CONOSCERE SAN PAOLO (34)

 

LIBRO TERZO

CAPO III.

Gesù Cristo uomo.

1. LA NATURA UMANA DEL CRISTO: – 2. IL CRISTO VERAMENTE UOMO, MA UOMO-DIO. — 3. MISTERO DI QUESTA UNIONE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Non vi è nulla che uguagli l’enfasi con cui san Paolo afferma che il Cristo, del quale ha insegnato la preesistenza, è anche veramente uomo, simile a tutti gli altri uomini, eccetto il peccato. Gesù Cristo infatti non può essere mediatore perfetto se non a condizione di partecipare della nostra natura: « Unico è Dio, unico pure il mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo uomo (1 Tim., II, 5) ». Egli è vincitore del peccato e della morte unicamente in virtù della solidarietà la quale fa della sua causa la nostra: « La morte deriva da un uomo e la risurrezione dei morti (deve) pure (derivare) da un uomo (I Cor. XV, 21) ». – Queste asserzioni esplicite non devono lasciare nessun dubbio sul vero senso di certe espressioni che per se stesse si potrebbero prestare all’equivoco. Quando san Paolo dice che « il secondo uomo è del cielo (I Cor. XV, 47) », fa allusione alla sua origine eterna; egli lo oppone, sotto questo aspetto, al primo Adamo formato di terra e incapace di trasmettere ai suoi discendenti altra vita che quella psichica. Quando egli afferma che colui il quale era « nella forma di Dio » prese « la forma di schiavo (Fil. II, 6) » e comparve « nella somiglianza degli uomini », ben lungi dal negare la verità della natura umana, soggiunge subito che il Cristo fu « riconosciuto per uomo » per l’esperienza della sua vita intera, poiché fu capace di obbedienza e soggetto alla morte. Finalmente quando parla della missione del Figlio di Dio « nella somiglianza di una carne di peccato », evidentemente intende di escludere la carne peccatrice e non già la stessa carne, poiché tale missione aveva appunto lo scopo di « condannare il peccato nella carne (Rom. VIII, 3) ». – E quale esegesi perversa poté scoprire una qualunque traccia di docetismo nel passo seguente: « Se noi abbiamo conosciuto secondo la carne il Cristo, ora non lo conosciamo più (II Cor. V, 16) » in tale maniera? Altra cosa è il non riconoscere la realtà della carne del Cristo, e altra cosa è non più conoscere il Cristo secondo la carne, cioè secondo le idee, basse, terrene, carnali, degli avversari di Paolo. – Bisogna che il Cristo, per compiere la sua Missione sia veramente uomo; infatti, nell’economia attuale, Egli dev’essere il « secondo Adamo, il primogenito tra i morti, il primogenito tra molti fratelli, il pontefice » ideale (Rom. V, 14, I Cor., XV, 22, etc. ); ora se non fosse veramente uomo, non sarebbe il nuovo Adamo, né risuscitato, né pontefice, e non avrebbe per fratelli i santi. Nell’ordine attuale della Provvidenza, nel quale l’uomo cade e si rialza per il principio della solidarietà, era necessario che il Figlio di Dio assumesse la nostra natura, e non una natura superiore, che fosse uomo e figlio dell’uomo per essere tutto dedicato ai nostri interessi e capace di servirli. Egli doveva prendere la sua carne dalla massa peccatrice per deporre in essa un lievito di santificazione e doveva rivestirsi della somiglianza della carne del peccato per condannare il peccato nella carne. Perciò egli è « apparso nella carne (I Tim. III, 16) »; e la carne, per l’Apostolo, è l’anima unita al corpo, il composto umano. Egli dimostrò di essere veramente uomo con tutta la sua vita terrena e col suo lungo commercio con gli uomini, specialmente con la sua debolezza, con i suoi patimenti, con la sua morte e con la sua risurrezione: Habitu inventus et homo (Fil. II, 8). Egli discende dai patriarchi (Rom. IX, 5); è figlio di Abramo (Gal. III, 16); è figlio di Davide secondo la carne (Rom. I, 3); è nato, o più esattamente «fatto da una donna (Ga. IV, 4) », cioè formato con la sostanza e col sangue di una donna, senza il concorso dell’uomo e contro le leggi della generazione naturale; ma questo privilegio, dovuto alla sua dignità trascendente e al bisogno di spezzare ogni vincolo col peccato che doveva distruggere, non gli impedisce di essere veramente uomo quanto il primo Adamo che uscì direttamente dalle mani del Creatore (Rom. V, 15; I Cor. XV, 21; Fil. II, 8). – Dio e uomo ad un tempo, Gesù Cristo deve ricevere tutti i predicati che convengono a Dio e all’uomo. Questa comunicazione degli idiomi in nessun luogo è più rimarcata che in san Paolo. La preesistenza, l’esistenza storica e l’esistenza glorificata sono assai frequentemente riunite nello stesso periodo e riferite allo stesso soggetto, senza nessuna preoccupazione di quello che noi potremmo chiamare l’ordine cronologico:

a) Sussistendo nella forma di Dio.,… (Preesistenza),

b) prese la forma dello schiavo (Esistenza terrena),

c) perciò Dio lo ha esaltato (Fil. II, 6, 7, 9) (Esistenza gloriosa).

a) Per mezzo di lui fu creata ogni cosa

b) ed è il capo del corpo, della Chiesa,

c) Egli che è il principio, il primogenito dei morti (Rom. I, 3-4).

a) Egli si è fatto povero per noi,

b) egli che era ricco,

c) per arricchirvi con la sua povertà (II Cor. VIII, 9).

a) Riguardo suo Figlio,

b) diventato della stirpe di Davide secondo la carne,

c) stabilito Figlio di Dio dalla risurrezione dei morti (Rom. I, 3-4).

a) In lui abita corporalmente

b) tutta la pienezza della divinità

c) e voi avete parte della sua pienezza (Col. II, 9-10).

Siccome certi attributi non convengono alla natura umana, e altri sono incompatibili con la natura divina, bisogna necessariamente che vi siano in Gesù Cristo due nature: bisogna inoltre che in Lui vi sia una sola Persona, poiché il soggetto delle attribuzioni resta il medesimo.

  1. 2. In che modo si compie il mistero di questa unione? Paolo non lo spiega: egli mette le basi della sua dottrina; toccherà ai teologi il trarne le conseguenze. Tuttavia le sue due formule dell’incarnazione sono degne di attenzione: « In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col. II, 9) ». Gli esegeti riconoscono che la pienezza della divinità non può essere altro che l’integrità dell’essenza divina e perciò la stessa divinità. Difatti θεότης (= teotes) (deitas), astratto di θεός (= teos), non è identico a θειότης (= teiotes) – (divinitas), astratto di θεῖος (=teios). Quest’ultimo termine si potrebbe intendere della qualità; il primo si deve intendere della natura. Questo significato s’imporrà con maggior forza ancora quando Paolo combatterà l’errore dei Colossesi, il quale mette nelle potenze superiori particelle ed emanazioni delle divinità; ma in fondo esso è indipendente da questa ipotesi. Che cosa vuol dire « corporalmente? ». Molti Padri lo traducono con « realmente » e « sostanzialmente »; ma il corpo ha questo significato soltanto quando viene opposto all’ombra. Corporalmente significa « in un corpo, sotto forma di corpo »; questa accezione quadra a capello, e non occorre cercarne altra. La vostra pretesa filosofìa, dice san Paolo, non è che un vano inganno; voi vi indugiate in dottrine elementari, puerili; voi chiedete protettori e mediatori al mondo chimerico della fantasia e trascurate Colui nel quale, sotto una forma visibile e tangibile, esente da errore e da illusione, « risiede corporalmente tutta la pienezza della divinità ». E siccome Egli possiede questa pienezza Assoluta (πᾶν τὸ πλήρωμα = pan to pleroma) per un titolo permanente, Egli la farà riversare sopra di voi in grazie spirituali e voi potete perciò fare a meno di altri intercessori. Questo testo insegna bensì l’unione della divinità e dell’umanità nell’unica Persona del Cristo, ma non ci dice come si fa tale unione. Un altro passo solleva un po’ di più il velo del mistero: « Esistendo nella forma di Dio, non considerò come furto, l’essere (trattato) alla pari di Dio, ma spogliò se stesso prendendo la forma di schiavo, diventando simile agli uomini (Fil. II, 7) ». Senza ritornare all’esegesi particolareggiata di questo testo, considereremo come stabiliti questi punti: La forma di Dio è la natura divina, e la forma di schiavo è la natura umana. — Lo spogliamento avviene per il fatto che il Cristo sopraggiunge alla natura divina, che aveva da tutta l’eternità, la natura umana che prende nel tempo. — V i sono dunque in un medesimo soggetto, in una medesima Persona, nel Cristo, due nature, una divina e l’altra umana. — Siccome la natura divina è immutabile, e poi si afferma che il Cristo la conserva, lo spogliamento non può consistere nell’abbandono o nella diminuzione di questa natura. — Lo spogliamento, se non significa l’abbassamento, l’annientamento che risulta dall’assunzione, da parte del Verbo, di una natura inferiore, non può dunque essere altro che l’abbandono spontaneo degli onori divini ai quali il Cristo aveva diritto come Uomo, e che si sarebbe potuto rivendicare in virtù dell’unione ipostatica. — La natura umana non è assorbita in questa unione, poiché il Cristo rimane veramente uomo ed è riconosciuto come uomo per esteriorità (σχήματι= skemati) che non ingannano, e da tutto il corso di una vita di obbedienza, di umiliazioni e di dolori.

II. LA FIGURA STORICA DI GESÙ.

1. CIO’ CHE PAOLO NON DICE INTORNO A GESÙ. — 2. CIO’ CHE NE POTREBBE DIRE.

1. Quando era in gran voga la chiassosa critica tedesca, Renan scriveva: « Paolo ha un bel dire, ma è inferiore agli altri Apostoli: egli non vide Gesù e non intese la sua parola; le divine logie, le parabole, egli appena le conosce: il Cristo che fa a lui rivelazioni personali, è un suo fantasma, e questo egli ascolta credendosi di ascoltare Gesù (Renan, Paris, 1869) » Trent’anni dopo, Renan, col suo carattere malleabile e col suo ingegno versatile, si sarebbe certamente accordato con la critica nuova e forse avrebbe sottoscritto a queste giudiziose riflessioni di Sabatier: « Secondo la scuola di Tubinga, Paolo o avrebbe conosciuto molto imperfettamente la vita e l’insegnamento storico di Gesù, oppure avrebbe avuto a sdegno quella tradizione, come se fosse stata una conoscenza di Gesù secondo la carne, la quale avrebbe reso il suo Vangelo dipendente da quello dei primi apostoli. Ma né l’una né l’altra di queste due ragioni sono ben fondate… Non si riesce a capire come mai la conoscenza tradizionale delle azioni, dei patimenti e degli insegnamenti di Gesù, avrebbe potuto nuocere all’indipendenza del suo apostolato e all’originalità del suo vangelo (Sabatier, 1896) ». D’allora in poi si sono infatti cambiate di molto le posizioni. Oggi si ammette generalmente che Paolo conoscesse la vita e la dottrina del Maestro, che dallo spirito di Lui si ispirasse, che ne riflettesse fedelmente il pensiero. Le allusioni alla vita terrena di Gesù sono altrettanto numerose nelle Lettere di Paolo, quanto negli altri scritti apostolici, eccetto i Vangeli che hanno lo scopo preciso di raccontarla. Vi sono anzi, conservando le debite proporzioni, meno allusioni ai fatti evangelici nell‘Apocalisse, nelle Epistole cattoliche, nell’Epistola agli Ebrei, negli Atti degli Apostoli, che non nelle Lettere del Dottore dei Gentili. Se ne può meglio giudicare dal seguente rapido abbozzo. – Prima di scendere su questa terra, il Cristo preesisteva nella forma di Dio (Fil. II, 6); era ricco di tutte le ricchezze del cielo (II Cor. VIII, 9). Al termine delle preparazioni provvidenziali e nel tempo stabilito dai decreti divini, Egli, il Figlio di Dio, è mandato da suo Padre per compiere l’opera della salvezza (Gal. IV, 4; Rom. VIII, 3). Gesù è il discendente di Abramo (Gal. III, 16), il figlio di Davide (Rom. I, 3; II Tim. II, 8), la gloria del popolo ebreo (Rom. IX, 5). Egli nasce da una donna, sotto il regime della Legge (Ga. IV, 4), vive in mezzo agli Ebrei (Rom. XV, 8), e Gerusalemme è il centro della sua Chiesa (Gal. I, 17; Rom. XV, 19-27). Egli è veramente uomo, in tutto simile a noi (Rom. V, 15), eccetto il peccato (II Cor. V, 21). Egli ha dei fratelli secondo la carne (I Cor. IX, 5), imo dei quali, Giacomo, è indicato col suo nome (Gal. I, 11). Per avere collaboratori e continuatori della sua opera, si circonda di Apostoli (I Cor. IX, 5, 14), in numero di dodici (I Cor. XV, 5); tre di essi, Pietro, Giacomo e Giovanni, sono espressamente nominati (Gal. I, 18-19); ma tra loro Cefa, Pietro, occupa un posto che non ha pari (I Cor. IX, 5). Nel dare ai suoi Apostoli l’incarico di predicare la sua dottrina, dà loro il diritto di vivere del Vangelo (I Cor. IX, 15) e il potere di fare miracoli (II. Cor. XII, 19). Trascorsa su questa terra una vita di povertà (II Cor. VIII, 9), di sommissione (23 Fil. II, 5) di ^obbedienza (Rom. V, 19) e di santità (25), si abbandona volontariamente ai suoi nemici (Gal. I, 4), ai Giudei che lo mettono a morte (I Tess. II, 15). – L’istituzione dell’Eucaristia è raccontata con maggiore precisione e con più particolari che non nei Vangeli. Paolo ricorda in modo speciale il tradimento di quella notte tragica che ricorda la sinistra espressione nox erat, di san Giovanni. Se la passione è descritta con linee generali, noi sappiamo che l’Apostolo ne faceva a viva voce, ai catecumeni, una pittura assai viva (Gal. III, 1). Egli ci parla spesso della croce (I Cor. II, 2 etc.), del sangue (Rom. III, 25), e anche dei chiodi (Col. II, 12). I carnefici di Gesù sono i Giudei (I Tess. II, 15) ed i prìncipi di questo mondo (Ephes. I, 7). L a Passione avviene verso la Pasqua, nel tempo degli azimi (I Cor. V, 6-8), sotto Ponzio Pilato (I Tim. VI, 2). La sepoltura non è dimenticata (I Cor. XV, 4) perché dà al Battesimo il suo valore figurativo (Rom. VI, 4; Col. II, 12). Ma Paolo insiste di più sopra la risurrezione avvenuta il terzo giorno, e sopra le varie apparizioni del risuscitato (I Cor. XV, 4-7). Gesù Cristo è salito al cielo (Ephes. IV, 8-10), siede alla destra del Padre (Ephes. I, 20), ritornerà a giudicare i vivi i morti (I Tess. I, 10). Questi sono articoli del Credo, le cui formule sono prese in larga parte dall’Apostolo dei Gentili. – Tale è in succinto la descrizione che Paolo ci fa di Gesù: è qualche cosa di più che un abbozzo; è un ritratto somigliante e un disegno fatto con precisione e sicurezza, che gli evangelisti potranno completare senza però modificarne l’espressione. Ma questo non è tutto: dopo le azioni vengono le parole, dopo la fisonomia del Maestro, ci è dato il riassunto del suo insegnamento. Paolo ha sottratto dall’oblio questa sentenza di Gesù: « Vi è più felicità nel dare che nel ricevere (Act. XX, 35) ». Egli riproduce le parole della Cena più completamente degli evangelisti, eccetto forse san Luca (I Cor. XI, 24-26). – Nel parlare del matrimonio, si riferisce all’insegnamento del Cristo, quale si trova in san Matteo e in san Marco, e lo distingue espressamente dai suoi propri precetti (I Cor. VII, 10- 12). Quando proclama il diritto che ha l’operaio evangelico di vivere del Vangelo, non si può fare a meno di pensare alle disposizioni prese da Gesù in favore degli araldi della fede (I Cor. IX, 14); e tale impressione si cambia in certezza, nel leggere in san Paolo il passo testuale di san Luca: Dignus est operarius mercede sua (I Tim. V, 18;Luc. X, 7). Quando si appoggia sopra una parola del Signore per istruire i fedeli intorno alla parousia, il senso più naturale è certamente quello di prendere la parola del Signore non già per una rivelazione interiore, ma per una parola realmente detta da Gesù Cristo nel corso della sua vita mortale (I Tess. IV, 15). L’Apostolo non pensa a legiferare a suo proprio nome quando non può invocare un ordine del Signore (I Cor. VII, 25). Egli si appella sempre alla legge del Cristo che suppone sia conosciuta dai suoi neofiti (Gal. IV, 2), legge che obbliga anche lui come i semplici fedeli (I Cor. IX, 21). La regola morale, che egli inculca ai catecumeni, non è sua, ma di Gesù (I Tess. IV, 1-2); il trasgredirla sarebbe un disobbedire a Gesù (I Tim. VI, 3); e il dovere dei fedeli è quello di imparare il Cristo, come quello degli Apostoli è di insegnare il Cristo (Ephes. IV, 20-21). Per verificare e nel tempo stesso per completare questa rapida rassegna, bisognerebbe prendere qualche termine di confronto, per esempio il Discorso della Montagna o il gran Discorso escatologico. Qui le numerose somiglianze di sostanza e di forma sono evidenti e risalgono evidentemente alla stessa fonte che è l’insegnamento di Gesù. Il fatto è così palpabile, che nessun critico di buon senso potrà contestarlo.

2. Dunque se si raccolgono le allusioni alla vita terrena di Gesù, sparse negli scritti di san Paolo, se si confronta la sua dottrina morale con quella di Gesù, se si esaminano le identità di espressione troppo numerose per poter essere casuali, non si potrà dire che l’Apostolo ignori o sdegni il contenuto della storia evangelica. Questo studio è già stato fatto da altri, e non occorre che noi lo rifacciamo qui; noi ci limiteremo a formulare le seguenti conclusioni: Le allusioni, scoperte o latenti, alla vita e alla dottrina di Gesù, sono assai più numerose di quanto lascerebbe supporre un esame superficiale; ve ne sono di più, mantenute le debite proporzioni, che nel resto del Nuovo Testamento, eccetto il Vangelo. Queste allusioni si riferiscono alle volte a minute particolarità e per conseguenza implicano una conoscenza più vasta e più generale dei fatti menzionati appena incidentalmente. La maniera con cui sono fatte, dimostra che tanto nell’autore quanto nei lettori, vi è un fondo comune di istruzioni e di ricordi che basta evocare perché siano capiti da tutti. Finalmente l’immagine che ne risulta è un ritratto fedele, e colui che lo ha tracciato può ben vantarsi di avere « lo spirito del Signore ». Ma non bisogna stancarsi di ripetere che Paolo non intende di fare la biografia di Gesù, che egli la mette tra gli elementi della fede che nessun neofito deve ignorare, che egli ritorna soltanto incidentalmente sopra questa catechesi elementare, che invece di insistervi, per lo più si contenta di una semplice allusione e che finalmente egli ne sa infinitamente più di quanto abbia occasione di scriverne. Se non erano i disordini delle agapi e i dubbi dei Corinzi intorno alla risurrezione, potremmo forse sospettare che egli possedesse, sopra le circostanze dell’istituzione dell’eucaristia e sopra le apparizioni di Gesù risorto, tanti particolari esatti e precisi che gli evangelisti non si curarono di tramandarci!

LO SCUDO DELLA FEDE (XLI)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

LO SCUDO (41)

XLI.

IL LIBERALISMO.

Perché la Chiesa entra in politica? — Perché in politica si dovrà pensarla come il Papa? — Non si può essere cattolici e liberali? — Non sarebbe meglio la libera Chiesa in libero Stato? — Si dovrà esser clericali intransigenti e ribelli alla civile società? — Quale transigenza o tolleranza si può avere?

— Ho apprese molte cose intorno all’autorità della Chiesa, ed ho potuto così correggere molti miei falsi pensamenti. Vi sono però ancora nella mia mente a questo riguardo varie difficoltà, che amerei pure di avere sciolte. Per esempio non so capire come la Chiesa voglia anche entrare in politica. Vedo su pei giornali che ora il Papa si lamenta di questo governo, ora di quello; ora deplora queste leggi, ora riprova quelle; ora condanna questo fatto, ora biasima quell’altro. Non le pare che in tal guisa esorbiti nella sua autorità? Alla fin fine riguardo alla politica non siamo liberi di pensarla ciascuno come ci pare e piace?

Adagio, caro mio. Prima di tutto si può ammettere che un Cristiano, restando vero Cristiano, possa in politica pensarla come gli pare e piace? Niente affatto; perché sé vi ha la politica buona e giusta, vi ha pure la politica rea e falsa, e se al vero Cristiano è lecito di pensarla a seconda di tutte le forme e di tutte le esplicazioni di una politica buona e giusta, non gli sarà lecito giammai di pensarla a seconda dei principii e degli andamenti di una politica rea e falsa. Ti pare?

— Sì, questo è chiaro.

In secondo luogo è egli vero che quando la Chiesa entra apparentemente in politica, si tratti di politica soltanto e non pure di religione? Sta tranquillo che se fosse solo per entrare in politica, non ci entrerebbe affatto nei casi, cui tu accenni. E se c’entra, è precisamente perché in questi casi la politica ha un intimo rapporto con la Religione e con la morale cristiana. E poiché la Chiesa ha il diritto e il dovere di provvedere in tutto ciò e per tutto ciò, che ha rapporto con la religione e con la morale cristiana al bene dei Cristiani, ha per conseguenza il diritto ed il dovere di ordinare altresì ai Cristiani, che in certi fatti ed andamenti politici e per riguardo a certe leggi la pensino e mostrino di pensarla in un modo piuttosto che in un altro, secondo che quei fatti, quegli andamenti e quelle leggi in rapporto con la Religione e colla morale cristiana sono conformi o disformi, e che qualora siano in quest’ultimo modo, cioè malvagi ed iniqui, da ogni Cristiano, che voglia essere vero Cristiano, né si approvino, né si accettino, che anzi altamente si riprovino.

— Ma se io nella mia testa riguardo alle cose politiche la vedo diversamente da ciò che pensa il Papa, come posso io conformare le mie viste con le sue? Sarebbe andare contro coscienza.

