LO SCUDO DELLA FEDE -V- LE FALSE PROFEZIE

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LO SCUDO DELLA FEDE

V – LE FALSE PROFEZIE E L’IPNOTISMO.

Le false profezie delle false religioni. — Le sibille. — I gabbammondi odierni. — Il Sonnambulismo, il magnetismo e l’ipnotismo. —  È desso lecito, sì o no?

— Per altro, ho inteso ad accertare che tutte le religioni hanno delle profezie. Se ciò fosse vero, tali profezie si dovrebbero conoscere. Ma io ti sfido a trovarmele in qualunque libro, di qualsiasi autore.

— Eppure ho appreso dalla storia, che presso tutti i santuari dei pagani vi erano delle pitonesse, degli indovini, che indicavano l’avvenire. So che a tal fine vi erano gli Aruspici che guardavano le viscere degli uccelli scannati, gli Auguri che osservavano il loro volo, l’Ariolo che si teneva stretto agli altari, il Fatidico che consultava la potenza del destino? L’Astrologo che mirava la posizione degli astri, … eccetera, eccetera.

E a simile genìa vorresti tu dare il nome di profeti? A loro riguardo non posso dirti se non che o erano bricconi matricolati, che si giovavano ad esempio della loro condizione di ventriloqui, di epilettici, di isterici, o di arti ciarlatanesche per ingannare i gonzi, come fanno pur troppo anche ai dì nostri per attestazione dei missionari e dei viaggiatori certi stregoni scellerati tra le tribù selvagge o barbare; oppure erano miserabili posti in qualche modo in comunicazione con satana, che alle volte dava loro dei segni per mezzo di treppiedi od altri simili strumenti, come li dà oggidì per mezzo di tavole parlanti, scriventi o semoventi. – E non ti salta agli occhi la differenza enorme, che passa tra questa cattiva razza e i profeti biblici? Gli indovini e pitonesse pagane, quando pretendevano indicar il futuro, si abbandonavano a grida, a gesti strani, ad agitazioni e convulsioni, a singulti, ad un linguaggio rotto ed equivoco, ad operazioni in fondo in fondo ridicole, e ciò facevano fra le tenebre o la semiluce, alla presenza di pochi fidi; al contrario i veri profeti, come attestano i Sacri libri, parlavano seriamente, chiaramente, in pubblico, nell’atrio dei templi, sulle vie o sulle piazze, senza far dei misteri, senza ricorrere a statue, a treppiedi, o ad altri simili strumenti, senza interesse personale, anzi affrontando talora, come già dissi, con santo coraggio lo sdegno del popolo. – E poi dimmi francamente; erano predizioni certe, quelle che gl’indovini pagani andavano facendo ? Ricordi quei famosi oracoli: Ibis, redibis, non, morieris in bello. — Dico tibi, Pyrrhe, populum romanum te victurum esse?

— Ma io non m’intendo di latino.

Se tu t’intendessi, vedresti come il primo di tali oracoli, secondo che si metta il non unito a redibis oppure a morieris, voglia dire queste due cose diverse: Andrai, non ritornerai, morrai in guerra — e —Andrai, ritornerai, non morrai in guerra, e che il secondo si può prendere in questi due opposti sensi: Dico a te o Pirro, che vincerai il popolo romano, e: Dico a te, o Pirro, che il popolo romano  vincerà te. Ora questi ghiribizzi di parole appositamente studiati per potersi poi scusare, qualora l’evento non riuscisse conforme al senso desiderato, erano desse profezie e valevano forse qualche cosa in favore di quelle religioni, in cui si andavano facendo?

— Certamente, che stando così le cose, tali predizioni tutt’altro che valere in favore di quelle religioni non potevano servire che a screditarle.

Dici giustamente; ed è perciò che lo stesso Cicerone asseriva, che non era possibile che due àuguri, due indovini, sapendo bene quanto ciurmassero il popolo, potessero guardarsi tra di loro senza ridere.

— Ma le sibille non furono vere profetesse! Mi pare che anche la Chiesa nel Dies iræ porti la testimonianza della Sibilla.

In quanto alle sibille può essere che siano esistite davvero. Si dice che fossero dieci, la Cumana, l’Ellesponziaca, la Frigia, la Tiburtina, l’Europea, l’Egiziana, la Persiana, la Libica, la Delfica e l’Eritrea. Si dice anzi, che abbiano fatto delle profezie riguardanti Gesù Cristo e Maria Vergine, e mi piace di fartele conoscere, almeno per una curiosità.

« Iam redit Virgo — Già torna la Vergine ». Cumana.

« De Virgine Hæbrea — Da una Vergine Ebrea ». Ellesponziaca.

« Annuntiabitur Virgo— La Vergine sarà annunziata ». Frigia.

« O felix mater 0 madre felice ». Tiburtina.

« Egredietur de utero Virginis — Uscirà dal seno di una Vergine ». Europea.

« De matre Deus — Da una madre Dio ». Egiziana.

« Et salus in gremio Virginis — E la salute nel seno di una Vergine ». Libica.

« De stirpe Judæorum — Dalla stirpe dei Giudei ». Delfica,

« Jacebit in fœno— Giacerà sul fieno». Eritrea,

Ma i libri sibillini, in cui sono contenute queste profezie, sono affatto apocrifi ed inventati dagli ebrei o dai primi cristiani col pio intento di indurre i pagani al conoscimento della verità. Ed in vero l’esistenza delle sibille si confonde con le favole mitologiche, Figurati che della sibilla di Cuma, che fu la più celebre, e che avrebbe abitato in ima spelonca vicina a quella città, si dice niente meno che Apollo la fece vivere tanti anni quanti granelli d’arena avrebbe potuto tenere in mano, sì che venuta decrepita non le rimase altro che la voce per profetare!

— Ma allora perché la Chiesa lascia nel Dies iræ quel cum Sibilla?

La Chiesa nella sua liturgia ha preso e adottato quell’inno, del resto grandioso ed efficacissimo, quale l’ha composto Fra Tommaso da Celano, uno dei primi e dei più celebri figli di S. Francesco, senza badar a questa minuzia, ma anche senza volere con ciò che si dia fede alle sibille ed ai loro libri.

— Ho inteso. Ma non vi sono però anche ai dì nostri di coloro, che predicono l’avvenire sulle pubbliche piazze e nei gabinetti magnetici

Coloro che anche ai dì nostri sulle piazze e nei gabinetti magnetici pretendono di predire l’avvenire, il più delle volte sono ciarlatani, impostori, gabbamondi, che abusano per loro interesse della dabbenaggine altrui. – Se poi vi sono degli spiritisti, dei mediums, che facciano realmente qualche vera divinazione, egli è perché si trovano o si mettono in comunicazione col diavolo, che, come ti dissi, con la intelligenza, di cui fu dotato da Dio quando fu creato angelo, e che ha conservato nella sua natura di spirito, benché maligno e dannato, può vedere molto più a fondo di noi, e da cause naturali, che gli stanno sotto lo sguardo, prevedere, o per lo meno arguire certe conseguenze che ne seguono o seguiranno. – Ma anche in questo caso non c’è profezia vera perché, benché si tratti di una predizione che l’uomo, con la sua debole intelligenza non potrebbe fare, si tratta sempre non di meno di una previsione e predizione di ciò che si può prevedere e predire nelle cause naturali. – E da ultimo poi ti osservo che accadendo durante il sonnambulismo, procurato altrui con arte (e specialmente alle donne nervose, deboli, isteriche), procurato cioè con la magnetizzazione e con l’ipnotismo, che si indovinino certe cose occulte e si faccia anche qualche predizione, in tutto ciò di profezie propriamente dette non c’è neppure l’ombra, essendo che tali divinazioni e predizioni non sono altro che o cognizioni più vive e profonde, che si acquistano nello stato di sonnambolismo, o induzioni da cause naturali, che si conoscono.

— A proposito, che cosa si ha da pensare del sonnambolismo, del magnetismo e dell’ipnotismo?

Il sonnambulismo è di due sorta: spontaneo o procurato altrui con arte. Il primo, si capisce, non dipende dal paziente che lo subisce; epperò non comporta responsabilità di sorta, tanto più perché, passato lo stato di sonnambolismo, il paziente non si ricorda più di nulla di quanto in tale stato gli è accaduto. Durante il sonnambolismo il soggetto non solo si alza a passeggiare durante il sonno, come esprime la parola, ma più assai che la parola esprima, mostra le relazioni abituali dello spirito e del corpo sospese, invertite, trasformate ed elevate ad un grado di potenza superiore allo stato di veglia. In questo stato il sonnambolo parla, discorre con altri su cose le più svariate, e conosce gl’individui tenendo gli occhi chiusi, compone dei versi, va e viene passando anche tranquillamente per luoghi pericolosi, e fa altre cose simili. Ora questo stato si può produrre in taluno artificialmente gettandolo nello stato di ipnotismo, ossia addormentamento, col magnetismo, cioè provocando in lui quei fenomeni che accadono durante il sonnambolismo naturale ed anche maggiori. Di fatti il magnetizzato, o ipnotizzato artificialmente, in quanto al corpo può restare rigido oppure prendere una flessibilità affatto insolita, cessando in lui le impressioni e l’uso dei sensi; e in quanto alla mente può diventare più perspicace, più energico, più attivo. Dicesi che allora veda cose e persone lontane, oda le loro parole, veda persino l’interno del corpo, e così ai malati sappia indicare la sede del male e suggerire i mezzi per guarire. Nota bene però il mio dicesi, perchè questi fatti, chi li ammette, chi no affatto. Di qual maniera il magnetizzante con la sua volontà produca nel soggetto lo stato d’ipnotismo, e stabilisca relazione con lui, e lo metta in relazione con altri, stante le diverse sentenze non si può ben dire. Chi parla di un fluido magnetico, che il magnetizzante irraggia nel magnetizzando, chi lo nega. Ma comunque siano le cose, è certo: 1° che questi fenomeni meravigliosi, se sono certi, non avvengono che a qualche indispensabile condizione, che sebbene occulta può essere del tutto naturale; 2° che l’uso dell‘ipnotismo è per lo meno pericoloso e può degenerare in aperti e gravissimi disordini morali d’ogni genere.

— Eppure ho letto varie volte sulla quarta pagina dei giornali ed ho anche inteso ad asserire, che ai dì nostri vi sono dei celebri magnetizzatori e delle valentissime sonnambole da loro magnetizzate, che anche di lontano indovinano molte malattie e indicano con precisione il modo di guarirle, purché si mandi loro qualche cosa appartenente all’ammalato, fosse anche solo il pezzetto d’un pannolino.

Avresti detto meglio « purché si mandi loro un buon vaglia postale ». Credilo, novantanove volte su cento in questo affare tutto mira lì, a carpire destramente del denaro a tanti poveri goccioloni, che nell’intendimento di essere guariti da qualche male preferiscono essere gabbati dalle sonnambole che dire una sola Ave Maria di cuore alla Madonna. E così quelli che negano fede alla potenza di Dio, della Vergine e dei Santi, confidano poi ciecamente in un ciurmatore qualsiasi.

— Credo anch’io che il più delle volte si tratti più di inganno e ciarlataneria che d’altro, e che però sia da sciocchi ricorrere a questi mezzi in caso di infermità. Ma quando si tratti di vero ipnotismo allora è lecito, sì o no, prender parte ad esperimenti in proposito per tentare la guarigione?

Ecco come ha risposto a questa domanda la Chiesa per mezzo della Suprema Congregazione del S. Ufficio in data 26 luglio 1899: « Se si tratta di fatti, che certamente siano superiori alle forze della natura, non è lecito. Quando la cosa è dubbia, si potrà tollerare purché si premetta la protesta di non volere aver parte a fatti preternaturali e non vi sia pericolo di scandalo ».

— E quando mai si tratterrebbe di fatti superiori alle forze della natura e quando no?

Se mercé l’ipnotismo ad esempio si ottiene davvero di conoscere ciò che altri pensa, di imporre ad altri di fare questa o quell’altra cosa, di sapere con certezza ciò che altrove, in luogo lontano si fa e si dice, e cose simili, allora si tratta di fatti superiori alle forze della natura e ben puoi capire se in tal caso l’ipnotismo, che può cagionare disordini gravissimi e spingere eziandio ad azioni le più capricciose e nefande, sia illecito. Quando invece si trattasse solo di una certa qual azione suggestiva, che procaccia ad un infermo conforto, accrescimento di forze, e serve anche a guarirlo, benché quell’azione suggestiva abbia carattere un po’ dubbioso, tuttavia se si intende di non voler affatto aver parte a fatti preternaturali, e non c’è alcuno che si scandalizzi, perché è conosciuto il buon intendimento che si ha, allora non ci sarebbe in ciò alcun male, epperò sarebbe lecito.

— Son contento di quanto ho appresso, e mi rimetto in carreggiata.

PECCATO ORIGINALE

PECCATO ORIGINALE

[G. Bertetti:  “I tesori di S. Tommaso D’Aquino”. S.E.I. Ed. 1918]

1. Il peccato dei nostri primi padri. — 2. Sue conseguenze. — 3. La riparazione (Comp. Theol., 189-200).

1. Il peccato dei nostri primi padri. — Il diavolo, che già aveva peccato, vedendo l’uomo nella condizione di poter giungere a quell’eterna felicità da cui esso era caduto, e in pari tempo nella condizione di poter peccare, cercò di stornarlo dalla rettitudine della giustizia, assalendolo dalla parte più debole, col tentar la donna in cui era men vigoroso il dono e il lume della sapienza. E per inclinarlo più facilmente nella trasgressione del precetto, escluse, con la menzogna il timore della morte e gli promise ciò che l’uomo desidera naturalmente: lo scanso dell’ignoranza (« s’apriranno i vostri occhi »), l’eccellenza della dignità (« sarete come dei »), la perfezione della scienza (« sapendo il bene e il male »). L’uomo infatti da parte dell’intelletto fugge naturalmente l’ignoranza e desidera la scienza; da parte della volontà, che è naturalmente libera, desidera tale altezza e perfezione da essere soggetto a nessuno o almeno a più pochi che può. a donna adunque desiderò nello stesso tempo l’altezza promessale e la perfezione della scienza. Vi s’aggiunse ancora la bellezza e soavità del frutto che attiravala a cibarsene: e così, disprezzando il timore della morte, trasgredì il precetto di Dio col mangiare il frutto proibito. Cinque peccati ella commise pertanto: — 1° di superbia, col desiderio disordinato d’eccellenza; — 2° di curiosità, desiderando la scienza oltre i termini prefissi; — 3° di gola lasciandosi attirare dalla soavità del cibo a mangiarne; — 4° d’infedeltà, con un falso concetto di Dio, mentre credette alle parole del diavolo contro a quelle di Dio; — 5° di disubbidienza, trasgredendo il comando di Dio. Dalla persuasione della donna il peccato giunse fino all’uomo, il quale tuttavia, come dice l’Apostolo, non fu sedotto come la donna, non avendo egli creduto alle parole del diavolo contro quelle di Dio: egli non poteva supporre che Dio avesse fatto una minaccia menzognera o l’avesse inutilmente proibito da una cosa utile. Fu però attirato dalla promessa del diavolo, desiderando indebitamente l’eccellenza e la scienza; quindi la sua volontà s’allontanò dalla rettitudine della giustizia, volle contentar la donna, la seguì nella trasgressione del precetto di Dio e mangiò il frutto proibito.

Conseguenze del peccato originale. — L’integrità così ben ordinata dei nostri primi padri era tutta causata dalla soggezione dell’umana volontà a Dio: perciò, sottratta l’umana volontà alla soggezione divina, ebbe fine necessariamente quella perfetta soggezione delle inferiori forze alla ragione e del corpo all’anima. Per conseguenza l’uomo sentì nell’inferiore appetito sensibile i moti disordinati della concupiscenza e dell’ira e delle altre passioni: non più secondo l’ordine della ragione, ma ad essa ribelli, ma ottenebranti e quasi sconvolgenti nel maggior numero di volte. Quest’è la ripugnanza della carne verso lo spirito, della quale parla la Scrittura. Infatti, poiché l’appetito sensitivo, come anche le altre forze sensitive, opera per mezzo d’organi corporei, mentre la ragione opera senz’alcun organo corporeo, convenientemente s’imputa alla carne ciò che appartiene all’appetito sensitivo: s’attribuisce allo spirito ciò che appartiene alla ragione, come sogliono chiamarsi sostanze spirituali quelle che son separate dai corpi. Ne seguì pure che il corpo sentisse i difetti della corruzione e che perciò l’uomo incorresse nella necessità di morire, non avendo più la forza di mantenere in perpetuo il corpo animato con dargli la vita. L’uomo divenne dunque passibile e mortale: non solo potendo patire e morire come prima, ma avendo quasi una necessità di patire e di morire. Molti altri difetti derivarono per conseguenza all’uomo. Abbondando nell’appetito inferiore i moti disordinati delle passioni, e mancando anche nello stesso tempo alla ragione quel lume di sapienza che divinamente illustrava la volontà mentre era soggetta a Dio, l’uomo sottomise il suo affetto alle cose sensibili, fra le quali, allontanandosi da Dio, peccò in molti modi; inoltre l’uomo si rese schiavo degli spiriti immondi ripromettendosene l’aiuto nelle sue imprese. Di qui nel genere umano l’idolatria e molti altri peccati: e quanto più l’uomo vi rimase corrotto, tanto più s’allontanò dalla conoscenza e dal desiderio dei beni spirituali e divini. – Al genere umano era stato attribuito da Dio nel primo padre il bene della giustizia originale in modo che derivasse ai posteri. Privato di questo bene il primo uomo per propria colpa, dovettero pure esserne privati tutti i discendenti, i quali dopo il peccato del primo padre nacquero tutti senza giustizia originale e coi difetti che ne derivano. Né questo è contro l’ordine della giustizia, quasi che Dio punisca nei figli la colpa del primo padre: perché questa pena non è altro che la sottrazione di quello che sovrannaturalmente f u concesso da Dio al primo uomo e che per mezzo del primo uomo doveva derivare ad altri. Agli altri pertanto ciò non era dovuto, se non come eredità del primo padre. Se un sovrano desse a un suo soldato un feudo da trasmettere poi in eredità agli eredi, e se il soldato mancasse contro il sovrano in modo da perdere il feudo, anche gli eredi ne sarebbero giustamente privati.

Un’altra questione: — Ci è imputato a colpa un male, quando è in nostra potestà il farlo e il non farlo; ora non è in nostra potestà il nascere con la giustizia originale o senza di essa: dunque l’esser nati privi della giustizia originale non dovrebbe aver ragione di colpa. — Questa difficoltà si risolve agevolmente, distinguendo fra persona e natura. Come in una sola persona ci sono molte membra, così in una sola umana natura ci son molte persone, sicché per la partecipazione della specie i molti uomini si comprendono quasi come un sol uomo. Or bene, nel peccato d’un sol uomo si fanno con diverse membra diversi peccati, e affinché ci sia colpa non si richiede che ciascuno di questi peccati siano volontari per la volontà del membro che fa il peccato: basta che siano volontari per la volontà di ciò che nell’uomo è principale, cioè la parte intellettiva, perché al comando della volontà intellettiva non può la mano non percuotere, non può il piede non camminare. Appunto in questo modo il difetto dell’originale giustizia è peccato di natura: perché deriva dalla volontà disordinata del primo principio nella natura umana, ossia il primo padre. Essendo volontario per rispetto alla natura, passa in tutti quelli che dal primo principio ricevono la natura umana, vi passa come in membra del primo principio: e si dice peccato originale, perché è derivato per origine dal primo padre nei posteri. Gli altri peccati, cioè gli attuali, riguardano immediatamente la persona che pecca: il peccato originale riguarda direttamente la natura, che, infestata dal peccato del primo padre, infetta la persona dei figli.

