LO SCUDO DELLA FEDE (XLVIII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S. E. I. Ed. Torino, 1927]

XLVIII.

L’INFERNO.

Esistenza dell’inferno. — Come credervi se nessuno mai è venuto dall’altro mondo a dirci che ci sia? — È certo che l’inferno sia eterno? — È possibile che Iddio voglia punire così il peccato, che è l’opera di pochi minuti? — Le pene dell’inferno. — Come mai, se Dio è buono, condanna all’inferno anche per un solo peccato mortale?

— È dunque proprio certo che l’inferno esista?

L’esistenza dell’inferno, oltre ad essere chiaramente insegnata nelle Sacre Scritturedell’antico e del nuovo Testamento, è ancora una credenza di tutta l’umanità. Scorri pure il mondo, consulta pure la storia, fruga pure negli archivi, ma non ti sarà dato mai di trovare un sol popolo o incivilito o barbaro, che non abbia creduto all’esistenza d’un inferno. Su questo punto essenziale tutti vanno pienamente d’accordo: Siri, Caldei, Egizi, Persiani, Indiani Scandinavi, Brettoni, Greci, Romani, e persino i selvaggi dell’America, dell’Africa e dell’Oceania! – Né devi pensarti che questa universale credenza si trovi soltanto nelle menti volgari. Tutt’altro! Essa è nella mente e nei libri dei più grandi filosofi e dei più grandi poeti, quali un Socrate, un Platone, un Aristotele, un Cicerone, un Seneca, un Omero, un Virgilio, ed un Ovidio. E Lucrezio, l’empio Lucrezio, esclama: « È impossibile dormire tranquillo; e perché? Perché si è forzati a temere dopo la vita delle pene eterne » (Della natura degli dèi, I, 108 — III, 37). Dopo di ciò ei si propone di strappare dal cuore degli uomini il timore dell’inferno. Inutili sforzi? Impresa cento volte tentata e cento volte resa vana. Diciotto secoli dopo Lucrezio, Voltaire ad uno de’ suoi discepoli, che si vantava di aver trovate prove infallibili che l’inferno non esiste, rispondeva : « Voi siete ben felice! queste prove io non l’ho ancor trovate ». E non si troveranno mai, a meno di mettersi in disaccordo con tutta l’umanità, giacché tutta l’umanità crede all’esistenza dell’inferno.

— Eppure sono molti che gridano : « L’inferno non esiste; questo dogma ha fatto il suo tempo: dalle persone serie non ci si crede più !»

Ebbene, se vi hanno di coloro che negano l’inferno (e ve ne hanno pur troppo), sono pur essi una prova, che l’inferno esiste, giacché non si combatte il nulla e non si infierisce contro una chimera. In costoro il dire « l’inferno non esiste, » si riduce a nient’altro che questo: « Vorremmo bene che l’inferno non esistesse, affine di non avere impaccio a vivere come ci piace ». Ecco tutto: giacché chi sono alla fin fine coloro, che negano l’inferno? Sono forse gente dabbene, fior di galantuomini? Sono quei superbi e quei libertini, che calpestano ogni dettame della ragione per darsi in preda al loro orgoglio ed ai loro vizi.

— Tuttavia come si fa a credere all’inferno, se nessuno mai è venuto dall’altro mondo a dirci che vi sia?

E sei tu veramente sicuro che non mai sia venuto alcuno di là a dirci che l’inferno esiste? Io posso invece assicurarti che le prove del contrario vi sono nelle Sacre Scritture e nella storia. Perché sebbene di regola generale dall’inferno non si esca più mai, tuttavia Iddio per qualche suo giusto fine può permettere ed ha realmente permesso, che qualche anima dannata, non restando tuttavia libera dalla pena infernale, ne uscisse fuori a fare qualche apparizione. – Ma via: sia pure che nessuno mai sia venuto dall’altro mondo per dirci che l’inferno esiste, che perciò? Si potrà inferire che esso non esista? È forse necessario, indispensabile per l’esistenza dell’inferno che i dannati ne vengano fuori e compaiano a noi per istruirci di quello che passa nell’al di là? Non siamo noi istruiti abbastanza di questa verità dalla Chiesa? Se pertanto non si crede alla Chiesa, non si crederebbe neppure ai morti che risuscitassero. – È lo stesso Gesù Cristo che lo ha detto nella parabola del ricco Epulone. A questo ricco che richiedeva Abramo di mandare azzaro ad avvertire i suoi fratelli dell’esistenza dell’inferno, fece rispondere da Abramo: « Hanno Mosè e i Profeti che ne parlano chiaro; se non credono a Mosè e ai profeti, non crederanno neppure ad un morto risuscitato ». Il dire adunque: « Come si fa a credere all’inferno, se nessuno è venuto dall’altro mondo a dirci che vi sia » è lo stesso che pretendere che Dio per farci credere all’esistenza dell’inferno faccia ad ogni istante e da per tutto risuscitare dei morti, e distrugga Egli stesso per tal guisa l’autorevole testimonianza della Chiesa e della stessa umanità; è un pretendere che Dio si acconci ai capricci dell’uomo, e che l’uomo possa imporsi alle disposizioni di Dio, è insomma perdere il senno e disconoscere che Dio è Dio, e che l’uomo è uomo. Nessuna obbiezione adunque, per quanto speciosa, può scemare la forza di questa verità sì chiaramente rivelata, e sì profondamente e universalmente creduta: l’inferno esiste.

— Ma è pur certo che l’inferno sia eterno?

Certissimo; tanto la Scrittura come le credenze di tutti i popoli dall’idea dell’inferno non disgiungono mai quella dell’eternità della sua durata. E per ciò l’eternità delle pene dell’inferno è una verità non meno chiaramente rivelata da Dio, né meno profondamente e universalmente creduta dagli uomini di quella dell’esistenza dell’inferno istesso. Chi pertanto volesse negare l’eternità delle pene, dovrebbe negare anzitutto la veracità di Dio, e dire che se Iddio ha detto agli uomini che l’inferno è eterno non altrimenti lo ha detto che per trastullarsi e farci paura. E non sarebbe questa un’orribile bestemmia? – In secondo luogo, per negare l’eternità delle pene bisognerebbe negare altresì ogni distinzione tra il bene e il male, tra il vizio e la virtù, tra i buoni e i malvagi. Ed in vero se passato qualche migliaio, e mettiamo pure qualche milione d’anni, l’inferno cessasse di esistere e i dannati ne fossero liberati, a meno che fossero da Dio annichilati, ciò che è assurdo, dovrebbero allora passare a godere in cielo coi santi, Caino con Abele, Giuda con S. Giovanni, Nerone con S. Pietro, Voltaire con S. Vincenzo de’ Paoli! – E allora a che varrebbe il far il bene, il soffrire con rassegnazione in questa vita? Che anzi qual ritegno vi sarebbe ancora nel male? Ognuno che amasse di peccare ragionerebbe così: Per intanto mi prendo il piacere che voglio. Sia pure che nell’altra vita io ne abbia ad essere punito ed anche per molti anni. Ma alla fin fine quella pena cesserà ed allora sarò ancora in tempo di godermi per sempre il paradiso. Così direbbe la più parte degli uomini e così farebbe; e in questo modo l’uomo non verrebbe egli ad averla vinta sopra Iddio? È chiaro adunque che l’inferno deve essere eterno, come eterno è il paradiso, dovendo pure esservi una correlazione tra la ricompensa dei buoni e la punizione dei malvagi. E lo è propriamente, e la ragione decisiva di questa sua eternità si è, che Dio, libero dispensatore de’ suoi doni, ha stabilito di darci la sua grazia per evitare il peccato o rialzarci dal medesimo finche siamo in vita, e di non darcela più dopo la morte. Cosicché il disgraziato che passa all’altro mondo nello stato di peccato, privo della grazia di Dio non potrà più mai liberarsi dal peccato. E, come perciò il suo peccato durerà in lui eternamente, così eternamente dovrà soffrirne la pena.

— Ma come mai Iddio vorrà punire con pene eterne un peccato che si commise in un brevissimo spazio di tempo?

Anche questo sofisma è molto sciocco ed è molto antico, giacché veniva messo fuori fin dai tempi di S. Giovanni Crisostomo. Il quale a coloro, che lo adducevano, rispondeva: « E dove mai avete imparato che il tempo impiegato a commettere il male debba essere la misura e la regola della punizione? L’assassinio, il parricidio, l’appiccar il fuoco non sono essi delitti, che si possono commettere in un momento? Eppure gli stessi tribunali di questo mondo condannano per lo più coloro, che li commettono, ad una pena di lunghi anni e ben anche alla morte, che è l’esclusione perpetua di questi scellerati dalla società. Ora, ciò che fanno gli uomini nei tribunali di questo mondo, senza che alcuno possa in questi casi tacciarli d’ingiustizia, perché non lo potrà fare Iddio al tribunal suo? – Del resto, amico mio, è proprio vero che il peccato del dannato nell’inferno sia un male commesso in un brevissimo spazio di tempo? Nell’atto sì ma nella volontà no. Perciocché coloro, i quali commettono il peccato, dice San Gregorio, in generale vorrebbero commetterlo sempre, se loro fosse possibile; e la prova chiara e certa di ciò si è, che costoro, quando non possono più commetterlo con le opere, lo commettono tuttavia col desiderio. In generale adunque il peccato benché nell’atto sia cosa di brevissimo spazio di tempo, nella volontà invece è cosa che può durare mesi ed anni interi. – Ma nel dannato in particolare poi il peccato dura non solo mesi ed anni, ma eternamente e proprio per sua colpa. Giacché finché fu in vita anche nell’ultimo istante della sua esistenza, se egli l’avesse sinceramente voluto, Iddio gli avrebbe data la grazia per pentirsi del suo peccato e liberarsene, ma egli non ostante che vedesse dinanzi a sé l’eternità, anche all’ultimo istante di vita, ha disprezzato la misericordia e la giustizia di Dio, si è ostinato nella colpa, e da quel momento entrando nell’eternità ha eternato altresì la perversità del suo animo. E non è dunque sommamente giusto che Iddio punisca con una pena eterna lo sciagurato, che da se stesso si è messo nell’eterna volontà di essere nemico di Dio? – Il peccato, come insegna S. Tommaso, per ragione dell’oltraggio che reca alla maestà infinita di Dio racchiude in sé una certa malizia infinita. E poiché il dannato, passato che è all’altra vita rimane eternamente in questo stato di infinita malizia, è senza alcun dubbio giustissimo che Iddio eternamente colpisca della meritata pena questo suo eterno oltraggiatore della sua infinita maestà. Non vi ha nulla adunque di più logico che l’eternità delle pene. E se è vero, come è verissimo che l’inferno esiste, è vero altresì ch’esso è eterno.

— Sono ora ben convinto di questa verità. Desidererei ora di sapere se i dannati nell’inferno soffrano tutti pene eguali?

No, certamente, questo ripugnerebbe alla Giustizia di Dio. Pertanto quantunque nell’inferno i dannati siano tutti infelicissimi, nondimeno hanno gradi di pena diversi, e soffrono più o meno intensamente a seconda dei loro diversi demeriti, vale a dire secondo il numero e la gravezza dei loro peccati.

— E quali sarebbero propriamente le pene dell’inferno?

* Di queste pene basta che tu sappia e creda che sono acerbissime in quanto all’anima e al corpo e che fra di esse vi è quella del fuoco.

— È vero che nell’inferno vi sia propriamente il fuoco?

Non se ne può dubitare: anche questo è insegnamento chiaro e preciso delle Sacre Scritture. Almeno otto volte nel Vangelo, e quasi trenta volte nel Nuovo Testamento, il supplizio dell’inferno è designato con questo termine o di fuoco o di fiamma. E per certo non si capirebbe questo linguaggio, qualora la pena del fuoco, la più terribile delle pene terrene, non avesse un’intima connessione col supplizio dell’inferno, né fosse la più atta a darci un’idea del suo rigore.

— Ma si tratta di fuoco vero, reale, corporeo?

Ti dirò: la Chiesa a questo riguardo non ha fatto alcun decreto dogmatico. Vi furono e vi sono ancora di coloro (pochissimi in vero), che questo fuoco, di cui parlano le Scritture, l’hanno inteso per metaforico: ma l’opinione della Chiesa, si è che si tratti di un fuoco vero, reale, corporeo, benché, senza dubbio, differente dal nostro. Anzi la S. Penitenzieria Apostolica (il 30 aprile 1890) ha risoluto che quando s’incontra alcuno che intenda il fuoco dell’inferno come espressione metaforica, con cui si vuole dare un’idea dell’intensità delle pene che si soffrono in quel luogo di tormenti, si cerchi di istruirlo; e se si ostini, non si giudichi degno di assoluzione.

— Con tutto ciò se l’inferno esiste, se l’inferno è eterno, se in esso vi è il fuoco che abbrucia… io non posso capire come mai Iddio, che è buono e ci ama, condanni all’inferno, ed anche solo per un peccato mortale.

Ascolta: certamente Iddio è buono, infinitamente buono, Dio ci ama, infinitamente ci ama; ma Egli è altresì giusto, infinitamente giusto. La sua bontà, il suo amore per noi lo induce a far di tutto perché noi ci salviamo. E quando vede che v’ha tra di noi chi si fa a negargli la corrispondenza dovuta alla grazia da Lui data a ciascuno per la sua eterna salvezza, come dice il Bougaud, « oh! non si arrende al primo rifiuto. Non si confessa facilmente vinto. Ritenta la prova. Per colui che resiste ha tenerezze, indugi, insistenze che sorprendono. Sarà necessario che egli si getti ginocchioni ai piedi dell’infedele, dell’ingrato! Lo farà, perché nessun sacrificio gli è grave ». Ed invero Dio sarebbe in pieno diritto di mandar subito all’inferno il peccatore al primo grave peccato che commette, e come ha fatto con gli angeli ribelli, così avrà fatto e andrà facendo con taluno degli uomini per i suoi giustissimi motivi; ma si può dire che questa sia la regola ordinaria da Lui seguita? O non si deve piuttosto riconoscere da quanto appare dinanzi agli stessi nostri occhi, che Iddio per lo più non pronunzierà la sentenza di dannazione se non quando vede la misura colma? E dopo che Iddio per parte sua ha fatto di tutto per salvare gli uomini, e taluno di essi non ha voluto fino all’ultimo arrendersi alla sua bontà, al suo amore, non è giusto che Egli lo condanni? … e lo condanni in ragione della malizia delle sue colpe? Alla fin fine non ha Egli fatto intendere prima che questa sarebbe stata la punizione del malvagio? Vi è forse alcuno che ignori ciò? – Come dunque si potrà accusare la bontà, l’amore che Dio ci porta, se Egli punirà con l’inferno chi ha preso a giuoco la bontà e l’amor suo fino all’ultimo? Forseché non accade anche tra gli uomini che si respinga lontano colui, che ha disprezzato, tradito, insultato l’altrui amore? E lo si respinga tanto più sdegnosamente e inesorabilmente, quanto più si è cercato di guadagnarlo ? Ritieni adunque che Dio è buono, che Dio ci ama non ostante l’inferno, il quale non solo è effetto della sua giustizia, ma altresì della sua bontà e del suo amore oltraggiato e da Lui sapientemente punito. Sicché aveva ben ragione il nostro sommo poeta di leggere sulla porta dell’inferno questa iscrizione:

Per me si va nella città dolente

Per me si va nell’eterno dolore,

Per me si va tra la perduta gente.

Giustizia mosse il mio alto Fattore,

Fecemi la divina Potestate,

La somma Sapienza e il primo Amore.

CONOSCERE SAN PAOLO (43)

LIBRO V

I canali della redenzione.

CAPO II.

I Sacramenti.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

Nel NUOVO Testamento non vi è un termine generico il quale indichi i riti simbolici istituiti da Gesù Cristo per conferire la grazia. Siccome μυστήριον (= musterion), tradotto assai sovente per sacramentum nella Bibbia latina, prende qualche volta il significato di simbolo o di segno sacro, esso è sembrato il più adatto per esprimere i veicoli sensibili della grazia, quando si ebbe l’idea di comprenderli tutti sotto un nome unico. Assai presto furono così chiamati il Battesimo, l’imposizione delle mani che lo sigilla, e l’Eucaristia che lo accompagna; ma la natura speciale di questi tre riti, che incorporano il neofìto all’assemblea cristiana e che fanno pensare alle iniziazioni religiose del paganesimo, rendeva difficile l’estensione del nome di misteri agli altri sacramenti. La parola latina corrispondente sacramentum si prestava meglio, per la sua stessa indeterminatezza, a significare istituzioni disparate che di comune avevano bensì il carattere sacro, ma le cui relazioni colpivano meno, a prima vista, che non le loro differenze specifiche: questo nome perciò è già applicato a tutti o a quasi tutti i sacramenti da sant’Agostino il quale in questo altro non fa che generalizzare l’usanza di Tertulliano e di san Cipriano. Tra i sette sacramenti della Chiesa, l’estrema unzione non è menzionata da san Paolo; molto probabilmente neppure la penitenza. Invece le sue allusioni al Battesimo e, per concomitanza, alla confermazione, sono assai frequenti; il suo insegnamento sopra l’Eucaristia è più completo che quello degli evangelisti; le sue asserzioni riguardo all’Ordine e al Matrimonio permettono di conchiudere che egli li considera come segni sacri che conferiscono la grazia, senza che si possa inferirne direttamente che egli li creda istituiti da Gesù. Cristo.

I. IL BATTESIMO.

1 . SIMBOLISMO MULTIPLO DEL BATTESIMO. — 2. MORTE E RISURREZIONE MISTICHE. — 3. LA FEDE E IL BATTESIMO.

1 . Il rito del Battesimo per immersione, che fu la pratica ordinaria della Chiesa primitiva, si può considerare sotto almeno quattro aspetti simbolici: come bagno sacro, simbolo di purificazione interiore; come ritorno alla luce, simbolo d’illuminazione spirituale; come seppellimento mistico, simbolo della morte dell’uomo vecchio e di unione alla morte del Cristo; come risurrezione mistica, simbolo di rigenerazione e di vita nuova. – Più tardi il simbolismo si arricchì di due nuovi elementi: l’unzione, emblema dell’innesto del neofito sul vero olivo, e il cambiamento di abito, emblema della trasformazione morale: ma questo doppio simbolismo, sia o non sia suggerito dal linguaggio di san Paolo, qui non deve occuparci, perché non vi è nulla che dimostri che esso risalga all’età apostolica. Dei quattro aspetti sopra indicati, il primo, quello evocato anzitutto dall’etimologia e che più naturalmente ci viene in mente, fu anche il più comune in origine. – Il secondo fu particolarmente in onore a partire dal secondo secolo; secondo san Giustino, illuminare e illuminazione diventarono sinonimi di « battezzare » e di « battesimo » . Queste maniere di parlare e di concepire sono familiari a Paolo. I Cristiani hanno « gli occhi del cuore illuminati (Ephes. I, 18) » sono « figli di luce e figli del giorno (I Tess. V, 5) ». Anzi la luce che li penetra nel Battesimo li cambia in focolari luminosi; « essi riflettono la luce e la diffondono come risplende e irradia un cristallo colpito dai raggi del sole: essi risplendono come « luminari stessi nel mondo (Fil. II, 15) » e sono essi medesimi « luce nel Signore (Ephes. V, 8) ». Paolo non ignora neppure che il Battesimo sia un « bagno di rigenerazione e di rinnovamento (Tit. III, 5) »: che tutti i fedeli siano in esso « purificati, santificati, giustificati (I Cor. VI) », che Gesù Cristo, volendosi preparare una sposa perfetta e degna di Lui, la santifica « purificandola col bagno dell’acqua nella parola (Ephes. V, 26) ». Certamente qui non si tratta di una purificazione materiale: il lavacro battesimale deve la sua efficacia alla parola onnipotente che lo innalza alla dignità di rito sacramentale. Tuttavia non è né la purificazione dell’anima mediante la remissione dei peccati, né l’illuminazione dell’intelligenza mediante la fede quella che san Paolo vuol mettere in rilievo quando parla del Battesimo: egli fa rilevare la morte e la risurrezione mistica, figurate e prodotte dal Sacramento.

2. La rinascita dell’uomo ha per condizione essenziale una morte precedente. Gesù Cristo è salvatore soltanto per mezzo della croce e non ci salva altrimenti che con l’associarci alla sua morte. Ma per diventare salutare, bisogna che questa morte ideale si realizzi in ciascuno di noi, e questo avviene appunto nel Battesimo:

“Ignorate forse che noi tutti che fummo battezzati nella sua morte! Noi fummo dunque seppelliti con Lui per mezzo del Battesimo (il quale è) nella sua morte, affinché, come il Cristo risuscitò da morte per la gloria del Padre, così pure anche noi camminiamo nella novità della vita. Se infatti noi siamo stati innestati su Lui per la somiglianza della sua morte, lo saremo pure per (quella della) risurrezione, sapendo che il nostro vecchio uomo fu crocifisso con Lui affinché il corpo del peccato fosse distrutto, perché noi non siamo più schiavi del peccato; infatti colui che è morto è liberato dal peccato (Rom. VI, 3-7). – In poche parole questo testo condensa con una meravigliosa pienezza di lignificato gli effetti immediati del Battesimo, i beni che ci assicura nell’avvenire, i doveri che c’impone nel presente. Perché non si distinguono questi diversi aspetti, esegeti e teologi mettono insieme idee disparate e trasformano una delle più belle pagine di san Paolo in un insipido pasticcio. Qui noi non dobbiamo occuparci che dei frutti immediati del Battesimo. Essere battezzati nella morte del Cristo, vuol dire essere battezzati nel Cristo morente, vuol dire essere incorporati al Cristo nell’atto medesimo in cui ci salva, vuol dire morire misticamente con Colui che ha sofferto la morte in nome e a vantaggio di tutti. Questa morte mistica è una realtà, poiché gli effetti ne sono realissimi: morte al peccato, morte all’uomo vecchio, morte alla Legge. – Se si volesse credere a certi commentatori protestanti, la morte al peccato altro non sarebbe che il risultato di una finzione legale; Dio ci considererebbe come morti, al modo stesso con cui ci considera come giusti, senza che vi sia in noi nulla di mutato. Al più essi fanno consistere il cambiamento in una rottura decisiva della volontà col peccato, con i suoi istinti e con le sue aspirazioni, e questo sotto l’impero sempre rinnovato della fede nella morte del Cristo per il peccato. Questa spiegazione non spiega nulla. Che il Cristiano, dal fatto del suo Battesimo, contragga il dovere di perseverare in uno stato di morte, relativamente al peccato, è cosa che nessuno contesta, ma questo dovere, se si analizza, implica un cambiamento interiore di ordine morale. San Paolo non si contenta di dire: « Morire al peccato », ma dice: « Voi siete morti al peccato ». Morire al peccato vuol dunque dire spogliarsi della lordura del peccato; ma nel tempo stesso è anche essere liberati dalla sua tirannia ed essere messi in grado di resistere ai suoi ulteriori assalti. Non v i è restrizione né eccezione: peccato originale, peccati attuali, tutto ciò che si chiama peccato nel vero senso della parola, tutto è svanito col Battesimo; poiché « non vi è più condanna per quelli che sono nel Cristo Gesù (Rom. VIII, 1)) ». Ieri potevano essere idolatri, impudichi, ladri, detrattori, bestemmiatori; ora sono stati « purificati, santificati, giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo (I Cor. VI, 11) ». La morte all’uomo vecchio è una conseguenza della morte al peccato. Quando fummo battezzati nella morte del Cristo, « il nostro vecchio uomo fu crocifisso con Lui (Rom. VI, 6) ». L’uomo vecchio significa tutto ciò che abbiamo di comune col primo Adamo, tutto ciò che direttamente o indirettamente abbiamo da Lui, come capo religioso dell’umanità. Tutto questo perisce per il fatto della nostra unione col secondo Adamo. È poi evidente che la morte all’uomo vecchio è progressiva, perché l’inclinazione al male sussiste anche nell’uomo rigenerato; ma l’uomo vecchio ha ricevuto il colpo mortale; con l’antidoto della grazia, la concupiscenza, chiamata qui « il corpo del peccato » è resa inerte e inoffensiva. – Sembra pure che il Battesimo cristiano sia una morte alla Legge mosaica: « Per la Legge, io sono morto alla Legge per vivere a Dio; sono stato crocifisso col Cristo; non sono dunque più io che vivo, ma è il Cristo che vive in me. — Fratelli miei, voi siete morti alla Legge per il Corpo del Cristo… Ora noi siamo stati liberati dalla Legge, essendo morti a questa (Legge) che ci teneva » prigionieri (Gal. II, 19; Rom. VII, 6). In quest’ultimo passo l’allusione al Battesimo appare evidente; è infatti il Battesimo che mette termine a tutte le nostre schiavitù: « Colui che è morto è libero dal peccato » e da tutte le sue conseguenze. Probabilmente si deve dire altrettanto del testo precedente; poiché in quale momento l’Apostolo fu crocifisso con Gesù Cristo, se non nel rito battesimale che lo univa al Cristo morente? Non senza motivo l’Apostolo stabilisce sempre un vincolo di connessione tra la morte e la risurrezione spirituali. È infatti impossibile morire al peccato senza cominciare a vivere alla grazia: « Se siamo morti col Cristo crediamo che vivremo anche con Lui . . . Se siamo stati innestati sopra di Lui con la somiglianza della sua morte, tali pure saremo con quella della sua risurrezione (Rom. VI, 8) ». La nostra nuova vita può anche non essere apparente ma esiste necessariamente perché è un corollario della nostra morte: « Voi siete morti, e la vostra vita è nascosta col Cristo in Dio (Col. III, 3) ». E come potrebbe essere altrimenti, se il Battesimo che è la tomba dell’uomo vecchio è pure la culla dell’uomo nuovo? (Col. II, 12). – Per ben comprendere questo linguaggio, bisogna avvicinare queste espressioni: « essere battezzati nelCristo » e « rivestire il Cristo ». Non possiamo dare ragione a coloro i quali pretendono che il senso etimologico di « battezzare » e il senso figurato di « rivestire » sono completamente scomparsi da questi modi di dire. Essere battezzati nel Cristo è essere immersi nel Cristo mistico, come nell’elemento naturale della nostra nuova vita; è dunque, in sostanza, la stessa cosa che essere battezzati nel corpo del Cristo, ossia incorporati al suo corpo mistico. Così pure rivestire il Cristo è essere avvolti da questa atmosfera divina, essere fatti membra viventi del Cristo, assoggettati a quella forza soprannaturale che si chiama l’anima della Chiesa e che altro non è che lo Spirito Santo. L’Apostolo è solito dire « rivestire il Cristo o il Signore Gesù Cristo, rivestire l’uomo nuovo, rivestire l’immortalità, rivestire le armi di luce, rivestire l’armatura di Dio, l’elmo della salute, la corazza della fede e della carità »; e in tutti questi esempi il senso figurato è trasparente. – Noi rivestiamo il Cristo non tanto come un mantello che copre la nostra miseria, quanto piuttosto come una forma vitale che ci fa partecipare alla sua vita. Quasi tutti i frutti del Battesimo, considerato come principio di una vita nuova, sono mirabilmente compendiati nel testo seguente: « Dio ci ha salvati col bagno di rigenerazione e di rinnovamento dello Spirito Santo, che ha sparso su noi con abbondanza per mezzo di Gesù Cristo nostro Salvatore, affinché, giustificati dalla sua grazia, noi diventiamo eredi, nella speranza, della vita eterna (Tit. III, 5-7) ». Da queste parole, trascurando i punti accessori, risulta che: — Il Battesimo è un bagno di rigenerazione e di rinnovamento: un bagno che purifica l’anima da tutte le macchie passate; di rigenerazione, perché è una seconda nascita per mezzo dell’acqua e dello Spirito Santo, che ci rende figli di Dio, come la prima ci ha costituiti schiavi del peccato: di rinnovamento, perché sotto l’influsso dello Spirito creatore il neofito si spoglia dell’uomo vecchio e riveste il nuovo, si trasforma in tutto il suo essere e diventa una nuova creatura. — Il Battesimo è inoltre il dono dello Spirito Santo diffuso nei nostri cuori dal Padre, con la mediazione del Figlio. — Finalmente il Battesimo ci rende eredi della vita eterna conferendoci la filiazione adottiva: eredi veri, benché il godimento effettivo del nostro patrimonio venga differito e che per questo titolo noi siamo soltanto eredi nella speranza; ma noi sappiamo che, da parte di Dio, la nostra speranza è certa.

