CONOSCERE SAN PAOLO (48)

CONOSCERE SAN PAOLO (48)

LIBRO SESTO

I frutti della redenzione.

CAPO I.

La vita cristiana.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

I. I PRINCIPI DELLA MORALE.

1  — FONDAMENTI DELLA MORALE CRISTIANA. — 2. L A VOLONTÀ DI DIO. — 3. LA RIGENERAZIONE BATTESIMALE. — 4. RELAZIONI NUOVE.

1. Invece di svolgersi in periodi lunghissimi, intralciati da incisi e da congiunzioni causali, ripieni di digressioni e di parentesi che non danno tregua alla mente e all’occhio, come sono le parti dommatiche, le sezioni morali delle lettere di Paolo, tagliate, sminuzzate in brevissimi incisi, trascorrono per lo più come una monotona litania senza nesso apparente, senza legami grammaticali, senza una relazione con l’idea principale. Non vi è nulla di più sconcertante che tale contrasto. Il lettore si sente talora respingere da quella parenesi scucita che si direbbe fuori proposito e che pare adatta a tutte le situazioni ed a qualunque destinatario. Se la morale delle due Epistole agli Efesini ed ai Colossesi forma un piccolo codice familiare abbastanza ordinato, se quella dell’Epistola ai Romani riassume i principali doveri dei cittadini verso l’autorità e verso i loro simili, non si vede perché l’Apostolo le metta in queste lettere piuttosto che nelle altre. Soltanto nell’Epistola ai Galati la morale scaturisce dal dogma; ma anche qui non vi è nulla che ricordi l’arte perfetta dell’Epistola agli Ebrei, dove il dogma e la morale si fondono armonicamente. Quasi sempre troviamo delle litanie di consigli e di precetti come questi:

Riprendete gl’indisciplinati;

incoraggiate i pusillanimi;

sostenete i deboli;

siate sempre tolleranti con tutti

Non estinguete lo spirito;

non disprezzate le profezie;

provate tutto, attaccatevi al bene;

evitate ogni apparenza di male

(I Tess. V, 14; 19-221).

Questo fenomeno non è affatto speciale delle lettere minori, e anche le maggiori ce ne danno molti esempi:

Dare l’elemosina con semplicità,

aiutare gli altri con sollecitudine,

fare misericordia con allegrezza.

Carità senza ipocrisia.

Abborrite il male, attaccatevi al bene…

Allegri per la speranza,

pazienti nella tribolazione,

perseveranti nella preghiera.,

provvedendo alle necessità dei santi,

praticando l’ospitalità.

Benedite i vostri persecutori;

benedite e non vogliate maledire.

Rallegrarsi con quelli che sono nella gioia,

piangere con quelli che piangono

(Rom. XII, 8-15).

In questa lunga serie di frasi senza nesso grammaticale e senza unità logica, è difficile scorgere un principio direttivo d’insegnamento morale. Ecco precisamente il punto delicato — stavo per dire il punto debole — della morale di Paolo: dopo che ha fatto tabula rasa della Legge mosaica, non dice mai chiaramente con che cosa intenda sostituirla. La Legge di Mosè è abolita per sempre: il Cristo ne è il fine, lo scopo al quale essa certamente tende, ma ne è anche il limite dove essa spira (Rom. X, 4). Il codice del Sinai è stato lacerato, inchiodato sopra la croce (Ephes. II, 15; Col. II, 14). — I cristiani sono morti alla Legge, e la Legge per loro è morta (Rom. VII, 4, 6; Gal. II, 19; Col. II, 20). Figli della donna libera, e non della schiava, essi hanno il diritto e il dovere di perseverare nella libertà che Gesù Cristo ha loro acquistata (Gal. IV, 21, 31; V, 1). Nel vedere Paolo che si accanisce a distruggere tutto l’edificio della legge antica, senza che sembri darsi pensiero di ricostruirlo, si domanda con inquietudine dove mai si fermerà tale opera di demolizione e su quale base poggerà l’obbligazione della nuova economia. Poiché la distinzione immaginata da certi esegeti, tra la legge morale e la legge cerimoniale, delle quali l’una sopravviverebbe e continuerebbe a servire di norma, mentre l’altra sarebbe colpita di morte dal Cristo che essa per la prima avrebbe ucciso, tale distinzione sottile è sconosciuta all’Apostolo. Per lui il codice del Sinai è indivisibile, è un edificio che resta o che cade tutto di un pezzo. Non occorre neppure esaminare se il suo atteggiamento verso la Legge si sia venuto modificando con l’età, o nel senso dell’intransigenza, o nel senso della conciliazione: le sue idee già pienamente determinate fin dalla riunione apostolica dell’anno 50, prima che egli scrivesse una sola riga delle sue lettere (Gal. II, 3-7, 14-21), non si mutarono mai in seguito. In ogni tempo egli seppe mostrarsi condiscendente, tollerando pratiche indifferenti consacrate dall’uso e dai ricordi religiosi, imponendole anche a se stesso, quando occorreva (Act. XVI, 3); ma dal principio alla fine della sua carriera egli sostenne sempre come tesi fondamentale l’abolizione totale della Thora, così per gli Ebrei come per i Gentili. – Siccome la luce sempre più viva, proiettata su la legge naturale dalla rivelazione, è un fatto indiscutibile, si potrebbe tentare di ricostruire, sopra le rovine della Thora, un codice nuovo il quale altro non sarebbe che la legge naturale illuminata, nei suoi punti oscuri, dalla rivelazione divina. Questo sistema, per quanto possa essere ingegnoso, non è quello di Paolo. L’Apostolo riconosce benissimo l’esistenza della legge naturale; dichiara che sono inescusabili i pagani per averla violata (Rom. I, 32); descrive la coscienza che cita l’uomo al tribunale e, secondo i casi, lo assolve o lo condanna (Rom. II, 14-15); ma a questa norma interna non dà il nome di legge (la Legge di S. Paolo è sempre la legge positiva), perché la legge è per lui l’espressione di una volontà positiva. E poi egli non ammetterebbe mai che il Cristiano, liberato dal giogo della Legge, venga retrocesso allo stato di natura: la Legge mosaica segna necessariamente una tappa nell’ascesa dell’umanità e, se deve scomparire, bisogna che venga sostituita con qualche cosa di meglio. Perciò nel momento stesso in cui oppone il regime della Legge a quello della grazia, insinuando che questi due stati sono incompatibili tra loro, protesta energicamente di essere sciolto da ogni legge ed afferma di dipendere dalla legge del Cristo. Questo è il paradosso: il Cristiano è così essenzialmente libero, che non può essere sotto il giogo della Legge, ed è tuttavia soggetto a una legge. La ragione è che l’economia nuova è una vera legge, se si considera il suo carattere obbligatorio, e non è una legge, se si pensa alle imperfezioni della Legge mosaica: se la chiamiamo legge di grazia, siamo nello spirito dell’Apostolo; se la chiamiamo legge del Cristo, ci conformiamo al suo linguaggio. (Ga. VI, 2).

2. La libertà dei figli di Dio non è la licenza, e la liberazione dal giogo mosaico non è l’esenzione da qualunque freno (Gal. V, 13). Paolo dovette protestare mille volte contro la falsa interpretazione del suo pensiero (Rom. III, 8; VI, 1-15); lo capivano male: egli non disse mai che Dio abbia abolito l’economia antica senza sostituirne una più perfetta. Nel momento in cui Gesù aboliva il regime della Legge, poneva le basi del regime della grazia (Matt. V, 7).Non vi fu soluzione di continuità: il Nuovo Testamento prende per conto suo la legge morale dell’Antico che esso soppianta: non contento di sanzionarla, la perfeziona e la completa: « Tutto ciò che è vero, scrive san Paolo ai Filippesi, tutto ciò che è onorevole, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è puro, tutte ciò che è amabile, tutto ciò che è di buona fama, virtuoso e degna di elogio, formi l’oggetto delle vostre meditazioni ». Ecco tutta la legge naturale, sotto i suoi diversi aspetti, proposta ai fedeli; ma essa non obbliga più soltanto come legge naturale: « Tutto questo, soggiunge l’Apostolo, voi l’avete appreso e ricevuto (da noi); voi lo avete sentito dire da noi e l’avete visto fare da noi; praticatelo (Fil. IV, 8-9) ». In grazia della rivelazione evangelica, la legge naturale — coma pure il codice sinaitico nella sua parte morale — torna ad essere una legge positiva. La relazione però tra la legge e l’uomo non è più la medesima. Il difetto capitale della Legge antica era quello di essere esteriore all’uomo e poco proporzionata al nostro stato attuale di decadenza (Rom. VII, 14). Per ristabilire l’equilibrio, bisognava o abbassare la Legge fino al livello dell’uomo caduto, oppure innalzare l’uomo fino all’altezza della Legge divina. Essa era stata imposta agli Israeliti, col doppio intermediario di Mosè e degli Angeli, in mezzo ai terrori del Sinai (Gal. III, 19); nascendo soggetto alla Legge, come membro del popolo eletto, l’Ebreo fin dal primo destarsi della sua ragione, ne subiva, volere o no, il fardello reso più pesante dal sentimento della sua impotenza (Rom. VII, 5-11); nulla di spontaneo, di libero, di generoso, di filiale: lo schiavo della Legge non poteva nutrire altri sentimenti che quelli dello schiavo, timore, diffidenza e noia. Ben diversa è la condizione del cristiano: con l’atto di fede e col Battesimo che ne è il sigillo, egli si ò messo liberamente al servizio di Dio e si è fatto soldato del Cristo. Egli si libera dal giogo della Legge soltanto col rinunziare alla sua indipendenza: la volontà di Dio, accettata di cuore e nella misura in cui si manifesterà, diventa la sua regola di condotta: « Non sapete che dandovi a qualcuno come schiavi per obbedirgli, voi diventate schiavi di colui al quale obbedite! … Ora, liberati dal peccato ed asserviti a Dio, voi avete come frutto la santificazione e come fine la vita eterna. Poiché lo stipendio del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna nel Cristo Gesù nostro Signore (Rom. VI, 13-23) ». Si può quasi essere sicuri che Paolo, nello scrivere queste parole, pensava allo schiavo ebreo ed al soldato romano. Presso gli Ebrei, la schiavitù era poco diversa dalla servitù ordinaria; per i compatrioti non poteva mai prolungarsi oltre i sei anni, senza l’espresso consenso dell’interessato; dato poi questo consenso, lo schiavo entrava di pieno diritto e per sempre nella casa del suo padrone, ma la sua condizione non aveva nulla di umiliante e di degradante; egli faceva parte della famiglia, godeva dei privilegi religiosi della nazione, era uomo e cittadino, e non già, come presso i Gentili, una bestia da soma. Perciò Paolo che con tanta energia respinge ogni sospetto di bassezza e di servilismo, non esita  a chiamarsi lo schiavo del Cristo e persino lo schiavo dei suoi fratelli, peramore del Cristo. Schiavo del Cristo, egli è pure soldato del Cristo. È noto che le legioni romane assoldavano soltanto uomini liberi: l’arruolamento dei servi, anche quando erano stati fatti liberi e nei casi di forza maggiore, era sempre considerato come un fatto da non imitarsi e cosa poco compatibile con la maestà delle aquile romane. Le reclute, nel prestare il giuramento, votavano la loro vita all’imperatore e si obbligavano ad un’obbedienza assoluta, molte volte più dura che quella della schiavitù, ma elevata e nobilitata dalla loro qualità di cittadini e dal sentimento di un dovere abbracciato spontaneamente. Per questo l’Apostolo adopera tanto volentieri il linguaggio militare che gli ricorda l’impegno contratto col Battesimo e lo stato di dipendenza in cui volontariamente si è messo con l’atto di fede che lo ha fatto Cristiano. Al suo discepolo prediletto dà il titolo di soldato del Cristo (II Tim. II, 3), il titolo più onorevole che egli conosca; scongiura i Tessalonicesi a rivestire l’armatura delle virtù teologali, la corazza della fede e della carità, e l’elmo della speranza (I Tess. V cfr. Is. LIX, e Sap. V, 17-20); in una famosa panoplia egli descrive agli Efesini tutta l’armatura del legionario, la corazza e l’elmo, la spada corta a due tagli e lo scudo lungo coperto di pelle, e non dimentica neppure la calzatura ed il cingolo di cuoio, ein tutto questo vede altrettanti simboli di virtù cristiane (Ephes. VI, 13-17). Se le metafore di armi, di combattimento, di stipendio, di milizia e altre simili ritornano continuamente sotto la penna dell’Apostolo, è perché egli ha sempre in mente il giuramento col quale si è votato al Cristo, giuramento che lo obbliga a « non impacciarsi nelle sollecitudini di questa vita, per pensare unicamente a piacere al suo capo (II Tim. II, 3-4) ». Soldato del Cristo e schiavo volontario, il Cristiano non appartiene dunque più a se stesso: la regola da cui dipende, poiché l’ha accettata liberamente, è la volontà di Dio, la volontà del Signore (Rom. XII,; Ephes. VI, 6). Tale è pure la norma esteriore che nessun Cristiano può ignorare. Uno dei fatti più certi dell’età apostolica, benché i critici abbiano impiegato assai tempo a constatarlo, è l’esistenza di una catechesi morale abbastanza uniforme nel suo contenuto. San Paolo vi allude chiaramente quando scrive ai Corinzi: « Timoteo vi ricorderà le mie vie nel Cristo, come io insegno dappertutto ed in ogni chiesa (I Cor. IV, 17) ». Le vie di Paolo non sono la sua condotta, ma come indica abbastanza la parola e come lo mette fuori di dubbio l’inciso esplicativo, la sua dottrina morale soprannaturale. Si facciano pure le meraviglie, se si vuole, perché un carattere così libero e di primo impeto si sia legato ad un metodo d’istruzione regolare e per così dire stereotipato; ma qui vi è la sua testimonianza formale: egli insegnava « dappertutto, in ogni Chiesa », le stesse cose e nella stessa maniera, tante che più tardi gli bastava mandare uno dei suoi discepoli per rinfrescarne la memoria. Ma vi èdi più: questa catechesi esiste anche nelle altre chiese, e san Paolo scrive ai Romani che non sono stati evangelizzati da lui: « Voi avete obbedito al tipo di dottrina che vi è stato trasmesso », o forse con maggior forza: « al tipo di dottrina al quale foste dati (Rom. VI, 17) ». Tutto il contesto fa vedere che questo tipo di dottrina è un insegnamento morale, e il nome stesso di tipo dice che la trasmissione non era abbandonata al capriccio o all’ispirazione individuale. Paolo interdice ai Tessalonicesi ogni relazione coi fratelli che si allontanassero dalla tradizione ricevuta da lui; la stessa ingiunzione fa ai Romani riguardo ai fedeli che trasgredissero la dottrina che loro fu insegnata (II Tess. III, 6 e Rom. XVI, 17). Via, tradizione, dottrina, tipo di dottrina, didascalia — e persino la parola con cui si è formata catechesi (Gal. VI, 6) — sono tutti termini che con sorpresa si trovano negli scritti dell’Apostolo, ed in un senso assai vicino a quello delle generazioni seguenti. Dunque la volontà di Dio, proclamata dal Cristo, promulgata dagli Apostoli (II Cor. V, 20), destava nei neofiti un’idea abbastanza concreta. Quando Paolo diceva laconicamente: « Non fate come i Gentili che non hanno Legge, né come gli Ebrei che hanno soltanto la Legge; la vostra condotta sia degna dei santi, degna della vostra vocazione, degna del Vangelo, degna del Cristo, degna di Dio (Rom. XVI, 2) »; queste brevi parole dicevano molto: esse riportavano il neofito al momento in cui, abbracciando la fede, l’aveva rotta col passato, si era abbandonato a Dio e sottomesso alla legge del Cristo; esse riassumevano con una frase la catechesi apostolica della quale certamente nulla ci può dare un’idea più approssimativa che le Vie, ossia il piccolo compendio morale inserito in due dei più antichi monumenti della letteratura cristiana, la Dottrina degli Apostoli e l’Epistola di Barnaba.

3. All’obbiezione che noi con un sotterfugio mettiamo il Cristiano sotto il giogo della Legge da cui il Cristo lo aveva liberato, e che la condizione del bambino battezzato che eredita degli obblighi prima di averli conosciuti, è identica a quella del bambino ebreo che nasce soggetto alla Legge, rispondiamo che ciò non è vero affatto. Certamente l’Apostolo, rivolgendosi a convertiti di data recente, parla della fede attuale degli adulti; ma la sua dottrina si può applicare anche alla fede abituale del bambino Cristiano. La fede, attuale o abituale, ha sempre la medesima tendenza; essa è per sua natura uno slancio spontaneo della mente e del cuore, col quale l’uomo rinunzia nelle mani di Dio la sua intelligenza e la sua volontà. Se vi è qualche differenza, questa è tutta a vantaggio della fede abituale, perché qui lo Spirito Santo opera da solo, e non vi è nulla che ne ostacoli l’azione. Ora l’impulso intimo dello Spirito Santo non si può paragonare ad una costrizione esteriore; essa solleva e non opprime l’uomo; essa toglie all’obbedienza il carattere servile. Col Battesimo il Cristiano diventa soggetto alla legge della grazia, come nasce soggetto alla legge di natura; ma parlando propriamente, egli non è sotto la legge perché non è, come Israele, sotto il giogo della Legge. Nessuno infatti vorrà sostenere che la legge naturale, inerente al nostro essere, sia per l’uomo un giogo estraneo: ora la legge del Cristo è per il Cristiano quello che è per l’uomo la legge naturale. La nostra incorporazione col Cristo mistico non è soltanto una trasformazione e una metamorfosi, ma è una vera creazione, la produzione di un nuovo essere (II Cor. V, 17), soggetto di nuovi diritti e perciò di nuovi doveri: « Non sapete dunque che tutti noi i quali fummo battezzati nel Cristo Gesù, fummo battezzati nella sua morte? Noi fummo con Lui sepolti col Battesimo nella sua morte, affinché, come Egli è risuscitato da morte per la gloria del Padre, così noi camminiamo nella novità della vita. Poiché se fummo innestati su Lui dalla somiglianza della sua morte, lo siamo anche da quella della sua risurrezione; sapendo benissimo che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con Lui, affinché il corpo del peccato sia annientato, perché non serviamo più al peccato (Rom. VI, 3-6) ». Per chi è familiare col pensiero di Paolo, questo periodo intraducibile non ha nulla di oscuro. Il rito del Battesimo, operando quello che significa, ci genera alla vita divina; ci fa morire a noi medesimi immergendoci nella morte del Cristo; c’infonde il succo divino innestandoci su Lui; ci avvolge della sua grazia e del suo spirito immergendoci nel suo corpo mistico. E allora « non sono più io che vivo, ma è Gesù Cristo che vive in me ». È evidente che questo essere nuovo richiede operazioni nuove: Operatio sequitur esse. Per conoscere la natura e l’estensione dei nostri obblighi, ci basta che riflettiamo al mistero della nostra nascita soprannaturale. Che cosa vediamo nel Battesimo? Una morte, una risurrezione, una sepoltura, un ritorno alla luce: e queste quattro cose prodotte dal rito sacramentale che le simboleggia, sono destinate a durare sempre, e non solo a durare, ma a crescere ed a svilupparsi. – La morte al peccato è per se stessa consumata e definitiva; perché Gesù Cristo morendo spezza lo scettro del peccato e, facendoci morire con Lui, ci associa alla sua vittoria; ma a differenza della morte fisica, la morte al peccato è suscettibile di più e di meno: non basta mantenerla, ma bisogna condurla alla perfezione: « Voi siete morti e la vostra vita è nascosta col Cristo in Dio… mortificate dunque le membra terrestri: fornicazione, impurità, passione, desideri cattivi (Col. III, 5) ». L’ideale è questo: portare sempre più lontano lo stato di morte di Gesù. La vita della grazia, eterna di sua natura, vuole anch’essa essere continuamente fortificata e rinnovata: « Se voi siete risuscitati col Cristo, cercate le cose dell’alto… aspirate alle cose dell’alto, non alle cose della terra (Col. III, 1-2) ». La nostra sepoltura nel Cristo deve seguire un progresso analogo; perciò l’Apostolo, dopo di aver detto: « Voi tutti che foste battezzati nel Cristo avete rivestito il Cristo », soggiunge: « Rivestite il Signore Gesù Cristo (Gal. III, 27; Rom. XIII, 14)», perché taleatto ammette dei gradi indefiniti. Finalmente Paolo implora per i neofiti illuminati dal Battesimo, lumi sempre più vivi, e li invita a camminare di chiarezza in chiarezza (Ephes. I, 18; II Cor. III, 18).

4. La morale di Paolo, come si vede, sta su basi salde: essa si appoggia, da una parte, sopra la volontà positiva di Dio, proclamata da Gesù Cristo, promulgata dagli apostoli, liberamente accettata dai neofiti nel primo atto di fede; e dall’altra parte, sopra la rigenerazione battesimale e sopra le nuove relazioni che questa produce; poiché dall’essere soprannaturale ricevuto nel Battesimo, derivano speciali relazioni con ciascuna delle tre Persone divine:

Relazione di filiazione verso il Padre;

Relazione di consacrazione verso lo Spirito Santo;

Relazione d’identità mistica con Gesù Cristo.

Analizzare queste tre relazioni e dedurne i corollari equivarrebbe adesporre minutamente tutta la morale dell’Apostolo, enon è questo il nostro scopo: noi vogliamo soltanto tracciare la via; ma questo rapido sguardo ci farà vedere a quali altezze Paolo innalzi se stesso e innalzi anche noi con sé. Tra la filiazione adottiva del Nuovo Testamento e la filiazione teocratica dell’Antico corre un abisso. Quest’ultima era collettiva ed arrivava all’individuo soltanto mediante il popolo eletto; il figlio di Dio era propriamente Israele, e non l’Israelita. Se qualche personaggio dell’antica alleanza riceve eccezionalmente questo titolo, è perché porta su la sua fronte un riflesso profetico del Figlio per eccellenza. Il Cristiano invece è figlio di pieno diritto e personalmente; lo Spirito Santo gli mette su le labbra il nome di Padre che indica le sue nuove relazioni con Dio; ma con le prerogative di figlio egli ne riceve pure i doveri di gratitudine, di fiducia e di amore (Rom. VIII, 15-17). La presenza dello Spirito Santo che ci consacra come un santuario, crea tra lui e noi un nuovo vincolo che è difficile a definirsi, ma che è impossibile negare. Ora ogni nuova relazione è fonte di nuovi obblighi: di qui, per il Cristiano, il dovere di non contristare lo Spirito (Ephes. IV, 30), di non estinguere lo Spirito (I Tess. V, 19), e soprattutto di non distruggere o profanare il suo tempio (I Cor. 16-17; VI, 19; II Cor. VI, 16; Ephes. II, 21). Ma qui abbiamo anche la fonte di privilegi gloriosi: ospite dell’anima giusta, lo Spirito non vi rimane inoperoso, ma in essa produce i carismi, i doni, le grazie dello stato; versa in essa l’unzione e la luce; vi scolpisce la legge di Dio in caratteri indelebili. Così si spiega quella espressione che sembrerebbe enigmatica: « Se siete guidati dallo Spirito, voi non siete sotto la legge (Gal. V, 18) ». Il Cristiano può obbedire alla legge senza essere sotto la legge, perché la legge per lui non è più un giogo esterno che l’opprime, ma un principio interno che lo guida e lo spinge innanzi: ben lungi dall’asservirlo e dall’opprimerlo, « la legge dello Spirito di vita lo libera dalla legge del peccato e della morte (Rom. VIII, 2) ». La dottrina del corpo mistico, il capolavoro di Paolo, non è meno feconda per lamorale che per il dogma. La prima volta che la propone, egli stesso ne fa l’applicazione con una chiarezza che non lascia nulla adesiderare. Nel dimostrare che la diversità delle membra e l’unità di vita sono essenziali a questo corpo di cui Gesù Cristo è il capo e lo Spirito Santo è l’anima, egli ne deduce i doveri reciproci di carità, di giustizia, di solidarietà, con l’obbligo, per ciascun membro, dicollaborare al bene generale (I Cor. XII, 12-27). È tutto un programma di morale sociale compendiato, la cui originalità consiste nel conciliare le esigenze del bene comune non certamente con l’egoismo, ma con la ricerca istintiva dell’interesse personale. Non pare che si possa attribuire al caso ilfatto che le altre tre descrizioni del corpo mistico servano precisamente come di prefazione alla seconda parte delle lettere in cui la morale è nettamente separata dal dogma (Rom. 4,5; Ephes. IV, 12-16; Col. II, 19). L’intenzione appare manifesta nell’Epistola ai Romani, e allora non fanno più meraviglia le raccomandazioni eteroclite di cui abbiamo dato sopra un saggio. Precetti e consigli, in apparenza disparati, trovano la loro unità in questo principio: « Noi siamo un solo corpo nelCristo e, individualmente, le membra gli uni degli altri ». Non è allora evidente che questo principio ha come corollario il dovere « di amarsi con amore di fraternità » e di « prevenirsi a vicenda con l’onore (Rom. XII, 10) ». La dottrina del corpo mistico si presenta sotto un aspetto alquanto diverso nelle Epistole agli Efesini ed ai Colossesi. L’obbligo che ne deriva per ciascun membro è quello di aspirare alla perfezione del capo (Col. II, 19), perché ciascun fedele, affinché vi sia armonia e perfezione, deve sforzarsi di crescere secondo la misura del Cristo.

THE RESERVATION OF THE EUCHARIST – LA CONSERVAZIONE DELL’EUCARISTIA (Note liturgiche)

THE RESERVATION OF THE EUCHARIST

[LA CONSERVAZIONE DELL’EUCARISTIA (note liturgiche)]

1. The Ritual prescribes that the parish priest, or one who has the cure of souls, should take care that some consecrated particles, in sufficient number for the use of the sick and for the communion of the rest of the faithful, should be always reserved in a clean pyx of solid and decent material, well closed with its own lid, covered with a white veil, and as far as possible in an ornamented tabernacle kept locked with a key. This key should be in the keeping of the priest, not in that of the sacristan or other person. As a rule the pyx or ciborium is of silver, and gilded inside. There seems to be no strict law prescribing that it should be consecrated or even blessed, though there is a form for blessing it in the Ritual. The Blessed Sacrament, then, must be thus reserved for the use of the faithful in all cathedrals, parish churches, and chapels of ease attached to parochial churches. Religious Orders of men and women who take solemn vows have the privilege of reserving the Holy Eucharist in their churches. It can only be reserved in other churches or oratories by special indult from the bishop, or from the Holy See in the case of strictly private oratories.

Note. — Regarding the reservation of the Blessed Sacrament, the Second Plenary Council of Baltimore (n. 265) has the following : “Conservari debet in ecclesia Cathedrali, et in quavis ecclesia parochali ut ad infirmos, data occasione, deferri possit. In aliis vero pluribus vel ecclesiis vel sacellis conservari potest vel ex lege, vel ex Pontificis indulto. Qua in re Ordinarios hortamur ut curent, uti nonnisi debita praehabita licentia hoc maximo privilegio quaevis aedes sacra utatur.” Bishops are restricted in their powers to grant leave for reserving the Blessed Sacrament, as appears from a decree of the S. C. of Rites (March 8, 1879).“Potestne Episcopus jure proprio concedere facultatem asservandi SSmum Sacramentum: 1. In Ecclesiis seu Capellis publicis quae tamen titulo parochiali non gaudent, etsi utilitatibus Paraeciae inserviant; 2. In Capellis piarum Communitatum publicis, id est quarum porta pateat in via publica vel in area cum via publica communicante et quae habitantibus omnibus aperiuntur; 3. In Capellis seu Oratoriis interioribus piarum Communitatum, quando non habent Capellam seu Oratorium publicum in sensu exposito, ut evenit, e.g., in Seminariis?” The response to these questions was: “Implorandum est indultum a Sancta Sede quoad omnia postulate” See Decr. Auth., n. 3484. From an examination of the acts of various provincial councils in the United States it is clear that many provinces received an indult of this kind more or less extensively. Thus, on July 25, 1858, on the occasion of holding the Ninth Provincial Council of Baltimore, the faculty was granted to this ecclesiastical province in virtue of which the bishops could grant permission for the Blessed Sacrament to be kept in the chapels of Religious communities of women. See Coll. Lacensis, vol. 3, p. 180. In the same year (November 10), on the occasion of holding the Second Provincial Council of Cincinnati, the bishops of that province received the faculty of permitting the Blessed Sacrament to be kept in Religious communities without enclosure: “Potestatem tribuit Episcopis permittendi communitatibus Religiosis absque clausura viventibus conservationem SSmce Eucharistiae.” See Coll. Lacensis, vol. 3, p. 212. On April 17, 1859, the privilege was given to the archbishop of St. Louis and his suffragans that the Blessed Sacrament might be kept in Religious houses although they were not canonically erected. In the archdiocese of St. Louis it is permitted that in the oratories of Sisters having a Religious house the Blessed Sacrament may be kept, provided that four persons live in the house. See Diocesan Statutes of St. Louis, n. 68. As regards other dioceses of this country it may be safely said that there is hardly one that does not possess an indult with less or more limitation for reserving the Blessed Sacrament. — End of Note.

2. The Ritual further prescribes that the tabernacle should be decently covered with a veil, that nothing else besides the Blessed Sacrament should be put in it, and that it should be placed on the high altar, or on another if this would conduce to greater reverence toward the Holy Eucharist, so that it would be no obstacle to sacred functions or ecclesiastical offices. Several lamps or at least one should always be kept burning before it night and day. The lamps should be fed with olive oil, but if the church is very poor the bishop may allow vegetable or mineral oil to be used. Gas or electric lamps should not be tolerated. One lamp must be kept burning under pain of grievous sin. The veil of the tabernacle should be white or in keeping with the color of the day, but never black.

3. The particles taken for consecration should be fresh, not more than fifteen days or at most a month old, and they should be renewed every eight or at most fifteen days, though in this matter regard should be had to the dampness or dryness of the place and season.

Note. — It may be well to consider this question more in detail so far as the United States is concerned. The Roman Ritual requires the consecrated particles to be renewed frequently, “Sanctissimæ Eucharistiae particulas frequenter renovabit” (Tit. 4, cap. 1, n. 7). The Caeremoniale Episcoporum prescribes this renovation to be made once a week (Lib. 1, cap. 6, n. 2). Benedict XIV, in his constitution, “Etsi Pastoralis” (May 16, 1752), ordered for the Greeks in Italy that the sacred species should be renewed every eight, or at least every fifteen days. Gasparri in his treatise, De SS. Eucharistia (vol. 2, n. 1013), concludes that in the Western Church the species should be renewed “Singulis octo diebus juxta norma Caeremonialis: “Graecis autem aliisque Orientalibus permissum esse hanc renovationem protrahere ad singulos quindecim dies.” He then adds that many excuse from all sin, even in the Western Church, if the renewal takes place within fifteen days, provided that the condition of place and time exclude all danger of initial corruption. It was evidently the intention of the Fathers of the Second Plenary Council of Baltimore to urge the observance of the Caeremoniale Episcoporum regarding the weekly renewal of the sacred species, for they say (n. 268): “Rituale Romanum jubet particulas Sanctissimae Eucharistiae frequenter renovari: et Caeremoniale Episcoporum id semel saltern in hebdomada faciendum praecipit. Hanc regulam, quam S. Rituum Congregatio nedum saepius confirmavit, verum stricte et rigorose obligare declaravit, sacerdotibus omnibus fideliter servandum serio inculcamus.”  The decrees of the Second Plenary Council of Baltimore were declared by the Fathers of the Third Plenary Council in 1884 to be still in force, except those which were changed or abrogated in the latter council. (Cf. p. 3, Decr. Conc. Balt. Tertii.)

