GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (4)

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (4)

  1. — Ortodossia

[Lettera pastorale scritta il 23 luglio 1963; «Rivista Diocesana Genovese», 1963, pp. 192-245.].

Parte terza: Celeste presenza

Il panorama del nostro piccolo mondo viene vivificato dagli ideali: senza di essi è deserto e deserta resta la vita. Per questo si è parlato di alcuni ideali. Il panorama del mondo vario, pur sempre nuovo e ricco come lo ha creato Dio, può venir guastato da artificiali e irrazionali rughe, quali determinano gli uomini, allo stesso modo con cui artisti senza umanità guastano i paesaggi. Per questo abbiamo parlato di qualche moda. Il panorama del mondo, per chi ha fede, può completarsi con realtà superiori, per nulla chimeriche, sempre operanti. Per questo parliamo qui dei santi. – La presenza dei santi ha sempre trasformato il mondo, che pare attenda la quotidiana visita di questi suoi intercessori, per non restare troppo solo. Ne parliamo perché è utile fare in proposito alcune precisazioni e perché un certo qual processo di disumanizzazione (non si tratta di altro!) pare che qualche volta investa anche i santi. Vorremmo precisare che, per quanto non sia qui oggetto diretto della nostra attenzione, quello che si dice dei santi va detto in forma assai più alta, ampia e singolare della santissima Vergine Madre di Dio. – Se qui, a proposito dei santi, ci interessa la espressione positiva, dobbiamo pure, come è nella natura e finalità di questa nostra lettera, occuparci di fatti (chiamati sopra «disumanizzazione») che possono presentarsi brevemente così: taluni, ossequenti all’andazzo esistenzialista, tendono a ridurre la valenza dei santi, mezzo eccellente per ridurre il culto, altri si direbbe che li considerino un velo frapposto tra noi e Cristo, tali dunque da desiderarne una certa rimozione quasi fossero danno al culto dovuto a Dio; altri finalmente hanno perduto la nozione della funzione complessa dei santi nella economia della salvezza. – Scriviamo perché tali mende non abbiano presa in voi e perché voi possiate educare nella serena tradizione cristiana i vostri fedeli, senza lasciarli in balìa tanto di entusiasmi vuoti che di dimenticanze offensive e dannose.

La dottrina sui Santi

Nella sua sessione XXV, il conciliò di Trento ha dedicato un notevole testo alla dottrina cattolica circa i santi, che è riassuntivo di tutta una tradizione cattolica. Vogliate leggerne qualche brano. «Mandat sancta Synodus omnibus episcopis et cœteris docendi munus curamque sustinentibus, ut iuxta catholicæ et apostolic ecclesiæ usum a primaevis christianæ religionis temporibus receptum sanctorumque Patrum consensionem et sacrorum concilio rum decreta, imprimis de sanctorum intercessione, invocatione, reliquarum honore et legitimo imaginum usu, fideles diligenter instruant, docentes eos sanctos una cum Christo regnantes orazione suas prò hominibus Deo offerre, bonum atque utile esse suppliciter eos invocare et ob beneficia impetranda a Deo per filium ejus Jesum Christum Dominum nostrum, qui solus noster Redemptor et Salvator est, ad eorum orationem opem auxiliumque confugere, illos vero qui negant sanctos æterna felicitate in cœlo fruentes invocandos esse, aut qui asserunt, vel illos prò hominibus non orare, vel eorum, ut prò nobis etiam singulis orent, invocationem esse idolatriam, vel pugnare cum verbo Dei, adversarique honori unius mediatoris Dei et hominum Jesu Christi, vel stultum esse in cœlo regnantibus voce vel mente supplicare, impie sentire» (DS. 984). [«Il Santo Concilio impone a tutti i vescovi e a tutti coloro che hanno l’obbligo d’insegnare, secondo la consuetudine della Chiesa cattolica e apostolica, ricevuta sin dai primi tempi della religione cristiana e secondo il sentimento unanime dei santi Padri e i decreti dei santi Concili, di istruire diligentemente i loro fedeli particolarmente riguardo all’intercessione dei Santi, la preghiera che viene loro indirizzata, gli onori resi alle reliquie e il legittimo uso delle immagini. Che insegnino loro che i Santi che regnano insieme a Cristo offrono a Dio le loro preghiere per gli uomini, che è buona cosa e utile invocarli umilmente e, onde ottenere i benefici di Dio per mezzo del Figlio Suo, nostro Signore Gesù Cristo, che solo è il nostro Redentore e Salvatore, di ricorrere alle loro preghiere, al loro aiuto, alla loro assistenza. Coloro i quali negano che si debbano invocare i Santi che godono in cielo l’eterna felicità; o che affermano che questi non pregano per gli uomini, o che le domande che a loro si indirizzano di pregare per ciascuno di noi sono idolatria; o che sia cosa contraria alla parola di Dio e opposta all’onore di Gesù Cristo, unico Mediatore tra Dio e gli uomini; o che sia stoltezza supplicare vocalmente o mentalmente coloro che regnano nei cieli; tutti costoro hanno pensieri empi. ».] – Il testo che segue è un’ampia conferma, anche nei particolari, circa il culto da rendere ai santi, alle loro reliquie, alle loro immagini. La Sacra Scrittura non è affatto equivoca, né avara per quel che riguarda il culto dei santi Angeli. La prassi ecclesiastica, fin dagli inizi testimone del pensiero rivelato e delle sue applicazioni, ha reso ai Santi un culto analogo a quello che la teologia biblica indica per gli Angeli. Tra questi Santi furono annoverati gli Apostoli, molti presentati o ritenuti sia discepoli del Signore, sia collaboratori degli Apostoli, i martiri. Dopo la sufficiente pace accordata alla Chiesa si diffuse, per lo stesso titolo, il culto reso ai santi non martiri, detti pertanto semplicemente confessori, nonché alle vergini e alle sante donne. – Dal secolo quarto e cioè dal momento in cui la Chiesa poté indisturbata elevare i suoi templi si direbbe che tutto si aggrappa ai Santi, alla loro memoria; e si accentua il bisogno di far passare attraverso i Santi molto di quello che deve salire a Cristo, a Dio. La comunità dei viventi, con questi non più tra i viventi, è un fatto reale, solenne, commovente, continuo. Fu specialmente al tempo della decadenza dell’impero e in tutto il medioevo come se, incombendo una solitudine sulla lenta e talvolta oscura incubazione della nuova civiltà, apparisse imperiosa ed insostituibile la ricerca di questa superna compagnia. La quale era, ancora in qualche modo, tanto umana da attrarre e non intimorire e restava sempre talmente superna da infondere fiducia, serenità e gioia. – La prassi dei secoli cristiani, a proposito dei Santi, è una prassi di compagnia continua con la città superna. Le orme impresse dalla loro vita diventavano travature per la vita pubblica e privata ed erano travature oneste, sagge, dignitose ed utili. Ancora oggi in Liguria tutto il percorso fatto al secolo ottavo dalla salma di sant’Agostino, portata a Pavia da Liutprando, è riconoscibile dalle memorie, mai estinte, che di lui vi sono scaglionate, come analoghe memorie costellano le strade per le quali passò san Bernardo. I Santi apparvero sempre come i felici e sicuri compagni di quelli che erano ancora a meritare, a penare e a combattere nel pellegrinaggio terreno. La storia del culto dei Santi, mentre attesta un dato di tradizione divina, è la storia di una singolare e vera compagnia tra viatori e beati. Resta un fatto pertinente alla vita ed alla sostanza della Chiesa, mentre non cessa di essere un fatto dei più umani e toccanti. – Naturalmente non mancarono le ingenuità, specialmente a proposito di reliquie, che furono contese e talvolta autenticate con fretta, senza indagine sufficiente a scoprire una dubbia e forse ingannevole origine. Ma questo resta un fatto marginale che attesta quanto abbiamo sopra scritto e che non viola la serietà del culto, perché le reliquie trasmettevano l’onore sempre, e per chiara intenzione, a coloro che vivevano in cielo, senza far ristagnare nulla  nei possibili errori della terra. Si trattava e si tratta, nel caso, di culto relativo. –  La liturgia visse sempre anche dei Santi e non li considerò mai ingombri o veli per quello che andava a Dio, ma piuttosto fautori di una comunità vibrante e fremente di vita, nonché strumenti di un maggiore onore reso a Cristo. E strano che molti non capiscano come talvolta sia giusto onorare Iddio, più che con quello che abbiamo fatto noi, con quello che ha fatto Lui. E sua la divina parola, è sua la certezza della verità consegnata alla Tradizione, ma i Santi sono pure opera sua. – Perché dunque qualcuno deve temere di onorarli, di collocarli sulle pareti delle chiese, di narrare la loro storia, di proporre i loro esempi, di leggere e far leggere le loro vite, di rivolgersi a loro con la semplicità dei bimbi bisognosi di fratelli maggiori? Non credano siano gran gloria di Dio quei patiti, i quali sempre hanno da rinfacciargli di aver fatto cose incomplete (quei che si lamentano sempre, e trovano tutto storto; quei che rimpiangono, come i rivoltosi ebrei davanti a Mose, i cibi d’Egitto ed hanno da accusare sempre la Chiesa appartengono a questa categoria); gloria di Dio sono quaggiù, dopo i fatti divini in se stessi, i Santi. La Redenzione trionfa nei Santi. Ma vorremmo che il concetto, sul quale si ritornerà, di questi accompagnatori sereni e caldi della solitudine terrena non vi abbandonasse mai più, e per la estimazione del fatto in se stesso e per il completamento della vita della Chiesa e per il sostegno della vita interiore dei singoli, ai quali tutto può risultare vuoto se nella loro anima non si affaccia la presenza dei Santi. La ragione più grande che ci ha deciso a prendere in mano la penna e scrivere dei Santi è qui. – Noi sentiamo ogni giorno intorno a noi il peso della solitudine cupa di gente che vive nel rumore della folla ondeggiante e nella vicenda frettolosa dei fatti, ed abbiamo pietà di questa solitudine. Con Dio non si è mai soli, ma è piaciuto a Dio, nostro Signore, che noi troviamo la compagnia dei nostri fratelli, ormai certamente sicuri. – L’avvenire degli uomini non è mai chiaro, perché tutti i loro peccati corrodono tutti i sentieri della storia e inducono una dialettica intricata di cause e di effetti, di errori e di nemesi, di esplosioni e di interrompimenti. La certezza che i Santi continueranno ad accompagnare gli uomini è una delle poche garanzie dell’avvenire. – La congiunzione con Cristo Signore e Redentore sta alla base di tutto. Questa congiunzione è affermata dalla verità per cui noi formiamo con Lui un solo Regno, una sola Chiesa, un solo Corpo. – l’ordine della grazia nella sua più larga accezione e la adesione della fede sono i nessi di questa singolare unità: communio sanctorum. La congiunzione rende, quanto è possibile a creatura, partecipabile dai redenti quello che è di Cristo Verbo Figlio di Dio: la vita divina, la reazione eterna, la gloria. La vita degli uomini non può mai essere oscura, dato che si può articolare tra questi termini. – I gradi della congiunzione a Cristo sono diversi, a seconda della grazia e del merito. Un grado netto distingue quelli che sono ormai fuori delle vicissitudini del tempo e regnano in eterno da quelli che sono ancora nella prova terrena. La sublime imitazione di Gesù Cristo può raggiungere il grado di una presentabilità agli uomini per la loro edificazione, garantita dall’intervento dei segni divini: in tal caso alcuni partecipano all’onore stesso di Gesù Cristo, anche in questo mondo: sono i Santi. Insomma i Santi sono lo stato logico e più vero della famiglia di Dio, di quella famiglia nella quale la Incarnazione del Figlio e la nostra assimilazione a Lui ci ha raccolti e nella quale possiamo chiamare Dio «Padre». – Per tale motivo i Santi non sono un’appendice della verità rivelata; essi sono inseriti nella sostanza rivelata e solo così si intende tutta la loro logica. – I Santi sono la parte più autentica della famiglia di Dio, del Regno, se così si preferisce dire, le membra migliori del Corpo Mistico di Cristo. Se noi li dovessimo depennare o trascurare noi toglieremmo al Corpo Mistico di Cristo qualcosa della sua realtà. I Santi partecipano alla gloria del Redentore, tanto quanto gli sono certamente e definitivamente congiunti. I Santi sono il grande e più completo frutto della Incarnazione e della Redenzione, preceduti in questo dalla grandezza unica della Madre del Signore. Ove se ne tacesse o si facesse nella Chiesa quello che equivale a «tacere» si presenterebbero i misteri divini come se fossero sterili. Quando i Santi appaiono nella santa Messa e vi si ricordano, o per merito delle loro azioni terrene edificanti si leggono i passi scelti dalle Sacre Scritture proprio per riferimento a tali meriti, si fa soprattutto questo: accanto al sacrificio che fu ed è causa della salute, si mettono i rappresentanti dei suoi infiniti frutti. Un’ombra sul volto dei Santi getta in ombra la fecondità della Redenzione. Essi intervengono nella storia, nella vita e nella liturgia come il grande autentico e glorioso corteggio di Cristo e della Redenzione, l’esigenza dei Santi deriva dalla realtà concreta della venuta di Cristo nel mondo. La trascuratezza nel confronto dei Santi non può essere che il frutto di una concezione meschina, incompleta e probabilmente erronea di Cristo e dell’opera sua. – Gesù Cristo non ha bisogno dei Santi, ma dal momento che come causa li ha legati a sé, non è più in poter nostro separare il Salvatore da coloro che Egli ha salvato nel più glorioso dei modi. Nella liturgia il «santorale» non è affatto un intruso, da sopportarsi per timore di sconfessare una tradizione. Il «santorale» è al suo posto anche se resta vero che le proposizioni debbono far cedere il passo al «proprio del tempo». – Il modo con cui la Chiesa nello svolgimento della sacra liturgia ha abbracciato i suoi Santi, in tutti i tempi, sotto tutti i cieli, è la attestazione di quanto sopra abbiamo detto. Concludiamo: i Santi sono inseparabili dalla pienezza del mistero di Cristo in concreto, come sono inseparabili dal mistero della Chiesa, santa, anche per la loro qualità di documento e trionfo delle sue divine sorgenti. – Per sottrarci decisamente alla ventata di esistenzialismo distruttore che educa al disprezzo ed al rinnegamento di tutto anche certi sedicenti cattolici è necessario vedere con cristallina chiarezza come i Santi siano inscindibilmente inseriti, e con quale forza, nel mistero stesso di Cristo. – La canonizzazione dei santi è, tra l’altro, atto solenne col quale si propone l’esempio delle loro virtù, autenticate in tal modo per esser guida dei fedeli e per allargare l’assortimento dei mezzi e delle applicazioni atte a rendere più intensa e vigorosa la vita spirituale dei fedeli stessi. Non si può dunque negare che le canonizzazioni includano un atto di Magistero. Questo Magistero riguarda la capacità di esempio di fatti, è vero; però questi fatti appartengono al materiale documentario col quale si dipana attraverso i secoli il deposito della tradizione divina. Errerebbe chi credesse di trovare questa soltanto nei testi di autore, magari scelti con preconcetti restrittivi: la Tradizione si ha attraverso tutto quello che accade nella Chiesa ed essa si ritrova nella unità e nel consenso legittimo. Non possiamo negare, e neppure nascondere, lo stupore col quale abbiamo osservato in autori recenti la piena dimenticanza del modo con cui cammina attraverso i tempi la divina tradizione, fonte della Rivelazione divina. – E dunque necessario vedere i collegamenti tra i Santi e il Magistero o la Tradizione, per comprendere la funzione teologica che compiono i Santi e che è del massimo interesse. La funzione teologica dei Santi è duplice: essi sono in maniera diversa dei testimoni, anzi dei mirabili «portatori» della divina tradizione; essi sono un’apologia perenne, un motivo di credibilità.

La funzione teologica dei Santi

l a divina tradizione va avanti nella Chiesa. Molte verità certe non possono sostenersi perentoriamente che con documenti presi dalla Tradizione. Sarebbe violenza far dire a certi testi biblici talune verità, a meno che non sia intervenuto un consenso od un atto del magistero circa il loro valore. Questa Tradizione non è attestata, ossia non ha i suoi testimoni esclusivamente in documenti scritti e reperibili presso scrittori ecclesiastici (oltre che presso i Padri), ma in tutto quello che è nella prassi e nel fatto ecclesiastico. L’umile parroco il quale insegna il catechismo secondo il testo approvato dall’autorità competente è testimone della Tradizione non meno di un teologo, e sovente lo è assai più per la semplice ragione che utilmente e reverentemente trasmette; il teologo può sentirsi invece in dovere di introdurre qualcosa di personale, di opinabile, di dubbio, di polemico. Le consuetudini di un monastero sono testimoni della Tradizione, quando naturalmente stanno nell’intonato concerto di vita della Chiesa, allo stesso modo. Gli scalpellini che su tante pietre delle antiche cattedrali italiane, inserite qua e là tra i conci, hanno scolpito, anche rozzamente, figure sognate dalla loro pietà sono testimoni. La più umile carta d’archivio, quando è, ripetiamo, in un concerto che è universale e che continua, è testimone di Tradizione. Insomma la «vita» di ogni tempo della Chiesa, colle infinite forme per le quali si rifrange, è testimone della verità che la Chiesa custodisce attraverso i secoli. Ed è soprattutto in questi Testimoni, si direbbe di minore e minimo rilievo, che si assiste ad una funzione di equilibrio, di buon senso, di perenne scelta tra quello che, dell’ardita indagine teologica, può passare e quello che deve andare a ristagnare tra le opinioni e le liti. E in questo che spesso si rifrange cristallino, selezionatore, rassicuratore il magistero ordinario della Chiesa. E in questo complesso documentario dalle immense sorgive che si ha il legame forse più autentico tra i vari tempi nella perennità della tradizione divina. – Abbiamo poi usato le due parole «testimoni e portatori», perché i testimoni richiamano piuttosto quello che «fu» (e ciò è certamente vero), mentre i «portatori» sono coloro che di fatto trasmettono, in questo divino alone dove gli uomini vengono assunti in un fatto divino, la verità. La divina tradizione non è fatta solo con le carte, ma con tutto quello che accade nella Chiesa, che è vivente, proprio perché  intimamente guidata e sorretta e difesa dallo Spirito Santo. I Santi, anche prescindendo da quello che hanno scritto (e i loro scritti hanno abitualmente pregi singolari), sono dei testimoni e portatori della divina tradizione. Essi ricevono dalla Chiesa nel periodo di loro formazione, e quante volte qui si incontrano umili genitori senza alcuna presunzione e con tanta scienza di Dio, appresa nel continuo contatto con la Chiesa, con la liturgia, con Cristo stesso, la Vergine e i Santi. Essi mantengono tutto quello che hanno ricevuto, fuori delle dispute e delle avventure di pensiero, in una luminosità di virtù, di orazione, d’amore. Essi riesprimono, con la ricchezza che la comunione con Cristo è capace di produrre, ed in infiniti modi, insegnamenti, applicazioni, risoluzioni chiarificatrici di princìpi, orientamenti spirituali fermi, sicuri, protesi ai secoli; sintesi e conseguenze di vera e altissima dottrina. Mentre fanno questo in vita spesso – non sempre – su di loro si fissa l’attenzione ammirata della stessa autorità che assiste, approva, incoraggia, giudica serenamente e pacificamente; realizzando così un consenso teologicamente valevole, o iniziando a concretare così un consenso teologicamente valevole. Per i Santi, che sono stati giuridicamente ed espressamente canonizzati, c’è una disamina intorno a loro, c’è una sanzione che aumenta assai il valore di quanto detto fin qui. Noi potremmo comporre tutta la tradizione divina affidata alla Chiesa, lasciando tutto da parte e guardando solamente ai Santi. – Che sia proprio questa la ragione per cui taluno guarda i Santi come fastidiosi? Quando si tratta di fare una teologia della orazione, santa Teresa, a parte il suo valore personale e il suo genio, con la riforma che fece, con le approvazioni implicite ed esplicite che ottenne, con quello che iniziò di duraturo nella prassi conventuale, ascetica e mistica, è certamente testimone della Tradizione assai più di molti teologi messi insieme, perché raramente le pagine di questi si sono fuse col respiro stesso della Chiesa, come invece è accaduto per santa Teresa di Gesù. – L’ufficio, anche inconscio, di testimoni e di portatori, è di tanto maggior rilievo nei Santi, in quanto essi sono tra gli uomini che più hanno allontanato le impurità e le scorie raggiungendo la vera e piena libertà dei figli di Dio attraverso il distacco del cuore da tutti i beni terreni. Poiché non avevano umani interessi, né impacci, si sono offerti alla grazia illuminante, all’azione dello Spirito Santo con una capacità potenziale maggiore di tutti gli altri: spesso coi miracoli Dio è intervenuto a porre il suggello diretto su quello che facevano od insegnavano. – Noi riteniamo di potere e dover attribuire ad una certa disattenzione verso questa loro singolarissima ed eminente funzione la minore stima e valutazione complessiva che i Santi godono presso certuni. Consideriamo pertanto del massimo interesse questa funzione teologica dei Santi. – I Santi hanno anzitutto un valore apologetico, ossia dimostrativo della verità della nostra fede e della santa Chiesa cattolica apostolica romana, perché concorrono anch’essi a realizzare in concreto la «nota» fondamentale della Chiesa, che è appunto «la santità». I Santi hanno un valore apologetico fortissimo per il carisma taumaturgico che si manifesta spesso nella loro vita e sempre – ciò consta almeno per i canonizzati nelle forme ordinarie – dopo la loro beata morte. – Non occorre noi illustriamo ai nostri confratelli, bene a giorno dell’argomento dai loro ordinari studi teologici, che quanto ricordato ha valore dimostrativo con obiettivo rigore logico. Una tale apologia, avente in sé reale capacità di generare logicamente una certezza, quando si tratta dei Santi, è del tutto popolare e cioè facile, intuitiva. Il popolo crede alla virtù vissuta nell’eroismo, crede soprattutto quando avverte il miracolo. E sa che i Santi significano «miracoli». Li conosce anzitutto come virtuosi, ma, non meno, come operatori di miracoli, od almeno come coloro che ne hanno fatti o ne possono fare. Il popolo ha una singolare facilità a credere al miracolo, tanto che bisogna stare attenti non s’inganni, vedendoli dove non sono; ma ha perfettamente ragione quando connette il fatto della santità al miracolo e quando a questo attribuisce la forza di divina inderogabile attestazione, ossia di prova. Ragiona molto semplicemente quando dice: la nostra fede è vera perché i Santi, questo, quel Santo, operano od hanno operato miracoli. – Ora riflettiamo bene. Molta gente non ha studiato nessuna apologetica e nessuno gliel’ha insegnata. Eppure ha esigenze logiche; ha in testa un rudimentale abbozzo di logica; si pone dei quesiti relativi alla fede e spesso non trova nessuno cui parlare dell’argomento per averne una soddisfacente risposta. Accade allora tante volte che sul suo orizzonte si affaccino i Santi. Meglio se ne ha sentito parlare molto, se ha sentito raccontare, se può evocare meraviglie già udite. Allora dice a se stesso: ci sono i Santi; andiamo avanti. È una logica od apologetica rudimentale; se è rudimentale nelle movenze semplificata, è tutt’altro che priva di contenuto logico. E intanto la fede è salva, senza che a salvarla sia intervenuto un inganno. – Spesso accade a noi, che abbiamo abbastanza studiato, di non porci il problema della logica dei poveri e degli ignoranti, che pure hanno, come tutti, bisogno di argomenti per conservare la saldezza della propria fede. Ma quando questo problema lo si pone, si capisce l’importanza dei Santi a sostegno della fede stessa. E vero che la ignoranza o la esiguità di esigenze logiche può dare valore dirimente in ordine alla fede, a esperienze o fatti per sé incapaci logicamente di dare una certezza circa il motivo della fede stessa. E ringraziamo Iddio, che prende da tutte le parti e convoglia al bene. Ma non si tratta di valori obiettivamente logici. Nel vecchio seminario di Genova si raccontava di un lattaio, annoso peccatore impenitente, il quale si intrufolò una volta, dopo aver lasciato i recipienti del latte al cancello, nella aula magna. Là si teneva una gran tornata accademica del Collegio teologico. Il Gran Cancelliere stava pronunciando un discorso in latino, di cui il povero lattaio non riusciva a capire assolutamente nulla: convinto da ciò di trovarsi sotto la maledizione divina per i suoi peccati, se ne spaventò, cominciò a piangere e ad accusarsi. Finì, quel momento stesso, con l’andare a confessarsi dopo quasi mezzo secolo di disprezzo della pratica religiosa. Evidentemente il buon Dio converte anche con prediche delle quali non si capisce nulla. Ma questo non accade tutti i giorni; soprattutto accade assai meno con persone dalle esigenze logiche. Claudel si convertì al canto del Magnificat a Natale in Notre Dame di Parigi. Non era un argomento logico, quello era solo la schiarita finale della grazia in un lungo processo interiore. – La questione dell’apologetica infantile, popolare, facile, adatta là ove la cultura non ha sedimento o dove ha sedimento una cultura al tutto pratica, in realtà e di fatto non può fare a meno dei Santi. Le conseguenze sono importanti e le vedremo. Ma, stando così le cose, che dire del sadismo dimostrato da taluni in nome della cultura, nell’annientare i Santi e nel cercar di dimostrare in loro dei difetti? La verità è la verità. Non parliamo di quella; parliamo del sadismo. Il godere di restituire la storia al posto della leggenda è sano e doveroso; ma il godere di abbattere e di calpestare è solamente patologia. E lo è perché, quando uno vuole annientare i miracoli, basta sia unilaterale, reticente, incompleto e ci può, apparentemente, riuscire; ma non ha affatto servito la verità. Tutti sappiamo che di miracoli ne basta uno, perché ci sia una certezza. Diminuire la fede in questo sovrano divino intervento, perché talvolta miracoli apocrifi hanno potuto entrare nella storia, non è servizio né alla verità (in ragione del latius), né all’apostolato, ossia alla salvezza delle anime. E vero che non manca chi vorrebbe abolire l’apologetica o si scandalizza, se si fa dell’apologetica od anche solo se se ne parla. Perché? Forse che non esistono persone che ne hanno bisogno? Ma ne hanno bisogno tutti! Forse perché non la chiedono? Ma questo è fuori della realtà. Forse perché è impossibile farla? Ma questo è razionalismo, se non modernismo!

La funzione educativa dei Santi

Teologicamente parlando, uno scopo della canonizzazione è la presentazione ufficiale dei Santi come esempi di vera vita cristiana. È ovvio che i santi compiono la parte educativa anzitutto con l’esempio che danno. Questo esempio mostra l’attuazione pratica dell’Evangelo; articola la norma evangelica secondo le diverse situazioni, capacità e congiunture; risolve problemi e dubbi; stimola alla perfezione; e infine, rianima contro lo sconforto. – Tuttavia la funzione educativa dei Santi si attua non solo con l’alto esempio della loro vita terrena, ma pure per il fatto che sono dei «santi» quali vengono concepiti e venerati nella tradizione cattolica. E questo un punto da non trascurare. – La funzione educativa è già apparsa là dove si è trattato dei Santi come perenne apologia e pertanto vero aiuto della fede. Se la fede è fondamento della vera educazione cristiana, noi rileviamo, anche solo in questo, una funzione educativa. Coll’aiuto della fede va in atto una presenza soprannaturale dei santi. Ne abbiamo già parlato. Questa presenza è fautrice di fiducia, coraggio e serenità. Se queste tre preziose risorse sono ideale di una educazione, bisogna concludere che per altro titolo la presenza dei Santi è educativa. – La presenza dei Santi è un richiamo continuo a cose supreme, al cielo, alla vita eterna, alla gloria data ai meriti. In tal modo, quanto più è viva, tanto più abitua ad un clima di elevatezza, adduce quella nobiltà di stile e di costume che è proprio di chi sta in compagnia di cose superiori. I Santi sono dei fratelli già arrivati alla casa del Padre, intorno a loro si costruisce l’alone della famiglia di Dio, della quale facciamo parte. In questa famiglia, ed in ragione della gloria raggiunta, i Santi sono dei fratelli maggiori, che restano a disposizione dei fratelli minori intercedendo per loro. Sono chiamati, in seno a questa soprannaturale famiglia, verso i deboli; mentre i loro meriti, senza nulla detrarre alla gloria loro dovuta, diventano ricchezza, risorsa e sussidio per la debolezza dei fratelli minori, ancora impegnati nella lotta o prova della vita. E così che i Santi fanno l’ambiente della famiglia di Dio. Al disopra dei Santi, la Vergine Madre di Dio completa con la maternità questo stupendo ambiente. – Se ne arenerà un influsso educativo permanente. Altra è la vita che scorre in una famiglia sentita, altra è la vita che si perde nella freddezza di cose materiali, quantitative, senza anima né suprema speranza. Vivere in una famiglia soprannaturale è impostare ad un livello più alto la propria esistenza. E l’influsso della presenza dei Santi. E difficile calcolare a dovere questo influsso attraverso la storia del Cristianesimo, tanto esso è grande e continuo. Il clima di famiglia, l’intercessione, l’apporto ai deboli costruiscono l’ambiente e l’esempio alla carità. – Naturalmente il realizzarsi di questa salutare azione educativa, questa suprema compagnia, è legato anche al modo con cui noi trattiamo i Santi. – Vediamo allora alcune risorse pratiche per rendere operante l’azione educativa dei Santi.

– Le loro immagini. Le sacre immagini sono il mezzo più diretto, semplice ed intuitivo per stimolare l’attenzione e dare il senso della presenza. Le chiese che si riducono ad un Crocifisso e tutt’al più ad una immagine della Vergine, rimanendo ferme a questo minimo indispensabile perché non c’è modo di fare di più, non meritano una condanna, ma lasciano un desiderio ed un bisogno insoddisfatti. Tali chiese non danno il senso della famiglia di Dio: mancano i veri fratelli maggiori, i Santi. – Oggi è difficile affrescare le chiese, per motivi più che evidenti. Ma resta vero che le storie dei Santi, anche ingenue, affrescate o riportate in bassorilievi, sono state parte notevole nella Biblia pauperum e lo stimolo ad imitazioni anche eroiche in generazioni intere. L’eliminazione non è una semplice dimenticanza, è un oscurarsi del senso di famiglia di Dio e dello stesso senso di umanità. Siamo ben lontani dal raccomandare l’intasamento delle chiese con immagini esposte al culto senza decoro di materia e di arte, senza piano architettonico, per generazione spontanea ossia per la richiesta, sovente capricciosa, di qualche devoto parrocchiano, con incoraggiamento a forme di devozione né serie, né equilibrate. Abbiamo anzi eliminato molte di tali immagini. Noi intendiamo parlare di quelle immagini la cui collocazione dipende da un criterio anzitutto educativo e poi logico, coerente con un insieme e con una tradizione, illuminato, architettonico. – Le sacre immagini dei Santi, oltre l’immagine crocifissa del Salvatore e quella della Vergine, trovano giusta ed utile collocazione anche nelle case dei fedeli. Saranno le immagini dei patroni personali, dei patroni della Chiesa, della città, i più conosciuti e venerati. Meglio le immagini dei duraturi Santi che degli effimeri «divi». Però questo ritorno delle immagini dei santi nelle case di fedeli deve attuarsi con un’adatta illuminazione catechistica, non abbandonato a una pura emotività, dalla quale la ignoranza può far arrivare anche dell’esagerazione e della superstizione. Le immagini dei Santi, anti, come, in grado minore, le immagini dei propri cari, portano calore nelle chiese e anche nei focolari domestici.

– Le sacre reliquie. Tutti sanno che sono oggetto di culto relativo e che il culto relativo può, entro certi limiti, tranquillizzare la coscienza rispetto alla incerta autenticità di reliquie sacre assai antiche che, accompagnate da notizie storiche talvolta dubbie o anche solamente dal sigillo di un’autorità competente. Ma, questo premesso, le reliquie sacre vanno rispettate. Il decoro, l’attenzione con cui vengono circondate, il culto, la stima, l’uso serio e diligente hanno parte grandissima nel rafforzare il culto dei Santi con quel desiderabile influsso formativo, di cui si è ora parlato. La sistemazione decorosa, evidenziata, rilevata delle reliquie sacre, specialmente se insigni, è per il sacerdote un impegno soprannaturale in cui egli si riconosce membro della famiglia vivente di Dio.

– La lettura della vita dei santi. Anzitutto occorre reagire al senso di disprezzo che viene facilmente diffuso per le mende in cui cadono senza dubbio scritti affrettati, troppo laudativi, retorici e persino stucchevoli. Censura per influire sugli scrittori, sì; disprezzo no. – Perché se c’è una forma, che può meritare rimproveri, resta una sostanza che domanda solo ammirazione. Purtroppo sono pochissimi oggi gli agiografi che meritano con serietà un tale nome e c’è da augurarsi che le stesse postulazioni si rivolgano, per redigere vite di servi di Dio, a persone di competenza scientifica che amino il soggetto, piuttosto che a qualche retore superficiale, facilmente reperibile sulla piazza. Ammettiamo dunque i difetti, che si biasimano, ma non dimentichiamo che una vita cristiana in cui manchi la lettura di biografie di Santi è una vita privata d’un soprannaturale fascino e d’una recondita forza. – Resta sempre vero che sono gli esempi a suscitare slanci generosi e dedizioni grandi. E poiché abbiamo menzionato la parola «esempio», vale la pena di sottolineare che la forza suggestiva sta proprio nell’episodio opportunamente inquadrato, mentre sta poco o nulla nelle considerazioni generali, anzi generiche, alle quali indulgono assai gli agiografi da strapazzo. L’episodio, su tutti, ma specialmente sui ragazzi e sui giovani, con quel suo stagliare concreto, con quella sua definizione rivelata di contorni, con quella singolarità netta anche se semplice, imbriglia attenzione e fantasia, stimola slanci del cuore, suscita energie. – È tempo che gli episodi dei Santi rientrino nella predicazione, che adesso si fa arida per il suo cerebralismo e inaccessibile perché priva di tradizione umana in fatti alla portata di tutti e capaci di portare le idee al livello delle logiche infantili. Per chi ha scarso sviluppo mentale, ogni membro del ragionamento deve essere dedotto da una rappresentazione concreta e descrittiva. Ed è tempo che non si abbia paura di raccontare miracoli veri e seriamente interpretati. Forse ha errato Gesù Cristo lasciando miracoli come segno della sua verità per tutti i tempi? (cfr. Mc. XVI,17 sgg.). Noi ci auguriamo una vera fioritura (e già qualcosa si delinea) dell’agiografia, priva dei pedaggi pagati al razionalismo ed al positivismo da coloro che hanno troppa paura della storia e, per averne troppa paura, la deformano o la snervano.

L’intercessione dei Santi

Fa parte della fede cattolica la dottrina sulla intercessione dei Santi che ha delle radici profonde e stupende: la loro partecipazione all’opera e alla gloria di Gesù Cristo; il valore imperituro dei loro meriti; la reversibilità degli stessi meriti. Non è questo il momento di spiegare a voi, bene edotti, tali solenni verità. Sia sufficiente l’averle richiamate. Sono le verità delle quali si sostanzia la fede nel Corpo Mistico di Gesù Cristo e nella sua ineffabile vita. Non dunque chimere o pie supposizioni, ma realtà. Per questa intercessione la Chiesa del cielo accompagna la Chiesa militante non solo moralmente, ma ontologicamente. Questa intercessione nei suoi effetti non è certamente da meno dell’effetto della fede propria dei pellegrini in terra, la quale può spostare le montagne. Anche per questa intercessione né la Chiesa, né i fedeli sono nella solitudine. I Santi in verità popolano la terra più dei viventi. L’intercessione dei Santi, per il modo con cui si attua e per gli effetti che opera, costituisce una delle pagine più interessanti della vita sotterranea della Chiesa. Con essa i Santi adempiono missioni postume, realizzano presenze specifiche, compiono cicli di straordinaria partecipazione alle vicende della Storia: la Chiesa con l’istituzione giuridica dei patroni asseconda questo fatto e la relativa fede. Se ne ha una varietà, una ricchezza di sfumature che solo i grandi storici cristiani e i grandi agiografi sono in grado di cogliere e di rendere. Per i Santi la primavera non cessa mai! La liturgia, la prassi, la devozione, la iconografia sono un tratteggio di questa storia. – Non si dimentichi che come la gloria segue i meriti, così la intercessione dei Santi segue anche la loro missione terrena e continua a compierla. È questa verità che richiama al culto particolare dei propri Santi. I Santi hanno dato la vita ad una terra, ad comunità, ad una missione; abbiamo il diritto di ritenere la loro intercessione fecondamente se non esclusivamente ancorata a quella terra, a quella comunità, a quella missione. Sono vicini. Non sempre indicati da una moda, hanno il diritto di essere particolarmente onorati da coloro che continuano a camminare sulla loro via. – Per questo noi intendiamo non risparmiarci per inculcare la devozione ai nostri Santi. Ne abbiamo nei nostri antecessori, ne abbiamo tra i fedeli dei due sessi, tra i religiosi. – Le loro memorie, le loro reliquie, la loro tradizione deve essere preziosa e noi dobbiamo mantenerle nel vivido calore di un affetto cosciente e profondo. La tradizione cristiana della nostra terra arriva al primo secolo: che i santi Nazario e Celso abbiano irrorato della loro predicazione la riviera ligure non è soltanto una leggenda. Noi speriamo di vedere presto restituita all’uso la cripta del Santuario di nostra Signora delle Grazie, rimontante al secolo IX, che consacra in tempo non sospetto la vivacità di questa tradizione, perché quella cripta è stata voluta prorio per ricordare i Santi Nazario e Celso, qui approdati verosimilmente dal mare. Tutte le chiese e tutti gli oratori dedicati ai martiri sull’arco ligure indicano la potenza e la vastità di una tradizione che, quanto più è potente e vasta, tanto più ha diritto di essere considerata elemento scientificamente valido per avvicinarci ad una verità storica. – Il mondo è solitario. Circondato dalle sue macchine e dai suoi ordigni esplosivi, intriso delle sue esperienze prevalentemente materiali, vede ridursi la letizia delle anime; ricco di fatti assordanti, a mala pena intende le voci che si levano irruenti dalla stessa natura. Ha bisogno di essere ripopolato spiritualmente. Per questo, nell’intendimento di tutelarne tra voi, contro pericolose deformazioni il giusto senso, abbiamo parlato di ideali santi e dei Santi stessi, dando ai due argomenti un qualche risalto per opposizione alla snervante esperienza di certe mode terrene. Voi avrete capito, cari confratelli, che abbiamo voluto invitarvi ad alzare lo sguardo verso la Terra Promessa che è e rimane l’unica prospettiva importante nella storia degli uomini, pur quando gli uomini rischiano di dimenticarsene, per propria colpa o anche solo per distrazione.

[Fine]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (3)

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (3)

  1. — Ortodossia

[Lettera pastorale scritta il 23 luglio 1963; «Rivista Diocesana Genovese», 1963, pp. 192-245.].

Parte seconda: Mode

Qualcuno stenterà a vedere la connessione tra la prima e la seconda parte di questa nostra lettera. Gli risolviamo subito le difficoltà. Gli ideali santi sono tra quelli ai quali si possono applicare gli uomini con frutto e fecondità. Ma davanti agli uomini non stanno solo, ad attrarli, degli ideali santi; stanno anche altre cose che ne possono prendere il posto quando la colpevole ignoranza, la malvagia ingenuità ed il marcato interesse si radicano troppo nell’anima degli uomini stessi. Nella grande fiera non ci sono solamente i fiori del giardino di Dio, ma anche i parassiti del deserto. Il contrasto è forte. E qui che si collocano le mode. Tutti vedono che piuttosto di seguire ideali santi, molti seguono le irrazionali mode correnti. Bisogna dunque parlarne. Le mode appannano i cristalli e li appannano al punto da impedire ogni visione, che si spinga oltre. Le mode sono molte. Ma qui la discrezione ci fa restringere il discorso a talune solamente, che hanno il potere di offuscare, se accettate, gli ideali santi dei quali abbiamo parlato, nonché tutti gli ideali in essi contenuti come parte implicita o potenziale. Che cosa è la «moda»?. «Moda» è un costume, che prescinde dalla nazionalità — e ciò significa che può essere ed è spesso di fatto irrazionale – e che viene imposto da una pressione emotiva, non razionale. Sono dunque due gli elementi costitutivi: il costume «logico e la imposizione dall’esterno per via di suggestione. Il prescindere dalla razionalità (che ci può essere, ma che non è intesa) è fatto deteriore in chi, intelligente, libero e responsabile dovrebbe sempre usarla. L’accettare una imposizione dall’esterno, senza motivi, mette in pericolo di seguire una via cattiva; perché il criterio non è quello della bene informata coscienza. In più c’è una cessione ed una capitolazione, che è a scapito della dignità. Questo altro aspetto implica qualcosa di deteriore. Si tratterà in ogni caso di un peccato? Sarebbe imprudente affermarlo, perché le mode possono svilupparsi in campi sui quali non grava l’obbligo morale di fare piuttosto a un modo che all’altro, e perché sovente il loro processo di penetrazione è così poco avvertibile da giustificare un certo velo di disattenzione, se non proprio d’incoscienza. Moda ed incoscienza si trovano bene insieme. Tuttavia anche quando non si può affermare il peccato, resta una certa sconvenienza, per le ragioni dette sopra.