3. Tutti gli effetti che abbiamo ora assegnati al battesimo — la giustizia, la vita, la salvezza, la filiazione adottiva, il possesso dello Spirito Santo — san Paolo li attribuisce pure alla fede. Da che cosa deriva questa stretta unione, questa mutua compenetrazione della fede e del Battesimo? Anzitutto vi è il sincronismo. Quasi tutti i destinatari delle lettere di Paolo avevano ricevuto nel tempo stesso il Battesimo e il dono della fede: questo doppio ricordo si confondeva nella loro memoria. L’istruzione dei catecumeni era allora sommaria: « Chiunque crederà e riceverà il Battesimo sarà salvo », aveva detto il Signore prima di salire al cielo, come se le due azioni fossero simultanee. Infatti i tre mila uomini convertiti d a san Pietro nella prima Pentecoste furono battezzati il giorno stesso (Act. II, 41); l’eunuco della regina Candace scese dal cocchio per ricevere il Battesimo dalle mani del diacono Filippo che lo aveva allora catechizzato (Act. VIII, 28); il carceriere di san Paolo fu battezzato con tutta la sua famiglia nella stessa notte in cui aveva abbracciata la fede (Act. XVI, 33); i dodici discepoli di Efeso, che avevano ricevuto soltanto il battesimo di Giovanni, « credettero in Gesù e furono battezzati (Ct. XIX, 5) ». Una formola simile a questa riassume le fatiche dell’Apostolo a Corinto (Act. XVIII, 8). Non vi è ancora intervallo tra la fede e il Battesimo. A questo primo vincolo esteriore che risulta dalla simultaneità dei due atti e dall’identità dei due ricordi, se ne aggiunge un altro più intimo e che dipende dalla natura delle cose. Per san Paolo, la fede concreta, la fede normale, la fede che giustifica, non è un semplice assenso dell’intelligenza a una verità speculativa; è invece l’amen della ragione, della volontà, di tutto l’uomo al Vangelo, ossia all’economia della salvezza di cui Dio è autore e Gesù Cristo è araldo. Questa fede iniziale della quale soprattutto si occupa san Paolo, perché essa fu per lui medesimo, come per i suoi primi lettori, il punto decisivo della sua vita e il momento critico del suo destino, comprende dunque necessariamente, con l’offerta di se stesso a Dio, il voto implicito del Battesimo. Non soltanto non si può concepire il Battesimo di un adulto senza la fede, poiché non si può concepire senza la penitenza e senza la conversione a Dio, ma neppure la fede sincera e giustificante non si può concepire senza il desiderio del Battesimo. Per questa ragione la nostra rigenerazione spirituale è attribuita ora alla fede, ora al Battesimo, perché l’atto e il rito sono tra loro in una dipendenza reciproca ed esercitano una causalità comune. Il caso di un catecumeno sorpreso dalla morte prima di ricevere il Sacramento, non è chimerico; ma è accidentale ed eccezionale, e la teoria fa astrazione dalle eccezioni e dagli accidenti: « Voi tutti siete figli di Dio, per la fede, nel Cristo Gesù. Poiché voi tutti che foste battezzati nel Cristo v i siete rivestiti del Cristo (Ga. III, 26-27) ». – Così la filiazione adottiva è attribuita nel tempo stesso alla fede e al Battesimo. Voi non siete più, dice l’Apostolo, fanciullini come erano un tempo gli Ebrei ancora sotto tutela e sotto un pedagogo; voi siete figli di Dio (υἱοὶ Θεοῦ = uioi teou), giunti all’età matura, emancipati dalla Legge, in pieno possesso del vostro patrimonio e di tutti i vostri diritti; e voi siete tutto questo per la fede viva che vi unisce al Cristo Gesù e vi fa partecipare alle sue prerogative. Come non sareste voi figli di Dio? Battezzati nel Cristo, voi avete rivestito il Cristo. avete la forma del Cristo e per conseguenza la filiazione adottiva inerente a questa torma. Infatti è l’unione al Cristo quella che ci fa figli di Dio, e questa unione è operata dalla fede e dal Battesimo; ma né l’unione effettiva del Battesimo si può produrre senza l’unione della fede, né l’unione affettiva della fede avviene senza qualche relazione intrinseca con l’unione effettiva del Battesimo: e perché l’unione affettiva della fede tende essenzialmente all’unione effettiva del Battesimo, diventa essa medesima effettiva; così le due concezioni, non solo non sono opposte ma si riuniscono.

II. LA CRESIMA.

Essendo il conferimento dello Spirito Santo mediante l’imposizione delle mani così strettamente unito al Battesimo, i due atti sembravano non essere altro che le parti integranti di un medesimo rito. Senza dubbio la domanda rivolta da san Paolo ai discepoli di Efeso, che egli credeva battezzati col Battesimo cristiano, dimostra abbastanza che questi atti erano non soltanto distinti, ma separabili (Act. XIX, 2); e difatti i Samaritani battezzati dal diacono Filippo ricevettero lo Spirito Santo soltanto più tardi, all’arrivo degli Apostoli (Act. VIII, 17-18); tuttavia, siccome non vi era altro motivo di separare la Cresima dal Battesimo, che l’assenza di un ministro legittimo, questi due Sacramenti venivano ordinariamente conferiti insieme e formavano due articoli connessi della catechesi elementare. San Paolo, pure supponendo che i Cristiani abbiano ricevuto lo Spirito Santo nel Battesimo, ricorda l’imposizione delle mani soltanto a proposito del Sacramento dell’Ordine. Molti teologi vogliono vedere un’allusione alla Confermazione nel passo seguente: « Colui che ci fortifica con voi nel Cristo è Dio il quale ci ha pure segnati con un sigillo e ci ha dati i pegni dello Spirito (II Cor. I, 21-22) ». L’argomentazione fondata sopra questo testo è molto precaria. Essa non può appoggiarsi molto sui verbi fortificare o confermare (qui confirmat), sigillare (qui signavit), ungere (qui unxit), perché soltanto più tardi questi termini furono applicati alla Confermazione ed hanno come soggetto Dio, non già il sacro ministro. E poi qui non si tratta di tutti i fedeli, ma di Paolo e dei suoi compagni, specialmente di Silvano e di Timoteo; ora non si vede come mai potrebbero questi ultimi riferire ad un dono che è a loro comune con tutti i cristiani, il coraggio necessario agli apostoli per il degno esercizio del loro ministero. L’unzione dalla quale deriva quella forza divina, è la loro stessa vocazione all’apostolato, e il sigillo che li segna con la sua impronta, sono le operazioni dello Spirito Santo le quali autorizzano la loro missione. Vi è tuttavia un’allusione abbastanza chiara alla Confermazione, in un testo dove la maggior parte dei teologi non la scorgono: « Come il corpo è uno ed ha molte membra, e tutte le membra del corpo, nonostante il loro numero, sono un solo corpo, così è del Cristo; poiché in un medesimo Spirito noi tutti, o Ebrei o Greci, o schiavi o liberi, fummo battezzati in un solo corpo, e tutti fummo abbeverati del medesimo Spirito (I Cor. XII, 13) ». Quattro ragioni ci fanno pensare che questa infusione dello Spirito indichi il Sacramento della Cresima: il verbo all’aoristo (ἐποφίσθημεν = epofistemen) non indica uno stato permanente, né una azione ripetuta con frequenza, ma un rito transitorio analogo e parallelo a quello del Battesimo. — D’altra parte non si può pensare al Battesimo stesso che è stato appunto nominato poco prima, né alla bevanda eucaristica che non si potrebbe riconoscere sotto questo enigma. — Le parole di Paolo descrivono la formazione del corpo mistico: col Battesimo il neofito è innestato sul Cristo, immerso nel Cristo, incorporato al Cristo; allora interviene lo Spirito Santo, anima della Chiesa, per infondergli una nuova vita; il conferimento dello Spirito Santo completa l’incorporazione del Battesimo. — Nell’Antico Testamento, come nel Nuovo, la missione dello Spirito di Dio si presenta ordinariamente sotto il simbolo di una effusione, di una pioggia, di un effluvio (Is. XII, 3; XXXII, 15; XLIV, 3; Ger. II, 13; Ezech. XLVII, 1; Zac. XII, 10; Gioel. II, 28, etc. Giov. VII, 39-40; Act. II, 17, 18, 33; Tit. III, 6, etc.). Vi è immagine più atta a indicare il rito sacro che rinnova e perpetua in seno alla Chiesa il miracolo della Pentecoste!

[continua]

SALVATION’S PILLS – PILLOLE DI SALVEZZA -1- : I. WHO MAY PREACH # II. Periodic abstinence.

I. WHO MAY PREACH [Chi può predicare?]

II. Periodic abstinence, misnamed “CATHOLIC BIRTH CONTROL ” [Astinenza periodica, erroneamente definita “Controllo cattolico delle nascite” ]

I. WHO MAY PREACH

CAN. 1342

1. Concionandi  facultas solis sacerdotibus vel diaconis fiat, non vero ceteris clericis, nisi rationabili de causa, iudicio Ordinarii et in casibus singularibus.

2. Concionari in ecclesia vetantur laici omnes, etsi religiosi.

[Solo i preti e i diaconi possono predicare; gli altri chierici solo in casi speciali col permesso del Vescovo, mai però i laici, sebbene religiosi.]

Only priests and deacons should be given the faculty of preaching, and no other clerics should be allowed to preach, except in particular cases and for a cause which the Ordinary deems reasonable.

Laymen, even though they may be religious, are forbidden to preach in church.

It is well known that some Oriental lay monks played a rather conspicuous part in the religious controversies of the fifth century. We need not wonder, therefore, that they were forbidden to preach, because this office demands a canonical mission.26 There is a remarkable decretal of Innocent III, which shows the ingenuity of some abbesses who, besides hearing confession, also delivered public homilies.27 This appeared as a novelty to the pope, who stopped the practice. Laymen, too, at times went so far as to hold secret conventicles and to despise the word of God when preached by priests.28 Wiclif and Huss were not the first to demand permission to preach to men and women alike.29

This prohibitive law is based on the requisite of jurisdiction, of which the faculty of preaching is a part.

[È noto esservi stata una parte piuttosto cospicua tra le controversie religiose del quinto secolo nei confronti di monaci laici orientali. Non dobbiamo quindi ora meravigliarci che fosse stato loro proibito predicare, perché questo ufficio richiede una missione canonica. C’è un importante decreto di Innocenzo III, che mostra l’ingenuità di alcune badesse che, oltre a confessare, facevano anche pubbliche omelie. Questo appariva come una novità al Papa, che ne fermò la pratica. Anche i laici, a volte si spingevano fino a ritenere convinzioni occulte e a disprezzare la parola di Dio quando veniva predicata dai Preti. Wiclif e Huss non furono i primi a chiedere il permesso di predicare agli uomini e alle donne. Questo divieto si basa sul requisito della giurisdizione, di cui la facoltà di predicare è una parte.]

26 See c. 19, C. 16, q. 1 (Leo I).
27 C. 10, X, III, 38.
28 C. 12, 14, X, V, 7.
29 Art. 37 (Denz., 581).

A COMMENTARY ON THE NEW CODE OF CANON LAW
By THE REV. P. CHAS. AUGUSTINE, O.S.B., D.D.
Professor of Canon Law
VOLUME VI
Administrative Law (Can. 1154-1551)
B. HERDER BOOK CO.
17 SOUTH BROADWAY, ST. Louis, Mo.
AND 68 GREAT RUSSELL ST. LONDON, W. C
1921
Cum Permissu Superiorum
NIHIL OBSTAT. F. G. Holweck, Censor Librorum
Sti. Ludovici, die 18. Nov. 1920.
IMPRIMATUR. + Joannes J. Glennon, Archiepiscopus Sti. Ludovici
Sti. Ludovici, die 22. Nov. 1920.
Copyright, 1920 by Joseph Gummersbach
All rights reserved. Printed in U.S.A.
VAIL-BALLOU COMPANY
BINGHAMTON AND NEW YORK
pp.362-363

II. Periodic abstinence, misnamed “Catholic Birth Control”

[Astinenza periodica, erroneamente definita “Controllo cattolico delle nascite”]

The sins of Married People

[I peccati degli sposati]

 760. N. B. Treatment of Onanism in the Confessional.

a) Questioning the penitent is of obligation as often as there is a well-founded suspicion in this regard. In such instances the question may be: “Does your conscience reproach you in regard to the sacred character of matrimony?” “Have you done anything contrary to the purpose of marriage?”

b) Instructing the penitent on the gravity of such sins is necessary, even though the penitent has therefore been in good faith. Good faith will scarcely be found in this matter nowadays, except in extremely difficult circumstances, e.g., a reliable physician tells a woman that another pregnancy will endanger her life. In such instances the confessor may omit the instruction if he foresees that sins which are now only material will become formal sins.

c) Whoever is not firmly resolved to avoid the sin is not disposed and cannot be absolved. Being intrinsically evil, conjugal onanism is gravely sinful even when – to avoid it – married people would have to practice lifelong continence. From early times Christians were called upon to make heroic sacrifices. When God demands a sacrifice He gives the grace necessary to make it.

d) Recidivists who assure the priest that they had the best intentions are to be handled as recidivists living in the proximate occasion of sin; those who, furthermore, cannot have more children (e.g., because of the illness of the wife or extreme poverty) should be treated as those who are living in the proximately necessary occasion of sin (Cf. 608); whereas those who do not desire more children because they are unwilling to make sacrifices, should be handled as those living in a proximate free occasion of sin (Cf. 607).

e) Conception, according to the opinion of physicians, follows only when marital relations take place at certain times, i.e., during the period of fertility on the part of the woman. Abstaining from intercourse during this period has come to be known as the Rhythm Method of Birth Control. For a proportionate reason and with the mutual consent of husband and wife it is lawful intentionally to practice periodic continence, i.e., restrict intercourse to those times when conception is impossible. Physicians are not agreed as to the exact extent of the so-called “safe period”.

Since some women have irregular cycles and since illness may in some cases cause a disturbance of the regularity, the confessor should refer women who have a sufficient reason to avoid pregnancy to a conscientious physician who may give them biological details regarding the sterile period.

Periodic abstinence, misnamed “Catholic Birth Control”, is, therefore, lawful only under certain conditions: 1) Both parties must freely agree to the restrictions that it involves. 2) The practice must not constitute an occasion of sin, especially the sin of incontinence. 3) There must be a proportionately grave reason for not having children, at least for the time being.

607. Occasionists.

1. Concept. An occasion of sin is some external circumstance that leads one to sin. Hence he is an occasionist, who sins in consequence of such a circumstance.

The proximate occasion may be free or necessary. The former can be easily avoided. A necessary occasion is one which is physically or morally impossible to avoid without great danger to life, health or reputation.

Absolution of those in the proximate occasion of grievous sin.

Whoever does not want to give up a proximate free occasion of sin cannot be absolved.

608. If one does not abandon the proximately necessary occasion of sin, but is willing to use adequate means to make it remote, he may be absolved.

Such means may either strengthen the penitent spiritually (prayer, Sacraments, consideration of the eternal truths) or lessen the influence of the occasion (guarding the eyes, avoiding intimate familiarity or the opportunity of being alone with another).

If one continually relapses into sin in spite of taking such precautions, he cannot be forced to give up the occasion at all costs; however, he must be vigorously encouraged to be more zealous in the use of such means that will make the occasion remote.

N.B. There are various intermediary stages between the remote and proximate occasion. The greater the danger of sinning, the more serious must be the reasons to justify one in not avoiding the occasion of sin.

96. SIN IN GENERAL

Concept. Sin is the free transgression of a divine law.

Every law is, in a sense, a derivation from the divine law; therefore, the transgression of any law is sinful.

The requisites for every sin are: a) the transgression of law, at least a putative law, b) the knowledge of the transgression; a confused knowledge suffices, c) free consent.

Differing from formal sin just defined is material sin, i.e., the violation of a law without knowledge or consent; God never imputes a material sin as a fault. Before a civil court, however, one is held responsible in some cases.

Moral Theology
by Rev. Heribert Jone, O.F.M. CAP., J.C.D., by Rev. Urban Adelman, O.F.M. CAP., J.C.D.
The Mercier Press Limited, Cork, Ireland
Nihil Obstat: PIUS KAELIN, O.F.M. CAP, Censor Deputatus
Imprimi Potest: VICTOR GREEN, O.F.V. CAP., Provincial, July 2, 1955
Nihil Obstat: RICHARD GINDER, S.T.I., Censor Librorum
Imprimatur: JOHN FRANCIS DEARDEN, D.D., Bishop of Pittsburg, August 15, 1955
SIN IN GENERAL, p. 46.
Special Types of Penitents, pp. 428, 429.

The sins of Married People, p. 542.
Copyright 1929 and 1951
Printed in the United states of America

fr. UK, Catholic Priest.

774. NOTA. – TRATTAMENTO DEGLI ONANISTI IN CONFESSIONE

a) L’obbligo d’interrogare esiste per sé tutte le volte che v’è un sospetto fondato. In simili casi la domanda può suonare per es.: « Non Le rimorde per nulla la coscienza circa la santità del matrimonio? » — « Non è avvenuto nulla contro il fine del matrimonio? »; o altre secondo l’uso di buoni sacerdoti nelle diverse regioni.

b) E necessario istruire il penitente circa la gravezza di questo peccato, anche se finora è stato in buona fede. Veramente ai nostri tempi difficilmente vi sarà la buona fede, salve circostanze molto scabrose: per es. quando un medico di coscienza ha dichiarato che una nuova gravidanza metterebbe a repentaglio la vita della donna. In tal caso si può lecitamente omettere l’istruzione, se si prevede che altrimenti i peccati materiali non farebbero che diventare formali.

c) Chi non ha la volontà risoluta di evitare il peccato, non è disposto, e non può essere assolto. — Non essendo mai lecito far ciò che è intrinsecamente cattivo, ne segue che l’onanismo nel matrimonio è grave peccato anche quando i coniugi (caso rarissimo del resto) dovessero altrimenti vivere sempre in continenza. Come a nessuno, nelle persecuzioni contro i Cristiani, fu lecito rinnegare la propria fede per non essere ucciso fra spaventosi tormenti, così non è lecito l’onanismo per non dover vivere in perpetua continenza. Quali sacrifici eroici non esigono sovente gli Stati moderni! E allora anche Dio può certamente esigere che noi facciamo sacrifici per il Cielo. Del resto, Dio dà anche le grazie corrispondenti al sacrificio da lui richiesto. L’uomo, certo, deve avere tanto spirito di sacrificio da impegnarsi a chiedergliele (cfr. discorso di Pio XII alle ostetriche, 29 ott. 1951).

d) I recidivi, che assicurano di avere il miglior proposito, devono essere trattati come i recidivi che si trovano nell’occasione prossima di peccato; e precisamente, se di fatto non possono più aver figli, per es. a causa di malattia della moglie o di una povertà che è indigenza, devono considerarsi in occasione prossima necessaria di peccato; quelli invece che per ripugnanza al sacrificio, ecc. non vogliono più avere figli, si devono trattare come persone nell’occasione prossima libera del peccato.

e) Secondo l’opinione dei medici il concepimento si verifica soltanto quando l’atto coniugale si compie in tempi determinati.Non peccano i coniugi facendo l’atto coniugale anchenei tempi agenesici. Ma se essi, sempre e deliberatamente,senza un grave motivo, hanno rapporti coniugali soltanto nei periodi infecondi, peccano contro il senso stesso della vita coniugale. Tuttavia, l’osservanza dei tempi infecondi o agenesici, per motivi proporzionati (sanitari, eugenici, economici, sociali), di comune accordo è lecita, fino a tanto che sussistono tali motivi (cfr. discorso di Pio X I I alle ostetriche, 29 ott. 1951 e quello al « Fronte della Famiglia», 29 nov. 1951). — Circa la precisazione di questi periodi agenesici, però, medici stessi non sono ancora pienamente d’accordo. Negli ultimi tempi guadagna sempre più terreno l’opinione che gli ultimi undici giorni precedenti la prossima mestruazione siano fisiologicamente sterili e che la concezione si verifichi soltantoquando l’atto coniugale ha luogo nel tempo che decorre dal 19°al 12° giorno precedente la prossima mestruazione. Ma poiché alcune donne non hanno un ciclo mestruale regolare e in certi casi possono aggiungersi anche dei turbamenti patologici, il confessore si guardi dall’entrare in spiegazioni del genere, ma invii le persone, che per validi motivi non desiderano più figli,a un medico competente e coscienzioso, il quale indicherà loro esattamente i giorni in cui devono vivere in continenza.Certamente è questo uno dei punti più delicati del ministero pastorale; Pio XI nella Enc. « Casti Connubii » (31 dic.1930; AAS, XXII, 1930, p. 539-592) e Pio XII nel discorso alle ostetriche (29 ott. 1951) e in quello al « Fronte della Famiglia» (29 nov. 1951) hanno richiamato con energia e chiarezza la dottrina cattolica della santità del matrimonio cristiano contro tutte le recenti teorie e pratiche materialistiche.

LE OCCASIONI

616 E. — CONFESSIONE DI OCCASIONARI E ABITUDINARI E RECIDIVI.

I . Occasionari — 1° Nozione di occasione. Per occasione s’intende una circostanza esterna al soggetto che alletta qualcuno al peccato, rendendone facile l’esecuzione. Qui non si tratta dell’occasione remota, ma soltanto della prossima, di quell’occasione cioè alla quale è congiunto un pericolo grave che uno pecchi, sia che cadano generalmente tutti gli uomini (occasione assoluta) sia che vi cada sempre o quasi sempre un individuo determinato per le sue particolari disposizioni (occasione relativa). — Non si tiene qui conto dell’occasione remota, essendo lecito esporsi ad essa per un motivo ragionevole. L’occasione prossima può essere volontaria o necessaria. La prima si può facilmente evitare; schivare la seconda è fisicamente o moralmente impossibile per causa del grave danno alla vita, alla sanità, alla riputazione, che ne deriverebbe. Un’occasione prossima necessaria di peccato è per es. una relazione, in cui sia in vista un prossimo matrimonio; la convivenza coniugale, dei figli, ecc.

Assoluzione di chi si trova nell’occasione prossima di peccato.

a) Chi non vuole evitare l’occasione prossima volontaria di peccato, non può essere assolto.Ciò vale anche quando con la preghiera ecc. si vorrebberendere l’occasione remota.

