GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (1)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

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Lo scopo di questa lettera

Il sacramento della Penitenza è il primo tipico strumento per la remissione dei peccati, nonché il massimo mezzo per la profonda formazione cristiana dei fedeli, come singoli. Il nostro scopo non è quello di ripetere qui quanto può essere facilmente letto in qualunque testo approvato di Teologia morale. Per questo sarebbe sufficiente pubblicare una nota bibliografica con la raccomandazione di servirsene.Il nostro scopo è solo quello di illustrare la proposizione espressa in apertura di questa lettera e di concorrere, per quanto ci è possibile, a crearne nei nostri Sacerdoti il convincimento serio e operante. Riteniamo che, per conseguire questo scopo, si debbano trattare diverse questioni.

Perché la Penitenza è il primo tipico strumento per la remissione dei peccati personali?

Perché, nella ipotesi esistano peccati personali, la penitenza è necessaria, ossia senza di essa in re od almeno in voto non si dà perdono dei peccati. Ciò pone, nel caso esistano peccati mortali personali, una alternativa netta ed impreteribile: o penitenza, almeno in voto, o dannazione. Gli altri mezzi per ottenere il perdono dei peccati senza la attuale amministrazione della Penitenza sono validi e raggiungono l’effetto in quanto contengono in qualche modo il «voto» e pertanto il riferimento al sacramento stesso della Penitenza. La affermazione – estremamente grave – non è una sottigliezza teologica, è un dato fondamentale ed elementare del semplice catechismo. – Per vedere chiaramente la gravità della affermazione, bisogna aver precise e stagliate due verità altrettanto elementari. Il peccato è la più vergognosa e terribile macchia che possa incogliere l’uomo, perché la legge divina – contro cui si lancia il peccato – è condizione impreteribile di salvezza eterna. Legge e peccato sono termini collegati: per dimenticare l’uno bisogna dimenticare anche l’altro. La incarnazione del Verbo ha una sua ragione fondamentale nella redenzione dal peccato; Gesù è l’Agnello che toglie i peccati dal mondo.Il sacramento della Penitenza, collocato nella cornice di queste due verità, assume la sua grandiosità imponente. Se il nostro ministero non compie quello che occorre per togliere i peccati dal mondo, resta un ministero sostanzialmente sterile. Il sacramento della penitenza è la riduzione sacramentale della vicenda espiatrice del Verbo fatto uomo.

Perché la Penitenza è il massimo mezzo per la formazione dei fedeli come singoli?

Perché il confessore, che è nella Penitenza padre e dottore, deve compiere le funzioni di medico dell’anima ed in tale veste deve rendersi conto delle radici dei peccati, deve prescrivere rimedi congrui, deve dare consigli salutari, deve pensare ad evitare le ricadute. Tutto questo fa nel segreto del sigillo, per il quale più facilmente le anime si aprono, nella intimità discreta della cognizione, la quale dispone con singolare naturalezza il penitente alla umiltà, nella dignità di un sacramento del quale non si evita il soprannaturale prestigio. Ossia: nella Penitenza il confessore agisce in maniera diretta sulla vita interiore, vi ha una ineguagliabile capacità incisiva, si impone con giustificata autorità, quanto compie è accompagnato da una divina grazia che supera ogni altra umana efficienza. Nella Penitenza il confessore, ben conscio del suo ministero, illumina, corrobora, orienta, rassicura. Ciò dimostra la capacità educativa dello strumento sacramentale. Nessuno in questo mondo entra nell’anima altrui con la nobiltà, intimità ed efficacia, offerto dalla Penitenza. La psicanalisi entra nella situazione psicologica di fatto, che è un’altra cosa, perché l’anima di un uomo non è da confondersi con la sua fantasia, con i l suo istinto e con il suo subcosciente. Alle spalle della psicanalisi non ci sta un ordine ed una efficacia di ordine divino.

Perché preoccuparsi dello scopo specifico della Penitenza?

Perché si tratta di uno scopo essenziale della nostra Fede. Dove si arriva, infine, se non si tolgono i peccati dal mondo? Poiché nasciamo peccatori, liberi ed immaturi, abbiamo bisogno di una educazione. Poiché la nostra fisionomia interiore e la indefinita varietà degli atti personali che ci seguono portano ad una non minore varietà di situazioni personali, il più delle volte indecifrabili dall’esterno, non è affatto sufficiente ed adeguata una educazione esteriore e di massa. Occorre che il tocco educativo attinga le singole anime. Finalmente a nessuno può sfuggire che l’avvenire del popolo di Dio, formato di fedeli singoli, è intimamente legato alla esistenza di una educazione cristiana, specifica e pertinente. – Questo è necessario capire: che nessuno strumento per quanto ingegnoso, per quanto tecnicamente perfetto, ha nel sacro ministero la potenza penetrativa, la capacità forgiatrice del sacramento della Penitenza. – C’è tuttavia un motivo che dimostra la urgenza di occuparsi dell’argomento. La tecnica ministeriale, che deve pur essere considerata con fiducioso rispetto, tende per un complesso di fatti (che non possiamo esaminare qui) ad invadere e dominare il campo dell’apostolato sacerdotale. I mezzi sacramentali vengono ricercati meno, spesso troppo poco. Un certo umanesimo, di sapore del tutto pelagiano, nel campo intellettuale tende a mettere in primo piano risorse, anche oneste in sé (come la tecnica psicologica, età), ma che in molti servono a distogliere dalla stima per i superiori mezzi: origine divina, quali sono il Sacrificio e i sacramenti. Il naturalismo acquista ogni giorno espressioni scaltre, che paiono accreditarlo non meno del soprannaturale, specialmente se presentato come un ragionevole compromesso per incontrare il mondo, mentre l’incontro con il mondo deve essere fatto nell’ambito segnato dall’Evangelo applicato dai santi Apostoli. Il demonio gioca la tattica di far sostituire ai mezzi dell’Evangelo i sotterfugi di una vacua razionalità mondana. E talvolta ci riesce. Non esitiamo affatto a giudicare tutto questo preoccupante e spaventoso. Ed è per questo che questa Nostra lettera è un grido di allarme. Avevamo cominciato a stenderla or sono diciannove anni allora ci preoccupavamo di richiamare la perfetta e santa amministrazione del sacramento della Penitenza. Quella lettera non fu allora compiuta perché attendevamo l’esito di talune avventure intellettuali. Gli anni sono passati ed oggi a farci ritornare sull’argomento non è solo la preoccupazione della santa amministrazione del Sacramento, bensì il dovere di ridare al Sacramento il prestigio e la preminenza, perdute purtroppo nell’anima di taluni ministri di Dio. Il confronto tra la lettera mai pubblicata e la lettera presente è testimone che talune cose si sono volte al peggio e non al meglio. Contro questa diminuzione di un prestigio della Penitenza si levano alcuni fatti o difetti, che avremo occasione di esaminare appresso. Si leva soprattutto la fame e la sete, che del Sacramento e della direzione spirituale (così legata al Sacramento) prova un numero infinito di anime, pur senza saperlo. Non si dimentichi che il sacramento della Penitenza è la porta più ordinaria al sacramento della Eucaristia, cibo e vita delle anime, ed allora si capirà quanto sia vera la equazione: la formazione profonda dei cristiani è pari alla frequenza ed alla santità con le quali si amministra il sacramento della Penitenza! – C’è un’ultima generale ragione per preoccuparsi assai dello scopo specifico del sacramento della Penitenza. Essa è la necessità della educazione individuale delle anime. Cioè: per educazione non basta affatto quella cosiddetta comunitaria, semplicemente ecclesiale, collettiva, di massa, perché le anime si formano ad una ad una. Nessuno vuol negare che la educazione collettiva sia complementare e qualche volta suppletiva della educazione individuale; si afferma solo che generalmente non è sufficiente. – Sta il fatto che la opinione di comodo scivola verso la convinzione di occuparsi della educazione collettiva, abbandonando la educazione individuale come colpevole di opprimere la libertà della persona umana. E proprio la persona umana, che in ogni caso è ontologicamente persona e in moltissimi casi non è affatto «moralmente» persona, ad invocare l’intervento della formazione individuale. – Ora nella testa di coloro i quali credono alla educazione esclusivamente comunitaria, disprezzando la educazione individuale, entra altrettanto la convinzione che in fin dei conti la Penitenza è solo per rimettere i peccati, una sorta di lavatrice automatica. Noi dobbiamo reagire con tutta la forza contro una simile erratissima concezione che non ha nessuna verità ed un solo pregio: quello di essere molto, ma vergognosamente, comoda. Ecco le principali ragioni per le quali le anime, finché è possibile, vanno formate una per una. Si ammette che è difficile ottenere questo, ma Dio non ci imputerà ciò che diventasse praticamente impossibile, per il numero dei fedeli, per la insufficienza delle forze, per la riottosità delle stesse anime a lasciarsi guidare verso Dio. Mentre dovremo rendere conto di tutto quello che potevamo fare. Le anime sono dissimili. Riesce difficile sostenere che le anime siano o possano essere ontologicamente dissimili. Però, poiché entrano per la unione sostanziale in un composto umano che porta con sé tracce di tutte le generazioni preterite e queste tracce compone e scompone in svariatissimi modi, senza tener conto della intrusione di molti dati di fatto, le anime sono praticamente dissimili tra di loro. A noi poco importa che la ragione della dissomiglianza sia una piuttosto che l’altra; basta il fatto che la dissomiglianza c’è. – La dissomiglianza mette fuori gioco la efficacia di molti mezzi, altri riduce, altri altera. La azione educativa per questo motivo deve partire non solo da una base di principio teorico ed astratto, ma dalla conoscenza del singolo caso in concreto. Spesso accade che lo stesso metodo rende un educando amico ed un altro educando nemico e tanto basta a far capire che i metodi educativi non si possono applicare sempre e dovunque indiscriminatamente. – Le esperienze interiori – oltre che esteriori – delle anime sono dissimili. Queste esperienze infatti dipendono da ambienti, da contatti, da persone, dal grado di doti di relazione, dalle reazioni esterne e finalmente dalla stessa recettività o reattività del singolo. Anime simili possono avere esperienze non solo dissimili, mai addirittura opposte. Tutto ciò porta l’impegno educativo sempre alla considerazione e all’impegno individuale. Affinità ed analogie non mancano, si danno accostamenti che possono permettere anche qualche classificazione, ma con tutto questo non si arriva a poter abitualmente provvedere alla educazione spirituale in una formai semplicemente collettiva. Tanto quanto questa verità entrerà nella convinzione dei nostri confratelli, altrettanto aumenterà la giusta stima del sacramento della Penitenza. – Si potrebbe aggiungere che infinite compressioni di anime trovano uno sfogo giusto solo nell’ombra discreta del sacramento della Penitenza. Pensiamo che i dolori e le solitudini angustiose degli altri debbano avere il loro peso nel farci giudicare con saggezza in merito alla presente questione. Il fatto che lentamente si stia facendo una diversione falsa e dalle incalcolabili conseguenze, – dalla educazione anzitutto individuale alla educazione anzitutto od esclusivamente collettiva, dalla educazione che si adatta alla indefinita ricchezza e varietà delle anime a quella ispirata semplicemente al tipo standard, moda, folla… – deve attirare la nostra attenzione. Esso, soprattutto se entra inavvertitamente (come accade nella maggior parte dei fenomeni), ci fa mettere da parte il sacramento della Penitenza quale lo ha concepito e configurato Gesù Cristo. Infatti da qualche parte – non qui – qualcuno si è provato a dispensare dalla accusa individuale, dando larghe e gratuite assoluzioni generali alla massa. Forse qualcuno ha fatto a meno persino di quella.

La regola morale ed oggettiva divina non cambia

Il sacramento della Penitenza viene amministrato in forma di giudizio, per il fatto che si opera una scelta tra due estremi e questa scelta non è arbitraria, ma guidata dal merito delle cose tra cui si sceglie. I due estremi tra cui si sceglie sono: rimettere o ritenere il peccato. Quale il criterio per scegliere? Gli atti e le disposizioni del penitente. Le disposizioni del penitente in che consistono? Nel pieno rinnegamento del peccato. Allora, presuppongo che qualcosa sia peccato, qualcosa no. Che cosa decide tra i due casi? La Legge, ossia la regola morale obiettiva congiuntamente con la situazione soggettiva. – Comunque tutto comincia a dipendere dal fatto che vi è una regola o legge morale oggettiva, e cioè indipendente da noi, superiore a noi, anche ammettendo la esistenza di leggi positive variabili. Ecco perché in tema di confessione sarebbe inutile continuare ogni discorso ed ogni uso se non esistesse una regola morale oggettiva, capace di discriminare tra il bene ed il male. Ecco perché è importante rispondere alla laconica domanda: cambia la morale? La regola morale oggettiva e divina non cambia. Ed ecco il perché. Il piano di Redenzione delineato nella rivelazione divina ha fissato un tipo dell’uomo con una legge precisa e degli scopi ben definiti. Questo piano non cambia. Per cambiare dovrebbe cadere – contro tutte le affermazioni di Cristo e degli Apostoli – il piano divino. La natura umana non cambia. La sua costituzione, la essenzialità sei suoi rapporti sono immutabili. L’ambiente presenta infinite inazioni accidentali, che non toccano mai l’essenza dell’uomo. La Legge è stata data come definitiva ed eterna. Le norme morali date da Cristo hanno valore fino a che Egli non «verrà di nuovo», e cioè per tutti i tempi fino al momento escatologico. La fissità della norma fino all’ultimo giudizio è una delle cose che risaltano nella predicazione evangelica. – La Chiesa ha in tempo recente chiaramente disapprovato la cosiddetta «morale della situazione» ed il Vaticano II ha richiamato – fatto di morale, sia pure interpretandola secondo lo sviluppo dei tempi [chiaramente questo è criticare il conciliabolo senza che i suoi insipienti “censori” se ne rendessero conto, viste poi le successive affermazioni in evidentissimo contrasto -ndr.-], le norme sempre affermate dal magistero ecclesiastico. Contro questa fissità della regola morale si levano talvolta voci discordi, o – piuttosto – si insinuano «modi» di considerare le cose, i quali dovrebbero a poco a poco arrivare a dissolvere la norma stessa. La confusione in materia, la incompetenza teologica e la presunzione di facili scrittori possono creare il miraggio di una fata morgana possono sedurre anche dei confessori. Noi li mettiamo severamente in guardia. – A tale fine osserviamo più da vicino taluni punti sui quali è facile creare il rovesciamento della norma divina.

1. – Qualcuno ha creduto che nel Concilio venisse indotto qualcosa di nuovo a proposito del matrimonio con tutte le sue conseguenze. Vediamo anzitutto il «creduto nuovo». Si tratta dell’amore coniugale. In effetti a questo amore si dà una attenzione non consueta ai Documenti antecedenti del Magistero. Non è mancato durante la elaborazione conciliare qualcuno che avrebbe voluto si asserisse l’amore essere fine essenziale del matrimonio [tesi eretica -ndr.-]. La verità è che questa asserzione non venne e che quanto detto sull’amore coniugale era già ben noto ed è tutto uno sviluppo di quanto san Paolo afferma al capo 5 della lettera agli Efesini. Vediamo le conseguenze. Essa – la novità – sarebbe stata, nei desideri di qualcuno, una tale precedenza dell’amore sulla fecondità da consentire al primo almeno qualche sbizzarrimento ai danni della seconda. Ma questo non accadde. Si dice invece (1. c. 50) espressamente: «Il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole. I figli infatti sono il preziosissimo dono del matrimonio». Si è fatto un gran parlare di qualche rimedio costrittore e riduttore della fecondità coniugale. I principi della morale non hanno mai ammesso mutilazioni né anatomiche, né fisiologiche, né biologiche. Restava a vedere se il conclamato rimedio fosse nulla di tutto questo, ma solo un vero ed onesto regolatore nell’ambito della natura. Dire se lo fosse e lo fosse nel senso voluto dalla morale accettata non appartiene ai teologi, ma agli scienziati. Per studiare la cosa il Sommo Pontefice [quello falso del falso concilio -ndr.] ha costituito una numerosa commissione, la quale ha già presentato il frutto dei propri studi. Ma la Santa Sede non si è ancora pronunciata in alcun modo. Pertanto le regole morali restano quelle di prima. [e tali resteranno sempre! – ndr. – ]

2. – Si è notata una certa tendenza qua e là a dare più importanza alla persona umana che alla legge divina. Il che è inammissibile, perché non esiste nella persona umana alcun diritto di legittima emancipazione dalla legge. E non che tutto questo lo si dica chiaro, ma si inducono tali accentuazioni, tali toni e tali sfumature, dalle quali è facile dedurre un qualche lenimento della legge a favore della emancipazione umana. Questi toni sdrucciolevoli si trovano generalmente negli scritti superficiali, dall’andamento più giornalistico che ragionato, tuttavia creano delle perplessità nelle anime. Noi mettiamo severamente in guardia tutti i sacerdoti contro quello che si accenna, nei facili scritti, verso una maggiore emancipazione del volere umano e li esortiamo a stare accuratamente agli insegnamenti dei testi di Teologia morale che la scuola ha messo loro in mano [cioè quelli antecedenti al conciliabolo! -ndr.-]. Facciamo qualche esempio per spiegarci meglio. Quando si mette troppo l’accento sulla incomprensione che taluni giovani constatano da parte dei rispettivi genitori ed educatori, si tace troppo e volentieri che, ad onta di qualsivoglia incomprensione, intatta – e per diritto divino — la patria potestà con le sue emanazioni. Così, per compiangere i giovani, si giunge praticamente ad asserire la loro emancipazione dalla virtù della obbedienza, dal dovere della disciplina, sostituendo un certo colloquio, che sarà sempre utile, ma non è un equivalente della obbligazione voluta da Dio. Per lo stesso motivo si finisce con l’addurre le generazioni giovanili a disprezzare l’apporto insostituibile della esperienza e ciò con danno enorme dei giovani stessi, spinti in tal modo a ricredersi per la via dell’esperimentato e generalmente tardivo dolore inutile. – Pare che molti lentamente stiano arrivando ad ammettere che tutto diventa morale quando è afferente alla libertà ed alla personaumana. Ciò in contrasto con il dato fondamentale della vita che è una prova di come ci si sa diportare di fronte ad una Legge, non deterministica, ma obbligante in linea morale.

3 — E cambiato qualcosa in materia di castità, di purezza, di modestia? (Modernamente si direbbe: «in materia sessuale», ma preferiamo mantenere la vecchia e più cauta terminologia). È certamente cambiato in molti il modo di considerare il sesto comandamento, ma non è cambiata la Legge. Vediamo dunque come è cambiato questo «modo». – Anzitutto si parla della materia come se il parlarne non implicasse più ragioni di educazione, di pudore, di cautela, di difesa dal fomite della concupiscenza. Di conseguenza se ne parla troppo. Ciò è connaturato al diffondersi della teoria freudiana. Ma, riteniamo, è dovuto molto più all’esagerato senso della personalità umana, per cui si cerca di eliminare tutto quanto alla stessa è limite, contenimento, sacrificio. Questo, dopo aver dimenticato che la persona umana è soggetta alla Legge e non è arbitra della Legge. Finalmente se ne parla troppo per non esser da meno della grande stampa, la quale ostenta abitualmente in materia la più grande procacità o la più voluta indifferenza, salvo ad abbandonarla contradditoriamente quando una regola morale le viene bene per creare lo scandalo e l’utile dello scandalo. Guardandosi intorno si può avere anche la impressione che si debba considerare morto il senso del pudore. Ma, stiano attenti i sacerdoti: non esiste un consenso nel male, ossia, il largo consenso nel male non modifica in nulla la legge del bene. Si dovrebbe osservare la Legge di Dio, anche se si restasse soli! Una ben intesa psicologia ed una retta pedagogia, considerando l’insieme del quadro in cui oggi avviene lo sviluppo e la educazione, potranno variare certe impostazioni affatto secondarie e probabilmente nocive nella situazione moderna; ma non toccano né la debolezza, né il fomite, né il rapporto di attrattiva, né la sostanza del peccato e della virtù. Siamo d’accordo nel dire che la sola modestia degli occhi oggi non basta più, data la esibizione del contegno e di tutte le comunicazioni sociali. Ma ciò significa che si deve tutelare la virtù piuttosto con il metodo attivo, positivo e combattivo, e che occorrono maggiori riserve interiori; non significa affatto che la modestia degli occhi oggi non sia più necessaria. Il pericolo di peccato è aumentato, non diminuito. Il rapporto tra l’anima ed il corpo rimane lo stesso; le conseguenze del peccato originale non si sono affatto affievolite; il rumore, la fretta e la incessante varietà delle sensazioni non dispensano dai problemi, ma ne creano uno nuovo togliendo concentrazione e indipendenza all’azione dello spirito. Il mistero del quanto il materiale attinga lo spirito e del quanto lo spirito incida sul materiale è ben grande; rimane non meno il dovere obiettivo di difendere lo spirito, di prendere tutte le necessarie cautele contro le debolezze proprie del composto umano. – Dovremo appresso ritornare sull’argomento.

4. – Non è mutata la fisionomia teologica del sacramento della Penitenza. E dottrina cattolica che esso è intrinsecamente, oltre che un sacramento, un giudizio. La interpretazione che la Tradizione ha sempre dato di tutte le parole evangeliche riferentisi alla istituzione del sacramento ed al conferimento del perdono non lascia dubbi al riguardo. Il consenso di tutta la Chiesa, durato tanti secoli, chiama in causa la sua infallibilità e pertanto la divina garanzia. Chi volesse toccare il carattere giudiziario del sacramento della Penitenza sarebbe obbligato a distruggere la Tradizione ed il magistero ecclesiastico. Per questo motivo la fisionomia teologica e giuridica del sacramento non viene né può venire in discussione, come non possono discutersi tutte le conseguenze della essenza; anche giuridica. È per questo motivo che, salvo il caso di necessità urgente o di impossibilità, nessuno può arbitrarsi di manomettere in qualsivoglia modo la integrità formale della accusa dei peccati, sostituirla con accuse generiche e collettive o trovate simili.

5. – Fino a questo momento non è cambiato neppure il rituale del Sacramento. Il rituale costituisce una Legge, che vincola in coscienza. Pur sapendo che anche il rituale dei sacramenti andrà soggetto ad una riforma, bisogna attendere che venga e nessuno è autorizzato a sostituirsi nelle innovazioni ad una Autorità, quale risiede solo nella Chiesa. In conclusione: solo la Legge può addurre mutazioni; prima della legge, quando non si voglia garantire la perfetta osservanza, non resta altro che la indisciplina e la anarchia. Il diritto liturgico è stato legittimamente per molti secoli riservato al potere supremo della Chiesa; attualmente il Concilio Vaticano II ha riconosciuto alcuni poteri ad organi inferiori [altra chiara stoccata alle mutazioni del falso concilio – ndr.-]. Nella materia di loro competenza bisogna attendere che questi decidano. L’ondata pseudoculturale di estrazione hegheliana che ha investito tutte le manifestazioni intellettuali, impoverendole, ha investito anche talune scuole e persone ecclesiastiche. Si tratta di ignoranza di quella estrazione (come abbiamo già molte volte ammonito), si tratta di complessi di inferiorità rispetto ai grandi colori della messinscena pubblicitaria, si tratta in ultima analisi di uno svanire nella distinzione del bene dal male, della verità dall’errore, di una pretesa creativa dell’essere nel vero e nel buono: gli ecclesiastici se ne guardino specialmente a proposito di un sacramento fondamentale per la salvezza dell’uomo peccatore. L’idea della indifferenza tra bene e male è praticamente presentata in concreto dalla grandissima maggioranza degli attuali mezzi di comunicazione, in termini espliciti da imprese editoriali, che non si occupano né del bene né del male, ma solo del danaro. Essa, immessa dalla lettura quotidiana, a poco a poco, si può insinuare e di fatto in qualche modo si insinua anche nel clero. Questo denunciamo altamente e contro questo pericolo mettiamo tutti in guardia. – Il sacramento della Penitenza è legato con situazioni che non muteranno mai; neppur esso cambierà, quanto alla sua sostanza ed alla base morale che sempre suppone il giudizio morale.

