S.S. GREGORIO XVII – Omelia per S. Giovanni, 24-6-1986

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Tra la fine dell’XI e l’inizio del XII sec. si verificano a Genova due eventi di grande rilievo: nasce il Comune e i Genovesi partecipano trionfalmente alla prima Crociata. Genovesi, Baresi e Veneziani da tempo erano alla ricerca delle reliquie di San Nicola a Myra, in Asia minore; al ritorno dalla prima crociata, sotto la guida di Guglielmo Embriaco, i Genovesi sbarcarono in quei luoghi scoprendo di essere stati preceduti dai Baresi. Temendo un raggiro dei monaci scavarono comunque sotto l’Altare Maggiore e rinvennero così le ceneri di San Giovanni Battista; l’arrivo delle Ceneri a Genova su tre vascelli nel 1098 fu un avvenimento memorabile per la città e viene rievocato dalla suggestiva Sfilata del Corteo Storico in occasione della Regata delle Repubbliche Marinare che si svolge ogni anno, a rotazione nelle quattro città. La devozione al Santo cominciò a farsi sempre più fervente e a riflettersi in molti campi: iniziarono a sorgere numerose cappelle pubbliche e private oltre che edicole sacre dedicate al Battista. – Alla fine del Duecento si istituì la Confraternita intitolata a San Giovanni, con il compito di accompagnare le reliquie al Molo in caso di tempesta in mare; nel 1327 la Repubblica proclamò il Santo Patrono di Genova, affiancandolo a San Giorgio e San Lorenzo, decretando una processione da tenersi ogni anno. – Le ceneri di San Giovanni sono conservate nella cattedrale di Genova, luogo dove il Santo Padre in esilio, Giuseppe Siri, S. S. Gregorio XVII, di felice memoria, svolgeva il suo ufficio di Arcivescovo, mentre a Roma il “vicario dell’anticristo” dava inizio e proseguimento all’opera demolitiva della Santa Chiesa Cattolica. Ecco perché in ogni omelia di questo giorno il Santo Padre ricordava l’evento. Così avvenne anche il 24 giugno del 1986, tre anni circa prima della sua morte, avvenuta il 2 maggio del 1989. Riportiamo qui alcuni passaggi di quella omelia [da: omelie per l’anno liturgico]:

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“La divina liturgia nella solennità di S. Giovanni Battista in questa cattedrale freme, perché questa cattedrale custodisce da nove secoli quello che rimane di lui, le sue ceneri. – Ma dobbiamo guardare a lui. Ecco il quadro nel quale egli risalta. La storia dell’umanità intera si divide in due parti: avanti Cristo e dopo Cristo, e questo può essere dimostrato, anche se non è l’oggetto del mio parlare ora. Quest’uomo ha fatto il collegamento tra la prima e la seconda parte. Ha riassunto la prima, portandosi con la dignità e la fortezza di Elia, il più grande profeta dell’Antico Testamento, e ha aperto la seconda parte, facendo il precursore di Cristo. Questo è il quadro nel quale bisogna vedere S. Giovanni Battista. – Ma siccome la sua figura deve insegnare qualche cosa a noi, ecco mi domando: quale è stata la più grande virtù di S. Giovanni Battista? E stata la fedeltà. Quando gli hanno domandato se era lui il Messia, ha detto: “No, io non lo sono. Verrà uno dopo di me del quale io non sono degno neppure di sciogliere il legaccio dei calzari” (Gv. I, 27). Quando gli è stata rivolta in una seconda occasione la stessa domanda, ha risposto: “Io sono soltanto la voce che grida nel deserto” (Gv I, 23), insegnando questo: che un uomo vale quanto la sua missione, che se non la adempie vale nulla! Egli non era altro che la voce, cioè l’annunziatore di Cristo, il resto non lo riguardava. – Per essere fedele a questa missione visse nel deserto, vestì una tunica di peli di cammello, e tutti possono immaginare quanto fosse delizioso il portarla; visse di schiacciate di locuste (forse noi ne avremmo un profondo ribrezzo) e di miele selvatico. Abbiamo notato, quando circa quarant’anni fa, ho fatto esaminare le sacre ceneri nell’istituto di patologia della Università di Genova, che il responso scientifico dato tra l’altro portava questo: il soggetto di queste ceneri deve aver condotto una vita non di lavoro manuale, ma di lavoro spirituale ; non si trovano le tracce di fatica da lavoro. La fedeltà della missione, e cioè il dovere di prepararla degnamente, lo portò nel deserto e vi restò fin quasi a trent’anni. La fedeltà: quando i suoi discepoli gli parlarono di Gesù e, invidiosi, facevano notare che riempiva di miracoli lo spazio e il tempo, egli disse semplicemente: “E necessario che Lui cresca e io diminuisca” (Gv 3, 30). – La fedeltà lo rese rigido nella vita morale e nella asserzione della morale, e quando questo lo pose in opposizione ad Erode, accettò la prigione e accettò la morte. È morto martire per difendere la dignità dell’istituto familiare quale lo voleva Dio e resta ancora oggi “il martire di questa fedeltà alla legge di Dio nell’ordinamento della famiglia”, che parte della legislazione moderna ha sconquassato, con questo sconquassando tutto, perché quelli che vedranno, vedranno anche le conseguenze di questo, di questa sfida a Dio!Quest’uomo fedele si leva tra l’una e l’altra parte di storia del genere umano con questa caratteristica, e con questa caratteristica dice anche la sua voce di condanna, che sappiamo bene cade su coloro che non sono fedeli a Cristo. Così sia.

