LO SCUDO DELLA FEDE (265)

LO SCUDO DELLA FEDE (265)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (8)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO VIII.

RELIGIONE

I. Basta far bene. II. Io non rubo, io non ammazzo. III. È un uomo onesto, gli manca solo un poco di religione.

Oltre la religione del cuore ve n’ha un’altra, alla quale ricorrono non pochi a questi giorni, sempre in cerca d’ evitare quanto possono l’esercizio verace del Cristianesimo. Potrebbe chiamarsi questa la religione del far bene. Che necessità, dicono essi, di rompersi il capo e di angustiarsi il cuore a fare tanti studi, ed a distillarsi l’ingegno in una moltitudine di verità che non s’intendono, e di esercizi che annoiano, quando a Dio basta tanto meno? Faccia io bene, e Dio si terrà per soddisfatto, e non può domandare altro un Padre sì buono alle sue creature. Per quanto sia inetto questo aforisma, per quanto sia vano, non lascia a certi cervelli leggerissimi di fare qualche forza e di persuaderli a trascurare tutto il culto. Vediamo dunque se esso regga punto al martello della discussione.

I. Che cosa vogliono essi significare dicendo che basta far bene? Se nulla vogliono dire, è che la bontà della vita scusa ogni religione. Or la bontà della vita, gli onesti costumi, le maniere savie, la condotta irreprensibile, la purezza del vivere sono certo cose molto lodevoli; ma, di grazia, bastano esse a costituire un uomo veramente buono? La vita buona abbraccia tre parti: la pietà verso Dio, la giustizia verso il prossimo, la sobrietà verso sè stessi; e qualunque di queste parti venga meno, vien meno con essa la bontà. Ora diamo pure per un momento che costoro non facciano torto al prossimo, non rubino, non ammazzino, come se ne vantano; concediamo anche loro che non si lascino trasportare a sfrenatezze, a lascivie, a dissolutezze (di che neppur essi si vantano); accordiamo loro che nulla sia a ridire sulla loro condotta, ma e dunque, il mancare totalmente della pietà verso Dio, degli esercizi del culto, lo stimano un nonnulla siffattamente che non impedisca neppure più l’essere buono? – Abbiamo accennato sopra fino a qual punto sia doverosa la religione; ebbene essi sono buoni, mentre violano quei doveri sì sacrosanti? Iddio impone la religione. con fanti titoli, quanti sono qi suoi attributi, e costoro sono buoni calpestandoli tutti? Iddio la impone con tante ragioni, quante sono quelle della nostra dipendenza e sudditanza, ed essi son buoni col contravvenire a tutte, e tutte porle in non cale? Il Figliuolo di Dio, per ammaestrarci nella religione e stabilirla presso di noi, si degnò di venir sulla terra, facendosi uomo; si compiacque di pubblicarla colla sua bocca divina, di autenticarla co’ suoi miracoli, di allettarvici colle sue’ promesse, di minacciarci con eterni castighi se l’avessimo trasandata, di prometterci eterni premii se vi fossimo stati fedeli; e costoro, disprezzando e conculcando le degnazioni divine, le sue minacce, i suoi premii ed i suoi castighi, le sue proibizioni ed i suoi comandi , si spacciano come buoni, e, se il ciel li salvi, si tengono tali? Bisogna davvero, oltre la fede, avere smarrita ariche la ragione per parlare in tal modo. No, no, non sono buoni costoro, mentre loro manca il primo fondamento della vera bontà, che è la pietà verso Dio, quand’anche avessero nel rimanente la condotta la più pura ed incontaminata.

II. Del resto cotesti, buoni hanno poi almeno questa esemplarità che pur vantano? Non vi abbiate a male, se io alquanto ne dubito. Ponderate i motivi che mi tengono perplesso, e poi risolvete da voi la questione. Costoro per lo più tra loro precetti, non ne contano se non due: non rubare, non ammazzare; e questo, lo accorderete facilmente, è un restringerne un po’ troppo il catalogo. Tra le virtù ne conoscono una sola, ed è la beneficenza; e questo non è senza qualche pregiudizio delle virtù teologali, cardinali, morali. Ridotta tutta la vita a quei doveri sì scarsi, voi vedete che trovano anche luogo molte altre azioni che compromettono un poco il basta essere buono. Trovano ancora luogo tutte le vanità per cui s’idolatra il mondo e non si respira altro che spassi, trastulli, feste, teatri, giuochi, divertimenti. Trovano anche luogo tutti gli eccessi della gola, dell’intemperanza, del viver molle. Trovano luogo le trame, le conventicole delle cospirazioni, delle società segrete. Trovano luogo principalmente tutte le dissolutezze della carne. Ristretti i comandamenti all’io non rubo, io non ammazzo, resta luogo all’insidiare la donna altrui ed al prostituire la propria; resta luogo ai pensieri immondi, ai discorsi laidi, alle scollature indecenti, alle compiacenze ree, a tutte le turpitudini in che si coinvolgono gli animali. Tutte queste abominazioni non sono punto vietate da quel decalogo compendiato. Né un poco di beneficenza corregge gran fatto l’errore, o apre un campo più spazioso all’esercizio della bontà. Non impone l’obbligo di reprimer sé stesso, né di combattere le proprie inclinazioni, né di superare duri contrasti, o di rinnegare il proprio spirito. Per mettere in tutta la sua mostra un po’ di beneficenza, basta anche intervenire solo a qualche ballo umanitario, a qualche rappresentazione teatrale, a qualche accademia di musica, massimamente in quaresima, prendere qualche biglietto di una lotteria, o contentare qualche signora elegante, che graziosamente vi presenta dinanzi un vassoio a stimolare la vostra inesauribile filantropia. Ora non potete negare che anche questo esercizio di bontà non sia la cosa più ardua del mondo. – Ad incalzare questi miei dubbi si aggiunge per noi Cattolici un’altra ragione affatto stringente. Ed è che, senza la grazia divina, noi sappiamo non poter niuno durare lungamente nel bene, specialmente poi in mezzo a pericoli e tentazioni sì gravi, quali son quelle che s’incontrano in mezzo al mondo. Per noi Cattolici questa verità è al tutto fuori di controversia, poiché la fede ce l’intima assai chiaro. Per ottenere poi questa grazia le vie ordinarie sono due senza più, la preghiera ed i sacramenti; tantoché allontanarsi o da questi o da quella, è lo stesso che mettersi disarmato in un campo di battaglia e non volere essere ferito, cioè un impossibile. Or chi riduce la sua religione al non rubare e non ammazzare, non ha consuetudine di pregare, non di confessarsi, non di comunicarsi, e quindi non ha gli aiuti che gli sono di assoluta necessità per resistere alle tentazioni, per superare gli ostacoli che al tutto si hanno da vincere per giungere alla vera bontà. Di che è forza il conchiudere che questi buoni senza religione debbono per necessità cadere in una moltitudine di peccati, secondo le occasioni che lor si presentano. La conseguenza è innegabile. – Aggiungete che, per esser buono alla maniera cattolica, non basta neppure il contentarsi di non far male, bisogna positivamente fare ancora di molto bene. Bisogna (altro che un po’ di beneficenza!) portare rispetto ai superiori anche discoli, amore agli uguali anche inamabili, trattare con mansuetudine anche gl’inferiori, e far del bene ai proprii nemici. Bisogna, non dico, non mormorare il prossimo, ma ricoprirlo, ma aiutarlo, ma assisterlo nelle sue necessità. Bisogna non solo non rapire l’altrui, ma dare il proprio superfluo ai overelli. Bisogna non solo non ispiantar gli emoli e scavalcarli perché fanno uggia, ma serbar l’umiltà nel cuore ed il sentimento giusto del proprio nulla. Queste ed altre simili a queste sono le virtù, senza le quali niuno è buono alla maniera cattolica. Ciò presupposto, sarei io troppo ardito se dubitassi un poco, che tutte queste virtù si trovino in coloro, che gridano tanto: basta esser buono, la mia religione è far del bene? I Santi che mai non restavano dal pregare, dal piangere, dal digiunare, dal faticare in servigio altrui, non osavano vantarsi di esser buoni, e costoro facendo nulla, come tanto si assicurano di aver imbroccata la vera religione? Forse più di un lettore, percorrendo queste ragioni, si riderà nel suo cuore di me che buonamente le adduco. E che? vorrebbe egli dire, non basta la sperienza per dimostrare fino all’evidenza, che cotesta è una maschera, sotto cui covano tutte le malvagità? Se chi legge queste carte fosse di quelli che hanno qualche sperienza del mondo, senza dubbio non avrebbe avuto bisogno di esse; ma v’ha sempre un cotal numero di coloro i quali, o per una leggerezza inarrivabile o per una semplicità miracolosa, sono disposti a credere tutto quello che altri ha il coraggio di profferire: e questi abbisognano di disinganno.

III. E con ciò vorrei correggere eziandio il modo di parlare, che si ode persino sulla bocca di persone non cattive ma incaute, quando di alcuno che ha gettato affatto la religione, solo che abbia conservato nell’esteriore qualche naturale onestà, si fanno elogi sperticati, soggiungendosi al fine, che non gli manca altro che un poco di religione, poiché del resto. . . Come? Ed è un uomo onesto quello a cui manca solo un poco di religione? Ma dunque il grande Iddio è caduto sì basso nell’estimazione dei Cristiani, che il metterlo da parte, il trascurarlo non sia quasi più colpa da farne caso? Non toglie neppur più la fama d’onestà il violare i diritti del Creatore, del Redentore, del Padre, dell’ogni bene che è Dio? Non è neppur più una colpa il distruggere tutti i disegni, pei quali Dio unicamente ci ha collocati sulla tetra, e per cui ci ha forniti di tutte quelle qualità che possediamo? – Che cosa ve ne parrebbe se io vi dicessi d’un uomo che egli è onesto sì, ma che solo ha la tacca che talvolta avvelena il suo prossimo, ché dà qualche pugnalata, e che talora, o per suo diletto o perché è scarso a denari, scanna qualcheduno? Che cosa direste di una donna, della quale vi si predicasse ogni gran bontà sola piccola aggiunta, che le è rimasto il debole di offrirsi sulle pubbliche strade a quanti passano? Vi parrebbe una beffa. E il dire di una persona, che non manca alle convenienze ma solo manca a quelle dovute a Dio, che onora gli uomini e che solamente a Dio non porta alcun rispetto, non vi sembra una beffa molto maggiore? Non vi lasciate dunque mai sfuggire dal labbro che vi sia onestà senza religione, poiché il parlare così toglie l’orrore, che è giusto che tutti abbiano verso quei sepolcri imbiancati e fetenti, che ricoprono con un poco d’onestà naturale un animo senza religione; leva a quegli infelici medesimi lo stimolo che avrebbero a convertirsi dove si vedessero in dispetto a tutti, siccome sarebbe giusto; e soprattutto diminuisce il concetto altissimo che si ha da avere di Dio e della cristiana pietà. – Se non si usassero dal mondo tanti riguardi, come scioccamente si usano verso costoro, le città cattoliche non avrebbero tanti audaci, i quali, con la fronte proterva e col cuore corrotto, menassero vanto di rigettare le credenze cristiane e di calpestarne le pratiche: ma siccome i più, per tema di non essere tacciati d’intolleranza, si rappicciniscono, non osano fiatare, oppure anche peggio per dappocaggine e viltà d’animo li approvano; così quei felloni imbaldanziscono senza misura. Guai però a coloro che non si curano di Dio, se Dio un giorno non si curerà più di loro!

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (50)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (50)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -VIII-

H. – DIO DOCENTE MEDIANTE IL MAGISTERO DELLA CHIESA

  1. Diritto ed ufficio del Magistero ecclesiastico.

H1a. a. – IN GENERE

Cristo affidò il deposito della fede alla Chiesa a. istituendo il Magistero autentico perenne a3305 CdIC 1322, § 1; Cr. È egli stesso che insegna attraverso la Chiesa per giuridica missione 3806.

La Chiesa ha il diritto e l’ufficio di esporre la dottrina rivelata in quanto sua custode e maestra 807 3012 3020 3540 CdIC 1322, § 1; in questo ufficio essa è indipendente dal potere civile CdIC 1322, § 2.

In generale si richiede la sottomissione al Magistero -: 125 2020 2390 2875-2880 3020 3625 3884s; – anche i capi di dottrina che per comune e costante consenso dei Cattolici sono ritenute come verità teologiche e conclusioni certe 2880; -: a pro delle dottrine filosofiche 2860s 2865s 2910 3018.

Esempi di soggezione e riduzione degli autori 807 980 990s 2351 2751 2811 2828.

Affermaz. impugnanti ctr. autorità magistrale della Chiesa 1477-1480 3401-3408.

H1b. b. – DIRITTO ED UFFICIO DEL MAGISTERO QUANTO ALL’OGGETTO.

1ba. Ambito della competenza del Magistero. Oggetto è la dottrina rivelata, il deposito della fede (a. giudizio circa il vero suo senso) a1507 a1863 3012 3018 3071).

Col Magistero nulla di nuovo si aggiunge al deposito della fede, ma o si chiarisce ciò che in precedenza poteva sembrare oscuro o si stabilisce di considerare per fede ciò che si dibatteva in controversia 3683; al S. Pontefice con assistenza dello Spirito Santo non è dato di annunciare nuove dottrine 3070.

Si rivendica anche l’autorità dottrinale della Chiesa -: in ambito filosofico 2860s 2865s 2910 3018; add. proposizioni in tal caso giudicate (passim); -: in ambito economico e sociale come regola di costumi 3725 3938 3997.

La Chiesa giudica circa la santità in ordine alla canonizzazione 675.

La Chiesa non giudica circa la mente o l’intenzione (ossia a. di cosa occulta) in quanto vi sia di interiore a1814 a2266s 3318; solo deve giudicare fin dove appare all’esterno 3318; la Chiesa giudica fino al senso delle parole degli autori 2010-2012 2020 2390.

1bb. Al Magistero è affidata la libertà di intendere ed insegnare. Ambito degli oggetti: gli oggetti rivelati non ammettono libertà di sentenza 3042; questa è ristretta alle cose ove non si interiore il giudizio della Sede Apostolica 3625 3667 (3885).

Questa libertà si evidenzia-: in questione circa l’ausilio della grazia 1997 2008 2509s 2564s.(2679) S1997; -: in qu. circa un attrito 2070; – Circa la separazione del sangue di Cristo dalla divinità nel triduo della passione 1385; -: in qu. circa sistematiche morali 2175-2177 (2679) 2726: -: quanto a sentenze della scuola tomistica 21671 2509 36010 3667; —: vietando libri “censurati” per mezzo della Cgr. dell’Indice” 3154s; nell’investigare questioni bibliche 3831.

Tutela dalla libertà di investigazione scientifica da non sospetti di spirito e dalla cieca opposizione a qualunque novità, ma da giudicare con somma carità 3831.

In cose di libera disputa non è lecito in questa sospettare circa la fede per degli avversari o arguire di non buona disciplina 3625; a nessuno è lecito imprimere la censura teologica 142612167 2665 2679.

H1c. c. — DIRITTO ED UFFICIO DEL MAGISTERO SULLE SINGOLE PERSONE.

1ca. Il Summo Pontefice è il sommo dottore della Chiesa 1307 3059 3068 3074 (CdIC 218); la sua autorità dottrinale è pienamente legata al primato vd. G 4db, ancor più nello specifico 181s 217 221 235 343 353 365 1064 3065-3073 3074s; la stessa è riconosciuta dai Concili 218 306 398-400 402 (444) 664 1848; per questo la Chiesa (essa è la Sede) Romana è chiamata “maestra” 774 1850 1868.

Il S. Pontefice ha il diritto di definire le questioni di fede 861 3067 3885; —: di interpretare i decreti dei Concili 447 1849s 3067.

Nel S. Pontefice è distinguere il dottore della Chiesa universale nella libertà di favorire delle scuole, e il dottore privato favorevole all’opinione tra varie lecite 2565.

Circa i decreti del S. Pontefice (a.ove dati come opera data sentenza) non è lecito ritrattarli o liberamente disputare né si ammettono divagazioni 182 217s 221 232 235 343 353 2331 a3885; ctr. la dottrina del S. Pontefice non vale la sentenza di Agostino 2330.

1cb. Vescovi, anche singoli, sono veri dottori dei loro sottoposti CdIC 1326; ad esse compete il giudizio circa la fede 761.

1cc. Concili generali. La loro autorità — affermata 343 352 (364) 517s 521s 550 575 587 1869 2526-2539; —: riconosciuta e convocata a teste 402 412 (433) 436-438 444 472 548 640 652 686 1986s.

Il Concilio generale o ecumenico rappresenta l’intera Chiesa 1247s; la suprema Potestà prevale sulla Chiesa tutta CdIC 228, § 1; pertanto non è superiore al Papa (così da a. potersi appellare contro il Papa)

233 115100 a1375 (2935s) a3063 CdIC a228, § 2: ciò che stabilisce il Conc. gen. In materia di fede e di morale, deve essere da tutti osservato 1248-1251; si riprovano le asserzioni circa la facoltà di dissentire 587 1479.

Si riprovano le asserzioni che esagerano l’autorità del sinodo diocesano o nazionale e dei loro atti sinodali 2609-2611 2693 2936.

1cd. Congregazioni curiali. Si esclude dalla loro autorità 2880 2912 3408 3503.

H 1d. d. — MODALITÀ SPECIALI DI ESERCITARE IL MAGISTERO.

Tra i mezzi del Magistero si recensiscono precipuamente i concili generali ed i sinodi particolari 3069.

Il Magistero procede in modo straordinario e più solenne, quando deve evidenziare gli errori e vuole spiegare in modo più efficace e sottile i capi della sacra dottrina 3683.

Il Magistero stabilisce ed approva le professioni di (a. come il principio, a cui tutti i fedeli devono convenire) 398 400 a1500.

Il Magistero sottopone alla sua censura ed approvazione gli scritti circa le cose di fede e di morale, proibendo libri nocivi 202 213 353s 686 807 980 1851- 1861 2065 2668 CdIC 1384-1405.

Il Magistero proscrive le sentenze della fede e dei costumi non consentanee, infliggendo anche al bisogno censure teologiche sia globali sia a.in particolare 721-739 840-844 891-899 a921-924 941-946 a951-979 1028-1049 a1087-1097 1101-1103 1110 1116 1121-1139 1151-1195 1201-1230 1361-1369 1391-1396 1411-1419 1451-1492 1901-1980a2001-2006 2021-2065 2101-2166 2170s 2201-2268 2281-2285 a2290-2292 2301-2332 2351-2374 2400-2502 2571-2575 a2601-2685 a2791-2793 3201-3241 3401-3465.

Censure specifiche (qualificazioni) illustrate con l’esempio di proposizioni per le quali sono giudicate in un determinato modo: proposizione —: eretica 951-965 977s 1087 1089-1091 1093 1095s 2001-2005 2203 2213-2215 2241-2253 2290 2602-2604 2615 2659 2693; —: prossima all’eresia 2221 2223 2257 2260s; che sa di eresia (ossia a.sospetta eresia) 2202 2204-2210 2212 2216-2219 2231s 2235s 2255s 2258 a2618 a2620

2622 2628; —: scismatica 2606 (2607s) 2693; —: falsa 1087-1093 1095-1097 2004s 2609-2613 2616 2619//2630 2635-2637 2640//2653 2661//2668 2673-2680 26823 2793; —: temeraria 2001 2005 2170s 2211 2214s 2217-2220 2223s 2226s 2230-2235 2238s 2241-2268 2291 2331s 2358 2360 2365-2370 2372 2609-2614 2617 2625-2627 2630// 2648 2651-2654 2662//2673 2676-2679 2683 2763; —: erronea 1087 1089-1091 1095-1097 11145 2204-2206 2208-2210 2213-2219 2221s 2224 2232 2235 2241-2253 2258 2291 2351-2357 2360s 2363 2367-2369 2372s 2606//2612 2622 2628 2637 2646s 2664 2677s 2791; —: scandalosa 1092 1391-1395 2021-2065 2101-2165 2206s 2209-2211 2214- 2220 2224s 2230-2252 2254 2258-2260 2263s 2266 2291 2357 2360 2362 2369-2371 2619 2634 2643 2664 2668 2673s 2678 2681 2791s SI309; —: blasphema 2001 2005 2210 2214s 2241-2253 2260; —: empia 2001 2005 2619 SI309; —: offensiva per le orecchie pie 2206 2230 2258 2291 2358 2368 2633 2642s 2662 2671 2678; —: risuonante malamente 2354- 2356 2373 2644 2665; —: perniciosa 2352 2364 2367 2612 2614 2623 2625 2629s 2637 2639 2644 2646 2649 2662 2664s 2670 2678 2680 2692.

2.. Certezza del Magistero ecclesiastico.

H 2a. a. — IN GENERE.

La Chiesa di Cristo esponendo la dottrina rivelata gode dell’assistenza dello Spirito Santo CdIC 1322; il S. Pontefice ed i Concili richiamano lo Spirito S. congregante, illuminante 102 265 444 631 702 707 115100 1500s 1600 1635 1667 1726 1738 1820 1848.

Alla Chiesa (in genere) è attribuita l’infallibilità 2922 3020: alla Sede Apostolica si rivendica l’inerranza 363 775 1064 1807s 2329 2923 3066; si riprovano le proposizioni implicitamente asserenti che la Chiesa possa errare [sci. accusa circa l’ingiusta condanna degli articoli, circa l’ingiusta scomunica, l’oscuramento delle verità] 1225 1480 2491-2501 2601 2612-2614.

La sentenza magistrale del dubbio senso continente è da prendere sempre in quel senso in cui la locuzione sia veramente intesa. 1407.

Per altra parte i libri non riprovati dalla Sede Ap. o “lasciati passare” e da sé stessi consentiti non sono da considerare liberi da errore 2047 3154s.

H 2b. b. — INFALLIBILITÀ DEGLI ATTI SOLENNI.

2ba. Soggetto dell’infallibilità. Il giudizio solenne circa la fede divina e cattolica da credere compete al Rom. Pontefice parlando ex cathedra e dal concilio ecumenico CdIC 1323, § 2.

Dal S. Pontefice è rivendicata l’infallibilità (221 353) 2329s 2539 2781 3069s 3074s CdIC 1323, § 2.

2bb Natura e condizioni dell’infallibilità. Il dono dell’infallibilità consiste a.non in una qualche nuova rivelazione, ma sed in nell’assistenza dello Spirito Santo, perché la rivelazione tramandata dagli Apostoli sia fedelmente esposta a3070 3074 (3116).

Il S. Pontefice pertanto è infallibile, sia se funge per la sua suprema autorità quale dottore di tutti i fedeli, sia se parla ex cathedra 3074 CdIC 1323, § 2.

L’infallibilità è legata e alla dottrina della S. Scrittura e alle definizioni già pronunciate 3070 3074 a3116; non è riferita alle questioni di governo del S. Pontefice 3116.

La definizione dogmatica è solamente ciò che come tale sia stato dichiarato, CdIC 1323, § 3.

Le definizioni del S. Pontefice, dal momento che sono infallibili, sono irreformabili di per sé indipendentemente dala consenso della Chiesa 3074.

Il dono dell’infallibilità non dispensa il Pontefice dall’obbligo di usare i mezzi naturali di operazione: a.deliberazione, b.inquisizione, c.discussione, d.consiglio per gli altri a182 c810 c844 d899 c904 c974 c930s ac1848 b2011; add. I detti in diverse note di introduzione a proposizioni condannate.

2bc. Accettazione dei decreti infallibili. A tutte le cose che si propongono a credere, sia per solenne giudizio, sia per il Magistero ordinario e universale, sia rivelazioni, si deve una fede divina e cattolica 2879 2922 3011 (3885) CdIC 1323, § 1; il silenzio ossequioso non soddisfa i decreti dottrinali 2390. Circa l’obbligazione a credere cf. anche K 2a.

H 2c. c . — CERTEZZA DI CERTI ATTI DEL MAGISTERO.

I decreti della Sede Ap., che sono mutabili in meglio o sono aggiunti temporaneamente od ordinati per necessità (mutabili) 641; anche può accadere che siano soppressi dalla Sede Ap. 641.

Anche ai decreti non infallibilmente proposti (tra i quali si tratta di materia per sé non infallibile, di numerose lettere encicliche e prescrizioni di errori) si deve l’assenso 2922 3407 3885; tuttavia il tale assenso non può essere assoluto (in quanto in cosa che non ha vigore dell’infallibilità immune dall’errore), ma solo condizionato, revocabile in favore della decisione o evoluzione successiva in altro senso, rese illegittime ed illecite; o che possano indurre in contraddizione con altre parole, dissolto l’assenso assoluto, incondizionato a qualunque documento dottrinale della Sede Ap., come per istruzione di esempi storici, —: gli atti di Papa Liberio nella causa dei Semiariani (138-143), soprattutto la condanna di S. Attanasio, facilmente poterono indurre in detrimento della fede Nicena e generare una venerazione prestata da tutti i fedeli al propugnatore di questa fede; —: Le parole di Leone I Magno 294: “Assunta è dalla madre del Signore la natura, non la colpa”, per cui gli intelletti sono stati giacenti per secoli sotto questa sentenza un tempo comune, il cui assenso accettato, precludeva la via alla definizione dell’Immacolata Concezione della B. Maria Vg. 2800s5; —: Si discosta il giudizio circa l’ortodossia di Teodoreto e Ibe: sono condannati (riprovati nel Sinodo Efesino da Leone I M. come “latrocinio”) nel Conc. Costantinopolítano II, da Gregorio I M. e nel Libro diurno, riconosciuti ortodossi nel Conc. Calcedonense e da Pelagio I cf. 300°° 436s 444 472;

—: Nella causa di Onorio I Papa (la cui ortodossia fu attaccata solo dagli Orientali) si discosta dal giudizio circa il modo di agire di Onorio con in capi dei Monoteliti tra Giovanni IV di lui benevolmente interpretando e proteggendone l’onore e Leone II al Concilio Costantinopolitano III scusandolo per la condanna acritica, mentre Martino I con il Sinodo Lateranense, condannando i Monoteliti lasciò nel silenzio Papa Onorio: cf. 487s 496-498 518 550 552 561° 563; — :

Nicolò I oltre alla forma trinitaria del Battesimo validò espressamente anche la forma: “In nomine Christi“, a cui specialmente contraddice la dottrina posteriore: cf. 646! (211) compar. con 123 176s 214 445! 478- 580 589 592 644 757 802 903; —: nella questione circa la validità delle ordinazioni dei simoniaci nessun decreto si oppone alla sentenza già da secoli comunemente riportata: cf. 691-694 701s! 705 710; —: Circa l’ambito del privilegio Paolino dissentono Celestino III e Innocenzo III: cf. 768;

—: Circa l’effetto del consenso matrimoniale Alessandro III dissente da alcuni predecessori 756; — : Tra i casi illustrissimi vi è la sentenza di Giovanni XXII circa la beatitudine ottenuta nel solo modo imperfetta ottenuta dopo la morte fino al giorno del giudizio generale, alla quale cardinali ed il re della Gallia, non solo non diedero assenso, ma vi resistettero contro, inducendo il Papa alla revoca e a sancire la sentenza opposta: cf. 990s 1000ss.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (51).

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (13)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (13)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUINTO (2)

II. – IL CRISTIANO E L’EGOISMO DEI SENSI

Ricorda Giosuè Carducci nelle sue Prose che « gli abitanti d’una città greca, alla rappresentazione d’un dramma d’Euripide, invasi di sacro entusiasmo, deliraron tre giorni, tre giorni aggiraronsi per la città ricantando i versi del coro, che celebrava la potenza d’amore ». Non tre giorni, ma 365 giorni all’anno, e 366 negli anni bisestili, mi pare che in questo mondo si celebri la potenza di amore. Parlano forse e pensano ad altro gli uomini? si chiede il Gratry nella Connaissance de l’ame. Di che discorre la giovinezza e che cosa rimpiangono i vecchi? aggiunge Bossuet. Si entri in un teatro. Drammi, tragedie, commedie, persino le farse, sono tutte intessute con un identico filo. Si visiti un cinema, uno dei molti cinema che nelle città e nei paesi sono rigurgitanti di folle avide. Quando non è una scena di furto, è uno spettacolo più o meno immorale, che attira la gente, la incatena, la soggioga. Si passeggi in una strada, o si entri in un salotto. La moda con le sue stranezze e con le sue impudenze; i balli coi loro capricci e con le diverse novità; le edicole dei giornalai con le riviste, le pubblicazioni ed i romanzi a dispensa; i discorsi con frasi a doppio senso, attestano sempre il medesimo fenomeno. Quante copie si venderebbero dei romanzi moderni, se non trattassero d’amore e non fossero espressioni di lussuria?… Ovunque gli appelli del piacere si alzano, in mille toni, con mille sfumature. Tutto ormai sembra divenuto lecito. La figliola disgraziata, che nell’aprile dei suoi anni ha distrutto la sua primavera; le povere creature del peccato, che portano sul volto lo stigma della colpa; il giovanotto libertino, incapace di arrossire o dimentico d’ogni più elementare rispetto che dovrebbe a sé ed agli altri, sono fatti così frequenti, che quasi più non sorprendono. Anzi, come diceva Lacordaire nelle sue Conférences de Notre Dame, un omicida è riprovato dal mondo; ma il profanatore dei giuramenti più santi, il violatore del santuario domestico, l’adultero passa a fronte alta e viene riverito. Guardo alla letteratura ed alla storia. Giovanni Boccaccio, scapolo e nemico dell’amore regolato, s’avanza con spensierata giovialità. Mentre Dante unisce il mondo sacro e profano per spiritualizzare quest’ultimo, egli sbattezza tutto l’universo e tutto materializza. Il suo Decamerone, ben fu scritto, è la nuova Commedia, non la divina, ma la umana Commedia. Il mondo dello spirito se ne va; viene il mondo cinico e malizioso della carne; e l’Italia lo segue. La dissolutezza, che anticamente aveva templi e sacerdoti, dilaga; le vecchie divinità, incarnazioni del vizio, e le vecchie infamie risorgono, avvolte nei veli dell’arte e nel fascino della bellezza; la corruzione penetra ovunque, anche nel santuario e tutto profana: bianche vesti di Papi, porpore di Cardinali, mitre di Vescovi, anime di preti e di vergini sono macchiate di fango, fra lo sghignazzare osceno dell’incoscienza e gli splendori abbaglianti della superficialità. La storia si sarebbe svolta ben diversamente, se la cosiddetta « potenza d’amore » troppo spesso non ne avesse avuto nelle mani le redini. Se Lutero non ne fosse stato dominato, ci avrebbe portato un’altra Riforma, non certamente quella che si ispirò al programma del « crede firmiter et pecca fortiter » e che lo condusse non solo al suo, ma al « matrimonio universale », per usare l’ironica frase di Erasmo. La faccia attuale d’Europa non sarebbe quella che è, se i Riformatori fossero stati padroni dei loro sensi ed avessero inculcato a tutti il dominio delle proprie passioni. Il Maomettanesimo non esisterebbe più, se non avesse annientato la legge morale, lasciando libero sfogo agli istinti brutali. E, senza soffermarsi sulla storia, credo che da nessuno sarà messo in dubbio che la vita individuale di moltissime persone avrebbe avuto un orientamento diverso dal presente ed una differente fisionomia, se una.., malattia di cuore non le avesse tormentate. – Il contrasto tra la morale cristiana e la vita non mai si fa così stridente, come su questo terreno. Un rimprovero, un’accusa, una condanna vengono scagliati, come frecce contro l’etica del Vangelo: « Voi, ci si dice, siete i fautori d’una esistenza malinconica e tetra, senza gioia. Siete i nemici della vita… Ci parlate continuamente di sacrificio, di rinnegazione, di morte. Oh, lasciateci amare! Noi vogliamo l’amore ». – Un’altra battaglia dev’essere, dunque, da noi contemplata. Ognuno la può trovare in sé, prima ancora, e più ancora che nel mondo. E la lotta diventa accanita e feroce, specialmente perché le due bandiere portano scritto nelle loro pieghe la stessa parola programmatica: Amore. Bisogna scegliere; bisogna decidere. Dov’è il vero amore?

1. – Il gregge d’Epicuro e l’amore.

Il gregge d’Epicuro ciancia d’amore, ma non ama. La sacra parola ricopre solo l’egoismo furioso dei sensi. Non l’affetto per un altro essere, ma il proprio piacere, ma il proprio godimento, ma la propria soddisfazione qui impera e comanda, sacrifica e calpesta, danza ed irride. Io non ho giammai incontrato anime che sapessero veramente amare, fra i dissoluti, esclamava un giorno nella cattedrale di Parigi Lacordaire: « Quando, infatti, ci si abitua alle emozioni violente, come volete che il cuore, pianta così delicata che si nutre di qualche goccia di rugiada caduta qua e là dal cielo per lui; che si scuote ad un leggero soffio, che è felice per giorni interi al ricordo d’una parola detta, d’uno sguardo lanciato, d’un incoraggiamento dato dalle labbra d’una madre o dalla mano d’un amico; il cuore, il cui battito è così calmo nella sua vera natura, quasi insensibile a cagione della sua stessa sensibilità e per paura che si sarebbe spezzato ad una sola goccia di amore, se Dio l’avesse fatto meno profondo; come mai, dico, volete voi che il cuore opponga le sue dolci gioie delicate al godimento grossolano ed esagerato del senso depravato? Questo è egoista: il cuore è generoso. L’uno vive di sé; l’altro fuori di sé; e tra queste due tendenze, una deve prevalere. Se il senso depravato vince, il cuore avvizzisce a poco a poco, non sente più la forza delle gioie semplici, non va verso altri, e finisce per non battere più se non per dare il suo corso al sangue e per segnare le ore d’un tempo ignominioso, del quale la dissolutezza precipita la fuga. E cosa v’è di più abbietto dell’uccidere il cuore nell’uomo? Che resta dell’uomo, quando il suo cuore non vive più? ». Il gregge d’Epicuro non sa amare. Il cuore, per dirla con una forte espressione biblica, diventa cenere. « Le risorse dell’amore elevato, nota il Gratry, le poesie dell’adolescenza pronte a sbocciare, gli entusiasmi della giovinezza, il senso dell’infinito, le forze future della ragione virile, la sapienza promessa all’autunno della vita, tutto è perduto anticipatamente… Quest’uomo si suicida ». – Che importa a lui l’abbrutimento nauseante, la rovina della sua anima, le viltà che per avvoltolarsi nel fango bisogna compiere, le malattie che contrae, le conseguenze in genere che nella intelligenza, nella volontà, nell’organismo sono gli effetti tristi della caduta? Il mortale egoismo del senso perverso è il suo Dio ed il suo tiranno: a parole ama; in realtà vuol godere, brutalmente, animalescamente. Si avvicina, è vero, ad un’altra creatura; nasconde il suo egoismo sotto il gesto dell’amore e sotto promessa della fedeltà; poi passata l’ora dell’ebbrezza folle, va, abbandona, tradisce, in cerca di altre soddisfazioni egoistiche, sempre nascoste sotto le bugiarde dichiarazioni dell’amore. Nel gregge d’Epicuro non si ama. Osservatela la signorina moderna, alla caccia del marito. Uno qualsiasi, purché venga, purché domani la vita sia bella e piacevole e si possa godere!… E tutte le reti tese, e tutti i lacci posti qua e colà sapientemente distribuiti, e tutte le debolezze volute ed incoraggiate, e le abdicazioni anche al senso più elementare della propria dignità e del pudore, e tutti gli episodi che si succedono finché « si è trovato il merlo », son battezzati col nome dell’amore! Guardate il giovanotto moderno, che assicura di voler amare. Egli s’incretinisce nel vizio; il centro dei suoi sentimenti, delle sue preoccupazioni, dei suoi discorsi è il godimento egoistico. Beve, dirò ancora col Gratry, i veleni mortali che la natura mescola alle sue gioie colpevoli, senza pensare alla futura famiglia, ma pensando solo a sé ed alla sua soddisfazione. Che gl’importa dei contagi velenosi e delle loro tracce indelebili, trasmissibili per eredità? Questi lebbrosi della dissolutezza, che restano segnati con piaghe vive o con cicatrici sempre terribili, portano poi, con la perfida impudenza dell’egoismo, una simile loro dote in dono alla fidanzata verginale ed in eredità imprevista ai figli. E tutto questo lo chiamano amore! Vigliacchi! E chi potrà far credere che, in nome dell’amore, le grandi nazioni hanno introdotto nelle loro leggi il divorzio? La donna, dopo qualche anno di matrimonio, la si butta via, come un limone spremuto; ed il problema dei figli lo si risolve in qualche modo. Mentre si mormora che il nemico della donna e dell’amore è il Cristianesimo, senza posa la voluttà criminale va alla ricerca di nuovi calici, ai quali spegnere la sete inestinguibile dell’egoismo più abbietto. Il gregge d’Epicuro non sa amare. Se qualcuno non è convinto, vada e scriva la parola profanata dell’amore sulle case del disordine… Mai si è così poco amato come ai giorni nostri e mai così scarso è stato il sorriso della pace e della gioia: l’egoismo dei sensi ha come ineluttabile conseguenza la « tristezza atroce della carne immonda ». Invece della vita, si ha l’abisso della morte. Se l’autore del Decamerone, dinanzi al frate inviatogli dal certosino Piero Petroni, si pentì della sua vita dissoluta, si commosse, si spaventò, si convertì; mille e mille altri, anche se non ritornano al Cuore dell’Unico che sa e dona l’Amore, al termine della loro vita, debbono confessare a se stessi le disillusioni più gravi ed il disgusto più amaro; è la disfatta completa non dell’amore ma dell’egoismo.

2. – La morale cattolica e l’amore.

Esponiamo, ora, i principi della morale cattolica, con esattezza, con precisione, con la tranquilla serenità della ragione e della fede, che nulla hanno a che fare con la torbida irrequietezza del senso e della passione.