But regarding the law of renewing the species the Third Plenary Council made no change or abrogation; nor since that time in this country has there been any sign of alteration in the Church’s discipline on the question. Hence it does not appear that in the United States we are at liberty to follow the opinion of those theologians who hold that the renewal of the sacred species may be deferred for two weeks. (Cf. Lehmkuhl, vol. 2, n. 132.) Still less is it permissible in this country to follow the opinion of those who allow a month to elapse before it becomes necessary to renew the sacred species. (Noldin, De Sacramentis, n. 129.) Whether some provincial councils elsewhere were content to require that the renewal should not be deferred beyond two weeks or a month, or whether the Holy See directly granted for a particular locality permission to defer the renewal for two weeks, neither of these ordinances would seem to be applicable to the United States, where the regulation of the Caeremoniale Episcoporum is required to be observed. The Second Plenary Council of Baltimore (n. 268) says that the S. Cong. Of Rites has not only confirmed the rule of the Caeremoniale Episcoporum, and for this purpose it refers to three decrees of that Congregation, but also declares that another decree of this Congregation pronounces the rule to be strictly obligatory, “stricle et rigorose obligare” Nothing then remains, it would seem, but to admit the obligation so clearly set forth by this council. Even since its celebration the S. Cong. of Rites has repeated the decision.

A question was proposed whether the custom existing of renewing the species once or twice in the month could be continued : “In ecclesiis hujus dueceseos servari ne potest consuetudo renovandi SSmam Eucharistiam semel vel bis in mense; licet qualibet hebdomada juxta Caeremoniale Episcoporum eadem SSma Eucharistia foret renovanda?” The answer was (September 12, 1884), “Servetur dispositio Cæremonialis Episcoporum (lib. 1, cap. 6, n. 2).”

Assuming, therefore, that there is in the United States a precept which requires the weekly renewal of the sacred species, the question arises, what sin is committed if a priest defer this duty. It is certain that while this precept of renewing the species binds sub gravi, it admits of parvitas materiae, so that a short delay beyond a week would not constitute a mortal sin, unless some serious danger of the corruption of the species would arise. Prescinding from this danger, it may be held that the delay of a week would not be a mortal sin, and probably even the delay of a month. Gasparri (n. 1013) says that the particles to be consecrated should be fresh, i.e., recently made, and that the time for necessary renewal depends to some extent upon the degree of freshness, so that if the hosts at the time of consecration had been made twenty five days the renewal could not be protracted for eight days. (See also Wernz, Jus Decretalium, vol. 3, n. 551 in nota 219.) It seems safe to hold that a reasonable cause of deferring the renewal for a day or even for a few days would excuse from venial sin. Thus during a novena the host for Benediction might be kept for nine days; and a number of small hosts which would be distributed to the faithful within a few days might be kept before the purification of the ciborium. (See O’Kane, n. 620.) — End of Note.

A MANUAL OF MORAL THEOLOGY
FOR ENGLISH-SPEAKING COUNTRIES
BY REV. THOMAS SLATER, S.J. ST. BEUNO’S COLLEGE, ST. ASAPH
WITH NOTES ON AMERICAN LEGISLATION BY REV. MICHAEL MARTIN, S.J.
PROFESSOR OF MORAL THEOLOGY, ST. LOUIS UNIVERSITY
VOLUME II. THIRD EDITION
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO, BENZIGER BROTHERS
PRINTERS TO THE HOLY APOSTOLIC SEE
PUBLISHERS OF BENZIGER’s MAGAZINE
Permissu Superiorium. R. SYKES, S.J., Praep. Prov. Anglicae.
Permissu Superiorium. R. J. MEYER, S.J., Praep. Prov. Missourianae.
Nihil Obstat REMY LAFORT, Censor Librorum.
Imprimatur. + JOHN M. FARLEY, Archbishop of New York.
New York, September 19, 1908. p. 94-99

fr. UK.

LA CONSERVAZIONE DELL’ EUCARISTIA

1. Il Rituale prescrive che il parroco, o colui che ha cura delle anime, abbia cura che alcune particole consacrate, in numero sufficiente affinché i malati possano usufruirne e per la comunione del resto dei fedeli, siano sempre riservate in una pisside pulita di materiale solido e decente, ben chiuso con il suo stesso coperchio, coperto da un velo bianco, e per quanto possibile in un tabernacolo ornato tenuto chiuso a chiave. Questa chiave dovrebbe essere custodita dal sacerdote, non dal sacrestano o da nessun’altra persona. Di regola la pisside o il ciborio sono d’argento e dorati all’interno. Non sembra esserci alcuna legge rigida che prescriva che debba essere consacrata o addirittura benedetta, sebbene ci sia una forma per benedirla nel Rituale. Il Santissimo Sacramento, quindi, deve essere così riservato all’uso dei fedeli in tutte le cattedrali, le chiese parrocchiali e le cappelle territoriali parrocchiali. Gli ordini religiosi maschili e femminili che emettono voti solenni, hanno il privilegio di conservare la Santa Eucaristia nelle loro chiese. Può essere conservata in altre chiese o oratori, solo con indulto speciale del Vescovo o dalla Santa Sede nel caso di oratori strettamente privati.

Nota. – Per quanto riguarda la prenotazione del Santissimo Sacramento, il Concilio Plenario di Baltimora (n. 265)  afferma:  “Conservari debet in ecclesia Cathedrali, et in quavis ecclesia parochali ut ad infirmos, data occasione, deferri possit. In aliis vero pluribus vel ecclesiis vel sacellis conservari potest vel ex lege, vel ex Pontificis indulto. Qua in re Ordinarios hortamur ut curent, uti nonnisi debita praehabita licentia hoc maximo privilegio quaevis aedes sacra utatur.” I Vescovi sono limitati nei loro poteri, nelle conservazione del Santo Sacramento, da un decreto della S. C.  dei Riti (8 Marzo 1879) « Potestne Episcopus jure proprio concedere facultatem asservandi SSmum Sacramentum: 1. In Ecclesiis seu Capellis publicis quae tamen titulo parochiali non gaudent, etsi utilitatibus Paraeciae inserviant; 2. In Capellis piarum Communitatum publicis, id est quarum porta pateat in via publica vel in area cum via publica communicante et quae habitantibus omnibus aperiuntur; 3. In Capellis seu Oratoriis interioribus piarum Communitatum, quando non habent Capellam seu Oratorium publicum in sensu exposito, ut evenit, e.g., in Seminariis?” La risposta a questa domanda era: “Implorandum est indultum a Sancta Sede quoad omnia postulate” Vedi Decr. Auth., n. 3484. Da un esame degli atti dei vari consigli provinciali negli Stati Uniti è chiaro che molte province hanno ricevuto un indulto di questo tipo più o meno estensivamente. Così, il 25 luglio 1858, in occasione della celebrazione del Nono Consiglio provinciale di Baltimora, fu concessa facoltà a questa provincia ecclesiastica in virtù della quale i Vescovi potevano concedere il permesso per il Santissimo Sacramento da custodire nelle cappelle delle comunità religiose femminili. Vedi Coll. Lacensis, vol. 3, p. 180. Nello stesso anno (10 novembre), in occasione della celebrazione del secondo Concilio provinciale di Cincinnati, i Vescovi di quella provincia hanno ricevuto la facoltà di permettere che il Santissimo Sacramento venga custodito nelle comunità religiose senza clausura: “Potestatem tribuit Episcopis permittendi communitatibus Religiosi absque clausura viventibus conservationem SS.mae Eucharistiae. ” Vedi Coll. Lacensis, vol. 3, p. 212. Il 17 aprile 1859 fu concesso il privilegio all’Arcivescovo di St. Louis e ai suoi suffraganei che il Santissimo Sacramento potesse essere custodito nelle case religiose anche se non fossero erette canonicamente. Nell’Arcidiocesi di St. Louis è permesso che negli oratori delle suore che hanno una casa religiosa sia conservato il Santissimo Sacramento, a condizione che almeno quattro persone vivano nella casa. Vedi gli statuti diocesani di St. Louis, n. 68. Per quanto riguarda le altre diocesi di questo paese, si può tranquillamente affermare che ce n’è a malapena una che non possieda un indulto con più o meno limiti per la conservazione del Santissimo Sacramento. – Fine della nota.

2. Il Rituale prescrive inoltre che il tabernacolo debba essere convenientemente coperto con un velo, che non si debba mettere altro al di fuori del Santissimo Sacramento e che esso sia posto sull’altare maggiore o su altro se ciò comportasse una maggiore riverenza verso la Santa Eucaristia, in modo che non sia di ostacolo alle funzioni sacre o agli uffici ecclesiastici. Diverse lampade o almeno una dovrebbero essere sempre tenute accese con fiammella notte e giorno. Le lampade dovrebbero essere alimentate con olio d’oliva, ma se la chiesa fosse molto povera il Vescovo può consentire l’uso di olio vegetale o minerale. Le lampade a gas o elettriche non devono essere tollerate. Una lampada almeno deve sempre restare accesa sotto pena di peccato grave. Il velo del tabernacolo dovrebbe essere bianco o in armonia con il colore del giorno, mai nero.

3. Le particole prelevate per la consacrazione dovrebbero essere fresche, non più di quindici giorni o al massimo un mese di vita, e dovrebbero essere rinnovate ogni otto o al massimo quindici giorni, anche se a questo proposito si dovrebbe tener conto dell’umidità o secchezza del luogo e della stagione.

Nota. – Potrebbe essere utile considerare questa domanda più in dettaglio per quanto riguarda gli Stati Uniti. Il Rituale Romano richiede che le particole consacrate vengano rinnovate frequentemente, “Sanctissimæ Eucharistiae particulas frequenter renovabit” (Tit. 4, cap. 1, n.7). Il Cæremoniale Episcoporum prescrive che questo rinnovamento venga effettuato una volta alla settimana (1, capitolo 6, numero 2). Benedetto XIV, nella sua costituzione, “Etsi Pastoralis” (16 maggio 1752), ordinò ai greci in Italia che fossero rinnovate ogni otto o almeno ogni quindici giorni. Gasparri nel suo trattato, De SS. Eucaristia (vol.2, p. 1013), conclude che nella Chiesa occidentale la specie dovrebbe essere rinnovata “Singulis octo diebus juxta norma Caeremonialis:” Graecis autem aliisque Orientalibus permissum esse hanc renovationem protrahere ad singulos quindecim dies “. Aggiunge poi che si è esenti da peccato, anche nella Chiesa Occidentale, se il rinnovo avviene entro quindici giorni, a condizione che le condizioni del luogo e del tempo escludano ogni pericolo di incipiente corruzione. Evidentemente era intenzione dei Padri del Secondo Concilio Plenario di Baltimora sollecitare l’osservanza del Cæremoniale Episcoporum riguardo al rinnovamento settimanale delle particole sacre, poiché si dice (n.268): “Rituale Romanum jubet particulas Sanctissimæ Eucharistiæ frequenter renovari : et Caeremoniale Episcoporum id semel saltern in hebdomada faciendum præcipit Hanc regulam, quam S. Rituum Congregatio nedum sæpius confirmavit, verum stricte et rigorose obligare dichiaravit, sacerdotibus omnibus fideliter servandum serio inculcamus. ” I decreti del Secondo Concilio Plenario di Baltimora furono dichiarati ancora in vigore dai Padri del Terzo Concilio Plenario nel 1884, ad eccezione di quelli che furono modificati o abrogati in quest’ultimo concilio. (Cfr. Pagina 3, Decr. Conc. Balt. Tertii.)

Ma riguardo alla legge del rinnovo delle particole, il Terzo Concilio Plenario non ha apportato alcun cambiamento o abrogazione; né da quel tempo in questo Paese c’è stato alcun segno di alterazione nella disciplina della Chiesa sulla questione. Quindi non sembra che negli Stati Uniti si sia liberi di seguire l’opinione di quei teologi che ritengono che il rinnovo delle particole sacre possa essere rinviato per due settimane. (Cfr Lehmkuhl, vol.2, n.132). Ancora meno è lecito in questo Paese seguire l’opinione di coloro che lasciano trascorrere un mese prima che sia necessario rinnovare la specie sacra. (Noldin, De Sacramentis, 129). Se alcuni consigli provinciali altrove si accontentassero di richiedere che il rinnovo non venisse differito oltre due settimane o un mese, o se la Santa Sede concedesse direttamente per una determinata località il permesso di differire il rinnovo per due settimane, nessuna di queste ordinanze sembrerebbe essere applicabile agli Stati Uniti, dove è richiesto il rispetto del regolamento del Cæremoniale Episcoporum. Il Secondo Concilio Plenario di Baltimora (268) dice che il S. Cong. dei Riti non ha solo confermato la regola del Cæremoniale Episcoporum, e per questo scopo si riferisce a tre decreti di quella Congregazione, ma dichiara anche che un altro decreto di questa Congregazione enuncia che la regola sia strettamente obbligatoria, “stricle et rigorose obligare” Nulla quindi, sembrerebbe eliminare l’obbligo così chiaramente stabilito da questo consiglio. Anche dopo la sua celebrazione il S. Congr. dei Riti ha rinnovato la decisione.

Si chiedeva anche se fosse possibile continuare l’usanza di rinnovare la specie una o due volte nel mese: “In ecclesiis hujus dueceseos servari ne potest consuetudo renovandi SSmam Eucharistiam semel vel bis in mense; licet qualibet hebdomada juxta Cæremoniale Episcoporum eadem SSma Eucharistia foret renovanda?” La risposta fu (12 settembre 1884), “Servetur dispositio Cæremonialis Episcoporum (lib. 1, cap. 6, 2).” – Supponendo, quindi, che negli Stati Uniti ci sia un precetto che richieda il rinnovo settimanale delle specie sacre, sorge la domanda: quale peccato commette il Sacerdote che non ottemperi a questo dovere? È certo che mentre questo precetto di rinnovare le particole lega i sub gravi, ammette la parvitas materiæ, e che quindi questo, per un breve ritardo che non vada oltre una settimana, non costituisca un peccato mortale, a meno che non si presenti un serio pericolo di corruzione della specie delle particole. Prescindendo da questo pericolo, si può affermare che il ritardo di una settimana non sarebbe un peccato mortale, e probabilmente anche il ritardo di un mese. Gasparri (n.1013) dice che le particole da consacrare dovrebbero essere fresche, cioè preparate di recente, e che il tempo necessario per il rinnovamento dipende in una certa misura dal grado di freschezza, così che se le ostie al momento della consacrazione fossero state preparate da più di venticinque giorni, il rinnovo non può protrarsi oltre gli otto giorni. (Vedi anche Wernz, Jus Decretalium, volume 3, numero 551 in nota 219.). Sembra sicuro poter ritenere per giusta ragione che il rinviare il rinnovo di un giorno o anche di pochi giorni sia giustificazione per il peccato veniale. Così durante una novena l’ostia per la Benedizione potrebbe essere conservata per nove giorni; e un numero di piccole ostie da  distribuire ai fedeli nel giro di pochi giorni potrebbero essere conservate prima della purificazione del ciborio. (Vedi: O’Kane, 620.) – Fine della nota.

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fr. UK

Trad. G. d. G.

LO SCUDO DELLA FEDE (L)

IL NUMERO DEGLI ELETTI.

Sarà grande o piccolo il numero degli eletti? — ragioni che persuadono essere grande. — Se questa opinione ingeneri soverchia e ingiusta fidanza di salvarsi. — Conclusione e ammonimenti.

— E sarà grande o piccolo il numero degli eletti al paradiso?

Questo è il segreto di Dio, e la Chiesa a questo riguardo non ha dichiarato e tanto meno definito nulla. Vi sono tuttavia due opinioni: quella di coloro che dicono assai piccolo il numero degli eletti, inferiore a quello dei riprovati, e quella di coloro che lo affermano grande e superiore assai a quello dei dannati. Trattandosi di opinioni libere, non ti pare, a te, che sia assai meglio attenerci a quella che più ci consola, che meglio risponde alla bontà di Dio e che più esalta la divina redenzione?

— Oh sì! certamente. Ma non vi sono nella Scrittura delle comparazioni e delle parabole che provano il numero degli eletti essere piccolo?

Le comparazioni e le parabole, eccetto che Gesù Cristo, spiegandone il senso, attribuisca loro un valore probativo non sono argomenti, né dimostrazioni; possono perciò servire a far capire una cosa, una verità, ma non già a dimostrarla. D’altronde se esse avessero forza di prove, si avrebbe piuttosto a conchiudere al gran numero degli eletti che al piccolo, giacche la più parte delle comparazioni e parabole mostrerebbero ciò.

— Non vi sono tuttavia nel Vangelo delle sentenze decisive, quali queste: — Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. — La porta è larga ed è spaziosa la via che mena alla perdizione, e molti si mettono per essa. Come è stretta la porta ed angusto il cammino che conduce alla vita, e pochi son quelli che vi entrano. — ?

Queste sentenze sarebbero decisive se tutti si accordassero nella loro interpretazione per il piccolo numero degli eletti. Ma non è così. E trattandosi della prima sentenza, la si può intendere in questo senso: che molti, cioè tutti sono chiamati alla grazia e all’osservanza, dei precetti, ma pochi sono eletti alla grazia esimia e all’osservanza dei consigli. La seconda poi si può credere sia stata profferita specialmente e direttamente da Gesù Cristo, per coloro che vivevano ai tempi suoi, e che così poco profittavano della sua divina predicazione (V. Monsabrè, Dogma Cattolico, Conferenza CII). Quindi è che così interpretate, o in modo somigliante, queste sentenze non decidono allatto sul piccolo numero degli eletti al paradiso.

— Ma su quali ragioni si fonda l’opinione del maggior numero degli eletti?

Su ragioni ottime, che io ti accenno appena, cavandole dagli scritti di valenti teologi e di eminenti autori, tra i quali mi basti nominarti un Faber, un Suarez ed un S. Francesco di Sales.

l. La Magnificenza di Dio. — Nell’ordine della natura, come in quello della grazia, ciò che costituisce il carattere di Dio è l’abbondanza, la magnificenza, profondendo egli i suoi doni senza misura. Non sarà dunque anche magnifico nel numero degli eletti?

2. L’onore della Redenzione. — Gesù Cristo è disceso dal cielo per abbattere satana e strappargli le anime dalle mani. Nella lotta a tal fine, ingaggiata con lui, vinse; né poteva essere altrimenti. Ora sarebbe possibile che Gesù Cristo, vincitore di satana, si trovasse in cielo ad avere un trofeo di anime inferiore al numero di quelle che Satana, il vinto, sarebbe riuscito tuttavia a far sua preda? In certa guisa il demonio non potrebbe così eternamente vantarsi di una potenza di rovina superiore alla potenza della redenzione?

3. La Costituzione della Chiesa Cattolica. — Essa è formata di Cattolici, che sono ricolmi di grazie e di privilegi per parte di Dio e per virtù di Gesù Cristo. Alla sua anima inoltre, senza appartenere al suo corpo, ossia alla società visibile da lei formato, appartengono molti eretici e scismatici, che vivono in buona fede ed operano cristianamente. Ora non è pur scritto che « non vi è dannazione per coloro che sono in Gesù Cristo, e che Colui che accorda di cominciare (mediante la vocazione alla fede) accorda eziandio il dono di finire (colla vocazione alla gloria)? »

4. L’azione dei Sacramenti. — Essa è mille volte più estesa ed efficace di quel che possiamo immaginare. E se si pone mente al numero immenso di sacramenti, che ogni giorno si amministrano, e al valore della grazia divina, che comunicano a coloro che degnamente li ricevono, si potrebbe credere seriamente, che ciò non ostante ne debba seguire la perdita della maggioranza degli uomini?

5. L’azione dei mezzi straordinari. — Volendo Iddio di volontà vera che tutti gli uomini si salvino e pervengano al conoscimento della verità, epperò volendo ancora applicare a tutti gli uomini gli effetti salutari della sua redenzione, oltre che coi mezzi ordinari posti a tal fine nella sua Chiesa, non si può dubitare che Egli, nella sua bontà infinita, si valga altresì di mezzi straordinarii, perché coloro stessi che vivono lontani dalla Chiesa possano conseguire la salvezza. Come dunque tra gli stessi gentili Iddio non si formerebbe un gran numero di eletti con delle operazioni misteriose, che Egli solo conosce, ma che con tutta la teologia cattolica puossi affermare che esistono?

6. La somma giustizia di Dio. — Molte volte noi possiamo credere che taluni si trovino in peccato mortale e muoiano in tale stato, mentre invece non è così. Perché il peccato sia mortale ci vuole materia grave, pieno conoscimento e piena volontà. « Ora, dice Mons. Bonomelli, è facilissimo riconoscere se in un peccato vi sia materia grave o no, ma non è troppo facile il giudicare se vi siano il pieno conoscimento e la piena volontà. Bisognerebbe perciò conoscere a fondo l’indole di ciascuno, la parte sì grande che vi hanno l’eredità fisica e morale, l’educazione domestica e pubblica, le letture, il genere di vita, i cibi, il clima stesso, le amicizie, le mille e mille circostanze che possono influire sulla mente e sulla volontà, accrescerne o scemarne, o toglierne affatto la responsabilità. Gli atti dell’uomo sono il risultato di tante e tante forze interne ed esterne, che influiscono sulla mente e sulle volontà, che solamente un temerario od un pazzo potrà dire di conoscerle tutte e quindi giudicare la responsabilità. Questo lo può fare solo Iddio. E lo fa con una giustizia somma, per cui spessissime volte Egli giudicherà solo come peccato veniale, quello che noi negli altri, col nostro scarso giudizio, abbiamo creduto mortale ». E questa consolante verità non sarebbe essa pure in favore del maggior numero degli eletti?

7. L’infinita misericordia di Dio al punto di morte. — Questa misericordia verso i morenti deve superare ogni idea. Cento volte più che non vediamo, mille volte più che non possiamo supporre, nell’ora estrema, anzi nello stesso istante finale della vita, sia a coloro che sino a quel punto si ostinano a star in peccato, sia a quelli stessi, che repentinamente arrivano a quel punto negli infortuni, nei disastri, negli assassinii, nelle risse, negli stessi suicidi e duelli, Iddio si presenta ad offrire la misericordia sua, e solo che costoro il vogliano, e poi con una parola, con un affetto, con un sospiro, con una sola lagrimetta (cfr. Dante in Purg. c. V) che esprima il pentimento sincero del male che hanno commesso, possono acquistare la sua grazia e morire con essa. Certamente Dio vorrà che essi espiino con lunghi e crudi tormenti la loro grande tardanza ad arrendersi alla sua grazia, ed è per questo che il purgatorio fu fatto terribile, ma essi intanto entrano nel novero degli eletti. Ecco le principali ragioni sulle quali, come ti dissi, autori eminenti e insigni dottori appoggiano l’opinione del maggior numero degli eletti.

— A me paiono davvero di gran valore e per esse si dilegua dalla mia mente qualsiasi idea di durezza da parte del Signore nell’opera della nostra salute. Tuttavia questa opinione non può ingenerare in taluni una soverchia e ingiusta fidanza di salvarsi senza fare quello che a tal fine importa?

In un’anima vile ed orgogliosa certamente ciò potrebbe accadere. Ma noi affidandoci all’indulgenza e misericordia di Dio, « ci studieremo colla maggior sollecitudine di corrispondere generosamente alla medesima, col rendere certa la nostra vocazione ed elezione per mezzo delle buone opere, » in conformità all’avvertimento che ci dà il principe degli Apostoli S. Pietro; e ancorché sapessimo che su cento uomini non vi fosse che un dannato, ci manterremo in quella umiltà e saggezza cristiana, che facendoci temere di essere quell’uno, ci sprona « ad operare la nostra salvezza con timore e tremore, » secondo che ci esorta S. Paolo.  – E con questo pensiero io prendo da te commiato, non senza ridarti prima qualche avvertimento e rifarti qualche raccomandazione della massima importanza per la difesa e conservazione costante della fede nel tuo cuore. E primieramente: sebbene io t’abbia data tutta la libertà di farmi lo obbiezioni e difficoltà che sapevi contro la fede cristiana, e vi ti abbia anzi incoraggiato affine di scioglierle ed illuminarti quanto più era possibile senza recarti tedio, tuttavia vi sarebbero ancora varie altre difficoltà ed obbiezioni, che si potrebbero fare, e che forse mi farai un’altra volta, che di proposito rientriamo a discorrere insieme. Con tutto ciò ti avverto che molte difficoltà ed obbiezioni, che intenderai da altri, che potrai leggere, o che ti si presenteranno da per sé alla mente, potranno a prima vista parerti nuove, senza che lo siano, almeno nella loro sostanza, essendo l’errore proteiforme. Ed allora scorgendo tu in esse, anche solo da lontano, una qualche relazione con quelle che già mi hai fatte, richiama alla mente la soluzione che ne hai avuto, considerata se occorre, in tutta la sua ampiezza, ed io credo che anche allora potrai dare a quelle difficoltà apparentemente nuove una soddisfacente risposta. – In secondo luogo ti raccomando di evitare la frequenza di quelle persone, che sono bacate nella fede, e di astenerti sempre dalla lettura di quei libri e di quei giornali che più o meno, con sfacciataggine aperta o con raffinata malizia ammanniscono altrui il veleno dell’immoralità e dell’irreligione. Rammenta in proposito quanto ti ho già detto al riguardo; è qui che sì avvera il proverbio che « la goccia scava la pietra ». Frequentando certe persone, facendo certe letture, senza avvedertene, a poco a poco scadresti dalla fermezza della fede cattolica, non ostante tutto quello che hai appreso intorno ad essa. – Da ultimo ti raccomando quanto so e posso che sii puro nei costumi e religioso nei sentimenti. Un cuore mondo e pio difficilmente è tentato di incredulità. Che se pure qualche dubbio si presenta ad assalirlo all’improvviso, prontamente ed efficacemente ne lo discaccia. Evita adunque ogni contaminazione sia nei pensieri, nei desideri e negli affetti, sia negli sguardi, nelle parole e nelle opere. Prega qualche po’ tutti i giorni; ogni dì festivo pratica i tuoi doveri cristiani, ascoltando bene la Messa ela parola di Dio, ai tempi nostri più necessaria del pane; ogni mese, se puoi (e basta che tu il voglia), accostati con le dovute disposizioni ai SS. Sacramenti; fatti ascrivere, se ancora non sei ascritto, a qualche buona associazione per partecipare anche tu vivamente, ma sempre in obbedienza a chi di ragione, all’Azione Cattolica; infine mettiti sotto il manto di Colei, che giustamente invocata sotto il titolo di Aiuto dei Cristiani, per averli preservati dai nemici della fede, scamperà te pure da tutti i dardi, che contro di essa ti si possano scagliare. Ed allora anche tu, giunto al termine della vita, che ti auguro lunga e felice, potrai dire come S. Paolo: « Ho conservata la fede; non mi rimane che riceverne la corona da Dio ». Ed io pure, allargando vieppiù i l cuore alla fiducia nella bontà del Signore, mi terrò confortato per avere colla divina grazia qualche po’ cooperato a porre in difesa e salvezza dell’anima tua … Lo Scudo della fede.

CONOSCERE SAN PAOLO (47)

LIBRO V

I canali della redenzione.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

CAPO III.

La Chiesa.

III. IL GOVERNO DELLA CHIESA.

1. I DIGNITARI ECCLESIASTICI. — 2. POTERE COERCITIVO DELLA CHIESA. — 3. RIASSUNTO E CONCLUSIONI.

1. Tutte le cristianità fondate da san Paolo dipendevano direttamente da lui; su lui pesava veramente « la sollecitudine di tutte le Chiese ». Si può domandare se questo concentramento, col prolungare il periodo delle incertezze, non ritardasse lo sviluppo dell’episcopato monarchico; ma esso era necessario nelle origini, per stringere i vincoli dell’unità e per evitare i pericoli di scismi. Non si dovrebbe però conchiuderne che le Chiese di Paolo fossero sprovviste di ogni organizzazione gerarchica: non appena una cristianità era uscita dallo stadio embrionale, riceveva sempre capi e direttori. San Luca ci dice che Paolo e Barnaba, al ritorno dalla loro comune missione in Asia minore, elessero degli anziani (πρεσβυτέρους = presbuterous) dovunque passarono. Tale elezione, accompagnata da preghiere e da digiuni, non fu una semplice designazione dei candidati, ma una cerimonia liturgica che li insediava nelle loro nuove funzioni; infatti fino dai primissimi tempi la consacrazione dei sacri ministri si fa sempre in mezzo a digiuni ed a suppliche solenni. Siccome il racconto degli Atti è rappresentativo, e san Luca non suole ripetere quello che già si può sottintendere e quello che già ha detto una volta per sempre, non vi è punto da fare le meraviglie se tale menzione è isolata, e si deve invece supporre che tale fosse dappertutto la pratica dei missionari. Infatti si fa accidentalmente menzione degli anziani di Efeso (Act. XX, 17) la cui nomina non è raccontata in nessun luogo. – A Tessalonica, pochi mesi dopo la fondazione di questa Chiesa, constatiamo la presenza di operai, di presidenti e di ammonitori ai quali i fedeli devono amore, rispetto e gratitudine. Non sappiamo se essi si siano assunta tale carica spontaneamente col consenso dei neofiti, oppure se a loro fu affidata dall’Apostolo: sta sempre il fatto però che fu sempre riconosciuta e sanzionata da lui. Paolo ricorda ad essi i loro doveri: « Riprendete gli indisciplinati, incoraggiate i pusillanimi, sostenete i deboli, usate longanimità con tutti, vigilate affinché nessuno renda male per male (I Tess. V, 12-14) ». Questi personaggi la cui funzione è di lavorare per l’opera di Dio, di presiedere alle assemblee religiose, di avvertire i fratelli e, occorrendo, di ammonirli, e che in cambio hanno diritto alla stima, all’affetto, alla riconoscenza, occupano una posizione ufficiale o quasi ufficiale. Hanno essi il grado di diaconi o di anziani? L’analogia c’invita a crederlo, benché essi non ne portino il titolo. Una tradizione, già antica al tempo di Origene, considerava Caio, l’ospite di san Paolo a Corinto, come il primo vescovo di Tessalonica. – Si cita volentieri Corinto come tipo di assemblea democratica; è vero che l’Apostolo lascia alla libera scelta dei Corinzi la designazione degli arbitri incaricati di risolvere i litigi, e dei delegati che devono portare a Gerusalemme il frutto delle collette (I Cor. VI, 4-5); pur tuttavia egli conserva sotto la sua tutela immediata quella comunità turbolenta; egli vi si fa rappresentare quasi in permanenza da suoi coadiutori (I Cor. VI, 4-5): egli è sempre quello che regola, giudica e decide in ultimo appello (I Cor. V, 1-13). Accanto al ministero transitorio e carismatico, così fiorente a Corinto, vi era anche un ministero gerarchico e permanente? Chi presiedeva l’agape e chi celebrava l’eucaristia! Non possiamo dirlo, perché le informazioni che ne abbiamo sono quanto mai frammentarie e si riferiscono alle prime origini, al periodo dei tre o quattro anni che seguirono la fondazione. Ma in mancanza di informazioni più precise, noi pensiamo che la Chiesa di Corinto fosse organizzata sul modello delle altre cristianità. – La comunità di Filippi aveva appena dieci anni di vita, quando vi mandava un saluto particolare ai sacerdoti (ἐπίσκοποι = episcopoi) e ai diaconi (Fil. I, 1). Forse quei personaggi avevano presa una parte speciale nella colletta in favore di Paolo prigioniero; forse voleva così Paolo riconoscere loro servizi e rafforzare la loro autorità. La menzione collettiva degli ἐπίσκοποι (= episcopoi) non dimostra assolutamente che essi formassero un collegio di eguali: essa potrebbe comprendere lo stesso presidente, se ai suppone che Epafrodito, « il fratello, il collaboratore ed il compagno d’armi di Paolo (Fil. II, 25) », occupasse il primo posto. tuttavia è più probabile che anche là. come altrove, la giurisdizione suprema, fosse devoluta al rappresentante dell’Apostolo. – Ad Efeso ed a Creta la situazione è chiara: i delegati di Paolo, investiti del suo potere, sono incaricati di stabilire sacerdoti e diaconi, di reprimere gli eretici e gli spiriti turbolenti, di punire i delinquenti, non eccettuati i membri del clero, a patto di osservare le forme giudiziarie (I Tim. I, 3). Quando sarà tempo saranno sostituiti da un solo personaggio, di modo che il governo di quelle Chiese presenta la forma quasi monarchica (Tit. III, 12); alla testa vi è il rappresentante di Paolo, che esercita una giurisdizione suprema; sotto di lui, il collegio dei sacerdoti, le cui funzioni non sono ancora bene determinate; nell’ultimo grado del clero vi sono i diaconi. Non si fa nessuna allusione ad un ministero carismatico. L’organizzazione gerarchica è in via di progresso, e si va gradatamente verso una costituzione definitiva. L’Apostolo non aveva concesso l’autonomia completa alle chiese recentemente fondate, perciò i suoi luogotenenti erano continuamente in giro per visitare e riformare le cristianità che dipendevano da lui: egli era l’unico pastore dell’immensa diocesi che aveva conquistato alla fede del Cristo. Né in Grecia, né in Macedonia, né in Galazia, né a Creta, né ad Efeso vi fu, mentre egli era vivo, altro vescovo che lui ed i suoi delegati. L’antica tradizione che considerava Caio di Corinto come primo vescovo di Tessalonica, ha tutte le apparenze di verità, perché nulla si opponeva alla sua designazione a quel posto lontano; ma non è detto — e non è affatto probabile — che Caio fosse vescovo mentre viveva Paolo. E non erano neppure vescovi Tito e Timoteo. Tito, lasciato a Creta per organizzare quella cristianità, doveva raggiungere il suo capo quando fosse giunto chi doveva sostituirlo; non più stabile era la posizione di Timoteo ad Efeso, e l’Apostolo non tardò a richiamarlo. Insomma, le Chiese dipendenti da Paolo erano servite da diaconi e regolate da un consiglio di dignitari, chiamati indifferentemente πρεσβυτέροι (= presbuteroi) o ἐπίσκοποι (= episcopoi), sotto la sorveglianza sempre desta e sotto la tutela sempre attiva del fondatore o dei suoi sostituti. – Nei primissimi tempi, quando una comunità si riduceva ad un piccolo nucleo di fedeli, i carismi potevano supplire provvisoriamente all’assenza o all’imperfezione della gerarchia ordinaria, perché alcune di quelle grazie avevano per oggetto l’istruzione o il governo; e forse quello stato di cose si prolungò alquanto a Corinto che si distingueva per i doni carismatici. Non dobbiamo dimenticare che, eccetto per la Galazia meridionale, nessuna delle fondazioni di Paolo precedette il suo martirio di più di quindici o sedici anni: quasi tutte erano assai più giovani quando l’Apostolo si occupava dei loro affari. Anche al tempo delle Pastorali, la cristianità di Efeso non contava più di dodici anni di vita, e quelle di Creta erano nate appena allora. – La maniera con cui si faceva la designazione dei sacri ministri dovette variare secondo i luoghi e i tempi. I primi sette diaconi ellenisti di Gerusalemme furono presentati dai fedeli e ordinati dagli apostoli, e fu quello forse un atto di condiscendenza dettato ai Dodici dal desiderio di togliere ai malcontenti ogni pretesto d’insubordinazione ed ogni motivo di lagnanza. Ma Paolo e Barnaba, senza andare evidentemente contro il desiderio dei neofiti e senza trascurare le indicazioni fomite dall’attitudine dei candidati, sembra che consultassero soltanto se stessi quando diedero degli anziani ad ogni Chiesa recentemente fondata (Act. XIV, 23). Nel dominio di Paolo non vediamo che i semplici fedeli abbiano mai avuto parte all’elezione dei dignitari ecclesiastici propriamente detti, poiché gli arbitri ed i portatori di limosine di Corinto, eletti col suffragio del popolo, non appartengono alla gerarchia sacra. È certo che né Tito né Timoteo, tra le loro istruzioni, non hanno quella di sottoporre ai fedeli la scelta o l’approvazione dei diaconi o dei sacerdoti, benché debbano tener conto della buona riputazione degli ordinandi, così nella Chiesa come fuori di essa (I Tim. III, 1-14). Se il governo dell’Apostolo non era né dispotico né arbitrario, il regime democratico non era però di suo gusto.

