CONOSCERE SAN PAOLO (7)

CONOSCERE S. PAOLO -7-

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LETTERE AI CORINTI

La chiesa di Corinto. (3)

II. LE VITTIME SACRIFICATE AGLI IDOLI.

– 1. I TRE CASI. — 2. SOLUZIONE.

1 . La religione greco-romana era tutta di riti e di pratiche. Si poteva pensare e dire degli Dei immortali quasi tutto ciò che si voleva, purché si osservassero le usanze religiose della nazione o della città. Ma tali usanze invadevano quasi interamente la vita: lutti e gioie di famiglia, voti e ringraziamenti, solennità rituali, giochi del circo, anniversari, mille altre circostanze davano luogo a sacrifici. Le vittime, quando non venivano consumate sul posto, nelle dipendenze del tempio o nel boschetto sacro, servivano al banchetto familiare, o erano distribuite ai congiunti e anche cedute per poco prezzo ai rivenditori. Questa era, per i pochi neofiti sperduti in mezzo alla popolazione idolatra, una sorgente continua di difficoltà, di scrupoli e di pericoli. Bisogna credere che avessero proposto a Paolo tre casi di coscienza che occorrevano più spesso: 1) Dovevano cessare di servirsi presso i macellai idolatri, sospetti di vendere carni offerte nei tempi o di fare invocazioni superstiziose sopra le bestie che macellavano: 2) Potevano sedere a mensa con i loro parenti o amici pagani, nonostante il timore troppo fondato di trovarvi carni consacrate agli idoli? 3) Era loro permesso, per ragione di ufficio o di convenienza, prendere parte al banchetto sacro che ordinariamente accompagnava il sacrificio? – Prima di affrontare la questione, l’Apostolo stabilisce due principi: dimostra che l’idolotito non contrae nessuna impurità intrinseca, e prova che un’azione indifferente può diventare illecita per le circostanze. Che cosa è un idolotito? Una vittima immolata agli idoli. Ma che cosa è un idolo? È una chimera, un essere fantastico, un nulla. L’idolo passa per una divinità: ora « non vi è che un solo Dio » che non è quello raffigurato dall’idolo; perciò l’idolo è un’immagine senza modello, una rappresentazione senza realtà, un’idea senza oggetto corrispondente; in una parola « l’idolo non è nulla nel mondo ». Il fatto di essere immolato agli idoli, non può macchiare un essere né sottrarlo al dominio di Dio: « Al Signore appartiene la terra con tutto ciò che essa contiene » e gli appartiene per un diritto inalienabile. Senza dubbio, chi mangiasse l’idolotito « in quanto è idolotito », cioè con la persuasione che l’offerta ai falsi dèi lo abbia reso impuro, contrarrebbe la macchia di una coscienza errata: ma sarebbe per mancanza di scienza. Ebbene, di questi spiriti deboli, di questi pusillanimi, un Cristiano illuminato, dotato di scienza, deve tenere conto: « Perché il debole, questo fratello per il quale il Cristo è morto, si perderebbe per la scienza. Perciò, peccando contro i tuoi fratelli, con dare scandalo alla loro coscienza debole, peccheresti contro il Cristo. Se un alimento scandalizza mio fratello, io non mangerò mai più carne per non scandalizzarlo (1 Cor. VIII, 13) ». Ecco il cuore e lo spirito di Paolo! Nella lunga digressione che segue, sembra che perda di vista la questione degli idolotiti; ma in realtà ne prepara la soluzione. – Egli mostra col suo esempio l’applicazione di questa massima: « Se tutto è permesso, non tutto è conveniente; se tutto è permesso, non tutto edifica. Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma quello del prossimo (X, 23) ». Forse che egli, Paolo, si vale dei suoi diritti? Egli è apostolo per il medesimo titolo dei Dodici; in ogni caso è l’apostolo incontestato dei Corinzi; potrebbe dunque vivere a spese dei fedeli; potrebbe, come gli altri Apostoli, come Pietro, come i fratelli del Signore, farsi accompagnare da una donna cristiana incaricata di servirlo. Ogni lavoratore è mantenuto da colui che lo impiega; Mosè proibisce persino di mettere la musoliera al bue che trebbia il grano. Sotto l’antica, come sotto la nuova Legge, il sacerdote vive dell’altare. Ma perché egli, Paolo, ha rinunziato al suo diritto? Perché vuole che la sua condotta non ostacoli la diffusione del Vangelo; perché ama il suo buon nome e la sua indipendenza; perché aspira al merito di un apostolato assolutamente gratuito e disinteressato; perché vuol essere per i neofiti un modello di distacco ed un esempio vivente di abnegazione; perché facendosi tutto a tutti, Ebreo con gli Ebrei, Gentile con i Gentili, spera di salvarne almeno alcuni; perché finalmente vuol poter dire ai neofiti: “Imitate me, come io imito il Cristo”.

2. Alla luce di questi principi, i due primi casi di coscienza sono già risolti. Il Cristiano può, come tutti gli altri, comprare al mercato le carni che vi trova, senza preoccuparsi della loro provenienza; ancorché siano state offerte agli idoli, questa offerta non fa nulla. Può anche accettare gl’inviti e mangiare senza scrupoli di tutto ciò che gli viene servito; ma se qualcuno fa notare la presenza di un idolotito, bisogna astenersene, perché quell’osservazione dimostra che se ne prende scandalo o lascia supporre che si prenderà scandalo, e la carità ci obbliga ad evitarlo. Si potrebbe credere che il terzo caso sia simile al precedente, invece ne è separato da un abisso. Prendere parte ad un banchetto sacro con gli adoratori dei falsi dèi è un motivo legittimo di scandalo. Che si direbbe di un Cristiano che sta alla mensa degli idoli? Vi è inoltre pericolo prossimo d’idolatria, come lo dimostrano gli Ebrei i quali, dopo di aver attraversato il Mar Rosso e di essere passati sotto la nube luminosa, doppia figura del Battesimo, dopo di aver mangiato la manna e di aver bevuto l’acqua miracolosa dell’Horeb, tipo dell’Eucaristia sotto le due specie, furono invitati al banchetto di Beelphegor e adorarono il dio. Ma, indipendentemente dallo scandalo e dal pericolo prossimo, la partecipazione al banchetto sacro è per se stessa un atto idolatrico. San Paolo lo dimostra con due argomenti di analogia. Gli Ebrei che consumano le vittime offerte nel Tempio, come tutti ammettono, entrano in comunione con l’altare. Nessun Cristiano ignora che bere al calice e rompere il pane consacrato è comunicare col sangue e col corpo del Cristo: « Io non voglio, soggiunge l’Apostolo, che siate i commensali e gli alleati dei demoni. Voi non potete bere il calice del Signore e la coppa dei demoni; voi non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni (1 Cor. X, 20-21) ». – Presso tutti i popoli, la mensa forma tra i convitati una specie di vincolo sacro che diventa più intimo e più santo quando il banchetto è la consumazione del sacrifizio. Nel banchetto religioso vi è l’unione ordinaria tra ospite e invitati, l’unione con il sacerdote sacrificatore, perché la consumazione della vittima è il compimento del sacrificio, l’unione vera o supposta con la divinità creduta presente in mezzo ai suoi adoratori, l’unione con la vittima stessa che è il veicolo di benedizioni. È manifesto che queste unioni — almeno le ultime tre — costituiscono un vincolo religioso. Non si tratta dunque più di carità o di edificazione, ma della stessa religione. – Un atto di culto fatto in onore di una falsa divinità, si voglia o non si voglia, è un atto idolatrico. Non già che gli idoli abbiano un’esistenza reale o che l’offerta agli idoli possa macchiare una creatura: San Paolo ha affermato or ora che non vi è nulla, e non si contradice affatto; ma i sacrifici che non sono offerti al vero Dio si credono offerti ai demoni, ed è infatti il demonio quello che ne trae vantaggio. [Questo succede nel mondo odierno un tempo Cattolico, invaso dalla setta modernista del « novus ordo », nel cui rito, denominato “novus ordo missæ” il “Sacrificio” viene offerto al “signore dell’universo”, cioè al baphomet-lucifero, il demone della setta massonica – il nuovo rito infatti venne messo a punto, su commissione del patriarca degli illuminati, l’ebreo G. B. Montini, ai massoni Bugnini e a sei “periti” protestanti – partecipare a questo rito demoniaco è appunto culto idolatrico, come quello che S. Paolo giustamente proibiva come pratica aberrante anticristiana -ndr-]. Qualcuno domanda come Paolo concordi da una parte col decreto apostolico e dall’altra con la tradizione ecclesiastica. Il decreto di Gerusalemme era temporaneo e locale; come semplice provvedimento disciplinare, essenzialmente variabile, proposto da San Giacomo con un fine di conciliazione per smorzare gli urti tra i neofiti Ebrei ed i Gentili nelle chiese miste, esso obbligava direttamente soltanto i fedeli di Antiochia, della Siria e della Cilicia. San Paolo aveva creduto bene di promulgarlo anche nella Galazia e probabilmente anche in Asia dove gli elementi delle comunità cristiane erano i medesimi; ma non aveva nessuna ragione di estenderlo a Corinto dove l’elemento ebreo-cristiano doveva essere minimo. D’altra parte la soluzione liberale data per Corinto, non impegnava affatto l’avvenire. Era naturale che, dopo il trionfo del Cristianesimo, si adottasse una soluzione più rigorosa. Non si poteva più invocare la necessità morale, e non vi era più motivo di dare ai sacrifici pagani quella specie di cooperazione materiale che poteva sembrare un incoraggiamento. Gli idolotiti furono dunque proibiti come i giochi del circo, sia per ragione dello scandalo divenuto inevitabile, sia per ragione del pericolo prossimo. Non bisogna neppure stupire se certi Padri, perdendo di vista l’insegnamento di Paolo, arrivarono a considerare gli idolotiti come macchiati dalla sola offerta agli idoli e proibiti soltanto per questo.

III. L’AGAPE E L’EUCARISTIA.

1. IL VELO DELLE DONNE. — 2. I QUATTRO ABUSI DELLE AGAPI. — 3. L A PROFANAZIONE DELL’EUCARISTIA.

1. Dovunque si trovavano nuclei di fedeli, si stabilirono pubbliche riunioni. Fu scelto di preferenza il primo giorno della settimana, chiamato, fino dai tempi di San Giovanni, il giorno del Signore (Apoc. I, 10). – Vi furono da principio, come si praticava sotto Traiano, due assemblee distinte, una per l’istruzione e l’altra per la frazione del pane! La prima Epistola ai Corinzi lo fa supporre. Infatti i catecumeni e i pagani assistevano alle riunioni in cui profeti e glossolali sfoggiavano i loro carismi (1 Cor. XIV), ma non è probabile che essi fossero ammessi alla celebrazione dei misteri. Paolo non ha il proposito di descriverei quelle assemblee, ma vuole soltanto correggere gli abusi che vi si erano introdotti dopo la sua partenza. I particolari più familiari non si scrivono, e quando si toccano di passaggio, questo si fa appena con qualche allusione. In grazia delle difficoltà dei Corinzi, si solleva un lembo del velo; troppo poco per soddisfare la nostra curiosità, ma abbastanza perché possiamo dare uno sguardo discreto sul funzionamento delle chiese nelle loro origini. Nelle città greche in generale, le donne godevano di una gran libertà, e Corinto non poteva essere per loro una buona scuola di riservatezza e di modestia. Sembra che parecchie assistessero senza velo alle assemblee religiose e che si permettessero anche di prendervi la parola. Paolo condanna questa pratica come sconveniente, come contraria al costume delle altre chiese e come opposta ai suoi stessi insegnamenti (1 Cor. XI, 16). È evidente che nei costumi di quel tempo l’andare a capo scoperto era segno di autorità e di autonomia, mentre il velo era simbolo di timore, di lutto, di soggezione. Ora il Cristianesimo che veniva ad emancipare la donna, a rialzarne la condizione sociale, a restituirle il suo posto d’onore nel focolare domestico, non le assegnava nessun posto nelle funzioni sacre della gerarchia ecclesiastica. Per legge di Dio e per l’ordine naturale, la donna è soggetta al marito, e il suo contegno esteriore deve esprimere questa dipendenza. L’Apostolo glielo ricorda e le fa un dovere di ricordarsene in chiesa: « il capo della donna è l’uomo, il capo dell’uomo è il Cristo, il capo del Cristo è Dio (1 Cor. XI, 3) »; questa è la gerarchia legittima. Il Cristo, capo supremo della Chiesa sotto l’alta sovranità di Dio, ha riservato all’uomo solo la potestà dell’ordine, e per mezzo dell’uomo esercita la sua giurisdizione; la donna è all’ultimo posto, senza autorità propria. L’uomo e la donna, come si vede, sono presi in significato collettivo, e perciò non vi è nulla che si opponga alla loro disuguaglianza individuale né alle loro relazioni reciproche di superiore e d’inferiore. Ma San Paolo vuole che la gerarchia dei sessi sia espressa sensibilmente nelle funzioni liturgiche. L’uomo che prega o che profetizza in chiesa a capo coperto, disonora il suo capo, perché volontariamente rinunzia alla dignità gerarchica di cui il Cristo lo ha onorato; una donna che preghi o che profetizzi a capo scoperto, disonorerebbe il suo capo, perché dimostrerebbe con tale atto un’arroganza e una sfrontatezza poco convenienti al suo sesso e al suo grado inferiore; sarebbe, dice l’Apostolo, come se avesse il capo raso. Nel mondo pagano si radevano le persone vili: in Grecia le schiave, a Poma le ballerine e le cortigiane, come segno distintivo dei loro vergognoso mestiere. – La storia della creazione dà alla donna la stessa lezione di riservatezza. L’uomo è in certo modo il riflesso diretto delia maestà divina, mentre la donna è come l’immagine di un’immagine. Nel formare la donna Dio disse: Facciamo all’uomo un aiuto simile a lui », e l’uomo è preso come modello. Inoltre la donna è tratta dall’uomo, come l’uomo era stato tratto dalla materia inerte. Finalmente « la donna è fatta per l’uomo »; perché « non era bene che l’uomo fosse solo ». Ecco tre motivi di subordinazione che lo Spirito Santo le offre da meditare. Del resto anche la natura è concorde con la rivelazione, per insegnare alla donna la modestia e la decenza. La natura le ha dato una capigliatura a guisa di velo; è per lei un ornamento ed un onore di cui non può essere privata senza subire un affronto. Sarebbe invece vergogna per l’uomo il coltivare la capigliatura, come fanno certi effeminati senza pudore per i quali la voce della natura non conta nulla. L’Apostolo riassume il suo pensiero in questa frase alquanto enigmatica: « Perché la donna deve avere sul capo il segno dell’autorità (dell’uomo) per causa degli angeli (1 Cor. XI, 10) », testimoni della subordinazione originaria dei sessi nel giorno della creazione, e invisibili ma severi custodi del cristiano nei luoghi consacrati alla preghiera e ai riti augusti. Queste considerazioni sono profonde, e i Corinzi erano disposti a trovarle troppo sottili. Paolo prevede l’obbiezione e vi risponde subito, opponendo ai ragionatori la pratica delle altre chiese e il suo insegnamento formale (ivi, XI, 16). La Chiesa dunque, appena nata, aveva già le sue usanze fisse a cui il fedele era tenuto a conformarsi, anche quando non ne avesse compreso o apprezzato le ragioni. – Gli Apostoli poi avevano il diritto riconosciuto di dettare leggi e di farle osservare: la loro autorità troncava ogni questione.

2. Paolo era venuto a conoscere altri abusi, dalla relazione di testimoni che ha la delicatezza di non nominare: “Nel darvi questo comando (riguardo il velo delle donne) non vi lodo che vi raduniate non con profitto, ma con Anzitutto dunque radunandovi voi nella chiesa, sento esservi scissure tra voi, e in parte lo credo. Poiché è necessario che vi siano anche eresie, affinché si palesino quelli che tra voi sono di virtù provata. Quando dunque vi radunate insieme, non è già un mangiare la cena del Signore. Poiché ciascuno prende prima a mangiare la sua cena, e uno patisce la fame, un altro poi è ubriaco. Ma non avete voi case per mangiare e bere? Ovvero disprezzate la Chiesa di Dio e fate arrossire quelli che non hanno nulla? Che vi dirò? Devo lodarvi? In questo non vi lodo (1 Cor. XI, 17-22). – Una delle più commoventi istituzioni del secolo apostolico erano le agapi. Trionfo dell’eguaglianza e della fraternità cristiana, rappresentazione viva dell’ultima cena di Gesù Cristo su la terra, simbolo del banchetto che deve riunire gli eletti intorno al trono di Dio, le agapi erano nel tempo stesso, come dice eloquentemente San Giovanni Crisostomo, « un’occasione di carità, un mezzo di soccorrere la povertà e di nobilitare la ricchezza, un grande spettacolo di edificazione e una scuola di umiltà ». Congiunte con l’Eucaristia che esse talora precedevano, in segno di unione fraterna tra i comunicanti e in ricordo dell’ultima Cena, e che per lo più seguivano, in segno di gioia spirituale e di ringraziamento, le agapi erano un annesso e un compimento dell’Eucaristia. Esse però erano molto esposte a perdere il loro carattere liturgico e a degenerare in un banchetto profano simile a quello delle eterie o di altre associazioni pagane. Fino dal tempo degli Apostoli ne nacquero gravi abusi che San Paolo, San Pietro e San Giuda dovettero reprimere. Ben presto l’Eucaristia fu separata dall’agape; poi a poco a poco questa fu limitata a poche solennità commemorative, o trasformata in un banchetto offerto ai poveri da persone ricche. La difficoltà che incontrò la Chiesa per estirpare quelle antiche usanze, dimostra quanto fossero radicate e vive. La liturgia ne ha conservate alcune tracce nella cerimonia dell’offerta, nella distribuzione del pane benedetto, nel banchetto offerto il giovedì santo a dodici poveri, e forse anche nel bacio della pace. – Nelle agapi dei Corinzi si notavano quattro abusi: i fedeli si dividevano in gruppi distinti di parenti e di amici, il che distruggeva la bellezza apostolica del banchetto fraterno; — invece di mettere tutto in comune, ciascun gruppo consumava le sue provviste con un egoismo ingiurioso e urtante; — i primi arrivati si mettevano a tavola senza darsi pensiero dei ritardatari; — finalmente, e questo era il colmo dello scandalo, alcuni dimenticavano totalmente il rispetto dovuto all’assemblea e si abbandonavano agli eccessi del bere. Il comportarsi in tale maniera davvero non era più celebrare la Cena del Signore, ma era fare un volgare banchetto, ciascuno per conto suo, così poco religioso come gli eranoi dei pagani. Paolo non discute la legittimità delle agapi; egli che insorge con tanta forza contro le donne così ardite da comparire nell’assemblea senza velo o da prendere la parola in pubblico, contro l’usanza delle altre comunità cristiane, con quale tono non condannerebbe l’usanza delle agapi, già guaste dagli abusi, se fossero soltanto particolari e locali! Bisogna dunque conchiuderne che esse erano in vigore nelle chiese fondate da lui, come pure a Gerusalemme: per questo, invece di sopprimerle, si limita a regolarle. Egli ordina di aspettarsi vicendevolmente, di fraternizzare con tutti, di ricordarsi che il banchetto liturgico non ha lo scopo di saziare la fame e la sete — non si va in un luogo sacro, per questo — ma di commemorare la Cena del Cristo, di simboleggiare la carità e l’unione dei fedeli e di preludere così all’Eucaristia.

3. È appunto quest’ultima considerazione quella che predomina, e non bisogna cercare altro nesso tra i due passi relativi all’Eucaristia e alle agapi. Veramente non sembra che gli abusi si fossero introdotti nella celebrazione stessa dell’Eucaristia; almeno San Paolo non ne dice nulla. Ma per ragione della loro intima unione, i disordini delle agapi avevano la loro ripercussione sui santi misteri dei quali non erano più il preludio, ma la profanazione anticipata. “In questo non vi Io infatti ho appreso dal Signore quello che ho anche insegnato a voi, che il Signore Gesù, in quella notte in cui era tradito, prese il pane, e rese le grazie, lo spezzò e disse: questo è il mio corpo il quale sarà dato (a morte) per voi: fate questo in memoria di me. Similmente anche il calice, dopo aver cenato, dicendo: questo calice è la nuova alleanza nel sangue mio: fate questo, tutte le volte che lo berrete, in memoria di me. Perché ogni volta che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore, fino a tanto che Egli venga. Per la qual cosa chiunque mangerà questo pane e berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Provi perciò l’uomo se stesso, e così mangi di quel pane e beva di quel calice. Poiché chi mangia e beve indegnamente, si mangia e beve la condanna, non distinguendo il corpo del Signore. Per questo molti tra voi sono infermi e senza forze, e molti dormono. Che se ci giudicassimo da noi stessi, non saremmo certamente giudicati. Ma quando siamo giudicati, siamo castigati dal Signore, affinché non siamo condannati con questo mondo (1 Cor. XI, 22-32). – Coloro che nei dogmi cristiani vogliono vedere soltanto il termine di una lenta evoluzione e la risultante di lunghi sforzi i quali finiscono con combinarsi, dopo di aver agito per lungo tempo in senso contrario, si devono trovare assai imbarazzati dopo la lettura di questo passo, scritto meno di trent’anni dopo l’istituzione dell’Eucaristia, e di una autenticità indiscussa. Il linguaggio teologico di oggi non descrive con termini più precisi e più espliciti il più consolante e il più ineffabile dei nostri misteri. Paolo ha appreso questa dottrina dal Signore stesso, lo dice espressamente, perciò non si può intendere che parli di una rivelazione fatta per mezzo di un intermediario, la quale non lo distinguerebbe per nulla dal meno favorito dei fedeli. Da molto tempo si è notato che nel racconto dell’Eucaristia, Luca dipende da Paolo, come Matteo e Marco sembrano dipendere l’uno dall’altro, senza che si possa dire con certezza da qual parte sia l a priorità (Matt. XXVI, 26 – Marc. XIV, 22). Tra Paolo e Luca vi sono soltanto tre differenze di minima importanza, nessuna delle quali altera il senso. — Nella consacrazione del pane, l’Evangelista esprime il verbo che San Paolo sottintende. Egli dice: « Questo è il mio corpo che è dato per voi », mentre l’Apostolo, secondo la lezione più accreditata, dice semplicemente: « Questo è il mio corpo il quale (è) per voi » (τὸ ὑπὲρ ὑμῶνto uper umon); ma è chiaro che questa espressione ellittica vuole una parola che la completi, e noi non possiamo scegliere che tra dato e immolato, secondo che vogliamo vederci o no un’allusione al sacrifizio del Calvario. — Nella consacrazione del calice, la relazione tra i due scrittori è pure strettissima; le parole dell’istituzione sono riferite così: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue (Matt. XXVI, 28 – Marc. XIV, 22) »; ma San Luca aggiunge: « che è versato per voi ». Questa aggiunta era già virtualmente contenuta nella parole « sangue dell’alleanza », perché data l’allusione formale alla conclusione dell’antica alleanza, quel sangue non può essere altro che il sangue del sacrificio, sparso in favore di coloro dei quali esso sigilla il patto della riconciliazione. — Più lieve ancora è l’ultima divergenza. A ciascuna delle due formule Paolo aggiunge il precetto: « Fate questo in memoria di me »; San Luca la tralascia la seconda volta come superflua, essendo inseparabili le due parti del rito sacramentale. Non si può negare che, nell’uno e nell’altro, la consacrazione del carice presenta una certa difficoltà. Nella formula: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue », con o senza l’aggiunta: « che è versato per voi », l’oscurità non dipende affatto dalla metonimia comunissima che prende il calice per il suo contenuto;, deriva invece da una figura del linguaggio meno comune, figura che consiste nel prendere la causa per l’effetto o l’effetto per la causa, cioè l’alleanza conchiusa nel sangue, per il sangue che sigilla l’alleanza. Però se si tiene conto del parallelismo con la prima consacrazione: « Questo è il mio corpo », la quale sembra che chiami la formula corrispondente: « Questo è il mio sangue »; se ci riportiamo alle parole dell’Esodo ricordate nella formula; se finalmente si riflette che, in tutto il contesto, San Paolo adopera indifferentemente le espressioni « bere il calice » e « bere il sangue del Signore » come assolutamente sinonime, non si esiterà a conchiudere che la nuova alleanza nel sangue equivale al sangue della nuova alleanza. In questa espressione complessa, Paolo e Luca mettono in rilievo la causa, cioè il sangue. Dunque non si comprenderebbe come mai San Tommaso giudicasse insufficiente la formola di San Paolo, se — cosa strana — non sostenesse che è insufficiente anche quella dei due primi Sinottici (S. Th. III, q. LXXVIII, ART. 3): dal che seguirebbe che nessuno dei quattro scrittori sacri ci avrebbe trasmesso, neppure nella sostanza, la vera formula della consacrazione, e che le chiese orientali non avrebbero avuto mai vero sacrificio. Le allusioni al sacrificio, nelle diverse formole di consacrazione, si riferiscono al sacrifizio della croce o al sacrifizio dell’altare! Bisognerebbe certamente accettare la prima alternativa, se il futuro tradetur della Volgata traducesse esattamente il testo. Ma questa parola o risponde a un participio presente, o più probabilmente non corrisponde a niente affatto, poiché la lezione migliore sembra che sia: « Questo è il mio corpo il quale (è) per voi ». Questa impressione viene confermata quando si confronta con la formola di San Paolo quella di San Luca: « Questo è il mio corpo che è dato per voi », con un participio presente che indica la simultaneità del dono. Lo stesso è della consacrazione del calice: San Paolo non aggiunge nulla al ricordo del sangue della nuova alleanza, ma l’aggiunta dei tre Sinottici ha il verbo al presente e non al futuro: « che è sparso per voi, che è sparso per molti. per la remissioni dei peccati ». Si può dire, è vero, che essendo cosi vicino il sacrificio del Calvario, si può considerarlo come presente. Tuttavia questa interpretazione ha qualche cosa di stentato e di oscuro. Se questa non si accetta, bisognerà ammettere che le allusioni al sacrificio mirano direttamente al sacrificio dell’altare e non a quello della croce. – Non dobbiamo qui dimostrare che questo passo provi invincibilmente la presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia, né esaminare se le parole di San Paolo autorizzino l’uso della comunione sotto una sola specie; ma vi è un punto che merita la nostra riflessione. L’Apostolo afferma che « chiunque mangia questo pane e beve il calice del Signore indegnamente, è reo del corpo e del sangue del Signore »; che « colui che mangia e beve indegnamente, beve e mangia la sua condanna, non distinguendo il corpo del Signore ». Ma la comunione indegna ha dei gradi infiniti, dall’irriverenza fino al sacrilegio; e lo stesso è della mancanza di discernimento, più o meno cosciente e più o meno colpevole. Paolo aggiunge che per questo motivo — per questo trattamento indegno e per questa mancanza di discernimento — i Corinzi sono afflitti da malattie numerose e da morti frequenti; che quelli sono avvisi paterni che essi potrebbero evitare giudicando se stessi con maggior rigore. Ora egli ha soltanto biasimato tre o quattro abusi riguardo la celebrazione dell’agape e comanda soltanto di prendere quel pasto liturgico insieme e con decenza; è dunque molto probabile che con la parola « indegnamente » intenda non solo le disposizioni cattive, ma anche le irriverenze e la mancanza di preparazione. I severi castighi inflitti ai Corinzi, potrebbero far credere a disposizioni peggiori; ma si osserverà che San Paolo non li chiama castighi, li chiama soltanto lezioni che hanno per scopo la correzione e la salvezza dei fedeli. Ora se una condotta spensierata e una mancanza di rispetto verso l’Eucaristia sono punite in tal maniera, che supplizio non meriterà la comunione veramente sacrilega!

CONOSCERE SAN PAOLO (6)

CONOSCERE S. PAOLO -6-

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LETTERE AI CORINTI

La chiesa di Corinto. (2)

CAPO II

Casi di coscienza.

I . IL MATRIMONIO E IL CELIBATO.

1 . L’IDEALE DI PAOLO. — 2. PIENA LICEITÀ DELL’ATTO CONIUGALE E DEL MATRIMONIO. — 3. LA VERGINITÀ È MIGLIORE. — 4. MATRIMONIO INDISSOLUBILE E PRIVILEGIO PAOLINO.

1. La massima parte della prima Epistola ai Corinzi è dedicata alla soluzione dei dubbi proposti dagli stessi neofiti. Paolo si riferisce spesso alle questioni dei suoi corrispondenti (1 Cor. VII, 1), ma probabile che alla sua risposta egli mescoli pure dei punti dottrinali su cui essi non avevano pensato di consultarlo. Vi sono sei questioni principali: il matrimonio e il celibato (VII), la questione degli idolotiti (VIII- X), le agapi e l’Eucaristia (XI), l’uso e il valore dei carismi (XII- XIV), la risurrezione dei morti (XV) e la gran colletta (XVI). Questo ultimo punto sarà trattato a proposito della Epistola seguente di cui occupa due interi capitoli. Alla celebrazione dell’agape e dell’Eucaristia si connette il contegno delle donne in chiesa. Forse, nel pensiero dell’Apostolo, i carismi appartengono allo stesso argomento; ma non conviene pregiudicare nulla e lasciare ai testi la loro indipendenza. – « È bene per l’uomo evitare il contatto della donna (1 Cor. XVI, 1) ». Questa sentenza sembrerebbe una massima conosciuta, citata forse dai Corinzi per proporre la questione della legittimità del matrimonio. Paolo la ripete e, facendola sua, l’applica successivamente all’estensione delle relazioni coniugali, al celibato e alla vedovanza. Per sé, è bene il rinunziare ai diritti del matrimonio, è bene il conservare la verginità, è bene il non contrarre una nuova unione quando la morte ha troncato la prima; ma se tutto questo è buono, anche il contrario è buono, ma di una bontà minore; non si tratta di un precetto, ma di vocazione divina, di perfezione e di consiglio. Può sembrare strano, che simili scrupoli siano nati a Corinto; ma l’estrema dissolutezza dei costumi provoca alle volte reazioni esagerate. Poiché si dispera di riformare la natura, si arriva al punto di sognare di distruggerla, e accanto all’epicureo che pratica il più vergognoso libertinaggio, si alza lo stoico che vorrebbe quasi condannare il matrimonio. I gnostici ondeggiarono sempre tra questi due eccessi. Paolo rimette le cose a posto, e la sua dottrina si può riassumere in tre frasi: l’uso del diritto coniugale è lecito, ma la continenza è più perfetta; il matrimonio è cosa buona, ma la verginità è migliore; le seconde nozze sono permesse, ma lo stato di vedovanza è preferibile. Se vi è cosa certa, è che l’Apostolo viveva nel celibato, poiché la voce discorde di un Clemente Alessandrino non fa che accentuare di più l’accordo della tradizione cattolica a questo riguardo. Che egli considerasse la verginità come più eccellente del matrimonio, non è possibile dubitarne, e gli sforzi di certi scrittori eterodossi per eludere questa testimonianza importuna, non fece che mostrarla in tutta la sua evidenza. « Io voglio — dice Paolo permettendo agli sposi l’atto coniugale, ma senza imporlo — voglio che tutti gli uomini siano come me, dati alla continenza, « ma ciascuno ha da Dio il suo carisma speciale, chi in un modo, chi in un altro ». E perché non si possa prendere abbaglio sul suo pensiero, soggiunge: « Dico ai celibi e alle vedove, che per loro è bene rimanere come sono io », cioè, evidentemente, sciolti dai vincoli del matrimonio; « ma se non sono continenti, si sposino. È meglio sposarsi che ardere » del fuoco impuro.

