LO SCUDO DELLA FEDE (XLV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XLV.

IL CULTO DEI SANTI.

Che cosa sia la Comunione dei Santi ? — È possibile che i Santi pensino a noi ? — La loro invocazione non è contro la fede di Gesù Cristo nostro unico mediatore? — Non è una novità contraria alla Sacra Bibbia? — Il culto dei Santi, e più ancora delle loro immagini e reliquie non e idolatria ? — E se una reliquia si venisse a riconoscere falsa?

— È vero che la Chiesa di Gesù Cristo non sta tutta nella società visibile dei fedeli, che vivono quaggiù?

Ciò è verissimo. La Chiesa di Gesù Cristo è formata da tre grandi parti o famiglie. Vi ha la parte o famiglia che si vede qui in terra, e che si chiama Chiesa militante, perché ancora combatte per conseguire l’eterna corona, vi ha la parte costituita dagli Angeli e dai Santi, che sono già beati in cielo, godendo il trionfo delle vittorie riportate e chiamata perciò Chiesa trionfante, e poscia la parte costituita da quelle anime, che hanno già lasciata  la terra, ma sono ancora nel purgatorio, ed è chiamata Chiesa purgante.

— E fra queste tre parti o famiglie vi è una qualche relazione?

Senza dubbio. Siccome queste tre parti hanno, benché non allo stesso modo, i medesimi interessi, tutte godono o in una o in altra maniera gli stessi benefìci effetti della Redenzione di Gesù Cristo, e tutte sono sotto il suo amorossissimo governo, devono perciò essere in relazione tra di loro, amarsi come membri dello stesso corpo, essere solidali delle stesse glorie e delle stesse sventure, e tutte insieme concorrere alla prosperità e al benessere di tutta intera la società di Gesù Cristo. È quello appunto che nel modo più espressivo insegna l’Apostolo S. Paolo nelle sue Lettere e specialmente nella prima ai Corinti, dove dice che « come nel corpo umano tutte le membra sono piene di sollecitudine le une per le altre, cosi ha da essere in tutte le diverse parti della Chiesa di Gesù Cristo, affinché l’abbondanza delle une supplisca alla povertà ed ai bisogni delle altre » (V. capi XII e XIII).

— E ciò si effettua realmente?

Sì, per mezzo della Comunione dei Santi! che noi dobbiamo credere come verità di fede

— Ma che cos’è propriamente questa Comunione dei Santi secondo l’insegnamento cattolico?

Essa è la partecipazione, che, sebbene in modo diverso, hanno tuttavia tutte e tre le parti della Chiesa di Gesù Cristo ai beni, che nella Chiesa vi sono, e cioè le grazie dei Sacramenti e del Santo Sacrificio della Messa, i meriti infiniti del divin Redentore e quelli sovrabbondanti di Maria Vergine e dei Santi, i frutti delle preghiere, delle limosine, dei digiuni, delle virtù e di tutte le buone opere, che si compiono dai fedeli,

— Ma non capisco perché questa partecipazione o Comunione si chiami dei Santi?

Si chiama dei Santi, perché di essa godono perfettamente soltanto coloro, che sono santi ossia giusti per il possesso della grazia di Dio, e alla quale perciò, oltre che ne sono esclusi del tutto i dannati dell’inferno, che non appartengono più in alcun modo alla società di Gesù Cristo, e gli infedeli, gli eretici, gli scismatici, che non appartengono neppure essi alla vera Chiesa del divin Redentore, i poveri peccatori non vi partecipano che in modo imperfetto.

— E perché i peccatori non partecipano alla Comunione dei Santi che in modo imperfetto?

Vedi: come nel corpo il benefico influsso della circolazione del sangue in modo perfetto non si fa sentire che nelle membra che sono vive, e nelle morte, qualora ve ne sia, se non in modo imperfetto e come per riverbero, così quelli che si trovano in peccato, per la mancanza della carità e della grazia santificante essendo membri morti della Chiesa, benché non ne siano staccati, non possono ricevere perfettamente il frutto spirituale, che ricevono i membri vivi, ma possono solo essere sostenuti da Dio per le espiazioni e soprattutto per la virtù del santo Sacrificio della Messa, ed aiutati a convertirsi e a valersi del Sacramento della Penitenza, delle preghiere e delle buone opere di coloro, che sono giusti.

— Questo l’ho inteso. Ma ora mi dica un po’: se, come insegna la nostra fede, i santi del cielo stanno in relazione con loro, è bene ricorrere a loro per aiuto?

È cosa ottima ed utilissima.

— Ma non dicono i protestanti che ciò non serve, perché i Santi non si danno alcun pensiero di noi?

E ciò ti par vero? Supponi che in una società vi sia l’esercito, che combatta in paese lontano. Sarebbe credibile che i membri di quella società, che se ne stanno sicuri in patria, non si diano pensiero dei loro soldati che combattono nel paese lontano, e non pensino, massime quando ne sono richiesti, a inviar loro aiuti? Or bene, esercito di Gesù Cristo sempre in battaglia contro i nemici della nostra salute, noi imploriamo ed attendiamo dai Santi, che abitano la patria celeste, nella quale un giorno dovremo noi pure trionfare, un’assistenza necessaria ed efficace; È vuoi che i Santi facciano come certi volgari egoisti del mondo, che saliti dal basso all’alto, dalle miserie alle prosperità, dimenticano sì facilmente i parenti e gli amici rimasti allo stesso posto di prima, e non si curino punto di ascoltare ed esaudire le nostre preghiere?

— Ma non dice forse san Paolo, che un solo è il mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo?

Lo so, e questa per l’appunto è la fede nostra, checché ne dicano i protestanti, essere cioè un solo per natura il mediatore tra il cielo e la terra, un solo per natura il Salvatore del genere umano, un solo per natura il nostro avvocato presso il trono dell’Altissimo; ma ciò non toglie che altri mediatori ed avvocati vi possano essere per partecipazione e per grazia.

— Ma col rivolgerci ai Santi non facciamo affronto a Dio, quasi riconoscendo in essi e non in Dio i padroni ed i dispensatori delle grazie?

No affatto, perché noi ci rivolgiamo ai santi non come ad autori e padroni delle grazie, ma semplicemente come ad intercessori per ottenerle. Tanto è vero che la Chiesa nella S. Messa non mai si dirige con le sue orazioni ai Santi, ma si rivolge direttamente a Dio pregandolo a concederci le sue grazie per la intercessione dei Santi, e sempre per i meriti di Gesù Cristo. Il far rimettere nelle mani del re una supplica per mezzo di un suo favorito, sarà questo un affronto al re stesso e un riconoscere per autore della grazia, che si implora, il suo favorito?

— Ma se Dio è ottimo Padre, pronto sempre ad esaudirci, e Gesù Cristo per mezzo della sua passione e morte ci ha meritate tutte 1e grazie, di cui abbisogniamo, perché ancora ricorrere ai Santi?

Sì, certamente Iddio è ottimo Padre, ma noi siamo pur troppo figliuoli cattivi, ai quali può giustamente negare quello che noi gli chiediamo, per avere noi tante volte negato a Lui quello che da noi richiedeva; ed è perciò sommamente utile ad ottenere le grazie sull’interporre l’intercessione dei figliuoli santi che Iddio per la loro bontà predilige; e se Gesù Cristo basta senza alcun dubbio a meritarci ogni favore, ciò non impedisce che Egli si compiaccia di onorare i Santi, facendoci ottenere le grazie anche per la intercessioni degli stessi.

Tuttavia nella Chiesa Cattolica l’invocazione dei Santi non è forse una pratica nuova?

Tutt’altro. L’invocazione dei Santi è una pratica, che rimonta da noi sino ai primi secoli: e le chiare testimonianze di ciò si ritrovano nelle più antiche liturgie, nelle iscrizioni delle catacombe, negli atti dei martiri, negli scritti di Origene, di S. Cipriano, di Eusebio, di S. Gregorio Nazianzeno, di S. Cirilllo Gerosolimitano, scrittori tutti del ITI, IV e V secolo, nei Concili ecumenici Costantinopolitano III e Niceno II; e però ben a ragione il Concilio Tridentino comanda ai sacri Pastori di insegnare ai fedeli che « I Santi, i quali regnano con Cristo, offrono a Dio le loro orazioni per gli uomini; essere quindi cosa buona ed utile l’invocarli supplichevolmente ».

— Ma nella Bibbia non trovasi parola dell’invocazione dei Santi.

Questa è una menzogna. Nel vecchio testamento gli amici di Giobbe a lui si raccomandano, perché plachi Iddio con essi sdegnato; Mosè ed Aronne s’interpongono più volte in favore degli Israeliti prevaricatori; il popolo ebreo ricorre alle preghiere di Samuele; nel libro di Zaccaria si parla d’un Angelo, che prega Dio per i Giudei; nel libro II dei Maccabei si manifesta la cura che degli stessi presero Onia e Geremia già passati di questa vita. Nel nuovo testamento poi il Divin Salvatore compie il suo primo miracolo per intercessione di Maria; e per tacere di altro, S. Giovanni nella sua Apocalisse vede in cielo ventiquattro seniori, che prostrati dinanzi all’Agnello tengono in mano ampolle d’oro piene di soavi fragranze, che sono le orazioni dei Santi.

— Sia pur dunque cosa buona e utile invocare i Santi, ma l’onorarli come fa la Chiesa Cattolica non è una specie di idolatria?

L’idolatria è un rendere alle creature il culto supremo di adorazione dovuto a Dio solo. Ora è questo forse il culto, che noi rendiamo ai Santi? No certamente. Il culto supremo d’onore e di gloria è a Dio solo che lo rendiamo e i Santi li veneriamo soltanto, non già riconoscendo in essi altrettanti Dei, ma unicamente degli uomini sommamente di noi benemeriti e da Dio stesso grandemente amati e glorificati.

— Ma perché tributare il culto anche alle loro immagini e reliquie? In questo atto non c’è veramente il peccato d’idolatria?

Ci sarebbe se noi adorassimo le immagini e le reliquie dei Santi, come facevano i Pagani coi loro idoli, e se noi riponessimo nelle stesse una qualche fiducia. Ma se noi

baciamo e veneriamo le immagini e le reliquie dei Santi, non intendiamo forse di riferire culto e la venerazione nostra ai Santi medesimi? – Vedi strana incoerenza: si protesta che il culto delle immagini e reliquie dei Santi, ma si protesta forse contro il culto, che il soldato serba alla sua bandiera? Si protesta forse contro il rispetto, che il popolo serba alla casa, che vide nascere un uomo grande e ne raccolse l’estremo sospiro? si protesta forse contro del figlio, che guarda con riverenza una scritto del padre? si protesta forse contro la sposa, che serba con tenerezza l’anello dello sposo? contro l’amico, che tiene caro un fiore staccato dalla tomba dell’amico? contro la famiglia, che appende con affetto i ritratti dei maggiori? Ma che dico? si protesta forse contro i governi e i municipi che nei loro musei serbano e venerano capelli, calzoni, tabacchiere, bastoni, badili, e persino altri più vili istrumenti degli uomini, che si dicono grandi? Eh via! l’iniquità mentisce sempre a se stessa. – Del resto le immagini dei Santi, che noi veneriamo, ci parlano al cuore, ci ricordano le loro virtù, la loro potenza, ci stampano in mente il dovere, che noi abbiamo di imitarli, e ci spronano a seguire i loro esempi, e noi non rigetteremo giammai un culto per noi tanto utile. – I corpi poi e le reliquie dei Santi sono corpi e reliquie di coloro, che sono membra vive di Gesù Cristo e templi dello Spirito Santo per la grazia, onde furono ripieni; ed un giorno saranno con le anime glorificati in cielo, e noi non disprezzeremo giammai la voce della ragione, che ci dice di venerarli. La Chiesa in ogni tempo ebbe in uso il culto delle reliquie; i Cristiani serbarono sempre con venerazione l’arena inzuppata dal sangue dei martiri, e si gloriarono sempre d’inginocchiarsi nei santuari dinanzi agli avanzi gloriosi di quei Santi, che essi invocarono a difesa e tutela della loro patria; e Dio stesso più volte con grazie e miracoli ha mostrato come questo culto gli torni accettevole. Tutte le obbiezioni adunque, che tu hai fatte a nome del protestantesimo sia contro la invocazione, sia contro il culto dei Santi, sono obbiezioni vane, che si dissipano al più semplice ragionamento.

— Ciò è verissimo. Ma se una reliquia si venisse a riconoscere falsa?

Né avrebbe a patirne la fede, né sarebbe perduto il merito della venerazione, che le si è prestata. La certezza, per cui la Chiesa propone o permette la venerazione d’una reliquia qualsiasi, è certezza umana, vale a dire quella certezza morale, che noi ricerchiamo nelle cose della vita. Quindi è che anche allora che gli stessi Papi si occupano in certo modo del culto di qualche reliquia, scrivendone o parlandone, concedendo pure privilegi e indulgenze, essi stanno al giudizio delle persone gravi prudenti, che dopo le più accurate ricerche hanno conchiuso per l’autenticità di tali reliquie; ma non intendono con ciò di fare una definizione ex cathedra. Epperò qualora in seguito a prove irrefragabili una reliquia apparisse falsa, la fede rimarrebbe sempre integra; e il culto prestato alla medesima riterrebbe sempre il suo merito presso Dio, giacché, come ti dissi, nel culto delle immagini e reliquie non intendiamo già di onorare l’oggetto materiale, ma di rendere ossequio a Dio e ai Santi suoi.

— Benissimo! Questa spiegazione mi ha tolto dalla mente delle idee molto strambe.

CONOSCERE SAN PAOLO (40)

LIBRO QUARTO

CAPO III

GLI EFFETTI IMMEDIATI DELLA REDENZIONE

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

La redenzione degli uomini si compie in tre tempi: al Calvario, al Battesimo e alla parusia. Al Calvario essa si compie di diritto, in principio ed in potenza; al Battesimo si compie di fatto ed in atto, benché ancora imperfetta; nel giorno della parusia essa si termina e si consuma. Intrinsecamente legata alla morte di Cristo, la redenzione potenziale è indipendente dalle sue applicazioni più o meno estese e, per così dire, dal suo risultato storico. Gli effetti immediati ne sono la riconciliazione del genere umano con Dio e la vittoria del Cristo sopra i nemici dell’umanità.

I. LA RICONCILIAZIONE OPERATA

  1. L’IRA DI DIO. — 2. ASPETTI DELLA RICONCILIAZIONE.

1. Dio odia il peccato nella stessa misura con cui ama l’ordine morale, cioè infinitamente. L’odio del male gli è essenziale quanto l’amore del bene, poiché entrambi derivano dalla sua santità. Se all’offesa si aggiunge il disprezzo, l’ira di Dio si accende. È noto con quali colori immaginosi la Bibbia dipinge la collera divina. Dio monta in furore per rivendicare i suoi diritti calpestati; si slancia al combattimento come un guerriero; simile a un fuoco divoratore, dissipa e consuma i suoi nemici. Quando il suo popolo, dimentico dell’alleanza, preferisce a Lui divinità straniere, Egli si proclama il Dio geloso, e la sua gelosia si sfoga con terribili rappresaglie contro gl’infedeli e i loro seduttori. In fondo, l’ira non è più antropomorfica che l’amore, poiché essa altro non è che la reazione necessaria dell’amore offeso. Si può dunque epurare quanto si vuole il concetto della collera divina, ma bisogna guardarsi bene dall’eliminarla col pretesto che essa è incompatibile con la perfezione infinita. Appunto perché è trascendente, la perfezione infinita può abbracciare dei contrasti che, nell’essere finito, sarebbero contraddizioni. Ben lungi dall’escludere la misericordia, l’ira di Dio la suppone e la completa; essa sarà tanto più terribile, quanto più lenta è stata nel muoversi, e tanto più efficace nella distruzione del peccato, quanto più lascia aperta la porta al pentimento. Perciò gli scrittori sacri così sovente accoppiano la collera di Dio e la sua mansuetudine, il suo perdono e la sua vendetta, come se non vi fosse nulla di più conciliabile che tale contrasto. Il medesimo ordine di idee regna nel Nuovo Testamento. Senza dubbio, qui l’ira di Dio ha quasi sempre una mira escatologica ed ha come punto di convergenza il giudizio finale, chiamato per antonomasia il Giorno dell’ira; essa tende a diventare piuttosto individuale, invece di essere soprattutto collettiva; essa viene provocata da ogni infrazione al volere divino, invece di essere generalmente, come in altri tempi, provocata dalla violazione dell’alleanza. Ma lasciando da parte queste riserve che dipendono dalla differenza delle due economie, l’atteggiamento di Dio verso il peccatore resta identico. Prima della loro conversione, Ebrei e Gentili erano « naturalmente figli d’ira (Ephes. II, 3) »; ossia, secondo la forza del linguaggio biblico, degni dell’ira divina le cui terribili conseguenze pesavano su loro. I peccatori induriti « adatti alla perdizione », sono chiamati « vasi d’ira (Rom. IX, 22) » perché sono attualmente l’oggetto dell’ira di Dio, la quale si scatenerebbe immediatamente sopra di loro, se non vi fosse il contrappeso della longanimità. La Legge mosaica aggravando il peccato, « produce l’ira » (Rom. IV, 15); ogni iniquità l’attira, e il colpevole ammassa sul suo « capo tesori d’ira per il giorno della retribuzione (Rom. II, 5) ». Ma essa non è sempre neutralizzata, anche quaggiù, dalla misericordia; essa fin d’ora si scaglia contro gli Ebrei increduli (I Tess. II, 16) e applica ai Pagani, accecati dalle loro delittuose passioni, il rigore del taglione (Rom. I, 18). Non si può dunque dire che, nel Nuovo Testamento particolarmente nelle Epistole di san Paolo, l’ira di Dio sia un concetto puramente escatologico. Tuttavia, se essa comincia a manifestarsi sopra la terra, è quasi sempre controbilanciata dalla mansuetudine e soltanto nel giorno delle vendette avrà la sua manifestazione totale, universale, definitiva (Rom. II, 5). – L’ira, eccitata dall’offesa, implica necessariamente una certa ostilità della persona lesa nel suo onore e nei suoi diritti, contro la persona dell’offensore. Perciò la formula poco scritturale che « Dio odia il peccato pure amando il peccatore », non avrebbe la sanzione di san Paolo. Senza parlare della citazione di Malachia: « Ho odiato Esaù (Rom. IX, 13) », che non si può intendere di un amore relativo, l’Apostolo ci rappresenta Dio come nemico dell’uomo colpevole. È vero che Dio non diventa nemico dell’uomo se non dopo che l’uomo si è dichiarato nemico di Dio; ma da quel momento l’odio è reciproco, sebbene nell’essere infinito l’odio non escluda l’amore. « Se, essendo nemici, noi fummo riconciliati con Dio dalla morte di suo Figlio, quanto più, essendo riconciliati, noi saremo salvi nella sua vita (9)! ». Qui la parola « nemici » è opposta alla parola « riconciliati » la quale è spie spiegata con la frase « salvati dall’ira ». Egli dunque vuole designare non già l’inimicizia dei peccatori verso Dio, ma quella di cui i peccatori erano oggetto da parte di Dio: il bisogno dell’argomentazione, come pure il movimento del pensiero, impone questa esegesi: è infatti il mutato atteggiamento di Dio a nostro riguardo quello che ci garantisce l’avvenire le sue benevoli disposizioni e che colloca la nostra speranza sopra una base incrollabile. Quando Paolo, parlando degli Ebrei infedeli, dice ai pagani convertiti: Essi sono « nemici per causa vostra, secondo il Vangelo, ma amici secondo l’elezione per causa dei Patriarchi (Rom. XI, 28) », la medesima idea viene messa in luce con piena evidenza. Collettivamente e come nazione, gli Ebrei sono nel tempo stesso detestati e amati da Dio: detestati per causa del Vangelo che essi non vollero abbracciare; e tuttavia amati per causa dell’elezione gratuita di cui furono oggetto una volta, e perché sono della stirpe dei patriarchi. Se si obbietta che l’elezione teocratica è annullata in tutti i suoi effetti dall’incredulità presente d’Israele, Paolo risponde che « i doni di Dio sono senza pentimento (Rom. XI, 29) ». Israele è dunque nel tempo stesso, sotto due aspetti diversi, degno di amore e di odio: ora risente gli effetti dell’odio che lo esclude dal regno messianico; più tardi proverà gli effetti dell’amore, quando entrerà in massa nel grembo della Chiesa.

2. Questi preliminari ci portano direttamente al concetto biblico della riconciliazione. La riconciliazione è bilaterale o unilaterale, secondo che le querele sono reciproche o si trovano tutte in una sola parte: in tutti e due i casi, essa ristabilisce i buoni rapporti tra le parti opposte col sopprimere la causa del loro dissenso. Essendo il peccato un atto di ostilità diretto contro Dio, l’uomo è quello che prende l’offensiva, e Dio non fa altro che difendere il suo onore offeso; ma l’odio è reciproco, benché tali non siano i torti reali. Per conseguenza anche la riconciliazione dev’essere reciproca; e non basta che Dio deponga la sua ira, se l’uomo non prende verso Dio sentimenti nuovi. Per questa ragione la riconciliazione ora sembra una conseguenza diretta della conversione dell’uomo, ora un semplice cambiamento di atteggiamento da parte di Dio. E secondo che si considera l’uno o l’altro di questi due aspetti, si può correre il pericolo di vedere soltanto, col protestantesimo ufficiale, un atto arbitrario di Dio che dimentica il peccato senza badare alle disposizioni dell’uomo, oppure, con la scuola di Eitschl, soltanto la trasformazione graduale del peccatore di fronte a un Dio sempre egualmente ben disposto verso l’uomo, nonostante il peccato. Le parole « riconciliare » e « riconciliazione » si trovano riunite in quattro o cinque testi assai diversi tra loro (Rom. V, 10-11; Rom. XI, 15; II Cor. V, 18-20; Col. I, 20-21; Ephes, II, 16 ). Una volta la riconciliazione operata dal sangue del Cristo si dilata al punto di coprire tutto il complesso degli esseri creati: “Dio si compiacque di far abitare in lui la pienezza, e di riconciliare per mezzo di lui tutte le cose in lui, pacificando col sangue della sua croce, per mezzo di lui (dico), sia quello che vi è in terra, sia quello che vi è nei cieli” (Gal. I, 19-20). – Il senso non è oscuro, purché si voglia evitare ogni inutile complicazione. Dio, al quale appartiene sempre l’iniziativa della salute degli uomini e dei disegni della redenzione, si compiacque di mettere nel Cristo tutta la pienezza — pienezza di essere e pienezza di grazie — per pacificare e conciliare tutte le cose nel Cristo che è il centro della creazione e il vincolo che unisce tutti gli esseri. In tutti gli altri luoghi, lo sguardo dell’Apostolo non si spinga oltre la salute degli uomini, e la riconciliazione di cui parla, si fa con Dio. – “Se, quando eravamo nemici, fummo riconciliati con Dio mediante la morte di suo Figlio, quanto più, essendo riconciliati, saremo salvi nella sua vita! Ben più, noi ci gloriamo in Dio per mezzo di Nostro Signor Gesù Cristo, per mezzo del quale abbiamo ricevuto la riconciliazione” (Rom. V, 10). Dio è l’autore della riconciliazione; Gesù Cristo ne è lo strumento e la causa meritoria; l’uomo ne è il soggetto e come il recipiente. Sempre è Dio che riconcilia, e l’uomo che viene riconciliato. Non ne segue affatto che la riconciliazione sia unilaterale; ma questa maniera di parlare, certamente intenzionale, dimostra che l’iniziativa viene da Dio, che l’uomo non ha ragioni da far valere, che a lui dunque tocca ricevere la pace e non già l’offrirla. La riconciliazione infatti discende da Dio verso l’uomo e non sale dall’uomo verso Dio; essa comincia con l’abbandono delle querele del Creatore contro la sua creatura. Nemici di Dio e oggetto dell’ira sua che i nostri peccati avevano provocata e che noi non potevamo placare, fu assolutamente necessario che Dio, l’offeso, ci riconciliasse a sé. Vi è qui una finissima sfumatura di espressione che, senza sopprimere il concorso dell’uomo, lascia a Dio tutto l’onore del risultato: è per questo che l’uomo, se non ha il diritto di gloriarsi in se stesso, può gloriarsi in Dio il quale opera in lui grandi cose, ma non le fa senza di lui. Ai Corinzi, più ancora che ai Romani, l’Apostolo presenta la riconciliazione sotto i suoi molteplici aspetti: “Tutto questo viene da Dio il quale ci ha riconciliati con sé per mezze del Cristo e ci ha affidato il ministero della riconciliazione. Poiché è Dio che, nel Cristo, si riconciliò il mondo, non imputando agli uomini i loro peccati, e incaricandoci di annunziare la riconciliazione. » Noi portiamo dunque un messaggio nel nome del Cristo, come se Dio esortasse per bocca nostra. Noi ve ne scongiuriamo nel nome del Cristo: Lasciatevi riconciliare con Dio” (II Cor. V, 18). – Anche qui, come sempre, iniziativa viene dal Padre. Non è dunque l’uomo che si riconcilia con Dio, ma è il Padre che ci riconcilia con se stesso per mezzo del Cristo o nel Cristo. La riconciliazione ha diversi gradi. Anzitutto Dio, avendo costituito suo Piglio vittima di espiazione, dimentica i delitti degli uomini per riguardo a questo Figlio. Questa è soltanto ancora una riconciliazione in potenza; perché diventi attuale, s i richiede nell’uomo un movimento di ritorno verso Dio, movimento che si opera col concorso dell’uomo, alla chiamata e sotto l’impulso di Dio. Gli Apostoli sono i primi invitati alla riconciliazione della quale sono costituiti araldi e agenti, poiché ricevono l’incarico ufficiale di promulgarla e di trasmetterla. Il loro messaggio si riassume in questo: « Lasciatevi riconciliare con Dio »; oppure, se si vuole: « Siate riconciliati con Dio ». Finalmente, perché la riconciliazione sia effettiva, gli uomini devono preparare, col loro libero assenso alla fede, un terreno propizio all’azione divina. L’iniziativa del Padre celeste, messaggio apostolico e risposta dell’uomo a questo messaggio, sono le tre fasi o le tre tappe della riconciliazione. Dovunque è ricordata la riconciliazione, è Dio che la opera con la mediazione del Cristo; ma se essa comincia con un cambiamento dell’atteggiamento di Dio verso l’uomo, deve sempre essere completata con un cambiamento dell’uomo verso Dio. – Le lettere della prigionia ci presentano un concetto alquanto differente. Nell’Epistola agli Efesini sembra che una medesima parola esprima ad un tempo la reciproca riconciliazione degli Ebrei e dei Gentili tra loro, e la loro comune riconciliazione con Dio, senza che si possa dire se queste due riconciliazioni sono simultanee, oppure se l’una sia presentata come l’antecedente logico dell’altra (Ephes. VIII, 1-3). Ma la doppia riconciliazione è sempre compiuta dalla croce del Cristo e dall’unione col suo corpo mistico. Il passo dell’Epistola ai Colossesi è ancora più degno di nota (Col. I, 19-20): e in esso si tratta di una doppia riconciliazione che abbraccia ad un tempo la conversione degli uomini a Dio ed il mutuo riavvicinamento delle creature fino allora in guerra. – L’orizzonte della riconciliazione si allarga, e noi vediamo che tutte le cose ritrovano la concordia e l’armonia nel Cristo, il pacificatore universale.