La teologia senza raziocinio

Appaiono qua e là delle malcelate antipatie per la teologia speculativa, per l’assunzione di principi certi della filosofia perenne ai fini di una migliore intelligenza del dato rivelato; appaiono contrasti a san Tomaso d’Aquino (in quanto corifeo, ma la ragione varrebbe anche per Scoto, S. Agostino, etc), alla sistemazione scolastica, al lavoro compiuto dopo l’epoca dei grandi Padri occidentali ed orientali. – Contemporaneamente non mancano persone alle quali piace occuparsi di teologia semplicemente cucendo insieme brani scritturali e brani patristici, soprattutto, se non esclusivamente, dei primi secoli, con meticolosissima cura nell’evitare qualsiasi terminologia scolastica, precisazione, definizione di cose e di termini. Questo fino è onestissimo, se si può escludere che il procedere a quel modo suppone o vuole un pregiudizio negativo nei confronti di quanto non è pura citazione di testi, per di più ristretti ad un certo alveo. – Riesce difficile dare un giudizio negativo ed affermare con certezza che quella procedura è dettata dalla precisa volontà di eliminare ogni dato di indagine scolastica. Tuttavia il sospetto che così possa essere viene, e non viene in modo del tutto gratuito. Noi ci siamo occupati nell’argomento in una precedente lettera a proposito delle varie accezioni della kerigmatica. Neppure possiamo documentatamente affermare che tutto questo sia caratteristica di una «teologia nuova», alla quale si raccolgono qua e là allusioni. Pertanto non intendiamo giudicare o attaccare qualcuno. – Siccome però è possibile che tali indizi abbiano una realtà e un significato negativo ed è possibile che si pensi veramente da taluni a costruire una «teologia nuova» sulla antipatia a qualsivoglia approfondimento scolastico, noi ci sentiamo davanti ad un pericolo. E, in forma del tutto ipotetica, dichiarando esplicitamente che non intendiamo giudicare nessuno, trattiamo dell’argomento come se ormai si potesse parlare di una corrente che intende fare una teologia nuova alla insegna della irrazionalità o della relatività rispetto ai principi naturali noti e fin qui assunti a spiegare i dati rilevati. Se il pericolo è inesistente, tanto meglio. Ne ringrazieremo Iddio! Ma, siccome il pericolo non è del tutto chimerico, avremo fatto il nostro dovere; perché un Pastore deve prevenire anche i pericoli solamente possibili con qualche grado di probabilità. Esistono malcelate antipatie per la teologia speculativa? Non ci può essere dubbio. Tali antipatie hanno il valore solamente di evitare esagerazioni, pleonasmi e poco uso della diretta parola di Dio, nel qual caso si dovrebbe solo rimproverare la intemperanza o la imprudenza di linguaggio? Non possiamo rispondere affermativamente, perché è difficile indagare le intenzioni. Tuttavia non possiamo escludere che si debba rispondere affermativamente. – In via di ipotesi, supponiamo di dover rispondere affermativamente. Le considerazioni che seguono le facciamo solo subordinatamente a tale ipotesi.

– La teologia speculativa è necessaria e non per una sola ragione. Gli uomini, anzitutto, vogliono capire almeno qualcosa in quello che si sentono dire. Quando sentono dire «incarnazione», vogliono avere una definizione almeno approssimativa della cosa, perché senza questa non capiscono nulla. La risposta dovrà essere data componendo insieme dati positivi della Scrittura e della Tradizione; ma questi dati sono espressi con parole che hanno un significato umano e che rimandano a concetti e principi usati nel lavoro concettuale degli uomini. Prendere questi termini, questi concetti e principi, vedere se possono essere assunti in pieno diritto e sicurezza per spiegare, mettere insieme i dati rivelati, farne una sintesi e delle deduzioni, significa fare quello che la intelligenza di un uomo normale domanda, soltanto per capire qualcosa. Ma fare tutto questo è fare della speculativa. Se ci si rinuncia, si rinuncia a spiegare, a intendere, e si domanda agli uomini non solo la fede, ma anche una cecità non necessaria alla purezza e integrità della fede. Chi sa che la parola di Dio porta con sé una ricchezza inesauribile sa per ciò stesso che può crescere la scienza di quella e che può e deve crescere il tesoro tratto da quella. Trarre è dedurre, esplicitare, applicare. La deduzione corre sempre su un ragionamento. La esplicitazione difficilmente fa a meno del ragionamento, la applicazione per lo meno esige un giudizio. Tutto questo significa far uso dell’umano raziocinio. O lo si presume, o si condanna la parola di Dio a chiudere la profusione delle sue ricchezze. Il lavoro sul dato rivelato non può essere affidato né al sentimento, né alla poesia, né alla fantasia; esso deve procedere secondo norme sicure, frettate e sperimentate da secoli, passate pertanto al vaglio del buonsenso comune e del magistero, quali vengono presentate nel Trattato De locis theologicis. La opposizione alla teologia speculativa è: o la opposizione a che intelligenza eserciti un suo diritto di intendere quello che accetta, arche se non può pretendere di esaurire e comprendere; oppure la accettazione di una impotenza e di un relativismo, che sono contrari a tutto il fatto della stessa Rivelazione.

– Esiste una contrarietà e alla assunzione di principi filosofici per la esplicazione del dogma e al riconoscimento di un valore sicuro e perenne in taluni principi filosofici? Tutto sommato si deve propendere per una risposta affermativa. Diciamo: «propendere». – Certo si leggono testi dei quali si dovrebbe dire: qui c’è la sfiducia della obiettività della conoscenza e nel ragionamento intellettuale. Si tratta di infiltrazioni kantiane e, più ancora, hegeliane. – In verità esistono ragioni certe per poter non avere più alcun timore né di Kant, né di Hegel. Non è nostra intenzione trattare qui dell’argomento, che merita, se mai, lunghe ed appropriate considerazioni a parte. Ma qui dobbiamo richiamare ad un punto, già espresso in una nostra lettera antecedente: dalla parola di Dio non si può avere (sia pure limitatamente) intelligenza certa, sicurezza, vera guida, fondamento di serena speranza, se non si attribuisce valore certo ed obiettivo ai termini e pertanto alla comprensione dei termini e alle altre necessarie operazioni dell’intelletto. Se questo valore di apprensione e di operazione intellettuale non esiste in maniera sufficiente, diviene inutile la Rivelazione di Dio, perché l’uomo non apprende quella, ma solo una sua mutevole ed inconsistente fantasia. La cosa sarebbe troppo grave. – Tutto ciò non cambia se si pretende affermare un relativismo nei principi, mutevoli secondo le età. A parte il fatto che questo modo di pensare è autentico modernismo, non si vede quale stima potremmo avere e quale tranquillità nutrire a proposito di un complesso rivelato, che per noi rimanesse sempre al di là di un velo, sicché non potessimo sapere mai se è sicuro o no. – È dunque necessario accettare i placita di una filosofìa perenne, che di fatto emerge con evidenza e dalla storia della filosofia e dalla storia umana. Pretendere di staccare violentemente la intelligenza della Rivelazione dal dato filosofico è non solo agire contro la tradizione della Chiesa, ma contro il più elementare buon senso. – Coloro che (contro le certezze raggiunte in campo filosofico e contro le definizioni del Concilio Vaticano I, a proposito della cognizione certa di Dio) si comportano come se non ci fossero principi certi naturali e non ci fosse il pieno diritto di servirsene perdono il diritto stesso di parlare (DS. 1785). E non vale, per riacquistarlo, fare il ricorso ad esperienze mistiche, ad afflati, perché se non siamo certi della obiettività del pensiero umano nessuno potrà distinguere gli afflati mistici dalla pazzia. Si traggano le conseguenze. — L’antipatia per san Tommaso o la messa in tacere della sua opera possente, che qua e là affiora, non è che una forma di opposizione e alla teologia speculativa e alla sicurezza dei principi filosofici naturalmente conosciuti, nonché alla obiettività della nostra cognizione. In verità non è opposizione a san Tommaso, ma è opposizione a tutto. Nei principi fondamentali necessari effettivamente gli altri grandi pensatori non differiscono da lui, qualunque possa essere la impronta personale del genio. San Tommaso in teologia vale anzitutto per il consenso che ha avuto e per la fiducia a lui decretata dal Magistero; vale perché espressione di una filosofia perenne; vale finalmente per il suo genio. Non si dimentichi tutto questo. Molti non lo hanno mai letto e tanto meno lo hanno considerato senza pregiudizio.

– L’antipatia per la sistemazione scolastica ha le stesse radici e pertanto non occorre si prolunghi il discorso. Ma c’è un dubbio più che legittimo ed è il seguente: nel campo filosofico al di fuori (Dio non voglia dentro!) degli studi cattolici, il canone che spesso appare supremo, quando non si tratta di mera ricerca critica e storica, è quello di non dire cose già dette e dire decentemente cose che altri non abbiano detto. Si tratta di un orgoglioso criterio che vuol fare l’uomo creatore della verità e non servo della medesima. Ed è orgoglioso criterio fuori d’ogni saggezza, perché è evidente che all’uomo, schiavo della morte e spesso di molte altre cose, non compete il diritto di «fare la verità». Sarà molto se la raggiungerà. – Affermazioni forse non intenzionali, raccolte qua e là, ingenerano il dubbio che in una nuova concezione della teologia si avrebbe oltre la estromissione della speculativa un restringimento della stessa teologia positiva. – Non c’è alcun dubbio che la testimonianza degli scrittori e Padri dei primi secoli acquista un valore storico particolare per la più vicina connessione cogli apostoli e con l’era della Rivelazione divina. Neppure c’è dubbio che il contributo dei grandi Padri nell’epoca aurea, e per l’intrinseco vigore e per la vittoriosa difesa contro le eresie e per l’influenza decisiva nel far entrare il Cristianesimo al livello intellettuale dei popoli allora veramente civili, debba essere considerato con fiducia e riverenza specialissime. Il che sempre è stato fatto e tuttavia si fa. Ma il valore sostanziale della testimonianza e del Magistero, che la garantisce, è lo stesso al quarto ed al ventesimo secolo. La Chiesa è «vivente» ora come allora; la trasmissione della verità è garantita ora, come allora. E pertanto non solo è infondata una distinzione sostanziale tra scrittori antichi e consenso moderno dei teologi, tra magistero dei primi quattro concili e odierno magistero della Chiesa; ma è indice di una posizione di fondo al tutto erronea. Infatti si ritiene la Chiesa non un corpo vivo, ma una mummia da conservare, sempre rifacendoci a quello che ha fatto, per la ragione che oggi non «può» far di più. Bisogna ammettere che questo giudizio non impedisce affatto il maggiore uso dei Padri antichi e dei padri orientali. Ma ciò non è questione teologica, è questione solamente tattica. Le due cose non vanno confuse. E sempre norma di metodo cominciare da quello che nei diversi interlocutori di un dialogo è base da tutti accettata o anche solo da tutti meglio compresa. – E allora, che pensare di una «teologia nuova»? Questo termine può essere facilmente equivoco e, se proprio lo si volesse assumere, dovrebbe essere spiegato e purificato da ombre non rassicuranti, e tanto meno convincenti. – Diciamo che è termine in sé equivoco per i motivi seguenti:

– Potrebbe insinuare che quanto fatto fin qui a proposito della verità rivelata abbia bisogno di riforma. Sarebbe la fine della divina Tradizione, la quale nel frattempo avrebbe dormito al punto di alterarsi; sarebbe la fine della efficacia e garanzia del Magistero, che nel frattempo avrebbe pure dormito. Sarebbe la fine, probabilmente. di gran parte di quello che è insegnato nel trattato De locis Teologicis, da tutti fino a questi anni ritenuto dottrina certa. Sarebbe principio della fine di tutto. – Potrebbe insinuare che nella Chiesa vi sono «epoche diverse» con profonde differenze tra di loro. Ritorneremmo al punto di vista non ignoto a qualche sognatore. Nulla nel dato rivelato autorizza a fare la più piccola supposizione di queste epoche «diverse». Appartiene invece alla fede che la Chiesa è immutabile e indefettibile pur camminando sempre in avanti fino alla pienezza del numero degli eletti.

— Potrebbe insinuare che nel mondo esistano un progresso ed una evoluzione tali da subordinare la Rivelazione che vi si dovrebbe adottare. In tal caso non la Rivelazione subordinerebbe gli uomini e quanto li riguarda in questo effimero passaggio terreno, ma sarebbe il complesso ristretto nell’effimero passaggio terreno a subordinare la Rivelazione divina. Non il mondo al giudizio di Cristo, ma Cristo al giudizio del mondo. Il rovesciamento sarebbe completo. Se Cristo fosse passabile di essere aggiogato al carro del mondo, non sarebbe più il Verbo eterno incarnato. – Per capire il valore delle piccole e crespuscolari deviazioni bisogna aver il coraggio di spingerle alle loro ultime conseguenze. Se ogni età dovesse adattarsi alle situazioni supposte nuove, dovesse spaventarsi di quello che succede e credere che una dilatazione di conoscenze nel campo meramente quantitativo debba portare squilibri in quello spirituale (che è al di fuori della quantità), noi assisteremmo non alla storia, ma alla vergognosa fuga dei deboli. E chiaro dunque che le insinuazioni poste dalla posizione equivoca del termine vanno respinte, nel caso in cui qualcuno fosse veramente invaghito del termine. Dietro a tutto questo c’è una ragione, della quale ci siamo occupati nella lettera diretta al nostro clero sui complessi di inferiorità.

Ecco quello che si auspica avvenga.

— Ulteriore perfezionamento dei metodi nell’identico perenne criterio teologico. Ciò significa impiego aggiornato delle migliori e cattolicamente serie esegesi dei testi, del loro valore storico, al quale può essere ammesso il valore teologico; quando lo merita, della nuova indagine filosofica; giusta dose nei particolari di fronte alle sintesi: purificazione da ristagni d’arzigogolo, di forzatura e di esagerate sottigliezze, nonché dalla gazzarra di facile opinabilità più adatta alla vanità dei singoli che alla migliore illustrazione della verità: credo Deo revelanti et non theologo opinanti.

— Ulteriore studio di «presentazione» alle diverse età. Questo importa un impiego di tutta la cultura contemporanea e di tutte le risorse dello studio psicologico. Ciò importa una scelta di diverse sistemazioni, di sintesi, che adatti meglio e non alteri la verità in se stessa. Importa ancora, quando occorresse, un superamento di troppo severe distinzioni tra diverse parti ed aspetti della teologia.

– Ulteriore approfondimento, ulteriore deduzione, ulteriore sintesi. Ulteriore ricerca storica e ulteriore perfezionamento del metodo e delle attitudini apologetiche. Non si dimentichi che abbiamo sempre davanti un mondo che vuole essere «convinto». – Concludendo. Il «nuovo» non può ledere quello che è stato fin qui certo, non può apportare quello che sia in contrasto con quanto fin qui «certo». Al di là di questa posizione non c’è che il relativismo e un relativismo improntato alla corsa nello spazio e nel tempo di un mondo che ci ospita così poco tempo. Il relativismo non si può comporre con la Rivelazione cristiana, ma, considerando quanto ora detto, appare che non vale la pena di dare qualsivoglia importanza al relativismo. – Perché abbiamo parlato qui della teologia senza raziocinio? Esiste in questo mondo la suggestione di abbandonarsi agli schemi metodologici di filosofie già superate. Nella frenesia del movimento e delle complicazioni esiste la tentazione di lasciarsi sedurre dalla paura di fatti e di ombre di tempi ormai andati. E una moda. Abbiamo timore che la teologia senza raziocinio, se esiste o se ne esiste la voglia, trovi là la sua spiegazione.

Il mito della disobbedienza

Prima di essere mito è fatto e diventa mito perché al fatto si vuole dare una giustificazione teorica e più che teorica una giustificazione violenta, la solita: tutto è cambiato e tutto deve cambiare. Come se fossero già cambiati nascita, morte, amore, debolezza, giovinezza, vecchiaia, limiti, decadenze, leggi interiori, etc. Quando delle cose si dà una giustificazione violenta e non razionale, siamo nel caso della «moda». L’argomento è qui per questo motivo e perché sta dissolvendo la disciplina ecclesiastica di molti del clero secolare e, non meno, regolare. – Guardiamo il fatto. La disobbedienza a Dio non ha bisogno neppure di essere giustificata per il gran mondo. Ogni tanto la opinione pubblica è intrattenuta su qualche celebre processo che mette bene in mostra come la ragione di colpire i delitti è in sostanza quella di essersi fatti colpire dalla legge per averne quadrati i termini. – I figli che proclamano la piena indipendenza ed allontanano i genitori per incapacità a capirli trovano difensori in tutto il mondo. Anzi ci sono intere scuole le quali insegnano che ai figli si deve dare solo e molto rispettosamente un’istruzione, perché l’educazione se la debbono scegliere e dare da sé e il tentare di darla loro è una vera manomissione della libertà e dignità personali. L’obbedienza nel gran mondo si salva ancora nel settore militare. Per quello civile l’obbedienza resiste ancora fino ad un certo punto, ma come dolorosa e per il momento indeclinabile necessità. – Il fatto, anche tra persone per bene, si afferma in un altro modo: creando un certo mito della personalità e dei suoi indefiniti diritti, il mito della libertà anche all’interno della coscienza, il mito della dignità, attenuando tutto ciò che è autorità e che risplende nella autorità. Questo modo è uguale agli altri, con la sola differenza che è insincero. Le fazioni, le correnti, sono quello che tutti sanno; ma sono anche una delle scappatoie più facili per sottrarsi allo spirito di obbedienza ed alla obbedienza stessa. Esse sembrano fornire buone ragioni per sottrarsi, con artificiali sembianze di saggezza, ad una dipendenza. La fazione politica riesce a minare la dipendenza a statuti, a patti, ad ogni cosa; basta semplicemente che in qualche momento sia predominante. E non è affatto difficile diventi predominante. – Correre la via della vita senza assolutamente impacci e remore, bere all’agitato mondo in rivolta contro ogni freno e legge, con l’impressione di tuffarsi nell’aria libera e inebriante, di correre veramente la cresta dell’onda, di rompere qualcosa per godere dello sconquasso come in una diabolica ma frenetica musica, è mito dorato di gioventù. I rotocalchi fotografano ogni settimana soprattutto questo diabolico mito dorato. L’estensione del mito è tale che anche i buoni si chiedono se per l’avventura non sono sciocchi a non seguirlo. Esso è il mondo, l’anima, tutto, assolutamente tutto, a rovescio. Come sogno pieno dura poco; ma le ombre di questo sogno possono accompagnare un’esistenza. Tutto questo tocca, sia pure in genere senza i colori più foschi ora ricordati, anche molti ecclesiastici e religiosi. – Il mito della disobbedienza ha un grande strumento suggeritogli dal metodo freudiano di dragare i fondi dei laghi per farne risalire tutto il pantano. Si parla di quello che è più umano e debole, che spoetizza; i particolari – appunto perché stralciati a piacimento da un contesto che li doterebbe d’altra interpretazione – prendono l’aspetto della miseria, della cattiveria, della meschinità, della passione e di tutti i prodotti e sottoprodotti della superbia. Abbiamo letto in diverse lingue vari rapporti, racconti, informazioni sul Concilio e non siamo stati affatto confortati da una simile letteratura, libertina quanto alla stima dei superiori e alla obbedienza verso i superiori. – Quando le firme, vere o mentite, erano di taluni, ci siamo chiesti a che punto era giunta la loro coscienza. Tutto hanno messo in piazza, tutto stralciato dall’insieme, tutto presentato nella luce falsa di uno scopo pregiudiziale. La verità, certo, è compromessa; ma l’educazione alla disistima, al disprezzo, alla rivolta, è fatta! – Ed ecco il controluce del mito della disobbedienza: la tirannia. Quando c’è la prevalenza, quando si è instaurato politicamente qualche «regime», allora è la dedizione folle alla piaggeria, alla adulazione, alla farsa delle adunate e delle acclamazioni alle regie di immortalità, alla delazione mortale, alla macabra orgia delle vendette. Questo secolo ha una bella collezione e la collezione continua. Tutto questo non parrebbe disobbedienza. No! Nasce sullo stesso tronco della disobbedienza. E fiore dello stesso mito, fatto, sì, a rovescio, ma egualmente testimone! – Il mito della disobbedienza ha la sua teoria. Non parlo della teoria positivista della necessità esterna, alla quale si riduce l’obbligo di obbedienza, e neppure di altre illustri teorie rivoluzionarie che sono talmente contraddittorie da imporre cose contraddittorie, nella sola variante di tempo; oggi insubordinazione rivoltosa, domani obbedienza cieca in clima di terrore. Parlo della teoria «felpata» espressa in termini rispettabili e apparentemente onesti. La teoria felpata procede così:

– democrazia soprattutto (ma certo che la democrazia è buona e può essere ottima, ma non viene prima nella guida morale degli uomini; basta metterla prima, perché l’ordine sia rotto);

– personalità anzitutto (può essere vero, se si considerano le cose in un campo ristretto soltanto, nel quale effettivamente il rispetto alla personalità viene per primo. Non è forse dedicata tutta al principio di rispettare la personalità umana la enciclica Rerum Novarum Ma non si scosta dal principio primo: che è Dio e la sudditanza a Lui);

– saggezza nella obbedienza (e chi può dire che la saggezza sia cosa di cui diffidare? Ma quando saggezza nella obbedienza significa, come generalmente significa, riserva di obbedire, subordinando al proprio personale giudizio la validità del comando e la saggezza della norma, allora la obbedienza vera è semplicemente morta);

– niente piaggeria verso il superiore (giustissimo in sé. Ma, quando ciò significa: lesinargli tutto, anche quello che si dà ai cani, perché nessuno possa pensare che si sia dei devoti della autorità, dei profittatori di situazioni, dei codini etc …, allora si considera il superiore come un «male da contenere» attraverso la propria giusta severità. Così si può arrivare alla asfissia del superiore e alla palliata completa rivolta). – Basta una intelligenza mediocre, basta un po’ di debolezza, basta una qualunque passione, perché tale teoria trovi posto persino in mezzo ad atteggiamenti mistici. Ma è solo la capitolazione al mito della disobbedienza. Questa è la situazione, dalla quale, cari confratelli, dovete difendere voi e i giovani che vi sono affidati. Diciamo: difendere voi e loro, non diciamo: difendere l’autorità (anche se possiamo legittimamente dirlo), perché come vedrete appresso, l’obbedienza è in favore dell’obbediente e la disobbedienza è già di per se stessa un castigo del disobbediente. Al «mito» si oppone la realtà, ossia la verità. Vogliate riflettere ad alcune proposizioni che sottoponiamo appresso.

– L’obbedienza trova la sua ultima radice nel volere divino. Si obbedisce perché Dio vuole si obbedisca. Davanti a questa verità si capisce che motivo dell’obbedienza non è né il valore né la benevolenza, né la saggezza di coloro ai quali si obbedisce. Il motivo è la intrinseca moralità dell’obbedire, in ultima analisi è la conformità al volere divino.

– Dio ha formulato la legge naturale e quella positivo-divina. Ma esse non sono l’unico strumento per il quale arriva a noi la divina volontà, soprattutto nel dettaglio concreto e minuto. Ci sono le conseguenze dell’uno e dell’altra, ad esempio la legge ecclesiastica e la legge civile. Ci sono le persone, gli statuti, le norme, le azioni contrattuali, le situazioni, dalle quali, per giusta connessione e derivazione alle sorgenti prime della legge, giunge a noi la norma generale e la norma singola. Questo collegamento rende molti fatti e persone umane portatori legittimi della volontà divina. Naturalmente potranno accadere casi nei quali tali portatori si mettano fuori della legittimità di comandare in genere e in dettaglio. In tal caso non saranno più portatori legittimi della volontà divina. Ma tale caso non si presume mai, che si presume il contrario, mentre esso dovrà essere dimostrato, applicando le norme ordinarie della teologia morale. In sostanza: non si obbedisce mai puramente ad un uomo, ma si obbedisce solamente a Dio. E ciò basta a insinuare il carattere serio, interiore della obbedienza. Diciamo interiore, perché Dio è signore e giudice anche dell’interno dell’uomo. E si capisce come esiste anche una obbedienza intellettuale (la fede lo è di fatto), purché esista una autorità legittimata a questo. Dio può chiedere perfettamente tale obbedienza. E ovvio che l’obbedienza non ammette la riserva di verifica se il comando sia saggio. Tale riserva oltraggia il motivo ultimo per cui solamente si obbedisce: «è Dio che vuole si obbedisca. – Ci si potrebbe fermare qui. È detto quanto occorre. Ma non possiamo dispensarci dal proporre alcune altre riflessioni integrative, che servono a costruire la profonda filosofia della obbedienza.

– L’obbedienza diventa merito davanti a Dio, anzi diventa amore. Lo stesso Redentore ha insegnato… «non chi dice Signore, Signore, ma chi fa la volontà del Padre…» (Mt. VII, 21).

– L’obbedienza ha merito tanto più grande e tanto più realizza l’amore di Dio, quanto più sono invisibili le ragioni per le quali diventerebbe ovvia a chiunque una obbedienza, quanto più costa il ricevere la norma da persone indigeste, inferiori, etc. In tutta la economia divina è norma generale, proprio per aumentare il valore del merito, inserire dei «medi» ed allungare le distanze. Non è forse vero che noi amiamo Dio veramente quanto amiamo i fratelli anche se sono in sé odiosi? – L’obbedienza, per questo, al di sopra ed al di fuori della saggezza di chi comanda, ha sempre una soprannaturale saggezza, perché si adegua alla saggezza superiore divina ed al piano della Provvidenza. Che si adegui ad una soprannaturale saggezza è certo, perché si adegua al volere di Dio. Poiché si adegua al volere di Dio, si adegua al piano della Provvidenza e pertanto giunge sempre ad un buon fine, anche se potrebbe apparire difettosa la prudenza ed intelligenza di chi ha comandato. Dio non chiede che si dia prova di hrbizia nell’obbedire, ma prova di amore al di là di ogni furbizia. Chi disobbedisce potrà anche dar prova di intuizione e prudenza ed ottenere meglio uno scopo; ma, poiché in definitiva non si adegua alla volontà di Dio, sbaglia certamente. La Provvidenza non aiuta la disobbedienza, ed il suo piano ultimo è per dar ragione alla verità ed il bene. Questo è il motivo per cui chi disobbedisce ha sempre da temere: ha messo l’errore e la giustizia vendicativa sulla sua strada. Il che vale tanto più quando la disobbedienza è ad una autorità sacra, la quale trae il suo valore da una soprannaturale positiva costituzione.

– L’obbedienza dona il completamento agli uomini, perché permette ci si completi con l’altrui saggezza ed esperienza. Questo «completamento» va meditato bene, anche se non è l’aspetto maggiore della virtù e dello spirito di obbedienza. Il bimbo che obbedisce sommerà la inesperienza ed ingenuità propria colla esperienza e la conoscenza altrui; il bimbo che non obbedisce sommerà solo le carenze proprie aprendo le porte a tutte le carenze altrui. Il discepolo che apprende obbedendo e non affidandosi alla presunzione otterrà lo stesso risultato. Anche se in questo mondo esistono leggi ingiuste, sciocche e superate o dannose, in via generale la legge deve presumersi frutto di una collettiva esperienza e l’osservarla, sotto questo profilo, aumenta la saggezza e la prudenza di chi la osserva.

— L’obbedienza dona il più costoso esercizio di volontà. L’esercizio aumenta la caratura della volontà ed è questa che fa gli uomini forti.

— L’obbedienza è il sostegno della responsabilità, che è la lima di chi la porta; perché è quando si ha la fortuna di obbedire che non si resta nel dubbio e nella colpa: la obbedienza manleva.

— L’obbedienza, finalmente, è la custode del diritto, della concordia e della pace. Questioni che nessun accordo può sistemare si chiudono fecondamente con l’obbedienza. Il mito della disobbedienza è un inganno: questa affermazione è conseguenza di quanto detto fin qui. Se la obbedienza è nella verità dell’«ordine», la disobbedienza è per natura sua nella linea dell’errore e pertanto dell’inganno. La obbedienza sola mette sul piano della Provvidenza: è per questo che la disobbedienza mette sulla via sbagliata. Che cosa significa la via sbagliata? Ogni «no» che si dice a Dio nella vita sposta su un angolo erroneo il lato che la delimita; per la nuova ampiezza d’angolo la via è diversa da quella che dovrebbe essere. Le infinite risorse della divina bontà e la penitenza possono rimediare; ma potrebbe accadere che il rimedio non si effettui. I nostri atti ci seguono: non sappiamo fin dove arrivi il loro svolgimento. Potrebbe superare di molto la nostra vita. La coscienza non può essere impunemente tranquilla, quando ha violato la linea dell’ordine divino. Allorché si tratta di disobbedienza alla Chiesa, la cosa diviene più grave, perché Dio ratifica il comando della Chiesa (cfr. Mt. XVIII,18). Quando le cose portano in qualche modo la firma di Dio, al di là di quella superna sanzione può stare il disordine di tutto: «Vir obœdiens loquetur victorias» (Prov. XXI, 28). – In conclusione, obbedire non è una vergogna: è un ordine, è verità, è saggezza, è acquisto, è merito ed amore. Domani sarà gloria. Occorre più forza per obbedire, che non per disobbedire. In genere la disobbedienza è l’arma dei deboli come la bugia; la obbedienza è l’espressione dei forti. Sarebbe un errore sottovalutare questo aspetto anche puramente umano dell’obbedienza e della disobbedienza. Tutto conduce a concludere che il mito della disobbedienza ha con sé la nemesi della sua stolta impudenza. Si noti bene che noi non abbiamo parlato direttamente di disobbedienza o di obbedienza; abbiamo parlato di un mito. La disobbedienza è un peccato, il mito della disobbedienza è una stortura patologica permanente, anche quando c’è apparenza di obbedienza, Perché io posso aver le arie di osservare tutto il diritto canonico, ma, se si ha nell’anima il mito con tutto quello di fantastico, irreale e magari demoniaco che il mito porta seco, la interpretazione del diritto canonico sarà alterata, come tutto risulterà alterato. È pertanto sul mito irrompente dappertutto, che potrebbe sedurre anche voi, che noi abbiamo attirato la vostra attenzione. ».[In questa magistrale esposizione il Santo Padre enuncia il principio al quale ha ispirato la sua vita di Papa “prigioniero”. Ecco il principio per cui, obbedendo pure ai falsi papi, Gregorio XVII obbediva a Dio stesso ed alla Sua volontà che, seppure umanamente incomprensibile al momento, era sempre “volontà divina” inaccessibile alla mente umana limitata al solo ambito spazio-temporale della sua breve vita – è sicuramente così che la Chiesa di Cristo, proprio per l’ubbidienza a Dio del Sommo Pontefice “impedito” ed “esiliato”, potrà perpetuarsi, anzi si è già perpetuata secondo la promessa evangelica, ad onta delle azioni sataniche distruttive degli gnostici modernisti, dei marrani della quinta colonna, delle sette massoniche e dei “disobbedienti” sedevacantisti e fallibilisti gallicani, di coloro che odiano Dio e tutti gli uomini, degli ignavi pastori “cani muti, rosicchianti l’osso e con la testa nella ciotola di lenticchie”! – ndr. -]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (2)

IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (2)

— Ortodossia-

[Lettera pastorale scritta il 23 luglio 1963; «Rivista Diocesana Genovese», 1963, pp.192-245.] – Parte Prima: Ideali santi -B-

Verso i lontani

Il provvidenziale rifiorire dell’ideale ecumenico e dell’ideale pastorale, intesi secondo le indicazioni dell’Evangelo, porta ad una importante conseguenza pratica, la quale, pur appartenendo alle considerazioni pastorali, ha più di una ragione d’essere considerata a parte. Infatti l’ideale ecumenico è generalmente inteso verso i fratelli cristiani separati e verso i non battezzati. Esso ha addotto nuova luce e circa il dovere e circa il metodo, siccome brevemente si è visto sopra. Ma si tratta di un indirizzo che è valevole per un altro soggetto: i lontani di casa nostra, ossia i battezzati nella Chiesa cattolica che hanno perduto in diversi gradi la pratica, o la stessa fede. Chi ha spirito ecumenico e pastorale – e tutti gli ecclesiastici debbono averlo – logicamente arriva a sentire impegno e amore per questi «lontani». Rischierebbe di essere ipocrita l’afflato ecumenico che si arrestasse ai separati e ai non cristiani, E dunque argomento da trattarsi per la logica forza di quanto premesso, per se stesso ed anche per difenderne il concetto da indirizzi sospetti e pericolosi. Costituisce pur esso un ideale santo. Radice dell’obbligo di occuparsi dei «lontani» è la volontà salvifica universale di Dio, di cui si è parlato sopra, la quale diventa legge per coloro ai quali Cristo ha affidato di proseguire la sua stessa missione. – Del resto esplicitamente il codice di Diritto Canonico richiama i Pastori a tale dovere (can. 1350). Altro fondamento dell’obbligo è nella natura di società e di famiglia di Dio, propria della Chiesa; tale natura non può ammettere che qualcuno sia abbandonato a se stesso. Non si può tacere, per coloro che tengono un ufficio adeguato, il corrispondente obbligo di giustizia e, per tutti, il dettame della carità. – Vale la pena di riflettere anche su notevoli ragioni di convenienza, che da sole avrebbero funzione determinante. I lontani sono molti. Questo è vero, se si parla dei «relativamente lontani». Nella nostra città di Genova in una sola notevole parrocchia il numero di coloro che ascoltano la santa Messa arriva al 60-70%. Un’altra parrocchia si avvicina a questa consolante percentuale. Le altre stanno più basse nella graduatoria. Se prendiamo la pratica della S. Messa festiva come punto di distinzione tra i praticanti e i poco o nulla praticanti, bisogna dedurne che non esiste parroco il quale abbia la facoltà di disinteressarsi dei lontani, anche nei monti dove, in qualche paese, solo tre o quattro persone talvolta non fanno Pasqua. – I «lontani» sono in vario modo dei potenziali vicini. Più o meno profondo resta in tutti qualcosa del catechismo della infanzia o d’altro. Non possiamo dimenticare che un giorno, celebrando la santa Messa nel carcere giudiziario di Genova, alla Comunione per la sezione minorenni e non solo per quelli, abbiamo visto ritornare i comportamenti e i gesti di ex chierichetti in un numero non indifferente di detenuti. Lo abbiamo voluto dire e le lacrime, che abbiamo colto su molti visi a questo accenno, ci rassicuravano che non avevamo sbagliato. Ma era vero che l’antico chierichetto riviveva anche in prigione e riviveva per spingere alla Comunione con un sentimento forse più profondo di quello della infanzia. In molti, che si giudicano lontani, resta, magari sigillato accuratamente, l’antico membro di qualche buona scuola, di qualche buon collegio. Niente va perduto. – I lontani finiscono sempre coll’avere in qualche modo «sete di Dio», magari a modo loro, agitati e scontrosi. Non vi inganni il fatto che talvolta, cari confratelli, vi guardano male. Può essere una forma di debolezza. Ma una cosa è certa: è più facile recuperare chi ci guarda male che chi non ci guarda affatto. Chi guarda male, sente qualcosa: un contrasto, un problema; e tutto questo diventa un amore a rovescio. E più difficile ricuperare chi ha o affetta la più completa indifferenza. I lontani sentono la lima degli anni che passano, della caducità ed insufficienza di tutte le cose terrene; spesso hanno consumato la capacità di godere ed hanno così toccato il limite di saturazione. Esistono delle male azioni che si possono definire una forma di pianto. I lontani sono nella posizione di apprezzare di più quello che non hanno. Questa è del resto legge generale. Abbiamo sempre notato che il fascino della divina liturgia produce, in coloro che vanno poco o mai in chiesa, effetti maggiori che nei fedeli abitualmente praticanti. – Riassumiamo. Nella massa dei «lontani» noi possiamo trovare chi sta attendendo gli si porga la mano ad onta del suo viso ostile; chi soffre e nascostamente prega; chi ha incredibili affinità cogli ideali santi, non appena gli vengono rivelati o rinfrescati nella memoria; chi può essere tra i maggiori collaboratori nell’apostolato. – Questa massa non deve far paura, bensì deve ispirare fiducia e amore. Essa può ispirare un coraggio teso a tentativi nei quali anche i vecchi possono trovare la primaverile passione della loro giovinezza. Chi si restringe a coloro che vanno a lui, può finire in esigua e persino meschina compagnia. – Dopo una notte di lavoro insonne ed infruttuoso, Pietro il pescatore si lamentava col Signore di non aver preso neppure un pesce. Gesù diede a lui e a tutti i secoli il grande ordine: «Duc in altum» (Lc. V,4), va al largo. Pietro, ad andare al largo, ci guadagnò l’avventura di una pesca la più fruttuosa (miracolosamente) che si potesse pensare. Ma il fatto era pure un simbolo. Noi abbiamo applicato ed applichiamo tuttavia, umilmente sempre, questo ordine del Salvatore di andare al largo e potremmo, di oltre trent’anni, scrivere volumi sulla fecondità dell’«andare al largo». – Parliamo ora della «metodologia» verso i «lontani». E qui che troviamo la giustificazione al fatto di trattare l’argomento in una lettera sulla «ortodossia». Infatti il metodo deve ispirarsi a concetti giusti e deve evitare indirizzi erronei. Abbiamo conosciuto persone che hanno svisato se stessi, seguendo, in un apostolato per i «lontani», direttive e idee sbagliate. L’argomento è del massimo interesse, anche perché pensiamo che dopo il Concilio esso entrerà in una più universale ed attenta considerazione [questo naturalmente in chiave ironica! –ndr. -]. – Riassumiamo le riflessioni che ci paiono fondamentali.

— La visione soprannaturale. Per essa si vedono cogli occhi della fede (continuamente esercitata): le anime, il sangue di Cristo versato per ognuna di esse, il Padre che attende ognuno sulla «soglia di casa» e che muove tutto colla sua grazia dentro ognuno (grazia interna) e dal di fuori di ognuno (grazia esterna), la Provvidenza che nel governo del nostro mondo tende supernamente a realizzare il Regno di Dio e si serve di tutto in tutta la Storia. Questa visione rassicura, incoraggia, arma; rende intraprendenti, suggerisce risorse, infonde perseveranze inaudite. Nessuno pensi che questa visione, necessaria alla partenza e a tutto il decorso della azione pastorale ed apostolica, possa resistere senza una adeguata vita di preghiera. Questa visione soprannaturale è l’abolizione della paura e dei complessi di inferiorità, dà il passo del legionario vincitore, libera dalla complicata e miserella casistica dei «sé» e delle ipersensibilità psicologiche; aiuta ad uscire dai difetti di temperamento, primo fra tutti la timidezza. Questa visione fa incontrare la grande parrocchia, dove è parroco Dio stesso e dove si vedono i balzi dal vizio al chiostro, dalla diffidenza alla dedizione eroica, dalla insignificanza al rilievo. Dio vi lavorò in un modo ineffabile! Insomma per questa battuta bisogna partire con la coscienza che non si è soli!

– Diffidare del piacere umano, credere solo al dovere. Il piacere o, se volete, la umana soddisfazione che si può provare facendo del bene, finisce col tenerci prigionieri; il dovere ci fa liberi. Ad ispirare apostolato dei lontani non può essere insomma la propria esibizione, la personale conquista, il fascino da offrire agli altri con la propria intuizione e scioltezza, l’esercitazione di una ginnastica d’avventura, deve essere solo il servizio di Dio. Così si dà agli altri la sensazione del distacco da un interesse terreno, ed è proprio il distacco a costituire il primo umano mezzo di convinzione per chi è lontano dalla pratica religiosa. Se c’è difficoltà a capire un ragionamento, la difficoltà è certamente e notevolmente minore per capire il distacco di un uomo da interessi terreni e una sua vera levatura morale.

– La verità netta, la procedura intelligente e, occorrendo, graduale. Infatti è sempre negativo l’effetto di chi si presenta nascondendo, manipolando, minimizzando qualcosa. Nei rapporti d’anima, e tutti lo capiscono, la sincerità siede regina. Guai ad offenderla.

– La dimostrazione di serena fiducia, di affettuosa attesa. Si comincia col fare il bilancio del bene. Poi, se sarà necessario, si farà nello del male.

– Passare attraverso tutti gli onesti incontri e rapporti umani, senza mai arenarsi a quelli. La strumentazione di questo umano incontro va all’infinito ed è variabile sempre; quello che importa è non scambiare lo strumento con lo scopo: lo strumento è sempre e solo un passaggio. A questo fine, la amicizia è una salita, non un piano di riposo. Molte conquiste sono impedite dalla dimenticanza di questa regola fondamentale. Dunque (una volta chiaro il criterio): strumentazione larga! Attenti, che è in sede di scelta di strumenti che si corrono i rischi maggiori di dirottamenti dalla via giusta, di complessi di inferiorità, pleonasmi, inutili a tutti e dannosi a chi li inventa. Noi pensiamo ai casi, incontrati nella nostra vita, in cui il banditore rimase egli stesso fuori della porta! Tra gli strumenti ci stanno tecniche e metodologie, anche eccellenti se usate al loro posto, tenendo fermo che nessuna tecnica sostituisce i basilari elementi coi quali si fa per volontà di Cristo l’apostolato. Quegli elementi basilari possono sostituire tutte le tecniche. Dovendosi scegliere si sa a che cosa dare la preferenza. – Non occorre qui se ne faccia un esame analitico, perché ad indicarvi quello che va e quello che non va c’è l’attenzione ordinaria delle autorità. Qui occorrono i criteri limpidi. Forse, però, non è inutile esemplificare un caso concreto. Oggi le adunanze amichevoli sotto un certo aspetto private – è il caso di Rinascita, delle Domus Christianae etc. — sono un mezzo facile di incontro. Anzi riteniamo che senza mezzi di questo tipo, in una normale parrocchia di città, non si arriverà mai da parte dei parroci a compiere tutto il dovere catechistico che a loro incombe. Però sarà sempre grave la questione del sacerdote che deve fare in tali incontri la sua parte; sia perché deve essere intellettualmente ferrato, sia, soprattutto, perché, trovandosi in facile posizione di esibirsi, di essere ammirato e seguito, ne può patire danno il suo spirituale equilibrio. Bisogna lasciare il posto a Dio solo, per camminare senza inciampi. – Nel disporre la azione pastorale verso i lontani, occorre evitare taluni notevoli errori di impostazione anzitutto mentale e poi di metodo. Ripetiamo: è questo il punto che giustifica la trattazione nella presente lettera. Prima di enumerarveli, evitiamo un equivoco. In qualunque metodologia ogni uomo entra colla sua personalità tipica, col suo temperamento, colla sua capacità, colla sua arte. Deve essere così, perché nella unità la varietà è principio della stessa natura creata. Lungi da noi pertanto il lasciare anche solo supporre che si intenda annullare questa legittima libertà. Noi parliamo solo di principi generali, ben fermi e documentati.