1. Iddio tutto crea santamente. E tutto è razionale nell’organicità del tutto. La natura tende sempre ad un fine giusto, determinato ed efficace. Anche gli istinti del senso, perciò, non sono da riguardarsi in sè come un male. Il male, come diremo, dipende dall’abuso che noi possiamo fare, dopo che la colpa originale ha rotto la subordinazione del senso alla ragione, cosicché tale subordinazione è oggi non una dolce necessità, ma il risultato d’uno sforzo e d’una personale vittoria. Perché mai Dio permette che noi sentiamo così fortemente il fremito della carne? Perché, anche in anime sante e nobili, abbondano « le tentazioni » e la fantasia diventa una piazza, dove pensieri, immaginazioni, desideri cattivi si rincorrono e s’avvicendano? Perché persino un san Paolo deve esclamare: « Sento un’altra legge nelle mie membra, che ripugna alla legge della mia coscienza »? Perché nel deserto della Calcide ed a Betlemme vediamo un san Gerolamo, con un sasso tra le mani, che si batte il petto e cerca di allontanare da sé i ricordi osceni di Roma, in parte ancora pagana? Perché  san Benedetto ed il Santo d’Assisi si gettano nudi fra le spine, ed insanguinano le loro carni pure? La ragione è semplicissima. Dio ha posto in noi queste tendenze, per indurre l’uomo e la donna alla costituzione della famiglia. Ciò che noi chiamiamo l’ « istinto », ciò anche che suscita nella mente della fanciulla sogni e speranze, ciò che fa commuovere un’anima giovanile dinanzi ad una culla ed alla poesia dei riccioli biondi, è questa forza, che spinge l’umanità alla sua conservazione. – L’importanza della famiglia per la società corrisponde ai sacrifici che essa costa. La procreazione e l’educazione dei figli, fine primario ed essenziale della famiglia, è un compito nobilissimo, ma ricchissimo di responsabilità, di dolori, di abnegazioni. Si rifletta un istante all’abnegazione d’una mamma… Noi potremo ridere dinanzi ad una qualsiasi signorina, soprattutto se ha i capelli alla bébé e se si presenta a noi dopo una laboriosa toilette con un viso imbellettato; ma non ridiamo mai, non possiamo ridere dinanzi ad una mamma. La mamma è qualcosa di grande e di sacro. Non si dica che il Cristianesimo è nemico della donna. Una Vergine Madre rifulge in alto e proclama da un lato la grandezza della maternità e dall’altro la bellezza della verginità. Certo, per noi, la donna è la figlia, è la sorella, è la madre; non è un essere anfibio, più o meno mascolinizzato, che non sa più quale segreto scoprire per diventare ridicolo; non è la sciagurata che dimentica di avere un’anima, per vendere, magari anche in una forma elegante e perciò più obbrobriosa, la sua dignità. La vera donna, cioè, andiamo a cercarla nel focolare domestico, non nella Dea Ragione della Rivoluzione francese e nelle altre sue seguaci.

2. Di tutto, però, noi possiamo abusare, specialmente quando si tratta di questi sensi nostri, che, invece di essere un mezzo, tendono a diventare fine a se stessi. Come il bisogno della nutrizione è ragionevole e necessario per la conservazione dell’individuo, ma produrrebbe mille mali quando noi non mangiassimo per vivere, ma vivessimo per mangiare, così l’istinto dei sensi nostri ci conduce ad una serie di disastri, quando non viene riguardato come un mezzo — ragionevole e necessario — per il fine altissimo della famiglia e per la conservazione della società, ma quando, al contrario, anela ad una soddisfazione indipendente da ogni bene che gli conferisce l’utilità e la santità. E come l’abuso della gola sregolata, invece che alla nutrizione ed alla vita, incammina verso la malattia e la morte, così questa ammirabile facoltà può sviluppare in noi un uragano, o, per dirla col libro di Giobbe, un fuoco che tutto consuma, e che brucia la vita in tutti i suoi germi ed in tutte le sue radici.

Che il Cristianesimo giustamente combatta questo abuso, bisogna esser ciechi per non ammetterlo. « Non avete voi incontrato, vi chiede Lacordaire, qualcuno di quegli uomini, che sul fiore dell’età, appena onorati dai segni della virilità, portano già le ferite del tempo; che, degenerati prima d’aver raggiunto lo sviluppo totale dell’essere, con la fronte carica di rughe precoci, con gli occhi incerti ed infossati, con le labbra impotenti ad esprimere la bontà, trascinano sotto un sole sempre giovane una esistenza caduca? Chi ha fatto questi cadaveri? Chi ha colpito questo figliuolo? Chi gli ha rubato la freschezza dei suoi anni? Chi ha posto sul suo volto secoli di vergogne? Non è forse questo senso, nemico della vita degli uomini? Vittima della sua depravazione, il disgraziato ha vissuto solitario, non ha aspirato se non a scosse egoiste ed a spaventevoli pulsazioni, che l’uomo o il cielo non vogliono vedere; ed eccolo, se ne va, inebbriato dal vino della morte e con passo sprezzante, a portare il suo corpo alla tomba, ove i suoi vizi dormiranno con lui e disonoreranno la sua cenere sino all’ultimo dei giorni ». L’egoismo dei sensi non si ferma a queste devastazioni. S’aggiungono, come abbiamo già accennato, le depravazioni del cuore; il dispotismo ignobile, che la passione esercita sopra le sue vittime; i misfatti che la gioia omicida della gioventù esige e reclama; e sono matrimoni infelici; son le famiglie senza figli; son le patrie spopolate, tremanti dinanzi alle case che non il sorriso dei bimbi, ma solo conoscono i calcoli piccini dell’egoismo e preparano i tramonti delle nazioni. – Ripeto: bisogna esser folli, per non approvare la morale cristiana nei suoi sforzi contro questa fiumana di fango e di danni. Bisogna esser pazzi per non scorgere come non vi siano che due vie: o le conseguenze descritte, ovvero l’intransigenza assoluta: ogni pensiero, ogni sentimento, ogni affetto, ogni desiderio, ogni lettura, ogni sguardo, ogni azione che non è nell’ordine, debbono essere respinti inesorabilmente. Illudersi di venir a transazioni in questo campo, sarebbe come pretendere di gettarsi sì dall’alto della montagna nel precipizio, ma di fermarsi poi dopo due metri. O si sta sulle altezze, o si cade in fondo. La realtà, del resto, ce lo insegna con la sua logica schiacciante.

3. Solo con tale intransigenza l’amore vero nasce, sboccia, si sviluppa, è fecondo e diventa virtù. Qui, contro il Boccaccio sorge Alessandro Manzoni; e di fronte al Decamerone salutiamo i Promessi Sposi e la pagina immortale dell’addio ai monti di Lucia, in cui si enuncia la tesi cristiana. Gli altari di Dio non sono la condanna dell’amore, ma ne sono la consacrazione: è là dove « il sospiro segreto del cuore » è « solennemente benedetto. e l’amore viene « comandato » ed è chiamato « santo ». – Cos’è la famiglia per noi? Un affetto gentile, che si apre come il calice d’un fiore nella primavera d’una giovinezza buona e che è reso santo dalla rugiada di Dio; due anime, che si donano l’una all’altra per l’eternità, con l’unica parola consentita dall’amore vero, ossia con un sì eterno; due cuori, consapevoli che nella vita non v’è solo esultanza di festa e sereno di allegrezza, ma non mancano sacrifici e dolori, e che per esser fedeli alla severa poesia del dovere si stringono le destre e nel nome del Signore procedono verso l’avvenire; la fecondità dell’unione, coi teneri esseri, splendido coronamento dell’amore; una casa, cioè, resa bella da pampini verdi e dalla gioia dei figli, simili a rampolli d’ulivo intorno alla mensa; tutto questo, nello stesso ordine naturale, fa del matrimonio e della famiglia qualcosa di sacro e di ineffabilmente grande. Gesù, poi, suggellando il matrimonio col dono soprannaturale e la spirituale aureola d’un Sacramento, sublimandolo dal mondo della natura al mondo della grazia e rendendolo simbolo delle Sue mistiche nozze con la Chiesa, conferì alla famiglia una nuova e divina bellezza; il Vangelo, le Epistole paoline, così luminose e limpide, tutta la tradizione cattolica di venti secoli, ce lo rammentano. – Cos’è la famiglia per noi? Ce lo ha detto Enrichetta Blondel, quando un giorno nella villa di Brusuglio mostrò al suo Alessandro, che tanto amava la moglie sua, due virgulti, da lei piantati ed attorcigliati insieme, sussurrando soavemente al poeta lombardo: « Vedi? Questi due virgulti rappresentano i nostri due cuori insieme uniti ». Il Manzoni allora pianse e volle che là intorno si facesse un’aiola, non più dimenticata. E con lui s’intenerisce ogni nobile anima. – Cos’è la famiglia cristiana per noi? Essa è chiamata a concorrere all’opera creatrice di Dio, a plasmare le coscienze, a popolare il paradiso. Da essa zampillano le acque rinnovatrici della società. Da essa tanto si attende la patria, perchè, come ha notato il Bismarck, la grandezza delle nazioni riposa sulle ginocchia delle madri. E solo con la rinnovazione di questa cellula sociale potranno prepararsi le glorie future della Chiesa santa di Cristo. In una graziosissima poesia intitolata Les deux anges gardiens, Federico Ozanam esprimeva le sue idee a proposito della famiglia: due angeli, che erano sempre stati amici in cielo, domandano a Dio di amarsi anche in terra a fianco di due giovani, che si giurano fede di sposi. E quando la sua casa fu allietata dalla nascita della prima bambina, così egli ne dava l’annuncio al Foisset: « Avevamo pregato assai, e preghiamo anche ora, perchè mai come adesso abbiamo avuto bisogno dell’assistenza divina. Siamo stati esauditi oltre ogni nostra speranza. Ah, che momento fu quello in cui intesi il primo vagito della mia creatura, quando vidi quella creaturina, così piccola eppure immortale, che Dio affidava alle mie mani, che mi apportava tanta consolazione ed insieme tanti obblighi! Le abbiamo dato il nome di Maria, che era quello di mia madre e in memoria della possente Patrona, all’intercessione della quale noi attribuiamo questa nascita fortunata. Ora la madre, quasi del tutto ristabilita, ha la consolazione di dare il latte alla bambina; e questo è un piacere molto costoso, ma pieno di soddisfazioni. In tal modo non perderemo i sorrisi del nostro angioletto e potremo incominciare tosto l’educazione. Frattanto rifaremo da capo la nostra, perché  credo che il Cielo ce l’abbia mandata per insegnarci molto e per renderci migliori. Io non posso contemplare quella dolce figura, piena di innocenza e di purezza, senza scorgervi la sacra immagine del Creatore meno velata che in noi. Non posso pensare a quest’anima immortale di cui dovrò un giorno render conto, senza che mi senta maggiormente penetrato dei miei doveri. Come, infatti, potrei insegnarle ciò che io non pratico per il primo? Poteva Iddio scegliere un mezzo più amabile per istruirmi, per correggermi, per mettermi sul cammino del Cielo? – Solo nella concezione cristiana l’amore non è parola vuota di senso, non è una menzogna, non è ad ogni istante turbato da temporali e da nubi. Dove si pratica la morale di Cristo, si ama. Anche quando insieme si piange, il raggio di sole conforta, abbellisce, santifica la lagrima umana. E la stessa purezza giovanile, l’illibato candore dell’animo, e non solo dei sensi, è in relazione all’amore della futura famiglia. Nessuno, come la giovane anima pura, conosce l’intensità e la freschezza dell’affetto. In questo amore cristiano palpita senza dubbio l’amore di Dio; ma non è ancora la vetta più alta dell’amore. Qui si va a Dio attraverso l’amore di una creatura quantunque si tratti d’un amore casto, nobile, giusto, subordinato a Dio. – Tale potenza d’amore si può sublimare; si può anche in questo caso, morire ai sensi, per vivere d’un amore perfetto nello spirito. È il consiglio evangelico della verginità. Nella sua intima natura, la verginità non implica solo la assenza di ogni macchia che possa offuscare il candore; anche un tavolo non commette nessun peccato, eppure nessuno discorrerà della verginità del legno. Dire verginità è dire amore, ed amore perfetto di Dio, in quanto l’anima verginale con fedeltà e con generosità consacra tutto il suo essere, anima e corpo, e tutte le fibre del suo cuore, tutto il suo affetto a Gesù Cristo. « L’uomo animale non percepisce le cose che sono proprie dello Spirito di Dio », avverte san Paolo. Nè, quindi, c’è da stupirsi se il mondo non sospetti neppure questa riduzione del concetto di verginità al concetto di amore perfetto. Eppure in quel gioiello di poesia ispirata che è il Cantico dei cantici l’idea è enunciata ad ogni parola con vigore impareggiabile: Il mio Diletto è sceso nel suo giardino fra le aiuole di balsamo a pascersi tra i giardini, a cogliere gigli. Io sono del mio Diletto ed Egli è mio: Lui, che si pasce fra i gigli. Potente al par della morte è l’amore. I suoi sprazzi son sprazzi di fuoco. Le sue fiamme, fiamme divine. È essenzialmente diversa la verginità materialmente conservata d’una Vestale pagana e la verginità cristiana, vivificata dall’Amore divino. Ed è per questo che, dai primi decenni del Cristianesimo nascente ai giorni nostri, fu la verginità che scrisse nella storia della Chiesa le pagine più fulgide di amore a Cristobed ai fratelli. Il grido di Agnese, il canto di Cecilia, il velo di Marcellina ce lo assicurano; ce lo dicono i candidi eserciti verginali che san Vincenzo de’ Paoli ed altri Ordini religiosi hanno disperso negli asili del dolore, nelle corsie degli ospedali, fra le tetre mura d’un carcere, in tutte le case che raccolgono orfani, vecchi, derelitti, bisognosi. Le anime verginali sanno amare; sanno sacrificarsi, affrontano le imprese più difficili, superano gli ostacoli più gravi, salvano le anime, beneficano i corpi, asciugano lagrime, dànno ali a tutti per i voli della fede e dell’amore. Per ogni miseria del mondo, è stato ben detto, la morale cristiana ha preparato una verginità che ne doveva essere la madre e la sorella. – Cos’è una vocazione alla verginità? È una vocazione ad amare. La verginità cristiana, perciò, è feconda e non la si può concepire senza una famiglia; la famiglia infinitamente più grande e più bella della famiglia naturale, la sacra famiglia delle anime. – Ai giovani, che aspirano al sacerdozio, la Chiesa comanda di amare. Debbono rinnegare se stessi, far tacere il grido dei sensi, mortificarsi, per amore dei fratelli. Viene un giorno, ha cantato Lacordaire, che la Chiesa prende questa giovinezza ardente e la getta bocconi per terra nelle sue basiliche: « Ed andranno poi, andranno questi giovani per tutto il mondo, sotto la guardia della loro virtù; penetreranno nel santuario dei santuari, quello delle anime; ascolteranno confidenze terribili: vedranno tutto, sapranno tutto; mille tempeste passeranno sul loro cuore. Questo cuore resterà di fuoco per la carità, di granitonper la castità. È a questo segno che i popoli riconoscerannonil prete ». Ecco, quindi, la spiegazione del sacerdote, del missionario cattolico, delle Suore di carità, di ogni Ordine, di ogni Congregazione e di ogni Famiglia religiosa, sia che si dedichi ad un’intensa attività quotidiana, sia che si consacri alla contemplazione. La verginità e l’apostolato son sempre congiunti, appunto perchè la verginità è amore. Il divino fascinatore delle giovani coscienze verginali, che è venuto sulla terra a predicare l’Amore, non per nulla si è circondato di gigli. Il « figlio della Verginità », come l’ha salutato san Bernardo, che volle anime verginali come Madre, come Padre putativo, come precursore, come discepolo prediletto, sempre, in ogni tempo, ha rivolto il suo appello ad una schiera di puri e di forti, dagli occhi sfavillanti di luce, pronti alle dedizioni totali per l’amore di Dio e per l’amore del prossimo. «Dunque, si domanda Cesare Angelini nei suoi Commenti alle cose con animo di poeta, ancora nascono gigli su questa terra, ove i figli degli uomini han rinunciatona ogni candidezza per un gusto di fragile peccato?… Ogni volta che gli Angeli e i Santi han fatto le loro comparse (rade!) fra noi, non han scelto altro bastone che il giglio per appoggiarsi nel loro andare terreno. Così, esso risplende in lor diafane mani, nelle tele immortali dei pittori. E che senso di eterna frescura dà all’anima e all’occhio che lo vagheggia! Par di sentir in lontananza non so che aria di Paradiso. – « Intanto noi abbiamo il dono di saperci incantare innanzi al giglio vero e alla sua immagine perfetta. Snello, elegante come un candeliere di argento che il cesello di Benvenuto non seppe mai atteggiar così bene, il giglio ride sul popolo dei fiori che, sospendendo la loro conversazione, gli fanno festa, estatici; poichè, se anche hanno gala di colori per la meraviglia degli occhi, riconoscono che il bianco del giglio non è più colore, ma è luce.

Di candor lucidoso

riluce la sua vesta.

a Poteva il Bianco da Siena prestarci due versi più belli per salutare la creatura del divino biancore? Pur nel nome è qualcosa che diletta. Giglio è parola che ride tutta, tant’è ricca di suoni limpidi e sottili. Giglio è un nome perlaceo, anzi, è già una perla trovata in certi gentili giardini del cielo e lasciata cadere in dono, ma per breve stagione, sulla terra… ». Ed il poeta si rivolge ai gigli e dice loro: « Gigli, che vi innalzate limpidi e quasi gloriosi della vostra castità gentile, ad ammonirmi, con la forza del simbolo, che il casto è il vittorioso del mondo e la sua aria è quella del vincitore; gigli, che tornate a fiorire alti e lontani forse per dirmi che tutto ciò che nasce di terra deve dare un fiore per il cielo, e insegnarmi che la carne non è la vera ricchezza della vita, ma è un peso, e la sola ricchezza è lo spirito che s’eleva al cielo; gigli, nostalgie di immacolatezze perdute, perchè richiamate alla memoria con un misto di tenerezza e di accoramento i versi di Saffo: “Verginità, verginità, dove sei mai fuggita? “. Questi versi non sono la parola definitiva della storia. Il fango ci circonda, è vero; ma ogni volta che Cristo nella storia risorge, sorridono nuove fiorite di gigli, in cui « nel pudor del prepuscolo » sbocciano i gigli delle anime verginali. Sempre, finchè il sole rifulgerà nel cielo, « soccorrendo due gocce di rugiada, i bei petali lisci si disinvolgeranno con grazioso scompiglio e guarderanno, estatici e meravigliati d’essere fioriti così bianchi su dalla terra così nera. E poichè i petali son puri, tutto lo stelo sarà limpido e puro. Il paese d’intorno resterà preso nell’incanto e nell’ebbrezza di quel loro fulgore spalancato e di quella fragranza che è passione e vibrazione… ». E sempre, fra i gigli, passeggerà vittorioso il Re dell’Amore.

3. – Conclusione.

Rileggiamo, insieme, alcuni versi dell’Odissea, al canto decimo. Omero racconta le avventure d’un gruppo di compagni di Ulisse, che Circe mutò in animali immondi:

Edificata con lucenti pietre

Di Circe ad essi la magion s’offerse,

Che vagheggiava una feconda valle.

Montani lupi e leon falbi, ch’ella

Mansuefatti aveva con sue bevande,

Stavano a guardia del palagio eccelso.

Né lor già s’avventavano: ma invece

Lusingando scotean le lunghe code,

E sull’anche s’ergeano. E quale i cani

Blandiscon il signor, che dalla mensa

Si leva, e ghiotti bocconcelli ha in mano,

Tal quelle di forte unghia orride belve

Gli ospiti nuovi, che smarriti al primo

Vederle s’arretriro, van blandendo.

Giunti alle porte, la deessa udiro

Dai ben torti capei, Circe, che dentro

Canterellava con leggiadra voce,

Ed un’ampia tessea, lucida, fina,

Meravigliosa, immortal tela, e quale

Dalle man delle dive uscir può solo.

Polite allor, d’uomini capo, e molto

Più caro e in pregio a me, che gli altri tutti

Sciogliea tai detti: — Amici, in queste mura

Soggiorna, io non so ben se donna o diva,

Che tele oprando, del suo dolce canto

Tutta fa risentir la casa intorno.

Voce mandiamo a lei. — Disse, e a lei voce

Mandaro: e Circe di là tosto, ov’era,

Levossi, e aprì le luminose porte,

e ad entrare invitavali. In un gruppo

La seguian tutti incautamente, salvo

Euriloco, che fuor, di qualche inganno

Sospettando, restò. La Dea li pose

Sovra splendidi seggi: e lor mescea

Il pramnio vino con rappreso latte,

Bianca farina e mel recente: e un succo

Giungeavi esizial, perchè con questo

Della patria l’oblio ciascun bevesse.

Preso e votato dai meschini il nappo,

Circe batteali d’una verga, e in vile

Stalla chiudeali: avean di porco testa,

Corpo, setole, voce: ma lo spirito

Serbavan dentro, qual da prima, integro.

Veramente, era superfluo che ci soffermassimo su questa scena. In ogni tempo, il gregge d’Epicuro è così numeroso, che non val la pena di disturbare Omero. Apriamo, piuttosto, il Vangelo: ad una festa nuziale, a Cana di Galilea, Gesù compie il suo primo miracolo e santifica l’amore dei giovani sposi. La famiglia è a Lui cara; Egli va, visita, porta gioia e salvezza, in una parola, benedice e sublima l’amore. Il mondo non dev’esser un’immensa stalla di Circe. L’amore deve trionfare nelle case, come pur deve sorridere sulle alte cime, ricoperte di bianca neve.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (14)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (V)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (V)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO

SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

PRIMA PARTE DEL CATECHISMO:

FEDE (2)

4. LA SACRA SCRITTURA E LA TRADIZIONE.

1. LA SACRA SCRITTURA O BIBBIA È COMPOSTA DA 72 LIBRI SCRITTI, ALCUNI PRIMA, ALTRI DOPO GESÙ CRISTO, DA UOMINI ILLUMINATI DA DIO SU MOZIONE E PER ISPIRAZIONE, DELLO SPIRITO SANTO E CHE SONO RICONOSCIUTI DALLA CHIESA COME PAROLA DI DIO.

Lo Spirito Santo ha agito su questi autori in modo particolare; li ha spinti a scrivere, li ha diretti e illuminati: per questo ciò che hanno scritto è parola di Dio. Le Sacre Scritture sono state create da Dio (II Tim. III. 16). Questo è chiaro da molte espressioni di Gesù Cristo (Mt XV, 3; Mc XII, 36) e dalle decisioni dei Concili. Il Concilio di Trento (1546) e il Concilio Vaticano (1870) hanno dichiarato espressamente che Dio è l’Autore di tutte le Scritture. È, dice sant’Agostino, come se la mano di Cristo avesse scritto i Vangeli. – La Scrittura è un’epistola di Dio alle sue creature. (S. Grég.) – La Scrittura è come una lettera che il nostro amato Padre ci ha inviato dalla nostra patria. (S. Ant. l’Erm.). Questa lettera ci dice cosa dobbiamo fare per tornare nella nostra patria. ed esservi eternamente felici. È stato lo Spirito Santo a parlare attraverso gli autori della Sacra Scrittura. (S. Agos.) Questi autori erano come una lira suonata dallo Spirito Santo (S. Giustino). Lo Spirito Santo si è servito di essi come il musicista usa l’organo o il flauto (Athénag.). Tuttavia, questi autori non erano strumenti passivi; tutti loro potevano mostrare le loro qualità personali nei loro libri. Erano come i pittori che vedono un edificio alla luce del giorno e lo copiano fedelmente, ma in modo diverso a seconda del loro maggiore o minore talento secondo la varietà degli strumenti a loro disposizione. – La Sacra Scrittura è quindi priva di errori. Tuttavia, dobbiamo prestare attenzione non tanto alle parole quanto al loro significato. (S. Ger.) La verità non è tanto nelle parole quanto nelle cose. (S. Aug.) Non dobbiamo quindi appoggiarci su espressioni come: il sole sorge. – È perché la Sacra Scrittura contiene la parola di Dio che le portiamo sempre grande rispetto; ci alziamo in piedi quando viene letto il Vangelo, giuriamo sul Vangelo; la Chiesa, durante le Messe solenni, fa incensare il Vangelo circondato da accoliti con torce, e lo fa baciare dal Sacerdote. Il Concilio di Trento ha decretato delle sanzioni contro coloro che abusano delle Scritture per scherzi o altri scopi profani (4. Sess.). I Giudei avevano già grande venerazione per la Sacra Scrittura; hanno sopportato il martirio piuttosto che agire in modo contrario alle leggi registrate nei Libri sacri (Giuseppe), per esempio i Maccabei ed Eleazaro.

I 72 LIBRI DELLA SCRITTURA SI DIVIDONO IN 45 LIBRI DELL’ANTICO TESTAMENTO E 27 LIBRI DEL NUOVO TESTAMENTO.

Ciascuna di queste due parti è ulteriormente suddivisa in libri storici, sapienziali e profetici.

Antico Testamento : I libri storici contengono principalmente narrazioni. Si tratta, ad esempio, dei libri di Mosè, che raccontano le origini dell’umanità, le vite dei patriarchi, la storia del popolo ebraico fino al suo ingresso nella Terra Promessa il Libro di Giosuè racconta la conquista; i Libri dei Re raccontano le vicende dei re ebrei; il libro di Tobia contiene la biografia di Tobia durante la prigionia; i libri dei Maccabei sono le prove del popolo sotto Antioco e la loro lotta per la libertà, ecc. – I libri sapienziali contengono generalmente una dottrina edificante. Come ad esempio il libro di Giobbe, che predica la pazienza; i Salmi, ossia 150 inni, composti per lo più da Davide, che venivano cantati nel tempio; il libro dei Proverbi di Salomone. – I libri profetici contengono soprattutto predizioni sul Salvatore: i 4 grandi profeti, Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele, e i 12 profeti minori, Giona, Abacuc, ecc.

Il Nuovo Testamento: I libri storici sono i 4 Vangeli e gli Atti degli Apostoli. – I libri sapienziali sono le 21 Lettere degli Apostoli, di cui 14 di San Paolo. – Il libro profetico, l’Apocalisse (rivelazione di S. Giovanni, che la scrisse durante il suo esilio sull’isola di Patmos). Questo libro è molto difficile da comprendere e descrive i destini della Chiesa. – Per quanto riguarda la lingua in cui sono stati scritti questi libri, bisogna notare che prima di Gesù Cristo sono stati scritti per lo più in ebraico, e quelli scritti dopo Gesù Cristo, per lo più in greco. Una traduzione latina delle Scritture, accuratamente riveduta e corretta da San Girolamo per ordine del Papa (intorno al 400), si è diffusa in tutta la Chiesa ed è quindi chiamata VuIgata, cioè la più diffusa. Il Concilio di Trento la dichiarò la traduzione autentica (ufficiale) del testo primitivo della Scrittura.

I LIBRI PIÙ IMPORTANTI DELLA SCRITTURA SONO I 4 VANGELI DI SAN MATTEO, DI SAN MARCO, DI SAN LUCA E DI SAN GIOVANNI E GLI ATTI DEGLI APOSTOLI DI SAN LUCA.

I 4 santi Vangeli ci raccontano la vita e la dottrina di Gesù Cristo; gli Atti ci raccontano in particolare dell’apostolato dei principi degli Apostoli SS. Pietro e Paolo. –

Il numero quaternario dei Vangeli è un simbolo dei quattro punti cardinali verso i quali il Vangelo deve essere predicato (S. Aug.).

Due di loro erano Apostoli: S. Matteo (dapprima pubblicano) e S. Giovanni, discepolo prediletto del Salvatore, al quale il Salvatore predisse una morte naturale; egli raggiunse un’età molto avanzata e morì come Vescovo di Efeso S. Marco fu discepolo di Pietro; S. Luca, all’inizio medico, fu il primo a morire. Luca, inizialmente medico, fu compagno di San Paolo.

Origine e scopo dei Vangeli. – S. Matteo scrisse il suo Vangelo per gli ebrei della Palestina, in lingua ebraica, quando stava per lasciare quel Paese, vuole dimostrare che Gesù era il Messia atteso, e cita in ogni momento le profezie che si sono realizzate in Gesù Cristo – S. Marco scrisse il suo Vangelo, che è breve, per i fedeli di Roma; esso probabilmente contiene un riassunto delle storie di San Pietro. Marco rappresenta Gesù Cristo come Figlio di Dio. – S. Luca compose il suo Vangelo per un nobile romano, Teofilo, per istruirlo sulla vita e sugli insegnamenti di Gesù Cristo. Il suo libro è senza dubbio un riassunto dei discorsi di San Paolo. Dobbiamo a San Luca ciò che sappiamo della vita della Beata Vergine e le più belle parabole di Nostro Signore. Anche gli Atti degli Apostoli sono indirizzati a Teofilo. – S. Giovanni scrisse il suo Vangelo, quando era molto anziano, per provare contro gli eretici del suo tempo che Gesù Cristo è Dio stesso. Egli riporta principalmente i discorsi pronunciati da Cristo che fanno comprendere la sua divinità.

Epoca della composizione dei Vangeli. – Gli Evangelisti hanno probabilmente scritto nell’ordine in cui i loro libri appaiono nella Bibbia: S. Matteo, intorno all’anno 40;

S. Marco e S. Luca qualche anno prima della rovina di Gerusalemme, cioè prima del 70; S. Giovanni intorno all’anno 90. Ma non furono riuniti in un unico libro fino al II secolo.

LE CARATTERISTICHE INTRINSECHE DEI VANGELI PROVANO CHE ESSI SIANO STATI SCRITTI DAI DISCEPOLI DI GESÙ CRISTO E CHE SIANO VERITIERI. Possiamo dimostrare con le copie, le traduzioni, le citazioni più antiche che nulla sia stato cambiato (È questa la prova dell’autenticità, veridicità, integrità dei Vangeli).

Le caratteristiche intrinseche dei Santi Vangeli ci mostrano che sono stati scritti dai discepoli di Gesù Cristo. Se esaminiamo il testo greco, possiamo vedere che sia stato scritto da ebrei; infatti lo stile presenta molte tracce di ebraismo. Per esempio, si dice: Lé Maestro vide (udì) il rumore (S. Marc, V. 38); chiamano il corpo umano carne (S. Giovanni, YI, 52); l’anima, respiro; la coscienza, cuore (Rom. II 15). Se gli autori fossero stati Greci, non si sarebbero permessi questi ebraismi. – Gli autori scrissero prima della rovina di Gerusalemme (70); essi hanno una conoscenza molto esatta della topografia, delle persone e degli eventi. Scrittori del II sec, cioè di un’epoca in cui Gerusalemme era stata distrutta, in cui tutta la Palestina era stata devastata dalla guerra, non potevano possedere queste nozioni. Inoltre, i primi tre Vangeli non menzionano la presa di Gerusalemme. – Gli autori erano degli illetterati; la loro narrazione è in uno stile semplice, proprio degli uomini del popolo. – Gli autori hanno visto ed ascoltato essi stessi ciò che raccontano; poiché raccontano in modo vivido e pittoresco. Citano i loro stessi nomi. – L’autenticità dei Vangeli si basa anche su prove estrinseche. I più antichi scrittori ecclesiastici parlano di questi Vangeli e ne citano alcuni passi, così come fanno gli eretici. Infine, abbiamo la testimonianza delle chiese più antiche. – Anche le caratteristiche intrinseche dei Santi Vangeli provano la veridicità dei loro autori. Infatti, essi raccontano la storia con calma e spassionatezza (non mostrano né animosità verso i nemici di Cristo, né si stupiscono dei suoi miracoli, ecc.) non nascondono i propri insuccessi; raccontano fatti che avrebbero portato loro persecuzioni, persino la morte (e chi mente a proprio svantaggio?); tutti ci mostrano lo stesso volto di Cristo, anche se scrivono in tempi e luoghi diversi; le apparenti contraddizioni (sull’ora della crocifissione, per esempio, gli Aangeli al sepolcro, il centurione a Cafarnao) mostrano che non fossero tra loro d’accordo; infine, è assolutamente impossibile immaginare un personaggio ideale come quello del Salvatore. – Nel corso dei secoli nulla è stato cambiato nei Vangeli. Tutti i manoscritti (esistono quasi 700 copie del testo originale, molte delle quali risalgono al IV secolo) e tutte le prime versioni (la Peschito in siriaco, l’Itala in latino, del II secolo; la traduzione gotica del vescovo Ulfilas, ora a Upsala, del 370) concordano tutte perfettamente con il nostro testo attuale. Quindi non ci sono stati cambiamenti per diciassette secoli. – Né ci sono stati prima del II secolo, perché a quell’epoca i Vangeli venivano letti durante le assemblee liturgiche (secondo S. Giustino, 138) e lì erano strettamente controllati. Del resto, chi avrebbe potuto corrompere i manoscritti dell’intero universo nello stesso momento e nello stesso modo? – Inoltre, gli scrittori cristiani dei primi secoli riportano così tante citazioni dalla Scrittura che potremmo quasi ricostruire i Libri Santi. Ora, tutte queste citazioni sono conformi al nostro testo attuale. – L’Antico Testamento, in particolare, non avrebbe potuto essere corrotto, poiché era contemporaneamente nelle mani degli Ebrei, i cui scrupoli si spingevano fino a contare le lettere. – Il Dio onnipotente che ha ispirato la Bibbia provvederà anche alla sua conservazione. “Dio, che per 6.000 anni ha preservato la luminosità del sole, ha anche il potere di preservare la fiaccola della fede che ha acceso nei Libri santi. Così come ha creato il sole per i nostri primi genitori, così non di meno ha fatto scrivere la Bibbia solo per i Cristiani primitivi.”. (Deharbe.)

La lettura della Bibbia è lecita per i Cattolici ed anche molto utile; ma la traduzione deve essere approvata dal Papa e corredata di spiegazioni. (Benedetto XIV, 13 giugno 1757.)

“Tutto ciò che è scritto è scritto per la nostra istruzione”. (Rom. XV, 4.) Nella Bibbia impariamo a conoscere Dio con esattezza; vediamo la sua onnipotenza (il racconto della creazione, molti miracoli), la sua sapienza (il governo del genere umano e la vocazione di alcuni uomini in particolare), la sua bontà (l’Incarnazione e la Passione del Figlio di Dio), ecc. Include i migliori esempi di virtù (Abramo, Giuseppe, Mosè, Tobia, Giobbe e soprattutto Cristo), e di conseguenza siamo fortemente stimolati a fare il bene. La Bibbia è quindi come la tromba che suscita il coraggio del soldato (S. Efrem); ci indica la via del cielo, come un faro in mezzo alla tempesta, indica al pilota l’ingresso del porto. – La Bibbia ci mostra le pericolose conseguenze del vizio e ci mette in guardia dal peccato.

(La caduta dei nostri primi genitori, la rovina di Sodoma, il diluvio, la fine deplorevole dei figli di Eli, Assalonne, Giuda, Erode e altri). Vediamo i nostri vizi come in uno specchio e impariamo a correggerci. (S. Ger.) L’amore per le Scritture fa scomparire l’amore carnale. (S. Jer.) La lettura delle Scritture produce anime sante. (S. Jér.) Tutto ciò che l’uomo può trovare altrove utile alla sua salvezza, lo trova nella Bibbia, lo trova in abbondanza e trova anche ciò che non trova da alcun altra parte (S. Aug.). Così pure non si finisce mai di studiare la Scrittura; per quanto la rileggiamo, vi scopriamo sempre cose nuove, perché molti dei suoi passaggi contengono molteplici significati. Secondo S. Efrem, somiglia ad un campo la cui messe non può mai essere completamente raccolta, e quindi non è mai vuoto o deserto, e secondo S. J. Chrys., ad una sorgente sempre viva che sgorga tanto più abbondantemente quanto più vi si attinge. È un pascolo grasso: se assaggiamo spesso ciò che contiene, saremo nutriti e confortati. (S. Ambr.) – Ma chi vuole leggere e capire la Bibbia deve avere dentro di sé la spirito che ha ispirato i suoi autori, altrimenti non riuscirà a penetrare il senso delle parole (S. Bern.). È lo Spirito Santo che deve aprire la loro intelligenza. (S. Luc. XXIV, 45.)

ECCO LE RAGIONI CHE PROIBISCONO DI LEGGERE LA BIBBIA NEL PRIMO TESTO CHE SI PRESENTA:

Le vere Scritture e la loro vera interpretazione si trovano solo nella Chiesa cattolica;

La Bibbia è generalmente molto difficile da capire.

Solo nella Chiesa cattolica si trova la Bibbia nella sua integrità e nella sua esatta interpretazione. (Conc. di Tr. IV); perché è solo agli Apostoli ed ai loro successori, i Vescovi, cioè alla Chiesa Cattolica, che Gesù Cristo ha promesso lo Spirito Santo (S. Giovanni XIV); è solo ad essa che ha promesso che le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. (S. Matth. XVI, 18.) Anche la Bibbia, da cui la Chiesa trae la sua dottrina, non può essere corrotta. Gli eretici, al contrario, hanno distorto la Bibbia in una direzione favorevole ai loro errori ed hanno persino soppresso passi e libri che li infastidivano: Lutero, per esempio, soppresse l’epistola di S. Giacomo perché dice che la fede è morta senza le opere. Nessun Cattolico dovrebbe leggere una Bibbia protestante. – La Bibbia è generalmente difficile da capire. Pochissime persone possono dire di capire le Epistole lette nel sermone domenicale. S. S. Pietro stesso dice delle epistole di San Paolo che sono difficili da capire (Il S. Piet. III, 16). Anche S. Agostino ci dice: ci sono più passaggi che non capisco che quelli che capisco”. Né i profeti né Cristo hanno enunciato tutti i misteri divini in modo tale da essere compresi da tutti. (Clém. d’Al.) Così i dottori pure differiscono nell’interpretazione di uno stesso passo. La Chiesa deve quindi spiegare il significato dei passaggi difficili. “Tutti i codici presuppongono un’autorità che li interpreti nei casi dubbi; l’autorità istituita da Dio per la custodia e l’interpretazione della Bibbia è la Chiesa”. (Deharbe.) È alla Chiesa che Dio ha dato lo Spirito (S. Giovanni, XIV e XVI.). “Allo stesso modo, dice S. Efrem, di un bambino che porti alla madre la noce che ha trovato e le chiede di aprirla per lui, il Cristiano chiede alla Chiesa di spiegargli la Scrittura”. Sta alla Chiesa di decidere il vero significato, di dare l’esatta interpretazione della Scrittura (Conc. di Tr. IV); per questo il fedele deve leggere solo una Bibbia con note approvate, cioè che contenga l’interpretazione della Chiesa.