2. Come ogni società perfetta, la Chiesa possiede inalienabilmente il diritto di reggersi, di difendersi e di perpetuarsi, diritto che deriva direttamente dal suo stesso diritto di vivere. Il potere di governarsi le viene da Dio: « Vigilate su voi stessi e su tutto il gregge nel quale lo Spirito Santo vi ha stabiliti custodi,: governare la Chiesa di Dio che egli si è acquistata col suo proprio sangue (Act. XX, 28) », dice san Paolo agli anziani di Efeso accorsi per ricevere le sue ultime raccomandazioni. Queste parole sono da meditarsi. Le persone di cui si tratta, hanno soltanto un’autorità subordinata, eppure sorvegliano, ispezionano, governano i fedeli di Gesù. Cristo. Benché siano stati designati e costituiti dagli uomini, hanno la loro autorità dallo Spirito Santo dal quale essa, in ultima analisi, deriva. – La loro carica è locale, la loro giurisdizione è ristretta, e tuttavia essi governano la Chiesa di Dio, perché la Chiesa è una e indivisibile. In quanto al potere di legiferare, san Paolo, lo riserva a sé: egli conosce una sola autorità superiore alla sua, quella del Cristo; egli sa benissimo distinguere i precetti del suo Maestro dai suoi propri (I Cor. VII, 8, 10, 25), ma ha coscienza di comandare egli stesso in nome di Colui dal quale è mandato: « Se alcuno è profeta o dotato dello Spirito, scrive egli ai Corinzi ai quali ha fatto alcune ingiunzioni, questi deve riconoscere che quello che scrivo è il comandamento del Signore (I Cor. XIV, 37) » Terribili sono le minacce contro i ribelli e gli insubordinati (II Cor. XIII, 16). Nessuno deve prendere per debolezza il suo esteriore umile e la sua meschina apparenza. « Le armi con cui combattiamo non sono di carne, ma esse sono potenti (di tutta la potenza) di Dio per rovesciare fortezze. (Con esse) noi rovesciamo i ragionamenti ed ogni ostacolo che ci oppone alla conoscenza di Dio; e noi sottomettiamo ogni pensiero all’obbedienza di Cristo; noi siamo perciò pronti a punire ogni disobbedienza quando la nostra obbedienza sarà completa (II Cor. X, 4-6) ». Egli dunque si arroga un intero dominio, non soltanto sulla volontà dei fedeli, ma anche sulla loro intelligenza; potere veramente sovrumano e, come dice egli stesso, divino. Ma se l’Apostolo, né a Corinto né altrove, ammette autorità capace di imporsi alla sua,  riconosce in tette le Chiese un’autorità accanto e sotto la sua: egli investe del suo potere Tito e Timoteo (I. Tim. I, 3; Tit. I, 5); comanda ai Tessalonicesi ed ai Corinzi di far valere il loro potere; si rallegra con questi ultimi perché se ne servirono con moderazione (I Tess. V, 14; I Cor. V, 2, 13); ricorda agli anziani di Efeso il loro diritto e il loro dovere di governare la Chiesa di Dio (Act. XX, 28). – Se la Chiesa primitiva ai nemici esterni oppose soltanto la resistenza passiva, il non possumus, di cui gli Apostoli avevano dato la formula e l’esempio (Act. IV, 20), le occorrevano altre armi contro i nemici interni, soggetti alla sua giurisdizione per il Battesimo (I Cor. V, 12-13). Nel minacciare le sue severità ai faziosi di Corinto, Paolo non suppone neppure che il suo diritto di castigare i colpevoli possa essere messo in dubbio: « Ecco che io vengo a voi per la terza volta; tutto sarà regolato sulla deposizione di due o tre testimoni. Già ho detto, e lo ripeto ora che sono assente come l’ho fatto quando ero presente, a quelli che hanno peccato ed a tutti gli altri, che se io vengo non perdonerò più… Scrivo questo nella mia assenza affinché, nella mia presenza, non abbia da usare con troppo rigore il potere che il Signore mi ha dato per edificare e non per distruggere (II Cor. XIII, 1-2, 10) ». Sempre l’Apostolo rivendica con la stessa energia il suo diritto di punire. La sua repressione non sarà arbitraria, egli manterrà le forme giuridiche, ma castigherà i delinquenti secondo le loro colpe e non farà grazia se non al pentimento (II Cor. XII, 21). Egli prescrive a Timoteo la stessa pratica: « Non ricevere l’accusa contro un anziano se non su testimonianza di due o tre persone. Riprendi dinanzi a tutti, quelli che hanno peccato, affinché gli altri ne concepiscano timore (I Tim. V, 19-20) ». Le pene inflitte da san Paolo erano la riprensione, l’esclusione temporanea e l’anatema. Uno dei primi doveri dei capi della Chiesa è di riprendere coloro che fanno male; vi erano due sorta di ammonizioni: una paterna, o fraterna che poteva essere privata; l’altra più ufficiale e meno benigna che doveva essere pubblica. Sembra che san Paolo indichi, come il Vangelo, che queste due riprensioni erano successive e servivano come preludio ad una correzione più grave: « Dopo una o due ammonizioni, evita il fazioso (il fautore di scisma o di partiti) sapendo che un tal uomo è pervertito e che pecca, condannato dal suo proprio giudizio (Tit. III, 10) ». La scomunica poi aveva due forme totalmente diverse: l’una era soltanto la separazione temporanea dei Cristiani turbolenti o scandalosi, la cessazione provvisoria delle relazioni con loro finché non si fossero emendati: tali erano gli scioperati di Tessalonica; tali i peccatori pubblici di Corinto (II Tess. III, 14 e I Cor. V, 2-7); tali i novatori delle Pastorali, eccetto che questi ultimi non appartenessero alla categoria dei criminali ostinati e incorreggibili che Paolo abbandona a satana per insegnare loro a non bestemmiare: di tale anatema aveva colpito Imeneo e Alessandro (I Tim. I, 20). Per un momento aveva anche pensato di scagliarlo contro l’incestuoso di Corinto, ma poi si contentò di una pena meno severa (I Cor. V, 5), e si rallegrò anzi con la Chiesa che avesse perdonato, poiché il diritto di punire i ribelli implica quello di perdonare i pentiti. La cura con cui certe corporazioni greche, come gli erani ed i tiasi cercavano di schivare l’ingerenza dello Stato nei loro affari interni, le penalità che infliggevano ai membri delinquenti — multe in denaro o in natura, esclusione dalle feste e dai banchetti, espulsione dalla società — illustrano ben poco la costituzione primitiva delle comunità cristiane che non erano affatto formate su tale modello. Potrebbe darne un’idea più giusta l’organizzazione delle comunità ebree nella Diaspora; ma tali comunità erano associazioni legali che, al bisogno, avevano l’appoggio o almeno la tolleranza della forza pubblica. In esse il consiglio degli anziani aveva un potere discrezionale civile e religioso; condannava alla pena del bastone con una liberalità che ci fa stupire, dava la scomunica semplice e la scomunica solenne accompagnata da anatema, la quale era certamente un equivalente mitigato della lapidazione, nei casi in cui questa non era più praticabile. Invece tra i primi Cristiani non troviamo nessun esempio di castighi corporali: le pene si riducevano alla riprensione, all’allontanamento temporaneo ed alla scomunica, con l’abbandono del colpevole nelle mani di satana. Nessuna di queste pene, neppure l’ultima, era puramente vendicativa: la Chiesa non dimentica le raccomandazioni del suo fondatore divino; il suo scopo non è il dominio: il suo ideale non è d’inspirare il terrore e di ostentare la sua forza: la misura ed il limite del suo potere è la difesa delle verità di cui essa fu costituita « la colonna ed il fermo appoggio » (I Tim. III, 15).

3. Riassumiamo in poche parole la concezione della Chiesa quale risulta dagli scritti e dalla pratica dell’Apostolo. Nel dominio di Paolo, tutte le cristianità, dalla loro fondazione o pochissimo tempo dopo, sono provviste di un clero stabilito da lui o dai suoi delegati. Questo clero, oltre i diaconi, comprende altri personaggi chiamati indifferentemente presbiteri o episcopi: i nomi potevano essere sinonimi senza che tali fossero le funzioni; ma la sinonimia dei nomi si poteva estendere anche alle funzioni. Perciò si possono fare tre ipotesi diverse: o i dignitari superiori erano tutti vescovi; oppure erano in parte vescovi e in parte sacerdoti, benché i nomi fossero comuni; oppure erano tutti semplici sacerdoti. Di queste tre ipotesi l’ultima è la sola soddisfacente: la prima che piacque per qualche tempo a Petau, è assolutamente destituita di prove e urta contro gravi obbiezioni; la seconda non è meno precaria, perché ciò che distingue essenzialmente il vescovo dal sacerdote è il potere dell’ordine; ora noi non troviamo la minima traccia di tale potere nel clero sedentario delle Chiese di Paolo. Ogni volta che si trattava di fondare una nuova comunità o di stabilirvi sacerdoti e diaconi, Paolo interveniva personalmente o vi mandava qualcuno dei suoi delegati: Timoteo al quale egli stesso aveva imposto le mani; Tito, il suo collaboratore più attivo; probabilmente Luca che sembra abbia organizzato la Chiesa di Filippi; forse Tichico e Artema che dovevano sostituire a Creta Tito chiamato altrove; e altri ancora senza dubbio. Ma sarebbe un paralogismo il supporre che le cose andassero dovunque in questa maniera, e ben diversa poteva essere la situazione delle comunità cristiane di Gerusalemme, di Antiochia, di Roma e di Alessandria: la gerarchia a tre gradi dovette esistere già nei tempi apostolici. Senza appartenere al clero, le vedove lo aiutavano e lo supplivano talora tra l’elemento femminile. Esse non entravano nell’ordine delle vedove col solo fatto della loro vedovanza, ma con la professione espressa della vedovanza, con la ratifica formale della Chiesa che le prendeva a suo carico sotto certe condizioni. In quanto poi alle pretese diaconesse, queste probabilmente, presso san Paolo, sono semplicemente le mogli dei diaconi o persone che avevano ricevuto dallo Spirito Santo il carisma speciale della διακονία ( = diakonia). Se, nonostante tutto, l’organizzazione delle Chiese paoline sembra alquanto rudimentale, ed il compito dell’autorità sedentaria assai ridotto, bisogna tener conto di quattro circostanze che facilmente si dimenticano. Tutte le cristianità nelle quali le Epistole di san Paolo ci permettono di gettare uno sguardo furtivo, sono di fondazione recentissima: le più antiche datano da otto o dieci anni al massimo; le altre sono appena nate. Dobbiamo meravigliarci di trovarle ancora sotto tutela e possiamo pretendere che abbiano già raggiunto il loro pieno sviluppo? Le città che san Paolo aveva scelto come sua porzione speciale per offrirle al Cristo, erano tra le più turbolente e le più indisciplinate del mondo romano. Se avesse abbandonato quelle cristianità a se stesse, invece di tenerle direttamente in sua mano e di governarle per mezzo di suoi delegati, correva il rischio di vederle consumarsi in brighe e querele interne, come avveniva delle assemblee democratiche di quel tempo e di tutti i tempi. Bisognava pure prevenire il pericolo dell’isolamento. L’unione delle comunità ebreo-cristiane, era cementato dal sentimento nazionale altrettanto, se non più, che dal sentimento religioso. Il primo vincolo mancava nelle chiese della gentilità, poiché l’amore di patria non esisteva nel mondo ellenico, oppure si confondeva con l’orgoglio della stessa città. In tali condizioni, un’autonomia troppo completa o troppo affrettata era un pericolo permanente di scisma e di eresia. Forse i doni carismatici, più abbondanti in origine, supplivano in qualche misura al difetto di organizzazione gerarchica. Quello stato di cose era passeggero, ma poteva servire di transizione tra la prima infanzia delle Chiese e l’epoca della loro maturità.

CONOSCERE SAN PAOLO (46)

LIBRO V

I canali della redenzione.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

CAPO III.

La Chiesa.

II. LA VITA DELLA CHIESA.

1. IL CRISTO MISTICO. — 2. IL CORPO MISTICO DEL CRISTO. — 3. LO SPIRITO SANTO NELLA CHIESA. — 4. LO SPIRITO E IL CRISTO. — 5. LA COMUNIONE DEI SANTI. 6. NEL CRISTO GESÙ.

1. Nell’epistola agli Efesini abbiamo studiato l’essere collettivo formato dall’unione del Cristo e della Chiesa, la sua analogia col corpo umano, le sue principali proprietà, i suoi rapporti col mistero della redenzione. Dobbiamo ora spingere più innanzi questa dottrina, dedurne le conseguenze ed esaminarne il valore. La Chiesa è il « complemento del Cristo (Ephes. I, 23) », come il tronco è il complemento della testa, come le membra sono il complemento dell’organismo. La testa non può nulla senza il corpo; l’organismo non funziona regolarmente se manca qualche organo. Così pure il Cristo senza la Chiesa sarebbe un essere incompleto: incompleto come redentore, poiché la grazia che Egli possiede per diffonderla, rimarrebbe inattiva; incompleto come secondo Adamo, poiché Egli è tale soltanto per il suo carattere rappresentativo; incompleto come Cristo, poiché il Cristo è anche, in san Paolo, una personalità collettiva. Così il Cristo « si completa in tutti, in tutte le maniere »: nei membri della gerarchia sacra come Capo della Chiesa, nei semplici fedeli, come Salvatore e santificatore. Origene fa, sopra questo testo, una profonda riflessione: « La Chiesa è il corpo del Cristo; ma si deve forse considerare come il tronco, distinto dalla testa e da questa governato, oppure tutta la Chiesa del Cristo sarebbe il corpo del Cristo, animato dalla sua divinità e ripieno del suo spirito, secondo l’analogia del corpo umano del quale fa parte anche la testa? Nel secondo caso, quello che vi è di umano in lei sarà un elemento del corpo, e quello che vi è di divino e di vivificante formerà come la potenza divina che anima tutta la Chiesa ». Se lasciamo da parte certe espressioni che avrebbero bisogno di spiegazione, la questione è posta molto bene. San Paolo infatti considera il Cristo e la Chiesa in due maniere assai diverse: qualche volta la Chiesa è paragonata al tronco in opposizione alla testa, e allora la Chiesa e il Cristo sono le due parti integranti del corpo mistico. Tale è il caso di tutti i passi in cui la persona del Cristo è assimilata alla testa (Ephes. I, 22; II Cor. IV, 15). Ma non sempre è così: molte volte la Chiesa e il Cristo sono sinonimi o si distinguono soltanto per una sfumatura di significato appena percettibile; il Cristo e la Chiesa sono un tutto completo; la Chiesa è nel Cristo e il Cristo è nella Chiesa, e l’uno e l’altra si possono sostituire col corpo del Cristo senza mutare notevolmente il significato. Questo fenomeno avviene in tre serie di testi: anzitutto quando il Cristo si presenta come una personalità collettiva, come la vera stirpe di Abramo e la sua « discendenza (spirituale), che è il Cristo (Gal. III, 16) »,  come la somma integrale dei membri il cui insieme forma il corpo « del Cristo (I Cor. XII, 12) ». Qui è il caso di applicare le parole di sant’Agostino, quello, tra i Padri, che più frequentemente e meglio di tutti ha parlato del corpo mistico: « Totus Christus caput et corpus est ». — Poi nelle espressioni rivestire il Cristo, essere immersi nel Cristo, essere innestati sul Cristo: « Voi tutti che siete stati battezzati nel Cristo (εἰς Χριστόν= eis Kriston), avete rivestito il Cristo (Gal. III, 17)… Se sei stato innestato contro natura sopra il buon olivo, quanto più (i rami naturali) saranno innestati sopra l’olivo (che li portava) (Rom. XI, 24) ». — Finalmente nella formula tanto caratteristica in Christo, in Christo Jesu.

2. L’assimilare le società politiche all’organismo del corpo umano è cosa vecchia quanto il mondo, come lo prova il famoso apologo riferito da Tito Livio: alla plebe che si lagnava al vedere il senato attribuirsi tutti gli onori e arrogarsi tutti i privilegi, Menenio Àgrippa seppe dimostrare che lo stomaco, questo organo vorace ed ozioso per il quale si stancano tutte le altre membra, non è il meno necessario al benessere comune. San Paolo adoperava la stessa similitudine per far comprendere che la diversità dei doni spirituali, ben lungi dal nuocere all’unione dei fedeli, tende invece a stringerla di più: “Poiché come noi abbiamo più membra in un solo corpo e tutte le membra non hanno la stessa funzione; così, collettivamente, noi formiamo un solo corpo nel Cristo, e individualmente siamo membra gli uni degli altri” (Rom. XII, 4-5). Le altre società possono benissimo prendere per metafora il nome di corpo, perché la tendenza ad un medesimo fine, i vincoli di autorità e di dipendenza, i diritti e i doveri reciproci danno loro un’unità morale che li somiglia ad un organismo vivente. Ma l’unione del corpo mistico del Cristo è di natura più eccellente. Se si chiama mistico, questo si fa non per negargli le proprietà reali, ma per distinguerlo dal corpo fisico preso dal Verbo nel seno di Maria, per indicare i suoi rapporti con quello che san Paolo chiama il Mistero, e soprattutto per esprimere certe proprietà misteriose dell’ordine soprannaturale le quali, sebbene sfuggano alla verificazione dell’esperienza sensibile, sono tuttavia vere realtà. In questo composto meraviglioso vi è azione reale della testa su tutte le membra e su ciascun membro, reazione delle membra le une su le altre, per la comunione dei santi, compenetrazione reale dello Spiriti Santo che vivifica tutto il corpo e vi forma il più perfetto dei vincoli, la carità. Ciò che distingue essenzialmente il corpo mistico dagli enti morali che abusivamente si fregiano del nome di corpo, è che esso è dotato di vita, e che la sua vita gli viene dall’interno. Il testo sopra citato è appena un abbozzo della dottrina. In esso Paolo si propone soltanto di esortare ciascuno dei fedeli a contentarsi della sua porzione di grazie, con questa considerazione, che i beni spirituali della Chiesa, qualunque sia il membro che li possiede, sono per così dire comuni a tutti, poiché noi siamo membra gli uni degli altri. A questa unione di solidarietà egli dà un’espressione più ampia o più completa nella sua prima Epistola ai Corinzi: “Come il corpo è uno, benché abbia più membra, e tutta le membra di questo corpo, nonostante il loro numero, formano un solo corpo; cosà è del Cristo. Tutti infatti siamo stati battezzati in un medesimo Spirito per (formare) un solo corpo, ed Ebrei, e Greci, e schiavi, e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un medesimo Spirito. Poiché il corpo non è un solo membro, ma più membra. Se il piede dicesse: Perché non sono la mano, io non sono del corpo; forse che per questo non sarebbe del corpo? E se l’orecchio dicesse: Perché non sono l’occhio, io non sono del corpo; forse che per questo non sarebbe del corpo! Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? e se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? Ebbene, Dio ha disposto le membra nel corpo, ciascuno al posto che piacque a lui. Se tutti fossero un medesimo membro, dove sarebbe il corpo? Vi sono dunque più membra e un solo corpo. – L’occhio non può dire alla mano: Io non ho bisogno di te; né la testa può dire ai piedi: Io non ho bisogno di voi. Al contrario, le membra del corpo reputate più deboli sono le più necessarie; e quelle che noi stimiamo meno onorevoli circondiamo di maggior onore; e le meno oneste trattiamo con più decenza, poiché quelle oneste non ne hanno bisogno. Dunque Dio ha disposto il corpo in modo da dare più onore a quello che ne mancava; affinché non vi sia divisione nel corpo, ma tutte le membra siano piene di sollecitudine vicendevole. Se un membro soffre, tutte le membra soffrono; se un membro è onorato, tutte le membra partecipano alla sua gioia. Ora voi siete (insieme) il corpo del Cristo e individualmente le sue membra” (I Cor. XII, 12-27).La diversità degli organi in un corpo umano non è soltanto un elemento di bellezza, ma è una condizione essenziale di vita. Nelle membra del corpo mistico, essa non deriva dalla loro qualità di Cristiani, perché a questo riguardo non vi è tra loro nessuna differenza; non viene neppure dalla loro qualità di uomini, poiché le differenze stabilite dalla natura non contano nulla sotto l’aspetto di Cristiani; Paolo la fa derivare da quei doni gratuiti che lo Spirito Santo concede ai fedeli per il bene comune della Chiesa: apostolato, profezia, discorso di sapienza o di scienza, discernimento degli spiriti, potere di guarire gli ammalati, di operare miracoli, attitudine a governare, a insegnare, a soccorrere i poveri, a consolare gli afflitti, a praticare altre opere di misericordia. Questi esempi sono assai ben scelti, essendo icarismi, per definizione, proprietà sociali ed avendo per autore lo stesso Spirito Santo il quale forma a suo piacimento il corpo mistico del quale è l’anima; ma tutto quello che dice l’Apostolo, si potrebbe applicare alla gerarchia ordinaria e forse anche alla disuguaglianza che nei santi è prodotta dalla differenza di cooperazione alle diverse chiamate della grazia. L’uomo è per essenza un essere sociale. Un filosofo pagano disse: « Noi siamo tutti fatti per un’azione comune… l’opporsi gli uni agli altri è dunque contro natura (Marco Aurelio, Pensieri, II, 1) ». Se ciascuno degli organi avesse l’istinto di attirare tutto a sé, il corpo intero non tarderebbe a perire: la stessa cosa avverrebbe del corpo sociale; ma la natura ci premunisce contro l’egoismo. Essa ci fa capire che noi non bastiamo a noi medesimi, che ciascun membro ha la sua utilità, che le membra più deboli sono sovente le più necessarie, che le meno nobili sono quelle che si sogliono trattare con maggior onore, che la salute generale dipende dal buon funzionamento dell’insieme, e che il benessere di tutti è subordinato al buono stato di ciascuno. Questa verità si dimostra soprattutto con la sua stessa evidenza, né noi v’insisteremmo se Paolo non ci desse la vera formula dell’altruismo cristiano: « Noi siamo membra gli uni degli altri (Rom. XII, 5) ». L e altre membra non ci sono estranee, ma sono qualche cosa di noi stessi; esse lavorano per noi, come noi lavoriamo per loro; noi abbiamo bisogno del loro aiuto e dobbiamo dare loro l’aiuto nostro. La funzione sociale che riassume l’attività del corpo organico è la comunanza di vita. Il membro non vive di vita propria, ma della vita del corpo; per questo fa bisogno che esso sia unito alla testa da cui deriva l’influsso vitale, e così pure che sia unito alle altre membra che glielo trasmettono, ciascuno nella propria sfera. Il membro separato dalla testa non vive più; isolato dalle altre membra vivrebbe di una vita imperfetta e precaria. San Paolo ce lo dice quando descrive quel visionario di Colossi, « che non aderisce alla testa da cui tutto il corpo, tenuto e unito insieme per mezzo di giunture e di legamenti, riceve l’accrescimento voluto da Dio »; poiché per mezzo del Cristo, « per mezzo della testa, tutto il corpo bene organizzato e saldamente unito, in forza del mutuo aiuto di tutte le membra, operando ciascun membro secondo la propria misura, cresce e si edifica nella carità (Col. II, 18) ». Spesso si è paragonato il Corpo mistico di san Paolo alla Vite allegorica di san Giovanni (Giov. XV, 1-6). I rapporti sono chiari: da tutte e due le parti la vita soprannaturale è somigliata al crescere di un essere vivente, crescere che è dovuto ad un principio interno e che ha per condizione essenziale l’unione al centro della vita. Ma anche le differenze sono degne di nota: in san Giovanni, i rami, direttamente uniti al tronco, ricevono direttamente da esso il succo; in san Paolo invece le membra, unite al capo da altre membra, ricevono l’influsso vitale per mezzo di queste. Il primo considera piuttosto la vita individuale dei credenti, mentre san Paolo mira soprattutto alla vita sociale della Chiesa, che regola e misura il crescere di ciascun fedele. Ma tanto per l’uno quanto per l’altro, l’agente della vita soprannaturale è lo Spirito Santo.

