TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (39b)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (39b.)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(SAN PIO X – 1907 – 1914)

Decreto del Sant’Uffizio “Lamentabili”, 3 luglio 1907.

Errori dei modernisti

L’emancipazione dell’esegesi dal magistero della Chiesa

3401 1. La legge ecclesiastica che prescrive di sottoporre a censura preventiva i libri che trattano delle Sacre Scritture non si estende agli studiosi che fanno una critica scientifica o un’esegesi dei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento.

3402 (2) L’interpretazione dei libri sacri da parte della Chiesa non è certo da disprezzare, ma è soggetta al giudizio e alla correzione più esatta degli esegeti.

3403 (3) Le sentenze e le censure ecclesiastiche contro l’esegesi libera e scientifica dimostrano che la fede proposta dalla Chiesa è in contraddizione con la storia e che i dogmi cattolici non sono realmente conciliabili con le origini più vere della religione cristiana.

3404 4 Il magistero della Chiesa non può decidere il significato autentico della Sacra Scrittura, nemmeno con definizioni dogmatiche.

3405 5 Poiché nel deposito della fede sono contenute solo verità rivelate, non spetta in alcun modo alla Chiesa giudicare le affermazioni delle discipline umane.

3406 (6) Nel definire le verità, la Chiesa insegnata e la Chiesa docente collaborano in modo tale che alla Chiesa docente non resta che sancire le concezioni comuni della Chiesa insegnata.

3407 (7) Quando la Chiesa proibisce gli errori, non può pretendere dai fedeli un assenso che li induca ad adottare la sentenza da essa emessa.

3408 (8) Coloro che ritengono prive di significato le condanne pronunciate dalla Sacra Congregazione dell’Indice o da altre Sacre Congregazioni Romane sono da considerarsi esenti da ogni colpa.

L’ispirazione o inerranza della Sacra Scrittura

3409 9. Coloro che credono che Dio sia veramente l’autore della Sacra Scrittura danno prova di eccessiva semplicità e ignoranza.

3410 10. L’ispirazione dei libri dell’Antico Testamento consiste nel fatto che gli scrittori di Israele hanno trasmesso le dottrine da un punto di vista che era poco o per nulla conosciuto dai pagani.

3411 11. L’ispirazione divina non si estende a tutta la Sacra Scrittura in modo tale da proteggere dall’errore ogni singola parte.

3412 12. Se l’esegeta vuole dedicarsi utilmente agli studi biblici, deve innanzitutto mettere da parte ogni opinione preconcetta sull’origine soprannaturale della Scrittura, e non interpretarla in modo diverso da altri documenti puramente umani.

3413 13. Le parabole evangeliche sono state organizzate ad arte dagli stessi evangelisti e dai cristiani di seconda e terza generazione, che hanno così potuto spiegare gli scarsi frutti della predicazione di Cristo agli ebrei.

3414 14. In molti casi, gli evangelisti non hanno riferito tanto ciò che è vero, quanto ciò che, pur essendo vero, non lo è.

false, che consideravano più redditizie per i loro lettori.

3415 15. I Vangeli furono arricchiti da continue aggiunte e correzioni fino alla costituzione definitiva del canone; da allora in poi rimase solo una traccia lieve e incerta della dottrina di Cristo.

3416 16. Le narrazioni di Giovanni non sono propriamente storia, ma contemplazione mistica del Vangelo; i discorsi contenuti in questo Vangelo sono meditazioni teologiche sul mistero della salvezza, prive di verità storica.

3417 17. Il Quarto Vangelo esagera i miracoli, non solo perché appaiano più straordinari, ma anche perché siano più capaci di significare l’opera e la gloria del Verbo incarnato.

3418 18. Giovanni afferma di essere stato il testimone di Cristo; in realtà, però, è solo un mirabile testimone della vita cristiana o della vita di Cristo nella Chiesa, alla fine del I secolo.

3419 19. Gli esegeti eterodossi hanno espresso il vero significato delle Scritture più fedelmente degli esegeti cattolici.

La concezione della Rivelazione e del dogma

3420 20. La Rivelazione non può essere altro che la presa di coscienza da parte dell’uomo della sua relazione con Dio.

3421 21. La Rivelazione, oggetto della fede cattolica, non è stata completata dagli apostoli.

3422 22. I dogmi che la Chiesa presenta come rivelati non sono verità cadute dal cielo, ma un’interpretazione di fatti religiosi a cui la mente umana è giunta con un laborioso sforzo.

3423 23. Ci può essere, e di fatto c’è stata, un’opposizione tra i fatti narrati nella Sacra Scrittura e i dogmi della Chiesa che si basano su di essi; così che i critici possono respingere come falsi fatti che la Chiesa ritiene molto certi.

3424 24. Non si può rimproverare all’esegeta di porre delle premesse da cui derivi che i dogmi sono storicamente falsi o dubbi, purché non neghi direttamente i dogmi stessi.

3425 25. L’assenso di fede si basa in ultima analisi su un insieme di probabilità.

3426 26. I dogmi di fede devono essere conservati solo in base al loro significato pratico, cioè come norma precettiva dell’azione, ma non come norma di fede.

3427 27. La divinità di Gesù Cristo non è dimostrata dai Vangeli, ma è un dogma che la coscienza cristiana ha dedotto dalla nozione di Messia.

3428 28. Gesù, quando esercitò il suo ministero, non parlò con l’intenzione di insegnare che era il Messia, e i suoi miracoli non avevano lo scopo di dimostrare che lo era.

3429 29. Il Cristo mostrato nella storia può essere considerato molto inferiore al Cristo oggetto della fede.

3430 30. In tutti i testi evangelici il termine “Figlio di Dio” è equivalente solo al termine “Messia”, ma non significa affatto che Cristo sia veramente e per natura il Figlio di Dio.

3431 31. La dottrina su Cristo data da Paolo, Giovanni e dai Concili di Nicea, Efeso e Calcedonia non è quella insegnata da Gesù, ma quella che la coscienza cristiana ha di Gesù.

3432 32. Il significato naturale dei testi evangelici non è conciliabile con ciò che i nostri teologi insegnano sulla coscienza e sulla conoscenza infallibile di Gesù Cristo.

3433 33. È evidente a chiunque non sia guidato da opinioni preconcette, sia che Gesù professò un errore sulla venuta del Messia, sia che la maggior parte della sua dottrina, contenuta nei Vangeli sinottici, è priva di autenticità.

3434 34. I critici non possono attribuire a Cristo una conoscenza assolutamente illimitata, a meno che non facciano una distinzione tra le due cose.

l’ipotesi, difficile da concepire storicamente e contraria al senso morale, che Cristo come uomo possedesse la conoscenza di Dio e che, tuttavia, non volesse comunicare la conoscenza di tante cose ai suoi discepoli e ai suoi posteri.

3435 35. Cristo non fu sempre consapevole della sua dignità messianica.

3436 36. La risurrezione del Salvatore non è propriamente un fatto di ordine storico, ma un fatto di ordine puramente soprannaturale, non dimostrato né dimostrabile, che la coscienza cristiana ha gradualmente derivato da altri dati.

3437 37. All’inizio, la fede nella risurrezione di Cristo non aveva tanto a che fare con il fatto della risurrezione stessa, quanto con la vita immortale di Cristo presso Dio.

3438 38. La dottrina della morte espiatoria di Cristo non è evangelica ma solo paolina.

I sacramenti.

3439 39. Le concezioni sull’origine dei sacramenti di cui erano impregnati i padri del Concilio di Trento, e che indubbiamente hanno influito sui loro canoni dogmatici, sono molto lontane da quelle che oggi sono giustamente sostenute da coloro che si dedicano alla ricerca storica sul cristianesimo.

3440 40. I sacramenti hanno avuto origine dal fatto che gli apostoli e i loro successori hanno interpretato un’idea e un’intenzione di Cristo sotto lo stimolo e l’impulso delle circostanze e degli eventi.

3441 41. I sacramenti hanno il solo scopo di ricordare alla mente degli uomini la presenza sempre benefica del Creatore.

3442 42. La comunità cristiana ha introdotto la necessità del Battesimo, adottandolo come rito necessario e associandovi gli obblighi della professione cristiana.

3443 43. La pratica di conferire il battesimo ai bambini è uno sviluppo disciplinare ed è una delle ragioni per cui il sacramento è stato diviso in due: battesimo e penitenza.

3444 44. Non c’è alcuna prova che il rito del sacramento della confermazione fosse usato dagli apostoli: la distinzione formale tra i due sacramenti, battesimo e confermazione, non appartiene affatto alla storia del cristianesimo primitivo.

3445 45. Non tutto ciò che Paolo racconta dell’istituzione dell’Eucaristia in 1 Cor 11, 23-25 deve essere inteso storicamente.

3446 46. Il concetto di peccatore riconciliato dall’autorità della Chiesa non esisteva nella Chiesa primitiva, ma la Chiesa si è abituata a questo concetto solo molto lentamente. Inoltre, anche dopo che la penitenza fu riconosciuta come istituzione della Chiesa, non fu chiamata sacramento, perché avrebbe dovuto essere considerata un sacramento infame.

3447 47. Le parole del Signore: “Ricevete lo Spirito Santo e se rimetterete i peccati, vi saranno rimessi; se invece li riterrete, vi saranno rimessi” (Gv 20, 22-23) non si riferiscono in alcun modo al sacramento della penitenza, nonostante quanto si siano compiaciuti di affermare i Padri di Trento.

3448 48. Giacomo, nell’epistola Giacomo 5,14-15 , non intende promulgare un sacramento di Cristo, ma raccomandare una pia consuetudine, e se per caso vede in questa consuetudine un mezzo di grazia, non lo intende con il rigore dei teologi che hanno fissato la nozione e il numero dei sacramenti.

3449 49. Quando la Cena del Signore cristiana assunse gradualmente il carattere di azione liturgica, coloro che erano abituati a presiederla acquisirono un carattere sacerdotale.

3450 50. Gli anziani, che avevano il compito di vegliare sulle assemblee dei cristiani, furono istituiti sacerdoti e vescovi dagli apostoli per garantire l’ordine reso necessario dalla crescita delle comunità, ma non per perpetuare in senso stretto la missione e il potere degli apostoli.

3451 51. Il matrimonio poteva diventare un sacramento della nuova legge solo tardivamente; perché il matrimonio fosse considerato un sacramento, doveva essere preceduto dal pieno sviluppo della dottrina della grazia e dei sacramenti.

La Costituzione della Chiesa

3452 52. Cristo era ben lontano dal pensare di costituire la Chiesa come una società destinata a durare per una lunga serie di secoli; al contrario, nella mente di Cristo il Regno dei cieli doveva arrivare presto, contemporaneamente alla fine del mondo.

3453 53. La costituzione organica della Chiesa non è immutabile, ma la società cristiana è soggetta a una perpetua evoluzione, proprio come la società umana.

3454 54. I dogmi, i sacramenti e la gerarchia, sia nella loro concezione che nella loro realtà, non sono che interpretazioni e sviluppi del pensiero cristiano che hanno sviluppato e perfezionato un piccolo germe nascosto nel Vangelo.

3455 55. Simon Pietro non sospettò mai che il primato nella Chiesa fosse stato affidato a lui.

3456 56. La Chiesa romana è diventata il capo di tutte le Chiese non per disposizione della Divina Provvidenza, ma per circostanze puramente politiche.

3457 57. La Chiesa è ostile al progresso delle scienze naturali e teologiche.

Il carattere immutabile delle verità religiose.

3458 58. La verità non è più immutabile dell’uomo stesso, poiché si sviluppa con lui, in lui e attraverso di lui.

3459 59. Cristo non ha insegnato un corpo definito di dottrina applicabile a tutti i tempi e a tutti gli uomini, ma ha dato inizio a un movimento religioso adatto o da adattare a diversi tempi e luoghi.

3460 60. La dottrina cristiana ai suoi inizi era ebraica, ma per successive evoluzioni divenne prima paolina, poi giovannea e infine ellenica e universale.

3461 61. Si può dire senza paradosso che nessun capitolo della Scrittura, dal primo capitolo della Genesi all’ultimo dell’Apocalisse, contiene una dottrina veramente identica a quella presentata dalla Chiesa sullo stesso argomento, e che per questo nessun capitolo della Scrittura ha lo stesso significato per il critico e per il teologo.

cristiani lo stesso significato che hanno per i cristiani di oggi.

3463 63. La Chiesa si dimostra incapace di difendere efficacemente la morale evangelica, perché è ostinatamente attaccata a dottrine immutabili che non possono essere conciliate con il progresso contemporaneo.

3464 64. Il progresso delle scienze richiede una riforma dei concetti della dottrina cristiana su Dio, la Creazione, la Rivelazione, la persona del Verbo incarnato e la Redenzione.

3465 65. Il cattolicesimo di oggi non può fare i conti con la vera scienza se non si trasforma in un cristianesimo non dogmatico, cioè in un protestantesimo ampio e liberale.

3466 66. Censura del Sommo Pontefice: “Sua Santità ha approvato e confermato il decreto degli eminenti padri, e ha ordinato che ognuna delle proposizioni sopra riportate sia ritenuta da tutti riprovevole e proscritta”.

Decreto della Sacra Congregazione del Concilio “Ne temere“, 2 agosto

1907.

Promessa di matrimonio e matrimonio

3468. Fidanzamento. I. È considerato valido e ha effetti canonici solo il fidanzamento contratto con atto scritto e firmato dalle parti e dal parroco o dall’Ordinario del luogo, oppure da almeno due testimoni. …

3469. Matrimonio. III. Sono validi solo i matrimoni contratti davanti al parroco o all’Ordinario del luogo, o a un sacerdote da essi delegato, e davanti ad almeno due testimoni. …

3470 VII. Quando c’è pericolo di morte e non è possibile che il parroco o l’Ordinario del luogo, o un sacerdote delegato da uno di loro, pacifichi la coscienza o, se necessario, legittimi i figli, il matrimonio può essere validamente e lecitamente contratto davanti a qualsiasi sacerdote del luogo o a un sacerdote da essi delegato

3471 VIII. Se in una regione non è possibile avere il parroco o l’Ordinario del luogo o un sacerdote da loro delegato davanti al quale celebrare il matrimonio, e questo stato di cose dura già da un mese, il matrimonio può essere validamente e lecitamente contratto se il consenso è formalmente dato dagli sposi davanti a due testimoni.

3472. XI – Par. 1. Le leggi precedenti vincolano tutti i battezzati nella Chiesa cattolica e i convertiti ad essa dall’eresia o dallo scisma (anche se successivamente l’hanno abbandonata) ogni volta che contraggono tra loro il fidanzamento o il matrimonio.

3473. Par. 2: Si applicano anche agli stessi cattolici di cui sopra se contraggono un fidanzamento o un matrimonio con non cattolici, battezzati o meno, anche dopo aver ottenuto la dispensa dall’impedimento della mescolanza di religione o della disparità di culto; a meno che per un determinato luogo o regione la Santa Sede non abbia stabilito diversamente.

3474. Par. 3 Se gli acattolici, battezzati o meno, stipulano un contratto tra di loro, non sono tenuti in nessun luogo a osservare la forma cattolica del fidanzamento e del matrimonio.

Lettera Enciclica “Pascendi dominici gregis”, 8 settembre 1907.

Dz 2071 Poiché è un artificio molto abile da parte dei modernisti (poiché essi sono giustamente chiamati così in generale) quello di non esporre le loro dottrine ordinate e raccolte insieme, ma come se fossero sparse e separate l’una dall’altra, in modo da sembrare molto vaghe e, per così dire, sconclusionate, Sebbene al contrario siano forti e costanti, è bene, venerabili fratelli, presentare prima queste stesse dottrine in un’unica visione e mostrare il nesso con cui si fondono l’una con l’altra, in modo da poter poi esaminare le cause degli errori e prescrivere i rimedi per rimuovere la calamità. . . . Ma, affinché si possa procedere con ordine in un argomento piuttosto astruso, occorre notare innanzitutto che ogni modernista svolge diversi ruoli e, per così dire, mescola in sé: (1) il filosofo, (11) il credente, (111) il teologo, (IV) lo storico, (V) il critico, (Vl) l’apologeta, (VII) il riformatore. Tutti questi ruoli deve distinguerli uno per uno, chi vuole capire bene il loro sistema e discernere gli antecedenti e le conseguenze delle loro dottrine.

3475. Dz 2072 [I] Ora, per cominciare dal filosofo, i modernisti pongono il fondamento della loro filosofia religiosa in quella dottrina che viene comunemente chiamata agnosticismo. Per forza di cose, dunque, la ragione umana è interamente limitata ai fenomeni, cioè alle cose che appaiono e all’apparenza con cui appaiono; non ha né il diritto né il potere di oltrepassare i limiti della stessa. Pertanto, non può elevarsi a Dio né riconoscere la sua esistenza, nemmeno attraverso le cose che si vedono. Da ciò si deduce che Dio non può in alcun modo essere direttamente oggetto di scienza e che, per quanto riguarda la storia, non deve essere considerato un soggetto storico. Questi, naturalmente, i modernisti li rifiutano completamente e li relegano all’intellettualismo, un sistema assurdo, a loro dire, e morto da tempo. Né li frena il fatto che la Chiesa abbia condannato molto apertamente questi errori portentosi, perché il Sinodo Vaticano ha così decretato: “Se qualcuno, eccetera” [cfr. n. 1806 s., 1812].

3476. Dz 2073 Ma in che modo i modernisti passano dall’agnosticismo, che consiste solo nella nescienza, all’ateismo scientifico e storico, che invece è interamente postulato nella negazione; così, per quale legge di ragionamento si passa dallo stato di ignoranza se Dio sia intervenuto o meno nella storia del genere umano, alla spiegazione della stessa storia, tralasciando del tutto Dio, come se non fosse realmente intervenuto, chi può ben saperlo. Tuttavia, questo è fisso e stabilito nelle loro menti, che la scienza così come la storia dovrebbero essere atee, nei cui limiti ci può essere posto solo per i fenomeni, Dio e tutto ciò che è divino sono completamente messi da parte.–Come risultato di questo insegnamento più assurdo vedremo presto chiaramente cosa si deve pensare riguardo alla persona più sacra di Cristo, ai misteri della sua vita e morte, e anche riguardo alla sua resurrezione e ascensione al cielo.

3477. Dz 2074 Ma questo agnosticismo va considerato solo come la parte negativa del sistema dei modernisti; la parte positiva consiste, come dicono, nell’immanenza vitale. La religione, sia essa naturale o soprannaturale, deve ammettere, come ogni fatto, una spiegazione. Ma la spiegazione, con la teologia naturale distrutta e l’approccio alla rivelazione sbarrato dal rifiuto degli argomenti di credibilità, con la totale rimozione di qualsiasi rivelazione esterna, è cercata invano al di fuori dell’uomo. Va quindi cercata all’interno dell’uomo stesso e, poiché la religione è una forma di vita, va trovata interamente all’interno della vita dell’uomo. Da qui si afferma il principio dell’Immanenza religiosa. Inoltre, di ogni fenomeno vitale, a cui si è appena detto che la religione appartiene, la prima attuazione, per così dire, va ricercata in una certa necessità o pulsione; ma, se parliamo più specificamente della vita, gli inizi sono da ricercare in una sorta di moto del cuore, che si chiama senso. Pertanto, poiché Dio è l’oggetto della religione, si deve assolutamente concludere che la fede, che è l’inizio e il fondamento di ogni religione, deve essere collocata in un qualche senso interiore, che ha il suo inizio in un bisogno del divino. Inoltre, questo bisogno del divino, poiché viene avvertito solo in certi ambienti particolari, non può di per sé appartenere al regno della coscienza, ma rimane nascosto all’inizio sotto la coscienza, o, come si dice con una parola presa in prestito dalla filosofia moderna, nella subcoscienza, dove, anch’essa, la sua radice rimane nascosta e inosservata.- Qualcuno forse chiederà in che modo questo bisogno del divino, che l’uomo stesso percepisce dentro di sé, si evolve infine in religione? A questo i modernisti rispondono: “La scienza e la storia sono comprese in un duplice confine: uno esterno, che è il mondo visibile; l’altro interno, che è la coscienza. Quando hanno raggiunto l’uno o l’altro, non possono procedere oltre, perché oltre questi confini c’è l’inconoscibile. In presenza di questo inconoscibile, sia che esso sia al di fuori dell’uomo e al di là del mondo percepibile della natura, sia che si celi nella subcoscienza, il bisogno del divino in un’anima incline alla religione, secondo i principi del fideismo, senza che il giudizio della mente lo anticipi, eccita un certo senso peculiare; ma questo senso ha la realtà divina stessa, non solo come oggetto, ma anche come causa intrinseca implicata in sé, e in qualche modo unisce l’uomo a Dio”. Questo senso, inoltre, è ciò che i modernisti chiamano con il nome di fede, ed è per loro l’inizio della religione.

3478. Dz 2075 Ma questa non è la fine del loro filosofare, o più correttamente del loro delirare. Perché in questo senso i modernisti non solo trovano la fede, ma insieme alla fede e nella fede stessa, come la intendono loro, affermano che c’è posto per la rivelazione. Perché qualcuno si chiederà se c’è bisogno di qualcosa di più per la rivelazione? Non dovremmo forse chiamare “rivelazione” quel senso religioso che appare nella coscienza, o almeno l’inizio della rivelazione; perché non Dio stesso, anche se in modo piuttosto confuso, si manifesta alle anime nello stesso senso religioso? Ma aggiungono: Poiché Dio è allo stesso tempo oggetto e causa della fede, quella rivelazione è ugualmente di Dio e da Dio, cioè ha Dio come Rivelatore e come Rivelato. Da qui, inoltre, Venerabili Fratelli, deriva quell’assurda affermazione dei modernisti, secondo cui ogni religione, secondo i suoi vari aspetti, deve essere chiamata naturale e anche soprannaturale. Da ciò deriva che coscienza e rivelazione hanno significati intercambiabili. Da qui la legge secondo cui la coscienza religiosa è tramandata come regola universale, da equiparare completamente alla rivelazione, alla quale tutti devono sottomettersi, anche il potere supremo nella Chiesa, sia che questa insegni o legiferi in materia sacra o disciplinare.

3479. Dz 2076 Tuttavia, in tutto questo processo da cui, secondo i modernisti, scaturiscono la fede e la rivelazione, c’è una cosa da notare in modo particolare, anzi di non poco conto per le sequenze storico-critiche che ne traggono. Infatti, l’inconoscibile di cui parlano non si presenta alla fede come qualcosa di semplice o di isolato, ma al contrario aderisce strettamente a qualche fenomeno che, pur appartenendo ai campi della scienza e della storia, in qualche modo va al di là di ogni logica, sia che si tratti di un fatto della natura che contiene in sé qualche segreto, sia che si tratti di un uomo il cui carattere, le cui azioni e le cui parole non sembrano conciliabili con le leggi ordinarie della storia. Allora la fede, attratta dall’inconoscibile che è unito al fenomeno, abbraccia l’intero fenomeno stesso e in qualche modo lo permea della propria vita. Da ciò derivano due cose: in primo luogo, una sorta di trasfigurazione del fenomeno per elevazione, cioè al di sopra delle sue condizioni reali, per cui la sua materia diventa più adatta a rivestirsi della forma del divino che la fede deve introdurre; in secondo luogo, una sorta di sfigurazione (possiamo chiamarla così) dello stesso fenomeno, derivante dal fatto che la fede gli attribuisce, quando è spogliato di tutte le aggiunte di luogo e di tempo, ciò che in realtà non possiede; e ciò avviene soprattutto quando si tratta di fenomeni del passato, e tanto più pienamente quanto più sono antichi. Da questa duplice fonte i modernisti ricavano nuovamente due canoni che, aggiunti a un altro già mutuato dall’agnosticismo, costituiscono i fondamenti della critica storica.

3480. L’argomento sarà illustrato con un esempio, e prendiamo questo esempio dalla persona di Cristo. Nella persona di Cristo, si dice, la scienza e la storia non incontrano altro che l’umano. Pertanto, in virtù del primo canone dedotto dall’agnosticismo, tutto ciò che ha un sapore divino deve essere cancellato dalla sua storia. Inoltre, in virtù del secondo canone, la persona storica di Cristo è stata trasfigurata dalla fede; pertanto, tutto ciò che la eleva al di sopra delle condizioni storiche deve essere eliminato da essa. Infine, in virtù del terzo canone, la stessa persona di Cristo è sfigurata dalla fede; pertanto, devono essere eliminate da essa le parole e le azioni, tutto ciò che, in una parola, non corrisponde minimamente al suo carattere, al suo stato, alla sua educazione, al luogo e al tempo in cui è vissuto. Un metodo di ragionamento davvero meraviglioso! Ma questa è la critica dei modernisti.

3481. Dz 2077 Pertanto, il senso religioso, che attraverso l’immanenza vitale emerge dai nascondigli della subcoscienza, è il germe di ogni religione e la spiegazione di tutto ciò che è stato o sarà in ogni religione. Tale senso, rozzo all’inizio e quasi informe, gradualmente e sotto l’influenza di quel misterioso principio da cui ha avuto origine, è maturato con il progresso della vita umana, di cui, come abbiamo detto, è una sorta di forma. Così, abbiamo l’origine di ogni religione, anche se soprannaturale; esse sono, ovviamente, semplici sviluppi del senso religioso. E nessuno pensi che la religione cattolica ne sia esclusa; anzi, è del tutto simile alle altre; perché è nata nella coscienza di Cristo, un uomo di natura sceltissima, di cui nessuno è mai stato o sarà simile, attraverso il processo di immanenza vitale. . . . [addotto dal can. 3 del Concilio Vaticano II sulla rivelazione; cfr. n. 1808].

3482. Dz 2078 Tuttavia, fino a questo punto, Venerabili Fratelli, non abbiamo scoperto alcun posto riservato all’intelletto. Ma anch’esso, secondo la dottrina dei modernisti, ha la sua parte nell’atto di fede. È bene notare poi in che modo. In quel senso, dicono, che abbiamo citato più volte, poiché si tratta di senso e non di conoscenza, Dio si presenta all’uomo, ma in modo così confuso e disordinato che viene distinto con difficoltà, o non viene distinto affatto, dal soggetto credente. È necessario, quindi, che questo senso sia illuminato da qualche luce, affinché Dio si distingua completamente e sia separato da esso. Ciò riguarda l’intelletto, la cui funzione è la riflessione e l’analisi, con cui l’uomo porta alla luce i fenomeni vitali che nascono dentro di lui e poi li rende noti con le parole. Da qui l’espressione comune dei modernisti, secondo cui l’uomo religioso deve pensare la sua fede. La mente poi, incontrando questo senso, riflette su di esso e lo lavora, come un pittore che schiarisce i contorni sbiaditi di un quadro per farlo emergere più chiaramente, perché essenzialmente così spiega uno dei maestri dei modernisti. Inoltre, in tale opera la mente opera in modo duplice: dapprima, con un atto naturale e spontaneo, presenta la questione in un giudizio semplice e popolare; ma poi, dopo la riflessione e l’approfondimento, o, come si dice, l’elaborazione del pensiero, esprime i suoi pensieri in giudizi secondari, derivati, certo, dal primo semplice, ma più precisi e distinti. Questi giudizi secondari, se vengono infine sanciti dal supremo magistero della Chiesa, costituiranno il dogma.

3483. Dz 2079 Così, dunque, nella dottrina dei modernisti siamo giunti a un capitolo importante, ossia l’origine del dogma e la natura interna del dogma. Essi, infatti, collocano l’origine del dogma in quelle formule primitive e semplici che, sotto un certo aspetto, sono necessarie per la fede; perché la rivelazione, per essere tale, richiede una chiara conoscenza di Dio nella coscienza. Ma il dogma stesso, sembrano affermare, è propriamente contenuto nelle formule secondarie… Inoltre, per accertare la sua natura dobbiamo indagare soprattutto quale rivelazione interviene tra le formule religiose e il senso religioso dell’anima. Ma questo lo capirà facilmente chi ritiene che tali formule non abbiano altro scopo che quello di fornire i mezzi con cui egli (il credente) può rendere conto della sua fede. Perciò sono a metà strada tra il credente e la sua fede; ma per quanto riguarda la fede, sono segni inadeguati del suo oggetto, di solito chiamati symbolæ; nel loro rapporto con il credente, sono semplici strumenti. –Quindi non si può assolutamente sostenere che contengano la verità in modo assoluto; infatti, in quanto simboli, sono immagini della verità, e quindi vanno adattati al senso religioso, in quanto questo si riferisce all’uomo; e in quanto strumenti sono veicoli della verità, e quindi vanno a loro volta adattati all’uomo, in quanto c’è un riferimento al senso religioso. Ma l’oggetto del senso religioso, in quanto contenuto nell’assoluto, ha infiniti aspetti di cui può apparire ora uno, ora un altro. Allo stesso modo, l’uomo che crede può servirsi di condizioni diverse. Di conseguenza, anche le formule che chiamiamo dogmi dovrebbero essere soggette alle stesse vicissitudini, e quindi modificabili. Così, dunque, si apre la strada all’evoluzione intrinseca del dogma… Sicuramente un accumulo infinito di sofismi, che rovinano e distruggono tutta la religione.

Dz 2080 Tuttavia, che il dogma non solo possa, ma debba essere evoluto e cambiato, lo affermano in modo frammentario anche i modernisti stessi, e ciò deriva chiaramente dai loro principi. Infatti, tra i punti principali della dottrina essi sostengono questo, che deducono dal principio dell’immanenza vitale, che le formule religiose, per essere veramente religiose e non solo speculazioni intellettuali, devono essere vive, e devono vivere la vita del senso religioso. Non si deve intendere così, come se queste formule, soprattutto se puramente immaginative, fossero inventate per il senso religioso; perché la loro origine non interessa, né il loro numero o la loro qualità, ma come segue: che il senso religioso, applicando qualche modifica, se necessario, le unisca a sé vitalmente. Naturalmente, in altre parole, è necessario che la formula primitiva sia accettata dal cuore e da esso sanzionata; allo stesso modo, è necessario che il lavoro con il quale le formule secondarie vengono prodotte sia sotto la guida del cuore. Perciò accade che queste formule, per essere vitali, debbano essere e rimanere adattate sia alla fede che al credente. Inoltre, poiché questo potere e la fortuna delle formule dogmatiche sono così instabili, non c’è da stupirsi che siano oggetto di scherno e disprezzo da parte dei modernisti, che non dicono nulla al contrario e non esaltano altro che il senso religioso e la vita religiosa. E così attaccano con grande coraggio la Chiesa come se si muovesse su un sentiero di errore, perché non distingue minimamente la forza religiosa e morale dal significato superficiale delle formule, e aggrappandosi con vana fatica e con grande tenacia a formule prive di significato, lascia che la religione stessa crolli.– Certo, “ciechi e capi dei ciechi” (Mt 15,14) sono coloro che, gonfiati dal nome orgoglioso di scienza, arrivano a un punto tale del loro delirio da pervertire il concetto eterno di verità e il vero senso della religione introducendo un nuovo sistema, “in cui per un esagerato e sfrenato desiderio di novità”, la verità non viene cercata dove certamente esiste, e trascurando le tradizioni sante e apostoliche, si adottano altre dottrine vuote, futili, incerte e non approvate dalla Chiesa, sulle quali gli uomini, nella loro estrema vanità, pensano che si fondi e si mantenga la verità stessa. ”* Questo è quanto, Venerabili Fratelli, per il modernista come filosofo.

3484. Dz 2081 [11] Ora, se avanzando verso il credente si vuole sapere come si distingue dal filosofo tra i modernisti, si deve osservare che, sebbene il filosofo ammetta la realtà del divino come oggetto di fede, tuttavia questa realtà non la trova da nessuna parte se non nel cuore del credente, poiché è oggetto di senso e di affermazione, e quindi non supera i confini dei fenomeni; Inoltre, se questa realtà esista di per sé al di fuori del senso e dell’affermazione, il filosofo passa oltre e trascura. Per il credente modernista, invece, è assodato e certo che la realtà del divino esiste sicuramente in sé, e non dipende certo dal credente. Ma se chiedete su cosa poggia l’affermazione del credente, vi risponderà: “Sull’esperienza personale di ogni uomo”: In questa affermazione, pur rompendo con i razionalisti, si allineano all’opinione dei protestanti e degli pseudomistici [cfr. n. 1273]. Infatti, essi spiegano l’argomento nel modo seguente: che in senso religioso si deve riconoscere una sorta di intuizione del cuore, con la quale l’uomo raggiunge direttamente la realtà di Dio, e ne trae una tale convinzione dell’esistenza di Dio e dell’azione di Dio sia all’interno che all’esterno dell’uomo, che supera di gran lunga ogni convinzione che si possa ricercare nella scienza. Essi stabiliscono, quindi, una vera esperienza, superiore a qualsiasi esperienza razionale. Se qualcuno, come i razionalisti, lo nega, si dice che ciò deriva dal fatto che non è disposto a stabilirsi nello stato morale richiesto per produrre l’esperienza. Inoltre, questa esperienza, quando qualcuno l’ha raggiunta, rende propriamente e realmente un credente. — Quanto siamo lontani dagli insegnamenti cattolici.

Dz 2082 Abbiamo già visto [cfr. n. 2072] tali falsificazioni condannate dal Concilio Vaticano II. Una volta ammessi questi errori, insieme ad altri già citati, esprimeremo di seguito quanto sia aperta la strada all’ateismo. Sarà bene notare subito che, a partire da questa dottrina dell’esperienza unita a un’altra del simbolismo, qualsiasi religione, nemmeno il paganesimo, deve essere ritenuta vera. Perché mai esperienze di questo tipo non dovrebbero verificarsi in qualsiasi religione? In effetti, più di una afferma che si sono verificate. Con quale diritto i modernisti negheranno la verità di un’esperienza affermata da un islamico e rivendicheranno la verità delle esperienze solo per i cattolici? In realtà, i modernisti non negano questo; anzi, alcuni in modo piuttosto oscuro, altri in modo molto aperto sostengono che tutte le religioni sono vere. Ma è evidente che non possono pensare diversamente. Su quale base, infatti, si sarebbe dovuta attribuire la falsità a qualsiasi religione secondo i loro precetti? Sicuramente o per la falsità del senso religioso o perché l’intelletto ha proposto una formula falsa. Ora, il senso religioso è sempre uno e identico, anche se a volte è più imperfetto; ma affinché la formula intellettuale sia vera, è sufficiente che risponda al senso religioso e al credente umano, qualunque sia il carattere della perspicacia di quest’ultimo. Nel conflitto tra religioni diverse, i modernisti potrebbero sostenere al massimo una cosa: che la religione cattolica, in quanto più viva, ha più verità; e anche che è più degna del nome di cristiana, in quanto corrisponde più pienamente alle origini del cristianesimo.

Dz 2083 C’è anche qualcos’altro in questa parte della loro dottrina, che è assolutamente in contrasto con la verità cattolica. Infatti, il precetto relativo all’esperienza viene applicato anche alla tradizione, che la Chiesa ha finora affermato, e la distrugge completamente. Infatti, i modernisti intendono la tradizione in questo modo: come una sorta di comunicazione ad altri di un’esperienza originale, attraverso la predicazione per mezzo della formula intellettuale. A questa formula, quindi, oltre alla forza rappresentativa, come dicono loro, attribuiscono una sorta di potere suggestivo, non solo per eccitare in chi crede il senso religioso, che forse sta diventando fiacco, e per ripristinare l’esperienza una volta acquisita, ma anche per far nascere in chi non crede ancora un senso religioso per la prima volta, e per produrre l’esperienza. In questo modo, inoltre, l’esperienza religiosa si diffonde ampiamente tra i popoli; e non solo tra quelli attuali, ma anche tra i posteri, sia attraverso i libri che attraverso la trasmissione orale da uno all’altro.-Ma questa comunicazione dell’esperienza a volte mette radici e fiorisce; a volte invecchia improvvisamente e muore. Inoltre, il fiorire è per i modernisti un argomento di verità, perché ritengono che la verità e la vita siano la stessa cosa. Quindi, possiamo dedurre ancora una volta che tutte le religioni, quante ne esistono, sono vere; altrimenti non sarebbero vive.