Ascolta. Chi per poco ha esperienza del mondo attuale, deve riconoscere che, non ostante che taluni siano istruiti assai in molte cose, non di meno difettano moltissimo d’istruzione riguardo alle cose di Dio, della Chiesa, del Papa, dell’autorità che egli ha, e del conseguente dovere di sudditanza pratica che gli si deve, anche per riguardo a certe norme religiose- politiche. Né solo è da riconoscere ciò, ma bisogna pur ammettere che taluni sono venuti su e vivono tuttora in tale ambiente di idee guaste e false da potersi ben anche ritenere in un certo grado di buona fede per riguardo alla falsa coscienza, che in loro si è formata e vi ha. Costoro se per le condizioni di loro vita non possono avvicinarsi alla verità o riconoscerla come tale, devono essere compatiti; ed io penso che il Signore, il quale vede i cuori e solo giudica secondo verità, userà loro una grande misericordia non ostante che per le loro idee liberalesche non seguano le norme del Papa ed anzi le disapprovino e le avversino. Ma oltre a costoro, che certamente non devono essere molti, vi sono poi in gran numero di quelli, che si trovano ad avere per questo riguardo delle idee sbagliate e dei sentimenti ingiusti e cattivi proprio per loro colpa, perché amano di restar nell’errore, perché superbamente rifiutano di prendere convenevole cognizione delle cose. Epperò se tu parlando, come hai parlato, ti trovi nel numero di costoro, io debbo risponderti: Se la tua coscienza è falsa proprio per tua colpa, perché non ti applichi un po’ seriamente ed umilmente come dovresti a ben conoscere la verità? Può succedere senza dubbio ad ogni uomo di sbagliare e senza la minima colpa. Così avviene che sbaglino anche i medici. Ma supponiamo un medico che poco o nulla abbia studiato prima e meno ancora dopo la laurea, e che malgrado ciò si accinga a curare i malati; negli svarioni, che prenderà mandando i malati all’altro mondo, si potrà dire che non è colpevole? – Dunque se la tua coscienza è falsa, rendila retta come si conviene, ed allora, stanne certo, nelle tue vedute religiose-politiche non dovrai fare alcuna violenza alla tua coscienza, perché saranno perfettamente d’accordo con quelle della Chiesa, del Papa. Del resto sai tu che cosa fai in sostanza quando tu ti opponi ai pensamenti, alle dichiarazioni del Papa per riguardo a certi fatti politici? Non offenderti se ti dico la verità. Come misero pigmeo ti poni col fatto di fronte al Papa e gli dici: Santo Padre, Ella deve pensarla come la penso io a questo riguardo, e non come vuol pensarla Lei, Vicario di Gesù Cristo: perché, modestia a parte, in quanto ad interessi religiosi io la so più lunga e la vedo più giusta di Lei!

— Già, veramente ha ragione. Lei però non mi potrà negare che si può benissimo essere buoni Cattolici e ad un tempo stesso avere sentimenti liberali.

Sì e no, a seconda del liberalismo più o meno buono de’ tuoi sentimenti. Tu sai che la parola liberale, da cui deriva liberalismo, ha un ottimo significato e vale generoso, largo, splendido nel donare, eccetera. Ma accade di questa parola, come di molte altre, che dal suo buon significato è torta ad un altro tutt’altro che buono, specialmente per ciò che riguarda i doveri politici-religiosi. Dunque se per liberalismo tu intendi soltanto il sistema di coloro che amano le forme larghe di governo, le costituzioni, le repubbliche, in una parola le più ampie e giuste libertà civili, politiche e sociali, ali ora non ti nego che si possano aver sentimenti a seconda di questo sistema ed essere ad un tempo stesso buoni Cattolici; giacché tutte le forme di governo per sé sono buone. Ma se per liberalismo tu intendi il sistema di quelli, che vogliono fare nel campo morale e religioso quello che han fatto nel campo civile, politico e sociale, allargando sconfinatamente la libertà individuale, il potere municipale, politico e sociale, a danno dell’autorità della Chiesa e dello stesso Dio, allora non solo posso, ma debbo negarti che si possa essere buoni Cattolici ed avere sentimenti a seconda di questo liberalismo. Di fatti in esso che si pretende! Si pretende nientemeno che l’indipendenza dell’individuo, del municipio, dello Stato da Dio e dalla sua Chiesa. Si pretende di regolare il proprio pensiero, la propria coscienza col proprio talento, senza alcun riguardo ai principii della verità; si pretende poter dire e poter stampare tutto ciò che si vuole, anche cose erronee ed immorali, sol perché a taluno piace di più l’errore e l’immoralità, che la verità e il buon costume; si pretende separare del tutto lo Stato dalla Chiesa e la Chiesa dallo Stato, si pretende anzi di asservire la Chiesa allo Stato, epperò di secolarizzare ogni istituzione di beneficenza ed ogni atto della vita pubblica, di rimuovere l’insegnamento religioso dalle scuole, di sopprimere gli ordini religiosi, di obbligare i chierici e persino i preti al servizio militare, di regolare il matrimonio come una semplice istituzione civile, e specialmente di negare al Papa il diritto di un temporale dominio. In somma in questo sistema si vuole tutta la libertà per lo Stato e tutta la schiavitù per la Chiesa, si vuole l’esistenza sola dello Stato e lo sbandeggiamento della Chiesa. Senza dubbio nel liberalismo, così inteso, vi sono molte varietà, gradazioni e sfumature, perché v’ha chi spinge le sue viste e le sue brame fino all’ultimo eccesso, chi le modera a questo o a quell’altro riguardo, ma in sostanza le idee e i sentimenti liberali si riducono ai principi, che t’ho indicati. Or pare a te che si possa essere buoni cattolici e nutrire in cuore e manifestare tali sentimenti!

— Convengo con lei che ciò non è possibile. Ma stando così le cose non sarebbe meglio addirittura veder attuate quelle belle formole: Libera Chiesa in libero Stato — Separazione della Chiesa dallo Stato?

Come? chiami belle queste formole del liberalismo, che sono assurde, empie e rovinose?

— Possibile?

A persuadertene ti leggerò una pagina magistrale di Monsignor Bonomelli, Vescovo di Cremona.

« Le due formole — Libera Chiesa in libero Stato — Separazione della Chiesa dallo Stato — in buon linguaggio suonano così — lo Stato, nelle mie leggi, nei miei atti, in tutto il mio governo, mi regolo come credo meglio; non riconosco fuori di me, né sopra di me altra autorità qualsiasi. Io non bado a religione alcuna, ad alcuna Chiesa: non ne riconosco alno cuna, mi curo di ciò che insegna o fa: io non ho, né voglio avere religione di sorta. Questo è affare del tutto privato, affare di coscienza individuale: ciascuno pensi come vuole, tenga quel simbolo che gli piace, pratichi quel culto che più gli talenta, o non ne pratichi alcuno; per me non me ne interesso; non impongo nulla in materia di religione, nulla vieto: piena libertà di coscienza per tutti: non persecuzioni, né protezioni, ma a tutti garantita la massima libertà nell’ambito delle leggi e del pubblico interesse. Io sono lo Stato, Stato laico: come si potrebbe esigere che mi occupassi di religione, o di Chiesa? Se il facessi lascerei il mio campo per invadere quello della Chiesa, che non mi appartiene. Ci pensi la Chiesa: essa faccia da sé ed io faccio da me.

— Qui torna il senso ovvio e naturale delle due formole — Libera Chiesa in libero Stato — Separazione della Chiesa dallo Stato — Stato ateo — Stato laico. Non c’è bisogno di mostrarlo. Questo sistema suppone necessariamente la indifferenza assoluta dallo Stato in religione e l’ateismo suo pratico. Posta l’esistenza di Dio, ne deriva la necessità della Religione, come, posta la paternità, ne conseguirà quel complesso di doveri, che obbligano i figli verso del padre. Dunque come è assurda la indifferenza in religione, come è assurdo l’ateismo, così è assurdo questo sistema, che prescinde da ciò, da cui non può prescindere. Non può lo Stato dire: — Non mi occupo di religione alcuna; per me tutte le religioni sono come se non fossero. — Ma queste religioni, gli piaccia o non gli piaccia, esistono. Non è in poter suo far sì che non esistano. Esistono prima di lui e penetrano tutte le viscere della società e della famiglia: come potrebbe disinteressarsene? Può lo Stato dire: — Io, Stato, non guardo se questi è padre e marito: se quella è sposa e madre: se questi è avvocato o medico, ingegnere o artista, servo o padrone: io considero in essi il cittadino, il solo cittadino? — Sicuramente no. Esso deve considerare in essi il cittadino, qualità a tutti comune, e poi deve anche considerare le qualità sue particolari, i particolari diritti e doveri, che ne derivano, difenderli e regolarli. È suo ufficio, suo dovere rigoroso. Perché dunque vorrà prescindere dalla religione, che ciascuno professa, quasiché anch’essa non avesse diritti e doveri, che lo Stato deve riconoscere e difendere? Se lo Stato ha il dovere di tutelare il mio diritto di proprietà, perché non avrà anche quello di tutelare il mio diritto di Religione nelle sue manifestazioni esterne e ragionevoli? Forseché questo è inferiore a quello? Lo Stato adunque non può restare indifferente in materia di religione e perciò non può separarsi dalla Chiesa, che in sé assomma e rappresenta la religione di tutti, o di parte dei cittadini. Se lo facesse fallirebbe al suo dovere e suo malgrado sarebbe costretto ad occuparsene ».

— Questo Vescovo ragiona stupendamente.

E la conseguenza che bisogna trarre da sì bel ragionamento si è che non potendo lo Stato separarsi dalla Chiesa a meno di fallire al suo dovere, deve con essa accordarsi. « Sì tra i due poteri, ecclesiastico e civile, è necessaria assolutamente una perfetta armonia, essendo ambedue per volere di Dio chiamati a sostenersi l’un l’altro ». (V. Enciclica di S. S. Pio X su S. Gregorio Magno). Resti pure lo Stato pienamente libero nelle cose puramente temporali; ma sia al tutto indipendente la Chiesa nelle cose religiose; e nelle cose miste si accordino insieme. Ma sorgendo qualche difficoltà o conflitto fra i diritti della Chiesa e dello Stato, devono prevalere senza dubbio quelli della Chiesa, di quella guisa che il bene spirituale ed eterno, a cui ella in tutto mira, deve prevalere sopra il bene terreno e temporale.

— Dunque si dovrà essere propriamente di quei clericali intransigenti, che ad ogni istante la danno addosso al governo e protestano contro gli atti suoi, contro le sue leggi!

Senti, amico mio, se tu vuoi compiere il tuo dovere di buon Cristiano, devi essere vero Cattolico, obbediente in tutto e per tutto al Papa, ai Vescovi, agli insegnamenti e agli ordini della Chiesa, perché la Chiesa non ti insegnerà e non ti comanderà mai nulla che non sia pienamente conforme a verità ed a giustizia. Epperò, tienilo ben a mente, colui che si discosta, sia pure di una linea, dagli insegnamenti e dagli ordini della Chiesa, cessa perciò di essere vero Cristiano Cattolico.

— Ma chi si regola con tale criterio, mentre obbedisce alla Chiesa non si rende ribelle alla civile autorità?

Tutt’altro! La nostra santissima Religione insegna chiaramente che non vi ha alcun potere se non da Dio, e che tutti i poteri sono da Dio ordinati, che chiunque resiste al potere resiste all’ordinazione stessa di Dio, che il potere è ministro di Dio, e che perciò è necessaria la soggezione e l’obbedienza non tanto pel timore del castigo, quanto per coscienza; epperò il vero Cristiano deve nella sua condotta pienamente conformarsi a tale dottrina, e conseguentemente rispettare il governo e i suoi atti e praticarne le leggi. – Ma se in uno Stato si compiono degli atti o si fanno delle leggi contrarie o dannose all’autorità divina ed ecclesiastica, epperò cattive, allora bisogna rammentarsi che al di sopra degli uomini vi è Dio e la Chiesa, sua rappresentante sulla terra, e che perciò prima che agli uomini bisogna obbedire a Dio ed alla Chiesa. E se in tal caso, rifiutandoti tu di approvare certi fatti e di obbedire a certe leggi, vi ha chi ti appioppi il nomignolo di clericale, magari coll’aggiunta di intrasigente (nomignolo e aggiunta inventati dal liberalismo per indicare il Cristiano Cattolico vero, tutto di un pezzo) tutt’altro che avertela a male, devi gloriartene, perché in sostanza ti si fa la più bella lode, che noi seguaci di Gesù Cristo si possa ambire.

— Secondo lei, adunque, transigenza o tolleranza nel Cattolico non mai!

Adagio, caro mio, a farmi dire quello che non ho detto, e non debbo, né voglio dire. Il Cattolico nella sua condotta politico-sociale deve seguire l’esempio della Chiesa, del Papa, dei Vescovi, dello stesso Dio. La Chiesa in tutti i tempi, come Dio, ha voluto, e vuole il bene, anzi l’ottimo. Ma dove e quando questo non è possibile, si è limitata e si limita al meno male; epperò, senza approvare mai e poi mai certi disordini, in certa qual maniera per evitarne dai maggiori, transige su di essi, e li tollera, appunto come fa Iddio che veramente assai e ben a lungo tollera il male, che pure potrebbe impedire. Per esempio: « Se la Chiesa, ha detto il grande Leone XIII in una sua stupenda Enciclica, se la Chiesa proclama non esser lecito mettere i differenti culti ad egual condizione giuridica, non condanna però i governi che, per qualche grave ragione, o di bene da ottenere, o di male da evitare, tollerano per via di fatto i differenti culti nel loro Stato ». In conclusione il Cattolico, come la Chiesa, deve star saldo ai principii, alle verità ed alle leggi divine, e su di ciò non può, né deve mutare un ette. Ma nella pratica, sempre per riguardo al maggior bene ed al minor male, senza mostrare la menoma connivenza col male e con l’errore, gli conviene usare una giusta prudenza ed una vera carità, qual è appunto quella che hanno usato ed usano tuttora uomini eminentissimi per fermezza di fede, per solidità di attaccamento alla Chiesa ed al Papa e per santità di vita.

— Ella dice benissimo, e a dir vero mi ha chiarito delle idee, che avevo molte scure.

CONOSCERE SAN PAOLO (33)

LIBRO III.

La persona del Redentore (2)

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

III. GESÙ CRISTO DIO.

1. LA DIVINITÀ DEL CRISTO E LE APOTEOSI PAGANE. — 2. QUATTRO TESTI RIVELATORI. — 3. RIASSUNTO SINTETICO.

1. Tutte le civiltà antiche — in Caldea, in Egitto, in Cina, in Persia, nell’India — divinizzarono i loro re. Alessandro Magno, impadronendosi dei territori di quelle antiche monarchie, si appropriò dei titoli onorifici dei loro sovrani, e naturalmente i generali che si divisero i suoi stati, ne ereditarono anche i titoli. Dopo di loro i Cesari, pure evitando da principio di offuscare le idee romane, ben presto non tardarono a prestarsi ad un’apoteosi che serviva alla loro politica senza urtare i costumi orientali. Si cominciarono a divinizzare gl’imperatori morti, poi si resero gli onori divini anche agl’imperatori viventi. Se non sembra che essi abbiano fatto gran caso del titolo di « signore », caro ai Tolomei e agli Erodi, si lasciarono chiamare senza scrupolo « dio salvatore, salvatore e dio, dio » semplicemente, ed anche, quando il loro padre già godeva dell’apoteosi, « Dio figlio di dio ». Pare tutta via che Domiziano sia stato il primo, dopo quel pazzo di Caligola, a farsi chiamare dominus et deus noster persino nella sua capitale. I Cristiani respinsero sempre sdegnosamente queste empie pretese: la profanazione dei nomi e degli attributi divini ispirava loro un invincibile orrore. Quando l’autore dell’Apocalisse dice all’Angelo di Pergamo, che egli « abita presso il trono di Satana (Apoc. II, 13) », non si può fare a meno di pensare al primo tempio eretto al dio Augusto e alla dea Roma, tempio di marmo rilucente che sorgeva nella vetta dell’Acropoli di Pergamo, dominante la pianura del Caico e visibile da lontano in tutte le direzioni. Non meno energica è la protesta di san Paolo contro la deificazione degli uomini. “Nessuno è Dio se non (Dio) solo. Vi sono bensì in cielo e sopra la terra degli esseri che sono chiamati dèi (per abuso di linguaggio); di modo che si parla di parecchi dèi e di parecchi signori, ma per noi unico è Dio il Padre, dal quale tutto (viene) ed al quale noi (andiamo), e unico è il Signore Gesù per mezzo del quale tutto (esiste) e per mezzo del quale noi (siamo cristiani” (I Cor. VIII, 5-6) . Così quando sentiamo l’Apostolo dare al Cristo il nome e gli attributi di Dio, noi non pensiamo affatto alle apoteosi pagane da lui riprovate con tanta forza, e lasciamo a quelle espressioni il solo significato che è permesso dal monoteismo ebraico congiunto con le distinzioni personali stabilite dalla rivelazione cristiana, nel seno della vita divina.

2. Quattro testi scelti appositamente in tutti i gruppi di Epistole, potranno farci vedere qual è l’idea che Paolo si fa. sempre del Cristo preesistente. Gesù Cristo è « innalzato sopra tutte le cose, Dio benedetto per sempre »; egli è « il nostro gran Dio e Salvatore »; in Lui « abita la pienezza della divinità »; finalmente Egli è « sussistente nella forma di Dio ». Esaminiamo brevemente la portata di queste testimonianze. Dal seno d’Israele è uscito « secondo la carne, il Cristo che è sopra tutte le cose, Dio benedetto nei secoli (Rom. IX, 5) ». Questa espressione si riferisce così chiaramente al Cristo, del quale spiega la natura tra scendente e divina, che non fu mai intesa diversamente dalla tradizione cristiana. In Oriente san Dionigi Alessandrino ed i vescovi firmatari della lettera sinodale contro Paolo di Samosata, sant’Atanasio, san Basilio, san Gregorio Nisseno, sant’Epifanio, san Cirillo Alessandrino; in Occidente sant’Ireneo, sant’Ippolito, Tertulliano, Novaziano, san Cipriano sant’Ilario, sant’Ambrogio, san Gerolamo; i commentatori greci e latini, Origene, l’Ambrosiastro, Pelagio, il Crisostomo, Teodoro di Mopsuesta, Teodoreto e gli altri, non suppongono neppure che le si possa dare un altro significato. Bisogna arrivare fino a Fozio per trovare una voce dissidente; poiché tutto ciò che è lecito conchiudere dal silenzio di Ario, di Diodoro di Tarso e degli scrittori infetti di arianesimo del quarto secolo, è che il nostro testo li metteva nell’imbarazzo, e che evitavano di citarlo come un’obiezione fatale per la loro tesi. Certi esegeti moderni hanno meno scrupoli: essi mettono arbitrariamente un punto o dopo « il Cristo secondo la carne », o prima di « Dio benedetto per sempre »; e così ottengono un periodo monco che traducono così:

A) Colui che è sopra tutte le cose (è) Dio benedetto per sempre.

B) Il Dio che è sopra tutte le cose (è o sia) benedetto per sempre.

C) Dio (è o sia) benedetto per sempre.

Tutti converranno che questo spezzamento dà al testo un aspetto goffo e un’andatura strana. Certamente non sarebbe venuto in mente a nessuno di farlo, che non fosse stato prima fermamente persuaso che Paolo non può chiamare Dio il Cristo e che a Lui non applica mai una dossologia. Ancorché questa doppia ipotesi fosse giusta, la conclusione che se ne trae sarebbe pur sempre un paralogismo, e per la stessa ragione bisognerebbe radiare dall’insegnamento di san Paolo tutte le asserzioni che nei suoi scritti si trovano soltanto una volta; ma la doppia ipotesi è falsa e gratuita: l’Apostolo dà qualche volta al Cristo il nome di Dio e gli applica dossologie. E poi il nostro testo non è propriamente una dossologia, ma è piuttosto un’affermazione pura e semplice della dignità sovreminente del Cristo, terminata con un amen di benedizione e di lode. Il solo amen, se assolutamente si vuole, formerebbe tutta la dossologia. E facile dimostrare che la costruzione immaginata dai razionalisti è contraria alla logica e alla grammatica. Non è l’eccellenza del Padre, ma quella del Figlio che il passo deve far risaltare. Ora le parole « secondo la carne » ci preparano a un’antitesi; noi ci aspettiamo un secondo aspetto del ritratto del Cristo; e l’inciso « che è sopra tutte le cose, Dio benedetto per sempre », è proprio quello che risponde alla nostra attesa; esso finisce l’immagine del Salvatore e completa mirabilmente il quadro delle prerogative degli Ebrei: discendenza da Israele, filiazione adottiva, presenza sensibile di Dio, legislazione trasmessa per mezzo degli Angeli, culto legittimo, promesse messianiche, sangue dei patriarchi parentela umana con Gesù Cristo la cui natura superiore ridonda in loro gloria. Perché la frase staccata fosse una dossologia riferita al Padre, bisognerebbe che o la parola « benedetto » fosse messa bene in vista, invece di essere affogata nella proposizione, oppure che la frase cominciasse con un verbo di modo ottativo: una dossologia come quella che ci si propone, per correggere il senso naturale, di san Paolo, sarebbe senza esempi in lingua greca. Questa costruzione inusitata nella quale viene a urtare la terza spiegazione, nelle altre due viene a complicarsi con un solecismo. Non farà dunque meraviglia, se i Padri greci i quali dovevano conoscere la loro lingua un po’ meglio che i moderni esegeti, non ne fanno menzione, neppure per confutarla. Gesù Cristo non è Dio in una maniera impropria, partecipata, analogica; Egli è sopra tutte le cose che non sono Dio. Siccome questa qualità di Dio supremo non può convenire che ad un essere unico, il Figlio deve necessariamente essere consostanziale al Padre e identico con Lui in natura. Paolo al termine della sua carriera non troverà nulla di più eccellente da dire del Cristo: « Noi aspettiamo, scrive egli a Tito, la manifestazione gloriosa del nostro gran Dio e Salvatore Gesù Cristo (τοῦ μεγάλου Ξεοῦ καί σωτῆρος  ἡμῶν Κριστοῦ  Ιησοῦ (= Tou megàlou Teou kai sotéros emòn Cristou Iesou) – (Tit. II, 13-14) ». – È cosa consolante il vedere gli esegeti dei nostri giorni ritornare sempre più all’interpretazione tradizionale. Se si trattasse del Padre, l’Apostolo non aggiungerebbe a Dio l’epiteto di « grande » che è già compreso nel principio della divinità; e poi la parousia è sempre la manifestazione gloriosa del Figlio il quale viene a giudicare il mondo, non mai quella del Padre. Finalmente — e questo argomento è decisivo — i due titoli titoli « gran Dio » e « Salvatore », trovandosi in greco compresi sotto il medesimo articolo determinativo, si devono riferire alla medesima Persona: perché fosse possibile isolarli, e attribuire soltanto il secondo a Gesù Cristo, bisognerebbe che questo nome si trovasse tra i due titoli. Il rifiutare anche questa testimonianza col pretesto che Gesù Cristo non è Dio, e che san Paolo non dovette chiamarlo Dio, è rinunziare a fare il lavoro dell’esegeta per trincerarsi dietro un partito preso di negazione testarda. – Ma per quanto già siano rivelatori, questi testi non sono che rapidi bagliori e sprazzi di luce: nelle lettere della prigionia si trova meravigliosamente descritta l’immagine del Cristo preesistente. Non vi è nulla che somigli di più al Prologo di san Giovanni, che i passi cristologici dell’Epistola ai Colossesi. Il parallelismo oltrepassa l’ordine delle idee e arriva fino all’espressione: da una parte e dall’altra, il Cristo si presenta come un serbatoio di grazie la cui pienezza si riversa sopra tutto il genere umano, e l’unione, nella persona di Lui, della divinità con l’umanità, è affermata con una formula egualmente ardita. Ma mentre san Giovanni si compiace di considerare il Logos in seno alla luce divina di cui è l’irradiazione eterna, san Paolo preferisce contemplare il Cristo come capo dell’umanità che riscatta, e della creazione cui restituisce la sua primiera armonia. Infatti il suo scopo principale, determinato dalla controversia con i falsi dottori di Colossi, è di far vedere che il Cristo primeggia in tutte le cose, come uomo e come Dio, nel tempo e nell’eternità; egli perciò accumula nella persona di Lui, senza troppo preoccuparsi dell’ordine logico o cronologico, i titoli onorifici, le qualifiche eccezionali, le dignità e le prerogative che lo mettono assolutamente fuori di ogni confronto e gli conferiscono un primato sovreminente. Così il Cristo è « il Figlio prediletto », necessariamente unico, il quale, in tale qualità, dispone del regno di suo Padre come del suo regno. — Egli è « l’immagine del Dio invisibile », ritratto vivente del Padre celeste, il solo perfettamente simile al suo archetipo e il solo capace di rivelarlo agli uomini, perché Egli solo lo conosce come ne è conosciuto. — Egli « è il Primogenito di ogni creatura » perché « esiste prima di ogni creatura ». — Egli è il creatore e il conservatore di tutte le cose; e nessun essere creato, per quanto elevato nelle sfere celesti, sfugge alla sua attività creatrice né alla sua provvidenza. — Egli è « il capo supremo della Chiesa », autore della redenzione e della remissione dei peccati, primogenito tra i morti e primizia della risurrezione, perché, dovendo primeggiare in tutto, non gli può mancare nessuna preminenza. — Egli possiede la pienezza delle grazie richieste per compiere la sua parte di riconciliatore e di pacificatore universale (Col. I, 17). — Finalmente, come per compiere il quadro, « tutta la pienezza della divinità abita in Lui corporalmente (Col. II, 9) ». Non bisogna confondere questa formula con la precedente, poiché esse sono totalmente diverse: nella prima si tratta della pienezza delle grazie, nella seconda della pienezza della divinità; là si tratta di una pienezza che sta sopra la persona del Cristo, qui di una pienezza che risiede nel corpo del Cristo. La parola adoperata da san Paolo non è punto equivoca: « tutta la pienezza della divinità » non può essere che la stessa natura divina. – Tuttavia l’espressione più completa del pensiero di san Paolo, è il celebre testo cristologico dell’Epistola ai Filippesi. L’Apostolo volendo proporre ai suoi discepoli un esempio di abnegazione e far loro vedere che l’abbassamento volontario è un seme di gloria, presenta loro le tre tappe di vita divina, di vita di prova e di vita glorificata, percorse da Gesù Cristo « il quale essendo nella forma di Dio non considerò come una preda l’essere (trattato) alla pari di Dio; — ma si spogliò prendendo la forma di schiavo, diventando simile agli uomini; e, riconosciuto uomo al suo esteriore, si abbassò facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce; — perciò Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è sopra tutti i nomi, affinché al nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo, in terra e negli inferni ed ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è (entrato) nella gloria del Padre (Fil. II, 6-11) ». I n ciascuna di queste tre tappe, di maestà, di umiliazione e di gloria, vi sono come due fasi distinte. Prima di tutti i secoli il Cristo era nella forma di Dio e per questo appunto era Dio, perché la forma di Dio appartiene alla sua essenza; e come Dio egli aveva diritto agli onori divini quanto suo Padre. Questa maestà non gl’impedisce di abbassarsi fino a noi: egli si spogliò, non deponendo la forma divina che era inseparabile dal suo essere, ma nascondendo la sua forma divina sotto la sua forma umana e rinunziando così per un certo tempo agli onori divini che gli erano dovuti; Egli si abbassò più ancora di quanto lo esigesse la sua condizione di uomo, sottomettendosi alla morte, e alla più ignominiosa delle morti. Per dare alla sua rinunzia volontaria una ricompensa proporzionata, Dio costringe ora ogni essere creato a rendergli omaggio ed a confessare il suo trionfo.