Chi promette sinceramente di evitare subito l’occasione, può essere assolto subito. — Chi mancò più volte a questa promessa, dimostra che ha disposizioni dubbie; d’ordinario quindi non può essere nuovamente assolto, se prima non abbia allontanata l’occasione (cfr. n. 614). — Se il levare l’occasione (supposta volontaria) importa grandi sforzi morali (licenziamento di persona, disdetta d’un servizio) si può fin dalla prima volta differire l’assoluzione fino a quando l’occasione sarà tolta.

b) Chi non lascia l’occasione prossima necessaria, ma usando i mezzi idonei vuol renderla remota,può essere assolto.Tali mezzi possono essere destinati ad accrescere le forzespirituali (preghiere, sacramenti, meditazione delle veritàeterne) od a diminuire le forze dell’occasione (custodia degliocchi, contegno molto riservato con quella persona, schivaredi trovarsi da soli con essa).Chi non ostante l’uso dei mezzi ricade sempre dinuovo, non può essere costretto ad abbandonare l’occasionea qualunque costo; si deve però esigere con insistenza che usi con più energia i mezzi convenienti. — Ma se questa occasione lo ponesse nel pericolo prossimo di eterna dannazione, per sé dovrebbe troncarla anche a costo della propria vita. — Non può essere assolto colui che non vuole usare imezzi convenienti per rendere remota l’occasione prossima necessaria.

Nota.

Fra l’occasione remota e l’occasione prossima vi sono diversi gradi intermedi; quanto maggiore è il pericolo di peccare, tanto più gravi devono essere i motivi che disobbligano dall’abbandonare l’occasione. – Chi senza motivo sufficiente non evita un’occasione che non è propriamente remota, ma neppure è ancora prossima, commette almeno peccato veniale.

II. Peccatore abitudinario si dice colui che, durante un periodo piuttosto lungo di tempo, cade sovente nei medesimi peccati, senza che tra i singoli peccati vi sia un intervallo troppo grande. Nel giudicare di una abitudine si deve tener conto anche dell’indole del peccatore e della natura del peccato. Si distingue dal recidivo principalmente per questo che non è ricaduto ancora di continuo nei medesimi peccati dopo varie confessioni. L’abitudinario per sé deve essere assolto subito, anche se non è preceduta alcuna emendazione, purché sia realmente ben disposto.

III. Recidivo dicesi chi, non ostante ripetute confessioni, ricade sempre negli stessi peccati senza sforzarsi seriamente di correggersi.

Per assolverlo per sé si devono applicare le regole generali. La difficoltà sta appunto nel verificare se di fatto sia ben disposto.

Come norma: è ben disposto chi cade soltanto per fragilità; chi in genere sente orrore del peccato e lotta contro la tentazione e subito dopo la caduta detesta la sua azione (ciò accade spesso in chi pecca di polluzione). Si può rilevare se uno sia ben disposto, e ciò con facilità, chiedendogli non soltanto quante volte sia caduto, ma anche quante volte abbia resistito alla tentazione. — Di solito sono mal disposti quei recidivi che hanno un persistente attacco all’oggetto peccaminoso (relazione illecita, attacco alla cosa rubata, sistema dei due figli e non più). Tuttavia se vi sono segni positivi che un tale individuo sia ora più seriamente pentito che nelle confessioni precedenti, si può ammettere in lui una disposizione sufficiente. – In caso di disposizione dubbia, si devono ordinariamente assolvere quelli che peccano per debolezza, poiché è ad essi necessaria la grazia dei Sacramenti. — Si deve invece di solito rifiutare l’assoluzione a quanti ricadono nel peccato, perché non vogliono compiere il loro dovere (per es. restituire, troncare una relazione illecita).

97 – Il peccato in genere.

I. Nozione. Il peccato è la volontaria trasgressione di una legge divina. Poiché ogni legge è un’emanazione della legge divina, così anche la trasgressione di qualunque legge costituisce peccato.

I requisiti che costituiscono un peccato, sono: a) la trasgressione di una legge, almeno di una legge ritenuta per tale; b) la cognizione della trasgressione (basta però una cognizione confusa); c) il libero consenso.

Tali elementi costituiscono il peccato formale; il quale si distingue dal peccato materiale, che è la trasgressione di una legge senza saperlo né volerlo; tale trasgressione non viene da Dio attribuita come colpa; ma dalla società, in certi casi, si è citati a rispondere di dette azioni.]

ERIBERTO JONE O. F. M. Cap.:

COMPENDIO DI TEOLOGIA MORALE

Trad. dalla 14° edizione tedesca a cura dei Frati Minori Cappuccini della Provincia di Lombardia. –

MARIETTI Ed. 1952

Nihil obstat, ex parte Ordinis, quosimus imprimatur. Romæ, 12 dec. 1951

Fr. CLEMENS A. MILWAKEE

Min. Gen. O. F. M. Cap.

Imprimatur

Casali, 30 dec. 1951.

Ca. Laurentius Oddone, Vic. Gen.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (19)

CAPITOLO XVIII.

(seguito del precedente)

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

La vergogna, secondo salario del disertore della Città del bene — Dio o bestia, non vi è altra via per l’uomo — Il cittadino della Città del bene diventa dio: prove — Il  cittadino della Città del male diventa bestia: prove — Una sola cosa distingue l’uomo dalla bestia, la preghiera — Il cittadino della Città del male non prega più — Egli vive dell’io — Che cos’è quest’io — Egli perde l’intelligenza: prove — Il castigo, terzo salario del disertore della Città del bene — Castighi particolari — Catastrofi universali, il diluvio d’acqua, il diluvio di sangue, il diluvio di fuoco.

La vergogna. — Da libero diventare volontariamente schiavo è un’onta. D’uomo diventar bestia è ancora una maggiore. Quest’onta inevitabile è il secondo baluardo, di cui lo Spirito Santo circonda la Città del bene per impedir all’uomo di uscirne. Indiarsi, o farsi bestia: ecco i due poli opposti del mondo morale. O Dio, o bestia; tal’è la suprema alternativa in cui si trova posto l’uomo quaggiù. La ragione è ch’egli è obbligato a vivere sotto l’impero del Re della Città del bene, o sotto l’impero del re della Città del male. Ora, e l’uno e l’altro di questi Re fa i suoi sudditi ad immagine sua: Iddio, lo Spirito Santo, gli fa dii: satana bestia, li fa bestie. La città del bene è una grande fabbrica di Dei, e la Città del male una grande fabbrica di bestie. « Ciascuno di noi, dice sant’Agostino, è come il suo amore. Se ami la terra, tu sarai terra: se ami Dio, tu sarai dio. »[Talis enim quisque nostrum est, qualis est ejus dilectio; terram diligis, terra eris: Deum diligis, Deus eris. Tract. 2 in Epist. I, Joan]. – « Restate cou me, dice lo Spirito Santo, ed io vi faccio figli di Dio, Dii veri, Dii per l’essere divino che vi comunico: Dii per la verità dei vostri pensieri; Dii per la nobiltà dei vostri sentimenti; Dii per la santità della vostra vita; Dii per l’indomita potenza della vostra volontà contro il male, armato di sofismi, di promesse o di minacce; Dii pel diritto all’eredità eterna di Dio, vostro Creatore e vostro Padre. » [Dedit eis potestatem fìlios Dei fieri. Joan. I, 12. — Quicumque Spiritus Dei aguntur, ii sunt fìlii Dei, etc., etc. Rom. VIII, 24]. – Lo Spirito Santo ha mantenuta la parola. Vedete ciò che sono diventati gli Angeli docili alla sua voce. Risplendenti di gloria, inondati di voluttà, dotati di tutti gli attributi divini, l’intelligenza, la forza, la bontà; essi si avvicinano a Dio, quanto il finito può avvicinarsi all’infinito. Vedete l’umanità cristiana nei suoi veri rappresentanti, gli Apostoli, i Martiri, le Vergini, quelle legioni di Santi e di Sante, divinamente generati da diciotto secoli e più oltre, su tutti i punti del pianeta. A quale altezza essi innalzano l’umanità cristiana al disopra dell’umanità pagana, al disopra dell’umanità che cessa d’essere cristiana! Che cosa sarà se voi contemplate questa deificazione nel suo complemento, cioè dire negli splendori dell’eternità? Qui è che la parola, spirando sulle labbra, non può più fare udire se non che l’espressione della sua impressione: « No, l’occhio dell’uomo non ha punto visto,né il suo orecchio ha punto inteso, e ancor meno il suo cuore il quale, per quanto vasto egli sia, non può comprendere ciò che Dio riserba a coloro, che sono divenuti per l’amore, suoi figli e suoi eredi. » (Cor., II, 9). – Dal canto suo, il principe della Città del male travaglia con accanimento all’opera contraria. Allorché attira a sé un uomo, lo piglia nelle sue granfie, gli acceca lo spirito, gli corrompe il cuore, lo inebria coi suoi veleni e lo trasforma in bestia. Considerate piuttosto, che la bestia fa tutto quel che fa l’uomo, eccetto una cosa. La bestia mangia, beve, dorme, digerisce, cammina, corre, vola, nuota, fabbrica, calcola, parla, scrive, canta, viaggia, prevede, accumula, esercita tutte le arti della pace e della guerra. In tutto questo, essa è uguale all’uomo, talvolta superiore. Ma vi è una cosa che la bestia non fa, che non può fare, né farà giammai, e che la lascia a una distanza infinita al di sotto dell’uomo: la preghiera. L’uomo prega; la bestia non prega. L’uomo adora, la bestia non adora, cioè dire, in altri termini, che l’uomo e la bestia, in una sola cosa diversificano, nella Religione. Ora, il primo effetto dell’azione satanica sull’uomo è di farlo arrossire della Religione; e ne arrossisce! La Religione ha due grandi manifestazioni, la preghiera e l’amore. La preghiera è talmente il segno distintivo dell’uomo, che i pagani l’hanno definito un animale che prega: animal religiosum. Lo stesso Nostro Signore definisce il Cristiano: un uomo che prega sempre : oportet semper orare et numquam deficere. Cosi quando l’uomo cessa di pregare, si avvicina alla bestia. Se egli non prega punto, diventa affatto bestia. Non siamo noi che lo diciamo, è la stessa verità che si esprime per bocca di san Paolo: uomo animale, animalis homo. Ora è cosa nota che il primo atto dell’uomo diventato cittadino della Città del male, si è di rinunziare alla preghiera. Un esempio tra mille. Se havvi nella vita ordinaria una circostanza in cui la preghiera sia sacra, è l’ora solenne del cibo. Noi diciamo solenne, perché il pasto è un’azione profondamente misteriosa. Mangiando, l’uomo comunica, comunica con le creature e nel modo più intimo, poiché ei le trasforma nella sua propria sostanza. Ora tutte le creature sono viziate dallo spirito del male, a cui esse servono di veicoli, per introdursi nell’uomo e comunicargli i suoi veleni. Questa assimilazione separata dalla preghiera che gli purifica cacciando il demonio, è evidentemente piena di pericoli. Così l’ha compreso l’umanità tutta quanta. (Noi non diamo qui che una ragione della preghiera avanti il pasto; le altre sono spiegate nell’opera nostra: Il segno della croce nel XIX secolo). Di qui, quel fatto altrimenti inesplicabile che tutti i popoli, anche pagani, hanno pregato prima di mangiare. Il fatto essendo universale, ha dunque una causa universale. Una causa universale è una legge. Pregare prima di mangiare è dunque ima legge dell’umanità. Il disprezzo orgoglioso, il sorriso imbecille non vi fanno niente. Rimarrà sempre il non conoscere nella natura che due specie di esseri che mangiano senza pregare: le bestie, e quelli che assomigliano ad esse. Diciamo che assomigliano ad esse, imperocché si può sfidare non solamente tutti gli sprezzatori del Benediette, che è poco, ma tutti i naturalisti del mondo a trovare la differenza tra l’uomo che mangia senza pregare, e un cane o un porco. Assimilarsi alle bestie in una circostanza in cui tutti i popoli anche pagani, hanno sentita la necessità di distinguersi da loro; ecco quel che fanno! E perché lo fanno, si tengono per grandi geni. È bisognato venire al tempo nostro di grossolano materialismo, per incontrare uomini che si crederebbero disonorati, se due volte al giorno essi non si assimilassero ostensibilmente all’asino ed al coccodrillo. Homo cum in honore esset, non intellexit: comparatus est jumentis insipientibus et similis factus est illis. – Un secondo segnale della Religione è l’amore. Lo Spirito Santo essendo carità, dell’anima in cui risiede forma la carità vivente. Il segno distintivo della carità è l’oblio di sé medesimo, per Iddio e per gli altri; l’oblio del corpo a profitto dell’anima, l’oblio portato sino al sacrificio. Appena che l’uomo entra nella Città del male, subito sparisce la carità, e gli succede l’egoismo. L’uomo si ricorda di sé, e nient’altro che di sé. Invece di andare da sé verso gli altri, va dagli altri verso di sé. L’egoismo non sa che una parola sola, ma la sa a meraviglia: l’io. L’io in tutto; l’io dappertutto: l’io sempre. Dopo di me, Iddio e i suoi ordini; dopo di me, gli altri e i loro, bisogni e i loro desideri; dopo di me, nulla. Non basta; 1’egoismo è il sacrificio degli altri per sé. Innocenza, onore, fortuna, riposo, sanità, la stessa vita, non sono niente per lui, allorquando si tratta di soddisfare se stesso. Ma che cosa è il me dell’egoista? È forse la sua anima? nient’affatto: imperocché l’amore dell’anima è la carità: che cosa è dunque? Èla parte inferiore del suo essere, è il corpo; e nello stesso corpo, la parte più infima. Al di fuori della fede, tutto il lavoro dell’uomo si riduce in ultima analisi alla vita corporea. Il bere ed il mangiare ne sono gli elementi. Cominciata per essi, sostenuta per essi, finisce per essi. Avere da bere e da mangiare, soddisfare le sue cupidigie, averle in abbondanza, assicurarsi d’averle sempre; ecco la prima e l’ultima parola dell’egoismo. Il rimanente non è che un mezzo o un resultato. – Ora il laboratorio della vita animale è il ventre. In fin dei conti la vita di ogni uomo si riferisce al ventre, poiché è divenuto suddito di colui che si chiama la Bestia, la Bestia per eccellenza, la Bestia in tutti i sensi. Quindi per definire queste immense e queste immonde mandrie di Epicuro, la parola a un tempo cosi energica e cosi giusta dell’Apostolo, che gli chiama: adoratori del Dio ventre: Quorum Deus venter est. Ciò che è vero dell’uomo e di taluni popoli, lo è stato dell’umanità medesima la vigilia del diluvio, e lo sarà ancor più verso la fine dei tempi. Questa vergognosa assimilazione dell’uomo alla bestia si svolge in tutte le sue conseguenze. Noi non ne citiamo che una sola: cioè la stupidità o la perdita dell’intelligenza. [Intelligere, intus legere]. La bestia è stupida, vale a dire che essa non capisce, né ammira. Essa non capisce; perché il capire è vedere l’idea nel fatto. Ponete un triangolo sotto gli occhi di un cane, ei vedrà un oggetto materiale, formato di tre lati eguali: ma l’idea del triangolo gli sfugge. Perché? Perché al di là del dominio dei sensi non vi è nulla per lui. La bestia non ammira. Per ammirare bisogna capire. Certo, all’asino produce la stessa impressione tanto la vista di un capolavoro, che la vista di un carciofo. La bestia dunque non comprende, né ammira. Cosi avviene all’uomo che diventa bestia. Caduto egli dalle altezze della fede non ha più altra intelligenza che quella della materia e della vita materiale. Cercate lo scopo finale delle sue speculazioni, dei suoi studi e delle sue scoperte, della sua politica, di tutto quel moto febbrile che lo trascina e lo consuma: che vi trovate voi? Il corpo ed i suoi appetiti. Luce, progresso, civiltà, qual è il significato di tutte queste parole pompose? tradotte in prosa volgare significano; scienza di petardi, filosofia pirotecnica, amore di fuoco di stoppa, guarentigia e glorificazione di fuochi fatui. In altri termini, è il programma invariabile e l’eterno ritornello di tutti gli uomini e di tutti i popoli, beatificati dalla Bestia infernale. « Beviamo e mangiamo, poiché noi morremo domani. Quest’è la nostra beatitudine ed il nostro destino. Pane e piaceri: ecco tutto l’uomo. » [Comedamus et bibamus: Cras enim moriemur. Is., XXII,13. Hæc est pars nostra, et haec est sors. Sap. II, 9. — « Panem et circenses, » dicevano i pagani nei bei giorni della loro civiltà]. – Non mi date come prove dell’intelligenza dell’uomo animale, il modo abile con cui manipola la materia. La rondine, il baco da seta, l’ape che non hanno intendimento, la manipolano più abilmente di lui. Noi lo ripetiamo, l’intelligenza consiste nel leggere l’idea nel fatto, nel vedere la causa nel fenomeno: notate bene non quella causa immediata che riluce in qualche modo attraverso il fatto; ma la vera causa, la causa prima e lo scopo finale. Ora tutto ciò non è conosciuto che nella Città del bene. A colui che abita la Città del principe delle tenebre, parlate del mondo delle cause, del mondo di Dio e degli Angeli, vero dominio dell’intelligenza: tutte queste realtà sono per lui tante astrazioni o chimere; egli è stupido. Che cosa sarà se voi gli segnalate l’intervento permanente, universale, inevitabile e decisivo del mondo inferiore? Le sue labbra sorrideranno di disprezzo; egli è stupido. Discendete da queste elevatezze: ditegli che egli ha un’anima immortale, creata a immagine di Dio, redenta dal sangue di un Dio, destinata ad una felicità o a una infelicità eterna; aggiungete che l’unica faccenda dell’uomo essendo il salvarla, occuparsi di tutte le altre, eccetto che di questa, è uno scacciare le mosche e tessere delle tele di ragno; egli sbadiglia o dorme; è stupido. Tentate di dispiegare dinanzi ai suoi occhi le meraviglie della grazia, tutti quei capolavori di potenza, di sapienza e di amore che hanno esaurita l’ammirazione dei più grandi geni, voi gli parlate una lingua di cui non

capisce una parola; è stupido. Sermoni, libri di pietà o di filosofia cristiana, conferenze religiose, feste solenni le quali, con i più augusti misteri, descrivono allo spirito ed al cuore i più grandi benefìci del cielo, come i più grandi avvenimenti della terra; insomma tutto ciò che attiene al mondo soprannaturale, lo annoia; egli non comprende nulla, non sa nulla; è stupido. Ma parlategli di danaro, di commercio, di vapore, di elettricità, di macchine, di carbon fossile, di cotone, di barbabietole, di bestiame, di praterie, d’ingrassi, di produzione e di consumo, egli diventa tutt’occhi e tutt’orecchi. Voi toccate la questione vitale della sua filosofia, la questione della marmitta: non ne conosce altra. « L’uomo, dice il Profeta, dimenticando da sua dignità, si è tenuto bestia senza intelligenza, ed è diventato simile a lei. » [Homo, cum in honore esset, non inteltexit: comparatus est jumentis ìnsipientibus et similis factus est illis Ps. XLVIII, 13]

Il castigo. — A fine di proteggere la pace e la vita dei suoi sudditi contro gli assalti del nemico, lo Spirito Santo circonda la sua Città di un terzo baluardo più solido dei primi. Se l’uomo, chiunque si sia, osa dire al Re della Città del bene: Io non voglio più obbedirvi, non serviam; all’istante, di libero diventa schiavo, e cammina verso l’abbrutimento. Trascinato per tutte le degradazioni intellettuali e morali, incomincia per esso sino da questa vita l’inferno, che l’aspetta nell’altra. Tal è, noi lo abbiamo visto, la sorte inevitabilmente riserbata all’individuo. Se la ribellione contro lo Spirito Santo diviene contagiosa sino al punto, che nel suo insieme, un popolo, o lo stesso genere umano, non sia più che un grande insorto, allora il delitto, traboccando da tutte le parti, attira a sé dei castighi eccezionali. Ogni legge reca seco una sanzione. Ogni legge avendo per soggetto l’uomo, composto di un corpo e di un’anima, è una spada a doppio taglio, che colpisce il prevaricatore nelle due parti del suo essere. Pigliate una qualunque legge divina o ecclesiastica che vi piaccia, se voi cercate bene, tenete per certo di trovare senza pregiudizio della sanzione morale, una ricompensa e una punizione temporale, unita all’osservanza o alla violazione di questa legge. Lasciando da parte i flagelli particolari, rilegga l’umanità i suoi annali storici e profetici. Tre grandi catastrofi vi sono registrate. La prima è il diluvio, o la rovina del mondo antidiluviano. Quale fu la cagione di questo cataclisma nel quale perì, eccetto otto persone, tutta intera la stirpe umana? Colui che con la sua mano ruppe le dighe del mare ed aprì le cateratte del cielo, ce la rivela in due parole: « Il mio Spirito, dice il Signore, non resterà più a lungo nell’uomo, imperocché l’uomo è diventato carne. » [Dixitque Deus : non permanebit Spiritus meus in homine in ætemum, quia caro est. Gen., VI, 8].Questa terribile sentenza si traduce in tal modo: « A malgrado di tutti i miei avvertimenti, l’uomo ha scosso il giogo del mio spirito, spirito di luce e di virtù; ei s’è reso schiavo dello Spirito di tenebre e di malizia. Il mondo soprannaturale, la sua anima, Io stesso, non siamo più nulla per lui. Del suo corpo ha fatto il suo Dio, è divenuto carne. Come creatura colpevole e degradata, è indegna del benefizio della vita; ei perirà. » Ed al diluvio di delitti succedette il diluvio d’acqua che portò via tutti.28 [Diluvium carais peperit diluvium aquarum…. corructela diluvii causa est.S. Ambr., de Nòe et Arca, c. V et VII].Una seconda catastrofe, non meno famosa della prima, è la rovina del mondo pagano. Dimenticando l’uomo la terribile lezione che aveva ricevuta, di nuovo si era sottratto all’azione dello Spirito Santo. Datosi corpo e anima allo Spirito malvagio, era venuto a riconoscerlo quasi universalmente per suo re e per suo dio. [Princeps hujus mundi…. Deus hujus sæculi. Joan., XII, 31; XVI, 11; II, Cor.,VI, 4]. Sotto mille nomi diversi, egli lo adorava in tanti milioni di templi da un capo all’altro del mondo: [Omnes dii gentium dæmonia. Ps., XCV, 5], tante adorazioni, tanti sacrilegi, crudeltà e infamie. Siccome l’uomo innanzi al diluvio, era ridivenuto carne, così al soffio dei barbari, disparve il mondo pagano sotto un diluvio di sangue. Una terza catastrofe, più terribile e non meno certa delle precedenti, è la rovina del mondo apostata del Cristianesimo, mediante il diluvio di fuoco che porrà fine all’esistenza della specie umana sul pianeta. Conculcando i meriti del Calvario e i benefizi del Cenacolo, il mondo degli ultimi giorni si costituirà in piena ribellione contro lo Spirito del bene. Schiavo più che mai dello Spirito del male, ei si abbandonerà con un cinismo sconosciuto a tutti i generi d’iniquità. Tale sarà il numero dei disertori, che la Città del bene sarà quasi deserta, mentre la Città del male piglierà proporzioni colossali. – Una terza volta l’uomo sarà divenuto carne. Lo Spirito del Signore si ritirerà per non più ritornare; e un diluvio di fuoco arderà la terra, mille volte più colpevole poiché sarà mille volte più ingrata della terra dei pagani e dei giganti. [Sicut enim erant in diebus ante diluvium,… ita erit et adventus Filii hominis. Matth., XXIV, 38, 39]. – La schiavitù, l’onta, il castigo: tale è dunque il triplice baluardo che l’uomo deve varcare per uscire dalla Città del bene. A questi mezzi esteriori, se si aggiungono gli aiuti ed i benefizi di ogni genere, prodigati agli abitanti di questa felice Città, non siamo noi in diritto di concludere che nessuno vorrà abbandonarla? Se la esperienza confermi il ragionamento, ce lo insegnerà ora la storia.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (18)

Mons. J. J. GAUME

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO, VOL. I

CAPITOLO XVII.

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

I Cittadini delle due Città.

Gli uomini, cittadini delle due Città — Pericoli che circondano la loro fisica esistenza e la vita loro spirituale — Sollecitazioni incessanti dei principi della Città del male — Mezzi di difesa dati dallo Spirito Santo — La schiavitù, il disprezzo, il gastigo, attendono l’uomo che esce dalla Città del bene — La schiavitù primo salario del disertore della Città del bene — Che cosa è la libertà — Bella definizione di san Tommaso — Quadro della schiavitù alla quale si condanna il disertore della Città del bene.