II. LE VERITÀ RIVELATE DA DIO NON CONTENUTE NELLA BIBBIA, MA TRASMESSE ORALMENTE AI POSTERI SONO CHIAMATE TRADIZIONE.

Gli Apostoli non ricevettero da Cristo l’ordine di mettere per iscritto le sue dottrine, ma di predicarle (S. Matth. XXVIII, 19). Solo pochi tra essi scrivevano e furono costretti a farlo dalle circostanze. Questi scritti sono molto incompleti; essi riportano piuttosto le azioni e i miracoli di Cristo che la sua dottrina. Gli autori sacri dichiarano espressamente di non aver messo tutto per iscritto e di aver comunicato ai fedeli solo oralmente. (II S. Giovanni, II; I Cor. XI, 2.) “Gesù”, dice formalmente San Giovanni alla fine del suo Vangelo, “fece molte altre cose”; e se dovessimo raccontarle in dettaglio, non credo che il mondo non potrebbe contenere i libri che verrebbero scritti su di esse (S. Giovanni XXI, 25.). – Per questo ci rimanda alla tradizione orale.. Attraverso la tradizione orale sappiamo, per esempio, che il Cristo abbia istituito sette Sacramenti, che la domenica debba essere santificata, che ci sia un purgatorio, che sia permesso il Battesimo dei bambini; solo da essa sappiamo quali libri facciano parte della Bibbia, e così via. Quando i protestanti affermano di aderire solo alle Scritture, si contraddicono con la santificazione della domenica; perché la Bibbia parla di santificazione non della domenica, ma del sabato. – Questo è sempre stato osservato in tutta la Chiesa ed è di origine apostolica (S. Vinc. Lér.). Se non troviamo un dogma nella Scrittura, lo troveremo sicuramente attraverso la tradizione. Così come chi ha le tubature che non danno più acqua, risale alla fonte per trovare le tracce del corso d’acqua, allo stesso modo possiamo trovare le prove storiche delle credenze dei secoli passati e sicuramente troveremo le tracce del dogma in questione. (S. Cypr.).

LA TRADIZIONE È REGISTRATA SOPRATTUTTO NEGLI SCRITTI DEI SANTI PADRI, NELLE DECISIONI DEI CONCILI, NEI SIMBOLI E NELLA LITURGIA DELLA CHIESA.

I Santi Padri sono scrittori cristiani dei primi1 secoli che si sono distinti per la loro scienza e la loro santità: il filosofo San Giustino, di Roma, zelante apologeta del Cristianesimo (+ 166); sant’Ireneo, vescovo di Lione (+ 202); San Cipriano, Vescovo di Cartagine (f 258), ecc. – Alcuni di loro erano discepoli degli Apostoli e sono chiamati sacerdoti apostolici: Sant’Ignazio, Vescovo di Antiochia (+ 107), e San Policarpo, Vescovo di Smirne (+ 167), ecc. – Uomini illustri che sono vissuti più tardi sono chiamati Dottori della Chiesa; ci sono 4 grandi Dottori nella Chiesa greca e 4 nella Chiesa latina. I Padri greci sono: S. Attanasio, Vescovo di Alessandria (f 373); S. Basilio, Vescovo di Cesarea in Cappadocia (+ 378); S. Gregorio, vescovo di Nazianzo in Cappadocia (+ 389); S. Giovanni Crisostomo, (bocca d’oro, Vescovo di Costantinopoli (+ 407). I Padri latini sono: S. Ambrogio, Vescovo di Milano (+ 397); S. Agostino, Vescovo di Ippona in Africa settentrionale, (+ 430); S. Girolamo, sacerdote traduttore della Bibbia (+ 420); San Gregorio Magno, Papa e riformatore del canto liturgico (+ 604). – Nel Medioevo ci furono anche 4 grandi dottori: S. Anselmo, Arcivescovo di Canterbury in Inghilterra (+ 1189); S. Bernardo, abate di Chiaravalle grande servitore della Madre di Dio (+ 1153); San Tommaso d’Aquino, domenicano (+ 1274) e S. Bonaventura, francescano (+ 1274) – In epoca moderna, si sono distinti i seguenti personaggi: S. Francesco di Sales, Vescovo di Ginevra (+ 1622); S. Alfonso M. de Liguori, Vescovo di S. Agata presso Napoli, fondatore dei Redentoristi (f 1787). – La Chiesa conferisce il titolo di Dottore ad alcuni studiosi illustri per la loro santità (così anche ai SS. Padri), di cui approva gli scritti; d’altra parte, a studiosi famosi la cui vita o la cui vita o l’ortodossia lasciavano a desiderare, sono chiamati semplicemente scrittori ecclesiastici. Tali erano Origene, il maestro della scuola catechetica di Alessandria (+ 254); Tertulliano, sacerdote di Cartagine (f 240) ecc. Per i Concili, vedi sotto il capitolo sulla Chiesa, per i simboli, il capitolo sulla fede. – Le preghiere liturgiche si trovano nel Messale e nei Rituali che vengono utilizzati per l’amministrazione dei Sacramenti e dei sacramentali. I Messali, ad esempio, dimostrano che si è sempre pregato per i defunti durante la Messa: la conclusione è ovvia.

5. LA FEDE CRISTIANA.

LA FEDE CRISTIANA È LA FERMA CONVINZIONE ACQUISITA PER GRAZIA DI DIO, DELLA VERITÀ DI TUTTO CIÒ CHE GESÙ CRISTO HA RIVELATO E CHE LA CHIESA CATTOLICA CI INSEGNA IN SUO NOME.

Nell’Ultima Cena Gesù Cristo disse ai suoi Apostoli: Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue. Anche se dovevano aver visto con i loro occhi che questo è il pane e questo è il vino, erano fermamente convinti della realtà di ciò che Gesù Cristo stava dicendo loro. Infatti, la santità della vita di Cristo, il gran numero dei suoi miracoli, l’adempimento di alcune profezie che aveva fatto, avevano dimostrato agli agli Apostoli l’evidenza della sua filiazione divina e, di conseguenza, l’impossibilità di dubitare della verità delle sue parole. – Abramo aveva ricevuto da Dio prima la promessa e poi il comando di sacrificare il suo unico figlio. Egli non esitò a eseguire l’ordine, fermamente convinto che, nonostante tutto, la promessa di Dio si sarebbe realizzata (Eb. XI, 19; Rm. IV, 9). Paolo chiama la fede una ferma convinzione di ciò che non vediamo (Eb. X, 1).

La fede cristiana è sia una questione di mente che di volontà. Prima di credere, esaminiamo se ciò che dobbiamo credere siaa stato realmente rivelato. Dio vuole questa indagine, perché esige un’obbedienza ragionevole (Rm XII, 1) e si considera uno stolto chi presta fede troppo in fretta e senza esame (Esod. XIX, 4). Ma l’intelletto ha acquisito la certezza che la dottrina proposta sia rivelata da Dio? Se la dottrina proposta è rivelata da Dio, la volontà deve immediatamente sottomettersi alla parola divina, anche se la ragione non la comprende. La volontà può resistere e poi non arriva alla fede. “Non si crede se non si vede”. (S. Agos.)

1. LA FEDE CRISTIANA SI RIFERISCE A MOLTE DOOTTRINE CHE NON CADONO SOTTO I NOSTRI SENSI E CHE LA NOSTRA RAGIONE NON COMPRENDE DA SÉ.

La fede è la ferma convinzione di ciò che non vediamo (Eb XI, l).

Noi crediamo nell’esistenza di Dio e non lo vediamo; crediamo nell’esistenza degli Angeli, che non vediamo. Crediamo nella risurrezione dei corpi, senza capire come avverrà; lo stesso vale per i misteri della S. Trinità, del SS. Sacramento. Queste verità non possono essere comprese o dimostrate direttamente dalla ragione. (Conc. del Vat.). È proprio per questo motivo che la fede sia meritoria e gradita a Dio, come disse Gesù Cristo a san Tommaso: Beati quelli che non vedono, ma credono. (S. Giovanni XX, 29) Anche il B. Clemente Hofbauer ripeteva: Se potessi vedere i misteri della nostra santa Religione con gli occhi aperti, li chiuderei per non perdere i meriti della mia fede.

È UN ERRORE CREDERE CHE PER QUESTO MOTIVO LA DOTTRINA DI CRISTO E DELLA CHIESA SIA IN CONTRADDIZIONE CON LA RAGIONIE O CON LR SCOPERTE DELLA SCIENZA.

Senza dubbio molte verità rivelate, la Trinità, l’Incarnazione, la Presenza Reale, sono in contraddizione con la ragione.(Conc. del Vat.) Dio è la fonte delle verità rivelate. e delle verità razionali; e Dio non può contraddirsi. L’apparente contraddizione deriva da una falsa nozione di dogma, da una mancanza di riflessione. (Conc. del Vat. 3, 4) Bacone diceva quindi giustamente: “Un po’ di filosofi allontana da Dio, molta filosofia riconduce a Lui”. Allo stesso modo, il poeta Weber ha detto: “La mezza scienza porta al diavolo, la scienza completa porta a Dio”. La fede non contraddice le conclusioni della scienza più di quanto lo faccia la ragione. Infatti, come può essere che proprio i più grandi scienziati, che hanno meglio meritato per l’umanità con le loro invenzioni, fossero in genere di fede e pietà infantili: Newton, Keplero, Copernico, Linneo, ecc. e recentemente Pasteur, quello scienziato così famoso per le sue scoperte in campo medico, che sul letto di morte ha reso omaggio alla fede ricevendo devotamente i sacramenti (1895), anche lui dichiarò che attraverso i suoi studi, aveva raggiunto il livello di un contadino bretone. Non bisogna dimenticare che che le scienze naturali sono in parte costituite da ipotesi che, come la moda, scompaiono per essere sostituite da altre. In queste condizioni, come può esserci contraddizione tra scienza e fede? Prendiamo l’esempio delle teorie sul sole. Nell’antichità, la scienza considerava il sole come una massa di ferro (Anassagora) o di oro fuso (Euripide); in epoca moderna, come un grande fuoco (Kant). Da allora, per quasi mezzo secolo, la scienza è stata dell’opinione che la massa solare fosse oscura, forse addirittura abitata, e che sia circondata da un’atmosfera di gas luminosi. Si dice che le macchie solari siano cime di montagne (Herschell). Dal 1868, è stato accettato che l’intera sostanza solare sia gassosa e di bassa luminosità ed alta temperatura provenienti dall’interno del Sole, che costituirebbero le macchie (L’astronomo francese Fay e l’italiano Secchi). Ma quando l’analisi spettrale ha mostrato che queste macchie sono masse collassate e raffreddate, sono state elaborate nuove teorie. Lo stesso vale per molte delle conclusioni delle scienze naturali! E sono proprio questi sistemi che sarebbero in contraddizione con la Religione! Che ridicolo! Non dimentichiamo che, ad eccezione del racconto della creazione e del diluvio, scienza e religione non hanno alcun punto di contatto.

2. AGIAMO IN MODO MOLTO RAZIONALE QUANDO CREDIAMO, BASIAMO LE NOSTRE CREDENZE SULLA VERIDIVITA DIVINA E SAPPIAMO ANCHE PER CERTO CHE LE VERITÀ DI FEDE SIANO RUVELATE DA DIO.

Una persona miope agisce in modo molto razionale quando crede che uno dei suoi compagni con la vista acuta vede che c’è un palloncino in aria, anche se non lo vede. Il cieco crede a un uomo di buona vista che su una carta geografica siano state segnate città, fiumi e montagne, anche se non può vederli né toccarli. Tutti crediamo nell’esistenza di Parigi, Roma e Londra, forse senza esserci mai stati e senza alcuna speranza di andarci. Un re negro dei tropici crede ai missionari che gli dicono che in inverno l’acqua indurisce nel loro Paese e forma un ponte sui fiumi, anche se non può rappresentarsi questo fenomeno. Tutti loro, però, agiscono in modo scientifico; il motivo è ovvio. Eppure si agisce in modo ancora più scientifico quando si crede in Dio; perché gli uomini possono ingannarsi e mentire, Dio no. È quindi Dio il fondamento della nostra fede. – Va da sé che questo presuppone la certezza della realtà della rivelazione di Dio della verità che dobbiamo credere. Questa certezza è in possesso del credente, perché Dio l’ha dimostrata con numerosi fatti divini, in particolare miracoli e profezie (di cui parleremo più avanti) che è Lui a rivelare la verità che dobbiamo credere, che è Lui l’autore della fede. “I buoni troveranno sempre un motivo sufficiente per credere, mentre i malvagi, da parte loro, troveranno sempre scuse per non credere. (Caterina Emmerich). – Noi riponiamo la nostra fede nella parola di Cristo perché Egli è Figlio di Dio, e quindi incapace di sbagliare e di ingannare, e perché ha dimostrato con i miracoli che la sua dottrina sia vera. Sarebbe una blasfemia, dice Agostino, supporre che il nostro Maestro, che è la verità stessa, abbia mentito anche solo in un singolo punto. Se, dunque, crediamo nella parola di Cristo, abbiamo una certezza maggiore che se la percepissimo attraverso i nostri sensi. B. Clém. Hofbauer disse davanti ad un quadro: “Credo più fermamente in un Dio in tre Persone che nell’esistenza di questo quadro su questa parete, perché i miei sensi possono ingannarmi, Dio no. – Cristo stesso si appellava ai suoi miracoli per dimostrare la verità della sua dottrina. Se, dice, (S. Giovanni X, 38) non credete a me (cioè alle mie parole) credete alle mie opere. – Crediamo negli insegnamenti di Cristo. Crediamo nell’insegnamento della Chiesa, perché Gesù Cristo la governa per mezzo dello Spirito Santo e la preserva dall’errore; perché ancora oggi Dio testimonia con i miracoli che la Chiesa Cattolica insegna la verità. Gesù Cristo disse ai suoi Apostoli prima della sua ascensione: “Io sono con voi fino alla fine del mondo”. (S. Matth. XXVII1, 20); e già nell’ultima cena aveva detto: “Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore, perché rimanga con voi per sempre”. (S. Giovanni XIV, 16). Come il giorno della Pentecoste lo Spirito Santo è ancora nel Cenacolo, cioè nella Chiesa. – Dio ancora opera miracoli nella sua Chiesa nel nostro tempo: gli innumerevoli prodigi che si compiono a Lourdes e quelli su cui si basano i processi di canonizzazione; i corpi intatti dei Santi: Santa Teresa (f 3582) nel Convento delle Carmelitane di Avila, Santa Elisabetta del Portogallo (f 1336) presso le Clarisse a Coïmbra, San Saverio (+ 1552) a Goa Goa, Santa Caterina da Bologna (+ 1463) presso le Clarisse di quella città, San Giovanni della Croce (+ 1591) a Segovia, Santa Maria Maddalena dei Pazzi (+ 1607) a Firenze, la B. Eletta a Praga (+ 1663) nel convento delle Carmelitane. La lingua di San Giovanni Nepomuceno è intatta (da 500 anni si espone a Praga il 25 maggio per 8 giorni) come quella di Sant’Antonio da Padova. Il braccio destro di Santo Stefano d’Ungheria (f 1038), è anch’esso conservato intatto nella cappella di S. Sigismondo nel castello di Ofen. Tuttavia, questi corpi non erano imbalsamati; la maggior parte ha trascorso molti anni nel terreno per molti anni e non hanno mai emanato il minimo odore. Non sono rigidi, ma duttili. Il miracolo di S. Gennaro a Napoli è noto in tutto il mondo. Il sangue in due fiale del sangue del Vescovo S. Gennaro di Benevento, decapitato sotto Diocleziano nel 305. Appena portate queste due fiale insieme al sangue coagulato della testa del Santo contenute in reliquiari d’argento, il sangue comincia a liquefarsi e a bollire. Lontano dalla testa, si coagula di nuovo. Questo miracolo può essere visto più volte all’anno e dura da secoli; ha prodotto molte conversioni di dissidenti, anche di prelati luterani. La fede cristiana è quindi più certa della percezione dei sensi, della vista, ecc., più certa della conoscenza razionale. I nostri sensi e il nostro ragionamento possono ingannarci, ma non Dio: il nostro occhio, per esempio, vede la terra come un disco relativamente piccolo, l’arcobaleno come una materia colorata, il cielo come una materia colorata, il bastone immerso nell’acqua come spezzato. La nostra ragione, turbata dal peccato originale, ci inganna come l’occhio. Proprio come vediamo meglio con un telescopio che ad occhio nudo, meglio alla luce del sole che a quella di una lampada, conosciamo meglio grazie alla fede che con la ragione, – non bisogna confondere il credo con il “sembra”; l’opinione è una scienza senza certezza, la fede è una scienza certa basata sull’infallibilità di Dio.

3. LA FEDE CRISTIANA SI ESTENDE A TUTTE LE DOTTRINE DELLA CHIESA CATTOLICA.

Rifiutare di credere in una sola dottrina della Chiesa significa non avere fede. Infatti, chi ammette alcune parole di Gesù Cristo o della Chiesa e ne rifiuta altre, cessa di credere che Gesù Cristo sia il Figlio di Dio e governi la Chiesa cattolica.

La fede di un tale uomo è come una casa traballante. Avrebbe una fede senza valore chi dicesse: Credo a tutta la dottrina cattolica, ma non all’infallibilità del Papa, cioè quel particolare aiuto dello Spirito Santo concesso al Papa per effetto del quale egli non può né sbagliare né ingannare nelle solenni decisioni dottrinali che egli dà come capo supremo della Chiesa. Quale temerarietà da parte di una creatura di agire con Dio come con un mercante fraudolento di cui non ci fidiamo e da cui rifiutiamo certi beni “Che follia”. La ragione umana, così miope, si erge a giudice di Dio e della Rivelazione e la convoca al suo tribunale. È così per la fede come per certi fenomeni naturali: una campana perde il suo suono per la minima incrinatura; il corpo è malato quando un solo arto soffre, una nota falsa disturba l’armonia; un granello di polvere nell’occhio offusca la nostra visione. Se si rifiuta un solo articolo di fede, la fede viene distrutta. S. Giacomo dice, a proposito della legge, che la trasgressione di un punto rende l’uomo colpevole contro tutta la legge (S. Giacomo VI, 12) si può dire allo stesso modo della fede: Chi rifiuta un solo articolo di essa pecca contro tutti. – Quindi non si può dire che gli eretici possiedano la fede cristiana; il vino artificiale non è tanto vino quanto la fede. La loro fede non è la fede cristiana. Tuttavia, poiché anche gli eretici affermano di avere la fede cristiana, chiamiamo vera fede cristiana, che esiste solo nella Chiesa cattolica, la fede cattolica.

È NECESSARIO CREDERE A TUTTI GLI INSEGNAMENTI DELLA CHIESA CATTOLICA, MA PER ESSERE SALVATI NON È NECESSARIO CONOSCERLI TUTTI NEL DETTAGLIO.

Tuttavia, un cristiano Cattolico deve almeno sapere che c’è un Dio e che questo Dio giudicherà tutti gli uomini in modo giusto; che in Dio ci sono tre Persone e che la seconda Persona si è fatta uomo e ci ha salvato.

Per avvicinarci a Dio”, dice San Paolo, “dobbiamo prima credere che c’è un Dio e che Egli ci ricompensa coloro che lo cercano. (Ebr. XI, 6) La conoscenza, della SS. Trinità non era necessaria prima della venuta di Gesù Cristo, ma era necessario avere una nozione almeno confusa del Redentore. (Lehmkuhl, gesuita tedesco autore di un trattato sulla morale molto apprezzato). Ora è diverso, soprattutto per i Cristiani. Chi ignora queste due verità essenziali non è ammesso né al Battesimo né all’assoluzione; un’eccezione sarebbe possibile soltanto per i moribondi, ai quali mancherebbe il tempo per l’istruzione.

Coloro che hanno la possibilità di conoscere la fede cristiana sono tenuti a conoscere anche: il testo e il significato del Simbolo degli Apostoli, i Comandamenti di Dio e della Chiesa, i punti importanti dei Sacramenti ed il Padre Nostro.

Sono quindi tenuti a conoscere i punti fondamentali del loro Catechismo; Questa è la prescrizione della Chiesa.

4. LA FEDE CRISTIANA È UN DONO DI DIO, PERCHÉ LA FACOLTÀ DI CREDERE VIENE DALLA SOLA GRAZIA.

La fede è un dono di Dio (Ef. II, 8); “Nessuno viene a me”, dice Gesù Cristo, “se non gli viene data dal Padre mio.” (S. Jean VJ, 66) Dio ci dà la fede dal Battesimo, che per questo è chiamato Sacramento della fede. (Conc. di Tr. VI, 7). Egli ci concede infatti, contemporaneamente alla grazia santificante, la facoltà di credere, o la virtù della fede. Finché il battezzato non abbia raggiunto l’età della ragione, non può avvalersi di questa facoltà, e non può tradurre la sua fede in atto. Questa attività non si produce che nell’età della ragione sotto l’influenza della grazia e dell’istruzione religiosa. – Lo stesso vale per il senso della vista nel neonato; finché il suo occhio non è aperto, la sua facoltà visiva non agisce. Ma non appena l’occhio si apre, vedrà, sotto l’influenza della luce, gli oggetti che colpiscono la sua vista. – Il peccatore1 (che ha perso la fede) recupera questa virtù attraverso la penitenza; ma poiché Dio non dà la grazia agli adulti senza la loro cooperazione (Conc. de Tr. VI, 7) il peccatore (i peccati, eccetto quelli contro la fede, lasciano sussistere la virtù della fede come virtù informe) è obbligato a prepararsi ad essa.

Dio concede la grazia della fede soprattutto a coloro che 1° desiderano conoscere la verità; 2° che conducono una vita morale 3° che gli chiedono la grazia della vera fede.

Chi aspira seriamente alla verità arriverà sicuramente alla fede. “Beati quelli – dice Gesù Cristo -che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati”(S. Matth. V, 6); Dio aveva già detto in Geremia (XXIX, 14): “Se mi cercate con tutto il cuore mi troverete” . Giustino il filosofo (+ 166) provò la verità di queste parole; sulle rive del Tevere incontrò un anziano che lo fece avvicinare al Cristianesimo e lo convertì. – La seconda via della fede è una vita pura. Le buone azioni attirano la grazia di Dio e, di conseguenza, l’illuminazione della mente: “Se uno – dice Gesù Cristo, – vuole fare la volontà di Dio, saprà se la mia dottrina viene da lui o se parlo da me stesso” (S. Giovanni VII, 19). Tommaso d’Aquino pensa che anche un selvaggio, che vive nelle profondità delle foreste e con bestie feroci, che secondo i lumi della sua ragione facesse il bene ed evitasse il male, otterrebbe da Dio la grazia della fede, o per mezzo di un’illuminazione interiore o per l’invio di un messaggero celeste (Angelo o missionario). È così che Dio, nella persona di san Pietro, inviò un messaggero a Cornelio, il centurione pagano (At. Ap. X). – Infine, la via più sicura per la fede è la preghiera, come disse Gesù Cristo: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto”. (S. Matth. VII., 8). Il conte protestante Fréd. de Stolberg, (+ 1819) ottenne la fede dopo 7 anni di preghiera e divenne un famoso scrittore cattolico. (Mehler VI, 294). – Nella sua misericordia Dio spesso dona la fede anche a nemici della Religione cristiana. (Conversione di S. Paolo). Ma Egli non dà questa grazia straordinaria che a coloro che hanno aderito all’errore con una retta intenzione. (S. Alf.)

Per dare la grazia della fede, Dio si serve o di un mezzo ordinario, come la predicazione, o di un mezzo straordinario, come il miracolo.

Oltre alla predicazione, i mezzi ordinari comprendono la lettura di libri religiosi, e l’istruzione da parte dei semplici fedeli. S. Agostino giunse gradualmente alla fede attraverso i sermoni di Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano; Sant’Ignazio di Loyola, attraverso la lettura delle vite di Nostro Signore e dei Santi (Mehler I 191); il filosofo S. Giustino il martire, attraverso le lezioni di un vecchio sulle rive del Tevere. – Dio ha usato mezzi straordinari all’inizio del Cristianesimo, e spesso anche oggi. I pastori di Betlemme furono avvertiti da un Angelo della nascita del Salvatore; i Magi furono portati a Cristo da una stella straordinaria, San Paolo da una voce miracolosa e da una luce dal cielo (Atti IX); il carceriere di Filippi per lo scuotimento e l’apertura della prigione (Atti XVI, 16); Costantino il Grande per l’apparizione di una stella luminosa e di una luce dal cielo (a. 312); il famoso missionario Alph. Ratisbonne, un ricco banchiere ed ebreo alsaziano che si convertì grazie a un’apparizione della Beata Vergine nella chiesa di Sant’Andrea a Roma nel 1842 (Mehler I, 20); il poeta incredulo, Clemente Brentano (+ 1842), che in seguito pubblicò le visioni della veggente, Cath. Emmerich, si convertì perché la Provvidenza lo condusse sul letto di morte di lei; l’avvocato parigino cieco Henri Lasserre, il futuro storico dei miracoli di Lourdes, si convertì grazie alla guarigione dei suoi occhi con l’acqua di Lourdes nel 1882. Anche un giovane pagano, Teofilo, si è convertito miracolosamente grazie al martirio di Santa Dorotea (398). Per ironia della sorte, le aveva chiesto di inviargli fiori e frutti dal giardino del suo fidanzato celeste; ed in effetti, dopo l’esecuzione della Santa, fiori e frutti caddero ai suoi piedi; egli si convertì immediatamente e fu martirizzato.

Molti uomini non arrivano mai alla fede cristiana perché mancano di buona volontà e sono troppo orgogliosi.

Molti uomini non credono perché mancano di buona volontà. (S. Aug.) Come Dio dà a tutti la luce del sole, così vuole dare a tutti la luce della fede. (S. Aug.) Cristo, luce del mondo, illumina con lo Spirito Santo ogni uomo che viene in questo mondo. (S. J. I,9.) Ma alcuni uomini rifiutano questa luce; non vogliono credere per non cambiare la loro vita malvagia. Preferiscono le tenebre alla luce, (S. Giovanni III, 19) e così peccano contro lo Spirito Santo. “Se chiudete gli occhi non vedrete nulla”, dice sant’Eutimio, “ma né la luce né gli occhi ne saranno la causa, sarà la vostra volontà” Così agivano i farisei al tempo di Gesù Cristo. – Gli orgogliosi non arrivano alla fede; ecco perché: è il modo di Dio usare mezzi molto semplici per portare le persone alla fede. Lo scandalo che ne prendono i superbi è un ostacolo alla fede. Cristo è apparso nell’abiezione e nella povertà, e volle venire apposta dalla disprezzata città di di Nazareth. “Che cosa può venire di buono da Nazaret? ( S. Giovanni IV, 46), e disprezzarono gli insegnamenti del Messia. Al popolo romano, così fiero, Dio inviò come messaggeri della fede i Giudei, sudditi conquistati e privi di cultura. Ad Erode ed ai principi dei sacerdoti, Dio mandò deliberatamente dei pagani, i 3 Magi, per annunciare la nascita di Cristo. È ancora oggi lo stesso; si lascia la sua Chiesa, dispensatrice di verità, in uno stato di oppressione, di persecuzione. Il tesoro della parola divina è sepolto in un campo ordinario (S. Matth. XIII, 44). Non dobbiamo quindi stupirci se i superbi1 siano confusi. Dio nasconde i suoi misteri ai sapienti ed ai prudenti del mondo (ibid XI, 25), Egli resiste ai superbi (I. S. Pierre. V, 5).

5. LA FEDE CRISTIANA È CONDIZIONE NECESSARIA ALLA SALVEZZA.

La fede assomiglia alla radice dell’albero; come l’albero non può vivere senza radici, così il Cristiano non può vivere senza radici. Senza radici, anche il Cristiano non può senza la fede arrivare alla vita eterna (S. Bern.).

La fede è l’inizio della salvezza, il fondamento e la radice di ogni giustificazione. (Concilio di Tr. VI, 8) La fede è come la chiave che apre le riserve della speranza, carità e delle opere buone (Alban Stoltz). Inoltre, in che considerazione è la grazia della fede! Il pio Alfonso il Saggio, re di Castiglia, era solito dire: Ringrazio incessantemente Dio, non per avermi fatto re, ma per avermi fatto Cattolico: non c’è salvezza al di fuori della fede. Allo stesso Mosè fu rifiutato l’ingresso nella Terra Promessa perché aveva avuto dei dubbi. Chiunque che non crede (S. Marco, XVI, 16), sarà condannato. Chiunque in questa vita non cammina bella fede non raggiungerà la visione nella prossima. (S. Agos.) Senza la fede è impossibile piacere a Dio (Ep. Ad Ebr. XI, 6). S. Pietro sprofondò nell’acqua appena cominciò a dubitare (S. Matth. XIV, 30), e va nell’abisso chi perde la fede. Questa virtù è come una nave: senza di essa non si può attraversare l’oceano, e senza la fede non si può entrare nel porto della salvezza. È anche come la colonna di fumo che guidò gli israeliti attraverso il deserto (Giustino) fino alla Terra Promessa, o alla stella che indicò ai Magi la strada per Betlemme. – Senza fede non ci sono opere meritorie. L’albero senza radici è sterile e l’uomo senza fede non può produrre opere buone (soprannaturali). È una follia immaginare che non importi se si creda o meno, che basta vivere, perché senza la fede è impossibile condurre una vita onesta. nel vero senso della parola. Tuttavia, non intendiamo dire che tutte le azioni che non derivino dalla fede soprannaturale siano peccati; questa è una proposizione condannata da Alessandro VIII. E ciò che diciamo delle opere buone, dobbiamo dirlo delle virtù. È impossibile costruire un edificio materiale senza fondamenta, come è impossibile costruire un edificio di virtù e perfezione senza fede. (S. Bonav.) Al contrario, la vera fede dà l’impulso alle buone opere e alle virtù cristiane. La radice non rimane isolata, ma fa crescere i germogli e la fede produce le opere buone. La fede nella ricompensa dà all’uomo la forza di fare il bene. La fede incrollabile nella risurrezione ha rafforzato i fratelli Maccabei e tutti i martiri, la generosità di Tobia e di altri santi. La fede al momento delle tentazioni allontana il peccato (Giuseppe in Egitto). Il faro fa il pilota attenti agli scogli e lo protegge dal naufragio. La fede ci rende consapevoli della morte eterna a cui siamo precipitati a causa del peccato. La fede, dice San Paolo, è uno scudo contro il quale si spengono tutti i dardi infuocati di satana (Ef. VI, 16) e che ci copre, aggiunge San Bonaventura, come lo scudo copre i combattenti. I fedeli assomigliano (S. J. Chrisost.) a un uomo posto su un’alta torre, dove è al sicuro dalla sorpresa e può difendersi meglio. La fede ci difende dalle tentazioni della disperazione; è un capitale di riserva segreto i cui interessi si riscuotono nel momento del bisogno (Goethe). La misura della nostra fede è anche la misura delle grazie che Dio ci concede, come le guarigioni che ha operato Gesù Cristo. Una fede più viva ha ottenuto una guarigione più veloce. Era la fede la prima cosa di cui Cristo si preoccupava, era la fede che lodava quando diceva: la tua fede ti ha salvato. (S. Matth., IX, 22).

6. LA SOLA FEDE NON BASTA PER ESSERE SALVATI; BISOGNA VIVERE SECONDO LA FEDE E PROFESSARLA PUBBLICAMENTE.

La nostra fede deve essere viva, cioè deve produrre opere buone. “Non tutti quelli che mi dicono: “Signore, Signore” entreranno nel regno dei cieli; ma vi entrerà solo chi farà la volontà del Padre mio che è nei cieli” (S. Matth. VII, 21). Chi non ha fatto opere di misericordia sarà condannato da Cristo all’ultimo giudizio” (ibid. XXV, 41). La sua fede somiglia a quella degli spiriti maligni che credono ma fanno il male (S. Giac. II, 19). La fede che non produce opere buone non è, a rigore, una vera fede. La fede è vera solo quando non si contraddice con le opere ciò che si professa con la bocca. (S. Greg. M.). Il corpo senza anima è un cadavere; la fede senza opere è morta. (S. Giac. II, 26.) La fede senza opere è un albero senza frutto (S.. Chrysost.), una vite sterile (S. Cir. Al.), un pozzo senza acqua, una lampada senza olio, una mandorla senza nocciolo, (S. Greg. M.) Assomiglia ad un uomo ricco che non usa il suo capitale e che muore di fame nonostante i suoi soldi (Mons. Zwerger), ad un viaggiatore che vede la sua meta davanti a sé, ma è troppo pigro per avvicinarsene. – Un semplice atto di Battesimo non è quindi sufficiente per essere salvati. – Le opere meritorie per il cielo, perché queste sono le uniche opere buone, possono essere compiute solo da chi ha la carità, cioè la grazia santificante (vedi il capitolo sulla grazia e le opere buone). Ne consegue che solo la fede unita alla carità portano alla salvezza. Così San Paolo diceva: “Se avessi fede da spostare le montagne e non avessi la carità, non sarei nulla (I. Cor. XIII, 2). Il fedele che non ha avuto la carità sarà dunque dannato. – È inoltre necessario che noi professiamo la nostra fede esteriormente: “perché per essere giustificati bisogna credere di cuore e confessare la propria fede con parole per essere salvat” (Rm X, 10). Si perde poco a poco la conoscenza di una lingua trascurando di usarla; e perdiamo la vita della fede non portandola alla luce attraverso la testimonianza pubblica. (Deharbe.) La fede si perde presto senza la pratica (S. Amb.) L’uomo è composto da un corpo e da un’anima, quindi il culto di Dio deve essere non solo interiore ma anche esteriore.

La natura stessa ci spinge a rivelare ciò di cui siamo interiormente convinti. Coloro che non hanno confessato la loro fede sentiranno il giudizio di Dio: ” Vi dico in verità, Io non vi conosco”. (S. Matth. XXV, 12.) Parleremo più avanti in modo più esplicito della professione di fede.

6. I MOTIVI DELLA FEDE.

1. I MOTIVI PRINCIPALI CHE CI INDUCONO A CREDERE SONO LE PROFEZIE ED I MIRACOLI, PERCHÉ ATTRAVERSO DI ESSI OTTENIAMO LA CERTEZZA ASSOLUTA CHE UNA VERITÀ SIA STATA RIVELATA DA DIO.

In ultima analisi, la veridicità divina è il fondamento della fede; perché accettiamo le verità da Lui rivelate, perché sappiamo che non può ingannare né se stesso né noi. Ma nessun uomo ragionevole ammetterà come divina una verità finché non sappia con certezza che Dio l’ha rivelata. Ecco perché i fatti con i quali Dio certifica di aver parlato sono per noi il motivo principale e la condizione assolutamente indispensabile della fede. Gli Apostoli hanno creduto senza esitare alle parole dell’Ultima Cena: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, perché avevano visto con i loro occhi gli innumerevoli miracoli di Gesù Cristo e perché avevano visto realizzarsi molte delle predizioni di Cristo e dei profeti. 3000 Giudei si convertirono alla fede cristiana il giorno di Pentecoste, alla vista del miracolo delle lingue; altri 2000 alla vista mel miracolo sotto il portico del tempio. I pagani accettarono la fede a causa dei miracoli con cui Dio accompagnò la predicazione degli Apostoli. S. Paolo si è convertito solo grazie al miracolo sulla via di Damasco e Costantino dalla croce che brillava nel firmamento. Quanti uomini si convertirono quando, nell’anno 70, videro realizzarsi la profezia di Gesù Cristo sulla rovina di Gerusalemme! Quanti altri quando videro nel 361 il compimento di un’altra profezia nel fallimento della ricostruzione del tempio! – Ci sono ancora altri motivi di credibilità: il grande numero e la costanza dei martiri; la meravigliosa e perpetuità del Cristianesimo, le quattro note della Chiesa. “La Chiesa stessa è un solido e costante motivo di credibilità (Conc. Vatic. III, 3): basta considerare la sua durata e la sua espansione in mezzo alle persecuzioni. I motivi di credibilità non agiscono tutti allo stesso modo su tutti gli uomini. Alcuni sono toccati dalla costanza dei martiri, altri dalla santità di un predicatore; uno da un miracolo, un altro dalle punizioni che i persecutori del Cristianesimo hanno subito. (S. Aug.)

La maggior parte dei miracoli avveniva all’inizio del Cristianesimo, perché allora erano necessari per la diffusione del Cristianesimo.

Dio è come un giardiniere che innaffia le piante quando sono piccole. Finché la Chiesa era piccola, Dio la innaffiava con il dono dei miracoli (S. Gregorio M.).

2. I MIRACOLI SONO DELLE OPERE STRAORDINARIE CHE NON POTEVANO ESSERE PRODOTTE DA ALCUNA FORZA NATURALE, MA CHE SONO STATE REALIZZATE DALL’AZIONE DI UNA POTENZA SUPERIORE.

Ciò che chiamiamo straordinario è ciò che ci riempie di stupore, perché non l’abbiamo ancora visto o sentito, o perché non riusciamo a spiegarlo. Una ferrovia o un battello a vapore stupirebbero chiunque li vedesse per la prima volta. Siamo stupiti dal fonografo che riproduce i discorsi, brani di musica, ecc. con il loro timbro, e che permetterà di ascoltare le voci di uomini illustri, anche dopo secoli. Tuttavia, tutte queste straordinarie invenzioni non sono miracoli, anche se la loro vista ci fa gridare allo stupore. Questi risultati sono ottenuti con mezzi naturali, con le forze della natura. Solo quegli avvenimenti sono miracolosi e non si possono essere ottenuti con le forze della natura. La resurrezione di un uomo morto, per esempio, è un miracolo, qualcosa che di solito non accade, quindi è una cosa straordinaria. In secondo luogo, gli scienziati e gli operatori più illustri non sono in grado di riportare in vita una persona morta con le forze conosciute della natura. È quindi richiesto l’intervento di un agente superiore. – I miracoli sono deviazioni (fenomeni straordinari) dal corso ordinario della natura; sembrano contraddire le leggi ordinarie naturali, ma non è così. Le leggi della natura non vengono soppresse, la loro azione è semplicemente ostacolata dall’intervento di un’altra forza. Se un libro cade e la mia mano lo tiene, la legge di gravità non viene soppressa; qualcosa di simile accade nel miracolo, ma non possiamo vedere la forza che interviene.

Ci sono miracoli veri, che possono essere grandi o semplici, e miracoli apparenti.

I grandi miracoli sono eventi straordinari che, in qualsiasi circostanza non possono essere l’effetto di cause naturali; per esempio, la resurrezione di un morto, l’incorruttibilità e la morbidezza duratura di un cadavere. I miracoli semplici sono eventi straordinari che non potrebbero assolutamente essere prodotti da cause naturali, ma che nelle circostanze date sarebbero stati impossibili, per esempio la guarigione di un malato con una semplice parola, la conoscenza improvvisa di una lingua straniera. – I miracoli apparenti sono le cose straordinarie che il demonio produce con cause naturali, in modo così abile da ingannare i nostri sensi. (Noi crediamo la realtà di qualcosa che in realtà non c’è). I miracoli apparenti sono come i trucchi dei prestigiatori (ingoiare spade, sputare monete d’oro, ecc.). con la differenza che i demoni superano di gran lunga questi prestigiatori in intelligenza ed abilità. Tali sono i miracoli compiuti con l’aiuto del diavolo dai maghi del Faraone che imitavano i miracoli di Mosè (Esodo VII, 11); da Simone il mago (Act. Ap. VIII, 9). Anche l’Anticristo (II. Tessal. II. 8) opererà apparenti miracoli attraverso l’uso di mezzi naturali (S. Th. d’A.). Allo stesso modo si potrebbero spiegare le presunte sparizioni delle vittime sugli altari dei pagani, la presunta metamorfosi di Ifigenia in cervo, ecc.

