MEDITAZIONE SUL VANGELO: L’INFERNO

L’INFERNO

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli, vol. III. Società Ed. “Vita e Pensiero” – Milano, 1939 – imprim.]

Un filosofo francese faceva un giorno, con la sua anima, questo dialogo: « Anima mia, se tu abusi, non solo sarai infelice in questa vita, ma ancora dopo morte, nell’inferno ». – E l’anima dal fondo gli rispondeva con un filo di fiato: « Ma chi ha detto che c’è l’inferno? ». E il filosofo: « L’inferno è così orrendo, che anche solo il dubbio che ci possa essere, ci dovrebbe costringere a far giudizio ». L’anima ardì rispondergli: « Io son certa che l’inferno non c’è ». « Anima mia, non dir bugie ! » gridò il filosofo. « Se sei persuasa che l’inferno non c’è, io ti sfido » (Diderot). – Quando dalla bocca di qualche uomo ascolto l’eresia: « Morto io, morto tutto. L’inferno è una favola… », io lo guardo con un sorriso di compassione e dico: « Buon uomo non dir bugie, che tu stesso non sei persuaso delle tue parole. È la tua vita sregolata; è un certo guadagno ingiusto a cui ti sei attaccato; è quell’affetto impuro che non vuoi spegnere in cuore; è quel peccato che non vuoi confessare, che ti fa dir così ». – « Finito noi, finito tutto: mai nessuno è venuto a dirci quello che c’è di là ». — Non dir questo, che non è vero. Oggi stesso viene Gesù, Gesù morto e risorto, Gesù, Figlio di Dio che non inganna, oggi stesso viene col suo Vangelo e ti dice che l’inferno c’è. « Come un re che festeggia le nozze del suo figliuolo, così è il regno dei cieli. Erano stati invitati molti, e il re per tempo li mandò a chiamare. Non vennero. Li mandò a chiamare un’altra volta: e quelli schernirono, batterono, uccisero i poveri servi. « Il re adirato disse: Le nozze si faranno egualmente e senza di loro. Andate negli incroci delle vie, e tutti quelli che passeranno invitate alla mia festa. – « Allora una folla d’ogni colore si riversò al banchetto: ogni posto fu occupato. – « Il re passò nelle sale a salutarli; ma vide un uomo senza la veste nuziale. Fremette e gli disse: Amico! in quest’arnese si viene qui? — Il misero taceva. — Prendetelo! stringetegli con ferri mani e piedi, e buttatelo di fuori nell’oscurità, dov’è pianto e stridore di denti ». Mittite eum in tenebras exteriores, ibi fletus et stridor dentium. – Il Signore parla chiaro: se qualcuno gli comparirà mal vestito, (e il peccato è un pessimo vestito), sarà buttato fuori dalla sua presenza, nell’oscurità ove in eterno piangerà nello stridor dei denti. Dunque l’inferno c’è. E c’è perché Dio è giusto; perché Dio è buono.

Ecco tre pensieri da comprendere bene.

1. L’INFERNO C’È

Se lo dicesse un profeta che l’inferno c’è, gli credereste voi? Ebbene: ricordate che non uno, ma molti profeti sono venuti sulla terra a dir alla gente che l’inferno c’è. Isaia così parla dei dannati: « Il verme che li rode non morrà mai; il fuoco che li divora non si spegnerà mai » (LXVI, 24). – E Daniele dice: « Tutti risorgeranno: alcuni destinati alla vita eterna, altri alla rovina eterna ».

Se venisse Gesù Cristo a dirvelo, credereste che l’inferno c’è? Ebbene: sappiate che Gesù Cristo è venuto e l’ha detto; e più d’una volta Egli stesso ci ha insegnato che è molto meglio sottoporci in questo mondo ai più dolorosi sacrifici, anche a lasciarci amputare un braccio e cavare un occhio piuttosto che incorrere nel supplizio eterno (S. Matth., XVIII, 8). Egli stesso parlando del giudizio finale, ci rivelò le parole che dirà ai condannati: «Via da me, o maledetti; andate in fuoco eterno ». E quelli dovranno entrare nel tormento senza fine. Ibunt hi in supplicium æternum (S. Matth., XXV, 4 6).

Se venisse qua a dirvelo un Apostolo, S. Paolo per esempio, credereste allora che l’inferno c’è? Ebbene: sentite S. Paolo, che cosa scrive ai Tessalonicesi: « Quelli che non riconosceranno Dio, quelli che non obbediranno al Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, riceveranno in morte tormenti eterni (II Tess., I, 8).

Non basta? È necessario forse che vengano a dirvelo trecento vescovi insieme? Ebbene: sono i trecento vescovi, tutti raccolti a Nicea che dissero: « Quelli che faranno bene entreranno nella vita eterna. Ma quelli che faranno male entreranno nel fuoco eterno » (Simb. Atan.).

L’inferno c’è. Più chiaro di così non potrebbe dirvelo nemmeno un dannato, se vi comparisse in casa vostra. E se non credete alle testimonianze dei profeti, di Cristo, degli Apostoli, di tutta la Chiesa, non credereste neppure a vederlo coi vostri occhi stessi. Fareste anche voi come Gaetano Negri che diceva: « Se io, proprio con i miei occhi, in pieno giorno, vedessi anche un miracolo, non crederei ». Come, mai? « Correrei in casa, mi caccerei in letto, mi metterei il ghiaccio sul cervello, persuasissimo d’aver un febbrone ».

2. C’È PERCHÈ DIO È GIUSTO

Semei figlio di Gera aveva rincorso lungo il Cedron il re David, lanciandogli la maledizione peggiore. Ora, morto David, Salomone lo fece chiamare e gli disse: « Fabbricati una casa in Gerusalemme e là vi abiterai, senza uscir mai dalla città. Poiché se ti coglieranno, in qualche giorno, oltrepassare il Cedron, tu morrai: il tuo sangue allora sia sopra il tuo capo ». Semei rispose al re: «Dici bene, perché io ho maledetto David. Così farò ». – Dopo tre anni fu riferito a Salomone che Semei era uscito da Gerusalemme, fino a Geth. Mandò subito a chiamarlo: «Semei! Semei! Non te l’avevo io minacciato? Non te l’avevo io predetto, che ogni qualvolta fossi uscito dalla città e avessi passato il Cedron t’avrei messo a morte? Ora ci sei caduto. Muori dunque, e di questa morte tu solo fosti la causa; tu solo e la tua malizia ». Dominus reddidit malitiam tuam in caput tuum (III Re, II, 44). E Salomone fece spiccare la testa a Semei di Gera. – Nessuno poté accusare Salomone d’ingiustizia o di crudeltà per questa morte, poiché Semei era stato preavvisato. E chi allora potrà accusare d’ingiustizia il Signore quando ci condannerà all’inferno, se più e più volte ci ha avvisati, scongiurati, minacciati? quando anche oggi, vi fa ammonire dal sacerdote che spiega il suo Vangelo? « L’uomo avvisato — dice un proverbio — è mezzo salvato ». E se dopo tutto questo noi cadiamo in inferno, l’ingiustizia non è di Dio, ma nostra. Malitia tua in caput tuum.

« È impossibile — si sente dire — che l’inferno esista; Dio è troppo buono … ». È vero, cristiani; Dio è troppo buono; è infinitamente buono. Ma è pure infinitamente giusto. Che direste voi di un uomo che avesse un braccio lungo e l’altro corto corto? che è un mostro. Allora non fatemi di Dio un mostro. Non crediate che il braccio della sua misericordia sia lungo lungo, e quello della sua giustizia corto corto. Dio è buono, ma anche giusto. – Vedete: a questo mondo c’è poca giustizia. Gli iniqui spesso trionfano: hanno ricchezze, palazzi, cibi, vesti, amici, onori. E nelle cause hanno sempre ragione. Mentre ci sono invece degli uomini buoni che al mondo soffrono: soffrono la miseria, le malattie, l’ingiustizia dei più forti. Ad essi, molte volte, come al povero Lazzaro, vien negato perfino quello che si butta ai cani. È necessario allora che la giustizia si faccia almeno nell’altro mondo; che il povero Lazzaro abbia nel cielo quel che gli fu negato in terra; e che all’Epulone sia negato in cielo quel che ha negato agli altri in terra. Dio è giusto! consolatevi, voi che patite, perché Egli vede ogni vostro dolore, conta ogni lagrima vostra, ogni vostro affanno, anche il più nascosto… niente andrà perduto; di tutto sarete compensati. Dio è giusto! Spaventatevi, uomini tristi, che vivete nel peccato; che non osservate le leggi di Dio; che angariate il vostro prossimo… niente andrà perduto; di tutto sarete puniti, anche di un desiderio cattivo. La vostra pena è l’inferno; che c’è, perché Dio è giusto.

3. C’È PERCHÈ DIO È BUONO

Di solito si dice che l’Inferno non c’è perché Dio è buono e non può farci soffrire così. Ma io vi dico che appunto perché Dio è buono, l’inferno c’è. – Un magnifico re, che aveva un unico figlio, una volta cominciò a voler bene anche al figliuolo di un suo schiavo, che non aveva nulla di suo, che viveva solo perché egli lo faceva vivere. Il gran re lo nutrì ogni giorno, lo arricchì, lo colmò di favori e arrivò perfino a chiamarlo suo figlio, a farlo erede d’ogni sua sostanza insieme all’unigenito suo. Questo figlio adottivo, un giorno malaugurato, commise un pessimo delitto e fu condannato a morte dalla giustizia. Il re non poteva andar contro giustizia. Era straziato dal dolore, eppure l’amava ancora. E in una follia, che solo l’amore potrebbe spiegare, piuttosto che lasciar condannare lui — figlio di schiavo, che non aveva nulla di suo, che viveva solo perché egli lo faceva vivere — preferì veder morire il suo unigenito: l’innocente. E sopportò che questi patisse fame e stanchezza, obbrobrio e dolore, che fosse tradito, messo in croce. Tutto sopportò, pur che l’altro si salvasse. Non basta: l’amore non è ancor stanco. L’altro non si pente; salvato ritorna ancora al pessimo delitto. Il gran re lo segue per ogni via, gli perdona più volte, lo conforta. Inutilmente: eppure l’amore, non è ancor stanco. Lo perseguita con rimorsi; lo fa avvisare dai suoi ministri; ma lo sciagurato s’abbandona al capriccio di tutte le sue passioni. Una volta annunciano al re che egli è malato da morire. Il re lascia ogni cosa e corre al suo capezzale e lo chiama: « Guardami in viso: sono io, il tuo Re, ma chiamami padre, che tu sei mio figlio. Guardami, son io ». E l’ingrato stringe i pugni, si nasconde nelle coltri, gli volta le spalle, e rantola nell’agonia: «Vattene! che non ti voglio ». Oh dite: che farà adesso l’amore? L’amore non corrisposto, o peggio tradito, è terribile nelle sue vendette. Ne potrebbe dire l’orgoglio umano qualcosa! Che farà allora il gran re con quell’ingrato? Che farà allora Dio col peccatore, poiché già tutti l’avete indovinato, il gran re è Dio e il figlio ingrato è il peccatore? Egli non ha più che la vendetta per salvare il proprio onore. Cadi, peccatore, cadi nel fuoco che non si spegne mai; cadi nel dolore che non ha fine, mai; cadi nell’inferno. L’inferno c’è perché Dio è amore, e guai a chi non lo ama. Con lui non si scherza (Gal., VI, 7). Questo non è mio pensiero, ma è di S. Giovanni; ed io non ho fatto che ampliarlo: « Quis non timebit te, Domine, quia tu solus pius es? ». Dobbiamo dunque temere Dio, appunto perché è buono.

CONCLUSIONE

Lisimaco, bruciato dalla sete, pur d’avere una tazza d’acqua fresca, onde placare quel tormento d’arsura, diede i suoi beni e il suo regno e la sua felicità in mano del nemico. E bevve. Dopo quella breve soddisfazione, mirando la tazza vuota, scoppiò in pianto. « Dii boni! quam ob brevem voluptatem amisi felicitatem summam ». « Un regno per una tazza d’acqua! la felicità di tutta la vita per il rinfresco d’una bevanda! Condannarmi a un fuoco eterno per liberarmi da un poco di sete! Che ho mai fatto… ». E cominciò a piangere che riempì di lagrime quella tazza che aveva vuotata d’acqua. – Quando commettiamo il peccato, la pazzia di Lisimaco la ripetiamo noi. Per un breve piacere, per la soddisfazione momentanea d’una passione, perdiamo ogni merito, il paradiso, la somma felicità di goder Dio e ci condanniamo al fuoco eterno. Se così abbiamo fatto, giacché siamo ancora in tempo, riempiamo con le lacrime del pentimento la tazza del piacere, che abbiamo vuotata. Queste lacrime varranno a spegnere il fuoco che ci potrebbe tormentare nei secoli dei secoli.

 

CONOSCERE SAN PAOLO (20)

CONOSCERE SAN PAOLO (20)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LIBRO QUINTO

Le pastorali.

CAPO II

Dottrina delle Pastorali.

I . GLI ERRORI COMBATTUTI.

  1. ERRORI SEGNALATI A TITO. — 2. ERRORI SEGNALATI A TIMOTEO. — 3. CARATTERI COMUNI.

1 . La sollecitudine di conservare intatto il deposito della fede è, insieme con le disposizioni relative alla scelta dei sacri ministri, l’argomento principale di questo gruppo di lettere. L’Apostolo sente il bisogno di assicurare la parola di Dio contro gli assalti malsani di una fantasia senza freno e di una scienza senza regola. La verità sana e forte servirà di antidoto contro le dottrine perniciose che, come la cancrena, minacciano d’invadere il corpo della Chiesa (II Tim. II, 17). – Il pericolo del contagio ha prodotto in lui un’impressione così viva, che quasi ad ogni pagina ripete queste metafore di medicina, come gli avviene ordinariamente per tutte le idee che sono profondamente penetrate nella sua mente. – Prima di venire a conclusioni, lasciamo parlare il testo. Con Tito, l’Apostolo si esprime in questi termini: “Vi sono, specialmente tra i circoncisi, molti spiriti turbolenti, vani, ciarloni e seduttori, ai quali bisogna chiudere la bocca. Essi sconvolgono intere famiglie, insegnando per un vile interesse quello che non si deve insegnare… Riprendili severamente, affinché abbiano una fede sana e non si attacchino a favole giudaiche e a prescrizioni di uomini che respingono la verità. Tutto è puro per coloro che sono puri, ma niente è puro per gl’impuri e gl’increduli, la cui intelligenza e la cui coscienza sono macchiate. Essi fanno professione di conoscere Dio ma lo rinnegano con le loro azioni: essi sono abbominevoli, ribelli e incapaci di ogni opera buona (It. I, 10-11, 13-16). Evita le questioni stolte, le genealogie, le querele, le dispute intorno alla Legge, perché sono inutili e vane. Dopo uno o due avvisi, allontanati dal fautore delle discordie, sapendo che un uomo di questa specie è pervertito e che peccando si condanna da se stesso” (Tit. III, 9-11). – Gli errori messi in vista hanno questi caratteri: Si tratta di dottrine sparse tra i fedeli, poiché Paolo ingiunge a Tito di chiudere la bocca a quelli che le propagano, di riprenderli severamente e, in caso di ostinazione, di separarsi da loro; ma non intendiamo di escludere le influenze esterne, e coloro che « facendo professione di conoscere Dio lo rinnegano con le loro azioni », sono certamente Ebrei infedeli, e non giudaizzanti. Queste dottrine sono rivolte di preferenza ai convertiti dal giudaismo; sono dispute intorno la Legge, le quali non possono avere per autori o per fautori altri che Ebrei oppure giudaizzanti; esse dispongono a dare ascolto agli spacciatori di favole giudaiche e di prescrizioni arbitrarie che riguardano le purificazioni rituali e la distinzione degli alimenti puri e impuri. – Quello che più colpisce l’Apostolo, non è tanto la falsità di quelle dottrine, quanto la loro vanità e la loro inutilità. I loro propagandisti hanno per motivo un vile interesse; sono vani ciarloni che ingannano i semplici col ciarlatanesimo delle loro stolte questioni e delle loro strane genealogie. Invece di discutere con loro, bisogna imporre loro di tacere e se resistono, scacciarli dalla Chiesa.

2. Vediamo ora gli errori ricordati nelle due lettere a Timoteo: “Partendo dalla Macedonia, ti ho pregato di restare a Efeso per imporre a certuni di non insegnare altre dottrine e di non andar dietro a favole ed a genealogie senza fine, le quali suscitano discussioni, anziché far progredire l’opera di Dio nella fede. Il fine di questa prescrizione è la carità che viene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. Alcuni essendosene allontanati, si sono traviati in vani discorsi: pretendono di essere dottori della Legge e non capiscono quello che dicono nè quello che affermano con sicurezza” (I Tim. I, 3-7).“Lo Spirito dice chiaramente che negli ultimi tempi alcuni abbandoneranno la fede, attaccandosi a spiriti di errore e a dottrine diaboliche, sedotti dall’ipocrisia d’impostori dalla coscienza macchiata che proscriveranno il matrimonio e l’uso di alimenti che Dio h a creato affinché siano presi con rendimento di grazie dai fedeli e dai seguaci della verità. Ora ogni creatura di Dio è buona e nulla si deve respingere, purché si prenda con rendimento di grazie; poiché la parola di Dio e la preghiera lo santificano” (I Tim. IV. 1-4). – Se qualcuno dà un altro insegnamento e non aderisce alle salutari parole del Nostro Signor Gesù Cristo e alla dottrina conforme alla pietà, è un superbo, un ignorante, un uomo preso dalla malattia delle questioni  oziose e delle dispute di parole: di qui nascono l’invidia, le querele, le calunnie, i cattivi sospetti, le discussioni ^terminabili di uomini che hanno l a mente pervertita e che, privi della verità, s’immaginano che la pietà sia un mezzo di guadagno” (I Tim. VI, 3-5). – “Scongiurali in nome di Dio, di evitare le dispute di parole che servono alla rovina degli uditori. Sforzati di diportarti dinanzi a Dio da uomo provato, da operaio che non ha da arrossire, dispensando con rettitudine la parola di verità. Fuggi i discorsi vani e profani; perché i loro autori affondano sempre di più nell’empietà e la loro parola si propagherà come una cancrena. Di questo numero sono Imeneo e Fileto che hanno abbandonato la fede, dicendo che la risurrezione è già avvenuta, ed hanno sovvertita la fede di alcuni” (II. Tim. 14-18). – “Sappi che alla fine dei tempi sorgeranno giorni difficili. Gli uomini saranno egoisti, cupidi, gonfi… con l’esteriore della pietà, senza averne la realtà. Fuggi anche costoro. Tra loro ve ne sono che s’insinuano nelle case e seducono femminucce cariche di peccati, agitate da passioni di ogni sorta. Imparando sempre, essi non possono arrivare mai alla conoscenza della verità. Come Gianne e Giambre si opposero a Mosè, costoro si oppongono alla verità, corrotti di mente, pervertiti nella fede. Ma essi non faranno più progresso, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti, come fu quella di quei due” (II Tim. III, 1-9).  – “Verrà un tempo in cui gli uomini non sopporteranno più la sana dottrina. Abbandonati al desiderio di udire quello che accarezza le loro orecchie, si prenderanno una turba di maestri e, distogliendo il loro udito dalla verità, si volgeranno verso le favole” (II Tim. IV, 3-3).Tre di questi testi riguardano il presente, e gli altri tre — il secondo e gli ultimi due — l’avvenire (I Tim. IV, 1; II Tim. III, 1; II Tim. IV, 3). Gli errori attualmente in corso hanno precisamente i caratteri che abbiamo veduto nell’Epistola a Tito. Sono dottrine sparse tra i fedeli, poiché Timoteo riceve la missione d’imporre silenzio a coloro che le vanno spacciando. Costoro sono evidentemente Ebrei di nazionalità, perché si spacciano per dottori della Legge. Le dottrine stesse non sono tanto eresie, quanto questioni oziose atte a suscitare querele: dispute di parole che non concludono nulla, vane ciarle e pettegolezzi. Le espressioni incontrate nell’Epistola a Tito, si ritrovano costantemente anche qui: la situazione è dunque la stessa.Ma l’errore non può vivere se non a condizione di crescere; esso si propaga come la cancrena. L’Apostolo prevede per l’avvenire un traboccare di false dottrine,, che andrà di pari passo con la corruzione dei costumi: saranno le aberrazioni presenti portate alla loro più alta potenza; già si vanno agitando nell’ombra. A forza di dominare, lo spirito di contesa arriverà fino allo scisma; non si sopporterà più la verità; si abbandonerà la fede; si farà ressa intorno a falsi dottori e a falsi profeti che apertamente predicheranno dottrine diaboliche. Non si tratterà più soltanto di fiabe e di genealogie, di dispute di parole e di querele riguardo la Legge, di pratiche arbitrarie e senza frutto; si proscriverà il matrimonio, si condanneranno come cattive certe creature, o per l’influenza del dualismo o per un malinteso ascetismo. Finalmente l’amore del lucro cagionerà mille abusi detestabili, e si copriranno con la maschera dell’ipocrisia i peggiori eccessi.

3. Riunendo in un quadro generale tutti i caratteri, senza distinguere troppo il futuro dal presente, ci possiamo fare un’idea precisa dei predicatori, dei loro motivi e delle loro dottrine. I predicatori sono Ebrei o giudaizzanti. Soprattutto appartengono alla circoncisione (Tit. I, 10): si chiamano dottori della Legge (I Tim. I, 17); vanno dietro a favole giudaiche (Tit. I, 14); si abbandonano a dispute intorno alla Legge (Tit. III, 9); resistono alla verità come i due celebri impostori resistevano a Mosè (Tit. III, 8). Essi sono seduttori (Tit. I, 10), ipocriti (II Tim. III, 5), spiriti turbolenti (Tit. I 10), vani ciarloni (I Tim. I, 6), uomini di mente pervertita (II Tim. III, 8), ai quali prudono le orecchie (II Tim. IV, 3), incapaci di intendere la verità (II Tim. III, 7), gente avida di guadagno (I Tim. VI, 5; Tit. I, 11) e di popolarità, che getta la divisione nella Chiesa e nelle famiglie (I Tim. III, 6), che fa combriccole e prepara scismi. Le dottrine che essi propagano, non sono tanto eresie, quanto novità, pericolose per la loro stessa inutilità, perché coltivano una curiosità malsana, pascolano la mente di fiabe e l’avvezzano al falso e all’irreale. Una parola difficile a tradursi (I Tim. I, 3) riassume bene l’insegnamento di questi dottori senza missione. Essi generalmente non insegnano cose contrarie alla dottrina dell’Apostolo, ma insegnano cose che egli ha giudicato mutile e pericoloso insegnare, e insegnano diversamente da lui gli articoli del suo vangelo. Paolo spiega la natura di quelle novità con proibire di « andar dietro a favole ed a genealogie interminabili ». Si sarebbe tentati di pensare ai mitografì greci, a quegli storici delle origini i quali raccoglievano le favole riguardanti gli dei e le liste genealogiche a cui si riduceva quasi tutta la storia primitiva (Polibio). Ma le parole di San Paolo non permettono di pensare né alle leggende della mitologia pagana né alle genealogie degli dei e degli eroi. Difatti quelle favole di cui parla l’Apostolo sono dette giudaiche e il passo parallelo dimostra che sono spacciate da persone che si chiamano dottori della Legge. Del resto possiamo credere che fossero insulsaggini o pettegolezzi simili a quelli di cui sono zeppi i libri talmudici. In quanto alle genealogie interminabili e soprattutto senza profitto, gli apocrifi dell’Antico Testamento, composti in tempi poco lontani dall’era cristiana, ce ne danno più di un esempio. Lo spirito amante di novità si lascia abbagliare dal falso splendore dei sofismi: « O Timoteo, custodisci il deposito, evitando le parole profane e vuote di senso come pure le contradizioni di una falsa scienza di cui fanno pompa certuni che hanno deviato dalla fede (I Tim. VI, 20) ». Prima questioni oziose, poi obiezioni sciocche e arguzie sterili, finalmente la perdita della fede: tale è la via dell’errore.

II. I DIGNITARI ECCLESIASTICI.

1 . SACERDOTI E DIACONI. — 2. QUALITÀ RICHIESTE NEI CANDIDATI. — 3. VEDOVE E DIACONESSE.

1 . Nelle lettere autentiche di Sant’Ignazio, all’alba del secondo secolo, la terminologia e le attribuzioni della gerarchia ecclesiastica sono già completamente fissate. Vi sono tre ordini distinti: il Vescovo sempre unico (Ephes. I, 3), i sacerdoti strettamente associati al vescovo e così intimamente uniti tra loro, che si chiamano ordinariamente col nome collettivo di πρεσβυτέριον (=presbuterion) o collegio sacerdotale (Ephes. II, 2; IV, 1, etc.), finalmente, nell’ultimo grado, i diaconi che devono obbedienza ai sacerdoti e al Vescovo, come a loro stessi devono obbedienza i fedeli. Il Vescovo, il presbiterato e i diaconi costituiscono il clero; il clero e i laici costituiscono la Chiesa. L’episcopato è monarchico e residenziale: Ignazio è Vescovo di Antiochia, Policarpo di Smirne, Onesimo di Efeso, Polibio di Traile, Damaso di Magnesia. Il vescovo compie o dirige la cerimonia del Battesimo e dell’agape, la celebrazione dei matrimoni e soprattutto la consacrazione dell’eucaristia; ma gli è sempre lecito delegare ad altri la sua autorità. I sacerdoti e i diaconi non devono esercitare nessuna funzione, se non lo sa o se non vi assiste il Vescovo. I laici poi non hanno nessuna parte nel governo della Chiesa: il loro compito è di obbedire al Vescovo, oppure al Vescovo e al presbiterato, oppure al Vescovo, al presbiterato e ai diaconi (Ephes. IV, 1), poiché i due ordini inferiori sono uniti al Vescovo come le corde alla lira (Ephes. IV, 1): non vi è che un’eucaristia, una carne del Cristo, un calice del suo sangue, un altare un Vescovo col presbiterato e con i diaconi. – Le Pastorali presentano un ordinamento assai più primitivo, il che distrugge il paradosso dei critici i quali vogliono che siano state scritte in pieno secolo secondo, da un falsario desideroso di promuovere la gerarchia in via di formazione. Però l’evoluzione ulteriore che avvenne molto in fretta e dappertutto nella stessa maniera, con tutti i caratteri di uno sviluppo legittimo, dimostra che le linee generali erano state tracciate in precedenza dagli Apostoli, dietro, le indicazioni del Maestro e sotto l’impulso sempre vigile dello Spirito Santo. Essa dunque ci può servire per interpretare i dati oscuri dell’età apostolica; ma vi sarebbe paralogismo se si trasportassero a quei tempi remoti le funzioni e le denominazioni di un tempo più recente. Ciascun autore va studiato da parte, e non si ha il diritto di supporre a priori che tutti parlino delle medesime cose con gli stessi termini. – In San Paolo, la terminologia ecclesiastica è incerta. Se ἐπίσκοπος (=episcopos) indica sempre un sacro ministro, πρεσβυτέριον (=presbuterion), prende spesso il significato di « vegliardo », e διάκονος (= diakonos) quasi sempre non significa altro che « servo od aiutante ». Invece i capi della Chiesa ricevono talora altri titoli: quelli di Tessalonica, per esempio, sono chiamati presidenti. Il linguaggio è ancora incerto, ma vi è piuttosto da meravigliarsi che le incertezze siano finite così presto. Di comune accordo, per i ministri inferiori del culto si tenne il nome diacono, a preferenza di tutti i sinonimi. Forse “doulos” fu lasciato da parte per il significato troppo servile, “uperetes”, perché ricordava il sacrestano delle sinagoghe ebree, “terapon” perché ricordava il custode di certi santuari idolatrici. Comunque sia, “diaconos” fu tosto scelto ad esclusione di ogni altro titolo, e fa stupire il vedere che San Luca, il quale ci racconta l’elezione dei primi sette diaconi ellenisti, non adoperi questo termine. Per San Paolo, la parola diacono ha già ricevuto la sua impronta gerarchica; l’Apostolo saluta in particolare i diaconoi di Filippi ed enumera le qualità che si devono esigere dal “diaconos” per imporgli le mani. Non è possibile alcun dubbio: si tratta proprio del diaconato e dei diaconi. – Per le funzioni superiori, i termini più generici, spogliati per la loro stessa indeterminatezza da ogni associazione di idee compromettenti, erano anche i più convenienti. Di questo numero è la parola πρεσβυτέρος (=presbuteros). Quasi tutte le società antiche, almeno dove non regnava l’autocrazia pura, erano governate da un consiglio o senato di anziani. In origine era il privilegio dell’età; più tardi divenne un titolo ereditario. In tutte le epoche della storia sacra, sotto Mosè, sotto i Giudici, sotto la monarchia, al ritorno dalla schiavitù, dappertutto constatiamo la presenza di questi anziani. Durante il periodo del giudaismo propriamente detto, essi erano a capo delle sinagoghe, esercitavano nelle città e nei villaggi un’autorità simile a quella dei nostri municipi ed entravano in parte notevole nel gran sinedrio di Gerusalemme; perciò sono continuamente nominati nel Nuovo Testamento insieme con gli scribi e con i principi dei sacerdoti. Per indicare i direttori spirituali delle chiese cristiane, si lasciò da parte la parola ἱερεύς (=iereus); che faceva pensare al sacerdote levitico e al sacerdos o sacrificulus pagano, ma si accettò la parola πρεσβύτερος (=presbuteros), che aveva il vantaggio di essere compresa dagli Ebrei governati dappertutto, civilmente e religiosamente, da un consiglio di anziani, ed era familiare ai Greci ai quali ricordava, fuori delle attribuzioni politiche e municipali, i membri di certi comitati istituiti per la celebrazione delle feste, per il servizio dei tempi e per la sepoltura dei soci. Ma mentre la comunità di Gerusalemme la adoperava ad esclusione di ogni altro nome, le chiese della gentilità la adottarono soltanto gradualmente e insieme con ἐπίσκοπος (=episcopos). – Questo terzo titolo è ancora più indeterminato che gli altri due. Esso significa, nella Scrittura, «custode, sorvegliante, ispettore. commissario ». Ad Atene significava certi delegati speciali, simili agli armosti di Sparta, che la metropoli mandava ad ordinare le nuove colonie o i paesi di conquista. Nella Batanea e nella Decapoli, era il titolo di ufficiali incaricati di amministrare le proprietà di un tempio. Altrove le funzioni erano diverse; ma la brevità dei testi ci permette raramente di precisarle. Perciò non sapremmo dire con certezza perché, nella gerarchia ecclesiastica, l’ἐπίσκοπος (=episcopos) ebbe il più alto grado, sopra il πρεσβύτερος (=presbuteros). Sarebbe forse perché la parola πρεσβύτερος (=presbuteros) richiamava naturalmente l’idea di una pluralità di persone riunite in collegio, per l’esercizio di una medesima carica, mentre la funzione di ἐπίσκοπος (=episcopos) era spesso conferita unicamente ad una persona? Ci affrettiamo però ad aggiungere che, per San Paolo, le due parole sono sinonimi. Nel saluto che egli rivolge al clero di Filippi, distingue soltanto due classi: gli l’ἐπίσκοποι (=episcopoi) e i diaconi (Fil. I, 1). I primi, per la stessa ragione della loro pluralità, non possono essere che gli anziani della chiesa, poiché è cosa inaudita che una sola città avesse più vescovi. Supposto che gli ἐπίσκοποι (=episcopoi) fossero vescovi, non si potrebbe spiegare l’omissione del secondo grado. – La cosa è ancora più chiara nel passo in cui San Paolo ordina a Tito di stabilire dei πρεσβύτεροι (=presbuteroi) in ciascuna città; egli esige che siano di una virtù e di una riputazione senza macchia, perché, soggiunge, bisogna che l’ἐπίσκοπος (=episcopos), sia irreprensibile (Tit. I, 5-7). Il suo ragionamento sarebbe un sofisma, se i due termini non fossero sinonimi. E poi, se si trattava del più alto grado della gerarchia, egli non metteva il plurale, perché ogni città aveva soltanto un Vescovo. – Un’altra prova è questa: avendo egli mandato a Mileto i πρεσβύτεροι (=presbuteroi) di Efeso, cioè i capi di questa chiesa particolare, i quali non erano certamente vescovi, poiché dovrà più tardi lasciare Timoteo a Efeso per esercitarvi le funzioni episcopali, parla a loro in questi termini: « Vigilate su voi stessi e su tutto il gregge in cui lo Spirito Santo vi ha stabiliti ἐπίσκοποι (=episcopoi) (40) ». Non si può dunque dubitare che questi due termini indicassero indifferentemente le stesse persone e si applicassero ai membri del secondo grado della gerarchia, ossia ai sacerdoti.Converrà ricordarlo nel solo testo che dà luogo a discussione: « Chiunque desidera la carica di ἐπίσκοπος (=episcopos), desidera una cosa buona; bisogna dunque che l’ἐπίσκοπος (=episcopos), sia irreprensibile (I Tim. III, 1-2) ». Il parallelismo e la lista delle qualità richieste in questo dignitario, dimostrano a sufficienza che l’ἐπίσκοπος (=episcopos) dell’Epistola a Timoteo è il medesimo dell’Epistola a Tito; ora quest’ultimo, come abbiamo veduto, non è un vescovo, ma un sacerdote.