– È errore credere che per avvicinare i lontani si debba assumere una patina mondana o comunque scanzonata e spregiudicata. Su tutto il nostro agire pendono sempre due chiare direttive date da Gesù Cristo: «Vos estis in mundo… sed non estis de mundo»

(Gv. XIV,17). «Videant opera vestra bona et glorifìcent Patrem vestrum…» (Mt. V,16). Dunque: niente di comune col mondo e «da esibire», scegliamo le opere buone in se stesse, quelle che Gesù Cristo giudicherebbe buone; non le opere inutili, incoerenti col proprio sacro carattere, pantomimiche, sciocche, svenevoli. Non si nega che tutte queste cose possano fare degli amministratori e dare soddisfazioni a chi usa strumenti mondani. Ma questi lavorerebbero per se stessi e non per Dio. Avrebbero i seguaci, la ammirazione, la cosiddetta opinione pubblica favorevole, prenderebbero persino il ruolo di «divi» (ne abbiamo conosciuti), ma non sarebbero né apostoli, né veri sacerdoti. Molta gente ha in un primo momento il piacere di aver contatti con ecclesiastici che si avvicinino più ai loro difetti e che, parteggiandoli, in fin dei conti li scusino, emulandoli li piaggino. Certo! Ma questa gente rientra pure in se stessa e finisce sempre col provare una gioia amara ed una disillusione: il prete lo vogliono prete. La esperienza ormai lunga ci dice che quanto più sono lontani, tanto più il prete lo vogliono prete. Ci sono molti vicini che, ben provveduti spiritualmente (se pur è sempre così!), sono disposti a concedere largheggiando col contegno dei propri sacerdoti. Costoro non fanno un buon servizio. Sarà bene che chi si trova nella situazione di cui trattiamo, pensi sempre non a quello che gli concedono i vicini, ma a quello che con sacrosanto diritto esigono da lui i lontani. Non diciamo la mondanità, ma le sue stesse più innocenti lustre esterne diventano ripugnanti per i moltissimi che dal «non uso» hanno tratto in fin dei conti un alto concetto del sacerdozio (anche se questo pare un controsenso, e non lo è perché è regola generale si stimi di più quello che non si ha, sull’altro!) allo stesso modo che onesti, ma incongrui segni di affetto possono sembrare addirittura sacrileghi. – Leggete dunque bene il Vangelo ed osservate se Cristo ha fatto qualcosa per mettersi al livello della mondanità del suo tempo!

– E errore credere che per avvicinare i lontani si debba accettare un confronto ed un contegno che annulli, anche solo formalmente, la sacra ed indistruttibile differenza tra chi è consacrato con l’Ordine e chi non lo è. Il sacramento dell’Ordine è il segreto di tutto nei pastori, è di esso che tutti hanno la profonda anche se spesso incosciente percezione e l’istintivo rispetto. Non si commetta l’errore di laicizzarci di fronte a gente che non ha bisogno di noi altro che per il sacramento scolpito in noi e per la missione avuta da Cristo. Di compagnoni, di divertenti, di interessanti, di bellimbusti ne hanno di meglio altrove. E non illudiamoci quando i meno provveduti fanno le mostre di ammirarci per cose che non sono né il sacramento dell’Ordine, né il mandato evangelico. È il caso di mettersi all’erta. A fare il Diogene, il grossolano, l’imitatore, il rinunciatario, il proletario (prendendo il termine nel senso deteriore e relativo alla educazione), ci si guadagna nulla e tanto meno ci si guadagna in estimazione produttiva ai fini dell’apostolato. Si dà spettacolo, e forse si dà spettacolo di visibile ingenuità. Ciascuno rimanga se stesso.

– E errore credere che per avvicinare i lontani si debba modificare qualcosa nella nostra fede e si debba dare a taluni punti altra interpretazione e dimensione. In tal caso saremmo addirittura su una strada ereticale. Ma l’errore ci sarebbe anche a dare versioni edulcorate e infiacchite di quello che nostro Signore ha lasciato alla sua Chiesa. Qualunque lontano sa che per avvicinarsi a Cristo bisogna fare dei sacrifici coraggiosi ed arrivare ad accettazioni energiche. Ci diceva il capo di una comunità protestante: «il disagio dei nostri è nel non avere punti fermi ed un magistero indiscutibile. I migliori, quelli che si pongono seriamente il loro problema religioso, cercano quello. Guai a toccarlo». Il degno uomo che ci diceva questo fa il suo esperimento religioso ogni anno su non meno di diecimila suoi correligionari. Nella nostra lunga esperienza in proposito abbiamo sempre constatato che la stessa angolosità apparente delle verità serve. Insomma: chi si muove, non si muove per poco.

— E errore ritenere che per avvicinare i lontani si debbano rilassare le briglie della morale. Non diremo che si debbano stringere più di quello che le ha strette sempre la sana accettata dottrina. Un metodo che coltivasse una simile illusione oltre l’inganno otterrebbe un successo minore, perché la vera sete interiore delle anime, la grande attrattiva è in loro verso ideali seri e più alti di loro. Il mimetismo viene bene nelle azioni tattiche di guerra, ma nel caso nostro non serve che a raccogliere sfiducia, disistima e persino disprezzo, da parte di quelli che, dopo un giudizio di inadeguatezza delle cose umane, domandano assistenza per ritrovare una solida piattaforma al piano divino. Per andare verso i lontani non bisogna partire da una disistima degli uomini, quasi che essi non possano essere capaci d’altro che di sopportare pietose bugie. Non è sull’attenuazione della legge che occorre puntare, ma su una emancipazione da linguaggi triti e formalistici, da atteggiamenti e risorse pietistiche, insincere ed artificiali, da manifestazioni interessate, da stile untuoso, da inscenature prive di convinzione, da spettacoli di debolezza propri di uomini troppo comuni. – Si osservi come molti diventano «lontani». Alle prime grandi tentazioni non hanno chi li sorregga. Quelli che sono stati avviati da una seria direzione spirituale hanno chi li sorregge. Altri ascoltano discorsi, leggono smontature e falsità e non hanno chi li riporti ad un senso critico, a risposte chiarificatrici e sufficienti. Altri sono presi nel gorgo di passioni divoratrici, di seduzioni. Altri, forse i più, mancano semplicemente di cibo spirituale e a forza di anemia sono portati alla deriva, anche non avendone una precisa coscienza. La «lontananza» comincia da qualcosa in cui noi ministri di Dio abbiamo spesso la nostra parte di negligenza colpevole. Ad ogni modo l’argomento sul come nascono le «lontananze» è tale che dovrà essere da noi ripreso. – Il ricupero dei lontani è il problema di fondo di tutta la pastorale, se si avverte che lo stato di fatto nei rapporti col mondo è di lotta accanita. Esso ha messo in opera tutto per spegnere la fede, perché gli uomini non pensino e siano suoi facili e docili strumenti, perché la materializzazione meccanica della vita arrivi a costituire od a sostituire una sorta di determinismo meccanico. Infatti il protestantesimo del XVI secolo indusse il determinismo teologico; a tappe la cosiddetta Riforma, sfuggita di mano agli stessi Protestanti, è arrivata a dare il determinismo meccanico: «gli uomini guidati dalla macchina loro creatura». In questo stato di cose – autorizzata la amoralità, quando non è oggetto di codice penale, con palese contraddizione – la battaglia è su tutto il fronte. O c’è una pastorale vitale sul modello di Cristo o le file dei lontani sono destinate ad ingrossarsi paurosamente. Ed è quello che bisogna evitare in ogni modo.

L’ideale della Chiesa

Il Concilio Vaticano II ha fatto di taluni punti pertinenti alla dottrina della Chiesa un oggetto fondamentale [ma invertendoli completamente! … questo Gregorio XVII non lo poteva scrivere! –ndr. -]. Poiché questo è derivato e dalla logica del Vaticano I e da un afflato dei Vescovi, se ne deve dedurre che la considerazione della Chiesa è impegno ed ideale sentito. – Il mondo, a modo suo, porta alla stessa conclusione; perché presta attenzione alla Chiesa; perché è sensibilissimo – cristiano e non cristiano, cattolico e non cattolico — alla presenza e funzione della Chiesa Romana. Negli ultimi tempi è significativo che tale attenzione sia rilevata, soprattutto e senza confronti per fatti similari, in occasione della morte di Papi e di elezione di Papi. Il che riguarda la Chiesa perché Romana. Si direbbe che esso, il mondo, più che in posizione di antitesi, ad onta delle sue colpe (delle quali si è parlato sopra), sia in verità in una segreta posizione di attesa. I segni non mancano. E infatti, portato ormai a considerazioni abituali sul piano mondiale, di organizzazione che si levi con unitaria imponenza spirituale, convinzione, realtà e fiamma interiore, non trova che la Chiesa cattolica apostolica romana. Forse, da questa attenzione prestata dall’esterno, noi siamo portati a considerare la Chiesa in se stessa e per se stessa un ideale. Quelli tra noi che sono, si può dire, nati colla loro vocazione, che sono fioriti sempre e solo all’ombra nella Chiesa e non hanno vissuto che pensando e volendo nei suoi termini [come il Cardinal Siri, poi dal 26 ottobre 1958 Gregorio XVII – ndr. -], non trovano nulla di strano in questo, essendo diventato per ero una seconda natura. Tuttavia l’ideale della Chiesa in un mondo che si sente monco per il suo unilaterale materialismo è cosa da considerarsi; non certo per trovare novità, ma per apprezzare e vivere il mistero del più singolare avvenimento nella vita associata umana. Noi scriviamo di questo, sia per rispondere ad una esigenza che è nei fatti; sia perché questo senso della Chiesa è potente e risolutivo fondamento della disciplina ecclesiastica e dello spirito di obbedienza; sia perché è opportuno assicurare alle formulazioni una piena esattezza dottrinale. – Intenzionalmente, invece di parlare di «piano costituzionale della Chiesa», noi parliamo di «mistero» della Chiesa ed usiamo questo termine perché il «mistero» ci porta non solo a vedere delle proposizioni di teologia come solitamente si enunciano, ma accusa delle proporzioni, delle rispondenze, dei ritmi i quali avviano ad intuire la realtà posta «oltre», e cioè il «mistero». Ecco una serie di enunciati che permettono o facilitano la percezione di tali proporzioni, ritmi, rispondenze. – Dio è vicino per presenza, essenza, potenza alle sue creature; la Provvidenza è un aspetto di questa sublime realtà. Questo è il dato fondamentale di tutto: la vicinanza di Dio alla creatura, all’uomo ed a quello che lo riguarda. Il dato (anche se non ci fosse rivelato espressamente), se si tien conto della necessità che ha la creatura del Creatore e della nessuna necessità che il Creatore ha della creatura, finisce coll’essere espressivo di un amore eterno sotto il cui calore si dipana la storia di tutte le cose. La elevazione all’ordine soprannaturale dilaterà oltre ogni misura da noi concepibile il dato di questa «vicinanza»; ma resterà nella linea di essa. La stessa elevazione non può capirsi che nella luce della verità ora enunciata. La cosa ha tale importanza che l’intelligenza degli illuministi ha cominciato di lì a demolire (in vano tentativo) il prestigio di Dio, confinandolo nella dignità di un sovrano, ma sovrano costituzionale, lontano dagli uomini e troppo grande per occuparsi minutamente delle sue creature. Tutto va posto sullo sfondo di quella «comunità divina». La «vicinanza o presenza» di Dio alle sue creature è indipendente in se stessa dal loro modo di essere, ossia dalla loro natura. Questo è ovvio; perché diversamente Dio non sarebbe più Dio. Ma l’effetto di essa nelle creature avviene secondo la loro natura anche quando la eleva. Ciò perché la «natura» delle cose rappresenta anzitutto un «ordine» di eterna sapienza e perché stabilisce la loro possibilità recettiva anche solo potenziale. E così che nel ritmo si incontra questa grande parola fondamentale e la corrispondente realtà: «Natura». – Tutte le cose che seguono correranno sempre su questi due parametri con stupendi sviluppi: vicinanza intima di Dio, natura delle cose e dell’uomo. Ma l’una e l’altra realtà non possono separarsi. – Con l’elevazione all’ordine soprannaturale, la presenza di Dio alla sua creatura acquista qualcosa di ineffabilmente nuovo. Dovunque, a studiarlo bene si troverà nell’uomo il riflesso del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Taluni elementi nel piano naturale appaiono predisposti, perché l’uomo abbia ad intendere qualcosa della superiore realtà in cui viene immesso dalla Rivelazione. Questo accade, ad esempio, coll’ordine del «relativo» nel creato, che serve da chiave per poter entrare umilmente nella analogica conoscenza del dogma trinitario. – Ma, accanto ai riflessi di una realtà soprannaturale, o superiore alla natura, perseverano le modanature richieste, in questa nuova intima vicinanza, dalla natura dell’uomo. Si comincia a vedere una «dualità» della quale troveremo tra poco una impressionante conferma. Infatti la natura umana è composta di anima e di corpo. Si capisce perché, di questa unione sostanziale, si sia occupato con fervore il Concilio ecumenico di Vienne: creature superiori spirituali creature inferiori materiali, mondo celeste e mondo terrestre si uniscono nell’uomo che acquista la caratteristica del «ponte». I ponti avvicinano e, per il fatto del corpo materiale, l’uomo non solo è legato fisicamente a tutti gli uomini (la generazione vi provvede),  porta in sé una materia che perennemente ruota, che appartiene a innumerevoli esseri successivi, che ritornerà certamente ad essere solo la sua, quella da cui si distaccherà morendo e colla quale, identica, risorgerà. Anche lui è presente a questo modo a tutti i tempi della creazione, come sta documentando la scienza genetica. Ecco come l’uomo entra nel cosmo, senza alcun bisogno, come qualcuno ha fatto, di alterare la fisionomia della verità di Cristo. Alla materia è unita l’anima, la quale è in qualche modo condizionata dalla materia. Questo condizionamento ha sempre urtato le gnosi di tutti i tempi, e le gnosi sono andate per questo fuori della realtà: la spiritualità deve accettarlo e farlo sorgente di merito, non deve rinnegarlo, o pretendere non esista. L’uomo, costituito di anima e di corpo, è per natura sociale e tende alla famiglia, e la famiglia tende alla comunità maggiore. – Quando, realizzando la Redenzione per riportare la famiglia umana alla perduta dignità e speranza, Dio volle attuare una presenza più intima tra gli uomini passò – ecco la unità del coerente disegno – attraverso il tratteggio della umana natura. Per la Incarnazione, il Figlio di Dio prese una natura umana come la nostra, ebbe un corpo ed un’anima, ebbe natura umana e natura divina. Non restò così tra gli uomini, ma dando a tutto la impronta del divino ed umano in perfetto ritmo, passò attraverso gli altri divenendo sociale: costituì la Chiesa! La Chiesa o Regno di Dio abbraccia il cielo e la terra. In terra coincide colla Chiesa cattolica. La Chiesa cattolica può essere raggiunta anche col martirio e col votum baptismi. Il disegno soprannaturale di Dio ha camminato su linee segnate dalla natura. – La Incarnazione del Verbo diventa tipo di tutto. Le due nature sono il testo sul quale si stende il fatto divino, mantenendo di questo una analogia impressionante nel ritmo. La Chiesa ha un elemento divino ed un elemento umano. Come in Cristo la natura divina non altera la natura umana e la natura umana non condiziona quella divina, così nella Chiesa. L’umanità vi è piena e può arrivare nei singoli al peccato, nei molti al difetto, all’avventura ed alla sofferenza. Ma nulla è toccato della istituzione divina. La libertà resta intatta agli individui ed alla storia. L’umanità porta con sé tutto il suo patrimonio e la sua possibile zavorra: nessuno può scandalizzarsene. Nel suo elemento di costituzione divina la Chiesa è disegnata con elementi anche noti all’esperienza umana, per quanto arricchiti di soprannaturale realtà, capacità, garanzia nonché di soprannaturali collegamenti. La costruzione della società, l’autorità, gli strumenti della autorità sono analogici a realtà terrene. Si noti bene che diciamo «analogici». La società terrena ha una comunità, una autorità centrale, ed ha società minori che sono derivanti non da diritto positivo, bensì da quello naturale: come è la famiglia che. vivendo di suo diritto inalienabile, è tuttavia subordinata alla comunità. Nella Chiesa noi abbiamo qualcosa di analogo. Le singole famiglie, le Chiese particolari poggiano sul diritto divino, e tuttavia i Vescovi loro capi, non meno delle stesse Chiese particolari, sono soggetti alla Chiesa Romana, che è quanto dire al Romano Pontefice. – Il disegno continua con lo stesso ritmo. Il Sacrificio e i sacramenti sono costituiti sempre intervenendo un elemento sensibile ed un elemento divino. La «dualità» è la misteriosa articolazione per cui tutto resta intatto alla dignità divina, tutto resta intatto alla funzione umana. La stessa Chiesa ha un’operazione ed una realtà esterna e giuridica (è società necessaria alla salvezza); ma oltre all’espressione esterna ne ha una interna: si parla infatti di appartenenza al corpo e all’anima della Chiesa. Su questa articolazione si allarga la porta del Regno di Dio, che ha una vita visibile e ne ha una invisibile, sotterranea, mirabile. – Qui occorre ritornare per un istante al punto di partenza: la presenza e la intima relazione che c’è tra le cose create e l’Increato. Nell’articolazione della «dualità» di cui si è parlato sopra, si ha la comunicazione della vita divina, la filiazione adottiva a Dio. La vita divina si dilata a tutti coloro che ne hanno i l principio e ne rispettano la legge. Ma coloro che stanno nella Chiesa acquistano una fecondità da tutti gli altri attraverso la riversibilità dei meriti. Nella comunità divina, nella grazia, nella comunicazione dei meriti per connessione a Cristo, Dio e uomo, dal cielo e dalla terra si realizza la comunione dei Santi, il Corpo Mistico di Cristo stesso. – Il Corpo Mistico sta di fronte al mondo, che corre sulla sua grande traiettoria del tempo, dello spazio, delle mutazioni. Il mondo è non solo il piccolo sfondo del grande dramma ma, constando e delle cose e degli uomini, e avendo con sé scritta la tavola della legge naturale divina, è il terreno di radicazione dello stesso dramma, il quale di quella legge ha rispettato ed impiegato le linee. Questa e non altra è la funzione cosmica rispetto a Cristo e la funzione di Cristo rispetto al cosmo, che non può andare oltre perché il cosmo è sempre ristretto nei limiti quantitativi della sua struttura. – Nel mondo e nel cosmo, la parte principale non si chiama storia delle variazioni, ma storia delle azioni degli uomini. Sì, la storia del genere umano è più grande del cosmo, e non è il caso di mettere in vergogna questa dinnanzi a quello; perché quello è solo l’ambiente ed il terreno di radicazione di questa. Anche qui il ritmo continua: la vita del cosmo non inibisce la storia del Regno di Dio che, almeno in questo ordine, ne è causa finale. Il Regno di Dio non inibisce nulla del ritmo e della libertà della storia. Influisce, certo, per amplificare i poteri di quella libertà e di quella ricchezza. – Tutte le parole che abbiamo detto, che si collegano l’una all’altra, che si riprendono in ritmo perfetto attraverso tutti gli sviluppi, hanno dietro di sé verità e realtà che si perdono all’infinito. I miracoli, la santità, l’esperienza mistica, la temerarietà delle esperienze, dalle quali solo la Chiesa esce viva, sono, come sul Tabor, piccoli sprazzi di luce rivelatrice di ben più alta grandezza. Si intravvede qualcosa oltre il disegno, si ha la certezza che esso radica all’infinito, se ne mutua lo stupore per la unità e l’articolazione, per la inalterata coerenza del ritmo; ma, ad un certo momento, si sa che la realtà continua e l’intelligenza si arresta. E il punto ove si incontra veramente il mistero. – Il mistero della Chiesa deve apparire e nella sua completezza e nell’inserzione dalla quale supera le nostre prospettive. I concetti meramente giuridici sono veri e necessari, ma solo particolari di un tutto. Dio, che solo causa senza restringere il potenziale dell’effetto creato, ha messo «dualità anche nel nostro ordine». Mondo e corpo mistico procedono di pari passo senza che sia diminuito nulla di nessuno. Come quando il Verbo entrando nel mondo lasciò vergine la Madre sua e come quando entrando nel cenacolo il giorno della Resurrezione non ebbe bisogno di aprire le porte. Così si dispiega lo stile di Dio dagli infiniti richiami in esattezza ritmica su tutti i punti della Rivelazione divina. Niente di nuovo. Ma la Chiesa bisogna abituarsi a vederla così. Se il mondo oggi ha orizzonti più ampi è anche perché noi siamo spinti dai limiti dilatati del suo paesaggio a meglio abbracciare la solennità divina del fatto che ospita. Ecco come la Chiesa diventa ideale; senza aver paura di nulla, senza mutare nulla, dando alle azioni degli uomini umili e grandi una aumentabile dimensione. Essa porta con sé il vero, unico, grande ideale della avventura umana. E per questo che sono fortunati i chiamati all’altare. Ecco perché diventano singolarmente venerabili i portatori di Cristo nel sacramento dell’Ordine, circonfusi di spirituale decoro i vescovi, di unica maestà il romano Pontefice. – Ecco perché l’arte ed il gusto non sono mai menzogneri quando, alle cose e persone di venerando decoro, di spirituale autorità, di rappresentativa maestà, prestano la loro grazia, il loro potere espressivo, il loro dignitoso commento, aiuto per la comprensione dei pellegrini in terra, modulazione d’un canto a cui solo l’eternità risponde. La Chiesa si staglia sul cosmo e non è serva del cosmo. Gli uomini, redenti da Cristo e liberi per Cristo, non hanno alcun motivo di lasciarsi impressionare dalla grandezza quantitativa del cosmo. Il mistero della Chiesa è anche il mistero della sua indipendenza dal cosmo: della sua superiorità rispetto ai confini di quello.

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GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (1)

IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (1)

  1. — Ortodossia

[Lettera pastorale scritta il 23 luglio 1963; «Rivista Diocesana Genovese», 1963, pp. 192-245.]. Introduzione e Parte Prima:

Ideali santi -A-

 Cari confratelli, se le folate di vento non si seguissero incessantemente, potremmo benissimo dispensarci dal riprendere in mano la penna sul tema della Ortodossia. Ma non è così. Lo stesso nostro Santo Padre Paolo VI nel discorso dell’incoronazione ha ritenuto di dover accennare ad «errori» anche nell’interno della Chiesa. [L’ “Illuminato” antipapa, il marrano Montini, sedicente Paolo VI, sapeva bene quel che stava succedendo nella Chiesa essendo lui il principale agente di satana che doveva, mediante la sua fasulla elezione, minare dalle fondamenta la Chiesa di Cristo – sed non prævalebunt! –ndr. -]: «Noi riprenderemo con somma riverenza l’opera dei nostri predecessori: difenderemo la santa Chiesa dagli errori di dottrina e di costume, che dentro e fuori dei suoi confini ne minacciano la integrità e ne velano la bellezza…» («L’Osservatore Romano», 1-2 luglio 1963) [che spudorate menzogne –ndr. ]. Quella augusta parola l’abbiamo ascoltata con riconoscenza a Dio, perché non potevamo avere più alto incoraggiamento a perseguire il nostro dovere di «vigilanza» sulla integrità della fede e della dottrina Cattolica nella Chiesa genovese. [Questo era il tributo che il Santo Padre Gregorio XVII era tenuto/costretto a versare ai suoi carcerieri che oltretutto gli “aggiustavano” i testi per renderlo loro complice … ma il Santo Padre riesce sempre a conservare intatta la dottrina cattolica, beffando i censori … -ndr. ]. Le folate di vento ci sono. Tra i motivi per cui ci sono, dobbiamo sottolinearne uno, che più di tutti ci lascia in ansia per il giusto indirizzo del nostro clero. Scorrendo pubblicazioni anche periodiche, italiane ed estere, siamo rimasti dolorosamente colpiti dal fatto che certuni, pur non essendo Padri del concilio [il falso concilio, quello del ribaltone dottrinale! –ndr.]] anche se ecclesiastici, si sono attribuiti prerogative che solo i Padri del concilio godono, dimenticando il rispetto dovuto alla libertà della augusta assemblea e facendo oggetto non solo di ardita discussione, ma di discutibile se non erronea proposizione, materie sulle quali possono pronunziarsi solamente il romano Pontefice o il concilio. – Non solo; molti, ecclesiastici o laici, hanno creduto di poter frivolamente trattare il concilio, i suoi personaggi e gli stessi papi che si sono succeduti, con l’allegra disinvoltura, con cui talvolta il giornalismo tratta argomenti diversi da un concilio e pertanto non segnati come un concilio da divini parametri. Abbiamo letto proposizioni sapientes hæresim, erronee, spregiudicate sia per la verità, sia per i fatti dogmatici. Abbiamo avvertito acri ventate di ribellione intellettuale e morale, forse più incauta o superficiale che malvagia, dalla quale scongiuriamo ogni giorno Iddio di preservare la nostra Chiesa genovese. Chi è attento e preparato, purché libero da faziosi entusiasmi o da intenti non chiari, comprende agevolmente che un errore o un indirizzo morale non diventano veri e legittimi per il solo fatto che molti li dicano tali, approfittando del momento in cui i Pastori, veri e soli responsabili, o sono impegnati nel concilio o debbono attendere con somma solerzia ad assicurarsi la preparazione necessaria alle discussioni conciliari. I grandi transatlantici quando passano fanno sobbalzare tutte le imbarcazioni minori che si ritrovano ad essi troppo vicine. Nessuna meraviglia che lo stesso effetto possa provenire dal fatto più grande del nostro secolo. Tocca a noi dar sulla voce e mettere in guardia. – Tuttavia noi non scriviamo solo per difendere. Scriviamo anche e soprattutto per aiutare la maturazione di questi santi fermenti che le circostanze hanno additato o sottolineato, non solo come conseguenza, ma come contenuto della Redenzione stessa. Se qualche volta dobbiamo cedere allo stimolo del pianto, dobbiamo molto più sentire quanto la munifica effusione della Provvidenza autorizzi il cantico della gioia e la operosità, cui la gioia presta il suo energico impulso. Ed è per questo che prima di trattare argomenti relativi alla difesa della ortodossia preferiamo trattare argomenti nei quali è splendida la fecondità della ortodossia.

Parte prima: Ideali santi

La grande missione assegnata dalla Provvidenza a Giovanni XXIII di santa memoria, lo diciamo per quanto ce lo consente la prospettiva storica, è stata di riportare tra gli uomini un’apertura nelle loro relazioni, comprensiva, fraterna, confidente, sottolineandola come realizzabile anche là ove gli errori obiettivamente li dividono, e realizzabile, ad un certo livello morale, senza alcun danno alla stessa verità [questa è chiaramente uno forzatura imposta, anche se viene sottilmente additata l’eresia “ecumenica” e “pastorale-non dogmatica” del falso papa, il “figlio della vedova”, il 33° Roncalli, agente dei grembiulini! –ndr. ]. – Concretando di fronte al concilio questa sua missione, Giovanni XXIII [occorre aggiungere una X e farlo diventare: Giovanni XXXIII° grado – ndr. ] ha attirato l’attenzione dei cattolici e del mondo sull’ideale ecumenico e sull’ideale pastorale della Chiesa. – Noi tratteremo ora dei due argomenti e di qualche loro importante conseguenza od applicazione. Giovanni XXIII ha fornito ai due argomenti un commento con tutta la sua vita [nelle logge! –ndr. ] e crediamo che, quando si vuol sapere che cosa egli intendesse, si debba guardare stentamente a quello che ha detto, ha scritto e soprattutto ha fatto. – Della sua predicazione abbiamo avuto una documentazione press’a poco quotidiana. E una predicazione parenetica in prevalenza, coi motivi propri della predicazione di un pastore di anime saggio, concreto, affettuoso. Sono i motivi della predicazione tradizionale, quella che sempre ha formato i veri cristiani, né presuntuosi, né equivoci, né impressionati dal mondo. Soprattutto è una predicazione dalla quale è, si può dire, assente il frasario di moda convenzionale, tanto caro a non pochi nostri contemporanei [questa è il ritratto di un “vero” Papa, naturalmente, non di un antipapa: il testo “sviolinato” è chiaramente manipolato, tanto più che oggi sappiamo bene come andarono le cose in quel 26 ottobre del 1958! – ndr.] Egli, il Papa, ha sempre parlato della fede, della speranza, della umiltà, dell’obbedienza (l’aveva nello stemma) [l’obbedienza massonica – ndr.], della fedeltà, della carità. Con tono elevato, con afflato unico e con visione universale, ricevendo gente comune, sapeva parlare, in immediata comunione di anime, come avrebbe parlato loro il migliore e più santo dei parroci. Per sé tollerava gli onori, ma come rivolti al vicario di Cristo; il suo contegno rimaneva semplice, sorridente, umile, conciliante. Per la sua Roma, finché gli fu consentito, si comportò come si potrebbe comportare il Vescovo di una diocesi non grande, che ha il potere di essere in trattenimento domestico e immediato con tutti. Andò a visitare ammalati, carcerati, ospedali, parrocchie, nell’atteggiamento di un padre, senza retorica e senza recitazioni. Per questo il popolo lo comprese, lo amò, lo pianse e, credo, lo ricorderà. Nella mente di Giovanni XXIII [33° -ndr.] era inconcepibile una pastorale che fosse una sferza contro qualcuno, un ecumenismo che si staccasse dalla limpida tradizione e prassi della Chiesa, se non per valutare e rivalutare l’umiltà, il sacrificio, la comprensione e la carità. Egli non vide mai queste cose da un livello politico, ma sempre e solo sacerdotale; vorremmo aggiungere sacerdotale con quel tipico sapore che una luminosa tradizione ha reso familiare alla sua terra di origine. Bisogna mettersi al livello degli umili per capire la grande saggezza di Giovanni XXIII nella sua missione, breve, ma dal duraturo influsso. [infatti Gregorio XVII, in un momento di “libertà”, parlerà di: danni che non sarà possibile riparare prima di 50 anni!]

L’ideale ecumenico

Fino a pochi anni fa, nell’ambito della Chiesa, il termine «ecumenico» fu sinonimo di universale o cattolico e servì soprattutto a qualificare i concili generali della Chiesa stessa. Il termine «ecumenico» servì pure fin quasi ad oggi ad indicare le iniziative sorte in campo prevalentemente protestante per realizzare una certa unione tra cristiani. Il valore del termine era evidentemente diverso da quello precedente, appunto perché poteva realizzarsi con una certa unione di ristrette esigenze. Questo ecumenismo è sempre stato tollerante con idee e massime diverse e, proprio per il buon viso che faceva ad una tolleranza molto intinta di relativismo, non ebbe, se non con profonde riserve, le simpatie dei cattolici. Lo si riguardò solamente come un principio e si rimase in attesa di attuazioni migliori e più complete. Sarebbe un errore credere che questo tipo di ecumenismo goda o possa godere oggi di un giudizio stanzialmente diverso da quello che se ne dava prima. Il termine di «ecumenico» e, almeno talvolta, perfino quello di ecumenismo» hanno assunto sfumature, anzi valore più marcato e più comprensivo. Questo lo si deve alla impronta voluta per il concilio da papa Giovanni e alla elaborazione che il concetto ha avuto nel Concilio Vaticano II [il “conciliabolo” riunito per dissolvere la dottrina cattolica pian pianino, smontandola un pezzo per volta; ricordiamo solo per inciso che un tal conciliabolo era stato ampiamente scomunicato dalla celebre bolla Exsecrabilis di Papa Pio II, che commina ancora oggi, scomuniche “ipso facto”-“latæ sententiæ” a tutti coloro che, non costretti, vi hanno partecipato a qualsiasi titolo, lo hanno favorito e ne seguono i falsi e deliranti insegnamenti! –ndr.-]  Così lo «spirito ecumenico» è quell’anelito che mira in concreto al maggiore incontro possibile, senza danno alla verità e con riguardo alla situazione obiettiva, coi fratelli separati, ma battezzati; all’incontro, sul terreno e sugli ideali comuni, con tutti gli uomini non battezzati. Ai primi, nulla sacrificando della verità e della dignità di quanto ha stabilito il Salvatore, va incontro con maggiore dono di virtù, senza affatto lasciar intendere che sia cessata la verità di fede sulla assoluta necessità della vera Chiesa; ai secondi va incontro con lo stesso metodo, guardandosi bene dal confermarli in posizione di indifferentismo religioso. Per gli uni e per gli altri resta spirito sostanzialmente missionario. Tanto per la precisione dei termini e dei concetti [come si vede il Santo Padre ha un concetto antitetico a quello dei modernisti conciliari! … i censori evidentemente dormivano a quell’ora! –ndr. -]. – Passiamo ora a richiamare i principi esplicitamente formulati da nostro Signore e relativi a tutta questa materia. Essi sono i seguenti. – Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla cognizione della verità. La Redenzione ha scopo e valore per tutti gli uomini. Chi vuol essere con Cristo, deve volere quello che vuole Lui.  Nessuno pertanto è autorizzato a fare limitazioni o a porre restrizioni: l’afflato cristiano è di natura sua universale come universale è la caratteristica assegnata dallo stesso Vecchio Testamento al tempo del Messia. La volontà di Cristo è superiore e vince contro le passioni e le concezioni particolaristiche o di vendetta che possono avere gli uomini. Né nazione, né razza, né grado di civiltà può avere valore contro questo chiaro volere del Redentore.

– Dio, pur volendo salvi tutti gli uomini, ha condizionato la loro salvezza ad elementi precisi ed impreteribili: se ne hanno l’esercizio gli uomini debbono usare della loro libertà e con questa libertà debbono prestare ossequio a quanto ha posto come strumento necessario di salvezza: la fede, la vita coerente con la fede, la soggezione alla vera Chiesa. A nessuno di noi, neppure per misericordia, è dato di alterare quanto il Signore ha stabilito. Nulla può essere indebolito di quanto riguarda la morale, nulla svincolato di quanto riguarda la Chiesa. Il giudizio sulle situazioni soggettive dei singoli uomini è proprio di Dio, e per questo sappiamo avere Iddio mezzi per i quali possono salvarsi molti uomini che non sembrerebbero sulla via della salute. È tuttavia certo, per la verità sopra esposta, che i mezzi noti a Dio non defrauderanno mai tale regola e la attueranno sempre, anche se il modo resta a noi ignoto.

– Gesù Cristo ha dato alla sua Chiesa ed ai suoi seguaci un indirizzo dinamico; li ha voluti cioè tesi sempre alla illuminazione ed alla salute di tutte le genti (cfr. Mt. 28,19; Mc. 16,15; Lc. 24,48, At. 1,8 sgg.).

– Gesù Cristo ha promulgato la legge della carità, la quale ha per oggetto, dopo Dio e per lo stesso motivo dell’amore di Dio, tutti i fratelli. Essa ha la ricchezza con cui è possibile somministrare ogni forza ed ogni ardire per superare gli ostacoli messi dagli stessi uomini e dalle conseguenze dei loro atti, contro la possibilità o facilità di farsi amare. – Lo spirito ecumenico è così nettamente definito da Cristo e, quel che più conta, è voluto da Lui. Le conclusioni sono chiare:

– l’ideale ecumenico è del Vangelo;

– non è affatto una novità, è soltanto una ripresentazione di una verità in modo più urgente per la urgenza degli avvenimenti, che rapidi si svolgono nella storia contemporanea ed invocano con insistenza più intensa luce e più caldo amore tra gli uomini, la vita di relazione dei quali cresce e si fa pericolosa;

– l’ideale ecumenico può «ispirare» un «metodo» fatto di maggiore virtù, di più forte pazienza, di più profonda comprensione; ma non può ispirare né alterazioni della verità, né falsi concetti di tolleranza rispetto ai diritti degli uomini davanti al loro Creatore. Non si può infatti essere così infrolliti da ammettere che si debbano fare riduzioni a carico di Dio ed in favore degli uomini;

– l’ideale ecumenico è di fatto un ideale missionario, che non sottolinea solo il balzo della conquista, ma anche la serenità e la pazienza del dialogo con tutti gli uomini o fuori della Chiesa o fuori dello stesso Vangelo;

– il modo migliore per snervare l’ideale ecumenico, ideale evangelico, è quello di contaminarlo con generosità ambigue, con silenzi pericolosi, con silenzi e reticenze furbe, con tolleranze di dubbia marca, le quali appartengono assai più alla debolezza od alla scaltrezza degli uomini, che non alla chiara, forte, lealissima fedeltà dei figli adottivi di Dio. – Possiamo veramente dire che l’ideale ecumenico, quale è stato lanciato da Giovanni XXIII e sentito dal Concilio [che è esattamente l’opposto di ciò che in Santo Padre ha precisato, facendo comprendere effettivamente da che parte era, e da che parte opposta si trovano anche coloro che lo criticano ancora oggi per aver aderito all’ecumenismo, evidentemente ignorando colpevolmente ed in mala fede la posizione del Sommo Pontefice, impedito e costretto a scrivere cose che però riconduceva subito sulla linea del più rigoroso cattolicesimo, eludendo con astuzia “teologica” anche il lavoro dei censori che non hanno potuto impedire la sua perfetta adesione alla dottrina cattolica di sempre – ndr. -], ha completato l’ideale missionario, aggiornandolo secondo immutabili principi di umiltà e carità alle esigenze di tempi in cui i missionari troveranno meno selvaggi, ma maggiori complicazioni proprie del materialismo pratico ovunque diffuso. – Vorremmo riflettere molto su questo e vorremmo ci riflettessero non meno quelli che sentiranno una vocazione missionaria. Questa deve perdere l’alone di avventura romantica in un mondo sognato secondo antichi e sorpassati moduli, semplificato fino alla ingenuità. Non è certo questo il nostro argomento, ma non potevamo fingere di ignorarlo, rinunciando a richiamare al sapore «nuovo» che dovranno avere le vocazioni missionarie. Ed ecco un effetto pratico, cui per ora solo accenniamo, dell’ideale ecumenico. Il mondo intero, bisognoso di luce, di amore e di perdono, diventa componente della vera pietà cristiana, dell’orazione, della considerazione dei piccoli problemi nel proprio piccolo campo o nel proprio piccolo cenacolo. Così nella immutabile verità e nella immutabile tradizione si avrà una ricchezza nuova e necessaria; la carità ne guadagnerà una sua amplificata perfezione, perché sarà aiutata a mettere in pratica «veramente» e non solo teoricamente» il precetto di amare tutti gli uomini! E tempo che le centrali missionarie non restino isolate in grandi organismi specifici, ma siano contornate da tante piccole centrali dall’umile apparenza, quanti sono i veri adoratori di Dio in spirito e verità, riuniti in modo da essere più forti del mare. – Questo è l’ecumenismo dal volto franco senza belletti, dallo sguardo quale i deboli reclamano, portatore della vera carità di Cristo [ci sembra abbastanza per poter sbugiardare apertamente tutti i vari “Giuda”, i “soloni” modernisti o ancora i peggiori falsi tradizionalisti che unanimi, salomonicamente, emettono giudizi sul Santo Padre impedito, esiliato, dimostrando così solo la loro ignoranza profonda e la ancor più grande malafede nel sostenere le loro posizioni settarie e di comodo massonicamente conseguite! –ndr.- ]

L’ideale pastorale

L’ideale pastorale ha avuto il suo momento glorioso, ha polarizzato l’attenzione di tutto il mondo. Noi vedremo che, come si è detto per l’ideale ecumenico, anch’esso, nell’alone del Concilio Vaticano, traendo la infinita ricchezza della immutabile verità e della immutabile tradizione, ha rivelato qualcosa di nuovo. E questo che vorremmo il nostro clero cogliesse anche se talvolta questo ideale pastorale, nelle intenzioni di taluno, può aver servito scopi non precisamente pastorali e intendimenti polemici. Né l’una né l’altra intenzione furono mai nella mente di Giovanni XXIII [… c’era infatti, e putroppo, ben altro! –ndr. -]. – Chiediamoci anzitutto, per non correre sull’impreciso e sul generico, che cosa sia «pastorale», avvertendo che vogliamo sapere di un termine evidentemente metaforico e che interessa solo per quanto concerne il lavoro e il metodo dei sacri ministri di Dio. – Per rispondere non abbiamo da costruire teorie. Dobbiamo soltanto leggere l’Evangelo. Gesù Cristo ha detto di essere Lui stesso il «buon pastore» per antonomasia. Se la metafora o il traslato può dare qualche indicazione, il significato vero ce lo ha messo Gesù Cristo. Vediamo allora come Egli ha concepito se stesso quale Pastore.

