I SACRI MISTERI (10)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (10)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XXXVI

Il servente Messa

Alla Messa bassa non deve esserci che un solo servente, anche alla Messa del Curato della parrocchia, dell’Arciprete e del gran Vicario (a meno che un secondo ragazzo non accompagni il servente propriamente detto, per imparare a ben servire Messa, cosa che succede nelle campagne). Nelle comunità, alla Messa principale possono esservene due, così come alla Messa bassa prelatrice. Io ho visto buoni curati impiegarne fino a quattro, sempre secondo il famoso principio riportato in precedenza, «… perché questo è più bello,. » Il servente Messa deve essere, potendo, un ecclesiastico: se è un laico, deve, possibilmente, essere vestito da chierico. Seguendo un recente decreto della Congregazione dei Riti, la sottana del servente Messa, deve essere nera e senza coda; non deve essere né rossa, né viola. Deve avere la testa nuda; non calotta rossa, ancor mano beretta rossa (come talvolta ho visto); la calotta o la beretta rossa sono esclusivamente insegne cardinalizie. I fanciulli del coro non devono portare né rocchette a maniche strette, né alba con cintura rossa o blu o bianca, ma unicamente una piccola cotta a maniche larghe. Alle gran Messa e agli altri uffici, devono avere la beretta nera liturgica a tre corni. Ogni altro abbigliamento, rientra nella deplorevole categoria delle invenzioni anti liturgiche, proibite dall’autorità ecclesiastiche. Il Sacerdote deve istruire al meglio possibile il suo servente Messa dei riti e delle funzioni che gli competono all’altare. Egli deve in particolare, imparare a “scampanellare” come si deve e quando si deve, e non più del necessario. Grazie a certi piccoli serventi dall’indole chiassosa, vi sono delle Messe nelle quali non si sente che il campanello, dall’inizio alla fine. Per il campanello, come per tutto il resto delle rubriche della Messa, ciò che non è prescritto, è proibito; è sempre il medesimo grande principio: serventur rubricæ. Niente scampanellii rivoluzionari, non serventi Messa liberali! È alla porta della sacrestia e non ai piedi dell’altare che si deve suonare l’inizio della Messa; e durante la Messa, non si deve suonare che due volte: 1° al Sanctus, ove il servente deve agitare tre volte il campanellino; 2° alla Consacrazione, ove il servente deve scampanellare tre volte a ciascuna delle due Elevazioni. Egli risuona un primo colpo quando il Sacerdote fa la genuflessione davanti all’Ostia santa, un secondo colpo quando la eleva per farla adorare, un terzo quando fa di nuovo la genuflessione. Allo stesso modo fa per la consacrazione e l’elevazione del Calice; tre colpi. Né più, né meno. Dopo le due Elevazioni, può dare qualche piccolo colpo per avvertire che la Consacrazione è finita. È contro le regole suonare, come troppo spesso avviene, qualche istante prima della Consacrazione; la suoneria che annunzia l’avvicinarsi di questo istante solenne, è la suoneria del Sanctus, quando tutti devono mettersi in ginocchio, raccogliersi, prepararsi all’Adorazione. Il piccolo colpo prima della Consacrazione è un’invenzione dei pigri che vogliono aspettare fino all’ultimo momento per inginocchiarsi. Ugualmente è proibito, sia alla gran Messa che alla Messa bassa, suonare e neanche accennare, prima del Pater, alla piccola Elevazione. Il servente Messa non ha il diritto di farlo, e il Sacerdote ha il diritto di impedirglielo. Non ci sono usanze che tengano; il grande compito dei veri Cattolici, è l’obbedienza. Mai ci si comporta contro le rubriche del Messale. Questo assioma di diritto è stato proclamato varie volte dalla Santa Sede, e non concerne solamente i semplici Sacerdoti, ma restringe anche il potere del Vescovo nella sua diocesi. Ogni prescrizione, ogni uso contrario alla rubrica, è illecito di diritto pieno ed interessa la coscienza. Infine, secondo la lettera della legge, non si dovrebbe suonare né scampanellare per la Comunione; essendo prevalso l’uso contrario quasi dappertutto in Francia, la Congregazione dei Riti, ha dichiarato formalmente che questo uso poteva essere conservato, soprattutto nelle chiese grandi, ove potrebbe essere se non necessario, almeno utile. Il servente Messa, chiunque sia, deve obbedire alle prescrizioni della suoneria liturgica. Anche nelle comunità, anche nei Seminari, vi sono ben pochi serventi che compiono il loro ministero senza difetti, e sovente non c’è nessuno che lo riprenda e lo istruisca. Non bisogna temere di essere rigidi su questo punto; non bisogna far passare nulla al piccolo clero. Questa esattezza perfetta, oltre che un dovere di coscienza sia per il servente che per il celebrante; i fanciulli amano le cerimonie; essi amano conoscerle bene e farle bene, ed è talvolta da questo zelo religioso nei riguardi del Santissimo Sacramento, che nasce nel loro cuoricino, il primo germe della loro vocazione ecclesiastica. Io lo ripeto, non bisogna far passare nulla al servente Messa, chierico o laico, ed esigere da lui quello che da se stesso si rende a Nostro Signore: una obbedienza fedelissima e molto minuziosa. Il servente deve essere in ginocchio tutto il tempo della Messa, dal lato opposto al Messale, salvo nel momento in cui il suo dovere lo fa andare e venire. Tutte le volte che passa al centro dell’altare, deve far compiutamente e piamente, la genuflessione fino a terra, sia davanti al Crocifisso, sia davanti al Tabernacolo. La piccola riverenza non è sufficiente; egli deve avere le due mani giunte, come il Sacerdote, tutte le volte che non porta nulla. Egli deve essere compito, ben lavato, ben pettinato. Anche in campagna, non si devono tollerare le ciabatte ai piedi del piccolo chierico durante la Messa. il lasciarsi andare dei fanciulli del coro è proverbiale, e non sempre la colpa è loro. Quando ero laico, ne ho visto uno che, dopo avere borbottato le prime preghiere ed il Confiteor, se ne andava a sedersi su di un banco, lontano dall’altare e là, prendeva dalla sua tasca un gomitolo di spago e durante tutta la Messa, ne legava il capo ad uno dei suoi piedi e intrecciava delle fruste. Si degnava alzarsi per l’Elevazione, suonava, e si rimetteva “piamente” al lavoro, il Curato guardava e non diceva parola. Mi si raccontava di due altri piccoli serventi che durante la Messa, giocavano a biglie sugli scalini dell’altare. Ve ne sono di quelli che chiacchierano, ridono, si battono. Una volta un buon Curato, al Memento dei viventi, scese dall’altare, diede un bel ceffone (senza dubbio alla maniera del Dominus vobiscum), al suo servente troppo discolo e continuò la sua Messa in pace. Bisogna confessare che questo era contro tutte le regole immaginabili, ma il piccolo l’aveva ben meritato; egli restò per tutto il tempo della Messa a testa bassa, l’aria infuriata, un braccio levato per nascondere la sua figura e meglio celare il suo schiaffo. In sagrestia bisogna abituare i fanciulli del coro ad un buon comportamento ed al silenzio, a non avere con essi eccessiva confidenza e non lasciar loro toccare nulla. – Un degno Curato di campagna, aveva creduto di poter affidare al suo piccolo chierico, la cura delle ampolle; dopo tre mesi il povero Sacerdote si accorse che il fanciullo beveva la metà del suo vino, e “battezzava” l’altra metà, di modo che, per tutto questo tempo, la Consacrazione non era stata valida; il Sacrificio non era stato realmente offerto. Dovette ricordarsi di tutto il passato, dal punto di vista degli onorari. Fortunatamente questa infedeltà del servente, non aveva impedito la validità della Consacrazione sotto la specie del pane, e la pietà del Sacerdote e dei fedeli non era stata frustrata, almeno quanto alla Comunione. – È molto importante insegnare al servente Messa, a leggere bene e pronunziare bene il latino, scandire le parole e non mangiarsi metà delle frasi. Su dieci fanciulli del coro presi a caso, non ve ne sono forse che tre in grado di recitare il Confiteor in modo ortodosso. Nulla è più edificante ed amabile del vedere come un fanciullo pio ben raccolto ai piedi dell’altare, ben applicato al suo ufficio, che non giri la testa al primo brusio e comprenda la dignità delle funzioni che egli compie vicino al Sacerdote. Alla Messa, il servente rappresenta tutta la Chiesa; egli deve dunque avere tutta la fede, tutta la Religione.

XXXVII

Il Tabernacolo ove viene riposto il Santo-Sacramento

Il Tabernacolo nel quale si conserva la Santissima Eucaristia deve essere tenuto con una cura ancor più religiosa, se possibile, dello stesso altare e del restante della chiesa. Secondo le regole tracciate dalla Santa Sede, il Tabernacolo deve essere dorato, se non tutto d’oro « Tabernaculum aureum », a meno che non sia un oggetto d’arte preziosa in marmo, pietra, o legno scolpito, o in mosaico, etc. All’interno deve essere tutto dorato e rivestito completamente di seta bianca. Quando il Santissimo Sacramento vi è chiuso, il Tabernacolo deve essere interamente ricoperto da un velo, chiamato conopea, di colore bianco, colore liturgico della santa Eucaristia (Nelle nostre piccole liturgie gallicane, ci si era voluto raffinare e, in vista del sacrificio, si era adottato il colore rosso come colore liturgico dell’Eucaristia. Era questo un doppio errore teologico; era confondere, innanzitutto il Sacramento con il Sacrificio, poi il Sacrificio incruento con il Sacrificio cruento. Non ci si guadagna mai nulla a volere essere più saggi della Chiesa), e che deve essere di una estrema pulizia. Si tollera che la conopea sia del colore del giorno. Anche alle Messe dei morti, essa non deve essere mai di colore nero, ma violaceo. Il Santo Ciborio deve riposare, nel Tabernacolo, su di un Corporale o su una Palla; esso deve essere coperto interamente da un velo di seta bianca, che si cerca di arricchire con bei ricami. La Conopea non è obbligatoria quando il tabernacolo è, come detto, un’opera d’arte veramente preziosa. È rigorosamente proibito lasciare la chiave sulla porta del Tabernacolo, fuori dalla Messa e nel momento in cui si distribuisce la Comunione; questa regola obbliga sotto pena di peccato grave. È pure comandato di conservare la chiave del Tabernacolo in un posto segreto e conveniente, in cui nessuno possa toccarla. La negligenza su questo punto ha dato luogo a lamentevoli sacrilegi. Se la disposizione della chiesa lo permette, l’altare ove si conserva l’adorabile Sacramento, deve essere sormontato da un baldacchino reale, o in stoffa bianca, o in velluto, o scolpito. GESÙ è il Re dei re, il Re degli Angeli, il Re della Chiesa, e questo baldacchino è l’insegna della sua regalità. Se ne è quasi perduto l’uso, ed è gran danno. Questi segni esterni di riverenza e di adorazione servono per lo più per la conservazione dello spirito di fede, non solo delle popolazioni, ma pure per gli stessi Sacerdoti. Lo stesso è per le lampade del santuario, delle quali abbiamo già detto delle parole, la cui negligenza, poco scusata dalla povertà, si era diffusa, dopo la Rivoluzione, in un gran numero di chiese. In Francia soltanto, più di trenta mila lampade sono state riaccese davanti al Santissimo Sacramento, dopo il ritorno della liturgia romana. La liturgia desiderava che sette lampade bruciassero, notte e giorno, davanti agli altari  ove risiede il Santissimo Sacramento. (Sono i “Septem Spiritus qui adstant ante Dominum dei quali abbiamo parlato trattando dei ceri).  In difetto di sette, ne richiede cinque; in difetto di cinque, tre; se non si possono averne tre, essa esige che ve ne sia almeno uno, acceso giorno e notte senza interruzione. L’autorità del Vescovo non è sufficiente a legittimarne la dispensa, il Sovrano Pontefice, rifiutando questa dispensa ad un pio Vescovo, che gliela chiedeva per una chiesa moto povera, ed egli me lo ha riferito, dichiarava che questo non era in suo potere, perché, aggiungeva il Santo Padre, l’illuminazione della chiesa è di istituzione apostolica, per non dire di istituzione divina. » Questo non è in effetti che la più perfetta e santa continuazione dell’illuminazione sacra del Tempio antico, e ciascuno sa che è per ordine stesso del Signore, che Mosè aveva posto davanti al Santo dei Santi e l’Arca dell’Alleanza, il candeliere d’oro a sette braccia, la cui luce non si spegneva mai. Se era così nel culto figurativo, è forse strano che non sia lo stesso nel culto delle divine Realtà? L’olio della lampada liturgica del santuario, dovrebbe essere di olio di ulivo purissimo; nei paesi in cui l’olio di olivo è raro e costa molto caro, occorre almeno l’olio vegetale di buona qualità. La sostanza grassa e maleodorante che si chiama olio di petrolio, è assolutamente proibita dalla Congregazione dei Riti. Oltre che per l’odore, è malsano ed infetto, e l’uso dannoso, il sedicente olio di petrolio non è oltretutto, come l’olio propriamente detto, il simbolo dello Spirito di luce e d’amore che riempì Nostro Signore e che, per mezzo di esso, illumina, anima, infiamma tutti i suoi fedeli. Tutti i santi Dottori hanno in effetti sottolineato le belle analogie delle proprietà dell’olio che simbolizza lo Spirito Santo; come Lui, esso illumina, guarisce, nutre, brucia, accende, fortifica. Non si soddisfa dunque al precetto liturgico facendo bruciare del petrolio davanti al Santo Tabernacolo; è un affare di coscienza, che la considerazione del buon mercato non può modificare. In ogni caso, il Sacerdote è tenuto, sub gravi, a tenere accesa perpetuamente, sia di notte che di giorno, almeno una lampada davanti al Santissimo Sacramento. Questa lampada, che è un oggetto liturgico, deve essere sospeso davanti all’altare, e non star di lato; ancor meno posta sopra una credenza. Entrando un giorno davanti ad una chiesa nella quale sapevo essere la santa “riserva”, mi stupii di non vedere la lampada accesa; dopo la mia adorazione, mi avvicinai all’altare ed intravidi una lampada. Cercavo di indovinare da dove venisse questa lampada: un vecchio fondo di bottiglia rotta, riempito a metà di una sorta di pasta disgustosa, formata dal deposito di vecchi oli, di antichi residui di polvere, di farfalle notturne; là sopra galleggiava una povera vecchio povero piccolo lume, nascosto agli sguardi dalle spesse pareti della bottiglia!!! Era questa la lampada del santuario, l’illuminazione liturgica di questa parrocchia. Se la lampada del santuario simboleggia, come detto, Nostro Signore GESÙ-CRISTO glorificato, luce eterna della sua Chiesa, essa rappresenta ugualmente davanti a GESÙ gli Angeli adoratori, poi i Sacerdoti ed i fedeli di ogni parrocchia; perché Nostro Signore, dopo aver detto Egli stesso: « Io sono la luce del mondo, » ha detto dei suoi Apostoli e dei suoi discepoli che essi erano anche « la luce del mondo: vos estis lux mumndi ». Questa lampada del santuario dà luogo giornalmente a dei fatti di una edificazione ammirevole. Quanti pii Curati, Superiori di comunità, sovraccarichi di lavoro, tengono in onore di illuminare essi stessi la lampada del Santissimo Sacramento, senza voler fare affidamento a nessuno in questa cura? Il venerabile Mons. De Prilly, antico Vescovo di Châlonns morto a quasi novanta anni, andava ogni giorno a fare la sua adorazione nella sua chiesa Cattedrale, in racchetta e camaglia; e là lo si vedeva ogni giorno curare con le sue mani la lampada che lo rappresentava, come la sua diocesi, davanti al suo Maestro e suo DIO. Il Papa Pio IX fa altrettanto. Egli diceva ad una santa persona di mia conoscenza, che vegliava egli stesso alla manutenzione delle lampade della sua cappella privata, al Vaticano. Che esempio per tutti noi che per nostra vocazione siamo tutti specialmente votati al culto della santissima Eucaristia.

XXXVIII

Gli onorari della Messa.

Consacrato al culto di DIO ed alla salvezza dei suoi fratelli, il Prete rinuncia alle carriere, ai lavori che assicurano nel mondo l’esistenza dei laici. È dunque molto normale che egli viva dell’altare. Del resto è una istituzione non solo apostolica, ma evangelica e divina. Il Prete ha diritto di vivere del suo santo Ministero. Tra le funzioni che l’autorità ecclesiastica ha designato essere occasione di un sussidio, la celebrazione della Messa, con questa o quest’altra intenzione particolare, tiene uno dei primi posti. Le calunnie dei protestanti dapprima, dei voltairiani e di tutti i loro discendenti, hanno accreditato questa menzogna blasfema, « che una Messa vale venti soldi, … che i Preti vendono la Messa, etc. » Inutile è rispondere a queste grossolanità. I Sacerdoti non vendono la Messa più di quanto i magistrati non vendano la giustizia, i militari non vendano la loro devozione ed il loro sangue, benché gli uni e gli altri ricevano un compenso dallo Stato. La Messa è una funzione sacra alla quale la Chiesa ha legato una piccola offerta, detta da noi onorario; in Italia si chiama con un nome più toccante ed umile: la limosina, cioè l’elemosina. Queste elemosina, questo onorario, è la cosa più ovvia del mondo. No, i Preti non vendono la Messa; non più dei fedeli non la comprano. Non c’è Giuda che vende il sangue di DIO, e non c’è che Caifa che sia costretto a comperarla. Il tasso dell’onorario della Messa varia a seconda dei Paesi. Di regola è il Vescovo che, nella sollecitudine paterna, veglia simultaneamente sugli interessi dei suoi Sacerdoti e quelli del suo popolo. Non sono dunque i preti o i curati che reclamano personalmente gli onorari delle Messe che si domandano loro; è la Chiesa che li chiede per lui ai fedeli. Occorre dire che, ad onore del clero, sia molto raro incontrare Sacerdoti che esigano rigorosamente tutti i loro diritti su questo articolo così delicato, soprattutto quando sono i poveri che chiedono delle Messe. Il disinteresse è una tal bella cosa ed un dovere fondamentale per il Prete di GESÙ-CRISTO. Bisogna pure diffidare di ogni tendenza contraria. La piaga del denaro è particolarmente crudele nel cuore della Chiesa. Un Seminarista, pieno di talento e di virtù, mi raccontava un giorno la sua indignazione ascoltando due suoi confratelli, due diaconi, parlare con una compiacenza molto poco mascherata della « fortuna » che essi avevano avuto durante le loro ultime vacanze di occupare tale e tal altra funzione ecclesiastica, « … che aveva riempito bene il loro taschino. » Un altro non arrossiva nel dire ad un pio confratello che « … quando sarà ordinato Prete, la sua prima cura sarà quella di assicurarsi un buon posto. Se non avrò delle solide entrate, farò il precettore. »  Grazie a DIO, questa bassezza di sentimento è rara. Bisogna evitare ad ogni prezzo soprattutto in ciò che tocca più da vicino il culto della Santissima Eucaristia. Nella Chiesa, i « buoni posti » sono quelli in cui c’è più da lavorare, da soffrire per Nostro Signore: sono i posti in cui ci sono più anime da accogliere, servire, santificare ed amare. I grandi onorari dei Preti non si corrispondono che in Paradiso. Una parola ancora sul soggetto degli onorari della Messa: noi dobbiamo tenerne un conto esatto; nel dubbio fare più che meno, e non esporre mai i buoni fedeli a vedersi frustrati nelle loro pie intenzioni per le nostre cose. È affare di coscienza, di rigorosa giustizia. Se ne risponde davanti al tribunale di DIO. 

XXXIX

Come i Santi hanno circondato la Messa e la liturgia del loro più profondo rispetto.

Essendo il Santo Sacramento realmente e personalmente Colui che è il Sovrano Amore, la vita e l’unico Tesoro dei Santi, è naturale che essi lo abbiano amato, adorato, riverito, servito con tutta la loro anima. Si può dire che nella vita di tutti i santi Preti e di tutti i santi Vescovi, senza eccezione, l’amore ed il culto dell’adorabile Eucaristia tenga il primo posto. San Vincenzo de Paoli diceva Messa con tale raccoglimento, che tutti gli astanti erano pieni di ammirazione. « Mio DIO, diceva un giorno uscendo dalla chiesa della Missione, un signore che era entrato per pregarvi e non conosceva M. Vincenzo: mio DIO! Ecco un Prete che dice bene la Messa. » Si informò del suo nome e corse immediatamente a farsi confessare da lui. Fino alla estrema vecchiaia, san Vincenzo dei Paoli osservava, con una obbedienza ed una pietà da novizio, le minime rubriche della liturgia, ed esigeva pure rigorosamente questa stessa osservanza da parte di tutti i Sacerdoti della Missione. Malgrado le sue gambe inferme, ci teneva a fare la sua genuflessione fino a terra e non credeva in coscienza di dispensarsi dai minimi dettagli. In effetti non c’è nulla di piccolo nel culto di DIO. Lo stesso, e forse ancor di più, era per il santo abate Olier, amico intimo di san Vincenzo de Paoli. Il suo spirito di Religione verso il Santo Sacrificio ed il Santo Sacramento risplendevano in tutto ciò che faceva, diceva, scriveva ed istituiva. Egli era molto ricco, e tutto il suo denaro era dispensato in onore della santa Eucaristia, non meno che per il sollievo dei poveri. La magnifica casula della sua prima Messa era costata trenta mila scudi, e si doleva che essa fosse così indegna del divino mistero al quale era riservata. Il suo Calice di oro massiccio è ancora conservato nel tesoro della pia cappella del Loreto, nel Seminario di Issy. Una delle sue preoccupazioni dominanti era quella di ispirare questo stesso spirito di Religione profonda in tutti gli ecclesiastici del Seminario, e bisogna dire che i Preti di San Sulpizio hanno conservato interamente questa santa eredità del loro fondatore. È impossibile non trattare di cose sante, ed in particolare di tutto ciò che ha rapporto con la Messa con una Religione più seria, più vera, più sentita di quanto non lo si faccia nei Seminari di San Sulpizio. E certamente, questo punto è di una grande importanza nell’opera della santificazione personale del Sacerdote. San Francesco di Sales era ammirevole nella sua devozione e deferenza nei confronti dell’altare durante gli Uffici. Nella deposizione ufficiale che fece san Giovanna de Chantal per la beatificazione e canonizzazione del Santo Vescovo, si trova questa bella testimonianza: « Il nostro beato recitava gli Uffici nella chiesa con una attenzione, riverenza e devozione tutta straordinaria. Non girava quasi mai gli occhi né la testa, se non richiesto, e se ne stava con una gravità umilissima, sempre in piedi, senza mai sedersi, per quanto fosse stanco e debole per tante malattie. Egli ne riceveva gran sentimenti da DIO e delle grandi illuminazioni. Mi scriveva una volta che, durante la celebrazione di una gran festa, gli sembrava di essere tra i cori degli Angeli.  – Egli diceva tutti i giorni Messa senza mai mancare. Essendo questo beato all’altare, era facile vedere che si teneva in uno stato di profonda riverenza ed attenzione davanti a DIO. Aveva gli occhi modestamente abbassati, il suo volto era tutto raccolto, con una dolcezza ed una serenità sì grande, che in vero coloro che lo guardavano con attenzione ne erano toccati e commossi per la devozione. – Soprattutto nella santa Consacrazione e Comunione, si vedeva un candore nel suo volto così pacifico che toccava i cuori. Così questo divino Sacrificio era la sua vera vita e la sua forza, e in questa azione sembrava un uomo trasformato in DIO. – Egli pronunciava la sua Messa con voce mediocre e dolce, grave e posata, senza pressare, qualunque affare fosse. Egli mi dice che, da tanti anni, quando si volta verso il lato dell’altare, non soffre di nessuna distrazione. – Io so di persone che avendolo visto comunicare in questo stato talmente preso da devozione, che non ne hanno mai potuto perderne l’idea. – Il nostro beato possedeva in un grado eminente la virtù della santa Religione Cattolica, Apostolica, Romana; egli aveva in grandissimo rispetto tutto ciò che riguardava il culto divino, del quale faceva le azioni con profonda riverenza, gravità e devozione, avendo davanti agli occhi la grandezza di Colui che serviva. Egli celebrava gli Uffici sacri con una sì profonda attenzione, un sì gran raccoglimento ed una maestà sì umile, che in verità rapiva gli astanti. » Che esempio per noi tutti! Il grande Arcivescovo di Milano, san Carlo Borromeo, che si potrebbe definire l’ecclesiastico per eccellenza, si avvicinava ugualmente ogni giorno al santo altare. Egli si preparava alla Messa, con il Sacramento della Penitenza, che riceveva ogni mattino, e con una lunga preghiera. Egli non voleva che gli si parlasse di alcun affare prima che celebrasse la santa Messa, ed aveva l’abitudine di dire che fosse cosa indegna di un Sacerdote di GESÙ-CRISTO, occupare il proprio spirito con un qualsiasi affare temporale, prima di aver compiuto il suo gran dovere. Salvo che per malattia, nulla era capace di impedirgli di dire Messa, né viaggi, né lavori, né affari; e nelle sue malattie, riceveva la santa Comunione almeno ogni giorno. « Egli riempiva con una santa gioia le sacre funzioni, e le faceva con tanta applicazione, maestosità e buona grazia, riporta un testimone oculare, che parecchi passavano quasi l’intero giorno in chiesa, tanto avevano consolazione nel cederlo officiare. » Lo stesso testimone aggiunge: « Il grande zelo che egli aveva per l’onore delle chiese e dei luoghi consacrati del Signore, veniva da questo gran fondo di Religione da cui era penetrato. Egli proibiva ad ogni sorta di persone di passeggiarvi, muovere, o di fare alcuna cosa indegna della santità di questi luoghi. Egli voleva che tutti vi entrassero modestamente vestiti, specialmente le donne. Voleva che i suoi Curati fossero moto vigilanti al proposito; quando egli stesso ne riprendeva qualcuno che non si comportava con la dovuta riverenza a questi santi luoghi, lo riprendeva sul campo, facendogli una forte correzione. Per rispetto dei santi altari, proibiva a tutti i secolari, qualunque essi fossero, di prender posto nel coro. Egli ingiungeva agli ecclesiastici di rivestirsi di cotta tutte le volte che dovevano avvicinarsi all’altare per prepararlo, per pulirlo e per ornarlo; prendeva cura egli stesso di mostrare ai giovani sacerdoti come bisognava fare la genuflessione e gli inchini passando davanti agli altari. « Egli riformò la musica delle chiese, ordinando che tutti i cantori fossero vestiti di sottana e di cotta quando cantavano nel coro. Escluse totalmente le arie profane e gli strumenti musicali che risentivano di mondanità. Egli attribuì una tale importanza alle sue ordinanze liturgiche che non ne dispensava mai nessuno. » – Fu lui che instituì sotto la forma attuale, o che almeno fece istituire a Roma da suo zio, il santo Papa Pio IV, la Congregazione dei Riti, che ha reso sì grande servizio alla Chiesa intera, e con la quale il Sovrano-Pontefice, primo e fedele guardiano del culto divino nella Chiesa, regola, ordina, difende ciò che è conforme o meno alle vere tradizioni liturgiche. San Carlo Borromeo può essere considerato come un perfetto modello di questo spirito di Religione che deve risplendere in tutta la vita di un Prete e che deve portare soprattutto alla celebrazione dei santi Misteri. Ciò che abbiamo detto per San Carlo, San Francesco di Sales, San Vincenzo de Pauli, del venerabile abate Olier, speriamo poterlo dire con altrettanta giustizia, di tutti i santi Preti; per tutti, la celebrazione della Messa ed il culto del Santo Sacramento sia l’affare principale, il centro, il cuore delle loro giornate. Bisogna leggere gli ammirevoli dettagli che riportano su questi punti gli autori contemporanei della vita di San Filippo Neri, della vita di S. Ignazio, della vita di San Francesco Borgia. Tutti congiungevano ad un ardente amore, un fervore più angelico che umano, il rispetto più assoluto delle sante regole liturgiche, e non permettevano mai di infrangerne alcuna. È tutto semplice; la santità non è la perfezione dell’obbedienza e dell’amore? Nulla è più edificante che vedere un Prete che dice bene la Messa: così prega, parla a DIO più di ogni sermone. È una manifestazione irresistibile della santità della Chiesa, della sublimità del sacerdozio, della presenza adorabile di GESÙ sui nostri altari. Uno dei nostri più dotti Vescovi mi riportava un giorno questa parola infantile, ma profondamente cera e toccante, di una povera donna della sua diocesi: « … che è dunque bello un Prete che prega bene il buon DIO. » Ah! Diamo tutti e sempre questo bello spettacolo, soprattutto quando siamo ai piedi degli altari!