3485. Dz 2084 Ora che la nostra discussione è stata portata a questo punto, Venerabili Fratelli, abbiamo abbastanza e di più per considerare con precisione il rapporto che i modernisti stabiliscono tra la fede e la scienza; inoltre, anche la storia è da loro classificata sotto questo nome di scienza.–Anche in primo luogo, in effetti, si deve ritenere che l’oggetto-materia dell’una sia del tutto estraneo all’oggetto-materia dell’altra e separato da essa. La fede, infatti, guarda solo a ciò che la scienza ritiene inconoscibile a se stessa. Quindi a ciascuno spetta un compito diverso: la scienza si occupa di fenomeni in cui non c’è posto per la fede; la fede, invece, si occupa del divino, di cui la scienza è totalmente ignorante. Così, infine, si stabilisce che non ci può mai essere dissenso tra fede e scienza; perché se ognuna tiene il proprio posto, non potranno mai incontrarsi e quindi contraddirsi. Se per caso qualcuno obietta a ciò, adducendo che nella natura visibile si verificano alcune cose che riguardano anche la fede, come, ad esempio, la vita umana di Cristo, i modernisti lo negheranno. Infatti, sebbene queste cose siano classificate come fenomeni, tuttavia, nella misura in cui sono impregnate della vita della fede, e nel modo già menzionato sono state trasfigurate e sfigurate dalla fede [cfr. n. 2076], sono state strappate al mondo sensibile e trasferite nella materia del divino. Perciò, a chi chiederà se Cristo abbia compiuto veri miracoli e abbia realmente predetto il futuro; se sia veramente risorto dai morti e asceso al cielo, la scienza agnostica darà una negazione, la fede un’affermazione; eppure, in conseguenza di ciò, non ci sarà conflitto tra le due. Perché l’una, rivolgendosi ai filosofi da filosofo, cioè contemplando Cristo solo secondo la realtà storica, negherà; l’altra, parlando da credente con i credenti, vedendo la vita di Cristo come è rivissuta dalla fede e nella fede, affermerà.

3486. Dz 2085 Un grande errore, tuttavia, lo commette chi pensa di poter credere che fede e scienza non siano affatto soggette l’una all’altra. Infatti, per quanto riguarda la scienza, egli pensa in modo giusto e corretto; ma non è così per la fede, che si deve dire soggetta alla scienza non solo per uno, ma per tre motivi. Infatti, in primo luogo, dobbiamo osservare che in qualsiasi fatto religioso, tolta la realtà divina e qualunque sia l’esperienza che ne fa colui che crede, tutte le altre cose, soprattutto le formule religiose, non superano i confini dei fenomeni e quindi rientrano nella scienza. In ogni caso, si permetta al credente, se vuole, di uscire dal mondo, ma finché vi rimane, che gli piaccia o no, non sfuggirà mai alle leggi, alle osservazioni, ai giudizi della scienza e della storia.-Inoltre, anche se si dice che Dio è l’oggetto della sola fede, ciò va concesso per quanto riguarda la realtà divina, ma non per quanto riguarda l’idea di Dio. Perché questa è oggetto della scienza, che, mentre filosofeggia nell’ordine logico, come si dice, raggiunge anche ciò che è assoluto e ideale. Pertanto, la filosofia o la scienza hanno il diritto di conoscere l’idea di Dio e di indirizzarla nella sua evoluzione e, se qualcosa di estraneo vi entra, di correggerla. Da qui l’assioma dei modernisti: L’evoluzione religiosa deve essere conciliata con quella morale e intellettuale, cioè, come insegna chi segue come maestro, deve essere soggetta a loro… Alla fine accade che Dio non soffre la dualità al suo interno, e così il credente è spinto da una forza interiore ad armonizzare la fede con la scienza in modo tale da non essere mai in disaccordo con l’idea generale che la scienza espone sull’intero universo. In questo modo, dunque, la scienza è completamente svincolata dalla fede, mentre la fede, per quanto si proclami estranea alla scienza, è soggetta ad essa. Tutto ciò, Venerabili Fratelli, è contrario a quanto Pio IX, Nostro predecessore, ha insegnato: “È dovere della filosofia, nelle cose che riguardano la religione, non dominare ma servire, non prescrivere ciò che si deve credere, ma abbracciare ciò che si deve credere con ragionevole obbedienza, e non esaminare le profondità dei misteri di Dio, ma riverirli piamente e umilmente”. * I modernisti capovolgono completamente la questione; a questi si può applicare ciò che il Nostro predecessore, Gregorio IX, scrisse a proposito di alcuni teologi della sua epoca: “Alcuni tra voi, gonfiati come vesciche dallo spirito di vanità, si sforzano con la novità di oltrepassare i confini fissati dai Padri, stravolgendo il significato del testo sacro … all’insegnamento filosofico dei razionalisti, per fare sfoggio di scienza, senza alcun beneficio per i loro uditori. . . . Questi uomini, sviati da varie strane dottrine, riducono il capo alla coda e costringono la regina a servire l’ancella”.

Dz 2086 Questo sarà sicuramente chiaro a chi osserva come i modernisti agiscano in modo del tutto conforme a ciò che insegnano. Infatti, sembra che abbiano scritto e parlato molto in modo contrario, tanto che si potrebbe facilmente pensare che siano dubbiosi e incerti. Ma ciò avviene in modo deliberato e consigliato, cioè in accordo con l’opinione che essi hanno sulla reciproca esclusione di fede e scienza. Così nei loro libri troviamo alcune cose che un cattolico approva completamente, eppure, girando la pagina, alcune cose che si potrebbero pensare dettate da un razionalista. Così, quando scrivono la storia non menzionano la divinità di Cristo, ma quando predicano nelle chiese la professano con forza. Allo stesso modo, quando discutono di storia non fanno posto ai Concili e ai Padri, ma quando insegnano il catechismo si riferiscono ai primi e ai secondi con rispetto. Così pure separano l’esegesi teologica e pastorale da quella scientifica e storica. Allo stesso modo, sulla base del principio che la scienza non dipende in alcun modo dalla fede, quando trattano di filosofia, storia e critica, senza alcun particolare timore di seguire le orme di Lutero [cfr. n. 769], mostrano in ogni modo un disprezzo per i precetti cattolici, i Santi Padri, i Sinodi ecumenici e il magistero ecclesiastico; e se vengono criticati per questo, si lamentano di essere privati della loro libertà. Infine, professando che la fede deve essere sottomessa alla scienza, rimproverano la Chiesa in generale e apertamente, perché rifiuta risolutamente di assoggettare e accomodare i suoi insegnamenti alle opinioni della filosofia; ma essi, ripudiando la vecchia teologia a questo scopo, si sforzano di introdurre la nuova, che segue i deliri dei filosofi.

3487. Dz 2087 [III] Ecco ora, Venerabili Fratelli, che ci avviciniamo allo studio dei modernisti in campo teologico, un compito arduo, ma da svolgere brevemente. Si tratta, infatti, di conciliare la fede con la scienza, e questo solo sottoponendo l’una all’altra. In questo campo il teologo modernista si avvale degli stessi principi che abbiamo visto utilizzati dal filosofo, e li adatta al credente; intendiamo i principi dell’immanenza e del simbolismo. In questo modo, inoltre, realizza il compito più facilmente. Il filosofo ritiene certo che il principio della fede sia immanente; il credente aggiunge che questo principio è Dio; ed egli stesso (il teologo) conclude: Dio, dunque, è immanente nell’uomo. Da ciò deriva l’immanenza teologica. Ancora, per il filosofo è certo che le rappresentazioni dell’oggetto della fede sono solo simboliche; per il credente, allo stesso modo, è certo che l’oggetto della fede è Dio in sé; così il teologo deduce che le rappresentazioni della realtà divina sono simboliche. Da qui nasce il simbolismo teologico, sicuramente l’errore più grande, e quanto pernicioso sia ciascuno di essi sarà chiaro dall’esame delle conseguenze. Per parlare subito di simbolismo, poiché tali simboli sono simboli per quanto riguarda il loro oggetto, ma per quanto riguarda il credente sono strumenti, il credente deve innanzitutto stare in guardia, dicono, per evitare di aggrapparsi troppo alla formula, in quanto formula, ma deve farne uso solo per potersi aggrappare alla verità assoluta, che la formula allo stesso tempo scopre e copre, e si sforza di esprimere senza mai raggiungerla. Inoltre, aggiungono, tali formule devono essere applicate dal credente nella misura in cui lo aiutano; perché sono date come un aiuto, non come un ostacolo, con la piena stima che per rispetto sociale è dovuta alle formule che il magistero pubblico ha giudicato adatte a esprimere la coscienza comune, purché, naturalmente, lo stesso magistero non dichiari il contrario. Ma per quanto riguarda l’immanenza, cosa intendano veramente i modernisti è difficile da dimostrare, perché non tutti hanno la stessa opinione. Ci sono alcuni che sostengono a questo proposito che Dio che opera nell’uomo è più intimamente presente in lui di quanto l’uomo non lo sia in se stesso; il che, se ben inteso, non ha nulla da rimproverarsi. Altri, invece, affermano che l’azione di Dio è un tutt’uno con l’azione della natura, come l’azione della causa prima è un tutt’uno con quella della causa seconda, il che distrugge davvero l’ordine soprannaturale. Altri, infine, lo spiegano in modo tale da far sospettare un significato panteistico; eppure ciò coincide opportunamente con il resto delle loro dottrine.

Dz 2088 Ora a questo assioma dell’immanenza se ne aggiunge un altro che possiamo chiamare permanenza divina; questi due differiscono l’uno dall’altro più o meno come l’esperienza privata dall’esperienza trasmessa dalla tradizione. Un esempio illustrerà il punto, e prendiamolo dalla Chiesa e dai sacramenti. La Chiesa, dicono, e i sacramenti non sono assolutamente da credere come istituiti da Cristo stesso. Lo prevede l’agnosticismo, che non riconosce altro che l’umano in Cristo, la cui coscienza religiosa, come quella del resto degli uomini, si è formata gradualmente; lo prevede la legge dell’immanenza, che rifiuta le applicazioni esterne, per usare i loro termini; lo prevede anche la legge dell’evoluzione, che esige il tempo e una certa serie di circostanze unite ad esso, affinché i germi si evolvano; lo prevede, infine, la storia, che dimostra che tale è stato il corso delle cose. Tuttavia, si deve ritenere che la Chiesa e i sacramenti siano stati istituiti mediatamente da Cristo. Ma come? Tutte le coscienze cristiane, affermano, sono state in un certo senso virtualmente incluse nella coscienza di Cristo, come la pianta nel seme. Inoltre, poiché i germi vivono la vita del seme, si può dire che tutti i cristiani vivono la vita di Cristo. Ma la vita di Cristo secondo la fede è divina; così è anche la vita dei cristiani. Se, dunque, questa vita nel corso dei secoli ha dato origine alla Chiesa e ai sacramenti, giustamente si dirà che tale origine proviene da Cristo ed è divina. In questo modo, essi affermano completamente che anche le Sacre Scritture sono divine e che i dogmi sono divini. Una disposizione sicuramente breve, ma molto abbondante per chi professa che la scienza deve sempre essere obbedita, qualunque cosa essa ordini. Ognuno vedrà facilmente da sé l’applicazione di questi principi alle altre questioni che menzioneremo.

3488. Dz 2089 Fin qui abbiamo parlato dell’origine della fede e della sua natura. Ma dato che la fede ha molte appendici, soprattutto la Chiesa, il dogma, il culto e le devozioni, i Libri che chiamiamo “sacri”, dovremmo chiedere cosa insegnano i modernisti anche su questi. Prendendo come inizio il dogma, è già stato mostrato sopra quale sia la sua origine e la sua natura [n. 2079 s.]. Esso nasce da una sorta di impulso o di necessità, in virtù della quale colui che crede elabora il proprio pensiero affinché la propria coscienza e quella degli altri siano maggiormente chiarite. Questo lavoro consiste interamente nell’indagare e nel perfezionare la formula primitiva della mente, non in sé, secondo la spiegazione logica, ma secondo le circostanze, o vitalmente, come si dice, in un modo meno facilmente comprensibile. Perciò accade che intorno a quella formula nascano gradualmente alcune formule secondarie, come abbiamo già indicato [cfr. n. 2078]; queste poi riunite in un unico corpo, o in un unico edificio di fede, come rispondenti alla coscienza comune, sono chiamate dogmi. Da questo vanno ben distinte le dissertazioni dei teologi che, pur non vivendo la vita del dogma, non sono affatto inutili, non solo per armonizzare la religione con la scienza e per eliminare le divergenze tra di esse, ma anche per illuminare e proteggere la religione dall’esterno, forse anche come mezzo per preparare materiale per qualche nuovo dogma futuro.

3489. –Non sarebbe stato necessario parlare a lungo del culto, se non fossero rientrati in questo termine anche i sacramenti, sui quali gli errori dei modernisti sono più gravi. Essi affermano che il culto nasce da un duplice impulso o necessità; infatti, come abbiamo visto, nel loro sistema si dice che tutte le cose nascono da impulsi o necessità interiori. La prima necessità è quella di attribuire qualcosa di sensibile alla religione; la seconda è quella di esprimerla, cosa che sicuramente non può essere fatta senza una forma sensibile, o senza atti consacranti che chiamiamo sacramenti. Ma per i modernisti i sacramenti sono semplici simboli o segni, anche se non privi di efficacia. Per evidenziare questa efficacia, ricorrono all’esempio di alcune parole che si dice abbiano preso piede, poiché hanno concepito il potere di propagare certe idee che sono vigorose e scuotono soprattutto la mente. Come queste parole sono ordinate in relazione alle idee, così i sacramenti lo sono al senso religioso, niente di più. Certamente parlerebbero più chiaramente se affermassero che i sacramenti sono stati istituiti unicamente per alimentare la fede. Ma questo il Sinodo di Trento lo ha condannato: “Se qualcuno dice che questi sacramenti sono stati istituiti solo per alimentare la fede, sia anatema” [n. 848].

3490. Dz 2090 Abbiamo già accennato un po’ alla natura e all’origine dei Libri Sacri. Secondo i principi dei modernisti, si potrebbe benissimo descriverli come una raccolta di esperienze, non come quelle che si verificano in generale per tutti, ma straordinarie e distinte, che sono state vissute in ogni religione.- Esattamente così insegnano i modernisti sui nostri libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Tuttavia, in accordo con le loro stesse opinioni, notano con grande sagacia che, sebbene l’esperienza appartenga al presente, la si può assumere anche del passato e del futuro, in quanto naturalmente chi crede all’uno o all’altro vive il passato con il ricordo alla maniera del presente, o il futuro con l’anticipazione. Inoltre, questo spiega come i libri storici e apocalittici possano essere classificati tra i Libri Sacri. In questi Libri, dunque, Dio parla certamente attraverso il credente, ma, come dice la teologia dei modernisti, solo per immanenza e permanenza vitale.

3491. – Chiederemo: e l’ispirazione? Questa, rispondono, non si distingue affatto da quell’impulso, se non forse nella veemenza, con cui il credente è stimolato a rivelare la sua fede con la parola o lo scritto. Ciò che abbiamo nell’ispirazione poetica è simile; per questo un certo disse: “Dio è in noi, quando si agita ci infiamma”. * Inoltre, a proposito di questa ispirazione, i modernisti aggiungono che non c’è nulla nei Libri Sacri che sia privo di tale ispirazione. Quando affermano questo si sarebbe portati a ritenerli più ortodossi di alcuni che, in tempi più recenti, limitano in qualche modo l’ispirazione, come ad esempio quando introducono le cosiddette citazioni tacite. Ma queste sono solo parole e pretese da parte loro. Infatti, se giudichiamo la Bibbia secondo i precetti dell’agnosticismo, cioè come un’opera umana scritta da uomini per uomini, sebbene al teologo sia concesso il diritto di chiamarla divina per immanenza, come si può forzare l’ispirazione in essa? Ora, il modernista afferma sicuramente un’ispirazione generale dei Libri Sacri, ma non ammette alcuna ispirazione in senso cattolico.

3492. Dz 2091 Ciò che la scuola dei modernisti immagina sulla Chiesa offre un campo più ricco per la discussione: essi stabiliscono all’inizio che la Chiesa è nata da una duplice necessità: una in ogni credente, specialmente in colui che ha trovato un’esperienza originale e speciale, di comunicare la sua fede agli altri; l’altra, dopo che la fede si è comunicata tra molti, nella collettività di riunirsi in una società e di vegliare, aumentare e propagare il bene comune. Che cos’è dunque la Chiesa? È il frutto della coscienza collettiva, o dell’associazione di coscienze individuali che, in virtù della permanenza vitale, dipende da un primo credente, cioè, per i cattolici, da Cristo. Inoltre, ogni società ha bisogno di un’autorità direttrice, il cui compito è quello di orientare tutti gli associati verso il fine comune, di promuovere con prudenza gli elementi di coesione, che in una società religiosa sono soddisfatti dalla dottrina e dal culto. Da qui, la triplice autorità nella Chiesa cattolica: disciplinare, dogmatica, liturgica… Ora, la natura dell’autorità va desunta dalla sua origine; dalla sua natura, infatti, vanno ricercati i suoi diritti e i suoi doveri. Nelle epoche passate un errore comune era quello di ritenere che l’autorità venisse alla Chiesa dall’esterno, cioè immediatamente da Dio; quindi era giustamente ritenuta autocratica. Ma questa concezione è ormai obsoleta. Come si dice che la Chiesa sia nata dalla collettività delle coscienze, così l’autorità emana vitalmente dalla Chiesa stessa. L’autorità, quindi, proprio come la Chiesa, ha origine dalla coscienza religiosa, e quindi è soggetta alla stessa; e se rifiuta questa subordinazione, vira verso la tirannia. Inoltre, stiamo vivendo in un’epoca in cui il senso della libertà ha raggiunto il suo punto più alto. Nello Stato civile la coscienza pubblica ha introdotto il governo popolare. Ma la coscienza nell’uomo, così come la vita, è una sola. A meno che, quindi, l’autorità ecclesiastica non voglia eccitare e fomentare una guerra intestina nella coscienza degli uomini, ha l’obbligo di usare forme (di procedura) democratiche, tanto più per questo motivo, perché se non lo fa, minaccia la distruzione. Infatti, è sicuramente pazzo chi pensa che con il senso di libertà così come fiorisce ora possa mai verificarsi una recessione. Se fosse limitato e controllato con la forza, scoppierebbe più forte, con la distruzione della Chiesa e della religione. Questo pensano i modernisti, che di conseguenza sono molto occupati a escogitare modi per conciliare l’autorità della Chiesa con la libertà dei credenti.

Dz 2092 Ma la Chiesa non ha solo tra le mura della propria casa coloro con i quali dovrebbe intrattenere rapporti amichevoli, ma li ha anche fuori. La Chiesa, infatti, non occupa il mondo da sola; lo occupa anche altre società, con le quali necessariamente avvengono comunicazioni e contatti. Questi diritti, dunque, che sono i doveri della Chiesa nei confronti delle società civili, devono essere determinati, e non possono essere determinati altrimenti che in base alla natura della Chiesa stessa, come i modernisti ci hanno effettivamente descritto. Lì la discussione era incentrata sugli oggetti, qui sui fini. Così, come a causa dell’oggetto vediamo la fede e la scienza estranee l’una all’altra, così lo Stato e la Chiesa sono estranei l’uno all’altra a causa dei fini che perseguono; il primo persegue un fine temporale, la seconda un fine spirituale. Certo, un tempo era permesso subordinare il temporale allo spirituale; era permesso intavolare discussioni su questioni miste, in cui la Chiesa era tenuta come padrona e regina, poiché la Chiesa, ovviamente, era dichiarata istituita da Dio senza intermediari, in quanto è l’autore dell’ordine soprannaturale. Ma tutto questo è ripudiato dai filosofi e dagli storici. Lo Stato, dunque, deve essere dissociato dalla Chiesa, così come il cattolico dal cittadino. Pertanto, ogni cattolico, essendo anche cittadino, ha il diritto e il dovere, ignorando l’autorità della Chiesa, mettendo da parte i suoi desideri, i suoi consigli e i suoi precetti, sì, disprezzando i suoi rimproveri, di perseguire ciò che pensa sia favorevole al bene dello Stato. Prescrivere un modo di agire per un cittadino, con qualsiasi pretesto, è un abuso del potere ecclesiastico, da respingere con ogni mezzo… Naturalmente, Venerabili Fratelli, la fonte da cui scaturisce tutto questo è proprio quella che Pio Vl, Nostro predecessore, ha solennemente condannato [cfr. n. 1502 s.] nella Costituzione Apostolica Auctorem fidei.

Dz 2093 Ma alla scuola dei modernisti non basta che lo Stato sia separato dalla Chiesa. Infatti, come la fede, per quanto riguarda gli elementi fenomenici, come essi dicono, dovrebbe essere subordinata alla scienza, così negli affari temporali la Chiesa dovrebbe essere soggetta allo Stato. Questo, in verità, non lo dicono apertamente, ma a causa del loro pensiero sono costretti ad ammetterlo. Infatti, posto il principio che solo lo Stato ha potere nelle questioni temporali, se accade che il credente, non contento degli atti interni della religione, proceda ad atti esterni, come ad esempio l’amministrazione o la ricezione dei sacramenti, questi cadranno necessariamente sotto il dominio dello Stato. Che dire, allora, dell’autorità della Chiesa? Poiché questa non si esplica se non attraverso atti esterni, essa sarà interamente responsabile nei confronti dello Stato. Ovviamente costretti da questa conclusione, molti dei protestanti liberali rifiutano completamente ogni culto sacro esterno, anzi, persino ogni associazione religiosa esterna, e si sforzano di introdurre la religione individuale, come dicono loro. Ma se i modernisti non procedono ancora apertamente su questo punto, chiedono intanto che la Chiesa tenda di sua iniziativa nella direzione in cui essi stessi la spingono, e che si adatti alle forme dello Stato. Queste sono le loro idee sull’autorità disciplinare. D’altra parte, molto più cattive e perniciose sono le loro opinioni sul potere dottrinale e dogmatico. Sul magistero della Chiesa essi commentano, ad esempio, come segue: Una società religiosa non potrà mai essere veramente unitaria se la coscienza dei suoi membri non sarà una sola e la formula che essi usano una sola. Ma questa duplice unità richiede una sorta di mente comune il cui compito è quello di trovare e determinare la formula che meglio corrisponde alla coscienza comune; e questa mente deve avere un’autorità sufficiente per imporre alla comunità la formula che ha determinato Inoltre, in questa unione e fusione, per così dire, sia della mente che elabora la formula, sia del potere che la prescrive, i modernisti collocano la nozione di magistero della Chiesa. Poiché, dunque, il magistero nasce in qualche momento dalle coscienze individuali e ha come mandato il dovere pubblico a beneficio delle stesse coscienze, ne consegue necessariamente che il magistero dipende da queste, e quindi deve piegarsi alle forme popolari. Pertanto, vietare alle coscienze dei singoli di esprimere pubblicamente e apertamente gli impulsi che sentono; ostacolare la via della critica che spinge il dogma sulla strada delle necessarie evoluzioni, non è l’uso ma l’abuso del potere consentito per il bene pubblico. Allo stesso modo, nell’uso stesso del potere, si devono applicare misura e moderazione. Censurare e proscrivere qualsiasi libro senza che l’autore ne sia a conoscenza, senza permettere alcuna spiegazione, senza discutere, è sicuramente molto vicino alla tirannia.- Anche in questo caso, quindi, si deve trovare una via di mezzo per preservare i diritti allo stesso tempo dell’autorità e della libertà. Nel frattempo, il cattolico deve comportarsi in modo da proclamare pubblicamente il suo rigoroso rispetto per l’autorità, senza tuttavia mancare di obbedire alla propria mente.–In generale, essi prescrivono quanto segue per la Chiesa: poiché il fine del potere ecclesiastico riguarda solo lo spirituale, devono essere aboliti tutti gli ornamenti esterni, con i quali essa si adorna più magnificamente per gli occhi degli astanti. In questo modo si trascura completamente il fatto che la religione, pur riguardando le anime, non è confinata esclusivamente alle anime e che l’onore reso all’autorità spetta a Cristo come suo fondatore.

3493. Dz 2094 Inoltre, per completare l’intero argomento della fede e dei suoi vari rami, ci rimane, Venerabili Fratelli, di considerare infine i precetti dei modernisti sullo sviluppo di entrambi. – Ecco un principio generale: in una religione che vive nulla è senza cambiamento, e quindi ci deve essere cambiamento. Da qui si passa a quello che è essenzialmente il punto principale delle loro dottrine, cioè l’evoluzione. Il dogma, quindi, la Chiesa, il culto, i Libri che veneriamo come sacri, persino la fede stessa, a meno che non vogliamo che tutti questi siano impotenti, devono essere vincolati dalle leggi dell’evoluzione. Ciò non può apparire sorprendente, se si tiene presente ciò che i modernisti hanno insegnato su ciascuno di questi argomenti. Quindi, concessa la legge dell’evoluzione, abbiamo il modo di evolvere descritto dagli stessi modernisti. In primo luogo, per quanto riguarda la fede. La forma primitiva di fede, dicono, era rozza e comune a tutti gli uomini, poiché aveva origine nella natura umana e nella vita umana. L’evoluzione vitale ha contribuito al progresso; certo, non per la novità di forme aggiunte dall’esterno, ma per la crescente pervasione quotidiana del senso religioso nella coscienza. Inoltre, questo progresso si è realizzato in due modi: in primo luogo, in senso negativo, eliminando tutto ciò che è estraneo, come ad esempio ciò che può provenire dalla famiglia o dalla nazione; in secondo luogo, in senso positivo, grazie al perfezionamento intellettuale e morale dell’uomo, per cui la nozione del divino diventa più piena e più chiara, e il senso religioso più preciso. Le cause del progresso della fede sono le stesse che sono state utilizzate per spiegare le sue origini. Ma a queste vanno aggiunti alcuni uomini straordinari (che chiamiamo profeti, e di cui Cristo è il più importante), non solo perché portarono davanti a sé, nella loro vita e nelle loro opere, qualcosa di misterioso che la fede attribuiva alla divinità, ma anche perché incontrarono nuove esperienze mai avute prima, corrispondenti alle esigenze religiose del tempo di ciascuno.–Ma il progresso del dogma nasce soprattutto da questo, che gli impedimenti alla fede devono essere superati, i nemici devono essere vinti, le obiezioni devono essere confutate. A questo si aggiunge una lotta perpetua per penetrare più profondamente le cose che sono contenute nei misteri della fede. Così, per passare ad altri esempi, è accaduto nel caso di Cristo: in Lui quel qualcosa di divino che la fede ammetteva, si è lentamente e gradualmente ampliato, tanto che alla fine è stato ritenuto Dio. La necessità di adattarsi ai costumi e alle tradizioni del popolo ha contribuito in modo particolare all’evoluzione del culto; così come la necessità di utilizzare il potere di certi atti, acquisito con l’uso. Questo pensano riguardo a ciascuno di essi. Ma prima di procedere vorremmo che questa dottrina delle necessità o dei bisogni fosse ben annotata; perché, al di là di tutto quello che abbiamo visto, essa è, per così dire, la base e il fondamento di quel famoso metodo che essi chiamano storico.

Dz 2095 Per soffermarci ancora sulla dottrina dell’evoluzione, va notato soprattutto che, sebbene i bisogni o le necessità spingano all’evoluzione, tuttavia se guidata solo da questa, oltrepassando facilmente i confini della tradizione e separandosi così dal principio vitale primitivo, porterebbe alla rovina piuttosto che al progresso. Quindi, seguendo più completamente il pensiero dei modernisti, diremo che l’evoluzione nasce dal conflitto di due forze, una delle quali porta al progresso, l’altra trattiene alla conservazione. La forza conservatrice fiorisce nella Chiesa ed è contenuta nella tradizione. Anzi, l’autorità religiosa se ne serve; e lo fa sia di diritto, perché è nella natura dell’autorità custodire la tradizione, sia di fatto, perché l’autorità lontana dai cambiamenti della vita non è affatto o molto poco sollecitata dagli stimoli che spingono al progresso. Al contrario, la forza che attrae al progresso e risponde alle esigenze interiori, si nasconde e opera nelle coscienze degli individui, soprattutto di coloro che si avvicinano alla vita, come si suol dire, più da vicino e intimamente. Ecco qui, Venerabili Fratelli, che si fa strada la dottrina più perniciosa, che introduce nella Chiesa i membri del laicato come elementi di progresso… – Da una sorta di alleanza e di patto tra queste due forze, la conservatrice e la promotrice del progresso, cioè tra l’autorità e le coscienze degli individui, avvengono progressi e cambiamenti. Infatti, la coscienza degli individui, o di alcuni di essi, agisce sulla coscienza collettiva; ma quest’ultima agisce su coloro che hanno l’autorità, costringendoli a stipulare accordi e a rispettare il patto.–A seguito di ciò, inoltre, è facile capire perché i modernisti si meravigliano così tanto, quando si rendono conto di essere catturati o puniti. Ciò che per loro è una colpa, loro stessi lo considerano un dovere religioso da compiere. Nessuno meglio di loro conosce i bisogni delle coscienze, perché sono più a contatto con loro di quanto non lo sia l’autorità ecclesiastica. Pertanto, essi raccolgono tutti questi bisogni, per così dire, dentro di sé; e così sono tenuti al dovere di parlare e scrivere pubblicamente. Che l’autorità li rimproveri, se vuole; essi stessi sono sostenuti dalla coscienza del dovere e sanno per intima esperienza che non meritano critiche ma elogi. Di certo non sfugge loro che il progresso non si fa senza lotte, né le lotte senza vittime; perciò siano essi stessi vittime, come i profeti e Cristo. Poiché godono di cattiva fama, non guardano con sospetto l’autorità per questo motivo; ammettono persino che essa compie il suo dovere. Si lamentano solo di non essere ascoltati, perché così si ostacola il cammino delle anime; ma il momento di porre fine ai ritardi arriverà sicuramente, perché le leggi dell’evoluzione possono essere fermate, ma non possono assolutamente essere infrante. Perciò continuano sulla loro strada; continuano, anche se confutati e condannati, nascondendo la loro incredibile audacia con un velo di finta umiltà. In effetti, chinano la testa per finta, ma con le mani e con la mente portano avanti con coraggio ciò che hanno intrapreso. Inoltre, agiscono in modo del tutto volontario e consapevole, sia perché ritengono che l’autorità debba essere stimolata e non rovesciata, sia perché è una necessità per loro rimanere all’interno dell’ovile della Chiesa, per poter cambiare gradualmente la coscienza collettiva. Tuttavia, quando dicono questo, non fanno notare che confessano che la coscienza collettiva è a prescindere da loro, e quindi senza diritto si propongono come suoi interpreti. . . . [Ma dopo aver osservato il filosofo, il credente e il teologo tra i seguaci del modernismo, non ci resta che osservare allo stesso modo lo storico, il critico, l’apologeta e il riformatore.

3494. Dz 2096 [IV] Alcuni dei modernisti che si sono dedicati alla composizione della storia sembrano particolarmente preoccupati di non essere creduti filosofi; anzi, si professano del tutto privi di esperienza filosofica. Questo lo fanno con consumata astuzia, per evitare, ad esempio, che qualcuno pensi che siano imbevuti delle opinioni pregiudiziali della filosofia e che, per questo motivo, come dicono, non siano affatto obiettivi. la verità è che la loro storia o la loro critica è pura filosofia; e qualsiasi conclusione a cui sono arrivati, è derivata da un ragionamento corretto dai loro principi filosofici. I primi tre canoni di questi storici e critici, come abbiamo detto, sono gli stessi principi che abbiamo citato sopra a proposito dei filosofi: l’agnosticismo, il teorema della trasfigurazione delle cose per fede e un altro che, a quanto pare, potrebbe essere chiamato “sfigurazione”. Vediamo ora le conseguenze che ne derivano singolarmente.

3495. –Secondo l’agnosticismo, la storia, così come la scienza, si occupa solo di fenomeni. Pertanto, come Dio, così ogni intervento divino nelle vicende umane deve essere relegato alla fede, in quanto appartenente solo ad essa. Così, se si verifica qualcosa che consiste in un doppio elemento, divino e umano, come sono Cristo, la Chiesa, i sacramenti e molti altri di questo tipo, ci dovrà essere una divisione e una separazione, in modo che ciò che era umano possa essere assegnato alla storia e ciò che era divino alla fede. Così, la distinzione comune tra i modernisti tra il Cristo della storia e il Cristo della fede, la Chiesa della storia e la Chiesa della fede, i sacramenti della storia e i sacramenti della fede, e altre distinzioni simili in generale.

3496. –Allora si deve parlare di questo stesso elemento umano, che vediamo lo storico assumere per sé, come appare nei documenti, innalzato al di sopra delle condizioni storiche dalla fede attraverso la trasfigurazione. così, le aggiunte fatte dalla fede devono a loro volta essere dissociate, e relegate alla fede stessa, e alla storia della fede; così, quando si parla di Cristo, si deve dissociare tutto ciò che supera la condizione naturale dell’uomo, come mostra la psicologia, o che è stato innalzato fuori dal luogo e dal tempo in cui è vissuto.

3497. -Inoltre, in accordo con il terzo principio della filosofia, anche le cose che non escono dal campo della storia, le vedono per così dire al setaccio, eliminando tutto e relegando alla fede anche quelle che, a loro giudizio, non sono nella logica dei fatti o non sono adatte ai personaggi. Così non vogliono che Cristo abbia detto quelle cose che sembrano superare le capacità della moltitudine in ascolto. Perciò dalla sua storia reale cancellano e trasferiscono alla fede tutte le allegorie che si trovano nei suoi discorsi. Forse dovremmo chiederci in base a quale legge questi argomenti vengono dissociati? Dal carattere dell’uomo, dalla condizione di cui godeva nello Stato, dalla sua educazione, dal complesso degli incidenti di ogni fatto, in una parola, se capiamo bene, da una norma che infine a un certo punto si ritira nel meramente soggettivo. Essi mirano, naturalmente, ad assumere essi stessi il carattere di Cristo e, per così dire, a farlo proprio; tutto ciò che, in circostanze simili, avrebbero fatto loro, lo trasferiscono a Cristo.-Per concludere, a priori e secondo certi principi di filosofia che essi in verità detengono ma che professano di ignorare, affermano che Cristo, in quella che chiamano storia reale, non è Dio e non ha mai fatto nulla di divino; anzi, che ha fatto e detto come uomo ciò che essi stessi gli attribuiscono il diritto di fare e di dire, riportandosi ai suoi tempi.

3498. Dz 2097 [Inoltre, come la storia riceve le sue conclusioni dalla filosofia, così la critica prende le sue conclusioni dalla storia. Infatti il critico, seguendo le indicazioni fornite dallo storico, divide i documenti in due modi. Ciò che rimane dopo la triplice eliminazione appena menzionata lo assegna alla storia reale; il resto lo delega alla storia della fede o storia interna. Infatti, essi distinguono nettamente tra queste due storie; la storia della fede (e questo vogliamo che sia ben notato) la oppongono alla storia reale, in quanto reale. Così, come abbiamo già detto, i due Cristi: uno reale, l’altro, che non è mai stato di fatto, ma appartiene alla fede; uno che è vissuto in un certo luogo e in una certa epoca; un altro, che si trova solo nei pii commenti della fede; tale, per esempio, è il Cristo che il Vangelo di Giovanni presenta, che, secondo loro, non è altro che una meditazione.