2. Su questi princìpi, il caso degli sposi è molto semplice; a loro, come a tutti, si applica la massima generale: « È bene per l’uomo evitare il contatto della donna »; per conseguenza lo stesso è della donna verso l’uomo, essendo uguali le condizioni, come vedremo più innanzi. Ma anche a loro si applica quest’altra sentenza: « Per causa della fornicazion, cioè per causa degli atti d’incontinenza a cui sarebbero esposti, « ciascuno abbia la sua donna, e ciascuna donna abbia il suo marito ». Noi pensiamo che l’Apostolo adoperi a bella posta la formula più comprensiva, per abbracciare insieme tutti i rapporti sessuali legittimi. Egli non parla distintamente né del matrimonio da conchiudere né del diritto coniugale da esercitare, perché mira nel tempo stesso all’uno e all’altro e applica loro la stessa regola: per se stessa l’astensione è migliore, ma l’uso è buono e in certe circostanze può essere raccomandato. Egli naturalmente suppone che nessun impegno antecedente non leghi la volontà: è noto il suo giudizio severo su le vedove che violano la loro fede — voto propriamente detto o semplice promessa — e ricorda agli sposi, che essi non sono più interamente liberi di sodisfare il loro desiderio di perfezione. Poiché l’atto coniugale è per loro un vero debito, nella misura in cui il coniuge vuole valersi del suo diritto; il rifiuto di compiere questo dovere è assimilato ad un rifiuto di giustizia, il quale priva l’altro coniuge di un bene di cui non dev’essere privato. Infatti, siccome il matrimonio fa dei due sposi una sola carne, il corpo della donna appartiene al marito, e il corpo del marito appartiene alla sposa. Certamente è loro permesso il rinunziare insieme al loro diritto, ma Paolo vi mette tre condizioni: il mutuo consenso; un motivo di ordine spirituale, come sarebbe il desiderio di attendere più liberamente alla preghiera; un tempo limitato, passato il quale si devono riprendere le relazioni ordinarie, per evitare il pericolo d’incontinenza e per prevenire le tentazioni di satana. Ma appena dato questo ultimo consiglio che potrebbe sembrare un comando, l’Apostolo si affretta a soggiungere: « Dico questo per indulgenza, non già per farne un obbligo (1 Cor. VII, 6) ». Egli desiderava che tutti fossero continenti come lui, ma non vuole imporre a nessuno la continenza; anzi non potrebbe neppure farlo, poiché per quello ci vuole un dono speciale di Dio. Il permesso che egli dà, prova che l’atto coniugale è perfettamente lecito, anche per il solo fine di evitare le tentazioni del demonio e della carne, ma non per questo lo rende obbligatorio. – Questo insegnamento è così chiaro e preciso, che non sembrerebbe mai poter dare luogo a discussioni o a dubbi. Il caso dei celibi e dei vedovi differisce da quello dei coniugati, in quanto i primi sono liberi da ogni impegno; i celibi perché non ne contrassero nessuno, i vedovi perché ne sono stati sciolti dalla morte del coniuge; esso dunque si risolve con i medesimi princìpi. Il celibe può senza nessuna colpa contrarre matrimonio: « Prendendo moglie tu non pecchi, e se la vergine prende marito non pecca (ivi, VII, 28) ». Così pure: « la donna è legata finché vive suo marito; che se il marito muore, essa è libera di rimaritarsi a chi vuole, purché ciò si faccia nel Signore (ivi, 39) », cioè purché sposi un cristiano. La stessa soluzione è data per il padre o il tutore che abbia la custodia di una fanciulla e la responsabilità della condotta di lei. Se custodendola per troppo tempo dopo l’età nubile, teme per sé o per lei qualche spiacevole conseguenza — senza che sia possibile specificare con precisione quello che teme — farà bene a seguire i consigli della prudenza e darle marito. « Operando così, egli non pecca affatto »; la fanciulla e il suo fidanzato « si sposino » (ivi 36). Ma se, per una parte, non vi sono tali timori, fa bene, anzi fa meglio, per sé, a conservare vergine la sua figliuola. Certi interpreti trovano strano che il padre disponga in tale maniera di sua figlia senza consultarla, e scelga a suo talento per lei la verginità o il matrimonio. Non diremo che sia troppo il considerare la questione dal nostro punto di vista moderno d’individualismo a oltranza; non diremo neppure che, nel dubbio, una fanciulla onesta segue generalmente il parere del suo direttore naturale, ma ci limiteremo ad osservare che il consenso della figlia è implicitamente indicato nella frase: « Si sposino! » e, per il caso contrario, nell’assenza di qualunque obbligo da parte del padre. Del resto non c’è da supporre un padre o un tutore di intenzioni tiranniche, né di un despotismo arbitrario, e Paolo con tutta ragione fa astrazione da questo caso eccezionale (ivi 37-38).

3. La liceità piena e intera del matrimonio e delle seconde nozze è dunque fuori di discussione; ma non è meno certo che lo stato di verginità o di vedovanza è per se stesso migliore, e non è possibile nessun equivoco a questo riguardo. « Dico ai celibi e alle vedove: È bene per loro il rimanere come sono io (ivi, VII, 8) », cioè fuori del matrimonio. Non è soltanto questione di bene, ma di meglio, poiché è un bene che l’Apostolo augura a tutti, che vorrebbe vedere in tutti, ma che dipende da un dono gratuito (χάρισμα = karisma) di Dio. — Dopo un caloroso invito alla verginità, Paolo soggiunge: « Dico questo per il vostro bene; non per tendervi un tranello, ma per incitarvi a quello che è onesto e adatto a attaccarvi al Signore senza distrazione (35) ». L’oggetto delle raccomandazioni dell’Apostolo, l’ideale che egli propone, il mezzo di attaccarsi più strettamente al Signore, è evidentemente qualche cosa di meglio dal punto di vista spirituale. — Il padre che, dopo di aver riflettuto e debitamente pesate tutte le circostanze di tempo e di persone, conserva sua figlia vergine, « fa meglio » (38) che se le desse marito; dunque le procura un bene superiore. Le cose sono perfettamente uguali per i due sessi. Paolo parla in generale delle persone non coniugate; se fa menzione particolare delle vergini e delle vedove, è perché il maschile di questi nomi è poco usato in greco, e forse anche perché la liceità del matrimonio e delle seconde nozze per gli uomini era fuori di questione. Ma egli fa vedere a più riprese, che non stabilisce nessuna differenza tra i due sessi né riguardo a precetti né riguardo a consigli. – È infatti innegabile che egli dà dei consigli: « Riguardo alle vergini, non ho comandi del Signore, ma do un parere (ossia: esprimo un sentimento) in virtù della misericordia che Dio mi ha fatto, di essere fedele (25) ». Che fedele significhi « degno di fede » oppure « fedele banditore del Vangelo », poco importa; in ogni caso l’Apostolo mette avanti l’autorità che egli ha da Dio, per stabilire il suo insegnamento. Sopra un punto relativo alla vita cristiana, egli dà un parere motivato; esprime un sentimento che appoggia su ragioni soprannaturali e che, date le circostanze, non può essere che un consiglio, comunque lo si voglia chiamare. Quando in vita le vedove a non passare a seconde nozze, assicurandole che a suo avviso saranno così più felici, e se ne appella allo Spirito di Dio che egli crede di avere, dà egualmente un consiglio. Per questo solo, che presenta la verginità e la vedovanza come uno stato più perfetto, più vantaggioso, più gradito a Dio, senza essere tuttavia l’oggetto di un comando, egli insegna l’esistenza dei consigli evangelici. La sua preferenza per il celibato sarebbe forse suggerita da considerazioni egoistiche, da mire utilitarie, dal desiderio di evitare gl’impicci del mondo, per condurre una vita senza fastidi e senza noie? Chiunque abbia la pretesa di conoscere l’Apostolo, non si persuaderà mai che egli obbedisca a preoccupazioni così terrene, a sentimenti così bassi; ma egli stesso pensò a confondere gli interpreti indegni del suo pensiero. Egli vuole che la cessazione temporanea dei rapporti coniugali abbia per motivo il desiderio di attendere meglio alla preghiera. Egli sa che l’uomo non ammogliato, se è veramente Cristiano, « pensa a piacere al Signore », e che l’uomo ammogliato, ancorché sia Cristiano, è assorbito da idee mondane e deve « pensare a piacere alla moglie ». Egli sa pure che la vergine o la vedova può avere l’unica cura « di essere santa di corpo e di anima », mentre la donna maritata è distratta dall’obbligo « di occuparsi delle cose del mondo » e dalla sollecitudine « di piacere a suo marito ». Sotto l’aspetto spirituale, la condizione del celibe è migliore, perché può dedicarsi interamente al servizio di Dio. Ora, conchiude l’Apostolo, io voglio darvi il mezzo « di attaccarvi al Signore interamente (ivi, 32-34) ». L’instabilità delle cose umane ci dà la stessa lezione: « Io penso che è bene per l’uomo il restare così (restare vergine), per causa della necessità presente… Voglio dire, o fratelli, che il tempo è breve; dunque coloro che hanno moglie, siano come se non l’avessero, quelli che piangono, come se non piangessero, quelli che si rallegrano, come se non si rallegrassero, quelli che comprano, come se non possedessero, quelli che si servono del mondo, come se non se ne servissero; perché la figura di questo mondo passa (26-31) ». Paolo sarebbe forse assediato dall’idea della prossima parusia? Non bisogna negarlo a priori; su questo argomento, come abbiamo detto, egli non insegna nulla ed ha la coscienza di non saperne nulla; ma in mancanza di una scienza certa, poteva avere un’opinione fondata su probabilità o su congetture e, dal momento che ci avverte della sua ignoranza e protesta di non insegnare nulla, non sì vede l’impossibilità assoluta che egli regoli la sua condotta e i suoi consigli secondo tali probabilità.

4. San Paolo proclama con la stessa forza con cui la proclamano i Sinottici, l’indissolubilità del matrimonio cristiano, perché la legge che egli promulga a questo riguardo ha la stessa origine: « Alle persone coniugate ordino questo, non io ma il Signore: la donna non si separi da suo marito. Se venisse a separarsene, si astenga da una nuova unione, oppure si riconcili con suo marito. E il marito non rimandi sua moglie (ivi, 10-11) ». Paolo deve aver conosciuto per tradizione orale questo precetto del Signore, riferito dai tre Sinottici; egli lo presenta in una forma che si avvicina al testo di Marco, con differenze notevoli. In virtù di questo precetto divino è proibito alla donna separarsi dal marito, ed è proibito al marito rimandare la moglie: differenza di espressione assai delicata, per indicare l’autorità maritale, così dal punto di vista ebraico come da quello romano. — L’Apostolo prevede tuttavia il caso in cui la separazione di persona avverrà di fatto, e lascia capire che essa può essere legittima; ma in nessuna ipotesi il matrimonio non è sciolto. Infatti la donna separata dal marito non ha che questa alternativa: o riconciliarsi con lui, il che dimostra che il vincolo sussiste, oppure astenersi da una nuova unione, il che prova che la prima dura ancora. — Il rinvio della donna da parte del marito è vietato senza restrizione e senza eccezione, perché questo rinvio s’intende, per gli Ebrei come per i Gentili, come un atto che avrebbe l’effetto di annullare legalmente il contratto coniugale. Non dovendo avverarsi mai tale caso, non occorre fare a suo riguardo altre ipotesi. L’indissolubilità del matrimonio cristiano non riceve dunque da San Paolo nessuna limitazione. Come egli volentieri ripete, il matrimonio viene sciolto dalla morte (Rom. VII, 2-3). Una donna sarà sempre chiamata adultera se contrae una nuova unione mentre vive suo marito, e lo stesso sarebbe dell’uomo che si riammogliasse mentre vive sua moglie; poiché questi due termini sono correlativi, e l’Apostolo stabilisce tra gli sposi, dal punto di vista coniugale, una perfetta uguaglianza di diritti e di doveri. – Il matrimonio misto ha minore forza, e Paolo non lo chiama neppure matrimonio, ma riserva questo nome al sacramento che unisce tra loro i fedeli « In quanto agli altri, dico loro, io e non il Signore: Se un fratello ha per sposa una donna infedele, e questa acconsente ad abitare con lui, non la rimandi. E la donna che ha per marito un infedele il quale acconsente a coabitare con lei, non deve mandare via suo marito (1 Cor. VII, 12-13) ». Anche qui le sfumature di pensiero e di espressione sono mirabilmente osservate. Non è più il Signore che parla, ma l’Apostolo, certamente con lo Spirito del Signore. Egli si rivolge agli altri, a quella categoria di fedeli che non può mettere tra i coniugati, perché riserva questa parola per i matrimoni cristiani, né tra i non coniugati, poiché vivono realmente nello stato matrimoniale. Ma egli interpella soltanto il coniuge cristiano, perché la Chiesa non ha il compito di regolare la vita di coloro che non le appartengono. Egli proibisce dunque — la forma proibitiva assoluta della frase ci fa pensare a una vera proibizione piuttosto che ad un consiglio — proibisce allo sposo cristiano di rimandare la coniuge infedele, nel caso in cui questa acconsenta a coabitare con lui. Una ripugnanza istintiva malintesa o scrupoli poco fondati non sono un motivo sufficiente di separazione. « Poiché l’uomo infedele è santificato dalla donna (fedele) e la donna infedele è santificata nel fratello (ivi VII, 14) ». – Essendo i due sposi una medesima carne, ed essendo il coniuge cristiano santificato dal Battesimo, la sua santità si riflette sul coniuge infedele. Non si tratta qui della santità interiore che è incomunicabile, ma di una santità estrinseca la quale deriva dalla relazione con le cose sante, da una separazione dalle persone profane e da una consacrazione iniziale al culto di Dio. I Corinzi ammettevano questo per i loro figli, nati quasi tutti prima della loro conversione, poiché il Battesimo dei primi neofiti datava appena da tre o quattro anni; San Paolo fa loro notare che la stessa ragione milita in favore della santificazione degli sposi pagani da parte del loro coniuge cristiano. – Però « se l’infedele si separa, il cristiano si separi (anch’esso). Il fratello o la sorella non sono legati in tali circostanze, poiché Dio vi ha chiamati (per vivere) in pace. Infatti che ne sai tu, o donna, se salverai tuo marito; e che ne sai tu, o uomo, se salverai tua moglie! (19)». Il permesso è chiaro, e la condizione pure. Il cristiano può separarsi; in tal caso non è più legato; l’Apostolo, in virtù della sua ispirazione, lo dichiara libero. Però, eccetto un pericolo morale per lui, gli è permesso rinunziare al suo privilegio. Paolo permette; al più consiglia, ma non comanda. Ma avverandosi il caso della separazione, egli toglie alla parte cristiana ogni rimpianto e ogni scrupolo, ricordandole che Dio c’invita alla pace, e che la speranza lontana e incerta di convertire un giorno il coniuge rimasto infedele, non le potrebbe imporre il sacrificio della pace, della gioia e della libertà. Bisogna soltanto che il coniuge non cristiano si allontani per il primo, o rifiutando di coabitare o rendendo la coabitazione pericolosa o moralmente impossibile, con bestemmie, con sevizie o con minacce che porterebbero lo scandalo o la guerra nel focolare domestico. Del resto questo privilegio concesso in favore della fede non è che una derogazione alla massima generale: « Ciascuno perseveri nello stato che il Signore gli ha assegnato, nel genere di vita in cui si trovava quando Dio lo ha chiamato ». A torto si volle vedere un’applicazione del privilegio di Paolo nella costituzione di Pio V (Romani Pontificis, 2 agosto 1571), il quale prescrive agli indiani convertiti di conservare, tra le altre mogli, quella che riceverà con essi il Battesimo, e di rimandare le altre; e nel decreto di Gregorio XIII (Populis ac nationibus – 25 gennaio 1585), il quale dispensa i neofiti dell’Angola, dell’Etiopia, del Brasile e di altre regioni indiane, dall’interpellare il coniuge pagano per sapere se vuole coabitare, nel caso in cui tale interpretazione sia impossibile, dichiarando validi i matrimoni contratti in virtù di questa dispensa, qualunque cosa avvenga. Nel privilegio di Paolo l’interpellazione è essenziale, se non si abbia altro mezzo per conoscere la volontà del coniuge. L’allontanamento morale di questo basta, ma è necessaria; l’allontanamento fisico accidentale non I casi di Pio V e di Gregorio XIII sono affatto diversi. Questi due Pontefici, per ragioni di forza maggiore, si servono del potere che hanno di sciogliere un matrimonio cristiano non consumato e, a più forte ragione, un matrimonio contratto nell’infedeltà. Tra i fatti considerati nei due documenti pontifici e il privilegio di Paolo, vi sono tre grandi differenze: per la causa, vi è da una parte la dispensa divina promulgata da San Paolo, e dall’altra la dispensa papale di ordine ecclesiastico; per il tempo, la dispensa del Papa scioglie l’antico matrimonio appena è applicata o notificata, il privilegio di Paolo lo lascia sussistere fino a che si conchiuda un nuovo matrimonio; per le condizioni, il Papa le determina secondo la sua saggezza, mentre Paolo ne mette una sola, il rifiuto formale o equivalente di coabitare.

CONOSCERE SAN PAOLO (5)

CONOSCERE S. PAOLO (5)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LETTERE AI CORINTI

La chiesa di Corinto. (1)

CAPO I.

Disordini e scandali.

I . PARTITI A CORINTO.

1 . STATO DELLA CHIESA DI CORINTO. — 2. COMBRICOLE E FAZIONI.— 3. SAPIENZA UMANA E VERA SAPIENZA. — 4. L’APOSTOLO COLLABORATORE DI DIO . — 5. L’APOSTOLO SERVO DEL CRISTO.

1- Sono trascorsi quattro o cinque anni dalla corrispondenza con i Tessalonicesi. Il racconto di San Luca, nonostante la sua concisione, ci permette di seguire passo per passo i movimenti dell’Apostolo. Lo abbiamo lasciato a Corinto, che insegnava in casa di Tizio il Giusto, vicino alla sinagoga (Act. XVIII, 7) . Esposto agli assalti degli Ebrei, furiosi nel vedere alcuni dei loro capi (ivi, 8-11) passare alla nuova fede, poco difeso dalla benevolenza platonica del proconsole Gallione (ivi, 12-17), egli si decide finalmente a lasciare Corinto dopo più di diciotto mesi di dimora (ivi, 18). I suoi ospiti, Priscilla e Aquila, lo accompagnano, ed egli si separa da essi a Efeso, dove ha stabilito di ritornare a stabilirsi un giorno, continua il suo pellegrinaggio in Palestina e va a riprendere lena nel suo alloggio di passaggio in Antiochia. Ma non vi si ferma a lungo: il suo zelo lo trasporta nuovamente, ed egli attraversa la Galazia e la Frigia, moltiplicando le sue fermate per completare l’istruzione dei neofiti; finalmente, secondo il suo disegno prestabilito, arriva ad Efeso. – Qui, in questo frattempo, era accaduto un fatto assai importante: un Ebreo di Alessandria chiamato Apollo, il quale si diceva discepolo del Signore ed era effettivamente stato catecumeno (ivi, 25), forse prima di lasciare la sua patria, predicava nella sinagoga quanto sapeva di Gesù e incominciava a fare proseliti. Disgraziatamente si era fermato ai preliminari della fede e non conosceva ancora il Battesimo cristiano (ivi, 25). Aquila e Priscilla ne ultimarono l’istruzione e, siccome egli desiderava di passare in Acaia, lo raccomandarono ai fratelli; ma qui pare che si sia fermato il loro proselitismo. Entrando in Efeso, Paolo vi trovò una dozzina di discepoli — probabilmente proseliti di Apollo — i quali non conoscevano altro battesimo che quello di Giovanni e non avevano mai udito parlare dello Spirito Santo. Egli, li battezzò e conferì loro lo Spirito con l’imposizione delle mani (Act. XIX, 5-6). La chiesa di Efeso deve dunque a lui la sua origine, poiché qui egli non edificò sopra fondamenta di altri. -Apollo possedeva un’eloquenza naturale, entusiasmo religioso, una parola nobile e corretta, arte di adattare le sublimi speculazioni della filosofia greca ai racconti della Bibbia, e di dare ai fatti scritturali un’interpretazione allegorica secondo il metodo di Filone (9); egli aveva dunque tutto ciò che incanta e che seduce le folle, soprattutto in una popolazione mobile e volubile come era allora quella di Corinto, ed era accaduto, suo malgrado, che egli si creasse ammiratori fanatici, decisi di abbassare qualunque altro per meglio esaltare lui. Che contrasto con le maniere semplici e familiari di Paolo, col suo stile rozzo e persino scorretto, con i suoi discorsi densi di concetti, ma privi di ricercatezze oratorie! L’autorità dell’Apostolo, in certi spiriti leggeri, veniva a soffrirne. – Erano poi sorte anche altre cause di dissenso: erano nati scandali tra i neofiti, e Paolo aveva dovuto colpire. In una lettera che non abbiamo più, egli prescriveva di tenersi in disparte dagli impudichi, e, fosse errore o fosse malizia, si era voluto in quello vedere un ordine espresso di evitare il commercio con qualunque pagano di cattiva vita, e con ragione si era trovato eccessivo quel comando. Egli voleva semplicemente proibire, come spiegò in seguito (1 Cor. V, 9-12), le relazioni con i cristiani scandalosi; ma questo stesso malinteso dimostra come certi discepoli fossero proclivi a censurare i suoi atti e ad emanciparsi dalla sua regola. La chiesa di Corinto, da lui fondata con tanti sudori, diventava di giorno in giorno meno compatta, meno omogenea, e in essa si manifestava un fermento di discordia. Quei di Cloe gli avevano recate brutte notizie (1Cor. I, 11): il fervore antico si raffreddava, si facevano combriccole che minacciavano di diventare scismi; avvenivano scandali pubblici senza provocare una repressione abbastanza energica, c’erano singolarità strane, esagerazioni di dottrina e, nel tempo stesso, attenuazioni dolorose. – L’avvenire di quella cristianità era in grave pericolo. Poco tempo dopo, Stefano, Fortunato e Acaico sbarcavano a Efeso portando una lettera in cui i Corinzi domandavano a Paolo la soluzione di parecchi casi di coscienza imbarazzanti (VII, 1). I tre messaggeri dovevano ritornare in patria per via di mare, e l’Apostolo affidò loro una seconda lettera la quale è ora la nostra prima ai Corinzi. In essa tratta gli argomenti più vari, senza altro ordine e altro legame, che i dubbi e i bisogni dei suoi corrispondenti; però in essa si vedono subito alla prima occhiata due sezioni ben distinte: la correzione degli abusi (I – VI) e la risposta ai casi di coscienza (VI – XVI).

2. Il pericolo più urgente nasce dallo spirito di parte, e l’Apostolo gli dedica il primo quarto della sua lettera: “Vi scongiuro, o fratelli, in nome del Signore nostro Gesù Cristo, che diciate tutti il medesimo, e non siano scismi tra voi, ma siate perfetti nello stesso spirito e nello stesso sentimento. Poiché riguardo a voi, o fratelli miei, mi fu significato da quei di Cloe, che sono, tra voi, contese. Parlo di quello che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo; e io di Apollo; e io di Cefa; ed io di Cristo. È egli diviso Cristo? È forse stato crocifisso per voi Paolo? Ovvero siete stati battezzati nel nome di Pania? Rendo grazie a Dio, che ho battezzato nessuno di voi, fuori che Crispo e Caio; perché alcuno non dica che siete stati battezzati nel mio nome. E battezzai pure la famiglia di Stefana; del resto non so che abbia battezzato alcun altro. Poiché Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il Vangelo; non con la sapienza delle parole, affinché non diventi inutile la croce di Cristo” (1 Cor. 1-17). – Siccome la storia dei partiti a Corinto è quasi tutta limitata a queste informazioni, non è da meravigliarsi se i critici si sono abbandonati a supposizioni. Si sono fatte quasi tutte le combinazioni possibili: ma prima di tutto, che cosa erano questi partiti! Non erano scismi, perché la parola σχίσμα (schisma) non aveva ancora il significato teologico che ebbe in seguito; non erano sette, perché tutti professavano la medesima fede, frequentavano le medesime assemblee e prendevano parte al medesimo banchetto eucaristico; non erano neppure gruppi ben definiti, perché tutti riconoscevano l’autorità di Paolo il quale ora li incoraggia, ora li esorta, ora li riprende, ora li minaccia come suoi figliuoli in Cristo. Il deposito della fede rimaneva intatto, il vincolo della carità non era spezzato, ma tutto consisteva in brighe, in rivalità personali di cui le antiche fazioni di Bisanzio e del Basso Impero, oppure le cricche che si formano anche ai nostri giorni intorno a un predicatore o ad un conferenziere rinomato, possono dare un’idea abbastanza esatta. A Corinto gli uni si dicevano di Paolo, perché egli era il loro apostolo, il loro maestro e il loro padre; altri parteggiavano per Apollo il cui ingegno li incantava; molti mettevano innanzi il nome di Pietro, il capo del collegio apostolico, la colonna della Chiesa; finalmente alcuni, credendosi più saggi e meglio ispirati, quasi che sdegnassero di infeudarsi ad un uomo, non volevano dipendere che da Cristo. Ma questa stessa pretesa di appropriarsi tutto il Cristo, disprezzando i ministri umani, dimostrava una segreta superbia e un’arroganza tracotante. Si è messa in dubbio l’esistenza a Corinto di un partito del Cristo, anche perché Clemente di Roma, scrivendo ai Corinzi circa quarant’anni dopo, non vi fa nessuna allusione, benché ricordi gli altri tre gruppi (XLVII, 3, Funk). Certi interpreti pensano che il motto: « Io sono di Cristo! » ben lungi dall’essere la parola d’ordine di un partito, sarebbe la parola d’ordine dello stesso Paolo. Ma in queste espressioni: « Sento che ciascuno di voi dice: Io sono di Paolo; e io di Apollo; e io di Cefa; e io del Cristo; è dunque diviso il Cristo? » a noi sembra arbitrario e poco naturale staccare l’ultimo membro per vedere in esso la formola stessa di Paolo, formola che egli condanna come un controsenso, domandando se il Cristo è diviso, e se sia lecito a ciascuno l’appropriarselo. Questo si vede con maggiore chiarezza in un altro passo della seconda ai Corinzi: « Se qualcuno si lusinga di appartenere al Cristo, sappia bene che anche noi gli apparteniamo (1 Cor. X, 7) », e a migliore titolo che non gli autori di tale esclusiva rivendicazione. – Un fatto incontestabile è che i personaggi il cui nome offriva ai faziosi un motto di riconoscimento, non entravano per nulla in quelle meschine rivalità, e per parte sua Paolo ne geme e se ne sdegna; ben lungi dall’attribuire a Pietro una parte equivoca, ne parla sempre con deferenza; Apollo poi è così poco sospetto d’intrighi, che è stato continuamente pregato di ritornare a Corinto, ma egli vi si è rifiutato, temendo forse d’inasprire il male con la sua presenza, e malcontento del rumore che si va facendo intorno al suo nome (1 Cor. XVI, 12). Del resto il tono della lettera dimostra abbastanza che tra i due operai evangelici regna l’armonia più perfetta; Paolo non è geloso, e Apollo non è ambizioso, ma l’Apostolo non vuol essere abbassato a danno del suo ministero e della sua legittima autorità.

3. A Corinto si trovava che egli non aveva quello che il suo collaboratore possedeva in alto grado, la La sapienza destava l’idea di speculazioni profonde o di un’arte consumata; Aristotele l’aveva definita: La scienza dei princìpi e delle cause prime; per gli stoici, era la scienza delle cose divine e umane, la regina delle virtù e lo scopo della vita. Ma l’arte, nei generi più differenti, si chiamava pure sapienza, e Omero e Sofocle, Fidia e Policleto erano sapienti come Socrate e Platone. Secondo i Corinzi, Paolo non aveva diritto a quel titolo né come filosofo né come artista né come bel parlatore. Dopo l’esperimento di Atene, egli aveva capito che né la filosofia né l’eloquenza né gli artifizi della parola avrebbero convertito il mondo, ma che bisognava predicare semplicemente il verbum crucis e lasciare che la parola germogliasse e facesse frutto da sé. Paolo non volle più sapere altro che Gesù Cristo, e Gesù Cristo crocifisso. Evitò a bella posta « i discorsi persuasivi della sapienza » umana (1 Cor. II, 1-5), « per non rendere vana la croce del Cristo ». Egli non afferma che il suo metodo sia il solo buono, ma esso era il solo applicabile a Corinto, in quel centro di spiriti ragionatori, prevenuti da una falsa sapienza contro la quale si sarebbero venuti a infrangere gli argomenti migliori. Infatti la chiesa di Corinto ha reclutati « pochi sapienti secondo la carne, pochi potenti, pochi nobili (I Cor. I, 26) ». Dio, secondo la sua tattica ordinaria, vi ha scelto quello che è insensato agli occhi del mondo, quello che è debole, quello che è vile, quello che non conta nulla, quello che non esiste, per confondere i sapienti e i potenti. Così nessuna carne potrà glorificarsi dinanzi a Lui (I Cor. I, 26-31). – Se gli scrittori profani per sapienza intendevano le alte concezioni della filosofia o l’abilità dell’artista, gli autori dell’Antico Testamento vedevano nella Sapienza la figlia dell’Altissimo e il più prezioso dei suoi doni. A questi due significati, il Nuovo Testamento aggiunge un senso peggiorativo, nato forse dall’abuso di questa parola nei sofisti greci e nei teologi rabbinici. Bisognava dunque distinguere tra la sapienza umana, la sapienza mondana, la sapienza carnale che i Corinzi attendevano invano da Paolo e di cui questi ripete loro il nome a sazietà con un’ironia vendicativa, e la sapienza vera, la sapienza divina che egli colma sempre di elogi e che augura ardentemente a tutti i neofiti (I. Cor. I, 21). – Perciò non vi è nessuna contradizione nelle sue asserzioni e nei suoi giudizi: egli non ha voluto adoperare la sapienza umana come indegna del suo ministero e ingiuriosa al Cristo; egli non ha potuto insegnare la sapienza divina agli uditori carnali, psichici, umani. – La sapienza vera e « nascosta nel mistero, predestinata da Dio prima di tutti i secoli per la gloria nostra, ignorata da tutti i principi di questo secolo, perché se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria (I Cor. II, 7-8) ». Da questa descrizione risulta che la sapienza divina concerne i disegni della redenzione e sembra confondersi con quello che San Paolo chiamerà più tardi il Mistero per eccellenza, cioè il gran segreto di Dio. relativo all’incorporazione degli uomini col Cristo nell’unità del corpo mistico. Come il Mistero, essa è nascosta nelle profondità della volontà divina; come il Mistero, ha per oggetto la nostra eterna felicità; come il Mistero, essa fu appena intraveduta nel passato, e gli stessi Angeli non la conobbero se non mediante la Chiesa, quando la contemplarono nella sua realtà concreta (Ef. III, 10): come il Mistero, essa non può essere rivelata che da Dio o dallo Spirito che scruta tutti i segreti di Dio (I Cor. II, 10); finalmente, come il Mistero, essa ha la sua realizzazione ideale in Gesù Cristo (I Cor. I, 24). La sapienza divina è dunque qualche cosa fuori dell’uomo: è la meravigliosa economia della nostra salute. Chiunque arriva a comprenderla — il che è proprio degli apostoli e dei profeti — è veramente sapiente, perché è iniziato nella sapienza di Dio. Se egli nel tempo stesso possiede a un grado eminente la facoltà di spiegarla agli altri, ha il carisma speciale chiamato « discorso di sapienza » (λόγος σοφίας), ben diverso dalla « sapienza del discorso » (σοφία τοῦ λόγου) (I Cor. I, 17). Sotto questi due aspetti, Paolo si lusinga di non cederla a nessuno.