– Anzitutto Egli è il «buon pastore», ossia il «buono» in modo antonomastico e non solamente epesegetico. Vi prego di calcolare la diversità che c’è tra antonomastico ed epesegetico. Se li confondessimo mutileremmo la verità e snerveremmo quello che il Salvatore ha voluto dire (cfr. Gv. X,11). Dunque la «bontà» è sostanziale carattere del pastore. Lasciamo stare i cavilli esegetici possibili. Tutti comprendono che la «bontà» è fatta di amore profondo, manifestato, concreto, efficace; che affonda le radici nella intelligenza ed impiega tutto il sentimento. Il buon pastore non deroga al diritto, perché è sacro pur quello, come non deroga all’«ordine» riflesso di Dio, ma il suo livello sta più in alto di quello del diritto e non è contenibile nelle sole norme ordinarie del diritto. Il rapporto tra il pastore e le pecorelle, non disdicendo, anzi sommando tutti gli altri giusti rapporti, sta però ad un livello più alto, più luminoso, più cordiale di tutti. La bontà vuole il bene delle persone amate e con questo sta fuori dei limiti e delle remore dell’orgoglio e dell’interesse. Essa proprio perché vuole il bene suppone la intelligenza e la verità, perché solo la verità è in grado di indicare quale sia il bene. Tanto è necessario dire perché non accada di fraintendere, in modo da ritenere che la bontà del pastore sia una somma di impulsi di benevoli istinti e di sentimenti affettuosi, senza ombra di proposizioni sicure, di canovaccio provato per l’intelletto, senza il suggello di una proporzione, quale solo la verità conosciuta è in grado di dare.

– Il pastore dà la vita per le percorelle (cfr. Gv. X,11). Questo rapporto si è realizzato in modo supremo con Gesù Cristo attraverso la Incarnazione e la Redenzione ed è rapporto di «dono» totale. Per quanto riguarda il Salvatore, la Eucarestia è la espressione continuata e commovente di quel «dono totale». Osserviamo bene che cosa vuol dire da parte di Cristo «aver dato la vita per le pecorelle». Certo si intende la sua passione in Croce, ma non solo quello. Egli ha preso sopra di sé i peccati degli uomini (cfr. Is. LII,4-6) sostituendoli nella necessaria espiazione (soddisfazione vicaria). Egli ha abbassato se stesso, umiliandosi fino alla morte ed alla morte di Croce (cfr. Fil. II,8), in una obbedienza al Padre che fu il titolo della sua vita. Egli si è fatto uomo, ossia ha fatto di se stesso quello che sarebbe stato utile ed esemplare per tutti gli uomini. Colle parole «il buon pastore dà la vita per le pecorelle», Gesù ha detto molte e grandi cose e, se queste si riflettono su altri che da Lui mutuano il carattere e l’impegno di pastori, da questi esigono grandi cose.

– Il pastore conosce le pecorelle ed è riconosciuto da esse (cfr. Gv. X,14). Qui Gesù insiste sul rapporto di conoscenza, ad indicare che non è affatto bastante un rapporto di sentimento e di utilità, comunque. Ma la reciproca conoscenza indica chiaramente il regime di affinità e di intimità instaurato da Gesù Cristo.

– Il pastore pasce (cfr. Gv. X ,1 sgg.). Ossia dà alle pecorelle il necessario alla vita. Dà il tesoro del Regno di Dio.

– La qualità di pastore è trasmessa ai capi della Chiesa. Lo indicano nettamente il discorso che Gesù ha fatto a Pietro sulle rive del mare di Galilea dopo la risurrezione (cfr. Gv. XXI) e tutta la predicazione formativa degli apostoli. Naturalmente il trasferimento del concetto di pastore agli uomini eletti a far parte della gerarchia della Chiesa implica che la ragione di pastore in questi subisce l’adattamento ai limiti umani. Ma quei limiti sono onesti solo dove incontrano l’impossibile ad un singolo uomo; prima di quel punto debbono riprodurre la figura del buon Pastore divino, come del Pastore divino prolungano la missione di salvezza. – Da quanto detto deriva che a proposito di «pastore» nella Chiesa due sono le cose da considerarsi: il modo e il contenuto. Per quanto riguarda il «modo», i princìpi sono stati enunciati abbastanza al numero precedente. Per quanto riguarda il contenuto dell’azione di «pastore» il discorso deve farsi più attento. Infatti la «pastura», il «cibo» da darsi alle pecorelle è tutto il tesoro del Regno di Dio. Questo tesoro del Regno comincia dalla «semente gettata», ossia dalla predicazione della Parola di Dio, che ha come scopo immediato di dare la fede (cfr. Mt. XIII,27 sgg.; Rm. X,17). E la fede è essenzialmente un atto di intelletto. Il «pastore» deve anzitutto dare la verità rivelata, la sua certezza, con le qualità senza delle quali non esiste né certezza, né fecondità. Se trascura il patrimonio «dato» (tradizione) da Cristo alla Chiesa nella Rivelazione, potrà – il pastore – sentirsi soddisfatto di distribuire carezze, soddisfazioni ed affetti, ma non farà certamente il suo dovere. Il pastore deve dare e facilitare alle pecorelle i mezzi della grazia. Deve dare il completamento sociale e giuridico che ai fedeli viene dalla appartenenza alla società visibile della Chiesa e che essi realizzano bene solo con l’obbedienza e la riverenza. Si tratta di un pastore che deve guidare ai campi eterni. La visione del «tesoro» che deve elargire riflette su di lui una luce ed una dimensione incredibilmente grandi e giustifica perché egli, solo in grazia di un continuo sacrificio di se stesso, quello che comincia dal celibato e si matura nella sudditanza perfetta alla sacra disciplina, è in grado di essere portatore d’un simile tesoro. A portare quel tesoro non può abilitarsi chi se ne vuol stare nella levatura del semplice laico senza mettersi al necessario livello di sacrificio del proprio io e della materia con l’accettazione umile dell’obbedienza e del celibato. E nessun laico può pretendere di sostituire, o coartare, o diminuire il pastore, per il fatto che non è consacrato. – Il vero punto sostanziale per capire il pastore e il pascolo sta nell’adeguato concetto del tesoro del Regno di Dio, nell’impegno che esso adduce, nella responsabilità alla quale lega. Insomma non c’è posto per del linfatico romanticismo. La misura del pastore resta quella del buon pastore: la Croce. Volevamo dire questo: che nel Vangelo non è solamente il «modo» quello che fa da parametro alla idea di pastore, ma ancora e ben più il «contenuto» della azione pastorale, e che il «modo stesso» – amore e sacrificio portati all’ultimo dono — viene giustificato appunto dal contenuto. – Non è possibile ritenere adeguati all’Evangelo coloro che dipingono la pastoralità come cosa estranea all’interesse per la precisione dogmatica della verità di cui nutrire le pecorelle; come non è concepibile il linguaggio di coloro i quali pare ritengano il pastore una sorta di protettore bonario e condiscendente degli uomini, messo là perché li salvi e li storni dai rigori della verità, della legge di Dio e, in sostanza, dal numero maggiore di pesi. [Penso che queste e le successine considerazioni magistrali del Sommo Pontefice, eliminino ogni dubbio sulla sua presunta “connivenza” con la “pastoralità-suina” del Vaticano II e dei suoi adepti attuali. –ndr.]. Non confondiamo il «modo» adatto per portare gli uomini alla Croce col compromesso di stornarli da essa. Il pastore ha tanto bisogno del sorriso, perché è la porta più facilmente simpatica agli uomini, ma ha molto più bisogno della forza per portare sulle proprie spalle pecorelle deboli, sperdute ed ignoranti. – Ora siamo in grado di rispondere al quesito posto. La pastoralità è la imitazione di Gesù Cristo, il buon pastore. In essa il maestro vero ed assoluto è uno solo, Lui stesso. Definire la pastoralità è facile ed il criterio evidente. La definizione non può avvalersi, quasi fossero fonte prima e decisiva, di tutti gli atteggiamenti edulcorati, remissivi, romantici, sentimentali, quali è possibile trovare nella esperienza umana. La pastoralità non è materia da trattarsi col sistema col quale le prime società di assicurazione crearono l’arte e la scienza della propaganda, ispirate al criterio di piacere alla gente perché meglio accettasse il loro retribuito servizio. – Cari confratelli, ora veniamo al pratico. Se qualcuno tra voi trascurasse il catechismo, trascurasse di battersi per dare ai suoi parrocchiani l’antidoto circa gli innumerevoli errori, potrebbe avere della popolarità e della gloria, ma sarebbe un cattivo pastore. Se qualcuno di voi curasse i propri comodi e fosse contento di adempiere la legge sì da non avere mai riprensioni canonicamente orientate e nulla più volesse fare oltre la stretta legge, non desse insomma ad oltrepassare senza misura il limite del puro dovere, – ne sia ben certo – sarebbe burocrate, forse principe munifico, ma non certamente pastore. Se qualcuno di voi abbandona indebitamente e quando può il suo posto, per attendere ad altro che non sia il suo dovere, ama le vacanze, le gite, i passatempi, giustificandoli colla necessità della variazione, sarà un uomo come gli altri, non un pastore. Ed i fedeli capiranno questo assai prima di lui. Anche se non glielo diranno in faccia. – Se qualcuno di voi si mette in testa che sono gli altri a doversi adattare a lui e non lui agli altri, e pretenderà di imporre esagerati limiti di orario per essere più libero ed esigerà riguardi costosi, esimendo se stesso dal quotidiano sacrifìcio della pazienza, del silenzio, del perdono e della fatica, anche quando le pecorelle fossero ordinate e balzane, creda pure, sarà funzionario magari degno di rispetto, ma non pastore. Se crederà di essere esentato dall’andare ai singoli e gli basterà l’altare o il pergamo; se rifuggirà dal paterno e continuo accostamento della povertà e della sofferenza, per fare una continua questione di dignità e di autorità, sarà vanesio, ma non pastore. Se qualcuno di voi dimenticasse che l’accesso alla pratica qualità di pastore gli è dato dalla perfezione e dalla elevatezza della sua vita, credendosi pastore ingannerebbe se stesso. Dio passa dappertutto, e la sua grazia può fare a meno di noi. Ma la via più ordinaria è che passi attraverso il ministero sacerdotale. Ora, ciò che nell’animo dei fedeli la porta alla fiducia ed alla stima per quel mistero, sempre pastorale, è la vita virtuosa. I fedeli debbono con evidenza constatare che i pastori sono applicati ad una vita più santa dellaloro (can. 124 CJC). Se qualcuno di voi non riflettesse bene che la qualità di buon pastore, in Gesù Cristo, porta con sé la soddisfazione vicaria e non ne deducesse che egli deve pregare, espiare e sacrificarsi per le pecorelle, sostituendole quanto è possibile nel bene che omettono di fare, limiterebbe la sua concezione di pastore a qualcosa di parziale, ossia di incompleto. Questo diviene assolutamente chiaro: l’azione di pastore non si svolge solo in quegli atti qualificati che diventano «rapporti» o «vita di relazione»; essa prende tutto, soprattutto quello che non appare alla prima nella stessa vita di relazione. E qui sta la sincerità del pastore. Il clima del Concilio Vaticano II è stato propizio a ulteriormente sviluppare la dottrina sulla pastorale, senza affatto mandarla fuori del suo alveo duraturo, che è la imitazione di Cristo sommo pastore [testo manifestamente manipolato, ma il Pontefice si era espresso già in termini chiarissimi ed inattaccabili soprattutto oggi che si notano le derive pastorali della setta del “novus ordo”, con la “sponda” dei sedevacantisti e dei gallicani fallibilisti – che ha preso il posto della Gerarchia cattolica – in cui i principi qui delineati sono desueti e profondamente calpestati! – ndr. -]. – Anzitutto si è delineata una salutare reazione all’istinto mondano. Pensiamo che più d’uno si meraviglierà di questa affermazione. So bene che molti i quali hanno parlato o scritto di pastorale qua e là in questo periodo di tempo non hanno dato grande prova di avere le idee chiare, ma ne hanno parlato e questo è l’importante: che se ne sia parlato. Perché quando un argomento entra in campo e diviene discorso comune, potrà sul principio ed in qualche angolo avere un delineamento improprio, ma dopo va avanti da sé, secondo il suo peso, la sua natura, la sua obiettiva affinità. Ora l’obiettivo peso dell’argomento pastorale pende verso la definizione che in parole e in fatti ne ha dato Gesù Cristo. Ed accade così che l’argomento pastorale e l’ideale pastorale non solo sboccano sulla giusta via, ma finiscono col richiamare ad aspetti ai quali non era data la necessaria, costante attenzione. Il grande richiamo pastorale, che lentamente acquista tutta la illuminazione dall’Evangelo, mette in rilievo la dedizione, il sacrificio, la generosità, la umiltà, la pazienza, la spiritualità soprannaturale nell’amore proprio dei pastori secondo Dio. La figura viene energicamente sbalzata e crea un contrasto. Quale contrasto? Con chi? Eccolo. Tutto si fa meccanico. Tutto disegna l’ideale della comodità come quotidiano supremo appetito. Tutto tende a materializzarsi. La missione lascia il posto volentieri al funzionariato, il mondo della libertà al mondo delle accurate e predisposte programmazioni totali, il dare al pretendere, l’uomo al robot, il dono alla retribuzione, la natura all’artificio. La grande maggioranza degli uomini si giustifica dicendo che deve farsi la propria onorata sistemazione e si direbbe che tutti dicano essere ciò giustissimo. Il mondo è «pensare a se stesso». In realtà si comporta così. Il pastore non pensa più a se stesso, allo stipendio, al mangiare, al bere, alle sue vacanze; perché egli è in atto di dare giorno per giorno, goccia a goccia la sua vita per le pecorelle. Contrasto più energico non si può immaginare. Esso porta uno dei gaudiosi segreti del sacrificio dei sacerdoti: non hanno concorrenti temibili, finché danno tutto, come il Buon Pastore. Più i sacerdoti diventano rari, più diventano preziosi e insostituibili. Operai, gente disagiata spesso a pensare a voi, al di là delle parole seducenti, rimangono solo i «pastori» e rimangono in forza di quel contrasto. Spesso non abbiamo saputo sottrarci al più sapido umorismo, voltando le proposizioni o leggendo gli epifonemi di taluno sulla pastorale. Abbiamo detto tra noi: attento, perché questa è una bomba che ti scoppia in mano. Ecco come l’aver portato in primo piano l’argomento pastorale ha messo sulla via di demarcare profondamente la reazione al modo di essere del gran mondo. Questa reazione non è ancora completa, ma temiamo che lo diventerà. I santi pregano! Si è disegnata limpidamente la «unicità» nella Chiesa del senso pastorale. Fuori della sequela di Cristo, da nessuna parte si ha il coraggio di disegnare un tale contorno per coloro che prestano a parole o a fatti il loro servizio agli altri, dal primo all’ultimo gradino della scala sociale. Questi uomini, questi pastori che unici attraversano la giungla da soli, e da soli perché accettano e conservano un celibato «onesto», che proprio perché «soli» sono in grado di sacrificare tutto anche in un istante, stagliano nel cielo! La divaricazione del carattere pastorale dall’andazzo mondano diviene naturalmente divaricazione e immunità dalla patologia del mondo. Perché patologia c’è. La troppa materia, i troppi squilibri tra impegno spirituale e terreno, le violenze fatte alla normalità biologica da estranee ragioni aumentano il contingente della anormalità. L’esame di questa non appartiene per ora al nostro argomento. Qui ci interessa solo mostrare che c’è divaricazione. – Sotto la grande luce di questa visione pastorale, noi assistiamo a questo fatto: che il vero ammodernamento della Chiesa, anche se non a tutti riesce evidente, si è messo in moto e continuerà la sua strada. – Sì. Perché l’ammodernamento non sta in una imitazione del mondo, o in un adattamento delle cose nostre al mondo, il che equivarrebbe a un tradimento nei confronti di Gesù Cristo; ma nell’aumentare la forza per controbilanciare gli errori, i peccati e le debolezze del mondo in uno slancio di amore per gli uomini, attuando coll’immutabile criterio e con nuove dedizioni la figura del pastore. Di questa figura perfetta bisogna illuminare ogni cosa nella Chiesa. – Qui il Concilio cammina da sé. È dove si sente, e non è solamente qui, l’azione dello Spirito Santo. [Continua …]

 

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (11) – Eredi moderni: 1° – H. de Lubac

GNOSI: TEOLOGIA DI Satana

Gli eredi moderni

Il pensiero gnostico immanentista di H. De Lubac

Smascherato da S. S. Gregorio XVII

[G. Siri “Getsemani”riflessioni sul movimento teologico contemporaneo; Ed. Frat. SS. V. Maria, ROMA, 1980]

[In queste pagine il S. P. Gregorio XVII, già Cardinale Giuseppe Siri, smaschera con semplicità, grande competenza e sagacia, la gnosi propugnata dai tre principali modernisti della “Nouvelle Theologie”, la teologia satanica attualmente professata dalla setta massonico-vaticana del “novus ordo” degli antipapi post-cinquattottini, che ripropone tutti i punti della gnosi antica e degli sviluppi filosofici più moderni, fino ad Hegel ed all’evoluzionismo [v. in: Gnosi: Teologia di satana – n. 7, 8, 9, 10//exsurgatdeus.org]. Nonostante il Santo Padre non potesse scrivere e pubblicare liberamente, perché controllato in ogni movimento e censurato in tutto ciò che destinava a venir fuori dalla sua prigionia “dorata” e feroce, pure è riuscito a dare un quadro molto significativo di questi personaggi, falsi teologi imbonitori, farfugliatori ed affabulatori manifesti, in auge al falso e scomunicato sul nascere – bolla Exsecrabilis di Pio II – conciliabolo, il c.d. Vaticano II, usurpanti pure il cardinalato loro insignito dai pari loro “compari” teosofi ed Illuminati, e a farne cogliere il carattere panteista ed immanentista diversamente camuffato da questi tre “campioni” della gnosi del “novus ordo”. Vedremo più avanti sia la gnosi di K. Rahner che di J. Maritain, mentre iniziamo dal pensiero spudoratamente immanentista del finto cardinale H. de Lubac). – ndr.-]

 Il rapporto tra ordine naturale e ordine soprannaturale: tre casi significativi.

P. HENRI DE LUBAC

Se si torna indietro di una quarantina di anni, si vede negli scritti di alcuni teologi, un rinnovato interesse circa il rapporto tra quello che si chiamava, fino allora, ordine naturale e ordine soprannaturale. È indispensabile capire che questo non è un argomento astratto, una speculazione da «dilettante», da non poter avere conseguenze di lunga portata nel pensiero e nella vita della Chiesa. Sia in teologia che in filosofia e nella scienza sperimentale, pochi argomenti, pochi casi sono assolutamente neutri. – Il P. Henri de Lubac (HENRI DE LUBAC S. I., nato nel 1896, professore nella Facoltà teologica di Lyon-Fourvière e nell’Istituto Cattolico di Parigi, perito al Concilio Vaticano II, membro della Commissione Teologica Internazionale) aveva formulato in quel periodo considerazioni nuove, non assolutamente nuove, ma presentate con un linguaggio nuovo e con applicazioni particolari. Nel 1946 pubblicava il suo libro «Il Soprannaturale », ove è espresso tutto il suo pensiero di allora(H. D E LUBAC, «Surnaturel», Etudes historiques. Ed. du Seuil, Paris 1946). Affermava che l’ordine soprannaturale è necessariamente implicato in quello naturale. Come conseguenza di questo concetto veniva fatalmente che il dono dell’ordine soprannaturale non è gratuito perché è debito alla natura. Allora esclusa la gratuità dell’ordine soprannaturale, la natura per lo stesso fatto che esiste si identifica al soprannaturale [abbiamo già il primo campanello di allarme … la gnosi comincia a far capolino –ndr.]. Qual era la ragione addotta? Il ragionamento fondamentale può essere espresso così: l’atto intellettuale comporta la possibilità di riferirsi alla nozione dell’infinito; e per questo il soprannaturale è implicato nella natura umana di per sé. Questa visione della realtà intima ed essenziale dell’uomo era diffusa negli scritti anteriori del P. de Lubac. Ci sono brani, per esempio nel suo libro «Cattolicesimo» (H. DE LUBAC, Catholicisme, les aspects sociaux du dogme. Ed. du Cerf, Paris 1938; 4a ed. 1947), di cui non si può veramente comprendere il tenore, né l’insistenza con la quale sono messe in rilievo alcune espressioni bibliche, se non nello spirito della dottrina più tardi espressa nel «Soprannaturale». – Si resta colpiti dall’insistenza con la quale l’autore vuole dare un significato particolare all’espressione di San Paolo «rivelare in me il Figlio suo», significato che sembra andare oltre alla spiegazione ammessa da tutti gli esegeti che hanno interpretato la parola «in me» («ἐν ἐμοί»), esattamente come il Padre M. J . Lagrange(MARIE-JOSEPH LAGRANGE O.P. (1855-1938), professore di esegesi nell’Istituto Cattolico di Toulouse e fondatore dell”‘Ecole Biblique de Jérusalem”). – Il Padre de Lubac scrive: «Paolo ha pronunciato una tra le parole più nuove e più ricche di significato che mai siano state pronunciate da uomo, il giorno in cui, costretto a presentare la propria apologia ai suoi cari Galati per ricondurli sulla retta via, dettò queste parole: «Ma quando piacque a colui che sin dal seno di mia madre, mi prescelse e mi chiamò mediante la sua grazia, di rivelare in me il Figlio suo…» (Gal. I,15-16). Non soltanto – qualunque sia il prodigio esteriore di cui gli Atti degli Apostoli ci hanno trasmesso il racconto – rivelarmi suo Figlio, mostrarmelo in una visione qualunque o farmelo comprendere oggettivamente, ma rivelarlo in me. Rivelando il Padre ed essendo rivelato da lui, il Cristo finisce di rivelare l’uomo a se stesso. Prendendo possesso dell’uomo, afferrandolo e penetrando fino in fondo al suo essere, spinge anche lui a discendere in sé per scoprirvi bruscamente regioni fino allora insospettabili. Per il Cristo la persona è adulta, l’Uomo emerge definitivamente dall’universo».(H. DE LUBAC, Catholicisme, ed. cit. pp. 295-296) – Mentre, come il Padre M. J . Lagrange scrive, «in me – «ἐν ἐμοί», significa: «Per mezzo di una comunicazione intima che ha fatto conoscere a Paolo il Figlio di Dio, tesoro della sua intelligenza e del suo cuore (Fil. III, 8). Dando a «ἐν ἐμοί», il suo significato naturale, si prova nel versetto 16, non un terzo beneficio di Dio verso Paolo, ma la realizzazione nella sua anima dell’appello del versetto 15». (M. J. LAGRANGE, l’Epìtre aux Galates, Lecoffre ed., Paris 1918, p. 14)  – Il Padre de Lubac dice che il Cristo rivelando il Padre e rivelato da Lui, finisce di rivelare l’uomo a sé stesso. Quale può essere il significato di questa affermazione? O Cristo è unicamente uomo, o l’uomo è divino [Si tratta infatti, come si può facilmente arguire, del solito inganno gnostico, per cui l’uomo è Dio – come S. S. Gregorio XVII ha lucidamente sottolineato … il serpente inizia a sibilare! … –n.d.r.-]. – Tali conclusioni possono non essere espresse così nettamente, tuttavia determinano sempre questa nozione del soprannaturale in quanto implicato nella natura umana di per sé. E quindi, senza volerlo coscientemente, si apre il cammino dell’antropocentrismo fondamentale [cioè l’immanentismo gnostico, che qui il Santo Padre non poteva nominare perché censurato!- ndr.] – In generale l’argomentazione speculativa è condotta come se si escludessero i principi, le nozioni accettate fino allora come principi fondamentali della fede. Come concludere con semplicità e logica non artificiosa che il riferimento alla nozione d’infinito significa automaticamente che l’infinito sia colto? L’argomento è stato però ripreso venti anni più tardi nel libro «Il Mistero del Soprannaturale», (H. DE LUBAC, Le Mystere du Surnaturel, Aubier, Paris 1965; Ed. italiana, Il Mistero del Soprannaturale, Il Mulino ed., Bologna 1967) con sfumature e più preoccupato delle conseguenze che tali proposizioni possono rappresentare per gli spiriti [… che sentivano già puzza di zolfo –ndr.]. – È molto grave, infatti, emettere come principio che il riferimento all’ordine dell’infinito implichi che l’essenza dell’infinito sia la natura umana [è l’immanentismo antropocentrico –ndr.-]. Nessun sillogismo, sottile e complicato che sia, può colmare la differenza tra la nozione dell’infinito che l’uomo può avere in lui e la realtà infinita di Dio, positiva, presunta, sentita e nello stesso tempo inaccessibile; la differenza tra l’aspirazione verso l’infinito e questo stesso Infinito così come l’uomo lo concepisce. Certamente si può affermare che l’aspirazione dell’uomo verso l’eternità esprime la finalità eterna dell’anima creata, la possibilità per l’uomo di partecipare, nella grazia, a mille illuminazioni della Vita eterna, ma non si può dire che questa nostalgia implichi che l’uomo esista sin dall’eternità e che possa possedere la pienezza eterna di Dio [chiarissimo è il pensiero di Gregorio XVII nello stroncare lo gnosticismo immanentistico del falso teologo cattolico, l’infiltrato modernista che, in forma velata, ripropone le solite manfrine del “cornuto” primordiale – ndr. -]. Allo stesso modo, la nozione dell’infinito, l’aspirazione verso l’infinito esprimono la possibilità per l’uomo di entrare in contatto continuo con l’infinità di Dio [il pleroma gnostico – ndr.]. Non si può dire, però, che questa aspirazione dell’uomo verso l’infinito significhi che l’uomo possa partecipare per identità all’infinità divina. In questa aspirazione dell’uomo verso l’infinito sono sempre presenti la nozione e la certezza dei nostri limiti. Il nostro cammino può essere interminabile, ma la stessa essenza del nostro cammino verso l’infinito manifesta la differenza tra la nostra nozione, la nostra partecipazione e l’Infinito Divino. Nel 1950, quattro anni dopo la pubblicazione del «Soprannaturale», è stata emessa dalla Chiesa l’Enciclica di Pio XII «Humani Generis». Ed a proposito di queste concezioni Pio XII dice espressamente in questa enciclica: «Alcuni deformano la vera nozione della gratuità dell’ordine soprannaturale, quando pretendono che Dio non può creare esseri dotati d’intelligenza senza chiamarli e ordinarli alla visione beatifica». (cf. Denz. 3891). Indipendentemente dal consenso o dalle critiche sollevate da questa enciclica, è incontestabile che Pio XII fu il primo a mettere il dito sul punto estremamente delicato e pericoloso di questa definizione dell’uomo e dei suoi rapporti con Dio [nella enciclica Pio XII cita espressamente il panteismo e l’immanentismo … aveva ancora libertà di espressione e non poteva essere censurato – ndr.-]. Se Dio quando crea imprime nella creatura ciò che abbiamo concepito come soprannaturale, allora cambia la nozione di questo soprannaturale e della gratuità; da cui deriva, malgrado tutti gli sforzi per professare la gratuità dell’atto creatore di Dio, una moltitudine di considerazioni sull’uomo, sulla sua libertà, sulla grazia, sui rapporti dell’uomo con Dio, sulla libertà dell’uomo e sulla libertà di Dio, ecc…. Considerazioni che possono condurre anche – come spesso hanno condotto – al capovolgimento dei principi essenziali della Rivelazione. Facilmente questa non gratuità dell’ordine soprannaturale – per ogni singolo caso – conduce ad una specie di monismo cosmico, ad un “idealismo antropocentrico”. [Il Santo Padre deve inventarsi etichette non censurabili per evitare termini chiaramente gnostici –ndr.-]  Nel suo nuovo libro «Il Mistero del Soprannaturale», il Padre de Lubac spiega alcune insufficienze d’espressione del suo primo libro «Il Soprannaturale», ma sostiene sempre la stessa tesi e vuole soltanto evitare nuovi malintesi [ma gli inganni sono i medesimi –ndr.]. (Il Mistero del Soprannaturale, p. 76.) – Egli produce e intreccia, con una sorprendente sagacità sillogismi e speculazioni, nello sforzo di equilibrare i due concetti: da un lato il soprannaturale implicato nella natura sin dalla creazione [cioè il panteismo! – ndr.-], e dall’altro la gratuità del soprannaturale, della grazia. Si preoccupa di respingere l’accusa dell’«Humani Generis»… Chi ha letto il suo libro si accorge chiaramente di questa preoccupazione del P. de Lubac e sicuramente formulerà la stessa domanda, posta dallo stesso P. di Lubac verso la fine del libro: «Per quale ragione ci dilunghiamo invano su questo argomento con tanti discorsi e moltiplichiamo inutilmente tante frasi e diciamo una tale moltitudine di parole? [l’affabulazione è stata una caratteristica dello gnostico ingannatore al servizio del “cornuto”! –ndr. ] («Ut quid in vanum hanc materiam in tot sermones prorumpimus, et frustra tot eloquia multiplicamus et in tantam verborum multitudinem jacimus?». – Il Mistero del Soprannaturale, p. 308 -). – «Ecco forse, continua de Lubac, quello che più d’un lettore avrà potuto dire, scorrendo questo lavoro! Ecco, ad ogni modo, quello che l’autore non ha potuto mancare di domandarsi assai spesso, al seguito d’un discepolo medievale di Sant’Agostino e di San Tommaso che un giorno s’interrogava in tal modo, precisamente a proposito del nostro argomento».(Il Mistero del Soprannaturale, p. 308, citazione d’Egidio Romano). – Un umile interrogativo; la risposta però che lo stesso P. de Lubac dà più sotto alla sua domanda lascia perplessi: «La risposta è scritta nella natura della nostra intelligenza, che non può ricevere la rivelazione divina senza che subito sorgano in essa mille questioni, che si generano l’una dall’altra. Essa non può fare a meno di rispondervi. Ma nelle sue spiegazioni, sempre barcollanti, per quanto avanti sembri andare, sa di non andar mai incontro a terre sconosciute». (Il Mistero del Soprannaturale, p. 308) Questa risposta del P. de Lubac rivela i suoi criteri riguardo alle vie della conoscenza ed anche il suo atteggiamento intellettuale riguardo al grande problema dei rapporti tra l’uomo e Dio. Questo spiega l’impossibilità di trovare per questa via l’equilibrio di cui abbiamo parlato ed una conoscenza che, in armonia con la Rivelazione, con la miseria e la profonda aspirazione dell’uomo, dia pace. I nostri criteri riguardo alle vie della conoscenza sono veri ed oggettivi quando scaturiscono e sono in armonia stabile, chiara e immediata con i grandi dati eterni della Rivelazione. In ogni caso, il P. de Lubac parla di un «desiderio naturale assoluto» della visione di Dio [… cioè il desiderio dello gnostico del ritorno al “pleroma” –ndr.-]. Questa nozione del desiderio naturale assoluto scarta, malgrado tutti gli sforzi speculativi impiegati, la gratuità del soprannaturale, cioè della visione beatifica. Ed in questo «l’intelligenza» a cui sopra si riferisce il P. de Lubac non può essere da solo di grande aiuto. Infatti resta l’antinomia. Essa resta ed ha avuto conseguenze molto grandi nelle coscienze. – Per rendersi conto dell’orientamento generale del pensiero e del linguaggio del P. de Lubac e del suo ruolo nella nuova teologia contemporanea, ed anche per rendersi conto di come resti l’antinomia, di cui abbiamo parlato [cioè tra panteismo gnostico e la rivelazione nella teologia cattolica – ndr.-], basti riferirsi ad alcune formule e ad alcune affermazioni fondamentali del «Mistero del Soprannaturale»:

– Primo tipo di affermazioni:

«Il “desiderio di vedere Dio” non potrebbe essere eternamente frustrato senza una sofferenza essenziale». (Il Mistero del Soprannaturale, p. 80) – «La vocazione di Dio è costitutiva. La mia finalità di cui questo desiderio è l’espressione, è scritta nel mio essere stesso, tale come è posto da Dio in questo universo. E, per volontà di Dio, io non ho oggi altro fine reale, cioè realmente assegnato alla mia natura e offerto alla mia adesione – sotto qualsiasi forma ciò si verifichi – che quello di ‘vedere Dio’». (II Mistero del Soprannaturale, p. 80) – «In altri termini: il vero problema, se ce n’è uno, si pone per l’essere, la cui finalità è ‘già’, se si può dire tutta soprannaturale, poiché tale è, in effetti, il nostro caso. Si pone per la creatura per la quale la ‘visione di Dio’ imprime non soltanto un fine possibile, o futuribile – persino il fine che conviene di più – ma il fine che, a giudicare umanamente, sembra dover essere, poiché è, per ipotesi, il fine che Dio assegna a questa creatura. Dal momento che io esisto, ogni indeterminazione è tolta. E qualunque cosa sarebbe potuto essere prima, o qualunque cosa esso sarebbe potuto essere in un’esistenza realizzata in modo diverso, nessun’altra finalità sembra ormai per me possibile che quella che si trova ora, di fatto, iscritta nel fondo della mia natura. Esiste un solo fine di cui, per conseguenza, porto in me, consapevole o no, il ‘desiderio naturale’».(Idem, pag. 82). E, a questo proposito il P. de Lubac afferma la corrispondenza del suo pensiero con la dottrina dell’«esistenziale soprannaturale permanente, pre-ordinato alla grazia» del P. Karl Rahner, di cui parleremo più oltre. (p. 82, nota 4) [sarà il prossimo gnostico cattolico-fasullo di cui ci occuperemo a breve –ndr.- ]

– Secondo tipo di affermazioni:

«Il nostro Dio è ‘un Dio che sorpassa ogni capacità di desiderio’ (Ruysbroeck). È un Dio, nei confronti del quale sarebbe blasfemo e folle supporre che alcuna esigenza di qualsiasi ordine possa mai imporglisi, qualunque sia l’ipotesi nella quale uno voglia porsi in spirito, e qualunque sia la situazione concreta nella quale si possa immaginare la creatura» (pag. 306). – «Dio avrebbe potuto rifiutarsi alla sua creatura proprio come Egli ha potuto e voluto donarsi. La gratuità dell’ordine soprannaturale è particolare e totale. Lo è in se stessa. Lo è per ciascuno di noi. Lo è in rapporto a ciò che per noi, temporalmente e logicamente, lo precede. Anzi – ed è questo che alcune teorie, che noi abbiamo discusso, non ci è sembrato lascino vedere abbastanza – questa gratuità è sempre intatta. Lo resta in ogni ipotesi. È sempre nuova. Resta in tutte le tappe della preparazione del Dono, in tutte le tappe del Dono stesso. Nessuna «disposizione», nella creatura potrà mai, in nessuna maniera, legare il Creatore. Constatiamo qui con gioia l’accordo sostanziale non soltanto di sant’Agostino, di san Tommaso e degli altri antichi, ma anche di san Tommaso e dei suoi commentatori, a cominciare dal Gaetano [si vede che il De Lubac leggeva con un vocabolario macchiato o con molte pagine mancanti … -ndr.- ]; come anche di teologi che, nel nostro stesso secolo, divergono più o meno nei loro tentativi di spiegazione. Come il dono soprannaturale mai in noi è naturalizzabile, mai la beatitudine soprannaturale può divenir per noi – qualunque sia la nostra condizione reale o semplicemente pensabile – una meta ‘necessaria ed esigibile’».(pag. 307) – Solo queste affermazioni, citate come esempio, sarebbero sufficienti per mettere in evidenza l’antinomia e il vicolo cieco nel quale il P. de Lubac fa entrare il pensiero ed il cuore, nel tentativo di fondare la sua propria dottrina riguardo al soprannaturale [il Santo Padre sembra che da un momento all’altro sbotti nel denunciare apertamente l’eresia panteista del de- “perito” del concilio … ma gli verrebbe censurata e lancia quindi segnali comprensibili a chi conosce lo gnosticismo …-ndr-] Si sollevano numerose questioni senza possibilità di risposta o di un orientamento del pensiero che dia pace. Come capire per esempio che il mio «fine reale» – cioè «vedere Dio» – è «assegnato alla mia natura »? [tradotto in “gnostichese” vuol dire; il ritorno della scintilla divina al pleroma!] E che allo stesso tempo è offerto alla mia adesione? Quando accade questo? Al momento della mia creazione, o dopo durante il tempo della mia vita terrestre? Se accade al momento della mia creazione, come posso scegliere la mia adesione? Se avviene dopo, durante la mia vita, come posso dire che «la vocazione di Dio è costitutiva» cioè la mia vocazione alla visione di Dio è una parte integrante della creatura che sono? – Se «dal momento che esisto, ogni indeterminazione è tolta», come potrebbe aver luogo allora la mia adesione dopo i primi momenti della mia esistenza? Infatti, se tutto è determinato in modo assoluto, come insiste de Lubac, non c’è la possibilità per me di adesione o di non adesione. [il Santo Padre smonta pezzo su pezzo la fragile costruzione suggerita dal “serpente primordiale” agli gnostici di ogni tempo –ndr. -]. – Se porto in me, anche senza averne coscienza – come dice il P. de Lubac – il «desiderio naturale», com’è offerto questo fine alla mia adesione? Il P. de Lubac ripete che Dio poteva non crearmi. Ha però voluto crearmi. Allora ci si può chiedere: una volta che mi ha creato, come posso dire che non è impegnato, sin dalla mia creazione, a darmi la gioia di vederlo, poiché il desiderio naturale assoluto di vederlo, l’ha messo Egli stesso al centro del mio essere col suo atto creativo?» – Se ammetto che con il suo atto creativo Dio è impegnato e non può rifiutarmi il mio compimento, cioè la gioia di vederlo, come potrei dire che «la gratuità dell’ordine soprannaturale è particolare e totale; lo è in se stessa, lo è per ciascuno di noi»? Si potrebbe anche pretendere che la gratuità dell’ordine soprannaturale è la gratuità della creazione, cioè ammettere l’identità dell’ordine naturale e soprannaturale; questo però il P. de Lubac non vuole ammetterlo. Accetta che ci sia la grazia della creazione e che a parte ci sia la grazia della chiamata soprannaturale. – Come possiamo dire che «nessuna disposizione nella creatura potrà mai in nessuna maniera legare il Creatore»! e nello stesso tempo dire che «la vocazione di Dio è costitutiva»? Tale «disposizione», infatti, il Creatore l’ha imposta alla creatura. Come dunque proporre che «la propria disposizione di Dio non lo lega in nessuna maniera»?! – Quale idea potremmo avere allora del Creatore e della sua suprema libertà? – Non è né logicamente né spiritualmente conveniente presentare in tutti i modi – com’è nel caso della citazione del P. de Lubac sopra riportata – che Dio non è stato obbligato a crearci così come ci ha creati, per affermare la gratuità dell’ordine soprannaturale; non è conveniente, perché è confondere i problemi e le realtà. Dire infatti, che avrebbe potuto rifiutare di donarsi alla sua creatura, come ha potuto e ha voluto farlo, è come parlare dell’inizio della creazione dell’uomo, perché la frase significa che Dio ha già scelto di donarsi. E quando parliamo della gratuità dell’ordine soprannaturale, parliamo di tutte le grazie e di tutti gli interventi di Dio nella nostra vita terrestre, ciò senza nessun merito e nessuna possibile esigenza da parte nostra. Se «dal momento che esisto, ogni indeterminazione è tolta», cioè se tutto è iscritto nell’uomo sin dal momento della sua creazione e in modo assoluto, come dice il P. de Lubac, come la creatura non avrebbe un’esigenza per gli appetiti in essa iscritti, e come concepire che il Creatore di questi appetiti e di questi desideri «non sia legato in nessun modo»? – Ci si può porre un’infinità di tali domande che si estendono a tutti i domini e sotto parecchie angolature, dalla definizione del soprannaturale fino alle più evidenti e pratiche conseguenze nella vita della Chiesa. Più tardi, però, ed in una prospettiva più globale, si potrà meditare più profondamente sull’insieme di questo grave problema. Per il momento, è sufficiente non dimenticare questo: se si può dire che l’uomo sin dalla sua creazione porta la possibilità di ascoltare la chiamata di Dio per il fine soprannaturale al quale è destinato, non significa che questa possibilità di ascoltare sia già la chiamata, e che il soprannaturale al quale l’uomo è chiamato sia già presente in lui. [Con questo è totalmente smascherato il “perito”, anzi  il “deperito” del Vaticano II, finto-teologo di punta della Nouvelle Théologie”, e  “modello” eretico del modernismo-“Novus ordo” figlio naturale della gnosi “evoluta” da Platone, a Pitagora, ai neoplatonici alessandrini, Marcione e coeretici, ai filosofi del “rinascimento del paganesimo”, a Cartesio, fino ad Hegel, Marx, ai teosofi e ai teologi modernisti, ai De Lubac & C., a J. Ratzinger ed agli “illuminati” delle conventicole del Vaticano. – ndr. -]

FESTA DI TUTTI I SANTI

FESTA DI TUTTI I SANTI

Santa MESSA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]
Ps XXXII:1.
Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.
[Esultate nel Signore, o giusti: ai retti si addice il lodarLo.]

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui nos ómnium Sanctórum tuórum mérita sub una tribuísti celebritáte venerári: quǽsumus; ut desiderátam nobis tuæ propitiatiónis abundántiam, multiplicátis intercessóribus, largiáris.
 [O Dio onnipotente ed eterno, che ci hai concesso di celebrare con unica solennità i meriti di tutti i tuoi Santi, Ti preghiamo di elargirci la bramata abbondanza della tua propiziazione, in grazia di tanti intercessori.]