[Continua… ]

DIVORZIO CRISTIANO – IL MAGISTERO IMPEDITO DI GREGORIO XVII

GREGORIO XVII –

IL MAGISTERO IMPEDITO:

DIVORZIO CRISTIANO?

[«Renovatio», V (1970), fasc. 2, pp. 165-166.]

Si è udita qualche voce che parla di un «secondo» matrimonio cristiano. Che sarebbe mai un secondo matrimonio cristiano? Niente altro che la dissoluzione del primo. Affermare un secondo matrimonio cristiano è affermare la legittimità del divorzio, cioè lo scioglimento non solo del matrimonio basato sul semplice diritto di natura, ma anche di quello che è Sacramento. – Ma il matrimonio cristiano non è dissolubile per sé: lo scioglimento dei matrimoni rati non consumati e quello operato dal privilegio paolino non costituiscono, come è noto, eccezione a questo principio. Non c’è posto per un «divorzio cristiano». – Naturalmente i fautori del divorzio cristiano si appellano, almeno per il caso di adulterio, al testo di Matteo XIX, 9. Ma a torto, perché esiste l’interpretazione autentica di questo testo, la quale esclude il divorzio. Infatti il Concilio di Trento ha sancito: «Se qualcuno dicesse che la Chiesa erra quando ha insegnato e insegna, secondo la evangelica ed apostolica dottrina, che il vincolo non può essere sciolto a causa dell’adulterio di uno dei due coniugi… sia anatema». Il punto della discussione trova la sua ragione nella celebre clausola di Matteo «excepta fornicationis causa». Secondo il significato letterale questo testo può non essere interpretato in senso divorzista e pertanto deve, dal punto di vista teologico, essere interpretato nel senso non divorzista: esiste una interpretazione autentica data, sia pure in maniera indiretta, sotto forma di «anatema» dal Concilio di Trento. Dunque non si dà né secondo matrimonio cristiano, né divorzio. Non che non siano mancate nei secoli talune rare voci discordi o dubitanti; ma quello che interessa è la prassi comune della Chiesa, che attesta una comune convinzione ed una comune dottrina. Quello che impressiona è il fatto che dei cattolici possano gettare il piccone demolitore su verità saldamente e universalmente acquisite. Tale fatto rivela qualcosa di grave. Anzitutto va in crisi in talune intelligenze la concezione della verità assoluta. La verità non va in crisi più di quanto non ci vada l’essere: sono troppo intimamente legati. La verità relativa, verso la quale vanno dubbie compiacenze, ha il suo incentivo nello spasmo divorzista che stiamo vivendo, quasi che, tra tante realtà umane ormai in decomposizione, non possa sopravvivere neppure un matrimonio per sempre sigillato da Dio. Probabilmente il grande principio al quale ci si deve attenere è il seguente, secondo taluni: dobbiamo enunciare verità deformandole sino a che non compiacciano il mondo moderno. Quasi che questo non sia meno morituro del mondo antico. In secondo luogo va in crisi tutta la logica della teologia. Infatti la teologia ha i suoi metodi di prova, che non possono sostituirsi ad arbitrio. Magistero e quanto è riflesso dal Magistero, anche solo ordinario, sui Padri, sui Dottori e sui teologi pare sia svanito dalle non ammirevoli considerazioni qua e là affioranti. – In terzo luogo va in crisi la dignità dell’uomo, al quale si vorrebbe manifestare indulgenza, prima negando a torto un diritto naturale che postula «fin dall’inizio» (Mt. XIX,8) l’indissolubilità del matrimonio, poi ritenendo l’uomo incapace di mantener un impegno. Il divorzio infatti vorrebbe dissuadere tutti e per sempre dal credere che tra gli uomini possa esistere un impegno durevole. Il che è indegno e triste. – Ma non si deforma la verità per compiacere chi intende togliere agli uomini la nobiltà di fare ancora fede alla propria parola.

[Cosa bisogna spettare per capire che il “divorzio breve cattolico”, oltre che un’idiozia teologica, è “anatema” – Conc. Trento, Sess. XXIV, Can. VII-, cioè scomunica irreformabile, esclusione dalla Chiesa Cattolica, dalla comunione dei santi, morte certa dell’anima, … farina velenosa e mortifera di satana, sparsa a piene mani dal suo “vicario” e dai suoi lacchè? Bisogna forse aspettarne di riparlarne nell’inferno, anch’esso cancellato con un colpo di mano dagli gnostici della setta vaticana del “novus ordo”, che osa contraddire tutte le leggi naturali, divine, i dettami evangelici, oltre che ripudiare il Magistero di sempre … certo che ci vuole un bel coraggio! … il coraggio di Giuda, l’Iscariota! E allora non possiamo che augurare agli adepti del loro maestro, se non si pentono: buona impiccagione! … Scegliete almeno un albero buono, magari non OGM! – ndr.-]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL CATECHISMO

IL CATECHISMO

[Renovatio, IV (1969), fasc. 3 pp. 365-366]

Si stanno preparando catechismi, alcuni sono già comparsi. Quelli comparsi non hanno vita pacifica, ciò che fa pensare il loro sorgere non esser stato eccessivamente sereno. E per questo fatto e per questo motivo che pare opportuno richiamare dei punti fondamentali in merito. – Il catechismo è quello che forma il popolo di Dio. Questo nella sua grande maggioranza vive del suo catechismo. Spesso lo dimentica, anche per lungo tempo, ma, a tutte le età, il vecchio catechismo ha delle meravigliose risorgive, che rendono più recettivi alle divine grazie illuminanti. La più gran parte di quelli che ritrovano il loro Signore dinanzi alla morte lo ritrovano perché il primo catechismo in loro non è morto. La massa dei fedeli non entra nelle discussioni teologiche (e questo è provvidenziale), ma vive la sua fede come un nutrimento che è, in sostanza, semplice catechesi. La conclusione è che la redazione di qualunque nuovo catechismo costituisce la più grande impresa della vera pastorale nel popolo di Dio. – Alle deformazioni della verità, e cioè alle eresie, la più grande resistenza la fa il popolo, fedele in forza del suo catechismo. Il modernismo — che non è poi l’ultima esperienza in merito – non fu conosciuto dal popolo e quando qualche predicatore impudente cercava di ammannirglielo, neppure lo capiva. Fu così che il modernismo rimase una eresia da intellettuali e riuscì ad un solo santo Pontefice di vincerlo in tempo non lungo. La catechesi non consentirebbe più al popolo di difendere la sua fede e la Chiesa, qualora si servisse di un testo popolare, che avesse lacune imperdonabili, che aprisse verso interpretazioni eterodosse, che accettasse – con pericolo del contenuto – un linguaggio vago, impreciso e dettato dalla moda corrente. Non dimentichiamo che le prime grandi scuole cristiane, celebri (citiamo solo Alessandria ed Antiochia) e non celebri, furono quelle che prepararono un popolo cristiano capace di resistere per tre secoli alla pressione persecutoria ed ereticale. Nel quarto secolo la vera barriera di resistenza compatta all’arianesimo, protetto da qualche imperatore in Oriente e in Occidente, fu il popolo istruito nell’umile ed ordinaria catechesi. Questo senza nulla detrarre all’enorme merito di taluni santi dottori. Atanasio fu formidabile vincitore perché dietro aveva l’umile popolo. Fu la catechesi che liberò in sostanza – finché potè – l’Oriente dal pesante controllo dello Stato bizantino e tutto il mondo cristiano dalle querimonie di certi addottrinati. Un catechismo, che non rispondesse in tutto alla sua apostolica e secolare tradizione, preparerebbe crisi di debolezza troppo lunghe e troppo difficilmente sanabili. – Un catechismo, se deve parlare nel senso più largo della verità immutabile di Dio con il linguaggio meglio acconcio alla comprensione del suo tempo, non può accoglierne le mode effimere, le esitazioni ingiustificate, le paure vergognose della verità, le metodologie di compromesso, le manie creative fantastiche, i complessi deformanti, tanto meno le questioni a buon diritto disputate. Non c’è dubbio che oggi i clamori di chi non è autorizzato ad essere maestro nella Chiesa (lo sono soltanto il Papa [il “vero” Papa, naturalmente, non le patetiche controfigure anticattoliche succedutesi dal 1958 ad oggi!] e nel loro ordine i Vescovi), sono altissimi e conturbanti. Un catechismo non può essere lasciato alla insufflazione e alla manipolazione di chi non ha autorità da Cristo. [l’attuale contro-catechismo della Chiesa Cattolica, fu infatti redatto a bella posta dall’antipapa senza autorità di Cristo, per confondere ed ingannare il popolo reso “ignorante” ed affabulato dAlle eresie del “falso” conciliabolo roncallo-montiniano – ndr. -]. – L’umile didaskalos del primo tempo resta sempre con la stessa responsabilità una figura fondamentale nella santa Chiesa di Dio. Le questioni che lo riguardano sono più importanti delle questioni delle grandi scuole. Il buon catechismo è capace di frenare e distruggere gli errori di chiunque. [Ad es. il Catechismo di Trento, o quello di San Pio X, nella loro forma originaria non manipolata, si possono ritrovare ancora nelle librerie antiquarie … diffondiamolo con ogni mezzo! –ndr. -].

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO COME ORIENTARSI? -3-

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

COME ORIENTARSI? -3-

— Ortodossia

[lettera pastorale scritta l’11 febbraio 1968; «Rivista Diocesana Genovese», 1968, pag. 175-212.]

La sirena della socialità male intesa

La sirena sta nel far credere che, prima di redimere le anime per la vita eterna, noi dobbiamo redimerle dalle ristrettezze materiali e che pertanto possiamo e dobbiamo accettare per il momento delle dottrine materialistiche per compiere la più immediata parte del nostro dovere. Redento il mondo dalla miseria vedremo di redimerlo per la eternità. Così da qualche tempo ragionano non pochi. – La nostra espressione è cruda e pertanto il suo contenuto è repellente. Il guaio è che molte conclusioni, prassi, entusiasmi, non dicono chiaro che derivano da concetti materialistici legati con una apostasia dalla fede; si attardano in sfumature, in insistenze, in ammennicoli che in verità derivano solo da principi materialistici, pur tacendoli. È così che il paradiso in terra diventa molto più importante di quello del Cielo. E così che si proteggono i sistemi e i miraggi assurdi. Ci fermiamo qui. – E certo che taluni scrittori hanno assolto il ruolo qualificato sopra e che talune iniziative ne sono logiche conseguenze. Ripetiamo: dei principi netti molti avrebbero paura, ma scivolano sulle conseguenze e sulle loro sfumature. E probabile non se ne rendano conto. Ma molte volte accade a noi di sentire qualificare come autentici materialisti dei sacerdoti e dei laici, che non lo sono affatto; essi, senza accorgersene, scivolano sulle sfumature e sulle questioni di margine o su certe affermazioni, ritenute sociali ed invece solo «politiche», di un determinato indirizzo. Le «sfumature» hanno invaso molta stampa che si professa cattolica o che per ragione della etichetta vorrebbe essere cattolica. In conclusione, molti sono disorientati. – Ecco quello che qui riassumiamo per un giusto e cristiano orientamento.

1) Noi sacerdoti dobbiamo starcene lealmente e intimamente fuori della politica. E essa che può in noi fuorviare tutto, senza tener conto che essa non ci riguarda. Qualche volta, allorché le competenti autorità lo stabiliscono, potremmo dover ricordare al popolo talune obbligazioni che riguardano la sua coscienza cristiana. Ma in quel caso si obbedisce e si eseguisce. Il Concilio Vaticano II [Le citazioni a cui è costretto il Sommo Pontefice, sono con tutta evidenza forzose e di mera propaganda indotta: anche qui non c’era alcun motivo di citare il falso concilio, visto che si parla di dottrina cattolica antica e ribadita da sempre –ndr.] insegnato con chiarezza che, nelle questioni meramente terrene, dobbiamo lasciare ai laici tutta la responsabilità di quello che fanno. E un fatto che le idee sociali si allontanano dalla linea evangelica in quei ministri dell’altare, che hanno in verità il cuore nella politica.

2) Qualunque concezione materialistica deve essere rifiutata. Infatti è una questione di fede. Accettare anche solo nelle applicazioni o nei dettagli delle dottrine materialistiche è o rinnegare la fede o mettersi in pericolo di rinnegarla! [Il riferimento è implicito a tutti i marrani e traditori di Cristo in combutta con politici comunisti e massoni –ndr. -].

3) Noi non siamo mandati da Cristo per mettere a posto il mondo nelle sue questioni, nei suoi metodi, nei suoi problemi. Potremo, come ci ha insegnato il concilio, occuparci di questo per l’esercizio della carità verso il mondo, siccome la Chiesa ha fatto sempre. Ma non è là l’essenza del nostro ministero [altra stoccata alla falsa chiesa dell’uomo Montini-conciliare – ndr. -]. Dobbiamo stare con la giustizia, con la equità, con la solidarietà, ma con la dignità e misura proprie di quelli che sono sempre sulla pedana dell’altare di Dio.

4) È erroneo e greve di conseguenze nefaste il credere che noi non possiamo pensare al bene eterno se prima non abbiamo sistemato il benessere terreno. Ripetiamo: il benessere terreno non è l’oggetto proprio e necessario del nostro mandato apostolico. Cristo non ci ha mandati ad insegnare agli uomini di mirare al cielo solo quando trovano la vita sgombra di croci, ma ad insegnare che si deve prendere coraggiosamente la via della Croce.

5) La vera socialità sta nel ricordarsi che ci sono anche gli altri oltre noi e che dobbiamo agli altri l’onesto spazio di vita, anche se questo può rappresentare qualche limite per noi. È qui dove si vede che la socialità autentica si riduce alla carità e non sussiste, se non come ipocrisia, al di fuori della carità.

6) Fa parte del nostro ministero favorire la concordia, l’incontro tra le categorie, la comprensione tra gli uomini, tutelare quell’ordine, nel quale soltanto si custodiscono pace e libertà. Ma sarebbe vera degenerazione del nostro ufficio il fomentare odi, demagogie, contrapposizioni od anche assorbire la mentalità di parte contro un’altra parte. Dove la «parte» prende il carattere della immoralità o della eresia o addirittura della apostasia, noi combatteremo gli errori e le depravazioni, mai i singoli uomini e i singoli peccatori. Si favorisce il Regno di Dio solo quando si sa stare veramente e lealmente fuori del regno di questo mondo. E solo allora si mantiene intatta la dignità e l’autorità per parlargli.

7) La socialità non è fatta di tecnica, bensì di virtù. Con questo il campo è nettamente delimitato, per quanto ci concerne. Soprattutto, in questa prospettiva, eviteremo di parlare troppo di socialità, smentendola con egoismi, con maneggi, con faziosità, con spirito mormoratore, quali farebbero vergogna anche ai laici.

8) Ai fedeli dobbiamo dare una istruzione catechistica ed ascetica tale che, senza alcun bisogno di diventare noi dei direttori politici, crei in essi un indirizzo di perfetta coerenza nel campo umano, tra la foro fede vissuta e la loro azione civile. Noi mettiamo una causa; l’effetto verrà naturalmente da sé. E ovvio che in tanta confusione di idee e di indirizzi, l’imperativo di una fede e morale comune porti naturalmente ad una unità dei fedeli anche nel campo civile. Diciamo è ovvio di per sé e pertanto non deve meravigliare nessuno che recentemente la Conferenza episcopale d’Italia abbia richiamato, con accenti tanto delicati e prudenti, quanto indubbi, questa unità dei fedeli nel campo civile. Il nostro mandato spirituale sposta tutto anzitutto nel campo catechistico ed ascetico.

La riforma liturgica

Ci troviamo dinnanzi ad un fatto che va trattato colla venerazione Con la quale si tratta la legge legittima. Ma ci troviamo anche dinnanzi a fermenti di confusione, importati soprattutto d’oltralpe, rispetto ai quali dobbiamo difendere lo spazio della legge da quello della anarchia. Ecco pertanto alcuni principi sicuri:

1) Quello che è stato fatto per legge – e per legge qui intendiamo ogni atto valevole emanato da una autorità competente [cioè dal Magistero autentico di Papi canonicamente e validamente eletti, o da Vescovi in unione con il Santo Padre – ndr. -] – non può essere discusso in alcun modo, deve essere puntualmente e sinceramente attuato. Chi discute la riforma liturgica, là ove essa è decisa dalla legge, evidentemente non ha il senso della Chiesa. Quando essa comanda, si ubbidisce.

2) La legge (e ci rifacciamo alla accezione data sopra) può lasciare qualche scelta direttamente al celebrante della azione liturgica, senza che gli occorra la conferma di qualcuno. In tal caso il celebrante è libero.

3) Vi sono dei casi nei quali la legge generale lascia delle scelte, che evidentemente non sono rimesse semplicemente al celebrante o al rettore di una chiesa. È, ad esempio, il caso delle diverse possibilità per l’altare e il tabernacolo. In tal caso – se non è debitamente facoltizzato un organo superiore ai singoli Vescovi – sono arbitri delle scelte i singoli Vescovi. E d anche i vescovi faranno le loro scelte, avendo dinnanzi la particolare sensibilità del loro popolo e la necessità di essere uniformi nell’ambito di una stessa diocesi.

4) Vi sono finalmente i pareri privati. I pareri di chiunque, non espressi con forza normativa, restano privati e nessuno è obbligato a seguirli. – Aggiungiamo chiaramente per il nostro clero: è bene che non vengano seguiti. E ciò per varie ragioni. Anzitutto: tanto meno si osservano le leggi, quanto più si attendono i pareri privati. In secondo luogo, poiché i pareri possono essere diversi, confusionari e contradditori, in uno stesso territorio si andrebbe certamente incontro ad una anarchia della quale il popolo soffrirebbe. Si tenga presente che il più piccolo particolare nell’ambito delle chiese tiene, rallenta e disorienta la fede del popolo. Se qualcuno ha sentito o letto qualche parere, che gli molce il cuore, si rivolga alle autorità competenti, dalle quali ordinariamente dipende, chieda il da farsi e stia alle conclusioni ottenute. Dove ci si è allontanati da questo semplice criterio sono accadute, con grande scandalo dei fedeli, cose addirittura pazzesche.

5) Nell’ambito delle cose certe si eseguisca tutto con vera e fervida precisione, aiutando colla propria evidente convinzione il popolo ad essere ossequiente alla Chiesa, che ha voluto una riforma liturgica. Dio non ci chiederà di essere stati più intelligenti degli altri, ma di avere umilmente e intimamente obbedito.

L’influenza del laicismo

Il laicismo imperante può avere una presa sui sacerdoti e in diversi sensi. Bisogna anche qui dire una parola di orientamento. Il laicismo è pienamente rientrato sulla scena. Vediamone i caratteri. Esso consiste – come abbiamo lungamente spiegato a suo tempo in una apposita pastorale – nel negare un posto alla religione e soprattutto alla Chiesa, nella vita pubblica umana. Ha un infinità di sfumature. Spesso nasce dall’illuminismo, che vorrebbe confinare Dio in chissà quali cieli appartati, ma nasce anche da motivi sentimentali, da sedimentazioni e rancori e, spesso, dalla negazione o dalla poca cognizione della soprannaturalità della Chiesa. – Questi motivi ricorrenti sono vecchi, ma oggi se ne hanno dei nuovi. Nel concilio e dopo il concilio si sono avute discussioni e anche disparità di pareri. Non è detto che manchino coloro i quali si arrestano, probabilmente in buona fede, ad arricchire tale spettacolo disorientante. Dello spettacolo si approfittano così: parlano di cose di Chiesa senza fine, esaltano tutti quelli che cambiano qualcosa e solo quelli, non perché possono avere o non avere ragioni di cambiare, ma solo perché cambiano, spostando in partenza e per sistema le cose dal piano sostanziale a quello accidentale. Godono di dire che la Chiesa cambia, per trovar modo di negare la sua permanenza divina; confondendo naturalmente quello in cui può cambiare, con quello che non può cambiare. Tutte le colpe in tutta la storia furono dei preti e della Chiesa. Noi stiamo assistendo alla completa alterazione di fatti, tanto che coloro che ne furono spettatori e onesti testimoni hanno raccapriccio di come si possa alterare la verità. Ci sono figure che senza alcun rispetto alla verità corica vengono rivestite da fantocci di comodo per sostenere tesi infondate. Lo sfruttamento della confusione regnante in un certo numero di Cattolici è continuo, magistrale ed evidentemente collegato in un solo disegno dalle molte fila. Una volta l’anticlericalismo lo si faceva dal di fuori, oggi lo si fa sfruttando quanto bene o male serve alla bisogna dal di dentro.

2) L’anticlericalismo è perfettamente aiutato da un certo numero di sedicenti cattolici e di pubblicazioni che vorrebbero avere veste cattolica. – È così che la «demitizzazione», fino al limite in cui può lasciare l’apparenza di evitare la eresia formale, viene accolta con entusiasmo. E così che si vanno moltiplicando le autocritiche inconsistenti. E così che, in fatto di Storia, di colpo non esiste più alcuna benemerenza ecclesiastica e tutto è sempre stato mal fatto. Nessuno può negare che spesso la storia sia stata fatta con puro intento agiografico, con criteri unilaterali, con semplici scopi apologetici. Ma questo è accaduto su qualunque sponda: si veda ad esempio la letteratura risorgimentale. Gli sciocchi laudatori non possono prendere mai il posto dei fatti obbiettivi ed è a questi che si deve guardare. L’anticlericalesimo di taluni cattolici, che appaiono zittire, quando si parla contro il divorzio, non conosce o dimentica tutta un’impostazione teologica della quale parleremo subito. La stessa opportunissima riforma liturgica viene presentata come una rivoluzione ed una negazione, come se la Chiesa avesse solo oggi incominciato ad esistere. Il punto nel quale in questo momento appare più decisa la fobia anticlericale è quella della presenza nella politica, nella vita civile, in qualsivoglia rapporto umano.

3) La questione deve avere una inquadratura teologica. Eccola. La Chiesa consta di un elemento divino e di un elemento umano. Il primo sta nella fondazione, finalità, dottrina, struttura, poteri, garanzie; in questo non può venir meno. Il secondo sta negli uomini e nel loro contegno o nei loro rapporti. Entrambi questi elementi hanno tutte le loro conseguenze: nessuna forza maligna può inaridire il primo, nessun miracolo interviene ordinariamente a fermare il secondo. Questa natura umana e divina, con tutte le sue conseguenze, spiega tutto nella Chiesa e perché resista e risorga sempre e perché abbia nel suo seno uomini peccatori, ottusi, dannosi [oggi sappiamo bene a chi si riferisse il Santo Padre, ne abbiamo visto e ne vediamo i frutti –ndr. –]. Non c’è dunque posto per delle meraviglie a proposito del contegno umano di uomini ed istituzioni nella Chiesa. Neppure è cavalleresco esagerare nei valutarli, dal momento che la umanità a qualunque livello non ecclesiastico manifesta i suoi difetti, anzi li manifesta di più. – La cosa grande è che l’elemento divino non inibisce quello umano e l’elemento umano non scalfisce l’elemento divino. In questa coesistenza la Chiesa porta con sé il segno di Dio ed una sua singolarissima documentazione. La conseguenza è che non si possono menomare gli elementi divini a causa dei difetti umani e che il rispetto verso le cose divine deve impedire molti giudizi negativi, a proposito delle manifestazioni umane. Nella stessa persona l’ufficio può avere la forza di essere, non mallevadore, ma esigenza di rispetto per la persona stessa. La ragione del bene comune sopravvanza quella della situazione individuale.