I fuochi di san Giovanni.

I fuochi di san Giovanni.

[Dom. Guéanger, l’anno liturgico, vol. II]

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Tre Messe celebravano la nascita di Giovanni, come quella di Colui che egli fece conoscere alla Sposa: la prima, di notte, ricordava il suo titolo di precursore; la seconda, allo spuntare del giorno, onorava il suo battesimo; l’ultima, a Terza, esaltava la sua santità (Sacr. Gregor. Amal. pseudo Alcuino, Ord. Rom.). Inoltre, come vi erano una volta due Mattutini nella notte di Natale, Durando di Mende ci riferisce, insieme con Onorio di Autun, che parecchi celebravano nella festa di san Giovanni, un duplice Ufficio {Ration., 7, 14). Il primo cominciava al tramonto; era senza alleluja, per significare il tempo della Legge e dei Profeti che durò fino a Giovanni (Lc. XVI, 16). Il secondo, si iniziava nel cuore della notte e terminava all’aurora; veniva cantato con alleluja, per indicare l’inizio dei tempi della grazia e del regno di Dio (ibid.). – La letizia, che è il carattere specifico di questa festa, dilagava anche fuori dei luoghi santi, e si spandeva finanche sui Musulmani infedeli. Se a Natale il rigore della stagione confinava accanto al focolare domestico le commoventi manifestazioni della pietà privata, lo splendore delle notti della solennità estiva porgeva alla viva fede dei popoli l’occasione di rifarsi. Completava così quello che le sembrava l’insufficienza delle sue dimostrazioni verso il Bambino Dio, con gli onori resi al Precursore nella sua culla. Appena si spegnevano gli ultimi raggi del sole, dal lontano Oriente fino all’estremo Occidente, sull’intera superficie del mondo, immensi falò si levavano dalle montagne, e salivano d’un tratto da tutte le città, in ogni borgata, nei più piccoli villaggi. Erano i fuochi di san Giovanni: testimonianza autentica, e continuamente rinnovata, nella verità delle parole dell’Angelo e della profezia la quale annunciava quella gioia universale che doveva salutare la nascita del figlio di Elisabetta. – Come una lampada ardente e risplendente, secondo l’espressione del Signore, egli era apparso nella notte senza fine. Per un tempo, la sinagoga aveva voluto rallegrarsi ai suoi raggi (Gv. V, 35); ma, poi sconcertata dalla sua fedeltà che le impediva di sacrificarsi per Cristo e per la vera luce (ibid. 1, 20), irritata alla vista dell’Agnello che Giovanni mostrava come la salvezza del mondo e non più soltanto di Israele (ibid. 29), si era rivolta subito nuovamente verso la notte e aveva messo da se stessa ai propri occhi la benda che la faceva rimanere nelle tenebre fino ai nostri giorni. Grata a colui che non aveva voluto né mutilare né ingannare la Sposa, la gentilità lo esaltò tanto più quanto più egli si era umiliato; raccolse gli ideali che avrebbe dovuto custodire la sinagoga ripudiata, e manifestò con tutti i mezzi in suo potere che, senza confondere la luce avuta dal Precursore con lo splendore del Sole di giustizia, ne salutava tuttavia con entusiasmo quella luce che era stata per l’umanità l’aurora dei gaudi nuziali.

Antichità dei fuochi di San Giovanni.

Si potrebbe quasi dire dei fuochi di san Giovanni che risalgono all’origine stessa del cristianesimo. Per lo meno, appaiono fin dai primi tempi della pace, come un frutto dell’iniziativa popolare, non senza stimolare talvolta la sollecitudine dei Padri e dei concili, pronti ad allontanare qualunque idea superstiziosa di manifestazioni che volessero sostituire, del resto così felicemente, le feste pagane dei solstizi. – Ma la necessità di combattere alcuni abusi, possibili oggi come allora non impedì alla Chiesa di incoraggiare un genere di manifestazioni che rispondeva così bene al carattere della festa. [I pagani celebravano da lungo tempo il solstizio d’estate, il 24 giugno, con fuochi di allegria in onore del sole. I cristiani adottarono tale usanza, In onore di colui che, fiaccola ardente fu il Precursore della vera luce (DAC, V, c. 1468)]. – I fuochi di san Giovanni completavano felicemente la solennità liturgica; mostrando unite in uno stesso pensiero la Chiesa e la città terrena. Infatti, l’organizzazione di questi festeggiamenti spettava ai comuni, e i municipi ne sopportavano tutte le spese. Così, il privilegio di accendere i fuochi era riservato di solito alle personalità eminenti nel campo civile. Gli stessi re, prendendo parte alla gioia di tutti, si facevano un onore di dare questo segnale di allegria ai loro popoli; Luigi XIV, nel 1648, mise ancora il fuoco alla pira della piazza di Grève, come avevano fatto i suoi predecessori. D’altronde, come si usa sempre in parecchi luoghi della cattolica Bretagna, il clero, invitato a benedire le cataste di legna, vi gettava poi la prima torcia, mentre la folla, recando altre torce accese, si spargeva nelle campagne intorno alle messi in maturazione, oppure seguiva sulle rive del mare le sinuosità della costa, con grida di gioia a cui rispondevano i fuochi accesi nelle vicine isole.