II. I NEMICI VINTI.

1. IL PECCATO, LA CARNE E LA MORTE. — 2. LA LEGGE MOSAICA.

1. La morte del Cristo ha portato i suoi frutti, e il suo sacrificio non è stato vano. Perché venne egli su questa terra? Per distruggere il peccato e per abolirne le conseguenze funeste. Il suo scopo è ottenuto. – “Ora non vi è più condanna per quelli che sono nel Cristo Gesù. Difatti la legge dello Spirito di vita ti ha liberato, nel Cristo Gesù, dalla legge del peccato e della morte. Infatti — cosa impossibile alla legge, perché la carne la rendeva impotente — Dio, mandando suo Figlio nella somiglianza della carne di peccato, ha condannato il peccato nella carne” (Rom. VIII, 1-3). Questa condanna è un decreto di morte: da quel momento il peccato resta senza forza; esso non regna più sopra l’umanità, e noi siamo liberati dalla sua tirannia. Abbiamo veduto nell’Epistola ai Romani quale fu la triste condizione della nostra schiavitù e quale è stato il metodo della nostra liberazione. Se Gesù Cristo, morendo per noi, si fosse proposto soltanto di restituirci quello che Adamo ci fece perdere, la morte redentrice dovrebbe rimetterci in possesso dell’integrità e dell’immortalità originale; ma il disegno della salvezza, adottato da Dio, invece di restituirci esattamente i beni perduti, vi sostituisce qualche cosa di più eccellente. La nostra condizione attuale è migliore, ma diversa: invece di abolire il decreto di morte, Dio ci concede l’immortalità gloriosa; invece di spegnere la concupiscenza, ci dà, con la certezza di vincerla, tutto il merito della vittoria. Nell’attesa del trionfo finale, « il nostro corpo è mortale per causa del peccato », ma la morte è impotente a custodire la sua preda; noi abbiamo da lottare contro la carne, ma non ne siamo gli schiavi; l’inclinazione al male continua i suoi assalti, ma noi siamo liberi dal suo dominio. « La legge dello Spirito di vita ci ha liberati, nel Cristo Gesù, dalla legge del peccato e della morte ». La forza con cui il peccato e la morte mantenevano il loro impero, è infranta da una forza superiore, la grazia; il peccato non può più soggiogarci nostro malgrado, né la morte tenerci nella sua stretta. Ecco perché san Paolo non esita a dire che « il nostro Salvatore, il Cristo Gesù, ha distrutto la morte ed ha portato la vita e l’immortalità ». La morte è stata distrutta, o meglio resa impotente; è un risultato acquisito, un primo frutto del Calvario, un benefìcio concesso nello stesso istante in cui scaturirono le sorgenti della vita. L’effetto non è immediato, poiché è troppo evidente che gli uomini continuano a senza dubbio d’ora innanzi « né la morte né la vita non ci possono separare dall’amore di Dio nel Cristo » e « sia che viviamo, sia che moriamo, noi siamo del Signore », ma la morte conserva tuttavia un resto del suo impero; vinta dal Cristo, essa non è però annientata; essa sarà sterminata per l’ultima, tra tutte le potenze nemiche, quando, nell’ora della risurrezione, sarà assorbita nel trionfo supremo del Redentore. Novissima autem inimica destruetur mors. La morte è naturale per l’uomo, perché risulta dalla sua costituzione organica; ma nello stato di elevazione soprannaturale, essa è pure un castigo del peccato. Coloro che considerano la morte del Cristo come un debito pagato per noi, o come un castigo subito al nostro posto, qui si trovano in un imbarazzo tale, che nessuna sottigliezza di ragionamento, ne li può cavar fuori; poiché un debito già saldato una volta, non è più esigibile, e un castigo già subito una volta non s’infligge più. E cristiano non dovrebbe dunque morire, e neppure l’infedele, perché Gesù Cristo è morto per tutti gli uomini. Ma noi già sappiamo che la morte del Cristo ha per noi un altro significato e un’altra specie di efficacia. Noi non vediamo dunque nulla di contradittorio in queste due affermazioni di san Paolo: « Ora non vi è più condanna in quelli che sono nel Cristo Gesù » e « il corpo è votato alla morte per causa del peccato ». Nel nostro attuale ordine di Provvidenza, la morte è bensì una conseguenza del peccato, perché senza il peccato essa non esisterebbe; ma bisognerà anche chiamarla castigo, anche nel giusto che non è oggetto di nessuna « condanna » in quanto è « nel Cristo Gesù? ». E una questione di parole, la quale non ha grande importanza teologica. – Sta sempre il fatto che la liberazione del Cristiano non è istantanea ma progressiva: ideale al Calvario dove il Cristo disfece l’opera di Adamo per rifare in meglio le sorti dell’umanità; reale, benché imperfetta, al Battesimo quando il Cristiano comincia a partecipare effettivamente alla sorte del Cristo; completa alla risurrezione nella quale si consuma il disegno divino.

2. Con la Legge mosaica, le condizioni sono ben diverse. Siccome la sua conservazione e la sua abolizione sono indipendenti dal concorso dell’uomo, non si possono cercare momenti successivi nella sua abrogazione. Essa scompare naturalmente all’apparire del Cristo che è il fine della Legge, quando questa non ha più ragione di essere, quando si compiono le promesse inconciliabili con essa. Ma ancorché essa conservasse per principio la sua validità, il Cristiano è sottratto al suo dominio per il fatto stesso del Battesimo: “Fratelli, anche voi moriste alla Legge per il corpo del Cristo, a fine di appartenere a colui che è risuscitato dai morti, e di portare frutti per Dio. Quando noi eravamo nella carne, le passioni peccatrici, provocate dalla Legge, agivano nelle nostre membra, di modo che portavamo frutti per la loro morte. Ma ora, liberati dalla Legge e morti a quella Legge nella quale eravamo trattenuti (prigionieri), noi serviamo (Dio) nella novità dello spirito e non nella vetustà della lettera” (Rom. VII, 4-6). – Se i particolari di questo testo si prestano alla discussione, il senso generale non è dubbio. Nel Battesimo il Cristiano « muore alla Legge » che non è più nulla per lui: se era Ebreo, la Legge perde ogni suo potere sopra di lui; se era pagano, la Legge non può più esercitare sopra di lui nessuna rivendicazione. Il Battesimo è infatti una morte mistica nella quale siamo uniti al Cristo morente. Ora la morte che è il termine degli obblighi passati, estingue il nostro debito; e così la Legge di Mosè non avrà più crediti da far valere contro di noi. Questo è pure il pensiero che si cela in fondo a questo testo enigmatico: « Per mezzo della Legge io sono morto alla Legge; io sono stato crocifisso con Gesù Cristo (Gal. II, 18) ». Si capisce facilmente che il fatto di essere crocifisso con Gesù Cristo è una morte alla Legge: san Paolo ci ha familiarizzati con questa idea; ma come mai « per mezzo della Legge sono morto alla Legge? » Vi è forse connessione tra questa frase e l’inciso seguente? e in tal caso, si tratta dell’unione ideale col Cristo crocifisso sul Calvario, oppure dell’unione mistica con Lui al Battesimo? Qualunque sia la spiegazione che si voglia dare a questo testo oscuro, resta sempre il fatto che se, per ipotesi impossibile, la Legge mosaica non fosse abrogata per tutti, sarebbe abrogata per il Cristiano. – Oltre la morte del Cristiano alla Legge e la morte, per così dire, naturale della Legge divenuta decrepita per l’età, vi è anche una morte violenta della Legge, che san Paolo ci descrive in due passi di una singolare energia. I due testi presentano grandi analogie di pensiero e di espressione insieme con profonde divergenze, il che spiega il diverso scopo dell’autore. Il pensiero fondamentale è il medesimo: i pagani, che una volta erano seppelliti sotto i loro peccati, debbono all’abolizione della Legge l’essere stati vivificati nel Cristo. Ma l’abolizione della Legge è presentata ai Colossesi come la liberazione da un giogo opprimente e odioso, agli Efesini invece come la cessazione di discordie passate e come un pegno di unione tra le due frazioni della nuova umanità; infatti l’Epistola ai Colossesi vuole stabilire la libertà cristiana sotto la mediazione unica del Cristo, e l’Epistola agli Efesini ha lo scopo di mostrare la perfetta uguaglianza degli elementi che compongono il suo corpo mistico. Il quadro disegnato in quest’ultima Epistola è di una grandiosità solenne e tragica. Eccone la traduzione leggermente parafrasata: « Ricordatevi che una volta, voi pagani nella carne, trattati come incirconcisi da coloro che si chiamano circoncisi (e che tali sono) nella carne per mano dell’uomo, (ricordatevi) che in quel tempo eravate senza il Cristo, esclusi dalla teocrazia d’Israele, estranei alle alleanze della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. « Ma ora, nel Cristo Gesù, voi che eravate una volta lontani, siete stati avvicinati nel sangue del Cristo. « Poiché egli è la nostra Pace, egli che di due (popoli) ne ha fatto uno solo, avendo rovesciato il muro di separazione, (la causa dell’inimicizia, e annullato nella sua carne (immolata) la legge dei precetti (consistente) in ordinazioni (molteplici), a fine di formare in se stesso un solo uomo nuovo con i due (popoli) che Egli ha pacificati, e di riconciliare l’uno e l’altro in un solo corpo per mezzo della croce, distruggendo per mezzo di essa l’inimicizia. « Ed è venuto ad annunziare la pace a voi che eravate lontani, e la pace (anche) a quelli che erano vicini; poiché per mezzo di Lui noi abbiamo accesso gli uni e gli altri presso il Padre, in un medesimo Spirito (Ephes. II, 13) ». Il pensiero che si può ricavare da questo periodo così carico d’incisi, è in fin dei conti abbastanza semplice. L’Apostolo si rappresenta i due popoli la cui riunione formerà la Chiesa, gli Ebrei e i Gentili, come separati tra loro da una barriera insormontabile e animati l’uno contro l’altro da inimicizie irreconciliabili. La barriera è la Legge; la causa dei sentimenti ostili è ancora la Legge. Infatti la Legge dava agli Ebrei tutti i privilegi: speranze messianiche, teocrazia, alleanze divine, conoscenza del vero Dio. I Gentili, estranei a tutto questo, erano trattati con disprezzo dai figli della circoncisione; e, cosa ancora più grave, erano senza il Cristo, senza Dio, senza speranza. Essi erano lontani dagli Ebrei in tutte le maniere, e l’ostilità reciproca che regnava tra loro, aumentava ancora di più la distanza. L’idea che domina nella mente di Paolo, nello scrivere queste righe, è il disegno di Dio, di costituire con questi elementi eterogenei, una sola famiglia, un a sola casa, che sarà la Chiesa, una sola persona morale, un solo corpo, che sarà il Cristo mistico. Nel tempo stesso la sua mente è assediata da due testi scritturali che hanno col suo argomento una meravigliosa relazione; l’uno di Michea il quale predice che il Messia sarà la Pace, cioè il pacificatore per eccellenza, l’altro di Isaia il quale dice che il Messia porterà la pace a quelli che sono vicino e a quelli che sono lontano. Come si compirà questa doppia profezia? Eliminando tutte le cause di odio e di discordia, sopprimendo la distanza che separava i due popoli, rovesciando la barriera che li divideva, e la quale altro non era che la Legge mosaica con i suoi onerosi e odiosi privilegi. Gesù Cristo compie tutto questo fondendo i due popoli in uno solo, nell’identità del suo corpo mistico. La legislazione antica aveva oppresso gli Ebrei col suo intollerabile peso, e per i Cristiani della gentilità è un benefìcio insigne l’esserne liberati: questo essi devono al Cristo: Voi eravate morti per le vostre offese e per l’incirconcisione della vostra carne, voi Dio ha fatto rivivere con lui (il Cristo), perdonandoci tutte le nostre offese, scancellando l’atto dei precetti (scritto) contro di noi, che era contrario a noi; e lo ha fatto scomparire inchiodandolo alla croce (Col. II, 13-14). È cosa assolutamente certa che « l’atto autentico consistente in precetti » indica la Legge di Mosè. Tale atto era scritto « contro » gli Ebrei perché loro imponeva numerosi e rigorosi doveri e li esponeva, in caso di violazione, a severi castighi; esso era loro « contrario » per le medesime ragioni e anche perché ritardava l’adempimento delle promesso messianiche. Non era poi meno contrario ai Gentili che escludeva dalla teocrazia. Perciò « il codice dei precetti » è annullato; Dio lo fa scomparire affinché nessuno se ne possa valere contro i discepoli del Cristo; egli lo inchioda alla croce del Salvatore, come per punirlo del male che ha fatto e per dare maggiore pubblicità alla sua abrogazione. La Legge che portava in se stessa tanti germi di caducità, muore qui di morte violenta, e la sua tirannia finisce: « Nessuno vi giudichi in fatto di cibi o di bevande, o in ciò che riguarda le feste o le neomenie o i sabbati: questa è l’ombra delle cose future (Col. II, 16) ». La Legge mosaica termina su la croce la sua drammatica carriera: essa ha ucciso il Cristo, e il Cristo alla sua volta la uccide.

CONOSCERE SAN PAOLO (39)

LIBRO QUARTO

CAPO II.

La morte redentrice.

III. SINTESI DOTTRINALE.

1. IL PRINCIPIO DELLA SOLIDARIETÀ. – 2. VALORE SOTERIOLOGICO DELLA RISURREZIONE DEL CRISTO, – 3. UNITÀ E ARMONIA DELLA DOTTRINA DI PAOLO.

 [F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Quanto siano varie multipli gli aspetti della redenzione, si è potuto vedere dalle pagine che precedono. Tutti questi aspetti sono giusti in una certa misura, tutti devono essere messi in vista e non possono essere messi in vista se non uno dopo l’altro; ma tutti sono incompleti, e appunto perché furono isolati, esagerandosi l’uno a detrimento degli altri, si immaginarono sistemi contradittori, insufficienti nella loro strettezza e falsi soprattutto per il loro esclusivismo. Ciascuno di essi rappresenta una parte della verità, ma non tutta intera la verità. La teoria del riscatto è giusta, perché il peccato ci costituiva realmente debitori verso Dio, e noi non eravamo in grado di pagare il nostro debito; ma questo debito non viene pagato per noi da un estraneo: è lo stesso genere umano che lo paga per mezzo di Gesù Cristo suo rappresentante. La teoria della sostituzione è giusta, perché il Cristo subì per noi una pena che Egli non meritava; ma la sostituzione è incompleta, perché Colui che espia le nostre colpe è il capo della nostra famiglia, e così anche noi le espiamo in Lui e per mezzo di Lui. La teoria della soddisfazione è giusta, ma a condizione che non si appoggi esclusivamente sopra una sostituzione di persone, poiché un affronto non si può dire veramente scancellato, se non quando l’offensore prende parte alla riparazione come ebbe parte nell’offesa. Per conseguenza, qualunque via si prenda, se non ci vogliamo fermare a mezza strada, si deve sempre arrivare al principio della solidarietà. Questo principio rivelatore non solamente fu veduto, ma fu chiaramente formulato dai Padri della Chiesa. Tutti dicono con espressioni equivalenti, che Gesù Cristo dovette diventare quello che siamo noi, affinché noi diventassimo ciò che è Lui; che Egli si incarnò, affinché la liberazione avvenisse per mezzo di un uomo, come per mezzo di un uomo era avvenuta la caduta; che il Cristo, in quanto è redentore, riassume e compendia tutta l’umanità; che Dio volle rialzare la nostra natura per mezzo di essa medesima e con le sue facoltà, in grazia del Verbo fatto carne. Parecchi di essi, ben lungi dal non riconoscere il principio della solidarietà, sembra che ne esagerino anzi l’applicazione. I teologi moderni entreranno anch’essi sempre di più in quest’ordine d’idee: i Cattolici per cercarvi un complemento necessario alla dottrina della soddisfazione; i protestanti per cercarvi un correttivo non meno necessario alla teoria della sostituzione della quale essi conservano religiosamente la terminologia. È un buon sintomo: si va gradatamente verso una concezione della morte redentrice, la quale risolve numerose difficoltà e finirà con mettere d’accordo tutti quelli che attribuiscono alla redenzione un valore oggettivo. Noi vedremo che essa interpreta bene il pensiero dell’Apostolo. – “L’amore del Cristo ci spinge, quando noi consideriamo: che se Uno è morto per tutti, dunque tutti morirono; e che Uno è morto per tutti affinché coloro che vivono non vivano più per se stessi, ma per Colui che è morto e risuscitato per loro”. (II Cor. V, 14-15) La teoria della sostituzione penale obbligherebbe a conchiudere: Se uno è morto per tutti, dunque gli altri non hanno più da morire. San Paolo invece conchiude l’opposto: « Se uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti » idealmente e misticamente in Lui e con Lui. La ragione è che egli parte dal principio della solidarietà che della morte del Cristo fa la nostra morte, e della vita del Cristo la nostra vita. Invece di scrivere: « Uno è morto al posto di tutti »; egli scrive, forse con intenzione: « Uno è morto in favore ed a vantaggio di tutti. I commentatori che, indotti dall’autorità di sant’Agostino, intendono questa morte del peccato originale, vanno incontro a difficoltà inestricabili. La loro spiegazione è rigettata dalla stessa grammatica, poiché san Paolo non dice: « Se uno è morto per tutti, dunque tutti erano morti » prima di Lui, ma dice: « Se uno è morto per tutti, dunque tutti morirono » simultaneamente e per il fatto medesimo. Del resto che cosa verrebbe a fare qui il peccato originale, supposto anche che il peccato originale, senz’altra qualifica, si possa chiamare morte? E come mai il ricordo del peccato originale stimolerebbe l’abnegazione degli Apostoli? Al contrario, è facile capire che la morte mistica con Gesù Cristo c’impone il dovere di vivere in Lui e di modellare i nostri sentimenti sopra i suoi. Finalmente l’interpretazione di sant’Agostino ha come punto di partenza un errore di fatto suggerito dalla versione latina. Nella frase Et prò omnibus mortuus est Christus, per l’interpolazione della parola Christus, la congiunzione sembrerebbe quasi riprendere l’argomento lasciato incompiuto; ora non è così: il ragionamento è completo nella prima frase, e la copulativa introduce soltanto una seconda considerazione atta a sostenere l’Apostolo nella via della rinunzia. Per conseguenza il testo intero non desta l’idea di sostituzione, ma quella di solidarietà. Infatti perché Gesù Cristo ci associ alla sua morte, bisogna che noi formiamo con Lui una sola cosa nel momento in cui Egli muore per noi. Senza dubbio noi siamo associati al Cristo morente soltanto in una maniera ideale, in quanto Egli è nostro rappresentante, ma la sua morte si realizza misticamente in noi per mezzo della fede e del Battesimo, e san Paolo ci ha abituati a questo linguaggio: « Come tutti muoiono in Adamo », idealmente nell’Eden, nell’atto stesso della disobbedienza, e poi realmente, per il fatto della generazione naturale, « così tutti saranno vivificati nel Cristo », idealmente e in potenza, al Calvario, realmente e in atto, per il fatto della rigenerazione soprannaturale. È sempre il principio della solidarietà quello che viene fatto risaltare in un altro passo di un’arditezza che stupisce: « Colui che non conosceva il peccato, Dio lo ha fatto peccato per noi. Affinché noi diventassimo giustizia di Dio in Lui (2II Cor. V, 21) ». L’Apostolo ha detto prima: « Noi vi supplichiamo in nome del Cristo, riconciliatevi con Dio ». Ora si affretta a soggiungere che questa riconciliazione è possibile e facile, perché Dio ha fatto il primo passo ed ha preparate le vie. Il pensiero prende dunque questa forma paradossale: Per una sublime condiscendenza da parte di Dio, il giusto diventa peccato, affinché i peccatori diventino giustizia. Anche qui non vi è propriamente sostituzione di persone, ma vi è solidarietà di azione. Il peccato non è trasferito dagli uomini al Cristo, ma si estende dagli uomini sul Cristo rappresentante della natura umana; così pure la giustizia di Dio non è trasferita dal Cristo agli uomini, ma dal Cristo si estende agli uomini, quando questi, per mezzo della filiazione adottiva, rivestono la natura divina. Questa idea è espressa più chiaramente nel secondo inciso, perché noi non diventiamo giustizia di Dio se non nel Cristo, cioè in quanto siamo uniti con Lui; ma i due membri del periodo sono paralleli e si devono spiegare l’uno con l’altro. L’Apostolo, nel servirsi dei termini generici « peccato » e « giustizia », non adopera qui precisamente l’astratto per il concreto, che qui non potrebbe stare; egli vuole esprimere una nozione collettiva. Gesù Cristo, come capo del genere umano, del quale rappresenta la causa e abbraccia gli interessi, personifica il peccato; Egli è fatto « peccato per noi », non già al nostro posto, ma a nostro vantaggio, perché col rendersi solidale della nostra sorte, ci ha associati al suo destino: così diventando peccato per noi, ci fa diventare giustizia di Dio in Lui. Gesù Cristo non è né peccato né peccatore-personalmente, ma come membro di una famiglia peccatrice con la quale forma una cosa sola. Nello stesso senso egli diventerà « maledizione », come ramo di un albero maledetto. Similmente, per causa della nostra unione con Colui che è la stessa giustizia, noi partecipiamo alla sua « giustizia ». Gesù essendo di sua natura impeccabile, non può essere reso peccatore dal suo contatto con i peccatori, mentre la nostra unione morale col Giusto per eccellenza, rende veramente giusti noi medesimi. E questa giustizia, perché deriva dalla grazia e non da noi, con ragione è chiamata « giustizia di Dio ». – Lo stesso ordine di idee si trova, presso a poco, in questo passo dell’Epistola ai Galati: “Il Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge diventando per noi maledizione — poiché sta scritto: Maledetto è chi pende dal legno (del patibolo) — per far giungere ai Gentili la benedizione di Abramo in Gesù Cristo, per farci ricevere per mezzo della fede la promessa dello Spirito (Gal. III, 13). San Paolo ha detto prima, che tutti coloro i quali dipendono dalle opere della Legge, che mettono esclusivamente in essa la loro fiducia, sono sotto la maledizione. Infatti la Legge maledice tutti i suoi trasgressori e non offre il mezzo di sfuggire alla maledizione da essa pronunziata. Bisogna dunque che il Cristo intervenga per togliere questa maledizione, poiché essa è incompatibile con la benedizione di cui il loro padre Abramo li ha costituiti eredi presuntivi e di cui i Gentili non avranno il benefizio se non dopo che gli Ebrei saranno atti a riceverla. In che modo si diporterà il Salvatore? Per salvare gli uomini, Egli si era caricato del loro peccato, o piuttosto era entrato in comunione con la loro natura peccatrice; similmente per salvare gli Ebrei — ed i Gentili dopo gli Ebrei — Egli si carica della loro maledizione, o meglio si rende partecipe della loro maledizione. La maledizione che pesa sopra di Lui è ben diversa da quella che pesa sopra gli Ebrei: tutte e due sono pronunziate dalla Legge, ma questa è reale, e quella apparente; l’una è valida agli occhi di Dio, l’altra ha valore soltanto nella stima erronea degli uomini; l’una deriva da una trasgressione della Legge, l’altra risulta da un fatto esteriore senza rapporti con la Legge; l’una ha per effetto la giusta morte del colpevole, l’altra ha per causa la morte ingiusta di un innocente. Non bisogna completare arbitrariamente il pensiero di Paolo, col rischio di falsarlo o di svisarlo. Paolo non insinua punto che la Legge, nel maledire a torto l’innocente, perda poi il diritto di maledire i colpevoli; né che la Legge, ottenendo la morte del Cristo, riceva quanto le è dovuto e non abbia più nulla da esigere: queste sono pure fantasie degli esegeti ridotti a mal termine. Più semplice e meno enigmatico è il pensiero dell’Apostolo. La maledizione, materialmente pronunziata dalla Legge ed accettata dal Salvatore, non è il mezzo, ma la condizione della nostra salvezza. In altri termini, Gesù Cristo non libera gli Ebrei dal giogo della Legge col fatto stesso che prende sopra di sé la maledizione della Legge, ma prende sopra di sé la maledizione della Legge per rendersi idoneo a liberare gli Ebrei dal giogo della Legge. E perché? Perché, secondo san Paolo, come pure secondo il redattore dell’Epistola agli Ebrei, nel nostro ordine di Provvidenza nel quale la redenzione si opera secondo il principio della solidarietà, Gesù Cristo dev’essere uomo per riscattare gli uomini, soggetto alla Legge per liberare i soggetti alla Legge, membro di una famiglia peccatrice per salvare i peccatori, rivestito della carne per vincere la carne nel suo stesso dominio, strettamente associato ai colpevoli per far riversare su loro la sua giustizia, in una parola, soggetto a tutte le nostre infermità e a tutte le nostre miserie, per poter essere il pontefice ideale, capace di aprirci le porte del cielo.

2. Questo ci porta a una constatazione della più alta importanza, voglio dire il valore soteriologico della risurrezione: « Il Cristo fu dato per causa delle nostre colpe e fu risuscitato in vista della nostra giustificazione (Rom. IV, 25) ». Il primo inciso è una citazione tacita di Isaia, e il contesto indica che si tratta del Messia dato alla morte come rimedio ai peccati del popolo. Questa è un’idea familiare a tutto il Nuovo Testamento. Gesù Cristo diede se stesso alla morte (Gal. II, 2°; Ephes. V, 2), e se Egli fu dato alla morte da Giuda e dagli Ebrei (Matth. XX, 19; Giov. XX, 11), vi fu dato pure da suo Padre (Rom. VIII, 22; Giov. III, 16). Questo ultimo significato è qui imposto dal parallelismo. Il Cristo fu dato da Dio per causa delle nostre colpe che la sola sua morte, nell’ordine attuale della provvidenza, poteva espiare. Qui non vi è difficoltà. Ma perché mai Egli fu risuscitato in vista della nostra giustificazione, oppure, il che poi viene a dire la stessa cosa, perché Dio lo risuscitò in vista della nostra giustificazione? Non è già che il Cristo ci abbia meritata la giustificazione col risuscitare, poiché dopo la sua morte non poteva più meritare. Neppure sarà perché la remissione dei peccati e la giustificazione siano separabili; se è lecito distinguerle come il lato positivo e il lato negativo della nostra salvezza, non si possono però disgiungere in modo che l’una possa mai stare senza l’altra. Certi autori eterodossi propongono questa esegesi: « Gesù Cristo è giustificato nella sua risurrezióne, e anche noi, per causa della nostra intima unione con lui, siamo giustificati nello stesso tempo (Candlish, Everett, Otto, Menègoz, etc.) ». Che confusione d’idee e che guazzabuglio! Come mai Gesù Cristo è giustificato alla sua risurrezione? Forse perché allora Dio lo proclama giusto? Ma non lo aveva già proclamato giusto durante la sua vita mortale e particolarmente al suo battesimo? Sarà forse perché allora Egli appariva giusto agli occhi degli uomini? Ma che relazione può avere questo con la nostra giustificazione? La spiegazione seguente, benché abbia sedotto qualche autore cattolico, non è però migliore: « Come i nostri peccati portarono moralmente alla morte del Cristo, così la nostra giustificazione ha portato moralmente alla sua risurrezione. La nostra condanna lo aveva ucciso, la nostra giustificazione lo ha risuscitato (Godet et al.) ». Che cosa significa questo enigma? Si vuole forse dire che, dopo di averci giustificati morendo per noi, il Cristo non aveva più ragione di restare nella morte, e che dunque noi, una volta giustificati, siamo in certo modo le cause involontarie della sua risurrezione? Ma come mai questo commento così stiracchiato si può trarre dalle parole di san Paolo? Parecchi interpreti cattolici, seguendo le orme di sant’Agostino, cercano la chiave del mistero in questo fatto, che essendo la risurrezione del Salvatore, il fondamento della nostra fede ed il motivo principale di credibilità, se Gesù Cristo non fosse risuscitato, noi non crederemmo in Lui e, non credendo in Lui, non saremmo giustificati; oppure in quest’altro fatto, che il Vangelo, nei disegni di Dio, doveva essere predicato soltanto dopo la risurrezione del Cristo, e che perciò la nostra fede — e per conseguenza la nostra giustificazione — dipendono da essa. Ma il vincolo stabilito tra la risurrezione del Cristo e la nostra giustificazione — il secondo soprattutto — è troppo fragile, troppo esteriore, troppo superficiale, e come si può supporre che l’Apostolo lasci tante cose da leggersi tra le righe? San Giovanni Crisostomo stringe più da vicino la questione. Per lui, la morte e la risurrezione del Cristo non sono altro che i due aspetti di un medesimo atto redentore, tanto che gli effetti della redenzione si possono indifferentemente attribuire all’una e all’altra. Se la nostra giustificazione è attribuita alla risurrezione piuttosto che alla morte, si è perché, dirà san Tommaso, nella sua morte Gesù Cristo è causa meritoria, e nella sua risurrezione è causa esemplare della nostra giustificazione; Egli è dunque risuscitato per servirci come modello nell’acquisto di una nuova vita. Tutto questo ci appare già assai conforme allo spirito di Paolo; però forse vi manca ancora un ultimo tocco. – Gesù Cristo non veniva su questa terra semplicemente per morire, ma veniva per unirci a Lui e per associarci al suo trionfo. Non gli bastava dunque il morire per noi, ma doveva anche risuscitare per noi (II Cor. V, 15). La morte è appena la metà dell’opera redentrice ed esige la risurrezione come suo complemento necessario. Infatti la giustificazione di ciascuno di noi è prodotta dalla fede e dal Battesimo; ora è facile il vedere come la risurrezione di Gesù influisca sopra queste due cause; poiché la nostra fede nel Cristo non è una fede nel Cristo morto, ma nel Cristo vivente, nel Cristo risuscitato; e il Battesimo non è solamente il simbolo efficace della morte del Cristo, ma anche quello della sua vita gloriosa. Dunque l’atto e il rito che ci incorporano al Cristo sono messi in relazione costante con la sua risurrezione. Nel nostro medesimo testo, l’Apostolo ha detto prima, che la fede ci sarà imputata a giustizia, come fu imputata ad Abramo, « se crediamo in Colui che ha risuscitato dai morti Gesù Cristo nostro Signore (Rom. IV, 24) ». E poco dopo dice: « Se tu confessi con la bocca il Signore Gesù e se credi nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, tu sarai salvo (Rom. X, 9; cfr. II, 24; I Tess. IV, 14) ». Senza la risurrezione, la fede non ha il suo vero oggetto; senza la risurrezione, il Battesimo non ha il suo completo simbolismo. Nel Battesimo infatti noi moriamo e risuscitiamo con Gesù Cristo: moriamo misticamente con Lui in quanto siamo associati alla sua morte, e risuscitiamo in quanto siamo sacramentalmente associati alla sua risurrezione. Se si sopprime la risurrezione, il Battesimo e la fede medesima, che non giustifica senza qualche relazione col Battesimo, perdono il loro significato e perciò la loro efficacia. Questa è una delle ragioni per cui Gesù Cristo « risuscita » in vista della nostra giustificazione. – Ma ve n’è un’altra più profonda. Che la risurrezione del .Cristo sia per noi il più saldo motivo della nostra fede, la condizione provvidenziale della missione degli Apostoli, il pegno sicuro della nostra risurrezione; che essa sia per Lui la giusta ricompensa dei suoi meriti, il risultato naturale della sua pienezza di grazie, la degna incoronazione dell’opera redentrice; che essa sia per Dio il sigillo messo alla redenzione, una dichiarazione di pace fatta agli uomini, l’espressione del suo favore finalmente ricuperato, queste sono verità ammesse da tutti. Ma essa è ancora più e meglio di tutto questo: essa è intimamente legata al frutto della morte redentrice e al dono dello Spirito Santo. Al momento della risurrezione Gesù Cristo diventa « spirito vivificante (I Cor. XV, 45) ». Prima egli aveva bensì lo Spirito nella sua pienezza; ma lo Spirito che abitava in Lui, impedito dalle limitazioni inerenti all’economia della redenzione, non poteva esercitarvi tutto il suo potere vitale. Soprattutto il Cristo stesso non era ancora in grado di comunicare agli altri la pienezza della vita; questo privilegio aveva per condizione, che prima avvenissero la morte e la risurrezione. « Per voi conviene che io me ne vada, aveva detto Gesù; perché se Io non me ne vado, il Paraclito non verrà a voi; ma se Io me ne vado, ve lo manderò (Giov. XVI, 18) ». E siccome col Paraclito Egli stesso doveva venire, soggiungeva: « Io non vi lascerò orfani ma verrò a voi (Giov. XIV, 18) ». San Paolo esprime la stessa cosa in questa forma concisa ed enigmatica: il Cristo glorificato diventa « spirito vivificante »; Egli diventa per i suoi una fonte perenne di grazie e di vita. « L’opera del Cristo comprende due cose: quello che ha fatto per tutti gli uomini e quello che fa per ciascuno di essi; quello che ha fatto una volta per sempre e quello che continua a fare senza interruzione; quello che ha fatto per noi e quello che fa in noi; quello che ha fatto sopra la terra e quello che fa in cielo; quello che ha fatto in Persona e quello che fa per mezzo del suo Spirito: Egli riconcilia offrendo se stesso sopra la croce, giustifica col mandarci il suo Spirito (Newman:   … Justif. Londra 1892, IX, 1) » ed operando Egli stesso in noi come spirito.