EPILOGO

UN BEL RICORDO  LITURGICO

Uno dei più toccanti ricordi della mia vita (con cui mi si permetta di concludere questo libretto), è quello di Pio IX celebrante Messa e distribuente la Comunione, sul grande altare papale, nella Basilica di San Pietro. Era la festa di San Pietro, io avevo avuto l’onore di assistere all’altare come Suddiacono. La maestosa bellezza del suo viso, sì raccolto, sì profondamente e con semplicità applicato alla preghiera, era rigato da grosse lacrime, lacrime che bagnavano continuamente le sue gote; eravamo tutti commossi, penetrati di venerazione solo guardandolo. Dopo la prima di queste tre magnifiche preghiere che precedono immediatamente la Comunione, il Santo Padre raggiunge il suo trono, lasciando sull’altare, in adorazione ed inginocchiato, l’uno di faccia all’altro, a destra ed a sinistra del santo Sacramento, il Diacono, che è sempre un Cardinale, ed il Suddiacono che è sempre un uditore di Rota. Quando il Papa è sul suo trono, il Suddiacono si alza, fa la genuflessione, e prende, con le mani coperte da un velo di lino, la Patena con l’Ostia santa; egli la fa adorare al Diacono sempre inginocchiato; poi, tenendo il Santo Sacramento con grandissimo rispetto all’altezza dei suoi occhi, avanza con passo grave verso il Papa, che si alza e che adora Colui di cui è il Vicario. Il Suddiacono resta un po’ alla sinistra del Papa girato al coro, tenendo sempre il Santo Sacramento sulla Patena. Allora il Diacono si alza a sua volta, fa la genuflessione in mezzo all’altare, prende il Calice santo ed avanza anch’egli verso il Sovrano-Pontefice, tutto solo, nel silenzio più profondo. Il Papa ed il Suddiacono sono in piedi; tutti gli assistenti, Cardinali, Vescovi, Prelati sono in ginocchio: è un momento incomparabilmente maestoso. Dopo avere un istante adorato il prezioso Sangue, e dopo che il Diacono, tenendo il Calice, si è portato alla destra del Papa, in coro, di fronte al Suddiacono, il Santo Padre recita a mezza voce le due orazioni della Comunione; poi il Suddiacono si dispone davanti a lui, affinché possa comunicarsi. Egli prende solamente la metà della santa Ostia e se ne comunica. Il Diacono si avvicina a sua volta, presenta il prezioso Sangue, di cui il Papa prende una parte per mezzo di un lungo cannello d’oro che resta in seguito nel Calice, immerso nel resto del vino consacrato. Dopo un momento solenne di raccoglimento, il Diacono ed il Suddiacono rimettono il Calice e la Patena ai due Vescovi assistenti, si mettono in piedi, uno di lato all’altro davanti al Vicario di GESÙ-CRISTO, il quale spezza in due parti la seconda metà dell’Ostia santa e comunica in silenzio prima il Diacono poi il Suddiacono, dopo di ché dà ad entrambi il bacio di pace sulla gota. Oh! È in questo memento che ho abbracciato Pio IX con amore! Era Nostro-Signore stesso che mi abbracciava e che io abbracciavo. Ed io ho sentito le sue calde lacrime che hanno bagnato il mio volto. – Dopo qualche istante di raccoglimento, il Cardinal Diacono ha ripreso il Calice con il restante del prezioso Sangue ed il cannello; il Vescovo assistente mi ha riconsegnato la Patena vuota; entrambi siamo tornati sull’altare. Là il Diacono, ripreso il cannello d’oro, si è comunicato egli stesso, aspirando la metà di ciò che restava del vino consacrato; poi mi ha passato il calice; io ho deposto il cannello sopra una Patena d’oro; io ho comunicato a questo stesso Calice ed ho preso la particella, come il Sacerdote fa ordinariamente sull’altare; con del vino puro prima, poi con del vino ed acqua, ho purificato (secondo l’espressione liturgica) il cannello ed il Calice e preso le abluzioni; ed il Sovrano Pontefice ha terminato la Messa cantando il Post-Communio ed impartendo la grande benedizione finale.

Io offro nuovamente ed in modo particolare questo piccolo trattato, alla pietà degli allievi del Santuario, pregandoli di profittare al meglio possibile e di non lasciarsi mai indebolire il cuore nel gusto delle cose sante, il rispetto e lo zelo della liturgia, la perfezione dell’obbedienza ai precetti ed alle direttive della Santa Chiesa Romana, Madre e Maestra di tutte le Chiese. – Queste spiegazioni del Santo Sacrificio serviranno ugualmente, io spero, ai miei venerati fratelli del giovane clero. Io prego Nostro Signore di benedire il mio lavoro e tutti i miei lettori.

I SANTI MISTERI (9)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (9)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XXXI

Dalla Comunione, al termine della Messa.

Dopo la Comunione del popolo, quando il Santo Sacramento è rientrato nel Tabernacolo, il Celebrante prende la prima abluzione, del puro vino, poi la seconda, di vino ed acqua, alfine di far sparire i resti più impercettibile della divina Eucaristia che avrebbero potuto aderire alle pareti interne del Calice o alle dita che lo hanno toccato. Sul soggetto delle abluzioni, ricordo una buona storia, capitata a questo stesso direttore di Seminario che aveva la cattiva abitudine del tono alto ed esclamare durate la Messa, e che interruppe una volta il Canone, come abbiamo già detto. Un giorno che era in “devozione”, e le sue orazioni giaculatorie si moltiplicavano senza misura, alla seconda abluzione, egli aveva, come prescritto, le dita sopra il Calice e di conseguenza, le mani e le braccia sollevate; l’altare, in effetti, era troppo alto per lui, ed il Calice era grande. Il servente Messa, che mi ha raccontato il fatto, ammirava interiormente la devozione del sant’uomo, e versava il vino sulle sue dita. « Signore, mormorava questi, voi mi inondate. » Il servente, intenerito, versava ancora l’acqua, versava sempre. « Voi mi inondate, mio DIO! » ripeteva il buon vecchio. Tutto d’un tratto cambia tono e con aria seccata, dice al servente: « Quando dico che mi inondate!!! Ne ho piene le maniche! » Sorpreso ed imbarazzato, il povero servente si trattenne per non scoppiare a ridere. L’infortunato direttore ne aveva fino al gomito. Dopo le abluzioni, il Sacerdote riprende posto in mezzo all’altare, con i vasi ed i sacri lini, copre il tutto con il velo e recita la breve preghiera chiamata Communio, al lato sinistro dell’altare, nell’angolo dell’Epistola. Come l’introito, il Communio ricorda lo spirito del santo Mistero del giorno. Poi il Sacerdote ritorna al centro, dice il sesto Dominus vobiscum, recita o canta, di nuovo a sinistra, l’orazione chiamata: Post-Communio, chiude il Messale, dà il settimo ed ultimo saluto con il Dominus vobiscum, e congeda l’assemblea annunciando che la Messa è finita: « Ite, Missa est. » Alla Messa solenne, è il Diacono che compie questo ufficio. Tutto il popolo in ginocchio riceve la benedizione che conclude l’adorabile Sacrificio. Mi sembra evidente che il senso liturgico di tutti questi riti si rapporti a quanto detto in precedenza del regno finale di Nostro-Signore e della sua Chiesa, al settimo giorno del mondo, prima della chiusura definitiva dei secoli. In effetti il Sacerdote è pieno di GESÙ, che è disceso in lui ed è corporalmente presente nel suo corpo, come lo sarà nell’ultimo Avvento quando apparirà sulla terra in mezzo alla sua Chiesa glorificata; nello stesso modo in cui ha cominciato il Sacrificio recitando l’Introito, poi il Post-Communio, le quali rappresentano, se non mi sbaglio, la preghiera perfetta, le adorazioni e le azioni di grazie che GESÙ e la Chiesa daranno nel salire, all’epoca della rigenerazione, verso il trono della Maestà divina. Questo sarà il cantico del cielo; questa sarà la santità del cielo sulla terra. Quale darà, in dettaglio, questo stato ultimo della Chiesa? Noi non ne abbiamo alcuna idea; non più dell’idea che abbiamo dello stato della santa umanità del Salvatore resuscitato, tra la Resurrezione e l’Ascensione; non più dell’idea soprannaturale che noi abbiamo dello stato nel quale si trovavano Adamo ed il mondo nel Paradiso terrestre prima della caduta. Non sarà l’uomo solamente, sarà l’umanità intera che regnerà pacificamente su tutti gli elementi e su tutto l’universo; sarà il corpo intero, saranno tutte le membra che, trionfando sulla morte, condurranno sulla terra la vita del cielo, la vita resuscitata, preludio della vita eterna propriamente detta. Noi sappiamo dello stato di beatitudine della Chiesa resuscitata, ed allora « … DIO asciugherà per sempre le lacrime dei suoi eletti; che per essi non ci sarà più morte, più doglia, più gemiti, più dolore; perché il primo stato delle cose sarà sparito: Quia omnia abierunt; perché tutte le cose saranno rinnovate. » È quello che noi sappiamo, ciò che ci ha detto il Signore Nostro medesimo nel Vangelo: « Nel giorno della rigenerazione, quando il Figlio dell’uomo sederà sul trono della sua maestà … nello stato di resurrezione, gli uomini non si mariteranno più, essi saranno come gli Angeli di DIO nel cielo; » essi non saranno degli Angeli, ma « saranno simili agli Angeli: sicut Angeli DEI; » essi non saranno puri spiriti, ma i loro corpi resusciteranno spirituali, spiritualizzati « resurget corpus spirituale », dice S. Paolo. I nostri corpi saranno simili a quello di Nostro-Signore dopo la sua Resurrezione, prima della sua Ascensione. Dopo questa manifestazione terrestre della divinità, della potenza, della gloria, della santità e della bellezza senza macchia di GESÙ-CRISTO e della Chiesa, la grande settimana dell’umanità sarà compiuta; dopo il settimo giorno, dopo il riposo trionfale della settima età della Chiesa, verrà la Domenica eterna, il grande giorno del Signore, il giorno dell’Ottava, dell’accordo perfetto. I riprovati, resuscitati per il giudizio nel momento stesso della fine dei secoli (Nostro-Signore distingue completamente la resurrezione degli eletti dalla resurrezione generale e finale; Egli parla della prima al cap. XXIV, e della seconda al capitolo XXV di San Matteo. Gli eletti della prima resurrezione sono le vergini sagge; i riprovati della seconda, sono le vergini stolte con cui la parabola inizia il cap. XXV; tunc, erit regnum cœlorum), saranno gettati fuori per sempre « con satana ed i suoi angeli, nel fuoco eterno come escrementi della Creazione; « ed essi saranno nel supplizio eterno, mentre i giusti andranno alla vita eterna, » avvolti, come in un vestito immortale, di gloria e di felicità, dalla benedizione suprema del Padre e del Figlio, e dello Spirito-Santo, che Nostro Signore GESÙ-CRISTO darà a tutti i suoi Eletti. È quanto figurano gli ultimi riti della santa Messa. Con quali profondi sentimenti di speranza, con quale gioia non dobbiamo dire queste belle parole finali, ed esprimere a GESÙ il nostro amore! Dapprima Egli ci invita al banchetto nunziale, alle nozze dell’Agnello. « Andate, la Messa è finita; venite, voi tutti, benedetti dal Padre; voi tutti fedeli della mia Chiesa; tutto è consumato; il grande mistero di Cristo, della Chiesa, della creazione, della Redenzione, della grazia è compiuto; voi avete ricevuto il vostro DIO: restate in Lui e Lui in voi! » I fedeli della terra rispondono: DEO gratias, povera e piccola eco anticipata del DEO gratias eterno che nel Paradiso sgorgherà dai loro cuori. Il passaggio dal regno celeste della santa Chiesa sulla terra al suo regno celeste nei cieli, è figurato dal passaggio del Celebrante, del Diacono e del Suddiacono al lato destro dell’altare, dove si recita nel segreto l’ultimo Vangelo. Il Celebrante è allora il Cristo nella sua gloria; il Diacono è la Chiesa degli Angeli; il Suddiacono la Chiesa degli uomini; entrambi in GESÙ-CRISTO e con GESÙ-CRISTO, nella gloria di DIO Padre. Dopo l’Epistola, questo passaggio da un lato all’altro, significava il passaggio dall’antica Alleanza alla nuova, ed il Celebrante si umiliava, si inchinava tra i due; ora questo passaggio, glorioso e gioioso, significa la transizione dal regno della Chiesa sulla terra, al suo Regno nel cielo; dallo stato perfetto della resurrezione, allo stato piuccheperfetto e assolutamente divino dell’Ascensione e dell’Eternità. Così, in mezzo all’altare, il Sacerdote, figura di GESÙ-CRISTO, ribalta le umiliazioni della greppia e del Calvario, con la maestà della pubblica benedizione (Nelle liturgie moderne francesi, il semplice Sacerdote cantava questa benedizione alla fine della Messa solenne e talvolta della Messa bassa (!!!). Si tratta ancora una volta di un’invenzione dell’89, una usurpazione del Prete sul Vescovo). Noi abbiamo già detto che il Dominus vobiscum che segue la comunione è quello che precede la benedizione, e sembra esprimere il Dono dell’Intelletto ed il Dono della Sapienza che Nostro Signore effonderà in quest’ultima età della Chiesa su tutti gli eletti. Oh! Quanti comprenderanno allora e quanti gusteranno le ineffabili beltà, le profondità divine e le eccellenze del mistero di GESÙ-CRISTO! Alla Messa solenne, l’ottavo Dominus vobiscum, si dice a voce bassa, così come il Vangelo della generazione eterna del Verbo, per significare che la beatitudine del Paradiso, cioè l’unione beatifica e la visione intuitiva, appartengono a quest’ordine di parole segrete « … che non è dato all’uomo dire quaggiù; … l’occhio dell’uomo non ha mai visto, né orecchio mai inteso, il suo spirito non può comprendere ciò che DIO ha riservato ai suoi eletti, » sulla terra, ed a maggior ragione nel cielo. Nulla è così toccante come la pia recita di questo bel Vangelo, quando si pensa che il Verbo eterno, il Principe della Vita, la vera Luce è là, sostanzialmente e corporalmente presente in noi, consolandosi con noi ed in noi dell’ingratitudine di coloro che non vogliono riceverlo, e facendo di noi dei figli di DIO! Il Verbo incarnato è in noi, vi è per sempre, pieno di grazia e di verità. – La Messa è finita; il Sacerdote e coloro che lo assistono all’altare rientrano in sacrestia, recitando a voce bassale preghiere dell’azione di grazie. Non è certo che queste preghiere siano obbligatorie, ma è d’uso il non ometterle.

XXXII

Il rispetto dovuto alle sacrestie.

Bisogna rispettare fortemente la Sagrestia delle Chiese, che è un luogo santo, come il suo nome ci indica. La sacrestia fa parte della Chiesa: non vi si deve parlare senza necessità, né ad alta voce, come in una camera ordinaria; ancor meno si deve chiacchierare, scherzare, ridere. Quando è possibile, è preferibile che i cantori e gli impiegati inferiori della chiesa non entrino abitualmente nella sagrestia del clero, propriamente detta. Al Curato ed al Prete sacrestano incombe il dovere, dovere serissimo ed importantissimo, di vegliare sul buon ordine della sagrestia; alle suppellettili più minuziose, non solo dei sacri vasi, dei lini, degli ornamenti, etc. inoltre dei mobili, armadi, tavoli, etc. … vi sono delle sacrestie ove è tutto sottosopra; in cui i teli e gli ornamenti sacri sono riposti alla rinfusa senza ordine negli armadi, a volte con spezzoni di ceri, ampolle con equivoche proprietà, bottiglie vuote, vecchi stracci; le cotte, le sottane dei ragazzi del coro e dei cantori vengono ammassate in un angolo. Tutto questo è sconveniente e poco edificante; un vero Sacerdote non tratta così, in malo modo, le cose del culto di DIO. In più, questo disordine, questo disordine costa caro: così negletti, i paramenti si deteriorano rapidamente; e con una cura maggiore si possono risparmiare centinaia di franchi. Inoltre, le pie dame, i buoni e ricchi donatori vengono pure scoraggiati nella loro generosità verso la Chiesa con la prospettiva della quasi inutilità dei loro sacrifici! « A che pro dare questa casula, questa cotta, questo ornamento d’altare? Si dice: se il nostro curato è così poco accorto, lasciamo perdere tutto questo! Tra pochi mesi, o un anno, non resterà più nulla » Bisogna valutare bene nel non disprezzare il valore di queste cose, per non scoraggiare tanti sacrifici fatti senza profitto. Nulla è più edificante che l’aspetto di una sagrestia ben organizzata e ben tenuta; questo rivela immediatamente l’indole di un Sacerdote pio, zelante della gloria di Nostro-Signore. La povertà non è in causa;  essa può essere propria, ma, grazie al cielo, povertà dignitosa e mala povertà non sono sinonimi.  

XXXIII

 Tempo che conviene consacrare alla celebrazione della Messa

Diciamo una parola sul tempo che bisogna consacrare abitualmente alla celebrazione della Messa. Il Papa Benedetto XIV, dichiara formalmente che la Santa Messa non debba mai durare meno di 20 minuti, anche le Messe da Requiem o le Messe votive, nelle quali le preghiere sono abbreviate. L’esperienza conferma questa decisione dell’Autorità suprema: un Sacerdote che vuole osservare tutte le rubriche e dir Messa con la religione conveniente, a mala pena rientra nei venti minuti. Quasi tutti coloro che dicono la Messa velocemente, a stento vi arrivano, arrampicandosi, preghiera su preghiera, cerimonia su cerimonia; essi terminano le orazioni mettendosi al centro dell’altare; dal corno dell’Epistola iniziano marciando a recitare il Kyrie, il Munda cor meum, e terminano, ancora camminando, con mancamenti simili a regole obbligatorie. Essi “arronzano”, come si dice, questo non è un pregare sacerdotalmente, non è celebrare bene la Messa. Io ho visto una volta un Sacerdote, per altro eccellente e da me conosciuto personalmente come tale, impiegare solo sedici minuti dal segno della croce, in basso all’altare, fino al “Deo gratias” finale. Questa Messa, buona davanti a Dio, senza dubbio, lo era molto poco per gli astanti, tanto che una persona pia mi pregò di avvertire questo buon Prete, che se continuava a dire la Messa “al galoppo”, non vi avrebbe assistito mai più: « … non si sa più ove ci si trova, aggiungeva con assoluta ragione; è un pasticcio, una specie di corsa a cronometro; si direbbe che questo Prete non abbia altra idea che di finirla quanto prima; se non lo conoscessi, gli si potrebbe chiedere se abbia fede! »  I Sacerdoti che prendono la deplorevole abitudine di dire così la Messa, cioè di corsa, hanno certamente la fede, ma io garantisco che essi non hanno al massimo grado lo spirito di fede, il sentimento attuale della fede, la fede viva, efficace, pratica nella divina presenza di Nostro Signore nel suo grande mistero. Mai un uomo penetrato di questa fede viva, ricordando che GESÙ, il bon DIO, il DIO eterno ed onnipotente che sta per scendere nelle sue mani; che è proprio Lui, il Figlio adorabile della Santissima Vergine, il gran Salvatore, il Re degli Angeli, il Santo dei Santi, che è là, nelle sue mani, sotto i suoi occhi, realmente presente e vivente con la sua infinita santità ed il suo amore infinito,… mai, io dico, un uomo, un Sacerdote che penserà a questo, balbetterà le sante preghiere, come spesso accade; mai farà delle genuflessioni tronche o precipitate, non tratterà alla leggera sì grandi cose, non darà la comunione “cotta al vapore”; in una parola, non dirà Messa con una velocità tale da essere in disaccordo con la santità intrinseca del Sacrificio, con il rispetto necessario della liturgia e l’edificazione dovuta al popolo fedele. Quasi sempre si dice la Messa troppo veloce. Quante volta ho sentito i fedeli lamentarsi di questo abuso! Alcuni Sacerdoti, lo so, dicono la Messa troppo lentamente e rischiano così, soprattutto nelle chiese parrocchiali, in cui il pubblico è più disomogeneo, di stancare un certo numero di persone; ma questi abusi, oltre che essere più rari degli altri, si comprendono presto: essi vengono da un raccoglimento più profondo da parte del Sacerdote, da un’osservazione più rigorosa delle rubriche, ed insomma anche se “abuso”, non malefica nessuno, tutt’altro. Per di più non espone il Sacerdote al danno così terribile della routine e della negligenza. – La Messa bassa dovrebbe sempre durare circa una mezz’ora. Questa mi sembra una regola perfetta, tipica; una mezz’ora, più o meno due o tre minuti. È il tempo che impiega ordinariamente il nostro Santo e Santissimo Padre, il Papa Pio IX, che dice la Messa sì mirabilmente come l’abbiamo raccontata adesso. È il tempo che consacrava sempre San Francesco di Sales, il Sacerdote perfetto: una bella e buona mezz’ora.

XXXIV

Come bisogna cantare e recitare le preghiere della Messa.

Alla Messa solenne, bisogna cercare di cantare bene ciò che deve essere cantato; cantare nel modo giusto, se possibile; cantare piamente e semplicemente, senza negligenza, affettazione, rallentamenti. Bisogna cercare di imparare il canto senza nulla aggiungere o alterare del canto liturgico; le fioriture, i gorgheggi, gli svolazzi, sono buoni per il teatro; ma all’altare di DIO, il canto deve essere grave e degno. Nulla è più bello del canto piano (romano) ben cantato. Uno dei più celebri compositori moderni, mi diceva l’altro giorno « il puro cantus planus (canto semplice – vocale a cappella, monodico, gregoriano) non può essere comparato a nessun altra musica, non più di quanto la Chiesa possa essere comparata alle altre società della terra. Il Canto semplice sta alla musica profana, come la preghiera alla conversazione. » I Curati dovrebbero vegliare a che i cantori non “compongano” al leggio; soprattutto nelle campagne, queste composizioni sono disastrose; io vedo ancora un bravo mugnaio, cantore emerito, primo cantore nella sua parrocchia da venti anni, urlante, muggendo un Magnificat impossibile, per non so quale grande festa, in mezzo allo stupore generale, stravolgendo le parole in modo incomprensibile … Magnificat, ficat … fificat … cat ani … cat anima … cat Dominum … ed il “minum” non finiva mai! E l’omaccione rosso come un gallo, con il pollice della mano destra appoggiata sotto il mento per darsi più forza, voltandosi verso l’assistente, occhio brillante e bocca torta, testa alta, alla fine di ogni versetto, come per dire al popolo: « Hei, che ne dite? » Ed il Curato lasciava fare! Quando si canta puramente e semplicemente il canto piano, si ha uno stato di grazia, e non si cade in queste eccentricità. Un altro punto molto importante per il canto delle Messe solenni, ed in generale di tutti gli uffici, è il protrarsi interminabile del canto e nelle grandi città, il suonare all’infinito l’organo; questo rende gli Offici di una lunghezza noiosa. « È edificante, dicono taluni; » no, è noioso e molte persone si lasciano prendere dalla noia. Io ho assistito una volta ad una Messa solenne che è durata, senza predica, quasi due ore e mezza. Più è lunga, più è bella!! Una Messa solenne, senza predica, dovrebbe durare appena un’ora. Tuttavia bisogna prendersi cura di non eccedere nel senso opposto: per guadagnare del tempo, certi buoni Curati, credono di potersi permettere di sopprimere i canti, questa o quella parte del canto liturgico. Vi sono dei paesi in cui non si canta che la metà del Gloria e del Credo; in cui il celebrante, dopo aver recitato a tono basso il Credo, comincia immediatamente l’offertorio tagliando il Credo dal momento che il sacerdote dice l’orate fratres. Alle gran Messe che si cantano durante la settimana, si sopprime il canto del povero Gloria; mai il graduale, mai il Communio cantato. Infine, abuso ancor più strano, nei servizi funebri in cui devono essere celebrate due Gran Messe consecutive, il canto della prima Messa cessa al Sanctus; la Messa cantata diviene subito una Messa bassa; e sempre per guadagnar tempo, la seconda Messa comincia su di un altro altare, immediatamente dopo l’Elevazione della prima, la quale termina come “in segreto”. Tutto questo costituisce una serie di abusi sui quali occorrerebbe richiamare l’attenzione del clero. Il Sacerdote che si permette queste cose, viola delle regole obbligatorie in coscienza; egli deve reagire con tutte le sue forze contro ogni ostacolo. Vi è interessata certamente la sua coscienza sacerdotale. Alla Messa bassa, noi dobbiamo pronunciare distintamente, né troppo alto, né basso, né veloce, né troppo lentamente: ciò che è segnato che debba essere pronunciato basso, sia pronunciato basso, di modo tale che gli assistenti non sentano nulla. Per le parole della Consacrazione, vi si è tenuti sub gravi. Vi sono dei Preti che dicono in tono basso tutte le preghiere; talvolta è per tener più raccolti; tuttavia è un abuso, che solo la stanchezza del torace o del laringe può scusare. In questo, come per tutto il resto, bisogna obbedire alle prescrizioni liturgiche che vogliono che la Messa bassa sia letta con voce intellegibile, distinta e mediocremente elevata. Io ho assistito una volta ad una Messa di un devotissimo abate che “declamava” la sua Messa; era toccante e nello stesso tempo molto ridicolo. Il Vangelo era quello della resurrezione di Lazzaro. Alle parole: « Lazare! Veni foras!!!, Lazzaro, esci dalla tomba! » il buon abate lanciò un vero grido di angoscia, e gli assistenti non poterono trattenersi dal ridere. Il maestro di cerimonia di uno dei nostri Seminari, mi raccontava che durante un viaggio in Italia, aveva ascoltato un Sacerdote dire con voce talmente elevata, stridente, le preghiere della Messa bassa che, entrando in chiesa, aveva creduto che vi si pregasse. Se all’altare, non bisogna parlare troppo forte, bisogna pure evitate con cura il tono di voce languido, biascicato, il tono di voce nasale, o rauco e rude; ci sono Sacerdoti che hanno preso la sgradevole abitudine di dir Messa cavallerescamente, bruscamente; si direbbero piuttosto capitani di dragoni che uomini di preghiera; fanno quasi paura ai bambini. Non è così che parlava Nostro-Signore. Come per il tempo della celebrazione, anche qui c’è un modo giusto da osservare, e bisogna dare al buon DIO, alla Messa, la nostra parola nel modo più perfetto possibile. Nella forma come nel fondo, bisogna rappresentare pienamente GESÙ, il Sacerdote dei Sacerdoti, il Santo dei Santi.  

XXXV

Celebrando la Messa, occorre evitare manie, bizzarrie e singolarità

Si chiamano manie, certe abitudini più o meno singolari che poco a poco si lasciano radicare nella vita di ogni giorno, divenendo quasi un diritto, un nostro modo di fare abituale. Le bizzarre, dappertutto rigettabili, le manie all’altare, sono non solamente proibite, ma assolutamente sconvenienti, inopportune e talvolta anche scandalose. In coscienza, noi non dobbiamo permetterle. Vi sono manie nella posa, nella postura. Io ho conosciuto a Parigi un Sacerdote che, durante tutto il tempo in cui il celebrante resta al centro dell’altare, si teneva su una sola gamba, l’altra ripiegata in aria ed appesa, penso, al polpaccio! Un altro molto anziano, aveva preso l’abitudine bizzarra, tutte le volte che si girava per dire: Dominus vobiscum, di stendere quanto più poteva le braccia a destra ed a sinistra, come un crocifisso, e di salutare profondamente il popolo; inoltre più che dire, cantava: Dominus vobiscum, oremus, etc., con una punta culminante in falsetto su tutti gli “us” e gli “um”. La sua Messa appena si intendeva, anche se si vedeva bene che pregasse di buon cuore. Vi sono dei degni Sacerdoti che prorompono con grande schiamazzo regolarmente in questo tal momento della Messa, né prima né dopo; è sacramentale! Vi sono alcuni che aspirano tabacco, senza mai omettere, alla fine del Credo (cosa che non è notata, che io sappia, nella rubrica; altri più “coscienziosi” aspettano fino all’ultima benedizione; ma giunti qua, si arenano, e la santa tabacchiera, destramente tratta dalla tasca, diviene, sembrerebbe, una sorgente di coraggio e di consolazione spirituale durante l’ultimo Vangelo. C’è poi chi tiene la testa penzoloni o il collo torto; chi dopo aver bevuto il prezioso Sangue, ritiene, per così dire, il Calice a lungo e con strepitio; chi ad un dato momento alza i suoi occhiali sulla fronte, coloro che recitano invariabilmente tali preghiere con un certo tono, ed altri ne impiegano uno diverso; chi durante l’Epistola poggia le mani semplicemente sul Messale o sull’altare, e durante l’ultimo Vangelo, quando devono essere giunte, non si evitano di pulirsi meccanicamente le unghie, etc., etc. Manie nella pronunzia, nel canto, manie nei movimenti; quali esse siano, si evitino queste cattive abitudini con spirito di fede e per amor di obbedienza; e noi celebreremo la Messa più perfettamente ed edificheremo più solidamente i fedeli. Talvolta la mania sfocia in eccentricità, soprattutto negli scrupolosi. Un sant’uomo vivendo in comunità, ebbe un giorno la strana idea di farsi purificare la punta del naso dal servente Messa alla seconda abluzione! Egli credeva che l’Ostia santa gli avesse toccato il naso al momento della Comunione; e, troppo fedele osservatore della rubrica che ordina di purificare con il vino e l’acqua ciò che il Santo Sacramento ha toccato inavvertitamente, mette il suo naso con le quattro dita sopra il Calice, ordinando al povero servente stupito di versargli del vino sulla punta del naso. A sua discolpa, bisogna aggiungere che era un po’ infantile. Dunque evitiamo all’altare ogni singolarità; osserviamo le sante rubriche con esattezza estrema ed una semplicità tutta sacerdotale. 

I SANTI MISTERI (8)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (8)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XXIX

Il seguito del PATER, fino all’AGNUS DEI.