  1. 2. Non sappiamo quali virtù Paolo avrebbe richiesto dal futuro Vescovo, se l’episcopato monarchico fosse già esistito nelle sue chiese. Possiamo farcene un’idea da quelle doti che egli loda in Tito e in Timoteo, Vescovi missionari, che gli servivano da coadiutori. Sono soprattutto lo zelo, la pietà, la fedeltà, il coraggio nella prova, la fermezza nell’adempimento del dovere, lo spirito di fede e una vita di abnegazione e di sacrificio. Ma la lista delle doti richieste negli anziani, si trova due volte nelle Pastorali, con certe varianti che non sono prive di interesse: “Bisogna che l’ἐπίσκοπος (=episcopos) sia irreprensibile, ammogliato una volta sola, sobrio, prudente, degno (nel suo esteriore), ospitale, capace d’insegnare, non bevitore, né violento, ma dolce, pacifico, disinteressato, che governi bene la casa, che abbia figli sottomessi con ogni onestà — perché se uno non sa guidare la sua casa, come governerà la Chiesa di Dio? — non neofito, per timore che gonfiato di superbia non incorra nel giudizio del diavolo. Bisogna pure che abbia buona testimonianza delle persone estranee, affinché non cada nell’obbrobrio e nei tranelli del diavolo. Ti ho lasciato in Creta… per stabilire in ciascuna città degli anziani, come ti ho ordinato: Se alcuno è irreprensibile, ammogliato una volta sola, con figli fedeli che non siano accusati di cattiva condotta e d’insubordinazione — poiché bisogna che l’ἐπίσκοπος (=episcopos), sia irreprensibile come intendente di Dio — non arrogante, né collerico, né bevitore, né violento, né avaro, ma ospitale, amico del bene, prudente, giusto, pio, continente, attaccato alla vera dottrina quale è stata insegnata, affine di essere capace di esortare secondo la sana dottrina e di confutare i contradittori” (I Tim. III, 3-7). – San Paolo vuole che un candidato giudicato degno del sacerdozio risponda a tre condizioni principali: che sia atto all’insegnamento, che abbia una casa bene regolata e che si sia ammogliato una sola volta. I protestanti facevano una volta sforzi sovrumani per togliere alle parole μιᾶς γυναικὸς ἄνηρ (= mias gunaikos aner) il loro significato naturale. Parecchi, trovandosi in caso disperato, adottarono la spiegazione proposta da Vigilanzio e così vigorosamente combattuta da San Gerolamo: « bisogna che egli sia ammogliato, che abbia una moglie ». Ma è evidente che non è inetto alle funzioni ecclesiastiche chi segue l’esempio e il consiglio dello stesso Apostolo. I più sostengono dunque che San Paolo intende soltanto di escludere il bigamo e il poligamo, colui che avesse ancora o che avesse avuto più di una moglie contemporaneamente. La loro ragione più forte è che San Paolo non chiede ai chierici nulla di più che ai laici e che egli permette formalmente ai laici di passare a seconde nozze. Ora la prima asserzione è una pura petizione di principio; la seconda è giusta, ma allora l’uomo che passa a seconde nozze, rinunzia al chiericato. Non è che gli si rimproveri una colpa, ma egli manca di una delle condizioni richieste, come il neofìto, l’ignorante o l’incapace. L’esegesi razionalista ha questo di buono, che non teme di romperla apertamente con l’ortodossia protestante; essa ritorna dunque risolutamente al senso sostenuto dai Cattolici, e molti protestanti oggi le tengono dietro. Difatti è impossibile spiegare diversamente l’espressione ἑνὸς ἀνδρὸς γυνῆ (= enos andros gune) « maritata una volta sola », che qualifica la vedova ammessa al servizio della Chiesa,. Il desiderio di legittimare una situazione personale e poi lo spirito di setta soltanto, poterono far prevalere una deformazione così manifesta del pensiero di San Paolo.Nel fare della fedeltà al primo vincolo coniugale una condizione assoluta per l’elevazione al sacerdozio, l’Apostolo era certamente guidato da ragioni simboliche, ma è certo che essa era, soprattutto in quel tempo, un pegno di onorabilità. Per lo stesso motivo, San Paolo domanda con insistenza che il candidato al sacerdozio, se è ammogliato, abbia una famiglia esemplare e una casa bene regolata (I Tom. III, 4). La condotta equivoca della moglie o dei figli diminuirebbe la sua influenza e intralcerebbe la sua azione, come l’impotenza di mantenere il buon ordine nella famiglia e negli affari, dimostrerebbe che egli è incapace al governo della Chiesa. Le raccomandazioni riguardo alla buona fama del candidato, così nella comunità cristiana come tra i pagani, sono del medesimo ordine. Come potrebbe il nuovo sacerdote conciliarsi il rispetto e la simpatia degli infedeli, se la sua condotta, dopo il battesimo, fosse stata scandalosa o poco conforme alla severa morale del Vangelo? Il suo apostolato tra loro sarebbe già in precedenza destinato a non riuscire, perché difficilmente si dà ascolto ad un predicatore del quale non si ha Nelle cristianità di recente fondazione, qualche volta si erano dovuti prendere i sacri ministri tra i nuovi convertiti; ma l’esperienza aveva mostrato gl’inconvenienti di tale provvedimento.Perciò Paolo proibisce a Timoteo d’imporre le mani troppo presto al primo venuto e specialmente di ordinare un neofìto (I Tim. V, 22), per timore che, gonfiato di superbia per un’elevazione così rapida, non faccia la fine di lucifero. L’ingiunzione era opportuna per la chiesa di Efeso che già contava dieci o dodici anni di vita; ma non poteva applicarsi altrettanto in quella di Creta che, a quanto pare, era allora appena nata: ecco perché la lettera a Tito non contiene questo divieto.Le disposizioni interne di colui che dev’essere onorato del sacerdozio, sono riassunte in una parola energica: bisogna che sia irreprensibile, per la sua eminente dignità e perché è rappresentante di Dio su la terra. Questa parola dice tutto: richiede l’esenzione di vizi grossolani che rovinerebbero la sua autorità — come l’avarizia, la collera, l’arroganza, la brutalità, l’ubriachezza — e il possesso delle virtù che la mantengono: sobrietà, prudenza, modestia, animo ospitale, giustizia, purezza di costumi. Le qualità richieste nei diaconi sono le stesse, fatta la debita proporzione:

“Anche i diaconi siano onorevoli, esenti da doppiezza, non dediti al vino, non avidi di guadagno, che portino il mistero della fede in una coscienza pura.

E siano messi prima alla prova, affinché esercitino poi senza rimproveri l’ufficio del diaconato.

Le loro mogli siano anch’esse onorevoli, non maldicenti, sobrie, fedeli in tutte le cose.

Essi poi abbiano contratto un solo matrimonio e governino bene i figli e la casa. Poiché quelli che esercitano bene il diaconato si acquistano un buon posto e una grande sicurezza nella fede in Gesù Cristo” (I Tim. VIII, 3). – I diaconi devono essere esenti da tre vizi che li screditerebbero completamente agli occhi del pubblico: la doppiezza, l’intemperanza e l’avarizia. Per le loro molteplici e delicate relazioni con i laici, essi dovevano premunirsi specialmente contro il pericolo della doppiezza. Essi dunque eviteranno di « dire bianco e nero, di parlare ora in un modo ora in un altro », per piacere ai loro uditori o per non dispiacere loro.Le visite frequenti che entravano nelle loro attribuzioni, imponevano a loro più che agli altri il dovere della sobrietà. Gli eccessi di questo genere, o anche una mancanza generale di contegno, sarebbero state dannose al loro ministero e contrarie all’edificazione. Finalmente la cupidigia li avrebbe screditati del tutto. L’Apostolo non allude certamente alle possibili malversazioni nell’amministrazione dei beni temporali di cui erano incaricati i diaconi, ma piuttosto alla tentazione di valersi del loro ministero per il proprio vantaggio personale, accettando, per esempio, dei doni spontaneamente offerti. Questo sfruttamento indiretto del Vangelo sarebbe evidentemente la ricerca di un guadagno sordido.Paolo vuole che il diacono goda anche dell’autorità che deriva dalla gravità delle maniere e dalla dignità dei costumi; finalmente richiede che egli porti « il mistero della fede in una coscienza pura ». Che cosa vuol dire questa ingiunzione disparata? Che cosa significa il mistero della fede e che relazione ha con la coscienza pura? Noi pensiamo che non si tratti della fede soggettiva dei diaconi, ma dei misteri del Vangelo di cui essi sono, in una certa misura, i dispensatori. Qualunque sia il senso preciso di questa locuzione enigmatica, si domanda al diacono una vita esemplare e non soltanto l’assenza dei gravi difetti che lo renderebbero inetto al suo ufficio. Perciò egli dev’essere prima messo alla prova per un certo tempo e non può essere definitivamente promosso se non quando la prova riesce a suo onore ed a soddisfazione comune.

3. Accanto e sotto la gerarchia ecclesiastica, vi erano allora delle vergini e delle diaconesse regolarmente costituite? Nel passo dell’Epistola ai Colossesi, in cui l’Apostolo consiglia ai due sessi la continenza e la verginità, egli appoggia il suo consiglio sulla maggiore libertà che avranno nel servizio di Dio, senza allusimi ad una speciale attitudine per servire la Chiesa. Il voto di verginità è presentato come un atto di perfezione individuale (I Cor. VII, 8-9). Vi sono già delle vergini, ma l’ordine delle vergini non esiste ancora e soprattutto non ha ancora preso posto accanto alla gerarchia.La pia Febe era « serva » (diaconos) della chiesa di Cenere e patronessa » (prostatis) dei Cristiani che avevano affari a Corinto, e dello stesso Paolo (Rom. XVI, 1-2). Questo vuol dire che essa si era volontariamente consacrata al servizio della chiesa e che si valeva della sua influenza a vantaggio dei suoi correligionari. Nella terminologia di San Paolo, essa aveva ricevuto dallo Spirito Santo i carismi della diaconia (διακονία = diaconia) e dei soccorsi (ἀντίληψις = antilepèsis). Febe è chiamata διάκονος (= diakonos), come Epafra, come Tichico, come i predicatori del Vangelo, come tutti quelli che servono la causa della fede; essa non è diaconessa nel senso ecclesiastico della parola. Le mogli dei diaconi, delle quali si fa menzione nella prima a Timoteo e che sono tenute a maggiore modestia, regolarità e pietà, per non compromettere il ministero dei loro mariti, non sono neppur esse diaconesse (I Tim. III, 8-10). Le diaconesse che i costumi dell’Oriente obbligarono a stabilire in certe province asiatiche, vennero soltanto più tardi, e di esse non vi è nessuna traccia in San Paolo. L’istituzione delle vedove invece risale al secolo apostolico. Esse avevano il loro prototipo nelle pie donne che accompagnavano Gesù Cristo da una città all’altra, e forse in quelle dalle quali certi apostoli, come Pietro e i fratelli del Signore, si facevano seguire (I Cor. IX, 5; Luc. XXIII, 40).Paolo riconosce alla vedova la piena libertà di passare a seconde nozze, benché le consigli generalmente di rimanere nello stato di vedovanza (I Cor, VII, 39-40). Questo consiglio alquanto vago può dare luogo a inconvenienti, e l’Apostolo, istruito dall’esperienza, si vede obbligato a precisarlo. Egli fa un dovere alle persone agiate di accogliere le vedove della loro famiglia, le quali vogliano rimanere vedove, affinché non siano di peso alla Chiesa. Paolo ci lascia capire che certe donne generose accettavano spontaneamente di mantenere a loro spese delle vedove, affinché non gravassero sul bilancio comune. Alle vedove giovani poi che restassero prive di mezzi, consiglia di passare a seconde nozze (I Tim. V 3-16). Vi erano certamente stati abusi; certe vedove attratte dalla prospettiva dell’ozio e dell’indipendenza, si erano fatte inscrivere nei ruoli della Chiesa facendo professione di vedovanza; ma ben presto, disgustate del Cristo e sotto l’impulso di desideri sensuali, esse davano triste spettacolo della loro leggerezza e del loro ozio, occupate in nulla, girando da una casa all’altra e scandalizzando tutti con i loro sfacciati pettegolezzi. Esse sono colpevoli di aver violata la fede giurata e di aver dato ai malevoli un pretesto per calunniare il Vangelo. Paolo vuole che d’allora in poi non si inscrivano nei ruoli della Chiesa se non le vedove di almeno sessant’anni, di condotta provata e di vita esemplare, le quali non facciano temere né lo scandalo né l’incostanza. Alle vere vedove che fanno professione di vedovanza sotto la sanzione della Chiesa, si renderanno gli onori che meritano il loro stato, le loro virtù e i servizi che prestano. Erano esse certamente che con le loro lezioni e col loro esempio formavano alla pietà le giovani cristiane; erano forse anch’esse che catechizzavano i catecumeni del loro sesso. Lavorando indirettamente per l’altare, esse avevano diritto di vivere dell’altare. L’Apostolo non dà a loro altre prerogative; egli che proibiva alle donne di prendere la parola in chiesa, non era disposto ad assegnare loro una parte nell’esercizio delle sacre funzioni. riesce a suo onore ed a soddisfazione comune.

CONOSCERE SAN PAOLO (19)

CONOSCERE SAN PAOLO (19)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LIBRO QUINTO

Le pastorali.

CAPO I.

La mano e lo spirito di Paolo.

I . QUESTIONE DI AUTENTICITÀ.

1 . TRADIZIONE E VEROSIMIGLIANZE. — 2. STILE E IDEE.

1. Il nome di Pastorali che serve a indicare le tre lettere di San Paolo ai suoi discepoli Timoteo e Tito, risale soltanto al secolo XVIII e non è un nome dei più indovinati; però siccome ora è consacrato dall’uso e abbrevia il discorso, non ci pare che ci sia nessun inconveniente a conservarlo per indicare con una parola questo gruppo di Epistole che sono molto affini per la data, per lo stile e per l’argomento. – Senza discutere qui minutamente i testi di San Barnaba, di San Clemente di Poma, di Sant’Ignazio, di San Policarpo, di San Giustino, di Egesippo, che già suppongono l’esistenza e l’uso delle Pastorali, si può affermare che la testimonianza della tradizione è in loro favore, altrettanto esplicita ed unanime quanto per le Epistole più certe, poiché nel caso presente le questioni di autenticità e di canonicità si confondono insieme: se queste lettere non sono autentiche, sono opera di un falsario, e i Padri non avrebbero mai ammesso scientemente una falsificazione nel canone dei Libri ispirati. Le due o tre voci discordi, di Marcione, di Basilide e di Taziano, che respingono degli scritti i quali già in precedenza stigmatizzavano i loro errori, non furono tenute in nessun conto, ed Eusebio non esitava a mettere le Pastorali tra i Libri incontestati. Dopo Schleiermacher che nel 1807 dichiarava apocrifa la prima a Timoteo, molti critici estesero a tutte e tre le lettere il verdetto negativo, e la reazione del buon senso, che a poco a poco ha restituito all’Apostolo la maggior parte degli scritti dei quali la scuola di Tubinga gli negava la paternità, non è riuscita ancora a dissipare tutti i dubbi su questo punto. Però molti eruditi contemporanei hanno di nuovo guadagnata metà della distanza che li separava dalla tradizione, con dichiarare che nelle Pastorali vi sono larghi frammenti autentici, amplificati più tardi da un incognito desideroso di mettere sotto il sicuro riparo dell’egida di Paolo le sue idee o la sua polemica. Parecchi si sono ingegnati di fare la scelta; ma i loro sistemi, molto divergenti tra loro, ove si vede subito il giudizio arbitrario, possono appena soddisfare i loro autori. I partigiani della falsificazione pura e semplice, se non erano meglio fondati su la ragione, erano almeno più logici. È cosa strana che le due ragioni che ordinariamente si portano per non attribuire a San Paolo le Pastorali, fatta eccezione dello stile di cui parleremo in seguito, si risolvono in prove positive dell’autenticità: esse sono la natura degli errori combattuti e le condizioni gerarchiche delle chiese. – Qualche volta si argomenta in questo modo: « Le Pastorali, essendo del secondo secolo, devono combattere il gnosticismo, la grande eresia di quel tempo ». Oppure si dice: « Le Pastorali, essendo dirette contro il gnosticismo, non sono anteriori al secondo secolo ». I due argomenti si equivalgono: l’uno e l’altro contiene una chiara petizione di principio, e uniti insieme formano un bell’esempio di circolo vizioso. Il gnosticismo è un Proteo a mille forme: di quali gnostici s’intende di parlare? Baur nominava Marcione; Hilgenfeld, Saturnino, altri Valentino o un precursore del valentinismo. Holtzmann, più prudente, si astiene dal precisare, credendo senza dubbio che tra i sistemi innumerevoli compresi col nome generico di gnosticismo se ne troverà pure qualcuno per verificare le indicazioni delle Pastorali. Tuttavia non se ne fa nulla: le diverse sette gnostiche, nel secondo secolo, sono tutte ostili al giudaismo e, se conservano dei brani del Nuovo Testamento, lo fanno per combattere meglio l’Antico. Ora le persone alle quali si allude nelle Pastorali, hanno tendenze giudaizzanti che non si possono affatto negare. – Oggi noi chiamiamo gnostici tutti quei sognatori, infetti di filosofia greca od orientale, i quali cercavano nel dualismo una soluzione al problema del male; ma nel secolo secondo non era così. Il titolo di gnostico aveva ancora un significato buono, tanto che Clemente di Alessandria voleva prenderlo per indicare il perfetto cristiano. Quel nome era stato rivendicato soltanto da un gruppo di sètte oscure, ofiti o naasseni, setiani, perati e cainiti, tutti adoratori del Serpente infernale o ammiratori del primo omicida, ma che non avevano nulla di comune con i giudaizzanti delle Pastorali. Né Marcione, né Valentino, né Basilide, né la turba di eretici contemporanei — encratiti, ebioniti, doceti ed altri — non erano allora considerati come gnostici. Del resto il nome importa poco; quello invece che è capitale, è questo fatto: le persone alle quali alludono le Pastorali, non sono eretici propriamente detti; a due riprese, alcuni individui sono denunziati come apostati (I Tim. I, 20; II Tim. II, 17-18): altrove si tratta di Ebrei infedeli (Tit. I, 15-16); ma verso costoro Tito e Timoteo non hanno ricevuto nessuna missione: essi non hanno da comandare a loro né da fare assegnamento su la loro obbedienza; devono – soltanto evitarli e farli evitare dai discepoli. Il loro vero mandato riguarda altre persone ed altre dottrine. Quali sono queste dottrine? Questioni strane il cui solo effetto è di riscaldare gli animi e di accendere le discussioni (II Tim. II, 2-3), logomachie (I Tim. IV, 4), discorsi vuoti di senso (I Tom. VI, 20; II Tim. II, 16), fiabe da vecchierella (I Tim. IV, 7), vani pettegolezzi (Tit. III, 9). Gli spacciatori di tali sciocchezze non sono pertanto eretici, non si sono separati dalla legittima autorità, frequentano le assemblee cristiane e sono in continuo contatto con gli altri fedeli. Timoteo rimane appunto a Efeso per imporre a loro di finirla con le loro chiacchere (I Tim. I, 3); Tito poi è incaricato di chiudere loro la bocca (Tit. I, 11). Saranno avvertiti una Volta o due con carità (Tit. III, 10) e soltanto se deporranno la maschera e si rifiuteranno di obbedire, si procederà contro di loro con tutto il rigore. Che differenza tra questo atteggiamento benigno e l’intransigenza ordinaria verso i gnostici di ogni setta e di ogni nome! Che contrasto tra la presente mansuetudine di San Paolo e i fulmini di cui minaccia i giudaizzanti della Galazia, o la severità dimostrata contro i falsi dottori di Colossi! Il motivo è che le condizioni sono affatto diverse: i predicatori di Creta e di Efeso non scalzano le fondamenta del Vangelo e non ne compromettono la solidità; essi non fanno altro che offuscarne lo splendore. Per non averci riflettuto, i critici vanno cercando in tutti i sistemi gnostici dei termini di confronto dei quali essi medesimi riconoscono la poca consistenza. Non era necessario andare tanto lontano: il Libro dei Giubilei, opera di poco anteriore all’èra cristiana, presenta un bellissimo saggio delle scempiaggini che incantavano i novatori di Efeso e di Creta. Non ci manca nulla: né le genealogie senza fine, né le favole giudaiche, né le fiabe da vecchierella, né le dispute senili intorno alla Thorà. Ecco quanto poteva ancora piacere a neofiti i quali erano stati in altri tempi in contatto con i dottori della Sinagoga. La seconda mira del falsario, che si tradirebbe nonostante tutte le precauzioni prese per ingannare, sarebbe la sollecitudine di favorire la trasformazione monarchica dell’episcopato. – Nel secondo secolo, si afferma, si produsse una rivoluzione nel governo della Chiesa. Dal seno dei collegi sacerdotali che presiedevano insieme alle assemblee cristiane, sorse un individuo più autorevole, più ambizioso o più capace, il quale si arrogò il primato sopra gli altri. Da principio, come si può ben immaginare, questo non avvenne senza qualche opposizione dei colleghi spodestati; ma il concentramento del potere nelle mani di un solo offriva tali vantaggi per il bene comune, che non si tenne conto delle proteste individuali, e il nuovo sistema si generalizzò rapidamente. Trovato il principio dell’episcopato monarchico, si trattava di promuoverlo, di farlo accettare dappertutto, di rompere tutte le resistenze: questo, si dice, è lo scopo dell’autore delle Pastorali; per questo egli prende la maschera dell’Apostolo e si arma della sua autorità. Quanti errori e quanti sofismi in così poche righe! Tra le altro ipotesi senza prove e senza fondamento, si suppone che Tito e Timoteo sono vescovi, eccetto il nome, e che hanno l’incarico di stabilire altri vescovi. Niente di più contrario ad una sana esegesi e alla realtà storica. L’essenza dell’episcopato monarchico è di essere sedentario, autonomo e permanente: colui che lo occupa è fisso in una diocesi che egli governa con autorità propria, senz’altro limite di tempo, che quello della sua vita. Ora Tito e Timoteo esercitano soltanto ima specie di sovrintendenza sopra un gruppo di chiese; la esercitano in nome di Paolo, come suoi rappresentanti e delegati, a titolo puramente temporaneo, pronti a lasciare il loro posto e le loro funzioni al primo cenno dell’Apostolo. Essi possono aver ricevuto — e certamente hanno ricevuto — la consacrazione episcopale, ma non sono vescovi nel senso monarchico della parola, perché non hanno nessuna diocesi da governare. Le diocesi primitive coincidevano praticamente con la città greca; comprendevano la città con i sobborghi ed un territorio di mediocre estensione. Ci furono vescovi di Efeso, di Smirne, di Pergamo, di Gortina, di Gnosso e di località molto più piccole; non vi furono mai, almeno in Oriente, vescovi incaricati di province intere. Eppure è proprio l’isola di Creta, senza nessuna localizzazione più speciale, che viene affidata a Tito. Egli vi deve stabilire dei sacerdoti in ciascuna città: prova questa che l’episcopato non vi è ancora stabilito. – La giurisdizione di Timoteo sembra che oltrepassi i confini di Efeso e dei suoi dintorni immediati, perché Paolo nel lasciarvelo per un tempo che suppone debba essere breve, gli dà la missione di ordinare sacerdoti e diaconi: missione questa poco urgente e poco necessaria, se si trattasse soltanto della piccola minoranza cristiana di una sola città. Per altri due punti ancora Tito e Timoteo differiscono dai vescovi residenziali ed autonomi: essi non hanno autorità propria e non l’anno neppure a titolo permanente la loro autorità delegata. Essi sostituiscono Paolo durante la sua assenza, con un mandato ben determinato: dare alle chiese ministri degni, vigilare sul buon ordine e chiudere la bocca ai dottori imprudenti (I Tim. I, 3; Tit. I, 5). Tale mandato è di una durata relativamente breve; Tito non lo conserverà neppure fino al ritorno dell’Apostolo: ha l’ordine formale di raggiungere il suo maestro quando Tichico o Artema verrà a sostituirlo (Tit. III, 12); e infatti l’anno seguente lo vediamo partire per la Dalmazia (II Tim. IV, 10). E questi sono forse vescovi quali si concepivano al principio del secondo secolo, quando Sant’Ignazio scriveva le sue lettere? Allora vi era in ciascuna città un pastore unico, creato a vita, nelle cui mani si concentravano tutti i poteri nella misura in cui egli credeva bene di esercitarli da sé: governo della chiesa, amministrazione di tutti i sacramenti, amministrazione dei beni ecclesiastici e delle istituzioni di carità. Un contemporaneo di Sant’Ignazio, specialmente nell’Asia Minore dove i critici radicali mettono volentieri la fabbricazione delle Pastorali, sarebbe stato affatto incapace di immaginare condizioni simili a quelle che ci sono presentate dalle nostre Epistole. Ma supposto anche che avesse avuto la capacità di compiere simile prodezza archeologica, invece di contribuire all’evoluzione della gerarchia, egli l’avrebbe ricondotta violentemente indietro di un mezzo secolo: l’opera sua non segnerebbe un progresso, ma un regresso. Che le Pastorali e le lettere di Sant’Ignazio siano prodotti dello stesso ambiente sociale, è cosa che oltrepassa tutti i limiti della credibilità. Tra gli altri, lo comprese perfettamente Hesse: « Le lettere di Sant’Ignazio, egli dice, sono senza alcun dubbio posteriori alle Pastorali (Die Entsthehung der Hirtenbriefe, Halle, 1889) ». È  necessario un intervallo di una cinquantina di anni per spiegare i cambiamenti avvenuti nell’organizzazione delle comunità cristiane; ma siccome Hesse, nonostante tutto, si ostina a mettere le Pastorali al principio del secondo secolo, si trova costretto a mandare le lettere di Sant’Ignazio fino al regno di Marco Aurelio (161-180). L’assurdo della conseguenza avrebbe dovuto illuminarlo su la falsità del suo punto di partenza. – Tutto invece diventa semplice e naturale, se nelle Pastorali vediamo l’opera di San Paolo. Le condizioni delle chiese di Efeso e di Creta sono esattamente quelle che constatiamo in tutte le cristianità fondate mentre era ancora in vita l’Apostolo, con questa sola differenza, che la chiesa di Efeso, la quale contava una dozzina di anni di vita, era già arrivata ad una fase alquanto più avanzata del suo sviluppo.

2. Assai più speciosa è la difficoltà dello stile. Per stile, noi qui intendiamo soprattutto il lessico, poiché lo stile propriamente detto, benché meno serrato, meno eloquente, meno vigoroso di quello dei brani polemici delle Epistole maggiori, non differisce sensibilmente da quello delle parti morali. La sintassi, cioè quello che vi è nello stile di più personale e di meno imitabile, è la stessa. Perciò i filologi, i giudici migliori in questa materia, non hanno alcun dubbio intorno all’autenticità: prova evidente che le difficoltà non nascono tanto dallo stile stesso, quanto da una prevenzione al cui appoggio s’invoca troppo tardi l’argomento della lingua. Certamente la proporzione dei termini nuovi è considerevole; non vi si trovano certe locuzioni familiari a Paolo, mancano affatto certe particelle di cui sembra che egli non sappia fare a meno; si trovano invece ad ogni pagina espressioni che non sono della sua lingua, giri di frase che gli sono estranei. Siccome gli argomenti di questo genere provano soltanto con l’accumulazione degli esempi, si è fatta una lista delle parole paoline che non si trovano nelle Pastorali e, come controprova, un’altra lista dei modi di dire frequenti nelle Pastorali e che non si trovano negli altri scritti di Paolo. Ma l’esame attento di queste liste non dà un risultato decisivo. La pietra di paragone dello stile dev’essere maneggiata con molta circospezione. Se ne fece la prova con Platone, con Dante, con Shakespeare, con Bossuet, e si arrivò sempre alle conclusioni meno previste. Il fatto è che il vocabolario degli scrittori si modifica e si trasforma con l’età; si arricchisce o s’impoverisce in modo assai curioso; certe parole preferite vengono poi abbandonate affatto, e altre le sostituiscono per un certo tempo fino a che certi termini i quali parevano dimenticati, ritornano nuovamente in favore. Qui ci sarebbe un interessante problema di psicologia che sarebbe bene studiare a fondo prima di formulare aforismi. – Il problema diventa più complicato quando si tratti di un autore il quale non abbia per il suo linguaggio le attenzioni di un purista. La lingua materna di Paolo era l’ebraica e la greca e, senza tener conto della parte che possono aver avuto i suoi diversi segretari nella redazione delle lettere, il suo vocabolario subì certamente l’influenza dei molti dialetti e idiomi che intese lungo la via. I nuovi argomenti trattati nelle Pastorali esigevano pure una maggiore estensione del lessico. Più della metà dei vocaboli speciali di questo gruppo di Epistole, riguardano i falsi dottori e le false dottrine, oppure la morale che conviene loro opporre, oppure le qualità richieste nei sacerdoti e nei diaconi. La maggior parte degli altri vocaboli è puramente accidentale, e a chi si stupisce di trovare soltanto nelle Pastorali le parole « mantello, pergamena, stomaco, fabbro ferraio, pudore, timore, antenati, favola », bisogna domandare perché mai certe cose tanto rare come l’acqua e il vento, si trovino ricordate soltanto nell’Epistola agli Efesini. Queste ricerche minuziose sono giochi di pazienza, che possono dar luogo ad utili osservazioni filologiche, ma che troppo spesso degenerano in puerilità. Più significativa che la lingua è la dottrina. I critici più ostili all’autenticità, sono costretti ad ammettere che le Pastorali portano lo stampo di uno stesso autore, e che questo autore, chiunque sia, è assai familiare con l’insegnamento di San Paolo. Osservando più da vicino, si vedrà che la maggior parte delle idee particolari di queste Epistole hanno il loro punto di congiunzione con le lettere della prigionia. Queste ultime occupano manifestamente un posto intermedio e sono come il punto di congiunzione tra le Epistole maggiori e le Pastorali. Limitiamoci a due o tre esempi. “Quando apparve la bontà di Dio nostro Salvatore e i l suo amore per gli uomini, allora, non in virtù di opere che non avremmo fatto in uno Stato di giustizia, ma secondo la sua misericordia, egli ci salvò col bagno di rigenerazione e di rinnovamento dello Spirito Santo. Questo Spirito egli lo diffuse m abbondanza per mezzo di Gesù Cristo nostro Salvatore, affinché, giustificati dalla sua grazia, diventiamo nella speranza eredi della vita eterna” (Tit. III, 4-6). – Non vi è quasi nessuna di queste espressioni che non riveli la mano di Paolo. Il « bagno di rigenerazione e di rinnovamento », che è evidentemente il Battesimo, riceve già il nome di bagno nell’Epistola agli Efesini, e questo nome non si trova in nessun altro passo del Nuovo Testamento. L’idea, se non lo stesso nome di « rigenerazione », si trova frequentemente negli scritti canonici, particolarmente in San Paolo. Propriamente parlando, il Battesimo non è la rigenerazione, ma lo strumento della rigenerazione: è il seno materno che ci partorisce e che ci riveste del Cristo, non come di un abito esterno, ma come di una forma vitale la quale cambia le nostre più intime relazioni e fa di noi una nuova creatura. La parola, come pure l’idea di « rinnovamento », è propria di San Paolo, come pure la maniera con cui questo rinnovamento si produce per l’intervento dello Spirito Santo, diffuso nei nostri cuori dal Padre o dal Figlio. Anche il compito della grazia è affatto paolino: l’ipotesi di una giustizia propria è respinta, l’influenza delle opere è negata, è tutto è lasciato alla misericordia. Lo stato di giustizia ci costituisce eredi della vita eterna e, come in San Paolo, noi siamo salvi già in questa vita in effetto e in speranza. È vero che l’antica antitesi « opera e fede » è qui sostituita dall’antitesi « opere e grazia », ma la tendenza a questa sostituzione si nota già nelle Epistole della prigionia, come se Paolo volesse finirla con lo spiacevole equivoco di cui la sua dottrina era stato il pretesto, cioè che le opere sono inutili e che la fede tiene il posto di tutto. Può darsi anche che, di mano in mano che la Chiesa si allontanava dalle origini, l’atto di fede sembrasse meno indissolubilmente legato al Battesimo e alla giustificazione. I bambini delle famiglie cristiane nascevano candidati al Battesimo ed a poco a poco si veniva prendendo l’abitudine di considerare la fede come un abito soprannaturale, anziché un atto subitaneo il quale sconvolgeva tutto l’essere morale. – Altrove Paolo esorta Timoteo ad osare e soffrire tutto per il Vangelo di Dio « che ci ha salvati e chiamati con la sua vocazione santa, non secondo le opere, ma secondo la grazia e il suo beneplacito. Questa grazia che ci fu data nel Cristo prima dei tempi eterni, si è manifestata ora con l’apparizione del nostro Salvatore Gesù Cristo il quale ha infranto il potere della morte ed ha fatto risplendere la vita e l’incorruzione per mezzo del Vangelo (16) ». Non vi è quasi espressione che non sia propria di Paolo: il proponimento o beneplacito di Dio, l’incorruzione, la distruzione della morte, la strana locuzione dei tempi eterni opposta all’oggi evangelico in cui si manifesta la grazia decretata prima dei secoli. Paolo, secondo il suo solito, non considera la gloria celeste come il termine diretto ed esclusivo del proponimento o decreto divino. Il beneplacito di Dio, sommamente libero e indipendente, guidato dalla sua misericordia e non dalla vista delle opere e dei meriti preesistenti, finisce nella vocazione, nella salute iniziale che con essa si confonde. Tuttavia questa decisione graziosa è subordinata alla redenzione del Cristo Gesù, fuori del quale non vi è né grazia né salute. – È cosa che soddisfa il ritrovare queste dottrine del paolinismo più puro, con la loro terminologia precisa e le loro formule consacrate, in un gruppo di Epistole in cui certi teologi eterodossi si lamentano di cercare invano le teorie di Paolo su la grazia e la giustificazione. Queste teorie non avevano più la forma polemica richiesta dalle controversie delle Epistole maggiori; non con queste ultime bisogna confrontare le Pastorali, ma piuttosto con le lettere indirizzate ai Tessalonicesi, o meglio ancora con quelle della prigionia.