3. La riparazione. — Quantunque il peccato del primo padre abbia infettato tutta la natura umana, questa non poté esser riparata dalla penitenza del primo padre né da qualsiasi altro suo merito. È manifesto che la penitenza d’Adamo o qualsiasi altro suo merito fu un atto individuale, che non poteva redintegrare tutta la natura umana. Adamo con la penitenza riacquistò la grazia, non la pristina innocenza: anche qui è manifesto che lo stato di giustizia originale fu un dono speciale di grazia; ora, la grazia non s’acquista per meriti, ma si dà gratuitamente da Dio. Come dunque il primo uomo ebbe da principio l’originale giustizia non per merito ma per dono di Dio: così, e molto meno, poté dopo il peccato meritarsela con la penitenza o con qualsiasi altra opera. Eppure, bisognava che l’umana natura così infetta fosse riparata dalla divina provvidenza. Se non si fosse tolta questa infezione, l’uomo non avrebbe potuto giungere alla perfetta beatitudine: perché la beatitudine, essendo il bene perfetto, non tollera alcun difetto, e massimamente quello che è peccato, che è contrario alla virtù e alla via della beatitudine. Dunque, se non fosse stata riparata l’umana natura, l’uomo non avrebbe giammai raggiunto il suo ultimo fine, e sarebbe così rimasta frustrata l’opera di Dio in una creatura tanto nobile. — Inoltre l’uomo, fin quando si trova in questa vita mortale, non può esser né confermato irremovibilmente nel bene, né ostinato irremovibilmente nel male. Non conveniva dunque che la divina bontà, tanto superiore alla potenza della creatura nel fare il bene, lasciasse vana del tutto la possibilità che ha l’umana natura d’esser purgata dall’infezione del peccato. – Ma l’umana natura, come s’è dimostrato, non poteva esser riparata né per mezzo d’Adamo né per mezzo di qualsiasi semplice uomo: sia perché nessun uomo da solo sopravanzava tutta la natura, sia perché nessun semplice uomo può esser causa di grazia. E per la medesima ragione l’umana natura non poteva esser riparata da un Angelo: sia perché un Angelo non può esser causa di grazia, sia perché un Angelo non può esser premio dell’uomo quanto all’ultima beatitudine perfetta, a cui doveva l’uomo esser revocato, e in cui l’uomo e l’Angelo son pari. – Dio dunque soltanto poteva riparare l’umana natura. Ma s’Egli l’avesse riparata con la sola sua volontà e virtù, non sarebbe stato conservato l’ordine della giustizia, la quale esige per il peccato una soddisfazione. Ma in Dio non può esserci né soddisfazione né merito: perché la soddisfazione e il merito son cose proprie di chi dipende da un altro. Non competendo a Dio soddisfare per il peccato di tutta la natura umana, e non potendolo un semplice uomo, fu conveniente che Dio si facesse uomo, affinché così fosse un solo e il medesimo chi potesse e riparare e soddisfare. Quest’è la causa che l’Apostolo assegna della divina incarnazione: « Venne Cristo Gesù in questo mondo a salvare i peccatori » (I Tim., I, 15).

IL PECCATO ORIGINALE (3)

C.— LE CONCEZIONI DELL’ANTICO ORIENTE

40. — Una rassegna delle concezioni dell’antico Oriente, portando il lettore a rintracciare eventuali affinità o divergenze di concetto o di linguaggio, lo mette in grado di meglio valutare il testo sacro, inquadrato nell’ambiente in cui vide la luce e di fissarne con maggior esattezza il genere letterario. Dovunque gli uomini hanno portato la loro riflessione sulle tristi condizioni della vita umana, si sono posti due domande: « È sempre stato così? Perché è così? ». Alla prima di queste due domande rispondono le tradizioni di un’era primitiva di felicità, di cui è classico esempio l’età dell’oro descritta da Esiodo ne « Le opere e i giorni » (vv.109-126). Anche alcuni documenti dell’antico Oriente parlano di una età remota in cui la vita era diversa da quella attuale, senza tuttavia presentarla come particolarmente felice e desiderabile:

« In Dilmun il corvo non ancora gracchiava,

il nibbio non emetteva il suo grido.

Il leone non colpiva a morte,

lo sciacallo non rapiva gli agnelli…

L’occhio malato non diceva: io sono un occhio malato,

il capo malato non diceva: io sono un capo malato…

L’ispettore dei canali non ancora comandava di dragare,

il sorvegliante non ancora si aggirava nel suo distretto.

Il potente non imponeva lavori gravosi,

nel distretto della città non risuonavano grida di lamento »

(G. RINALDI, Il mito sumerico di « Enki e Ninhursag in Dilmum », e Gen. 2-3, Scuola Catt. 76 (1948) 36-50. — M. WITZEL, Texte zum Studium Sumerischer Tempel und Kultzentren, Roma, 1932, 9-11).

Precisamente queste espressioni del poema sumerico En-eba-am possono indurre il lettore a credere che vi si tratti di una specie di paradiso terrestre. In realtà il senso di questo e simili testi è ben diverso: è la quiete uniforme e sterile di una vita senza civiltà. È segnalata l’assenza di alcuni inconvenienti della civiltà, per descrivere la non esistenza della civiltà stessa, la quale dal contesto (Cfr. il poema sulla fondazione di Eridu, ibid. p. 38 ss.) è presentata come dono divino e sommamente desiderabile. Dunque nessuna vera età dell’oro è segnalata nei documenti più vicini alla letteratura israelitica. Quanto alla seconda delle domande surriferite « Perché è così?» il pensiero babilonese non ha che una risposta: «Gli dei hanno voluto così: il destino dell’uomo è ineluttabile ». Una nebbia triste di pessimismo avvolge tutta la concezione babilonese sul destino dell’uomo.C’è tutto un poema che sembra destinato principalmente a tradurre in forma plastica l’aspirazione dell’uomo verso una vita che non finisca mai, è il famoso poema di Ghilgamesh. Questo eroe, considerato dalla tradizione sumerica come quinto re di Uruk dopo il diluvio, compie grandi imprese con l’amico Enkidu. Senonchè Enkidu viene a morire. Di fronte al cadavere dell’ amico, Ghilgamesh non sa capacitarsi dell’ ineluttabilità della morte:

« Enkidu, l’amico mio che amavo, è diventato simile al fango

ed io, non mi coricherò come lui? Non mi rialzerò mai più? ».

Ed allora intraprende un lungo viaggio, per dove nessun mortale è mai passato, in cerca del suo antenato Ut-napishtim, il Noè babilonese, che dopo il diluvio era stato divinizzato. La moglie di Ut-napishtim, da lui finalmente trovato, intercede per il povero Ghilgamesh, ma si sente rispondere:

« E’ cattiva l’umanità, ti farà del male! ».

Tuttavia, Ut-napishtim prima di congedare l’eroe gli indica la « pianta della vita » che quello riesce a strappare dal fondo del mare:

« Ghilgamesh disse a Ur-shanabi, il battelliere:

Ur-shanabi, questa pianta è una pianta famosa,

grazie a cui l’uomo riottiene il suo soffio di vita.

L a porterò entro le mura di Uruk e ne farò mangiare,

distribuirò la pianta!

Il suo nome è: il vecchio diventa giovane;

Io ne mangerò e ritornerò allo stato della mia giovinezza… ».

Ma la gioia dell’eroe dura poco: durante il viaggio di ritorno

« Ghilgamesh vide un pozzo la cui acqua era fresca;

vi discese dentro e si lavò con l’acqua.

Un serpente sentì l’odore della pianta,

… salì e portò via la pianta…

Allora Ghilgamesh si siede e piange

sulla sua guancia scorrono le sue lacrime… » .

La conclusione è questa: la vita è irraggiungibile, se neppure Ghilgamesh ha potuto riuscire. E in un frammento del poema scritto al tempo di Hammurapi (sec. XVIII a. C.) troviamo tale conclusione espressa in termini assai espliciti: è il risultato delle indagini filosofiche dell’antico Oriente:

« O Ghilgamesh, perchè corri da ogni parte?

La vita che tu cerchi, non la troverai!

Quando gli Dei crearono l’umanità,

la morte posero per l’umanità,

la vita ritennero nelle loro mani.

Tu, o Ghilgamesh, riempi il tuo ventre,

giorno e notte rallegrati, tu;

ogni giorno organizza una festa.

Considera il piccolo che ti afferra la mano,

la sposa si rallegri sul tuo cuore… »

(Cit. dal P. DHORME, Choix de textes religieux assyro-babyloniens, Paris, 1907, 183-316. Cfr. J . B. PRITCHARD, O.C, p. 96 e p. 90).

Questa specie di epicureismo ha tuttavia un fondo di grande amarezza, che appare anche da un’altra composizione babilonese: il mito di Adapa (P. DHORME, O. C, p. 148-157. J. B. PRITCHARD, O. C, pp. 101-102. Si noti che Adapa non è presentato dal mito come il primo uomo: non ha niente a che fare con Adamo.). Adapa è intimo del dio Ea, il quale:

« A lui la scienza gli diede, la vita eterna non gli diede! ».

Adapa tuttavia, come Ghilgamesh, fu in procinto di avere anche la vita eterna, ma non vi riuscì. Infatti, avendo in un momento di dispetto rotte le ali al vento del sud, fu chiamato dal dio supremo Anu a rendere conto del suo operato. Ea si preoccupa del suo protetto e, temendo qualche sinistro, gli consiglia:

« Un cibo di morte ti presenteranno — non mangiare!

Acqua di morte ti presenteranno — non bere! ».

Senonchè Anu pensò che Adapa sapeva troppe cose per lasciarlo tra gli uomini:

« Perché Ea a un uomo non puro le cose del cielo e della terra ha rivelato?

un cuore ( = mente) grande gli ha posto, un nome gli ha fatto!

Noi che cosa gli faremo?

Il cibo della vita offritegli — e che egli ne mangi!

Il cibo della vita gli offrirono — ed egli non ne mangiò,

l’acqua della vita gli offrirono — ed egli non bevve… ».

Anu si meraviglia molto della cosa, ma la triste conclusione è inesorabile:

« Prendetelo e conducetelo nella sua terra ».

Notiamo che parte di questo mito fu trovato in Egitto, con le famose tavolette di El-‘Amarna (sec. XV-XIV) (Cfr. G. RICCIOTTI, La storia d’Israele, voi. I , paragr. 43-57). Ciò significa che tali concezioni non erano solo il frutto di speculazioni ristrette alla cerchia dei sapienti babilonesi, ma circa il tempo di Mosè si erano già diffuse in tutto l’Oriente, insieme con gli altri elementi culturali della civiltà mesopotamica. Al nostro scopo è interessante rilevare come in questi racconti a sfondo filosofico il pensiero non sia espresso in termini astratti, ma attraverso un linguaggio concreto, che richiama cose notissime nell’ambiente in cui vennero alla luce questi scritti: cioè: — la pianta della vita, simbolo dell’irraggiungibile vita eterna.

— la scienza in senso magico, che pure non giova a colmare l’aspirazione umana.

— il serpente, forse più come genio che presiede alla vita e alla vegetazione, che non come essere malefico.

La pianta della vita, come « simbolo letterario », appare anche al di fuori di un contesto filosofico, come puro modo di dire. Così in una lettera assira leggiamo: « Noi eravamo dei cani morti, ma il re mio signore ci ha reso la vita presentando alle nostre nari la pianta della vita » (Altri esempi nell’artic. di J . PLESSIS, Babylon et la Bible, Suppl. au Dict. de la Bible, t. I, c. 738.). Asarhaddon re dell’Assiria dice: « il mio regno sarà salutifero per la carne degli uomini quanto la pianta di vita » (Cfr. A. DEIMEL, Genesis, cc. 2-3 monumentis assyriis comparata, Verbum Domini 4 (1924) 285). In un inno religioso Marduk è celebrato come « (il donatore) della pianta di vita » (Cfr. A. DEIMEL, ibidem.).P. Deimel enumera almeno dieci raffigurazioni in ceramica o pietra di tale pianta, con accanto una divinità custode (Cfr. A. DEIMEL, O. C, p. 386-387).In conclusione nell’ambiente culturale più vicino al mondo biblico troviamo una filosofia dei destini umani, concretata in esemplificazioni atte ad inculcare l’idea dell’assoluta inanità delle aspirazioni umane ad una sorte migliore. È una visione nettamente pessimistica e sconfortata, dalla quale esula il minimo accenno ad una speranza in un avvenire migliore, quella speranza che forma invece l’epilogo di Genesi III. Così l’umano soffrire, che si condensa nella morte, oltre non avere rimedio, neanche ha una spiegazione plausibile. Non si parla affatto di una colpa dell’uomo e di un meritato castigo, sicché tutta la responsabilità della triste sorte dell’umanità ricade sugli dei. Per questo certi passi del poema di Ghilgamesh costituiscono un atto di accusa contro la divinità, per il suo comportamento nei riguardi dell’uomo.Una filosofia dunque oltreché pessimistica, oltremodo assurda e mostruosa, che il racconto biblico del peccato originale pone proprio (coincidenza casuale?) sulle labbra del « serpente » seduttore, il quale insinua precisamente alla prima donna il sospetto della gelosia e della malevolenza di Dio verso gli uomini.E fu proprio questo dubbio intorno all’amore del Signore, il primo passo verso la caduta che segnò la rovina dell’umanità. La narrazione biblica del peccato originale ci appare ora sotto una nuova luce. Anche qui c’è una filosofia sul destino umano, ma tale da risultare come un’apologia di Dio. È dunque ispirata da una concezione di Dio totalmente nuova: Dio saggio e buono non è la causa della triste sorte dell’umanità. La causa è un fatto colpevole da parte dell’uomo. Anche questa connessione con un fatto, tale da rispondere alla domanda: « Fu sempre così? » — estranea alla problematica babilonese — e all’altra: «Perché è così?», e tale da costituire il presupposto dell’attuale condizione umana, è totalmente nuova e proviene dalla Rivelazione.

D. — IL GENERE LETTERARIO DI GENESI III

40. — Dopo quanto si è detto nei paragrafi precedenti, il genere letterario di Genesi III è ormai, nelle sue linee essenziali, sufficientemente definito. – L’intenzione del narratore biblico e quindi di Dio ispiratore, nello stendere il racconto del primo peccato, è storico-dottrinale. Altrettanti fatti storici sono dunque: lo stato privilegiato dei protoparenti, elevati all’amicizia e all’intimità con Dio, atti all’immortalità corporale, immuni dalla concupiscenza e dal dolore, dotati di scienza sufficiente; la prova della loro sudditanza a Dio; la tentazione di satana; la caduta e la perdita dei privilegi; la promessa della futura redenzione; la trasmissione all’intera umanità della triste eredità.

– Questo patrimonio storico dottrinale è, come si è detto (cfr. paragr. 34), troppo chiaramente disegnato dal testo sacro e ancor più chiaramente illustrato dal Magistero della Chiesa, perché sia possibile avanzare dubbi. Ciò che è consentito porre in prudente discussione ed indagare ulteriormente, non è dunque il genere letterario del nucleo centrale del racconto sacro, ma soltanto il significato preciso dei singoli elementi della presentazione plastica e cioè: l’albero della vita, l’albero della scienza del bene e del male, il serpente tentatore, il giardino-paradiso. – La giustificazione autorevole di questo metodo esegetico e di questa distinzione, la ritroviamo nelle seguenti dichiarazioni del Segretario della P. C. B. nella lettera al Card. Suhard: « … i primi undici capitoli della Genesi … riferiscono in un linguaggio semplice e figurato, adattato alle intelligenze di un’umanità meno progredita, le verità fondamentali presupposte all’economia della salvezza e in pari tempo la descrizione popolare delle origini del genere umano e del popolo eletto » . Lo stesso pensiero è chiarito, con un richiamo alla prudenza nell’applicazione, nell’Enciclica « Humani generis » (cfr. paragr. 49). Si tratta dunque nel nostro caso di precisare la portata « del linguaggio semplice e figurato, adattato alle intelligenze di un’umanità meno progredita », con cui l’autore sacro ha narrato il fatto storico del peccato originale.

Al riguardo osserviamo:

a) Il racconto biblico, interpretato a dovere, nulla contiene di fiabesco o d’infantile e quindi di storicamente inaccettabile. – I dettagli della narrazione vanno intesi cioè, com’è logico, alla luce delle idee dottrinali che effettivamente vogliono esprimere e che formano la trama più profonda del grande dramma. Né l’albero della vita, né quello della scienza, né il serpente tentatore, né il giardino-paradiso risultano per se, come tosto vedremo, elementi inverosimili, tali da esigere che dal senso letterale-proprio si passi a quello metaforico.

b) Le ragioni che potrebbero suggerire questo passaggio sono soltanto di carattere letterario e riguardano soltanto la forma e non il contenuto. Cioè in concreto si tratta di constatare eventuali affinità tra le espressioni (tra i concetti già abbiamo rilevato non ne esistono) usate nel testo sacro e analoghe formule, fatti o idee correnti nell’antico Oriente, capaci di suggerire all’agiografo un racconto e un linguaggio figurato di quel tipo.

c) Al punto attuale delle ricerche non si dispone ancora di dati sufficienti, tali da permettere conclusioni solidamente probabili sul preciso genere letterario dei dettagli di Genesi III, quali ad es. invece risultano per il racconto della creazione di Genesi Passiamo ora in rassegna i singoli particolari.

1. — L’albero della vita

41. — Nulla, ripetiamo, per sé si oppone alla piena storicità di questo dettaglio. Infatti, come Dio ha dato al cibo comune la possibilità di reintegrare nell’uomo le energie, sopperendo alla consunzione quotidiana dell’organismo umano, nulla vieta di pensare che l’onnipotenza divina abbia conferito al frutto di una pianta una virtù preternaturale, sì da renderlo un cibo capace di strappare perennemente l’uomo alla morte. Nessuna assurdità in tutto questo, sicché un atteggiamento negativo sarebbe un preconcetto aprioristico. Non ha Dio, in un altro ordine di realtà, s’intende, affidato ad elementi altrettanto modesti e caduchi (vino, pane, acqua, olio), il potere di conferire nel rito sacramentale, addirittura la vita eterna? Ci sono tuttavia indizi di carattere letterario che suggeriscono una certa cautela nell’interpretazione strettamente letterale del testo sacro. Dai rilievi del paragr. 39 risulta che nell’antico Oriente l’idea di immortalità è spesso, con sfumature diverse, concretamente tradotta coll’espressione: pianta di vita, erba di vita. – Non è impossibile che questa concezione dell’antico Oriente abbia suggerito all’autore ispirato di tradurre in un simbolo letterario strutturato con elementi a tutti noti, un fatto storico ed un concetto a tutti ignoto: poter vivere sempre! Mentre Ghilgamesh insegue inutilmente la pianta di vita (e ciò significa: questa è una speranza chimerica, perché gli dei non vogliono che gli uomini abbiano questo dono) il primo uomo ebbe a sua disposizione il famoso albero della vita; ciò che significa: Dio non fu geloso dell’immortalità, ha dato all’uomo di poter vivere sempre (L’immagine dell’albero della vita ritorna ancora come simbolo letterario nei seguenti passi biblici: Prov. III, 18; XI, 3 0; XIII, 12; XV, 4; Apoc. II, 7 ; XXII, 2 ; XXII, 14).Ma dopo il peccato il grande dono ritorna ancora una volta una chimera : « i Cherubini e la fiamma della spada guizzante » (v. 24) precludono ormai per sempre l’accesso alla pianta della vita. Stando al tenore del testo originale, non sembra si debba pensare a Cherubini armati di spada, ma piuttosto a due soggetti ben distinti e autonomi: i Cherubini da una parte e « la fiamma della spada » dall’altra.L’ambiente mesopotamico offre riscontri assai significativi. I Cherubini richiamano, nel nome e nel compito, i kàribu assirobabilonesi, che, raffigurati come leoni o tori alati con testa umana, venivano posti come custodi all’ingresso dei palazzi, scolpiti su colossali blocchi di pietra (Cfr. DHORME et VINCENT, Lei Cherubins, Revue Bibl. 35 (1936) 328 ss., 481 ss.). Un testo pubblicato da Thureau-Dangin sembra portare un po’ di luce anche per l’identificazione « della fiamma della spada guizzante » , rimasta per lungo tempo un elemento piuttosto enigmatico. Circa il 1100 il re Tiglat-Pileser I dichiara riguardo a una città conquistata: « ho fatto un fulmine di bronzo e ho scritto sopra il bottino conquistato coll’aiuto del mio dio Assur; vi ho pure scritto sopra la proibizione di occupare la città e di ricostruirla. In quel luogo ho edificato una casa e vi ho posto sopra il fulmine di bronzo » (Cfr. F. CEUPPENS, Quæstiones selectæ ex historia primaeva, II ediz. Torino 1948, p. 225.). – Veramente, come nota Heinisch (Das Buch Genesis, Bonn 1930, p. 131), il testo biblico non parla di « fulmine » , ma di « spada »; ci sembra però che tra i due oggetti sussista una notevole affinità. Date queste analogie, il P. Ceuppens (O. c., p. 226) ammette in forma dubitativa che, sia i Cherubini, sia « la fiamma della spada », possano considerarsi dei simboli, introdotti ad indicare in forma plastica la proibizione di accedere al paradiso e all’albero della vita.