4. Chiusa la bocca ai suoi detrattori, Paolo affronta la questione dei partiti. I Corinzi confrontano tra loro e giudicano i predicatori del Vangelo, assegnano loro i gradi, preferendo l’uno e disprezzando l’altro. Ora non vi è cosa più irragionevole, per chi comprende il carattere, la funzione e la missione degli operai apostolici. Difatti poiché gli apostoli sono « i collaboratori di Dio », l’opposizione che si cerca di mettere tra loro è ingiuriosa verso Colui che li delega e li impiega. Come « servi del Cristo e dispensatori dei misteri divini », essi non sono giudicabili dai loro subordinati e non devono rendere conto che al loro Padrone (I Cor. III, 5-23). A ciascuna di queste due idee è legato un celebre passo il cui contesto le farà meglio comprendere. Se la Chiesa è un campo, gli apostoli ne sono i coltivatori; se la Chiesa è un edificio, gli apostoli ne sono i costruttori; ma di per se stessi essi non sono nulla, assolutamente nulla. Paolo pianta, Apollo irriga, ma Dio solo fa crescere; Paolo, da abile architetto, pone il fondamento indispensabile che è Gesù Cristo, altri costruiscono su questo fondamento, ma Dio solo ha dato alla costruzione la solidità e la coesione. Propriamente parlando, Dio è il solo agricoltore, il solo costruttore, e i fedeli sono « la coltura di Dio, l’edificio di Dio ». Gli operai apostolici non sono che manuali la cui attività, senza Dio, sarebbe totalmente Vana. Formando una cosa sola con il loro Padrone, formano una cosa sola tra loro; perciò le preferenze di cui possono essere oggetto, sono ingiuriose e ingiuste. Paolo mette in scena se stesso con Apollo, sicuro che nessuno s’ingannerà sui loro sentimenti reciproci; ma citando un caso particolare, egli ha di mira e condanna tutte le chiesuole (IV). – Dal fatto che i predicatori del Vangelo lavorano come subalterni, non ne segue che non abbiano meriti né responsabilità; anzi essi hanno diritto a una ricompensa, a un salario proporzionato al loro lavoro (III, 8). Questo salario è indipendente dall’impiego esercitato, dall’ingegno adoperato e dai frutti raccolti, ma si misura unicamente dalla fatica spesa; è personale e incomunicabile, come il lavoro che esso rimunera. E poiché si tratta di salario, è una vana arguzia il pretendere che si ottenga secondo il lavoro e non in vista del lavoro, per riconoscerlo e per retribuirlo. – All’allegoria dell’agricoltura succede senza transizione quella dell’edificio da costruire. Benché, propriamente parlando, Dio sia il solo costruttore, come è il solo agricoltore, gli operai apostolici costruiscono anch’essi come subalterni, gli uni più o meno bene, altri più o meno male, mentre un terzo gruppo, di cui non dobbiamo qui occuparci, lavora soltanto a distruggere. “Noi siamo cooperatori di Dio: voi siete coltura, edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che è stata a me concessa, da perito architetto io gettai il fondamento: un altro poi vi fabbrica sopra. Badi però ciascuno come vi fabbrichi sopra. Poiché nessuno può porre altro fondamento fuori di quello che è stato posto, che è Cristo Gesù. Che se uno sopra questo fondamento fabbrica oro, argento, pietre preziose, legna, fieno, stoppie, si farà manifesto il lavoro di ciascuno; poiché il giorno del Signore lo porrà in chiaro, perché sarà disvelato per mezzo del fuoco, ed il fuoco proverà quale sia il lavoro di ciascuno. Se sussisterà il lavoro che uno vi ha sopra edificato, ne avrà la ricompensa. Se il lavoro di alcuno arderà, egli ne soffrirà danno: ma sarà salvato, così però, come per mezzo del fuoco” (I Cor. III, 10-15). – In quest’allegoria dobbiamo considerare tre termini: la natura dell’edificio, il giorno del Signore e il fuoco che prova il lavoro degli operai. – Qual è l’edifizio che gli operai apostolici hanno la missione di compiere? Non è certamente il tempio interiore che ogni cristiano innalza nell’anima sua, dallo sbocciare della fede che ne è il fondamento, fino alla perfezione della carità che ne è il comignolo, perché questo tempio di cui i fedeli sono, ciascuno per sé, gli architetti, si moltiplica secondo il numero degli individui, mentre l’Apostolo parla costantemente di un solo edificio costruito dai predicatori del Vangelo. Non è neppure la Chiesa, questo tempio dello Spirito Santo costruito con pietre viventi su la pietra angolare del Cristo, perché allora i materiali perituri che non resistono alla prova del fuoco sarebbero i peccatori e i reprobi, e allora come mai sarebbero salvi coloro che li hanno fatti entrare nella costruzione della Chiesa? Si tratta dunque evidentemente del Vangelo di cui Paolo ha stabilito a Corinto la prima base, predicando Gesù Cristo morto per la nostra giustificazione e risuscitato per la nostra gloria. Nessuno ha il diritto di spostare questo fondamento o di sostituirne un altro, ma ogni predicatore del Vangelo ha il diritto e il dovere di continuare l’edificio. Ora, siccome la costruzione è dello stesso ordine e della stessa natura del fondamento, le parti sovrapposte all’edificio fondato da Paolo saranno necessariamente le dottrine del Cristianesimo, non dottrine morte, puramente speculative, senza influenza su l’accrescimento del corpo mistico, ma dottrine viventi, operanti, capaci di trasformare la mente e il cuore di coloro che ne fanno la loro regola di vita. L’oro, l’argento, le pietre preziose sono, in gradi diversi, le dottrine utili e fruttuose; il legno, il fieno, le stoppie, materie fragili e di poca durata, simboleggiano non gli errori e le eresie, ma gl’insegnamenti frivoli, i racconti futili che servono a pascere la curiosità degli uditori, ma che non hanno una seria azione su la loro vita morale. Il sommo Giudice appare improvviso, preceduto da un fuoco divoratore. L’oro, l’argento, le pietre preziose resistono alla prova; il legno, il fieno, le stoppie sono distrutti, e gl’imprudenti operai che se ne saranno serviti, vedendo distruggersi l’opera loro, si salveranno attraverso le fiamme. – L’Apostolo, secondo il suo solito, si porta ad un tratto all’ultimo giorno che egli chiama il Giorno per antonomasia, in cui avviene la divisione dei buoni e dei cattivi con la distribuzione delle pene e delle ricompense. Ci rappresenta gli operai del Vangelo intenti ad innalzare l’edificio della fede. Essi si dividono in tre classi: gli uni demoliscono o fanno crollare invece di edificare, e il loro castigo sarà terribile, perché Dio li distruggerà, come essi cercano di distruggere il tempio di Dio. Altri costruiscono un monumento solido e vi adoperano i materiali migliori: essi riceveranno la ricompensa speciale dovuta agli operai saggi e fedeli. Gli ultimi finalmente adoperano materiali perituri: essi soffriranno danno; San Paolo non dice precisamente in che cosa, ma per lo meno non avranno le distinzioni onorifiche concesse agli apostoli ed avranno il rammarico di aver lavorato senza guadagno. Ma non è tutto: « Essi si salveranno così come per mezzo del fuoco », simili all’operaio che, adoperando materiali combustibili invece di materiali che resistano al fuoco, vedesse divampare l’incendio nell’edificio in costruzione, e fuggisse attraverso le fiamme non senza qualche scottatura, oltre il timore e lo spavento. Vi sono dunque colpe non abbastanza gravi per chiudere il cielo e aprire l’inferno, le quali tuttavia sono punite con un castigo proporzionato. Il dogma cattolico del purgatorio e dei peccati veniali trova anche nel nostro testo un saldissimo appoggio. – Non già che il fuoco di cui parla l’Apostolo sia il fuoco del purgatorio, perché questo purifica, ma non prova, senza contare che non ha nulla da fare con le opere eccellenti rappresentate dall’oro, dall’argento e dalle pietre preziose. Meno ancora è il fuoco dell’inferno, come suppongono San Giovanni Grisostomo e alcuni suoi discepoli: il fuoco dell’inferno punisce ma non prova, e si può dire, senza fare violenza al testo, che il dannato sarà salvato, cioè conservato vivo, per soffrire eternamente? Bisogna dunque scegliere tra il fuoco del giudizio e il fuoco della conflagrazione finale. Ma il fuoco del giudizio è così spesso ricordato nella Scrittura, e quello della conflagrazione lo è così poco, che non è molto probabile che San Paolo abbia voluto parlare di quest’ultimo. – L’Apostolo parla di un fuoco che prova le dottrine e le azioni degli uomini, di un fuoco che accompagna e manifesta il giorno del Signore: ora questo fuoco non può essere altro che il fuoco del giudizio. Questo fuoco che fa una parte obbligata delle teofanie, accompagna il cocchio del Signore che viene a giudicare il mondo; è un fuoco intelligente il quale renderà manifesto il contrasto fra le buone dottrine, durature come l’oro, l’argento e il marmo, e le dottrine frivole, corruttibili come il legno, il fieno e la paglia. Questo medesimo fuoco scandaglierà le coscienze degli imprudenti architetti, infliggendo loro il meritato castigo: « Saranno salvati come per mezzo del fuoco ». Qui la parola « fuoco » , ha il suo significato ordinario, ma si fa un paragone che potrebbe svilupparsi così: Saranno salvati, ma non senza dolore e senza angoscia, come si salvano attraverso le fiamma quelli che sono sorpresi improvvisamente da un incendio. – Gli apostoli sono ancora « i servi del Cristo e i dispensatori dei misteri di Dio » (I Cor. IV, 1): non soltanto i banditori, ma i dispensatori, poiché i misteri comprendono, con verità da credere, istituzioni salutari da amministrare. Come servi, essi non dipendono che dal loro padrone; come dispensatori, non agiscono che a nome e per ordine di colui che li manda. In ogni maniera essi dipendono soltanto dal giudizio di Dio, e i verdetti pronunziati sul conto loro, non hanno né valore, né certezza, né giustizia. Paolo li chiama sdegnosamente « il giorno dell’uomo », per opposizione al « Giorno del Signore »; non ne fa nessun conto, anzi egli stesso si astiene dal giudicarsi: per quanto non abbia coscienza di alcuna colpa nell’adempimento dei suoi doveri apostolici a Corinto, non è sicuro di essere giustificato dinanzi a Dio (ivi, IV, 4). È una gran lezione di umiltà e un insegnamento da non dimenticare: ancorché sentissimo di essere come era Paolo, dobbiamo operare la nostra salvezza con timore e con tremore. Non solo i Corinzi giudicavano i ministri del Vangelo e assegnavano loro dei gradi secondo le loro preferenze e i loro capricci, ma prendevano motivo di vanità dalle loro relazioni con essi e si vantavano di appartenere piuttosto all’uno che all’altro. Paolo colpisce con la satira questo ridicolo errore: « Chi dunque ti distingue? (38) ». Chi pensa, fuori di te, a riconoscerti una superiorità qualunque? Ma supposto che questa superiorità di cui ti vanti, non sia immaginaria, « che cosa possiedi tu che non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti » come di una distinzione personale? Che tu l’abbia da Pietro, da Apollo o da Paolo, che importa? In fin dei conti bisognerà sempre risalire fino a Dio. Così si verificherà la massima: « Chi vuole vantarsi, si vanti nel Signore » e non negli uomini. Non vi è nulla che autorizzi l’opinione di certi esegeti i quali suppongono che i capi di fazione siano i soli presi di mira in queste parole: i capi di fazione non sono né nominati né indicati in nessuna maniera. Paolo si rivolge a tutti i Corinzi e li avverte di non « gonfiarsi in favore di qualcuno a danno di un altro »; non in favore di Pietro o di Paolo, come neppure in favore di Apollo o di qualche altro predicatore sconosciuto. « Poiché, egli soggiunge, chi dunque ti distingue? » Chi ti riconosce quei sognati vantaggi di cui tu dai l’onore a questo o a quell’operario apostolico? Subito dopo si parla di nuovo dei Corinzi, e non si fa nessuna menzione dei mestatori. – È noto che, verso la fine della sua vita, Sant’Agostino, contro l’opinione comune, intese il Quis te discernit come allusione al discernimento divino stabilito dalla predestinazione tra gli uomini. D’allora in poi il nostro testo è divenuto classico nei trattati della grazia. Tuttavia gli atti dei Concili non deducono la necessità della grazia dal Quis te discernit stesso, ma da tutto il contesto, o più precisamente dalla frase: Quid habes quod non accestisti? da cui infatti si può dedurre. È vero che bisogna ricorrere a un doppio ragionamento, ma abbastanza semplice: si deve anzitutto ricorrere ad un argomento di parità per estendere a tutti gli uomini le parole che l’Apostolo rivolge ai soli Corinzi, anzi, secondo alcuni interpreti, ai soli fautori dei disordini; poi con un argomento a fortiori si applica ai doni della grazia ciò che Paolo dice dei vantaggi esteriori. Ma ammesso il fatto della nostra elevazione soprannaturale, resta evidente che tutto, nell’ordine della grazia, più ancora che nell’ordine della natura, dal primo raggio delia fede fino alla visione beatifica, è un dono della liberalità divina, e che l’uomo non se ne può vantare senza disconoscere la sua dipendenza e il supremo dominio di Dio.

GLI SCANDALI DI CORINTO.

– 1.LA QUESTIONE DELL’INCESTUOSO. — 2. I PROCESSI DINANZI AI PAGANI.

1 . Erano avvenuti a Corinto due fatti scandalosi dei quali si era resa complice tutta la comunità, con la sua troppo tollerante indulgenza. Venere, patrona di Corinto, vi era onorata con un culto in cui l’impudicizia dell’Afrodite greca si alleava con le turpitudini dell’Astarte orientale, Nel suo tempio mille hieroduli apertamente facevano traffico del proprio corpo, a suo profitto e onore: la prostituzione sacra era innalzata all’altezza di un sacerdozio. I costumi pubblici erano per conseguenza anch’essi di una deplorevole rilassatezza, e vivere alla corinzia era, anche per i pagani, un’ignominia. – In quell’atmosfera avvelenata, alcuni cristiani avevano subito il contagio, e uno di essi viveva in concubinato con sua matrigna, certamente vedova o divorziata. –à “Si parla di fornicazione tra voi, e di tale fornicazione quale neppure tra i Gentili, talmente che uno ritenga la moglie del proprio padre. E voi siete gonfi: e non piuttosto avete pianto, affinché fosse tolto di mezzo a voi chi ha fatto tal cosa!” (I Cor. V, 1-2). Non si tratta di commercio passeggero, ma di una unione stabile, come quella di Erode Antipa con Erodiade, moglie del suo fratello Filippo. La legge romana, così larga in materia di matrimoni, proibiva tali unioni, e gli esempi che la storia profana ne poteva offrire, erano riprovati dal sentimento pubblico, d’accordo in questo con l’istinto naturale. Ora i fedeli di Corinto non sembravano commuoversene troppo: continuavano a frequentare il colpevole e lo ammettevano nelle loro assemblee. Forse si lasciavano illudere da questa falsa massima, che il Battesimo fa del cristiano un essere nuovo, libero da tutti i suoi vincoli antecedenti ed esente da qualsiasi proibizione legale. Così agli occhi dei rabbini la conversione al giudaismo rompeva tutte le relazioni di parentela, e Maimonide insegna espressamente che è lecito al proselito sposare la sua matrigna. – L’indignazione di Paolo fu al colmo. Era sua pratica costante il sottoporre tutti gli scandalosi a una specie di scomunica la quale portava con sé la cessazione anche delle relazioni di convenienza e di civiltà. Egli aveva minacciato questa pena agli arruffoni e agli scioperati di Tessalonica, se non avessero obbedito ai suoi ordini; più tardi imporrà a Tito di evitare l’eretico ostinato, cioè il fautore di divisioni e di disordini. Nella lettera ai Corinzi, che andò perduta, ingiungeva loro espressamente di troncare ogni relazione con gli impudichi (II Tess. III). Qual è dunque ora il suo dolore nel vedere che tollerano l’infame! Presto! si allontani l’incestuoso, affinché non siano contaminati da lui. Si era, a quanto pare, verso la Pasqua, e veniva molto a proposito questa esortazione: « Non sapete che un poco di lievito fa fermentare tutto l’impasto? Togliete via il vecchio fermento, affinché siate una nuova pasta, come siete senza fermento; perché il nostro agnello pasquale Cristo è stato immolato. Solennizziamo dunque la festa non col vecchio lievito, né col lievito della malizia e della malvagità, ma. con gli azzimi della purità e della verità… Togliete di mezzo a voi il cattivo (I Cor. V, 6-8, 13) ». Queste ultime parole che contengono la sentenza definitiva di Paolo, sono un’allusione al Deuteronomio (XVII, 7, XIX, 19, etc.) il quale stabilisce la pena di morte per certi delitti. La scomunica, specie di morte simbolica, nel Vangelo sostituisce la morte reale dell’antica Legge. Egli aveva prima pensato a una pena assai più grave e più proporzionata all’enormità del delitto. – “Io però assente corporalmente, ma presente in ispirito, ho già come presente giudicato che colui il quale ha attentato tal cosa — congregati voi e il mio spirito nel nome del Signor nostro Gesù Cristo — con la potestà del Signore nostro Gesù, sia dato questo tale nelle mani di satana per morte della carne, affinché lo spirito sia salvo nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo (ivi, V, 3-5). – I canonisti, desiderosi di trovare qui un esempio di scomunica maggiore secondo le forme attualmente in uso nella Chiesa, si domandano come mai Paolo abbia potuto fulminarla e dare ordine ai Corinzi di fulminarla in nome suo, senza istruzione del processo, senza citazione né interrogatorio. Ma sono tutte questioni superflue: Paolo non pronunzia la sentenza e non impone ai Corinzi di pronunziarla; egli esprime soltanto il suo parere su la pena dovuta all’incestuoso notorio; forse insinua il castigo rigoroso che egli è risoluto di infliggere, nel caso in cui i fedeli non facessero nulla da parte loro. Per quello che lo riguarda, egli crede giusto e conveniente di abbandonare il colpevole a satana, ma non dice quali formalità si dovrebbero osservare se si dovesse venire a tale castigo. Questo castigo terribile evidentemente supponeva la scomunica, cioè l’esclusione della Chiesa con la privazione delle grazie e degli aiuti di cui la comunione dei santi è il canale; ma comprendeva pure qualche cosa di più spaventevole. Gli Apostoli che avevano ricevuto dal Signore il potere d’incatenare i demoni, avevano pure il potere di scatenarli. Il delinquente colpito da questa condanna più grave che la scomunica, veniva abbandonato alla vendetta dell’eterno nemico degli uomini e diventava preda e zimbello di satana. Ma siccome tutte le pene inflitte dalla Chiesa sono medicinali, lo scopo finale era sempre la conversione e la salvezza del peccatore. Almeno una volta nella sua vita, Paolo si servì di questo terribile potere: egli abbandonò a satana Imeneo e Alessandro per insegnare loro a non più bestemmiare (I Tim. I, 20), o piuttosto perché lo imparassero a loro spese quando fossero abbandonati, senza protezione e senza scampo, alla tirannia del demonio. Con l’incestuoso di Corinto egli è meno rigoroso; si accontenta dell’esclusione del colpevole e, se per un momento ha pensato ad un castigo più severo, lo ha fatto sempre per salvare l’anima del peccatore, affiggendo la sua carne. – Da questa dottrina si devono trarre tre corollari: la Chiesa, per comando del Salvatore e seguendo l’esempio dell’Apostolo (Matt. XVIII, 17), rivendicò sempre a sé il diritto di escludere dal suo seno i cristiani scandalosi; ma questa penalità che mira direttamente all’immunità dei buoni, mira anche alla correzione del colpevole. Né l’Apostolo né la Chiesa non si arrogano nessun potere su gli infedeli (I Cor. V,12-13): tocca a Dio il giudicarli. — Ben lungi dall’abolire l’interdizione dei matrimoni tra parenti nei casi previsti dalla Legge mosaica (ivi, V, 1), la Chiesa nascente si affrettò a sanzionarla e la estese anche di più, e infatti la troviamo in vigore dappertutto, nelle origini. — Il profondo orrore che i vizi carnali ispirano ai banditori del Vangelo, è dovuto in parte alla reazione contro la dissoluzione dei costumi pagani e in parte è ereditata dagli Ebrei presso i quali la fornicazione e l’idolatria si esprimevano con la medesima parola (πορνεία). Paolo sente il bisogno d’inculcare ai neofiti un’avversione ragionata contro quei disordini vergognosi che forse si erano abituati a guardare con occhio indifferente. I tre motivi che espone loro per distorglierli dall’impurità, derivano dalle profondità della sua teologia mistica. – La fornicazione è un’ingiustizia, un sacrilegio e una profanazione: un’ingiustizia verso Colui al quale apparteniamo corpo e anima, un sacrilegio verso Gesù Cristo di cui siamo membri, una profanazione del tempio dello Spirito Santo. –

– Un’ingiustizia. Si chiamano indifferenti le azioni conformi all’istinto naturale, che non ledono i diritti di nessuno e non hanno relazione diretta con la vita morale, come il bere e il mangiare. Lo stomaco è fatto per gli alimenti, e gli alimenti per lo stomaco; ma il rapporto del corpo con la fornicazione è ben diverso. « Il corpo appartiene al Signore, non alla fornicazione, e il Signore appartiene al corpo ». Il corpo appartiene al Signore come il membro appartiene al capo, e reciprocamente; e il segno di questa reciproca appartenenza è che Dio li risuscita, l’uno per causa dell’altro. La fornicazione, violando i diritti del Cristo su noi, è dunque un’ingiustizia. – Un sacrilegio. Chiunque abbia presenti alla mente queste due verità elementari della dottrina di Paolo, che cioè il corpo del cristiano è un membro del Cristo, e che nell’unione sessuale l’uomo e la donna diventano un solo corpo e ima medesima carne, deve logicamente conchiudere che la fornicazione prostituisce un membro del Cristo a una donna impura, in modo da identificarlo con essa: basta nominare un tale atto per mostrarne la sacrilega abbominazione.

– Una profanazione. Il nostro corpo santificato dalla grazia, diventa, come l’anima, un tempio consacrato dalla presenza delle tre Persone divine e dall’abitazione speciale dello Spirito Santo. Ora la fornicazione imbratta e viola questo tempio. In tutte le altre colpe, il peccatore abusa di una creatura estranea e pecca contro di essa distogliendola dal suo fine; qui invece egli abusa del suo stesso corpo e pecca contro di lui. Formando i complici una sola carne, non v’interviene nulla di estraneo; il corpo non è soltanto lo strumento del peccato, come nelle altre colpe, ma ne è lo stesso oggetto.

2. Nei nostri costumi presenti, il secondo abuso biasimato dall’Apostolo sembrerebbe molto leggero: un cristiano ne aveva citato un altro in tribunale. Egli aveva « chiesto giustizia agli ingiusti » (I Cor. VI, 1): così si solevano chiamare i pagani. Di qui un doppio scandalo: la stessa querela e la pubblicità clamorosa del processo. Era preferibile soffrire l’ingiustizia, che il dare ai pagani un così pericoloso esempio e mettere nelle loro mani quest’arma contro i fedeli. – Si sa che gli Ebrei, dovunque erano numerosi, avevano tribunali speciali dinanzi ai quali regolavano i loro litigi. L’autorità romana generalmente tollerava, qualche volta riconosceva quella giurisdizione eccezionale che al bisogno pronunziava, come dice Origene, anche sentenze di morte (Ep. Ad Afric., 14, – XI, 84), che però dovevano avere l’approvazione del potere supremo, oppure si dovevano eseguire clandestinamente, come nel medioevo le sentenze della Santa Veheme in Germania. Bisogna credere che gli Ebrei spontaneamente concedessero ai loro magistrati la massima competenza, e San Paolo stesso sembra che più di una volta si sia assoggettato al loro verdetto, mentre la sua qualità di cittadino romano poteva sottrarvelo: così si spiegherebbero le cinque flagellazioni di trentanove colpi, che sembrano essergli state inflitte secondo le usanze ebraiche e dopo un regolare processo. Comunque sia, egli desidera per i Cristiani un’istituzione simile: « Se avete dei processi, dice, scegliete come giudici i membri più abbietti della Chiesa ». Poi, riprendendosi subito per timore che i Corinzi non prendano sul serio la sua mordace ironia, soggiunge: « Come! non si trova in mezzo a voi un uomo saggio capace di essere arbitro tra i suoi fratelli, perché un fratello vada a querelarsi contro un fratello, e dinanzi a infedeli! (VI, 4-5) ». – I santi — e tutti i Cristiani portano questo nome — possono benissimo decidere in una querela di minima importanza, essi che un giorno giudicheranno il mondo e gli stessi Angeli (VI, 3). I teologi, imbarazzati intorno a questo giudizio, ne hanno immaginate cinque o sei specie: giudizio di comparazione, giudizio di approvazione, ecc. Ma si sono data una pena affatto inutile: il pensiero dell’Apostolo è molto più semplice. I santi giudicheranno con Gesù Cristo, come risusciteranno con Lui, saranno glorificati con lui e regneranno con Lui. Formando una cosa sola con Lui nell’unità del corpo mistico, partecipano a tutte le sue prerogative e per conseguenza anche a quella del giudizio universale. Gli Angeli sottoposti alla prova come gli uomini, saranno giudicati come gli uomini, e saranno gli eletti, con Gesù Cristo a cui sono indissolubilmente uniti, che li giudicheranno. E dunque superfluo il supporre che « gli angeli » potrebbero qui significare i sacerdoti o i demoni: ipotesi che non si può accettare, perché affatto contraria all’uso. – Sappiamo quanto Paolo fosse geloso di edificare i pagani, perché in questo vedeva un mezzo di apostolato talora efficace quanto la predicazione diretta. Questo è il principale motivo della regola che impone, la quale per natura sua doveva essere transitoria. Rimase infatti in vigore per tre secoli; fino alla conversione ufficiale dell’Impero a Gesù Cristo, quando perdette la sua ragione di essere e cadde in disuso, non si troverebbe forse esempio di un processo intentato da un Cristiano contro un altro Cristiano.

[Continua …]

 

LO SCUDO DELLA FEDE (XXVI)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXVI.

LA DIVINA INCARNAZIONE

Come Iddio stabilì di salvare gli uomini. — Se non potevano essere salvati altrimenti  — Perché Dio differì la redenzione di 4000 anni circa? — Come si salvarono gli uomini prima di essa? — Gesù Cristo vero Dio e vero uomo. — Sua intelligenza, sue volontà ed operazioni.— Se come uomo poteva far peccati, e se ebbe ogni scienza, grazia e virtù. — Se con la visione beatifica abbia realmente patito, e se sia veramente morto.

— Ed ora mi piacerebbe conoscere che cosa è avvenuto di tutta l’umanità dopo il peccato di Adamo?

Dio senza dubbio poteva lasciarla irreparabilmente nello stato deplorevole, in cui era caduta. Ma così non volle nella sua infinita misericordia. Epperò stabilì di rialzare gli uomini dal loro stato di colpa e di dare agli stessi la salute, esigendo tuttavia della colpa una adeguata riparazione.

— E che cosa vuol dire un’adeguata riparazione della colpa?

Vuol dire che siccome la colpa per ragione di quel Dio infinito, contro del quale era stata commessa, aveva rivestito il carattere di infinita, perciò a ripararla convenevolmente innanzi a Dio si richiedeva una soddisfazione di valore infinito.

— Come mai gli uomini, che sono finiti in tutto e per tutto, potevano dare questa soddisfazione infinita?

Certamente essi non lo potevano. Ed è perciò che la seconda Persona della Santissima Trinità, come fu stabilito nei divini consigli, discese dal cielo, s’incarnò e si fece uomo, per compiere questa soddisfazione. Come uomo poté meritare, e come Dio, quale restò facendosi uomo, poté comunicare ai suoi meriti un valore infinito ed ottenere che agli uomini fosse restituita la grazia santificante, e volendolo, potessero salvarsi coll’acquisto eterno del cielo.

— Fu adunque obbligata la seconda Persona della Santissima Trinità ad incarnarsi.

Che cosa dici mai? In nessuna maniera e da nessuno il Verbo di Dio ricevette tale obbligo. Ciò egli fece per comprovarci l’immenso amore che ci portava e per cattivarsi nel modo più efficace l’amore nostro, ma liberamente, senza essere in nessun modo costretto o forzato, perché né il Padre celeste poteva obbligare il suo Divin Figlio innocente e giusto a vestirsi di umana carne per morire poscia su di una croce per i peccatori; né gli uomini avevano alcun diritto a che il Divin Figlio facesse ciò.

— Ma Iddio non avrebbe potuto perdonare il peccato senza esigerne un’adeguata riparazione, epperò salvare gli uomini in altro modo senza farsi uomo?

Di potenza assoluta certamente avrebbe potuto perdonare il peccato senza esigerne alcuna soddisfazione, o accettando la soddisfazione che gli fosse stata offerta da qualche santa creatura, per esempio da un Angelo. Ma egli volle, come sopra dicemmo, una condegna soddisfazione della colpa, epperò volle operare la nostra salvezza con la divina Incarnazione. E di ciò noi non dobbiamo cercare a Dio il perché, sebbene possiamo riconoscere che il modo scelto da Dio per la salvezza nostra fu convenientissimo, restando così pienamente soddisfatta la Divina Giustizia e venendo manifestati in un grado incomparabile gli altri divini attributi, come la Clemenza, la Sapienza, l’Onnipotenza, eccetera.

— Ma per lo meno non poteva egli salvarci senza sottostare alla morte? Mi è accaduto più volte di sentir a predicare che a salvarci sarebbe bastata una goccia di sangue, una lacrima, un sospiro di Gesù: perché dunque non si è contentato Egli di questo?

Sì, assolutamente parlando sarebbe bastato a salvarci un sospiro, una lacrima, una goccia del sangue di Gesù Cristo, perché in Lui, vero uomo e vero Dio, ogni più piccola azione ha un merito infinito. Anzi qualora Egli non avesse tatto altro che incarnarsi con l’intenzione di rendere omaggio al suo Padre celeste affine di espiare le nostre colpe, Egli avrebbe già passato la misura del nostro riscatto. Ma Egli volle per di più patire e morire, e della morte di croce, per fare sovrabbondante la sua redenzione, per rendere al suo Divin Padre l’omaggio più eccelso, per dare a noi la prova suprema dell’amore ed accrescere in tal guisa in noi la fiducia della nostra salute.

— E perchè tuttavia Iddio ha voluto aspettare circa 4000 anni a compiere la redenzione?

È certo, rispose S. Tommaso, che Iddio ha definito bene tutte le cose, epperò differì la redenzione a quel tempo, che Egli giudicò sopra ogni altro convenientissimo. Tuttavia non mancano ragioni, che lasciano conoscere anche a noi la convenienza di tale ritardo. Le principali sono: 1° L’aver voluto Iddio che gli uomini conoscessero per loro esperienza il bisogno che avevano di un Salvatore e ne esprimessero un desiderio, come realmente accadde. Giacché durante i 4000 anni, che precedettero la venuta di Gesù Cristo, gli uomini caddero in tale abisso di errori e d’iniquità, da sentirono essi stessi il bisogno di un celeste liberatore e da invocarlo con le più infuocate preghiere. 2° L’aver voluto Iddio che Gesù Cristo comparisse al mondo in guisa da essere facilmente riconosciuto. Ed in vero, come i sovrani, quando stanno per entrare in qualche città, mandano innanzi i loro araldi per far conoscere il loro arrivo, così Gesù Cristo lungo il corso dei secoli, che precedettero la sua venuta, mandò nel mondo gli araldi suoi, che chiaramente lo indicassero. Tali appunto furono i patriarchi, che lo aspettarono con tanto desiderio. profeti che lo annunziarono, i giusti che lo figurarono. – 3°. L’aver voluto Iddio che il mondo per mezzo de’ suoi grandi avvenimenti gradatamente preparasse la via a Gesù Cristo a presentarsi nel tempo più opportuno per compiere l’opera sua. Difatti chi guarda la storia della umanità con occhio superficiale non vedrà nulla di tutto ciò, ma chi invece la considera attentamente, tosto riconosce che tutte le grandi monarchie, che l’una dopo l’altra dominarono il mondo, l’una dopo l’altra senza addarsene, lavorarono a formare nel mondo quella vasta unità politica, che era necessaria non solo a simboleggiare, ma eziando a stabilire la grande unità religiosa, che Gesù Cristo sarebbe venuto a crearvi.

— Ma se Gesù Cristo ha ritardato per 4000 anni ad incarnarsi e farsi uomo per la salute degli uomini, come mai avranno potuto salvarsi quelle migliaia di generazioni, che esistettero prima della sua venuta?

Tutti gli uomini, intendilo bene, anche prima della venuta di Gesù Cristo, potevano benissimo salvarsi, giacche Iddio nella sua bontà infinita applicava loro anticipatamente i meriti di Gesù Cristo istesso, e compartiva loro le grazie necessarie. Non altro ad essi occorreva per salvarsi, se non che conoscessero, amassero e servissero il vero Dio, e avessero la fede e la speranza nel promesso Redentore. Ora non ostante gli errori e i delitti del genere umano, nessuno era incapace di questa fede e di questa speranza, neppure tra i pagani e i gentili, perché quando Iddio non avesse fatto altro, mise d’innanzi a tutti la grandezza e la bellezza del Creato, mediante la quale tutti gli uomini avrebbero potuto conoscere l’esistenza di un Dio Creatore e Signore di tutte le cose, conforme ci insegna il libro della Sapienza (Vedi Capo XIII), e vegliò perché le tradizioni e il desiderio del Redentore fossero dovunque, anche tra i pagani e gentili, conservati. Se pertanto prima della venuta di Gesù Cristo molti uomini andarono alla perdizione, non incolperanno certamente il ritardo della Divina Incarnazione, ma unicamente se stessi, che in mezzo alla luce più sfolgorante chiusero volontariamente gli occhi per non vedere la verità.

— Dunque è proprio certo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio fattosi uomo?

Certissimo, tanto che ad essere veri Cristiani

Cattolici, dobbiamo credere e confessare che Gesù Cisto Verbo di Dio incarnato è vero Dio e vero uomo; Dio consustanziale all’Eterno Padre, da Lui generato avanti a tutti i secoli da tutta l’eternità, e uomo formato con la sostanza della Madre e nato nel tempo; che però in Gesù Cristo vi sono due nature, la natura divina e la natura umana, e una sola Persona, la Persona divina.