3. Questo doppio compito complementare spiega naturalmente la curiosa dualità rilevata con compiacenza da molti teologi eterodossi (Holtzmann). Secondo questi, san Paolo avrebbe due teorie della redenzione, differenti se non disparate, le quali ora corrono parallele tra loro senza nessuna tendenza ad unirsi, ora invece si avvicinano fino a toccarsi ed a confondersi; l’una che si può chiamare giuridica perché è fondata sul principio della compensazione, della sostituzione penale e della soddisfazione vicaria, attribuisce alla morte del Cristo un valore oggettivo, indipendente dall’applicazione individuale; l’altra che si chiamerà morale perché è fondata sul fatto del rinnovamento interiore, riconosce alla redenzione solamente un valore soggettivo, in quanto l’uomo se lo appropria con la fede e con l’unione al Cristo. Nella prima, la riconciliazione avviene fuori dell’anima e si compie in virtù di una specie di contratto tra Dio e l’umanità, col Cristo come mediatore; nella seconda, è invece un prodotto della stessa coscienza. La teoria giuridica opera con le idee di espiazione, di propiziazione, di sacrificio, di sostituzione, insomma, con le categorie del giudaismo popolare, ed è un residuo dell’educazione farisaica di Saulo; la teoria morale dipende piuttosto dal pensiero ellenico e riflette l’esperienza religiosa di Paolo, dopo la trasformazione che si compì in lui sulla via di Damasco. Questa medesima dualità si ritroverebbe ancora nella spiegazione dell’origine del peccato, ora collegata al fatto storico della prima caduta, ora riferita al determinismo psicologico della carne; essa si ritroverebbe pure nel concetto della giustificazione, della salute, del giudizio; insomma, essa dominerebbe tutto quanto l’insegnamento dell’Apostolo. – Parecchi dichiarano che è impossibile la conciliazione, e sostengono che la sintesi così fatta non si trovava nella mente di Paolo; altri si sforzano di risolvere l’antinomia, ma lo fanno con sopprimere uno dei due aspetti; alcuni sono di parere che bisogna lasciare ai due sistemi la loro indipendenza, senza cercare di fonderli insieme o di subordinarli l’uno all’altro, per timore di snaturarli col tentativo di unirli. Questi scrupoli a noi sembrano vani. San Paolo infatti ebbe cura di confrontare i due aspetti dell’opera redentrice e di farne vedere gli stretti rapporti: « Noi siamo giustificati gratuitamente dalla grazia di Dio, mediante la redenzione che è nel Cristo Gesù. Dio lo ha esposto come propiziazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, per mostrare ora la sua giustizia, a fine di essere (riconosciuto) giusto e fonte di giustizia per chiunque crede i n Gesù (Rom. III, 24-26) ». Secondo questo passo, concorrono all’opera redentrice tre iniziative di Dio, tre operazioni del Cristo, tre sentimenti dell’uomo. Dio, vedendoci incapaci di uscire da noi medesimi dal peccato, decreta di giustificarci gratuitamente: questa è l’iniziativa della grazia. Egli decide di stabilire il Cristo come strumento della propiziazione e di esporlo come tale agli sguardi del mondo: questo è il trionfo della sapienza. Egli vuole anche dimostrare che è giusto e che fu sempre giusto, nonostante l’apparente sua indifferenza di altri tempi verso il peccato: questa è la rivendicazione della giustizia. Il Cristo per parte sua opera la redenzione, ossia la liberazione dei peccatori; e questa redenzione, ben lungi dall’essere contraria alla grazia, agisce d’accordo con essa. Egli opera la propiziazione quando, espiando il peccato che innalzava una barriera tra Dio e noi, ci rende Dio propizio. Egli opera la redenzione e la propiziazione in qualità di vittima: l’efficacia della salute è nel suo sangue. L’uomo pertanto non rimane passivo; l’affare della sua salvezza non si conchiude senza di Lui: il suo contributo è la fede, la fede nel Cristo salvatore; egli medita la lezione del Calvario e comprende che deve corrispondere a tanto amore con la riconoscenza; finalmente, davanti a tale dimostrazione della giustizia divina, egli impara a temere l’ira di Dio ed a confidare nella sua misericordia. – In questo modo la dottrina della redenzione forma un tutto coerente i cui aspetti più diversi si armonizzano tra loro. Il fatto del rialzamento è in un rapporto esatto con la storia della caduta: il Calvario è la ripetizione dell’Eden; l’umanità cade e si rialza nel suo rappresentante; un atto di disobbedienza la perde, e un atto di obbedienza la salva. Quanta luce di qui si diffonde sopra l’unità del disegno della redenzione, sopra la fraternità umana e sopra la comunione dei santi! Dio non è più il creditore avido di riavere quello che gli è dovuto, né il sovrano geloso di vendicare a qualunque costo i suoi diritti; ma è il Padre infinitamente buono, santissimo, giustissimo e sapientissimo il quale, nel suo ostinato amore per l’uomo colpevole, prende l’iniziativa di salvarlo e mette in opera la sua onnipotenza per eseguire un disegno che concilia nel miglior modo tutti i suoi attributi: bontà, santità, giustizia e sapienza. Gesù Cristo è sempre la vittima il cui sangue espia il peccato, opera la propiziazione, suggella l’alleanza e apre il cielo; ma non è più una vittima inerte, dotata di una specie di virtù magica; il suo sangue, per quanto prezioso, ha valore soltanto per la libera e amorosa offerta che Egli ne fa a suo Padre, in nome dell’umanità contenuta in Lui come nel suo capo. Non si tratta più di una sostituzione mediante la quale l’innocente subirebbe il castigo del colpevole, ma di una condiscendenza sublime che porta il Figlio di Dio a identificare la sua causa con quella dei peccatori; non si tratta neppure di una soddisfazione esterna data a Dio per strappargli il perdono dei colpevoli, ma di un omaggio filiale che, per mezzo di Gesù Cristo, il genere umano presenta a Dio, e che Dio gradisce perché Egli stesso ne ebbe l’iniziativa e vi ha la parte principale. – La risurrezione di Gesù non è più un lusso soprannaturale offerto all’ammirazione degli eletti, né una semplice ricompensa data ai meriti di Lui, e neppure soltanto il sostegno della nostra fede e il pegno della nostra speranza; essa è un complemento essenziale e una parte integrante della stessa redenzione. Finalmente l’uomo non è più il testimonio passivo di un dramma che si svolgerebbe senza di lui e dove egli non avrebbe nessuna parte: egli muore idealmente sul Calvario col Cristo che muore, e rivive misticamente in Lui nell’atto di fede e nel sacro rito che gli applicano i frutti della morte redentrice. La redenzione degli nomini si compie in tre tempi: al Calvario, al Battesimo e alla parusia. Al Calvario essa si compie in diritto, in principio e in potenza; nel Battesimo si compie di fatto e in atto, benché ancora imperfetta; nel giorno della parasta essa si termina e si consuma. Intrinsecamente legata alla morte del Cristo, la redenzione potenziale è indipendente dalle sue applicazioni più o meno estese e, per così dire, dal suo risultato storico. Gli effetti immediati ne sono la riconciliazione del genere umano con Dio e la vittoria del Cristo sopra i nemici dell’umanità. [Continua …]

 

CONOSCERE SAN PAOLO (38)

LIBRO QUARTO

CAPO II.

La morte redentrice.

II. IL VALORE DELLA MORTE REDENTRICE.

1. VALORE SOGGETTIVO O MORALE. — 2. TRE SPIEGAZIONI DEL VALORE OGGETTIVO: RISCATTO, SOSTITUZIONE, SODDISFAZIONE. — 3. DOTTRINA DEI PADRI.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. La passione del Cristo è una manifestazione che, nei disegni di Dio, dev’essere riconosciuta e apprezzata dagli uomini. Quando la coscienza del peccatore è obliterata, gli fa bisogno una nuova rivelazione della santità divina, e Dio gli dà questa nuova rivelazione nello spettacolo del Giusto che porta la pena del peccato altrui. Ma se il giusto che soffre per il colpevole fosse puramente passivo e non accettasse, con sommissione filiale, il compito di mediatore, il suo patire non sarebbe un reale omaggio alla santità infinita. « La soddisfazione offerta alla giustizia divina dal sacrificio del Cristo, non consiste dunque solamente nella morte, ma nella morte unita con i due fatti morali che l’accompagnano, uno dei quali si compie nella coscienza del mediatore, e l’altro nella coscienza del credente (Godet) ». Tale è la spiegazione, meno nuova forse di quanto si pensano, che ci propongono certi teologi moderni. Il pericolo e l’errore starebbero nel credere che essa illumini tutto il mistero o che esaurisca l’argomento: essa anzi lo esaurisce così poco, che la passione del Cristo — sempre nell’ordine dell’efficacia soggettiva — si può con altrettanto buon diritto considerare come un esempio di abnegazione e come uno stimolo dell’amore. Il dramma del Calvario, a tutti i cuori nobili, parla un linguaggio assai eloquente: se il Cristo è morto per noi che non eravamo nulla per Lui, quanto più noi dobbiamo vivere per Lui che per noi è tutto! e se il Cristo diede la sua vita per estranei, quanto più noi dobbiamo spendere il nostro per i nostri fratelli! Gesù nel darsi per noi, voleva che questo esempio di abnegazione non andasse perduto; Egli voleva vincere così il nostro egoismo, ed è questa una delle considerazioni che l’Apostolo fa valere quando dice che l’amore del Cristo lo spinge e non gli lascia riposo (II Cor. V, 14-15). Gesù Cristo non ci riscatta altrimenti che con identificarsi alla nostra razza, e noi non abbiamo parte alla sua redenzione se non con l’identificarci con Lui per mezzo della fede: di qui risulta l’imperioso dovere di conformarci alla sua condotta e di modellarci sopra la sua vita. Quando san Pietro stabilisce il gran principio dell’imitazione di Gesù Cristo, fondato sopra l’esempio della sua passione (I Piet. II, 21), si trova in armonia perfetta con san Paolo che si compiace di proporre come modello, ai neofiti, il Crocifisso (Fil. II. 8) del quale egli medesimo si sforza di riprodurre lo stato di morte (II Cor. IV, 10) e del quale è fiero di portare nel suo corpo l’immagine sanguinosa (Gal. VI, 17). È dunque cosa evidente, che la morte redentrice ha per noi il valore di un esempio, di una lezione e di un incoraggiamento. Il grave errore dì Abelardo fu di credere che essa fosse soltanto questo: una manifestazione di amore destinata a produrre in noi una reazione di amore. Se il sistema di Abelardo è talora nebuloso, la professione di fede che gli fu imposta, la ritrattazione del suo antico discepolo Goffredo di Chiaravalle, le confutazioni di san Bernardo e di Guglielmo di Saint-Thierry, lo rischiarano e lo precisano. Poco seguito dai contemporanei e quasi caduto nell’oblio, fu risuscitato da Socino e dai suoi seguaci; ma tale patrocinio compromettente non era tale da poterlo raccomandare agli occhi dei protestanti, e meno ancora a quelli dei Cattolici. Chi gli diede una certa pubblicità tra gli eterodossi, fu Eitschl. L’opera redentrice del Cristo consisterebbe unicamente nel rivelarci, con la sua vita e specialmente con la sua morte, l’amore del Padre celeste, così essenzialmente Padre, che è sempre disposto a perdonare il peccatore. Questa rivelazione, col restituirci la confidenza, distrugge in noi il peccato il quale altro non è che una mancanza di confidenza verso Dio; in questa maniera essa ci giustifica e ci riconcilia; essa ci libera anche dal castigo del peccato, perché il castigo non è altro, secondo Eitschl, che il sentimento della nostra colpa e la convinzione che i mali della vita ne sono la giusta pena. La maggior parte dei teologi protestanti, bisogna dirlo, respinge tale teoria troppo apertamente contraria all’insegnamento di san Paolo. Essi confessano che la morte del Cristo ha per l’Apostolo un valore oggettivo che risulta dallo stesso atto redentore e che esiste indipendentemente dalle nostre considerazioni e dalla nostra conoscenza.

2. La redenzione è essenzialmente la distruzione del peccato. Quanti sono gli aspetti del peccato, altrettanti sono quelli della redenzione: se il peccato è una caduta, la redenzione è un rialzamento; se il peccato è un’infermità, la redenzione è un rimedio; se il peccato è un debito, la redenzione sarà un pagamento; se il peccato è una colpa, la redenzione sarà una espiazione; se il peccato è una schiavitù, la redenzione sarà una liberazione; se il peccato è un’offesa, la redenzione sarà una soddisfazione da parte dell’uomo, una propiziazione da parte di Dio, una mutua riconciliazione tra Dio e l’uomo. Il rialzamento dell’umanità da parte del Verbo fatto carne, è quella che di preferenza considerava la speculazione alessandrina guidata da considerazioni apologetiche. L’incarnazione era perciò messa più in vista, e la redenzione propriamente detta, per mezzo della morte del Cristo, era messa al secondo posto. Si soleva ripetere che il Verbo si è incarnato per deificare — si diceva anche verbificare

— la natura umana, per onorarla con la sua presenza e per guarirla col suo contatto, per restituirle l’immortalità e l’incorruttibilità perdute nella caduta originale, e così pure per rischiarare le sue tenebre e per dissipare i suoi errori. Tutto questo rendeva sensibile il benefizio dell’incarnazione, ma non diceva né il perché né il come della morte redentrice. – Le teorie immaginate per spiegare il valore oggettivo di questa morte, si possono ridurre a tre: teoria del riscatto o della redenzione, teoria dell’espiazione e della sostituzione penale, teoria della soddisfazione. È necessario esporre brevemente le prove che le corroborano, e di mostrarne, dove occorre, i punti deboli e l’insufficienza.

Teoria del riscatto o della redenzione. — Il valore della morte del Cristo è abbastanza frequentemente espressa nella Scrittura con una metafora commerciale. Paolo dice che Gesù Cristo ci ha acquistati, comprati, riscattati; il prezzo è indicato chiaramente; è il sangue del Piglio di Dio. Anzi una volta, in un passo, che ha il suo esatto parallelo nei due primi Sinottici, è adoperata la parola riscatto; altrove l’idea di riscatto è contenuta nel senso etimologico dei termini riscattare e redenzione . Per apprezzare giustamente il valore di questo concetto, bisogna risalire alla sua origine. Israele era la proprietà, il peculio di Jehovah; questa era una delle conseguenze della teocrazia mosaica: « Tu sei un popolo consacrato a Jehovah tuo Dio; egli ti ha scelto per essere suo dominio particolare tra tutti i popoli (Deut. VII, 6) ». Però Dio metteva una condizione: « Se voi ascoltate la mia voce e conservate la mia alleanza, sarete mio dominio tra tutti i popoli; poiché la terra mi appartiene (Esod. XIX, 6) ». Dio fondava questo dominio sopra il suo diritto supremo e sopra la sua libera scelta: Jehovah si elesse Giacobbe, Israele è suo dominio (Ps. CXXXIV, 4). Ma Egli si era pure adoperato per assicurarselo, e poteva dire per bocca d’Isaia: « Mi sono formato questo popolo; esso annunzierà la mia gloria (Is. XLIII) », e per bocca di Mosè e del Salmista poteva dire che lo possedeva per diritto di conquista (Es. XV, 16; Ps. LXXIII, 2). Egli ne poteva dunque disporre a suo talento e per questo appunto minaccia frequentemente di disfarsene, di cederlo ai suoi nemici (Giud. II, 14, etc,): Altrimenti la Roccia li venderà; e Jehovah li abbandonerà (Deuter. XXXII, 30). Dio applicava al suo popolo infedele la legge del taglione: lo abbandonava nella misura in cui Egli stesso ne era abbandonato. Non era un abbandono totale, assoluto, consumato, senza speranza di ritorno, ma un abbandono parziale, temporaneo, revocabile nel giorno della resipiscenza. Dio non rinunziava mai al diritto di riscattare il suo popolo pentito e reso saggio dalla sventura; Egli anzi vi si impegnò per due titoli: in forza dell’alleanza conchiusa con la posterità di Abramo e con i figli d’Israele, alleanza che lo obbliga a ricondurre il suo popolo dall’Egitto — e più tardi da Babilonia — a liberarlo dai suoi oppressori ed a preservarlo dalla rovina; poi nella sua qualità di redentore, che gl’impone di liberare il suo popolo caduto nella schiavitù, e di vendicarlo contro i suoi nemici. In tutte queste metafore, non occorre preoccuparsi del prezzo da pagarsi, perché Dio è il padrone; e come l’atto di alienazione non conferiva agli avversari d’Israele un vero diritto, così il nuovo atto di liberazione che annulla il primo contratto, non conferisce loro il eredito di un compenso: Dio stesso lo dichiara formalmente: Voi foste venduti per nulla; Voi sarete riscattati gratuitamente (Isai. LII, 3).- Una volta soltanto compare l’idea di compenso: « Io sono il Signore tuo Dio, il Santo d’Israele, tuo Salvatore; io ho dato per te, come riscatto, l’Egitto, l’Etiopia e Saba (Isai. XLIII, 3) ». Ma questa allusione isolata, abbastanza spiegata dal fatto storico delle conquiste del liberatore degli Ebrei, non fa altro che mettere in maggiore rilievo il numero dei casi in cui il riscatto e la redenzione si compiono senza la più piccola menzione del pagamento di un compenso, e con la manifesta impossibilità di stabilire il soggetto al quale si dovrebbero pagare il debito o il riscatto. Vediamo ora quale parte abbiano le idee di acquisto, di compra, di riscatto, di prezzo e di redenzione, negli scritti di san Paolo. Si possono dividere i testi in due serie: quelli in cui si parla di prezzo e di compera; quelli in cui si parla di redenzione e di riscatto. Nel discorso che rivolge agli anziani di Efeso, l’Apostolo dice loro: Pascete « la Chiesa di Dio che Egli si acquistò col proprio sangue (Act. XX, 28) ». Questa è un’allusione chiara ai passi dell’Antico Testamento, che fecero dare a Israele il nome di « popolo di acquisizione (Tit. II, 14) », cioè di popolo acquistato dal Signore come suo dominio particolare; ma siccome qui si tratta della Chiesa, il prezzo dell’acquisto non può essere altro che il sangue del Cristo. Le Epistole non ci offrono esempi interamente simili a questo; tuttavia l’asserzione ripetuta due volte: « Voi foste comprati con un (gran) prezzo (I Cor. VI, 20; VII, 23) » si deve considerare come parallela, poiché non vi è dubbio che il prezzo di cui si parla, è il sangue stesso del Salvatore. In forza di questa compera, noi diventiamo il bene inalienabile di Dio, e non è più in nostro potere l’asservirci ad altri. Parlando specialmente degli Ebrei, san Paolo dice ancora: « Il Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge diventando per noi maledizione (Ga. III, 13) »; e altrove: « Dio mandò suo Figlio, fatto da una donna, messo sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, (Gal. IV, 5) ». Dunque Gesù Cristo, come il Jehovah dell’antica alleanza, acquista, compra e riscatta il suo popolo; Egli, per fare questo, paga un prezzo inestimabile, il suo sangue, oppure assume una condizione onerosa ed infamante, l’osservanza e la maledizione della Legge. Ma la metafora non è spinta più oltre, e non vi è nessuno che intervenga ad esigere o a ricevere il prezzo. – Due volte san Paolo dà alla parola « redenzione » un senso escatologico: noi aspettiamo « la redenzione del nostro corpo (Rom. VIII, 23) », ossia la liberazione dalle miserie della mortalità; e lo Spirito Santo ci ha segnati col suo sigillo « per il giorno della redenzione (Ephes. IV, 30) » che è quello della liberazione definitiva e del trionfo completo della vita sopra la morte. In tutti gli altri passi, la redenzione si riferisce all’opera attuale della salvezza; è « la redenzione nel Cristo Gesù » oppure, il che è poi la stessa cosa, « la redenzione per mezzo del suo sangue (Rom. III, 24; etc.)». L’Apostolo, certamente facendo allusione a una parola del Maestro, dice pure che « Gesù Cristo si diede (come) riscatto per noi (I Tim. II, 6) » abbandonandosi alla morte. Qual è il valore esatto di queste affermazioni? Nell’Antico Testamento la redenzione operata da Dio contiene solamente l’idea di un prezzo da pagarsi o da riceversi. Lo stesso dev’essere, ed a più forte ragione, nel Nuovo Testamento nel quale la redenzione acquista un senso tecnico, completo per se stesso, che riassume l’opera intera della nostra salute, la remissione dei peccati, la santificazione, la glorificazione (Col. I, 14), senza che vi sia specialmente notata la liberazione. In ogni caso, il prezzo del quale si fa talora menzione, non può essere che una condizione onerosa la quale dev’essere adempita dal redentore. Infatti se si trattasse di soddisfare o di risarcire dei danni qualcuno, questi sarebbe evidentemente colui che ci teneva in schiavitù, al quale il Cristo Gesù ci strappa. Ora, secondo san Paolo, noi eravamo schiavi del peccato, dei vizi, delle passioni (Rom. VI, 6); noi siamo liberati da ogni iniquità (Tit. II, 14); gli Ebrei sono riscattati dalla maledizione della Legge (Gal. III, 13); i pagani erano asserviti agli elementi del mondo e Dio li aveva abbandonati ai loro desideri impuri (Rom. I, 24). Si potrà dire che il prezzo del riscatto sia pagato al peccato, all’iniquità, alle passioni carnali! In questo affare il diavolo non compare mai; a più forte ragione la concezione grottesca di un mercato col demonio che si riuscirebbe ad accontentare mediante un equo compenso, è affatto assente dagli scritti di san Paolo. Se si volesse spingere fino alla fine la metafora, il prezzo del nostro riscatto sarebbe pagato a Dio; poiché è Dio che viene placato e reso propizio dall’opera della redenzione, e soltanto riguardo a Dio il Cristo è « propiziatore ». Il Salvatore è il nostro riscatto (λύτρον= lutron), e si sa che questa parola, nel codice mosaico, indica la tassa o il sacrificio che Dio esige per il riscatto dei primogeniti (31). Ma, ripetiamo ancora una volta, nulla ci permette di affermare che la metafora sia spinta tanto innanzi. Lavorando con queste idee di compera, di prezzo e di riscatto, veniva forte la tentazione di trasformare la metafora in allegoria e di completare la similitudine supplendo al silenzio degli autori sacri. Parecchi Padri non seppero resistere a tale tentazione e si lasciarono sfuggire espressioni poco felici le quali attirarono sopra di loro gli anatemi dei nostri moderni storici del dogma. I fatti però non giustificano troppo queste virulente diatribe: la buffa teoria dei diritti del demonio non fu mai comune nella Chiesa; anzi non si dovrebbe neppure parlare mai. di teorie, ma di allusioni fatte alla sfuggita o di amplificazioni oratorie, corrette poi poco dopo con spiegazioni di una precisione impeccabile. Se lasciamo in disparte san Giustino e sant’Ireneo, incriminati a torto, poiché essi si limitano a parafrasare le espressioni degli Apostoli, se sopprimiamo in Origene, in san Basilio e in san Gerolamo alcune righe meno felici, non restano che i passi ben noti e troppo commentati di sant’Ambrogio e di san Gregorio Nisseno. Soltanto in due lettere, nelle quali meno rigorosamente si deve esigere l’esattezza teologica, sant’Ambrogio spinge l’allegoria fino agli estremi, affermando che il prezzo del riscatto fu da Gesù Cristo pagato al demonio. L’uomo che si era venduto a satana, era un debitore insolvibile; essendo egli prigioniero per debiti, bisognò che il Cristo pagasse per lui e lacerasse così l’atto autentico nel quale era scritta la sua obbligazione. A chi dunque il Cristo ha sborsato il prezzo del suo sangue? Al creditore infernale: il vescovo di Milano non indietreggia davanti a questa orribile conseguenza. San Gregorio Nisseno arriva allo stesso punto, ma per altra via: la redenzione del genere umano deve salvaguardare tutti gli attributi di Dio, perciò tanto la giustizia, quanto la sapienza o la bontà. Ora noi, abbandonati al demonio con un atto in buona forma legale, eravamo sua proprietà, ed egli non consentiva ad abbandonare il suo credito senza un equo compenso. Credette di trovare questo compenso nella morte del Saldatore; ma si accorse troppo tardi di aver fatto un contratto da sciocco: l’uomo rimaneva fuori del suo dominio e delle sue rivendicazioni. Per non giudicare troppo severamente questi negoziati giuridici, questo bizzarro mercanteggiare, bisogna ricordare che il santo dottore qui si rivolge a lettori infedeli, che egli non intende di fare dell’esegesi e neppure, propriamente parlando, della teologia, ma fa dell’apologetica razionale; e se si vuole diciamo pure che fa della cattiva apologetica. Il suo esempio pertanto ci deve insegnare quanto è pericoloso, in queste delicate materie, avventurarsi « oltre quello che è scritto ».