Dio produce i miracoli reali solo per la sua gloria e soprattutto come prove della verità.

Dio produce miracoli per i seguenti motivi: per provare la missione divina dei suoi inviati e la verità della loro dottrina; per rivelare la verità della loro dottrina.; per rivelare la santità di una persona deceduta; o per rivelare la sua bontà e la sua giustizia. Dio non può permettere che i miracoli sostengano l’errore. –

Tutti i documenti di autorità hanno un sigillo che ne conferma l’autenticità. Anche Dio ha un sigillo con cui conferma l’origine divina di una cosa. Questo sigillo è il miracolo. Esso ha anche il vantaggio di non poter essere contraffatto. (Abel.). Cristo si è spesso appellato ai suoi miracoli per dimostrare la divinità della sua missione (S. Matth., XI, 4-5; S. Giov. X, 37). Un membro del Direttorio, Laréveilière-Lépeaux, dopo molti studi, aveva immaginato una nuova religione, la Teofilantropia, ma non era riuscito a conquistare seguaci. Egli se ne lamentava con Talleyrand, che gli rispose: “Non mi sorprende il vostro fallimento. Vuoi avere successo? Guarisci i malati, risuscita i morti, fatti crocifiggere e risuscita il terzo giorno. Laréveillère se ne andò confuso. In effetti, i messaggeri di Dio hanno l’obbligo di essere accreditati da miracoli. Dio dimostra anche la divinità della vera Chiesa con i miracoli. (vedi sotto). – Dio dichiara anche la santità dei morti con veri e propri miracoli. Così i miracoli si verificano nelle tombe dei Santi (sulla tomba di Eliseo, IV Re, XIII), nei loro corpi (la loro incorruttibilità) e per loro intercessione. – La Chiesa richiede almeno due miracoli dopo la morte per dichiarare una persona Beata; ne richiede di nuovi per la canonizzazione. Nell’Antico Testamento i Santi hanno compiuto più miracoli durante la loro vita e meno dopo la loro morte; l’opposto è vero nel Nuovo Testamento, ecco perché la Chiesa richiede questi miracoli dopo la morte per la canonizzazione (Ben. XIV). – I veri miracoli servono anche a rivelare la bontà e la giustizia di Dio: ad esempio il miracoloso attraversamento del Mar Rosso e del Giordano degli Israeliti, la manna e l’acqua dalla roccia nel deserto; il diluvio, la pioggia di fuoco e dii zolfo su Sodoma, la morte improvvisa di Anania e Zaffira. I miracoli spesso erano punizioni; servivano a strappare gli israeliti dalle mani degli Egiziani, per mantenerli obbedienti nel deserto, a rivelare ai popoli vicini di Israele la gloria del Dio di Israele. Nel Nuovo Testamento non vediamo miracoli come pena, a parte il disseccamento del fico. Dio cerca piuttosto di ispirare amore. I miracoli dell’A.-T. erano più grandiosi, quelli di Cristo lo sono meno, ma hanno un significato più profondo ed intimo Nell’AT, le acque del Giordano si alzano come due muri per far passare gli Ebrei. Nel Nuovo Testamento questo miracolo è correlato al calmarsi della tempesta, meno grandioso, ma che rappresenta con un simbolismo più perfetto la fine delle persecuzioni ed i trionfi della Chiesa; nell’Antico Testamento, Dio nutre il suo popolo nel deserto con la manna, nel N. moltiplica due volte i pani per diverse migliaia di uomini; nell’AT. vediamo la colonna di fuoco abbagliante nel deserto, nel N. è una luce tranquilla che illumina i campi di Betlemme. – Dio non fa mai veri miracoli a favore dell’errore, perché essi sono sempre un segno dell’operazione divina ed una prova della verità. Se il diavolo fosse in grado di compierli, Dio approverebbe l’errore, cosa che ripugna alla sua bontà (S. Th. d’Aq.). Senza dubbio Dio permette ai demoni o agli empi di operare miracoli apparenti; la giustizia di Dio si serve di essi per punire gli increduli (Suarez) e protegge i giusti con la sua grazia, quando fa loro riconoscere l’inganno (S. Th. d’Aq.). Miracoli di origine demoniaca, e quindi miracoli che non durano (guarigioni effimere), che non servono né al corpo né all’anima, che non servono a rafforzare la fede e la morale, che si compiono con cerimonie ridicole e insensate. (S. Th. d’Aq.)

Di solito Dio si serve di una creatura per compiere un miracolo, spesso anche una creatura indegna.

Le creature possono fare miracoli quando Dio dà loro il potere di farlo. (S. Th. d’Aq.) I Santi hanno sempre operato miracoli con il potere (in Nome) di Dio. Solo Cristo li ha operati nel suo Nome. – Il dono dei miracoli è una grazia gratuita e può essere concessa agli indegni per la salvezza delle anime (S. Matth., VII, 25). Anche i pagani e i miscredenti erano in grado di operare miracoli per corroborare la verità. Se nei giudizi di Dio persone innocenti potevano camminare impunemente sui carboni ardenti o portavano l’acqua attraverso i setacci, Dio avrà voluto persuadere gli uomini della realtà della sua Provvidenza. – Il diavolo può fare veri miracoli quando serve come strumento di Dio per castigare gli empi (S. Aug.); è stato solo il diavolo a provocare le piaghe d’Egitto e la miserabile morte di Erode (Act. XII). In questo caso, i miracoli del diavolo stesso servono a difendere la verità. – Ma non dobbiamo mai proclamare un miracolo quando sia possibile una spiegazione naturale. (S. Aug.).

3. SI CHIAMANO PROFEZIE DELLE PREDIZIONI PRECISE DI EVENTI FUTURI CHE SOLO DIO, ESCLUDENDO ALTRE CREATURE, PUÒ CONOSCERE.

Dio a volte predice eventi futuri che dipendono dalla libera volontà degli uomini, che solo Lui può conoscere. Come ad esempio la previsione del rinnegamento di Pietro, da parte di un Apostolo in cui tutto faceva pensare al contrario (S. Marc. XIV, 31); come anche la previsione di eventi che dipendono dal beneplacito di Dio, per esempio la rovina di Gerusalemme ed i segni della fine del mondo. – Si potrebbero chiamare le Profezie miracoli di onniscienza, in contrapposizione ai miracoli di onnipotenza.. Sono davvero miracoli, perché possono avere solo Dio come autore. Infatti, gli eventi futuri che dipendono unicamente dal libero arbitrio dell’uomo sono conosciuti solo da Dio (Isaia, XLI, 23; XLVI, 10), che sonda i misteri di cuori e menti. (Ger. XVI1, 10). Nessuno conosce ciò che è in Dio se non lo Spirito di Dio. (I Cor. II, 11). – Le profezie si distinguono dagli oracoli pagani in quanto questi ultimi erano generalmente equivoci; ad esempio quando l’oracolo dice di Creso: “Se egli attraverserà il fiume di Halys, distruggerà un grande impero”, ma non dice se si riferisce all’impero di Creso o ad un altro. – Non c’è carattere profetico nelle previsioni del tempo da parte dei meteorologi, le previsioni delle eclissi da parte degli astronomi, l’annuncio dell’imminente guarigione o della morte di un malato da parte di un medico, la previsione di una guerra da parte degli uomini di Stato, ecc. perché sono previsioni di eventi che possono essere previsti da cause preesistenti.

Dio fa pubblicare le sue profezie, in generale, solo dai suoi inviati da Lui o con lo scopo di promuovere la fede o per migliorare gli uomini.

I profeti feceto molte predizioni sul Messia, per far sì che le persone aspettarsero il Salvatore tra gli uomini che vivevano prima della sua venuta e per convincere le epoche successive della verità del Cristianesimo. La previsione del diluvio da parte di Noè aveva lo scopo di convertire gli uomini corrotti. – Di norma, il ruolo di profeta è affidato solo a coloro che sono inviati da Dio; è per eccezione che Dio annuncia il futuro attraverso uomini viziosi e miscredenti e li usa come strumenti per il bene. – Dio annunciò la sua rovina a Baldassarre con l’apparizione della mano che scriveva sul muro (Dan. IV). Balaam annunciò la venuta del Salvatore ai Moabiti e al loro re con la famosa profezia profezia: “Una stella uscirà da Giuda” (Numeri V). Ma di solito Dio concede il dono della profezia solo alle anime scelte (Ben. XIV). Queste conoscono il futuro attraverso un’ispirazione interiore, attraverso una visione (apparizione) o attraverso gli Angeli. Così, durante la cattività babilonese, l’Arcangelo Gabriele annunciò a Daniele le 70 settimane (Dan. IX) dopo le quali sarebbe venuto il Messia. Il dono di profezia si riferisce solo a casi particolari; nessun profeta possiede la capacità permanente di predire il futuro. Solo Gesù Cristo la possedeva. Il profeta più ispirato non può rispondere a tutte le domande (IV. Re IV, 27); Samuele non riconobbe il re designato da Dio finché non gli fu portato Davide (I Re XVI, la).

Le profezie sono quindi generalmente una prova della missione divina del profeta.

Per accreditare qualcuno come inviato da Dio, le profezie devono realizzarsi (Deut. XVIII, 12); che non siano contrarie alla dottrina rivelata (Deut. XIII, 2) o alla santità di Dio. Devono essere edificanti, utili salutari. (1. Cor. XIV, 3) e annunciate con calma e modestia: è la caratteristica dei falsi profeti agitarsi come uomini furiosi (S. Giovanni Chr.).

7. ASSENZA E PERDITA DELLA FEDE CRISTIANA.

La fede cristiana è la via del cielo. Tutto questo non si trova in coloro che camminano in una falsa fede.

I. La fede cristiana non si trova:

1. negli eretici,

2. negli infedeli.

1. Gli eretici sono coloro che rifiutano ostinatamente questa o quella verità rivelata.

Coloro che allontanano gli altri dalla vera fede sono chiamati eresiarchi. Gli eresiarchi sono le tarme che rosicchiano la preziosa veste di Cristo, la Chiesa, (S. Greg. M.). È quasi sempre l’amor proprio ferito a far nascere gli eresiarchi.

(S. Ireneo.) I principali eretici furono Ario, sacerdote di Alessandria, che negava la divinità di Cristo e contro il quale fu convocato il Concilio di Nicea (325); Macedonio, Vescovo di Costantinopoli, che negava la divinità dello Spirito Santo, poi definita dal Concilio di Costantinopoli (381); Giovanni Huss, sacerdote di Praga, che falsificò la dottrina sulla Chiesa (Concilio di Costanza, 1414); Martin Lutero, monaco di Wittemberg, che attaccò principalmente l’istituzione divina del Papato e il Magistero della Chiesa (Concilio di Trento, 1545-63). Enrico V III d’Inghilterra (morto nel 1547) introdusse l’eresia anglicana in Inghilterra (Concilio di Trento, 1545-63), (l’Irlanda resistette) e perseguitò crudelmente i Cattolici per odio verso il Papa che rifiutava di sciogliere il suo matrimonio. Dôllinger, ex professore e prevosto del capitolo di Monaco, famoso per numerose opere di alto valore scientifico, era amareggiato per non essere stato invitato come teologo ai ai lavori preparatori del Concilio Vaticano (1870) e, anche dopo il Concilio, fu scomunicato e morì impenitente (1890). Dôllinger è il principale autore del Vetero Cattolicesimo. Gli eresiarchi erano, ahimè! come possiamo vedere, quasi sempre sacerdoti! Coloro che diffondono false dottrine sono come i falsari che fabbricano denaro falso e lo mettono in circolazione. Sono assassini che allontanano i viaggiatori dalla fede, dalla via della salvezza, verso i sentieri che portano alla morte eterna. (Mons. Zwerger). Il Cristo ci mette in guardia contro di loro: “Guardatevi, dice, dai falsi profeti che si presentano a voi in veste di pecore (cioè che vi lusingano con belle parole) e che in realtà sono lupi rapaci (pieni di malizia). È dalla loro condotta che li riconoscerete. (S. Matth. VII, 15)”. Che sciocchezze vennero pronunciate da Lutero! Di quanti insulti è autore! Solo questo è una prova della mancanza di missione divina. Lo stesso vale per altri cosiddetti riformatori. Per loro non si tratta mai della purezza della fede, ma della soddisfazione delle passioni più basse: l’orgoglio o la sensualità. Le dottrine religiose sono il pretesto dietro il quale perseguono il loro obiettivo peccaminoso. Cercano sempre di sfruttare il lato debole dell’umanità: Lutero consegna le proprietà della Chiesa ai principi, e libera i Sacerdoti dal giogo della castità, e così via. Sono ciò che fu il serpente perEva. – Tra gli eretici ci sono gli scismatici, (i separati), che a rigore rifiutano non solo di riconoscere il capo della Chiesa, ma che cadono sempre nell’eresia. Gli scismatici sono, ad esempio i Greci non uniti, che nel 1053 si staccarono da Roma su istigazione dell’ambizioso patriarca Michele Cerulario; 2° i Russi, che si sono separati dalla Chiesa greca nel 1587 e che dal 1721 sono stati governati spiritualmente dallo zar. La Chiesa ha sempre considerato l’eresia come uno dei più grandi crimini. E se un Angelo dal cielo”, diceva S. Paolo, vi annunciasse un Vangelo diverso dal nostro sia anatema (Gal. I, 8), a cui San Girolamo aggiunge che tra tutte le empietà l’eresia è la più grande. Gli eretici sono esclusi dalla Chiesa, ed è un castigo da cui il Papa solo o chi per lui ne ha ricevuto potere può assolvere (Pio IX, 12 ottobre 1869).

Colui che per scusabile ignoranza vive nell’errore non è eretico davanti a Dio.

Chi, per esempio, è stato educato nel protestantesimo e non ha mai avuto la possibilità di essere istruito seriamente nella Religione cattolica è eretico solo di nome, perché non c’è un’adesione ostinata all’errore. Se è disposto a credere Se è disposto a credere a tutto ciò che Dio ha rivelato, è ortodosso (S. Aug.). Egli non è più eretico di un ladro che in buona fede trattiene la proprietà altrui.

2. Gli increduli sono coloro che vogliono credere solo a ciò che percepiscono con i sensi o che possono capire con la ragione.

Tommaso era un incredulo; non voleva credere nella risurrezione finché non avesse messo le dita nelle ferite delle mani e la sua mano nel costato di Cristo. (S. Giovanni XX, 25). Molti uomini sono come lui: vogliono credere solo a ciò che vedono, toccano e sentono.; rifiutano tutto il resto. Il non credente, dice S. Giov. Cris, è un campo sabbioso che non produce nulla, nonostante la pioggia che riceve. Il miscredente offende il suo Dio, come un suddito offenderebbe un sovrano che si rifiuta di riconoscerlo, pur sapendo che è il re legittimo. (Lehmkuhl). E d’altra parte quante cose il non credente è obbligato a credere per non credere! (Clêm. Hofbauer). L’incredulità ha molto spesso la sua origine nell’immoralità. – Il sole si riflette nell’acqua limpida e calma, ma non nell’acqua fangosa. È così anche per l’uomo: se è di buoni costumi, arriverà facilmente alla fede, ma l’uomo sensuale non percepisce ciò che è dello Spirito di Dio. (I Cor. II, 14). Uno specchio appannato rifletterà male o non rifletterà affatto. L’anima è uno specchio (S. Massimo) che deve essere sensibile alla luce divina e non è in grado di riflettere le verità della fede, quando è appannata dal vizio.

H. La fede cristiana si perde facilmente:

1° quando si è indifferenti alla fede;

2° quando si dubita volontariamente delle verità della fede;

3° quando si leggono libri o giornali ostili alla religione;

4° quando si aderisce ad associazioni antireligiose o si contrae matrimonio misto.

I. Se, per colpevole indifferenza, si cessa di interessarsi alla fede, si diventa incredulo, così come una pianta muore per mancanza di acqua o una lampada si spegne per mancanza di olio. Oh, che sfortuna gli uomini indifferenti alla religione che vivono di giorno in giorno senza Dio, che non pregano mai, che non ascoltano mai un sermone, non leggono mai un libro religioso e si preoccupano solo delle cose temporali! Questi sono gli invitati del Vangelo che rifiutano di andare al banchetto celeste, uno a causa dei suoi buoi, un altro a causa della sua fattoria, il terzo a causa del suo matrimonio. (S. Luc. XIV, 16) Curiosa cosa: queste persone si considerano illuminate e gettano uno sguardo di pietà e disprezzo su coloro che adempiono coscienziosamente ai loro doveri religiosi. Ma sono proprio loro che mancano di cultura e di scienza allo stesso tempo, perché non hanno intelligenza per i beni più preziosi della vita e sono ignoranti nelle questioni più importanti. Molto spesso questi uomini non conducono una vita irreprensibile. Una vite non curata è presto invasa da siepi e rovi, e l’anima che non viene coltivata dall’istruzione religiosa, a poco a poco adotta i costumi di un rozzo campagnolo. (S. Luigi de Grign.). Il corpo ha bisogno di nutrimento o morirà di fame; c’è anche un cibo per l’anima, senza il quale essa muore, e questo cibo è il Vangelo. (S. Aug.) Nella sua conversazione con la Samaritana, Gesù Cristo chiama la sua dottrina “acqua che disseta per sempre l’anima umana” (S. Giovanni IV, 48); nella sinagoga di Cafarnao disse di sé: “Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà mai fame” (S. Giovanni VI, 35). Questo significa morire già qui sulla terra, non curarsi di questo cibo spirituale, di questo pane della vita.

2. Il dubbio deliberato sulle verità di fede porta gradualmente alla perdita della fede. Questi dubbi vengono dal diavolo. Un edificio cade necessariamente se le sue fondamenta sono minate. Ne sono un esempio le città costruite sui bacini carboniferi. Allo stesso modo, la fede si sgretola quando è scossa dal dubbio. Chi dubita delle verità rivelate dispiace a Dio, perché gli nega fiducia. Mosè dubitò della promessa di Dio di dare l’acqua al popolo che mormorava e fu punito con l’esclusione dalla terra promessa (Numeri, XX.); Zaccaria dubitava dell’adempimento della promessa dell’Angelo sulla nascita di San Giovanni Battista: per la sua punizione divenne muto (S. Luc. I.) I dubbi involontari non lo sono. Per non soffermarci su di essi; devono essere combattuti subito con la preghiera: in mezzo alle tenebre del dubbio, essa ci ottiene la grazia della luce. Non è un peccato nemmeno studiare più da vicino i punti sui quali è sorto il dubbio, al fine di rafforzare la nostra fede; anzi, è un atto di prudenza e di saggezza (Marie Lat.). Non dobbiamo però cercare una spiegazione dei misteri; un eccesso di curiosità farebbe perdere la fede, come uno sguardo prolungato al sole farebbe perdere la vista.

3. Si perde la fede anche leggendo libri irreligiosi. Jean Hus, il sacerdote di Praga, che fu bruciato a Costanza nel 1415, aveva letto le opere dell’eresiarca inglese Wicleff; fu per questo che egli stesso divenne un famoso eresiarca e il flagello della Boemia. Fu soprattutto grazie alla lettura degli scritti di Lutero che Zwinglio, predicatore della cattedrale di Zurigo (f 1531), e Calvino di Ginevra (t 1564) caddero nell’eresia. La storia ci racconta anche che l’apostasia dell’imperatore Giuliano non ebbe altra causa che la lettura a Nicomedia delle opere del pagano Libanio. I libri moderni più pericolosi, e purtroppo anche i più diffusi, sono quelli dell’empio Rousseau (f 1778), di Voltaire (f 1778) e di altri filosofi rivoluzionari, più recentemente, quelli di Renan (f 1892) e Zola. Come madre, la Chiesa li indicava ai suoi figli e vietava loro di leggerli, così come lo Stato non concede libertà assoluta di leggere. A questo scopo, nel 1571, ha istituito una congregazione speciale per la censura dei libri, la congregazione dell’Indice, che condanna i libri pericolosi per la fede e la morale in nome della Santa Sede. – Anche la lettura regolare di giornali irreligiosi fa perdere la fede, come ha dimostrato l’esperienza. Per fare più rumore, certi giornali si specializzano nel disprezzare i dogmi, le istituzioni della Chiesa ed i suoi ministri. Questo tipo di lettura mina la fede. Non si dica: il lettore giudicherà da sé. È il caso di applicare il proverbio secondo cui la goccia d’acqua scava la roccia: l’incredulità o l’indifferenza si impadroniscono della mente. Il cibo malsano distrugge a lungo andare la salute corporea più solida; è impossibile che la lettura frequente non produca lo stesso effetto sull’anima. Mettiti nel fuoco dice Isidoro, e anche se siete fatti di ferro, alla fine vi scioglierete. – Di tutte le associazioni antireligiose, la più pericolosa è la Massoneria. Lo scopo principale della Massoneria è quello di minare e distruggere, segretamente o in parte pubblicamente, qualsiasi autorità ecclesiastica o civile e di instaurare la fondazione di una repubblica cosmopolita. La Massoneria fu fondata intorno al 1717 da alcuni liberi pensatori dell’alta società inglese. Poiché assunsero come istituzione i responsabili delle officine architettoniche delle cattedrali del Medioevo, si chiamarono massoni. Chi viene accettato in questa società, partecipa alle sue riunioni o semplicemente le favorisce, è ipso facto scomunicato, cioè cessa di partecipare alle preghiere della Chiesa ed è escluso dai Sacramenti. Il Papa si è riservato l’assoluzione da questa pena, tranne che in articulo mortis. (Clem. XII. 1738; Ben. XIV, 1751; Pio VII, 1821; Leone XII, 1825; Leone XIII, 20 aprile 1884). L’obiettivo finale della Massoneria è conosciuto in generale dai gradi più alti, gli altri pagano soltanto: è come nell’esercito dove i soldati marciano senza sapere nulla del piano del generale. – Nel capitolo sul matrimonio parleremo dei disordini dei matrimoni misti.

Tutti coloro che, per propria colpa, muoiono senza la fede cristiana vanno dannati.

L’infedele, il pagano, è già infelice qui; S. Luc. (I, 79) dice di loro che si trovano nelle tenebre e nelle ombre della morte; prendono le verità della religione per favole (Clém. Hofbauer). Cristo dice espressamente: “Chi crede sarà salvato, chi non crederà sarà condannato (S. Marco XVI, 16); e aggiunge anche: “chi non crede è già giudicato” (S. Giovanni III, 18), e San Paolo (Tt. III, 1) dice che un eretico pronuncia la propria condanna. Pregate dunque ogni giorno, Cristiani, ad imitazione dei Santi per la conversione dei non credenti e degli eretici! B. Clem. Hofbauer (nato a Vienna nel 1820) diceva: “Se solo potessi convertire tutti i miscredenti e gli eretici, li porterei in Chiesa sulle mie braccia e sulle mie spalle” .

8. LA PROFESSIONE DI FEDE ESTERNA.

1. Dio ci chiede di professare la nostra fede esternamente: fate splendere la vostra luce davanti agli uomini, dice Cristo, perché vedano le vostre opere buone e benedicano il Padre vostro che è nei cieli”. (S. Matth. V, 16).

Dobbiamo quindi far sapere agli altri, con le nostre parole e le nostre azioni, che siamo Cristiani e Cattolici e che teniamo alla nostra Religione per intima convinzione.. Secondo Cristo, dobbiamo essere per il mondo quello che una torcia è in un appartamento. Con la professione pubblica della nostra fede, dobbiamo contribuire alla diffusione della conoscenza di Dio tra i nostri simili e all’osservanza più esatta dei comandamenti divini. Un cavallo, anche se debole, si imbizzarrisce quando vede altri cavalli che corrono e quindi i nostri simili ci imiteranno quando vedranno le nostre opere buone. Noi stessi rafforziamo la nostra fede confessandola davanti agli altri. È l’esercizio che fa il maestro. – Molti uomini, ahimè, sono vigliacchi. Per non essere presi in giro da uno dei loro compagni o da un giornale cattivo, di soffrire nella loro carriera, di perdere clienti, ecc. non osano confessare con coraggio la propria fede o opporsi ai suoi nemici; è simile ad un bambino incaricato di una commissione dai genitori che torna senza averla eseguita, perché non ha osato passare davanti ad un cane che abbaia. Gli uomini ci chiamano ipocriti, deboli di mente, sciocchi, fanatici, e così ci lasciamo allontanare dai nostri buoni propositi e dalla via della salvezza. (S. Vinc. Ferr.). Noi siamo come delle lepri tremante, che uno spaventapasseri fatto di vecchi stracci impedisce di pascolare. Eppure sono i nostri insultatori che saranno svergognati nel giorno del giudizio. (Sap. V, 1). Chi non osa difendere l’onore di Dio, è un cane muto che non sa abbaiare. (Is. VI, 10). – Un bell’esempio di professione di fede ci viene dato dai tre giovani nella fornace, che si rifiutarono di nella fornace, che si rifiutarono di adorare la statua di Nabucodonosor (Dan. il.); dal santo vecchio Eleazar, che rifiutò le carni proibite, nonostante le minacce di morte. (2 Macch. VI.) S. Maurizio e la legione tebana (martirizzata presso il lago di Ginevra, 286) si dichiararono Cristiani davanti all’imperatore e rifiutarono di offrire prima della battaglia i sacrifici da lui prescritti. Per la vergogna di tanti Cattolici, i seguaci delle false religioni, ad esempio i maomettani, non esitano a professare il loro culto. È soprattutto nelle processioni che la Chiesa ci dà l’opportunità di professare pubblicamente la nostra Religione.

La professione pubblica della fede, tuttavia, non è richiesta solo quando comporterebbe il disprezzo per la Religione o lo scandalo del prossimo.

Per salvarsi l’anima, non è necessario professare la propria fede sempre e ovunque, è necessario solo se, trascurandola, si toglie l’onore a Dio e al nostro prossimo la edificazione che è dovuta loro. (S. Tom. d’Aq.) – Non dobbiamo quindi rispondere alle domande indiscrete dei non credenti; possiamo farli tacere con una parola o andarcene. In un albergo, un viaggiatore che aveva chiesto un un misero pasto fu ironicamente interrogato sulla sua religione dall’albergatore: “Signore! Signore”, rispose, “si preoccupi del mio stomaco vuoto, non della mia fede. Ma se se siamo interrogati da un’autorità competente, siamo obbligati a rispondere, come Cristo davanti a Caifa, anche sotto minaccia di morte. In questo caso basterebbe attenersi al precetto di Gesù Cristo: “Non temete coloro che possono uccidere il corpo ma non l’anima.”(S. Matth. X, 28.) Fare ciò significa incorrere nell’ira di Dio, dice S. Matth. X, 28. È attirare l’ira di Dio, dice S. Agostino, temere gli uomini più di Dio. – Né è consigliabile iniziare discussioni religiose con i non credenti. Queste dispute diceva San Pietro Canisio, riscaldano gli animi ed aumentano il dissenso. Quando si è costretti a farlo, lo si deve fare con grande modestia (Salviano). La gente comune ha spesso discussioni simili nelle locande; è una cosa da evitare.

2. IL CRISTO PROMETTE UNA RICOMPENSA ETERNA A CHI PROFESSI CON CORAGGIO LA SUA FEDE DAVANTI AGLI UOMINI:

“Chi mi confesserà davanti agli uomini, anch’io lo confesserò davanti al Padre mio che è nei cieli”. (S. Matth. X, 32).

S. Pietro professò coraggiosamente la divinità di Cristo davanti agli altri Apostoli. Gesù Cristo lo chiamò beato e lo nominò capo degli Apostoli. (S. Matth. XVI, 18). Egli esalterà allo stesso modo coloro che lo confessano senza rispetto umano. I tre giovani di Babilonia che confessarono il vero Dio davanti al re e a tutto il popolo furono miracolosamente salvati ed elevati a grandi onori (Dan. III). Rodolfo d’Asburgo che un giorno, andando a caccia, si imbatté in un Sacerdote che portava il viatico e rese omaggio al Santissimo Sacramento. Poco dopo fu eletto re di Germania alla Dieta di Francoforte (1273).

Una ricompensa molto alta in cielo è destinata a chi è perseguitato per la sua fede e a chi sacrifica la sua vita per essa.

Beati voi”, dice Gesù Cristo, “quando gli uomini vi malediranno, vi perseguiteranno e diranno falsamente ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Allora rallegratevi ed esultate, perché una grande ricompensa è in serbo per voi in cielo” (Matteo V, 12). Colui che ha subito grandi prove per la sua fede è chiamato Confessore. – Colui che muore per la sua fede, è chiamato Martire. Il martire si fa infallibilmente Santo, perché Gesù Cristo ha detto: “Chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà”. (S. Math. X, 39). I martiri sono morti con tanta gioia e letizia. Sant’Andrea abbracciava la sua croce, S. Ignazio di Antiochia si presentò davanti a Traiano! Noi facciamo ingiura a un martire se abbiamo pregato per lui (Innoc. III). I martiri possiedono il più alto grado di carità, perché disprezzano tutti i beni terreni, ed il più preziosa prezioso, la vita. Questa vittoria vale per loro la rappresentazione di.una palma. Tuttavia, non è lecito cercare deliberatamente la persecuzione ed il martirio. Alcuni lo hanno fatto – per esempio quelli che hanno denunciato se stessi, che hanno rovesciato gli idoli ed hanno ceduto alla prova; questi presuntuosi non sono mai stati onorati dalla Chiesa come martiri, perché non è mai permesso incitare qualcuno all’ingiustizia. (S. Thom. d’Aq.) Gesù Cristo ci permette persino di fuggire dalla persecuzione. (S. Matth. X, 23); Egli stesso fuggì, così come gli Apostoli e alcuni Vescovi, come S. San Cipriano e Sant’Atanasio. Solo i pastori sono obbligati a rimanere quando la salvezza del loro gregge rende necessaria la loro presenza. (S. Thom. d’Aq.) Il mercenario lo fa quando arriva il lupo, ma non il buon pastore. (S. Giovanni X, 12.) I pastori possono fuggire solo quando la loro presenza non sarebbe utile o ecciterebbe ancora di più i persecutori. La morte per eresia non è martirio, perché manca la carità senza la quale il martirio stesso è senza merito (1. Cor. XIII, 3). Hus di Praga, che preferiva essere bruciato vivo (1415) piuttosto che rinunciare alla sua eresia, non è quindi un martire. Ma siamo martiri quando siamo feriti a causa della fede e si muore per la ferita; quando, per la propria fede si è condannati alla prigionia perpetua, all’esilio; quando uno viene ucciso per un’altra virtù cristiana, ad esempio San Giovanni Battista, San Giovanni Nepomuceno, perché, dice San Tommaso la virtù cristiana è una certa professione di fede. Il numero dei martiri è stimato in 16.000.000.. – Non è cristiano, dice San Cipriano, chi teme di morire per la propria fede.

3. CHI SI VERGOGNA DELLA PROPRIA FEDE PER PAURA O PER RISPETTO UMANO LA RINNEGHI FORMALMENTE,

si espone alle minacce di Gesù Cristo: “Chiunque rinuncia a mi rinneghi davanti agli uomini, Io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”. (S. Matth. X, 33) “Se qualcuno si vergogna di me e delle mie parole, il Figlio dell’uomo arrossirà anche di lui quando verrà nella sua gloria.(S. Luca, IX, 26.).

Chi arrossisce della propria fede imita Pietro che rinnegò Gesù Cristo (S. Matth. XXVI, 69.) Molti Cristiani fecero lo stesso durante le persecuzioni e sacrificarono agli idoli. Oggi molti uomini si vergognano di fare il segno della croce in Chiesa, di ricevere i Sacramenti, di adorare l’Eucaristia quando incontrano un Sacerdote che porta il viatico, ecc. Altri peccano partecipando agli esercizi religiosi dei dissidenti, quando, ad esempio, contraggono un matrimonio misto davanti a un ministro protestante; quando fanno da padrini e madrine. a dei protestanti, quando vanno con loro a ricevere la Cena del Signore, ecc. (Non è un peccato contro la fede assistere a cerimonie religiose per pura curiosità, o assistere ai loro matrimoni o ai loro funerali. Vergognarsi della propria fede significa anche rendersi disprezzabili agli occhi dei propri simili, perché i vigliacchi non sono rispettati. Costanzo, padre di Costantino il Grande, licenziò dal suo servizio i suoi servi Cristiani ai quali aveva ordinato di sacrificare agli idoli e che gli avevano obbedito (Mehler I, 45.)! – I rinnegati formali sono ancora più disgraziati. Il saggio re Salomone rinnegò il vero Dio e divenne un idolatra per amore delle sue mogli pagane. Giuliano l’Apostata (f 363) rinnegò il Cristianesimo e ne divenne il peggior nemico, come si può vedere dal suo tentativo di ricostruire il tempio di Gerusalemme e dalla blasfemia che pronunciò quando esclamò: Hai vinto, Galileo! Non è raro che i Cattolici passino al protestantesimo o all’Ebraismo, oppure si definiscono liberi pensatori, cioè non appartenenti a nessun culto particolare. In genere, lo fanno per motivi puramente umani, ad esempio per un matrimonio o per esprimere il loro odio verso un Sacerdote. I viziosi rinnegano la loro fede. Non si pensi”, dice San Cipriano, “che i buoni abbandonino la Chiesa. Il vento non porta via il buon grano, ma la pula”. Il vento non sradica gli alberi sani, ma quelli marci. Chi fa apostasia commette un peccato mortale, perché crocifigge di nuovo il Figlio di Dio. Il Papa si è riservato l’assoluzione per questo peccato: il Vescovo può assolvere solo per sua delega (Decreto di Pio IX. 12 ottobre 1869). Ora, chi non ha la Chiesa per madre, non può avere Dio per padre. (S. Cipriano). Non c’è quindi nessuna prova che un Cattolico non debba superare per mantenere la sua fede, deve essere fortemente radicato chi sfida tutte le tempeste, il soldato che anche in guerra non abbandona il suo posto.

9. IL SEGNO DELLA CROCE.

Il Cattolico professa la sua fede soprattutto con il sacro segno della croce.

Il segno della croce è per il Cristiano ciò che l’uniforme è per il soldato o il funzionario pubblico; con esso professa di accettare la dottrina del Salvatore crocifisso. Il segno della croce è per gli ebrei e i pagani oggetto di odio e di disprezzo (I. Cor. I, 23); anche i protestanti rifiutano il segno della croce. È il segno proprio dei Cattolici, e poiché è di origine antichissima e si trova in tutta la Chiesa, è ragionevole pensare che il segno della croce sia in tutta la Chiesa, è ragionevole supporre che sia di origine apostolica. – Ci sono due modi di fare il segno della croce. Il primo è tracciare piccole croci sul viso, sulla fronte, la bocca e sul petto con il pollice della mano destra, tenendo la mano sinistra un po’ sotto il petto. Allo stesso tempo, si dice: “Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo Così sia”. Con ciò noi ci impegniamo a credere, a professare, a seguire la dottrina del Crocifisso. Noi chiediamo che la grazia di Dio illumini la nostra comprensione attraverso la potenza della croce, che nelle tentazioni del rispetto umano possa aprire le nostre labbra per professare la fede e che muova i nostri cuori e le nostre volontà a osservare i comandamenti; noi consacriamo i nostri pensieri a Dio Padre, autore di tutte le cose (segnando la fronte); al Figlio, Verbo che procede dal Padre, le nostre parole (segno sulla bocca); allo Spirito Santo, lo Spirito di carità, tutte le aspirazioni del nostro cuore (segno sul cuore, la sede dell’amore). Questo è chiamato il piccolo segno della croce. (In alcune zone della Germania è chiamato anche segno tedesco, perché è più popolare tra la gente rispetto al segno di croce grande). – Il segno di croce grande, o segno latino, si usa durante la Messa e ci ricorda la nostra unione con la Chiesa attraverso la Croce di Pietro e ci ricorda la nostra unione con la Chiesa romana. Si esegue portando la mano destra sulla fronte, al petto, alla spalla sinistra, poi a destra, tenendo la mano sinistra sul petto. (Si va da sinistra a destra perché Cristo, con la sua redenzione, ci ha posto sul lato destro. Nei Paesi di lingua romana e slava, questo segno è usato anche dai laici. L’importante è non fare mai il segno della croce in modo troppo frettoloso e pensare  di farlo davanti alla maestà dell’Altissimo.

1. FACENDO IL SEGNO DELLA CROCE PROFESSIAMO I DUE MISTERI PRINCIPALI DELLA RELIGIONE: LA TRINITÀ E L’INCARNAZIONE DEL REDENTORE.

Il singolare “nel nome” indica l’unità di Dio; le altre parole le tre Persone divine.

Nel Nome” significa: Per missione di Dio, per la potenza di Dio, con l’aiuto di Dio, alla gloria di Dio.

La croce singola che facciamo sulla fronte, sul petto e sulle spalle simboleggia l’unità di Dio; la triplice croce simboleggia le tre Persone della SS. Trinità.

La forma della croce ci ricorda che il Figlio di Dio fattosi uomo ci ha salvato sulla croce.

Il segno della croce è quindi come un riassunto della Religione cristiana.

Il corpo umano ha la forma di una croce; le linee della figura formano una croce, così come l’uccello che vola, il pesce che nuota, la bella costellazione di questo nome nel cielo meridionale, certi alberi, certi fiori, ecc. ecc.. L’apparizione di una croce nel cielo annuncerà l’arrivo del Giudice al giudizio finale (S. Matth. XXIV, 30). La Chiesa cattolica onora molto il segno della croce. È spesso usato nella Santa Messa e nell’amministrazione dei Sacramenti e delle benedizioni; essa pone la croce su campanili, altari, stendardi e casule, ed è piantata sulle tombe. Molte chiese sono costruite a forma di croce.

2. ATTRAVERSO IL SEGNO DELLA CROCE OTTENIAMO LA BENEDIZIONE DI DIO.

Attraverso il segno della croce noi soprattutto, siamo protetti dal diavolo e da una moltitudine di mali spirituali e temporali.