3. Lo Spirito Santo è l’anima del corpo mistico; ora come l’anima nobilita il corpo umano con la sua presenza, lo vivifica col suo contatto, lo muove con la sua attività, così lo Spirito Santo anima il Corpo mistico del Cristo: Egli è l’ospite divino della Chiesa e di ciascun fedele; è il motore e agente unico nell’ordine soprannaturale; Egli è pure u n dono, dono comune del Figlio e del Padre, ed Egli stesso si dà come il più prezioso dei suoi doni. Lo Spirito Santo abita in noi come in un suo tempio, « questo tempio ora è la Chiesa intera, ora una cristianità, ora l’anima individuale: « L o Spirito Santo abita in voi (I Cor. III, 16). — Il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi (I Cor. VI, 19).— Se lo Spirito di Colui che ha risuscitato Gesù da morte abita in voi, colui che ha risuscitato Gesù da morte vivificherà i vostri corpi mortali per causa del suo Spirito che abita in voi (Rom. VIII, 11) ». Siccome lo Spirito Santo è lo Spirito del Padre e lo Spirito del Piglio, Egli pure abiterà dove abitano il Padre e il Figlio: « Non sapete che voi siete il tempio di Dio? (I Cor. III, 16) — Il  tempio di Dio è santo, e voi siete questo tempio (I Cor. III, 17). — Noi siamo il tempio del Dio vivente (II Cor. VI, 16). — Voi siete stati edificati in un tempio di Dio nello Spirito (Ephes. II, 22). — Il Cristo abita nei vostri cuori per la fede (Ephes. III, 17) ». Ospite dell’anima nostra, lo Spirito di santità non vi rimane inoperoso, ma al suo soffio sboccia tutta la fioritura della nostra vita spirituale. Egli è perciò chiamato da san Paolo « Spirito di vita (Rom. VIII, 2) » e da san Giovanni « Spirito vivificante (Giov. VI, 63) ». Tutti i carismi, di qualsiasi natura, sono conferiti da Lui (I Cor. XII, 4). A Lui l’Apostolo deve la rivelazione del gran mistero che è l’articolo fondamentale del suo Vangelo: poiché lo Spirito che serata le profondità di Dio le rivela a chi vuole (I Cor. II, 10). La sua azione si estende a tutti i Cristiani e a tutte le manifestazioni della vita soprannaturale, dalla rigenerazione battesimale fino alla beatitudine eterna. L’obbedire agl’impulsi della grazia vien detto comunemente « camminare nello Spirito, essere mosso dallo Spirito (Rom. VIII, 4-14) »; il complesso di tutte le virtù è « il frutto dello Spirito (Gal. V, 22) »; tutto ciò che ci eleva sopra la nostra natura carnale e psichica, tutto ciò che ci getta in un’atmosfera divina, tutto ciò che ci trasforma in esseri spirituali, secondo l’espressione cara a san Paolo, riceve il nome generico di spirito per allusione alla fonte da cui emana. Lo Spirito Santo è amore, ed è proprio dell’amore il dare, il dare se stesso con i suoi doni. L’amore con cui Dio ci ama, si manifesta col dono dello Spirito e nel tempo stesso con un’effusione di grazia santificante che è un effetto dello Spirito presente in noi. Questa effusione non è transitoria, ma è inerente e sussiste inseparabilmente unita allo Spirito che ne è la sorgente: « L’amore di Dio è diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci fu dato (Rom. V, 5) ». In noi vi è dunque qualche altra cosa oltre lo Spirito: vi è il prodotto della sua attività. Siccome poi questa effusione è necessariamente finita, poiché viene ricevuta in un essere finito, essa è suscettibile di aumenti indefiniti. Ecco perché san Paolo dice qualche volta che noi abbiamo ricevuto « le primizie (Rom. VIII, 23) » o i « pegni dello Spirito (II Cor. I, 22) ». Noi abbiamo bensì ricevuto lo Spirito tutto intero, perché lo Spirito è indivisibile; ma abbiamo ricevuto soltanto una porzione — e la più piccola, o meglio la meno apparente — dei beni che ci ha destinati. Si è fatta la questione se, per giustificare tutte queste affermazioni dell’Apostolo e le interpretazioni dei Padri, non si dovrebbe concedere allo Spirito Santo un modo speciale di presenza. L’unione dell’anima giusta con Dio avviene direttamente con la natura divina, oppure con la mediazione dello Spirito Santo? Nel primo caso essa riguarderebbe tutte e tre le persone divine a pari titolo e non si potrebbe riferire ad una di esse se non per appropriazione; nel secondo caso invece essa sarebbe propria dello Spirito Santo, e le altre due Persone vi parteciperebbero soltanto per concomitanza, in virtù di quella compenetrazione reciproca che loro non permette di essere separate. È noto che il dotto Petau immaginò, per l’abitazione dello Spirito Santo in noi, qualche cosa di analogo all’unione del Verbo incarnato con la natura umana. Vi mette però una differenza: nell’unione ipostatica del Verbo, un vincolo sostanziale e indissolubile congiunge i due estremi; mentre nell’abitazione dello Spirito Santo il vincolo sarebbe soltanto accidentale — perché essa avrebbe luogo con una facoltà dell’anima e non con la sua sostanza, e si potrebbe sciogliere — ma sarebbe tuttavia personale allo Spirito di santità. Questa teoria seducente è però assai difficile da concepirsi, e lo stesso suo inventore non riuscì a spiegarla. « Essa, egli dice, non è ancora abbastanza dilucidata ». Su che cosa si fonderebbe la relazione speciale di consacrazione o di appartenenza che unirebbe l’anima giusta allo Spirito Santo? Quale funzione ipostatica — o quasi ipostatica — può esercitare lo Spirito Santo nell’anima? E se Egli si unisce a lei con un’operazione, come sarebbe per esempio la produzione della grazia santificante, perché mai la sua unione sarebbe immediata, mentre le altre due persone, che hanno partecipato alla sua attività, sarebbero a lei unite soltanto per un intermediario? D’altra parte la spiegazione volgare la quale, nell’abitazione delle Persone divine, vede soltanto delle differenze di appropriazione, non sembra che combini abbastanza col linguaggio dei Padri e della Scrittura. Per la grazia santificante, si dice, la divinità abita in noi come nel suo tempio; ora la grazia abituale, prodotto di tutte e tre le Persone divine, ci unisce immediatamente a Dio senza distinzione di Persone. Non vi è dunque, nel modo di presenza delle tre Persone divine, altra distinzione possibile, che l’appropriazione, in virtù della quale noi siamo soliti ad attribuire al Padre l’essere e la potenza, al Figlio la scienza e la sapienza, allo Spirito Santo l’amore e la santità, perché noi vediamo in questi diversi attributi un certo rapporto con i loro caratteri personali. Questa teoria è rispettabile, ma non è però altro che una teoria. – Ad ogni modo, non sembra che i Padri e gli scrittori sacri ravvisino in questo modo le cose. Secondo loro, l’unione deifica si fa primieramente con le persone e, per mezzo delle persone, con la natura. La grazia santificante poi è il risultato, non già la condizione, della presenza degli ospiti divini. Quando Dio vuole santificare le anime vi manda il Figlio suo prediletto, mediatore universale della grazia; il Figlio poi, alla sua volta e unitamente al Padre, manda lo Spirito di santità. L’azione santificatrice si svolge dunque secondo l’ordine delle processioni eterne, e lo stesso avviene della presenza delle tre Persone nell’anima santificata. In quest’ultimo caso però l’ordine è invertito: lo Spirito Santo, che è dato all’anima e che dà se stesso, è il primo ad entrare in contatto con lei; priorità di ragione e non di tempo, questo s’intende; ma priorità fondata su qualche cosa di reale, poiché la missione delle Persone non equivale all’appropriazione degli attributi. Sembra che non possano ammettere una diversa esegesi certi testi come il seguente: Charitas Dei diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis. Qui si aprirebbe dinanzi a noi un campo immenso nel quale non potremmo tuttavia entrare senza oltrepassare i confini della teologia biblica.

4. Tutto quello che abbiamo detto finora, dimostra quanto intima l’unione del Figlio e dello Spirito Santo nell’opera della santificazione. Questa osservazione non è certamente nuova, e già l’aveva fatta, prima di noi, sant’Epifanio che dice: « Il Cristo è mandato dal Padre, e anche lo Spirito Santo è mandato; il Cristo parla nei santi, e anche lo Spirito Santo parla; il Cristo guarisce, e lo Spirito Santo guarisce; il Cristo santifica, e lo Spirito Santo santifica (Ancoratus, 68 – XLIII, 140) ». Segue poi una serie lunghissima di testi nei quali si afferma questa azione comune. Difatti la grazia, i carismi, la filiazione adottiva, le opere buone, la salvezza, la gloria eterna, insomma tutte le manifestazioni della vita divina, sono riferite ora al Cristo, ora allo Spirito Santo. Così « noi viviamo per mèzzo dello Spirito » e tuttavia « il Cristo è la nostra vita (Gal. V, 25 e Col. III, 4; Fil. I, 12) ». Lo Spirito Santo è il dispensatore di tutti i carismi, senza eccezione, e intanto questi carismi ci sono dati « secondo la misura del dono del Cristo (I Cor. XII, 11 ed Ephes. IV, 9) ». Da Gesù Cristo noi riceviamo la filiazione adottiva; tuttavia lo Spirito Santo è lo spirito di filiazione e « tutti quelli che sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio (Ephes. I, 5 e Rom. VIII, 15) ». I morti risusciteranno « per un uomo », Gesù Cristo; eppure Dio ci risusciterà « per causa dello Spirito » o « per mezzo dello Spirito che abita » in noi (I Cor. XV, 21 e Rom. VIII, 11). Aggiungiamo ancora un fatto accennato molte volte, cioè l’equivalenza delle due formole nel Cristo e nello Spirito. Questa equivalenza, bisogna dirlo, non va tanto lontano quanto ordinariamente si suppone, ma tuttavia è pur sempre suggestiva, come si può vedere da qualche esempio: Giustificato nello Spirito = giustificato nel Signore (I Cor. VI, 11 e Gal. II, 17). Santificato nello Spirito Santo = santificato nel Cristo Gesù (I Cor. VI, 11 e I, 2). Tempio santo nello Spirito = tempio santo nel Signore (Ephes. II, 22 e II, 21). Essere segnati nello Spirito = essere segnati nel Cristo (Ephes. I, 13 e IV, 30). Gioia nello Spirito Santo = gioia nel Signore (Rom. XIV, 17 e Fil. IV, 4). Pace nello Spirito Santo = pace nel Signore (Rom. XIV, 17 e V, 1). Per spiegare questo fenomeno, bisognerà dire che il Cristo e lo Spirito Santo sono identici nel pensiero di Paolo, oppure che lo Spirito è soltanto il modo di operazione del Cristo, oppure che il Cristo, dopo la sua risurrezione, si è totalmente trasformato nello Spirito? Vi è una spiegazione assai più semplice, più naturale e che ha inoltre il vantaggio di evitare l’assurdo. Notiamo anzitutto che l’equivalenza di cui parliamo è limitatissima: il Cristo preesistente non è mai identificato con lo Spirito; il Cristo storico non è mai identificato con lo Spirito; il Cristo Salvatore, nell’opera della redenzione, non è mai identificato con lo Spirito. I punti di contatto tra il Cristo e lo Spirito riguardano unicamente il Cristo glorificato, non però nella sua vita fisica, personale, alla destra del Padre, ma nella sua vita mistica, nel seno della Chiesa. In altri termini, lo Spirito Santo e il Cristo glorificato, che altrove si presentano sempre come due persone distinte, sembrano confondersi nel loro compito di santificatore delle anime (Col. I, 19): qui la loro sfera d’influenza è la medesima e il loro campo di azione è unico; infatti il Cristo è il capo oppure, sotto una figura un po’ diversa, l’organismo del corpo mistico del quale lo Spirito Santo è l’anima; ora nel linguaggio ordinario, specialmente in quello di san Paolo, quasi tutti i fenomeni vitali si possono indifferentemente riferire all’anima o alla testa. Ma l’identità di operazione del Cristo e dello Spirito nella vita dei giusti ha una ragione di essere ben più profonda. Il Cristo, come uomo, possedeva la pienezza dello Spirito (I Cor. XV, 45) e doveva riversarla su noi non appena compiuta la sua opera redentrice. Allora, nel momento della risurrezione, Egli diventa veramente per sé e per noi « spirito vivificante (Gal. IV, 5; Ephes. I, 5) »: per sé, perché la grazia di cui è pieno si riversa sul suo corpo e lo rende spirituale; per noi, perché ci comunica con abbondanza tutti i doni dello Spirito Santo e lo Spirito Santo medesimo. Da quel momento, sotto l’aspetto soprannaturale, noi viviamo per mezzo del Figlio e viviamo per mezzo dello Spirito; o, più esattamente, noi viviamo dello Spirito mandato dal Figlio: identità di operazioni senza confusione di Persone. Prendiamo per esempio la filiazione adottiva. Essa ci viene dal Figlio il quale ci ha adottati e fatti accettare come suoi fratelli; Dio ad essa ci «predestina per mezzo di Gesù Cristo » e ce la conferisce con la fede e col Battesimo, ossia con l’atto e col rito che ci mettono « in comunione col Figlio di Dio (I Cor. I, 9) ». Lo Spirito Santo pure è chiamato « Spirito di filiazione », e tutti quelli che sono animati da Lui, « sono veramente figli di Dio (Rom. VIII, 14-18) ». Dio infatti ci adotta come figli con darci il suo Spirito, e il Cristo ci adotta come fratelli col mandarci il suo Spirito; « poiché se alcuno non ha lo Spirito del Cristo, egli non appartiene al Cristo (Gal. IV, 6-7) ». La prova « che voi siete figli, è che Dio ha mandato lo Spirito di suo Figlio nei vostri cuori dove egli grida: Abba, Padre! Dunque tu non sei più schiavo, ma figlio; e se sei figlio sei dunque anche erede di Dio (Gal. IV, 6-7) ». L o Spirito Santo è il testimonio, il messaggero) l’agente e il pegno della nostra filiazione. Dunque, ben lungi dall’essere una fonte di oscurità, la compenetrazione attiva del Figlio e dello Spirito Santo è per noi un vivo focolare di luce. Per essa noi comprendiamo meglio perché il Cristo doveva risuscitare per mandarci il suo Spirito e per diventare Egli stesso spirito vivificante. Essa rischiara anche la natura del corpo mistico che non è una finzione, una semplice metafora, una pura entità morale, ma un composto di ordine soprannaturale, che riceve l’influsso vitale ad un tempo dalla testa, centro dell’organismo, e dall’anima, principio della vita. E allora la dottrina tanto consolante della comunione dei santi non è più una teoria legata artificialmente alla teologia dell’Apostolo, ma un corollario, chiaro e facile, del suo insegnamento.

5. La comunione dei santi è il vincolo della vita solidale che unisce le membra del Cristo tra loro e col loro capo, sotto l’azione comune di un medesimo Spirito. Questa definizione ha il doppio merito di concordare con la terminologia paolina e di essere abbastanza flessibile da potersi piegare a tutte le ulteriori precisioni, senza pregiudicare il senso dell’articolo inserito tardivamente nel Simbolo. – L’Apostolo chiama « santi » tutti quelli che sono in comunione con Gesù Cristo o, come egli preferisce dire, tutti quelli « che sono nel Cristo ». Sia che ancora stiano lottando nello stadio, sia che già abbiano ricevuto la corona, per lui non vi è differenza, perché la carità « che non viene meno » li unisce ugualmente al Cristo Gesù; o vivi o morti, essi sono sempre « con Lui, in Lui »; essi fanno parte del suo regno, del suo corpo mistico. È cosa degna di nota, che san Paolo adopera costantemente questa parola « santi » come un semplice sinonimo di Cristiani e l’applica senza distinzione a tutti i fedeli, anche dove vi sono gravi abusi da togliere. Sarebbe forse perché egli li suppone tutti individualmente degni di questo titolo, lasciando a colui che scruta le reni e i cuori, la cura di farne la scelta? Oppure prenderebbe forse questo titolo nel senso teocratico e sociale che aveva nell’antica alleanza, e basterebbe forse, per avervi diritto, l’appartenere alla Chiesa la cui santità si riverserebbe allora su ciascuno dei fedeli? Quello che favorisce questa seconda ipotesi è il fatto che Paolo riconosce soltanto due maniere di uscire dal corpo mistico: l’infedeltà e la scomunica. Con l’infedeltà, il battezzato si separa dal capo da cui deriva ogni influsso vitale; con la scomunica, ne viene staccato ufficialmente. Chiunque una volta entrato nell’unità del corpo mistico, non se n’è interamente staccato o non ne è stato solennemente escluso, appartiene dunque alla sfera in cui si svolge la comunione dei santi. Una certa comunanza di beni e di mali è essenziale ad ogni società. Tutti i membri di un corpo morale si prestano un aiuto reciproco; i più umili hanno bisogno dei più nobili, i più nobili hanno bisogno dei più umili, di modo che il benessere o il malessere degli uni è in qualche misura diviso dagli altri, e l’onore o il disonore degli uni ricade moralmente su tutti. Questo è anche più vero nella società cristiana la cui unione più intima ha come emblema il corpo umano. Ogni Cristiano lavora per lo sviluppo del corpo del Cristo. La persona stessa di Gesù Cristo possiede una pienezza alla quale è impossibile aggiungere qualche cosa; ma il Cristo mistico è suscettibile di accrescimenti indefiniti che va ricevendo dal crescere individuale dei suoi membri. Così la Chiesa s’innalza per gradi « in un tempio santo nel Signore », ed il corpo del Cristo acquista a poco a poco la sua statura intera, e diventa « un uomo perfetto », in grazia del continuo progresso del suo organismo. Non vi è parte che guadagni qualche cosa senza che ne abbia vantaggio il tutto; ma anche il tutto non guadagna nulla senza che ne abbiano vantaggio le parti. Così si forma come un circuito vitale che porta al centro tutto il prodotto dell’energia, per diffonderlo poi in tutte le direzioni: così il mare assorbe in sé i fiumi dei quali alimenta le sorgenti. Ma in vantaggio del corpo mistico vi è questa differenza, che esso conserva tutto ciò che ha ricevuto e lo restituisce senza perderne nulla. La comunione dei santi ha lo scopo di arricchire il tesoro della Chiesa e di farne poi la distribuzione a questo o a quel membro. Il primo risultato si ottiene con ogni atto meritorio; il secondo, principalmente con la preghiera. « Ora, dice l’Apostolo, io mi rallegro dei miei patimenti (sostenuti) per voi e compio nella mia carne quello che manca alle tribolazioni del Cristo per il suo corpo, che è la Chiesa (Col. I, 24) ». Secondo i suoi pregiudizi dommatici, il lettore corre pericolo di vedere in questo testo troppe o troppo poche cose; ma vi sono almeno tre fatti certi: anzitutto le tribolazioni del Cristo non sono patimenti paragonabili a quelli di Gesù, ma piuttosto i dolori e i tormenti sopportati dal Cristo durante la sua vita mortale. Queste tribolazioni, nonostante il loro valore infinito, presentano, sotto qualche aspetto, una specie di deficienza; la parola adoperata dall’Apostolo (ὑστέρημα = usterema) non può avere altro significato. — Appartiene agli uomini il colmare questa mancanza e il compiere così l’opera del Cristo; ed è appunto ciò che Paolo è orgoglioso e lieto di fare completando (ἀνταναληρῶ = antanaplero) quello che manca alle tribolazioni del suo Maestro. A questo punto l’esegeta deve procedere molto cauto. Quali sono le tribolazioni del Cristo che si tratta di compiere per il bene della Chiesa? Sono i patimenti del Getsemani e del Calvario, per se stessi più che sufficienti per la salvezza dell’umanità, ma dei quali bisogna ancora assicurare l’applicazione alle anime individuali? Oppure sono le persecuzioni subite per fondare il regno di Dio, persecuzioni di cui tutti gli Apostoli e, dopo di loro, tutti i predicatori del Vangelo devono avere la loro parte? Nella prima ipotesi il dogma della comunione dei santi viene insegnato direttamente; nella seconda, noi apprendiamo almeno che Gesù Cristo ha fondato la salvezza del genere umano sul principio della solidarietà, e che i suoi continuatori devono dividere i suoi travagli per effettuare i suoi disegni di misericordia. – Chi dice solidarietà, dice reversibilità di meriti e di demeriti: era questa un’idea comune nei contemporanei di san Paolo. L’Apostolo, senza fermarsi a giustificarla, la suppone quando afferma che la Chiesa di Corinto espia, con malattie e lutti, l’irriverenza di alcuni nella celebrazione dell’eucaristia; quando dice che il marito cristiano santifica la moglie infedele e che la moglie fedele santifica il marito pagano; che l’elemosina colma in qualche maniera la disuguaglianza tra i discepoli, dando i ricchi il superfluo dei loro beni temporali ai poveri, e restituendoli i poveri  ai ricchi, in beni di ordine superiore (I Cor. XI, 30-32; VII, 14; II Cor. VIII, 13-15). Egli ha tanta fiducia in questo scambio di grazie spirituali, che non cessa di implorare le preghiere dai suoi corrispondenti, di offrire loro in cambio l’aiuto delle sue e di raccomandare loro di pregare gli uni per gli altri: « Fate in ogni tempo, per mezzo dello Spirito, preghiere e suppliche … pregate per tutti i santi ed anche per me, affinché Dio mi conceda di parlare coraggiosamente e di predicare con libertà il mistero del Vangelo (Ephes. VI, 18-19) ». A quelle preghiere egli attribuisce la sua liberazione, la protezione di cui Dio lo circonda ed i buoni risultati della sua predicazione; poiché quando la supplica arriva a tale grado d’intensità da potersi chiamare lotta, combattimento (Rom. XV, 30), è onnipotente presso Dio. – La preghiera dei giusti non è soltanto utile ai vivi, ma giova anche ai morti. Un cristiano di Efeso, Onesiforo, era morto dopo di aver prodigato a Paolo gli attestati più commoventi di affetto e di devozione. Per pagare il suo debito di riconoscenza, l’Apostolo non si contenta di raccomandare a Timoteo la famiglia di Onesiforo, ma egli stesso raccomanda a Dio l’anima del defunto: « Il Signore gli conceda di trovare misericordia presso il Signore in quel giorno (II Tim. I, 18) ». – Parecchi commentatori’ protestanti notano il fatto con manifesto malumore e ne fanno le meraviglie: ma che cosa vi è di più naturale, se la Chiesa è una e se abbraccia tanto i morti quanto i vivi?

6. Qualunque sia l’aspetto sotto il quale si consideri la vita della Chiesa, bisogna fatalmente giungere alla formula In Christo Jesu, la quale è davvero « uno dei pilastri della teologia di san Paolo » (Sanday). Benché non sia esclusivamente sua, poiché san Giovanni ne fa un uso limitato, essa ha in lui una pienezza di significato ed una varietà di applicazioni veramente caratteristiche. Nella sua prima Epistola, san Giovanni afferma a più riprese, che la carità stabilisce tra Dio e noi una relazione di compenetrazione reciproca: « Dio è carità, e chiunque persevera nella carità dimora in Dio, e Dio dimora in lui (I Giov. IV, 16) ». Il nostro atto di carità, per quanto sia finito, non solamente ha Dio come oggetto immediato, ma è veramente una presa di possesso di Dio, l’amore increato. La carità, finché esiste in noi, ci unisce dunque a Lui con un vincolo indissolubile. E ciò, che è vero del Padre, è vero anche del Figlio, poiché essi sono una medesima sostanza: Ego et Pater unum sumus. E vero che nell’Epistola può talora nascere il dubbio se san Giovanni voglia parlare del Padre o del Figlio; ma nel Vangelo il suo linguaggio è ben diverso. Gesù dice ai suoi discepoli: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui (Gio. VI, 56) ». Non già in virtù dell’unione reale della carne del Cristo con la nostra, Gesù Cristo rimane in noi, ma Egli rimane in noi come alimento spirituale dell’anima nostra, anche dopo la corruzione delle specie sacramentali; e noi rimaniamo in Lui perché questo alimento celeste ha la proprietà meravigliosa di trasformarci in Lui, contrariamente a ciò che avviene per ogni altro nutrimento. Alquanto diverso è il caso nell’allegoria della vite: « Rimanete in me ed io in voi… Colui che rimane in me enel quale io rimango porta molto frutto (Giov. XV, 4-5) ». Noi rimaniamo in lui per mezzo di una fede viva, come il ramo sta attaccato al tronco con le fibre e con la scorza; ed egli rimane in noi per mezzo della carità che ci mette in contatto vitale con Lui e per mezzo della quale Egli ci comunica il succo divino. Nel passare da san Giovanni a san Paolo, abbiamo l’impressione che l’orizzonte non è più il medesimo. Anzitutto rileviamo due differenze capitali nell’uso della formola. Diversamente da san Giovanni, san Paolo non dice mai in Gesù o in Gesù Cristo, ma dice sempre nel Cristo o nel Cristo Gesù: prova evidente che egli non considera la persona individuale di Gesù, ma la sua funzione di Messia, la sua qualità di secondo Adamo, insomma il suo carattere rappresentativo. In secondo luogo, mentre san Giovanni stabilisce la reciprocità tra Gesù e noi, san Paolo non lo fa, o almeno non parla di Gesù Cristo in noi se non in rarissimi casi il cui senso preciso è ancora da discutere (Rom. VIII, 10). La formula In Christo Jesu si connette evidentemente alla dottrina del corpo mistico: questo è un punto incontestato. Vediamo dunque in che modo san Paolo descrive l’incorporazione del cristiano al Cristo: “Voi siete tutti figli di Dio per la fede, nel Cristo Gesù; poiché voi tutti che siete stati battezzati nel Cristo avete rivestito il Cristo: non più Ebrei né Gentili, non più schiavi né liberi;… perché voi tutti siete uno nel Cristo Gesù. Non sapete che tutti noi che siamo stati battezzati nel Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua morte! Infatti noi siamo stati sepolti con lui per mezzo del Battesimo (che è) nella sua morte, affinché come il Cristo è resuscitato da morte dalla gloria del Padre, anche noi camminiamo nella novità della vita. Se infatti noi siamo stati innestati su lui dalla somiglianza della sua morte tali pure saremo da quella della risurrezione” (Gal. III, 26-28 ). – Siccome il senso etimologico di battezzare è immergere nell’acqua, non si può quasi dubitare che, nel descrivere gli effetti del Battesimo, san Paolo pensi al rito esteriore dell’immersione e dell’emersione, simbolo efficace di morte e di vita nuova. L’effetto del Battesimo è di immergerci nel Cristo, d’innestarci sul Cristo, d’incorporarci al Cristo, d’identificarci parzialmente col Cristo. Quando si dice che il Cristiano è nel Cristo, come è l’uccello nell’aria o il pesce nell’acqua, questa espressione realistica rimane al disotto della verità; infatti noi non siamo nel Cristo come in un elemento estraneo, ma come in un tutto di cui noi stessi facciamo parte. A dire il vero, il miglior commento della formula In Christo Jesu è questo testo di san Paolo: “La morte è per mezzo di un uomo e la risurrezione da morte sarà per mezzo di un uomo; poiché come tutti muoiono in Adamo, così tutti saranno vivificati nel Cristo(I Cor. XV, 21-22) ». Adamo e il Cristo rappresentano qui tutta quanta l’umanità, e si può dire con sant’Agostino, a patto di non fraintenderlo: In Adam Christus et Christus in Adam(in Ps. CI, sermo I, n. 4). Tutti gli uomini sono in Adamo e tutti sono nel Cristo, benché in modo assai diverso: « Tutti muoiono in Adamo, dice san Cirillo di Alessandria, perché per causa della sua trasgressione la natura fu condannata in lui; così tutti saranno giustificati nel Cristo perché, in grazia del suo atto redentore, la natura è di nuovo benedetta in Lui (Fragm. In I Cor, XV, 22) ». – Si parla poco esattamente quando si dice che « il Cristo della formula In Christo Jesu è sempre il Cristo glorificato come πνεῦμα (= pneuma), e non il Cristo storico » (Sanday). Non è precisamente il Cristo glorificato, ma il Cristo Salvatore, il nuovo Adamo, quello cui allude la formula; ed è questo Cristo Salvatore dal momento in cui inaugura la sua missione redentrice, cioè dalla sua passione. Da quel momento noi soffriamo e moriamo con Lui, noi risuscitiamo e regniamo con Lui; noi partecipiamo della sua forma, della sua vita e della sua gloria. Così pure da quel momento noi siamo chiamati, giustificati, eletti, predestinati in Lui; in Lui otteniamo tutte le benedizioni celesti; la grazia, la filiazione adottiva, la santificazione, la vita eterna. Tale è il valore normale della formola In Christo Jesu, ma essa può subire notevoli aumenti o diminuzioni di significato. Quando l’Apostolo vuole esprimere l’unione ineffabile dei cristiani tra loro e col Cristo nell’identità del corpo mistico, la formola raggiunge il suo massimo valore; quando invece si limita a indicare il principio della solidarietà cristiana, il significato si attenua: allora essere nel Cristo vuol dire muoversi nella sfera del Vangelo o vivere secondo lo spirito del Cristianesimo.

CONOSCERE SAN PAOLO (45)

LIBRO V

I canali della redenzione.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

CAPO III.

La Chiesa.

I. LA CONCEZIONE PAOLINA DELLA CHIESA.

1 . I NOMI DELLA CHIESA. — 2. LA CHIESA DI DIO. — 3. LE NOTE DELLA CHIESA.

1. Era il popolo eletto ora la vigna custodita e coltivata da Dio con una cura gelosa, come nella celebre allegoria di Isaia, alla quale si riferiscono i Sinottici (Is. V, 2-7), ora il ceppo di vite trapiantato in Canaan e suscettibile di una crescenza illimitata: la sua ombra copriva lo montagne, i suoi tralci somigliavano ai cedri di Dio; essa spingeva i suoi rampolli fino al mare e le sue propaggini fino al gran fiume (Sal. LXXIX). San Giovanni dà una forma diversa a questo simbolo tanto caro ai Profeti (Os. X, 1; Ger. II, 21; Is. XVII, 3-6; Cant. I, 6, etc.); san Paolo gli sostituisce quello dell’olivo (Rom. XI, 16-24). Paolo difatti si figura il Battesimo come un innesto che unendoci al Cristo ci fa aspirare la linfa divina; era dunque naturale che egli concepisse la Chiesa sotto l’immagine di un olivo il quale ha le radici nelle profondità dell’economia antica e cresce all’infinito con l’aggiunta di nuovi rami. L’allegoria è trasparente: la « radice santa e il tronco benedetto » sono i patriarchi; l’olivo è la Chiesa che esce dalla Sinagoga con una specie di processo vitale; i rami sono i membri della Chiesa, gli uni (i Cristiani di razza ebrea) venuti naturalmente sul buon olivo, gli altri (i Cristiani del gentilesimo) presi dall’olivo selvatico. L’incredulità è quella che distacca i primi; la fede è quella che innesta i secondi; ma i rami staccati conservano sempre la possibilità di venire nuovamente reintegrati, e i rami innestati devono sempre temere di essere alla loro volta rigettati. Israele era anche la casa, il regno, il popolo di Jehovah; Jehovah era suo padre, suo re, suo Dio. La Chiesa, erede della Sinagoga, sarà pure tutto questo in modo eminente. Il punto di partenza della metafora « casa di Jehovah » pare che sia l’idea di famiglia, più che quella di edificio, benché il senso di edificio appaia chiaramente in alcuni passi (Num. XII, 7; Os. VIII, 1; Ger. XII, 7; cfr. Ebr. III, 6). L’Apostolo non applica molto alla Chiesa militante la nozione della teocrazia ebraica, poiché il « regno di Dio » ha per lo più, nei suoi scritti, un valore escatologico. Egli non le dà neppure il nome di popolo di Dio se non nelle reminiscenze dell’Antico Testamento (II Cor. VI, 16). Il grande onore della nazione santa era quello di essere la figlia e la sposa di Jebovah. Ma col passare nella nuova economia, il titolo di figlio cambia natura, da collettivo diventa individuale: così non è più la Chiesa che è figlia di Dio, ma sono i figli della Chiesa che posseggono personalmente la filiazione adottiva (Rom. VIII, 14). Anche il nome di sposa avrebbe dovuto seguire una simile evoluzione; ma questo simbolo del matrimonio, che ha una parte tanto considerevole nei Profeti (v. Osea), non ha quasi più luogo nel Nuovo Testamento. Lo ricordano san Giovanni e san Paolo: il primo nel descrivere le nozze dell’Agnello (Apoc. XXI, 6-9; XXII, 17), il secondo quando chiama il matrimonio un gran mistero « per rapporto al Cristo e alla sua Chiesa (Ephes. V, 32) », e quando attribuisce a se stesso le funzioni e i sentimenti del paraninfo incaricato di condurre al Cristo la sposa con cui questi è fidanzato (II Cor XI, 2). Ma il Dio geloso dei profeti non è passato agli evangelisti: così l’allegoria del matrimonio non seguì il suo sviluppo normale che avrebbe fatto dell’anima individuale la sposa del Cristo. Vi sono tuttavia, in san Paolo e nel Vangelo, allusioni sufficienti per giustificare il linguaggio degli scrittori mistici (Matth. XXV, 1-10; IX, 15, etc.). Ci voleva il mistero dell’incarnazione — un Dio fatto uomo ed un uomo fatto Dio, due nature infinitamente distinte e congiunte senza confusione nell’unità di una stessa persona — per lasciar sospettare una unione ancora più intima che quella degli sposi. Gli animi vi erano preparati dalla forma che aveva preso, nella bocca del Salvatore, l’allegoria della Vite. Nel promettere l’eucaristia e dopo di averla istituita, Gesù aveva parlato della sua unione con i comunicanti in termini che implicavano un’identità di operazioni, di funzioni e di vita. Le sue parole ponevano la base della dottrina del corpo mistico, che san Paolo riprese, elaborò, considerò sotto ogni aspetto, per farne il punto culminante della sua morale e il centro del suo insegnamento. – Il corpo del Cristo e la Chiesa sono oramai i nomi più caratteristici della sposa di Gesù Cristo: il primo le appartiene come suo proprio, il secondo lo eredita parzialmente dalla Sinagoga.