Teoria della sostituzione penale. — Sono molti i teologi che in fondo ad ogni sacrificio trovano l’idea di sostituzione. Il sacrificio avrebbe essenzialmente lo scopo di riconoscere il supremo dominio di Dio e anche, nell’attuale stato di decadenza, l’indegnità dell’uomo. In tali condizioni, l’istinto religioso suggerirebbe al colpevole, conscio delle sue colpe e della pena che queste meritano, il pensiero di sostituire a se stesso una vittima innocente, scelta tra gli animali più necessari alla sua sussistenza. Se è difficile constatare tale sentimento nei popoli primitivi, presso i quali il sacrificio riveste molte volte un carattere di gioia, si crede almeno poterne stabilire l’esistenza negli Ebrei i quali lo avrebbero avuto dalla rivelazione. Il rituale comune ai sacrifici per il peccato, sembra che indichi chiaramente questa sostituzione: la vittima dev’essere immacolata; colui che la offre le impone le mani per indicare la trasmissione della colpa; essa viene uccisa invece del colpevole; il suo sangue sparso dinanzi a Dio ed il suo corpo consumato dalle fiamme completano il simbolismo dell’espiazione. In appoggio della teoria, si cita il testo del Levitico: « Nel sangue è la vita degli esseri viventi, e per l’altare io ve lo do, per fare propiziazione per voi; poiché è il sangue che fa propiziazione, perché è la vita (Rom. V, 6, 7, 8.) ». Bisogna astenersi dal sangue, perché la vita sta nel sangue: la vita si ferma col fermarsi del sangue, sfugge quando sgorga il sangue; questo fatto di esperienza basta perché il sangue sia considerato come il veicolo della vita, come il simbolo della vita, come la stessa vita. Ora la vita degli animali appartiene unicamente a Dio; Egli la riserva a sé e ne concede l’uso all’uomo soltanto in vista del sacrificio. Offrire il sangue è offrire la vita, e Dio l’accetta sopra l’altare, ma solamente come mezzo di espiazione o di propiziazione: l’ebraico kipper significa l’una e l’altra. Questa ingegnosa teoria fa nascere molte obbiezioni: come si può, per esempio, applicare ai sacrifici pacifici, ai sacrifici votivi, ai sacrifici di ringraziamento? Anche se ristretta al sacrificio per il peccato, essa va incontro a gravi difficoltà. La Legge mosaica non ammetteva sacrifici per le trasgressioni che meritassero la pena di morte. Il sacrificio non consisteva tanto nell’immolazione che talora poteva essere fatta da un laico, quanto nella manipolazione del sangue, che era riservata al solo sacerdote. Si è forse dimostrato mai che l’imposizione delle mani, suscettibile di un simbolismo così vario, significasse precisamente la trasmissione della colpa? E se significava proprio questo, perché mai la vittima, invece di venirne macchiata, diventava tanto santa, che soltanto i sacerdoti potevano parteciparne? La morte cruenta è proprio quella che manca nella cerimonia del capro emissario, nella quale l’idea della sostituzione è più sensibile e nella quale, come era da aspettarsi, l’animale caricato simbolicamente delle colpe del popolo, diventava impuro e maledetto. La teoria della sostituzione penale, isolata o esagerata, presenta inoltre gravi pericoli: essa tende a stabilire un conflitto ripugnante tra la giustizia e l’amore di Dio, tra la sua ira e la sua misericordia. Dio perseguita un Dio; procede contro di Lui con tutto l’apparato della giustizia; lo considera come un nemico, come un oggetto meritevole di tutte le sue vendette; gli dichiara una guerra aperta; lo abbandona ai furori della sua giustizia sdegnata e gl’infligge in certo modo la pena del danno. A queste figure oratorie, a queste immagini grandiose, delle quali bisogna ridurre le dimensioni, quanto è preferibile la semplice dottrina di san Tommaso, che cioè Dio ha dato suo Figlio col decretare la sua morte per la salute del mondo, con l’ispirargli la volontà di morire per noi, col non proteggerlo contro i suoi nemici. Si dice che l’innocente è punito invece del colpevole; ma questo non è esatto e neppure intellegibile. Il castigo non si può trasferire da una persona all’altra senza cambiare natura. Si può bensì pagare un debito per mezzo di intermediari, ma non già subire una pena per procura. Il castigo è cosa essenzialmente personale, inseparabile dalla colpa; se cade sopra un estraneo non è più un castigo. Se il diritto delle genti ha qualche volta permesso d’imputare a una famiglia, a una città, a una nazione, la colpa di uno dei loro membri, questo avvenne perché la famiglia, la città o la nazione erano considerate come uno stesso ente morale; questo non avvenne in forza del principio della sostituzione penale, ma in forza del principio ben diverso della solidarietà. Supposto che san Paolo avesse in mente la teoria della sostituzione, perché non l’ha mai formulata? Perché mai egli dice sempre che il Cristo fu crocifìsso per noi, per tutti gli uomini, per peccatori (Rom. V, 6, 7, 8), che andò alla morte per noi (Rom. VIII, 32, etc.) che diventò maledizione per noi (Gal. III, 13), che è stato fatto peccato per noi (II Cor. V, 21), che si diede per i nostri peccati (Gal. I, 4)? E perché non dice mai che il Cristo è morto in nostra vece, il che, secondo la buona logica, ci dispenserebbe dal morire? Senza dubbio, quello che si fa per qualcuno, molte volte si fa in sua vece, si fa quello che avrebbe dovuto fare lui, si supplisce alla sua impotenza, uno insomma si sostituisce a lui in qualche maniera; ma non ne segue punto che le due espressioni abbiano lo stesso valore. Non si cita, nel Nuovo Testamento, neppure un esempio di tale equivalenza; e se morire per gli uomini, rigorosamente parlando, si può intendere di una sostituzione dell’innocente ai colpevoli, morire per i loro peccati, si potrà ancora intendere così? E questo non è forse un segno evidente che l’idea di sostituzione non rende tutto il pensiero dell’Apostolo, e che bisogna correggerla o completarla con una nozione di altro ordine? Dal momento che si applicava il principio della sostituzione, era molto facile esagerarlo; e così fecero appunto molti teologi protestanti, specialmente luterani. Costoro sostennero che il Cristo aveva sofferto identicamente la pena dovuta al peccato: la morte, la maledizione divina, la dannazione stessa. Gesù soffriva i dolori dell’inferno al Getsemani, quando la sua anima era triste di una tristezza mortale; soffriva il supplizio del danno al Calvario, quando innalzava quel grido di angoscia: « Mio Dio, perché mi hai abbandonato? ». Tutto questo soffriva non già extensive e in quanto alla durata, ma intensive e in quanto all’essenza. Generalmente questo sistema non è più seguito, ma le sue assurde conseguenze hanno gettato su la teoria della sostituzione un discredito che non sarà facilmente superato.

Teoria della soddisfazione. — Sant’Anselmo, nel suo celebre Cur Deus homo, ragiona così: Il peccato è un’offesa di Dio; ma la sapienza e la santità dell’Altissimo non possono lasciare impunita un’offesa fatta al suo onore. Il peccatore rimane dunque tributario della giustizia divina finché l’offesa sia riparata. Ora nessun essere creato, né uomo né Angelo, può restituire a Dio la gloria estrinseca che il peccato gli toglie; infatti l’atto di ogni essere finito è di sua natura finito, mentre il peccato, riferendosi a Dio, contrae per questo una malizia infinita. Dunque ne seguiva una di queste due cose: o l’uomo peccatore era perduto irremissibilmente, oppure bisognava che un Uomo-Dio gli venisse in aiuto. Ma alla bontà divina ripugna l’abbandonare i suoi disegni di amore e di misericordia: di qui la necessità morale dell’incarnazione del Verbo per offrire a Dio, a nome dell’umanità colpevole, una soddisfazione uguale all’offesa. In virtù dell’unione ipostatica, la persona divina conferisce agli atti della natura umana un valore infinito, e la morte redentrice, volontariamente accettata da Gesù, come testimonianza suprema di obbedienza filiale, ha l’effetto di riparare l’onore di Dio, e lo ripara con usura.A questa costruzione dialettica, della quale nessuno può negare la forza e l’armonia, si può forse fare l’appunto di svolgersi nelle sfere della speculazione pura. Se fosse spinta alle sue estreme conseguenze andrebbe a finire nell’ottimismo filosofico e nella necessità dell’Incarnazione. Ma l’autore del Cur Deus homo ha saputo evitare questi scogli, e la sua interpretazione della morte redentrice segna un vero progresso. Aggiungiamo anche che essa trova in san Paolo una solida base. È cosa incontestabile che, nell’attuale disegno della salvezza, Dio voleva far risplendere la sua sapienza e la sua giustizia. Si dirà che si tratta della giustizia giustificante; ma la giustizia giustificante è soltanto un aspetto particolare dell’attributo divino della giustizia; è la giustizia che avendo inflitto al peccato il trattamento che si merita, risparmia il peccatore unito a Gesù con la fede. Il sangue del Cristo è uno « strumento di propiziazione » (ἱλαστήριον = ilasterion). Sia che la propiziazione sia un effetto diretto della morte redentrice, sia che nasca immediatamente dall’espiazione prodotta dal sacrificio della croce, il risultato è sempre identico: in qualunque maniera il sangue del Cristo ripara l’offesa fatta a Dio e ce lo rende propizio. Esso inoltre fa la riconciliazione e mette fine all’odio vicendevole che prima esisteva tra l’uomo peccatore e Dio offeso; e questa riconciliazione suppone che l’offesa di Dio non esiste più, in altre parole, che Dio ha ricevuto soddisfazione delle offese fattegli.La teoria della soddisfazione completa e corregge in gran parte quella della sostituzione penale. Considerando il peccato non più come un debito da pagare o come un castigo da subire, ma come un’offesa da riparare, essa rende superflua la proporzionalità materiale tra la colpa e l’espiazione; è sufficiente una proporzione morale la quale risulta con sovrabbondanza dal valore conferito alla natura umana del Cristo dalla sua ipostasi divina. Essa inoltre spiega la necessità di unire all’obbedienza passiva del Redentore la sua obbedienza attiva; infatti la riparazione di un’offesa si può fare soltanto con un atto cosciente e libero. Tuttavia, nella forma in cui generalmente viene presentata, essa dà luogo a gravi critiche. Essa suppone, in primo luogo, che ogni peccato deve necessariamente essere o punito o riparato: Necesse est ut omne peccatum satisfactìo aut pœna sequatur; è questo l’assioma più volte ripetuto da sant’Anselmo. Ora il peccato può anche essere perdonato, oppure rimesso in seguito ad una riparazione inadeguata. Non è così nell’ordine attuale, perché  la soddisfazione del Cristo è sovrabbondante, ma così potrebbe essere, e allora la teoria che si appoggia sopra la speculazione filosofica e non sopra i dati positivi della rivelazione, sarebbe difettosa. In secondo luogo il merito, al pari del castigo, non si può trasferire da un soggetto all’altro. Se una famiglia è onorata o ricompensata per riguardo di uno dei suoi membri, questo avviene perché essa forma un’unità morale, ed i suoi membri non sono estranei tra loro. Nella stessa maniera, la riparazione di un’offesa non si può fare che dall’offensore in persona o da qualcuno che formi con lui una stessa persona morale. In qualunque ipotesi, noi usciamo dal principio della sostituzione per entrare in quello della solidarietà, il solo che ci dia la chiave della dottrina di san Paolo. Si possono dunque portare ancora nuovi perfezionamenti, e l’ultima parola non è ancora detta.

3. Quest’ultima parola però non dobbiamo cercarla negli scritti dei Padri. Essi molte volte furono accusati di dare troppo poco rilievo a questo dogma fondamentale, ma l’accusa è ingiusta; infatti nei loro scritti si trovano altrettante e più allusioni all’opera redentrice, che a qualunque altro articolo di fede; ma diverse circostanze spiegano il loro laconismo. Nei primi secoli, nessuna eresia attaccò direttamente il dogma della redenzione; i Padri non ebbero perciò occasione di difenderlo e in generale si limitarono a ripetere le formole tradizionali, senza preoccuparsi di armonizzarle né di scrutarne il senso profondo. Dato il pubblico al quale si rivolgevano e lo scopo che si proponevano, i Padri apostolici e gli apologisti non ebbero molto da dire riguardo la morte redentrice. Più tardi, in presenza di pagani increduli, il problema capitale fu questo: Perché un Dio si è fatto uomo? Parecchi, dietro l’esempio di Origene nella sua confutazione di Celso, credettero di rendere più accessibile il mistero di un Dio incarnato, col dimostrare le necessità della redenzione. Tale è pure l’idea dominante delle due prime opere in cui la redenzione è trattata ex professo. – Sant’Atanasio intitola il suo lavoro De Incarnatione Verbi; se a nostro modo di vedere egli insiste troppo sopra la redenzione fisica, cioè sul rialzamento della natura umana per mezzo dell’unione del Verbo con la nostra, carne, bisogna ricordare che il suo scopo ed i suoi lettori gli imponevano così. Le mire apologetiche di san Gregorio Nisseno, nella sua grande catechesi, sono pure ben marcate. Non avremo nessuna difficoltà a confessare che egli abusa dei paragoni dell’arte medica e si compiace troppo nel descrivere i procedimenti farmaceutici impiegati per guarire il genere umano; ma la dottrina cattolica della salvezza, per mezzo della croce di Gesù Cristo non è né dimenticata né dissimulata: essa passa in seconda linea, ora questo è quanto si può dire. « La nostra natura era ammalata, dice san Gregorio, ed aveva bisogno di un medico; l’uomo decaduto aspettava una mano soccorritrice che lo rialzasse; colpito a morte, aveva bisogno che gli fosse restituita la vita; traviato nei sentieri del male, aveva bisogno di chi lo guidasse al bene; chiuso nelle tenebre, sospirava la luce. Al prigioniero occorreva un redentore; al carcerato, un sostegno; allo schiavo, un liberatore ». Tutto questo tende a dimostrare la convenienza dell’incarnazione, ma non illumina abbastanza la natura dell’azione redentrice.

CONOSCERE SAN PAOLO (37)

LIBRO QUARTO

CAPO II.

La morte redentrice.

I. SACRIFICIO DELLA CROCE.

1. SACRIFICIO VERO. — 2. SACRIFICIO CHE REALIZZA LE FIGURE ANTICHE. — 3. SACRIFICIO VOLONTARIO.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Il sacrificio, rito religioso nel quale si distrugge un oggetto sensibile in onore della divinità, differisce dalle offerte immateriali — preghiere, voti, astinenze volontarie — e dalle semplici offerte di ordine materiale — doni in denaro e in natura, monumenti votivi, erezione di templi e di oratori, consacrazione di persone — insomma differisce da tutte le offerte destinate a perpetuare le cerimonie liturgiche ed a mantenere il servizio permanente della divinità. Non occorre specificare di più, con far entrare nella definizione del sacrificio la maniera di offrirlo e lo scopo immediato che si propongono gli adoratori, o il modo di operazione, reale o supposto, del rito sacro; poiché una definizione troppo esplicita ha il doppio inconveniente di non convenire a qualunque sacrificio e di poggiare sopra teorie contestabili. Il sacrificio è una preghiera in azione. Con esso l’uomo si propone sempre di piacere alla divinità e di rendersela propizia; ma i mezzi che s’impiegano, variano all’infinito secondo le concezioni grossolane, ingenue, elevate o sublimi che il fedele si fa delle sue divinità e secondo i sentimenti di gratitudine, di omaggio, di rispetto, d’impetrazione, di pentimento o di obbedienza che vuole esprimere. Quando la materia del sacrificio è un essere vivente, la morte di questo è una condizione ordinaria: di qui le due specie di sacrifici, i sacrifici cruenti e i sacrifici incruenti. Cosi nell’un caso come nell’altro, la distruzione parziale della vittima basta al simbolismo, e la distruzione totale non è richiesta che per certi sacrifici speciali. Dopo che una porzione dell’oggetto sacrificato è stata consumata col fuoco, sparsa in libazione o distrutta in altra maniera qualunque, il resto serve generalmente al banchetto sacro, complemento naturale del sacrificio, oppure è riservato all’uso esclusivo dei sacerdoti che sono i rappresentanti titolati della divinità. – Che la morte del Cristo sia per San Paolo un sacrificio è cosa tanto evidente, che non si capisce come si sia potuta negare senza una teoria preconcetta e senza un partito preso dommatico. Prima di venire alle testimonianze formali, è bene che si passino in rivista i testi, meno espliciti, se considerati isolatamente, ma la cui impressione complessiva tende irresistibilmente a evocare l’idea di sacrificio e di sacrificio cruento.

Tutti gli effetti della redenzione sono riferiti al sangue del Cristo.

Noi abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue (Ephes. I, 7) … Dio ha pacificato per mezzo del sangue della sua croce quello che è in terra e quello che è in cielo (Col. I, 20)… Voi (Gentili) che una volta eravate lontani, siete stati avvicinati nel sangue del Cristo (Ephes. II, 13)… Giustificati ora nel suo sangue, quanto più per mezzo di lui saremo salvi dall’ira (Rom. V, 9). Bere il calice consacrato è comunicare col sangue del Cristo (I Cor. X, 16), e chi si comunica indegnamente profana il sangue del Cristo, perché il calice consacrato contiene il sangue che suggella la nuova alleanza (I Cor. XI, 27).

Quando gli effetti della redenzione non sono attribuiti direttamente al suo sangue, sono attribuiti alla morte violenta del Cristo: « Il Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture (I Cor. XV, 3)… Egli è morto per tutti, affinché coloro che vivono non vivano più per se stessi ma per colui che è morto ed è risuscitato per loro (II Cor. V, 15)… Quando eravamo ancora peccatori, il Cristo morì per noi. Se, essendo nemici, noi fummo riconciliati con Dio con la morte di suo Figlio, quanto più, essendo riconciliati, saremo salvi nella sua vita (Rom. V, 8-10)! Ora Egli ci ha riconciliati nel suo corpo di carne, con la morte, per costituirci santi, senza macchia e senza rimprovero (Col. I, 22)… Gesù Cristo è morto per noi affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo con lui (I Tess. V, 10) ». Gesù Cristo « diede se stesso come redenzione per tutti » (I Tim. II, 6); noi siamo « stati riscattati col prezzo » del suo sangue (I Cor. VI, 20; VII, 23); « Egli ci ha riscattati dalla maledizione della Legge diventando per noi maledizione (Gal. III, 13); sul legno della croce; se la giustizia, frutto della redenzione, ci venisse da altra parte, « il Cristo sarebbe morto invano (Gal. II, 21) ». Tutto questo converge verso una medesima idea di sacrificio cruento.

2. La dottrina apostolica del Cristo vittima era, per i contemporanei di san Paolo, una strana novità. Gli Ebrei conoscevano bensì il valore delle prove accettate con rassegnazione, l’efficacia delle preghiere del giusto, la reversibilità dei meriti e dei demeriti, ma non ammisero mai, se non con estrema ripugnanza, l’idea di un Messia sofferente, e per lo meno non attribuirono mai a tali patimenti nessun valore espiatorio. I dolori del Messia (Marc. XIII, ; Matth. XXIV) non sono i patimenti personali del Messia, ma le calamità della terra e le commozioni cosmiche che devono precedere la sua venuta; sono in certo modo i dolori di parto del mondo che sta per produrre il Messia. Alla questione: gli Ebrei di allora credevano che il Messia fosse destinato a soffrire, e che i suoi patimenti avessero l’effetto di espiare i peccati degli uomini? — bisogna rispondere risolutamente che no. – Né il Targum né il Talmud di Gerusalemme non fanno la più piccola allusione ad un Messia sofferente. Assai curioso è il Targum di Jonathan sul capo LIII d’Isaia riconosciuto come messianico: « Tutto ciò che si dice dei patimenti del servo è violentemente stornato dal senso naturale e applicato al popolo (Condamin, Le Livre d’Isaie, 1905) ». Se il Talmud di Babilonia, compilazione del quinto secolo, fa tre volte menzione dei patimenti del Messia, si tratta dei patimenti che il Messia sostiene prima di cominciare il suo compito di Salvatore. Baymond Martin credeva di aver trovato un testo in cui si tratta di un Messia sofferente (Pugio fidei, fol. 675); ma è assai probabile che il dotto domenicano si servisse di un esemplare interpolato da mano cristiana, perché il suo famoso passo non si trova più in nessun manoscritto. Non si ha neppure nessun fondamento per sostenere che gli Ebrei avessero sdoppiato il loro Messia primitivamente unico, per attribuire al Messia figlio di Giuseppe i patimenti espiatori, mentre avrebbero riservato al Messia figlio di Giuda la gloria ed i trionfi. « Il Messia figlio di Giuseppe non è un Messia sofferente, ma è un Messia ucciso (Lagrange: Le Messianisme chez les Juifs, 1909) ». – In san Paolo invece l’immolazione di Gesù Cristo è espressamente assimilata al sacrificio dell’agnello pasquale, al sacrificio che suggella la nuova alleanza, al sacrificio del gran giorno dell’espiazione e ad un altro sacrificio che forse è l’olocausto, ma che non è possibile determinare con certezza.

Agnello pasquale. — San Paolo scrive ai Corinzi: « Non sapete che un poco di lievito fa levare tutta la pasta? Allontanate il lievito antico per essere una pasta nuova, come siete azimi; poiché il Cristo, nostra pasqua, è stato immolato (I Cor. V, 7). » Due circostanze davano a tali raccomandazioni maggiore attualità e opportunità. Si era verso la Pasqua, e, in quella circostanza, i Cristiani della gentilità celebravano la solennità commemorativa della loro salvezza, non già alla maniera degli Ebrei, con l’astenersi dal pane lievitato, ma in una maniera spirituale, facendo se stessi azimi, cioè puri da ogni corruzione morale. Ora la presenza di un incestuoso in mezzo ai Cristiani di Corinto era una macchia per tutta la Chiesa. L’Apostolo ordina l’espulsione dello scandaloso: « Scacciate da voi il perverso »; poiché egli finirebbe col corrompervi, come un pugno di lievito basta a far fermentare una massa di pasta fresca. Se per se stessa questa esortazione conviene a tutti i tempi, essa fa un’impressione ben maggiore nel giorno anniversario del sacrificio della croce: « Il nostro agnello pasquale, il Cristo, è stato immolato; perciò facciamo festa non col vecchio lievito, lievito della malizia, ma con gli azimi della purezza ». Quello che è la Pasqua per gli Ebrei, è per noi il Cristo immolato; è il sacrificio della nostra liberazione, è il banchetto sacro che mette termine alla nostra schiavitù; così i tipi hanno avuto il loro compimento, le ombre sono svanite, e noi siamo oramai nella regione delle realtà spirituali.

Sacrificio della nuova alleanza. — Il Cristo, vero agnello pasquale, è la vittima che suggella la nuova alleanza. Nel momento di conchiudere l’antica alleanza, Mosè offrì olocausti e vittime di pace, sparse ai piedi dell’altare una parte del sangue e col rimanente asperse il popolo dicendo: « Ecco il sangue dell’alleanza che Jehovah ha concluso con voi ». Imbevuti del racconto dall’Esodo, i testimoni dell’ultima Cena non si poterono ingannare quando intesero Gesù che diceva loro, nel presentare il calice eucaristico: « Questo calice è il sangue della nuova alleanza », oppure: Questo calice è la nuova alleanza (conchiusa) nel mio sangue (I Cor. XI, 25) ». Sia che alludesse direttamente al sacrificio dell’altare, sia che alludesse a quello del Calvario, per la questione presente poco importa; poiché in fondo il sacrificio è il medesimo, e le parole del Salvatore non avrebbero senso, se il sangue dell’eucaristia non fosse il medesimo sangue della croce. Ora questo sangue divino ha la virtù di sigillare l’alleanza predetta da Geremia, come il sangue delle vittime offerte da Mosè sigillò l’alleanza del Sinai: con questa doppia differenza, che esso purifica le anime toccando i corpi e che produce le disposizioni sante invece di confermarle solamente.

Sacrifizio di espiazione o di propiziazione. — Il sacrificio per il peccato era il più caratteristico e il più comune del rituale mosaico. L’Epistola agli Ebrei ne sviluppa la tipologia. A questa categoria di sacrifici si riferiscono sovente due passi di san Paolo, i quali appartengono ad un ordine d’idee affatto diverso (II Cor. V, 21); in cambio però l’Epistola ai Romani paragona la morte di Gesù al sacrificio dell’Espiazione, che era per eccellenza il sacrificio per il peccato: « Dio ha esposto il Cristo Gesù come propiziazione, per mezzo della fede, nel suo sangue (Rom. III, 25) ». Qualunque sia il senso preciso di ἱλαστήριον (= ilasterion), vittima di propiziazione, strumento di propiziazione, oppure propiziatorio — da questo testo risulta invincibilmente che il sacrificio della croce è per i Cristiani, e in modo più eccellente, quello che era per gli Ebrei il giorno solenne del Kippourim, il sacrificio annuale dell’espiazione o della propiziazione: « È impossibile, dice Sanday, nel suo Commentario, eliminare da questo passo la doppia idea di un sacrificio e di un sacrificio di propiziazione ». Anche Godet scrive: « L’idea del sacrificio, se non si trova nella stessa parola, risulta dall’espressione per mezzo del mio sangue: infatti un mezzo di propiziazione nel quale c’entra il sangue, che altro è, se non un sacrificio! ». – La voce discorde di teologi eterodossi, desiderosi di eludere un testo che li incomoda, non è più molto ascoltata.

Sacrifizio in generale. — « Il Cristo vi ha amati e si è dato per noi come oblazione e come vittima (immolata) a Dio, in odore di soavità (Ephes. V, 2) ». Qui si vede un’allusione chiara alla parola del Salmista: « Tu non hai gradito la vittima e l’offerta… né hai domandato l’olocausto e il sacrificio ». Ma se è certo che Paolo parla del Cristo che si offre in sacrificio, la natura del sacrificio non è qui indicata.

Delle quattro parole del passo citato — la vittima (pacifica), l’oblazione, l’olocausto, il sacrificio per il peccato — che corrispondono alle quattro specie principali del sacrificio mosaico, l’Apostolo ritiene soltanto le due prime che, in realtà, comprendono le altre due. È dunque probabile che, avendo in vista l’idea generale del sacrificio di cui Gesù Cristo è il perfetto antitipo, voglia intendere per « vittima » (θυσία = tusia) l’immolazione cruenta del Calvario, e per « oblazione » (προσφορά = prosfora) l’offerta spontanea ed amorevole che il Cristo fa di se stesso a suo Padre. Qui dunque si troverebbero riunite le due nozioni di sacerdote e di vittima e, come nell’Epistola agli Ebrei, riunite nella persona di Gesù (Hebr. IX, 22-26).