Lectio
Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli.
Apoc VII:2-12
In diébus illis: Ecce, ego Joánnes vidi álterum Angelum ascendéntem ab ortu solis, habéntem signum Dei vivi: et clamávit voce magna quátuor Angelis, quibus datum est nocére terræ et mari, dicens: Nolíte nocére terræ et mari neque arbóribus, quoadúsque signémus servos Dei nostri in fróntibus eórum. Et audívi númerum signatórum, centum quadragínta quátuor mília signáti, ex omni tribu filiórum Israël, Ex tribu Juda duódecim mília signáti. Ex tribu Ruben duódecim mília signáti. Ex tribu Gad duódecim mília signati. Ex tribu Aser duódecim mília signáti. Ex tribu Néphthali duódecim mília signáti. Ex tribu Manásse duódecim mília signáti. Ex tribu Símeon duódecim mília signáti. Ex tribu Levi duódecim mília signáti. Ex tribu Issachar duódecim mília signati. Ex tribu Zábulon duódecim mília signáti. Ex tribu Joseph duódecim mília signati. Ex tribu Bénjamin duódecim mília signáti. Post hæc vidi turbam magnam, quam dinumeráre nemo póterat, ex ómnibus géntibus et tríbubus et pópulis et linguis: stantes ante thronum et in conspéctu Agni, amícti stolis albis, et palmæ in mánibus eórum: et clamábant voce magna, dicéntes: Salus Deo nostro, qui sedet super thronum, et Agno. Et omnes Angeli stabant in circúitu throni et seniórum et quátuor animálium: et cecidérunt in conspéctu throni in fácies suas et adoravérunt Deum, dicéntes: Amen. Benedíctio et cláritas et sapiéntia et gratiárum áctio, honor et virtus et fortitúdo Deo nostro in sǽcula sæculórum. Amen. – 
[In quei giorni: Ecco che io, Giovanni, vidi un altro Angelo salire dall’Oriente, recante il sigillo del Dio vivente: egli gridò ad alta voce ai quattro Angeli, cui era affidato l’incarico di nuocere alla terra e al mare, dicendo: Non nuocete alla terra e al mare, e alle piante, sino a che abbiamo segnato sulla fronte i servi del nostro Dio. Ed intesi che il numero dei segnati era di centoquarantaquattromila, appartenenti a tutte le tribú di Israele: della tribú di Giuda dodicimila segnati, della tribú di Ruben dodicimila segnati, della tribú di Gad dodicimila segnati, della tribú di Aser dodicimila segnati, della tribú di Nèftali dodicimila segnati, della tribú di Manasse dodicimila segnati, della tribú di Simeone dodicimila segnati, della tribú di Levi dodicimila segnati, della tribú di Issacar dodicimila segnati, della tribú di Zàbulon dodicimila segnati, della tribú di Giuseppe dodicimila segnati, della tribú di Beniamino dodicimila segnati. Dopo di questo vidi una grande moltitudine, che nessuno poteva contare, uomini di tutte le genti e tribú e popoli e lingue, che stavano davanti al trono e al cospetto dell’Agnello, vestiti con abiti bianchi e con nelle mani delle palme, che gridavano al alta voce: Salute al nostro Dio, che siede sul trono, e all’Agnello. E tutti gli Angeli che stavano intorno al trono e agli anziani e ai quattro animali, si prostrarono bocconi innanzi al trono ed adorarono Dio, dicendo: Amen. Benedizione e gloria e sapienza e rendimento di grazie, e onore e potenza e fortezza al nostro Dio per tutti i secoli dei secoli.]

Omelia I

(Omelia di S. S. Gregorio XVII – S. Messa 1973)

Cari fedeli, oggi, festa di tutti i Santi, abbiamo ascoltato dal Vangelo (Mt V, l-12a) il codice della santità, perché il codice della santità è questo. Mi sia concesso di invitarvi a considerare che molte altre cose che si dicono non sono il codice della santità [soprattutto quel che si dice dal Vaticano II in poi! – ndr.-]; il codice sta qui nelle otto beatitudini, non altrove. Ma non è sul Vangelo che oggi voglio attirare la vostra attenzione, bensì sulla prima lettura. La prima lettura è tolta dal capitolo VII (vv. 2-4.9-14) del libro dell’Apocalisse di Giovanni l’Apostolo. È una visione che lo stesso Giovanni ha avuto nell’isola di Patmos; fa parte di un gruppo di cinque visioni. – Questa visione è reale nel senso che il veggente vide realmente queste cose che avete sentito, ma è simbolica perché le cose che Giovanni ha visto e riferisce sono semplicemente il simbolo di altre e più alte. Ho detto: sono simboliche; che cosa è il simbolo? Il simbolo è una cosa che si vede, ma richiama in mente un’altra che è invisibile, e nel caso nostro è invisibile perché è troppo grande, non perché è nascosta, ma perché sta ad un livello diverso da quello nel quale stiamo noi e le nostre potenze conoscitive. Pertanto, quello che vorrei farvi notare, data la definizione del simbolo, è che quello che è indicato dalla visione concessa all’Apostolo è immensamente più alto, più grande. Quando siamo dinnanzi a questi simboli, siamo lanciati verso l’infinito e l’eterno, e questo fa capire perché nell’orazione mentale, alla quale tutti i fedeli sono chiamati, non c ‘ è una sponda sulla quale ci si debba arrestare, perché possiamo camminare nell’orazione mentale meditativa tutta la vita senza toccare le sponde, tanto è grande quello che è messo in nostra cognizione da Dio. – Ma messo chiaro questo, dico: questa visione dell’Evangelista che cosa presenta a noi? Mi riferisco alla seconda parte. Nella seconda parte l’Evangelista riferisce la liturgia eterna, cioè porta l’anima nostra – non dico lo sguardo – a ripensare alla vita eterna, al Paradiso, nel quale stanno i Santi. La vita eterna non è essenzialmente un luogo; lo potrà essere in tanto in quanto ci sono delle cose estense, quantitative – come è il corpo umano di Gesù Cristo e della Vergine Santissima assunta in Cielo -, ma il Paradiso, la vita eterna, non è tanto un luogo, quanto uno stato, un modo di essere. E noi qui abbiamo assistito a questa liturgia eterna. Noi potremmo pensare indefinitamente a quello che abbiamo sentito nel libro dell’Apocalisse, ma attenti: la sponda non la tocchiamo! Oggi, il giorno dei Santi – e sotto questo punto di vista la festa dei Santi ha una ragione di principato su tutta la liturgia dell’anno – invita a pensare al Paradiso. – Vedete, cari, le cose che ci aspettano, se meriteremo di salvarci l’anima, sono talmente grandi che le cose più stupende, che possono essere chieste dalla nostra immaginazione e della nostra fantasia, sono soltanto dei simboli. Diceva bene S Francesco d’Assisi: “Tanto è il bene ch’io mi aspetto che ogni pena mi è diletto”. Aveva ragione! E la vita eterna dove sono i Santi – anche i nostri parenti che sono santi sono tra i Santi -, la vita eterna è cosa che trascende ogni simbolo della stessa Sacra Scrittura ed è il vero riferimento della vita umana. Vedete: quando si pensa alla vita eterna – e qui si vede il crimine che compiono coloro che non ne parlano! [cioè i falsi cattolici modernisti –ndr.] -non c’è più nessuna difficoltà ad osservare la legge di Dio; tutto diventa incredibilmente piccolo; le difficoltà vengono perché non si pensa alla liturgia eterna, alla quale un giorno arriveremo anche noi. Non c’è più difficoltà a portare la croce, non c’è più difficoltà ad abbracciarla, abbracciarla come il centro delle nostre delizie: cambia proporzione e volto ogni esperienza di questo mondo. Ma tutto ciò accade nella misura in cui questa liturgia eterna è presente a noi. Quando Giovanni ha visto la visione ed è lì tutto trasecolato, poveretto anche lui – allora, non ora! -, il vegliardo gli chiede: “Hai visto, hai capito?” E dà la risposta: “Costoro con le vesti bianche sono coloro che vengono dalla grande tribolazione”. Evidentemente Giovanni alludeva non solo a tutti i Santi, ma ai molti martiri delle due persecuzioni che già erano passate, quella di Nerone e quella di Diocleziano, della quale fino a un certo punto era stata vittima lui stesso. Traduciamo in forma teorica. Cosa dice il Vecchio? Dice questo: la vita eterna è il riflesso di quello che è stato portato, accettato, sofferto, nella vita presente; dà il concetto della vita. Che vale questa vita destinata a morire, se non perché si riflette tutta nella vita eterna, tutta? I momenti fissati dal merito, gli atti decorati dalla libertà cosciente, il tempo e le circostanze assunte dai medesimi riflessi nell’eternità: questo è il concetto della vita. Al di fuori di questo concetto, o prima o poi, o in superficie o in profondità, non c’è che la disperazione, che è quella che leggiamo negli occhi di troppi nostri fratelli ai quali vogliamo bene. – Cari, il giorno dei Santi ci porta lassù. Con la mente sarà bene restarci e, possibilmente, non discenderne mai!

Graduale
Ps XXXIII:10; 11
Timéte Dóminum, omnes Sancti ejus: quóniam nihil deest timéntibus eum.
V. Inquiréntes autem Dóminum, non defícient omni bono. [Temete il Signore, o voi tutti suoi santi: perché nulla manca a quelli che lo temono.
V. Quelli che cercano il Signore non saranno privi di alcun bene.]

Alleluja

(Matt. XI:28)
Allelúja, allelúja – Veníte ad me, omnes, qui laborátis et oneráti estis: et ego refíciam vos. Allelúja.
[Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi: e io vi ristorerò. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt V:1-12
“In illo témpore: Videns Jesus turbas, ascéndit in montem, et cum sedísset, accessérunt ad eum discípuli ejus, et apériens os suum, docébat eos, dicens: Beáti páuperes spíritu: quóniam ipsórum est regnum cœlórum.
Beáti mites: quóniam ipsi possidébunt terram. Beáti, qui lugent: quóniam ipsi consolabúntur. Beáti, qui esúriunt et sítiunt justítiam: quóniam ipsi saturabúntur. Beáti misericórdes: quóniam ipsi misericórdiam consequéntur. Beáti mundo corde: quóniam ipsi Deum vidébunt. Beáti pacífici: quóniam fílii Dei vocabúntur. Beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam: quóniam ipsórum est regnum cælórum. Beáti estis, cum maledíxerint vobis, et persecúti vos fúerint, et díxerint omne malum advérsum vos, mentiéntes, propter me: gaudéte et exsultáte, quóniam merces vestra copiósa est in cœlis.”

[In quel tempo: Gesú, vedendo le turbe, salí sulla montagna. Sedutosi, ed avvicinatisi a Lui i suoi discepoli, cosí prese ad ammaestrarli: beati i poveri di spirito, perché di questi è il regno dei cieli. Beati i mansueti, perché possederanno la terra. Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di questi è il regno dei cieli. Beati siete voi, quando vi malediranno, vi perseguiteranno, e, mentendo, diranno di voi ogni male per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.]

Omelia II

Mirabilis Deus in Sanctis suis. (Ps. LXVII, 36)

[A. Carmignola: Stelle Fulgide; SEI. –Torino, 1904]

I.

La Chiesa celebra oggi la solennità di tutti i Santi, solennità, che trae origine dalla Consacrazione, che si fece qui in Roma del Panteon, ad onore di tutti i Santi. Questo stupendo edificio innalzato da Menenio Agrippa, genero dell’imperatore Augusto, era stato dedicato a tutti gli dèi falsi e bugiardi del paganesimo. Ma sul principiare del secolo VII essendo stato ceduto dall’imperatore Foca al sommo pontefice S. Bonifacio IV, questi lo purificò ed aperse al culto cristiano, consacrandolo alla SS. Vergine e a tutti i SS. Martiri, ordinando che se ne facesse la festa al 13 di maggio. Ma Gregorio IV nell’anno 834 estese questa festa a tutti i Santi e Sante del cielo, da celebrarsi non solo in Roma, come erasi fatto sino allora, ma per tutto il mondo cristiano, assegnandole il 1° novembre. E ben a ragione, perciocché essendo il numero dei Santi pressoché infinito, e non potendosi nel corso di un anno celebrare la festa di ciascun santo in particolare, era conveniente con una solennità ad onore di tutti celebrare anche quelli, che nel corso dell’anno sono in certa guisa forzatamente negletti, E tanto più perché una tale solennità servendo efficacemente a fermare il nostro pensiero sulla grande meraviglia divina, che sono i santi, ci avrebbe indotti altresì a lodare e ringraziare il Signore d’aver santificati i suoi servi in terra e d’averli coronati di gloria in cielo, a riconoscere la loro grandezza e la loro potenza e ad onorarli ed invocarli, a ricordare gli splendidi e salutari esempi, che essi ci hanno dato in ogni età, in ogni sesso e in ogni condizione, e ad imitarli colla memoria della grande ricompensa, che ora essi godono in paradiso. – Perciocché se Iddio è veramente ammirabile in tutte le sue opere, lo è senza dubbio in modo particolare nei suoi santi: Mirabilis Deus in sanctis suis. Egli è ammirabile nella loro predestinazione, ammirabile nella loro vocazione, ammirabile in tutta l’economia della loro salute, ammirabile nella loro gloria e nella loro beatitudine, ma ammirabile sopra tutto, come nota S. Leone Magno, per averci dato in essi dei protettori e degli esemplari: Mirabilis Deus in sanctis suis, in quibus et præsidium nobis constituit et exemplum. – Entriamo dunque oggi nelle mire sapienti della Chiesa e, fissando lo sguardo sopra i Santi tutti del cielo, animiamoci a compiere i tre principali doveri che abbiamo verso di essi. – E voi, o Vergine Santissima, amabile S. Giuseppe, Angeli e Santi tutti del Paradiso, con la intercessione vostra presso Dio rendete fruttuose le nostre considerazioni: Omnes sancti et sanctæ Dei, intercedete prò nobis.

II

L’Apostolo S. Giovanni nella sua divina Apocalisse vide una moltitudine di Santi di ogni nazione, di ogni popolo e di ogni lingua, rivestiti di candide stole e recanti nelle loro mani delle palme, simbolo della vittoria da loro riportata sopra il demonio, sul mondo e sulla carne. Questi Santi tutti stavano dinnanzi al trono dell’ Altissimo, e pieni di gioia benedicevano, glorificavano e ringraziavano il Signore e l’Agnello, cioè Gesù Cristo, riconoscendo, come osserva S. Agostino, che nel mondo essi vinsero la prova delle tribolazioni, onde furono assaliti, non già per propria virtù, ma coll’aiuto di Dio, e che nel Cielo essi posseggono quella gloria ineffabile per i meriti dello stesso Signore Gesù Cristo. Epperò lo stesso Apostolo S. Giovanni vide ancora che i Santi deponevano le loro corone a pie’ del trono di Dio e si gettavano colla faccia per terra innanzi all’Agnello, adorando Lui che vive per tutti i secoli. Eziandio gli Angeli come custodi ed amici dei Santi prendevano parte alla loro allegrezza, e intorno al medesimo trono di Dio facevano eco alle loro voci dicendo: « Sempre e per tutti i secoli sia benedizione, gloria, lode, onore e rendimento di grazie a Dio nostro Signore ». – Ecco adunque il primo nostro dovere nella presente solennità, e in tutte le feste dei Santi: unire le nostre voci a quelle degli Angeli e Santi medesimi, e lodare, glorificare e ringraziare Iddio, perché con la sua gratuita misericordia li ha eternamente eletti e predestinati a quella gloria, che ora godono in Cielo; perché nel tempo della loro vita mortale li ha chiamati al suo santo servizio e li ha giustificati in virtù dei meriti di Gesù Cristo, Agnello immacolato, ricolmandoli delle grazie e dei doni dello Spirito Santo, e finalmente li ha coronati di onore e di gloria nel suo celeste regno in Paradiso. Uniamo adunque le nostri voci con quelle degli Angeli e degli Arcangeli, dei Troni e delle Dominazioni e di tutta la corte celeste, e cantiamo anche noi l’inno della gloria di Dio, dicendo: Santo, Santo, Santo è il Dio di Sabaoth. Pieni sono della tua gloria i cieli e la terra: osanna nel più alto dei cieli. Benedetto tu, che sei venuto sulla terra, e vi vieni ancora ogni giorno a renderla feconda di Santi: osanna, osanna nel più alto dei cieli!

III.

Il secondo dovere, che noi dobbiamo compiere verso i Santi, si è quello di onorarli ed invocarli nei nostri bisogni, rendendo in tal guisa ad essi il culto loro dovuto. Vi hanno di coloro, i quali nel culto, che la Chiesa Cattolica ordina peri Santi, vogliono vedere una specie di idolatria. Ma che cosa è l’idolatria? Essa è un rendere a chi non è Dio il culto supremo di adorazione dovuto a Lui solo. Ora è questo forse il culto, che noi rendiamo ai Santi? No certamente. Il culto supremo di onore e di gloria è a Dio solo che lo rendiamo, e i Santi li veneriamo soltanto, non già riconoscendo in essi altrettanti Dei, ma unicamente degli uomini sommamente di noi benemeriti e da Dio stesso grandemente amati e glorificati. E qual cosa più naturale di questa? Forsechè si agisca diversamente nella civile società? Allora che in essa si tratta di uomini, che ben meritarono pei servigi resi alla patria o nel governo dei popoli, o nelle vittorie sui nemici, o nelle benefiche istituzioni, o nell’arte letteraria od in qualsiasi altra, non si sogliono essi onorare del culto civile? Non è la loro fronte, che si cinge di corona ? Non è il loro petto, che si orna di medaglie? Non è per essi, che si fanno splendide sepolture, che si intessono orazioni di lode, che. si adornano i sepolcri? E qual secolo andrà più famoso del nostro per la manìa d’innalzar monumenti, di apporre lapidi e di deporre corone? E quello che si fa e si sente di dover fare nella società civile, sarà idolatria il farlo nella società religiosa della Chiesa Cattolica? Se le fibre del cuor umano mostrano di fremere dinanzi agli eroi, non dico del valore e dell’ingegno, ma dell’audacia e dell’impostura, non dovranno esaltarsi davanti agli eroi della virtù? – Ma vedete strana logica di certa gente. Essa per le onoranze ai suoi grandi toglie persino ad imprestito il linguaggio della Chiesa, e parla ancor essa di martiri, di are sacrosante, di commemorazioni, di pellegrinaggi, di santificazione e simili; e poi grida la croce addosso a noi e ci chiama idolatri o fanatici, perché veneriamo i Santi! quei Santi, che hanno reso a Dio il più umile e rispettoso servigio, che dalla creatura si possa rendere al creatore! quei Santi, che servendo a Dio hanno pur tanto beneficato la società e la beneficano tuttora con gli esempi che ci hanno lasciati! quei Santi, che possedettero la scienza più sublime e dispiegarono il valore più eroico! E oltre ai grandi meriti, che i Santi acquistarono durante la loro vita, non sono ora per eccellenza gli amici di Dio? E chi potrà penetrare le tenerezze, che Dio ha per loro! I giusti sono per Iddio oggetto d’ineffabile predilezione fin da questa vita, nella quale vanno ancor soggetti a tante miserie e colpe veniali, sì che egli posa sopra di loro con compiacenza i suoi occhi: Oculi mei super iustos (Ps. XXXIII, 14); e non li chiama più servi, ma amici: jam non dicam vos servos, sed amicos (Ioann., XV, 15), Or che sarà adesso, che al tempo della prova è succeduto quello della ricompensa? Adesso, che dopo aver richiesto da loro obbedienza, generosità, sacrifici, ed aver tutto ottenuto, è giuntoli tempo di ricambiar tutto ciò? Ah! mirate prove di amore che Iddio dà ora a suoi Santi ! Ei li vuole con sé: Volo ut ubi ego sum, illie sit et minister meus (Ioann. XII, 26); vuole essere egli stesso la loro mercede; ergo ero merces tua (Gen. XV, 1); vuole che siano inebriati della medesima felicità, di cui Egli gode: torrente voluptatix tuæ poiabis eos (Ps. XXXV, 9). E noi potremmo amare ed onorare Iddio senza amare ed onorare codesti suoi figli prediletti? Ma alla fin fine, quando un re ama ed onora egli stesso il suo suddito, vuole forse che dagli altri sia disprezzato o per lo meno tenuto in nessun conto? Allora che Faraone costituiva Giuseppe secondo nel suo regno per avere con la spiegazione dei suoi sogni procacciata la salvezza dell’Egitto, intendeva forse di riconoscerlo per tale egli solo? E quando Assuero volle onorar Mardocheo per avergli salvata la vita, si contentò egli di onorarlo nelle chiuse stanze della sua reggia? E quando Baldassarre ebbe spiegato da Daniele l’enigma di quella scritta tremenda: Mane, Thecel, Fares, fu egli pago di dargli collane ed anelli preziosi? La storia ben diversamente ci attesta che quei sovrani non paghi di onorare essi medesimi questi uomini grandi, vollero eziandio che fossero onorati da tutti i loro sudditi, epperò mandandoli in trionfo per le città dei loro regni, li facevano precedere da un banditore che ad alta voce doveva gridare: « Così si onori colui, che il re vuol onorare!» E noi dunque non dovremo onorare i Santi, che Dio stesso tanto onora e glorifica? – Ma, soggiungono i protestanti, voi altri cattolici non ci potrete negare che nella Bibbia non si trova alcuna traccia di questo culto. E per ciò? Risponderemo noi, dovremo astenerci dall’onorare i santi? Sappiamo bene che voi pretendete che nulla debbasi fare, che non sia prescritto nella Bibbia; ma sappiamo pure che oltre al falsificare la Bibbia stessa, voi non fate poi quanto essa prescrive di fare. La Bibbia ad esempio nel Vangelo di S, Matteo al capo XVIII, versicolo decimosettimo, dice che « se alcuno non ascolta la Chiesa, ha da essere considerato come un gentile ed un pubblicano ». Or bene, quale ascolto date voi alla Chiesa? Se foste docili ai suoi santi insegnamenti, riterreste che non è la Bibbia sola, che deve formare la norma dei nostri insegnamenti, ma che oltre alla parola di Dio scritta, vi ha pure la parola di Dio venutaci per Tradizione, la quale ha la stessa autorità, perché tutta è parola dello stesso Iddio. Ed allora dalla Tradizione imparereste, che il culto dei Santi da noi rimonta sino ai tempi apostolici; che non solo ne hanno articoli espressi il Concilio Tridentino e Niceno II, ma che la pratica di questo culto si trova ancora nei cimiteri, nelle catacombe, negli oratori, nei monumenti, che innalzavansi a celebrare la memoria dei martiri, e presso dei quali recavansi per pregare i fedeli; udreste dirvi da S. Agostino, da S. Giovanni Crisostomo e ripetutamente da S. Cipriano e da Tertulliano che nei giorni anniversari della morte dei martiri offrivasi a Dio il Santo Sacrificio in loro onore; vedreste gli onori speciali tributati dalle loro Chiese a S. Pionio, a S. Policarpo, a S. Ignazio, discepoli questi ultimi degli stessi Apostoli; leggereste nelle Costituzioni Apostoliche i giorni, in cui devesi far festa per onorare gli Apostoli ed i martiri, e finalmente ricavereste l’uso di questo culto dagli stessi eretici Manichei, che nel terzo e quarto secolo ne facevano come voi, rimprovero alla Chiesa Cattolica. – Del resto è vero che nella Bibbia non vi è traccia del culto dei Santi? Io l’apro nel libro del Genesi (XVIII, 2 — XIX, I) e vi leggo che Abramo e Lot s’inchinarono d’innanzi agli angeli loro inviati da Dio: io l’apro nel libro dell’Esodo (XXIII, 20) e vi leggo che così parla Iddio al suo popolo: « Ecco, io manderò il mio Angelo, che ti preceda nel cammino; onoralo, ascolta la sua voce e guardati dal disprezzarlo; imperciocché il mio nome è con lui ». Io l’apro nel libro di Giosuè (V, 15) e vi leggo che egli si incurva dinnanzi all’Angelo, che gli è apparso, e che ei riceve l’ordine dall’angelo stesso di togliersi i calzari, perchè il luogo dove sta è santo; io l’apro nel libro IV dei Re (I, 10-13) e v i leggo il castigo terribile, con cui Iddio punì i due capitani, che mancarono di rispetto al profeta Elia, e l’atto di venerazione usato al medesimo da un terzo capitano. Nello stesso (II, 24) leggo l’aspra vendetta, che Dio fece dei fanciulli schernitori di Eliseo, e (IV, 37) l’onore che allo stesso profeta rese la Sunamitide, dopo ché ebbe da lui il figlio risuscitato. Come dunque si osa dire che nella Bibbia, non vi è traccia del culto dei Santi? Né è una difficoltà il dire che il culto, di cui si parla nella Bibbia, trovasi tributato a santi ancor viventi: perché se Iddio e con la parola e col fatto approvò l’onore, che fu reso agli uomini santi, mentre ancor vivevano quaggiù soggetti alle umane imperfezioni, si potrà forse dubitare ch’Egli non si compiaccia dell’onore, che rendiamo ai Santi, quando già uscirono da questo mondo, e la Chiesa col suo giudizio ci assicura che sono beati in cielo? Non solo adunque non siamo idolatri nell’onorare i santi, ma neppure novatori, come pretenderebbero i protestanti. Onorando i Santi non facciamo né più né meno di quel che si fece per testimonianza della Bibbia nell’antica legge, e né più né meno di quello che per testimonianza della Tradizione sempre si fece nella legge nuova.

IV.

Ma, udite, o fratelli: il protestantesimo non è pago ancora, e dopo d’averci contraddetto l’onore ai Santi vuole contraddirci eziandio l’invocazione del loro aiuto. Udite come esattamente riproduce i suoi sentimenti un illustre scrittore: « Quelli che furono santi in questo mondo, quelli che ebbero il cuore sì ricco d’amore e la mano sì feconda di benefizi, non hanno più per noi che la fredda luce della loro gloria. Non domandiamo loro nulla, perché essi non intendono le nostre domande; non confidiamo nella loro intercessione; essi non possono più nulla per noi. La perfezione consummata, in cui essi si trovano, ha inaridito nel loro seno l’ammirabile potere di far del bene a quelli che essi amavano. Un padre non è più padre, una madre non è più madre, un fratello non è più fratello, un amico non è più amico. Versiamo lacrime senza speranza, e come il re Agag solleviamo questo lamentevole grido: Sicóim separat amara mors? Così ci separa la morte amara? » Ecco la dottrina del protestantesimo, che rompe quella catena preziosa, che lega la Chiesa trionfante del cielo colla Chiesa militante della terra. – E non sentite, o fratelli, rivoltarsi contro di essa i sentimenti più delicati e profondi del vostro cuore? Non udite voi la natura gridare sdegnata al protestantesimo: tu menti? I suoi larghi e generosi istinti non vi dicono forse: la verità non può essere questa? ed è impossibile questo separatismo brutale, che isola la terra dal cielo? Ah! ben diversa è la dottrina della Chiesa cattolica! Ogni giorno essa invita i suoi figli a ripetere colle parole del Simbolo: Credo la Comunione dei Santi, vale a dire: credo che e anime beate del cielo, e anime militanti della terra, ed anime purganti del Purgatorio siamo tutti un solo e medesimo corpo, il cui capo è Gesù Cristo; credo che in questo mistico corpo l’interesse di un membro è l’interesse di un altro, il bene dell’uno è il piacere dell’altro, la pena dell’uno è la compassione dell’altro: credo che la carità più viva è quella, che lega insieme tutte queste membra, che sebbene ancora in luoghi diversi formano tuttavia un solo corpo, la Chiesa di Gesù Cristo. – E stando salda questa unità, del cui dogma sono ripiene le sacre scritture, come si potrà, senza sragionare, negar le comunicazioni tra i santi del cielo e gli nomini della terra? La Chiesa militante, prosegue il grande Monsabré, per rapporto alla Chiesa trionfante è nelle condizioni analoghe a quelle d’un esercito, che combatte in lontano paese, di fronte alla patria, ove tutto è ordine, prosperità e pace. Forseché l’esercito non ha sempre gli occhi rivolti alla patria, d’onde attende i soccorsi ed i rinforzi, dei quali ha bisogno per condurre a buon termine una faticosa campagna? E forseché la patria per godere d’una felicità egoistica non si dà pensiero delle fatiche, dei patimenti di quei valorosi, che tengono alto l’onore della bandiera? Forseché tra l’esercito e la patria non esiste una solidarietà intima, che si manifesta in uno scambio generoso e pieno di fiducia, di preghiere e di sollecitudini, di voti e di benefizi, fino al giorno, nel quale i vincitori attraverseranno in trionfo la folla commossa dei cittadini, che col cuore erano con essi sulla terra straniera? Onta e sventura al paese, che dimentica i suoi soldati! Voi sapete troppo bene, o fratelli, fino a qual punto il patriottismo si sdegni contro simile delitto. – Or bene, esercito di Gesù Cristo sempre in battaglia contro i nemici della salute, noi imploriamo ed attendiamo dai Santi, che abitano la patria celeste, nella quale un giorno dovremo noi pure trionfare, un’assistenza necessaria ed efficace. È questo un diritto che noi abbiamo, appartenendo noi allo stesso corpo, cui appartengono i Santi. E perché non lo eserciteremo? Se la gloria che inonda i Santi avesse, come credevano gli antichi del fiume Lete, la strana proprietà di far loro dimenticare la terra, dove testé combattevano nelle nostre file, allora sì che sarebbe inutile invocare i Santi. Sarebbe pure inutile, se la luce, in cui vivono, loro impedisse di stendere lo sguardo alle nostre miserie; se Iddio dopo d’esser stato con essi sì generoso quando erano in terra, fosse adesso con loro sì scarso; se finalmente il costume dei Santi fosse il medesimo degli uomini volgari ed egoisti del mondo, che saliti dal basso all’alto, dalle miserie alle prosperità, dimenticano sì facilmente i parenti e gli amici rimasti allo stesso posto di prima. Ma tutto è ben diverso, Ah! i Santi saliti al Cielo ricordano l’aspra lotta, che dovettero a tal fine sostener qui in terra; vedendo Dio vedono tutto ciò che egli ama, tutto ciò, di cui egli ha cura, epperò conoscono i nostri bisogni meglio di quanto li conosciamo noi stessi; la loro potenza è cresciuta in cielo in ragione della loro perfezione, e come è cresciuta in essi la potenza di aiutare gli uomini, così è cresciuta la loro volontà di aiutarli, e quanto più sono sicuri della loro felicità, tanto più sono solleciti della, nostra salute: Quantum de sua felicitate securi, tantum de nostra salute solliciti (S. Ciprianus, lib. de Mortal.); epperò meritano di essere da noi con tutta fiducia invocati. – E dica pure il protestantesimo che l’apostolo san Paolo asserisce che un solo è il mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo (1 Timot. II, 5), ma noi riterremo senza dubbio che un solo per natura è il mediatore tra il cielo e la terra, un solo per natura è il Salvatore del genere umano, un solo per natura è il nostro avvocato presso il trono dell’Altissimo; ma che ciò non toglie che altri mediatori ed avvocati vi possano essere per partecipazione e per grazia. Il protestantesimo dica pure che col rivolgerci ai Santi facciamo affronto a Dio, quasi riconoscendo in essi e non in Dio i padroni ed i dispensatori della grazia, ma noi riterremo che ci rivolgiamo ai santi non come ad autori e padroni delle grazie, ma semplicemente come ad intercessori per ottenerle. Tanto è vero che la Chiesa nella S. Messa non mai si dirige con le sue orazioni ai Santi, ma si rivolge direttamente a Dio pregandolo a concederle, le sue grazie, per la intercessione dei Santi, e sempre per i meriti di Gesù Cristo: Per Dominum nostrum Iesum Christum. Il far rimettere nelle mani del re una supplica per mezzo di un suo favorito, sarà questo un affronto al re stesso e un riconoscere per autore della grazia, che si implora, il suo favorito? Il protestantesimo dica pure che Dio, è ottimo padre, pronto sempre ad esaudirci e che Gesù Cristo, per mezzo della sua passione e morte ci ha meritate tutte le grazie, di cui abbisogniamo, e che perciò è inutile il ricorrere ai Santi, e noi riterremo che se Iddio è ottimo Padre, noi siamo pur troppo figliuoli cattivi, ai quali può giustamente negare quello che noi gli chiediamo, per avere noi tante volte negato a Lui quello che da noi richiedeva; ed essere perciò sommamente utile ad ottenere le grazie sue l’interporre l’intercessione dei figliuoli santi, che Iddio per la loro bontà predilige: che se Gesù Cristo basta senza alcun dubbio a meritarci ogni favore, ciò non impedisce che Egli si compiaccia di onorare i Santi, facendoci ottenere le grazie anche per la intercessione degli stessi. Finalmente quando il protestantesimo ci dirà ancora che nella Bibbia non trovasi parola dell’invocazione dei Santi, e noi colla Bibbia alla mano mostreremo loro che nel vecchio testamento gli amici di Giobbe a lui si raccomandano, perché plachi Iddio con essi sdegnato; che Mose ed Aronne s’interpongono più volte in favore degli Israeliti prevaricatori; che il popolo ebreo ricorre alle preghiere di Samuele; che nel libro di Zaccaria si parla d’un Angelo, che prega Dio per i Giudei; che nel libro II dei Maccabei si manifesta la cura che degli stessi presero Onia e Geremia già passati di questa vita; che nel nuovo testamento il Divin Salvatore compie il suo primo miracolo per intercessione di Maria; che S. Paolo si raccomanda alle orazioni dei fedeli; che S. Giacomo li esorta a pregare gli uni per gli altri; che S. Pietro promette loro di ricordarsene dopo morte; e finalmente che S. Giovanni nella sua Apocalisse vede in cielo ventiquattro seniori, che prostrati dinanzi all’Agnello tengono in mano ampolle d’oro piene di soavi fragranze, che sono le orazioni dei Santi (V, 8). – Per noi cattolici poi aggiungeremo che l’invocazione dei Santi è sempre stata nella Chiesa una pratica costante, da noi sino ai primi secoli: le cui chiare testimonianze si ritrovano nelle più antiche liturgie, negli atti dei martiri, negli scritti di Origene, di S. Cipriano, di S. Eusebio, di S. Gregorio Nazianzeno, di S. Cirillo Gerosolimitano, scrittori tutti del III, IV e V secolo, nei concilii ecumenici Costantinopolitano III e Niceno II, e che però ben a ragione il Concilio Tridentino comanda ai sacri Pastori di insegnare ai fedeli che « i Santi, i quali regnano con Cristo, offrono a Dio le loro orazioni per gli uomini; essere quindi cosa buona ed utile l’invocarli supplichevolmente ».

V.

Ma riguardo a questo secondo dovere, che noi dobbiamo compiere coi Santi, il protestantesimo si scandalizza ancora, e l’incredulità ci deride, perché dei Santi veneriamo le reliquie e le immagini. Ora non torna neppur difficile il riconoscere quanto ingiusto sia questo scandalo e questa derisione. Forseché noi adoriamo le immagini e le reliquie dei Santi, come facevano i Pagani coi loro idoli? Forseché riponiamo nelle stesse una qualche fiducia? Se noi baciamo e veneriamo le immagini e le reliquie dei Santi, non intendiamo forse di riferire il culto e la venerazione nostra ai Santi medesimi? Vedete strana incoerenza: si protesta contro il culto delle immagini e reliquie dei Santi; ma si protesta forse contro il culto, che il soldato serba alla sua bandiera? si protesta forse contro il rispetto, che il popolo serba alla casa, che vide nascere un uomo grande e ne raccolse l’estremo sospiro? si protesta forse contro del figlio, che guarda con riverenza uno scritto del padre? si protesta forse contro la sposa, che serba con tenerezza l’anello dello sposo? contro l’amico, che tiene caro un fiore staccato dalla tomba dell’amico? contro la famiglia, che appende con affetto i ritratti dei maggiori? Ma che dico? si protesta forse contro i governi e i municipii che nei loro musei serbano e venerano capelli, calzoni, tabacchiere, bastoni, badili e persino altri più vili istrumenti degli uomini che si dicono grandi? Eh via! l’iniquità mentisce mai sempre a se stessa: mentita est iniquitas sibi (Ps. XXVI, 12). Le immagini dei Santi che noi veneriamo ci parlano al cuore, ci ricordano le loro virtù, l a loro potenza, ci stampano in mente il dovere, che noi abbiamo di imitarli, e ci spronano a seguire i loro esempi, e noi non rigetteremo giammai un culto per noi tanto utile. I corpi e le reliquie dei Santi sono corpi e reliquie di coloro, che sono membra vive di Gesù Cristo e templi dello Spirito Santo per là grazia, onde furono ripieni; ed un giorno saranno con le anime glorificati in cielo, e noi non disprezzeremo giammai la voce della ragione, che ci dice di venerarli. La Chiesa in ogni tempo ebbe in uso il culto delle reliquie; i cristiani serbarono sempre con venerazione l’arena inzuppata dal sangue dei martiri, e si gloriarono sempre d’inginocchiarsi nei santuari dinanzi agli avanzi gloriosi di quei Santi, che essi invocano a difesa e tutela della loro patria; e Dio stesso più volte con grazie e miracoli ha mostrato come questo culto gli torni accettevole.

VI.

Se non che, o fratelli, se è a dolere che i nostri fratelli separati non vogliano saperne di culto e d’invocazione dei Santi, non è a dolere anche più, che praticamente facciano lo stesso certi cristiani? Allorquando nel secolo III i pagani di Roma piangevano nel vedere disprezzati dai Cristiani i loro dei, Tertulliano rispondeva loro: Io non so se gli dei vostri più abbiano a lamentarsi di noi, che di voi: Nescio plusne dii vestri de nóbis quam de vóbis querantur. E giustamente, perché i Cristiani disprezzavano gli dei di Roma per ragione e per principio; laddove i pagani pretendevano d’onorarli con il libertinaggio e con lo sregolamento delle loro passioni. Or bene, se noi badiamo come taluni tra noi cattolici onorino ed invochino i Santi, sapremmo asserire se i Santi più abbiano a lamentarsi di noi, che degli eretici? Ed in vero, vi dirò con un grande oratore: noi sappiamo che i Santi sono gli amici di Dio e i nostri patroni, sappiamo che prostrati dinanzi al trono del Signore del continuo pregano per noi, sappiamo che tanto si occupano della nostra salute, che ci salvano dall’ira di Dio, che ci scampano da mille disgrazie e pericoli, sappiamo che sono i nostri più grandi benefattori, potendosi dir di ciascuno: Me fratrum amator et populi: questi è il vero amante dei suoi fratelli e del popolo (2 Mac. XV). Ma intanto poi li copriamo, non dico solo di oblio e di ingratitudine, ma di oltraggio e di disonore. I Santi implorano sul nostro capo le benedizioni celesti, e noi talora apriamo la bocca a bestemmiare il loro nome. – Per essi la Chiesa innalza dei templi e noi con la nostra irreligione li violiamo; per essi istituisce delle feste e noi con la noncuranza nostra le profaniamo; per essi celebra offici e intesse elogi e noi vi assistiamo, non dico con indifferenza, ma persino con spirito di disprezzo. A renderci profittevoli le loro solennità la Chiesa ci obbliga alla vigilia ed al digiuno e noi calpestiamo questa legge, e quei giorni medesimi, che per essere ai Santi consacrati dovrebbero essere per noi giorni di onesta gioia e di religiosa pietà, sono invece giorni di licenza, di divertimenti, di giuochi, di gozzoviglie e di disordini. Ecco, o fratelli, per nostra onta, qual è il culto, che molti di noi cattolici prestiamo ai Santi! Che dirò poi dell’invocazione che rivolgiamo talora ai medesimi? Io non parlo, no, di quelle preghiere abominevoli, e secondo il termine della Sacra Scrittura, esecrabili, che se fossero dai Santi esaudite, farebbero di loro altrettanti fautori dei nostri vizi, di quelle preghiere cioè con cui s’invocano i Santi per il successo d’una impresa ingiusta, pel mantenimento di una fortuna iniqua, per la prosperità d’un affare malvagio, per la soddisfazione d’una sregolata cupidigia, per la riuscita d’una scellerata vendetta. Questo, come dice Agostino, sarebbe il massimo degli affronti, perché se gl’infedeli domandavano tali cose ai loro falsi dei, egli è perché li ritenevano per più corrotti di loro, e non v’è perciò da stupirne; ma sapere che i Santi sono glorificati in cielo per la virtù e chiedere loro quello, che mira all’annientamento della medesima, sarebbe questa la più orrenda delle indegnità. Non parlo neppure di quelle preghiere affatto mondane, con le quali invochiamo dai Santi beni del tutto profani, agi, ricchezze, onori, e non mai ciò che riguarda il nostro avanzamento nelle cristiane virtù, e la santificazione delle anime nostre. Anche, questa sarebbe una riprovevole usanza, mostrarsi così solleciti d’invocare i Santi quando si tratta di ottenere un bell’impiego, di raggiungere una carica, di aver robustezza di salute, di guarire da una infermità, di scampare da una malattia contagiosa, di abbattere i nemici della patria, di ottenere un tempo favorevole alle campagne, di fare un raccolto abbondante, di riuscir bene in un negozio, e poi trascurare d’invocarli, anzi non invocarli affatto quando si tratta di distruggere un’abitudine viziosa, di vincere una passione che ci domina, di abbattere la carne che si ribella, di superare la tentazione che ci travaglia, di preservarci dalle piaghe del mondo e dalla sua corruzione. Sì, anche questa sarebbe noncuranza e cecità dannosissima. Io voglio parlare soltanto del grande abuso, che della invocazione dei Santi noi facciamo in quelle preghiere medesime in apparenza le più religiose, in quelle preghiere, con le quali protendiamo di ottenere dai Santi quello che non ci studiamo di ottenere noi stessi, in quelle preghiere, con cui abbiamo l’impudenza di chiedere ai Santi l’intercessione per la nostra salvezza, avendo poi la pretesa di vivere noi senza vigilanza e senza attenzione per la stessa. – Noi invochiamo i Santi, e vorremmo che ad ottenere il compimento dei nostri voti bastasse l’invocarli: noi invochiamo i Santi, e domandando loro lo spirito di penitenza, vorremmo continuare a vivere a nostro genio: noi invochiamo i Santi, e domandando loro la grazia di convertirci, vorremmo che la nostra conversione non importasse alcuna violenza, alcun distacco, alcun sacrificio per parte nostra; noi invochiamo i Santi, e domandando loro il possesso della virtù vorremmo non aver da prendere alcuna misura per conseguirlo, e soventi volte, come Agostino prima che rompesse le sue ree catene, non crediamo d’essere esauditi giammai; noi invochiamo i Santi e vorremmo determinare le grazie che ci hanno a fare, e grazie non di rado, che non ci convengono affatto e che più ancora che a nostra salute servirebbero a nostra rovina! Ah cristiani! ricordiamoci che se i Santi sono potenti appresso Dio, non lo sono contro di Dio e contro del suo volere: che se sono potenti, il sono d’una potenza regolata ed ordinata, d’una potenza raffermata ogni giorno secondo l’intendimento della legge eterna: vale a dire essi, sono potenti per consolarci nelle nostre pene e non già per farcene esenti; essi sono potenti per darci mano ad operare e non già per trattenerci in una rilassata indolenza; potenti secondo i disegni di Dio e non secondo le nostre velleità e i nostri capricci. Invochiamoli adunque i Santi, perché Iddio, in essi ammirabile, ce li ha dati per nostri protettori; ma appunto perché sono Santi invochiamoli santamente. Che se per nostra storditezza e malizia li invocheremo alla mondana, anziché farci dei protettori, che ci difendano e ci soccorrano, ricordiamoci che ci faremo dei testimoni e dei giudici per accusarci e condannarci. – S. Giovanni nell’Apocalisse tra le altre cose intese pure i Santi a domandare a Dio non grazie per gli uomini, ma giustizia e vendetta contro gli uomini: Usquequo non vindicas sanguinem nostrum de iis qui habitant in terra? (VI, 10): Signore, giustizia e vendetta non solo contro gli uomini, che nel corso della vita ci hanno disprezzati, perseguitati, accusati, condannati, messi a morte: giustizia e vendetta non solo contro gli uomini libertini ed empii, che hanno profanato le nostre feste, e beffeggiato il nostro culto; ma giustizia e vendetta contro di coloro eziandio, che hanno fatto e vogliono fare della nostra protezione un uso sì contrario ai tuoi divini voleri e sì iudeguo della nostra santità: Usquequo non vindica? sanguinem nostrum de iis qui habitant in terra ?