Il segno della croce non è quindi una cerimonia vana, ma una benedizione di se stessi (un appello a Dio per ottenere aiuto), ed ogni benedizione divina consiste nell’allontanare i mali e procurare il bene. – Il segno della croce mette in fuga il diavolo con le sue tentazioni. Come un cane teme e fugge dal bastone con cui è stato picchiato, così il demonio è terrorizzato e messo in fuga dalla croce, che gli ricorda la sua sconfitta (S. Cyr.) – Si narra che un cervo portasse con sé un piccolo cartello con questa iscrizione in lettere d’oro:

Non toccarmi, sono l’imperatore. Nessun cacciatore osò mai sparargli. Come facciamo il segno della croce, facciamo il segno: Io sono il Salvatore, ed il demonio non potrà raggiungerci. Sul campo, è vietato sparare a coloro – cappellani e medici – che indossano la fascia bianca con la croce rossa; allo stesso modo, al diavolo è vietato fare del male a chi si firma con la croce. – Il segno della croce è stato modellato sul segno tracciato sugli stipiti delle porte, davanti al quale l’Angelo sterminatore dell’Egitto passò senza colpire (S. J. Dam.). Gesù Cristo fu rappresentato (S. Giovanni III, 14) dal serpente di rame (Numeri XXI) innalzato da Mosè nel deserto e che guariva con il suo stesso aspetto le ferite provocate dai serpenti di fuoco; il segno della croce, che rappresenta anche la croce di Gesù Cristo, ci protegge dalle insidie del serpente infernale. Finché Mosè pregava con le braccia tese a guisa di croce, i Chananiti venivano messi in fuga. (Esodo XVII, 12). – Nel 312 Costantino e tutto il suo esercito videro una croce luminosa nel cielo con queste parole: “In hoc signo tnnces“, mise la croce su uno stendardo e fu vittorioso. (Questa è l’origine dei nostri stendardi). Queste parole si applicano anche al segno della croce che facciamo su noi stessi. Il solo ricordo della croce di Gesù Cristo mette in fuga i nostri nemici invisibili e ci rafforza contro i loro attacchi (Sant’Agostino); E così molti Santi, per scacciare i pensieri cattivi, erano soliti segnarsi subito. I primi Cristiani la usavano spesso per abbattere gli idoli. All’epoca dell’invenzione della santa croce da parte dell’imperatrice Sant’Elena, madre di Costantino il Grande, i malati venivano guariti semplicemente toccando il legno sacro (325). Che potere miracoloso! La croce guarisce dalle malattie del corpo ed il segno della croce non è meno potente. Che sollievo hanno ricevuto da Dio alcuni malati quando si segnarono spesso e devotamente. La storia registra che molti martiri si sono segnati prima dei loro supplizi e ne sono usciti sani e salvi.. Di San Giovanni Evangelista si dice che un giorno si fece il segno della croce su una coppa avvelenata e la bevve senza subire alcun danno. La stessa cosa deve essere accaduta a Francesco Saverio, l’Apostolo dell’India. I profeti dell’Antico Testamento avevano già annunciato questa virtù del segno della croce. Una visione mostrò a Ezechiele che in una punizione riservata a Gerusalemme, la morte avrebbe risparmiato coloro che un Angelo aveva prima segnato sulla fronte con la lettera Thau a forma di croce (Ezechiele IX, 4).

Il segno della croce deve essere fatto spesso, soprattutto a letto, prima e dopo le preghiere, prima e dopo i pasti, prima e dopo essere usciti di casa, al momento delle tentazioni e prima di tutte le azioni principali.

Fatevi il segno della croce al vostro risveglio. Così facendo, vi assicurerete la benedizione di Dio per l’intera giornata. Fatelo anche la sera, per allontanare i pensieri cattivi. Prima della preghiera, per scacciare le distrazioni; prima delle grandi imprese, per avere successo, ecc.. Adottando questa abitudine, adempiremo sicuramente al comando dell’Apostolo: “Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi cosa, fate tutto a gloria di Dio” (I. Cor. X, 31). Già i primi Cristiani avevano l’abitudine di segnarsi, secondo Tertulliano (f 240) che dice: “Prima e durante le nostre occupazioni, quando usciamo, quando rientriamo, quando ci vestiamo, prima di dormire, in tutte le nostre azioni ci segniamo la fronte con la croce. – Facciamo il segno della croce in particolare nella Santa Messa: all’inizio, al Vangelo, alla fine della Messa e alla fine della Messa. Facciamo il segno della croce soprattutto nella Messa: all’inizio, al Vangelo, all’Elevazione, alla Comunione e alla benedizione del Sacerdote. Pio IX (28 luglio 1863) assegnò 50 giorni di indulgenza ad ogni segno di croce. Santa Editrice (+ 984), principessa reale d’Inghilterra, si segnava molto spesso: 13 anni dopo la sua morte il suo pollice fu trovato ancora perfettamente conservato. (Mehlex I, 179).

È molto salutare usare l’acqua santa quando si fa il segno della croce. Quest’acqua ha una virtù particolare contro gli assalti del demonio, grazie alla preghiera della Chiesa per benedire l’acqua.

L’uso dell’acqua santa vale ogni volta 100 giorni di indulgenza. (Pio IX, 23 marzo 1866). Si possono trovare acquasantiere in appartamenti e nelle chiese; ma in molti appartamenti l’acquasantiere ahimè sono vuote di acqua santa e piene di polvere.

Siete degli sciocchi; se vi vergognate di farvi il segno della croce, Cristo a sua volta si vergognerà di voi: il diavolo, dice sant’Ignazio di Antiochia, si rallegra se rinnegate la croce, che è la sua rovina e il segno della vittoria sul suo potere.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (12)

Capitolo quinto

SUL CAMPO DI BATTAGLIA

La legge cristiana dell’Amore, la quale si assomma nella virtù praticata nella vita, è un ideale che non basta sognareo salutare con tenere lacrimucce invocatrici, ma, come abbiamo constatato, bisogna realizzarlo in mezzo a difficoltà, a combattimenti, talvolta purtroppo a sconfitte. « Il mondo, il demonio, la carne » — l’ambiente che ci circonda, gli spiriti ribelli, il nostro io — tutto ci trascina lontano dal Sole dell’Amore. Le « tentazioni » si rinnovellano sempre ad ogni momento. Una battaglia perenne si impone, per tradurre in realtà l’ideale divino. L’occasione è sempre pronta ad aspettarci. Guardando al passato, noi scorgiamo come spesso lo sviluppo nostro ed i nostri progressi siano dipesi da circostanze minime, da occasioni che abbiamo preso come palla al balzo. Un istante di forza in un conflitto vi dà un eroe; un attimo di debolezza vi dà un traditore. E le lotte non terminano mai; si succedono, si avvicendano, si cambiano, continuano incessantemente. È la battaglia della vita, che — come ricorda Lacordaire — faceva esclamare a Seneca: « Ecco uno spettacolo degno di Dio » — Ecce par Deo spectaculum — ed a san Paolo: « Siamo stati fatti spettacolo al mondo, agli Angeli ed agli uomini ». Noi non possiamo avere la vana pretesa di descrivere tutte le lotte che si svolgono nell’intimità delle coscienze: solo vogliamo gettare uno sguardo sul campo del combattimento quotidiano, per convincerci che ogni conflitto si riduce, in ultima analisi ad un contrasto tra l’amore per Dio e per ciò che non è Dio.

I. – IL CRISTIANO E L’EGOISMO DELLO SPIRITO.

La prima grande battaglia che ognuno deve sostenere è dal Gratry felicemente definita: « L’egoismo dello spirito ». L’anima nostra dovrebbe essere un santuario, consacrato al Signore; invece, sull’altare del cuore, noi sostituiamo un idolo: il nostro piccolo io. Due norme allora stanno di fronte e cozzano ad ogni momento fra loro: la morale cristiana comanda di amare Dio sopra ogni cosa ed ogni cosa per Dio; l’egoismo dello spirito risponde: ama il tuo io sopra ogni cosa e tutto il resto amalo solo per il tuo io. Ecco la superbia, il primo dei peccati capitali; ecco la vanagloria, l’amar proprio — come dice l’asceta con una meravigliosa parola che esprime l’antitesi accennata. Ed al seguito di tale nemico, v’è un mondo di difetti e di colpe, che ne sono fatali conseguenze.

1. – Il piccolo io e Dio.

Noi siamo nell’egoismo, esclama il Gratry nella sua opera La connaissance de l’ame. Chi può fingere di ignorarlo?… Posso forse non vedere che io mi preferisco agli altri, all’ordine, alla giustizia ed alla verità, di conseguenza a Dio, e che non soltanto mi preferisco ai miei simili, ma che accetto, per un po’ di felicità, una grande sofferenza altrui? Più ancora: posso negare la storia quando mi mostra che certe anime amavano intensificare la loro gioia col dolore degli altri? quando constato questo fatto così generale del sangue umano mescolato alle grandi orge e che mi indica non solo dei proconsoli che facevano massacrare gli schiavi nei loro banchetti, per il piacere loro e delle loro cortigiane, ma ancora popoli interi, ebbri di gioia e di piacere allo spettacolo di gladiatori che si scannavano? Non è questo forse egoismo? « Ciascuno discenda nel proprio cuore. Chi non ha avuto, nella sua vita, qualche ora di feroce passione, in cui si sarebbe accettata la distruzione del genere umano, per vivere nella propria concupiscenza soddisfatta a tal prezzo? Tutti gli uomini hanno potuto sentirsi, in qualche giorno, fratelli di Nerone, che bruciava Roma per il suo piacere, o di Caligola, il quale s’augurava che il genere umano avesse una sola testa per poterla recidere. In quasi tutti i cuori, v’è un Nerone, se non sviluppato, almeno in germe… « Noi nasciamo ingiusti, dice Pascal, perché ciascuno tende a sé. Ciò è contro ogni ordine… L’inclinazione verso di sé è l’inizio d’ogni disordine, in guerra, in politica, in economia. Chiunque non odia in sé questo amor proprio e questo istinto, che lo porta a mettersi al di sopra di tutto, è ben cieco. « Pascal, come Platone, come Michelangelo, e come tutti i veri filosofi, ha visto che noi nasciamo e siamo in uno stato di egoismo assurdo e mostruoso, che consiste nel volere fare di noi in ogni cosa il centro, il principio, il tutto ». Per questa strana, ma possente illusione « quasi tutti gli spiriti che pensano vivono isolati. Ciascuno, al centro della sua sfera, non vede che se stesso; gli altri, da lontano, gli appaiono come astri nella notte che si intravedono senza comprenderli; e quando negli slanci del pensiero attuale il nostro proprio sole si leva e si percepisce direttamente e senza nubi, si eclissano nel nostro cielo anche le deboli tracce dei soli più vicini. Sì: noi siamo il sole; tutti gli altri spiriti sono stelle eclissate dal giorno ». – La punta del nostro naso diviene così il centro dell’universo. All’amore per Dio, che implica l’amore del prossimo e di tutti vorrebbe fare un corpo unico vivente, si sostituisce l’egoismo e, perciò, la disgregazione, la dispersione, il contrasto, l’odio, con i diversi frutti avvelenati che ne conseguono. Saranno le anto incensazioni, per le quali si assomiglia ai vecchi palloni gonfiati, con la minaccia di scoppiare. Saranno le ambizioncelle, di chi sprezza la raccomandazione di san Francesco di Sales: « Non imitare il ragno, che è l’immagine degli orgogliosi, ma imita l’ape, simbolo dell’anima umile. Il ragno tesse la sua tela a vista di tutti, giammai in segreto: la fila nei verzieri da un albero all’altro, e nelle case, alle finestre, ai soffitti, insomma sotto gli occhi di tutti; rassomiglia in questo ai vanitosi ed agli ipocriti, che ogni cosa fanno per essere veduti e ammirati dagli uomini… Le api sono più savie e prudenti: fabbricano il loro miele dentro l’alveare, dove non le può vedere nessuno; oltre a questo si costruiscono ivi tante cellette, in cui conducono avanti il lavoro segretamente; il che ci rappresenta molto bene l’anima umile, sempre chiusa in sè, non vaga di gloria o di lode per le sue azioni, ma studiosa di occultare i suoi divisamenti, contenta che vegga e sappia Iddio quello che essa fa ». Del resto, è logico il procedimento: se non si agisce per amore di Dio, si cerca « di essere veduto dagli uomini », nonostante la condanna di Gesù nel Vangelo. E l’adorazione del proprio io, centro del mondo, assumerà forme svariatissime: arà il culto esagerato della propria bellezza o della propria forza. Sarà il vanto di poter portare ciondoli e gioielli, non ricordando ciò che osservava ancora il mite spirito di Sales: “Forse che il mulo cessa di essere una povera bestia, perchè carico di monili preziosi?”. Saranno gli eccessi della moda ridicola ed oscena. Saranno brame esasperanti di gloria, di onori, di successi. Saranno gelosie che di tutti vorrebbe fare un corpo unico vivente, si sostituisce l’egoismo e, perciò, la disgregazione, la dispersione, il contrasto, l’odio, con i diversi frutti avvelenati che ne conseguono invidie, più o meno abilmente ricoperte da veli benigni. – Pubblicava un giorno il « Mercure de France » un gustosissimo aneddoto. Che Sarah Bernhardt, anche quando era consacrata ormai artista insuperabile e aveva raggiunto il vertice della celebrità, sentisse profonda la gelosia verso tutti quelli che potevano contrastarle il primato che essa deteneva, è cosa da tutti saputa. E si sa anche che gli allori, che attraverso il mondo raccoglieva Eleonora Duse, turbavano i sonni della grande tragica francese, la quale volentieri avrebbe voluto mettere in pratica l’opinione di Medea: « Io sola, e basta ». Questa gelosia di mestiere era in Sarah Bernhardt così profonda, da non riuscire molte volte a dissimularla, come avvenne quando, nel 1897, Eleonora Duse si produsse per la prima volta a Parigi, in una serata di gala per il monumento ad Alessandro Dumas figlio, al teatro della Renaissance. In quella serata, dice il « Mercure de France », la Duse fu semplicemente ammirevole. Sarah era dietro una quinta, spiando con l’occhio attraverso uno strappo della tela i movimenti del pubblico e l’impeto della Duse. Ad ogni istante gli applausi scoppiavano nella sala entusiastici e Sarah Bernhardt se ne mostrava visibilmente urtata, come se un fuoco di fucileria fosse stato diretto contro di lei. Vicino a lei era un gruppo di familiari, i quali per compiacerla affettavano di scrollare le spalle e di sogghignare ogni qualvolta la Duse veniva applaudita. Uno di essi, staccandosi ad un certo momento dal gruppo, si pose a percorrere il retroscena, imitando con grossolana caricatura i gesti della grande attrice italiana, le sue contrazioni del volto, il suo passo alquanto zoppicante. E Sarah, voltatasi, l’approvò con un sorriso, non sapendo, la disgraziata, che un giorno essa avrebbe zoppicato ancora di più, poiché le avrebbero tagliato una gamba. Tuttavia Sarah accolse tra le sue braccia la Duse, quando essa uscì di scena. Ma era per il pubblico. Una gran quantità di gente era venuta sul palcoscenico a felicitare l’italiana: bisognava ben dissimulare il proprio rancore, almeno per orgoglio. Con quella esagerazione, che è la caratteristica della gente di teatro, Sarah Bernhardt la copriva di baci e con effusione diceva: « Divina!… Ah! cara, voi siete stata divina…» E Sarah stringeva così forte la Duse, da far venire in mente ai presenti il verso famoso: « J’embrasse mon rival, mais c’est pour l’étouffer » (abbraccio il mio rivale, ma solo per soffocarlo. Nulla come questo egocentrismo rende ridicoli gli uomini grandi e gli uomini piccoli. Si pensi, ad es., a Cola di Rienzo, piangente perchè più non v’erano i grandi d’un tempo e la loro sublime giustizia, disperato di non esser nato quattordici secoli prima, sicuro d’essere il restauratore di Roma e dell’Italia, il campione della libertà ed il redentore dell’umanità, mentre datava le sue lettere dal Campidoglio nell’anno primo della nuova repubblica e si cingeva la fronte di sei corone: con foglie, cioè, di quercia, di edera, di mirto, di ulivo, di alloro e di argento dorato. Si pensi al nostro grande Petrarca, gloria della letteratura nostra. Persino il cantore d’aura si fece compatire, quando pretese di non andar debitore di nulla ai suoi contemporanei, di non voler essere paragonato a nessuno di essi, di rifiutare ad altri la gloria del suo tempo. Non aveva caro, così almeno fu detto, che gli si parlasse di Dante e della Divina Commedia; trovandosi a Milano, all’inizio della peste, dichiarò stoicamente ad un medico che non si doveva fuggire la morte e poi subito riparò a Padova ed a Venezia; s’irritava dei suoi critici, sentenziando: « Si sono arrogati il diritto di giudicarmi; in verità, io non so chi abbia dato loro un tale diritto ». Erano gli scherzi dell’orgoglio. – E pazienza se si trattasse solo di questo! L’egoismo dello spirito non solo ci copre di ridicolo, come anche per colui che è sempre stato rinchiuso nel proprio villaggio si può dimostrare con esemplificazioni gustose; ma ci conduce anche a mille spropositi, più o meno grossi e grossolani, secondo le mansioni affidate ad una persona. Individui simili ad Icaro, che pretendeva volare con ali di cera; famiglie rovinate da pretese pazzesche, suggerite dall’amor proprio; coscienze perdute, che, pur di soddisfare il loro egoismo superbo, son ricorse a tutti i mezzi, anche ai più indecorosi ed illeciti; ribellioni all’autorità dei genitori e disprezzo di ogni e qualsiasi autorità: simili colpe —e delitti sono le esigenze di questo idolo imperioso ed esigente, che è il nostro io. Soffermiamoci sopra un caso concreto e frequentissimo, che il Gratry illustra: il caso del giovane studente. Frequenta il liceo, o le scuole magistrali, o, se anche si vuole, l’Università; ossia, omincia ad appressare le labbra al calice della cultura. Subito è ubbriaco. Egli vi risolve ogni problema. Per lui non esistono enigmi dell’universo. Non esistono uomini grandi, se non a parole. Vi discute la grandezza di Dante, di Aristotele, persino di Cristo: e vi dice sul serio che non crede più. Scrutate il suo stato d’animo: egli è proprio convinto d’aver maggior luce, maggior conoscenza dell’uomo e di Dio, di sant’Agostino, di san Tommaso, di Dante, di Bossuet, di Pascal, di Manzoni. « Tutto questo gli sembra notte oscura: egli non vi vede nulla; e sulla testimonianza dei suoi occhi, che, non giungendo sin là, in realtà nulla vedono, giudica che tutto questo passato non è che una notte. Chiunque s’è occupato di giovani ed ha ricevuto le loro intime e sincere confidenze, conosce queste cose. Questo ragazzo, adunque, dichiara questo: per lui, maestri, genitori, Chiesa e tradizione, grandi uomini, grandi autori e grandi secoli, tutte queste autorità sono nulle e non avvenute; tutto questo per lui non è che menzogna, stupidità, ipocrisia, superstizione, tenebre; lui solo sa a che cosa deve attenersi e vi si attiene. A ce compte et en ce sens, continua il Gratry e citiamolo in francese, per non offendere nessuno, que d’hommes demeurent écoliers toute leur vie! [Quanti uomini restano studenti tutta la loro vita]. Questo è il fatto. Possiamo ridere, ma dobbiamo confessare che quando eravamo in liceo il compito di risolvere le varie questioni filosofiche o religiose, artistiche o letterarie, non ci atterriva; avevamo in tasca per ogni problema una soluzione netta, precisa, esauriente, infallibile, anzi così infallibile che magari bisognava modificarla e mutarla ogni volta che si cambiava il moccichino; e tuttavia non si dubitava mai del nostro signor io. Dubitare di tutti, sì; era giusto, intuitivo; era il dovere dell’uomo moderno, dopo Cartesio ed il suo dubbio metodico: l’unica cosa di cui eravamo sicuri, di cui non sospettavamo affatto, era questo io benedetto, superbo ed ignorante, nonostante le quattro parole di greco o i quattro concettuzzi che i nostri disgraziati professori a stento appiccicavano alla nostra memoria, come un manifesto sui muri d’una città. E pensare che ci spiegavano il problema della conoscenza!… • accaloravano per farci capire come egualmente Emanuele Kant aveva rinnovato la rivoluzione copernicana: non è più il soggetto che girava intorno all’oggetto, ma è l’oggetto che gira intorno a noi; e noi ci sprofondavamo nel nostro io alla ricerca delle categorie a priori e… l’unica cosa che non conoscevamo era proprio questo… pessimo soggetto, che è l’animo nostro con la sua superbia. Sorvolo sulle conseguenze disastrose dell’egoismo dello spirito e della sostituzione dell’amor proprio all’amore di Dio. Satana, la figura tipica dell’orgoglio, cadde nell’inferno; anche noi per lo stesso peccato, precipitiamo spesso nell’abisso delle disillusioni, delle amarezze, delle inquietudini, delle scimunitaggini. L’egocentrismo ci fa ritenere d’aver maggiori forze, che in realtà non abbiamo, e disprezza le difficoltà che purtroppo esistono. Perciò fin quando celebra i suoi trionfi nel regno dell’immaginazione fantastica, tutto va a pennello: quando, invece, scende sul terreno pratico, son dolori e disastri! E persino nella più rosea delle ipotesi, anche se si riesce ad affermare il proprio io e ad imporne la venerazione agli altri, non si raggiunge la pace dell’animo e la gioia. Anche i pochi che han toccato le alte vette del monte della gloria, ripetono con Cordelia: « Quelle rocce che sembran di diamante e che risplendono ai raggi del sole son formate di lagrime; le sue viscere non sono altro che cuori infranti e sanguinosi ». Non è il caso di rammentare la confessione di un Bismarck, che a Friedrichsruhe nel 1895 diceva ai suoi ammiratori, accorsi a festeggiarlo: « Signori, debbo dirvi che durante la mia vita non sono stato veramente felice neppure ventiquattro ore. La gioia maggiore la provai quando uccisi la prima lepre ». Non è il caso di rievocare il lamento di Goethe, poco tempo prima di morire, e che leggiamo nei suoi Gespriiche mit Eckermann: « La mia vita non è stata in sostanza, che pena e lavoro; posso affermare con sicurezza che in settantacinque anni di vita non ho avuto quattro settimane di vera gioia. È stato come l’eterno rotolare di una pietra, che sempre doveva essere sollevata ». – Poi, da ultimo, viene la morte e dinanzi ad essa l’egocentrismo dilegua, svanisce. Lo ha rivelato persino Pierre Loti, in uno dei suoi libri di viaggio, quando in una cabina del « Redoutable », mentre la nave s’avvicinava a Nagasaki, il 17 gennaio 1901, udì i colpi di cannone, annunciare la morte della regina Vittoria d’Inghilterra. Il cannone aveva tuonato tutto il giorno: « Verso sera, quando il vero crepuscolo s’aggiunge alla penombra delle nubi e della piaggia, il cannone grado grado si calma. A lunghi intervalli qualche ultimo colpo rumoreggia ancora, prolungato dall’eco. Poi un infinito silenzio ricade su questa morte con la notte che giunge: la pagina della storia è voltata; la vecchia dama orgogliosa comincia la sua eterna discesa, forse nella pace, certo nella cenere e nell’oblìo… ». E le iscrizioni sepolcrali, non solo per i grandi, ma persino e soprattutto per i piccoli e i microcefali, potrebbero suonare così: « Qui giace colui — o colei — che credeva essere il centro dell’universo… ».

2. – Un’obbiezione.

No, ci pare di sentire. Mille volte no! Non bisogna distruggerlo questo nostro piccolo io! È ciò che di più necessario e di vital esista! Se non ci fosse la molla di quello che la morale cristiana chiama « orgoglio » od « amor proprio », noi getterermmo la storia in un’atmosfera grigia di stupida tranquillità e di indolenza spirituale. Sono i fremiti dell’ambizione, dell’invidia, della superbia, che scuotono il mondo. Sono le affermazioni superbe del proprio io, che creano energie, suscitano entusiasmi, dànno la forza per affrontare sacrifici, per compiere opere immortali. Una folla di umili sarebbe un branco di scemi. E mi sembra che, « forte e radioso come un sole mattutino », Zarathustra s’avanzi; e non al gregge miserabile degli schiavi, ma si indirizzi agli eletti nelle cui vene scorre sangue divino, alle anime orgogliose intorno alle quali aleggia il profumo dei mari, alle nature forti e titaniche che possono sopportare l’aria delle altezze e che, dotate di coraggio, non conoscono pusillanimi viltà. Compagni egli cerca, e non cadaveri, e neppure mandrie o credenti. Cerca creatori come lui, che scrivano nuovi valori su nuove tavole. Solo a costoro Zarathustra dice: « Io vi insegnerò il Superuomo… Per l’amor mio e la mia speranza, io vi scongiuro: non rigettate l’eroe che è nella vostra anima; credete alla santità della più alta speranza! »; ed innalza un inno alla vita ed alla bellezza, all’esaltazione della propria individualità, al superamento dell’uomo; ad una vita esuberante, lussureggiante, tropicale, che sia continuo sviluppo, progresso illimitato, perpetua tendenza a nuove affermazioni, ad ascensioni più. alte, a conquiste più dolci: ad una vita possente, bella, artisticamente bella; all’azione, all’attività eroica, all’energia, alla Wille zur Macht, alla volontà di dominio, alla forza, in una parola al proprio io. Guai a chi lo tocca!

3. – L’umiltà e l’amore.

Il Superuomo non deve spaventarci. Sulla sua fronte v’è il segno della lebbra. Oh che! Riconoscere che Dio è il centro della realtà, e non il nostro io, equivale forse a condannarci ad una vita di spirituale pigrizia e di viltà, ad annientare le forze individuali, a spegnere la fiamma della conquista e dello sviluppo? Per null’affatto. Anche noi vogliamo l’attività e la vita. Ed è proprio il Dio bestemmiato, io scrivevo altrove, è « il dolente Dio che non ama il sole », che ci ha indicato un Sole infinito di perfezione e ci ha detto: — Imitate! Siate perfetti come il Padre, che a voi sorride dall’azzurro dei cieli. — Il nostro Dio che ci inculca di « fare la propria vita come si fa un’opera d’arte », poiché la vita umana è simile ad un poema, del quale ogni anno scriviamo un canto, ogni giorno componiamo un verso; poema che dev’essere magnifico e bello, ispirato dal soffio dell’amore divino. È il nostro Dio che suscita l’eroismo, perché « nella morale comune, come ben si è osservato, c’è già quanto basta per essere eroi.; c’è quanto basta per dare la propria vita per la patria e per l’ideale, per compiere al tempo della carestia e della peste di Milano i prodigi di Carlo Borromeo (il santo che nel suo stemma e nella sua vita ebbe come parola programmatica: humilitas, o per salpare con. Cristoforo Colombo alla scoperta di nuovi mondi… – Quale differenza, dunque v’è tra il superbo e il Cristiano? Il superbo dice: il vero Dio sono io: tutto dipende da me. Il Cristiano risponde: no, non sono io che ho creato il mondo, che mi sono dato l’esistenza e queste doti che posseggo, questa intelligenza, questa volontà, questa attività che mi divora e mi sospinge. In tutto questo io saluto l’amore di Dio per me. Sarebbe falsa e puerile umiltà quella di non guardare e riconoscere in noi ciò che Dio ci ha dato; sarebbe un’ingiuria all’amore di Dio. Egli ci ha dato un dono che noi non possiamo disprezzare, né negligere. Umiltà è verità; ma, in pari tempo, sarebbe stoltezza il pretendere che quello che ho, sia una creazione mia. « Cos’hai, ci grida Paolo l’Apostolo, che tu non abbia ricevuto? E se così è, perchè ti vai gloriando, come se non l’avessi ricevuto? ». Il superbo dice: io sono qualcosa di grande; se non avessi fede nelle mie forze, nulla farei. Il Cristiano risponde: io sono un complesso di forza e di debolezza, di buone tendenze e di istinti malvagi. Se guardo a me stesso, debbo scrivere le mie Confessioni con Agostino ed esclamare con una santa, che aveva chiesto a Dio la grazia di conoscere la sua anima e n’era stata esaudita: « Signore, basta, altrimenti mi perdo di coraggio! ». È insulsaggine non prendere coscienza delle proprie deficienze ed è molto pericoloso. È vero: ho una volontà preziosa, dalla quale dipende la mia decisione; ed anch’essa è dono dell’Amore di Dio; ma è pur vero che molteplici e gravi sono le difficoltà. Esse, tuttavia, non mi possono atterrire. Io pongo la mia fiducia non nel mio io umano, ma nel mio io divinizzato dalla grazia, fortificato da Dio, ed allora posso esclamare con san Paolo: « Posso tutto in Colui che mi conforta ». Il superbo dice: gli altri esistono per me. Il Cristiano risponde: no; gli altri esistono per Dio ed io li debbo amare come fratelli. Quanti debiti di riconoscenza io ho verso il prossimo! Della vita, della civiltà, della cultura, di mille e mille cose, io sono debitore agli altri. Il superbo dice: io posso schiacciare gli altri con piede inesorabile e servirmene come di sgabello; posso sacrificare gli altri a me. Il Cristiano risponde: no; io non ho diritto di sacrificare nessuno; ma debbo sacrificarmi io stesso per il mio prossimo. Solo a questo modo farò qualcosa di grande per me, per la mia famiglia, per la patria, per la Chiesa. – Ancora una volta: la differenza tra il superbo ed il Cristiano non sta nella volontà di vivere, nell’audacia dell’azione, nella vastità dei programmi, nella saldezza dei propositi, nella generosità degli sforzi. Nessuno dev’essere audace più di chi vive unito a Dio e si sente potente della sua potenza. Nessuno più di chi apre la finestra della sua anima e non sta rinchiuso nel suo egoismo, contempla orizzonti sereni e larghi. La differenza risiede nell’oggetto dell’amore: il superbo ama se stesso; il Cristiano ama Dio, e sé ed il prossimo in Dio. Agendo in tal modo, il Cristiano non va all’annientamento, bensì alla sua grandezza; non si spaventa di nessuna impresa, purché Dio ad essa lo chiami; dà un valore eterno alla sua vita, perchè quest’ultima diventa un contributo positivo di un’opera, dinanzi alla quale, meglio dell’artista antico, egli può asserire: laboro æternitati. In breve: l’umiltà è grandezza di amore e carità; l’orgoglio è l’egoismo dello spirito.

4. – La morale autonoma.

I sacerdoti, però, di quel terribile idolo che è l’egoismo dello spirito non si dànno per vinti. E, soprattutto ai giorni nostri, essi si appellano alla affermazione tante volte ripetuta, da Kant sino agli idealisti contemporanei, della nostra autonomia, come conditio sine qua non dell’etica. Senza far qui una discussione filosofica ed una critica dei vari sistemi, possiamo dire che il pensiero fondamentale che tutti hanno in comune, si può esprimere nei termini seguenti. Qual è il segreto che spiega l’influsso affascinante di Emanuel Kant? Perché, durante la sua vita, molti si recavano in pellegrinaggio a Kónigsberg per vederlo e per consultarlo? Perché anche oggi la corrente idealistica lo saluta come padre e molti sulla tomba di lui si commuovono, ripetendo le celebri parole: « Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me »? Perché l’idealismo, dall’inizio del secolo XIX ai giorni nostri, ha potuto spesso penetrare nelle anime e pretendere di sintetizzare tutta la cultura moderna? È la grandezza e la dignità dell’uomo, che forma il segreto di questi apparenti trionfi. Lo spirito umano è qualcosa di grande ed è artefice a se stesso del suo valore. Un senso innato della propria signoria canta in noi: ciascuno deve conquistarsi da sé la verità che è degno di possedere e tutto il merito delle buone azioni, che è capace di fare. Non da fuori, ma da noi, e da noi soltanto dobbiamo aspettarci tutto: è dallo svolgimento senza posa delle energie operose nostre, è dalla libera nostra ricerca intellettuale, è dalle successive nostre conquiste morali, è dall’uomo, e non da Dio, che dipende la nostra dignità e la nostra spirituale grandezza. Dipende da noi, insisterà Kant, e la sua parola è ancor oggi ripetuta, « l’alto valore che l’umanità si può e si deve procurare mediante la moralità »; e perciò « l’autonomia della volontà è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri che loro corrispondono ». – Non è Dio che mi obbliga ad osservare la legge morale, sono io che mi dò tale obbligazione. Altrimenti io mi sentirei schiacciato da un peso immane, mi sentirei avvilito da un comando tirannico, mi sentirei annullato dal tutto di Dio e dalle sue imposizioni. Dio, ben lungi dall’essere la base della morale, ne sarebbe la negazione assoluta, se io dovessi agire conformemente al dovere, sì, ma per Lui e non semplicemente per il dovere. Solo quando io agisco per puro rispetto alla legge morale mi sento grande, mi sento uomo e non schiavo! – Da questo principio sgorga l’invocazione calda e commossa del filosofo di Kònigsberg al dovere: « Dovere! nome grande e sublime, che non comprendi in te niente di ciò che piace e lusinga, ma reclami l’ubbidienza; che tuttavia per muovere la volontà non hai in te nulla di minaccioso, che non desti un’avversione naturale nè atterrisci, ma poni soltanto una legge; la quale trova da sè accesso nello spirito e guadagna da se, anche malgrado noi, la venerazione (se non sempre l’obbedienza), e davanti la quale tacciono le passioni, per continuare ad agire contro di essa in segreto; quale è la nascita di te degna e dove si trova la radice delle tue nobili origini, che fieramente respinge ogni parentela con le passioni ed è la sola sorgente di quell’unico valore che gli uomini possono darsi da se stessi? ». Ed alla domanda l’idealismo, con Kant, risponde indicando la nostra personalità umana e puramente umana. L’amore di sé, nella forma più austera e più seducente, viene così opposto all’amore di Dio. E l’uomo, postosi su questa strada, è giunto a proclamarsi Dio. Il trascendente ed il soprannaturale sono stati negati. Nella storia della cultura non si era mai verificata una negazione così completa e recisa del Cristianesimo.

5. – Il Cristianesimo e la nostra autonomia.