2. Nell’Antico Testamento, due parole quasi sinonime (qahal e edah) indicavano l’assemblea religiosa del popolo eletto, sotto la presidenza invisibile di Jehovah rappresentato dai suoi mandatari. I Settanta e i traduttori più recenti — Aquila, Simmaco e Teodozione — ordinariamente traducono il primo termine con ἐκκλησία (= ekklesia) il secondo con συναγωγη (= sunagoghe). Ma, nell’epoca evangelica, συναγωγη (= sunagoghe) significava l’edificio in cui gli Ebrei si riunivano nei giorni di sabato, e pare che generalmente indicasse le stesse riunioni. Per la comunità cristiana era una ragione imperiosa d’impadronirsi dell’altro termine: per distinguersi dalla Sinagoga essa si chiamò dunque Chiesa. – Il credere che questa parola sia stata presa dalle turbolente riunioni delle democrazie greche, è un sacrificare inutilmente e per partito preso tutte le verosimiglianze e tutti i dati positivi della storia. In quanto poi alla sua origine storica, questo nome doveva indicare la Chiesa universale prima di applicarsi alle chiese particolari; ed è questo appunto che noi possiamo constatare. Gesù Cristo si propone di fondare su Pietro la sua Chiesa, necessariamente unica; san Luca non conosce che una Chiesa, nonostante la diversità dei luoghi e delle nazioni; san Paolo stesso si ricorda di aver perseguitato la Chiesa di Dio, e quando identifica questa Chiesa col corpo del Cristo o le dà il Cristo come capo, egli evidentemente ne esclude la pluralità. Per indicare le Chiese locali, egli dirà, per esempio, « la Chiesa che è a Corinto », oppure, per derivazione, « la Chiesa dei Tessalonicesi »; eccetto che la Chiesa, al singolare, non sia determinata dal contesto. La Chiesa non è né l’aggregazione dei credenti né la somma delle comunità particolari, ma un ente morale cui è essenziale l’unità. « Non soltanto la parte è nel tutto, ma il tutto è nella parte (Harnak) ». Ecco perché san Paolo si rivolge alla « Chiesa di Dio che è a Corinto »;  infatti che essa ala a Corinto, a Efeso o altrove, è sempre la Chiesa di Dio, poiché la Chiesa è essenzialmente una. Ecco ancora perché l’Apostolo chiama una chiesa particolare il tempio dello Spirito Santo e la sposa del Cristo, perché la Chiesa particolare non è altro che un’estensione della Chiesa universale e si chiamerebbe abusivamente Chiesa se fosse separata dalla Chiesa unica.

3. Le metafore che servono a indicare la Chiesa ne indicano pure i caratteri o le cosiddette note. Come corpo mistico del Cristo, la Chiesa è una; come sua sposa è santa; come tempio di Dio ha per fondamento gli apostoli; come regno dei cieli è cattolica o universale. Ma san Paolo non ha la pretesa di essere costante nelle sue metafore e passa continuamente dall’una all’altra, di modo che questa miscela di immagini disparate produrrebbe una certa confusione per chi volesse interpretarle col rigore di purista. Percorriamo rapidamente questi quattro caratteri di unità, di cattolicità, di apostolicità, di santità, senza uscire dall’Epistola agli Efesini dove questi caratteri sono più evidenti (Méritan). – La nostra incorporazione comune al Cristo è il gran principio dell’unità. Ad una sola testa, un solo corpo, altrimenti si avrebbe un mostro. Come vi è un solo Cristo naturale, così è impossibile avere più di un Cristo mistico. “Vigilate per conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace: un solo corpo, e un solo spirito, come foste chiamati a partecipare per vocazione ad una medesima speranza; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti gli uomini, il quale è sopra tatti, agisce per mezzo di tutti, risiede in tutti” (Ephes. IV, 3-6). – Sette elementi — tre intrinseci, tre esteriori, uno trascendentale — entrano nella costituzione della Chiesa e ne stringono l’unità. La Chiesa è una nel suo principio materiale, poiché è un solo corpo; una nel suo principio formale, perché è animata da un medesimo Spirito; una nella sua tendenza e nella sua causa finale che è la gloria di Dio e del suo Cristo, per mezzo della felicità degli eletti. Essa è ancora una per l’autorità che la governa; una per la fede comune che le serve di regola e di norma esteriore; una per la sua causa efficiente, il rito battesimale, che le dà l’essere e l’accrescimento. San Paolo riassume con una frase questi sei principi di unione: « Tutti voi siete uno nel Cristo Gesù (Ga. III, 28) ». Bimane il settimo principio: « il Dio e Padre di tutti gli uomini ». A primo aspetto non si vede quale relazione vi possa essere tra l’unità di Dio e l’unità della Chiesa; ma l’Apostolo determina altrove con precisione il suo pensiero. Egli c’insegna che tutta l’umanità è oramai destinata a formare una medesima famiglia nella casa di un Padre comune, una medesima teocrazia sotto lo scettro di uno stesso re (Ephes. II, 14-22). Sotto questo aspetto, l’unità della Chiesa si confonde con l’unicità e con la cattolicità. La parola cattolico, abbastanza comune nell’uso profano da Aristotele in poi, non si trova nella Bibbia; ma dopo sant’Ignazio di Antiochia, serve ad esprimere un’idea biblica quanto mai, l’universalità della Chiesa. Questa universalità è annunziata dai profeti, e gli Apostoli hanno la missione di effettuarla col predicare il Vangelo fino ai confini del mondo. L’esclusivismo degli Ebrei è finito; la teocrazia antica, ha fatto il suo tempo; il regime del privilegio deve terminare: « Forse che Dio è il Dio dei soli Ebrei? Non è anche Dio dei Gentili? (Rom. III, 29) « Questi Gentili disprezzati, estranei alle alleanze, estranei alle promesse, senza Cristo, senza Dio, senza speranza, sono fusi in un solo corpo di nazione col popolo eletto. Non più stranieri né ospiti; tutti i membri della Chiesa, senza distinzione di origine, sono oramai « concittadini dei santi e della famiglia di Dio (Ephes. II, 19) ». – Il mondo intero non deve più formare che un solo regno, una sola città, una sola casa, di cui Dio, col Cristo suo rappresentante, sarà il solo re, il solo capo, il solo padre. Siccome è stabilito che Dio estende a tutti gli uomini i suoi disegni di redenzione e non li vuole salvare in altro modo che incorporandoli al Cristo, ne segue necessariamente che la Chiesa è una nella sua essenza e universale nella sua destinazione. La Chiesa è una e universale perché è la sposa del Cristo, che abbraccia in potenza tutto il genere umano; perché è il corpo del Cristo nel quale devono rinascere tutti quelli che erano morti nel primo Adamo; perché essa è il Regno di Dio, il vero Israele che succede all’antica teocrazia di cui spezza il particolarismo. Se Paolo si fermasse a questo, il suo insegnamento non avrebbe nulla di notevolmente caratteristico; ma la sua originalità sta in questo, che egli fa derivare questi due attributi dalla stessa sua nozione di Chiesa. La Chiesa, quale è da lui concepita, è essenzialmente una e universale, ossia cattolica, perché essa elimina tutto ciò che si oppone all’unità e all’universalità, sopprimendo, sotto l’aspetto religioso, tutte le differenze nazionali, sociali e individuali, con tutte le disuguaglianze di diritti e di privilegi, e infondendo così a tutti i suoi membri una corrente comune di vita e di azione, di una inesauribile energia: « Tutti voi siete figli di Dio per la fede, nel Cristo Gesù. Poiché voi tutti che foste battezzati nel Cristo avete rivestito il Cristo. Non vi è più né Ebreo né Greco, non più schiavo o libero, non più uomo né donna; perché voi siete tutti uno nel Cristo Gesù (Gal. III, 26-28). — Non vi è più né Greco né Ebreo, non più circonciso e incirconciso, né barbaro né Scita, né schiavo, né libero; ma il Cristo tiene il posto di tutto e (questo) in tutti (Col. III, 11) ». Le differenze di razza, di educazione, di grado sociale, perfino di sesso, sono scomparse. La qualità di figlio di Dio ha scancellato tutte queste distinzioni. Nessuno dunque è più escluso dall’economia nuova, poiché vi sono ammessi gli Sciti, i più barbari tra i barbari. – Non bastava portare il messaggio della salvezza fino ai confini del mondo (Rom. X, 13) e predicare il Vangelo ad ogni creatura che è sotto il cielo (Col. I, 23): bisognava allontanare gli ostacoli che impedivano la fusione perfetta di questi elementi eterogenei. Il più formidabile di tali ostacoli era il particolarismo degli Ebrei. La teocrazia ebraica, nazionale per sua natura ed espressamente chiusa a certe nazioni straniere, non aspirava affatto ad essere la religione del mondo intero; infatti, cessando di essere nazionale, essa perdeva il suo carattere di istituzione privilegiata. Poteva bensì crescere con l’aggiunta di nuovi adepti, ma l’inferiorità umiliante in cui essa li teneva, e le gradazioni diverse che lasciava tra loro, senza parlare delle esclusioni che essa non imponeva, dimostravano chiaramente che essa non mirava punto a fare del genere umano una sola famiglia religiosa. La barriera della Legge, che nel tempo passato aveva protetto la fede monoteistica del popolo eletto, la teneva oramai in un funesto isolamento. Gesù Cristo, per assicurare alla sua Chiesa l’unità e l’universalità, doveva prima di tutto rovesciare il muro di separazione. Egli dunque inchioda sopra la croce la carta antica che si opponeva alla fusione dei popoli (Col. II, 14); spalanca le porte della nuova economia alle nazioni che fino allora ne erano tenute lontano; così tutti gli uomini diventano, per uno stesso titolo, concittadini di un medesimo regno e membri di una stessa famiglia; tutti finalmente, riconciliati tra loro e con Dio, sono uniti nel Cristo, in un solo corpo mistico (Ephes. II, 14-19; Col. I, 20-22). – Una e cattolica per essenza, la Chiesa dev’essere ancora apostolica. Paolo scrive agli Efesini: « Voi siete stati edificati sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, essendo Gesù Cristo stesso la pietra angolare (Ephes. II, 20) ». Il grammatico potrebbe intendere questo fondamento in quattro diverse maniere: il fondamento sul quale sono edificati gli Apostoli; il fondamento sul quale edificano gli Apostoli; il fondamento che fu edificato dagli Apostoli; il fondamento che si identifica con gli Apostoli. Però l’esegeta non rimane dubbioso: sono gli stessi Apostoli ed i Profeti il fondamento della Chiesa. In questo edificio di cui il Cristo è la pietra angolare, ed i fedeli sono le pietre viventi, bisogna che il fondamento sia della stessa natura e che simboleggi delle persone. I Profeti qui nominati sono quelli del Nuovo Testamento o quelli dell’Antico? Forse sono quelli del Nuovo Testamento, perché nel testo greco lo stesso articolo che comprende le due parole sembra che le metta nella stessa categoria, e poi perché Profeti e Apostoli del Nuovo Testamento sono generalmente raggruppati insieme senza possibilità di equivoco. Tuttavia l’altra ipotesi ci piacerebbe di più. Che i profeti del Nuovo Testamento siano i fondamenti della Chiesa, è un’idea poco naturale della quale non si trova nessuna traccia altrove: il carisma profetico del Nuovo Testamento edifica, ma non fonda. Noi sappiamo invece quanto san Paolo sia geloso nello stabilire la nuova economia sopra le basi dell’antica, e nel presentarci gli Apostoli come gli eredi dei Profeti. – La santità della Chiesa è proclamata con tanta frequenza, che resta superfluo il citare testimonianze a questo riguardo. Basta ricordare che i Cristiani, per il Battesimo ricevuto e come membri del corpo mistico, sono i santi per antonomasia, che la Chiesa è la sposa del Cristo la cui santità si riversa su lei, che Gesù ha dato il suo sangue per purificarla e santificarla, affinché sia « senza macchia, santa e immacolata ».

LO SCUDO DELLA FEDE XLIX

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S. E. I. Ed. Torino, 1927

XLX.

IL PARADISO.

Esistenza ed essenza del paradiso. — Come vi si veda Iddio — Come in Dio si conoscano tutte le creature. — Differenza fra i beati e contentezza che tutti provano nonostante tale differenza. — Felicità dell’anima prima della risurrezione, e del corpo dopo di essa. — Se si possa in cielo essere sorpresi dalla noia. — Se ivi si soffra per la perdita di qualche nostro caro.

— Ed ora eccomi a farle alcune domande intorno al paradiso. E primieramente: esiste esso davvero?

L’esistenza del paradiso è verità di fede, espressa nel simbolo sotto il nome di vita eterna; e tutti i popoli l’hanno sempre ammessa, benché molti di essi abbiano  errato ed errino tuttora, intorno alla sua essenza. Tutte le nostre aspirazioni più sublimi e più pure lo reclamano; e se l’uomo sopporta la vita con i suoi dolori, con le sue fatiche, con i suoi travagli è perché sente che un giorno sarà consolato e ricompensato in cielo. Infine gli attributi di Dio lo esigono non meno delle facoltà dell’uomo; la sua giustizia, la sua potenza, la sua sapienza, il suo amore, tutte insomma le sue perfezioni importano l’esistenza di una felicità eterna per colui che, ossequente alla legge del Signore, ha menato quaggiù una santa vita, o per lo meno è morto nella grazia di Dio.

— E dove si trova il paradiso?

Questo non si può dire. « Certamente, dice l’illustre Bougaud è un luogo, e un luogo materiale, perché deve accogliere non solamente delle anime, ma delle anime unite ai corpi, e già a quest’ora ne accoglie. È un luogo immenso, milioni di volte più grande della terra, perché deve riunire senza ombra di confusione tutti i santi, che hanno abitato il nostro globo dalle sue più remote origini, e che lo abiteranno sino al chiudersi dei secoli. È un luogo d’uno splendore ineffabile, in confronto del quale la terra, con tutte le sue meraviglie, non è che un luogo di esilio ed una regione di tenebre ». Ma dove sia collocato non si sa. Che se alcuni, anche dotti, in tempi remoti, hanno collocato il cielo nel firmamento, negli astri, ciò essi non fecero che esprimendo le loro supposizioni. D’altronde a me pare inutile ricercare dove il paradiso materialmente si trovi, giacché il paradiso piuttosto che dal luogo dev’essere costituito dallo stato di felicità, che gode il beato.

—- E in che cosa consiste propriamente la felicità del cielo?

La felicità o beatitudine essenziale consiste nel veder Dio, nel contemplare la sua infinita bellezza, chiara com’è, e nell’amare la sua infinita bontà con un amore che procaccia una gioia ed una dolcezza ineffabile.

— Perché mi disse beatitudine essenziale?

Perché questa è la beatitudine, che costituisce davvero il paradiso e così compiutamente da saziare per sé sola, tutti i desideri dei beati. Tuttavia questi godono ancora della bellezza materiale del cielo, della compagnia dei Santi loro compagni e di quella degli Angeli, della presenza della Regina del cielo Maria, e soprattutto della SS. Umanità di Gesù Cristo. Ma siccome questo gaudio non è punto necessario alla perfetta felicità dei beati, perciò si può chiamare accidentale ossia accessorio. – Inoltre secondo l’insegnamento di S. Tommaso i vergini, per la vittoria che riportarono sulla carne, vivendo da Angeli in corpo umano, i Martiri che trionfarono delle persecuzioni del mondo, e i Dottori che abbatterono il demonio con la difesa e spiegazione della dottrina di Gesù Cristo, avranno una gloria accidentale tutta loro propria, la quale dopo la risurrezione ridonderà pure nel loro corpo, glorificato. – Infine la felicità di tutti i beati del paradiso sarà compitissima dalla sicurezza che hanno di non perderla più mai e di goderla per sempre.

— In paradiso pertanto si vede davvero Iddio?

Senza alcun dubbio, e si vede faccia a faccia, quale Egli è. Così c’insegnano la Sacra Scrittura e la Chiesa.

— E lo si vede con questi occhi materiali?

No, certamente, neppure dopo la risurrezione, quando i beati saranno in cielo non solo con l’anima ma eziandio col corpo: perché i nostri occhi materiali non potendo vedere le cose spirituali non potranno neppure mai vedere Iddio, che è purissimo spirito. Anzi neppure con la sola intelligenza si può vedere Iddio, quando pure, dice S. Tommaso, egli aumentasse indefinitamente le sue forze proprie e native, perché vi sarebbe sempre tra la sua natura e la nostra un abisso insormontabile. Lo si vede adunque con la intelligenza fornita da Dio di una disposizione nuova, apposita, d’ordine superiore, che si chiama lume della gloria.

— Dunque neppure in cielo senza questo lume della gloria Dio non si vede?

No, certamente, di quella guisa che cogli stessi occhi materiali non possiamo vedere nemmeno una montagna per quanto a noi vicina senza l’aiuto della luce.

— E vedendo Iddio col lume della gloria, i beati lo comprendono chiaramente?

Questo no. Per comprendere Iddio non basta vederlo; bisognerebbe arrivare a conoscerlo con quella perfezione, con cui Dio conosce se stesso con la sua scienza infinita, la qual cosa è impossibile ad ogni creatura.

— E allora che cosa significa quel vedere Iddio, che costituisce in cielo la felicità dei beati?

Significa che i beati in cielo conoscono Iddio, la sua divina sostanza, le sue divine perfezioni, la sua augustissima Trinità quanto è loro possibile, secondo le forze della natura elevata dalla grazia; le quali forze essendo finite non possono perciò procacciare un conoscimento infinito di Dio, ossia la sua comprensione.

— Dunque anche lassù in cielo continuano ad esservi dei misteri, che i beati non possono comprendere. E così persistendo l’ignoranza, come può essere pienamente appagata la loro mente ?

No, caro mio, non è come tu dici. Benché il conoscimento, che i beati hanno di Dio, non sia infinito, tuttavia è tale da far scomparire ogni mistero e da mostrar loro con chiarezza ogni verità, ragione per cui in paradiso cessa la fede, che serve a farci credere ciò che non vediamo. Siccome poi la mente dei beati in cielo conosce Iddio quanto può bramare di conoscerlo con tutte le sue forze di natura e di grazia, perciò resta pienamente appagata in tutti i suoi desideri spinti all’ultimo punto, si trova perfettamente sazia e felice di tale conoscimento, ancorché non sia la comprensione, e non soffre alcun patimento, neppure minimo.

— È vero che nel conoscimento di Dio i beati hanno altresì il conoscimento di tutte le creature?

Verissimo. Essi conoscono anche le creature come effetti nella loro causa. « Mettiamoci innanzi agli occhi della mente, ti dirò con l’illustre Mons. Bonomelli, tutte le creature materiali, dall’atomo inorganico al cedro del Libano, dal microbo all’elefante. Quante creature! Quante forze! Quante doti e proprietà e rapporti infiniti tra loro! Quale immensa moltitudine! Salite all’uomo, alla sua mente, alla mente di ciascuno. Quanti pensieri e cognizioni in una sola! in tutte! Poi salite agli Angeli! Tutte le loro cognizioni, atti, ecc. ecc. Poi tutto l’universo con tutte le sue evoluzioni passate, presenti, future; è tal mole di cose, di pensieri ed atti da opprimere qualunque intelligenza. Ebbene: tutto ciò che fa l’Artefice è nella sua mente, nella sua volontà: così tutte le cose create in cielo, in terra, nell’universo, le loro evoluzioni, i loro fenomeni sono tutti in Dio, che come Creatore li precontiene in se stesso; tutte le cognizioni degli uomini e degli Angeli, tutti gli atti delle loro menti, delle loro volontà, sono in Dio, in quanto che tutto questo è esplicazione di quella forza che Iddio ha collocato in essi, e perciò tutto precontiene in se stesso; Più: Dio contiene in se stesso tutti i possibili, relativamente a sé ed agli altri tutti, tutto ciò che può fare e quello che realmente farà. Come dunque chi potesse entrare nella mente dell’uomo, vi leggerebbe tutti i suoi pensieri, così chi può entrare nella mente di Dio (come i beati in paradiso) vi vede senza studio, senza speculazioni, senza fatica, senza sforzo alcuno ogni cosa, comprese quelle che non furono, che non saranno mai, ma che potrebbero essere; è un oceano sterminato di cognizioni certe, limpide, perfette, inamissibili, in cui il beato ènaufrago. Quale gioia! quale felicità!»

— Davvero che questa è una gioia ed una felicità, che allieta al solo pensarvi. Ma il conoscimento di Dio, della sua grandezza, della sua potenza e volontà, da cui questa gioia e felicità emana, è desso per tutti i beati eguali?

Oh! no, certamente. Là si è tutti uguali in quanto che tutti si possiede lo stesso Dio immediatamente e sempre; ma in quanto al conoscerlo e goderlo si è differenti a seconda del maggiore o minore lume di gloria, che i santi hanno ivi da Dio, in conformità ai loro maggiori o minori meriti e alla maggiore o minore carità, di cui conseguentemente arderanno. È perciò appunto che Gesù Cristo ha detto nel Vangelo che «nella Casa del suo Padre vi sono molte mansioni, » cioè in numero sterminato e di diversi gradi.

— Ma questa diversità non è causa di invidia e di disgusto ai beati?

Niente affatto. I beati non possono essere capaci né di invidia per il maggior bene altrui, né di disgusto per il loro minore, perché sono tutti animati dalla carità più perfetta, e tutti godono del bene degli altri come del proprio. D’altronde siccome la felicità di quegli stessi beati, che in cielo sono fra i minori, è tanto perfettamente commensurata alla capacità che hanno di godere, perciò neppure a loro rimane alcun minimo desiderio da soddisfare. Supponi che un uomo adulto ed un fanciullo arrivino assetati ad una sorgente abbondantissima di acqua pura e fresca, e che tutti e due bevendo di quell’acqua, quanto ciascuno di essi ne può bere, si dissetino ciascuno pienamente. Forseché il fanciullo, che per la minore capacità del suo stomaco non può bere tant’acqua come quell’uomo adulto, provi perciò dell’invidia e del disgusto? No, certamente, essendo egli contentissimo di poter bere quanto vuole e quanto può. Così è dei beati in cielo. Quindi bellamente il nostro sommo poeta fingendo nel Paradiso (Canto III) di interrogare un’anima celeste così:

Ma dimmi: Voi, che siete qui felici,

Desiderate voi più alto loco,

Per più vedere, e per più farvi amici?

si fe’ rispondere:

Frate, la nostra volontà quieta

Virtù di carità, che fa volerne

Sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta,

sicché in fine conchiuse:

Chiaro mi fu allor, com’ogni dove

In cielo è paradiso, e sì la grazia

Del Sommo ben d’un modo non vi piove.

— Ho inteso. Ma questa grande felicità è certo che Iddio la conceda alle anime di coloro, che muoiono in grazia, prima ancora della risurrezione dei corpi e dell’universale giudizio?

— Certissimo, anzi di fede secondo l’insegnamento datone dalla Chiesa in uno de’ suoi Concilii, nel Concilio Fiorentino. Le anime dei giusti appena sciolte dal loro corpo, se sono libere da ogni pena temporale e da ogni neo di colpa veniale, subito vanno al paradiso; altrimenti vi vanno tosto che abbiano scontata la pena temporale e compiuta la loro purificazione nel purgatorio.

— E dopo la risurrezione e l’universale giudizio, il corpo unito all’anima in cielo godrà esso dei piaceri come ne gode qui in terra?

No, caro mio, in cielo il corpo godrà dei piaceri come si conviene alla condizione gloriosa, in cui è risuscitato. Perciò non vi saranno più per lui questi piaceri meschini, grossolani, materiali e terreni, ma piaceri di ordine superiore, del tutto spirituali ecelesti.

— Con tutto ciò a me pare che in cielo si debba finire per essere sorpresi dalla noia. Quello starsene lì sempre allo stesso posto, intenti alla stessa contemplazione non è cosa, che per lo meno ad un certo punto renda indifferenti?

Ben si vede che tu ti fai del cielo una idea molto meschina e ben diversa da quella che dovresti farti. È vero che i pittori sogliono rappresentare il cielo come un vasto cerchio, ove i beati se ne stanno ciascuno estatico al proprio posto, nella contemplazione di Dio. Ma i pittori fanno così non già per rappresentarci il cielo quale esso è, ma per aiutare in qualche modo la nostra fantasia a figurarcelo. Così fanno pure i poeti e gli oratori colle loro descrizioni, anzi così fa la stessa Scrittura, la quale a darci qualche idea del cielo si serve di immagini materiali, di tutto ciò che di bello, di buono, di piacevole vi è in questo mondo. Perché nell’ordine presente non è possibile per noi formarci un’idea pura di tutto ciò che è spirituale e soprasensibile, senza l’involucro d’una forma o immagine sensibile: sempre abbisogniamo dell’aiuto dei fantasmi per rappresentarci l’anima, gli Angeli, le virtù, le perfezioni, lo stesso Dio. Epperò come quando la Scrittura ci parla di posti, di seggi, di mansioni in cielo, di corone, di palme, di vesti che là si hanno ecc., non intende parlarci di posti, di seggi, di mansioni, di corone, di palme, di vesti materiali, ciò che sarebbe ridicolo degli Angeli e delle anime ancora separate dai corpi, ma di gradi diversi di felicità, così i pittori seguendo queste stesse immagini ci rappresentano i beati fermi ciascuno al proprio posto, nella stessa contemplazione di Dio. Ma la cosa è ben diversa. Ed anzitutto i beati sia con la sola anima prima della risurrezione, sia con l’anima e col corpo dopo la risurrezione, come insegna san Tommaso, potranno muoversi e recarsi di qua e di là a seconda della loro volontà, sia per esercitare quegli atti di cui sono capaci, e per essi rendere gloria alla divina sapienza, sia per ricreare la loro vista dalla bellezza delle diverse creature, nelle quali la stessa divina sapienza eminentemente risplende; e tutto ciò senza che avvenga il menomo decrescimento della loro beatitudine, essendo che da per tutto hanno presente Iddio e ne godono la visione. Come dunque si può ingenerare la noia nei beati, i quali, ora da soli, ora in compagnia di altri beati andranno di sfera in sfera, visiteranno i milioni e milioni di astri, vi contempleranno le bellezze che in essi vi sono, le meraviglie che in ciascuno si trovano? E che dire di quello che i beati potranno considerare ed ammirar nel mondo degli Angeli e in quello delle anime ? « Una sola anima in cielo, dice Bougaud, ben conosciuta, basta a rapire. Si vede a rilucervi la bontà di Dio, la sua pazienza, la sua delicatezza infinita, i suoi colpi di folgore temprati dalla tenerezza per divellerla dal male. La biografìa di ciascuna di esse rivela, starei per dire, una nuova scienza di Dio, siffattamente getterà luce nuova e inaspettata sopra i suoi attributi ». Che dire ancora di quei colloqui e di quelle relazioni dolcissime, che i beati del cielo hanno coi loro parenti coi loro amici salvi con essi, e tra i quali vi èperfetto riconoscimento, con gli Angeli e coi Santi tutti, per cui del continuo si scambiano nuovi pensieri, nuovi sentimenti, nuove adorazioni, nuovi entusiasmi, nuove espansioni di carità e di gioia! E poi la stessa visione di Dio, bellezza infinita, nella quale vivono e palpitano tutte le bellezze, e che pur appagando pienamente la nostra intelligenza e il nostro cuore, senza lasciarci nulla da cercare o desiderare, come felicemente si esprime il Padre Felix, « dà ai beati, con un’espressione sempre nuova dell’infinito, una felicità che ringiovanisce eternainente, » come mai puòlasciarci cadere nella noia? No, certamente, ciò non è possibile: se così fosse, il cielo non sarebbe più cielo.

— Ma per lo meno in Paradiso non si prova dai beati qualche pena nel sapere dannato qualcuno dei loro cari?

È fuori di dubbio che nessun’ombra di dolore offusca la felicità dei beati in cielo; epperò non possono soffrire neppure per la dannazione dei loro cari, perché la vedono giustissima, pienamente conforme ai loro demeriti. Tuttavia a capire e spiegare come ciò avvenga ti confesso che è difficile assai, e di tutte le spiegazioni, che si adducono, non appaga interamente la ragione che questa: Dio con la sua onnipotenza può dare ai beati una miracolosa disposizione d’animo, per cui mentre essi godono ineffabilmente ed eternamente, e vedono certi loro cari a soffrire spaventosamente e pure eternamente, non restano tuttavia menomamente amareggiati.

PILLOLE DI SALVEZZA -2- RAPPORTI CONIUGALI – ACQUA BENEDETTA.

– 1 Rapporti coniugali. -765-

A. — LICEITÀ.

I. L’atto coniugale è lecito, quando si compie per la procreazione dei figli o, senza escludere positivamente la procreazione, per qualche altro fine onesto.

Motivi onesti sono: fomento del mutuo amore e della mutua concordia; ristabilimento della pace, evitare il pericolo di incontinenza per sé o per il coniuge, ecc. — Le relazioni coniugali sono lecite anche quando è certo che non potrà avvenire la concezione in modo alcuno, per es. nei vecchi, negli sterili, quando alla donna furono levate le ovaie o la matrice, quando si è certi che avverrà un parto morto o precoce (settimino), quando, per una disposizione patologica della donna, il semen, dopo la copula, fluisce da se stesso, aut si ob senectutem vel similem causam semen virile saepe extra vas effunditur. Secondo parecchi autori l’atto coniugale resta lecito anche quando i coniugi sono divenuti impotenti dopo lo sposalizio, purché sia ancora possibile una « penetratio vaginæ », per es. quando all’uomo furono asportati i testicoli o quando subì la vasectomia. Circa i tempi agenesici, cfr.

n. 776.

Fœcundatio artificialis est illicita, si maritus semen extra vaginam effundit (est enim pollutio vel onanismus), et medicus semen ope instrumenti colligit et in uterum inicit; ad vitanda incommoda vere gravia uxor passive se habere potest. Hæc fæcundatio artificialis est illicita, quia actus coniugalis natura sua est coniugum cooperatio personalis, simultanea et immediata. (Cfr. discorso di Pio XII alle ostetriche, 29 ott. 1951).

— Licita est fila praxis, qua ope instrumenti vagina dilatatur vel uterus in naturali positione collocatur, et maritus copulam habet modo ordinario. Sunt etiam qui putent licitam esse illam fœcundationem artificialem, in qua vir intra vaginam semen effundit et medicus ope instrumenti semen colligit et in uteri fundum inicit. ( Cfr. il discorso di Pio XII, 29 sett. 1949, al IV Congresso intern. dei medici cattolici: AAS, XLI, 1949, p. 557 ss.).

II. La copula diviene illecita solo nelle seguenti condizioni, quando:

1° La procreazione è resa più difficile.

Nessuna posizione o sito pertanto è gravemente colpevole, se può ancora avvenire la concezione. Ma se questa si rende difficile, si ha peccato veniale, compiendosi l’atto in tal modo, senza motivo sufficiente. — Effusio seminis in ore vaginæ (copula dimidiata) est peccatum leve, si quis hoc modo se gerit, ut conceptionem difficiliorem reddat; nullum autem peccatum est, si copula alio modo haberi non potest aut saltem non sine gravi incommodo. — Peccatum veniale uxor committit, si seminationem cohibet ad difficiliorem reddendam conceptionem.

766

2° Ne risente danno la sanità.

Qualora con l’atto coniugale fosse congiunto un immediato pericolo di morte, la copula è proibita sotto pena di peccato mortale. — Se da essa risulta un grave danno o un pericolo remoto di morte, occorre un motivo grave per la sua liceità, per es. che, specialmente in caso di malattia diuturna di un coniuge, l’altro non violi la fedeltà coniugale, o che resti assicurata la pace domestica. Tuttavia non v’è obbligo di compiere l’atto coniugale dietro preghiere dell’altra parte (cfr. n. 772). In caso di malattie veneree, per un motivo grave si può tollerare che il coniuge malato chieda al coniuge sano il debito coniugale, dopo però aver avvertito il sano della propria malattia; se l’altro coniuge, poi, vuol compiere tale sacrificio, può, ma non è tenuto. In generale però è da sconsigliarsi che uno affetto da simili mli compia l’atto coniugale. — Ai tubercolotici sono leciti i rapporti coniugali, ma con moderazione. — Dopo un parto, l’atto coniugale è proibito generalmente sub gravi durante le prime due settimane, sub levi durante le quattro seguenti; è lecito durante il periodo dell’allattamento.