— E come mai in Gesù Cristo essendovi due nature non v’è che una Persona?

A questo proposito ascolta la bella spiegazione di S. Agostino; « Come negli altri uomini l’anima in unità di persona si unisce al corpo ed abbiamo un uomo, così in unità di Persona Dio si unisce ad un’anima e ad un corpo, e abbiamo l’unico Gesù Cristo. In tale unione Gesù Cristo conserva quella essenza, quella immortalità, quella impassibilità, quel tutto, che è proprio della natura divina, ed aggiunge l’essere passibile, l’essere mortale, che è alieno da Dio, ma proprio dell’uomo. Prende ciò che è proprio dell’uomo, il potere patire e morire, ma ritiene ciò che è alieno dall’uomo, il potere di propria virtù risorgere e rendersi impassibile ed immortale. Quindi è che il divin Verbo ha comune la divina natura col Padre, e secondo essa Gesù Cristo dice: « Io e il Padre siamo una cosa sola »; per l’umana natura è minore del Padre e secondo essa asserisce: « Il Padre è maggiore di me ». Così il grande dottore spiega come in Gesù Cristo vi siano  due nature ed una sola Persona.

— E in Gesù Cristo fatto uomo vi è anche la ragione naturale, l’intelligenza umana?

Certamente.

— E quante volontà vi sono i n Lui?

Due: la divina e l’umana: la divina è quella che come Dio ha comune col Padre, e l’umana è quella che come uomo ha distinta da quella del Padre.

— E quante operazioni si trovano in Gesù Cristo?

Anche due: le operazioni proprie della natura umana, come il dormire, il mangiare, il bere, il passeggiare e simili; le operazioni proprie della natura divina, come il dare lo Spirito Santo, il rimettere i peccati, il fare miracoli, eccetera. Ma devi avvertire che in Gesù Cristo benché le volontà e le operazioni si distinguano, non si possono tuttavia separare l’una dall’altra, di quella guisa, dice San Anselmo, che un ferro tagliente ed infuocar essendo un ferro solo, ha tuttavia due atti sempre insieme uniti, quello dell’abbruciare e del tagliare.

— E Gesù Cristo come uomo poteva fare dei peccati, avere dei difetti, essere ignorante, eccetera?

No assolutamente, perché fin dall’istante primo della sua mortale esistenza, l’anima di Lui ricevette nell’intelletto la pienezza della scienza e nella volontà la pienezza della grazia santificante e di tutte le virtù.

— Allora egli non era più libero.

Lo era perfettamente. E i cordati di quanto abbiamo già detto parlando delle perfezioni di Dio, che il non poter fare il male non è difetto, ma perfezione.

— Se Gesù Cristo nell’anima sua ricevette subito fin dal primo istante la pienezza della scienza e della grazia, come mai si dice in un Vangelo, « che Egli cresceva in sapienza, in età e in grazia? »

Così si dice nel Vangelo di S. Luca, ma ciò si riferisce solo in quanto all’esercizio e alla manifestazione esteriore, che Egli faceva, della sua sapienza e della sua grazia, col crescere dell’età. Del resto è verissimo quello che già dicemmo, epperò nulla potevasi aggiungere di scienza e di grazia a quanto Gesù Cristo aveva ricevuto sin dal primo istante.

— Dunque in Gesù Cristo vi furono eziandio tutte le virtù?

Senza dubbio, ad eccezione di quelle che suppongono il peccato od altra imperfezione, come sarebbe la virtù della penitenza in quanto è pentimento del male operato, e ad eccezione ancora di quelle altre che non possono ritrovarsi nell’Uomo-Dio, come sarebbero la fede e la speranza, per ragione della visione beatifica, che Egli ebbe.

— E che cos’è questa visione beatifica, che ebbe Gesù Cristo?

È la visione che l’anima di Gesù Cristo aveva chiarissima d i Dio, ossia della Divina Persona, cui era unita, e della Persona del Padre e di quella dello Spirito Santo, visione che la rendeva beata e incapace di patire.

. — Ma allora come mettere insieme questa visione beatifica coi patimenti, che si dicono sofferti da Gesù Cristo dal primo istante di sua esistenza fino alla sua morte in croce?

La nostra corta intelligenza non arriva certamente a farsi un pieno concetto del come ciò sia avvenuto, ma con tutto ciò non lascia di esser vero che Gesù Cristo sofferse realmente patimenti di corpo e di spirito inesprimibili, e insieme godette le delizie della visione beatifica. Senza dubbio ciò doveva accadere per un grande miracolo della Divina Onnipotenza, col quale Gesù Cristo conteneva il gaudio della visione beatifica nella parte, superiore ossia intellettuale dell’anima, perché nella parte inferiore ossia sensitiva di essa e nel corpo potesse patire.

— Dunque Gesù Cristo ha sofferto realmente patimenti di corpo e di spirito?

Sì, ciò è di fede, come è di fede che abbia preso vera carne umana. E siccome quanto più si è delicati, sensibili e perfetti, tanto più al vivo si sentono le pene, perciò avendo Gesù Cristo un corpo il più delicato, un cuore il più sensibile, e un’anima la più perfetta, che Dio stesso potesse creare, nessuna mai tra le creature potrà pienamente conoscere i patimenti suoi.

— Ed è pur certo che Gesù Cristo sia veramente morto?

Anche questo è di fede. E come accade quando muoiono gli uomini, anche in Lui la morte avvenne per la separazione dell’anima dal corpo, benché la Persona divina sia rimasta unita tanto all’anima che al corpo.

— E Gesù Cristo ha sofferto ed è morto come uomo, non è vero?

Verissimo!

— Come dunque si dice: « Dio ha patito ed è morto per noi? »

Siccome in Gesù Cristo, essendovi due nature, la divina e la umana, non vi ha tuttavia che una sola Persona, la Persona divina, perciò riferendosi alla sua Persona si dice « Dio ha patito ed è morto », come si dice ancora: « Il corpo, l’anima del Figliuol di Dio ».

— Che cosa pertanto ha meritato Gesù Cristo con la sua incarnazione, passione e morte?

Oltre all’aver meritato la gloria del suo corpo e l’esaltazione del suo nome, secondo che ci apprende S. Paolo, ha meritato per noi il perdono dei peccati ed ogni grazia necessaria alla salute, e non solo per quelli che vennero dopo la sua incarnazione, ma anche per quelli che vissero prima, di modo che ogni grazia fu da Dio concessa in ogni tempo per riguardo ai meriti di Gesù Cristo.

— Ho inteso abbastanza, e la ringrazio!

LO SCUDO DELLA FEDE (XXV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXV.

I L PECCATO ORIGINALE.

Lo stato di pura natura. Lo stato soprannaturale. Gli animali mansueti o feroci? — Il peccato originale. — Sua gravezza.Il serpente. —Conseguenze del peccato originale. — Perché anche noi ne dobbiamo portare la pena. — Perché il peccato originale si chiama macchia? — E se avesse peccato soltanto Eva?

— Ed ora vorrei Che discorressimo un po’ sul peccato originale, intorno al quale ne ho inteso a dire di cotte e di crude.

Lo so anch’io che a questo riguardo vi sono molte false idee nelle menti degli uomini. Sarà dunque cosa utilissima di ricercare e riconoscere su questo punto capitale della dottrina cristiana la verità. E per riuscirvi meglio ci converrà discorrere con ordine. Devi pertanto sapere, che Iddio nel creare l’uomo avrebbe potuto lasciarlo nello stato di pura natura.

— E che cosa è questo stato di pura natura

Lo stato di pura natura è quello che è richiesto dalla natura propria dell’uomo. È certo che Dio poteva lasciare di creare l’uomo; ma poiché lo volle creare doveva dargli quello che alla natura umana conveniva, cioè il corpo e l’anima: il corpo con i suoi sensi, con le sue membra, con le sue perfezioni; l’anima con le sue facoltà, con la intelligenza, con la volontà, con la libertà, con l’immaginazione, eccetera. In questo stato di pura natura l’uomo sarebbe iridato soggetto al dolore, alla concupiscenza, alla difficoltà di apprendere le cose, ed anche alla morte. Tuttavia anche in questo stato avrebbe dovuto conoscere, amare e servire Iddio vincendo le difficoltà che avrebbe incontrate, mediante aiuti naturali che Dio gli avrebbe dati, e dopo la morte sarebbe stato premiato da Dio col godimento naturale di Lui stesso, oppure qualora non avesse osservato i suoi doveri, sarebbe stato punito con un condegno castigo.

— E non è questo lo stato, in cui Iddio pose uomo creandolo?

No, non è questo. Iddio nella sua immensa bontà por l’uomo, liberissimamente, senza esservi punto obbligato, lo volle, nell’atto stesso della creazione o pure qualche tempo dopo (questo non si può dire con precisione), sollevare ad uno stato, che avendo in sé  dei doni superiori a quelli richiesti dalla natura umana, fu soprannaturale.

— E quali sono questi doni?

Il primo fu la grazia santificante, che rendeva l’uomo oggetto di compiacenza a Dio: il secondo fu l’integrità ossia una piena soggezione della concupiscenza alla ragione, in virtù della quale l’uomo non sentiva stimolo alcuno della carne contro lo spirito, né quale era uscito dalle mani di Dio aveva ad arrossir di nulla. Il terzo dono fu una scienza meravigliosa, della quale Adamo ci lasciò un saggio nell’imporre a tutti gli animali i nomi loro convenienti, e con la quale, futuro padre di tutto il genere umano, avrebbe insegnato a tutti i suoi figliuoli quanto riguarda Iddio e la morale. E da ultimo il dono della immortalità, per cui sottratto ad ogni dolore, ad ogni infermità ed alla morte stessa dopo un tempo da Dio stabilito l’uomo avrebbe abbandonato questa terra e in una dolce estasi di amore divino, in cui il suo corpo sarebbe divenuto glorioso, sarebbe passato in cielo a godere Iddio per sempre. – E tutto ciò Iddio aveva per tal modo congiunto alla natura umana, che l’uomo nello avere dei figliuoli in quello stato soprannaturale, insieme colla vita naturale avrebbe in loro trasfusi quegli stessi tesori di grazia, che egli possedeva. Ecco la giustizia originale, in cui da principio l’uomo fu costituito.

— È vero che trovandosi l’uomo in quello stato d’innocenza, gli animali non avevano alcuna ferocia, ed erano tutti mansueti come agnelli?

Ciò è vero per riguardo all’uomo, dinanzi al quale per virtù dello stato soprannaturale in cui esso trovavasi, le belve obliavano la loro natia tendenza. Ma così certamente non era di fronte agli altri animali: giacché se gli animali erbivori dovevano nutrirsi di erbe, gli insettivori dovevano nutrirsi di insetti, e i carnivori di carne, taluni perciò dovevano essere naturalmente feroci verso tali altri.

— Ho inteso. Dunque l’uomo dallo stato di originale giustizia decadde per il peccato!

Precisamente. L’uomo, destinato nello stato soprannaturale a possedere e godere eternamente Iddio in cielo, doveva meritarsi tanto premio col sottostare ad una prova. A tal fine Dio gli proibì di mangiare il frutto di un albero. Ed egli in quella vece …

— Ne mangiò. Ma, scusi, è stato veramente questo il peccato di Adamo, l’aver mangiato il frutto materiale di un vero albero?

Sì, senza dubbio; e coloro i quali, pretendendo di essere uomini di spirito, lo immaginano ben diverso, danno a vedere di aver dello spirito di rapa.

— Ma se nel peccato originale si tratta di aver mangiato veramente il frutto di un albero, la prova, cui Iddio volle sottomettere i nostri progenitori, non sembra uno scherzo indegno della sua grandezza!

Anche tu, caro mio, parlando in tal guisa mostri di avere poco buon senso. Dunque ascolta bene. L’albero della scienza del bene e del male era desso nulla più che un albero? No, certamente. Esso era pure un’idea, un simbolo, il limite morale, che Dio aveva posto alla sovranità dell’uomo per provare, nella fede alla sua divina parola e nell’obbedienza al suo divin volere, se Adamo rispondeva ai suoi benefizi con gratitudine e con amore. Là in quell’albero doveva riconoscere, che se era re del mondo visibile, era tuttavia vassallo di Dio.

— Questo lo capisco. Ma Iddio avrebbe ben potuto obbligare l’uomo a riconoscere la sua sovranità in altro modo.

Senza dubbio. Ma se egli volle scegliere questo, si fu perché lo riconobbe il più adatto, ed in vero l’uomo essendo anima e corpo doveva sottostare ad una prova, che lo interessasse in tutto il suo essere. E così mentre la proibizione di quel frutto, per una parte si indirizzava ai sensi del corpo, per l’altra si riferiva alla facoltà dello spirito, esigendo per tal guisa una prova da tutto quanto l’uomo.

— Queste spiegazioni mi chiariscono assai le idee. Ma quel peccato di Adamo e di Eva nel mangiare un frutto proibito non mi sembrerebbe poi tanto grave.

Così può sembrare a prima vista. Ma se tu rifletti, che quel precetto era facilissimo ad osservarsi, e che trasgredendolo disobbedirono al volere espresso di Dio, si mostrarono ingrati ai suoi benefizi, credettero piuttosto al demonio che a lui, si spinsero a tale grado di superbia da pensarsi di diventare simili a Dio, soddisfecero la loro golosità, diedero scandalo ai loro discendenti e li travolsero nelle conseguenze della loro colpa, allora riconoscerai che il loro peccato è stato gravissimo.

— Sì, è vero. Ma come mai Adamo ed Eva si lasciarono andare a commettere tale peccato?

Lo sai bene: essi cedettero alle tentazioni del serpente, ossia del demonio.

— Ma com’è questo fatto del serpente e del demonio? Il demonio è desso entrato nel corpo di un serpente, oppure ha preso la forma di un serpente?

A questo riguardo puoi pensare come vuoi; è sentenza libera. Può essere che il demonio si sia giovato del corpo di un serpente facendolo con la sua potenza parlare, è può essere anche che il demonio (cosa per lui facile) si sia trasfigurato sotto la forma di un serpente. Il fatto si è che egli tentò i nostri progenitori a violare il comando di Dio, dicendo loro una grande menzogna, ed essi vilmente si lasciarono ingannare e commisero la colpa.

— E dopo di ciò che avvenne?

Per giusto castigo di Dio perdettero subito quei doni soprannaturali, di cui erano stati arricchiti, furono condannati ai dolori ed alla morte, indeboliti nella intelligenza e nella volontà sì da non potere che con difficoltà ritrovare il vero e con lotta praticare il bene; e se fossero morti in quel punto sarebbero andati all’inferno.

— Insomma, se non erro, in pena del loro peccato i nostri progenitori, decadendo dallo stato soprannaturale, rimasero nello stato di pura natura e meritevoli dell’inferno.

Precisamente: non potevi dir meglio.

— Ma se è così, che cosa è dunque questo peccato originale col quale nasciamo anche noi?

Non è altro propriamente che questo: la privazione di quello stato soprannaturale, ossia di quella originale giustizia, in cui Dio aveva da principio costituiti i nostri progenitori; privazione che importa l’ignoranza, la concupiscenza, i dolori, la morte, ossia tutte le debolezze e miserie della pura natura, più la perdita del paradiso.

— E la perdita del paradiso, che mi ha qui indicato, non è lo stesso che la dannazione all’inferno?

No, ma solo l’esclusione dal godimento soprannaturale di Dio in cielo. I nostri progenitori, sì, col peccato che commisero propriamente essi con la loro libera volontà, meritarono l’inferno; ma i loro discendenti, siccome questo peccato lo ereditano soltanto, e siccome questa eredità del peccato originale non è così dipendente dalla loro deliberata volontà, perciò è vero che non hanno diritto al paradiso, ma non restano neppur per ciò solo meritevoli dell’inferno. E questa è appunto la ragione per cui, come già ti dissi parlando dei bambini che muoiono senza Battesimo e con nessun altro peccato che quello originale non andranno all’inferno, ma esclusi dal paradiso godranno in un limbo, o dove a Dio piacerà, una felicità naturale.

— Ciò va benissimo. Ma ad ogni modo perché  dobbiamo anche noi portare la pena di un peccato, che noi non abbiamo commesso? Ciò non è un’ingiustizia?

Sta attento e per mezzo di un paragone che ti farò, qualche cosa capirai e vedrai che non si tratta d’ingiustizia alcuna. Ecco: il re prende a volerti bene senza alcun tuo merito particolare, e un bel dì ti chiama a sé, ti conferisce il titolo di barone, e ti dà tante ricchezze che ti bastino più che mai a vivere decorosamente con quel titolo. Ora se tu venissi ad avere dei figliuoli in tale condizione, è più che naturale che trasmetteresti ai medesimi il tuo titolo di nobiltà e il godimento delle ricchezze avute.

— Ciò è chiarissimo.

Ma tu invece, perdona l’ipotesi, dopo aver ricevuto tanto onore e tanto bene dal re, gli fai un’ingiuria, per cui il re giustamente si sdegna e ti castiga, togliendoti quel titolo di barone e spogliandoti delle ricchezze, che ti aveva dato. E d ora, dimmi, se tu in questa condizione di decaduto dalla dignità, in cui eri, e divenuto povero avrai dei figliuoli, potrà ancor essere che eglino abbiano ad ereditare e titolo di barone e relative ricchezze?

— No, mai più; si troveranno invece in quella condizione decaduta e meschina, in cui mi son ridotto io.

E in tutto ciò trovi forse che vi sia qualche ingiustizia da parte del re?

. — No, non ve n’ha nessuna: nel darmi quel titolo e quelle ricchezze manifestò meco una grande bontà, nel togliere tutto ciò a me e conseguentemente ai miei discendenti ha compiuto un atto di giustizia.

Ebbene applica il paragone al caso di Adamo e nostro, e riconoscerai che se noi ora veniamo al mondo decaduti dallo stato soprannaturale non è per altra ragione, se non perché Adamo decaduto egli pel primo e come padre di tutta l’umanità non può più a’ suoi discendenti trasmettere la grandezza perduta, e che in ciò non v’è l’ombra d’ingiustizia per parte di Dio.

— Certamente considerando la cosa sotto questo aspetto diventa abbastanza chiara e si manifesta molto giusta. Io invece avevo inteso dire che Adamo come nostro padre rappresentava tutti noi, e che peccando egli aveva peccato anche per noi, e così il peccato originale era divenuto nostro come suo. Ed è perciò che nel peccato originale mi pareva esservi un’ingiustizia.

Ebbene da chiunque ti sia venuta questa spiegazione, ti dirò francamente che ripugna al buon senso. Con tale spiegazione si verrebbe a dire che Adamo ha presunto la nostra volontà di commettere la colpa e di incorrere nel castigo di essa, ciò che non può essere. Sta bene che, ad esempio, essendovi taluno che mi offra un bel favore per te, io presuma che tu sia per accettarlo e in tuo nome lo accetti; ma io non dovrò mai presumere che tu voglia dare, supponiamo, uno schiaffo ad alcuno e subire le conseguenze di questo oltraggio, e realmente lo faccia in tuo nome. – È vero che S. Paolo dice che « in Adamo tutti peccarono » ; ma ciò vuol dire che essendo stato Adamo il capo, il principio e la radice di tutto il genere umano, perciò il suo peccato produsse delle conseguenze fatali a tutto il genere umano, ma non già che egli abbia peccato rappresentando la volontà di peccare di tutto il genere umano.

— Ho inteso abbastanza. Ma com’è adunque che il peccato originale si chiama macchia? Io mi figuravo con questo nome, che fosse qualche cosa di nero, di brutto, di deforme sull’anima nostra. Ed invece ella mi ha detto non essere altro che la privazione della giustizia originale largita ad Adamo e il ritorno dell’uomo allo stato di pura natura, in cui avrebbe potuto essere creato. Come si conciliano queste cose?

Vedi : poiché Iddio non ha Voluto creare l’uomo nello stato di pura natura, ma invece ha voluto sollevarlo allo stato soprannaturale, perciò, che ora l’uomo venga al mondo privo di questo stato, ancorché riceva da Dio insieme con la vita lo stato naturale, è uno sconcio, una deformità opposta all’ordine voluto da Dio; epperò l’essere in tal guisa l’uomo privo di quella bellezza soprannaturale, che dovrebbe avere, è come una bruttura, una macchia. Ecco in qual senso si dice, che noi veniamo al mondo macchiati dal peccato originale. Ed è pure sotto questo aspetto che S. Paolo dice che noi nasciamo figliuoli di ira, perché non nasciamo quali Dio ci vorrebbe per porre in noi la sua compiacenza.

— Dunque prima che noi siamo battezzati Iddio ci sdegna?

Prima che noi siamo battezzati Dio ci ama in quanto che vede in noi la natura propria dell’uomo, cioè l’anima ragionevole, il corpo ben formato, e le altre doti umane; ma ci riprova e ci sdegna in quanto che non vede risplendere in noi quell’originale giustizia, che secondo il suo disegno in noi dovrebbe trovarsi.

— Ancora una domanda. E se avesse peccato solamente Eva?

S. Tommaso insegna, che se Adamo non avesse peccato, ma soltanto Eva, sarebbe stata sventurata essa ma non l’umanità, essendo l’uomo quegli da cui traggono origine le generazioni. Ma questa e un’ipotesi ed è meglio lasciarla insolubile.

CONOSCERE SAN PAOLO (4)

PCONOSCERE SAN PAOLO (4)

[F. Pratt, S. J.: la Teologia di San Paolo; S.E.I. Ed. Torino, 1945]

Corrispondenza con Tessalonica (2).

I. LA PRIMA AI TESSALONICESI.

1 . TIMORE DEI NEOFITI. — 2. PROSPETTIVA PROSSIMA DELLA PARUSIA. — 3. LA SORTE DEI VIVI.

1. Fu una gran gioia per l’Apostolo, perseguitato di città in città dall’odio degli Ebrei, ancora dolente dell’insuccesso di Atene e sofferente nel suo isolamento a Corinto, il sapere che i neofiti di Tessalonica, lasciati da lui esposti alla persecuzione, sostenevano coraggiosamente gli assalti di una furiosa tempesta (Act. XVII, 14-16; XVIII, 5; I Tess. III, 1-6) . Si vantava dovunque la loro fede, la loro costanza nella prova, il loro ammirabile fervore, la loro carità fraterna (I Tess. I, 3-6). Tuttavia nel quadro vi era un’ombra: essi s’impietosivano oltre misura su la sorte dei loro fratelli privati dalla morte del privilegio di assistere al ritorno trionfante del Cristo che, evidentemente, essi giudicavano prossimo. Il vero scopo di Paolo nello scrivere a loro è di correggere la falsa idea che essi avevano dello stato d’inferiorità dei cristiani defunti, in confronto con i vivi; ma prima di venire al punto principale, egli espande il suo cuore e pare voglia esaurire il vocabolario dell’affetto. – Che belle parole gentili e pittoresche gli detta l’amore! Ora è il padre che esorta, incoraggia e rianima ciascuno dei suoi figli; ora è la madre che riscalda con le sue ardenti carezze il bimbo prediletto. Appassionato per loro, egli vorrebbe dare a loro non soltanto la verità e la gioia, ma la stessa sua vita e l’anima sua (I Tess. II). I più sublimi insegnamenti del dogma e della morale, che si alternano con le parole affettuose, si perdono, per così dire, in quell’effusione di tenerezza paterna. Tutta la prima parte della lettera è un canto di riconoscenza e un inno di ringraziamento, ed è questo appunto che ne forma l’unità e ne stabilisce il disegno: ringraziamenti per la maniera con cui i Tessalonicesi hanno accolto e fatto fruttificare il Vangelo, ringraziamenti per la buona riuscita della sua predicazione, per il felice ritorno di Timoteo e per le buone notizie che egli porta. Disegno molto semplice il quale si presta assai bene ad evocare ricordi e che fa di questa lettera, in cui i « voi ricordate, voi sapete » si ripetono a profusione, una vera conversazione da lontano. Eco fedele della predicazione di Paolo, la prima Epistola ai Tessalonicesi è piena di allusioni al Giudice che deve venire, al regno dei cieli che è oggetto delle nostre speranze, alla collera divina pronta a scatenarsi sopra gli Ebrei infedeli (I, 10; II, 12; II, 16), alla severità dei giudizi di Dio. La parusia del Signore (33) è nominata quattro volte ed è essa appunto, a parere di tutti, che forma l’argomento principale della lettera. E assai probabile che l’Apostolo risponda a una domanda formale dei Tessalonicesi dei quali forse Timoteo era l’intermediario. Il passaggio repentino e la formola rigida ripetuta due volte: «riguardo ai dormienti … riguardo al tempo e alle circostanze », ricorda esattamente le risposte ai dubbi dei Corinzi. – Tra le due parti di questo consulto teologico vi è questa differenza, che la seconda si accontenta di appellarsi ai ricordi dei neofiti e non ci lascia sperare nessun insegnamento nuovo, mentre la prima promette una rivelazione « in nome del Signore ». Non vogliamo poi, o fratelli, che siate nell’ignoranza riguardo a quelli che dormono, affinché non vi rattristiate come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù morì e risuscitò, nello stesso modo ancora Dio condurrà con lui coloro che in Gesù si sono addormentati. Poiché vi diciamo su la parola del Signore, che noi che siamo vivi, che siamo riserbati per la venuta del Signore, non preverremo quelli che si addormentarono. Poiché lo stesso Signore al comando e alla voce dell’Arcangelo, e al suono della tromba di Dio, scenderà dal cielo, e quelli che in Cristo sono morti risorgeranno i primi. Quindi noi che siamo vivi, che siamo superstiti, saremo con essi trasportati sopra le nubi in aria, incontro al Signore, e così saremo perpetuamente col Signore. Consolatevi dunque scambievolmente con queste parole. Intorno poi ai tempi e ai momenti non avete bisogno, fratelli, che noi vi scriviamo. Poiché voi stessi sapete benissimo che i l giorno del Signore verrà come un ladro di notte. Poiché quando diranno pace e sicurezza, allora sopraggiungerà loro repentina la perdizione, come i dolori del parto a donna gravida, e non avranno scampo. Voi però, o fratelli, non siete nelle tenebre, onde quel dì v i sorprenda a guisa di ladro: infatti voi tutti siete figliuoli della luce e figliuoli del giorno: non lo siamo della notte né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri. Poiché quelli che dormono, dormono nella notte, e quelli che s’inebriano, s’inebriano nella notte. Ma noi che siamo (figliuoli) del giorno, siamo sobri, rivestiti della corazza della fede e della carità, e dell’elmo della speranza della salute. Poiché Dio non ci ha destinati all’ira, ma all’acquisto della salute per il Nostro Signore Gesù Cristo il quale è morto per noi, affinché sia che vegliamo, sia che dormiamo, viviamo insieme con Lui. Per la qual cosa confortatevi gli uni gli altri e siate di edificazione l’un l’altro come pur fate (IV, 13; V, 11). – L’ultimo paragrafo non annunzia nessuna nuova rivelazione: « intorno ai tempi e ai momenti », i fedeli sanno tutto ciò che devono e possono sapere, « che il giorno del Signore arriva di notte come un ladro ». Ogni curiosità a questo riguardo è vana e inopportuna. Il giorno del Signore non è noto a nessuno, dicono i Sinottici — neppure al Figlio, aggiunge San Marco (XIII, 32) — ma arriverà improvviso, quando meno si aspetterà. Il paragone del ladro notturno era classico; è adoperato da San Matteo, da San Luca, da San Giovanni, da San Pietro e da San Paolo, e doveva entrare in tutti i discorsi su la parusia (I Tess. V, 4). L’immagine della donna partoriente è presa dai profeti; nella descrizione drammatica del Giorno del Signore, essa era una parte obbligata; passò poi nello stile apocalittico e dipinge a meraviglia il sopraggiungere improvviso della sorpresa, del dolore e dell’abbattimento (Matt. XXIV, 8; Marc. XII, 8). Riguardo alla pratica, i Tessalonicesi non hanno bisogno di consigli, poiché, secondo il precetto evangelico, sono vigilanti e armati: vigilanti contro gli assalti notturni, armati contro i malfattori. Le tre virtù teologali servono loro di armatura: la speranza come elmo, la fede e la carità come corazza. Vegliando essi continuamente, per loro non vi è notte, essi sono « figliuoli del giorno e della luce »; il ladro potrà venire, ma non li sorprenderà. – Mentre questa seconda parte non esce dal disegno ordinario delle prediche escatologiche, la prima ci presenta una rivelazione che l’Apostolo non aveva ricevuto prima o che non aveva creduto opportuno di comunicare fino allora. Paolo l’attribuisce espressamente a una « parola del Signore » (I Tess. IV, 15), o a una parola pronunziata da Gesù nella sua vita mortale e non registrata dagli evangelisti, oppure a una parola interiore attribuita al Maestro con la certezza dell’ispirazione. « Nel giorno della parusia, i viventi non precederanno i morti »; questo è il messaggio che egli ha incarico di comunicare. I neofiti s’immaginavano che, all’arrivo del giudice supremo, i vivi avessero qualche vantaggio sui morti; ma egli distrugge tale illusione. Nell’ultimo giorno i morti non invidieranno I vivi, né i vivi compiangeranno i morti: morti e vivi compariranno insieme dinanzi al Signore, gli uni con il loro corpo attuale trasfigurato e trasformato, gli altri con il loro corpo dì una volta, ricostituito e glorificato; insieme essi saranno trasportati per lo spazio; insieme raggiungeranno il loro capo e incominceranno con lui un regno senza fine. Se vi è differenza, questa è piuttosto in favore dei morti, perché essi risusciteranno prima, prima che la presenza del Cristo glorioso abbia trasformato i vivi. – Il trasalire della natura, la nube che serve di cocchio o di trono al Giudice, il corteo degli Angeli, le grida dei presenti, il suono della tromba, sono tratti comuni a tutto le apocalissi, presi dalla terribile apparizione di Jehovah sul Sinai, la quale aveva impresso nella fantasia nazionale un ricordo incancellabile. In quale misura queste allusioni al passato si verificheranno nell’avvenire! Quale può essere in esse la parte dell’immagine e del simbolo? Questo è il segreto di Dio.

2. È un fatto innegabile, che i cristiani dell’età apostolica si credevano vicini alla fine del mondo, e San Pietro si vedeva costretto a spiegare i lunghi indugi del Cristo (II Piet. III, 9 ). Il loro errore, fatto in parte di desiderio e di speranza, dipendeva anche dal pregiudizio universale degli Ebrei di quel tempo, dall’apprezzamento pessimistico degli avvenimenti contemporanei, forse da una falsa interpretazione di una parola del Signore: « Non passerà questa generazione senza che tutto questo avvenga (Matt. XXIV, 34) ». Si continuava ostinatamente a credere che certi privilegiati, come il discepolo prediletto, sarebbero vissuti fino a quel giorno; persino il nome di parusia (presenza) col quale si soleva indicare il ritorno trionfale del Cristo, ridestava l’idea di una venuta prossima, ed è cosa nota che i profeti, soliti a proiettare sopra un solo schermo gli avvenimenti futuri, sembrano far coincidere il principio dell’era messianica con la fine del mondo. Paolo partecipò egli pure alla comune illusione? Da principio, non vi è nulla che vi si opponga, poiché l’ispirazione non dà la scienza di tutte le cose e in ogni caso non poteva dare la conoscenza dell’ultimo giorno, che il Padre celeste ha riservata per sé. Eccetto la verità di cui è depositario, lo scrittore sacro può ignorare, esitare, appoggiare un’opinione sopra probabilità o verisimiglianze, mettersi alla ricerca della verità con i mezzi di cui dispongono gli altri uomini: tutto sta che egli non insegni l’errore. – Paolo, sapendo meglio di altri, che la data dell’ultimo giorno non entra nell’argomento della rivelazione, non insegna che il mondo è prossimo a finire, dichiara formalmente che la fine non ne è imminente, ma in mancanza di lumi speciali, si attiene alla parola del Vangelo (Matt. XXIV, 34; Mc. XIII, 30; Luc. XXI, 32). Tuttavia sembra che egli non veda dinanzi a sé una lunga serie di secoli. Certamente quelle parole: « Noi che siamo vivi, che siamo superstiti, andremo incontro al Signore (I Tess. IV, 17) », non pregiudicano nulla, perché la Chiesa non muore, e tutti i cristiani si possono identificare con essa, come se dovessero assistere, in un lontano avvenire, ai suoi trionfi e alle sue prove. Tuttavia l’Apostolo parlerebbe così, se avesse l’intuizione precisa, che migliaia di anni lo separano dall’ultimo giorno? In seguito la prospettiva si allontanerà; quanto più durerà il mondo, tanto più si farà l’abitudine di vederlo durare; l’idea della parusia diventerà più rara, e la parola stessa andrà perduta. Quello che noi non possiamo ammettere, con certi esegeti moderni, è che lo spirito di Paolo si sia evoluto nel breve lasso di tempo che passa tra le due lettere ai Corinzi ai quali tiene sempre, fino alla fine, lo stesso linguaggio tenuto con i Tessalonicesi.