6.L’albero della scienza del bene e del male

42. — Nel paragr. 35 abbiamo concluso che « scienza del bene e del male » è sinonimo di « onniscienza » È dunque chiaro l’obiettivo della tentazione e del peccato dei progenitori. Anche in questo caso, di per sé, nessuna ripugnanza che l’oggetto della fede e della soggezione a Dio si potesse concretare nell’astensione da un frutto, il quale è chiamato « della scienza del bene e del male » in quanto il non mangiarne o il mangiarne implica da parte dell’uomo l’accettazione dei propri limiti, o il tentativo di superarli. Anzi, quanto più è arbitrario l’atto di ossequio richiesto da Dio, tanto più è effetto e indizio di fede l’ossequio stesso. Notiamo tuttavia come la relazione così concepita tra la « scienza » e « l’albero » risulti piuttosto indiretta. L’albero si dovrebbe in tal caso denominare più propriamente « dell’ubbidienza », mentre l’autore, con ogni insistenza, lo presenta in rapporto diretto con la «scienza del bene e del male». Trattandosi di due oggetti piuttosto eterogenei: un albero reale e la scienza, non è facile pensarne in concreto la mutua relazione diretta, sicché l’interpretazione metaforica sembra presentarsi come più ovvia: « l’albero della scienza » altro non sarebbe che la scienza stessa sotto figura di un albero. Tanto più che in realtà la manducazione del frutto non diede la scienza ambita. Dio stesso constata amaramente con ironia, che, dato il contesto, è ispirata solo da compassione: « Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto al conoscere il bene e il male » (III, 23) (nota 37). Riconosciamo tuttavia che non sempre l’interpretazione più ovvia e comoda è anche la più vera e plausibile. Le ragioni di carattere letterario, tali da insinuare il senso metaforico, sono nel nostro caso assai scarse. Infatti « l’albero della conoscenza del bene e del male » pare non abbia riscontro nella letteratura mesopotamica. Si nomina tuttavia « l’albero della verità »: una divinità sumerica porta il nome di Ningish-zi-da che significa: « signore dell’albero della verità » (38). Ora non è impossibile che l’autore ispirato, pur non disponendo di alcun prototipo mesopotamico, avendo sfruttato l’immagine di un albero per concretizzare il concetto di vita eterna, per analogia e simmetria, non abbia trovato di meglio che prendere un altro albero per incarnarvi il concetto di una scienza divina. – Ancora una volta il testo sacro, con un linguaggio accessibile ai contemporanei, inculcherebbe un concetto completamente nuovo: che mentre Adapa ebbe dal suo dio protettore la scienza dei segreti del cielo, ma non la vita eterna, il primo uomo, favorito di quest’ultimo privilegio, doveva riconoscere i propri limiti, rendendo a Dio il tributo di un atto di fede.

(37) J. COPPENS, A propos d’une nouvelle version de Gen. III, 22, Ephem. Theol. Lovan. 24 (1948) 413-429; propone una nuova traduzione di questo verso: « Voici qu’Adam, comme chacun à naitre de lui, apprendra à connaitre le bien et le mal ». L’intento di Coppens, come risulta dalla citata monografia: La connaissance du bien e du mal, è di ovviare ad una difficoltà capitale contro la sua interpretazione sessuale del peccato originale; ma la nuova traduzione del v. 22 non sembra filologicamente plausibile (cfr. R . DEVAUX, Revue Bibl. 56 (1949) 303).

(38) Cfr. P. DHORME, L’arbre de la viriti et l’arbre de la vie, Revue Bibl. 7

  1. — Il serpente tentatore
  2. — Il serpente di Genesi III non è, come si è detto, un animale parlante (ciò che sarebbe inverosimile e fiabesco), ma è il Demonio. Che il Demonio, essere spirituale, per mettersi in comunicazione con l’uomo, si serva di elementi sensibili, è più che naturale. Satana poté o invasare un serpente reale e usarne come strumento o maschera, ovvero produrre nella fantasia, o sotto gli occhi della donna, un’immagine fantomatica di serpente. – Qualora rifiutassimo la verosimiglianza di questo procedimento, dovremmo pure rifiutare in blocco tutte le manifestazioni demoniache sensibili, solidamente documentate in molti casi, p. e. nelle vite dei Santi. Si pensi alle infestazioni che afflissero per tanti anni il S. Curato d’Ars. Anche se nell’Antico Oriente il serpente non figura mai come seduttore dell’uomo e istigatore alla colpa, tuttavia frequentemente è messo in relazione con la vita e la fecondità, che è considerata come suo dominio. Anche presso i Cananei, i Fenici, gli Egiziani, gli stessi Greci ha questa funzione specifica (39).

Come si è visto al paragr. 39, è precisamente un serpente a rapire all’incauto Ghilgamesh l’erba della vita. Ora nel racconto biblico ha in parte un compito analogo: il serpente strappa ai progenitori l’immortalità. Non solo in Genesi III s’insiste su questo rapporto serpente-morte, ma nella Sapienza XII,24 si pone in evidenza che « per l’invidia del Diavolo (serpente) la morte è entrata nel mondo ». – Ancora una volta, non sembra impossibile che gli elementi ricordati abbiano suggerito all’autore sacro di servirsi di un simbolo noto per illustrare il concetto nuovo: che l’immortalità è stata sottratta all’uomo da un essere malefico, nemico di Dio e dell’uomo, presentato come « serpente », per rendere più accessibile, con la debita cautela (cfr. paragr. 36), la narrazione ai suoi contemporanei (nota 40).

(39) [Cfr. K. GALLING, Biblisches Reallexikon, p. 458 ss.; J. COPPENS, La connaissance du bien et du mal et le péché du paradis, Louvain 1948, p. 92 – 117 con ampia documentazione letteraria ed archeologica (non sempre però del tutto

pertinente alla tesi dell’autore sul carattere sessuale del primo peccato) e ricca bibliografia; P. HEINISCH, Problemi di storia primordiale biblica, Brescia 1950, 113.]

(40) Per il decreto della P. C. B. sul serpente cfr. paragr. 49 nota 42. pp. 112-

 

  1. — Il giardino-paradiso
  2. — In Genesi II,8-14 si ha la descrizione e l’ubicazione del Paradiso Terrestre. Esso si trova in Eden ed è attraversato da un corso d’acqua, dal quale nascono quattro fiumi, due a noi noti: Tigri ed Eufrate, due ignoti: Phison e Gehon. Troppo lungo, per non dire impossibile, sarebbe passare in rassegna le diverse interpretazioni di questi versi: basti ricordare che il Paradiso Terrestre dall’estremo Oriente (Coppens) lo si è trasferito al polo Nord (!) (Warren-Gruhn) o addirittura fuori della

terra (Ungnad) (Cfr. P. HEINISCH, O. C, p. 76). La questione al momento non è solubile e forse mai lo sarà neanche in avvenire.Che l’uomo in uno stadio assolutamente primitivo di civiltà abbia soggiornato in un giardino delizioso non è affatto inverosimile. Tuttavia si potrebbe rilevare che l’autore sacro, e ancor più la Tradizione Cattolica, considera il giardino come un paradiso. Ora è chiaro che in concreto un giardino come tale è soltanto un coefficiente modesto di felicità e che potrebbe considerarsi più agevolmente con la Tradizione come somma di tutti gli elementi capaci di far l’uomo felice, qualora lo si pensasse anche come un simbolo. Allo stesso modo in cui nella Apocalisse XXI ci si descrive la Gerusalemme celeste con muri delle più svariate pietre preziose, per indicare simbolicamente la felicità degli eletti, la quale attinge indubbiamente a fattori ben più nobili. Nella letteratura mesopotamica, inoltre, anche se non vi è traccia di un Paradiso Terrestre per breve tempo aperto all’uomo, il regno di Siduri è tuttavia pensato precisamente come una regione con piante di pietre preziose che portano frutti « belli a vedersi e magnifici a considerarsi » (cfr. le stesse espressioni in Genesi II).Tutto questo diciamo, non per mettere in dubbio la realtà del giardino-paradiso (dato che i progenitori dovettero ben soggiornare sulla terra e godere com’era naturale della delizia della vegetazione), ma per rilevare che probabilmente nella mente dell’agiografo il giardino è anche sfruttato simbolicamente, per inculcare l’idea della perfetta felicità dei primi uomini.

Conclusione

Come si vede, presentemente l’identificazione del genere letterario dei particolari descrittivi del racconto biblico del peccato originale si basa (già è stato rilevato al paragr. 33), soltanto su congetture. Il complesso narrativo però è congegnato in tal modo che, constatato il valore metaforico di un elemento (p. es. albero della vita) resta in gran parte decisa anche la interpretazione degli altri particolari. Le osservazioni che precedono vogliono soltanto essere indicative del metodo da seguire nella ricerca, qualora un’ulteriore indagine sul testo e contesto sacro e le letterature dell’antico Oriente fornissero più abbondante materiale di studio. La congettura — come ognuno ha potuto constatare — verte sempre e soltanto su elementi di secondaria importanza e non sfiora neanche da lontano il nucleo storico-dottrinale, già sopra illustrato e precisato dal decreto della P.C.B. (cfr. paragr. 49). Avremmo così un genere letterario particolare, nel quale la realtà storica è presentata sotto forma di una narrazione intessuta mediante simboli letterari, secondo quanto esponemmo al par. 16 ed in armonia con i fatti accertati nei paragrafi 13-15. Ci piace ancora una volta richiamare il luminoso contrasto tra la semplicità popolare del racconto, probabilmente influenzato nell’espressione da elementi dell’ambiente orientale, e lo splendido patrimonio di idee religiose che non hanno riscontro in nessuna letteratura e che l’autore biblico non può aver attinto se non dalla divina rivelazione.

IL PECCATO ORIGINALE (2)

2. — Motivo e modalità della prova e della caduta

35. — È Dio che ha posto i progenitori in uno stato privilegiato. Tuttavia è consentaneo alla natura intelligente e libera che essa sia messa a parte dei disegni di Dio a suo riguardo e sia chiamata a sottoscriverli. I progenitori furono così chiamati a prestare il loro contributo alla propria felicità, mediante una decisione libera. Perché un atto sia meritorio e veramente libero si richiede che non sia necessitato dalla conoscenza diretta del sommo bene che è Dio. Se i progenitori avessero conosciuto direttamente l’essenza divina, la loro volontà avrebbe aderito a Dio necessariamente e quindi senza esercizio della libertà e senza alcun merito personale. Dobbiamo perciò ritenere che essi conoscessero Dio indirettamente, com’è proprio dell’uomo, finché resta sulla terra (in statu viæ). – Certo non conoscevano tutto né su Dio, né sul proprio destino, del quale, in particolare come sopra si è detto, erano informati solo tramite la rivelazione divina trattandosi di una verità assolutamente super razionale. I progenitori cioè dovevano credere. – Ora, precisamente nell’atto di fede sussiste più che mai per l’essere intelligente l’esercizio della libertà e quindi il merito, dato che egli resta nella condizione di poter accettare o rifiutare una verità in sè oscura, ma chiaramente insegnata da Dio, da credersi cioè solo sull’autorità di Dio rivelante. Così appunto ci appare la prova dei progenitori nel racconto biblico. Essi devono credere ad una cosa per nulla evidente, che cioè la loro immortalità dipende dall’astensione da un qualche cosa che Dio ha loro vietato. Ed appunto questo qualche cosa si chiama « albero della conoscenza del bene e del male ». Dio, mentre non è stato geloso del dono dell’immortalità, ha invece interdetto all’uomo la conoscenza « del bene e del male ». Pare fuori dubbio che in questo contesto « bene e male » significhi « tutto », « qualunque cosa », « cose di ogni genere ». Conoscenza del bene e del male è la conoscenza universale. – Infatti « bene e male » significa una totalità con l’idea di indeterminatezza e di varietà. « Bene e male » sono due termini estremi, come « grande e piccolo », « trattenuto e lasciato » (Deuteron. XXXII,36; III Re XIV,10; XXI,21), che, usati l’uno accanto all’altro, indicano tutta la gamma di cose possibili tra l’uno e l’altro estremo. Così si spiega la locuzione « dal bene fino al male » (G. LAMBERT, Lier-delier: l’expression de la totalité par l’oppositwn de deux contraires, Vivre et penser 3.e Serie, Paris 1945, p. 91-103, documenta quest’uso letterario, oltre che nella Bibbia, anche presso i tragici greci). Ecco alcuni esempi: « Risposero Labano e Batuele e dissero: Da Jahvè è uscita la cosa, non possiamo parlare a te male o bene » (Genesi XXIV, 50). «Guardati dal parlare a Giacobbe dal bene fino al male» (Gen. XXXI, 24. 29). – « E non parlò Assalonne con Amnon dal bene fino al male, poiché Assalonne odiava Amnon » (2 Samuele XIII,22). Queste espressioni sono tutte negative e le parole « bene e male » si devono tradurre di conseguenza con « nulla » o qualche cosa di simile. – Un esempio dell’uso di « bene e male » in frase affermativa e per di più con un riferimento ad esseri superiori come in Genesi III, si trova in 2 Samuele XIV,17. La donna di Teqoa parla a Davide in questi termini (testo ebraico): « Come un Angelo di Dio così è il mio signore il re, per intendere il bene e il male ». Con questo complimento — a quanto pare dal contesto — la donna voleva esprimere la sua convinzione che il re, data la sua intelligenza superiore, avrebbe compreso che la sua sentenza data in favore del figlio della vedova, si doveva applicare anche al figlio del re. Assalonne. Infatti subito dopo, quando il re dimostra di aver capito che la donna aveva agito per istigazione di Joab, essa ripete il complimento in forma diversa: « ma il mio signore è sapiente come la sapienza di un Angelo di Dio, per conoscere tutto quello che vi è sulla terra » (ibid. v. 20). Ognuno vede che ciò che prima era chiamato « bene e male », ora è reso con un’espressione di totalità: « tutto quello che vi è sulla terra » (Questo senso della coppia « bene e male » si adatta bene a tutti gli altri passi dove occorre (Numeri XXIV, 13; Deuter. I, 3 9 ; 2 Samuele XIX, 35; Ecclesiaste XII,14) sebbene non siano impossibili altre interpretazioni. Citiamo come degna di nota e di meditazione l’interpretazione di R. DEVAUX in Revue Bibl. 56 (1949) 300 – 308, nella recensione dell’opera di J . Coppens da noi citata più avanti. Egli critica l’interpretazione sessuale della frase « conoscere il bene e il male » (solo Deuter. I, 39 e 2 Sam. XIX, 35 potrebbero avere, ma non necessariamente, questo senso) e dà la propria spiegazione: « La conoscenza del bene e del male mi sembra essere la facoltà di decidere personalmente ciò che è bene e ciò che è male e di agire secondo questa decisione. Questo potere è riservato a Dio; l’uomo non l’esercitava prima del peccato e lo esercita mediante il peccato, essendo essenziale ad ogni peccato una inversione del bene e del male ». Spiegazione, come si vede, profonda e seducente. Se non che l’espressione biblica « si aprirebbero i vostri occhi » (Genesi III,5) ci invita a cercare nel campo conoscitivo più che in quello volitivo (decidere e agire) l’esercizio di questa conoscenza del bene e del male. Anche il confronto con le concezioni soggiacenti al racconto di Adapa (scienza divina, vita eterna) favorisce la nostra interpretazione). – Anche in Genesi 3 si tratta dunque di una conoscenza universale, prerogativa divina, e questo concetto è contenuto esplicitamente nella tentazione: «…si aprirebbero i vostri occhi, e diventereste come Dio, conoscitori del bene e del male ». La limitazione imposta da Dio è nel campo della conoscenza. E la tentazione si dirige primariamente contro la fede. Alla dichiarazione della donna: «Dio ha detto: non mangiatene e non toccatelo, per non doverne morire » (v. 3), il tentatore controbatte: « No, che non dovete morire ». Alla fede è strettamente legato l’amore. Noi crediamo a coloro di cui conosciamo l’amore e di cui ci fidiamo. Ed ecco la mancanza di fede generare l’orribile ipotesi: « Dio è geloso delia Sua scienza, è nemico della mia grandezza » (cfr. v. 5). Di qui la decisione: « Voglio arrivare a dispetto di Dio; sfonderò questi limiti del mio sapere, sarò simile a Dio! ». È questo il peccato dei progenitori, non di debolezza, né di sensualità. Ha in sé il carattere diabolico di colui che lo ha suggerito (S. TOMMASO, IIa IIae, q. 163 a. 1, resp. pone il peccato dei progenitori principalmente nel fatto che appetirono disordinatamente un bene spirituale). – Con pochi tratti concreti nella loro primitività e d’una profondità che tanto più stupisce quanto più ne è semplice l’espressione, l’autore ispirato ci pone dinanzi la psicologia del libero arbitrio, della tentazione e del peccato, segnando un immenso progresso della coscienza morale dell’umanità con la conquista delle idee basilari dell’etica umana. L’uomo è posto di fronte ad un bivio: o credere a Dio, fidandosi della Sua parola ed accettando da Lui la felicità, o non credere a Dio ed illudersi di raggiungere la felicità a dispetto di Dio, rivendicandosi una eccellenza indipendente da Lui. È questa seconda alternativa che l’uomo primitivo ha scelto, perdendo così la possibilità di quella effettiva somiglianza con Dio, che la Redenzione di Cristo avrebbe assicurato ancora una volta al fedele, come caratteristica del premio nel paradiso celeste. « Carissimi, siamo figli di Dio… e a lui saremo simili, perché lo vedremo com’è » (1 Giovanni III,2). Dopo questo rilievo, ci domandiamo se il peccato fu soltanto in questo atteggiamento della volontà, o se non ci fu anche qualche elemento esterno in cui si concretò la ribellione. Rinviando ai paragr. 40-44 l’analisi dei particolari descrittivi del racconto biblico, vogliamo qui sottolineare come questo eventuale fattore esterno non sembra si possa identificare con un disordine sessuale. Non vediamo cioè come sia possibile esegeticamente sostenere quell’opinione (nota 1) largamente diffusa nel popolo, indipendentemente dall’insegnamento della Chiesa, che il peccato dei progenitori sia stato l’uso del matrimonio. (nota 2)

(nota 1) (P. MARHOFER, in « Theologie und Glaube » 28 (1936) 133-162, diede una sistemazione teologica a questa opinione, supponendo che Dio, per fare notare l’importanza della generazione come strumento di trasmissione della Grazia, abbia comandato un’astensione temporanea. L’umanità sarebbe così generata in modo soprannaturalmente illegittimo, senza la grazia santificante, che avrebbe dovuto ricevere per generazione da Adamo, se questi non avesse anticipato l’uso del matrimonio. – J . COPPENS, La connaissance du Bien et du Mal et le Péché du Paradis, Bruges-Paris 1948, basandosi sulle rappresentazioni antico-orientali del serpente, suppone un peccato contro la santità del matrimonio per l’appello alle divinità della vegetazione e della fecondità, presentate dal racconto biblico mediante il loro simbolo, il serpente. Si tratta tuttavia più del modo con cui l’autore sacro ha pensato il peccato, che non della modalità del peccato dei progenitori – J. GUITTON, Le developpement des idées dans l’Ancien Testament, Aix-en-Provence, 1947, pag. 102: nel pensiero dell’autore biblico la natura della colpa aveva una relazione oscura col corpo; i progenitori dovevano essere in età adolescente e saggiamente Dio aveva comandato una riserva totale per un certo tempo. Per la confutazione della tesi di Mayrhofer cfr. J . MIKLIK, Der Fall des Menschen, Biblica 18 (1939) 387-396.)