II.  QUADRO STORICO.

1. DATA TARDIVA DI QUESTE LETTERE. — 2. PROVA DI AUTENTICITÀ.

1. Bisogna ridurre quanto più è possibile l’intervallo che separa le due Epistole a Timoteo, tra le quali s’intercala la lettera a Tito. Difatti noi vediamo l’Apostolo, in preda alle stesse sollecitudini e agli stessi timori, combattere i medesimi errori e mettere in guardia contro i medesimi pericoli. L’uniformità del suo linguaggio manifesta lo stesso stato d’animo e dimostra che circostanze simili danno la stessa direzione ai suoi pensieri. Se le nostre congetture sono fondate, le Pastorali sarebbero state scritte nell’intervallo di un anno, l’ultimo della vita di Paolo. Nella primavera del 66, l’Apostolo fa un viaggio d’ispezione generale in Oriente. Egli si dirige da sud a nord, lungo la costa asiatica; lascia Timoteo a Efeso per reprimere i falsi dottori, e si spinge fino in Macedonia. Di là, a quanto pare, scrive la prima a Timoteo, nel timore che un ostacolo imprevisto si opponga al suo ritorno in Asia, forse anche per rispondere ai dubbi di un discepolo spaventato dalla sua giovinezza e dalla sua responsabilità. In quel momento andava egli a fondare a Creta quella chiesa che poi affida a Tito, perché ne completi l’ordinamento? Non lo possiamo dire. Dopo questa rapida visita, lo troviamo su la via di Nicopoli dove ha stabilito di passare l’inverno (Tit. III, 12). Là infatti ha ordinato a Tito di venirlo a raggiungere, appena che Tichico oppure Artema sarà sbarcato in Creta per sostituirlo. Più tardi egli ridiscende la costa del mediterraneo; a Troade egli è ospite di Carpo, in casa del quale lascia un mantello e dei libri; a Mileto fa sbarcare Trofimo ammalato; approda a Corinto e vi lascia un altro dei suoi compagni, Erasto (II Tim. IV, 13, 20). Ma non abbiamo nessun mezzo di districare l’episodio oscuro del suo arresto. La seconda a Timoteo ce lo mostra prigioniero a Roma. Un abitante di Efeso ha avuto il tempo di essere informato della sua prigionia e di trovarlo dopo molte ricerche (II Tim. I, 16-17). L’Apostolo sente vivamente il peso della solitudine: Demade lo ha abbandonato vilmente; egli stesso ha dovuto mandare Tito in Dalmazia, Crescente nella Galazia o nella Gallia, Tichico a Efeso. Soltanto Luca è con lui (II Tim. IV, 10-12). Non vi è più speranza per lui su la terra: « Il mio sangue sarà sparso come una libazione, e l’ora della mia partenza arriva. Ho combattuto il buon combattimento, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede; mi resta da ricevere la corona di giustizia con cui il Signore, giusto giudice, mi ricompenserà in quel giorno, e non soltanto me, ma tutti quelli che hanno amato la sua gloriosa venuta (II Tim. IV, 6-8) ». L a lettera è un invito supremo al discepolo prediletto; Paolo vuole rivederlo prima di morire e teme già che sia troppo tardi, tanto gli sembra imminente la fine. – Il fatto che la composizione delle Pastorali cade fuori del quadro storico degli Atti, ben lungi dall’infirmare l’autenticità, le da un nuovo appoggio. Non è possibile uscire da questo dilemma: « O la carriera di Paolo non si fermò al punto in cui si fermano gli Atti, oppure le lettere Pastorali non sono autentiche ». Tutti gli sforzi tentati per distribuirle nella vita conosciuta dell’Apostolo, nonostante veri prodigi d’ingegnosità, sono restati vani. Per spiegare la loro rassomiglianza reciproca e la loro dissomiglianza dalle altre, bisogna farne un ciclo a parte, chiuso in un lasso di tempo assai breve, e metterle al termine della vita di Paolo – Questo periodo è per noi molto oscuro, come sarebbe oscura tutta la storia apostolica senza il racconto degli Atti; ma la difficoltà di conciliare le allusioni delle Pastorali con fatti avverati, è precisamente un indice di più in favore dell’autenticità. Un falsario familiare con lo stile e con gli scritti di Paolo, non disseminerebbe a capriccio le antilogie in una imitazione ingegnosa che egli vuol far passare come lavoro dello stesso suo maestro. Egli collegherebbe la sua finta corrispondenza con circostanze storiche, metterebbe in scena gli stessi personaggi e conserverebbe a loro la loro parte e il loro carattere. L’autore delle Pastorali, se è diverso da Paolo, va contro il buon senso: ci presenta per la prima volta una moltitudine di sconosciuti, Imeneo e Fileto, Figelo ed Ermogene, Loide ed Eunice, Crescente, Carpo, Eubolo, Pudente, Lino, Claudia, Onesiforo, Alessandro, Artema e Zena. I particolari che li riguardano sono brevi e precisi, come conviene al genere epistolare in cui non si ha da istruire il pubblico. La maggior parte dei personaggi devono sostenere una parte alla quale non sembravano preparati: come prevedere la defezione di Demade e perché farlo andare e Tessalonica? Che cosa avevano da fare a Creta Tichico e lo stesso Tito? Erasto, Apollo e Trofimo non sono dove si penserebbe che dovessero trovarsi. Un falsario che stima abbastanza Timoteo per fargli indirizzare due lettere apocrife, ne avrebbe abbellito idealmente il ritratto, o per lo meno non avrebbe per nulla diminuito gli elogi che Paolo, nelle sue lettere pubbliche, fa al suo discepolo prediletto; non lo avrebbe rappresentato timido, irresoluto, diffidente delle sue forze e della sua giovane età. Vi sono cose che non si possono inventare. La raccomandazione fatta a Timoteo, di bere un po’ di vino per causa del suo stomaco debole e di portare all’Apostolo i libri e le pergamene lasciate in casa di Carpo, incantevole come espressione della vita reale ritratta al vivo, sarebbe fredda e puerile sotto la penna di un imitatore.

LO SCUDO DELLA FEDE (XXXI)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

 XXXI

ALCUNI PRECETTI EVANGELICI.

Il precetto del perdono non è troppo duro? — Quello della continenza, non è contro natura? — Quello dell’umiltà,  non è avvilente? E quello della preghiera non è inutile? — La preghiera non umilia che serve pregare se non si ottiene? — Perché  dobbiamo recarci anche in chiesa a pregare? — Io pregherei, ma mi manca il tempo e sono assalito dalla noia.

— Ma nel Vangelo di Gesù Cristo non vi sono forse dei precetti impossibili a praticarsi?

L’asserire ciò è parlare da eretico. Santo Agostino dice chiaro che Dio (epperò Gesù Cristo) non domanda cose impossibili; ma comandando ti anima a fare quello che tu puoi e a domandare a Dio quello che da te non puoi.

— Ma, ad esempio, quel precetto di presentare la guancia sinistra a chi ci ha percosso nella destra, di cedere anche il mantello a chi ci ha tolta la tonaca, di correre altre due miglia a chi ci ha già trascinati a correre con lui per un miglio …

Anzi tutto devi ritenere che il praticare tali cose letteralmente, per ispirito di mortificazione e di umiltà, è solo consiglio. Come precetto poi Gesù Cristo intende di dire che non dobbiamo cercare o desiderare la vendetta, che piuttosto che vendicarci dobbiamo essere disposti a ricevere un’altra ingiuria, e che interiormente dobbiamo essere disposti a rinunziare a quello che ci sarebbe dovuto, ogni volta che la carità e la gloria di Dio lo richieda. D’altronde combattendo Egli la passione della vendetta, non intende di togliere per tal guisa ai magistrati la libertà di reprimere l’ingiusto offensore e nemmeno perciò all’offeso la facoltà di ricorrere ai medesimi per avere riparazione o giustizia.

— Ad ogni modo però il mondo reputa melenso e vile colui, che sopporta in pace l’ingiuria e perdona l’offensore.

Così fa il mondo degli uomini stravolti di cervello, il mondo dei malvagi e dei viziosi; ma non già il mondo dei savi, dei buoni, dei ben pensanti, perciocché questo mondo ha sempre riguardato come vile colui che si vendica. Ed in vero non è proprio da vile l’adirarsi, il vendicarsi, facendo così quello che fanno le bestie, quello che fa la vespa, che punge chi la stuzzica, quello che fa la vipera che morde chi la calpesta, quello, che fa il mulo che spranga calci contro chi lo percuote? – Sì, lo diceva già Aristotile, filosofo pagano: L’ira e la vendetta sono appetiti bestiali.

— Eppure è cosa dura certe volte il perdonare!

Anzi è duro tutto il contrario. Capisco che l’amor proprio deve fare un sacrificio, ma non è mille volte meglio per la tranquillità di nostra vita che lo faccia? E come può vivere tranquillo chi ha in cuore l’amarezza, l’odio, il livore, la brama di vendicarsi! È ancora per lui la pace, la gioia, la felicità? No, affatto. Più non dorme quieto la notte; di giorno, anche in mezzo agli affari, lo tormenta un pensiero funesto, tra gli stessi divertimenti una larva, che conturba, gli si para dinanzi, la larva della sua inimicizia. E poi ha da sacrificare le compagnie, le adunanze, le ricreazioni dove pratica l’avversario; deve evitare quelle strade per dove egli passa, deve star pronto a voltare la faccia quando lo incontra; e quando pure è riuscito a umiliarlo, a vendicarsi di lui, più che mai deve temere, che o egli, o i suoi parenti, o i suoi amici preparino di ripicco un’altra vendetta. E questa condizione di vita non è un inferno anticipato? E non è dunque meglio perdonare, e per tal guisa compiere il precetto di Gesù Cristo, e assicurarsi di essere così da Dio perdonati, avendo detto lo stesso Gesù: « Perdonate e vi sarà perdonato? »

— Queste considerazioni mi persuadono assai, non solo della convenienza, ma persino della facilità del perdonare. Un altro precetto tuttavia che nella morale di Gesù Cristo mi pare molto difficile ad eseguirsi è quello che riguarda la continenza. A me pare che l’obbligo di questa virtù sia cosa contro natura, superiore alle forze umane, epperò impraticabile.

Il dire ciò seriamente sarebbe una gravissima bugia ed una esecranda bestemmia contro la sapienza di Gesù Cristo, che non comanda nulla che non si possa praticare. L’uomo coll’aiuto del Signore può vincere qualsiasi più terribile passione, epperò anche quella contraria alla continenza, la quale, se fosse contro natura, non verrebbe certamente comandata da Colui, che è Autore stesso della natura. D’altronde gli stessi filosofi pagani hanno riconosciuta la necessità e l’importanza di tale virtù. Talete ha detto; « Temi la voluttà, che è madre del dolore ». Cicerone lasciò scritto: « L’impudicizia impedisce il consiglio, è nemica della ragione, né tiene alcun commercio colla virtù. Non vi è peste più esiziale della lussuria ». Aristotile ha sentenziato: « Con le laidezze della libidine si logora il corpo ». E Quintiliano insegnò: « Essendo divina l’origine dell’anime nostre, conviene aspirare alla virtù, e non servire ai turpi piaceri del senso ».

— Ma pure non vi ha nell’uomo una tendenza naturale contro siffatta continenza?

Anche le tendenze a mangiare e a bere sono naturali; ma se si soddisfano entro i limiti della natura e della fede non c’è male, se invece si fa ciò fuori dei giusti limiti, si fa cosa cattiva, dannosa e condannevole. Così è di quest’altra tendenza. Se essa è contenuta nei limiti del matrimonio cristiano, secondo le leggi di Dio, non è cattiva, e l’obbedirvi giusta i sentimenti della ragione e della fede non è male, anzi può essere un dovere. Ma il soddisfarla fuori dell’ordine e dei limiti voluti e fissati da Dio per il bene della società, è e sarà sempre un gran male. E lo è e sarà non solo perché violazione d’un precetto divino e causa di una serie di danni spirituali per l’anima, ma ancora perché fonte funesta di tanti mali morali e corporali per gl’individui e per la società. Se noi entrassimo in certe famiglie e domandassimo la cagione di tante discordie, di tanti disordini, di tanti patrimoni mandati a fondo, di tanta miseria, di tanti scandali, e persino di tante violenze e di tanti delitti, molte sarebbero costrette a risponderci che non fu altra, se non l’abbominevole vizio della disonestà. E se domandassimo ai medici, che frequentano le case dei privati e i pubblici ospedali, ben ci saprebbero dire, che la causa principalissirna di tante schifose infermità e di tanti morti sul fior della vita si è purtroppo questo detestabile vizio. Così pure quelle nazioni dove il brutto vizio trionfa sia per la immoralità dei privati individui, sia anche per la connivenza dei reggitori della cosa pubblica, per la libertà orribile che essi concedono a tutto ciò che lo fomenta, alla letteratura, alla pittura, alla scultura, ai teatri, ai balli, ai divertimenti pubblici, ai trafficanti della disonestà ed alle case del peccato, quelle nazioni, dico, benché (come una nazione a noi vicina), siano ricche, piene di lusso e di civiltà raffinata, sono tuttavia nazioni, che precipitano alla rovina. In conclusione se nella dottrina di Gesù Cristo vi hanno dei precetti, come questo, alquanto difficili, a praticarsi tutt’altro che inferirne qualche cosa contro il pregio di tale dottrina, se n’ha piuttosto a riconoscere la somma perfezione. Con tali precetti Gesù Cristo mostrò di avere grande stima di noi; ci fa conoscere che vuole anche l’opera nostra nell’affare di nostra salvezza, che non dobbiamo pretendere di andare in Paradiso in carrozza, senza superare difficoltà, senza far opposizione alle proprie inclinazioni, che il regno dei cieli insomma, come Egli ha detto, patisce forza e lo guadagnano coloro che si fanno violenza.

— Sì, lo credo. Non mi negherà tuttavia che nella dottrina di Gesù Cristo vi siano precetti strani ed avvilenti l’umana dignità. Quel comando ad esempio di non fare le nostre buone opere per essere veduti e lodati dagli altri, di dichiararsi servi inutili, quando si è fatto bene qualche cosa, di non cercare i primi posti, di farsi l’ultimo e il servo altrui, di fuggire gli onori e le lodi e persino la compiacenza delle medesime, di essere umili insomma, mi sembra troppo vero che, se venga da noi praticato, offenda il sentimento della nostra dignità!

Così pur troppo si pensa da coloro che parlano contro le virtù cristiane, senza sapere neppure che cosa esse siano; ma del resto è tutto il contrario. Se c’è cosa che rispetti il vero sentimento della nostra condizione è l’umiltà, e se c’è cosa che l’offenda è la brutta superbia. L’umiltà non è mica un inganno, per cui uno si sforzi di riputarsi quello che non è e di rinunziare ad ogni merito. L’umiltà è in fondo in fondo purissima verità; è una luce dell’intelletto che ci discopre quello che noi siamo, e nell’ordine della natura e in quello della grazia, ed una sincera disposizione del cuore di trattarci e lasciarci trattare in conformità di ciò. Laonde il vero umile non disconosce alcuno dei doni, che possiede. Se ha ingegno, virtù, prerogative speciali di natura o grazia, non gli è vietato di riconoscerle, perché come farebbe a ringraziarne Iddio, se non riconoscesse quello che da Lui gli fu donato? Ma a questa cognizione egli aggiunge per l’appunto l’intima persuasione che i beni che ha, non li ha da sé, ma da Dio: che perciò non ha il diritto per essi di cercare le lodi altrui, di vantarsi abile a questo e a quello, di volere dagli altri essere onorato, applaudito e collocato al primo posto, e di vanamente compiacersi; ma che in quella vece ha il dovere di offrire a Dio ogni bene che ha. Ora che cosa vi è in tutto ciò, che offenda menomamente il sentimento dell’umana dignità? Al contrario veramente l’offende la superbia, che è la falsa stima e il falso amore di se stesso spinto fino al punto di voler essere al di sopra di tutti gli altri, da non volere degli uguali, e da disprezzare ben anche gli inferiori. E l’offende altresì per i mezzi, dei quali induce l’uomo a valersi per riuscire nel suo intento di primeggiare su tutti; giacché a raggiungere tale scopo non lo induce forse talvolta a strisciare cortigianescamente ai piedi altrui, a far mercato di se stesso, a ricorrere ad arti abiette, a transazioni vigliacche, a bugiarde promesse? Ed ecco perché il mondo stesso mentre ammira chi è umile, e facendo il bene, ed essendo valente non cerca la lode altrui, beffa e irride chi è superbo; tanto che chi non è umile finge di esserlo e fa sembiante di rifiutare gli onori per non incorrere l’altrui biasimo.

— Anche in questo ella dice bene, e godo che togliendomi dalla mente certe strane idee, mi faccia ammirare la giustizia e la sapienza dei precetti del Vangelo. Tuttavia non le pare che Gesù Cristo abbia pure fatto dei precetti inutili?

Precetti inutili? E quale per esempio?

— Quello della preghiera.

Come? il più utile, il più necessario anzi dei precetti, tu lo chiami inutile?

— E sì. Che bisogno ha Iddio, che noi lo preghiamo?

Egli certamente bisogno non ne ha affatto, ma non lascia di avere il diritto, che noi con la nostra preghiera lo glorifichiamo, lo adoriamo, lo ringraziamo. Non è Egli il nostro Dio, il nostro Sovrano, il nostro Benefattore supremo? E noi vorremmo da non avere ad aprire la bocca per confessare tutto ciò? Non arriveremmo al massimo della ingratitudine e della malvagità? E poi non dobbiamo noi pregare Iddio, perché ci conceda gli aiuti d’ogni maniera, di cui abbisogniamo?

— Ma Iddio, con la sua onniscienza, non conosce tutto quello che ci è necessario, e non può Egli darcelo, senza che noi glie lo domandiamo?

Senza dubbio che ei lo potrebbe: ma se Egli non lo vuole, non è padrone di fare come gli piace? E non siamo noi tenuti di obbedire ai suoi comandi? Non sono già moltissimi i doni, che Dio ci ha fatto del tutto gratuitamente, non solo senza alcuna nostro merito, ma senza che pure glieli chiedessimo? Se per tanto ve ne sono ancora moltissimi altri, di cui abbiamo assolutamente bisogno, e che Egli non ci vuol dare senza che glieli domandiamo, non avremo noi l’obbligo assoluto di pregarlo?

— Ma Iddio è un essere immutabile: ciò che Egli vuole, lo vuole eternamente. Egli perciò ha dato al mondo delle leggi, che sono invariabili e le quali fanno fare alle cose tutte il corso loro segnato. Perchè adunque pregare? Perché Iddio cangi quello che dall’eternità ha stabilito? E allora come credere all’immutabilità della sua natura?

Caro mio, questa obbiezione non è altro che un pretto giuoco intellettuale. Difatti, tra queste leggi invariabili, di cui tu parli, non tiene un primo posto la preghiera? Se Dio ha stabilito da tutta l’eternità di rendere feconda la terra, di guarire degli ammalati, di consolare degli afflitti, di convertire dei peccatori, di rassodare dei virtuosi, di salvare dal flagello un popolo alla tale e tale altra ora dei secoli, perché a questa e a quell’altra ora dei secoli sarà pregato dagli uomini, forseché egli muta perciò le sue leggi? o non ne mantiene piuttosto immutabile il corso ? Noi adunque preghiamo, noi dobbiamo pregare « non già, come nota San Tommaso, per mutare le divine disposizioni, ma per impetrare ciò che Egli ha stabilito doversi adempiere per ragione della preghiera, per meritare cioè per mezzo della preghiera quei beni, che Egli innanzi ai secoli ha disposto di donarci per essa »

— Non mi potrà tuttavia negare che la preghiera umilii l’uomo e lo avvilisca.

Oh sì! Certe preghiere avviliscono e sono al tutto indegne dell’uomo. Coloro ad esempio che si pongono in ginocchio davanti alle divinità carnali dei loro cuori, davanti ai potenti della terra, e si fanno a domandar loro in grazia o uno sguardo o una piccola croce da cavaliere, costoro sì che si avviliscono prodigiosamente nelle loro preghiere! ma non già colui, che s’inginocchia avanti a Dio e Lui prega, e pregandolo riconosce la sua grandezza, la sua sovranità, la sua bontà, le sue perfezioni, e in tal guisa non si spinge alla ridicolaggine superba di credersi senza bisogno del suo aiuto e di voler essere da Lui indipendente.

— Eppure a che serve pregare, se non si ottiene da Dio quel che si vuole?

Ma bisogna un po’ vedere se si vuole ciò che è bene, oppure ciò che è male. A che si prega da molti? Si prega per ottenere una buona fortuna, si prega perché sia prosperata nelle ricchezze la famiglia, si prega per vincere quella lite ed abbattere quell’avversario, si prega sembra strano, ma pur è vero, si prega talvolta anche per riuscire a fare una vendetta, o per altri scopi somiglianti. E come mai il Signore, che è pieno di bontà, esaudirà queste nostre insensate preghiere? Inoltre anche allora che si domandano cose buone, si prega come si deve, con divozione, con fede, con umiltà, con perseveranza? – Sii certo che Gesù Cristo, come nella sua dottrina ci ha comandato di pregare, così nella stessa avendoci assicurato l’esito della preghiera, farà sempre onore alla sua parola, purché noi facciamo del tutto per parte nostra il nostro dovere.

— Benissimo. Ma perché dobbiamo recarci anche in chiesa a pregare? Non possiamo noi pregare Dio da per tutto? E Gesù Cristo nel suo Vangelo ci ha forse fatto alcun precetto a questo riguardo? Mi sembra anzi che Egli abbia detto di chiudersi perciò nella propria stanza. Dunque?

Dunque è verissimo che noi possiamo pregare Iddio da per tutto, in casa, fuori di casa, nelle campagne, sul lavoro, in viaggio, eccetera, e facciamo benissimo a pregarlo in ogni dove. È vero ancora che Gesù Cristo fa grande elogio dell’orazione privata e da solo, e ce ne diede Egli più volte l’esempio ritirandosi sul monte, nel deserto, presso il Getsemani a pregare Dio da sé solo. Tuttavia ci vuole altresì l’orazione pubblica, fatta in comune e in chiesa. Nel suo Vangelo ha ricordato che la chiesa nelle Scritture, si chiama per eccellenza Casa di orazione. Ed in vero nell’antica legge, quando Iddio ordinò la costruzione del tempio, a questo fine particolarmente l’ordinò, e nella sua consacrazione assicurò in modo esplicito e preciso, che chiunque si fosse recato nel tempio a pregarlo l’avrebbe esaudito. – Per di più aggiunse che « se due si fossero uniti insieme a chiedere a Dio qualunque cosa, sarebbe stata loro accordato dal suo Padre celeste, perché dove fossero due o tre congregati nel suo nome, Egli sarebbe stato là in mezzo a loro ». Le quali parole si riferiscono alla preghiera fatta in comune e specialmente in chiesa, dove i fedeli formano nel pregare un cuor solo ed un’anima sola. – D’altronde la stessa ragione ci mostra la convenienza e l’utilità della preghiera fatta altresì nella Casa di Dio. Non è per mezzo di questa preghiera, che si rende a Dio il culto pubblico della società? Non è per questa preghiera che si stringe vieppiù fra gli uomini la fraternità? Non è per essa che ci andiamo animando meglio gli uni gli altri a compiere i nostri doveri verso Dio?

— Sì, ciò è verissimo. Ma è vero altresì che la preghiera sia tanto utile come si dice?

Utilissima. La conservazione della fede, la volontà risoluta di fare il bene, la forza di vincere le tentazioni, la luce per dissipare i dubbi, la consolazione in mezzo alle tribolazioni della vita, l’energia, gli slanci generosi, i magnanimi propositi di renderci sempre migliori, e infine la nostra eterna salvezza, tutto proviene dalla preghiera. E invece quei languori, quelle debolezze, quelle irritabilità, quei disgusti della vita al tutto singolari, quelle angosce così cocenti e quelle disperazioni così gravi, che talora si provano, sono causa dell’assenza della preghiera. Prega, amico mio, prega, e ti troverai contento e felice.

— Io pregherei, ma mi manca il tempo; ho molte altre cose da fare. E poi chi lavora, prega.

Tu dici una gran bugia. Trovi tanto tempo non solo pe’ tuoi affari, pe’ tuoi lavori e pe’ tuoi studi, ma anche per i tuoi divertimenti e per tante chiacchere inutili, e forse anche dannose, e non trovi tempo per un po’ di preghiera? Tu dici: Chi lavora, prega. Sì, anche il lavoro indirizzato a Dio può servire di bella preghiera. Ma appunto perciò bisogna offrirlo e consacrarlo a Lui col mandargli innanzi un po’ di preghiera. Alla fin fine credi tu che sia necessario che tu passi delle ore intere nel pregare? Alcuni minuti al mattino, alcuni altri alla sera, in cui tu dica le orazioni indicate dal Catechismo pel buon cristiano, ordinariamente bastano. Vedi adunque che non puoi dire che ti manchi il tempo per pregare. Che se poi realmente ti mancasse, dovresti trovarlo. Non lo trovi forse per mangiare, per dare al tuo corpo il necessario sostentamento? Quanto più adunque devi trovarlo per dare il necessario sostentamento all’anima.

— Sì, ha ragione. Ma che vuole mai? Quando mi metto a pregare mi piglia tale noia, oppure mi assalgono tali distrazioni, che mi par proprio inutile il pregare.

Se ti assale la noia, è perché non ti studi di pregare con fede, con amore, con raccoglimento. Se poi durante la preghiera ci assalgono delle distrazioni, e allora noi facciamo il possibile per allontanarle. Ma se non ci avvediamo delle medesime, non dobbiamo credere perciò che il Signore non accetti le nostre preghiere. Egli è infinitamente buono, e sa benissimo compatire alla nostra debolezza.

— Ebbene sia certo che d’ora innanzi praticherò colla massima esattezza questo precetto della preghiera.

Bravo? Mi rallegro di cuore con te per questo buon proposito.

CONOSCERE SAN PAOLO (18)

CONOSCERE SAN PAOLO (18)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

CAPO IV.

L’Epistola ai Filippesi.

I. IL CELEBRE TESTO CRISTOLOGICO.

1. QUADRO STORICO. — 2. LA FORMA DI DIO E LA FORMA DI SCHIAVO.

1. Filippi, la prima conquista di Paolo sul suolo europeo (Act. XVI, 12), fu sempre la sua chiesa prediletta. In quella popolazione rozza e semplice di coloni romani, aveva trovato spiriti docili e cuori affettuosi. In loro favore egli derogò alla regola impostasi di non accettare dai suoi neofiti né doni né sussidi (Fil. IV, 15-16; I Cor. IX, 12-15): egli conosceva troppo bene la sincerità e la profondità del loro affetto e non temeva di restare loro obbligato. I Filippesi si mostrarono degni di quella fiducia. Tra loro non vi erano né eresie, né scismi, né fazioni, ma tutto si riduceva a qualche rivalità personale, e la faccenda più grave era di comporre un dissidio tra due donne Fil. IV, 2-3). La sua terribile invettiva contro i giudaizzanti si spiega abbastanza con la notorietà delle loro aggressioni e con le preoccupazioni che queste non cessavano di cagionare all’Apostolo, e non è punto necessario supporre la loro presenza o la loro propaganda a Filippi (Fil. III, 3-4). Non si dovrà cercare in questa conversazione, fatta col cuore alla mano tra un padre e i suoi figli prediletti, un ordine perfetto né un nesso rigoroso. Nessuna lettera somiglia meno di questa ad un trattato di morale o di teologia; Paolo esorta, incoraggia, consola e soprattutto si sfoga liberamente. Il suo sentimento predominante è la gioia spirituale. Egli ripete continuamente: « Mi rallegro nelle mie tribolazioni, rallegratevi con me », tanto che sente il bisogno di scusarsi della sua insistenza (Fil. II, 18; III, 1;IV, 4). Un primo motivo di rallegrarsi è la buona piega che va prendendo il suo processo al tribunale di Cesare. Paolo manderà Timoteo a Filippi non appena avrà al riguardo notizie migliori, ma soggiunge: « Confido nel Signore che verrò io stesso senza ritardo ». Non già che vada in giubilo al pensiero di una prossima liberazione, ma il solo suo desiderio è che il Cristo trionfi, o con la sua vita o con la sua morte: nobile indifferenza che lo tiene sospeso tra il desiderio naturale di vivere per lavorare ancora, per far fruttificare il Vangelo, per servire il prossimo e dare gloria al Maestro, e la felicità di morire per essere unito al Cristo suo amore e sua vita. Ma il cielo decide che egli viva ancora: « Io so che sopravvivrò, che resterò con voi per il vostro avanzamento e per colmare di gioia la vostra fede ». Il contegno degli Ebrei verso di lui, le benevole disposizioni del pretorio, le stesse lungaggini di un processo che si andava trascinando da più di quattro anni, tutto gli fa prevedere uno scioglimento favorevole. – E poi — ed è questo un secondo motivo di gioia — la sua prigionia non ostacola il progresso della predicazione: i custodi che si alternano accanto a lui, lo sentono parlare di Gesù Cristo; le sue condizioni lo mettono in vista e destano la curiosità, ed è questo un primo passo verso la diffusione del Vangelo. Il buon esito della sua difesa e la sua liberazione già quasi sicura infiammano lo zelo e l’intrepidezza dei Cristiani. Se alcuni vanno seminando la parola di Dio stimolati da un sentimento d’invidia, se raddoppiano di attività per rinforzare il loro partito e per rendere più amara la prigionia dell’Apostolo, poco gl’importa, purché il Cristo sia predicato e il Vangelo prosegua nelle sue conquiste: « Io me ne rallegro, dice Paolo dimentico di se stesso, e me ne rallegrerò sempre ». – Ma il suo motivo più grande di gioia — o almeno il più intimo — è l’affetto inalterabile dei Filippesi, il quale aspettava soltanto un’occasione per « rifiorire » splendidamente. Le cure, la devozione, l’abnegazione di Epafrodito che egli chiama suo fratello, suo collaboratore, suo compagno di armi, sua provvidenza visibile, lo hanno commosso profondamente. Dopo le angosce di una lunga malattia da cui si è appena riavuto, quest’uomo generoso ha manifestato il suo desiderio di rivedere la patria: Paolo lo incarica di rappresentarlo presso i suoi cari neofiti, lieto di poter dare a lui questa consolazione e a tutti questo piacere.

2. In mezzo a questa effusione di tenerezza paterna, in una lettera piena di abbandono, di sentimenti delicati, di allusioni affettuose, proprio nel momento in cui meno si aspetterebbe, compare la formola più precisa e più completa della cristologia paolina. Fa stupire il trovare questa dottrina sublime gettata come di passaggio in un brano parenetico, senza nessun proposito di controversia, come se si trattasse di un dogma volgare, da molto tempo conosciuto e creduto da tutti e che basta ricordare per farne la base di un’esortazione morale: fatto davvero sconcertante e affatto inesplicabile, se non si suppone che la preesistenza del Cristo e l’unione della divinità e dell’umanità nella persona di Lui, facessero parte della catechesi apostolica e appartenessero a quegli articoli elementari che nessun Cristiano doveva ignorare. Paolo eccita i fedeli all’unione fraterna, all’umiltà, a quell’abnegazione generosa che ci fa preferire agli interessi nostri quelli degli altri, secondo l’esempio di Colui che è il nostro modello perfetto: “Abbiate in voi i sentimenti che furono nel Cristo Gesù. Sussistendo nella forma di Dio, non considerò come una rapina l’eguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso prendendo la forma dello schiavo e diventando simile agli uomini. – E, riconosciuto uomo dal suo esteriore, si abbassò (ancora), facendosi obbediente fino alla morte e fino alla morte di croce. Perciò anche Dio lo ha esaltato senza misura e gli ha dato un nome che è sopra ogni nome, affinché al nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo e su la terra e negli inferni, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è entrato nella gloria di Dio Padre” (Fil. II, 5-11). – Chi domandasse se qui Paolo parla del Cristo preesistente oppure del Cristo storico, proporrebbe male la questione. Paolo parla della Persona di Gesù Cristo e, secondo il suo solito, attribuisce a questo unico soggetto predicati che possono convenire alla preesistenza, allo stato di umiliazione o alla vita glorificata. Tocca all’esegesi distinguerli e classificarli secondo il senso ed il contesto. Quando si conosce per esperienza, che cosa diventi molte volte il testo più semplice tra le mani dei commentatori che lo stiracchiano in senso contrario, riesce una gradita sorpresa il constatare qui l’accordo quasi unanime della tradizione patristica. A dire il vero, i Padri greci e latini non sembrano qui avere il sospetto di reali difficoltà; dopo un breve commento, e qualche volta senza nessuna spiegazione, si affrettano a correre in giostra contro le eresie dei loro tempi. Bisogna udire San Giovanni Crisostomo, in uno slancio di magnifico lirismo, invitare i suoi uditori allo spettacolo degli eresiarchi — Ario, Sabellio, Marcione, Valentino, Manete, Paolo di Samosata, Apollinare di Laodicea, Marcello di Ancira, come le comparse Sofronio e Potino — abbattuti insieme sotto i colpi impetuosi di Paolo. « Se nei combattimenti del circo non c’è nulla che uguagli il piacere di vedere uno dei concorrenti urtare con violenza i cocchi dei rivali, rovesciare insieme quadrighe e guidatori, poi, mentre da ogni parte echeggiano gli applausi e le acclamazioni, volare solo alla mèta come trasportato nello spazio dall’ebbrezza del trionfo e dal delirio degli spettatori, quale non sarà la nostra gioia quando vedremo l’Apostolo del Cristo gettare a terra, insieme e con un colpo solo, tutte le costruzioni dell’errore e tutti gli arsenali del diavolo con i loro architetti! » Eccetto l’entusiasmo, gli altri Padri hanno un linguaggio simile. Le difficoltà rilevate da molti esegeti moderni non dipenderebbero dunque piuttosto da un difetto di metodo, da quella mania troppo comune di trascurare quello che è chiaro e che deve rischiarare il resto, per attaccarsi ai termini oscuri o ambigui, senza neppure accorgersi che i punti dubbi stanno alla periferia estrema della questione e non toccano per nulla il valore generale dell’insieme? Il punto capitale sta nel sapere a quale volontà del Cristo si riferisca lo spogliamento proposto ai Filippesi come esempio di abnegazione. L’esegesi tradizionale non esita affatto: essa trova l’annientamento nel fatto stesso dell’incarnazione e la considera perciò come effetto della volontà divina. Tuttavia certi interpreti, pochi ma risoluti, sono di un altro parere (7). Per loro lo spogliamento, sia pure simultaneo con l’incarnazione, viene logicamente dopo di essa e dipende perciò dalla volontà umana. Le loro ragioni sono speciose, ma non provano. Un atto che precedesse logicamente l’incarnazione, dicono essi, sarebbe comune alle tre Persone divine e non sarebbe proprio del Cristo preesistente. Non sarebbe per noi un esempio di umiltà e di abnegazione, virtù incompatibili con la perfezione della divinità. Finalmente non sarebbe meritorio, e il Cristo non gli sarebbe debitore della sua esaltazione. Ma queste ragioni, ripetiamo, non tengono. L’atto del Verbo il quale accetta l’incarnazione, è un atto di volontà nozionale e per conseguenza proprio del solo Figlio; si può dire anche che l’incarnazione è considerata come funzione ipostatica e non come atto di volontà o di potenza. Si noti che San Paolo non dice: « Abbiate i sentimenti che aveva il Cristo Gesù », ma dice: « Abbiate sentimenti conformi a quello che avvenne nel Cristo Gesù ». Ora il senso cristiano ha sempre considerato il fatto dell’incarnazione come un eccitamento all’abnegazione e alla rinunzia, ed a ciò è autorizzato dallo stesso Apostolo che non teme di proporre alla nostra imitazione colui che « essendo ricco » di tutte le ricchezze del cielo, « è stato povero per causa nostra, per arricchirci con la sua povertà ». Se si oppone che l’incarnazione, e come atto divino e come funzione ipostatica, non è meritoria, la risposta è facile. Nel periodo di Paolo vi sono parecchie azioni delle quali almeno una, espressa per l’ultima — l’obbedienza della croce — qualifica la volontà umana del Cristo e chiede come ricompensa la sua esaltazione gloriosa: « Egli si è fatto obbediente fino alla morte e fino alla morte di croce; perciò Dio lo ha esaltato ». Se assolutamente si vuole far riferire il « perciò » a tutto quello che precede, bisognerà dire allora che esso significa tanto la convenienza quanto il merito. Non vi è dunque nulla che ci obblighi ad abbandonare l’opinione tradizionale; anzi, anche indipendentemente dalle ragioni di autorità, tutto c’invita a conservarla. È tuttavia giusto il notare che la nuova opinione di Velasquez e dei suoi seguaci, non intaccando la divinità di Gesù Cristo, è respinta piuttosto per l’esegesi che non per l’ortodossia. Che cosa significa la forma di Dio? Questa parola forma indica, nel Nuovo Testamento, qualche cosa di profondo e di intimo, ben distinto dall’esteriore e dalle apparenze, che tocca l’essenza stessa dell’essere e ne è inseparabile. Questo medesimo significato lo ritroviamo nei contemporanei dell’Apostolo, Giuseppe e Filone. Quest’ultimo dice che la forma di Dio non può ricevere, come una medaglia, un’aggiunta o una nuova impronta; l’altro afferma che Dio, invisibile per la sua forma e la sua maestà, si manifesta a noi con le sue opere e con i suoi favori. Così si spiega perché i Padri greci, col sentimento vivo che essi hanno del valore dei termini della loro lingua, identificano senz’altro la forma di Dio e la divinità. Ora essi danno come sinonimo di forma, o la natura o la sostanza, o l’essenza, benché non ignorino certamente la differenza metafisica di questi concetti; ora per forma intendono il carattere specifico, ma facendo notare che nell’Assoluto, dove non vi può essere mescolanza di atto e di potenza, il carattere specifico è lo stesso essere. E poi, essendo la forma di Dio l’opposto della forma di schiavo, e non potendo questa, in ultima analisi, significare altro che la natura umana, « essere nella forma di Dio » ed « essere Dio » sono necessariamente due formule equivalenti. Il Verbo non poteva prendere la forma di schiavo senza diventare veramente uomo e non può neppure essere nella forma di Dio senza essere veramente Dio. Quest’ultima espressione sembrava ai Padri ancora più chiara e meno discutibile dell’altra, e parecchi se ne servirono per stabilire contro i doceti la realtà della natura umana del Cristo. Non è dunque necessario, per il rigore della nostra conclusione, intendere la forma nel senso dell’ ἐντελέχεια (= entelekeia) di Aristotele, benché questo significato filosofico, noto ai contemporanei dell’Apostolo, potesse benissimo essere divenuto di uso comune (8). Un punto troppo dimenticato, eppure capitale, è che il Verbo esisteva nella forma di Dio anteriormente agli atti della volontà umana e agli effetti della volontà divina. Il participio presente (ὑπάρχων=uparkon) messo in correlazione con aoristi, prende il significato dell’imperfetto e indica l’esistenza senza limite di tempo. Esso coincide col momento preciso della durata espresso con l’aoristo, ma lo sorpassa da una parte e dall’altra, poiché precede logicamente quell’istante indivisibile e non finisce necessariamente con esso.Inoltre qui è, come è ordinariamente, causativo — essendo il senso avversativo soltanto eccezionale in queste specie di costruzioni — e si deve tradurre: « Perché era nella forma di Dio ». La parafrasi di Estio è dunque ottima: Cum esset ac sit in natura Dei, id est cum esset ac sit verus Deus.