3. Egli non mutò neppure il suo insegnamento, che l’ultima generazione dei giusti sarà rivestita d’immortalità senza passare per la morte: « Quelli che in Cristo sono morti, risorgeranno i primi; quindi noi che siamo vivi, che siamo superstiti, saremo con essi trasportati sopra le nubi in aria, incontro al Signore, e così saremo perpetuamente col Signore ». Sant’Agostino confessava di non aver mai potuto leggere attentamente queste parole, senza trovarci il significato, che l’ultima generazione dei giusti sarà esente dalla morte. E quello che qualche volta lo metteva in imbarazzo, era precisamente il testo che avrebbe dovuto confermarlo di più in questo sentimento, che era il sentimento comune dei Padri della Chiesa, se invece dell’inesatta traduzione latina: « Noi risusciteremo tutti », avesse conosciuto il vero testo di San Paolo: « Noi non morremo tutti, ma tutti saremo trasformati… Sonerà la tromba, e i morti risusciteranno incorruttibili, e noi saremo trasformati (I Cor. XV, 51) ». È impossibile comprendere queste parole in senso diverso da quello in cui le compresero gli stessi Corinzi i quali incominciarono a desiderare il privilegio degli ultimi superstiti del mondo. La morte ci fa orrore perché è un castigo e perché spezza violentemente i vincoli naturali del composto umano. Anche noi vorremmo, come i Corinzi, rivestire l’immortalità senza subire la morte. Questo desiderio è legittimo, risponde l’Apostolo, se non ha nulla di sregolato; è soprannaturale, purché non tolga nulla alla nostra fiducia e alla nostra rassegnazione; è effettuabile, purché la seconda venuta del Cristo ci trovi ancora in vita: Si tamen vestiti non nudi inveniamur. Questo sarà il privilegio dei pochi; ma che importa? Sia che viviamo, sia che moriamo, noi siamo del Signore (II Cor. V, 1-9). Come mai affermazioni così chiare, tre volte ripetute, possono aver dato luogo al dubbio? Già l’abbiamo detto, la causa ne è l’antica versione latina che leggeva: Omnes resurgemus, oppure: Omnes moriemur, supponendo in un modo e nell’altro la morte universale. L’Ambrosiastro, pensando di conciliare le due sentenze, immaginò di far morire e risuscitare i giusti, testimoni della parusia, durante il loro rapido trasporto per aria (Comm. I Tess. IV, 14 (XVII, 450). Sant’Agostino che conobbe questa ipotesi, fu tentato di accettarla, senza osare di adottarla fermamente, e scrisse nelle sue Ritrattazioni la confessione della sua invincibile incertezza: « O essi non morranno, oppure passeranno dalla vita alla morte e dalla morte alla vita così rapidamente, che non sentiranno la morte ». Il Maestro delle Sentenze, citando San Gerolamo e l’Ambrosiastro, che egli scambia con Sant’Ambrogio, ricusa di pronunziarsi, come se le due autorità si neutralizzassero a vicenda. San Tommaso, pure mantenendo la probabilità delle due opinioni, trova già che quella dell’Ambrosiastro è più sicura e più comune. Dal secolo decimoterzo in poi, l’opinione dei Padri perdette sempre più il credito, tanto che Soto e Catarino la chiamano temeraria; ma essi pure sono apertamente tacciati di temerità dal Suarez, per il loro giudizio esagerato. Ma la lezione della Volgata lasciava sempre luogo alle difficoltà, e quasi soltanto ai nostri giorni si è ripresa, con la sana esegesi di San Paolo, la tradizione patristica di Tertulliano, di San Gerolamo, di Sant’Epifanio, di San Gregorio Nisseno, di San Giovanni Grisostomo, di Teodoreto, di Primasio e di molti altri. Poche tesi teologiche hanno subito vicende più singolari. – Questo ritorno al passato ha la sua ripercussione sul modo di spiegare il settimo articolo del Simbolo. Invece di cercare nei morti e nei vivi i peccatori e i giusti (Sant’Agostino), oppure i morti e i vivi in un momento qualunque della durata del mondo (San Tommaso), oppure i morti e i vivi relativamente a chi recita il Simbolo (Suarez), s’intendono semplicemente, per morti e per vivi, i morti e i vivi che l’arrivo del Giudice troverà su la terra.

III. LA SECONDA AI TESSALONICESI.

1 . NUOVI TERRORI. — 2. L’OSTACOLO ALL’APPARIZIONE DELL’ANTICRISTO.

1. Erano passati alcuni mesi appena dopo la prima lettera ai Tessalonicesi, quando nacque un nuovo malinteso. Ben rassicurati ora riguardo ai loro morti, i neofiti erano più che mai convinti dell’imminenza della parusia, e tale convinzione, invece di eccitarli al bene, li turbava e li paralizzava. Alcuni anzi, trascurando i doveri del loro stato, andavano errando di porta in porta, nella pigrizia e nell’inoperosità, come persone i cui giorni sono contati. Di dove provenivano i loro stolti terrori? San Paolo lo lascia capire chiaramente dal consiglio che rivolge a loro: Ora noi vi preghiamo, o fratelli, riguardo la venuta del Signore nostro Gesù Cristo e la nostra riunione con lui, che non vi lasciate smuovere sì presto dai vostri sentimenti, né atterrire o da spirito, o da parola, o da lettera come mandata da noi, quasi sia imminente il giorno del Signore (II Tess. II, 1-2). Ci potevano essere di mezzo tre cause: una rivelazione supposta o male compresa, una parola attribuita, a torto o a ragione, a San Paolo o forse a qualche altro personaggio ragguardevole, una lettera apocrifa dell’Apostolo o una lettera autentica male intesa. Non era la prima ai Tessalonicesi che si fosse prestata all’equivoco, e le parole « come mandata da noi » sembrano proprio indicare una falsificazione. Per finirla una buona volta con le frodi, Paolo aggiungerà d’ora innanzi di suo pugno il saluto finale che servirà di firma. L’abitudine allora generale di dettare le lettere, rendeva necessaria tale precauzione. Noi pensiamo che lo « spirito » a cui alluda, sia una manifestazione del genere dei carismi. Nelle loro preghiere estatiche, i glossolali dovevano ripetere spesso: Maranatha Etiam, venio cito! Ancora poco esperti nel discernimento degli spiriti, gli uditori avevano potuto prendere quelle parole non come pii desideri, ma come profezie destinate ad avverarsi a breve scadenza. L’origine del malinteso del resto importa poco; l’Apostolo si difende dall’avervi dato occasione con i suoi discorsi o con i suoi scritti; no, la fine non è tanto prossima. “Nessuno vi seduca in alcun modo, poiché (ciò non sarà) se prima non sia seguita la ribellione, e non sia manifestato l’uomo del peccato, il figliuolo di perdizione, il quale si oppone e s’innalza sopra tutto quello che si dice Dio e si adora, talmente che sederà nel tempio di Dio, spacciandosi per Dio. Non vi ricordate che quando ero ancora presso di voi, vi diceva tali cose? E ora voi sapete ciò che lo rattiene, affinché sia manifestato a suo tempo. Poiché il mistero d’iniquità opera già, solamente che chi ora lo rattiene, lo rattenga fino a che sia levato di mezzo. E allora sarà manifestato quell’iniquo (che il Signore Gesù ucciderà col fiato della sua bocca e lo annichilirà con lo splendore di sua venuta); l’arrivo del quale è per operazione di satana con tutta potenza e con segni e prodigi bugiardi” (II Tess. II, 3-12). Paolo qui altro non fa che ricordare a mezze parole alcuni tratti della sua predicazione orale. Egli suppone i Tessalonicesi familiari con le sue idee, perché le istruzioni date ai neofiti comprendevano sempre un capitolo sui novissimi, raggruppati intorno alla parusia. L’Apostolo si accontenta di rinfrescarne la memoria. Già da tempo egli ha insegnato a viva voce e ripete ora per iscritto, ma in termini il cui laconismo è per noi enigmatico, che l’ultimo giorno dev’essere preceduto da due grandi crisi, l’apostasia e l’apparizione dell’Anticristo. Egli parla dell’una e dell’altra come di cose note che non occorre spiegare. L’apostasia indica certamente una defezione religiosa, una ribellione contro Dio e i suoi rappresentanti; essa appare strettamente legata con l’azione e con i prestigi del grande avversario. Questi, formalmente distinto da satana che gli dà il suo aiuto e se ne serve come di suo ministro, è descritto con le fattezze e i caratteri dei personaggi di cui è l’antitipo. Egli s’innalzerà sopra tutto ciò che è Dio o si chiama Dio, come Antioco Epifane; si farà passare per Dio e vorrà essere trattato come Dio, come il principe di Tiro in Ezechiele, e il re di Babilonia in Isaia; sederà nel tempio stesso di Dio, come l’abbominazione della desolazione predetta da Daniele. Queste reminiscenze non sono tanto profezie, quanto piuttosto allusioni a testi antichi, e non è necessario aspettarne l’avveramento letterale; sono simboli che si possono avverare secondo una legge di proporzione che ci sfugge. Quando leggiamo che il Signore Gesù « distruggerà l’Iniquo con un soffio della sua bocca », queste parole ci fanno pensare al modo con cui il Figlio di Davide, secondo Isaia, deve annientare l’empio; ma che cosa possiamo conchiudere del modo vero con cui avverranno le cose? Quello che è detto senza figure, è che l’Anticristo opererà falsi miracoli, prodigi e prestigi, che sedurrà un gran numero di anime, che provocherà un laceramento nella Chiesa, che finalmente sarà vinto e che la sua caduta sarà il segnale della parusia.

2. Sopra un punto solo Paolo va più innanzi degli altri che lo hanno preceduto: egli ci parla di un ostacolo che si oppone all’irruzione immediata dell’Anticristo e ce ne dà questa descrizione: È una persona o una cosa personificata (ὁ κατέχων al maschile), ed è nel tempo stesso una forza fisica o morale (κατέχον al neutro). L’ostacolo è già in attività e frena il mistero d’iniquità; gl’impedisce di lasciar passare l’Iniquo (ὁ ἅνομος). Appena scomparirà, il campo resterà libero all’Anticristo, la cui apparizione (παρουσία = parusia) precederà di poco, sembra, l’apparizione (παρουσία) del Figlio di Dio. Qual è questo ostacolo? I Tessalonicesi lo avevano saputo dalla bocca di Paolo, ma noi ora non lo sappiamo, e tutto ci fa credere che non lo sapremo mai. L’oscurità proverbiale di questo passo ha dato luogo a innumerevoli sistemi. Con unanimità fraterna, catari, valdesi, ussiti, discepoli di Wiclef, di Lutero e di Calvino, angligani antichi e moderni, quasi fino ai nostri giorni, hanno veduto nell’Anticristo il Papa e, nell’ostacolo che si oppone al trionfo dell’Anticristo, prima l’imperatore romano, poi l’imperatore tedesco. Nel 1518, quando già fermentavano in lui le prime idee della ribellione, Lutero ebbe un leggero sospetto, che il Papa potesse benissimo essere l’Anticristo: nel 1519, lo diceva all’orecchio di un confidente; al principio del 1520 ne era quasi sicuro e, alla fine del medesimo anno, quando la rottura con Roma fu completa, ne era divenuto affatto sicuro. Dieci anni dopo si sdegnava perché la confessione di Augsbourg non avesse espresso un articolo di fede così fondamentale; ma l’errore fu riparato a Smalkalde dove si definì che « il Papa è il vero Anticristo il quale s’innalza contro il Cristo e sopra di lui. La sola divergenza tra i protestanti, è che parecchi ammettevano due Anticristi, uno per l’Oriente, Maometto e l’Islamismo, e l’altro per l’Occidente, il Papa e il Papato. Un commentatore più audace ha persino scoperto che se il Papa è sempre l’Anticristo, naturalmente il mistero d’iniquità è il gesuitismo, il tempio di Dio è la pura dottrina luterana, e l’ostacolo che si oppone alla venuta, non dell’Anticristo, come vuole il testo di San Paolo, ma di Gesù, è ancora il Papa. Non è molto tempo che luterani, calvinisti e anglicani hanno rinunziato a questa esegesi, per loro più sacrosanta che non sia per noi la più solenne definizione di fede. Tanto sono difficili a sradicare i pregiudizi di setta e di casta, rafforzati dall’abitudine e dall’educazione! In quanto ai razionalisti, essi affermano tutti, che la profezia di San Paolo non si è avverata e non si dovrà mai avverare, essendo un sogno dell’Apostolo. Ma quando si tratta di precisare l’oggetto di questo sogno, sono così divisi, che non è possibile trovarne due del medesimo parere. Parecchi, ritornando all’idea di Grozio, cercano l’avveramento dell’enunciato apocalittico negli avvenimenti contemporanei all’autore, e allora la profezia non sarebbe che una predizione ex eventu o una previsione a breve distanza. L’Anticristo potrebbe essere Caligola, l’empio sarebbe Simon Mago, e l’ostacolo, Vitellio (Grozio); oppure l’empio sarebbe Tito, e l’Anticristo Nerone, mentre l’ostacolo rappresenterebbe la guerra civile dell’anno 70 (Wetstein); oppure l’Anticristo sarebbe ancora Simon Mago, la defezione, l’eresia gnostica, l’ostacolo, l’unione temporanea del giudaismo e del Cristianesimo (Hammond). Per altri, l’ostacolo sarebbe o San Paolo stesso (Koppe, Schott, e Grimm), oppure tutti gli Apostoli e specialmente San Giacomo (Bohme), oppure il profeta Elia (Ewald), oppure il filosofo Seneca (Kreyber)! E non andiamo oltre! (53). – Non si può dire neppure che siano d’accordo i commentatori cattolici; però, nonostante mille differenze nei particolari, essi considerano quasi tutti la parusia come il ritorno personale di Gesù Cristo che verrà a giudicare i vivi e i morti; nell’anticristo vedono un individuo, benché Sant’Agostino pensi piuttosto a una tendenza; nell’apostasia, una defezione e una ribellione, o religiosa o politica, o religiosa e politica insieme; nel mistero d’iniquità, o Nerone e i persecutori, o gli eretici e i scismatici; nel tempio di Dio, o il tempio di Gerusalemme ricostruito o la Chiesa cristiana; nell’ostacolo finalmente o l’impero romano o lo Stato cristiano erede dell’impero. Ma qual è oggi lo Stato che oppone una diga all’invasione del male! In mancanza di meglio, parecchi opinano per la fede ancora vivente nel cuore di molti, o per il decreto divino di far predicare il Vangelo nel mondo intero. Non solo l’ostacolo non è ancora trovato, ma crediamo che non si sia mai cercato nella direzione giusta. San Paolo si mantiene sul terreno dell’escatologia ebraica e cristiana; come Daniele, come San Giovanni, egli descrive una lotta del male contro il bene, la quale ha un’eco su la terra, ma che si svolge altrove. È infatti satana che la ingaggia e la sostiene, dando al suo ministro tutta l’energia del suo aiuto. L’antagonista deve essere una potenza dello stesso ordine. Nella profezia di Daniele, è il condottiero dell’esercito celeste, il capo del popolo di Dio, Michele, che prende la difesa della nazione santa, specialmente al tempo della gran tribolazione e alla vigilia della risurrezione dei morti (Dan. X, 12). In San Giovanni, è ancora Michele con i suoi Angeli, che combatte contro il Drago, l’antico serpente, Lucifero, il diavolo, satana, e che finisce con assicurare la vittoria al Cristo (Apoc. XII, 7-8). La lotta di Michele e di Satana continua attraverso i secoli. Non occorre interrogare gli apocrifi — il libro di Enoch, il Testamento dei dodici patriarchi, l’Apocalisse di Mosè — per sapere la parte capitale che dovrà sostenere Michele nell’ultimo giorno. Egli, secondo San Paolo — la cosa non è quasi messa in dubbio — darà il segnale della risurrezione e del giudizio. Non sarebbe egualmente lui, il protettore della Sinagoga prima, e poi della Chiesa, che con le sue milizie chiuderà il passo alle potenze dell’inferno fino alla pienezza dei tempi? Tutte le parti della descrizione di Paolo gli si adattano: essere personale (ὁ κατέχων), comanda a un esercito e rappresenta una forza (τό κατέχον); è immortale, e la sua lotta contro satana, ingaggiata fino dall’età apostolica (ᾄρτι), si prolunga attraverso la storia per toccare alla fine il suo apogeo. Se la sua momentanea disparizione (ἒως ἐκ μέσου γένηται) significasse una sconfitta, questo carattere non le sarebbe più applicabile, ma le parole dell’Apostolo non hanno questo senso, e non vi è nulla che ci obblighi a sottintenderlo. Finché gli esegeti ridotti à mal partito abbiano trovato una soluzione migliore, noi cercheremo là l’ostacolo misterioso che ritarda l’apparizione dell’Anticristo. Tutto ci lascia credere che le inquietudini riguardo all’imminenza della parusia si calmarono presto, e non vediamo che si siano manifestate altrove; sia che a Tessalonica dipendessero da circostanze locali, sia che l’Apostolo, istruito dall’esperienza, avesse d’allora in poi procurato di prevenire qualunque malinteso.

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[Alla luce dei recenti avvenimenti (iniziati con il colpo di mano del 26 ottobre 1958), pensiamo che la parole di San Paolo si siano in pieno dimostrate esatte, essendo naturalmente ispirate dalla Luce divina dello Spirito Santo. Il Kathecon (ὁ κατέχων = o catékohn) effettivamente è il Vicario di Cristo, il Santo Padre, il Papa, che con l’infallibilità assicuragli da Gesù Cristo, (il Papato: τό κατέχον) ha frenato nel corso dei secoli, con la sua energica e puntuale azione, il mistero di iniquità, (τό μυστήριον τἥς ἀνομίας = to musterion thes anomias), cioè la penetrazione della gnosi-cabalistica, la teologia di satana (che già ai tempi di San Paolo era attiva … poiché il mistero d’iniquità opera già … come vera e propria sinagoga di satana – si pensi ai protomassoni adoratori del sole-lucifero: gli Esseni – opposta totalmente e sostituitasi progressivamente alla Sinagoga di Mosè). Questo fino al 26 ottobre del 1958, giorno in cui il Kathecon (cioè il Papa neo-eletto Gregorio XVII) fu imprigionato ed impedito nella sua Autorità (“ … levato di mezzo”), – prigionia ed impotenza in cui si trova anche l’attuale Pontefice Gregorio XVIII – e sostituito da un fantoccio nelle mani della cricca kazaro-giudaica, il massone 33:. Angelo Roncalli, che provvide poi a promuovere cardinale, per la successiva investitura a Pontefice massimo, il giudeo “patriarca degli illuminati” Giovanbattista Montini, discepolo “eletto” di satana e della sua conventicola. A questo punto l’Apostasia ha cavalcato a briglie sciolte portando tutta la terra nella confusione morale, sociale e spirituale attuale, guidata da altri “eletti del dragone” i kazari “illuminati” della sinagoga di satana, (… il teosofo polacco, il nuovo patriarca degli illuminati ed il suo buffone…) che sono oramai in procinto di consegnare il trono usurpato all’anticristo, come profetizzato dal profeta Daniele e dall’Apostolo in II Tessal. Tutto è stato descritto con meticolosa precisione e appropriatezza di termini, come una cronaca vista e riportata. Tutto coincide alla perfezione, non ci resta che aspettare, nella situazione in cui ci troviamo adesso ( … ribellione, e manifestazione dell’uomo del peccato, il figliuolo di perdizione, il quale si oppone e s’innalza sopra tutto quello che si dice Dio e si adora, talmente che sederà nel tempio di Dio, spacciandosi per Dio … il baphomet-lucifero, il “signore dell’universo” del novus ordo), l’avvento dell’anticristo in carne ed ossa, la feroce persecuzione dei residui cristiani, ed il … non prævalebunt,  … ecco apparirà il Signore Gesù (παρουσία), in tutta la sua maestà … … e allora sarà manifestato quell’iniquo (che il Signore Gesù ucciderà col fiato della sua bocca e lo annichilirà con lo splendore di sua venuta); l’arrivo del quale è per operazione di satana con tutta potenza e con segni e prodigi bugiardi”. Allora interverrà l’Arcangelo Michele, il Capo della milizia celeste, a restaurare la Chiesa di Cristo, in luogo della fetida falsa “chiesa dell’uomo”, abominio della desolazione, e la Vergine Maria scenderà a schiacciare la testa del serpente maledetto, come era stato annunziato addirittura già nel giardino dell’Eden .. et Ipsa conteret caput tuum! – La Scrittura divina non fallisce e … neppure uno iod andrà perso, come il divin Maestro ci ha assicurato, tutto si svolgerà come annunziato da secoli dai santi Profeti del Vecchio e del Nuovo Testamento, ispirati dallo Spirito Santo; e San Paolo è stato una bocca fedele ed una mano guidata dalla Sapienza divina, dalla Sapienza incarnata: il Nostro Signore Gesù-Cristo. – ndr. -].

CONOSCERE SAN PAOLO (3)

CONOSCERE SAN PAOLO (3)

[F. Pratt, S. J.: la Teologia di San Paolo; S. E. I. Ed. Torino, 1945]

Corrispondenza con Tessalonica (1).

I. LE LETTERE DI PAOLO.

1. CARATTERI GENERALI. — 2. LETTERE O EPISTOLE? — 3. LO STILE DELLE LETTERE.

1. Le due Epistole ai Tessalonicesi, scritte verso l’anno 6, durante il secondo viaggio apostolico, notano il passaggio dall’insegnamento orale, semplice e familiare, alle controversie dommatiche delle lettere maggiori. – Affettuoso, cortese, delicato, pieno di vivacità, di abbandono, di fine ironia, con quel potere istintivo d’insinuarsi nello spirito degli altri, di comprendere e di dividere le loro gioie e le loro pene, che giustamente fu chiamato il dono della simpatia, Paolo era meravigliosamente adatto allo stile epistolare. Senza studio e senza ricercatezza, egli si è creato un genere in cui la spontaneità e la naturalezza si uniscono bellamente con la profondità del pensiero e con la forza della dialettica. Quello che più si ammira è l’unione, nella stessa pagina e nella stessa frase, delle più sublimi lezioni di teologia con le applicazioni più familiari della vita ordinaria. Non si trova nulla di simile nella letteratura classica, come si può ben vedere confrontando il biglietto a Filemone con una lettera scritta da Plinio il Giovine su un argomento quasi identico e in circostanze simili (Plinius Sabiniano, Epist. IX, 21). Il confronto riesce tutto a onore dell’Apostolo. Come appaiono aride e rigide le formole di saluto in uso presso i Greco-romani, vicino alle formule corrispondenti, così sciolte, così varie, così poco convenzionali, delle lettere di Paolo! Per trovare qualche cosa che somigli da lontano alla maniera dell’Apostolo, bisognerebbe piuttosto consultare i papiri recentemente esumati dalle sabbie egiziane. Tutte le sue lettere hanno un pronunziatissimo sapore di famiglia. L’ordine è quasi sempre lo stesso: soprascritta solenne, assai caratteristica, elogio dei destinatari in forma di ringraziamento, esposizione dell’argomento con prova conforme, raccomandazioni morali, augurio finale e benedizione, di pugno dell’Apostolo. – La soprascritta non si deve confondere con l’indirizzo il quale si scriveva a tergo, in modo da restare visibile quando la lettera era chiusa e sigillata. Siccome questo non aveva speciale importanza, perché era sviluppato nella soprascritta interna, non fu trascritto. I titoli che esse portano attualmente, per quanto antichi, non rimontano a San Paolo. La soprascritta comprende tre elementi che si seguono in questo ordine: nome e qualità dei corrispondenti; nome, titoli e meriti dei destinatari, e auguri a questi ultimi. Paolo si dà abitualmente il titolo di Apostolo (eccetto in Tess. I e II, Fil. e Filem.) e unisce quasi sempre con sé dei compagni, Timoteo, Silvano o Sila, Sostene, tutti fratelli che sono con lui. Quando esse non sono interamente personali, come sono le Epistole a Tito e a Timoteo, sono indirizzate a una chiesa particolare, o ai membri di una chiesa, o a una chiesa e ai suoi membri, o ai fedeli e al clero, o a ima chiesa locale e a tutti i cristiani della provincia e anche del mondo intero, oppure a particolari nel tempo stesso che alla chiesa locale. Anche nelle lettere personali vi è un saluto per la chiesa. Eccetto l’Epistola ai Galati, la menzione dei destinatari, collettivi o individuali, è sempre seguita da una parola di elogio o da epiteti onorifici. Paolo augura a tutti la grazia e la pace; le due lettere a Timoteo vi aggiungono la misericordia. L’esordio è un atto di ringraziamento oppure una specie di dossologia. Si spiega l’assenza di questa formula nell’Epistola ai Galati, per lo sdegno dell’Apostolo. Il tono familiare delle Pastorali può anche spiegare l’esordio ex abrupto nell’Epistola a Tito, nella prima a Timoteo. Al ringraziamento vanno unite alcune parole di elogio ai destinatari, alcuni ricordi del passato, certi particolari su le circostanze presenti, o liete o tristi, poiché per lui tutto è motivo di ringraziamento. Qualche volta il ringraziamento si prolunga tanto da occupare l’intera lettera e da farne come lo sfondo (I Tess.); altre volte invece ne è nettamente separato (I e II Cor., Fil.); per lo più finisce con confondersi nell’argomento principale a cui esso porta insensibilmente. – Il corpo della lettera varia naturalmente secondo la differenza degli argomenti che si trattano. Quando è una tesi, viene enunziata da principio dopo l’esordio (Rom., Gal., Eph.), e lo sviluppo segue metodico e regolare nelle Epistole ai Romani e ai Galati. più libero e più oratorio nelle Epistole agli Efesini e ai Colossesi. Le lettere a tesi presentano questa particolarità, che la morale è separata dal dogma, in modo che la divisione è binaria; mentre le lettere di argomento multiplo non si possono dividere secondo questo principio, essendo la morale multipla come il dogma. Aggiungeremo che in parecchie Epistole la divisione è poco marcata o non esiste affatto, il che non deve fare meraviglia, poiché in fin dei conti una lettera non è altro che una conversazione scritta. La conclusione incomincia generalmente con comunicazioni personali, con notizie di carattere intimo, seguite da una raccomandazione in favore del messaggero. Poi viene ordinariamente una lista più o meno lunga di saluti. In quel momento Paolo prende egli stesso la penna e vi aggiunge alcune parole o alcune frasi di suo pugno, quasi come firma. Si può prendere come esempio tipico l’Epistola ai Colossesi; ma ciascuna ha le sue particolarità degne di osservazione.

2. Gli scritti di San Paolo sono lettere o epistole? La questione può parere strana, ma non è priva d’interesse né d’importanza, così per l’esegeta come per il teologo. La lettera è una conversazione a distanza; un epistolografo dell’antichità la definisce assai bene: « Uno scritto il quale esprime a una persona assente ciò che le si direbbe se fosse presente ». Tolta la lontananza, la lettera non avrebbe più ragione di essere, perché una visita la sostituirebbe. – Quello che la distingue dall’epistola non è la lunghezza, poiché vi sono conversazioni lunghissime; non è l’argomento, poiché una conversazione può svolgersi intorno alle questioni più serie; non è lo stile, perché certe persone hanno naturalmente un tono oratorio e un linguaggio forbito; non è il fatto che non viene pubblicata, poiché vi sono epistole destinate dai loro autori alla pubblicità, che non hanno mai veduto la luce, mentre certe lettere esimiate recentemente dalle antiche città egiziane, ebbero l’onore di una pubblicità che i loro autori non si aspettavano davvero. Ciò che distingue la lettera dall’epistola, è che l’epistola è una composizione destinata al pubblico, e la lettera è una comunicazione intima e privata. – Non si deve pensare che gli antichi fossero meno gelosi di noi nell’assicurare il segreto delle lettere: i Romani sigillavano col piombo, con la pece o con la cera, le estremità della cordicella che legava le loro tavolette, per sottrarne il contenuto agli sguardi indiscreti; i Greci spingevano talora la precauzione fino a introdurre il legame attraverso i giri del rotolo di papiro, che non si poteva più svolgere senza lacerarlo; gli abitanti della Caldea e dell’Assiria chiudevano le loro corrispondenze in una busta di argilla che, indurita al fuoco, si doveva poi rompere col martello. Qualunque vera lettera è per sua natura segreta e, benché sia del destinatario, questi non ha mai il diritto di pubblicarla mentre è ancora vivo il suo corrispondente, o senza il suo permesso. Le lettere fittizie non sono lettere, e neppure le lettere pubbliche: le lettere poi dette aperte sono così poco lettere, che non sempre si prende la pena di mandarle al destinatario. Ma tra questi generi estremi vi sono infinite gradazioni: vi è la lettera circolare, qualche volta così vicina alla lettera, che appena se ne distingue: vi è la lettera collettiva che molto si avvicina all’epistola; vi è la lettera in cui l’autore non intende di restringere ad un solo lettore il benefizio della sua composizione e mira ad un pubblico più esteso, oltre al destinatario effettivo; vi è finalmente la lettera di cui si prevede la divulgazione, e che perde tanto più il suo carattere intimo, quanto più l’autore è preoccupato dal pensiero di un pubblico indeterminato, e Cicerone osservò molto bene questo fenomeno psicologico. Chi può dubitare che la preoccupazione di lettori estranei non abbia qualche volta fatto deviare la penna dei più celebri epistolografi? Le loro lettere sono epistole nella misura in cui si presenta al loro pensiero l’immagine di un pubblico possibile. Ad uno di questi generi intermedi appartengono tutte le lettere di Paolo. Che cosa manca a quella pagina incantevole che è il biglietto a Filemone, per essere una lettera in tutto il rigore del termine? Che cosa vi può essere di più familiare, di più personale, di più vivo? Paolo vi appare come amico, come padre, più che come apostolo. Eppure se si osserva più da vicino, egli associa a Filemone non soltanto Appia e Archippo che possono essere della famiglia, ma tutta la comunità cristiana (Fil. 2); è dunque una lettera collettiva. Così l’Apostolo passa con tutta naturalezza e senza pensarci, dal singolare al plurale: « Preparami un alloggio, perché spero di essere presto restituito a voi (Fil. 22) ». Egli non avrà creduto necessario il chiuderla e dovette consegnarla aperta nelle mani di Onesimo che non poteva ignorarne il contenuto. – Le Pastorali sono lettere amministrative che Paolo scrive in virtù della sua autorità apostolica, e in esse parla ai suoi delegati come un superiore ai suoi mandatari. Forse esse contenevano particolarità troppo intime per essere lette interamente alla chiesa, in presenza dei principali interessati, ma è certo che Paolo, nel suo pensiero, unisce sempre a Tito e a Timoteo le comunità cristiane di cui essi hanno temporaneamente la cura. Dimenticando talora che si rivolge a un solo corrispondente, generalizza i suoi avvisi e i suoi ordini; saluta direttamente la chiesa di Efeso e quella di Creta; passa con somma facilità dal singolare al plurale: « La grazia di Dio sia con voi (II Tim. IV) », oppure: « con tutti voi (Tit. III, 15) ». Se questo non basta per togliere alle Pastorali il carattere di vere lettere, dimostra almeno che l’Apostolo, o predichi o scriva, augura sempre alla sua parola la massima diffusione, che le sue comunicazioni non sono di ordine esclusivamente privato e che, ben lungi dal fuggire la pubblicità, la cerca quanto può. – Le lettere ai Tessalonicesi, ai Galati e ai Filippesi, hanno questo di comune con il biglietto a Filemone e con le Pastorali, che devono cioè la loro esistenza ad un bisogno passeggero dei destinatari e che non sarebbero state scritte, se Paolo si fosse potuto recare personalmente dai suoi neofiti. Sotte questo aspetto esse sono vere lettere; ma se ebbero in origine un carattere personale, non hanno nulla di segreto. L’Apostolo prevede che esse circoleranno, e non vi si oppone affatto; sapendo che le lettere passano da una mano all’altra (II Tess. II, 2), ha cura di premunire i fedeli contro i falsari e previene le frodi con mandare un saggio della sua scrittura (II Tess. III, 18); ma non gli viene l’idea di impedire quella divulgazione che egli anzi desidera. – Per la natura del loro contenuto, quelle indirizzate ai Corinzi e ai Colossesi parevano non dover uscire da queste chiese. In esse egli riprende severamente i colpevoli, corregge i disordini di Corinto con un rigore di cui fu tentato di pentirsi, condanna senza riguardi gli errori dei Colossesi. Intanto esige che la lettera mandata ai fedeli di Colossi, sia comunicata ai cristiani di Laodicea, i quali in cambio manderanno quella di cui sono depositari (Col. IV. 16). Le lettere di Paolo circolano mentre egli è ancora vivo — e per ordine suo — nelle altre chiese. Potevano forse i Corinzi tenere esclusivamente per sé le lettere destinate « ai santi di tutta l’Acaia (II Cor. I, 1) », oppure, oltre i confini della Grecia, « a tutti quelli che invocano il nome di Nostro Signor Gesù Cristo, in qualunque luogo? (I Cor. I, 2) ». Se la lettera è tanto meno lettera, quanto più è indeterminato il destinatario e meno personale l’argomento della corrispondenza, quella di Paolo ai Romani si dovrebbe chiamare piuttosto epistola. Paolo scrive a una chiesa che conosce appena di fama e, se si eccettua il motivo di preparare il terreno per un prossimo apostolato, non si vede perché esponga ai Romani, piuttosto che ad altri, la sua tesi su la giustificazione e su le relazioni fra la Legge e il Vangelo. Come circolare, l’Epistola agli Efesini è ancora più impersonale, e sono più indeterminati i suoi destinatari. Per sentire la differenza che passa tra questi due generi di scritti, basta confrontare tra loro le Epistole ai Romani e ai Galati da una parte, e le Epistole agli Efesini e ai Colossesi dall’altra. Paolo suole scrivere in principio delle sue lettere i nomi dei suoi compagni di apostolato, e questo fatto non è senza importanza nella presente questione: egli depone il suo carattere personale e privato nelle sue corrispondenze, e le trasforma, per così dire, in documenti semiufficiali, suscettibili di una pubblicità sempre maggiore. Non già che bisogni dare troppa importanza all’uso del plurale invece del singolare. Se la teoria secondo la quale Paolo, quando parla di sé al plurale, si associa sempre mentalmente o i cristiani in generale o i suoi compagni di apostolato, è insostenibile, ci vogliono però prodigi di sottigliezza — e di una sottigliezza di cattiva lega — per scoprire in quei « noi » l’intenzione di darsi del tono o qualche altra intenzione speciale: è semplicemente una figura retorica così comune nei contemporanei letterati e illetterati del grande Apostolo, che aveva perduto qualunque significato particolare. Al termine del nostro esame, abbiamo il diritto di conchiudere che tutti gli scritti di Paolo sono vere lettere, realmente mandate ai loro destinatari per supplire l’assenza dell’Apostolo e per provvedere a necessità più o meno urgenti. Ma tanto nell’intenzione dell’autore, quanto aghi occhi dei suoi corrispondenti, non erano fatte per rimanere la proprietà esclusiva di una famiglia o di una chiesa; esse dovevano prolungare nel tempo e nello spazio la predicazione di Paolo; erano epistole che le comunità cristiane si facevano premura di raccogliere, e che ben presto presero l’abitudine di leggere pubblicamente nelle riunioni liturgiche.