Alle voci allettatrici di tutte le sirene idealiste, il Cristiano non porge orecchio, perchè osserva a se stesso: « Non illuderti. Non fantasticare. Non farneticare. Non è l’uomo, non sei tu il centro dell’universo. Certo: tu hai un pensiero; hai una volontà libera: puoi svolgere la tua intelligenza e le tue energie; anzi, ne hai il dovere! Guai se tu lasciassi inoperose le forze che possiedi! Verresti meno al compito della tua vita. Ma questa stessa tua intelligenza viene forse da te? La tua volontà l’hai fosse data tu a te stesso? Sono forse un prodotto, una creazione tua? Puoi davvero, sul serio, affermare la autonomia del tuo essere?… Se Dio non ti avesse creato, se i tuoi genitori, strumenti suoi, non ti avessero messo al mondo, la tua persona sarebbe un nulla e resterebbe nel nulla. E domani, nonostante tutte le declamazioni di autonomia che tu puoi fare, basterà un malanno, per mostrarti come non sei tu il padrone della tua esistenza. Un po’ di tempo ancora e poi il tuo cadavere in putrefazione insegnerà a tutti il valore ineffabile delle tue superbe affermazioni. L’autonomia del tuo pensiero!… No. Non è il tuo pensiero che produce la realtà; non è l’atto del tuo pensiero che crea gli Appennini od una minuscola formica! Tu non puoi pensare quello che vuoi. Non puoi pensare, in nome di una pretesa autonomia, che due e due fanno dieci e che le stelle non brillano. La verità non la crei tu; la conquisti e riconosci soltanto … L’autonomia della tua volontà!… Anche qui, ti illudi forse di dare a te stesso la tua legge? Non è il singolo uomo il creatore della norma etica. Noi non creiamo la legge morale; la riconosciamo e la dobbiamo liberamente applicare e seguire. La nostra vera dignità, la nostra vera grandezza non consiste nel creare noi le forme etiche, ma nell’applicarle. Io non posso dare a me stesso imperativi categorici di questo genere: tu « devi rubare; devi uccidere chiunque non ti vada a genio ». E se non lo posso, dove va la mia autonomia? Non rispondermi che è la legge intrinseca del tuo spirito, che ti impone di non essere ladro od assassino; perché è verissimo che sono le leggi intrinseche dell’essere, conosciute dalla coscienza, quelle che ci tracciano la linea della nostra condotta; ma, ancora una volta, le hai forse costituite tu queste leggi intrinseche della realtà? Non è forse Dio il loro autore sapiente ed amorevole? Guai se Dio non esistesse! Io potrei deridere queste leggi; esse mi comandano: « Tu devi »; ed io risponderei: « Io posso fare quello che voglio », anzi farei quello che voglio, se non altro per affermare che nulla v’è che mi lega e mi incatena ». Non è forse a queste esplicite conseguenze che è giunto il pensiero e la letteratura contemporanea? Senza dubbio: bisogna compiere il proprio dovere. E forse non era necessario aspettare che un professore di filosofia lo insegnasse: l’umanità già lo sapeva da secoli parecchi. E sa anche che bisogna agire non solo conformemente al dovere, a anche per il dovere. Perché cos’è il dovere? Non è forse la volontà di Dio e non la nostra volontà? Non basta dire che la legge del dovere ci impone: « Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio d’una legislazione universale; io mi domando: perché la mia massima può divenire legge universale? E rispondo: non già perché ho in me un principio sintetico a priori in una « facoltà misteriosa » che « la ragione umana non potrà mai capire » e che si chiama coscienza; ma perchè il centro della realtà è Dio: da Lui dipendono gli esseri ed i loro rapporti; l’individuo singolo o l’umanità intera debbono inchinarsi a queste leggi intrinseche della realtà, le quali, se osservate, conducono allo sviluppo ed al perfezionamento nostro; se violate, conducono alla catastrofe. – Quando la morale cristiana comanda di fare il dovere non per egoismo, ma per Dio, non insegna forse a compiere il dovere per il dovere? Certo: non è un dovere, che venga fissato da me, ma solo da me riconosciuto; è un dovere, che mi dice la voce di Dio e non solo la voce del mio io; ed è altresì un dovere, una legge che abbraccia solo una parte della attività morale. – Non bisogna illudersi su quest’ultimo punto. L’invocazione al dovere, nome grande e sublime, non ci porta alla vetta più alta della morale. Al di sopra della morale del dovere c’è la morale dell’amore, anche se Kant ed i suoi seguaci non se ne sono accorti. Prendiamo un semplice esempio. I missionari, che dall’Europa vanno fra i lebbrosi dell’America del Sud e si richiudono in quei lazzaretti, dove, pochi anni dopo, muoiono vittime della carità; e tutto l’esercito sterminato di Suore, che sacrifica la propria giovinezza e la vita intera nelle corsie degli ospedali, non sono forse persone che ci parlano di morale non a parole, ma a fatti? Eppure, secondo Kant e gli idealisti, sono persone… immorali!… Non si rida: è la realtà. Per Kant è azione morale solo quella che si compie per il dovere. Ora, quale dovere avevano quei missionari di recarsi in un lebbrosario? E chi di voi potrebbe dire a una figlia, nel fiore degli anni: « Tu hai il dovere di rinunciare alle tue ricchezze, alle tue comodità, alla tua casa, al tuo avvenire, alle gioie d’una famiglia; tu hai il dovere di consacrarti tutta agli infermi; hai il dovere di star là, per tutta la vita in un ospedale? ». Gli eroi della carità non sono spinti dall’imperativo categorico del dovere. C’è un nome più grande e sublime del dovere stesso: è l’amore, nel suo senso più alto e divino, anche quando i suoi consigli non possono divenire « principio di una legislazione universale ». Ed è, anzi, l’amore, che, come vedemmo, fa sì che lo stesso dovere sia compiuto, non per un semplice amore o puro rispetto della « legge », ma per amore del legislatore. Ma allora, si obbietterà, la mia personalità umana è schiacciata! Allora la dignità dell’uomo resta distrutta! Allora dobbiamo subire una legge capricciosa, tirannica, d’un Essere che non è il mio essere e che mi comanda, come il negriero comanda alle sue vittime! Allora abbiamo « l’eteronomia! »… Non è vero. Non giochiamo, innanzi tutto, con le frasi. Pare a qualcuno, quando pronuncia questa parola: « eteronomia », di avere espre o chi sa quale idea mirabilmente profonda, quasi che il problema della vita si potesse risolvere con una parola greca italianizzata o tedeschizzatal La legge morale, nella concezione cristiana, non è mai stata una imposizione capricciosa di un Dio tiranno, nemico della dignità e della grandezza dell’uomo. Abbiamo visto come tale legge pullula dalla realtà stessa ed è il dettame della ragione; perciò non ha nulla di cervellotico, di arbitrario. Non da un tiranno, ma dall’Amore essa proviene e, seguendola, diventiamo non schiavi, bensì liberi. È una legge non asservitrice, ma liberatrice; non ci incatena, ma spezza i ceppi delle passioni e degli istinti irrazionali; non schiaccia, ma vivifica ed innalza. Finiamola di rappresentarci materialisticamente Iddio come qualcosa di esterno a noi. « Dio è più intimo in noi, di ciò che in noi vi è di più intimo », ammoniva sant’Agostino, ripetendo san Paolo ed il Vangelo. Ed anche il soprannaturale, ossia la divinizzazione nostra, non è qualcosa di estrinseco, che pesi sopra di noi e non ci pervada nelle intimità profonde della nostra anima. L’idealismo si balocca con immagini spaziali là dove lo spazio non c’entra, forse per darci un compenso alle negazioni dello spazio, là dove lo spazio esiste. Ciò che importa notare è che dall’amore di Dio, e non dal nostro io, abbiamo l’esistenza, la natura umana e la soprannatura. Se per eteronomia s’intende che noi non abbiamo creato noi stessi e che per il nostro sviluppo spirituale abbiamo avuto bisogno degli altri, dei genitori, dei maestri, della società, e soprattutto di Dio, allora noi siamo difensori di essa; ma crediamo che ogni uomo ragionevole lo sarà con noi. Se, al cont ario, si intende per eteronomia l’oppressione della nostra dignità, della nostra libertà, della nostra grandezza spirituale, nulla di meno eteronomo del Cristianesimo e della morale cristiana. Quest’ultima non trascura Dio e gli altri; ma guarda anche al nostro io. Noi non possiamo porre un atto morale, se non mediante l’attività nostra libera, il nostro libero consenso, il nostro libero atto di amore. E non sta forse qui il merito e la cooperazione umana? Noi siamo uomini; e questa dignità di uomo, questa natura di essere umano non è merito nostro. Noi siamo figli di Dio; e questa dignità di uomini divinizzati, questa soprannatura, non è merito nostro. Tutto ciò lo dobbiamo all’amore di Dio per noi. Ma, per merito nostro, noi rispondiamo all’amore di Dio per noi con l’amore nostro per Lui. Sviluppando le nostre energie spirituali e la nostra personalità morale, agendo liberamente secondo la legge etica, noi cooperiamo alla nostra formazione. Questo contributo personale è essenziale all’atto morale, tanto che non abbiamo moralità se non quando raggiungiamo l’uso della ragione e se non quando agiamo coscienti e liberi. Dio e la sua grazia, in altri termini l’amore di Dio per noi, non annullano, ma potenziano il nostro spirito; non rendono inutile la nostra attività, ma la eccitano, l’aiutano e la sospingono al più alto grado di intensità; non sono l’annegamento del soggetto, ma tendono alla sua più potente affermazione. Le più grandi personalità morali, le più grandi anime, non sono state forse formate dal Cristianesimo?

6. Conclusione.

Quand’era giovane, Enrico Ibsen compose un poema epico, dal titolo significativo: Sulle altezze. Descriveva un cacciatore, che, abbandonata la valle, la madre, la fidanzata ed il campanile, era salito sulla montagna. Lassù, su la cima, aveva incontrato uno straniero venuto da lontano, dagli occhi freddi e profondi, che lo suggestionò, lo conquise, lo dominò. Ogni volta che il cacciatore era tentato di ridiscendere, l’altro lo strappava ai ricordi e lo teneva in alto. Dalla valle la campana della chiesa lanciava alle vette la voce suadente, che pareva un invito dolce al ritorno; ma lo straniero diceva: « Lascia suonare! Il canto della cascata ha un suono più armonioso! ». Il giovane si lasciò convincere; dimenticò tutto per conquistare una sola cosa: la sua libertà. Anche a noi, sul monte dell’orgoglio, appare la visione seduttrice. E ci sembra di essere in alto, di poter svolgere su libere altezze, sfrenata e bella, la vita, e di dare la legge a noi stessi, senza riceverla da nessuno. Ma altri monti non possiamo dimenticare, il monte delle Beatitudini ed il monte dell’amore, il Calvario. Ed Uno, forse per qualcuno dei miei lettori ancora « straniero », ci guarda negli occhi su quelle vette e da quella Croce. È un Dio che ha umiliato se stesso, e che sacrificandosi ci salva, ci divinizza, salva e divinizza il mondo. Nessun canto di cascata ha un suono più armonioso dell’appello che parte da quelle labbra e, meglio ancora, da quel costato trafitto, dal Cuore di quel Crocifisso.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (49)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (49)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -VIII-

G. – DIO CONGREGANTE LA CHIESA DELLA SALVEZZA.

1. Fondazione della Chiesa.

G1a. a. – ESISTENZA DELL’ASSEMBLEA DEI FEDELI DI CRISTO

Fede dei simboli nella Chiesa I 5 10-30 36 41//51 60-63 126 150: fede nella in remissione dei peccati, vita eterna mediante la Chiesa 21s; fede in un unico regno, Battesimo nella Chiesa 2-4.

G1b. b. – CRISTO FONDATORE DELLA CHIESA.

Cristo è primo e principale fondamento della Chiesa 774.

La Chiesa è comprata al prezzo del Sangue di Cristo 540 575.

La Chiesa è sorta -; dalla libera volontà di Cristo 3302s; -: dal fianco del secondo Adamo come dormiente sulla croce 3328.

Il primo apparire della Chiesa fu nel giorno di Pentecoste 3328.

Cristo per giuridica missione di per sé è colui che battezza per la Chiesa, insegna, regge, sacrifica 3806.

G1c. c. – FONDAMENTO GERARCHICO: COLLEGIO DEGLI APOSTOLI le

Fede dei simboli nella Chiesa apostolica 42-49 60 150.

Paritaria è l’elezione degli Apostoli, ma lo fu anche per la discrezione di potestà 282 2594.

G1d. d – FONDAMENTO MONARCHICO: PIETRO PRINCIPE DEGLI APOSTOLI

Cristo costituisce Pietro principe degli Apostoli 3055 ; da questo il primato di Pietro 350s 446 640 774s 3053s 3055 3308; vari appellativi di Pietro circa il suo primato 3308.

Pietro è il fondamento secondario della Chiesa 774 (3051); è il capo visibile di tutta la Chiesa 942 (944) 1207 3055; è principio di unità 3051.

Pietro ricevette la giurisdizione immediatamente da Cristo, non mediante (a.per decreti sinodali) la Chiesa a350 a640 3054 3055; fu Vicario di Cristo 942 1263.

Pietro assunse pienissima giurisdizione 1052; non solo un primato di onore 3055; Gli Apostoli non prendono la loro potestà senza Pietro e contro Pietro 3309; la loro giurisdizione è soggetta alla potestà di Pietro 1052; neanche Paolo fu pari a Pietro (ctr. L’errore circa il duplice capo della Chiesa) 1999 3555; riprov.: [Pietro non ebbe alcuna cognizione del suo primato] 3455.

2. Continutà della Chiesa.

G2a. a. — PERPETUITÀ DELLA CHIESA.

La Chiesa è perpetua ossia perenne. 2997 3303s; tempio eterno 3051.

È Costituita per rendere perenne l’opera di Cristo 3050; la salvezza dei popoli richiede la Chiesa perpetua 3328.

G2b. b. — CONTINUITÀ DELLA GERARCHIA.

La gerarchia è costituita dalla Ordinazione sacra. CdIC 109.

Apostoli constituiron Vescovi e diaconi 101; i Vescovi sono i successori degli Apostoli 101 1318 1778 3061

3307 3804 CdIC 329, § 1; si riprova: [La Potestà di legare e sciogliere è data solo agli Apostoli non ai loro successori] 732 (1476).

I Vescovi sono stabiliti dallo Spirito Santo, e per il loro ministero sono anche generati Padri onde reggere la Chiesa. 3328.

G2c. c. — CONTINUAZIONE DELLA MONARCHIA

Il Vescovo romano è successore di Pietro Apostolo 111, cap. 17; 133 136 181 233-235 861 1053 1264 1307 1868 2540 2593 3056s 3058 3059 3067 (3555) CdIC 218, § 1; pertanto la Sede Romana del Pontefice è “Sede Apostolica, “Sede di Pietro Ap.”, “Fonte Apostolica” 136 149 217s 238 etc.

I Pontifici Romani successero a Pietro nella stessa pienezza di potestà 1053.

Il Primato della Sede Romana non è ottenuta con decreti sinodali 350 640 874.

G2d. d. — CONTINUITÀ DEL POPOLO DI DIO.

Tra i finì del matrimonio si contempla anche l’aumento corporale della Chiesa. 1311 3143 3705.

G3. Unità della Chiesa di Cristo.

Fede nella Chiesa una ed a.unica (riprovate le affermazioni b.degli scismatici ossia della teoria dei rami silenti) 5 41s 44 46 a47s 51 150 350 b446 b468s 802 a870s 872 1050 b1159 ac2885-2888 b2937s 2997-2999 3300-3304;

in unico regno di Dio 3s.

La Ch. è una per unità di sposa, di fede, di Sacramenti, di carità 871;

In quanto Corpo mistico di Cristo 3300-3304.

Cristo non formò la Chiesa come comunità distinte plurime simili per genere 3303; l’unità consiste in ciò, che un solo gregge sia sotto un unico pastore in forza della comunione con il Romano Pontefice e della medesima professione di fede 3060; principio (radice, fondamento) è a. il primato e b. il Magistero a2888 b3113 ab3305-3310.

4. Costituzione giuridica della Chiesa.

G4a. a. – PERFEZIONE DELLA CHIESA QUALE SOCIETÀ GIURIDICA.

La Chiesa è una società perfetta nel genere e nel diritto (a.in possesso di ogni mezzo per il suo fine) 2919 a3167 3171 3685; pertanto è suprema nel suo ordine 3167s 3171 3685; non è inferiore al governo civile 3167; è ina delle due supreme potestà che reggono il mondo 347 362 (642) 767 873.

Nelle cose essenziali la costituzione della Chiesa è fondata sull’ordinazione divina, immune dall’arbitraria disposizione degli uomini 3114; si riprovano gli errori del modernismo circa la costituzione della Chiesa 3452-3456 3492s.

La Chiesa si riserva il diritto esclusivo di costituire il clero 604 659 712 1063 1769 1777 CdIC 109 1352.

La Chiesa si riserva il diritto ai beni temporali; ctr. avversari 941 1126s 1137s 1160 1166 1168 1181//1189 1194 1274-1276 1491 2281 29242927 2975s CdIC 1495 1499.

G4b. b. – POTESTÀ LEGIFERANTE, GIUDIZIARIA, COERCITIVA

La Chiesa ha giurisdizione diretta nelle cose spirituali e suoi annessi CdIC 1553; al giudizio della Chiesa spetta il governo interno delle anime 2265-2268; partecipa il diritto di educare ed istruire religiosamente 2892 2945-2948 3685-3689 CdIC 1329-1348.

Alla Chiesa compete il diritto di perseguire i trasgressori con le pene spirituali e temporali (cioè scomuniche, interdetti, altre censure) 945 1129-1135 1161-1163 1180 1214//1219 1271-1273 1473s 2604s 2646- 2650 2914 CdIC 2214, § 1; la Ecclesia rifugge da ogni vendetta cruenta, accontentandosi del giudizio sacerdotale 283; rivendica tuttavia a sé il diritto di invocare il braccio secolare 1215 1272 1483s.

Si riprova l’asserzione postulante come necessaria all’esercizio della legittima potestà la dignità morale e la predestinazione (a.soprattutto del romano Pontefice) (1210) 1211-1213 ‘1220//1226 1230.

Circa le cose occulte (a.della mente e dell’intenzione della cosa interiore) la Chiesa non giudica 1814 2266s a3318.

Il diritto della Chiesa non riguarda i non battezzati 1671 CdIC 12; gli eretici non sono esenti dall’autorità della Chiesa, tuttavia sono privati dei bene della Chiesa 2568-2570.

G4c. c. – MEMBRI DELLA CHIESA ECCLESIAE

I membri della Chiesa sono coloro che hanno ricevuto il Battesimo, professano la vera fede, né mai si sono separati dalla compagine del Corpo di Cristo 3802.

Riprov. le asserzioni che restringono l’ambito dei membri -: alla Chiesa spirituale evangelicamente vivente distinta dalla Chiesa carnale papale 911; -: ai soli predestinati alla beatitudine 1201-1206 12201224 2476 3803; – : ai soli giusti, viventi in grazia 2474-2478 2615.

Riprov. Le asserz. estendenti l’ambito dei membri agli scomunicati per rito 1128//1163 1180 1217-1219 1271-1273 1473s 2491-2493.

Il diritto dei membri di ricevere i ben spirituali impone al clero l’obbligo di amministrare i a.mezzi necessari alla salvezza, b.il Sacrificio della Messa e dei Sacramenti , c.la dottrina cristiana CdIC a682 b785 b853 b886 b892 b939 a1329- 1348.

G4d. d. – ORDINE DEL REGIME

4da. In genere. La Potestà della Chiesa non deriva nei ministri dalla comunità dei fedeli 2602s; si riprova: (Cristo volle amministrare la Chiesa secondo gli usi di una repubblica) 2595.

Per il ministero del verbo (e a.dei Sacramenti) è richiesta (a.l’ordinazione) e la missione dalla potestà della Chiesa 760s (769) 796 809 866 1163s 1217s 1277s a1777.

La Potestà della Chiesa non si esttingue nel ministro peccatore o errante 912 1135 1158 1165 1212s (1220//1226) 1230.

Nella Chiesa sono noti la diversità del grado dell’ordine ecclesiastico 282 796 1765 1772 (1776) CdIC 108.

Varie distinzioni degli ordini nella Chiesa: chierici – laici CdIC 107; a.Sommo Sacerdote (“Vescovo uno”) – b.Vescovo – c. presbitero (o “secondo Sacerdote) – d.levita – e.diaconi – f.subdiaconi – g.accolito – h.esorcista – i.lettori – k.ostiari – I.salmisti o cantori – m.laici – n.vedove aedm101 e bc101. agekin bec119 bce121 bce187 b215s bcefghikl cefghikl326-329 cefghik765; ordini maggiori (presbiteriato, diacon., subdiacon.) – minori (accolitato, esorcist., lettor., ostiar.) CdIC 949.

La gerarchia di divina istituzione consta di Vescovi, presbiteri, ministri (a.diaconato) 1776 CdIC a108, § 3.

Nella gerarchia vi è distinzione di potestà, riprovata l’asserzione opposta: [tutti di Sacerdoti istituiti da Cristo sono di eguale giurisdizione9] 282 944 1265 1767 1777.

4db. Giurisdizione del Sommo Pontefice: primato. La Chiesa richiede per diritto divino l’unità di regime 3306; questa si trova nel primato: vd. G 3; la solidità della Chiesa consiste nel primato 3052.

Riconoscimento del primato — è richiesto (102) 109 132 181s 221 232-235 282 347 446 468s 638-641 774s 861 875 910 1051-1064 1191 1307s 2539 2592s 3059s 3064; — è eccellente 108 133-136 181s 1860 216s 264 306 661-664; —; è necessaria alla salute 233s 875 1051 1060 (1191) 3867; chi rinuncia alla sottomissione al S.Pontefice è scismatico CdIC 1325, § 2.

Riprovate le obiezioni ctr. il primato [tra le altre: a.la Dignità del Papa emanò da Cesare”; b.essa deriva dal diavolo: c. la Chiesa non ha bisogno di un capo terreno] b1187 1188 b1190 1192 a1209 c.1227-1229 1475s 2592-2597 3555.

Il S. Pontefice è il capo visibile della Chiesa 872 1307 2592s 3059 3113; è il vicario di Cristo 872 1054 (1118 1187) 1307 1448 (1475) 1868 2540 2592s 2603 3059; assume da Cristo immediatamente ogni potestà di giurisdizione 1054 (1187 2592s) 3060 3064 3113.

Il S. Pontefice è subordinato per diritto divino a Cristo per le disposizioni ecclesiastica, così da non poter mutare la sua costituzione3114.

Giurisdizione del S. Pontefice —: è est episcopale, ordinaria, immediata 3060 3064 CdIC 218, § 2.

—: se estende a tutta la Chiesa militante, ad ogni fedele 1053s 1307 3059 (3113) CdIC 218, § 2.

—: ha suprema potestà sia nelle cose di fede e di morale, sia in cose disciplinari e di regime ecclesiastico 3060 3064 (3307) CdIC 109 218, § 1 219; i decreti del S. Pontefice non richiedono il consenso della Chiesa affinché siano ut irreformabili 2284 2490 3074.

—: è di somma potestà legislativa, amministrativa, coercitiva 1057 1059 1061 1271-1273; questa non consiste dei soli diritti riservati (3064) 3113; può dispensare da tutto ciò di che la Chiesa universale stabilisce 1417.

—: è suprema la potestà giudiziaria eccles. 1055 1128-1135 2592 3063 CdIC 1569 1597; i fedeli devo sempre accogliere l’appello del S. Pontefice 133-135 639 641 861 3063 CdIC 1569; dal suo giudizio non è lecito discostarsi 133 135 182 221 232 235 641 3063; la prima Sede non deve essere giudicata da nessuno.638 873 943 1056 1058 1139 CdIC 1556; dalla sentenza del S. Pontefice a nessuno è dato appellarsi ad altro giudizio (a.nello specifico al Concilio generale) 641 1056 a1375 (a2935) 3063 CdIC a228, § 2 1880 2332.

—: ha la pienezza di potestà per elargire le indulgenze 819 868 1026 1059 1266 1398 1416.

—: è indipendente dall’autorità 2596 2603 CdIC 218, § 2.

-: è independente dalla probità morale e dalla predestinazione del Papa 912 914 1158 ( 1165).

Il S. Pontefice costituisce i Vescovi 2592 CdIC 329, § 2; precede gli altri Vescovi non solo per l’onore del grado ma anche per la suprema potestà 661 811 861 1308 2593 3067 CdIC 218; si riprova l’asserz circa la relazione del S. Pontefice con altri Vescovi e sedi 2595 2597 2935 3064; si rivendica il primato dall’accusa di centralismo ed assolutismo 3112-3116.

La Sede Romana per il primato è chiamata “madre”, “maestra” di tutte le chiese (particulari) 774 1616 1868 2781.

Il S. Pontefice ha autorità sul Concilio che giudica, b.trasferisce, c.proroga, d.scioglie, e.conferma (approva) e398-400 447 861 abd 11445 ‘18474850 2282s 2329 bcdS1309 CdIC abde222 e227.

4dc. Giurisdizione dei Vescovi. L’ordine dei Vescovi è proprio dell’ordine gerarchico (a.attinente all’intima constituzione della Chiesa a3307; la sua istituzione è (a.egualmente) divina (e b.immutabile) e ad eessa il a.il primato a3115 CdIC 329, § I.

La giurisdizione episcopale è a.immediata ed b.ordinaria (essa è c.potestà a sé propria, non vicaria del S. Pontefice) ab3061 ac3307 b3804 CdIC b329, § I.

I Vescovi reggono le chiese particolari sotto l’autorità del S. Pontefice (a.dal quale ricevono giurisdizione immediata) 1778 3308s a3804 CdIC 329, § 1; la potestà del S. Pontefice non si oppone alla potestà di giurisdizione dei Vescovi è non può assorbirla 3061 3112 3115 3310.

Si riprovano le asserzioni esageranti i diritti dei Vescovi 2594 2606-2608.

Sedi patriarcali (a.Constantinopoli, b.Alessandria, c.Antiochia, d.Gerusalemme e.ad esse si confermano tutti i diritti ed i privilegi bc351 abcd661 abcd 881 861 abcde1308.

Proprio dei Vescovi è ordinare i ministri della Chiesa e conferire il Sacramento della confermazione 1768 1777 (3328).

I Vescovi sono presbiteri superiori 1768 1777. –

Il Concilio generale dei Vescovi non può essere giudicato dal Sinodo particolare 447; non è invero superiore al. Papa 233 1151 (2935s) S1309; add. G 4db. (circa l’autorità del Pontefice sui Concili);

Si riprova: [lee definizioni del Concilio nazionale non ammettono dispute] 2936.

4dd. La funzione dei laici nella Chiesa. Al laico non è data missione canonica onde predicare 760s (770s) 796 809 866 1163s 1217s 1277 1777; i peccati non si devono confidare ai laici 866 1260 1463 1684 1700.

5. Costituzione spirituale carismatica della Chiesa.

G5a. a. – INDOLE SOPRANNATURALE IN GENERE.

La Chiesa (a.come proprio fine e mezzo per il fine) è soprannaturale a3167 3300s 3685; è spirituale.3167 3300s.

La Chiesa muove i doni dello Spirito nei carismi 575 3328; non vi sono uomini carismatici che manchino di essi homines.3801.

La Chiesa è chiamata “Santa” nei simboli 1-5 11-30 36 41s 47 51 60-63 150; è senza macchia e ruga 493 575.

G5b. b. – INDOLE VITALE MISTICA.

La Chiesa è chiamata “madre” dei fedeli 45 47 478 807 1507 1863; “coniuge (sposa) di Cristo” 901 3805.

La Chiesa è la pienezza di Cristo 3813; si descrive il modo in cui Cristo vive nella Chiesa 3806.

La Chiesa è il Corpo mistico di Cristo, di cii il capo è Cristo 493 575

870 3300s 3800-3816; spiegazione di questa nozione (ctr. gli errori) 3300s 3800 3809-3811 3816; cooperazione dei membri con il capo 3805; la sola fede non rende membro vivo del Corpo di Cristo 1531.

Lo Spirito Santo è concepito come anima della Chiesa 3328 3807s; add. B 2cb.

L’Eucharistia è deta anima della Chiesa (gerarchica) 3364.

6. Fine della Chiesa

G6a. a. — LA CHIESA MEZZO ESTERNO DI SALVEZZA.

Fine della Chiesa è la salvezza eterna delle anime 3166 3168.

Fede dei simboli nella Chiesa quale mezzo: “per” la Chiesa 21s; “nella” Chiesa 2-4.

Necessità della Chiesa per la salvezza 575 792 802 870 1191 1351 2720 2730s 2785 2865 2867 2917 2997-2999 3304 3821s 3866-3873; la divina legge tiene avvianti alla vera Chiesa CdIC 1322, § 2; in certe situazioni è sufficiente il voto = (anche implicito) o il desiderio (appartenenti alla Chiesa) 3821 3869-3872; anche fuoori dalla Chiesa è concessa la grazia 2429.

È riprovato l’indifferentismo o latitudinarismo 2720 2730s 2785 2865-2867 2915-2918 (2921 2977-2979).

G6b. b. — DESTINAZIONE UNIVERSALE DELLA CHIESA.

La Chiesa è destinata a comprendere tutto il genere umano. Ecclesia destinata est, ut complectatur totum genus humanum (a.non è circoscritta a nessun luogo o tempo) 350 a3166 3685 CdIC 1322, § 2.

Fede dei simboli nella Chiesa “cattolica” 3-5 12 15 19 21 23 27-30 36 41//51 60 126 150.

G6c. c.— CONOSCIBILITÀ DELLA VERA CHIESA.

La Chiesa è esterna, visibile 3300; Dio istituì la Chiesa con note manifeste affinché potesse essere riconosciuta da tutti. 3012.

Motivi vari di credibilità della Chiesa 2779 3013s; soprattutto la si può riconoscere dalle quattro note di: cattolicità, unità, santità apostolica successione 42 150 684 792 2888 2997.

Nessun uomo può accampare l’ignoranza invincibile della vera Chiesa. 2865 2866.

G6d. d. — RELAZIONE DELLA CHIESA CON I FINI NATURALI.

La Chiesa non vuole ostacolare la cultura, le comodità ed i beni (materiali) della società umana 2775 2940 3019 3178 3255; infatti anche questi beni. Se rettamente usati possono condurre a Dio 3019.

Nella questione sociale ed economica la Chiesa è maestra dei costumi morali: vd. H1 ba.

Si riprova: Recriminazioni circa la relazione della Chiesa con la cultura profana. 1179 2980 3457.

G6e. e. — RELAZIONI DELLA CHIESA CON IL POTERE.

In tutto ciò che attiene alla salvezza delle anime, è competente unicamente la Chiesa, indipendente e libera 345 347 362 638 642 941-945 1058 1063 2919 (2934) 3168 3171.

La Chiesa rivendica nella fattispecie —: l’elezione e la consacrazione per gli uffici ecclesiastici 604 659 712 1063 1769 1777; —: il regime spirituale ed il commercio tra il S. Pontefice ed i fedeli 663 2944 2949-2953 3062 CdIC 2333; —: la disposizione circa le cose ecclesiastiche 712; —: la celebrazione dei Concili 600; tuttavia talvolta si è tuttavia permessa la partecipazione dei principi secolari ai Concili. 343 639.

Si riprovano le asserzioni secondo cui la libertà della Chiesa debba essere repressa in favore del potere civile [in particolare: il potere civile è, definire i diritti della Chiesa; la forza delle leggi ecclesiastiche dipende dall’assenso del potere civile; nel conflitto tra leggi eccl. e civ. prevale il diritto civile] 2893-2896 2919s 29281/2948 2954s 3062.

Nei vari negoziati è da curare la modestia di entrambi gli ordini 642.

Nei negoziati misti è desiderabile che non vi sia secessione (separazione) tra autorità eccl. e civ., ma concordia, collegamento ordinato (a somiglianza del corpo e dell’anima) 2955 a3168 3172.

La Chiesa è indifferente alla forma di governo civile 2769 3150 3165 3173s.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (50)

IL CATECHISMO DI SPIRAGO (IV)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (IV)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO

SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

PRIMA PARTE DEL CATECHISMO

LA FEDE. (1)

I. LA CONOSCENZA DI DIO.

La conoscenza di Dio è la conoscenza delle sue qualità e perfezioni, delle sue opere, della sua volontà, delle fonti di grazia da Lui stabilite, ecc. “Crescete sempre nella conoscenza di Dio”. (Col. 1, 10.) Ora vediamo solo come in uno specchio e con enigmi (gli specchi degli antichi erano poco chiari), ma dopo la morte conosceremo Dio in modo chiaro. (I. Cor. XIII, 12.)

1. LA CONOSCENZA DI DIO È LA FELICITÀ DEGLI ANGELI E DEI SANTI.

Questa conoscenza è il nutrimento degli Angeli e dei santi; è di questo nutrimento che parlava l’Arcangelo Raffaelle quando diceva a Tobia: “Io uso un cibo e una bevanda invisibili agli uomini.” (Tob. XII, 19) Allo stesso modo Cristo dice: “Ora la vita eterna consiste nel conoscere te, l’unico vero Dio, e Gesù Cristo che tu hai mandato. “Tuttavia, la conoscenza che gli eletti hanno di Dio in cielo è diversa da quella che abbiamo sulla terra. I Santi hanno una conoscenza immediata (diretta) di Dio, che si chiama visione (beatifica). Noi, invece, conosciamo Dio solo mediatamente (indirettamente) attraverso le sue opere e la rivelazione. 11 Questa conoscenza è come la scienza geografica, si conosce un paese solo dalle carte geografiche (e se ne ha una conoscenza solo indiretta e imperfetta), l’altro lo conosce per averlo attraversato e osservato (e ne ha una conoscenza immediata e più perfetta). Il Salvatore ha detto degli Angeli buoni: “Gli Angeli del cielo vedono sempre il volto del Padre mio che è nei cieli”. Anche i santi vedono il volto di Dio, perché assomigliano agli Angeli” (S. Luca XX, 36.)

2. LA CONOSCENZA DI DIO È MOLTO IMPORTANTE; PERCHÈ SENZA DI ESSA SULLA TERRA NON CI PUÒ ESSERE NÉ FELICITÀ, NÉ VERA ONESTÀ.

Senza la conoscenza di Dio, non ci può essere felicità. Essa è in effetti il nutrimento della nostra anima. Se manca questo cibo, l’anima è tormentata dalla fame, l’uomo è scontento. “Se manca la pace interiore, tutti i beni della terra, le ricchezze, la salute, ecc. non potranno mai darci gioia”. (S. Grég. Nys.)

– Pochi uomini, purtroppo, si preoccupano di questo nutrimento, che rimane per la vita eterna; essi si preoccupano solo del cibo che soddisfa solo per un momento. L’uomo che non conosce Dio è come un cieco, ha un passo instabile, cade spesso e sbatte contro le cose, si sente molto infelice, non ha piacere nella vita; tale è l’uomo senza Dio: non vede la sua meta, cade da un peccato all’altro non ha consolazione nella vita e non ha speranza nella morte. – Chi non ha conoscenza di Dio è un ignorante, anche se fosse il più grande studioso. (Marie Laïaste.). Guai all’uomo che sa tutto, ma non conosce Te, o mio Dio!” (S. Aug.) Infelice soprattutto perché manca di contentezza. Lo stesso Goethe, quell’uomo illustre, riconosceva (nelle conversazioni con l’amico Eckermann) che in 75 anni non aveva sperimentato che 4 settimane di vero benessere; egli paragonava tutta la sua vita ad una pietra, che deve sempre essere fatta rotolare in avanti su un pendio. Da dove veniva dunque l’insoddisfazione di un uomo del genere? – Senza conoscenza di Dio, non ci può essere vera onestà. Un campo incolto non può produrre buoni frutti, ed un uomo che non ha conoscenza di Dio non può fare buone azioni. Questa ignoranza è la causa della maggior parte dei peccati. Perché tanti falsi giuramenti, o prestati alla leggera ? Perché non si prega, perché non partecipiamo alle funzioni religiose, perché trascuriamo i Sacramenti? Perché questa ricerca appassionata di oro e onori, di piaceri sensuali, dove calpestiamo così audacemente i comandamenti di Dio? Perché non conosciamo Dio. L’imperatore Giuseppe II (+ nel 1790) si mescolava spesso con il popolo sotto mentite spoglie, e più di una volta fu maltrattato to dai suoi funzionari… Perché? Perché non lo riconoscevano, altrimenti lo avrebbero trattato in modo diverso. Lo stesso vale per Dio. Osea grida: “Perché non c’è conoscenza di Dio sulla terra”, insulti, menzogne, omicidi, furti… . si sono diffusi come un diluvio”. (IV. 2.) E S. Paolo assicura che i Giudei non avrebbero mai crocifisso Gesù Cristo, il Re della Gloria, se lo avessero conosciuto (I Cor. 11, 8). “Se gli uomini vi conoscessero, non vi offenderebbero mai”. (S. Ign. L.) L’esperienza dimostra che la maggior parte dei detenuti nelle carceri non sa nulla di “Dio“. Quando Federico II di Prussia ha riconosciuto che la scomparsa della conoscenza di Dio portava ad un aumento della criminalità, apostrofò il suo ministro dicendogli “Portatemi della religione”- Imparare e comprendere il catechismo, che è solo un riassunto del Vangelo di Gesù Cristo, sono due cose molto importanti. Tuttavia, la conoscenza delle verità religiose noncostituisce ancora onestà; perché uno può conoscerle ed essere comunque un uomo immorale. “Nella religione, la cosa principale non è la conoscenza e la fede, ma l’azione e la condotta”.

3. LA VERA CONOSCENZA DI DIO SI ACQUISISCE DALLA FEDE NELLE VERITÀ RIVELATE DA DIO.

Indubbiamente possiamo conoscere Dio con la ragione, con la considerazione delle creature (Rm I, 20); i cieli raccontano la sua gloria (Sal XVIII, 2), mostrano la sua onnipotenza e la sua sapienza. la sua la sua bontà, la sua bellezza. Ma la nostra ragione è debole e non arriveremmo mai ad una conoscenza esatta e chiara di Dio. – Sappiamo quali idee insensate avessero sulla Divinità e quale culto immorale praticassero i pagani, che pensavano solo in termini di ragione. “Se tanti oggetti su questa terra sono inspiegabili per l’uomo, quanto più grande è il pericolo di errore, quando cerca di scrutare ciò che è al di sopra del cielo” (Bellarmino). Nessuno può scrutare ciò che è al di sopra del cielo, se Dio non gli dà la sapienza e non gli manda il suo Spirito. (Sap. IX, 14-16); e questo aiuto ci è dato dalla fede.

Questa fede nelle verità rivelate da Dio ci dà una conoscenza esatta e distinta di Dio. Così sant’Agostino dice: “Credo per conoscere”, e sant’Anselmo: “Quanto più siamo nutriti dalla fede, tanto più siamo pieni di comprensione”. La fede è l’inizio di ogni conoscenza superiore di Dio. La fede è spesso chiamata una luce divina (Catech. Rom. – 1. Pietro II, 9) che risplende nella nostra anima”. (2. Cor. IV, 6). Infatti, così come la luce, il lampo, penetra le tenebre, allo stesso modo la fede penetra i misteri cristiani (S. Bern.). Come la luce illumina la casa, così la fede illumina l’anima (S. J. Chr.) La fede rassomiglia ad un osservatorio su un monte: da lì si scopre ciò che non si vede in pianura; dall’alto della fede si scopre ciò che non si nota nella semplice contemplazione delle creature. La fede è come un telescopio attraverso il quale si può vedere ciò che non si vede ad occhio nudo; attraverso la fede si vede ciò che non si riconosce dalla sola ragione. La fede è come uno specchio: in uno specchio si vede una torre altissima.; con la fede possiamo conoscere la maestà di Dio (S. Bonav.); assomiglia anche a un bastone, un bastone usato per sostenere le membra tremanti; con la fede sosteniamo la nostra ragione in modo da conoscere meglio Dio (S. J. Chr.) – Ci sono due libri in cui impariamo a conoscere Dio: un libro senza lettere, la Natura, ed un libro con lettere, la Sacra Scrittura, che ci comunica la Rivelazione.

2. LA RIVELAZIONE DIVINA.

Se qualcuno si trova dietro a delle tende trasparenti in una stanza, può vedere i passanti per strada, ma loro non vedono lui. Se tuttavia si manifesta con la voce, i passanti possono indovinare chi c’è dietro la tenda. 11 Lo stesso vale per Dio, che ci vede senza essere visto da noi (Is. XLV, 15), eppure si è manifestato agli uomini in vari modi: ai nostri primi genitori, ad Abramo (al quale si presentò in forma umana con due angeli), a Mosè nel roveto ardente, agli Ebrei sul Monte Sinai, ecc.

1. DIO SI È SPESSO RIVELATO AGLI UOMINI NEL CORSO DEI SECOLI. (Eb. I. 1, 21).

Cioè, Dio ha spesso parlato agli uomini delle sue qualità, dei suoi progetti (ad esempio della futura Redenzione), della sua volontà, e li ha illuminati sul loro destino, il loro futuro dopo la morte, ecc. – Questa rivelazione di Dio si chiama soprannaturale in contrapposizione alla manifestazione naturale che avviene attraverso la creazione visibile, cioè mediante la natura.

2. LA RIVELAZIONE DIVINA AVVENIVA DI SOLITO NEL MODO SEGUENTE: DIO PARLAVA A CERTI UOMINI IN PARTICOLARE E DAVA LORO L’ORDINE DI ANNUNCIARE PUBBLICAMENTE AGLI ALTRI UOMINI LE COSE CHE ERANO STATE RIVELATE LORO.

Dio parlò a certi uomini in particolare, per esempio a Noê, ad Abramo ed ai suoi figli e a Mosè, perché trovò in loro un’anima pura (S. J. Chr.). Dio mandò Noè agli uomini viziosi prima del diluvio, e Mosè agli israeliti perseguitati e al Faraone. – Come eccezione, Dio parlò a molti uomini a volte o si servì del ministero degli Angeli. Dio si è rivelato a un’intera folla in una sola volta dando la sua legge sul Sinai (Dio ha parlato a tutto il popolo d’Israele) e al battesimo di Gesù. (Dio Padre ha pronunciato queste parole: “Questo è il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”). Dio si è servito anche degli Angeli per rivelarsi. Mandò Raffaele a Tobia. Quando Dio parlava agli uomini, assumeva una forma visibile; per esempio, quella di un Angelo o di un uomo, oppure parlava da una nuvola (sul Monte Sinai), in un roveto ardente (a Mosè), in una luce intensa (a Paolo), nel mormorio del vento (a Elia), o con un’illuminazione interiore (Levit. XII, 6-8). – Gli uomini a cui Dio aveva parlato e che aveva incaricato di rendere testimonianza davanti ad altri uomini (S. Giovanni I, 7) sono solitamente chiamati Inviati di Dio. Generalmente Dio scelse solo uomini di buoni costumi e li dotò del dono dei miracoli e della profezia, affinché la loro parola fosse creduta. Ricordiamo i miracoli di Mosè davanti al faraone, i miracoli dei profeti e degli Apostoli.