II. LO SPOGLIAMENTO DEL CRISTO

1. EXINANIVIT SEMETIPSUM. — 2. LA CHENOSI.

1. Finora abbiamo a bello studio trascurato l’inciso molto discusso non rapinam arbitratus est esse se æqualem Deo sed emnanivit In realtà esso non aggiunge nulla di essenziale all’insegnamento dell’Apostolo, benché lo precisi e lo circoscriva. Non c’è dunque da stupire se i Padri v’insistono poco e se ci lasciano indovinare il loro pensiero più che non lo esprimano formalmente. Essi hanno ragione, perché le differenze di esegesi nella spiegazione di questo particolare non toccano seriamente il significato dell’insieme. – Anzitutto che cosa vuol dire precisamente l’eguaglianza con Dio? È l’eguaglianza di sostanza, oppure l’eguaglianza di grado e di trattamento? Certamente l’eguaglianza di condizioni suppone l’eguaglianza di natura, e nessuno ha diritto agli onori divini se non è realmente Dio. I Padri hanno dunque potuto conchiudere legittimamente da questa frase la consostanzialità delle Persone divine; ma la questione sta nel sapere se hanno fatto ciò per via di ragionamento e come teologi, oppure per via di analisi e come esegeti. È certo che l’espressione greca (εἶναι ἴσα Θεῷ = einai isa Teo) non significa direttamente « essere eguale a Dio », ma « essere alla pari di Dio, nello stesso grado di lui ». E parecchi Padri intendono infatti così l’eguaglianza con Dio, poiché dicono che il Verbo, incarnandosi, vi rinunzia per la sua natura umana. – Un altro dubbio è questo: il greco (ἐκένωσεν ἑαυτόν = ekénosen eauton), come il latino exinanivit semetipsum, può avere un senso assoluto o un senso relativo. Preso assolutamente, si deve tradurre con « si annientò »; preso relativamente, sarebbe « si spogliò ». Il secondo significato è senza dubbio il più naturale; ma i commentatori domandano di che cosa si è potuto spogliare il Verbo. Non certamente della forma di Dio, poiché in qualunque ipotesi la forma è inerente alla natura e virtualmente identica ad essa; si sarà dunque spogliato dell’eguaglianza di trattamento e di onori? Non si rinunzia alla propria natura, ma si può rinunziare ai diritti che la natura conferisce. Conservando a queste due espressioni il loro valore preciso, noi otteniamo un senso di facile interpretazione e teologicamente esatto. – Insomma, la sola difficoltà seria consiste nello stabilire il rapporto dei due membri: Non rapinam arbitratus est esse se æqualem Deo: sed exinanivit semetipsum. La parola grecaρπαγμός (= arpagmos), come anche il latino rapina, può essere attiva o passiva; in altri termini, può significare latrocinio o preda. Generalmente i commentatori latini stanno al senso suggerito dalla Volgata: « Perché era nella forma di Dio, non considerò come u n furto l’eguaglianza con Dio; tuttavia si spogliò prendendo la forma di schiavo ». Il Verbo non poteva considerare come un’usurpazione l’essere uguale al Padre poiché, essendo nella forma di Dio, è consostanziale al Padre; tuttavia il giusto sentimento della sua grandezza non gl’impedì di spogliarsi. – La maggior parte dei greci, quelli almeno che espressero più chiaramente il loro pensiero, espongono in modo diverso il senso dei termini: « Perché Egli era nella forma di Dio, il Verbo non considerò l’eguaglianza divina come una preda o un bottino che si vuole serbare avidamente, per timore di venirne privato se si abbandona per un momento, ma al contrario se ne spogliò prendendo la forma di schiavo ». Come si vede, la differenza di punteggiatura esprime in modo sensibile la diversità delle due interpretazioni: nell’una vi è soltanto una frase subordinata il cui senso non è completo se non dopo l’ultimo membro; nell’altra gli incisi sono coordinati, e il primo membro dà un senso compiuto. Ma tutte e due affermano con la stessa precisione, che l’eguaglianza divina appartiene al Verbo per diritto naturale, e che Egli può rivendicarsela senza ingiustizia. Quando Ario insinuava che se il Cristo non si era abrogata l’eguaglianza divina, riconosceva di non averne diritto, tutti i Cattolici insorsero sdegnosamente contro quella perversa esegesi, ripresa ai nostri giorni da alcuni scrittori non ortodossi. – Dunque, sotto l’aspetto teologico, le due interpretazioni sono quasi equivalenti. Ma quattro ragioni principali ci fanno preferire quella di San Giovanni Crisostomo e del suo secolo: l’autorità dei Padri greci assai più in grado di apprezzare le esigenze della loro lingua; il contesto che ci fa aspettare una lezione di umiltà, anziché l’asserzione diretta della dignità del Cristo; il lessico che sembra imporre alla locuzione ρπαγμόν ἡγεῖσθαι (=arpagmon egheistai) questo senso determinato; finalmente la grammatica che viene meglio rispettata se si traduce ἀλλά (= alla) per « ma » anziché per « tuttavia ». In questa ipotesi, noi scomponiamo il pensiero di Paolo nei suoi momenti successivi: il Cristo preesistente nella forma di Dio, e perciò Dio, quando meditava di farsi uomo, non considerava gli onori divini ai quali aveva diritto, come un bene che dovesse conservare gelosamente. Al contrario, se ne spogliò volontariamente facendosi uomo, nascondendo la forma di Dio sotto la forma di schiavo. L’esempio di umiltà e di abnegazione non è tanto nella volontà del Verbo che decreta gli abbassamenti della vita mortale (poiché tale volontà è comune alle tre Persone divine) quanto nel fatto stesso dell’unione ipostatica. Dopo l’incarnazione, la volontà umana compie lo spogliamente, accetta la morte di croce con la vita di obbedienza e di rinunzia che la prepara e che da quella morte viene incoronata. Per questo — per tale atto di obbedienza e di umiliazione — Dio. proporzionando la ricompensa al merito, lo esalta senza misura e lo fa sedere alla sua destra.

2. Dal nostro testo mal compreso nacque la stravagante teoria della chenosi o spogliamento del Verbo fatto uomo. In fondo, la chenosi deve la sua prima origine alla difficoltà di concepire due nature complete unite in una sola e medesima Persona; o l’una delle due nature era assorbita dall’altra, oppure esse erano mescolate in modo da produrre una natura nuova, oppure una delle due era diminuita affinché, completata dall’altra, potesse formare con essa un tutto unico. A dire il vero, l’inventore è Ario, benché la parola non sia sua. Egli ammetteva nel Cristo tre parti: un corpo, un’anima irrazionale e il Verbo o Logos che suppliva l’anima ragionevole degli altri uomini. La natura umana del Cristo era dunque incompleta, e il Logos il quale non era né eterno né infinito né Dio nel vero senso della parola, non poteva diventare parte integrante di una natura finita, senza subire egli stesso qualche cambiamento. Così gli Ariani ammettevano che il Logos non era fisicamente immutabile, benché tale fosse moralmente, come incapace di peccare. Al contrario di Ario, Apollinare di Laodicea sostiene la piena divinità del Logos, ma, come Ario, fa del Logos il terzo elemento dell’unica natura del Cristo il quale dunque si compone di un corpo, di un’anima sensibile o principio vitale e del Logos che fa le funzioni di un’anima ragionevole. Per quanto egli protesti che in questa fusione il Verbo rimane immutabile, tutto il suo insegnamento e i paragoni che adopera, confutano la sua asserzione: il Cristo infatti, secondo lui, non è né interamente Dio né interamente uomo, ma una mescolanza di uomo e di Dio; come il mulo e qualche cosa tra il cavallo e l’asino, come il colore grigio è una mescolanza di bianco e di nero. Tutti i monofisiti, ammettendo la fusione delle due nature, dovevano fatalmente finire nello stesso errore, se non volevano cadere nel docetismo. – Due idee di Lutero contribuirono grandemente a stabilire la chenosi in seno al protestantesimo. Lutero sosteneva, contro l’opinione comune, che lo spogliamento di cui parla San Paolo, non doveva essere stato compiuto dalla volontà divina del Verbo, perché, diceva, il Verbo incarnandosi non si era potuto spogliare di se stesso. Egli inoltre intendeva la comunicazione degli idiomi in questo strano senso, che la natura umana del Cristo possiede realmente gli attributi della natura divina e, reciprocamente, la natura divina possiede gli attributi della natura umana. Gesù Cristo, in quanto nomo, sarebbe dunque onnisciente, onnipotente, immenso. I luterani ritornarono più tardi all’esegesi ordinaria e intesero il testo di San Paolo del Verbo medesimo; ma parecchi accettarono la conclusione che Lutero temeva — però a torto — cioè che il Verbo, spogliandosi, aveva dunque perduto qualche cosa della sua divinità. Non si tardò neppure a vedere che la comunicazione degli idiomi, nel senso di Lutero, era inammissibile, poiché l’umanità del Cristo non si può trovare dappertutto. Alcuni cercarono di salvare la dottrina del maestro, dicendo che l’umanità del Cristo possedeva bensì in diritto gli attributi della divinità, ma che li aveva nascosti facendone soltanto un uso occulto, oppure che se ne era volontariamente spogliata non volendosene servire. La maggior parte poi aggiungevano che gli attributi della natura divina si possono benissimo comunicare alla natura umana, ma non reciprocamente; facevano anche le loro riserve per l’ubiquità dell’umanità del Cristo, che è infatti inintelligibile. – I difensori moderni della chenosi stanno di preferenza sul terreno filosofico. Una certa filosofia identifica la Persona con la coscienza; la perdita della coscienza (del sentimento dell’io) equivarrebbe all’annientamento della persona. Due coscienze in un medesimo soggetto, sarebbero due persone. Non vi sono dunque nel Cristo una coscienza divina e una coscienza umana, ma vi è soltanto o una coscienza divina o una coscienza umana. Con questo principio è impossibile sfuggire alla chenosi, eccetto che si dica che l’umanità del Cristo è assorbita nella divinità. Tomasio, il teorico del sistema, vuole che la coscienza del Verbo sia divenuta una coscienza umana, capace di evoluzione e di progresso. Altri pensano che l’incarnazione consiste nel prendere il predicato uomo invece del predicato Dio, cessando di essere Dio (Hofmann). Oppure il Cristo ha cambiato l’io divino con un io umano, e vi è una cessazione momentanea della vita intima del Verbo, e così il Padre cessa di generare il Figlio e lo Spirito Santo non procede più che dal solo Padre (Gess). Parecchi, fermandosi all’eresia di Ario e di Apollinare, fanno fare al Verbo, nel composto umano, la parte dello spirito o principio intellettuale (Gaupp). In tutti questi casi, l’incarnazione per il Verbo si riduce alla perdita o alla diminuzione della forma divina. Se ai fautori di questo singolare sistema si oppone l’immutabilità di Dio, essi rispondono o che noi non sappiamo in che cosa consista l’immutabilità divina, oppure che Dio può fare tutto ciò che non è incompatibile col suo carattere morale, ossia con la sua santità. – Noi abbiamo detto in che cosa consiste, per il Figlio di Dio, lo spogliamento dell’incarnazione. Egli volle liberamente unirsi ad una natura sottoposta a limitazioni di ogni sorta. Vi sono anzitutto le limitazioni L’umanità del Cristo è creata, e per conseguenza è finita: infinita in dignità, come unita ipostaticamente ad una Persona divina, ma finita nella sua essenza e dotata di una perfezione che non esaurisce tutta la potenza divina; senza contare che essa non occupa neppure il grado più elevato nella scala degli esseri attuali. Vi sono pure le limitazioni di ordine economico, le quali si riferiscono al compito e all’uffizio di Redentore, nel disegno presente della Provvidenza: il Cristo doveva soffrire e morire prima di entrare nella gloria, e di conquistare con i suoi meriti un’esaltazione che gli apparteneva per diritto naturale. Vi sono ancora, ma non sappiamo in quale misura, le limitazioni volontarie. Non dimentichiamo che l’unione ipostatica, non influendo direttamente su la natura umana del Cristo, potrebbe non apportare nessun cambiamento fisico al corpo, all’anima, alle facoltà intellettuali della santa umanità; ed ecco qui un vasto campo lasciato alla rinunzia volontaria. Il Cristo volle nascere povero; si caricò spontaneamente dei nostri dolori e delle nostre infermità; conobbe le tentazioni e le angosce dell’agonia; si fece servo dei suoi fratelli adottivi; rinunziò soprattutto, per la sua esistenza terrena, agli onori divini che per diritto gli spettavano. Con questo spogliamento volontario operato nella sua santa umanità, il Verbo ha spogliato se stesso, poiché forma con l’umanità una sola Persona.

 

CATECHESI SACERDOTALE: AMARE IL NEMICO

Catechesi sacerdotale:

IL COMANDAMENTO DI AMARE IL NOSTRO NEMICO

Molte persone hanno la forte opinione che, “Dio non ci perdona nella Confessione finché non ci mostriamo contriti, e quindi, non penso che si debba perdonare una persona senza il suo pentimento”. – Cerchiamo di verificare se questa considerazione sia corretta nella sua seconda parte: “Non penso che dobbiamo perdonare una persona senza il suo pentimento”. – È importante distinguere tra il perdono che è dato da Dio ed il perdono che è richiesto dall’uomo, perché sono due azioni diverse. – Secondo Il “Catechismo Spiegato” del Rev. Francis Spirago, p. 621, “La confessione senza contrizione non ottiene il perdono divino”. – San Giovanni Crisostomo paragona l’uomo che va a confessarsi senza contrizione ad un attore in un’opera teatrale. “Inoltre, Dobbiamo prendere una risoluta decisione, cioè, dobbiamo fermamente determinarci, con l’aiuto di Dio, a desistere da ogni peccato, ed evitare le occasioni di peccato per il futuro. Lo scopo dell’emendamento è una parte essenziale della vera contrizione. (Concilio di Trento, XIV, 4). La risolutezza nel non peccare più, scaturisce dalla contrizione, cosi come l’acqua fuoriesce da una sorgente. Finché la volontà mantiene il suo attaccamento al peccato, né il peccato mortale né il peccato veniale possono essere rimessi.” – Tuttavia, quando parliamo di perdono tra le persone, nella pratica è una regola abbastanza diversa. “Ma io ti dico, ama i tuoi nemici, fa del bene a coloro che ti odiano e prega per quelli che ti perseguitano e calunniano” (Matth. V: 44). – Si può dire che sembri incredibile, ma Dio ci ha dato proprio il comandamento di amare i nostri nemici. Sono nostri nemici sì, ma li dobbiamo amare anche così. – Sì certamente, è molto buono se una persona che ci abbia offeso, alla fine fa un atto di contrizione e ci chieda perdono. Noi di conseguenza dobbiamo perdonare quella persona. Tuttavia, oltre ciò, dobbiamo perdonare una persona ancor prima del suo pentimento o anche senza che si sia pentita. Il perdono cristiano evidentemente non dipende dal pentimento esteriore manifestato da chi ci abbia offeso. – Il perdono cristiano dipende dalla giustizia e dalla misericordia di Dio. Per i non credenti ed i pagani questa è una sciocchezza. Ma per i Cristiani questa è la regola della perfezione, data a noi da Dio stesso. “A me la vendetta, sono io che ricambierò“. (Rm. XII:19), e “la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio.” “(Giac. II: 13). – In una parola dobbiamo perdonare i nostri nemici incondizionatamente. – “Tu hai udito che è stato detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io ti dico, ama i tuoi nemici, fa ‘del bene a quelli che ti odiano e prega per quelli che ti perseguitano e ti calunniano: affinché tu possa essere il figlio del Padre tuo che è nei cieli, che fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? [I pubblicani erano gli esattori delle tasse pubbliche, un gruppo di uomini, odiosi e infami tra gli ebrei, per le loro estorsioni e le ingiustizie.] E se saluti solo i tuoi fratelli, cosa fai di più di quanto non facciano anche i pagani? Sii perfetto, come anche il tuo Padre celeste è perfetto. “(S. MATTH. V: 43-48).

(THE HOLY BIBLE, DOUAY VERSION, TRANSLATED FROM THE LATIN VULGATE (DOUAY, A.D. 1609: RHEIMS, A.D. 1582) WITH A PREFACE BY H.E. THE CARDINAL ARCHBISHOP OF WESTMINSTER. THIS EDITION CONTAINS NOTES COMPILED BY BISHOP CHALLONER (1691-17810). IMPRIMATUR + BERNARDUS CARDINALIS GRIFFIN, Archiepiscopus Westmonasteriensis, Westmonasterii, die 14 Septembris 1955, PUBLISHED BY CATHOLIC TRUTH SOCIETY, LONDON, 1956).

Il Catechismo spiegato:

VIII. IL COMANDAMENTO DI AMARE IL NOSTRO NEMICO.

Noi chiamiamo nostro nemico colui che ci odia e cerca di farci del male.

Saul, per esempio, era un nemico di Davide. Possiamo affermare che solo amando i propri nemici si può amare il prossimo. Un grande incendio non si estingue ma è alimentato dal vento; quindi l’amore per il prossimo, se è reale, non viene distrutto, ma intensificato, da affronti e offese da parte degli altri. Se amiamo solo quelli che ci amano, non possiamo richiedere alcuna grande ricompensa (Mt. V, 46). Amiamo i nostri amici per il nostro bene, ma amiamo i nostri nemici per l’amor di Dio.

1. Dovremmo amare i nostri nemici perché è Cristo che ce lo comanda; Egli dice: “Ama i tuoi nemici, fa’ del bene a quelli che ti odiano, prega per quelli che ti perseguitano e che ti calunniano” (Mt. V. 44).

Cristo ci ha dato l’esempio più eclatante dell’amore per i nostri nemici, perché sulla croce pregava per i suoi nemici, e nell’orto degli ulivi ha guarito il servitore al quale Pietro aveva tagliato l’orecchio. Il nostro Padre celeste stesso ce ne dà un esempio, perché Egli fa sorgere il sole sul buono e sul malvagio, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Chi ama il suo nemico, quindi, è simile a Dio: è un vero figlio del suo Padre celeste (Mt. V, 45).

2. Un’altra ragione per cui dovremmo amare il nostro nemico è perché anche egli è stato creato secondo l’immagine di Dio, ed è uno strumento nelle sue mani.

Il nostro nemico è stato creato a somiglianza di Dio. L’effige del re impressa sulla moneta, merita ugualmente il rispetto sia che la moneta è di rame, sia che è d’oro; quindi siamo tenuti ad amare ed onorare l’immagine di Dio sia nell’uomo vizioso che in quello virtuoso. Non è il peccato che noi amiamo, bensì il peccatore. L’uomo è l’opera di Dio, il peccato è il lavoro dell’uomo; “perciò,” dice Sant’Agostino, “ama ciò che Dio ha fatto, non ciò che ha fatto l’uomo”. Dovremmo amare il nostro nemico anche perché Dio lo usa come suo strumento. Gli uomini malvagi, loro malgrado, sono strumenti nelle mani di Dio. “Come il medico impiega la sanguisuga per estrarre il sangue cattivo dalle vene del malato ed attuare così la sua cura, così Dio impiega i nostri nemici per rimuovere le nostre imperfezioni” (San Gregorio Magno). “Il male forma il bene, come il fuoco ed il martello forgiano il ferro: sono per loro come l’aratro del terreno incolto” (San Giovanni Crisostomo). Sono inoltre a nostro servizio, perché ci fanno riconoscere i nostri difetti, dandoci l’opportunità di praticare la virtù. I nemici sono come le api; pungono, ma producono pure il miele. Quando la calunnia ti assale, consolati con il pensiero che non sono i frutti peggiori che le vespe divorano. Infine ricorda che nessun nemico può veramente ferire chi ama Dio, del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno (Rm VIII, 28). Questo è dimostrato nella vita di Giuseppe. La verità ti insegnerà a sopportare la persecuzione.

L’amore del nostro nemico è mostrato da questo: che non ci vendichiamo di lui da noi stessi, che rendiamo invece il bene per il male, che preghiamo per lui e lo perdoniamo volentieri.

3. Non dovremmo vendicarci del nostro nemico. Davide ce ne dà un bell’esempio, poiché per due volte ha avuto la possibilità di mettere a morte il suo persecutore, il re Saul, e in nessuna occasione gli ha fatto alcun male. Nostro Signore, quando fu oltraggiato, non rispondeva con oltraggi (1 Piet. II. 23). Una volta, quando Cristo non era stato accolto in un villaggio samaritano perché era ebreo, gli Apostoli erano così desiderosi di vendicarsi che volevano invocare il fuoco dal cielo. Ma il Signore li sgridò dicendo: “Nescitis cujus spiritus estis” (non sapete a quale spirito appartenete) (Luca IX, 55). La vendetta appartiene a Dio, non a noi (Rm XII 19). – Dovremmo soffrire di torto piuttosto che vendicarci; ci viene detto: a colui che ti colpisce una guancia, tu offri l’altra (Luca, 29). “Non essere sopraffatto dal male, ma sconfiggi il male con il bene” (Romani XII, 21). Vendicati, come hanno fatto i santi, restituendo benefici per il male che ti hanno fatto; tale è la vendetta divina. Santo Stefano pregò per i suoi uccisori; era più addolorato per il danno che avevano fatto a se stessi che per il danno che gli stavano facendo. Quando l’apostolo Giacomo, vescovo di Gerusalemme, fu gettato dalla sommità del tempio, si sollevò sulle sue ginocchia fratturate per pregare per i suoi assassini. Dovremmo quindi anche noi essere pronti a perdonare i nostri nemici. Il re Davide perdonò Semei quando gli lanciò pietre contro e lo maledì (2 Re xvi.10). Fare del bene al proprio nemico è una prova di grande magnanimità.

Colui che non si vendica del suo nemico, o che addirittura gli conferisce benefici, mette il suo nemico in imbarazzo e lo tranquillizza, e sarà ricompensato da Dio; mentre chi odia il suo nemico e si vendica di lui, commette peccato.

David risparmiando Saul in due diverse occasioni lo ha placato e toccato a tal punto che ha versato lacrime (1 Re XXIV, 17). Il beato Clemente Hofbauer, vittima di un abuso da parte di una donna nelle strade di Vienna, le si avvicinò, prese un fazzoletto che ella aveva lasciato cadere e le parlò gentilmente. Ella si coprì di confusione e si ritirò in fretta. Proprio come il tarlo, morbido com’è, si fa strada attraverso il legno più duro, così uno spirito conciliatore supera il nemico più acerrimo e il calunniatore più agguerrito. “Conferendo benefici al tuo nemico, accumulerai carboni ardenti sul suo capo” (Rm XII. 20), cioè questi non potrà resistere alla tua gentilezza così come non potrà resistere al bruciare dei carboni ardenti. Così ci viene insegnato ad essere gentili e pacifici. Colui che non si vendica sarà ricompensato da Dio. Davide sopportò pazientemente le maledizioni di Semei, dicendo: “Forse il Signore considererà la mia afflizione e potrebbe rendermi del bene per le offese subite in questo giorno” (2 Re XVI 12). Poco dopo ottenne una significativa vittoria. “È difficile per te pregare per il tuo nemico; ma più grande è la conquista di te stesso, maggiore sarà la tua ricompensa” (Sant’Agostino). Vendicarsi è un peccato; chi fa questo è come l’ape, che si vendica pungendo, ma nel farlo muore. Pertanto è una cosa folle vendicarsi da se stessi; è come il cane che morde il bastone con cui viene battuto, dimenticando che il nostro nemico non è che uno strumento nelle mani di Dio.

4. Colui che perdona il suo nemico otterrà il perdono dei suoi peccati da Dio; ma colui che non perdonerà il suo nemico, Dio, non lo perdonerà.

Perdonare il nemico è un’opera di misericordia, è la più grande di tutte le elemosine (Sant’Agostino). Se perdoniamo agli altri, possiamo chiedere perdono per noi stessi, come è espresso nella quinta petizione della “orazione” del Signore. Dio mostra misericordia a colui che perdona volentieri a suo fratello. Colui che non perdona il proprio fratello non attira su di sé nessuna benedizione, quando recita il Padre nostro. Cristo dice: “Se non perdonerai agli uomini, neppure il tuo Padre celeste ti perdonerà le offese” (Mt. VI. 15). Ricorda la parabola del servo non misericordioso (Matt, XVIII, 23). Non dobbiamo semplicemente perdonare sette volte, ma settanta volte sette (v. 22).

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(Email di un gruppo pastorale)

Le anime che sono morte possono essere convertite?

Caro Fedele,

probabilmente hai ascoltato una voce che oggi viene messa in giro: “Le anime che sono morte possono essere convertite, anche attraverso le nostre preghiere recitate oggi!” – Credo che tu possa comprendere facilmente come questa opinione sia completamente errata.

Ed alcuni di voi allora hanno insistito: “Ma è mai vero? Come può essere? ”

La risposta è molto semplice: la conversione delle anime dopo la morte è impossibile!

Esaminiamo innanzitutto cosa ci dice la Parola di Dio:

Nella parabola del ricco Epulone e di Lazzaro, leggiamo [Luc. XVI, 19-31]:

“Egli era un certo ricco, il quale si vestiva di porpora e di bisso e faceva tutti i giorni sontuosi banchetti lautamente. Ed era un certo mendìco per nome Lazzaro, il quale pieno di piaghe giaceva all’uscio di lui, bramoso di satollarsi dei minuzzoli che cadevano dalla mensa del ricco e niuno gliene dava; ma i cani andavano a leccargli le sue piaghe. Or avvenne che il mendìco morì, e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto nell’inferno; ed alzando gli occhi suoi, essendo ne’ tormenti, vide da lungi Abramo e Lazzaro nel suo seno; esclamò e disse: Padre Abramo, abbi misericordia di me, e manda Lazzaro che intinga la punta del dito nell’acqua per rinfrescar la mia lingua, imperocché io son tormentato in questa fiamma. E Abramo gli disse: Figliuolo, ricordati che tu hai ricevuto del bene nella tua vita e Lazzaro similmente del male; adesso egli è consolato e tu sei tormentato.  E oltre a tutto questo, un grande abisso è posto tra noi e voi; onde chi vuol passare di qua a voi, nol può, né da codesto luogo tragittare fin qua. Ed egli disse: ed io ti prego dunque, o Padre, che tu lo mandi a casa di mio padre; imperocché io ho cinque fratelli, perché gli avverta di questo, acciocché non vengano anch’essi in questo luogo di tormenti. E Abramo gli disse: Eglino hanno Mosè e i Profeti; ascoltino quelli. Ma egli disse: No, padre Abramo; ma se alcun morto anderà ad essi, faranno penitenza. Ed ei gli disse: se non ascoltano Mosè e i Profeti, nemmeno se risuscitassi uno da morte crederanno.”. – [Il seno di Abramo è il luogo di riposo, dove vivevano le anime dei santi, finché Cristo non avesse aperto il cielo con la sua morte e resurrezione]

Veniamo poi alla descrizione dell’ultimo giudizio. (S. Matteo, XXV: 31-46) “… e anderanno questi all’eterno supplizio; i giusti poi alla vita eterna”.

LA SACRA BIBBIA, VERSIONE DOUAY, Tradotta dalla Vulgata latina (DOUAY, dC 1609 RHEIMS, dC 1582) con prefazione di LA H.E. Cardinale Arcivescovo di Westminster. QUESTA EDIZIONE CONTIENE NOTE COMPILATE DAL VESCOVO CHALLONER (1691-1781). IMPRIMATUR + BERNARDUS Cardinalis GRIFFIN, Archiepiscopus Westmonasteriensis, Westmonasterii, die 14 septembris 1955 pubblicati dalla Catholic Truth Society, Londra 1956.

(Versione italiana del Card. A. Martini.)

LA SACRA DOTTRINA è la seguente:

 

D. 1371. Quando Cristo ci giudicherà?

R. Cristo ci giudicherà subito dopo la nostra morte e nell’ultimo giorno.

1372. Come è chiamato il giudizio alla morte?

R. Tale giudizio è chiamato: giudizio particolare.

1373. Dove si terrà il giudizio particolare?

R. Il giudizio particolare si terrà nel luogo in cui ogni persona muore, e da qui poi l’anima andrà alla sua ricompensa o al castigo.

1374. Qual è il giudizio che tutti gli uomini dovranno subire nell’ultimo giorno?

R. È quel giudizio che è chiamato giudizio universale.

1375. È possibile che nel giudizio universale sia cambiata la sentenza?

R. La sentenza emessa al giudizio particolare non sarà per nulla modificata al giudizio universale, ma sarà anzi confermata e resa pubblica a tutti.

1376. Perché Cristo giudica gli uomini subito dopo la morte?

R. Cristo li giudica immediatamente dopo la morte, per ricompensarli delle loro azioni.

1377. Come possiamo prepararci quotidianamente al nostro giudizio?

Possiamo prepararci quotidianamente al nostro giudizio con un buon esame di coscienza, mediante il quale scopriremo i nostri peccati e impareremo a temere la punizione che essi meritano.

1378. Quali sono le ricompense o i castighi per le anime degli uomini dopo il giudizio particolare?

I premi o i castighi per le anime degli uomini dopo il Giudizio particolare sono detti: Paradiso, Purgatorio e Inferno.

1379. Che cos’è l’inferno?

L’inferno è uno stato in cui i malvagi sono condannati e in cui sono privati ​​della vista di Dio per l’eternità e sono in terribili tormenti.

D. 1380. I dannati soffriranno sia nell’anima che nel corpo?

R. I dannati soffriranno sia nell’anima che nel corpo, perché sia ​​l’anima che il corpo condividono i loro peccati. L’anima subisce il “dolore della perdita” per cui è torturata dal pensiero di Dio che ha perso per sempre, mentre il corpo soffre la “pena del senso” con la quale viene torturato in tutte le sue membra e nei sensi.

D. 1381. Che cos’è il Purgatorio?

R. Il Purgatorio è lo stato in cui soffrono per un certo tempo coloro che muoiono colpevoli di peccati veniali, o senza aver soddisfatto con la penitenza dovuta per i loro peccati.