3. Queste Epistole di una fisonomia così precisa, sono scritte in uno stile ancora più personale. Generalmente i Padri danno ragione all’Apostolo, quando egli dice di non possedere l’arte di una bella lingua: imperitus sermone. Sant’Ireneo gli rimprovera degli iperbati; Origene, delle frasi oscure; Sant’Epifanio, dei periodi intricati; San Gregorio Nisseno, l’uso di parole disusate o adoperate in significato che non è il loro ordinario; San Giovanni Grisostomo, trascuratezza di stile; San Gerolamo, parole improprie, cilicismi e anche solecismi. E Bossuet li riassume tutti quando scrive nel suo celebre Panegirico: « Andrà questo ignorante dell’arte del dire, con la parola rozza, con la frase che sa di forestiero, andrà in quella Grecia raffinata, madre di filosofi e di oratori; e nonostante la resistenza del mondo, egli solo vi fonderà più chiese, che non siano stati i discepoli guadagnati da Platone, con quell’eloquenza che fu creduta divina. Egli predicherà Gesù in Atene, e il più saggio dei suoi senatori passerà dall’Areopago alla scuola di quel barbaro ». Ma vi è anche il rovescio della medaglia: San Gerolamo vanta la forza, l’energia, i tuoni di Paolo; Sant’Agostino, la sua calda eloquenza; San Giovanni Grisostomo, il suo fascino e la sua potenza persuasiva; lo stesso pagano Longino, la sua passione oratoria e il vigore della sua dialettica. Nello stile, in senso largo, entrano tre elementi: il lessico, la grammatica e la composizione. È noto che il vocabolario di Paolo è anzitutto biblico. Le parole estranee alla lingua dei Settanta, sono per lo più di origine popolare. San Gerolamo le chiamava cilicismi perché, non avendole trovate nei suoi autori, a torto le credeva proprie del territorio della Cilicia; ma un certo numero di esse furono recentemente trovate nei papiri o nelle iscrizioni di quel tempo, e quanto più si spingeranno innanzi tali ricerche, tanto più si accorcerà la lista dei termini di cui si attribuiva finora il conio agli scrittori sacri. Questi non cercavano di creare vocaboli nuovi che non avrebbe compreso nessuno, ma traevano il maggior partito possibile dalle parole usuali e, occorrendo, davano loro nuovi significati. Rivolgendosi al popolo, adoperavano il linguaggio del popolo, e quel linguaggio era ricco, pittoresco e gustoso. – Si è rimproverata a Paolo « ima singolare povertà di espressione »: giudizio troppo sommario e contradetto dai fatti. Nessun altro scrittore del Nuovo Testamento dispone di un vocabolario così esteso. Si sa che egli accumula volentieri i termini quasi sinonimi di cui vuol mettere in rilievo le diverse sfumature; cerca anche le assonanze, le paronomasie, le antitesi, il che suppone un autore interamente padrone della sua lingua. Le frequenti ripetizioni di parole, non sono una prova di povertà, ma è questo un procedimento dialettico od oratorio voluto e pensato, per fissare l’attenzione e per meglio scolpire il pensiero nella mente del lettore. – Certamente la sua sintassi non è la sintassi classica. Se i solecismi propriamente detti vi sono affatto eccezionali, gli ebreismi, pure meno numerosi di quanto si è preteso, non sono tuttavia rarissimi. Ma le sue lettere sono piene di anacoluti, cioè di periodi incompiuti o che si compiono prendendo una piega diversa (Rom. II, 17-21; V. 12-14; I Cor. XIV, 21, Gal. II, 6, etc.). Si devono notare due curiose particolarità: le serie di incidenti che sovraccaricano la frase, rompendo a ogni istante il filo del discorso; e soprattutto le costruzioni di genitivi articolati, in cui il rapporto esatto di ciascun genitivo con la parola che precede, rimane alquanto oscuro. Molte di queste negligenze si spiegano con l’improvvisazione. Paolo non scriveva egli stesso le sue lettere, e l’abitudine di dettare era allora così comune, che « dettare » significava comunemente « comporre ». Certe allusioni degli antichi, ci farebbero credere che la fatica materiale dello scrivano era considerata come incompatibile col lavoro mentale. L’Apostolo seguiva tale usanza che la sua debolezza di vista rendeva per lui più imperiosa. Da ciò derivano le frasi incomplete, i cambiamenti di costruzione, gli incisi e le parentesi, i passaggi repentini da un’idea all’altra, i frequenti ritorni alla stessa idea. Ma mentre gli stilisti rivedevano accuratamente i loro scritti per toglierne gli errori e per cancellarne le asprezze, Paolo li spediva tali e quali, oppure con qualche aggiunta o qualche nuova digressione. Quando però vuole, e forse anche senza pensarci, scrive pagine di una grecità impeccabile; maneggia con maestria quello che vi è di più delicato in un idioma, le particelle; si vede che egli parla il greco come sua lingua materna e non come una lingua appresa tardi e imperfettamente posseduta. Più intimo e più personale che il vocabolario e la sintassi, è l’ordine, la forma e la disposizione delle idee. In un senso verissimo si è potuto dire che lo stile è l’uomo: « La lingua di Paolo è la sua immagine vivente. Come il corpo dell’Apostolo, vaso di argilla, si curva sotto il peso del suo ministero, così le parole e le forme del suo linguaggio si piegano e si spezzano sotto il peso del suo pensiero. Ma da questo contrasto scaturiscono gli effetti più meravigliosi. Che potenza in quella debolezza! Che ricchezza in quella povertà! In quel corpo infermo, che anima di fuoco! Tutta la forza, tutto il movimento, tutta la bellezza vengono dal pensiero; non è lo stile che lo porta, ma è il pensiero che porta lo stile; il pensiero cammina sempre sovraccarico, trafelato, oppresso, trascinandosi dietro le parole… Per portare questa pienezza riboccante d’idee e di sentimenti, le parole e il loro significato ordinario non bastano più; ciascuna di esse, per così dire, è obbligata a portare un peso doppio o triplo. In una preposizione o nell’unione di due termini, Paolo mette tutto un mondo di idee, ed è questo appunto che rende così difficile l’esegesi delle sue epistole e la loro traduzione assolutamente impossibile (A. Sabatier: L’Apôtre Paul, 1896) ». – Il migliore commento ne è la lettura costantemente rincominciata. Bisogna abituarsi a quel dire strano che dapprima respinge e sconcerta per la sua singolarità. Vi s’incontrano frasi le cui parti rientrano in certo modo le une nelle altre, come i cilindri di un cannocchiale, frasi lunghissime, accidentate da digressioni e da parentesi, di cui l’occhio cerca invano di abbracciare l’insieme. Il periodo greco, per quanto classico, non ammette simili dimensioni, perciò quelli di San Paolo non sono periodi. Le sue frasi si possono semplificare, si possono sbarazzare dai particolari che le ingombrano, scaricarle dal peso degli incisi, senza alterare la loro fisonomia e senza turbare la loro andatura. L’idea principale forma un disegno abbastanza apparente in cui sono disposte, come addentellati, definizioni e spiegazioni. Con un po’ di riflessione e di abitudine, si riesce facilmente a scoprirlo. Lo scopo generale serve come punto di ritrovo e, fissando quello, il lettore riesce a orientarsi. Paolo è un dialettico vigoroso che si muove a suo agio nei dedali di un’argomentazione astrusa e lunga. Egli non indietreggia mai dinanzi ad una digressione utile, ancorché il suo lavoro ne abbia da perdere sotto l’aspetto letterario. Certi suoi capitoli presentano l’aspetto di quei conglomerati geologici formati da depositi sedimentari e da lave solidificate, ma il pensiero si segue sempre, come un filone non interrotto, tra quelle masse di apparenza eterogenea. Esaurita la questione incidentale, egli rientra nel suo argomento con una parola messa in vista, piuttosto che con un’esplicita transizione. Se non è assediato dalla parola, come gli viene rimproverato, è trascinato dall’idea che egli segue a ogni costo; ed è anche vero che il suo pensiero qualche volta gira intorno a una parola. Egli percorre volentieri tutta la scala dei significati di un termine, per rivoltare la sua idea sotto tutti i suoi aspetti. Una leggera deviazione lo mette ogni volta sopra un terreno nuovo, e passiamo da un senso all’altro con tanta facilità, che non sempre ci accorgiamo del passaggio. – Egli poi è affatto indifferente alla sua rinomanza di scrittore; se la ride dei precetti della retorica e qualche volta anche delle regole di grammatica. Se molte volte arriva a toccare le più alte cime dell’eloquenza, lo fa sempre, dice Sant’Agostino, senza averne l’intenzione: in lui tutto sgorga dalla sorgente, da una mente riboccante di idee, da un cuore capace di comunicare la commozione quasi senza volerlo. Quando Terzo o qualche altro suo segretario gli rilegge una lettera, non pensate che si fermi a forbire una frase arruffata o a correggere un solecismo, un iperbato o un anacoluto: anzi egli vi aggiunge quei sovraccarichi di cui il suo stile rigurgita, quasi che temesse, col troppo studio e con la troppa raffinatezza, di togliere qualche cosa alla virtù del Vangelo e di offuscare con uno sfoggio di sapienza umana il trionfo della croce.

CONOSCERE SAN PAOLO (2)

CONOSCERE SAN PAOLO

[F. Prat, S. J.: La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

Il vaso di elezione. (2)

III. LA VIA DI DAMASCO.

1. APPARIZIONE DEL CRISTO. — 2. ORIENTAMENTO TEOLOGICO.

1. Il martirio di Stefano non aveva fatto altro che stimolare di più la sua sete di sangue cristiano. Non contento di assistere al supplizio delle vittime, penetrava nelle case, ne strappava gli abitanti, uomini e donne, per trascinarli nelle prigioni. Ben presto, per mancanza di vittime, la persecuzione si estingueva a Gerusalemme, e Saulo dovette portare altrove la sua rabbia insaziata. Egli supplicò il sommo sacerdote (Era forse ancora Caifa, deposto nel 36) perché lo investisse di una missione ufficiale per cercare, nelle sinagoghe di Damasco, i discepoli occulti di Gesù e per condurli incatenati al Sinedrio. Qui lo attendeva il dito di Dio. – Essendo la conversione di San Paolo, dopo la risurrezione del Salvatore, il miracolo meglio affermato, il più ribelle a qualunque spiegazione naturale e perciò il più incomodo al libero pensiero, non bisogna stupirsi che la critica razionalistica abbia fatto sforzi disperati per attenuarne la forza dimostrativa. Come per la risurrezione di Gesù Cristo, si è tentato di mettere in disaccordo le testimonianze. Nel Libro degli Atti vi sono tre narrazioni della visione di Damasco; una è fatta da San Luca per conto suo (Act. IX, 1-13), e le altre due sono messe in bocca di San Paolo (Act. XXII, 3-21; XXVI, 12-20). Come tutti ammettono, le tre narrazioni concordano su tutti i punti di qualche importanza: l’occasione, il luogo, l’ora dell’accaduto, la luce abbagliante che improvvisamente avvolse la carovana, il dialogo tra Paolo prostrato a terra e la voce misteriosa, la sua cecità temporanea, il suo battesimo, la sua guarigione, l’orientamento affatto nuovo che ad un tratto fece di un persecutore un Apostolo. Si vanno scrutando, per trovarci contradizioni, i particolari più insignificanti, certe minuzie che si avrebbe vergogna di rilevare in una storia profana, circostanze estranee al fatto in sé e riguardanti soltanto le impressioni provate dai compagni dell’attore principale, le quali sono necessariamente soggettive e forse diverse. Il più curioso è il trovare tali obbiezioni proprio in quei critici i quali suppongono che l’autore abbia composto i discorsi degli Atti per metterli d’accordo col suo racconto! Bisognerebbe almeno scegliere tra due mezzi di opposizione che si escludono a vicenda; poiché o San Luca compose egli stesso i discorsi che mette in bocca ai suoi personaggi, e allora non è il caso di parlare di antilogie né di contradizioni; oppure egli li ha inseriti nel suo racconto, a titolo di documenti, nonostante le differenze che potevano offrire con la sua narrazione, e allora bisogna riconoscere e lodare altamente i suoi scrupoli di storico. – Si nega il miracolo dell’apparizione, senza prendersi la pena di spiegare questo altro miracolo di ordine morale, ancora più inesplicabile se si nega il primo, cioè la conversione di Paolo. Tutta la vita dell’Apostolo, la serietà del suo fariseismo, la fermezza incrollabile della sua fede cristiana, protestano contro qualunque sistema che voglia fare di lui un allucinato, un esaltato. Protestano con non minore forza i suoi scritti (I Cor. IX, 1; I Cor. XV, 8; Gal. I, 15). Nella sua conversione non vi sono tappe, non vi è una marcia graduale verso la fede: Gesù Cristo lo ha preso d’improvviso nella sua corsa. Il colpo che lo atterrò fu un colpo fulmineo, irresistibile; non vi fu nulla che lo presagisse e che lo preparasse, ma fu puramente effetto della grazia onnipotente. Supponete forse che avesse prima relazioni con i cristiani! Egli li conosceva soltanto come il carnefice conosce le sue vittime. Egli della loro dottrina non sapeva nulla, eccetto questo: che era incompatibile con la Legge di Mose, inconciliabile con il giudaismo, perciò odiosa e degna di sterminio; questo gli bastava e non cercava di saperne di più. Direte forse che avesse qualche esitazione, qualche ansietà, qualche rimorso? Egli stesso vi risponde che non sentiva nessun turbamento, nessuna inquietudine, che credeva sinceramente di servire Dio, che era in buona fede e che alla sua ignoranza deve l’aver ottenuto misericordia. Dinanzi a tali affermazioni precise, le ipotesi faticosamente accatastate dai critici razionalisti non possono reggersi. Per sopprimere un miracolo, si fabbrica un miracolo psicologico ancora più meraviglioso: è meglio non cercare di spiegare ciò che è inesplicabile. – Certamente la grazia incontrava nella ricca natura di Paolo un terreno propizio e germi preziosi. Le forti convinzioni al servizio della passione si possono più facilmente volgere al bene, che non lo scetticismo armato d’indifferenza. Dio entra più facilmente nei cuori e nelle menti che non hanno peccato contro la luce. Il bisogno innato di giustizia e il profondo sentimento della sua impotenza inclinavano spontaneamente quell’anima verso la dottrina cristiana dove queste due tendenze dovevano trovare soddisfazione e riposo.

2. L’apparizione di Damasco esercitò su la teologia dì San Paolo un’influenza molteplice di cui conviene qui notare alcuni tratti. Una delle teorie più ardite e più originali dell’Apostolo è l’incorporazione al Cristo, in virtù della quale il Cristo è tutto in tutti, e tutti sono una cosa sola con lui. Ma questa teoria non è già contenuta in germe in quella domanda di Gesù: « Saulo, perché mi perseguiti? ». Paolo non assaliva direttamente la persona di Gesù Cristo: dunque vi è tra Gesù e i suoi un’identità misteriosa, se nel colpire i discepoli si colpisce il Maestro. – Nella conversione di Paolo, l’opera della grazia è tangibile, il cambiamento è improvviso: è un lampo che abbaglia, è l’adesione rapida alla chiamata divina di una volontà che quasi non ha coscienza di avere acconsentito. Chi ha conosciuto una simile crisi, ha il sentimento più preciso, l’intuizione più viva, che tutto l’onore di quel cambiamento viene da Dio; egli si figura l’operazione della grazia come fulminante, la fede come un atto di obbedienza, libero sì, ma che fatto una volta vi getta ad un tratto in un nuovo mondo di diritti e di doveri, di obblighi e di privilegi. È appunto la fede dell’Epistola ai Galati e dell’Epistola ai Romani, quella fede attiva in cui il cuore ha la stessa parte della mente, quella fede che mette in rivoluzione tutto l’essere, invade tutte le potenze dell’anima e in un istante orizzonta tutta la vita. – Finalmente il Cristo intraveduto lascia nella memoria di Paolo un ideale indimenticabile: da quel momento il suo sguardo resta immobilmente fisso sul modello impareggiabile. Egli aspira e vuole che si aspiri alla misura, alla pienezza del Cristo; non sarà possibile mai neppure avvicinarlesi, ma che importa? bisogna tendervi sempre. La morale di Paolo è tutta imbevuta di quel ricordo vivente e invece di proporci l’esempio di Gesù nella sua vita mortale, c’invita a imitare il Cristo risuscitato e glorioso. – Sarebbe troppo però il far derivare tutta la teologia di San Paolo dal fatto della sua conversione, sia pure fecondata dall’esperienza religiosa. La visione di Damasco è la più chiara e la più intima delle rivelazioni, ma è soltanto la prima, e l’esperienza religiosa può trarre da un fatto soltanto quello che esso contiene realmente. La fede cristiana non si riduce a un’impressione soggettiva, e i nostri dogmi non sono i prodotti arbitrari e relativi della coscienza individuale: l’attenuare fino a tal segno il compito della rivelazione è cosa contraria alla verità e alla formale testimonianza dell’Apostolo, come vedremo dai fatti.

IV. RIVELAZIONE PROGRESSIVA.

1. LA SERIE DELLE RIVELAZIONI. — 2. ELABORAZIONE DELL’ELEMENTO DIVINO. — 3. SENSO E DIREZIONE DEL PROGRESSO.

1. Né la natura né la grazia non procedono a salti, perciò l’educazione di Paolo, come quella degli altri Apostoli, non si doveva compiere in un giorno. Se il suo principio fu segnato da una crisi subitanea, lo sviluppo ulteriore ebbe un corso normale e progressivo; se la visione di Damasco fu l’esca di una sintesi teologica, la sintesi stessa sarà il frutto di una rivelazione lenta e continua. La voce gli aveva detto: « Alzati, entra in città: là ti sarà indicato ciò che devi fare (Act. IX, 6) ». Anania fu per quella volta il canale delle comunicazioni celesti. Dopo il Battesimo, il neofito si ritira nel deserto dell’Arabia, sia per meditare la rivelazione ricevuta, sia per disporre l’anima sua a nuove illustrazioni celesti. La voce gli parla ancora, tre anni dopo, nel Tempio di Gerusalemme (Act. XXII, 18). Il cielo s’incarica sempre d’illuminarlo e di condurlo: per rivelazione, va a perorare presso gli Apostoli la causa dei Gentili (Gal. II, 2); lo Spirito di Dio gli proibisce di predicare in Asia (act. XVI, 6), gli chiude le frontiere della Bitinia (Act. XVI, 7) e lo spinge irresistibilmente in Macedonia (ivi, 9, 10); lo incoraggia e lo consola a Corinto, dopo la disdetta di Atene (Act. XVIII, 9); lo riconduce per forza a Gerusalemme, nonostante la prospettiva di una lunga prigionia (Act. XX, 22); poi, quando ogni speranza di vedere Roma sembra perduta, gliene ripete l’assicurazione (Act. XXIII, 11). Insomma, la Provvidenza lo conduce sempre quasi per mano. Essa mostra la stessa sollecitudine così per istruirlo come per guidarlo; ma l’illuminazione divina saggiamente graduata, si scopre soltanto a poco a poco: « Io ti sono apparso, gli è detto la prima volta, per costituirti ministro e testimonio delle cose che tu hai vedute e di quelle che ti manifesterò ancora (Act. XXVI, 16) ». Sono visioni innumerevoli di cui Paolo avrebbe diritto di essere orgoglioso, se non preferisse gloriarsi della sua debolezza la quale dà maggior gloria al suo Maestro; visioni sublimi di cui piacque al Signore temprare l’eccesso e smorzare lo splendore con dare alla sua carne un pungiglione, messaggero importuno di Satana (II Cor. XII, 1). Oh! Perché non ci è dato di riprodurre tutta la serie di tali illustrazioni celesti? L’Apostolo fa allusione una volta a un rapimento al terzo cielo ove intese parole ineffabili che all’uomo non è possibile né permesso proferire (II Cor. XII, 4). Quella grande estasi che lasciò in Paolo un’impressione duratura, ma di cui non riuscì mai a spiegarsi il modo, coincide presso a poco con gli inizi del suo apostolato effettivo. Era forse una preparazione immediata alle missioni tra i Gentili e una visione più intima della verità che stava per predicare a loro? Non lo sappiamo: ma il fatto è che egli costantemente rivendica alla sua predicazione un’autorità e un’origine divina. « Vi dichiaro, scrive ai Galati, che il Vangelo annunziato da me non è secondo l’uomo. Difatti io non l’ho né ricevuto né imparato dagli uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo (Gal. I, 11-12) ». Il valore di questa dichiarazione dipende un poco dal senso che si dà a ciò che San Paolo chiama il suo vangelo. Quando egli afferma di aver esposto ai fedeli di Gerusalemme e, in particolare, ai suoi colleghi nell’apostolato il vangelo da lui predicato ai Gentili, dice che essi non vi trovarono nulla da riprendere né da completare (Gal. II, 2), intende forse parlare di tutta la catechesi cristiana, compreso il ciclo dei dogmi elementari, il compendio della morale, la simbolica dei sacramenti con il racconto sommario della vita e della morte di Gesù? Non ci sembra probabile, perché c’erano troppi punti comuni affatto fuori di questione. Paolo intende certamente per suo vangelo la forma che prendeva il messaggio della salute passando dal giudaismo alla gentilità, la forma caratteristica della sua predicazione in mezzo ai Pagani. Sarebbe dunque in prima linea l’eguaglianza degli uomini nel disegno della redenzione, l’ammissione dei Gentili nella Chiesa alla pari con gli Ebrei, l’abolizione della Legge mosaica, la libertà che ne deriva per tutti, specialmente per i cristiani venuti dal paganesimo, la giustificazione degli uomini per mezzo della fede, indipendentemente dalle opere della Legge, l’incorporazione dei fedeli al Cristo per mezzo del Battesimo, l’unione di tutti in Lui, la comunione dei santi che ne è il corollario, insomma tutte le proprietà del Corpo mistico del Cristo. – Quando ai Romani rivolge l’augurio di essere confermati nel « suo vangelo », Paolo identifica questo vangelo col Mistero, prima nascosto ed allora svelato (Rom. XVI, 25), mistero di cui le Epistole della prigionia ci spiegano il segreto e ci danno la definizione. L’Apostolo riferirebbe dunque alla rivelazione immediata di Gesù Cristo soltanto quei punti particolari della sua predicazione, per i quali i giudaizzanti lo accusano di predicare un vangelo diverso da quello dei Dodici. È vero che la dottrina del corpo mistico ha molte ramificazioni, e può essere che l’istituzione dell’Eucaristia, l’indissolubilità del matrimonio e il destino dei giusti nel giorno della parusia, riguardo le quali Paolo sembra che rivendichi a sé una rivelazione speciale, ne derivino in linea retta. Egli stesso indica chiaramente il rapporto che vi è tra la comunione dei fedeli con il corpo del Salvatore e la loro unione nel corpo mistico: « Noi siamo uno stesso pane, uno stesso corpo, perché tutti noi comunichiamo con uno stesso pane (I Cor. X, 17) ». Poco dopo afferma che ha « ricevuto dal Signore quello che alla sua volta (I Cor. XI, 23) ha trasmesso » ai neofiti di Corinto, cioè il fatto e il modo dell’istituzione dell’Eucaristia. Ora non ci sembra possibile che si debba intendere questo ricevere per un ricevere mediante intermediari, poiché in tal caso Paolo non differirebbe per nulla dall’ultimo dei credenti; bisogna dunque che Gesù Cristo gli abbia comunicato direttamente questo mistero. Per gli altri due punti indicati sopra, sarebbe permesso il dubbio. Quando l’Apostolo dice: « Ordino alle persone coniugate — non io ma il Signore — che la donna non si separi dal marito e il marito non mandi via sua moglie (I Cor. VII, 10-11) », egli può alludere al precetto del Salvatore, scritto nel Vangelo; tuttavia il senso mistico del vincolo coniugale che figura l’unione del Cristo con la Chiesa (Ef. V, 32), depone in favore di una rivelazione immediata. In quanto alla dichiarazione fatta ai Tessalonicesi « su la parola del Signore (I Tess. IV, 15) », riguardo alla sorte dei giusti che vedranno il giorno della parusia, può essere che si tratti di una parola pronunziata da Gesù durante la sua vita mortale e trasmessa per tradizione, benché tale ipotesi non sia molto verisimile. Anche qui noi incliniamo ad ammettere una rivelazione diretta, tanto più che la risurrezione dei giusti e la glorificazione dei viventi dipendono intimamente, per San Paolo, dalla teoria del corpo mistico. – Occorre andare più innanzi e riferire alla stessa fonte divina tutto ciò che l’Apostolo ha predicato, anche quello che facilmente poteva apprendere da intermediari, come la vita, i miracoli, i discorsi di Gesù? A noi non sembra; in tal caso Paolo sarebbe stato molto più favorito che i suoi colleghi nell’apostolato, che dovettero apprendere, dal racconto di altri, molti fatti di cui non erano stati testimoni oculari. La Provvidenza che non fa mai nulla d’inutile, anche nel miracolo pratica una certa economia di mezzi. Certamente, secondo la saggia osservazione di Estio, al Signore non sarebbe costato di più l’insegnargli in un istante tutte le verità della fede cristiana, che il convertirlo miracolosamente; tuttavia Dio volle servirsi del ministero di Anania,, affinché nessuno disprezzi il magistero umano, vedendo il Dottore delle Genti catechizzato da un uomo: in questo non vi è nulla di contrario alle pretese di Paolo. « Egli ha ricevuto tutti gli elementi della fede, come gli altri catecumeni, al momento del suo battesimo; ma il Cristo si riserva d’insegnargli egli stesso i misteri più profondi del Cristianesimo ».

2. L’azione della luce divina sull’intelligenza dell’uomo non è meno misteriosa che l’azione della grazia su la sua volontà. Come si distinguomo le verità infuse dalle cognizioni acquisite naturalmente? Di dove viene al profeta la certezza che ha inteso Dio e che ne annunzia esattamente il messaggio? Non sapremmo dirlo e appena possiamo concepirlo. Come osserva San Tommaso seguendo Sant’Agostino, i profeti dell’Antico Testamento erano illuminati ordinariamente da emblemi o da simboli di cui una luce interiore spiegava loro il significato; il loro linguaggio colorito, immaginoso, pieno di allegorie e di parabole ha conservato la traccia indelebile di quella maniera di rivelazione. In San Paolo non vi è nulla di simile: la sua mente riceve direttamente e riflette come uno specchio il raggio divino; egli comprende per intuizione il disegno della redenzione; penetra l’essenza e la ragione di essere del gran Mistero. Se talora le sue rivelazioni sembrano rivestire una forma sensibile, se si rappresenta la Chiesa come un corpo di un organismo perfetto, o come un albero che cresce indefinitamente, o come un tempio che lancia verso il cielo le sue linee armoniche, si vede subito che tali immagini non hanno né rilievo né costanza, che si mescolano e si confondono, che la fantasia non riesce a ricostruirle, che sono reminiscenze dell’Antico Testamento e che, ben lungi dal restare nella mente di Paolo allo stato di visione, sono invece lo sforzo di un’idea che si vuol rendere concreta. Quello che più volentieri l’Apostolo augura ai suoi discepoli, è l’intelligenza chiara della verità, e quando rivendica a sé la comprensione dei misteri, egli esprime con la parola più esatta l’azione di Dio sopra di lui. – Non già che un avvenimento provvidenziale non favorisca lo schiudersi della rivelazione, o che la ragione non intervenga alla sua volta per fecondarla: la mente di Paolo non era né passiva né inerte. L’esagerata accondiscendenza di Pietro gli fece comprendere il pericolo della conservazione della Legge nelle chiese miste; le pretese dei giudaizzanti gli fecero afferrare, meglio e prima che agli altri, il principio e le conseguenze dell’eguaglianza cristiana; la negazione e il dubbio erano spesso l’urto in cui si accendeva la luce soprannaturale. Insomma, quello che distingue le sue rivelazioni è il carattere individuale e l’opportunità. La questione presente, non occorre dirlo, non ha nessun senso per i teologi razionalisti i quali sopprimono le rivelazioni di fatto, se anche le mantengono di nome. Gli uni, infeudati al panteismo di Hegel, fanno evolvere le idee di Paolo da movimenti continui e da soprassalti insensibili. Essendo tutto l’essere contenuto nelle sue cause prossime, il progresso non è altro che il risultato del conflitto di due elementi contrari ridotti all’unità da un principio superiore. Chiunque si sforza di ricostruire la teologia di Paolo su questi dati hegeliani, la cerca tutta quanta nei suoi elementi preesistenti, cioè nell’ellenismo greco, nel giudaismo rabbinico, nella mescolanza di entrambi in dosi più o meno disuguali, senza tuttavia negare che questo fondo primitivo non si sia potuto arricchire con l’analisi del suo contenuto o con un procedimento dialettico. Perciò Paolo altro non sarebbe che un idealista, un sognatore ozioso il quale passa la sua vita nel mettere insieme concetti e nel fabbricare sistemi: precisamente il rovescio dell’uomo ispirato e pratico che ci è mostrato dalle sue meravigliose Epistole. – Il tempo però ha fatto giustizia di queste fantasie che non reggono alla prova dei fatti. Presentemente i teologi razionalisti, imbevuti di kantismo, predicano più volentieri il procedimento psicologico. La dottrina di Paolo, dicono essi, « non è una teologia speculativa, dedotta logicamente da un’idea generale, ma una teologia veramente positiva il cui punto di partenza è la reltà interiore della fede ». Con la fede, e soprattutto con l’amore, Paolo s’identifica con il Cristo. « Egli è divenuto membro del Cristo; è posseduto da lui; ha la sicurezza invincibile che il Cristo è non solo la causa, ma l’autore sempre attivo della sua vita spirituale e del suo pensiero ». Quello che prova nella sua vita personale, « l’Apostolo lo ritrova e lo indica come una legge nella storia dell’umanità ». Riassumendo, « il pensiero di Paolo ha sempre seguito la sua esperienza religiosa e non l’ha mai preceduta. Nato nella sfera della vita individuale, il suo pensiero si è elevato, per via di generalizzazione, alla sfera sociale e storica; e siccome tendeva con uno sforzo incessante verso l’unità e gli ultimi principi, è arrivato finalmente a svolgersi nella sfera metafisica… Le vedute storiche dell’Apostolo nascevano dalla sua antropologia; le sue idee speculative, dalla sua costruzione della storia, e tutti questi sviluppi insieme erano nella sua fede primitiva, come la pianta è nel germe che la produce (De Sabatier)». Andando a fondo in queste metafore, si trova questo: Paolo dà un corpo ai suoi sentimenti, generalizza la sua esperienza, rende oggettiva l’idea che egli si fa del Cristo. Su che cosa poggi questa idea, a che cosa risponda questo sentimento, che cosa valga questa esperienza, poco importa: la teologia di Paolo si riduce a un’impressione soggettiva. – Tutti questi inventori di teorie oltrepassano apertamente i limiti delle loro attribuzioni. Il compito dei teologi non è quello di sostituire se stessi all’Apostolo né d’immaginare quello che egli doveva dire o quello che essi avrebbero detto al posto suo, né di cercare per quale via egli sia giunto alla sua concezione del mondo soprannaturale, supponendo che egli si muova nel dominio dell’irreale e del chimerico. Se vi è una cosa certa, è che Paolo non è né hegeliano né kantiano: bisogna dunque prenderlo come è, e non sarebbe possibile riconoscerlo nelle ricostruzioni laboriose e arbitrarie del suo pensiero. Quali anatemi non avrebbe fulminato contro questi interpreti indegni dell’opera sua, egli che scriveva ai Galati. « Il mio Vangelo non l’ho ricevuto da un uomo né imparato dagli uomini, ma per rivelazione di Nostro Signor Gesù Cristo! ».