La « Girandola »

In alcuni luoghi, la girandola, disco infuocato che girava su se stesso e percorreva le strade della città o scendeva dalla cima dei monti, rappresentava il moto del sole che raggiunge il punto più alto della sua corsa per ridiscenderne subito; richiamava così le parole del Precursore riguardo al Messia: Bisogna che egli cresca e che io diminuisca (Gv. III, 30). Il simbolismo era completato dall’usanza che si aveva di bruciare le ossa e gli avanzi di ogni specie, in quel giorno che annunciava la fine della legge antica e l’inizio dei tempi nuovi, secondo il detto della Scrittura: Rigetterete ciò che è vecchio all’arrivo dei nuovi beni (Lev. XXVI, 10). – Beate le popolazioni che conservano ancora qualcosa delle usanze a cui la semplicità dei nostri padri attingeva una letizia più vera e più pura certamente di quelle chieste dai loro successori a certe feste in cui l’anima non prende più parte.

S. MASSIMO VESCOVO E CONFESSORE

MASSIMO VESCOVO E CONFESSORE

[23 GIUGNO – I Santi per ogni giorno dell’anno; Pia Soc. S. Paolo, Roma, 1933]

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A Torino, nell’anno 380 circa nacque il nostro santo da nobile famiglia cristiana. I suoi parenti dopo avergli impartita una educazione seria e santa, pensavano fare di lui un valente magistrato, ed a tal fine lo mandarono a Roma, a perfezionarsi negli studi dell’eloquenza e della filosofia, come usavano i figli dei nobili d’allora. Furono tali i suoi progressi, che salì presto in voce di uno dei primi oratori del suo tempo, e venne tosto laureato in Filosofia. – Però al vedere tante miserie e calamità, che in quei tempi erano spaventose, Massimo decise di consacrarsi totalmente al servizio del Signore. Era allora Pontefice S. Innocenzo I, nativo di Alba in Piemonte, il quale non poté stare indifferente a tanta virtù che si manifestava in Massimo. Perciò quando questi decise di darsi a Dio, lo animò ad essere perseverante negli studi per prepararsi degnamente al sacerdozio. – Ordinato sacerdote, e laureato in Sacra Teologia, si diede con zelo instancabile ad esercitare il sacro ministero, specialmente fra la gente povera di Roma. Tanto ardore fece impressione al santo Pontefice, che, illuminato dallo Spirito Santo, ordinò Massimo Vescovo, e lo mandò a Torino, sua città natia, a reggere quel popolo, e me primo loro pastore. Quantunque i Taurini fossero ancora in gran parte pagani, tuttavia lo zelantissimo apostolato di S. Massimo in pochi anni li vinse, e molti ricevettero il battesimo. – Abilissimo e dotto scrittore ci lasciò copiosissime omelie, ed altre opere. Le continue incursioni barbariche avevano di molto impoverito il popolo della campagna, onde questo ricorreva alla città per potersi sfamare. Il cuore paterno e generoso di Massimo sanguinava al veder tanti suoi figli così ridotti, onde cercava di sollevarne quanti più poteva. Ogni giorno distribuiva il cibo necessario a quanti gli era possibile, e la sua casa era sempre rigurgitante di derelitti e di mendici. – La sua carità giunse a tal segno, da divenirne suo distintivo precipuo; ed ai forestieri che domandavano dove abitasse il vescovo, veniva risposto: “Là, ove troverete tutti i mendici alla porta, ivi è la casa di Massimo”. – Che ancor non fece per il suo gregge? Durante una lunga siccità, egli stesso, vecchio di oltre 60 anni, fece un pellegrinaggio a piedi, da Torino a Roma sulle tombe di S. Pietro e di S. Paolo, dei quali era devotissimo. Infatti per le fervide preghiere del Santo pastore cessò la siccità; la pioggia venne abbondante e benefica, e al suo ritorno Massimo fu accolto trionfalmente dai suoi fedeli. – Figlio tenero di Maria, predicò senza riposo la divina sua Maternità e Verginità e stabili a Torino un culto tale alla Consolata, che Papi e principi vi andavano a pregarLa. La Consolata, detta la Madonna di S. Massimo, diventò la roccaforte della città, ed ancor oggi se ne ammira il quadro originale nella sua sontuosa basilica. Per esso Torino fu chiamata la città di Maria SS. – Inoltre manifestò pure la sua sapienza al concilio di Milano dove confutò sapientissimamente gli errori di Nestorio e di Eutiche, e anatematizzò tremendamente quelli che falsificavano la divina incarnazione del Verbo. – Finalmente dopo tante fatiche, si riposò nel Signore, andando a godere in cielo il premio del suo immenso lavoro.