D. 1382. Perché questo stato è chiamato Purgatorio?

R. Questo stato è chiamato purgante perché qui sono epurati o purificati da tutte le loro macchie; e non è, quindi, uno stato permanente o duraturo per l’anima.

D. 1383. Le anime del Purgatorio sono sicure della loro salvezza?

R. Le anime del Purgatorio sono sicure della loro salvezza, ed entreranno in cielo non appena completamente purificate e divenute degne di godere della presenza di Dio che si chiama la visione beatifica.

D. 1384. Sappiamo quali anime ci sono nel Purgatorio e per quanto tempo devono rimanere là?

R. Noi non sappiamo quali siano le anime del Purgatorio, né per quanto tempo debbano rimanere lì; da qui continuiamo a pregare per tutte le persone che sono morte apparentemente nella vera fede e libere da peccato mortale. Essi sono chiamati i fedeli defunti.

D. 1385 I fedeli sulla terra possono aiutare le anime del Purgatorio?

R. I fedeli sulla terra possono aiutare le anime del Purgatorio con le loro preghiere, i digiuni, le elemosine, le opere; con le indulgenze, e facendo celebrare Messe per loro “.

IL CATECHISMO DELLA DOTTRINA CRISTIANA

PREPARATO E  RACCOMANDATO PER ORDINE DEL

TERZO CONCILIO PLENARIO DI BALTIMORA

(in conformità con la nuova legge canonica)

№ 3

FORNITO DA REV. THOMAS L. KINKEAD

Autore di “An Explanation of the Baltimore Catechism”

imprimatur:

JOHN CARDINAL McCLOSKEY, Arcivescovo di New York.

New York, 6 aprile 1885.

+ JAMES GIBBONS, Arcivescovo di Baltimora, Delegato Apostolico.

Baltimora, 6 aprile 1885

Nihil obstat:

REV. LAFORT RIGIOSA, S.T.L., Censor Librorum.

imprimatur:

+ MICHAEL AUGUSTINE, Arcivescovo di New York.

New York, 21 febbraio 1901

Nihil obstat:

ARTHUR J. SCANLAN, S.T.D., Censor Librorum.

imprimatur:

+ PATRICK J. HAYES, D.D., Arcivescovo di New York.

New York, 29 giugno 1921.

Copiright, 1901, di T. L. KINKEAD.

Copiright, 1921, di BENZINGER BROTHERS.

LEZIONE TREDICESIMA – SETTIMA.

SULL’ULTIMO GIUDIZIO E RISURREZIONE,

INFERNO, PURGATORIO E PARADISO

[versione italiana in: www. exsurgatdeus.org]

Quindi, secondo l’insegnamento di nostro Signore Gesù Cristo e gli insegnamenti della Chiesa, non possiamo cambiare la sentenza. I Cattolici pregano solo per le anime del Purgatorio, e solo questo è il fine delle preghiere per le anime dei defunti.

Le preghiere fatte per le anime che si trovano in Paradiso o nell’Inferno sono inutili, poiché lo stato delle anime in Paradiso o nell’Inferno è immutabile, perenne.

Inoltre, alcuni di voi chiedono: “Possiamo pregare per le anime dei parenti che sono stati battezzati in comunità non cattoliche e che sono morti fuori dalla Chiesa Cattolica?”

Questa è una domanda molto importante, perché quasi ogni Cattolico ha parenti  morti fuori  dalla Chiesa Cattolica.

Bisogna dire che la conversione è possibile solo prima della morte del corpo.

Quindi, la conversione è possibile che avvenga su un letto di morte. Avendo una piccola speranza che i battezzati non Cattolici si siano sinceramente pentiti all’ultimo momento della loro vita, possiamo pregare per le loro anime, allo stesso modo che per le anime del Purgatorio.

Ma ci sono due differenze.

№1. Per le anime dei defunti Cattolici, possiamo pregare in privato ed in pubblico.

№2. Per le anime dei battezzati non Cattolici possiamo solo pregare in privato. Possiamo cioè pregare “a condizione”, e presumendo che “siano nel Purgatorio”.

Le Messe private per i battezzati non Cattolici sono consentite, ma non si dichiarano i loro nomi.

Un’altra domanda sul giudizio particolare – “Cosa significa immediatamente dopo la nostra morte“?

La risposta è: “La morte non segue immediatamente dopo che sia stato dato l’ultimo respiro”- Quindi, una persona apparentemente morta, può essere assolta condizionatamente secondo le condizioni precedenti.

Poiché, secondo le scoperte della scienza, la morte non segue immediatamente dopo l’ultimo respiro, in caso di morte improvvisa, l’assoluzione può ancora essere impartita fino a due (o più) ore dopo la cessazione della respirazione.

Nel dubbio se la persona sia Cattolica o no, l’assoluzione può essere data condizionatamente.

N.B. poiché non si può sapere con certezza se una persona sia realmente o solo apparentemente inconscia, il prete dovrebbe parlare a tale persona, informandolo sul Sacramento che sta per amministrare. Inoltre, il sacerdote dovrebbe recitare con lui l’atto di fede, speranza, carità e contrizione.

[Teologia morale, di Rev. Heribert Jone, O.F.M. CAP., J.C.D., di Rev. Urban Adelman, O.F.M. CAP., J.C.D. The Mercier Press Limited, Cork, Irlanda

Nihil Obstat: PIUS KAELIN, O.F.M. CAP., Censor Deputatus

Potest Print: VICTOR GREEN, O.F.V. CAP., Provinciale

2 luglio 1955

Nihil Obstat: RICHARD GINDER, S.T.I., Censor Librorum

Imprimatur: JOHN FRANCIS DEARDEN, D.D., vescovo di Pittsburg

15 agosto 1955

Pagina 394. IL DESTINATARIO DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA, Articolo I.

Stampato negli Stati Uniti d’America

[In italiano: Pag. 468 del “Compendio di Teologia morale” di E. Jone 1951, 3° Ed. Marietti ed.]

La teologia morale dice così di una persona la cui anima è ancora nel corpo, anche se la respirazione è cessata. In altre parole, una tale persona non è morta, ma in realtà vive ancora.

Allo stesso modo, possiamo pregare per la conversione delle anime solo in situazioni simili, quando le anime e i corpi cioè sono ancora uniti. Ma dal momento stesso in cui un’anima lascia un corpo, le nostre preghiere sono impotenti ed inutili, perché “il giudizio emesso al giudizio particolare  non sarà cambiata”.

Inoltre si sappia che la Chiesa Cattolica non prega per coloro che non siano battezzati, salvo che si convertano col Battesimo di desiderio e, immediatamente dopo la conversione, siano morti senza Battesimo d’acqua. Non possiamo pregare quindi per la conversione delle anime dopo la morte del loro corpo. Possiamo per loro pregare solo in privato premettendo la condizione: “… se sono nel Purgatorio”.

La Chiesa non prega per i bambini che non hanno commesso peccato e che, senza loro colpa, muoiono senza Battesimo. Queste anime sono nel Limbo.

La Chiesa non ha pregato nemmeno per le anime di coloro che non hanno ricevuto il Battesimo di acqua, ma che hanno ricevuto il Battesimo di sangue per la fede di Cristo. Il Battesimo di sangue è comunemente chiamato “martirio”, e coloro che lo ricevono sono chiamati martiri.

Il catechismo n.3 di Baltimora insegna:

653: “Il battesimo del desiderio o del sangue è sufficiente per produrre gli effetti del battesimo dell’acqua?

Il battesimo del desiderio o del sangue è sufficiente per produrre gli effetti del battesimo dell’acqua, qualora sia impossibile ricevere il Battesimo dell’acqua.

Il Catechismo Spiegato dice:

“Il martirio per Cristo è il Battesimo del sangue. Questi santi innocenti lo hanno ricevuto, e pertanto la Chiesa li commemora come santi. Tutte le persone non battezzate che subiscono il martirio per la fede cristiana, per qualche atto di virtù cristiana o per l’adempimento del dovere cristiano, ricevono anche il Battesimo di sangue. Testimone San Giovanni Battista; o S. Emerenziana, che, pur essendo ancora una catecumena, fu trovata dai pagani che pregava sulla tomba di Sant’Agnese e fu messa a morta. La Chiesa non prega per i battezzati che sopravvivono alla morte per Cristo; poiché Egli stesso dice: “Chi ha perso la sua vita per Me, la troverà” (Mt. X, 39).

(Catechismo Spiegato, dall’originale di Rev. Francis Spirago, professore di teologia,

A cura di Rev. Richard F. Clarke, S.J.

Nihil Obstat: Arthur J. Scanlan, S.T.D. Censor Librorum,

Imprimatur: + Patrick J. Hayes, D.D. Arcivescovo di New York.

New York, 18 ottobre 1921,

Copyright 1899, 1921 di Benzinger Brothers, New York.

  1. 580-581).)

Inoltre, ci sono due esempi eccellenti della Sacra Scrittura; i Santi Innocenti uccisi da Erode (Battesimo di sangue), San Matteo II: 16-18, e il ladro sulla croce S. Disma (San Luca, Battesimo del desiderio). XXIII: 39-43.

Per concludere dunque: “Le anime che sono morte possono essere convertite?”

La parola di Dio e la Chiesa dicono: “No.”

Un Sacerdote Cattolico

(Trad. G. D. G.)

LO SCUDO DELLA FEDE (XXX)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXX.

LA DOTTRINA DI GESÙ’ CRISTO.

Gesù. Cristo ebbe una vera, dottrina. — Fu tutta sua propria. — È dottrina divina. — Ha operato i più meravigliosi effetti.

— Gesù Cristo per salvarci, oltre alla sua incarnazione, passione e morte, ha Egli fatto qualche cosa d’altro?

Sì, senza dubbio. Egli ha predicato la sua celeste dottrina, ha istituito i suoi Santi Sacramenti, ed ha fondata la sua Chiesa. Ed anzitutto ha predicato la sua celeste dottrina.

— Ma io ho inteso dire che Gesù Cristo una vera dottrina nel vero senso della parola non l’abbia né avuta né predicata giammai, ma che in quella vece quella dottrina, che oggi ci propone a credere e seguire la Chiesa, come opera di Gesù Cristo, siasi formata a poco a poco per opera degli Apostoli, dei Padri, dei Dottori, dei Pontefici, dei filosofi cristiani, in una parola per opera degli uomini.

Lo so, fra le tante trovate del razionalismo moderno c’è anche questa. Ma non è meno falsa di tante altre: lo dimostra il più volgare buon senso. Poni ben mente. Tu sai che il quadro della Trasfigurazione, che si conserva a Roma in Vaticano, forma il capolavoro di Raffaello. Or supponi che ci fossero di coloro, che ci volessero dare ad intendere, che non è già il celebre Urbinate quegli che lo ha fatto, ma che in quella vece è una moltitudine di pittori diversi, i quali a poco a poco, l’uno dopo l’altro hanno dato sulla tela ciascuno alcune pennellate, donde alfine n’è uscito quella grande meraviglia.

— Ci metteremmo a ridere. Che così possa essere stato fatto un quadro qualunque pieno di sgorbi, passi, ma che così sia stato fatto il quadro della Trasfigurazione è impossibile.

Dici benissimo. Qualsiasi quadro nel quale apparisca unità, armonia, bellezza, mostra una stessa intelligenza, che l’ha concepito ed una stessa mano che l’ha dipinto, e quando pure, come accadde pel quadro della Trasfigurazione non finito a tempo da Raffaello, un’altra mano vi entrasse, non tornerebbe difficile a scoprirla. Or bene la dottrina di Gesù Cristo è come un quadro perfettissimo, un disegno a cui nulla manca, un complesso di verità, che si compenetrano tra di loro come i colori di una magnifica tela e formano un’ammirabile unità. Giacché in questa dottrina tutto mira a farci riconoscere che Gesù Cristo è Figliuolo di Dio, incarnatosi e fattosi uomo per operare la nostra salute, e a questo dogma fondamentale e centrale fanno capo, e per questa raggiano tutte le altre verità e dogmatiche e morali. – Or come sarebbe possibile che questa dottrina così perfetta, così unita, che non ha che un unico scopo, sia l’opera lenta e graduata di molti? non già di quel solo Gesù Cristo, da cui la Chiesa appoggiata alle più irrefragabili testimonianze la riconosce?

— Ma è vero quanto lei mi dice che nella dottrina di Gesù Cristo ci sia un complesso di verità unite fra di loro? Io ho sempre creduto che nel Vangelo non vi fossero che insegnamenti sparsi qua e là, e staccati gli uni dagli altri.

Certamente Gesù Cristo non formulò Egli in termini né un simbolo, né un codice morale; il piano della sua dottrina non si manifesta in un metodo conforme a quello che sono soliti ad usare gli uomini nell’ammaestrare; nel suo insegnamento non vi ha la prefazione che previene il lettore, né la distribuzione delle materie che solleva l’intelligenza, né  l’ordine, la concatenazione ed il progresso che fanno vedere l’unità dell’opera; ma con tutto ciò è certissimo che il simbolo ed il codice morale, che la Chiesa ci propone a credere e seguire, sono racchiusi negli insegnamenti di Gesù Cristo; che tutti gli insegnamenti suoi sono tra di loro collegati, ordinati e dipendenti gli uni dagli altri per guisa da non essere difficile a qualsiasi uomo dotato di un po’ d’intelligenza e di buona volontà scoprire una vera dottrina e rilevare l’impronta della più alta sapienza.

— Chi sa tuttavia se Gesù Cristo abbia creduto ed inteso Egli propriamente di insegnare agli uomini una speciale dottrina?

Non se ne può avere il minimo dubbio. Leggendo il Santo Vangelo si trova ad ogni tratto che Gesù Cristo parla della sua dottrina, de’ suoi precetti, delle verità, alle quali è venuto a rendere testimonianza, e della fede che devesi dare alla sua parola.

— E questa dottrina, che Gesù Cristo chiama sua, è veramente originale? tutta sua propria?

Sì, essa è veramente tale ; a Lui, ed a Lui solo interamente, appartiene. Ed in vero chi mai tra i savi antichi diede insegnamenti somiglianti a quelli di Gesù Cristo, per esempio riguardo a Dio, alla sua bontà, alla tenerezza del suo amore paterno per noi, alle tre Persone perfettamente eguali, Padre, Figliuolo, Spirito Santo, che sono in Dio? Chi apprese agli uomini come Lui ad adorare Iddio in ispirito e verità, e ad implorarne i favori con un’orazione, che sebbene brevissima, contiene nondimeno tutto ciò che dobbiamo sperare e domandare da Dio, al quale vi si volge il più dolce dei nomi, quello di Padre? Chi, come Gesù Cristo, diede la vera nozione del bene e del male ? Ohi al par di lui fece conoscere in che propriamente consista la virtù? Chi rivelò, come Egli fece, la vera dignità e libertà dell’uomo? Chi die’ precetti simili ai suoi, riguardo alla carità, al perdono delle offese, alla dilezione dei nemici, all’universal fratellanza, all’abolizione d’ogni schiavitù, all’unità e indissolubilità del matrimonio, alla castigazione del corpo, all’obbedienza della civile autorità? Qual Savio eruppe come Gesù Cristo in queste esclamazioni: « Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno de’ cieli; beati i mansueti perché possederanno la terra; beati i mondi di cuore perché vedranno Dio; beati coloro che piangono perché saranno consolati; beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati; beati i misericordiosi perché troveranno misericordia, beati quelli che sono odiati, calunniati, perseguitati, perché di essi è il regno dei cieli ! » Chi mai disse questo? Nessuno, nessuno mai.

— Ma nella dottrina di Gesù Cristo non si trovano altresì tanti insegnamenti che già vi erano nei libri degli Ebrei e che alcuni Savii dell’antichità avevano dati?

E che perciò?

— Non si potrebbe inferire che Egli la sua dottrina la tolse da quei libri e da quei Savii?

Già è vero: taluni dei saputi moderni non potendo negare che Gesù Cristo ebbe una dottrina, asseriscono che Egli la tolse in gran parte dai libri ebraici e dai savii dell’antichità, e che però la sua dottrina non ha nulla di nuovo. Ma vorrebbero dunque costoro che Gesù Cristo per essere originale nei suoi insegnamenti avesse rigettate quelle verità, che Iddio fece rifulgere al popolo ebreo ed agli stessi Gentili? Se Egli stesso era Dio, poteva Egli mettere da banda ciò che come Dio aveva rivelato e fatto conoscere agli uomini prima di incarnarsi? Non solo non poteva, ma ponendo nella sua dottrina certe verità già rivelate al popolo ebreo e conosciute dagli stessi Gentili, Egli non fece altro che appropriarsi legittimamente di ciò, che da tutta la eternità gli apparteneva, e che lungo il corso dei secoli aveva agli uomini comunicato. Ma pur ponendo nella sua dottrina queste verità, quante altre ne proclamò interamente nuove! Egli fu propriamente quello scriba dotto che a somiglianza del padre di famiglia trae fuori dal suo tesoro cose nuove e vecchie.

— Ma se è certo che la dottrina di Gesù Cristo si mostri originale e tutta sua propria, è certo del pari che si manifesti divina? Oppure la si chiama così solo perché si eleva al di sopra delle dottrine di altri grandi maestri dell’umanità?

“No, caro mio: la dottrina di Gesù Cristo non si chiama divina soltanto per esprimere la sua singolare bellezza, come ad esempio gli antichi dissero divini gli insegnamenti di Platone. – Si chiama divina perché è propriamente la dottrina di un Dio, e tale si manifesta.

— E da che cosa si manifesta la dottrina di un Dio?

Da tre cose massimamente:

1° Dal modo, con cui Gesù Cristo ce l’apprese. Egli disse: « Da Dio sono uscito e sono venuto, poiché non sono venuto da me stesso, ma Egli mi ha mandato, e quegli che da Dio è stato mandato parla parole di Dio. La mia dottrina è celeste: Io sono la luce, la via, la verità, e la vita. Le parole che Io vi parlo sono spirito e vita »: e in conformità a tale asserzione Egli parlò con sicurezza, con precisione di linguaggio, disdegnando gli umani argomenti. Ad ogni tratto dalle sue labbra uscirono fuori queste espressioni al tutto proprie di Lui: « In verità, in verità vi dico — Io, vel dico Io, che parlo — Credete alla mia parola — Fate così — Lasciate questo ». Insomma Egli affermò sempre e concluse con l’autorità d’un maestro supremo, che non sente al di sopra di sé alcun giudice, che non tollera discussioni, che non teme smentite; e così appunto insegnava. Gesù Cristo, perché era Dio.

2° Dalla perfezione, che in tale dottrina si trova. In essa non manca nulla, o per lo meno i mancamenti non sono che apparenti, giacché dai principii, che essa ha, si possono cavare tutte le conseguenze relative al conoscimento di Dio, di Gesù Cristo, dell’opera sua, dell’uomo, dei nostri doveri, eccetera. Ed oltre al non mancarvi nulla, è sempre esatta, precisa, sicura, senza il più piccolo sbaglio, il minimo errore. Così che coloro che l’accettano e la seguono fedelmente si elevano a giustizia e perfezione eroica e si fanno santi. E produrre tale effetto non lo può che una dottrina divina.

3° Dalla sua comunicazione a tutti i paesi e a tutti i secoli fino alla fine del mondo. E ciò senza che sia avvenuta o possa avvenire in tale dottrina, la minima alterazione, giacché anche oggi si insegna ciò che Gesù Cristo ha insegnato, e quel che si insegna qui nella nostra Italia è ciò che s’insegna anche nella landa più inospitale della terra, purché vi giunga l’apostolo di Gesù Cristo. Nessun’altra dottrina di nessun savio, di nessun dottore per quanto grande, ha ottenuta una tale ventura. Che anzi forse non vi è stato mai dottore alcuno, che abbia avuto in cuore tale aspirazione per la sua dottrina, e se pure vi fu chi l’abbia avuta, certamente nessuno mai ha osato di esprimerla. – Gesù Cristo al contrario pur predicando la sua dottrina tra gli stretti confini della Giudea, vide profeticamente questa dottrina spargersi per tutto il mondo, e ciò che egli vide lo annunzio chiaramente dicendo che la sua parola era un piccolo seme, che sarebbe diventato un albero immenso da coprire tutta la terra. E così realmente avvenne. La dottrina di Gesù Cristo dapprima per mezzo degli Apostoli, poscia per mezzo dei loro successori si sparse, continua e continuerà a spargersi sino agli estremi confini della terra e attraverso a tutte le età. E ciò non altrimenti avviene, se non perché si tratta della dottrina di un Dio!

— E la dottrina di Gesù Cristo ha essa realmente prodotto nel mondo gli effetti, cui il suo Autore mirava!

Sì, senza dubbio. Di mano in mano che si andò predicando e riuscì a penetrare nell’animo degli uomini, si andò eziandio rinnovando la faccia della terra. Per essa caddero a terra i templi e gli altari degli dèi falsi e bugiardi, cessarono gli orrendi sacrifici di vittime umane, si ammansò la ferocia dei popoli barbari e selvaggi, scomparvero le orge invereconde, gli spettacoli di sangue e i tanti altri obbrobri, di cui era contaminato il mondo. Per essa fu disvelata la inanità, l’assurdità e l’errore della filosofia pagana, e fu mostrata nella più viva luce la verità, la bellezza e la forza della Religione Cristiana. Per furono riprovati i delitti, i vizi, le ingiustizie, le discordie di ogni maniera, e tutti gli uomini, di ogni sesso, di ogni età, di ogni condizione vennero addottrinati intorno al vero Dio, al culto che gli è dovuto, alle verità che Egli ha rivelate, e che bisogna credere, alle virtù che ci ha insegnate e che bisogna praticare. Ed ecco sorgere templi ed altari al solo Dio Creatore e Redentor del mondo, ed ivi accogliersi i credenti per rendere a questo Dio gli omaggi dovuti alla sua Maestà: ecco gli uomini, mitigati i loro costumi, sedate le loro civili discordie, piegatisi alla legittima autorità, divenuti come altrettanti fratelli, far sottentrare nel loro animo all’egoismo la carità, alla sfrenata lussuria la fuga dei carnali diletti, al furore della vendetta la volontà del perdono, alla superbia l’umiltà, all’avarizia la liberalità, all’iracondia la mansuetudine; ecco insomma prodigiosi mutamenti d’ogni maniera compiutisi in ogni tempo e da per tutto dal primo dì che cominciò ad intendersi la dottrina di Gesù Cristo fino a noi, e che si compiranno ancor sempre e da per tutto sino alla fine del mondo, essendo volontà espressa di Dio, che sino alla fine del mondo gli uomini per mezzo della predicazione di questa dottrina vengano alla cognizione della verità.

— Ciò è veramente ammirabile, e chiaro apparisce essere opera divina.

CONOSCERE SAN PAOLO (17)

CONOSCERE SAN PAOLO (17)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LIBRO QUARTO.

La prigionia.

Le Epistole della prigionia.

CAPO II.

II. IL PRIMATO DEL CRISTO.

1. TITOLI E FUNZIONI DEL CRISTO. — 2. CAPO DEGLI ANGELI; — 3. IN LUI RISIEDE LA PIENEZZA O PLEROMA.

1. Gli errori dei Colossesi obbligavano l’Apostolo a restituire a Gesù Cristo, col suo vero posto accanto al Padre, il suo compito nella creazione del mondo e nella vita della Chiesa. “Dio ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio prediletto nel quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Questo Figlio è immagine del Dio invisibile. Primogenito di tutte le creature, perché in Lui tutto è stato creato in cielo e su la terra, le cose visibili e le invisibili, e i troni, e le dominazioni, e i principati e le potestà. Tutto è stato creato per mezzo di Lui e per Lui; ed Egli esiste prima di tutte le cose, e tutte le cose sussistono in Lui. Ed Egli è il capo del corpo, della Chiesa; Egli che è il principio, il primogenito dei morti, affinché abbia il primato in tutto” (Col. I, 14-20). San Paolo, secondo la sua abitudine, accumula sopra il Cristo, senza curarsi di quello che noi potremmo chiamare ordine cronologico, tutti i titoli che gli appartengono per ragione delle sue due nature. Egli, come pure San Giovanni, non è disposto a dividere il Cristo. Nella sua vita anteriore, il Cristo è l’immagine di Dio, il primogenito, il creatore, il conservatore, il fine di tutte le cose: nella sua vita umana Egli è il primogenito dei morti, il capo del corpo mistico, il redentore degli uomini e il pacificatore universale; in tutte e due le vite Egli è il Figlio prediletto, il fine delle creature, e domina tutte le potenze celesti e finalmente possiede la pienezza. – La maggior parte di questi titoli, comuni a parecchie lettere, saranno studiati altrove; qui ci fermeremo ai tre punti speciali della nostra Epistola.

I. Il Cristo è immagine del Padre, primogenito delle creature, autore, conservatore e fine di tutte le cose.

II. Il Cristo è innalzato sopra tutti gli spiriti celesti, e corno loro creatore e come loro capo.

III. Il Cristo possiede ogni pienezza, pienezza di divinità e pienezza di grazie.

L’immagine di Dio invisibile — o forse più esattamente di Dio l’invisibile (Col. I, 15) — è un’espressione presa dal libro della Sapienza e in realtà non è che un sinonimo del Figlio. Chi dice immagine, dice somiglianza e derivazione. Il figlio è l’immagine del padre di cui è il ritratto vivente, ma il padre non è l’immagine del figlio, benché ne abbia la rassomiglianza, poiché non deriva da esso. Secondo la forte e rigorosa espressione di San Gregorio Nazianzeno, « il Verbo è immagine in quanto procede dal Padre, perché è dell’essenza dell’immagine essere una riproduzione, una copia del suo archetipo (Orat.  XXX, 20) ». Il Dio invisibile del nostro testo è evidentemente il Padre. L’invisibilità gli conviene in quanto è Dio, e allora gli è comune col Figlio, sua immagine perfetta; gli conviene in quanto è Padre, come sembra insinuare San Paolo e come pensarono molti antichi scrittori ecclesiastici, e allora essa indicherebbe l’attributo personale e incomunicabile in virtù del quale il Padre, sorgente e principio della divinità, manda le altre Persone e non è mandato da esse. Come immagine del Padre, il Figlio è atto a rivelarlo agli uomini; ma non è tale attitudine che precisamente lo costituisca nello stato d’immagine: Egli sarebbe immagine ancorché non esistesse nessuna creatura ragioneragione vol èvole per ricevere la sua rivelazione, come resterebbe Figlio anche quando non ci fosse nessuno a ricevere da lui la filiazione adottiva. – Quanto più perfetta è l’immagine, tanto meglio riproduce il suo modello, e si può concepire un’immagine tanto perfetta da uguagliare il suo prototipo. « Tale è il Figlio di Dio, il quale porta in sé tutto il Padre, in tutto identico al Padre, e ne differisce soltanto per il fatto di essere generato (S. Giov. Damasceno: De fide orthod. I, 8) ». Però la nozione d’immagine non implica questo, e l’uguaglianza, se vi è, si deve dedurre da altri principi. Il Figlio di Dio è l’immagine del Padre e perché è il suo Verbo — il Verbo per sua natura esprime l’intelligenza che lo produce — e perché è suo Figlio, poiché la generazione, in virtù del concetto suo proprio, tende a riprodurre il principio generatore. Ma non è certo che questa relazione tra il Figlio e l’immagine sia nella mente di Paolo. – Se la qualità d’immagine è assoluta e relativa nel tempo stesso, quella di primogenito è soltanto relativa e verrebbe perciò a mancare nel caso in cui non fosse stata creata nessuna cosa. I Padri con ragione osservano che l’espressione « primogenito di tutte le creature (Col. I, 15) » non può significare altro che « nato prima di tutte le creature ». Difatti, perché il Figlio venisse messo nella categoria delle creature, bisognerebbe che Egli stesso fosse stato creato oppure che la creatura fosse stata prodotta per via di generazione; ora, eccetto Lui, nessun essere è generato da Dio, poiché Egli è il Figlio unico, e d’altra parte non è stato creato, perché tutto ciò che è stato creato, in cielo e in terra, è stato creato per mezzo di Lui, in Lui e per Lui. In conclusione, i tre titoli di Figlio, d’immagine e di primogenito si riferiscono alla vita divina del Verbo e sono tre aspetti della sua generazione eterna, ma vi è tra loro questa distinzione, che la nozione di Figlio è assoluto relativamente agli esseri creati, quella d’immagine è assoluta e relativa, quella di primogenito è relativa nella sua espressione, perché include l’idea di un termine esteriore al Figlio, ma si appoggia sopra una perfezione assoluta, indipendente dall’esistenza delle creature. – « Primogenito di tutte le creature » non ha nulla di comune con « primogenito dei morti (Col. I, 18) ». Essendo la risurrezione gloriosa una specie di nascita ad una seconda vita, Gesù Cristo che entra prima degli altri in questa vita di gloria, si chiama con ragione « il primogenito dei morti », oppure « la primizia dei dormienti ». Benché più stimate che il resto del raccolto, le primizie non sono di una specie diversa; così il Cristo, benché innalzato incomparabilmente sopra quelli che egli associa al suo trionfo, appartiene pure sempre alla categoria dei risuscitati. Nello stesso modo si spiega il titolo di « primogenito tra molti fratelli (Rom. VIII, 29) ». La grazia santificante ci conferisce realmente la libazione divina; allora il Figlio prediletto si degna di riceverci per fratelli, e noi partecipiamo veramente con Lui, benché soltanto per analogia, al titolo di figli di Dio. Ma chi non vede quanto differisca la relazione del Verbo con le creature uscite dalle sue mani? Queste non sono sue sorelle come non sono figlie di Dio: Egli è dunque il loro « primogenito » solamente perché le precede nell’esistenza. – Le diverse relazioni del Figlio col mondo sono raccolte in una formola scultoria: Tutto è da Lui, tutto è in Lui, tutto è per Lui (Col. I, 16). Il Figlio è la causa efficiente, la causa esemplare e la causa finale di tutti gli esseri. – L’insistenza di San Paolo nel comprendere tutte le cose, « le visibili e le invisibili, in cielo e su la terra », nell’attività creatrice del Figlio, non la cede punto a quella dello stesso San Giovanni. – Vi è però una differenza, ed è che San Giovanni, adoperando l’aoristo, indica la prima produzione degli esseri creati, mentre San Paolo, servendosi del perfetto, indica anche la relazione attuale delle creature col Figlio come col loro Creatore. Esse sono state create da Lui e « sussistono in Lui (Col. I, 17) ». Senza di Lui, senza la Sapienza increata, tutte le creature, incapaci di durare da sé, si disperderebbero, si sminuzzerebbero e a forza di combattersi si inabisserebbero di nuovo nel nulla. È Lui che conserva a loro, con l’esistenza, la coesione e l’armonia. Il Logos di Filone, vincolo dell’universo, aveva lo stesso compito. Non soltanto « tutto è stato creato da Lui », ma « tutto è stato creato in Lui ». L’Apostolo ci lascia indovinare in che modo. Molti Padri, seguendo Sant’Ippolito e Origene, suppongono che sia in qualità di esemplare divino, come vincolo delle idee e archetipo universale L’ipotesi è seducente e, benché bisogni guardarsi dall’imporre agli apostoli le speculazioni platoniche e filoniane sul mondo intellegibile, non si vede come Dio abbia creato il mondo « nel Figlio », se il mondo non era in qualche modo nel Figlio; ora Egli non vi era e non vi poteva essere se non intellegibilmente, come nel suo modello e nel suo esemplare. Questa spiegazione troverà un saldo appoggio nel Prologo di San Giovanni, se si adotta la punteggiatura seguente: « Quello che è venuto all’esistenza era vita in Lui ». Egli che è causa efficiente e causa esemplare e formale, è pure causa finale. Questa espressione non può fare a meno di sorprendere: non già che il Figlio non sia, come il Padre, causa finale delle creature, ma la finalità sembrerebbe appartenere al Padre per appropriazione esclusiva. Si sarebbe dunque tentati di riferire questo titolo al Verbo fatto uomo al quale è subordinato tutto l’universo come all’inviato e al mandatario di Dio; ma nella frase di San Paolo, non essendosi ancora compiuto il passaggio dalla natura divina alla natura umana, è meglio attenersi al senso più semplice. Constatiamo così una volta di più che l’appropriazione delle particelle non ha nulla di esclusivo.

2. I dommatizzatori di Colossi, a forza di fare assegnamento su la mediazione degli Angeli, correvano pericolo di non più riconoscere il massimo Mediatore. Forse alcuni non mettevano più, tra gli Angeli e Gesù Cristo, che una differenza di grado. Paolo raccomanda quando occorre il rispetto degli Angeli, ma non vuole che questo vada a detrimento del Cristo (I Cor.XI, 10). Egli sa che gli Angeli portarono la Legge a Mosè (Gal. III, 19); che abitano i cieli (Gal. I, 8), nella luce (II Cor. XI, 14), che assistono ai riti augusti della Chiesa (I Cor. XI, 10), alle lotte e ai trionfi del Vangelo (I Cor. IV, 9 ); che accompagneranno nell’ultimo giorno il sommo Giudice (II Tes. I, 7); che uno di essi, un Arcangelo, darà il segnale della risurrezione (I Tess. IV, 16). Egli proscrive soltanto il culto arbitrario degli Angeli, un culto che diminuirebbe l’onore dovuto a Gesù Cristo. Tra gli angeli e Gesù non è possibile il paragone: essi si trovano nei rapporti della creatura col Creatore, del finito con l’infinito. Non cercheremo uno schiarimento al pensiero di Paolo nelle speculazioni comuni al principio dell’era cristiana e neppure negli autori di apocalissi ebraiche. Quelle speculazioni non avevano nulla di uniforme; gli arcangeli, dei quali allora si parlava molto, erano ora sette, con quest’ordine, nel libro di Enoc: Uriele, Raffaele, Raguele, Michele, Gabriele, Remiele; ora erano sei, per esempio nel Targum di Jonathan, ora cinque, con nomi differenti; ora quattro soltanto, enumerati senza ordine fisso. San Paolo parla una volta soltanto dell’Arcangelo, per indicare l’Arcangelo San Michele, espressamente menzionato da San Giuda; egli non allude affatto alla nota triade dei Serafini, dei Cherubini e degli Ophanim « che custodiscono il trono della maestà divina e non dormono mai ». Inoltre, mentre gli spiriti cattivi, nella demonologia ebraica meno antica, hanno un’incredibile varietà di nomi, gli Angeli buoni, il cui compito è molto ecclissato, sono per lo più anonimi. Quattro testi di San Paolo suggeriscono l’idea di una gerarchia angelica: Il Cristo « siede sopra ogni principato e potestà e virtù e dominazione e sopra ogni altro nome pronunziato non solo in questo secolo, ma nel secolo futuro (Ef. I, 21) ». — Tutto è stato creato dal Figlio e per Lui: « le cose visibili e le invisibili, troni e dominazioni, principati e potestà (Col. I. 20) ». — Il Cristo, alla sua venuta gloriosa, « rovescerà ogni principato e ogni potestà e virtù (I Cor. XV, 24) ». Nulla ci può separare dall’amore di Gesù Cristo, « né la morte, né la vita, né gli Angeli, né i principati, né le cose presenti, né le future, né le potestà (Rom. VIII, 38) ». – Ma si vede subito che i due ultimi passi hanno con la nostra questione un’analogia nulla più che verbale. I principati, le potestà e le virtù che Gesù distruggerà o rovescerà nel giorno del suo trionfo, non sono già gli Angeli ai quali toglierebbe allora le loro funzioni divenute inutili, come pretesero certi scolastici; ma sono le forze ostili al Cristo, di qualunque natura esse siano e comunque si chiamino; eccetto che si preferisca vederci i soli demoni, secondo il sentimento di alcuni Padri. Se nel testo dell’Epistola ai Romani gli Angeli, i principati e le potestà fossero messi insieme, si potrebbe intenderli di una stessa classe di esseri spirituali, ma siccome sono separati, secondo la lezione migliore, non bisogna vedere in essi altro che forze morali e influenze sovrumane di un ordine qualunque. Restano i passi paralleli delle Epistole della prigionia, i quali ci presentano due liste di spiriti angelici:

Principati – Potestà – Virtù – Dominazioni

Troni – Dominazioni – Principati – Potestà.