3. Noi concepiamo ben diversamente il progresso del vangelo di Paolo. Esso non è né un sentimento che si rende oggettivo né un’idea che si sviluppa con l’analisi; l’impulso viene di fuori, dall’ispirazione divina che si adatta agli avvenimenti esteriori. Non dimentichiamo che l’Apostolo non scrisse un’esposizione sistematica delle sue dottrine, non tenne il diario delle sue rivelazioni, ma tutte le sue Epistole sono lavori di polemica o lettere di direzione, scritte secondo che richiedevano le circostanze speciali; che se esse spiegano la sua predicazione, la suppongono sempre e perciò rispecchiano le difficoltà in cui veniva a incontrarsi la diffusione della fede, e di lavorio interno che accompagnò lo sviluppo del Cristianesimo. Il progresso che esse manifestano, è dunque parallelo allo stesso progresso della vita della Chiesa primitiva; ed è questo appunto che ne costituisce per noi la maggiore importanza. – Al momento della loro conversione, i neofiti davano un assenso incondizionato alla predicazione apostolica. Essi ricevevano la parola di Paolo non come una parola umana, ma come la parola di Dio, quale era realmente e nella sua origine e nel suo oggetto. A nessuno veniva in mente di discutere il suo insegnamento, e fa stupire il vedere con quanta facilità le popolazioni pagane accettavano il monoteismo; la morale cristiana s’imponeva subito per l’evidenza della sua perfezione; il compito del Redentore non pare che abbia sollevato nessuna seria obbiezione. Ma l’esposizione drammatica della fine del mondo colpiva le fantasie e commoveva i cuori e talora lasciava un certo turbamento nelle menti. Molti credevano di essere prossimi all’ora suprema, si preparavano all’imminente venuta del Giudice, speculavano sui relativi vantaggi dei morti e dei viventi; parecchi arrivavano al punto di trascurare le cure delle cose terrene, divenute insignificanti in confronto con gli imminenti interessi eterni. – Le lettere ai Tessalonicesi attestano appunto queste vive apprensioni, e siccome esse sono il solo documento che ci resti di quel tempo, potremmo essere tentati di credere, con un’illusione di prospettiva assai naturale, che la catechesi apostolica fosse soltanto un’escatologia, invece di essere un breve compendio del dogma e della morale. Ma perché l’articolo che riguardava la fine del mondo aveva fatto su gli uditori un’impressione così forte, l’Apostolo, nei suoi primi scritti, è obbligato a ritornare mille volte su l’argomento della parusia. Forse in seguito si regolò in modo da evitare la ripetizione di simili malintesi. Quel periodo di fede semplice di fiducia assoluta non poteva durare sempre. La questione delle osservanze legali che era stata messa avanti al primo momento della predicazione di Gesù e che aveva precipitato la rottura tra lui e i farisei, doveva per molto tempo essere il problema vitale della Chiesa nascente. Il compromesso conchiuso a Gerusalemme non aveva soddisfatto i giudaizzanti; la controversia di Antiochia, risortasi col trionfo delle idee di Paolo, non li sconcertò affatto. L’Apostolo li incontrava dappertutto sui suoi passi: in Galazia, a Corinto, a Efeso, come ad Antiochia e a Gerusalemme. Non appena egli aveva fondato una cristianità, essi si affrettavano a seguire le sue piste e ad opporgli una missione contraria; le sole chiese della Macedonia sembrano essere sfuggite alla loro propaganda sfrenata. Per combattere efficacemente il Vangelo di Paolo, essi osavano prendersela contro di lui, contestare il suo apostolato, abbassarlo molto sotto i Dodici, lasciandogli soltanto quel compito secondario che non si rifiutava agli apostoli di second’ordine, a un Apollo o ad un Barnaba. Per un anno intero Paolo ebbe da lottare contro quegli sleali avversari; ma non dobbiamo dolerci di questo, perché le sue quattro Epistole maggiori sono il frutto di quella lotta. Se in esse occupa una gran parte la polemica, non poteva essere altrimenti; tuttavia l’Apostolo mantiene la controversia molto più in alto che le meschine questioni personali; egli risale alla fonte della grazia e all’origine del peccato; analizza la natura della giustificazione e il valore della fede; studia l’impotenza della Legge e la necessità di una redenzione comune a tutti: egli sta su le più alte cime dei principi da cui risolve, per via di corollari, i più oscuri problemi. Ma questo è soltanto uno degli aspetti della sua dottrina durante quella fase del suo insegnamento. Mentre le mene dei giudaizzanti lo obbligavano a dilucidare l’armonia dei due Testamenti e la subordinazione dell’antica economia al Vangelo, sorgevano nella Chiesa molti dubbi teorici e pratici su diversi punti della catechesi primitiva. La prima Epistola ai Corinzi ci dà un’idea dei numerosi casi di coscienza che l’Apostolo doveva spesso risolvere, o a voce o per iscritto, per spiegare e completare la sua predicazione, e si può tenere per certo che il trattamento dei cristiani scandalosi, il ricorso ai tribunali pagani, la questione delle vittime sacrificate agli idoli, il velo delle donne, la celebrazione dell’agape e dell’Eucaristia, l’uso dei carismi, il dogma della risurrezione, il modo di organizzare le collette, non sono le sole questioni che egli risolve nelle nascenti cristianità. – Incominciava appena a calmarsi la controversia dei giudaizzanti, quando una nuova eresia sorse a minacciare la purezza del Vangelo. La fede prendeva contatto con la scienza profana, e già si era pronunziata la parola filosofia; ma non si trattava della filosofia greca, sempre un po’ razionale anche nei suoi errori; si trattava invece di una teosofia orientale assai più pericolosa, perché di contorni meno precisi e perciò meno facile a confutarsi. Soprattutto la persona e il compito del Cristo preoccupavano le menti; si voleva sapere che cosa Egli era prima della sua apparizione su la terra; quali rapporti lo univano a Dio, al mondo, all’umanità; qual era il suo grado in mezzo a quelle legioni di esseri soprannaturali, mediatori tra Dio e l’uomo, di cui le fantasie orientali popolavano i cieli. Nelle sue Epistole della prigionia, Paolo non solo sodisfa a quei desideri di sapere e di comprendere, ma innalza il Cristo a tale altezza, che a Lui non si può più paragonare nulla; lo mette nel seno stesso di Dio, come fa Giovanni del sue Logos, in modo da formare con Dio un’unità indivisibile. Poi, prendendo da questo occasione per meglio spiegare le funzioni del Cristo nell’ordine della salute, lo presenta come la fonte universale della grazia, come il principio dell’unione tra tutti i fedeli, e completa così la teoria del corpo mistico già abbozzata prima. Nuove parole, o adoperate in un significato affatto nuove soprascienza, mistero, pleroma, capo della Chiesa – provano quella muova corrente di idee che ha la sua espressione più completa nella formula In Christo Jesu. – Parecchi critici dei nostri giorni mettono in dubbio l’autenticità delle Pastorali, perché in esse non trovano verificata la legge del progresso quale è da essi concepita: « Con l’Epistola ai Filippesi, essi dicono, si ferma il progresso vivente; con le lettere pastorali incomincia la tradizione conservatrice ». Ma questo appunto non corrisponde forse alle condizioni delle cose? Paolo che vede avvicinarsi la sua fine, sente il bisogno di organizzare le chiese da cui la morte lo separerà, e di difenderle contro l’invasione di dottrine estranee: egli non pensa più a creare, ma a conservare, e la sua parola d’ordine sarà d’ora innanzi: « Custodite il deposito della fede e della tradizione ». Egli ha combattuto la buona battaglia ha finito la sua corsa; non attende più altro che la corona incorruttibile dell’apostolato e del martirio.

CONOSCERE SAN PAOLO (1)

CONOSCERE SAN PAOLO

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

Il vaso di elezione. (1)

— SAULO DI TARSO.

1. L’AMBIENTE E L’UOMO. — 2. LA SCUOLA ELLENISTA DI TARSO.

1. Se l’azione divina sulla volontà e l’intelligenza fosse soltanto un impulso meccanico, se l’uomo ispirato fosse soltanto un’arpa che suona sotto le dita di Dio, o una penna che scrive le parole dello scrittore celeste, sarebbe inutile il cercare quale fu la fisonomia e l’ambiente dell’agiografo; ma questi non è materia inerte né strumento inanimato: egli sente, vuole e pensa, e i suoi pensieri e i suoi sentimenti non possono fare a meno di colorire la rivelazione che li penetra, come un fluido colorisce il raggio luminoso che lo attraversa. Isaia ed Ezechiele non ripetono con lo stesso tono lo stesso messaggio divino, e non è questione soltanto di vocabolario; in qualunque traduzione, le visioni di Osea non somiglieranno mai a quelle di Amos, e nessuno non scambierà mai un capitolo di San Marco con una pagina di San Giovanni. Perciò tutti gli esegeti giustamente proclamano la necessità di studiare il carattere individuale degli scrittori sacri con le loro abitudini mentali, con la forma ordinaria del loro pensiero, con la loro educazione e la loro condizione sociale, con le circostanze esterne della loro vita e della loro azione. – Di un uomo, e soprattutto di uno scrittore, si avrà sempre una conoscenza molto imperfetta, finché non si conosce il centro intellettuale e morale in cui è cresciuto. Da questo centro abbiamo il linguaggio, questo meraviglioso strumento dell’attività mentale, l’associazione incosciente e la forma abituale dei pensieri con un patrimonio più o meno ricco di concetti elaborati durante parecchie generazioni prima di arrivare fino a noi; e tutto questo messo insieme costituisce il temperamento dell’anima, come il sangue, la razza, il regime e il genere di vita formano il temperamento del corpo. L’educazione qualche volta modifica, più spesso rinforza questo primo fondo di atavismo; la stessa ispirazione divina non lo elimina, poiché la grazia, ben lungi dal sopprimere la natura, l’innalza e la trasforma, pure lasciandole la sua impronta e la sua individualità perfettamente distinta. – Per la sua nascita e per la sua educazione, Saulo ci fa prevedere una natura complessa in cui si uniranno tutti i contrasti. « Ebreo di nascita, nativo di Tarso e cittadino romano » (Atti, XXI, 29. Cfr. Atti, XXII, 3; XXII, 27.), tale è il suo stato civile che egli stesso denunzia al magistrato incaricato d’istruire il suo processo. Secondo San Girolamo, Giscala fu la culla della sua famiglia (De Viris illustr., 5.): anche il tredicesimo Apostolo sarebbe dunque un galileo. Allora, come oggi, gli Ebrei erano i più cosmopoliti degli uomini. Perseguitati in Palestina da poteri rivali, oppressi dagli invasori, attratti fuori dall’esca del guadagno e dall’istinto del commercio, avevano disseminato le loro colonie in ogni parte dell’impero. Sicuri di trovare dappertutto, presso i loro connazionali, accoglienza, soccorsi e protezione, al più leggero allarme cambiavano paese: l’universo era la loro patria. In quei tempi Tarso era una delle città più fiorenti dell’Asia. Colmata di favori da Poma, libera ed esente da imposte dal tempo di Pompeo il Grande, metropoli della Cilicia dal tempo di Augusto, essa doveva alla sua magnifica posizione la fortuna di essere un centro commerciale di prim’ordine. Dalle alture vicine alla città, sopra i boschetti di palme, l’occhio abbracciava ad un tempo le cime nevose del Tauro, le bianche vele del Mediterraneo, che un fiume allora navigabile, il Cidno, portava fin sotto le sue mura, e finalmente tutta la Cilicia Campestre solcata da innumerevoli canali e coperta di messi. – Quel panorama ridente e grandioso non pare abbia lasciato alcuna traccia nella fantasia di Paolo il quale più tardi attraverserà i luoghi più meravigliosi per le bellezze della natura o per la magia dei ricordi, senza mostrare nessuna ammirazione, senza arricchire il suo stile di un paragone o di un colore qualunque. Sotto questo aspetto egli è il contrario dei Profeti e degli Evangelisti. Si è voluto spiegare questo fenomeno o con una debolezza congenita di vista o con la mancanza del dono dell’osservazione. Il fatto sta che la natura morta non dice nulla a quella mente riflessiva e assorta nello spettacolo della lotta dolorosa di cui l’anima sua è il teatro e il premio. Egli non vede la natura inanimata se non nelle sue relazioni con l’uomo: il suo regno è la psicologia. Da molto tempo si è notato che le sue metafore sono prese quasi tutte, non dallo spettacolo e dalle attività del mondo fisico, ma dalle manifestazioni esterne della vita umana. Egli osserva con attenzione e descrive con finezza i giochi ellenici, i soldati romani agili sotto il peso delle armi, i mercati orientali formicolanti di schiavi, e anche i grandi edifizi, tempi e palazzi, dove si rivela la potenza e l’ingegno dell’uomo. Mentre le figure prese dalla vita dei campi non hanno gran rilievo, le espressioni tecniche del teatro o dello stadio, e soprattutto il suo linguaggio militare, offrirebbero argomenti di studio curiosi e istruttivi.

2. Verso l’età di sei anni, il fanciullo ebreo frequentava la scuola. Le scuole celebri abbondavano a Tarso, e in esse si studiavano tutte le scienze, specialmente la filosofia. Su questo punto quelli di Tarso rivaleggiavano con i sofisti di Alessandria e di Atene e avevano anche fama di superarli. Era loro specialità il fornire i precettori ai padroni del mondo: il precettore di Augusto, Atenodoro lo Stoico, era di Tarso; quello di Marcello e di Tiberio, anche, ed entrambi vennero a morire nella loro città natale, carichi di oro e di onori: dove la scienza frutta denaro, non manca mai di seguaci. Non da questi retori Paolo imparò gli elementi delle lettere; il suo greco non è quello delle scuole, ma è una lingua presa dall’uso delle conversazioni, viva, immaginosa, pittoresca, ammirabile per espressione, per originalità e vivacità, ma estranea ai precetti delle grammatiche ufficiali. Dove si trovavano abbastanza numerosi, gli Ebrei avevano le loro scuole particolari da cui erano banditi severamente i libri pagani e dove lo studio principale, se non l’unico, era la Bibbia: soltanto nella Diaspora essa si leggeva in greco. A tale scuola dovette essere mandato Saulo da suo padre, fariseo rigido. – Che egli abbia molto frequentato gli scrittori profani, non bastano a dimostrarlo le tre sue citazioni di poeti. Siccome Arato era della Cilicia e forse di Tarso, è possibile che l’Apostolo prenda direttamente da lui la frase citata dinanzi all’Areopago: « Perché noi siamo della sua stirpe ». Ma quell’emisticchio scorrevole e armonioso era di quelli che i versificatori introducevano volentieri nelle loro composizioni quando l’argomento vi si prestava: lo incontriamo difatti anche nell’Inno di Cleanto a Giove (Atti, XVII, 2). Il verso della Taide di Menandro, che questi, come si crede, avrebbe preso da Euripide, non era che una massima proverbiale di uso comune, e la forma che gli dà San Paolo, secondo i migliori manoscritti, prova che egli non era molto familiare col ritmo del trimetro giambico (I Cor., XV, 33). – Finalmente il motto satirico: « Cretesi, perpetui bugiardi, male bestie, ventri oziosi », che si legge negli Oracoli di Epimenide e, in parte, nell’Inno a Giove di Callimaco, doveva essere spesso lanciato contro i Cretesi dai loro nemici e dai loro rivali. Come si vede, ciascuno di questi tre testi si trova almeno in due autori diversi (Tito I, 12). – Nessun libro profano ha lasciato negli scritti di San Paolo una traccia sensibile della sua influenza. Sembra che l’Apostolo non abbia mai letto le elucubrazioni teosofiche del suo gran contemporaneo Filone di Alessandria, e non deve fare meraviglia, tanto sono diverse le loro mentalità. Si riferiscono talora a Filone le espressioni « immagine di Dio, primogenito della creazione », applicate al Cristo preesistente, ma è assai più naturale cercarne la fonte prima nel Libro della Sapienza. Paolo non s’ispira neppure dagli altri filosofi. La sua morale, insieme con profonde divergenze, ha qualche punto comune con quella degli stoici, e in questo, se si vuole, si potrebbe vedere un ricordo della sua educazione. I filosofi di quel tempo, specialmente quelli di Tarso e della Cilicia, facevano professione di stoicismo, e può essere che l’Apostolo, nella sua età matura, abbia discusso con essi, ma non vi è nulla, né per le idee né per la terminologia, che indichi chiaramente che egli sia stato alla loro scuola, e non occorre neppure avvertire che la sua pretesa corrispondenza con Seneca è semplicemente una frode letteraria o lo sciocco divertimento di qualche spirito ozioso. – Insomma, questa prima dimora a Tarso non lasciò su la sua intelligenza una traccia profonda; la sua famiglia non si lasciò penetrare dall’atmosfera esterna, e suo padre, Ebreo di antico stampo, sembra che abbia poco gustato la coltura ellenica e le abitudini sociali del mondo greco-romano. Più tardi Paolo potrà chiamarsi « Ebreo figlio di Ebrei, fariseo figlio di farisei », tanto si sentirà estraneo all’ellenismo. Ma un giorno ritornerà a Tarso, nell’età matura, quando la grazia divina lo avrà mutato; allora noterà le ridicolaggini di quei pretesi filosofi che fanno professione di vendere la sapienza, le loro cabale, le loro meschine gelosie, le ingiurie ignobili che si scambiano a vicenda, la loro avidità del guadagno, la loro corruzione mal celata, la loro superbia insopportabile fondata su una grande ignoranza. Il ritratto che, nell’Epistola ai Romani, ci fa di quei pazzi che si dicono saggi, non sembra tanto una copia fatta a memoria, quanto piuttosto un quadro dal vero. Nelle diverse dimore che fece nella sua città natale, si familiarizzò con i Settanta. Egli conosce la Bibbia nelle due lingue, ma quasi sempre la cita in greco, o perché la versione dei Settanta gli fosse davvero familiare, o piuttosto perché, scrivendo egli in greco, gli viene più naturalmente alla memoria il testo greco dei Settanta. – Secondo un calcolo più o meno esatto, ma giusto nel risultato generale, su ottantaquattro citazioni, trentaquattro concordano esattamente con i Settanta, trentasei se ne scostano pochissimo, dieci presentano differenze notevoli, due sono prese dall’ebraico, ma suppongono presente alla mente dell’autore il testo dei Settanta, finalmente due soltanto sono traduzioni affatto indipendenti o appartenenti ad altra versione. Insomma, l’Apostolo non si allontana dalla versione generalmente accettata e le resta fedele anche in casi in cui ci pare gli sarebbe convenuto allontanarsene. – Sotto il nome di Settanta, comprendiamo tutti i libri ammessi nel canone alessandrino che era quello degli Ebrei ellenisti. Paolo lesse certamente il Libro della Sapienza da cui s’ispira nell’esporre la prova filosofica dell’esistenza di Dio, e nel descrivere la panoplia delle virtù cristiane. Anche la similitudine del vasaio e altre simili, ci dicono la stessa cosa. Le relazioni con il Libro dell’Ecclesiastico, meno evidenti, bastano, secondo noi, a rendere probabile la dipendenza letteraria. L’erudizione di Paolo non è libraria: egli possiede a fondo una sola scienza, la religione rivelata; conosce un solo libro, la Bibbia.

AI PIEDI DI GAMALIELE.

1. LA SCUOLA EBRAICA D I GERUSALEMME. — 2. Uso DELL’ ANTICO TESTAMENTO. — 3. SAULO IL FARISEO.

1. Saulo aveva circa tredici anni, quando andò a Gerusalemme per compiervi la sua educazione, e non sappiamo se ve lo accompagnarono i suoi parenti. Circa quarant’anni più tardi, il figlio di una sua sorella stabilita nella città santa, gli salverà la vita. Già conosciamo le abitudini di viaggiare degli Ebrei di quei tempi e dobbiamo abituarci sempre più ai continui cambiamenti di posto che la storia del secolo apostolico segna a ogni pagina. Il fanciullo era destinato all’arte dello scriba, professione ambigua che preparava a tutte le carriere e apriva la via a tutti gli onori: lo scriba era ad un tempo avvocato e procuratore, magistrato e giureconsulto, consigliere e predicatore, uomo di legge e uomo di chiesa, letterato, retore e grammatico. Gli studenti di Gerusalemme erano allora divisi tra due scuole rivali i cui fondatori, Hillel e Shammai, di leggendaria memoria, personificano agli occhi della posterità, l’uno le vedute ristrette e la grettezza di mente, l’altro le idee larghe di un liberalismo illuminato; ma se dobbiamo credere alla Mishna, la fonte più autorevole delle tradizioni ebraiche, non vi è nulla che provi tale contrasto. – I dissensi si riferivano a minuzie, per esempio alla questione se un uovo fatto di sabato si potesse mangiare nel giorno stesso, oppure se il fiocco a vari colori, chiamato zizith in ebraico, fosse obbligatorio anche per il vestiario della notte. Eccetto queste inezie, le due scuole erano d’accordo: entrambe mantenevano la stretta osservanza della Legge, ricevevano le tradizioni rituali e storiche sovrappostesi alla Thora scritta, erano insomma imbevute del più puro fariseismo. Tuttavia, se possiamo mettere innanzi una differenza, forse la scuola d’Hillel tendeva generalmente verso l’interpretazione meno rigorosa. – Il successore d’Hillel, erede dei suoi principi, se non del suo sangue, era allora Gamaliele il Vecchio, venerabile agli occhi dei Cristiani perché difese gli Apostoli, senza che la sua riputazione postuma ne soffrisse presso i suoi correligionari. Gamaliele è rimasto il tipo ideale del fariseo: « Dopo la sua morte, dice la Mishna, non vi è più rispetto alla Legge; la purezza del fariseismo è morta con lui ». Del resto la sua storia è molto oscura, ed egli è spesso confuso col suo omonimo e nipote Gamaliele II, testimonio della rovina del Tempio e della suprema agonia del popolo ebreo. Il giovane Saulo venne dunque a sedersi ai piedi del Rabban Gamaliele, come onorevolmente era chiamato. Égli veniva a iniziarsi faticosamente alla scienza sacra proprio nel centro della vita nazionale, nel momento in cui Gesù, di sette od otto anni più vecchio di lui, progrediva in grazia e in sapienza, in un angolo oscuro della Galilea. Ci siamo potuto domandare se e quanto il paese natio abbia influito sul pensiero di Paolo; ma per Gerusalemme il dubbio non è possibile. Tarso è la sua patria civile dove riceve, col titolo invidiabile di cittadino romano, quella lingua ellenica che lo fa in certo modo cittadino dell’universo; ma Gerusalemme è la patria dell’anima sua, la patria della sua intelligenza come pure, e più ancora, del suo cuore. Verso Gerusalemme egli convergerà sempre nel corso del suo pellegrinaggio terrestre ed ha pienamente coscienza di avere là ricevuto l’impronta indelebile della sua formazione religiosa e morale; là veramente egli fu istruito ed educato ai piedi di Gamaliele, ed era a una buona scuola. Nonostante le loro sottigliezze puerili e le loro inconseguenze pratiche, i farisei erano i veri depositari della scienza sacra e gl’interpreti più autorevoli della legge divina: Gesù, loro avversario implacabile, doveva rendere loro questa testimonianza, che bisognava seguire il loro insegnamento senza imitarne la condotta.

2. La scuola ebraica era annessa alla sinagoga, e l’istruzione che vi si dava era esclusivamente religiosa. Matematica, geografia, storia profana, filosofia, non esistevano per l’ebreo ortodosso; per lui vi era soltanto la morale, il diritto positivo e la storia sacra, e tutto questo era la Bibbia. Compitandola s’imparava a leggere, e molti scribi la sapevano a memoria, come la sanno anche oggi alcuni pochi Israeliti. Noi vediamo Paolo che la cita sempre a memoria, e anche quando non la cita, il suo linguaggio è un tessuto di reminiscenze inconsapevoli o volute. Il suo stile, come quello di San Bernardo e di Bossuet, è tutto impregnato di espressioni bibliche le quali scaturiscono spontaneamente dai suoi ricordi, il che suppone una conoscenza particolareggiata e minuziosa, frutto di lunghi anni di studio. – Il fiume della rivelazione che ha la sua sorgente sul Sinai, o piuttosto nell’Eden, era continuato a scorrere, sempre accresciuto di nuove rivelazioni, fino alla soglia dell’era cristiana. Gli Ebrei contemporanei degli Apostoli parlavano di Dio, della sua infinita trascendenza, della sua potenza creatrice, della sua provvidenza paterna, in termini che il Cristianesimo non dovette rigettare. La dottrina dei novissimi — retribuzione dei giusti, pene riservate ai cattivi, risurrezione dei morti, giudizio finale — non aveva che da fare qualche leggero progresso per passare nel Vangelo. Altrettanto si può dire del dogma della caduta originale. La maniera di ravvisare la Scrittura come parola di Dio, come espressione della sua intelligenza e della sua volontà, poteva essere accettata senza modificazioni dai banditori della nuova fede. Non ci fermeremo su questa eredità ricevuta dai profeti né sul patrimonio di verità religiose accumulato nel corso dei secoli fino al giorno in cui la luce del Vangelo venne ad ecclissare la fiaccola della Sinagoga: sono senza dubbio fondi assai ricchi, ma non appartengono propriamente al Dottore delle genti. – Non possiamo invece dispensarci dal cercare, negli scritti dell’Apostolo, le tracce della sua educazione rabbinica alla scuola di Gerusalemme. Alla tradizione ebraica egli deve il senso tipico della Scrittura, l’impiego del senso chiamato accomodatizio e l’uso frequente dell’allegoria. – Siccome l’Antico Testamento è come la base del Nuovo, è naturale che lo Spirito Santo, autore di tutta la Bibbia, gli abbia dato un senso profetico o figurativo che risulta e dai racconti stessi e dal modo di narrarli. Questo senso che si sovrappone alla lettera della Scrittura, si chiama senso spirituale, e noi chiamandolo tipico, abbiamo il doppio vantaggio di evitare un equivoco e di conformarci alla terminologia di Paolo. L’Apostolo afferma che il primo Adamo era il tipo di Gesù Cristo, l’Adamo futuro, e sviluppa questa tipologia in due passi celebri (Rom. V, 12-19; I Cor. XV, 22, 45, 49). Così pure la sorte degli Israeliti nel deserto aveva un carattere tipico e fu scritta con lo scopo d’istruirci. Questi fatti figurativi rivestono perciò un significato spirituale che il racconto letterale non diminuisce affatto. Così pure la Legge di Mosè era l’ombra delle realtà future il cui corpo, la sostanza e il vero essere s’identificano con l’economia cristiana (Col. II, 17). Finalmente l’istituzione del matrimonio, ristabilito da Gesù Cristo nella sua unità e nella sua indissolubilità primitive, non pare misteriosa se non per il suo valore simbolico (Ef. V, 32). Non dobbiamo tuttavia credere che San Paolo riconosca il senso tipico soltanto quando ne pronunzia il nome: per lui la Sinagoga è la figura della Chiesa (I Cor. III, 16; II Cor. VI, 16), i sacrifizi antichi, specialmente l’agnello pasquale, sono figure del Cristo (I Cor. V, 7; Eph. V, 2), e certi suoi argomenti non hanno valore se non si ammettono i due significati, il letterale e il tipico, voluti entrambi e affermati dallo Spirito Santo. Non andiamo però agli eccessi: quando l’Apostolo si vanta di predicare soltanto dove ancora non si è udito il nome del Cristo (Rom. XV, 20-21), quando esorta i Corinzi a fare la limosina per stabilire tra i Cristiani quell’eguaglianza che regnava tra gli Ebrei nel raccogliere