Dz 2098 Ma il dominio della filosofia sulla storia non è finito con questo. Dopo che i documenti sono stati distribuiti in modo duplice, il filosofo si ripresenta con il suo dogma dell’immanenza vitale e dichiara che tutte le cose nella storia della Chiesa devono essere spiegate con l’emanazione vitale. Ma la causa o la condizione dell’emanazione vitale deve essere collocata in qualche necessità o bisogno; quindi, anche il fatto deve essere concepito dopo la necessità, e l’uno è storicamente posteriore all’altro. –Perché allora lo storico? Dopo aver esaminato nuovamente i documenti, sia quelli contenuti nei Libri Sacri che quelli introdotti altrove, ne ricava un indice delle esigenze particolari che riguardano non solo il dogma, ma anche la liturgia e altre questioni che hanno avuto un posto uno dopo l’altro nella Chiesa. Consegna l’indice così realizzato al critico. Ora egli (il critico) prende in mano i documenti che sono dedicati alla storia della fede, e li dispone età per età in modo che corrispondano uno per uno all’indice presentato, sempre tenendo presente il precetto che il fatto è preceduto dal bisogno, e il bisogno dal fatto. Certo, a volte può accadere che alcune parti della Bibbia, come ad esempio le epistole, siano il fatto stesso creato dal bisogno. Tuttavia, qualunque cosa sia, la legge è che l’età di un documento non può essere determinata altrimenti che dall’età di un bisogno che è sorto nella Chiesa.- Inoltre, bisogna distinguere tra l’origine di un fatto e lo sviluppo dello stesso, perché ciò che può nascere in un giorno, cresce solo con il passare del tempo. Per questo motivo il critico deve, come abbiamo detto, dividere nuovamente i documenti già distribuiti nei secoli, separando quelli che hanno a che fare con l’origine della cosa e quelli che riguardano il suo sviluppo, e deve a sua volta disporli per periodi.

Dz 2099 Poi c’è di nuovo posto per il filosofo, il quale impone allo storico di esercitare il suo zelo come prescrivono i precetti e le leggi dell’evoluzione. Quindi lo storico esamina di nuovo i documenti; esamina attentamente le circostanze e le condizioni che la Chiesa ha vissuto periodo dopo periodo: la sua forza conservatrice, le necessità interne ed esterne che l’hanno stimolata a progredire, gli ostacoli che le sono stati frapposti, in una parola, tutto ciò che aiuta a determinare come le leggi dell’evoluzione sono state mantenute. Infine, descrive la storia dello sviluppo, per così dire, a grandi linee. Il critico entra in scena e adatta il resto dei documenti. Si mette a scrivere. La storia è finita… Ora ci chiediamo: a chi si deve attribuire questa storia? Allo storico o al critico? Sicuramente a nessuno dei due, ma al filosofo. L’intera faccenda è portata avanti per apriorismo, anzi per un apriorismo che puzza di eresia. Sicuramente sono da compatire questi uomini, dei quali l’Apostolo avrebbe detto: “Diventano vani nei loro pensieri. … professandosi sapienti sono diventati stolti” (Rm 1,21-22); eppure ci fanno arrabbiare, quando accusano la Chiesa di confondere e cambiare i documenti in modo tale che possano testimoniare a suo vantaggio. Sicuramente accusano la Chiesa di ciò per cui si sentono apertamente condannati dalla loro stessa coscienza.

Dz 2100 Inoltre, come risultato di questa divisione e disposizione dei documenti per epoche, ne consegue naturalmente che i Libri Sacri non possono essere attribuiti a quegli autori a cui in realtà sono attribuiti. Per questo motivo i modernisti in genere non esitano ad affermare che quegli stessi libri, specialmente il Pentateuco e i primi tre Vangeli, dal breve resoconto originale sono cresciuti gradualmente con aggiunte, con interpolazioni, anzi, alla maniera di interpretazioni teologiche o allegoriche; o anche con l’interposizione di parti solo per unire brani diversi. Per dirla brevemente e più chiaramente, si deve certamente ammettere l’evoluzione vitale dei Libri Sacri, nata dall’evoluzione della fede e corrispondente alla stessa.–Infatti, aggiungono che le tracce di questa evoluzione sono così evidenti che la sua storia può quasi essere descritta. Anzi, la descrivono senza esitazione, tanto che si potrebbe credere di aver visto con i propri occhi gli stessi scrittori che, in ogni epoca, si sono dedicati all’ampliamento dei Libri Sacri. Inoltre, per sostenere queste azioni chiamano in aiuto una critica che chiamano testuale; e si sforzano di convincerci che questo o quel fatto o espressione non è al suo posto, e adducono altri argomenti del genere… Si direbbe infatti che abbiano prescritto per se stessi certi tipi, per così dire, di narrazioni e di discorsi, in seguito ai quali decidono con certezza ciò che sta al suo posto o in un posto sconosciuto… Chi vuole giudichi quanto possano essere abili a prendere decisioni in questo modo. Inoltre, chi li ascolta mentre parlano dei loro studi sui Libri Sacri, in seguito ai quali è stato loro concesso di scoprire tante cose impropriamente enunciate, quasi crederebbe che nessun uomo prima di loro abbia sfogliato le pagine di questi stessi libri; e che un numero quasi infinito di dottori non li abbia esaminati da ogni punto di vista, un gruppo chiaramente molto superiore a loro per mente, erudizione e santità di vita. Questi sapientissimi dottori, infatti, lungi dal trovare difetti nelle Sacre Scritture in ogni loro parte, anzi, più le esaminavano a fondo, più ringraziavano l’autorità divina per essersi degnata di parlare così con gli uomini. Ma, ahimè, i nostri dottori, per quanto riguarda i Libri Sacri, non si affidavano a quegli ausili su cui si basano i modernisti; quindi non avevano la filosofia come maestro e guida, né sceglievano se stessi come propria autorità nel prendere decisioni. Ora, dunque, ci sembra chiaro quale sia il metodo dei modernisti nel campo della storia. Il filosofo va avanti; lo storico gli succede; subito dopo, nell’ordine, opera la critica, sia interna che testuale. E poiché è caratteristica della causa prima comunicare il suo potere alle sue conseguenze, diventa evidente che tale critica non è affatto critica; che è giustamente chiamata agnostica, immanentista ed evoluzionista; e che quindi, chi la professa e la usa, professa gli errori impliciti nella stessa e si oppone alla dottrina cattolica.–Per questo motivo può sembrare molto strano che una critica di questo tipo abbia oggi un tale peso tra i cattolici. Ciò ha ovviamente una duplice causa: innanzitutto il patto con cui gli storici e i critici di questo tipo sono così strettamente uniti, mettendo in secondo piano le differenze di nazionalità e il dissenso delle religioni; poi l’infinita sfrontatezza con cui tutti, a una sola voce, esaltano ciò che ciascuno di loro blatera, attribuendolo al progresso della scienza; con cui, a stretto giro, attaccano colui che vuole esaminare la nuova meraviglia o la propria; con cui accusano di ignoranza colui che la nega, adornando di lodi colui che la abbraccia e la difende. Da questo potente dominio da parte di chi è nell’errore e da questa incurante adesione da parte delle anime volubili, deriva una corruzione dell’atmosfera circostante che penetra ovunque e diffonde la sua pestilenza.

3499. Dz 2101 [VI] Ma passiamo all’apologeta. Anche lui, tra i modernisti, dipende in modo duplice dal filosofo. Prima indirettamente, prendendo come materia la storia, scritta su dettatura del filosofo, come abbiamo visto; poi direttamente, avendo ottenuto da lui le sue dottrine e i suoi giudizi. Da qui quel precetto diffuso nella scuola dei modernisti secondo cui la nuova apologetica dovrebbe risolvere le controversie sulla religione con indagini storiche e psicologiche. Pertanto, l’apologeta modernista affronta il suo compito consigliando ai razionalisti di difendere la religione non con i Libri Sacri, né con la storia ampiamente utilizzata nella Chiesa, che è scritta alla vecchia maniera, ma con la vera storia composta da principi moderni e dal metodo moderno. E questo lo affermano non come se usassero un argumentum ad hominem, ma perché di fatto pensano che solo tale storia tramandi la verità. In effetti, non si preoccupano di affermare la loro sincerità in ciò che scrivono; sono già conosciuti tra i nazionalisti; sono già lodati per aver prestato servizio sotto la stessa bandiera; e su questa lode, che un vero cattolico rifiuterebbe, si congratulano con se stessi, e la sostengono contro i rimproveri della Chiesa.-Ma ora vediamo come procede uno di loro nelle sue scuse.

3500. Il fine che si prefigge di raggiungere è questo: conquistare alla fede una persona finora inesperta, affinché raggiunga questa esperienza della religione cattolica, che secondo i modernisti è l’unica base della fede. A questo scopo si aprono due vie: una oggettiva, l’altra soggettiva. La prima procede dall’agnosticismo e si sforza di mostrare che nella religione, soprattutto nella religione cattolica, c’è quella virtù vitale che persuade ogni psicologo e anche ogni storico di buona volontà che nella sua storia deve nascondersi qualcosa di ignoto. A tal fine è necessario dimostrare che la religione cattolica, così come esiste oggi, è esattamente quella che Cristo ha fondato, o che non è altro che lo sviluppo progressivo di quel germe che Cristo ha introdotto. Per prima cosa, quindi, bisogna stabilire di che natura sia questo germe. Questo, inoltre, vogliono dimostrare con la seguente formula: Il Cristo ha annunciato l’avvento del regno di Dio, che sarebbe stato instaurato a breve, e che Egli stesso ne sarebbe stato il Messia, cioè il fondatore e ordinatore divinamente dato. Poi bisogna mostrare in che modo questo germe, sempre immanente e permanente nella religione cattolica, si è evoluto gradualmente e secondo la storia, e si è adattato alle circostanze successive, prendendo da queste vitalmente qualsiasi forma dottrinale, culturale ed ecclesiastica fosse utile per lui, ma nel frattempo superando gli ostacoli che incontrava, disperdendo i suoi nemici e sopravvivendo a tutti gli attacchi e i combattimenti. Tuttavia, dopo che è stato dimostrato che tutti questi ostacoli, nemici, attacchi, combattimenti, e anche la vitalità e la fecondità della Chiesa sono stati di natura tale che, sebbene le leggi dell’evoluzione appaiano inalterate nella storia della Chiesa, tuttavia non saranno sviluppate appieno dalla stessa storia; l’ignoto si troverà di fronte ad essa e si presenterà da sé. In tutto questo ragionamento, però, non notano che la determinazione del germe primitivo è dovuta unicamente all’apriorismo del filosofo agnostico ed evoluzionista, e che il germe stesso è definito da loro in modo così gratuito da adattarsi al loro caso.

Dz 2102 Tuttavia, mentre con la recita di argomenti i nuovi apologeti lottano per proclamare e portare convinzione alla religione cattolica, di loro iniziativa ammettono e concedono che in essa ci sono molte cose che offendono. Con una sorta di malcelato piacere dichiarano persino ripetutamente e apertamente di trovare errori e contraddizioni anche nel campo del dogma; eppure aggiungono che questi non solo ammettono una scusa, ma, cosa che dovrebbe essere oggetto di meraviglia, che sono stati prodotti in modo giusto e legittimo. Così, anche secondo loro, molto dei Libri Sacri nel campo della scienza e della storia è affetto da errore. Ma essi affermano che qui non si tratta di scienza o storia, ma solo di religione e morale. Lì la scienza e la storia sono una sorta di copertura con cui si legano le esperienze religiose e morali, in modo che possano diffondersi più facilmente tra le masse; poiché, in effetti, le masse non lo capirebbero altrimenti, un tipo di scienza e di storia più perfetto non sarebbe stato un aiuto ma un danno per loro. Ma, aggiungono, i Libri Sacri, in quanto religiosi per natura, possiedono necessariamente la vita; ora, la vita ha anche una sua verità e una sua logica, ben diversa dalla verità razionale e dalla logica razionale, anzi di tutt’altro ordine, cioè la verità del confronto e della proporzione non solo in riferimento al mezzo (così essi stessi lo chiamano) in cui si vive, ma anche in riferimento al fine per cui si vive. Infine, procedono a tal punto che, abbandonando ogni freno, affermano che qualsiasi cosa si evolva attraverso la vita, è del tutto vera e legittima.-Ora noi, Venerabili Fratelli, per i quali esiste una sola, unica verità, e che consideriamo i Libri Sacri così, “che scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo hanno Dio come autore” [cfr. n. 1787], dichiariamo che questo è lo stesso che dare la menzogna dell’utilità, o la menzogna offensiva a Dio stesso, e affermiamo con le parole di Sant’Agostino: “Una volta ammessa una qualche menzogna illecita contro un’autorità così elevata, non resterà in quei libri una clausola che, per quanto possa apparire a chiunque difficile da praticare o incredibile da credere, non sia riferita, secondo questa stessa regola perniciosa, al piano e allo scopo di un autore bugiardo”. * Perciò accadrà, come aggiunge lo stesso Santo Dottore: “In queste, cioè nelle Scritture, ognuno crederà ciò che vorrà; ciò che non vorrà, non crederà. “* Ma gli apologeti modernisti vanno avanti rapidamente. Ammettono anche che nei Libri Sacri si scoprono spesso ragionamenti che tentano di dimostrare una certa dottrina senza fondamento razionale, come quelli che si basano sulle profezie. E li difendono come una sorta di artificio per la predicazione, reso legittimo dalla vita. Che cosa c’è di più? Ammettono, anzi, affermano che Cristo stesso ha palesemente sbagliato nell’indicare il tempo della venuta del regno di Dio; e questo non dovrebbe sembrare strano, dicono, perché anche Lui era legato alle leggi della vita! E che dire dei dogmi della Chiesa? Anche questi abbondano di aperte contraddizioni; ma oltre al fatto che sono ammessi dalla logica vitale, non si oppongono alla verità simbolica; perché in questi si tratta di una questione di infinito, a cui appartengono infinite considerazioni. Infine, dimostrano e difendono tutto questo a tal punto da non esitare a professare che non c’è onore più nobile per l’Infinito che l’affermazione di contraddizioni su di Lui.-Ma quando una contraddizione è approvata, cosa non sarà approvato?

Dz 2103 Chi non crede ancora può essere disposto alla fede non solo con argomenti oggettivi ma anche soggettivi. A questo scopo gli apologeti modernisti tornano alla dottrina dell’immanenza. Si sforzano infatti di persuadere l’uomo che in lui, e nei recessi più reconditi della sua natura e della sua vita, si celano il desiderio e il bisogno di una qualche religione; non di una religione qualsiasi, ma di una religione come quella cattolica; perché questa, dicono, è assolutamente postulata dal perfetto sviluppo della vita. Qui, inoltre, dobbiamo ancora una volta lamentare con forza che tra i cattolici non mancano coloro che, pur rifiutando la dottrina dell’immanenza come dottrina, la utilizzano come metodo di apologia; e lo fanno in modo così incurante che sembrano ammettere nella natura umana non solo una capacità e un’idoneità all’ordine soprannaturale, come alcuni apologeti cattolici hanno sempre dimostrato entro i giusti limiti, ma un vero e proprio bisogno nel vero senso della parola.– Per essere più precisi, questa necessità della religione cattolica è introdotta dai modernisti che vogliono essere conosciuti come i più moderati. Infatti, coloro che possono essere chiamati integralisti desiderano che il germe sia dimostrato all’uomo che non crede ancora, come se fosse nascosto in lui, lo stesso germe che era nella coscienza di Cristo e che è stato trasmesso agli uomini da Lui. Così dunque, Venerabili Fratelli, riconosciamo il metodo apologetico dei modernisti, sommariamente descritto, come del tutto conforme alla loro dottrina; un metodo invero, come anche le dottrine, pieno di errori, non adatto a edificare, ma a distruggere, non a rendere cattolici, ma a trascinare i cattolici nell’eresia, sì, persino a sovvertire completamente ogni religione.

Dz 2104 [VII] Infine, occorre spendere qualche parola sul modernista come riformatore. Quanto abbiamo detto finora mostra abbondantemente quanto grande e acuto sia lo zelo per l’innovazione di questi uomini. Inoltre, questo zelo si estende a tutto ciò che esiste tra i cattolici. Vogliono riformare la filosofia, soprattutto nei seminari ecclesiastici, affinché, dopo aver relegato la filosofia scolastica nella storia della filosofia insieme agli altri sistemi obsoleti, si insegni ai giovani la filosofia moderna, che è l’unica vera e conforme alla nostra epoca.-Per riformare la teologia, desiderano che ciò che chiamiamo razionale abbia come base la filosofia moderna, ma pretendono che la teologia positiva sia basata soprattutto sulla storia del dogma.-Chiedono anche che la storia sia scritta e insegnata secondo il loro metodo e le loro prescrizioni moderne. I dogmi e la loro evoluzione, dichiarano, devono essere messi in armonia con la scienza e la storia. Per quanto riguarda la catechesi, chiedono che nel catechismo siano annotati solo i dogmi che sono stati riformati e che sono alla portata delle masse. Per quanto riguarda il culto, dicono che le devozioni esterne devono essere ridotte di numero e che si devono prendere provvedimenti per impedirne l’aumento, anche se alcuni che sono più favorevoli al simbolismo si mostrano più indulgenti su questo punto.-Gridano che il governo della Chiesa deve essere riformato sotto ogni aspetto, ma soprattutto dal punto di vista disciplinare e dogmatico. Così, sia all’interno che all’esterno, deve essere armonizzato con la coscienza moderna, come dicono, che tende interamente alla democrazia; così al clero inferiore e ai laici stessi devono essere assegnate parti appropriate nel governo, e quando l’autorità è stata unificata troppo e troppo centralizzata, deve essere dispersa.-Le congregazioni romane desiderano anche essere modificate nell’adempimento dei loro doveri sacri, ma soprattutto quello che è conosciuto come il Sant’Uffizio ed è anche chiamato l’Indice. Allo stesso modo, sostengono che l’azione dell’autorità ecclesiastica deve essere cambiata in campo politico e sociale, in modo che possa allo stesso tempo vivere in disparte dagli affari civili, ma adattarsi ad essi per impregnarli del suo spirito.–In campo morale adottano il principio degli americanisti, secondo cui le virtù attive devono essere anteposte a quelle passive, e devono essere messe in pratica. Desiderano che il clero sia preparato a praticare l’antica umiltà e povertà; inoltre, che nel pensiero e nell’azione si conformi ai precetti del modernismo.– Infine, ci sono alcuni che, dando retta alle parole dei loro maestri protestanti, desiderano l’eliminazione del santo celibato stesso dal sacerdozio… Che cosa, dunque, lasciano intatto nella Chiesa, che non debba essere riformato da loro o secondo i loro pronunciamenti?

Dz 2105 Nello spiegare tutta questa dottrina dei modernisti, Venerabili Fratelli, sembreremo ad alcuni, per caso, di aver indugiato troppo. Eppure era necessario farlo, sia perché, come di consueto, non fossimo accusati da loro di ignoranza dei loro principi, sia perché fosse chiaro che, quando si parla di modernismo, non si tratta di insegnamenti sparsi e non collegati tra loro, ma di un corpo unico e compatto, per così dire, in cui, se si ammette una cosa, il resto segue necessariamente. Così abbiamo fatto uso di ciò che equivale a un ragionamento didattico, e talvolta non abbiamo rifiutato le parole atroci che i modernisti hanno usato. – Ora, se guardiamo all’intero sistema con un solo sguardo, per così dire, nessuno si stupirà se lo definiamo come la sintesi di tutte le eresie. Di certo, se qualcuno si fosse proposto di riunire in un’unica soluzione la linfa e il sangue di tutti gli errori che sono esistiti sulla fede, nessuno avrebbe svolto il compito in modo più completo di quanto abbiano fatto i modernisti. Anzi, sono andati talmente oltre da distruggere non solo la religione cattolica, ma tutta la religione, come abbiamo già detto. Da qui il plauso dei razionalisti; per questo motivo quelli tra i razionalisti che parlano più liberamente e apertamente si congratulano per non aver trovato alleati più efficaci dei modernisti.

Dz 2106 Torniamo ora per un momento, Venerabili Fratelli, alla dottrina perniciosissima dell’agnosticismo. Con essa evidentemente, per quanto riguarda l’intelletto, si sbarra all’uomo ogni strada verso Dio, mentre si suppone che un approccio più adeguato sia aperto attraverso un certo senso dell’anima e dell’azione. Chi non vede quanto questo sia sbagliato? Perché il senso dell’anima è la risposta all’azione della cosa che l’intelletto e i sensi esterni hanno proposto. Se si toglie l’intelletto, l’uomo sarà portato a seguire i sensi esterni, nella cui direzione sta già procedendo. Anche questo è un male; perché eventuali fantasie del senso religioso non distruggeranno il senso comune; inoltre, il senso comune ci insegna che ogni turbamento o occupazione dell’anima non è un aiuto, ma piuttosto un ostacolo alla ricerca della verità, della verità, diciamo, così com’è in sé; perché quell’altra verità soggettiva, frutto del senso interno e dell’azione, se davvero è adatta al gioco, non contribuisce affatto all’uomo, la cui principale preoccupazione è sapere se al di fuori di sé c’è un Dio nelle cui mani un giorno cadrà.– Ma i modernisti introducono l’esperienza come aiuto per questo grande compito. Ma cosa aggiungerà questo al senso dell’anima? Niente di niente, se non renderlo più veemente e, come risultato di questa veemenza, rendere la sua convinzione della verità dell’oggetto proporzionalmente più forte. Ora, queste due cose non fanno sì che il senso dell’anima cessi di essere senso, né cambiano la sua natura, che è sempre suscettibile di inganno, a meno che non sia diretto dall’intelletto; ma piuttosto lo confermano e lo aiutano, perché quanto più intenso è il senso, a maggior ragione è senso.

Dz 2107 Ora, poiché stiamo trattando del senso religioso e dell’esperienza in esso contenuta, sapete bene, Venerabili Fratelli, quanto ci sia bisogno di prudenza in questa materia; così come quanta dottrina debba guidare la prudenza stessa. Lo sapete per la vostra esperienza con le anime, soprattutto con quelle in cui il senso è preminente; lo sapete per l’abitudine di leggere i libri che trattano di ascesi, le quali opere, pur essendo di scarso valore per i modernisti, presentano una dottrina molto più solida e più profonda per l’osservazione della saggezza di quella che essi si arrogano. In effetti, ci sembra una follia, o almeno una consumata imprudenza, ritenere vere senza indagini le esperienze intime che i modernisti raccomandano. Ma perché, per parlare sommariamente, se c’è tanta forza e valore in queste esperienze, non si dovrebbe attribuire lo stesso valore a quell’esperienza che molte migliaia di cattolici affermano di avere riguardo al sentiero errato su cui camminano i modernisti? Non è forse tutto falso e fallace? Ma la grande maggioranza degli uomini è fermamente convinta di questo, e lo sarà: che attraverso il solo senso e l’esperienza, senza la guida e la luce della mente, l’uomo non potrà mai raggiungere Dio. E così abbiamo di nuovo l’ateismo e nessuna religione.

Dz 2108 I modernisti non si ripromettono nulla di meglio proclamando la dottrina del simbolismo. Infatti, se tutti gli elementi intellettuali, come dicono, sono solo simboli di Dio, il nome stesso di Dio o della personalità divina non sarà forse un simbolo? E se così fosse, allora ci sarebbe la possibilità di dubitare della personalità divina e si aprirebbe la strada al panteismo. Inoltre, allo stesso modo, l’altra dottrina dell’immanenza divina porta al panteismo puro e semplice. Infatti, chiediamo questo: Questa immanenza distingue o no Dio dall’uomo? Se distingue, in che cosa differisce dalla dottrina cattolica o perché rifiuta la dottrina della rivelazione esterna? Se non distingue, abbiamo il panteismo. Ma questa immanenza dei modernisti sostiene e concede che ogni fenomeno di coscienza procede dall’uomo in quanto uomo. Quindi il buon ragionamento ne deduce che Dio e l’uomo sono una cosa sola; e così abbiamo il panteismo.

Dz 2109 In effetti, la distinzione che essi proclamano tra scienza e fede non ammette altra conclusione. Infatti, essi pongono l’oggetto della scienza nella realtà del conoscibile; l’oggetto della fede, al contrario, nella realtà dell’inconoscibile. Ora, l’inconoscibile è pienamente stabilito da questo, che tra l’oggetto materiale e l’intelletto non c’è proporzione, e questo difetto di proporzione non potrà mai essere rimosso, nemmeno nella dottrina dei modernisti. Pertanto, l’inconoscibile rimarrà sempre inconoscibile, sia per il credente che per il filosofo. Perciò, se avremo una religione, sarà quella di una realtà inconoscibile. Perché questa non possa essere anche l’anima dell’universo, come ammettono alcuni razionalisti, non lo vediamo di certo. Ma lasciamo che queste parole siano sufficienti per mostrare pienamente come la dottrina dei modernisti conduca per molteplici vie all’ateismo e alla distruzione di ogni religione. In effetti, l’errore dei Protestanti è stato il primo a percorrere questa strada; l’errore dei modernisti lo segue; l’ateismo sarà il passo successivo. [Dopo aver fissato le cause di questi errori – curiosità, orgoglio, ignoranza della vera filosofia – si stabiliscono alcune regole per il sostegno e l’organizzazione degli studi filosofici, teologici e profani, e per la scelta prudente degli insegnanti, ecc.].

Motu Proprio “Præstantia Scripturæ“, 18 novembre 1907.

L’autorità delle decisioni della Commissione biblica.

3503. (Ci sono alcuni che) non hanno ricevuto o non ricevono queste decisioni con l’obbedienza dovuta, anche se sono approvate dal Sommo Pontefice. Per questo motivo riteniamo necessario dichiarare e ordinare, come espressamente dichiariamo e ordiniamo, che tutti, senza eccezione, sono tenuti in coscienza a obbedire alle decisioni della Pontificia Commissione Biblica, sia a quelle emanate che a quelle che saranno emanate, allo stesso modo dei decreti delle Sacre Congregazioni che hanno a che fare con la dottrina e che sono stati approvati dal Sommo Pontefice; che tutti coloro che, con parole o scritti, attaccheranno queste decisioni non potranno evitare la nota della disobbedienza o della temerarietà, e graveranno la loro coscienza di una grave colpa, senza contare lo scandalo che potranno causare e le altre responsabilità in cui potranno incorrere davanti a Dio per le loro affermazioni diverse, avventate ed erronee, come spesso accade in queste materie.

Risposta della Commissione Biblica. 29 giugno 1908

Personaggio e autore del libro di Isaia.

3505. Domanda 1: Si può insegnare che le profezie che si leggono nel libro di Isaia – e in vari passi delle Sacre Scritture – non sono profezie propriamente dette, ma narrazioni composte dopo l’evento, o che, se si deve ammettere che certi fatti erano stati predetti prima dell’evento, il profeta non ha predetto questi eventi per una rivelazione soprannaturale di Dio, che conosce il futuro, ma per una congettura dedotta dagli eventi passati, in virtù di una felice sagacia e della naturale perspicacia della sua mente? Risposta: No.

3506. Domanda n. 2: L’opinione che Isaia e gli altri profeti abbiano predetto solo eventi imminenti o prossimi può essere conciliata con le profezie – specialmente quelle messianiche ed escatologiche – che questi stessi profeti hanno certamente formulato con molto anticipo, e con il comune sentire dei Santi Padri, i quali affermano che i profeti hanno predetto anche eventi che si sarebbero realizzati solo molti secoli dopo? Risposta: No

3507. Domanda 3: Possiamo ammettere che i profeti, non solo quando censuravano la depravazione umana e annunciavano la Parola divina in vista di coloro che li ascoltavano, ma anche quando annunciavano eventi futuri, dovevano sempre rivolgersi non ad ascoltatori futuri, ma ad ascoltatori attuali e in una situazione simile alla loro, per poter essere pienamente compresi da loro, e che, di conseguenza, la seconda parte del libro di Isaia (Is 40-66), in cui il profeta rivolge parole di consolazione, come se vivesse in mezzo a loro, non a ebrei nella stessa situazione di Isaia, ma a ebrei che gemono nell’esilio babilonese, non può avere come autore Isaia stesso, morto da tempo, ma deve essere attribuita a un profeta sconosciuto che condivideva l’esistenza degli esuli? Risposta: No.

3508 Domanda 4: L’argomento filologico, basato sulla lingua e sullo stile, in virtù del quale si contesta l’identità dell’autore del libro di Isaia, deve essere giudicato così forte da obbligare un uomo serio, ben preparato nella conoscenza del metodo critico e della lingua ebraica, ad ammettere una pluralità di autori per questo stesso libro? Risposta No.

3509 Domanda 5: Esistono argomenti solidi, anche presi collettivamente, per dimostrare che il libro di Isaia non deve essere attribuito al solo Isaia, ma a due o addirittura più autori? Risposta: No.

Risposta della Commissione Biblica, 30 giugno 1909.

Il carattere storico dei primi capitoli della Genesi

3512 Domanda 1: I vari sistemi esegetici che sono stati escogitati per escludere il significato storico letterale dei primi tre capitoli del libro della Genesi, e che sono stati difesi con il pretesto della scienza, si basano su solide fondamenta? Risposta: No.

3513 Domanda 2 : È possibile, nonostante il carattere e la forma storica del libro della Genesi, il particolare legame che esiste tra i primi tre capitoli e tra questi e i capitoli successivi, le molteplici testimonianze delle Scritture sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, l’opinione quasi unanime dei Santi Padri e l’opinione tradizionale, trasmessa anche dal popolo israelita, che la Chiesa ha sempre sostenuto, ad insegnare che i tre capitoli suddetti della Genesi non contengono racconti di cose realmente accadute, cioè corrispondenti alla realtà oggettiva e alla verità storica, ma sono o favole prese in prestito dai miti e dalle cosmogonie dei popoli antichi e adattate dall’autore sacro alla dottrina monoteista dopo aver espurgato ogni errore politeista, o allegorie o simboli privi del fondamento della realtà oggettiva e che sono stati proposti sotto la veste della storia per inculcare verità religiose e filosofiche, o infine leggende, in parte storiche e in parte inventate, che sono state liberamente composte per l’istruzione e l’edificazione delle anime? Risposta: No per entrambe le parti.

3514 Domanda n. 3 : È possibile, in particolare, dubitare del senso storico letterale quando si tratta di fatti narrati in questi stessi capitoli che toccano il fondamento della religione cristiana, come, tra gli altri, la creazione di tutte le cose fatte da Dio all’inizio dei tempi; la creazione particolare dell’uomo; la formazione della prima donna dal primo uomo; l’unità del genere umano; la felicità originaria dei primi genitori nello stato di rettitudine, integrità e immortalità; il comandamento dato da Dio all’uomo per testare la sua obbedienza; la trasgressione del precetto divino, su istigazione del diavolo sotto forma di serpente; la caduta dei primi genitori da questo primitivo stato di innocenza; e la promessa del Redentore a venire? Risposta: No.

3515 Domanda 4: Nell’interpretare i passi di questi capitoli, che i Padri e i Dottori hanno inteso in modi diversi, senza trasmettere qualcosa.

hanno inteso in modi diversi senza trasmettere nulla di certo e definito, è lecito, essendo sicuro il giudizio della Chiesa e salvaguardata l’analogia della fede, seguire e difendere l’opinione che ciascuno, con prudenza, ha ritenuto giusta? Risposta: Sì.

3516 Domanda 5: Tutte le cose e ciascuna di esse, cioè le parole e le frasi, che compaiono nei capitoli sopra citati sono sempre e necessariamente da intendersi nel senso proprio, così che non è mai permesso discostarsene, anche quando risulta che i modi di dire sono stati usati in modo improprio, metaforico o analogico, e che la ragione vieta di attenersi al senso proprio o la necessità impone di abbandonarlo? Risposta: No.

3517. Domanda 6: Dato che il senso letterale e storico è presupposto, è possibile applicare, in modo saggio e utile, un’interpretazione allegorica e profetica di alcuni passi di questi stessi capitoli, secondo l’esempio luminoso dei santi Padri e della Chiesa stessa? Risposta: Sì.

3518. Domanda 7: Sebbene, nel comporre il primo capitolo della Genesi, l’intenzione dell’autore sacro non fosse quella di insegnare in modo scientifico la costituzione interna delle realtà visibili e l’ordine completo della creazione, ma piuttosto di trasmettere al suo popolo una conoscenza popolare quale il linguaggio comune dell’epoca consentiva, e che era adatta ai sensi e alle capacità degli uomini, dobbiamo, nell’interpretare queste cose, cercare esattamente e costantemente il carattere proprio del discorso scientifico? Risposta: No.

3519. Domanda 8: In questa designazione e distinzione dei sei giorni di cui si parla nel primo capitolo della Genesi, la parola yôm (giorno) può essere intesa sia in senso proprio, come giorno naturale, sia in senso improprio, come un certo lasso di tempo, ed è lecito discutere questa questione tra esegeti? Risposta: Sì.

Risposta della Commissione Biblica, 1 maggio 1910.

Autore e data di redazione dei Salmi.

3521. Domanda n. 1: Le denominazioni “Salmi di Davide”, “Inni di Davide”, “Libro dei Salmi di David”, “Salterio davidico”, che sono stati usati nelle antiche raccolte e nei primi concili per designare il libro dei centocinquanta Salmi dell’Antico Testamento, così come l’opinione di diversi Padri e Dottori che hanno sostenuto che tutti i Salmi del Salterio devono essere attribuiti al solo David, sono di tale importanza che David deve essere considerato come l’unico autore dell’intero Salterio? Risposta: No.

3522 Domanda 2: La concordanza tra il testo ebraico e il testo greco di Alessandria e di altre versioni antiche ci permette di affermare a ragion veduta che i titoli dei Salmi che precedono il testo ebraico sono più antichi della traduzione nota come LXX, e che di conseguenza provengono, se non direttamente dagli autori dei Salmi stessi, almeno da un’antica tradizione ebraica? Risposta: Sì.

3523 Domanda n. 3: Si può ragionevolmente dubitare dei titoli dei suddetti Salmi, testimoni della tradizione ebraica, quando non vi sono ragioni importanti contro la loro autenticità? Risposta: No.

3524 Domanda 4 : Se consideriamo le testimonianze della Sacra Scrittura, che non sono rare, sul talento naturale, illuminato dal dono benevolo dello Spirito Santo, che Davide aveva per la composizione di canti religiosi, sulle disposizioni da lui stabilite per il canto liturgico dei Salmi, sul fatto che i Salmi sono attribuiti a lui sia nell’Antico Testamento che nel Nuovo, e sui titoli che per lungo tempo sono stati posti davanti ai Salmi, Oltre all’accordo degli ebrei, dei Padri e dei Dottori della Chiesa, è ragionevolmente possibile negare che Davide sia l’autore principale dei canti del Salterio o, al contrario, affermare che solo un piccolo numero di canti debba essere attribuito a questo stesso cantore reale? Risposta: No per entrambe le parti.

3525. Domanda 5: È possibile, in particolare, negare l’origine davidica di quei Salmi che nell’Antico e nel Nuovo Testamento sono espressamente citati con il nome di Davide, e tra i quali dobbiamo menzionare in particolare il Salmo 2: “Perché questo turbamento delle nazioni?”. Salmo 2; Salmo 15: “Custodiscimi Signore” Salmo 15; Salmo 16: “Voglio amare te, Signore, mia forza” Salmo 17; Salmo 29: “Beati quelli a cui sono perdonate le iniquità” Salmo 30; Salmo 68: “Dio, salvami” Salmo 68; Salmo 109: “Il Signore dice al mio Signore”? Risposta: No.

3526. Domanda 6: È possibile ammettere l’opinione di coloro che affermano che tra i Salmi del Salterio ve ne sono alcuni il cui autore è Davide o altri e che, per motivi liturgici o musicali, per la fatica degli scribi o per altre ragioni, sono stati divisi in più o uniti in uno solo; e allo stesso modo che vi sono altri Salmi, come “Pietà di me Signore” Sal 50, che per adattarsi meglio alle circostanze storiche o alle festività del popolo ebraico, sono stati leggermente rimaneggiati o modificati, con la cancellazione o l’aggiunta di uno o più versetti, salvaguardando tuttavia l’ispirazione del testo sacro nel suo insieme? Risposta: Sì per entrambe le parti.

3527. È possibile sostenere come probabile l’opinione di quegli autori recenti che, basandosi solo su indizi interni o su un’interpretazione meno corretta del testo sacro, hanno cercato di dimostrare che un numero abbastanza elevato di Salmi è stato composto dopo i tempi di Esdra e Neemia, o addirittura al tempo dei Maccabei? Risposta: No.