4) L’anticlericalismo di taluni sedicenti cattolici si enuclea nel rifiuto della autorità della Chiesa e nella parità assoluta tra gerarchia e fedeli. Giunge talvolta a fare della autorità della Chiesa una semplice mandataria dei fedeli. Tutte queste affermazioni dal punto di vista teologico costituiscono errori veri e propri e mettono fuori della ortodossia. Manifestano però, ed è quello che qui interessa, l’accanimento dell’astio, grave e profondo contro ciò che è sacro, religioso, ecclesiastico. Ci si appella al concilio Vaticano II. Questo venerando concilio non ha detto nulla di tutto questo. Le costituzioni Lumen Gentium, Apostolicam Actuositatem, Gaudium et Spes, se mai, dicono il contrario. Sarebbe ora di finirla con l’indegno e menzognero sfruttamento di un sacrosanto atto del magistero ecclesiastico. Non occorre dire che con certi bei principi in poco tempo si arriverebbe allo sfaldamento di ogni associazione e bisognerebbe ricominciare da capo la evangelizzazione dei fedeli. Non è meno ovvio che su questo baluardo della autorità della Chiesa deve essere condotta la difesa più tempestiva e più ferma.

5) Dir male di casa propria sta diventando una moda; appare persino una generosità, mentre è solo cosa inumana e per lo più menzognera. Tutto questo può accadere anche in Chiesa per poca intelligenza, per lo zelo malinteso, per invidia, astio e persino odio, l’odio autentico ha più porte di quanto non si creda, specialmente se si paraventa dietro una ipocrita carità. È il momento in cui il clero deve dimenticare tutto per essere unito nella difesa, nella carità fraterna, nel rispetto alla sacra autorità della Chiesa. Non lasciamoci ingannare in casa nostra!

Dobbiamo riformare qualcosa dei nostri metodi pastorali?

Questa domanda un uomo se la deve porre di tanto in tanto in vita e canto più frequentemente quando avanza negli anni. La stessa domanda se la deve porre ogni tanto qualsiasi comunità ecclesiastica, la Chiesa stessa. Non si tratta delle verità e dei principi, che non cambiano; ma dei metodi che possono cambiare e di fatto cambiano incessantemente, con fretta maggiore e allucinante nel momento presente. È dunque logico che anche voi, cari confratelli, vi poniate, come vi siete posti, questa domanda. – Non pretendiamo qui rispondere a tutte le questioni possibili, sia perché le risposte non si danno mai tutte in una volta, sia perché non possiamo presumere e dobbiamo (come tutti) chiedere pazientemente, prendendo tempo, dei responsi allo studio, alla esperienza, alla altrui saggezza; sia perché qui è sufficiente trattare di qualche indirizzo fondamentale.

1) Traiamo la indicazione da quello che è sotto i nostri occhi. E pertanto facciamo alcune constatazioni orientative.

— Il problema più difficile è posto o dal declinare del senso cristiano cattolico o dal pericolo di questo declino. Noi sappiamo che la Chiesa è indefettibile, ma nessuno l’ha esentata dalle tempeste. Anzi! Pertanto il problema va posto con estrema chiarezza e profondo realismo. Il perdersi troppo a cantare peana alla civiltà ed alla cultura moderna, non è troppo utile a tale realismo. Che cos’è il senso cristiano? E una somma di fede vera, di dirittura morale assolutamente basata sulle massime evangeliche, di presenza continua del soprannaturale nella vita. Non si possono assolutamente dissociare fede e morale, fede, morale e soprannaturale. La associazione di queste cose crea la civiltà cristiana, dà un mondo umano e pronto ai più elevati imperativi; costruisce, simbolo di tutto, le meravigliose cattedrali. Non illudiamoci: tutto questo è insidiato ed il tentativo materialista è di capovolgerlo. Probabilmente esiste un piano mondiale per arrivare a questo. L’importante è vedere, non illudersi, non credere di tener buona con delle carezze la bestia della Apocalisse.

– Lo squilibrio, che interessa e la Chiesa e il mondo civile, è dato dal peso eccessivo che il mondo della tecnica prende su tutto. Essa applica la scienza a quello che può essere il benessere materiale dell’uomo. Indirettamente può servire anche al bene spirituale. Questo predominio meccanicizza tutto, rende l’uomo schiavo impotente di quello che ha creato con le sue mani, ne diminuisce e persino ne paralizza talune capacità spirituali. Persino il diritto, lo stesso diritto costituzionale degli Stati, è in pericolo di venire modellato sui disegni di una macchina. La ipnosi di quello che è comodo od agio materiale nella vita impedisce di accorgersi degli errori strategici nel campo della cultura ed in genere delle attività spirituali. – Tutto questo, in quanto spegne energie superiori e favorisce la materializzazione con l’edonismo, pone semplicemente alla Chiesa il problema di riconvertire continuamente il mondo. Battezzare, dare l’educazione, offrire ai superstiti fedeli una meravigliosa liturgia, non bastano più. La lotta si è spostata con tutta la sua linea di guerra al punto in cui materia e spirito si contrappongono. E la forma pratica, non capita dai più, di riproporre la sterile esperienza manichea [Anche qui il Sommo Pomtefice allude alla gnosi, il vero cancro che da sempre affligge la Chiesa ed il Cristianesimo tutto – ndr.]. – Sarebbe irriverente per Cristo, divino Fondatore della Chiesa,  proporre revisioni di strutture nella costituzione della Chiesa. Essa, [per quel che riguarda gli uomini, il piano della storia, il metodo della Provvidenza, ha un capo in Pietro ed ha le sue cellule vitali in organismi particolari che sono le diocesi sotto la guida dei singoli Vescovi. La gerarchia di ordine si espande enormemente al basso, come è logico, perché in molti occorre essere a servire, in pochi a comandare. Non parliamo dunque di questo che è stabilito immutabilmente da una preveggenza divina. Ma di molte altre forme organizzative il discorso resta aperto, anche se noi non lo affrontiamo affatto, perché eccede l’ambito di nostra competenza. – Di una sola cosa vogliamo fermamente parlare. Storicamente, a poco a poco, le diocesi si sono organizzate in parrocchie. Chiediamoci: è oggi sufficiente la organizzazione parrocchiale? Rispondiamo francamente: no. È organizzazione sempre necessaria, ma non più sufficiente. La ragione è chiara: la parrocchia suppone una base territoriale e resta legata alla topografia. La attuale vita urbana (i monti si spopolano) è legata in genere alla «categoria» e ad un complesso di rapporti sociali, nuovo, che non ha più per base la ristretta topografia. La parrocchia forse potrebbe fare tutto, se i suoi fedeli continuassero come un tempo a nascere, vivere, lavorare e morire in essa. Questo non è più. I fedeli, che avranno sempre un punto netto di riferimento alla loro parrocchia e che tanto più rinforzeranno quanto più sarà in atto la vita associativa, hanno bisogno di essere assistiti con qualcosa che è oltre la parrocchia. Quando si è provveduto alle parrocchie, probabilmente, anche nella più ottimistica ipotesi, non si tocca neppure il cinquanta per cento del fabbisogno. E tempo di dire, anzi di ripetere questo ben chiaro. L’abbiamo fatto molti anni innanzi, ma ora dobbiamo rifarlo, perché spinti dalla impellente travolgenza dei fatti.

3) Il fenomeno, che per entrare nella sfera delle attività spirituali e persino religiose è sconcertante, sta nella educazione collettivistica e nel sistema di comunicazioni sociali che fanno educazione di massa e, quanto la fanno, altrettanto distruggono dell’uomo e molto del suo divenire. Gli uomini sono insufficienti da mane a sera. Pochi sono coloro che hanno in mano gli strumenti di questa insufflazione. Questi pochi è molto facile non abbiano idee giuste e intenzioni sante, perché generalmente servono le mire del potere e l’interesse finanziario. Però la massa vive e vivrà di quello che i «pochi» vogliono. – La Chiesa ha davanti questo fenomeno e ne deve sopportare le condizioni, che sono spesso condizioni di guerra e di contraddizione. Ci fermiamo qui: ce n’è abbastanza.

4) Quali gli orientamenti?

— Di fronte al primo fenomeno, la decadenza del senso cristiano, non c’è che una soluzione: quella di puntare sulla realizzazione massima della vita cristiana, senza badare a compromissioni, senza timori di quello che si dice o succede, senza concessioni a riprovevoli costumi mondani, senza riduzioni circa la fede e la morale. Un mondo in decadenza lo si prende di petto. Non c’è altro da fare. Del resto questo è il metodo del Vangelo ed è quello che balza fuori da tutte le lettere apostoliche. Ricordiamo che si può amplissimamente comprendere tutto, senza cedere nulla di quello che non si può cedere. Non dimentichiamo che le leggi della Storia e quelle della Provvidenza prevalgono sempre e ci dispensano dall’essere troppo timorosi o scioccamente rispettosi di quanto succede in questo mondo. La orazione, la penitenza, l’osservanza dei tempi sacri, il pudore, la modestia, la prudenza, il morigerato contegno, la carità, il perdono, la pratica eucaristica, la devozione alla santa Vergine, il Sacramento della Penitenza, piaccia o non piaccia, si scandalizzi o non si scandalizzi qualcuno, vanno riportati inflessibilmente al loro posto. – Nulla ci obbliga a fasciare questa fermezza cristiana con modi impropri, con musi duri e anatemi, ma non possiamo scambiare il nostro Cristianesimo con uno scherzo. — Lo squilibrio portato dall’esagerato ed indebito prevalere della tecnica deve spingerci a dilatare in maniera al tutto indipendente le migliori esercitazioni dello spirito, la ginnastica della volontà nella mortificazione. Il giudizio sullo stato del mondo per forza di questo squilibrio deve essere ben fermo nella nostra mente. Se il giudizio non sarà fermo, ben agguerrito contro ogni seduzione pseudoscientifìca, le esagerazioni della tecnica inghiottiranno anche noi. La prima e maggiormente taglieggiata dalla indebita prevalenza della tecnica è la umanità. Il nostro giudizio non è negativo sulla tecnica, ma sull’indebito prevalere di essa. Resti strumento e sarà benedetta; lasci il debito spazio allo spirito e troverà il suo stesso splendore. Non accodiamoci a coloro che con indebite lodi e insulse approvazioni facilitano il momento in cui la tecnica scaricherà le sue atomiche [di minacce atomiche il Santo Padre aveva esperienza diretta! –ndr]. – La incapacità della parrocchia a espletare tutto il suo compito nella attuale situazione urbana o urbanizzata è, come s’è detto, il punto sul quale va concentrata la massima attenzione all’interno della Chiesa. L’orientamento è verso i «complementi» della parrocchia. Non esiste altra via. Da molti anni abbiamo invitato il nostro clero ad adattarsi per tempo a questo modo di concepire l’avvenire; ma ora dobbiamo presentare la questione come di impellenza immediata. Al nostro Presbiterio abbiamo chiesto di studiare fino in fondo la questione, per darci i migliori consigli. Presto la stessa domanda rivolgeremo al nostro Consiglio pastorale. Si tratta di studiare i possibili complementi interparrocchiali, superparrocchiali e centrali. Ci si dovrà muovere in un terreno che non è più il nostro piccolo e spesso chiuso recinto; ora dobbiamo crearne la convinzione, approntando i disegni per le opere ed i metodi. La Azione Cattolica dei «rami» è stata fin qui essenzialmente parrocchiale: oggi ha dinnanzi un più lontano traguardo. Bisogna pensare a raccogliere intorno alla azione apostolica della Chiesa, nelle debite e sufficienti forme, gente che ha buona volontà, ma insofferenza delle forme associative ad impegno fisso. Ci dovremo abituare a modi di incontro e di collaborazione al tutto diversi da quelli nei quali è stata colata la esperienza della nostra vita. Ci si deve muovere. Tutto questo non può essere anarchico. Gli anarchici, riottosi al controllo, alla disciplina, ai piani generali, alle legittime programmazioni, possono solo appartenere al passato, non certo all’avvenire che, per combattere la battaglia di Dio, chiede a noi maggiore senso di dovere, di ordine, di gerarchia, di disciplina. È impensabile, senza un ordinamento strettamente diocesano, un «completamento» della vita parrocchiale, fattasi anemica sotto il peso del materialismo e dell’edonismo moderno. A tutti i nostri sacerdoti domandiamo di dare parte delle loro considerazioni a questo problema. Il quale si collega strettamente con quello delle vocazioni ecclesiastiche, perché l’avvenire domanderà sempre più sacerdoti impegnati al di là della figura giuridica del parroco e del vicario cooperatore, coi quali si è creduto troppo di risolvere ogni problema.

– La educazione di massa mette in questione tutta la civiltà e tutti i suoi strumenti. Questo non ci è certamente indifferente, dato che viviamo pur noi in questo mondo e non ce ne possiamo disinteressare. Tuttavia per noi la questione si pone specificamente nel sincero e pieno ritorno all’impiego di quei mezzi sacramentali ed extrasacramentali, per i quali le anime si formano, quanto possibile, ad una ad una. Esse, le anime, non avranno affatto da respingere sempre quello che viene da una educazione collettivistica, non sempre necessariamente cattiva; ma dovranno essere guidati dai sacri ministri con una cura, esemplata sulla cura con cui Dio ha creato, crea e creerà sempre le anime, una per una. – Noi ci guardiamo dal pronunciare un giudizio negativo ed indiscriminato sulla educazione di massa. Sappiamo che essa gode di una maggiore dilatazione diffusiva e può ridurre i margini negativi  della civiltà. Affermiamo solo che la educazione di massa è pericolosa nei confronti della personalità umana e che pertanto richiede attenzioni ben maggiori di quelle che di fatto ottiene; che lo sforzo deve essere svolto a corroborare tutte le energie operative nel campo della educazione individuale. La prima educazione può essere completiva della seconda, come la seconda è completiva della prima. È l’unilateralità che va condannata, non la cooperazione tra le forze che si dirigono al gran pubblico e quelle che, all’interno della famiglia, della Chiesa e della scuola possono curvarsi debitamente sulle singole vite, aperte alla esperienza, al dolore e al disinganno. Bisogna riprendere in mano tutto il patrimonio della Chiesa che ha sempre unito una sana e santa educazione di massa, con la sua liturgia e la sua predicazione, ad una educazione delicatissima dei singoli coll’epicentro in un impegno sacramentale od extrasacramentale di foro interno. Recentemente Noi abbiamo scritto una pastorale apposita sul sacramento della penitenza ed a quella rimandiamo, perché è tutta ispirata da questo netto concetto.

A chi credere?

A questo punto la domanda potrebbe sembrare superflua, ma non lo è, in quanto offre il destro di dare alcuni consigli semplici, pratici e conclusivi. In realtà la domanda è giustificata dai fatti seguenti:

1) Su argomenti che hanno avuto fino a pochi anni innanzi il consenso sereno dei teologi (e tale consenso è criterio certissimo di verità) scrittori e personaggi hanno espresso pareri diversi tra di loro (fuori pertanto di ogni consenso) e discrepati da quello che la teologia aveva fino ai nostri tempi tranquillamente insegnato. E parliamo di verità dottrinali quanto di norme morali, per nulla legate a disposizioni meramente positive. Infatti nessuno può negare che in materia puramente positiva la Chiesa ha indotto delle mutazioni. A Noi interessano solo gli oggetti che non sono disponibili per un intervento positivo della legge.

2) Le pubblicazioni sia periodiche che non periodiche danno una impressione notevolmente indipendente e divergente. Non sempre la richiesta «approvazione» costituisce criterio di tutto riposo.

3) Persone qualificate si esprimono in modi diversi e tali da lasciare perplessi. – Che fare adunque? I consigli pratici sono i seguenti:

a) Starsene a quello che si dice nei testi teologici accettati da tutti, comprese le scuole sulla cui attendibilità non ci può essere dubbio. Purtroppo il dubbio oggi pende anche su pubblicazioni un tempo ineccepibili.

b) Starsene con assoluta fedeltà a tutti i documenti sia personali del Sommo Pontefice, sia emanati da organi della Sede Apostolica sui quali si stende la garanzia dello stesso Sommo Pontefice.

c) Starsene alle direttive del proprio Vescovo, che, fino a prova contraria, si suppone essere in piena comunione colla Chiesa e col romano Pontefice. – Tali criteri applicati con assoluta severità, nel solo intento di salvaguardare, al di là di ogni personale simpatia od antipatia, il deposito affidatoci da Cristo, possono dare norme, tranquillità, certezza. – Cari confratelli, dobbiamo avere la forza di restare attaccati, senza rispetto umano, agli immutabili principi che la nostra fede ha incisi nel nostro animo; ma dobbiamo aprire l’animo stesso alla continua, diligente, impegnata adattazione dei nostri metodi. Vi guidi sempre la distinzione invalicabile tra principi e metodi: i primi sono intoccabili, i secondi vanno sempre opportunamente e tempestivamente rettificati. Abbiamo la impressione che molti vogliano mettere lo scompiglio nei principi, per essere esentati dall’impegnarsi al cambiamento dei metodi. E pigrizia! Su tutto questo non splenda una luce umana, ma solo la luce pura e genuina del santo Evangelo.

[Fine]

 

 

 

 

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO COME ORIENTARSI? -2-

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

COME ORIENTARSI? -2-

  1. — Ortodossia

[lettera pastorale scritta l’11 febbraio 1968; «Rivista Diocesana Genovese», 1968, pag. 175-212.]

Altro orientamento conturbante: la demitizzazione. (∗)

(∗) [Il termine di demitizzazione venne lanciato dal BULTMANN nel suo manifesto del 1941. Tuttavia essa si manifesta a partire dal razionalismo. Le afférmazioni teologiche, relative a Dio, vengono risolte in affermazioni antropologiche, relative all’uomo. L’interpretazione antropologica dei dogmi si trova già in E . KANT, Le religione nei limiti della ragione. Le stesse tesi si trovano in uno dei primi scritti del giovane HEGEL, LO spirito del Cristianesimo ed il suo destino e poi nell’opera matura le Lezioni sulla filosofia della religione tenute all’università di Berlino. Dalla linea Kant-Hegel nasce la critica biblica razionalistica con Strauss. Per un esame dell’opera del Bultmann, della sua forma di «demitizzazione» e la sua teologia del Nuovo Testamento, ci si può riferire allo scritto del MARLE, R. Bultmann et l’interpretation du N. T., Lyon 1956.]

Intendiamoci anzitutto sui termini e sui fatti. Il «mito» è un fatto al quale la fantasia e il tempo hanno aggiunto qualcosa, forse il più, forse la stessa sostanza. E ovvio che il «mito» non può coincidere colla verità. «Demitizzare» significherebbe togliere al fatto quello che la compiacente fantasia vi ha aggiunto. In tal modo la «demitizzazione» appare come una restituzione alla verità e di tale nobiltà tenta drammaticamente ammantarsi. Pere questo sia chiaro: si può «demitizzare» solo quando qualcosa è stato fantasticamente aggiunto e pertanto solo quando si è alterata la verità. – Se nel Cattolicesimo qualcuno vuole «demitizzare», ammette che è stata alterata la verità, che pertanto non esiste una garanzia divina in quel senso, che pertanto la Chiesa stessa è un mito e che il più, forse tutto, quello che avrebbe fatto Gesù Cristo è risucchiato dal mito. – Quelli che parlano di «demitizzazione» parlino chiaro e dicano che vogliono distruggere tutto, la nostra fede anzitutto. Se non lo fanno, o non capiscono quello che dicono, o mentono a sé e agli altri, volendo ancora conservare un simulacro di fede. Ora, in dettaglio, che cosa si vuole demitizzare? Il mistero trinitario, la incarnazione del Verbo, la umanità vera del Cristo, tutto il soprannaturale dentro e fuori gli Evangeli, l’Eucarestia, la Madonna, i santi, la grazia, l’oltretomba, tutto. Certi modi di concepire i templi e gli altari portano, se pure inconsci nei relativi operatori, l’impronta di questa demitizzazione voluta. State attenti a quel che fate! [In tal modo il Santo Padre condanna la tesi di Bultmann e le elucubrazioni di coloro che ancor oggi lo sostengono – ndr. ]. Per alcuni la demitizzazione è soltanto in qualche ritocco storico, oppure in una maggiore comprensione delle culture moderne. Ma è illogica perché la demitizzazione o scolorisce tutto o non riuscirà mai a fissare i termini sui quali arrestarsi. La logica interna della «demitizzazione», di natura sua, tende a cancellare, prima o poi, tutto. – Taluni credono che la demitizzazione riguarda solo delle accentuazioni esterne, rituali, di prassi, di vestiti, di ornati. Questa «demitizzazione» non è così apocalittica, e forse, magari per ignoranza, non mira a ledere la verità in se stessa. Ma viviamo in un’epoca in cui le parole trascinano gli uomini, come delle cieche inevitabili leggi, e crediamo che il parlare in queste materie di demitizzazione sia al tutto fuori posto, fuori della stessa proprietà lessicale e comunque pericoloso, per il fascino di una parola usata a ben altro impegno. Nessuno nega che i tempi possano far ridurre qualcosa di pleonastico; ma sarebbe un errore far questo col piglio ridicolo di una crociata demitizzante. I pleonasmi, se pur ci sono, si curano con orientamenti chiari, con istruzione, con pastorale soda ed evangelica, non col piglio degli iconoclasti o, e sarebbe peggio, col piglio dei paurosi, in fretta di capitolare. La demitizzazione vera parte dalla radice razionalistica che misconosce tutto il soprannaturale. Se è sincera e coerente nega la Rivelazione, il miracolo, l’opera della grazia e confina Dio nei lontani recessi abissali, tanto cari all’illuminismo. Ma se il razionalismo è la radice della demitizzazione, il relativismo ne è il compiacente padrino. Si tratta di scegliere: soprannaturale o no. Il fatto «Cristo», scientificamente controllabile, il fatto «Chiesa» della età apostolica la Chiesa» che è nella più chiara evidenza, il «miracolo» che è nella quotidiana esperienza della Chiesa (tanto da averne essa fatto un oggetto di legislazione) costituiscono un chiaro monito a non giocare con le parole, siano pure esse quelle del mondo dei miti. Sappiano i sacerdoti che la finale della strada, alla cui imboccatura si parla di mito, è l’apostasia. Questi sono i veri termini della questione. – Vogliamo chiarire un altro punto. Molti tendono a cassare dalla faccia del mondo la Apologetica e cioè quella scienza che dimostra la verità del Cristianesimo nella Chiesa cattolica. La vera ragione è che la Apologetica distrugge i miti e, se si accetta la Apologetica, si debbono respingere i miti. Nella vicenda demitizzante i santi sono presi di mira: essi con le loro imbarazzanti virtù, coi loro miracoli e con la devozione che riscuotono si direbbe diano veramente noia. Nei suoi ridotti secondari, la demitizzazione trova così persone in buona o in mala fede, che fanno quanto possono per cacciare via i Santi dai templi. – Gli ignari discepoli della demitizzazione sono un numero maggiore di quanto non sembra. Il soprannaturale è necessario quanto Dio, perché, se nulla ci fosse che non superasse i limiti della natura, neppur Dio esisterebbe. Per questo la demitizzazione è la più illogica delle stramberie. Se il soprannaturale non ci fosse, con tutti i suoi contorni, non potremmo far altro che piangere per l’angustia deprimente dei limiti umani nei quali viviamo. Il soprannaturale poggia, come abbiamo detto, sui fatti ed ha il loro rigore; ma se non ci poggiasse bisognerebbe inventarlo per avere meno grama la vita. I popoli, del resto, lasciando da parte i solitari negatori, hanno sempre più o meno pensato così. – Ma sappiano i nostri sacerdoti: la demitizzazione è un male sottile e possono trovarselo addosso, senza saperlo. La loro fede li difenda

Orientamento conturbante: certi aggiornamenti

L’«aggiornamento» è un fatto accettato da tutti. Niente di più chiaro: quando si cambia nazione si cambia lingua, quando si passa da un’epoca all’altra si abbandonano taluni strumenti e se ne prendono altri. Anche Noi abbiamo scritto durante il concilio un piccolo libro sul «Ringiovanimento» nella Chiesa.  – La questione nasce quando si tratta di dare in campo ecclesiastico e soprattutto in campo teologico un significato preciso e definito al termine. I più preferiscono non assecondare questa preoccupazione di definire, così, nella flessibilità dell’equivoco, possono dire quello che vogliono. Il che non va. – Vediamo partitamente i vari significati: è il miglior sistema per non cadere nell’equivoco.