— Durante la gravidanza, i rapporti coniugali sono leciti, purché si eviti il pericolo di aborto. — Durante le mestruazioni, come norma, è da sconsigliarsi l’atto coniugale; pure, per motivo ragionevole, è lecito. In caso di emorragie morbose della matrice, piuttosto prolungate, può derivare dall’atto coniugale un grave danno alla donna in certe forme di malattie; perciò è necessario richiedere il consiglio di un medico competente e cosciente. — La circostanza che i figli nati da un matrimonio, per es. per causa di malattia dei genitori, resteranno deboli e infermicci o moriranno già prima di nascere, non rende illecito l’atto coniugale.

3 ° Ne soffre danno la salute dell’anima.

È gravemente peccaminoso compiere l’atto in presenza di terzi. Se inaspettatamente sopraggiunge alcuno, si deve troncare subito l’atto coniugale, anche se certamente ne seguirà la polluzione; alla quale però non è mai lecito acconsentire.

— Chi emise il voto di castità, non può chiedere il debito coniugale, salvo che l’altro coniuge non si trovi in pericolo di incontinenza e abbia ripugnanza a chiedere; alla richiesta (almeno tacita) dell’altro coniuge, deve invece prestare il debito coniugale, anche quando l’altra parte avesse fatto similmente il voto di castità. — In caso di invalidità del matrimonio, l’atto coniugale è proibito sotto pena di peccato mortale, anche se un coniuge soltanto è a conoscenza della nullità. — In caso di dubbio serio sulla validità del matrimonio ci si deve accertare con una accurata inchiesta. Nel frattempo non è lecito chiedere il debito coniugale; ma se l’altro coniuge non ha dubbio alcuno in merito, dietro sua richiesta glielo si deve prestare. Non potendosi appurare il dubbio, il matrimonio deve ritenersi valido, e quindi lecito l’uso.

Nota. — I TEMPI SACRI non rendono illeciti i rapporti coniugali, benché in tempi di penitenza debba consigliarsi la moderazione. — Anche la notte precedente la Comunione sono leciti i rapporti coniugali, quantunque coloro che si comunicano di rado faranno bene ad astenersi dall’atto coniugale; alla richiesta dell’altro coniuge, però, la copula è un dovere. E le donne devono ben guardarsi dal prestare l’atto coniugale di malumore.

768

III. Gli atti incompleti (actus imperfecti luxuriæ, v. g. aspectus, oscula, amplexus, tactus, etc.) in quanto alla loro liceità devono essere distinti nel modo seguente:

In unione con l’atto coniugale come preparazione e come complemento sono sempre leciti. Hoc valet de aspectibus, osculis vel tactibus etc. honestis vel minus honestis, sive in corpore proprio sive in corpore compartis. Si uxor in copula ipsa plenam voluptatem non habet, eam sibi procurare potest tactibus immediate ante vel post copulam; et vir postquam rite seminavit, non debet, imo generaliter non potest exspectare seminationem uxoris, quia relaxatio partium virilium generaliter sequitur immediate post seminationem. Pauci auctores putant uxori quoque licere sibi procurare tactibus, etc, istam plenam voluptatem postquam vir onanista se retraxerit, ut semen extra vas effundat. — Marito vero non licet sibi procurare istam plenam voluptatem, si mulier se retrahit postquam ipsa seminavit, quia seminatio viri extra vas nihil confert ad generationem.

769

 2° Extra copulam, id est quando coniuges copulam habere aut nolunt aut non possunt:

a) actus mutui licent, si fiunt ex iusta causa (v. g. signum amoris), et periculum pollutionis abest (etsi pollutio per accidens aliquando sequatur) aut si cum periculo pollutionis fiunt ex gravi causa (v. g. ad avertendam suspicionem, ad retrahendum virum a viis adulterinis, ad obœdiendum comparti petenti, ut illi actus permittantur aut reddantur). – Quæ vero dieta sunt de periculo pollutionis solummodo valent, si actus per se graverri influxum in pollutionem habent, non vero si influxus est per accidens, v. g. ob singularem dispositionem agentis (cfr. n. 225). — Actus qui natura sua gravem influxum in pollutionem habent, sunt peccata gravia, si absque proportionata causa excercentur. — Alii actus, qui levem influxum habent et sine justa causa fiunt, peccata levia sunt; si vero ponuntur cum intentione pollutionis evadunt peccata mortalia. — Consensus in delectationem cum pollutione coniunctam est peccatum mortale; multi vero hoc nesciunt, nec expedit eos hac de re monere.

b) actus solitarii delectationis venereæ causa exerciti sunt peccata mortalia, si natura sua gravem influxum in pollutionem habent, vel si fiunt cum intentione pollutionis; si absque hoc periculo et absque hac intentione fiunt, in praxi prohiberi non possunt sub comminatione peccati mortalis.

c) delectatio morosa in coniugibus est, excluso periculo pollutionis, peccatum nullum aut leve aut grave, prout res, de quibus coniugibus delectantur, ipsis licitæ sunt vel prohibitæ sub levi vel sub gravi. Idem dicendum est de desideriis. — Delectatio, quæ oritur e cogitationibus speculativis de re turpi, non est peccatum grave prò coniugibus, modo absit et periculum proximum pollutionis et grave periculum consentiendi delectationibus morosis vel desideriis graviter peccaminosis facile oriundis.

B . — IL DEBITO CONIUGALE.

770

I. Alla prestazione del debito coniugale ciascun coniuge per sé è obbligato sotto pena di peccato grave, quando l’altro lo chiede seriamente, in modo particolare se si trovasse in pericolo d’incontinenza, o dovesse fare un grande sacrificio per superare la tentazione. – La richiesta della prestazione del debito coniugale di solito avviene esplicitamente da parte del marito; da parte della moglie invece soltanto tacitamente, per es. con espressioni di tenerezza. — Il rifiutarsi è soltanto peccato veniale (a meno che l’altro coniuge venga esposto al pericolo di peccare gravemente), quando la parte richiedente rinuncia facilmente alla sua richiesta, oppure quando si differisce la prestazione soltanto per breve tempo o quando, in caso di frequenti rapporti, il rifiuto avviene di rado, per es. una volta al mese. — Si devono però lasciare in buona fede le donne attempate o madri di numerosa prole, quando credono che commetterebbero peccato grave soltanto se rifiutassero quasi sempre il debito coniugale al marito, oppure se il marito corresse il pericolo di peccare gravemente. — In genere sarà bene, di solito, richiamare l’attenzione delle donne sulla gravità del loro obbligo, ed esortare invece gli uomini alla moderazione.

771

II. Esistono cause che scusano dal prestare il debito coniugale:

1° In caso di adulterio dell’altra parte.

L’adulterio però deve essere certo; deve inoltre essere stato commesso scientemente e volontariamente. In caso di violentazione, quindi, non si dà causa scusante. Infine occorre che l’adulterio non sia stato ancora perdonato, per es., mediante volontaria prestazione del debito coniugale, nonostante la conoscenza dell’adulterio stesso.

2° Se il marito è trascurato nel dovere di mantenere la moglie e i figli.

Quando il marito sciupa il guadagno in gozzoviglie e fa ricadere la preoccupazione del mantenimento della famiglia sulla moglie, questa non è tenuta a prestargli il debito coniugale. Ma se la famiglia deve vivere nelle ristrettezze senza colpa del marito, ciò non costituisce motivo alcuno per rifiutare il debito coniugale; come pure, per sé, non è ragione sufficiente il fatto che in caso di prole numerosa la famiglia debba fare qualche maggiore restrizione. — In alcuni casi, lo stesso vale se la moglie manca ai suoi doveri della cura familiare.

3° Nel caso che chi lo chiede manchi dell’uso di ragione.

Non vi è dunque obbligo di prestare il debito coniugale ad un demente o a un individuo molto ubriaco; lo si può fare.

4° In caso di richieste esagerate. Ciò si verifica principalmente quando un coniuge chiede l’atto coniugale con tale frequenza che la costituzione fisica dell’altro non lo può sopportare senza danno piuttosto grave.Il giudizio, in merito, spetta a un medico coscienzioso.

5° In caso di grave pericolo per la sanità o per la vita.

Si hanno cause simili, per es. trattandosi di malattie infettive, di grave mal di cuore, ecc. — Non costituiscono invece causa sufficiente i soliti disturbi congiunti con la gravidanza, col parto o con l’educazione della prole; per es. dolori sia pur forti, ma di breve durata, diuturno mal di capo, ma non eccessivamente forte. Così non è sufficiente motivo il timore, confermato dall’esperienza, che la donna, in caso di concepimento, non porti a termine la gravidanza, ma possa abortire involontariamente o avere un parto morto. — Per maggiori particolari, cfr. n. 766.

6° Per il bene spirituale.

Per maggiori dettagli, cfr. n. 767, e I Cor. 7, 5. — De debito reddendo viro onanistæ, cfr. n. 774.

C. — PECCATI DEI CONIUGI.

I principali peccati gravi che possono commettere i coniugi sono: azioni contro la vita in formazione (cfr. n. 214), adulterii (cfr. n. 227), rapporti coniugali in circostanze che li rendono illeciti (cfr. n. 765 ss.), atti posti senza motivo suffìciente, che hanno grande influsso sulla polluzione, così pure gli atti compiuti con l’intenzione di procurarsi la polluzione (cfr. n. 768 s.), il rifiuto del debito coniugale (cfr. n. 770 ss.); gli atti coi quali viene frustrato il fine principale del matrimonio. — Qui non ci resta che trattare precisamente di questi ultimi peccati. Essi sono: sodomia imperfecta, onanismus, usus mediorum vel instrumentorum, quibus impeditur nesemine rite effuso conceptio sequatur.

I . Sodomia imperfecta, id est concubitus mariti cum uxore in vase præpostero grave peccatum est sive vir in ilio vase seminat, sive semen extra illud frustratur. Excluso affectu sodomitico, non est sodomia nec peccatum mortale si vir copulam incipit in vase praepostero cure animo consummandi copulam in vase naturali, aut si genitalibus tangit vas praeposterum sine periculo pollutionis.

— Positiva cooperatio uxoris ad congressum sodomiticum numquam licita est; ideo saltem interne semper resistere debet. Exteme tamen potest pati concubitum, si eum impedire conatur et tunc solum permittit, quando absque periculo gravissimi mali eum impedire non potest; consensus vero in delectationem veneream est illicitus.

774 II. Onanismus triplici modo perfici potest.

Naturali modo vir copulam incipit, ante seminationem vero se retrahit et semen extra vaginam effundit. Onanismo vir et uxor grave peccatum committunt. Quia vero ante abruptionem copulæ nihil fit quod sit illicitum, uxori cooperatio materialis (cfr. n. 149) ex causa mediocriter gravi licita est. Tales causæ sunt: pax domestica, timor ne maritus adulteria committat. Si grave est uxori carere copula, licite eam petit a viro onanista (rationem cfr. n. 146). Uxor delectationi venereæ inde ortæ consentire potest, non vero peccato viri. Aliquando vero ex caritate monere debet maritum, ne peccet; excusatur ab hac monitione ob grave periculum dissidii vel indignationis, etc. — Obligatio reddendi debitum viro onanistæ non existit, excepto casu, in quo uxor ad debitum ex caritate obligatur, v. g. ut dissidia præcaveat vel virum a commercio adulterino avertat.

— Abruptione copulæ grave peccatum committitur, etiamsi solummodo uxor seminaverit, excepto casu necessitatis, v. g. si maritus hac vice seminare non potest.

Abruptio copulæ non est peccatum: a) si improvisa necessitas adest, v. g. propter adventum tertii; b) si fit communi consensu ex rationabili causa et in neutro coniuge periculum pollutionis adest; est enim hoc in casu solummodo tactus impudicus (de quo cfr. n. 768); alterutra parte invita, grave peccatum est, etiamsi periculum pollutionis non adesset.

Instrumento vel involucro quodam (vulgo condom) efficitur, ne semen vaginam attingere possit. Hic modus copulæ jam ab initio omnino illicitus est; ideo uxor ne materialiter quidem cooperari potest; sed se gerere debet, sicut in casu in quo vir sodomiam intendit. — Idem dicendum est de introductione alicuius « pseudovaginæ ».

775

Usu quorundam mediorum vel instrumentorum impeditur, quominus semine intra vaginam effuso conceptio sequatur. Artes quibus mulieres potissime utuntur, sunt praecipue sequentes: a) lavant irrigatore vaginam interiorem, ut semen expellant; b) spargunt per vaginam substantiam chemicam, qua sperma occidatur; c) comprimunt vaginam, ut exprimant semen; d) surgunt, ambulant, saltant, laborant vel mingunt, ut semen expellant; e) ante copulam aliquo medicamento vel instrumento (pessario) claudunt os uteri, ne semen ascendat in uterum.

a) Mulier, quae semen expellere vel eius ascensum in uterum impedire vult, graviter peccat. Excipitur solummodo femina vi vel dolo oppressa, quæ antequam conceptio facta est, expellere vel necare potest semen, quia semen (in casu) comparatur iniusto aggressori. Minctio post copulam non impedit conceptionem, quamobrem non est peccatum; intentione prava tamen mulieres graviter peccare possunt. — Exclusa prava intentione, lotio vaginalis jam post unam vel alteram horam a copula licita videtur, cum generationem non impediat; statim post copulam vero illicita est, etsi fiat ad dolores acerbos compescendos.

b) Vir tota sua auctoritate maritali uti debet, ne uxor adhibeat istas artes. Si uxorem impedire non potest, quominus istis mediis utatur, maritus se gerere potest simili modo ac uxor respectu viri onanismo dediti. Hoc paucis auctoribus etiam licitum esse videtur in casu, in quo uxor os uteri claudit, v. g. ope illius instrumenti, quod vocatur « pessarium ».

Nota. — Trattamento degli onanisti in confessione.

a) L’obbligo d’interrogare esiste per sé tutte le volte che v’è un sospetto fondato. In simili casi la domanda può suonare per es.: « Non Le rimorde per nulla la coscienza circa la santità del matrimonio? » — « Non è avvenuto nulla contro il fine del matrimonio? »; o altre secondo l’uso di buoni sacerdoti nelle diverse regioni.

b) E necessario istruire il penitente circa la gravezza di questo peccato, anche se finora è stato in buona fede. Veramente ai nostri tempi difficilmente vi sarà la buona fede, salve circostanze molto scabrose: per es. quando un medico di coscienza ha dichiarato che una nuova gravidanza metterebbe a repentaglio la vita della donna. In tal caso si può lecitamente omettere l’istruzione, se si prevede che altrimenti i peccati materiali non farebbero che diventare formali.

c) Chi non ha la volontà risoluta di evitare il peccato, non è disposto, e non può essere assolto. — Non essendo mai lecito far ciò che è intrinsecamente cattivo, ne segue che l’onanismo nel matrimonio è grave peccato anche quando i coniugi (caso rarissimo del resto) dovessero altrimenti vivere sempre in continenza. Come a nessuno, nelle persecuzioni contro i Cristiani, fu lecito rinnegare la propria fede per non essere ucciso fra spaventosi tormenti, così non è lecito l’onanismo per non dover vivere in perpetua continenza. Quali sacrifici eroici non esigono sovente gli Stati moderni! E allora anche Dio può certamente esigere che noi facciamo sacrifici per il Cielo. Del resto, Dio dà anche le grazie corrispondenti al sacrificio da Lui richiesto. L’uomo, certo, deve avere tanto spirito di sacrificio da impegnarsi a chiedergliele (cfr. discorso

di Pio XII alle ostetriche, 29 ott. 1951).

d) recidivi, che assicurano di avere il miglior proposito, devono essere trattati come i recidivi che si trovano nell’occasione prossima di peccato; e precisamente, se di fatto non possono più aver figli, per es. a causa di malattia della moglie o di una povertà che è indigenza, devono considerarsi in occasione prossima necessaria di peccato (cfr. n. 617); quelli invece che per ripugnanza al sacrificio, ecc. non vogliono più avere figli, si devono trattare come persone nell’occasione prossima libera del peccato (cfr. n. 616).

e) Secondo l’opinione dei medici il concepimento si verifica soltanto quando l’atto coniugale si compie in tempi determinati. – Non peccano i coniugi facendo l’atto coniugale anche nei tempi agenesici. Ma se essi, sempre e deliberatamente, senza un grave motivo, hanno rapporti coniugali soltanto nei periodi infecondi, peccano contro il senso stesso della vita coniugale. Tuttavia, l’osservanza dei tempi infecondi o agenesici, per motivi proporzionati (sanitari, eugenici, economici, sociali), di comune accordo è lecita, fino a tanto che sussistono tali motivi (cfr. discorso di Pio XII alle ostetriche, 29 ott. 1951 e quello al «Fronte della Famiglia », 29 nov. 1951). — Circa la precisazione di questi periodi agenesici, però, i medici stessi non sono ancora pienamente d’accordo. Negli ultimi tempi guadagna sempre più terreno l’opinione che gli ultimi undici giorni precedenti la prossima mestruazione siano fisiologicamente sterili e che la concezione si verifichi soltanto quando l’atto coniugale ha luogo nel tempo che decorre dal 19° al 12° giorno precedente la prossima mestruazione. Ma poiché alcune donne non hanno un ciclo mestruale regolare e in certi casi possono aggiungersi anche dei turbamenti patologici, il  confessore si guardi dall’entrare in spiegazioni del genere, ma invìi le persone, che per validi motivi non desiderano più figli, a un medico competente e coscienzioso, il quale indicherà loro esattamente i giorni in cui devono vivere in continenza. Certamente è questo uno dei punti più delicati del ministero pastorale; Pio XI nella Enc. « Casti Connubii » (31 dic. 1930; AAS, XXII, 1930, p. 539-592) e Pio XII nel discorso alle ostetriche (29 ott. 1951) e in quello al « Fronte della Famiglia » (29 nov. 1951) hanno richiamato con energia e chiarezza la dottrina cattolica della santità del matrimonio cristiano contro tutte le recenti teorie e pratiche materialistiche.

OCCASIONI

616 E. — CONFESSIONE DI OCCASIONARI E ABITUDINARI E RECIDIVI.

I . Occasionari — 1° Nozione di occasione. Per occasione s’intende una circostanza esterna al soggetto che alletta qualcuno al peccato, rendendone facile l’esecuzione. Qui non si tratta dell’occasione remota, ma soltanto della prossima, di quell’occasione cioè alla quale è congiunto un pericolo grave che uno pecchi, sia che cadano generalmente tutti gli uomini (occasione assoluta) sia che vi cada sempre o quasi sempre un individuo determinato per le sue particolari disposizioni (occasione relativa). — Non si tiene qui conto dell’occasione remota, essendo lecito esporsi ad essa per un motivo ragionevole. L’occasione prossima può essere volontaria o necessaria. La prima si può facilmente evitare; schivare la seconda è fisicamente o moralmente impossibile per causa del grave danno alla vita, alla sanità, alla riputazione, che ne deriverebbe. Un’occasione prossima necessaria di peccato è per es. una relazione, in cui sia in vista un prossimo matrimonio; la convivenza coniugale, dei figli, ecc.

Assoluzione di chi si trova nell’occasione prossima di peccato.

a) Chi non vuole evitare l’occasione prossima volontaria di peccato, non può essere assolto.Ciò vale anche quando con la preghiera ecc. si vorrebberendere l’occasione remota.

Chi promette sinceramente di evitare subito l’occasione, può essere assolto subito. — Chi mancò più volte a questa promessa, dimostra che ha disposizioni dubbie; d’ordinario quindi non può essere nuovamente assolto, se prima non abbia allontanata l’occasione (cfr. n. 614). — Se il levare l’occasione (supposta volontaria) importa grandi sforzi morali (licenziamento di persona, disdetta d’un servizio) si può fin dalla prima volta differire l’assoluzione fino a quando l’occasione sarà tolta.

b) Chi non lascia l’occasione prossima necessaria, ma usando i mezzi idonei vuol renderla remota,può essere assolto.Tali mezzi possono essere destinati ad accrescere le forzespirituali (preghiere, sacramenti, meditazione delle veritàeterne) od a diminuire le forze dell’occasione (custodia degliocchi, contegno molto riservato con quella persona, schivaredi trovarsi da soli con essa).Chi non ostante l’uso dei mezzi ricade sempre dinuovo, non può essere costretto ad abbandonare l’occasionea qualunque costo; si deve però esigere con insistenza che usicon più energia i mezzi convenienti. — Ma se questa occasionelo ponesse nel pericolo prossimo di eterna dannazione, per sé dovrebbe troncarla anche a costo della propriavita. — Non può essere assolto colui che non vuole usare imezzi convenienti per rendere remota l’occasione prossimanecessaria.

Nota.

Fra l’occasione remota e l’occasione prossima vi sono diversi gradi intermedi; quanto maggiore è il pericolo di peccare, tanto più gravi devono essere i motivi che disobbligano dall’abbandonare l’occasione. – Chi senza motivo sufficiente non evita un’occasione che non è propriamente remota, ma neppure è ancora prossima, commette almeno peccato veniale.

II. Peccatore abitudinario si dice colui che, durante un periodo piuttosto lungo di tempo, cade sovente nei medesimi peccati, senza che tra i singoli peccati vi sia un intervallo troppo grande. Nel giudicare di una abitudine si deve tener conto anche dell’indole del peccatore e della natura del peccato. Si distingue dal recidivo principalmente per questo che non è ricaduto ancora di continuo nei medesimi peccati dopo varie confessioni. L’abitudinario per sé deve essere assolto subito, anche se non è preceduta alcuna emendazione, purché sia realmente ben disposto.

III. Recidivo dicesi chi, non ostante ripetute confessioni, ricade sempre negli stessi peccati senza sforzarsi seriamente di correggersi.

Per assolverlo per sé si devono applicare le regole generali. La difficoltà sta appunto nel verificare se di fatto sia ben disposto.

Come norma: è ben disposto chi cade soltanto per fragilità; chi in genere sente orrore del peccato e lotta contro la tentazione e subito dopo la caduta detesta la sua azione (ciò accade spesso in chi pecca di polluzione). Si può rilevare se uno sia ben disposto, e ciò con facilità, chiedendogli non soltanto quante volte sia caduto, ma anche quante volte abbia resistito alla tentazione. — Di solito sono mal disposti quei recidivi che hanno un persistente attacco all’oggetto peccaminoso (relazione illecita, attacco alla cosa rubata, sistema dei due figli e non più). Tuttavia se vi sono segni positivi che un tale individuo sia ora più seriamente pentito che nelle confessioni precedenti, si può ammettere in lui una disposizione sufficiente. – In caso di disposizione dubbia, si devono ordinariamente assolvere quelli che peccano per debolezza, poiché è ad essi necessaria la grazia dei Sacramenti. — Si deve invece di solito rifiutare l’assoluzione a quanti ricadono nel peccato, perché non vogliono compiere il loro dovere (per es. restituire, troncare una relazione illecita).

97 – Il peccato in genere.

I. Nozione. Il peccato è la volontaria trasgressione di una legge divina. Poiché ogni legge è un’emanazione della legge divina, così anche la trasgressione di qualunque legge costituisce peccato.

I requisiti che costituiscono un peccato, sono: a) la trasgressione di una legge, almeno di una legge ritenuta per tale; b) la cognizione della trasgressione (basta però una cognizione confusa); c) il libero consenso.

Tali elementi costituiscono il peccato formale; il quale si distingue dal peccato materiale, che è la trasgressione di una legge senza saperlo né volerlo; tale trasgressione non viene da Dio attribuita come colpa; ma dalla società, in certi casi, si è citati a rispondere di dette azioni.]

ERIBERTO JONE O. F. M. Cap.:

COMPENDIO DI TEOLOGIA MORALE

Trad. dalla 14° edizione tedesca a cura dei Frati Minori Cappuccini della Provincia di Lombardia. –

MARIETTI Ed. 1952

Nihil obstat, ex parte Ordinis, quosimus imprimatur. Romæ, 12 dec. 1951

Fr. CLEMENS A. MILWAKEE

Min. Gen. O. F. M. Cap.

Imprimatur

Casali, 30 dec. 1951.

Ca. Laurentius Oddone, Vic. Gen.

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II. ACQUA BENEDETTA

L’acqua santa è “l’acqua benedetta da un sacerdote con una preghiera solenne, per chiedere la benedizione di Dio a coloro che la usano e la protezione dai poteri delle tenebre”. È un sacramentale molto importante della nostra Chiesa.

L’acqua è l’elemento naturale per la purificazione, e il suo uso simbolico per indicare la purificazione interiore era comune a molte antiche religioni: greca, romana, egiziana e altre; ed è così usata pure dai bramini dell’India, dagli indiani d’America e dagli altri pagani del tempo presente. Tra gli ebrei, le leggi di Mosè (contenute nei libri dell’Esodo e del Levitico nell’Antico Testamento), ingiungevano l’aspersione delle persone, i sacrifici, i vasi sacri, ecc .; e la nostra Chiesa ha seguito molte di queste pratiche ebraiche.

C’è una tradizione secondo cui l’acqua santa era usata dall’Apostolo San Matteo, ma questo è incerto. È stato riportato da alcuni all’inizio del secondo secolo e il suo uso è diventato più tardivo.

I tipi di acqua santa.

Ce ne sono di quattro tipi, ognuno benedetto in un modo diverso. Sono i seguenti:

1. L’acqua battesimale, che è benedetta il Sabato Santo, e può anche essere benedetta alla vigilia di Pentecoste. L’olio dei catecumeni e il santo crisma si mescolano con essa. (Lezione 41.) È usata solo nell’amministrazione del Battesimo.

2. Acqua di consacrazione, o acqua gregoriana, così chiamata perché il suo uso fu ordinato da Papa Gregorio IX. È usato nella consacrazione delle chiese ed ha vino, ceneri e sale mescolati con esso.

3. Acqua di Pasqua, così chiamata perché distribuita alle persone il Sabato Santo, la vigilia di Pasqua.

Una parte di quest’acqua è usata per riempire il fonte battesimale, benedetta come acqua battesimale; il resto è dato ai fedeli. In alcuni paesi quest’acqua viene usata dal clero per la solenne benedizione delle case il Sabato Santo.

4. Acqua santa ordinaria, benedetta dal Sacerdote per l’aspersione del popolo prima della messa e per l’uso alla porta della chiesa. Può essere usata anche per la benedizione di persone e cose, in chiesa e a casa. Il sale si mescola con essa – usanza che risale probabilmente al secondo secolo.

Questa acqua santa e l’acqua di Pasqua sono quindi le uniche varietà di acqua santa che riguardano direttamente i fedeli. Sono santificate da diverse formule, ma il loro valore e i loro usi sono quasi gli stessi.

Gli usi dell’Acqua santa.

Essa viene usata in quasi tutte le benedizioni rituali della Chiesa, nelle cerimonie del Matrimonio e nell’Estrema Unzione, nel dare la Santa Comunione agli ammalati e negli uffici  dei defunti.

Per uso in funzioni di chiesa è generalmente contenuto in un vaso a forma di scodella con una maniglia oscillante, provvisto di un irrigatore.

Le aspersioni.

Vi è l’aspersione della gente la domenica prima della Messa principale nella chiesa parrocchiale.

Prende il nome dalla prima parola (in latino) del versetto 9 del Salmo 50, versetto recitato dal Sacerdote e cantato dal coro durante questa cerimonia durante la maggior parte dell’anno: “Asperges me hyssopo et mundabor, lavabis me et super nivem dealbabor”.

Gli “Asperges” risalgono al IX secolo. È destinato a rinnovare in noi ogni domenica il ricordo del nostro Battesimo e a scacciare tutte le distrazioni nel corso della Messa.

In questa cerimonia, l’acqua santa non deve realmente toccare ogni persona nella chiesa. L’intera assemblea è benedetta insieme e tutti ricevono la benedizione, anche se l’acqua non può raggiungere ogni individuo.

Durante il periodo pasquale (dopo Pasqua) al posto degli “Asperges” viene cantato il “Vidi aquam”.

L’usanza di porre l’acqua santa alla porta della chiesa in un fonte di acqua santa è molto antica – probabilmente risalente al secondo secolo. Tra gli Ebrei era richiesta una cerimonia di purificazione prima di entrare nel Tempio, e la pratica cattolica potrebbe essere stata suggerita da questo uso. Nel Medioevo era consuetudine usare l’acqua santa solo quando si entrava in chiesa, e non quando si usciva,  per indicare che la purificazione era necessaria prima di entrare, non dopo aver assistito alla Messa. Al giorno d’oggi l’acqua santa può essere usata sia entrando e uscendo, specialmente quando si guadagna un’indulgenza ogni volta che viene usata.

La benedizione con l’acqua santa. Questo di solito viene fatto poco prima della Messa principale di domenica, ma può essere fatto in qualsiasi altro momento. Il prete legge diverse preghiere, tra cui un esorcismo del sale e dell’acqua, dopo di che il sale viene messo nell’acqua sotto forma di una triplice croce, nel nome delle Persone della Trinità.

Un esorcismo è una preghiera destinata a liberare persone o cose dal potere del Maligno.

Il simbolismo dell’acqua santa.

L’acqua è usata per la pulizia e per spegnere il fuoco; il sale è usato per preservare dalla decomposizione. Perciò la Chiesa li combina in questo Sacramentale, per esprimere il lavaggio delle macchie del peccato, la tempra del fuoco delle nostre passioni e la conservazione delle nostre anime dalle ricadute nel peccato.

Il sale è anche un simbolo di saggezza. Nostro Signore chiamò i suoi Apostoli “il sale della terra”, perché dovevano istruire l’umanità.

L’indulgenza.

C’è un’indulgenza di cento giorni nell’usare l’acqua santa.

Pio IX lo rinnovò nel 1876, a queste condizioni:

1. Il segno della croce deve essere fatto con l’acqua santa.

2. Dobbiamo dire: “Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.

3. Dobbiamo avere contrizione per i nostri peccati.

4. Per questa, come per ogni indulgenza, dobbiamo essere nello stato di grazia.

THE VISIBLE CHURCH

BY Rt. Rev. JOHN F. SULLIVAN, D.D.

A TEXT-BOOK FOR CATHOLIC SCHOOLS

NEW YORK, P. J. KENEDY & SONS

PUBLISHERS TO THE HOLY APOSTOLIC SEE

Nihil Obstat: ARTHURUS J. SCANLAN, S.T.D. Censor Librorum

Imprimatur: Patritius J. Hayes, D.D. Archiepiscopus Neo-Eboracensis

Neo-Eboraci die 5, Aprilis 1921.

Copyright, 1920, 1922, by P. J. Kenedy & Sons, New Yobk

Printed in U. S. A.

Lesson 33

HOLY WATER, p.p. 125-129

Aqua benedicta è un sacramentale molto importante della Chiesa cattolica.

Nel Rituale Romanum “Aqua benedicta” è normalmente tradotta come “Acqua Santa”, cioè acqua santificata attraverso il rito prescritto, che consiste in un esorcismo del sale, la benedizione del sale, l’esorcismo dell’acqua, la benedizione dell’acqua, la miscelazione del sale con l’acqua con la formula prescritta e una raccolta finale.

Aqua benedicta può anche essere tradotto letteralmente: “Acqua benedetta”.

Il legittimo ministro di quel sacramentale è un Sacerdote (Sacerdos), non un laico.

La procedura descritta di seguito non è un sacramentale approvato dalla Chiesa. Se avesse avuto l’approvazione ufficiale, sarebbe nel Rituale Romano, che non lo è.

Invece, sembra una superstizione. Quindi, le seguenti istruzioni superstiziose su come i laici possano ottenere “l’acqua benedetta”, cosa che non è approvata dalla Chiesa, devono essere respinte:

CAN. 1148

1. In Sacramentalibus conficiendis seu administrandis accurate serventur ritus ab Ecclesia probati.

2. Consecrationes ac benedictiones sive constitutivae sive invocativae invalidae sunt, si adhibita non fuerit formula ab Ecclesia praescripta.