3528. Domanda 8: Date le molteplici testimonianze dei libri sacri del Nuovo Testamento e l’accordo unanime dei Padri, o anche ciò che viene detto da autori del popolo ebraico, è necessario riconoscere diversi Salmi profetici e messianici che predicevano la venuta, il Regno, il sacerdozio, la Passione, la morte e la Risurrezione del Liberatore a venire; e per questo motivo dobbiamo respingere assolutamente l’opinione di coloro che mettono in dubbio il carattere profetico e messianico dei Salmi, e che limitano questi oracoli relativi a Cristo alla mera predizione del futuro destino del popolo eletto? Risposta: Sì per entrambe le parti.

Decreto della Sacra Congregazione per i Sacramenti “Quam singulari”, 8 agosto 1910.

Comunione e unzione degli infermi nei bambini

3530 I. L’età della discrezione per la confessione e per la Comunione è quella in cui il bambino comincia a ragionare, cioè verso i sette anni, o anche meno. Da questo momento inizia l’obbligo di osservare il duplice precetto della confessione e della comunione 812.

3531 II. La conoscenza piena e perfetta della dottrina cristiana non è necessaria per la prima confessione e la prima comunione. Il bambino, tuttavia, deve continuare ad apprendere l’intero catechismo gradualmente, secondo le capacità della sua intelligenza.

3532 III. La conoscenza della religione richiesta al bambino per prepararlo adeguatamente alla prima comunione è che egli comprenda, secondo le sue capacità, i misteri necessari della fede, che sono tanti mezzi, e che sappia distinguere il pane eucaristico dal pane ordinario e corporale, per accostarsi alla Santissima Eucaristia con la devozione che la sua età richiede.

3533 IV. L’obbligo del precetto della confessione e della comunione, che riguarda il bambino, ricade soprattutto su coloro che ne sono responsabili, cioè i genitori, il confessore, gli insegnanti e il parroco. Ma secondo il Catechismo Romano, spetta al padre o a chi lo sostituisce e al confessore ammettere il bambino alla Prima Comunione.

3534 VI. Coloro che hanno la responsabilità dei bambini abbiano cura di portarli frequentemente alla santa mensa dopo la Prima Comunione e, se possibile, anche ogni giorno, come desiderano Cristo Gesù e la nostra Madre Chiesa 3375-3383 e che lo facciano con la devozione adeguata alla loro età.

3535 VII. L’usanza di non ammettere alla confessione o di non assolvere mai i bambini che hanno raggiunto l’età della ragione è da riprovare assolutamente.

3536 VIII. È un abuso detestabile non dare il viatico e l’estrema unzione ai bambini che hanno raggiunto l’età della ragione e seppellirli secondo il rito dei neonati.

Motu proprio “Sacrorum antistitum”, 1° settembre 19l0

Giuramento antimodernista

3537. Io, N…, abbraccio e accolgo fermamente tutte le verità che sono state definite, affermate e dichiarate dal Magistero infallibile della Chiesa, specialmente quei capitoli di dottrina che si oppongono direttamente agli errori di questo tempo.

3538 In primo luogo, professo che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere certamente conosciuto, e quindi anche dimostrato alla luce naturale della ragione, “da ciò che è stato fatto” (Rm 1,20), cioè dalle opere visibili della creazione, come la causa dagli effetti.

3539. In secondo luogo, ammetto e riconosco le prove esterne della Rivelazione, cioè i fatti divini, in particolare i miracoli e le profezie, come segni molto certi dell’origine divina della religione cristiana, e ritengo che siano pienamente adatti alla comprensione di tutti gli uomini, anche di quelli di oggi.

3540. In terzo luogo, credo anche fermamente che la Chiesa, custode e maestra della Parola rivelata, sia stata istituita immediatamente e direttamente da Cristo in persona, vera e storica, quando viveva tra noi, e che sia stata edificata su Pietro, capo della gerarchia apostolica, e sui suoi successori per sempre.

3541. In quarto luogo, accetto sinceramente la dottrina della fede trasmessa dagli apostoli a noi sempre nello stesso senso e con la stessa interpretazione da parte dei padri ortodossi; per questo motivo, respingo assolutamente l’invenzione eretica dell’evoluzione dei dogmi, che passerebbe da un senso a un altro, diverso da quello professato per primo dalla Chiesa. Condanno anche qualsiasi errore che sostituisca al deposito divino rivelato, affidato alla Sposa di Cristo per custodirlo fedelmente, un’invenzione filosofica o una creazione della coscienza umana, formata a poco a poco dallo sforzo umano e che un progresso indefinito perfezionerebbe in futuro.

3542. In quinto luogo, ritengo e professo sinceramente che la fede non è un cieco sentimento religioso che emerge dalle tenebre del subconscio sotto la pressione del cuore e l’inclinazione della volontà moralmente informata, ma che è un vero assenso dell’intelligenza alla verità ricevuta dall’esterno, dall’udito, con la quale crediamo vero, per l’autorità di Dio che è sovranamente veritiero, ciò che è stato detto, attestato e rivelato dal Dio personale, nostro Creatore e nostro Signore.

3543. Mi sottometto anche, con la dovuta riverenza, e aderisco con tutto il cuore a tutte le condanne, le dichiarazioni e le prescrizioni che si trovano nell’enciclica Pascendi (3475-3500) e nel decreto Lamentabili 3401-3466, specialmente su quella che viene chiamata la storia dei dogmi.

3544. Allo stesso modo, respingo l’errore di coloro che affermano che la fede proposta dalla Chiesa può essere in contraddizione con la storia e che i dogmi cattolici, nel senso in cui sono intesi oggi, non possono essere conciliati con una conoscenza più esatta delle origini della religione cristiana.

3545. Condanno e respingo anche l’opinione di coloro che affermano che il cristiano erudito assume una doppia personalità, quella del credente e quella dello storico, come se fosse lecito per lo storico sostenere ciò che contraddice la fede del credente, o porre premesse da cui deriverebbe che i dogmi sono falsi o dubbi, purché questi dogmi non siano direttamente negati.

3546. Disapprovo anche il modo di giudicare e interpretare la Sacra Scrittura che, disdegnando la tradizionedella Chiesa, l’analogia della fede e le regole della Sede Apostolica, si aggrappa alle invenzioni dei razionalisti e adotta la critica testuale come unica e suprema regola, con tanto di squilibrio quanto di temerarietà.

3547. Respingo anche l’opinione di chi sostiene che l’insegnante di discipline storico-teologiche o l’autore che scrive su queste questioni debba innanzitutto mettere da parte qualsiasi opinione preconcetta, sia sull’origine soprannaturale della tradizione cattolica, sia sull’aiuto promesso da Dio per la conservazione eterna di ciascuna delle verità rivelate; in secondo luogo, che gli scritti di ciascuno dei Padri devono essere interpretati unicamente in base a principi scientifici, indipendentemente da qualsiasi autorità sacra, con la libertà critica consueta nello studio di qualsiasi documento secolare.

3548. Infine, in generale, dichiaro di non avere assolutamente nulla in comune con l’errore dei modernisti che ritengono che non ci sia nulla di divino nella tradizione sacra o, peggio ancora, che ammettono il divino in senso panteistico, per cui tutto ciò che rimane è un fatto puro e semplice, da porre sullo stesso piano dei fatti della storia: gli uomini con i loro sforzi, la loro abilità, il loro genio continuano, attraverso i secoli, l’insegnamento inaugurato da Cristo e dai suoi apostoli.

3549. Infine, tengo molto fermamente e terrò fino all’ultimo respiro la fede dei Padri nel carisma certo della verità che è, è stato e sarà sempre “nella successione dell’episcopato a partire dagli apostoli”, non perché si possa tenere ciò che sembra più adatto alla cultura di ogni epoca, ma perché “nessuno creda mai ad altro, né comprenda in altro modo la verità assoluta e immutabile predicata fin dall’inizio dagli apostoli”.

3550. Tutte queste cose prometto di osservarle fedelmente, completamente e sinceramente, e di mantenerle inviolabilmente, non allontanandomi mai da esse né nell’insegnamento né in alcun modo nella mia parola o nei miei scritti. Lo giuro, lo giuro. Che Dio mi aiuti e questi santi Vangeli.

Lettera “Ex quo, nono” ai delegati apostolici di Bisanzio, Grecia, Egitto, Mesopotamia, ecc., 26 dicembre 1910

Errori degli orientali

3553. In modo non meno avventato che falso, si apre la porta all’opinione che il dogma della processione dello Spirito Santo dal Figlio non provenga dalle parole stesse del Vangelo e che non sia confermato dagli antichi Padri.

3554. Allo stesso modo, si mette imprudentemente in dubbio che i sacri dogmi del Purgatorio e dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria siano stati riconosciuti dai santi uomini dei secoli precedenti;

3555. … a proposito della costituzione della Chiesa … innanzitutto si rinnova l’errore condannato da tempo dal nostro predecessore Innocenzo X 1999, che insinua che san Paolo sia da considerarsi un fratello uguale in tutto a san Pietro; – poi con non minore falsità si manifesta la convinzione che la Chiesa cattolica non fosse, nei primi secoli, il governo di una sola, cioè una monarchia; o che il primato della Chiesa romana non sia basato su validi argomenti.

3556. Ma anche la dottrina cattolica sul tema del santissimo sacramento dell’Eucaristia non viene lasciata intatta, quando si insegna senza mezzi termini che si potrebbe ammettere la concezione secondo cui presso i Greci le parole di consacrazione non hanno effetto se non viene pronunciata questa preghiera, che essi chiamano epiclesi, Eppure sappiamo che la Chiesa non ha il diritto di innovare in alcun modo sulla sostanza stessa dei sacramenti, e non è meno spiacevole che ritenga valida la cresima conferita da qualsiasi sacerdote 2522. (Censura: respinta come) errore grave.

Risposta della Commissione Biblica, 19 giugno 1911

Autore, data di composizione e verità storica del

Vangelo secondo Matteo.

3561. Domanda 1: In considerazione dell’accordo universale e costante di tutta la Chiesa fin dai primi secoli, che è chiaramente dimostrato dalle testimonianze esplicite dei Padri, dai titoli dei manoscritti dei Vangeli, dalle versioni più antiche delle Sacre Scritture, dai cataloghi trasmessi dai santi Padri, scrittori ecclesiastici, pontefici e concili, e infine dagli usi liturgici della Chiesa d’Oriente e d’Occidente, possiamo e dobbiamo affermare con certezza che Matteo, l’apostolo di Cristo, è davvero l’autore del Vangelo pubblicato con il suo nome? Risposta: Sì.

3562. Domanda 2: L’opinione che Matteo abbia preceduto gli altri evangelisti nella scrittura e che abbia composto il primo Vangelo pubblicato con il suo nome deve essere considerata sufficientemente fondata dalla Tradizione?

primo vangelo nella lingua madre allora usata dagli ebrei di Palestina ai quali quest’opera era destinata? Risposta: Sì, per entrambe le parti.

3563. Domanda 3: È possibile spostare la stesura di questo testo originale oltre il tempo della distruzione di Gerusalemme, in modo che le predizioni che vi si leggono riguardo a questa distruzione siano state scritte dopo l’evento; oppure la testimonianza di Ireneo, che di solito viene addotta, e la cui interpretazione è incerta e controversa, deve essere considerata di peso tale da obbligarci a respingere l’opinione di coloro che ritengono più conforme alla Tradizione che questa stesura sia avvenuta ancora prima dell’arrivo di Paolo in città? Risposta: No per entrambe le parti.

3564. Domanda 4: Possiamo almeno sostenere come probabile l’opinione di alcuni moderni secondo i quali il Vangelo di Matteo non sarebbe stato composto, nel senso proprio e ristretto del termine, il Vangelo così come ci è stato trasmesso, ma solo una raccolta di detti e parole di Cristo che un altro autore, anonimo, che essi fanno diventare il redattore stesso del Vangelo, avrebbe usato come fonti? Risposta: No.

3565. Domanda 5: Dato che tutti i Padri e gli scrittori ecclesiastici, e la Chiesa stessa fin dalle sue origini, hanno usato come canonico solo il testo greco del Vangelo conosciuto come Matteo – senza escludere coloro che hanno espressamente trasmesso che Matteo scriveva nella sua lingua naturale – si può dimostrare con certezza che nella sostanza il Vangelo greco è identico a quello scritto dallo stesso apostolo nella sua lingua madre? Risposta: Sì.

3566. Domanda 6: Dato che l’autore del primo Vangelo persegue uno scopo prevalentemente teologico e apologetico, cioè dimostrare agli ebrei che Gesù è il Messia annunciato dai profeti e nato dalla stirpe di Davide, e che, inoltre, nel modo in cui dispone i fatti e i detti che racconta e riporta, non segue sempre l’ordine cronologico, è lecito dedurre da ciò che essi non debbano essere riconosciuti come veri? Oppure possiamo anche affermare che i racconti delle azioni e delle parole di Gesù che leggiamo nel Vangelo hanno subito un cambiamento o un adattamento sotto l’influenza delle profezie dell’Antico Testamento e dello stato più evoluto della Chiesa, e che quindi non sono conformi alla verità storica? Risposta: No da entrambe le parti.

3567 Domanda 7: Le opinioni di coloro che mettono in dubbio l’autenticità storica dei primi due capitoli, in cui sono narrate la genealogia e l’infanzia di Cristo, e di alcune affermazioni di grande importanza dogmatica, come quelle sul primato di Pietro (Mt 16,17-19), sulla forma di battesimo trasmessa agli Apostoli con la missione universale di predicazione (Mt 28,19 ss.), devono essere considerate prive di un solido fondamento?

la forma di battesimo trasmessa agli, la professione di fede degli apostoli nella divinità di Cristo Mt 14,33, e altre affermazioni simili che sembrano essere affermate in modo particolare in Matteo? Risposta: Sì.

Risposta della Commissione Biblica, 26 giugno 1912.

I. Autore, data di composizione e verità storica dei Vangeli secondo Marco e Luca.

3568. Domanda 1: La chiara voce della Tradizione, che fin dalle origini della Chiesa è stata mirabilmente unanime e che è stata confermata da molteplici prove, cioè le testimonianze esplicite dei santi Padri e degli scrittori ecclesiastici, le citazioni e le allusioni che si trovano nei loro scritti, l’uso degli antichi eretici, le traduzioni dei libri del Nuovo Testamento, È possibile affermare con certezza che Marco, il discepolo e interprete di Pietro, e Luca, il medico, assistente e compagno di Paolo, sono realmente gli autori dei Vangeli loro rispettivamente attribuiti? Risposta: Sì.

3569. Domanda 2: Gli argomenti utilizzati da alcuni critici per dimostrare che gli ultimi dodici versetti del Vangelo di Marco Mc 16,9-20

non sono stati scritti da Marco, ma aggiunti da un’altra mano, sono tali da dare il diritto di affermare che non devono essere riconosciuti come ispirati e canonici; o almeno che dimostrano che Marco non è l’autore di questi versetti? Risposta: No, da entrambe le parti.

3570. Domanda 3: È ugualmente lecito dubitare dell’ispirazione e della canonicità dei racconti di Luca sull’infanzia di Cristo Lc 16,9-20 o sull’apparizione dell’angelo che consola Gesù e sul sudore di sangue Lc 22,43s; o si può almeno dimostrare con solidi argomenti – che piacevano agli antichi eretici e che piacciono anche ai critici più recenti – che questi racconti non fanno parte del Vangelo originale di Luca? Risposta: No per entrambe le parti.

3571. Domanda 4: I rarissimi e del tutto isolati documenti in cui il cantico del Magnificat (Lc 1,46-55) è attribuito non alla Beata Vergine Maria ma a Elisabetta, possono e devono prevalere in qualche modo contro la testimonianza concorde di quasi tutti i manoscritti, sia del testo originale greco che delle traduzioni, e contro l’interpretazione che il contesto richiede non meno del sentimento della Vergine stessa e della costante Tradizione della Chiesa? Risposta: No.

3572 Domanda 5: Per quanto riguarda l’ordine cronologico dei Vangeli, è lecito discostarsi dall’opinione corroborata dall’antichissima e costante testimonianza della Tradizione, che attesta che dopo Matteo, che fu il primo di tutti a comporre il suo Vangelo nella sua lingua madre, Marco scrisse il secondo e Luca il terzo; oppure l’opinione che il secondo e il terzo Vangelo siano stati composti prima della traduzione greca del primo Vangelo deve essere considerata contraria a questa opinione? Risposta: No per entrambe le parti.

3573. Domanda n. 6: La data di composizione dei Vangeli di Marco e Luca può essere posticipata fino alla distruzione di Gerusalemme; oppure, poiché in Luca la profezia del Signore sulla distruzione di questa città appare più precisa, si può sostenere che almeno il suo Vangelo sia stato composto dopo che l’assedio era già iniziato? Risposta: No per entrambe le parti.

3574. Domanda n. 7: Si deve affermare che il Vangelo di Luca precede il libro degli Atti degli Apostoli e che, poiché questo libro, composto dallo stesso Luca (At 1,1), fu terminato alla fine della cattività romana dell’Apostolo (At 28,30), il suo Vangelo non fu composto dopo questa data? Risposta: Sì.

3575. Domanda 8: Considerando sia le testimonianze della Tradizione sia le argomentazioni interne relative alle fonti utilizzate da ciascun evangelista nella composizione del Vangelo, è ragionevole mettere in dubbio l’opinione che Marco abbia scritto secondo la predicazione di Pietro e Luca secondo la predicazione di Paolo, affermando allo stesso tempo che questi evangelisti avevano anche altre fonti attendibili, orali o già scritte? Risposta: No.

3576. Domanda 9: Le parole e le azioni che sono raccontate esattamente e, per così dire, alla lettera da Marco secondo la predicazione di Pietro, e che sono presentate nel modo più sincero da Luca, che fin dall’inizio si è informato accuratamente su tutto da testimoni molto degni di fede, poiché essi stessi videro fin dall’inizio e furono servi del Verbo (Lc 1,2 s.), rivendicano giustamente per sé questa fede storica che la Chiesa ha sempre accordato loro; o, al contrario, queste stesse azioni e queste stesse parole devono essere considerate “così prive, almeno in parte, di verità storica, sia perché gli autori non furono testimoni oculari, sia perché non è raro trovare nei due evangelisti una mancanza di ordine e una differenza nel modo in cui sono stati scritti?

o perché, essendo venuti a scrivere più tardi, dovevano necessariamente riportare concezioni estranee al pensiero di Cristo e degli apostoli, o fatti già più o meno distorti dall’immaginazione del popolo, o infine perché, ciascuno secondo il proprio disegno, si sono lasciati guidare da idee dogmatiche preconcette? Risposta: Sì per la prima parte; no per la seconda.

II. La questione sinottica, ovvero le relazioni reciproche tra le prime tre parti.

3577. Domanda 1: Mantenendo eccetto ciò che, in conformità con quanto stabilito in precedenza, deve essere mantenuto eccetto – in particolare per quanto riguarda l’autenticità e l’integrità dei tre Vangeli di Matteo, Marco e Luca, l’identità sostanziale del Vangelo greco di Matteo con il suo originale primitivo, nonché l’ordine cronologico in cui sono stati scritti -, Date le numerose concezioni diverse e opposte degli autori, è lecito per gli esegeti discutere liberamente le somiglianze e le differenze tra i Vangeli, e ricorrere alle ipotesi della Tradizione scritta o orale, o della dipendenza di uno da quello o quelli precedenti? Risposta: Sì.

3578. Domanda n. 2: Coloro che, non basandosi su alcuna testimonianza della Tradizione o su alcuna prova storica, approvano senza esitazione l’ipotesi delle cosiddette “due fonti”, che tenta di spiegare la composizione del Vangelo greco di Matteo e del Vangelo di Luca basandosi soprattutto sulla loro dipendenza dal Vangelo di Marco e da una raccolta nota come Detti del Signore, devono essere considerati come sostenitori di ciò che è stato stabilito sopra, e possono quindi difenderla liberamente? Risposta: No per entrambe le parti.

Risposta della Commissione Biblica, 12 giugno 1913.

I. Autore, data di composizione e verità storica degli Atti degli Apostoli.

3581. Domanda n. 1: Considerando soprattutto la Tradizione della Chiesa universale che risale ai primi scrittori ecclesiastici, e tenendo conto delle caratteristiche interne del libro degli Atti

considerato sia in sé che in relazione al terzo Vangelo, soprattutto per quanto riguarda l’affinità e la reciproca connessione dei due prologhi Lc 1,1-4 Ac 1,1-5

È certo che il libro intitolato Atti degli Apostoli, o “Praxeis Apostolon”, sia stato scritto dall’evangelista Luca? Risposta: Sì.

3582. Domanda n. 2: Possono gli argomenti critici, suggeriti dal linguaggio e dallo stile e dalla forma della narrazione, nonché dall’unità di scopo e di dottrina, dimostrare che il libro degli Atti deve essere attribuito a un unico autore e che, di conseguenza, l’opinione dei critici recenti secondo cui Luca non è l’unico autore di questo libro, ma che devono essere riconosciuti diversi autori distinti in questo scritto, è priva di fondamento? Risposta: Sì su entrambi i punti.

3583. Domanda 3: In particolare, le principali pericopi degli Atti, in cui il discorso in terza persona viene abbandonato a favore della prima persona plurale (Wir-Stücke), invalidano l’unità di composizione e l’autenticità degli Atti? O dovremmo piuttosto dire che, considerati storicamente e filologicamente, la confermano? Risposta: No sul primo punto; sì sul secondo.

3584. Domanda 4: Dal fatto che il libro stesso, dopo un rapido accenno ai due anni della prima prigionia di Paolo a Roma, si chiuda bruscamente, abbiamo il diritto di concludere che l’autore scrisse un altro volume, ora perduto, o che intendesse scriverlo, e possiamo quindi posticipare la data di composizione del libro degli Atti a molto tempo dopo questa prigionia; o piuttosto dobbiamo legittimamente e giustamente dedurre che l’Apostolo Luca terminasse il suo lavoro negli ultimi giorni della prima prigionia di Paolo a Roma? Risposta: No sul primo punto; sì sul secondo.

3585. Questione 5: Se consideriamo allo stesso tempo i frequenti e facili rapporti che Luca ebbe certamente con i primi e principali fondatori della Chiesa di Palestina, e anche con Paolo, l’apostolo delle genti, con il quale fu collaboratore nella predicazione del Vangelo e compagno di viaggio; la sua abituale sagacia e la cura con cui cerca testimoni e vede le cose con i propri occhi; e infine la frequentissima, evidente e mirabile concordanza del libro degli Atti con le epistole di Paolo e con i più veritieri monumenti della storia, dobbiamo dare per scontato che Luca abbia avuto tra le mani fonti assolutamente attendibili, che le abbia utilizzate con cura, probità e fedeltà, e che quindi possa a buon diritto rivendicare la piena autorità storica? Risposta: Sì.

3586. Domanda 6: Per quanto riguarda le difficoltà che di solito vengono sollevate qua e là, a causa dei miracoli raccontati da Luca, o di certi discorsi che, riportati sotto forma di riassunti, passano per appropriati alle circostanze, o di certi passaggi che sono almeno apparentemente in contrasto con la storia secolare o biblica; o infine di certi racconti che sembrano contraddire l’autore stesso degli Atti o altri scrittori biblici, sono di natura tale da mettere in dubbio l’autorità storica degli Atti o almeno da sminuirla in qualche modo? Risposta: No.

II L’autore, l’integrità e la data di composizione delle Epistole pastorali dell’Apostolo Paolo

3587. Domanda 1: Se consideriamo la Tradizione ecclesiastica, che fin dall’inizio si afferma ovunque e con fermezza, come testimoniano in molti modi gli antichi monumenti ecclesiastici, dobbiamo ritenere certo che le cosiddette epistole pastorali, cioè le due a Timoteo e l’epistola a Tito, nonostante l’audacia di alcuni eretici che, ritenendole contrarie al loro insegnamento, le hanno cancellate, senza darne alcuna motivazione, dal numero delle epistole paoline, siano state scritte dallo stesso apostolo Paolo e siano sempre state annoverate tra le epistole autentiche e canoniche? Risposta: Sì.

3588. Domanda 2: La cosiddetta ipotesi dei frammenti, introdotta e proposta in varie forme da alcuni critici contemporanei che, peraltro, senza alcuna ragione plausibile, e anche contraddicendosi tra loro, sostengono che le Epistole pastorali siano state formate in un secondo momento, da autori ignoti, da frammenti di epistole o da epistole paoline perdute e notevolmente ampliate, può in qualche modo invalidare la precisa e saldissima testimonianza della Tradizione? Risposta: No.

3589. Domanda n. 3: Le difficoltà che di solito vengono sollevate, sia per lo stile e il linguaggio dell’autore, sia per gli errori, soprattutto degli gnostici, descritti all’epoca come serpenti che si insinuano, sia per lo stato della gerarchia ecclesiastica che si supponeva già sviluppata, e altre obiezioni dello stesso tipo, invalidano in qualche modo la tesi che ritiene accertata e certa l’autenticità delle Lettere pastorali? Risposta: No.

3590. Domanda 4: Dato che gli argomenti storici e la Tradizione ecclesiastica, in conformità con le testimonianze dei Padri d’Oriente e d’Occidente, nonché le prove facilmente ricavabili sia dalla brusca conclusione del libro degli Atti, sia dalle epistole paoline composte a Roma, principalmente la seconda a Timoteo, ci obbligano a ritenere certa la doppia prigionia dell’apostolo Paolo a Roma, possiamo affermare con certezza che le Epistole pastorali sono state scritte tra la fine dell’Impero romano e la fine dell’Impero romano?

prigionia e la morte dell’apostolo? Risposta: Sì.

Risposta della Commissione Biblica, 24 giugno 1914.

Autore e data di composizione dell’epistola agli Ebrei.

3591. Domanda 1: È necessario attribuire una tale forza ai dubbi che fin dai primi secoli, dovuti soprattutto all’abuso degli eretici, abitavano le menti di alcuni in Occidente circa l’ispirazione divina e l’origine paolina dell’epistola agli Ebrei che, tenendo conto della continua, unanime e costante affermazione dei Padri orientali a cui si unì, dopo il IV secolo, il pieno assenso di tutta la Chiesa d’Occidente; e considerando anche gli atti dei sovrani pontefici e dei santi concili, in particolare quello di Trento, nonché l’uso perpetuo delle Chiese, è lecito esitare non solo ad annoverarla tra le epistole canoniche – che è stata definita per fede – ma anche ad annoverarla con certezza tra le epistole autentiche dell’apostolo Paolo? Risposta: No.

3592. Domanda 2: Gli argomenti che di solito si traggono dall’insolita assenza del nome di Paolo e dall’omissione del consueto esordium e saluto nell’epistola agli Ebrei, o dalla purezza della lingua greca, dall’eleganza e perfezione dell’espressione e dello stile, o dal modo in cui viene citato e argomentato l’Antico Testamento, o da certe differenze che si dice esistano tra la dottrina di questa epistola e quella delle altre epistole di Paolo, sono in qualche modo in grado di confutare la sua origine paolina? o al contrario, la perfetta concordanza di dottrina e di pensiero, la somiglianza delle monizioni e delle esortazioni, così come l’armonia del modo di parlare e delle parole stesse, spesso lodata anche da alcuni non cattolici, che si osserva tra questa epistola e gli altri scritti dell’Apostolo delle Genti, manifesta e conferma proprio questa origine paolina? Risposta: No per la prima parte; sì per la seconda.

3593. Domanda 3: L’apostolo Paolo deve essere considerato l’autore di questa epistola nel senso che dobbiamo necessariamente affermare che egli non solo l’ha concepita ed elaborata interamente sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, ma che le ha anche dato la forma in cui è presentata? Risposta: No, con riserva di un successivo giudizio da parte della Chiesa.

Decreto della Sacra Congregazione degli Studi, 27 luglio 1914.

Tesi approvate in filosofia tomistica

3601. 1. La potenza e l’atto dividono l’essere in modo tale che tutto ciò che è o è puro atto, o è necessariamente composto da potenza e atto come principi primi e intrinseci.

3602. 2. L’atto, in quanto perfezione, è limitato solo dalla potenza, che è l’attitudine alla perfezione. Di conseguenza, quando l’atto è puro, esiste solo come illimitato e unico; ma quando è finito e multiplo, entra in vera composizione con la potenza.

3603.3 Perciò, per la ragione assoluta del suo stesso essere, Dio è uno, il più semplice; tutti gli altri esseri che partecipano all’essere stesso hanno una natura per cui l’essere è limitato, e sono composti di essenza ed esistenza come di due principi realmente distinti.

3604.4 L’essere, che è denominato dall’esistenza, non è attribuito a Dio e alle creature in modo univoco, né in modo totalmente equivoco, ma in modo analogo, secondo l’analogia a volte di attribuzione, a volte di proporzionalità.

3605.5 Inoltre, in ogni creatura c’è una composizione reale del soggetto sussistente e di forme aggiunte in un secondo modo, cioè di accidenti: questi non sarebbero intelligibili se l’essere non fosse realmente ricevuto in un’essenza distinta.

3606 (6). Oltre agli accidenti assoluti, esiste anche un accidente relativo, cioè relativo a qualcosa. Sebbene relativo a qualcosa non significhi che una cosa sia inerente a un’altra secondo la propria ragione, spesso tuttavia ha la sua causa nelle cose, e per questo ha un’entità reale distinta dal soggetto.

3607 (7) La creatura spirituale è nella sua essenza del tutto semplice. Ma rimane in essa una doppia composizione di essenza ed esistenza, di sostanza e di accidenti.

3608 (8). La creatura corporea è, rispetto all’essenza stessa, composta di atto e potenza; questa potenza e questo atto, nell’ordine dell’essenza, sono designati dai termini materia e forma.

3609 9. Nessuna di queste due parti possiede l’esistenza da sola, né può prodursi o distruggersi da sola, né essere presa come predicato se non come principio sostanziale.

3610 10. Anche se l’estensione risulta dalla natura corporea nelle sue parti integranti, non è la stessa cosa per un corpo essere una sostanza ed essere esteso. La sostanza in quanto tale è indivisibile non nel modo di un punto, ma nel suo proprio modo, che non è dell’ordine della dimensione. La quantità, che dà estensione alla sostanza, è realmente distinta dalla sostanza ed è un accidente a sé stante.

3611 11. La materia considerata sotto l’aspetto della quantità è il principio dell’individuazione, cioè della distinzione numerica di un individuo da un altro appartenente alla stessa specie, cosa che non può avvenire per le creature puramente spirituali.

3612 12. Dallo stesso attributo di quantità consegue che un corpo sia circoscritto in un luogo e che si trovi in un luogo solo in questo modo, per qualsiasi potenza.

3613 13. Esistono due tipi di corpi, i corpi viventi ed i corpi inerti. Nei corpi viventi, poiché sia la parte motrice che quella mobile si trovano nello stesso soggetto, la forma sostanziale chiamata anima richiede una disposizione organica, cioè parti distinte.

3614 14. In nessun modo le anime dell’ordine vegetativo e dell’ordine sensibile sussistono da sole o si producono da sole, ma esistono solo in base al principio per cui il vivente esiste e vive, e poiché dipendono interamente dalla materia, quando il composto muore, esse periscono per caso.

3615 15. Al contrario, l’anima umana sussiste da sola; è stata creata da Dio per essere unita a un soggetto sufficientemente preparato, e per natura è imperitura e immortale.

3616 16. Quest’anima razionale è unita al corpo in modo da costituire la sua unica forma sostanziale, e attraverso di essa l’uomo esiste come uomo, come animale, come essere vivente, come sostanza e come essere. L’anima dà all’uomo tutta la sua perfezione essenziale; inoltre, comunica al corpo l’atto di esistere con il quale esso stesso esiste.

3617 17. Due ordini di facoltà derivano dall’anima umana in virtù della sua natura; i primi, che riguardano i sensi, hanno come soggetto il composto, i secondi la sola anima. L’intelletto è una facoltà intrinsecamente indipendente da un organo.

3618 18. L’intelligenza segue necessariamente l’immaterialità, così che il grado di intellettualità

corrisponde al grado di distanza dalla materia. L’oggetto proprio dell’intelligenza è comunemente l’essere stesso; il proprio dell’intelletto umano nell’attuale stato di unione si limita ad astrarre le quiddità dalle loro condizioni materiali.

3619 19. Noi traiamo la conoscenza dalle cose sensibili. Ma poiché il sensibile non è intelligibile in atto, dobbiamo ammettere, oltre all’intelletto che raggiunge le cose formali (gli intelligibili), l’esistenza nell’anima di una facoltà attiva che astrae le forme intelligibili dalle immagini.

3620 20. Con queste forme intelligibili conosciamo direttamente le forme universali; gli esseri individuali li raggiungiamo con i sensi e con l’intelletto che ritorna alle immagini; per analogia, conosciamo le realtà spirituali.

3621 21. La volontà segue l’intelletto, non lo precede; la volontà desidera necessariamente ciò che le viene presentato come il bene che soddisfa in ogni caso il suo appetito, ma tra diversi beni che le vengono presentati come desiderabili, sceglie liberamente con un atto di giudizio revocabile. Così la scelta segue l’ultimo giudizio pratico; infine la volontà esegue.

3622 22. Non si arriva a intuire direttamente l’esistenza di Dio, né la si può dimostrare a priori, ma piuttosto a posteriori, “dalle cose create Rm 1,20 , ragionando dagli effetti alla causa; cioè dalle cose che si muovono e non possono avere in sé il principio adeguato del loro movimento al primo movente immobile; dallo svolgersi delle cose nel mondo subordinate tra loro alla prima causa senza causa ; dalle cose corruttibili, che potrebbero benissimo non essere o essere, all’essere assolutamente necessario; dalle cose che, tra le perfezioni limitate dell’essere, della vita, dell’intelligenza, hanno più o meno essere, vita e intelligenza, a quella che è in sommo grado intelligenza, vita ed essere; infine dall’ordine dell’universo a un’intelligenza separata che ordina, dispone e dirige tutte le cose verso il loro fine.

3623 23. L’essenza divina, poiché il suo stesso essere si identifica con l’atto in atto, cioè poiché è l’Essere stesso sussistente, si presenta a noi anche come la ragione metafisica del bene e, per questo, ci rivela la ragione della sua infinita perfezione.

3624 24. Per la purezza del suo essere Dio è separato dalle cose limitate. Da ciò consegue, in primo luogo, che il mondo non può procedere da Dio se non attraverso la creazione; in secondo luogo, che l’energia creatrice con la quale l’essere in quanto tale si è formato per la prima volta in se stesso non può essere comunicata neppure per miracolo a qualche natura finita; in terzo luogo, che nessun agente creato può agire su alcun essere se non attraverso un moto ricevuto dalla Causa prima.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (40): “Da BENEDETTO XV a PIO XII, 1914-1944”

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (VII)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (VII)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO

SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

PRIMA PARTE DEL CATECHISMO:

FEDE (4).

4. LA SANTISSIMA TRINITÀ.

Le tre Persone divine sono state rivelate nel battesimo di Cristo: il Padre, voce dal cielo, il Figlio battezzato, lo Spirito Santo sotto forma di colomba. (S. Math. III, 16).

1. LA SANTISSIMA TRINITÀ È UN DIO IN TRE PERSONE. LE TRE PERSONE SI CHIAMANO: Padre, Figlio e Spirito Santo.

Il numero 3 si trova spesso nei misteri della religione. Ci sono 3 soggiorni delle anime dopo la morte, 3 parti principali della Messa; 3 elementi in ogni Sacramento; 3 persone nella Sacra Famiglia. Gesù Cristo ha passato 3 ore sulla croce, 3 giorni nel sepolcro; la sua vita pubblica è durata 3 anni; Egli è rivestito della triplice dignità sacerdote, re e profeta. Il numero 3 compare anche in alcuni fenomeni della natura. Ci sono 3 regni nella creazione (minerale, vegetale e animale); 3 stati di corpi (solido, liquido, gassoso); 3 divisioni del tempo (passato, presente, futuro). – I mistici commentano anche il numero 4 nei misteri: ci sono 4 Vangeli, 4 virtù cardinali, 4 fiumi in paradiso, 4 punti cardinali da cui gli Angeli chiameranno l’umanità al giudizio; l’umanità ha atteso il Salvatore per 4 secoli; il tempio di Gerusalemme aveva 4 lati, ecc.. – Lo stesso vale per il numero 7: ci sono 7 giorni della Creazione, 7 sacramenti, 7 opere di misericordia, 7 virtù morali, 7 doni dello Spirito Santo, 7 ordini ecclesiastici, 7 richieste nel Pater, 7 parole di Cristo sulla croce, ecc. ecc., misteri che contribuiscono alla nostra somiglianza o unione con Dio. Il 7 si ritrova anche nel simbolismo della natura, ad esempio i 7 colori dello spettro, i 7 toni della scala musicale. – Il numero 3 è il numero divino; il numero 4, il numero della creazione (4 punti cardinali); il numero 7 rappresenterebbe l’unione del Creatore e della creatura.