VII.

Ma passiamo ora a dir brevemente del terzo dovere, che noi dobbiamo compiere verso dei Santi, che è quello d’imitarli. Stava per morire l’illustre Matatia, quel generoso principe de’ Maccabei, e chiamati a sé dappresso i suoi figlinoli così disse loro : « Figli, zelate la legge di Dio e ricordate soprattutto gli esempi, gloriosi dei padri vostri, ed anche voi vi acquisterete una gloria ed un nome immortale. Eicordate la fedeltà di Àbramo, la sofferenza di Giuseppe, l’obbedienza di Giosuè, la moderazione di Davidde, lo zelo di Elia, la integrità di Daniele e ricopiate nell’animo vostro così belle virtù e così operando di generazione in generazione toccherete con mano che non v’ha cosa più onorata e sicura quanto quella di servire a Dio ». Così parlò quel venerando vegliardo, che S. Giovanni chiama uomo evangelico prima ancor dell’evangelio. E così parla a noi il Signore del continuo. «Ricordate le virtù dei Santi, egli dice, considerate i loro esempi e seguiteli: anche per questo fine io li ho suscitati. Ecco gli eroi della vostra fede, ecco gli uomini, di cui il mondo non era degno, e che disprezzati dal mondo si resero degni di me. Contemplateli, paragonateli con voi e scoprendo l’infinita distanza, che vi separa, studiatevi di avvicinarvi. Invece di affettare virtù mondane, che non hanno né verità né sodezza, invece della prudenza della carne, che vi danneggia e vi fa nemici di Dio, invece di quella sconsigliata politica, che vi violenta la coscienza e vi getta in un abisso di colpa, invece di quella scienza mondana, che tanto vi gonfia e niente vi giova, abbracciate quelle virtù che hanno praticato i Santi, e se pur volete uno sfogo alla vostra ambizione, cercatelo nell’emulare i loro esempi : Æmulamini charismata meliora » (1 Cor. 1,12). – Ecco, o fratelli, quel che vi dice Cristo, quel che vi dice sopratuttto in questo giorno sacro a tutti i Santi. – Ma io so bene che a sottrarsi all’adempimento di questo precetto non mancano i pretesti. E primo è quello di figurarci difficile e quasi impossibile la santità. Ma come, esclama S. Bernardo, difficile la santità? Se Dio richiedesse da voi la possanza dei miracoli, la predizione delle cose future, la grazia delle guarigioni, il discernimento degli spiriti, la sublimità delle visioni, la grandézza delle rivelazioni, allora capirei esser difficile il farsi santi: ma è questo forse che richiede da noi? No per certo. Ei si contenta che noi siamo umili, pazienti, caritatevoli, temperanti, casti, misericordiosi; questo gli basta per averci in conto di santi e questo forse sarà difficile? Mirate i Santi, ci dice l’Apostolo, essi provarono gli scherni e le battiture, furono lapidati, furono segati, furono tentati, perirono sotto la spada, andarono raminghi, coperti di pelli di pecora e di capra, mendichi, angustiati, afflitti, errando per le solitudini, e per le montagne, e nelle spelonche e caverne della terra; e se questi e quelli, soggiunge S. Agostino, con l’aiuto di Dio hanno potuto tanto, perché non potrò anch’io assai meno? Si isti et illi cur non ego? Perché non potrò essere casto anch’io? Perché non potrò essere umile anch’io? Perché non potrò perdonare anch’io? Perché non potrò anch’io essere paziente? – Ma i Santi, si dice, ed ecco il secondo pretesto, erano uomini diversi da noi, né soggetti alle stesse miserie. Oh quale inganno! I Santi erano uomini e donne deboli come siamo noi, erano composti della stessa fragile creta; essi ancora, dice S. Bernardo, provarono le molestie di questo esilio, le afflizioni di questo misero pellegrinaggio, essi ancora sentirono il peso di questo corpo mortale e gli stimoli della ribelle concupiscenza. Essi pure furono esposti alle tentazioni, ai tumulti delle passioni, alle contraddizioni ed agli scandali del mondo. Anzi molti furono peccatori come noi, e forse più di noi, e sperimentarono gravissime difficoltà e ripugnanze al bene; pure confidati nella grazia di Dio vinsero e tentazioni e passioni e scandali e riuscirono a santificarsi. Oh! abbandoniamoci anche noi nelle braccia del Signore, ed il Signore ricco nella sua misericordia ci sosterrà nella lotta coi nostri nemici e ce ne darà come ai Santi la vittoria. Finalmente, si dice ancora, come è possibile farci santi nello stato nostro? Com’è? nello stato vostro è impossibile farvi santo? Ma quale stato è il vostro? Siete giovani? ecco dei santi giovani. Siete vecchi? ecco dei santi vecchi. Siete nobili? ecco dei santi nobili. Siete di bassa condizione? ecco dei santi plebei. Siete dotti? ecco dei santi dotti. Siete idioti? ecco dei santi idioti. Siete vergini? ecco dei santi vergini. Siete coniugati? ecco dei santi coniugati. Siete preti? ecco dei santi preti. Siete soldati? Ecco dei santi soldati. Siete sovrani? ecco dei santi sovrani. Siete ricchi? ecco dei santi ricchi. Siete poveri? ecco dei santi poveri. Ah! non vi è stato, no non v’è stato alcuno, che non abbia i suoi santi e non v’è stato alcuno, in cui non sia dato di farsi santo. Anche l’accattone che va elemosinando il pane di porta in porta, o che chiede la carità alla porta delle nostre chiese, anch’esso sempre che il voglia può farsi santo. – Non lo credete? Intorno alla metà del secolo XVIII nasceva in Piccardia, provincia di Francia, un figlioletto. Nel 1770 gli balenava alla mente una divina ispirazione e si trasformava in tale figura da metter compassione negli uomini di buon cuore e da destar il riso negli uomini mondani. – Vestito di logora veste, cinto di una fune, nudo il capo, e con scarpe sdruscite nei piedi pellegrinava nei più celebri santuari della Germania, della Svizzera, della Francia, della Spagna e dell’Italia; e nel 1777 poneva da ultimo sua stanza in Roma. Al bisogno del cibo soddisfaceva con frusti di pane e con erbe gittate per la via, al bisogno della sete con l’acqua, e se riceveva elemosina sollevava gli altri poverelli. Macilento com’era e squallido, se talvolta veniva fastidiosamente rigettato o schernito dalla procace plebaglia, non solo non risentivasi punto, ma lieto anzi e tranquillo riceveva ogni ludibrio ed ingiuria. Passava la massima parte della giornata nelle chiese dinanzi l’immagine di Maria e dinanzi a Gesù in Sacramento. Finalmente una volta dopo passate molte ore in preghiera nella chiesa di S. Maria dei monti cadeva in deliquio, e trasportato nella vicina casa di un uomo benefico, dopo avere inutilmente chiamato di venire disteso sulla nuda terra, spirava l’anima nel bacio del Signore il 16 aprile del 1783. Era l’ora in cui suonavano tutte le campane di Roma per la recita di tre Salve Regina ordinata da Pio VI pei bisogni della Chiesa, e quasi che quel suono fosse voce celeste pareva rivelare la morte di quel povero agli innocenti fanciulli, i quali andavano gridando per le vie della città: È morto il santo: è morto il santo! Ed un santo davvero era morto! S. Giuseppe Benedetto Labre! – Oh come è vero, o fratelli, che Dio è mirabile ne’ suoi santi: mirabilis Deus in sanctis suis! e che tutti, se il vogliono, possono farsi santi! Mettiamoci adunque di buona volontà; affidiamoci alla grazia di Dio; interponiamo la mediazione dei Santi, di quelli particolarmente, di cui portiamo il nome e che abbiamo scelti a protettori, e non dubitiamo che o poco o tanto ci faremo santi anche noi, e non indarno avremo rivolta a Dio questa grande preghiera: Aeterna fac cum Sanctis tuis in Gloria numerari!

Credo … 

Offertorium
Orémus
Sap III:1; 2; 3
Justórum ánimæ in manu Dei sunt, et non tanget illos torméntum malítiæ: visi sunt óculis insipiéntium mori: illi autem sunt in pace, allelúja.
[I giusti sono nelle mani di Dio e nessuna pena li tocca: pàrvero morire agli occhi degli stolti, ma invece essi sono nella pace.]

Secreta
Múnera tibi, Dómine, nostræ devotiónis offérimus: quæ et pro cunctórum tibi grata sint honóre Justórum, et nobis salutária, te miseránte, reddántur. [Ti offriamo, o Signore, i doni della nostra devozione: Ti siano graditi in onore di tutti i Santi e tornino a noi salutari per tua misericordia.]

Communio
Matt 5:8-10
Beáti mundo corde, quóniam ipsi Deum vidébunt; beáti pacífici, quóniam filii Dei vocabúntur: beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam, quóniam ipsórum est regnum cœlórum.
[Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio: beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio: beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.]

Postcommunio
Orémus.
Da, quǽsumus, Dómine, fidélibus pópulis ómnium Sanctórum semper veneratióne lætári: et eórum perpétua supplicatióne muníri.
[Concedi ai tuoi popoli, Te ne preghiamo, o Signore, di allietarsi sempre nel culto di tutti Santi: e di essere muniti della loro incessante intercessione.]

 

Ite, Missa est.
R. Deo gratias.

26 OTTOBRE 1958: Habemus Papam atque [postea, A.D. MCMXCI] SUCCESSOREM ejus!

Habemus Papam atque [postea-1991] SUCCESSOREM ejus!… 

“… si quis ergo dixerit, non esse ex ipsius Christi Domini institutione seu iure divino, ut Beatus Petrus in primatu super universum Ecclesiam habeat PERPETUOS SUCCESSORES; aut Romanum Pontificem non esse beati Petri in eodem primatu successorem: ANATHEMA SIT“. [C. A. Pastor Æternus – Con. Vatic. 1871]

“Combattete, figli della luce, voi, piccolo numero che ci vedete, perché ecco il tempo dei tempi, la fine delle fini. La Chiesa sarà ECLISSATA , il mondo sarà nella costernazione.” …

“… Il Santo Padre soffrirà molto, Io sarò con lui fino alla fine, per ricevere il suo sacrificio. I malvagi attenteranno diverse volte alla sua vita senza poter nuocere ai suoi giorni; ma né lui né il suo SUCCESSORE … vedranno il trionfo della Chiesa di Dio”. [Messaggio della SS. Vergine a La Salette, 1846 – Impr. Mons. Zola, Vescovo di Lecce]

“Ahimè me! Sono in arrivo giorni tristi per la Santa Chiesa di Gesù Cristo. La Passione di Gesù sarà rinnovata nella maniera più dolorosa nella Chiesa e nel suo Capo Supremo. In tutte le parti del mondo ci saranno guerre e rivoluzioni, ed una grande quantità di sangue sarà versato. Angosce, disastri e povertà saranno grandi, dal momento che si susseguiranno malattie pestilenziali, carestie, ed altre disgrazie.Mani violente si poseranno sul Capo Supremo della Chiesa Cattolica; vescovi e sacerdoti saranno perseguitati, e saranno provocati scismi, e regnerà la confusione in mezzo a tutte le classi sociali. Arriveranno tempi così particolarmente cattivi, che sembrerà come se i nemici di Cristo e della sua santa Chiesa, fondata con il suo Sangue, stiano per trionfare su di essa. … Sarà operata una generale separazione: il grano vagliato, e l’aia spazzata. Le società segrete lavoreranno per produrre una grande rovina, ed eserciteranno uno straordinario potere monetario, attraverso il quale molti saranno accecati ed infettati dai più orribili errori; tuttavia, tutto ciò deve avvenire. Cristo dice, “chi non è con me è contro di me, e chi raccoglie lontano da me, disperde”. Gli scandali saranno diffusi dappertutto, ma guai a coloro per cui essi avvengono! Sebbene la tempesta sarà terribile, e molti si allontaneranno al suo passaggio, tuttavia, non potrà scuotere la ROCCIA su cui Cristo ha fondato la sua Chiesa … “Portæ inferi non prævalebunt”. – “Le pecore fedeli si riuniranno insieme, e in unione di preghiera opporranno una potente resistenza ai nemici della Chiesa Cattolica. Sì, sì, il gregge diventerà piccolo. Molti di voi vedranno quei tempi ed i giorni tristi che porteranno grandi mali …. una grande confusione regnerà tra i principi e le nazioni. L’incredulità di oggi sta preparando quei mali orribili.” [Prof. Del vescovo G. Wittman – “THE CHRISTIAN TRUMPET; PREVISIONS AND PREDICTIONS ABOUT IMPENDING GENERAL CALAMITIES, THE UNIVERSAL TRIUMPH OF THE CHURCH, THE COMING OF ANTICHRIST, THE LAST JUDGMENT, AND THE END OF THE WORLD.” COMPILED BY PELLEGRINO, PP. 57-58, 1873).

GREGORIO XVII IL “MAGISTERO IMPEDITO” – CHIESA, FEDELI, MONDO – III –

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

CHIESA – FEDELI – MONDO -III-

Ortodossia –III-

[Lettera pastorale del 5 agosto 1962; «Riv. Dioc. Genovese», 1962, pp. 208-248].

Lo scandalo della Incarnazione

Ecco di che si tratta. Il Verbo di Dio si è fatto uomo. L’umanità intera di Gesù Cristo è stata accolta e sostenuta in unione sostanziale (ipostatica) dalla divina Persona del Figlio eterno del Padre. In Cristo c’è Dio e l’uomo, c’è la divinità perfettissima e la umanità anche materiale coi suoi limiti e le sue imprescindibili caratteristiche. L’umanità è accolta. Questo ha scandalizzato molti eresiarchi antichi: hanno avuto torto, perché hanno messo a Dio limiti i quali sarebbero andati bene soltanto per loro. Ma questo in altra forma continua a scandalizzare molti moderni, per nulla ritenuti eresiarchi e per nulla coscienti di esserlo. Ecco come avviene lo scandalo che, in definitiva, abbiamo giustamente chiamato nel titolo «lo scandalo della Incarnazione». – Il binomio delle cose divine ed umane in Cristo, nella Incarnazione, costituisce norma suprema, tipo e legge per tutto il rimanente della Rivelazione e della costituzione della Chiesa. Dappertutto sono presenti i due elementi, umano e divino, nella Chiesa, nei Sacramenti, nel Sacrificio. Ossia dappertutto, come in Gesù c’è una umanità completa, c’è elemento materiale. Come Gesù Cristo uomo ebbe fame, sete, sonno, stanchezza, collasso di forze, morte, così il ritmo di questa umanità, perfetto e armonioso tra le luci e le ombre, si distende e si stempera nel rimanente. Come si deve accettare la umanità di Gesù Cristo, si deve accettare la umanità del rimanente. Respingerla nel rimanente è finire col respingere la divina logica della Incarnazione. Si può aver pena che Gesù si sia addormentato in barca e si può averla perché può sembrare a tutta prima una diminuzione di dignità. Ma è così; debbo accettarlo e debbo anche capire di riflesso, se non mi riesce direttamente, che non c’è alcuna diminuzione di dignità, ma solo rivelazione commovente di amore. Per lo stesso motivo debbo accettare che nella Chiesa, umana e divina insieme, ossia con lo stesso ritmo analogico, qualcuno dorma, qualcuno abbia collassi, qualcuno muoia, qualcuno riveli macerazioni e disfacimenti che si convengono alla morte. Debbo accettare che gli strumenti umani dei quali si serve l’opera evangelizzatrice in qualche momento abbiano tutti i segni caratteristici delle cose umane, soggette al caldo, al freddo, alla infezioni, alla paralisi. Non ho il diritto di esigere diversamente, anche se abbiamo il dovere di agire in senso contrario. – Si tratta infatti soltanto di accettare la logica della Incarnazione, la quale ci impone di accettare l’umanità in Cristo e in tutto il resto, con le conseguenze che ebbe in Cristo e con le conseguenze analogiche e diverse che ebbe nel rimanente. Se non si accetta questo, non si accetta la logica di Cristo Dio e uomo, si disdegna la umanità, si entra nella luciferiana vanità delle cose perfette, come se si fosse noi perfetti e come se le vicende di questo mondo potessero esserlo. Forse si manterrà l’ossequio di Cristo; ma che ossequio è mai questo che, se avesse intelligenza sufficiente, ipocritamente dovrebbe arrivare a rinnegarlo? Chi osserva bene la storia, si potrà accorgere che la gnosi si è scandalizzata della Incarnazione per la presenza della umanità e della materia in Gesù Cristo. La gnosi, questa gnosi, è risorta tante volte in modi diversi. Nel Medioevo ha tentato di sovvertire la filosofia instillandole lo scandalo dell’uso dei sensi e cioè della conoscenza sensibile e della evidenza immediata attraverso i sensi per spingerla a partire, nelle sue elucubrazioni, da una quota più alta della terra. Uno dei meriti maggiori di san Tomaso d’Aquino è di avere sbarrato, in certo senso per sempre, la via a questa infiltrazione gnostica. Egli comincia sempre press’a poco così: Apparet et sensu constai…. Lo stesso giansenismo tra le altre malefatte vanta anche quella di avere insinuato che malamente la umanità si avvicina alle cose divine. Oggi siamo ad una situazione analoga: lo sdegno che la Chiesa sia anche umana, che Dio abbia lasciato anche in essa il gioco della libertà e per conseguenza delle umane passioni… Si strappano le vesti, si sentono coperti di vergogna e, dacché i comunisti hanno reso di moda la autocritica, si rifugiano in essa, dando alla Chiesa, alle autorità, ai preti, ai cattolici la colpa di tutto; e credono di essere veritieri e generosi, mentre sono soltanto dei fuorviati nel giudizio. – Bisogna accettare che la Chiesa sia anche umana, come bisogna accettare che Gesù Cristo sia anche un uomo. Ma come non è ammesso scandalizzarsi della umanità di Cristo, non è ammesso scandalizzarsi della umanità della Chiesa, ed è ora di finirla con tutta la patologia masochista di taluni cattolici, i quali vanno a gara nel dir male della Chiesa, opera di Cristo, strumento necessario della salvezza. Non è né serio, né cattolico, né giusto l’impiegare di proposito tempo, risorse ed ingegno per illustrare tutte le pecche della umanità della Chiesa, quando ciò serve soltanto ad aumentare il coro vociferante degli increduli e dei laicisti, e a diminuire la capacità della stessa per la salute delle anime. – Un tale indirizzo non può spiegarsi se non con l’intenzione almeno subcosciente di spezzare una autorità, barriera di verità e di legge, allo scopo di conseguire, non diremmo una libertà, ma una licenza che Gesù non ammette. – È qui dove la nuova gnosi scopre le sue batterie ed è l’unico punto dove diventa sincera. Essa accoglie l’istinto fatiscente della mondana depravazione e vuole arrivare alla dissoluzione dell’autorità. La umanità della Chiesa, la scoria umana che consegue il suo umano aspetto sono un grande pretesto. Esse sono assunte anche come fondamento di una doppiezza, perché generalmente l’azione di scalzare l’autorità è accompagnata dalla ricerca, magari spasmodica, del «potere». Rivela il suo carattere tardo, perché non comprende che al concetto di autorità si sostituisce una cosa sola, la violenza. Ed è per questo che abbiamo usato in contrapposto il termine «potere». La nuova gnosi è entrata nella cultura e nella storia. Si diletta a disfare i Santi ed è felice quando può scrivere un libro in cui crede di dimostrare che un Santo è degno di stima minore di quella goduta prima, od in cui le riesce di far vedere che un grande Papa era più o meno un sovrano ambizioso di potere o che la pietà di certe popolazioni è superstizione e stupidità. Ha piacere di distruggere, e così si trova situata piuttosto tra i pedissequi di Sartre che tra i seguaci di Cristo. – Noi dobbiamo sempre proporre ai fedeli la via della santità, dobbiamo a quella richiamarli senza reticenze. Questo fa parte della nostra sincerità verso di loro, perché il mandato ricevuto da Cristo è questo e non altro. Se lo accantoniamo, noi non siamo più veramente fedeli verso il Salvatore, né sinceri verso le anime a noi commesse. E per questo motivo che nel 1958 vi abbiamo indirizzato una pastorale assai lunga dal titolo: “L’impegno ascetico della parrocchia”. Non c’è dubbio che per richiamare sempre i fedeli a salire verso la vita moralmente e soprannaturalmente più perfetta occorre essere in una situazione che non ci conduca al ridicolo, occorre cioè della coerenza. Ma si tratta di un dovere netto. È chiaro dobbiamo chiedere tutto, ed inculcare la disistima dei compromessi. Per compiere il dovere di inculcare sempre e coerentemente ai nostri fedeli il dovere della «ascesi verso Dio», noi dobbiamo fortemente escludere dalla nostra vita anche la più piccola ombra di mondanità. Se noi riveliamo i difetti comuni agli uomini spiritualmente incolori o deviati o depravati, non assolveremo mai il nostro compito. Questo è certamente fondamentale e non finiremo di ripeterlo. La partecipazione ai comuni appetiti, ai comuni intrallazzi, ai comuni, anche se non disonesti, piaceri, alle comuni mollezze, ci toglie il carattere virile della nostra missione. L’incontro sul piano dei difetti e del comportamento mondano è sempre e solo servito al male. Esistono degli uomini di fede, i quali per fortuna vanno a cercare oggi i «lontani» là dove generalmente sono spensierati e facili di costume. Ma questi uomini sanno che proprio per questo la loro vita deve essere singolarmente e rilevatamente austera. Vorremmo infine si considerasse che, ai punti ai quali siamo giunti nella lotta tra lo spirito e la materia, sarà solo una guerra totale dello spirito che potrà avere ragione. E la «guerra totale» è la stessa fatta dagli Apostoli; formare dei cristiani capaci anche del martirio e creare sempre più serrata la rete di anime che vivono a tutti gli effetti e in tutte le conseguenze la vita cristiana. A tutti diamo tutto, ma ai fermenti capaci di moltiplicare la vita diamo la prima e la suprema attenzione. Il dare tutto a tutti finirà col cambiare il volto anche esterno delle cose, il dare, soprattutto a singoli di speciale elezione ed a gruppi di maggiore consistenza e coraggio, faciliterà la fermentazione cristiana della massa. Non tutti ricevono allo stesso modo. – Dunque, né attraverso l’insegnamento, né col silenzio, né col compromesso noi possiamo ammettere che si abbiano due coscienze, una privata ed una pubblica; che si abbiano due morali, una per sé ed una per gli altri; che si ammetta il tipo di vita in cui non può assolutamente resistere l’ordinamento divino della famiglia, dell’amore che lo genera, della resistenza al peccato; che si accetti, come fosse cessata la umana debolezza, ogni forma di esperimento nel piacere; che si perda il tempo; che non si santifichi pienamente la festa e non si dia al Signore la prima parte di tutto. Chi vorrà seguirà e chi non vorrà non seguirà; ma a questo modo avremo fatto il nostro dovere ed avremo almeno salvato la patente e netta distinzione tra il bene ed il male, tra la virtù ed il peccato. – Questo volevamo dire e qui riassumiamo. Esistono delle negazioni che direttamente attaccano la ortodossia. Esistono dei comportamenti generali, dei quali in un processo sarebbe difficile provare il delitto di eresia o di ribellione alla legittima autorità della Chiesa, ma che in realtà sono identici a quelli che promanano formalmente dalla eresia. A modo loro, certo, ma senza dubbio sono lesivi della ortodossia. Abbiamo voluto attirare l’attenzione su alcuni comportamenti che riguardano il nostro dovere verso i fedeli «ut fidelis quis inveniatur» (l Cor. IV, 2). Ciò per dimostrare che tali comportamenti «in facto» non salvano l’ortodossia e a poco a poco finiscono coll’inoculare incoscientemente gli errori e le eresie formali. Il cammino del male può essere duplice: dall’intelletto agli atti, ma anche dagli atti all’intelletto. Non basta guardarsi soltanto dal primo.

La Chiesa e la vita pubblica

Entriamo in un campo delicato nel quale l’ortodossia «di fatto» – almeno quella – può facilmente cadere. Vogliamo soltanto che i nostri sacerdoti abbiano in proposito alcune idee molto chiare, affinché non accada di loro che diventino anche in buona fede avversari sia nell’ordine intellettuale, sia nell’ordine pratico della ortodossia cattolica. Di quanto verremo dicendo, abbiamo posto le premesse nel primo capitolo di questa nostra lettera. Neppure intendiamo qui avventurarci nella funzione storica della Chiesa, fatto ben rilevato ed evidente. Vogliamo soltanto richiamare i sani e solidi principi che regolano i rapporti tra la Chiesa e quei suoi figli i quali entrano nella vita pubblica, siano o non siano qualificati rappresentanti dei Cattolici. Per un cattolico l’ordine è uno, la coscienza è una come Dio è uno. Un cattolico non può ignorare che mai gli è concesso di fingere che Dio, che Gesù Cristo non esista. La ragione di questo è che i motivi obiettivi sono permanenti e valgono tanto per gli individui che per le comunità. E le ragioni della certezza di Dio sono obiettive. Pertanto il rispetto alla legge divina naturale o rivelata per un cattolico precede ogni altra considerazione, la orienta ed anche la limita. Per lui vale la parola di Pietro: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire piuttosto a voi anziché a Dio, giudicate voi» (At. IV, 19); su di lui incombe preciso e inderogabile l’avvertimento di Gesù Cristo: «Chi dunque mi avrà riconosciuto davanti agli uomini, lo riconoscerò anch’io davanti al Padre mio che è nei cieli; chi poi mi avrà rinnegato davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre» (Mt. X, 32)! – Ciò significa che in nessun caso per lui una questione può essere trattata indipendentemente dalla morale e dalla verità di Dio. E per restare su questa unica e non discutibile posizione egli deve affrontare ogni difficoltà ed accettare ogni evento. Naturalmente chi non è cattolico o chi, pur cattolico, non ha sentimenti e idee degni della fede nella quale è nato ed è stato battezzato, ripudierà talvolta queste affermazioni, accettando invece proposizioni laiciste che ne sono il contrario. Ma questo farà per una deformazione soggettiva. La obiettività delle cose resta sempre quella che si è detta: Dio esiste, ha creato, è Signore, è sommo legislatore, ogni cosa deve essere soggetta in cielo e in terra alla sua volontà. Resterà, per i singoli che contestano il dominio di Dio sulle cose pubbliche, la questione personale se e come siano essi responsabili del loro errore ed eventualmente della loro colpa obiettiva. “Singuli videant”. Resterà la questione delle collettività che accettano un tale modo di pensare offensivo alla divina Presenza ed alla divina Provvidenza; quando si tratta di collettività la questione delle responsabilità diventa difficile a decifrarsi per la molteplicità dei fattori anche inconsci che vi giocano. Non dobbiamo qui occuparci di questo. – Se non si può ammettere mai da un cattolico una idea agnostica nella vita civile e tanto meno un contegno agnostico, vuol dire che non sono accettabili:

a) il concetto di una coscienza civile perfettamente disgiunta e indipendente o parallela ad una coscienza morale. Pertanto non sarà ammissibile il caso di compiere in nome della coscienza civile quello che fosse condannato dalla coscienza morale. Questo non significa che si debba escludere il criterio della superiorità del bene comune, perché tale superiorità del bene comune rispetto al bene privato, nei suoi giusti limiti, è perfettamente ammessa dalla legge morale. Nessuno pertanto può accusare il cattolico che agisce sempre secondo la legge morale di diventare insensibile di fronte alle esigenze del bene comune;

b) il criterio machiavellico nel reggimento della pubblica cosa. Il criterio machiavellico consente al reggitore la menzogna, l’inganno ed anche la sopraffazione, strumenti ritenuti necessari per governare gli uomini e per ottenere pertanto un bene comune. Tale criterio viene anche impropriamente chiamato «ragione di Stato». Il criterio machiavellico è immorale; è ritenuto furbizia e si rivela sempre debolezza; ha per fondamento il pessimismo. Infatti parte dal presupposto che gli uomini siano talmente stupidi e talmente malfatti che non possano essere guidati se non impiegando con loro la falsità, l’inganno e la sopraffazione. – Nessuno può negare, a parte i meriti letterari, che Machiavelli abbia fatto la più raffinata interpretazione della capacità di impostura e di inganno e che questa porti a lui l’elogio della raffinatezza, ma non quello della grandezza. Il criterio machiavellico è il rimedio dei deboli. Esso diviene per taluni accettabile dopo che con maggiore o minore forzatura sono riusciti a trovare una certa tranquillità sull’errore prima denunciato e pertanto dopo che sono riusciti a credere nella esistenza di una coscienza civile, indipendente da quella morale. Con questo non occorre altro per essere perfettamente machiavellici. – Il Cattolico pertanto sa che nella vita pubblica deve avere uno stile, il quale lo differenzi, sia per il coraggio delle sue condizioni in privato ed in pubblico, sia per la moralità della sua condotta, in ogni affare individuale o d’interesse comune. Vi possono essere le situazioni difficili della vita pubblica. Non autorizzano, neppur esse, ad andare contro la coscienza morale. Esse sono: i casi in cui si deve subire, anche avendo usato di tutte le proprie possibilità, ed allora varrà ricordare che la vittima in quanto tale non può avere colpa; i casi in cui la scelta sta tra il male maggiore e il male minore, fermi restando, però, la osservanza delle leggi morali sulla cooperazione ed il principio del duplice effetto; i casi in cui si deve tener conto del diritto della libertà altrui, fermo rimanendo che il diritto e la libertà altrui non possono mai esigere azioni in compossibili con la legge di Dio. – La impossibilità per un cattolico (e per ogni uomo che sia anche solo nella verità naturale) di ammettere un concetto agnostico dello Stato e della vita pubblica indica anche i limiti nei quali può essere applicato il concetto democratico. La democrazia sta sotto e non sopra la legge di Dio, come tutte le forme possibili di umana convivenza. In essa può essere oggetto di decisione democratica solamente quello che Dio ha lasciato alla libera disponibilità degli individui e della collettività, non altro. È un errore (il quale ricade in quello sopra denunciato della coscienza civile al tutto indipendente) il credere che alla disponibilità democratica sia aperto qualunque oggetto. Oltre che errore è pericolo per la democrazia stessa, perché ad uccidere le umane esperienze non esistono malattie più mortali delle loro stesse esagerazioni. La falsità del principio agnostico e la affermazione del suo contrario hanno una importante conseguenza per il cattolico che entra nella vita pubblica. Egli deve accettare tutto il diritto pubblico della Chiesa e prima ancora il diritto divino sopreminente sul quale esso si fonda. – Altra cosa è che egli venga a trovarsi, come reggitore, in posizione tale da poter sempre ed in tutto corrispondere ai postulati di questo diritto. Infatti può darsi il caso in cui egli sia limitato da situazioni giuridiche e da situazioni di fatto contro le quali non può nulla; può darsi il caso che urgere oltre un certo limite il diritto della Chiesa finisca col diventare per circostanze accidentali più un danno che un vantaggio. Ma egli deve avere nell’animo il pieno rispetto di quel diritto che deriva dalla istituzione di Cristo e deve restare nella imposizione coraggiosamente operativa di rispettarlo quando ciò gli è possibile; riflettendo che in questo non gli sarebbero giovevoli davanti a Dio né le debolezze, né il calcolo del proprio interesse. Finalmente egli deve accettare l’azione magisteriale della Chiesa. E prevedendo tale conclusione che noi abbiamo dedicato una parte della nostra lettera a questo argomento. Determinare se qualcosa è morale o meno, se corrisponde o meno alla legge di Dio, per il cattolico che intende stare con Gesù Cristo appartiene al magistero ecclesiastico. La Chiesa non interviene a giudicare direttamente e per sé dell’aspetto politico nell’esercizio del potere, ma a giudicare della conformità o meno di quello alla verità e alla legge divina. – Secondo quel giudizio il cattolico deve regolare la sua coscienza e la sua azione. Egli sa benissimo che non esistono due leggi, una per lui ed un’altra per chi non ha come lui il dono integro ed operante della fede. Sa che la legge divina obiettivamente obbliga tutti allo stesso modo, che tuttavia Dio tollera la libertà anche abusata degli uomini, dalla quale oltre le colpe, e spesso prima delle colpe, nascono gli errori. Sa che questi, colpe ed errori, fanno velo all’intelletto e creano situazioni penose di dissidio e di difficoltà, tra le quali egli può e deve dar prova della sua fedeltà, della sua forza, della sua resistenza e della sua capacità di merito. Tutto questo è difficile e dimostra che la vita pubblica e soprattutto l’esercizio del potere esigono una preparazione spirituale, in cui vigoreggi la capacità di rinuncia. Tutto può decadere quando entrano nell’esercizio della vita pubblica e del potere l’ambizione e l’interesse personale.

Il vero cattolico di fronte agli «altri»

Per «altri» qui intendiamo coloro che, pur battezzati ed anche qualche volta praticanti, nella vita pubblica (e spesso non solo in quella) si comportano come chi aderisce a principi teorici e pratici discordanti in qualunque modo dalla dottrina cattolica. Va da sé che, per il momento, non ci occupiamo in alcun modo di situazioni particolari. Qui trattiamo unicamente di principi. Solo appresso dovremo formulare la ipotesi di situazioni contingenti. Ecco dunque i princìpi che devono guidare il vero cattolico. La fede non la si impone a nessuno. Pertanto non sono ammissibili coercizioni quanto all’atto di fede; esso è, deve rimanere sempre atto libero, per dare così vero onore a Dio. Il fatto solo che non si possa da noi uomini, imporre l’atto di fede implica che si debba accettare come fatto che esistano uomini privi di fede. Il che ha ovviamente delle conseguenze giuridiche e pratiche. – La fede la si può e la si deve predicare a tutti ed anche i laici hanno in questo un dovere di collaborazione con la Chiesa, della quale sono membri e nella cui famiglia vivono. Ciò lo si ottiene anzitutto con la professione aperta della propria fede. Non si esclude affatto che in talune situazioni gravi e penose come quelle persecutorie si possano dare ragioni valide per tacere e ritirarsi, come quando non è possibile fare di più, o quando il tentare «oltre» diventerebbe più un danno che un vantaggio ai fini della Chiesa e della salvezza delle anime. Ma le situazioni gravi e penose alle quali alludiamo sono, lo si ritenga bene, casi piuttosto estremi e non debbono vedersi realizzate quando invece è solo questione di interesse o di paura. I mezzi giuridici e non giuridici, ma onesti, che sono possibili per condurre la propria azione nella direzione indicata dalla propria informata coscienza cristiana, debbono essere usati coraggiosamente. – La fede obbliga ad avere principi ben chiari nei rapporti cogli altri e pertanto indica da quale angolo si debbano vedere i problemi umani e sociali. Essi vanno sempre inquadrati nella finalità che hanno le cose terrene e nella misura definita da Cristo con le parole: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt. XIX,19). La dottrina cristiana spinge a considerare l’autorità e conseguentemente il potere come un servizio e non come un personale godimento. – La fede, con la chiarezza della legge divina, obbliga ad accorgersi: che la politica è il punto di confluenza di tutte le maggiori ambizioni e passioni, dove tutto facilmente può venire dirottato ben lontano dalle esigenze del bene comune, non esclusi modi apparentemente leciti per chi superficialmente giudica. Essa, la fede, severa con le ambizioni e le passioni, indicatrice di un distacco del cuore dai beni terreni, mette in guardia chi sente cattolicamente, perché non cada nella tentazione, la quale ha rovinato molti e nei secoli ha dato alla Chiesa i guai peggiori. Questa considerazione conduce ovviamente a ponderare con chiara precisazione qualunque collaborazione, non per escluderla sempre, ma per restare a questo proposito nella norma morale e per evitare quel facile inganno, che sempre è latente ove le illusioni degli uomini superano la loro capacità e spingono le loro ambizioni.