Il Sacerdote traccia su se stesso un gran segno di Croce con la Patena, dicendo le parole della preghiera “secreta” che segue immediatamente il Pater: « degnatevi di accordare la pace ai giorni in cui viviamo; » e bacia la Patena che fa scivolare tra l’Ostia santa ed il Corporale, di modo tale che il Santo Sacramento riposi su di essa, ed essa sul Corporale. Egli prende poi l’Ostia, la spezza a mezzo in due parti uguali, al di sopra del Calice; tenendo con una mano sul Calice la metà dell’Ostia, depone l’altra metà sulla Patena; poi stacca dalla prima metà dell’Ostia un frammento che tiene con la mano destra, mentre riporta sulla Patena il restante della santa Ostia che vi si ricompone tutta intera, salvo la particella sospesa sopra il divin Sangue. Con questa particella il Sacerdote forma tre segni di Croce all’interno del Calice dicendo: « La pace del Signore sia sempre con voi! » e lascia cadere la particella nel Calice. Egli recita poi i tre Agnus Dei, terminando i due primi con: Miserere nobis, ed il terzo con: Dona nobis pacem. Questa pace, frutto della liberazione, è il seguito naturale e lo sviluppo del: Libera nos a malo. Con la bocca del Sacerdote, la Chiesa domanda, a nome di GESÙ-CRISTO, che la pace di DIO le venga accordata, e che sia da ora liberata dai suoi nemici interni ed esterni, per quanto lo permetta la sua condizione militante. Essa chiede anche che la grande, sovrana pace del trionfo, arrivi il più presto possibile. Essa chiama con tutte le sue voci il glorioso Avvento del suo Re e Liberatore. Ma prima bisogna che Essa soffra la grande tribolazione che le ha predetto GESÙ stesso nel Vangelo, la suprema persecuzione dell’anticristo; questa prova spaventosa sarà la Passione della Chiesa, la Passione dei membri, complemento della Passione del Capo. Secondo l’Apostolo san Giovanni, essa deve durare quarantadue mesi (Et civitatem sanctam calcabunt mensibus quadraginta duobus. – Apoc. XI, 2. – Et data est ei (bestiæ, id est, autichristo) potestas facere menses quadraginta duos. – ibid., XIII, 5), tre anni e mezzo ed accompagnerà o seguirà da vicino la conversione di Israele. – Secondo ogni apparenza, essa è significata dal gran segno di Croce che traccia su di sé il Sacerdote, cioè la Chiesa, nel momento in cui bacia la Patena; nel momento in cui l’antica Alleanza, oramai riconciliata con la nuova, ritroverà infine GESÙ-CRISTO; la Patena in effetti, come noi abbiamo visto più in alto, simbolizza all’altare la Chiesa giudaica. Allora la Santa Vergine sarà la Regina d’Israele convertito; il Corporale porta la Patena che a sua volta sostiene la Santa Ostia. Questo frazionamento della santa Chiesa, all’epoca della grande tribolazione, è ancora espressa dalla frazione dell’Ostia; e la particella che il Sacerdote lascia cadere nel Calice, simbolizza ciò che san Giovanni chiamava la “prima resurrezione” resurrectio prima, cioè la resurrezione degli Eletti, che seguirà immediatamente alla distruzione dell’anticristo e all’apparizione gloriosa del Signore GESÙ; « il Figlio dell’uomo, dice espressamente il Vangelo, radunerà allora i suoi eletti dai quattro angoli della terra. (Et congregabit electos suos a quatuor ventis. (Ev. Marc, XIII, 27; Matth. XXIV, 31; Luc. XXII). » Sottolineiamolo, Nostro Signore non parla che dei suoi Eletti: « electos suos ». Non è ancora in questione la resurrezione dei riprovati. Il Sacerdote, unendo anche al prezioso Sangue un frammento dell’Ostia, fa all’interno del Calice tre segni di croce con la santa particella, che rappresenta qui tutti gli Eletti del triplice trionfo. Egli desidera che i suoi astanti facciano parte di questa beato gregge dicendo: « La pace del Signore sia con voi! » Nostro Signore, presente sulla Patena come Ostia fratturata, e nel Calice con la mescolanza delle due specie sacramentali, ci viene mostrato come Crocifisso e Resuscitato con tutti i membri mistici, con tutti gli Eletti. La frazione significa la morte sia del Capo che dei suoi membri; la riunione del Corpo e del Sangue, della santa particella al vino consacrato, simbolizza la Resurrezione gloriosa. Ed è la grazia di questo mistero di morte e di resurrezione, di cui noi stiamo per appropriarci a breve, ricevendolo in noi con la Comunione, la Vittima del Sacrificio. Il Corpo di Nostro Signore si trova dunque nello stesso tempo sulla Patena e nel Calice. Questa prescrizione liturgica non significherebbe forse ancora ciò che già abbiamo indicato, cioè che la Chiesa resuscitata e glorificata regnerà, trionferà simultaneamente sulla terra e nel cielo e prima di entrare per l’eternità nel seno del Padre (ciò che viene espresso dalla Comunione), la sua gloria sulla terra avrà una eclatante manifestazione? Per quanto mi riguarda, pur riconoscendo che si tratti di una semplice opinione, io lo credo fermamente, e mi rallegro già nel Signore Nostro, per questo regno pacifico ed universale del vero Salomone. San Giovanni sembra insegnarlo in maniera formale. Nel ventiquattresimo capitolo dell’Apocalisse, egli dice che l’Avvento del Re di gloria, satana sarà legato per mille anni. I martiri di Gesù e coloro che non avranno voluto ricevere il segno dell’anticristo resusciteranno e regneranno con il Cristo per mille anni. Gli altri morti non resusciteranno prima del compiersi di questi mille anni. È questa la prima Resurrezione. Felici e santi tutti coloro che avranno parte alla prima Resurrezione! La seconda morte (cioè la morte eterna) non avrà più presa su di essi; che invece saranno i Sacerdoti di DIO e del suo Cristo, e regneranno con Lui per mille anni  (Et apprehendit draconem, serpentem antiquum, qui est diabolus, Satanas, et ligavit eum per annos mille… et vidi animas decollatorum propter testimonium JESU… et qui non adoraverunt bestiam, neque imaginem ejus, nec acceperunt characterem ejus in frontibus, aut in manibus suis, et vixerunt, et regnaverunt cum Christo mille annis, Cœteri mortuorum non vixerunt, donec con-summentur mille anni. Hæc est resurrectio prima. Beatus et sanctus qui habet partem in resurrectione prima; in his secunda mors non habet potestatem, sed erunt sacerdotes Dei et Christi, et regnabunt cum illo mille annis). – Sembra che il rito della Messa che abbiamo ricordato abbia per oggetto l’esprimere questo bel trionfo, questo riposo, « questo sabbat » della grande settimana della Chiesa. Quel che è certo è che questo rito, che fa parte della liturgia fin dalle origini, copre e raffigura un Mistero di grande importanza. È superfluo, penso, sottolineare che la spiegazione che noi esponiamo non abbia nulla in comune con la grossolana ed assurda eresia del millenarismo o del semi-millenarismo; si tratta qui di un regno spirituale e divino, e non di questa amalgama impuro, sensuale, impossibile, sognato già dagli gnostici, più giudeo che cristiano. San Girolamo attesta che al suo tempo « molti Cattolici credevano alla manifestazione terrestre della regalità e della sua Chiesa alla fine dei tempi, prima del giudizio universale. Sant’Agostino dichiara che tale era ugualmente la credenza e che non ne era stato allontanato se non dagli eccessi dei millenaristi. Ragione ben più perentoria; perché gli abusi che si sono fatti di una dottrina non distruggono in alcun modo né il fondo né la verità di questa dottrina. In tal guisa non si potrebbe leggere la Sacra-Scrittura solo perché i protestanti ne abusano. Un sapiente ecclesiastico, che ha studiato a fondo la questione, mi diceva un giorno che tra i Padri ed i dottori dei primi tre secoli, ne aveva trovato più di diciotto apertamente favorevoli a questo regno terrestre, spirituale e trionfale di GESÙ-CRISTO e della sua Chiesa. Il grande e dotto Ireneo, tra gli altri, erede quasi immediato delle tradizioni apostoliche, espone in lungo e largo questo sentimento, e lo appoggia su numerosi testi che parlano del regno terrestre del Cristo e dei suoi Santi come di un fatto incontestabile ed incontestato. – (Dopo aver riportato diversi passaggi delle sacre Scritture, san Ireneo aggiunge – Adv. Hæres., lib. V, cap. XXXV e XXXVI – « Hæc enim et alia universa in resurrectionem justorum sine controversia dicta sunt, qure fit post adventum Antichristi, et perditionern omnium gentium sub eo existentium, in qua regnabunt justi in terra, orescontes ex visione Domini, et per ipsum assuescent capere gloriam DEI Patris, et cum sanctis Angelis conversationem et communionem et unitatem spiritalium in regno capient. – San Ireneo dice che ciò che i Profeti e gli Apostoli hanno scritto di questo regno del Cristo, non deve intendersi in senso allegorico: Et nihil allegorizari potest, sed omnia firma et vera, et substantiam habentia. » – « Diligenter ergo Joannes prævidit primam justorem resurrectionem, et in regno terræ hæreditatem: consonanter autem et Prophètes prophetaverunt, de ea. Hæc enim et Dominus docuit, mistionem calicis novam in regno cum discipulis habiturum se pollicitus. Et Apostolus libérant futuram creaturam a servi tu te corruptelæ in libertatem gloriæ filiorum DEI, confessus est. » Bisogna leggere nella loro interezza i due importanti capitoli in cui San Ireneo espone, con tutta l’autorità dell’insegnamento teologale, cioè di tradizione puramente apostolica, il bel punto di dottrina che qui ricordiamo). – Questo riposo, questo regno di Cristo e della sua Chiesa non avrà fine; esso passerà dalla terra al cielo, senza interruzione. Cornelius, commentando il bel testo di Daniele: « Magnitudo regni, quæ est subter omne cœlum, detur populum sanctorum, » scarta all’inizio il millenarismo ed aggiunge: «  Certo è che questo regno del Cristo e dei suoi Santi sarà non solo un regno spirituale come quello che ha luogo ora sulla terra in mezzo alle lotte ed alle persecuzioni, ma anche un regno corporale e glorioso, « Corporale e glorioso, » in cui i Santi resuscitati regneranno corporalmente con il Cristo nel cielo, per l’eternità. Ma questo regno, il Cristo ed i Santi, lo cominceranno sulla terra, « inchoabunt in terra, », immediatamente dopo la morte dell’anticristo. Allora la Chiesa regnerà nell’universo intero, e Giudei e Gentili non formeranno che “ … un solo gregge ed un solo Pastore”. In seguito questo regno sarà confermato e glorificato per tutta l’eternità« Confirmabitur et glorificabitur in omnem æternitatem» . Questo punto di dottrina così grande, così consolante e così poco meditato ai nostri giorni, mi sembra essere la chiave delle misteriose cerimonie del punto della Messa di cui ci occupiamo. Il secondo Avvento di Nostro-Signore, che occupa un posto così importante nelle Profezie e nelle Epistole degli Apostoli, dovrebbe essere l’oggetto principale dei nostri studi, così com’è l’oggetto delle nostre speranze più care.  

XXX

Dall’AGNUS DEI al dopo Comunione.

Ai tre Agnus DEI, il Sacerdote, e con lui tutta la Chiesa, riconoscono che con il suo Sacrificio, GESÙ solo, l’Anello di DIO, immolato per i peccati di tutti, è l’Autore della salvezza e della futura beatitudine di tutti i fedeli, da Adamo fino all’ultimo Cristiano della Chiesa militante. I due Miserere, sono i due giorni di lotta che separano i due avvenimenti. Il « dona nobis pacem, » è il giorno del riposo, il gran giorno del Paradiso terrestre dell’umanità. Poi vengono le tre orazioni “secrete” che preparano il Sacerdote alla Comunione. La prima, che non si dice alle Messe dei morti, domanda nuovamente a nostro Signore di realizzare la promessa che Egli si è degnato di fare alla sua Chiesa, di questo regno di pace e di unità, dove non ci sarà sulla terra che un “solo gregge ed un solo Pastore”. Le due altre sono un mirabile atto di contrizione, di umiltà e di amore. Prima di comunicarsi, il celebrante proclama tre volte a voce alta, a nome suo e di tutti i Cristiani, che egli non è degno che GESÙ entri in lui; egli nondimeno lo riceve con umile e dolce confidenza, esprimendo il voto che il Corpo ed il Sangue del suo Salvatore glorificato custodiranno la sua anima per la vita eterna. In effetti, l’unione a GESÙ eucaristico è il pegno dell’unione a GESÙ, Re di gloria. – Il Sacerdote, ricevendo in lui il Corpo ed il Sangue del Signore, ricorda dapprima GESÙ-CRISTO comunicantesi Egli stesso nel Cenacolo, e profetizzante con ciò che la sua Chiesa entrerà un giorno in Lui, tutta deificata e tutta gloriosa, per vivere eternamente con Lui ed in Lui, della vita di suo Padre. Egli rappresenta GESÙ, Re del Paradiso, cielo dei cieli, facente entrare per sempre nella gioia del Signore la Chiesa, sua Sposa, suo Corpo mistico e vivente, formato da tutti gli eletti. In GESÙ, Re di gloria, essi verranno e possederanno eternamente il Padre ed il Figlio e lo Spirito Santo. Poi viene la Comunione del popolo, preceduta dal Confiteor, ultima purificazione dei peccati veniali e delle imperfezioni che respingerebbero la santità di GESÙ. La Santa Comunione è il frutto dell’albero di vita; è un frutto, un rimedio di immortalità che ci preserva dal peccato mortale e ci purifica dalle nostre colpe quotidiane, come recita il Concilio di Trento. Non è una ricompensa della virtù acquisita, come voleva la scuola giansenista; è un mezzo per fortificare l’anima, sviluppare i germi seri di buona volontà, un mezzo per diventare santo. Ecco perché il Sacerdote deve essere misericordioso in quel che riguarda la Comunione, e spingervi le anime con uno zelo infaticabile. I fedeli non saprebbero avvicinarvisi con troppo amore e fiducia da una parte, e dall’altra con troppa riverenza e fervore. Dare GESÙ alle anime, è la grande missione del Sacerdote, « dispensatore dei Misteri di DIO; » questa è la grande consolazione, la gioia suprema del suo ministero. Insegnar loro a ben comunicarsi e spesso, questo deve essere il grande officio, nei Catechismi, al confessionale, dappertutto. Che lo si sappia bene, la Comunione frequente è la rigenerazione di una parrocchia, di una diocesi, di un intero Paese (Si veda il mio libricino sulla Santissima Comunione, in cui ho riassunto e confutato le numerose obiezioni alla Comunione confidente e frequente). Il Sacerdote deve infondere una profonda pietà in questo sublime ministero della distribuzione della Comunione ai fedeli; egli deve dare la Comunione con amore piacevole e gioioso, senza forzature, e sempre unito a GESÙ, che attraverso di lui si dona alle anime con tanta bontà. Egli deve fare il segno della Croce con ogni Ostia, stare molto attento alle particelle che minacciano di staccarsi, e pronunciare, ad ogni Comunione, la formula intera ordinata dalla Chiesa. – Io ho conosciuto un eccellente curato che, per andare più velocemente, dava tre o quattro Comunioni mentre recitava, devotamente e gravemente la formula: Corpus – una Comunione – Domini nostro – un’altra Comunione – JESU-CHRISTI – un’altra Comunione – custodiat animam – … una quarta – tuam in vitam æternam – … una quinta – Amen, cominciava la sesta. A volte ci sono coloro che apostrofano i fedeli quando non tengono la testa come si deve. Si deve fare attenzione a rispettare Nostro Signore, che è là presente e che vuole che siamo docili e pazienti come Lui, anche per non danneggiare nessuno. È bene istruirsi su tutto ciò che concerne la santa Comunione. L’ignoranza, o quanto meno l’oblio delle regole, può far cadere in strani eccessi. Pochi anni orsono, un curato di una grande città francese, distribuiva la Comunione pasquale ad una numerosa assemblea di operai la Domenica di Quasimodo, alla chiusura di un ritiro; egli non era forte in materia liturgica né in diritto canonico; e per disgrazia, il Diacono che l’assisteva non era migliore di lui. In seguito a non so qual malinteso, il numero di Ostie consacrate si dimostrò insufficiente; il buon curato, desolato da questo contrattempo, consulta il suo Diacono: se consacro un ciborio per questa povera gente? Diceva esitante … Credete che possa farlo? « Mi sembra di sì » risponde senza cipiglio l’illustre Diacono. E ciò che fu detto, fu fatto. Era questa un’enormità e senza alcun dubbio, se il Vescovo ne fosse venuto a conoscenza, avrebbe rimandato questo troppo caritatevole curato e senza altro consiglio, al Seminario per studiare il trattato dell’Eucaristia e le rubriche del Messale. Avrebbero meritato di essere citati entrambi ex æquo davanti al Santo-Officio. Altra importante osservazione: è permesso, e perfettamente regolare comunicare fuori dalla Messa. Le Domeniche ed i giorni di festa, quando le Comunioni sono numerose, è più prudente distribuire la santa Comunione prima e dopo la Messa. altrimenti si espongono tante povere persone, domestiche, operai, che hanno giusto il tempo di ascoltare la Messa, a vedersi obbligati a lasciare la Chiesa durante la Comunione. Ci sono buoni Sacerdoti che non ci sentono da questo orecchio e che giungono perfino a rifiutare la Comunione fuori dalla Messa. Ce n’è di quelli che non consentono a darla, se non a condizione che si ascolti la Messa. Tutto questo è un abuso in violazione delle regole. Due o tre persone molto pie, abituate a comunicarsi quasi ogni giorno, avevano trovato in campagna due curati che rifiutavano loro la Comunione quando essi non si recavano ad ascoltare la Messa (il cui orario non coincideva sempre con i loro doveri familiari), consultarono Roma e fu loro risposto che solo in caso di pubblico scandalo previsto dal Rituale romano, era assolutamente proibito ai Sacerdoti rifiutare a chiunque e sotto qualsiasi pretesto, la Comunione prima, durante o dopo la Messa. « Vi è per il Sacerdote un obbligo, sotto pena di peccato mortale, » aggiungeva il Consultore. La Comunione è, in realtà, affatto indipendente dal Sacrificio. Il Sacramento è il frutto del Sacrificio, il Tabernacolo è la riserva in cui questo frutto divino è deposto per l’uso dei figli di DIO. Quando si distribuisce la Comunione fuori dalla Messa, occorre che ci sia almeno un cero illuminato sull’altare e che il Sacerdote sia rivestito della cotta (non di rocchetto) e con la stola. Il rocchetto non è in effetti un abito sacerdotale; è una insegna ecclesiastica, un’insegna prelatizia, come la sottana color violetto; i Canonici stessi non portano il rocchetto se non da dopo la Rivoluzione: è un abuso introdotto dai preti costituzionali (1) e sul quale la Chiesa ha creduto di dover chiudere gli occhi. Il semplice Sacerdote non ha mai diritto al rocchetto, e mai se ne deve servire nell’amministrare i Sacramenti.

(1) A quest’epoca disastrosa risalgono la maggior parte degli abusi liturgici francesi; tra gli altri l’uso del rocchetto, come detto, la sottana a coda, il portare la stola per cantare i Vespri e le altre ore canoniche; il canto alla benedizione con il Santissimo Sacramento – È una regola generale in liturgia che la benedizione data ai fedeli con un oggetto sacro qualunque, si dia sempre in silenzio; ed è molto logico, venendo la benedizione dall’oggetto sacro con cui si benedice, (una reliquia, una particella della vera Croce, etc.); a fortiori ciò è vero per il Santissimo Sacramento. In realtà è il Corpo di Nostro Signore che benedice direttamente il popolo fedele. La preghiera benedicat vos, etc., che si era introdotta in Francia, è un vero controsenso; non è il Padre, il Figlio e lo Spirito-Santo che benedicono l’assemblea, ma il Corpo del Signore, e Lui solo. Inoltre non è un desiderio: “benedicat”, bensì un fatto; occorrerebbe almeno: “Benedicit”. Per essere logico e ragionevole, bisognerebbe dire: « Benedicit vos Corpus Domini Nostri JESU-CHRISTI »; e francamente a chi dirlo?

I SANTI MISTERI (7)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (7 )

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XXV

Bella manifestazione della presenza reale del Salvatore.

La storia della Chiesa e la vita dei Santi sono piene di manifestazioni miracolose della presenza reale di GESÙ tra le mani dei Sacerdoti. (Si veda un riassunto di questi bei miracoli eucaristici nel mio trattato “Sulla presenza reale”. Io ho composto questo opuscolo per illuminare e fortificare la fede di tanti buoni Cristiani che sono poco istruiti nella Religione e che praticherebbero con maggiore zelo se vedessero più chiaramente la verità della loro fede, ed in particolare la verità del gran Mistero della pietà cristiana, cioè della Presenza reale di Nostro-Signore nel Santo Sacramento dell’altare – A questo titolo ne oso raccomandare la lettura innanzitutto, poi la diffusione a tutti coloro che amano GESÙ e che amano le anime). Ognuno sa come il nostro incomparabile San Luigi rifiutò un giorno, per squisita delicatezza di fede, di presentarsi alla santa Cappella dove il Divin Salvatore degnava di mostrarsi a tutti i fedeli sotto forma di un mirabile bambino. « E voi, disse il santo re, andateci e rallegratevi nel vederlo. Quanto a me mi è sufficiente la fede della santa Chiesa, e non ho alcun bisogno di vedere per credere. » Queste manifestazioni miracolose della presenza reale sono state senza dubbio accordate da Nostro-Signore, sia per ricompensare la fedeltà di alcune anime perfette, sia per raffermare la fede dei deboli. Tra mille altre, eccone una molto recente e la cui storia sembra proprio adatta a nutrire la pietà dei Sacerdoti e dei fedeli. Suor Marie Lataste, morta in odore di eminente santità al Sacré-Coeur di Rennes nel 1847, fu favorita dall’infanzia di meravigliose grazie. Per due anni consecutivi, dal 1840 al 1842, quando non era ancora che una povera ragazza di campagna, i veli dell’Eucarestia non esistevano per lei, e dopo la Consacrazione, GESÙ si mostrava ad ella pieno di grazia e di maestà. Ecco come elle stessa racconta due di queste sacre manifestazioni: « Al momento dell’Elevazione, allorché il Sacerdote faceva la genuflessione, dopo aver pronunciato le parole della Consacrazione, io vedevo un immenso chiarore diffondersi nel santuario e GESÙ apparire sull’altare, ove restava fino alla Comunione. Il suo viso era ordinariamente pieno di bontà e di dolcezza, ma talvolta pure serio e sembrava irritato. Il suo splendore oltrepassava quello del sole. La sua maestà non aveva nulla di paragonabile sulla terra. Il suo trono era d’oro brillante. La sua veste non era di stoffa, neanche la più fine; oppure, se stoffa era, io non ne ho mai visto una simile; sembrava tutta trasparente e gettava fuoco come un diamante o una pietra preziosa (Si tratta dei bei vestiti ed ornamenti celesti formati di luce, che si ritrovano sempre nei racconti che ne hanno lasciato i Santi in occasione delle apparizioni del Salvatore, della Santa Vergine o dei Beati). Egli era seduto su di un trono; la sua mano sinistra poggiava sul suo cuore, e la destra poggiava dolcemente sulle ginocchia. I suoi occhi erano d’ordinario fissati sul popolo; in certi momenti, ad esempio durante il Pater o l’Agnus Dei, sempre sul Sacerdote (Œuvres de Marie Lataste, 1° édit., t, III, lettera XII). »  Dopo la Comunione, ciò che aveva visto sull’altare, lo vedeva trasportato nel suo cuore; e nel suo santuario vivente, che ella soleva chiamare « il tabernacolo mirabile », restava con il suo Salvatore, lo adorava, lo ascoltava, e per suo amore, dimenticava ogni cosa. « Un giorno dell’ottava dell’Epifania – dice ancora – ero già venuta a rendere i miei doveri di adorazione a GESÙ nel Sacramento dell’altare. Assistevo alla santa Messa. All’Elevazione il Salvatore GESÙ mi apparve sull’altare. L’altare divenne simile ad un trono immenso di oro massiccio e tutto brillante di pietre preziose. In mezzo si trovava una sedia guarnita da una stoffa simile a del velluto bianco. Questo velluto non era intessuto; non saprei dire come fosse, e non posso meglio farmi comprendere che affermando che apparisse ai miei occhi come foglie di rose bianche saldate l’una all’altra, conservando inalterate la loro freschezza e la loro bellezza anche quando ci si sedeva sopra. Il Salvatore era su questa sedia che non poggiava sull’altare, ma era sospesa in aria dalle mani degli Angeli che circondavano GESÙ. La grande croce dell’altare mi sembrava tre volte più grande, come mai l’avevo vista in precedenza. Essa era tra le mani di GESÙ. Infine una magnifica corona cingeva la fronte di GESÙ; era una corona di spine, e queste spine somigliavano a del cristallo nel quale erano concentrati i raggi del sole. Io guardai per lungo tempo il Salvatore GESÙ; mi sembrava che stesse per parlarmi. Io lo desideravo molto, ma nondimeno rinunciai volentieri alla soddisfazione di questo desiderio e dissi a GESÙ:  Mio dolce Salvatore, sia fatta la vostra volontà e non la mia. » (Œuvres de Marie Lataste, I° édit,, t. II. libro II). » Sarebbe ben dolce e desiderabile ricevere da DIO dell’altare dei simili favori; ma oltre al fatto che il miracolo è essenzialmente una eccezione che non viene accordata che per motivi impenetrabili alla nostra piccola mente, bisogna, come San Luigi, preferire l’ordinario allo straordinario, la fede ai miracoli e fare così di necessità virtù. Dopo la consacrazione, adoriamo GESÙ eucaristico con una fede più fervida che se lo vedessimo con gli occhi, lo ascoltassimo con i nostri occhi e lo toccassimo con le nostre mani. Non dimentichiamo che attraverso il velo della sante specie, Egli ci osserva tutti, guarda ognuno di noi come lo vedeva Suor Marie Lataste. Noi altri Sacerdoti, in particolare, ricordiamoci dello sguardo di GESÙ al Pater e all’Agnus DEI. Guardiamolo come Egli ci guarda, e rendiamo amore per amore. Oh come diremmo bene la Messa, come l’ascolteremmo bene se non perdessimo mai di vista questo sguardo scrutatore, questo sguardo misericordioso, questo sguardo fecondante del nostro Salvatore. 

XXVI

Le sante cerimonie che seguono alla Consacrazione.

A partire dalla consacrazione, quello che si può chiamare il dramma liturgico della Messa, cambia di aspetto completamente; non è più la preparazione, non sono più i rapporti dell’antica e della nuova Alleanza; è il primo ed il secondo Avvento del Figlio di DIO, che sono l’anima, il segreto delle mistiche cerimonie compiute sull’altare. Già questo duplice avvenimento, che forma il mistero completo dell’Incarnazione e della Redenzione, è simbolizzato dalla duplice Consacrazione dell’Ostia e del Calice. GESÙ-CRISTO è interamente nell’Ostia santa, e tuttavia il Mistero eucaristico non è completo se non dopo la consacrazione del calice; questa seconda consacrazione è anche talmente indispensabile al Sacrificio, che senza di essa c’è il Santo Sacramento, ma non c’è Sacrificio: il Sacrificio dell’Eucarestia consiste essenzialmente nella consacrazione del pane e del vino. Questo perché? Perché la consacrazione del Calie è essenziale al Sacrificio? Innanzitutto perché Nostro-Signore ha unito le due consacrazioni, il Giovedì santo, al Cenacolo; poi, poiché il rito del Sacrificio eucaristico è la rappresentazione fedele del grande Mistero di GESÙ-CRISTO, cominciato solamente nel primo Avvento e consumato con il secondo. Fino al secondo Avvento, GESÙ, che non è che uno con la sua Chiesa, combatte con Essa ed in Essa; e la sua opera di salvezza non è che abbozzata. In secondo luogo, Egli raccoglierà pienamente e la sua Chiesa raccoglierà con Lui il frutto dei suoi lavori, delle sue sofferenze, del suo sacrificio. I due Avventi del Salvatore sono anche distinti e dipendenti l’uno dall’altro, come lo sono sull’altare la consacrazione dell’Ostia e quella del santo Calice. Il disegno di DIO  resta sospeso se lo si divide. Questa unione delle due Consacrazioni è talmente indivisibile che la liturgia (la liturgia romana, che sola fu autorizzata in maniera assoluta) ordina che se, in seguito ad un qualsiasi incidente, si fosse obbligati a consacrare di nuovo il Calice, dopo la Comunione, si consacra una nuova Ostia prima di consacrare il Calice, benché la Consacrazione della prima Ostia sia stata certamente valida – (Questo può succedere quando, per errore, si versa all’Offertorio, l’acqua a posto del vino. Questo incidente è da temere quando si dice la Messa prima del giorno, o quando ci si serve di ampolline di metallo – privilegio riservato ai Prelati).- Noi abbiamo notato che nella prima parte del Santo Sacrificio, destinato a ricordare i rapporti e l’unione dell’antica Alleanza e della nuova, il pane restava al coperto sotto il Corporale, mentre il vino era nascosto nel Calice dalla Palla; dopo la Consacrazione lo stesso rito continua, ma ne cambia il significato: l’Ostia santa, posta sul Corporale e visibile allo sguardo del celebrante, significa il mistero del primo Avvento che la Chiesa conosce, vede ed adora; mentre il vino consacrato, velato agli sguardi dalla Palla, significa il secondo Avvento al quale noi crediamo ma non vediamo ancora. Per GESÙ-CRISTO, questo secondo Avvento è già consumato nel mondo celeste ed eterno; ma per noi è ancora da venire. Subito dopo la Consacrazione, il Sacerdote ricorda che il Mistero che si sta per compiere è, sotto forma di Sacramento, lo stesso mistero, lo stesso sacrificio che si è già consumato nella Passione, nella Resurrezione e nell’Ascensione dello stesso Signore GESÙ presente sull’altare; e per significarlo al meglio, egli traccia tre segni di Croce sull’Ostia ed il Calice, sul Corpo ed il Sangue di questo stesso Redentore che è stato sulla Croce: « Ostia pura »; alla sua Resurrezione « Ostia santa »; all’Ascensione al cielo « Ostia immacolata »; e che è ormai nell’Eucaristia, « il pane sacro della vita eterna ed il Calice della eterna salvezza. » Dicendo queste due ultime parole, il Sacerdote fa un segno di Croce prima sull’Ostia santa, poi sul Calice, per mostrare come l’Eucaristia, che riassume il Mistero intero di GESÙ-CRISTO, con i suoi combattimenti e il suo trionfo, sia il legame che unisce insieme il primo con il secondo Avvento del Salvatore. Questa triplice benedizione rinnova, dopo la Consacrazione, la benedizione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, diffusa sulle oblazioni per prepararle immediatamente alla Santissima Consacrazione. Ora, questa benedizione che ha prodotto il suo effetto quanto al Capo, si applica direttamente a tutti i membri di questo Capo divino, a tutti i fedeli che, con la loro unione a GESÙ-CRISTO e con la Comunione Sacramentale del suo Corpo e del suo Sangue, sono chiamati a divenire, come dice San Paolo, « il corpo del Cristo: Corpus ejus, quod est Ecclesia. » Che cos’è in effetti la Chiesa se non l’umanità incorporata a GESÙ-CRISTO, vivente della sua vita divina, santificata, soprannaturalizzata, deificata, ed un giorno glorificata dallo Spirito-Santo che il divino Capo effonde in essa, come il suo sangue, come la sua vita? Ciascuno di noi deve lasciarsi trasformare e transustanziare spiritualmente in GESÙ-CRISTO, e divenire, per Lui, con Lui ed in Lui, un’Ostia, cioè una vittima pura, santa ed immacolata. È questo lo scopo de Sacrificio  e della Comunione e di tutta la Religione Cristiana. Il Sacerdote si inchina profondamente, scongiura GESÙ-CRISTO, l’Angelo del gran Consiglio, di supplire alla sua indegnità e presentare Egli stesso alla divina Maestà, nell’alto dei cieli, il Sacrificio che per le sue mani la Chiesa offre in questo momento sull’altare della terra, e degnarsi di riempire di tutte le benedizioni celesti tutti coloro che, i fedeli alla grazia del primo Avvento, trionferanno un giorno nella gloria del secondo. Come per spingere in GESÙ crocifisso dapprima e poi GESÙ glorificato, questa benedizione, egli traccia un segno di Croce sull’Ostia santa, poi sul Calice, poi infine su se stesso che rappresenta là tutti gli eletti. Egli prega poi per tutti coloro tra questi Eletti che soffrono le espiazioni del Purgatorio prima di entrare in cielo, supplicando la misericordia divina « di accordare loro il luogo del refrigerio, della luce e della pace a tutti coloro che riposano nel Cristo, » in questo medesimo Cristo, di cui il Corpo ed il Sangue sono la vittima del Sacrificio di propiziazione che egli celebra. E così si completa intorno a GESÙ, Re della grazia e della gloria, il grande Mistero della Comunione dei Santi, così poco meditato, compreso in questo secolo di naturalismo. La « Comunione dei Santi » è l’unione della Chiesa trionfante, della Chiesa militante e della Chiesa purificante in GESÙ-CRISTO. al Santissimo Sacrificio, questa mirabile comunione, di cui lo Spirito-Santo è l’anima, è manifestata con le invocazioni del Prefazio, del Sanctus e del Communicantes, prima della Consacrazione e, dopo la Consacrazione, con la commemorazione esplicita dei fedeli trapassati. Il Sacerdote, ministro e rappresentante della Chiesa militante, offre un Sacrificio in unione con la Beata Vergine, Regina del cielo, e con la Chiesa angelica, con la Chiesa trionfante dei Santi; ed egli l’offre per i fedeli che riposano « nel sonno della pace, » affinché essi entrino, senza ritardo alcuno, « nel luogo del refrigerio  e della luce. » La preghiera degli Angeli e dei Santi, unita all’altare, a quella del Sacerdote, ottiene alla Chiesa militante e alla Chiesa purgante una effusione sovrabbondante di grazie, di pace e di benedizione. Tutto questo è di insegnamento ed istituzione apostolica. – In mezzo al silenzio delle lunghe preghiere del Canone, il Sacerdote alza solo una volta la voce: è per proclamarsi peccatore ed umiliarsi con tutti i suoi fratelli nella santa presenza di DIO, dell’Eucaristia: « Nobis quoque peccatoribus, » dice battendosi il petto, come il buon pubblicano del Vangelo, come il buon ladrone del Calvario; « e anche a noi peccatori che speriamo nella moltitudine delle sue misericordie, degnatevi di accordare, Signore, un piccolo posto nella società dei vostri Santi e dei vostri Martiri. » Egli ne nomina pure alcuni, tutti dei primi secoli, ma non più, questa volta, tutti martiri a Roma. In questa seconda enumerazione di Santi, si trovano citate diverse Vergini martiri: Agata, Lucia, Agnese e Cecilia, Anastasia, ricordano graziosamente le Vergini sagge della parabola, figure di tutti le anime predestinate.