2. È IMPOSSIBILE PER NOI CON LA NOSTRA DEBOLE RAGIONE COMPRENDERE QUESTA VERITÀ; PER QUESTO MOTIVO È CHIAMATO IL MISTERO DELLA SANTISSIMA TRINITÀ.

È impossibile per noi capire come tre Persone divine possano essere un solo Dio, quindi l’apparente identità di tre e uno! La Trinità è incomprensibile e inesprimibile (4 Conc. Lat.). S. Agostino racconta che abbia incontrato un bambino che attingeva l’acqua dal mare versandola in un piccolo buco. Egli espresse il suo stupore per questo e il bambino rispose: “Giungerò piuttosto a mettere il mare in questo buco, prima che tu possa afferrare il mistero della Santa Trinità”. – Chi fissa il sole rimane abbagliato, e chi continuerebbe a fissarlo perderebbe la vista. È lo stesso con i misteri della Religione: chi vuole capirli, rimane abbagliato e chi si ostina a scrutarli perderebbe completamente la fede. (S. Aug.). Chi si rifiuta di credere in questo mistero con il pretesto di non capirlo sarebbe come un cieco che contesta l’esistenza del sole perché non riesce a vederlo. Del resto, ci sono molte cose nella natura stessa che non siamo in grado di spiegare. Cos’è la luce, l’elettricità, il magnetismo? la crescita delle piante, eccetera, eccetera? Non lo sappiamo. E che cos’è in confronto ai 430 trilioni di vibrazioni che si dice l’etere produca al secondo quando percepiamo il colore rosso, e il doppio quando percepiamo il colore violetto? E si noti che per contare un singolo trilione ci vorrebbero 20.000 anni. Quanto di più siamo incapaci di comprendere ciò che riguarda Dio. “Tu sei grande, Signore, e impenetrabile ai nostri pensieri” (Ger. XXXII,19). Noi non potremmo comprendere Dio se non a condizione che fossimo noi stessi Dio. – Ma possiamo, per mezzo della ragione illuminata dalla fede, arrivare ad una conoscenza molto utile dei misteri, considerando alcune analogie della natura. (Concilio Vaticano: III, 4). Il sole si vede nel cielo, nell’acqua e nello specchio; vediamo quindi tre soli anche se ce n’è uno solo. Il raggio bianco può essere scomposto in rosso, giallo e blu; è quindi sia uno che triplice. L’ametista, dice S. Isidoro, brilla in tre colori diversi, a seconda del lato: essa è porpora, viola e rosa, pur essendo che una sola pietra. L’acqua è solida, liquida e gassosa in momenti diversi. L’acqua della sorgente, del ruscello o del fiume è la stessa acqua, ma ha nomi diversi. (S. Denys. Alex.). La superficie luminosa del sole, i raggi da esso emanati e il calore da esso prodotto sono tre cose in una (S. Cyr. Al.). L’anima ha in essa la trinità dell’essere, della conoscenza e della volontà: tre uomini possono avere la stessa idea. – Gli increduli semisapienti fanno la seguente obiezione: è impossibile che tre facciano uno e che uno sia tre; queste persone fraintendono l’intelligenza della Chiesa. Essi bestemmiano ciò che non conoscono (S. Giuda 10), perché la Chiesa non dice: che tre Persone siano una sola Persona, ma che tre Persone siano una sola sostanza.

3. LETRE PERSONE DIVINE HANNO HANNO IN COMUUNE SOSTANZA, QUALITÀ ED OPERE

Non ci sono quindi tre dèi, ma un solo Dio.

Il Padre è quindi effettivamente un altro rispetto al Figlio, perché si differenzia per la Persona; ma non è un altro essere, perché non ha un’altra sostanza. (4 Conc. Lat.).

Ciascuna Persona è dunque eterna, onnisciente, onnipotente, perfetta, come le altre.

È vero che Cristo, parlando del suo ritorno al Padre, ha detto: “Il Padre è più grande di me” (S. J. XIV, 28); ma parlava della sua umanità.

LA CREAZIONE DEL MONDO, LA REDENZIONE E LA SANTIFICAZIINE DELL’UMANITÀ SONO SRATRE REALIZZATE IN COMUNE SALLE TRE PERSONE.

Tuttavia, si usa dire: Dio Padre ha creato il mondo; Dio Figlio ha salvato gli uomini, Dio Spirito li santifica. Ne spiegheremo la ragione più avanti.

4. LE TRE PERSONE DIVINE NON SI DIISTINGUONO CHE PER LA LORO ORIGINE.

Il tronco dell’albero deriva dalla radice ed il frutto da entrambe. La stesso è delle tre Persone divine.

Il Padre non ha origine e non procede da nessun’altra Persona, ma il Figlio procede dal Padre e lo Spirito Santo da entrambi. (Cat. di Bellarmino).

Per designare l’ordine della processione, il Padre è chiamato prima Persona, il Figlio la seconda, lo Spirito Santo la terza. Ma va notato che non si tratta di una successione nel tempo; il Figlio procede dal Padre da tutta l’eternità e allo stesso modo la processione dello Spirito Santo dall’uno e dall’altro è eterna. Perché se il tempo producesse qualcosa in Dio, Egli non sarebbe più immutabile e cesserebbe di essere Dio. – Il Figlio è generato dall’essere eterno del Padre prima di ogni creazione. (Sal. CIX, 3) nel modo seguente: Dio con la conoscenza di se stesso ha generato un’immagine consustanziale, proprio come il nostro pensiero produce un’immagine, un’idea nella nostra mente. I seguenti paragoni ci aiuteranno a capire: il Fuoco genera il bagliore e quest’ultimo appare contemporaneamente al fuoco; se ci fosse un fuoco eterno ci sarebbe uno splendore eterno (S. Aug.). Ora, dice la Scrittura, il Figlio è lo splendore della luce eterna (Sap. VII, 26), lo splendore della gloria del Padre (Eb. i, 3). Quando gli studenti si appropriano perfettamente della scienza dell’insegnante, hanno la stessa scienza, ma con la differenza che la scienza del maestro è la scienza originale e quella degli allievi una scienza comunicata; allo stesso modo il Padre e il Figlio hanno la stessa sostanza (sapienza), con la differenza che quella del Figlio le è stata comunicata da tutta l’eternità. (Cl. d’Al.). Una fiaccola può essere accesa con un’altra fiaccola senza che quest’ultima perda nulla del suo splendore; allo stesso modo il Figlio procede dal Padre senza prendere nulla di Lui. (Tatiano). Il Figlio di Dio è chiamato anche il suo Verbo (S. Giovanni 1,1), perché è la parola parlata e parlante della sostanza divina. La parola è l’espressione fedele del pensiero, e Dio Figlio è l’immagine consustanziale del Padre. – Il Figlio procede per via di conoscenza e lo Spirito Santo per via di amore. Se qualcuno si guarda in uno specchio, crea la propria immagine; se ne percepisce la bellezza, ama se stesso. Dio si vede nello specchio della sua divinità e genera l’immagine consustanziale di sé. (Heb.I, 3); l’amore reciproco del Padre e di questa immagine, consustanziale, cioè del Figlio, è lo Spirito Santo (S. Aug., S. Anselmo, S. Thom. di Aq.). Lo Spirito Santo può essere considerato a maggior ragione come uno Spirito d’amore, perché produce nei nostri cuori l’amore per Dio e per il prossimo. La parola spirito (respiro) è ben scelta, perché designa la l’inclinazione reciproca, il movimento dell’amore. (S. Thom. d’Aq.) – Cristo stesso dice che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figli; una volta dice che il Padre manderà lo Spirito (S. Giovanni XIV, 26); un’altra volta, che sarà Lui stesso a mandarlo. (Ibid. XVI, 7). Lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio come il calore viene dal sole e dal raggio (S. Thom. d’Aq ), come il frutto viene dalla radice e dal tronco. (Tert.).

QUESTA DIFFERENZA DI ORIGINE È IL MOTIVO PER CUI AL PADRE SI ATTRIBUISCONO LE OPERE DELL’ONNIPOTENZA, AL FIGLIO QUELLE DELLA SAPIENZA, ALLO SPIRITO SANTO QUELLE DELLA BONTÀ.

In realtà, queste opere hanno una certa analogia con le proprietà personali relative alla loro origine. Il Padre genera il Figlio, e per questo gli viene attribuita anche la produzione di esseri contingenti dal nulla, cioè la creazione. (Symb. Ap ) Gli sono attribuite anche le opere di misericordia, perché accoglie i peccatori penitenti come suoi figli. S. Paolo lo chiama il Padre di misericordia (2 Cor. I, 3). – Il Figlio è la conoscenza eterna del Padre, la Sapienza. Per questo motivo, il magnifico ordine della creazione è attribuito a Lui. “Tutto è stato fatto da lui” (S. Giovanni I, 3). Così come l’artista disegna il piano della sua opera con un atto della sua intelligenza, allo stesso modo in cui il Padre ha creato l’ordine del mondo per mezzo del Figlio, il Figlio è anche il primo ad essere stato creato. Al Figlio spetta anche il merito di aver ristabilito l’ordine con la redenzione, e ciò è tanto più vero in quanto Egli ha assunto la natura umana per questo scopo. – Lo Spirito Santo è l’amore reciproco del Padre e del Figlio; è a Lui, quindi, che vengono attribuiti tutti i benefici di Dio, in particolare la comunicazione della vita nella creazione. Come l’uccello si posa sulle uova, per vivificare il germe con il calore, allo stesso modo lo Spirito di Dio aleggia sulle acque (S. Ger.) Lo Spirito Santo è quindi anche la comunicazione della vita soprannaturale per la grazia, cioè la santificazione degli uomini. È chiamato il dito di Dio in quanto autore dei miracoli; è Lui che ha operato il più grande atto dell’amore divino, l’Incarnazione: “La bontà di Dio ha sempre riempito il cuore dell’uomo di benefici ma la misura è debordata quando con l’Incarnazione del Verbo la misericordia è scesa sui peccatori, la verità su coloro che erravano, la vita sui morti (S. Leone M.).

5. LA SANTA TRINITÀ CI È STATA RIVELATA DALLE PAROLE DI GESÙ CRISTO.

Non possiamo conoscere la Trinità attraverso la creazione, perché Dio vi ha agito attraverso le perfezioni comuni a tutte le Persone.: onnipotenza, sapienza, bontà, ma non da ciò che differenzia le tre Persone. C’è qui un’analogia con il sole; esso agisce solo su due sensi: la vista ed il tatto, ma non sull’orecchio, sull’olfatto o sul gusto. Lo percepiamo quindi solo attraverso i primi due sensi, gli altri tre non possono darci alcuna idea del sole; allo stesso modo la nostra ragione non percepisce la Trinità, perché la Trinità non agisce su di essa. (S. Efrem.) Noi possiamo avere conoscenza della Santa Trinità solo attraverso la rivelazione. Nessuno, dice Gesù Cristo, nessuno conosce il Padre se non il Figlio e coloro ai quali il Figlio vuole rivelarlo (S. Math, XI, 27). Ora, Gesù Cristo ordinò ai suoi Apostoli, al momento della sua ascensione, di “andare e insegnare a tutte le genti e di battezzarle nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. (S. Math. XXVIII, 19). – L’Antico Testamento aveva già una vaga idea del mistero della Santissima Trinità. I sacerdoti ebrei dovevano, quando benedicevano il popolo, invocare il nome di Dio per tre volte (Numeri VI, 23). Isaia ci dice: (VI, 3) che i serafini cantano in cielo: Santo, santo, santo è il Dio degli eserciti. Si noti soprattutto lo strano plurale utilizzato da Dio nella creazione dell’uomo: Facciamo l’uomo a nostra immagine (Genesi I, 26). E Davide scrisse nel Salmo CIX: “Il Signore ha detto al mio Signore: siedi alla mia destra. Sebbene circondata da ombre, la rivelazione della Trinità era stata fatta nell’antico Testamento in modo che il Nuovo Testamento, dove questa rivelazione sarebbe stata chiara, non sembrasse contraddirla. (Bellarmino) – La Chiesa conosce questo mistero, la sinagoga lo rifiuta, la filosofia lo ignora. lo rifiuta, la filosofia lo ignora (S. Ilario).

6. LA FEDE IN QUESTO MISTERO È PROFESSATA PUBBLICAMENTE NEL SEGNO DELLA CROCE, NEL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI, NEL BATTESIMO E NEGLI ALTRI SACRAMENTI, NELLE CONSACRAZIONI E CON LA FESTA DELLA SANTA TRINITÀ.

Questo mistero è il fondamento della religione cristiana. Senza di esso, è impossibile concepire la redenzione attraverso il Figlio di Dio. Sforziamoci quindi di produrre spesso degli atti di fede, soprattutto con la recita frequente della bella preghiera: Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, come era in principio, ora e sempre e nei secoli dei secoli. Così sia. Indirizziamo a Dio questa lode, non solo quando ci inonda con le sue benedizioni, ma anche quando ci manda delle prove!

5. LA STORIA DELLA CREAZIONE.

La storia della creazione ci è stata raccontata da Mosè.

La storia della Creazione non è una favola; è un racconto vero, registrato da Mosè, ispirato dallo Spirito Santo; egli scriveva la parola di Dio, che potrebbe avergli mostrato i dettagli della creazione in una visione. – Il racconto di Mosè è pienamente in linea con le scoperte scientifiche. Gli scavi della crosta terrestre hanno dimostrato che gli esseri organici vi sono apparsi nell’ordine indicato dalla Genesi. Tutti i grandi scienziati hanno quindi ammirato questa storia di 3000 anni. – Questo racconto, inoltre, si riferisce solo all’attività creativa sul nostro pianeta.

1. IN PRINCIPIO DIO CREÒ IL MONDO SPIRITUALE ED IL MONDO CORPOREO (Concilio Vaticano III, i).

In principio, cioè all’inizio del tempo, quando all’infuori di Dio non esisteva nulla. Il tempo è iniziato con il mondo; non c’era quindi durata prima che Dio lo creasse. (S. Aug.) La Scrittura non dice quando il mondo sia stato creato, dice solo che non sia eterno e che sia stato fatto. Il mondo potrebbe quindi essere esistito milioni di anni prima della comparsa dell’uomo [qui siamo nel mondo delle ipotesi fantasiose antibibliche, degli pseudoscienziati copernicani eliocentristi, alle quali, purtroppo, è legato l’autore del catechismo, deviato dalla falsa (pseudo)scienza astronomica ndr.-]. – Ma noi non sappiamo, e mai sapremo, come lo spirito di Dio abbia prodotto la materia e le sue forze. – Invece del mondo spirituale e del mondo corporeo, S. Paolo dice: “le cose invisibili e le cose visibili”. (Col. 1,16). Mosè scrisse: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Genesi 1, 1). Sotto questo termine di cielo non si intende il firmamento, perché la creazione di questo è riportata solo nei versetti 6-8, 14-19, ma la dimora degli Angeli e degli eletti. (Solo i pagani avevano l’abitudine di confondere i due tipi di cielo; ponevano i loro eroi nelle stelle). Mosè chiama il mondo corporeo terra, perché per gli uomini è la parte principale della creazione visibile. Non dimentichiamo che queste prime parole della Bibbia: “In principio Dio creò il cielo….”. dovrebbero ricordarci che il cielo è la nostra destinazione finale nell’eternità.

IL MONDO SPIRITUALE COMPRENDE GLI ANGELI, LA CUI DIMORA È IL CIELO.

Poiché gli Angeli sono stati creati prima della terra, per così dire all’alba, nella Scrittura vengono talvolta chiamati “stelle del mattino” (Giobbe XXXVIII, 7). – L’inferno non è stato come il cielo creato fin dall’inizio (S. Math. XXV, 34), Dio lo ha creato solo dopo la caduta degli angeli.

IL MONDO CORPOREO È COMPOSTO DA TUTTE LE COSE CONTENUTE NELL’UNIVERSO VISIBILE.

Gli uomini sono un composto di materia e spirito; essi furono creati solo per ultimi. (4 Concilio Lateranense).

2. IN PRINCIPIO IL MONDO MATERIALE ERA CAOS, SENZA FORMA NÉ LUCE.

Dio all’inizio creò solo la materia prima da cui formò tutti i corpi.

(S. Aug.) La scienza attuale riconosce circa 70 corpi semplici. Mosè dà a questa materia primitiva il nome di acque (S. Ger., S. Ambr.). Questi corpi erano all’inizio in uno stato di mescolanza, come la sabbia del deserto, senza forma e senza luce. (I Mosè 1, 2). Era quasi il nulla, perché mancava qualsiasi forma, eppure era un essere reale, perché questa materia poteva ricevere una forma. Questa materia primitiva creata da Dio è stata modificata per effetto delle leggi naturali da Lui stabilite, ma la ragione primaria di tutta questa evoluzione non risiedeva nell’essenza della materia, ma nella volontà di Dio, nella parola creatrice: “Fiat”. La scienza sostiene che questa materia primitiva creata da Dio era allo stato gassoso e riempiva tutto lo spazio. (Newton, Laplace, Kant). Non c’è nulla che ci impedisca di ammettere questa opinione, perché tutti i metalli e i minerali portati ad una temperatura sufficiente si volatilizzano e di conseguenza riempiono uno spazio più ampio;

Inoltre, l’analisi spettrale ha dimostrato che il sole, i pianeti e le stelle fisse sono composti dagli stessi elementi della Terra, il che porta alla conclusione di un’origine comune.

3. DIO HA DATO AL MONDO MATERIALE LA SUA FORMA ATTUALE NELLO SPAZIO DI SEI GIORNI. (Genesi, 3 -31).

Questi 6 giorni sono probabilmente lunghi periodi di diverse migliaia di anni (S. Cip.); infatti il settimo giorno, il giorno del riposo, durerà fino al giudizio ultimo, il che è un periodo enorme. Inoltre, prima del quarto giorno, quando il sole fu creato, non potevano esistere giorni di 24 ore. La parola giorno è stata impiegata perché la settimana della creazione doveva essere il tipo della settimana umana.

IL PRIMO GIORNO DIO CREÒ LA LUCE.

Mosè racconta che Dio disse: “Sia la luce, e la luce fu” (Genesi 1,3). Dio creò quindi una speciale forza luminosa o ignea (quando la Scrittura dice: Sia tale cosa, si produca tale cosa, si deve ammettere che sia stata aggiunta una nuova forza agli elementi primitivi). Il fluido luminoso, chiamato anche etere, trasmette la luce come l’aria trasmette il suono. La forza luminosa è indipendente dal sole, poiché esiste una luce al di fuori del sole (aurora boreale, ecc.). La scienza (su pure congetture fantastiche indimostrabili – ndr.-) ci dice che la nebulosa primitiva era caotica, cioè senza movimento e senza forza.. Dio ha introdotto una nuova forza, la gravità o gravitazione, in virtù della quale gli atomi esercitavano una forza gli uni sugli altri, si mettevano in movimento e si sono condensati in alcuni nuclei. Questo movimento, questo attrito questa condensazione produssero la luce ed infine il fuoco. (Questo fenomeno si verifica quando due pezzi di legno si sfregano tra loro). Il primo giorno, le masse in movimento presero fuoco, producendo così la luce; l’universo si trasformò così in una massa ignea.

II SECONGO GIORNO DIO CREÒ IL FIRMAMENTO.

Dio disse anche: “Si faccia il firmamento (una cosa solida) in mezzo alle acque e separi le acque dalla terra … e Dio chiamò il firmamento col nome di cielo. (Genesi 1, 6-8). Questo secondo giorno viene solitamente spiegato in termini di separazione, ordinamento e solidificazione delle masse create. Queste masse, originariamente unite furono divise in parti di diversa costituzione e dimensione, separate in in direzioni diverse con velocità proprie ed entrarono nelle orbite che Dio aveva tracciato per loro e dove le conserva. Questa solidificazione delle masse cosmiche nello spazio in orbite siderali è chiamata firmamento o cosa ferma. Poiché queste orbite si trovano nello spazio celeste, si usa chiamare questo spazio stesso, firmamento. “E Dio chiamò il firmamento: cielo” (Genesi I, 8); questo è il nome che gli diamo anche noi. Questo cielo è la volta stellata in contrapposizione al cielo degli spiriti. Dio riservò una parte di queste masse cosmiche alla terra, che è quindi composta dagli stessi elementi degli astri. – Mosè continua: “E Dio fece il firmamento e separò le acque che erano sotto il firmamento da quelle che erano sopra il firmamento” (ibid. v. 7). Senza dubbio lo scrittore sacro intendeva dire che Dio separò le masse siderali dai corpi destinati a riempire gli spazi intermedi.

– La scienza (la scienza della fantasia antibiblica – ndr. -) ci dice (senza prove – ndr – ) che la condensazione dei nuclei della nebulosa primitiva ha prodotto masse gassose ignee di diverse composizioni e dimensioni, che si sono attratte l’una con l’altra, entrando così in orbite specifiche. Secondo questa teoria, anche la nostra Terra era una massa incandescente, un piccolo sole che diffondeva calore e luce nello spazio e che è stato attirato nell’orbita del sole stesso.

IL TERZO GIORNO DIO CREÒ IL SUOLO E LE PIANTE.

Le stelle, staccatesi dalla massa primitiva, non rimasero come erano entrate nelle loro orbite, ma continuarono a formarsi. Mosè tratta solo della terra, senza dirci nulla delle stelle se non ciò che ci interessa in modo particolare [qui l’autore si lancia in spericolate fantasiose teorie scientifiche, rigorosamente antibibliche, con l’intento di conciliare la fede scritturale con la pretesa scienza dell’epoca. Noi naturalmente le eliminiamo perché veramente non compatibili con la dottrina cattolica che qui vogliamo studiare – ndr.-] (….) Dio è stato anche in grado, fin dall’inizio, di comunicare alla materia le forze necessarie per produrre gli esseri organici. Ma gli atomi inorganici non avrebbero mai potuto combinarsi per produrre esseri organici per generazione spontanea. Tutti gli scienziati dell’universo non sarebbero in grado di produrre una pianta o un animale con delle combinazioni. Inoltre, è impossibile che corpi così mirabilmente organizzati si siano formati da soli; anche una macchina inerte non si produce da sola, ma nasce dall’intelligenza umana. –

IL QUARTO GIORNO DIO CREÒ IL SOLE, LA LUNA, LE STELLE.

In questo giorno Dio stabilì definitivamente la relazione tra le stelle e la terra. [Qui continuano le elucubrazioni pseudoscientifiche dell’autore che non considera minimamente l’onnipotenza divina che poteva creare in un solo attimo dal nulla ed in modo stabile e definitivo tutte le cose, dando poi all’uomo la possibilità di migliorare se stesso ed il proprio habitat naturale. Ndr. -]. – Dio non ha soluzione al problema della pluralità dei mondi abitati, perché non è di alcuna utilità per la salvezza delle nostre anime. Sappiamo solo che la creazione delle stelle ha reso felici gli angeli. (Giobbe XXXVIII, 7) e che le stelle sono state create per rivelarci la maestà di Dio (Rom. I, 20). – (omissis). Dio ha fatto la terra veramente bella! e noi gli dobbiamo un profondo ringraziamento.

IL QUINTO GIORNO DIO CREÒ PESCI E UCCELLI.

IL SESTO GIORNO DIO CREÒ GLI ANIMALI DELLA TERA FERMA ED INFINE L’UOMO.

Gli animali sono stati creati per proclamare la gloria e la potenza del Creatore con il loro numero, la loro varietà, le loro dimensioni, la loro forza, la loro agilità; esistono anche per il beneficio dell’uomo. Vengono utilizzati per il cibo, il vestiario, le medicine, ecc. Per la qualità più caratteristica del loro istinto, la maggior parte degli animali è simbolo di una virtù o di un vizio. (La volpe è il simbolo dell’astuzia; il cane della fedeltà; la pecora della pazienza, ecc.). L’uomo è l’ultimo degli esseri viventi, ma li supera tutti in grandezza; è il coronamento della creazione. Dio ha creato l’uomo per ultimo per onorarlo. Quando un sovrano arriva in una città, viene preceduto da tutti i suoi servitori per preparare il suo ingresso. È così che Dio ha creato prima ciò che era necessario per il mantenimento dell’uomo e poi solamente l’uomo (S. Giov. Chr.). Il re doveva apparire solo dopo che il regno fosse stato organizzato (S. Grég. Naz.). Dio ha costruito prima il palazzo per poi introdurvi il re (Latt.). L’onore reso all’uomo da Dio si manifesta anche nelle parole della creazione. Alla creazione dell’uomo Egli non disse: “Sia l’uomo”, ma tenne. Per un consiglio con se stesso, per così dire.

4. IL SETTIMO GIORNO DIO SI RIPOSÒ (Genesi 2).

Il riposo di Dio non è come quello di un artigiano stanco: consiste semplicemente nel non creare nessuna nuova specie, cioè nessun essere che non sia già contenuto nell’opera dei sei giorni. (S. Thom. d’Aq.) Il riposo di Dio non è altro se non la sua volontà di mantenere l’ordine esistente (Clém. d’Al.). Tuttavia

Dio non cessa di agire (S. Giovanni V, 17), perché se l’azione di Dio cessasse, la creazione cesserebbe di esistere. – Seguendo l’esempio di Dio, un giorno riposeremo in Lui quando il nostro lavoro sarà finito. (S. Aug.).

Il racconto della creazione ci mostra che Dio ha fatto il mondo secondo un piano preciso.

Dio procede dall’imperfetto al più perfetto. Egli crea prima gli esseri di cui avranno bisogno quelli che li seguono: dapprima le piante, poi gli animali che se ne nutrono. – Nei primi tre giorni, Dio separa gli esseri l’uno dall’altro, nei tre successivi abbellisce ciò che esiste. – C’è un legame tra le due serie di giorni: il primo giorno creò la luce, il quarto un corpo luminoso; nel secondo separò le acque dall’atmosfera, nel quinto popolò l’una di pesci e l’altra di uccelli; nel terzo creò la terraferma e nel sesto pose gli animali.

Il racconto della creazione ci mostra anche che il mondo non è eterno.

Nella sua preghiera dopo l’Ultima Cena, Cristo disse: “Padre, glorificatemi pressi di Voi con la gloria che avevo in Voi prima che il mondo fosse (S. Giovanni XVII, 5). I pagani immaginavano che il mondo si fosse formato dall’incontro casuale di atomi eterni, cioè di corpuscoli molto tenui e indivisibili. (teoria di Epicuro). Si può replicare che non possono esistere più esseri eterni; che un essere eterno non può essere dipendente da un altro essere, il che sarebbe il caso degli atomi che si uniscono; che gli atomi non possono né incontrarsi da soli, né formare, da un incontro fortuito il magnifico ordine dell’universo. Una massa di lettere gettate insieme a caso non formerà mai un libro. L’esistenza degli atomi non è impossibile, ma non possono essere eterni o muoversi con le proprie forze. – Altri pensavano che il mondo fosse stato formato dalla materia eterna dagli angeli o da Dio., che quindi non sarebbe il Creatore, ma solo l’architetto dell’universo. (La teoria di Aristotele e di alcuni materialisti moderni). La materia, tuttavia, essendo mutevole e divisibile, non può essere eterna; non può essere la fonte dello spirito né della vita degli esseri organici. – Altri pensavano che la terra sia lo sviluppo dell’Essere divino stesso, come la farfalla emerge dal bruco, e che tutto l’essere sia Dio (teoria degli antichi saggi indiani e dei moderni panteisti). Ma se il mondo fosse Dio, dovrebbe essere indivisibile ed immutabile, o almeno che ogni parte fosse eterna, il che è contraddetto dai fatti. In questa ipotesi, l’uomo sarebbe Dio, indipendente da tutti gli altri uomini, il che rovinerebbe la società. Anche gli animali sarebbero Dio, e infatti gli Egizi li adoravano. Anche le rane, le mosche e le formiche sarebbero Dio, il che è semplicemente ridicolo (Latt.). In questa teoria, solo questo è vero: tutto ha origine da Dio, tutto si è sviluppato successivamente e tutto ciò che è, esiste in Dio, come abbiamo spiegato quando abbiamo parlato della sua ubiquità; ma tutto ciò che esiste è totalmente distinto da Dio.

Da questo, perché e per quale scopo Dio ha creato il mondo?

1 . DIO HA CREATO IL MONDO DAL NULLA; SOLO LA SUA VOLONTÀ È SUFFICIENTE.

Gli uomini possono agire solo sulla materia preesistente: ma Dio ha fatto la materia stessa, con la quale ha formato tutte le cose (S. Iren).

Gli uomini hanno bisogno di strumenti per il loro lavoro, e vi dedicano tempo e fatica. Dio ha solo voluto e tutto è esistito (Sal. CXLVII, 5), la parola che gli viene attribuita non è altro che la sua volontà. – Dio ha portato l’universo e tutte le sue meraviglie. – Dio si è limitato a dire: Fiat e subito il cielo e la terra sono esistiti. Epicuro obietta che nulla è fatto dal nulla; questo è verissimo, ma noi non diciamo che la terra sia fatta dal nulla, ma che sia stata fatta da Dio dal nulla.

Tutto ciò che Dio aveva fatto è molto buono.

Dio stesso lodò le sue opere (Genesi, I, 31). L’universo era buono, perché nulla era contrario alla volontà divina e tutto era conforme ad essa (S. Amb.). Dio stesso lodava la sua opera, perché noi e tutte le creature siamo incapaci di lodarla adeguatamente (S. Giov. Chr.); almeno dobbiamo imitare i tre giovani che lodavano le opere di Dio nella fornace. (Dan. III.) Ciò che è cattivo era diventato tale per l’abuso che le creature hanno fatto del loro libero arbitrio. Tuttavia, nessun essere può diventare cattivo nella sua essenza; ogni essere è necessariamente buono sotto qualche aspetto (S. Aug.).

2. DIO È STATO PORTATO DALLA SUA BONTÀ A CREARE IL MONDO. Egli ha voluto rendere felici le creature ragionevoli. Un buon padre mostra ai suoi figli belle immagini per deliziarli e farli amare. Dio ha voluto mostrare la sua gloria agli esseri ragionevoli per darci gioia e felicità. per darci gioia e felicità. “Noi siamo, perché Dio è buono” (S. Aug.). La sua bontà, che ha voluto comunicare agli altri, è il motivo della creazione (S. Th. Aq.) Quindi tutto l’universo esiste per il nostro bene: alcuni esseri per la nostra conservazione: la terra, le piante, gli animali; altri per la nostra istruzione: le stelle: altri per il nostro piacere: i colori, i profumi, la musica; altri, infine, per metterci alla prova: la povertà altri per metterci alla prova: la povertà, le malattie, le disgrazie, le bestie cattive. “Mio Signore e mio Dio – dobbiamo gridare – tutto ciò che vedo mi dice che l’avete fatto Voi. per il mio bene e mi dice di amarti. (S. Aug.). -Dio non è stato costretto da nulla a creare l’universo, non ne aveva bisogno (Atenagora). E proprio per dimostrare che ha agito secondo il suo beneplacito, ha creato gli esseri non tutti insieme, ma in successione. (Bossuet).

3. LO SCOPO DELLA CREAZIONE È QUELLO DI RIVELARE ALLE CREATURE RAGIONEVOLI LA GLORIA DI DIO.

L’opera doveva elogiare l’autore per la sua perfezione, come una bella tela dà la gloria ad un pittore. È importante distinguere tra lo scopo dell’operaio (il motivo che lo spinge ad agire) e lo scopo dell’opera (ciò a cui una cosa sia destinata); l’orologiaio fa un orologio per guadagnarsi da vivere, ma la funzione dell’orologio è quello di segnare le ore. In Dio, il motivo del suo atto creativo è la sua bontà, lo scopo della sua opera è di glorificarlo e di rendere felici le sue creature ragionevoli. – L’innumerevole quantità e l’immensa varietà, piante e animali, l’enorme numero di stelle (Sal. XVIII, 1) esistono solo perché gli angeli e gli uomini possano riconoscere e ammirare la maestà divina. “Ciò che vedo grida: “O Dio, quanto siete grande, quanto siete buono.” – Da parte loro, gli Angeli e gli uomini esistono solo per riconoscere e glorificare la maestà divina. Sappiamo anche che gli Angeli santi contemplano Dio e lo lodano incessantemente (ls. VI, 3); e S. Agostino dice dell’uomo: “Tu sei un uomo, un uomo, un uomo”. Agostino dice dell’uomo: “Voi ci avete creati per Voi, Signore! e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Voi!”- Anche i diavoli sono obbligati a contribuire alla gloria di Dio, perché con i loro tormenti mostrano la grandezza della santità e della giustizia di Dio, e Dio trasforma tutte le loro astuzie nella sua gloria e nella salvezza degli uomini. – I reprobi non sottraggono a Dio la sua gloria; essi glorificheranno la giustizia di Dio per tutta l’eternità. mentre gli eletti proclamano la sua misericordia (Marie Lataste). Il Signore ha creato tutto per sé stesso (Prov. XVI, 4); ha creato per la sua gloria tutti coloro che invocano il suo nome (Is. XLIII, 7). Tuttavia, non ha creato l’universo per accrescere la sua gloria o per procurarsela (Conc. Vat. I, 3), perché Egli è sovranamente beato e non ha bisogno di nulla; né è ambizioso, perché pretende solo l’onore che gli spetta.

Poiché esistiamo per la glorificazione di Dio, noi dobbiamo agire con questa intenzione in ogni cosa.

S. Paolo ci comanda, quindi, “qualsiasi cosa facciamo, sia che mangiamo sia che beviamo, di fare tutto a gloria di Dio” (1 Cor. X, 31). Niente di più facile, perché le più piccole azioni possono essere offerte a Dio per questa intenzione. (S. Giov. Chr.). – Non dimentichiamo di fare il buon proposito al mattino e di rinnovarlo spesso durante la giornata. (Il catechista farà recitare qui il voto della buona intenzione).

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (17)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (17)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo SESTO

LA MORALE CRISTIANA E LA VITA

Fra voli e cadute, tra canti di gloria e gemiti di disfatte, fra ideali sognati, sforzi compiuti e l’infrangersi spesso di propositi generosi al contatto della dura realtà, passa la vita umana. Perché essa non appaia mai una farsa da godere o una tragedia da maledire, bensì un’alta missione da svolgere, gioverà riguardare il valore della vita nostra in sé, in rapporto alla famiglia ed in relazione allo Stato, sempre alla luce della morale cristiana.

1. – La vita.

In sé considerata, la vita è un grande tesoro, sia nell’ordine naturale, sia nell’ordine soprannaturale. Purtroppo molti non apprezzano l’importanza della loro esistenza e la sciupano miseramente. Si appagano di mirare ai loro anni, prescindendo ,da Dio e dal suo Amore; ed allora la vita necessariamente appare come l’attimo fuggente, come l’onda rapida e fugace, come il fiore che sboccia, appassisce e muore. Il pessimismo e lo scetticismo morale sono in questo caso inevitabili; ed il sorriso beffardo del gaudente o il gesto folle del suicida ne sono la conseguenza. Ma chi non dimentica che la vita nostra non è l’Assoluto, ma dev’essere sempre, in ogni istante, posta in rapporto con Dio e con l’Amore divino, supera gli egoismi del dilettantista e del pessimista, coglie in sé il valore divino della vita umana ed utilizza i suoi giorni con cristiana sapienza.