I nomi diversi devono indicare diversità di grado e di natura: perché mai parole distinte per indicare cose identiche? Se in cielo vi sono, come su la terra, tribù e famiglie, questo suppone una diversità di gradi, di relazioni, di funzioni (Ef. III, 15). In che cosa consista questa gerarchia celeste e quanti gradi abbia, San Paolo non ce lo dice, e neppure gli altri, e si può dire con sicurezza che egli non ha l’intenzione d’insegnarcelo. Le sue enumerazioni si seguono senza ordine fisso e sono certamente incomplete. Paolo che non ha la pretesa di dare un’enumerazione completa, sembra che vi dia ben poca importanza. Il suo scopo manifesto è di stabilire questa verità; Gesù Cristo è, come Dio, il creatore di tutti gli angeli; come uomo, egli è il capo di tutte le potenze celesti, per quanto ce le immaginiamo sublimi. Ma vuole forse affermare che la grazia degli Angeli deriva dal Cristo? Non lo crediamo, e non c’è nuba che ci autorizzi a pretendere che la pacificazione universale prodotta dalla morte del Figlio, e alla quale gli angeli stessi ebbero parte, sia una riconciliazione degli Angeli con Dio, anziché una riconciliazione degli Angeli con gli uomini fino allora ribelli a Dio (Col. I, 20). Perciò la qualità di capo riguardo agli Angeli non porta una comunanza di vita soprannaturale, ma semplicemente una preminenza di dignità e di onori. Dio ha collocato suo Figlio sopra tutte le potenze celesti e lo ha dato per capo alla Chiesa che è il suo corpo (Ef. I, 21-23). Così il Cristo non è nella stessa maniera capo degli uomini e capo degli Angeli. Siccome questi fanno parte del suo regno, egli si può benissimo chiamare loro capo; ma non comunica loro l’influsso vitale, perché essi non appartengono al suo corpo mistico

3. La cristologia dell’Epistola ai Colossesi si riassume in questa formula: « La pienezza della divinità risiede nel Cristo ». La pienezza o pleroma sembra che sia stata una delle parole d’ordine dei novatori di Colossi; poiché la prima volta che l’Apostolo nomina il pleroma ne parla come di cosa nota a tutti e che non ha bisogno di spiegazioni. Questo è segno che la parola faceva parte della terminologia degli avversari. San Paolo se ne impadronisce per correggerne l’abuso, come, secondo il sentimento dei più, San Giovanni strappa agli eretici del suo tempo la parola Logos per darle un senso ortodosso. – Che cosa significa la parola pleroma (πλήρωμα = supplementum; pienezza) e che cosa vuol dire in particolare il pleroma della divinità? – Più tardi gli gnostici chiameranno pleroma il complesso delle emanazioni divine, la somma totale di essere divino sparso nell’universo. Vi sono ragioni per credere che questo uso risalga e Cerinto. Se ci fosse permesso supporre che tale terminologia fosse in uso presso i Colossesi, otterremmo un senso accettabilissimo: L’essenza divina non è dispersa in una moltitudine di eoni disposti in ordine tra la materia e l’assoluto, come v’insegnano i vostri falsi dottori; essa è tutta intera raccolta, concentrata nel Cristo, « essa abita corporalmente in Lui » (Col. II, 20). Ma tale esegesi non è un anacronismo? Noi arriviamo del resto al medesimo risultato lasciando al pleroma il suo significato ordinario di totalità. La pienezza della divinità sarà allora il complesso delle perfezioni che costituiscono l’essenza divina, chiamata essa stessa, con altro nome, divinità. – Dio abita nell’anima e nel corpo dei giusti come nel suo tempio, ma vi abita con grazie infinite, sempre suscettibili di aumento, non nella pienezza della sua potenza e dei suoi attributi: soprattutto non vi abita corporalmente. Per abitarvi in questa maniera, bisogna che Egli sia sostanzialmente unito all’umanità, in modo da formare con essa un composto teandrico, come l’anima che informa il corpo sostituisce con esso una sola natura. Le due formole teologiche:

“In ipso inhabitat plenitudo divinitatis corporaliter”, e: “Verbum caro factum est et habitavit in nobis”, sono dunque equivalenti. Soltanto il modo di abitazione non è lo stesso: in San Giovanni, si tratta della dimora passeggera del Verbo fatto carne, il quale si degna di piantare per un momento la sua tenda in mezzo a noi; in San Paolo si tratta della dimora stabile, permanente e definitiva della divinità nell’umanità del Cristo. Riguardo all’altra formula: In ipso complacuit omnem plenitudinem inhabitare (Col I, 19), bisogna resistere alla tentazione di cercarvi ancora il pleroma della divinità, poiché il contesto vi si oppone, e il testo non assomiglia molto al precedente: vi mancano due parole essenziali, divinitatis e corporaliter. Si tratta qui della pienezza di cui parla San Giovanni: Vidimus… plenum gratiæ et veritatis… Et de plenitudine eius nos omnes accepimus. La pienezza della divinità che abita corporalmente nel Salvatore, vi apporta una pienezza di grazie: vi sono dunque in Lui due pienezze delle quali l’una deriva dall’altra. La pienezza delle grazie concessa al Salvatore dipende dal beneplacito del Padre — il soggetto del verbo complacuit — è subordinata alle sue funzioni di capo della Chiesa e di pacificatore universale. Ma essa non è nel Cristo come è la grazia nei santi; essa vi sta come in sua dimora permanente; essa deriva naturalmente dall’altra pienezza, il pleroma della divinità; essa è la sorgente il cui eccesso trabocca e riempie le membra del Cristo. Quanto più si confrontano tra loro l’Epistola ai Colossesi e il Prologo di San Giovanni, tanto più vi si trovano stretti rapporti.Nell’Epistola agli Efesini, Paolo augura ai fedeli di essere ripieni « nella misura di tutta la pienezza di Dio (Ef. III, 19) ». Noi non crediamo, con San Giovanni Crisostomo, che egli voglia parlare della perfezione assoluta di Dio, poiché se non è cosa inaudita che gli autori sacri ci propongano Dio come un perfetto ideale sul quale dobbiamo modellare le nostre azioni, è certamente molto più naturale il vedere qui la pienezza delle grazie e dei doni spirituali di cui Dio è l’autore. D’altra parte il voler spiegare « il pleroma di Dio » per pleroma del Cristo o della Chiesa, quando nella frase non vi è nulla che suggerisca né Cristo né la Chiesa, è fare violenza al testo. Anche altrove l’Apostolo ci rappresenta Gesù Cristo che prodiga le sue cure alla Chiesa, « fino a che arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, in modo da formare un uomo perfetto, secondo l’età matura della pienezza del Cristo (Ef. IV, 13) ». L’uomo perfetto è il Cristo mistico composto del capo e delle membra, e destinato ad una perfezione alla quale è possibile avvicinarsi indefinitamente senza raggiungerla mai. Se il corpo corrispondesse pienamente al capo, il Cristo mistico sarebbe un uomo perfetto, nel senso che non gli mancherebbe nulla della perfezione che può e deve possedere. Le imperfezioni non derivano dal capo che ha la pienezza, ma derivano dal corpo che aspira e tende alla perfezione, senza potere mai arrivarvi alla cima più alta. San Paolo gli propone come modello e come misura « l’età matura della pienezza del Cristo », cioè la persona del Cristo glorificato, in quella pienezza di perfezione che l’Apostolo paragona alla maturità dell’età e che esclude ogni altro progresso e ogni altra cresciuta. Finalmente quando la Chiesa, corpo mistico del Cristo, è designata col nome misterioso di (τὸ πλήρωμα τοῦ τὰ πάντα  ἐν πᾶσιν πληρουμένου = to pleroma tout a panta ev pasin pleroumenou, = la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose) (Ef. I, 23), senza sottilizzare troppo e prendendo il pleroma nel suo significato più ordinario, intendiamo che il Cristo è completato dalla Chiesa, come il capo è completato dalle membra. Ancorché Gesù Cristo tutto riempia con la sua pienezza, ha pure bisogno di essere completato per esercitare la sua azione redentrice; e la Chiesa lo completa come una potenza passiva che Egli informa con la sua virtù o come un ricettacolo che Egli riempie delle sue grazie. Essa è dunque con giusto titolo chiamata « il complemento di Colui che riempie tutto in tutti i modi », o meglio ancora « il complemento di Colui che si completa interamente in tutte » le sue membra. Insomma, la pienezza della divinità è la divinità stessa, oppure, in un senso tecnico forse in uso nel primo secolo, « la totalità di essere divino », per opposizione alle particelle e alle pretese emanazioni di questo essere.La pienezza di Dio è il complesso dei beni soprannaturali che Egli si compiace di spargere sopra i suoi amici quando li rende partecipi della natura divina, di quei beni di cui ha costituito Gesù Cristo depositario universale. La pienezza del Cristo è la misura sovrabbondante delle grazie che il Salvatore riceve da suo Padre, per versarle su la Chiesa che è il suo corpo, e sui fedeli che sono le sue membra. In un senso affatto diverso, la Chiesa è la pienezza del Cristo, perché essa lo completa nell’economia della redenzione, non potendo la grazia passare dal capo alle membra, se non per mezzo del corpo. Quest’ultima espressione, la più notevole di tutte, ci porta alla teoria del Cristo mistico, che dobbiamo studiare sommariamente.

CAPO III.

La Chiesa corpo mistico del Cristo.

I . IL CRISTO MISTICO.

—1. ANALOGIA DEL CORPO UMANO. — 2. L’ANIMA DEL CORPO MISTICO. — 3. IL CAPO DEL CORPO MISTICO.

1. L’argomento principale dell’Epistola ai Colossesi era la Persona stessa del Cristo; quello dell’Epistola agli Efesini è la Chiesa, prolungamento del Cristo nel tempo e nello spazio, complemento o pleroma del Cristo. L’Apostolo prende il Cristo in due sensi differentissimi. Quando egli identifica la vera discendenza di Abramo, il complesso dei credenti, col Cristo (Gal. III, 16), quando assicura che nel Battesimo noi siamo immersi, sepolti nel Cristo (Rom. VI, 3), quando dice che il Cristo ha più membra, e che noi siamo queste membra (I Cor. XII, 12; Gal. III, 27 e segg.), non parla del Cristo naturale, ma del Cristo mistico. Il Cristo naturale, il Verbo incarnato, il sacerdote e la vittima del Calvario, è una parte, anzi la principale, del Cristo mistico, ma non è il Cristo mistico tutto intero. Il Cristo mistico è la vera vigna con i suoi tralci, è l’ulivo schietto con i suoi rami, è Gesù sposo con la Chiesa sua sposa, è il capo con tutte le sue membra. Il Cristo naturale ci riscatta, il Cristo mistico ci santifica; il Cristo naturale è morto per noi, il Cristo mistico vive in noi; il Cristo naturale ci riconcilia con suo Padre, il Cristo mistico ci unifica con Lui. In una parola, il Cristo mistico è la Chiesa che completa il suo capo ed è completata da Lui. La teoria del corpo mistico non è frutto degli anni, ed è impossibile rintracciarne lo sviluppo graduale, perché non ha una storia. Lasciando da parte le applicazioni e le conseguenze, essa è contenuta tutta in quelle parole del Salvatore a Paolo: « Io sono Gesù che tu perseguiti ». Il vedervi una semplice astrazione, un puro essere ideale, sarebbe un non comprenderne nulla: è una realtà dell’ordine morale, ma una realtà vera, poiché è soggetto di attribuzioni, di proprietà e di diritti. Mistico non è l’opposto di reale, e vi sono realtà oltre a quello che si tocca con mano e che si pesa. Notiamo tuttavia che questa realtà è espressa con una metafora, come tutti gli oggetti immateriali e soprasensibili; ora per ben comprendere il valore di un termine metaforico, bisogna riferirsi al paragone latente sotto la metafora. La migliore illustrazione del corpo mistico sarà dunque l’analogia col corpo umano. Ad un organismo perfetto sono essenziali due cose: la varietà degli organi con la diversità di posto, di struttura e di funzioni che essa implica, poi la loro unità in un principio comune di vita e di movimento. Senza la diversità delle parti, si avrebbe una massa inerte, non un organismo: senza unità di forza motrice e di principio vitale, si avrebbe un aggregato di esseri viventi, non un corpo animato. A queste due condizioni primarie si aggiunge la relazione di dipendenza, contenuta implicitamente nell’idea di organismo, per la quale le membra subiscono l’influenza le une delle altre e diventano atte ad un’azione collettiva. Ben lungi dal nuocere all’unità, la diversità l’abbellisce e la completa. « Il corpo non è un solo membro, ma più membra. Se tutto fosse un solo membro, dove sarebbe il corpo? » Diversità di organi e identità di vita: tale è la formula del corpo umano, e tale pure è la formola del corpo mistico.

  1. 2. Ad ogni corpo vivente è necessaria un’anima e un capo: l’anima del corpo mistico è lo Spirito Santo; il capo è la Persona adorabile di Gesù Cristo. Non solo lo Spirito Santo abita nella Chiesa e in ciascuno dei giusti come in un suo tempio (Rom. VIII, 9-11), ma vista come un principio di coesione, di movimento e di vita (I Cor. XII, 8-11; Ef. IV, 4). Egli non agisce in noi come se fosse fuori di noi, ma si unisce così intimamente alla nostra attività interiore, che la nostra azione è sua, e la sua azione è nostra; così noi viviamo per mezzo di Lui e siamo mossi da Lui (Rom. XII, 11; IX, 14; Gal. V, 16, 18, 25). È infatti Lui che, facendo salire dal nostro cuore alle nostre labbra il nome di « Padre », attesta che noi siamo figli di Dio. Come la forma specifica l’essere, la presenza dello Spirito vivificatore in noi, ci conferisce la nostra dignità soprannaturale, la filiazione adottiva (Rom. VIII, 14-17). Poiché lo Spirito Santo è lo Spirito del Signore, per mezzo di Lui noi diventiamo conformi all’immagine del Figlio di Dio; perché « colui che aderisce al Signore è un medesimo Spirito (I Cor. VI, 17) » con Lui, in quanto si trova avvolto nella medesima atmosfera di vita divina. Perciò San Paolo, ogni volta che parla della nostra trasformazione soprannaturale, ha cura di farvi intervenire lo Spirito di Dio (II Cor. III, 17). – Tale essendo la funzione dello Spirito Santo, bisogna che Egli abbia parte nella nascita del Cristo mistico, o piuttosto nel suo crescere e nel suo sviluppo, perché il Cristo mistico non ha più da nascere. Gli elementi dell’organismo umano vivono e muoiono secondo che l’anima se ne impossessa oppure li abbandona; lo stesso avviene degli elementi che formano il corpo mistico: « Il corpo è uno, benché abbia più membra, e tutte le membra del corpo, nonostante il loro numero, formano un solo corpo. Lo stesso è del Cristo: difatti noi fummo tutti battezzati nello stesso Spirito in un medesimo corpo… e tutti noi fummo abbeverati di un solo e medesimo Spirito (I Cor. XII, 12-13) ». Se si trattasse qui della bevanda eucaristica, sarebbe questo un modo di parlare molto ardito e molto singolare. L’aoristo greco dimostra che si tratta di un fatto unico, e allora noi non possiamo pensare che al ricevimento dello Spirito Santo per mezzo dell’imposizione delle mani, ossia alla confermazione. Sono dunque il Battesimo e la Confermazione che ci incorporano al Cristo mistico, mediante un influsso dello Spirito Santo che ci mette in comunicazione vitale col capo e in relazione organica tra noi, doppio rapporto che Paolo, con parola molto indovinata, chiama la comunione dello Spirito (II Cor. 13; Fil. II, 1).

3. Chi dice capo, dice preminenza e superiorità, influsso vitale e comunanza di natura, principio di unità e misura di perfezione. Tali sono infatti le diverse relazioni che l’Apostolo mette in luce nei sei passi in cui Gesù Cristo è presentato come capo della Chiesa, discretamente e senza insistenza nell’Epistola ai Colossesi, più decisamente e con piena sicurezza nell’Epistola agli Efesini: “Il Cristo è il capo di ogni principato e di ogni potestà (Col. II, 10). Egli è il capo del corpo (cioè) della Chiesa (Col. I, 18). – Come il marito è il capo della donna, così il Cristo è il capo della Chiesa, essendo il salvatore del suo proprio corpo (Ef. V, 23). Dio lo ha dato come capo supremo della Chiesa che è il suo corpo, il complemento di Colui che si completa interamente in tutti (Ef. I, 22). – Non aderendo al capo da cui tutto il corpo… trae il suo crescere (Col. II, 19). – Cresciamo nella misura di colui che è il capo, il Cristo (Ef. IV, 15).”

Il primo di questi testi esprime semplicemente la preminenza. Quando Gesù Cristo è chiamato il capo (o la testa) di ogni principato e potestà, bisogna credere che questo titolo non ha relazione con l’allegoria del corpo umano; poiché quand’anche la grazia degli Angeli derivasse dalla mediazione del Cristo, vi mancherebbe, per dare l’allegoria del corpo, la comunanza di natura. Così il Cristo è chiamato capo degli Angeli, senza che gli Angeli siano mai chiamati corpo del Cristo, e questo prova che Egli è loro capo (κεφαλή = kefale) soltanto per la sua dignità sovreminente. Nello stesso modo bisognerà forse intendere il testo seguente: « Egli è il capo del corpo, della Chiesa, come Egli è il principio, il primogenito dei morti, affine di ottenere il primato in tutte le cose ». – L’idea dominante di questo passo è il primato; è dunque possibile che l’Apostolo, dando al Cristo il titolo di capo della Chiesa, qui non abbia altro di mira, benché si riferisca formalmente all’allegoria del corpo. Ma negli altri quattro passi, l’idea della preminenza non è né la sola né la dominante. Secondo una metafora biblica molto usata, gli sposi sono una medesima carne, un medesimo corpo di cui il marito è il capo, « come il Cristo è il capo della Chiesa e il salvatore del suo corpo ». Qui il paragone col corpo umano si viene complicando con un’allusione ai rapporti reciproci degli sposi. Il Cristo e la Chiesa sono tra loro come lo sposo e la sposa: da una parte amore e protezione, dall’altra rispetto ed obbedienza: ma gli sposi alla loro volta sono tra loro come il capo e il corpo nel composto umano. La loro unione è perfetta: essi sono uno stesso principio di operazione, una stessa anima, una stessa vita, senza detrimento del primato che appartiene al capo. – Ancora più degno di nota è il testo di cui abbiamo trattato poco fa, a proposito del pleroma: « Dio ha dato il Cristo come capo incomparabile alla Chiesa che è il suo corpo, il complemento di colui che si completa interamente in tutte le sue membra. Gesù Cristo, Dio perfetto e uomo perfetto, ha bisogno di un complemento per formare il corpo mistico. Si può dire che, sotto questo aspetto, Egli non basti a se stesso; così la testa che concentra in sé tutte le sensazioni e determina tutti i movimenti, non può esercitare le sue funzioni vitali senza un organismo che la completi e che le sia sostanzialmente unito. Rigorosamente parlando, il capo è il complemento del corpo per lo stesso titolo per cui il corpo è il complemento del capo; ma è naturale che la parte meno nobile è presentata come complemento dell’altra. Il compito che San Paolo assegna al capo, per farne il simbolo del Cristo, è veramente straordinario quando premunisce i fedeli contro gli illuminati di Colossi, precursori dei fautori di scismi e di eresie. – “Nessuno vi deluda (della palma), sotto colore di umiltà e di culto degli Angeli, fondandosi sopra le sue visioni, vanamente gonfiato (di superbia) nel suo intelletto carnale e non aderendo al capo da cui tutto il corpo, tenuto e unito insieme per mezzo delle giunture e dei legamenti, riceve il crescere (voluto) da Dio” (Col. II, 18). Trascurando le differenze di espressione, difficili a tradursi, il senso del testo è chiaro. Poiché il fedele è col Cristo nei rapporti del membro con la testa, l’isolarsi dal Cristo equivale a votarsi all’impotenza e alla morte: questo appunto facevano in pratica i visionari di Colossi che, abbandonandosi ai loro sogni e gonfiandosi dì pensieri carnali, cercavano da lui altri patroni e mediatori. Il capo infatti è per tutto il corpo e per ciascuna delle sue parti un principio di unità, di coesione e di crescenza; separato dalla testa, il tronco è incapace di rimanere persino allo stato di cadavere, ma si disgrega ben presto e si risolve nei suoi ultimi elementi. L’unione del corpo con la testa e l’influsso vitale della testa sul corpo avvengono per mezzo di giunture e di legamenti, come i nervi, i muscoli, i tendini, le cartilagini. San Paolo qui non ne spiega il simbolismo, ma nel passo parallelo dell’Epistola agli Efesini, dove l’allegoria è portata più innanzi, egli assimila a quei canali di comunicazione gli apostoli, i profeti, gli evangelisti, i pastori e i dottori; è dunque probabile che la metafora dei legamenti e delle articolazioni indichi anche qui i doni dei carismi. Ecco ora il testo parallelo, alleggerito di una parentesi estranea al nostro argomento. Paolo spiega perché Dio ha messo nella Chiesa delle persone dotate di carismi: “Egli li ha stabiliti per il perfezionamento dei santi, per l’opera del ministero, per l’edificazione del corpo del Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede, all’intera conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, alla misura della piena cresciuta del Cristo, affinché… aderendo alla verità nella carità, cresciamo in tutto in colui che è il capo, il Cristo. Per mezzo di lui tutto il corpo, bene ordinato e unito insieme, con l’aiuto vicendevole delle membra che operano ciascuno secondo la sua misura, cresce e si edifica nella carità(Ef. IV, 12).  – San Paolo, come si vede, mescola e sovrappone le figure disparate del corpo e dell’edificio; inoltre considera il corpo come il tronco distinto dalla testa e nel tempo stesso come l’organismo tutto intero, e sono queste altrettante cause di oscurità e d’imbarazzo. Si può determinare così il suo pensiero la cui ricchezza non sarà mai esaurita da nessun commentatore: Il Cristo mistico, composto della Chiesa e del suo capo, tende a diventare uomo perfetto; il che si deve intendere di una personalità collettiva. La crescenza di cui parla qui l’Apostolo, è piuttosto intensiva che estensiva e consiste nell’aumento di fede e di conoscenza soprannaturale, poiché i carismi che qui entrano in questione, si riferiscono principalmente, se non esclusivamente, alla predicazione; ma essa non avviene se non nella carità senza la quale la fede è nulla. Il crescere nella fede e nella carità dev’essere proporzionato all’energia dei carismi ricevuti dai fedeli, poiché i carismi sono conferiti non tanto per la santificazione personale di chi li possiede, quanto per il bene comune della Chiesa. Questo crescere che ha lo scopo di formare un uomo perfetto, ha per misura la perfezione del capo. Il capo della Chiesa ha tutta la pienezza delle grazie richieste dal suo titolo e dalla sua funzione; raggiunta la sua età matura ossia, il che vuol poi dire la stessa cosa, la statura completa (secondo il doppio significato del greco ἡλικία = elikia); esso non può più crescere in se stesso, ma può crescere nelle sue membra. Finalmente, siccome la condizione essenziale del crescere, per ciascuno degli organi, è quella di aderire tra loro e di essere intimamente uniti al capo da cui deriva ogni influsso vitale, bisogna che tutte le parti siano collegate da un sistema multiplo di tessuti e di legamenti che le mettono in comunicazione col centro della vita, e facciano circolare fino alle estremità il succo divino. Insomma, il capo è per San Paolo il centro della personalità, il vincolo dell’organismo, il focolare a cui converge ogni influsso vitale. Resterebbe soltanto da sapere se egli applichi al Cristo, capo della Chiesa, la sua concezione scientifica della testa, oppure se, vedendo che cosa è Gesù Cristo rispetto alla Chiesa, egli abbia avuto l’intuizione della funzione del capo nel composto umano. In tal caso non sarebbe la sua psicologia che colorirebbe il suo linguaggio religioso, ma sarebbero le sue idee religiose che darebbero il colore al suo linguaggio psicologico.

II. IL GRAN MISTERO.

Nelle lettere della prigionia, principalmente nell’Epistola agli Efesini, ritornano con una frequenza eccezionale l’accenno al gran Mistero e la formula In Cristo Jesu. Siccome questi due punti hanno un posto importante nella dottrina generale dell’Apostolo e saranno esposti altrove con un certo sviluppo, ci basterà ora indicarli all’attenzione del lettore. – Il Mistero per eccellenza è il disegno, concepito da Dio da tutta l’eternità ma rivelato soltanto dal Vangelo, di salvare tutti gli uomini senza distinzione di razza, identificandoli col suo Figlio diletto nell’unità del corpo mistico. Quest’idea ci è oggi tanto familiare che stentiamo a capire come mai abbia potuto costituire l’articolo più caratteristico dell’insegnamento di San Paolo, fino al punto di chiamarsi il suo Vangelo; ma questa idea così semplice aboliva i privilegi e la faceva finita con le pretese secolari d’Israele. Si pensi alle passioni che scatenò da principio, anche in seno alla Chiesa, agli incendi che avrebbe fatto divampare se non era l’intervento degli Apostoli, alle persecuzioni che suscitò contro l’Apostolo dei Gentili, alle calunnie postume che gli fece lanciare contro dagli scrittori giudaizzanti del secondo secolo. Il sospetto che egli avesse violato i diritti d’Israele introducendo uno straniero nel Tempio, fu causa del suo arresto e della sua prigionia di quasi cinque anni (Act. XXI, 28): perciò egli si compiace di chiamarsi il prigioniero di Gesù Cristo per la causa dei Gentili e il martire delle loro giuste rivendicazioni. Alla dottrina del corpo mistico è pure assai strettamente legata la formula In Christo Jesu. Il Cristo qui nominato non è tanto il capo glorificato della Chiesa, quanto il Cristo mistico che comprende il capo e le membra, il tronco e i rami, insomma il santuario vivente dello Spirito Santo; è il Cristo sul quale siamo innestati per mezzo della fede, nel quale siamo immersi per mezzo del Battesimo, e che l’Apostolo c’invita a rivestire per mezzo della carità e delle buone opere. – La questione di sapere dove Paolo abbia preso la sua formula, è per noi secondaria. Essa ha certamente qualche cosa d’insolito: non si trova nulla di simile negli scrittori profani, e i Padri della Chiesa si fermano stupiti dinanzi a questa parola straordinaria. Tuttavia nei Settanta e soprattutto nei libri deuterocanonici vi sono espressioni che molto le si avvicinano. Il detto della Sapienza che « i giusti vivono per sempre e che la loro ricompensa è nel Signore », ci fa pensare irresistibilmente alla formula In Christo Jesu. Questo modo di parlare non si poteva generalizzare se non si fosse considerato il Cristo come un elemento in cui si esercita la vita e l’azione del Cristiano. San Giovanni con l’allegoria della Vigna, San Paolo con la teoria del corpo mistico, l’hanno adottata indipendentemente l’uno dall’altro, ma Paolo ha questo di particolare, che l’adopera senza spiegazione, come una formula consacrata dall’uso, della quale nessuno dei suoi lettori può ignorare il significato.

CONOSCERE SAN PAOLO (16)

CONOSCERE SAN PAOLO (16)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LIBRO QUARTO.

La prigionia.

CAPO I.

Le Epistole della prigionia

I . QUADRO STORICO E LINEE GENERALI.

1. – PAOLO PRIGIONIERO DEL CRISTO. — 2. CARATTERI COMUNI DI QUESTE EPISTOLE.

1. Le tre lettere, ai Colossesi, agli Efesini e ai Filippesi, col biglietto a Filemone che serve di preambolo o di poscritto alla prima, formano tra loro un gruppo ancora più strettamente legato che le quattro Epistole maggiori. Ai punti comuni di dottrina, all’unità di tempo e di luogo, si aggiunge qui l’identità della scena e dell’apparato esteriore. Ambasciatore di Cristo in catene, Paolo è prigioniero (Ef., III, 1; IV, 1; VI, 1); ma egli prevede la sua prossima liberazione e fa dei disegni per il giorno in cui sarà messo in libertà (Fil. I, 25-26). La sua prigionia non è rigorosa, ed egli gode di una mezza libertà, vede i suoi amici, discorre con i suoi discepoli e continua persino il suo apostolato effettivo (I, 20). Tutti questi particolari ci fanno pensare a Roma piuttosto che a Cesarea, e noi mettiamo a Roma la composizione di queste lettere, con piena certezza per l’Epistola ai Filippesi, con una grandissima probabilità per le altre tre. Queste furono spedite insieme e con lo stesso corriere (Ef. VI, 21), e noi crediamo che un intervallo molto breve le separi dall’Epistola ai Filippesi che, secondo B ogni apparenza, è l’ultima della serie. Questo ci porta all’anno Il momento storico non è difficile da ricostruire: uno schiavo di Filemone, Onesimo, aveva abbandonato il padrone dopo di averlo derubato. Roma, dove si davano convegno tutte le miserie, cloaca di tutti i vizi, nella sua immensa e confusa popolazione cosmopolita, prometteva asilo sicuro agli schiavi fuggitivi, ai ricercati dalla giustizia, agli avventurieri di ogni fatta, e Onesimo si recò a Roma. Forse sperava di trovare presso l’amico del suo padrone aiuto e protezione; vi trovò ancora di meglio: la fede e il Battesimo. – Nel rimandarlo a Colossi, Paolo gli consegnò il breve biglietto scritto di sua mano, che è la nostra Epistola a Filemone. Insieme con lui partiva anche Tichico, incaricato di un messaggio speciale per la chiesa di Colossi, dove stava avvenendo qualche cosa d’insolito. Paolo non soleva costruire su le fondamenta degli altri, e quella chiesa non era opera sua; il suo apostolo era Epafra. È vero che essa era legata a Paolo con i vincoli più intimi; i fedeli si riunivano in casa del suo amico Filemone, sotto la direzione di Archippo, probabilmente figlio di Filemone. Si può anche congetturare che Epafra, spaventato dai pericoli corsi dai neofiti e troppo debole per resistere da solo al torrente delle idee nuove, avesse implorato l’assistenza di uno più forte di lui: l’umile missionario voleva scomparire dietro la figura dell’Apostolo il cui intervento pareva l’unico mezzo per scongiurare il male. Le dottrine teosofiche mescolate a pratiche singolari che s’infiltravano pian piano a Colossi, non potevano fare a meno d’invadere tosto o tardi le città vicine, Gerapoli e Laodicea, e di guadagnare col tempo anche la capitale della provincia, Efeso, che era in continue relazioni con le città della valle del Lico. Paolo dunque credette bene di riprendere, sotto una forma più generica, l’argomento svolto nell’Epistola ai Colossesi, lasciando da parte quanto essa conteneva di personale e di locale. Da questo pensiero nacque la lettera circolare matrizzata a parecchie chiese dell’Asia e nota sotto il nome di Epistola agli Efesini. L’Epistola ai Filippesi deve la sua origine ad una causa affatto fortuita. – Un abitante di Filippi, Epafrodito, aveva portato a Paolo prigioniero una generosa offerta da parte dei suoi concittadini (Fil IV, 18). Era sua intenzione, a quanto pare, di dedicarsi al servizio dell’Apostolo; ma cadde gravemente ammalato e, appena ristabilitosi, fu preso dalla nostalgia. Paolo, accondiscendendo ai suoi desideri, gli consegnò per i compatriotti di lui una lettera traboccante di affetto, nella quale ringraziamenti ed elogi rivestono la forma più nobile e più delicata.