1) Parliamo anzitutto dell’aggiornamento teologico, il più importante. Se per aggiornamento si intende mutare il dogma, darne una interpretazione aliena dalla tradizione e dal consenso avutosi fino al 1960 [fin quando cioè c’è stata la “vera” Chiesa Cattolica, non ancora infiltrata e ribaltata dalla sinagoga di satana –ndr. -], evidentemente il termine ci metterebbe dentro il margine del relativismo, di cui abbiamo già parlato nel margine della eresia. – Se l’aggiornamento consiste nel tacere o mettere in sordina quello che piace meno perché questo tacere può renderci più graditi a fratelli separati, alla cosiddetta cultura, alle mode in corso, ai miscredenti, bisogna distinguere. Se si tratta solo di tattica temporanea e di gradualità nel manifestare una proposizione, possono esistere giuste ragioni per farlo, purché si eviti sicuramente il pericolo di venire fraintesi, di creare turbamenti e di farci applicare l’adagio «chi tace acconsente». Se si tratta invece di autentico cedimento, che sacrifica la verità al successo, ogni aggiornamento diventa menzognero, compromettente e forse traditore. Nostro Signore ci ha dato un avvertimento preciso e inderogabile: «Quelle cose che vi dico nelle orecchie, voi proclamatele sopra i tetti» (Mt. X, 27). – Talvolta l’aggiornamento consiste nel forzare le porte per far entrare teorie pseudo-scientifiche, che possono gettare dubbi sulla interpretazione della sacra Scrittura. Non abbiamo nulla da temere di quello che è veramente scientifico, perché tutte le verità partono da Dio e non avremo mai contraddizione nella verità obbiettiva. Ma abbiamo da temere tutto ciò che non è scientifico. Le teorie che spingerebbero a interpretazioni demitizzanti di taluni punti della sacra Scrittura non sono affatto scientifiche. Facciamo un esempio: i reperti animali antichi in base alle misurazioni sul radiocarbonio è dubbio si possano portare oltre i tre o quattro mila anni. Ora tutti sanno che talune difficoltà derivano, per chi assolutamente le vuole, dal fatto che si fanno misurazioni prolungate a centinaia di migliaia di anni e che con questa sicumera su cose lontane e frammentarie si tenta di gettare nel mito punti importantissimi della sacra Scrittura, relativi alla unità del genere umano, alla creazione dell’uomo di parte di Dio etc. Fortunatamente contro il vergognoso e imperante conformismo cominciano a levarsi voci competenti e franche. – Qualche volta l’aggiornamento consiste nel gettare verso il mito punti della scrittura neotestamentaria relativi alla storicità di fatti certamente soprannaturali e ciò in ossequio al puro principio razionalistico, contrario a qualsiasi manifestazione soprannaturale. Questo razionalismo è il contrario della ragione, perché non è della ragione mettere limiti alla realtà di fatto, ma se mai spiegarla e; accettare limiti della propria capacità di comprendere. Il concilio Vaticano secondo è stato esplicito per esempio a proposito del Vangelo della infanzia in Luca I-II 15 [forzato dai censori “carcerieri”, quando poteva, il Santo Padre inseriva cose che avessero ancora un senso Cattolico nei documenti del supposto concilio, cioè il conciliabolo minante le dottrina Cattolica di sempre.- ndr. ]. Qualunque accettazione del principio razionalistico è al tutto incompossibile con la nostra fede, non solo, ma con la semplice religione naturale, perché Dio stesso sta al di sopra dei limiti naturali. I tentativi più radicali di aggiornamento si fanno nel campo morale. Lo scopo è chiaro: bisogna portare agli uomini deboli su un piatto d’argento il dono della libertà dai punti più oberanti della legge di Dio: castità, rispetto alla natura, senso del matrimonio, obbligo di generare, obbedienza, sacrificio. Qui l’aggiornamento è un assalto smaccato. Si invoca il concilio, ma noi invitiamo tutti a leggersi bene i documenti conciliari nel testo autentico, per vedere se qualcosa di simile è stato detto o lasciato supporre dal sacrosante concilio. Né vale, per addurne l’autorità e l’avallo, il parlare di un oscuro «spirito del concilio», al tutto arbitrario e generalmente in contrasto col concilio stesso. Qui noi troviamo di tutto: dottrine dei Patari e dei Catarini, marxismo, anarchia, nihilismo, reazione in tutte le direzioni… Il concilio non ha la paternità di questa roba e sarebbe meglio che certi scrittori avessero la lealtà di dire che trattano di elucubrazioni proprie, lasciando stare un sacrosanto concilio [il Santo Padre non poteva ovviamente dire che il conciliabolo era del tutto illegittimo, non fosse altro poiché presieduto da un antipapa fasullo, agente degli Illuminati, e che il vero Papa, canonicamente e legittimamente eletto, era Gregorio XVII, eletto ed accettante, il 26 ottobre del 1968 –ndr. – ] L’aggiornamento liturgico consiste solo nell’obbedire agli aggiornamenti fatti dalla legittima autorità in materia [cioè il Sommo Pontefice Gregorio XVII –ndr.]. Al di là di queste limite chiaro, preciso ed onesto ci stanno solo dei pareri personali che non obbligano nessuno, che possono essere contestati da tutti e che è sempre meglio contenere saggiamente perché, non contenuti, cambierebbero un periodo di opportune riforme in una esperienza di distruzione e di confusione. Ne riparleremo più avanti. Non sappiamo affatto se il ritorno ad usi barbarici, a costruzioni col puro criterio della officina, la distruzione della Biblia pauperum, all’ecatombe della musica sacra e del suo patrimonio si possano chiamare aggiornamenti. Saranno qualcosa, ma non certamente un aggiornamento.

2) Parliamo in secondo luogo dell’aggiornamento metodologico. Il metodo è l’insieme sistematico di regole pratiche e concrete per attingere un determinato fine. Il fine regola pertanto il metodo. Quando uno non ha alcun fine preciso in testa, buono o cattivo che sia, non si capisce come possa parlare di metodo. Una rivoluzione metodologica dovrebbe essere appoggiata da una rivoluzione dei tini. Forse questa prima osservazione comincia a rendere più chiaro l’argomento, generalmente tanto enfatico quanto astruso. I metodi possono cambiare per tre ragioni: cambiamento dei fini, acquisizione di nuovi strumenti, profilarsi di nuove circostanze. Basta questo enunciato per assicurare che il flusso della metodologia nella sua parte concreta e pratica è ed è sempre esistito, talvolta allentato, talvolta affrettato per improvvisi risvegli. Nessuno si meraviglia se qualche volta occorre, dopo una sosta meridiana troppo prolungata, un qualche scossone. Ma, e questo è importante, per modificare i metodi occorrono delle ragioni valevoli e adeguate. C’è un limite: i metodi sono subordinati al fine; tutti i fini secondari debbono subordinarsi al fine ultimo, ossia con la legge di Dio. Quando, in nome di una metodica nuova, si arriva a toccare la legge di Dio, bisogna dire: alt! Esaminiamo alcune metodologie, nelle quali i principi certi ora enunciati possono scavalcarsi in modo disonesto e dannoso.

Metodologia didattica

Siano benedetti gli studi moderni che riescono a trovare, se ci riescono, degli angoletti non ancora illuminati e sfruttati, nell’anima umana, per renderne più corto, proficuo ed attivo lo sforzo di collaborazione all’insegnamento. Queste nuove risorse possono essere dosate nella applicazione, in modo da permettere ad una oculata esperienza di dare il vero valore, non la illusione della novità di metodo. Una cosa è certa: ogni insegnamento segue la linea naturale dalle cose sensibili a quelle che stanno oltre la sensazione, da quelle più semplici a quelle più complesse, dal dato semplicemente percettivo e mnemonico, che resta fondamentale e lo diciamo per 1 catechismo, a quello di comprensione nello approfondimento, da quello nozionale a quello di sistematizzazione e sintesi, dal pure approfondimento alla ricerca ed alla conquista individuale. Chi volesse gettare all’aria tutto questo si troverebbe, più presto di quanto non pensi, fuori di strada. Chi volesse tenere per certo che non esistono più principi, idee universali, fondamenti comuni, limiti di verosimiglianza, non farebbe un metodo, ma solo una anarchia. – Ed è probabile che a molti la anarchia appaia come il più sorridente dei metodi. Ma la esperienza storica assicura che l’anarchia edifica nulla e distrugge tutto. Ossia è negativa. Non abbiamo per il momento particolari interessi a trattenerci sull’argomento della metodologia didattica. Ci limitiamo a raccomandare al nostro clero di evitare una pura cultura nozionale, dalla quale escono solo altoparlanti pretenziosi e di tenere nel giusto conto la parte istituzionale, dalla quale attingono collegamenti, razionalità, sintesi, capacità di giudizio, maturazione di esperienza. Il discorso lo riprenderemo quando ci sarà da parlare di catechismo. Non tutti quelli che ne parlano ci convincono. Ma sarà a suo tempo.

Metodologia pedagogica

L’argomento qui si fa assai più grave, perché, se non sempre dobbiamo fare scuola, noi sacerdoti dobbiamo sempre educare. Dentro e fuori i sacramenti. E ovvio che noi si parla di educazione o pedagogia specificamente cristiana. Per definizione, dobbiamo ritenere minore qualsivoglia altra pedagogia. Dire diverso sarebbe negare che Cristo è, come si è detto Lui, «il Maestro». Esaminiamo anzitutto, per chiarezza di argomento, alcuni punti fondamentali della pedagogia cattolica. – L’aiuto e il contenimento della naturale debolezza aggravata dal peccato originale. Nessuno nasce eroe, tutti nascono deboli. Ovunque occorre il calcolo della debolezza intellettuale, volitiva, sentimentale, istintiva, aggravata dal fomite della concupiscenza. La pedagogia non prescinde mai dalle misure di sicurezza di prevenzione di adattamento a questa debolezza. La prima misura è la chiarezza della Parola di Dio nell’insegnamento catechistico e nel fastigio sublime dell’atto di fede. La posizione dirimente che acquista nella educazione la «abitudine»: quella cattiva diventa vizio, quella buona diventa virtù; l’una e  l’altra facilitano gli atti del loro ordine. L’abitudine risolve il più dei problemi della vita umana, ma, se mala, li guasta tutti. Una educazione che prescinde dal fare acquistare, con la ripetizione degli atti, abitudini «buone» è negativa, ossia nella migliore delle ipotesi è inesistente. – La necessità della guida. L’educando deve essere recettivo di quello che non ha e lui ha quasi niente da sé. Tale impostazione fa capire perché l’ordinamento divino ha stabilito nel quarto comandamento: «Onora il padre e la madre», con tutte le naturali estensioni e coll’obbligo della obbedienza. L’esercizio della autorità è necessario alla educazione, anche se l’autorità deve vestirsi ragionevolmente a seconda delle circostanze. La educazione è un atto essenzialmente paterno e ne deve mantenere con sacrificio tutti i caratteri. La educazione deve creare l’abitudine dei necessari mezzi soprannaturali di conoscenza di sé e di sostegno della propria debolezza. Ora possiamo, con chiaro riferimento, discorrere degli aggiornamenti giusti o discutibili di metodologia educativa. La metodologia aggiornata di taluni consiste nella pratica negazione del dogma del peccato originale, con la attribuzione al fanciullo di una indipendenza, della quale non diventa capace se non gradualmente. Altra applicazione di questo punto di vista caro ad una corrente di pensiero, prima svizzero e poi americano, è la riduzione della pedagogia alla didattica: basta insegnare, non occorre educare. Finalmente si giunge alla negazione della guida nell’educatore e dell’obbedienza nell’educando. Hanno tirato fuori che è nello spirito conciliare sostituire il colloquio all’obbedienza. Il concilio Vaticano nella Optatam Totius ha affermato esattamente e fortemente il contrario. Non è difficile scorgere che sotto certe metodologie, ad esser logici, si dovrebbero nascondere delle autentiche eresie. Taluni aggiornamenti di metodologia consisterebbero nella abolizione della disciplina. A parte che il citato decreto conciliare esige la disciplina, non si capisce come potrebbero funzionare senza disciplina la guida, l’insegnamento, la reciproca educazione, la stessa ordinata convivenza. Infatti la educazione, almeno nelle ore di scuola, chiede la convivenza e tutti sanno che in una convivenza l’agio del singolo è frutto del sacrificio di tutti, in parte della propria  autonomia. I limiti delle discipline restano ovviamente discutibili, a seconda delle circostanze, degli ambienti, dei costumi e del grado di vivacità degli educandi. Ma una disciplina ci vuole. Per altri, il punto più grave, più dibattuto, più malmenato della materia educativa è quello della iniziazione, della educazione, della tolleranza sessuale. Qui in genere si va fuori del seminato ed il discorso deve diventare severo e accurato. La legge di Dio in proposito non cambia. Pertanto i limiti imposti dalla castità in tutti gli stati non subiscono alcuna contrazione. Le condizioni poste alla informazione sessuale dei bimbi, secondo un celebre atto del Santo Uffizio, non sono soggette a sostanziali mutazioni. Le cautele domandate dalla modestia per equilibrare la resistenza alle probabili tentazioni rimangono perfettamente valide. Tutti i testi approvati di morale sono consenzienti su questo punto fino al 1963. Dopo questa data alcuni teologi o sedicenti teologi hanno creduto di poter allargare brecce in questa materia: ma essi non fanno alcun consenso, né lo possono fare perché il consenso c’era già stato e la verità non nasce due volte in due maniere diverse. – Quando l’aggiornamento consiste nel dichiarare non peccato quello che sempre nella Chiesa si è dichiarato essere peccato, non si tratta di aggiornamento, ma di perversione. Quando l’aggiornamento consiste nel gettare le anime tenere imprudentemente verso cognizioni, familiarità, esperienze, che o sono pericolose o sono peccaminose, oltre la perversione si ha il morale assassinio, in quanto la psicologia infantile trae da tutto questo traumi dolorosi, complessi tali da alterare spesso una intera esistenza. Per taluni l’aggiornamento consiste nel parlare sboccatamente senza veli, senza reticenze, senza pudore, con chiunque, di materia sessuale; siamo alla degenerazione. Anche perché tutto ciò lede il più elementare rispetto per quello che è più proprio, più personale, e riservato in un uomo e in una donna. Se questo viene aizzato dalla stampa pornografica e dalla cinematografia alla macchia e non alla macchia, si potrà capire l’aumento della tentazione, ma non si evita alcuna deformità morale. In nome di questi aggiornamenti si fa appello alla opportunità psicologica di prevenire nei bimbi e negli adolescenti stati ansiosi e di morale debolezza. Naturalmente non si possono approvare nella necessaria informazione sessuale dei retrivi ritardi senza ragione. Ma, in tutto questo, come lo sviluppo di ogni essere avviene per gradi, deve restare fondamentale la legge della gradualità nel tempo e nelle cose in una prudenza oculata e vigile, in una metodologia volta ai singoli e solo dopo precisi accertamenti ai complessi. – Finalmente, per toccare solo i punti più importanti di quelli che vengono dibattuti, l’aggiornamento metodologico educativo non può scompigliare la giusta valutazione della «abitudine». Infatti l’«abitudine», fornendo progressiva facilità al compimento dell’atto suo proprio, permette di acquistare una latitudine operativa enorme, che diviene fondamento della fecondità di tutta la esistenza. Senza questa facilità acquisita, che dispensa dall’impiego di molte energie e spesso all’impiego di qualunque energia od attenzione, in tutta la esistenza potremmo fare ben poco e dovremmo sempre ricominciare daccapo. E il lato positivo della «abitudine» per la quale si sente il dovere di ringraziare la Provvidenza. Ma l’«abitudine» si può prendere nel bene e nel male: è ambivalente. Di qui alcune gravi conseguenze.

– La educazione deve fare acquistare colla ripetizione degli atti una grande quantità di abitudini «buone». Esse sono la ricchezza della vita. Una educazione che non fa acquistare tali abitudini buone è una educazione incosciente.

– La educazione deve essere vigile per stroncare le abitudini male. Diciamo che deve essere «vigile». Infatti nella maggior parte dei casi il ragazzo scopre la abitudine «mala» quando l’ha già contratta. Per questo deve venire aiutato dall’esterno. Quelli che aboliscono la «guida», come se tale abolizione fosse un rispetto alla personalità, non fanno altro che lasciare il ragazzo in balia delle sue debolezze, solidificate nelle abitudini.

– La educazione deve essere continuamente attiva e stimolante, perché non accada che il gettarsi per pigrizia alla sola forza delle abitudini crei persone senza Volontà e senza carattere. Il discorso sulla «abitudine», in campo educativo, obbliga a ragionare seriamente, ad essere cauti e a non lasciarsi prendere nei gorghi di una confusione mentale qualche volta orpellata di « aggiornamento».

 Metodologia di governo

Anche qui si parla di aggiornamento. Secondo taluni l’aggiornamento sarebbe, qui, l’accantonamento iella «autorità». Si parla di sostituti e i sostituti più vantati sarebbero: l’amicizia, la carità, l’autocoscienza di ogni personalità, il colloquio. Si tratta di vaneggiamenti. La cosa più stupefacente è che tali vaneggiamenti si colgono sulle labbra di persone e negli scritti di altre le quali, per definizione, dovrebbero essere serie. – Vediamo. Intanto l’argomento è esaurito immediatamente, perché l’«autorità» l’ha voluta Iddio. L’ha voluta nel campo naturale (autorità della polis, della famiglia e derivati), l’ha voluta nel campo positivo, con l’istituzione della Chiesa. L’argomento è chiuso, perché queste sciocchezze offendono semplicemente Iddio, il quale ha voluto altrimenti. Ma, ciò precisato, si possono esaminare i pretesi surrogati della autorità.

1) L’amicizia. Quando è vera, stabilisce un influsso morale, non La norma. La vita individuale ha bisogno della «norma», come la mano ha bisogno della penna per scrivere. Quando non è vera, perché non poggia sull’amore di benevolenza ed è interessata, l’amicizia è una società di mutuo sfruttamento, che non può non portare se non al dissidio. Qui, in genere non c’è neppure l’influsso morale. Ci può essere la paura. Quando l’amicizia è feticcio – suprema ragione, suprema norma, supremo motivo di ogni cosa con prevalenza rispetto a qualsiasi altra ragione – fa solo delle fazioni e le fazioni portano alla guerra delle anime. Senza dire che questa non è più amicizia, è solo una forma patologica di aggregazione umana. Il sostituto della autorità deve creare l’interna obbligazione di coscienza. Qui questo non accade. Dunque: niente sostituto.

2) La carità, quando è tale (diciamo così perché quando la si pone come successore della autorità riteniamo fondamentale che non sia mai tale), è indubbiamente una cosa degna e incantevole; è la più alta delle virtù. Muove tutte le virtù, ma non sostituisce gli strumenti posti da Dio per l’ordinamento del mondo. Può fare in taluni casi delle sostituzioni strabilianti, ma non in via ordinaria. Per sostituire la autorità dovrebbe creare la norma per i singoli casi e per di più la norma obbligante. Il che non è. Proviamoci a immaginare una convivenza governata dalla «superiora» carità. Fu già tentato e il Santo Uffizio dovette far chiudere tutto, ovviamente, sia perché si trattava di una cosa pazzesca e irrazionale, sia perché i frutti furono quelli che ci si poteva aspettare. Solo la norma obbligante tiene a freno i sotterfugi, la astuzia, la ipocrisia ed altre piacevolezze del genere e peggiori, ma sempre presenti.

3) L’autocoscienza di ogni personalità. Anche qui: la autocoscienza non genera la norma. E il ragionamento che ritorna sempre. In secondo luogo l’autocoscienza non costituisce obbligazione per una «diversa» persona: quindi viene a decadere del tutto l’ordinamento tra persone associate. In terzo luogo è problematico che ci sia ed è probabile che l’autocoscienza nella maggior parte dei casi degeneri facilmente in superbia, con tutte le conseguenze, le confusioni e i contrasti, generati dal primo dei sette peccati capitali.

4) Il colloquio. – Il colloquio può certo illuminare ed è augurabile che in qualunque governo esso sia usato ragionevolmente, prudentemente, notevolmente. Ma il colloquio, che potrà anche nella migliore delle ipotesi favorire le intese amichevoli e la comprensione, la prevenzione, non sostituisce affatto di sua natura quella indicazione normativa obbligante mostrata alla intelligenza ed accettata dalla volontà. Colloquio e autorità sono due cose al tutto eterogenee; pertanto l’una non sostituisce le vere e indispensabili funzioni dell’altra. In verità questi sostituti arbitrari della autorità hanno un solo frutto genuino: l’anarchia! L’aggiornamento che frulla nella testa di taluni è il seguente: «che l’autorità cessi di esistere e che non ci siano limiti da nessuna parte, salvo quelli, anche buoni, che ciascheduno crederà di porsi secondo la sua coscienza». E difficile pensare come potrebbe funzionare una coscienza, dopo tale distruzione. Ad ogni modo quelli che hanno tali idee sono, nella migliore delle ipotesi, fuori del mondo. Basterebbe che una parte di quelli che hanno a che fare con loro avessero le stesse idee, le applicassero nei loro confronti e non potrebbero più nemmeno vivere. Uno può fare l’anarchico solo quando è certo che gli altri non lo sono, perché se gli altri pensano come lui è immediatamente sommerso. Nessuno deve cedere il passo a questi pericolosi sognatori. Senza autorità è distrutto l’ordine, non esistono più organizzazioni, le quali si fondano su un principio di rapporti fissi; prevarrebbe la forza e, a parte l’oltraggio fatto all’ordinamento divino, si avrebbe la distruzione di ogni civiltà. Che molti uomini abbiano spesso abusato, anche ignobilmente, della autorità, non significa che l’autorità in se stessa debba considerarsi abolita. Si cerchino i rimedi morali, legali e sociali, ma si rispetti quello che Dio ha stabilito. Per gli esseri irrazionali esiste la legge determinante ed è impensabile l’anarchia; per gli esseri razionali esiste la libertà guidata dalla legge e questa personificata nella competente autorità. Questa moda passerà, perché le mode passano, ma lascerà anche in Chiesa incredibili rovine! – Per quanto riguarda la Chiesa il cardine resta il Romano Pontefice, e, sotto di lui, i Vescovi. Nel senso anarchico si tentano interpretazioni della dottrina dei laici, che non sono ammissibili coi testi conciliari della Apostolicam actuositatem e Gaudium et spes. [Qui il Santo Padre allude alle pochissime parti, dei falsi documenti conciliari, che abbiano parvenza cattolica! –ndr ]. Nessuna parola del concilio diminuisce l’autorità dei vescovi che è invece aumentata in quanto la suprema sede ha creduto accedere all’idea di un certo decentramento di facoltà, prima riservate. Nessuna parola del concilio dà ai laici facoltà che non abbiano sempre avute, se mai, per la prima volta ne ha fatto oggetto di documenti così solenni. La precisazione più attesa ed utile è quella di lasciare ai laici ogni responsabilità ed indipendenza quando si impegnano in affari di ordine terrestre. Anche in questi però debbono tener conto del sacro magistero (cfr. Apostolicam actuositatem,14). – Tutte le iniziative con nome e contenuto e finalità cattolici, restano sotto la guida e la vigilanza della gerarchia. Ecco come si esprime ben chiaramente il sacrosanto concilio: «L’apostolato nei laici, sia esso esercitato dai singoli, che dai cristiani consociati, deve essere inserito con il debito ordine nell’apostolato di tutta la Chiesa; anzi la unione con coloro che lo Spirito Santo ha posto a reggere la Chiesa di Dio (At. 20,28) è un elemento essenziale dell’apostolato cristiano. Non è meno necessaria la cooperazione tra le varie iniziative di apostolato, che deve essere convenientemente ordinata dalla gerarchia» (Apostolicarr. actuositatem, 23) [la citazione di questi documenti è qui chiaramente imposta, oltre che inopportuna e pleonastica, perché nulla aggiunge al vero Magisteri di sempre –ndr. -]. E poiché nessuno possa cavillare lo stesso venerando documento aggiunge (n. 24): «Spetta alla gerarchia promuovere l’apostolato dei laici, fornire i principi e gli aiuti spirituali, ordinare l’esercizio dell’apostolato medesimo al bene comune della Chiesa, vigilare affinché la dottrina e l’ordine siano rispettati». «Nessuna iniziativa rivendichi a se stessa la denominazione di cattolica, se non interviene il consenso della autorità ecclesiastica» (ivi, 24). E evidente che il documento citato esorta a lasciare, quando è giusto, una ragionevole libertà, ma i termini giuridici del rapporto tra laici e gerarchia sono e restano quelli sopra esposti. Del resto non è pensabile alcun ordine ed alcuna pace nella Chiesa, se non in questo modo. – La tendenza di alcuni ad accantonare la autorità ecclesiastica. peggio a controllarla, a giudicarla ed eventualmente condannarla, non ha alcuna giustificazione nei testi conciliari e non merita che disapprovazione e condanna. La Chiesa è madre e va riguardata come tale. La induzione di un concetto fiscale nella Chiesa e nella sua autorità, quasi che si riducesse ad una pesante eppur necessaria burocrazia, è falsa, oltraggiosa ed è sicuro indizio di un negativo spirito cattolico.