XXVII

I segni di Croce e le altre misteriose cerimonie che concludono il Canone.

Verso la fine delle preghiere del Canone, il Sacerdote congiunge le mani nel nome di GESÙ-CRISTO perché dice al Padre celeste, « Voi create, Signore, santificate, vivificate, benedite e ci date tutti questi beni. » – « Per Lui, con Lui ed in Lui, vi arriva ogni gloria ed onore, a Voi, DIO, Padre onnipotente, nell’unita dello Spirito-Santo, nei secoli dei secoli. » E dicendo: « Santificate, vivificate, benedite, » il Sacerdote traccia tre segni di croce sull’Ostia ed il Calice uniti; queste non sono benedizioni propriamente dette, ma dei segni destinati ad esprimere dei Misteri. Poi con la santa Ostia che egli tiene con la mano destra, mentre la sinistra mantiene il Calice, egli traccia tre altri segni di Croce all’interno del Calice, sopra il prezioso Sangue; poi due altri segni di Croce, sempre con l’Ostia santa, tra il suo petto ed il Calice; e riportando l’Ostia sopra del calice sul quale egli appoggia le sue due dita, eleva in poco sia il Calice che l’Ostia sul Corporale, ricopre il Calice e fa la genuflessione. È così che terminano le grandi, ineffabili preghiere del Canone. – Ecco in poche parole ciò che richiamano alla nostra fede questi riti pieni di misteri: innanzitutto ed essenzialmente essi ci ricordano la benedizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, discesa, come diciamo subito in virtù del Sacrificio di GESÙ-CRISTO, su tutti gli Eletti, membri viventi di questo divino Capo, per consacrarli e renderli capaci di glorificare degnamente il Padre celeste, con GESÙ e come GESÙ, in tutti i secoli dei secoli. – Ogni benedizione, ogni vita, ogni santità arrivano alle creature da GESÙ, unico Mediatore di DIO e degli uomini; e GESÙ, Autore della natura, della grazia e della gloria, è là, sotto i veli del pane e del vino, con tutte le benedizioni, tutti i tesori di vita e di santità che, dopo il primo momento della creazione deli Angeli e degli uomini, sono stati diffusi nel mondo dal Padre celeste. Dopo aver richiamato questa grande verità con i tre primi segni di croce, il Sacerdote ne esprime un’altra, ancora più profonda. GESÙ-CRISTO, Capo della Chiesa e degli Eletti, compie la sua opera in tre combattimenti, nei quali trionfa di satana e dei peccatori; Egli trionfa dapprima al diluvio con l’acqua; poi sul Calvario con il Sangue; poi infine, Egli trionferà definitivamente ed eternamente quando, scendendo di nuovo sulla terra alla fine della sesta era del mondo, rinnoverà l’universo intero con il fuoco e lo Spirito-Santo. Questi tre trionfi del Cristo non ne fanno che uno, e compongono l’insieme del grande mistero della gloria di DIO e della salvezza delle creature. È questo il senso della parola di San Giovanni, nella sua prima epistola: « Tre sono quelli che rendono testimonianza sulla terra: lo Spirito, l’acqua ed il Sangue, e questi tre sono una sola cosa. » Gli esemplari antichi aggiungevano: « Nel Cristo GESÙ, nostro Signore. » I tre segni di croce che il Sacerdote forma con il Corpo del Signore all’interno del Calice, sul Sangue prezioso, esprimono il triplice trionfo del Figlio di DIO vivente nei suoi Eletti: da Adamo fino al diluvio, poi dal diluvio fino al Calvario, poi dal Calvario fino al secondo Avvento del Redentore. Il Calice rappresenta qui GESÙ trionfante nella gloria del cielo; l’Ostia santa, che contiene lo stesso GESÙ del GESÙ del Calice, lo rappresenta vivente e combattente quaggiù nella sua Chiesa militante, in questa Chiesa che San Paolo chiama « il Corpo del Cristo. » C’è unione intima tra la Chiesa militante e la Chiesa trionfante, tra il combattimento del Cristo ed il trionfo del Cristo, tra il primo Avvento, in cui il Capo della Chiesa universale, immolato sulla Croce, risuscita e sale al cielo, ed il secondo, in cui questo stesso Capo, Re di gloria eterna, chiama a sé, per la resurrezione, tutti i suoi membri umiliati con Lui e li rende partecipi del trionfo, dopo averli resi partecipi delle sue prove. Il doppio segno di Croce che di seguito il Sacerdote traccia con il Corpo sacro di GESÙ, tra il suo petto ed il Calice, raffigura la Chiesa cristiana, combattente in GESÙ-CRISTO, con GESÙ-CRISTO, durante le due ultime età del mondo che devono intercorrere tre il primo ed il secondo Avvento. Quando i tempi saranno compiuti, la Chiesa cesserà di combattere; essa entrerà nella gloria celeste di GESÙ resuscitato; ed allora per GESÙ, con GESÙ, ed in GESÙ, vivendo e trionfando nella sua Chiesa tutta intera, ogni onore e gloria saranno resi a Dio Padre, nell’unità dello Spirito-Santo. Ora il Sacrificio dell’Eucaristia, contiene tutti i misteri di Nostro Signore, quelli che ancora sono da venire e quelli che sono già passati, e ne risulta che la Messa dà a DIO questa gloria in anticipo. Quale Mistero divino è il ministero sacerdotale! E quanto il Sacerdote deve essere santo per toccare, contemplare così da vicino e per compiere Misteri così terrificanti! San Giovanni Crisostomo chiamava le mani consacrate del Sacerdote, « le portanti il Cristo “bajulans Christi”! Egli diceva che esse sono « più splendide dei raggi del sole: solari radio splendidiores », e Tertulliano proclamava che, se mai il peccato viene a profanarle, esse dovrebbero essere con mille ragioni in più, delle mani criminali che scandalizzano gli uomini; perché, queste « scandalizzano il Corpo stesso di Dio:  « O prœcidendæ manus quibus Corpus DEI scandalizatur! »

XXVIII

Il PATER

Il Sacerdote dice ad alta voce, e nella Messa solenne canta l’ultima parola del Canone: « Per omnia sæcula sæculorum » Ciò che ha fatto, durante il lungo silenzio del Canone della Messa, non è altro in effetti, che la rappresentazione sacramentale del Mistero del Re dell’eternità. Il popolo fedele risponde: Amen! … Aderendo così con tutto il cuore a tutto ciò che il Sacerdote ha appena fatto e detto sull’altare. Amen è un atto di fede, di speranza e di adorazione. Il Sacerdote recita il Pater, con gli occhi fissi sull’Ostia santa, non sul Calice; tiene le due mani sollevate ed estese, come al Prefatio (salvo l’indice ed il pollice che devono restare uniti, dopo che hanno toccato il Santo Sacramento). Il Sacerdote stendendo il braccio ricorda innanzitutto che questo è lo stesso Sacrificio, la stessa Vittima del Calvario; ed egli recita, a nome di GESÙ, e GESÙ recita per lui, la preghiera per eccellenza: l’Orazione domenicale, di cui tutte le parole sono un mondo di misteri. Le due mani del Sacerdote richiamano ancora, lo abbiamo detto, i due Serafini di oro puro che si stavano in adorazione a destra ed a sinistra dell’Arca dell’alleanza, ed in generale, tutta la Chiesa angelica che dall’inizio fino alla fine dei tempi, adora con GESÙ-CRISTO, il suo ed il nostro DIO. Esse esprimono anche la fede, la Religione, l’amore dell’Antico e del Nuovo Testamento verso il Figlio di DIO e di MARIA, presente sotto le specie del pane sul Corporale. Alla quarta domanda  del Pater: « Dacci oggi il nostro pane quotidiano, » il Suddiacono alla Messa solenne, risale all’altare, dà la Patena al Diacono che, alla fine della sesta domanda: « Non lasciateci soccombere nella tentazione, » fa la genuflessione e presenta la Patena al Sacerdote; questi, abbassando le due mani, la prende con la mano destra. Alla Messa bassa, la Patena, nascosta dopo l’Offertorio sotto il Purificatoio ed il Corporale, è estratta di là dal Sacerdote, in questo momento del Pater, al termine della sesta domanda, né prima né dopo. Il senso di tutta questa cerimonia è manifesto e molto bello. Le sei domande sacre della preghiera, corrispondono alle sei Età della Chiesa militante: nella quarta età, il Pane vivente è disceso dal cielo; ma il suo popolo non lo ha ricevuto; risalito al cielo, nel giorno della sua Ascensione, ne ridiscenderà alla fine della sesta età, e troverà Israele convertito; il Sacerdote vede oramai il Suddiacono a lato del Diacono sull’altare, ed entrambi lo servono fino alla fine della Messa. la tentazione, di cui è detto alla sesta domanda, è senza dubbio, in maniera generale, la guerra incessante ed accanita che ci porta satana; ma è soprattutto la tentazione suprema che riassume tutte le altre e che coronerà la lotta sacrilega di satana e del mondo contro il Cristo e la Chiesa: l’apparizione dell’anticristo. Nel Vangelo, GESÙ ci predice che « … questa tribolazione sarà tale che non ce ne è stata una simile dall’inizio della creazione; » (Erit enim tunc tribulatio magna, qualis non fuit ab initio mundi, usque modo, neque fiet. – Ev. Matth., XXIV) e ci spinge a chiedere di non vivere in quei tempi. Egli ci fa dire nel Pater: « Ne nos inducas in tentationem », cioè “non conduceteci alla grande tentazione; non permettete che abbiamo ad attraversare questa prova”.  Il Sacerdote abbassando le due mani dopo questa sesta domanda, rappresenta alla nostra fede, alla nostra speranza ed al nostro amore, il Redentore discendente dai cieli, facendo cessare la lotta con il suo secondo Avvento. La settima domanda del Pater: « … Ma liberaci dal male », si riferisce al riposo della Chiesa dopo il lavoro delle sei Età, dopo la sua lotta di seimila anni contro satana ed il mondo. Nella creazione soprannaturale, che è la Chiesa, ci sono, come nella creazione naturale, sei giorni di lavoro, seguiti da un giorno di riposo. Il settimo giorno deve essere diverso dagli altri: questo è espresso dalla parola “sed”, che indica un cambiamento, una opposizione. Questa sarà la pace opposta alla guerra; il riposo, dopo il lavoro della lotta. Allora la Chiesa, resuscitata e glorificata con il suo Capo regnerà eternamente con Lui. – La questione è quella di sapere se questo regno sarà immediatamente la beatitudine eterna assoluta, oppure se, prima del cielo propriamente detto, ci sarà, per GESÙ-CRISTO e per la Chiesa, un’epoca di trionfo e di gloria sulla terra, un regno visibile benché tutto spirituale, di GESÙ-CRISTO e di tutti i suoi Eletti, una manifestazione terrena e temporale del loro trionfo celeste e della loro gloria eterna. In altri termini, la questione è di sapere se il secondo Avvento del Figlio di DIO non sarà un’epoca, come lo è stata la prima, e se, dopo la Resurrezione degli Eletti, non ci sarà per essi, fino alla loro Ascensione definitiva al cielo, un’età, un’epoca di trionfo, corrispondente ai quaranta giorni trascorsi tra la Resurrezione e l’Ascensione di GESÙ. Comunque sia, la settima domanda del Pater, che la Chiesa mette sulla bocca del servente, cioè il popolo cristiano è una preghiera di liberazione. È come se i fedeli dicessero al Signore: « Liberaci dal male, cioè da satana, dal peccato, dalle conseguenze del peccato e dall’inferno, per i meriti di Figlio vostro GESÙ, immolato su questo altare a gloria vostra e per la salvezza del mondo. » Amen, così sia, è il coronamento del Pater e della settima domanda; così come la beatitudine nel Paradiso sarà il coronamento e la consumazione del riposo trionfale della Chiesa. Il numero otto è, nel simbolismo cristiano, il numero della beatitudine e l’ottava è la perfezione, il fine ultimo raggiunto.

I SANTI MISTERI (6)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (6)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XXII

Dalle oblazioni fino al Canone della Messa

In vista dei gradi misteri figurati da tutto ciò che precede, la Chiesa vuole che il Sacerdote si ricordi che egli non è dopotutto che un uomo ed un peccatore, indegno di offrire un sì augusto Sacrificio: egli si inchina dunque profondamente, rinnova l’espressione della contrizione per i suoi peccati e l’umiliazione che ne prova; poi si rialza, leva gli occhi e le mani verso il Crocifisso e fa un gran segno della Croce sull’Ostia e sul Calice, per ricordare ancora che il Sacrificio che sta per offrire è lo stesso di quello della Croce, e per sottolineare l’unità di fede e di Religione tra la Legge antica, che rappresenta più direttamente la Patena e l’Ostia, e la Legge della grazia, che rappresenta il santo Calice. Bisogna osservare, in effetti, che il calice è coperto da un velo, che si chiama Palla, e che il vino benedetto è così sottratto allo sguardo del Celebrante, mentre il pane resta visibile e scoperto. Questo significa che il Sacrificio della nuova Alleanza era ancora nascosto agli occhi dell’antico sacerdote, mentre gli era dato di vedere e toccare i sacrifici figurativi e le vittime del culto mosaico. – La Palla, non era un tempo che il Corporale ripiegato sul Calice; per maggiore comodità, si sono fatti del Corporale e della Palla dei veli sacri separati. Questa comunità di origine e di destinazione è la ragione per la quale le Palle devono essere, come il Corporale, di semplice lino bianco, senza ricami; lo si appesantisce un poco per facilitarne l’uso. Il Sacerdote si porta poi al lato dell’Epistola, e là si lava le mani. È un ricordo degli usi antichi: già al momento dell’Offertorio, i fedeli portano all’altare, ed in quantità spesso considerevole, il pane ed il vino del sacrificio, così come dell’olio e della cera per i bisogni del culto divino. Nel nome di Nostro-Signore, il celebrante riceve egli stesso queste offerte; il Diacono, ed il Suddiacono riservano ciò che è attualmente necessario per la Messa; il resto era destinato a nutrire il clero ed i poveri. Il Sacerdote andava dunque naturalmente a lavarsi le mani dopo l’offerta. La Chiesa ha voluto conservare questo lavaggio di mani, per ricordare innanzitutto ai suoi ministri l’estrema purezza di coscienza con la quale essi dovevano servire DIO all’altare. – Il costume di presentare il pane benedetto in questo momento della Messa è un residuo di questa pratica dei tempi antichi. – Tornato in mezzo all’altare, il celebrante si inclina, richiama l’intenzione generale dell’oblazione del Santo-Sacrificio a gloria della Santissima Trinità ed in onore della Santa Vergine, dei santi Apostoli Pietro e Paolo e di tutti i Santi; poi bacia l’altare, si volge verso il popolo e gli domanda di raddoppiare le preghiere, perché il gran momento si avvicina. Egli recita la “Secreta”, orazione così chiamata perché non si recita né ad alta voce né con il canto; essa è simbolo della preghiera interiore e sconosciuta degli uomini, infusa da Nostro-Signore nel cuore dei suoi fedeli. – All’altare, il Sacerdote è tutto in GESÙ-CRISTO; a misura che egli va avanti nella Messa, è sempre più nei cieli e nel Cristo, « in cœlestibus, in Christo; » come dice San Paolo.  È là che alza la voce per fare intendere la parola dell’eternità: Per omnia sæcula sæculorum. Egli raccomanda a tutti gli assistenti di elevare con lui i loro spiriti ed il loro cuore ed applicarli al Signore GESÙ; egli rende grazie al buon DIO di tutte le sue misericordie, ricorda il mistero del giorno, si unisce agli Angeli ed agli Arcangeli, alle Virtù dei cieli, alle Potenze, ai Principati, ai Troni, ai Cherubini ed ai Serafini, per GESÙ-CRISTO Nostro Signore, loro e nostro Re; per GESÙ-CRISTO, la Vittima celeste, che si appresta a discendere sull’altare, scortato da tutti i suoi Angeli. Poi abbassando e giungendo le mani, egli si inchina per dire con essi sulla terra, ciò che essi dicono eternamente nel cielo: « Santo, Santo, Santo, è il Signore, DIO degli eserciti. » La Santa Chiesa fonde qui il cantico dei Serafini, con l’Osanna trionfale del popolo di DIO, acclamante il Cristo alla sua entrata in Gerusalemme: « Benedictus qui venit in nomine Domini, Hosanna in excelsis. » La Chiesa angelica e tutta la Chiesa della terra vanno ad unirsi, a raggrupparsi intorno al loro unico Signore GESÙ, nel momento in cui rientra di nuovo, attraverso la mistica porta dell’Eucaristia, nella sua cara Gerusalemme, in mezzo alla sua Chiesa, che è il suo cielo terrestre, al fine di esservi di nuovo offerto in Sacrificio per la salvezza del suo popolo. Ed è così, piuttosto nel cielo che sulla terra, che comincia la parte più venerabile, sublime della Messa, conosciuta con il nome greco di Canone, cioè “regola”, perché le preghiere e le cerimonie che la compongono non variano mai, qualunque sia la Messa che si celebra. – La maggior parte delle preghiere del Canone della Messa, sono di origine apostolica, e sono state affidate alla Chiesa dall’Apostolo San Pietro e dai suoi primi successori. Esse sono così sacre, che sarebbe un errore grave ometterne volontariamente anche la minima parte. A partire del quarto secolo, le preghiere del canone della Messa non hanno ricevuto altra modifica che con l’aggiunta di due parole (Diesque nostros in tua pace disponas, — sanctum sacrificium, immaculatum hostiam.). Il Papa San Gregorio Magno ne è l’autore, e negli Atti del suo Pontificato, si riporta questo fatto come un vero avvenimento, tanto è sacro alla Chiesa stessa il carattere tradizionale delle preghiere del Santo Sacrificio. Se è rigorosamente proibito ai Sacerdoti interrompere le preghiere liturgiche della Messa con delle preghiere personali, a maggior ragione è proibito ogni esclamazione di devozione, durante il Canone. – Io ho una volta sentito in un seminario, un buon uomo affetto da reumatismi, che dall’inizio alla fine della Messa, alzava al cielo tante devote orazioni giaculatorie, a volta pianti e gemiti pii. Si sentiva, ogni tanto, anche durante il Canone, esclamare: « Ah! Signore, io vi amo! Mai sono stato così malato … mio DIO, suscipe spiritum meum!… Mio GESÙ! Miserere! Mio DIO, Santa-Verine, io ve l’offro … Oh! la, là! » etc., etc. – Un giorno, l’autorità diocesana aveva ordinato delle pubbliche preghiere il cui carattere politico spiaceva a quest’uomo, e cominciò la Messa brontolando e senza aver voluto recitare dapprima le preghiere indicate. Nel bel mezzo del Canone ecco che un rimorso lo prese; egli si arresta, riflette; e poi, voltandosi verso il suo servente, gli dice con voce cavernosa e con aria contrita: « Credo che ci sia dell’antipatia, » e scende dall’altare, si mette in ginocchio ed invita tutti alle lunghe preghiere ordinate dal Vescovo (!!!); poi continuò tranquillamente il Canone. Ecco come le persone più sante si espongono a delle cose che materialmente sarebbero dei peccati mortali, a degli inconvenienti realmente ridicoli, per questo solo fatto che non tengono conto che ci siano delle regole austere ed obbligatorie della liturgia. Noi non sapremmo mai insistere tanto su questa obbedienza alla lettera. Al di fuori di questo, non c’è che liberalismo liturgico.

XXIII

Dal Canone della Messa fino alla Consacrazione

Il Sacerdote comincia queste sante preghiere, profondamente inchinato in mezzo all’altare che egli in seguito bacia, attingendo da GESÙ, nel seno del Padre, la benedizione che effonde con un triplice segno di Croce sul pane ed il vino del Sacrificio già tante volte benedetti e santificati. Li chiama anche non più solamente doni, offerte, ma ancora: « sacrifici santi e senza macchia. » La triplice benedizione significa il DIO unico, Padre, Figlio e Spirito Santo, che benedice e santifica le oblazioni con la Croce del Redentore. Tre nomi vengono qui dati a queste oblazioni che stanno per diventare il Corpo ed il Sangue di GESÙ: “dona” , perché è il dono gratuito e misericordioso del Padre; “munera”, perché è il tributo della Religione, di adorazione, di azione di grazie, di preghiere ed espiazione, che il Verbo incarnato ha pagato alla sovrana maestà di DIO; “sancta sacrificia”, perché il tributo non è stato pagato se non con il sacrificio, ed il Sacrificio non è stato offerto da GESÙ che nell’ardore dello Spirito Santo, il quale è stato il fuoco dell’olocausto, in cui « GESÙ si è offerto al Padre come un agnello immacolato. » Queste parole dona, munera, sacrificia, sono al plurale e non al singolare; perché benché il sacrificio di GESÙ-CRISTO, che sta per essere rinnovato sull’altare, sia unico, si presenta nondimeno accompagnato da numerosi sacrifici dei membri del Salvatore, che sono tutti i suoi fedeli, e che formano con Lui una sola Persona morale, « Christus totus, il Cristo intero, » come dice Sant’Agostino. Le oblazioni cambiate in Corpo e Sangue del Salvatore, hanno come scopo finale, di passare, con la Comunione, nei fedeli, e consumare questo mistero di unione, questa unità di Sacrificio. – Il Sacerdote prega nominativamente per il Papa, per il Vescovo e la diocesi e per tutti i fedeli che egli presenta a Dio come facente uno con Lui nella carità. (In Francia ed in qualche altro Paese, si aggiunge, per espressa concessione della Santa Sede, il nome del Sovrano, dopo quello del Vescovo. Ma occorre notare qui una importante osservazione. Un tempo, quando la società era costituita regolarmente e cattolicamente, il Re Cristiano faceva ufficialmente parte della Chiesa a titolo di « Vescovo di fuori, » braccio destro, difensore e figlio primogenito della Chiesa nel suo regno! A causa di ciò si doveva dire: « Una cum Papa nostro N. et Antistite nostro N. e rege (o imperatore) nostro N. et omnibus catholicæ et apostolicæ fidei cultoribus. ». Ora che l’ordine provvidenziale della società è scompaginato, il Sovrano non fa più parte ufficiale della Chiesa che a titolo di semplice battezzato e non più a titolo gerarchico, soprattutto quando non è per nulla consacrato. Così nella concessione Apostolica si è stabilito di aggiungere davanti al nome del Sovrano una parola che sembra insignificante a prima vista, ma che esprime perfettamente il cambiamento della situazione che veniamo a segnalare. Si deve dire « et PRO Rege (o imperatore) N … ». questo “pro” è sufficiente a separare il nome del Sovrano moderno dal nome del Papa e del Vescovo, oramai soli, gerarchi o capi ecclesiastici, ed il povero Sovrano decaduto dal suo antico e sublime privilegio, non è più considerato ufficialmente dalla Chiesa che come un semplice Cristiano, per il quale non è espediente pregare nominativamente, a causa dell’immensa influenza che può egli avere per il bene come per il male negli affari della Chiesa. In questo punto del Canone quindi, si è stabilito di dire: « Una cum Papa nostro N. et Antistite nostro N. et pro imperatore o rege nostro N., et omnibus, etc. » Questa formula è obbligatoria; è stata decretata dalla Congregazione dei Riti). – A questa commemorazione della Chiesa militante, si aggiunge immediatamente la commemorazione della Chiesa trionfante. Con le mani unite e stese, si fa memoria solenne della Santissima Vergine, Madre di DIO, di tutti gli Apostoli, dei primi Papi e dei principali Martiri della Chiesa di Roma, Madre e Maestra di tutte le Chiese. Egli entra in comunione intima con tutta la corte celeste, tutti i beati abitanti si inchinano davanti a noi in GESÙ-CRISTO, realmente e corporalmente presente sui nostri altari. Il Sacerdote congiunge le mani in segno di questa unione religiosa della Chiesa del cielo e della Chiesa della terra. Successivamente, stendendo le mani, con i due pollici sempre incrociati (il destro sul sinistro, perché la Croce è il punto di unione dei due Testamenti, il punto di unione del cielo e della terra), egli copre per così dire l’Ostia ed il Calice, caricandosi prima di tutti i peccati che si è degnato di espiare sulla Croce, l’Adorabile Vittima del Sacrificio. Già il Sommo Sacerdote di Israele stendeva allo stesso modo le mani su due capri, caricandone uno di tutti i peccati del popolo, e per questa ragione lo votava alla morte, e liberando l’altro, facendolo condurre nel deserto, dopo averlo ornato con strisce rosse, segno del sangue sparso per la redenzione del popolo. Secondo San Cirillo di Gerusalemme, san Dionigi l’Aeropagita ed altri antichi Padri, questi due capri, l’uno sacrificato, e l’altro mandato vivente nel deserto, profetizzavano e simbolizzavano il divino Redentore, immolato per i peccati del suo popolo e resuscitato per comunicare ai suoi fedeli la vita nuova, la grazia, la salvezza nello Spirito-Santo. Il deserto è il mondo privo di DIO, a causa del peccato. Ma l’imposizione delle mani sull’Ostia ed il Calice, cela un mistero ancora più profondo, vale a dire l’incubazione dello Spirito Santo, Creatore e Santificatore di queste oblazioni che, con la sua virtù onnipotente, vengono transustanziate nel Corpo e Sangue di GESÙ. Le antiche liturgie greche ritornano spesso su questa misteriosa incubazione dello Spirito-Santo, nel momento del Mistero eucaristico. E così, il prete, dopo aver convocato tutta la Chiesa degli Angeli e dei Beati al divino Sacrificio, fa scendere sulle oblazioni lo Spirito-Santo stesso, lo Spirito di GESÙ, lo spirito di vita eterno che è la vita, la gioia e la beatitudine degli Angeli e dei Santi, affinché si degni di operare con le sue mani consacrate l’ineffabile miracolo e mistero della transustanziazione. Il Sacerdote si raccoglie e porta davanti al petto le sue mani giunte; il momento solenne si avvicina. Egli traccia dapprima tre grandi segni di Croce sia sull’Ostia che sul Calice, poi un altro segno di croce separatamente sull’Ostia ed un altro sul Calice, pregando il Signore che si degni di fare di queste sante oblazioni il Corpo ed il Sangue del suo unico Figlio, GESÙ-CRISTO. I tre grandi segni di Croce che il Sacerdote ha tracciato sulle due oblazioni unite ricordano che il mistero di GESÙ-CRISTO, riassunto e contenuto interamente nel Sacrificio dell’Eucaristia, è stato, fin dalle origini, la benedizione del mondo, il quale è stato creato in vista del Cristo avvenire; che questo mistero è stato realizzato, nel mezzo dei tempi, dal primo Avvento del divino Salvatore; ed infine che sarà consumato dal secondo Avvento, quando GESÙ e la sua Chiesa trionferanno per sempre. Per la virtù onnipotente della Santissima Trinità e per il segno della Croce, il Sacerdote domanda che la sua oblazione sia benedetta dapprima « benedictam» dal Cristo che la realizza in Sé medesimo, perché la sua incarnazione redentrice è sostanzialmente il decreto eterno del Padre, e GESÙ è in Persona il libro della vita nel quale saremo tutti iscritti; infine, che l’oblazione eucaristica sia ratificata, consumata «ratam» dalla virtù dello Spirito-Santo che coprendola, avvolgendola con la sua ombra, la transustanzia in maniera ineffabile. Tracciando poi il segno della Croce sull’Ostia dapprima, poi sul Calice, il Sacerdote chiede che il pane diventi il Corpo, e che il vino diventi il Sangue di GESÙ-CRISTO.Dopo di questo non gli resta che far memoria della Cena del Signore, e consacrare, come GESÙ, con GESÙ ed in GESÙ. Dopo il Sanctus, il servente Messa ha dovuto accendere un cero all’esterno dell’altare, dal lato dell’Epistola, in segno della fede viva del popolo Cristiano nei santi misteri che si stanno operando. Alla Messa bassa pontificale, come alla Messa solenne, si accendono due ceri, uno a destra, l’altro a sinistra (Benché questa rubrica sia in pieno vigore per i due ceri o torce della Messa bassa pontificale, essa è decaduta quasi dappertutto e desueta; ed anche a Roma si accenda raramente, alle Messe dei Sacerdoti semplici, il cero del Sanctus. Io credo che sia meglio osservare questo uso; ma è certo che non sia più obbligatorio). Tutti i preparativi sono terminati; il momento santissimo della Consacrazione è venuto; il silenzio più assoluto deve regnare in tutta la chiesa; tutti devono inchinarsi profondamente attendendo la venuta del Re degli Angeli, del Signore del cielo e della terra. 