2. – La vita nell’ordine naturale

Ragioniamo con tutta semplicità. Se si parte dall’esistenza di Dio e, perciò, dalla sua centralità nell’universo, subito, per la forza dell’evidenza più abbagliante, dobbiamo ammettere tre principi ricchi di pratiche applicazioni.

1. Ogni uomo che viene al mondo ha una missione particolare, a lui affidata da Dio. L’universo è un poema, in cui ciascuna creatura rappresenta una lettera. E come ogni lettera alfabetica in un libro ha una funzione da compiere, così ogni essere e specialmente ogni uomo ha un compito da assolvere. Guai se in una pagina, dove si dice che « il nostro Dio è il centro della realtà », io togliessi il D, ne risulterebbe che « il nostro io è il centro della realtà ». E se in una parola volessi aggiungere qualche lettera in più, imiterei quel bravo tedesco, che studiava a Firenze la lingua di Dante e che, essendo stato stupito nel trovare per la strada uno spazzino con tanto d’occhiali, riferiva ai suoi ospiti il fatto, narrando loro d’aver visto « uno spazzolino con gli occhiali ». Era un semplice ol che egli aveva graziosamente aggiunto, ma era un’appendice inutile, anzi.., un’appendicite che esigeva un’operazione chirurgica. Non sono soltanto gli Eroi di Carlyle, che costituiscono la storia; ogni persona, da Napoleone alla povera vecchierella del villaggio, concorre a scrivere il volume delle umane vicende. E se nessuno disprezza le lettere maiuscole, — volevo dire gli uomini grandi, — non si debbono però trascurare nemmanco gli uomini piccoli, le lettere minuscole, le virgole ed i punti fermi. Dio non sarebbe la suprema Ragione, se dovesse creare un essere senza che questo avesse uno scopo preciso, una finalità concreta nell’ordine totale. Non sappiamo, è vero, con esattezza e con completezza qual è il valore della nostra attività; ma anche il soldato, durante il conflitto mondiale, in uno dei punti del fronte, non conosceva il motivo e l’importanza della sua azione: solo il generale vedeva il valore delle singole mosse ed anche la necessità talvolta di sacrifici, che all’eroe che li compiva potevano sembrare irrazionali, mentre tali non apparivano e non erano all’occhio di colui che considerava l’esercito nel complesso organico della sua avanzata e della sua difesa. Bisogna ben persuadersi di questa verità, troppo trascurata. Bisogna, soprattutto nelle ore difficili del combattimento e del dolore, ricordare a sé che la nostra vita è una missione, assegnataci dall’amore di Dio e che non rappresenta qualcosa di superfluo, ma di utile nel piano provvidenziale.

2. Ogni vita particolare, ogni missione individuale è una « nota » nella musica universale. La vita nostra, se ha un rapporto con Dio, lo ha pure coi nostri simili. È il filo d’una tela: sottilissimo, se volete; ma guai se voi lo togliete! Imitereste il ragionamento di un gruppo d’amici, i quali si avvicinassero a me, e ciascuno, con la scusa che un capello è una piccola cosa, me ne strappasse uno. In poco tempo la mia testa diverrebbe pelata completamente, simile ad una piazza senza neppure un monumento! Non rinchiudiamoci nel nostro piccolo io oscuro: apriamo le finestre della nostra anima: tendiamo l’orecchio: sentiremo la musica della storia e comprenderemo come la nostra debole voce entra anch’essa nel grande coro. La realtà è un tutto sistematico. Non è un’accozzaglia di esseri, simile a pezzi separati e sconnessi, atomisticamente indipendenti. No. Nella natura e nella storia noi troviamo un’unità, quasi d’un organismo. Persino una goccia dell’oceano esiste, ed esiste come oggi è, perché tale e non diverso fu lo svolgimento della nebulosa primitiva, della terra, dell’atmosfera e via dicendo. Così ciascuno di noi è legato al tutto con un’intima solidarietà. La civiltà nostra ha le sue sorgenti nella civiltà dei secoli scorsi; la nostra vita presente ha le sue radici nella profondità dei millenni; e la libera attività coopera allo svolgersi degli avvenimenti. Una relazione intima collega la generazione attuale alle tombe del passato e alle culle dell’avvenire; e non è solo « il naso di Cleopatra », accennato dal Pascal, che può dare un indirizzo nuovo alla storia, ma ogni azione nostra influenza più o meno profondamente il corso degli eventi. – Come nella costruzione d’un palazzo ogni muratore porta il suo contributo, così ogni uomo è un muratore del palazzo della storia, è un cooperatore della storia della sua famiglia, della sua città, della sua patria, del mondo in cui vive.

3. Soddisfare a questa missione assegnataci da Dio e contribuire al bene comune non è un compito che possiamo impunemente trascurare. Noi non siamo i padroni assoluti della vita nostra, ma solo i depositari: liberamente traffichiamo i talenti ricevuti e di essi dovremo un giorno rendere ragione. È quindi una colpa, innanzi tutto, il suicidio, fosse pure quello di Catone, che non volle sopravvivere alla perduta libertà della patria, o di Lucrezia, che non volle sopravvivere ad un’onta. Nessuna ragione può giustificare il gesto di chi fugge dal campo di battaglia, dove il dovere lo ha posto. Nessun pretesto deve diminuire l’orrore che suscita in noi la giovanetta ingoiante pastiglie di sublimato corrosivo; il disperato, che si spara un colpo di rivoltella; Roberto Ardigò che a novant’anni afferra il rasoio, si taglia la gola e mormora: « A che serve la vita? »; o qualsiasi Petronio, più o meno in sessantaquattresimo, che a mensa, tra musiche e profumi, leva in alto la coppa murrina, vi beve, la scaraventa a terra in polvere e frantumi, e poi porge il braccio al medico, perché v’apra le vene, e muore esangue. No. La vita non è una coppa, che si possa lecitamente scagliare al suolo. E come è un delitto il suicidio, così è un peccato lo sciupio del tempo. « Fugit irreparabile tempus », ammoniva già Virgilio. Chi rifletta all’immenso numero di ore, di giorni e di anni sciupati con inqualificabile leggerezza da molti, esclama con Schiller, in una delle sue Kleine Gedichte, intitolato: Der Samann: « Guarda: pieno di speranza tu affidi alla terra il seme dorato e nella primavera aspetti lieto che esso germogli. Solo nei solchi del tempo sarai tu esitante a gettare azioni buone, che, seminate dalla saggezza, fioriscano tranquillamente per l’eternità? ». – La preziosità del tempo e l’obbligo del lavoro sono proclamati dalla stessa morale naturale. I santi del Cristianesimo ci hanno dato poi in questo gli esempi più luminosi: sant’Alfonso aveva fatto voto di non perdere mai neppure un istante; san Filippo Neri non lasciava inutilizzata nemmeno una piccola particella di tempo; san Camillo de Lellis si fermava dinanzi alle tombe e si chiedeva: « Cosa farebbero questi morti per la vita eterna, se potessero ritornare in vita? ». In una parola, vi sono Santi protettori del lavoro, come un san Benedetto; vi sono i patroni dei sarti, dei calzolai, dei giornalisti e così via; ma il santo protettore dell’ozio non è mai esistito. Tutto questo è vero anche dal punto di vista dell’ordine naturale. E la vita, concepita in tal modo, fu, persino dagli Stoici, dichiarata la vita che glorifica il Creatore. Che posso far io, vecchio e zoppo, se non cantare la gloria di Dio? — diceva Epitteto nei suoi Discorsi. — Se io fossi usignolo, farei la parte di usignolo; se fossi un cigno, la parte del cigno. Io sono un essere ragionevole e debbo innalzare un canto a Dio. Ecco la mia parte, ed io la farò, finché potrò; ed invito voi tutti a cantare con me ». È l’espressione, questa, della stessa ragione umana. La rivelazione la conferma e soggiunge che la vita nostra non solo deve essere vissuta a gloria di Dio, ma a gloria del Dio uno e trino, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

3. – La vita nell’ordine soprannaturale.

Nell’ordine soprannaturale, nulla di quanto abbiamo accennato viene distrutto; al contrario, tutto è consacrato e sublimato.

1. La vita del Cristiano è una missione, che il Padre affida al Figlio. Non schiavi, non pure creature, ma figli di Dio mediante la grazia che eleva la nostra natura umana e ci fa partecipi della natura divina, quando noi viviamo senza il peccato mortale la vita nostra è un Pater noster recitato con l’attività quotidiana.

Il vero Pater noster non è quello che biascichiamo tante volte distrattamente, ma è il grido d’amore che al Padre rivolgono i figli fedeli, mentre compiono il suo volere nel mondo. Sono i nostri atti, dalle preghiere che pronunciamo, ai sacrifici generosamente accettati, che glorificano il Signore e gli ripetono: Sanctificetur nomen tuum. Sono essi che concorrono alla realizzazione del suo regno: adveniat regnum tuum. È mediante tutta la nostra vita cristiana,più che a fior di labbra, che noi pronunciamo veramente legrandi parole: fiat voluntas tua. Ed il buon Padre ci fornisceil pane soprasostanziale, che vivifica le anime e l’altropane, che nutre i corpi; ci perdona i peccati nostri, comandandocidi perdonare le offese ricevute; ci mette in guardiadalle tentazioni e dal male, ossia dalla colpa, che potrebbe,se mortale, farci perdere la grazia ed in tal modo rovinarela nostra vita. Ogni azione buona, fatta senza la grazia, nonparte da un’anima divinizzata, ha quindi un valore puramenteumano e non merita un premio soprannaturale; è unaazione, insomma, senza l’amore. La vita nostra, al contrario,dev’essere l’attuazione della nostra missione umana, volutada Dio e svolta con la grazia santificante. Noi, ad imitazionedel beato de La Colombière, dobbiamo essere fautori del« momento presente santificato » e con lui ognuno deve proporsiquesto programma: « Se anche tutta la terra si dovesserivoltare contro di me, biasimarmi, canzonarmi, compassionarmi,bisogna che io faccia tutto quello che Dio comanda,tutto quello che Dio mi ispira per la sua gloria ».

2. Il Padre non ci lascia soli: ci unisce, ci incorpora al Figlio suo unigenito, Cristo Gesù, e mediante il « primo tra i fratelli », ci unisce a tutti gli altri fratelli, nel corpo mistico della Chiesa. Allora la vita nostra, cristianamente vissuta, non solo è divinamente preziosa in sé, ma giovevole anche per tutti. È amore a Cristo, col quale formiamo un unico organismo; è amore al prossimo, col quale comunichiamo nella Comunione dei Santi; è un portare un sassolino a quella cattedrale, che è dedicata alla Regalità del Salvatore; è apostolato; è missione d’amore fraterno. Gesù è insieme con noi. Pone il suo capo sul nostro cuore e ci incita al dovere, al sacrificio, all’amore. Se cadiamo, ci solleva; se siamo tristi e stanchi, ci ripete: « Venite a me voi tutti che siete affranti e affaticati, ed io vi ristorerò »; se soffriamo, raccoglie le nostre lagrime; se lavoriamo, santifica la nostra fatica; se preghiamo, unisce la nostra alla sua preghiera e la offre al Padre. La disperazione del suicida è impossibile in questo caso: lo sperpero del tempo costituisce un rimorso; il sudore quotidiano si tramuta in gioia soprannaturale; e la nota che poniamo nella musica della vita è una nota di amore.

3. Sarebbe, del resto, possibile una diversa ipotesi, quando si pensa che lo Spirito Santo è l’anima della Chiesa e perciò l’anima della nostra anima? Spesso nei nostri templi festosamente si canta: « Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto »; e noi forse non riflettiamo che simile dossologia è solo una eco della gloria al Signore uno e trino, quale s’innalza da ogni vita cristiana e da tutta la vita della Chiesa. Abbiamo perduto molte volte il senso del soprannaturale. L’esistenza ha smarrito il Sole che doveva illuminarla e resta immersa nelle tenebre sconsolate dei dolori, dei pettegolezzi e delle meschine umane miserie. Ed allora la vita non è più una gloria alla Trinità, ed il suo valore non lo si percepisce. – Se Montalembert un giorno si volgeva ai giovani, e, per scuoterli dal loro torpore ed animarli ad opere egregie, diceva loro: « Dateli a me i vostri vent’anni, se non sapete che farne », anche noi potremmo ripetere lo stesso appello ad una gioventù, spesso fiacca ed inconcludente, che tratta la vita come una sigaretta… Quattro volute di fumo; e, poi, le tombe raccolgono i mozziconi. No. Ciò non è da tollerarsi. Ripetiamolo ancora che ognuno di noi (il pensiero geniale è di san Francesco di Sales) si può paragonare al musico valentissimo, che divenne completamente sordo. Il suo orecchio non percepiva un suono. Tuttavia, egli continuò a cantare e a suonare con mano delicata il suo liuto per accontentare il suo principe. Ed anche quando il principe non gli testimoniava il suo gradimento, continuava nel canto. – Anche noi, a questo mondo, siamo sordi. Non percepiamo, cioè, tutto il significato ed il valore della vita; non sappiamo quale influenza essa avrà, per volere di Dio, nel trionfo di Cristo; non possiamo comprendere la bellezza soprannaturale d’una esistenza, magari in sé umile e nascosta, ma preziosa agli occhi del Signore. Non importa. La nostra vita dev’essere sempre bella come un inno e come la musica d’un liuto, toccato non già da una mano qualsiasi, ma dallo Spirito divino.

4. – La famiglia, la scuola ed i problemi sociali

Con lo stesso principio, la morale cristiana risolve i grandi problemi sociali, cominciando dalla famiglia. L’individuo non esiste isolato; il concepirlo in tal modo è fior di astrattismo. E neppure vive insieme con gli altri, come un essere accanto ad altri esseri uguali. La realtà concreta è ben diversa.. L’essere individuale è membro d’una famiglia, come le famiglie sono membra dello Stato, come gli Stati sono membra della grande famiglia umana. L’amore del prossimo non può prescindere da questa costituzione sociale. E sarebbe stolto chi volesse amare i suoi genitori come ama i beduini lontani e sconosciuti, oppure la patria sua come può amare il Capo di Buona Speranza. Siccome l’amore del prossimo si ispira all’amore di Dio, noi dobbiamo amare gli altri come vuole Dio; e siccome la volontà divina si esprime nella concretezza della realtà creata con le sue determinate ed essenziali esigenze, ne risulta che non si amerebbe Dio se non si amasse la famiglia, la patria e lo Stato. In una unità armonica di visione e di conseguenze pratiche, anche la famiglia (come la patria e lo Stato) è da concepirsi in funzione del concetto di amore. Il matrimonio non è un contratto qualsiasi, fatto in base ad interessi volgari; ma è un patto di amore ed appunto per questo, dallo stesso punto di vista naturale, è indissolubile. Il vero amore non è un « contratto a scadenza », ma è eterno e non conosce se non queste due parole: « Tu solo e per sempre ». Due cuori che, in un momento grande della loro esistenza, si stringono in un santo vincolo, dal quale dipende la trasmissione della vita e la conservazione del genere umano, non si amerebbero, se non si giurassero a vicenda un affetto eterno. Quale amore sarebbe il loro, se dovessero dirsi: « Sì, noi ci ameremo solo per due anni »? Le passioni, che hanno creato il divorzio sono la negazione dell’amore; sono l’egoismo schietto; e sono, di conseguenza, la rovina della famiglia e dei popoli. Il matrimonio indissolubile — e monogamico — è il solo che attua il concetto di amore nella formazione della nuova famiglia; il solo che di due esseri fa quasi una sola personalità mediante il mutuo affetto e li può rendere capaci, qualora gli sposi comprendano il valore della loro unione — di compatirsi nei bisogni, nelle debolezze, nelle malattie, nelle disgrazie; il solo che riguarda la famiglia in relazione al frutto dell’amore, i figli, e che mediante la legge dell’amore, rende possibile l’educazione. – Cristo, come vedemmo, ben lungi dal ripudiare questo amore santo, l’ha santificato con la grazia e con la grandezza d’un Sacramento. La famiglia cristiana è quella che è tutta pervasa di amore, è quella in cui l’amore è la sorgente, l’atmosfera, il vincolo, lo scopo. La prima manifestazione della carità verso il prossimo la si deve avere nella famiglia, negli sposi fra loro, fra i genitori od i figli, fra i figli ed i genitori. – Se ben si osserva, ogni peccato che può essere commesso in una famiglia è una violazione dell’amore. Dall’infedeltà alla parola giurata, all’egoismo brutale che profana il Sacramento ricevuto; dalla trascuratezza o dalle mancanze nell’educazione della prole, a qualsiasi insubordinazione dei figli verso il padre o la madre, non è possibile immaginare una colpa nell’ambiente familiare, che non sia contro l’amore. E la famosa antitesi tra libertà ed autorità scompare al soffio dell’amore: la correzione ed il castigo, quando non sono abbandonati all’impeto passionale dell’istante, ma sono ispirati e diretti dalla ragione, dal cuore e dal proposito di « formare Cristo » (come dice San Paolo) nelle anime dei figli, non sono un’autorità che schiaccia ed uccide, bensì che libera e vivifica. – Questi semplici concetti dovrebbero essere svolti a proposito delle relazioni fra maestro e scolaro, fra padroni ed operai, fra sovrani e sudditi. Nella concezione cristiana tutto si colorisce d’amore. Anche, ad es., i rapporti fra il padrone ed i lavoratori da lui dipendenti non sono regolati da un semplice criterio di giustizia. Persino alle stesse esigenze della giustizia si deve rispondere in nome dell’amore fraterno, il cui frutto è l’equità. Persino le stesse forme economiche, che dall’economia a schiavi al capitalismo attuale sono andate evolvendosi e che sempre, sia pur gradatamente, si trasformeranno, non sono altro se non un reale e progressivo perfezionamento dell’amore. Né, senza questa idea fondamentale, è possibile una soluzione della questione sociale: non già nel senso che basti per il grande problema una dichiarazione di principi ideali, ma nel senso che la stessa realtà economica dev’essere realizzazione del precetto divino della carità.

5. – Lo Stato

Anche lo Stato dev’essere riguardato con identico occhio dal Cristiano. Non soltanto la Chiesa, l’organismo spirituale, vivificato dallo Spirito Santo, ma lo Stato stesso è la « società degli spiriti chiamati all’amore ». Cosa significa « lo Stato »? Significa che nessuno di noi è stato creato per vivere egoisticamente, per proprio conto, ma che Dio ci ha creati in modo che fosse per noi di necessità naturale l’essere riuniti nella società familiare e statale. Non è la volontà nostra, come favoleggiava Rousseau, che costituisce lo Stato; ed in esso non dobbiamo mai vedere qualcosa di formato da noi e che dipenda dal nostro arbitrio individualistico. Nello Stato dobbiamo scorgere la volontà di Dio ed appunto per questo dobbiamo avere rispetto, venerazione, obbedienza alla maestà dello Stato. Ciò facendo, noi amiamo Dio. Soggiungiamo: amiamo anche il prossimo. Non è forse vero e doveroso amore del prossimo l’attività di coloro che governano, quando non proclamano paganamente con Luigi XIV: « Lo Stato sono io », ma quando tendono con ogni sforzo al bene comune, che è appunto il fine dello Stato? E non è vero e doveroso amore dei fratelli la disciplina del cittadino, il suo ossequio all’autorità, il rispetto alle leggi, la cooperazione volonterosa e quotidiana alla prosperità dello Stato, il sacrificio di sé, quando occorre, sino alla completa immolazione della vita? Ciò facendo, il Cristiano non fa altro se non il suo dovere; e non sarebbe Cristiano agendo diversamente, perché calpesterebbe il precetto della carità. Per noi, quindi, lo Stato ha sempre avuto un carattere etico e la Chiesa ha condannato le teorie liberali dello Stato agnostico, dello Stato neutro, dello Stato che protestava di non avere una morale, quasi che di fronte ad un tale mostro di Stato non fosse logico il cittadino che, al di sopra di tutte le cose degne di sprezzo, poneva l’autorità dello Stato. – Il carattere etico dello Stato non implica affatto che lo Stato crei una sua morale. Come la vita individuale ha un valore etico, non in quanto ognuno di noi si foggia una norma di condotta a proprio talento, ma in quanto osserviamo la morale; così anche lo Stato ha un valore morale, non in quanto elabora un nuovo decalogo in cui, ad esempio, si dica: « Disprezza il padre e la madre; uccidi; ruba » e via dicendo, ma in quanto si riconosce nella sua costituzione essenziale come qualcosa che dipende non dall’arbitrio umano, ma da Dio, ordinatore e legislatore; in quanto nella sua attività si ispira al bene generale dei sudditi; in quanto rispetta e fa rispettare le norme etiche, che, sole, possono condurlo ad una vera grandezza. Di qui appare l’indissolubilità fra il Cristiano ed il buon cittadino: è un binomio, in cui l’uno dei termini implica l’altro. Di qui, anche l’assurdo d’un Cristiano che non ami la patria sua. Di qui la ridicolaggine d’un astrattismo vacuo e dannoso di utopie umanitaristiche, che propugnano il sogno d’un’umanità senza patrie, sogno che potrebbe stare alla pari dell’altro d’uno Stato senza famiglie o di un organismo senza diversità di membra. Certo: le necessità ogni giorno più limpide, persuasive, fatali, di legare i popoli in rapporti sempre più stretti di fraternità e di comuni interessi per garantirne, con la pace, la prosperità; il logico sviluppo di questi nuovi vincoli internazionali, che dai primi nuclei più omogenei, andranno abbracciando successivamente, per connessione spirituale, altri popoli, altre terre, altre forze, porteranno un giorno ad una futura unione organica di Stati, ciascuno dei quali non si ispirerà più unicamente al proprio egoismo, ma coopererà al bene di tutti. Questo giorno bisogna prepararlo con tutte le energie e con tutti i sacrifici; ma esso sarà solo possibile, attraverso la vita, il rispetto e lo sviluppo delle unità nazionali.

6 . Conclusione

Nei sepolcri dei vecchi Faraoni, furono trovati grani di frumento, che, dopo tanti secoli, gettati in buon terreno, hanno dato ancora una spiga. La morale cristiana mi pare assomigli a quei grani di frumento. L’hanno nascosta nei bui ipogei della dimenticanza e del disprezzo e gli individui, le famiglie, le scuole, le officine, gli Stati hanno mangiato il pane dell’egoismo. Ne derivano mille danni alla vita individuale e familiare, all’educazione, all’economia, alla vita civile delle nazioni. Suicidi e divorzi, limitazione della prole e formazione spirituale mancata, lotta di classe e conflitti di popoli indicano i tristi effetti dell’abbandono del Cristianesimo. Al sepolcro di Cristo, che ha racchiuso la vittima dell’Amore, ,dobbiamo recarci per riprendere l’antico granello di frumento, che sempre conserva il fremito della vita. Solo il pane della carità può essere la salvezza delle genti; solo questo pane può essere mutato nel cibo soprannaturale di vita eterna.

Riepilogo.

La vita è una missione ed ha un divino valore, sia che la si riguardi in sé, sia che la si consideri in rapporto alla famiglia od in relazione allo Stato.

a) In sé, la vita di ognuno ha uno scopo speciale, che forma una nota nella musica dell’universo, che deve cantare l’amore a Dio ed ai fratelli e deve esser di gloria al Padre, al Figlio ed allo Spirito Santo. Perciò è un delitto il suicidio; è una colpa lo sciupio del tempo; è un dovere il lavoro.

b) In rapporto alla famiglia, la morale cristiana propugna la concezione della vita come amore, sia che affermi l’unità e l’indissolubilità del matrimonio e proibisca il divorzio, sia che comandi l’affetto fra i coniugi o l’amore dei figli ai genitori. c) Anche lo Stato è per la morale cristiana la società degli spiriti chiamati all’amore. Portando rispetto ed ubbidienza alla maestà dello Stato noi amiamo Dio, che non ci ha creati per vivere egoisticamente, ma ha voluto che fosse per noi di necessità naturale costituire lo Stato; inoltre, amiamo il prossimo, lavorando e tendendo al bene comune, sia con l’attività di coloro che governano, sia con la collaborazione devota ed ossequiente del cittadino. Di qui anche il dovere per il Cristiano d’amare la sua patria.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (18)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (51b)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (51b.)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -IX a-

5. Sacramento dell’Eucaristia.

J 5a. a. – INSTITUZIONE DA CRISTO.

Cristo istituì: a.il Sacramento o b.Sacrificio eucar. c.nell’ultima Cena ac846 ac1637 ac1727 bc1740-1742 b1752; si riprova l’asserzione dei Modernisti 3445.

J 5b. b. – L’ESSENZA DEL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA.

5ba. Indole sacramentale. L’Eucar. è un Sacramento 718 761 846 860 1310 1320 1601 1635-1637 1727 1864 2536.

Nell’Eucaristia il pane e il vino è “Sacramento e non cosa”, carne e sangue di Cri. “sacram. e cosa”, effetto sacramentale “cosa e non sacramento” 783.

Materia è il pane di frumento (783) 860 1320 CdIC 814, § 1; e il vino di vite (783) 1320 CdIC 815, § 2; il pane presso i latini è azimo, preso i Greci fermentato 860 1303 CdIC 816; precauzioni ctr. corruzione del vino della Messa 3198 3264 3312s.

La Forma sono le parole consacratorie di Cristo 1321 1352; l’epiclesi non ha alcuna capacità consecratoria 1017 2718 3556; nella concelebrazione di più Sacerdoti si richiede la comune pronuncia delle parole della consacr. 3928.

5bb. Presenza eucaristica di Cristo. Le parole di Cristo Sono consecratorie non in senso tropico, ma sono presentate in senso proprio 1637.

Per la consacrazione si opera la conversione di a.tutta la sostanza in corpo di Cristo e di a.tutta la sostanza del vino in sangue di Cristo. 1321 1352 a1642 a1652 a1866 a2535 a2629 a2718; questa conversione si chiama transustanziazione 782 802 860 1352 1642 1652 1866 2535 2629; post dopo la consacrazione si separano le specie (forma) del pane e del et vino, è creduta la verità della carne e del sangue di Cristo 782s, ovvero: nel sacram. dell’altare è contenuto il corpo e il sangue di Cristo a.veramente, b.realmente, c.sostanzialmente, d.essenzialmente sotto le specie del pane e del vino 690 700 794 a802 (846) abd849 abc1636 1640 abc1641 a1651 abc1866 abc2535 abc2629.

Tutto il Cristo è contenuto sotto qualunque specie (b.sia per la virtù delle parole sia per la naturale connessione e concomitanza) e c. sotto qualunque parte della specie dopo la separazione a1199 a1257 ac1321 ab1640 ac1641 a.1651 ac1653 (a1729 a1733) a1866 ac2535.

Cristo eucaristicamente presente è lo stesso Cristo nato e crocifisso 1083 1256; nell’Eucar. è contenuto il corpo e sangue di Cristo insieme all’anima e divinità di Cristo  (a.in virtù dell’unione ipost.) a1640 1651 1866 2535; Cristo è eucaristicamente presente sotto le specie, localmente (a.sec. modo di esistere naturale) è in cielo 849 a1636.

Riprov. l’asserzione negante la transustanziazione 849 1018 1151-1153 1256 (1652) 1654 3891; si riprovano le sinistre spiegazioni 3121-3124 3229-3231 3891; si disputa per come l’acqua mista al vino della Messa si trasformi in sangue 784 798.

La presenza eucaristica di Cristo non si limita al tempo di volubilità 834; remane per i giorni che restano le specie 1101-1103.

Al Sacramento dell’Eucaristia si deve il culto di latria 1643s 1656 CdIC 1255, § 1.

La presenza di Cristo in tal senso è dirsi come mistero liturgico della Chiesa 3855.

J 5c. c. — DIGNITÀ DELL’EUCARISTIA.

L’Eucaristia è come il capo e centro della religione cristiana 3847; è come l’anima della Chiesa (per questo i vari gradi del sacerdozio, sono diretti all’Euch.) 3364; pertanto la Chiesa ha tanti beni, virtù, gloria 3364.

J 5d d. — EUCARISTIA COME SACRIFICIO.

5da. Sacrificio della Messa come tale. Cristo nell’Eucaristia è sacerdote et sacrificio 802.

Nella Messa si offre il a.vero, b.proprio, c.visibile sacrificio a1740-1742 a1741 c1764 ba1866 ab2535 b3847.

Il Sacrificio eucar. è l’incruenta rappresentazione del sacrificio cruento in Croce e sua memoria 1740s 1743 3847s (S3339); le specie eucar. figurano la cruenta separazione del corpo e del sangue 3848; ita Cristo è significato nello stato di vittima 3848 3852; ill sacrificio della Messa non si discosta dal sacrificio della croce 1743 1754 7S3339.

La Messa è offerta al solo Dio (benché in onore e per l’intercessione dei Santi) 1744 1755.

Si Riprovano le asserzioni: [la Messa non è stabilita nel Vangelo] 1155; [la Messa è la nuda commemorazione del sacrificio della Croce] 1753 3316 3847 S3339; [la Messa non è sacrificio se non generale in cui di sacrifica ogni opera che si debba compiere per unirsi a Dio nella santa società 1945.

5db. Ministro. Per consacrare è richiesta la persona (ministro), la forma (le parole) e l’intenzione nel proferirle 794.

Ministro del sacrificio è solo a.il presbitero ordinato dal Vescovo (b.non il diacono c.non il laico) d.avente la debita intenzione 794 ab802 c1084 d1352 CdIC bd802; il sacerdote consacrante parla in persona Christi 1321; quando sia lecita la concelebrazione di più sacerdoti (3928) CdIC 803.

La Messa in cui si comunica il solo sacerdote non è illecita 1747 1758 3854.

La Consacrazione della materia fuori dalla Messa è illecita anche in estrema necessità.. CdIC 817. Per la lecita celebrazione della Messa è richiesto lo stato di grazia, mancando il quale il sacerdote ha urgente necessità di confessarsi quanto prima 1647 2058s CdIC 807.

5dc. Partecipazione dei fedeli alla Messa e loro sacerdozio. 3849-3853; si riprova l’asserzione -circa la partecipazione alla vittima 2628; -: circa la concelebrazione dei fedeli 3850; circa la Messa privata senza popolo 3853.

5dd. Rito dell’offerta. Sii rivendica la legittimità delle cerimonie della Messa 1746 1757 5dd 1759; si rivendica la libertà da errori (dogmatici) del canone della Messa 1745 1756.

Il vino della Messa va mescolato a un poco d’acqua 822 834 (784 798) 1320 1748 1759 CdIC 814.

Uso della lingua latina, restrizione della lingua volgare 1749 1759 CdIC 819.

5de. Effetto del sacrificio della Messa. La sua efficacia è – : ex opere operato 3844;

– la stessa del sacrificio della Croce S3339; -: non dipende dalla probità del Sacerdote 794.

La Messa è sacrificio propiziatorio per i vivi ed i defunti 1743 1753. 1866 2535 CdIC 809; si riflettono i peccati quotidiani 1740; vale per impetrare ed espiare S3339; si riprova l’asserzione circa l’applicazione del frutto speciale della Messa. 2630; applicazione per coloro il cui cadavere sia stato cremato. 3277.

J 5c. c. – EUCARISTIA COME COMUNIONE.

5ea. Modo e rito ministrante.

a.ai laici la comunione è somministrata dal Sacerdote, b.il Sacerdote comunica se stesso ab1648 b1660 CdIC a845, § 1; il diacono è ministro straordinario CdIC 845, § 2.

La Comunione sotto una sola specie del pane (non solo sotto entrambe a. Riprovata dai riformatori, b.deliberata nel Cc. Trid.) è legittima 11981200 1258 1466 a1731s 1726-1734 ‘1760 CdIC 852; questa non è non defraudata per qualche grazia necessaria 1729 1733; i laici e i chierici che non celebrano non sono obbligati alla comunione con entrambe le specie 1726s 1731s.

Si legittima la conservazione dell’Eucaristia (riprovato tuttavia l’a.abuso presso i Greci) a834 1645 1657 CdIC 1265.

5eb. Fine. Nell’Eucar. si fa grata memoria del Salvatore 846 1322 (1637) 1638; il fine non è precipuamente, procurare l’onore del Signore o per prendere quasi un premio delle virtù (ma è da cogliersi dagli effetti) 3375-3378.

5ec. Effetto. Va distinta tanto l’assunzione sacramentale, tanto spirituale sacramentale simultaneamente et spirituale 1648 (1658); si riprova: [Cristo nell’Eucaristia, è mangiato non realmente ma spiritualmente] 1658.

Il Cristo eucar. è vita dei fedeli 3360; è cibo dell’anima 847 1311 1638 3360; pertanto l’Eucaristia ha per la vita spirituale lo stesso analogo effetto del cibo materiale 1322.

Effetto singolo — remissione dei peccati 1020; (più accuratamente:) liberazione dalle lievi colpe quotidiane 1638 3375; —: attenuazione delle pene 1020; —: preservazione dai peccati mortali (846 1322) 1638 3375; —: soppressione della libidine 3375; —:  846 1020 1322; —: incremento della grazia, incremento delle virtù 846; —: unione e conformazione con Cristo 802 847 1320 1322; —: unità e carità 783 1635 (1638 1649) 3362; —: pegno della futura gloria 1638; si riprova l’asserzione che restringe l’effetto solo alla remissione dei peccati 1655.

5ed. Necessità della comunione eucaristica. Si raccomanda la comunione frequente (a.anche ai piccoli) 1649 1747 2090 (2093s) 3361 3375s 3379 3383 a3534 3854 CdIC 863; reprobatur vero: [la Com. eucar. quotidiana è di diritto divino] 2095 3377.

È comandata la comunione annuale da fare a pasqua (a.anche i bambini adulti giunti all’età della siscrezione) 812 1659 a3533 Cd1C a859; questo precetto non viene soddisfatto da una comunione sacrilega 2155 CdIC 861.

I piccoli non sono obbligati alla comunione 1730 1734 CdIC 854, § 1; il viatico deve essere preso in pericolo di morte (a.anche i piccoli dopo aver raggiunto l’uso della ragione) 121 212 1645 1657 a3536 CdIC a854, § 2 864, § I.

5ee.Soggetto della comunione eucaristica. Gli atti alla prima comm. dei piccoli 3530 (3533) 3535; dopo aver raggiunto l’uso della ragione anche ai piccoli è da dare il viatico 3536 CdIC 854, § 2; riprov. l’asserzione circa la comunione eucar. dei defunti 3232.

Disposizione e preparazione alla com. in genere: sono, riprovate simultaneamente le affermazioni a.rigoristiche e b.piu blande b1661 2090-2092 b2156 a2322s a3376-3378 3382; in specie la lecita ricezione suppone lo stato di grazia

(a.confessione, non solo acquistata con la contrizione) e b.proposito di non peccare successivamente mortalmente a1647 a1661 3379 b3381 CdIC 856; si richiede anche la retta intenzione 3379s.

Cognizione religiosa richiesta nei piccoli e nel neofito è quella di saper discernere il corpo di Cristo dal cibo comune e di adorarlo 2382 353 l s CdIC 854, § 2.

6. Sacramento della penitenza.

J 6a. a. — ESSENZA DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

6aa. Indole sacramentale. La confessione dei peccati ossia penitenza è un sacramento

761 (794) 860 1310 1323 1601 1667 (-1693) 1701 18642536; riprov.:

[Il potete di rimettere i peccati è rimessa solo dalla potestà di dichiarare i peccati ossia di predicare la parola di Dio] 1670 1685 1709; [la penitenza, onde ricevere grazia, è Sacramento di natura, non legge V. N.T.1 1418.

6ab. Parti della penitenza in genere. Mediante la penitenza, la confessione e le opere soddisfattorie sono rimessi i peccati 794; quasi-materia sono gli stessi atti di penitenza, cioè la contrizione, la confessione, la soddisfazione (riprovata l’asserzione negante il fondamento biblico) 1323 1455 1673 1704; riprov.: [le Parti della penit. sono terrori o una fede in una coscienza mortificata] 1675 1704.

6ac. La contrizione è il dolore del peccato commesso con il proposito di non peccare ancora a.contenente anche l’odio della vita precedente) 1323 a1676.