la manna (II Cor. VIII, 14-15), e si appoggia, in tutti e due i casi, a un testo biblico, con la formola solenne di citazione, non siamo obbligati ad ammettere che egli veda in quei due testi un senso tipico, come se lo Spirito Santo, con l’aiuto del senso letterale e oltre a questo, avesse inteso di predire la colletta in favore di Gerusalemme o di limitare il campo di azione di Paolo. Qui vi è accomodazione pura e semplice. È privilegio dei predicatori l’adoperare così la Scrittura, e tutti hanno il diritto di esprimere i propri pensieri con le parole dei Libri santi; la formola di citazione non muta nulla né al diritto né al privilegio. – Si chiama accomodatizio, non propriamente un significato scritturale, ma l’applicazione di un testo biblico ad un fatto o ad un caso simile. Il Salmista aveva detto, parlando dei cieli, che celebrano alla loro maniera la gloria del Creatore: La loro voce risonò sopra la terra; E le loro parole, fino ai confini del mondo. San Paolo applica queste parole, senza formola di citazione, ma con manifesta allusione al versetto del Salmista, alla predicazione degli Apostoli (Rom. IX, , 18 citando il Ps. XVIII). Certi interpreti si credono obbligati a conchiuderne che, essendo ancora vivo Paolo, il Vangelo era stato predicato in tutto il mondo (San Giovanni Grisostomo), o che almeno vi era conosciuto di fama (San Tommaso). I più ci vedono soltanto un’iperbole: un’iperbole che sarebbe troppo forte se le parole in questione fossero dell’Apostolo, ma che è invece naturalissima dal momento che si tratta di una semplice allusione. Poiché l’allusione non pretende di essere vera alla lettera, ma le basta un rapporto di proporzione o di analogia. – L’accomodazione più prolungata è quella che occupa un capo della seconda ai Corinzi (II Cor. III, 14-15). Essa si fonda sul racconto dell’Esodo, secondo il quale Mosè parlava a Dio a faccia scoperta, ma se la copriva con un velo per parlare al popolo. Paolo ne trae una doppia applicazione, metà per analogia e metà per contrasto. I predicatori ndel Vangelo — e anche, in una certa misura tutti i Cristiani, trattano con Dio faccia a faccia e sono a poco a poco trasformati nell’immagine di Dio; ma quando si rivolgono al popolo, non si coprono con un velo, simbolo di timore e di servilismo. Al contrario gli Ebrei contemporanei hanno il cuore coperto di un fitto velo, come Mosè al ritorno dalle sue conversazioni celesti; ma un giorno, quando si convertiranno al Signore, getteranno quel velo, come Mosè quando andava a parlare con Dio. – L’esempio seguente di accomodazione oratoria è ancora più notevole, perché modifica molto il testo che adopera e vi mescola un’apparenza di argomentazione. Paolo applica alla legge di grazia un passo in cui si tratta della Legge mosaica, e lo fa per dimostrare che il nuovo regime è superiore all’antico: La giustizia (che nasce) dalla fede, parla così: non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? È (per) far discendere il Cristo. Oppure: Chi discenderà negli abissi? È per risuscitare il Cristo dai morti. Essa dica dunque: La parola è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore. È la parola della fede che noi predichiamo. Perché se tu confessi con la bocca il Signore Gesù, e se tu credi nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, tu sarai salvo (Rom. X., 6-9). – A prima vista questo uso della Scrittura è tanto arbitrario, che sconcerta: non solo il testo è riassunto e citato a brani, ma è modificato a bello studio. Invece di: Chi passerà di là dai mari? Paolo mette: Chi discenderà negli abissi? per preparare la sua applicazione alla risurrezione del Cristo. Poi presenta tre interpretazioni del genere midrash, che non sembrano suggerite dal testo, e finalmente rivolge contro la Legge quello che la Scrittura aveva detto della stessa Legge. Queste difficoltà sono distrutte o almeno molto attenuate dalle seguenti osservazioni: Paolo non argomenta, ma non fa altro che esporre e illustrare il carattere della nuova legge; egli non cita neppure la Scrittura, ma si limita a mettere in bocca della Giustizia personificata quello che Mosè aveva detto della Legge. – Il testo del Deuteronomio era divenuto quasi proverbiale per far intendere che una cosa era possibile e facile. La conclusione di San Paolo — che la fede è più facile e più accessibile che la Legge — è incontestabile, e la sua maniera di spiegare la cosa è un’accomodazione oratoria delle più legittime. Essa viene a dire: Mosè ha detto della Legge, che per conoscerla non occorre né salire al cielo né passare i mari, e questo conviene, a più forte ragione, al Vangelo. Infatti non occorre salire al cielo per farne discendere il Cristo, poiché il Cristo si è già incarnato; non occorre discendere negli abissi per trarne fuori il Cristo, poiché il Cristo è risuscitato da morte; basta credere di cuore e confessare con la bocca che Egli è il Signore e che è risuscitato. – Saremmo pure inclinati a vedere un esempio di accomodazione oratoria nel passo in cui Agar e Sara figurano i due testamenti (Gal. IV. 21-31). È un tipo biblico oppure un simbolo? In altri termini, lo Spirito Santo nell’ispirare l’autore sacro che ha scritto la storia di Abramo, voleva insegnarci il carattere differente delle due alleanze, oppure permetterci soltanto di servircene per meglio comprenderlo! Tale è la questione. San Paolo non parla di tipo, ma di allegoria; e se la maggior parte degli esegeti antichi stanno per il significato spirituale, si sa che essi danno a questo termine un significato molto elastico. – I rabbini solevano appoggiare sopra un testo della Bibbia qualunque opinione tradizionale così storica come giuridica, e questo appunto era l’oggetto dell’esegesi. Si distinguevano sei specie di prove, e le loro suddivisioni le facevano arrivare a tredici: l’a fortiori, l’analogia, la conseguenza, otto specie di analisi, il contesto e i luoghi paralleli. Parecchie di tali prove mancano di rigore; in materia positiva, l’a fortiori non è decisivo; l’analogia non è che una ragione di convenienza; il senso conseguente non è sempre un senso scritturale. Il più curioso si è che i rabbini non si lasciavano ingannare dai loro metodi di cui vedevano benissimo i lati deboli. Quando Rabbi Simeone sosteneva che se le donne Ammonite e Moabite erano ammesse nella Sinagoga da cui erano esclusi per sempre gli uomini del loro paese, le Egiziane a più forte ragione si potevano ammettere, si affrettava a invocare la halacha (tradizione), per tagliar corto con l’obbiezione che viene suggerita dall’argomento a fortiori. Avendo la tradizione, agli occhi dei rabbini, un valore indipendente dal testo biblico con cui si cercava di puntellarla, la prova scritturale diventava una semplice formalità. Si poteva, occorrendo, farne a meno e accontentarsi del remez (allusione); ma sempre ci voleva qualche cosa. L’abuso del remez doveva fare dell’esegesi ebraica un giochetto arbitrario e puerile. – Dinanzi a una citazione biblica di San Paolo, bisogna dunque domandarsi prima di tutto se vi è allusione o accomodazione o applicazione letterale o vera argomentazione, e in quest’ultimo caso, se l’argomento è scritturale o teologico oppure oratorio. La formola come sta scritto non indica sempre un’argomentazione propriamente detta, e lo stesso certamente si deve dire per la formola poiché sta scritto o per la particella “dunque” messa in principio di una conclusione che segue immediatamente una citazione scritturale. Resta allora da esaminare qual è il punto preciso che San Paolo vuole stabilire e sotto quale aspetto particolare egli considera il suo testo, perché spesso non tutto è da provare in una affermazione complessa, e frequentemente vi sono, in un testo portato come prova, mille circostanze indifferenti al punto che si vuole mettere in luce. – L’agiografo, anche quando si appoggia alla Scrittura, può argomentare come oratore più che come teologo, e la sua prova può non essere strettamente scritturale; o piuttosto non sarebbe tale se, a differenza del teologo o del predicatore ordinario, la conclusione dell’autore ispirato non avesse un valore assoluto indipendentemente dalle sue argomentazioni. Mosè aveva detto: « Non mettere la fusoliera al bue che trebbia il grano (I. Cor. IX cit. da Deut. XXV, 11-14) », e Paolo ne deduce che l’operaio apostolico può vivere del Vangelo. Questo è un argomento a fortiori che si è trovato presso i rabbini, ma la conclusione non è, strettamente parlando, un senso scritturale; sarebbe quello che i teologi chiamano un senso conseguente. Eccetto che si voglia adottare la teoria dei sensi multipli di Sant’Agostino, per costituire un senso scritturale non basta che una cosa ci sia suggerita dalla lettura della Bibbia né che la si possa trarre per mezzo della deduzione teologica od oratoria. La prova oratoria non sempre si risolve in un rigoroso sillogismo; l’analogia, la comparazione, la similitudine, tutto ciò che fa entrare più profondamente il pensiero nella mente dell’uditore, ve lo fissa e ve lo scolpisce, gli serve di schiarimento o d’illustrazione, si può chiamare prova oratoria, ma non è un argomento alla maniera di Aristotele. Ma perché si dovrà vietare allo scrittore sacro l’uso di procedimenti letterari che sono di diritto comune? Nessuno può liberarsi completamente dai metodi del suo tempo e della scuola dove si è formato. Se dal linguaggio e dalla forma del pensiero dei profeti è facile riconoscere la differenza delle loro condizioni sociali e della loro coltura intellettuale, perché si vorrebbe che San Paolo sia esente dalla stessa legge? L’interesse della verità non esigeva punto che egli disapprendesse tutto ciò che aveva imparato.

3. In quel tempo Saulo si faceva notare per il rigore del suo fariseismo: « Io ero, dice, pieno di zelo per (la Legge di) Dio (Act. XXII, 3) … Io vissi da fariseo, secondo la setta più rigida della nostra religione (Act. XXVI) ». Quando i suoi avversari si faranno scudo della loro fedeltà scrupolosa alla Legge, egli risponderà: « Io pure ero fariseo, persecutore della Chiesa per zelo, irreprensibile dal lato della giustizia legale (Fl. III, 6) ». La vita del fariseo, racchiusa come in una fitta rete dalle seicento tredici prescrizioni del codice mosaico rinforzate da tradizioni senza numero, era una servitù intollerabile. Le purificazioni rituali prescritte dopo le impurità contratte col solo contatto di oggetti impuri, riempivano parecchi trattati del L’ultimo libro della Mishna (Seder Teharoth), di ben dodici trattati, è tutto consacrato a tali minuziose prescrizioni; impossibile uscire di casa, mangiare, fare un’azione qualunque, senza esporsi a mille infrazioni, e la paura di cadervi paralizzava la mente e toglieva il senso superiore della moralità naturale. Tutta la religione degenerava in un meschino formalismo: l’uomo era tentato di credersi l’artefice della propria giustizia e, dovendo tutto a se stesso, diventava creditore di Dio. A che pro il pentimento, la preghiera umile e ardente, i sospiri verso il cielo, del peccatore e del pubblicano? Egli, non era forse il giusto che digiunava due volte la settimana, il lunedì e il giovedì, secondo il costume della sua setta, che pagava esattamente la decima della menta, dell’anice e del cumino, che non dimenticava mai nessun rito tradizionale! Il fariseismo nutriva l’amor proprio, la superbia e la presunzione, e fomentava anche l’ipocrisia. L’ideale del fariseo era elevato, ma egli per arrivarci aveva soltanto la sua superbia; mancando questa, l’unico mezzo che gli restava era di dissimulare le sue mancanze o di farle passare per virtù dinanzi al volgo (‘am haarez), oggetto del suo timore e del suo disprezzo. A quali stratagemmi e a quali cavilli ricorre per temperare il rigore del digiuno, per moderare l’incomodo del sabato! Infatti il trattato Erubin permette di stabilire un domicilio fittizio al termine del riposo sabbatico, per prolungare di altrettanto il viaggio permesso, e di unire, in modo fittizio, parecchi domicili per portare alimenti dall’uno all’altro, senza infrangere la legge del riposo. Il fariseo cercava di riscattare le sue concessioni e le sue miserie con un’intolleranza feroce: Paolo, scoraggiato di trovarsi così lontano dal suo ideale di perfezione legale, si fece persecutore per zelo e per rimorso. Egli custodiva gli abiti dei lapidatori di Stefano, forse perché non era in grado di essere il giudice o il carnefice del martire; ma nel suo foro interno sanzionava e approvava tutto. La passione lo agitava con troppa violenza, per poter ascoltare le parole del santo diacono; ma ancorché le avesse ascoltate, quel discorso interrotto bruscamente dalla morte non lo avrebbe commosso. Nelle sue lettere non troviamo nessuna allusione a quell’avvenimento: egli si ricorda soltanto di aver perseguitato la Chiesa del Cristo. I suoi quattro accenni a quel deplorevole passato sono della massima importanza per giudicare del suo stato psicologico nel momento della sua conversione: « Io perseguitalo senza misura e devastavo la Chiesa di Dio, sorpassando per (l’esaltazione del) mio giudaismo la maggior parte dei miei contemporanei (Gal. I, 13-14). Io sono l’ultimo degli Apostoli e non sono degno del nome di apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa del Cristo (I Cor. XV, 2). Fui in altri tempi un bestemmiatore e un persecutore, un insultatore; ma ho ottenuto misericordia perché agivo per ignoranza nell’infedeltà (I Tim., 13). Fariseo secondo la Legge, persecutore della Chiesa per zelo, irreprensibile dal lato della giustizia che viene dalla Legge (28) ». Nel discorso che rivolge agli abitanti di Gerusalemme dopo la sua cattura (29), e in quello che pronunziò dinanzi al procuratore Festo assistito dal re Agrippa (30), ricorda benissimo la parte da lui presa nel martirio di Stefano, ma senza lasciar capire che provasse allora altro sentimento che il piacere di un desiderio soddisfatto. Del resto tutti i particolari sembrano confondersi nella sua memoria come la visione molesta di un incubo terrificante.

LO SCUDO DELLA FEDE (XXIV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXIV

LA VITA E LA MORTE.

La lunga vita dei patriarchi. — Perché Dio ci lascia morire? — E dacchè Dio ci lascia morire, è poi gran male il suicidio? — E il duello? — Che dire del martirio e delle penitenze di certi santi? — La penitenza non è un attentato alla vita? – La cremazione.

— Ora vorrei sapere se sia vero che Adamo, il primo uomo, visse novecento e trent’anni, e tutti i primi uomini vissero come lui per lunghe età?

Verissimo, la Scrittura ne fa fede.

— Ma quegli anni non erano forse di gran lunga più brevi dei nostri?

Fin dai tempi di S. Agostino, taluni sorpresi di tanta longevità pretesero di ridurre egli anni allo spazio di trentasei giorni. Ma ciò erroneamente, perché l’autore del Genesi parlando altrove dell’anno enumera il primo, il secondo, il settimo, il decimo mese, ciò che mostra che intendeva parlare di uno spazio presso a poco uguale al nostro, ossia come pare probabilissimo di uno spazio di dodici mesi lunari, corrispondenti a 354 giorni.

— Ma una tale longevità non è fisicamente impossibile?

Nelle presenti condizioni di natura l’uomo certamente non può giungere ad una età antica quanto quella dei patriarchi benché anche oggi vi siano casi di vite lunghe fino a 190 anni e anche di più. Ma probabilmente prima del diluvio, le condizioni climateriche erano differenti da quelle d’oggidì, la qual circostanza, se non fu l’unica cagione, ebbe forse una grande efficacia sulla lunga vita dei primi uomini.

— Ho inteso. Ma perché Iddio dopo d’averci data la vita ci lascia morire? Io dico: « O la vita è un male, e allora perché Dio ce l’ha data? o è un bene, e allora perché ce la toglie? »

Tu dici così, perchè così hai letto in un cattivo romanzo. Ma non ti avvedi che questo specioso dilemma è tutto basato sul falso? Che la vita sia un bene e non un male non ci vuole un gran comprendonio a capirlo. – Dio, ch’è buono, non dà certamente agli uomini una cosa cattiva. Con tutto ciò la vita non è certamente il bene fine, ma il bene mezzo di un altro bene infinitamente maggiore, la beatitudine eterna, alla quale Dio, perché padrone di fare quel che vuole, ha stabilito che si arrivi passando per la morte. E avendo stabilito così ci fa forse Egli qualche torto, o si regola forse contrariamente alla sua bontà? Che anzi non ci dà prova maggiore di bontà in tal guisa, he lasciandoci vivere sempre in questo mondo? Supponi che tuo padre ti avesse dato dieci lire, dicendoti: Se te ne servirai a bene e le farai fruttare, dopo quel certo tempo che piacerà a me ti ripiglierò quelle dieci lire per dartene centomila: dimmi tuo padre avrebbe fatto male a darti quelle dieci lire? e in seguito ti farebbe un torto a togliertele per dartene centomila? – Capisci adunque quanto sia falso il dire quel che dice quel romanziere: « O la vita è un male, eccetera, eccetera ».

— So però essere verissimo, che Dio vuole che noi ci conserviamo la vita. Come dunque mediare questa sua volontà colla morte, di cui ci lascia essere vittime?

Questa conciliazione è la più facile che vi sia. Dio vuole certamente che noi ci conserviamo la vita, e vuole cioè che per parte nostra non ci togliamo sì gran dono, che desso ci ha fatto, avendocelo dato perché lo impieghiamo ad operare il bene per tutto quel tempo che Egli vuole lasciarci quaggiù. Ma passato questo tempo Egli vuole altresì, che noi ci rassegniamo alla morte, dalla quale ci lascia colpire per farci entrare nella eternità.

— Dacché adunque Iddio ha stabilito che noi tutti dobbiamo morire, non sarà proprio mai lecito che l’uomo si dia da se stesso la morte? Ho inteso dire varie volte che taluno nel togliersi la vita ha fatto un’ottima cosa, degnissima di lode!

Così pur troppo la pensa il mondo; ma si sa lo spirito mondano è diametralmente opposto allo spirito cristiano. Epperò non mai e poi mai sarà lecito il suicidio, ma sempre deve riguardarsi come un gravissimo delitto. In tutte le creature vi è una forza naturale, istintiva ed indistruttibile, che le spinge a far di tutto per conservare la propria esistenza. Epperò questa forza bisogna riconoscere che Dio stesso l’ha posta nelle sue creature come una legge di natura, cui anche l’uomo deve sottostare. Oltreché con la legge di natura Iddio ha pur proibito il suicidio nella legge positiva; giacché in quel « 5° Non ammazzare » è chiaro che Dio proibisce all’uomo non solo di ammazzare gli altri, ma ancora se stesso. Chiunque pertanto si dà la morte, viola gravissimamente un doppio precetto del Signore, senza nulla dire dell’ingiustizia, che commette verso della famiglia e della società.

— Come? Che chi si uccida violi la legge di natura e positiva lo intendo; ma non capisco come si renda pure ingiusto verso la famiglia e la società.

Rifletti che ogni uomo fa parte di una famiglia e di una società. E tanto all’una come all’altra egli è legato con dei diritti e dei doveri, che non deve disconoscere e rinnegare. Se pertanto egli si dà la morte, che cosa fa? Calpesta questi diritti e questi doveri, spezza violentemente i vincoli di sposo, di padre, di figlio, getta il disonore sulla famiglia, cui appartiene, priva la medesima e la società della propria esistenza e della propria opera.

— Tutto ciò è giusto; ma quando la vita, a cagione dei dispiaceri, dei dolori, dei contrasti, delle infermità, del disonore e di altre simili miserie diventa insopportabile non è meglio allora farla finita?

Primieramente ti osservo che la vita a cagione delle sue tribolazioni diventa insopportabile a coloro soltanto, che mancano di sentimenti cristiani. Chi nutre nel suo cuore tali sentimenti, anche in mezzo ai più acerbi dolori, non ostante che possa provare dei fremiti di natura contrari alla rassegnazione, non di meno o poco o tanto sa farsi violenza e sopportare la vita anche più dura. – In secondo luogo ti dirò che se fosse lecito di fronte alle tribolazioni della vita darsi la morte, in tutto il mondo si presenterebbe del continuo lo spettacolo del suicidio, perché vi è forse qualcuno, che durante la vita possa sfuggire del tutto i dolori fisici o morali? – Da ultimo ti assicuro che per quanto siano gravi le tribolazioni della vita non possono mai superare il bene della esistenza. Colui pertanto, che dinanzi ai dispiaceri, ai disgusti, al disonore e simili si dà la morte, è un vile miserabile, degno del massimo biasimo.

— Un vile miserabile? E non vi sono stati vari uomini grandi, che si suicidarono?

Se essi apparvero o furono tali per le grandi opere, che compirono durante la vita, senza dubbio lasciarono di essere tali allora che in tal guisa se la tolsero, perché la vera grandezza d’animo, come riconobbero gli stessi pagani, sta nel saper sopportare generosamente i disagi d’ogni genere, cui si va incontro quaggiù. – Se poi vi sono dei romanzieri, che esaltano il suicidio di questi così detti grandi,, gli è perché ancor essi hanno perduto il senso morale e tentano di farlo perdere eziandio agli altri.

— Eppure quanti ai giorni nostri, eziandio tra la gioventù, per un contrasto qualsiasi, si tolgono la vita!

Sì, ciò è verissimo pur troppo, ed è la dolorosa conseguenza dell’ambiente ateo, che si è andato formando in questi ultimi tempi. Si è posta da banda la fede, si sono scossi i principi della moralità negando la coscienza e insegnando il turpe materialismo, si è predicato quale unico scopo della vita il piacere, e poi sui giornali, sui romanzi, sui teatri, talora nelle stesse scuole, si è preso a fare l’apologia del suicidio: quindi nessuna meraviglia che questa piaga funesta si sia andata e vadasi allargando sempre più.

— Che si dovrebbe fare per rimediare a tanto male?

Si capisce: bisognerebbe combatterne e rimuoverne le cause. Bisognerebbe anzitutto ravvivare quanto più è possibile la fede e la pratica della religione; bisognerebbe poi proibire la pubblicazione di romanzi, di scritti, di articoli, di racconti, ove il suicidio è messo in mostra e quasi esaltato; bisognerebbe risvegliare il buon senso morale, sì che si abbia a riconoscere il gran delitto che il suicidio è, e l’infamia con cui merita di essere colpito; bisognerebbe che gli stessi poteri umani, come colpiscono di disonore i ladri e gli assassini, così facessero del suicida, che del ladro e dell’assassino è peggiore assai.

— Ella dice bene. Ma dacché siamo entrati in questo argomento, desidererei ora sapere qualche cosa di ciò che mi pare assai affine al suicidio, vale a dire del duello.

Tu hai ben ragione di dire che il duello è affine al suicidio, perché nel duello, che è un combattimento convenuto fra due, col pretesto di avere una riparazione d’onore, l’uomo senza alcuna vera necessità si espone al pericolo di essere ferito od ucciso contro la stessa legge di natura e quella positiva, di cui ti ho già parlato, e che ci impone di conservare la vita e ben anche l’integrità delle nostre membra.

— Dunque il duello è anch’esso un male grave?

È un male gravissimo, e tanto più ai giorni nostri. Che a questa rea pratica si abbandonassero quei barbari rozzi ed ignoranti, di cui parla Cicerone, i quali rimettevano la sentenza delle loro liti non già al tribunale, ma al ferro; che vi si abbandonassero gli stessi uomini civili nel medio evo, in cui tanti pregiudizi ed errori ottenebravano le menti, è cosa abbastanza spiegabile; ma che con la tanta luce e civiltà, di cui si vantano i tempi nostri, vi siano ancora di coloro così barbari e così sciocchi ad un tempo da mettere il loro onore sulla punta d’una spada o sopra una palla di rivoltella è del tutto inesplicabile e sommamente condannevole.

— Ma quando alla fin fine non vi è altro mezzo per avere soddisfazione d’un oltraggio ricevuto, mi pare che il duello non sia poi il gran male, che ella dice.

Come? Non vi è altro mezzo per avere soddisfazione d’un oltraggio ricevuto? Non vi sono forse i tribunali a cui ricorrere? Non vi sono dei giudici, delle leggi? E soprattutto poi per un cristiano non vi è il dovere di perdonare? – Ma via, mettiamo pure come tu di’, che alle volte cioè non vi sia altro mezzo per avere soddisfazione di un oltraggio ricevuto; forse che il duello serva a dare questa soddisfazione? Ecco: tu hai offeso me ed io ti sfido a duello. Tu accetti. Nel giorno, nell’ora e nel luogo convenuto, con le armi in mano e con i nostri padrini, o testimoni, ci troviamo a batterci. Tu sei coraggioso, forte e destro nel maneggiare la spada. Io invece sono timido, fiacco e poco esperto nella scherma. Al primo scontro tu mi ferisci, e se il duello è stato convenuto a primo sangue, i padrini c’intimano l’alt, se no, ripetiamo gli scontri, in seguito ai quali io da te sbudellato casco per terra e me ne vo all’altro mondo. Che riparazione d’onore ho avuto io? E dopo che tu m’avrai ferito od ammazzato, cessa forse d’esser vero che tu mi abbia offeso? – Ma supponiamo pure che per caso o per valentia o destrezza maggiore, sia io il primo a ferir te, e che compiuto così il duello a primo sangue noi ci riconciliamo tra le congratulazioni dei nostri padrini, o che pure trattandosi di duello a ultimo sangue, io riesca a far te freddo cadavere, resta forse così dimostrato che io sono stato da te offeso e che io ho avuto riparazione dell’offesa, che mi hai recato? Niente affatto: resta dimostrato che io nel battermi con te ho dispiegato una valentia, una destrezza, una forza superiore alla tua, e null’altro. Di maniera che il mio onore rimane offeso come prima, e non è stato per nulla riparato. E così non serve assolutamente né a dare soddisfazione d’un oltraggio ricevuto, né a decidere una lite, né a indicare dove stia il torto e dove la ragione, a meno che si voglia credere questa grande bestialità, che la ragione sempre da parte del più forte e che il torto spetta sempre al più debole. Vedi adunque come il duello oltre ad una barbarie, ad una violazione della legge naturale e positiva, sia ancora una stoltezza inesplicabile.

— Il suo ragionamento è giustissimo. Non comprendo però perché sia lecita la guerra, alla fin fine non è che un grande duello fra due popoli, e che non sia lecito battersi in due soli.

Vedi, caro mio: la guerra per un popolo, che sia stato offeso ne’ suoi diritti, non avendo esso più altro mezzo per difenderli, è necessaria ed anche giusta. Certamente, se i popoli non avessero in generale apostatato da Dio, potrebbero anche dirimere i loro contrasti e le loro liti ricorrendo all’arbitrato del Vicario di Gesù Cristo, del Papa, come molte volte in passato si fece. Ma pur troppo oggidì si è arrivati al punto di escludere proprio lui solo, il Papa, dai Congressi ed arbitrati di pace. Ad ogni modo torno a dirti che la guerra per parte di quel popolo, che giustamente crede violati i suoi diritti, diventa necessaria per la difesa e conservazione dei medesimi. Ma il duello non potrà mai e poi mai riguardarsi come necessario, essendovi altri mezzi per decidere sulla ragione e sul torto dei due litiganti, e quindi non potrà mai contestarsi come cosa giusta.

— Eppure oggidì chi sfidato a duello non accetta, è reputato vile, e se si tratta di un militare ho inteso dire che viene punito.

Così è purtroppo. Ma il vero vile è colui, che si fa schiavo di un uso il più barbaro, il più irragionevole e colpevole che vi sia ancora, e non sa levarsi su al di sopra di queste stupide idee del mondo. E se nell’esercito si punisce chi sfida a duello e chi sfidato non lo accetta, si cade nella più strana e deplorevole contraddizione.

— Ciò è verissimo.

E dopo tutto comprendi come la Chiesa abbia stabilito, nell’ordine suo, pene gravissime contro i duellanti e tante volte abbia levato la voce contro il loro delitto.

— Comprendo tutto. Mi viene però in mente una difficoltà. Se non è lecito esporsi in duello al pericolo di restar anche solo ferito, e se tanto meno è lecito di togliersi col suicidio la vita, che cosa si dovrà dire anzitutto di certi martiri, che da per se stessi si sono gettati nel rogo o tra le fiere per essere privati della vita?

Si deve dire, epperciò riconoscere, che questi martiri, non fecero ciò coll’intendimento di darsi la morte contro il volere di Dio, ma in quella vece per una specialissima ispirazione, per un movimento straordinario della grazia divina, che li spinse a compiere nel loro martirio un atto di vero eroismo; giacché da tutte le circostanze, che accompagnano il loro martirio, risulta chiaro, che nel gettarsi essi medesimi in braccio alla morte mirarono a sottrarsi al vituperio e al pericolo di peccare.

— Ho inteso. E di quegli altri santi poi si accorciarono la vita coi digiuni, con le penitenze, con le flagellazioni e simili, che si deve pensare?

Anzi tutto a questo riguardo bisognerebbe poter dimostrare davvero il fatto, che certi si siano accorciata la vita con le austerità da te indicate; giacché le statistiche dimostrano che gli uomini dediti alle austerità ordinariamente menano una vita più lunga degli altri. In secondo luogo se realmente nella Chiesa vi furono taluni santi, che sembrino avere spinto le loro penitenze oltre i confini della moderazione, sta anche a loro discolpa una ispirazione peculiare, che essi certamente ebbero da Dio, il quale, padrone com’è della vita d’ogni uomo, voleva santificarli per quelle vie straordinarie allo scopo, che gli altri apprendessero da loro la necessità di fare almeno le modiche penitenze, che insegna il catechismo, e la mortificazione della carne a vantaggio spirito.

— La penitenza adunque e la mortificazione, che predica la Chiesa, non è un attentato alla vita?

Se fosse come tu dici, o dirò meglio come avrai inteso a dire, la penitenza e la mortificazione cristiana sarebbe contraria alla legge morale. Epperò Gesù Cristo, che tanto l’ha raccomandata affine di raffrenare i sensi, avrebbe fatto contro alla sua stessa divina legge. E tutti i santi che la praticarono, avrebbero sbagliato e sbaglieremmo anche noi nell’onorarli.

— Ma insomma come conciliare il dovere di conservare la propria esistenza e di non recare offesa neppure alle nostre membra con la penitenza e con la mortificazione?

Ciò non è così difficile come tu pensi. A tal fine non bisogna dimenticare che nel composto umano l’anima è superiore al corpo, il quale è fatto per quella e non quella per questo. In secondo luogo bisogna osservare che non solo la fede, ma pure l’esperienza dimostra che tra l’anima e il corpo vi è antagonismo, giacché i sensi vorrebbero spesso soddisfazioni, che la retta ragione condanna, e le chiedono talvolta così imperiosamente, che senza una grande virtù non è cosa facile renderli rassegnati al diniego. In terzo luogo fa d’uopo ricordare che gli istinti dell’appetito sensitivo col diniegare loro fermamente e di spesso ciò che domandano, e col frenarli ed affliggerli ben anche con la mortificazione e penitenza, a lungo andare si domano, la natia lor violenza a poco a poco si spunta, come avviene del cavallo indomito, che col morso e con altre pene umilianti ed afflittive alla fine si riduce ad obbedire al cenno del cavaliere. Epperò la penitenza e la mortificazione fanno sì che la nostra esistenza diventi quale deve essere, dignitosa e virile, ricca di onestà e di virtù. – E così sta, che per una parte noi siamo in dovere secondo il formale precetto di Dio di conservare la vita e le forze per l’adempimento dei nostri obblighi, e che per l’altra, senza punto ledere le nostre forze, almeno gravemente sì da renderci inetti al disbrigo dei nostri impegni, dobbiamo valerci dei digiuni, delle astensioni da certi cibi, delle mortificazioni dei nostri sensi e di quelle pratiche, che pigliano il nome di penitenza, per condurre una vita conforme alla nostra dignità umana e alla nostra grandezza cristiana. – Dunque sai ciò che piuttosto attenta alla nostra vita ed alle nostre forze? Sono certi vizi nefandi, sono le golosità, l’intemperanza nel mangiare e nel bere, la crapula, l’ubriachezza, certe scommesse insensate che taluni fanno a chi più mangia e più beve, certe mode di vestire che stringono troppo il corpo e lo comprimono, ed altre simili cose. Ed è contro di ciò, che devesi giustamente inveire ma non contro la penitenza e la mortificazione cristiana.

. — Anche questo l’ho inteso. Avrei ora un’ultima domanda a farle. Perché la Chiesa di fronte alla morte non vuole saperne di cremazione?

La Chiesa non vuole la cremazione e severamente la proibisce, non già perché essa sia veramente contraria al dogma o alla morale cristiana, ma perché ella vede che con il pretesto della cremazione si vorrebbero aboliti i cimiteri, dall’esistenza dei quali tanto bene ne deriva al popolo cristiano; perché ella vuole maggiormente rispettato il corpo umano, differendone quanto più le è possibile la dissoluzione e impedendo atti irriverenti verso di esso; perché ella desidera che più a lungo ci rimanga impressa nella mente anche l’immagine materiale dei trapassati e più a lungo ci ricordiamo di pregare per essi, ciò che più difficilmente avverrebbe, quando non ci trovassimo dinanzi che ad un pugno di cenere.

— Tutto ciò va bene; ma non è forse vero che l’abbruciare i cadaveri sarebbe più igienico che il sotterrarli!

Così si dice, ma così non è affatto. Le più accurate indagini hanno dimostrato che l’inumazione, anche igienicamente considerata, deve preferirsi alla cremazione. Senti che cosa dice in proposito Paolo Mantegazza, non sospetto certo di tenerezza per la Chiesa: « Queste povere carni umane non hanno alcun che di specifico, che le renda più pericolose nella loro-putrefazione che i frusti dei cavoli, e le ossa delle nostre bistecche, e i nostri mazzi di fiori, e lasciatemelo pur dire, i nostri escrementi. Ma, calcolate di grazia tutto il nostro pandemonio escrementizio e domestico, che ogni uomo produce intorno a sé, e facilmente troverete che ogni uomo vivo, in un solo anno produce cento volte almeno di più di materia putrescente che un uomo morto… ». E tutta questa materia non è sepolta sotto terra come il calunniato cadavere umano, ma è gettata sui nostri orti e sulle nostre campagne! » – Davvero, caro mio, che per una parte c’è veramente da ridere al considerare le contraddizioni, in cui cadono taluni per far valere le loro opinioni. I rosticcieri moderni se la pigliarono così calda contro i cimiteri, come luoghi d’infezione! (Nota bene però, che a Parigi ve ne sono ben dodici nell’interno della città, senza timore d’infezione alcuna), e li vogliono lontani dalle Chiese parrocchiali e dalle abitazioni, e poi proprio nel mezzo delle città e dei paesi lasciano i gazometri, le fogne, gli stallaggi, le fabbriche di colla, le conce di pelli, le fosse per la macerazione del lino e della canapa, e cento altre cose simili, che appestano l’aria davvero, e sono causa non di rado di febbri maligne.

— Già è veramente così.

Lascia adunque la cremazione alla massoneria, che l’ha inventata, e tienti alla legge della Chiesa, che vuole all’ombra della Croce le nostre tombe confortate dal pianto cristiano e dalle preghiere.