2. Nelle Epistole della prigionia, parecchie questioni, in altro tempo vitali, passano in second’ordine; alcune fino allora appena sfiorate, prendono un’importanza preponderante: ma le teorie nuove sono sempre innestate su le dottrine antiche, come queste hanno un’eco negli scritti presenti. Vi è uno sviluppo spiegato e giustificato dalle circostanze, e non vi è mai soluzione di continuità. – La crisi giudaizzante si è calmata; la guerra altra volta dichiarata ai campioni del giudaismo si va estinguendo a poco a poco; dappertutto la lotta finisce, come tutto ci fa credere, col trionfo delle idee di Paolo. Vi è ancora qualche nube all’orizzonte: la violenta e improvvisa tirata contro « i cani, i cattivi operai, i partigiani della mutilazione (Fil. III, 2-3) » ne è la prova; ma se i cani abbaiano ancora da lontano, non osano più esporsi ai colpi terribili dell’Apostolo. I falsi dottori di Colossi sono, è vero, tinti di giudaismo, ma di un giudaismo conciliante che non vuole più imporsi a qualunque costo, troppo contento di essere tollerato, un giudaismo molto somigliante a quello degli scrupolosi di Roma, i quali facevano distinzioni di giorni e di vivande. Paolo, senza pietà per gli errori di principio, di un dogmatismo intransigente, sa accondiscendere alle inquietudini di coscienza dei pusillanimi, ed ecco perché il tono della sua polemica, di fronte a nemici che depongono le armi, è tanto mitigato. In cambio però si fanno strada nuove tendenze. La predicazione primitiva intorno a Gesù, era stata semplice: si considerava in lui il Figlio di Dio, il Messia, il redentore, il Salvatore unico, il giudice supremo; si raccontavano la sua nascita dalla famiglia di Davide, i suoi miracoli e i suoi insegnamenti, la sua morte e la sua risurrezione, la promessa del suo ritorno glorioso. Vi erano in questo tutti gli elementi di una cristologia, qualora si fossero riuniti insieme e fusi in un sistema. Ma da principio non ci si era pensato; bastava sapere che bisognava credere e sperare in Lui, che bisognava amarlo e Però il bisogno innato di conoscere e di capire non doveva tardare a far valere i suoi diritti, ed era giusto il soddisfarlo. Di dove veniva Gesù? Chi era egli nella sua esistenza anteriore? Qual era la parte sua nella creazione del mondo e nella vita della Chiesa? In mancanza di una risposta a queste domande, i neofiti cercavano la chiave dell’enigma nelle idee ereditate dai loro padri, che essi non avevano abbandonato interamente nel ricevere il Battesimo, e si foggiavano una teologia a modo loro. Conveniva illuminarli, iniziarli alla sapienza, svelare loro il mistero, elevarli insomma a quella scienza superiore di cui essi erano tanto gelosi ed orgogliosi. – Il primo carattere di questo gruppo di Epistole è dunque una cristologia assai sviluppata. Il secondo carattere è un insegnamento più preciso su la natura e la costituzione della Chiesa. La Chiesa si stava allora organizzando e, in grazia degli sforzi di Paolo, si veniva operando a vista d’occhio l’unione delle due frazioni del Cristianesimo. Tale unione era soltanto più ritardata dalle ultime pretese degli Ebrei convertiti che, senza più insistere molto su l’osservanza integrale della Legge, chiedevano che almeno se ne conservasse qualche cosa, e poi anche dall’universalità stessa della Chiesa, composta di popoli così diversi di spirito, di sangue, di costumi e di lingua, i quali s’invidiavano, si disprezzavano e si deportavano a vicenda. Bisognava fonderli tutti insieme nel Cristo, poiché la Chiesa non è la somma dei credenti isolati né il complesso delle cristianità nazionali, ma è il corpo mistico del Cristo, animato da un medesimo Spirito, partecipe della medesima vita, aspirante al medesimo fine, sotto la dipendenza del medesimo capo. Questa è la verità che spicca maggiormente nelle Epistole della prigionia. – Nel leggerle, si resta colpiti dalla parte che San Paolo dà all’intelligenza: le parole che si riferiscono alla conoscenza intellettuale, come verità, scienza, dottrina, rivelazione, sapienza, comprensione, luce, con i loro derivati e con i vocaboli di senso contrario, v i sono ripetuti a profusione. Nello stesso ordine di idee, un certo numero di parole compaiono qui per la prima volta. Prima sembrava che Paolo facesse della sapienza la porzione degli eletti; ora invece la augura a tutti, come pure quella scienza eminente che egli stesso chiama soprascienza (ἐπίγνωσις = epignosis) (10). Finalmente una delle sue preoccupazioni più vive è quella di spiegare il segreto, nascosto alle generazioni passate e oggi rivelato agli apostoli e ai profeti, che egli indica col nome di Mistero. Non esageriamo però il contrasto con le Epistole maggiori. È cosa istruttiva il confrontare i due gruppi, le nozioni di giustizia, di fede, di grazia, di legge, di peccato. Le teorie sviluppate a lungo ai Romani o ai Galati, sono qui ricordate come assiomi, come risultati acquisiti e accettati; ma esse ricevono frequentemente un’espressione più breve e nel tempo stesso più precisa. Io desidero di avere, dice l’Apostolo, « non la mia giustizia che sarebbe frutto della Legge, ma la giustizia prodotta dalla fede del Cristo, la giustizia che viene da Dio, fondata su la fede (Fil. III, 9) ». Noi conosciamo bene questa giustizia prodotta dalla fede e che la Legge non può raggiungere, giustizia che è nel tempo stesso di Dio e dell’uomo: di Dio perché emana da Lui, dell’uomo perché è inerente a lui; e notiamo pure che l’equivoco grammaticale di « giustizia di Dio » è stato tolto. Non meno ammirabile nella sua concisione è quest’altra formula: « Voi siete stati salvati dalla grazia, per mezzo della fede, e questo non per voi medesimi, è un dono di Dio; non per le opere, affinché nessuno si vanti (Ef. II, 8-10) ». Se la salute — cioè la grazia abituale — è sostituita alla giustificazione, questo avviene perché la controversia non si svolge più intorno al passaggio dallo stato di peccato allo stato di giustizia. Come le opere della Legge non sono più in discussione, ora ne prendono il posto le opere senza distinzione. La tesi si allarga e si generalizza. Ma il compito della fede, come principio e strumento di salute, la necessità assoluta della grazia e la sua definizione come dono di Dio che non dipende dal merito, sono tutte proprie dello spirito di San Paolo, e l’espressione finale (ut ne quia glorietur) è pure di un sapore tutto suo.

IL BIGLIETTO A FILEMONE.

1 . LA QUESTIONE DELLA SCHIAVITÙ. — 2. IL CASO DI ONESEVIO.

1 . Questo piccolo capolavoro di tatto, di urbanità, di nobiltà, di grazia squisita, fu la prima dichiarazione cristiana dei diritti dell’uomo. La questione della schiavitù già aveva preoccupato l’Apostolo il quale tuttavia non poteva pensare a proclamarla abolita, perché non lo permettevano la ragione sociale, la sicurezza dello Stato, la penetrazione pacifica del Cristianesimo e lo stesso interesse bene inteso degli schiavi. L’impero romano contava allora un numero di schiavi dieci volte maggiore del numero dei cittadini; una fortuna di parecchie migliaia di schiavi non era affatto cosa eccezionale, e qualche proprietario ne possedeva più di venti mila. Predicare improvvisamente l’emancipazione a quelle folle, equivaleva a dichiarare la guerra civile, a provocare un cataclisma che poteva distruggere l’impero e che intanto poteva attirare su la Chiesa nascente terribili rappresaglie. Del resto l’esperienza di tutti i secoli dimostra quanto abbia di utopistico e di funesto, anche per quelli che ne sono favoriti, il passaggio troppo improvviso dalla schiavitù alla libertà. Inculcare allo schiavo la sua dignità di uomo, insegnare al padrone a vedere in lui un fratello colmare a poco a poco l’abisso che separava le caste, ricordando ai Cristiani la loro unione nel Cristo e la loro uguaglianza dinanzi a Dio, era tutto quello che potesse fare il Cristianesimo nascente. Il resto lo avrebbe fatto il tempo: il lievito di libertà, di eguaglianza e di fratellanza, deposto nel seno della Chiesa, avrebbe fatto infallibilmente, nel corso dei secoli, l’opera sua, portando, senza rivoluzioni e senza scosse violente, da una parte la liberazione progressiva degli schiavi, dall’altra l’estensione dei principi di giustizia e di umanità che avrebbero poi reso impossibile il ritorno alla schiavitù. – Paolo aveva concesso la carta di libertà cristiana quando scriveva ai Galati: « Voi siete tutti figli di Dio per la fede, nel Cristo Gesù. Battezzati nel Cristo, voi vi siete rivestiti del Cristo. Non più né Giudeo né Greco, non più schiavo né uomo libero, non più uomo né donna: voi tutti siete uno solo nel Cristo Gesù (Gal. III, 27-28) ». Per i Cristiani identificati individualmente col Cristo, nell’unità del suo corpo mistico, la disuguaglianza naturale di razza, di condizione, di sesso, non contano più nulla; uno schiavo vale quanto un uomo libero. « Ciascuno, dice ancora San Paolo, viva nella condizione in cui il Signore lo ha messo, nello stato in cui era quando il Signore lo ha chiamato… Eri schiavo? non prendertene affanno ». Poi segue una frase ambigua per la sua concisione, la quale è stata interpretata in due sensi diametralmente opposti: Sed et si potes fieri liber magis utere (I Cor. VII, 20-21). Secondo gli uni, l’Apostolo consiglia di rimanere nella schiavitù: « Ancorché possa diventare libero, rimani schiavo». Secondo gli altri, egli raccomanda di valersi dell’occasione di diventare libero, quando si presenta: « Se puoi diventare libero, approfittane ». Comunque sia, la tesi generale è la stessa: lo schiavo chiamato alla fede è l’uomo libero di Gesù Cristo, e l’uomo libero chiamato alla fede è lo schiavo di Gesù Cristo; perciò le differenze sono estrinseche, accidentali, senza valore religioso e trascurabili sotto l’aspetto cristiano. Il Cristianesimo non annulla né i matrimoni né  i contratti, non spezza i vincoli di parentela e di subordinazione, ma trasforma le anime e le rende superiori alle contingenze umane. – Paolo traccia i loro doveri ai padroni e agli schiavi; a questi impone un’obbedienza intera, sincera, interiore, soprannaturale, senza finzione e senza bassa adulazione, un’obbedienza nobilitata dal pensiero di fare la volontà di Dio, sostenuta dal timore dei suoi giudizi e dalla speranza del premio eterno; ai padroni comanda la giustizia e l’equità verso i loro schiavi, proibisce le minacce e i maltrattamenti, ricorda il Giudice severo e infallibile il quale non fa accettazione di persone. I diritti e i doveri dello schiavo! Che strana utopia agli occhi del mondo raffinato di quei tempi! Era una questione seriamente discussa dai filosofi, se lo schiavo avesse un’anima; in ogni caso questa non poteva essere che un’anima di schiavo, priva di nobiltà e di moralità; lo schiavo non aveva doveri più che la bestia: come la bestia non aveva che da fare un lavoro. In quanto ai diritti, era un assioma universalmente ammesso dai giure-consulti, che non ne poteva avere affatto: lo schiavo era un corpo, una bestia da soma, una macchina vivente, un mobile della casa. Veniva comperato al prezzo di un cavallo, si pagavano per lui gli stessi pedaggi dei cavalli, e come un cavallo veniva ammaestrato e governato, finché veniva poi rivenduto a un prezzo inferiore quando fosse vecchio e logoro. Del resto con lo schiavo si potevano impunemente ingrassare le murene; si poteva farlo servire per esperimenti di vivisezione, condannarlo al celibato perpetuo, si poteva abusare e fare traffico del suo pudore, si poteva separarlo dalla sua compagna e dai suoi figli. Se certi proprietari, per interesse, per apatia, per timore o per umanità, trattavano meglio i loro schiavi, questi erano pur sempre in balia di tutte le passioni e di tutti i capricci. A Roma non esistevano punto le società protettrici degli animali; le leggi di Adriano, di Antonino Pio e di Marco Aurelio, per mettere i mancipia, un po’ al riparo dal despotismo, non erano ancora state fatte e non furono mai efficaci: bisognò aspettare che l’idea cristiana, con Costantino, Teodosio e Giustiniano, penetrasse nei costumi non meno che nel codice.

2. Il caso di Onesimo era grave: come fuggiasco, doveva aver la fronte segnata, col ferro rovente, da un “F” indelebile, e il collo circondato da un collare; come ladro, era alla discrezione del suo padrone, per morire sotto la sferza o per girare una mola per tutta la vita. Paolo sa tutto questo e non teme di esporre il colpevole alla vendetta e al risentimento del suo padrone. Egli riconosce i diritti di Filemone: non ha voluto trattenere Onesimo senza il suo consenso; non gli chiede espressamente la liberazione dello schiavo, ma si vede che vi fa assegnamento, che ne è sicuro. Gli suggerisce chiaramente questo atto di liberalità, tanto più meritorio quanto più sarà spontaneo; gl’insinua che potrebbe imporglielo in nome della sua autorità paterna e apostolica; ma intanto non glielo impone; quello però che gli domanda esplicitamente, è l’impunità di Onesimo. Egli, Paolo, risponde per lo schiavo; prende sopra di sé il suo debito; con un tono mezzo serio e mezzo scherzevole, ne contrae l’obbligazione formale, non senza lasciar capire che, a conti fatti, sarebbe Filemone che resterebbe debitore con lui (15-20). Secondo i principi del Cristianesimo, Filemone deve considerare il suo schiavo come un fratello, come un futuro compagno di gloria in Cielo (v. 16). Con una somma delicatezza, dopo di aver tracciato questo sublime ideale di carità e di generosità cristiana, Paolo esprime la speranza che il suo amico non solo soddisferà a tutti i suoi desideri, ma li oltrepasserà. Molte volte si è paragonata la nostra Epistola ad una lettera scritta da Plinio il Giovine, intorno ad un argomento simile e in circostanze quasi uguali. Benché il biglietto di Plinio sia molto bello per un pagano, il confronto riesce tutto a vantaggio di San Paolo. Plinio scongiura l’amico Sabiniano di risparmiare la tortura ad uno schiavo fuggitivo; incrudelisca pure in avvenire senza pietà, in caso di recidiva; ma per questa volta il colpevole è già abbastanza punito dai rimproveri acerbi e dalle minacce dello stesso Plinio. Ben altrimenti l’Apostolo raccomanda a Filemone il figlio diletto che egli ha generato nelle catene. Benché San Paolo faccia grande stima dell’indipendenza morale dell’uomo, è lecito domandare se la sua mente abbia mai considerato quello che aveva d’ingiusto e d’inumano la schiavitù antica. Presso gli Ebrei, la schiavitù era per lo più volontaria, e non differiva molto lo schiavo dal domestico. Per i compatriotti, essa finiva al termine di sei anni al massimo, eccetto che vi fosse il consenso formale dell’interessato; e il legislatore aveva previsto come ordinario il caso in cui questo consenso venisse dato liberamente. Ben diversamente avveniva presso i Pagani per ì quali lo schiavo non era più un uomo. Ma anche qui vi erano diritti acquisiti e interessi da rispettare. L’improvvisa fermata di una macchina così necessaria al funzionamento dell’impero, era troppo pericolosa, e l’abolire senza preparazione quell’istituzione più volte secolare era poco meno iniquo e immorale che il mantenerla incondizionata. Bastava che lo spirito cristiano la minasse alla base e, nell’attesa della sua caduta definitiva, ne correggesse gli abusi.

CAPO II.

Preminenza del Cristo.

I FALSI DOTTOBI DI COLOSSI.

1. EFESINI E COLOSSESI. — 2. L’ERESIA DI COLOSSI.

1. Le due Epistole, ai Colossesi e agli Efesini, stanno tra loro come le Epistole ai Galati e ai Romani. La più breve e la prima ad essere scritta, in tutti e due i gruppi, serve rispettivamente di trama alla seguente. La lettera ai Colossesi, più agile, più viva, più personale, mira ad uno scopo preciso e immediato, ed affronta un avversario determinato; l’Epistola agli Efesini, più piena, più matura, più studiata, fa astrazione dalle controversie e segue l’andatura regolare di un trattato dommatico. Nello stesso modo sono l’argomento e le idee; molte espressioni e molte frasi sono identiche; tuttavia la seconda non è una copia né un’imitazione della prima, ma vi si riconosce una mente che attinge liberamente dai suoi fondi, dominata dagli stessi disegni o dagli stessi bisogni; non vi è nulla dell’imitatore servile la cui mano si tradisce appunto dalla cura eccessiva di nascondersi. – L’Epistola ai Colossesi ha di speciale soltanto la polemica contro i settari (Col. II, 1-9; 16-23), una parola di circostanza (III; 1-4) e alcuni particolari di carattere personale (IV, 9-18). Invece l’Epistola agli Efesini non ha di particolare altro che l’esordio (Ef. I, 3-14), la definizione e la descrizione del corpo mistico (III, 15-20; IV, 21-24; V, 23-32) con la panoplia finale (VI, 6-17). Vi sono anzi, anche nelle parti proprie di ciascuna, parecchie idee e locuzioni comuni ad entrambe. I rapporti diventano anche più stretti nella sezione parenetica. Eccetto due o tre versetti, tutto il primo capitolo della lettera ai Colossesi si potrebbe ricostruire con frammenti presi qua e là nella lettera agli Efesini, ma collocati in un contesto diverso. Questa è una prova fortissima dell’autenticità delle due Epistole. – Se le volessimo studiare separatamente, ci esporremmo a mille ripetizioni; meglio dunque è prendere l’idea dominante di ciascuna e collegarvi i passi paralleli dell’altra. L’idea principale dell’Epistola ai Colossesi è indiscutibilmente la preminenza del Cristo considerato tanto nella sua vita divina in seno del Padre, quanto nelle sue relazioni col mondo; quella dell’Epistola agli Efesini non è meno chiaramente l’unione dei fedeli col Cristo e nel Cristo, come membra del corpo mistico. La prima può avere come epigrafe: « Bisogna che il Cristo primeggi in tutte le cose (Col. I, 18) »; la seconda: « Il Cristo è tutto in tutti (Col. III, 11) ».

2. Le ipotesi fatte intorno ai novatori di Colossi, sono svariate come i colori dell’arcobaleno: a vòlta a volta quei settari sono divenuti pitagorici, epicurei, stoici, neoplatonici, esseni, farisei, ebioniti, cabalisti, caldei o maghi, gnostici, partigiani di Cerinto o di Valentino e persino — chi lo crederebbe? — discepoli di Apollo o di Giovanni. Queste stravaganze che fanno poco onore al fiuto critico degli esegeti e dimostra che la loro fantasia si sviluppa qualche volta a spese del buon senso, deve insegnarci la circospezione nel risolvere un problema in cui le incognite sono più numerose che i dati. – E certo che la grandissima maggioranza dei fedeli di Colossi veniva dal gentilesimo, e se tra loro vi erano Ebrei convertiti, dovevano essere un’infima minoranza, poiché San Paolo non fa nessuna allusione alla loro esistenza. Le parole: « La Legge che era contro di noi, che ci era contraria (Col. II, 14) », non provano punto l’origine ebraica dei Colossesi, poiché la Legge era dannosa ai Gentili come agli Ebrei, benché per ragioni diverse. E poi, prima della loro conversione, i Colossesi erano « stranieri » alla teocrazia d’Israele (Col. I, 10), e non ricevettero mai altra circoncisione che quella spirituale, quella del Cristo (Col. II, 11-13). Il fatto che ebbero come loro apostolo un pagano convertito, Epafra, ha esso pure il suo valore: è ben difficile immaginarsi che egli avesse potuto costituire e regolare una chiesa in cui la maggioranza o una parte notevole fosse stata di razza ebrea. – Tuttavia le tendenze dei falsi dottori sono nettamente giudaizzanti, non di quel giudaismo intransigente che voleva imporsi nella Galazia o anche a Corinto, ma di un giudaismo temperato e a piccole dosi, di un giudaismo benigno, capace di transazioni e di compromessi. – Le tendenze giudaizzanti si deducono evidentemente dal passo seguente: « Nessuno vi giudichi nel mangiare o nel bere, o in materia di feste, di neomenie o di sabati; questa è un’ombra delle cose future il cui corpo (cioè la realtà e la sostanza) appartiene al Cristo (Co. II, 16-17) ». Chi possiede il corpo non si cura d’inseguire l’ombra, chi ha la realtà, non sa che farsi della figura. Neomenie, sabati, leggi relative agli alimenti e altre prescrizioni ebraiche non hanno più importanza e neppure significato; esse avevano un senso soltanto come figure dell’avvenire. Ora questi vecchi precetti sono morti per noi, perché Gesù Cristo li ha inchiodati alla croce, per impedire loro di tiranneggiare ancora gli uomini; e noi siamo morti per loro, poiché partecipiamo misticamente alla morte reale del Cristo. – “Se morendo col Cristo voi foste liberati dagli elementi del mondo, perché vi lasciate ancora imporre leggi, come se viveste nel mondo! Vi si dice: « Non prendete, non gustate, non toccate! Tutto questo è di uso pericoloso ». (Sì; ma soltanto) secondo i precetti e la tradizione degli uomini”. (Col. II, 20-22). Questo giudaismo non è affatto l’osservanza pura e semplice della Legge, ma vi si mescolano precetti arbitrari che non ebbero mai la sanzione di Dio, e che Paolo, dietro l’esempio del Maestro, chiama tradizioni umane: tali le restrizioni che riguardano le bevande di cui il legislatore degli Ebrei non aveva parlato. Invece i novatori non sembrano aver insistito su la circoncisione, altrimenti l’Apostolo non si accontenterebbe di un’allusione sprezzante alla circoncisione fatta dalla mano dell’uomo (Col. II, 11), la quale non ha, come il Battesimo, la virtù di spogliarci « del corpo di carne », cioè delle influenze cattive opposte all’azione dello Spirito. Di qui si vede che il giudaismo di Colossi non somigliava molto a quello dei farisei di Gerusalemme, di Antiochia e della Galazia: esso era un sincretismo strano con speculazioni e pratiche di origine ben diversa. « Badate che alcuno non vi seduca per mezzo della filosofia inutile e ingannatrice, secondo la tradizione degli uomini, secondo gli elementi del mondo, e non secondo il Cristo (Col. II, 8) ». Qui la filosofia non è lo studio o l’amore della sapienza, ma un complesso di fantasticherie che i ciarlatani di Colossi fregiavano forse col nome di filosofia per ipnotizzare le folle che si lasciano sempre colpire da bei nomi altisonanti. L’Apostolo le chiama col vero loro nome di inganni inutili. Esse si appoggiavano su « le tradizioni degli uomini », e con questo possiamo intendere tanto le dottrine di una scuola filosofica, per esempio quella di Pitagora, quanto gl’insegnamenti che le sette giudaiche di quel tempo pretendevano di aver ricevuto da Mosè per tradizione orale, come pure uno di quei sistemi ibridi risultanti da un sincretismo giudeo-pagano, così comuni allora. L’ultima ipotesi è certamente la più probabile e quella che spiega meglio quella mescolanza sconcertante di osservanze e di speculazioni contradittorie. Gli Ebrei hanno fornito soprattutto le pratiche, i filosofi pagani hanno dato le idee. Ora tutto questo — idee e pratiche — è da San Paolo messo tra gli elementi del mondo. Gli elementi del mondo rappresentano le nozioni rudimentali che convengono all’infanzia dell’umanità e che i sapienti — o Dio medesimo adattandosi alla sua debolezza — le insegnano come un alfabeto, per prepararla ad un insegnamento più elevato, più virile, più divino. Anche la Legge di Mosè viene compresa in questa istituzione elementare. Quando apparirà Colui nel quale la pienezza della divinità abita corporalmente e nel quale stanno nascosti tutti i tesori di scienza e di sapienza, quei bagliori crepuscolari svaniranno come ombre; ogni insegnamento che non è « secondo il Cristo » sarà riprovato. Due pratiche, frutto immediato delle speculazioni filosofiche, non hanno un carattere giudaizzante ben marcato: l’ascetismo esagerato e il culto mal inteso degli angeli. « Queste osservanze — dice l’Apostolo alludendo alle diverse proibizioni alle quali si sottomettevano i Colossesi — hanno una rinomanza di sapienza per la loro apparenza di pietà spontanea, di umiltà e di disprezzo del corpo, (ma) non hanno in sé nulla di onorevole, (non riuscendo) che ad impinguare la carne (Col. II, 23). » Ecco un effetto davvero inatteso delle privazioni e delle austerità. Le macerazioni fatte arbitrariamente possono impinguare la carne anche estenuando il corpo. Qui si riconosce il linguaggio e la dottrina di Paolo. Il dire poi quali fossero quelle astinenze, su quali dottrine si appoggiassero, come derivassero da speculazioni teoriche, non ci è permesso dalla forma troppo elittica del discorso. Lo stesso sentimento di modestia esagerata, alleandosi con la stessa pretesa di sapienza, metteva in onore il culto delle potenze superiori a scapito del solo vero Mediatore. I fedeli stiano in guardia contro le mene di quel falso devoto che li ingannerebbe, dopo di aver ingannato se stesso, « fondandosi sopra le sue visioni, vanamente gonfiato nel suo intendimento carnale e non aderendo al capo (Col. II, 17-19) » da cui, parte tutto l’influsso vitale per animare il corpo mistico. L’intendimento carnale è quello che si chiude all’azione dello Spirito Santo e si apre alle ispirazioni della natura, sempre soggetta all’illusione e all’errore. Questo fa supporre che le devozioni dei Colossesi si collegassero con le loro vedute filosofiche e fossero il prodotto dei loro istinti visionari. Che nome dare a quegli illuminati? La cosa non ha troppa importanza, e forse non vi è nome in uso che a loro convenga; furono chiamati esseni gnostici (Lightfoot). Queste due parole a prima vista sembrano fare a pugni, poiché il gnosticismo storico era essenzialmente antigiudaico. Ma in origine non fu così, e l’esempio di Corinto dimostra che il giudaismo ebionitico poteva stare con uno gnosticismo rudimentale. La denominazione proposta si può dunque accettare, purché s’intenda di non parlare di esseni né di gnostici propriamente detti. Gli esseni vivevano raggruppati presso il Mar Morto, e non si constata la loro presenza, neppure allo stato sporadico, oltre i confini della Palestina e della Siria. D’altra parte i declamatori di Colossi non si identificano con nessuna setta gnostica storicamente riconosciuta. I caratteri essenziali di questa eresia mobile e mutevole, il dualismo, l’emanazione degli eoni, il docetismo, trapelano appena negli errori di Colossi. Se era essenismo, non era più essenismo della Palestina;, se era gnosticismo, non era ancora gnosticismo del secondo secolo. Ma ecco appunto dove sta la difficoltà: come spiegare le tendenze giudaizzanti in una chiesa in cui l’elemento ebreo era così scarso, il colore essenico delle dottrine in un paese tanto lontano dalla Palestina, le idee gnostiche prima che apparisse lo gnosticismo? Gli Ebrei erano molto numerosi nella valle del Lico dove si erano incredibilmente moltiplicati da quando Antioco il Grande aveva trasportato nella Lidia e nella Frigia due mila famiglie di prigionieri israeliti. Cento e venti anni prima del tempo di cui trattiamo, il contributo mandato dal solo distretto di Laodicea al tempio di Gerusalemme, ammontava a più di venti libbre d’oro, il che suppone una popolazione adulta di più di dieci mila uomini liberi. L’influenza religiosa di quegli Ebrei abborriti e disprezzati, dovunque si stabilissero, è tanto certa quanto inesplicabile. Si ammirava la loro morale e la serietà delle loro convinzioni, si assisteva alle loro assemblee, si ascoltava volentieri la lettura dei loro libri santi e, se di rado si accettava la circoncisione, volentieri si accettavano gli altri riti. Tanto più che gli Ebrei, senza rinnegare il loro rigido monoteismo che li rendeva così superiori alle meschine mitologie pagane, sapevano condirlo con speculazioni teosofiche che allora erano di moda. Gli esseni, i terapeuti, Filone, il libro di Enoc, gli Oracoli sibillini, il quarto libro dei Maccabei dimostrano abbastanza tale stato di spirito: gli Ebrei non avrebbero fatto mai un tale sforzo per estendere il loro proselitismo, valendosi della filosofia. A loro si attribuiva la specialità delle scienze occulte; a Roma erano confusi con i Caldei; un poco dappertutto passavano come astrologi, e tale reputazione non solo non era dannosa per loro, ma ingrandiva la loro azione. – Quel nuovo giudaismo doveva incontrare favore presso i Frigi che in ogni tempo furono celebri per la loro tendenza all’illuminismo. – Si sarebbe detto che ve li spingeva lo stesso loro paese: quella natura aspra, tormentata, scossa periodicamente da terribili terremoti, lacerata da crepacci che vomitano ancora vapori sulfurei, pareva il teatro di antiche lotte tra potenze sovrumane. Si mostrava a Gerapoli, poco lontana da Colossi, una bocca dell’inferno chiamata Plutonio; un antico filosofo di quelle contrade, Talete, aveva detto: « Il mondo è un essere animato e pieno di demoni »; i riti in onore di Cibele, di Diana e di Sabazio ci fanno vedere fin dove poteva arrivare l’esaltazione mistica di quei popoli. La Frigia fu sempre il paese in cui allignarono le sette gnostiche più stravaganti; dalla licenza più sfrenata si passava al più rigido puritanesimo: era la patria di tutti i fanatismi e di tutti gli eccessi.

CONOSCERE SAN PAOLO (15)

CONOSCERE SAN PAOLO (15)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

L’Epistola ai Romani (5)

TERZA SEZIONE.