FRUTTO. — Ad imitazione di S. Massimo consacriamoci al Signore fin dalla nostra giovinezza.

PREGHIERA. — O Signore, che ad istruire i popoli, hai decorato il Beato Alassimo, tuo Confessore e Vescovo, concedi che, seguiti i suoi esempi, possiamo anche noi giungere in Paradiso. Così sia.

 

Due Papi, un destino comune: l’esilio!

Papa SILVERIO e Papa Gregorio XVII

SILVERIO PAPA E MARTIRE 20 GIUGNO.

[da: I Santi, per ogni giorno dell’anno. Soc. S. Paolo, Roma 1933]

San Silverio Papa

 Quando l’aprile 536, moriva Papa S. Agapito, succedeva in Roma l’anarchia e già si prevedeva, a sola vista umana, difficile l’elezione d’un successore. Ma l’elezione del Papa è opera dello Spirito Santo ed ecco, all’annuncio del novello Papa, nella persona di Silverio, rifarsi la bonaccia. – Nella politica intanto avvenivano rovesci per l’Italia meridionale: Belisario, generale degli eserciti di Giustiniano, occupava la Sicilia e l’anno dopo il napoletano; poscia si spinse su, su, fino all’occupazione di Roma. Teodora, moglie di Giustiniano Imperatore, seguace dell’eresia di Eutiche, approfittò dell’occupazione di Roma per cercare di ottenere dal Papa che fosse ristabilito Antimo, della sua setta, nella sede episcopale di Costantinopoli. – Belisario, cui fu affidata l’impresa, si presentò al Papa ed espose la sua domanda. Questi però si oppose energicamente: — “Non possumus!” – Non possiamo affidare le pecorelle redente dal sangue, di Cristo, ad un eretico. Ne potrà andar la vita: non importa. Sta scritto nei Vangeli che il buon pastore dà la sua vita per le pecorelle, e noi la daremo se sarà necessario: il Signore è il nostro aiuto ed il nostro sostegno! Dopo altre inutili preghiere, minacele e promesse, Belisario se ne ritornò alla Regina. – Per segreta intesa dei due iniqui, si sparsero calunnie d’ogni sorta contro il santo Pontefice e non mancarono i falsi testimoni. – Condotto dinanzi alla regina lo spogliarono degli abiti pontificali e lo vestirono da semplice monaco; poscia su d’una nave lo relegarono a Pàtara nell’Asia Minore. – AI popolo poi, nel quale già si sentivano i sintomi d’una sollevazione per il malcontento suscitato da questo fatto, si fece credere ch’egli spontaneamente aveva chieste comunicazione col popolo, non poteva palesare la verità. – A Patara, dove sbarcò, fu accolto con grande stima dal vescovo e n’ebbe da questi promessa d’un ricorso a Giustiniano, il quale godeva stima di cristiano e dal quale perciò si sperava giustizia. – Dapprima egli si mostrò dispiacente del fatto e mostrò volontà di adoprarsi onde il Papa fosse rimesso nella sua sede. Giunse anche persino ad ordinare che fosse ricondotto a Roma ma poi, lasciatosi influenzare dalla moglie e dagli eutichiani, accondiscese vilmente che fosse relegato nell’isola di Ponza del gruppo delle Pontine. – In relegazione il santo Pontefice ebbe a soffrire grandi dolori, sete, fame, umiliazioni; ma sempre stette forte nei suoi doveri di cristiano e di Pontefice. – Egli coronò dell’aureola dei martiri la sua vita che, quanto fu poco attiva per la lunga prigionia, altrettanto fu proficua. Perché è sempre vero, e più tangibilmente vero a questi tempi, l’aforisma di Tertulliano: “Sanguis Martyrum semen Christianorum”: il sangue dei Martiri è semenza di cristiani. – Morì abbandonato da tutti il 20 giugno del 538.