3. A costo di fare qualche anticipazione sul capitolo seguente, cerchiamo di abbozzare le linee principali di questa immagine. Il Cristo è di un ordine superiore ad ogni essere creato (Ephes. I, 21), è Egli stesso creatore (Col. I, 16) e conservatore del mondo (Col. I, 17); tutto è per mezzo di Lui, in Lui e per Lui (Col. I, 16-17). Come causa efficiente, esemplare e finale di tutto ciò che esiste, Egli è dunque Dio. Il Cristo è l’immagine del Padre invisibile (II Cor. IV, 4; Col. I, 15); Egli è il Figlio di Dio, ma non come gli altri figli; egli è Figlio in una maniera incommensurabile; Egli è il Figlio, il proprio Figlio, il Prediletto, e tale è sempre stato (II Cor. I, 19). Egli dunque procede dall’essenza divina, Egli è consostanziale al Padre.Il Cristo è oggetto delle dossologie riservate a Dio (Rom. IX, 5); a Lui si rivolgono preghiere come al Padre (II Cor. XII, 8-9); da Lui si attendono beni che Dio solo ha il potere di conferire, come la grazia, la misericordia, la salvezza (Rom. I, 7, etc.); davanti a Lui deve piegarsi ogni ginocchio in cielo, in terra e negli inferni (Fil. II, 10), come si piega ogni ginocchio per adorare la maestà dell’Altissimo.Il Cristo possiede tutti gli attributi divini: Egli è eterno perché è il primogenito di ogni creatura ed esiste prima dei secoli (Col. I, 15-17); è immutabile, perché è nella forma di Dio (Fil. II, 6); è onnipotente perché ha il potere di fecondare anche il nulla (Col. I, 16); è immenso perché tutto riempie con la sua pienezza (Ephes. IV, 10); è infinito perché il pleroma della divinità abita in Lui, o meglio, perché Egli stesso è il pleroma della divinità (Col. II, 9); tutto quello che è proprietà speciale di Dio, appartiene a Lui come sua proprietà: il tribunale di Dio è il tribunale del Cristo (Rom. XIV, 10), il Vangelo di Dio è il Vangelo del Cristo (Rom. I, 1), la Chiesa di Dio è la Chiesa del Cristo (I Cor. I, 2), il regno di Dio è il regno del Cristo (Ephes. V, 5), lo Spirito di Dio è lo Spirito del Cristo (Rom. VIII, 9).Il Cristo è il Signore unico (I Cor. VIII, 6); Egli si identifica col Jehovah dell’antica alleanza (I Cor. X, 4-9); Egli è il Dio che ha conquistato la Chiesa a prezzo del suo sangue (Act. XX, 28); Egli è il « nostro gran Dio e Salvatore Gesù Cristo (Tit. II, 12)»; Egli è anzi « il Dio innalzato sopra tutte le cose (Rom. IX, 5) », che con la sua trascendenza infinita domina il complesso delle cose create. Se Egli non è chiamato Dio senza epiteti, è perché Dio, nel linguaggio di san Paolo, designa la Persona del Padre, e un’identità personale tra il Padre e il Figlio è contradittoria.

CONOSCERE SAN PAOLO (32)

LIBRO III.

La persona del Redentore (1)

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

CAPO I.

Il Cristo preesistente.

1. – IL CRISTO PRIMA DEI SECOLI. – 2. PAOLO E IL CRISTO. — 3. PREESISTENZA ETERNA DEL CRISTO.

1. Gli storici moderni del dogma si mostrano talora sorpresi nell’intendere san Paolo, dopo la cristologia più semplice degli altri Apostoli, attribuire al Salvatore una preesistenza celeste prima della sua nascita terrena e persino una partecipazione alla creazione del mondo ». Il loro stupore può dipendere da una conoscenza imperfetta o da un apprezzamento inesatto della teologia dei primi Apostoli, ma il fatto stesso non resta meno sconcertante per chi vuole ridurre la grandezza del Cristo alle dimensioni umane. Ed è più sconcertante ancora, se si tiene conto di queste due cose: che san Paolo è stato il primo a fissare negli scritti la credenza cristiana, e che la sua cristologia non fu mai oggetto di una controversia. Questo fatto è innegabile ed è riconosciuto lealmente dai critici meno propensi a difendere le posizioni tradizionali: è questo appunto che rende tanto importante l’insegnamento di san Paolo intorno alla persona del Cristo. – La maniera con cui il fariseo convertito parla di Gesù di Nazaret, di quel novatore religioso morto poc’anzi sopra un patibolo, del quale ancora ieri egli si faceva un vanto e un dovere di distruggere l’opera e di scancellarne il nome, è un fenomeno strano che sembra contradire tutte le leggi della psicologia e tutte le analogie della storia. Paolo, carattere fiero, così cosciente della sua dignità, così sdegnoso degli idoli della carne e del sangue, è in estasi e in adorazione davanti al suo Maestro. Egli vuol essere il suo servo, il suo schiavo, anzi lo schiavo dei suoi fratelli, per amore di lui (Rom. I, 1). Egli non tollera che il Cristo sia messo alla pari con nessun essere creato: più alto che i cieli, più Tasto che l’universo, più potente che la morte, unico vincitore del peccato, unico mediatore della grazia, unico Redentore del genere umano, il Cristo ecclissa tutto col suo splendore, riempie tutto con la sua pienezza, è anteriore ai secoli (Col. I, 18-20; Ephes. I, 21-23). Perciò ogni ginocchio si deve piegare, davanti a Lui, in cielo, in terra e nell’inferno, perché i più perfetti spiriti celesti riconoscono in Lui il loro Capo, il loro Creatore, il loro Dio (Fil. II, 9-11; Col. I, 16-17; Rom. IX, 5Tit. II, 13). Questo è il quadro che l’Apostolo, al domani della passione, fa di Gesù ai testimoni della sua vita e della sua morte, ai suoi persecutori e ai suoi carnefici. – Che proporzioni gigantesche prende improvvisamente nella mente di Saulo l’immagine del Crocifisso! La trascendenza di questa immagine è tale, che non può più crescere: all’infinito non si può più aggiungere nulla. Tutti i nostri sforzi per seguirne lo sviluppo graduale sono vani: dal primo istante della sua conversione, per lui il Cristo è l’incomparabile, l’unico: nulla è superiore a Lui, nulla è uguale a Lui. E tutto questo non è a scapito della natura umana: Gesù Cristo non è un personaggio immaginario, ma è un essere reale, sempre vivo nella memoria dei suoi discepoli che ripetono le sue parole e si modellano sopra le sue azioni. Quando Saulo divenne Cristiano, erano trascorsi sei anni, o al massimo sette, dalla passione; quando inaugurò la sua predicazione pubblica, era trascorsa appena una decina d’anni; egli scrisse le sue prime lettere ventidue anni appena dopo quella data memoranda. Gesù Cristo, più vecchio di lui di qualche anno appena, era per lui, in tutta la forza del termine, un contemporaneo che avrebbe potuto incontrare nelle viuzze di Gerusalemme o sotto i portici del Tempio; era anche un suo compatriota, se è vero, come sostiene san Gerolamo, che la famiglia di Saulo era di origine galilea. E come mai egli è diventato il suo Dio? Né il tempo trascorso, né l’ambiente della Palestina, né le circostanze della morte di Gesù non favorivano un’apoteosi; e la serietà del monoteismo ebraico non si prestava affatto a quelle ridicole deificazioni che mettevano un Claudio o un Tiberio nel numero degli immortali, dedicando a loro templi, sacerdoti e sacrifici, uguagliandoli alle divinità dell’Olimpo che non erano in realtà né migliori né peggiori. Quando l’adulazione dei Romani degenerati, emula dell’adulazione orientale, decretò gli onori divini agl’Imperatori, i quali li accettarono prima con qualche ritegno e poi senza nessun pudore, gli Ebrei furono irreducibilmente refrattari a quell’empio culto. – L’adorazione di un uomo, fosse pure re o imperatore, era per loro l’abbominazione della desolazione; e bisognò pure cedere alla loro invincibile ripugnanza e dispensarli ufficialmente da un atto che ai loro occhi era più orribile che la morte. I Cristiani non si mostrarono meno intransigenti e molte volte sigillarono col loro sangue il rifiuto di dare ad un uomo i titoli e gli onori riservati a Dio. I pagani non capivano un bel nulla dei loro scrupoli, ma non riuscivano a trionfarne. Per i Cristiani più ancora che per gli Ebrei, il culto di Cesare fu sempre l’adorazione della Bestia, e il tempio degli Augusti il trono di satana. Quando san Paolo protesta che per noi vi è « un solo Dio, il Padre, e un solo Signore, Gesù Cristo », questa professione di fede risuona come il grido sdegnoso della coscienza cristiana contro la suprema aberrazione del politeismo morente. In quel tempo tutti i titoli divini, « Dio, Figlio di Dio, Dio da Dio, Signore o Signore Dio, Salvatore o Dio Salvatore », erano stati profanati dall’adulazione dei popoli e dall’incoscienza del paganesimo; ma Paolo, applicando questi titoli al Cristo preesistente, conserva a loro il valore che hanno nella Bibbia dove indicano Jehovah.

2 . La preesistenza del Figlio di Dio risulta evidentemente da quanto dovremo dire intorno alla sua natura divina, alle sue relazioni eterne in seno a Dio, al suo compito attivo nella creazione del mondo; ma essa si dimostra anche direttamente con tre serie di testimonianze. Ad un certo punto della durata del tempo, il Cristo « venne in questo mondo (I Tom. I, 15); apparve nella carne (I Tim. III, 16); si fece povero mentre era ricco, per arricchire noi con l)a sua povertà (II Cor. VIII, 9) ». Ora è chiaro che lo scambio delle ricchezze del cielo con la povertà della terra, suppone necessariamente un modo di esistenza anteriore all’incarnazione. I testi poi come questi: « Dio, avendo mandato il suo proprio Figlio nella somiglianza della carne del peccato e per il peccato, condannò il peccato nella carne (Rom. VIII, 3) », oppure anche: « Dio mandò suo Figlio, nato da una donna, messo sotto la Legge, per procurare a noi la filiazione adottiva (Gal. IV. 4) », non hanno nulla di comune con la frase biblica « Dio mandò a loro un giudice o un salvatore »; poiché se la missione del Figlio coincide con la sua origine terrestre, la sua esistenza deve assolutamente precedere, perché è la somiglianza della carne del peccato, ossia la natura umana, il termine della sua missione. – Il Cristo è il « primogenito di ogni creatura (Col. I, 15) ». È assolutamente impossibile che questa espressione voglia dire « primogenito tra le creature »; essa dunque significa « nato prima di ogni creatura »: e questo implica anzitutto che il Cristo non si deve mettere nella categoria degli esseri creati, e in secondo luogo, che possiede un modo di esistenza superiore e anteriore ad ogni essere creato. Affinché non rimanga nessun equivoco, Paolo si commenta da se stesso dicendo che il Cristo « è prima di tutte le cose »; e ne dà questa ragione, che « tutto fu creato per mezzo di Lui e per Lui (Col. I, 16) ». Siccome prima di operare bisogna essere, la conseguenza è evidente. Il Cristo non solamente esisteva, ma « sussisteva sotto forma di Dio (Fil. II, 6) ». La forma di Dio non si può né acquistare né perdere; essa non può essere soppiantata dalla forma di schiavo che aggiunse a se stessa nel tempo: dove si trova, si trova da tutta l’eternità. Perciò « Gesù Cristo era ieri, è oggi e sarà nei secoli (Ebr. XIII, 8) dei secoli. Come l’autore dell’Epistola agli Ebrei, san Paolo suole distinguere, nella vita del Cristo, tre stati o tre fasi: la preesistenza eterna del Figlio presso il Padre e quella che si potrebbe chiamare la sua preistoria, l’apparizione storica sopra la terra nella pienezza dei tempi, l’esaltazione gloriosa del Cristo risuscitato. È evidente che questi tre stati i quali si succedono senza cambiamento di soggetto, appartengono realmente alla stessa persona. L’ipotesi recente che attribuisce la preesistenza all’anima del Cristo, non ha bisogno di essere confutata: la preesistenza delle anime fu sempre antipatica al pensiero ebraico; non se ne trova nessuna traccia nel Nuovo Testamento; e perché mai san Paolo, in opposizione a tutti gli altri, farebbe al Cristo l’onore di una preesistenza la quale, in questo sistema, sarebbe comune a tutti gli uomini? Alcuni vogliono che l’Apostolo si sia ispirato da Filone, e che il suo Cristo non sia altro, in sostanza, che l’uomo tipo del filosofo alessandrino (Hingelfeld): ma dal momento che Paolo ignora il Platone ellenista, e in ogni caso non prende nulla da lui, dal momento che la sua teologia realista è agli antipodi dell’idealismo teosofico di Filone, questa nuova opinione manca totalmente di base e non regge alla critica. Altri critici ammettono che san Paolo abbia veramente insegnato la preesistenza reale del Cristo, e che è impossibile negarla senza partito preso e senza prevenzioni dommatiche; ma del suo Cristo preesistente si fanno la più strana idea. Il Cristo sarebbe preesistito non come Dio, ma come uomo: uomo vero che già possedeva un corpo luminoso, etereo, immateriale; uomo tipo, immagine divina ed esemplare divino, sul modello del quale saranno formati tutti gli altri; uomo celeste, venuto dal cielo e destinato a ritornare in cielo dopo una fase di esistenza terrestre; uomo spirituale, animato dallo spirito di Dio e che è spirito egli medesimo (Holtzman). Si assicura che san Paolo prende la sua teoria del Cristo preesistente dai sogni del giudaismo palestinese intorno all’esistenza del Messia; ma questa concezione rabbinica è troppo tardiva e poi non si può intendere se non di una preesistenza ideale. Ora i principali seguaci del sistema che stiamo esponendo, sono obbligati a riconoscere che il Cristo preesistente di san Paolo è davvero una realtà. Come mai non sarebbe un essere reale colui che crea e conserva il mondo, che è mandato da Dio, che cambia gli splendori del cielo con le umiliazioni della terra? Ma se Gesù Cristo era uomo prima di nascere, bisogna certamente metterlo nella categoria delle creature, poiché Dio solo è increato; e allora come può san Paolo affermare che ogni essere creato, senza alcuna eccezione, in cielo e in terra, è stato creato per mezzo di Lui e per Lui! Se Gesù Cristo era uomo prima di nascere, come si spiega che diventi uomo col nascere! E se Gesù nel risuscitare ritorna al suo stato di prima, a quello cioè che aveva prima di incarnarsi che cosa significa l a risurrezione! Ecco quanto gli autori di questa strana invenzione non hanno mai provato di spiegarci, ed è appunto quello che imprime al loro sistema, per quanto vogliano avvolgerlo nelle tenebre, il carattere dell’assurdo.

II. – GESÙ CRISTO SIGNORE.

1. NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO. — 2. SIGNORE, NOME PROPRIO DI DIO. — 3. PREGHIERE E DOSSOLOGIE IN ONORE DEL SIGNORE GESÙ.

1. Il compendio più breve della cristologia sta in questa formula: « Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio (I Cor. I, 9)». Benché tutti gli elementi ne siano anteriori e risalgano alla predicazione apostolica, essa si trova così stereotipata soltanto in san Paolo il quale le dà un valore e una pienezza di significato della più alta importanza per la storia della teologia. – Nei Sinottici, la questione sta nel conoscere se Gesù è o non è il Cristo, cioè il Messia, il discendente e l’antitipo di Davide, l’attesa e la speranza d’Israele. Erode s’informa del luogo in cui deve nascere, Giovanni Battista lo mostra a dito, i demoniaci lo proclamano, Pietro lo confessa, Gesù stesso si rivendica altamente questo titolo che riassume la sua missione, i settari giudei glielo danno ironicamente (Matt. II, 4). Ma mentre i Sinottici ci fanno assistere, per così dire, a questo lavoro di riconoscimento graduale e conservano sempre il sentimento assai preciso del vincolo che unisce la qualità di Messia al compimento delle promesse, per san Paolo l’identificazione di Gesù col Cristo è un fatto acquisito e indiscutibile. Il Cristo ha visibilmente sconfitti tutti gli attacchi giudaici il cui ricordo è quasi scancellato: è il nome proprio del Salvatore e può, come nome proprio, fare a meno dell’articolo. Il Cristo muore per farci trionfare della morte, risuscita per incorporarci alla sua vita, regna glorioso per associarci alla sua gloria. La sua opera è sopramondana, e la scena in cui si consuma, è sopraterrena. Dall’unione dei cristiani col Cristo risulta un essere nuovo, il Cristo mistico, nel quale non vi è più distinzione tra Ebreo e Gentile, tra Greco e barbaro, tra schiavo e libero, perché tutti sono uno nel Cristo Gesù (Gal. III, 28) ». Quando si pensa che Paolo riflette certamente il pensiero cristiano del suo tempo, e che le sue Epistole precedettero la redazione dei Vangeli, non si può fare a meno di ammirare lo sforzo di ricostruzione storica al quale si dovettero sottoporre gli evangelisti per non proiettare sopra la vita e le parole di Gesù le idee e i sentimenti del loro ambiente.

2. È cosa nota che questa parola « Signore » è, nei Settanta, la traduzione abituale del nome ineffabile, del tetragramma sacro. Esso si poteva dare al Messia, perché era Re teocratico rappresentante di Jehovah, e anche perché era designato dalla profezia del Salmista: « E Signore ha detto al mio Signore (Ps. CIX, 1) ». Tuttavia gli evangelisti lo applicano a Gesù assai di rado. In san Marco e in san Matteo, il Signore è ordinariamente Dio stesso, come nell’Antico Testamento, e il titolo di « Signore » per lo più è soltanto una formola di cortesia, l’equivalente di « Maestro » o di « Rabbi ». All’avvicinarsi della passione, essi si allontanano alquanto dal loro riserbo (Marc. XI, 3). San Luca e san Giovanni incominciano più presto (Giov. IV, 1); tuttavia l’uno e l’altro sono assai in ritardo, in confronto con san Paolo, e tale ritardo, a nostro parere, si può spiegare con uno scrupolo di verità storica. Per san Paolo, fatta astrazione dalle citazioni dell’Antico Testamento, Gesù Cristo è regolarmente chiamato « il Signore ». È probabile che il linguaggio dell’Apostolo non presenti neppure un’eccezione (Cremer); in ogni caso, « Signore » è diventato il nome proprio del Cristo e può come tale, sopprimere l’articolo (Rom. XIV, 6I Cor. VII, 22). Ma vi è di più: nell’appropriarsi il nome di Jehovah, il Cristo ne riceve anche tutti gli attributi: Paolo si dice servitore del Cristo, come i profeti solevano chiamarsi servitori di Jehovah; nelle frasi che esprimono azioni divine, come la creazione, il conferimento della grazia, la santificazione, il giudizio, la retribuzione finale, il nome di Dio e del Signore si scambiano a caso, come porta il discorso, alla maniera con cui si scambiano i sinonimi; finalmente quello che la Scrittura racconta di Jehovah, Paolo lo intende, senza nessuna esitazione, come detto del suo Maestro (Am. III, 7; Ger. VII, 35; Dan. IX, 6, etc.). Jehovah era la « Pietra d’Israele » o semplicemente « la Pietra »; gli autori dell’Antico Testamento ci hanno abituati a questo linguaggio. Paolo lo conosce meglio di ogni altro, ma questo non gl’impedisce di affermare che la « Pietra era il Cristo » preesistente: Petra autem erat Christus (I Cor. X, 4). E poco dopo soggiunge: « Non tentiamo il Signore (o il Cristo), come alcuni lo tentarono e morirono del morso dei serpenti (I Cor. X, 9) ». O si legga «il Signore», o si legga «il Cristo», la variante ha poca importanza, perché i due termini, per san Paolo, sono sinonimi. – Gioele aveva detto, parlando di Jehovah: « Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo (Gioe. III, 5) ». Ma il Signore è il Cristo, e l’Apostolo può commentare il testo così: « Non vi è differenza tra il Giudeo e il Greco, poiché tutti hanno il medesimo Signore, liberale verso coloro che lo invocano; poiché (sta scritto): Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo (Rom. X, 13) ». La salvezza una volta annessa all’invocazione di Jehovah, è ora annessa all’invocazione del Cristo e, per provarlo, Paolo si fa forte della parola del profeta: logicamente ne segue che ai suoi occhi il Cristo è uno solo con Jehovah. Altrimenti non si può spiegare il discorso che egli rivolge agli anziani di Efeso: « Vigilate sopra voi stessi e sopra tutto il gregge di cui lo Spirito Santo vi ha costituiti custodi, per governare la Chiesa di Dio che Egli si acquistò col proprio sangue (Act. XX, 28) ». Questa espressione cominciò assai per tempo a scandalizzare certi teologi pusillanimi che le fecero subire diverse correzioni, una delle quali, che consiste nel sostituire il nome di « Signore » al nome di « Dio », finì con invadere la maggior parte dei manoscritti greci. I critici moderni per parte loro ricorrono alle più stravaganti ipotesi per non lasciar dire a Paolo, che « Dio si acquistò la Chiesa col suo proprio sangue ». Ma l’Apostolo non ha nessun bisogno della loro assistenza: il suo linguaggio, in questo passo, non è più straordinario che in cento altri passi; egli si limita, secondo il suo solito, a identificare Gesù Cristo con Dio, e gli applica un attributo che gli conviene soltanto secondo la natura umana. Ma la comunicazione degli idiomi, di cui egli fa l’uso più esteso lo autorizza a farlo. Bisognerà ancora stupire del valore che san Paolo dà alla formula: « il Cristo è Signore? ». Egli ne fa il pernio dell’ortodossia e il criterio dei carismi: « Nessuno che parli sotto (l’impulso del) lo Spirito di Dio dice: Gesù (sia) anatema! e nessuno può dire: Gesù (è) Signore, se non nello Spirito Santo (I Cor. XVI, 3) ». Egli la considera come il compendio più conciso del suo Vangelo: « Noi non predichiamo noi medesimi, ma il Cristo Gesù Signore (II Cor, IV, 5) ». Più ancora, egli la presenta come una professione di fede cristiana che racchiude in sostanza le condizioni della salvezza: « Se confessi con la tua bocca che Gesù è Signore e se credi nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato da morte, tu sarai salvo; poiché, dice la Scrittura, chiunque crederà in Lui non sarà confuso (Rom. X, 9) ». Isaia aveva infatti detto questo di Dio, e non del Cristo, ma per Paolo è la stessa cosa, non dobbiamo stancarci di ripeterlo, poiché il suo Cristo è Signore e Dio.