La contrizione è necessaria per la remissione dei peccati 1676s 3334; riprovate le asserzioni deroganti dalla contrizione. [tra le altre: la contrizione rende ancor più peccatori. 1455-1457 1461s I464s 1678 (1685) 1705.

La contrizione perfetta riconcilia l’uomo già prima di ricevere il Sacramento della penitenza, includendone tuttavia il voto (1260) 1677 1971;

riprov.: [la contrizione rende superflua la confessione esteriore] 1157 1412.

È da distinguere la contrizione in carità perfetta è la contrizione imperfetta o attrizione 1677s; la attrizione, se esclude la volontà di peccare, con la speranza di perdono, è dono di Dio a.disponendo al Sacramento della penit. 1678 a1705; infatti questa richiede l’atto di amore di Dio liberamente esposto 2070; riprov.l’asserzione a.più lassa e b.rigorista circa l’attrizione a2157 b2314s (b2462-2467 a2625 ) b2636.

6ad. Confessione dei peccati. Oggetto: si richiede la confessione integrale dei peccati (a.secondo l’istituzione di Cristo) 1323 1679-1681 1706; cioè di tutti i peccati mortali dei quali il penitente è conscio 1085 1680 1682 1707; sono da accusare anche i peccati occulti 1680 1707; -: peccati mortali commessi anche di pensiero (a.non è sufficiente il solo dispiacere). a1413 1680 1707.

I peccati sono da dichiararsi- : distintamente, nella specie, singolarmente, spiegando le circostanze (mutanti la specie) 813 1085 1411 1679 a1681 a1707 2158 CdIC .a901; : sec. il numero 1707.

I peccati omessi per dimenticanza si intendono inclusi nella confessione 1682; sono tuttavia da accusare nella prossima confessione 2031 3835.

Si enumerano le cause scusanti dall’integrità 3834; si riprova l’asserzionecontro l’integrità 1458s 1682 2192 2247s 2259s.

La confessione dei peccati veniali in confessione è: a.lecita, (recando sufficiente materia), b.utile ma c.non necessaria ab14585 bc1680 a1707 b2639 b3818 CdIC ac902.

La reiterata confessione dei peccati già debitamente rimessi è directe remissorum è lecita, raccomandata, ma non necessaria 880 CdIC 902.

Modo di confessarsi: la confessione segreta è legittima, la pubblica anche, quando non vietata, ma non è raccomandata 323 1414 1683s 1710.

Nel Sigillo sacramentale al confessore è proibito l’uso della scienza con il rivelare il penitente 814 1989 2195 CdIC 889s; al sigillo sono tenuti anche tutti colore ai quali siano pervenuti in qualunque modo notizie della confessione CdIC 889, § 2: ugualmente è proibita anche la rivelazione del nome del complice 2543s CdIC 888, § 2.

La Confessione può essere fatta anche con un interprete CdIC (889, § 2) 903; in caso di necessità, sono sufficienti i segni del penitente è degli astanti testimoni 310; non è lecita la confessione di un sacerdote assente né l’assoluzione a distanza 1994s.

6ac. La soddisfazione è imposta ai penitenti perché a.da sè sia adempiuta 308 16891692 1714s a2035 CdIC a887; si spiega la sua ragione 1543 1692.

La Soddisfazione deve corrispondere alla qualità e al numero dei peccati

(riprovato l’uso più blando e l’uso della falsa penitenza, o parziale) 717 1692 CdIC 887: si propongono come soddisfazione (sec. l’arbitrio del sacerdote) preghiere, digiuni, elemosine, altri esercizi di pietà 1323 1543;

modo di soddisfare: è mitigato dalla Chiesa dai modi antichi e non è da ripristinarsi 129 212 231602322: come soddisfazione valgono anche (oltre alle sacramentali) le pene temporali inflitte da Dio 1693; l’abuso dell’unzione del penitente in soddisfazione 832.

Riprov. asserzione dell’efficacia della soddisfazione umana adeguata 1959 1977; riprov. (Come insufficiente): [Nuova vita è ottima penitenza] 1457 1692 1713.

6af. Assoluzione. La forma del Sacramento della penit. sono le parole dell’assoluzione 1323 1673;

Le altre preghiere non sono di necessità del Sacramento CdIC 885.

L’assoluzione è un atto giuridico 1671 1679 1685 1709 CdIC 870 888, § I; riprov. l’uso della formula deprecatoria 1013; riprovato: [l’Ass. non è se non una dichiarazione che i peccati sono rimessi] 1685 1703 1709; si riprovano le asserzioni circa l’efficacia dell’assoluzione rispetto alla sola fede del penitente 1460-1465.

Quando è lecita l’assoluzione plurima simultanea 3832-3837; formula da impiegare in tal caso 3837; riprovata l’assoluzione dimezzata in occasione di grande concorso 2159.

Al disposto non va differita l’assoluzione CdIC 886; non è da negare la riconciliazione in pericolo di morte 129 136 212 309s (325); si riprovano le asserzioni più blande ed in parte più rigide 2160s 2164 2638.

J 6b. b. — ORIGINE DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

6ba. Origine remota. Prima di Cristo non vi fu il Sacramento della penitenza 1670.

Il Sacramento della penit. è istituito a.dopo la resurrezione 308 348s a1542 a1670 1679 (1706); è un altro sacramento, distinto dal battesimo 1668 1702.

Il potere di rimettere i peccati a fu conferita agli Apostoli e ai loro successori nel sacerdozio 308 348 1670 1679 1764 1771; questo potete si estende ad ogni peccato: vd. D 2eb.

Si riprovano le affermazioni dei modernisti circa l’origine della penitenza 3443 3446s.

6bb. Ministro è solo il Vescovo o il Sacerdote 1260 1323 1684 1706 1710 CdIC 871; non il laico 866 1260 1463 1684 1710; mancando il Sacerdote la remissione è procurata dalla contrizione 1260; add. J 6ac.

Il Ministro deve possedere (oltre il potere dell’Ordine) giurisdizione 1323 1686 2637 CdIC 872; il potere di giurisdizione di vari ambiti ha diverso grado 1261 1265.

Il potere del ministro non dipende dalla sua probità 912 914 (1019 1262) 1684 1710.

Non è più necessario fare la Confessione, come a.un tempo dal proprio sacerdote o da altro solo su suo permesso a812 921923 1085 CdIC 905; riprov. l’asserzione negante agli Ordini mendicanti la facoltà di udire Confessioni 921-924; riprov. l’ass. lassa circa la giurisdizione dei confessori 2032s 2036 (2056 2064).

È diritto del Vescovo riservarsi dei casi 1687 1711 CdIC 893-900; in pericolo di morte la riserva è nulla 1688 CdIC 882; riprov. l’asserzione ctr. la riserva dei casi 1136 2023s 2032 2064 (2594) 2597 2644s.

6bc. Ordine della penitenza.

La maggior rigidità della Chiesa non è più ripristinabile (soprattutto il negare l’assoluzione prima della completa soddisfazione) : cf. 129 212 1415 2316//2322 2487-2489 2634s.

J 6c. c — FINE, EFFETTO, VALORE DELLA PENITENZA.

6ca. Fine è la guarigione spirituale 1311; il sacram. della penit. è più laborioso rispetto al Battesimo 1672.

6cb. Effetto. “Fatto ed effetto” è la riconciliazione con Dio 1674; il sacram. della penit. è il rimedio dei peccati commessi dopo il Battesimo 308 348s 802 855 1323 1542 1579 1668 1680 1701 CdIC 870; la remissione non avviene con la sola fede 1685 1709.

Insieme alla colpa, viene rimessa anche la pena eterna 1543; non sempre è rimessa anche tutta la pena temporale 838 1010 1543 1580 1689 1712 1715; si riprova: [Elimina solo la pena] 1957s.

La legittima assoluzione libera dalle censurr CdIC (2247) 2248 (2249).

6cc. Necessità di mezzo. Il Sacramento della penitenza ai peccatori dopo il Battesimo è necessario di a.diritto divino 1542s 1668s 1670 1672 a1679 a1706 679 CdIC 901;

è la seconda tavola dopo il naufragio della perdita della grazia 1542; in caso di necessità è sufficiente il voto della penitenza (121) 1543 3869; add. J 6ac (circa la contrizione perfetta).

N. di precetto, sci. la confessione almeno annuale 812 1683 1708 CdIC 906;

a questo precetto non soddisfa la confessione sacrilega o volontariamente nulla (2033) 2034 CdIC 907.

J 6d d. – SOGGETTO DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

Il potere della Chiesa di rimettere i peccati si restringe agli uomini viventi, non ai morti 348.

Già i bambini sono obblianti alla confessione 3533; una volta che con l’età abbiano acquisito una conoscenza religiosa 3530s 3533.

Quando l’assoluzione sia lecita allo scismatico moribondo 3635s.

7. Sacramento dell’unzione degli infermi.

J7a. a. – ESSENZA DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI.

L’U. degli infermi o Estrema u. è un Sacramento 794 (833) 860 1310 1324 1601 1694 1716 1864 2536; si riprova l’asserzione ctr. l’indole sacramentale 1699 1716s 3448.

La materia è l’unzione con l’olio di ulivo benedetto dal Vescovo (a.non dal semplice Sacerdote, b.se non ne ha facoltà dalla Sede Ap.) 216 1324 1695 a2762s CdIC 734, § 1 937 ab1945.

La forma sono le parole della formula 1324 1695.

In caso urgente è lecita l’unica unzione con una formula speciale brevissima 3391 CdIC 947, § I.

J 7b. b. – ORIGINE DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI.

L’U. degli infermi è instituita da Cristo 1694 1695 (1699) 1716.

Il Ministro è (a.solo ed ogni) Sacerdote 216 1325 1695 1697 1719 CdIC a938, § I.

L’unzione può essere fatta da uno o più ministri, purché ognuno simultaneamente usi la materia e pronunzi la forma 2524.

J7c C. c. – FINE, EFFETTO E VALORE DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI.

Fine . l’U. degli inferm. è ordinata -: alla guarigione spirituale e, se riesce, alla corporale 7ca 620 1311 1325 1696; -: a fortificare l’uscita dalla vita 1694.

7cb. Effetto. Conferisce la grazia che è a.la remissione dei peccati, b.la pulizia dei peccati residui, c.conforto all’anima del malato a620 abc1696 ab1717.

7cc. Necessità. Per sé l’u. degli infermi non è necessità di mezzo CdIC 944; peccato è in vero disprezzarla 1259 1718.

7dd. d. – SOGGETTO DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI.

Sogge è l’uomo infermo a.dopo aver raggiunto l’uso della ragione in pericolo do morte.

1324 1698 a3536 CdIC 940.

L’Unzione può essere ripetuta ogni volta che l’uomo dopo la guarigione, ricada in pericolo di vita 1698 CdIC 940, § 2.

È richiesta nel soggetto la conoscenza religiosa e l’intenzione 2382; per se suppone lo stato di grazia: infatti un tempo era negata al non riconciliato nella Chiesa antica l’unzione degli infermi 620.

Quando sia lecito somministrare agli inf. scismatici moribondi l’unzione degli infermi 3635s.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (51c.)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (16)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (16)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUINTO (5)

V. – REDENZIONE E VITTORIA.

Col procedimento abituale dell’impostura, gli avversari della morale cristiana, mentre plaudono al piacere, al vizio, all’oro ed a tutte le affermazioni del proprio io in opposizione a Dio, sono poi pronti a disprezzare coloro che nella colpa trovano la rovina ed a mettere alla gogna il credente che cade in un peccato. Ecco la grande morale, essi declamano col sussiego dello sprezzo ironico, che parla di altezze e di voli. Eccola nella storia con Papi che si chiamano Alessandro VI, con ecclesiastici simili a quelli del Rinascimento, con brutture che si rinnovano di tempo in tempo. E quasi che nell’etica importasse solo il fatto, e non già anche la giustificazione ed il valore intimo del fatto stesso, vanno cianciando di una morale senza religione e d’un « galantomismo ateo. – Nella concezione del Cristianesimo, finora descritta, nessuno, invece, si scandalizza neppure se cadono i cedri del Libano. Uniti a Cristo e fortificati dalla grazia, noi dobbiamo combattere, come vedemmo, giorno per giorno, ora per ora. Se vien meno la nostra cooperazione a quell’aiuto divino, che non manca mai, noi caschiamo a terra, vinti dall’ignominia d’una piccola o d’una grave disfatta. Si può essere Cristiani; ma se in una triste e malaugurata occasione deponiamo le armi, il nemico trionfa. Noi non ci stupiamo di ciò, sapendo per esperienza personale come la lotta è dura e continua. Se colui che è stato il primo Pontefice, san Pietro, ha rinnegato il Maestro divino; se uno degli Apostoli, Giuda, lo ha venduto per trenta denari; se in mezzo al popolo fedele talvolta dobbiamo piangere il dilagare della corruzione, noi non concludiamo stoltamente: « Dunque Cristo non è nel vero; dunque la morale cristiana è inutile ». Sarebbe come se volessimo negare il valore della matematica, per gli sbagli che si commettono da chi ne applica le regole. Anzi, in ogni errore scorgiamo una conferma della verità: come lo sbaglio in un’operazione di aritmetica è tale, perché si sono calpestate le regole, così una colpa è tale, appunto perchè si è praticamente rinnegata la norma etica. Se questa fosse stata seguita, non avremmo avuto la sconfitta, ma la vittoria. Del resto, ognuno di noi, guardando non al proprio io, ma all’organismo divinamente santo al quale apparteniamo, alla Chiesa, esclama col cardinal Maffi: « Uomini, abbiamo noi pure le miserie e le debolezze che natura impone, che però cerchiamo ogni dì di correggere e di dominare; ma pur ammettendo qualche caduta in noi, non per questo abbiamo cessato, non cessiamo di essere, lo diciamo francamente, all’avanguardia della dottrina, del progresso, della virtù, della bontà. È torta anche la torre di Bonanno, eppure è la gloria nostra: anche l’Eneide ha dei versi rotti, eppure è il capolavoro dell’epica latina: è imperfetto anche il sepolcro di Giulio II, eppure vi siede Michelangelo e vi trionfa col Mosè. Se diritta la sua torre, Pisa perderebbe un miracolo dell’arte e della statica e la meraviglia che è la prerogativa della sua corona; se tutto il clero, se tutta la Chiesa anche sulla terra fosse di santi, forse ai nostri occhi così evidenti non risplenderebbero i misteri della grazia e del libero arbitrio e i trionfi e l’opera del Signore; ma, data pure un’inclinazione alla terra, quasi pendenza della torre, guardatelo questo clero, guardatela questa Chiesa che si slancia nel cielo e con la voce delle sue campane, come con la sua vita e con la dottrina dei suoi sacerdoti, a quanti l’intendono è rapimento ed ammirazione ». La differenza tra Cristo ed i farisei di tutti i tempi sta qui. Questi, in nome delle loro passioni, egoisticamente sfruttano persone e cose, gettano nel fango la creatura di Dio e poi la disprezzano e la vogliono lapidare. Cristo, al contrario, pur condannando la colpa, perdona il colpevole, lo rialza e gli dà, per i meriti del suo Sangue purificatore, un nuovo paio di ali: Egli è il Dio della speranza che s’avvicina al caduto, gli porge la destra e lo redime.

1. – La dottrina della redenzione.

Forse mai come in questo punto le coscienze nostre comprendono che la morale cristiana è morale di amore. Con occhi gonfi di pianto i peccatori hanno sempre riletto nel Vangelo la parabola del buon Pastore — che lascia le novantanove pecore al sicuro e va alla ricerca della pecorella smarrita — e l’altra, così semplice e sublime ad un tempo, del figliol prodigo, che ritorna alla casa paterna, accolto dalla gioia del Padre. I cuori commossi hanno appreso da Gesù che Egli è venuto non per i giusti, ma per i peccatori, perché non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma gli ammalati; hanno appreso con stupore che si fa più festa in cielo per il peccatore il quale si converte, che non per novantanove giusti che non abbisognano di penitenza. E durante i secoli i brani evangelici, salutati con spirito riconoscente, furono sempre quelli che ritraggono la ineffabile bontà di Gesù verso le anime peccatrici. Al paralitico di trentotto anni, risanato con una parola, Egli ha detto: « Non peccare più oltre, perchè non ti avvenga di peggio ». – Della donna colta in adulterio Gesù ha assunto la difesa: « Chi è di voi senza peccato, scagli la prima pietra »; e scriveva in terra. E quando, consapevoli delle proprie colpe e spaventati dinanzi alla sua maestà soave e imponente, gli accusatori se ne furono andati, riprese: « Nessuno ti ha condannato? ». « Nessuno, o Signore ». « Neppure io ti condannerò; va in pace e non peccare più oltre ». Maddalena si gettò ai suoi piedi e pianse gli scandali della sua vita. Il fariseo si scandalizzò di questo, ma Gesù annunciò che molto a quella donna « era perdonato, perchè molto aveva amato ». E la volle ai piedi della sua Croce, vicino al candore dell’Immacolata ed alla verginità di Giovanni; e le diede la precedenza nelle apparizioni ai discepoli dopo la sua risurrezione. E sarà la Samaritana, mutata da peccatrice in una santa; sarà sulla via di Gerico, la città delle rose, Zaccheo, capo dei gabellieri e ladro, che da un tratto di divina generosità di Gesù si tramuta in un suo discepolo e dà subito metà dei suoi beni ai poveri; sarà Pietro, convertito con un’occhiata divinamente dolce e mesta, che piangerà tutta la vita; sarà persino sul Calvario, nelle ore estreme e fra gli strazi dell’agonia, il buon ladrone, che si sentirà dire: « Oggi tu sarai con me in paradiso ». E cos’è il Golgota, cosa significa il Crocefisso, se non il perdono, la redenzione, la « remissione dei peccati »? Tutto questo è un poema d’amore; e chi non ne resta rapito, non giungerà mai a sapere la vera natura della morale cristiana. Qualsiasi senso di disperazione è riprovato; ad ognuno, anche se si trattasse dell’uomo più infame e del più scellerato che il sole abbia mai visto, Gesù, il Salvatore, con divina tenerezza parla di perdono, di riabilitazione, di ripresa, di rivincita, di speranza; ad ognuno mostra il suo Cuore che invita ed attende. Cosa sono mai gli uomini grandi del mondo, i condottieri di eserciti, i re, i grandi ministri, i sapienti, i filosofi, gli scienziati, dinanzi a Cristo? Nessuno di loro potrebbe rigenerare le anime, mutare i cuori, infondere in noi la forza per risorgere e per iniziare una vita nuova: nessuno potrebbe dirci: « I tuoi peccati ti sono rimessi: il tuo passato l’ho distrutto nel mio Sangue; io ho sofferto per te; per te sono morto…». Gesù Cristo soltanto ha fatto ed ha parlato così; solo un Dio poteva insegnare una simile morale, che tutti, ignoranti e dotti, vecchi o fanciulli, barbari o popoli civili avrebbero compreso. Ad ognuno di noi Egli ha perdonato e chi si prostra davanti a Lui non si umilia, ma si sente consolato ed innalza il canto della gratitudine al Dio dell’Amore.

2. – La confessione e l’amore. Noi sappiamo che la condizione del perdono venne fissata da Gesù nella confessione sacramentale dei propri peccati. Perché? E perché alcuni sentono una viva ripugnanza ad accostarsi al tribunale della misericordia? Il motivo è semplicissimo: si guarda alla confessione conn l’occhio di Lutero, che la definiva « la carneficina delle anime., non con l’occhio della morale cristiana, che non potrebbe interpretare il Sacramento della penitenza se non alla luce dell’amore. Oltre l’esame di coscienza, senza del quale non ci sarebbe possibile conoscere lo stato di fatto della nostra vita, per ben confessarci occorre, innanzi tutto, un vivo dolore delle colpe commesse, col proposito di non commetterle più in avvenire. Noi sappiamo che Benedetto Spinoza, nella sua Ethica, dichiara: « Il pentimento non è una virtù, ossia non sorge dalla ragione: ma colui che si pente è misero due volte, ossia è impotente. Poichè dapprima si lascia vincere dalla prava cupidità, poi dalla tristezza ». Ed il Cristianesimo appariva a lui come la dottrina dell’inutile morte. Ma sappiamo altresì che questo filosofo non conosceva il catechismo. Il dolore ed il proponimento non mirano ad altro se non ad un atto di amore a Dio, quando, come avviene nella contrizione, non includano lo stesso amor di Dio. Col peccato avevamo preferito le cose di quaggiù, avevamo negato l’amore a Dio, eravamo andati verso la morte; col pentimento, restituendo l’ordine turbato, noi ci rivolgiamo ancora a Dio, gli chiediamo scusa del male compiuto, lo assicuriamo che lo ameremo sempre e più non tradiremo il suo Amore: in una parola, ci incamminiamo alla vita. È vero: basta per la confessione l’atto di attrizione, ossia il dolore delle colpe ispirato dall’amore imperfetto, e non è necessaria la contrizione, ossia il rincrescimento suggerito dall’amore perfetto; ma l’amore di Dio, almeno implicito nell’atto sincero dell’attrizione, è indispensabile. Ecco perché una confessione senza dolore o senza proponimento, anche se fatta in punto di morte, anche se accompagnata da un’accusa sincera delle proprie mancanze, non dà mai, in nessun caso, il perdono dei peccati: essa non ci orienta verso l’Amore di Dio abbandonato e tradito, e ci lascia ancora rivolti verso la sua negazione. Il crede firmiter et pecca fortiter di Lutero può essere comodo per le umane passioni, ma è un’enormità morale, nonostante la pretesa imputazione giuridica dei meriti di Cristo a noi, mediante la sola fede. Come possiamo essere giustificati, se continuiamo a restare in opposizione a Dio? Come possiamo amare Dio, se pecchiamo, ossia se calpestiamo il suo Amore? Si noti: Gesù Cristo avrebbe potuto concederci la remissione delle colpe mediante questo unico atto di dolore e di proposito interno, sommo, soprannaturale; ma Egli ha voluto obbligarci a manifestare i nostri peccati al Sacerdote, perché l’assoluzione è conclusione di un giudizio e poi perché, fra l’altro, noi viviamo nella Chiesa. Non siamo individui isolati, bensì uniti nella grande società cristiana. In una concezione atomistica del Cristianesimo, quale fu propugnata dai protestanti, si capisce come l’anima voglia intendersela direttamente con Dio; ma nella vera concezione cristiana, che è in acuta opposizione con l’atomismo sociale, era conveniente, per sorvolare su altre ragioni, che noi ritornassimo all’amore di Dio mediante la Chiesa ed i suoi rappresentanti autorizzati, ai quali Cristo ha detto: « Saranno rimessi i peccati a coloro ai quali voi li rimetterete; saranno ritenuti a coloro ai quali voi li riterrete ». Noi andiamo al Padre non direttamente, ma per mezzo di Gesù Cristo, che vive nella sua Chiesa, la quale altro non è se non il Cristo completo, come abbiamo veduto. Non è davanti ad un uomo che ci rechiamo; ma davanti a Cristo rappresentato da quell’uomo. Come magnificamente scrisse Alessandro Manzoni nella sua Morale Cattolica, « noi, cioè tutti i Cattolici, e laici e sacerdoti, principiando dal Papa, ci inginocchiamo davanti ad un sacerdote, gli raccontiamo le nostre colpe, ascoltiamo le sue correzioni e i suoi consigli, accettiamo le sue punizioni. Ma quando un Sacerdote, fremendo in ispirito della sua indegnità e dell’altezza delle sue funzioni, ha steso sul nostro capo le sue mani consacrate; quando, umiliato di trovarsi il dispensatore del Sangue dell’alleanza, stupito ogni volta di proferire le parole che danno la vita, peccatore ha assolto un peccatore, noi alzandoci da’ suoi piedi, sentiamo di non avere commesso una viltà. C’eravamo forse stati a mendicare speranze terrene? Gli abbiamo forse parlato di lui? Abbiamo forse tollerato una positura umiliante per rialzarcene più superbi, per ottenere di primeggiare sui nostri fratelli? Non s’è trattato tra di noi che d’una miseria comune a tutti, e d’una misericordia di cui abbiamo tutti bisogno. Siamo stati a’ piedi d’un uomo che rappresentava Gesù Cristo, per deporre, se fosse possibile, tutto ciò che inclina l’anima alla bassezza, il giogo delle passioni, l’amore delle cose passeggere del mondo, il timore dei suoi giudizi; ci siamo stati per acquistare la qualità di liberi e di figlioli di Dio. Anche in questo caso si verifica la legge della morale cristiana: bisogna morire per vivere: bisogna umiliarsi per balzare in alto; bisogna accettare per amore il sacrificio del nostro orgoglio e del nostro piccolo io, perchè solo così possiamo ricevere il bacio divino del perdono.

3. – Il problema della conversione.

Se l’indole di questo Sillabario lo permettesse, potremmo qui esaminare il problema della conversione. Cos’è il convertito? Forse un ragionatore, che a furia di sillogismi è arrivato logicamente alla conclusione della verità cristiana? Potrà essere anche questo; ma non può essere solo questo. La conversione può avere mille forme; anzi, si può soggiungere che in ogni convertito assistiamo ad una speciale e caratteristica forma di ritorno a Dio. V’è chi si incammina verso Cristo sulla strada della filosofia; altri batte la via della beneficenza, dell’arte, delle disillusioni umane; altri d’improvviso, sulla strada di Damasco, vien colpito dalla luce fino ad allora negata: e così via. Un elemento solo si trova in tutte le conversioni: l’amore, anche quando l’amore è nato dal timore o dalla vergogna di se stesso. La fiamma dell’amore sarà diversamente preparata dalla grazia divina; ma guai se essa non divampasse! Non per nulla coloro che vivono col cuore attaccato alle miserie ed alle frivolezze non si preparano alla conversione: essi sono lontani dall’amore di Dio e dalla vita del Cristiano.

4. – Le campane di Pasqua.

Un giorno Federico Nietzsche, ancora fanciullo, passeggiando col padre da Liitzen a Roecken, fu sorpreso a mezza strada dal rombo festoso delle campane, salutanti la festa di Pasqua. « Quel suono — egli scrisse — ha echeggiato spesso nel mio cuore ». Ma Nietzsche non ha compreso il senso di quella musica di vita, di quell’annuncio di risurrezione. Anche oggi, ogni volta che ritorna la solennità pasquale, la Chiesa fa suonare le sue campane per ricordare a tutti il suo precetto di « confessarsi almeno una volta all’anno e di comunicarsi almeno alla Pasqua ». E nell’attuale rinascita di fede, molti di coloro che da tempo non frequentavano i Sacramenti, ritornano alla casa del Padre, implorano il suo perdono e si cibano delle carni immacolate dell’Agnello, che entra nel cuore nostro, per trasformarci sempre più in Lui. Che il precetto pasquale da nessuno sia trascurato! E che la confessione di Pasqua non si riduca ad una semplice formalità! Alla primavera della natura risponda la primavera delle anime. Il grido lieto: « Christus Dominus resurrexit » esprima la splendida realtà di figli pentiti, che iniziano una vita novella, la vita dell’amore cristiano

Riepilogo

Se diamo uno sguardo ad alcune fra le battaglie principali, che si svolgono nelle coscienze per l’attuazione della legge morale, constatiamo che esse non sono altro se non un conflitto fra l’amore per Dio e l’amore per ciò che non è Dio (ossia l’amore al nostro io, ai piaceri, alle ricchezze, ecc.).

I. L’EGOISMO DELLO SPIRITO. – Contro il precetto di Cristo, l’egoismo dello spirito ci grida: « Ama il tuo io sopra ogni cosa e tutto il resto solo per il tuo io.. Innumerevoli sono i fenomeni di questo orientamento: superbia, invidia, ambizione, ridicolaggini, aspirazioni ad una gloria da conquistarsi con qualsiasi mezzo, ecc. Uomini grandi, come Petrarca, ed uomini piccoli, come ogni minuscolo studente, sono vittime dell’egocentrismo, che conduce a conseguenze dannose ed a disillusioni amare.

Si noti: l’umiltà cristiana non distrugge il nostro io e le energie individuali, ma le considera in rapporto a Dio ed allora non solo tutto vede nella sua vera entità e ne usa esattamente, ma tutto potenzia con la forza divina e soprannaturale, che ci fa esclamare: « Posso ogni cosa in Colui che mi conforta. ». Anche, la morale autonoma, oggi tanto acclamata, è una forma di questo amore di sé, Morir all’amore di Dio; essa:

a) dimentica che nè il nostro essere, né il nostro pensiero, né il nostro volere sono il centro della realtà;

b) dimentica che noi non creiamo, ma riconosciamo e dobbiamo liberamente applicare la legge del dovere;

c) dimentica che, al di sopra del dovere c’è l’amore

II. L’EGOISMO DEI SENSI. – Anche il gregge d’Epicuro parla e ciancia di amore; anzi accusa l’etica cristiana d’essere … la nemica dell’amor. Purtroppo il gregge d’Epicuro conosce soltanto l’egoismo furioso dei sensi. E’ solo la morale di Cristo che santifica l’amore, in quanto:

a) considera il matrimonio (e la famiglia) come qualcosa di sacro

nello stesso ordine naturale e come un sacramento nell’ordine soprannaturale;

b) indica nella verginità la vetta più sublime dell’amore. La verginità, infatti, non consiste solamente nell’assenza di colpe, quanto soprattutto in ciò che nessuna fibra del cuore non vibri che per Dio. Questo spiega che con la verginità furono sempre congiunte nei secoli le opere della carità, sia nel campo spirituale, come nel campo dei bisogni materiali.

III. L’AVIDITA A DELLE RICCHEZZE. – Un altro conflitto si sviluppa tra l’amore all’oro e l’amore di Dio.

E’ errore enorme riporre il fine supremo nelle ricchezze, le quali non dànno la gioia, sono incerte e debbono essere abbandonate al momento della morte.

La morale cristiana non condanna la ricchezza, ma solo l’abuso di essa; non giustifica la trascuratezza dei doveri che ognuno ha a proposito delle sue necessità economiche, ma solo esclude il capovolgimento dei valori, ossia la sostituzione del dio danaro al Dio amore. Ecco perché Cristo proclama beati i poveri di spirito, quelli cioè che non hanno il cuore legato all’oro, ma a Dio; e chiama perfetti coloro che, per motivo di carità, rinunciano effettivamente a tutto. Nel primo, e specialmente nel secondo caso, la povertà evangelica — comandata o consigliata — si riduce ad un atto di amore per Dio e per il prossimo.

IV. LE SCONFITTE. – In queste ed in altre battaglie tra l’amore di Dio e l’amore alle creature, vi sono spesso sconfitte dolorose, che si possono dividere in tre classi:

a) il peccato mortale, o violazione della legge morale in cosa grave, fatta con piena avvertenza della mente e col consenso deliberato della volontà. Il peccato mortale è la negazione dell’amore divino e ci toglie la grazia, facendoci degni dell’inferno;

b) il peccato veniale, o violazione della legge morale in cosa lieve, il che implica un raffreddamento nell’amore;

c) l’imperfezione, che non è un’offesa formale a Dio, ma consiste o nella trasgressione d’un consiglio, o nella violazione non colpevole d’un precetto.

Ogni peccato colpisce l’Amore, poiché: a) è la ribellione dei figli all’amore del Padre; b) è un’offesa all’amore di Gesù per noi; c) è una negazione dell’amore del prossimo; d) ed anche una negazione dell’amore che dobbiamo a noi stessi.

Vari sono i mezzi per evitare il peccato, specie la pratica della virtù, la mortificazione, la preghiera, i Sacramenti, la meditazione e l’esame di coscienza.

V. REDENZIONE E VITTORIA. – Nella lotta aspra tutti possiamo cadere per colpa nostra e solo il fariseismo impostore può indignarsi a freddo per i cosiddetti « scandali clericali Anche in questo caso doloroso, l’amore di Dio per noi:

a) non ci parla di disperazione, ma di redenzione, di perdono, di misericordia;

b) ha istituito il Sacramento della confessione;

c) esulta per la conversione del peccatore.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (17)

LO SCUDO DELLA FEDE (266)

LO SCUDO DELLA FEDE (266)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (9)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO IX.