Altro istinto malignamente suasivo: compiacere il mondo

La letteratura giornalistica laicista si occupa come non mai di cose di Chiesa. Per questa letteratura, la Chiesa ha ragione quando «cambia» qualcosa, non importa che, quando si crede abbandoni vesti, costumanze, tradizioni, cautele, filtri depurativi, austerità, limiti; quando si crede (a torto) che legalizzi il libero amore, la gioventù scapigliata e senza freno, la critica astiosa, la ribellione ad ogni autorità, la sostituzione della obbedienza col colloquio, la parità giuridica di funzione tra superiore ed inferiore, il disprezzo verso ogni segno che serve ad incidere nei dotti e negli indotti la realtà ontologica (altrimenti inafferrabile per i più) della funzione giurisdizionale, dell’autorità etc. Queste lodi, se mai per qualcuno di noi fossero vere, ci coprirebbero di onta. Tuttavia fanno mentalità e costituiscono la sottile manovra per insinuare a poco a poco un errato modo di pensare, di giudicare e di impostare il proprio costume, la propria vita. In taluni di voi tutto questo provoca uno stato di incertezza che può porre il dubbio su tutte le sacre tradizioni ecclesiastiche, da noi apprese e che, messe in discussione, mettono in gioco tutto, siccome la esperienza manifesta: serietà dei seminari, presa dell’insegnamento, carità fraterna. Di questo passo tra qualche anno ci sarà chi si riterrà eroe per essere arrivato a sputare sulla autorità, sulle sacre immagini, sulle sante reliquie. Ci sono già — non da noi – quelli che si vantano di aver disprezzato le sacre Specie fuori del Sacrificio della Messa, di aver esiliato dai templi tutte le immagini, all’infuori del Crocifisso… il quale pare salvato più per coprire l’altrui esilio, che non per se stesso. Molti sono gli espositori di questa triste fiera. Tutto questo perché? Per piacere al mondo. Quale mondo? Non ci riesce di vederlo. Il nostro popolo fedele queste cose non le vuole. Molti dei fedeli si rivolgono a Noi ovunque perché su queste cose piangono e temono. Chi sono allora? Pochi, facilmente individuabili. Se ci fosse qualche confratello che, pur di essere «qualcosa», di diventare «qualcosa», monta la testa di qualche fedele che ha fiducia in lui per imbottirla con errori di tale portata, Noi lo supplichiamo [si noti il Noi, proprio di tutti i documenti pontifici, come quello che appunto stiamo leggendo, del Sommo Pontefice Gregorio XVII –ndr. -], in nome della salvezza e della condanna divina egualmente pencolanti sopra di lui, anche se ha intorno una schiera di osannanti e di fanatici, pensi bene a quello che fa, non scherzi col fuoco, non si renda oggetto di possibile maledizione. I pochi hanno certamente un «miraggio» che essi stimano il «mondo». Cerchiamo di capire in che stia questo fatale e ingannevole miraggio. La grande stampa, lo spettacolo per la grandissima parte, sono ormai caduti in mani poco benevole. La televisione ha una strada che solo qualche volta coincide colla Parola di Dio. Questo accade in molti paesi. Pare che siano il «mondo» e non è affatto vero. Il benessere materiale, proprio perché si mostra come la posta della vita, mentre non risolve pressoché alcun problema delle anime, coi suoi molti rappresentanti, i suoi aggeggi, le sue teatrali pubblicità, pare essere il «mondo». A questo tipo di mondo non si può più parlare di Croce, di sacrificio, di distacco. Ma è tutto falso, perché il benessere è soltanto una facciata. Dietro ad essa l’umanità resta la stessa. – L’ambiente, che si preoccupa soprattutto di addurre il benessere materiale, che ha messo il paradiso solo in terra, che per valutare questo paradiso deve appoggiarsi a dottrine materialistiche e lanciare crociate di odio, appare a taluni il «mondo». Quello cui bisogna compiacere. Ma è tutto miraggio, perché da mezzo secolo la parte più qualificata di questo tipo di «mondo» ha dimostrato una sola fecondità: la tirannia. Chi ha occhi, guardi; non gli occorre altro. La cultura è una cosa degna e necessaria alla civiltà. Ma c’è qualcosa che si spaccia per cultura e non lo è, almeno del tutto. Vi primeggiano le capitali della immoralità, il motivo dell’affare, l’istinto del successo. Si direbbe fatta assai più di imprese editoriali, di parchi per divertimenti, di alleanze qualche volta oscene. Ma si mostra «mondo». Non ha importanza se si è spostata piuttosto alle enciclopedie, agli schedari, alle gazzette, ai gesti sensazionali. Neppure ha importanza se obbliga a taglieggiare la filosofia naturale, l’etica naturale, la teologia naturale, ad accettare come tesi sentenze delle quali ben si sa che sono solamente ipotesi. Neppure ha importanza se diventa paravento per affermare ed accettare solo quello che piace. È «mondo». Mentre non è vero, non fosse altro, perché questa cultura aumenta il dolore degli uomini e diminuisce la loro gioia. – Esiste una «dinamica» fatta di odio alla autorità, di attentato al valore, di livellamento d’ogni cosa, di insulto alla distinzione, alla educazione… Per afflato, esaltazione, ispirazione, fanatismo e con questi begli istrumenti riesce a farsi credere «mondo». Bisogna accontentarlo. E per accontentarlo, non manca chi spoglia tutto. Ecco il «miraggio». E difficile evitarlo, come è difficile in un deserto evitare la canicola sul mezzogiorno. Bisogna difendersene, altrimenti non si resta uomini e si diventa «ombre»! Questo tipo di mondo, con i suoi miraggi e coi suoi fenomeni di fata morgana, cari confratelli, ve lo trovate intorno dappertutto. Anche qui ci chiedete un orientamento. Eccovelo.

1) Conoscere che le cose stanno così. Non ci si difende, se non si sa. Per conoscere meglio, fare il continuo paragone tra «mondo» e «Vangelo». E del Vangelo considerare soprattutto quello che il Salvatore ci ha detto in termini estremamente concreti sul distacco del cuore dai beni terreni, sulla strada stretta e la porta angusta, sulla carità, sul perdono, sul modo di giudicare, sulla umiltà, sulla mitezza, sulla giustizia, sulla rinuncia… Tutte queste cose si cerca di soffocarle col chiasso indecente, col ridicolo astioso, con la persecuzione. Accade così perché quelle cose sono le uniche veramente valevoli in una umana convivenza.

2) Avere la coscienza chiara che la gran parte delle cose stampate, allorché riguardano sommi principi, orientamenti mentali, costume, senso della vita, senso cristiano, ingannano. E saper emergere da questa quotidiana insidiosa marea. Ciò significa che rendere le cose facili, rende noi deboli e finisce col distruggere il meglio!

3) Saper tuttavia vedere il bene dove è, sceverare il lodevole dal depravato, accettare la illuminazione che viene dalle cose serie. Molte cose di questo mondo vanno conosciute e studiate per farle proprie e seguirle. Sappiamo bene che spesso conoscere e fare proprio sono la stessa cosa. Pertanto occorre saggezza, ponderazione, prudenza. Ma si debbono conoscere molte cose, perché altrimenti noi cureremo spiritualmente degli uomini appartenenti ad un altro secolo e che sono da un pezzo tramontati. Si tratta di sapere per capire e poter servire; non si tratta di assorbire il veleno del «mondo».

4) Custodire intatta la propria austera disciplina e non imitare nulla dell’andazzo mondano. Siamo in gravissimo pericolo non solo di «compiacere» il cosiddetto «mondo», ma siamo in pericolo di imitarlo. Il pericolo è sottile, perché fino ad un certo punto il «mondo» presenta cose utili, organizzazione più redditizia, modi di costruire in edilizia, pubblicità pur fruttuosa… E questione di sapersi fermare a tempo, prima di varcare la soglia dell’improprio e delle sconveniente. Solo chi ama austerità ed orazione ci riesce. Gli altri, e lo si vede, non ci riescono.

5) Accettare il moderno, rifiutare il cattivo e il malo. Nel 1950 abbiamo scritto al nostro clero una lunga pastorale su La modernità. Ce la siamo riletta, per vedere se era necessario modificare qualcosa. Abbiamo onestamente concluso che nulla era da modificare. Il moderno lo si accetta perché è più buono, più conveniente, più utile e fecondo, più proprio, più adatto, non solo perché è «nuovo». Chi accredita il «nuovo» è il «buono». – Vi preghiamo di non dimenticare che il vero «moderno» non tiene solo l’occhio al «presente». Il «presente» tramonta ogni giorno; tiene l’occhio all’avvenire. L’avvenire è una cosa seria e lo scrutarlo è un dovere. Ma poiché la sua conoscenza dettagliata, salva la impreteribilità delle leggi fisiche immutabili, è oggetto di profezia e non di scienza, da parte nostra lo scrutiamo solo tenendo conto dei principi assicurati dai secoli e dalla esperienza storica. Gli uni e l’altra possono suggerire conclusioni, che non sempre sono simpatiche al contingentismo del presente, proprio perché, facendo come lo struzzo quando mette la testa sotto l’ala, non vuol guardare nell’avvenire e nella sua imponente logica.

6) Noi cerchiamo troppo di piacere. Dobbiamo renderci cari a tutti per le nostre virtù, ma questo non è «piacere». Chi vuol piacere non terrà mai la via retta e sentirà, in tutte le contraddittorie direzioni, delle attrattive magnetiche conturbanti e devianti. Se piaceremo per le giuste doti e le migliori virtù, tanto meglio; ma guai a cercare l’effetto del «piacere». La Croce, per essere tale, dovette diventare anche scandalo e creduta insipienza. Il sale conserva. È una costruzione interiore che ci salva dalla sirena mondana e questa costruzione è evangelica, forte, metodica, soprannaturale, generosa. – Al mondo non aprite facili porte, usando i suoi stessi aggeggi. Non credete ai facili e comodi profeti. Nulla è più ingannevole di quanto è comodo!

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO: COME ORIENTARSI? -1-

GREGORIO XVII:

– IL MAGISTERO IMPEDITO –

COME ORIENTARSI? -1-

  1. — Ortodossia

[lettera pastorale scritta l’11 febbraio 1968; «Rivista Diocesana Genovese», 1968, pag. 175-212.]

 Qualche sacerdote nostro ci ha confidato di non sapere orientarsi tra tante opinioni, novità e perfino contraddizioni. Ci ha detto: qui si pensa in un modo, là si pensa in un altro. Qui si fanno affermazioni e là si dice tutto il contrario. Su pubblicazioni, che porterebbero suggelli autorevoli, si leggono affermazioni sconcertanti. Persone di chiara fama non sembrano concordi tra loro su problemi di fondo. Noi abbiamo studiato teologia e tutte le materie che vi si collegano; siamo usciti dal seminario con idee chiare e definite: dobbiamo ora metterle in discussione? La nostra fede è intatta e piena; noi sappiamo che la Chiesa ci guida e dispone del carisma della infallibilità. E l’ancora alla quale restiamo attaccati. Ma è possibile darci un indirizzo, che ci tolga da questa situazione sconcertante? Noi sappiamo che tale domanda se la pongono altri, che non l’hanno presentata direttamente a Noi. Sappiamo, non fosse altro che per le molte lettere a noi indirizzate, che a porsi tale domanda sono legione1. [E’ quanto ancora oggi pochi prelati, si chiedono, quei pochi cioè che credono di essere ancora nella Chiesa Cattolica, non avendo ancora compreso di far parte di una “sinagoga gnostica” che si è infiltrata, eclissando la vera Chiesa di Cristo – ndr. -]. Fa parte del nostro più stretto dovere rasserenare in questioni poste con tanta ragionevolezza l’animo dei nostri sacerdoti. Pertanto, cari confratelli, abbiamo sentito l’obbligo di indirizzarvi questa lettera. Ci auguriamo che essa possa servire anche ai laici, ai quali insicuri indirizzi, mancanza di fondamenti istituzionali, deplorevoli influssi subiti, hanno suggerito le stesse sconcertanti domande [senza aver mai avuto risposte chiare! –ndr. – ] I fatti non si possono negare: bisogna lealmente ammetterli. Da alcuni anni proposizioni, che fino a dieci anni or sono avrebbero fatto rabbrividire tutti, circolano, assumono stile togato e asseverante, vengono bandite anche da centri editoriali importanti, da cattedre rispettate, da uomini di rilievo. Basta leggersi il volume di Maltha (che è impresso da qualche anno e pertanto non porta molte delle più recenti elucubrazioni) per rendersi conto del quanto la verità rivelata e la verità strettamente connessa con quella rivelata subiscano oltraggi anche sostanziali e come ormai l’infezione si sia estesa al campo morale. Ci dispensiamo dal fare riferimenti più precisi perché è sempre nostro principio astenerci assolutamente dalla polemica [anche verrebbero censurate subito – ndr, – ]. – Ci si può chiedere il perché del fatto. È giusto dare una risposta, anche perché il fatto in se stesso costituisce, per molte anime giuste, motivo di dolore, di perplessità, di ansia. La risposta sostanziale ci pare la seguente. Il concilio ebbe opportunissimamente dal romano pontefice piena libertà di parole, quella libertà era riservata ai soli padri del concilio. Accadde che, senza alcun diritto, se la presero altri

e se la presero in materie circa le quali gli stessi Padri non avrebbero potuto prendersela, senza smentire la professione di fede da essi fatta. Il concilio finì e per molti quella libertà indebita continuò. Fu essa a creare la confusione. [Il Santo Padre non poteva ovviamente dire, nella sua condizione di “recluso” e “sorvegliato speciale” e sotto costante pericolo di morte, che il Concilio era falso, che il “pontefice romano” era un infiltrato marrano agente degli “illuminati”, anzi egli stesso il patriarca della massoneria mondiale, come il suo amico don Villa gli aveva confidato, etc. etc. –ndr.-].  Accadde un altro fatto: molti che nella Chiesa non hanno facoltà di Magistero autentico, perché non sono vescovi, lasciando da parte i Vescovi (che col Romano Pontefice e sotto di esso sono maestri nella fede – il Romano Pontefice era appunto Gregorio XVII, G. Siri – ndr. – aventi autorità da Cristo) hanno ampiamente parlato, discusso, messo in dubbio ed in sostanza usurpato un potere che non avevano, dato che altra cosa è la ricerca aperta a tutti, altra cosa è l’errore proibito a chiunque. Ci fu insomma troppa e spigliata abbondanza di maestri per nulla autentici, qualche volta burbanzosi, asseveranti e critici degli stessi vescovi. Le lettere in materia dottrinale, che da due anni vengono collegialmente edite da importanti conferenze episcopali nazionali, rappresentano una reazione autorevole e veneranda a questo indebito trasferimento (per non dire usurpazione) di poteri. L’episcopato, dopo la debita paziente attesa che si addice a tutti i ministeri paterni, ha ormai preso la iniziativa che arriverà senza dubbio a eliminare il fatto dal quale trae origine questa nostra lettera [finora purtroppo non ci è dato confermare l’asserzione del Santo Padre – ndr. – ]. Che poi ci sia stata una libertà in concilio, nessuno vorrà ritenerlo elemento deteriore: gli basti pensare che per muovere anche un solo necessario passo in avanti bisogna pure slacciare qualcosa. – La libertà, qualche volta non legittima, ha recitato la sua parte e i suoi danni si vedono e non pochi li piangono; la autorità costituita da Cristo per ammaestrare gli uomini sulle vie della salvezza recita pure la sua onesta e legittima parte e certamente prevarrà. Noi, che come successori degli apostoli facciamo parte del collegio episcopale con e sotto Pietro, compiamo il nostro semplice dovere scrivendo la presente lettera. Le perplessità che abbiamo sentito da sacerdoti e da laici sono le seguenti, attenendoci a quelle che hanno un valore di fondo e non fono semplicemente facili lamentele di dettagli.

1) Ma la Chiesa cambia?

2) La religione cambia?

3) Abbiamo sbagliato tutto fin qui?

4) Se cade la colleganza e la coerenza tra un punto e l’altro del dogma, cade tutta la fede?

5) La morale è dunque diventata relativa, se oggi taluni affermano lecite azioni che fino a ieri abbiamo ritenuto peccaminose?

6) Noi sacerdoti in quanto mandatari della sacra gerarchia, abbiamo incora il potere di essere guida dei fedeli?

I sacerdoti, che ci hanno parlato o scritto sull’argomento, non hanno chiesto tanto delle elecubrazioni, ma, sicuri come sono di potersi fidare della Chiesa, ci hanno chiesto solo di dare loro orientamenti certi sui vari argomenti che li assillano. Scriviamo per dare questi orientamenti; ma sarà impossibile darli senza delinearne anche brevemente una ragione. [Qui il Santo Padre cerca di recuperare come può, e come gli è stato concesso dai censori, quanto può della dottrina cattolica. Lo fa come vedremo in modo esemplare, lasciando confusi i suoi “correttori”, sgomenti, ma ammirati dalla sana dottrina e pertanto annichiliti nella loro azione di “cancellazione” delle verità cattoliche! – ndr. -] – II fascicolo del gennaio c. a. dell’Acta Apostolicæ Sedis reca la nuova formula della «Professione di Fede». Tutti coloro che assumeranno qualche ufficio di personale responsabilità nella Chiesa dovranno prima dar prova di essere nella vera fede accettando, pronunciando e giurando questa formula. Non c’è alcun dubbio che essa, per il suo stesso uso esprime il pensiero magistrale al quale è legata la nostra salvezza. Orbene ecco l’ultima parte di tale professione di fede. Omettiamo la parte precedente, che è costituita dal Simbolo niceno-costantinopolitano, e trascriviamo integralmente la parte che segue: «Firmiter quoque amplector et retineo omnia et singula quae circa doctrinam de fide et moribus ab Ecclesia, sive sollemni judicio definita, sive ordinario magisterio adserta ac declarata sunt, prout ab ipsa proponuntur praesertim ea quae respiciunt mysterium sanctæ Ecclesiæ Christi, eiusque sacramenta et Missæ Sacrificium, atque Primatum Romani Pontificis» (A.A.S. n. 16 – 20 decembris 1967). – Dunque tutti gli atti valevoli del Magistero sono imposti: è imposta la condanna del «modernismo», anche se non la si legge più in occasioni del genere, è imposto il Catechismo del concilio di Trento, quello di Pio X etc. Non è possibile fare una selezione di comodo: o si accetta tutto quello cui accenna la professione di fede, o si è certamente fuori della retta via. Abbiamo voluto ricordare questo documento, perché esso farà testo per tutta la nostra età e renderà legittimo e valevole qualunque impegno responsabile assunto nella Chiesa. – Altro punto di partenza è il testo completo dei documenti del sacrosanto concilio Vaticano secondo, che si richiama e fa suoi molti documenti passati della Chiesa [solo quelli sono validi, fa capire il Santo Padre tra le righe – ndr. – ]. Anche e soprattutto il concilio Vaticano II è un punto fermo e indiscutibile nell’ambito della Chiesa [Non si dice però se in senso positivo, o più verosimilmente NEGATIVO – ndr. -]]. Qualcuno ha osato dire che il concilio Vaticano II è sorpassato. Pensiamo che l’affermazione sia falsa e condannabile in qualunque senso venga presa; ma ove la si usasse nel significato che qualcosa del detto concilio è decaduto, è travolto, ha cessato di essere guida di tutti i fedeli presenti e futuri, si sarebbe certamente fuori della dottrina cattolica e probabilmente fuori della Chiesa [Il testo qui è stato “appesantito” dalla mano del censore e lo si capisce subito dopo, al punto terzo, quando il Santo Padre in realtà dice esattamente il contrario – ndr. -] Un terzo punto fondamentale è che quanto fu veramente certo nella Chiesa fino al concilio Vaticano II – ed intendiamo in tutta la Chiesa sotto il Romano Pontefice – è certo tuttavia e sarà sempre certo perché fruisce di un criterio certissimo di verità. La Chiesa che autenticamente custodisce la Tradizione ed il cui consenso ha i noti caratteri fruisce anche nel magistero ordinario del carisma della infallibilità, quando è veramente universale. Tutti i nostri cari sacerdoti vogliano sempre volgere lo sguardo a questi dati fondamentali ed avranno di che superare tutte le questioni che si pongono, tutte le discussioni che si accendono, tutte le opinioni leggermente e pericolosamente formulate. Essi vedranno sempre chiaro innanzi a sé e potranno continuare a servire Dio in perfetta tranquillità di spirito. Tuttavia non li lasciamo ai soli fondamenti: intendiamo accompagnare la ricerca del loro spirito su tutti i punti, nei quali la incauta editoria moderna, cattolica e non cattolica, li spinge a penose e dannose perplessità.