3. Certi teologi credono di aver fatto abbastanza quando hanno dimostrato che la morte del Cristo è un vero sacrificio che realizza il senso tipico dei sacrifici dell’antica Legge, e si affrettano a conchiudere che l’immolazione della croce opera alla maniera delle vittime del rituale ebraico, benché in modo più eccellente, in quanto che l’antitipo ecclissa la figura, e la realtà scancella i simboli. Qui vi è un difetto di logica e di metodo. Sul Calvario Gesù Cristo non è solamente vittima ma è anche sacrificatore, ed è tale per volere di suo Padre. Queste tre cose — l’immolazione passiva del Cristo, l’oblazione che fa di se stesso e l’ordine di Dio — formano un atto unico del quale si possono bensì distinguere gli elementi, ma senza avere il diritto di separarli. Vediamo in che modo san Paolo presenta questi due nuovi aspetti del dramma della redenzione. Gesù Cristo si abbandonò volontariamente alla morte; vi si abbandonò per salvarci; vi si abbandonò per amore: così si riassume la sua parte attiva nella tragedia del Calvario. San Paolo non si stanca di ripeterlo: « Il Cristo vi ha amati e si è dato per noi, oblazione e ostia (gradita) a Dio, in odore di soavità (Ephes. V, 2) ». — Il Cristo ha amato la Chiesa e si è dato per lei, per santificarla (Ephes. V, 25). — Io vivo nella fede del Figlio di Dio, il quale mi ha amato ed ha dato se stesso per me (Gal. II, 20). — Gesù Cristo ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci al secolo presente dominato dal male, secondo la volontà di Dio nostro Padre (Gal. I, 4). — Il mediatore tra Dio e gli uomini, il Cristo Gesù uomo, ha dato se stesso (come) redenzione per tutti (I Tim. II, 6) ». Questi testi non hanno bisogno di commento. Paolo incorona l’opera ricordandoci la manifestazione gloriosa « del nostro gran Dio e Salvatore, il Cristo Gesù, il quale ha dato se stesso per noi, per liberarci da ogni iniquità (Tit. II, 13) ». In questo insegnamento tratto a bella posta da tutti i gruppi di lettere, bisogna rilevare due cose: anzitutto se Gesù Cristo si offre per noi in sacrificio per salvarci, è perché Egli solo ha la capacità di farlo, poiché Egli è il mediatore unico tra Dio e gli uomini; in secondo luogo Egli lo fa per disposizione e con la sanzione di suo Padre che gliene ha dato il mandato formale. Quest’ultima considerazione ci porta alla seconda serie di testi nei quali appare l’iniziativa divina. Col fatto stesso che Dio mandava suo Piglio a salvare il mondo, lo istituiva suo plenipotenziario. Gesù Cristo non aveva più che da consultare la volontà di suo Padre e conformarvisi. Per questo l’offerta che Egli fa di se stesso, per ordine di Dio, ha il valore di un atto di obbedienza, atto meritorio che da una parte annulla e ripara la disobbedienza di Adamo (Rom. V, 19), dall’altra vale al suo autore una ricompensa: il Cristo Gesù « si abbassò col farsi obbediente fino alla morte e fino alla morte di croce; perciò Dio lo ha esaltato (Filip. II, 8-9) ». In virtù dell’ordine divino ricevuto ed eseguito dal Figlio, l’Apostolo può dire indifferentemente o che il Cristo si offre come vittima per la nostra salvezza, o che il Padre suo lo dà per noi alla morte: « Egli non risparmiò suo proprio Figlio ma lo diede per tutti noi. — Dio fa risplendere il suo amore per noi in questo, che quando ancora eravamo peccatori, il Cristo morì per noi (Rom. VIII, 32; V, 8) ». L’idea dominante di questi passi è che l’ordine intimato dal Padre e l’obbedienza del Figlio sono, da parte del Figlio e del Padre, una uguale e somma manifestazione di amore. Occorre appena ricordare che san Giovanni segue molto da vicino la dottrina di san Paolo (Giov. III, 16). – Il redattore dell’Epistola agli Ebrei le si avvicina più ancora per il pensiero, se non per l’espressione. La pittura del sacerdote vittima, consacrato dal Padre, corrisponde esattamente e in ciascuna linea al quadro che abbiamo tracciato più sopra, seguendo il Dottore dei Gentili. Il nome di sacerdote qui manca, è vero, ma l’atto sacerdotale non vi è meno chiaramente descritto. Da tutte e due le parti vi è una vittima la quale non è altri che Gesù Cristo; è la vittima stessa che si offre, si abbandona, si dà; e il Padre interviene non soltanto per accettare l’offerta ma per comandarla. Da tutte e due le parti l’oblazione costituisce un atto di obbedienza, e di obbedienza amorevole; da tutte e due le parti il sacrificio ha lo scopo e l’effetto di espiare, di scancellare, di distruggere il peccato, di rendere Dio propizio, di aprire agli uomini l’entrata del cielo. Ciò posto, la menzione del sacerdote, nell’Epistola agli Ebrei, non ha più che un’importanza secondaria, un’importanza più sotto l’aspetto della terminologia speciale, che non per la sostanza stessa della dottrina. – La morte redentrice è da parte del Cristo un atto di obbedienza; e questo atto è meritorio in rapporto con l’umanità che ne viene salvata, in rapporto col Padre che rende propizio, in rapporto col Figlio che a quello deve la sua esaltazione. Perciò si conchiude direttamente e per via di analisi, che tale atto era libero, poiché senza la libertà non si concepisce il merito; così pure che esso rispondeva ad un precetto divino, poiché non vi può essere obbedienza dove non vi è un comando. San Giovanni afferma espressamente queste due conclusioni, ma neppure lui non c’insegna il mezzo di conciliarle con l’impeccabilità di Gesù Cristo. Questa è una questione puramente scolastica la cui soluzione non si deve cercare negli autori ispirati. Dico puramente scolastica, perché essa dipende da cinque o sei problemi discussi dalla Scuola e che la rivelazione da sola non può risolvere. – Da che cosa deriva l’impeccabilità di Gesù Cristo? Deriva dalla visione beatifica o dall’unione ipostatica? E in questo secondo caso, deriva essa dal fatto stesso dell’unione, oppure da una provvidenza speciale dovuta all’Uomo-Dio? Suppone forse la libertà, non già il potere di fare l’atto cattivo, il che è evidentemente una imperfezione, ma il potere di sospendere l’atto buono o indifferente, e questo in sensu composito, come si dice, di tutte le condizioni richieste per agire? La libertà che hanno i beati del cielo, di scegliere tra diversi beni — eccetto quello essenziale della beatitudine — basterebbe a rendere meritori i loro atti, se Dio, con una disposizione positiva, non avesse fissato con la morte il termine del merito? In quale misura Gesù era ad un tempo viator e comprehensor? E in quali limiti gli effetti naturali della visione beatifica erano in Lui neutralizzati per lasciargli compiere la parte sua di redentore? L’ordine divino al quale Egli si sottomise morendo, era un precetto propriamente detto, oppure la manifestazione di un semplice desiderio? E se era un precetto, era esso assoluto o condizionale, subordinato all’accettazione del Verbo incarnato, oppure anteriore a qualunque accettazione? E finalmente riguardava esso il fatto medesimo della morte, oppure le circostanze della passione? Per parte nostra noi crediamo che il Cristo non solamente fu senza peccato, ma assolutamente impeccabile, e questo in virtù dell’unione ipostatica; che l’ordine di morire fu un vero precetto, dal momento in cui il Verbo fatto carne ebbe accettata la morte per la nostra salvezza; che tale accettazione del Cristo fu veramente libera e perciò meritoria; che essa bastava a costituire il Cristo obbediente fino alla morte, ancorché non gli fosse più stato possibile il ritrattarla; ma noi ci guardiamo bene dall’attribuire a san Paolo tutte queste deduzioni teologiche.

LO SCUDO DELLA FEDE (XLIV)

 

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XLIV.

IL SOCIALISMO. (1)

Il socialismo come la massoneria fa guerra alla Chiesa di Gesti Cristo. — Una esecranda bestemmia. — Mire sataniche del socialismo. — Calunnie e violenze di cui si serve. — Quale dovrebbe essere l’azione dei governi contro il socialismo che offende la religione. — Il gran rimedio del Vangelo e consigli pratici.

(1) Oggi il socialismo sembra estinto, come il comunismo, suo sottoprodotto. Si tratta in realtà di un lupo che perde il pelo, di una serpe che cambia pelle, ed infatti oggi è diventato il “Mondialismo democratico”, il “Nuovo Ordine Mondiale” riversato in una serie di partiti e di “movimenti” ideologici solo apparentemente diversi, onde alimentare l’illusione democratica e progressista, ma gli scopi veri del lupo travestito, della serpe velenosa con la pelle nuova, sono sempre identici nella sostanza, diversi negli accidenti e nelle maschere di cui si adorna per ingannare gli sciocchi presuntuosi ed i non pensanti. Oggi poi il c. d. “Nuovo Ordine” ha invaso pure la Chiesa, cacciandola dai sacri palazzi, e sostituendola con una sinagoga satanica, la chiesa dell’uomo, ivi insediata dal 29 giugno del 1963 in una doppia messa nera con l’intronizzazione di satana nella Cappella Palatina in Vaticano. [ndr.]

— Il socialismo adunque viene dalla massoneria?

Sì, ancorché il socialismo rinneghi oggidì colei che l’ha generato, nondimeno esso è massimamente l’opera della setta, e ad ogni modo sul terreno dei principii avversi alla Chiesa di Gesù Cristo, e delle relative conseguenze vanno completamente d’accordo. La massoneria, ha scritto ultimamente un ottimo periodico, è verissimo, quanto alla sua costituzione meccanica, è sempre stata essenzialmente borghese e monetaria, ed ha da sé respinto i meno abbienti: il socialismo invece fa pompa teatrale di sostenere gl’interessi dei diseredati. Quindi quanto all’effetto scenico, socialisti e massoni sarebbero in opposizione. Ma è tutta roba di apparenza. Massoni e socialisti non hanno che un duplice intento, vero e reale, perfettamente comune alle due sette: impinguare le borse proprie, allo scopo di godere il più che si possa dei beni di questo mondo; far guerra accanita alla Chiesa di Dio, che mette un ostacolo all’immorale godimento dei beni di quaggiù. In questo programma che è l’essenza delle due sètte, esse son perfettissimamente concordi. È inutile quindi che essi si sbraccino a protestare che fra di loro passa grande diversità. Questa sarà vera, quanto ad accidentalità minute, ma non è vera se si riguarda il vero e primo scopo, a cui da una parte e dall’altra si mira. Uno degli scopi, cioè il « prendiamo quanto si può » non si enuncerà mai alla sfacciata, contenti di metterlo in opera; quanto invece alla guerra alla Chiesa, il grido di: Ecco il nemico! li accoglierà tutti sotto le stesse tende!

— Eppure io ho inteso dire che il socialismo non impedisce di essere Cattolico ed anche buon Cattolico.

Così davano ed intendere da principio i caporioni dei socialisti, specie ai semplicioni, per potere più facilmente tirarli dalla loro, ma oggidì è ornai a tutti palese che il socialismo, come la massoneria, odia Iddio, la Chiesa, i preti e tuttociò che appartiene alla Religione di Gesù Cristo.

— Ma pure si dice persino che Gesù Cristo sia stato Egli il primo socialista!

Così purtroppo si è detto e stampato con esecranda bestemmia. Ma se vi è cosa che sia apertamente condannata dal Vangelo di Gesù Cristo, dai suoi insegnamenti e dai suoi esempi, non è forse il socialismo? Gesù Cristo non è Egli tutto nel raccomandare e praticare la giustizia, la carità, la fraternità, il rispetto vicendevole, l’amore al lavoro, la rassegnazione nel proprio stato, il distacco dai beni terreni, tutto ciò insomma che il socialismo apertamente avversa? Gesù Cristo socialista!! Vedi, a quali insensate e orribili calunnie si appigliano i ministri di satana, pur di riuscire ad ingannare il popolo e a trascinarlo alla rovina, allontanandolo da Dio e dalla sua Chiesa!

— Ma il socialismo non mira soltanto a far scomparire questa immensa disuguaglianza sociale che regna nel mondo?

Anche allora che mirasse solo a questo scopo, come vi mira realmente il Cristianesimo, per non essere malvagio dovrebbe valersi dei giusti mezzi, di cui appunto il Cristianesimo si vale, e non già dei disordini, delle rivolte, delle manomissioni dell’altrui proprietà, dell’odio e dell’avversione ai ricchi, della resistenza alla legittima autorità, eccetera. Ma poi non è manifesto altresì che il socialismo mira direttamente a far scomparire, se fosse possibile, Dio, Gesù Cristo e la sua santissima Religione dalla faccia della terra? Ascolta alcune sue asserzioni e alcuni suoi propositi, dichiarati pubblicamente nei congressi e su pei giornali. « Dio è il nemico, Dio è la menzogna, Dio è la pietra angolare della ciarlataneria religiosa, inventata da quei mostruosi vampiri, che si chiamano preti. — La morale evangelica è falsa, dannosa, depravatrice delle anime. La religione dev’essere abolita. Il solo culto deve essere quello dell’ateismo. Il paradiso noi non lo vogliamo: vogliamo l’inferno con tutte le voluttà che lo precedono; il paradiso dell’altro mondo lo lasciamo al Dio de papisti e dei suoi infami beati. — Bisogna distruggere con accanimento la Chiesa, e i confessionali, che sono i macelli delle intelligenze. Sarà per noi giorno di trionfo e di festa quello, in cui avremo il piacere di contemplare le agonie dei preti; per questo piacere noi venderemo volentieri il nostro posto in cielo ». Che ti pare di questo piccolo saggio!

— Mi pare che il diavolo in persona non potrebbe parlare peggio.

A queste orrende bestemmie ed empietà profferite nei congressi di Liegi, di Gand, di Lione e di varie nostre città italiane, aggiungi tutte le più nefande calunnie e falsità, che ogni dì si vanno spargendo dai socialisti per mezzo della stampa. Tutti i giorni si scaglia contro il Cattolicismo ogni sorta di insulti; le vignette le più oscene vanno tappezzando i muri, e in esse si pone in dileggio tutto ciò che è sacro pei Cattolici, facendo apparire la nostra Religione come la cosa più assurda, i suoi dogmi come ridicoli, i suoi ministri come ingordi trafficanti di Sacramenti o di indulgenze, come i corrompitori dei buoni costumi, come la pianta parassita che tutto e tutti sfruttano a loro vantaggio. E dopo tutto ciò come non riconoscere nel socialismo uno dei più accaniti nemici della Chiesa, degnissimo per ogni riguardo di stare alla pari colla massoneria?

— Ma il socialismo è già esso riuscito ne’ suoi veri divisamenti?

Almeno in parte, pur troppo; i fatti sono lì, chiari, a dimostrarlo. E a tal fine non si sono contentati i socialisti di parole, ma fecero ricorso altresì alle più audaci provocazioni e violenze, sia levando la voce contro i predicatori nelle chiese, sia disturbando e profanando le sacre funzioni, le processioni dei fedeli ed altre pubbliche manifestazioni di fede, sia insultando Vescovi; assalendo, ferendo e talora dando morte senza ombra di ragione, per solo odio alla Religione, a Sacerdoti ed a spiccati Cattolici. E ciò essi fecero e vanno tuttora facendo tanto più facilmente, in quanto che per la sconfinata libertà di stampa, e per una incredibile tolleranza da parte dei governi, non hanno più alcun freno nei loro insulti divenuti sistematici e nelle loro calunnie fatte a getto continuo.

— I governi adunque dovrebbero punire le offese che i socialisti fanno alla Religione?

Senza dubbio. Pur lasciando la libertà di pensare come si crede ai socialisti come ai Cattolici, i governi dovrebbero però procurare che tale libertà sia anche al sicuro dalle intolleranze di coloro che la pensano diversamente. Non ti pare?

— Ciò è giustissimo.

Quindi le offese alla Religione devono essere punite, perché nella Religione si personifica la fede del popolo; debbono essere punite le offese al clero, perché il clero è composto di individui, che hanno diritto al pubblico rispetto; debbono essere perseguitati come calunniatori coloro che fanno del socialismo, dell’anticlericalismo e del massonismo un’arma di offesa intaccante l’onorabilità e l’onestà dei loro avversari. Se così si operasse, certi vergognosi eccessi non accadrebbero; e se così non si opererà, qualora il socialismo giunga presso di noi all’apice delle sue aspirazioni anticlericali, allora, una delle due: o i Cattolici dovranno ridiscendere nelle catacombe [questa previsione del Carmagnola, si è avverata oggi in tutta la sua drammaticità – ndr. -], oppure si dovranno preparare alla guerra civile nelle chiese, in mezzo alle strade e per le piazze.

— Che cosa converrebbe adunque di. Fare per impedire l’opera nefasta del socialismo?

Bisogna ricorrere alla pratica esatta, quanto più è possibile, del santo Vangelo. Senza dubbio è pur necessario giovarsi di alcuni mezzi umani, suggeriti dall’esperienza pratica e dalle diverse condizioni dei tempi in cui viviamo, mezzi che la Chiesa non solo non trascura, ma sommamente raccomanda ed efficacemente adopera nell’azione popolare cattolica o democrazia cristiana, coll’istituzione di società operaie, di corporazioni professionali, di riunioni agricole, di casse rurali, di cooperative di consumo, di segretariati del popolo, di conferenze sociali popolari, eccetera, eccetera; ma tutto deve essere regolato e subordinato alla dottrina di Gesù Cristo, a quella dottrina, che in proposito ci mostra la necessità delle differenti classi sociali, intima all’operaio il dovere di lavorare coscienziosamente e di rispettare il suo padrone ed ogni altra legittima autorità, e l’obbligo al padrone di retribuire convenientemente l’operaio e di rispettare in lui la dignità dell’umana natura e il carattere di Cristiano, comanda la carità, la fraternità, la giustizia, e rammenta che la nostra vita non è tutta quaggiù, ma che invece la nostra eterna dimora ci è preparata in cielo. – Se la società presente accettasse e praticasse questi insegnamenti di Gesù Cristo, credi, che se le disuguaglianze sociali, dalle quali il socialismo ha preso le mosse per le sue dottrine e pei suoi disordini, non scomparirebbero del tutto, essendo ciò impossibile finché dura il mondo come piacque a Dio di ordinarlo, si mitigherebbero tuttavia per guisa tale da rendere la civile convivenza non solo sicura e tranquilla, ma felice e lieta. – Di fatti, il ricco riconoscendo allora che se egli è tale, non lo è affatto per suo merito, ma perché Dio lo ha fatto nascere tale o gli ha dato ingegno e abilità da diventar tale, e che perciò delle ricchezze, che possiede, non è egli vero padrone, ma solo amministratore, delle ricchezze non si servirà mai come strumento di insulto alla miseria del povero, e quando di esse avesse impiegato tutto ciò che basta al giusto decoro della casa, tutto il rimanente come superfluo lo impiegherebbe a far del bene al prossimo, sarebbe largo di acconce donazioni a prò dell’indigenza, e farebbe così quanto è da parte sua per avvicinarsi agli uomini di più bassa condizione. – Il padrone non imporrebbe mai lavori sproporzionati alle forze dell’operaio e del servo, o mal confacenti alla sua età o al suo sesso. E non solo non defrauderebbe dell’equa mercede i suoi servi ed operai, non solo rifuggirebbe dalle ingorde e spietate usure, non solo si ritrarrebbe da ogni speculazione ingiusta e rovinosa per gli altri, ma si metterebbe volentieri al contatto dell’operaio e del servitore, perché non trattenuto da una etichetta glaciale potrebbe scambiare con lui i propri sentimenti, parteciperebbe alle sue gioie, compatirebbe le sue pene, s’interesserebbe della sua famiglia, lo conforterebbe all’onestà e al bene, lo correggerebbe nei suoi bisogni, ma senza avvilirlo, insomma riguarderebbe in lui il fratello di quella grande famiglia cristiana, di cui Dio è Padre.

— E i poveri, gli operai che farebbero?

Discaccerebbero dall’animo ogni sentimento di invidia per la sorte dei ricchi, non uscirebbero in parole di lamento e di imprecazione contro di essi e contro di Dio; anche allora che giungono dei momenti critici e dolorosi, vivrebbero affidati alla divina Provvidenza, che non lascia mai mancare il pane a chi in lei si abbandona. Riguarderebbero nei loro signori e padroni la vera immagine di Dio, anche allora che taluni tra di essi non la facessero troppo risaltare. E come a rappresentanti di Dio starebbero volentieri sottomessi, li stimerebbero, li riverirebbero, li obbedirebbero nei loro comandi, li servirebbero con fedeltà ed amore, lavorerebbero non solo quando sono veduti da loro, ma sempre, secondoché loro impone la coscienza e la giustizia, non sperderebbero né guasterebbero mai a bella posta la loro roba, per recar loro danno e offesa, e se talvolta dovessero difendere i propri diritti calpestati, non sarebbe mai che si appigliassero agli atti violenti, agli ammutinamenti, alle ribellioni, ma alle calme e rispettose ragioni. –  Tale sarebbe l’efficacia, che sull’animo dei ricchi e dei padroni, dei poveri e degli operai eserciterebbe il Vangelo di Gesù Cristo, quando fosse tenuto nel debito conto.

— Sì, lo credo anch’io.

Tu intanto bada bene per carità a star lontano da coloro, che anche per poco ti pongono in dileggio la Chiesa e ti parlano del socialismo come del gran mezzo per rifare la società ed apportare nel mondo la felicità a tutti, e specialmente a quelli che stanno in basso. Non ascriverti mai ad alcuna società, senza esserti prima consigliato con qualche buon sacerdote o con altra persona di sano e cristiano giudizio. In quella vece entra volentieri a far parte di quelle associazioni e istituzioni cattoliche d’indole sociale, che i Pontefici giustamente hanno indicato come gran mezzo per far argine al socialismo, e che, grazie a Dio, si vanno ogni giorno più rassodando e dilatando per le nostre città e pei nostri paesi; e dato che avrai il nome a tali associazioni e istituzioni, procura di far loro onore coll’integrità della tua condotta, colla fermezza nei tuoi principii cattolici, con la aperta e coraggiosa manifestazione dei medesimi, e col combattere anche tu, per quel che ti spetta, e sotto la disciplina della Chiesa, tutto ciò che sgraziatamente la avversa.

— Mi darò il massimo impegno per seguire in proposito i suoi buoni consigli.

CONOSCERE SAN PAOLO (36)

LIBRO QUARTO

L’OPERA DELLA REDENZIONE.

CAPO I.

La missione redentrice

I. L’INVIATO DA DIO

1. SCOPO DELLA MISSIONE REDENTRICE. – 2. IL MEDIATORE DELLA NUOVA ALLEANZA. – FUORI DI LUI NON VI È ALTRO MEDIATORE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Già abbiamo detto che l’iniziativa della nostra salvezza spetta sempre al Padre celeste. A Lui san Paolo si compiace di riferire il complesso dei disegni di redenzione la cui esecuzione è affidata al Figlio, mediatore naturale tra Dio e gli uomini: Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò suo Figlio, nato da una donna, messo sotto la Legge, per riscattare coloro che erano sotto la Legge, per farci ricevere la filiazione adottiva. Questo breve passo esprime il fatto, il tempo, il modo, lo scopo della missione redentrice. — Il fatto: Dio Padre manda il suo unico Figlio, assai bene distinto da tutti coloro che parteciperanno al nome di figli, per lo stesso suo isolamento e per la relazione incomunicabile che lo unisce al Padre; egli lo manda da vicino a sé, dall’alto dei cieli, secondo la forza della parola composta (= exapesteilen) adoperata dall’Apostolo; lo manda in un momento preciso della durata, ma non lo costituisce Figlio nel mandarlo, perché questa missione suppone evidentemente la preesistenza reale del Figlio. — Il tempo: è la pienezza dei secoli, espressione che indica ad un tempo lo spirare degli indugi liberamente fissati dal Padre e la fine delle preparazioni provvidenziali che dovevano disporre il mondo a quel grande avvenimento. Dopo sarebbe stato troppo tardi; prima sarebbe stato troppo presto: il termine delle profezie messianiche doveva coincidere con la maturità del genere umano. — Il modo è sintetizzato in questa breve formula: « nato da una donna, messo sotto la Legge ». Conveniva infatti che il Figlio partecipasse alla natura di coloro che veniva a riscattare, col nascere da una donna, come tutti gli altri uomini, per avere il diritto di chiamarli suoi fratelli e per farli partecipi della sua qualità di figlio; conveniva pure che fosse sottomesso alla Legge, per liberare i suoi compatrioti dal giogo della Legge; convenienza che diventa necessità nel disegno attuale della redenzione, secondo il quale Dio ha stabilito di salvare gli uomini mediante il principio della solidarietà. — Lo scopo doppio della missione corrisponde al doppio stato dell’inviato divino: sottrarre gli Ebrei dalla tirannia della Legge per sottometterli al Vangelo; conferire a tutti gli uomini Ebrei e Gentili, la filiazione adottiva. Un altro testo, celebre tanto per la sua difficoltà intrinseca, quanto per le divagazioni degli esegeti, è assai simile al precedente, ma ne differisce in un punto: l’idea principale, espressa dal verbo in modo personale, non è più la stessa missione del Figlio, ma la condanna del peccato nella carne, che risulta da tale missione: « Cosa che era impossibile alla Legge, perché era indebolita dalla carne, Dio, mandando il suo proprio Figlio in una carne simile alla carne del peccato e per il peccato, condannò il peccato nella carne, affinché si compisse in noi la giustizia della Legge » (Rom. VIII, 3-4). Fatta astrazione da tutti i punti dubbi, da questo complesso periodo risulta chiaramente come uno dei motivi di Dio, nel mandare suo Figlio, era di rimediare all’impotenza, oramai riconosciuta, della Legge mosaica. La Legge mostrava all’uomo la via della giustizia e ve lo doveva condurre; ma essa era stata intralciata e paralizzata dalla carne, cioè dall’inclinazione al male che ora infetta la natura umana. Per vincere e annientare il peccato nel suo stesso dominio, Dio manda suo Figlio « nella somiglianza di una carne di peccato ». Paolo non dice « nella somiglianza della carne », poiché così lascerebbe capire o che il Cristo non aveva vera carne, o che la sua carne era di natura diversa dalla nostra. Non dice neppure « in una carne di peccato », perché così si potrebbe intendere che il Cristo rivestì una carne peccatrice. Egli dice invece, con espressione veramente felice, « nella somiglianza di una carne di peccato »; in fatti la carne del Cristo è proprio una carne reale che fisicamente non si distingue per nulla dalla nostra, ma essa è soltanto in apparenza una carne di peccato, poiché non è né l’eredità, né la sede, né il fomite, né lo strumento del peccato. Siccome aveva la missione di condannare il peccato nella carne, Gesù Cristo non doveva avere nulla di comune col peccato. Dio lo manda espressamente « in vista del peccato », cioè per espiare e per riparare il peccato; e non solamente il peccato originale, ma il peccato in generale, qualunque ne sia la natura e la sorgente. I migliori esegeti di tutte le scuole hanno veduto benissimo che non si tratta qui di una semplice condanna per comparazione, come sarebbe quella che risulterebbe, per l’uomo peccatore, dallo spettacolo della carne innocente del Cristo, e neppure di una sentenza platonica la quale lascerebbe le cose nello stato di prima. Essi danno al verbo « condannare » gli equivalenti più forti « vincere, abbattere, distruggere, abolire, annullare, espellere, uccidere, sterminare »; essi hanno ragione senza dubbio, poiché la condanna di Dio, essendo efficace, deve necessariamente sortire il suo effetto; ma l’idea di condanna effettiva di cui si contenta san Paolo, è abbastanza chiara, ed è meglio fermarsi a questa. Dio condanna all’impotenza il peccato che regnava nella carne; e lo condanna nella stessa carne, poiché la carne del Cristo è la nostra. La maggior parte dei commentatori, per aver voluto cercare in questo testo quello che san Paolo non vi ha messo, se ne sono chiusa la via per capirlo. Essi lo hanno completato arbitrariamente, e ciascuno a modo suo, o intendendo l’espressione « per il peccato » nel senso di « sacrificio per il peccato »; oppure supponendo che la condanna del peccato abbia luogo nella sola carne del Cristo, quasi che il testo dicesse « nella sua carne »; oppure dimenticando che la condanna del peccato è qui l’opera del Padre il quale incarica il Figlio di metterla in esecuzione.