3. LA PRELDICAZIONE DELLA RIVELAZIONE DIVINA FU FATTA SOPRATTUTTO MEDIANTE I PATRIARCHI, I PROFETI, IL FIGLIO DI DIO GESÙ CRISTO (Eb. I, 1) E GLI APOSTOLI.

La rivelazione è semplicemente l’educazione del genere umano. Ciò che l’educazione è per l’individuo, la rivelazione è per l’intera umanità. La Rivelazione risponde alle alle esigenze delle età successive dell’uomo: l’infanzia, l’adolescenza e la maturità. I Patriarchi, che erano come bambini, avevano meno bisogno di leggi e Dio conversava con loro in modo familiare. Gli israeliti, ovr come negli adolescenti vi era sensualità ed amor proprio, avevano bisogno di essere educati con insegnamenti continui e leggi severe. Ma quando Dio volle che l’umanità entrasse nell’età matura, le leggi severe sono cadute e Dio ha dato attraverso il suo Figlio la legge dell’amore. (I Cor. XIII, 11; Gal. III, 24.) – Di tutti i predicatori della rivelazione, il Figlio di Dio è stato il testimone più fedele. (Apoc. I, 5) ed era venuto in questo mondo per testimoniare la verità. (S. Giovanni XVIII, 37) Ciò che disse, lo disse come il Padre gli aveva insegnato. (S. Giovanni XII, 50.) Poteva parlare con più precisione e chiarezza di tutti gli altri, perché, essendo il Figlio unigenito nel seno del Padre, vedeva la natura di Dio meglio di chiunque altro. (S. Giovanni I, 18) Testimoniò ciò che aveva visto, ma gli uomini non accettarono la sua testimonianza. (S. Giovanni III, 11.) – Anche gli Apostoli erano predicatori di rivelazioni. Dovevano rendere testimonianza di ciò che avevano visto, soprattutto della risurrezione del Salvatore (Atti X, 39 ss.), non solo a Gerusalemme, ma in tutta la Giudea, in Samaria, ma fino ai confini della terra. (I, 8) Così San Paolo diceva che il suo ministero consisteva nel rendere testimonianza al Vangelo. (XX,24). La rivelazione di Gesù Cristo e degli Apostoli è stata l’ultima parola di Dio agli uomini. (Héb. I, 1.); essa chiude la serie delle rivelazioni, che sono rivolte a tutta l’umanità.

4. ANCHE DOPO LA MORTE DEGLI APOSTOLI DIO SI È RIVELATO SPESSO AGLI UOMINI; MA QUESTE RIVELAZIONI NON SONO CONTINUAZIONI DELLA RIVELAZIONE EVANGELICA SU CUI SI BASA LA NOSTRA FEDE. (Ben. XIV. S. Thom. Aq.)

Le rivelazioni divine si verificano spesso ancora oggi, per ravvivare la fede tra gli uomini, come ad esempio le apparizioni della Vergine a Lourdes, in Francia, nel 1858. Anche se, da una parte, non dobbiamo essere troppo precipitosi nel credere a tali rivelazioni (Sap. XIX, 4), perché molto spesso ci sono state delle imposture, non dobbiamo però respingerle senza esaminarle (Tess. V, 20 ss.), come, ahimè gli uomini con sentimenti carnali di solito lo fanno. – Queste rivelazioni sono ancora fatte a uomini desiderosi di perfezione, come vediamo nella storia, soprattutto negli atti di canonizzazione dei santi. Cristo apparve a San Francesco d’Assisi in una chiesa (Origine della Porziuncola), il Bambino Gesù a Sant’Antonio di Padova (Immagine di questo santo con in braccio il Bambino Gesù); Santa Teresa vedeva spesso Cristo, Santi e Angeli e parlava con loro, ecc. Queste rivelazioni private (apparizioni, visioni, ecc.) sono doni di Dio il cui scopo è quello di staccarci completamente dalla terra e di elevarli a una perfezione superiore. (Scaramelli) Tuttavia, la santità non consiste in queste rivelazioni e consolazioni, ma nelle sofferenze e nella virtù eroica. Anche gli uomini empi possono avere visioni: Balthasar vide la mano che scriveva sul muro. (Dan. V.). Non possiamo quindi concludere logicamente dalle visioni di un uomo che egli sia santo. Queste rivelazioni private non sono una continuazione della rivelazione su cui poggia la nostra fede; riguardano solo gli individui, e, di norma, servono solo a rendere più comprensibili le verità rivelate. (Ne abbiamo un esempio nell’apparizione di Lourdes (1858): Maria vi dice: Io sono l’Immacolata-Concezione; sgorga una fonte le cui acque hanno prodotto molte guarigioni meravigliose. Ora, curiosamente, quattro anni prima (1854) Pio IX aveva solennemente definito il dogma dell’Immacolata Concezione della Madre di Dio.; questa apparizione servì a diffondere e chiarire il dogma e Dio ne confermò la verità con i miracoli. – È da notare, tuttavia, che in molte private, il demonio cerca di provocare delle imposture; nessuno quindi deve dare credito alle rivelazioni, anche a quelle riconosciute dalla Chiesa (come quelle di Santa Teresa, Santa Brigida, Santa Gertrude, ecc.), con una fede maggiore di quella in un uomo onesto. Se si hanno delle ragioni, si può anche in modo riservato rifiutare la sua fede. (Ben. XIV.)

5. LA RIVELAZIONE DIVINA ERA NECESSARIA, PERCHÈ SENZA DI ESSA, DOPO IL PECCATO ORIGINALE, GLI UOMINI NON AVREBBERO CONOSCIUTO NÈ DIO, NÈ LA SUA VOLONTÀ, E PERCHÈ L’UMANITÀ AVEVA BISOGNO DI ESSERE PREPARATA ALLA VENUTA DEL REDENTORE .

I tre Magi, nel profondo Oriente, non avrebbero mai trovato Cristo, se non si fosse rivelato a loro attraverso una stella; allo stesso modo, l’umanità, che dal peccato originale viveva lontano dalla propria patria, non sarebbe mai giunta a un’esatta conoscenza di Dio, se Egli non si fosse rivelato. “L’occhio corporeo ha bisogno di luce per vedere le cose della terra, e la ragione, l’occhio dell’anima, ha bisogno della luce della rivelazione divina per vedere le cose di Dio. (S. Aug.) Il peccato originale e i disturbi della carne avevano oscurato la ragione umana in modo tale da renderla incapace di riconoscere Dio nelle sue opere (Sap. IX, 16); lo dimostra la storia di tutti i popoli pagani. Essi adoravano migliaia di divinità, e tra queste i cattivi,

bestie, statue, e questo di un culto immorale, spesso crudele (sacrifici umani). Rappresentavano i loro dèi con tutte le loro debolezze e tutti i loro vizi, addirittura come protettori di questi vizi. Le più grandi menti dell’antichità caddero in grossolani errori: Cicerone approvava il suicidio, Platone l’esposizione dei bambini, il disprezzo per gli stranieri, l’ubriachezza in onore degli dèi; tutti loro erano ”in errore” sulla creazione, si contraddicevano l’un l’altro, cambiavano spesso opinione e csdevano in un contrasto tra la loro condotta e i loro discorsi. (Socrate insegnava l’unità di Dio e derideva la follia dell’idolatria, eppure prima di morire sacrificò un gallo ad Esculapio). La maggior parte di loro – Socrate e Platone fra tutti – riconosceva la propria miseria e confessava francamente l’impotenza della loro ragione a scoprire qualcosa di Dio e delle cose divine, e la necessità dell’intervento diretto e della manifestazione esplicita della sua volontà. – Senza la rivelazione divina gli uomini non avrebbero riconosciuto o onorato adeguatamente il Redentore.

Dio ha agito come un re che vuole fare il suo ingresso solenne in una città e che annuncia il suo arrivo con molto anticipo. – Abbiamo questa rivelazione divina.e dobbiamo ringraziare Dio, come il cieco deve ringraziare il medico che gli ha restituito la vista. Dobbiamo compatire coloro che non si preoccupano della rivelazione; sono come l’uomo che, a mezzogiorno, tiene le imposte chiuse e rimane nelle tenebre.

3. LA PREDICAZIONE DELLA RIVELAZIONE.

1. LE VERITÀ RIVELATE AGLI UOMINI DA DIO SONO, PER SUO ORDINE, ANNUNCIATE A TUTTI I POPOLI DELLA TERRA DALLA CHIESA CATTOLICA, E COL MEZZO DELLA PAROLA PARLATA, VALE A DIRE CON LA PREDICAZIONE.

L’ordine di proclamare a tutti i popoli le verità rivelate da Dio è stato impartito ai capi della Chiesa da Gesù Cristo al momento della sua ascensione. Cristo disse allora agli Apostoli: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. Andate dunque e insegnate a tutte le nazioni e battezzatele nel nome del Padre, del Figlio e del Santo, ed ecco, Ko sono con voi tutti i giorni, fino alla fine dei secoli”. Gli Apostoli e i loro successori non lasciarono che alcun potere civile proibisse loro di predicare il Vangelo. Quando il Sinedrio proibì agli Apostoli di predicare, San Pietro e gli altri dichiararono categoricamente: “Dobbiamo obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (Atti 29). E ancora oggi la Chiesa non ammette alcuna interferenza da parte dello Stato nell’esercizio del mandato di insegnamento conferitogli da Cristo. In molti Paesi, e anche nel nostro tempo, diversi Stati rivendicano il cosiddetto luogo reale, secondo il quale i decreti della Chiesa anche quelli dogmatici, siano soggetti alla censura governativa. La Santa Sede ha minacciato di scomunica tutti coloro che direttamente o indirettamente, impediscono la pubblicazione o l’esecuzione dei decreti pontificii. (Pio IX, 12 ottobre 1869). È difficile spiegare l’esistenza di queste leggi nel nostro tempo, in cui, in base alle legislazioni liberali sul diritto, ognuno è libero di esprimere pubblicamente la propria opinione. E poiché la Chiesa ha il compito di annunciare le verità rivelate a tutti gli uomini, i Papi inviano continuamente missionari nei Paesi ed Encicliche al mondo cristiano. I Vescovi indirizzano lettere alle loro diocesi e inviano sacerdoti nelle loro diocesi: ogni domenica questi sacerdoti tengono un sermone nelle loro chiese parrocchiali e impartiscono l’istruzione religiosa nelle scuole. – Mentre la nostra Chiesa diffonde le verità rivelate con la predicazione, i maomettani, per esempio, propagano la loro fede con il ferro e il fuoco, i protestanti con la Bibbia.

SONO NELL’ERRORE QUELLI CHE CREDONO CHE LA BIBBIA SOLA ABBIA COME SCOPO DI COMUNICARE LE VERITÀ RIVELATE A TUTTA I POPOLI DELLA TERRA.

Dio ha voluto che gli uomini conoscessero la rivelazione e quindi giungessero alla fede in Lui attraverso la predicazione e non, come sostengono i protestanti, attraverso le sole Scritture. Cristo ha solo predicato, senza scrivere nulla. Agli Apostoli disse: “Andate ed ammaestrate tutte le nazioni (Matth. XXIII 79), non: “Scrivete a tutte le genti”. Quindi gli Apostoli, ad eccezione di due, non scrissero vangeli, ma si limitarono a predicare. Erano”, dice Sant’Agostino, “i libri dei fedeli”. S. Paolo dice: “La frde viene dall’udito”. (Rom. X, 17), e non dalla semplice lettura. L’insegnamento orale, inoltre, risponde perfettamente alla natura dell’uomo: preferiamo imparare da un insegnante piuttosto che fare una grande ricerca. Se la Scrittura fosse l’unico mezzo per conoscere la Rivelazione, sarebbe difficile capirla, prima di tutto, nonostante la predicazione di Cristo e degli Apostoli, gli uomini, vivendo prima della scrittura delle Sacre Scritture non sarebbero stati in grado di raggiungerla (cioè tutti gli uomini prima di di Mosè, quindi prima della composizione dei Vangeli). Anche oggi sarebbe il caso di tutti coloro che non saprebbero leggere, che sarebbero troppo poveri per comprare una Bibbia, o troppo poco istruiti per capire certi passaggi molto difficili della Bibbia. Eppure Dio vuole che tutti gli uomini giungano alla conoscenza della verità (I Tim. II, 4). – I libri sacri stessi perderebbero il loro valore se la Chiesa, attraverso la parola vivente, non ci assicurasse la loro origine divina e la loro perfetta integrità. S. Agostino dice: non crederei nel Vangelo se non vi fossi condotto dall’autorità della Chiesa.

UNA VERITÀ CHE LA CHIESA CI RAPPRESENTA COME RIVELATA DA DIO SI CHIAMA DOGMA O ARTICOLO DI FEDE.

I Concili generali (i Vescovi di tutta la Chiesa riuniti insieme) e il Papa da solo hanno il diritto di dichiarare che una verità sia divinamente rivelata. Il Concilio di Nicea ha definito come articolo di fede la divinità di Cristo (325) e Pio IX l’Immacolata Concezione della Beata Vergine. Ma non si trattava della creazione di una nuova verità, bensì della semplice dichiarazione che questa verità fosse realmente rivelata da Dio e sempre creduta dalla Chiesa. Non si tratta di un nuovo seme seminato nel campo della Chiesa, è semplicemente il seme gettato dagli Apostoli che sta arrivando ad una più ampia fioritura. (S. Vinc. de P.) il bambino, avanzando nella conoscenza della religione, non cambia la sua fede, ma piuttosto il suo modo di vivere la religione, non cambia la sua fede, e come poco l’insieme dei fedeli, la Chiesa accetta dottrine, quando all’apparire di alcune eresie discute e spiega più chiaramente alcune verità e rende la fede obbligatoria per tutti. – Una verità accettata nella Chiesa da sempre, ma non ancora dichiarata come rivelata da Dio, si chiama pia opinione. La fede nell’Assunzione della Beata Vergine, ad esempio, è una pia opinione (oggi dogma definito da Pio XII).

2. LA CHIESA CATTOLICA TRAE LE VERITÀ RIVELATE DA DIO DALLA SACRA SCRITTURA E DALLA TRADIZIONE.

La Sacra Scrittura e la Tradizione hanno pari autorità e devono essere ricevute con uguale rispetto e sottomissione. (Conc. Tr. 4.) La Sacra Scrittura è la Parola scritta di Dio, la Tradizione è la Parola non scritta di Dio. S. Paolo esorta i fedeli ad attenersi non solo a ciò che è stato loro scritto, ma anche a ciò che è stato comunicato oralmente. (Il Tessal. 11, 14).

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (V)

LO SCUDO DELLA FEDE (264)

LO SCUDO DELLA FEDE (264)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (6)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO VII.

CULTO ESTERNO

I. Iddio non ha bisogno di culto esterno. II. Iddio non ritrae verun vantaggio dal nostro culto.

Simigliante alla massima precedente è un’altra, che pur gode gran credito ai giorni nostri, ed è l’affermare che a Dio bastando il cuore, Ei non abbisogna di culto esterno, e che Egli non cura le forme esteriori del culto, che altro non sono che vane superfluità, e che Egli non abbisogna dei nostri ossequi. Coll’antecedente miravano ad abbattere ogni culto, con questa mirano ad annientare almeno il culto esteriore come si pratica nella Chiesa; con quella assalivano direttamente la Religione, con questa l’assaltano indirettamente, ma con niente minor efficacia e perversità.

I. A Dio bastando il cuore, voi dite, ei non si cura del culto esterno; ma siete poi ben certa che a Lui basti il cuore? Io invece son certo che non gli basta né punto, né poco, e la mia ragione è semplicissima, perché è impossibile il dargli il cuore, senza darglielo per mezzo di riti, di cerimonie, di atti anche esteriori. Volete vederlo? Che cosa è l’uomo? È un composto di anima e di corpo essenzialmente. Se prendete la sola anima, è uno spirito separato, se prendete il solo corpo, è un cadavere: bisogna prendere l’uno e l’altro per avere un uomo. Come opera egli adunque in forza di questa unione? Opera con quel genere di operazione che risulta dall’uno e dall’altra. Provatevi un poco ad ammettere nel vostro cuore un qualche affetto, senza che tosto traspaia anche nell’esterno. Il timore vi fa impallidire, la gioia vi fa tripudiare, la collera vi fa tremare a verga a verga, l’amore vi si conosce in faccia a mille miglia lontano: tantochè quando volete simulare anche alcuno di questi affetti, la commozione vi tradisce e vi scopre quando il volete meno. Che cosa vuol dire ciò? Che il corpo e lo spirito in questo stato d’unione vanno così d’accordo e sono così dipendenti l’uno dall’altro, che non possono non avere un’operazione comune. Ora se questo si verifica in tutte le nostre operazioni, perché non dovrà verificarsi anche nell’esercizio della Religione? Oh che? Saremo di una natura per le cose terrene e di un’altra per le cose celesti? Guardate, questi capi scarichi vorrebbero disfarci uomini per farci filosofi. Appunto come quel bottaio che per ripulire una botte cominciava coll’appiccarvi il fuoco! Del resto fosse pure anche possibile il venirne a capo, e l’uomo potesse esercitare tutta la religione solamente col cuore, sarebbe allora lecito il farlo? Punto punto. Poiché la Religione è un dovere che appartiene non alla sola persona individuale, ma a tutta la società, cioè è tale, a cui debbono tutti gli uomini prender parte in comune. Vi dichiarerò le cose con un esempio., Se un monarca va a visitare una sua provincia, basta forse che ciascun cittadino in particolare gli faccia atto di riverenza? Certo no: ma la città tutta in corpo con atti e feste pubbliche lo riconosce. E ciò perché? Perché quel monarca è superiore non solo degl’individui, ma di tutta la città e di tutta la provincia. Ora Iddio non è solo padrone degl’individui, ma è padrone e autore della società tutta quanta, ed ha diritto di essere dalla società stessa riconosciuto con atti di Religione. Ed in qual modo si praticherà questa Religione in comune senza atti esteriori? Sto a vedere che gli uomini potranno congiungersi insieme coi soli atti della mente, come fanno gli Angeli, e non avranno più bisogno dei sensi per intendersi! Forse questa sarà una proprietà di quei signori della religione del cuore, e tal sia di loro: ma per noi, poveri figliuoli d’Adamo, ci vuole la Religione del cuore, ma non disgiunta da quella dei sensi. E che sia così, voi potreste convincervene anche per altra via. Quando vi abbatterete con alcuno di quegli che con piglio filosofico levano tanto alto la religione del cuore, chiamatelo un poco in disparte e fategli qualche interrogazione. Il mio valentuomo, ditegli confidentemente ed a quattro occhi, questa religione del cuore sì perfetta, e di cui voi avete il profondo segreto, come riesce poi all’opera? la praticate voi davvero? La ‘praticate spesso? La praticate almeno qualche volta? Su dite, vi ritirate voi talvolta nel segreto del vostro cuore, e là solo con Dio, vi umiliate profondamente, gli chiedete perdono delle vostre colpe, prendete delle generose risoluzioni di non più offenderlo? In una parola gli fate poi l’omaggio di quel vostro gran cuore, che è il solo incenso che deve ardere, come voi dite, sull’altare della divinità? Su, parlate schietto, dite la verità una volta, fate tutto ciò, o non ne fate nulla? Mio lettore, a questa domanda, qualcuno vi cadrà dalle nuvole, altri vi guarderà trasognato, ed altri, per sbrigarsi più presto, vi manderà a tutti i diavoli. Oh che è mai questo? Eccovi decifrato il mistero. La religione del cuore, cioè la religione senza atti esterni, è un impossibile, e que’ ribaldi che cercano di metterla in onore, il sanno al pari di noi, e non se ne valgono che come di uno stratagemmandi guerra. Veggono benissimo’ che il ricusare al tutto un qualche culto è cosa brutale e da parerne meno che uomini, anche presso del mondo, il quale pure non la guarda così per sottile: dall’atra parte il professarne alcuna è lo stesso che accollarsene la obbligazione in faccia alla società; e questo è un fardello che non si vuole sulle spalle: epperò si è fatto ricorso ad una religione invisibile, comenè quella del cuore, e si protesta che quella è la propria religione; ma come nel cuore nessuno può vedere, così non si ha obbligo di farne altro. Diceva un bell’umore, che costoro fingono la natura dell’Angelo per poter essere bestie impunemente. A questo modo si fugge la taccia di non aver religione di sorta, e non si ha la noia di praticarne alcuna; anzi si sale ancora in riputazione di filosofo, mentre si mena una vita da sciocco: non è bello questo trovato? Bellissimo invero! peccato solo che, come si fa gabbo agli uomini, così non si possa fare a Dio scrutatore dei cuori! E che questa sia la spiegazione vera del tanto magnificare la religione del cuore che si fa ai dì nostri, voi lo potrete raccogliere ancora da ciò che i medesimi, dimenticandosi la parte che fanno in scena, lascino poi sfuggire talvolta chiaro chiaro il loro intendimento in un’altra massima ugualmente perversa: Che bisogno ha Dio delle nostre meschinità, dei nostri atti di religione? Che vantaggio ne può egli ritrarre? Colle quali parole tradiscono apertamente il loro segreto, e mostrano fino al fondo tutta la corruzione dei loro cuori, dando a conoscere che non vogliono praticarne veruna. Seguitiamoli tuttora in questa nuova loro massima portentosa.

II. Iddio non ha bisogno dei nostri ossequi meschini e non ne ritrae nessun vantaggio, dicono essi. Sapevamocelo. E che però? Dunque, non gli si debbono rendere? Ma siamo noi, noi proprio quelli che ne abbiamo bisogno, non è Dio. Mai nessuno al mondo è stato così stolido che abbia inculcata la religione, perché Dio ne avesse bisogno. Già si sa che il bisogno è tutto nostro. Noi siamo creature di Dio e tali, che tutto che abbiamo e che speriamo, tutto è nelle sue mani: quindi dobbiamo aver da Lui una dipendenza continua per ricevere da Lui tutto quello onde abbisogniamo. Se Egli non ci conservasse continuamente, noi ad ogni istante cadremmo nel nulla; se Egli non ci assistesse ad ogni momento, in ogni momento rimarremmo sopraffatti da qualche calamità. Fingete che la luna non volesse dipendere dal sole, sul pretesto che il sole non ha bisogno di lei, che cosa direste voi? Direste che non è per bene del sole che essa deve dipendere, ma è per bene suo, perocché essa, senza del sole, sarà in perpetua scurità. – Immaginate che una pecorella non volesse star soggetta e dipender dal suo pastore, sul pretesto che il pastore non abbisogna di lei, e voi direste a questa pecora matta che essa è che ne ha bisogno, poiché, senza il pastore, non saprà dove ire a pascolare e morrà di fame, oppure, rimasta senza difesa, sarà sbranata dai lupi. Similmente Iddio essendo il solo nostro padre, il solo nostro aiuto, la sola nostra sicurezza, il solo che possa condurci all’altissimo nostro fine, noi non possiamo fare senza di Lui: abbiamo da stargli d’intorno ad ogni istante, perché Egli ad ogni istante sparga soprandi noi le sue grazie. Soprattutto però questo si vede rispetto ai peccati. Iddio non ha bisogno di noi, ma è egli vero che noi l’offendiamo pur troppo colle nostre colpe? Se è vero che trascuriamo e calpestiamo moltenvolte la legge che ci ha imposta, è vero che siamo rei. Or chi non vede, che abbiamo bisogno e bisogno grande e bisogno stretto di ottenere il perdono, se pur non vogliamo incorrere la sua vendetta,ne, non ostante le nostre reità, finalmente giungere alla salute? Il giudice senza dubbio non ha bisogno del reo, il ricco non ha bisogno del povero, il potente non ha bisogno del debole; ma i languenti, i colpevoli hanno bisogno di chi li aiuti e li protegga. Così noi abbiamo bisogno di Dio per rendercelo favorevole, onde sospenda i suoi castighi, ed accettando le nostre umiliazioni, ci usi misericordia. Andate adesso a dire che il Signore non abbisogna della nostra religione, se vi basta l’animo. Senzachè, quando anche noi non ne avessimo bisogno, sarebbe egli vero che fossimo disobbligati dal prestargli i nostri ossequi? Nulla meno. Iddio ne ha il diritto, e diritto così essenziale, così assoluto, inalienabile, che non può rinunziarvi senza cessare d’essere Dio. Potrebbe mai un padre spogliarsi della dignità ed autorità paterna da render lecito ad un figliuolo il vilipenderlo, batterlo, maltrattarlo? Sarebbe una violazione delle leggi sacrosante della natura. Potrebbe uno sposo rinunziare ai suoi diritti per modo da consentire ad una sposa delle infedeltà? Sarebbe un orrore. Potrebbe un principe svestire la sua qualità di sovrano al punto di mettere in mano de’ suoi sudditi ogni autorità? Sarebbe una sovversione di tutto l’ordine sociale. Ma quando tutti essi potessero rinunziare a sì essenziali loro diritti, non potrebbe ancora rinunziarvi Iddio. Egli può non formar creature, ma non può, formate che le abbia, a sè non dirigerle, perché non può non essere, com’è, il loro principio, così ancora l’ultimo loro fine. Il perché quando anche noi non avessimo bisogno di Lui, Egli non potrebbe non esigere il nostro culto, se pure egli non può cessare d’essere Dio e noi creature. – Questa osservazione mi somministra anche un’altra ragione non meno chiara. Se Dio, anche per impossibile, ci proibisse di onorarlo, di ossequiarlo, di prestargli il nostro culto, noi non potremmo neppure allora farne a meno tanto è necessaria a noi la religione verso di lui! Vi ammirate forse di questa proposizione! Ebbene, rispondete a me. Se Dio prescrivesse alla luce di non illuminare, al fuoco di non bruciare, all’acqua di non bagnare, al vento di mai non soffiare, agli alberi di non spiegar mai rami, fronde, fiori e frutti, e così via via, se levasse ad ogni creatura la propria naturale operazione, che cosa potrebbero rispondere tutti questi esseri? Che tanto varrebbe per loro l’essere annichilati: posciaché, se tutto quello che sono, il sono solamente in ordine a quelle opere; levate queste, essi sono vani ed inutili. Or sappiate che è lo stesso dell’uomo riguardo a Dio. L’uomo ha un intelletto fatto per conoscer Lui, un cuore per amarlo, come l’albero è fatto produrre, l’uccello per volare mentre l’intelletto mai non si posa, il cuore mai è sazio finché non si congiungano a Dio; se voi però togliete all’uomo la religione, che è il solo mezzo per cui stringersi a Lui, e voi avete annientato e distrutto l’uomo. Vedete dunque quanto errino quelli che credono, che Iddio li abbia dispensati dall’obbietto della Religione! E ciò per dir nulla del torto che fanno costoro alla bontà di Dio, la quale esigerebbe, se tanto si potesse, un’infinità di amore e di servigio. Come no? Una bontà da nulla e’ incanta, ed una bontà, qual è quella di Dio, non ci ha pure a muovere? Un raggio di beltà creata ci affascina, e non ci hanno a rapire raggi infiniti di una bellezza increata? Un’aura di sapienza ci tiene assorti di maraviglia, e possiamo rifiutare le nostre ammirazioni ad una infinita sapienza? Non possiamo vietare al nostro cuore di amare gli oggetti amabili, e potremo impedirgli di amare un oggetto amabile infinitamente? E potremo tutto ciò quand’anche quest’oggetto infinitamente buono, bello, santo, amabile sia verso di noi largo de’ benefizi più squisiti, delle grazie più preziose, dell’amore il più tenero? Ma che? Siamo noi tigri dell’Africa, pantere, leopardi? Abbiamo noi un cuore dentro il petto, oppure un macigno? Eppure tant’è. O negare che quanto abbiamo l’abbiamo da Dio, o consentire che gli stiamo continuamente d’intorno con ogni maniera d’ossequio che ci può mettere sul labbro e nel cuore la religione. – Finalmente se Dio non si cura del nostro culto, perché è venuto sulla terra per stabilirlo? Perché l’ha istituito, perché l’ha propagato, perché ha fatto tutto ciò con tanta sollecitudine? Perché ha mandato i suoi Apostoli a tutta la terra? Qui vi vuole una risposta, e non può essere altra che questa: O negare recisamente tutta la grand’opera dell’Incarnazione divina, o concedere che a Gesù infinitamente importa del nostro culto. Il primo non osaron dirlo neppure i demoni, poiché confessarono che Gesù era il Figliuolo di Dio; come dunque negare il secondo?

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (11)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (11)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUARTO (3)

L’AMORE NEL SACRIFICIO

III – LA FORMAZIONE DELLA VOLONTÀ AL SACRIFICIO.

Il programma del sacrificio è duro; e tutti i tentativi ideati dalla fragilità umana per mutare la rozza croce del Golgota, chiazzata di sangue, in graziosi ed artistici crocefissi d’avorio, con sfondo di velluto, sono sempre falliti. L’educazione morale, perciò, consiste nello sforzo di allenare gli spiriti al sacrificio. Si è tanto meglio preparatinalla vita e tanto meglio si vive, quanto più si è capaci di nobili e sante abnegazioni. Una simile formazione alcuni si illusero di raggiungerla rivolgendosi alla mente umana. Senza discutere quale sia l’importanza storica della teoria di Socrate, che riduceva la virtù a conoscenza e la malvagità ad ignoranza; senza voler seguire nella storia della filosofia la corrente intellettualistica e la volontaristica a proposito della identità o della distinzione in morale della pratica dalla teoria, abbiamo nell’epoca moderna Benedetto Spinoza, che nel suo scritto De emendatione intellectus affidò alla conoscenza adeguata della realtà la soluzione del problema della vita. L’autore dell’Ethica, in nome dell’esperienza, dichiarò vani e futili « tutti gli avvenimenti più frequenti della vita ordinaria ». Non bisogna porsi — egli inculcava — dal punto di vista del finito, del contingente, del perituro, dell’imperfetto. Non bisogna legarsi alle ricchezze, ai beni sensibili. Bisogna giungere al grado più alto della conoscenza, a quella conoscenza intuitiva che, dal punto di vista dell’Unica Sostanza, tutto spiega, che capisce come ogni cosa abbia una ragione d’essere e tutto accada necessariamente, anche ciò che chiamiamo il male. Quando si arriva ad una tal visione della realtà, la parola del vecchio Eraclito: « Non ridere, non piangere, ma comprendere — non ridere, non flere, sed intelligere » diventa bella come un programma. Nulla può turbarci allora nella nostra olimpica serenità. E noi in tal modo vivremo felici. Tale panteismo deterministico di Spinoza, se non può avere in questo Sillabario la sua confutazione, la trova nella stessa coscienza, che, pur cogliendo il reale nella sua organicità, sente da un lato di essere libera e, dall’altro, pur sapendo che tutto, anche il male, viene razionalizzato nella storia per opera di Dio, non è con ciò olimpicamente serena. Il vero può illuminarci ed aiutarci nella vita. E noi, che concepiamo il progresso educativo nella sua unità viva, siamo ben lungi dal negare che la luce della mente abbia un influsso immenso sull’azione e che alla decisione della volontà debba precedere il giudizio della ragione: nil voliturn, quin praecognitum, dicevano i nostri antichi. Anche nel campo soprannaturale, non sosteniamo noi forse la necessità di basare la morale sul dogma? Non basta, però, sapere. La vita è qualcosa di più. Con la mente illuminata, bisogna liberamente agire ed allora solo si ha l’attività morale. Diffondiamo pure la luce nelle intelligenze; ma dobbiamo formare anche la volontà ed i caratteri, conformi alla retta ragione ed alla fede. Lo sanno per esperienza tutti gli educatori, anche quando prescindono dall’ordine soprannaturale; e meritatamente su questo punto ha insistito il Fikster, maestro oggi così caro alla gioventù. In che modo, dunque, si può formare la volontà al sacrificio? Siccome l’azione morale cristiana implica non solo un elemento divino, — la grazia, — ma altresì l’elemento umano, — l’adesione ed il libero contributo del nostro volere, — conviene lumeggiare i due problemi, per vedere quale obbligo ci spetta come uomini e quale come Cristiani.

1. – I mezzi umani per la formazione della volontà.

Il pensiero semplice che Feirster, sia nelle lezioni all’Università di Zurigo come nei suoi libri, è andato sviluppando si può riassumere in poche righe. Se noi vogliamo prepararci alla vita, all’azione, e non sciupare la nostra giovinezza e l’esistenza tutta, dobbiamo formarci un carattere, dobbiamo essere padroni della nostra volontà; altrimenti, nell’oceano del mondo e degli eventi, saremo una nave senza timone in balia delle burrasche. È di una immensa importanza per « l’uomo in tutte le professioni ed in tutte le circostanze, l’essere padrone di sè. È importante quasi quanto l’imparare a camminare. Chi non sa dominarsi, è come un uomo che non sia sicuro sulle sue gambe, e non può mai sapere dove andrà a finire, perché in tutto ciò che fa e dice non ha nessun indirizzo preciso ». Per ottenere questo dominio sopra di noi, in modo da poter svolgere un’attività proficua ed energica, la scienza e la cultura non bastano. « Non basta conoscere la buona strada, ma bisogna anche saperla seguire. Anche il sapere qual è la forza del vapore ed il modo di dominarla, non è di molto vantaggio, se il meccanico non costruisce la macchinane la caldaia. Lo stesso avviene del ben fare »: non basta conoscere le grandi cose; « dobbiamo anche acquistare, mediante l’esercizio, l’abitudine di sopprimere gli istinti ribelli, l’arte di eseguire ciò che si è concepito ».nQual è la strada unica e sicura per giungere ad una vetta così eccelsa? Come conquistare la padronanza della propria volontà, in modo da rendere quest’ultima pronta ad agire, senza impacci e senza viltà? – Il Fiirster, per risolvere il problema, osserva che, sia nelnbene come nel male, l’animo non ascende né  discende in un istante: ma procede sempre per una lenta formazione; il nostro carattere non è l’opera di un giorno; ma è simile alle isole madreporiche. « Spesso, egli scrive, a settecento metri sotto il livello del mare, una colonia di polipi coralliferi sorge e sempre più cresce, fínchè un anello chiuso di scogli emerge dalle acque. L’acqua del mare salsa che vi è racchiusa diviene lago di acqua dolce che con l’andar del tempo si dissecca. Dalle piante decomposte, dai detriti del corallo e dalla sabbia del mare ha origine un terreno fecondo; una noce di cocco approda alla costa; vengono uccelli e lasciano cadere semi di arbusti e di alberi di paesi lontani; ogni onda, e, anche più, ogni burrasca abbandona sulla spiaggia qualche cosa di nuovo, finché l’isola si copre di ogni specie di piante e di alberi. Allora fa la sua comparsa l’uomo, che prende dimora sull’isola ospitale fabbricata dal polipo del corallo, un piccolo essere che ha l’aspetto di una goccia di latte ». Avviene lo stesso fenomeno per il carattere nella nostra vita individuale, come altresì per i grandi avvenimenti nella nostra vita sociale. Il paziente ed assiduo lavoro di ogni giorno, le piccole gocce, le cose minuscole, producono poi rivolgimenti giganteschi, che all’occhio superficiale paiono improvvisi, ma che furono in realtà lentamente preparati. Gli « infinitamente piccoli » assumono in tal modo una immensa efficacia nel mondo e nella storia. Ecco perché, conclude il Iiirster, è grandiosa l’importanza della ginnastica della volontà. La maggior parte degli uomini non ha il dominio di sé, manca di energia, di spirito, non sa volere efficacemente, per il motivo che non ha mai conosciuto il segreto della propria educazione. Come il bimbo, quando incomincia a camminare, non può partecipare subito ad una maratona, ma comincia a piccoli passini sostenuto dalle dande, e poi attraverso molteplici capitomboli, adagio adagio, irrobustisce le sue gambe ed impara a passeggiare da sè, senza necessità di sostegno nè pericoli di cadute; così anche la nostra volontà, se noi la esercitiamo, se la teniamo in una ginnastica attiva, a poco a poco si fortifica, impara a vincersi nelle piccole cose, ed al momento dell’assalto trova in sè l’energia sufficiente per la vittoria. La quotidiana e minuscola ginnastica della volontà ha un grande valore, non già considerata in se stessa, ma in quanto è indirizzata al dominio del proprio io, alla liberazione della schiavitù degli impulsi, delle passioni, dei capricci, dei nervi, della propria ed altrui viltà. Di conseguenza il Fórster raccomanda vivamente e descrive a lungo i vari esercizi di ginnastica spirituale. Per esempio: si fa una gita e si ha sete; bisogna resistere, per non essere schiavi del proprio palato. Non già che non si debba mai bere nelle gite. Ma, di tempo in tempo, bisogna provare se si è ancora padroni di casa propria. Si sta mangiando un frutto appetitoso, che ci fa venire l’acquolina in bocca; noi vogliamo affermare la nostra volontà dinanzi ad esso: vi rinunciamo; non perchè sarebbe un delitto od una colpa gustare quel frutto, ma per fare un po’ di ginnastica della volontà. Un giorno, perciò, sarà una sigaretta che non fumeremo; un altro giorno una espressione brillante, che sarebbe stata applaudita e che noi sapremo tacere, e via dicendo. E, ripetiamolo ancora una volta, tutto ciò, non perché il fumare una sigaretta o il lanciare un frizzo geniale sia una colpa; ma per esercitare il nostro animo alla padronanza di sè. – L’antimoralismo può sorridere di compassione dinanzi a questi esercizi necessari per la formazione del proprio carattere; potrà stimarli piccoli espedienti di spiriti gretti; potrà dire ai giovani: « Godete la vostra primavera; rompete ogni divieto; avvicinate le vostre labbra ad ogni frutto »; ma persino Benedetto Croce riconosceva che « niente v’è di più stolto dell’antimoralismo ». Esso « crede di celebrare la forza, la salute, la libertà; e vanta, invece, la servitù delle passioni sbrigliate, l’apparente floridezza del malato e la forza del maniaco. La moralità (non dispiaccia agli antimoralisti letterati) non che fisima da pedante o consolazione di impotenti, è il sangue buono contro il sangue guasto ». Soltanto frenando le passioni e gli istinti, noi diveniamo veramente liberi.

2. – La morale cristiana e la formazione della volontà.

Il Cristianesimo ha sempre inculcato questa pratica della ginnastica della volontà, che in termini cristiani è chiamata la virtù e la mortificazione.