XXIV

La Consacrazione e l’Elevazione.

Solo in piedi tra il popolo prosternato, il Sacerdote, unendosi più che mai al Sacerdote eterno, che abita e che opera in lui, prende l’Ostia tra il pollice e l’indice di ciascuna delle sue mani consacrate; egli ricorda che GESÙ, prima di cambiare nel cenacolo, il pane nel suo Corpo, alzò gli occhi verso il cielo, benedisse il pane e proferì le parole della Consacrazione: egli fa lo stesso, o piuttosto non è lui, ma è GESÙ che fa tutto questo per lui, con lui ed in lui. Dopo un’ultima benedizione, un ultimo segno di croce dato a questo pane predestinato, egli si inclina sull’altare e con la sua bocca, il Figlio di DIO pronunzia le parole divine, onnipotenti, che cambiano la sostanza del pane nella sostanza stessa del Corpo vivente e celeste di GESÙ-CRISTO. Subito il Sacerdote fa la genuflessione, lentamente, con profonda religione, con gli occhi sempre fissati sull’Ostia adorabile. Poi, rialzatosi e tenendo la santa Ostia con le due mani, la eleva, con gran rispetto, per mostrarla al popolo e fargliela adorare. Come è grande! Come è bello! Ecco l’antico ed il nuovo Testamento uniti nella stessa fede, nella stessa adorazione, mostrando il loro unico Signore, il loro CRISTO prediletto, il Mediatore della loro Religione, la Vittima della loro salvezza, il loro Creatore, il loro DIO. È il primo avvento di GESÙ. Ecco la Chiesa degli Angeli adorante, in unione con la Chiesa della terra, il suo Signore, il suo Re, il suo DIO, corporalmente presente sotto le specie eucaristiche, presente con esse sulla terra, e nondimeno sempre immutabile in cielo nella sua gloria! Ecco la realizzazione dell’antica visione del Profeta Ezechiele, in cui il Cristo venturo gli fu mostrato in mezzo al fuoco dello Spirito Santo, portato dai quattro grandi Serafini che presiedono all’organizzazione del mondo materiale in generale, ed in modo sovreminente, alla santissima umanità del Salvatore, simbolizzata e profetizzata dalla creazione del sole al quarto giorno. GESÙ, nel Santo Sacramento dell’altare, è il sole del firmamento della Chiesa; il suo sacro Corpo, adorabile e deificato, è il riepilogo delle meraviglie del mondo della materia: in cielo Egli è sostenuto ed adorato dai quattro Serafini della visione; sulla terra, sull’altare è sostenuto dalle quattro dita consacrate del Sacerdote, ministro terrestre del suo grande Sacrificio e del suo grande Sacramento. Il Sacerdote deposita con grande rispetto il Santo Sacramento sul Corporale e lo adora una seconda volta con una genuflessione. Poi, rialzandosi, prende il Calice con le sue due mani riunite, come GESÙ l’ha preso nel Cenacolo, lo benedice con Lui e per Lui, si inclina sull’altare e proferisce a voce bassa le parole con le quali GESÙ ha consacrato per primo, e continua a consacrare con i suoi Sacerdoti, il vino nel suo prezioso Sangue. Da questo momento, la sostanza del vino, benché conservi il suo colore, il suo gusto, le sue proprietà e le sue apparenze naturali, si trova cambiato, per l’onnipotente virtù del Signore, nella sostanza stessa del suo Sangue divino. E come dopo la resurrezione, questo Sangue è inseparabile dal Corpo, dall’Anima e dalla divinità di GESÙ, GESÙ intero, GESÙ vivente, GESÙ glorificato, è là presente nel Calice, sotto le apparenze del vino, ed in ciascuna delle gocce che lo compongono. Naturalmente è lo stesso per la santa Ostia e le sue minime particelle: ognuna di esse contiene il Verbo incarnato tutto intero, vivente e glorioso. Il Sacerdote, durante la consacrazione del Calice, lo tiene con la mano destra e con la mano sinistra solo lo sostiene in basso: alla nuova Alleanza appartiene in effetti direttamente il Sacrificio dell’Eucarestia, consumato dalla consacrazione della seconda specie sacramentale; l’antica Alleanza ha avuto, come principale missione, quella di prepararlo. Gli appartiene, è vero, ma a titolo meno immediato. Queste due mani ricordano ancora, amiamo ripeterlo, l’unione degli Angeli e degli uomini, della Chiesa del cielo e della Chiesa della terra, nella Religione che riassume il Sacrificio eucaristico del Figlio di DIO. La mano superiore esprime la Chiesa del cielo; l’altra la Chiesa della terra, ancora militante e soggetta all’infermità. – Il Sacerdote fa con il Calice ciò che ha fatto con la santa Ostia; egli l’adora; lo eleva e lo presenta all’adorazione dei fedeli; dopo averlo ricoperto, stende le braccia e le mani, come in precedenza, e continua sempre, con tono basso, le preghiere del Canone. Al Sacerdote è proibito, tanto sante sono le parole della Consacrazione, lasciare che si intendano intorno. Si dice generalmente che sarebbe peccato grave pronunziare queste parole a voce alta perché le possano ascoltare a tre o quattro passi. Non c’è nulla di più sacro, di più formidabile, di più ineffabile nella lingua umana; queste sono le stesse parole del Verbo incarnato, pronunciate dalle labbra dell’uomo: nessun uomo deve ascoltarle! – Io assistevo un giorno alla Messa di un Sacerdote, del resto molto rispettabile e di molto zelo per le anime; io sentivo, con meraviglia e pena, pronunziare forti le parole della Consacrazione, tanto che sembrava pregasse. Io non mi sono potuto esimere, dopo la Messa, dal seguirlo in sacrestia e richiamare, con ogni riguardo possibile, la sua attenzione su una così grave violazione. « Io vi ringrazio, mi rispose con una strana bonomia; ma io do poca importanza a queste cose! » Non è stupefacente? E, lo ripeto, era un uomo molto degno. Soltanto, occorre riconoscerlo, egli aveva, in fatto di obbedienza e di scienza liturgica, o una negligenza o una ignoranza imperdonabile! E c’è un altro abuso che si presenta molto spesso: temendo di non pronunciare sufficientemente le parole sacramentali, certi Sacerdoti fanno, nel pronunziarle, degli sforzi di gola molto penosi da sentire e veramente molto sconvenienti. Per quanto incomparabilmente sante che esse siano, queste parole devono essere dette dal Sacerdote assai semplicemente, soavemente come quelle del Figlio di DIO alla santa Cena; noi dobbiamo proferirle con grande amore per GESÙ e per le anime. Mi si è parlato di un povero Curato molto scrupoloso che restava talvolta (è un fatto storico!) tre quarti d’ora a sudare sangue ed acqua, e a riprendersi fino a dieci, dodici, quindici volte; lo si sentiva, anche questi, fino al centro della chiesa; egli si eccitava, si incoraggiava da sé, interrompendo le divine parole del Sacramento con interiezioni assolutamente proibite, come queste: « Andiamo! … Bene! … è così! … Si! » etc. – La semplicità nella pietà e nell’obbedienza liturgica è dunque una buona cosa! Consacriamo come GESÙ, con GESÙ, in GESÙ.

LO SCUDO DELLA FEDE (60)

LO SCUDO DELLA FEDE (60)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

CAPITOLO XI.

SI CONVINCE FALSO IL PROTESTANTISMO PERCHÈ NON HA UN CAPO SUPREMO.

Per poco che uno conosca la Religione Cristiana, sa molto bene che Gesù Cristo l’ha fondata sopra di un Capo il quale sempre la regolasse. Sentite le belle parole di Gesù Cristo eterna verità ed istitutore della S. Chiesa. Esso rivolto a Pietro gli dice: Tu sei Pietro, ed io sopra di te edificherò la mia Chiesa e le porte dell’Inferno non prevarranno contro di Lei. A te darò le chiavi del Regno dei cieli, e qualunque cosa avrai legata sopra la terra, sarà legata anche nel ciclo, e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra, sarà sciolta anche in cielo (Matt. XVI, 18). Dite: poteva parlarsi più chiaro? Gesù Cristo dice espressamente che fabbricherà la Chiesa sopra di Pietro, dunque Pietro è il Capo: dice che gli darà le chiavi, appunto come si danno ad un Principe, quando entra in una città in segno della sua padronanza, dunque egli è il Principe della Chiesa; gli dà pieno potere di legare e sciogliere qualunque cosa, dunque la sua autorità si estende a tutti i Fedeli. Ed è tanto chiaro tutto ciò, che bisogna non aver occhi per non vederlo. Poi per confermare questo Primato a San Pietro gli dice espressamente che pasca prima gli agnelli che sono i Fedeli, poi anche le pecore madri (Ioan. XXI. 15. 10) che sono i Pastori, cioè gli altri Vescovi e Sacerdoti. Gli dice espressamente che ha pregato per lui, perché non venisse meno la sua fede, affinché egli confermasse tutti i suoi fratelli (Luc. XXII, 22, 32), lo fa nominare nel S. Vangelo sempre il primo di tutti per denotare la sua superiorità. Tutti i più gran Santi della Chiesa hanno sempre intese così queste chiarissime parole, e perciò hanno sempre riverito San Pietro come il Capo della Chiesa, come il Vicario di Gesù Cristo. Del resto non poteva essere altrimenti. Come si sarebbe potuta mantenere la Chiesa che è sì vasta, che abbraccia tutto il mondo, senza di un Capo? Neppure una famiglia può regolarsi senza capo: tanto meno una città, un regno, tanti regni, quanti sono quelli che si accolgono nella S. Chiesa. Bisogna che qualcuno possa risolvere tutti i dubbi che insorgono, comporre tutte le liti e tutte le dissensioni che si accendono, mantenere la unità della dottrina, la concordia e la carità. Siccome poi la santa Chiesa per volontà di Gesù deve durare fino alla fine dei secoli, questo Capo deve esservi fino alla fine dei secoli, altrimenti la Chiesa non si manterrebbe come l’ha formata Gesù, concorde, unita, con la stessa dottrina, con lo stesso ordine. Ora chi sarà questo Capo della Chiesa? Non è e non può essere altri che quello che succede legittimamente a S. Pietro, cioè il Romano Pontefice. S. Pietro fondò la Sede Romana ed in essa visse, ed in essa morì. – Quella pertanto fu la vera Sede di Pietro nella quale si trovarono e nella quale passarono tutti i diritti di Lui. Se i successori di Pietro nella sua Sede non fossero i possessori dell’autorità di Pietro, come si verificherebbe che la Chiesa sopra di Pietro fosse fondata, come ha promesso Gesù? E dunque innegabile che tutti quelli che nei secoli susseguenti la occuparono sono i veri Capi visibili della Chiesa i Vicari di Gesù Cristo. E perciò tutti i nostri maggiori nella S. Fede, rispettando tutte le antichissime Sedi Episcopali, diedero sempre la preferenza alla Romana. A questa si appellavano in tutte le controversie che sorgevano, ed essa risolvette sempre tutti i dubbi, consigliò tutti gl’ignoranti, definì tutte le liti, condannò tutti gli errori. Alla Cattedra di S. Pietro fecero riverenza tutti i Fedeli, prestarono obbedienza tutti i Principi che vollero essere Cattolici, si sottoposero tutti i Pastori radunati nei Concili, fecero ossequio tutti i Cristiani. Ed in prova ancora che questa era istituzione sua, Gesù Cristo confermò con la sua assistenza quella gran Sede, sicché non venisse mai meno. Nelle altre Sedi anche antichissime, s’intruse qualche volta l’errore: le altre Sedi furono quasi tutte distrutte o assoggettate ad altre Sedi, quella di Pietro in mezzo a tutte le tempeste delle persecuzioni dei Principi ed Imperatori malvagi, e delle insidie degli Eretici, sempre rimase salva ed intatta, e Dio tanto assisté quella gran Sede, la quale è l’organo della sua sapienza, che perfino quando vi fu qualche Pontefice (che però furono pochissimimeno buono, non permise mai che insegnasse cosa alcuna, o contraria alla Fede, ocontraria alla morale; che anzi fece che questi Pontefici al pari degli altri confermassero sempre secondo la parola di Cristo i loro fratelli nella Fede, insegnando costantemente la verità. – Mirabile Istituzione che fece il nostro Divino Salvatore, sommamente provvida per tutti noi! poiché con questa ci accese una fiaccola che illumina le nostre tenebre per modo, che chiunque voglia camminare a quel lume, non può perdere la strada del cielo. – Ora che cosa fanno i Protestanti? Vi vogliono togliere questa bella fiaccola che così bene v’illumina, vi vogliono levare questa pietra immobile che vi rassicura, cioè vogliono togliere dalla S. Chiesa il Romano Pontefice. Gesù Cristo ha dato a Pietro ed ai suoi successori l’autorità ed essi gliela tolgono: Gesù Cristo ha detto a Pietro d’insegnare a tutti, ed essi pretendono che taccia, e si mettono ad insegnare essi: Gesù Cristo ha detto a Pietro che confermi nella Fede tutti, ed essi ricusano Pietro e pretendono di confermarsi da sé nella verità: Gesù Cristo l’ha fatto loro Capo, ed essi rigettano questo Capo messo da Gesù, per sottomettersi poi a chi? Mi vergogno fino a dirlo, o ad un soldato che li regola con la spada, o ad un Principe che non s’intende di nulla che appartiene alla S. Fede, oppure anche ad un fanciullo o ad una donna come è accaduto altre volte ed accade presentemente ai Protestanti d’Inghilterra. Se non è questa una vergogna sempiterna, che sarà mai? E questa è la bella Religione che ci vogliono portare? e per questa Religione ci vogliono strappare dal seno della Cattolica Chiesa? Obbediscano essi a chi loro piace: noi riconosceremo unicamente il Sommo Pontefice e Vicario di Gesù Cristo ed in compagnia di tutti i Santi, di tutti i Padri e di tutti i Dottori dipenderemo da Lui, e Lui onoreremo sopra la terra, né mai riconosceremo la vera Chiesa senza di Lui. Una campagnuola prudente ad un Signore che le diceva di farsi Protestante, fece questa interrogazione: ed allora a chi dovrei poi obbedire? A nessuno, rispose quegli, farete da voi, toccherà a voi leggere nelle Sacre Scritture e farvi la Religione. Allora essa rispose: Signore, neppure il mio pollaio può andar bene senza il gallo, pensate poi se possa andar bene tutta la S. Chiesa senza un Capo. E con questa semplice ma giusta risposta gli voltò un paio di spalle e lo lasciò confuso.

I SANTI MISTERI (5)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (5)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XVIII

Il Corporale, il pane ed il vino dell’altare.

Dopo il Credo e l’Oremus, il Prete recita una breve preghiera denominata Offertorio, che ricorda lo spirito del mistero o della festa del giorno. Poi egli stende sulla pietra d’altare un sacrissimo velo, chiamato Corporale, perché avrà ben presto l’onore di portare il Corpo adorabile del Figlio di DIO. Il Corporale deve essere propriamente, ancor più puro per quanto si possa, degli altri teli dell’altare, a causa della sua destinazione più santa. Esso non deve presentare la minima macchia, né il minimo rammendo; deve essere tutto bianco ed unito in tutta la sua semplicità e purezza. Esso ricorda la Santissima ed Immacolata Vergine MARIA, Madre del Figlio di DIO e Madre della Chiesa, più pura, mille volte più santa degli Angeli rappresentati, come visto, dai tre teli bianchi che coprono l’altare e che supportano il Corporale. MARIA, Madre di GESÙ, è portata dai nove cori degli Angeli; essi la riveriscono e l’amano come loro Sovrana. È in Ella che DIO ha operato, nella pienezza dei tempi, il mistero dell’Incarnazione di suo Figlio; ed è sul Corporale che sta per operarsi tra poco la consacrazione del Corpo e del Sangue di GESÙ. Aspettando la Consacrazione, il Corporale sta per portare il pane che sarà cambiato in Corpo del Signore, ed il vino che sarà cambiato nel suo Sangue; allo stesso modo, dopo l’inizio del mondo, fino all’Incarnazione, la futura Madre di DIO è stata costituita Regina dei Patriarchi, Regina dei Profeti, Regina di tutti i Santi dell’Antica Legge, non meno che Regina degli Angeli; la grazia della sua futura Maternità, che è un solo e medesimo mistero con l’Incarnazione e la Redenzione, comprendeva tutta la Religione, il culto, tutti i sacrifici dell’antica Alleanza, come il Corporale porta il pane ed il vino. In effetti, il pane ed il vino rappresentano là sull’altare le vittime tutte degli antichi sacrifici. Allo stesso modo questo pane e questo vino non hanno alcun valore in se stessi, e tutto il loro valore proviene dalla loro sublime destinazione; come le vittime ed i sacrifici che offrivano alla maestà del vero DIO i Santi della Legge antica, traggono tutta la loro virtù, tutto il loro valore dal Sacrificio divino e dall’adorabile Vittima che essi raffiguravano. Per la loro composizione, pure, il pane ed il vino rappresentano ancora l’unione di tutti i fedeli in una sola Chiesa Cattolica, cioè universale: il pane è formato da molti grani di frumento molati, poi impastati insieme con l’acqua, poi infine cotti al fuoco; e questo pane, così composto, deve essere cambiato in Corpo di GESÙ-CRISTO; il vino è ugualmente formato da una quantità di chicchi di uva schiacciati, il cui succo alcolico ha dovuto fermentare per diventare un eccellente liquore; e nel Calice, questo vino sta per essere cambiato nel Sangue del Figlio di DIO. Questo doppio mistero naturale della composizione del pane e del vino dell’altare è il simbolo dell’unità e della pace, che fanno di tutti i fedeli un solo corpo, una sola Chiesa; come gli uomini, essi sono separati e senza mutui legami di carità; essi sono i grani di frumento prima della mietitura, gli acini di uva prima di essere pressati. L’acqua del Battesimo ed il fuoco dello Spirito-Santo cambiano gli uomini in Cristiani, in membra di GESÙ-CRISTO, in templi viventi di questo divino Signore: essi sono delle ostie spiritualmente consacrate. Egualmente, con il lavoro della fermentazione, che purifica e lo fa diventar tale, il vino è simbolo dell’azione dello Spirito-Santo nelle anime che GESÙ chiama all’onore di fare “uno” con Lui e per Lui, con il Padre. Il pane ed il vino, deposti sul Corporale, stanno per essere transustanziati, cioè cambiati nella sostanza stessa del Corpo e del Sangue di GESÙ-CRISTO. Sotto questo aspetto, essi sono ancora i simboli evidenti della trasformazione spirituale e soprannaturale che si opera in noi con il mistero della grazia: noi non siamo cambiati, è vero, nella Persona di GESÙ, e la nostra sostanza non diviene la sua sostanza; ma lo Spirito-Santo, facendo di noi dei Cristiani, unisce sì intimamente il nostro spirito allo Spirito di GESÙ, i nostri pensieri ai suoi pensieri, i nostri sentimenti ai suoi sentimenti, che tra GESÙ ed il vero Cristiano vi è verosimilmente, come dice San Paolo, che « … un solo e medesimo spirito. » E così, la nostra vita è cambiata, trasformata nella vita transustanziata del nostro divin Capo. « Non sono più io che vivo, diceva ancora San Paolo, è GESÙ-CRISTO che vive in me. » Ecco cosa significano il pane ed il vino dell’altare. Così i Preti santi mettono ogni tipo di cura a tutto ciò che concerne questo pane e questo vino, materia del Sacrificio. Essi rigettano, come indegno, ogni ostia granulosa, deteriorata, imperfetta, ogni ostia caduta a terra: e si sforzano di non presentare all’altare un vino non solo puro, ma di buona qualità e di profumo delicato. Non sarebbe vergognoso veder riservato per la nostra tavola un vino fine e squisito, e dare al buon DIO, per il suo Sacrificio, ciò che non vorremmo offrire ad un confratello o ad un amico? Quando accade una tale irriverenza essa è indubbiamente il risultato ed il segno di una fede molto poco delicata. Un recente decreto della Congregazione dei Riti ordina che le ostie siano rinnovate almeno ogni quindici giorni. Soprattutto nei paesi umidi, questa precauzione è di una necessità evidente. Anche dopo la Consacrazione queste ostie, divenute in realtà il Corpo vivente del Signore, conservando le apparenze e le proprietà esteriori del pane, possono alla lunga alterarsi, e devono potersi alterare come dei pani ordinari. Senza questo, il Santissimo Sacramento non sarebbe più ciò che esso è assolutamente, « il mistero della fede, misterium fidei » come dice la Chiesa. L’alterazione delle sante specie è una conseguenza necessaria dell’idea stessa dell’Eucaristia; la conservazione di un’Ostia consacrata fuori dalle leggi naturali, che regolano la conservazione del pane azimo, sarebbe un miracolo, cioè un fatto divino, straordinario, insolito; ora la santa Eucaristia è, nella Chiesa, un Mistero, un mistero quotidiano e non un miracolo.  

XIX

La Patena, il Calice e la doppia oblazione.

L’ostia riposa su di un piccolo piatto, che si chiama Patena; ed il vino vien versato in una coppa, chiamata Calice. La Patena ed il Calice devono essere dorati, almeno internamente, nel rispetto per il Corpo ed il Sangue del Signore. Questi vasi sacri devono essere almeno d’argento (se proprio la chiesa fosse indigente, il diritto liturgico tollererebbe anche un calice di stagno), smerigliato, se possibile, cioè di argento dorato; meglio ancora se fosse in oro puro, come era in uso nelle grandi chiese. L’oro è nel culto divino il simbolo della carità e della perfezione; è per questo che ogni vaso sacro di uso eucaristico, deve essere almeno dorato; l’argento è il simbolo dell’innocenza, della purezza. Quanto al rame, al ferro e agli altri metalli comuni, la loro inferiorità è sufficiente per escluderli dalla confezione dei vasi sacri. Non si deve dir Messa con un Calice ed una Patena non consacrata dal Vescovo. È facile comprendere che ciò che debba servire ad un uso così augusto, così divino, sia preliminarmente purificato, benedetto, santificato, ed escluso dal numero delle cose profane. A meno di un permesso speciale, che non si accorda così alla leggera, è proibito a tutti coloro che non siano almeno chierici tonsurati, di toccare un Calice o una Patena, dal momento che essi sono consacrati. Secondo la Tradizione, è certo che l’uso della Patena e del Calice, come pure del Corporale per il Santo Sacrificio, risalga ai tempi apostolici. Gli Apostoli hanno imitato in questo Nostro Signore, che si servì per primo di un piatto (o Patena) e di una coppa (o Calice) quando celebrò nel Cenacolo il mistero eucaristico. Essi seguivano alla lettera il precetto del loro Maestro: « E voi, ogni volta che farete questo, lo farete in memoria di me, », cioè come me ed in ricordo di tutti i miei misteri. È ancora ad imitazione del primo Sacerdote, di GESÙ, che essi hanno ordinato ai Sacerdoti di fare prima l’offerta del pane, poi del vino, prima di consacrare e, facendo questa offerta, di levare gli occhi al cielo: « Et elevatis oculis in cœlum, » dice il Vangelo. Se il Sacerdote guarda più fissamente e più lungamente il Crocifisso durante l’offerta del Calice, è senza alcun dubbio perché il Sangue del Signore, che il Calice starà per contenere, è lo stesso che sull’altare sanguinante della Croce scorreva dalle mani, dai piedi, dal costato trafitto del Redentore. Il Sangue divino del Sacrificio, ha una relazione più immediata con GESÙ crocifisso che con il suo Sangue è entrato nel santuario, rinnovando a tutti i suoi membri, la beata eternità (Per proprium sanguinem introivit semel in Sancta, æterna redemptione inventa. (Ad Hebr., IX, 12.). Dopo trentatré anni e mezzo, il suo Corpo sacro aveva offerto, dapprima nel seno della Vergine Immacolata, il suo primo altare, poi a Bethléem, a Nazareth e in tutti gli altri misteri incruenti del lungo sacrificio della sua vita; ma il Sangue divino non era colato. Alla circoncisione, in effetti, non si era avuto che un anticipo della redenzione mediante il sangue.

XX

Cosa simbolizzano ancora la Patena, il Calice ed il Corporale.

Ma devono essere segnalate qui all’attenzione dei fedeli, ancora due altri significati del Corporale e dei due vasi sacri che esso sostiene. Il primo deriva dalle medesime parole delle preghiere liturgiche prescritte per la loro consacrazione dal Vescovo; il secondo si ricollega alla vista d’insieme del grande mistero di GESÙ-CRISTO, che abbiamo da poco ricordato. Il Vescovo, dopo aver solennemente consacrato la Patena ed il Calice, con il santo Crisma, chiede a DIO che questo Calice e questa Patena divengano, con la grazia dello Spirito-Santo, un nuovo sepolcro per il Corpo ed il Sangue di Nostro-Signore GESÙ-CRISTO (Corporis et sanguinis Domini nostri JESU-CHRISTI novum sepulcrum Sancti Spiritus gratia eificiantur.  – Pontif. Rom.). Ciò che fa dire al Papa Benedetto XIV, secondo Suarez e diversi altri, nel suo trattato di dogmatica e liturgia, De Sacrificio Missæ (Lib. I, cap. VI): « Il Calice simbolizza il sepolcro nuovo ove fu deposto il Cristo-Signore; la Patena rappresenta la pietra rimossa dall’entrata del sepolcro, ed il Corporale esprime il sudario bianco con il quale Giuseppe di Arimatea avvolse il Corpo del Cristo. » – Questa interpretazione si riporta unicamente e direttamente alla presenza reale, e mostra l’identità del Sacrificio mistico dell’altare con il Sacrificio cruento del Calvario. Da questo punto di vista è di una giustezza assoluta. – La seconda interpretazione si riporta, noi diciamo, alla contemplazione dell’unità e della universalità del mistero di Cristo, l’una e l’altra misticamente rappresentata all’altare. Ora ecco ciò che richiamano alla nostra fede il Corporale, la Patena ed il Calice, così come la doppia oblazione. La Patena, sulla quale è il pane dell’altare, significa in modo evidente la legge mosaica, con le sue vittime figurative ed il suo altare. L’altare sul quale DIO aveva ordinato che si immolassero queste vittime, era santo e consacrato, come i quattro corni che decoravano i suoi Angeli. Il Sacerdote prendendo la Patena per offrire il pane e sacrificarlo, la sostiene con le due mani giunte, per mezzo delle sue quattro dita consacrate. Nella consacrazione delle mani del Sacerdote, all’ordinazione, il Vescovo benedice e consacra, in effetti, in maniera speciale il pollice e l’indice di ogni mano, in vista della Santa Eucaristia che essi toccheranno. Queste quattro dita del Sacerdote, sostengono dunque la Patena che porta l’ostia; così come già, nel Tabernacolo e nel Tempio, i quattro corni consacrati sostenevano l’altare degli olocausti, ove si posavano le vittime. Durante questa oblazione, o offrendo il pane, il Sacerdote ha le due mani giunte al di sopra della Patena, come segno della unione segreta che esisteva tra i riti sacri dell’Antica Legge ed il Sacrificio adorabile del Calvario e dell’Eucaristia che un giorno dovevano sostituirli. Il Figlio di DIO medesimo offriva e santificava questi antichi sacrifici con il ministero dei Sacerdoti e dei Leviti: mediante il ministero del Sacerdote all’altare, lo stesso Figlio di DIO offre il pane ed il vino, ricordando così alla nuova Alleanza, i misteri e la santità profetica dell’Antica. La Chiesa ordina al Sacerdote che prima di iniziare questa prima oblazione, egli elevi per un momento, gli occhi al cielo o, per meglio dire, sul Crocifisso dell’altare che è l’immagine del Re del cielo; ma durante il restante della preghiera dell’offertorio, egli deve tenerli abbassati sull’ostia; al contrario, offrendo il vino del Calice, egli dovrà tenerli per tutto il tempo elevati al cielo, fissanti il Crocifisso. È il segno dell’inferiorità degli antichi sacrifici in rapporto al Sacrificio della nuova Alleanza: i primi venivano, è vero, dal Signore che li comandava, e raffiguravano il Sacrificio della Croce e dell’altare; ma questi non erano meno terreni; l’altro doveva essere tutto celeste, e non avere altro Sacerdote ed altra Vittima, che l’Uomo-DIO glorificato nel seno di suo Padre. Nel vino del Calice, la Chiesa vuole che si versi un poco di acqua (Il Messale dice « parum aquæ»: una goccia è sufficiente. Un quinto di acqua non invaliderebbe la Consacrazione, ma nei Sacramenti bisogna essere sempre sicuri al massimo): simbolo dell’unione invisibile dell’umanità e della divinità nella Persona unica di GESÙ-CRISTO; ed inoltre simbolo dell’unione indissolubile che il Sacrificio e la grazia di GESÙ hanno formato tra Lui e la sua Chiesa. Questa goccia di acqua rappresenta noi, piccoli e poveri niente, che da noi stessi non siamo nulla, e che non possiamo essere uniti a DIO se non incorporandoci con la sua grazia, al nostro Capo adorabile, GESÙ. Che felicità il non essere niente e sapere che GESÙ-CRISTO è tutto in ciascuno di noi! Tu solus Sanctus, Jesu Christe! Offrendo il Calice, il Sacerdote lo tiene con la mano destra e non fa che sostenerlo in basso con la mano sinistra: in effetti, solo la Chiesa cristiana offrirà il Sacrificio nuovo, rappresentato dal vino del Calice; e l’antica Chiesa, la Chiesa patriarcale e mosaica, non farà che portare la nuova Alleanza, come la serva sostiene la sua padrona. Concludendo le due oblazioni, il Sacerdote traccia con la Patena, poi con il Calice, un segno di croce al di sopra del Corporale, per santificare ancor più il luogo ove riposeranno presto questo pane e questo vino consacrati. Egli prende la Patena, dopo aver posto l’ostia sul Corporale, e in parte la nasconde, sotto il Corporale a destra, coprendo il resto con il velo chiamato Purificatorio, perché serve ad asciugare il Calice. Così velata, la Patena vuota raffigura la Chiesa giudaica che, dopo l’avvento di Nostro-Signore GESÙ-CRISTO, è privata della luce della fede, è senza sacerdozio e senza sacrificio, ed attende, nelle tenebre dell’infedeltà, il giorno della sua conversione. Noi vedremo più avanti questa conversione che tutti i Profeti e gli Apostoli hanno predetto, rappresentata in un’altra cerimonia della Messa. Alla Messa solenne, lo stesso mistero è raffigurato dal Suddiacono che, dopo la prima oblazione, discende con la Patena dall’altare, fino in basso; e là, avvolto da un velo, egli tiene con la mano destra la Patena alzata davanti agli occhi, per significare l’accecamento dell’antico popolo di DIO, che nulla comprende, che si ostina a non voler comprendere nulla del Mistero di amore e di misericordia di questo Cristo che tuttavia ha dato al mondo. Il Diacono, al contrario, Chiesa nuova, assiste da vicino il Celebrante, e contempla senza veli GESÙ-CRISTO rappresentato dal Celebrante, e realmente presente sotto le specie eucaristiche. Il Suddiacono che scende dall’altare velandosi il volto con la Patena, richiama le sante regole che ci ha conservato San Dionigi l’Aeropagita, secondo le quali, il Celebrante solo ed il suo ministro avevano il diritto di vedere faccia a faccia e di fissare il Mistero tutto divino dell’altare. Dall’Offertorio, in effetti, tutto ciò che si faceva per preparare il Sacrificio si compiva in religioso segreto, e San Dionigi minacciava con la collera di DIO, chiunque osasse rivelare o tradire le parole sacramentali. Il Suddiacono assisteva il Celebrante a sinistra, quando era necessario doveva tenersi più vicino al Celebrante degli altri chierici, alfine di poter egli presentare la Patena sul quale il Corpo di Cristo doveva essere frazionato e distribuito ai fedeli. Quando il suo ufficio non lo tratteneva all’altare, egli ne doveva discendere, e come i Serafini, velarsi il volto, riconoscendosi indegno di contemplare così da vicino i terribili misteri. Questo era ancor più naturale, in quanto il Suddiacono non aveva ancora ricevuto l’augustissimo Sacramento dell’Ordine; e poi, il popolo fedele, vedendo il Suddiacono stesso allontanarsi dall’altare, nel rispetto di un timore religioso, doveva comprendere più facilmente con quale riverenza dovevano essere trattate le cose sante, anche dai santi. Quanti Misteri nelle cerimonie della Chiesa? E qual grande cosa la Liturgia Cattolica! Il velo che avvolge il Suddiacono deve essere ampio; esso può essere di seta o di lino fine, non è necessario che sia bordato.