3. Se è così, dobbiamo aspettarci di vedere l’Apostolo mettere il Cristo sopra tutto ciò che non è Dio, in una sfera inaccessibile agli esseri creati, rivolgergli inni e preghiere come allo stesso Dio e applicare a lui le dossologie che la Scrittura riserva a Dio: e le nostre previsioni non sono punto deluse. L’Epistola ai Galati comincia con queste parole: « Paolo apostolo, non per autorità degli uomini né per mezzo di un uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre (Gal. I, 1) ». Paolo nega assolutamente agli uomini ogni causalità, o remota o prossima del suo apostolato; egli non è il delegato né il mandatario degli uomini. – Quando dunque egli si dice apostolo esclusivamente per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre, considera evidentemente il Cristo come un essere superiore all’uomo, o meglio come una persona la quale è più che uomo. Senza dubbio tra Dio e l’uomo vi sono gradi infiniti; ma se si riflette che Paolo non farebbe derivare la grazia — e una grazia come quella dell’apostolato — da un essere inferiore a Dio, e che comprende Gesù Cristo e Dio sotto una stessa particella causale, senza che si possa dire che egli stabilisce tra i due una subordinazione di autorità o di grado, poiché Gesù Cristo è anzi qui nominato per il primo, non si potrà opporre nulla agli interpreti i quali vedono in queste parole una prova della divinità del Figlio. – Per invalidare il loro ragionamento, bisogna essere sicuri in precedenza che Gesù Cristo non sia Dio, e che Paolo non lo abbia creduto tale; ma un simile pregiudizio rende impossibile qualunque sana esegesi. – La coscienza cristiana non separa il Cristo da Dio. Fin dalle origini, il Cristo è pregato, invocato, cantato e glorificato come Dio. Santo Stefano morente dice: « Signore Gesù, accogli lo spirito mio… Signore, non imputare a loro questo peccato (Act. VII, 59) ». L’ardente supplica che Gesù in croce rivolgeva a suo Padre, la rivolgono allo stesso Gesù i primi martiri: perché oramai « chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo (Rom. X, 13) »; e il Signore non è altri che il Cristo. I fedeli sono « coloro che invocano il nome del Signore »; questo è il loro titolo distintivo e caratteristico. Paolo scrive « alla chiesa che è in Corinto, ai (fedeli) santificati nel Cristo Gesù, santi per vocazione, come a quelli che invocano il nome di Nostro Signore Gesù Cristo, in qualunque luogo (I Cor. I, 2) ». Dopo la teoria, viene la pratica: l’Apostolo sentendo « nella sua carne uno stimolo, un angelo di satana », che lo schiaffeggia e che pare dover paralizzare il suo ministero, prega tre volte il Signore per esserne liberato; e il Signore gli dice: « Ti basta la mia grazia (II Cr. XII, 8-9) ». Egli prega, non Dio Padre, ma il Signore, perché sa benissimo che pregare il Signore è pregare lo stesso Dio; e il Signore, autore e distributore della grazia, gli promette il suo aiuto onnipotente. Nell’anno 112 della nostra èra, certi antichi Cristiani raccontavano a Plinio, che prima della loro apostasia solevano radunarsi per cantare inni al Cristo come a un Dio: Christo quasi Deo (Epist. ad Traian., 96). Non era affatto una novità: uno dei testimoni citati da Eusebio, afferma che l’usanza di comporre salmi e odi in cui il Verbo era celebrato come Dio, risale alle origini (Hist. Eccl.); e questa asserzione può essere verificata con l’espressa testimonianza di san Paolo: « Trattenetevi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e celebrando nel vostro cuore il Signore (Ephes. V, 19) » Gesù Cristo. Nel passo parallelo, « il Signore » è sostituito con « Dio (Col. III, 16) », e questo prova che i fedeli innalzavano le stesse lodi a Dio e al Cristo. Brevi frammenti di queste composizioni primitive, più notevoli per lo spirito religioso che per l’ispirazione poetica, sono assai probabilmente arrivati fino a noi. Tale sarebbe questa descrizione ritmica del « mistero della pietà »:

Egli si manifestò nella carne,

fu giustificato nello spirito,

apparve agli Angeli;

sarà predicato tra le nazioni,

fu creduto nel mondo,

fu rapito in gloria.

(I Tim. III, 16).

La dossologia è una specie di inno compendiato. Gli Ebrei la facevano seguire al solo nome di Dio, e anche l’Apostolo generalmente osserva tale pratica: « A Dio solo onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen. ». Ma già san Paolo, san Giovanni, san Pietro, e anche l’Epistola agli Ebrei, quasi che si fossero data la parola d’ordine, vanno insensibilmente sostituendo il nome del Figlio a quello dei Padre: « Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà (facendomi entrare) nel suo regno celeste. A Lui sia la gloria nei secoli dei secoli. Amen (II Tim. IV, 18) ». Infatti, siccome da Lui s i aspetta la grazia, è giusto che a Lui se ne dia l’onore e il ringraziamento: « Rendo grazie al Cristo Gesù Nostro Signore il quale mi ha fortificato, di avermi giudicato fedele con lo stabilirmi nel ministero ».Però l’attribuzione delle dossologie al Cristo è eccezionale. Allorché il pensiero dell’Apostolo si fissa esclusivamente nella Persona di Gesù Cristo, egli può benissimo pregarlo, invocarlo, ringraziarlo, esaltarlo, come se fosse l‘unico autore dei beni soprannaturali; ma quando lo nomina unitamente a suo Padre, egli stabilisce tra loro due un ordine che non inverte mai. Allora egli ringrazia, implora e glorifica Dio per mezzo di Gesù Cristo o in Gesù Cristo; ed è più che naturale: « Il capo di ogni uomo è il Cristo, (come) il capo della donna è l’uomo; (ma) il capo del Cristo è Dio (I Cor. XI, 3) ». Qui vi è una gerarchia ben definita: Dio, il Cristo, l’uomo, la donna. Se si legge attentamente il contesto, si noterà anzitutto che si tratta del Cristo come capo della Chiesa, nell’economia della redenzione; in secondo luogo, che si tratta dei rapporti dell’uomo e della donna sotto l’aspetto cristiano e sotto l’aspetto sociale. Infatti la questione di cui si tratta, concerne il contegno delle donne nella Chiesa, contegno determinato dalla situazione delle donne nella Chiesa. Sotto l’aspetto individuale, la donna cristiana è immediatamente unita al Cristo redentore, precisamente come l’uomo, ma non è così sotto l’aspetto sociale. Qui vi è una gerarchia da osservare in teoria e da mantenere nella pratica. Come capo della Chiesa, il Cristo dipende immediatamente da Dio del quale è l’inviato e il mandatario; l’uomo dipende immediatamente dal Cristo e lo rappresenta nelle funzioni sacre della gerarchia ecclesiastica; la donna poi — o maritata o no — dipende immediatamente dall’uomo il quale solo ha parte nel governo della Chiesa. E questa subordinazione si deve tradurre esteriormente in atto, nelle assemblee religiose, col velo, simbolo di dipendenza, col quale la donna si coprirà la testa, come pure con l’interdizione che le è fatta, di profetizzare, di insegnare e di parlare in pubblico, davanti ai fedeli e ai loro pastori. – Dio è dunque il capo del Cristo mediatore, e appunto in tale rapporto Dio e il Cristo sono ordinariamente considerati quando sono nominati insieme nelle dossologie e nelle preghiere solenni. Paolo attende la grazia, la misericordia e gli altri beni spirituali simultaneamente dal Figlio e dal Padre e può indifferentemente domandarli al Padre o al Figlio; ma sembra che egli stesso abbia stabilita la regola abituale delle nostre preghiere, quando scriveva ai Colossesi: « Tutto quello che dite o fate, fatelo nel nome del Signore Gesù, ringraziando per mezzo di lui Dio Padre (Col. III, 17) »… Poiché « tutte le promesse di Dio sono diventate in lui », è ben giusto che noi rivolgiamo « per mezzo di lui l’Amen » delle nostre benedizioni (II Cor. I, 20). – Forse la cura di non intaccare menomamente, neppure in apparenza, il monoteismo ebraico, non è estranea a questa usanza introdotta dagli Apostoli e adottata in seguito dalla Chiesa, usanza che del resto, come si è veduto, non impedisce di pregare separatamente il Figlio, quando occorre, e di rivolgergli qualche volta le dossologie riservate a Dio solo.

CONOSCERE SAN PAOLO (31)

III. LE PREPARAZIONI PROVVIDENZIALI.

1. LA PRIMA TAPPA DELL’UMANITÀ. – 2. L’ÈRA DELLA PROMESSA. — 3. IL REGIME DELLA LEGGE. — 4. GLI ELEMENTI DEL MONDO. — 5. LA PIENEZZA DEI TEMPI.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Decretato il disegno della salvezza, bisognava differirne l’esecuzione? Poiché l’uomo non può rialzarsi da sé, a che scopo fargli sperimentare la propria impotenza? Quale gloria può rendere a Dio un ritardo fatale a tante vittime? Si risponde che avendo la missione del Cristo un effetto retroattivo, il valore della sua morte redentrice riguarda dunque anche le generazioni anteriori. Siccome vi furono dei giusti prima di Gesù Cristo e non poterono essere giusti se non per mezzo del Mediatore universale della grazia, i santi dell’antica alleanza sono dunque frutti anticipati del Calvario. Ma se l’Apostolo ci autorizza a trarre queste conclusioni non le trae egli stesso: egli si contenta di fare appello al « proposito » di Dio che si svolge « nel corso dei secoli » (Ephes. III, 11); al più invoca il bisogno provvidenziale di lasciare che i tempi giungano alla loro pienezza e il genere umano arrivi alla maggiore età. È legge di natura che si vada alla perfezione per gradi, e l’uomo non arriva all’età matura se non passando per l’infanzia e la giovinezza. Dio non ha sdegnato di piegarsi a queste armonie, perché esse fanno maggiormente risplendere la sua misericordia e la sua sapienza. Egli condurrà dunque l’uomo al suo punto terminale per quattro tappe successive: la legge di natura, il tempo delle promesse, il periodo dell’alleanza e l’èra della grazia. Così la provvidenza conduce l’umanità di progresso in progresso: questa idea eminentemente biblica, da cui si sono ispirati due dei più bei libri usciti dalla mano dell’uomo, è quella che si è convenuto di chiamare, in san Paolo, la filosofia della storia, è quella che assai più giustamente si chiamerebbe la sua teologia della provvidenza. – La creazione della prima coppia umana apre la storia religiosa dell’umanità. San Paolo non ci dice quale sarebbe stata la condizione dell’uomo sopra la terra, se l’uomo non avesse peccato: come i suoi colleghi egli non cerca di esplorare le regioni nebulose delle possibilità o delle ipotesi e raramente spinge il suo sguardo di là dall’orizzonte reale. Egli si contenta di rimandarci al racconto della Genesi quando fa dipendere dalla disobbedienza di Adamo la perdita dell’amicizia divina, la morte e l’inclinazione al male. Egli non fa nessuna allusione a una rivelazione primitiva, poiché la rivelazione per mezzo della quale i pagani percepivano gli attributi di Dio nello specchio del mondo sensibile, è una rivelazione naturale, inerente all’intelligenza (Rom. I, 20), e la conoscenza che essi ebbero della legge eterna non era che il giudizio della loro coscienza e della loro ragione (Rom. II, 14-15). – La sollecitudine di cui furono sempre oggetto i pagani anche quando furono peggiori i loro traviamenti, quella sollecitudine che aveva lo scopo immediato di incitarli a cercare Dio e lo scopo ultimo di condurveli (Act. XVII, 26-27), non si potrebbe chiamare provvidenza soprannaturale, se non si fosse prima dimostrato che non ve ne fu altra nell’ordine presente. In virtù della stessa provvidenza, Dio li tiene, come gli Ebrei, sotto il dominio del peccato: a tutti poi si propone di fare misericordia (Rom. XI, 32; Gal. III, 22). Se altrove si dice che Dio, « nei secoli passati, lasciò che tutti i Gentili camminassero nelle loro vie (Act. XIV, 16) » tortuose, che li abbandonò ai loro istinti perversi e al loro senso riprovato (Rom. I, 28), questo non si può intendere di un abbandono totale e assoluto, perché nello stesso luogo si afferma che Dio non ha cessato di rendere testimonianza a se stesso con i suoi benefizi (Act. XIV, 17), che rimane sempre il Dio dei Gentili non meno che degli Ebrei (Rom. III, 29), che medita di trarre profitto dalla loro miseria e persino dalla loro malizia, per trarli dall’abisso (Rom. III, 29). L’allegoria dell’olivo buono e dell’olivastro (Rom. XI, 24) dimostra bensì che gli Ebrei avevano ricevuto dal celeste agricoltore cure speciali, ma non permette di conchiudere che l’olivastro fosse restato privo di ogni cura; anzi l’educazione naturale della gentilità è talora messa a confronto con l’educazione soprannaturale di cui fu favorito il popolo eletto, e da ambe le parti le istituzioni morali e religiose che preludevano al Vangelo, per quanto fossero differenti, sono messe sotto il medesimo concetto di dottrine elementari e somigliate ad un alfabeto che il mondo, ancora bambino, si provava a decifrare (Gal. IV, 9; Col. II, 8). – La preparazione dei Gentili alla fede può parere soprattutto negativa; ma la diffusione del Cristianesimo nei paesi pagani sta a dimostrare che essa non fu meno efficace. Il disprezzo ispirato dall’assurda e immonda folla del panteon greco-romano, il disgusto prodotto, a lungo andare, da una corruzione sfrenata, la sazietà del vizio, che a poco a poco andava guadagnando le anime oneste, il disordine intellettuale prodotto dal fallimento delle filosofie, l’aspirazione ad un ideale religioso più elevato, il risveglio delle coscienze, il vago sospetto del Dio sconosciuto, furono altrettanti predicatori muti che prepararono la via ai banditori del Vangelo.

2. Tra lo stato di natura e il regime della Legge, s’intercala l’èra della promessa. Se ne potrebbero cercare gli inizi nel primo annunzio di un redentore dato subito dopo la caduta, oppure nella speranza data a Noè dopo il diluvio; ma si sa che l’Apostolo la fa datare da Abramo il quale la personifica. La promessa è quasi sempre definita con la Legge in funzione. Perché dunque la Legge! Essa fu aggiunta per le trasgressioni, fino a che venisse quel seme cui era stata fatta la promessa; (essa fu) promulgata dagli Angeli per mezzo di un mediatore. Ora il mediatore non è di uno solo, ma Dio è solo (Gal. III, 19-20). Bisogna dire che quest’ultima frase sia molto oscura, se suggerì agli esegeti centinaia di spiegazioni. Però, siccome la maggior parte dei commentatori suppongono, contro ogni evidenza, che qui il mediatore sia Gesù Cristo, e siccome quasi tutti gli altri considerano più le parole che il contesto, il numero delle interpretazioni veramente ammissibili si riduce in modo singolare. Il mediatore della Legge non è Gesù Cristo, ma Mosè, e lo scopo di san Paolo non è quello di far vedere la superiorità della Legge, ma la sua imperfezione e la sua instabilità. L’inferiorità della Legge, messa in confronto con la promessa, risulta, da questo stesso contrasto: la promessa è un testamento, la Legge è un contratto; la promessa è assoluta, la Legge è condizionata; la promessa viene da Dio senza intermediari, la Legge è promulgata dal mediatore; la promessa è confermata da Dio con giuramento, la Legge è preparata e trasmessa dagli Angeli. Per conseguenza la promessa è immutabile, la Legge è suscettibile di abrogazione; la promessa fatta senza limitazione di tempo è eterna, la Legge data sotto la riserva della promessa è temporanea; la promessa impegna la fedeltà di Dio in modo assoluto, la Legge non impegna la fedeltà di Dio se non soltanto finché dura la fedeltà del popolo. Tutto questo si riassume nella formola: « Il mediatore », per sua natura, « non è mediatore di un solo » contraente. Dove egli interviene, vi è sempre un contratto bilaterale, che, subordinato a due volontà differenti, si può rescindere; « ma », nella promessa fatta da Dio senza restrizioni e senza condizioni « Dio. è solo » in causa; nessuno potrà infirmare la sua irrevocabile decisione, ed Egli è obbligato verso se stesso a non ritirarla a danno degli interessati. Perciò la Legge, venendo dopo le promesse, non può né abolirle né modificarle; mentre la promessa di Dio porta in se stessa la sua garanzia. San Luca, san Paolo e l’autore dell’Epistola agli Ebrei sono i soli che parlino della promessa nel senso tecnico. Con questo essi intendono il complesso delle prospettive graziose aperte nell’avvenire al padre dei credenti, per lui e per la sua discendenza: il possesso di una dimora stabile, una discendenza più numerosa che le stelle del cielo ed i granelli di sabbia del deserto, finalmente e soprattutto la benedizione che si deve riversare sopra tutte le nazioni della terra. Nel senso più largo, la promessa comprende tutti i benefici messianici fino alla loro completa realizzazione in cielo. Siccome l’oggetto ne è insieme uno e multiplo, gli autori sacri parlano ora di più promesse, ora di una sola (Rom. IV, 13-20; IX, 8-9, etc. ); ma è certo che tutte le promesse hanno il loro compimento nel Cristo: « I n virtù della promessa Dio ha suscitato a Israele un Salvatore, Gesù… Poiché quanto vi è di promesse divine tutto è diventato in Lui; perciò anche noi (pronunziamo) per mezzo di lui alla gloria di Dio l’amen (II  Cor. ) » della lode e del ringraziamento. – Quali sono i veri eredi della promessa? A prima vista la risposta sembra facile. Il possesso delle promesse non è uno dei privilegi d’Israele? (Rom. IX, 4). I Gentili non erano estranei alla promessa e perciò senza speranza? (Ephes. II, 12). Il Cristo non è forse « ministro della circoncisione per (provare) le veracità di Dio, confermando le promesse fatte ai padri? (Rom. XV, 8) ». Ma d’altra parte, i Gentili divenuti Cristiani sono di pieno diritto compartecipi della promessa (Ephes. III, 6), e l’Apostolo afferma a più riprese che la promessa era loro destinata fin dall’origine (II Cor. VII, 1; Gal. IV, 28, etc.). Per risolvere l’antinomia, bisogna scoprire il principio secondo il quale si distribuiscono e si comunicano le benedizioni lasciate in eredità ad Abramo. Qui trionfa il dialettico rotto alle sottigliezze della scuola. Nella storia della promessa, Paolo rileva tre particolarità notevoli. La promessa non si estende a tutti i figli di Abramo; passa prima ad Isacco con l’esclusione d’Ismaele, poi a Giacobbe con l’esclusione di Esaù (Rom. IX, 8). Il principio di questa differenza è quello dell’elezione, della libera scelta di Dio: non è la posterità carnale quella che erediterà benedizioni, ma la posterità spirituale. In secondo luogo, la promessa fatta ad Abramo è universale, perché in lui saranno benedette tutte le nazioni (Gal. III, 8). Il principio di questa estensione è la fede: i veri figli di Abramo saranno quelli che avranno la fede del padre dei credenti. Finalmente la promessa è collettiva poiché si riferisce non a ciascuno dei discendenti del patriarca, ma alla sua razza, al suo seme (Rom. III, 9). Il principio di questo rapporto collettivo è l’unione al Cristo, sorgente unica di benedizioni: i veri eredi di Abramo non sono dunque gli Ebrei, ma i Cristiani, in quanto formano col Cristo una medesima Persona mistica, la discendenza spirituale di Abramo. Così la promessa ha tre caratteri che la rendono somigliante al Vangelo: come il Vangelo, essa è universale; come il Vangelo, si poggia sopra la fede; come il Vangelo, dipende dalla grazia. La promessa è il Vangelo in prospettiva, e il Vangelo è la promessa compiuta.