Un primo motivo di turbamento: il relativismo

Si tratta di un orientamento generale, che ha manifestazioni diverse e che magari in dosi omeopatiche viene assorbito in atteggiamenti più leni e meno negativi. Si dice «dobbiamo accettare la Parola di Dio. ma la interpretazione di questa può cambiare secondo le età, prima per adattarsi alle contingenze storiche, poi per interpretare meglio il sentimento religioso corrente». – Analizziamo bene questo discorso, che sentite in attenuate e felpate forme e che tanto più vi conturba quanto più è felpato e sottinteso, dato che la vostra cultura è forte tanto da difendervi benissimo dagli errori netti ed aperti, mentre può lasciarvi incerti davanti a proposizioni contorte, velate e sfuggenti. La proposizione presentata e le sue felpate derivazioni non intendono affatto alludere ad una interpretazione che cambi soltanto «approfondendo» e rivelando più intime ricchezze. Se fosse per dir questo, tacerebbero. La proposizione intende certamente dire che, con le età e ad esse adeguandosi, cambia la «sostanza del dogma». Che lo si dica forte, che lo si dica piano, questo è quello che si intende dire. E questo è il relativismo. Perché si parla di «reinterpretazione del dogma?». Evidentemente per negare la cattolica interpretazione data fin qui, ossia per «concretarla» in una «sostanza diversa». Non ha importanza per noi che questa «sostanza diversa» sia quella acquiescente alle tesi di Barth, di Brunner, di Tillich e dei loro colportori; ha importanza solo che è «diversa». – Vediamo che significherebbe questo, se fosse vero: l’assurdo! Significherebbe che «la Parola di Dio non ha alcun contenuto»: infatti il contenuto ce lo metteremmo noi a seconda dei casi. – Significherebbe che Dio non esiste. Infatti un Dio che affidasse formule vuote, lasciando agli uomini di riempirle a piacimento ed accettando che ciononostante la parola fosse «sua», non sarebbe né immutabile, né serio, cioè non sarebbe Dio! Significherebbe che Gesù Cristo e gli Apostoli hanno avuto torto. Infatti hanno creduto alla immutabilità della sostanza nella dottrina rivelata. Eccovene la prova. Gesù disse: «I Cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt. XXIV, 35). E che delle sue parole non sarebbe passato neppure il significato, lo dimostrava subito appresso (cfr. Mt. XXV,31 sgg.) dando già il testo della contestazione profetizzata per il giudizio finale, in cui la sentenza sarebbe venuta sulla massima delle leggi, intesa a quel punto esattamente come la proponeva allora. Nello stesso testo il Salvatore dimostra che al momento del giudizio sarebbe stato egualmente costante e inalterato il senso della vita eterna e dello eterno supplizio. Del resto la fede nella Trinità e tutte le cose che Egli, Gesù, ha insegnato ad osservare sono valevoli fino alla fine del mondo per tutti i popoli (cfr. Mt. XXVIII, 19-20), il che esige la inalterabilità nel tempo. Questa inalterabilità del significato domina tutti gli Evangeli. – La grande preoccupazione di Paolo è la inalterabilità della dottrina e del suo significato. Ci si provi a leggere tutta la lettera ai Galati (ad esempio) e si osservi come egli si comporta verso quelli che avrebbero voluto alterare qualcosa. «Quand’anche noi stessi o un Angelo disceso dal cielo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo predicato, sia scomunicato» (Gal. 1,8). – Nella prima lettera a Timoteo, subito dopo l’indirizzo, l’Apostolo dà avvertimenti contro i falsi dottori (I, 3-11); poco dopo esorta a mantenere intatta la «vera» dottrina della fede (I, 18-20). Riprende una seconda volta l’argomento al capitolo IV (1-11); una terza al capitolo VI (3-10) e nella finale, quasi a raccogliere la preoccupazione più grande della stessa lettera, finisce così: «O Timoteo, custodisci il deposito (delle verità rivelate). Evita i discorsi inutili e profani e le dispute di una falsa scienza. Poiché alcuni che di quella han voluto fare professione, hanno poi prevaricato dalla fede» (VI, 20-21). Il tutto ritorna, per l’interiore peso dell’argomento, nella seconda lettera a Timoteo, vero testamento del dottore delle genti. Si preoccupa degli eretici dell’avvenire (III, 1-9) [… e quelli del Vaticano II il Santo Padre non poteva nominarli espressamente – ndr. -], incita il discepolo diletto a perseverare nella «difesa» della fede (ivi 10-13), avvertendolo di restare «fedele» a quello che ha imparato (Tradizione) apprendendolo da altri o leggendo le sacre Scritture. Nella lettera a Tito, Paolo ritorna sul dovere di «evitare gli eretici» (III, 8-11). E forse compossibile questa richiesta fedeltà con un relativismo teologico? San Pietro dedica tutto il II capitolo della sua prima lettera agli eresiarchi, dai quali ci si deve guardare e dei quali descrive i costumi. San Giovanni nella sua prima lettera riprende lungamente l’argomento ora constatato in Pietro e in Paolo (II, 18-23), vi ritorna nella seconda lettera con accenti fermissimi (7-11); diventa in proposito addirittura terribile in taluna delle lettere indirizzate colla Apocalisse ai vescovi dell’Asia. Se Gesù loda l’angelo della Chiesa di Efeso «perché odia le opere dei Nicolaiti, che lui pure detesta» (II, 6), se loda quello della Chiesa di Pergamo «perché non ha rinnegata la sua fede» (II, 12), tuttavia rimprovera quest’ultimo aspramente «perché tollera colà persone, che seguono la dottrina Balaam (II, 14) e perché ha persone che sono attaccate alla dottrina dei Nicolaiti» (II, 15). Le minacce contro coloro che seguono le dottrine e le opere di Gezabele (lettera alla Chiesa di Tiatira II, 18 segg.) sono tremende. All’angelo della Chiesa di Sardi il Signore fa scrivere: «Ricordati dunque di ciò che hai ricevuto ed udito; osservalo e pentiti. Se tu non veglierai io verrò come un ladro e tu non saprai a che ora verrò sopra di te» (III, 3). – Insomma la principale preoccupazione degli apostoli è la fedeltà alla sacra dottrina, che va interpretata secondo ciò «che hanno udito» e non arbitrariamente. – Per gli Apostoli, chi interpreta relativisticamente si pone fuori della grazia di Dio. – La interpretazione relativistica della Rivelazione si può constatare in talune forme generali, le quali riducono a piacimento il «nucleo» della parola di Dio, lasciando alla mercé di chiunque il resto o addirittura presentandolo come discutibile e più mitico che storico. Accade così che taluni difendono il nucleo della «salvezza» e abbandonano il resto alla deriva. Altri danno una interpretazione sofisticata della Eucarestia, convinti che la dottrina sempre presentata non sia più secondo i gusti moderni e pertanto ne vada cambiata la sostanza. Quelli che non capiscono molto tutto questo hanno incominciato a dimostrare il più grande disinteresse verso il mistero della fede e verso i tabernacoli. Sono forme recettive del relativismo. Altri ancora si sforzano di snervare completamente il dogma del peccato originale, l’essenza stessa del peccato, decapitando la legge e dando di taluni atti peccaminosi giudizi così poco condemnatori da far credere che li lodino. Forse non sanno o non pensano al relativismo, ma obbediscono al sottile richiamo di dire e fare quello che «piace» agli altri. Questo sottile richiamo è semplicemente la forma meno scontrosa e meno paludata per recepire il relativismo. Altri per la stessa logica cominciano a gettare il piccone demolitore sul sacramento della Penitenza. In realtà il nostro mondo morde male le verità relative e al peccato e alla penitenza, perché è così debole da non aspirare ad altro che al proprio comodo. Forma concreta del relativismo. Se il relativismo dovesse presentarsi colla sua definita linea intellettuale non avrebbe tanta tracotanza. Avrebbe paura, perché è obbligato a distruggere troppe cose, siccome si è detto sopra: Dio, la Rivelazione, la sostanza e la certezza di ogni cosa, la piattaforma dell’intelletto. Il guaio è che presentandosi in forme concrete, le apparenze delle quali non sono affatto quelle di proposizioni ereticali, riesce ad insinuarsi ben oltre i limiti della cauta vigilanza teologica. – E proprio su questo punto che attiriamo la attenzione dei nostri cari sacerdoti. Abbiamo or ora enumerato alcune prassi, le quali non sono altro che manifestazioni in superficie di realtà ben più profonde, sfuggenti e celate come i fondamenti enormi dei pericolosissimi icebergs. Qui vogliamo presentarvi la più facilona, più insinuante e più pericolosa forma concreta del relativismo teologico. Essa è nella formula, cara a più d’uno almeno in pratica, «cambiare per cambiare». Infatti cambiare è un atto che per essere ragionevole al pari degli altri atti ragionevoli deve avere un motivo ragionevole. Se il motivo è solo se stesso, «cambiare, cambiare per cambiare», non solo non è ragionevole, ma è una petitio principii. Le petizioni di principio dimostrano nulla e a nulla danno un fondamento consistente. La smania di gettarsi su qualunque cosa, purché sia o nuova o diversa, senza alcuna preoccupazione di documentazioni fondate e ponderate è la forma più concreta, per quanto in genere sconosciuta e non avvertita, del «relativismo teologico». Ci chiedete gli orientamenti in proposito? eccoli, non saranno difficili dopo quello  che vi abbiamo detto:

1) Evitate ogni relativismo. Esso equivale almeno ad una certa apostasia.

2) Siate diffidenti e cauti quando chi parla non è il Romano Pontefice [che in questo caso è Egli stesso!] o i Vescovi, successori degli Apostoli in comunione con lui [cioè con Gregorio XVII –ndr.- ]. Vi ricordiamo che troppi si sono seduti su cattedre che loro non competono [tra i quali gli antipapi del conciliabolo Vaticano II, Roncalli e Montini – ndr. -], perché competono solo alla successione Apostolica [quella guidata dal Papa vero e canonicamente eletto –ndr.-]. – Non vi illuda il fatto che trovano denari per pubblicare ed editori che pubblicano. Da quella parte ci stanno gli affari e gli affari non sono criterio per la vostra fede.

3) Non fatevi prendere dalla patologia del «cambiare per cambiare». Accettate di cambiare tutto quello che la legge cambia od ha una ragione, non una petizione di principio, tutto quello che ha il suggello di una autorità valevole o di un consenso veramente ecclesiale.

4) La Chiesa e tutta la sacra dottrina non sono cambiate e non cambieranno.

Il relativismo ha alcune scuse o pretesti. Vediamone alcuni.

La pluralità delle culture

Nessuno la può negare. Ma questa pluralità né prova, né afferma che i principi universali cambiano col cambiar delle latitudini e dei fatti. In realtà nella maggior parte dei casi – ed alludiamo alle culture dei paesi arretrati – non hanno neppur avuto principi universali, metafisica, qualche volta neppure speculazione. Ed allora la cultura qualunque potrà avere simpatie, ma non affronta la questione dei principi, né contrappone a principi altri principi validi. La maggior parte delle espressioni, che noi chiamiamo «cultura», sta in quel margine più superficiale dove né si trattano, né si contestano i principi. La esperienza dice che i principi sommi sono recepiti da uomini di tutte le culture, quando c’è chi insegna bene e quando c’è ad esse una congrua e metodica propedeutica. Soprattutto qui si pone male una questione: la cultura è una cosa, la verità obbiettiva è un’altra cosa. La verità obbiettiva la si coglie da dati universalmente validi, purché studiati con metodo; gli elementi culturali, dominati come sono da istinti e da sentimenti, possono prendere molte vie anche contradditorie, senza né sfiorare, né scalfire la solidità della verità obbiettiva. Il problema sulla verità non è il problema di una cultura, è semplicemente il problema della cultura» e si pone su un piano talmente alto e intoccabile dalle variazioni sentimentali da restare identico, qualunque sia la esperienza e qualunque sia il punto dal quale parte la variazione emotiva od ambientale. – Le culture sono state addotte come testimoni di comodo per tentare di avvalorare il discorso sul relativismo della dottrina. E sempre lo stesso punto!

L’adattamento alle culture

L’argomento, diciamolo subito, non è conturbante perché insolubile, ma perché ammannito in una confusione quasi perenne. Qui occorrono molte distinzioni, semplici e acute.

  1. Cominciamo col determinare il punto di incontro tra il Cattolicesimo e le culture. Il Cristianesimo è un fatto, una interpretazione del mondo e della storia, una legge coerente e al fatto e alla interpretazione proposta. Come fatto è immutabile e di conseguenza restano nella sostanza immutabili e interpretazione e legge. Il principio fondamentale è proprio che il Cristianesimo è un «fatto». Il Vecchio e il Nuovo Testamento presentano un fatto. L’ammettere che un «fatto» non sia più «fatto» o diventi un altro fatto è cadere nel più crasso relativismo, che non può, se è logico, tollerare neppure un Dio esistente. Bisogna essere estremamente chiari e consequenziari a proposito di questo palmare rilievo. Per trovare il terreno di incontro veniamo alle culture. Anche le culture sono fatti, talvolta con una certa continuità e logica, ma sempre ed assolutamente mutevoli; si guardi alla storia della cultura greca, la più raffinata di tutte e non certo superata nell’epoca moderna, salvo che sul terreno scientifico. Anche le culture, non sempre, perché talvolta sono e muoiono bambine, portano ad interpretazioni della vita, del mondo e della storia. In qualche misura! Cerchiamo di non esagerare. Ma le interpretazioni avranno lo stesso grado di mutevolezza che hanno i fatti dai quali traggono origine. Quali sono le cause che più ordinariamente influiscono nel fluire e nel mutare delle culture? Parrebbe che la prima causa sia la mancanza della verità e la mancanza di profondità nelle verità prime ed universali. La ragione è che le civiltà di lunga durata e più completo sviluppo hanno in quelle storicamente le loro radici. Quando le variazioni letterarie, fantasiose e reattive predominano sulle concezioni profonde, le cose si fanno snervate e possono anche durare secoli in stato di tranquilla sonnolenza. – In verità tutti gli elementi che noi siamo soliti chiamare «di cultura» o coincidono con la verità obbiettiva, o sono prodotti da semplici stati d’animo dalle modulazioni anche ricche e affascinanti, fissati negli strumenti delle lettere e delle arti. La scienza, per una parte almeno notevole, dovrebbe coincidere con la verità obbiettiva, salvo il caso delle grandi ed audaci ipotesi rimaste sempre e solo ipotesi; tuttavia il campo scientifico ha un limite nella quantità dimensiva e se non è integrato da visioni universali d’insieme diventa paurosamente unilaterale. Per questo certi angoli della cultura meglio si assegnerebbero al folklore. – Ma tutti gli elementi della cultura umana sorgono da un’esperienza e in tutte le esperienze gli uomini sono soggetti a molti errori. La conclusione è che la cultura e le culture costituiscono un valore rispettabile, ma mai un valore assoluto, infallibile, inderogabile ed immutabile. Sono esperienze di uomini. Il punto discriminante tra il Cristianesimo e le culture è esattamente qui: esso è un fatto che ha origine ed una garanzia divina ed è nella sua sostanza e nelle sue affermazioni immutabile; queste sono umane, limitate dalla miopia e dall’errore, estremamente mutevoli e, soprattutto, relative. – La conclusione pare semplice. Le cose mutevoli si lasciano fluire, si comprendono nel loro fluire, si colgono i fiori che hanno strappato alle rive e portano sul filone della corrente; ma si rimane a riva, non ci si annega. I fiumi si ammirano, ce se ne serve, sono veicoli di comunicazione, sono anche sorgenti irrigatorie; ma la vita ordinaria si svolge sulla terraferma. Il Cristianesimo, fatto divino, è la terraferma. – Per capire bene questo forse occorre instare qualche poco su taluni punti. – Bisogna scegliere tra il relativismo ed il fatto che i principi veramente universali valgono per tutte le culture. Scartiamo dunque, per quanto detto sopra, la scelta del relativismo. Non rimane che ammettere principi universali, obbiettivamente veri, identici per tutte le culture. Difatti fino a che non venne una certa confusione tutti gli studenti delle università romane, provenienti da tutte le aree culturali, assorbivano benissimo gli stessi principi universali. C’era qualcuno che li spiegava loro, li spiegava bene e con pazienza, c’erano ripetitori esperti e nessuno ha mai creduto che l’effato: ens et verum convertuntur potesse valere per un latino, ma non per un cinese o uno dei mari del sud. In secondo luogo bisogna fare il calcolo delle culture che non hanno mai avuto metafisica. Sarebbe un discorso lungo e grave. È ovvio che per chi è impregnato di tali culture debbono riuscire difficili i principi universali (si hanno linguaggi che neppure esprimono una serie di concetti astratti), ma ciò non significa che col tempo e la buona volontà non possano arrivare a possederli, che non avendoli familiari si debbano cambiare obbiettivamente e neppure che non sia loro utile impararli. La diversità delle culture crea la difficoltà, ma chi oserebbe dire che cambia la natura universale delle cose? Se così fosse una cultura potrebbe ricreare il mondo, spostarne tutte le leggi, cambiarne tutto il corso. Il che non è. – Si rende dunque necessario stabilire per tutte le culture un confine. Al di là di questo dove giocano fantasia, sentimento, affinità, reminiscenze… esiste tutta la pluralità possibile. Al di qua di questo confine i principi e le idee fondamentali non mutano e sono identici per tutte le culture. Al di qua dello stesso confine la pluralità non può essere altro che nell’errore. Solo con queste distinzioni serie documentate è possibile avviare un discorso sulla pluralità delle culture, che non sia una cessione vergognosa al peggiore relativismo. Dopo di che si può ammettere che tutte le culture possono, teoricamente parlando, avere elementi accettabili da un umanesimo serio ed universale e che tutte le culture non abbiano da entrare nel discorso al quale ci avviamo. – Prima però bisogna concludere. La verità rivelata, la verità naturale certa, la verità di fatto acquisita rimane invariata sotto tutte le culture. Se queste le fossero ostiche sarebbero esse in difetto. – A proposito di Cristianesimo e pluralità delle culture il discorso è pienamente centrato quando si parla di «traduzione» della verità. La traduzione non è una alterazione, un accomodamento contingente e fluente; è soltanto la riespressione in termini equivalenti di altra lingua e di altra cultura. Ora la verità cristiana va tradotta non solo nei termini imposti dalle varie lingue, ma presentata in quelle forme e con quegli accorgimenti che la rendono accessibile a lingue diverse, a momenti storici diversi, a culture diverse. Su questo si deve essere pienamente d’accordo. Ma la traduzione non è la alterazione. Di una buona parte dì scritti dubbi si deve dire che fanno delle alterazioni e nessuna traduzione. Le traduzioni sono in genere difficili, quando specialmente devono trasportare qualcosa da una mentalità ad un’altra mentalità, da un genere letterario ad un altro genere letterario. Affermare necessità di traduzione equivale ad affermare immutabilità del testo tradotto e dovere di fedeltà al testo originale.

Le esigenze della «ricerca»

Nessuno le nega. Ma c’è qualcosa di terribilmente semplice: si cerca quello che non si ha ancora. La ricerca è ragionevole quando mira ad arricchire, a dipanare, a completare, a documentare là dove non si hanno ancora documenti sufficienti, a illuminare parti lasciate in ombra, a rilevare aspetti nuovi per quanto obbiettivi. La ricerca concepita semplicemente come una assoluta libertà di negare e mutare quello che già è posseduto, per il gusto di cambiare o di affermare una attività personale o una posizione di parte, è cosa irragionevole ed invalida; è soprattutto adagiata in un vieto quanto negativo relativismo. – La vera ricerca consolida il dato assoluto; quando è contro il dato assoluto non è ricerca, ma pregiudizio. Ed è bene non confondere le cose. In pratica noi rileviamo che moltissime «ricerche» non sono affatto tali, perché sono soltanto delle affermazioni gratuite, destinare a mutare col mutare delle asserite mode. Chi cerca quello che ha davanti dimostra di avere solo una confusione mentale, perché è illogico cercare quanto è già reperito. – Ricordiamo benissimo alcune discussioni da noi udite al concilio Vaticano secondo e relative alla diversità tra teologia orientale e quella occidentale. La verità era solo questa, che la teologia orientale aveva avuto, per le enormi pressioni sociali e politiche, ben poco spazio di respirare e la teologia occidentale non aveva mai cessato di ricercare, dando per esempio non meno di cinque secoli ad una seria ricerca di filosofia scolastica. E quando diciamo «cinque secoli», è evidente che ci fermiamo a san Tommaso d’Aquino! – Quando i cicli naturali usano gli stessi mezzi arrivano sempre risultati in via di massima omogenei. E pertanto errato, e lo abbiano chiaramente in mente i nostri sacerdoti, credere che la dottrina della grazia debba essere una cosa; diversa per un italiano ed un giapponese, che la incarnazione debba variare dal modo con cui è creduta in Ispagna al modo con cui è creduta in India. L’incidenza delle culture è sulle forme e sulle tradizioni, è sulla scelta degli strumenti pedagogici e psicologici, non è sulla sostanza delle «cose sperate, argomento di quelle che non si vedono» (Eb. XI,1).

[Continua …]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO : L’ELEZIONE DEL ROMANO PONTEFICE

L’ELEZIONE DEL ROMANO PONTEFICE

[«Renovatio», VII (1972), fasc. 2, pp. 155-156.]

 Molti, troppi, hanno parlato a proposito e, soprattutto, a sproposito della futura elezione del Romano Pontefice, ossia della legge che ordina il Conclave. E evidente che si è cercato di fare una pressione, assolutamente impropria, per far accettare criteri nuovi e discutibilissimi nell’elezione papale. La questione è di estrema gravità e pertanto la nostra rivista ritiene di doverne parlare. Chiunque voglia porre il problema di una riforma del Conclave deve aver presente che questa compete solo alla autorità suprema nella Chiesa e che pertanto gli eventuali interlocutori, quando propongono riforme, debbono tener conto di questo principio. – Vediamo l’aspetto teologico di fondo. Il Concilio Vaticano nel canone, che segue il capitolo secondo della bolla Pastor Æternus, così recita: «Si quis ergo dixerit non esse ex ipsius Christi Domini institutione seu jure divino ut beatus Petrus in primatu super universam Ecclesiam habeat perpetuos successores, aut Romanum Pontificem non esse beati Petri in eodem primatu successorem, anathema sit» (D. S. 3058). Il che significa che al vescovo di Roma spetta la successione di Pietro. Se la successione tocca al Vescovo di Roma, e non ad un altro, ciò significa il legame assoluto tra l’episcopato romano e la successione petrina. Se ne deve inferire logicamente e necessariamente che il Papa è tale perché è Vescovo di Roma. Questo vincolo causale tra l’episcopato romano e la successione petrina diventa più chiaro se si legge tutto il capitolo secondo della citata costituzione (D. S. 3057); diventa chiarissimo se si attende a tutta la Tradizione e specialmente alla tradizione primitiva, quella che risente con immediatezza e certezza delle disposizioni prese dal Principe degli Apostoli. Infatti Clemente (secolo primo) interviene fortemente nella Chiesa di Corinto con una lunghissima e solenne lettera, mentre è ancor vivo e geograficamente più vicino l’apostolo Giovanni, in nome della Chiesa romana. E evidente che egli ritiene desumere dalla sua sede episcopale il potere di occuparsi della lontana Chiesa di Corinto, sulla quale poteva intervenire unicamente come Pastore Universale, trovandosi Corinto ben fuori della dizione romana. Lo stesso modo di esprimersi di Clemente hanno i due grandi testimoni della primissima età, Ignazio d’Antiochia ed Ireneo, nei testi notissimi. – Ciò premesso, non si capisce come teologicamente si possa sostenere una separabilità del Primato nella Chiesa dalla Sede Vescovile romana o negare con fondamento che la Sede Romana sia essa il titolo giuridico della successione a Pietro. – Messo in chiaro l’aspetto teologico fondamentale, non è affatto ozioso considerare la logica che Cristo ha messo nella sua Chiesa. Vi è un Primate, vi sono Vescovi successori degli Apostoli che sono tali per Diritto Divino nel quadro della cattolicità del collegio e del diritto del Primate. Cellule costitutive della Chiesa sono le singole chiese locali, guidate da un successore degli Apostoli. Tutti i fedeli fanno parte della Chiesa, ma la ragione immediata della sua unità e cattolicità sta nelle chiese particolari sotto Pietro. L’errore che si fa da molti, e lo si è visto bene nelle recenti e non sempre ortodosse diatribe sulla «Lex fundamentalis», è proprio quello di assimilare la divina costituzione della Chiesa ad una qualunque costituzione degli Stati. L a prima è assolutamente unica ed è inimitabile, come altre cose nel seno della Chiesa. Appare chiaro quindi perché Cristo abbia affidato il primato a Pietro e perché questi lo abbia esercitato e lasciato ai suoi successori, come Vescovo di una designata cellula della Chiesa, la diocesi di Roma. – Ciò posto, nessuna idea di costituzione democratica o federalistica può affiorare quando si pone teologicamente e giuridicamente la questione della elezione del Romano Pontefice. E la Chiesa romana che deve eleggere il suo Vescovo. – Non si può trascurare l’aspetto pratico della questione, aspetto che per sua natura appartiene alla storia. – La “legge del Conclave”, alla quale si arrivò con Nicolò II nel 1059, chiuse, con la riserva del diritto di elezione ai soli Cardinali, un travaglio, talvolta umiliante, di mille anni. Si noti che i Cardinali, come tali, appartengono alla Chiesa romana e solo ad essa, in qualità di suoi Vescovi suburbicari, di suoi preti, di suoi diaconi. La ragione teologica, nella necessaria ed inevitabile riforma di Nicolò II, era perfettamente rispettata. La “legge del Conclave” poggia su due cardini: l’esclusivo diritto del Sacro Collegio e la “clausura”. Questa seconda non fu posta subito: venne in seguito per obbedire a situazioni evidenti ed a necessità gravi. I due cardini si sostengono a vicenda. E ovvio che l’elezione affidata a un corpo elettorale troppo ampio sarebbe, umanamente parlando, più difficile e più influenzabile e perciò con minor garanzia di ragionevolezza e di rispondenza ai supremi interessi della Chiesa. Soltanto con un corpo di uomini, accuratamente scelti, è possibile che nell’elezione prevalga, quanto può nelle cose umane, il criterio del vero bene. La Clausura del Conclave è ancor più necessaria; coi mezzi moderni, con le tecniche moderne, senza clausura assoluta non sarebbe possibile sottrarre un’elezione alla pressione di poteri esterni. Oggi le superpotenze (e le potenze minori) hanno troppo interesse ad avere dalla loro parte, per condiscendenza o per debolezza, la più alta Autorità morale del mondo. E farebbero tutto quello che sanno benissimo fare. Le pressioni per rovesciare la sostanza della legge del Conclave potrebbero essere guidate dalla volontà di ottenere proprio questo risultato.