Ogni società si divide in due classi; governanti e governati: conosciamo i re ed i principi della Città del bene e della Città del male. Quali ne sono i cittadini? questa è la questione alla quale dobbiamo noi ora rispondere. I cittadini, ovvero i sudditi della Città del bene e della Città del male, sono tutti gli uomini. La ragione, l’esperienza e la fede ce l’hanno detto: non vi sono tre città ma due sole. Faccia egli quel che si voglia, bisogna che l’uomo, qualunque sia il suo nome e il suo grado, appartenga all’una od all’altra: questa alternativa è crudele. Incominciata essa con la vita, non finisce neppure con la morte. Unita al duplice quadro del mondo angelico e del mondo satanico, che passa sotto i nostri occhi, ci rivela la vera posizione dell’uomo quaggiù. Chi può riguardarlo senza essere commosso sino alla profondità dell’essere suo? – Il nostro corpo, fragile come un vetro, vive tra due forze spaventose, il cui antagonismo potrebbe ad ogni secondo divenire a noi fatale. Secondo i calcoli della scienza, la colonna d’aria che pesa sul capo di ciascuno di noi, rappresenta un peso di 20,000 libbre. Chi ci salva dalla distruzione? Soltanto l’aria che è dentro di noi, intorno a noi, e sotto di noi. Quest’aria fa resistenza alla massa superiore e rende la vita possibile. Appena che l’equilibrio viene a rompersi, subito l’uomo resta schiacciato. – Cosi succede della nostra anima. Essa vive della sua vera vita, la vita della grazia, fra due potenze nemiche e di una forza incalcolabile. All’equilibrio di queste due potenze essa deve evitare l’eterna rovina. La conservazione della nostra vita spirituale è dunque un miracolo non meno continuo, non meno sorprendente, ma molto più degno di riconoscenza che la conservazione della nostra vita fisica. – Nelle stesse condizioni è posta evidentemente l’esistenza delle società. L’influenza più o meno determinante del mondo angelico o del mondo satanico, rende conto delle alternative di lumi e di tenebre, di delitti e di virtù, di libertà e di servitù, di gloria e di vergogne, di prosperità e di catastrofi, che segnalano di quando in quando gli annali dell’umanità. Tale è la vera filosofia della storia. La prova non dubbia di questo fatto rivelatore dell’innalzamento e della caduta degli imperi, è la storia medesima della Città del bene e della Città del male: noi la delineeremo bentosto a grandi tratti. Frattanto notiamo che una sola cosa costituisce, tanto al morale che al fisico, tutto il pericolo della situazione, la rottura cioè dell’equilibrio. Essa ha luogo nell’ordine spirituale, tutte le volte che l’uomo dà la preponderanza su sé medesimo allo Spirito del male, piuttosto che allo Spirito del bene; cosa che dipende da lui, unicamente da lui. A fine di distornarlo da quest’atto di colpevole follia, a cui lo sollecitano di continuo i principi della Città del male, lo Spirito Santo non si contenta di fornirgli tutti i mezzi di resistenza, ma gli mostra le conseguenze della sua fellonia. Esse sono terribili, subitanee, inevitabili: è la schiavitù, l’onta ed il castigo. – Triplice baluardo con cui il Re della città del Bene circonda la sua felice Città, all’oggetto di preservare i suoi sudditi dalla tentazione di uscirne.

La schiavitù. — La libertà è figlia della verità: Veritas liberabit vos. La Città sola del bene, diretta dallospirito di verità, è la patria della libertà. I disertorinell’abbandonarla, per entrare nella Città del male, imparinoad arrossire. No, essi non glorificano la libertà,ma la disonorano: essi non camminano alla conquistadella indipendenza, ma diventano schiavi: e lo sono digià. Da lungo tempo la logica e la fede hanno pronunziatala loro sentenza.La libertà non consiste nel fare il male, ma nell’evitarlo.Quanto più lo evitiamo, tanto più siamo liberi.« Bisogna, dice san Tommaso, ragionare del libero arbitriocome dell’intelletto. Il libero arbitrio sceglie tragli atti che si riferiscono al fine; l’intelletto trae leconclusioni dai principii. Ora ognun sa che entra nelleattribuzioni dell’intelletto quella di trarre delle conclusioni,ma sempre logicamente discendenti da datiprincipii.. Che se, nel trarre una conclusione, dimenticao disprezza i principi, è una imperfezione, una debolezzada parte sua.« Parimente, la perfezione del libero arbitrio consistenell’avere la facoltà di fare differenti scelte, ma semprerelative al fine proposto. Per esempio, gli accade difare una scelta contraria al fine ultimo dell’uomo?questa non è una perfezione, ma una debolezza e undifetto. Quindi resulta che la libertà, o la perfezionedel libero arbitrio è più grande negli Angeli che nonpossono peccare, che in noi che peccare possiamo. »[S. Th., I p. q. LXII, art. 8, ad 3]. Tale è dunque la dottrina dell’Angelo della Scuola: la libertà è il potere di fare il bene, come l’intelletto ha la facoltà di conoscere il vero. La possibilità di fare il male non è più dell’essenza della libertà: quanto la possibilità d’ingannarsi, non è dell’essenza dell’intelletto; come la possibilità d’essere malato non è dell’essenza della salute. L’impeccabilità è la perfezione della libertà, come l’infallibilità è la perfezione dell’intelletto; come l’essere liberi da infermità è la perfezione della salute. Essere peccabile è dunque un difetto nella libertà, come essere fallibile lo è nell’intelletto; come essere malato lo è nella sanità. Ne segue dunque che quanto più l’uomo pecca, tanto più mostra la debolezza del suo libero arbitrio; parimente quanto più egli s’inganna, tanto più mostra la debolezza della sua ragione; così quanto più è malato tanto più egli fa prova di cattiva salute. Altresì, l’uomo quanto più pecca e sragiona più che mai si degrada e si rende spregevole, imperocché si riavvicina sempre più al fanciullo che non ha ancora né la libertà, né l’intendimento, e all’insensato che non l’ha più, o alla bestia che non l’avrà mai. Questa verità fondamentale è la prima armatura della quale lo Spirito Santo ci riveste, il primo motivo dato all’uomo di rinchiudersi eternamente dentro i confini della Città del bene. Molti non lo comprendono. Sedotti dai principi della Città del male, moltissimi vengono a riguardare il giorno in cui si emancipano dalla sovranità dello Spirito Santo, come il giorno natalizio della loro libertà. Poveri ciechi! che una volta almeno guardino in faccia la verità: né gli costerebbe molto. Essa è scolpita nella schiavitù di tutte le facoltà della loro anima: nella degradazione di tutte le membra del loro corpo, in tutte le pagine macchiate della loro pretesa vita indipendente. Giovani o vecchi, ricchi o poveri, letterati o illetterati, per avere disertato dalla Città del bene, traditi i voti del vostro Battesimo, arrossito della fede della vostra infanzia e delle pratiche dei vostri avi, vi credete voi forse liberi? lo siete voi? È vero, voi camminate con la testa alta e con lo sguardo sicuro. Le vostre labbra si contorcono al riso, e la vostra fronte si nasconde sotto un sembiante di gaiezza. Al suono metallico della vostra voce, ed al tuono imperioso delle vostre parole si potrebbe prendervi per i reggitori dell’umanità. Ciò nonostante voi non siete che tanti schiavi, schiavi infelici, e schiavi della peggiore specie. In luogo di un solo Padrone, altissimo e santissimo che voi rifiutate di servire come Egli l’intende, servite altrettanti padroni che sono le vostre ignobili passioni; e fuori di voi, altrettante creature che possono procurarvi o disputarvi l’insigne onore di soddisfarle. Voi le servite, non come l’intendete, ma come esse l’intendono. Padroni spietati, essi vi trascinano con la corda al collo, o vi cacciano con la bacchetta alla mano in tutte le tenebrose vie del male. Trascinati lontano dal paese natio, avete dimenticato la strada dei nostri templi; ma sapete a mente la strada dei teatri e di altri luoghi. Il calice del Dio Redentore, in cui con la vita si beve la virtù, l’onore, la libertà, il pacificamento dell’anima e dei sensi, vi è di disgusto; e voi bevete a lunghi sorsi il calice del demonio, in cui con la morte, si beve il delitto, la vergogna, la schiavitù, la febbre dell’anima ed i furori della disperazione. Immaginandovi d’esser troppo grandi agli occhi vostri per portare su di voi le insegne protettrici della Regina del Cielo, voi portate invece, incastonati nell’oro i capelli di una cortigiana. Uomini e non angeli, bisogna che amiate la carne. Voi non avete voluto amare la carne immacolata dell’Uomo Dio, amerete la carne immonda di una creatura immonda. Vorreste invano respirare talora l’aria della libertà. Come tanti uccelli impaniati nelle perfide reti, non potete prendere il vostro volo. Ad ogni tentativo, una voce spietata, la voce dei vostri padroni mascolini o femminini si fa udire; non fare resistenza, tu sei mio. Dandomi la tua volontà tu mi hai dato tutto. Dammi il tuo danaro, dammi le tue notti, dammi le rose delle tue gote; dammi la pace della tua anima, dammi la salute del tuo corpo; dammi la gioia di tua madre; dammi le speranze di tuo padre; dammi l’onore del tuo nome, e voi lo date! Siete liberi? Silenzio! Schiavi: non profanate nel pronunziarla, una parola che vi accusa. Schiavi nella vostra intelligenza, tiranneggiata dal dubbio e dall’errore; schiavi nel vostro cuore, tiranneggiato da brutali appetiti, cosa è la vostra vita se non che un panno lordo? Che forse la storia della vostra vita è quella di uno schiavo? Sciagurati! che non potete scendere nella vostra coscienza senza ascoltarvi una voce che vi accusa, né contemplare le vostre mani senza vedervi il segno dei ferri o i vostri piedi senza rinvenirvi la palla del galeotto! Figli di re diventati guardiani di porci; ecco quel che voi siete. Avete proprio ragione di andarne superbi! (Misit illum in villam suam ut pascerei porcos. Luc., xv, 15.). La schiavitù dell’anima: ecco ciò che incontrano tutti gli uomini che mettono il piede fuori del recinto della Città del bene: poiché sta scritto: « dove abita lo Spirito del Signore ivi, e ivi soltanto, abita la liberta. » (Ubi autem Spiritus Dei, ibi libertas. II, Cor, III, 17). Ora nel mondo morale, come nel mondo materiale avvi una legge che la parte superiore attrae l’inferiore: Major pars trahit ad se minorem. Alla servitù dell’anima si aggiunge necessariamente la schiavitù del corpo: per conseguenza la schiavitù sociale. Non basta il ripeterlo spesso, e oggi soprattutto: la libertà civile e politica non si trova né nella punta di un pugnale, né nella bocca di un cannone, né sotto il lastrico di una barricata. Essa è figlia non di una carta né di una legge, né di una forma qualunque di governo, ma della libertà morale. Checché ne dica o faccia, ogni popolo corrotto è uno schiavo nato. La libertà morale suppone la fede: la fede è la verità, la verità non risiede che nella Città del bene. Volete voi averne la prova? pigliate una mappa del mondo. Accanto al dispotismo dell’errore che cosa vi mostra esso? Dappertutto il dispotismo dell’oro, il dispotismo della carne, il dispotismo della materia, e sopra tutti questi dispotismi, quello della sciabola. Che cosa è dunque una società che scuote il giogo dello Spirito Santo? Testimoni non sospetti, gli stessi pagani rispondono: « È una quantità di bestiame sopra un mercato, sempre pronto a vendersi al migliore offerente. »(Urbem venalem et mature perituram, si emptorem invenerit. – Parole di Giugurta, in Sallustio.). Più che la storia antica, la storia moderna non dà loro neppur l’ombra di una smentita. Come è egli trattato il bestiame umano? come se lo merita. satana, a cui si dà, abbandonando lo Spirito Santo, gli manda dei padroni fatti di sua mano. Nerone, Eliogabalo, Diocleziano e tanti altri, s’incaricano di far gustare all’uomo emancipato le dolcezze della libertà, della quale gode la Città del male. Per un ricambio di misericordiosa giustizia, Iddio medesimo permette l’esaltazione di queste tigri coronate. A questo proposito la storia riferisce un fatto che dà da riflettere. Siccome i popoli hanno sempre il governo che essi si meritano, una crudele bestia, chiamata Foca, erasi assisa sul trono imperiale di Roma. Per suo ordine il sangue scorreva a torrenti; e la bestia lo beveva come una delizia. Un solitario della Tebaide, stomacato più che afflitto di un tale spettacolo, si rivolge a Dio e gli dice: Perché, o mio Dio, l’avete fatto voi imperatore? E Dio gli risponde: Perché non ne ho trovato uno più malvagio. (Domine, quid fecisti eum imperatorem? Atque vox ad eum venit a Deo, dicens: Quia non inveni pejorem. Anast. Nicen., in Quæst. S. Script., quæst. XV). – Cosi, conservare la libertà con tutte le sue glorie, tale è per l’umanità il primo vantaggio del suo soggiorno nella Città del bene; il perdere questo tesoro e trovare la schiavitù, tale è, se essa osa varcarne il recinto, il suo primo castigo.

CONOSCERE SAN PAOLO (42)

LIBRO V

I canali della redenzione.

CAPO I.

La fede principio di giustificazione.

II. LA GIUSTIFICAZIONE PER MEZZO DELLA FEDE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. LA GIUSTIZIA DI DIO. — 2. IN CHE MODO LA GIUSTIZIA NASCE DALLA FEDE.

1. Il concilio di Trento riconosce due significati all’espressione « giustizia di Dio »: la giustizia di cui Egli stesso è giusto, e la giustizia di cui ci rende giusti (Sess. VI, c. 7). Dopo Bitschl, contro l’opinione comune, parecchi scrittori eterodossi e uno o due cattolici, trovano che tale distinzione è illusoria; essi affermano che la giustizia di Dio è sempre nella Scrittura, — e anche in san Paolo — la sua giustizia intrinseca e immanente. Che cosa ne dobbiamo pensare? Come attributo divino, « la giustizia di Dio è propriamente l’attività della sua santità, nei suoi rapporti con la creazione morale (J. Monod, in Enc. Sciences relig., t. VII, p. 562) ». Mentre la santità è un attributo assoluto, la giustizia di Dio appare nella Bibbia come un attributo relativo. Il Dio giusto sorge per castigare Israele colpevole o per sterminare il peccato; siede sul suo trono per abbattere l’oppressore e per rialzare l’oppresso: (Jahvé) rivestì la Giustizia come una corazza, mise sul capo l’elmo della Salute; Egli prese la Vendetta come armatura, si avvolse dello Zelo come di un manto. – Tali azioni, tale retribuzione: ira per i suoi avversari, vendetta per i suoi nemici — E io prendo il diritto come funicella e la giustizia come archipenzolo (Is. LIX, 17-18; XXVIII, 17). Ma la giustizia di Dio non è soltanto la giustizia vendicativa che punisce il delitto, né la giustizia distributiva che rende a ciascuno secondo i suoi meriti; essa è qualche volta — soprattutto nei Salmi della cattività e nella seconda parte d’Isaia — la giustizia tutelare e salvatrice. Essa allora è messa in parallelismo con la salvezza, con la grazia, con la bontà, con la misericordia. Il profeta prega Dio che lo guidi, lo protegga, lo salvi, lo esaudisca nella sua giustizia (Ps. V, 8; XXX, 1; CXVIII, 40; cxlii, 1; etc.): “Nella tua giustizia togli l’anima mia dall’angustia, nella tua bontà annienta i miei nemici” (Ps. CXLII, 1). Tale associazione d’idee è ancora più apparente nella seconda parte d’Isaia: “La mia giustizia si avvicina, la mia salute viene; il mio braccio farà giustizia ai popoli. – Osservate il diritto, praticate la giustizia; poiché bentosto la mia salute deve venire, e la mia giustizia si deve rivelare. — Sono io la cui parola è « giustizia », (io) che sono grande per salvare” (6 Is. LI, 5; VI, 1; LXIII, 1). Non è difficile spiegare questo fenomeno: la seconda parte di Isaia è un messaggio di consolazione. Il profeta è incaricato di gridare a Gerusalemme:

Che i suoi travagli sono finiti,

che il suo peccato è espiato,

che essa ha ricevuto dalla mano di Jahvé

doppia (pena) per tutti i suoi delitti (Is. XL, 2).

Allora la giustizia di Dio non si eserciterà più che in misericordie per Israele ed in vendette contro i suoi nemici. Siamo così preparati a quella giustizia del Nuovo Testamento la quale, ben lungi dall’escludere la misericordia, la contiene come elemento essenziale, a quella giustizia salutifera e redentrice che si manifesterà solo riguardo ai credenti, quando Gesù Cristo, al quale essi sono uniti per la fede, avrà operata la propiziazione per i loro peccati. Ma questo aspetto particolare non deve far dimenticare gli altri. L’espressione « giustizia di Dio » non è molto frequente nel Nuovo Testamento: essa si trova una volta in san Matteo, una volta nell’Epistola di san Giacomo e otto o nove volte in san Paolo (Rom. I, 17; III, 5; III, 21-22, 25, 26; X, 3; II Cor. V, 21; Fil. III, 9). Nei due primi casi il significato rimane dubbio, benché la giustizia di Dio sembri indicare veramente qualche cosa che è nell’uomo o che l’uomo si può appropriare; ma quello che più ci interessa è il linguaggio di san Paolo. Qui noi ci troviamo dinanzi a due accezioni ben distinte. Quando si dice che « la nostra ingiustizia mette in rilievo la giustizia di Dio (Rom. III, 5) », si tratta chiaramente di un modo di essere di Dio, della sua fedeltà o della sua veracità. Al contrario in questo testo: « Colui che non conosceva il peccato, (Dio) lo ha fatto peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in Lui (Rom. III, 5) », la giustizia di Dio non può essere un attributo divino; da una parte vi si oppone il contrasto col peccato, e dall’altra è impossibile concepire come mai noi diventeremmo una modalità divina; è dunque una giustizia che è in noi,benché derivi da Dio. Cosi pure in un altro testo: « Ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la loro propria, essi non si sottomisero alla giustizia di Dio (Rom. X, 3) », l’antitesi determina con precisioneil significato dei termini. Infatti la giustizia propria dell’uomoè altrove messa in opposizione con la giustizia di Dio, dove non èpossibile nessun equivoco. “Io desidero di essere trovato, dice l’Apostoloai Pilippesi, a non avere la mia giustizia (che viene) dalla Legge, ma quella (che è) dalla fede del Cristo, la giustizia (che viene) da Dio, (che poggia) sopra la fede (Fil. III, 9) ». Qui « la giustizia di Dio »che sostituisce la giustizia propria e che diventa proprietà dell’uomoè dunque inerente all’uomo.Esistono altri due passi intorno ai quali principalmente si svolgeattualmente la controversia: « La giustizia di Dio si rivela in esso (nel Vangelo) dalla fede nella fede, come sta scritto: Ma il giusto vivrà dalla fede (Rom. I, 17) ». A primo aspetto, il senso di giustizia increatasembrerebbe soddisfacente; poiché questa giustizia salvatrice si rivela effettivamente nel Vangelo, dalla, salvezza dei credenti, comel’ira di Dio si rivela, fuori del Vangelo, dalla perdizione degli empi;senza contare che la rivelazione della giustizia di Dio è una locuzionein uso presso i Profeti nei quali essa indica incontestabilmente lamanifestazione di una attività divina. Ma stringendo più da vicinoil testo, i dubbi scompaiono. In che modo la giustizia intrinseca diDio potrebbe essere « dalla fede nella fede », comunque s’intendanoqueste parole? Che cosa viene a fare qui la citazione di Abacuc, equale relazione vi è tra la manifestazione della giustizia eterna equesta asserzione del profeta: « Il giusto vivrà per la fede? ». Inveceè facile vedere come la giustizia prodotta da Dio nell’uomo è « dallafede » ( ἐκ πίστεως = ek pisteos), poiché la fede è una condizione necessaria al suo nascere; come essa progredisca « nella fede » (εἰς πίστιν= eis pistin), poiché la fede rimane il suo principio, la sua misura e il suo ideale; come essa si riveli nel Vangelo che l’annunzia e la realizza; finalmente come essa esista e si riveli in conformità delle antiche profezie poiché il profeta Abacuc parla veramente di una giustizia inerente all’uomo. – L’altro testo non è più oscuro: « Ora senza la Legge, la giustizia di Dio si è manifestata, avendo per sé la testimonianza della Legge e dei profeti, la giustizia di Dio, dico, dalla fede di Gesù Cristo, (giustizia che si estende) a tutti i credenti (14 Rom. III, 21) ».La giustizia di Dio dalla fede di Gesù Cristo è una « giustizia cherisiede nell’uomo, il che san Paolo afferma ancora più precisamenteaggiungendo che essa è destinata a tutti i credenti. E non è difficilevedere come questa giustizia di Dio dalla fede abbia per sé la testimonianzadella Legge e dei profeti, poiché Abramo, secondo la Genesi,dovette la sua giustificazione alla fede, e il giusto, secondo ilprofeta Abacuc, vivrà dalla fede. Si obbietta che poco dopo Diomostra o dimostra la sua giustizia — evidentemente la sua giustiziaintrinseca — col proporre o esporre il Crocifisso come mezzo di propiziazione,e si sostiene che una medesima locuzione deve sempreconservare il medesimo significato nel medesimo contesto. Su questoprincipio vi sarebbe molto da dire: per ciò che riguarda san Paolo,è certamente falso, e se si volesse applicarlo rigorosamente, ne risulterebbesovente un’esegesi sforzata, puerile e assurda. Non èforse noto a tutti, che san Paolo suole girare attorno ai sensimolteplicidi una parola, che molte volte percorre tutta la gamma deisignificati di un termine, che anche qui le nozioni di fede e di leggecambiano certamente nel corso del periodo? Del resto l’attributodivino della giustizia e la giustizia che viene da Dio sono due concettivicini che si chiamano e si attraggono a vicenda, poiché Dio si mostragiusto nel giustificare il peccatore unito con Gesù Cristo.Riassumendo: La « giustizia di Dio » si presenta in san Paolosotto due aspetti distinti ma non disparati: la giustizia che è in Dio,e la giustizia che viene da Dio.La giustizia intrinseca di Dio non è unicamente la giustizia vendicativa o la giustizia distributiva, ma è anche — e qualche voltaè principalmente — la giustizia redentrice; essa include la bontà,la grazia e la misericordia invece di escluderle o di farne astrazione.La giustizia inerente all’uomo non è dunque senza relazioni conla giustizia intrinseca di Dio. Dio è giusto e manifesta la sua giustizianel giustificare l’uomo. La giustizia creata è l’effetto e il riflesso dellagiustizia increata.