3. Se tali sono le prerogative della promessa, il regime della Legge, invece di essere un passo innanzi nella marcia dell’umanità, non segnerà dunque un passo indietro? Questa obiezione si presentò alla mente di san Paolo il quale ne dà la risposta: « Ebbene, (noi Ebrei) siamo forse da più (dei Gentili)? Non del tutto (Gal. III, 16) ». Vi sono due punti nei quali vi è eguaglianza, e nei quali gli Ebrei non si possono vantare di alcun privilegio: il dominio del peccato e il modo di giustificazione per mezzo della fede (Gal. II, 16; Rom. III, 9); questo tuttavia non esclude ogni differenza. « Che cosa ha dunque di più l’Ebreo o che cosa gli giova la circoncisione? Molto per ogni verso. Anzitutto essi hanno ricevute in deposito gli oracoli di Dio (Rom. III, 9) ». È forse poca cosa l’essere depositari della rivelazione? La rivelazione è una luce per l’intelligenza e una guida per la volontà. L’abuso che si può fare di un benefizio, non ne diminuisce punto il valore. Ma la rivelazione non è sola: essa è per gli Ebrei il principio o l’accompagnamento di altri titoli onorifici. Essi sono figli d’Israele; essi hanno l a filiazione adottiva e la gloria e le alleanze, e la legislazione (mosaica) e il culto (legittimo) e le promesse; essi sono della stirpe dei patriarchi e da essi è nato, secondo la carne, il Cristo che è sopra tutte le cose Dio benedetto nei secoli (Rom. IX,4). – Queste nove prerogative riassumono la loro preminenza: Israeliti, portano il nome di uno dei più grandi servi di Jehovah; questo nome scelto da Dio medesimo non è una semplice denominazione nazionale; è un titolo glorioso del quale gli Ebrei furono sempre fieri, che san Paolo rivendica a sé con orgoglio e non teme di applicare ai Cristiani. — Come popolo specialmente eletto da Dio, sono figli di adozione; di loro Dio poté dire per bocca dei profeti: « Israele è il mio primogenito »; questa adozione, benché sia collettiva, è pur sempre una preziosa fonte di benefizi divini. — Jehovah abita in mezzo ai suo popolo e manifesta sensibilmente la sua presenza con la gloria, con quello splendore soprannaturale che talora avvolgeva il propiziatorio dell’arca e ricordava la nube luminosa che guidava gli Israeliti attraverso il deserto. — Eredi dei patriarchi e come essi oggetto di una predilezione divina, gli Ebrei ereditano pure alleanze conchiuse tra Dio e i santi personaggi del passato, Noè, Abramo, e Mosè; queste alleanze che impegnano la fedeltà di Dio, sono per essi un pegno di protezione e di aiuto. — Soli fra tutte le nazioni della terra, essi posseggono una Legge discesa dal cielo e trasmessa per mezzo degli Angeli; se la Thora fu per essi un peso, fu anche un sommo onore: « Dio non fece altrettanto con le altre nazioni e non manifestò loro i suoi giudizi ». — Con la Legge, è rivelato il culto legittimo, il solo gradito a Dio poiché è il solo ispirato e sanzionato da Lui, il solo che al suo valore intrinseco unisca un significato figurativo che lo rialza e lo nobilita. — Gli Ebrei sono ancora in un senso speciale i detentori delle promesse fatte da Dio all’umanità; siccome queste promesse riguardano il Messia ed il Messia deve nascere da loro, essi ne hanno in certo modo il patrimonio. — È per loro anche un titolo di gloria il discendere da quei patriarchi che Dio onorò di più con la sua amicizia; la gloria del padre è pure la gloria dei figli, e la famiglia partecipa all’onore, di ciascuno dei suoi membri; san Paolo combatte il sentimento esagerato degli Ebrei a questo riguardo, ma non ne contesta il principio: « Se la radice è santa, anche i rami saranno santi ». — Finalmente il sommo onore è quello di essere, secondo la carne, i parenti del Cristo, del Messia, dell’Uomo-Dio. Ciò che soprattutto distingue gli Ebrei dagli altri popoli, è il privilegio di custodire il deposito della rivelazione e di avere ricevuto la Legge per loro guida. Quando san Paolo parla della Legge, intende sempre la Legge mosaica; egli non ne riconosce altra, benché qualche volta dia il nome di legge, per analogia, ad altre forze morali. Ora — e su questo punto l’Apostolo non mutò mai parere — la Legge è buona, la Legge è giusta, la Legge è nobile, la Legge è santa, la Legge è spirituale, la Legge è di Dio. Essa non è assolutamente perfetta, nel senso che non si possa immaginare nulla di meglio, ma è eccellente perché si riassume in quello che vi è di più eccellente, l’amore; e a lei non si possono imputare gli abusi di cui fu occasione. La sua imperfezione compare soltanto se si paragona a qualche cosa di più perfetto, o se si riflette agli inconvenienti che ne derivano. Questa considerazione si può fare sotto quattro aspetti: l’aspetto storico, l’aspetto psicologico, l’aspetto metafisico e l’aspetto teologico. Storicamente, la promessa fatta ai patriarchi è assoluta e anteriore alla Legge: dunque la Legge non può né annullarla né  restringerla; e la giustificazione, dipendendo dalla promessa, non può neppure dipendere dalla Legge. Questa non guarì affatto gli Ebrei dalle loro passioni; allo straripare del male non oppose che una diga impotente. — Non si poteva sperarne di più, poiché in fin dei conti, che cosa è una legge? È una luce e una barriera; una luce che mostra la via, una barriera che non permette di uscirne: luce inopportuna per una volontà vacillante, barriera provocatrice per una volontà perversa (Rom. VII, 7-9). La legge porta una nuova obbligazione senza portare un nuovo aiuto; essa dunque altro non può fare che manifestare, aggravare, moltiplicare il peccato (Gal. VIII, 19). — L’esperienza più comune c’insegna che l’uomo, in presenza di una legge, prova istinti di ribellione, e sente nel tempo stesso che l’appoggio offerto dalla ragione alla legge, non è un contrappeso sufficiente: egli non fa il bene che ama, e fa il male che aborrisce. Se non capisce nulla di questo fenomeno contradittorio, lo constata tuttavia facilmente. Così pure capisce che la legge non è la causa del male e che ne è solamente l’occasione; e intanto, essendo conscio dell’insufficienza della legge, cerca un aiuto fuori di essa e si rivolge verso la misericordia (Rom. VII, 5-25). — Qui interviene il principio teologico. Si potrebbe concepire un altro ordine di provvidenza, nel quale la Legge potesse giustificare; e in tale ipotesi « la giustizia sarebbe veramente per mezzo della Legge (Gal. III, 21) ». Ma nell’economia attuale, la salvezza dell’uomo dipende dalla grazia, e l’uomo nonna diritto di vantarsene (Gal. VI, 14). Ora se la Legge sola giustificasse, l’uomo potrebbe vantarsi di aver compiuto con le sole sue forze una magnifica prodezza; ma allora noi non avremmo più bisogno dei Cristo e « il Cristo sarebbe morto invano (Gal. II, 21) ». Pure dichiarando che la Legge « è incapace di giustificare », Paolo dice che « coloro che avranno osservato la Legge saranno giustificati (Gal. III, 21) ». Egli assicura che la Legge fu data « per (condurre a) la vita », e afferma che fu sopraggiunta « per aumentare le trasgressioni (Rom. VII, 12) ». Non vi è una flagrante contradizione in queste asserzioni? Niente affatto. La Legge per se stessa è incapace di giustificare, ma gli Ebrei non furono mai lasciati con la sola Legge. Nel dare la Legge agli Ebrei, che erano già i depositari delle promesse fatte ad Abramo, Dio voleva conferire loro la vita soprannaturale, non per mezzo della sola Legge che ne era incapace, ma per mezzo della grazia aggiunta alla Legge come un principio superiore e indipendente. Quando Dio vide che la sua prima intenzione era frustrata per colpa degli Ebrei, sanzionò il fatto compiuto e volle che il peccato abbondasse per mezzo della Legge, per far sovrabbondare la grazia (Rom. V, 20). Le due finalità non sono punto contrarie perché si muovono in piani diversi. Da quanto precede, si può vedere che la dottrina di san Paolo relativamente alla Legge mosaica è di una grandissima complessità. Proviamoci a segnarne le linee principali: Come espressione della volontà divina, la Legge è buona, santa e spirituale (Rom. VII, 12); ma considerata in se stessa essa è soltanto una luce che rischiara l’intelligenza senza dare forza alla volontà, è soltanto una barriera la quale provoca lo spirito di ribellione senza arrestarlo efficacemente; essa è dunque, per un essere corrotto, una causa accidentale di trasgressioni, ed in questo senso essa moltiplica il peccato e fa nascere l’ira (Rom. V, 15-20). Sotto l’aspetto storico, la Legge veniva dopo la promessa gratuita, assoluta, universale, eterna, che essa stessa non poteva né annullare né soppiantare né limitare né completare né restringere (Gal. III, 21). Essa era dunque, per sua natura, temporanea e locale, destinata ad un popolo unico e per un tempo determinato. Non bisognerebbe conchiudere che essa fosse nociva o inutile: era un benefizio di Dio e una prerogativa d’Israele, non soltanto come rivelazione, ma come intimazione del volere divino (Rom. IX, 4). Bene osservata, essa sarebbe stata una sorgente di meriti e una causa di giustificazione (Rom. II, 13). Questo appunto è ciò che Dio aveva di mira nel concederla: essa era data per condurre alla vita eterna (Rom. VII, 10). Infatti essa per se medesima non conferisce i l privilegio della fede e della grazia, non lo toglie neppure; ora essa veniva proposta ad un popolo che già possedeva la promessa, e da questa poteva derivare l’aiuto necessario all’osservanza salutare della Legge. onesto primo fine della Legge fu reso vano dall’indurimento degli Ebrei: la Legge infatti non oppose che un ostacolo impotente all’irrompere del peccato e al traboccare del male (Rom. VIII, 3). Dio tuttavia la mantenne per motivi degni della sua sapienza; Egli ne fece una custode attenta per preservare gli Ebrei dai contatti pericolosi, un’istitutrice incaricata di condurli al Cristo. E se il compito pedagogico della Legge fu soprattutto negativo, essa ebbe tuttavia l’onore di essere la depositaria del monoteismo e della verità rivelata (Gal. III, 24). Ma essa portava in sé germi molteplici di caducità. Il regime della Legge doveva morire di morte naturale, quando fosse giunta l’età matura del genere umano (Gal. II, 25), quando fosse venuto il momento fissato da Dio per l’emancipazione del mondo (Gal. IV, 4-5), quando fosse sonata l’ora segnata per l’adempimento della promessa fatta al Padre dei credenti (Gal. V, 4-5), quando fosse apparso il Cristo che è il suo fine e il suo limite, quando fosse inaugurata l’economia della grazia con la quale essa è, incompatibile.

4. Cosi l’umanità in cammino s’istruisce e progredisce come un uomo che dovrà vivere sempre. Questo essere collettivo che cerca oscuramente il suo destino e non lo trova se non nel Cristo, è per san Paolo il mondo: il mondo che fu già invaso dal peccato (Rom. V, 12), che si ammanta invano di sapienza (I Cor. V, 12), che Dio cerca di riconciliarsi nel Cristo (Rom. III, 19), che egli obbliga a dichiararsi debitore verso la giustizia divina (Rom. III, 19), che egli giudicherà un giorno in compagnia degli eletti (I. Cor. VI, 2). L’istruzione che il mondo va raccogliendo nel corso dei secoli e di cui è tanto orgoglioso, altro non è, in confronto con la scienza del Cristo, che un’educazione rudimentale, paragonabile all’alfabeto che s’insegna ai bambini, e san Paolo le dà il nome espressivo di elementi del mondo. Quattro volte, in due testi distinti, l’Apostolo adopera questa espressione che il contesto mette in luce. Egli scrive ai Galati: « Anche noi, quando eravamo bambini, eravamo asserviti agli elementi del mondo… Allora non conoscendo Dio, voi servivate quelli che per natura non sono dèi; ma ora conoscendo Dio o piuttosto essendo conosciuti da lui, perché ritornate a gli elementi deboli e poveri ai quali di nuovo volete assoggettarvi! Voi osservate i giorni e i mesi e le stagioni e gli anni » (Gal. IV, 3). Il pensiero dell’Apostolo è semplice: Una volta, ignorando Dio, voi servivate esseri che non avevano nulla di divino; ma ora conoscendo il vero Dio, perché vi asservite a cose vane, quali sono gli elementi dal mondo? Il contrasto è tra l’ignoranza passata e la presente che rende i Galati giudaizzanti affatto, inescusabili; e l’accento sta su la parola « servire » che indica una soggezione volontaria. Tre particolari ci aiuteranno a stabilire il senso degli « elementi del mondo ». Prima della loro conversione, gli Ebrei erano come minorenni (νήπιοι=nepioi) che in san Paolo vuol sempre dire uno stato di conoscenza imperfetta; ma oggi, illuminati dalla fede, essi hanno cessato di essere pupilli, non sono più sotto il pedagogo. Una volta essi erano sotto il giogo e la custodia della Legge e così erano asserviti agli elementi del mondo: essere liberati dalla Legge mosaica ed essere liberati dagli elementi del mondo, per l’Apostolo, è una sola e medesima cosa. In quanto ai Gentili, essi erano pure sotto il dominio degli elementi del mondo, e san Paolo rimprovera loro con un’insistenza non priva di pleonasmo, di voler ritornare a quella schiavitù, perché osservano i giorni, i mesi, le stagioni e gli anni. I Galati non volevano ritornare all’idolatria né ad un culto superstizioso degli angeli e dei geni: nell’Epistola non vi è nulla che suggerisca tale ipotesi; dappertutto non si tratta che di osservanze legali o di prescrizioni innestate sopra la Legge. Bisogna dunque dire che san Paolo comprende in una nozione generale il rituale mosaico ed i costumi religiosi del gentilesimo, per qualificarli tutti insieme come « rudimenti poveri e infermi ». È la religione cristiana che al confronto li rimpiccolisce e li schiaccia. – Coloro che negli elementi del mondo vorrebbero vedere degli esseri personali, fanno vedere che essi sono paragonati a tutori e ad economi, che sono chiamati poveri e infermi, che i Galati sono loro asserviti come erano una volta asserviti agli idoli. Ma queste ragioni sono assai deboli, e molto si stenterebbe a prenderle sul serio, se non fossero presentate con tanta sicurezza. Infatti anche la Legge è paragonata ai tutori e agli economi ed anzi è chiamata pedagogo, senza che per questo diventi una persona; l’Epistola agli Ebrei può benissimo fare menzione dell’infermità della Legge senza conferirle con questo la personalità, ed è noto che l’aggettivo povero (πτωχός =ptokos) si applica molte volte alle cose; Analmente se gli elementi del mondo rivestissero un carattere personale per il fatto che i Galati sono asserviti a loro, che cosa si dovrà dire del testo di san Paolo: « Essi servono il loro ventre e non il Cristo? ». – Il passo dell’Epistola ai Colossesi dice ancora più chiaramente che cosa sono gli elementi del mondo: “Vigilate affinché nessuno vi seduca con la filosofia e con un vano inganno, secondo la tradizione degli uomini, secondo gli elementi del mondo e non secondo il Cristo. Se siete morti col Cristo agli elementi del mondo, perché vi lasciate imporre leggi come se viveste nel mondo? Non prendere ( vi si dice), non assaggiare, non toccare! Tutto questo è di un uso pericoloso. (Sì, ma solamente) secondo i precetti e gl’insegnamenti degli uomini” (Col. II, 8). – Gli elementi del mondo non potrebbero essere meglio definiti, per una parte, dalla loro identità reale con la tradizione degli uomini, dall’altra parte, con la loro opposizione alla vera dottrina del Cristo. La sinonimia, tra elementi del mondo e tradizione degli uomini è molto chiara, perché il mondo è per san Paolo l’umanità lasciata a se stessa o sottratta all’influenza vivificatrice del Cristo, e perché tutto il contesto converge verso l’idea di una dottrina filosofica, tradizionale, elementare, che si deve correggere con l’insegnamento del Vangelo. E non si dica che la Legge di Mose, essendo un’istituzione divina, non può essere presentata come una tradizione umana; poiché, in questo caso, i falsi dottori di Colossi mescolavano alle osservanze mosaiche certe pratiche di un ascetismo arbitrario; e del resto le prescrizioni mosaiche non hanno più altro valore che quello di tradizioni puramente umane, dal momento in cui il Cristo morendo le ha inchiodate alla sua croce. L’antica legislazione, Legge imperfetta abrogata dal Vangelo, ombra che svanisce dinanzi alla nuova luce, ha fatto il suo tempo. – Ancorché per gli altri conservasse ancora un qualche valore, la Legge mosaica non ne avrebbe più per il Cristiano morto con Gesù Cristo a tutte le passate servitù. Infatti « per la Legge il Cristiano è morto alla Legge », egli non vive più « nel mondo (Gal. II, 19) » estraneo alle influenze del Cristo e ancora soggetto alle istituzioni rudimentali di altri tempi. Oramai quelle restrizioni caduche hanno perduto per lui la loro forza imperativa. Non sono più altro che « insegnamenti umani i quali possono avere una (falsa) rinomanza di sapienza, di pietà spontanea, di umiltà, di austerità, ma che in realtà, pure mortificando il corpo, non fanno che impinguare la carne (Col. Ii, 22-23) », il principio opposto all’azione dello Spirito Santo in noi. – Prescrizioni mosaiche, tradizioni sovrapposte dai rabbini al codice del Sinai, pratiche suggerite dal sentimento religioso normale o sviato, ecco che cosa indica san Paolo costantemente col nome di elementi del mondo, che l’apparizione del Cristo, nel quale sono tutti i tesori di scienza e di sapienza, dissipa come un’ombra.

5. Questo improvviso rovesciamento di cose, questo gran cambiamento di scena avviene nella pienezza dei tempi o nella pienezza del tempo (Ephes. I, 10). Le due espressioni non sono totalmente sinonime: la seconda indica l’istante in cui l’umanità uscita dall’infanzia e resa capace di istituzioni più robuste, più virili, entra in possesso dei suoi diritti, dei suoi privilegi e della sua eredità: la prima implica una serie di periodi storici che si succedono secondo un disegno prestabilito, come il ciclo regolare delle stagioni porta a volta a volta le gemme, i fiori e i frutti. La pienezza del tempo è il termine liberamente fissato dalla sapienza divina; la pienezza dei tempi è il coronamento delle preparazioni provvidenziali.

CONOSCERE SAN PAOLO (30)

CAPO II.

L’iniziativa del Padre .

I. DISEGNI DI MISERICORDIA.

1. VOLONTÀ DI SALVARE. — 2. DIVERSI ASPETTI DEL VOLERE DIVINO.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Poiché l’uomo non può rialzarsi da sé né liberarsi con le sue forze, bisogna che Dio gli tenda la mano. Questa premura benevola, di Dio, doppiamente immeritata sia perché l’uomo non ne ha nessun diritto, sia perché ne è positivamente indegno, si chiama misericordia. Paolo estende a tutti gli uomini, finché sono nello stato di prova, la misericordiosa bontà del Padre celeste. « Anzitutto io esorto a offrire preghiere, domande, suppliche, ringraziamenti per tutti gli uomini, (in particolare) per i re e tutte le persone costituite in dignità, affinché noi meniamo una vita tranquilla e pacifica, in ogni pietà e santità. Questo è buono e grato agli occhi di Dio nostro Salvatore, i l quale vuole che tutti gli uomini siano salvi e arrivino alla conoscenza della verità: poiché unico è Dio, unico pure il mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo uomo, il quale si è dato come riscatto per tutti » (I Tim. I, 1-5). – Il pensiero dell’Apostolo è così chiaro, che nessun sofisma lo può oscurare; esso si riduce a questo; bisogna pregare per tutti gli uomini senza eccezione, perché Dio, che è il Dio di tutti e il cui Figlio è morto per tutti, vuole anche la salvezza di tutti. Bisogna pregare per tutti gli uomini senza eccezione: non soltanto per i Cristiani, ma anche per gli stessi pagani, particolarmente per i prìncipi, qualunque sia l’infamia della loro condotta, perché essi possono di più per il bene come per il male. Questa prescrizione è di un’attualità che colpisce, quando si pensi che l’imperatore allora regnante si chiamava Nerone e che aveva allora allora scatenato contro la Chiesa nascente la più orribile persecuzione. Un corollario immediato della prescrizione apostolica è che la preghiera giova a tutti gli uomini; infatti chi mai penserebbe a prescrivere l’impossibile e l’assurdo? Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini: e questo si deve intendere di tutti senza eccezione, poiché l’eccezione non è indicata ma è invece esclusa dall’enfasi del discorso e dalla parola « tutti » ripetuta quattro Tolte. Invano si obietta che la volontà di salvare è necessariamente limitata dall’aggiunta: « e che tutti arrivino alla conoscenza della verità »: non potendo essere vera di un’assoluta universalità questa seconda proposizione, si dice, neppure la prima si deve intendere di un’assoluta universalità. La risposta è facile: non tutti gli esseri umani hanno l’uso di ragione, eppure tutti, senza nessuna eccezione; sono capaci della salute eterna; perciò mentre l’inciso che si riferisce alla conoscenza della verità si limita da se stesso agli uomini capaci di conoscere la verità, l’altro inciso non è limitato da nulla e deve conservare, secondo le regole di una sana esegesi, tutta la sua estensione. Dio vuole la salvezza di tutti perché è il Dio di tutti, e perché Gesù Cristo, il mediatore universale, si è dato alla morte per tutti.  Siccome Dio è unico, Egli è necessariamente il principio e il fine supremo di tutti gli uomini: non è naturale che desideri di condurli tutti al conseguimento del loro fine! Questa è la considerazione che l’Apostolo ha già fatto valere nell’Epistola ai Romani (Rom. III, 29-30). Né qui vale opporre la caduta originale che, rompendo l’armonia tra Dio e l’uomo, rese questo indegno della benevolenza divina. Accanto al Dio unico vi è il mediatore universale la cui missione è appunto quella di ristabilire l’armonia tra il cielo e la terra, e che morendo per tutti, acquista a tutti lo stesso titolo alla misericordia. –  Le diverse spiegazioni immaginate da certi teologi prevenuti, per restringere la volontà di salvare, si confutano abbastanza da se stesse al solo presentarle:

a) Dio vuole che tutti coloro i quali saranno realmente salvi, siano salvi. È chiaro!

b) Dio vuole che alcuni uomini di tutti i paesi e di tutte le condizioni siano salvi. E qual è l’esegesi che permette di fare di « tutti » un sinonimo di « alcuni »?

c) « Tutti » è iperbolico e vuol dire « molti ». Ma lo stesso Apostolo col ripetere a sazietà la parola « tutti » si è incaricato di confutare questa singolare ipotesi.

d) Dio vuole solamente la salvezza degli eletti, ma vuole che noi desideriamo la salvezza di tutti gli uomini. Egli vuole dunque farci desiderare l’impossibile e farci volere quello che Egli stesso non vuole! E poi nel testo si tratta di quello che Dio vuole, non di quello che vuole che vogliamo noi.

e) Dio vuole la salvezza di tutti in questo senso, che fa qualche cosa per tutti, benché questo qualche cosa sia insufficiente per salvarli. Questo equivale a dire che vuole e non vuole, in altri termini, che non vuole sul serio, o più semplicemente che non vuole affatto.

f) Gesù Cristo, in quanto uomo, vuole la salvezza di tutti, con un volere inefficace del quale sa che è irrealizzabile l’oggetto. Ma qui non si tratta della volontà di Gesù Cristo: si parla della volontà di Dio. E poi chi sa mai perché Gesù Cristo, anche come uomo, vorrebbe quello che suo Padre non vuole?

È cosa incontestabile che l’Apostolo qui si mette nell’ipotesi del peccato originale; infatti, prescrivendo di pregare per tutti gli uomini, egli afferma che Dio presentemente vuole la salvezza di tutti, e che Gesù Cristo è morto per tutti. Nessuno certamente oserà attribuire a san Paolo questo strambo ragionamento: « Pregate per tutti gli uomini, perché Dio vuole la salvezza di alcuni, perché Gesù Cristo è morto per tutti ». Per essere conseguenti, si dovrebbero restringere ugualmente queste tre proposizioni così strettamente incatenate, e dire, per esempio: « Pregate per i soli eletti, perché Dio vuole la salvezza dei soli eletti, e Gesù Cristo è morto per i soli eletti ». Ma allora si resterebbe nella logica soltanto per vagare nell’arbitrario e per cadere nell’eresia. Non è qui il luogo opportuno per svolgere i corollari di questo insegnamento. Con un semplice sguardo, si vede che la riprovazione positiva di Calvino gli è diametralmente opposta, poiché la volontà antecedente di salvare tutti gli uomini, esclude ipso facto la volontà antecedente di dannarne alcuni, anche nell’ipotesi del peccato originale; infatti, come si è dimostrato, l’Apostolo si mette appunto in questa ipotesi. Non siamo mai riusciti a capire in qual maniera i difensori della riprovazione negativa arrivino ad eludere il nostro testo. Questa riprovazione è chiamata negativa sia perché è espressa con una negazione, sia perché è la negazione di un benefizio; ma essa consiste in un atto positivo di Dio: i partigiani stessi del sistema lo riconoscono e, se lo negassero, sarebbe facile il dimostrarlo. Ora la volontà antecedente di rifiutare la salute eterna ad alcuni uomini è assolutamente incompatibile con la volontà antecedente di salvarli tutti, perché la prima volontà distrugge la seconda di cui è la contraddizione. E non servirebbe a nulla, per cercare di mettere queste due volontà in piani differenti, il fare appello al peccato originale; infatti, secondo san Paolo, la volontà di salvare resta universale nella stessa ipotesi del peccato originale. Nessuna sottigliezza di esegesi non potrà mai sfuggire a questo argomento di logica elementare e di senso comune. La volontà di salvare non è assoluta, altrimenti si dovrebbe compiere necessariamente; essa è condizionale, ma sotto una condizione che non dipende da essa sola, altrimenti sarebbe illusoria e si potrebbe formulare così: « Io vorrei se volessi », il che equivale perfettamente al dire: « Non voglio ».