(Quest’ultima precisazione del Santo Padre in esilio, quanto mai opportuna, è stata vissuta sulla propria pelle proprio durante il Conclave della sua elezione, il 26 ottobre del 1958, Conclave in cui non è stata da tutti [leggi Tisserant] osservata la clausura, e nel quale i poteri mondiali, utilizzando i massoni della quinta colonna [leggi Roncalli, Lienart, Bea & C.] hanno determinato l’elezione di un falso pontefice, molle burattino nelle loro mani, per demolire la Chiesa Cattolica e trasformarla in una “conventicola” gnostica simil-massonica che perdura tuttora nella setta vaticana del “novus ordo”, e durerà probabilmente fino a quando non interverrà l’Autorità Massima della Chiesa Cattolica, il suo Capo divino, cioè Gesù Cristo il Messia, Figlio di Dio! – Nell’augurarci che questo avvenga quanto prima, prepariamoci con preghiera perseverante chiedendo misericordia per noi, “pusillus grex”, e per i traditori usurpanti! – ndr. -).

[n.b.: Grassetti e colore sono redazionali]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: EQUILIBRIO DELLA PERSONALITA’ (2)

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

EQILIBRIO DELLA PERSONALITÀ (2)

[Lettera pastorale scritta per la Pasqua del 1964; «Rivista Diocesana Genovese», 1964; pp. 252-268.]

V. – Vogliate ora considerare la seguente proposizione:

«La cultura, emanazione della persona umana, è parallela al Cristianesimo».

Siamo nuovamente ai paralleli e nello stesso senso. Nessun dubbio che la cultura sia una emanazione della persona umana, accumulata tra i tempi diversi e le persone diverse, come ricerca, invenzione, approfondimento, ricchezza della umana esperienza esteriore ed interiore, intuizione di cose maggiori, approfondimento d’ogni argomento presentabile all’intelletto umano o vibratile nella sua emotiva percezione. Nessun dubbio e la massima stima. Ma quello che conta è il fatto che un effetto della persona non può essere superiore alla persona stessa e, se questa è soggetta alla legge di Dio e all’unico fine, lo sarà anche quella; talché ove c’è una necessaria e naturale convergenza non ci sono più parallele. Queste non si incontrano mai. La proposizione è una rinnovata edizione di altra già considerata e mira allo stesso scopo, staccare il contegno umano dalla piena dipendenza da Dio e dall’ordine soprannaturale, il mondo dal Cristianesimo e lasciare «più aria» a tutti. Ottima cosa avere «più aria», purché sia nei limiti della legge di Dio. Lo stesso pensiero umano, analogico soltanto in quel che concerne la parola di Dio, ha una funzione preparatoria di ben altra cognizione e di ben superiore gloria. Voler una storia che se ne possa andare per proprio conto, anche senza parola di Dio, è voler che un cieco vada a zonzo per una landa sconosciuta. La cultura ha i suoi metodi ed ha i suoi momenti, nessuno glielo nega, ma è anche legata a tutte le debolezze e deficienze umane, all’effimero ed al transitorio, e di questo deve tenere pur conto. Del resto il tenerne conto non le ruba alcuna libertà seria ed oggettiva. Le porta via solamente il carattere polemico contro ciò che è vincolante nella fede e nella Parola di Dio. La cultura ha un immenso margine e non ha alcun bisogno di proclamarsi o indipendente o paritaria alle cose divine; ma l’intelletto umano deve essere obbediente a Dio non meno della volontà. Aver bisogno di proclamarsi paritaria all’ordine divino, od anche solo parallela, sarebbe un accettare l’inammissibile principio delle due verità e che l’intelletto umano si è talmente ristretto da non poter far più altro che giocare sulla irriverenza alle cose divine. Ma a tutto il discorso sulla cultura parallela al Cristianesimo, sta sotto un’altra grave e rovinosa affermazione: “la indipendenza della natura rispetto all’ordine soprannaturale”. Ora qui la questione è grossa e può riassumersi così. L’ordine naturale non può esigere quello soprannaturale e ciò per definizione. Però, posto che Dio abbia fatta la elevazione all’ordine soprannaturale, tutte le cose naturali non trovano il loro collocamento giusto se non nella finalità di quello. Posto che il Verbo si sia fatto carne, ogni cosa è soggetta a Lui in cielo, in terra e negli inferni. Parlare quindi di zone extraterritoriali è semplicemente negare il chiaro significato della incarnazione del Verbo e sue conseguenze. Noi crediamo che il discorso sulla cultura potrebbe portarci molto lontano, ma non è l’impegno nostro di questo momento. A noi importa solo affermare che la cultura non costituisce la zona nella quale l’uomo possa aggiudicarsi una libertà di peccato e di disperazione, che altrove non riuscirebbe in alcun modo a giustificare. Ci importa non meno affermare, come logica conseguenza delle cose dette, che la cultura, ove non rispetti le stesse leggi supreme, alle quali l’uomo è tenuto, si vendica contro di lui stesso regalandogli miti insussistenti, spingendolo a follie nefaste (ricordiamo l’ultima guerra mondiale e taluni suoi momenti), immergendolo infine nella tristezza e nella disperazione. Occorre non fare della persona un mito che prenda il posto di altri miti: rimanga quello che è; i miti hanno sempre portato alle esasperazioni ed al dolore.

VI. Ecco un’altra proposizione da esaminare con attenzione:

«La autonomia della persona genera l’autonomia della filosofia».

Anzitutto la filosofia resta la scienza della vera e suprema realtà e per questo non è possibile considerarla come alterabile a piacimento. Essa è la scienza dei più alti principi che dimostra attraverso la evidenza, in quanto parte dal sensibile, ed attraverso le supreme ragioni, in quanto agisce deduttivamente. Ma è non meno delle scienze esatte ancorate alla realtà. Essa è quello che è tutte le cose, qualunque possano essere le esercitazioni della personale fantasia, restano quello che sono. La autonomia della filosofia ha un senso come lo può avere la autonomia della geografia o della matematica. Finché autonomia significa che il suo procedimento non ha da dipendere dal procedimento matematico etc. la cosa ha un senso, ma quando significasse la cessazione di ogni remora all’intelletto umano perderebbe ogni senso. Naturalmente una autonomia di tale genere sarebbe figlia della fantasia liberamente creatrice di sogni più o meno validi, ma certo non allineati sulla linea della realtà e verità. L’argomento quindi in se stesso appare di dubbio valore. Ma le cose peggiorano se veniamo alla persona umana. È questa che con la sua intelligenza filosofa e pertanto va alla ricerca delle supreme verità. Ma questa a proposito della verità non è affatto autonoma; deve prendere ed affermare quello che è. Non può alterare pertanto la serie dei numeri, non più di quanto possa alterare la affermazione relativa ai principi. Già si è dimostrato che la persona umana restando tale, siccome l’ha munificamente fatta Dio, è subordinata ed ha limiti. Un limite invalicabile è la verità obbiettiva. La originalità potrà esplicarla nel modo ed anche nel metodo, ma non circa quello che è indissolubilmente legato alla realtà. La originalità è meglio invocarla per la letteratura che non per la filosofia. Abituati a modificare la disposizione della materia e ad asservirne le forze, noi subiamo il fascino di poter asservire anche la verità; ma il carattere assolutamente effimero delle cose umane, per l’uomo stesso che si attarda a filosofare, lo avverte che la presunzione è al tutto illusoria. Abituati da quattro secoli a fare della verità un riflesso sempre più soggettivo noi crediamo di avere acquisito un diritto per prescrizione ed il metodo idealistico ha creduto di poterlo baldanzosamente proclamare. Ma in questo campo di cose non si danno acquisizioni per prescrizione. Pertanto l’aspetto della cultura moderna in quanto si considera indipendente da canoni ad essa antecedenti ed ancorati alla verità obbiettiva è solamente uno scherzo di cattivo gusto che l’uomo fa a se stesso. – Si noti la contraddizione profonda che la cultura porta oggi con sé: da una parte la certezza delle sue investigazioni scientifiche e delle sue applicazioni tecniche, dall’altra la più allegra libertà su ogni affermazione che non sia legata ad una formula di sperimentazione scientifica. Essa cammina su due strade, il che non va a vantaggio della sua serietà e del suo fecondo durare. – Abituati al protestantico libero esame, noi lo vogliamo spesso applicare nella più assoluta libertà di indagine e di conclusione, come se davanti a noi non ci stesse Dio. La vera lotta fatta al Magistero Ecclesiastico ed al campo in cui più si esercita il suo intervento, la Divina Tradizione, si trova in questo autentico e genuino influsso protestantico. Ma non è questione di cultura, è solo questione di orgoglio. – La cultura passa per tutte le strade, raccoglie tutte le umane espressioni, ma viene pure il momento in cui deve coi suoi geni fare una cernita per dare rilievo a quello che merita e lasciare in ombra quello che è nozione, episodi entrambi fantastici, senza alcuna luce di veri eterni principi. La cultura non è solamente un carro di raccolta di tutto quello che si produce: essa raggiunge se stessa quando seleziona, quando compara con riferimenti certi ed eterni, quando fa maturare l’uomo nel suo intimo e soprattutto nella sua finezza di apprendere, di pensare e di riesprimere. La funzione di «maturazione» è insita alla cultura non meno di quanto le sia insita quella di «coltivazione»; essa non è tale quando corrompe e deteriora cose sane e vitali, le quali hanno necessità di restare nell’uomo per un ideale nel tempo e per un riferimento valevole nella eternità. Finalmente non dimentichiamo che come non esistono due vicende umane separate e parallele, quella moralmente umana e quella soprannaturale, non esistono due verità e la relativa onesta capacità di scegliere. Ciò posto si ha come conseguenza immediata e rigorosa che la verità soprannaturale, anche se nell’uomo ha bisogno di conoscenze previe, resta dominante e riferimento inevitabile della verità puramente naturale. Non si capisce pertanto e non si capirà mai perché si debba portare la cultura cristiana verso la cultura umana, mentre la verità, la logica e la esigenza stanno esattamente nel contrario. – Concludendo: la autonomia della filosofia non ha senso se questa autonomia la si proclama di fronte alla obbiettiva verità, recata dalla obbiettiva evidenza. Ha senso solamente se la si ripete a proposito delle altre scienze umane, del cui metodo potrà casualmente servirsi, ma alle quali deve proporre il metodo suo proprio, eccezione fatta per i dati storici i quali sono e restano quello che sono. Talvolta la autonomia della filosofia può intendersi come un tentativo di originalità, più audace e più facilmente inventiva, più vivace nel dare sviluppo alla filosofia stessa. E questo un significato che può anche accettarsi a patto di salvare quanto detto sopra. In ogni caso la ricerca di originalità deve restare pudica e sempre riguardosa verso quello che è acquisito e certo e tale da doversi ritenere illuminato dalla luce della obbiettiva sicurezza. Nessuno vuol negare che anche i tentativi arditi permettono talvolta di squarciare le nubi ed arrivare a contemplare tratti di cielo altrimenti non visibili, ma allora noi siamo nella autonomia di esperimento che può, a talune condizioni, rientrare benissimo nella metodologia delle ipotesi di lavoro. Il tutto evitando lo spettro, che aduggia sinistramente, di proposizioni o di concezioni assai più soggettive che reali. E in questo senso che il campo di ricerca, non solamente e pedantemente erudita, resta immenso e lascia a molti uomini di mietere glorie le quali sono ben più stimabili dei fiori caduchi. Per l’uomo la autonomia vera è di fronte a se stesso: che non diventi servo di quello che ha fatto , delle sue abitudini e delle sue passioni, dei suoi errori e dei suoi fatti, del pallido riflesso che l’opinione altrui, laudativa e plaudente, può riverberargli sopra in modo passeggero. La autonomia è bene intenderla dai propri sogni, dalle proprie chimere, non dalle obbiettive ragioni e dalla obbiettiva verità. La persona umana è certamente una cosa grande, ma non è tanto grande da prendere il posto di Dio, principio supremo della verità, del bene, della bellezza, dell’essere. – E certo che la teologia non si è occupata di taluni settori aperti alla filosofia umana ed alla cultura. È certo ed è giusto. Ma questo non significa affatto che ove non entrano chiari limiti di fede si possa fare quello che si vuole. Infatti i limiti obbiettivi della verità evidente o giustamente dedotta continuano a contare, anche se in taluni settori non li raggiunge la teologia e il dettame di fede. I limiti sono limiti, da qualunque parte vengano. Il soggettivismo autonomo iniettato nella filosofia e nella cultura ha questo tragico effetto: di sottrarre l’uomo al suo cielo, ossia alle cose che veramente gli convengono per una eterna, perfetta sapienza e renderlo succube di un altro cielo fittizio o nefasto dal quale prima o poi ritrarrà eccitamenti insani, pretese impossibili e, finalmente, tristezza, odio, guerra e morte. – Il soggettivismo finisce coll’essere una negazione della trascendenza. Negata la trascendenza che cosa resta all’uomo, quando non ha più nulla cui appoggiarsi e rimane l’unico appoggio di se stesso, tanto debole, spesso ammalato e costretto ad una parabola di decadenza della età? Infatti la negazione della trascendenza in parole povere si riduce a questo ed a questo volevamo arrivare, perché si intendesse come una falsa interpretazione della persona e personalità umana porta più lontano di quel che si creda e in una direzione assai diversa da quella che poteva forse opinarsi nei facili entusiasmi. – La filosofia moderna ha da scegliere tra l’uomo e Dio, tra la trascendenza e la immanenza, ma non ha affatto da scegliere tra la verità e la propria distruzione. Che essa accetti una luce da qualunque parte le venga non è affatto indecoroso e se questa luce le può giungere dalla superiore certezza della fede è meglio per essa. La fede ha un oggetto che è distinto da quello della filosofia, ma la distinzione non impedisce il reciproco aiuto e, tanto meno, la sicura norma perché la filosofia umana sia orientata nel modo più confacente e meno dannoso agli uomini. Essi hanno bisogno di luce, di sicurezza, hanno bisogno di orizzonti eterni più di quanto non abbiano bisogno del pane. Non distruggiamo tutto questo in nome di una sciocca vanità di indipendenza, quando tutte le cose – e lo vediamo bene – ci lasciano liberi, ci possono servire, ma anche ci condizionano. – In conclusione: autonomia sia, mai però di fronte alla verità

VII. Ecco una proposizione che frequentemente ricorre:

«La personalità va istruita e non educata e guidata: ha in sé di che guidarsi». –

Questa proposizione è semplicemente falsa per più motivi. È falsa perché suppone non esista né i l dogma del peccato originale, né le conseguenze dello stesso. E falsa perché è contraddetta dalla esperienza di una continua umana debolezza, bisognosa di aiuto, di sostegno e di conforto da ogni parte. È falsa perché non tiene conto delle stato ciclico in cui si svolge la vita umana. Parte da zero e tramonta, ha bisogno di dipendere dai sensi e attraverso questi riesce a muovere il proprio intelletto; ha la radice della sua autonomia nella forza di volontà e questa l’acquista, non se la trova naturalmente irrobustita in modo pieno e perfetto. – Eppure la proposizione è comoda per due motivi: per riversare sopra se stessi tutti i motivi della superbia e pertanto della rivolta contro ogni limite ed ogni autorità; e per disimpegnarsi dai compiti della educazione e dall’impegno di cominciare a fare quello che si insegna agli altri. – E per tale motivo che questa teoria trova pronti assertori. Essa comincia ad eliminare ogni autorità naturale e deve logicamente finire col ritenere solo una propria mandataria: l’autorità civile. E la conflagrazione dell’orgoglio. Le autorità intermedie ricevono in un modo o nell’altro il loro valore dalla autorità divina ed appare chiaro subito il collegamento tra la irreligiosità e cotesto modo di pensare e di orientare la vita umana. – Si ritorna sempre allo stesso bivio. Gli uomini, di fronte alle proprie responsabilità ed ai propri inevitabili rimorsi, si sentono sempre più piccoli, più bimbi, più bisognosi di appoggio ed è per questo che la proposizione sopraddetta può essere riguardata come la peggiore mala azione, perpetrabile ai loro danni. Ma fa parte del sistema, quello che abbiamo denunciato subito fin dalla critica alla prima proposizione. Se non si assume là e subito in quella sede una posizione netta, diventa necessario arrivare alla miseria di questo abbandono, per il quale i giovani, pur apparentemente circondati di tanti sussidi, in realtà crescono senza umano calore come i figli di nessuno. – La proposizione cerca di salvarsi con una speciosa ragione: aspettiamo che essi scelgano! A parte le considerazioni di carattere generale già fatte e che potrebbero aggiungersi, la proposizione non tiene conto di un fatto naturale. Si formano prima le abitudini, che non il raziocinio, gli istinti sono anteriori alle stesse abitudini, quando il raziocinio è sufficientemente irrobustito per scegliere, già quasi tutto è costruito. L’intervento occorre durante la costruzione, ed è per questo che non sarà mai sufficiente la istruzione senza la vera e propria educazione. La educazione ha il merito di condurre quando manca ancora il conducente. E tutto qui. Le demolizioni che si fanno della famiglia, della autorità, dei genitori, dei superiori, della funzione del giusto timore, etc. … sono le demolizioni del futuro uomo, il quale potrà gloriarsi di essere autonomo e non sarà più capace di esserlo. Ci sarebbe stato facile trattare qui di nuovi rapporti tra personalità ed arte. Ma non lo abbiamo fatto perché l’argomento poteva uscire dal campo nostro pastorale. Ma ci sentiamo in obbligo avvertire che le stesse regole valgono anche per quel campo e che non sarebbe sincero con Dio creare qua e là zone extraterritoriali, nelle quali, con la scusa che l’uomo sia un po’ più uomo (e sarebbe scusa inane), in verità si faccia il tentativo di ridurre il comando e la sovranità di Dio. Ci sono tuttavia alcuni aspetti che dobbiamo chiarire prima di terminare questa nostra lettera.

La necessità della grazia

La personalità umana non la si completa agli effetti soprannaturali, agli effetti della perfezione e della resa, senza la grazia attuale. Essa presuppone di per sé, anche se talvolta è perduta, la grazia santificante. Ma il nostro discorso è volto anzitutto alla grazia attuale, perché così postula l’argomento in oggetto. La grazia attuale è erogazione di energia soprannaturale, che eleva l’atto umano, lo proporziona al fine eterno e gli infonde una forza ed una luce superna. Senza di essa la persona umana non può fare qualcosa di completo e può fare nulla che abbia valore e merito soprannaturale. Abbiamo già avuto occasione di dire questo, considerando la prima proposizione presentata all’esame. La necessità della grazia è dimostrata da due elementi.

a) La legge della proporzione. Se ogni atto libero dell’uomo deve servire al fine eterno cui soprannaturalmente è chiamato, deve avere valore, dignità e figura adeguati a quello. Deve in sostanza essere «elevato» per raggiungere la giusta proporzione. Nell’ordine divino tutto è perfettamente proporzionato e non si danno cause inferiori agli effetti. Per questa legge di proporzione ogni atto deve essere mosso, elevato ed aiutato dalla grazia divina. Si apre un mondo nuovo nel quale veramente vive l’uomo e nel quale si ritrova la ragione della sua verità e della sua umiltà.

b) Il fatto della umana debolezza. Ci sarebbe stata comunque, ma il peccato originale l’ha aumentata e tutti i supervenienti peccati concorrono ad aumentarla. Essa è un fatto e tutti lo conoscono a sufficienza. Certe cose si possono dire contando sul fatto che gli uomini non vedono l’interno degli altri uomini, ma non sarebbe neppure possibile tentare di dirle qualora tutti vedessero tutto. Gli istinti, i sentimenti, le abitudini sono pesi ai quali solo si oppone veramente la grazia. I cedimenti, le tentazioni, il loro persistere, il loro sfruttamento dei momenti peggiori, le condizioni fisiche: tutto apporta qualcosa al contingente della umana debolezza. La illusione che qualcosa sfugga crea l’altra illusione di pensare se stessi come capaci di concludere nel campo della perfezione! Le conseguenze diventano ovvie.

– La grazia è data a tutti, ma aumenta con la orazione e i Sacramenti. Entrambi obbligano alla vera umiltà interiore. Per questo aspetto, oltre quanto si è già detto sopra, bisogna che la personalità costruisca se stessa con l’umiltà. Dio resiste ai superbi!

– L’ordine della grazia, per averlo veramente, impone se ne accetti il «sistema». Che è questo? Gesù ha legato tutto: la grazia alla Chiesa, la Chiesa alla Gerarchia, la Gerarchia ai Sacramenti. Non si può fare una selezione, accettare il Corpo Mistico e non il rimanente. – Occorre accettare tutto, senza riserve. I tentativi per ridurre qualche parte di questo insieme vanno a danno della grazia, e dell’insieme nel quale essa è divinamente racchiusa.

– Non è possibile una personalità seria che non abbia conoscenza e coscienza dei propri limiti e delle proprie necessità. Al di là di questo limite non c’è la personalità, ma la presunzione, che è una personalità contraffatta e deformata.

L’armonia della persona.

L’armonia della personalità è data dalle idee giuste, dalla umiltà, dalle virtù armonicamente fuse, dalla presenza di una soprannaturale intenzione, dallo sfruttamento perfetto dei mezzi della grazia, dai suoi frutti nella stessa vita di relazione. – Dei primi si è già parlato, resta da dire qualcosa di questi ultimi. La personalità cristiana ha un quadro sereno di rapporti coi superiori. Questi ci sono in tutti gli ordini e servono alla fermezza stessa della personalità, non al suo disfacimento. Tutti i superiori legittimi lo sono o in forza della istituzione divina o in forza di un ordine che Dio vuole nelle cose anche quando questo ordine lascia nelle mani dell’uomo. Si direbbe che da questo punto si misura il primo vero elemento di consistenza di una personalità cristianamente equilibrata. La stessa presenta un quadro di mitezza, di comprensione, di forza e di ragionevole indipendenza nei confronti degli altri. Parliamo di «altri» che non siano superiori e parliamo di quella indipendenza che non provoca e si asside orgogliosa, ma che ha sufficiente distacco dalle cose terrene per non esserne mai dominata o indettata oltre il giusto. In verità la simpatia che può sprizzare dalla personalità in modo più avvincente la troviamo qui. – La personalità cristiana equilibrata presenta un quadro di vera indipendenza rispetto ai beni meramente terreni. Qui tocca il suo aspetto e la sua dignità più profonda, qui ha le movenze di un’inimitabile arte, qui custodisce il segreto di una forza e di una costanza che la può rendere dominatrice, qui si impone anche silenziosamente in un irradiamento soprannaturale senza ombre e senza ristagni. Le personalità serie e cristiane sono svariatissime, perché potenziano le doti più svariate, ma ricevono dalla luce di Dio e la rifrangono. Con le ostentazioni, le acrimonie, gli orgogli inariditi, le disobbedienze, le vendette, gli egoismi non si costruiscono personalità, ma degli idoli deformi che possono avere qualche adoratore, e che sono condannati a non avere ad un certo momento altro adoratore che se stesso nella più arida delle solitudini. – Cari confratelli, vogliate meditare molto quello che vi abbiamo scritto, perché il veleno si insinua e potrebbe rovinare tutti i frutti della educazione che voi impartite. Noi ci siamo volutamente astenuti dal parlare di teorie e di nomi. Non abbiamo alcuna volontà di colpire, ma solo quella di salvare. Però una parola era necessario dirla e, se sarà necessario, ritorneremo sull’argomento. Pensate bene che tutta l’età moderna, serva della macchina, tenta di rifarsi una dignità, spesso perduta, con le proposizioni di cui ha fatto suo oggetto questa nostra lettera. Che il Signore vi aiuti sempre a capire tutto e bene.      [Fine]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: EQUILIBRIO DELLA PERSONALITA’ (1)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO:

EQILIBRIO DELLA PERSONALITÀ (1)

[Lettera pastorale scritta per la Pasqua del 1964; «Rivista Diocesana Genovese», 1964; pp. 252-268.]