2. Questa missione costituisce Gesù Cristo mandatario di Dio e rappresentante degli uomini, in altri termini, mediatore. Nella religione giudaica, vi furono tre sorta di mediatori: i re, i sacerdoti e i profeti. Il profeta porta agli uomini i messaggi di Dio; il sacerdote amministra a nome degli uomini le cose di Dio; il re teocratico era il luogotenente di Dio. Sacerdoti e profeti sono egualmente mediatori tra Dio e l’uomo; però su la scala misteriosa che unisce il cielo con la terra, il sacerdote sale, e il profeta discende: il profeta inviato da Dio, discende verso gli uomini; il sacerdote, delegato dagli uomini, sale verso Dio. Senza dubbio, compiuta la loro missione, essi eseguiscono un movimento inverso: il profeta, risale verso Dio per rendergli conto del suo messaggio, e il sacerdote scende di nuovo verso quelli che lo hanno mandato, per distribuire loro le benedizioni del cielo; ma la prima direzione è quella che li caratterizza. In quanto poi al re teocratico, ti suo trono è « il trono di Jehovah » adesso (Ps. XLIV, 7); Davide, vestito dell’ephod, benedice il popolo in nome di Dìo (II Sam. VI, 18); nei salmi messianici, il re discendente di Davide si presenta come l’intermediario titolato tra Dio e il popolo. – Gli Ebrei contemporanei di Gesù Cristo, pensavano alla triplice mediazione del Messia, re, profeta e pontefice? Avevano essi l’idea di un sacerdozio diverso dal sacerdozio levitico, e riconoscevano essi generalmente il Messia nel « sacerdote eterno secondo l’ordine di Melchisedech »? Il profeta che aspettavano era egli lo stesso Messia o un precursore del Messia? Questioni spinose, rese più intricate dalle controversie e oscurate dall’incertezza e dalla forma poco precisa dei dati contrari. Gli scrittori del Nuovo Testamento ci mostrano bensì la regalità spirituale, la pienezza dello spirito profetico ed il sacerdozio eterno in Gesù Cristo, ma senza mai unire insieme queste tre attribuzioni; sembra anzi che essi se le dividano, poiché i Sinottici mettono in rilievo la qualità del re messianico, san Giovanni, l’autorità del profeta per eccellenza, l’Epistola agli Ebrei, la dignità del pontefice che per il primo apre la via del cielo. Paolo invece non chiama il Cristo né re né sacerdote né profeta; e benché gli attribuisca funzioni regali, sacerdotali e profetiche, questa divisione ternaria delle mansioni del Cristo, estranea alle speculazioni messianiche degli Ebrei, quasi sconosciuta ai Padri, introdotta o messa in voga, dopo curiosissimi brancolamenti, dai riformatori del secolo XVI, non conviene punto alla teologia paolina. – L’Apostolo soltanto una volta dà a Gesù Cristo il nome di mediatore. « Unico è Dio, unico pure il mediatore di Dio e degli uomini, Gesù Cristo uomo, il quale ha dato se stesso come riscatto per tutti (I Tim. II, 5)». L’estendere a tutti il benefizio della volontà di salvare, rendendo propizio Iddio col sacrificio spontaneo della vita che egli offre come rappresentante del genere umano, questo era lo scopo, il mezzo e la condizione della sua mediazione onnipotente. Siccome l’uffizio speciale del mediatore è quello di servire come mezzo per unire le due parti, per riconciliarle se sono in guerra, per stringere di più i loro vincoli se sono in pace, l’Uomo-Dio era eminentemente adatto per compiere questa parte; infatti con le sue due nature egli s’identifica con i due estremi, e, col suo composto teandrico, li lega con una unione indissolubile. Gesù Cristo fu dunque mediatore non solamente per il suo stato, intermediario tra la via e il termine, tra la prova e la corona, e neppure solamente con la sua persona, unione armonica della umanità e della divinità, ma soprattutto come dispensatore dei benefizi divini dei quali è l’unico depositario. Infatti il Cristo di san Paolo non è un semplice mediatore naturale, come il Logos di Filone, ma è un mediatore di vita soprannaturale. – Per mezzo di Lui infatti noi abbiamo la grazia (Rom. I, 5; V, 21), la salvezza, cominciata su questa terra e consumata in cielo (I Tess. V, 9; II Tim. III, 15); per mezzo di Lui abbiamo la giustizia e il frutto della giustizia (Rom. III, 27; Fil. I, 11); per mezzo di Lui abbiamo la giustificazione (Rom. V, 18; Gal. II, 16), la redenzione (Rom. III, 24; Efes. I, 7) e la riconciliazione (Rom. V, 10-11, etc.); per mezzo di Lui abbiamo la pace (Rom. V, 1) e la pacificazione generale (Col. I, 20); per mezzo di Lui abbiamo il libero accesso a Dio (Rom. V, 2) e un rifugio sicuro contro l’ira divina (Rom. V, 9); per mezzo di Lui abbiamo la consolazione spirituale (II Cor. I, 5) e la fiducia che nulla può turbare (II Cor. III, 4); per mezzo di Lui abbiamo il dono dello Spirito Santo (Tit. III, 6) e la filiazione adottiva (Efes. I, 5); per mezzo di Lui abbiamo la vittoria sopra tutti i nostri nemici (Rom. VIII, 37; I Cor. XV, 57); per mezzo di Lui abbiamo il regno senza fine (Rom. V, 17). Per mezzo di Lui solo noi possiamo gloriarci in Dio (Rom. V, 11) e dobbiamo rivolgergli i nostri ringraziamenti (Rom. I, 8; VII, 28); poiché come tutte le promesse divine ebbero in Lui il loro sì, cioè il loro compimento, per mezzo pure di Lui i fedeli pronunziano il loro amen, in un atto di fede sincera e riconoscente, per far risalire a Dio tutto l’onore e la gloria (II Cor. I, 20). In una parola, nell’ordine della grazia, più ancora che nell’ordine della natura, « tutto è per mezzo di Lui (o per Lui) e noi siamo per mezzo di Lui (I Cor. VIII, 8) » poiché Egli è il principio della nostra vita e di tutto il nostro essere.

3. Perciò non vi è più nessun altro mediatore o superiore o uguale a Lui. I Colossesi, con un malinteso culto degli Angeli, che nel loro pensiero si collegava con l’osservanza della Legge mosaica, derogavano alla mediazione universale del Cristo. « Si andava dicendo loro che la Legge era stata data per mezzo degli Angeli, perché questi avevano prestato il loro ministero nella sua promulgazione e non potrebbero perciò vedere con occhio indifferente il disprezzo della Thora » della quale erano essi i custodi. Col violare la Legge, si andava dunque incontro allo sdegno e alla vendetta degli spiriti celesti. Ma l’Apostolo li assicurava che questo non è punto vero: Dio spogliando (delle loro funzioni passate) i principati e le potestà, li ha esposti ostensibilmente agli sguardi (di tutti, così spogliati e privati dei loro onori), trascinandoli in trionfo (al seguito del Cristo vincitore, assiso) in croce (o per mezzo della croce) (Col. II, 15). – San Paolo conosce soltanto due specie di esseri sovrumani, i buoni ed i cattivi, gli spiriti della luce e gli spiriti delle tenebre, gli Angeli di Dio e gli angeli di satana. In nessun luogo dei suoi scritti appare il concetto di esseri intermedi destinati forse a diventare angeli o demoni, ma che attualmente non sarebbero né Angeli né demoni. Per gli Ebrei contemporanei di san Paolo, e per lo stesso san Paolo, gli angeli associati alla promulgazione della Legge erano gli Angeli buoni, e non veniva a nessuno l’idea che essi fossero venuti meno al loro mandato o avessero rivolto contro Dio l’autorità di cui erano investiti. I Colossesi che li veneravano, non ne avevano affatto un’idea diversa, e l’Apostolo parlerebbe in modo incomprensibile se li mettesse in un’altra ipotesi. Non vi è dunque nulla che insinui una prevaricazione di quegli Angeli; ma dopo l’abolizione della Legge, il loro compito fu terminato e la loro mediazione non ebbe più il suo oggetto. Gesù Cristo, infinitamente elevato sopra le potenze sopraterrestri, il solo capace di rivelarci il Padre del quale è l’immagine perfetta, il solo intermediario titolato tra Dio e gli uomini, si sostituisce oramai agli spiriti celesti promulgatoli e custodi di una legge che, invece di favorire il disegno della redenzione, gli è piuttosto di ostacolo. Perciò quando la Legge vien messa in disparte, essi partecipano in certo modo alla sua disgrazia, e il loro ministero non ha più ragione di essere. – Dio li fa servire come di scorta al Cristo trionfatore: per sé, questo sarebbe un onore, ma è anche una diminuzione perché rappresenta la fine della loro autonomia ed è la prova che essi sono soltanto i subalterni ed i satelliti del gran mediatore. – Perché dunque san Paolo, parlando del Cristo, è così avaro del nome di mediatore? Sarebbe forse perché, nell’opinione e nel linguaggio comune degli Ebrei di quel tempo, Mosè era il mediatore per eccellenza? (Gal. III, 19). Eppure l’Epistola degli Ebrei che non ignora tale usanza, chiama Gesù Cristo mediatore della nuova alleanza (Ebr. VIII, 6). La ragione si deve cercare altrove: il mediatore, nel senso usuale della parola, è estraneo alle due parti che deve mettere in relazione tra loro; non così è d i Gesù Cristo, nel quale la pienezza della divinità abita corporalmente, e che realmente è entrato nella famiglia umana. Egli è mediatore, ma non è un mediatore ordinario; egli è il nuovo Adamo: questo è un titolo che san Paolo crea apposta per Lui e che, contenendo eminentemente quello di mediatore, lo rende perciò inutile.

II. IL NUOVO ADAMO.

1. PARALLELO TRA I DUE ADAMI. — 2. COMPITO E QUALITÀ DEL SECONDO ADAMO.

1. L’immagine più completa, più feconda, più originale che l’Apostolo ci dà della missione redentrice del Cristo, è quella del nuovo Adamo. È più che dubbio che tale immagine gli sia stata suggerita dalla teologia ebraica contemporanea, perché la denominazione di secondo Adamo o di ultimo Adamo si trova soltanto in certi scritti di ben poca autorità e di assai bassa epoca, e si può benissimo credere che la locuzione tanto frequente Adam ha-Eishon non significhi il primo Adamo, ma semplicemente il primo uomo. Ad ogni modo era riservato a Paolo di esprimerne il valore dottrinale e di far vedere le armoniche relazioni che essa stabilisce nel complesso della soteriologia cristiana. Adamo e il Cristo riassumono i due periodi dell’umanità; essi non li simboleggiano soltanto, ma li realizzano nella loro persona con una misteriosa identificazione. La prima volta che il parallelo si presenta sotto la penna di Paolo prende questa forma antitetica: « Se vi è un corpo psichico, vi è un corpo spirituale. – Così sta scritto: Il primo uomo, Adamo, diventò un’anima vivente; l’ultimo Adamo (diventa) uno spirito vivificante. Ma non è lo spirituale (che passa) prima; è quello psichico, poi lo spirituale. Il primo uomo, (tratto) dalla terra, (è) terrestre; il secondo uomo (viene) dal cielo. Quale il terrestre, tali anche i terrestri; e quale il celeste, tali anche i celesti; e come noi abbiamo portato l’immagine del terrestre, porteremo (o portiamo) anche l’immagine del celeste » (I Cor. XV, 44-49). Senza lasciarci distrarre dalle idee accessorie e dalle parentesi esplicative — esistenza e origine del corpo spirituale, origine, natura e priorità del corpo psichico — fermiamoci all’idea centrale. L’Apostolo ha detto prima: « Un corpo psichico è seminato, un corpo spirituale risuscita »; egli conclude, dopo la sua lunga spiegazione: « Come noi abbiamo portato l’immagine del terrestre, porteremo anche l’immagine del celeste ». Il corpo psichico è il corpo perituro tale e quale viene restituito alla terra, tale e quale ebbe il primo uomo dalle mani del Creatore. Il corpo di Adamo fu fatto di terra o più particolarmente dal limo della terra; ma quando Dio gli ebbe ispirato il soffio della vita, diventò un’anima vivente; così la Scrittura indica un essere animato, dotato di un principio vitale. Adamo non può trasmettere ai suoi discendenti più di quello che possiede per natura, cioè un corpo psichico e mortale. Né si può obiettare che egli fu ornato della grazia santificante e fu destinato all’immortalità: questi doni soprannaturali che non erano inerenti a lui e che egli non seppe conservare, non fanno parte del suo retaggio. Egli è terrestre e non può dare origine che a uomini terrestri. – Ben altra è la condizione del secondo Adamo. Egli è del cielo, non solamente perché il cielo è il suo centro di gravitazione e il luogo attuale della sua dimora, dal quale ritornerà glorioso al momento della parousia, ma soprattutto per la sua preesistenza divina e per i doni celesti che questa gli conferisce per Lui e per i suoi (I Cor. XV, 47). Egli è celeste per tutti i titoli, e il suo corpo risuscitato è spirituale perché è sciolto dalle limitazioni della materia ed è interamente dominato dallo Spirito. Se il corpo psichico è quello che serve di organo all’anima sensitiva ed è proporzionato alla medesima, il corpo spirituale sarà quello che serve di strumento ad un principio di operazione di un ordine superiore — chiamato da san Paolo spirito — e che partecipa alle sue perfezioni. Il momento della risurrezione è quello in cui Gesù Cristo prende effettivamente questo corpo spirituale al quale gli danno diritto la pienezza dello Spirito Santo posseduta fin dalla sua miracolosa concezione e il merito acquistato nell’opera redentrice; ed è pure il momento della risurrezione quello in cui diventa spirito vivificante, capace di effondere e di trasfondere la vita soprannaturale di cui è dotato. Perciò mentre il primo Adamo tramanda la morte a tutti quelli che sono una sola cosa con lui per il fatto della generazione naturale, il secondo Adamo trasmette la vita a tutti quelli che sono una cosa sola con Lui per il fatto della generazione soprannaturale. Adamo è « di terra », è « terrestre », e diventa « un’anima vivente » nell’istante della sua creazione, quando comincia ad essere capo dell’umanità; il parallelismo c’invita a mettere i tre termini opposti in rapporto col momento in cui Gesù Cristo diventa il capo glorioso dell’umanità redenta. L’Apostolo, dopo un lungo giro, ritorna al suo punto di partenza: « La morte è per mezzo di un uomo ed anche per mezzo di un uomo la risurrezione dei morti; poiché come in Adamo muoiono tutti, così pure nel Cristo tutti saranno vivificati (I Cor. XV, 21-22) ». Il carattere di Adamo, tanto del primo quanto del secondo, è essenzialmente rappresentativo. Adamo porta in sé tutto il genere umano: dunque ciò che conviene al padre conviene anche ai figli. Noi, discendenti secondo la carne da un uomo terrestre, saremo terrestri come lui; discendenti secondo lo spirito da un uomo celeste, saremo celesti come Lui (I Cor. XV, 48-49). Noi riceviamo a volta a volta l’immagine dell’uno e dell’altro. – Il testo che abbiamo ora esaminato è tutto fatto di antitesi: differenze di origine, di natura, di azione e di destino tra i due Adami; quello che vedremo ora unisce il parallelismo al contrasto, benché vi domini il contrasto: « Perché come per mezzo di un solo uomo il peccato entrò nel mondo, e per mezzo del peccato la morte », così per mezzo di un solo uomo la giustizia è rientrata nel mondo e, per mezzo della giustizia la vita perduta in « Adamo che è il tipo dell’Adamo futuro ». — Prima somiglianza. « Ma non è del dono gratuito come delia colpa: perché se per la colpa di un solo molti, (tutti nonostante il loro numero) sono morti, quanto più la grazia di Dio e il dono gratuito che derivano da un solo uomo, Gesù Cristo, si riversarono sopra molti », cioè su tutti. — Primo contrasto. « E non è del dono come (dell’atto compiuto) da un solo peccatore: poiché il giudizio (parte) da un solo (atto delittuoso e  arriva) alla sentenza di condanna; ma il dono gratuito (parte) da una moltitudine di colpe (e arriva) ad una sentenza di giustificazione ». — Secondo contrasto.

« Perché se, per la colpa di uno solo, la morte regnò per il (fatto del) solo (Adamo), quanto più quelli che hanno ricevuto l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per il solo Gesù Cristo ». — Terzo contrasto.

« Così dunque come per una sola colpa (il giudizio cade) sopra tutti gli uomini in sentenza di condanna, anche per un solo atto meritorio (la grazia discende) sopra tutti gli uomini in giustificazione di vita ». — Seconda somiglianza.

« Poiché come per la disobbedienza di un solo uomo molti (= tutti nonostante il loro numero) sono stati costituiti peccatori, così, per l’obbedienza di un solo, molti (ossia tutti, qualunque ne sia il numero) saranno costituiti giusti ». — Terza somiglianza.

« Ora la Legge interviene per far abbondare la colpa; ma là dove il peccato abbondava, la grazia è sovrabbondata; affinché, come il peccato regnò per mezzo della morte, così la grazia regni per mezzo della giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo Nostro Signore » (Rom. V, 12-21). —

Riassunto del parallelo e del contrasto. – Vi sono dunque, senza contare la conclusione finale, tre analogie e tre disparità. La prima analogia riguarda un fatto, cioè l’introduzione nel mondo e la diffusione universale del peccato e della morte per parte di Adamo, della giustizia e della vita per parte del Cristo. Una parentesi abbastanza lunga, la quale spiega come tutti gli uomini muoiono in Adamo per aver peccato tutti in Adamo, turba un poco il parallelismo; ma il rapporto tipologico, ricordato con una parola (τύπος = tupos), non resta meno chiaro. La seconda analogia riguarda il modo: l’unione di solidarietà che vi è tra l’intera stirpe ed i suoi capi rispettivi, qualunque sia il numero degli individui rappresentati. La terza analogia riguarda la causa meritoria: da una parte l’obbedienza del Cristo, e dall’altra la disobbedienza di Adamo; la prima ha costituito peccatori tutti gli uomini, come la seconda li ha costituiti giusti. Accanto alle analogie vi sono i contrasti. Il primo oppone tra loro gli strumenti: il peccato e la grazia; ma il bene la vince sul male, e la grazia è più potente a salvare, che il peccato a perdere. Il secondo contrasto paragona gli effetti: da una parte un solo peccato che si trasmette, dall’altra un solo atto di grazia che scancella e ripara peccati senza numero; vi è un evidente eccesso da parte della grazia. Il terzo contrasto paragona le persone: da una parte vi è soltanto un uomo, e dall’altra vi è Gesù Cristo il cui nome è sopra ogni nome.

2. Riparare il peccato e vincere la morte è il compito del secondo Adamo. Egli riparerà il peccato col dono della giustizia, e vincerà la morte con associare noi alla sua vita. « Il Cristo Gesù è venuto in questo mondo a salvare i peccatori (I Tit. I, 9) » : ci voleva questo motivo per attirarlo quaggiù. Su questo punto l’insegnamento dell’Apostolo non ha nulla di caratteristico; san Giovanni, san Pietro, come pure l’autore dell’Epistola agli Ebrei ed i Sinottici, parlano precisamente come lui. Tutti mettono la missione del Cristo in relazione col peccato; tutti presentano la sua morte come l’espiazione delle nostre colpe; nessuno lascia capire che Egli sarebbe venuto su questa terra, se non v i fossero stati peccatori da salvare (Ebr. X, 4-7). Siccome non vi è nulla che possa supplire al silenzio della rivelazione, quando si scruta il mistero dei consigli divini, l’ipotesi dell’incarnazione per un altro ordine di provvidenza non può avere che una base precaria (S. Th. III q. 1, art. 3), eccetto che si voglia imporre a Dio, nelle sue operazioni ad extra, l’obbligo di fare il più perfetto, il che sarebbe la negazione stessa della libertà. Oltre la missione speciale per la quale è accreditato, il secondo Adamo deve avere due qualità essenziali: la natura umana e l’esenzione dal peccato. – Che Gesù Cristo sia esente dal peccato, lo insegnarono così chiaramente come san Paolo, anche san Giovanni, san Pietro e il redattore dell’Epistola agli Ebrei. In san Giovanni, Gesù sfida i suoi nemici a trovare in Lui una colpa: Quis ex vobis arguet me de peccato? Per lui, come per gli altri evangelisti, l’immunità dal peccato in Gesù, è un dato dell’esperienza che risulta da una vita tutta pura, tutta santa. Il redattore dell’Epistola agli Ebrei la deduce dal sacerdozio del Cristo; il pontefice ideale dev’essere « santo, senza macchia, separato dai peccatori » con una barriera insormontabile, « simile quanto è possibile ai suoi fratelli, eccetto il peccato ». San Pietro la deduce dalla qualità di vittima: « Il Cristo è morto per (espiare) i peccati (degli uomini); Egli giusto, per gli ingiusti »; e noi siamo stati riscattati « dal sangue prezioso dell’agnello senza difetto e senza macchia, il Cristo ». San Paolo invece fonda l’impeccabilità del Salvatore sopra la missione di secondo Adamo. Gesù Cristo riceve la missione di « vincere il peccato nella carne » e non lo può vincere negli altri se non dopo di averlo vinto in se stesso; perciò, benché abbia una carne affatto simile alla nostra, Egli ha soltanto in apparenza una carne peccatrice. Non solamente Egli non ha nessuna esperienza del peccato, ma non potrebbe avere nulla di comune col peccato; ecco perché « Dio lo fece peccato, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui », certo che, lungi dall’essere macchiato dal contatto dei peccatori, il Cristo avrebbe loro comunicato la sua giustizia. – Ma altra cosa è il peccato, e altra cosa è la natura umana. « Se il Cristo non fosse veramente uomo, dice Tertulliano, tutta la sua vita non sarebbe altro che menzogna »: menzogna la sua nascita verginale, la sua agonia e la sua passione, la sua morte in croce, la sua risurrezione gloriosa; menzogna, conchiude sant’Ireneo, sarebbe tutta quanta la redenzione. Difatti se Gesù Cristo non fosse veramente uomo, non sarebbe nostro fratello; se non fosse nostro fratello, non sarebbe nostro capo nel senso stretto della parola; se non fosse nostro capo, non sarebbe nostro rappresentante; la sua grazia gli sarebbe personale, e la sua giustizia non sarebbe la nostra per nessun titolo. Perciò si spiega l’insistenza con cui san Paolo inculca continuamente la realtà della natura umana nel Cristo.

LO SCUDO DELLA FEDE (XLIII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XLIII.

LA FRAMASSONERIA.

Che cosa sia la Massoneria e come sia costituita. — Carattere segreto che ha tuttora. — Non è «essa una società «di beneficenza? — Il vero che sia parassita ed eserciti il favoritismo? — Che abbia fatto e faccia «del male alla Chiesa? — Che sia scomunicato chi vi si ascrive?

— Vedo che fra le tante cose che la Chiesa condanna tiene un primissimo posto la framassoneria. Merita essa davvero di essere condannata?

E come no, se questa setta è il nemico più dichiarato ed accanito che abbia la Chiesa, e quello che reca tanti danni ai figli suoi?

— Ma la framassoneria non è cosa molto antica? Ho letto in vari libri ch’essa risale a Salomone, e che per lo meno i Templari del Medio Evo erano già frammassoni.

Queste son favole. La verità si è che la framassoneria sorse in Inghilterra nei primi anni del secolo decimo ottavo, e di là in breve si sparse per tutto il mondo incivilito.

— E da che cosa deriva il nome di framassoneria?

Deriva da fratello massone o franco massone, che vuol dire fratello muratore o franco muratore.

— E donde mai questo nome? Forseché da principio gli aggregati erano muratori?

No. Essi presero questo nome e i relativi simboli della cazzuola, della squadra, del triangolo, del compasso eccetera, in modo simbolico ad indicare lo scopo che si prefìssero.

— E qual’è questo scopo?

Quello di fabbricare il tempio.

— Non capisco.

Anche questa parola fu da essi presa in senso metaforico per indicare il tempio dell’umanità; e con la frase fabbricare il tempio intesero indicare il dar una nuova forma a tutta quanta l’umana famiglia.

— E che pretesero con ciò?

Pretesero e pretendono di sottrarre l’umanità all’autorità di Dio, a tutte le altre autorità, le quali tutte emanano da lui, e specialmente a quella che più lo rappresenta, l’autorità della Chiesa.

— Ma i frammassoni non onorano forse Iddio col nome di Grande Architetto dell’Universo?

Così danno a credere ai goccioloni. Ma la realtà si è che anziché onorare Iddio, con tal nome designano l’avversario di Dio, cioè satana, al quale, orribile a dirsi! prestano atti di suprema adorazione in eccessi di empietà, ai quali arrivano in segrete adunanze, e che ignorati dai membri inferiori, sono attestati dalle rivelazioni di alcuni dei membri superiori convertiti alla fede e si debbono avere per i n dubitati, non ostante che in questi ultimi tempi taluno, giuocando sull’altrui buona fede, vi abbia, nel narrarli, frammischiate molte falsità.

— È vero che la Massoneria ha anch’essa un capo supremo?

Sì, in ogni nazione e si chiama Grande Oriente. Naturalmente esso è coadiuvato nell’esercizio della sua autorità da parecchi membri, che formano il suo consiglio e che hanno nomi e gradi diversi, dei quali l’ultimo è il cosiddetto 33.

— Mi pare che i framassoni si chiamino anche tre-puntini?

Sì, sono chiamati così per celia dai tre punti, con cui dividono le lettere iniziali del loro sacrilego motto. A:. G:. D:. G:. A:. D:. U ; che vuol dire: Alla Gloria Del Grande Architetto dell’Universo.

— E le Logge massoniche che cosa sono?

Con questo nome si indicano tanto i luoghi, ove i massoni tengono le loro adunanze, come l’insieme di quei membri, che si adunano in ciascuno di detti luoghi.

— E i profani secondo la massoneria chi sono?

Tutti coloro che non le appartengono, tutti quelli che non sono da lei iniziati alla religione di satana, suo padre e padrone.

— Ma la massoneria presentemente non è mica più una società segreta.

Sì, è vero che oggidì la massoneria fa le viste di non stare più nascosta e tiene delle adunanze pubbliche, e stampa in faccia al mondo i suoi giornali, e dice apertamente taluni de’ suoi propositi; ma non di meno conserva sempre il carattere segreto, giacché tantissimi dei suoi riti, dei suoi contrassegni, dei suoi intendimenti non li manifesta mai, neppure a molti de’ suoi affigliati.

— Ed è vero che la massoneria abbia dei riti speciali e i suoi adepti nelle segrete adunanze usino fregi, divise e decorazioni proprie?

Verissimo. E per una parte vi sarebbe da ridere nel pensare che costoro pur usando riti e cerimonie, che hanno del goffo in grado supremo, e che compiono in segreto, si facciano poi a canzonare la Chiesa per i suoi riti augusti e per le sue cerimonie solenni, da lei compiute alla piena luce del giorno. Ma pur troppo vi è altresì da inorridire sapendo che in conformità alla morale da loro professata, del libero sfogo di tutte le prave concupiscenze umane e di tutti i cinque sensi, significati dalle cinque punte della stella massonica,  in certi loro misteriosi ritrovi notturni coll’intervento delle sorelle Mopse si abbandonino a misteri nefandi.

— È anche certo che coloro dei framassoni, che violano il segreto o mancano altramente contro i loro statuti, siano condannati a pene?

Anche questo è certissimo e risulta persino dalle loro pubblicazioni. Si sa che gli affigliati alla setta debbono promettere ai loro capi e maestri cieca ed assoluta obbedienza, epperò qualora manchino a questa o violino il segreto che si è giurato espressamente di non rivelare giammai, o altramente offendano le costituzioni della setta, sono, a seconda della maggiore o minore pretesa reità, talvolta ammoniti o condannati a multe pecunarie, qualche altra a pene anche più gravi, dalla società, e non è poi caso tanto raro che il taluno anche oggidì, come in passato, venga designato al ferro di un sicario.

— Ma con tutto ciò a che cosa mira propriamente la framassoneria? Io ho inteso tante volte a dire, persino da qualcuno ascritto alla medesima, che non si tratta che di una società innocua e di beneficenza.

Così realmente danno ad intendere i massoni maggiori a quelli inferiori e a tanti semplicioni affine di arreticarli più facilmente. Ma se si trattasse di una società innocua e di beneficenza, si userebbe forse tanto impegno a tener segrete le proprie opere? E queste opere se fossero davvero di beneficenza non si conoscerebbero? Ma invece ? tu vedrai benissimo tanti ospizi, tanti asili, tanti ospedali, tanti orfanotrofi, tanti collegi, tante istituzioni insomma di beneficenza innalzate da poveri preti, da poveri religiosi, dai Vincenzo De Paoli, dai D. Bosco, dai Cottolengo, dai Lodovico da Casoria; ma quanti ne vedrai innalzate dai framassoni? E se pur ve n’ha presentemente qualcuna, si può dire che si tratti di vera beneficenza, se pur addestrando i giovani a guadagnarsi il pane materiale, loro si nega quella coltura morale, che è più necessaria del pane istesso? Credilo, amico mio, la framassoneria può palliare fin che vuole sotto questo o quell’altro aspetto i suoi iniqui intendimenti, ma questi o poco o tanto si appalesano anche da pubbliche dichiarazioni che essa va talora facendo, e sono in sostanza la guerra a Dio, alla Chiesa e ai troni.