XXI

Gli Incensamenti

Nella Messa solenne, vi è una bella cerimonia, piena di misteri, come tutte le altre, e che si chiama l’incensamento. Vi sono quattro incensamenti durante la Messa solenne: il primo che precede la recita da parte del Prete, dell’Introito; il secondo prima e dopo il canto del Vangelo; il terzo, il più solenne, dopo l’offerta del pane e del vino; il quarto infine, durante l’Elevazione. L’Incensiere, che dovrebbe essere d’argento o smerigliato, oppure d’oro, raffigura la santa Umanità di Nostro-Signore; il fuoco che lo riempie, è lo Spirito-Santo che ardeva nel suo Sacro Cuore; l’incenso benedetto, che il Sacerdote mette sui carboni ardenti dell’incensiere, è la preghiera, sono le adorazioni con le quali GESÙ onora incessantemente ed in modo assolutamente divino la maestà di suo Padre. Uniti a GESÙ nello Spirito-Santo con la grazia, gli Angeli nel cielo ed i Cristiani sulla terra confondono le loro adorazioni e le loro preghiere con questa adorazione e questa preghiera ineffabile data da DIO. « Il Cristo prega in noi, come nostro Capo; Egli prega per noi, come nostro Sacerdote, » diceva Sant’Agostino. E così il fumo ed il profumo dell’incenso, rappresenta qui nello stesso tempo e la preghiera di GESÙ-CRISTO in se stesso, e la sua preghiera nei suoi Angeli ed in tutti i Santi del cielo e della terra. Si devono mettere tre cucchiai di incenso, innanzitutto in onore della Santissima Trinità, alla quale si indirizzano sovranamente tutte le adorazioni della Chiesa; poi per rappresentare le adorazioni della Chiesa patriarcale, da Adamo a Mosè; della Chiesa giudaica, da Mosè fino a Nostro Signore; della Chiesa cristiana e romana, dal primo Avvento del Salvatore, fino al secondo. –  Prima dell’Introito il Sacerdote incensa innanzitutto tre volte il Crocifisso: è l’adorazione universale di tutti gli eletti della Chiesa patriarcale, mosaica e cristiana, indirizzata alla Santissima-Trinità per Mezzo di GESÙ-CRISTO, Mediatore universale di Religione e Redenzione. Poi, incensa l’altare dodici volte dal lato dell’Epistola, e dodici volte dal lato dell’Evangelo, avvolgendo, per così dire il santo altare con il fumo dell’incenso; è la preghiera, è l’adorazione degli Angeli e dei Santi dell’antica Alleanza, primariamente rappresentata dai dodici Patriarchi e dai dodici Profeti; in seguito degli Angeli e dei Santi della Legge evangelica, rappresentata dai dodici Apostoli. Nell’Apocalisse, San Giovanni ci mostra, in effetti, tutti questi Santi, sotto figura dei ventiquattro Vegliardi vestiti di bianco ed adoranti l’Agnello di DIO, immolato e tutta via vivente, sul trono della sua gloria; la Chiesa ci rappresenta la stessa cosa in questi ventiquattro volute di incenso benedetto che avvolgono l’altare ed il Crocifisso. Inoltre, con questa atmosfera di incenso benedetto, essa vuole santificare, penetrare di GESÙ, deificare tutto ciò che serve al Santissimo Sacrificio, in particolare il pane ed il vino che sta per diventarne la materia, ed il Sacerdote con i ministri dell’altare ed i fedeli astanti, che stanno per incorporarsi al Signore con la Comunione. L’incenso è, in effetti, riservato a Dio solo; esso esprime qui la perfetta santificazione, la deificazione del Cristiano in GESÙ-CRISTO. – All’Offertorio, prima di questo incensamento, il Sacerdote incensa il pane ed il vino, onorando soprattutto, come vero DIO, Colui che sta per cambiare tra poco, la loro grossolana sostanza nella celeste sostanza della sua umanità, e velarsi sotto le loro apparenze. – Il secondo incensamento, che si fa tra i due suddetti, è destinato ad onorare il santo Vangelo, a ricordare ai fedeli che GESÙ è Sacerdote nel Sacerdote, e che, con la grazia del Sacramento dell’Ordine, costui non fa che un tutt’uno, interiormente e spiritualmente, con il GESÙ del Vangelo, con la Persona stessa di questo Figlio di DIO e di MARIA, che ha fatto e che ha detto tutto ciò che è riportato nella recita evangelica. Così il Diacono rappresenta la Chiesa, incensa con lo stesso numero di colpi di incenso il libro dei Vangeli ed il Sacerdote, GESÙ nel Vangelo, e GESÙ nel Sacerdote. – Il quarto incensamento si fa dai chierici di ordine inferiore, inginocchiati ai piedi dell’altare, dal lato dell’Epistola, durante l’elevazione della Ostia santa e del Calice. Il senso di questa cerimonia si svela da sé: l’incenso che sale allora verso il Santissimo-Sacramento è simbolo dell’adorazione e dell’amore di tutti i fedeli presenti nella Chiesa del cielo e della terra. Ricordiamolo infine: il Vescovo ed il Celebrante sono incensati per primi, e dopo di essi, sono incensati il Diacono, il Suddiacono, gli altri ministri dell’altare, il clero in abito da coro, ed infine il popolo dei fedeli. Questi incensamenti si riconducono tutti a Nostro-Signore GESÙ-CRISTO, presente e vivente in tutti i suoi membri; siccome Egli non vive in tutti allo stesso titolo, né con la stessa sublimità di grazia e di funzioni, l’incensamento si diversifica, e manifesta nel contempo l’unità della vita cristiana nella Chiesa e la molteplicità delle vocazioni e delle grazie. Il celebrante, ed a maggior ragione il Vescovo, riceve il triplo incensamento, perché egli rappresenta la pienezza divina della grazia del Cristo Crocifisso, resuscitato e glorificato nel più alto dei cieli. Nel semplice Sacerdote, Nostro-Signore è incensato e contemplato nella grazia del mistero della sua Resurrezione, e non nella grazia, ancor più perfetta, del mistero della sua Ascensione. Nei fedeli, il Figlio di DIO è incensato e contemplato nella grazia dei misteri della sua vita mortale, umiliato e crocifisso. – Tale è il senso profondo e toccante degli incensamenti della Messa solenne. È un vero dovere di Religione usare all’altare un incenso di ottima qualità. Qui, come dappertutto, ci si è voluto “raffinare” rispetto all’uso antico della Chiesa romana, e al posto della gomma di incenso polverizzata, che produce un magnifico fumo bianco, vaporoso, balsamico, si è immaginato non so quale incenso nerastro o rossastro che non dà che un fumo impercettibile, nerastro, che disturba la testa e la gola. È l’incenso gallicano! – A Roma, in tutte le chiese ed in particolare nella Basilica di San Pietro, ci si serve di un incenso puro d’Arabia, senza alcuna mistura; si riduce questa gomma d’incenso in polvere finissima, e non la si risparmia dell’incensiere. Questo produce una vera nuvola di vapore bianco, diafano, di un profumo squisito. Sull’altare maggiore di San Pietro, quando il Papa fa gli incensamenti della Messa Pontificale, non si intravvede che attraverso questa bella nuvola di incenso che avvolge ben presto l’altare, sale verso la cupola e profuma l’immensa basilica. Questo momento dell’Officio pontificale è particolarmente grandioso ed impressiona vivamente il pellegrino cattolico.

I SANTI MISTERI (4)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (4)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

XIII

Perché il Sacerdote saluta sette volte il popolo dei fedeli durante la Messa.

Il Sacerdote dice per sette volte, durante la Messa, rivolgendosi al popolo: « Dominus vobiscum », vale a dire: “Che il Signore sia con voi!” Ed i fedeli, per bocca del servente Messa, gli rispondono: « Et cum spiritu tuo, cioè: e con il vostro spirito. » – Questi saluti del celebrante fanno parte di questi riti apostolici, pieni di misteri ed ispirati alla Scrittura. Il Sacerdote deve dirli o cantarli intimamente unito al Re del cielo,  GESÙ-CRISTO, e ai santi Angeli, principalmente ai sette grandi Arcangeli che stanno davanti al trono del Signore. Tutte le volte che nel nome del Sacerdote eterno GESÙ-CRISTO, il Sacerdote deve pregare in un unico e medesimo spirito con il popolo, egli rinnova l’unione che lo Spirito Santo ha stabilito tra il popolo fedele e lui; e questa unione è in GESÙ-CRISTO, solo che deve ravvivarsi incessantemente. Ecco perché prima del Dominus vobiscum, egli bacia ordinariamente il santo altare e si unisce più ardentemente al Cristo celeste, simbolizzato dall’altare. Aspirando così allo spirito di GESÙ, e sempre in società con gli Angeli, egli si volge verso il popolo, stende le mani verso di esso e lo saluta con le medesime parole con cui l’Arcangelo Gabriele salutò la Santa-Vergine. Ciò che Gabriele fece per la Vergine Maria, il Sacerdote lo fa per la Chiesa: egli è per essa l’organo, il canale del Santo Spirito, ed effonde su ciascuno dei fedeli lo spirito di Cristo: egli dà loro spiritualmente GESÙ-CRISTO, il Signore stesso. Rispetto alla Chiesa, che egli santifica con il suo saluto, il Sacerdote è come il sole di grazia che invia lo splendore dei suoi raggi in un puro specchio: ricevendoli, lo specchio li riflette e li rimanda al sole. Così fa il Sacerdote, dando alla Chiesa GESÙ-CRISTO nello Spirito-Santo, ricevendolo da questa stessa Chiesa che glielo rende, nel conservarlo con amore. Nel rispondere al Sacerdote: “et cum spiritu tuo”, la Chiesa si unisce a lui in GESÙ-CRISTO e nello Spirito-Santo; e così che, non facendo che uno, il Sacerdote ed i fedeli pregano insieme il Padre celeste, nel nome di GESÙ-CRISTO ed in GESÙ-CRISTO. – I sette Dominus vobiscum della Messa, sembrano ancora significare i sette Doni dello Spirito-Santo effusi da GESÙ-CRISTO, dal Sacerdote eterno di DIO, su tutti coloro che credono e sperano in Lui, dall’inizio fino alla fine del mondo. 1° Il primo, che si dice ai piedi dell’altare, dopo la confessione pubblica dei peccati, esprime ed effonde sugli astanti, il dono del Timore, con il quale lo Spirito-Santo ci conferma nell’orrore del peccato e nei sentimenti di penitenza di GESÙ-CRISTO. È questo spirito di timore religioso che deve riempire il cuore del Sacerdote così come quello degli astanti, nel momento in cui comincia il divin Sacrificio. 2° Il secondo Dominus vobiscum di dice dopo il Gloria e corona, per così dire, questo sublime inno. Esso esprime ed effonde il Dono della Pietà filiale che dal cuore di GESÙ si spande nei cuori di tutti i suoi fedeli. Tutti coloro che sono di GESÙ-CRISTO, Angeli o uomini, sono i figli di DIO; essi devono, come GESÙ e CON GESÙ, amare il loro Padre celeste con amore filiale con un amore in cui la fiducia e la tenerezza di uniscono al rispetto più profondo. Tutti, cioè tutti gli eletti delle sei ere del mondo che si ricordano nel Gloria, avranno così amato il buon DIO. È così che pure noi dobbiamo amarlo, riverirlo, servirlo ed è in questo spirito di pietà che il Sacerdote, a nome della fedele assemblea, reciterà le preghiere chiamate Collectes.  3° Il terzo Dominus vobiscum si dice all’Evangelo. Esso esprime il terzo Dono dello Spirito Santo, il Dono della Scienza. Il Dono della scienza è quello che ci scopre le cose della grazia sotto la corteccia delle cose della natura, e che così eleva i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre affezioni naturali per renderle soprannaturali, cioè cristiane. Il Vangelo che è la recita abbreviata delle azioni e delle parole di GESÙ-CRISTO, è la luce che ci rivela questa scienza divina; è per questo che la Chiesa, mediante l’organo del Sacerdote, richiede il Dono della scienza a tutti i Cristiani prima della recita o del canto dell’Evangelo. – 4° Il quarto Dominus vobiscum, corona il Credo e dà inizio all’offertorio. Esso esprime e diffonde il Dono della Fortezza, che GESÙ, con il suo divino Sacrificio e con i meriti della sua immolazione dà alla sua Chiesa, ai suoi Sacerdoti, a tutti i Cristiani. Esso è ben disposto dopo il Credo, essendo indispensabile la forza soprannaturale indispensabile a tutti per confessare la fede ed entrare nello spirito del Sacrificio che inizia, propriamente parlando, all’Offertorio. – 5° Il quinto saluto del Sacerdote vien dato all’inizio del Prefazio, preghiera solenne, tutta celeste, che apre quel che si chiama il Canone della Messa. Come preparazione immediata a riconoscere ed adorare  GESÙ-CRISTO, con i santi Angeli, sotto le apparenze del pane e del vino, la Chiesa ed il suo ministro chiedono per tutti i fedeli assistenti il Dono del Consiglio, che ci fa discernere, alla luce della fede, ciò che è di DIO, e ciò che non è da Lui, le impressioni della grazia e le illusioni del demonio. 6° Il Dono dell’Intelletto è invocato per i fedeli e significato dal sesto Dominus vobiscum, che il Sacerdote dice dopo la Comunione. Questo Dono eccellente ci fa penetrare fin nell’intimo del Mistero dei misteri, che non è altro che la Persona stessa del Verbo incarnato, presente al Sacramento dell’Eucaristia, Pan degli Angeli, vita e nutrimento delle nostre anime. Nella Comunione viene Egli stesso a noi, nella nostra carne mortale, alfine di farci dimorare più pienamente in Lui; in questo momento, più che in ogni altro, la Chiesa chiede per i suoi figli di ben comprendere l’inestimabile tesoro che ha loro portato il Battesimo e l’Eucaristia: la fede e l’amore. – 7° Infine il settimo Dominus vobiscum si dice alla fine del Santo Sacrificio prima dell’ultima benedizione: esso significa il Dono della Sapienza, il più sublime dei sette Doni dello Spirito-Santo, quello che ci fa gustare, nella contemplazione della pura luce di GESÙ e nell’unione intima di un purissimo amore, quanto il Signore sia dolce, quanto GESÙ ci ami; quello che ci fa comprendere con il cuore e l’esperienza quello che il Dono dell’Intelletto rivela al nostro spirito. È il dono della contemplazione e del puro amore per GESÙ-CRISTO, il più eccellente di tutti i frutti della grazia e della santa Comunione. Questa richiesta sì dolce è posta alla fine della Messa, come per indurre i fedeli a ritenerlo il più possibile. Tale è il senso, o almeno uno dei sensi di questi saluti ripetuti sette volte nel corso della Messa. Il Sacerdote, invero, dice un’ottava volta il Dominus vobiscum, dopo la benedizione e prima di recitare l’ultimo Vangelo; ma questo non fa parte, propriamente parlando, della Messa, la cui chiusura solenne è la benedizione del Sacerdote. Altra volta il celebrante diceva a bassa voce questa preghiera lasciando l’altare e tornando in sacrestia. È quanto si fa ancora alla Messa Solenne Pontificale. Il senso di questo ottavo Dominus vobiscum, che nella Messa Solenne Pontificale almeno, si indirizza direttamente al Diacono o al Suddiacono, esprime la beatitudine eterna di cui godono, con GESÙ-CRISTO e per GESÙ-CRISTO, tutti gli Angeli e tutti gli Eletti, tutti i fedeli dell’antica e della nuova Alleanza, rappresentati dal Suddiacono e dal Diacono quando il gran Sacrificio sarà terminato, e quando il tempo avrà fatto posto all’eternità. Il numero otto è il numero dell’ottava beatitudine, coronamento della grazia, che esprime specialmente il numero sette. Nei numeri c’è tutto un ordine di misteri, cioè di verità nascoste; la tradizione è unanime nell’attestarlo, e non vi è che la leggerezza superficiale dell’ignoranza che si permette di burlarsi di queste misteriose disposizioni della Provvidenza.

XIV

Cosa significano le Orazioni, l’Epistola ed il Vangelo.

Questa parte della Messa è destinata a ricordare agli astanti due grandi verità generali, che determineranno ciò che si può chiamare la seconda parte della preparazione al Santo Sacrificio. La prima è che Nostro Signore è nell’Antica Alleanza con nella Nuova, il principio di vita, di salvezza e di santità di tutti i servi di DIO; ancora Egli è la fonte della loro preghiera e della loro Religione. È quel che esprime il Sacerdote adorando e lodando DIO, ringraziandolo, supplicandolo « Per Nostro Signore GESÙ-CRISTO, » nelle orazioni solenni chiamate Collette e recitate o cantate dal lato dell’Epistola. Così pregavano già i Patriarchi, i Profeti ed i fedeli della Legge antica, in nome di Colui che doveva venire e con cui lo Spirito li riempiva e li santificava in abbondanza. Sull’altare in effetti, dal lato dell’Epistola, il lato sinistro, rappresenta l’antica Alleanza; vi si leggono i Profeti non meno che le Epistole. È con esse che il Sacerdote inizia da questo lato, per passare poi di là al lato destro, all’Evangelo. Ed è la seconda verità espressa a questo punto della Messa: il passaggio dall’antica Alleanza alla nuova, la Legge evangelica che succede alla Legge di Mosè, dei Patriarchi, dei Profeti. Passando dal lato dell’Epistola a quello dell’Evangelo, il Sacerdote alza gli occhi verso il Crocifisso, poi si inchina profondamente per recitare due belle preghiere preparatorie: questo rito rappresenta l’annientamento della Redenzione, a cui ha degnato di sottomettersi il DIO dei Patriarchi e dei Profeti, degli Apostoli e dei Martiri, quando purificò la Chiesa con il suo sangue e la acquisì così come sua Sposa. GESÙ-CRISTO è il DIO, il Salvatore dell’una e dell’altra Alleanza; è Lui, Verbo o parola di DIO, che ha parlato ad Adamo ed ai Patriarchi, ha dettato la legge di Mosè, ha salvato il suo popolo, ha inviato il suo Spirito a tutti i Profeti; è Lui che ha ugualmente inviato ed ispirato gli Apostoli, fondato la sua santa Chiesa, con la quale resta tutti i giorni fino alla fine dei secoli. Così, alla Messa solenne è il Suddiacono il rappresentante della Legge antica, che legge in basso all’altare le Profezie, o le Epistole; mentre il Diacono solo, rappresentante della Legge nuova, canta solennemente il Vangelo, dall’altro lato. Il Suddiacono gli regge il libro dei Vangeli, senza poterlo leggere; come l’antica Alleanza che non era che il piedistallo della nuova, e che non penetrava i Misteri ed i tesori di grazia che portava nel suo seno. –  Durante la recita o il canto del Vangelo si sta in piedi. Questo canto liturgico è molto bello; esso è obbligatorio ed il Sacerdote, o il diacono, non deve permettersi di cambiare volontariamente alcuna nota. Nei tempi della fede, nel Medio Evo, tutti i cavalieri dovevano sfoderare la loro spada all’inizio del canto del Vangelo, per manifestare la loro ferma volontà di difendere la fede e la Chiesa a prezzo anche della loro vita, e dare così la loro vigilanza a GESÙ-CRISTO, loro Maestro sovrano e loro grande Re; a GESÙ, Re dei re, Signore dei signori, al quale tutte lo potenze della terra devono obbedienza, devozione, servizio ed amore.   

XV

Le mani distese del Sacerdote durante le orazioni.

A proposito delle Orazioni, sottolineiamo qui un dettaglio liturgico che mostra quanto sia grande, anche nelle cose più piccole, il Culto cattolico. Il Sacerdote, figura di Nostro Signore, recita o canta le preghiere con le braccia aperte e le mani stese rivolte l’una contro l’altra. Questo rito esprime nuovamente quel che noi dicevamo appunto ora: l’unione delle due Alleanze nella persona di GESÙ-CRISTO! La mano destra del Sacerdote dignifica la Legge nuova, più potente, più perfetta dell’altra; la mano sinistra significa la Legge antica. Entrambe erano sante: le due mani del Sacerdote sono consacrate dal Vescovo. GESÙ è « tutto in ogni cosa, » diceva San Paolo; nelle cerimonie della Messa, più che altrove, questa grande verità trova la sua realizzazione. Là ancora come per i ceri, come per il cerimoniale del Gloria in excelsis, il Culto angelico è significato congiuntamente con il Culto della Chiesa sulla terra; e le due mani del Sacerdote levate, sante, rivolte l’una verso l’altra alla destra ed alla sinistra del ministro di GESÙ-CRISTO, sembrano significare la Religione e l’adorazione degli Angeli, principalmente di San Michele e San Gabriele, che riassumono in essi tutta la grazia del mondo angelico. Esse non devono mai levarsi più in alto delle spalle; e così, il capo, la testa del Celebrante, le domina sempre: in effetti, GESÙ, il Capo ed il Re degli Angeli, è al di sopra di tutti gli Angeli, così come è al di sopra di tutti gli uomini, di tutti gli Eletti; excelsior cœlis factus, dice San Paolo. Queste due mani ricordano i due Cherubini dell’arca, adoranti, con i Santi di Israele, il DIO  d’Israele, il Santo dei Santi, Colui che doveva venire. L’elevazione delle mani del Sacerdote, durante le Collette e le altre preghiere della Messa, ricorda infine che le preghiere della Chiesa della terra, si elevano fino al trono di DIO, portate « dal ministero degli Angeli, nostri fratelli in cielo, nostri amici e nostri servitori. » [Quando orabas cum lacrymis … ego (Rapaël) obtuli orationem tuam Domino (Tob. XII) – … et Angelus venit, et stetit ante altare. Habens thuribulum aureum: et data sunt illi incensa multa, ut daret de orationibus sanctorum de manu Angeli coram DEO – Apoc. VIII]. L’uso di tenere le braccia e le mani stese durante le preghiere della Messa, risale alla culla stessa della Chiesa. Sull’altare, in particolare, esso richiama il mistero della Croce, il divino Sacrificio che perpetua l’Eucaristia e che è, nella Chiesa, il centro, la fonte, il sole della Religione e della preghiera. Così pregò sulla Croce l’adorabile Redentore. Così pregavano i martiri nelle catacombe, con le braccia stese a forma di croce, le mani levate verso il cielo; così pregavano gli Apostoli; così pregava la Vergine Santissima e Nostro Signore stesso durante la sua vita mortale, come lo attestano gli affreschi cristiani dei primi tre secoli, recentemente scoperti nelle catacombe di Roma. Così pregavano i Profeti ed in particolare il più grande dei Profeti, il santissimo Mosè, quando salì sulla montagna (figura degli altari) e attirava la grazia e la vittoria su Israele che combatteva nella pianura. Più recentemente ancora di Mosè, il Sacerdote è, in GESÙ ed con GESÙ, il mediatore di DIO e degli uomini. La Liturgia cattolica ha conservato religiosamente questo costume; e la famiglia francescana, così profondamente evangelica ed apostolica, la pratica abitualmente anche al di fuori degli Offici liturgici. Nell’Antico Testamento, l’uso di pregare con le braccia in forma di croce, era abituale. Era una figura profetica dei misteri della Redenzione. 

XVI

La predica

Alla Messa solenne, si interrompono per un momento le preghiere liturgiche, dopo il canto dell’Evangelo, ed il Curato (o uno dei suoi vicari), sale sul pulpito, e là fa alcuni annunci che interessano il popolo dei fedeli; egli recita le preghiere e le pubbliche raccomandazioni ordinate dal Vescovo, legge ad alta voce il Vangelo del giorno in lingua volgare e termina le preci dal pulpito con una istruzione familiare chiamata “omelia”. Omelia viene da una parola greca che vuol dire conversazione. L’omelia deve essere innanzitutto istruttiva, alla portata di tutti gli uditori. È per eccellenza l’istruzione pastorale. La maggior parte dei Padri della Chiesa ci hanno lasciato al riguardo, dei modelli che non si studieranno mai abbastanza; le loro omelie sono di una semplicità, di una bellezza, di una profondità di dottrina e di una santità meravigliosa. L’omelia è destinata ad unire strettamente il pastore ai suoi agnelli; essa permette regolarmente al Curato di aprire il suo cuore ai suoi parrocchiani, di dar loro degli avvisi e dei consigli paterni, di far loro conoscere e gustare il servizio di DIO, dissipare i pregiudizi dell’ignoranza, eccitare i tiepidi, incoraggiare i buoni. L’omelia è una sorta di gran catechismo di perseveranza, ad uso della parrocchia; essa deve averne la solidità, tutta la semplicità ed il carattere. – Un santo Prete incanutito nei lavori del ministero, mi diceva che un’esperienza di più di trenta anni gli aveva fatto toccare con mano l’importanza straordinaria dell’omelia e del pulpito per la salvezza e la santificazione di una parrocchia. Egli aveva conosciuto diversi Curati che principalmente, se non unicamente con questo mezzo, avevano metamorfizzato le loro parrocchie in quattro o cinque anni; gli uffici abbandonati e negletti erano ora frequentati quasi unanimemente dagli abitanti, l’adorazione del Santissimo-Sacramento era organizzata in modo eccellente, le buone opere erano in onore; il confessionale, prima deserto, era preso d’assedio tutti i sabati e tutte le vigilie delle feste; non passava quasi ogni giorno senza Comunione; la domenica e le feste, la Tavola santa offriva uno spettacolo straordinario, e quasi nessuno mancava alla Pasqua. Oltre al catechismo, egli non vedeva nulla che meritasse maggiormente l’attenzione e tutte le cure del Prete. « Occorre innanzitutto che la predica sia breve, aggiungeva, un quarto d’ora o tutt’al più venti minuti. In venti minuti, si ha il tempo di dire tante cose! » – « Bisogna poi che sia ben preparata, e per questo è bene che vi si metta mano il lunedì, per non essere efficace nella domenica seguente. È meglio non impararla a memoria, affinché la parola sia più viva, semplice, interessante; ma bisogna possedere chiaramente la successione e la Concatenazione delle idee. » Egli era dell’avviso che la dottrina debba apparire quanto più è possibile appoggiata su esempi e posta in rilievo da comparazioni, e che il Sacerdote debba guardarsi dal parla con iracondia, con il pretesto dello zelo. Ogni Sacerdote, per questo solo fatto di essere incaricato delle anime, è capace di fare un’eccellente predica. Questo non vuol dire che ogni prete sia un oratore: no, certo, su mille uomini troverete appena un oratore. Ma la Chiesa, le anime non hanno bisogno di oratori; l’eloquenza che i fedeli attendono dal loro Prete, è l’umile, dolce e santa eloquenza del Vangelo; è una parola convincente e cordiale che espone puramente e semplicemente la verità, che la dimostra con prove facili da capire, che lascia da parte le frasi ad effetto ed i bei periodi e che non si preoccupa se non di una cosa solamente: far del bene alle anime, far conoscere loro Gesù, farlo amare ogni giorno di più, eccitarli al pentimento dei loro peccati ed alla pratica di tutto quello che la Chiesa comanda e consiglia. – Così predicava il buon Curato d’Ars. Certo, egli non aveva un gran talento naturale; ma se non era un oratore, era però un Prete, era un santo, amava il buon DIO, amava ardentemente il Santissimo Sacramento, la Santa Vergine, la Chiesa; egli amava le anime; aveva sete della conversione e della salvezza dei poveri peccatori. Così, quando egli predicava, tutti piangevano, e si convertivano a dozzine, a centinaia. Ecco la vera predicazione sacerdotale; ecco l’omelia, ecco la predica di cui i Cristiani hanno bisogno. – Il Concilio di Trento e la Santa Sede, attribuiscono una tale importanza all’insegnamento regolare della predica, che hanno fatto comporre una regola di predicazione per i Curati, sotto il nome di: Catechismo Romano ai parroci. Questo mirabile libro, riassunto pratico e familiare della Summa di San Tommaso, è come la guida dei Curati nel compimento del gran dovere della predicazione pastorale. I Preti non possono fare a meno di seguirlo, tutto ciò che vi si trova è incredibile: è un tesoro, una miniera inesauribile. La dottrina del Catechismus Romanus ha un’autorità pressoché simile all’autorità degli stessi decreti del Concilio di Trento. – Nella diocesi di Besançon, l’autorità ecclesiastica ordina, da quasi due secoli, a tutti curati di insegnare e spiegare per intero il Catechiamus Romanus al loro gregge, sotto pena di censure incorse “ipso facto”; questo corso di istruzione religioso si fa alla Messa solenne, sotto forma di Catechismo a domande e risposte, e dura circa mezz’ora; tre o quattro bambini intelligenti sono scelti ad hoc, e l’assemblea ascolta sempre con interesse visibile questa sorta di piccola conferenza. Tutti comprendono e nessuno … dorme! Tutti i Curati della diocesi sono tenuti ad istruire così i loro parrocchiani in una Domenica su due. È a questo genere di istruzione religiosa che si attribuisce la solidità del Cristianesimo dei buoni abitanti della Francontea. Come sarebbe desiderabile che questa eccellente uso si diffondesse dappertutto. E seguendo questa regola così cattolica, il Prete ha il vantaggio immenso di non ripetersi e di non stancare i fedeli con il ritorno inevitabile dei luoghi comuni. È sicuro così di presentare sempre delle buone e belle verità, molto utili e pratiche. La negligenza di certi Curati relativamente alla predica della Domenica è veramente inesplicabile. Io ne ho conosciuto uno, molto istruito, gran lavoratore che, per pura negligenza, si è contentato per più di trenta anni di leggere, in modo di omelia, le prediche noiose di Cochin, che egli copiava, tagliava affinché non durassero più di dieci minuti; per trenta anni, ogni anno, leggeva sempre la stessa cosa. Tutti dormivano ed il povero parroco non se ne rendeva ancora conto. Uno dei suoi confratelli, che aveva copiato da lui questa comoda ma disastrosa abitudine, annunciava un giorno con aria eroica ai suoi parrocchiani, che la Domenica successiva avrebbe fatto un « sermone della memoria. » … l’ho sentito con le mie orecchie; fortunatamente ho potuto sfuggire al « sermone della memoria ». Alla predica, come sull’altare, come al confessionale, come in ogni dettaglio del nostro ministero e della nostra vita, il grande ed unico segreto per riuscire, cioè per fare del bene, è quello di essere GESÙ, di parlare come GESÙ, amare come GESÙ, imitare in tutto GESÙ.