(nota 2) (Cfr. F. ASSENSIO, Tradicion sobre un pecado sexual en el Paraiso?, Gregorianum 31 (1950) contesta precisamente l’affermazione del Coppens sull’esistenza di una Tradizione, documentata negli scritti dei Padri, sull’interpretazione sessuale del peccato originale)

Una simile interpretazione nasce da una valutazione erronea dell’attività genetica, e non concorda con quanto di essa è detto proprio in questo contesto biblico. Essa è voluta da Dio e consacrata fin dal primo istante dalla benedizione divina: « Crescete e moltiplicatevi;… per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla sua donna e i due diventeranno una sola carne » (Genesi I,28; II,25). L’abuso dell’attività sessuale, non deve gettare una luce sinistra sull’uso legittimo. Anzi è la dignità particolare dell’uso legittimo che rende tanto più ripugnante ogni abuso. D’altra parte nessun indizio vi è nel testo biblico che faccia sospettare qualche abuso dei progenitori degno di castigo. Inoltre, in nessun testo biblico l’espressione « conoscere il bene e il male » è sicuramente sinonimo di scienza sessuale. Né vediamo come satana possa presentare e i progenitori riconoscere quale caratteristica divina (« diventereste come Dio conoscitori del bene e del male ») una scienza di questo genere, dato il contesto prossimo e remoto, in cui Dio figura nettamente come unico, spirituale, trascendente. La tentazione, pur essendo menzogna, per costituire una sollecitazione al male, deve rispettare i limiti di un’aliquale verosimiglianza. –  Gli autori che recentemente hanno sostenuto trattarsi di una colpa nella sfera sessuale fanno notare l’insistenza con cui il racconto biblico accenna a fattori di quest’ordine tra le conseguenze della colpa. L’autore sacro come aveva sottolineato che prima del peccato la nudità non creava imbarazzo per i progenitori, così avverte che immediatamente dopo la colpa essi sentirono la necessità del vestito. E’ stato pure rilevato che il castigo riservato alla donna è precisamente nell’ambito della vita generativa. – Tutto questo è innegabile, ma non ci sembra legittimo dalla natura delle conseguenze, senz’altro inferire sulla natura del peccato. La ribellione degli istinti è sufficientemente spiegata dallo stato di disordine interiore indotto dall’uomo con la sua ribellione a Dio. Non è tutto questo perfettamente consentaneo alla natura umana, che cioè la carne si ribelli allo spirito, quando lo spirito si è ribellato a Dio? Del resto non mette in risalto l’autore sacro, tra le conseguenze del peccato, la morte ancor più della concupiscenza? Eppure, dalla natura di questo castigo, nulla si può ricavare per fissare i contorni dell’azione esterna, in cui si sarebbe concretata la colpa dei progenitori. Riteniamo invece più oggettiva la constatazione di un altro accostamento sintomatico: quello tra la morte e l’attività genetica. Ci sembra che l’agiografo abbia intuito e insinui nel suo racconto che la trama dolorosa ed espiatoria della storia dell’umanità decaduta sia in parte costituita dal rapporto profondo che intercorre tra morte e attività genetica, le quali sono in natura due entità biologiche complementari (nota 3). –

(nota 3) (Tra gli animali bruti l’individuo è in funzione della specie e conta in quanto veicolo per la trasmissione dei germi vitali. C’è infatti una provvidenza ferrea che regge la vita di ogni specie animale e che sembra riassumersi nella preoccupazione che i germi viventi si comunichino via via a nuovi individui e vengano così continuamente rinnovati e ringiovaniti, senza che mai venga a morire il plasma vivente formato dal loro complesso. L’animale quando ha reso alla specie il suo servizio e, in particolare, quando ha adempito al suo compito di generatore, è logico che muoia, per lasciare il posto ad altri individui. Anche nell’uomo c’è prepotente l’istinto della generazione, come c’è pure l’infierire della morte. Ma l’uomo, essendo persona, e cioè un essere irripetibile, non è esclusivamente in funzione della specie e per questo, anche quando ha dato alla specie quanto era in grado di offrire, non è legittimo sopprimerlo e la sua morte si sente come qualche cosa di stridente colle aspirazioni più profonde. Infatti, pur sussistendo dell’uomo la parte migliore, lo spirito, che attraverso la morte anzi raggiunge il suo destino definitivo, resta per la speculazione puramente razionale, l’enigma di questa scissione violenta tra anima e corpo, violenta i n quanto l’uomo è per natura sua un composto di ambedue gli elementi. A questo enigma risponde il dogma della risurrezione della carne, che c i assicura della ricomposizione a perfetta unità e della glorificazione di tutto l’uomo (cfr. S. THOMAS, Summa contra Gentes 1. 4, c. 79-81). – Notiamo inoltre come l’istinto della generazione crei nell’uomo un duplice conflitto particolarmente acuto. Se infatti l’uomo si abbandona irrazionalmente all’istinto della generazione, procreando al di fuori del retto ordine, pecca contro la dignità della propria persona: se invece al contrario sfrutta l’istinto della generazione solo per la propria soddisfazione personale, pecca contro la natura. La soluzione di questo conflitto si ha o nel celibato casto, che rappresenta la sublimazione e una affermazione eroica della personalità, ovvero nella castità coniugale, in cui la finalità dell’istinto diventa una funzione ragionevole e nobile della persona. Ma l’una e l’altra soluzione costituiscono una conquista difficile, uno stato di equilibrio perennemente instabile, impossibile senza l’aiuto della Grazia Divina).

3. — Il tentatore

36. — Un elemento dottrinale fuori discussione di Genesi 3 è pure la presenza e l’opera di Satana. In qualunque modo si voglia intendere il « serpente » (cfr. paragr. 43), esso indubbiamente va identificato con satana. Già il contesto esclude che si tratti della personificazione di una tentazione nata spontaneamente nell’uomo. Infatti Dio, mentre non maledice direttamente l’uomo (cfr. v. 17), lancia una maledizione senza riserva né rimedio contro il « serpente », appunto perché seduttore (cfr. v. 14). Dio cioè si schiera in certo modo dalla parte dell’uomo contro il « serpente », riconoscendo nella scusa addotta dalla donna: « il serpente mi ha ingannata » (v. 13), un’attenuante e supponendo perciò un responsabile distinto dai progenitori. – La tentazione è dunque qualche cosa che proviene dall’esterno, da un essere intelligente e maligno, tanto più intelligente dell’uomo da essere in grado di sedurlo, tanto più maligno, in quanto dimostra di avere un interesse particolare a suscitare nell’uomo la ribellione contro Dio e la conseguente catastrofe. Iddio inoltre dichiara aperto un lunghissimo periodo di ostilità tra il genere umano e quello stesso « serpente » che viene dunque pensato sussistere per tutto il corso della storia umana, fino ad essere totalmente sconfitto. Naturalmente si tratta di una lotta e di una vittoria morale, come di ordine morale è stato il primo intervento del «serpente» e la ribellione dell’uomo a Dio. I libri più recenti della Bibbia non esitano a identificare esplicitamente il « serpente » con Satana: « Per invidia del Diavolo la morte è entrata nel mondo » (Sapienza II,24); « Voi avete per padre il Diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Fin dal principio egli è stato omicida e non restò fermo nella verità, perché in lui non è verità » (Giovanni VIII,44) ; « il Dragone, il Serpente antico, che è il Diavolo e Satana » (Apocalisse XII, 9,20,2). – Se l’antichissimo racconto della Genesi si esprime su questa identificazione in modo piuttosto velato, è soltanto per evitare uno scoglio pericolosissimo per la primitiva mentalità ebraica, l’introduzione cioè di un essere superiore, intelligente, capace di rovinare i disegni di Jahvè. Era troppo facile che fosse considerato un’altra divinità, capace di far concorrenza a Jahvè. Per la stessa ragione nel racconto della creazione non si parla di esseri angelici. Essi sono introdotti poi alla chetichella, senza presentazione, né spiegazione, in circostanze tali da evitare ogni equivoco. Il monoteismo è così salvaguardato. Il richiamo all’esistenza e all’azione di satana, presentato come causa prima della rovina dell’umanità, costituisce inoltre uno dei principali elementi risolutori del problema dell’origine del male, sul quale s’innesta spontaneamente una delle più ardue difficoltà contro il monoteismo stesso. Come mai da un unico Principio, buono per essenza e quindi fonte di ogni bene, può derivare il male, il cui dominio nel mondo è pure tanto vasto? Se il male non è e non può essere da Dio, come spiegarne l’esistenza? Il dualismo rappresentò sempre una delle più seducenti tentazioni metafisico-religiose, appunto come risposta ovvia e, a prima vista, soddisfacente a sì grave interrogativo. – Il racconto biblico, con profondità e originalità senza precedenti, non soltanto esclude da Dio una qualsiasi responsabilità per l’origine del male, ma ci presenta, oltre l’uomo, un altro essere libero e per natura sua peccabile, che, levatosi contro Dio, rende comprensibile non solo l’origine del male, ma anche le gigantesche sue proporzioni. Non ha forse il male proporzioni sovrumane? – Unico, dunque, Dio e infinitamente buono; colpevole, ma in parte scusabile, l’uomo come qualsiasi vittima; perverso satana, nemico di Dio e dell’uomo, ma soggetto ad ambedue nella lotta e soprattutto nella sconfitta finale (cfr. v. 15). Il male cessa così di essere una difficoltà metafisica nell’ambito degli attributi divini, e si riduce ad un mistero di ordine psicologico: coma mai l’essere libero, pur essendo peccabile, diventa di fatto peccatore, operando così coscientemente la propria rovina? In altri termini è il mistero del peccato, il quale però s’illumina sufficientemente tenuto conto della natura stessa del libero arbitrio dell’uomo, e soprattutto di satana.

4. — Propagazione della colpa originale

37. — L’antico autore ispirato presenta l’intero genere umano soggetto alla morte, al dissidio interiore e al dolore, per il fatto di essere discendente da un capostipite ribelle al suo Creatore. S. Paolo (Romani V,12) e la definizione del Conc. Tridentino (v. nota 12) parlano non solo di trasmissione delle conseguenze del peccato, ma del peccato stesso che, come precisa l’Humani generis: « commesso da Adamo individualmente e personalmente… trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio » (Acta Apost. Sedis 42 (1950) 576; Civiltà Catt. 101 (1950) 471).

(nota 12) Sessione V, Can. I e II, DENZINGER, 788-789: Can. I. « Se alcuno non professa che il primo uomo Adamo, avendo trasgredito il comandamento di Dio nel paradiso, subito perdette la santità e la giustizia nella quale era stato costituito, e per l’offesa di tale prevaricazione incorse l’ira e l’indignazione di Dio e perciò la morte, che Dio gli aveva prima minacciata, e con la morte la prigionia sotto il potere di colui che poi ebbe l’impero della morte, cioè del diavolo, e che tutto Adamo per l’offesa di quella prevaricazione fu mutato in peggio quanto al corpo e quanto all’anima, sia anatema ». – Can. II. « Se qualcuno asserisce che la prevaricazione di Adamo abbia nociuto solo a lui e non alla sua progenie, e che la santità e la giustizia ricevuta da Dio e poi perduta, la perdette solo per sé e non anche per noi; o che Adamo inquinato per il peccato di disobbedienza, abbia trasfuso in tutto il genere umano solo la morte e le penalità del corpo, e non anche il peccato che è morte dell’anima, sia anatema, poiché contraddice all’Apostolo che dice: Per un sol uomo entrò il peccato nel mondo, ecc. » (Rom. V, 12)).

Ma perché la colpa dei protoparenti diventa la colpa di tutti? L’antico israelita il quale sentiva fortemente la solidarietà anche morale tra i congiunti per vincolo di sangue, non era assillato da questo problema, dimostrando così d’intuire una realtà che il nostro individualismo può discutere, ma non distruggere: l’interdipendenza strettissima cioè degli individui nel loro essere fisico e psichico. La nostra personalità è il punto di incontro d’infiniti raggi di influenza, che vanno dalla volontà dei nostri genitori, fino alle radiazioni cosmiche; sicché, è per l’incalcolabile risultanza di innumerevoli cause, che noi siamo quel che siamo, pure nell’inconfondibile ed irripetibile unità della persona umana. – Tra queste cause, ci dice la Bibbia, c’è anche il peccato del nostro più antico antenato. – Dio avrebbe potuto farci come monadi assolutamente chiuse ad ogni influsso estraneo. Ma allora non saremmo uomini, saremmo esseri d’altra struttura. La nostra struttura è invece di essere centri d’interferenza personalizzati da un’anima immortale. – Il concetto cattolico di Chiesa potrà meglio farci comprendere i disegni di Dio riguardo ai singoli uomini. Dio ha messo a disposizione dell’uomo l’elevazione allo stato soprannaturale, il dono cioè della grazia santificante che maturerà nella gloria. Ora, sono i singoli uomini che raggiungono questo stato e tuttavia il dono appare fatto in modo collettivo. I singoli cioè arrivano alla Grazia solo per il fatto di essere inseriti, almeno virtualmente, in un organismo sovrapersonale, la Chiesa, a cui la Grazia appartiene in proprio. I cristiani non formano una Chiesa per il fatto di essere uniti a Cristo, ma sono uniti a Cristo per il fatto di formare la Chiesa. I Sacramenti e la Liturgia, in quanto vincoli sociali, in quanto azioni esteriori che costruiscono la compagine della Chiesa, sono per ciò stesso i veicoli della Grazia. L’apporto della volontà personale è senza dubbio indispensabile dal momento in cui diventa possibile (età della ragione), ma non è essenziale, come risulta dal Battesimo dei bambini. L’entrare a far parte della Chiesa, come il sussistere stesso della Chiesa, è la risultante di un complesso di azioni interiori ed esteriori da cui il Cristo fa dipendere il suo influsso redentore e vivificante sulle singole anime. Se Cristo è al primo posto nell’ordine delle cause, tutti gli altri, dalla Gerarchia ai semplici fedeli, hanno la loro responsabilità, e mancando la loro cooperazione, la Chiesa non sarebbe come dev’essere, e molte anime ne resterebbero escluse. Questo conferimento della Grazia come dono collettivo nella umanità redenta da Cristo è del tutto analogo al conferimento della Grazia (e dei privilegi) come dono collettivo a tutta l’umanità, nei suoi primi inizi, nella persona dei progenitori. Essi ricevettero questi doni non a titolo di gratificazione personale, ma a titolo di bene collettivo di tutta la natura. Sarebbe bastato nascere da Adamo per avere per ciò stesso il dono della Grazia, come ora basta essere inserito nella Chiesa mediante il Battesimo per avere la Grazia di Cristo. Il vincolo che avrebbe legato l’umanità intera, la generazione, sarebbe stato nel contempo il canale, la causa della Grazia, il vincolo che avrebbe stretto ogni individuo, non solo coi suoi simili, ma anche con Dio come fine soprannaturale. Ma perché tutto ciò non avvenisse come qualche cosa di fatale, di meccanico, era opportuno che i primi depositari di questo dono liberamente cooperassero alla sua trasmissione, così come a suo tempo i singoli eredi di questo dono liberamente avrebbero ratificato — con la fede e le opere — la fortuna da loro ereditata. La colpa personale dei progenitori implica la distruzione del dono da Dio assegnato come bene collettivo dell’umanità, distruzione fatta liberamente dagli uomini, che avevano la responsabilità di trasmettere tale dono. Così i vincoli della generazione non sono più canali della Grazia, e l’umanità non è più, come doveva essere, una grande unica Chiesa. – In questo modo si comprende perché lo stato di decadenza dell’umanità sia insito nei singoli come « peccato ». Stato di peccato (peccato abituale) è l’essere una creatura estranea alla intimità con Dio (privazione della Grazia) in forza di una colpa commessa con un atto libero di volontà (atto di peccato). La grande famiglia umana nel suo complesso va generandosi in stato di peccato (« peccatum naturæ »), nel senso che nasce priva della Grazia, e questa privazione non è un semplice difetto morale, ma sussiste in forza del peccato personale del progenitore. – La mia anima singola, scevra da qualunque responsabilità individuale, incominciò ad esistere solo (e non prima) come parte di un complesso somatico e psichico unito a sua volta, senza soluzione di continuità, al resto della famiglia umana. Ben lungi dal rompere questa continuità biologica ed etnica, l’anima ne assunse la fisionomia concreta, e con essa la privazione della Grazia e dei privilegi, ed una tale privazione quale è nella collettività dei figli di Adamo, effetto cioè di una colpa, e dunque colpevole. Essa venne così in comunicazione con uno stato di colpevolezza preesistente, così come più tardi venendo inserita nella Chiesa, venne in comunicazione con uno stato di Grazia preesistente nella Chiesa stessa in forza di Cristo Redentore. Così per il peccato di origine passa nel singolo non solo una conseguenza, o una pena della colpa, ma la colpevolezza stessa che pesa sulla natura in blocco. E tuttavia il singolo non contrae una responsabilità individuale, il che sarebbe un controsenso. « Peccato » è il termine che più si adatta ad esprimere questa realtà inerente ad ogni uomo per il fatto stesso della sua origine dal primo uomo, e tuttavia è un termine analogico, che non coincide perfettamente con il senso di questo termine quando è applicato ad un atto personale di colpa. – Rimane ancora una domanda: perché Dio, per conferire agli uomini questi doni di santificazione ha scelto un mezzo collettivo, sia nel caso dell’elevazione della natura in Adamo, come nel caso della santificazione della Chiesa in Cristo? Non avrebbe per ciò stesso scelto un mezzo meno favorevole all’individuo, il quale viene così a dipendere dalla responsabilità degli altri? Rispondiamo che, senza negare la possibilità di altri ordini di provvidenza, quello scelto da Dio sembra più conforme alla natura degli uomini. Una personalità anche eccezionale non può esaurire tutte le possibilità di perfezionamento della natura umana. Ciò che non è realizzato da uno è realizzato da un altro; ed il bene dell’uno diventa anche il bene dell’altro, se due persone sono unite in una comunione d’amore. L’individualismo, come contrapposizione dell’individuo al resto dell’umanità, è anche un impoverimento: l’individuo escluderebbe da sé tutta quella ricchezza di natura che egli non può possedere per intero. Come l’individuo non può venire all’esistenza senza il concorso di altri, così neppure può perfezionarsi da solo. Questa concezione, lungi dal diminuire la responsabilità individuale diluendola nel complesso sociale, l’aumenta grandiosamente, rendendo ciascuno responsabile anche per gli altri. – Se questo piano scelto da Dio ha avuto una conseguenza dolorosa nel peccato d’origine, non è stata tuttavia preclusa l’ascesa dell’umanità verso il suo fine ultimo. Essa si realizza per una via meno gioconda, ma non meno gloriosa. La narrazione biblica lascia uno spiraglio di speranza: il trionfo del serpente seduttore non è definitivo: « Esso (seme della donna) ti schiaccerà il capo » (Genesi III, 15). E questo spiraglio andrà sempre più allargandosi e chiarendosi in successive rivelazioni (« messianismo »), finché verrà Colui che dirà: « Io sono la resurrezione e la vita » (Giovanni XI, 25) e provocherà il grido della gioia cristiana: «Dov’è o morte la tua vittoria?» (1 Corinti XV, 35).