Lo scandalo della riprovazione degli Ebrei

I. DIO FEDELE E GIUSTO NEL RESPINGERE GLI EBREI.

1. DIO LIBERO NELLA SUA ELEZIONE. — 2. DIO PADRONE DELLE SUE MISERICORDIE. — 3. L’ESEGESI DEI PADRI .

  1. Al momento in cui lo sviluppo dommatico sembra esaurito, e quando non si aspetta più altro che la conclusione morale, un’obbiezione angosciosa, implacabile, sorge dinanzi all’Apostolo il quale non può fare a meno di affrontarla. Ora si è avverato che la gran massa degli Ebrei, respingendo gli inviti del Cristo, rendendo vani gli sforzi dei Dodici e dello stesso Paolo, resterà fuori della Chiesa alla quale affluiscono i Gentili da tutte le parti. Triste contrasto ed enigma inesplicabile! Non è forse il rovesciamento di tutte le profezie e una smentita data dai fatti alle promesse divine? Cento volte Jehovah si era proclamato il liberatore e il salvatore del suo popolo; il Messia doveva essere prima di tutto il redentore degli Ebrei; Sion era stata predestinata ad essere il centro della teocrazia messianica e come tratto di unione delle nazioni infedeli. Ora non soltanto i Gentili entrano nella Chiesa senza passare dalla Sinagoga, ma vi entrano quasi soli, mentre gli Ebrei, i cui diritti sembravano preponderanti, se non esclusivi, se ne trovano sbanditi. – Questo è il problema il cui esame occupa tre capitoli (IX – XI) di una oscurità proverbiale. La difficoltà dipende principalmente da due cause: l’abitudine ben nota di San Paolo, d’isolare i diversi aspetti di una questione, di mantenervi per qualche tempo, di scrutarne i nascondigli più tenebrosi, senza curarsi dei possibili malintesi, delle probabili interpretazioni sbagliate; poi la molteplicità straordinaria di citazioni bibliche che ogni momento spezzano il filo del ragionamento, gettano nella mente del lettore delle idee parzialmente estranee alla tesi e formano un agglomeramento eterogeneo di testi dei quali è impossibile analizzare il senso letterale prima di fissarne l’applicazione particolare. Non vi è forse in tutta la Scrittura una pagina in cui sarebbe più pericoloso il perdere di vista il pensiero principale, esagerando il valore dei particolari. – Vediamo anzitutto qual è il punto preciso della questione. Non è: « Perché quell’uomo è predestinato alla gloria, e quell’altro è votato alla dannazione? » e neppure: « Perché, in pratica, quell’uomo è salvato, e quell’altro è riprovato? » e neppure: « Perché quell’uomo, a preferenza di quell’altro, è chiamato alla fede? ». L’oggetto di Paolo è concreto, e il suo scopo è affatto pratico: egli vuole togliere lo scandalo cagionato dall’infedeltà degli Ebrei e rispondere a questa domanda: « Perché il popolo di Dio, erede nato delle benedizioni e delle promesse messianiche, ha ripudiato il Vangelo, unico mezzo di salute? ». Daremo un’idea generale della risposta dicendo che, dei tre capitoli dedicati alla questione, il primo rivendica la giustizia e la fedeltà di Dio, senza entrare nel vivo del problema, il secondo ne spiega il perché da parte dell’uomo, il terzo ne espone la ragione provvidenziale. – Paolo non contesta nessuna delle prerogative degli Ebrei (Rom. IX, 4-5): Israeliti, essi portano il nome di uno dei più grandi favoriti di Jehovah; essi godono dell’adozione divina e sono, collettivamente e come nazione, fìgli di Dio; a loro fu manifestata la, gloria (la shekinah), quello splendore soprannaturale da cui venivano alle volte circondati l’arca e il tempio; a loro appartengono le alleanze conchiuse in circostanze solenni tra Dio e il popolo; a loro appartiene la Thora, stabilita dagli angeli e promulgata da Mosè in mezzo ai fulmini del Sinai; a loro il culto legittimo, il solo degno di Dio e a Lui gradito; a loro le promesse messianiche non interrotte da Abramo fino all’ultimo dei profeti; a loro i patriarchi, l’egida e l’orgoglio d’Israele; finalmente e soprattutto a loro appartiene il Cristo, nato dalla stirpe di Abramo e del sangue di Davide secondo la carne, Egli che è nel tempo stesso il Dio re dei secoli. Questi nove privilegi, così gloriosi per le memorie che destano, così strazianti per i contrasti che suggeriscono, cadono l’uno dopo l’altro come il grido di un dolore sempre più vivo dal cuore straziato dell’Apostolo il quale vorrebbe essere anatema per i suoi fratelli e pagare la loro salvezza con la sua vita e con la sua felicità (ivi, IX, 3). E questa lunga enumerazione, così sapientemente graduata e di un effetto così vivo, rende più intenso l’interesse della questione e più sconcertante il paradosso della riprovazione degli Ebrei. I Gentili che non sono nulla per Dio, e per i quali Dio non è nulla, sono chiamati alla fede, mentre la nazione santa, la stirpe sacerdotale, la casa di Jehovah ne è esclusa! Gli eredi naturali sono diseredati, i figli legittimi sono soppiantati da intrusi, le promesse sembrano dimenticate, i patti violati. Come conciliare tutto questo con la fedeltà e con la giustizia divina? – Parliamo prima della fedeltà. Le pretese degli Ebrei poggiano sopra un malinteso. Se invocano il nome di Abramo come un  palladio che li deve mettere al riparo da ogni male, se considerano il sangue d’Israele come una specie di sacramento che li deve salvare ex opere operato, senza tener conto delle disposizioni personali, il loro errore è completo e inescusabile: sarebbe un non voler riconoscere il senso e il valore delle promesse divine. Vi è l’Israele secondo la carne e l’Israele di Dio: al primo non è dovuto nulla, al secondo appartiene la promessa. Così pure vi è la posterità carnale di Abramo, e vi è la sua posterità spirituale, e solo quest’ultima è erede delle benedizioni: « Non tutti quelli che portano il nome d’Israele, sono Israele, né tutti quelli che discendono da Abramo, sono figli di Abramo (IX, 6-7) ». La storia sacra ci dà la prova evidente di questo doppio fatto. Tra tutti i figli di Abramo, Isacco solo, il figlio del miracolo, il figlio della promessa, eredita le benedizioni promesse alla stirpe di Abramo: Ismaele e il figlio di Cethura non ne partecipano. – La quahtà di fìgb di Abramo non è dunque nulla per se stessa, ed è un abuso il prevalersene contro Dio il quale rimane sempre il padrone dei suoi doni e dei suoi benefizi. Lo stesso avviene precisamente anche per Isacco: una nuova scelta viene fatta tra i suoi figli, e qui risplende ancora di più la libertà di Dio. Le stesse circostanze esterne accompagnano la concezione e la nascita dei due gemelli; la sola differenza sarebbe a favore di Esaù che vede la luce per il primo. Intanto la scelta di Dio, indipendente da qualunque diritto acquisito e da qualunque considerazione umana, cade su Giacobbe. “Prima che fossero nati, prima che avessero fatto qualsiasi cosa di bene o di male, affinché il proponimento di Dio che è secondo l’elezione sussistesse, (proponimento derivante) non dalle opere ma da Colui che chiama, fu detto alla loro madre: « Il maggiore servirà il minore », come pure è stato scritto: « Ho amato Giacobbe ed ho odiato Esaù ».” (IX, 11-13) Poiché l’Apostolo appoggia d suo ragionamento su testi scritturali, bisogna credere che egli li prenda nel loro senso vero. Risaliamo dunque ai due passi citati. A Rebecca fu detto: Vi sono nel tuo seno due nazioni, “E due popoli usciranno dal tuo ventre; Uno dei popoli dominerà l’altro E il maggiore servirà al minore” (Gen. XXV, 25). Né nel testo della Genesi né in quello di Malachia, fusi insieme in una citazione composta, non si tratta di Esaù e di Giacobbe come individui; essi appariscono come capi di razza e sono identificati, secondo l’usanza biblica, con la loro discendenza che forma con loro una persona morale. Esaù personalmente non fu mai servo di Giacobbe; ma lo fu soltanto come padre degli Idumei e nella persona dei suoi figli. Nel testo di Malachia si tratta ancora più chiaramente di popoli e non di individui: “Io vi ho amati, dice il Signore. Voi dite: Come ci avete amati? — Esaù non è forse d fratello di Giacobbe? dice il Signore. Eppure io ho amato Giacobbe ed ho odiato Esaù ed ho votato le sue montagne alla devastazione e la sua eredità alle fiere del deserto. Se Edom viene a dire: « Noi siamo perduti, ma rialzeremo le nostre rovine », essi costruiranno, dice il Signore, ed io distruggerò; e saranno chiamati la nazione empia, il popolo contro il quale Jehovah è sdegnato per sempre” (Mal. I, 1-3). Questi due testi hanno di comune il fatto che considerano delle nazioni e non delle persone, ma del resto i due casi sono totalmente diversi. Prima dell’esistenza dei due popoli e prima della nascita dei loro capi, indipendentemente da qualunque merito acquisito e previsto, Dio destina agli Israebti, a preferenza degli Idumei, l’onore e il favore di essere i depositari delle speranze messianiche e gli eredi delle promesse. Da tale privilegio derivavano prerogative temporali e spirituali, con una provvidenza speciale che garantiva Israele dalla rovina. Gli Israeliti non erano per questo assicurati della salute né preservati dall’infedeltà; ma avevano, come membri del popolo eletto, un vantaggio sopra gli altri popoli, vantaggio che essi dovevano non ai loro meriti o a quelli dei loro padri, ma alla libera scelta di Dio. Malachia ci porta ad un altro punto della storia dei due popoli fratelli. Sdegnato contro i loro peccati, Dio suscita Nabucodònosor per punirli insieme; ma mentre Edom, come nazione, scompare dalla faccia della terra, Israele, come nazione, sopravvive. È questo un favore puramente temporale? In se stesso, sì; ma non nella sua causa e nei suoi effetti. Israele è risparmiato, benché colpevole, perché porta la speranza del mondo. Insomma, prima di qualunque merito, Dio sceglie Israele e lo preferisce a Edom; dopo il loro comune demerito, perdona a Israele a preferenza di Edom. Dunque, mancando ogni merito, Dio è padrone di preferire chi vuole; a parità di demeriti, Dio è padrone delle sue misericordie. Questi testi, come si vede, provano bensì l’indipendenza di Dio nella distribuzione delle sue grazie, ma non hanno nessuna relazione diretta con la salute eterna di Giacobbe o con la dannazione di Esaù, e meno ancora con la predestinazione o con la riprovazione dell’uomo in generale. Se certi teologi ci avessero riflettuto, si sarebbero risparmiate molte teorie inutili. La fedeltà di Dio è così rivendicata: Dio ha mantenuto tutti i suoi impegni nella misura in cui b aveva presi, perché non si era mai legato con gli individui in particolare. Egli detestò Edom perché Edom era degno di odio; predilesse Israele e continua ancora ad amarlo, benché Israele sia immeritevole di amore; ma questo non ha impedito che molti Israeliti non avessero parte a quei favori speciali. Dio sarebbe dunque ingiusto con loro? Si vede che il pensiero dell’Apostolo prende una piega diversa: si trattava di nazioni, ed ora, si tratterà di persone.

2. Anche qui, come prima, Dio conserva la sua indipendenza e concede le sue grazie quando vuole e come vuole. L’esempio di Mosè e di Faraone lo mostra sotto due aspetti diversi. Mosè domanda un favore al quale nessun uomo ha diritto, quello cioè di vedere la faccia di Dio; e Dio glielo nega, pure concedendogliene un altro che egli non domandava. Al povero che stende la mano, il ricco fa la limosina che vuole, oppure non ne fa nessuna: la giustizia non lo obbliga a nulla. Nel caso di un favore assolutamente gratuito in cui non può entrare nessun merito antecedente — come nell’esempio molto bene scelto da San Paolo — questa conclusione s’impone per la sua evidenza: Non est volentis neque currentis sed miserentis est Dei. Ma guardiamoci bene dal tradurre con un certo numero di Padri troppo solleciti di salvare la libertà dell’uomo: « Non basta il volere e il correre, ma bisogna che Dio faccia misericordia »; e neppure: « Non giova a nulla il volere e il correre, se Dio non fa misericordia ». La sola traduzione legittima e conforme al contesto è quella che suggerisce Sant’Agostino: « Non serve il volere e il correre, ma tutto dipende dal Dio delle misericordie ». – Una grazia puramente gratuita, come quella che domandava Mosè, non può essere subordinata all’azione dell’uomo né condizionata da questa. L’indurimento di Faraone, in fondo, dimostra la stessa cosa, perché la grazia efficace della conversione è una grazia puramente gratuita. L’indurimento dell’uomo si può considerare come un castigo di Dio il quale ritira a poco a poco il suo aiuto, in punizione delle colpe precedenti: così l’Apostolo ha spiegato l’accecamento dei Pagani in principio della sua lettera. Ma per quanto riguarda Faraone, la Scrittura ci presenta il suo indurimento come un effetto della pazienza e della longanimità di Dio. Dio lo indurisce moltiplicando i miracoli che lo dovrebbero commuovere e, come gli Ebrei contemporanei di Gesù Cristo, lo acceca con la luce. – Origene assai giustamente ha osservato che Faraone incomincia a commuoversi sotto la mano di Dio quando lo colpisce, e ritorna a indurirsi quando sembra che Dio temporeggi. In ogni caso, come notano parecchi Padri seguendo Origene, Dio indurisce soltanto l’uomo che è già duro per colpa sua, e lo indurisce soltanto per un fine degno della sua giustizia e della sua sapienza. Perciò l’indurimento viene attribuito ora all’uomo che ne è il vero autore con le sue volontarie resistenze, ora a Dio che ne è la causa occasionale con la troppa benignità, oppure che lo permette per una giusta vendetta, subordinandolo tuttavia ad un fine più elevato: « Io ti ho suscitato, si dice a Faraone, appunto per mostrare in te la mia potenza e perché il mio nome sia annunziato in tutta la terra ». Siccome la parola greca significa « eccitare » e « suscitare », bisogna prendere il secondo significato, il solo conforme al senso dell’originale, ma conviene lasciare alla particella « per » il suo valore naturale. Vi è da parte di Dio più che un semplice permesso, vi è intenzione e finalità. L’atto di un generale che abbandoni al nemico un esercito ribelle, oppure quello di un medico che non si occupi più di un ammalato recalcitrante, non è un puro permesso: è un castigo o una vendetta. Ricordiamoci però che Dio non può volere direttamente il male, Egli lo permette soltanto per correggere o per volgerlo in bene. I suoi disegni sono impenetrabili: « Egli fa misericordia a chi vuole », poiché non vi è volontà che egli non possa piegare con la sua grazia; « egli indurisce chi vuole », lasciandolo perseverare e ostinarsi nel suo indurimento, per ragioni di cui non ha da rendere conto a nessuno. – “Tu dunque mi dirai: Perché si lagna ancora? poiché chi resiste alla sua volontà? O uomo! chi sei tu dunque, tu che ti costituisci avversario di Dio? Forse che il lavoro dice all’operaio: Perché mi hai fatto così? Il vasaio (che plasma) l’argilla non può fare della stessa massa un vaso di onore e un vaso d’ignominia? E se Dio, volendo mostrare la sua collera e manifestare la sua potenza, ha sopportato con molta longanimità i vasi d’ira disposti per la perdizione; affine di manifestare la ricchezza della sua gloria verso i vasi di misericordia che ha preparati per la gloria (verso) noi che Egli ha chiamato non solo tra gli Ebrei ma anche tra i pagani?…” (Rom. IX, 19-24). – Questa obiezione mira senza dubbio all’aforisma del versetto precedente: « Dunque Dio fa misericordia a chi vuole e indurisce chi vuole ». Essa non è tanto contro il ragionamento dell’Apostolo, quanto contro la condotta di Dio il quale da una parte rimprovera i peccatori e dall’altra tiene in sua mano il cuore degli uomini, come spesso afferma la Scrittura. Essa è assurda, poiché lascia supporre che Dio è l’autore del peccato e che si lagna senza ragione del peccatore: capriccio, arbitrio o inconseguenza. Essa si appoggia sopra l’espressione materiale di un pensiero che trova nel contesto la sua limitazione e il suo commento. La massima: Dio fa misericordia a chi vuole e indurisce chi vuole non è che la morale della storia di Mosè e di Faraone. Dio, nel concedere favori puramente gratuiti, fa misericordia a chi vuole, come fece con Mosè; nella punizione del colpevole al quale sottrae d suo aiuto efficace, oppure lo colma di nuovi favori di cui il peccatore abusa per colpa sua, indurisce chi vuole, come fece con Faraone. L’obiezione dunque non regge: perciò San Paolo non risponde direttamente, ma si accontenta di ripetere la risposta ordinaria degli autori ispirati, in simile occorrenza. – Questo basta per chiudere la bocca ai suoi contradittori. L’uomo non ha mai il diritto d’intentare un processo a Dio, né di chiedergli conto dei suoi atti e dei suoi disegni: la creatura non ha nulla da rimproverare al Creatore, come il lavoro all’operaio che lo ha fatto. È probabile che l’Apostolo non abbia altro di mira: quasi tutti i Padri lo hanno inteso così, e i testi citati non dicono nulla di più. – Il punto preciso del paragone sarà dunque l’atteggiamento che deve avere il lavoro verso l’operaio che lo ha fatto, la creatura verso il suo Creatore. Paolo non dice: « Dio si comporta verso le creature libere, come l’operaio con la materia inerte »; egli così distruggerebbe la sua argomentazione e toglierebbe a Dio ogni diritto di lagnarsi, poiché non si è mai veduto un operaio di buon senso rimproverare l’utensile da lui fabbricato perché non sia migliore. Paolo non dice neppure: « Dio potrebbe comportarsi con l’uomo, come l’artefice con la sua opera », perché rinforzerebbe l’obiezione dell’avversario invece di eliminarla; e poi è manifesto che la condotta dell’operaio non può essere la misura di quella di Dio. Paolo dice: « Ancorché Dio trattasse la sua creatura come il vasaio tratta l’argilla, la creatura non avrebbe diritto di alzare la sua voce contro di Lui », perché l’opera, come tale, non ha nessun diritto contro l’artefice. Se poi si vuole spingere più innanzi la similitudine e vedere nel vasaio il quale forma vasi per diversi usi, l’immagine di Dio che forma a suo talento i cuori e i destini degli uomini, questo si farà a proprio rischio e pericolo, senza la garanzia dell’Apostolo. In ogni caso non bisognerà mai, se non si vuole travisare il pensiero dell’Apostolo, dimenticare le differenze che vi sono tanto da parte dell’operaio quanto da parte del lavoro.

Differenze da parte dell’operaio. L’uomo è capace di capriccio, di arbitrio, di pazzia, d’ingiustizia. Dio non è così e, se può tutto, non può nuda che sia contrario alla sua sapienza. L’uomo, se non ha perduto il buon senso, non si irrita contro l’opera delle sue mani, perché la forma a suo talento, senza cooperazione e senza resistenza da parte dell’opera fatta: invece lo sdegno di Dio si accende con ragione contro d peccatore che rende vari i suoi disegni e non corrisponde alle sue grazie. –

Differenza da parte dell’opera. Una volontà libera non si può assimilare ad una materia inanimata; e Dio non manipola la libertà come il vasaio maneggia la creta. Se si vuole a ogni costo estendere fino a questo punto il paragone, bisognerà almeno osservare che la massa comune da cui il vasaio trae i suoi lavori, è buona o indifferente e non può servire di figura per la massa del genere umano, corrotta dal peccato originale: idea che è del resto affatto estranea al contesto. – L’interpretazione più pericolosa sarebbe quella d’identificare i vasi di onore e di ignominia, con i vasi d’ira e di misericordia. Non vi è nulla che autorizzi questa ipotesi, perché l’espressione è diversa e le condizioni non sono le medesime. I vasi formati dal vasaio per usi vili, non sono affatto oggetto della sua collera; essi sono buoni e utili come i vasi di onore, benché di una bontà e di una utilità minore. D’altra parte i vasi d’ira e di misericordia non sono i vasi destinati, riservati alla collera e alla misericordia. Si tratta del passato e del presente, non già dell’avvenire. In vasi di misericordia sono gli uomini ai quali Dio ha fatto misericordia chiamandoli alla fede; i vasi d’ira sono quelli che meritano, per la loro infedeltà, la giusta ira di Dio. Essi « si sono disposti per la perdizione »; l’atteggiamento di Dio a loro riguardo è di « sopportarli con una longanimità senza limiti », per dare loro la possibilità di pentirsi, benché la giustizia sembri consigliargli una pronta vendetta.

3. Il contrasto di Esaù e di Giacobbe, la storia di Mosè e di Faraone, l’allegoria del vasaio, con le riflessioni che questi racconti suggeriscono all’Apostolo, hanno sempre esercitato la sagacia degli esegeti cattolici. Origene, per quanto se ne può giudicare dalla traduzione infedele di Enfino, se la sbrigava mettendo in bocca ad un avversario fittizio i testi più imbarazzanti del capo IX e supponendo che San Paolo rispondesse a ciascuna obiezione: Dio non voglia! Però, poco soddisfatto di un’esegesi che doveva dopo di lui avere tanta fortuna, riprende a uno a uno i testi e dimostra come essi siano d’accordo col libero arbitrio. Il suo vero pensiero bisogna cercarlo nel libro dei Princìpi, dove la questione è trattata ex professo. L’ardente campione della libertà umana non disconosce affatto la parte della grazia né l’iniziativa di Dio; ma nota molto giustamente, che il dovere dell’interprete è quello di mettere d’accordo i dati apparentemente contradittori. Una serie di ingegnose similitudini serve a spiegare l’indurimento di Faraone: il sole dissecca la terra e fa liquefare la cera, la pioggia qua fa nascere i cardi e là il frumento; così la longanimità di Dio e la manifestazione della sua potenza, che avrebbero dovuto toccare il cuore a Faraone, se fosse stato meglio disposto, non fanno che indurirlo. Fu Origene che inaugurò la formola tanto cara ai Padri greci, che cioè l’opera della salute non dipende unicamente dagli sforzi dell’uomo, ma anche e principalmente dalla misericordia divina. Sotto la penna di lui, il paragone del vasaio perdeva il suo angosciante mistero: erano i vasi d’ira che si disponevano da se stessi alla perdizione. L’ortodossia lo avrebbe potuto seguire fino alla fine, se egli non avesse fatto intervenire i meriti e i demeriti acquisiti in un’esistenza anteriore, per spiegare la. sorte disuguale di Esaù e di Giacobbe. Gli editori cappadoci della Filocalia sopprimono questo passo. San Gerolamo, che in tutto il resto ne segue le orme con una docilità forse eccessiva, qui lo abbandona senza riguardi (Epist. 120 ad Hedibiam). L’influenza esercitata da Origene su San Giovanni Crisostomo non si può negare; ma se il Crisostomo spesso s’ispira da Origene, non lo copia (omelie XVI-XIX su l’Epistola ai Romani). I testi difficili sono, ai suoi occhi, obiezioni presentate da San Paolo stesso per ridurre al silenzio gli Ebrei increduli; essi non contengono ancora la risposta dell’Apostolo, ma la preparano, mostrando con la Scrittura che vi sono misteri dei quali l’uomo non si può dare ragione; ma ancorché li prendesse come vero pensiero di Paolo, non ci sarebbe nessun inconveniente. Per esempio, il testo Non volentis neque currentis sed miserentis est Dei si dovrà intendere nel senso che non basta volere e correre, ma è indispensabile la grazia: « Bisogna volere e correre e mettere la propria fiducia nella bontà divina, e non nelle proprie forze, secondo quelle parole: Non io solo, ma la grazia di Dio con me ». La similitudine del vasaio ha lo scopo di far tacere gli importuni temerari. Spingendo di più l’analogia tra l’operaio e Dio, si verrebbe a finire nell’assurdo: nella sua condotta verso l’uomo, Dio non ha nulla di capriccioso o di arbitrario, perché è sapiente; Egli non può imputare alla sua creatura quello di cui Egli stesso è autore, perché è giusto. Si cita come obiezione la storia di Faraone: ma Faraone fece tutto il possibile per perdersi, mentre Dio non trascurò nulla per emendarlo e si decise finalmente a castigarlo quando lo vide incorreggibile: « Da che cosa deriva insomma che gli uni siano vasi d’ira, e gli altri vasi di misericordia? La ragione sta nella loro volontà. Dio infinitamente buono dimostra con tutti la stessa bontà. » La differenza tra gli uomini dipende dal diverso uso delle grazie: « Non tutti vollero rispondere alia chiamata di Dio; ma per quanto riguarda Dio, tutti sono stati salvati, perché tutti sono stati chiamati ». – Tale è, con differenze accidentali, l’esegesi della Chiesa greca. Tutti i commentatori, Teodoreto, San Giovanni Damasceno, Ecumenio, Eutimio, Teofìlatto, seguono da vicino il Crisostomo; San Basilio, Sant’Isidoro di Pelusio, San Cirillo Alessandrino e gli altri se ne allontanano di poco, se possiamo giudicarne dalle brevi citazioni delle Catene È giusto il dire che gli scrittori greci non ebbero mai che fare col pelagianesimo; Fozio è quasi il solo che ricordi le controversie pelagiane e non distingue neppure tra pelagiani e semipelagiani. Il misterioso anonimo chiamato per convenzione l’Ambrosiastro, occupa un posto di mezzo tra i Greci e Sant’Agostino che lo conobbe e lo cita col nome di Sant’Ilario. L’Ambrosiastro differisce dai Greci in questo, che considera i testi difficili del capitolo IX, fatta una sola eccezione, come il vero pensiero di Paolo, e non come obiezioni di qualche contradittore fittizio; differisce poi da Sant’Agostino in questo, che spiega tutti gli atti di Dio, vocazione, elezione, predestinazione, giustificazione, glorificazione, con la prescienza eterna; è anzi questa, si può dire, l’idea che domina il suo commentario. Se parla, come Agostino, dei predestinati e degli eletti alla salute eterna, se intende la loro glorificazione della gloria eterna, se ammette due specie di vocazione alla grazia, l’una che è secondo il proponimento perché ha di fatto la gloria come termine finale, l’altra che non sarebbe secondo il proposito, per colpa dell’uomo che ne neutralizza l’effetto, questi accordi parziali con Agostino non fanno altro che accentuare le divergenze radicali. Poiché, per l’Ambrosiastro, la prescienza divina non fa accettazione di persone: Dio vuole la salute di tutti gli uomini, ma non tutti gli uomini si vogliono salvare; egli fa misericordia a colui che prevede dovrà corrispondere alla grazia; la sua volontà non è cieca né arbitraria e non distrugge il libero arbitrio: Faraone resiste a Dio, e Dio ne fa un esempio terribile di giustizia. Ma l’anonimo oltrepassa i limiti dell’ortodossia quando pronunzia questo aforisma: Praeparare unumquemque est præscire quid futurum est. Del resto si vede benissimo che egli non tocca nel vivo la questione; non parla mai della volontà di Dio conseguente; si può rimandare la questione e, in questa materia spinosa, non è detta l’ultima parola: questo toccherà ad Agostino. Per quanto si possa ammirare Sant’Agostino come teologo, non si possono chiudere gli occhi sui difetti della sua esegesi. Nella seconda delle Questioni diverse a Simpliciano, dove egli esamina l’elezione di Giacobbe e l’indurimento di Faraone, dimostra perfettamente che la vocazione di Giacobbe è interamente gratuita e non dipende da nessun merito attuale o previsto, tanto come causa, quanto come condizione della scelta divina. Ma egli dimentica che nei testi citati da San Paolo, Esaù e Giacobbe sono nazioni e non individui; che la vocazione di Giacobbe è una destinazione alla dignità teocratica e non una chiamata alla fede; che l’amore per Giacobbe e l’odio contro Esaù si riferiscono ad un momento della loro storia, in cui l’uno e l’altro si sono resi colpevoli. Egli intravede, è vero, quest’ultimo punto, ma non ne trae le conseguenze, essendo tutto assorto nel problema che lo preoccupa (De divers. Quœstion. ad Semplician.). A partire dalle controversie pelagiane, la teologia di Agostino invade sempre di più la sua esegesi, e l’esegesi qualche volta ne soffre. Se egli ebbe il merito di sostenere che, nella vocazione secondo il proponimento, si tratta del proponimento di Dio, che la prescienza non è la ragione ultima dei decreti divini relativi alla nostra salute, che i passi diffìcili del capo IX dell’Epistola ai Romani esprimono proprio il vero pensiero di Paolo, ci può rincrescere che trascuri con troppa frequenza il contesto, il ricorso all’originale, il senso letterale delle citazioni bibliche, che consideri l’elezione e il proponimento di Dio come una predestinazione alla gloria, che si metta finalmente, sopra parecchi punti, in opposizione con tutti i suoi predecessori. Ma se non è il principe degli esegeti, egli resta però sempre l’incomparabile dottore della grazia.

II. RAGIONI PROVVIDENZIALI DELL’ABBANDONO DEGLI EBREI.

I . RESPONSABLLITÀ DEGLI EBREI INFEDELI. — 2. LA LORO CONVERSIONE SEMPRE POSSIBILE, UN GIORNO CERTA.

1. Paolo ha l’abitudine di far risaltare certi aspetti in apparenza contradittori, senza curarsi sempre di conciliarli. Mentre era ancora vivo, questa sua tattica più di una volta servì di pretesto ad accuse e fu causa di malintesi. Se chiudete l’Epistola ai Romani alla fine del capo IX, sarete tentati di riassumerne la dottrina in queste massime di un senso profondo, ma troppo facili ad essere travisate, se si separano dal loro contesto: « A nulla serve il volere, tutto dipende dal beneplacito divino. Dio fa misericordia a chi vuole e indurisce chi vuole. I destini degli uomini sono nelle sue mani, come la creta nelle mani del vasaio ». Una conclusione falsa, benché speciosa, ne sarebbe che l’uomo non ha nessuna parte nell’affare della sua salute, che la sua attività è completamente assorbita dall’iniziativa divina. Ma se si legge un po’ più innanzi, si troverà la parte correttiva: si vedrà che l’uomo risponde liberamente alla chiamata divina, che è padrone della sua sorte eterna, che la sua incredulità è inescusabile, che il suo indurimento mette il colmo alla misura dei suoi peccati. Secondo che si isola uno di questi contrasti esagerandolo, si è giansenista o pelagiano, discepolo di Calvino o di Arminio, si predestina alla salute e alla dannazione senza tener conto delle azioni dell’uomo, oppure si esalta il potere dell’uomo fino al punto di sopprimere l’iniziativa e l’indipendenza di Dio. – Il nuovo aspetto della dottrina di Paolo si può formulare in queste due proposizioni accompagnate dalle loro prove (Rom. IX, 30 e 36):

La colpa dell’incredulità degli Ebrei ricade sopra di loro.

Difatti: Essi hanno cercato la salute per una via che non ve lo poteva condurre. — Essi non possono portare come scusa né l’ignoranza né la buona fede; il loro torto è di aver seguito le tracce dei loro padri, liberi e infedeli al pari di loro. — Ma, se vogliono, possono ancora rimediare al male, abbracciando il Vangelo.

Del resto la riprovazione d’Israele non è totale nè definitiva.

Non è stata totale, poiché la Chiesa conta a decine di migliaia gli ebrei convertiti. — Non sarà definitiva, poiché un giorno la nazione si convertirà in massa. Che essi abbiano avuto « zelo per Dio », non si può negare; ma è uno zelo male illuminato « che non è secondo la scienza (X, 2) ».Essi hanno urtato contro la pietra d’inciampo, contro Gesù Cristo, il quale offriva loro la salute per mezzo della fede (IX, 32). Essi fanno unicamente assegnamento su la Legge della quale il Cristo è lo scopo e il termine (X, 4). Essi vogliono acquistare una giustizia che sia loro propria, che li dispensi dall’umiltà e dalla riconoscenza, e così non riconoscono la vera giustizia il cui carattere essenziale è di confondere la superbia (Rom. X, 3; IX, 31, 32). Finalmente essi cercano la loro salute nel particolarismo giudaico, « quando non vi è più differenza tra Giudei e Greci (XI, 32) », come chiaramente lascia capire la stessa Scrittura. Ciechi e disgraziati che si ostinano nel sentiero scosceso e sassoso della Legge, mentre la via aperta dal Cristo è così diritta, così larga, così comoda! Non si tratta di salire al cielo per trovarvi un Salvatore, poiché Gesù Cristo si è fatto uomo; non si tratta di scendere negli abissi, poiché Dio ne ha tratto fuori d Cristo; basta credere di cuore che Gesù è il Signore, e confessare con la bocca che Dio lo ha risuscitato da morte (X, 5-10). L’obiezione provocata da questa spiegazione, è che l’infedeltà degli Ebrei sembra ridursi così ad un errore invincibile, e perciò scusabile. Se si cammina in una via sbagliata per aver « ignorato la giustizia di Dio (X, 3) », è una disgrazia, ma non una colpa. Paolo non concede loro il benefizio di tale ignoranza: il Vangelo è stato loro predicato; è impossibile che non l’abbiano udito, poiché è risonato fino agli ultimi confini della terra (X, 18). Essi non hanno « obbedito al Vangelo (X, 16) »: questa è la vera causa della loro incredulità. Questo spettacolo, per quanto triste, non ha nulla di nuovo per chi conosce la storia d’Israele. La durezza del cuore è tradizionale presso gli Ebrei. Già ai suoi tempi se ne lagnava Isaia con queste parole: « Signore, chi ha creduto al nostro messaggio ?… Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo che non vuole credermi e che mi contraddice (Isaia, LXV, 2) ». Molto tempo prima di Isaia, avevano già meritato lo stesso rimprovero (Deuter. XXXII, 21). La loro infedeltà presente, oggetto di tanta meraviglia e di tanto scandalo, non è che un fatto di più, da aggiungere agli annali delle loro apostasie.

2. Ma la porta della Chiesa non è chiusa per loro. Paolo continua a pregare per loro (X, 1): egli non pregherebbe se sapesse che sono riprovati per sempre. Egli si sforza, a costo di mille pene, a guadagnarne qualcuno al Cristo, e i suoi sforzi hanno spesso un buon esito (Rom. XI, 14). L’incredulità li ha strappati dall’ulivo schietto, ma la fede ve lo può innestare di nuovo (XI, 23). Noi abbiamo qui ciò che forma d contrappeso esatto del capo IX, e qualunque teoria che trascuri uno di questi aspetti della questione, mutila il pensiero dell’Apostolo. Tuttavia la questione rimandata non è interamente risolta. Gli Ebrei portano la pena del loro indurimento, e la responsabilità della loro riprovazione cade su loro; la giustizia e la fedeltà di Dio sono così rivendicate; ma poiché egli tiene in sua mano i cuori degli uomini, non conveniva alla sua sapienza e alla sua bontà fare del popolo eletto il centro della Chiesa ed allargare l’antica teocrazia invece di trasportarla altrove? Questa è la questione che Paolo affronta nel terminare. Anzitutto egli nota che è posta male. « Forse che Dio ha rigettato il suo popolo? » Questa domanda chiede una negazione energica. Difatti essa contradice ad un’affermazione della Scrittura, ripetuta tre volte; e il solo avvicinamento di « Dio » e del « suo popolo » dimostra abbastanza l’impossibilità di una riprovazione che sarebbe da parte di Dio un’incostanza, se non un’infedeltà. « No, certamente; Dio non ha rigettato il suo popolo che ha conosciuto anticipatamente (XI, 1-2) ». L’uomo modifica la sua scelta perché non ne prevede tutti gli Sconvenienti; ma non così è di Dio il quale ha scelto Israele per suo popolo, nonostante le infedeltà previste. La ragione che Paolo ne dà, è che i doni di Dio sono senza pentimento. Israele, nonostante la sua indegnità presente, rimane caro a Dio per causa dei patriarchi; e l’elezione di cui essi furono oggetto, impegna in un certo modo la fedeltà divina (XI, 29). Ma altro è rigettare il popolo in quanto è popolo, altro è d permettere il traviamento degli individui. Infatti gli individui non furono mai protetti contro l’apostasia dal fatto che appartenevano al popolo eletto. Vediamo nella storia sacra, che la Provvidenza vegliò soltanto perché la defezione non fosse mai totale. Ciò che distingue Israele dalle altre nazioni, è che esso può essere castigato, disperso, quasi sterminato, ma non mai senza speranza di riaversi. Dio gli lascia sempre un residuo, un rampollo, un germe in cui si concentra per qualche tempo tutta la vita nazionale e su cui fiorirà la salute. Tra gli esempi di questa condotta provvidenziale di cui i profeti ad ogni pagina ci ricordano la legge, Paolo ne sceglie uno che si adatta mirabilmente alle condizioni di allora. Quando Elia si lagnava con Dio dell’apostasia generale di cui era il testimonio desolato, Dio gli rispose che si era riservati sette mila uomini i quali non avevano piegato il ginocchio dinanzi a Baal. Era il cuore della nazione santa, la speranza d’Israele e la prova vivente della fedeltà di Dio. « Così pure, conchiude l’Apostolo, in questo tempo vi è ancora un residuo, secondo l’elezione della grazia (XI, 5) ». L’applicazione è evidente: non si può dire che Dio abbia rigettato il suo popolo, come non si poteva dirlo al tempo di Elia. – Cosi è dissipata l’obiezione teologica; ma resta una difficoltà che si potrebbe chiamare di sentimento, un’obiezione popolare. Se in diritto la nazione come nazione non è rigettata, nel fatto la massa degli individui è infedele. Come si concilia questo con la provvidenza speciale di cui Dio circondava Israele? La risposta di Paolo è questa: l’apostasia degli Israeliti non è assoluta e non è definitiva. In altre parole: coloro che sono infedeli oggi, potranno essere fedeli domani; in ogni caso alla fine dei tempi, Israele ritornerà a resipiscenza ed entrerà in massa nella Chiesa. Vi è qui un insegnamento teologico ed una profezia; ma l’Apostolo vi mescola delle considerazioni profonde su la provvidenza soprannaturale e su le vie impenetrabili di Dio. – Che l’apostasia non sia completa, lo dimostra l’esperienza: Paolo stesso, uscito dal più puro sangue ebreo, non è forse cristiano? (XI, 1). La Chiesa di Gerusalemme è fiorente; essa si è diffusa per tutta la Palestina; un gran numero di Ebrei della diaspora hanno abbracciato il Vangelo. Alcuni mesi dopo l’invio della nostra lettera, San Giacomo potrà annunziare a Paolo le molte decine di migliaia di Ebrei convertiti (Act. XXI, 20). Non è che una minoranza, ma una minoranza importante: essa può aumentare; l’Apostolo spera che aumenterà, e in tale speranza va prodigando i suoi sforzi e le sue preghiere. In quanto poi alla conversione finale d’Israele, la speranza è una certezza. Paolo promulga altamente « questo mistero », sia che gli venga dalle sue rivelazioni, sia che lo presenti come una conseguenza infallibile degli oracoli profetici: « L’indurimento parziale d’Israele si à prodotto fino a che entrasse la pienezza delle nazioni, e così tutto Israele sarà salvato (Rom. XI, 25-26) ». Provvidenza ammirabile di Dio! I Gentili, prima increduli, sono stati chiamati alla fede in grazia dell’incredulità degli Ebrei; gli Ebrei non vogliono credere alla misericordia fatta ai Gentili, per essere alla loro volta l’oggetto della misericordia. « Dio ha chiusi tutti gli uomini nell’infedeltà affine di fare misericordia a tutti ». Non è qui il caso di esclamare: « O profondità di ricchezza e di sapienza e di scienza? » E come è possibile non adorare gli inscrutabili giudizi e disegni di Dio? Questa è l’ultima parola dell’Apostolo.