— Eppure vi sono molti, i quali protestano che non è tale affatto il suo scopo.

Io non dico che questo sia propriamente lo scopo, a cui mirano i singoli individui che vi appartengono, giacché, come già ti ho notato, moltissimi di loro non ne sanno nulla di questo intendimento finale. Molti danno il nome a questa società unicamente per essere aiutati, per far carriera più facilmente, per non essere molestati nei loro interessi; e a tal fine pagano e n’hanno basta. Ma ciò non toglie che la setta massonica miri propriamente a quel che ti dissi.

— È dunque vero che la setta spilla del denaro a molti e ottiene con tutta facilità posti e cariche ai suoi affigliati?

Altro che. Gli stessi Socialisti, che pure devono riconoscere la framassoneria per loro madre, da poco tempo per un Congresso tenutosi a Bologna in certe conclusioni che essi intendevano proporre a suo riguardo, avevano preparati questi precisi “considerando”, e cioè: « Il partito Socialista considerando che la massoneria ha finito per degenerare in congrega parassitaria a danno dell’universalità dei cittadini; considerando l’influenza deleteria, che la massoneria esercita sull’educazione della vita pubblica, sostituendo alla considerazione del vero merito il favoritismo settario e la reciproca confidenza, alla lealtà e sincerità nelle lotte civili le vie oblique, le arti subdole e tenebrose, il sospetto, la doppiezza e l’ipocrisia, maturante divisioni e partiti, eccetera, eccetera, ritiene di dover inculcare a’ suoi seguaci di tenersi lontani da essa ed esortare coloro, che per disavventura vi siano già iscritti, a ritirarsene, eccetera, eccetera ». – È bensì vero poi che in ossequio al noto proverbio: « lupo non mangia lupo » si astennero dal trattare questo argomento e presentare questi relativi considerando, ma ad ogni modo espressero quello che è. Che vuoi di più chiaro? E rifletti, che coloro i quali parlano così, non sono i cattolici, ma i socialisti!

— Ma ella mi disse che la massoneria ha pur di mira la guerra ai troni. Eppure si dice che vi siano ascritti anche dei principi, dei re, degli imperatori.

Ciò può essere benissimo, sia perché la massoneria nasconderà a cotesti principi, re ed imperatori il suo vero ed ultimo scopo, sia perché essi medesimi, pur conoscendo ciò, avranno tuttavia voluto ascriversi per valersene ai loro scopi politici, oppure sperando di potere più facilmente spiarne le mosse e gli intendimenti.

— Ho inteso. Ed è poi certo davvero che la massoneria abbia fatto e vada tuttora facendo del male alla Chiesa Cattolica?

Se sia certo, puoi giudicarla da certi suoi propositi. In una istruzione segreta indirizzata ai fratelli massoni nel 1819 si diceva: « Il nostro scopo finale è quello di Voltaire e della rivoluzione francese, l’annientamento per sempre del Cattolicismo e anche dell’idea cristiana ». Un decreto massonico sancito in Parigi nel 1876 era così formulato: « L’opera nostra è quella di scristianizzare il popolo con tutti i mezzi, ma soprattutto strangolando il Cattolicismo a poco a poco e ad ogni anno con nuove leggi contro il clero; così fra pochi anni, mediante l’istruzione laica, avremo una generazione atea ». – Il gran Maestro della massoneria poi, non è gran tempo, ha dichiarato apertamente: « La tradizione dell’Ordine è: Guerra al Vaticano ». Così che non si va lontani dal vero attribuendo alla medesima tutti i danni, che ha patito la Chiesa in questi ultimi tempi. Le rivoluzioni, che nel mentre produssero tanti rivolgimenti politici, tribolarono cotanto la Religione, le leggi più inique che in Italia e altrove si fecero e si van facendo contro i principii cristiani, la soppressione degli Ordini religiosi, il disconoscimento della santità del matrimonio, la leva militare pei chierici, la libertà di culto e di stampa, l’esclusione del Catechismo e spesso anche del Crocifisso dalle scuole, tanti atti ostili e persino violenti contro i Vescovi, e specialmente contro il Sommo Pontefice, per tacere di altro, sono del tutto opera della massoneria. Credilo; in essa continuamente si trama contro l’opera di Gesù Cristo; e come già si è riusciti sotto bugiardi pretesti a spogliare il suo Vicario del principato civile, propugnacolo della sua libertà e de’ suoi diritti, si mira ancora, se fosse possibile, a far scomparire dal mondo la divina istituzione del pontificato. D’altronde, se in essa si adora Satana, e si informano al suo spirito le adunanze e le deliberazioni che si prendono, come potrebb’essere altrimenti? Capisci adunque perché la Chiesa ripetutamente per mezzo dei Romani Pontefici abbia condannato e riprovata questa setta, e più volte abbia confermato il divieto di ascriversi alla medesima.

— È vero adunque che coloro che si ascrivono alla massoneria sono scomunicati?

Verissimo, e di scomunica riservata al Sommo Pontefice. Chiunque pertanto è arruolato alla setta, ancorché solo nei primi gradi, non può venire assolto da chi ne abbia particolar facoltà, se prima non fa formale rinunzia alla medesima. E di qui impara l’importanza suprema di guardarti bene da’ suoi lacci. L’imparino tanti impiegati, tanti professori, tanti ufficiali dell’esercito, e specialmente tanti giovani delle scuole liceali ed universitarie, che empiamente allettati dalla depravazione dei costumi, più di tutti corrono il rischio di esserne accalappiati. Ma lasciamo ora di parlare di framassoneria per passare a dirci qualche parola sopra il suo degno figlio, il Socialismo.

LO SCUDO DELLA FEDE (XLII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

LO SCUDO DELLA FEDE

XLII.

IL POTERE TEMPORALE.

Perché la Chiesa non approva il fatto compiuto della spogliazione del suo dominio temporale? — Questo fatto non è avvenuto per volontà di tutti gli Italiani e per il gran bene dell’unità d’Italia? — Che differenza c’è tra il dominio perduto dal Papa e quello perduto da altri principi? E il Papa può essere re e buon re? — È giustificabile l’esistenza del dominio temporale, ancorché abbia dato causa a brutte piaghe? — Che bisogno ne ha la Chiesa? — Non sta meglio senza, col compenso delle guarentigie? — Regnum meum non est de hoc mundo; e da principio la Chiesa non ebbe alcun dominio temporale! — Il dominio temporale è un dogma? — Come mai chi vuole il dominio temporale può essere amante della patria e buon italiano ?

— Ella mi disse con le parole dell’attuale Pontefice, che tra i due poteri ecclesiastico e civile è necessaria assolutamente una perfetta armonia. Ma ad ottenere la medesima non dovrebbe la Chiesa travagliarsi per la prima? E ciò mi sembra che essa non faccia, massimamente qui, nell’Italia nostra, dove essa si ostina a mantenere il dissidio nato da alcuni anni.

Tu sei in errore, giacche la Chiesa per il bene di tutti sommamente desidera che il presente contrasto abbia a cessare. E per parte sua, credilo pure, sarebbe pronta a fare tutto ciò che è giusto, perché un tale stato di cose avesse a finire.

— Ma il contrasto, che regna fra lo Stato e la Chiesa, non proviene dalla Chiesa medesima, che non vuole approvare il fatto compiuto del suo spodestamento temporale, e che non vuole perciò entrare in relazione diretta col governo? Non prò viene dal Papa, che non vuol saperne di ricevere l’appannaggio offertogli, e dichiarandosi prigioniero non vuole uscire a passeggiare per Roma a ricevervi gli onori regali, che gli furono decretati?

E vuoi tu dunque che, perché trattasi di un fatto compiuto, la Chiesa approvi un’ingiustizia? ed entri perciò in amichevoli rapporti con chi l’ha spogliata del suo dominio? Supponi che ieri dei ladri rapaci fossero entrati in casa tua e, abusando della tua impossibilità di difenderti, alla tua presenza avessero fatto man bassa di quanto possedevi, che anzi si fossero installati nella tua abitazione, rintanando te in un angolo qualunque della medesima; dovresti oggi, perché il fatto è compiuto, dire che i ladri han fatto bene, e finire per congratularti con loro entrando nella loro amicizia?

— Oh! no certo.

Come dunque la Chiesa dovrà approvare il fatto della spogliazione del suo dominio ed entrare in relazione diretta con i suoi spogliatori? Come mai il Papa dovrebbe ricevere il denaro assegnatogli, se con ciò confermerebbe l’altrui violenza e rinunzierebbe ai suoi diritti? Come dovrebbe uscire a passeggiare per Roma per ricevere onori regali da chi gli ha tolto il regno e nel rischio di essere ad un tempo insultato da molti?

— Mi scusi, ma la cosa qui è diversa da quella che lei mi presesenta. Qui non si tratta di spogliazione violenta, ma di semplice occupazione fatta per assecondare la volontà di tutti gl’Italiani per l’unità d’Italia, volontà addimostrata con splendidissimi plebisciti.

Eh! mio caro: così ti potranno dare ad intendere tutti coloro che con una sicumera incredibile, e pei loro rei intendimenti, vogliono falsare la storia. Ma così non è certamente. Del resto quando pure fosse che tutti, o quasi tutti, gl’Italiani avessero voluto quella che tu chiami semplice occupazione anziché spogliazione violenta del dominio temporale, credi tu che in un popolo vi sia il diritto di far occupare da un principe il dominio di un altro principe, massime quando questo principe è saggio e buono, per la sola ragione che sia unificata la nazione?

— Dunque in un popolo questo diritto non c’è?

Certamente si può ammettere con San Tommaso che la nazione (nota bene quel che dico, perché la nazione non sono i facinorosi e le sette) possa ritrarsi dall’obbedienza al principe, che viola sostanzialmente i patti fondamentali dello Stato ed esercita una vera tirannide, che anzi possa con nazionale decreto, in questo caso, destituirlo; ma non si può ammettere che un popolo possa spodestare il suo principe, quando non tiranneggia, per porsi sotto al regime di un altro con questa sola ragione, che si tratta di unificare un regno. Io non ti nego che l’unità d’Italia potesse, con la sua indipendenza dallo straniero, essere per se stessa cosa buona e desiderabile. – Ma bisognava perciò, che l’ottenere tale unità non importasse la violazione di diritti preesistenti e sacri, quali sono quelli del dominio temporale del Papa.

— Ma se ella medesima mi concede che l’unità d’Italia poteva essere un bene, perché mai per riguardo a questo bene non si potevano lasciar da banda questi diritti?

E bravo! Ma non sai che se si dovesse ammettere questo detestabile principio, che sia lecito fare il male per un fine anche ottimo, tutta la morale evangelica e naturale andrebbe a fascio, e tutto il mondo a soqquadro!? Con questo principio il tuo vicino, affine di arrotondare i suoi poderi e giovare all’agricoltura, potrebbe senza più cacciar te dalla tua casa e dal tuo campo per impadronirsene egli!

— Ciò che ella dice è giusto. Ma io non capisco perché altri prìncipi abbiano potuto perdere il loro dominio, senza che perciò si credano violati i loro diritti, e invece non sia così del Papa.

Ascolta. È vero che altri prìncipi hanno perduto il loro dominio o per la guerra o per altre cause, e in modo tale che non si abbiano a dire perciò violati i loro diritti, cui secondo il diritto delle genti dovevano rinunziare; benché non rare volte sia accaduto anche per essi il contrario. Ma il Papa non si trova ad avere sopra il temporale dominio solamente quel diritto che è proprio di ogni altro principe, ma un diritto molto più elevato. Precisamente perché egli è Papa, e cioè Vicario di Gesù Cristo, perciò questo diritto diventa in lui sacro ed ecclesiastico come la sua persona. Inoltre essendo egli il Capo di tutta la Chiesa, questo diritto non lo ha soltanto come individuo, ma a nome di tutti i Cattolici, ai quali tutti torna di vantaggio. Epperò il dominio temporale  non essendo solo di diritto comune e naturale ma eziandio di diritto ecclesiastico e sacro, e di diritto di tutta la Chiesa Cattolica ossia di tutti i fedeli, interessati nel diritto del loro capo, deve essere rispettato non solo come ogni altro dominio, ma più di qualsiasi altro, e quindi la sua usurpazione importa la violazione non solo di diritti comuni ad ogni principe, ma altresì di diritti, che i prìncipi laici non hanno, e che ha solo il Papa, Vicario di Gesù Cristo e Capo della Chiesa Cattolica.

— Ora ho capito la differenza che passa tra il dominio temporale del Papa, ossia della Chiesa, e quello degli altri prìncipi. Tuttavia a me pare strano che il Papa debba essere re, e possa esserlo come si conviene. Il Papa, perché Vicario di Gesù Cristo e Capo della Chiesa non dovrebbe avere una potestà civile, perché se egli l’esercita a dovere resta impedito di occuparsi come si conviene del bene di tutta la Chiesa; e se egli la trascura, non può essere un buon governatore de’ suoi sudditi.

Anche qui tu sei in errore: giacché se il Papa può e deve anche essere re, è precisamente per il bene di tutta la Chiesa; e benché Capo di tutta la Chiesa meglio di ogni altro principe può curare il bene de’ suoi sudditi. – Dovendo egli come Capo della Chiesa essere pienamente libero, del tutto indipendente, per esercitare quegli atti, che mirano al bene di tutta la Chiesa, la Divina Provvidenza, quando giunse il tempo opportuno, lo ha dotato perciò della regia dignità e potestà, siccome del mezzo più naturale e sicuro. E sebbene come re debba sobbarcarsi a cure temporali per il bene altresì dei suoi sudditi temporali, ciò egli può fare assai meglio di altri prìncipi, sia perché non ha figli da allevare, sia perché risparmia il tempo, che altri prìncipi impiegano nei teatri, nei balli, nelle caccie e in altri simili divertimenti, sia perché il suo dominio è assai ristretto e può farsi aiutare nel suo governo da ministri scelti e valenti, sia per altre ragioni ancora.

— Sì, ciò è vero: bisogna convenirne. Ma l’origine e l’uso di questo dominio temporale è poi veramente tale da giustificarne la esistenza?

Ascolta: il dominio temporale del Papa è

1°: il dominio più antico che vi sia al mondo, essendo esso cominciato nel 754 sotto Stefano II;

2°: è il più legittimo, non essendo provenuto al Papa per via di ingiustizie o di guerre, ma per voto dei popoli, dopoché gl’Imperatori bizantini abbandonarono il ducato romano, e per le donazioni che Pipino e Carlo Magno fecero alla Chiesa;

3° : fu il più buono, essendo che i Papi, generalmente parlando, ne fecero sempre uso pel bene religioso, morale e civile non solo dei loro sudditi immediati, ma di tutta quanta la cristianità. E se vi ha chi accusa il governo pontificio di debolezza nel reprimer certi disordini, come ad esempio il brigantaggio, o di prepotenza nel condannare certi delitti politici, bisogna pur riconoscere che lo fa per spirito di parziale e deliberata malevolenza contro la Chiesa, giacché lo si può benissimo sfidare a trovare, anche presentemente, sulla terra un governo, contro del quale non si possano lanciare ben maggiori accuse. Ora un dominio, che fu acquistato legittimamente, che fu posseduto da antichissimo tempo e impiegato sempre per il bene de’ suoi soggetti e di tutta la Cristianità, non è tale da dover giustamente esistere?

— Certo stando così le cose bisogna pur ammettere che tale dominio esista giustamente. Non si potrà tuttavia disconoscere che lungo il corso dei secoli ha dato causa ad ambizioni, a scismi, e a quella brutta piaga che si chiama nepotismo.

Ed io non ti nego che v i siano stati ambizioni e scismi nell’elezione di qualche Pontefice. Ma ve ne furono altresì prima che esistesse il dominio temporale. Il che prova che la tua obbiezione non ha quel gran valore che ti credi. D’altronde qual è mai il bene, del quale non si possa abusare? E se perciò si dovesse abolire tutto quello, di cui si abusa, guai a noi! che cosa di buono ci sarebbe ancora al Mondo?In quanto poi al nepotismo ti concedo pure che sia un punto nero nella storia del Papato, ma devi riflettere che taluni dei Papi si trovarono quasi forzati ad innalzare i loro nipoti alle dignità ed al comando per avere intorno a sé gente più fida e sicura, che molti di essi fecero di tutto per sterminarlo, e che quelli degli ultimi tempi ne sono affatto immuni.

— Ad ogni modo ella deve pur concedermi che la Chiesa non ha assoluto bisogno del dominio temporale e che sta ancor meglio senza col compenso delle guarentigie.

Che la Chiesa non abbia bisogno di dominio temporale potrà parere a te e a tutti coloro che in sì grave materia giudicano superficialmente, ma non certo a chi abbia un po’ di senno e riconosca come il Papa non debba sottostare ad alcun governo e debba essere pienamente libero nell’esercizio medesimo della sua spirituale autorità. Certamente la Chiesa continua a sussistere senza il dominio temporale; e ciò dimostra chiaro che la sua sussistenza non dipende dal dominio temporale, e che in modo assoluto può farne senza. E forseché non sussisteva anche allora che era perseguitata nel modo più atroce? Ma dal sussistere nella persecuzione e nella schiavitù, al sussistere, come ha diritto, nella libertà e nell’indipendenza ci corre assai! E questa libertà e indipendenza, relativamente al pieno esercizio della sua autorità e missione, non può averla senza il dominio temporale. Del resto è poi vero, come tu dici, che sta ancor meglio senza di esso, col compenso delle guarentigie? L’esperienza dimostra chiaramente che no. Con tutte le pretese guarentigie e garanzie di libertà e di rispetto fatte al Papa nello spogliarlo del suo dominio, non c’è, da quel momento in cui fu spogliato, non c’è villania, scherno, insulto, sfregio, al quale il Papato e la Chiesa non siano stati fatti segno nella stessa città di Roma. E poi il compenso delle guarentigie, dato pure, ciò che non è; che avesse finora assicurato al Papa la libertà e la indipendenza, di cui abbisogna, come gli fu concesso dal voto delle Camere legislative di quel tempo, in cui fu privato del suo dominio, non gli potrebbe essere tolto dalle Camere legislative di oggi o di domani? E non si è già più volte parlato di far ciò? Quindi è che la libertà e l’indipendenza, che può avere il Papa per la legge delle guarentigie, non è sua propria, ma dipendente dalla volontà dei ministri e dei membri del Parlamento e del Senato, una libertà e indipendenza che perciò non è tale.

— Ma allora perché mai Gesù Cristo ha detto: Regnum meum non est de hoc mundo?

E che c’entra ciò al nostro proposito? Gesù Cristo con quelle parole volle dire a Pilato, cui erano rivolte (e basta un po’ di grammatica per capirlo), che la sua autorità regale o il suo regno, comeché voglia chiamarsi, non venivagli dal mondo, ma da Dio; che perciò nessuna potestà della terra, neppur Pilato, condannandolo a morte, poteva privamelo. Or dunque che hanno a fare queste parole di Gesù Cristo col dominio temporale dei Papi?

— Eppure a principio, quando S. Pietro non era che povero pescatore, i Papi non ebbero alcun dominio terreno.

La bella trovata! Se allora la Chiesa era ne’ suoi esordii e non aveva bisogno di ciò, se n’ha ad inferire che non debba averne bisogno adesso, che s’è pienamente sviluppata? Anche al bambino appena nato bastano a sostenerlo alcuni cucchiaini d’acqua zuccherata e un po’ di latte, ma divenuto uomo adulto potrebbe così scampare la vita?

— Dunque il dominio temporale è un dogma, negando il quale non si è più Cattolici?

E chi mai ti dice che il dominio temporale sia un dogma? No esso non lo è, e non lo sarà mai. Ma se non è un dogma, è un fatto che si basa sopra un diritto sacro, che non assolutamente lecito di violare senza offendere la giustizia. Chi pertanto nega la necessità di questo fatto, se non perde la fede, perché non nega alcun dogma, offende non di meno l’onestà e la giustizia, e se lo fa con conoscenza di quello che fa, pecca certissimamente, e non può più dirsi perciò buono e vero Cattolico, ancorché in tutto il resto stesse con la Chiesa e si regolasse da buon Cristiano. – Dimmi, è forse un dogma che la casa, che tu hai ereditato da tuo padre, sia tua? No certamente. Ma se venendoti usurpata vi fossero di quelli, che approvassero quell’usurpazione e negassero il diritto della tua proprietà, ne avversassero la restituzione, ancorché, costoro non perdessero la fede per ciò, si potrebbero non di meno ritenere per uomini giusti e onesti? Niente affatto: ciò è chiaro anche ad un bambino. Ora io non nego che tra i laici Cattolici (non certamente tra i preti), vi possano essere taluni che in buona fede avversino il potere temporale del Papa: ma dopo tante dichiarazioni della Chiesa, così solenni e così precise a questo riguardo è un po’ difficile. E ad ogni modo costoro sarebbero nel dovere di formare la loro mente al riguardo leggendo spassionatamente libri e giornali Cattolici, domandando cognizioni in proposito a chi loro le può dare, eccetera.

— Vuol dire che il Papa quando pronunzia discorsi o compie degli atti, intenti a rivendicare i diritti del dominio temporale, alla fin fine compie un suo dovere.

Certamente egli rivendica in tal guisa i diritti della Chiesa, dei quali più che arbitro è tutore. « Noi, diceva Pio VII al Radet, che lo arrestava in nome di Napoleone I, non dobbiamo ne vogliamo cedere, né abbandonare quello che non è nostro. Il dominio temporale appartiene alla Chiesa, e noi non ne siamo che l’amministratore ».

— Così adunque non c’è a credere che il Papa rinunzi mai a questi diritti e si stabilisca la pace fra Lui e il governo italiano?

— Quando il Papa rinunziasse a questi diritti, diventerebbe immantinente suddito di un altro sovrano, e come suddito non sarebbe più assolutamente libero. Si ha un bel dire che lo si lascerebbe esercitare pienamente la sua autorità spirituale, ma nell’esercizio di tale autorità dovrebbe alle volte insorgere contro dello stesso governo, di cui sarebbe divenuto suddito, e il governo potrebbe offendersi e levarsi contro di lui, e magari giudicarlo e condannarlo, e per tal guisa provenire dei danni gravissimi a tutta la Cristianità. Che se per queste ed altre ragioni, che già ti dissi, il Papa continua sempre a sostenere i suoi diritti, e così non si stabilisce la pace da tutti desiderata, non è certamente sua la colpa.

— Dunque toccherà al governo italiano di restituire il dominio temporale al Papa? Io credo che ciò non accadrà più mai.

Dio è padrone dei tempi e degli eventi. E ad ogni modo Egli provvederà mai sempre perché il Papa, anche nella condizione di martire perenne, passa compiere la sua missione.

— Ella dice ottimamente e non avrei mai creduto che ci fossero ragioni così ovvie e così buone a prò del dominio temporale. Ma intanto chi tiene tali idee e si regola in conformità delle medesime, non può presentemente nell’Italia nostra amare la patria, non può essere un buon italiano.

Ecco qui un errore gravissimo, nel quale cadono molti pur troppo ai giorni nostri, i quali confondono la patria col disordine settario, a cui l’Italia nostra trovasi presentemente in preda. La patria, nel senso nostro, è la nazione con tutte le più intime relazioni che in essa troviamo per noi, con tutte le sue bellezze, con tutte le sue grandezze, con tutte le sue buone istituzioni, con tutto ciò che ce la rende cara; ma non è già la rivoluzione, la prepotenza, il governo più o meno ateo e settario, che nella patria vi può essere, con tutte le male conseguenze, che ne derivano contro l’autorità divina ed ecclesiastica. Quindi è che il vero Cattolico con le sue giuste idee al riguardo non solo non odia la patria e non lascia di essere buon italiano perché, amando la sua nazione odia i l disordine che in essa vi è, massimamente per la continuata violazione dei diritti della Chiesa, ma si deve dire il vero patriota e il vero italiano, giacché desiderando egli che nella patria cessi il funesto dissidio con la restituzione al Papa di ciò che gli spetta, vuole il vero assetto dell’Italia, il suo vero bene. In conferma di ciò che ti dico e a norma sicura dei sentimenti, che devi avere per questo riguardo, ti metterò innanzi un tratto sapientissimo, preciso ed energico di una Enciclica di Leone XIII al popolo italiano, dove, mentre è sfatato l’errore che il vero cattolico sia nemico dell’Italia, è indicato altresì nettamente il dovere suo di volere che al Capo della Chiesa sia restituito il dominio che gli appartiene. Ti prego di voler leggere e ponderare seriamente le sue auguste parole.

« I cattolici italiani in forza degli immutabili e noti principii della loro religione, rifuggono da cospirazione e ribellione qualsiasi contro i pubblici poteri, ai quali rendono il tributo che ad essi si deve. La loro condotta passata, alla quale tutti gli uomini imparziali possono rendere onorata testimonianza, è garante di quella futura, e ciò dovrebbe bastare ad assicurar loro la giustizia e la libertà, a cui hanno diritto tutti i pacifici cittadini. Diremo di più; essendo essi, per la dottrina che professano, i più solidi sostenitori dell’ordine, hanno diritto al rispetto; e se la virtù ed il merito fossero adeguatamente apprezzati, avrebbero anche diritto ai riguardi ed alla gratitudine di chi presiede alla cosa pubblica. Ma i Cattolici italiani, appunto perché Cattolici, non possono prescindere dal volere che al loro Capo supremo sia restituita la necessaria indipendenza e la pienezza della libertà vera ed effettiva, la quale è condizione indispensabile per la libertà e l’indipendenza della Chiesa Cattolica. Su questo punto i loro sentimenti non cambieranno né per minacce, né per violenze; essi subiranno l’attuale ordine di cose; ma fino a che questo avrà per scopo la depressione del Papato e per causa la cospirazione di tutti gli elementi antireligiosi e settari, essi non potranno mai, senza violare i loro più sacri doveri, concorrere a sostenerlo con la loro adesione e col loro appoggio. — Il richiedere dai Cattolici un positivo concorso al mantenimento dell’attuale ordine di cose, sarebbe pretesa irragionevole ed assurda; poiché ad essi non sarebbe più lecito ottemperare agli insegnamenti ed ai precetti di questa Apostolica Sede, anzi dovrebbero agire in opposizione ai medesimi e dipartirsi dalla condotta che tengono i Cattolici di tutte le altre nazioni. Quindi è che l’azione dei Cattolici italiani, nelle presenti condizioni di cose, rimanendo estranea alla politica, si concentra nel campo sociale e religioso, e mira a moralizzare le popolazioni, renderle ossequenti alla Chiesa ed al suo Capo, allontanarle dai pericoli del socialismo e dell’anarchia, inculcar loro il rispetto al principio di autorità, sollevarne infine l’indigenza colle opere molteplici della carità cristiana.— Come dunque i Cattolici potrebbero essere chiamati nemici della patria ed esser confusi coi partiti che attentano all’ordine ed alla sicurezza dello Stato? Siffatte calunnie cadono dinanzi al solo buon senso. Esse si fondano su questo solo concetto, che le sorti, l’unità, la prosperità della nazione consistano nei fatti compiuti a danno della Santa Sede, fatti pur deplorati da uomini punto sospetti, i quali dichiararono apertamente essere immenso errore il provocare un confitto con quella grande istituzione, che Dio pose in mezzo all’Italia e che fu e rimarrà perpetuamente il suo vanto precipuo ed incomparabile; istituzione prodigiosa che domina la storia, e per la quale l’Italia divenne l’educatrice feconda dei popoli, la testa ed il cuore della Civiltà Cristiana. Di qual colpa pertanto sono rei i Cattolici quando desiderano il termine del lungo dissidio, sorgente di grandissimi danni per l’Italia nell’ordine sociale, morale e politico? quando domandano che sia ascoltata la voce paterna del loro Capo supremo, che tante volte ha reclamato le dovute riparazioni, mostrando i beni incalcolabili che da esse deriverebbero all’Italia? I nemici veri d’Italia bisogna ricercarli altrove; bisogna ricercarli tra coloro, che mossi da spirito irreligioso e settario, chiuso l’animo dinanzi ai mali ed ai pericoli che pesano sulla patria, respingono ogni vera e feconda soluzione del dissidio, e procurano, pei loro riprovevoli disegni, di renderlo sempre più lungo e più acerbo ».