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Quante affinità con Gregorio XVII, Cardinal Siri, indicato già come suo successore da Pio XII ed eletto Papa all’unanimità nel conclave del 1958 e subito destituito dai “poteri forti” che manovravano i marrani della “quinta colonna” infiltrati nel conclave e nella Chiesa, con minacce di ogni genere, non escluso l’impiego di armi atomiche. Il Santo Padre fu esiliato così nella sua Genova, costretto a fingere una carica arcivescovile, senza poter esercitare il suo “vero” mandato Apostolico atteso ed accettato, al quale lo aveva designato lo Spirito Santo, dovendo subire ed assistere alle imposizioni sacrileghe degli usurpanti occupanti il soglio di Pietro, come da profezie mariane, che mandavano al massacro [si fueri potest] la Chiesa di Cristo, minandola dal suo interno e propagando perniciose eresie, sempre protetti dai “poteri forti”, braccio operativo di satana. Sofferenza dell’anima vissuta per ben 31 anni, quella di Gregorio XVII, che amava la Chiesa di Cristo al di sopra di ogni altro bene, donando tutto se stesso, in uno stato di sorveglianza continua e totale isolamento pratico, offerto come sofferenza al Gesù del Getsemani, prima di essere stroncato dalle “goccine” di digitale e probabilmente da aqua tofana: martirio nel quale aveva profuso sangue spirituale accomunandosi a Gesù nella Passione dell’orto degli ulivi, passione durata oltre trent’anni in un lento stillicidio offerto per la salvezza della Chiesa e dei suoi veri fedeli. Ma il Signore scrive dritto sulle righe contorte, a dimostrazione della sua potenza che si irride dei vani disegni dell’uomo, anche di quelli che possono utilizzare le armi atomiche ed i mezzi di comunicazione di massa, pensando così di essere arbitri delle sorti del mondo … “irridebit eos Dominus”, ed ha utilizzato questo mezzo per perpetuare la successione Apostolica nella sua Chiesa, fedele all’impegno evangelico di essere alla guida della sua Chiesa fino all’ultimo giorno del mondo, con una serie ininterrotta di suoi Vicari. Che Papa S. Silverio, uno dei Papi esiliati della storia, esaudisca le nostre preghiere ed interceda affinché la Santa Chiesa Cattolica possa essere liberata finalmente dai lacci degli empi e mostri orgogliosa e visibile a tutti, dai sotterranei in cui è costretto, il Sommo Pontefice “vero”, il Santo Padre, il Vicario di Cristo. Amen!

SAN VITO: un Santo ausiliatore – preghiera.

SAN VITO: Un Santo ausiliatore.

[P. Guéranger, “l’anno liturgico” vol. I -1956]

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Oggi, accompagnato da Modesto e Crescenzia, san Vito viene a farci comprendere il valore del battesimo, e la fedeltà dovuta al Padre che è nei cieli. Grande è la sua gloria in cielo e in terra; i demoni, che tremavano davanti a lui, continuano a temerlo; il suo nome rimane impresso nella memoria del popolo cristiano come quello di uno fra i più potenti ausiliari, al seguito di sant’Erasmo. San Vito possiede il potere di liberare coloro che ricorrono a lui quando sono colpiti dal male crudele che porta il suo nome. Egli neutralizza i morsi dei cani arrabbiati e quelli dei serpenti, e si mostra pietoso verso gli stessi animali. Lo si prega ancora contro la letargia, o il sonno troppo prolungato; il gallo che lo accompagna in varie raffigurazioni ricorda tale uso, come pure quello di invocare il nostro santo per ottenere di essere destati ad una data ora. La sua protezione si estende infine ai danzatori e ai commedianti. – Il culto di san Vito risale alla più remota antichità, ma gli Atti della sua vita hanno subito tali interpolazioni che è molto difficile sceverare il vero dalla leggenda. Essi riferiscono che, ancora bambino, avrebbe sofferto per la fede, in compagnia di Modesto, suo precettore, e di Crescenzia, sua nutrice. A Roma, fu dedicata a san Vito una Chiesa dal papa Gelasio e a Parigi il monastero di San Dionigi si faceva vanto nell’VIII secolo di possedere alcune delle sue reliquie. Queste ultime furono cedute al monastero di Corvey, nella Sassonia, e da allora il culto di san Vito divenne molto popolare in Germania.

Preghiera per la guarigione.

“Illustre martire, che hai preferito il Padre del cielo a quello della terra, chi può mai descrivere la tenerezza di cui ti circonda Colui che tu hai con tanto coraggio riconosciuto davanti agli uomini? Egli vuole che fin da quaggiù risplendano nei tuoi riguardi i segni della sua munificienza; poiché ti affida una larga parte nell’esercizio della sua potenza misericordiosa. In cambio della santa libertà che regnò nella tua anima e sottomise in una completa obbedienza il tuo corpo a quest’anima, tu possiedi sulla natura decaduta un meraviglioso potere; gli infelici le cui membra disordinatamente agitate da una crudele malattia non conoscono più la guida di una volontà sovrana, gli uomini stessi che un sonno troppo prolungato non lascia più liberi delle proprie azioni, ritrovano ai tuoi piedi la perfetta armonia del corpo e dell’anima, poiché la docilità del primo permette alla seconda di attendere ai doveri che le incombono verso Dio e verso la società. Illustre Santo, sii sempre più prodigo nell’esercizio del tuo prezioso dono, per il bene dell’umanità sofferente e per la maggior gloria di Dio che ti ha incoronato. Noi te lo chiediamo per tutti insieme alla Chiesa, e per tuo mezzo chiediamo a Dio « di allontanare da noi ogni sentimento di orgoglio, di farci professare l’umiltà che piace a Dio, affinché, disprezzando ciò che è male, pratichiamo amorosamente e liberamente tutto ciò che è bene » (Colletta della Messa).