Le formazioni che agiscono nel campo civile con ispirazione cattolica

L’argomento ha non pochi contatti teorici e pratici con la l’«ortodossia». Ha tuttavia bisogno di una importante premessa, che meriterebbe una trattazione a parte e che qui ora non affrontiamo, ma della quale neppure possiamo tacere. Una comunità politica, fatta di Cristiani Cattolici, dopo quello che si è detto sopra, dovrebbe essere, naturalmente e chiaramente, in privato e in pubblico, di impronta cattolica. Questo sarebbe il frutto della logica e della coerenza di ogni anima cristiana, di molte anime cristiane, nonché il frutto della necessità per lo Stato di non essere agnostico. Dunque la società tipicamente cristiana può esistere anche se per la comune legge, che non conosce cose perfette in questo mondo, potrà avere difetti marginali. Questa «società cristiana» sorge e nasce con perfetta spontaneità dalle anime sinceramente cristiane. La naturalezza di questo è tale che, se si volesse dire altrimenti, ci si incontrerebbe fatalmente in una contraddizione. Di ciò abbiamo voluto avvertire, non tanto per difendere la società naturalmente cristiana del Medio Evo, ma perché appaia in quale considerazione debba tenersi la asserzione – così spesso difesa da pubblicazioni italiane periodiche sedicenti di ispirazione cristiana, senza ombra di resistenza da parte di altre più pudiche pubblicazioni – secondo la quale non si può concepire in clima di libertà una «società cristiana». La asserzione è dunque falsa. Ma c’è di più: è ipocrita, perché si può ritenere venga espressa così per ottenere effetti interessanti. La questione sarà sempre, per una societas Christiana, che lo sviluppo del senso cristiano, dall’individuo alla somma degli individui, ossia alla loro comunità politica, avvenga naturalmente senza coartazioni indebite. La societas Christiana può esistere e sarebbe utile a tutti che esistesse. La vera ragione per cui la si vuol negare, rompendo la logica della propria fede, è la paura che la societas Christiana dipenda dalla Chiesa. – Quando la società è naturalmente cristiana non occorrono associazioni politiche che si distinguano per la ispirazione cristiana. A questo punto è doverosa un’altra affermazione. In una società che non fosse tipicamente cristiana, per la mescolanza delle vane religioni o per la parziale apostasia di molti credenti, si potrebbe ipotizzare uno stato di onestà nei supremi princìpi per i quali prevalessero i dettami del diritto naturale nella conformazione politica ed anche nella vita politica. Quando non c’è miseria questo di fatto accade, almeno qualche volta. In tal caso è possibile non sia necessaria, per difendere la libertà della Chiesa e della religione, una associazione politica di Cattolici come tali. In realtà quando in uno Stato esiste il vero rispetto delle libertà dei cittadini e della libertà di associazione, difese entrambe dagli aspiranti alle «signorie», esistono ragioni per una sufficiente anche se non perfetta libertà religiosa e possono mancare ragioni veramente cogenti per associazioni politiche cattoliche qualificate, siccome accade in qualche nazione. Le associazioni politiche di ispirazione cattolica sono sorte per difendere la libertà religiosa e, spesso, la libertà della Chiesa od almeno la dottrina sociale della Chiesa, in ambienti che erano guidati o da dottrine avverse alla religione o da principi laicisti. Se non ci fossero state esagerazioni persecutorie e schemi laicisti, probabilmente sarebbe mancata la ragione per cui sono sorti dei partiti cattolici. E vero che il bisogno di contrapporsi ad un concetto illuministico ed asociale dello Stato ha avuto la sua parte, e non disprezzabile, nel condurre ad inquadramenti politici; tuttavia non è poi certo se, con quella sola ragione, gli inquadramenti politici sarebbero sorti. Sono sempre le azioni che suscitano azioni in direzione contraria, quando non rimangono nel giusto equilibrio. Questo bisognava pur dire, perché all’inizio delle formazioni politiche cattoliche sta sempre una ispirazione profondamente religiosa e la netta volontà di difendere, in un ordine più cristiano, il diritto e la libertà delle anime e della Chiesa. – Quali allora i principi che regolano la linea morale di associazioni in campo civile che o sono di aperta ispirazione cristiana (cristiana in Italia vuol dire cattolica), o si presentano come polarizzatori e rappresentanti dei cattolici, soprattutto militanti? L’azione in campo civico (se si vuole: politico) in quanto tale, per sé, non è di competenza ecclesiastica. Da questo principio si possono trarre tutte le ovvie e legittime conseguenze, a patto che si contemperino coi principi egualmente veri che seguono.  L’azione in campo civico non può prevalere né sulla verità né sulla legge morale. – L’azione in campo civico ha sempre un aspetto che pone un collegamento chiaro col Magistero ecclesiastico. Si tratta dell’aspetto morale anzitutto: su questo aspetto, e cioè sulla conformità o meno di una azione politica rispetto alla legge divina, è competente a giudicare la Chiesa ed il suo giudizio vincola la coscienza dei fedeli se viene  dato in forma sufficiente e conveniente a creare il vincolo. Si tratta poi dell’aspetto ideologico, di quello cioè in cui una azione politica o diviene accettazione di una determinata dottrina o diviene appoggio diretto od indiretto alla medesima. In tal caso può accadere che non sta più salva la posizione mentale dei Cattolici rispetto alla sacra dottrina della Chiesa ed anche per questo caso il magistero della Chiesa può esprimere il suo giudizio nel campo dottrinale o di sua competenza. – C’è finalmente o può esserci nel fatto politico un terzo aspetto al tutto concreto e pratico ed è il collegamento tra il medesimo e certi o probabili danni della religione e della Chiesa. Questa ha il diritto di difendersi ed ha il diritto di indicare ai suoi figli quello che ritiene pericoloso. I suoi figli non possono negarle né il diritto né la capacità di giudicare delle azioni o delle conseguenze di azioni ai suoi danni. – Gli atti della Chiesa, nella sua competenza, hanno valore per la coscienza di tutti e singoli i fedeli e possono spingere tale valore fino a creare la obbligazione di coscienza. Una formazione rappresentativa di Cattolici in campo civile (e pertanto anche politico) proprio in forza della sua ispirazione cristiana e cattolica ha doveri maggiori. Questo non ha bisogno di essere dimostrato, perché è noto a tutti che la legge cristiana, fondata su una divina rivelazione, domanda qualcosa di più della semplice legge naturale e perché qualunque collegamento, fosse pur solo ideale, con realtà superiori impone una perfezione maggiore. Ciò significa che ogni orientamento deve essere volto al «meglio» e mai al «peggio». Questi doveri maggiori vanno ben considerati sia nell’aspetto negativo che nell’aspetto positivo. Per mantenere una esposizione «ascendente» cominciamo dall’aspetto negativo. Dal punto di vista negativo una formazione cattolica in campo civile deve sempre evitare qualunque azione disonesta, qualunque prevalenza di interesse personale su interesse pubblico, qualunque «personalizzazione» della propria attività; le ragioni sono tutte nella morale cristiana; deve evitare qualunque impiego di mezzi illeciti, compresi tutti gli espedienti machiavellici, e pertanto qualunque concorrenza con chi batte vie riprovevoli. La ragione di questo è non meno evidente di quella detta prima. La collaborazione al male sta tra i mezzi illeciti e per i particolari rimandiamo i nostri confratelli agli ordinari testi di teologia morale: là ce n’è abbastanza! Dal punto di vista positivo una formazione di Cattolici in campo civico: deve far prevalere i «motivi ideali» su quelli di interesse anche immediato; deve tendere a realizzare nella giustizia la coesistenza di tutte le categorie e pertanto non può svolgere una lotta di classe: deve realizzare la concordia con la virtù e non soltanto coll’interesse o la convenienza, educando uomini a servire e non ad essere serviti; deve avere nel massimo grado il senso di responsabilità del vero bene comune. Infine, deve avere sempre presente che, per quanto autonoma nel suo aspetto meramente politico, non può considerare tale autonomia in modo lesivo della verità e della legge di Cristo, né può dimenticare che il proprio comportamento (anche per malizia di interpretazione altrui) deve evitare che cadano sulla Chiesa responsabilità sconvenienti o ingiuste o addirittura lesive del supremo bene delle anime, per il quale è stata costituita la Chiesa stessa. Nei confronti della Chiesa, anche ove mancassero ragioni giuridiche di interferenza della medesima in materie estranee alla diretta competenza sua, resta sempre la dignità della «maestra» e della «madre»; i rapporti stabiliti dalla forza magisteriale e dalla vera autorità materna non stanno nei parametri di un discorso politico e non defraudano le libertà politiche, ma tutti capiscono che trascendono queste cose e su queste cose irradiano per ragioni soprannaturali. Ecco dunque la Chiesa e il mondo. Il mondo per agitarsi ha le sue ragioni culturali, politiche, economiche, sociali e tecniche. Le ultime tendono a prendere un primato. Esse sono vicinissime alla materia, della quale si avvalgono, e possono raggiungere la forza indiscutibile e straripante della materia stessa. Sulla cultura prevale certamente ormai la rete materiale dei mezzi diffusivi che pongono la suggestione dei popoli in poche mani, frettolose e spesso partigiane. L’imitazione del mondo e la tentazione di riuscirgli graditi porta ad esercitare una immorale pressione sulla verità, dato che il mondo tende, nella sua corsa affannosa, a sostituire la verità col «fatto». E pertanto la verità, la ortodossia possono contare poco quando l’orgoglio, il piacere, l’interesse e il vuoto portano a considerare piuttosto l’utile del «fatto» che il dovere della «verità».  Il mondo dà segni in cui si scorge la noia del suo asservimento alla materia ed alla luogotenente della medesima, la tecnica! La Chiesa non travierà mai. Noi possiamo traviare. E meglio rimanere cittadini della «città superna». Sant’Agostino al tramonto di una grande giornata del «mondo», scriveva i ventidue libri del De civitate Dei. È tempo di riprendere quel grande discorso.

[Fine]

 

 

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – CHIESA, FEDELI, MONDO (II)

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

CHIESA – FEDELI – MONDO – II –

Ortodossia III

[Lettera pastorale del 5 agosto 1962; «Riv. Dioc. Genovese», 1962, pp. 208-248].

Sincerità verso i fedeli

Si domanda: dobbiamo continuare a proporre ai fedeli tutto quello che è nel messaggio di Cristo, con tutto quello che in esso sotto la garanzia e la guida di un legittimo Magistero vivo può essere via via inteso o da esso dedotto o con esso connesso obiettivamente? Questo dobbiamo farlo mantenendo la stessa distinzione netta e fermissima che ha fatto Gesù Cristo tra verità ed errore, tra bene e male, tra Dio e mammona, qualunque possa essere la reazione a questa netta fermezza e a questa chiarezza? Dobbiamo accettare tutta la logica di immutabilità dinamica che è nella Rivelazione? Dobbiamo continuare ad esigere la stessa morale, con la stessa distinzione dal mondo, con la croce, la povertà di spirito, la umiltà, la obbedienza? Dobbiamo ancora affermare che «niente serve all’uomo, se guadagna anche tutto il mondo, ma reca danno all’anima sua» (Lc. IX, 25), stabilire così un principio di assoluto primato contro tutto e tutti, se occorresse, della parola di Dio, della opera di Dio, del Regno di Dio? – Oppure tutto questo dobbiamo aggiustare, decurtare, rammollire od anche solo dire sottovoce, pudicamente, per non guastare l’orgia delle intelligenze e dei costumi, per adattarsi al mondo, per poter dialogare con il blasfemo, per presentare un volto dolce ed accessibile al messaggio di Cristo? Questa la domanda. Essa riguarda l’ortodossia globalmente intesa. È evidente, e pertanto siamo nell’argomento di questa lettera. Tale domanda sembrerà a molti inutile, perché la questione messa nei suoi chiari e duri termini non ammette per un Cattolico che una risposta: «no». Ma basta diluirla, basta farla filtrare attraverso stati d’animo, con evocazioni emotive e con la perenne garanzia di una sorta di amore verso i fratelli, perché sembri diversa nella forma (e per questa sia palliata), sia invece identica nella sostanza (e in tale modo venga di fatto accettata). Fin dalla prima nostra lettera sull’Ortodossia, noi abbiamo messo i nostri sacerdoti in guardia contro questo modo sottile di comportare gli errori. Un’altra volta siamo a quello stesso punto. Del resto non c’è bisogno di giustificare: i fatti parlano. Gli elogi di molti vanno a coloro che sanno rendersi graditi ai «lontani», senza tener conto che spesso per rendersi graditi bisogna mentire. La questione della salvezza delle anime non è questione sentimentale che possa essere posta e risolta in termini emotivi, accomodanti e a tutti i costi concilianti. Qui sta l’errore: essa va posta nei termini di fede, di penitenza e di rinuncia nei quali l’ha posta Gesù Cristo. La sincerità verso i fedeli ci obbliga a predicare a loro con estrema chiarezza e continua ripetizione le verità dure che ha insegnato nostro Signore Gesù Cristo e che noi dobbiamo portare a tutti. Notate bene: anzitutto, sempre, chiaramente. Perché Gesù Cristo ha portato verità dure, per l’intelletto. Enumeriamo le più salienti.

Il mistero trinitario. Gesù, anche prima di darne la sintesi e la formula, siccome accade in Matteo XXVIII, ne ha parlato continuamente, perché è continuo il riferimento al Padre, a sé Figlio e – almeno da un certo punto nei discorsi – allo Spirito Santo. Non aveva importanza per Gesù che il continuo richiamo al Padre nei discorsi degli ultimi tempi suoi mandasse veramente in bestia i suoi oppositori. Più andavano in bestia e più ne parlava. E strano che taluni non sentano la significazione del dramma continuo che accompagna questi discorsi! Il mistero della Trinità lo si penetra attraverso un raffinamento della intelligenza e dei suoi strumenti, mai lo si esaurisce; ma tanto più lo si intende quanto più si arriva a vedere che tutto il rimanente della rivelazione cristiana non ha significato senza il mistero trinitario.

La incarnazione del Verbo. Essa, con quello che la contorna, è il fatto più interessante di tutta la storia umana. Lasciando le porte aperte per la buona volontà che intende sottrarsi al terrore delle contraddizioni, questa verità fa veramente curvare la schiena. Gesù Cristo ne ha fatto il motivo continuo, il punto di riferimento, la pietra di saggio per provare la fede di quelli che voleva beneficare, per provare la convinzione dei discepoli. Non aveva importanza che quella verità spezzasse qualcosa, soprattutto in un ambiente dove erano proibite tutte le rappresentazioni antropomorfiche della divinità e dove Egli si presenta invece «uomo». Gesù non ha posto il problema di rendere la verità «dolcificata» e «passabile»; ha pianto su Gerusalemme, ma non ha ritirato o ridotto i termini della Rivelazione ed ha annunciato come castigo l’eccidio del suo popolo e a distruzione della città e del tempio.

La redenzione attraverso la Croce. Gli apostoli e i discepoli (essi sono stati i soli a sentirne parlare) si torcevano ad udire le profezie della passione, che si incalzavano come a non lasciarli tranquilli e ad impedire che si costruissero i termini di un comodo avvenire. Il dramma della Croce si stende su tutto il pellegrinaggio terreno del Redentore, ne diviene il fatto caratteristico che ha, come bene illustra la lettera agli Ebrei, un tratto eterno, anche per la rinnovazione eucaristica.

La rigenerazione. Gesù ne parlò chiaro a Nicodemo (cfr. Gv. III, 5-7), il quale diede prova di capire poco. Su questo punto il discorso si fa sempre più esplicito e più grave, passando attraverso la trattazione di Cafarnao (cfr. Gv. VI, 27 sgg.) ed arrivando al grande discorso dell’ultima cena. Come Nicodemo ha dimostrato (lui, uomo piuttosto fine, intelligente, intuitivo e probabilmente più colto di altri discepoli), tutti debbono avere provato una certa vertigine ad udire parlare del mistero della rigenerazione e della grazia. Ma Cristo non ha avuto riguardi nel mettere una posta fondamentale e nell’invitare l’uomo a raccogliere tutte le sue forze per arrivare a porre un atto di fede. Quell’atto fa valicare il cosmo e tutte le cose che il cosmo può insegnare o mostrare, anzi tutto un ordine», che è ben più grande del cosmo stesso. Dietro al mistero della rigenerazione si vedono i Sacramenti, il Battesimo.

L’Eucarestia. Una attenta lettura del discorso eucaristico di Cafarnao, preparato intenzionalmente dal miracolo della moltiplicazione dei pani, dal discorso sulla fede e sulla azione della grazia da parte del Padre, rivela per le sue ripetizioni e i suoi rincalzi lo stato d’animo di coloro che lo ascoltarono: si torcevano veramente, dichiarano secco che è un discorso duro quello che intendevano; se ne vanno; c’è aria drammatica di sommossa, al punto che — evidentemente non erano del tutto immuni neppur essi dallo stato d’animo della folla – Gesù ai discepoli pone il problema di fiducia. In extremis la professione di Pietro, stupenda eppur rivelatrice, salva la posizione dei discepoli che si sono sentiti dire – questa volta – non «venite», ma «volete andarvene anche voi?» (Gv. VI, 67). Per capire qualcosa di più di questo mistero la teologia ha lavorato mille anni!

Il giudizio finale e la dannazione eterna. I capitoli del Vangelo dedicati a questa verità, in un certo senso conclusiva, sono tra i più difficili e pare portino con sé il travaglio ed il freddo del supremo contestato destino degli uomini liberi e peccatori. La immagine dell’inferno eterno resta ferma, irremovibile ed implacabile al punto stesso in cui possono cessare l’amore e la obbedienza perfetti e totali degli uomini verso chi li ha creati e redenti. Che l’inferno costituisca un mistero nessuno lo può negare, come tutto rimane mistero la vita di Dio e la incarnazione. Ma che esso sia un termine di grandezza, senza del quale si sminuirebbe tutta la rimanente grandezza di questa Rivelazione, nessuno vorrà negarlo, se capisce qualcosa.

La Chiesa. È una società immessa ab extrinseco nell’ordine terreno; è fatta condizione di ogni salvezza; dei diritti suoi non deve dir grazie a nessuno; lasciando a tutti la responsabilità terribile di non riconoscerglieli, è compaginata di cose divine, indefettibili e di uomini defettibili e tuttavia essa è la «sua», di Cristo. Se ci sono «chiavi divine» per aprire un arcano tesoro ed un altro ordine, esse sono date a questa Chiesa, e quello che la Chiesa legherà o scioglierà sarà legato o sciolto dal cielo. Dobbiamo dire che qui non è stata usata alcuna diplomazia umana, nessun attutimento, e neppure è stato tenuto conto del fatto che spesso gli uomini dormono e fraintendono. La verità qui è colpo diretto inderogabile. – Molti potranno trovare a ridire su questo o sul quel fatto di uomini accaduto nella Chiesa, anche nei suoi alti gradi, potranno comportarsi dinanzi ad essi come se fossero sconvolti. Stiamo tranquilli; lo sconvolgimento è assai più grande a sentirci dire quello che ha detto Gesù Cristo a proposito della Chiesa. Che, se il primo sconvolgimento non è incommensurabilmente più grande del secondo, ciò è segno che non leggono il Vangelo e non lo intendono anche leggendolo ed anatomizzandolo. Bella novità che gli uomini lasciati liberi da Cristo si servano della libertà medesima e facciano anche del male! Quello che sconvolge, se mai, è il fatto che a tali uomini nel volgere dei tempi, Dio abbia messo nelle mani cose divine! Le difficoltà non possono farle gli uomini col loro corto metro, le deve fare Iddio col suo metro infinito. Ma è Dio! Qualche eresiarca ha dimostrato spavento della curia romana, strumento pur necessario ad un uomo, che deve essere e fare il Vicario di Cristo restando uomo, come se la curia fosse la bestia dell’Apocalisse! Nessuno può negare che uno strumento umano possa anche in qualche momento sentire il caldo e il freddo, come accade persino ai metalli. Ma la cosa che sconvolge è che Gesù Cristo abbia dato a Pietro un potere tale e, munendolo di un carisma e di tutta la grazia, lo abbia lasciato libero di combinare quello che ha combinato nell’atrio del principe dei sacerdoti, lo abbia lasciato libero di avere in qualche momento paura e di sentire il peso di tutto, obbligandolo da uomo a servirsi di tutti gli strumenti dei quali si debbono servire gli uomini per fare qualcosa. Certo gli ha dato il dono dei miracoli, ma non per i suoi comodi. Sanno questo taluni letterati che si scandalizzano di Dio? Non è un buon gioco per loro. Qui le cose umane non possono vedersi altro che da una travatura divina. Certo, coloro che hanno servito i potenti piuttosto che Gesù Cristo non hanno avuto tempo, vivendo con una fede comoda e assopita, di vedere la travatura divina ed esserne sostenuti più che da ogni altra ragione umana. – Ora guardiamo il quadro di queste verità dure. Gesù sapeva che per aderire veramente alla fede, se era necessaria la grazia, era necessario si rispettasse l’ordine di natura, e cioè il modo col quale gli uomini arrivano raziocinando a delle convinzioni certe. Per questo il Salvatore ha trattato dei prerequisiti alla fede e li ha ampiamente forniti, anzitutto esterni (siccome domanda la natura umana) e non solo per allora, ma per tutti i tempi (cfr. Mt. XXVI,17 sgg.). Gesù ha voluto ci fossero delle dimostrazioni accessibili ed esaurienti, ma che imponevano pazienza, sforzo, lavoro, studio, umiltà e spesso purezza di cuore (cfr. Gv. III,19-21). Non ha elargito la evidenza immediata delle verità rivelate. Tra la evidenza immediata (che non è stata concessa) e lo sforzo razionale per arrivare alla fede ci sta in mezzo il «merito» della fede, quanto la possibilità di non raggiungere la fede ed anche di perderla. In questo breve tratto sta il vero dramma degli uomini, almeno il dramma fondamentale. Il percorso razionale verso la fede può essere tutto coperto, ma occorrono strumenti di precisione senza leghe dubbie e senza scorie infiltrate. La lega dubbia e la scoria infiltrata compromettono la prosecuzione del cammino e fermano generalmente il motore. – Il problema della fede è il problema di compiere un cammino, di usare uno strumento di precisione, di non pretendere che un’automobile di cartone divori una salita e, finalmente, di insistere sul motore. Molti non lo fanno e si lamentano a torto. È in questo modo che Dio ha conciliato, perché fossimo anche noi liberi e meritevoli nell’atto di fede, la crepuscolarità della nostra cognizione e la luce della verità, la stessa libertà nostra e la pienezza della convinzione. – In talune pubblicazioni si direbbe che si ha paura della apologetica. Ma è Gesù Cristo che l’ha voluta, come elemento di questo magnifico incontro, tra la luce e le tenebre, tra la libertà e la obbedienza intellettuale, tra la fede (pur sempre atto di intelletto) e la coscienza di un uomo che, credendo, sa di non essere irragionevole. La ragione per la quale si cerca di tacere dell’apologetica sta nel fatto che già si è slittati, almeno in qualche modo, nel soggettivismo filosofico, nel relativismo idealistico. Questo lascia la porta aperta a pensare e dire e fare quello che si vuole. Ma, premesso ciò, Gesù Cristo ha enunciato verità dure. Diciamo «dure» per significare che sono superiori alla portata della nostra intelligenza. Si tratta di verità che potremo in qualche modo intendere, ma non comprendere; penetrare, ma non esaurire. Lo sforzo di ridurle, a mezzo di un trattamento istintivo e sentimentale, ad essere extra razionali è lo sforzo autentico per rinnegarle. Guardiamo bene in faccia Cristo; con Lui non si gioca. Per dire queste cose, Gesù Cristo ha accettato: il ripudio del suo popolo, lo strazio del medesimo, il deicidio, la croce. – Questa croce ha dato alla sua Chiesa da portare come segno delle genti fino al giorno in cui la medesima non lo precederà per l’ultimo giudizio. – Noi dunque cercheremo di tarpare queste verità per instaurare un dialogo più umano con quelli che non obbediscono interamente a Dio? Noi, ai quali è stato dato l’ordine di «predicare sopra i tetti» (Mt. XX, 27), ci lasceremo cogliere da un falso pudore e, per questo, cercheremo di raccomandare tali verità alla cultura umana, affinché le protegga, o le affideremo ai giullari di una fantasiosa letteratura perché ne diventino i desiderati accomodatori? Gesù ha lasciato distruggere Gerusalemme… – Le verità dure per la debolezza umana sono quelle che riguardano i costumi e che domandano un comportamento totale, degno di figli adottivi di Dio. – La verità più dura è una verità generale. Nessuna norma, nessuna ragione, nessuna istanza terrena può prevalere sulla legge data da Cristo; nessuna ragione umana o di Stato o di famiglia o d’altro può limitare comunque la obbedienza dovuta a Dio. Non c’è posto per un’altra legge che non sia subordinata a quella di Cristo; non c’è posto per una coscienza morale civile, che sia parallela e indipendente da una coscienza morale cristiana. Vogliate meditare bene i seguenti testi: «Non sono venuto a mettere la pace, ma la spada. Perché sono venuto a dividere l’uomo dal padre e la figliola dalla madre e la nuora dalla suocera sua; e nemici dell’uomo (saranno) i suoi famigliari. Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me e chi ama il figliolo o la figliola più di me non è degno di me; e chi non prende la sua croce e non viene dietro di me non è degno di me. Chi avrà Trovato la sua vita la perderà e chi avrà perduta la sua vita per amor mio la ritroverà» (Mt. X, 34-39).

«Se dunque la tua mano o il tuo piede ti è causa di peccato, mozzalo o gettalo via da te; meglio è per te entrare alla vita monco o zoppo, che aver due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è causa di peccato, cavatelo e gettalo via da te, meglio è per te entrare alla vita con un occhio solo, che averne due ed essere gettato nella Geenna del fuoco» (Mt. XVIII, 6-9).

Questi testi non sono che un saggio. Sono chiari e rivelano una fermezza che è costante. Altra verità dura è pure una verità generale. Gesù Cristo domanda una perfezione, la domanda interiore, la domanda estesa ai più piccoli atti dell’uomo ed alle loro sfumature, tanto che siamo invitati tutti ad essere «perfetti come il Padre che sta nei Cieli» (Mt. V, 48), tanto che « . . . ogni parola oziosa che gli uomini dicono, di questa parola renderanno conto nel giorno del giudizio» (Mt. XII,36). Si tratta di una verità che sta sotto tutto il discorso della montagna, per tacere di altri innumerevoli testi neotestamentari. – La legge dell’amore è sublime, ma è una verità dura, perché sostanzia l’amore a Dio con la osservanza della sua parola (cfr. Mt. VII, 21-23) e cioè lo vuole «concreto», perché lo collega all’amore del prossimo, dimostrando chiaramente che non ama Dio chi non ha amato i fratelli (cfr. Mt. XXV, 40); perché garantisce l’amore del prossimo con la misura stessa con la quale possiamo amare noi stessi e con la inderogabile ed assoluta legge del perdono. Prima di essere una poesia ed una infinita commozione, la carità è una cosa incredibilmente seria. Chi non perdona, non sarà perdonato. E facile dirlo, non è altrettanto facile farlo. Eppure è necessario. Si legga la stupenda sintesi che san Paolo fa della carità nella seconda Lettera ai Corinti al capitolo XIII e si avrà la testimonianza di tutto questo: la carità non è elemento ad uso puramente romantico o decorativo. – Il distacco del cuore dai beni terreni, dei quali il più vicino quaggiù siamo noi stessi, si realizza con l’umiltà e la semplicità, che ne sono inscindibili, alla base di tutta la vera e solida costruzione morale. Gesù ha detto: «Beati i poveri in spirito perché di questi è il regno dei cieli» (Mt. V, 3); «Non accumulate tesori sulla terra, dove tignola e ruggine corrodono e dove i ladri perforano e rubano; accumulate invece tesori in Cielo dove né tignola né ruggine corrodono e dove i ladri né perforano, né rubano… Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure all’uno si attaccherà e l’altro disprezzerà. Non potete servire a Dio e a Mammona… Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt. VI, 19-33). La penitenza, il sacrificio, la rinuncia e la croce, il tutto riassunto nella proposizione ed esaltazione continua della croce stessa, danno una qualificazione necessaria ed inconfondibile alla morale evangelica ed è per questo che «la porta è stretta ed angusta è la strada» (Mt. VII, 14). Su questo sfondo autentico e forte si vedono tutte le altre virtù morali, alle quali danno carattere, qualificazione e sostegno le virtù teologali della fede, della speranza e della carità. Nessuno può dubitare della preminenza che nella Rivelazione cristiana hanno queste virtù teologali. Abbiamo parlato solamente dei precetti e non abbiamo parlato dei consigli evangelici. Fatta anche questa precisazione, si capisce perché la morale cristiana non è una dilettazione cerebrale, non è una costruzione letteraria e soprattutto non è una cosa umanamente comoda. Con questa sua potenza, presentando agli uomini una ascesa ardua e faticosa, fa loro intendere che sono chiamati a cose grandi ed eterne. – Il pretendere di far passare come abbastanza comoda la morale cristiana è ingiuriosa deformazione. Al popolo dobbiamo dire quello che Cristo ci ha incaricato di dire e non dobbiamo né correggere, né attenuare nulla sulle labbra di Dio. Questa è la sincerità dovuta al popolo fedele. – Anche qui cerchiamo di guardare il quadro generale, per non essere fraintesi od accusati di una severità eccessiva. Questa legge divina è accompagnata da tre grandi cose: la speranza della felicità eterna, la azione della grazia, la sovrannaturale provvidenza. Dio chiede lo sforzo, ma resta Padre per accompagnare in modi anche mirabili, per sostenere e per donare le condizioni con le quali si alimenta la letizia. Anche qui si può verificare e si dovrebbe verificare sempre quello che accadde in Cristo sofferente, Salvatore nostro e nello stesso tempo «tipo supremo» della nostra vicenda terrena. In croce Egli sperimentò il dolore in una misura che nessuno ha mai lontanamente eguagliato. Nello stesso tempo ebbe la visione beatifica nella sua anima umana. Queste due operazioni simultanee sono state possibili perché Egli non ebbe solo la scienza sperimentale (legata al corpo e da questo coartata ad una sola operazione, siccome la esperienza nostra dimostra), ma ebbe anche la scienza infusa e la scienza beatifica, entrambe non coartate dalla presenza del corpo. Questa coesistenza della pace e della lotta, del dolore e del gaudio in Cristo sofferente sono uno degli aspetti più interessanti della passione in Lui. Ma sono anche la rivelazione di quello che, fatte le proporzioni ed in senso meramente analogico, può accadere nell’anima di coloro che lo servono. In essi l’azione della grazia, la illuminazione dello Spirito Santo può arrivare a rendere in qualche senso possibile la pace interiore e la letizia anche coi maggiori dolori, ed ordinariamente, nei veri servitori di Dio, stempera la vita affaticata e sofferente con una luce di conforto e di suprema presenza. Allora cambia sfondo e tono alla peregrinazione terrena. – La morale che abbiamo voluto chiamare «dura» non è dunque né tristezza, né una condanna, né una ossessione, né una esagerazione; è solo la prova dell’amore e la condizione del balzo verso l’Infinito, soprannaturalmente inteso. Come prima, parlando delle verità «dure» per l’intelletto, abbiamo fatto osservare che Cristo ha provveduto ad una documentazione capace di risolvere i problemi razionali di fronte alla fede, così ora dobbiamo una seconda volta invitare a vedere la compitezza divina. Infatti, accanto alla legge ferma e poderosa, Dio ha messo altre cose, ha donato un intero quadro. Per tal modo quello che, visto da solo, può essere chiamato «duro», visto nel quadro appare luminoso e grande. Ma nessuno ha diritto di stare a suo agio nel «quadro», se non accetta le verità dure. Lutero volle il quadro e non le verità dure: gli è accaduto quello che tutti sanno. Pertanto il «quadro» non autorizza nessuno a tacere delle verità «dure». Sarebbe insincerità verso dei fedeli, anzi sarebbe inganno perpetrato contro di essi. – A questo punto sorge un quesito che bisogna affrontare e risolvere con equilibrio e con chiara fermezza. Esso può formularsi così: i fedeli sono oggi sotto una continua azione frastornante quanto all’equilibrio, allettante quanto ai beni e ai piaceri sensibili, anzi materiali, debilitante quanto a tutte le loro riserve spirituali. – Per la prima azione, tende ad apparire loro strano quello che dovrebbe essere pacifico e normale; per la seconda azione, si attua la perenne tentazione della materia contro lo spirito con ogni mala ed ovvia conseguenza possibile; per la terza causa, si ha la vera usura quale consegue, nella capacità e nella azione, al peccato e al disordinato uso sia dei beni interni che dei beni esteriori. Ne viene una situazione di abituale difficoltà con riflessi sulla fede, sulla osservanza della legge di Dio, sulla ordinaria ascesi delle anime, sullo stato emotivo irrazionale che abbiamo voluto intenzionalmente chiamare nel titolo «situazione depressa». – È perfettamente inutile negare una tale situazione e sottrarsi con insinceri espedienti ai problemi che essa pone. Bisogna freddamente prenderne atto e meditare. Sarebbe perfettamente stolto impaurirsi di questa situazione depressa, che risponde ad un particolare tornante della storia, perché nel Vangelo Gesù Cristo su queste avventure, su quella finale, ha parlato crudamente, ma ha anche assicurato che sarebbe stato «ogni giorno con noi fino alla consumazione dei secoli» (Mt. XXVIII,20), e che «cielo e terra passeranno, ma le sue parole non passeranno» (Lc. XXI,33). – Le epoche di maggiore difficoltà diventano così con certezza le epoche di maggiore grazia e di maggiore gloria. Il che è accaduto, in forme diverse, altre volte. – Fin qui una constatazione. Essa però pone, come abbiamo detto, il quesito. Eccolo. Non dobbiamo, noi, indirizzarci a questa gente sbattuta e talvolta sbalordita dal parossismo, dalla fretta e dalla suggestione moderna, con una tattica nuova, la quale faccia sintesi della dottrina con termini preferibilmente nuovi e più generici, tali da permettere interpretazioni più elastiche e pertanto meno forti per la debolezza umana; sfumi talune parti più difficili e meno simpatiche a stati d’animo artificiali; ponga nel silenzio le verità che a qualche titolo possono sembrare più dure e meno digeribili; faccia una ripulitura del patrimonio dottrinale e storico, dando la colpa ai teologi di affermazioni che potrebbero sembrare troppo precise o troppo ingombranti e ciò per averle, essi, arbitrariamente introdotte nel patrimonio comune, giungendo quindi ad una maggiore semplificazione? Alla grave domanda bisogna dare una risposta seria. Per poterla dare abbiamo fatto delle premesse che il benigno lettore, a questo punto, farà probabilmente bene a rileggersi. Tuttavia bisogna pure, prima di rispondere, fare delle considerazioni, le quali restringano il campo della risposta e impediscano che essa appaia equivoca e superficiale. Nell’esibire qualsiasi proposizione e pertanto nel fare qualsiasi catechesi, niente vieta che ci si attenga a:  una gradualità nelle cose e nel tempo; a una esigenza di «traduzione», per cui le cose da dirsi, senza alterazione, vengono presentate nella forma più rispondente ad un ingegno letterario, ad un ciclo culturale, a specifiche situazioni psicologiche, via via mutanti; e infine a un «ordine» congegnato coll’intendimento di raggiungere un determinato onesto scopo. Su questo non si può ragionevolmente discutere, perché queste sono norme elementari di metodo, valevoli sempre ed ovunque, a seconda delle circostanze in cui si applicano. E per questo che resta buona regola sapere usare tempestivamente il linguaggio letterario, il linguaggio psicologicamente attivo, il contegno saggiamente rispondente alle esigenze del momento in cui si vive. – Veniamo alla risposta sui quesiti esposti. Essa è e deve essere pienamente negativa. Su questo punto non si può rimanere in alcun modo con delle esitazioni, le quali sarebbero colpevoli. Vediamo partitamente. –

a) – I termini volutamente nuovi (perché come tali possono essere intesi «altrimenti» dalle verità esposte), i termini intenzionalmente generici, le interpretazioni elastiche (per poter non differire da posizioni deformi) sono sempre altrettanto intenzionalmente e almeno potenzialmente degli oltraggi alla verità di Dio. C’è di più: costituiscono un aver vergogna di quello che ha detto e fatto Gesù Cristo, un irrazionale tentativo di correggere Dio stesso. Talune modulazioni generiche e sfuggenti possono essere certamente usate, quando non si intende «diluire» la verità, ma, si intende, usando una tattica, arrivare a presentarla intera e nuda come è in se stessa, prendendo le precauzioni occorrenti a che non si finisca col declassare la verità, prima di averla detta.

b) – Sfumare le parti più difficili e meno simpatiche a certi stati d’animo, o prima o poi diventa tradimento alla verità. Che se la sfumatura è solo tattica prudente e consiste nel dire solo in parte o dire successivamente, potrà essere usata come «metodo», per arrivare alla pienezza della proposizione.

c) Il silenzio su qualche verità ci metterebbe subito in contrasto coll’Evangelo: «Insegnate loro ad osservare tutto quello che vi ho comandato…» (Mt. XXVIII,20). Il silenzio momentaneo può essere tattica e gradualità. Il silenzio intenzionale è deformazione del messaggio evangelico.

d) Circa la ripulitura del patrimonio dottrinale e storico, si è già anticipata la risposta nel capitolo primo di questa lettera. Nulla c’è da ripulire. Infatti le opinioni personali dei teologi valgono quanto loro, ossia quanto gli argomenti che adducono, e nessuno mai è stato obbligato a seguire l’opinione personale di un teologo fino a che questa è rimasta personale. Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti! Quindi per questo aspetto niente da ripulire, ma piuttosto sufficiente scienza per accorgersi che si tratta di opinioni personali discutibili e per nulla certe e definitive. Detto questo, è altrettanto giusto affermare che questo lavoro di opinioni costituisce il mezzo delle «ipotesi di lavoro» col quale si fa progredire la scienza teologica, perché sia sempre maggiore la intelligenza della verità divina, più feconda, più utile alle circostanze e più capace di generare maggiore ammirazione verso la eterna saggezza in essa manifestata. – Accade talvolta che una proposizione passa dal livello delle opinioni personali a quello del consenso comune, il quale porta in causa il Magistero infallibile della Chiesa, oppure al livello diretto dello stesso Magistero. Questo non è soltanto solenne, ma ordinario, anche di tutti i giorni. E per questo che ci siamo fatti premura di parlare della Chiesa e del Magistero «vivi». Dunque anche qui niente da ripulire. – Il concetto che qui si debba ripulire suppone l’idea erronea che il Magistero della Chiesa sia solamente solenne, che non esista un vero Magistero Ordinario, che si debba bruciare tutto il trattato de locis theologicis, che la Chiesa sia un museo di cose divine e non un organismo vivo a tutti i titoli ed a tutti gli effetti. Le quali idee erronee menano dritti dritti fuori della ortodossia. – La conclusione è chiara e deve venire, appoggiata come è ad un motivo di fedeltà all’Evangelo, prima di qualsivoglia altra considerazione contingente: noi dobbiamo dare ai fedeli la verità, tutta la verità, soltanto la verità, siccome è nel mandato divino, e dobbiamo darla con tutta la chiarezza e fermezza con la quale l’ha data Gesù Cristo, sacrificando noi per trovare le migliori procedure di merito, ma mai tacendo o riducendo e mettendo sotto diversa luce il contenuto della Rivelazione. Dobbiamo darla, finalmente con quella giusta e controllata ricchezza che da sé ha saputo trarre nel corso dei secoli. – Abbiamo sentito che taluno ha radiato dalle prediche degli esercizi quella relativa al peccato, perché ritiene la questione del peccato una questione patologica e psicoanalitica; quella relativa all’inferno eterno, perché è cosa incompossibile con la mentalità moderna. Questo non è accaduto, che noi sappiamo, nella nostra diocesi, ma è accaduto. Ci sono molte ragioni per dimostrare che tali motivi addotti non esistono; ma ne basta una sola: questo è sotto la condanna di Cristo. Del resto, nessuna età ha avuto tanta paura come la nostra, e la vera ragione per cui non si vuol parlare dell’inferno è che lo si sente piuttosto vicino. – Di fronte ad una «situazione depressa», quale era quella del suo stesso popolo, succube di passioni e di sette, irretito dalla posizione economica e politica, Gesù Cristo non ha attutito nulla ed ha scelto di fronte alla posizione negativa i criteri estremi: per sé la croce, per i1 popolo giudeo il rigore della giustizia. Non è dunque sulla linea della verità che si va incontro alle situazioni depresse transigendo o tacendo di essa. Incontro alle situazioni depresse si agisce in un altro modo, come Lui: si va in Croce! Nessuno si spaventi: non sarà questione del patibolo, sarà questione di maggiore sacrificio da parte nostra. Non da parte della verità. – Del resto: è poi vero che il popolo desidera che noi facciamo degli attutimenti o delle riduzioni, mettiamo il silenziatore su questa o quella verità, cerchiamo di limare i margini della legge di Dio? Neghiamo che il popolo voglia questo. Infatti, chi è il popolo? La risposta è difficile, perché le manifestazioni che lo rivelano sono eterogenee e per dire: «Questo vuole, questo dice il popolo», bisogna scegliere una linea mediana, ossia i momenti in cui di esso non parla la passione, l’indettamento, a sciocca imitazione, la leggera avventura, la infatuazione boriosa e presuntuosa; ma solo la umanità semplice, compresa della serietà ielle cose e della profondità del dolore. Per sapere, adunque, in una questione come questa, non ci si può rivolgere a cerchie ristrette e cerebrali, ad interessati, forse neppure a inchieste e statistiche. Il «momento» in cui il popolo è tale probabilmente viene reso dalla «casistica» paziente e continuata. Ecco perché la questione è difficile, impone pazienza e prudenza, accortezza e indipendenza da mode e da pose. – Questi «momenti» sono spesso su opposte chine. Osservate i ladri: quando sono in vena e in possibilità di rubare (stato attivo) dicono: «Non è vero settimo non rubare». Gli stessi quando sono in stato di debolezza (situazione passiva) e stanno per venire essi derubati affermano: «Settimo, non rubare». Sono i diversi «momenti»; nel primo non li posso ascoltare, nel secondo, sì. – Abbiamo dovuto più volte occuparci di questioni morali gravi ed abbiamo visto padri inferociti per la penosa e colpevole situazione di qualche figlia; abbiamo davanti alla mente i casi in cui avremmo potuto osservare a questi padri: «Avete dunque cambiato parere; prima dicevate che tutto questo era lecito, ora che siete voi i colpiti (situazione passiva) dite il contrario». In un momento parlavano male, in un altro momento parlavano bene. Se ci fosse un pericolo comune, grave, terribile, imminente, si chiuderebbero forse molti luoghi di incontrollato divertimento e si riempirebbero in domenica e fuori di domenica le chiese. E già successo tante volte. Sono diversi ì momenti… – Naturalmente, se io vado a scegliere i momenti in cui parla la piccola cerchia, la passione, la suggestione, la paura, non saprò probabilmente mai che cosa veramente vuole o pensa il popolo. Sappiamo tutti benissimo che, davanti ad uomini i quali nella umiltà e nella rinuncia servono veramente Dio ed i fratelli, il popolo non ha mai da obiettare. Sono i momenti diversi… In alcuni è esso, il popolo, in altri è una folla, una passione che urla, un piacere che seduce… – Il popolo lo trovo più facilmente ad un funerale che ad un matrimonio, più nell’umile casa guidata da un saggio ordine che al caffè. Perché popolo e opinione pubblica, nel senso moderno, non sempre coincidono. Forse raramente. – Attenti dunque a dire «Il popolo esige, il popolo vuole…». Mettetevi, al giovedì santo, davanti al pretorio di Pilato e poi vedete – a sentire quella folla che chiede crucifigatur — quale effetto vi fa questo modo di parlare: il popolo vuole… Attenti, qui si sbaglia facilmente. Una volta in sacra visita un parroco ci disse: «Qui il popolo non vuol sentir parlare di Azione Cattolica». Sul momento abbiamo taciuto. Siamo tornati anni dopo nello stesso posto ed osservavamo una costruzione che stava sorgendo sul terreno della Chiesa. Domando: «che è quella?». – Risposta: «La sede delle associazioni; il popolo se la fa da sé». Infatti non avevano chiesto un soldo alla curia. – Riprendiamo ora opportunamente il filo del discorso. Che vuole il popolo?