2. Nel percorrere le lettere di san Paolo, prima di qualunque analisi dei particolari, si rimane colpiti dai fatto che egli associa sempre all’atto di fede la giustizia e la giustificazione dell’uomo. Così « la giustizia di Dio [è] dalla fede di Gesù Cristo (Rom. III, 22), la giustizia (viene o risulta) dalla fede (Rom. IX, 30), la giustizia (poggia) sopra la fede (17 Fil. III, 9) »; insomma, è « la giustizia dalla fede (Rom. IV, 11-13) ». Così pure « l’uomo è giustificato dalla fede (Rom. III, 28) »; tutti, Ebrei e Gentili, sono « giustificati per motivo della fede (Rom. III, 30) »; Dio « giustifica chiunque dipende dalla fede di Gesù (Rm. III, 26) »; finalmente « a ogni credente la fede è imputata a giustizia (Rom. IV, 5) ». Se esaminiamo da vicino queste formole vedremo che la fede non è una semplice condizione essenziale la cui presenza è richiesta non si sa bene perché, ma vedremo che essa esercita una vera causalità di ordine morale. Per parlare esattamente, non è la fede che giustifica, ma è Dio che giustifica per mezzo della fede; poiché la fede non è né causa efficiente principale, né causa formale, ma soltanto causa strumentale della nostra giustificazione. Dio giustifica per mezzo della fede ( πίστει o διὰ πίστεως = pistei o dia pisteos), come canale della grazia; giustifica in vista della fede, avuto riguardo alla fede (ἐκ πίστεως = ek pisteos), come principio di rinnovamento interiore; giustifica sopra la fede (ἐπί πίστει = epi pistei), come fondamento della salvezza. La strumentalità della fede appare soprattutto nella giustificazione del padre dei credenti: « Abramo credette a Dio, e questo gli fu imputato a giustizia (Gen. XV, 6; Rom. IV, 3, 22, 23; Gal. III, 6) ». San Paolo non dice già che la giustizia fu imputata ad Abramo; dice invece — ed è cosa ben diversa — che la fede gli fu imputata a giustizia. Egli non dice neppure che la fede è l’equivalente della giustizia, perché  allora tale imputazione sarebbe di diritto, mentre è, secondo lui, un atto grazioso (Rom. IV, 16). Egli dice che la fede fu imputata a giustizia perché la fede è inferiore alla giustizia, e la giustizia è tuttavia concessa per ragione della fede. Dio non riconosce affatto l’equivalenza tra la fede e la giustizia, ma l’accetta per grazia; la sua misericordia è quella che supplisce a ciò che manca. Siccome però i suoi doni non sono illusori, la giustizia che è da Lui messa a conto dell’uomo, diventa realmente cosa e proprietà dell’uomo. – Per il protestantesimo ufficiale, la fede giustificante non ha nessun valore morale; è una specie di strumento passivo, una potenza puramente recettiva della giustificazione, la quale non esercita nessuna causalità ed è soltanto una condizione sine qua non; solamente per un abuso di linguaggio si può dire che essa giustifica. La giustificazione dell’empio si compie tutta in Dio; essa non cambia e non opera nulla nell’uomo; è un giudizio sintetico in virtù del quale l’empio, che resta empio, viene dichiarato giusto. Dio nel vedere la sua fede gli imputa la giustizia del Cristo, senza però dargliela. Perciò l’empio giustificato è sempre empio in se stesso, ma è giusto dinanzi a Dio il quale gli ha assegnato l’attributo della giustizia. Questo discorso è duro da comprendersi: in che modo il falso può essere vero, o come mai Dio può dichiarare vero quello che sa essere falso! Perché la fede è richiesta se è inattiva, e perché Dio ne tiene conto, se essa non ha nessun valore? Con quale diritto si afferma che la giustizia di Dio ci viene imputata, mentre san Paolo afferma invece che la nostra fede ci è imputata a giustizia! Non bisognerà dunque più meravigliarsi se molti protestanti liberali ripudiano questo sistema come arbitrario, immorale e incoerente. Per costoro la fede non è senza valore: essa è un germe di virtù, un’aspirazione verso il bene, il punto di partenza di una vita nuova. Da parte di Dio, essi dicono, la giustificazione consiste nel contentarsi di questo germe, nel giudicare l’uomo dal suo ideale, nel prendere la tendenza come un fatto compiuto, nel vedere nell’umile ghianda la quercia sublime che ne uscirà. Dio dichiara che l’empio è giusto, perché questi col credere ha già cominciato ad essere giusto e diventerà un giorno interamente giusto. – Noi ammettiamo senza esitare, che la giustificazione dell’uomo desta ordinariamente, nell’Antico Testamento e anche nel Nuovo, l’idea di un giudizio divino, che si può almeno scoprirvelo senza far violenza ai testi, che in alcuni casi la giustificazione è puramente dichiarativa. Così è, per esempio, tutte le volte che si tratta del giudizio finale il quale non produce la giustizia nell’uomo, ma la presuppone: « Non quelli che ascoltano la Legge sono giusti dinanzi a Dio, ma quelli che mettono in pratica la Legge saranno giustificati (Rom. II, 13) ». Qui là giustificazione non è altro che la sentenza del Giudice supremo; tuttavia in virtù dell’equazione « essere giustificato » ed « essere giusto dinanzi a Dio », il giudizio divino non è arbitrio; esso poggia sopra la verità e non sopra una finzione di diritto. – Ma non è questo il senso ordinario, e lo prova l’impossibilità di sostituire, nella maggior parte dei casi, il verbo « giustificare » con i suoi pretesi equivalenti « dichiarare giusto » o « trattare come giusto ». Anche quando la giustificazione si presenta sotto forma di sentenza dichiarativa, suppone o produce la giustizia: come infatti si può concepire una dichiarazione divina che dica il falso, e un giudizio di Dio fondato sopra l’errore? Quando « Dio giustifica l’empio », dicono i corifei del protestantesimo, la giustificazione non è già un giudizio analitico, “ma un giudizio sintetico il cui attributo non è contenuto nella nozione del soggetto. Un giudizio analitico sarebbe questo: « L’empio è ingiusto ». Ma è ben diverso il giudizio che Dio pronunzia quando ci giustifica: « L’empio è giusto ». Di modo che l’empio giustificato si trova nel tempo stesso (in sensu composito) in possesso di due predicati contradittori, uno dei quali gli appartiene in quanto è empio, e l’altro gli è attribuito dalla dichiarazione divina. Tanto varrebbe dire che un cerchio sarà rotondo e quadrato nello stesso tempo, se Dio pronunzia che è quadrato: sarà rotondo per essenza, e quadrato in forza del giudizio sintetico formulato da Dio. «Nel giustificare. Dio non riconosce nel peccatore nessun attributo (di giustizia); al contrario, gli aggiunge un attributo mentre ancora è peccatore, cioè quello della giustizia (Franks, Justification – Dict. Of Christ and the Gospel, t., p. 919) ». Farà meraviglia che tale dottrina abbia provocato proteste fin dal giorno in cui nacque? Quelli che ancora la difendono, rinunziano però a comprenderla e, pure appellandosi all’autorità di Paolo, volentieri si trincerano dietro il mistero. Perché un uomo sia giusto dinanzi a Dio, e perché Dio pronunzi che egli è giusto, si richiede una di queste due cose: o che Dio lo abbia reso giusto in precedenza, oppure che lo renda giusto con questa stessa dichiarazione. In questa seconda ipotesi, la giustificazione dell’empio sarebbe dichiarativa nella forma, ma effettiva in realtà. La sentenza divina di giustificazione produrrebbe allora il suo effetto alla maniera delle formule sacramentali, come le parole della consacrazione, come le parole del Cristo operante miracoli. Così si conserverebbe alla parola « giustificazione » il senso giudiziario che molti esegeti moderni considerano come essenziale, pure non ammettendo quella giustificazione fittizia dovuta ad un giudizio divino contrario alla verità. La maggior parte dei teologi eterodossi dei nostri giorni si lamentano di trovare in san Paolo una dualità delle più singolari. Ci sarebbe la giustificazione ideale, giuridica, oggettiva, imputata, e la giustificazione reale, morale, soggettiva, inerente. Nella prima, lo Spirito Santo interverrebbe soltanto come testimonio; nella seconda, sarebbe autore, pegno e caparra della giustificazione; qui la fede sarebbe presentata come un vincolo mistico che ci unisce al Cristo, là invece la fede non sarebbe altro che un semplice riconoscimento intellettuale dell’economia della salvezza. La giustificazione forense si collegherebbe al concetto della redenzione per mezzo di riscatto e di sostituzione penale, mentre la giustificazione soggettiva corrisponderebbe alla liberazione dal peccato e dalla carne. Secondo Pfleiderer, questi due concetti « sono come due fiumi che scorrono nel medesimo letto senza mescolare le loro acque ». Parecchi li dichiarano inconciliabili o almeno sostengono che la conciliazione non avvenne nella mente di Paolo; altri si sforzano di conciliarli, ma, traviati dai loro pregiudizi, riescono soltanto a soluzioni inaccettabili. Essi sono persuasi che « è impossibile armonizzare la dottrina dell’Apostolo, eccetto che si consideri la giustizia di Dio come una qualità che non è in nessun modo attuale nel credente, ma che gli è sicuramente promessa per l’avvenire ». Sarebbe una specie di giudizio profetico, in anticipazione, che Dio confermerebbe poi, e nel tempo stesso realizzerebbe nell’ultimo giorno. Tale è la famosa giustificazione forense ed escatologica che doveva rischiarare tutto il mistero, e che invece altro non fa che rendere più fitte le tenebre. – Ben più semplice, più ragionevole, più conforme alla lettera e allo spirito dell’Apostolo è la soluzione Cattolica, della quale ciascun punto si può giustificare con una parola di san Paolo:

Dio prende l’iniziativa; Egli è il solo Autore della chiamata interna come della vocazione esterna; è l’iniziativa della grazia, ed in questo senso la fede è da Dio.

L’uomo alla sua volta risponde alla chiamata, ma non senza l’aiuto divino; egli rende gloria a Dio con l’accettare la sua testimonianza, con l’inchinarsi sotto la sua mano, con l’abbandonarsi totalmente in Lui: questo è certamente un merito, ma un merito di cui non può attribuire a sé l’onore.

Dio interviene di nuovo: Egli imputa la fede a giustizia; dà generosamente la giustizia in cambio della fede, ma non come l’equivalente o il compenso della fede: fino a questo punto la grazia ha avuto sempre una parte preponderante.

La giustizia concessa all’uomo gli impone l’obbligo e gli conferisce il potere, delle opere buone. L’uomo, armato della grazia abituale,può avanzare di virtù in virtù; ma i frutti che acquista, pure appartenendoa lui, non sono esclusivamente suoi, perché egli lavora suifondi di Dio e con i mezzi che Dio gli dà.

Finalmente Dio incorona l’opera; per sempre Egli giustifica l’uomo, questa volta col dichiararlo giusto, perché l’uomo è veramente tale. – Concerto ammirabile nel quale Dio è sempre attivo senza sopprimere né intralciare l’attività dell’uomo, e nel quale l’uomo opera la propria salvezza senza ledere in nulla il dominio supremo di Dio.

III. LA SANTIFICAZIONE.

1. L’IDEA DELLA SANTITÀ. — 2.. GIUSTIZIA E SANTITÀ.

1. L’abisso che separa il Cristianesimo dal paganesimo classico, in nessun luogo appare più largo e più profondo, che nel concetto della santità. L’antica religione dei Greci e dei Romani non sospettava neppure la santità delle divinità; in ogni caso l’epiteto di santo non veniva affatto applicato agli dèi dell’Olimpo. Certe frasi bibliche come queste: « Siate santi perché io sono santo », oppure: « Io sono santo, io che vi santifico », dovevano avere un suono strano per orecchie pagane. Per quanto possano essere oscuri il senso primordiale ed etimologico della parola santo in ebraico, le fasi della sua evoluzione semantica, i gradi di spiritualizzazione che venne superando nel corso dei tempi, seguendo il progresso della rivelazione, è cosa certa che la nozione biblica di santità, è essenzialmente religiosa e morale, che conviene a Dio per eccellenza, ed agli esseri finiti in rapporto a Dio ». Nell’Antico Testamento, il santo era l’uomo legato a Dio con un vincolo di consacrazione o di appartenenza speciale; nel nuovo è colui che partecipa alla stessa santità di Dio. Se si confrontano tra loro, per distinguerle, la giustificazione e la santificazione, questa appare come una perfezione positiva, suscettibile di progressi indefiniti, mentre quella si presenta soprattutto sotto il suo aspetto negativo — la remissione dei peccati — che non pare ammettere il più e il meno. La santificazione inchiude la nozione stessa di giustificazione, ma non è vera la proposizione reciproca; di modo che si può concepire un ordine di provvidenza nel quale l’uomo peccatore sarebbe semplicemente dichiarato giusto, mentre sarebbe impossibile immaginarsi un santo al quale non fossero stati rimessi i peccati. Sotto questo aspetto, la giustificazione precede logicamente la santificazione alla quale serve di base.

2. Affrettiamoci però a dire che nell’ordine attuale, il solo che ci interessi, la giustificazione e la santificazione sono inseparabili. Lo dimostriamo con due serie di testi. San Paolo scrive ai Corinzi:

Voi dunque ignorate che gl’ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né gl’impudichi, né gl’idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né gl’infami, né i ladri, né gli avari, né gli ubbriaconi, né i maledici, né i rapaci erediteranno il regno di Dio. Ed ecco quello che eravate alcuni di voi; ma voi vi siete purificati, ma voi siete stati santificati, ma voi siete stati giustificati dal nome del Signore Gesù Cristo e dallo Spirito del nostro Dio” (I Cor. VI, 9-11).

L’Apostolo enumera come a caso una decina di vizi dei più comuni tra i pagani, e soprattutto a Corinto. Egli ricorda che un certo numero dei suoi lettori — egli non generalizza troppo per non offenderli — una volta se ne resero colpevoli; ma che importa? Il Battesimo ha scancellato tutto! Il Battesimo produce, tutto in una volta, la purificazione, la santificazione, la giustificazione del peccatore. Invano certi esegeti troppo sottili si ingegnano di trovare una gradazione tra questi tre effetti della grazia sacramentale. La gradazione non esiste; ma san Paolo, collocando la santificazione in mezzo agli altri due frutti del Battesimo, fa vedere che essa non è posteriore a loro. – Con gli Efesini egli tiene lo stesso linguaggio; soltanto qui applica alla Chiesa intera quello che là diceva di ciascun Cristiano: “Il Cristo ha amato la Chiesa ed ha dato se stesso per lei, affine di santificarla purificandola nel bagno di acqua, per mezzo della parola, per offrire a se stesso la Chiesa gloriosa, senza macchia né ruga né altro di simile, ma santa e irreprensibile (Ephes. V, 26). – La santità non è privilegio di una classe scelta, ma è cosa di tutti i Cristiani degni di questo nome. Quando l’Apostolo scrive ai santi di Roma, di Corinto, di Filippi o di qualsiasi altra città, non stabilisce affatto più categorie di fedeli; egli si rivolge a tutti indistintamente. Per lui ogni Cristiano è un santo, ed a questa parola egli lascia tutto il suo valore. In qualche raro testo egli potrà bensì parlare soltanto di una santità esteriore e legale che non supera illivello dell’Antico Testamento; quando dice, per esempio, parlando dei matrimoni misti: « Il marito infedele è santificato dalla moglie (fedele), e la moglie infedele è santificata dal (marito) fedele; altrimenti i vostri figliuoli sarebbero impuri, mentre ora sono santi (I Cor. VII, 14) ». – Essendo l’unione coniugale così intima, che i due coniugi formano una sola carne, una sola persona morale, la santità dell’uno si riversa su l’altro; il coniuge infedele e i suoi figli sono come immersi in un’atmosfera di santità che li avvolge e che finirà col penetrarli: così l’acqua mescolata col vino prende il sapore e il colore del vino. Ma questo modo di parlare è eccezionale. Il Cristiano, per il fatto del suo Battesimo, è santificato dallo Spirito Santo del quale è tempio (I Cor. III, 16; II Cor. VI, 16), diventa amico di Dio (Col. III, 12; Rom. I, 7), è « chiamato alla santità (I Cor. I, 2; Rom. I, 7) »; e noi sappiamo che per san Paolo la vocazione è sempre una vocazione efficace che ottiene il suo effetto. La santità del Cristiano non è dunque una santità solamente in potenza, ma una santità almeno iniziale il cui germe non chiede altro che di fruttificare. Dunque, nell’economia attuale, la giustificazione non è la semplice remissione dei peccati; è una riconciliazione con Dio (Rom. V, 10-11; II Cor. V, 18-19), che ci restituisce l’amicizia divina e, con questa, i beni perduti in Adamo. Essa è perciò rappresentata come una trasformazione di tutto il nostro essere, come una metamorfosi che di ogni Cristiano fa « una nuova creatura (II Cor. V, 17) ».

CONOSCERE SAN PAOLO (41)

LIBRO V

I canali della redenzione.

CAPO I.

La fede principio di giustificazione.

I. LA FEDE GIUSTIFICANTE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. FEDE PROTESTANTE E FEDE CATTOLICA. — 2. NATURA DELLAFEDE. — 3. OGGETTO DELLA FEDE. — 4. VALORE DELLA FEDE.

1. È assai difficile sapere che cosa intendessero per la fede che giustifica i riformatori del secolo XVI, perché in loro non si trovanoné definizioni precise né nozioni uniformi. I loro testi messi a confronto lasciano una forte impressione di oscurità e d’incoerenza. I corifei del protestantesimo erano bensì concordi nel negare che la fede informe sia una vera fede; ma siccome volevano eliminare dall’atto di fede l’elemento intellettuale, pure lasciando gli la certezza, il loro imbarazzo nel definire la loro fede speciale era grandissimo. Se essi dicevano con Calvino, che la fede è « una conoscenza fermae certa della benevolenza divina verso di noi », avevano bisogno dilunghi commenti per spiegare che tale atto partiva dal cuore e nondall’intelletto, e non sapevano dove basare la realtà di una tale fedeil cui oggetto, nel momento in cui veniva percepito come esistente,non esisteva ancora. Se preferivano la definizione di Lutero: « unafiducia certa e profonda nella bontà divina e nella grazia manifestatae conosciuta per mezzo della parola di Dio », era loro impossibile ildire in che modo questa fiducia fosse certa, eccetto che si ammettesseche essa medesima fosse preceduta da un atto di fede intellettuale.Non abbiamo il diritto di aspettarci maggiore precisione e chiarezzadai protestanti moderni. La maggior parte, anche di coloroche si potrebbero credere disposti a emanciparsi dall’ortodossia luterana,considerano sempre la fiducia come l’elemento unico o principale della fede. In molti di loro si nota però la cura di evitare ciòche la nozione protestante ha di troppo urtante o di apertamentecontrario alla Scrittura. Così B. Weiss unisce la fiducia all’adesione intellettuale e intende soprattutto per fiducia quella che si dimostraa Dio col credere alla sua parola; è il pius ædulitatis affectus dei teologi cattolici. Al contrario, certi razionalisti mantengono senza riguardi le concezioni radicali dei primi riformatori e con questo appunto ne mettono a nudo l’assurdità fondamentale. Agli occhi diBaur, per esempio, « la fede, come principio di giustificazione, è la persuasione fondata sopra Gesù Cristo, che ciò che non è, tuttavia è »: e si domanda con stupore che cosa possa giovare un tale attoper la nostra salute. Vi è infatti proprio da sbalordire, perché è la negazione pura e semplice del principio di contraddizione. Ma la confusione va ancora più avanti: « La fede, secondo Fricke, è una presadi possesso ricevente, la quale tuttavia è prima resa possibile dalla recezione della grazia preparata in Dio prima di ogni recezione ».Quale sfinge sarebbe capace d’indovinare tale enigma? Non bisogna meravigliarsi se la nozione della fede protestante manca di chiarezza; poiché, secondo l’autore della definizione citata or ora, il pensiero di Paolo è così profondo, che pochissimi uomini sono riusciti a penetrarlo, e prima di Lutero era interamente sconosciuto da più dimille anni. Il primo che lo abbia compreso, al dire di Harnack, è l’eretico Marcione, che però lo comprese molto male. Di fronte a tali incertezze, mettiamo la dottrina costante dellaChiesa Cattolica, così formulata dal Concilio Vaticano: « La fede è una virtù soprannaturale con la quale, sotto l’influsso e con l’aiuto della grazia, noi crediamo come vere le cose rivelate, non per motivo della loro verità intrinseca accessibile ai lumi naturali della ragione, ma per l’autorità di Dio stesso che le rivela e che non può né ingannarsi né ingannare ». Il Concilio di Trento dichiara che « noi siamo giustificati dalla fede, perché la fede è l’origine, il fondamento e la radice di ogni giustificazione » e che « noi siamo giustificati gratuitamente, perché nulla di ciò che precede la giustificazione, né la fede né le opere, può meritare la grazia della giustificazione (Conc. Vatic. Sess. III, cap. 2; Conc. Trid. Sess.VI, cap. 8) ». La fede è l’origine della nostra salvezza perché è la prima disposizione salutare, e senza di essa il peccatore non può né sperare né pentirsi veracemente, né amare Dio di un sincero amore. Essa ne è il fondamento, perché tutto il resto si appoggia sopra la fede; se questa cade, cade con lei tutto l’edificio, mentre essa si può reggere anche se cadono le altre virtù. Essa ne è la radice, non già perché essa sia il germe spontaneo e infallibile delle altre disposizioni soprannaturali, ma perché essa concorre, con l’aiuto divino, a produrle e a mantenerle. – Prima di esaminare in che modo la fede giustifica, studiamo in san Paolo la natura, l’oggetto e il valore della fede giustificante.

2. In questa analisi bisogna evitare tre vizi di metodo. Il primo sarebbe quello di spiegare l’uso biblico con l’uso profano: la fede cristiana e la fede pagana differiscono in tutto e per tutto; esse non hanno nessuna misura comune; i classici hanno bensì fornito agli scrittori sacri la parola « fede », ma nulla più. Un secondo sbaglio sarebbe quello di prendere come punto di partenza l’etimologia della parola greca. Quando gli Apostoli — e prima di loro i Settanta — adottarono questa parola, la nozione di fede aveva dietro di sé una lunga storia: prodotto di una razza e di una civiltà diversa, è ben poco rischiarata dall’etimologia greca (= cercar di persuadere). Finalmente. l’ultimo scoglio sarebbe quello di procedere dalla nozione di « fede » alla nozione di « credere ». Bisogna fare la strada a rovescio; poiché in ebraico, dove cominciò a elaborarsi il concetto della fede cristiana, la derivazione grammaticale, conforme all’evoluzione logica dell’idea, va dal verbo « credere » al sostantivo « fede »; e quest’ultima parola non ha ancora quasi mai il significato religioso che il verbo « credere » ha ordinariamente. Ogni attento lettore rimane colpito dal fatto che san Paolo, come pure il redattore dell’Epistola agli Ebrei, suole collegare la fede cristiana con la fede dell’Antico Testamento e non sembra fare nessuna differenza tra queste due fedi; fatto questo tanto più curioso perché nell’Antico Testamento il compito della fede pare a tutta prima assai ridotto: si spera in Dio, gli si obbedisce, lo si teme, si ama; ma non si pensa a farsi un merito col credere in Lui, poiché il rifiutarsi di credere è l’errore del solo « insensato ». La fede è quasi soltanto menzionata nei casi eccezionali in cui essa ha ostacoli da superare, dubbi da vincere o gravi obblighi da compiere; allora, è vero, è la virtù capitale, come il suo contrario, l’incredulità, è il vizio più odioso. La salute o la rovina del popolo dipendeva dalla sua fede: « Se non credete, voi non sussisterete (Is. VII, 9. Cfr. XLIII, 10) ». — « Credete in Jehovah vostro Dio e voi sarete salvi  (II Paral. XX, 20) ». Tale fu la fede di Abramo, la fede dei Niniviti, la fede di cui parla Abacuc, la fede d’Israele al suo uscire dall’Egitto: « Essi credettero a Jehovah ed a Mosè suo servo (Es. XIV, 31) ». Dappertutto la fede si afferma come un assenso alla parola di Dio o del suo profeta, ma l’elemento intellettuale raramente è isolato; quasi sempre gli va unito un sentimento di sicurezza, di fiducia, di abbandono, di obbedienza, di amore filiale: l’adesione della mente produce la vibrazione del cuore. – Passando dall’Antico al Nuovo stamento. noi possiamo misurare con uno sguardo tutta la via percorsa. La fede non è più indicata come un fatto eccezionale, ma è oramai l’atteggiamento normale del Cristiano; le due parole « fede » e « credere » si presentano ad ogni pagina in proporzioni quasi uguali; l’accezione profana, completamente eliminata dal sostantivo, tende a scomparire anche nel verbo; finalmente i due termini hanno acquistato un significato tecnico il quale permette di adoperarli in modo assoluto: la, fede è l’accettazione del Vangelo, e credere vuol dire professare il Cristianesimo. Questa pienezza di significato rende malagevole l’analisi della fede cristiana; tuttavia un confronto attento dei testi ci suggerisce le seguenti osservazioni: La fede non è una pura intuizione, una tendenza mistica verso un oggetto piuttosto sospettato che non conosciuto; essa « suppone la predicazione: Fides ex auditu; essa è l’adesione della mente a una testimonianza divina (Rom. X, 17; Gal. III, 2-5; I Tess. II, 13). — La fede è opposta alla visione, e quanto all’oggetto conosciuto e quanto alla maniera di conoscere; l’una è immediata e intuitiva, l’altra ha luogo mediante un intermediario (II Cor. V, 7). — Tuttavia la fede non è cieca; essa è pronta a dare ragione di sé medesima e aspira sempre a una maggiore chiarezza (II Cor. IV, 4-6). — Essa è intimamente unita, da una parte alla speranza e alla carità, con le quali forma una terna inseparabile, e dall’altra all’obbedienza e alla conversione del cuore. — La fede, per quanto ferma e incrollabile nella sua adesione, ha tuttavia dei gradi e può crescere d’intensità e di perfezione (I Cor. III, 1-2; II Cor. X, 15; Col. II, 7; II Tess. I, 3, etc.). — Finalmente, derivando dalla grazia, essa possiede un valore intrinseco che la rende gradita a Dio (Ephes. II, 8).  Prima di esaminare donde le venga il suo valore, diciamo qual è il suo oggetto.

3. Nell’atto di fede bisogna distinguere l’oggetto formale — il motivo di credere — e l’oggetto materiale sul quale la fede si dirige. Quello che provoca l’adesione della mente è sempre la testimonianza di Dio, sia che si produca direttamente, sia che arrivi per mezzo degli araldi autorizzati della rivelazione. Dio stesso parlò ad Abramo, a Mosè; a noi parla per mezzo dei Profeti e degli Apostoli; ma questa differenza nel modo di trasmissione non cambia nulla alla testimonianza divina: « Avendo ricevuto la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto intendere, voi l’avete ricevuta non come parola degli uomini, ma, quale è veramente, come parola di Dio (I Tess. II, 13) ». Il Vangelo non è una invenzione degli Apostoli, perché essi non l’hanno « né ricevuto né appreso da un uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo (Gal. I, 12) » che è la Sapienza incarnata. Quindi la parola evangelica è la parola di Dio, o semplicemente la Parola, e credere ai messaggeri di Dio è credere a Dio medesimo. – Mentre l’oggetto formale non cambia mai, l’oggetto materiale varia all’infinito. Esso può riguardare il complesso della rivelazione o un gruppo di verità o un dogma particolare: « Se noi siamo morti con Gesù Cristo, noi crediamo che vivremo anche con Lui. — Se confessi con la bocca, che Gesù è il Signore, e se credi nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, tu sarai salvo (Rom. VI, 8; X, 9). — Se crediamo che Gesù morì e risuscitò, così pure Dio per mezzo di Gesù ricondurrà con sé quelli che sono morti (I Tess. IV, 14) ». Qui la fede è un’adesione intellettuale a una verità di ordine storico, senza nessuna idea accessoria di fiducia o di abbandono; tuttavia è la fede verace, la fede cristiana, poiché ad essa è legata la salvezza. Infatti, per quanto sia ristretto l’oggetto materiale, l’oggetto formale rimane sempre il medesimo, ed è questo che specifica la fede. Quando non è espresso, l’oggetto materiale è più che mai comprensivo. San Paolo suole chiamare i fedeli col nome di « credenti », perché la fede è il sentimento vasto e universale che riassume meglio il carattere del Cristiano. La « fede » è la professione di tutto il Vangelo ed è anche, oggettivamente, il Vangelo in tutta la sua ampiezza. In una parola, « credere » è essere discepolo del Cristo; poiché oltre all’adesione intellettuale, la fede sincera implica anche una sommissione tacita e virtuale ai doveri che il Cristianesimo impone. Quando l’oggetto della fede è indicato — se lasciamo da parte certe locuzioni eccezionali, come « fede nel Vangelo, fede nella verità » — esso è sempre Dio o il Cristo. E allora, coincidendo l’oggetto materiale con l’oggetto formale, la nozione della fede è abbastanza complessa.- Se il credere a Dio (Θεῷ = teo) può non essere altro che il prestar fede alla sua testimonianza, il credere in Dio aggiunge a questo concetto certe delicate sfumature di cui rendono bene il significato le particelle greche. Credere in Dio non è soltanto credere alla sua esistenza, ma riposare su Lui (ἐπὶ Θεῷ = epi teo) come sopra un appoggio incrollabile, è rifugiarsi in Lui (ἐπὶΘεόν = epi teon) come in un asilo sicuro, è tendere a Lui (εἰς Θεόν = eis teon) come al proprio ultimo fine. In questi ultimi anni si è negato che la « fede del Cristo » sia la fede al Cristo; si vorrebbe invece che sia la fede che Gesù stesso avrebbe avuto durante la sua vita mortale. Fortunatamente i teologi e gli esegeti, così protestanti come cattolici, resistendo a quel certo fascino che esercita sempre un’opinione nuova, per quanto possa essere arbitraria, continuano a vedere nella « fede del Cristo » la fede di cui il Cristo è oggetto da parte dei fedeli. Non vi è espressione più adeguata della fede giustificante di Paolo (Gal. II, 16). Gesù Cristo non è soltanto il plenipotenziario di Dio e il mediatore unico della nuova Alleanza; egli è ancora il compendio del Vangelo, poiché è il centro dell’economia della salute, e tutte le promesse di Dio si compiono in Lui. Perciò predicare il Cristo è predicare il Vangelo, confessare il Cristo è professare la Religione che Egli venne a fondare, credere al Cristo è accettarlo come Salvatore, confidare nella sua mediazione, sottomettersi alla sua legge. Noi siamo giustificati dalla fede di Gesù Cristo e viviamo nella fede del Figlio di Dio (Gal. II, 20), perché questa fede, ben lungi dall’essere confinata nel dominio dell’intelligenza, è una fede pratica, attiva, obbediente, che dalla carità riceve la sua forma e il suo merito.