5. — L’ipotesi poligenista

38. — Il Poligenismo è quell’ipotesi scientifica la quale ritiene che i gruppi umani sia fossili che viventi derivino non solo da più coppie, ma addirittura da più specie primordiali. Di conseguenza ad Adamo ed Eva non competerebbe il titolo di progenitori del genere umano. Isacco de la Peyrère (1594-1676) formulò per primo quest’ipotesi nel tentativo di conciliare con la Bibbia i dati cronologici indicati negli antichi documenti caldei ed egiziani, ed in particolare nell’intento di spiegare le differenze tra le razze umane. – Estendendo il campo di osservazione, l’antropologia e in particolare la paleontropologia constatano nelle razze viventi e ancor più in quelle estinte marcate differenze morfologiche, nella forma del cranio, degli occhi, nella dimensione del tronco e degli arti, nel colore della pelle ecc. Si notano pure spiccate diversità fisiologiche (composizione del sangue, età puberale ecc.) e psichiche (diverso tipo e grado d’intelligenza, di emotività ecc.). Si conclude all’impossibilità di ricondurre ad una origine comune gruppi tanto differenziati, le cui caratteristiche sarebbero spiegabili soltanto ricorrendo ad una origine multipla. – Il poligenismo inoltre renderebbe più facilmente ragione dell’incremento poderoso della collettività umana e della sopravvivenza delle razze nella lotta per la vita. Non è nostro compito né esporre, né valutare dal punto di vista scientifico quest’ipotesi. Riferiamo soltanto alcuni giudizi di competenti. Intorno all’argomento principale che è quello tratto dalle differenze morfologiche il Marcozzi (Cfr. V. MARCOZZI, La vita e l’uomo, Milano 1946. p. 362) osserva: « Tali differenze (tra i fossili umani) non sono tali, studiate oggettivamente, da autorizzare uno smembramento della famiglia umana in più specie naturali distinte. Infatti differenze morfologiche anche maggiori si osservano fra le varie razze d’animali tuttora esistenti, che pur discendono certamente da un unico ceppo. Si pensi, per esempio alle enormi differenze morfologiche che passano fra le diverse razze di cani… Eppure appartengono alla medesima specie, ed hanno avuto le medesime origini. Dunque le sole differenze morfologiche non sono sufficienti ad autorizzare lo smembramento d’un gruppo di organismi in tante specie naturali distinte e dalle origini indipendenti. Tanto più che nel caso degli Uomini, si trovano tutte le forme intermedie fra i tipi più differenziati sia viventi sia fossili ».Tutto questo spiega come quasi tutti i naturalisti presentemente siano monogenisti. « Fra gli altri ricordiamo Dubois, Ellioth, Smith, Giuffrida-Ruggeri, il Keith, il Pilgrim, lo Schwalbe, tutti gi autori italiani che hanno cooperato all’opera: « Razze e popoli della terra » curata dal Biasutti nel 1941 (Cfr. MARCOZZI, O. C, p. 358). –  Similmente il Leonardi: « Al momento attuale il poligenismo è assai in ribasso e, almeno nei riguardi dell’Umanità attuale, la quasi totalità degli Autori, per quanto mi consta, tende ad ammettere l’origine unitaria e l’unità specifica, trovandosi così pienamente d’accordo con la Teologia cattolica » (P. LEONARDI, L’evoluzione biologica e l’origine dell’uomo, II ed., Brescia. 1949). Notiamo però che « Monogenismo » per la teologia cattolica non significa soltanto derivazione dell’umanità attuale da una stessa specie naturale, ma da un’unica coppia, fatto questo che la scienza non può confermare, ma neanche contestare, qualora accetti, come si è detto, l’unità specifica. Quale rapporto intercorre tra evoluzionismo e poligenismo? È la seconda ipotesi inseparabile dalla prima come inevitabile conseguenza? È utile sottolineare al riguardo, dal punto di vista scientifico, che la derivazione dell’umanità attuale da più coppie di progenitori è collegata non tanto coll’ipotesi evoluzionista, quanto col modo di concepire e rappresentarsi l’evoluzione. Se infatti si pensa che le stesse cause hanno influito sulle stesse razze di antropoidi per trasformarle gradualmente in razze umane, diventerebbe probabile che tale processo evolutivo sia avvenuto contemporaneamente in luoghi e soggetti diversi. Non appare infatti una ragione speciale che inviti a limitare un processo evolutivo che investe tutta la sfera animale, restringendolo nel caso degli antropoidi soltanto a due individui, che sarebbero così gli unici progenitori dell’umanità attuale. Se invece l’evoluzione è avvenuta per una catena di mutazioni casuali scarsamente probabili, come sembrano ritenere oggi i più, è assai improbabile che tale serie di coincidenze si sia verificata in più casi. L’evoluzionismo mutazionista sarebbe cioè più facilmente conciliabile col monogenismo che col poligenismo. Ma qualunque sia il valore scientifico dell’ipotesi poligenista, ci chiediamo: qual è il pensiero della Bibbia in proposito?Il racconto del Genesi mentre suppone il poligenismo nella creazione degli animali, presenta i soli Adamo ed Eva quale unica coppia progenitrice dell’intera umanità. Infatti a questa unica coppia primordiale si ricollegano i vari popoli, tramite le genealogie dei Patriarchi antidiluviani e postdiluviani.Anche il resto della Bibbia non conosce uomini che non discendano da Adamo ed Eva: l’Ecclesiastico (XXV, 24) dichiara: Dalla donna ebbe principio il peccato e per sua cagione si muore tutti.La Sapienza (X, 1) chiama Adamo: «il primo uomo da Dio formato, il padre del mondo » (cfr. anche VII, 1).Ma soprattutto il Nuovo Testamento e il Magistero della Chiesa forniscono gli elementi per una decisione in merito. In Romani V, 12, 19 e in 1 Corinti XV, 21-22. 45-49 S. Paolo rende ragione dell’universalità del peccato originale e della morte, ricollegando tutti gli uomini ad Adamo peccatore e supponendo perciò il monogenismo (Cfr. B . MARIANI, Il Poligenismo e S. Paolo, Euntes docete, 4 (1951) 126-145). Il Magistero Ecclesiastico, secondo la stragrande maggioranza dei teologi, si sarebbe già pronunciato in modo definitivo, nel decreto del Concilio di Trento sul peccato originale (Cfr. i canoni del Concilio Tridentino citati alla nota 12). Qualche raro teologo ha pensato invece che il decreto stesso, non avendo di mira una presa di posizione nei riguardi del poligenismo ma solo nei riguardi del peccato originale, parli presupponendo il monogenismo, come cosa comunemente ammessa, ma non intendendo includerlo nella definizione (Su tale questione si vedano: F. CEUPFENS, Le polygénisme et la Bible, Angelicum, 24 (1947) 20-32. M . FLICK, Il poligenismo e il dogma del Peccato originale, Gregorianum, 27 (1947) 558. R. GARRIGOU-LAGRANGE, Le monogénisme n’est il nullement révélé? Doctor Communis, 1 (1948) pag. 198. H. LENNERZ, Quid theologo dicendum de polygenismo? in De hominis creatione atque elevatione et de peccato originali, Roma 1948, p. 81-98. J . B A T A I N L , Monogénisme et polygénisme. Divus Thomas Plac. 52 (1949) 187-201. B. MARIANI, Poligenismo, in Enciclopedia Catt., vol. IX, Città del Vaticano 1952, pag. 1676-1680. Prima dell’Humani generis non escludevano la possibilità di conciliare con la dottrina cattolica il poligenismo i seguenti studiosi cattolici: A. J. BOUYSSONIE, Polygénisme, in Dict. de Theol. Cathol. t. 12, p. I I , col. 2532. J . GUITTON, La pensée moderne et le catholicisme, Aix en Provence, 1936, p. 39; R. BOIGELOT, L’origine de l’homme, Etudes Religieuses, n. 449-450, Liége, 1938, p. 35-38; HRONDET, Les origines humaines et la theologie, in Cité Nouvelle, 1943, p. 961-987).

L’Enciclica « Humani generis » dopo aver parlato dell’evoluzionismo (cfr. paragr. 31, nota 17) a proposito del poligenismo precisa: « Però quando si tratta dell’altra ipotesi cioè del poligenismo, allora i figli della Chiesa non godono affatto della medesima libertà. Poiché i fedeli non possono abbracciare quella opinione i cui assertori insegnano che dopo Adamo sono esistiti qui sulla terra dei veri uomini che non hanno avuto origine, per generazione naturale, dal medesimo come da progenitore di tutti gli uomini, oppure che Adamo rappresenta l’insieme di molti progenitori; ora, non appare in nessun modo come queste affermazioni si possano accordare con quanto le fonti della Rivelazione e gli atti del Magistero della Chiesa ci insegnano circa il peccato originale, che proviene da un peccato commesso da Adamo individualmente e personalmente, e che, trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio » (Cfr. nota 13). Notiamo che il documento pontificio, inserendo l’espressione « dopo Adamo », si disinteressa dell’ipotesi che prima di Adamo si siano estinte razze più o meno simili all’umanità proveniente da Adamo. Quello che « non appare in nessun modo conciliabile » con il dogma della trasmissione universale del peccato dei protoparenti è il poligenismo applicato all’umanità attuale.L’Enciclica dunque mentre lascia la porta aperta all’evoluzionismo, sembra definitivamente chiuderla al poligenismo, pure usando, come qualcuno ha sottolineato con notevole rilievo (Cfr. J. LEVIE, L’Enciclique ” Humani Generis “, in « Nouvelle Rev. 82 (1950), 789), un linguaggio piuttosto misurato e con formulazione negativa (« in nessun modo appare come queste affermazioni si possano accordare »).

[2- Continua ...]

 

IL PECCATO ORIGINALE (1)

Siamo in un tempo in cui tutti si sentono teologi, esegeti, canonisti, ma in modo tutto particolare, cioè senza averne titolo alcuno, in violazione del decreto Officiorum ac munerum di Leone XIII che fulmina con una pesante scomunica latæ sententiæ specialmente riservata, chiunque discuta in pubblicazioni varie di temi religiosi, biblici, o renda pubbliche rivelazioni private non approvate, senza permesso dell’Ordinario, cioè senza nihil obstat ed imprimatur. E questo per ovviare a ciò che San Paolo già diceva a Timoteo:  “… lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, [I Tim. IV, 1] … Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina secondo la pietà, costui è accecato dall’orgoglio, non comprende nulla ed è preso dalla febbre di cavilli e di questioni oziose. [I Tim. VI, 3-4], …Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole [II Tim. IV, 3-4].” Ultimamente si stanno diffondendo delle “favole” nei riguardo del peccato originale, favole scaturite da presunte rivelazioni, sogni annebbiati, di un sacerdote apostata della setta modernista del “novus ordo”. Queste fantasie si sono caricate poi ancor più delle allucinazioni e dei deliri che alcuni allegri “esegeti” fai da te, che per il prurito di dir qualcosa di nuovo, e per una mal celata smania di protagonismo, sono disposti a dar credito ad innovazioni che la Chiesa non ha mai fatto proprie, possedendo Essa una chiarezza dottrinale robusta e ben strutturata. A tal fine portiamo alla conoscenza dei Cattolici veri, da non confondere con i pseudo-tradizionalisti eretici o scismatici (i lefebvriani, i sedevacantisti diversamente deliranti, esagitati ed isterici), o i modernisti del novus ordo, la posizione più corretta propria della Chiesa Cattolica, mediante un capitolo tratto dal libro di E. Galbiati e A. Piazza: “Pagine difficili della Bibbia”, pubblicato a Milano nel 1954, con nihil obstat ed imprimatur, rispettando quindi tutti i canoni delle pubblicazioni cattoliche.

 [E. Galbiati-A. Piazza:

Pagine difficili della Bibbia” –

[Bevilacqua & Solari Genova – Ed. MASSIMO, Milano, 1954 – impr. ]

Cap. IV.

IL PECCATO ORIGINALE

Analogamente a quanto abbiamo fatto per le narrazioni bibliche della creazione distinguiamo anche nel capo III della Genesi:

– una dottrina sull’origine dell’attuale situazione penosa dell’umanità;

– un fatto storico incluso nella dottrina stessa;

– un racconto che plasticamente presenta il fatto e concretamente traduce la dottrina. Sarà un compito quanto mai delicato, in questo terzo punto, tracciare la linea di demarcazione tra il contenuto storico-dottrinale e l’eventuale involucro letterario.

LA NARRAZIONE BIBLICA (Genesi III)

— Prima di passare ad un esame più dettagliato del pensiero biblico in materia, è indispensabile rileggere nel suo tenore più primitivo il testo di Genesi III.

« 1. E il serpente era il più astuto di tutti gli animali della campagna, che aveva fatto Jahvè Dio. E disse alla donna: « Ha proprio detto Dio: non mangiate di nessun albero dell’orto? ».

2. E disse la donna al serpente: « Del frutto degli alberi dell’orto noi

3. possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero che è in mezzo all’orto disse Dio: non mangiatene e non toccatelo, per non doverne morire ».

4. E disse il serpente alla donna: « No, che non dovrete morire! ma sa

5. bene Dio che quando ne mangiaste, si aprirebbero allora i vostri occhi, e diventereste come Dio, conoscitori del bene e del male ».

6. Allora la donna considerò che l’albero era buono come cibo e che era bello agli occhi e appetibile era quell’albero per avere conoscenza; così prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al suo marito insieme con lei, ed egli mangiò.

7. Allora si aprirono gli occhi di ambedue e si accorsero di essere nudi; e intrecciarono il fogliame di un fico e se ne fecero delle cinture.

8. Poi sentirono il rumore di Jahvè Dio che passava per l’orto alla brezza del giorno, e si nascosero l’uomo e la sua donna dalla faccia di Jahvè Dio in mezzo all’orto.

9. Allora Jahvè Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei? ».

10. E disse (quello): « Ho sentito il tuo rumore nell’orto, ed ho avuto paura, perché sono nudo, così mi sono nascosto ».

11. E disse (Dio): « Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Dell’albero di cui ti ho comandato di non mangiare hai dunque mangiato? ».

12. E disse l’uomo: « La donna che tu hai messo con me, lei mi ha dato dell’albero, ed io ho mangiato ».

13. E disse Jahvè Dio alla donna: «Che è ciò che hai fatto?». E disse la donna : « Il serpente mi ha ingannato, e così ho mangiato ».

14. Allora Jahvè Dio disse al serpente: « Perché hai fatto questo tu sii maledetto tra ogni animale e tra ogni bestia della campagna: sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai tutti i giorni della tua vita.

15. E inimicizia metterò tra te e la donna e fra il seme tuo e il seme di lei: esso ti schiaccerà al capo e tu lo stringerai al calcagno ».

16. Alla donna disse: « Farò assai grave il tuo travaglio e la tua gravidanza: con doglia partorirai figli, e verso il tuo marito sarà la tua passione ma egli ti dominerà ».

17. E all’uomo disse: « Poiché hai ascoltato la voce della tua donna e hai mangiato dell’albero su cui t’avevo comandato dicendo: non ne mangiare, maledetto il terreno per causa tua, con travaglio ne mangerai tutti i giorni della tua vita;

18. e triboli e spine ti produrrà; e mangerai l’erba della campagna,

19. e col sudore del tuo volto mangerai pane; finché tornerai al terreno — perché da esso sei stato tratto, perché tu sei polvere — e alla polvere tornerai ».

20. Poi l’uomo chiamò il nome della sua donna Havvà (vita) perché essa fu la madre di tutti i viventi.

21. E Jahvè Dio fece all’uomo e alla sua donna delle tuniche di pelle, e li vestì.

22. Poi disse Jahvè Dio: « Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto al conoscere il bene e il male; ed ora ch’egli non stenda la sua mano e prenda anche dell’albero della vita e ne mangi e viva in eterno!… ».

23. E Jahvè Dio lo mandò via dall’orto di Eden per lavorare il terreno da cui era stato tratto.

.24. E scacciò l’uomo, e collocò ad oriente dell’orto di Eden i Cherubini e la fiamma della spada guizzante per custodire la via all’albero della vita. »

È in questa forma semplice e popolare, che l’insegnamento divino s’incise nella mente di un popolo amante della concretezza, e che, attraverso i secoli, arrivò fino a noi, a presentarci la chiave del mistero del nostro destino. Abbiamo detto forma popolare, ma non vorremmo per questo fosse sottovalutata, oltre la profondità e originalità del pensiero, la bellezza artistica e letteraria, con la quale, nella semplicità delle pagine veramente grandi, è resa impareggiabilmente soprattutto la psicologia della tentazione e della prima colpa. Passiamo ora a considerare il contenuto teologico del racconto, affinché sia tosto messo in evidenza il complesso di quegli elementi assolutamente sottratti a discussione, perché parte integrante del deposito della fede, e suggeriti dall’intenzione storico-dottrinale dell’autore sacro. Notiamo tuttavia che per cogliere con esattezza l’intenzione dell’autore sacro e raggiungere così adeguatamente il senso del racconto biblico, non solo è legittimo, ma doveroso profittare della luce che su queste pagine antichissime proietta lo sviluppo della Rivelazione successiva. Infatti i diversi libri biblici anche i più distanziati nel tempo, come la Tradizione e il magistero vivo della Chiesa rispecchiano il pensiero dell’unico Dio rivelatore.

B . — DOTTRINA TEOLOGICA E CONTENUTO STORICO DI GENESI III

34 — Il racconto della caduta originale appare come una apologia di Dio, e in questo senso è il seguito naturale della narrazione della creazione. Dio ha creato ogni cosa bella e buona. Il dolore che ci rattrista, la morte che ci spaventa, non entrarono nel suo disegno primitivo, ma furono conseguenza di una infedeltà dei primi uomini: infedeltà liberamente voluta e tanto grave da esigere l’applicazione di un castigo sanzionato in antecedenza. Questa soluzione al problema del male suscita ulteriori problemi, che approfondiremo basandoci su di un esame più minuzioso del testo biblico e sugli apporti della Rivelazione del Nuovo Testamento. [Per uno studio più approfondito della teologia dell’elevazione dell’uomo allo stato soprannaturale e del peccato originale cfr. oltre ai noti manuali: A. VERRIELE. Il soprannaturale in noi e il peccato originale, Milano 1936; M. J. SCHEEBEN, I Misteri del Cristianesimo, Brescia 1949, capitolo III-IV.]

1. — Lo stato dei progenitori

a) L’immortalità corporale. L’uomo, in forza della sua costituzione naturale è mortale : « tornerai al terreno, perché da esso sei stato tratto; perché tu sei polvere e alla polvere tornerai » (v. 19). Poiché l’applicazione del castigo è presentata precisamente come un lasciare libero corso alle forze naturali, tendenti a disintegrare ogni organismo vivente, l’immortalità corporale dei progenitori risulta evidentemente un privilegio, un dono preternaturale, chiaramente indicato nell’albero della vita. – I progenitori erano sottratti all’impero della morte, non nel senso che già possedessero l’immortalità per costituzione naturale, com’è proprio dei puri spiriti, ma nel senso che avevano la possibilità di non morire. – E quale sarebbe stata la sorte finale loro e dei discendenti, in caso che la fedeltà a Dio li avesse preservati dal tremendo castigo? Possiamo pensare, per analogia con la dottrina della risurrezione (1 Corinti XV, 35-58), che, dopo un certo numero di anni, il corpo di ogni singolo uomo sarebbe stato sottratto alle leggi biologiche mediante un’intima trasformazione, e trasferito in un mondo migliore. Dopo la colpa è preclusa all’uomo la via all’albero della vita e ciò coerentemente significa che l’uomo non ha più la possibilità di vivere sempre e, ad inculcare più efficacemente il carattere di assoluta irrevocabilità della sentenza divina, è segnalata la presenza dei « Cherubini e della fiamma della spada guizzante » (v. 24) incaricati di vegliare contro qualsiasi tentativo di rivalsa da parte dell’uomo. – I Cherubini nell’Antico Testamento (qualunque sia il rapporto etimologico e raffigurativo coi Kàribu mesopotamici) sono esseri sovrumani (Angeli) ministri di Jahvè (cfr. III Re VI,23-27; Ezechiele 1,5-14 e soprattutto 28,14, che richiama chiaramente il nostro testo) e la fiamma della spada guizzante ha certo un significato, almeno generico, di minaccia o di punizione (cfr. Isaia XXXIV,5; Geremia XLVI,10; Ezechiele XXI, 13). È facile riscontrare come il privilegio dell’immortalità e il castigo della morte abbiano nel racconto sacro un risalto eccezionale rispetto al resto: se ne parla, direttamente o indirettamente, sette volte nel corso di due capitoli: II,9.17; III,3.4.19.22.24. È la spiegazione della tristissima e ineluttabile sorte che attende ormai ogni uomo, sintesi e confluenza di tutte le pene: la disintegrazione del proprio essere con la morte, che dissolve il corpo e, solo così, come precisa la Rivelazione successiva, dischiude allo spirito la porta della vita eterna.

b) L’integrità. Naturalmente il genere umano si sarebbe propagato per generazione (L’opinione contraria di alcuni padri orientali (S. ATANASIO, PG. 27, 240; S. GREG. NISSENO, PG44, 185-189; S. Giov. DAMASCENO, PG 94, 976; MOSE’ BAR KEPHA, PG 111, 515) che escludono l’attività generativa dell’umanità, se non fosse intervenuto il peccato originale, non fu mai generale nella Chiesa ed è pressoché sconosciuta presso i Latini). Tuttavia, in questo àmbito appare il secondo privilegio: la sottomissione alle leggi biologiche è tale da non creare un conflitto con l’attività spirituale, perché il meccanismo degli istinti non si scatena, non entra in azione, né prima, né eventualmente contro la decisione della volontà illuminata dalla ragione. L’antico autore biblico aveva intuito questo dissidio, almeno nella sfera sessuale, e a modo suo insiste nell’escluderlo dallo stato primitivo. I progenitori non sono affatto imbarazzati dalla nudità (II,25), ma soltanto dopo il peccato si accorgono di essa come di qualche cosa di nuovo e di pericoloso, e due volte si parla della necessità di coprirsi (III,7; III,21). – Inoltre, sono messi in rilievo, tra le conseguenze del peccato, non solo i pericoli della gravidanza e i dolori del parto, ma anche la passione della donna ad abbandonarsi all’uomo e l’istinto di conquista dell’uomo sulla donna (III,16), il che crea una visione pessimistica dell’amore, in contrasto con la presentazione idilliaca del matrimonio come istituzione divina prima del peccato (II,23-24). – Questo privilegio viene comunemente denominato « integrità » e « immunità della concupiscenza » per indicare positivamente e negativamente lo stato di perfetto equilibrio interiore, per cui l’uomo sentiva nel suo intimo solo la spinta verso il bene ed era sottratto allo spasimo lancinante di quel perenne urto interiore tra bene e male, vita e morte, messo a fuoco con arte inarrivabile da S. Paolo al capo VII dell’epistola ai Romani.

c) L’immunità dal dolore. I protoparenti vengono collocati in un giardino-paradiso, quasi teatro e coefficiente di una felicità, che, nell’incontro e utilizzazione delle cose da parte dell’uomo, bandiva ogni sforzo ed ogni pena. L’uomo per natura sua è un lavoratore (cfr. II,15), cioè un creatore di nuovi rapporti tra le cose, capace d’indurre perciò e inserire nell’universo un nuovo ordine, che potenzia all’indefinito le incommensurabili attitudini insite nelle creature. Ora, solo dopo il peccato, il lavoro per la vita viene esplicitamente presentato come fatica: « col sudore del tuo volto mangerai il pane » (III,17-19). – Così pure solo dopo il peccato vengono assegnate ad Eva, come castigo, le pene inerenti alla convivenza coniugale e alla maternità:

« Farò assai grave il travaglio e la tua gravidanza:

con doglia partorirai figli,

e verso il tuo marito sarà la tua passione

ma egli ti dominerà» (III,16).