— Davvero che il Papa qui ha parlato ben chiaro. E in quanto a me seguirò fedelmente i suoi insegnamenti. Le dichiaro intanto che sono contentissimo delle spiegazioni avute e vorrei che le intendessero e riconoscessero giuste tanti altri.

CONOSCERE SAN PAOLO (35)

LIBRO QUARTO

L’opera della redenzione

CAPO I.

La missione redentrice

I. L’INVIATO DA DIO.

1. SCOPO DELLA MISSIONE REDENTRICE. — 2. IL MEDIATORE DELLA NUOVA ALLEANZA. — 3. FUORI DI LUI NON VI È ALTRO MEDIATORE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Già abbiamo detto che l’iniziativa della nostra salvezza spetta sempre al Padre celeste. A lui san Paolo si compiace di riferire il complesso dei disegni di redenzione la cui esecuzione è affidata al Figlio, mediatore naturale tra Dio e gli uomini: “Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò suo Figlio, nato da una donna, messo sotto la Legge, per riscattare coloro che erano sotto la Legge, per farci ricevere la filiazione adottiva” (Gal. IV, 4-5). Questo breve passo esprime il fatto, il tempo, il modo, lo scopo della missione redentrice. — Il fatto: Dio Padre manda il suo unico Figlio, assai bene distinto da tutti coloro che parteciperanno al nome di figli, per lo stesso suo isolamento e per la relazione incomunicabile che lo unisce al Padre; Egli lo manda da vicino a sé, dall’alto dei cieli, secondo la forza della parola composta adoperata dall’Apostolo; lo manda in un momento preciso della durata, ma non lo costituisce Figlio nel mandarlo, perché questa missione suppone evidentemente la preesistenza reale del Figlio. — Il tempo: è la pienezza dei secoli, espressione che indica ad un tempo lo spirare degli indugi liberamente fissati dal Padre e la fine delle preparazioni provvidenziali che dovevano disporre il mondo a quel grande avvenimento. Dopo sarebbe stato troppo tardi; prima sarebbe stato troppo presto: il termine delle profezie messianiche doveva coincidere con la maturità del genere umano. — Il modo è sintetizzato in questa breve formula: « nato da una donna, messo sotto la Legge ». Conveniva infatti che il Figlio partecipasse alla natura di coloro che veniva a riscattare, col nascere da una donna, come tutti gli altri uomini, per avere il diritto di chiamarli suoi fratelli e per farli partecipi della sua qualità di figlio; conveniva pure che fosse sottomesso alla Legge, per liberare i suoi compatrioti dal giogo della Legge; convenienza che diventa necessità nel disegno attuale della redenzione, secondo il quale Dio ha stabilito di salvare gli uomini mediante il principio della solidarietà. — Lo scopo doppio della missione corrisponde al doppio stato dell’inviato divino: sottrarre gli Ebrei dalla tirannia della Legge per sottometterli al Vangelo; conferire a tutti gli uomini Ebrei e Gentili, la filiazione adottiva. Un altro testo, celebre tanto per la sua difficoltà intrinseca, quanto per le divagazioni degli esegeti, è assai simile al precedente, ma ne differisce in un punto: l’idea principale, espressa dal verbo in modo personale, non è più la stessa missione del Figlio, ma la condanna del peccato nella carne, che risulta da tale missione: Cosa che era impossibile alla Legge, perché era indebolita dalla carne, – Dio, mandando il suo proprio Figlio in una carne simile alla carne del peccato e per il peccato, condannò il peccato nella carne, affinché si compisse in noi la giustizia della Legge (Rom. VIII, 3-4). – Fatta astrazione da tutti i punti dubbi, da questo complesso periodo risulta chiaramente come uno dei motivi di Dio, nel mandare suo Figlio, era di rimediare all’impotenza, oramai riconosciuta, della Legge mosaica. La Legge mostrava all’uomo la via della giustizia e ve lo doveva condurre; ma essa era stata intralciata e paralizzata dalla carne, cioè dall’inclinazione al male che ora infetta la natura umana. Per vincere e annientare il peccato nel suo stesso dominio, Dio manda suo Figlio « nella somiglianza di una carne di peccato ». Paolo non dice « nella somiglianza della carne », poiché così lascerebbe capire o che il Cristo non aveva vera carne, o che la sua carne era di natura diversa dalla nostra. Non dice neppure « in una carne di peccato », perché così si potrebbe intendere che il Cristo rivestì una carne peccatrice. Egli dice invece, con espressione veramente felice, « nella somiglianza di una carne di peccato »; infatti la carne del Cristo è proprio una carne reale che fisicamente non si distingue per nulla dalla nostra, ma essa è soltanto in apparenza una carne di peccato, poiché non è né l’eredità, né la sede, né il fomite, né lo strumento del peccato. – Siccome aveva la missione di condannare il peccato nella carne, Gesù-Cristo non doveva avere nulla di comune col peccato. Dio lo manda espressamente « in vista del peccato », cioè per espiare e per riparare il peccato; e non solamente il peccato originale, ma il peccato in generale, qualunque ne sia la natura e la sorgente. I migliori esegeti di tutte le scuole hanno veduto benissimo che non si tratta qui di una semplice condanna per comparazione, come sarebbe quella che risulterebbe, per l’uomo peccatore, dallo spettacolo della carne innocente del Cristo, e neppure di una sentenza platonica la quale lascerebbe le cose nello stato di prima. Essi danno al verbo « condannare » gli equivalenti più forti « vincere, abbattere, distruggere, abolire, annullare, espellere, uccidere, sterminare »; essi hanno ragione senza dubbio, poiché la condanna di Dio, essendo efficace, deve necessariamente sortire il suo effetto; ma l’idea di condanna effettiva di cui si contenta san Paolo, è abbastanza chiara, ed è meglio fermarsi a questa. Dio condanna all’impotenza il peccato che regnava nella carne; e lo condanna nella stessa carne, poiché la carne del Cristo è la nostra. La maggior parte dei commentatori, per aver voluto cercare in questo testo quello che san Paolo non vi ha messo, se ne sono chiusa la via per capirlo. Essi lo hanno completato arbitrariamente, e ciascuno a modo suo, o intendendo l’espressione « per il peccato » nel senso di «sacrificio per il peccato »; oppure supponendo che la condanna del peccato abbia luogo nella sola carne del Cristo, quasi che il testo dicesse « nella sua carne »; oppure dimenticando che la condanna del peccato è qui l’opera del Padre il quale incarica il Figlio di metterla in esecuzione.

2. Questa missione costituisce Gesù Cristo mandatario di Dio e rappresentante degli uomini, in altri termini, mediatore. Nella religione giudaica vi furono: tre sorta di mediatori: i re, i sacerdoti e i profeti. Il profeto porta agli uomini i messaggi di Dio; il sacerdote amministra a nome degli uomini le cose di Dio; il re teocratico era il luogotenente di Dio. Sacerdoti e profeti sono egualmente mediatori tra Dio e l’uomo; però su la scala misteriosa che unisce il cielo con la terra, il sacerdote sale, e il profeta discende: il profeta inviato da Dio, discende verso gli uomini; il sacerdote, delegato dagli uomini, sale verso Dio. Senza dubbio, compiuta la loro missione, essi eseguiscono un movimento inverso: il profeta, risale verso Dio per rendergli conto del suo messaggio, e il sacerdote scende di nuovo verso quelli che lo hanno mandato, per distribuire loro le benedizioni del cielo; ma la prima direzione è quella che li caratterizza. In quanto poi al re teocratico, il suo trono è « il trono di Jehovah » stesso (Ps. XLIV); Davide, vestito dell’ephod, benedice il popolo in nome di Dio (II Sam. VI, 18); nei salmi messianici, il re discendente di Davide si presenta come l’intermediario titolato tra Dio e il popolo. – Gli Ebrei contemporanei di Gesù Cristo, pensavano alla triplice mediazione del Messia, re, profeta e pontefice? Avevano essi l’idea di un sacerdozio diverso dal sacerdozio levitico, e riconoscevano essi generalmente il Messia nel « sacerdote eterno secondo l’ordine di Melchisedeeh »? Il profeta che aspettavano era egli lo stesso Messia o un precursore del Messia? Questioni spinose, rese più intricate dalle controversie e oscurate dall’incertezza e dalla forma poco precisa dei dati contrari. Gli scrittori del Nuovo Testamento ci mostrano bensì la regalità spirituale, la pienezza dello spirito profetico ed il sacerdozio eterno in Gesù Cristo, ma senza mai unire insieme queste tre attribuzioni; sembra anzi che essi se le dividano, poiché i Sinottici mettono in rilievo la qualità del re messianico, san Giovanni, l’autorità del profeta per eccellenza, l’Epistola agli Ebrei, la dignità del pontefice che per il primo apre la via del cielo. Paolo invece non chiama il Cristo né re né sacerdote né profeta; e benché gli attribuisca funzioni regali, sacerdotali e profetiche, questa divisione ternaria delle mansioni del Cristo, estranea alle speculazioni messianiche degli Ebrei, quasi sconosciuta ai Padri, introdotta o messa in voga, dopo curiosissimi brancolamenti, dai riformatori del secolo XVI, non conviene punto alla teologia paolina. – L’Apostolo soltanto una volta dà a Gesù Cristo il nome di mediatore. « Unico è Dio, unico pure il mediatore di Dio e degli uomini, Gesù Cristo uomo, il quale ha dato se stesso come riscatto per tutti I Tim. II, 5)». L’estendere a tutti il benefizio della volontà di salvare, rendendo propizio Iddio col sacrificio spontaneo della vita che egli offre come rappresentante del genere umano, questo era lo scopo il mezzo e la condizione della sua mediazione onnipotente. Siccome l’uffizio speciale del mediatore è quello di servire come mezzo per unire le due parti, per riconciliarle se sono in guerra, per stringere di più i loro vincoli se sono in pace, l’Uomo-Dio era eminentemente adatto per compiere questa parte; infatti con le sue due nature egli s’identifica con i due estremi, e, col suo composto teandrico, li lega con una unione indissolubile. Gesù Cristo fu dunque mediatore non solamente per il suo stato, intermediario tra la via e il termine, tra la prova e la corona, e neppure solamente con la sua persona, unione armonica della umanità e della divinità, ma soprattutto come dispensatore dei benefizi divini dei quali è l’unico depositario. Infatti il Cristo di san Paolo non è un semplice mediatore naturale, come il Logos di Pilone, ma è un mediatore di vita soprannaturale. Per mezzo di Lui infatti noi abbiamo la grazia (Rom. I, 5; V, 21), la salvezza, cominciata su questa terra e consumata in cielo (I Tess. V, 9); per mezzo di Lui abbiamo la giustizia e il frutto della giustizia (Rom. III, 24); per mezzo di lui abbiamo la giustificazione (Rom. V, 18), la redenzione (Rom. III, 24) e la riconciliazione; per mezzo di lui abbiamo la pace (Rom. V, 1) e la pacificazione generale (Col. I, 20); per mezzo di lui abbiamo il libero accesso a Dio (Rom. V, 2; Ephes. II, 18) e un rifugio sicuro contro l’ira divina (Rom. V, 9); per mezzo di lui abbiamo la consolazione spirituale (II Cor. I, 5) e la fiducia che nulla può turbare (II Cor. III, 4); per mezzo di lui abbiamo il dono dello Spirito Santo (Tit. III, 6) e la filiazione adottiva (Ephes. I, 5); per mezzo di lui abbiamo la vittoria sopra tutti i nostri nemici (Rom. VIII, 37); per mezzo di lui abbiamo il regno senza fine (Rom. V, 17). Per mezzo di lui solo noi possiamo gloriarci in Dio (Rom. V, 11) e dobbiamo rivolgergli i nostri ringraziamenti (II Cor. I, 20); poiché come tutte le promesse divine ebbero in lui il loro sì, cioè il loro compimento, per mezzo pure di lui i fedeli pronunziano il loro amen, in un atto di fede sincera e riconoscente, per far risalire a Dio tutto l’onore e la gloria (II Cor. I, 20). In una parola, nell’ordine della grazia, più ancora che nell’ordine della natura, « tutto è per mezzo di lui (o per lui) e noi siamo per mezzo di lui (I Cor. VIII, 6) » poiché egli è il principio della nostra vita e di tutto il nostro essere.

3. Perciò non vi è più nessun altro mediatore o superiore o uguale a Lui. I Colossesi, con un malinteso culto degli Angeli, che nel loro pensiero si collegava con l’osservanza della Legge mosaica, derogavano alla mediazione universale del Cristo. « Si andava dicendo loro che la Legge era stata data per mezzo degli Angeli, perché questi avevano prestato il loro ministero nella sua promulgazione e non potrebbero perciò vedere con occhio indifferente il disprezzo della Thora » della quale erano essi i custodi. Col violare la Legge, si andava dunque incontro allo sdegno e alla vendetta degli spiriti celesti. Ma l’Apostolo li assicurava che questo non è punto vero: Dio spogliando (delle loro funzioni passate) i principati e le potestà, li ha esposti ostensibilmente agli sguardi (di tutti, così spogliati e privati dei loro onori), trascinandoli in trionfo (al seguito del Cristo vincitore, assiso) in croce (o per mezzo della croce) (Col. II, 15). San Paolo conosce soltanto due specie di esseri sovrumani, i buoni ed i cattivi, gli spiriti della luce e gli spiriti delie tenebre, gli Angeli di Dio e gli angeli di satana. In nessun luogo dei suoi scritti appare il concetto di esseri intermedi destinati forse a diventare angeli o demoni, ma che attualmente non sarebbero né angeli né demoni. Per gli Ebrei contemporanei di san Paolo, e per lo stesso san Paolo, gli angeli associati alla promulgazione della Legge erano gli Angeli buoni, e non veniva a nessuno l’idea che essi fossero venuti meno al loro mandato o avessero rivolto contro Dio l’autorità di cui erano investiti. I Colossesi che li veneravano, non ne avevano affatto un’idea diversa, e l’Apostolo parlerebbe in modo incomprensibile se li mettesse in un’altra ipotesi. Non vi è dunque nulla che insinui una prevaricazione di quegli Angeli; ma dopo l’abolizione della Legge, il loro compito fu terminato e la loro mediazione non ebbe più il suo oggetto. Gesù Cristo, infinitamente elevato sopra le potenze sopraterrestri, il solo capace di rivelarci il Padre del quale è l’immagine perfetta, il solo intermediario titolato tra Dio e gli uomini, si sostituisce oramai agli spiriti celesti promulgatoli e custodi di una legge che, invece di favorire il disegno della redenzione, gli è piuttosto di ostacolo. Perciò quando la Legge vien messa in disparte, essi partecipano in certo modo alla sua disgrazia, e il loro ministero non ha più ragione di essere. Dio li fa servire come di scorta al Cristo trionfatore: per sé, questo sarebbe un onore, ma è anche una diminuzione perché rappresenta la fine della loro autonomia ed è la prova che essi sono soltanto i subalterni ed i satelliti del gran mediatore. Perché dunque san Paolo, parlando del Cristo, è così avaro del nome di mediatore? Sarebbe forse perché, nell’opinione e nel linguaggio comune degli Ebrei di quel tempo, Mosè era il mediatore per eccellenza! (Gal. III, 19). Eppure l’Epistola degli Ebrei che non ignora tale usanza, chiama Gesù Cristo mediatore della nuova alleanza (Ebr. VIII, 6). La ragione si deve cercare altrove: il mediatore, nel senso usuale della parola, è estraneo alle due parti che deve mettere in relazione tra loro; non così è di Gesù Cristo, nel quale la pienezza della divinità abita corporalmente, e che realmente è entrato nella famiglia umana. Egli è mediatore, ma non è un mediatore ordinario; egli è il nuovo Adamo: questo è un titolo che san Paolo crea apposta per Lui e che, contenendo eminentemente quello di mediatore, lo rende perciò inutile.

II. IL NUOVO ADAMO.

1. PARALLELO TRA I DUE ADAMI. — 2. COMPITO E QUALITÀ DEL SECONDO ADAMO.

1. L’immagine più completa, più feconda, più originale che l’Apostolo ci dà della missione redentrice del Cristo, è quella del nuovo Adamo. È più che dubbio che tale immagine gli sia stata, suggerita dalla teologia ebraica contemporanea, perché la denominazione di secondo Adamo o di ultimo Adamo si trova soltanto in certi scritti di ben poca autorità e di assai bassa epoca, e si può benissimo credere che la locuzione tanto frequente Adam ha-Eishon non significhi il primo Adamo, ma semplicemente il primo uomo. Ad ogni modo era riservato a Paolo di esprimerne il valore dottrinale e di far vedere le armoniche relazioni che essa stabilisce nel complesso della soterologia cristiana. Adamo e il Cristo riassumono i due periodi dell’umanità, essi non li simboleggiano soltanto, ma li realizzano nella loro persona con una misteriosa identificazione. La prima volta che il parallelo si presenta sotto la penna di Paolo prende questa forma antitetica: “Se vi è un corpo psichico, vi è un corpo spirituale. Così sta scritto: Il primo uomo, Adamo, diventò un’anima vivente; l’ultimo Adamo (diventa) uno spirito vivificante. Ma non è lo spirituale (che passa) prima; è quello psichico, poi lo spirituale. Il primo uomo, (tratto) dalla terra, (è) terrestre; il secondo uomo (viene) dal cielo. Quale il terrestre, tali anche i terrestri; e quale il celeste, tali anche i celesti; e come noi abbiamo portato l’immagine del terrestre, porteremo (o portiamo) anche l’immagine del celeste” (I Cor. XV, 44-49). Senza lasciarci distrarre dalle idee accessorie e dalle parentesi esplicative — esistenza e origine del corpo spirituale, origine, natura e priorità del corpo psichico — fermiamoci all’idea centrale. L’Apostolo ha detto prima: « Un corpo psichico è seminato, un corpo spirituale risuscita »; egli conclude, dopo la sua lunga spiegazione: « Come noi abbiamo portato l’immagine del terrestre, porteremo anche l’immagine del celeste ». Il corpo psichico è il corpo perituro tale e quale viene restituito alla terra, tale e quale ebbe il primo uomo dalle mani del Creatore. Il corpo di Adamo fu fatto di terra, o più particolarmente dal limo della terra; ma quando Dio gli ebbe ispirato il soffio della vita, diventò un’anima vivente; così la Scrittura indica un essere animato, dotato di un principio vitale. Adamo non può trasmettere ai suoi discendenti più di quello che possiede per natura, cioè un corpo psichico e mortale. Né si può obiettare che egli fu ornato della grazia santificante e fu destinato all’immortalità: questi doni soprannaturali che non erano inerenti a lui e che egli non seppe conservare, non fanno parte del suo retaggio. Egli è terrestre e non può dare origine che a uomini terrestri. Ben altra è la condizione del secondo Adamo. Egli è del cielo, non solamente perché il cielo è il suo centro di gravitazione e il luogo attuale della sua dimora, dal quale ritornerà glorioso al momento della parousia, ma soprattutto per la sua preesistenza divina e per i doni celesti che questa gli conferisce per lui e per i suoi (I Cor. XV, 47). Egli è celeste per tutti i titoli, e il suo corpo risuscitato è spirituale perché  è sciolto dalle limitazioni della materia ed è interamente dominato dallo Spirito. Se il corpo psichico è quello che serve di organo all’anima sensitiva ed è proporzionato alla medesima, il corpo spirituale sarà quello che serve di strumento ad un principio di operazione di un ordine superiore — chiamato da san Paolo spirito — e che partecipa alle sue perfezioni. Il momento della risurrezione è quello in cui Gesù Cristo prende effettivamente questo corpo spirituale al quale gli danno diritto la pienezza dello Spirito Santo posseduta fin dalla sua miracolosa concezione e il merito acquistato nell’opera redentrice; ed è pure il momento della risurrezione quello in cui diventa spirito vivificante, capace di effondere e di trasfondere la vita soprannaturale di cui è dotato. Perciò mentre il primo Adamo tramanda la morte a tutti quelli che sono una sola cosa con lui per il fatto della generazione naturale, il secondo Adamo trasmette la vita a tutti quelli che sono una cosa sola con lui per il fatto della generazione soprannaturale. Adamo è « di terra », è « terrestre », e diventa « un’anima vivente » nell’istante della sua creazione, quando comincia ad essere capo dell’umanità; il parallelismo c’invita a mettere i tre termini opposti in rapporto col momento in cui Gesù Cristo diventa il capo glorioso dell’umanità redenta. L’Apostolo, dopo un lungo giro, ritorna al suo punto di partenza: « La morte è per mezzo di un uomo ed anche per mezzo di un uomo la risurrezione dei morti; poiché come in Adamo muoiono tutti, così pure nel Cristo tutti saranno vivificati (I Cor. XV, 21-22) ». Il carattere di Adamo, tanto del primo quanto del secondo, è essenzialmente rappresentativo. Adamo porta in sé tutto il genere umano: dunque ciò che conviene al padre conviene anche ai figli. Noi, discendenti secondo la carne da un uomo terrestre, saremo terrestri come lui; discendenti secondo lo spirito da un uomo celeste, saremo celesti come lui (I Cor. XV, 48-49). Noi riceviamo a volta a volta l’immagine dell’uno e dell’altro. Il testo che abbiamo ora esaminato è tutto fatto di antitesi: differenze di origine, di natura, di azione e di destino tra i due Adami; quello che vedremo ora unisce il parallelismo al contrasto, benché vi domini il contrasto: « Perché come per mezzo di un solo uomo il peccato entrò nel mondo, e per mezzo del peccato la morte », così per mezzo di un solo uomo la giustizia è rientrata nel mondo e, per mezzo della giustizia la vita perduta in « Adamo che è il tipo dell’Adamo futuro ». — Prima somiglianza.

« Ma non è del dono gratuito come della colpa: perché se per la colpa di un solo molti  sono morti, quanto più la grazia di Dio e il dono gratuito che derivano da un solo uomo, Gesù Cristo, si riversarono sopra molti », cioè su tutti. — Primo contrasto.

« E non è del dono come (dell’atto compiuto) da un solo peccatore: poiché il giudizio (parte) da un solo (atto delittuoso e arriva) alla sentenza di condanna; ma il dono gratuito (parte) da una moltitudine di colpe (e arriva) ad una sentenza di giustificazione ». — Secondo contrasto.

« Perché se, per la colpa di uno solo, la morte regnò per il (fatto del) solo (Adamo), quanto più quelli che hanno ricevuto l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per il solo Gesù Cristo ». — Terzo contrasto.

« Così dunque come per una sola colpa (il giudizio cade) sopra tutti gli uomini in sentenza di condanna, anche per un solo atto meritorio (la grazia discende) sopra tutti gli uomini in giustificazione di vita ». — Seconda somiglianza. « Poiché come per la disobbedienza di un solo uomo molti  sono stati costituiti peccatori, così, per l’obbedienza di un solo, molti (ossia tutti, qualunque ne sia il numero) saranno costituiti giusti ». — Terza somiglianza.

« Ora la Legge interviene per far abbondare la colpa; ma là dove il peccato abbondava, la grazia è sovrabbondata; affinché, come il peccato regnò per mezzo della morte, così la grazia regni per mezzo della giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo Nostro Signore » (Rom. V, 12-21). —

Riassunto del parallelo e del contrasto.

Vi sono dunque, senza contare la conclusione finale, tre analogie e tre disparità. La prima analogia riguarda un fatto, cioè l’introduzione nel mondo e la diffusione universale del peccato e della morte per parte di Adamo, della giustizia e della vita per parte del Cristo. Una parentesi abbastanza lunga, la quale spiega come tutti gli uomini muoiono in Adamo per aver peccato tutti in Adamo, turba un poco il parallelismo; ma il rapporto tipologico, ricordato con una parola, non resta meno chiaro. La seconda analogia riguarda il modo: l’unione di solidarietà che vi è tra l’intera stirpe ed i suoi capi rispettivi, qualunque sia il numero degli individui rappresentati. La terza analogia riguarda la causa meritoria: da una parte l’obbedienza del Cristo, e dall’altra la disobbedienza di Adamo; la prima ha costituito peccatori tutti gli uomini, come la seconda li ha/costituiti giusti. Accanto alle analogie vi sono i contrasti. Il primo oppone tra loro gli strumenti: il peccato e la grazia; ma il bene la vince sul male, e la grazia è più potente a salvare, che il peccato a perdere. Il secondo contrasto paragona gli effetti: da una parte un solo peccato che si trasmette, dall’altra un solo atto di grazia che scancella e ripara peccati senza numero; vi è un evidente eccesso da parte della grazia. Il terzo contrasto paragona le persone: da una parte vi è soltanto un uomo, e dall’altra vi è Gesù Cristo il cui nome è sopra ogni nome.

2 . Riparare il peccato e vincere la morte è il compito dei secondo Adamo. Egli riparerà il peccato col dono della giustizia, e vincerà la morte con associare noi alla sua vita. « Il Cristo Gesù è venuto in questo mondo a salvare i peccatori (I Tim. I, 9) »: ci voleva questo motivo per attirarlo quaggiù. Su questo punto l’insegnamento dell’Apostolo non ha nulla di caratteristico; san Giovanni, san Pietro, come pure l’autore dell’Epistola agli Ebrei ed i Sinottici, parlano precisamente come lui. Tutti mettono la missione del Cristo in relazione col peccato, tutti presentano la sua morte come l’espiazione delle nostre colpe; nessuno lascia capire che Egli sarebbe venuto su questa terra, se non vi fossero stati peccatori da salvare (Ebr. X, 4-7). Siccome non vi è nulla che possa supplire al silenzio della rivelazione, quando si scruta il mistero dei consigli divini, l’ipotesi dell’incarnazione per un altro ordine di provvidenza non può avere che una base precaria (S. Tommaso, S. Th. III, q. art. 3), eccetto che si voglia imporre a Dio, nelle sue operazioni ad extra, l’obbligo di fare il più perfetto, il che sarebbe la negazione stessa della libertà. – Oltre la missione speciale per la quale è accreditato, il secondo Adamo deve avere due qualità essenziali: la natura umana e l’esenzione dal peccato. Che Gesù Cristo sia esente dal peccato, lo insegnarono così chiaramente come san Paolo, anche san Giovanni, san Pietro e il redattore dell’Epistola agli Ebrei. In san Giovanni, Gesù sfida i suoi nemici a trovare in lui una colpa: Quis ex vobis arguet me de peccato? Per lui, come per gli altri evangelisti, l’immunità dal peccato in Gesù, è un dato dell’esperienza che risulta da una vita tutta pura, tutta santa. Il redattore dell’Epistola agli Ebrei la deduce dal sacerdozio del Cristo; il pontefice ideale dev’essere « santo, senza macchia, separato dai peccatori » con una barriera insormontabile, « simile quanto è possibile ai suoi fratelli, eccetto il peccato ». San Pietro la deduce dalla qualità di vittima: « E Cristo è morto per (espiare) i peccati (degli uomini); Egli giusto, per gli ingiusti »; e noi siamo stati riscattati « dal sangue prezioso dell’agnello senza difetto e senza macchia, il Cristo ». San Paolo invece fonda l’impeccabilità del Salvatore sopra la missione di secondo Adamo. Gesù Cristo riceve la missione di « vincere il peccato nella carne » e non lo può vincere negli altri se non dopo di averlo vinto in se stesso; perciò, benché abbia una carne affatto simile alla nostra, Egli ha soltanto in apparenza una carne peccatrice. Non solamente Egli non ha nessuna esperienza del peccato, ma non potrebbe avere nulla di comune col peccato; ecco perché « Dio lo fece peccato, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui », certo che, lungi dall’essere macchiato dal contatto dei peccatori, il Cristo avrebbe loro comunicato la sua giustizia (Rom. III, 3; II Cor. V, 21). Ma altra cosa è il peccato, e altra cosa è la natura umana. « Se il Cristo non fosse veramente uomo, dice Tertulliano, tutta la sua vita non sarebbe altro che menzogna »: menzogna la sua nascita verginale, la sua agonia e la sua passione, la sua morte in croce, la sua risurrezione gloriosa; menzogna, conchiude sant’Ireneo, sarebbe tutta la redenzione. Difatti se Gesù Cristo non fosse veramente uomo, non sarebbe nostro fratello; se non fosse nostro fratello, non sarebbe nostro capo nel senso stretto della parola; se non fosse nostro capo, non sarebbe nostro rappresentante; la sua grazia gli sarebbe personale, e la sua giustizia non sarebbe la nostra per nessun titolo. Perciò si spiega l’insistenza con cui san Paolo inculca continuamente la realtà della natura umana nel Cristo.