Vuole che ci mostriamo con la nostra faccia. E per nostra faccia, con una precisazione impressionante, testimone di quello che hanno filtrato secoli di catechismo, intende quella del Vangelo. Non vuole sapere di imbellettamenti e, peggio, di chirurgie plastiche. Mal diranno, contraddiranno, insulteranno talvolta; ma se vedranno che riduciamo i toni per paura delle loro paure, faranno di peggio: ci disprezzeranno. Il rachitismo è oggetto di pietà, mai stimolo d’avanguardia e trofeo di potenza. Questo lo capiscono tutti, meno i cerebrali insipienti.

Cerca i coraggiosi. E i coraggiosi li individua in quelli che sanno superare anzitutto i propri interessi ed affrontano, così, liberi, i loro rischi. Non ammira i soldati che vanno all’avanzata solo dopo che le artiglierie hanno ucciso tutto il nemico. Ha ancora tanta umanità per capire il valore di chi salta sull’argine e, dove un dovere chiama, offre il proprio petto all’avversario. Ricordiamo, subito dopo l’ultima guerra, qualche paese dalla situazione spirituale penosissima in cui tutto fu cambiato per qualche atto di coraggio di un sacerdote. – Questa è capitata a noi. In una libera conversazione religiosa con un gruppo di persone molto istruite e per nulla appartenenti ad associazioni cattoliche, qualcuno volle far dello spirito facendoci entrare sul tema dell’inferno e dei diavoli. Si accettò l’argomento. Quella notte nessuno di quella brava gente andò a dormire. Il fatto si ripeté diverse volte e ha per noi tolta ogni credibilità alla asserzione che ai nostri giorni sia difficile parlare dell’inferno. Ma più profonda restò la convinzione che in genere, per chi non ama sinceramente e concretamente Dio, manca il coraggio di guardare nell’abisso della sua verità; il coraggio, diciamo, non la voglia.

Vuole sentire la nostra convinzione. Tutti sanno che la convinzione è la dote essenziale, dal punto di vista apostolico, della predicazione. Generalmente essa, quando è viva, è capace di far perdonare anche altri difetti. La retorica è spregevole per la nostra gente, perché è il segno che denuncia nel modo più sicuro la mancanza di convinzione o la convinzione senza colore.

Vuole sentire la parola di Cristo e non pretende che quella parola sia fatta su misura. Preferisce sapersi peccatore che trattato come un debole al quale non si può dire la verità. – Quand’anche tutte queste ed altre ragioni non esistessero, non cambierebbe la entità del dovere di annunciare Cristo come è, di scandalizzare col mistero della Croce, di irritare con la verità dell’amore e della misericordia divina, di eccitare reazioni col mistero Trinitario e col mistero dell’inferno, di ottenere anche canzonature col dogma della santissima Eucaristia. – Da trent’anni noi ci occupiamo di catechizzare gente soprattutto lontana. Abbiamo avvicinato ed avviciniamo tutti i ceti di persone, soprattutto i più difficili; miscredenti assopiti, coltissimi. Riteniamo che un ministero di oltre trent’anni abbia il diritto di dare la sua testimonianza. Ebbene, essa è questa: l’aver sempre detto con assoluta chiarezza tutta la verità e la verità più dura senza molti fronzoli ci ha fatto toccare con mano che questo era quello che si attendeva e quello che ci ha permesso di ringraziare umilmente la divina bontà. Dietro le apparenze più scoraggianti, abbiamo prima o poi sempre trovato fame e sete della verità intera, del dogma, della sua profondità, dei suoi aspetti solenni ed assoluti; se abbiamo trovato difficoltà, non gravi peraltro, ciò è accaduto con gente di fede, ma intellettualmente male indirizzata. – Esiste una letteratura che insinua affermazioni contrarie a quelle qui espresse. Abbiamo preso la penna in mano per dir al nostro clero: guardatevene, credete a Cristo e non a gente la quale per non aver obbedito ai Papi, ai Vescovi, al genuino senso della Tradizione cristiana e dei Santi si è vista sfuggire le anime, ha constatato terribili vuoti e non ha avuto né la onestà, né la umiltà, né in definitiva la intelligenza di capire che lo scempio delle anime non è il frutto della verità assoluta. Hanno invece creduto che lo scempio delle anime fosse il frutto di uno sbaglio di Dio e tentano miseramente di correggere l’assurdo errore. E questa tremolante ed equivoca metodica ha generato i cristiani che contestano a Gesù Cristo il fatto di essere veramente il Re dei re ed il Signore dei signori, raccomandandogli di farsi sufficientemente moderno, popolare e democratico. La incerta fede – non d’altro si tratta – ha permesso a sedicenti cristiani di affermare che esistono due verità, due coscienze e due ordini, uno cristiano e l’altro anodino, perfettamente paralleli e compossibili anche se intrinsecamente contradditori. Poiché questo è dato di leggere anche in questi giorni, nei quali con l’animo amareggiato scriviamo, facendo appello al coraggio antico, alla integrità dei tempi migliori ed alla piena sudditanza verso il Romano Pontefice e la Chiesa. [Continua … ]

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – CHIESA, FEDELI, MONDO (I)

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

CHIESA – FEDELI – MONDO

-I-

Ortodossia -III-

[Lettera pastorale del 5 agosto 1962; «Riv. Dioc. Genovese», 1962, pp. 208-248].

 

Fedeli all’impegno preso e al sacro dovere di tutelare in tempi di diffusa follia la purezza della vostra fede e la rettitudine del vostro sentire, eccoci a indirizzarvi, cari confratelli, una terza lettera sulla ortodossia. Essa ha un tema assai unitario, perché verte su stati d’animo, equivoci, errori e problemi dai quali potrebbe venire ed è già venuto gran danno alla Chiesa. Non dimentichiamo mai che la Chiesa, pur fatta di uomini, è nostra madre e che noi dobbiamo essere in piena comunione con essa, se vogliamo essere in piena comunione con Cristo. Prima di venire a trattare i singoli e gravi argomenti sui quali ci pare doveroso attirare la vostra attenzione, stimiamo necessario svolgere alcuni concetti generali.

Rapporto Chiesa — mondo

I rapporti tra la Chiesa e i fedeli sono stati determinati dallo stesso divin Fondatore in modo chiaro e definitivo. La Chiesa è gerarchica e questo significa che la obbedienza a Dio esiste solo se c’è la obbedienza alla Chiesa nei limiti fissati da Gesù Cristo. Questo rapporto non può legittimamente cambiare: ogni sua sostanziale alterazione significa scisma od eresia o tutti e due. Il discorso dei rapporti tra la Chiesa e il «mondo» non è così semplice. Apparirà più avanti la ragione per cui il rapporto è assai più complesso. Cominciamo a chiarire il significato nel quale si prende la parola «mondo». Data la possibilità, per essa, nello stesso linguaggio religioso od ecclesiastico, di più significati, si impone una determinazione netta del senso in cui viene assunta. Noi prendiamo qui il termine «mondo» nel senso di «comunità umana». Non usiamo intenzionalmente il senso di «comunità civile», perché restringerebbe il significato «universale» nel quale dobbiamo prendere il termine «mondo». Infatti esistono ancora comunità che non possono dirsi civili o pienamente civili e queste andrebbero fuori del nostro discorso. Il che non deve accadere: la comunità che non fosse ancora civile o molto civile avrebbe tutti i suoi diritti, per il fatto che è umana. Infatti non ci sarebbero diritti sul nostro pianeta, se non ci fossero uomini. Ma dove ci sono uomini, siano essi incolti o colti, educati o meno, ci sono anche diritti. – Coi termini «mondo» o «comunità umana» si definiscono «gli uomini in vita associata». Tale vita associata ha o dovrebbe avere per fine il bene comune terreno; poggia su di una organizzazione, consta di rapporti quali sono possibili e convenienti tra esseri dotati di intelligenza e libertà. Conseguentemente a tale duplice capacità, si perfeziona quanto può e gradualmente col diritto, con l’autorità e con la legge. La «comunità umana» è una società perfetta, la quale può articolarsi in elementi distinti – ancora «società perfette» – che sono i singoli Stati (per usare il linguaggio moderno). È per questo che il termine «comunità umana» può essere adeguatamente, ma propriamente usato per i singoli Stati o addirittura e semplicemente per lo « Stato ». Così nel nostro argomento il termine «mondo» può significare tanto la comunità degli uomini come la comunità degli Stati, come semplicemente lo «Stato». Dipenderà dal contesto decidere delle sfumature di riferimento. Precisato tutto questo, cerchiamo ora di richiamare il rapporto che Gesù Cristo ha messo tra la sua Chiesa e il mondo. Ecco gli elementi che determinano il rapporto:

a) Gesù ha voluto che la sua Chiesa fosse una vera e propria società universale, visibile. In tal modo essa non resta soltanto in fondo alle coscienze, ma si configura «nel» mondo;

b) Gesù ha voluto che la sua Chiesa avesse un «diritto» ed ha voluto che sorgente di tale «diritto» fosse solamente Lui, non pertanto gli uomini o la comunità della loro vita associata;

c) Gesù ha voluto che lo scopo della sua Chiesa, società visibile, fosse al di sopra ed oltre la «comunità umana», fosse cioè soprannaturale ed eterno e risolvesse al livello di «grazia» il problema fondamentale e totale dell’uomo. – Per la prima determinazione fatta da Gesù esiste dunque in questo mondo un’altra associazione, un’altra organizzazione, un’altra autorità, di natura tuttavia diversa, e la stessa «comunità umana» viene a far parte di una «comunità maggiore» che è la “communio sanctorum”, e in più si dilata al di là dei limiti del tempo. Per la seconda determinazione, viene concretamente chiarito come la unica sorgente di qualunque vero diritto non possa essere altri che Dio (e ciò serve a rassicurare gli uomini); viene precisato come il diritto umano abbia dei limiti (il che costituisce rimedio contro tutte le tirannie); sicché, l’esistenza di un indipendente diritto nella Chiesa, relativamente al suo campo specifico, funziona come garanzia, confronto e risorsa per la stessa libertà degli uomini. – Per la terza determinazione è posto il principio della autonomia nel rispettivo campo: infatti la «comunità umana» è volta al bene complessivo terreno, la società ecclesiastica è volta al bene definitivo soprannaturale ed eterno. Rimane un margine, a proposito di questa reciproca autonomia, che potrebbe teoricamente creare qualche difficoltà, ciò che rende necessarie alcune considerazioni ulteriori. Infatti ad un certo punto è logico che le ragioni superiori ed eterne prevalgano. Il fine della società ecclesiastica è più largo, più definitivo e più alto di quello della comunità umana. Le conseguenze sono chiare. La «comunità umana», anche prescindendo dalla rivelazione divina e da quanto Cristo ha stabilito, ha una radicale incompletezza della quale bisogna tener conto. Si tratta di questo: essa accompagna i suoi membri fino alla morte. Dopo, non può più nulla. Tuttavia nel non potere «più nulla» ha una precisa indicazione del suo dovere. Essa ed i suoi membri hanno nel pellegrinaggio terreno sufficienti ragioni (storicamente è chiaro) per sapere di una immortalità dell’anima, ossia di una sopravvivenza, ben maggiore del limitato tratto di tempo in cui si svolge la vita terrena. Dalla percezione di questi motivi sufficienti nasce ed è nato di fatto il più grave problema della vita di ogni uomo: provvedere nel modo più sicuro, durante il limitato presente, all’interminabile «poi». La soluzione di questo problema condiziona e condizionerà sempre la esistenza, la quantità e il modo di quel bene comune terreno al quale è volta la comunità umana. Infatti nessuno vivrà con serenità se non potrà pensare che ha provveduto al «dopo», tuttavia così oscuro e misterioso. Di fronte a questo «dopo» che campeggia su ogni evento, in ogni coscienza e su ogni ideale veramente civile, la comunità umana, che pur può avere una religione e con essa può protendersi verso l’ai di là, rimane monca ed incompleta. La radicale incompletezza impone un preciso atteggiamento (fondato nella inevitabile serietà del maggiore problema) verso la rivelazione divina. – La «comunità umana» non può fare nulla che impedisca ai suoi membri di provvedere alla eternità; non può rendere difficile nessuna via tendente alla risoluzione del grande problema; deve contrarre se stessa su quei margini oltre i quali potrebbe diventare ostacolo e distrazione od ingombrante impegno, rispetto al diritto dei suoi membri di provvedere al “dopo”. Ne nasce obiettivamente una situazione, anche giuridica, della quale tutti possono vedere il peso nella determinazione del rapporto tra la Chiesa e il mondo. – Tuttavia intendiamoci bene: se parliamo di radicale incompletezza della «comunità umana», non affermiamo questo riferendoci alla sua capacità giuridica di provvedere al proprio fine particolare (benessere terreno complessivo); lo affermiamo invece rispetto ad un problema sempre affiorante per i singoli e per la collettività e che sconfina dalle cose terrene. Vogliano o non vogliano gli uomini, il problema della eternità se lo trovano davanti sempre; le loro esperienze del tempo sono tutte fugaci e generalmente amareggiate dalla presenza di quel problema. Il quale non è affatto risolto con la furbizia laicista di non pensarci o di considerarlo come non esistente per la comunità. Esso è invece l’ombra di tutto. La comunità umana ha le sue successive «simpatie» che, come accade di tutte le simpatie, almeno in un certo senso la limitano. La simpatia del momento è la tecnica, figlia di una scienza del mondo materiale che rende più comoda la esistenza, più facile ed imperioso l’esercizio del potere, più maneggevole la pubblica opinione. E piuttosto ovvio che la nostra età, nelle favorevoli condizioni di conquista del cosmo, si senta attratta a vivere soprattutto di tecnica. Ma questa tecnica riguarda il mondo materiale, mentre nell’uomo rimane dirimente il mondo spirituale. Qui sta la questione ed il facile errore. Qui è la ragione per cui anche certi cristiani per bene finiscono, senza volerlo, col trovarsi sul piano dei materialisti (marxisti o no). La stessa scuola ha cominciato a scivolare sulla china della preferenza tecnica a danno della fondamentale istruzione ed educazione umanistica. Il punto è questo: ad un popolo incivile si può insegnare a costruirsi delle automobili nel giro di dieci anni; ma per insegnargli a «sentire» in modo elevato, ad avere una cultura, a saperla produrre e volgarizzare, sì da colorarne le proprie istituzioni e i propri costumi, possono occorrere secoli. Noi siamo esattamente a questo punto: la comunità umana potrà tecnicizzare in breve delle aree rimaste fino ad oggi smorte o inattive; ma non potrà nello stesso tempo civilizzarle intimamente. Anzi, con la sola tecnica acuirà il problema del contrasto che sorge naturalmente tra il molto progresso esteriore ed il poco o nullo progresso interiore. – È affiorata una delle tante debolezze che toccano la comunità umana e che ne possono turbare lo sviluppo e la pace. Perché abbiamo cominciato a recensirle? Perché esse servono a porre in termini «di fatto» e non soltanto in termini di diritto i rapporti tra la Chiesa e la comunità umana. – Riprendiamo ora il nostro cammino. In taluni punti la Chiesa si incontra con la comunità umana. Ne abbiamo detto il perché. Come si risolvono i problemi emergenti? In linea di dottrina la superiorità e maggiore comprensività del fine della Chiesa (eterno e soprannaturale) rispetto a quello della comunità umana (terreno e limitato), oltre a stabilire una gerarchia di valori, stabilisce pure per le materie miste e per l’aspetto morale di tutte le materie quale considerazione debba avere la società umana per la Chiesa. E lo stabilisce nettamente, inequivocabilmente, se si accetta la divina rivelazione. Accade di fatto che taluni Stati, per la loro storia, per la religione o non religione professata da parte della popolazione, per le ragioni politiche della parte dominante, non abbiano alcuna intenzione di riconoscere la rivelazione divina, dalla quale trae essenza e valore giuridico la Chiesa. Pertanto non hanno alcuna intenzione di inchinarsi a ragioni superiori, che essi non riconoscono. È difficile in cali casi iniziare un dialogo in sede di diritto, a meno che non ci si appelli alla esistenza di fatto di una popolazione cattolica, di una maggioranza o minoranza cattolica, la quale, in democrazia soprattutto, trasforma un fatto in un diritto efficace e considerevole. – Per taluni non avrà purtroppo peso che Gesù Cristo sia Dio, ma avrà peso che un certo numero di cittadini lo riconosca Dio. Tuttavia, se si tengono le considerazioni che sono state premesse, si comprende come, anche là ove è difficile un discorso in linea di diritto per la considerazione supereminente dovuta alla Chiesa, diventa più facile un discorso in linea «di fatto». Nessuna organizzazione al mondo ha incidenza sulle anime, sul loro orientamento morale, sulla loro educazione, sul loro equilibrio in pericolo di essere rotto dalla straripante crescita tecnica, come la Chiesa. Nessuna organizzazione religiosa ha in mano una dottrina sociale, che sia radicata nei suoi stessi supremi principi (e pertanto non occasionale o raccogliticcia) e che difenda l’uomo salvando l’equilibrio tra singolo e società, come la Chiesa. Effettivamente la situazione moderna permette di vedere che cosa valga l’individualismo protestantico (connesso con le sorgenti del medesimo protestantesimo). Non parliamo del rimanente. – La conclusione è questa: quando si parla di rapporti tra Chiesa e mondo, bisogna sempre badare ai principi dottrinali indefettibili stabiliti da Cristo, anzitutto. Ma bisogna anche, per una ragione pratica di accessibilità a chi quei principi non riconosce sufficientemente, badare ad una permanente ragione «di fatto».

Rapporto Chiesa – storia

Non si tratta di un pleonasmo. È vero che la storia appartiene alla comunità umana, almeno nel suo nucleo sostanziale, ma appartiene al «passato». Quando noi parliamo di comunità umana, parliamo di quella del «presente». Ecco perché è giustificato il trattare a parte il rapporto tra Chiesa e storia. Anche alla comunità umana accade quello che accade ai singoli uomini: quando una azione l’hanno compiuta, sfugge loro di mano, non è più oggetto della loro libertà. Entra nel corso degli avvenimenti e nessuno l’afferra più, arrivando anche ad impensabili effetti. La storia, nella quale la comunità ha giocato, tra le cose visibili, il ruolo di protagonista, le sfugge di mano ogni momento. – Il rapporto della Chiesa alla storia va recensito sotto diversi profili, tutti interessanti lo scopo del nostro scritto.

a) La Chiesa entra nella storia e passa per la storia con una invulnerabilità. La Chiesa è stata costituita da Cristo indefettibile: ciò significa che durerà, nella sua sostanza, identica a se stessa fino alla fine. Gli avvenimenti, in quella sostanza, non la potranno mai superare; dovranno aprirle un varco e se, nella singolare tenzone, qualcuno deve cedere e finire, questo non sarà la Chiesa. Con la Chiesa è dunque entrato un condizionamento nella storia. Abbiamo parlato di una invulnerabilità, non della invulnerabilità. Infatti sul margine degli uomini, delle fortune passeggere, delle vicende caduche, dei maggiori o minori frutti – salva la sostanza della sua costituzione, della sua vita e del tesoro che porta con sé – la Chiesa può patire tutte le vicissitudini ed incontrare tutte le persecuzioni. La invulnerabilità della Chiesa è dovuta ad un divino intervento e questo può deviare il corso di molti fatti.

b) La Chiesa entra nella storia e passa per la storia con in mano il più grande destino della storia stessa. Infatti è il regno di Dio che, posta la elevazione soprannaturale e la preminenza della incarnazione del Verbo su tutti gli avvenimenti, raccoglie le fila di tutto verso il momento escatologico. Quello che gioca in un tale confluire sorge da profondità, dunque, per noi abissali ed eterne.

c) La invulnerabilità sostanziale e l’essere la Chiesa portatrice di un destino supremo stabilisce i termini di confronto tra la stessa Chiesa e tutti gli altri avvenimenti, mai invulnerabili e mai, da soli e come tali, portatori di un destino eterno.

Tutto questo è la semplice esposizione di quanto ha stabilito Gesù Cristo e di quanto appare chiaramente dal complesso della rivelazione divina. Ciò non altera affatto i limiti delle umane competenze e la autonomia di quello che nella comunità umana ha il diritto di svolgersi entro la sua onesta libertà. Però stabilisce un modo di considerare la Chiesa, un rispetto per quello che in essa conta, un sommo apprezzamento della Provvidenza che in essa agisce, una indicazione circa le vie della saggezza anche negli affari meramente umani, una coscienza della sicurezza e della risorsa che essa, la Chiesa, rappresenta per tutto. In essa infatti l’elemento umano, libero e vario, mai sopprime o coarta nella sostanza l’elemento divino. Sicché la efficacia non manca mai, anche in mezzo a quei difetti che non dovrebbero meravigliare nessuno, se si tratta di uomini. – Questo solco aperto da Dio nella terra, e che nessuno potrà mai definitivamente interrompere o ingorgare, deve rendere pensosi tutti circa la singolare componente che entra così nei fatti umani e che può sommergere i corti disegni degli effimeri cicli.

La Chiesa è organismo vivo

Riteniamo di somma importanza che si abbia ben chiara la dottrina in proposito e che la si abbia rilevata su ogni altra considerazione relativa alla Chiesa, perché questa verità porta gravi conseguenze ed ha la possibilità di valorizzare modi di pensare fatui e fluttuanti. Ricapitolando semplicemente quello che risulta «certo» nella dottrina cattolica a proposito della Chiesa, ci chiediamo: quali sono gli elementi che, per volontà di Cristo, la rendono un organismo «vivo»? Non dimentichiamo che la «vita» è un movimento “ab intrinseco” e che non può essere affatto confusa con qualsivoglia movimento od automazione o motorizzazione o azione artificiale dal di fuori. – Ecco gli elementi che fanno la Chiesa «organismo vivo».

– La Chiesa è il corpo mistico di Cristo, per usare la figura assunta dallo stesso divin Salvatore (cfr. Gv. 15,1 sgg.), la vite della quale Egli è il tronco, gli altri i tralci e nella quale la linfa viene dalla vite ai tralci. La affermazione è chiara e netta. La profondità del suo contenuto attinge il mistero e l’ordine divino. La esposizione di questa verità richiede un discorso lungo, che non incombe in questo momento a noi. Qui basta ricordare che si tratta di una vita concreta, non astratta; precisa e non vaga; che, soprattutto, essa rende continuamente operante negli uomini e nei fatti, al di là di entrambi, un elemento superiore all’ordine umano, capace per noi di tutte le sorprese in tutti i rischi e in tutte le umane disfatte, capace anche più di frutti non computabili al solito metro degli ordinari avvenimenti. Si tratta del “mysterium Ecclesiæ”. Volerlo far svanire, in modo da rallentare — nel largo — tutte le briglie contro la umiltà, la obbedienza ed il sacrificio, è azione falsa e nefasta; volerlo precisare troppo con i nostri corti mezzi, e pertanto opporgli dei limiti e delle conformazioni piacevoli alla moda, è azione illegittima ed empia. Volerlo confinare in una regione in cui si fa a meno degli strumenti di cui ha bisogno la Chiesa «visibile», per chissà quali scopi, è deformare tutta l’opera di Gesù Cristo. Questo mysterium Ecclesiæ ha una conseguenza molto evidente: allorché si ragiona della Chiesa, se manca il riferimento ad una costante componente soprannaturale, il ragionamento stesso resta sempre inadeguato e facilmente erroneo.

– La Chiesa ha una efficacia (santificazione e salvezza eterna degli uomini), la quale, soprannaturale e divina, (grazia santificante, grazia attuale e doni dello Spirito Santo) è pure legata ad atti liberi di uomini. Ogni sacramento almeno in chi lo conferisce (p.e. nel caso del Battesimo) richiede una intenzione, che è quanto dire un atto libero. La efficacia dunque vitale della Chiesa passa anche attraverso atti vitali e liberi degli uomini.

– La efficacia della Chiesa non si ha solamente attraverso gli atti sacramentali, legati almeno in un certo limite al Sacramento dell’ordine, ma anche attraverso una azione di regime e di Magistero, la quale si attua con atti liberi di uomini. Che questo regime e questo Magistero sia assistito in modo da non essere mai essenzialmente lesivo della indefettibilità ed infallibilità della Chiesa è cosa che riguarda Iddio, ma non diminuisce mai né la libertà, né la vitalità degli atti umani. Se mai servirà a ricordare che dietro ogni facciata, bella o brutta che possa parere, ad un certo punto si troveranno sempre una ragione ed una garanzia divine, più grandi degli uomini che agiscono sulla scena della vita.

– La Chiesa deve trasmettere un messaggio a tutte le genti: quello evangelico. Qui abbiamo uno degli aspetti più tipici del suo carattere vivente. Attenti: questo messaggio non è fatto di quattro formule da ricantare materialmente fino alla fine dei tempi, come farebbe una radio perennemente accesa. No. Esso è fatto di verità eterne, assorbe verità naturali, cela ricchezze che possono essere via via dipanate, senza tradire o contraddire il messaggio stesso, e che hanno aspetti, nella loro sostanziale immutabilità, adatti alle congiunture di tutti i tempi che furono e che saranno. Il messaggio stesso, chiuso con l’ultimo Apostolo, senza mutare od arricchirsi di qualcosa che non contenga già almeno virtualmente, appare cosa vivente.

– Anche il modo con cui il messaggio è custodito e trasmesso alle genti appare con lo stesso saliente e singolare carattere. Esso ha una parte scritta, ma ha una tradizione orale, il cui mantenimento è assicurato tanto dalla esistenza della infallibilità che dalla garanzia di indefettibilità. Infatti il Magistero, non di pura e fredda ripetizione, ma di insegnamento (che è cosa ben più ricca) è nella Chiesa, così garantito eppur affidato ad uomini. In tal modo i chiamati alla redenzione, camminando per la Storia, portano sulle stesse mani loro il divino deposito e, attraverso la loro stessa azione, lo Trasmettono.

– Tutto è redatto alla unità vera e funzionale perché Cristo ha costituito un capo, Pietro, il quale si prolunga nei secoli attraverso il Pontefice Romano, munito d’ogni potere, assistito nel solenne insegnamento da un personale carisma di infallibilità, eppure sempre libero nel cangiante respiro della storia. Dietro a tutto quello di visibile che la Chiesa espone al mondo in mezzo al quale cammina, si leva universale, profonda e dirimente l’azione dello Spirito Santo. – Questa verità balza in modo impressionante da tutta la letteratura neotestamentaria e rovescia tutte le interpretazioni storicistiche, troppo umanistiche, scettiche o quasi, della vita nella Chiesa. L’azione dello Spirito Santo può certo anche diventare carismatica come lo fu il giorno della Pentecoste, ma non ha alcun bisogno di diventare esterna e miracolosa; anzi è sempre ordinariamente contenuta in quel discreto modo che lascia agli uomini la loro piena libertà e, se proprio lo vogliono, anche le loro distrazioni ed evasioni. In questa azione dello Spirito Santo, punto veramente fondamentale della rivelazione di Cristo, la Chiesa è sempre singolarmente e potenzialmente un organismo vivo e di una vita ben superiore alle forme note e forse trite per la semplice natura. Che la Chiesa sia organismo realmente, intimamente e soprannaturalmente vivo ha conseguenze di grave portata, che bisogna subito mettere nel giusto rilievo.

– La Chiesa rende testimonianza certa e sicura della verità e della via della salute in qualunque tempo, come in qualunque tempo è viva. Essa dunque rende testimonianza oggi, con lo stesso valore dell’evo subapostolico. Per sapere di una verità non occorre io interroghi età lontane, anche se questo è utilissimo e può essere necessario sotto altri profili; basta ascolti quello che la Chiesa fa e dice oggi.

– Non è ammissibile accettare che la Chiesa debba essere riportata a questa o a quell’altra epoca. Dire questo è ammettere che essa sia non un organismo vivo, della cui vita si è reso responsabile e garante Dio stesso, ma solo una preziosa mummia, interessante documento, da restaurarsi secondo schemi che solo l’archeologia (né la Rivelazione, né la grazia) procurerebbe. La Chiesa ha sempre bisogno di misurarsi anche con sforzo eroico sull’unico vero modello, Gesù Cristo. Ma questo non significa che essa sia in qualcosa morta e debba essere ridipinta dalla dubbia saggezza di uomini fantastici.

– La Chiesa, per questa sua vita di tale potenza e carattere, potrà trarre contingente vantaggio da tutte le culture, perché «omnia cooperantur in bonum» (Rm. VIII, 28), ma la considerazione di questa vita non può mettersi al livello assai inferiore di contingenti e non necessari apporti. Tanto meno potrà essere subordinata alle fisionomie contingenti e meramente umane di quelli. Essa sta al di sopra, il che significa non esistere alcuna ragione per cui una nascente chiesa africana od asiatica si senta in grado inferiore; come non esiste alcuna ragione per cui una chiesa europea debba credersi di grado superiore anche solo emotivamente parlando. Di superiorità giuridica non ne esiste veramente che una, quella della Chiesa Romana, perché è piaciuto a Dio per il ministero di Pietro affidare a quella l’episcopato del mondo.

Il Magistero ecclesiastico oggi

È un punto sul quale si possono confondere le idee per il facile influsso di quello che accade nel «mondo». Questo è portato dall’aria che spira a non riconoscere la esistenza di un potere vero e proprio, umano, in campo dottrinale, e si picca di rispettare la libertà di pensiero, in tale modo, anche se esercita nel sottobosco qualcosa che non è un magistero, bensì una suggestione ed allucinazione persuasiva a seconda che gli comoda. Odio al magistero, ma via aperta alla imbottitura delle teste. – In secondo luogo il «mondo» considera l’azione magisteriale come la procedura «per far capire qualcosa e portare al grado di saper pensare da sé», non come una trasmissione autorevole di principi certi. – Queste due caratteristiche del «mondo» rispetto a qualsivoglia «magistero» provengono da talune tare storiche, delle quali non abbiamo qui a discorrere; tuttavia hanno un certo fondamento, in quanto difficilmente il «mondo» riuscirebbe a mettere insieme la serietà sufficiente per instaurare un magistero propriamente detto. – Esso sfoglia i documenti, li ricerca, li custodisce, li critica, ci si diverte; ma sa benissimo che i documenti in sé sono cose inerti e possono anche essere morte. – Abituato così, diffonde intorno un senso critico coerente a questa situazione. Il «mondo», che non ha studiato bene teologia, non ha l’idea di un Magistero che sia vivo. La sua opposizione ad un Magistero vivo è fatta più di ignoranza che di cattiveria; però riesce a mettere in complesso di inferiorità anche chi, non bene edotto di tutto, si trova a meditare su questo fatto eccezionalmente interessante tra i fatti umani e riesce a comunicargli delle perplessità e delle mosse del tutto sbagliate. Noi scriviamo perché non vorremmo che questo accadesse tra di voi. Ed è pertanto che abbiamo parlato prima della Chiesa organismo «vivo» con un Magistero» che è «vivo». – Vi ricapitoliamo pertanto i concetti giusti in proposito, con quelle osservazioni che saranno del caso.

– Il magistero della Chiesa propone tutto il messaggio di Cristo, ma lo spiega, lo interpreta autoritativamente, lo applica, ne trae le ricchezze più recondite deducendo e svolgendo, rassicura sui dubbi, delucida le questioni che via via si possono presentare, si estende alle verità connesse anche se di ordine naturale. Tutto questo serve a manifestare successivamente, e senza alterare il messaggio, la inesauribile ricchezza in esso contenuta e la indefinita capacità di rispondere via via alle necessità delle anime in cammino verso la vita eterna. – Si compongono così due fatti singolari: la inalterabilità del messaggio di Cristo, che né si deforma né si appesantisce di elementi estranei al momento della Rivelazione, e il progresso dottrinale, che trae sempre dallo stesso identico tesoro e con quello che ne trae risponde alle esigenze della salute delle anime. Queste esigenze sono nella sostanza le stesse, ma hanno variazioni marginali. I due fatti singolari si possono comporre perché la Chiesa è un organismo vivente in cui agiscono uomini liberi, ma la cui anima sta nella azione dello Spirito Santo e nella vitale connessione con Cristo, Capo invisibile della medesima Chiesa. La ragione insomma della coesistenza di due elementi apparentemente tanto diversi sta in una vita, la quale affonda le radici nella eternità. Il carattere del «magistero vivo» si rivela non solo dalla sua intima essenza e dai suoi fondamenti, ma ancora dalla sua procedura. – Eccone gli elementi. Può essere solenne e ciò tanto nel Romano Pontefice da solo, quanto nella intera Chiesa docente, composta di tutti i Vescovi uniti col Romano Pontefice ed in quanto uniti col Romano Pontefice, come accade in un Concilio. Ma non esiste solo un magistero solenne. Se così fosse il magistero sarebbe certamente un magistero vivo, ma opererebbe, per ovvie ragioni, così raramente da essere un magistero il più delle volte dormiente. La vita sì, ma la vita manifestata a tratti. Conseguentemente il cammino delle anime troverebbe la propria strada illuminata solo in qualche tornante e troverebbe poi molte pericolose zone d’ombra. Le zone d’ombra sarebbero le facili foreste dei lupi rapaci. No.

Esiste un Magistero Ordinario.

Questo magistero ordinario appartiene a chi può esercitare il magistero ed alle stesse condizioni. Gesù ha mandato a predicare sempre. Gli Apostoli hanno predicato sempre. Il messaggio di Cristo è stato orale e per qualche tempo non ce ne fu altro. Da questo messaggio orale gli agiografi neotestamentari hanno tratto i loro documenti. L’ufficio magisteriale è chiarissimo nella Chiesa dei primi secoli. Dio ha permesso le persecuzioni dei primi tre secoli anche per dimostrare che, in tempi in cui era assai difficile e raro esercitare il Magistero solenne, poteva (per la vita di ogni giorno) bastare il Magistero ordinario. – La nostra attenzione si deve allora portare con maggiore impegno proprio su questo Magistero ordinario, sì da chiarirne la estensione ed il modo. Quale, dunque, la condizione perché si realizzi il Magistero Ordinario? La risposta è semplice. Poiché questo Magistero è stato da Cristo affidato a Pietro e alla Chiesa gerarchica come tale, esso si ha quando si può dire che Pietro o la Chiesa parlano. Si può dire che la Chiesa «parla» quando è unita ed è col suo capo, ossia quando esiste il consenso: questo consenso, per via esplicita od implicita, diretta od indiretta, è nella unione col Pontefice. Il consenso nella unione al capo è il «segno» che la Chiesa parla. Non si tratta di una verità creata da uomini, ma di una verità che è garantita attraverso uomini i quali, in quelle condizioni, beneficiano secondo la promessa del Salvatore della assistenza dello Spirito Santo. Basta quello che si è detto per valutare cosa significhi, anche per il Magistero Ordinario, la presenza e l’ufficio del Romano Pontefice, nonché degli strumenti dottrinali dei quali egli per la sua pienezza di potestà si serve e che sono ordinariamente nella Curia romana. – Sarebbe pertanto ben erroneo credere che la tranquillità dottrinale venga ai fedeli soltanto da un Magistero solenne, tanto raro e talvolta ostacolato da circostanze storiche. La piena e perfetta tranquillità dottrinale, il criterio certissimo della verità, lo si ha pure attraverso il Magistero Ordinario, il quale, come si è dimostrato, se non ha i caratteri esterni del Magistero solenne, ne raggiunge la stessa efficacia in definitiva e manifesta – per essere sempre in atto, ogni giorno – il carattere di «vita» della Chiesa. E per questo che prima di iniziare questo discorso abbiamo a lungo trattato della Chiesa «organismo vivo». – Prima di passare ad aspetti particolari del Magistero Ordinario riteniamo doveroso ribadire che esso sta soltanto, per sé, nel Papa e nella Chiesa gerarchica, che non è tale se non in quanto è unita con il Papa. Non sta dunque per sé altrove. Il Magistero ordinario non è, dunque, per sé affidato ai teologi, ai ricercatori di cose antiche, alle università, alle scuole. Vedremo quale autorità abbiano i teologi e per che via. Ma qui un principio deve essere ben chiaro: essi non sono i maestri o, se lo sono, lo saranno soltanto di riflesso. Principio di verità che li deve rendere bene attenti ed umilmente docili, perché nessuna presunzione riesce a dare loro quello che Cristo non ha dato. – Il Magistero Ordinario si attua in molti modi e non in uno solo, sia attraverso l’insegnamento diretto, sia attraverso atti che implicano in qualche modo un insegnamento. Ecco perché sarebbe inesatto volerlo stabilire solamente in base a documenti scritti. Ciò va notato per taluni ricercatori del tempo andato, i quali (per dimenticare questo) giungono talvolta a conclusioni meno perfette. Il Magistero Ordinario di un qualunque periodo storico non è detto debba apparire solamente attraverso scritti qualificati più o meno, dato che con è solamente con quelli che si esplica. Questa ampiezza di mezzi da ulteriormente l’idea di quanto sia vivo il magistero stesso. – Sorprende assai il vedere taluni studi, certo egregi, che nel ricostruire l’insegnamento teologico di un qualche periodo conoscono tutte le «fonti» qualificate, anche minime, e non tengono conto di quello che scaturisce dai fatti, anche più ampiamente considerati, ben oltre i documenti scritti. I quali talvolta non possono essere «letti» bene, se non in una cornice storica obiettiva, che li supera e che sa rendere tutto utile a tale effetto. Dobbiamo osservare come in materia teologica l’entusiasmo di certe ricerche patisca il danno non lieve della sopraddetta unilateralità. Abbiamo detto che il Magistero Ordinario si attua a talune condizioni e le abbiamo indicate. Può darsi il caso che si abbia un periodo in cui quelle condizioni non si attuano ancora per la soluzione di un dubbio o per una esigenza di chiarificazione o per la esposta ad un problema posto in maniera nuova da nuove circostanze. In tale caso si ha un «periodo di preparazione» in cui si fanno tentativi, discussioni, ricerche, si elaborano opinioni diverse, in cui l’autorità della Chiesa può intervenire — a scopo assicurativo, tentativo o difensivo – non solo in quanto maestra, bensì anche in quanto capace di guidare, reggere e fare pertanto leggi o decreti. Ciò spiega perché in tale «periodo di preparazione» si possano avere norme orientative di carattere assolutamente temporaneo, e cioè valevoli fino a che la questione non sia definitivamente e completamente chiarita nei termini che impegnano veramente e per sempre il Magistero ecclesiastico. Non c’è dunque da meravigliarsi di decreti che hanno in tale situazione un valore prudenziale. Basta del resto scorrere le cosidette «censure teologiche» che nei documenti ecclesiastici sono state usate a proposito di talune proposizioni: periculosa, temeraria, damnosa, haeresim sapiens, errori proxima, etc. Non si dimentichi che il Magistero Ordinario è vivo anche perché affidato a uomini i quali, esercitandolo, non cessano di essere limitati e di avere bisogno del tempo e dello studio; e che il carisma della infallibilità nella Chiesa non è legato alla ispirazione divina, anche se non la esclude, ma impedisce l’errore nella materia che è oggetto di infallibilità. – Il Magistero della Chiesa, solenne ed ordinario, riflette qualcosa sui teologi, questo può avvenire senza che la Chiesa sappia ed approvi; devesi invece ritenere per certo che, quando un tale consenso avviene direttamente od indirettamente consenziente la Chiesa docente, sola depositaria del Magistero, il consenso dei teologi, pur non costituendo per sé un Magistero Ordinario (i teologi non ne sono il soggetto), data la connessione con il soggetto vero del medesimo, diventa criterio certissimo di verità. – La «connessione» di cui abbiamo fatto parola, per la facilità odierna di pubblicare, per il facile indirizzo idealista, molto disimpegnato dai canoni della verità obiettiva, e per quello positivista, altrettanto disimpegnato dalle ragioni interne delle cose, implica oggi forse una maggiore sorveglianza che nel passato da parte dei Vescovi. Se noi scriviamo questa lettera è proprio per assolvere questo maggiore impegno. –  Un Magistero così articolato, e che può seguire fino alle ultime applicazioni o conseguenze o connessioni il contenuto immutabile della parola di Dio, può fare una certa impressione. E naturale che questo accada e tanto maggiore sarà la impressione quanto più si perderà il senso della verità obiettiva dopo le infiltrazioni filosofiche nell’abito culturale degli uomini. I quali, a forza di sentir confondere oggetto e soggetto, nonché di sentir semplicemente inventare invece di ricercare, hanno qualche volta perduto di vista l’elementare principio che la realtà e la verità obiettiva si identificano e che pertanto non si può giocare contro la verità obiettiva. – Quando esiste il senso della verità obiettiva non ci si meraviglia che, per quanto concerne la rivelazione divina, Cristo l’abbia protetta in tal modo. La meraviglia dipende da una triste malattia del tempo. E le malattie non sono né doni né vanti né glorie. L’esser il Magistero della Chiesa di una tale natura e di una tale lavabilità indica chiaro che la interpretazione della parola di Dio non può lasciarsi mai all’arbitrio del singolo, alla fantasia della moda, alla paura di chi, nell’apprendere dalla scienza umana qualcosa di nuovo, crede subito che crolli il mondo, crollino le idee ed i principi primi. – La Chiesa ha soprattutto da custodire la verità, perché essa illumina la via e promuove gli atti necessari a raggiungere la salvezza eterna. Infatti la fede, atto di intelletto col quale si accettano le verità rivelate da Dio, è il primo insostituibile passo verso la vita eterna. L’oggetto della fede, allora, va tutelato. Perché tutto questo discorso? Perché gli sforzi spesso incoscienti e subcoscienti di molti sono diretti proprio contro la latitudine del Magistero ecclesiastico ed hanno di mira di restringere l’oggetto della fede o di quanto si collega con la fede. Nella folle speranza che l’uomo sia più libero. Hanno dimenticato quello che è stato scritto: «La verità vi farà liberi…!» (Gv. VIII,32). [Continua…]