XVII

Il Credo.

Dopo il Vangelo e la predica, il Sacerdote torna al centro dell’altare e là, con le mani giunte, recita il Credo. L’unione delle sue mani, così come il posto che occupa davanti alla Croce, tra l’Epistola e l’Evangelo, manifesta nuovamente l’unione di tutti gli Angeli e di tutti gli Eletti, l’unione dei fedeli di tutti i secoli in una sola e medesima fede: la fede in un DIO solo Creatore, Salvatore e Santificatore; in un solo DIO, Padre e Figlio e Spirito-Santo; in un solo Cristo, Signore e Redentore, in una sola Chiesa, santa ed universale; ed infine la fede nella resurrezione della carne e nella vita eterna. Tutto questo è racchiuso nei misteri e nel sacrificio di GESÙ-CRISTO; perché GESÙ-CRISTO solo è « l’autore ed il consumatore della fede, » la luce di tutti i fedeli e di tutti gli Angeli; per Lui solo noi abbiamo accesso presso DIO Padre; » in Lui noi troviamo il Padre, diceva Egli stesso, … Noi siamo uno; colui che vede me, vede il Padre. » Ed anche il Padre non viene a noi che per GESÙ, e in GESÙ, come anche lo Spirito-Santo non ci è dato se non per GESÙ, che è, per così dire, il serbatoio universale in mezzo alle creature. Così la Chiesa ci fa fare la genuflessione ad un certo momento del Credo, nel momento in cui si dice: « E il Verbo si fece carne. » È questo il punto centrale del Simbolo della fede cristiana, il dogma che riassume e illumina ogni altro. E così e con ciò che Essa ci fa terminare il Credo con il segno della Croce che è il segno del mistero dell’Incarnazione e della Redenzione. Secondo gli usi antichi, ogni astante doveva mettersi in piedi durante la recita del Credo non diversamente dal Vangelo, come per attestare lo zelo di ognuno nel camminare ove la fede lo avesse chiamato, o a combattere per essa. Il Dominus vobiscum che segue immediatamente il Credo e comincia l’Offertorio, desidera per i Cristiani, come già abbiamo visto, la forza di praticare la vera fede e di conseguenza, la forza di entrare risolutamente nello spirito del Sacrificio che si appresta, vale a dire nella via di ogni rinuncia, alla sequela di GESÙ-CRISTO, Redentore e Vittima. Nulla di più solenne che l’aspetto di una chiesa, almeno nei Paesi di fede, durante il canto del Credo. Là, tutti sono in piedi, tutti cantano; è mirabile e colpisce! A Notre –Dame di Parigi, alla celebre comunione generale degli uomini che corona le conferenze di Quaresima e della Settimana-Santa, si è tutti come muti, le lacrime salgono agli occhi quando si sentono tre o quattromila Cristiani, che si apprestano tutti a ricevere la Santissima Comunione, cantare come una voce sola ed un cuor solo questo grande Credo Cattolico che risuona sotto le volte delle nostre chiese dall’epoca dei Martiri. Ognuno sa, in effetti, che il Credo della Messa, che non fa che sviluppare su qualche punto il Credo degli Apostoli, sia stato formulato al primo Concilio generale di Nicea, nell’anno 325, qualche ano appena dopo la terribile persecuzione di Diocleziano. La Chiesa non cambia; essa è come la verità; la si può attaccare, la si può odiare, ma mai distruggerla, e neanche alterarla. Un giovane studente mi raccontava che essendo entrato, in un giorno di festa, nella chiesa di San Sulpizio a Parigi, nel momento in cui si cantava il Credo, si era sentito rimescolare fino al fondo delle viscere e s’era messo a piangere. « Io credevo, egli diceva, di essere trasportato in mezzo agli antichi Concili di Nicea o di Efeso, o del Laterano. Era meravigliosamente bello. Io avrei voluto che tutti gli increduli fossero là, vicino a me. » Non si raccomanderà mai abbastanza a tutti i fedeli, uomini, donne, bambini, ricchi e poveri, di cantare con tutto il loro cuore, non solo il Credo, ma tutte le preghiere della Messa Solenne che il popolo può cantare; il Kirye, il Gloria, il Credo, il Sanctus, l’Agnus Dei e la risposta a tutti i Dominus vobiscum. Non si dimentichi che è questo il modo più cattolico, più liturgico di seguire bene la Messa solenne. I cantori non hanno altro compito che sostenere, aiutare e guidare il canto del popolo, essi non sono dei musicisti che tengono un concerto. Così pure è affatto contrario allo spirito della liturgia lasciare i cantori allontanarsi dalla semplicità così maestosa e sì popolare del canto piano romano, per sostituirlo con noiose volute o invenzioni più o meno mondane, più o meno eccentriche. Ci sono dei Curati che proibiscono ai fedeli di cantare: essi sono come dei capitani che proibiscono ai loro soldati di fare il loro esercizio. E cosa ne risulta?! L’ufficio della Chiesa diviene mortalmente noioso e non vi si viene più. Quando si canta non ci si annoia mai in chiesa. – Ora si vanno a cominciare i preparativi immediati del Santo-Sacrificio. Dopo essersi dato ai fedeli come Verità e come Parola di vita, con la lettura dell’Antico e del nuovo Testamento e con la predicazione del Sacerdote, il Verbo di DIO, GESÙ-CRISTO, sta per darsi ad essi sacramentalmente e come pane di vita. – Ai proconsoli che li rimproveravano di violare gli ordini degli imperatori, riunendosi per ascoltare la lettura dei Libri santi ed assistere al Sacrificio, i nostri antichi Martiri rispondevano spesso: « Sì, è vero, noi non teniamo conto di questi editti dei vostri principi; ma noi obbediamo ai precetti degli Apostoli. Essi ci hanno insegnato da parte di DIO, che il Cristiano non può restare Cristiano se non si nutre del Verbo divino sotto le sue due forme, come noi facciamo. » E si lasciavano uccidere piuttosto che abbandonare GESÙ-CRISTO e mancare alle sante assemblee della Chiesa. Sul loro esempio nutriamoci allora, riempiamoci del Verbo, della parola di DIO; e GESÙ-CRISTO, abitando così con la fede nei nostri cuori, avanziamo con timore ed amore verso i Santi Misteri. Raddoppiamo il fervore nella preghiera: il celebrante ci invita dicendo ad alta voce: Oremus. Preghiamo con lui, preghiamo con gli Angeli, preghiamo con il nostro Mediatore celeste,  GESÙ-CRISTO, Sacrificatore e Vittima nel contempo.  

I SANTI MISTERI (3)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (3)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887 PARIS, impr.]

VIII

La pulizia delle mani prima di celebrare i santi Misteri.

Prima di vestirsi per la Messa, il Prete deve lavarsi le mani, alfine di togliere fino al più minuto pulviscolo che potrebbe esservi attaccato. È il simbolo della purezza senza macchia che deve avere la sua anima. Occorre essere molto delicati su questo punto. Un buono e santo vegliardo, Vicario di San Sulpizio, preferì un giorno ritardare la sua Messa di alcuni minuti piuttosto che mancare a questo simbolico lavaggio delle mani. Poiché gli si diceva che le sue mani fossero pulite: « … senza dubbio – egli rispose – ma proprio poco fa ho preso del tabacco, e credo che prima di salire all’altare sia più conveniente lavarmi di nuovo le mani. »  Non è necessario baciare preliminarmente la terra. Un povero abate si vestiva un giorno per dir Messa senza aver osservato questa usanza, quando il curato, tutto scandalizzato si elevò rimproverandogli la sua negligenza: « Ma, signore, questo non è segnato nelle rubriche, » rispose modestamente l’altro. « Non importa signore, bisogna fare più di quanto sia segnato; è più umile. » Prima di prendere l’amitto, ci si lava dunque le mani. Bisogna aver le mani pulite, molto pulite, prima di dir Messa, per toccare le cose sante, e soprattutto il Santo dei Santi stesso. Questa accortezza è indispensabile per un doppio ordine di motivi: per il rispetto del Santo Sacramento e per la carità verso i fedeli ai quali si distribuirà la santa Comunione.  Una pia dama mi diceva della strana ripugnanza che le causava il pensiero di comunicarsi dalle mani di un certo curato di campagna, uomo eccellente del resto, ma che non si lavava le mani tutti i giorni. « … è spaventoso – aggiungeva con aria disperata – è terribile vedere e sentire questo grosso pollice grigiastro toccarmi la lingua, checché io faccia. E le sue unghie a lutto! … io chiudo gli occhi per non vedere tutto ciò. Ma è orribile! » Dunque bisogna lavarsi le mani prima di indossare l’amitto. Come abbiamo detto, la pulizia esteriore e la decenza sono qui il simbolo della purezza interiore.

IX

Cosa rappresenta il Prete rivestito dei paramenti sacerdotali

Alfine di meglio rappresentare GESÙ-CRISTO, che è Prete con essi ed in essi, i Preti si rivestono, per celebrare la Messa, di ornamenti sacri, benedetti dal Vescovo; questi ornamenti, o paramenti, raffigurano la santità e la gloria di GESÙ. – I Preti si rivestono interamente di una lunga veste bianca che si chiama “alba” (Per avere il diritto di rivestirsi dell’amitto e dell’alba, bisogna essere almeno sub-diacono, i chierici inferiori ed ancor più i laici non devono mai indossarli, sia per recitare l’Epistola – in certe grandi Messe di campagna – sia per compiere nella chiesa qualche altra funzione apocrifa), che è fermata da un cordone ugualmente bianco; precedentemente egli ha posto sulla testa e poi abbassato sul collo un lino bianco, chiamato “amitto”, ed incrociato sul petto un ornamento simile, ma più lungo che si chiama “stola”; infine, al di sopra di tutto, un grande paramento, che lo copre quasi per intero: è la “casula”. Per celebrare la Messa, il Prete deve essere rivestito da tutti questi ornamenti. L’amitto simbolizza la purezza perfetta e l’energia della fede che devono avere i ministri dell’altare, dove essi stanno per toccare in modo così familiare il Mistero dei misteri, il Sacramento che la Chiesa chiama essa stessa « il Mistero della fede. » Dalla perfezione e dall’ardore della fede dei Sacerdoti, dipende in effetti, si può certo affermare, la santità della loro vita, ed in particolare la santità con la quale essi celebrano la Messa. L’alba ed il cordone significano con il loro candore, l’innocenza e la santità celeste dei Figli di Dio, di cui i Sacerdoti devono essere rivestiti per rappresentare degnamente GESÙ-CRISTO sull’altare. « Il Cristo – dice un Padre – è la gran tunica dei Preti, magna sacerdotum tunica. » L’alba deve essere di lino o di filo. Il pizzo che l’orna deve ugualmente essere di filo, e non deve invaderla interamente “fin sotto l’ascella”, come talvolta succede. Un buon curato di campagna, entusiasta alla vista di un bellissimo pizzo con cui una pia donna stava per ornare la sua alba delle grandi feste, volle forzatamente applicare questo pizzo tutto intero; e poiché questo proveniva da uno di questi immensi abiti che assorbono facilmente venticinque o anche trenta metri di guarnizioni, il bravo curato, dopo aver guarnito come conveniva la parte bassa della sua alba, immaginò di sovrapporvi due belle balze. Delle balze volanti ad un’alba!!! Nei secoli della fede, in cui la pietà metteva il suo sigillo in ogni cosa, l’alba di lino fine non aveva altro ornamento che cinque bei ricami, raffiguranti le cinque piaghe di Nostro Signore resuscitato: due erano al di sopra del polso, due in basso dell’alba sul davanti sopra i piedi; la quinta al centro del petto, o tutt’al più in basso all’alba e dietro. Il manipolo che il Prete porta sul braccio sinistro, come il diacono, era all’origine, un velo destinato ad asciugare le lacrime che in questi tempi di fede e di fervore primitivo, accompagnavano abitualmente l’oblazione dei divini misteri. Oggi purtroppo le lacrime di compunzione scorrono molto raramente. Il Prete tuttavia dovrebbe piangere sull’altare, con Nostro Signore, sui peccati del mondo intero e sulle proprie colpe. Egli dovrebbe piangere d’amore, dovrebbe portarvi questo spirito di vittima e di contrizione profonda da cui scorre il dono delle lacrime: ciò che dovrebbe fare all’altare, è in effetti, una immolazione, un sacrificio; è necessario che sia vittima con GESÙ-CRISTO, se vuole essere degnamente Prete e sacrificatore con GESÙ-CRISTO. La stola rappresenta la potenza sacerdotale del Figlio di DIO, in nome del quale il Sacerdote sta per salire sull’altare, rappresentarvi la santa Chiesa, consacrare il Corpo ed il Sangue del Salvatore e distribuire la santa Eucaristia al popolo fedele. È GESÙ che si dà Egli stesso ai Cristiani per mano dei suoi Sacerdoti. – La stola del semplice Prete è incrociata e legata sul suo petto perché egli non ha la pienezza del sacerdozio che risiede in lui, in virtù della sua consacrazione. – Infine la casula, che un tempo era più ampia di oggi, e che avviluppava il Prete interamente, era figura della gloria celeste di GESÙ-CRISTO che oggi non offre più il Sacrificio in una carne passibile e mortale, ma nello stato glorioso, impassibile, immortale celeste, nel quale è entrato con la sua Resurrezione e Ascensione. (Si è sfortunatamente caduti in un eccesso di forme molto meschine, con il pretesto di una maggiore comodità per il Celebrante e per motivo di risparmio economico. La maggior parte delle casule francesi assomigliano a delle casse da violino, sono strette, striminzite, orrende. Esse sono praticamente contrarie alle regole tracciate da Roma, che ultimamente ha espresso il desiderio che non ci si allontani dalle forme utilizzate all’epoca del Concilio di Trento. Ora, san Carlo Borromeo, constatando questa forma, dice che la casula deve avere circa un cubito e mezzo da ogni lato, a partire dalla scollatura – un cubito e mezzo equivale a ottanta o novanta centimetri – Io ho visto a Roma una casula di San Pio V: essa era larga così com’era lunga, ampia quasi più davanti che dietro. Nei tesori di due o tre santuari ne ho viste altre che datavano del sedicesimo secolo, e che ugualmente avevano una considerevole ampiezza. Quella di Sant’Ignazio è molto più stretta: ma pare che a più riprese egli l’abbia ritoccata, cioè accorciata, per tenerla in uno stato migliore. Il Italia, e a Roma stessa, alle casule non sono stati risparmiati deplorevoli colpi di forbici alle belle regole liturgiche relative ai paramenti sacerdotali. Io ho visto a Roma delle casule che non arrivavano fino alle ginocchia; queste, più che brutte, erano ridicole). Il colore della casula, che varia a seconda delle feste, ricorda ugualmente al Prete ed ai fedeli lo spirito particolare del mistero che si celebra in quel determinato giorno, o la grazia del Santo in onore del quale è offerto il Sacrificio. La Chiesa, dopo aver rivestito il Sacerdote di sacri ornamenti che raffigurano il Sacerdozio divino di GESÙ-CRISTO, gli permette di celebrare la Messa. Quanto grandi sono tutte le cose della Chiesa! La maggior parte dei poveri stolti che se ne burlano o la disdegnano, certamente cambierebbero condotta e linguaggio se si dessero la pena di studiare e penetrarne il senso profondo. 

X

Panorama d’insieme sul senso e sui riti della Messa.

Prima di entrare nel dettaglio delle nostre spiegazioni sul cerimoniale della Messa, non sarà inutile dare una panoramica generale, come chiave dell’insieme di queste cerimonie sacratissime. Si possono innanzitutto dividere i riti della Messa in due grandi sezioni: quelle parti che precedono il Sacrificio propriamente detto, dall’inizio fino alla Consacrazione; e quelle che concernono la Consacrazione, fino alla fine. Le prime sono i riti preparatori al Santo Sacrificio; le seconde ne costituiscono i riti complementari. Tra le due, come al centro, come la sommità, vi è la Consacrazione, in cui consiste essenzialmente il Sacrificio eucaristico. Analizzando ancora più dettagliatamente, si possono distinguere tra i riti preparatori, tre fasi, tre parti: dapprima la preparazione penitenziaria ai piedi dell’altare; poi i riti sacri che vanno dall’Introito all’Offertorio, e che rappresentano in maniera più generale l’unità della Religione Cristiana, sola Religione degli Angeli, dell’uomo innocente, dei Patriarchi, della Sinagoga e del Vangelo; infine i riti che vanno dall’Offertorio fino al Canone ed alla Consacrazione e terminano con il Pater fino alla fine, e che concernono più particolarmente il secondo avvento, il regno glorioso di Cristo e della sua Chiesa e la nostra futura consumazione nella gloria. La Messa è così un gran dramma che abbraccia nel suo magnifico simbolismo, tutti i secoli, gli eletti di tutti i tempi, l’opera di DIO intera, il mistero totale del Nostro Signore GESÙ-CRISTO e della santa Chiesa.

XI

Le prime preghiere e cerimonie della Messa.

Il Sacerdote, in piedi ai piedi dell’altare, saluta profondamente il Crocifisso; o se il Santissimo Sacramento è nel Tabernacolo, fa la genuflessione per adorarlo. Occorre fare le genuflessioni con grande rispetto. Nello stesso tempo, con il corpo le deve fare il cuore; cioè egli deve inchinarsi davanti al buon DIO, con umiltà, abbassarsi, contrirsi con grande amore davanti alla maestà di GESÙ-CRISTO. Il ginocchio destro deve toccare terra ed il resto restar ritto; le mani devono essere giunte. Le genuflessioni si ripetono così spesso nel culto divino che occorre essere molto diligenti nel ben farle. Lo stesso è per il Segno della Croce che bisogna fare religiosamente inquadrato in tutte le sue estensioni. Il servente Messa, che assiste il Sacerdote, si inginocchia di fianco a lui, sempre dal lato opposto al Messale. Dopo aver fatto la genuflessione, il Sacerdote comincia la Messa facendo il segno della Croce. Questo segno augusto che riassume e significa il Sacrifico cruento della Redenzione, è mirabilmente posto all’inizio della Messa, poiché la Messa non è altro che la rappresentazione mistica di questo stesso Sacrificio. Esso si ripete molto spesso nel corso della Messa, per questa stessa ragione. Il Sacerdote, così come il servente e tutti i fedeli, non devono farlo se non con un grande sentimento di venerazione e di fede. Le due mani giunte davanti al petto, con i pollici incrociati, il destro sul sinistro, il Sacerdote recita un salmo di penitenza e di speranza, ispirato già al Re-Profeta nell’angoscia dell’esilio. Il Sacerdote lo recita nel nome di GESÙ, anch’Egli esiliato, con la sua incarnazione, in mezzo ai nemici di DIO, in terra straniera. Con GESÙ e nello Spirito di GESÙ, la Chiesa militante aspira alla vera Gerusalemme; essa aspira « all’altare di DIO, ad altare Dei, » che non è altri che il Cristo celeste. L’altare ove il Sacerdote si appresta a salire per offrirvi, con GESÙ ed in GESÙ, il Sacrificio del cielo e della terra, simbolizza questo divino Re dei cieli, come già abbiamo detto. Dopo il salmo [Ps. XLII, Judica me Deus], il sacerdote si inchina profondamente e recita il Confiteor. Egli chiede perdono per i suoi peccati, perché, pur essendo Sacerdote, cioè un altro GESÙ-CRISTO, non di meno è un povero uomo peccatore, sottomesso, come gli altri uomini, alle infermità ed alle debolezza della umana natura. – In effetti alla Messa, il Sacerdote ricopre diversi ruoli, se ci è lecito parlar così; innanzitutto è GESÙ-CRISTO stesso che agisce e parla in lui; a volte è la Santa Chiesa de cui egli è ministro e ministro davanti a DIO; altre volte è l’uomo, il povero peccatore, che parla e supplica in suo nome dapprima, e poi a nome di tutti gli uomini, suoi fratelli, ed in particolare a nome degli astanti. Nella confessione dei peccati, il Sacerdote ricopre insieme tutti questi ruoli. I peccati di cui GESÙ ha voluto caricarsi per aprirgli i cieli sono in effetti l’ostacolo universale che ha obbligato il divin Capo, innanzitutto, e poi tutti i suoi membri con Lui, ad umiliarsi nella penitenza, a soffrire, a piangere, a morire, ad annientarsi davanti alla maestà di DIO tre volte Santo. GESÙ, l’Agnello di DIO, ha espiato tutto sull’altare della Croce. Resuscitati con Lui ed in Lui, noi possiamo come Lui, aspirare al cielo, salire all’altare del Signore, e questo per i meriti di GESÙ-CRISTO, per quelli della Vergine Immacolata, « Porta del cielo, » di San Michele Arcangelo e di tutti gli Angeli, di San Pietro e di tutti i Santi. Dopo essersi così umiliato e purificato con la confessione pubblica e generale dei propri peccati, il Sacerdote sale sull’altare. Egli lascia il comune terreno, il livello dei semplici fedeli, si eleva al di sopra della terra; non deve essere più un uomo, ma un Angelo, un Cristo, un cero celeste. Egli deve lasciare in basso tutti i pensieri umani, tutti i sentimenti umani, anche i più onesti, i più utili, per non avere che pensieri divini degni di Colui di cui è, sull’altare, il rappresentante visibile. Sull’altare degli Angeli, egli deve essere un Angelo. – Egli bacia l’altare: cerca in GESÙ-CRISTO, che l’altare raffigura, nell’assistenza dei Santi, ed in particolare di quelli di cui l’altare contiene qualche reliquia, a benedizione, la grazia che non possiede per se stesso. E qui termine quella che possiamo chiamare, la preparazione immediata di penitenza. – Il Confiteor, non lo dimentichiamo, è una dei sacramentali della Chiesa. Quando è recitato con le disposizioni convenienti, esso possiede la virtù di cancellare i peccati veniali. Il Sacerdote e tutti gli astanti devono dunque recitarlo con molta pietà e contrizione. Durante tutte le preghiere preparatorie, bisogna unirsi a GESÙ, Penitente universale che ha portato ed espiato tutti i peccati del mondo e che, vivendo nei suoi Sacerdoti e nei suoi fedeli, comunica loro con il suo spirito di penitenza il perdono e la santità. Alle Messe solenni, il Diacono ed il Suddiacono si pongono a lato del Sacerdote, fanno come lui la confessione dei peccati e con lui salgono all’altare; come diremo dopo, essi rappresentano l’antica e la nuova Alleanza, di cui gli eletti sono tutti i poveri peccatori convertiti e santificati. Questo inizio dei santi Misteri si fa ai piedi dell’altare, non sull’altare stesso, per ricordare a tutti che il Sacrificio di GESÙ-CRISTO e della sua Chiesa celebrato quaggiù nella penitenza, in mezzo alle lotte e nell’afflizione, si completa, si consuma nel cielo, tra gli Angeli. La nostra vittima, il nostro GESÙ eucaristico, si offre simultaneamente in sacrificio in mezzo alla sua Chiesa militante ed in mezzo alla sua Chiesa trionfante, sulla terra e nei cieli. Il Sacrificio cruento terrestre è il medesimo del Sacrificio incruento e celeste. 

XII

L’Introito, il KYRIE ed il GLORIA.

Il Sacerdote si pone dal lato dell’Epistola, fa nuovamente il segno della croce e recita ciò che si chiama l’Introito. Poi torna in mezzo all’altare per recitare le nove invocazioni del Kyrie eleison e poi l’inno mirabile conosciuto con il nome di Gloria, di cui il nostro grande santo Ilario, Vescovo di Poitiers, è molto probabilmente l’autore. Questa parte delle preghiere della Messa ha un carattere particolarmente grandioso e mistico, cioè pieno di misteri. Il Sacerdote recitando l’Introito (che un tempo si componeva di uno o più salmi), e segnandosi col segno della croce, raffigura il Sacerdote eterno, GESÙ-CRISTO Nostro Signore, riempiendo Adamo ed i primi Patriarchi del suo spirito di Religione, di preghiera, di adorazione e cominciando con essi, fin dalle origini del mondo, ad adorare il vero DIO, a rendergli grazia, a domandargli misericordia e ad espiare il peccato. – Il Figlio di Dio, che doveva farsi uomo quaranta secoli più tardi, viveva già in Adamo, in Abele e nei primi Padri del genere umano. Egli era loro interiormente unito e li santificava con lo Spirito della sua grazia. Era là la prima fase della Religione Cristiana, la sola vera Religione, di cui il Cristo è il grande Sacerdote eterno, secondo l’ordine di Melchisedech. E siccome la Religione degli uomini è sempre stata la stessa Religione degli Angeli; siccome il Sacerdote, per il solo fatto di esser salito all’altare di Dio, conversa con gli Angeli, è associato alle Gerarchie celesti, osa mescolare la sua voce alle voci degli Angeli, unisce le sue adorazioni e quelle della Chiesa militante, alle adorazioni dei novi cori degli Angeli. È con questo spirito che si avvia con fiducia alla stessa adorabile Trinità, supplicando, con gli Angeli, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo di avere pienamente compassione della Chiesa militante di cui è ministro. Le nove invocazioni del Kyrie sono innanzitutto la professione di fede del Mistero della Santissima Trinità, sul quale riposano tutti gli altri misteri della Religione Cristiana; poi, esse ci ricordano che i nove cori degli Angeli adorano e lodano, come noi e con noi, il Signore nostro DIO: DIO il Padre, al quale è offerto direttamente il santo Sacrificio della Messa; DIO Figlio, GESÙ, vero DIO e vero uomo, che è il Sacerdote e la Vittima del Sacrificio; DIO, Spirito Santo, che è il centro focale di questo stesso Sacrificio, cioè l’Amore infinito che ha spinto GESÙ a sacrificarsi così, sul Calvario dapprima, poi sull’altare, e che deve riempire il cuore del Sacerdote e quello di tutti gli astanti. Gli Angeli hanno, in effetti, la nostra stessa Religione; così come noi e con noi, essi adorano GESÙ come loro Capo divino, come loro Re legittimo, e lo amano con un amore purissimo. Essi lo adorano e lo amano in particolare con noi, nella Santa Eucaristia che è, per così dire, il punto di contatto del cielo e della terra, il legame vivente della Chiesa militante e della Chiesa trionfante, l’incontro, visibile ed invisibile, celeste e terrestre, degli Angeli e degli uomini. Quanto al Gloria, esso ci mostra come in un riassunto, questo grande mistero della vera Religione, che si svolge dall’inizio alla dine dei secoli, e di cui GESÙ-CRISTO è l’anima e la vita. Noi abbiamo già visto che, secondo le tradizioni più venerabili, questo gran dramma del Cristianesimo militante deve durare sei mila anni, sei epoche. Non è forse per questo che la Chiesa ordina al Sacerdote di inclinare sei volte la testa durante la recita o il canto del Gloria? Egli deve farlo per prima, pronunciando il Nome di DIO, per la gloria del Quale tutto esiste, a gloria del Quale tutto si riporta. Ora essendo GESÙ il solo vero DIO vivente con il Padre e lo Spirito Santo, è di GESÙ che gli Angeli di Bethleem dicevano: « Gloria a DIO in cielo ». La Gloria è l’inno angelico dell’Incarnazione; sono gli Angeli che dicono agli uomini: « Gloria a GESÙ in cielo e sulla terra! Gloria al solo DIO vivente, da parte di tutti gli Angeli e di tutti gli uomini. » GESÙ-CRISTO è apparso sulla terra nella quarta epoca del mondo, l’anno quattromila dopo Adamo. Così il quarto inchino della testa si fa pronunziando il suo Nome adorabile. E siccome GESÙ-CRISTO deve tornare nel suo secondo Avvento, alla fine della sesta età del mondo per resuscitare tutti gli eletti e far trionfare la sua Chiesa con Lui, il Sacerdote inclina la testa per la sesta volta pronunziando di nuovo il Nome del Redentore, e proclamando che ogni creatura sarà forzata a riconoscere che GESÙ, il DIO del Calvario e dell’altare è « il solo Santo, il solo Signore, l’Altissimo, con lo Spirito Santo nella Gloria di DIO Padre. » Pronunciando per la seconda volta il Nome adorabile di GESÙ-CRISTO, il Sacerdote fa su se stesso il segno della Croce, per indicare che al secondo Avvento sarà compiuto il mistero della Redenzione, e che il Corpo mistico di GESÙ-CRISTO, la Chiesa intera, sarà liberata per virtù della Croce. Le inclinazioni della testa al Gloria hanno ancora, come i ceri sull’altare, un altro significato, ma più angelico e più mistico. Esse esprimono le adorazioni di ciascuno dei gruppi angelici presieduti dai sette grandi Serafini di cui parla la Scrittura. Essi sono sottoposti al governo spirituale e materiale di ciascuno dei sei Angeli che sovrintendono la durata della Chiesa militante, ed anche di questa settima era che sarà come la Domenica della grande settimana della Chiesa, l’era del riposo, della pace, del trionfo. È lo stesso mistero rappresentato dai sei ceri della Messa solenne, e dal settimo della Messa Solenne Pontificale. – Quale gloria, quale santo onore per noi, l’essere ammessi già da questo mondo ad adorare Nostro-Signore con gli Angeli e come gli Angeli! Che santità in questi riti della Messa, così poco compresi e così semplici, almeno in apparenza! Ecco il senso grandioso e profondo dell’Introito e del Gloria. È la proclamazione dell’unità della Religione degli Angeli e degli uomini, dei Patriarchi, dei Profeti e degli Apostoli in GESÙ-CRISTO, Sommo Sacerdote di questa Religione divina, Capo di questa adorazione universale e nello stesso tempo Vittima del Sacrificio che la esprime e la riassume sui nostri altari. E pensare che ci sono persone che trovano che la nostra fede sia meschina e ristretta nelle idee! – Un celebre medico di Parigi, uomo onesto secondo il mondo, ma ignorante come un turco in ciò che concerne il Cristianesimo, non diceva ultimamente ad un suo amico che lo invitava a convertirsi: « … mio caro, io non amo se non ciò che sia grande. Che cos’è il DIO di cui tu mi parli? Il tuo DIO, vedi, è troppo piccolo per me! »?

