede per sé la maggior parte dell’impegno e della sollecitudine. Proprio per questo, venerabili fratelli, vivamente vi esortiamo affinché vegliate a custodire nelle scuole l’integrità della fede, oppure, qualora fosse necessario, affinché ad essa queste siano con sollecitudine ricondotte; sia quelle di antica fondazione, come quelle che sono state aperte di recente; sia quelle dedicate all’infanzia, sia quelle che vengono chiamate medie ed universitarie. Gli altri Cattolici delle vostre regioni cerchino in primo luogo ed ottengano che nell’educazione degli adolescenti siano garantiti e salvaguardati i diritti propri dei genitori e della Chiesa. – A questo riguardo, bisogna prendersi cura specialmente delle cose che seguono. Prima di tutto, bisogna che i Cattolici abbiano, specialmente per i bambini, delle scuole proprie e non miste [pluriconfessionali], e che siano scelti degli ottimi maestri, assolutamente fidati. L’insegnamento in cui la realtà religiosa è erronea o assente è pieno di pericoli, e vediamo che questo spesso succede nelle scuole che abbiamo chiamato miste. Nessuno si lasci facilmente persuadere che si possa senza pericolo separare la pietà dall’istruzione. Infatti, se nessun periodo della vita umana, sia nelle cose pubbliche che in quelle private, può fare a meno della funzione della Religione, tanto meno può essere privata di quella funzione quell’età inesperta, di fervido ingegno, e posta fra le tante tentazioni della corruzione. Chi dunque organizza l’insegnamento in modo tale che non abbia nessun punto di contatto con la Religione, corrompe gli stessi germi del bello e dell’onesto e prepara non un presidio alla patria, ma la peste e la rovina del genere umano. Chi infatti, tolto di mezzo Dio, potrà ancora trattenere gli adolescenti nel dovere, o ricondurre quelli che hanno deviato dai retti sentieri della virtù e che sono caduti nel baratro dei vizi? – È necessario poi che la Religione venga insegnata ai giovani non soltanto in certe ore, ma bisogna che tutta l’educazione sia impregnata del modo di sentire della pietà cristiana. Se questo viene meno, se questo sacro alito non pervade e non scalda l’anima dei docenti e dei discenti, si raccoglieranno pochi frutti dall’insegnamento; e invece ne deriveranno spesso gravi danni. – Quasi tutte le discipline hanno i loro pericoli, e questi difficilmente potranno essere evitati dagli adolescenti se alle loro menti e alle loro volontà non vengono posti dei freni divini. Bisogna perciò fare molta attenzione affinché non venga posto in secondo piano ciò che è l’essenziale, cioè il culto della giustizia e della pietà; affinché nella gioventù, costretta soltanto alle cose che si vedono con gli occhi, non si atrofizzi ogni vigore di virtù; affinché i maestri, mentre insegnano con grande fatica le pedanterie dell’istruzione e analizzano sillabe e accenti, non siano poi solleciti di quella vera sapienza il cui “inizio è il timore del Signore”, ed ai cui precetti ci si deve conformare in tutti i momenti della vita. La conoscenza delle molte cose abbia perciò unita a sé la cura della perfezione dello spirito; la Religione informi e diriga a fondo ogni scienza, qualunque essa sia, e colpisca con la sua maestà e soavità, da rimanere così come un pungolo negli animi degli adolescenti.
Siccome fu sempre intenzione della Chiesa che ogni genere di studi servisse principalmente alla formazione dei giovani, è necessario che questa materia di studio non solo abbia il suo posto, e un posto speciale, ma è ugualmente necessario che nessuno possa svolgere un insegnamento così importante, se prima non sia stato riconosciuto idoneo a tale insegnamento dal giudizio e dall’autorità della Chiesa stessa. – Ma non è soltanto nelle scuole dei fanciulli che la Teligione reclama i sui diritti. Vi fu un tempo in cui negli statuti di ogni Università, in primo luogo di quella di Parigi, era disposto che tutti gli studi fossero orientati alla teologia, in modo tale che nessuno fosse ritenuto giunto al supremo livello della sapienza, se non avesse conseguito la laurea in questa disciplina. Il restauratore dell’età