4. Anche spogliato delle sue modalità accidentali, come la fiducia e la sommissione al volere divino, l’atto di fede possiede un valore morale intrinseco. Infatti esso non può esistere, neppure allo stato più semplice, senza il pius credulitatis affectus col quale l’uomo liberamente si inchina sotto l’autorità di Dio e confessa implicitamente la veracità della sua testimonianza. « Senza la fede è impossibile piacere (a Dio); poiché chiunque si avvicina a Dio deve credere che Egli esiste e che diventa rimuneratore per coloro che lo cercano (Ebr. XI, 6) ». Noi abbiamo qui la fede più intellettuale, la più sciolta dalle condizioni morali, quella in cui ha meno parte la volontà; eppure l’autore ispirato afferma che senza questa fede è impossibile piacere a Dio, e che con essa è possibile piacergli. Ne è testimonio Enoc: la Scrittura non dice nulla della sua fede, ma gli rende la testimonianza di essere stato gradito a Dio; e il nostro autore ne conchiude che egli piacque a Dio per la fede, poiché senza la fede non è possibile piacergli (Ebr. XI, 5). – Da ciò si conchiude necessariamente che la fede possiede per se stessa un valore morale capace di attirare sopra l’uomo il favore divino … Non è altrimenti della fede di cui parla Abacuc. Dio ha detto al suo profeta: « Se la visione ritarda, tu aspettala; poiché certamente verrà e non mancherà ». Poi soggiunge: « Ecco che soccombe colui la cui anima non è retta, mentre il giusto, per la sua fede, vivrà (Abac. II, 4) ». – Il senso del primo membro non si può fissare con certezza; ma sono fuori di dubbio tre cose: vi è contrasto tra la sorte dell’incredulo, del superbo, che si rifiuta di credere alla visione profetica, e la sorte dell’uomo giusto e pio che vi crede. La fede consiste appunto nel credere che la profezia fatta in nome di Dio si compirà; dunque è proprio la fede quale l’abbiamo descritta una ferma adesione alla parola divina. Il frutto della fede è che per essa il giusto vivrà, cioè sarà oggetto di una preservazione provvidenziale. Per i contemporanei di san Paolo, come per lo stesso san Paolo, la fede di Abramo è la fede tipica. Essa infatti esclude tre difetti chele toglierebbero il merito e il valore: l’incredulità, il dubbio e l’esitazione. Il suo oggetto era arduo, incredibile, umanamente impossibile: eppure il Patriarca non si abbandonò all’incredulità, ma credette anzi contro ogni verosimiglianza, e, se si può dire, contro ogni ragione: qui contra spem in spem credidit. Egli non si fermò punto alle considerazioni che potevano far nascere il dubbio — la sua vecchiaia, il suo corpo debole, l’età avanzata di Sara — ma credette con fede robusta, incrollabile: confortatus est fide. Fece anzi assai più: volgendo subito i suoi pensieri verso Colui la cui veracità è pari alla potenza, non ebbe neppure un momento d’incertezza: non hæsitavit diffidentia. La sua fede fu pronta, ferma, intera, perfetta; perciò fu premiata: « Dio, dice la Scrittura, gl’imputò questo a giustizia ». Benché non vi sia né eguaglianza nè equivalenza tra la fede e la giustizia, bisogna tuttavia assolutamente che vi sia una certa proporzione tra la fede e la giustizia; infatti ciò che è nulla non può essere imputato a nulla. San Paolo poi ci dice come la fede di Abramo fu gradita a Dio e perché ebbe la ricompensa: perché il Patriarca, con la fermezza del suo assenso, con l’implicita confessione della veracità divina, col suo atteggiamento fiducioso verso promesse che parevano irrealizzabili, con la prontezza della sua obbedienza, aveva dato gloria all’Autore di ogni bene: dans gloriam Deo (Rom. IV, 16-22). Tale è il valore proprio, il valore morale della fede. Non già che la fede abbia per se stessa questo valore, o che l’uomo se ne possa vantare. Se essa è in noi e se non è senza di noi — poiché è un atto umano — l’Apostolo c’insegna che, in ultima analisi, essa non viene da noi, ma da Dio: « Voi siete stati salvati dalla grazia per mezzo della fede; e questo non da voi stessi — è un dono di Dio — non per ragione delle opere, affinché nessuno si vanti (Ephes. II, 8-9 ) ». Essere salvati nel tempo stesso dalla fede e dalla grazia sembrerebbe una contraddizione, e tale veramente sarebbe, se la fede venisse da noi; ma non è così, risponde l’Apostolo, tutto questo è un dono di Dio; voi non potete attribuirlo né a voi né alle vostre opere. Perciò la fede è un’operazione, un prodotto dello Spirito Santo o, come dice ancora lo stesso Apostolo, un frutto dello Spirito (Gal. V, 22): alla sua origine soprannaturale essa va debitrice del suo valore. Ora noi siamo in possesso dei tre elementi della fede cristiana quale ci è descritta da san Paolo: l’elemento intellettuale non manca mai: nel caso in cui il doppio oggetto, materiale e formale, fosse pienamente evidente, si potrebbe concepire la fede senza il concorso della volontà, ma non mai senza il concorso dell’intelligenza. La fede in cui non intervenisse affatto la volontà, non sarebbe la fede libera, la fede meritoria, la fede teologica; tuttavia le si potrebbe dare, per estensione, il nome di fede, come fa san Giacomo; la fede in cui l’intelligenza non avesse nessuna parte, non è neppure concepibile, perché ogni fede è una convinzione, e ogni convinzione suppone un assenso della mente. — Un secondo elemento della fede è l a fiducia, e si può intendere in due maniere: fiducia in colui che parla, e fiducia in colui che promette. La prima è inerente all’atto di fede; è, presso a poco, il pius credulitatis affeetus dei teologi. L’altra, accidentale, non è che una modalità dell’oggetto materiale, quando questo consiste in un aiuto presente o in un benefizio promesso: Contra spem in spem credidit — Il terzo elemento della fede viva è una doppia obbedienza: obbedienza della mente alla parola di Dio con l’accettazione pronta e ferma della testimonianza divina, obbedienza del cuore pronto a conformarsi in tutto al volere divino nella misura in cui si manifesta.

LO SCUDO DELLA FEDE (XLVII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S. E. I. Ed. Torino, 1927]

XLVII

RISURREZIONE E GIUDIZIO.

Quando avverrà la fine del mondo. — L’anticristo ed altri segni forieri di essa. — Come avverrà. — La risurrezione di tutti gli uomini. — Luogo e modo dell’universale giudizio. — Perché  vi debba essere il giudizio universale oltre al particolare.

— Vorrei ancora domandarle alcune cose intorno alla vita dell’al di là. Ed anzitutto è veramente certo che questo mondo e l’umanità, che lo abita, dovranno un dì finire?

E chi può dubitarne? Quando la stessa ragione non ci dicesse che tutto in natura comincia, cresce, vigoreggia, invecchia e si scioglie, le Sacre Scritture ce ne parlano nel modo più esplicito.

— E quando avverrà la fine del mondo?

Gesù Cristo ha detto al riguardo che nessuno lo sa, se non Iddio.

— Ma a me sembra di aver veduto in qualche libro determinato un tal tempo.

⁕ Se anche lo avessi veduto stampato chiaramente,  non ci devi credere, tanto più perché la Chiesa ha giustamente ed espressamente proibito di fare una tale determinazione, contraria alla parola di Gesù Cristo.

— Ad ogni modo si può supporre che la fine del mondo sia vicina?

Delle ipotesi ne puoi fare benissimo, ma penso che al riguardo sia più giusto supporre che la fine del mondo sia ancora lontana assai. Se, come appare dalla scienza, ci vollero tanti secoli alla formazione del mondo attuale, e secondo c’insegna la Scrittura sono appena seimila anni incirca che in esso si trova l’uomo, vuoi che questi per la fine del mondo vicina abbia così presto a scomparirne?

— È vero che prima della fine del mondo vi sarà un Anticristo, che farà di tutto per combattere Gesù Cristo e trarre in inganno gli uomini?

Tale è la dottrina di tutti i Santi Padri, e il sentimento di tutti i fedeli in tutti i secoli. Anche la divine Scritture ne parlano chiaramente in più luoghi.

— Chi sarà questo Anticristo?

Sarà un uomo scelleratissimo, che avrà commercio col demonio, opererà falsi prodigi, vorrà farsi adorare come Dio, perseguiterà i Cristiani più di quello che saranno mai stati perseguitati, e riuscirà a sedurre molti e a farsi un gran numero di seguaci.

— Ma non vi saranno a predicargli contro Enoc ed Elia?

Così comunemente si crede basati sulle Scritture dell’antico e del nuovo Testamento e sulla Tradizione. S. Agostino nel suo libro Della Città dì Dio (xx, 29) dice che « non immeritamente si spera che prima della venuta di Gesù Cristo giudice, Elia debba venire quaggiù, perché non immeritamente si crede ch’egli sia vivo tuttora ». E tu sai perché si creda ch’egli sia vivo tuttora. La Sacra Scrittura dice di questo gran profeta che anziché morire fu miracolosamente trasportato al cielo sopra un carro di fuoco. Anche di Enoc, che fu padre del celebre Matusalem e uomo santissimo, asserisce che senza morire disparve, perché Iddio lo rapì. Quindi può essere che l’uno e l’altro di questi due santi uomini vivano ancora miracolosamente, godendo una specie di paradiso terrestre, in un luogo da Dio stabilito e a Lui solo conosciuto, dal quale poi prima della fine del mondo verranno fuori a predicare contro l’Anticristo, a preservare molti Cristiani dall’errore ed a convertire altresì molti infedeli e particolarmente gli Ebrei, che allora detesteranno la loro perfida ostinazione e crederanno a Gesù Cristo.

— Ho inteso a dire tante volte nelle spiegazioni del Vangelo che la fine del mondo sarà preceduta da guerre spaventose, da terremoti, da rovesciamenti del mare, da scompigli e cadute degli astri del cielo eccetera. Tutte queste cose avverranno davvero come sono indicate?

E perché no? Per quanto l’insieme di questi segni forieri della fine del mondo sembrino strani, oltreché sono parola di Vangelo, vanno pure pienamente d’accordo colla scienza, la quale già conosce nella robusta struttura del mondo i sintomi dello sfacelo, che deve subire, e che presenta quale Gesù Cristo l’ha indicato.

— Ed è vero che la fine del mondo avverrà per opera di un fuoco distruggitore?

Così c’insegna la divina rivelazione per mezzo di S. Pietro. Di qual maniera poi si formi questo fuoco, o di dove abbia ad erompere, e come avvenga questa enorme e spaventevole combustione sono cose che Iddio solo le sa.

— E per questo fuoco, il mondo sarà annientato ?

La Sacra Scrittura non dice questo, ma dice solo « che la terra e le opere che sono in essa saranno arse; » e poi soggiunge che « secondo la promessa di Dio noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra; » il che, come spiega san Gregorio Magno (nei Morali, v, 27), vorrebbe dire che i cieli e la terra passeranno quanto all’immagine che hanno adesso, ma sussisteranno senza fine quanto alla loro sostanza.

— Ma a che cosa serviranno questi nuovi cieli e questa nuova terra, se gli uomini tutti saranno o in paradiso od all’inferno?

Le Divine Scritture non dicono nulla, e niente si può immaginare che sia probabile. Quello che è certo si è che anche in ciò si rivelerà l’infinita sapienza di Dio.

— E alla fine del mondo avverrà dunque la risurrezione di tutti gli uomini?

Sì, è questa una delle verità di fede più chiaramente e ripetutamente insegnate nei santi libri.

— Ma io non capisco come mai i nostri corpi, che dopo migliaia di anni si saranno decomposti, abbiano e possano ancora risorgere.

Certo che ciò non avverrà per alcuna forza creata, ma unicamente per miracolo di Dio, al quale, onnipotente com’è, non tornerà per nulla difficile operare questa universale risurrezione, facendo sì che l’anima di ciascuno ripigli il corpo identico, che aveva nella sua mortal vita.

— Ma che necessità vi è che i corpi risuscitino? Non basta forse che viva immortale l’anima?

L’anima, caro mio, non è tutto l’uomo, il quale consta di anima e di corpo; perciò se un dì non risorgesse il corpo per unirsi all’anima ne avverrebbe che per tutta l’eternità l’uomo non sarebbe uomo vero e perfetto secondo la sua natura, ciò che ripugna alla ragione. E poi siccome il corpo è stato compagno all’anima o nell’operare il bene o nell’operare il male, non ti par giusto che un dì esso risusciti per ricevere anch’esso insieme con l’anima il premio od il castigo meritato?

— Sì, ciò è vero. E come saranno i corpi dei risuscitati?

S. Paolo dice che « tutti risorgeremo, ma non tutti saremo mutati ». E con ciò, secondo che spiega lo stesso Apostolo nella sua la lettera ai Corinti (capo xv), vuol dire che i corpi dei malvagi nel risorgere saranno brutti, deformi, schifosi, pesanti, soggetti a dolori, mentre invece i corpi dei buoni saranno modellati sul corpo di Gesù Cristo risorto, epperò incorruttibili, immortali, leggeri, senza alcuno di quei difetti che potevano avere in questo mondo, fulgenti di luce e di bellezza, pieni di vita e di forza, impassibili, fatti quasi spirituali, tanto da potersi recare in un attimo in ogni luogo senza trovare ostacolo od inciampo alcuno.

— Dunque il corpo dei giusti nella risurrezione non sarà più corpo, ma spirito o fantasma ?

No, caro mio: il corpo resterà corpo e non cesserà di essere palpabile, come restò vero corpo palpabile quello di Gesù Cristo dopo la. risurrezione sua, ma pur restando tale avrà tuttavia per volere e potere divino quelle perfezioni che t’ho indicate.

— E dopo la risurrezione vi sarà l’universale giudizio nella valle di Giosafat. Questa valle dovrà essere ben grande per poter contenere tutti quanti gli uomini del mondo!

A questo riguardo devi sapere che la valle di Giosafat, di cui nella Scrittura parla soltanto il profeta Gioiele, è una valle poco lontana da Gerusalemme ed abbastanza ristretta. Siccome in essa vi erano molti sepolcri, così può essere che a poco a poco prevalesse presso alcuni l’idea che il giudizio universale dovesse aver luogo in detta valle. Del resto la parola Iosafat vuol dire del giudizio, o meglio ancora in cui il Signore giudicherà, così che Valle di Giosafat potrebbe anche indicare nient’altro che luogo dove avverrà l’universale giudizio, che perciò tu puoi immaginare largo e lungo quanto ti piace. D’altronde potresti tu credere, che trattandosi proprio di quella valle presso Gerusalemme, Iddio sarebbe impacciato ad allargarla, per modo che contenesse tutta l’umanità?

— Oh! no, certamente. E nel giudizio vi sarà davvero quell’esteriore apparato, di cui tante volte si parla, e cioè i suoni di tromba degli Angeli, la separazione dei buoni dai cattivi, la comparsa di Gesù Cristo sulle nubi, la sua seduta in tribunale, l’apertura dei libri, eccetera, eccetera?

Vedi: tutte queste cose ed altre ancora sono così indicate nella Santa Scrittura e dallo stesso Gesù Cristo. Per altro S. Paolo ci dice che tutto ciò si effettuerà in un batter d’occhio, in un lampo, in un istante solo. Quindi è che tutto avverrà in modo miracoloso, e se nelle prediche si descrive talora il giudizio come uno svolgimento regolare di una causa, ciò non si fa altrimenti che per produrre nella nostra mente un’immaginazione del medesimo in conformità alla debolezza della nostra intelligenza.

— Dunque nel giudizio universale non vi saranno quelle scene di terrore e di disperazione che alle volte si dipingono?

Anzi vi saranno assai più terribili che non si dica. Perciocché l’istantaneità, con cui il giudizio sarà compiuto, non impedirà per nulla che avvenga il totale conoscimento del bene e del male operato da tutti e da ciascuno degli uomini con la conseguente glorificazione e soddisfazione, oppure vergogna e disperazione.

— E di qual maniera avverrà questa totale rivelazione del bene e del male fatto da tutti e ciascuno degli uomini?

Le Sacre Scritture ci dicono che ciò avverrà per la luce che partirà da Dio stesso, e che illuminerà la coscienza di ciascuno per siffatta guisa da far conoscere a tutti lo stato preciso dell’anima di ciascuno; sicché nel giudizio sarà manifesto tutto ciò che di bene e di male avremo fatto nella nostra mortal vita, sia in pensieri, sia in affetti e sentimenti, sia in parole ed in opere, in tutto e per tutto, e sarà manifesto quale realmente si è voluto e fatto, non quale apparve al di fuori, per modo che non sarà possibile negare o difendere, scemare o ingrandire il nostro passato.

— Dunque tutto quello che io penso, sento, dico, faccio, eccetera, anche da me solo, tutto resta per essere poi tutto manifestato nel dì del giudizio?

Sì, caro mio.

— È una verità terribile!

Si, Ma anche consolante se facciamo il bene e lo facciamo per amor di Dio

— Non capisco però quale necessità vi sia di questo universale giudizio, se vi è già stato il giudizio particolare.

È certo che nel giudizio universale non sarà data da Dio per nessuno una sentenza diversa da quella che già fu profferita nel giudizio particolare. Con tutto ciò è necessario l’universale giudizio:

1° per giustificare il governo di Dio lungo il corso dei secoli, e così al cospetto di tutti si manifesti il perché alle volte ha permesso che i buoni fossero tribolati e i malvagi trionfassero nella loro iniquità.

2° per vendicare pubblicamente gli affronti orribili, che da tanti vennero fatti all’adorabile Persona di Gesù Cristo, sia col negarlo, sia col bestemmiarlo, sia col disprezzare la sua fede, la sua legge, la sua Chiesa, i suoi Sacramenti, eccetera; giacché tutti gli empi saranno allora costretti di riconoscere che Gesù Cristo è Dio.

3° per convincere tutto intero l’uomo, in corpo ed in anima, del suo bene o del suo male, per confondere i vili, per smascherare gli ipocriti, per manifestare le conseguenze del peccato, gli effetti dello scandalo eccetera, eccetera.

— Ho compreso. E come andrà a finire il giudizio?

Colla sentenza di eterno godere in paradiso per i buoni, e di eterno patire nell’inferno per i malvagi. Ma di ciò discorreremo altra volta.

LO SCUDO DELLA FEDE (XLVI)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XLVI

IL PURGATORIO.

Il dogma del purgatorio. — desso un luogo determinato e fisso? — Quali ne sono le pene e qual è la loro durata? — Il purgatorio non è forse invenzione dei preti? — Non si fanno per esso dei traffici indegni sulla celebrazione della Messa?

— E passando ora a quella parte della Chiesa chiamata purgante, mi dica un po’ qual è propriamente il dogma del purgatorio, che la Chiesa ci propone e che noi dobbiamo credere per essere veri Cristiani?

Eccolo: esso si può esprimere in queste semplici parole: « Esiste un purgatorio, in cui le anime dei fedeli morti in istato di grazia, ma con peccati veniali o senza aver compiuta la penitenza dovuta sia ai peccati veniali, sia ai peccati mortali perdonati quanto alla colpe e alla pena eterna, sono purificate e scontano del tutto la pena temporale; e a queste anime noi possiamo recar sollievo per mezzo dei nostri suffragi, e specialmente col sacrificio della santa Messa ».

— Il Purgatorio è desso veramente un luogo determinato e fisso, oppure è uno stato particolare delle anime dei defunti, le quali soffrono in qualsiasi luogo di questo mondo piaccia a Dio?

La sentenza più comune è più probabile è che il purgatorio sia veramente un luogo determinato e fisso. Così la pensano S. Bernardo, S. Tommaso d’Aquino, S. Bonaventura, il Suarez e molti altri. La liturgia Cattolica chiama il purgatorio col nome di inferno, di lago profondo, di tartaro, di luogo oscuro, di bocca del leone; ma tali parole non vogliono significare altro che luogo incognito e pieno di tormenti e di privazione. Epperò quando la Chiesa invoca Iddio a favore di quelle anime, dicendo: Libera eas de pœnis inferni, de profundo lacu, le ore leonis, ne absorbeat eas tartarus, ne cadant in obscurum, non intende far altro che supplicare la divina misericordia, che si degni di liberare dalle pene del purgatorio quelle anime giuste e riceverle fra gli splendori immortali della gloria celeste. Tuttavia benché sia più probabile che si trovi pel purgatorio un luogo fisso e determinato, dove vadano e siano rilegate le buone anime dei defunti, non creerebbe nessuna difficoltà il dire, come fanno S. Gregorio Magno, S. Pier Damiani ed altri Santi, in alcuni loro racconti, che qualcuna di quelle anime per disposizione particolare di Dio, debba scontare altrove la sua penitenza. Non accade forse lo stesso presso i governi di questo mondo? Anch’essi hanno i loro carceri, ove di legge ordinaria si rinchiudono tutti i condannati -, ma questo non impedisce, che taluno di essi sia talvolta per qualche ragione speciale mandato altrove ad espiare la sua pena, in una cittadella, o su di una nave, o in un ospedale, o in altro luogo particolare. – Adunque può essere benissimo che per ragioni da Dio conosciute le anime del purgatorio errino qua e là nel nostro mondo, si trovino in qualche luogo particolare di esso, entrino persino nelle nostre abitazioni, ma ciò deve essere una eccezione, e probabilmente eccezione molto rara. Ed ecco, mio caro, tutto ciò che secondo l’insegnamento dei sacri dottori si può dire intorno al luogo del purgatorio. Il fare noi altri ricerche ed ipotesi sono cose al tutto inutili e pericolose. Poiché adunque Iddio non volle rivelare dove sia il purgatorio, ci basti sapere e credere quello che Egli ci ha rivelato, che cioè il purgatorio esiste.

Bisogna credere che le anime vi soffrono la privazione temporaria di Dio. È poi dottrina universale della Chiesa, benché non definita, che vi soffrano pure la pena del fuoco.

— Come mai le anime purganti essendo separate dai loro corpi possono soffrire la pena del fuoco?

Ciò anzitutto non si può dimostrare che sia impossibile. Ma quando pure alla ragione umana sembrasse tale, è certo che Iddio con la sua onnipotenza può anche far questo, che le anime benché prive del corpo soffrano, come accade certamente per i demoni nell’inferno, ancorché siano spiriti privi di corpo e per le anime dannate prima dell’universale giudizio. Senza alcun dubbio le anime purganti per essere anime separate dal corpo soffrono in un modo affatto diverso da quello, con cui soffriamo noi nel mondo, ma precisamente perché noi non abbiamo alcuna esperienza, né alcuna idea di un tal modo di soffrire, non possiamo dire nulla del medesimo.

— È vero che le pene del purgatorio siano eguali a quelle dell’inferno?

Potranno essere somiglianti per l’intensità, ma per la loro durata solo temporaria, e per lo scopo a cui servono, e per l’effetto che producono di purificare le anime sono così diverse da quelle dell’inferno, da costituire tra se stesse e quelle un vero oceano di separazione e di distanza.

— È giusto quello che pensano taluni, che le anime del. purgatorio, come i dannati dell’inferno si abbandonino a lamenti, a gridi, ad urli e simili?

Ciò è falsissimo. Le anime del purgatorio amano Iddio di un amore ardentissimo, epperò conformano pienamente la loro volontà alla sua, ed altro non vogliono che purificarsi in quel modo che piace a Dio, e a ciò si adattano con ineffabile piacere. Epperò ha ben ragione il nostro sommo poeta, Dante, quando dipingendo con profonda verità teologica lo stato delle anime del purgatorio, parla dei dolci assenzi, dei dolci martirii, del patire che dovrebbesi chiamare gioire e pone in bocca a quelle anime non grida di dolore, ma soltanto preghiere, sospiri e teneri lamenti.

— E per quanto tempo le anime del purgatorio dovranno soffrirne le pene?

Anche a questa domanda non si può dare una risposta precisa. Tuttavia la stessa ragione insegna che la durata delle pene del purgatorio non è eguale per tutti, ma bensì più o meno lunga a seconda dei diversi demeriti delle anime. Così è certo, come ci insegna la Chiesa, che le pene del purgatorio non si estenderanno al di là del giorno del giudizio, perché in quel giorno Gesù Cristo condurrà seco in paradiso tutti i giusti, epperò a quelli che moriranno negli ultimi tempi e dovrebbero fare un lungo purgatorio, Iddio regolerà per la necessaria riparazione. Ma all’infuori di ciò nulla possiamo precisare.

— Ma io ho inteso più volte a dire che il purgatorio è un’invenzione dei preti, anzi la loro bottega.