V – Ortodossia

Nel nostro ormai annuale incontro per lettera una considerazione generale ci si impone e ci colpisce: la tendenza a dar valore più alle cose della terra che a quelle del cielo. Voi sapete benissimo che deve accadere il contrario e che se non accade il contrario noi non siamo con Gesù Cristo. Purtroppo, invece, accade. Infatti tutti i timori per la dottrina cattolica di fronte alla scienza o alle vicende umane provengono in realtà dal fatto che si dà a questa piccola esperienza degli uomini e alla loro parola – la scienza è anche parola – un valore maggiore ed una fiducia maggiore di quella che si dà alle cose ed alle parole di Dio. La sociologia sfasata di taluni anche cattolici e perfino sacerdoti dipende dal fatto che la situazione terrestre è per loro assai più importante della situazione celeste. Così nella dottrina si è arrivati, sottilissimamente, a dare più importanza alla personalità umana che non alla legge ed all’ordine ai quali essa deve essere moralmente sottoposta. Il materialismo moderno tende a distruggere il valore della persona umana, soprattutto nel campo sociologico. Ma la verità è che gli errori non si combattono con altri errori e alle esagerazioni non si contrappongono

altre esagerazioni. Le sfasature circa la persona umana sono l’oggetto della nostra presente lettera. Noi non facciamo nomi, noi non prendiamo di mira nessuno, noi vogliamo solo correggere alcune esagerazioni sottili circa questo ultimo punto; lo sentiamo entrare in discorsi di perfetta buona fede ed è proprio questo che ci impressiona, perché è gran cosa quando l’uomo in errore ha coscienza di errare, ma è sommo pericolo quando l’uomo onesto, che è convinto di fare il bene, in realtà sta nell’errore e là radica persino il suo zelo. Noi esamineremo serenamente una serie di proposizioni che ritornano nei detti, negli scritti e nei fatti, affinché tutti possano tempestivamente aprire gli occhi e capire quali gravi conseguenze possono dipendere da impostazioni erronee od imprecise su questo punto. Prima che taluno possa credere il contrario, professiamo la nostra fede nella dottrina cattolica sulla persona umana; ci sentiamo al seguito di san Tomaso d’Aquino in tutto e quelli che hanno memoria buona dei nostri umili scritti sanno che siamo sempre stati difensori della umana personalità e restiamo senza tentennamenti. Solo che la persona alla quale crediamo e per la salvezza della quale Cristo si è fatto uomo, non è «parallela» all’ordine divino, non è autonoma rispetto alla legge, non è supremo criterio di ogni fatto giuridico e morale. Il discorso sta qui e solamente qui.

  1. Esame della proposizione seguente: «La personalità umana è il punto di riferimento di tutto». – Questa proposizione, se è relativa soltanto, potrebbe essere vera. Ma generalmente non è usata così. Noi la esaminiamo nel senso deleterio.

1) Cominciamo dalle idee chiare. La persona umana è il soggetto distinto (autonomo) che sussiste in una natura intelligente. L’autonomia è la caratteristica della persona; infatti questa «sua distinzione» da qualunque altro essere la circoscrive e la definisce nella sua identità. La autonomia diventa concreta solo se la si concepisce in un «soggetto», tanto che la persona è di fatto un soggetto distintamente sussistente in concreto. Noi siamo delle persone. Abbiamo una natura intellettuale, siamo soggetti sussistenti in essa, usiamo il possessivo «mio», abbiamo la coscienza di una autonomia nel nostro essere e nel nostro operare e, raziocinando, da questa autonomia noi deduciamo quanto costituisce il diritto, le proprietà, la nostra libertà. Ed è pertanto che il discorso ci riguarda e non è affatto estraneo alla nostra vita. Noi stiamo parlando di noi e la «persona» è ciascuno di noi. – La personalità è il valore morale della persona, la sua più assicurata distinzione, la sua più perfetta efficienza. Non si tratta pertanto, allorché si parla di persona e personalità, di due cose diverse; in fondo si parla della stessa cosa, ma il secondo termine accentua un aspetto. Data questa spiegazione non è necessario ci sentiamo di qui innanzi costretti a spiegare sempre perché si usi l’uno o l’altro termine. La questione che ora abbiamo in oggetto è la seguente: se la persona sia criterio assoluto per giudicare di tutto. Osserviamo bene come stanno le cose. – La persona è creata da Dio. Pertanto, come dipende nella creazione da Dio, dipende dalla divina conservazione tanto nel suo essere che nel suo operare. Non è causa prima di se stessa. Dunque è astretta alla legge divina intesa nel senso più universale e, siccome fa parte della legge divina l’«ordine» nel quale essa vive, è limitata naturalmente da questo «ordine» che fa parte della legge di Dio. È  cosa stranissima che si confonda «autonomia» con assenza di «limiti». E un errore, per di più, grave. Dunque la persona si riferisce a Dio; non è criterio «ultimo» di alcuna cosa, è subordinata moralmente ad una legge anche se ha la libertà di contravvenire alla legge. La persona sarà dunque solamente criterio «relativo» e «subordinato», mai assoluto. Ci rimane a vedere in che senso ed entro quali limiti la personalità è un criterio relativo e subordinato ai principi sommi or elencati. Anzitutto è «criterio» quello che serve per giudicare. Ora il concetto di persona serve per giudicare nel modo seguente. È criterio subordinato, non primo, ed è subordinato alla legge e a un ordine intero stabilito da Dio. E poi, ovviamente, «principio e criterio», sempre subordinatamente agli altri veri principi nelle cose di cui la persona è origine. La «persona» è origine della libertà, della proprietà ugualmente personali, del «diritto» a cui essa dona vita. Non oltre e subordinatamente. È ovvio che non è necessario e non è morale ammainare ogni bandiera davanti al concetto di persona. Si tenga pur conto che la «persona», come principio del diritto di associazione, è anche un criterio maggiore in materia sociale, ma là v i trova tanti diritti quanti doveri.

2) Veniamo ora a parlare della «personalità». Abbiamo già detto del valore lessicale del termine, ma non è male precisare ulteriormente. La personalità è la persona vista piuttosto sotto l’aspetto morale. Che significa questo? Se teniamo conto del linguaggio comunemente corrente, la parola «personalità» indica la persona, in quanto ha doti morali che la dignificano o meno, in quanto rifulge o meno di doti caratteristiche, che la distinguono tra gli altri, in quanto ha un particolare esercizio della sua libertà ed in quanto ha più o meno un alone di decoro e dignità. Tutti questi elementi sono sempre intesi, in qualche modo, quando si parla di personalità. E ovvio che il termine personalità rappresenta un passaggio da concetto metafisico di persona a quello di esso più concreto ed umano. A questo punto bisogna subito uscire da un facile equivoco. Non si distaccherà mai il concetto di persona o personalità da quello di «autonomia e distinzione». Sarà sempre vero che camminando verso il comune e il «trito» ci si allontana dalla personalità, ma sarebbe un errore il credere che la distinzione possa valere a rovescio escludendo di sottostare alla legge di Dio. Dunque non personalità comunque, ma personalità solo nella legge e cioè nella morale. – Ciò chiarito ed affermato, che cosa costruisce la personalità? Non il peccato, non la deformazione, ma la legge. Che cosa propriamente nella legge? La legge impone la verità, la volontà, la forza su cui regge la volontà, e infine la volontà di Dio. Proprio per questo la “Legge” impone la umiltà, espressione concreta della verità, e perché è legge e non un qualsiasi ordine impone il fine e la sua rettitudine. Ora è chiaro il motivo per il quale costanza e coerenza, nobiltà ed elevatezza, ricchezza di azione e di pensiero costruiscono serenamente la vera personalità umana. – Poniamoci un’altra domanda: Gesù non ha parlato di personalità? Il termine non lo ha mai usato e questo dovrebbe essere un certo segno per coloro che del termine amano abusare. Tuttavia ha detto quando avviene che l’uomo è «rilevato», ossia «distinto». Questo suo discorrere può essere ritenuto il vero equivalente del discorso sulla «personalità». Quando, per Gesù, l’uomo è rilevato e distinto? Ecco: quando è perfetto come il Padre, quando agisce perché lo veda il Padre, e non gli altri, quando sa dare l’anima sua per le pecorelle, quando è nel Regno ed è in grado di entrarvi. Quando è veramente in tale situazione e pertanto beato? Quando è col cuore distaccato dai beni terreni, mite, puro di cuore, desideroso della giustizia, capace di sopportare il male, anzi di restituire bene per male, di perdonare, di essere umanamente perseguitato per amore di Lui, di Cristo,… quando sa non servire a mammona,… quando restituisce tutti i suoi talenti maggiorati dagli interessi acquisiti… È  veramente interessante afferrare il bandolo del discorso sulla personalità in Gesù Cristo, ed è necessario afferrare quel bandolo per non tradire veramente tutto. Il discorso potrebbe indefinitamente continuare e qui ci si imporrebbe di citare tutto il Vangelo, autentico Vangelo. Una buona volta! Ma qui si divaricano anche nettamente e severamente le vie. Vediamolo subito. La prima via, quella vera, è quella in cui la personalità si riferisce al Crocifisso, perché il Cristo vince ogni orgoglio, dà ogni amore, ogni perdono, prende la Croce e segue Lui, il Signore. Questa è mite e forte, chiara, limpida, costante e coerente, votata ad un servizio e fuori d’ogni esaltazione. – La seconda è quella d’una sistematica adorazione, esaltazione di se stesso, d’una distinzione orgogliosa ad ogni costo, di una sostituzione di sé a Dio per la pretesa di ridurre molte altre cose al criterio proprio invece che a quello di Dio! Si smussino gli angoli quanto si vuole, si dolcifichino i termini fino al contorcimento, non ha importanza. Questo è il vero altro concetto di personalità, quello la cui perfidia sottilmente entra e che nulla ha a che vedere con Gesù Cristo.  – Il discorso ci brucia sulle labbra, cari confratelli, e vi assicuriamo che se non fosse il senso della misura, anche nelle lettere, esso durerebbe ancora a lungo! Nessuno di noi può adottare un modo di pensare che regala al mondo degli orgogliosi inutili per tutto e generalmente dannosi. – Ma dopo aver visto i pericolosi equivoci insediati nell’uso di parole dalla innocente apparenza e nell’uso di modi di dire dal sapore correntissimo, non sarà superfluo il richiamo a considerare bene tutto questo, a misurare ed a sostituire al linguaggio coniato dall’umana stravaganza il linguaggio evangelico coniato invece dalla divina e sempiterna saggezza. Anche i modi di parlare hanno la loro importanza, specialmente in un’epoca in cui si aiuta la superficialità, coniando termini coi quali si possono coniugare tutte le idee e tutti i fatti, senza fatica, a valorizzazione della ignoranza e a profitto della confusione.

Ecco un’altra proposizione in esame: «Nella personalità umana c’è quanto occorre a realizzare il piane divino». – Questa proposizione presa come suona è semplicemente pelagiana. Cominciamo allora dal dire le forme nelle quali potrebbe essere intesa con buona pace della ortodossia. Non ne vediamo che una, e cioè quella in cui si sottintenda al testo il termine «potenzialmente», sicché la proposizione suonasse così: «… c’è potenzialmente quanto occorre al piano divino». Appresso ci spiegheremo meglio. – In verità esiste nella natura umana una potenza obbedienziale, e perché la proposizione diventi ortodossa bisogna intendere proprio e solo quella – per la quale si possono ricevere da Dio capacità superiori o alla natura o all’attuale stato. Ma salvo il caso in cui questa potenza obbedienzale non sia realmente assunta da Dio è impossibile che la persona umana attui con le sole sue forze il piano divino. Si osservino bene le seguenti proposizioni, che non sono una nostra opinione, ma sono soltanto proposizioni della dottrina cattolica infallibilmente certa. – « L’Uomo, dopo il peccato originale, non è in grado di osservare a lungo sostanzialmente tutta la legge, senza la grazia» (Cfr. Concilio di Cartagine, DS. 227); – «l’uomo giusto ornato della grazia santificante non può senza speciale privilegio evitare lungamente tutti i peccati veniali» (Cfr. Concilio di Cartagine, DS. 228-230): – «l’uomo non può da se stesso prepararsi senza grazia all’inizio della fede ed alla giustificazione» (Cfr. Concilio di Orange DS. 371 segg.). – «La perseveranza finale è legata ad uno speciale aiuto di Dio». – Queste proposizioni sono ben note a chi ha studiato teologia e si trovano in qualunque testo approvato della medesima. Ora, chiediamo: come è possibile dire che nella persona umana c’è quanto occorre a costruire un ordine divino, quando neppure c’è quanto occorre, evidentemente, a costruire un ordine umano? Infatti come è pensabile tra uomini liberi un ordine completo, senza perfezione morale? E proprio di questa è stato rivelato agli uomini che non vi è possibilità senza l’intervento della grazia di Dio. – L’argomento è chiaro e chiuso, ma ha conseguenze di somma importanza e lo vedremo. Il pelagianesimo non è morto e talvolta ritorna sotto speciose apparenze. In fondo si tratta di valutare o meno tutto l’ordine soprannaturale di Dio e di afferrare che per l’ordine umano, senza l’ordine soprannaturale, non resta che la «nemesi» così bene capita dalla acutissima intelligenza greca. Per il resto lasciamo le conseguenze che in questo argomento, tanto per l’errore come per la verità, si hanno in tutti i campi.

III. Ecco una proposizione, che viene sottilmente presentata o che è presupposto taciuto di molte affermazioni:

«La personalità umana ha tali risorse da costituire qualcosa di parallelo all’ordine soprannaturale». –

Questa proposizione è grave. Cominciamo a parlare del «parallelo». La parallela è relativa ad un’altra, della quale tiene la direzione e con la quale, proiettata all’infinito, non s’incontra mai. Lasciamo andare il «quantum» in questa affermazione entra nel discorso solamente come metafora. La sostanza di questo «parallelo» sta nell’affermare la sufficienza e la possibile autonomia di un ordine umano basato sulla persona e sta nella negazione di una dipendenza di necessità. Essa in qualche modo rende Cristo estraneo al mistero del mondo. – Cominciamo dall’ultimo. Affermare che un ordine umano può essere completo — e parliamo dello stato di natura decaduta – senza la elevazione soprannaturale è affievolire la necessità della Redenzione e della simultanea elevazione all’ordine soprannaturale. Queste diventerebbero sotto un aspetto solo un prezioso aggeggio. La incarnazione del Verbo sarebbe uno stupendo e divino pleonasmo, rispetto alla storia dell’umanità. Affermare che un ordine umano è per sé sufficiente è arrivare alla stessa ingloriosa conclusione, perché si tratta di affermazione equivalente. Perché mai tanto dramma, tanta preparazione biblica, tanto sconcerto, per qualcosa di supererogatorio? Anche qui, vi pare poco? Ci si può dire che noi prendiamo le parole in senso stretto. Ma non è forse quello che si deve fare, quando si intende «ragionare?» – Il concetto di un ordine «personale», che sia parallelo e pertanto sullo stesso piano di quello soprannaturale, è idea che distrugge tanto il soprannaturale quanto la necessità di esso. E la tenebra che cala su tutto. Vorremmo che l’aspetto negativo di questa terribile proposizione vi fosse ben chiaro e che tale chiarezza impedisse per sempre la introduzione di essa anche in dosi omeopatiche e dalla apparente innocenza. – Finalmente non possiamo chiudere la considerazione della tesi sopra enunciata senza rendervi avvertiti che facilmente la proposizione viene estesa a campi apparentemente neutri. Essi sono la educazione, l’arte, la cultura. State attenti: non c’è educazione senza uomo. Tutte queste cose seguono la sorte dell’uomo e della persona umana. Se la medesima è subordinata, siccome abbiamo dimostrato, ed è limitata dalla legge divina, se è insufficiente a comporre un ordine anche solamente umano perfetto, nessuna di queste cose saranno superiori all’uomo. Pensarle come realtà a sé stanti che se ne passeggino per la storia umana è fuori della realtà. Legate all’uomo, sono come lo è lui, subordinate e limitate, e come lui hanno necessità della redenzione. Il tentativo del nuovo illuminismo, di creare aree di indipendenza dal Salvatore, si dimostra così, come è in realtà, al tutto falso.

IV. Vogliate considerare questa equivoca proposizione:

«La personalità conferisce alla coscienza il carattere di dettame supremo, valutativo di ogni altra realtà».

Questa proposizione può essere presa con un certo sforzo in senso giusto. Lo vedremo subito. Ma può essere presa in senso al tutto falso e lo vedremo appresso. Di qui l’equivoco. Nulla è pericoloso come quello che, a seconda dei casi, può enunciarsi con verità e può enunciarsi con sottaciuta falsità. Vediamo dunque come stanno le cose. Il termine sul quale occorre puntare tutta la attenzione è il termine di «coscienza». Essa infatti appare qui come una identificazione della personalità giudicante senza appello. La coscienza morale – è quella di cui si parla – altro non è se non la intelligenza personale in quanto giudica della moralità o meno di una propria azione in concreto. E intanto chiaro che la coscienza è una dote ed uno strumento della persona. È altrettanto chiaro che, per la sua stessa funzione di giudicare della moralità, è subordinata e non svincolata dalla legge. Volerla dunque ridurre ad una sorta di coscienza di sé astratta e presuntuosa è mettersi fuori della realtà obiettiva. La coscienza può benissimo trasformarsi in un esagerato giudizio di sé e pertanto in un presuntuoso dettame per chi sa che cosa, ma in tal caso non è più la coscienza; è un’altra cosa e porta il nome di uno dei sette peccati capitali. – Della coscienza morale autentica questo è importante: che è il nostro immediato dettame di azione nel comportamento concreto. E immediato e cioè l’ultimo a decidere se fare o non fare, se fare bene o fare male. Ma è l’ultimo non in ordine di dignità, sebbene in ordine di vicinanza: non ne abbiamo altro dentro di noi, perché per dire diverso bisognerebbe pensare ad interventi illuminativi divini, che non appartengono al vivere ordinario. Sia ben chiaro che cosa significa «ultimo dettame e regola immediata»: significa che è l’ultimo tribunale d’appello dentro di noi, ma non significa affatto né che sia indipendente, né che non debba attenersi a qualcosa che sia fuori di essa e fuori di noi. Il punto è delicatissimo e veniamo subito al suo nucleo. – A quali condizioni la coscienza personale è la «regola prossima della moralità?». Nessuno creda che lo sia così facilmente, per le ragioni già sopra dette. Lo è infatti soltanto quando l’intelligenza ha assolto queste condizioni: giudica delle cose che sono nel suo abituale ordine sufficientemente chiare, o meglio che sono a livello della sua levatura; ha cercato di procacciarsi con tutti i mezzi onestamente disponibili le nozioni atte per giudicare bene, secondo la importanza e la complessità delle questioni; ha la prudenza di ponderare e di saper dubitare, naturalmente senza scivolare alla coscienza scrupolosa ed ossessionata. – Se esiste il termine di «coscienza» esiste pure quello di coscienza «informata e no», «certa e dubbia», «vera e falsa», «lassa e severa»: tutti questi termini sono ammonitori per chi volesse usare in modo presuntuoso o avventato del dettame di coscienza. Vorremmo piuttosto annotare che è la umiltà quella che permette la migliore informazione di coscienza, perché dubita, chiede consiglio, studia, accetta il responso delle persone sagge, cerca anzi il loro intervento e non è mai tronfia di infallibilità e di sussiego, senza prudenza e senza temperanza. – Si è sentito parlare facilmente degli obbiettori di coscienza e teoricamente possono esistere, però, quando l’obbiettore di coscienza è uno contro milioni, fa temere di appartenere piuttosto ai presuntuosi che agli obbiettori. Ecco i termini in fondo semplici della questione. E facile dire «la mia coscienza mi dice»; ma non è facile far sì che la coscienza dica in quella forma per cui merita ed ha la pace di Dio!

[Continua …]

 

GREORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: “la comunità”.

LA COMUNITÀ

[«Renovatio», IV (1969), fasc. 2, pp. 189-190.]

 La Chiesa è una comunità. Non ci può essere dubbio. Ma è una comunità speciale, caratterizzata dalle sue quattro note: unità, santità, cattolicità, apostolicità. Chi negasse queste note, parzialmente o totalmente, sarebbe, senza discussione alcuna, nella eresia. – Le quattro note esprimono di per sé (come è direttamente affermato nei documenti ecclesiastici) la visibilità e il carattere gerarchico, definito nei suoi gradi e nelle sue attribuzioni. E difficile o più raro che qualcuno neghi esplicitamente le quattro note della Chiesa. Più spesso si comincia da un’altra parte. Si comincia cioè dalla «comunità», interpretata, più o meno sussurrando, ad un certo modo. Ma dove si vuole arrivare? Ecco. Lo sappiamo da una serie di pubblicazioni. – Si vuol affermare che la Chiesa è peccatrice e che in tutta questa faccenda c’entra lo Spirito Santo; che la Chiesa non ha un corpo visibile (ripresa di un concetto nettamente gnostico); che non ha una struttura istituzionale visibile e storica; che non esiste una unità dell’ordine divino ed umano nel Cristo in quanto egli non ha avuto un corpo reale dalla Vergine madre (ritorna la vecchia idea gnostica). Si tratta insomma di abolire la Chiesa. – Naturalmente non sempre da tutti, subito e chiaramente, si dicono queste cose. Si va cauti. Si dice di ridurre il diritto canonico, magari ad una serie di semplici fervorini, di trovare una gestione più semplice e popolare dell’autorità, di restringere la potestà del Romano Pontefice. Tutto questo è solo la copertura di un disegno più ampio. Ma lo strumento, più facilmente utile al sopraddetto disegno, è rappresentato dalla confusione e dalla mitizzazione del concetto di «comunità». Anche perché di questa si può fare un esperimento pratico, prima ancora di enunciarne la teoria e gli scopi ultimi, riuscendo ad ingaggiare persino quelli che, davanti agli scopi ultimi, distruttivi, si troverebbero in imbarazzo gravissimo di coscienza. – Lo strumento «comunità», inteso come sopra, funziona in questo modo. Si comincia col voler assemblee; poi, se non si incontrano reazioni, si inizia a dare a delle assemblee, comunque convocate e composte, una funzione a scopo purificatore (si dice, ma non è vero) di critica e giudizio su tutto quello che fa la Chiesa. Se il gioco riesce, si tenta di trasferire ogni potere dalla Chiesa gerarchica a questa comunità di base, ossia ad un regime semplicemente assembleare. Se questo stile (dimenticando tutto il Vangelo e la sua carità) attecchisse, il gioco sarebbe fatto. Dio non permetterà, oltre un certo limite. – Lo scopo di questo breve scritto è quello di avvertire come cose, a prima vista poco preoccupanti, siano in realtà nella scia, consapevolmente od inconsapevolmente, di finalità più grandi, più lontane e più oscure. Il pericolo più grave si ha quando la manifestazione del male non è netta ed affulgente, ma, stemperando colori e luci, diventa coperta e non eccita la difesa. I piani strategici di distruzione sono nella mente di pochi generali d’esercito. I fantaccini hanno questa caratteristica: di non conoscere in genere i piani strategici, ma di eseguirli. Forse inconsapevoli di agire in direzioni errate. – La parola «comunità» esprime per sé qualcosa di venerabile, se bene intesa. Essa può rifrangersi in tante iniziative particolari, le quali non indeboliscono la struttura ecclesiale, anzi la corroborano. Il pericolo è quando della sua onestà qualcuno si serve per nascondere altro. – II taglio deve essere netto. Gesù Cristo e la Sua Chiesa, così come Lui l’ha voluta, non si possono separare. Insieme si accettano, insieme si respingono.