Augustale Leone X, e dopo di lui gli altri Pontefici Nostri predecessori, vollero che l’Ateneo romano e le altre cosiddette Università degli studi, quando ardevano le empie guerre contro la Religione, fossero come solide fortezze, dove, sotto la guida e l’autorità della sapienza cristiana, venissero istruiti i giovani. Un ordinamento degli studi siffatto, che dava il primo posto a Dio e alle cose sacre, portò ottimi frutti; certamente fece sì che i giovani così istruiti fossero maggiormente fedeli al loro dovere. Questo positivo risultato potrà rinnovarsi anche presso di voi, se voi cercherete con tutte le vostre forze di ottenere che nelle scuole medie, nei ginnasi, nei licei e nelle università, vengano assicurati alla Religione i suoi propri diritti. – Non succeda però mai che anche ottimi consigli siano vanificati, e venga intrapresa una inutile fatica, qualora venisse meno l’accordo degli animi e la concordia nell’azione. Che cosa potranno mai fare le forze divise dei buoni, contro l’impeto unito dei nemici? O a che cosa servirà il coraggio dei singoli, dove venga meno una comune regola di condotta? Per questo vi esortiamo grandemente affinché, tolte di mezzo le inopportune controversie e le contese di parte, che possono con facilità dividere gli animi, tutti consentano in modo univoco a procurare il bene della Chiesa, e, riunite le forze, tendano a quest’unica cosa e manifestino un’unica volontà, “cercando si conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace” (Ef 4,3). – Ci ha persuasi a fare queste ammonizioni la memoria e la commemorazione di un grande Santo; e volesse il cielo che i suoi esempi luminosi si imprimessero negli animi e li muovessero a quel suo amore della sapienza che non può recedere mai dal lavorare per la salvezza degli uomini e dal difendere la dignità della Chiesa, Confidiamo quindi che voi, venerabili fratelli, che in questo avete una particolare sollecitudine, troverete sicuramente tra i dotti numerosi soci e compagni in questo glorioso lavoro. Ma questa nobile impresa, quasi deposta nel loro seno, la potranno soprattutto attuare coloro che sono stati dalla divina .provvidenza incaricati del magnifico compito di istruire la gioventù. Se costoro ricorderanno, cosa cara agli antichi, che la scienza separata dalla giustizia deve essere chiamata astuzia piuttosto che sapienza, o meglio, se presteranno attenzione a quanto dicono le sacre Scritture “vani sono… tutti gli uomini nei quali non c’è la scienza di Dio” (Sap 13,1), impareranno ad usare le armi della scienza non solo per la loro personale utilità, ma per la comune salvezza. Potranno infine sperare di ottenere, dal loro lavoro e dalla loro operosità, i medesimi frutti che ottenne un tempo Pietro Canisio nei suoi collegi e nei suoi istituti, formare cioè dei giovani docili e virtuosi, ornati di buoni costumi, che detestano con forza gli esempi dei cattivi, e che sono solleciti della scienza e della virtù. Quando la pietà avrà posto nell’animo di questi giovani più solide radici, sarà quasi del tutto scomparso il pericolo che essi possano essere intaccati da opinioni perverse o che possano deflettere dalla loro precedente vita virtuosa. E in costoro che la Chiesa e la società civile ripongono le loro migliori speranze essi saranno in futuro illustri cittadini e, con il loro consiglio, la loro prudenza, la loro cultura potranno essere salvaguardati l’ordinamento civile e la tranquillità della vita domestica. – Per il resto, a Dio ottimo massimo, che è il “Signore delle scienze”, alla sua vergine Madre, che è chiamata “Sede della sapienza”, forti dell’intercessione di Pietro Canisio, che per la gloria della sua dottrina ha così bene meritato dalla Chiesa Cattolica, innalziamo le Nostre preghiere, affinché sia possibile essere partecipi dei voti che abbiamo formulato per l’incremento della Chiesa stessa e per il bene della gioventù. Fiduciosi di questa speranza, a voi singolarmente, venerabili fratelli, e a tutto il vostro clero e popolo, auspice dei doni celesti e testimone della Nostra paterna benevolenza, impartiamo di tutto cuore l’apostolica benedizione.