2. Quanto è irragionevole il cercare in san Paolo la terminologia scolastica attuale, altrettanto sarebbe temerario e poco scientifico il non distinguere in lui le diverse espressioni della volontà divina. Non bisogna confondere il proposito (πρόησις = protesis), il beneplacito (εὐδοκία = eudikìa), il consiglio (βουλή=boule), la volontà di Dio (βούλημα, θέλημα =boulema, telema). Il proposito di Dio (Rom. VIII, 28) è un atto eterno e assoluto della volontà conseguente che si riferisce a un benefizio particolare, come la vocazione efficace alla fede: osso è libero poiché si regola secondo il beneplacito; è grazioso, poiché non dipende dai meriti dell’uomo; è assoluto, perché ha per effetto la vocazione efficace; è eterno, poiché è anteriore ai secoli. In realtà il proposito divino è quello che meglio risponde alla predestinazione, termine del quale san Paolo non fa uso; però la predestinazione implica, per rapporto all’ordine di esecuzione, un’anteriorità che il proposito per se stesso non esprime. — Il beneplacito (Ephes. I, 5), come dice la stessa parola, indica tanto la spontaneità quanto la libertà del volere divino; per conseguenza si dice soltanto di una volontà benevola e graziosa e non si applica mai alla permissione del male né alla punizione della colpa. Il consiglio (Ephes. I, 11) illumina e dirige la volontà. San Paolo poteva dire, senza pleonasmo, che Dio « opera tutte le cose secondo il consiglio della sua volontà », perché la volontà divina non è né cieca né arbitraria, perché obbedisce a ragioni profonde, benché sovente impenetrabili, perché si svolge armonicamente nel tempo e nello spazio, secondo un disegno concepito da tutta l’eternità. — Si possono distinguere quattro volontà di Dio: la volontà di precetto, la volontà di desiderio, la volontà di decreto e la volontà di permissione. La prima è evidentemente assoluta, perché si confonde con la legge morale; ma la necessità che ne risulta riguarda l’obbligazione dell’atto, non l’esistenza dell’atto stesso. La volontà di desiderio è una volontà seria e attiva la cui realizzazione è però condizionata dall’esercizio di una volontà estranea. La volontà di decreto è assoluta e ineluttabile; ma quando ha per oggetto gli atti liberi dell’uomo non è anteriore ad ogni previsione di questi atti, come vedremo in seguito. Finalmente la volontà di permissione è una specie di volontà negativa che lascia il loro libero esercizio, anche per il male, alle facoltà umane. – La volontà di Dio, rispettando la volontà delle creature, non sempre ottiene il suo effetto: ecco perché noi ogni giorno preghiamo che la volontà di Dio si compia sempre più sopra la terra come in cielo. Nulla accade senza qualche intervento della sua volontà: il male stesso non si produrrebbe senza una tolleranza da parte sua (ὰνοχή= anoke) (Rom. II, 4). I profeti, dicendo che Dio crea il male, intendono parlare del male fisico, castigo del male morale; ma san Paolo non esita ad affermare che Dio abbandona i pagani alle loro passioni, alle loro cupidigie, al loro senso riprovato (Rom. I, 24-28). Quando Dio volge il male in bene, col ripararlo, o col punirlo, si può dire che egli lo vuole con una volontà virtualmente doppia, la quale da una parte permette il male, e dall’altra lo fa volgere in bene.

II. IL DISEGNO DELLA REDENZIONE.

1 . GRAZIA E LIBERO ARBITRIO. — 2. ORDINE D’INTENZIONE E ORDINE DI ESECUZIONE. 3. ESTENSIONE DEL DISEGNO DIVINO.

1. Giuseppe [Flavio] attribuisce, in qualche luogo, ai farisei del suo tempo, una dottrina analoga alla professione di fede degli stoici, la quale aspetta tutto da Dio, eccetto la virtù. Secondo lui, gli esseni riferivano tutto al destino; i sadducei, nulla; i farisei, parte al destino e parte al libero arbitrio. Il destino — idea totalmente estranea alla teologia ebraica — rappresenterebbe forse qui la provvidenza o il decreto divino! In altri passi, Giuseppe modifica in questa maniera il suo giudizio intorno alla teoria farisaica: « Benché tutto dipenda dal destino, l’uomo non cessa di essere libero, perché Dio ha stabilito una specie di temperamento tra il decreto del destino e la libertà umana (Antiq. Jud. XIII, V, 9) ». Tuttavia i farisei dovevano, nella pratica, diminuire e attenuare l’iniziativa divina. Siccome per loro la giustizia non era altro che l’esecuzione di un contratto conchiuso con Dio, essi si credevano dispensati da ogni gratitudine quando l’avessero fedelmente osservata, anzi allora si consideravano come creditori di Jehovah. Non vi è nulla che ci permetta di supporre che Saulo partecipasse a questo errore prima della sua conversione, perché è in lui troppo vivo e profondo questo doppio sentimento che l’uomo non può mai vantarsi in materia di salvezza, e che tutto viene da Dio così nell’ordine soprannaturale come nell’ordine naturale (Rom. XI, 36). Ma se egli non sacrifica al libero arbitrio dell’uomo il supremo dominio di Dio, non edifica neppure il supremo dominio di Dio sopra le rovine del libero arbitrio. Le sue ripetute esortazioni non avrebbero nessun senso qualora l’uomo non fosse libero di fare il bene e di evitare il male. Ricorderemo solamente, per non dover poi ritornare sopra una questione così chiara, le tre asserzioni seguenti: L’uomo è responsabile delle sue azioni buone e cattive; egli ne deve rendere conto al giudice supremo (Rom. II, 12-13); è senza scusa quando fa il male perché sa che, facendolo, è degno di morte (Rom. I, 32), e perché Dio, non contento di dargli la nozione del bene, fa da parte sua quanto occorre per condurlo al bene (Fil. II, 12-13). — L’atto di fede del credente è un atto di obbedienza grato a Dio; l’incredulità è un atto di ribellione, di disprezzo, di ostinazione e d’indurimento volontario che attira l’ira di Dio (Rom. II, 8); ora chi dice obbedienza e disobbedienza, dice libertà. — Ma né l’infedele è perduto irremissibilmente, né il fedele è salvato, se non nella speranza (Rom. VIII, 24): questi deve sempre temere, e l’altro può sempre sperare. La salvezza del credente è assicurata soltanto da parte di Dio, ma è condizionata da parte dell’uomo, « se persevera nella fede (Rom. XI, 22; Col. I, 23) »; così pure la perdita dell’incredulo non è certa se non nel caso che egli si ostini nell’incredulità: si converta ed egli pure sarà salvo (Rom. XI, 23). È cosa degna di nota, che Paolo riunisce nella stessa frase queste due idee che paiono contradditorie a tanti teologi eterodossi, senza che mostri di vedere in esse una antinomia: « Lavorate per la vostra salvezza con timore e tremore, perché è Dio che opera in Voi il volere e il fare (Fil. II, 12-13) ». – Dobbiamo lavorare per la nostra salvezza come se tutto dipendesse da noi, e abbandonarci a Dio come se tutto dipendesse da Lui. È cosa più che legittima, che noi dobbiamo procedere in questo lavoro con timore e con tremore, poiché ne va di mezzo la nostra felicità o infelicità eterna, e perché nessuno è al sicuro contro le deficienze della propria volontà. Paolo stesso prova questo timore: egli sa che, pure non avendo coscienza di nessun male, non per queste si è sicuri di essere giustificati (I Cor. IV, 4); egli mortifica il suo corpo e lo tratta come schiavo per timore che, dopo di aver predicato agli altri, egli stesso non venga riprovato (I Cor. IX, 27). Ma ecco qui una massima che pare un paradosso: dobbiamo lavorare per la nostra salvezza, perché Dio opera in noi il volere e il fare. – Parecchi teologi protestanti dei nostri giorni vedono in questi due membri della frase un’opposizione irreducibile e deplorano altamente che san Paolo non se ne sia accorto. Alcuni lo scusano dicendo che qui si tratta di un mistero impenetrabile; ma uno di essi, più irriverente degli altri, lo rimanda dalla scuola di Gamaliele a quella di Aristotele, dove s’impara a ragionare meglio (Fritzsche). L’argomento di questi grandi pensatori è semplicista: Se Dio fa tutto, nell’opera della salvezza, l’uomo non ha nulla da fare: e se fa tutto l’uomo, non rimane più nulla per l’opera divina. Il loro errore deriva da questo, che essi concepiscono l’azione combinata di Dio e dell’uomo, alla maniera di un sinergismo. Se Dio e l’uomo fossero cause parziali e dello stesso ordine, l’obiezione terrebbe, ma non è così: Dio e l’uomo producono l’effetto tutto intero, ciascuno nel suo ordine (A. Thom. Contra Gentes, III, LXX); e pertanto l’effetto non si potrebbe produrre senza il loro concorso simultaneo. È dunque la sicurezza del concorso divino, congiunta al sentimento della propria insufficienza, che ispira all’uomo la fiducia e il timore; ma più ancora la fiducia che il timore, infatti ammessa la citazione tacita del Salmista, il consiglio di temere qui è soltanto un accessorio, e l’enfasi del discorso accentua queste parole: « Lavorate per la vostra salvezza ». Tale è il pensiero profondo, ma perfettamente coerente, di san Paolo.

2. Quello che Dio opera nel tempo, lo ha stabilito da tutta l’eternità. La storia della redenzione non si svolge dinanzi a lui come ma panorama che Egli contemplerebbe accettandolo come si presenta, ma come n gran dramma, del quale Egli dirige l’azione, combina le peripezie e prepara lo svolgimento. San Paolo ritorna frequentemente sopra questo disegno divino che egli chiama « il proposito eterno anteriore alla costituzione del mondo »; egli lo riassume magnificamente in un passo il cui tono lirico e l’andatura ritmica fanno pensare ad un cantico o ad un inno:

  1. Benedetto (sia) Dio, Padre del Nostro Signore Gesù Cristo;

.A.] il quale ci ha colmati di benedizioni spirituali, nei cieli, nel Cristo;

4. come ci ha eletti in lui, prima della fondazione del mondo, per essere santi e senza macchia dinanzi a lui, nella carità;

B.] 5. predestinandoci ad essere suoi figli di adozione per mezzo di Gesù Cristo,

secondo il beneplacito della sua volontà,

6. per far risplendere la gloria della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Prediletto,

7. per il sangue del quale, abbiamo la redenzione, la remissione delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia che egli ha versato sopra di noi,

8. con ogni sapienza e intelligenza;

C] 9. notificandoci il mistero della sua volontà, secondo il benevolo disegno che egli formò in lui,  per essere effettuato nella pienezza dei tempi, di riunire ogni cosa nel Cristo, le cose del cielo e quelle della terra,

a) 11. in lui nel quale noi, i primi a sperare nel Cristo, siamo stati fatti eredi, predestinati secondo il proposito di colui che opera tutto secondo il consiglio della sua volontà,

12. per essere l’elogio (vivente) della sua gloria;

b) 13. in lui nel quale anche voi, avendo udito la parola di verità, il vangelo della nostra salvezza, e avendovi aderito, siete stati segnati col sigillo dello Spirito Santo promesso,

14. caparra della nostra eredità, per la redenzione (totale) di quelli che si è acquistati, a lode della sua gloria ( I, 3-14).

Le nozioni teologiche accumulate in questo passo richiederebbero un lungo commento. Basti per ora  il distinguere le tre idee dominanti: A Dio solo spetta la gloria e l’iniziativa della nostra salvezza: predestinazione, elezione, remissione dei peccati, dono della grazia, benedizioni celesti nel significato più esteso, tutto viene da Lui. — Tutto questo, così nell’ordine di esecuzione come nell’ordine d’intenzione, si fa in vista del Cristo, « nel Prediletto ». — Finalmente l’ordine di esecuzione si svolge lungo i secoli, conforme all’ordine d’intenzione concepito da Dio da tutta l’eternità. – Prima di scrutare il mistero del disegno divino, conviene definire i concetti di predestinazione, di elezione, e di prescienza. La parola predestinazione non è biblica, ma la parola predestinare si trova cinque volte in san Paolo, nei passi seguenti:

« Noi predichiamo la sapienza di Dio, nel mistero, quella sapienza nascosta che Dio ha predestinato prima dei secoli per nostra gloria.

Quelli che egli ha conosciuto prima ha pure predestinati ad essere conformi all’immagine di suo Figlio, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli.

Ora quelli che ha predestinati, ha pure chiamati; e quelli che ha chiamati ha pure giustificati; e quelli che ha giustificati ha pure glorificati. (Rom. VIII, 29, 30)

Egli ci elesse nel Cristo prima della fondazione del mondo, ad essere santi e immacolati dinanzi a lui, predestinandoci ad essere suoi figli di adozione per mezzo di Gesù Cristo.

In lui abbiamo pure ricevuto la nostra parte (di eredità), essendo stati predestinati secondo il proposito di colui che opera tutte le cose secondo il consiglio della sua volontà, affinché serviamo ad esaltare la sua gloria, noi che abbiamo da principio sperato nel Cristo » (I Cor. II, 7; Rom. VIII, 29-30; Ephes, V, 5-11. – Predestinare si trova anche in CT. IV, 28, nel senso di “decretare”). Da tutti questi passi risulta che l’atto col quale Dio predestina è sommamente comprensivo. È un atto eterno perché esiste prima dei secoli ed è simultaneo o logicamente anteriore all’elezione la quale è essa stessa anteriore alla fondazione del mondo. È un atto assoluto, ed efficace nella misura in cui è assoluto, perché è frutto del « consiglio » o del « proposito » divino. È un atto sommamente libero, perché si compie secondo il proposito di Colui che opera tutte le cose per consiglio della sua volontà; non ha dunque causa propriamente detta da parte dell’uomo benché possa avere per ragione di essere una condizione dipendente da Dio. Gli atti divini si succedono nell’ordine seguente: prescienza, predestinazione, vocazione, giustificazione, glorificazione; le due prime appartengono all’ordine d’intenzione, le ultime tre all’ordine di esecuzione. La predestinazione è dunque logicamente preceduta dalla prescienza: « quelli che ha conosciuti prima ha pure predestinati »; poiché è nella natura delle cose, che la volontà segua l’intelligenza e non la preceda. Finalmente Dio predestina l’uomo ad un benefizio o un benefizio all’uomo, ma questo benefizio non è mai direttamente la gloria eterna. Mentre la predestinazione appartiene soltanto all’ordine di intenzione, l’elezione comprende anche l’ordine di esecuzione. Essa aggiunge alla predestinazione o alla vocazione efficace un’idea di favore in rapporto a coloro che si trovano predestinati o chiamati efficacemente e un’idea di predilezione in rapporto a Dio che predestina o chiama. Una specie di pleonasmo viene qualche volta ad accentuare questa doppia idea: « Il Signore tuo Dio ti ha eletto fra tutte le nazioni ad essere suo popolo speciale ». Se tutti gli uomini fossero predestinati, non sarebbero eletti nel senso proprio usitato nella Scrittura. Per conseguenza la predestinazione non suppone necessariamente l’elezione, ma l’elezione suppone necessariamente la predestinazione: « Dio ci ha benedetti con ogni sorta di benedizioni spirituali, in cielo, nel Cristo, come ci ha eletti in lui prima della fondazione del mondo, per essere santi e immacolati dinanzi a lui, predestinandoci (oppure avendoci predestinati) ad essere suoi figli adottivi per mezzo di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà (Ephes. I, 3) ». Come la predestinazione, l’elezione è eterna, poiché esiste nel decreto divino prima della creazione del mondo. Essa avviene « nel  Cristo », in vista dei suoi meriti, e non indipendentemente da Lui, come pretendono il Caetano per tutti i santi, e Catarino per una classe di eletti. Essa ha per suo scopo una vita « santa e irreprensibile, dinanzi a Dio »; non ha dunque come termine diretto immediato la gloria eterna. Finalmente essa è la sorgente delle benedizioni spirituali, perché l’ordine di esecuzione, è conforme all’ordine d’intenzione. Nel passo che abbiamo citato, l’elezione è connessa infatti con l’ordine d’intenzione; ma in tutti gli altri luoghi, in san Paolo, essa appartiene all’ordine di esecuzione. Allora l’elezione si confonde con la vocazione efficace, e tutti i fedeli si chiamano eletti: « Sforzatevi, dice san Pietro, di rendere sicura la vostra vocazione e la vostra elezione (II Piet. I, 10) ». — « Io soffro tutto per gli eletti, affinché si salvino », dice san Paolo (II Tim. II, 10).Se la predestinazione è logicamente posteriore alla prescienza ed è illuminata da essa, altrettanto si deve dire a fortiori dell’elezione che è logicamente posteriore o al più simultanea alla predestinazione. Dio conosce prima, poi predestina ed elegge secondo la sua sapienza; tuttavia benché la prescienza preceda e la predestinazione venga dopo, non vi è tra questi due atti una relazione di causalità. In altri termini, Dio non predestina l’uomo alla fede perché Dio prevede che l’uomo crederà: né la fede né la previsione della fede non possono essere causa della predestinazione poiché, in qualunque ipotesi, la previsione della fede suppone la previsione della grazia liberamente offerta. D’altra parte non si potrebbe, rigorosamente parlando, dire che noi crediamo perché siamo predestinati a credere, poiché la previsione della fede è logicamente anteriore alla predestinazione. La predestinazione non è altro che un aspetto particolare della provvidenza soprannaturale, come la prescienza di Dio non è che un aspetto particolare della sua onniscienza. Ora è facile capire che la previsione di un atto libero, cioè la sua visione nell’avvenire, non è contraria alla sua libertà più che non lo sia la sua visione nel presente; che l’atto cosi previsto avviene infallibilmente senza che avvenga per necessità; che la prescienza non cambia dunque nulla al corso degli avvenimenti e dimostra soltanto l’infinita perfezione di un’intelligenza determinata, per sua natura, a percepire ogni verità.

3. In generale, il disegno della redenzione ha come orizzonte il nostro pianeta ed abbraccia soltanto il genere umano; però qualche volta l’orizzonte si allarga, il disegno divino si estende all’universalità degli esseri, facendo convergere verso il Cristo il complesso della creazione: « Affinché abbia il primato in tutte le cose; perché piacque (a Dio) di far abitare in lui ogni pienezza, e di riconciliare par mezzo di Lui tutte le cose (dirigendole) verso di Lui, pacificando col sangue della sua croce, per mezzo di lui (dico), e quello cha vi è in terra e quello che vi è in cielo » (Col. I, 19-20). L’idea dominante di questo passo, come di tutta l’Epistola, è il primato del Cristo. Egli deve primeggiare in tutto, perché tutta la pienezza abita in Lui. Lasciamo all’espressione tutta la sua ampiezza, poiché san Paolo non crede opportuno di restringerla: sarà allora la pienezza dell’essere come pure la pienezza di grazie. Per avere il primato in tutto, il Cristo dev’essere senza pari nei due ordini della grazia e della natura. E il suo primato risplende nel fatto che con la sua mediazione, Dio riconcilia e pacifica tutte le cose; non le riconcilia a se stesso, ma le riconcilia tra loro per mezzo del Cristo, dirigendole verso di Lui come al loro fine e facendole convergere verso di Lui come al loro centro comune. Non si ha diritto di rifiutare alla particella componente del verbo riconciliare il suo valore proprio, quello cioè di un ritorno ad uno stato anteriore di concordia, prima che apparisse il peccato. Tutte le cose oramai ritrovano la loro unità primitiva, in quanto che tutte rientrano sotto l’egemonia del Cristo. La condizione o la risultante della riconciliazione degli esseri è la loro pacificazione. Paolo non parla di una pacificazione mutua delle cose del cielo con quelle della terra — l’espressione che adopera li oppone a questa interpretazione — ma parla di una pacificazione generale di tutti gli esseri tra loro, sia in terra, sia in cielo. Tutti gli esseri sono pacificati come sono riconciliati nel Cristo che è il loro centro di gravitazione e il loro fuoco di convergenza. Nel passo parallelo, il campo di visione resta ancora così vasto, ma l’unione di tutti gli esseri, sotto lo scettro del Verbo incarnato, è descritta con termini ancora più precisi. « Benedetto sia Dio, il Padre del Nostro Signor Gesù Cristo… che ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà (secondo il benevolo disegno che aveva formato in se stesso per effettuarlo quando fosse compiuta la pienezza dei tempi), di riunire tutte le cose nel Cristo, quelle che sono in cielo e quelle che sono su la terra » (Ephes. I, 9-10). – L’oggetto del mistero o segreto divino è espresso in greco con una parola composta che ha dato luogo a interpretazioni diverse ma non disparate. I commentatori latini, seguendo la Volgata e l’antica versione, adottano volentieri il senso suggerito dal verbo instaurare o restaurare. Così l’Ambrosiastro: « Ogni creatura, in cielo e sopra la terra, è restaurata dalla conoscenza del Cristo, nello stato in cui essa fu creata ». E sant’Agostino vede compiuta questa doppia restaurazione: nei cieli, quando il vuoto lasciato dalla caduta degli angeli, è colmato dagli eletti; sopra la terra, quando i predestinati, liberati dalla corruzione del peccato, sono rivestiti della gloria eterna (S. Agost. Enchir., VI). – Questa è un’esegesi teologicamente irreprensibile, ma filologicamente alquanto dubbia; non pare infatti che san Paolo alluda soltanto agli esseri ragionevoli, ed un ritorno allo stato primitivo, per mezzo della riparazione del peccato, non rende tutto il suo pensiero. Tertulliano, espressamente approvato da san Gerolamo, traduceva recapitulare (Contra Marcion., V, 17). Questo è proprio il significato della parola greca, e sant’Ireneo lo spiega dicendo che tutte le cose sono compendiate o contenute in riassunto nel Cristo (Hæreses III , XVI, 6). Questo si può intendere in tre maniere: nel senso ontologico, Gesù Cristo, Dio e uomo, riassume in certo modo la creazione intera, il mondo degli spiriti e il mondo dei corpi; nel senso soteriologico, il Cristo riassume tutta l’economia della redenzione, in quanto che le profezie hanno tutte il loro compimento in lui, e tutta l’opera di Dio tende verso di lui come al suo fine; sotto l’aspetto rappresentativo, il Cristo può riassumere tutti gli esseri dotati di ragione, come Adamo riassumeva in sé tutta l’umanità di cui era padre. Se queste considerazioni trovano grazia agli occhi del grammatico, non soddisfano però totalmente l’esegeta. È vero che il Cristo realizza nella sua persona le profezie e le figure dell’antica alleanza, e che la sua doppia natura contiene eccellentemente le perfezioni di tutti gli esseri; ma l’affermazione generale del nostro testo rimane sempre limitata in modo piuttosto arbitrario, e questo non combina più con l’oggetto riconosciuto dell’Epistola agli Efesini, che è di presentare il Cristo come un principio di unione universale. Perciò i migliori interpreti afferrano meglio il pensiero di san Paolo, quando dicono, per esempio, con san Gerolamo: « Dio ha dato il Cristo per capo a tutti gli esseri, agli Angeli e agli uomini. Così si forma l’unione, il vincolo perfetto, quando tutte le cose sono messe sotto un solo capo e ricevono dall’alto un vincolo indissolubile… ». Il peccato del primo uomo, lo dice san Paolo, aveva prodotto nella natura intera un disordine, una scissione, un conflitto di tendenze ostili. Gesù Cristo vi ristabilisce la concordia — o almeno v’introduce l’armonia — perché Egli è il capo naturale degli esseri ragionevoli e il centro che domina la creazione materiale. Ora si vedono gli stretti rapporti dei nostri due testi, mentre una prima lettura ce ne faceva vedere piuttosto le divergenze. Da tutte e due le parti, il disegno della redenzione, uscendo dalla nostra sfera, abbraccia la terra e il cielo; da tutte e due le parti, il Cristo è mediatore di pace e strumento di unione, e tale è come uomo, nella pienezza dei tempi; da tutte e due le parti è indicato — o almeno insinuato — il ritorno ad uno stato primitivo di armonia e di concordia; da tutte e due le parti finalmente il compito cosmico del Cristo serve di preludio alla riconciliazione dei pagani con Dio e alla riunione degli Ebrei e dei Gentili in un medesimo corpo mistico. – Anche come uomo, Gesù Cristo ha dunque una specie di compito cosmico: Egli è capo degli Angeli e domina la creazione tutta quanta. Se si pensa al disordine prodotto dal peccato in tutta l’opera di Dio ed all’armonia che la presenza del Cristo v’introduce nuovamente, questo compito cosmico appartiene in qualche modo alla soteriologia (Rom. VIII, 20-21): è una specie di ripercussione mondiale dell’incarnazione ed un improvviso ingrandimento dell’orizzonte contemplato dall’Apostolo il cui sguardo ordinariamente non si spinge oltre la salvezza degli uomini.