I teologi denominano lo stato di felicità dei progenitori prima della colpa: immunità dal dolore, estendendola a tutte le manifestazioni della vita umana. Notiamo come questo privilegio sia in parte frutto e complemento dei precedenti, in quanto l’immortalità è per l’uomo la liberazione dalla prova esteriore più dura e l’immunità dalla concupiscenza la preservazione dalla lotta interiore, spesso più penosa della stessa morte.

d) La scienza. I progenitori risultano dal testo sacro in possesso di un patrimonio di nozioni riguardanti la loro posizione rispetto a Dio, l’umanità futura e, in generale, ciò che era necessario al retto governo della loro vita, sia materiale che morale. Si tratta, come si vede, di un corredo di concetti in gran parte caratteristici dell’età matura o addirittura di misteri. Dal testo non risulta che i protoparenti abbiano compiuto il penoso e lungo tirocinio dello studio e della riflessione, sicché si può concludere che Dio stesso abbia infuso anche nozioni di ordine naturale oltre alla rivelazione di quelle verità superiori alla ragione (entità della prova castigo, ecc.), indispensabili ad una partecipazione cosciente allo stato soprannaturale, cui l’uomo era elevato. Questo privilegio si denomina comunemente: « dono della scienza » .

e) L’elevazione allo stato soprannaturale. Si comprende come in uno stadio così primitivo della Rivelazione l’autore si limiti a mettere in evidenza ciò che vi è di più concreto e sperimentabile nello stato dei progenitori e nelle conseguenze del peccato; solo oscuratamente lascia intendere (È sintomatico in questo senso p. es. il risalto in cui è posta la fuga dal cospetto di Dio, dopo la colpa (III, 8-11). Evidentemente si suppone prima del peccato una familiarità con Dio, di per sé non dovuta alla natura umana) che vi era, oltre quei privilegi, una particolare relazione di amicizia tra Dio e l’uomo, la quale è invece l’elemento principale per la teologia cattolica, anzi per il dogma stesso. Questo dogma, secondo cui i progenitori erano costituiti in stato di giustizia e santità, si deduce dal Nuovo Testamento (specialmente Colossesi III,9-10; Romani V,10-19) ed è la chiave di volta per intendere l’essenza del peccato originale e la perdita degli altri privilegi. Questi si comprendono bene come una base di perfezionamento dello stato naturale reso in tal modo più adeguato al destino sovrumano, alla dignità soprannaturale di figlio di Dio, conferita all’uomo. Avendo il peccato distrutto questa amicizia con Dio, si capisce come sia crollato tutto ciò che ne era come un abbellimento complementare: l’esenzione dalla morte e dalla tirannia degli istinti. Per questo, nella visione simbolica dell’umanità rinnovata (Apocalisse 22,2), ricompare « l’albero della vita », in relazione con la santità riconquistata: « Beati quelli che lavano le loro vesti nel sangue dell’Agnello, essi avranno potere sull’albero della vita » (ibid. 22,14).

[1- Continua …]

About Article VI of Papal Bull “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO”

About Article VI of Papal Bull “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO” *

An answer to a question of a reader:

 Question:

“I think I have a bad understanding of the “Cum Ex Apostolatus Officio” Bull by Paul IV and I just like to get a correct interpretation, so maybe can you explain in details this to me?

“At the beginning it seemed to be clear to me, but now I can’t find anything about the nullity of orders received by an heretic, unless he is publicly under censorship or hit of irregularity”.

Answer:

Well, let’s look at Article VI of the mentioned Papal Bull.

By Article 6 of “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO”

Pope Paul IV teaches about the invalidity of the heretical “sacrament of consecration”.

“6. Adding that if at any time it will be found that some bishop, even conducting himself as an archbishop or patriarch or already mentioned cardinal of the Roman Church, even, as shown, a legate, or even a Roman Pontiff, before his promotion or assumption as cardinal or as Roman Pontiff had deviated from the Catholic Faith or fallen into some heresy, before his promotion or assumption as Cardinal or as Roman Pontiff, that promotion or assumption concerning him, even if made in concord and from the unanimous assent of all the cardinals, is null, void and worthless; not by the reception of consecration, not by the ensuing possession of the office and administration, or as if, either the enthronement or homage of the Roman Pontiff, or the obedience given to him by all, and the length of whatever time in the future, can be said to have recovered power or to be able to recover power, nor can (the assumption or promotion) be considered as legitimate in any part of it, and for those who are promoted as bishops or archbishops or patriarchs or assumed as primates, or as cardinals or even as Roman Pontiff, no faculty of administration in spiritual or temporal matters may be thought to have been attributed or to attribute, but may all things and each thing in any way said, done, effected and administered and then followed up in any way through them lack power and they are not able to attribute any further power nor right to anyone; and they themselves who are thus promoted and assumed by that very fact, without any further declaration to be made, are deprived of every dignity, place, honor, title, authority, function and power; and yet it is permitted to all and each so promoted and assumed, if they have not deviated from the Faith before nor have been heretics, nor have incurred or excited or committed schism”. (Papal Bull CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO Promulgated February 15, 1559 by POPE PAUL IV, 23 May 1555 – 18 August 59)

The Bull, promulgated by Pope Paul IV, followed Pope Leo X’s Bull of Excommunication of Martin Luther and his followers (DECET ROMANUM PONTIFICEM, January 3, 1521), when Luther’s heresy caused the incredibly, terrible disaster in the Catholic Church in Germany and throughout Europe. Furious followers of the fallen Luther seized and occupied thousands of churches and monasteries. More than ten million souls fell into Lutheran heresy and nearly 50,000 people were killed, during the so-called Peasant war in Germany that was provoked by Luther.

Through Luther’s preaching, divorces and impure cohabitation began to be a “norm” for Germans. This destructive process increased and many former Catholic clergy became secret heretics. They appeared to be outwardly Catholic and continued to occupy Cathedrals and village parishes, however, they used their church pulpits for spreading Lutheran heresy in such a way that they continued to destroy and to devastate the Catholic Church.

So, in order to stop this catastrophic process of the destruction caused by the invasion of Lutheran heretics, and thus to save millions of souls, Pope Paul IV issued the Bull “Cum Ex Apostolatus Officio”.

Catholic teaching on the validity of Sacraments is that each Sacrament that is doubtful cannot be taken as valid, and thus it should to be repeated conditionally or absolutely. Sometimes the Sacrament of Matrimony and Orders cannot be repeated in cases where there are specific prohibitive and diriment impediments that exist, which cannot be dispensed.

Every “sacrament”, administered by a heretic can be doubtful. This can take place by any or all of the following ways 1) Intention, 2) Form, 3) Matter, and can be doubtful from the side of a minister and/or to the side of a recipient.

It is commonly known that Luther essentially changed teaching about Sacraments and particularly his heretical conception of “priesthood” was that every man is a “priest”. Such “common priesthood” nullified the sacrament for him and his followers, therefore, the Catholic Church recognizes Lutheran “orders” to be totally invalid.

Of course the Pope did what was right, when he issued the Bull “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO”.

There are two essential details in it:

“is null, void and worthless; not by the reception of consecration”

“without any further declaration to be made”

The same principle, which the Catholic Church applied to Lutheran “priesthood”, is still working towards the “priesthood” of Vatican II today “without any further declaration to be made”, because Vatican II has the conception of “priesthood” that is an exact copy of Luther’s conception of it.

One more word can be said about the Papal Bull “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO”; it is infallible teaching that does not need any further approval. Everyone can see it in Article IX and Article X:

“9. Moreover, in order that the present letter be read to the knowledge of all those whom it concerns, We desire that it or a copy (to which, written underneath with the hand of the public notary and furnished with the seal of some person constituted in ecclesiastical dignity, We determine that full faith is to be shown thereto) be published and posted on the doors of the basilica of the Prince of the Apostles and of the Apostolic Chancery and on the edge of the Campo Flora by some of our runners and that a posted copy of it be left, and that the publication, posting and the notification of the posted copy in this manner suffice and be held as solemn and lawful, nor that another publication be obliged to be required or respected.

10. Therefore, it is permitted to no one to impair this page of Our approval, renewal, sanction, statute, wills of repeal, of decrees, or to go contrary to it by a rash daring deed. If anyone moreover will have presumed to attempt this, he will incur the wrath of almighty God and of the blessed Apostles Peter and Paul.”

Therefore, This Papal infallible declaration is very simple and clear and does not need any further, “more clear” declaration. Any “consecration” administered by heretics of Vatican II “is null, void”, “without any further declaration to be made”.

Fr. UK

The CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO is still the Pontifical Document of binding force for all baptized persons. Its Legislator, Pope Paul IV and his successors never revoked this Bull. The Code of Canon Law of 1917 did not terminate CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO. Although this Papal Document is the Ecclesiastical Law **, it touches Faith. Particularly the Pope stated that it applies to the putative acceptation by heretics of the Sacrament of Holy Orders, after they have been promoted to be bishops and even after their putative enthronement as Roman Pontiff. Article VI specifically speaks about that. The promotion or elevation of the heretical bishops even if it has been uncontested and promoted by the unanimous assent of all the Cardinals, shall be null, void and worthless, It shall not be possible for them to acquire validity through the acceptance of the office, or through consecration etc. – the Pope states.

That means that the Pope did not recognize consecrations of the heretical bishops, who have fallen into heresy before their elevation to any bishopric dignity. If the Pope said that the heretical bishops would try to validate themselves through consecration, it is evident that he did not recognize the previous consecrations of these heretics, who clandestinely supported Luther’s false teaching about “common priesthood”, or at least, the Pope viewed those “consecrations” as very doubtful.

A couple of words about Luther’s false conception of the “universal priesthood of all believers”. In his address to the Nobility of the German Nation (1520), Luther taught: “For whoever comes out of the water of baptism can boast that he is already a consecrated priest, bishop, and pope”. Also in another place he said, “That the pope or bishop anoints, makes tonsures, ordains, consecrates, or dresses differently from the laity, may make a hypocrite or an idolatrous oil-painted icon, but it in no way makes a Christian or spiritual human being. In fact, we are all consecrated priests through Baptism”.

The Church condemned this obviously wrong and heretical teaching. This condemnation was made because throughout the whole history of the Church, the Priesthood as a Sacrament of the New Testament was administered only for men. Only men were ordained priests and consecrated bishops; that is a permanent and unquestionable practice of Catholic Tradition, which Luther attempted to destroy.

By Bull EXSURGE DOMINE, of June 15, 1520, Pope Leo X condemned all the false teachings of Luther and specifically the heretical error by which Luther insisted that even women and children could forgive sins in confession. By Bull DECET ROMANUM PONTIFICEM, of January 3, 1521, Pope Leo X excommunicated Martin Luther and all of his followers.

When many clergy, especially those of highest ranks, as bishops, appeared as crypto-Lutherans, the Church in the person of Pope Paul IV, promulgated the Pontifical Document CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO, condemning those clerics, who were secret followers of Luther’s heresy. These heretical clerics not only believed in Luther’s false teaching, they also intended to usurp the office of the Holy See.

Particularly by Article VI the Pope spoke not only about the nullity of the promotion and elevation of heretical bishops, but also about the nullity of their consecrations as priests to begin with. Crypto-Lutherans kept the false heretical Luther’s idea of the “universal priesthood of all believers”, and by that very fact, their previous and eventual consecrations would be considered invalid.

The Church had to react to this new dangerous threat, which was no less of a danger than Luther’s heretical revolt itself. While Luther was a heretic outwardly and acted openly, the crypto-Lutheran clergy were clandestine heretics, and thus they were even more dangerous. The Church has reacted to this threat in the person of Pope Paul IV.

Pope Paul IV promulgated the Document concerning Faith and Discipline against the heretical party of “Spirituali” who were in reality, crypto-Lutherans. Some of these crypto-Lutherans even attempted to be elected to the Roman Pontificate. Between the 30s and 50s of the 16th century, (these were the years of the spreading of the “fruits” of Luther’s revolution), heretical tendencies were being spread in the Roman ecclesiastical world.

The party of “Spirituali” had come into existence, represented by crypto-Lutherans, such as Cardinals Reginald Pole, Gasparo Contarini and Giovanni Morone. The “Spirituali” intended to propose the reconciliation of Lutheranism with the Roman Church. They intended to promulgate the crypto-Lutheran “double justification”, rejected by the Council of Trent in 1547. Step by step they moved closer to the moment when they would be able to preach Lutheran heresy openly, and try to destroy the Catholic Church, specifically by means of the annihilation of the Christian Priesthood.

Why did the Pope avoid mentioning heretics by name and why did he use temperate and cautious sentences in his Bull?

Because the heretics were quite powerful and of high rank, and thus they could provoke chaos and anarchy in the whole Roman Church. So the Pope acted very wisely and prudently both spiritually and intellectually. The Bull CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO can be a perfect example of the fulfillment of Our Lord Jesus Christ’s commandment: “Behold, I send you as sheep in the midst of wolves. Be ye therefore wise as serpents and simple as doves” (St. Matthew 10:16).

What could have happened if Pope Paul IV was not able to promulgate CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO?

In a word, the destructive “Vatican II” could have started 400 years earlier.

** “Ecclesiastical Law obliges all baptized persons who have attained the use of reason and are seven years of age, and also children under seven years of age when the Church explicitly so rules. Therefore, even the excommunicated as well as heretics and schismatic’s are obliged by the laws of the Church” (Moral Theology).

Fr. UK
[Questo articolo è stato pubblicato in italiano: https://www.exsurgatdeus.org/2018/02/15/cum-ex-apostolatus-officio-una-breve-precisazione/ ]

Insegnare agli ignoranti: che cos’è L’ERESIA e l’ERETICO

ERESIA

[G. Bertetti: I Tesori di S. Tommaso d’Aquino”, S.E.I. Ed. Torino, 1918]

1. Che cos’è l’eresia (in ep. la ad Cor., 11, lect. 4; in Ep. ad Tit. 3, lect. 2; S. Th., 2a 2e, q. III, art. 2). — 2. I gravissimi danni dell’eresia (Seni., 4, dist. 13, q. 2; in ep. 2a ad Timoth., 2, lect. 3; in Matth., 13, 26; 8. Th., 2a 2 a e , q. 11, art. 3).

1. Che cos’è l’eresia. — Secondo S. Gerolamo (in ep. ad Gal.), eresia è una parola greca, che significa elezione: ossia è l’eleggersi quella disciplina che ciascuno crede migliore. Di qui si possono ricavare due cose:

1° che l’eresia consiste essenzialmente nel seguire una privata disciplina, quasi per elezione propria, invece della disciplina pubblica dataci da Dio;

2° e insieme consiste nell’aderire pertinacemente ad una disciplina privata; poiché l’elezione importa una ferma adesione; eretico pertanto è detto colui che, sprezzando la disciplina della fede divinamente rivelata, segue con pertinacia il proprio errore.

Una cosa può appartenere in due modi alla disciplina della fede: direttamente o indirettamente. Direttamente come gli articoli di fede che son proposti a credersi di per se stessi: onde l’errore circa essi fa di per sé l’eretico, posto che vi sia la pertinacia; né può alcuno essere scusato da tal errore per ignoranza, principalmente intorno a quelle verità che la Chiesa solennizza e che comunemente sono in bocca dei fedeli, come il mistero della Trinità, la nascita di Gesù Cristo, e simili. Indirettamente spettano alla disciplina della fede quelle verità che non son proposte a credersi di per se stesse, ma, se si negassero, ne deriverebbe qualche cosa di contrario alla fede: così, se si negasse che Isacco fu figlio d’Abramo, ne seguirebbe un errore contrario alla fede, cioè che la Sacra Scrittura contenga qualche cosa di falso. Qui non si può accusar alcuno d’eresia, salvo che sia così ostinato da perseverare nel suo errore, anche quando scorgesse le conseguenze che ne deriverebbero. E dunque la pertinacia che fa l’uomo eretico: la pertinacia per cui nelle cose direttamente o indirettamente di fede non si vuol sapere di sottostar al giudizio della Chiesa. Tal pertinacia procede dalla radice della superbia, che fa preferire l’opinione privata a tutta la Chiesa. Onde l’Apostolo dice: « Se alcuno insegna diversamente e non s’acquieta alle sane parole del Signor nostro Gesù Cristo e alla dottrina ch’è conforme alla pietà, è un superbo che non sa nulla, ma si ammala per dispute e questioni di parole» ( la Tim., VI, 3, 4). Ogni eretico è nell’errore: ma non chiunque si trova nell’errore è eretico. Non è eretico, se il suo errore non è circa il fine della vita umana o circa quello che appartiene alla fede o ai buoni costumi. Eretico è chi erra circa il fine della vita umana (come chi sostenesse gli errori degli Stoici e degli Epicurei), chi erra circa la fede (come chi negasse la Trinità di Dio), circa i buoni costumi (come chi dicesse che la fornicazione non è peccato). Se però non è pertinace nel suo errore, ma è disposto a correggersi secondo la determinazione della Chiesa, e ciò non fa per malizia, ma per ignoranza, non è eretico. – Se poi ci furono dei sacri dottori che talvolta dissentirono circa le cose di fede, ciò accadde perché o si trattava di cose indifferenti per la fede o di cose bensì appartenenti alla fede ma non ancora definite dalla Chiesa: ma dopo che la Chiesa universale con la sua autorità ha pronunciato il suo giudizio, sarebbe eretico chi pertinacemente contraddicesse a tali definizioni. – E l’autorità della Chiesa risiede principalmente nel Sommo Pontefice: perciò S. Gerolamo scriveva a S. Damaso papa (in exposit. Symb.): « Quest’è la fede, o beatissimo padre, che abbiamo imparato nella Chiesa Cattolica; ma se qualcosa di meno esatto o di poco santo fosse stato per avventura esposto, noi desideriamo che sia emendato da te, che tieni la fede e la sede di Pietro. Se poi questa nostra esposizione sarà approvata dal giudizio del tuo apostolato, chiunque mi vorrà incolpare dimostrerà che non io sono eretico, ma è lui un inesperto o un malevole o anche un acattolico ».

2. I gravissimi danni dell’eresia. — L’eresia reca maggior danno che qualsiasi altro peccato, perché sovverte la fede, ch’è il fondamento di tutti i beni e senza di cui più nessun altro bene resta. – L’eresia è un vizio contagioso; degli eretici sta scritto che « molto s’avanzano nell’empietà e il loro discorso va serpendo come cancrena » (2a Tim., II, 16-17). D a principio, dicono cose vere e utili: ma poi quando si accorgono d’essere ascoltati, vi mescolano vomitando cose mortifere. Da principio nascondono la scienza, dicendo qualcosa di bene e predicando ai laici; poi inseriscono delle critiche contro il clero, che son volentieri accolte, e così allontanano il popolo dall’amar il clero, e per conseguenza dall’amar la Chiesa. Allora prendono a insegnare e a spiegare la lor malizia, cominciando da cose leggere e venendo finalmente alla manifestazione aperta di se stessi e della lor dottrina. – Perciò la Chiesa esclude gli eretici dal consorzio dei fedeli, e principalmente quei che corrompono altri, affinché non solo con l’anima ma anche con il corpo siano segregati da loro i semplici, che facilmente possono esser corrotti. Si deve estirpare il vecchio fermento, perché corrompe tutta la massa (la Cor., V, 7); si devono allontanare dal gregge i lupi per opera dei pastori (JOAN., 10); si devono estirpare gli omicidi, che tolgono agli uomini la vita corporale: dunque si devono molto più estirpare gli eretici, che tolgono la vita spirituale. Sì grave è il peccato degli eretici che si meritano non solo d’essere separati dalla Chiesa mediante la scomunica, ma ancor si meritano d’essere esclusi dal mondo mediante l a morte. Poiché è molto più grave corrompere la Fede per cui s’ha la vita dell’anima, che falsare la moneta per cui si provvede alla vita temporale. Laonde, se i falsi monetari e gli altri malfattori son subito mandati giustamente alla morte dai principi secolari, molto più gli eretici, non appena convinti d’eresia, possono non solo essere scomunicati, ma anche essere giustamente uccisi. – La Chiesa usa però misericordia per la conversione degli erranti; e perciò non subito condanna un eretico, ma « dopo la prima e la seconda correzione, » come insegna l’Apostolo (Tit., III, 10); che se poi si mantiene ostinato, la Chiesa, non sperando più della sua conversione, provvede alla salute degli altri, separandolo dalla Chiesa con sentenza di scomunica; poi lo abbandona al braccio secolare, perché con la morte lo levi via dal mondo. « Si devono resecare le carni putride, si deve cacciare la pecora scabiosa dall’ovile, affinché tutto il corpo e tutto l’ovile non imputridiscano e muoiano. Ario fu una sola scintilla in Alessandria: ma poiché non fu subito soffocata, la sua fiamma devastò tutto il mondo » ( S . GEROLAMO, in Galat., 5).