1. – Come una rondine non fa primavera, osserva Aristotile nella sua Etica a Nicomaco, così un atto solo non fa una virtù. Quest’ultima è l’abitudine del bene; e, solo mediante la ripetizione degli atti o un dono di Dio, possiamo acquistare quella dolce inclinazione a compiere azioni buone, che è così utile ed efficace nella vita dello spirito. Se giova imparare il nuoto e se vai la pena di esercitarsi per saper nuotare, molto più nel mare burrascoso della esistenza nostra, fra le tempeste e le burrasche, serve possedere quelle perfezioni proprie dell’attività pratica, che ci facilitano l’adempimento del nostro dovere e l’attuazione della legge cristiana d’amore. Io non mi dilungherò a ricordare come i teologi classifichino le virtù in teologali ed in cardinali, secondo che hanno per oggetto Dio, nostro ultimo fine, ovvero i mezzi per raggiungere Dio. Non rammenterò come tre siano le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità; e quattro le cardinali, la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza, così chiamate, perchè — nota san Tommaso — sopra di esse si aggira e si fonda la vita morale, come la porta sui cardini. Non soggiungerò nulla intorno alla distinzione delle virtù in acquisite ed in infuse, secondo che si tratta di abitudini contratte con le sole forze naturali mediante la ripetizione degli stessi atti, ovvero di un prodotto della grazia, inserito in noi immediatamente da Dio. Ciò che ci interessa è lo sforzo nostro nell’acquisto delle virtù. Poichè, anche quando la virtù è infusa, essa è sempre un germe, che occorre svolgere; è una rosa che deve sbocciare al sole della nostra cooperazione. È stolto credere che i Santi ci abbiano dato la fioritura delle loro opere virtuose, unicamente perchè furono favoriti dal cielo di speciali aiuti; essi corrisposero ai doni divini e con quanta generosità! La mitezza di san Francesco di Sales è costata vent’anni di battaglia e di lavoro; l’umiltà di san Carlo Borromeo fu il frutto di un lungo ed intenso esercizio; e nessun Santo sarebbe divenuto tale, se avesse sepolto il talento ricevuto da Dio e non l’avesse trafficato con energia perseverante di volontà.

2. – Come la virtù implica la pratica abituale nel bene, così la mortificazione consiste nella lotta abituale contro il male. Cosa ci predica l’esempio dei Padri del deserto e di tutti i Santi? Leggiamo nella vita di san Macario che un giorno, là nel deserto, gli venne portato in dono un grappolo di uva. Padrone di sè e della sua gola, ascoltò la voce dell’amore fraterno, che lo consigliava segretamente a recarlo ad un altro eremita, il quale ne aveva forse maggior bisogno di lui. Così fece. Ed il solitario, accogliendo il regalo, rese grazie a Dio ed a Macario, ma, come lui, portò il grappolo ad un altro eremita, e questo ad un altro, e così via, in modo che quel grappolo fece il giro di tutte le celle disperse nel deserto e spesso molto lontane le une dalle altre, finchè ritornò ancora intatto nelle mani del Santo, senza che nessuno avesse saputo che da lui, per il primo, era partito. Ed i fatti, uno più affascinante dell’altro, si potrebbero citare a iosa. Mi limiterò ad avvertire solo che tali mortificazioni assumono un colorito speciale nei vari Santi e nei vari Cristiani, secondo la loro indole e la missione storica che dovevano e che debbono compiere. Ad esempio, prendiamo Filippo Neri, « Pippo il buono,, il Santo dell’allegria o, come diceva superficialmente Goethe, « il santo umorista ». Uno dei suoi più accurati biografi, il Bacci, riferisce che « soleva il sant’uomo molte volte saltare in presenza delle persone, eziandio de’ Cardinali, e Prelati; nè solo facea questo in luoghi remoti, e non abitati, ma ancora dove suol esser maggior frequenza di gente, come ne’ palazzi, nelle piazze, e nelle strade…». « Un’altra volta si fece tagliare la barba da una banda sola, e con mezza barba uscì in pubblico saltando, come avesse avuto vittoria di qualche grande cosa… ». « Volendo un suo penitente lasciarsi il ciuffo come usava in quei tempi, il Santo non solo non glie lo permise; ma gli comandò che si tosasse, e per mortificarlo maggiormente gli disse che andasse da fra Felice Cappuccino, che gli avrebbe fatto la carità. Andò il buon penitente, e fra Felice (il quale era rimasto d’accordo col Santo) in cambio

di tosarlo gli rase tutta la testa, e colui sopportò il tutto con grandissima pazienza ». Ed eran cani che faceva portare in braccio ai suoi penitenti, anche illustri, per le vie di Roma; ed era il Baronio, il celebre storico, inviato « con un fiasco grande, che tenea più di sei boccali, all’osteria ordinandogli, che si facesse dare una foglietta di vino; ma che prima facesse lavar il fiasco, e che andasse in cantina a vederlo cavare; e poi si facesse rendere il resto, alle volte d’un testone ed altre volte d’uno scudo d’oro; per la qual cosa volendo egli fare tutte quelle diligenze, questi osti tenendosi beffati, non solo gli dicevano villanie, ma bene spesso lo minacciavano di dargli delle bastonate ».

Voi ridete e forse siete tentati di dar ragione a certi biografi moderni di san Filippo, i quali sostengono che ai giorni nostri non lo porrebbero più sugli altari. Ahimè! Avreste torto. Quelle che, in apparenza, sembrano stranezze da manicomio, erano mezzi per dominare se stessi; erano mortificazioni, per non essere schiavi dell’ambiente o della superbia; era, in breve, ciò che Fórster definisce la ginnastica dell’educazione, nella Roma dei suoi tempi!… I discepoli capivano che le bizzarrie imposte eran più sapienti del dileggio da esse provocato; e dello stesso dileggio si servivano come arma per la propria formazione. – Si noti. La Chiesa stessa impone a tutti i credenti l’esercizio di queste mortificazioni. Le astinenze ed i digiuni, ad es., — oltre che un ossequio che noi presentiamo a Dio, rinunciando a qualche cosa per suo amore — non sono forse altresì una ginnastica spirituale « per chi deve sostenere il combattimento contro la legge delle membra? ». « Il digiuno, spiega il Manzoni, accompagna senza interruzione il primo Testamento; Giovanni, precursore del nuovo, l’osserva e lo predica; e Quello che fu l’aspettazione e il compimento dell’uno, il fondatore e la legge dell’altro, e la salute di tutti, Gesù Cristo, lo comanda, lo regola, ne leva l’ipocrita ruvidezza e la malinconica ostentazione, l’attornia d’immagini socievoli consolanti, ne insegna lo spirito, e ne dà lui stesso l’esempio. Certo, la Chiesa non ha bisogno d’altra autorità, per rendere ragione d’averlo conservato. Gli Apostoli sono i primi a praticarlo. Il digiuno e la preghiera precedono l’imposizione delle mani, che conferì a Paolo la missione verso le genti; e la religione, come disse il Massillon, nasce nel seno del digiuno e dell’astinenza. D’allora in poi, dove si può segnare un tempo di sospensione o d’intervallo? La storia ecclesiastica ne attesta la continuità in tutti i tempi e in tutti i santi; e se si trova purtroppo qualche volta il letterale adempimento del digiuno, scompagnato da una vita cristiana, è impossibile trovare una vita cristiana scompagnata dal digiuno. I martiri e i re, i Vescovi e i semplici fedeli eseguiscono e amano questa legge: essa si trova come in un posto naturale tra Cristiani. Fruttuoso, Vescovo di Tarragona, rifiutò, andando al martirio, una bevanda che gli era offerta per confortarlo; la rifiutò, dicendo chennon era passata l’ora del digiuno. Chi non prova un sentimento di rispetto per una legge così rispettata, nel momento solenne del dolore, da un uomo che stava per dare una testimonianza di sangue alla verità? Chi non vede che questa legge medesima aveva contribuito a prepararlo al sacrificio, e che, per morire imitatore di Gesù Cristo, egli n’era vissuto imitatore? Ma prescindendo da questi esempi ammirabili, nelle circostanze più ordinarie d’un Cristiano, il digiuno e le astinenze si legano con ciò che la sua vita ha di più degno e di più puro. Si veda un uomo giusto, fedele a’ suoi doveri, attivo nel bene, sofferente nelle disgrazie, fermo e non impaziente contro l’ingiustizia, tollerante e misericordioso; e si dica se le pratiche dell’astinenza non sono in armonia con una talencondotta. San Paolo paragona il Cristiano all’atleta che, per guadagnare una corona corruttibile, era in tutto astinente. L’agilità ed il vigore che ne veniva al suo corpo era tanto evidente, i mezzi erano così corrispondenti alfine, che a nessuno pareva irragionevole quel tenore di vita, nessuno se ne meravigliava; e noi, educati all’idee spirituali del Cristianesimo, non sapremo vedere la necessità e la bellezza di quelle istruzioni che tendono a render l’animo desto e forte contro le inclinazioni del senso? ». – Come si vede dalla citazione del Manzoni, anche san Paolo discorre di ginnastica. E non ci sarebbe differenza fra le mortificazioni nell’ordine naturale e nell’ordine soprannaturale, se il Cristiano non le compisse in unione a Gesù Cristo, al Quale è incorporato e che in tutta la sua vita si mortificò, da Betlem al digiuno nel deserto ed alla morte di croce. Le virtù cristiane e la mortificazione nostra divinizzate dalla grazia, rese più efficaci per la preghiera, accompagnate dai Sacramenti, sono qualcosa non di meno, ma di più della ginnastica umana della volontà. E l’elemento divino congiunto all’elemento umano; è, sopra tutto, un esercizio che non potrebbe esistere in una visione antropocentrica della realtà, riguardato come un metodo di perfezionamento della propria personalità e che, invece, viene inquadrato in una visione teocentrica e cristiana. Noi ci mortifichiamo, per far vivere Cristo in noi; ci crocifiggiamo con Lui per risorgere insieme. In altre parole, la caratteristica della virtù e della mortificazione cristiana è la educazione della volontà umana, mediante la grazia e la formazione di Cristo in noi. Non c’è, quindi, da meravigliarsi se tale formazione è unita ai Sacramenti e specialmente a tre di essi: la Cresima, la Comunione, la Confessione. – La Cresima ci fa soldati dell’esercito cristiano e ci rende forti per i sacrifici dell’Amore nella vita. Non invano il nipote di Renan, Ernest Psichari, 1’8 febbraio 1913, dopo aver ricevuto da mons. Gibier, Vescovo di Orléans, il Sacramento della Confermazione, poteva esclamare: « Monsignore, mi sembra d’avere un’altra anima! ». Non invano Giosuè Borsi, al card. Maffi che l’aveva cresimato dopo la conversione, poteva dire: « Ora sono soldato di Cristo ». È lo Spirito Santo che fortifica il figlio di Dio, segnato dal segno della Croce e confermato col crisma della salute. – La Messa, ricordo e rinnovazione della immolazione della Croce, ci rammenta ogni volta la grande verità cristiana dell’Amore nel sacrificio ed accresce le nostre energie, perchè anche noi, scendendo ed allontanandoci dal mistico Calvario dell’altare, ci sappiamo sacrificare per Dio e pernamore dei fratelli. L’Eucaristia, unendoci a Gesù Cristo, presente nell’Ostia, ci trasforma in Lui, di modo che la battaglia può essere ripresa, continuata, combattuta con la chiara consapevolezza che Gesù Cristo combatte in noi, con noi, per noi e che quindi siamo forti di una forza divina. La Confessione, prescindendo dal perdono dei peccati che ci interesserà in seguito, è infine un Sacramento di immensa efficacia educativa. Il confessore non è solo giudice, ma padre e maestro e medico; e l’accusa dei peccati importa una serie di atti quanto mai utile per l’opera formatrice delle nostre coscienze. Se poi il sacerdote viene scelto da un’anima, non solo come confessore, ma come Direttore spirituale, ecco che la formazione resta sempre più facilitata e favorita. Mentre il confessore è colui che ascolta le colpe, le giudica e le assolve, il Direttore spirituale (che può essere, del resto, lo stesso confessore, ma può essere anche un altro ministro di Dio studia un carattere e adagio adagio lo coglie, attraverso la molteplicità dei suoi atti e dei suoi difetti, nell’unità della sua indole. È allora che il Direttore spirituale può divenire la guida buona, che ci accompagna sulle alte montagne e ci fa evitare pericoli e precipizi. Le stesse mortificazioni vengono da lui dirette e ordinate ad un fine particolare, che potrà essere, ad es., la lotta contro il difetto predominante o lo sforzo per la conquista di una virtù.

3. – Conclusione.

Quale unità organica, allora, ci si presenta allo sguardo tra dogma, morale, Sacramenti, gerarchia e vita nel Cristianesimo! Il dogma della Redenzione e la storia della Passione sono la base della virtù e dell’abnegazione; i Sacramenti sono mezzi per raggiungere la formazione nostra soprannaturale; il Sacerdote è la guida in tali spirituali ascensioni. Ed in tutto questo un’unica anima palpita e freme: l’Amore. È per amor suo che noi ci sacrifichiamo ogni giorno; è per comunicare sempre più intensamente al suo Amore divino che ci accostiamo ai Sacramenti e ci avviciniamo ai suoi ministri. L’Amore nel sacrificio: ecco ciò che apprendiamo dalla verità dogmatica, dall’insegnamento morale, dall’aiuto dei Sacramenti, dal sacerdozio cattolico; ed ecco la vera vita cristiana con le battaglie quotidiane, che ora dobbiamo considerare.

Riepilogo

La morale cristiana risolve il contrasto che sorge tra l•a realtà dura della vita e l’idealità bella dell’amore, mediante il concetto di sacrificio e la formazione della propria volontà.

I. REALE ED IDEALE. – Il vero amore della legge morale cristiana non ha nulla in comune con le sdolcinatezze sentimentali o con le utopie irrealizzabili, ma proclama che la vita è lotta, è milizia, è continua battaglia. Come ama la patria solo il soldato che combatte per essa, così ama Dio ed il prossimo chi sa rinnegare senstesso e dimostrare a fatti il suo amore. Una simile battaglia non contrasta con l’Amore infinito di Dio per noi, ma è la prova del nostro amore per Lui.

II. IL SACRIFICIO. – Per amare Dio bisogna rinnegare se stessi prendendo la croce e seguire Cristb: ecco la condizione, indispensabile su questa terra, dell’amore. Per non cadere in errori, è necessario ricordare:

a) 11 vero concetto di sacrificio. — Il sacrificio non è la morte per la morte, od il dolore per il dolore; bensì è la morte per la vita. Bisogna morire per vivere; bisogna rinunciare alla vita parziale ed egoistica, alle passioni, alle cattive tendenze, per raggiungere una vita più alta. E’ con tale criterio che occorre distinguere le vere dalle false mortificazioni.

b) Il concetto di sacrificio cristiano. — Esso, oltre l’idea espressa, implica due altre esigenze:

l° il sacrificio cristiano è solo quello compiuto per amore a Dio ed ai fratelli;

2° in unione a Cristo.

II problema del dolore, a questo modo, si risolve nel problema dell’amore e più non costituisce una difficoltà.

III. LA FORMAZIONE DELLA VOLONTÀ AL SACRIFICIO. – Il comando di rinnegare noi stessi per l’amore, se è bello in sè, è duro da praticarsi. È indispensabile, quindi, formarci, allenarci ed esercitarci nel sacrificio. Ciò si ottiene:

a) con la ginnastica spirituale della nostra volontà, ossia con le mortificazioni, che immensamente giovano a correggere ed a fortificare il carattere. Anche le astinenze ed i digiuni imposti dalla Chiesa sono ispirati da simile motivo;

b) con la rinnovazione degli atti buoni, che generano in noi la virtù acquisita;

c) coi mezzi soprannaturali, come la grazia, le virtù infuse, la preghiera, i Sacramenti.

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (III)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (III)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur: Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

INTRODUZIONE

Perché siamo qui sulla terra?

Come un alunno o uno studente va a scuola per uno scopo preciso, cioè una carriera da intraprendere, così l’uomo è sulla terra, alla scuola della vita, per raggiungere un obiettivo sublime, la felicità eterna dopo la morte, ed in qualche modo già durante questa vita.

NOI SIAMO SU QUESTA TERRA PER ACQUISTARE LA FELICITÀ ETERNA PER LA GLORIFICAZIONE DI DIO.

La glorificazione di Dio è l’obiettivo di tutta la creazione. Tutte le creature sono state fatte da Dio affinché attraverso di esse (innanzitutto attraverso le qualità che hanno ricevuto da Dio) la perfezione o la gloria di Dio fosse rivelata alle creature ragionevoli, cioè agli Angeli e agli uomini, e affinché lodino e onorino Dio. Spinto dalla sua infinita bontà, il buon Dio creò il cielo e la terra, gli Angeli e gli uomini, le creature viventi e quelle non viventi, affinché ciascuno lo lodasse e lo onorasse secondo la sua dignità e le sue facoltà”. (P. Cochem, cappuccino autore di numerose opere religiose popolari). Anche gli esseri privi di ragione e di sensibilità, gli animali feroci e domestici, gli alberi e le piante, i metalli e le pietre, lodano Dio, ciascuno secondo le proprie capacità, perché tutti contribuiscono alla gloria ed all’onore del loro Creatore (P. Cochem.). Il Signore ha fatto ogni cosa per causa sua (Prov. XVI, 4) e ha detto, tramite il profeta Isaia: “Sono io che ho creato per la mia gloria tutti coloro che invocano il mio nome” (Is. XLIII, 7). Per questo l’uomo è stato creato: per rivelare la gloria di Dio. Ogni uomo rivela questa gloria, che lo voglia o no. Il magnifico organismo del suo corpo, le sublimi facoltà del suo spirito, le ricompense del giusto, le punizioni del peccatore, in una parola, tutto in lui proclama la gloria di Dio: la sua onnipotenza, la sua sapienza, la sua bontà, la sua giustizia, e così via. I dannati stessi procurano gloria a Dio (Prov. XVI, 4), perché mostrano la grandezza e la santità della giustizia divina. – Ma l’uomo è un essere ragionevole e libero, glorificherà Dio soprattutto attraverso la conoscenza di Dio e l’uso della sua libertà, ed egli lo fa riconoscendolo come Dio, amandolo ed onorandolo Ne parleremo nel prossimo paragrafo. – Poiché, dunque, l’uomo non è creato solo per la vita terrena, ma soprattutto per la vita dopo la morte, ne consegue che egli è solo un viaggiatore, uno straniero quaggiù (Sal. CXVIII, 19); assomiglia all’atleta che corre nella gara. (I Cor. IX, 24). La vita è un viaggio (Gen. XLVll, 19), un pellegrinaggio verso un santuario comune (S. Basilio). Noi non abbiamo una dimora permanente qui, ma cerchiamo quella che verrà. (Heb. XIII, 14). La nostra patria è in cielo, la terra è un esilio (Segneri, gesuita italiano, predicatore celebre).

QUINDI NON ESISTIAMO SOLO PER ACCUMULARE TESORI TERRENI, PER RAGGIUNGERE ONORI, PER MANGIARE E BERE, PER GODERE I PIACERI DEI SENSI.

Chiunque persegua solo questi obiettivi si comporta in modo stolto come il servo che, invece di servire il suo padrone, dedica il suo tempo ad occupazioni secondarie e trascura quella principale, se ne sta ozioso nella pubblica piazza e non lavora nella vigna del Signore (Mt. XX, 4). Si tratta di un comportamento sciocco come quello di un bambino che, incaricato di un compito dal padre, trova qualcosa sul suo cammino, si ferma e, dimenticando completamente gli ordini ricevuti non si occupa che solamente di ciò che dovrebbe lasciare. (L. de Gren.). Egli è come un viaggiatore che, sedotto dal fascino della strada, si ferma troppo a lungo, viene sorpreso dall’inverno e non raggiunge la meta. (S. Aug.) – Noi non siamo stati creati per questa terra; Dio ha costruito i nostri corpi in modo tale che i nostri occhi guardino verso il cielo. (S. Grég. de Nysse.) Il campanile, persino gli alberi e le piante, ci ricordano la nostra patria: tutti tendono verso le regioni dell’alto.

COSÌ CRISTO DICE: “UNA SOLA COSA È NECESSARIA”. (S. Luca X, 42); “CERCATE INNANZITUTTO IL REGNO DI DIO E LA SUA GIUSTIZIA, IL RESTO VI SARÀ DATO IN AGGIUNTA”. (S. Matth. VI, 33).

Molti uomini, ahimè, dimenticano il loro destino; pensano solo alle cose presenti ed effimere, al denaro, alle ricchezze, alle dignità, ecc. L’epitaffio sulla loro lapide potrebbe recitare: “Qui giace uno sciocco, che non ha mai saputo perché sia vissuto”. (Alban Stolz. Prof. di pastorale di Friburgo in Brisgau, uno degli scrittori piu umoristidi della Germania, 1808-1883). Molti uomini si comportano come i re dell’antichità, che regnavano per un solo anno, per poi essere relegati su un’isola deserta e che, dopo aver trascorso l’anno in una sfrenata dissolutezza, perivano miseramente sulla loro isola. Pochi assomigliano al re saggio che approfittò del suo regno di un anno per esplorare l’isola e si fece precedere da servi e tesori (Mohler VI, 213, autore di un grande catechismo in esempi). Cristo ricordava sempre agli uomini il loro fine ultimo, s. Filippo Neri faceva lo stesso: ad uno studente al quale rivolgeva sempre la domanda: “E poi? (Mehler Vï, 440.) – Chi non si preoccupa della meta non è un viaggiatore, ma un vagabondo. L’uno cade nelle mani della polizia, l’altro in quelle del diavolo; cade in tentazione. (S. Matth. XXVI, 41). È come un marinaio che non sa dove sta andando. Egli somiglia ad un marinaio che non sa dove andare e che porta la sua nave al naufragio. (S. Alph.) Gesù Cristo lo paragona ad un uomo che dorme (S. Matth. XXV, 5); colui che è attento alla cura della propria salvezza è comparato al contrario ad un uomo che veglia. (S. Matth. XXIV, 42).

2 . Come dobbiamo comportarci con la felicità eterna?

La felicità eterna consiste nell’unione con Dio. Questa unione è prodotta da un atto dell’intelletto (attraverso la conoscenza, o meglio la vista, di Dio) e da un atto della volontà (mediante l’amore di Dio). Noi vogliamo raggiungere questa meta: la felicità, ma dobbiamo essere già vicini ad essa qui sulla terra: dobbiamo cercare di conoscere Dio e di amarlo. E l’amore consiste, secondo Gesù Cristo (S. Giovanni XIV, 21), nell’osservanza dei comandamenti. Ne consegue che:

ACQUISTEREMO LA FELICITÀ ETERNA CON I SEGUENTI MEZZI:

1. DOBBIAMO CERCARE DI CONOSCERE DIO ATTRAVERSO LA FEDE NELLE VERITÀ DA LUI RIVELATE.

Gesù Cristo ha detto: “Questa è la vita eterna: che conoscano Te, o Padre, l’unico vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo” (S. Giovanni XVII, 3). Egli afferma così che la conoscenza della divinità conduce l’uomo alla felicità.

2. LA VOLONTÀ DI DIO DEVE ESSERE COMPIUTA OSSERVANDO I SUOI COMANDAMENTI.

Gesù Cristo dice nel suo colloquio con il giovane ricco nel Vangelo: “Se vuoi entrare nella vita eterna, osserva i comandamenti” (S. Matth. XIX, 17).

RIDOTTO ALLE PROPRIE FORZE , L’UOMO NON PUÒ NÉ CREDERE NÉ OSSERVARE I COMANDAMENTI, PER QUESTO EGLI HA BISOGNO DELLA GRAZIA DI DIO.

L’uomo, considerato in se stesso, ha bisogno della grazia per raggiungere il suo scopo. Adamo, anche nella sua innocenza, ne aveva bisogno. Se si vuole intraprendere un viaggio si ha bisogno di risorse diverse dalla capacità di camminare. Così noi, per marciare verso il cielo abbiamo bisogno di un soccorso divino. Il contadino che ara il suo campo non raccoglie nulla senza il sole e la pioggia; così anche l’uomo che aspira al cielo. – Ma dobbiamo anche ricordare che l’uomo è particolarmente indebolito dal peccato originale. La grazia diventa ancora più necessaria. Tutto ciò che è debole ha bisogno di aiuto e sostegno; il cieco ha bisogno di una guida, il malato di un consolatore. L’uomo indebolito dal peccato ha bisogno di un aiuto esterno, della grazia divina, se vuole raggiungere la sua meta. (S. Bonav.) Siamo come un uomo che si è accasciato sulla strada e non riesce a proseguire;se vede passare qualcuno in auto, lo prega di dargli un passaggio. Il sentimento della nostra debolezza deve quindi portarci a cercare l’aiuto che è in Dio. (Alb. Stolz.) Così Cristo ci dice: “Senza di me non potete fare nulla”. (S. Giovanni. XV. 5). La grazia di Dio è necessaria alla nostra anima come il sole alla terra per illuminarla e riscaldarla. (S. Giovanni Crisostomo).

LA GRAZIA DI DIO È ATTINTA ALLE SORGENTI DELLA GRAZIA STABILITE DA CRISTO. DUNQUE:

3. NOI DOBBIAMO ATTINGERE ALLE FONTI DELLA GRAZIA, CHE SONO: IL SSNTO SACRIFICIO DELLA MESSA, I SACRAMENTI E LA PREGHIERA.

Come un recipiente è un mezzo per bere, così ci sono modi e mezzi stabiliti da Dio per concederci la grazia. – La fede è come la strada che conduce alla porta del cielo, i comandamenti sono come i carrtelli indicatori e le grazie come delle provvigioni di denaro. La strada che conduce al cielo è stretta, ripida, piena di spine, e pochi la percorrono. Al contrario, “la porta e la via della perdizione sono larghe e quelli che vi passano sono molti ” (S. Matth. VII, 13.).

POSSIAMO ANCHE DIRE: CHI VUOL SALVARSI, DEVE AVERE RELIGIONE.

Infatti la religione è la conoscenza della divinità, unita al servizio di Dio e al comportamento conforme alla volontà di Dio. – La religione non è, come alcuni credono oggi, una questione di sentimenti. Perché la religione si manifesta con fermi principi rivelati da Dio; è soprattutto una questione di volontà e di attività. Fornisce la misura di ciò che sia giusto per tutte le nostre azioni. È un’ancora in tutte le tempeste della vita. La religione non è una questione puramente scientifica, una mera conoscenza delle cose religiose, altrimenti anche i demoni sarebbero religiosi: essi sanno infatti cosa vuole Dio, ma agiscono nella direzione opposta. La religione comprende anche il servizio a Dio. Non si chiama pianista chi ha una conoscenza più o meno approfondita del pianoforte, ma non lo pratica; allo stesso modo, non si dice che un uomo abbia religione se non dimostra i suoi sentimenti religiosi con atti esteriori.

POSSIAMO ANCHE DIRE: CHI VUOLE SALVARSI DEVE CERCARE DI DIVENIRE SIMILE A DIO.

L’uomo diventa simile a Dio se tutti i suoi pensieri e le sue azioni assomigliano ai pensieri ed alle azioni divine. I comandamenti di Dio sono uno specchio in cui possiamo vedere fino a che punto siamo o non siamo simili a Dio (San Leone I).

3. Non c’è felicità perfetta quaggiù.

1. I BENI TERRENI DI QUESTO MONDO SOLO, LE RICCHEZZE. GLI ONORI, I PIACERI, NON POSSONO RENDERCI FELICI, PERCHÉ NON POSSONO APPAGARE LA NOSTRA SNIMA, ANZI SPESSO AVVELENANO LA NOSTRA VITA ED INFINE CI ABBANDONANO ALLA MORTE.

I beni terreni ci ingannano: sono bolle di sapone, iridescenti di colori brillanti, ma sono solo gocce. d’acqua. Assomigliano anche a frutti artificiali di cera, spesso più belli alla vista di quelli veri, ma deludenti per chi vuole assaggiarli. I piaceri del mondo sono altrettanto ingannevoli (Weninger, predicatore attuale tedescon, S.J.). Sono come una goccia d’acqua gettata sul fuoco. Lungi dallo spegnerlo, lo si fa divampare ancora di più; allo stesso modo, i piaceri eccitano le passioni sensuali. L’uomo è nato per Dio e per la felicità del cielo, come un pesce per l’acqua: toglietelo dall’acqua e si dibatte, si piega e si contorce, nonostante l’esca che gli si mette davanti; vuole rimanere nel suo elemento, solo lì c’è vita e soddisfazione per lui. È lo stesso per l’uomo quando si allontana da Dio (Deharbe, autore di un grande catechismo molto diffuso in Germania). Così Sant’Agostino grida: “Il nostro cuore è inquieto, Signore, finché non riposa in te! “I beni e i piaceri di questo mondo non possono soddisfare la nostra anima. Questo ha bisogno di nutrimento, come il corpo, ma non può essere saziata da nulla di corporeo, così come il corpo non può essere saziato da nulla di spirituale. (Ketteler. Vescovo di Magonza, + 1887) Per questa ragione Cristo disse alla Samaritana: “Chiunque beve quest’acqua avrà di nuovo sete” (S. Giovanni IV, 13.). Si soddisfa l’anima con le ricchezze tanto poco quanto si spegne il fuoco con legna, olio o pece, o dissetarsi con il sale. (S. Bonav.) Nella Roma pagana, all’inizio dell’Impero, quando la ricchezza e il lusso ebbero un eccesso sfrenato, i suicidi aumentarono in proporzione spaventosa. Cosa ci dice questo? “È che l’uomo può trovare la pace del cuore solo nella conoscenza della verità e della santità della vita. (S. Aug.) – I beni di questo mondo a volte avvelenano persino la vita. Quali preoccupazioni non ha un uomo ricco? Le ricchezze sono come spine; chi si aggrappa ad esse si procura un dolore simile a quello di un uomo che stringe le spine tra le mani. (S. J. Chrys.) Come ogni goccia d’acqua dolce si mescola con le onde amare e salate dell’Oceano, così la dolcezza dei piaceri mondani si trasforma in amarezza. (S. Bonav.) Ma è soprattutto quando questi piaceri sono peccaminosi che gettano in disgrazia, come il frutto proibito del Paradiso. L’uomo è allora come un pesce che si lascia prendere all’amo; al piacere temporaneo segue un dolore amaro. (S. Aug.) I piaceri colpevoli del mondo sono le bacche velenose che sembrano cibo delizioso, ma il cui uso produce grandi sofferenze e spesso la morte. “Il mondo è nemico dei suoi amici” (P. Segneri, S.J.). I beni temporali ci abbandonano alla morte. Non porteremo nulla con noi oltre la tomba. (I, Tim. VI, 7). Il mondo passa con le sue attrattive. (I., Joan., II, 17.) Da qui le parole di Salomone: “Vanità delle vanità, e tutto è vanità” (Eccl. II). Quando il Papa viene incoronato, si accende uno stoppino di quercia e si canta: “Santo Padre, così passa la gloria del mondo!” – In breve, l’uomo ha solo il destino del ragno. Passa giorni a tirare i fili della sua tela dalla sua sostanza per catturare una mosca o un insetto. Poi arriva una domestica e, con un colpo di scopa, distrugge la tela ed uccide spesso il ragno. Allo stesso modo, un uomo si affanna per anni per ottenere un bene, una posizione, il cuore di una persona, e poi arriva un ostacolo, una malattia, un’infermità e infine la morte; tutti i piani sono rovinati e tutti le pene sono state inutili. (Hunolt, predicatore tedesco S.J. +1740.) La lucciola brilla di notte, ma di giorno è nera e si nasconde; i piaceri mondani sono come essa, brillano durante la notte di questa vita passeggera ed il loro splendore scompare nel grande giorno del giudizio. (S. Bonav.)

I BENI TEMPORALI ESISTONO SOLO PER AIUTARCI AD ACQUISTARE LA FELICITÀ ETERNA.

L’intera creazione non è che una scala, e ogni creatura è un piolo sulla via che porta a Dio (Weninger). Nello studio del pittore, tutti gli oggetti, i pennelli, i colori, gli oli, non servono, in ultima istanza, se non a completare il quadro; allo stesso modo, tutti gli esseri della creazione servono solo a completare il quadro; allo stesso modo, tutti gli esseri della creazione servono in definitiva solo a sostenerci nella conquista del Cielo. (Deharbe.) Chi dunque ha un’avversione esagerata per le cose della terra e si rifiuta di farne uso, non porterà a compimento il suo destino; ma lo stesso vale per chi abbia un attaccamento eccessivo ad esse. I beni terreni sono come un fiammifero, che è un mezzo necessario per fare luce, ma che, alla fine, brucia le dita di chi li tiene troppo a lungo. I beni della terra sono un mezzo per ottenere la luce eterna, ma coloro che li trattengono, li brucia la dannazione eterna. (Weninger.) Possiamo anche paragonare i beni temporali agli strumenti, ai rimedi: se vengono usati male, danneggiano invece di servire. (Deharbe.). Si possono ancora comparare i beni di questo mondo come mezzi per il nostro fine ultimo; ma non appena essi diventano ostacoli, dobbiamo distaccarcene. (S. Ign. L.) Che questi beni siano i nostri schiavi; noi non dobbiamo essere i loro. (S. Alph.)

2. SOLO IL VANGELO DI GESÙ CRISTO È IN GRADO DI RENDERCI PARZIALMENTE FELICI IN QUESTO MONDO, PERCHÉ CHI SEGUE QUESTA DOTTRINA TROVERÀ L’INTERIORE SODDISFAZIONE.

Gesù Cristo disse alla Samaritana: Chiunque beve dell’acqua che io gli do non avrà mai sete, (S. Giovanni IV, 13); poi quando promise il Santissimo Sacramento nella sinagoga di Cafarnao, ripete: “Chi viene a me non avrà mai fame”.

(Gli insegnamenti di Gesù Cristo possono quindi placare i desideri della nostra anima, e di conseguenza le sofferenze della nostra vita, non potranno più rendere l’uomo veramente infelice.

3. CHI SEGUE GLI INSEGNAMENTI DI GESÙ CRISTO SARÀ PERSEGUITATO; MA QUESTE PERSECUZIONI NON POTRSNNO NUOCERGLI. TUTTI COLORO, DICE SAN PAOLO, CHEVVOGLIONO VIVERE PIENAMENTE IN GESÙ CRISTO, SUBIRANNO PERSECUZIONI. (II Tim. III, 12).

Tutta la vita del Cristiano è una croce ed un martirio, se vuole vivere secondo il Vangelo. (S. Aug.) Lo dico con piena convinzione: meno una persona è devota, meno persecuzioni subirà. (S. Grég. I.) “Il servo, dice Gesù Cristo, non è superiore al padrone”. (S. Matth, X, 24), cioè il servo non ha diritto ad una sorte migliore di Cristo, suo padrone. Gesù disse: “Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi” (Ib. 16). I ladri detestano la luce, e i peccatori aborriscono i giusti. (S. J. Chrys.) I mondani (coloro che cercano la felicità quaggiù) ci guarderanno come degli originali, persino come stolti. (1 Cor. IV, 3), ci giudicheranno sfavorevolmente (ibid. 3), ci odieranno (S. Giovanni XVII, 14; S. Matteo X, 22), ci perseguiteranno. (S. Giovanni XV, 20). Ma guai a chi è lodato da loro (ibid. 19), perché non si può essere amati dal mondo se non odiando Cristo (S. Giovanni XV, 20). Le massime dei mondani sono in flagrante contraddizione con quelle di Cristo Il mondo considera stolti coloro dei quali Cristo predica la beatitudine (S. Matth. V, 3-10.)

TUTTAVIA CRISTO AGGIUNGE: “CHI ASCOLTA E PRATICA LE MIE PAROLE, E COME UN UOMO PRUDENTE CHE COSTRUISCE LA CASA SULA ROCCIA.”. (S. Matt. VII, 24).

Costruire su Dio significa costruire su un fondamento incrollabile. Le persecuzioni a cui è stato soggetto Giuseppe, non solo non lo danneggiarono, ma gli furono addirittura utili. Quali persecuzioni non subì il pio Davide, prima dal re Saul e poi dal suo stesso figlio Assalonne; e da tutte queste prove uscì vittorioso. Così Davide si rallegrava: “I giusti sono sottoposti a molte afflizioni, ma il Signore li libera da tutte queste pene” (Sal. XXXIII, 20). Don Bosco a Torino fu sottoposto a innumerevoli prove nel prendersi cura dei bambini abbandonati. Nonostante ciò, fino alla sua morte (1888) fondò, con la grazia di Dio, quasi duecento case di accoglienza dove 130.000 bambini ricevettero un’educazione. Dio non abbandona il giusto (Sal, XXXVI, 25.) Il malvagio trama la nostra rovina e Dio lo fa contribuire al nostro vantaggio. Ai dolori del Calvario seguono le gioie della Risurrezione. “Un buon Cristiano non ha nulla da temere né dagli uomini né dal diavolo. Se Dio è con noi chi può essere contro di noi? (S. J. Chrys.)

4. LA PERFETTA FELICITÀ NON È POSSIBILE QUAGGIÙ; PERCHÉ NESSUNO PUÒ ASSOLUTAMENTE SFUGGIRE ALLA SOFFERENZA.

Come abbiamo visto, i mondani sono soggetti a disgrazie e di giusti sono perseguitati. Inoltre, nessuno sfugge alla malattia, al dolore ed alla morte. La terra è una valle di lacrime (Salve Regina), un enorme ospedale dove ci sono tanti malati quanti sono gli uomini vivi. La terra è un campo di battaglia contro i nemici della nostra salvezza, e la nostra vita una lotta. (Giobbe VII, 1) La terra è un luogo di esilio, di esilio lontano dalla patria (Segneri), un oceano sempre agitato da violente tempeste. (S. Vinc. F.) – Felicità e disgrazia, gioia e dolore si alternano nella vita, come il sole e la pioggia in natura. Ogni piacere è come il precursore imminente dell’infelicità. Un giorno Filippo di Macedonia venne a conoscenza di tre eventi felici in una volta sola: “Sono stato troppo felice”, gridò, “questa prosperità non durerà a lungo”. Questa prosperità non continuerà a lungo. La vita nera è una traversata, durante la quale le onde a volte ci innalzano, a volte ci abbassano (S. Amb.), un viaggio che ci costringe a camminare a volte in pianura e a volte in salite dolorose. (San Gregorio I). – Fate il massimo sforzo per migliorare la sorte dell’umanità, perché essa non sarà mai libera da grandi flagelli, perché la sofferenza ed il dolore sono il destino dell’umanità. Il socialismo è, quindi, incapace di raggiungere l’obiettivo che si propone, organizzare una vita libera dalle privazioni e piena di piacere e godimenti. (Leone X lil, 1891).