L’ANNO ECCLESIASTICO

DIVISIONE DELL’ANNO ECCLESIASTICO.

(Messale Romano di Bertola e De Stefani; L.I.C.E. Ed. – Torino, 1950)

L’anno ecclesiastico comincia con la prima Domenica d’Avvento e finisce il Sabato che segue l’ultima Domenica dopo Pentecoste. Si compone di stagioni o Tempi liturgici chiamati Ciclo del tempo o Proprio del Tempo. Il suo scopo è di mostrarci nostro Signore nel quadro tradizionale dei grandi misteri della nostra Religione. – Contemporaneamente a questo ciclo se ne svolge un altro che è secondario: lo si chiama Ciclo del Santi o Proprio dei Santi, perché si compone di tutte le feste delle anime sante, che Dio associò a Gesù nell’opera della Redenzione.

I. — CICLO DEL TEMPO.

Questo ciclo è diviso in due parti che sono il ciclo di Natale e il ciclo di Pasqua. Ognuno di essi si suddivide a sua volta in tre tempi: l’uno precede, l’altro accompagna, il terzo segue queste due grandi feste, ed hanno il fine di prepararvi l’animo, di farle celebrare solennemente e dì prolungarle poi per parecchie settimane.

A. — Il Ciclo di Natale o dell’Incarnazione.

1) Il Tempo d’Avvento (dal latino adventus), si compone di 4 settimane che ci fanno aspirare coi Patriarchi e i Profeti alla venuta del Salvatore.

2) Il Tempo di Natale ci presenta la Nascita del Verbo Incarnato, che si riproduce in noi con la grazia e la sua Epifania o manifestazione al mondo.

3) Il Tempo dopo l’Epifania conta da due a sei settimane, che ci ricordano la vita nascosta di Nazaret e ci manifestano la sua Divinità.

B. — Ciclo di Pasqua o della Redenzione. Questo ciclo essendo dipendente dalla luna pasquale, comincia fra queste date, estreme, del 18 Gennaio e del 22 Febbraio.

La festa di Pasqua, centro di tutto l’anno, si celebra sempre nella domenica dopo il 14° giorno della luna di marzo. Si conta questo 14° giorno a partire dal 21 marzo. Se la luna piena fosse prima del 21, la luna pasquale sarebbe la seguente: donde uno sbalzo talvolta d’un mese; cioè Pasqua si celebra fra le date estreme del 22 marzo e de! 25 aprile.

1) Nove settimane preparano alla grande festa di Pasqua. E  sono divise in tre Tempi:

a) Il Tempo della Settuagesima, che dura tre settimane, ci prepara già in qualche modo al mistero pasquale, e, con la Quaresima che viene dopo, ci dà una sintesi della vita pubblica di Gesù.

b) Il Tempo della Quaresima, che comincia il mercoledì delle ceneri, ci fa partecipare mediante 40 giorni di penitenza, al digiuno di 40 giorni di nostro Signore nel deserto ed alla sua vita apostolica.

c) Il Tempo della Passione, che comprende le due ultime settimane di Quaresima, ci mostra durante 15 giorni le ultime sofferenze di Cristo e la sua agonia sulla Croce, affinché noi possiamo morire con Lui ai nostri peccati.

2) Il Tempo Pasquale ci fa celebrare la più grande fra tutte le feste: Pasqua e la sua ottava privilegiata, affinché la nostra anima risusciti con Cristo e viva, durante le cinque settimane seguenti con Gesù che istituisce la Chiesa e sale al Cielo nel giorno dell’Ascensione. La festa di Pentecoste viene a chiudere questo Tempo con la discesa dello Spirito Santo nelle nostre anime.

3) Il Tempo dopo la Pentecoste ci mostra per 24 o 28 domeniche le fioriture di santità che lo Spirito Santo e l’Eucarestia faranno nascere nella Chiesa e nei suoi Santi sino alla fine del mondo, epoca questa ricordata dalla ventiquattresima domenica dopo Pentecoste.

II. — CICLO DEI SANTI.

Pio X, nella sua bolla Divino Afflatu, ci indica la gerarchia che dobbiamo osservare nella celebrazione delle feste dei Santi che vengono ad intercalarsi, nel corso dell’anno, fra i grandi misteri del ciclo Cristologico.

Il primo posto è per la Madonna.

Poi vengono i Santi Angeli; e quindi, conforme all’ufficio più o meno intimo ch’essi ebbero nel piano dell’Incarnazione, S. Giovanni Battista, precursore del Messia; S. Giuseppe, S. Pietro e S. Paolo e gli altri Apostoli il cui culto era una volta solenne.

Le feste dei Santi d’una Nazione, d’una Diocesi, d’un Paese, d’una Parrocchia, d’un Ordine o Congregazione religiosa sono pure elevati al primo grado per la riconoscenza dovuta a questi Santi Protettori.

Vengono quindi le feste della Dedicazione delle chiese, e quelle dei Martiri, dei Pontefici (cioè dei Papi o Vescovi), dei Dottori (cioè dei Padri della Chiesa, interpreti più autorizzati della parola divina), dei Confessori (di quelli cioè che con la loro vita e con le loro dottrine hanno reso testimonianza a Dio), delle Vergini e delle Sante Donne. – Le più importantie numerose solennità di questo ciclo mattono, per il posto che occupano – specialmente nel tempo dopo la Pentecoste – in piena luce il ciclo riservato a Gesù, poiché è mediante Cristo che il mondo dev’essere ricostruito: «instaurare omnia in Christo».

 

1. — DELLA OCCORRENZA E DELLA CONCORRENZA DELLE FESTE.

Da questo movimento simultaneo del ciclo del Tempo e del ciclo dei Santi nascono incontri di feste del Tempo e dei Santi che prendono il nome di occorrenza, quando due feste sono assegnate al medesimo giorno, e di concorrenza, quando i secondi Vespri di una festa si incontrano con i primi Vespri della seguente. ( I primi Vespri si dicono la vigilia ed i secondi nel giorno della festa).

Nel caso di occorrenza, la festa meno privilegiata cede all’altra, nel caso di concorrenza la più degna prevale sull’altra e se esse sono dello stesso grado, si dividono i Vespri, cioè a cominciare dal Capitolo i Vespri sono del giorno seguente.

2. — DEL RITO E DEI GRADI DELLE FESTE.

Le feste assegnate a ciascun giorno dell’anno non sono uguali in importanza e in solennità. La Chiesa stabilisce la loro dignità con un rito speciale e con gradi differenti. Il rito di una festa consiste nella forma che la costituisce. E sono tre principali:

1° Il rito doppio, così chiamato perché si raddoppiano le antifone ripetendole cioè per intero sia prima che dopo ciascun salmo dell’Ufficio.

— Nelle Messe di questo rito (a meno che non vi siano commemorazioni di uno o più santi) non vi è che una sola orazione.

2° Il rito semidoppio, nel quale prima del salmo non si dice che l’inizio dell’antìfona (la quale sarà poi detta interamente dopo il salmo). Nelle Messe di questo rito vi sono sempre tre orazioni.

3° Il rito semplice.

I gradi di una festa consistono nella maggiore o minore solennità che le conviene.

Perciò si distinguono:

I doppi di prima classe

I doppi di seconda classe

I doppi maggiori

I semidoppi

I doppi minori

I semplici

3. — LE DOMENICHE DI PRIMA E DI SECONDA CLASSE

LE DOMENICHE ORDINARIE,

a) Le Domeniche di prima classe sono:

la prima Domenica d’Avvento e le 4 Domeniche di Quaresima;

la Domenica di Passione e la Domenica delle Palme;

la Domenica di Pasqua;

la Domenica in Albis (prima dopo Pasqua);

la Domenica di Pentecoste.

Queste dieci Domeniche non cedono il posto a nessun’altra Festa.

  1. b) Le Domeniche di seconda classe sono:

La seconda, la terza e quarta di Avvento;

Le Domeniche di Settuagesima, Sessagesima e Quinquagesima

Queste Domeniche non cedono il posto che ai doppi di prima classe;

c) Le altre Domeniche dell’anno cedono il posto alle Feste di prima e di seconda classe, come pure alle Feste di nostro Signore, ma prevalgono sopra ogni altro Doppio maggiore o minore e semidoppio. La Feste doppie sono allora semplificate: se ne fa solamente commemorazione alla Messa e nell’Ufficio.

4. — LE OTTAVE PRIVILEGIATE COMUNI E SEMPLICI.

Se il rito doppio di prima classe ha l’Ottava questa può esse

I.Una ottava privilegiata

a) di primo ordine (Pasqua e Pentecoste), durante la quale non è ammessa la celebrazione di nessun’altra festa, ma solo la commemorazione ed anche questa è esclusa nel lunedì e martedì.

b) di secondo ordine (Epifania e Corpus Domini) durante la quale si possono celebrare soltanto le feste di rito di prima classe e nel giorno Ottavo ammette solo una festa di prima classe, e nel giorno ottavo ammette solo una festa di prima classe della Chiesa universale. In questi casi si fa la commemorazione dell’Ottava.

c) di terzo ordine (Natale, Ascensione e il Sacro Cuore) che giorni durante l’Ottava ammette tutte le feste superiori al semplice, ma nel giorno Ottavo non cede che a una festa di prima e di seconda classe. Si fa sempre commemorazione dell’Ottava.

II. — Una Ottava comune.

Hanno questa Ottava:

1° le seguenti feste della Chiesa universale: Immacolata Concezione; Assunzione; Natività di S. Giovanni Battista; Solennità di San Giuseppe; Ss. Apostoli Pietro e Paolo; Tutti i Santi. – 2° Le feste primarie delle Chiese particolari. – 3° Per privilegio qualche altra festa. Questa Ottava ammette la celebrazione delle stesse feste che le Ottave privilegiate di terzo ordine. Si omette la memorazione dell’Ottava nei doppi di prima e seconda classe, non però nel giorno ottavo.

Quando il rito doppio di seconda classe ha l’Ottava, questa è:

Una Ottava semplice.

Dell’Ottava semplice si celebra solo il giorno ottavo e con rito semplice (S. Giovanni Ap., S. Stefano, ecc.). Se occorre una festa di rito superiore si fa la commemorazione, eccetto che nella festa

di rito di prima classe. .

5. — LE FERIE PRIVILEGIATE E NON PRIVILEGIATE.

Le ferie seno giorni liberi nei quali non si celebra alcuna festa. La Quaresima, che un tempo serviva di preparazione al Battesimo, amministrato nel giorno di Pasqua, possiede una Messa speciale per ogni Feria, cioè per ogni giorno della settimana. – Nelle ferie che non hanno Messa propria, si celebra la Messa della Domenica precedente.

a) Le ferie maggiori privilegiate sono:

Il Mercoledì delle Ceneri e tutti i giorni della Settimana Santa.

Queste ferie prevalgono su ogni altra festa.

b) Le ferie maggiori non privilegiate sono:

Quelle dell’Avvento, della Quaresima (dopo il Mercoledì delle Ceneri), di Passione (prima della Domenica delle Palme), delle Quattro Tempora dì Settembre ed il lunedì delle Rogazioni. Se ne fa sempre la commemorazione e si legge il loro Vangelo in fine della Messa.

In queste ferie, nelle Quattro Tempora dell’Avvento e nelle Vigilie Comuni (v. N° 6, b) se si fa l’Ufficio di un Doppio maggiore o minore o di un Semidoppio, nelle Messe private si può leggere la Messa della feria o della vigilia con la Commemorazione della festa, oppure la Messa della festa con la Commemorazione della feria o della vigilia.

La Commemorazione di tutti i fedeli Defunti esclude (anche se trasferita al giorno seguente, quando il 2 Novembre cade in Domenica) le Feste sia occorrenti che trasferite di qualsiasi rito.

6. — LE VIGILIE.

Le vigilie, o veglie, preparano con ufficio speciale la celebrazione della festa del giorno successivo. Alcune sono caratterizzate dalla penitenza e spesso da uffici più lunghi e dal colore violaceo dei parati. Vi sono vigilie:

a) Privilegiate:

di prima classe: vigilia di Natale e di Pentecoste che non cedono il posto a nessuna festa.

di seconda classe: vigilia dell’Epifania che non ammette che le feste di prima e seconda classe e di nostro Signore.

b) Comuni ordinarie: Apostoli, ecc.

7. LE MESSE VOTIVE.

Messe Votive si chiamano quelle che si celebrano, nei giorni prescritti dalle Rubriche, indipendentemente dall’Ufficio dei giorno e sono state istituite per soddisfare il voto o desiderio della stessa S. Chiesa, dei fedeli che le domandano, e del Celebrante medesimo.

#    #    #

DIVISIONE SCHEMATICA DELL’ANNO ECCLESIASTICO

A. — CICLO DI NATALE

MISTERO DELL’INCARNAZIONE.

PREPARAZIONE

(Par. Violacei)

I. Tempo di Avvento (dalla 1a Dom. di Avvento al 24 dicemb.) – 4 Domen.

CELEBRAZIONE

(Par. Bianchi)

Natale

Epifania

II.Tempo di Natale   (dal 24 dic. Al 13 gennaio)      2 Domen.

PROLUNGAMENTO.

(Par. Verdi)

III. Tempo dopo l’Epifania)    (dal 14 gennaio alla Settuagesima) 6 Dom.

 

B. — CICLO DI PASQUA.

MISTERO DELLA REDENZIONE.

PREPARAZIONE

(Par. Violacei)

I. remota (Tempo di Settuag.) da Settuagesima alle Ceneri 3 Domen.

II. prossima (Tempo di Quares.)  dalle Ceneri alla Dom. di Passion         4 Domen.

III. immediata (Tempo  di Passione ) dalla Dom. di Passione a Pasqua               2 Dom.

CELEBRAZIONE

IV. Pasqua (Par. Bianchi)

Pentecoste ed Ottava (Par. Rossi)

(Tempo Pasquale) da Pasqua alla Trinità – 7 Dom.

PROLUNGAMENTO

(Par. Verdi)

V. Tempo dopo Pentecoste dalla Trinità all’Avvento                   – Domen. 24

LO SCUDO DELLA FEDE (XXXIX)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

LO SCUDO XXXIX.

IL PAPA.

Visibilità della Chiesa e spirito privato del protestantesimo. — Istituzione divina del Papato. — S- Pietro a Roma. — Autorità del Papa. — Sua infallibilità. — Necessità della medesima. — Anche di fronte ai Concili!. — Un’infallibilità pontificia non è un dogma nuovo? — E i Papi che hanno errato? — E quelli malvagi?

— È dunque proprio vero che Gesù Cristo nel fondare la sua Chiesa ha inteso di fondare una società visibile?

Non se ne può avere il minimo dubbio. Già fin dai tempi antichi i profeti avevano annunziato che Gesù Cristo avrebbe creato una società visibile a guisa di un regno potente, che si sarebbe esteso sino agli estremi confini della terra (V. Daniele, capo II, versetto 44); a guisa di una casa del Signore, che sta sulla vetta dei monti e si solleva sopra tutti i colli, ed alla quale sarebbero accorsi in folla tutti i popoli; a guisa di una città santa, nella quale sarebbero entrate le moltitudini delle nazioni ed i popoli gagliardi (V. Isaia., capo II e LX). Lo stesso Gesù Cristo poi promise durante la sua predicazione, che per la salvezza universale degli uomini avrebbe edificato la sua Chiesa: e parlando di essa la paragonò ad un gregge e ad un ovile, al quale dovevano pervenire tutte le pecorelle disperse per tutto il mondo; ad un banchetto, a cui sono chiamate persone di ogni stato; ad una rete gettata nel gran mare dell’umanità e che piglia ogni specie di pesci; ad un granellino di senapa, che si converte poscia in un albero immenso, nel quale vanno a riposarsi ogni sorta di uccelli; ad un regno di Dio aperto a tutti i popoli della terra.

— Come dunque i protestanti osano negare la visibilità della Chiesa?

Si capisce. Tutto il sistema del protestantesimo si basa sopra lo spirito privato. Essi sostengono cioè che ognuno degli uomini può stare da sé e dipendere direttamente da Dio, il quale illumina ogni uomo intorno a quel che deve credere e a quel che deve operare per mezzo della Bibbia; che perciò non vi è bisogno di nessun’autorità nella Chiesa, la quale ci spieghi e quel che dobbiamo credere e quel che dobbiamo operare. Quindi in conformità a questo suo errore capitale il protestantesimo nega la necessità che la Chiesa di Gesù Cristo sia visibile, nega cioè che debba essere visibile nel suo insegnamento, nel suo culto, nel governo delle anime, nell’autorità dei suoi Pastori e specialmente del Sommo Pontefice, lasciato da Gesù Cristo a governarla visibilmente sulla terra. E ciò esso fa propriamente per poter affermare di sé che, allontanatosi dall’ovile e sottrattosi all’autorità del supremo pastore il Papa, forma nondimeno la Chiesa di Gesù Cristo.

— E non risulta forse chiaro dal Vangelo che Gesù Cristo ha preposto un capo supremo a governare visibilmente la Chiesa?

Risulta chiarissimo. Tu sai che fra i dodici Apostoli suoi riguardò sempre Pietro come il primo di tutti. A lui cambiò il nome di Simone in quello di Cefa ossia Pietra, ad indicare che lo voleva fare la pietra fondamentale della sua Chiesa. Predicò di preferenza dalla barca di lui. Pregò distintamente per lui. Da lui cominciò a lavare i piedi agli Apostoli. Lui fece camminare sulle onde. A lui apparve singolarmente dopo la risurrezione; lui insomma designò chiaramente al disopra di tutti. E tutto ciò è ancor poco, perciocché ben più apertamente Gesù Cristo fece intendere il suo disegno e la sua volontà riguardo a Pietro. Quel dì, che a nome degli altri Apostoli Pietro confessò esplicitamente la Divinità di Lui, Gesù Cristo rivolgendosi ad esso gli disse queste precise parole : « Ed io dico a te, che tu sei Pietro, e sopra di questa pietra fabbricherò la mia Chiesa, e le potenze d’inferno non prevarranno contro di essa giammai. A te io darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che avrai legato sopra la terra sarà legato anche nei cieli, e tutto ciò che in sulla terra avrai sciolto, sarà sciolto anche ne’ cieli » (V. Vangelo di S. Matteo, capo XXVI). – Nell’ultima cena poi rivolto a Pietro, gli dice: « Simone, io ho pregato per te affinché la tua fede non venga meno; e tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli » (V. Vangelo di S. Luca, capo XXII). E dopo la sua risurrezione apparendo ai suoi discepoli e volgendosi ancora a Pietro, dopo averlo per tre volte interrogato se lo amava ed essersi inteso a rispondere che sì, gli disse due volte: « Pasci i miei agnelli; » ed una terza: « Pasci le mie pecorelle » (V. Vangelo di S. Giovanni, capo XXI). – Ora per negare che in queste sentenze Gesù Cristo abbia costituito Pietro capo, fondamento, clavigero, legislatore, pastore, maestro supremo del suo regno, cioè della sua Chiesa, bisognerebbe far contro allo stesso buon senso naturale.

— E si può essere certi che S. Pietro abbia riconosciuto d’aver ricevuto tale potestà e che gli altri Apostoli e i primitivi fedeli l’abbiano riconosciuta?

Certissimi. Difatti appena salito in cielo Gesù Cristo, Pietro nel cenacolo piglia il primo posto, parla pel primo e propone egli l’elezione di un altro Apostolo in luogo di Giuda il traditore. Nel dì della Pentecoste è egli che pel primo predica la fede di Gesù Cristo e la conferma coi miracoli. In seguito è ancor egli che pel primo avendo convertito i Giudei, va pel primo a battezzare i Gentili. Così è egli Pietro, che stabilisce i primi punti di disciplina e compone qualsiasi dissidio che insorga, tanto che tutta la Chiesa, pastori e fedeli a lui si affidano, lui seguono, lui obbediscono; e lo stesso grande S. Paolo, benché fatto Apostolo direttamente da Gesù Cristo non si tiene pago fino a che non ha fatto confermare il suo apostolato da S. Pietro.

— Ciò va benissimo. Ma non si potrebbe obbiettare che l’autorità che Gesù Cristo conferì a Pietro sia stato un privilegio personale?

Il credere ciò sarebbe lo stesso che credere che Gesù Cristo non abbia voluto che durasse in perpetuo la sua Chiesa, ma che invece con la morte di Pietro si disgregasse e andasse in rovina. Dimmi, a non sovvertire l’idea istessa di famiglia, di stato, di società, non si appalesa a primo aspetto la necessità di un rispettivo capo?

— Sì, senza alcun dubbio.

Dunque se Gesù Cristo voleva che la sua Chiesa durasse perpetuamente quaggiù (e lo volle davvero, perché ha dichiarato apertamente essere sua volontà che tutti gli uomini pervengano al conoscimento della verità), non doveva volere che a conservarsi integra, una, indissolubile vi fosse pur sempre in essa un capo supremo?

— Anche ciò è chiarissimo.

Dunque il primato di Pietro non è un privilegio personale, che abbia a perire con la sua morte; è un privilegio che raccoglierà ogni suo successore, un privilegio che rimarrà in tutti quelli che continueranno il suo Pontificato sino alla consumazione dei secoli, ascendendo quella stessa cattedra romana, sulla quale per divina ispirazione egli andò ad assidersi e ad esercitare il suo supremo potere ed infallibile magistero.

— Mi pare però che si dubiti assai che S. Pietro si sia recato a Roma a stabilire la sua cattedra episcopale.

Oh sì, caro mio, dai protestanti ciò si è messo in dubbio e lo si è negato addirittura, e sempre con questo intento maligno di negare l’autorità suprema del Vescovo di Roma. Ma il fatto della venuta, dimora e morte di San Pietro in Roma, e per conseguenza dello stabilimento della sua sovrana autorità in detta città è di una certezza storica tale, che fa peranche oggi sin ridere il doverlo provare. I monumenti archeologici specialmente, con quelle illustrazioni che ebbero ultimamente dal celebre Giovan Battista de Rossi, forniscono oggi, oltre ad altri innumerevoli, uno dei più convincenti argomenti della verità di tal fatto. D’altronde gli stessi protestanti e razionalisti dei dì nostri, in gran parte, benché non vogliano saperne del primato del Papa, Vescovo di Roma, hanno ancor essi respinto questo errore del vecchio protestantesimo. Dico però solamente in gran parte, perché taluno di essi che passa per la maggiore, come lo storico Ferdinando Gregorovius, osa asserire impudentemente, pur sapendo di mentire, che « la storia non sa nulla di questa presenza dell’apostolo Pietro in Roma, e che perciò non è altro che un fondatore leggendario della comunità romana ». E di ciò è a rincrescere assai, perché certi giovani studenti delle scuole superiori se si imbatteranno in tale asserzione, o se l’intenderanno a fare da qualche loro professore, senza punto darsi la pena di rettificarla con studi appositi, solo perché è l’asserzione di un tedesco, l’accetteranno come oro di coppella, e diranno poi contro la sentenza opposta e dimostrata matematicamente vera: « Ecco un’altra invenzione dei preti ».