I SANTI MISTERI (2)

G. De SEGUR: I SANTI MISTERI (2)

[Opere di Mgr. G. De Ségur, Tomo X, 3a Ed. – LIBRAIRIE SAINT- JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR, 112, RUE DE RENNES, 112 – 1887; PARIS, impr.]

IV

I ceri ed il loro bel significato

Nulla è trascurabile in pari materia. Nel culto cattolico, tutto ha un senso; le cose di minor importanza, hanno un significato spesso di profondo mistero. Così i ceri. Nella santa Messa, essi simbolizzano e rappresentano la Chiesa del cielo, la Chiesa degli Eletti e la Chiesa degli Angeli che si unisce nella gloria dei cieli alla Chiesa della terra ed alle sue adorazioni. Certo è che il cero pasquale è figura di Nostro Signore risuscitato glorioso e trionfante, per risalire al cielo il giorno dell’Ascensione: è per questo che lo si spegne in questo giorno dopo il canto del Vangelo. È ugualmente certo che nella scienza liturgica, il cero della Candelora rappresenti il Santo Bambino Gesù, Dio ed uomo, luce del mondo e gloria di Israele. La cera, sostanza purissima, prodotta dalle api con la polvere balsamica degli stami dei fiori, è un emblema suggestivo della carne verginale del Salvatore; la luce rappresenta la sua divinità. Si potrebbe dire altrettanto, fatte le debite proporzioni, degli Eletti, membri viventi di GESÙ-CRISTO. La cera dei ceri dell’altare, che li simbolizza, è il loro corpo resuscitato e glorificato; e la luce è non la loro divinità, ma la loro deificazione in GESÙ-CRISTO. Per il servizio dell’altare, i ceri devono essere di pura cera, e si devono accendere, almeno nelle chiese ove risieda il Santo Sacramento, alla luce della lampada liturgica, che non deve mai spegnersi (è assolutamente vietato conservare il Santo Sacramento senza accendere almeno una lampada sospesa sull’altare. Il Papa ha rifiutato diverse volte, anche a dei Vescovi, la dispensa della lampada eucaristica: « … nessuna lampada, nessuna dispensa ». Tale è stata la sua riserva invariabile. – Questa legge obbliga sub gravi. Lasciar per negligenza la lampada del santuario spenta per due o tre ore costituisce certamente, dice S. Alfonso Liguori, un peccato mortale per il curato o per colui che ha l’incarico di sorveglianza… torneremo in seguito su questo soggetto). La cera significa la purezza del Cristiano che deve brillare, davanti a Dio e davanti agli uomini, della luce divina di GESÙ-CRISTO, e bruciare del fuoco dell’amore divino. I ceri si accendono sul fuoco della lampada del santuario, che rappresenta GESÙ-CRISTO resuscitato e glorioso, sorgente di ogni luce e di ogni carità nella Chiesa. I ceri si consumano bruciando: i Cristiani devono consumarsi anche nella pratica fervente della fede e delle opere sante. È assolutamente proibito celebrare Messa senza ceri accesi. Nella Messa bassa bisogna che ce ne siano due: uno a destra del crocifisso, ed uno a sinistra. Il cero di sinistra, cioè dal lato dell’Epistola, rappresenta e simbolizza la fede, la santità, il fervore di tutti i fedeli e di tutti i Santi dell’antica Legge, da Adamo, fino a  GESÙ-CRISTO; il cero illuminato a destra, dal lato del Vangelo, rappresenta tutti i fedeli e tutti i Santi della Legge nuova, da dopo GESÙ-CRISTO fino alla fine del mondo. Il Crocifisso in mezzo all’altare, ricorda che GESÙ, il Figlio di DIO, crocifisso nel mezzo dei tempi per la salvezza degli uomini, è il DIO che tutti i secoli hanno dovuto e devono adorare, il Capo ed il centro della Religione, l’Autore della salvezza di tutti. Esso ricorda pure che il Sacrificio della Messa che si va a celebrare sull’altare, è lo stesso Sacrificio di quello della Croce. – Nella Grande Messa, si devono avere tre ceri accesi da ogni lato del Crocifisso, in tutto sei, né più, né meno. Ci sono di buoni curati che, « … perché questo sia più bello, » ne accendono trenta, quaranta, cinquanta. « … più ce ne sono, più è bello ». Se si osservano le regole esattamente, il Crocifisso deve levarsi al di sopra di tutti i ceri e dominarli. Questi sei ceri significano gli Eletti e i Santi delle sei ere della Chiesa militante. Da diversi passaggi della Sacra scrittura , spiegato in questo senso da un gran numero di Santi Padri: la Chiesa militante deve in effetti durare sei mila anni [questa dottrina, perfettamente tradizionale, è esposta in lungo ed in largo da Cornelio A Lapide, nei suoi Commentari sulla seconda lettera di San Pietro (cap. III, v. 8) e sull’Apocalisse (cap. XX, v. 5) ed altri ancora. « È – egli dice – l’opinione di molti Padri e Dottori: multorum Patrum ed Doctorum; dunque essa è probabile e non può essere tacciata di temerarietà. È il sentimento di un gran numero, aggiunge: consent multi, che il mondo debba durare sei mila anni; cioè, quattromila anni prima del Cristo, e due mila anni dopo di Lui. Non bisogna aspettarsi però questo in maniera assoluta, ma approssimativa. – Su questo punto le tradizioni cristiana, ebraica, pagana greca e latina, sono pienamente d’accordo. » Tra i Padri ed i Dottori che hanno sostenuto questa opinione, troviamo San Giustino, San Ireneo, Sant’Ilario, Lattanzio, Sant’Agostino, San Girolamo, San Cirillo di Alessandria, San Giovanni Crisostomo, San Atanasio sinaita, San Gaudenzio, San Germano di Costantinopoli, etc.; Rabano-Mauro, Bellarmino, Suarez, etc. citiamo solo San Girolamo che dice: « Quanto a me, secondo le parole di San Pietro: «un giorno è mille anni, e mille anni sono un giorno, » io penso che il mondo, che è stato creato in sei giorni, debba durare sei mila anni; in seguito verranno il settimo e l’ottavo giorno che saranno l’epoca del vero riposo. » E San Gaudenzio, Vescovo di Brescia, dice egualmente: « Noi viviamo nell’attesa di questo santo giorno del settimo millenario, che verrà dopo il sesto giorno. Quando saranno terminati, allora ci sarà il riposo della vera santità e di tutti coloro che hanno creduto alla Resurrezione di Cristo. allora in effetti non ci saranno più lotte da sostenere contro il diavolo, secondo ogni probabilità, e solamente allora si potrà realizzare la profezia del Signore: non ci sarà che un solo gregge ed un unico Pastore. » Il dotto Cornelio aggiunge che « essendo questo sentimento l’opinione più diffusa e più probabile: communis ed probabilis … non ha nulla in comune con l’errore dei millenaristi. » Noi insistiamo su questo punto di dottrina perché, secondo noi, è la chiave di diversi riti importanti della liturgia della Messa, in ciascuna di queste età, Gesù e la sua Chiesa contano numerosi fedeli figli della luce, infiammati dalla fede e brucianti di amore, GESÙ-CRISTO, GESÙ-CRISTO crocifisso, è in mezzo, come sempre, perché Egli è la « luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, » e che è da Lui che tutti gli eletti di tutti i tempi ricevono la luce della vita. Nelle Messe basse, ci devono essere dunque due ceri accesi sull’altare; nei giorni di festa i Vescovi hanno il privilegio di averne altri, nelle Grandi Messe, per qualunque solennità, ce ne voglio sei e sei soltanto, per i motivo che stiamo dicendovi. Questa è la regola. Nelle solennità è permesso accendere intorno all’altare delle girandole di luci: questo conferisce agli Uffici maggiore pompa e splendore, ma questa illuminazione è estranea alla liturgia, cioè alle regole del culto divino; esse non fanno parte della illuminazione simbolica dell’altare, e non si devono porre sull’altare queste luci non liturgiche. Queste poi, devono essere tutte di pura cera, non di stearina, come tutte le luci liturgiche; è la decisione formale della Santa congregazione dei Riti (7 sett. 1850 e 24 maggio 1861). Nella Gran Messa Pontificale, cioè nella Messa solenne celebrate dal Vescovo o dal Papa, si accende un settimo cero dietro al Crocifisso o, se non sia possibile, dal lato del Vangelo: questo settimo cero rappresenta allo stesso tempo, e la pienezza del Sacerdozio, e la pienezza dei Doni dello Spirito Santo che possiede il Vescovo; ed anche la gloria degli Eletti che nel giorno settimo della settimana, nella settima era del mondo, resusciteranno per trionfare con GESÙ-CRISTO e per regnare eternamente con Lui. Così come il cero pasquale simbolizza Gesù resuscitato, anche il cero pontificale rappresenta la Chiesa resuscitata, o per meglio dire, Gesù resuscitato con tutti i suoi membri, regnante eternamente con quelli della terra e quelli del cielo. – Auguriamo a tutti di essere così fedeli alla grazia del nostro Battesimo, così come questi bei ceri, bianchi e puri siano l’immagine della nostra vita. Ma ahimè, tra i battezzati ci sono dei poveri ceri spenti! – Io ho conosciuto un curato così negligente che talvolta non si dava la pena di accendere nemmeno un cero durante la celebrazione della Messa. Ad una persona pia che l’aveva notato, avendogli espresso la sua meraviglia, rispose con serenità: « Non avevo l’accendino sottomano. » Sfortunatamente!

V

I ceri e l’altare in un altro senso più profondo e più mistico.

La liturgia è per eccellenza una scienza mistica; questo non vuol dire una scienza di immaginazione o di fantasia, bensì una scienza piena di misteri, la scienza dei misteri della fede. Misteri, mistica: queste due parole sono correlate; ed è unicamente il disprezzo dell’incredulità voltairiana per i santissimi Misteri della fede che è giunta a falsare in un gran numero di spiriti, per non dire in tutti, il vero senso di questa grande parola della lingua cristiana: mistica. La scienza mistica è l’anima della teologia, la linfa della vera pietà cristiana e sacerdotale, la più reale, la più profonda, la più divina di tutte le scienze. La liturgia, e soprattutto la liturgia della Messa è essenzialmente mistica, perché essa esprime il Mistero dei misteri, cioè il Mistero universale del Cristo, dei suoi Angeli e dei suoi eletti. Oltre al significato mistico delle luci, dell’altare, relativo agli Eletti e che abbiamo esposto nel capitolo precedente, ce n’è un altro ancora più profondo, più segreto, più mistico, più celeste. Esso è relativo agli Angeli, e che tra l’altro non concerne che gli Eletti. Esso ce li fa contemplare gli uni e gli altri nella gloria del cielo, nella luce di GESÙ-CRISTO, ove gli Angeli ed i Santi saranno eternamente uniti in uno stesso amore, in una stessa adorazione, perfetta, deifica, ineffabile. Essa appartiene a questo simbolismo apostolico al quale fa spesso allusione San Dionigi l’Aeropagita nel suo libro della “Gerarchia celeste ed ecclesiastica” ed in una delle sue Epistole.La luce è una creatura misteriosa, la più perfetta, la più sublime di tutte. Essa simbolizza per noi il mondo celeste, che è tutto luce nel Signore; essa simbolizza GESÙ-CRISTO, Re del cielo; essa simbolizza anche gli Angeli, irradiazione celeste e vivente di GESÙ. La luce è, nell’ordine dei sensi, come una copertura della terra sui cieli. La Scrittura ed i Padri sono pieni di questo pensiero. I ceri accesi per il Santo Sacrificio significano dunque, esprimendo e rendendo per così dire presenti gli Angeli che assistono allo straordinario sacrificio di Colui che è il loro ed il nostro Signore. La lampada che contiene la sostanza dell’olio, rappresenta più sensibilmente la Chiesa della terra, sempre presente, che adora quaggiù GESÙ-CRISTO, per mezzo di quest’olio che produce la terra, ma che si illumina e brucia di un fuoco tutto celeste. Il cero, al contrario, che producono le api e che esse raccolgono sui fiori; la cera purificata e vergine, è una sostanza superiore, più in rapporto con la perfezione degli Eletti, e degli Angeli, con la luce celeste degli Angeli. Ecco perché la luce dell’altare consiste nei ceri e non nelle lampade d’olio. – E non si pensi che tutto ciò sia arbitrario, la Scrittura Sacra chiama gli Angeli: luce e fuoco; tra gli altri, questo passaggio del salmo, ripetuto da San Paolo (Psal. CIII; ad Hebr. I): « Qui facit Angelos suos spiritus ed ministros suos flammam ignis » e la tradizione antica li chiama spesso « lumina, sacra lumina, lumi. » Al secondo capitolo dell’Apocalisse, San Giovanni vede sette candelabri accesi  (Vidi septem candelabra aurea: et in medio septem candelabrorum aureorum, similem Filio hominis. – II, 12 et 13.), e gli viene detto che queste sette luci sono sia i sette Angeli o Spiriti che stanno davanti al trono del Signore, sia i Vescovi delle sette Chiese dell’Asia Minore che l’Apostolo governava più direttamente. I Vescovi, in effetti, sono gli Angeli della loro Chiesa, e devono essere, quanto allo spirito che le anima, una sola ed una stessa cosa con gli Angeli custodi delle loro diocesi. GESÙ-CRISTO apparve a San Giovanni in mezzo a sette lumi, a questi sette Spiriti. Da qui l’uso antichissimo di accendere sette ceri sull’altare, quando è il Vescovo che deve celebrare pontificalmente; perché allora la perfetta santità del Vescovo deve pienamente manifestare Nostro-Signore, Re degli Angeli, Sommo eterno Sacerdote, adorato dagli Angeli. I sette ceri significano certamente questi sette grandi Arcangeli, questi sette Spiriti principali che, al dire di uno di essi, l’Arcangelo Raffaele, « … stanno davanti al Signore ». I sei ceri che si accendono nelle Messe solenni ordinarie, si ricollegano a questo stesso mistero, secondo la profezia del Profeta Ezechiele, ove dei personaggi misteriosi appaiono intorno ad un settimo, che aveva le somiglianze di un uomo. Quest’uomo era vestito di una bianca tunica di lino e attraversava la città, segnando sulla fronte tutti i suoi eletti. Il Pastore Harmas vede in quest’uomo il Principe, il Signore dei sei Angeli. È GESÙ, l’Angelo del gran Consiglio, l’Angelo dell’alleanza, Angelus Testamenti, come dice la Scrittura, l’Angelo degli Angeli, Angelus Angelorum, come dice S. Agostino. Quando il Vescovo celebra solennemente, quest’uomo, questo Principe, questo Angelo di DIO appare nella luce del settimo cero, per significare che il Vescovo debba essere la luce di tutta la sua Chiesa. – Quanto ai due ceri che devono sempre bruciare sull’altare alla Messa del Sacerdote semplice, a destra e a sinistra del Crocifisso, essi rappresentano senza dubbio alcuno i primi due grandi Arcangeli Serafini che si tengono ai lati del Cristo, secondo l’ordine del Signore; Mosè li aveva fatti rappresentare nel Santo dei Santi, ai due lati del Propiziatorio, ed il Profeta Isaia, rapito in spirito, li aveva contemplati in adorazione davanti al Signore stesso che per amor nostro si è incarnato ed è morto sulla croce; egli li aveva sentiti cantare nel cielo: « Sanctus, sanctus, sanctus, Dominus Deus Sabaoth. » Il primo, l’Angelo della destra e dell’onnipotenza del Signore, è l’Arcangelo Michele, simbolizzato dal cero di destra; il secondo, l’Angelo dell’Incarnazione e della misericordia, l’Angelo della Vergine Santa, è l’Arcangelo Gabriele, rappresentato dal cero del lato sinistro; il lato sinistro è il lato del cuore, e l’Incarnazione è ancor più l’opera dell’amore, che l’opera dell’onnipotenza del Signore. Tale è in sintesi il significato più intimo, e nello stesso tempo il più elevato, dei ceri del nostro altare. Essi simbolizzano intorno a GESÙ eucaristico, la Chiesa gloriosa degli Eletti e degli Angeli. Da questo si giudichi l’importanza e la santità delle prescrizioni liturgiche sul soggetto dei lumi del Santo Sacrificio!

VI

I teli e gli ornamenti dell’altare.

Se non ci sono tre teli bianchi di filo o di lino sull’altare, è proibito dir Messa. Questi teli, che devono essere mantenuti sempre in uno stato di perfetta conservazione, coprono interamente dapprima la parte superiore dell’Altare, poi il lato destro ed il lato sinistro. Quello superiore almeno, deve pendere dai due lati, fino in basso. La parte anteriore dell’altare deve essere ugualmente coperto da un tendaggio o drappo dello stesso colore degli ornamenti del Sacerdote; se a Messa si dice in bianco esso deve essere bianco; se la Messa si dice in rosso, nero, deve essere rosso, nero, etc. in modo tale che l’altare stesso sia interamente coperto e velato agli sguardi (Si tollera una eccezione in favore degli altari preziosamente lavorati e che sono verosimilmente un oggetto d’arte. Lo stesso è per il tabernacolo che, salvo casi eccezionali, deve essere coperto e come avvolto da un velo bianco, – o del colore del giorno – segno della presenza del Santo Sacramento nel Tabernacolo. Ma vi ritorneremo più avanti). Così è Nostro-Signore che non possiamo più vedere, dopo che è risalito in cielo. I tre teli bianchi che coprono l’Altare, raffigurano le tre gerarchie celesti dei santi Angeli che l’adorano con tanto amore; ed i drappi che coprono il resto dell’altare significano i Santi, ed in particolare il Santo o la Santa in onore del quale si celebra la Messa. Gli Angeli ed i Santi sono, in effetti, come il bel vestito di Nostro Signore GESÙ-CRISTO. Noi siamo nei nostri vestiti, ci viviamo, ci muoviamo in essi; allo stesso modo il Figlio di DIO abita e vive nei suoi Santi; Egli parla con essi; fa con essi ed in essi le sue mirabili opere di carità e di santità; riempie il loro spirito ed il loro cuore; i Santi prendono, per così dire, tutte le sue forme e tutti i suoi sentimenti, tutte le sue virtù. – I nostri vestiti ci riscaldano e ci difendono; con l’ardore del loro amore, i Santi consolano GESÙ per la freddezza di tanti ingrati e tanti indifferenti; e con le meraviglie della loro vita, manifestano splendidamente agli occhi del mondo intero, l’onnipotenza della grazia di GESÙ che fa loro compiere sì grandi opere e praticare virtù sì eroiche. Nel cielo, i Santi sono il vestito di gloria del Re di gloria, dopo essere stati sulla terra, e il vestito di grazia dei Re della grazia. I santi Angeli pure, sono nel cielo i ministri, i servi di GESÙ-CRISTO, ed il loro magnifico vestito. Se Nostro Signore è ammirabile nei suoi Santi, come annuncia la Scrittura, non è meno ammirabile nei suoi Angeli. Ecco perché nell’Altare, in ogni ora, gli Angeli ed i Santi del cielo adorano GESÙ eucaristico faccia a faccia e senza velo, mentre adorandolo noi sotto i veli dell’Eucaristia, ecco che, io dico, l’altare della Messa è ricoperto da teli e drappi. I colori di questi drappi come quelli dei paramenti sacerdotali, variano a seconda delle feste. Il colore bianco, che è il colore perfetto, il colore dell’innocenza e della gloria, è comandato dalla Chiesa per tutte le feste di Nostro Signore (salvo quelle della Passione), per tutte le feste della Santa Vergine, degli Angeli e dei Santi non martiri. Il colore rosso, colore del sangue e del fuoco, è utilizzato per celebrare le feste della Passione, quelle dello Spirito-Santo e quelle dei Martiri. Il verde, colore della speranza, è impiegato per tutte le ferie e Domeniche dell’anno, fuori dal tempo dell’Avvento, del Tempo di Natale, della Quaresima e dei tempi pasquali. Il violetto è colore della penitenza; la Chiesa lo impiega nei suoi uffici delle domeniche dell’Avvento e della Quaresima, alle Rogazioni e in Quatempora. Infine il colore nero della morte e della tomba, è riservato alle Messe dei morti a agli uffici delle Tenebre.

VII

Il Sacerdote che sta per celebrare la Messa.

Il Sacrificio della Messa è un solo e medesimo Sacrificio di quello della Croce, ed è diversa solo la forma esteriore: sulla Croce questa forma era cruenta; sull’altare è incruenta; « Il Sacrificio della Croce non differisce dal Sacrificio dell’altare, dice il Concilio di Trento, se non per la forma, sola offerendi ratione diversa ». Lo stesso è per il Prete che offre il Sacrificio: il Sacerdote, al Calvario come all’altare è  GESÙ-CRISTO, allo stesso tempo è Sacrificatore e vittima. È Lui che si offriva e si offre ancora in Sacrificio a gloria di Dio, suo Padre, e per la salvezza del mondo intero. Soltanto, all’altare si vela sotto l’aspetto dei suoi Sacerdoti, alfine di offrire attraverso le loro mani il suo Sacrificio divino. GESÙ e il Prete hanno un solo e medesimo sacerdozio:  GESÙ, Sacerdote eterno, comunica il suo Sacerdozio ai suoi Sacerdoti per mezzo del Sacramento dell’Ordine, ed il Sacerdote non ha altro Sacerdozio che quello di  GESÙ-CRISTO. Ecco perché i Sacerdoti, ed essi soli, possono offrire il Santo Sacrificio. – Il Sacerdote che sta per celebrare la Messa, deve prepararsi come meglio può; sarebbe superfluo insistere su questo punto. Se ci si prepara con cura ad un’udienza del Papa, o anche di un imperatore o di un re, cosa non si farà quando si tratta di salire all’altare del DIO vivente e di comparire, come Mosè sul Sinai, alla santa presenza del Re dei cieli, di cui il Papa non è che il Vicario, e da cui tutti i grandi della terra non fanno che derivare la loro maestà. La preparazione alla Messa è innanzitutto una preparazione di coscienza e di cuore, con la contrizione per i pur minimi peccati, mediante una unione molto intima ed ardente con GESÙ, il Sacerdote dei Sacerdoti, il Santo dei Santi, interiormente presente nel Sacerdote, nel voler trovare in lui uno strumento purissimo e fedelissimo del suo divino Sacerdozio; infine e soprattutto una fede viva, profonda, attuale, al mistero dell’Eucaristia, e con un amore sereno e fervente verso l’adorabile Signore  GESÙ. La buona preparazione alla Messa è il gran mezzo per evitare la routine e, da questa la negligenza, la tiepidezza e la divagazione dello spirito all’altare. Il Sacerdote che abitualmente trascura di prepararsi bene prima di salire all’altare, esporrebbe certamente la sua santificazione, per non dire la sua salvezza. Se si può dire in tutta verità: « a tal Messa, tale giorno! » si può pure dire:  « Tale preparazione, tal Messa! » Questa è dunque una cosa seria. la migliore di tutte le preparazioni: una buona preghiera, una preghiera di un’ora, di tre quarti d’ora o almeno di mezz’ora. San Vincenzo dei Paoli diceva un giorno ad un giovane Prete della Missione, che gli domandava una direzione per perseverare nel fervore: « Amico mio, tutto dipende dall’ora del vostro sonno.  » E siccome il giovane missionario sembrava sorpreso, aggiunse: « Senza dubbio, vedete: se vi addormentate ad un’ora fissa, potrete facilmente svegliarvi ad un’ora fissa di buon ora; se vi alzate così, potrete fare la vostra orazione ogni giorno; ora, dalla vostra preghiera dipenderà la celebrazione santa della Messa; e tutta la vita di un Sacerdote dipende dalla maniera in cui dice la Messa. Dunque, figlio mio, avevo ragione di dirvi che la vostra perseveranza e la vostra salvezza dipendono dall’ora del vostro addormentarvi. » Questo consiglio vale come l’oro. Quanta negligenza su questo punto! Non ho visto a volte un buon curato di campagna, entrando nella sua chiesa, contentarsi, come preparazione, di un povero Pater recitato in piedi, ai piedi dell’altare, toccando terra solo con il ginocchio e l’altro per aria per poter cominciare più presto? Quattro minuti prima ancora si faceva la barba a guisa di orazione; in sacrestia imprecava e spingeva; la sua Messa durava venti minuti, e questa era coronata da un’azione di grazie estatica, degna della preparazione, uno stesso Pater sacramentale, recitato in gran parte sullo stesso ginocchio. O misero, o misero! E questo curato era un bravo uomo, molto fondato nelle sue abitudini, studioso, buono per la povera gente. Quanto ai Preti che confessano molto è certo, e l’esperienza lo dimostra ogni giorno, che questo ministero santifica e non lo distoglie affatto dallo spirito interiore, dalla pietà, dal raccoglimento, che sono la vera preparazione alla celebrazione dei santi Misteri. Tuttavia, perché le confessioni li preparano così a salire all’altare, bisogna che siano ascoltate santamente e che il confessore abbia cura di restare unito a Gesù, Salvatore, che molto ama le anime. L’amore prepara all’amore; il santo tribunale al santo altare. È proibito dalla Sacra Congregazione dei Riti, organo ufficiale del Sovrano Pontefice per tuto ciò che riguarda il culto divino, dire Messa senza essere vestito di sottana. Una volta, all’altare sotterraneo della Confessione di San Pietro, a Roma, ho visto un prete francese che aveva mancato a questa regola e che aveva indossato l’alba sopra la sottanella; egli era molto grosso, l’alba molto corta; si vedevano uscire di là, delle lunghe gambe magre che somigliavano a  due trampoli. Era il colmo del ridicolo e, malgrado la santità del luogo, né io, né alcuni altri, potemmo astenerci dal sorridere. Notiamo di passaggio che le sottane a coda sono vietate ai semplici Sacerdoti, sia curati, Arcipreti, gran Vicari. La Congregazione dei riti lo ha formalmente decretato. La coda della sottana è un segno prelatizio, esclusivamente riservato ai Prelati, ai Vescovi ed ai Cardinali. Allora nulla è più strano che questa coda eterodossa che spazza la polvere, e talvolta anche gli sputi. « La coda suppone il caudato, come la proprietà suppone il proprietario, » dice un proverbio liturgico: « Cauda clamat caudatario, sicut res clamat domino. » Onde evitare questo spazzare, buon numero di preti francesi (perché questa pia coda non si vede che da loro) hanno un’abitudine singolarmente maestosa: dalla sagrestia all’altare, e dall’altare alla sagrestia, essi camminano pieni di modestia e di gravità, tenendo nella mano sinistra il calice, mentre la destra tiene rispettosamente la coda tre volte santa. Se questo rito non è segnato nella rubrica, esso non è che “più bello” e più toccante. È proibito ai semplici Preti, ed anche ai Prelati che non siano Vescovi, di conservare la loro berretta durante la Messa. I Vescovi possono tenerla fino al Sanctus, e riprenderla dopo la Comunione. Infine, per salire all’altare, bisogna avere delle scarpe convenienti e soprattutto delle scarpe appropriate. Mi sono state riferite inconcepibili negligenze al riguardo, perfino scarpe colorate, come se fossero all’angolo del loro focolare; un altro giungeva a salire all’altare con gli zoccoli!