25 maggio: SAN GREGORIO VII, PAPA E CONFESSORE

“Diléxi iustítiam et odívi iniquitátem, proptérea morior in exsílio”.

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Papa Gregorio VII, di nome Ildebrando, nacque a Siena in Toscana. Grande innanzitutto per dottrina, santità e ogni virtù, diede gloria mirabile a tutta la Chiesa di Dio. Adolescente, rivestì l’abito religioso nel monastero di Cluny e servì Dio con tanto ardore di pietà da essere eletto priore dai padri di quel monastero. Nominato poi abate del monastero di san Paolo fuori le mura, a Roma, e più tardi ancora cardinale di santa romana Chiesa, portò a compimento importantissimi incarichi e legazioni sotto i sommi pontefici Leone IX, Vittore II, Stefano IX, Nicolò II e Alessandro II. Alla morte di papa Alessandro, fu eletto, con unanime consenso, Sommo Pontefice. Emerse come combattente e strenuo difensore delle libertà ecclesiastiche. Per questo soffrì molto e fu costretto ad allontanarsi da Roma. Mentre stava per morire, le sue ultime parole furono : « Ho amato la giustizia e odiato l’iniquità perciò muoio in esilio ». Salì al cielo nel 1085, e il suo corpo fu sepolto con grandi onoranze nella cattedrale di Salerno.

In un momento particolarmente critico per la Santa Chiesa, il monaco Ildebrando, divenuto Papa con il nome di Gregorio VII, si trovò ad affrontare le gravi minacce che il potere temporale portava alla libertà della Chiesa. Celebre è la sua resistenza, da uomo forte qual’era, alle pretese di Enrico IV con relative scomuniche, antipapa, scisma ed episodi da narrazione epica. Le sofferenze derivategli da queste vicende turbinose vengono descritte da lui stesso in una lettera indirizzata a sant’Ugo di Cluny. « Tali sono, egli dice, le angosce alle quali siamo in preda, che quegli stessi che vivono con noi, non soltanto non possono più sopportarle, ma non ne sostengono neppure più la vista. Il santo re Davide diceva al Signore: “All’affollarsi de’ miei interni affanni, le tue consolazioni mi deliziano l’anima” (Sal. XCIII, 19); ma per noi, molto spesso, la vita è una noia e la morte un voto ardente. Se accade che Gesù, il dolce consolatore, vero Dio e vero uomo, si degni tendermi la mano, la sua bontà rende la gioia al mio cuore afflitto; ma per poco che Egli si ritiri, la mia perturbazione giunge all’eccesso. In quel che dipende da me, muoio continuamente; in ciò che viene da Lui, a momenti io vivo. Se le mie forze cedono del tutto, io grido dicendogli con voce gemente: “Se imponesti un fardello così pesante a Mosè ed a Pietro, mi pare che ne sarebbero sopraffatti”. Cosa può succedere di me, che sono niente, in confronto a loro? Tu, dunque, Signore, non devi fare che una cosa: governare Tu stesso con il tuo Pietro il Pontificato che mi è imposto; altrimenti mi vedrai soccombere; ed il pontificato sarà ricoperto di confusione nella mia persona».

È Roberto il Guiscardo che con i Normanni giunge a Roma a cacciare lo scomunicato Enrico IV ed il falso papa da questi illegittimamente insediato, mettendo a sacco la città eterna. Gregorio trova temporaneo rifugio nell’abazia di Cassino, ove tra l’altro si verifica un significativo episodio: durante la Messa, una colomba bianca si posa sulla sua spalla e gli parla all’orecchio: non è difficile, da questo esplicito simbolo, riconoscere l’azione dello Spirito Santo che dirigeva e governava i pensieri e gli atti del santo Pontefice. Nei primi mesi del 1085 si reca allora a Salerno ove presiede alla dedicazione della Chiesa nella quale ancora oggi riposa il corpo di San Matteo. Muore così in esilio, lontano dalla Cattedra di cui era legittimo occupante, compiendo un martirio non cruento, ma non meno doloroso ed umiliante, perdonando, come Gesù Cristo sulla croce, coloro che lo avevano offeso, tranne i figli della perdizione (Enrico IV e l’usurpante Guiberto), ed affidando l’intrepida contessa Matilde di Canossa al coraggioso vescovo Anselmo di Lucca.

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In omaggio a Gregorio VII, il cardinale Siri, eletto una prima volta Papa nel conclave del 1958, scelse il nome di Gregorio XVII, e di lui ironicamente seguì la sorte. Anch’egli infatti morì dopo lungo esilio a Genova, costretto da “coloro che hanno per padre il diavolo”, e dai loro adepti, i “marrani della quinta colonna nella Chiesa”, a lasciare la cattedra di Pietro in balia degli usurpanti che avrebbero dovuto portare, secondo i piani, allo sfascio totale la Chiesa cattolica, ma … “Qui habitat in caelis irridebit eos, et Dominus subsannabit eos”. [Se ne ride chi abita i cieli, li schernisce dall’alto il Signore].