— Stia certo che essendo stato posto sull’avviso, ciò non accadrà di me. Ma l’autorità suprema del Papa fu pure sempre riconosciuta lungo il corso dei secoli?

Sempre. Tutti i Padri, tutti i Dottori, tutti i Concilii furono sempre d’accordo nel credere e proclamare che il Papa, il Pontefice romano è il Vicario di Gesù Cristo, il Successore di S. Pietro, il Reggitore e Maestro supremo della Chiesa universale. Ed ogni qualvolta i reggitori e maestri delle Chiese particolari, i Vescovi, si trovarono nel dubbio e nella controversia per riguardo a qualche pratica religiosa o a qualche punto di dottrina fu sempre al Papa che si rivolsero, e fu sempre alla sua decisione che si affidarono ed obbedirono come all’oracolo divino, conoscendo per fede e di fatto che S. Pietro persevera e vive nei suoi successori.

— Vuol dire adunque che il Papa ha il potere di ammaestrare, dirigere e comandare anche i Vescovi?

Senza dubbio. Sebbene i Vescovi siano i successori degli Apostoli, opperò abbiano anch’essi quell’autorità divina, che Gesù Cristo diede agli Apostoli dicendo loro: « Tutto ciò che avrete legato sulla terra sarà pure legato in cielo; tutto ciò che avrete sciolto sulla terra sarà sciolto in cielo; come il Padre celeste ha mandato me, così io mando voi eccetera, eccetera; » non di meno il Papa per essere il Capo supremo della Chiesa, per avere ricevuto da Gesù Cristo l’ordine e il potere di pascere non solo gli agnelli figura dei fedeli, ma eziandio le pecorelle figura dei Vescovi, di confermare nella fede i suoi fratelli, cioè gli stessi Vescovi, perciò ha realmente l’autorità di ammaestrare, dirigere e comandare anche i Vescovi, ed anche i Vescovi devono stare a Lui soggetti.

— E in tal guisa l’autorità dei Vescovi non ne scapita?

No affatto. L’autorità dei Vescovi, che come ti dissi, è pur essa divina, rimane quella che è. Epperò anche i Vescovi nella loro diocesi hanno il potere di ammaestrare nella fede, di conferire la grazia coi Sacramenti, di far leggi conducenti alla salvezza delle anime in particolar modo affidate alle loro cure, di punire con pene adatte alla natura ed indole della Chiesa i figli disobbedienti, e cose simili; ma la loro autorità è sempre subordinata a quella del Pontefice secondo che Gesù Cristo ha voluto, di quella guisa che in un esercito i diversi generali e colonnelli, avendo pur ciascuno una vera autorità, stanno tuttavia soggetti al generale in capo, costituito dal re anche sopra di essi.

— Ho inteso, e sono ora più che convinto riguardo all’autorità del Papa. Ciò che però non capisco ancor bene si è la sua infallibilità. Mi pare impossibile che il Papa, per quanto Papa, non possa peccare come tutti gli altri uomini! e che si debba aggiustar fede ad ogni parola, ad ogni giudizio che egli esprima su qualsiasi soggetto.

Come ? anche tu hai delle idee così storte a questo riguardo? Caro mio, l’infallibilità non è affatto l’impeccabilità come tu, ed altri pensano: la Chiesa non ha mai insegnato ciò; perché il Papa in quanto è uomo potrà anche egli peccare, e dovrà perciò anch’egli gettarsi ai piedi di un altro ministro del Signore per implorare il perdono delle sue colpe. Così pure non è vero assolutamente che l’infallibilità sia legata ad ogni sua parola e ad ogni suo giudizio, che anch’egli, come persona privata, esprimendo il suo parere o sopra la storia, o sopra la scienza, o sopra la filosofia, o sopra la teologia, o sopra la politica, o sopra l’arte, o sopra qualsiasi altra cosa può fallire. L’infallibilità è quella prerogativa, per cui il Papa come Capo della Chiesa, in virtù della promessa di Gesù Cristo, giudicando e definendo dall’alto della sua suprema cattedra cose riguardanti la fede o i costumi, non può cadere in errore, né quindi ingannar se stesso o gli altri. Ecco che cosa è l’infallibilità.

— Tutto ciò va bene; ma io ho sempre udito dire che al mondo non c’è altri infallibile che Iddio!

Perdinci ! Tu mi spari davvero una bomba, ma è bomba di carta. Lo so anch’io che Iddio solo è infallibile, e so anche che Dio solo può conoscere il futuro, che Dio solo può far dei miracoli, che Dio solo può assolvere i peccati e compiere altre simili cose. Ma forse che Dio non può comunicare, quando gli paia e piaccia, questi doni a taluno degli uomini? Forse che non li abbia comunicati? Dunque anche essendo Egli solo infallibile può comunicare al Papa il dono dell’infallibilità e realmente glielo comunica, affinché quando parla come Papa, cioè come Vicario suo e definisce una qualche cosa che riguardi la fede o i costumi non cada in errore.

— Ma quale necessità che Dio partecipi la sua infallibilità al Papa? Io non la vedo affatto.

Non la vedi? Eppure non v’è nulla di più chiaro. Secondo le parole di Gesù Cristo a S. Pietro, ogni Papa deve pascolare agnelli e pecore, deve cioè istruire tutta la Chiesa, e questa deve ricevere i suoi pascoli, i suoi insegnamenti. – Ora se il Papa ne’ suoi insegnamenti circa la fede o i costumi errasse o per ignoranza o per malizia, non sarebb’egli come un pastore, che conduca gli agnelli e le pecore a pascoli avvelenati, un pastore che invece della vita darebbe loro la morte? – Inoltre il Vangelo ci dice che Gesù Cristo pregò pel Capo della sua Chiesa, affinché la sua fede non venisse meno e così potesse confermare in essa i suoi fratelli. Ma potrebbe fare ciò il Papa, se la preghiera di Gesù Cristo non fosse stata dal suo Celeste Padre esaudita, ed il Papa non fosse infallibile nel suo Magistero supremo? – Supponi che nella Chiesa nasca una questione gravissima riguardo a qualche dottrina o a qualche pratica religiosa, questione che assolutamente bisogna decidere per tranquillizzare le coscienze, per illuminarle e dirigerle secondo la verità; si potrebbe fare ciò, se il Papa, capo della Chiesa, appoggiandosi alla promessa di Gesù Cristo non potesse egli decidere in modo infallibile, che si tratta sì o no di una dottrina rivelata, di una pratica conforme o disforme alla legge di Dio?

— Le ragioni che mi adduce sono veramente forti; ma per decidere queste questioni religiose non si sono radunati pel passato e non si possono ancora radunare adesso e in seguito dei Concilii di tutti i Vescovi della Chiesa?

Sì, ciò è vero, ma anzitutto ti osservo che i Concilii ecumenici, ossia generali di tutti i Vescovi, non si possono raccogliere in ogni tempo, né possono essere per loro natura un tribunale permanente. E se la cosa fosse urgente e si esigesse subito una parola chiara, autorevole, che cessi i dissidi e tronchi le lotte, come si farebbe? In secondo luogo tu devi sapere che nessun Concilio può aver valore nella Chiesa se non è ratificato dal Papa, e che le decisioni dogmatiche di un Concilio ecumenico sono infallibili in quanto che in detto Concilio i Vescovi sono congiunti al Papa, capo della Chiesa, il quale, a guisa di sole nel quale s’incentra la infallibilità, la irradia sopra il corpo episcopale a lui unito.

— Vuol dire adunque che un Concilio, fosse pure di tutti i Vescovi del mondo, senza il Papa o contro il Papa, non sarebbe infallibile.

Precisamente così. Il Papa è sempre lui il fondamento della Chiesa, e qualsiasi corpo, fosse pure quello di tutti i Vescovi del mondo, che non si basi sopra il fondamento stabilito da Gesù Cristo, non può partecipare a quella incrollabilità di fede, che Gesù Cristo ha assicurato al detto fondamento.

— Ma il dogma dell’infallibilità del Papa non è ancor esso un dogma nuovo? Dunque i Papi, che esistettero prima di questo dogma, non saranno stati infallibili.

Ricorda quanto già ti ho detto riguardo alla definizione del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria. La Chiesa quando definisce un nuovo dogma non introduce una nuova verità da credere, ma dichiara che una dottrina, che sempre vi è stata nella Chiesa, è una verità rivelata da Dio precisamente perché fa parte della divina rivelazione. Dunque sebbene il dogma dell’infallibilità del Papa sia stato definito soltanto il 18 luglio 1870 nel Concilio Vaticano, perché allora si vide l’opportunità di definirlo, non di meno è una verità sempre esistita e in fondo in fondo sempre riconosciuta, dacché Gesù Cristo disse a San Pietro: « Tu sei Pietro; pascola i miei agnelli e le mie pecorelle; conferma nella fede i tuoi fratelli ».

— Ma pure alcuni Papi in passato non sono caduti in errore? Ho sentito parlare di Liberio, di Marcellino, di Onorio.

Basta, basta; ho già inteso. Ma prima di tutto bisogna ricercare se le cose, che di questi Papi si dicono, siano vere. In secondo luogo bisogna vedere se le cose, quali sono realmente, contengano errori contro la fede o la morale. E da ultimo, qualora ci fossero veramente degli errori, bisogna dimostrare se sono stati profferiti da questi Pontefici come da Papi, nell’esercizio supremo della loro autorità, propriamente per fare una definizione dogmatica, oppure come da dottori privati. Fino a che non si provino queste tre cose, e non si potranno mai provare, è inutile far delle obbiezioni aeree.

— Dunque non è mai accaduto che nella Chiesa vi siano stati dei Papi, che abbiano errato?

No; dei Papi che nell’esercizio supremo del loro ministero abbiano errato, non ve ne sono stati mai, e non mai ve ne saranno. Ed è questa una cosa al tutto mirabile che in sì lungo corso di secoli, con tante e sì svariate dottrine, che i Papi come Capi della Chiesa hanno proposte e definite, non siano mai caduti in alcun errore o contraddizione.

— Ciò che però non mi potrà negare si è che tra i Papi ve ne siano stati anche di quelli malvagi, per esempio un Alessandro VI, nei quali non saprei proprio come vi abbia potuto essere la infallibilità!

Io non ti nego che vi sia stato tra i Papi qualcuno di una vita non dicevole alla sublime sua dignità. Ma che per questo? Se come persone private fallirono, come Pontefici vennero forse meno al loro gravissimo ufficio? No, mai. Lo stesso Alessandro VI, di cui tanti scrittori farisaici inorridiscono, dato pure che la sua vita privata non sia stata sempre buona, non diede mai alcun insegnamento, che pregiudicasse la fede e la morale cristiana. La purità della dottrina anche sotto di lui rimase intatta. – « In ogni epoca, ti dirò col valentissimo storico dei Papi, Dottor Lodovico Pastor, si sono dati nella Chiesa da canto a cattivi Cristiani anche indegni sacerdoti, come tra gli stessi Apostoli vi fu un Giuda. Ma a quella guisa che una cattiva incastonatura non scema il pregio di una gemma, così pure la peccabilità di un sacerdote non può recar scapito essenziale né al Sacrificio ch’egli offre, né ai sacramenti di cui è ministro, né alla dottrina ch’egli insegna. Il perché eziandio il sommo sacerdote (il Papa) non è in grado di togliere alcunché dal merito dei tesori celesti, che gli sono nella loro pienezza affidati e cui egli amministra e dispensa. L’oro rimane oro, sia che lo dispensi una mano pura od impura. Con questi criteri giudicava ormai Leone Magno; « La dignità di Pietro (e si può dire lo stesso della sua infallibilità) non va a scadere né anche in un indegno successore » (V. Storia dei Papi, ecc. di Lodovico Pastor, volume III, pagina 435).

L’ISTRUZIONE RELIGIOSA

L’ISTRUZIONE RELIGIOSA

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli. Domenica XXIV dopo PENTECOSTE – Scuola tipog. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929; imprim.]

“Fratelli: Non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che abbiate la piena cognizione della volontà di Dio, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, affinché  camminiate in maniera degna di Dio, sì da piacergli in tutto; producendo frutti in ogni sorta di opere buone, e progredendo nella cognizione di Dio; corroborati dalla gloriosa potenza di lui in ogni specie di fortezza ad essere in tutto pazienti e longanimi con letizia, ringraziando! Dio Padre che ci ha fatti degni di partecipare alla sorte dei santi nella luce, sottraendoci al potere delle tenebre, e trasportandoci nel regno del suo diletto Figliuolo, nel quale, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati (Col. 1, 9-14).”

L’Epistola è tratta dal principio della lettera ai Colossesi. Dopo il saluto, le congratulazioni, il ringraziamento a Dio per la fede e la pietà che regna tra i Colossesi, assicura — come vediamo dal brano riporta; — prega il Signore che dia loro una conoscenza perfetta della volontà di Dio, così che possano piacergli, mediante i frutti delle buone opere; e che queste opere progrediscano sempre più, per mezzo di una cognizione sempre maggiore delle cose celesti. Prega pure che dia loro la forza di sopportare con letizia le prove immancabili a chi vive cristianamente; e che siano fedeli nel ringraziare Dio Padre, il quale li ha resi degni di partecipare al consorzio dei santi, cioè dei fedeli, li ha strappati alla schiavitù del demonio e delle sue opere tenebrose per metterli sotto il regno del suo Figlio, nostro Redentore. – Quest’epistola ci apre la via a parlare dell’istruzione religiosa.

1. Al Cristiano è indispensabile l’istruzione religiosa,

2. Che gli servirà di guida nella vita,

3. E lo renderà costante contro i falsi insegnamenti e le storte teorie.

1.

Fratelli: Non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che abbiate la piena cognizione della volontà di Dio, con ogni sapienza e intelligenza spirituale. L’Apostolo, dicendo ai Colossesi che egli domanda che, per mezzo di quella scienza e sapienza che non viene dagli uomini, ma dallo Spirito Santo, imparino sempre più ciò che Dio vuole da loro; viene bellamente a inculcare il dovere che essi hanno di avanzare sempre più nella cognizione delle verità essenziali del Cristianesimo. E’ una raccomandazione che S. Paolo fa parecchie volte, e che è di grande importanza per i Cristiani di tutti i tempi, perché pare che in tutti i tempi si dia molto più importanza all’istruzione profana che all’istruzione religiosa. Non parliamo, poi, dei tempi nostri.Noi sentiamo dei fanciulli, con il sussiego di chi la sa lunga in materia, narrare le avventure delle pagine illustrate delle riviste settimanali. Se li interrogate, non sanno ripetere un sol fatto della Storia Sacra. I giovinetti danno l’assalto alle edicole, ai giornalai che escono dalle stazioni per aver notizia, delle vicende dei giocatori. Vi sanno dire chi è riuscito primo nel pugilato, nella gara podistica; chi primo nella corsa delle biciclette, delle automobili. ecc. Vi dicono il nome, la paternità, la patria del campione nazionale, del campione europeo, del campione del mondo: ma non vi sanno fare il nome di un campione del Cristianesimo. – Gli adulti la sanno forse più lunga in fatto di religione? Se  provaste a interrogarli resterete meravigliati della loro ignoranza. Non dissimili dagli uomini sono spesso le donne; e non dissimile dall’operaio e dal contadino è il ricco, la persona colta. Sarebbe già molto, per una buona parte, se arrivassero a far bene il segno della croce. E questa ignoranza è assolutamente inammissibile in un Cristiano. « E’ un errore non conoscere Dio come si conviene ». L’uomo è figlio di Dio: deve, per conseguenza conoscere questo Dio, che lo ha creato, che lo governa, che è il suo ultimo fine; conoscere la sua natura, conoscere i suoi attributi per quanto è possibile a persona pellegrina su questa terra: sapere qual è il premio per quelli che lo servono; qual è il castigo per coloro che si ribellano al suo volere. – Dio nella sua bontà infinita ha voluto risollevare l’uomo dalla sua miseria per mezzo della redenzione. È  interesse dell’uomo redento, del Cristiano, è suo obbligo istruirsi in questo mistero: conoscere la persona di Gesù Cristo, quanto ha fatto per noi, il merito della sua opera, la dottrina che Egli ha insegnato, e che le turbe del suo tempo ascoltavano con tanta brama da dimenticare casa, occupazioni e perfino il nutrimento. È interesse e obbligo del Cristiano conoscere chi è la depositaria della sua dottrina, la Chiesa; conoscere gli aiuti che ci ha dato, i sacramenti. Si tratta d’una istruzione che interessa il Cristiano direttamente, in modo particolare. Si tratta poi d’un interesse che non si limita ai quattro giorni che passiamo sulla terra, ma che varca i confini della vita e dura per tutta l’eternità.

2.

Paolo desidera che i Colossesi abbiano una piena conoscenza della volontà del Signore affinché si diportino in maniera degna di Dio, sì da piacergli in tutto. Cioè, conducano una vita in tutto degna di un vero Cristiano. Una vita simile non può prender norma che dalla dottrina della Chiesa. Nella dottrina della Chiesa si trovano i rimedi adatti a tutte le infermità dell’umana natura, e la difesa contro i pericoli e le illusioni che l’accompagnano. In questa dottrina si trovano gli insegnamenti opportuni per qualunque circostanza della vita. Essa contiene insegnamenti per la vita individuale e per la vita sociale: indica i diritti nella loro giusta misura, e inculca i corrispondenti doveri. – Tolti gli insegnamenti della Religione, ben poca efficacia hanno gli altri mezzi sulla condotta dell’uomo e sull’andamento morale della società. Il ven. Antonio Chevrier era stato arrestato da due guardie urbane di Lione, che l’avevano trovato a questuare alla porta di una chiesa. Condotto dal Commissario, risponde ai rimproveri facendo osservare che egli fa la questua pel mantenimento e l’educazione di una sessantina di ragazzi vagabondi, parecchi dei quali erano certamente passati nell’ufficio del commissario, prima di andare da lui. Quando il commissario sa con chi tratta non può trattenere la commozione, e due lacrime spuntano sopra i suoi occhi. Poi riprende : «Ah! Padre, continui la sua opera di rigenerazione ben più utile dì tutte le nostre case di reclusione; continui a chieder l’elemosina per i suoi ragazzi, non avrà più noie; io stesso voglio partecipare alla sua opera» (Villefranche. Vita del Ven. Servo di Dio Padre Antonio Chevrier. Versione di Alfonso Codaghengo. Roma – Torino. 1924. Pag. 97-98). – Possiam poi, ad osservare che la sanzione delle leggi umane, già poco efficace per sé, è relativamente rara. Le leggi umane sono di quelle reti da cui si può sfuggire con tutta facilità. Si possono trasgredire in modo da far quanto la legge proibisce, senza incorrere nella sanzione. Fatta la legge, trovato l’inganno. Se la legge non è scritta nel cuore, fa ben poco. Le cattive inclinazioni hanno origine dal cuore: nel cuore deve stare il loro correttivo. « Serbo nel cuore i tuoi detti per non peccare contro di te », dice il Salmista; ma è impossibile che la legge sia scolpita nel cuore, se non la si considera come ricevuta da Dio. – Ci sono inoltre tante azioni, che la legge umana non considera perché interne, come l’odio, i desideri malvagi ecc.; ma che non cessano per questo di essere condannabili, e che sono, difatti, severamente condannate dalla dottrina della Chiesa. – Non si può negar l’efficacia dell’insegnamento della Chiesa dal fatto che alcuni anche fortemente istruiti nella Religione, conducono una vita riprovevole. La dottrina religiosa da essi imparata è la loro più severa condanna: Essa li richiama continuamente alla riforma della propria condotta, che, con l’aiuto della grazia di Dio, può sempre compiersi. A ogni modo è sempre un freno potentissimo con la minaccia dei castighi eterni, riservati a coloro che si ostinano nel male… E coloro che se ne scandalizzano, al punto di voler negare l’efficacia dell’istruzione religiosa, sono forse migliori? Del resto, si dia uno sguardo alla storia. Si vedrà che la dottrina della Chiesa, alla corrotta vita pagana ha sostituito una vita di grande dignità e di santità. Si vedrà che quando le popolazioni si avvicinano ai principii del Vangelo sono civili; quando se ne allontanano diventano barbare.

3.

L’Apostolo augura ai Colossesi che vadano progredendo nella cognizione di Dio, cioè nello studio delle verità cristiane. Come grande è, dunque, l’errore di coloro che, studiati i primi elementi della dottrina cristiana da fanciulli al catechismo parrocchiale o alla scuola, non se ne curano più nel restante della vita. Il condurre una vita veramente cristiana non è cosa da animi deboli. Si richiede grande costanza contro ogni genere di contrarietà. Cresciuto il fanciullo negli anni, da chi imparerà il modo di resistere alle passioni? Che cosa lo terrà saldo contro la corrente dei cattivi costumi e delle massime perverse? L’ideale! si dirà. Ma quale? Noi vediamo che sono tanti ideali quante sono le scuole, quanti sono i partiti, quanti sono i gusti. E ciascuno si sceglie l’ideale che accontenta maggiormente le passioni, che cominciano a dominarlo. Sta bene che al Catechismo dei fanciulli abbiamo imparato i primi elementi della dottrina; abbiamo imparato per qual fine Dio ci ha creati ecc.; ma, cresciuti in età, dobbiamo approfondire le nostre cognizioni mano a mano che ci troviamo davanti circostanze che richiedono da noi la manifestazione di principi solidi. Col crescere degli anni si allarga anche il campo dei nostri doveri; dobbiamo quindi cercare di averne una più larga e profonda cognizione. « Che giova — dice S. Bernardo — saper dove sia da andare, se non sai la via per la quale hai da andare » (S. Bernardo. In festa Ass. Serm. 4, 9). Quando si è uomini maturi, si dice, non c’è più bisogno di guida. Il buon senso e la ragione insegnano quel che c’è da fare. Peccato, che la storia ci dimostri il rovescio. Essa ci dimostra che, quanto alla verità, non c’è assurdo che non sia stato insegnato da qualche filosofo; e che intorno ai doveri degli uomini i sapienti del mondo non hanno mai potuto stabilire un sicuro codice di morale. In pratica, poi, la norma più comune è la pubblica opinione. Questa è né più né meno che una moda qualunque. La moda va e viene: peggio ancora, va da un estremo all’altro. Così, la pubblica opinione oggi condanna ciò che ieri era lecito; con la più grande facilità oggi pone uno sull’altare, domani lo getta nel fango. La sua regola è il tornaconto del momento. Precisamente opposto è l’insegnamento della Chiesa, il cui linguaggio è « sì, sì; no, no », (Matth. V, 37) e non si adatta mai alle circostanze. La, dottrina che essa insegna è la stessa che fu insegnata da Gesù Cristo, che fu bandita dagli Apostoli e dai loro successori e, attraverso a persecuzioni e lotte, arrivò fino a noi senza mutamenti (ci si riferisce ovviamente alla vera Chiesa Cattolica, non alle sette, come quella a-cattolica attualmente dominante del novus ordo Vaticano II –ndr.-). A questa dottrina deve attenersi chi, nel mar tempestoso della vita, vuol rimaner fermo come uno scoglio che non è smosso dalle opposte correnti. «Alcune cose si apprendono per averne la cognizione solamente, altre, invece, per metterle anche in pratica », osserva S. Agostino (In Ps. CXVIII, En. 17, 3). Perciò il Salmista si rivolge a Dio con quella preghiera: « Insegnami a fare la tua volontà » (Ps. CXLII, 10). Sull’esempio del Salmista rivolgiamoci noi pure a Dio pregando, che ci aiuti a conoscere ciò che dobbiam credere, e ci aiuti a conoscere ciò dobbiam fare, rendendocene soave l’adempimento.