Roma, presso San Pietro, il 1 agosto 1897, ventesimo anno del Nostro pontificato.

UB’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – ” QUÆ AD NOS”

Si tratta ancora una volta di una breve Lettera Enciclica indirizzata ai Vescovi della Boemia e della Moravia, per incitarli ad un’azione comune nella difesa del gregge cattolico attaccato da infedeli, increduli ed adepti di conventicole demoniache. È quanto oggi vediamo in modo amplificato nelle nostre Nazioni ormai divorate dal tarlo del modernismo e dal verme del paganesimo operante in ogni ambito e prossimo all’epilogo descritto da San Giovanni nell’Apocalisse. Il Sommo Pontefice sapeva molto bene a cosa andasse incontro la Chiesa Cattolica e cercava con ogni mezzo di allontanarne i lupi ed i falsi profeti che la dilaniavano, difesa efficace per poco tempo, fino al “colpo si stato” del Conclave del 26 ottobre 1958, quando una falsa chiesa, o meglio la sinagoga demoniaca, cacciando il Santo Padre e relegandolo inoperante ad un ruolo di secondo piano, insediava un agente infernale sul trono di S. Pietro, cosa che proprio Leone XIII aveva visto profeticamente in visione negli ultimi anni del diciannovesimo secolo. Ma non è il caso di avvilirsi, piccolo gregge, sono tempi di pazienza e persecuzione ai quali simo stati chiamati dalla Sapienza eterna ad operare sostenuti dalla nuda fede e dall’operosità “sotterranea”, in ambiente eclissato o catacombale. Così ha disposto la Volontà suprema per darci occasione di redimerci con la penitenza ed acquisire meriti onde aspirare alla salvezza ed alla eterna beatitudine. Profittiamone con gioia per essere stati scelti a sopportare e soffrire ogni sofferenza in nome di Cristo e della sua Chiesa Cattolica, e sostenendo con la preghiera la vita e l’opera del Santo Pontefice impedito… abbiate fede, Io ho vinto il mondo! Parola di Dio.

QUÆ AD NOS
ENCICLICA DI PAPA LEONE XIII 
ALLA CHIESA IN BOHEMIA E MORAVI
A

Al cardinale Skrbensky, arcivescovo di Praga, e agli altri arcivescovi e vescovi di Boemia e Moravia.

Le notizie che quotidianamente ci giungono sullo stato delle vostre diocesi e sull’allontanamento di un gran numero di persone dai riti e dalle pratiche del Cattolicesimo sono per noi motivo di grande tristezza e dolore. Certamente non dubitiamo che voi applichiate strenuamente ogni argomento per riparare le disgrazie del gregge a voi affidato e per evitare che le perdite si aggravino di giorno in giorno. Se i nemici della fede non risparmiano né lavoro né denaro e si sforzano con tutte le loro forze di distruggere il vostro gregge, voi, che Cristo ha voluto come Pastori, non dovete stare con le mani in mano; dovete usare ogni mezzo disponibile per difendere il vostro gregge. Tuttavia, l’entità del pericolo ci spinge a sollecitare i volenterosi. Sappiamo, certo, che non tutte le vostre diocesi si trovano nelle stesse condizioni per quanto riguarda la sicurezza della fede; pertanto, gli stessi mezzi di assistenza per preservare la fede non possono essere applicati ovunque. Tuttavia, poiché il pericolo è comune ed è una patria comune che chiede di essere difesa, pensiamo che la soluzione migliore sia che voi comunichiate tra di voi e con un parere unito per stabilire ciò che deve essere realizzato e ciò che deve essere evitato. Perciò è nostro desiderio che tutti voi Vescovi di Boemia e Moravia vi riuniate al più presto per deliberare sulla difesa della fede tra i vostri connazionali. Naturalmente farete in modo che la natura delle deliberazioni e delle decisioni che avranno luogo sia riferita a Noi, affinché siano sancite dall’approvazione apostolica. Inoltre, non vogliamo lasciar passare questa opportunità senza raccomandarvi ancora una volta con forza che abbiate cura di estirpare totalmente lo zelo di parte che provoca la divisione del clero santo tra di voi; questo divide e snatura le forze di coloro la cui unione è molto necessaria, ora soprattutto, per la difesa della fede. Che l’aiuto della grazia divina sia con voi in questi compiti. In segno del Nostro amore ricevi la Benedizione Apostolica che con grande amore nel Signore impartiamo a te e al tuo gregge.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 22 novembre 1902, nel 25° anno del Nostro Pontificato.

LEO XIII