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Su questa questione dell’eresia ci sono alcuni “cani sciolti” che presumono di esprimere pareri liberi e dettati dai loro stati emotivi, non sempre lucidi, spesso isterici, non avendo nessuna cognizione di teologia dogmatica o ancor peggio, di teologia morale. A questi soggetti, di cui il Signore ci aveva a suo tempo parlato (Vangelo sec S. Matteo cap, VII, v. 6), e che San Pietro bene inquadrava nella sua Seconda Lettera al cap. II, v. 22, che si permettono di applicare le loro deliranti idee a chicchessia, non ultimo il Santo Padre Gregorio XVII, (uno che la teologia l’aveva insegnata per decenni ai massimi livelli), non avendo cura della propria anima e della loro salvezza, rispondiamo semplicemente con la dottrina della Chiesa, senza aggiungere nemmeno un trattino o una virgola. A questi “teologi da salotto allo sbaraglio” proponiamo un breve testo dal Compendio di Teologia Morale di E. Ione, un testo con imprimatur che è stato e rimane tuttora un pilastro inattaccabile ed inaccessibile a questi “novelli protestanti” che si credono cattolici tenendo però un piede nel personale “libero pensiero”, il magistero “fai da te”! Ci torna utile al proposito, un pensiero di De Maistre, riportato dal grande abate J. Berthier nel suo Sommario di teologia dogmatica e morale (p. 42): « Non vi è nulla di più infallibile che l’istinto dell’empietà. Guardate ciò che essa odia, ciò che la mette in collera, ciò che essa attacca sempre, ovunque e con furore: è la verità ».

123 § 3 . Infedeltà – Apostasia – Eresia.

I . L’infedeltà è la mancanza di fede in una persona non battezzata. Essa è peccato in quanto è colpevole, e allora si dice incredulità. – L’infedeltà, totalmente involontaria, non è affatto peccato. Chi colpevolmente trascura di conoscere la vera fede, pecca leggermente o gravemente secondo che la sua negligenza è leggera o grave. — Finché, però, uno non ha ancora alcun dubbio ragionevole riguardo alla religione che professa, non ha alcun obbligo grave di investigare oltre. — Quando ad alcuno le verità di fede sono state sufficientemente proposte a credere, l’infedeltà è sempre peccato grave.

124 II. L’apostasia è la completa defezione dalla fede  cristiana da parte di una persona che nel battesimo aveva ricevuta la vera fede (can. 1325, § 2). Si diviene, quindi, apostata, per es. negando l’esistenza di un Dio personale o la divinità di Gesù Cristo. Non è richiesta l’incorporazione ad una setta religiosa. I fedeli che professano la dottrina del comunismo, materialista e anticristiano, e anzitutto coloro che la difendono e se ne fanno propagatori, benché a parole talvolta protestino di combattere la religione, mentre di fatto, sia per la dottrina, sia con l’azione, dimostrano di essere ostili a Dio, alla vera religione e alla Chiesa di Cristo, sono da considerarsi apostati dalla fede cattolica (S. Uff. Decr. 1 luglio 1949, AAS, XLI. 1949, p. 334). Circa la scomunica cfr. n. 437. — Coloro che soltanto si iscrivono o danno appoggio a partiti comunisti o ad organizzazioni dipendenti da essi (Gioventù comunista, Unione Donne Italiane, Associazione Pionieri Italiani, Sindacati propriamente comunisti, ecc.) peccano, ma per questo solo non devono essere considerati apostati. Circa la ammissione ai sacramenti, cfr. n. 462, 3°, 702.

III. L’eresia è un errore dell’intelletto, in seguito al quale un battezzato nega pertinacemente una verità rivelata da Dio e proposta dalla Chiesa a credere, oppure ne dubita soltanto (can. 1325, § 2). Si nega pertinacemente una verità, quando la si nega nonostante si sappia che dalla Chiesa è proposta a credere come rivelata divinamente. Chi non sa questo per ignoranza colpevole, non diventa — è vero — eretico formale, negando tale verità, ma si rende gravemente o leggermente colpevole contro la fede secondo la gravità della negligenza. Lo stesso vale di un eretico che dubita della verità della sua religione, ma per leggerezza colpevole o per negligenza non cerca di investigare oltre la verità. Allora soltanto diverrebbe eretico formale, quando tralasciasse di investigare, perché è risoluto di non farsi cattolico, anche se venisse a conoscere che la religione cattolica è la vera.

Si ha il peccato di eresia, non il delitto punito dal diritto ecclesiastico, quando uno nega una verità che falsamente ritiene sia rivelata da Dio e proposta dalla Chiesa; inoltre, quando colui che nega una verità, è credente, ma non battezzato, per es. i catecumeni; in fine, quando uno nega una verità solo internamente, ma non lo manifesta all’esterno.

Poiché l’eresia, secondo la sua intima natura, è un errore dell’intelletto, colui che solo esternamente finge di negare una verità di fede, ma internamente ne è convinto, non è eretico. Egli non incorre neppure le relative pene, quantunque in foro esterno venga considerato come eretico. Egli, non di meno, pecca gravemente per la negazione della fede.

Benché chi dubiti pertinacemente di una verità di fede sia eretico, pure non è eretico colui che sospende semplicemente il suo giudizio su una verità proposta da credere, senza però dubitarne positivamente; pecca ad ogni modo contro l’obbligo di fare un atto di fede. Chi, in una tentazione contro la fede, vacilla fra la resistenza e il consenso, ma non sospende con piena coscienza il suo assenso, pecca leggermente, perché resiste alla tentazione con negligenza.

Se siano eretici anche i Liberali, i Socialdemocratici o Socialisti, ciò dipende dal grado di adesione ai principi di tali partiti. È eretico per es. chi ritiene che lo Stato cristiano debba essere del tutto indipendente dalla Chiesa o che la Chiesa sia soggetta allo Stato. Similmente è eretico chi, per principio, non vuole riconoscere alla religione nessuna influenza sulla vita pubblica; chi, al posto del matrimonio, vuol sostituire il libero amore; chi afferma che la proprietà privata è un furto. — Tuttavia, per mancanza di istruzione, tali persone si trovano, alle volte, in buona fede. Se sia lecito al confessore di lasciarle così dipende dalla qualità del loro errore e dal maggiore o minore scandalo che danno. In particolare, sono da tener presenti, anche le istruzioni dei singoli vescovi. Poiché l’eresia presuppone una rivelazione divina, non è eretico chi nega una verità che è proposta a credersi dal magistero infallibile della Chiesa, ma che non è rivelata da Dio; pecca però gravemente. — Chi aderisce a una dottrina, la quale fu bensì condannata, ma non dal magistero infallibile della Chiesa, pecca non contro la fede, ma contro l’obbedienza dovuta alla Chiesa, fin tanto che non sia certamente dimostrato il contrario. – L’approvazione, da parte della Chiesa, di rivelazioni private importa soltanto che esse non contengono nulla contro la fede e i buoni costumi. Chi le nega, perché non persuaso che vengano da Dio, non pecca mai gravemente.

Nota: Lo scisma.

Lo scisma è ordinariamente congiunto con l’eresia. In tal caso, vale per gli scismatici quanto si disse degli eretici. — Se si presenta senza eresia, non costituisce peccato contro la fede, ma contro la carità. Per maggiori schiarimenti cfr. n. 43.

– Da: Eribero Jone, O.F.M. Cap.: Compendio di teologia morale, 3a ed. it. dalla 14° tedesca; Marietti ed. 1952. –

 

Prima di aprir bocca, consiglio a coloro cui piace giocare al “piccolo teologo deficiente”, di procurarsi almeno un manuale di teologia, anche un “Bignamino” per essi va benissimo!

Si consulti pure la voce dalla Enciclopedia Cattolica in:

ERESIA

SCUDO DELLA FEDE: -IV- LE PROFEZIE

LE PROFEZIE.

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

Ciò che siano le profezie.-Loro possibilità. — Loro esistenza. — Loro oggetto.—

Loro avveramento. — Le Profezie di Gesù Cristo. — La forza dimostrativa delle profezie.

— Dunque che cosa sono propriamente le profezie?

⁕ Eccomi a dirtelo. Le profezie sono predizioni certe di un avvenimento futuro, che non si può vedere nelle cause naturali. Sono predizioni di un avvenimento futuro, e cioè le profezie devono evidentemente essere anteriori all’avvenimento, che annunziano; sono predizioni certe, cioè devono determinare tale avvenimento specificamente, ossia in termini chiari, precisi, netti, scevri di equivoci; tale avvenimento non deve essere veduto nelle cause naturali, vale a dire, deve essere tale, che non si possa in nessuna causa naturale prestabilire, che umanamente sia impossibile a conoscersi, che solamente Iddio, il quale vede anche il futuro, lo conosca.

— Vuol dire, che un medico, il quale predica le fasi e il termine di una malattia appoggiato a sintomi, che conosce per esperienza, non sarebbe profeta.

⁕ Precisamente. Come non lo sarebbe quell’astronomo, che sottopone a calcoli il cammino regolare degli astri e annunzia le loro fasi diverse, l’epoca precisa, in cui comparirà o ricomparirà quella meteora, e cose simili; perciocché tutte queste cose mercè la scienza si possono in cause naturali prevedere. E neppure non si possono chiamare profeti coloro, i quali dotati di alto buon senso pratico, da certi disordini, che avvengono tra gli uomini in questo o in quell’altro paese, ne predicono delle gravi sventure. Il vero profeta è colui, che predice gli avvenimenti futuri solo perché è Iddio onniveggente che glieli fa conoscere.

— Un profeta allora dovrà essere in comunicazione con Dio? Certamente. Il futuro, che umanamente, in nessuna causa naturale non si può conoscere, è Dio solo, che lo vede e conosce, non essendovi per lui né passato né futuro, ma tutto presente. Perciò, affinché l’uomo conosca questo futuro, bisogna che in qualche modo sia messo in comunicazione con Dio, ossia che Iddio glielo faccia conoscere.

— E in quale modo ciò accade?

⁕ Ciò può avvenire in modi vari e diversi, Iddio può far conoscere all’uomo il futuro facendolo udire direttamente al suo orecchio, o illustrando miracolosamente la sua niente, o dipingendolo al suo sguardo con simboli, segni, figure, immagini, o dandogliene un’intima persuasione, o manifestandoglielo per mezzo degli Angeli, o in altri modi simili come appunto ci apprendono i libri santi.

— Ma è possibile che Iddio riveli a certi uomini il futuro da predire!

⁕ Ascolta. Tutte le religioni, anche false, vantano dei profeti. Ora è certissimo, come meglio rileveremo in seguito, che coloro i quali passano per profeti nelle false religioni, non sono tali. Non di meno questa pretesa, che le stesse false religioni sparse per tutto il mondo hanno, di aver dei profeti non dimostra chiaro, che per tutto il mondo si è sempre ritenuto che la Divinità si ponga talora in comunicazione con l’uomo per rivelargli il futuro da predire? Ora vorresti che sia impossibile ciò, che tutto il mondo ha sempre ritenuto che non solo sia possibile, ma realmente si effettui? Lo so benissimo che i razionalisti dicono impossibile, assurda la profezia, ma per tal guisa si mettono in opposizione alle credenze ed alla storia di tutti i popoli, precisamente come fa l’ateo quando nega Iddio. Del resto ammetti tu che Dio conosca il futuro?

— Ciò sarebbe impossibile il non ammetterlo.

⁕ Vedi: se a Dio si negasse il conoscimento del futuro, bisognerebbe negargli anche la sua provvidenza, che non è altro che prevedere e regolare il presente in ordine al futuro; bisognerebbe dire che tutto il mondo si regge a caso, che Iddio deve subirne gli effetti imprevisti, che Dio è soggetto ad essere giuocato dalle sue creature. E allora non sarebbe minor male negare addirittura l’esistenza di Dio?

— Queste cose sono chiare e non abbisognano di dimostrazioni.

⁕ Dunque se Dio conosce il futuro, perché non potrà a chi, quando e come gli piaccia rivelarlo? Negando a Dio il potere di manifestarci l’avvenire, forse che gli si faccia meno torto che ricusandogli quello di conoscerlo? La profezia perciò è possibile, possibilissima.

— Vi sono dunque stati realmente degli uomini, che abbiano fatto delle vere profezie? Certo. Essi rispondono ai nomi di Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Samuele, Davide, Salomone, Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele, Amos, Malachia ed a non pochi altri. Suscitati da Dio essi comparvero sulla faccia della terra, gli uni dopo gli altri lungo il corso dei secoli, che precedettero la venuta di Gesù Cristo. Di essi chi fu semplice pastore, chi legislatore, chi giudice, chi re, chi sacerdote, chi ministro in una qualche corte regale, chi di altra condizione. Tutti con la santità della vita fecero onore alla loro missione, giacché essi menarono tutti una vita austera ed illibata, e se qualche volta taluno di essi commise qualche fallo, lo pianse poscia amaramente. Non cercarono né onori, né ricchezze, ma unicamente la gloria di Dio e la conversione delle anime, e ciò anche a costo della loro vita; difatti Isaia, Geremia, Baruch, Ezechiele e vari altri affrontarono oltraggi, tormenti e sanguinosi supplizi per quella santa ed indomabile libertà, di cui giustamente andarono alteri nella missione, che avevano ricevuta da Dio, di annunziare la verità e profetare altresì terribili castighi a coloro, che non volevano conoscerla e seguirla.

— Sta bene tutto ciò, e mi compiaccio di saperlo. Ma di qual maniera questi veri profeti attestarono di essere tali? Senza dubbio essi dovettero dare delle prove che erano divinamente ispirati in ciò che profetavano, e le prove dovevano essere esterne e certe così da togliere della loro missione ogni dubbio. E tali prove le diedero non solo con l’elevatezza del loro linguaggio, con la convinzione profonda di quel che annunziavano, con l’eccellenza della dottrina che predicavano e con la santità della vita che menavano, ma perentoriamente coi miracoli che andavano operando. Chi a conferma di una profezia che fa, compie altresì dei veri miracoli, dimostra chiaramente che è ispirato, mandato da Dio.

— E che cosa profetarono?

⁕ L’oggetto principalissimo delle profezie fu Gesù Cristo con tutto ciò che a Lui necessariamente si riferiva e congiungeva, e cioè gli Apostoli, la Chiesa, le sue sorti, la sua vita, le sue grandezze, eccetera.

— E questi profeti hanno ciascuno profetato interamente tale oggetto delle profezie? ⁕ Eh! no. Ed è questo appunto, che desta una gran meraviglia al considerarlo. I profeti furono in gran numero e di ogni età, e l’uno predisse una cosa e l’altro un’altra, e con queste predizioni particolari di ciascuno ne risultò un complesso di profezie perfetto ed esatto.

— E ciò non potrebbe essere opera del caso?

⁕ Opera del caso il complesso delle profezie? Ma prendendo tu in mano la Divina Commedia di Dante, anche quando non sapessi nulla affatto del suo autore, oseresti dire che sia opera del caso? Come mai il caso avrebbe potuto mettere insieme quei versi, quelle terzine, quei canti e formarne quell’opera magistrale? E così come potresti credere, che il caso abbia potuto coordinare ad un solo e medesimo oggetto futuro le parole di una bella schiera di uomini diversi lungo il corso di quattromila anni?

— Capisco, ciò è assolutamente impossibile. Ma è poi certo che tutte quante le profezie si siano avverate?

⁕ Certissimo. E per convincersi di ciò non occorrerebbe far altro che confrontare le profezie col santo Vangelo. In questo confronto si vedono come due copie di un medesimo libro. Senza dubbio le profezie essendosi svolte successivamente ed essendo state dette l’una riguardo a un fatto, l’altra riguardo ad un altro, fa d’uopo unirle insieme e metterle ciascuna al suo posto. Ma come quando esistono e si ritrovano i frammenti di un’antica iscrizione, con un lavoro intelligente e paziente si possono mettere assieme ed ordinarli in guisa da riavere tutta intera l’iscrizione, così si può fare e si è fatto riguardo alle profezie, giacché esse e il loro adempimento bisogna che siano considerate non isolatamente, ma nel tutto insieme.

— Amerei di intendere un saggio almeno delle profezie.

⁕ Eccomi ad appagarti. – Il precursore di Gesù Cristo, S. Giovanni Battista, fu profetato da Isaia 750 anni all’incirca, e da Malachia 450 innanzi con queste parole: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i sentieri del Dio nostro. (V. in Isaia, Capo XL, Versetto 3; ed in Malachia, Capo III, Versetto 1 e seguenti). La Madre di Gesù Cristo fu da Isaia profetata così: Ecco che una Vergine concepirà e darà alla luce un Figlio, che si chiamerà l’Emanuele, ossia Dio con noi (V. Isaia, Capo VII, Versetto l4). La città, in cui nacque Gesù Cristo, fu profetata da Michea 750 anni innanzi in questo modo: Da te, o Betlemme, uscirà il dominatore in Israele e la sua uscita è dal principio, dai giorni dell’eternità (V. Michea, Capo V. Versetto 2). Il tempo, in cui nacque il Redentore, fu indicato 1700 anni avanti dal Patriarca Giacobbe, che stando per morire disse: Non sarà tolto lo scettro dal regno di Giuda fino a che venga chi deve essere mandato, ed egli sarà l’aspettazione delle genti (V. Genesi, Capo XLIX, Versetto 10). – I profeti Aggeo e Daniele lo determinarono anche con maggior precisione dicendo, che prima della distruzione del secondo tempio di Gerusalemme doveva venire il Re della pace, e che si dovevano contare circa 490 anni della promulgazione del decreto di riedificazione di Gerusalemme alla venuta del Santo dei Santi (V. Aggeo e Daniele, Capo II). –  I miracoli, che Gesù Cristo avrebbe operati, li predisse chiaramente Isaia in questa guisa: Dio stesso verrà e ci salverà. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e le orecchie dei sordi intenderanno. Allora lo zoppo salterà come un cervo, e la lingua dei muti sarà sciolta (V. Isaia, Capo XXXV, Versetti 4, 5, 6). – La passione di Gesù Cristo fu profetata nelle più minute circostanze dell’odio dei maggiorenti di Gerusalemme, del tradimento di Giuda, della fuga degli Apostoli, della flagellazione, dello strappo delle vesti, degli insulti, della crocifissione, eccetera, da Davide 1500 anni prima, con tanti passi, che sarebbe troppo lungo ricordarti. Ma di ciò basti, perché da questo saggio poi arguire esattamente di tutte le altre profezie numerosissime e particolarissime.

— Ma ho inteso dire che Gesù Cristo da giovane apprese le profezie e poi affine di farli avverare si è acconciato alle medesime?

⁕ Già, anche questo si dice da certi pretesi sapienti dei giorni nostri. Ma dimmi un po’ come avrebbe fatto Gesù Cristo per far avverare ad esempio le profezie riguardanti la propria nascita, se egli non era Dio? Hai mai inteso dire che un uomo, sia pure il più sapiente e potente, prima di nascere si sia eletto i genitori, il tempo, il luogo, e le circostanze della propria nascita? Vedi a quali assurdi e stupidezze arrivano certi falsi dottori, che nel loro orgoglio non si vogliono arrendere alla luce della verità.

— È proprio così: non si può disconoscerlo.

⁕ E poi resterebbero a spiegare le profezie? che ha pur fatto lo stesso Gesù Cristo.

Come? Anche Gesù Cristo fu profeta?

⁕ Senza dubbio, e precisamente secondo ché i profeti dell’antica legge avevano annunziato. Basta che tu legga il Vangelo per riconoscere, come Gesù Cristo profetò la sua morte e quasi tutte le circostanze della sua passione, le persecuzioni e la morte violenta cui sarebbero andati incontro i suoi discepoli, la conversione del mondo, la diffusione del Vangelo, lo stabilimento della sua Chiesa e la sua vita immortale, cose tutte che si sono perfettamente avverate o che continuano tuttora ad avverarsi.

— È vero che Gesù Cristo profetò eziandio la totale rovina di Gerusalemme?