    Ancora molti cattolici oggi non hanno familiarità, o hanno grandi difficoltà, solo a pensare come anche qualche altro Papa sia stato costretto all’esilio. Così è opportuno citare i precedenti storici (esempi concreti) dei Papi legittimi e validamente ordinati che furono costretti all’esilio da Roma a causa dei nemici della fede, prima del ventesimo secolo.

Il seguente è un elenco parziale dei Papi che sono stati costretti all’esilio da Roma prima del ventesimo secolo. La maggior parte di essi morì o fu martirizzata mentre era ancora in esilio:

  • S.Clemente I: esiliato e martirizzato
  • S.Ponziano: Esiliato e martirizzato
  • S. Cornelio: Esiliato e martirizzato.
  • Liberio: Esiliato durante l’eresia ariana.
  • San Lucio.
  • S. Stefano I: Morì in esilio.
  • S. Marcello I: Morì e fu martirizzato.
  • S. Eusebio: Morì in esilio.
  • San Silverio: Esiliato e martirizzato
  • S. Martino I esiliato e martirizzato.
  • San Leone IX
  • Innocenzo II: Esiliato per 8 anni ma riconquistò il seggio di Pietro a Roma dopo l’abdicazione dell’antipapa Vittorio IV.
  • S. Gregorio VII: morì in esilio a Salerno.
  • Pio VI: Morì a Valencia!
  • Pio VII: Esiliato e imprigionato da Napoleone per 15 anni!
  • Pio IX: Esiliato a Gaeta per 9 mesi, è stato successivamente un prigioniero in Vaticano!

La successiva, invece, è una lista parziale degli antipapi che hanno usurpato l’ufficio di Papa a Roma, sia durante la sua assenza, sia anche simultaneamente alla presenza di un vero Papa, prima del ventesimo secolo:

  • Ippolito: 217-235 D.C.
  • Novaziano: 251 D.C.
  • Felice II: Novembre 355-365 D.C.
  • Cristoforo: Settembre 903 – gennaio 904 D.C.
  • Bonifacio VII: Giugno e luglio, 974 e agosto 984 – luglio 985 D.C.
  • Benedetto IX: Fu dapprima eletto come vero papa nel 1032 A.D.; successivamente dimessosi, tornò come antipapa dal novembre 1047 al luglio 1048 D.C.
  • Benedetto X: dall’aprile 1058 al gennaio del 1059 D.C.
  • Silvestro IV: Novembre 1105 -1111 D.C.
  • Celestino II: 1124 D.C.
  • Anacleto II: da Febbraio 1030 a gennaio 1038 D.C.
  • Vittore IV: 1038 da marzo a maggio 1038 D.C.
  • * Giovanni XXIII: dal maggio 1410 a maggio 1415 A.D. (Cardinale Baldassarre Cosa) che è rimasto a Roma dal 1411 al 1413 durante lo scisma che si protrasse dal 1378 al 1418 D.C.

*Nota: Angelo Roncalli dopo aver usurpato l’ufficio papale di Papa Gregorio XVII [“Siri”] nel 1958 D.C., prese il nome di Giovanni XXIII, lo stesso nome dell’anti-papa Baldassarre Cosa, che usurpò l’ufficio pontifico durante l’esilio del vero Papa, ed una volta effettuata la sua usurpazione, anche nella stessa Roma. La politica nella Chiesa Romana è sempre stata quella di non prendere il nome di un anti-papa. Molti hanno già compreso che questo è stato un segnale criptico dell’anti-Papa Roncalli (che ha convocato l’apostata Pseudo-Concilio Vaticano II e fatto cardinale il principale agente marrano, capo degli Illuminati di Baviera, G.B. Montini) ai suoi compagni “fratelli” in tutto il mondo per segnalare a coloro che “dovevano capire”, che era iniziata la “rivoluzione finale”, gli stessi ai quali poi Montini segnalava gongolante che, grazie a lui, “il fumo di satana, era penetrato nella Chiesa” – [intelligenti pauca!]

mad. Salette

“Roma perderà la fede e diventerà la sede dell’Anticristo… La Chiesa sarà in eclissi..”, queste parole si sono compiutamente realizzate ai nostri tempi, fino all’ultima sillaba.

[Nostra Signora di La Salette a Melanie Calvat nel 1846 A.D., in un’apparizione riconosciuta  ed approvata pienamente dalla Chiesa]

 

San Pietro Canisio e la preghiera per conservare la fede

Oggi, 27 aprile, festeggiamo un grande Santo, modello di fede intrepida ed irriducibile, senza compromessi né tentennamenti:

pietro CanisioSan Pietro Canisio

   Egli è stato un accanito difensore della santa Fede cattolica e della Cattedra di Pietro contro gli attacchi feroci degli eretici del tempo! Salvò numerosissime anime dal baratro in cui le eresie le avrebbero per certo sprofondate per una morte eterna, una volta allontanate dalla retta fede e dai salubri pascoli di Pietro. Oggi più che mai, ciò che resta del popolo cristiano avrebbe bisogno non di uno, ma di dieci, cento, mille S. Pietro Canisio, che allontanino dal gregge i lupi voraci fautori dell’apostasia modernista-conciliare, esponendo ed offrendo, se necessario, la propria vita per proteggere la Chiesa oggi nelle catacombe ed il Santo Padre in esilio nella sofferenza del Getsemani, per il risorgere ed il trionfo della Santa Chiesa. In attesa dell’intervento del Signore che solo, con il soffio della sua bocca, oramai può porre rimedio alla rovina in cui “quelli che hanno per padre il diavolo”, stanno cercando di precipitarla, uniamoci in preghiera invocando l’intercessione del Santo dottore, per conservare la fede divina, e perché si acceleri la venuta del Signore Gesù Cristo ed il trionfo della sua Chiesa sulle porte dell’inferno che giammai prevarranno, secondo promessa evangelica.