Nell’eseguire o amministrare i Sacramentali, i riti approvati dalla Chiesa devono essere attentamente osservati.

Le consacrazioni e le benedizioni, quelle chiamate costitutive, così come quelle chiamate invocative, non sono valide se non sono state impiegate le formule prescritte dalla Chiesa.

Per la maggior parte di queste benedizioni, la Chiesa ha prescritto determinati riti o formule, che sono tutti contenuti nel rituale romano, e dovrebbero essere seguiti attentamente e accuratamente, senza mescolanze di cerimonie frivole o l’uso di oggetti inadatti. Questo vale soprattutto per le preghiere prescritte per gli esorcismi.

A COMMENTARY ON THE NEW CODE OF CANON LAW

By THE REV. P. CHAS. AUGUSTINE, O.S.B., D.D.

Professor of Canon Law

BOOK III

De Rebus, or Administrative Law

VOLUME IV

On the Sacraments (Except Matrimony) and Sacramental

(Can. 726-1011, 1144-1153)

B. HERDER BOOK CO.

17 SOUTH BROADWAY, ST. Louis, Mo.

AND 68, GREAT RUSSELL ST., LONDON, W. C.

1920

CUM PERMISSU SUPERIORUM

NIHIL OBSTAT Sti. Ludovici, die 11 Martii, 1920. F. G. Holweck, Censor Librorum.

IMPRIMATUR Sti. Ludovici, die 12. Martii, 1920. +Joannes J. Glennon,

Archiepiscopus, Sti. Ludomci.

Copyright, 1920 by Joseph Gummersbach

All rights reserved. Printed in U. S. A. pp. 565, 566

Nostro Signore Gesù Cristo ci ha dato un mezzo facile per ottenere la Sua benedizione per il nostro cibo e la nostra bevanda, e questa è la preghiera di ringraziamento prima e dopo i pasti.

RINGRAZIAMENTO PRIMA DEI PASTI

Benedic, Domine, nos et hæc tua dona, quæ de tua largitate sumus sumpturi. Amen.

Mensæ cœlestis particepes faciat nos, Rex æternæ gloriæ. Amen.

[Benedici noi, o Signore, e questi tuoi doni, che stiamo per ricevere dalla Tua generosità. Per Cristo nostro Signore. R. Amen. – Il Re dell’eterna gloria ci faccia partecipi della mensa celeste. Amen.]

RINGRAZIAMENTO DOPO I PASTI

Agimus tibi gratias, omnipotens Deus, pro universis beneficiis tuis: qui vivis et regnas in sæcula sæculorum. Amen.

[Ti rendiamo grazie, O Dio Onnipotente, per tutti i Tuoi benefici. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.]

Degnati, o Signore, di ricompensare con la vita eterna tutti quelli che ci fanno del bene per il tuo nome. R. Amen.

V. Benedici il Signore.

R. Grazie a Dio.

Possano le anime dei fedeli defunti, per la misericordia di Dio, riposare in pace.

R. Amen.

A MANUAL OF PRAYERS

FOR THE USE OF THE CATHOLIC LAITY PREPARED AND PUBLISHED BY ORDER OF THE THIRD PLENARY COUNCIL OF BALTIMORE

New York: The Catholic Publication Society Co., 9 Barclay Street. London: Burns & Oates, Limited

The Prayer Book ordered by the Third Plenary Council of Baltimore, having been diligently compiled and examined, is hereby approved.

+ James Card. Gibbons, Archbishop of Baltimore, Apostolic Delegate. Baltimore, May 17, 1889.

Imprimatur. + Michael Augustine, Archbishop of New York

Copyright, 1888, BY CLARENCE E. WOODMAN. pp. 58,59

AN ACT OF SPIRITUAL COMMUNION – L’ATTO DI COMUNIONE SPIRITUALE.

AN ACT OF SPIRITUAL COMMUNION

L’ATTO DI COMUNIONE SPIRITUALE

To the faithful who make an act of spiritual Communion, using any formula they may choose, there is granted:

 An indulgence of 3 years;

A plenary indulgence once a month on the usual conditions when the act is performed every day of the month (S. P. Ap., Mar. 7, 1927 and Feb. 25 1933).

The following forms of prayer are given as example of spiritual Communion:

a) My Jesus, I believe that Thou art present in the Blessed Sacrament. I love Thee above all things  and I desire Thee in my soul. Since I cannot now receive Thee sacramentally, come at least spiritually into my heart. As though thou wert already there, I embrace Thee and unite myself wholly to Thee; permit not that I should ever be separated from Thee.(St. Alphonsus Maria de’ Liguori).

b) At Thy feet, O my Jesus, I prostrate myself and I offer Thee the repentance of my contrite heart, which is humbled in its nothingness and in Thy holy presence. I adore Thee in the Sacrament of Thy love, the innefable Eucharist. I desire to receive Thee into the poor dwelling that my heart offers Thee. While waiting for the happiness of sacramental Communion, I wish to pocess The in spirit. Come to me, O my Jesus, since I, for my part, am coming to Thee! May Thy love embrace my whole being in life and in death. I believe in Thee, I hope in Thee, I love Thee. Amen. (Raphael Cardinal Merry del Val).

THE RACCOLTA
A MANUAL OF INDULGENCES PRAYERS AND DEVOTIONS
IN FAVOR OF ALL THE FAITHFUL IN CHRIST
OR OF CERTAIN GROUPS OF PERSONS AND
NOW OPPORTUNELY REVISED
Edited and in part newly translated into English from the 1950
official edition “Enchiridion Indulgentiarum – Preces et Pia Opera”
issued by the Sacred Penitentiary Apostolic.
By Rev. Joseph P. Christopher, Ph.D.
The Catholic University of America, Washington, D.C.
The Rt. Rev. Charles E. Spence, M.A. (Oxon.),
St. Gregory’s Seminary, Cincinnaty, Ohio
The Rt. Rev. John F. Rowman, D.D.,
St. Charles Seminary, Philadelphia, Pa.
By authorization of the Holy See
BENZIGER BROTHERS, Inc.
PRINTERS TO THE HOLY SEE  AND
THE SACRED CONGREGATION OF RITES
NEW YORK, BOSTON, CINCINNATI, CHICAGO, SAN FARNCISCO
1952. MADE IN U.S.A.
SACRA PAENITENTIARIA APOSTOLICA
OFFICIUM DE INDULGENTIIS
May 30, 1951. The Sacred Penitentiary Apostolic, by virtue of the faculties given it by His Holiness, Pope Pius XII, hereby graciously grants the petition as set forth, provided that His Eminence, the petitioner, is
sure of the fidelity of the translation. All to the contrary notwithstanding: By order of His Eminence.
N. Card. Canali, Major Penitentiary. S. Luzio, Regent
IMPRIMATUR. Francis Cardinal Spellman, Archbishop of New York
IN FESTO SANCTAE FRANCISCAE XAVERII CABRINI, 1951. pp. 95,96

When we cannot go really to Communion we can merit God’s grace by making a spiritual Communion. What is a spiritual Communion? It is an earnest desire to receive Communion. You prepare yourself as if you were really going to Communion; you try to imagine yourself going up, receiving the Blessed Sacrament, and returning to your place. Then you thank God for all His blessings to you as you would have done had you received. This is an act of devotion, and one very pleasing to God, as many holy writers tell us.

I cannot leave this lesson on the Holy Eucharist without telling you something of the devotion to the Sacred Heart of Jesus, now so universally practised and so closely connected with the devotion to the Blessed Sacrament. The Church grants many indulgences, and Our Lord Himself promises many rewards to those who honor the Sacred Heart. But what do we mean by the Sacred Heart? We mean the real natural heart of Our Lord, to which His divinity is united as it is to His whole body. But why do we adore this real, natural heart of Our Lord? We adore it because love is said to be in the heart, and we wish to return Our Lord love, and gratitude for the great love He has shown to us in dying for us, and in instituting the sacraments, especially the Holy Eucharist, by which He can remain with us in His sacred humanity. When Our Lord appeared to Saint Margaret Mary He said: “Behold this Heart, that has loved men so ardently, and is so little loved in return.” The first Friday of every month and the whole month of June are dedicated to the Sacred Heart.

AN EXPLANATION OF THE Baltimore Catechism
of Christian Doctrine
FOR THE USE OF Sunday-School Teachers and Advanced Classes
BY Rev. THOMAS L. KINKEAD
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO:
BENZIGER BROTHERS,
Printers to the Holy Apostolic See
Nihil Obstat. D. J. McMAHON, Censor Librorum
lmprimatur. + MICHAEL  AUGUSTINE, Archbishop of New York
New York, September 5, 1891
Nihil Obstat. ARTHUR J. SCANLAN, S.T.D., Censor Librorum
lmprimatur. + PATRICK J. HAYES, D. D. Archbishop of New York
New York, May 7, 1927
COPYRIGHT, 1891, 1921, BY BENZIGER BROTHERS
Printed in the United States of America
LESSON TWENTY-FOUR
ON THE SACRIFICE OF THE MASS p. 242

Spiritual Communion

Jesus, my Saviour and my God! I am not worthy to appear before Thee, for I am a poor sinner; yet I approach Thee with confidence, for Thou hast said, “Come to Me, all you that labor and are burdened, and I will refresh you.” Thou wilt not despise a contrite and humble heart. I am truly sorry for my sins, because by them I have offended Thee, Who art infinitely good. Whatever may have been my foolish transgressions in the past, I love Thee now above all things, and with all my heart. I desire, good Jesus, to receive Thee in holy communion, and since I can not now receive Thee in the Blessed Sacrament, I beseech Thee to come to me spiritually and to refresh my soul with Thy sweetness.

Come, my Lord, my God, and my All ! Come to me, and let me never again be separated from Thee by sin. Teach me Thy blessed ways; help me with Thy grace to imitate Thy example; to practise meekness, humility, charity, and all the virtues of Thy sacred Heart. My divine Master, my one desire is to do Thy will and to love Thee more and more; help me that I may be faithful to the end in Thy service. Bless me in life and in death, that I may praise Thee forever in heaven. Amen.

Shorter Acts for a Spiritual Communion

I

I BELIEVE that Thou, O Jesus, art in the Most Holy Sacrament! I love Thee and desire Thee! Come into my heart. I embrace Thee; oh, never leave me!

II

My Jesus, I love Thee with my whole heart, and I wish to live always united to Thee. As I can not now receive Thee sacramentally, I receive Thee in spirit. Come, then, into my soul; I embrace Thee, and I unite my entire self to Thee; and I beseech Thee never more to allow me to be separated from Thee.

III

O my Jesus, living in the blessed Eucharist,  come and live in my heart in the might of Thy love, by which all within me may become transformed. Reign in me over all my faculties, so that I may no longer live or act but by Thy life and movement. Be Thou, O my Love, the Life of my life, that so each day my heart may become more and more like Thine.

IV

My sweet Jesus, come into my poor heart and remain with me. Poor as it is, may it be to Thee a sanctuary from those who hate Thee, as Thy Heart is to me a refuge and a sanctuary from my enemies.

V

My heart is ready, O my Jesus, to receive Thee. Enter, and stay with me, for the day is far spent. Tribulation draws nigh and there is none to help, but if Thou art with me, I shall not fear.

WITH GOD A Book of Prayers anb Reflections
By Rev. F.X. Lasance
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO:
BENZIGER BROTHERS, Printers to the Holy Apostolic See 1911
Nihil Obstat. Remy Lafort, Censor Librorum.
lmprimatur. + JOHN M. FARLEY, Archbishop of New York
New York, June 7, 1911.
Copyright, 1911, by Benziger Brothers.
pp. 644-647

From the Most Rev. William Henry Elder, D. D., Archbishop of Cincinnati.

” … With very particular pleasure I welcome your new edition of Goffine’s Instructions, with an introduction by His Eminence Cardinal Gibbons. And I am glad that you offer it at a reduced price, for it is a book that I commonly recommend all our families to procure and keep and use diligently. Particularly for families living at a distance from church, and not able to attend Mass regularly, GOFFINE’S INSTRUCTIONS for the Sundays and Festivals will help them more than any other book that I know of to sanctify the Sunday in the spirit of the Church …”

From the Right Rev. John Dunne, D.D., Bishop of Wilcannia, Australia.

” … The edition is indeed worthy of your well-known firm, and reflects the highest credit on it. To the isolated family unable to hear Holy Mass on Sunday, it is especially to be recommended for devotion and instructions … “

From the Right Rev. N. Z. Lorrain, P.P., Vicar Apostolic of Pontiac, Ont.

” … No better book can be recommended to Catholic families, particularly to those living far away from the church, and, consequently, are unable to attend Mass every Sunday. I will do my best to have this good and instructive book introduced among the Catholic families of the Vicariate … “

A METHOD OF HEARING MASS SPIRITUALLY,

WHICH MAY BE USED BY THOSE WHO ARE PREVENTED
FROM GOING TO CHURCH.

A GOOD INTENTION BEFORE MASS.

I BELIEVE, Lord Jesus, that in the Last Supper Thou didst offer up a true sacrifice; I believe it because Thou hast made it known to us through the Catholic Church, which from the apostles’ times has constantly taught it to us. Since Thou didst command the apostles and the priests ordained by them, to do the same till the end of time, I therefore offer to Thee, with the priest, this holy sacrifice of the Mass (which I believe to be one with that offered on Mount Calvary), to Thy honor and glory, in acknowledgment of my most bounden service, in thanksgiving for the innumerable benefits which Thou hast con ferred upon me and upon the whole world, in satisfaction for my sins and the sins of all mankind, and for obtaining the grace of perfect contrition for my sins. I also offer to Thee this holy Mass for my friends, benefactors, for those for whom I am bound, and for whom Thou wiliest me to pray. I also offer it for my enemies, that they may be converted, for all the faithful departed, particularly for my parents and relatives, and for the welfare of all Christendom.

I. HEARTFELT DESIRE TO PARTICIPATE IN THE HOLY SACRIFICE.

Most Holy Trinity, God, Father, Son, and Holy Ghost, almighty source of all things; my best Father, my merciful Redeemer, the Fountain of my sanctification and happiness, I, Thy most unworthy creature, venture to appear before Thee, to show Thee, my true God and Creator, all honor, adoration, and trustful submission; to thank Thee for the innumerable benefits which I have received from Thee; to praise Thee for Thy glory (for I am created for Thy praise); to implore Thy mercies, and to appease Thy justice, because I have so often and so grievously sinned against Thee. All this I cannot do in a worthier and more perfect manner than by hearing, with faith and devotion, holy Mass. For in that holy sacrifice is offered to Thee the most sublime sacrifice of praise and thanksgiving, the most efficacious sacrifice of supplication and propitiation, the most worthy sacrifice of salvation for the living and the dead. But because I cannot this day be present bodily at the holy Mass, I will, at least in spirit, place myself before the altar where Jesus Christ in an unbloody manner offers Himself, O heavenly Father, to Thee. With this glorious sacrifice I unite my present prayer; I fervently desire, united with the Son of God, in the strongest manner to praise, love, supplicate Thee, O heavenly Father, to repair all the wrong and shame that I have wrought, and com pletely to accomplish all that can be accomplished by the holy sacrifice of the Mass. To this end give me Thy divine grace, and grant that I may perform all this with sincere devotion. Amen.

II. CONTRITION FOR SINS, WITH FAITH AND CONFIDENCE IN
JESUS CHRIST, AND AN OFFERING OF HIS PRECIOUS MERITS.

Holy Father, I confess with sorrow that I have seldom served Thee with an undivided heart, but rather have often offended Thee, and by my slothfulness and neglect have brought upon myself infinitely great guilt before Thee. I therefore take refuge in the merits of Thy beloved Son, now present upon the altar, Who so freely commends and imparts to us His grace and favor. In the holy sacrifice of the Mass Jesus offers to Thee, for me, the highest veneration and love, the most perfect praise, the most hearty thanksgiving, and the most kind expiation. For the perfect forgiveness of my sins, O heavenly Father, I offer to Thee the whole suffering and death of Jesus Christ, which now, in an unbloody manner, is renewed upon the altar. O most benign Father, Thy Son has suffered and died even for me, a poor sinner. With thankful love I bring before Thee as a precious and pleasing offering, the infinite merits of His suffering and death. I firmly trust that, on account of this inestimable sacrifice of Thy Son, Thou wilt not regard my guilt, and that Thou wilt increase in me Thy graces. Amen.

O Father of mercies, and God of all consolation, to Thee I turn for help and grace. Graciously look upon my misery and wretchedness, and let my supplications come before Thee. That I may the more surely be heard by Thee, I appear before the throne of Thy grace, which for our salvation, is set up in the holy sacrifice of the Mass, where the innocent Lamb of God is mysteriously offered up to Thee, holy Father, Almighty God, for the remission of our sins. Regard, I beseech Thee, the innocence of this holy sacrifice, and for the sake thereof extend to me Thy mercy. O my Saviour, how great is Thy love for me which, to make satisfaction for my sins, and to gain me the grace of Thy Father, impelled Thee to endure for me such bitter pains, and even death itself. Oh, how great is yet Thy love for me, which causes Thee, in every holy Mass to renew, in an unbloody manner, Thy death of propitiation, in order to apply and communicate to me Thy merits. With my whole heart I thank Thee for Thy great love, and from the depths of my soul I beseech Thee to make me a partaker of the fruits of it, and to strengthen and confirm me by the grace of the Holy Ghost, that I may detest sin and all unholy living, that I may crucify my flesh, with all its passions, deny myself, and follow in Thy foot steps, that all my thoughts and words, all that I do or leave un done, may be a living service of God, and a sacrifice well pleasing to Him. As Thou hast offered up Thyself to Thy heavenly Father, so take me also in the arms of Thy love and mercy, and present me, a poor erring sinner, as an offering to Thy Father, and let me no more be separated from His love. Amen.

III. ADORATION OF THE MOST HOLY BODY AND BLOOD OF JESUS
CHRIST, UNDER THE APPEARANCES OF BREAD AND WINE.

O most holy Jesus, before Thee the heavenly choirs kneel and adore; with them I lift up my voice and cry. Holy, holy, holy, art Thou, O Lord of hosts. Heaven and earth are full of Thy grace and glory. Thou art present, O Jesus, under the appearances of bread and wine. Hear, O hear my prayer. I strike my breast and confess my unworthiness; but with firm confidence I implore Thee, O Jesus, be merciful to me. O most benign Jesus, forgive me my sins. O holy blood, wash me from my sins. O precious blood of Jesus, O blood of Jesus, rich in grace, cry out to Heaven for mercy upon me. Most holy God, receive this precious blood, together with the love through which it was shed ; receive it as an offering of my love and thankfulness, for the greatest glory of Thy name; for the forgiveness of my sins; in satisfaction of the punishments which I have deserved; for the washing away of the stains of my guilt, as reparation for all my neglects, and as amends for all the sins which I have committed through ignorance or frailty; receive it also as a sacrifice for the consolation of the afflicted; for the conversion of sinners; for the recovery of the sick and suffering; for the strengthening of those who draw near to death; for the refreshment, purification, and deliverance of the souls of the departed in purgatory. Amen.

IV. UNSHAKEN CONFIDENCE IN JESUS CHRIST.

To Thee, O most benign Jesus, I lift up my eyes and my heart. Oh, turn upon me Thy gracious countenance, and Thy true love. Behold, O Lord, my manifest need, and the great danger of my soul. Oh, receive me, Thou Who art my only true mediator and helper. Be Thou, through the holy sacrifice of the Mass, my salvation, and obtain for me the entire remission of my sins. Oh, represent to Thy Father how cruelly Thou wast scourged, crowned, crucified, and put to death for us, and thereby reconcile with the strict justice of God me, a miserable sinner. Amen.

Our Father. Hail Mary.

V. HE WHO ASKS IN THE NAME OF JESUS SHALL RECEIVE.

O Lamb of God, Who suffered for us miserable sinners, have mercy upon me, and offer up to the Father Thy passion for the forgiveness of my sins. O Lamb of God, Who died for us miserable sinners, have mercy upon me, and offer up to God Thy death in satisfaction for my sins! O Lamb of God, Who didst sacrifice Thyself for us miserable sinners, have mercy upon me, and offer up Thy holy blood to the Father for the cleansing of my soul. Heavenly Father, I offer to Thee this precious and most worthy oblation. My sins are more in number than the hairs of my head, but, O just and merciful God, lay this precious offering in the one scale and my sins in the other, and that will far outweigh my guilt. O merciful, O holy God, give me Thy blessing before I end my prayer, and through this blessing let me obtain grace at once to begin to amend my life, and to re nounce whatever is sinful and displeasing to thee. Support me in my weakness; strengthen me when temptations assail me, and let me never forget that Thou art near me. O precious day! but perhaps the last of my life. O happy day! if it shall make me better. Holy Mother of God, Mary, holy angels and friends of God, pray for me and lead me in the way of truth. O God, grant Thy love to the living, and Thy peace to the dead. Amen.

GOFFINE’S DEVOUT INSTRUCTIONS
ON THE EPISTLES AND GOSPELS
FOR THE SUNDAYS AND HOLYDAYS;
WITH THE LIVES OF MANY SAINTS OF GOD,
EXPLANATIONS OF CHRISTIAN FAITH
AND DUTY AND OF CHURCH CEREMONIES,
A METHOD OF HEARING MASS, MORNING AND EVENING PRAYERS,
AND A DESCRIPTION OF THE HOLY LAND.
WITH A PREFACE BY HIS EMINENCE JAMES, CARDINAL GIBBONS,
ARCHBISHOP OF BALTIMORE.
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO
BENZIGER BROTHERS
Printers to the Holy Apostolic See
PUBLISHERS OF BENZIGER’S MAGAZINE
Nihil Obstat. THOMAS L. KINKEAD, Censor Librorum.
lmprimatur. + MICHAEL AUGUSTINE, Archbishop of New York.
New York, April 29, 1896.
Copyright, 1896, by BENZIGER BROTHERS
APPROBATIONS from sixty one Catholic bishops.
pp. 508-512

UN ATTO DI COMUNIONE SPIRITUALE

Ai fedeli che compiono un atto di comunione spirituale, usando qualsiasi formula che vogliano scegliere, si concede:

 Un’indulgenza di 3 anni;

Iindulgenza plenaria una volta al mese alle solite condizioni, se recitato per ogni giorno del mese (S. S. Pænit. Ap., 7 marzo 1927 e 25 febbraio 1933).

Si propongono le seguenti formule di preghiera come esempio di comunione spirituale:

a) Mio Gesù, credo che Voi siate presente nel Santissimo Sacramento. Vi amo sopra ogni cosa e Vi desidero nella mia anima. Poiché non posso ora ricevervi sacramentalmente, venite almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, vi abbraccio e mi unisco a Voi; non permettere che io mi abbia a separare da Voi. (Sant’Alfonso Maria de’ Liguori).

b) Ai vostri piedi, o mio Gesù, mi prostro e vi offro il pentimento del mio cuore contrito, che è umiliato nel suo nulla e nella vostra santa presenza. Vi adoro nel Sacramento del vostro amore, l’ineffabile Eucaristia. Desidero ricevervi nella povera dimora che il mio cuore vi offre. Nell’attesa della felicità della Comunione sacramentale, desidero processarvi in  spirito. Venite a me, o mio Gesù, poiché io, per parte mia, vengo a Voi! Che il vostro amore abbracci tutto il mio essere nella vita e nella morte. Io credo in Voi, spero in Voi, vi amo. Amen. (Cardinale Raffaele Merry del Val).

ENCHIRIDION INDULGENTIORUM

PRECES ET PIA OPERA – EDITIO ALTERA

TYPIS POLYGLOTTIS VATICANIS MCMLII

Quando non possiamo materialmente andare alla Comunione, possiamo meritare la grazia di Dio facendo una Comunione spirituale. Cos’è una comunione spirituale? È un desiderio sincero di ricevere la Comunione. Ci si prepara come se si stesse veramente andando alla Comunione; si immagina di andare, ricevere il Santissimo Sacramento e tornare al proprioo posto. Allora si ringrazia Dio per le Sue benedizioni su di noi come se l’avessimo ricevuto. Questo è un atto di devozione molto gradito a Dio, come ci dicono molti santi scrittori.

Non posso lasciare questa lezione sulla Santa Eucaristia senza dirvi qualcosa della devozione al Sacro Cuore di Gesù, ora così universalmente praticato e così strettamente connesso con la devozione al Santissimo Sacramento. La Chiesa concede molte indulgenze e Nostro Signore stesso promette molte ricompense a coloro che onorano il Sacro Cuore. Ma cosa intendiamo per il Sacro Cuore? Intendiamo il vero cuore naturale di Nostro Signore, al quale la Sua divinità è unita come lo è per tutto il Suo corpo. Ma perché adoriamo questo cuore reale e naturale di Nostro Signore? Lo adoriamo perché l’amore si dice che sia nel cuore e desideriamo restituire l’amore del Nostro Signore e la gratitudine per il grande amore che Lui ci ha mostrato morendo per noi e istituendo i Sacramenti, specialmente la Santa Eucaristia, mediante la quale Egli può rimanere con noi nella Sua sacra umanità. Quando Nostro Signore apparve a Santa Margherita Maria le disse: “Guarda questo Cuore che ha amato gli uomini così ardentemente, ed in cambio è così poco amato “. Il primo venerdì di ogni mese e l’intero mese di giugno sono dedicati al Sacro Cuore.

AN EXPLANATION OF THE Baltimore Catechism
of Christian Doctrine
FOR THE USE OF Sunday-School Teachers and Advanced Classes
BY Rev. THOMAS L. KINKEAD
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO:
BENZIGER BROTHERS,
Printers to the Holy Apostolic See
Nihil Obstat. D. J. McMAHON, Censor Librorum
lmprimatur. + MICHAEL  AUGUSTINE, Archbishop of New York
New York, September 5, 1891
Nihil Obstat. ARTHUR J. SCANLAN, S.T.D., Censor Librorum
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New York, May 7, 1927
COPYRIGHT, 1891, 1921, BY BENZIGER BROTHERS
Printed in the United States of America
LESSON TWENTY-FOUR
ON THE SACRIFICE OF THE MASS p. 242

Comunione spirituale

Gesù, mio ​​Salvatore e mio Dio! Non sono degno di comparire davanti a Te, perché sono un povero peccatore; eppure mi avvicino a Te con fiducia, poiché Tu hai detto: “Venite a me, tutti voi che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. Non disprezzerai un cuore contrito ed umile, sono veramente dispiaciuto per i miei peccati perché con essi ho offeso Te, sei infinitamente buono. Qualunque possa essere stato il mio insensato peccato nel passato, ti amo ora sopra ogni cosa e con tutto il mio cuore, desidero, Gesù buono, di riceverti nella santa Comunione, e poiché non posso ora riceverti nel Santissimo Sacramento, ti supplico di venire da me spiritualmente e di ristorare la mia anima con la Tua dolcezza.

Vieni, mio ​​Signore, mio ​​Dio e mio Tutto! Vieni da me, e non lasciare più che il peccato mi separi da te. Insegnami le tue sante vie; aiutami con la Tua grazia ad imitare il Tuo esempio: praticare la mansuetudine, l’umiltà, la carità e tutte le virtù del Tuo sacro Cuore. Mio divino Maestro, il mio unico desiderio è di fare la Tua volontà e di amarti sempre di più; aiutami ad essere fedele fino alla fine nel Tuo servizio. Benedicimi in vita e in morte, affinché io possa lodarti per sempre nei cieli. Amen.

Brevi atti per una comunione spirituale

I

IO CREDO che Tu, o Gesù, sia nel Santissimo Sacramento! Ti amo e ti desidero! Vieni nel mio cuore. Ti abbraccio; oh, non lasciarmi mai!

II

Mio Gesù, ti amo con tutto il mio cuore e desidero vivere sempre unito a Te. Poiché non posso ora riceverti sacramentalmente, Ti ricevo in spirito. Vieni, quindi, nella mia anima; Ti abbraccio e mi unisco con tutto me stesso a Te; e Ti prego di non permettermi mai più di essere separato da te.

III

O mio Gesù, vivendo nella benedetta Eucaristia, vieni e vivi nel mio cuore nella forza del Tuo amore, mediante il quale tutto in me può essere trasformato. Regna in me in tutte le mie facoltà, affinché io non possa più vivere o agire se non per la vita Tua ed le Tuoi azioni. Sii, o mio amore, la vita della mia vita, così che ogni giorno il mio cuore possa diventare sempre più simile al Tuo.

IV

Mio dolce Gesù, vieni nel mio povero cuore e resta con me. Povero com’è, possa essere per te un santuario per quelli che ti odiano, come il Tuo cuore è per me un rifugio ed un santuario per i miei nemici.

V

Il mio cuore è pronto, o mio Gesù, a riceverti. Entra, e resta con me, perché il giorno è ormai passato . La tribolazione si avvicina e non c’è nessuno che mi possa aiutare, ma se Tu sei con me, e non avrò paura.

WITH GOD A Book of Prayers anb Reflections
By Rev. F.X. Lasance
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO:
BENZIGER BROTHERS, Printers to the Holy Apostolic See 1911
Nihil Obstat. Remy Lafort, Censor Librorum.
lmprimatur. + JOHN M. FARLEY, Archbishop of New York
New York, June 7, 1911.
Copyright, 1911, by Benziger Brothers.
pp. 644-647

Dal Rev. William Henry Elder, D.D., Arcivescovo di Cincinnati.

“… Con grande piacere, accolgo con favore la nuova edizione delle Istruzioni di Goffine, con un’introduzione di Sua Eminenza, il Cardinale Gibbons. E sono lieto che tu me la offra ad un prezzo ridotto, perché è un libro che raccomando di solito a tutte le famiglie di procurarsi e mantenere ed usare diligentemente. In particolare per le famiglie che vivono distanti dalla chiesa, e non sono in grado di frequentare regolarmente la Messa, le ISTRUZIONI di GOFFINE per la domenica e i giorni festivi li aiuteranno più di ogni altro libro che conosco per santificare la domenica nello spirito della Chiesa … “

Dal Rev. John Dunne, D.D., Vescovo di Wilcannia, Australia.

“… L’edizione è davvero degna della tua nota azienda, e riflette il più alto merito su di essa. È soprattutto da raccomandare per le devozione e le istruzioni … Alla famiglia isolata ed impossibilitata ad ascoltare la Santa Messa della Domenica, “

Dal Rev. N. Z. Lorrain, P.P., Vicario Apostolico di Pontiac, Ont.

“… Nessun miglior libro può essere raccomandato alle famiglie cattoliche, in particolare a coloro che vivono lontano dalla Chiesa, e, di conseguenza, non sono in grado di partecipare alla Messa ogni domenica. Farò del mio meglio per avere questo libro buono e istruttivo introdotto tra le famiglie cattoliche del Vicariato … “

UN METODO PER ASCOLTARE SPIRITUALMENTE LA MESSA CHE PUO’ ESSERE USATO DA COLORO CHE SONO IMPOSSIBILITATI AD ANDARE IN CHIESA

UNA BUONA INTENZIONE PRIMA DELLA MESSA

CREDO, Signore Gesù, che nell’Ultima Cena hai offerto un vero Sacrificio; lo credo perché ce lo hai fatto conoscere attraverso la Chiesa Cattolica, ché dai tempi degli Apostoli ci è stato costantemente insegnato. Poiché Tu hai comandato agli Apostoli e ai Sacerdoti ordinati da loro, di fare lo stesso fino alla fine dei tempi, io Ti offro così, mediante il Sacerdote, questo santo Sacrificio della Messa (che credo sia tuttuno con quello offerto sul Monte Calvario), a Tuo onore e gloria, in riconoscimento del mio servizio più profondo, in ringraziamento per gli innumerevoli benefici che Tu hai conferito a tutto il mondo, in soddisfazione dei miei peccati ed i peccati di tutta l’umanità, e per ottenere la grazia della perfetta contrizione dei miei peccati. Ti offro questa santa Messa per i miei amici, i miei benefattori, per coloro ai quali sono legato e per coloro i quali Tu mi imponi di pregare. La offro anche per i miei nemici, affinché possano convertirsi, per tutti i fedeli defunti, in particolare per i miei genitori e parenti e per il bene di tutta la cristianità.