Così dicono gl’increduli e i protestanti. Ma chi si compiaccia per poco studiare questo punto di dottrina non verrà forse a conoscere che sempre, da per tutto, presso tutti i popoli vi è stata questa credenza? Gli uomini dei diversi tempi e dei diversi luoghi del mondo, come insegna il Bellarmino, hanno potuto con le favole di loro invenzione intendere e spiegare in modo diverso l’esistenza del Purgatorio, come hanno fatto per ciò che riguarda l’esistenza di Dio e l’esistenza del Paradiso e dell’Inferno: tuttavia tutti si sono accordati nella verità sostanziale di questo dogma, tutti cioè hanno riconosciuto esservi un luogo dove le anime dei trapassati, non ancora del tutto pure, si vanno purgando delle loro colpe, e che i viventi della terra possono venir loro in aiuto.

— Ad ogni modo però del purgatorio non si parla affatto nelle Sacre Scritture.

Sì, i protestanti dicono anche questo, ma per dar valore alla loro asserzione sai che cosa hanno fatto? Oltre all’avere contestata la forza dimostrativa di vari passi della Scrittura relativi a questo dogma, hanno tolto persino dalla medesima il Libro dei Maccabei, che ne parla nel modo più esplicito. Di fatti ivi si narra che Giuda Maccabeo dopo una battaglia campale ordinò una colletta fra i superstiti, che fruttò 12000 dramme di argento, 6000 lire all’incirca della nostra moneta, colletta che mandò al tempio di Gerusalemme, perché là si facessero sacrifici pei defunti, ritenendo esser cosa santa e salutare il pregare per i morti, affinché siano sciolti dai loro peccati.

— Ma perché Gesù Cristo non ne ha parlato Egli espressamente nel suo Vangelo?

Essendo questa una dottrina già universalmente creduta, non occorreva che egli ne parlasse in modo esplicito. Tuttavia ne parlò in modo implicito. Al capo XIII del Vangelo di S. Matteo indicando certa bestemmia ingiuriosa allo Spirito Santo, dice che è tale peccato, che non solo non verrà perdonato. nella vita presente, ma neanche nella futura. Vi sono adunque secondo l’insegnamento di Gesù Cristo dei peccati, che per non essere gravi, sono rimessi nella vita futura, epperciò secondo questo stesso insegnamento vi deve essere un luogo, dove con la espiazione del peccato questa remissione vien fatta. Non ti pare?

— Ciò è chiarissimo.

D’altronde la stessa ragione dimostra la esistenza del purgatorio.

— E come?

Se le anime che passano di questa vita con soli peccati veniali o senza aver fatta una adeguata penitenza delle colpe gravi, di cui furono perdonate, non possono assolutamente entrare in paradiso, dove non entra alcunché di macchiato, e non debbono essere dannate all’inferno, non apparisce chiaro dovervi essere un luogo di mezzo, ove passino a purificarsi e a scontare la loro pena temporale?

— Certamente. E dopo tutto non si capisce come il protestantesimo neghi questo dogma, che alla fin fine torna pure di grande consolazione e di vivo conforto al nostro cuore. Ma ho pur inteso a dire che la Chiesa Cattolica ha inventato il purgatorio per far celebrare delle Messe e così arricchire i suoi preti.

Senza dubbio, di redola ordinaria quando il Cristiano vuole che un sacerdote celebri delle sante Messe secondo la sua intenzione, o per ottenere delle grazie per sé, o per la sua famiglia, o per i suoi amici e conoscenti, o per suffragare le anime del purgatorio, allora dà al sacerdote una conveniente elemosina (e dico elemosina e non paga, perché la paga si dà per ciò che si vende, ma non si potrà vendere giammai la santa Messa); ma il Cristiano dando al Sacerdote la elemosina in compenso della celebrazione della Messa secondo la sua intenzione fa né più né meno di quello che è conforme alla giustizia. Poiché essendo ammessa e dovendosi ammettere la Religione, e non essendovi la Religione senza il Sacerdote, perché il Sacerdote rimanga nel suo stato e possa compiere gli uffici sacerdotali, deve egli pure avere i mezzi per campar la vita. Ciò è chiaro come il sole, e costituisce pel Sacerdote un indiscutibile diritto. E però l’apostolo S. Paolo, al quale sì spesso a proposito ed a sproposito ricorrono i protestanti, appoggiandosi al diritto delle genti, alla ragione naturale ed alle consuetudini dell’antica Sinagoga degli Ebrei, dice esplicitamente, che il Sacerdote deve pur vivere del suo ministero (V. Lettera la ai Corinti, capo IX, versetti 4, 14). E forsechè i ministri protestanti, i pastori evangelici, non si valgano di questo diritto? Forsechè rifiutino essi le belle sterline, con cui sono pagati per la semplice lettura e interpretazione della Bibbia? La elemosina pertanto, che si dà al sacerdote per la celebrazione della santa Messa, è un giusto e necessario compenso che gli si deve, affinché egli abbia anche per questo il mezzo, onde campare onestamente la vita. Questa elemosina, a seconda della condizione del Cristiano, che la dà, può essere talvolta senza dubbio maggiore di quella minima, che i Vescovi per giuste convenienze prescrivono, e servire per tal guisa insieme con altri mezzi inerenti alla condizione, all’ufficio, all’ingegno del sacerdote, a costituire per lui un certo qual cespite di agiatezza. – Ma pur ammesso tutto ciò, che è senza dubbio pienamente ragionevole, io domando: È propriamente per questo fine, che la Chiesa tanto raccomanda ai fedeli di far celebrare delle Messe per le anime del purgatorio? No, assolutamente. La vera e principalissima ragione, per cui la Chiesa Cattolica fa ai fedeli tale raccomandazione, si è il sapere come fra tutti i mezzi, che Dio ci ha fornito per suffragare le anime del purgatorio, questo della santa Messa sia il più efficace.

— Ma si dice ancora che questo sistema è tutto a prò dei ricchi, che così facilmente possono liberare se stessi e i loro cari dal purgatorio, e tutto in danno dei poveri, che non potendo pagare le Messe liberatrici, debbono soffrir lo strazio di sapere che essi e i loro parenti rimarranno molto tempo a patire in purgatorio.

Anche questo è spudorata menzogna; perciocché Iddio, che è sommamente giusto e buono non esige di certo da alcuno l’impossibile, e se vi sono di coloro che non possono far celebrare delle messe per sé e a prò delle anime purganti, potranno tuttavia soccorrere se stessi e le anime del purgatorio coll’ascoltare anche solo delle Messe devotamente, e col valersi dei tanti altri mezzi, che Iddio, oltre a quello della Messa, ha posto a nostra disposizione per nostro vantaggio e per recar sollievo a quelle anime; anzi può benissimo, che il Signore, non ostante il valore intrinseco della santa Messa, faccia poi di un’altra buona opera qualsiasi di un Cristiano il quale non ha i mezzi per far celebrar Messe, che non di moltissime Messe fatte celebrare da chi alla fin fine per ragione ricchezze e de’ suoi obblighi era in dovere di farle celebrare.

— Ed ora, anche per questo dogma non ho più alcuna difficoltà nella mente.

CLARIFICATIONS ABAUT UNAUTHORIZED AND UNCENSORED RELIGIOUS PUBLICATIONS – CONSIDERAZIONI SULLE PUBBLICAZIONI DI CARATTERE RELIGIOSO NON AUTORIZZATE E CENSITE

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE PUBBLICAZIONI DI CARATTERE RELIGIOSO NON AUTORIZZATE E CENSITE CANONICAMENTE

(per i lettori di lingua inglese)

Pubblichiamo alcuni punti fondamentali della dottrina della Chiesa, ricordati opportunamente da un Sacerdote cattolico “vero” di lingua inglese ai lettori anglofoni. Il nostro blog ha più volte insistito su questi punti, studiando nei dettagli il contenuto della Costituzione Apostolica Officiorum ac munerum, di S. S. Papa Leone XII (v.), ribadito nella notissima enciclica “Pascendi” di S. S. San Pio X, anche questa approfondita in diversi post dello stesso blog. Ci sembra assolutamente necessario riportarne i contenuti in lingua inglese, con la relativa traduzione italiana, per ricordare a noi stessi ed a tutti i Cattolici del “piccolo gregge”, che non è consigliabile in ogni caso leggere articoli, libri, post ed editoriali giornalistici anche su internet, nonché pretese rivelazioni private senza l’autorizzazione dell’Ordinario del luogo, o di un suo Vicario incaricato. Si incorre nelle terribili scomuniche “ipso facto” contenute nella Costituzione Apostolica di Leone XIII [non a caso l’antipapa pederasta Montini, abrogò questa norma che avrebbe colpito lui stesso per primo …], scomuniche Latae sententiae riservate in modo speciale alla Sede Apostolica. Tutti coloro che scrivono, pubblicano o leggono scritti non autorizzati con nihil obstat ed imprimatur, sappiano che sono automaticamente scomunicati e fuori dalla Chiesa Cattolica, quindi fuori dall’Arca di salvezza. Siate quindi molto attenti e scrupolosi in merito: “… ciò che Pietro ha legato in terra, è legato pure in cielo”, e ricordate che nessun Papa o Concilio [… figuriamoci poi un antipapa o un conciliabolo massonico!!] può abrogare le decisioni di un Papa precedente o le disposizioni di un Concilio presieduto validamente da un Sommo Pontefice, come da diritto canonico e divino.

Some quotes:

The books of apostates, heretics, schismatics, and all writers whatsoever, defending heresy or schism, or in any way attacking the foundations of religion, are altogether prohibited.

It is forbidden to publish, read, or keep books in which sorcery, divination, magic, the evocation of spirits, and other superstitions of this kind are taught or commended.

Books or other writings which narrate new apparitions, revelations, visions, prophecies, miracles, or which introduce new devotions, even under the pretext of being private ones, if published without the legitimate permission of ecclesiastical superiors, are prohibited.

It is forbidden to all to give publicity in any way to apocryphal indulgences, and such as have been proscribed or revoked by the Apostolic See. Those which have already been published must be withdrawn from the hands of the faithful.

No books of indulgences, or compendiums, pamphlets, leaflets, etc., containing grants of indulgences, maybe published without permission of competent authority.

No litanies – except the ancient and common litanies contained in the breviaries, missals, pontificals, and rituals, as well as the Litany of Loreto, and the Litany of the Most Holy Name of Jesus already approved by the Holy See – may be published without the examination and approbation of the ordinary.

No one, without license of legitimate authority, may publish books or pamphlets of prayers, devotions, or of religious, moral, ascetic, or mystic doctrine and instruction, or others of like nature, even though apparently conducive to the fostering of piety among Christian people; otherwise they are to be considered as prohibited.

Newspapers and periodicals which designedly attack religion or morality are to be held as prohibited not only by the natural but also by the ecclesiastical law. Ordinaries shall take care, whenever it be necessary, that the faithful shall be warned against the danger and injury of reading of this kind.

Those only shall be allowed to read and keep books prohibited, either by special decrees or by these General Decrees, who shall have obtained the necessary permission, either from the Apostolic See or from its delegates.

Those who have obtained apostolic faculties to read and keep prohibited books may not on this account read and keep any books whatsoever or periodicals condemned by the local ordinaries, unless in the apostolic indult express permission be given to read and keep books by whomsoever prohibited. And those who have obtained permission to read prohibited books must remember that they are bound by grave precept to keep books of this kind in such a manner that they may not fall into the hands of others.

It is expedient, in denouncing bad books, that not only the title of the book be expressed, but also, as far as possible, the reasons be explained why the book is considered worthy of censure. Those to whom the denunciation is made will remember that it is their duty to keep secret the names of the denouncers.

All the faithful are bound to submit to preliminary ecclesiastical censorship at least those books which treat of Holy Scripture, sacred theology, ecclesiastical history, canon law, natural theology, ethics, and other religious or moral subjects of this character; and in general all writings specially concerned with religion and morality.

The censors should be taken from both the secular and religious clergy, and should be men of mature age, of tried learning and prudence, who will take the golden mean in approving or rejecting doctrines.

The censor must give his opinion in writing; if it is favorable the Ordinary may allow the manuscript to be published; the imprimatur of the bishop is preceded by the opinion of the censor over his signature. Only in extraordinary cases and rare circumstances may, according to the bishop’s judgment, the name of the censor be omitted.

The author shall never be informed of the name of the censor who is to revise his book before he has given his judgment. (Canon 1393.)

The permission of the Ordinary by which he grants faculty to publish a manuscript shall be given in writing, and shall be printed either at the beginning or the end of a book, magazine, or on pictures, with his name and the date and place of the concession.

fr. UK.

TITLE XXIII.

Censorship and Prohibition of Books.

1227. The Church has the right to rule that Catholics shall not publish any books unless they have first been subjected to the approval of the Church and to forbid for a good reason the faithful to read certain books, no matter by whom they are published.

The rules of this title concerning books are to be applied also to daily papers, periodicals, and any other publication, unless the contrary is clear from the Canons. (Canon 1384.)

CHAPTER I.

Censorship of Books.

1228. Without previous ecclesiastical approval even laymen are not allowed to publish:

1. the books of Holy Scripture, or annotations and commentaries of the same;

2. books treating of Sacred Scripture, theology, Church history, Canon Law, natural theology, ethics, and other sciences concerning religion and morals. Furthermore, prayer books, pamphlets and books of devotion, of religious teaching, either moral, ascetic, or mystic, and any writing in general in which there is anything that has a special bearing on religion or morality;

3. sacred images reproduced in any manner, either with or without prayers.

The permission to publish books and images spoken of in this Canon may be given either by the proper Ordinary of the author, or by the Ordinary of the place where they are published, or by the Ordinary of the place where they are printed; if, however, any one of the Ordinaries who has a right to give approval refuses it, the author cannot ask it of another unless he informs him of the refusal of the Ordinary first requested.

The religious must, moreover, first obtain permission from their major superior. (Canon 1385.)

1229. The secular clergy are forbidden without the consent of their bishop, the religious without the permission of the major superior and the bishop, to publish any book on secular topics, or to be a contributor to, or editor, of daily papers, periodicals, booklets, etc.

In papers, pamphlets and magazines which, as a rule, attack the Catholic religion or good morals, not even laymen should write anything except for a good and reasonable cause, to be approved by the Ordinary. (Canon 1386.)

1230. Matters pertaining in any manner to the causes of beatification and canonization of the servants of God, may not be published without permission from the Sacred Congregation of Rites. (Canon 1387.)

1231. All books, summaries, booklets and papers, etc., in which the concession of indulgences is mentioned, shall not be published without permission of the Ordinary of the diocese. Special permission of the Holy See is required for printing in any language authentic collections of prayers and good works to which the Holy See has attached indulgences, as also a list of the papal indulgences and summaries of indulgences previously collected, but never approved, and summaries to be now made up from the various concessions. (Canon 1388.)

1232. The collections of decrees of the Roman Congregations cannot be published anew without first obtaining permission from the respective Congregation, and observing the conditions which the prefect of the Congregation may lay down in giving permission. (Canon 1389.)

1233. In the publication of liturgical books, or parts thereof, and in reprints of litanies approved by the Holy See, the Ordinary of the place where the printing is done, or where they are published, must attest that the copy agrees with the original official edition. (Canon 1390.)

1234. Translations of the Holy Scriptures in the vernacular languages may not be published .unless they are either approved by the Holy See, or they are published, under the supervision of the bishop, with annotations chiefly taken from the holy Fathers of the Church and learned Catholic writers. (Canon 1391. )

1235. When a work is approved in its original text, the approval does not extend to translations into other languages nor to other editions; wherefore both the translation and the new edition of a work already approved needs a new approval.

If various chapters that have appeared in approved magazines, or other periodicals, are collected and published in book form, they are not considered a new edition and do therefore not need a new approval. (Canon 1392.)

1236. In every episcopal Curia there should be official censors, who shall examine the works to be published.

The examiners should be free from all human respect in the exercise of their office, and shall have before their eyes only the dogmas of the Church and the universal Catholic teaching contained in the decrees of the General Councils, in the constitutions and orders of the Holy See, and in the consent of approved doctors.

The censors should be taken from both the secular and religious clergy, and should be men of mature age, of tried learning and prudence, who will take the golden mean in approving or rejecting doctrines.

The censor must give his opinion in writing; if it is favorable the Ordinary may allow the manuscript to be published; the imprimatur of the bishop is preceded by the opinion of the censor over his signature. Only in extraordinary cases and rare circumstances may, according to the bishop’s judgment, the name of the censor be omitted.

The author shall never be informed of the name of the censor who is to revise his book before he has given his judgment. (Canon 1393.)

1237. The permission of the Ordinary by which he grants faculty to publish a manuscript shall be given in writing, and shall be printed either at the beginning or the end of a book, magazine, or on pictures, with his name and the date and place of the concession.

If permission for publication is to be denied, the reasons should be given to the author unless there are grave reasons why this should not be done. (Canon 1394.)

CHAPTER II.

Prohibition of Books.

1238. The right and duty to prohibit books for a good reason rests with the Supreme Pontiff for the whole Church, with the particular councils for their territory, with the individual Ordinary for his diocese.

From the prohibition of inferior authorities recourse may be had to the Holy See, not however, in suspensive, which means that the prohibition must be obeyed until Rome has rescinded the orders of the inferior authority.

Also the abbot of an independent monastery, and the supreme superior of a clerical exempt religious body, may with their respective council or Chapter prohibit books to their subjects for good reasons; the same authority possess other major superiors in union with their council in cases where immediate action is necessary, with the duty, however, to refer the matter as soon as possible to the supreme superior. (Canon 1395.)

1239. Books forbidden by the Holy See are to be considered forbidden everywhere, and in any translation into other languages. (Canon 1396.)

1240. It is the duty of all the faithful, and especially of the clergy, of ecclesiastical dignitaries, and of men of extraordinary learning, to refer books which they think pernicious to the Ordinary or to the Holy See. This duty pertains by special title to the legates of the Holy See, to the local Ordinaries, and to rectors of Catholic Universities.

It is expedient in the denunciation of a book to not only indicate the title of the book, but also, as far as possible, the reasons why a book is thought to deserve condemnation.

Those to whom the book is denounced are by sacred duty bound to keep secret the names of those who denounce it.

The local Ordinaries must, either in person or, if necessary, through other capable priests, watch over the books which are published or sold in their territory.

The Ordinaries should refer to the Holy See those books which require a more searching examination, also works which for their effective prohibition demand the weight of the supreme authority. (Canon 1397.)

1241. The prohibition of books has this effect that the forbidden books may not without permission be published, read, retained, sold, nor translated into another language, nor made known to others in any way.

The book which has in any way been forbidden may not again be published except after the demanded corrections have been made and the authority which forbade the book, or his superior, or successor, has given permission. (Canon 1398.)

1242. By the very law are forbidden:

1. editions of the original text, or of ancient Catholic versions, of the Sacred Scriptures, also of the Oriental Church, published by non-Catholics ; likewise any translations in any language made or published by them ;

2. books of any writers defending heresy or schism, or tending in any way to undermine the foundations of religion;

3. books which purposely fight against religion and good morals ;

4. books of any non-Catholic treating professedly of religion unless it is certain that nothing is contained therein against the Catholic faith;

5. books on the holy Scriptures or on religious subjects which have been published without the permission required by Canons 1385, 1, nn. 1, and 1391; books and leaflets which bring an account of new apparitions, revelations, visions, prophecies, miracles, or introduce new devotions even though under the pretext that they are private; if these books, etc., are published against the rules of the Canons;

6. books which attack or ridicule any of the Catholic dogmas, books which defend errors condemned by the Holy See, or which disparage Divine worship, or tend to undermine ecclesiastical discipline, or which purposely insult the ecclesiastical hierarchy, or the clerical and religious states;

7. books which teach or approve of any kind of superstition, fortune-telling, sorcery, magic, communication with spirits and such like affairs ;

8. books which declare duels, suicide, divorce as licit ; books which treat of masonic and other sects of the same kind, and contend that they are not pernicious, but rather useful to the Church and civil society;

9. books which professedly treat of impure and obscene subjects, narrate or teach them;

10. editions of liturgical books approved by the Holy See, but which have been unlawfully changed in some things so that they no longer agree with the editions authorized by the Holy See ;

11. books which publish apocryphal indulgences, or those condemned or recalled by the Holy See ;

12. images of our Lord, of the blessed Virgin, angels, saints, and other servants of God, which are not in accord with the mind and the decrees of the Church. (Canon 1399.)

1243. Books mentioned in n. 1 of the preceding Canon, and books published against the law of Canon 1391, are allowed to those who in any way engage in theological or biblical studies, provided these books are faithful and complete copies of the original, and do not in their introduction, or in their notes, attack Catholic dogmas. (Canon 1400.)

1244. Cardinals and bishops, both residential and titular, are not bound by the ecclesiastical prohibition of books, provided they use the necessary precautions. (Canon 1401.)

1245. Ordinaries can give permission to their subjects for the reading of books forbidden by the general law of the Code, as well as by decree of the Holy See, for individual books and in individual and urgent cases only.

If the Ordinaries have obtained from the Holy See general faculty to allow their subjects the keeping and reading of forbidden books, they should give this permission with discretion. (Canon 1402.)

1246. Persons who have obtained from the Holy See the faculty of reading and keeping forbidden books cannot for that reason read and keep books forbidden by their Ordinaries, unless the Apostolic indult explicitly gives them the faculty to read and keep books forbidden by any authority.

Moreover, they are held by grave precept to guard the forbidden books in order that they may not fall into the hands of others. (Canon 1403.)

1247. Bookdealers shall not sell, loan, or keep books which professedly treat of obscene matters; other forbidden books they should not have for sale unless they have obtained permission from the Holy See, nor should they sell them to any one except they can reasonably judge that the buyer has the right to ask for these books. (Canon 1404.)

1248. By the permission to read forbidden books no one is exempted from the prohibition of the natural law not to read books which are to the reader a proximate occasion of sin.

Local Ordinaries, and others having the care of souls, shall at proper times and occasions warn the faithful of the danger and harm of bad books, especially of those that are forbidden. (Canon 1405.)

THE NEW CANON LAW

A Commentary and Summary of the

New Code of Canon Law

By Rev. STANISLAUS WOYWOD, O.F.M.

With a Preface by Right Rev. Mgr. PHILIP BERNARDINI, J.U.D.

Professor of Canon Law at the Catholic University, Washington

New Edition, Augmented by Recent Decrees and Declarations

NEW YORK JOSEPH F. WAGNER (Inc.)

LONDON: B. HERDER

Nihil Obstat: FR. BENEDICT BOEING, O.F.M., FR. BENEVENUTUS RYAN, O.F.M.

Imprimi Potest: FR. EDWARD BLECKE, O.F.M., Minister Provincialis, JULY 1, 1918

Nihil Obstat: ARTHUR J. SCANLAN, S.T.D., Censor Librotum

Impimatur: + JOHN CARDINAL FARLEY, Archbishop of New York

NEW YORK, JULY 3, 1918

Copyright, 1918, by JOSEPH F. WAGNER, New York

pp. 285-290.

The violation of the Censorship of Books.

399. – III. The violation of these laws is usually a grave sin.

In less important matters there is only a venial sin, more so in case permission alone is required than when the work must also be submitted to ecclesiastical censorship.

The violation of the Prohibition of Books.

403. – IV. The violation of the laws on the prohibition of books is in itself a grave sin; but in matters of lesser moment there is only a venial sin.

Reading forbidden literature is gravely sinful if the amount read would constitute a great danger for many people, even though it be harmless to the one reading. Therefore, according to the contents, one may read a greater or lesser portion of such literature without commiting a grievous sin. If the book is very obscene even half a page may be sufficient to constitute a mortal sin, whereas, if the book is not very dangerous, even the reading of thirty pages may not be gravely sinful. If a book is in itself harmless and is forbidden merely because it relates new revelations, etc., but is published without ecclesiastical permission, a person might commit only a venial sin by reading the entire volume. It is gravely sinful to read habitually forbidden newspapers and magazines, and even to read such literature a single time if one reads a considerable amount thereof (either in contenet or in quantity) directed against faith or morals.

To retain forbidden books is a mortal sin if one keeps them for more than a month. – It is not sinful to keep a book for a short time either because one intends to surrender it to the authorities of because he is awaiting permission to read it. For the penalties confer 433, 440.

423. – Penalties are either latae sententiae (l.s.) or ferrendae sententiae (f.s.), according as they are insurred ipso facto by the commission of an offense, or must be inflicted bt the judge (C. 2217).

A censure l.s. may be said to be imposed by anticipatory sentence; a censure f.s., by condemnatory sentence.

CENSURES LATAE SENTENTIAE (insurred ipso facto)

433. – Those who publish, defend, or who knowlingly read or retain without the requisite permission books of apostates, heretics or schismatics, or books nominally proscribed by Apostolic Letters, provided such books have actually been published (C. 2318).

By “books” in this connection we understand publications of (approximately) 160 pages in octavo. Small pamplets and tracts are indeed forbidden (Cf. 401) but not under excommunication. – The concept of apostasy, etc., implies that one is a Christian; pagans and Jews are, therefore, not included. – A book is not written in defence of error if it merely contains some erroneous statements; more than that is required, namely, there must be an attempt to convince the reader by some manner of proof. It is sufficient, however, if one individual proposition is defended, even though the subject matter of the book is otherwise not of a religious character. – An Apostolic Letter is some writing of the Holy Father himself; thus books forbidden only by some decree of a Congregation are not thereby proscribed under excommunication. – The publisher incurs the penalty only after the book is rendered accessible to the public. – The printer is not excommunicated, neither is the linotypist. – A book is “defnded” by him who praises its contents and undertakes to uphold it, declares it to be opportune or who preserves the book from destruction; but not one who merely praises the style of the author. – He is excommunicated by “reading” who reads a sufficient amount to constitute a mortal sin (Cf. 403). The same obtains for “retaining” a book. A book is said to appear when it becomes accessible to the public. Proof readers are not excommunicated. – Since the reading and retaining must be done “knowlingly”, minors are exempt from the excommunication in case it is not certain whether they are in full possession of their mental faculties (Cf. 425).