 

San Pietro Canisio: preghiera per conservare la vera fede

 

“Preghiera per conservare la vera Fede” scritta da san Pietro Canisio (1521-1597), olandese della Compagnia di Gesù, apostolo della Controriforma in Germania, definito “martello degli eretici”, beatificato da Pio IX nel 1868 e canonizzato da Pio XI nel 1925 che lo nominò pure Dottore della Chiesa.

 

Professo davanti a Voi la mia fede. Padre e Signore del Cielo e della terra, mio Creatore e Redentore, mia forza e mia salvezza, che fin dai miei più teneri anni non avete cessato di nutrirmi col sacro pane della vostra Parola e di confortare il mio cuore. Affinché non vagassi errando con le pecore traviate che sono senza Pastore. Voi mi raccoglieste nel seno della vostra Chiesa; raccolto, mi educaste; educato, mi conservaste insegnandomi con la voce di quei Pastori nei quali volete essere ascoltato e ubbidito, come di persona, dai vostri fedeli.

Confesso ad alta voce per la mia salvezza tutto quello che i cattolici hanno sempre a buon diritto creduto nel loro cuore. Ho in abominio Lutero, detesto Calvino, maledico tutti gli eretici; non voglio avere nulla in comune con loro, perché non parlano né sentono rettamente, e non posseggono la sola regola della vera Fede propostaci dall’unica, santa, cattolica, apostolica e romana Chiesa. Mi unisco invece nella comunione, abbraccio la fede, seguo la religione e approvo la dottrina di quelli che ascoltano e seguono Cristo, non soltanto quando insegna nelle Scritture ma anche quando giudica per bocca dei Concilii ecumenici e definisce per bocca della Cattedra di Pietro, testificandola con l’autorità dei Padri. Mi professo inoltre figlio di quella Chiesa romana che gli empii bestemmiatori disprezzano, perseguitano e abominano come se fosse anticristiana; non mi allontano in nessun punto dalla sua autorità, né rifiuto di dare la vita e versare il sangue in sua difesa, e credo che i meriti di Cristo possano procurare la mia o l’altrui salvezza solo nell’unità di questa stessa Chiesa.

Professo con franchezza, con san Girolamo, di essere unito con chi è unito alla Cattedra di Pietro e protesto, con sant’Ambrogio, di seguire in ogni cosa quella Chiesa romana che riconosco rispettosamente, con san Cipriano, come radice e madre della Chiesa universale. Mi affido a questa Fede e dottrina che da fanciullo ho imparato, da giovane ho confermato, da adulto ho insegnato e che finora, col mio debole potere, ho difeso. A far questa professione non mi spinge altro motivo che la gloria e l’onore di Dio, la coscienza della verità, l’autorità delle Sacre Scritture canoniche, il sentimento e il consenso dei Padri della Chiesa, la testimonianza della Fede che debbo dare ai miei fratelli e infine l’eterna salvezza che aspetto in Cielo e la beatitudine promessa ai veri fedeli.

Se accadrà che a causa di questa mia professione io venga disprezzato, maltrattato e perseguitato, lo considererò come una straordinaria grazia e favore, perché ciò significherà che Voi, mio Dio, mi date occasione di soffrire per la giustizia e perché non volete che mi siano benevoli quelle persone che, come aperti nemici della Chiesa e della verità cattolica, non possono essere vostri amici. Tuttavia perdonate loro, Signore, poiché, o perché istigati dal demonio e accecati dal luccichio di una falsa dottrina, non sanno quello che fanno, o non vogliono saperlo.

Concedetemi comunque questa grazia, che in vita e in morte io renda sempre un’autorevole testimonianza della sincerità e fedeltà che debbo a Voi, alla Chiesa e alla verità, che non mi allontani mai dal vostro santo amore e che io sia in comunione con quelli che vi temono e che custodiscono i vostri precetti nella santa romana Chiesa, al cui giudizio con animo pronto e rispettoso sottometto me stesso e tutte le mie opere. Tutti i santi che, o trionfanti nel Cielo o militanti in terra, sono indissolubilmente uniti col vincolo della pace nella Chiesa cattolica, esaltino la vostra immensa bontà e preghino per me. Voi siete il principio e il fine di tutti i miei beni; a Voi sia in tutto e per tutto lode, onore e gloria sempiterna. Amen.