⁕ Sì, questa è una delle sue più celebri profezie. Un giorno discendendo egli col popolo il colle degli Olivi, vede da lungi questa sventurata città: l’anima sua si commuove ed esclama: « Gerusalemme, per te verranno giorni, nei quali i tuoi nemici ti accerchieranno con trincee e ti stringeranno d’ogni lato. Essi ti getterano a terra, te, i tuoi figli, e tutti quelli che sono entro le tue mura, e di te non lasceranno pietra sopra pietra, perché tu non hai riconosciuto i l tempo della visita di Dio ». (V. Vangelo di S. Luca, Capo XIX, versetti 43, 44). – I n altra circostanza parlando del tempio disse ai suoi discepoli: « Vedete voi tutte queste cose? Ebbene vi dico in verità, che tutto sarà distrutto e non si lascerà più pietra sopra pietra… e non passerà questa generazione prima che avvenga questa calamità » (V. Vangelo di S. Matteo, XXIV, versetti 2 e seguenti).

— E tutto ciò è avvenuto!

⁕ Ah! il furore del popolo romano giustificò alla lettera queste tristi predizioni, non ostante l’intenzione e gli ordini di Tito. E passati tre secoli dall’eccidio di quella città, Giuliano l’Apostata volle rendere inadempiuta la profezia di Cristo, ch’egli sdegnosamente chiamava il Galileo, e si accinse alla riedificazione del tempio. Ma non appena gli ebrei sotto la direzione del loro capo Alipio ebbero messo allo scoperto le fondamenta del tempio rovinato, la terra orribilmente si scuote, fiamme spaventevoli escono da ogni parte avventandosi contro gli operai e incenerendone un gran numero insieme coi loro strumenti, sicché si dovette abbandonare l’impresa; e rimosse per tal guisa le poche pietre che ancor rimanevano dell’antica casa di Jehovah, si avverava nel modo più preciso e completo la profezia di Gesù Cristo. E nota bene, che il fatto, oltreché dagli storici cristiani contemporanei, è narrato dallo stesso Ammiano Marcellino, ufficiale fidatissimo dell’imperatore Giuliano l’Apostata, il quale avrebbe avuto tutto l’interesse a negarlo, se fosse stato possibile.

— Tutto ciò è di una forza incontestabile. Ma ora vorrei intendere, come mai le profezie siano una prova della verità di quella fede, che la Chiesa cattolica insegna.

⁕ È ciò appunto, cui mirava condurti. Attento bene. Già ti ho detto che Dio solo può conoscere il futuro e comunicarne agli uomini il conoscimento, e che perciò se vi ha tra gli uomini chi abbia profetato, ossia predetto il futuro, che poi si è perfettamente avverato, non è per altra ragione se non perché Dio glielo ha o in un modo o in un altro rivelato, se non perché Dio stesso è intervenuto nelle profezie. – Ma i profeti nel mentre che hanno profetato, hanno pure insegnato una dottrina, hanno profetato ed insegnato i misteri dell’Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione di Gesù Cristo, hanno profetato ed insegnato la SS. Eucaristia, la Verginità di Maria, la fondazione della Chiesa, eccetera, eccetera: hanno profetato ed insegnato cioè quanto ha poi insegnato lo stesso Gesù Cristo, quanto hanno insegnato gli Apostoli, quanto insegna presentemente la Chiesa Cattolica. Dunque Iddio con le profezie, col suo intervento nelle medesime, ha dimostrato chiaramente la verità di tale insegnamento; giacché non è possibile, che Egli sia intervenuto per approvare la menzogna. Se fosse così, Dio ci avrebbe ingannati, avrebbe apposto il suo suggello all’errore.

— Ho inteso. Ma appunto perciò; che la Chiesa insegna la stessa dottrina che hanno insegnato i profeti, non si potrebbe pensare, che la Chiesa abbia inventati essa i libri delle profezie?

⁕ Perdona, caro mio, ma mi fai veramente ridere. Tutti i libri sacri, presso dei quali si

trovano le profezie, erano in possesso degli Ebrei molti secoli innanzi la venuta di Gesù Cristo, e 250 anni incirca prima della sua nascita furono tradotti dall’ebraico in greco con la massima fedeltà possibile, d’ordine del re d’Egitto Tolomeo Filadelfo, da settanta dotti, propriamente per accontentare i numerosi Ebrei, che dopo la conquista di Gerusalemme fatta da Nabucodònosor si erano rifugiati nel suo regno, e che desideravano avere in lingua ellenica, divenuta per essi nuova lingua madre, i Libri santi per farne la lettura nel servizio religioso del sabbath e nelle riunioni delle sinagoghe. Anche presentemente gli Ebrei conservano quei libri, i quali alla fin fine sono la condanna della loro ostinazione a non voler riconoscere la venuta di Gesù Cristo. E tutto ciò non dimostra chiaro, chiarissimo, essere assolutamente impossibile che le profezie siano state inventate dalla Chiesa?

— Sono convinto, di quanto ho appreso.

⁕ E se sei convinto, devi conchiudere che la fede cattolica, ossia il complesso di tutti gli insegnamenti della Chiesa, è vera e divina, perché a comprova di tale verità e divinità, ha le profezie perfettamente avverate, le quali hanno per autore lo stesso Iddio.

LA RETTA INTENZIONE

LA RETTA INTENZIONE.

[d. Giacomo della Vecchia: “Albe primaverili”, Libr. G. Galla, VICENZA, 1911]

Revela Domino opera tua, et dirigentur cogitationes tuæ,

[Riferisci al Signore le opere tue, ed i tuoi pensieri avranno buon effetto.]

(PROV. XVI, v. 3)

ESORDIO. — Molti cristiani si lamentano di non sapere lodare e servire il Signore … Dicono: Recito ogni dì le mie preghiere, vado alla santa Messa anche di frequente… Ma poi, lungo il giorno, la mente preoccupata dai doveri, dagl’interessi …, non ricorda il Signore. — Se vi fosse un mezzo pratico di lodare e benedire il Signore; un mezzo di farmi santo, anche fra le mie occupazioni! Miei cari, il mezzo vi è, ed alla portata di tutti…  È la retta intenzione; fare cioè tutte le cose per amore di Dio. Lo insegna lo Spirito Santo: Indirizza al Signore le opere tue, ed i tuoi pensieri (di lodarlo, servirlo, di santificarti) avranno buon effetto… Revela Domino opera tua, et dirigentur cogitationes tuæ.

Voi lo vedete: Il soggetto della nostra considerazione è della massima importanza…

PARTE PRIMA

Retta intenzione vuole dire « indirizzare a lode e gloria di Dio tutto quello che si fa, si dice, si pensa; anche le cose più indifferenti.

(a) E’ un dovere. Dio ti ha creato per la sua gloria; in gloriam suam creavit omnia Deus… Sei al mondo per lodare, servire ed amare il Signore… È il tuo fine… Dio ha tutto il diritto, che le tue azioni siano dirette a Lui solo…; perché Egli ti conserva la vita …, le forze …, la mente … ; ti aiuta …, ti sorregge… : da Lui solo viene la volontà …, la possibilità di pensare, parlare, operare … Senza la sua assistenza resteresti cieco, muto, inerte, inebetito, morresti … Dunque è giusto, è doveroso, che tutte le tue azioni, interne ed esterne, siano indirizzate alla sua gloria. Tibi sacrificabo hostiam laudis et nomen Domini invocabo. (Salmo CXV, 7).

(b) E’ necessario. — Se lavori, fatichi, operi il bene per interesse …, per fini mondani …, per seguire il tuo temperamento …, nulla guadagni per il cielo … Gesù è la vite, noi i tralci… Se stiamo uniti a Lui con la retta intenzione di glorificare il Padre celeste, la nostra vita sarà feconda… per il cielo… Se ci stacchiamo da Lui … per cercare noi stessi nel nostro operare…, per noi l’è finita! — Lavorare, faticare, soffrire per poi, al punto di morte, dover dire: Mi sono affannato tanti anni…, e nulla ho guadagnato! … Non vi pare una cosa stolta? Per totam noctem laborantes, nihil cepimus. (S. Luca V, 5). Senza la retta intenzione, cioè se ti proponi fini terreni, la pietà diventa spesso ipocrisia …, il lavoro è una speculazione, la virtù è una finzione … ; e l’anima muore di anemia e di sfinimento… Dio allora rigetta le tue opere buone … ; e che importa la stima del mondo …; senza quella del Signore?

(c) E’ utilissima. — Ogni opera buona, fatta per amor di Dio, acquista un nuovo merito ed un nuovo grado di grazia… e poi di gloria… Pratiche di pietà, fatiche, privazioni, dolori… — Le stesse azioni più indifferenti…, mangiare, bere, dormire, sollevarsi, se con retto fine, diventano meritorie per il cielo! — Quanti meriti per il Paradiso!

— Le api industriose suggono il nettare dei fiori e lo tramutano in miele dolcissimo. — Così noi dobbiamo cercare, in tutte le occasioni, di praticare l’obbedienza, la mortificazione, le virtù, con atti buoni, con pensieri santi … Ma, perché i nostri sforzi diventino miele soave che nutra l’anima, dobbiamo sempre indirizzare al Signore le nostre industrie spirituali e sante.

— Scrive S. Gregorio: Vale più una cosa piccola fatta per amore di Dio, che molte opere grandi, fatte per scopi terreni. — Per questo Gesù apprezzava i due centesimi della povera donna, e rigettava l’argento di quei signori …

— Gesù tutto accetta, anche una lagrima, un sospiro, che sia diretto a Lui …; altrimenti ti dirà: Nulla ho da darti; che sulla terra hai già ricevuto la tua ricompensa. — recepisti mercedem tuam. – Terminerò con le parole del B. Curato d’Ars: Nel cielo vivremo del patrimonio (di meriti) acquistato sulla terra; è necessario di accrescerlo a tutta possa; e noi lo accresceremo indirizzando tutto a Dio.

PARTE SECONDA

Per avere la retta intenzione, che influisca continuamente e con tanto vantaggio sul nostro operare, non occorre sforzo di mente, né ansietà …; un po’ di buona volontà …, ecco tutto… Veniamo alla pratica.

2. – Il mattino, appena svegliati, offerite al Signore la novella giornata…, con pietà, fervore, con un certo slancio…, dichiarandovi pronti a ricevere ogni cosa dalle sue mani … — Così tutte le vostre azioni giungeranno fino a Dio, che si degna accettare la nostra buona disposizione.

– Prima delle azioni principali fatevi il segno della Croce…, che garantisce il vostro proposito di volere lodare il Signore … Poi compite i vostri doveri con diligenza ed amore, perché già offerti al Signore … Giunge una tentazione? — Pronti rispondete: Vattene, o satana; quest’azione, non l’ho incominciata per te, e per te non voglio guastarla… Vade satana, Dominum Deum tuum adorabis, et Hi soli servies. (Matt. IV, 10).

— Sotto il cocente sol leone del deserto il pio solitario si reca alla lontana sorgente, per attingervi un po’ di acqua: in ispirito di penitenza, offre al Signore i suoi passi, come atti di amore … Nella silente solitudine ode una voce numerare …, uno, due, tre … — Si arresta …; silenzio … Ripiglia il cammino, e la voce misteriosa: quattro, cinque… — Confuso si volge indietro, guarda all’ingiro … Nulla di nulla … Ma, se avanza, la voce continua a numerare … ; se si arresta … ; ella si tace. Sconcertato, teme di un inganno… Ed ecco innanzi a lui un Angelo, che gli dice: Non temere, sono l’Angelo tuo Custode. Io numero i passi, che tu hai offerto al Signore …; li trascrivo nel libro della vita, e li troverai tutti al momento di morire.

— Dunque ripetete spesso con S. Ignazio: Ad maiorem Dei gloriam; tutto alla maggior gloria di Dio.

3. – Dopo le azioni, esaminatevi, se vi siete lasciati vincere dall’amor proprio; al caso, rimediate con un atto di umiltà. — Non parlate delle cose vostre, né in bene, né in male. — Non v’insuperbite del bene che avete fatto, e rigettate pronti e con disprezzo i pensieri di vana compiacenza … Ripetete a voi stessi le parole di S. Paolo: Che cosa hai che non abbia ricevuto (da Dio)? E, se hai (tutto) ricevuto, perché te ne vanti come di cosa tua ? « Quid autem habes quod non accepisti ? si autera accepisti, quid gloriaris, quasi non acceperis? (I Cor. IV.)

— La retta intenzione, ecco il grande segreto dei santi.

— Non badavano alle lodi, ed alle critiche, agli onori ed ai disprezzi. Calmi, imperterriti, diritti, come freccia sprigionata dall’arco, tendevano a Dio. Solo per Lui ed in Lui pensavano, amavano, sostenevano fatiche, persecuzioni, malattie, abbandoni … Rigettavano con sdegno i pensieri di vanagloria, di grandezze, di fini terreni, ed anelanti, ardenti, andavano esclamando: Deus meus et omnia.

— Dio solo, il mio Dio, e tutto possiedo. A questo modo nulla in essi andava perduto; ma accumulavano con un crescendo non interrotto tesori per il cielo. — Ecco i nostri modelli; imitiamoli. Qui ambulat simpliciter, ambulat confidenter. — Opus iusti ad vitam (Parab. c. 10.).

LA PERFEZIONE

LA PERFEZIONE

[d. Giacomo della Vecchia: “Albe primaverili”, Libr. G. Galla, VICENZA, 1911]

Estote ego vos perfecti, sicut et Pater vester cœlestis perfectus est.,

[Siate adunque voi perfetti, come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli.]

(MATT. V, 48)

ESORDIO. — Tutto in natura, tende a perfezionarsi con un continuo crescendo fino al completo sviluppo specifico… Anche il nostro corpo, prima piccino e quasi inerte, cresce, si muove con maggiore forza ed agilità, si perfeziona nel suo organismo… Esso però, come tutte le cose materiali, ad un certo punto si arresta, per poi lentamente declinare; e termina colla corruzione della tomba…

— Anche il nostro spirito, per sé  e di sua natura, tende ad elevarsi fino a quel grado di santità e di perfezione, che da lui esige il Signore … Il suo progresso non deve conoscere tramonto … Ma lo spirito, per il peccato originale, nella sua elevazione viene ostacolato dai sensi, dalle passioni, dalla natura decaduta… Occorre abbattere questi ostacoli, rinnegare le inclinazioni meno rette, lottare contro il sensibile, che ci tira all’ingiù… Appunto a questa lotta c’invita il divino Maestro con le sue esplicite parole : « Siate dunque voi perfetti, come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli. » Animiamoci, oggi, a questa battaglia, che apporta pace e felicità alle anime che vi si mettono con tutta la forza della convinzione e dell’ amore. Quali motivi ci spingono ad abbracciare la via della perfezione?

I . – È necessaria. — (a) Il Signore lo comanda ripetutamente nelle sante Scritture: Santificatevi e siate santi, perché io sono il Signore Dio vostro… (Levit. XX, 7).

— Dio vuole da noi soltanto la nostra santificazione ; Hæc est voluntas Dei sanctificatio vestra (S. Paolo). — Gesù Cristo è venuto sulla terra per darci la vita spirituale, ma una vita rigogliosa e feconda … Egli, vera luce del mondo, perfetto modello da imitare, verità e via di salute, ci intima esplicitamente di essere perfetti; e propone al nostro sguardo un esemplare inarrivabile di perfezione, il nostro Padre celeste. Estote ergo perfecti, sicut et Pater vester cœlestis perfectus est. – In altre parole: dobbiamo crescere ogni giorno nel bene, dobbiamo cercare di renderci continuamente migliori, avvicinarci sempre più alla perfezione del nostro buon Dio, … È un pelago immenso …, e mai si deve arrestare la candida vela dell’anima nostra … , mai volgere indietro lo sguardo, come a misurare la via percorsa …; sempre avanti, per non perdere tempo …, che la vita è breve … e sorgerà improvvisa la notte…, a sospendere il nostro cammino. – Non è cosa, questa, dei religiosi soltanto, e dei sacerdoti, ma di tutti; che tutti siamo fatti per il Paradiso… ; ed i poltroni non entreranno in quel regno beato. — Si tratta dunque della tua eterna salute. – Infatti: Se non attendi con impegno alla tua eterna salute, commetterai molti difetti … ; poi molti peccati veniali …; questi ti ridurranno debole ed inetto alla lotta contro i nemici spirituali …; cadrai nelle colpe gravi …; miseramente perirai …

II. — Vi pensi mal sul serio? Mettiti con impegno, e subito per riuscirvi.

Non è difficile. — Non occorrono grandi digiuni e penitenze …, non miracoli, o cose straordinarie… — Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore…, la mente…, le forze…; per amore di Dio ama il tuo prossimo come te stesso…; e sarai perfetto… Plenitudo legis est dilectio (Rom. XV, 10). — Più sarà grande il tuo amore, e più ti avvicinerai a Dio, la stessa carità, 1’infinita perfezione. « Deus caritas est, et qui manet in dilectione, in Deo manet et Deus in eo. (I. Ioan.; cap. IV, 16). Ma sia un amore pratico:… cioè devi osservare la sua legge, i suoi Comandamenti… — E tutti; non solo quelli che ti piacciono ; … ma tutti… « Vos amici mei estis si feceritis, quæ ego præcipio vobis ». — Li osserva conformandoti alla volontà di Dio…, nelle cose piccole e grandi, nelle facili e difficili… ; li osserva con l’essere fedele, ogni giorno, a tutti i tuoi doveri… ; col fare bene tutte le azioni della giornata… Preghiere, lavori…, occupazioni…, anche quando provi noia…, ripugnanza. – Il vangelo in due sole pennellate ci dà 1’idea più perfetta della santità di Gesù: Bene omnia fecit (S. Marco VII); ha fatto bene tutte le cose… .

— Insegna il Rodriguez: « Il nostro profitto, la nostra perfezione consiste nel fare bene tutte le nostre azioni quotidiane, i doveri di ogni giorno ».

Dunque per arrivare alla perfezione basta un po’ di buona volontà, un po’ di riflessione; e sopra tutto un po’ di pazienza nelle difficoltà… In una parola basta amare praticamente il Signore; non a parole…, ma a fatti… Ama et fac quod vis (S. Agost.),

III. – Dunque tendere alla perfezione è per noi una necessità, un dovere; non è cosa difficile da superare le nostre forze, anzi tutt’altro.

Inoltre ti deve allettare alla nobile impresa di tendere alla perfezione il pensare che:

(a) Darai gloria e gusto al Signore… Egli viene onorato ben più da un’anima amante della perfezione, che non da molte tiepide e negligenti.

(b) Sei sicuro di salvarti, perché Dio ti concederà le sue grazie in grande abbondanza; mentre troverà in te un terreno adatto e pronto…

(c) Starai brevissimo tempo in purgatorio, perché piccolo sarà il numero dei tuoi difetti volontari; e ti acquisterai un grado molto elevato di gloria nel cielo…

(d) Godrai pace e gaudio nello Spirito Santo; che la tristezza non è la porzione di coloro, che amano il Signore …

Sarai consolato con l’effluvio delle delizie spirituali, che il Signore riserva ai suoi amanti. Voluntarie sacrifìcabo tibi…, Domine -; quoniam bonum est (Salmo CXVIII, 6).

– Per riuscirvi:

1. Desidera ardentemente di amare il Signore… ; di adempiere esattamente la legge di Dio; di farti santo… Ogni giorno, procura di aumentare questo desiderio. — S. Teresa scrive: « Per fare poco bisogna desiderare moltissimo. » — Hæc est vita nostra, ut desiderando exerceamur. (S. Agost.).

2. Tieni gran conto delle piccole virtù. — Bontà di cuore in famiglia…, coi dipendenti…; prestarti, dove puoi, a fare del bene …; sopprimere quella parola pungente …; ascondere un torto ricevuto.

— Fa gran conto dei piccoli difetti. — Tronca quel risentimento …; raffrena quello scatto di collera …; evita l’alterigia nel parlare…, la facilità di giudicare …; fuggi le inutili curiosità…, l’affetto sregolato alle vanità, alle grandezze, alle lodi… Ogni giorno, quindi, lavora a correggere, ad addolcire il tuo carattere … Tieni presente: Chi è fedele nelle cose piccole, lo sarà pure nelle grandi.

3. Non ricusare al Signore la minima cosa… Ti chiederà il sacrificio di quell’oggetto, di quella persona, di quell’occasione, di quell’ideale da te tanto vagheggiato…

Ti dirà: Rinnega te stesso, prendi la tua croce, di malattie, di povertà, di umiliazioni, di abbandoni, di strazi del cuore… Ti dirà: Seguimi al calvario, al flagelli, alle spine, alle agonie, alla morte… E tu rispondi con slancio ed entusiasmo: Paratum est cor meum, Deus. Signore, sono pronto; ti seguirò dovunque tu mi condurrai, sequar te quocumque ieris; ti seguirò in tutti i giorni della mia vita …, nel cielo … Tu autem Deus noster suavis et verus es, patiens, et in misericordia disponens omnia (Sap. XV).

— Ecco la perfezione!