Moral Theology
by Rev. Heribert Jone, O.F.M. CAP., J.C.D., by Rev. Urban Adelman, O.F.M. CAP., J.C.D.
The Mercier Press Limited, Cork, Ireland
Nihil Obstat: PIUS KAELIN, O.F.M. CAP, Censor Deputatus
Imprimi Potest: VICTOR GREEN, O.F.V. CAP., Provincial, July 2, 1955
Nihil Obstat: RICHARD GINDER, S.T.I., Censor Librorum
Imprimatur: JOHN FRANCIS DEARDEN, D.D., Bishop of Pittsburg, August 15, 1955
Ecclesiastical Legislation on Books, p. 271, 274, 291, 298
Copyright 1929 and 1951
Printed in the United states of America

THE PROHIBITION AND CENSORSHIP OF BOOKS

Apostolic Constitution Officiorum ac Munerum, January 25, 1897

By Pope Leo XIII

Of all the official duties which We are bound most carefully and most diligently to fulfil in this supreme position of the apostolate, the chief and principal duty is to watch assiduously and earnestly to strive that the integrity of Christian faith and morals may suffer no diminution. And this, more than at any other time, is especially necessary in these days, when men’s minds and characters are so unrestrained that almost every doctrine which Jesus Christ, the Saviour of mankind, has committed to the custody of His Church, for the welfare of the human race, is daily called into question and doubt. In this warfare, many and varied are the stratagems and hurtful devices of the enemy; but most perilous of all is the uncurbed freedom of writing and publishing noxious literature. Nothing can be conceived more pernicious, more apt to defile souls, through its contempt of religion, and its manifold allurements to sin. Wherefore the Church, who is the custodian and vindicator of the integrity of faith and morals, fearful of so great an evil, has from an early date realized that remedies must be applied against this plague; and for this reason she has ever striven, as far as lay in her power, to restrain men from the reading of bad books, as fram a deadly poison. The early days of the Church were witnesses to the earnest zeal of St. Paul in this respect; and every subsequent age has witnessed the vigilance of the Fathers, the commands of the bishops, and the decrees of Councils in a similar direction.

Historical documents bear special witness to the care and diligence with which the Roman Pontiffs have vigilantly endeavored to prevent the unchecked spread of heretical writings detrimental to the pubUc. History is full of examples. Anastasius I solemnly condemned the more dangerous writings of Origen, Innocent I those of Pelagius, Leo the Great all the works of the Manicheans. The decretal letters, opportunely issued by Gelasius, concerning books to be received and rejected, are well known. And so, in the course of centuries, the Holy See condemned the pestilent writings of the Monothelites, of Abelard, Marsilius Patavinus, Wycliff, and Huss.

In the fifteenth century, after the invention of the art of printing, not only were bad publications which had already appeared condemned, but precautions began to be taken against the pubhcation of similar works in the future. These prudent measures were called for by no slight cause, but rather by the need of protecting the public morals and welfare at the time; for too many had rapidly perverted into a mighty engine of destruction an art excellent in itself, productive of immense advantages, and naturally destined for the advancement of Christian culture. Owing to the rapid process of publication, the great evil of bad books had been multiplied and accelerated. Wherefore Our predecessors, Alexander VI. and Leo X., most wisely promulgated certain definite laws, well suited to the character of the times, in order to restrain printers and pubUshers within the limits of their duty.

The tempest soon became more violent, and it was necessary to check the contagion of heresy with still more vigilance and severity. Hence Leo X, and afterwards Clement VII, severely prohibited the reading or retaining of the books of Luther. But as, owing to the unhappy circumstances of that epoch, the foul flood of pernicious books had increased beyond measure and spread in all directions, there appeared to be need of a more complete and efficacious remedy. This remedy Our predecessor, Paul IV, was the first to employ, by opportunely publishing a list of books and other writings against which the faithful should be warned. A little later the Council of Trent took steps to restrain the ever-growing license of writing and reading by a new measure. At its command and desire, certain chosen prelates and theologians not only applied themselves to increasing and perfecting the Index which Paul IV had published, but also drew up certain rules to be observed in the publishing, reading, and use of books; to which rules Pius IV, added the sanction of his apostolic authority.

The interests of the pubhc welfare, which had given rise to the Tridentine Rules, necessitated in the course of time certain alterations. For which reason the Roman Pontiffs, especially Clement VIII, Alexander VII, and Benedict XIV, mindful of the circumstances of the period and the dictates of prudence, issued several decrees calculated to elucidate these rules and to accommodate them to the times.

The above facts clearly prove that the chief care of the Roman Pontiffs has always been to protect civil society from erroneous behefs and corrupt morals, the twin causes of the decline and ruin of States, which commonly owes its origin and its progress to bad books. Their labors were not unfruitful, so long as the divine law regulated the commands and prohibitions of civil government, and the rulers of States acted in unison with, the ecclesiastical authority.

Every one is aware of the subsequent course of events. As circumstances and men’s minds gradually altered, the Church, with her wonted prudence, observing the character of the period, took those steps which appeared most expedient and best calculated to promote the salvation of men. Several prescriptions of the rules of the Index, which appeared to have lost their original opportuneness, she either abolished by decree, or, with equal gentleness and wisdom, permitted them to grow obsolete. In recent times, Pius IX, in a letter to the archbishops and bishops of the States of the Church, considerably mitigated Rule X Moreover, on the eve of the Vatican Council, he instructed the learned men of the preparatory commission to examine and revise all the rules of the Index, and to advise how they should be dealt with. They unanimously decided that the rules required alteration; and several of the Fathers of the Council openly professed their agreement with this opinion and desire. A letter of the French bishops exists urging the necessity of immediate action in “repubhshing the rules and the whole scheme of the Index in an entirely new form, better suited to our times and easier to observe.” A similar opinion was expressed at the same time by the bishops of Germany, who definitely petitioned that “the rules of the Index might be submitted to a fresh revision and a rearrangement.” With these bishops many bishops of Italy and other countries have agreed.

Taking into account the circumstances of our times, the conditions of society, and popular customs, all these requests are certainly justified and in accordance with the maternal affection of Holy Church. In the rapid race of intellect, there is no field of knowledge in which literature has not run riot, hence the daily inundation of most pernicious books. Worst of all, the civil laws not only connive at this serious evil but allow it the widest license. Thus, on the one hand, many minds are in a state of anxiety; whilst, on the other, there is unlimited opportunity for every kind of reading.

Believing that some remedy ought to be applied to these evils, We have thought well to take two steps which will supply a certain and clear rule of action in this matter. First, to diligently revise the Index of books forbidden to be read; and We have ordered this revised edition to be published when complete. Secondly, We have turned Our attention to the rules themselves, and have determined, without altering their nature, to make them somewhat milder, so that it cannot be difficult or irksome for any person of good-will to obey them. In this we have not only followed the example of Our predecessors, but imitated the maternal affection of the Church, who desires nothing more earnestly than to show herself indulgent, and, in the present, as in the past, ever cares for her children in such a manner as gently and lovingly to have regard to their weakness.

Wherefore, after mature deliberation, and having consulted the Cardinals of the Sacred Congregation of the Index, We have decided to issue the following General Decrees appended to this Constitution, and the aforesaid Sacred Congregation shall, in the future, follow these exclusively, and all Catholics throughout the world shall strictly obey them. We will that they alone shall have the force of law, abrogating the rules published by order of the Sacred Council of Trent, and the Observations, Instructions, Decrees, Monita, and all other statutes and commands whatsoever of Our predecessors, with the sole exception of the Constitution Sollicita et provida of Benedict XIV., which We will to retain in the future the full force which it has hitherto had.

GENERAL DECREES CONCERNING THE PROHIBITION
AND CENSORSHIP OF BOOKS.

ARTICLE I.

Of the Prohibition of Books.

CHAPTER I

Of the Prohibited Books of Apostates, Heretics, Schismatics,
and Other Writers.

1. All books condemned before the year 1600 by the Sovereign Pontiffs, or by Ecumenical Councils, and which are not recorded in the new Index, must be considered as condemned in the same manner as formerly, with the exception of such as are permitted by the present General Decrees.

2. The books of apostates, heretics, schismatics, and all writers whatsoever, defending heresy or schism, or in any way attacking the foundations of religion, are altogether prohibited.

3. Moreover, the books of non-Catholics, ex professo treating of religion, are prohibited, unless they clearly contain nothing contrary to Cathohc faith,

4. The books of the above-mentioned writers, not treating ex professo of religion, but only touching incidentally upon the truths of faith, are not to be considered as prohibited by ecclesiastical law, unless proscribed by special decree.

CHAPTER II.

Of Editions of the Original Text of Holy Scripture and of Versions
not in the Vernacular.

5. Editions of the original text and of the ancient Catholic versions of Holy Scripture, as well as those of the Eastern Church, if published by non-Catholics, even though apparently edited in a faithful and complete manner, are allowed only to those engaged in theological and biblical studies, provided also that the dogmas of Catholic faith are not impugned in the prolegomena or annotations.

6. In the same manner, and under the same conditions, other versions of the Holy Bible, whether in Latin or in any other dead language, published by non-Catholics, are permitted.

CHAPTER III.

Of Vernacular Versions of Holy Scripture.

7. As it has been clearly shown by experience that, if the Holy Bible in the vernacular is generally permitted without any distinction, more harm than utility is thereby caused, owing to human temerity: all versions in the vernacular, even by Catholics, are altogether prohibited, unless approved by the Holy See, or published, under the vigilant care of the bishops, with annotations taken from the Fathers of the Church and learned Catholic writers.

8. All versions of the Holy Bible, in any vernacular language, made by non-Catholics are prohibited; and especially those published by the Bible societies, which have been more than once condemned by the Roman Pontiffs, because in them the wise laws of the Church concerning the publication of the sacred books are entirely disregarded.

Nevertheless, these versions are permitted to students of theological or biblical science, under the conditions laid down above (No. 5).

CHAPTER IV.

Of Obscene Books.

9. Books which professedly treat of, narrate, or teach lewd or obscene subjects are entirely prohibited, since care must be taken not only of faith but also of morals, which are easily corrupted by the reading of such books.

10. The books of classical authors, whether ancient or modem, if disfigured with the same stain of indecency, are, on account of the elegance and beauty of their diction, permitted only to those who are justified on account of their duty or the function of teaching; but on no account may they be placed in the hands of, or taught to, boys or youths, unless carefully expurgated.

CHAPTER V.

Of Certain Special Kinds of Books.

11. Those books are condemned which are derogatory to Almighty God, or to the Blessed Virgin Mary, or the Saints, or to the Catholic Church and her worship, or to the sacraments, or to the Holy See. To the same condemnation are subject those works in which the idea of the inspiration of Holy Scripture is perverted, or its extension too narrowly limited. Those books, moreover, are prohibited which professedly revile the ecclesiastical hierarchy, or the clerical or religious state.

12. It is forbidden to publish, read, or keep books in which sorcery, divination, magic, the evocation of spirits, and other superstitions of this kind are taught or commended.

13. Books or other writings which narrate new apparitions, revelations, visions, prophecies, miracles, or which introduce new devotions, even under the pretext of being private ones, if published without the legitimate permission of ecclesiastical superiors, are prohibited.

14. Those books, moreover, are prohibited which defend as lawful, duelling, suicide, or divorce; which treat of Freemasonry, or other societies of the kind, teaching them to be useful, and not injurious to the Church and to Society; and those which defend errors proscribed by the Apostolic See.

CHAPTER VI.

Of Sacred Pictures and Indulgences.

15. Pictures, in any style of printing, of Our Lord Jesus Christ, the Blessed Virgin Mary, the angels and saints, or other servants of God, which are not conformable to the sense and decrees of the Church, are entirely forbidden. New pictures, whether produced with or without prayers annexed, may not be published without permission of ecclesiastical authority.

16. It is forbidden to all to give publicity in any way to apocryphal indulgences, and such as have been proscribed or revoked by the Apostolic See. Those which have already been published must be withdrawn from the hands of the faithful.

17. No books of indulgences, or compendiums, pamphlets, leaflets, etc., containing grants of indulgences, maybe published without permission of competent authority.

CHAPTER VII.

Of Liturgical Books and Prayer Books.

18. In authentic editions of the Missal, Breviary, Ritual, Ceremonial of Bishops, Roman Pontifical, and other liturgical books approved by the holy Apostolic See, no one shall presume to make any change whatsoever; otherwise such new editions are prohibited.

19. No litanies – except the ancient and common litanies contained in the breviaries, missals, pontificals, and rituals, as well as the Litany of Loretto, and the Litany of the Most Holy Name of Jesus already approved by the Holy See – may be published without the examination and approbation of the ordinary.

20. No one, without license of legitimate authority, may publish books or pamphlets of prayers, devotions, or of religious, moral, ascetic, or mystic doctrine and instruction, or others of like nature, even though apparently conducive to the fostering of piety among Christian people; otherwise they are to be considered as prohibited.

CHAPTER VIII.

Of Newspapers and Periodicals.

21. Newspapers and periodicals which designedly attack religion or morality are to be held as prohibited not only by the natural but also by the ecclesiastical law. Ordinaries shall take care, whenever it be necessary, that the faithful shall be warned against the danger and injury of reading of this kind.

22. No Catholics, particularly ecclesiastics, shall publish anything in newspapers or periodicals of this character, unless for some just and reasonable cause.

CHAPTER IX.

Of Permission to Read and Keep Prohibited Books.

23. Those only shall be allowed to read and keep books prohibited, either by special decrees or by these General Decrees, who shall have obtained the necessary permission, either from the Apostolic See or from its delegates.

24. The Roman Pontiffs have placed the power of granting licenses for the reading and keeping of prohibited books in the hands of the Sacred Congregation of the Index. Nevertheless the same power is enjoyed both by the Supreme Congregation of the Holy Office, and by the Sacred Congregation of Propaganda for the regions subject to its administration. For the city of Rome this power belongs also to the Master of the Sacred Apostolic Palace.

25. Bishops and other prelates with quasi-episcopal jurisdiction may grant such license for individual books, and in urgent cases only. But if they have obtained from the Apostolic See a general faculty to grant permission to the faithful to read and keep prohibited books, they must grant this only with discretion and for a just and reasonable cause.

26. Those who have obtained apostolic faculties to read and keep prohibited books may not on this account read and keep any books whatsoever or periodicals condemned by the local ordinaries, unless in the apostolic indult express permission be given to read and keep books by whomsoever prohibited. And those who have obtained permission to read prohibited books must remember that they are bound by grave precept to keep books of this kind in such a manner that they may not fall into the hands of others.

CHAPTER X

Of the Denunciation of Bad Books.

27. Although all Cathohcs, especially the more learned, ought to denounce pernicious books either to the bishops or to the Holy See, this duty belongs more especially to apostolic nuncios and delegates, local ordinaries, and rectors of universities.

28. It is expedient, in denouncing bad books, that not only the title of the book be expressed, but also, as far as possible, the reasons be explained why the book is considered worthy of censure. Those to whom the denunciation is made will remember that it is their duty to keep secret the names of the denouncers.

29. Ordinaries, even as delegates of the Apostolic See, must be careful to prohibit evil books or other writings published or circulated in their dioceses, and to withdraw them from the hands of the faithful. Such works and writings should be referred by them to the judgment of the Apostolic See as appear to require a more careful examination, or concerning which a decision of the supreme authority may seem desirable in order to procure a more salutary effect.

ARTICLE  II.

Of the Censorship op Books.

CHAPTER I.

Of the Prelates entrusted with the Censorship of Books.

30. From what has been laid down above (No. 7), it is sufficiently clear what persons have authority to approve or permit editions and translations of the Holy Bible.

31. No one shall venture to republish books condemned by the Apostolic See. If, for a grave and reasonable cause, any particular exception appears desirable in the respect, this can only be allowed on obtaining beforehand a license from the Sacred Congregation of the Index and observing the conditions prescribed by it.

32. Whatsoever pertains in any way to causes of beatification and canonization of the servants of God may not be published without the approval of the Congregation of Sacred Rites.

33. The same must be said of collections of decrees of the various Roman congregations: such collections may not be published without first obtaining the license of the authorities of each congregation, and observing the conditions by them prescribed.

34. Vicars apostolic and missionaries apostolic shall faithfully observe the decrees of the Sacred Congregation of Propaganda concerning the publication of books.

35. The approbation of books of which the censorship is not reserved by the present decrees either to the Holy See or to the Roman congregations belongs to the ordinary of the place where they are published.

36. Regulars must remember that, in addition to the license of the bishop, they are bound by a decree of the Sacred Council of Trent to obtain leave for publishing any work from their own superior. Both permissions must be printed either at the beginning or at the end of the book.

37. If an author, living in Rome, desires to print a book, not in the city of Rome but elsewhere, no other approbation is required beyond that of the Cardinal Vicar and the Master of the Apostolic Palace.

CHAPTER II.

Of the Duty of Censors in the Preliminary Examination of Books.

38. Bishops whose duty it is to grant permission for the printing of books shall take care to employ in the examination of them men of acknowledged piety and learning, concerning whose faith and honesty they may feel sure that they will show neither favor nor ill-will, but, putting aside all human affections, will look only to the glory of God and the welfare of the people.

39. Censors must understand that, in the matter of various opinions and systems, they are bound to judge with a mind free from all prejudice, according to the precept of Benedict XIV. Therefore they should put away all attachment to their particular country, family, school, or institute, and lay aside all partisan spirit. They must keep before their eyes nothing but the dogmas of Holy Church, and the common Catholic doctrine as contained in the decrees of General Councils, the Constitutions of the Roman Pontiffs, and the unanimous teaching of the Doctors of the Church.

40. If, after this examination, no objection appears to the publication of the book, the ordinary shall grant to the author, in writing and without any fee whatsoever, a license to publish, which shall be printed either at the beginning or at the end of the work.

CHAPTER III.

Of the Books to be Submitted to Censorship.

41. All the faithful are bound to submit to preliminary ecclesiastical censorship at least those books which treat of Holy Scripture, sacred theology, ecclesiastical history, canon law, natural theology, ethics, and other religious or moral subjects of this character; and in general all writings specially concerned with religion and morality.

42. The secular clergy, in order to give an example of respect towards their ordinaries, ought not to publish books, even when treating of merely natural arts and sciences, without their knowledge. They are also prohibited from undertaking the management of newspapers or periodicals without the previous permission of their ordinaries.

CHAPTER IV.

Of Printers and Publishers of Books.

43. No book liable to ecclesiastical censorship may be printed unless it bear at the beginning the name and surname of both the author and the publisher, together with the place and year of printing and publishing. If in any particular case, owing to a just reason, it appears desirable to suppress the name of the author, this may be permitted by the ordinary.

44. Printers and publishers should remember that new editions of an approved work require a new approbation; and that an approbation granted to the original text does not suffice for a translation into another language.

45. Books condemned by the Apostolic See are to be considered as prohibited all over the world, and into whatever language they may be translated.

46. Booksellers, especially Catholics, should neither sell, lend, nor keep books professedly treating of obscene subjects. They should not keep for sale other prohibited books, unless they have obtained leave through the ordinary from the Sacred Congregation of the Index; nor sell such books to any person whom they do not prudently judge to have the right to buy them.

CHAPTER V.

Of Penalties Against Transgressors of the General Decreet.

47. All and every one knowingly reading, without authority of the Holy See, the books of apostates and heretics defending heresy; or books of any author which are by name prohibited by Apostolic Letters; also those keeping, printing, and in any way defending such works; incur ipso facto excommunication reserved in a special manner to the Roman Pontiff.

48. Those who, without the approbation of the ordinary, print, or cause to be printed, books of Holy Scripture, or notes or commentaries on the same, incur ipso facto excommunication, but not reserved.

49. Those who transgress the other prescriptions of these General Decrees shall, according to the gravity of their offence, be seriously warned by the bishop, and, if it seem expedient, may also be punished by canonical penalties.

We decree that these presents and whatsoever they contain shall at no time be questioned or impugned for any fault of subreption, or obreption, or of Our intention, or for any other defect whatsoever; but are and shall be ever valid and efficacious, and to be inviolably observed, both judicially and extra-judicially, by all of whatsoever rank and pre-eminence. And We declare to be invalid and of no avail, whatsoever may be attempted knowingly or unknowingly contrary to these, by any one, under any authority or pretext whatsoever; all to the contrary notwithstanding.

And We will that the same authority be attributed to copies of these Letters, even if printed, provided they be signed by the hand of a notary, and confirmed by the seal of some one in ecclesiastical dignity, as to the indication of Our will by the exhibition of these presents.

No man, therefore, may infringe or temerariously venture to contravene this document of Our constitution, ordination, limitation, derogation, and will. If any one shall so presume, let him know that he will incur the wrath of Almighty God, and of the blessed apostles Peter and Paul.

THE GREAT ENCYCLICAL LETTERS OF POPE LEO XIII.
TRANSLATIONS FROM APPROVED SOURSES.
WITH PREFACE BY Rev. JOHN J. WYNNE, S.J.
New York, Cincinnati, Chicago:
Benziger Brothers, Printed in the United States of America.
Nihil Obstat. REMIGIUS LAFORT, S.T.L., Censor Librorum.
Imprimatur. JNO. M. FARLEY, Archbishop of New York
New York, August 4, 1908.
Copyright, 1903, by Benziger Brothers. Printers to the Holy Apostolic See
pp. 407-421

Alcune citazioni:

I libri di apostati, eretici, scismatici e degli scrittori di qualunque genere, che difendono l’eresia o lo scisma, o che in qualche modo attaccano le fondamenta della Religione, sono del tutto proibiti.

È proibito pubblicare, leggere o conservare libri in cui siano insegnate o raccomandate la stregoneria, la divinazione, la magia, l’evocazione di spiriti e altre superstizioni di questo tipo.

Libri o altri scritti che narrano nuove apparizioni, rivelazioni, visioni, profezie, miracoli o che introducono nuove devozioni, anche con il pretesto di essere privati, se pubblicati senza il permesso legittimo dei superiori ecclesiastici, sono proibiti.

È vietato a tutti dare pubblicità in qualsiasi modo alle indulgenze apocrife, proscritte o revocate dalla Sede Apostolica. Quelle già pubblicate devono essere ritirate dalle mani dei fedeli.

Nessun libro di indulgenze, o compendi, opuscoli, volantini, ecc., contenenti indulgenze, possono essere pubblicate senza il permesso dell’autorità competente.

Nessuna litania – tranne le antiche e comuni litanie contenute nei breviari, messali, pontificali e rituali, come le Litanie di Loreto e le Litanie del Santissimo Nome di Gesù già approvate dalla Santa Sede – possono essere pubblicate senza l’esame e l’approvazione dell’ordinario.

Nessuno, senza licenza di autorità legittima, può pubblicare libri o opuscoli di preghiere, devozioni o di dottrina e istruzione religiosa, di morale, ascetica o mistica, o altri di natura simile, anche se apparentemente favorevoli alla promozione della pietà tra i Cristiani; nel caso contrario devono essere considerati come proibiti.

Giornali e periodici che attaccano intenzionalmente la Religione o la moralità devono essere considerati proibiti non solo dal diritto naturale, ma anche dalla legge ecclesiastica. Gli Ordinari si prenderanno cura, ogni volta che sarà necessario, che i fedeli siano messi in guardia dal pericolo e dal danno della lettura di questo tipo.

Solo sarà consentito leggere e tenere i libri vietati, sia con decreti speciali sia con questi decreti generali, a coloro che avranno ottenuto il permesso necessario, sia dalla Sede Apostolica che dai suoi delegati.Coloro che hanno ottenuto facoltà apostoliche di leggere e tenere libri proibiti non possono leggere e conservare libri di qualsiasi genere o periodici condannati dagli ordinari locali, a meno che nell’indulto apostolico non venga concesso il permesso di leggere e conservare i libri proibiti da chiunque. E coloro che abbiano ottenuto il permesso di leggere libri proibiti devono ricordare che sono tenuti da un grave precetto a conservare libri di questo tipo in modo tale da non cadere nelle mani altrui.

È opportuno, nel denunciare i libri cattivi, che non sia espresso solo il titolo del libro, ma anche, per quanto possibile, spiegate le ragioni per le quali il libro sia considerato degno di censura. Coloro ai quali viene fatta la denuncia ricorderanno che è loro dovere mantenere segreti i nomi dei denunzianti.

Tutti i fedeli sono tenuti a sottoporre alla censura ecclesiastica preliminare almeno quei libri che trattano la Sacra Scrittura, la teologia sacra, la storia ecclesiastica, il diritto canonico, la teologia naturale, l’etica ed altri soggetti religiosi o morali di questo carattere; e in generale tutti gli scritti che riguardano specialmente la religione e la moralità.

I censori dovrebbero essere presi sia dal clero secolare che da quello religioso; essi dovrebbero essere uomini di età matura, di comprovata cultura e prudenza, assumendosi il compito prezioso dell’approvazione o del rigetto delle dottrine.

Il censore deve dare la sua opinione per iscritto; se è favorevole, l’Ordinario può consentire la pubblicazione del manoscritto; l’imprimatur del Vescovo è preceduto dall’opinione del censore sulla sua firma. Solo in casi straordinari e in rare circostanze può, secondo il giudizio del Vescovo, essere omesso il nome del censore.

L’autore non deve mai essere informato del nome del censore che deve rivedere il suo libro prima di dare il suo giudizio. (Can. 1393.)

Il permesso dell’Ordinario con cui si concede la facoltà di pubblicare un manoscritto, deve essere dato per iscritto e deve essere stampato al principio o alla fine di un libro, di una rivista o di immagini, con il suo nome, la data ed il luogo della concessione.