I. IL DESIDERIO DEL CUORE DI PARTECIPARE AL SANTO SACRIFICIO

Santissima Trinità, Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo, fonte onnipotente di tutte le cose; il mio miglior Padre, il mio misericordioso Redentore, la Fonte della mia santificazione e della mia felicità, io, la tua più indegna creatura, mi permetto di comparire davanti a Te per mostrarmi a Te, mio ​​vero Dio e Creatore: a Te tutto ogni onore, adorazione e sottomissione fiduciosa; per ringraziarti degli innumerevoli benefici che ho ricevuto da Te; per lodarti per la tua gloria (poiché sono stato creato per la tua lode); per implorare la tua misericordia e per placare la tua giustizia, perché ho così spesso e gravemente peccato contro di Te. Tutto ciò non posso farlo che in modo più saggio e più perfetto che ascoltando, con fede e devozione, la Santa Messa. Perché in quel Santo Sacrificio è offerto a Te il sacrificio più sublime di lode e di ringraziamento, il sacrificio più efficace di supplica e propiziazione, il sacrificio più degno di salvezza per i vivi e per i morti. Ma poiché oggi non posso essere presente fisicamente alla santa Messa, lo farò, almeno in spirito, posto davanti all’altare dove Gesù Cristo in modo incruento offre Se stesso, a Te, o Padre celeste. Con questo glorioso Sacrificio unisco la mia attuale preghiera; io desidero con fervore, unito al Figlio di Dio, nel modo più forte, di lodare, amare, supplicare Te, o Padre celeste, per riparare a tutto il torto e le ignominie che ho operato, e realizzare pienamente tutto ciò che può essere compiuto dal santo Sacrificio della Messa. A tal fine dammi la tua grazia divina e concedici di compiere tutto questo con sincera devozione. Amen.

II. CONTRIZIONE PER I PECCATI, CON FEDE E FIDUCIA IN GESÙ CRISTO E UN’OFFERTA DEI SUOI MERITI PREZIOSI.

Santo Padre, confesso con dolore che raramente ti ho servito con tutto il cuore, ma piuttosto ti ho spesso offeso, e con la mia indolenza e negligenza ho riportato una colpa infinitamente grande davanti a Te. Mi rifugio quindi nei meriti del Tuo amato Figlio, ora presente sull’altare, che ci ha riscattato e ci ha dato la sua grazia e il suo favore. Nel sacro Sacrificio della Messa, Gesù offre a Te, per me, la più alta venerazione ed amore, la lode più perfetta, il ringraziamento più cordiale e l’espiazione efficace. Per il perdono perfetto dei miei peccati, o Padre celeste, ti offro tutta la sofferenza e la morte di Gesù Cristo, che ora, in modo incruento, si rinnova sull’altare. O padre benigno, il tuo Figlio ha sofferto ed è morto anche per me, povero peccatore. Con amore riconoscente ti porto davanti, come offerta preziosa e gradita, i meriti infiniti della sua sofferenza e morte. Confido fermamente che, a causa di questo inestimabile sacrificio del Tuo Figlio, Tu non considererai la mia colpa, ed aumenterai in me le Tue grazie. Amen.

O Padre di misericordia, e Dio di ogni consolazione, a Te chiedo aiuto e grazia. Guarda con benevolenza la mia miseria e disgrazia e lascia che le mie suppliche vengano a te. Che io possa essere ascoltato da Te, che appaia davanti al trono della Tua grazia che, per la nostra salvezza, è posto nel santo Sacrificio della Messa, dove l’innocente Agnello di Dio è misteriosamente offerto a Te, santo Padre, Dio Onnipotente, per la remissione dei nostri peccati. Riguardo, ti supplico, l’innocenza di questo santo Sacrificio, e per suo mezzo estendi a me la tua misericordia. O mio Salvatore, quanto è grande il Tuo amore per me che, per riparare i miei peccati e farmi guadagnare la grazia del Tuo Padre, ti ha spinto a sopportare per me tali dolori amari e persino la morte stessa. Oh, quanto è grande il Tuo amore per me, che ti spinge, in ogni Santa Messa a rinnovare, in modo incruento, la Tua morte propiziatoria, per applicarmi e comunicarmi i Tuoi meriti. Con tutto il mio cuore Ti ringrazio per il Tuo grande amore, e dal profondo della mia anima ti supplico di farmi partecipe dei suoi frutti, e di rafforzarmi e confermarmi per la grazia dello Spirito Santo, affinché io possa detestare il ​​peccato e tutto il vivere empio, perché io possa crocifiggere la mia carne, con tutte le sue passioni, negare me stesso e seguire i tuoi passi, affinché tutti i miei pensieri e le mie parole, tutto ciò che faccio o che non faccio, possano essere un servizio vivente di Dio e un sacrificio ben gradito a lui. Così come Tu hai offerto Te stesso al tuo Padre celeste, prendimi pure tra le braccia del Tuo amore e misericordia, e presentami, povero peccatore errante, come offerta al Padre, e non lasciare più che sia separato dal Suo amore. Amen.

III. ADORAZIONE DEL SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI GESÙ CRISTO, SOTTO LE SPECIE DEL PANE E DEL VINO.

O santissimo Gesù, davanti a Te i Cori celesti si inginocchiano e ti adorano; con loro alzo la voce e piango. Santo, santo, santo, sei Tu, o Signore degli eserciti. Il cielo e la terra sono pieni della Tua grazia e della Tua gloria. Tu sei presente, o Gesù, sotto le specie del pane e del vino. Ascolta, ascolta la mia preghiera. Batto il mio petto e confesso la mia indegnità; ma con ferma fiducia ti imploro, o Gesù: sii misericordioso con me. O Gesù benigno, perdona i miei peccati. O Sangue santo, lavami dai miei peccati. O sangue prezioso di Gesù, Sangue di Gesù, ricco di grazia, grida al Cielo per pietà! Dio Santissimo, ricevi questo prezioso Sangue, con l’amore con cui è stato versato; ricevilo come offerta del mio amore e della mia gratitudine, per la maggior gloria del tuo Nome; per il perdono dei miei peccati; in soddisfazione delle pene che ho meritato; per lavare via le macchie della mia colpa, come riparazione per tutte le mie negligenze e come ammenda per tutti i peccati che ho commesso per ignoranza o fragilità; ricevilo anche come Sacrificio per la consolazione degli afflitti; per la conversione dei peccatori; per il conforto degli ammalati e dei sofferenti; per il rafforzamento di coloro che si avvicinano alla morte; per il ristoro, la purificazione e la liberazione delle anime dei defunti dal Purgatorio. Amen.

IV. INCROLLABILE FEDE IN GESÙ CRISTO.

A te, o benigno Gesù, alzo gli occhi e il cuore. Oh, rivolgimi il tuo grazioso aspetto e il tuo vero amore. Ecco, o Signore, il mio pressante bisogno ed il grande pericolo della mia anima. Oh, accoglimi, Tu che sei il mio unico vero Mediatore e Aiuto. Sii Tu, attraverso il santo Sacrificio della Messa, la mia salvezza, e ottienimi l’intera remissione dei miei peccati. Oh, rappresenta al tuo Padre quanto crudelmente Tu sia stato flagellato, incoronato, crocifisso e messo a morte per noi, e quindi riconcilia. con la rigida giustizia di Dio, me miserabile peccatore. Amen.

Pater noster…. Ave Maria….

V. CHI CHIEDE IN NOME DI GESÙ RICEVE …

O Agnello di Dio, che ti sei offerto per noi miseri peccatori, abbi pietà di me e offri al Padre la Tua passione per il perdono dei miei peccati. O Agnello di Dio, che sei morto per noi miseri peccatori, abbi pietà di me ed offri a Dio la tua morte in soddisfazione dei miei peccati! O Agnello di Dio, che ti sei sacrificato per noi miserabili peccatori, abbi pietà di me e offri il tuo Sangue santo al Padre per la purificazione della mia anima. Padre Celeste, Ti offro questa oblazione preziosa e degna. I miei peccati sono più numerosi dei miei capelli, ma, Dio giusto e misericordioso, pesa questa preziosa offerta in un piatto e i miei peccati nell’altro, ed essa supererà di gran lunga la mia colpa. O misericordioso, o santo Dio, dammi la tua benedizione prima che io finisca la mia preghiera, e attraverso questa benedizione fammi ottenere subito la grazia per cominciare a cambiare la mia vita, e per rimproverare ciò che è peccaminoso e ti dispiace. Sostienimi nella mia debolezza; rafforzami quando le tentazioni mi assalgono affinchè non dimentichi mai che Tu sei vicino a me. O preziosa giornata! … forse l’ultima della mia vita. O felice giorno! se mi renderà migliore. Santa Madre di Dio, Maria, santi Angeli e amici di Dio, pregate per me e guidatemi sulla via della verità. O Dio, concedi il Tuo amore ai viventi e la Tua pace ai defunti. Amen.GOFFINE’S DEVOUT INSTRUCTIONS
ON THE EPISTLES AND GOSPELS
FOR THE SUNDAYS AND HOLYDAYS;
WITH THE LIVES OF MANY SAINTS OF GOD,
EXPLANATIONS OF CHRISTIAN FAITH
AND DUTY AND OF CHURCH CEREMONIES,
A METHOD OF HEARING MASS, MORNING AND EVENING PRAYERS,
AND A DESCRIPTION OF THE HOLY LAND.
WITH A PREFACE BY HIS EMINENCE JAMES, CARDINAL GIBBONS,
ARCHBISHOP OF BALTIMORE.

Fr.UK, Sacerdote Cattolico.

[Trad. redaz. di G.D. G. ]

CONOSCERE SAN PAOLO (44)

LIBRO V

I canali della redenzione.

CAPO II.

I Sacramenti.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

III. L’EUCARISTIA.

1. FORMULE DI PAOLO. — 2. ALLUSIONI AL SACRIFIZIO.

1. Se il Battesimo fa nascere il corpo mistico, l’eucaristia lo alimenta e lo fa crescere. San Paolo presenta insieme il tipo dei due Sacramenti. Gli Ebrei, egli dice, « furono battezzati in Mosè nella nube e nel mare; e tutti mangiarono il medesimo cibo spirituale e bevvero la medesima bevanda spirituale (I Cor. X, 1-21) ». La manna e l’acqua della rupe sono dette spirituali, sia perché erano frutto di un miracolo, sia perché figuravano i due elementi dell’Eucaristia, cibo e bevanda dell’uomo rigenerato nel Battesimo. – Ad una combinazione fortuita noi siamo debitori dell’insegnamento di Paolo riguardo l’Eucaristia. Egli lo aveva dato a viva voce ai Corinti, come a tutti gli altri catecumeni, e non lo avrebbe ripetuto per iscritto, se non fossero stati i dubbi dei nuovi Cristiani circa gli idolotiti, e se non fossero state le loro irriverenze nella celebrazione dell’agape. Si può credere che il suo insegnamento orale sia stato più diffuso, ma è difficile che fosse più preciso. L’Apostolo ci indica anzitutto la fonte delle sue affermazioni, Gesù Cristo medesimo: « Io ho ricevuto dal Signore quello che alla mia volta ho trasmesso a voi (I Cor. XI, 23) ». Nel descrivere l’istituzione dell’Eucaristia, egli insiste su le circostanze di tempo — « la notte stessa in cui il Signore Gesù veniva consegnato » ai suoi nemici, « alla fine del banchetto » di addio — sia per meglio fissare la scena nella mente dei neofiti, sia piuttosto per metterla in relazione diretta con la morte del Signore Gesù. – La formula della consacrazione del pane non potrebbe essere più chiara. Essa sarebbe non soltanto oscura, ma incomprensibile e contradittoria, se il Salvatore avesse detto: « Questo pane è il mio corpo »; poiché è assolutamente impossibile che una cosa sia e non sia nel medesimo tempo, e non si toglierebbe la difficoltà col racchiudere il corpo del Cristo nel pane ordinario, perché sarebbe sempre falso che il pane reale sia il vero corpo del Cristo. Ma Gesù parla senza equivoco: « Questo è il mio corpo il quale (è) per voi (I Cor. XI, 24) ». Il soggetto della frase è il pronome dimostrativo « questo », cioè questo che voi vedete dinanzi a voi. questo che io vi indico col gesto, questo che non è ancora designato né come pane ordinario né come corpo del Cristo, ma il cui senso sarà determinato alla fine della proposizione, quando si sarà affermato qualche cosa.  verbo sostantivo che serve di copula, esprime, come sempre, l’identità pura e semplice tra il soggetto e il predicato. È consolante il vedere oggi gli esegeti protestanti e razionalisti unirsi ai Cattolici nel riconoscere una verità tanto elementare e nel respingere l’esegesi tendenziosa che traduceva « essere » con « significare », contro l’uso biblico non meno che contro l’uso profano. L’equivoco sarebbe nel predicato? Il « corpo » si dovrebbe prendere in senso figurato, per il simbolo del corpo? L’ipotesi è già inaccettabile per questo, che sconvolge senza ragione il senso naturale dei termini; ma se ne sentirà meglio l’assurdo col sostituire a « corpo » il suo preteso equivalente: « Questo è il simbolo del mio corpo, il quale (simbolo) è per voi. Chiunque mangia il pane e beve il calice indegnamente è colpevole del simbolo del corpo e del simbolo del sangue del Signore ». In quanto poi all’identificazione del corpo eucaristico con la Chiesa, è meglio non parlarne: certi sistemi non hanno bisogno di confutazione e si accennano unicamente per far vedere a quali soluzioni disperate si riduca l’abbandono del solo senso naturale e legittimo. Presa in se stessa indipendentemente dalle allusioni e dalle circostanze che la determinano, l’altra formula di consacrazione: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue (I Cor. XI, 25) », presenterebbe qualche oscurità. Vi sono due metonimie delle quali l’una prende il contenente per il contenuto, e l’altra prende l’effetto per la causa, cioè la nuova alleanza conchiusa nel sangue del Cristo, per il sangue del Cristo che suggella la nuova alleanza. Però la prima è di uso tanto comune, che « questo calice » desta subito nella mente l’idea di una bevanda. Del resto, eccetto che si fosse adoperato il solo dimostrativo indeterminato « questo », il linguaggio metonimico era qui indispensabile. Difatti Gesù non poteva dire: « Questo vino è il mio sangue » senza profferire un errore e senza imporre alla fede dei suoi discepoli un’equazione incomprensibile. La seconda metonimia è un po’ meno comune, ma essa diventa chiara se si mette nel suo contesto: non potendo il contenuto di un calice materiale essere l’alleanza sigillata nel sangue, bisogna che questo sia il sangue dell’alleanza.  — Gesù Cristo si comporta nella stessa maniera nelle due consacrazioni; tra i due atti v’è un parallelismo completo; dunque se, in virtù delle parole sacramentali, vi è da una parte il Corpo del Cristo, vi sarà dall’altra il suo Sangue. — L’allusione manifesta al racconto dell’esodo, non lascia più nessun dubbio. Mosè, aspergendo il popolo col sangue del sacrificio, dice: « Ecco il sangue dell’alleanza ». Il sangue dell’alleanza e l’alleanza nel sangue sono dunque una medesima cosa. – Certamente nell’una e nell’altra formola la parola del Figlio di Dio è creatrice. La verità enunciata non è anteriore all’enunciazione stessa, come nelle affermazioni ordinarie; essa ne è il prodotto. Ma Gesù Cristo aveva abituato i discepoli a tali miracoli della sua parola, e Colui che guariva con una parola, dicendo: « Tuo figlio è guarito », eppure: « Tu sei libero dalla tua infermità », meritava la stessa fede quando, con una formola analoga, concedeva il dono promesso del suo corpo e del suo sangue. San Paolo aggiunge alla doppia consacrazione l’ordine dato dal Cristo agli Apostoli, di perpetuare l’Eucaristia fino alla consumazione dei secoli. San Luca lo ricorda soltanto dopo la consacrazione del pane, e gli altri due Sinottici non ne fanno menzione, giudicandolo forse superfluo, per motivo della tradizione vivente della Chiesa.

2. In virtù del precetto divino e della spiegazione data dall’Apostolo, l’Eucaristia diventa un rito commemorativo: « Fate questo in memoria di me. Poiché tutte le volte che mangerete questo pane e che berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore fino a che Egli venga ». Ma il rito eucaristico non è una semplice commemorazione del Sacrificio della croce: è esso medesimo un sacrificio commemorativo. San Paolo non dice già: « Questo calice è commemorativo della nuova alleanza conchiusa sul Calvario nel mio sangue »; egli dice invece: « Questo calice è esso medesimo l’alleanza; » in altri termini: « Il sangue contenuto in questo calice sigilla l’alleanza ». È dunque il sangue di una vittima; e il rito che lo versa misticamente avrà il carattere di un sacrificio. Questo risulta anche più chiaramente dal testo parallelo di san Luca: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue il quale è sparso per voi ». San Luca non dice che il sangue sarà sparso nel momento della passione; ma dice che il sangue è sparso presentemente, nel momento in cui si compie il rito eucaristico; dice anzi, con maggiore energia, che il calice — il sangue contenuto nel calice — è sparso per gli uomini. Presa isolatamente, la formula della consacrazione del pane non suggerisce l’idea del sacrificio: « Questo è il mio corpo il quale è per voi ». Si potrebbe intendere: « che vi è dato come nutrimento » invece di: « che è immolato per voi ». Anche il testo, più esplicito, di san Luca, non toglierebbe pienamente il dubbio: « Questo è il mio corpo che è dato (o abbandonato) per voi ». Si potrebbe, è vero, domandare se un corpo dato in cibo non sia per questo stesso un corpo immolato, e soprattutto se le parole « dato per voi » significhino veramente « dato in cibo » e non indichino piuttosto, come in tutti gli altri casi, l’atto col quale il Cristo si offre come vittima. Ma una certa quale oscurità resterebbe sempre, se si fa astrazione dal parallelismo. – Un altro passo di san Paolo ci fornisce un supplemento di luce. Volendo dimostrare ai Corinzi, che la partecipazione ai banchetti idolatrici è un abuso illecito, qualunque sia l’intenzione con cui si faccia, perché è uno scandalo, un pericolo e un atto formale d’idolatria, l’Apostolo si appella alla loro coscienza: « Io parlo a gente sensata; giudicate voi medesimi quello che dico. Il calice di benedizione che noi benediciamo, non è la comunione al sangue del Cristo? E il pane che spezziamo non è forse la comunione al corpo del Cristo! Poiché vi è un solo pane, noi siamo, nonostante il nostro numero, un solo corpo; perché noi partecipiamo a questo medesimo pane. Vedete Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime non comunicano forse all’altare? ». E san Paolo, traendo la morale da questa dottrina, conchiude con queste parole: « Quello che i pagani immolano, lo immolano non a Dio ma ai demoni; ora io non voglio che voi siate i commensali dei demoni. Voi non potete bere il calice del Signore e la tazza dei demoni; voi non potete prendere parte alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni (I Cor. X, 15-21) ». Se i ragionamenti dell’Apostolo non sono paralogismi, la comunione eucaristica è per i Cristiani quello che per i Gentili è il mangiare gli idolotiti, quello che per gli Ebrei è il banchetto sacro. Ora il banchetto sacro ha un significato religioso; esso costituisce un atto di culto in quanto è il complemento del sacrificio e unisce i fedeli col sacerdote sacrificatore, con l’altare sul quale fu immolata la vittima, e con la vittima stessa.

IV. L’ORDINE.

Il rito d’inaugurazione dei sacri ministri fu sempre e in ogni luogo l’imposizione delle mani. Questo rito, indeterminato per se stesso, prende il suo significato preciso dalle circostanze che lo circondano o dalle parole che lo accompagnano. Noi vediamo nella Scrittura che si fa l’imposizione delle mani dal superiore per benedire, dal taumaturgo per guarire, dagli Apostoli per conferire lo Spirito Santo, dalle autorità ecclesiastiche per comunicare il potere di cui sono investite. L’idea comune a questi quattro modi è la trasmissione di un dono spirituale, di un favore soprannaturale o di un potere sacro. Tutti i fedeli avevano concorso all’elezione dei sette diaconi ellenisti, ma i soli Apostoli imposero loro le mani. Si trattava di renderli atti ad una funzione santa per sua natura, poiché la celebrazione dell’agape era ancora strettamente legata all’Eucaristia. Così si era vigilato affinché i candidati fossero ripieni dello Spirito Santo; l’imposizione delle mani si era fatta in mezzo alle preghiere pubbliche; terminata la cerimonia, i Sette, oltre la cura delle mense, si erano assunto il ministero della predicazione e l’amministrazione del Battesimo, ma senza pretendere di conferire lo Spirito Santo, potere esclusivamente riservato agli Apostoli. La loro istituzione aveva avuto un carattere religioso, e il loro potere era di ordine spirituale, pure rimanendo subalterno (Act. II, 1-6). L’imposizione delle mani era pure adoperata per il grado intermediario del chiericato. Quando Paolo scrive a Timoteo: « Non imporre troppo presto le mani a chiunque (I Tim. V, 22) », parla nominatamente degli anziani nel senso ecclesiastico, e non degli uomini avanzati in età. Finalmente lo stesso rito — fatta astrazione dalle parole o dalle preghiere che dovevano accompagnarlo — serviva egualmente per il grado superiore della gerarchia; e qui i testi sono alquanto più espliciti. Non si può quasi resistere all’impressione, che l’imposizione delle mani descritta nel capo XIII degli Atti avesse lo scopo di trasmettere a Barnaba ed a Saulo il supremo potere dell’ordine. Una semplice benedizione di addio non sarebbe stata circondata da tanta solennità, preceduta da digiuni e compiuta durante la liturgia, per comando dello Spirito Santo. I missionari sono specialmente designati per la conversione dei Gentili, cioè per la fondazione di nuove chiese ove è loro indispensabile il potere dell’ordine. Infatti subito noi li vediamo stabilire degli anziani (πρεβυτέρους = presbuterous) nelle città ove hanno fondato delle cristianità. Si può credere che nessuno avrebbe inteso diversamente il passo degli Atti, senza le difficoltà di trovare in Antiochia un ministro idoneo. Se Barnaba, il personaggio principale di quella chiesa, secondo ogni apparenza, non fosse stato Vescovo, come supporre che fossero Vescovi gli altri profeti e dottori nominati dopo di lui! D’altra parte san Luca non fa menzione della presenza degli Apostoli in Antiochia, in quella circostanza. Si può dire, è vero, che non aveva bisogno di farne menzione, se era cosa riconosciuta, come tutto ci lascia credere, che un potere non viene mai conferito se non da chi lo possiede. Allorché si trattasse di una semplice benedizione, la difficoltà rimarrebbe ancora, perché la benedizione discende dal superiore e non viene data da inferiori o da uguali. – Con la consacrazione di Timoteo da parte di san Paolo, noi ci troviamo in terreno più sicuro. L’Apostolo scrive al suo discepolo: « Non trascurare la grazia (χάρισμα = karisma) che è in te per la profezia (oppure a causa delle profezie . con l’imposizione delle mani del collegio presbiterale. — Io ti esorto a ravvivare la grazia di Dio (χάρισμα = karisma), la quale è in te per l’imposizione delle mie mani (I Tim. IV, 14) ». Noi abbiamo qui un rito esterno — l’imposizione delle mani — ed una grazia interna prodotta dal rito. Qual è questa grazia, questo carisma? Evidentemente non è il dono puramente gratuito che lo Spirito Santo concede o ritira a suo talento, che non è permanente, e che nessuno è in grado di ravvivare o di far nascere. Non è neppure, come certuni suppongono, il carattere episcopale, il potere dell’ordine, poiché non ha nessun bisogno di essere ravvivato, non essendo suscettibile di diminuzione né di perdita. Questo carisma è piuttosto l’attitudine soprannaturale ricevuta col degno esercizio di un ministero sacro, è presso a poco quella che noi chiamiamo grazia dello stato, ossia il complesso dei doni spirituali e il diritto alle grazie attuali che i doveri dell’episcopato esigono. Benché associata al carattere e al potere dell’ordine, ne è tuttavia distinta. Mentre il carattere è indelebile e il potere è inalienabile, il carisma può languire per mancanza di sforzo o di vigilanza; se non arriva a estinguersi, ha bisogno almeno di essere ravvivato. San Paolo indica abbastanza nettamente la natura di questo carisma quando aggiunge: « Poiché Dio non ci ha dato uno spirito di timore ma (uno spirito) di forza, di carità e di temperanza ». Questo carisma ammette dunque un aumento di grazia interiore, con le grazie attuali richieste dalla carica di Vescovo. Ora tutto questo è conferito « dall’imposizione delle mani » dell’Apostolo, non senza il concorso e l’assistenza del collegio presbiterale di Efeso, se la consacrazione, come è probabile, avvenne a Efeso. – Abbiamo dunque, nell’ordinazione di Timoteo, i tre elementi di ciò che la Chiesa oggi chiama Sacramento: un rito esteriore, l’imposizione delle mani; una grazia permanente (χάρισμα = karisma), sorgente di diverse grazie dello stato, prodotta da questo rito; una grazia interiore corrispondente al simbolo del rito esteriore, determinata nel suo significato da un complesso di circostanze, come la designazione profetica e la missione alla quale era destinato Timoteo. L’istituzione divina con la promulgazione immediata o mediata da parte di Gesù Cristo, si sottintende, dal momento che si tratta di annettere la grazia ad un rito.

V. IL MATRIMONIO.

A questa citazione della Genesi: « L’uomo lascerà suo padre e sua madre, e si unirà alla sua sposa, e saranno tutti e due una sola carne », san Paolo aggiunge questa riflessione: « Questo mistero è grande; e io dico: per rapporto al Cristo e alla Chiesa (Ephes. V, 12) ». Secondo il Concilio di Trento, il Sacramento del matrimonio è insinuato in questo testo (Sess. XXIV). Questa è la parola più esatta. In mancanza di affermazione espressa, vi è qui un’indicazione di cui il teologo deve tener conto. Non già che non si possa nulla dedurre dalla traduzione latina: Sacramentum hoc magnum est. Il significato biblico di sacramentum (μυρτήριον= murterion) non è sacramento; esso è o un segreto disegno di Dio relativamente alla salute degli uomini, o una parola o fatto che racchiude un significato simbolico. L’argomentazione da fondare sul testo dell’Apostolo, per provare che il matrimonio è un vero Sacramento, è assai complessa e, qualunque sia la cura con cui venga istruita, vi saranno sempre dei punti deboli. Che l’unione coniugale abbia un carattere sacro — che sia un Sacramento nel senso più largo della parola — non lo nega nessuno. Secondo san Paolo, l’istituzione primitiva del matrimonio o, il che è quasi la stessa cosa, il racconto della Genesi che riferisce tale istituzione, è un gran mistero che simboleggia l’unione del Cristo e della sua Chiesa e che per conseguenza è segno di una cosa eminentemente santa: Sacramentum hoc magnum est, id est sacræ rei signum, scilicet conjunctionis Christi et Ecclesiæ, dice san Tommaso. Se si tratta di un tipo propriamente detto, il matrimonio sarebbe, sotto questo aspetto, un sacramento allo stesso titolo che la circoncisione ed i sacrifici dell’Antica Legge. Siamo ancora ben lontani dal segno sensibile istituito da Gesù Cristo per produrre la grazia che significa. Senza dubbio, una volta che fosse dimostrata la produzione efficace della grazia, l’istituzione divina si dedurrebbe naturalmente dal fatto che a Dio solo appartiene l’annettere la grazia ad un rito esteriore; e la promulgazione da parte del Cristo ne seguirebbe come corollario, poiché Gesù Cristo è il mediatore unico e universale della nuova Alleanza. La questione principale è di sapere se il nostro testo ci permette di concludere che il matrimonio cristiano, al momento in cui si contrae, conferisce la grazia santificante. Non vi è teologo cattolico il quale abbia sostenuto quest’affermazione con più di sottigliezza scolastica o con maggiore erudizione scritturale che il P. Palmieri. Il suo ragionamento si può riassumere così: I riti figurativi della nuova legge sono per loro natura pratici e non speculativi, cioè producono la grazia che significano; ora il matrimonio cristiano, secondo san Paolo, figura l’unione del Cristo e della sua Chiesa; dunque produce la grazia significata da questa unione. Se il matrimonio cristiano in facto esse impone agli sposi obblighi soprannaturali, bisogna che conferisca in fieri una grazia interiore proporzionata a tali obblighi. Si obbietterà che il simbolo del misterioso imene del Cristo e della sua Chiesa è il matrimonio in se stesso, e non il matrimonio cristiano; che per conseguenza, se la dimostrazione precedente provasse qualche cosa, proverebbe che ogni matrimonio è un sacramento. Ma questa obbiezione si può benissimo risolvere. Anzitutto il matrimonio cristiano — e san Paolo parla soltanto di questo perché si rivolge esclusivamente ai fedeli — impone ai coniugi doveri speciali che richiedono l’aiuto di grazie speciali. Gli sposi cristiani, nei loro mutui rapporti, si devono modellare sopra il Cristo e sopra la sua Chiesa: da una parte, sommissione rispettosa fino al sacrificio, dall’altra amore e devozione fino alla morte. Questa fonte di obblighi soprannaturali suppone una fonte corrispondente di grazie soprannaturali; e san Paolo ragiona appunto in tale ipotesi quando esorta i fedeli ad effettuare in se stessi l’imene della Chiesa e del Cristo, di cui la loro unione è l’emblema. In secondo luogo ogni matrimonio potrebbe essere segno, senza essere, per questo, segno efficace, come è il matrimonio cristiano. I riti della nuova legge sono commemorativi e non profetici; essi non guardano verso un avvenire che è ancora in potenza, ma verso il passato che essi fanno rivivere; essi sono pratici e non speculativi: non figurano soltanto la grazia, ma la producono. Se la circoncisione fosse stata mantenuta da Gesù Cristo, come segno della sua alleanza con l’umanità, abbiamo ragione di credere che essa sarebbe diventata un sacramento nel senso stretto della parola. Mutando direzione e significato rivolta verso il passato e non più verso l’avvenire, essa sarebbe stata capace di produrre effettivamente la grazia dell’alleanza; mentre invece, abbandonata a se stessa come un rito infimo e grossolano, perde ogni valore dopo la morte del Cristo. Così il matrimonio, che era in altri tempi il tipo dell’unione del Cristo con la sua Chiesa, cambia significato quando questa unione si consuma sul Golgota: da profetico diventa commemorativo; da speculativo diventa pratico; da inerte diventa efficace. Tuttavia perché l’argomento ricavato dal nostro testo fosse decisivo, bisognerebbe dimostrare: che il simbolismo indicato da san Paolo non è una creazione della sua mente o un rapporto mistico immaginato da lui — ego autem dico — ma che esiste veramente e parte rei per il fatto di una volontà positiva di Dio; che questo simbolo non è un semplice tipo profetico ma un segno pratico e commemorativo; che la grazia annessa al matrimonio non deriva soltanto dai nuovi obblighi inerenti allo stato coniugale — come avviene, per esempio, per lo stato religioso —: ma che essa viene conferita strumentalmente dal rito stesso del contratto matrimoniale in fieri. Ora tutto questo è piuttosto insinuato che affermato nelle parole dell’Apostolo. Quando già si sa che il matrimonio è un Sacramento, si può benissimo trovare in questo testo un’allusione più e meno chiara al rito sacramentale; altrimenti non si penserebbe forse a cercarcela.