RELIGIONE

I. Un galantuomo non cambia di religione.

Certe massime sono come le mode del vestire che in breve tempo fanno il giro del mondo. Quella che ho messa in fronte a questo capo, che un galantuomo non cambia di religione, è proprio una di esse. I protestanti, non meno che certi Cattolici, gli scismatici, non meno protestanti, l’hanno spesso sul labbro. In certe conversazioni poi è la rima obbligata, in cui vanno a finire tutti i discorsi di controversia o di notizie religiose; né manca perfino qualche Cattolico, al tutto indegno del nome che porta, il quale, per parere spregiudicato, la fa sentire all’occasione che altri riferisca qualche conversione dal protestantismo o dallo scisma alla cattolica verità. E ciò non ostante quel detto, per quanto volgarmente ricevuto, al modo con cui s’intende comunemente, non è altro che un gravissimo errore. – Volete vederlo? Se è vero universalmente che un galantuomo non cambia di religione, dovrà esser vero per tutti i paesi dell’universo. La verità non si muta col variare dei meridiani o dell’altezza polare: dunque il galantuomo cinese non dovrà mai lasciare la religione del suo Confucio, il galantuomo indiano dovrà starsene sempre attorno al suo Budda, il galantuomo maomettano intorno al suo Maometto, il galantuomo giudeo dovrà continuare a disconoscere ed a bestemmiare Gesù Cristo, e così andate dicendo; tutti gli idolatri, tutti i Gentili, benché sprofondati nel baratro delle più schifose superstizioni, non dovranno mai allontanarsi un passo dai loro errori. E come no? Se è vero che un galantuomo non cambia di religione, tutte quelle conseguenze sono innegabili. Più, tutto l’Apostolato stabilito da Gesù Cristo è affatto inutile. Andate, disse Egli ai suoi Apostoli, ed insegnate a tutte le genti che osservino quello che ho detto a voi. Ma gli Apostoli avrebbero dovuto rispondere prontamente: Signore, ed a qual fine ci mandate? E non sapete voi che mai non potremo rivolgerci ai galantuomini; perché questi non cambiano di religione? Scusate adunque se non vi possiamo servire. Che se essi sono andati senza questa replica, bisogna tutti condannarli senza riparo. E dietro a loro bisogna condannare tutti i successori di S. Pietro, che spedirono in tutti i secoli i loro inviati per far cambiare ai popoli gentili la religione, bisogna condannare i più gran Santi della Chiesa, i quali con tanto zelo si adoperarono per ottenere quel cambiamento, bisogna condannare tutti i Martiri, i quali sostennero al prezzo del loro sangue quel cambiamento improvvido. Bisognerebbe perfino (inorridisco a dirlo) condannare lo stesso Gesù, il quale, venuto sulla terra e presentatosi al popolo giudeo, sostituì all’antica la nuova legge, alle figure le verità, con un cambiamento né piccolo, né leggero. Eppure, se è vera quella premessa, l’illazione è innegabile. Il fatto è però che è falsissima quella premessa. Imperocché l’intelletto dell’uomo è fatto per aderire al vero, come il cuore per posarsi nel bene, e dove ei lo trovi è obbligato ad abbracciarlo. Quando poi si tratti del vero religioso è molto più grave un tal obbligo, quantoché il vero religioso non è solo perfezionamento dell’uomo nella vita presente, ma è anche mezzo unico per la beatitudine avvenire; e non solo riguarda il bene della creatura, ma principalmente la gloria del Creatore. Non può dunque l’uomo, quando Iddio gli rappresenti il vero, non abbracciarlo, senza fare un gravissimo danno a sé stesso. Danno a sé, perché, non abbraccia la verità conosciuta, in questo caso rinunzia all’ultimo suo fine: torto a Dio, perché chiudendo, come suol dirsi, le finestre in faccia al sole, ricusa di glorificare quel Dio che ha la degnazione immensa di farsi da lui conoscere. – Che se alcuno limitasse quel detto solo a coloro, i quali professano alcuna delle sette cristiane, neppure così schiverebbe l’empietà che qui si riprende. Imperocché forse delle varie società, che vantano d’appartenere a Gesù Cristo, ve ne può essere più d’una che possegga la verità? Se la verità non può essere in due proposizioni contraddittorie, in due sette che si avversano, in dottrine che a vicenda si escludono; convien dire che non possano essere tutte vere’. Se la verità è quella sola che fu rivelata da Gesù Cristo, e Gesù Cristo non ha fatto altro che una rivelazione, quella sola adunque, che possederà la rivelazione da Lui fatta, possederà il vero. Pertanto, ricorre la ragione Medesima “toccata di sopra, che dove alcuno abbia la ventura di conoscere dove sia la verità, è obbligato ad abbracciarla. – Sapete in qual caso solo si verifica che un galantuomo non cambia di religione? Quando si parla del cattolico, poiché egli ha tal moltitudine di ragioni e testimonianze in suo favore, che, per cambiare religione, bisogna che prima rinunzi alla stessa ragione. Solo la Chiesa cattolica sfolgora di tanta luce, che non può subito non riconoscersi per la fonte d’ogni verità. Ella sola ha quella perfettissima unità di dottrina data da Gesù Cristo per tessera della sua Chiesa; essa sola ha per suo fondamento la rocca, sopra cui Gesù Cristo protestò d’edificarla; essa sola ha quella pienissima santità che le fu lasciata in dote dal suo sposo divino; essa sola ha i doni straordinarii dei miracoli e dei carismi, che l’accompagnano; essa sola ha vedute tutte le potestà della terra avventarsele .contro, senza che abbiano mai potuto nulla a sterminarla; essa sola ha veduto tutte le eresie levatesi nel suo seno, l’una dopo l’altra cadere affrante ai piedi; essa sola, veleggiando tranquilla in mezzo a tutte le burrasche che le hanno saputo eccitare contro le passioni degli uomini congiurate con le furie dei demoni, i nemici estrinseci d’accordo cogl’interni traditori, non ha mai urtato nelle secche, non ha mai patito naufragio. Ed avendo essa sola queste ed altre infinite ragioni umane e divine in suo favore, chi vive nel suo seno, non può al certo, senza rinunziare all’aperta verità, cambiare di religione. Ma che un protestante, un anglicano possa dire altrettanto, questo è il più portentoso errore che mai siasi immaginato. – Essi sono nati ieri e ripetono la loro origine dagli uomini più sordidi e scellerati della terra. Colle stragi e col sangue hanno conquistato paesi e seguaci. Appena nati si divisero in tante sette, quanti sono i cervelli, con sempre nuove divisioni ogni giorno. Essi senza tradizione che risalga al Capo divino Gesù Cristo, senza miracoli che confermino la loro dottrina, senza carismi spirituali che la illustrino; essi che non formano una Chiesa, perché non hanno unità di credenza; che non formano una società religiosa, perché non hanno un’autorità infallibile che li levi di dubbio; essi che se sanno quel che credono quest’oggi, non sanno quel che porterà la dimane di nuove credenze; che essi in tal condizione debbano dire che un galantuomo non cambia di religione, chi può sopportarlo? Dunque, neppure se sfolgorasse loro limpida e serena la luce della verità non dovrebbero ammetterla? Ed un Cattolico può, per parere spregiudicato, accordar loro una tale assurdità? – Per buona sorte che vi sono tali verità che, malgrado tutti i sofismi, se si possono oscurare, non si possono togliere di mezzo. E questa è appunto una di quelle. Imperocché si è riconosciuto apertamente che dove un Cattolico è passato al protestantismo, era tutt’altro che un uomo onesto; e per converso quelli che tra di loro sono venuti a noi, sono tutt’altro che disonorati. Ne abbiamo esempi sì chiari e solenni che non si possono non riconoscere. I Desanctis, gli Achilli, i Bonavini, i Gavazzi, che cosa son eglino? Son uomini che abbiano abbracciato il protestantismo per menare una vita più pura, più perfetta, più santa? Né essi il credono, né noi, quando la loro vita è sì abominevole, che i protestanti medesimi di qualche onestà li hanno a schifo. – Come pel contrario quei protestanti che hanno cambiato religione e si sono fatti Cattolici in questi ultimi tempi, forse hanno perduta la fama di persone oneste? Tutto l’opposto. L’Europa intiera li ha ammirati, mentre i protestanti stessi, se ne hanno provato dolore, non han potuto metterli in dispregio, giacché le loro virtù li mettevano al coperto da ogni calunnia. Abbiamo veduti principi e principesse della Germania, che sono diventati lo specchio d’ogni virtù. Abbiamo veduti nobili signori dell’Inghilterra, i quali colla fede, carità ed esempii di ogni maniera sono diventati il sostegno dei poverelli e l’edificazione persino dei protestanti nelle loro contrade. L’università di Oxford, ed in parte anche quella di Cambridge, ha mandati i suoi più profondi dottori, i suoi oratori più eloquenti, i suoi Ministri più esemplari alla Chiesa cattolica, e l’Europa ha veduto nella rinunzia, che dovettero fare anche molti di loro di ogni terreno interesse, la sincerità delle loro conversioni. – E per verità le virtù che esercita chi cambia religione in tal modo, sono sì cospicue, sì chiare, che meritano ogni ammirazione. Il protestante che torna al seno della cattolica Chiesa, vince la vergogna che, soprattutto in persone di buona nascita, di civile educazione, e molto più di lettere, è grandissima a dichiararsi vissuto sino a quel punto in errore; si sottomette ad un’autorità, che era avvezzo fino dalle fasce a considerare come avversaria: deve superare le difficoltà, che oppongono bene spesso gl’interessi, e sempre i congiunti, gli amici, i parenti; deve abbattere gli ostacoli che frappongono le abitudini della vita, passate ad esser quasi una seconda natura. Il far tutto ciò richiede tanta elevatezza di sentimenti, tanta grandezza di cuore, un amore alla verità così sincero che con ragione forma l’ammirazione d’ognuno che sia capace di comprenderlo. Le quali cose essendo così, chi non vede il torto che hanno quelli che pur proclamano che un galantuomo non cambia di religione? – È vero che alcuni pronunziano quella sentenza senza comprendere forse tutta la malizia, e chi sa che non anche per un cotal sentimento di compassione verso di loro: ma ciò non si può fare a spese della carità e della verità. Se volete compatire quei miseri son nati senza lor colpa nell’errore, e che pur troppo vi si convolgono per entro, compatiteli pure, e nella vostra compassione rivolgere a Dio un atto di ringraziamento, perché senza alcun merito ne abbia preservato voi. Andate anche più oltre: raccomandateli con tutto il fervore al Padre della misericordia, a Gesù che illumina ogni UOMO che viene nel mondo, affinché sia loro di scorta a conoscere il vero, e di virtù per abbracciarlo: e se a tanto vi basta la conoscenza della vostra religione e lo zelo della salvezza dei vostri prossimi, adoperatevi anche con industria per illuminarli, e questa sarà verissima compassione degna di cattolico. Ma il dar loro coraggio a perseverare nell’ errore, sul pretesto che un valent’uomo non cambia di religione, non solo non è compassione, ma è crudeltà: poiché è uno sviare dal bene, un confermare nel male, e uno stabilire sempre più il pessimo di tutti i disordini che è la indifferenza in fatto di religione.

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (VI)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (VI)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

PRIMA PARTE DEL CATECHISMO:

FEDE (3).

10. Il simbolo degli Apostoli.

Oltre al Simbolo degli Apostoli, che viene recitato al momento del Battesimo, la Chiesa utilizza anche il simbolo di Nicea (composto dal Concilio di Nicea 325 e completato dal Concilio di Costantinopoli 381) e i simboli dei Concili di Trento (questo simbolo fu pubblicato da PIO IV nel 1564 e contiene la dottrina definita dal Concilio di Trento. Fu completato del Concilio Vaticano nel 1870.) Il simbolo viene pronunciato durante la Messa prima dell’offertorio; la professione di fede del Concilio di Trento è obbligatoria per l’assunzione di un incarico ecclesiastico e per la conversione di un eretico.

1.IL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI CONTIENE IN FORMA ABBREVIATA CIÒ CHE OGNI CATTOLICO DEVE SAPERE E CREDERE.

2. Queste poche parole contengono tutti i misteri (Sant’Isidoro). Questo simbolo assomiglia al corpo di un bambino, che è piccolo, ma ha tutte le membra, oppure a un seme che, nonostante la sua piccolezza, contiene l’intero albero con tutti i suoi rami. – Si chiama simbolo, segno che serve a distinguere qualcuno, perché nella Chiesa primitiva era usato per distinguere i Cristiani. Per poter partecipare alla messa, si. doveva conoscere il simbolo, pena l’esclusione. Inoltre era vietato comunicarlo a chi non era battezzato, proprio come è vietato in tempo di guerra comunicare la parola d’ordine.

È CHIAMATO SIMBOLO DEGLI APOSTOLI, PERCHÉ RISALE AGLI APOSTOLI.

Gli Apostoli, secondo S. Agostino, erano sul punto di separarsi, e stabilirono una regola sicura di predicazione, affinché, nonostante la loro separazione, fossero sempre uniti nella dottrina. Questo non significa che le parole stesse provengano dagli Apostoli; è una questione di sostanza. Fino al VI secolo sono state aggiunte varie spiegazioni, ad esempio, alla parola Padre, quella di Creatore…, alla parola Gesù, quella di concepito dallo Spirito Santo…, alla parola santa Chiesa, quella di cattolica… etc.; erano motivati dall’apparizione di certi eretici. Ma come l’uomo non acquisisce nessuna nuova membra attraverso la crescita, così il simbolo non ha ammesso nessuna nuova verità. S. Pietro ha esercitato un’influenza decisiva sulla stesura del simbolo, perché in esso troviamo i pensieri fondamentali dei suoi discorsi a Pentecoste, in occasione della guarigione del paralitico nel tempio, e le sue due difese davanti al Sinedrio. Nella Chiesa primitiva, il simbolo era semplicemente una formula di professione di fede, che doveva essere recitata dagli Apostoli e riassumeva l’istruzione religiosa che l’aveva preceduta.

.2. IL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI È INNANZITUTTO SI DIVIDE IN TRE PARTI PRINCIPALI.

La prima tratta di Dio Padre e della Creazione.

La seconda tratta di Dio Figlio e della Redenzione.

La terza tratta di Dio Spirito Santo e della nostra santificazione.

3. SI PUÒ ANCHE DIVIDERE IL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI IN 12 ARTICOLI.

Articolo significa membro di un insieme; essi sono così chiamati per la loro intima connessione. Come le dita della mano sono articolate in falangi, così le tre parti principali del simbolo hanno le loro suddivisioni. Una catena si spezza non appena se ne estrae un anello, e la fede si distrugge non appena si rimuove un singolo articolo. – Nell’A.T. troviamo le seguenti figure di questi 12 articoli: il Sommo Sacerdote indossava un pettorale (efod) con 12 pietre preziose che riportavano questa iscrizione: Luce e verità (Lev. VIII, 8); c’erano 12 pani da esposizione sulla tavola d’oro all’ingresso del tabernacolo (ib. XXIV, 6); 12 pietre furono prese per costruire un altare all’ingresso della Terra Promessa (Dent. XXYII, 5). I 12 articoli sono in realtà dodici gioielli che diffondono la luce e la verità e che dobbiamo portare nel nostro cuore, cioè credere; sono il pane spirituale che ci viene offerto all’ingresso della Chiesa, cioè al Battesimo; trasformano il nostro cuore in un altare su cui offriamo a Dio le nostre preghiere e le nostre opere buone.

La divisione in 12 articoli indica che il simbolo contiene le verità predicate dai 12 Apostoli.

Ogni Cristiano è tenuto a conoscere a memoria il Credo degli Apostoli (S. Aug.). Chi trascura di impararlo, si rende gravemente colpevole (S. Th. d’Aq.). La Chiesa primitiva non battezzava coloro che non avevano fatto questa professione di fede, e coloro che non potevano provare di essere Cristiani non potevano partecipare alla Messa.. Recitate il vostro simbolo ogni giorno mattino e sera per rinfrescare la vostra fede. (S. Aug.) Il simbolo è il rinnovamento del patto fatto con Dio nel Battesimo (S. Pietro Crisol.); è una corazza che ci protegge dai nostri nemici (S. Ambr.). Il cibo corporeo è nutriente solo quando viene assunto frequentemente; anche la fede sostiene la vita dell’anima solo quando le sue azioni sono ripetute frequentemente.

I. Articolo del simbolo: Dio.

I. L’ESISTENZA DI UN ESSERE SUPREMO.

1. GLI ESSERI CREATI CI INSEGNANO CHE ESISTE UN ESSERE SUPREMO. (Rom. I, 19, Sap. XIII, 5).

Non vediamo l’anima, ma ne deduciamo l’esistenza dagli atti ragionevoli dell’uomo.

dell’uomo; allo stesso modo concludiamo dalle opere di Dio che Egli esiste (S, Theoph. d’Ant.).

Infatti la terra con le sue creature, né gli astri nel cielo possono essersi prodotti da soli; così come le stelle né i corpi celesti possono muoversi con le proprie forze.

Solo l’esistenza degli astri ci permette di concludere che Dio esiste. Come l’arabo conclude dalle tracce sulla sabbia e noi dalle tracce sulla neve il passaggio di un viaggiatore; allo stesso modo concludiamo dall’esistenza degli astri che Dio esista.

È improbabile che le stelle siano sorte da sole come è improbabile che una città si sia costruita da sola. L’astronomo Athan. Kirchner, aveva un amico che dubitava dell’esistenza di Dio; fece costruire un bellissimo mappamondo che mise nel suo studio. Quando il suo amico gli chiese da dove venisse, rispose: “Questo mappamondo si è costruito da solo”. “L’amico si mise a ridere e Kirchner gli disse: “Questo mappamondo avrebbe potuto farsi da solo più facilmente di quegli astri lassù (Mehler 1.72). Una torcia non si accende da sola, e quando viene accesa si spegne dopo poche ore. Il firmamento brilla come una torcia luminosa, il sole, e i secoli non hanno diminuito il suo splendore. In una notte limpida possiamo vedere migliaia e migliaia di stelle. Chi le ha accese tutte e chi mantiene la loro meravigliosa luce? (Alb. Stoltz). Per questo Davide ha esclamato: “I cieli annunciano la gloria di Dio e il firmamento pubblica le opere delle sue mani”. (Sal. XVIII, 1), e Newton si scopriva e chinava il capo ogni volta che sentiva il Nome di Dio.

Anche gli esseri terrestri ci permettono di concludere che Dio esiste. “Chiedete agli animali agli uccelli dell’aria e ve lo mostreranno. Parlate alla terra e vi risponderà, e i pesci del mare ve lo diranno. Chi non sa che la mano di Dio ha fatto tutto questo?”. (Giobbe XII, 7-9). L’immenso universo è dunque un libro in cui leggiamo l’immensa gloria di Dio. (S. Antoine Erm.) Se si trovasse su un’isola deserta una bellissima statua di marmo, si direbbe senza esitazione; di qua sono passati gli uomini. E se qualcuno dicesse che la pioggia e il vento abbiano staccato un masso dalla montagna e gli abbiano dato quella forma, verrebbe chiamato pazzo. Ma è ancora più folle pretendere che questo meraviglioso universo non abbia un creatore. (Corneille de la Pierre).

L’ordine mirabile dell’universo ci porta a concludere che ci sia un organizzatore di intelligenza superiore.

E prima di tutto, è il meraviglioso ordine della volta celeste che ci porta a concludere che c’è questo organizzatore. Quando una nave si dirige sicura verso il porto, noi non abbiamo alcun dubbio che sia guidata da un abile pilota, e dall’ordine abbagliante dell’universo noi concludiamo che sia guidata da una saggezza infinita. (S. Theoph. d’Ant.) Sostenere che gli astri descrivano le loro orbite da soli, significa sostenere la follia che una nave europea possa lasciare un porto senza equipaggio né pilota, fare il giro del mondo e tornare al punto di partenza. Già Cicerone diceva: “Quando consideriamo il firmamento, veniamo a sapere che esso è governato da un’intelligenza eminentemente superiore. – Anche la terra presenta uno spettacolo di sorprendente ordine. L’alternarsi del giorno e della notte, le stagioni, l’ammirevole struttura del più piccolo insetto, della più piccola pianta e soprattutto del corpo umano, che Basil definisce un piccolo mondo, fa concludere per un organizzatore superiore. Infatti, la più piccola casa presuppone un architetto dotato di ragione e il più semplice orologio un abile orologiaio. Le lettere di un libro, come la Bibbia, non possono essere state assemblate in questo modo per caso, e di conseguenza l’ordine delle lettere non può essere stato stabilito dal caso, e di conseguenza l’ordine ammirevole dell’universo può essere molto meno ancora costruitosi da se stesso.

Tutti i popoli sono intimamente convinti dell’esistenza di un Essere Supremo.

Presso tutti i popoli, anche i più abbrutiti, troviamo l’omaggio a una o più divinità. Ci sono città senza mura, senza re, senza lettere, senza monete, senza leggi, ma non c’è città senza tempio, senza preghiera, senza sacrificio. (Plutarco), e, dice Cicerone, ciò in cui la natura di tutti gli uomini concorda deve essere la verità. L’omaggio alla divinità non è il risultato di un’apparenza come la rotazione del sole intorno alla terra, ma la testimonianza della coscienza umana. “La conoscenza di Dio è, per così dire, nata con ogni uomo” (S. Giovanni Dam.) cioè ogni uomo vi giunge facilmente.

Solo gli stolti dicono: non c’è Dio.

Quelli che parlano così vedendo le meraviglie del creato sono uomini “che hanno occhi per vedere e non vedono, orecchie per ascoltare e non sentono” (S. Marco IV, 12). Chi nega l’esistenza di Dio è maturo per un manicomio (Schneider). Si chiama ateo. Ci sono atei solo tra le menti orgogliose o tra gli uomini di cattiva morale. “Credendosi saggi, sono diventati stolti” (Rom. I, 22). Nega Dio solo colui che ha interesse che non esistesse. (S. Aug.) Inoltre, gli atei parlano contro la loro stessa convinzione, perché in caso di grandi pericoli invocano Dio. Una volta un locandiere si prese gioco degli ospiti credenti, ma la sera stessa invocò Dio perché lo aiutasse quando scoppiò un incendio nei dintorni. (Mehler I 79). Gli atei sono come i bambini che fischiano al buio per paura dei fantasmi, per far credere che non hanno paura. Un giorno Dio prenderà gli atei in parola; mostrerà loro che per essi non esiste un Dio buono e non c’è felicità eterna. (Marie Lat.) Basta ricordare come Dio abbia preso in parola gli Ebrei, quando, nonostante tutti i miracoli, disperavano dell’aiuto di Dio contro i Chananiti. e desideravano morire nel deserto.(Numeri XIV).

2. LA RIVELAZIONE CI INSEGNA L’ESISTENZA DI IUN ESSERE SUPREMO.

Dio ha parlato agli uomini in tempi e modi diversi (Eb. I, 1). per farsi conoscere da loro. È apparso a Mosè nel roveto ardente e si è chiamato Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Per distinguersi da tutti gli altri esseri si definì l’unico esistente, dicendo: “Io sono colui che è” (Esodo IJJ, 14). Dando la legge sul Sinai, Dio ha ripetuto: “Io sono il Signore tuo Dio*…, non avrai altri dei all’infuori di me… non li adorerai e non li servirai. (Deut. V, 6-9). Per dimostrare la sua esistenza, Dio ha compiuto molti miracoli, ad esempio sul Monte Carmelo, dove 450 sacerdoti di Baal chiesero invano al loro idolo di inviare il fuoco dal cielo per consumare la loro vittima, mentre il profeta Elia fece la stessa richiesta al vero Dio e fu immediatamente esaudita (III Re, XY11I). Dio rivelò la sua esistenza anche attraverso i miracoli durante la cattività babilonese, ad esempio la liberazione dei tre giovani dalla fornace, di Daniele dalla fossa dei leoni.

2. La natura di Dio.

Apprendiamo ciò che Dio è, in parte dalle creature, ma più chiaramente attraverso la rivelazione divina.

La natura invisibile di Dio è diventata conoscibile attraverso le cose create, dice S. Paolo (Rom. I, 20). Le creature sono uno specchio in cui il Creatore si mostra (s. Vincenzo F.) Dalla bellezza delle creature possiamo dedurre che Colui che le ha fatte debba essere ancora più bello. (Sap. XIII. 1.). Dall’immensa grandezza dei corpi celesti possiamo dedurre la potenza infinita di Colui che li sostiene; dall’ordine mirabile, dall’armonia dell’universo si evince la sua saggezza. – Ma questo percorso non ci porta a un’idea chiara di Dio. Da un bel dipinto possiamo trarre conclusioni sul talento del pittore, ma non sulla sua morale, sulla sua origine, sul suo paese, sul suo nome. Le creature ci mostrano la sapienza e la potenza di Dio, ma le altre perfezioni rimangono nell’ombra (Louis de Gr.). Attraverso le creature riconosciamo Dio come in uno specchio poco chiaro (I Cor. XIII, 12); Dio si riflette in esse come il sole in un torrente veloce. Poiché gli uomini prima della venuta di Cristo erano molto corrotti, la loro ragione era molto offuscata ed erano meno capaci di riconoscere Dio nelle sue opere. (Sap. IX, 16) Per questo Dio si è rivelato parlando ripetutamente agli uomini attraverso i Patriarchi, i Profeti ed infine attraverso suo Figlio Gesù Cristo (Ebr. I.1). Le indicazioni più chiare sulla natura di Dio ci sono state date da Lui, gli altri non potevano parlarcene altrettanto chiaramente, perché non avevano mai visto Dio (S. Giovanni 1,18).

Tuttavia, non siamo in grado di spiegare in modo approfondito la natura di Dio, perché Dio è infinito, mentre noi siamo esseri limitati.

Non possiamo racchiudere l’oceano in una piccola imbarcazione e non possiamo, con la nostra limitatezza, comprendere l’immensa maestà di Dio. “Sappiate che Dio è grande”, dice Giobbe (XXXVI, 26), “e supera la nostra scienza”. Nessuno conosce ciò che è in Dio se non lo Spirito di Dio (I Cor. II, 11). Non è possibile definire Dio, perché, dice Sant’Agostino, non si può esprimere in parole ciò che l’intelletto non può cogliere. – Una volta il filosofo Simonide fu interrogato dal re di Siracusa, Gerone, sulla natura di Dio. Chiese un giorno, poi due giorni di riflessione, e così via, raddoppiando sempre il tempo; alla fine disse al re: non posso rispondere alla domanda, più ci penso e più diventa oscura. (Cic.) È più facile dire ciò che Dio non è, che dire ciò che è; né la terra, né il mare, né l’aria, né i loro abitanti, né il sole, né la luna, né le stelle, sono Dio (S. Aug.).

Chi vuole scrutare la maestà di Dio sarà confuso. Chi mangia troppo miele, dice Salomone, soffrirà, e chi esamina la maestà di Dio sarà schiacciato dalla sua gloria. (Prov. XXV, 27). I Greci raccontano che Icaro si è messo delle ali di cera per volare verso il cielo: quando si avvicinò al sole, la cera si sciolse ed egli cadde in mare. Questa è l’immagine di qualcuno che presume di capire Dio; viene gettato da queste altezze nel mare del dubbio e dell’incredulità. Fissare il sole per qualche istante significa essere abbagliati, e ancor più fissare la maestà divina. Anche gli Angeli si velano il volto davanti all’Altissimo (Ezech. I, 23), e i più perfetti di loro sono incapaci di comprendere la sua grandezza. Essi vedono Dien, ma solo nella misura in cui lo comprendono. (S. Cyr. Jer.) Assomigliano a un uomo che contempla il mare da un’alta vetta; vede il mare ma senza vederlo in tutta la sua estensione. E ciò che gli Angeli non possono, lo potremmo noi?

Quindi possiamo solo dare le seguenti nozioni imperfette ed incomplete di Dio.

1. DIO È UN ESSERE CHE È IN SÉ DI UNA INFINITA BELLEZZA, PERFEZIONE E FELICITÀ, CREATORE E SOVRANO SIGNORE DI TUTTO L’UNIVERSO.

Quando Dio apparve a Mosè nel roveto ardente e questi gli chiese il suo nome, rispose: “Io sono colui che è” (Esodo III, 14), cioè io solo sono. Tutti gli altri esseri, che esistono solo attraverso Dio, non esistono, per così dire in confronto a Lui. Così Davide grida: Il mio essere è davanti a te come un nulla (Sal. XXXVIII, 6), e Isaia dice anche: Tutti i popoli sono come un nulla davanti a lui (XL, 17). Da qui il nome Jehovah, cioè Colui che è, che gli ebrei diedero a Dio.

Dio è bellezza sovrana. Se la bellezza delle cose create è stata capace di sedurre gli uomini fino al punto di adorarle come divinità, quanto più bello deve essere il Creatore di quella bellezza (Sap. XIII, 3). Se non la possedesse in un grado eminente non poteva comunicarla agli altri. Platone stesso diceva che Dio è il bene supremo, la fonte di ogni bontà e bellezza. (Sof.)

Dio è perfezione sovrana. Vediamo diversi gradi di perfezione negli esseri. Alcuni hanno solo l’esistenza senza vita: le pietre; le piante hanno un elemento vitale, perché crescono; gli animali hanno anche sensazione e movimento; l’uomo ha persino una vita spirituale, perché ha intelligenza e amore. Eppure, al di sopra dell’uomo c’è un’innumerevole gerarchia di puri spiriti, ognuno dei quali è un’entità che ha un’anpossiede una speciale perfezione. Questa gerarchia non progredisce all’infinito, perché può essere divisa e classificata, mentre l’infinito non può essere diviso, altrimenti l’infinito sarebbe imperfetto, il che è assurdo. Dobbiamo quindi arrivare a un Essere infinitamente perfetto, che ha tutte le perfezioni immaginabili. (Scheeben). Tutto ciò che noi notiamo essere perfezione nelle creature è solo un riflesso dell’infinita perfezione di Dio. (Scupoli). Dio è l’Essere più perfetto che si possa immaginare. (S. Ans.) Dio è il meglio che si possa immaginare (S. Aug.). Dio è ineffabilmente superiore a tutto ciò che è, a tutto ciò che possa essere immaginato al di fuori di Lui. (Concilio Vaticano). –

Dio è sovranamente felice (I Tim. VI, 15). Dio vive perennemente in una felicità infinita, mai turbata dalla minima sofferenza. Nessuna creatura è capace di aumentare o diminuire la felicità di Dio (Giobbe XXXV, 6); Dio non ha bisogno di nessuna delle sue creature (Act. Ap. XVII, 6). Il sole non ha bisogno di luce, dato che viene da lui, e Dio può fare a meno di noi, dato che tutti i beni che potremmo offrirgli li abbiamo solo da lui (S. Aug.). Cristo ci promette una felicità simile a quella cheLlui possiede (S. Giovanni XVII, 24). Dio è il Creatore di tutte le cose, perché ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che essi contengono. (Act. XIV, 14). Egli è anche il sovrano, il signore, il re di tutto l’universo. Perché ha sottoposto a leggi fisse tutti gli esseri che esistono al di fuori di Lui. Tutti i corpi celesti si muovono necessariamente secondo le sue leggi. La terra è costretta a girare per 365 giorni intorno al sole e a ruotare ogni volta intorno al suo asse (questa è la concezione eliocentrica che non è dottrina biblica, ma suggestione umana pseudoscientifica – ndr.-). La luna è costretta a girare sopra la terra in 27 giorni e un terzo. Queste leggi sono osservate dagli astri con tale rigore che possiamo prevedere le eclissi solari e lunari ed altri fenomeni astronomici con anni di anticipo. La luce si propaga secondo leggi fisse, (42.000 miglia al secondo) e il suono (333 metri) che raggiungono i corpi, (lo spazio percorso è proporzionale al quadrato della velocità). La crescita dei corpi organici, piante o animali, è anch’essa soggetta a leggi immutabili. Non è possibile fare a meno dell’aria, così come i pesci non possono fare a meno dell’acqua, e così via. Pure gli esseri ragionevoli sono anch’essi soggetti a leggi o comandi fissi. Ma poiché sono dotati di libertà possono trasgredire questi Comandamenti, e questa trasgressione è a sua volta punita secondo leggi fisse. Dio è quindi giustamente chiamato Re (Ps. XCIV, 3). Egli è il Re dei re (I, Tim. VI, 15), il Re dell’eternità. (Tob. XIII, 6). La maestà dei governanti della terra non è che un’ombra della maestà di Dio. – Poiché Dio è il nostro signore sovrano, gli dobbiamo obbedienza. (Act. Ap. V, 23). Dio sottometterà tutti gli esseri alla sua volontà, sia loro malgrado, e questa sarà la loro disgrazia, o con il loro consenso, il che produrrà la loro felicità.

2. NOI NON POSSIAMO VEDERE DIO PERCHÉ EGLI È UNO SPIRITO, CIOÈ UN ESSERE INCORPOREO ED IMMORTALE, DOTATO DI IINTELLIGENZA E VOLONTÀ.

Gesù Cristo ha detto: “Dio è spirito e deve essere adorato in spirito e verità”. (S. Giovanni IV, 24). Dio, essendo spirito, aveva proibito agli ebrei qualsiasi immagine della divinità. (Es. XX, 4). – Dio non può essere visto da nessun uomo (I Tim. VI, 16). Tra i nostri occhi e lui c’è come un velo (S. J. Chrys.) Anche di giorno le stelle sono nel cielo e noi non le vediamo; le vediamo solo la sera, quando il cielo è sereno. Allo stesso modo non possiamo vedere Dio finché duri il giorno della nostra vita terrena (Es. XXXIII, 21); lo vedremo solo dopo la nostra morte (I, S. Giovanni III, 2), se la nostra anima è libera da ogni peccato grave. Dio è uno spirito nascosto (Is. XLV, 15) e abita in una luce inaccessibile (I, Tim. VI, 16).

Ma Dio si è talvolta mostrato in forme visibili.

Sotto forma di viandante (ad Abramo), di colomba (al battesimo di Gesù Cristo), di lingue di fuoco (a Pentecoste). In nessuno di questi casi, però, Dio si mostra così come è. I nostri pensieri, che sono nascosti nella nostra mente, diventano manifesti attraverso il suono, ed è così che Dio è apparso; ma come il suono non è il pensiero, così la forma dell’apparizione non è Dio in persona (S. Aug.). – Non dobbiamo nemmeno scandalizzarci del fatto che la Bibbia parli degli occhi, delle orecchie, delle mani… di Dio.; queste espressioni sono usate solo per farci capire meglio le perfezioni di Dio. Gli uomini non riescono ad afferrare Dio se non con immagini corporee (S. Fulg.). Queste espressioni ci rendono più facile comprendere che Dio vede, ascolta, agisce, ecc. (S. Ephrem).

3. NON C’È CHE UN DIO SOLO. (Deut. v. 6).

L’essere sovranamente perfetto è necessariamente unico, proprio come un singolo albero può essere più alto di tutti gli altri. L’ordine dell’universo ci porta a concludere che ci sia un unico autore. Non possono esserci diversi dèi come non possono esserci diversi piloti su una nave e diverse anime in un corpo (Lact.). Anche i pagani onoravano una divinità come la più alta: i Romani, Giove; i Greci, Zeus. Nel momento del pericolo, al momento del giuramento, nelle congratulazioni e nei ringraziamenti, questi antichi erano soliti invocare un unico dio. La loro anima, al dire di Tertulliano, era naturalmente cristiana. – Il politeismo nasce dal fatto che gli uomini prendevano per Dio stesso le operazioni di Dio nella natura e le forze naturali che li riempivano di terrore. (Fulmini, tuoni, fuoco, ecc.). Consideravano anche gli Angeli, buoni o cattivi, come divinità minori e li adoravano. Infine, la loro corruzione li ha portati a guardare e adorare le creature come il bene sovrano.

3. Le perfezioni di Dio.

NOI ATTRIBUIAMO A DIO DIVERSE PERFEZIONI PERCHÉ LA SUA UNICA PERFEZIONE SI RIFLETTE NELLE CREATURE IN MODI DIVERSI.

Quando il sole sorge, a volte è viola e a volte pallido; eppure ha una sola e unica luce., i cui colori però variano a seconda dei vapori che si alzano dalla terra e si frappongono tra il sole e il nostro occhio. Anche Dio ha una sola e medesima perfezione, non c’è varietà in Lui, ma le sue opere ci mostrano questa perfezione in modi diversi. (S. Fr. de S.) Un paesaggio, pur rimanendo lo stesso, appare in modo diverso a seconda del punto di vista. Le perfezioni di Dio sono quindi le varie denominazioni di un’unica e indivisibile perfezione divina o natura divina indivisibile. In Dio, dunque, tutte le perfezioni che gli attribuiamo, sono una sola e medesima realtà: la sua bontà è onnipotenza; la sua onnipotenza è saggezza; la sua saggezza è giustizia, e così via. Le qualità di Dio e la sua perfezione sovrana sono la stessa cosa: Dio è eternità, è onnipotenza, è sapienza, è onnipresenza, ecc. È quindi improprio dire: Dio possiede l’eternità, l’onnipotenza. Dio è infatti l’Essere della perfetta semplicità, senza alcuna composizione. Le perfezioni sono divise solo dall’operazione della nostra ragione. Per le creature è diverso: le loro qualità sono in realtà diverse e divise.

La nostra ragione distingue le perfezioni divine in perfezioni dell’essere, dell’intelligenza e della volontà di Dio.

Le perfezioni dell’essere sono l’eternità (l’infinità rispetto alla durata) la ubiquità (l’infinità rispetto allo spazio), l’immutabilità- Le perfezioni dell’intelligenza sono: l’omniscienza e la saggezza sovrana. – Le perfezioni della volontà sono: l’onnipotenza, la suprema bontà e di conseguenza la pazienza e la misericordia, la santità infinita, la giustizia, la veridicità e la fedeltà.

1. DIO È ETERNO, CIOÈ DIO È SEMPRE STATO E SEMPRE SARÀ (s. Greg. Naz.).

Anche le parole di Dio a Mosè: “Io sono Colui che è” (Es. III, 14) esprimono la sua eternità. – Dio non ha mai avuto inizio come gli uomini; non può essere stato creato da nessuno, perché non esiste alcun essere che non sia Dio o che non sia stato fatto da Dio. Sarebbe assurdo dire che Dio si è fatto da solo, perché, dice S. Efrem, se qualcuno potesse crearsi, esisterebbe prima di diventare. Dio esisteva prima dell’universo (Sal. LXXXIX, 2), come l’architetto esiste prima della casa, come l’orologiaio esiste prima dell’orologio. Dio non finirà mai, come il destino degli uomini (Sal. CI, 28). Per questo è chiamato il Dio vivente (S. Matth. XVI, 16), il Dio immortale (I, Tim. I, 17). Dio era prima del tempo, rimarrà nell’eternità. Davanti a Dio non c’è né passato né futuro, c’è solo un presente permanente (S. Aug.). Dio vede tutte le cose come presenti (S. Grég. M.), anche quelle che noi chiamiamo passato o futuro. Nella vita di Dio non c’è una successione di eventi, ai suoi occhi non c’è tempo. Un solo giorno”, dice San Pietro (Ep. III, 8) è davanti al Signore come mille anni e mille anni come un giorno. Quindi uno spazio di tempo, per quanto grande, non è una parte dell’eternità. Il tempo enorme che un uccellino impiegherebbe per esaurire l’oceano goccia a goccia, non sarebbe nulla in confronto all’eternità. E se da una roccia alta come il firmamento dovessimo rimuovere un di polvere ogni mille anni e questa immensa serie di anni fosse l’eternità, i dannati gioirebbero per la fine dei loro tormenti. (S. Bernardino). Se volete la felicità eterna, attaccatevi a Colui che è eterno (S. Aug.).

2. DIO È DOTATO DII UBIQUITA’, CIOÈ DIO È OVUNQUE.

Quando Giacobbe ebbe la visione della scala misteriosa in mezzo al campo, esclamò: “Veramente Dio è in questo luogo e io non lo sapevo (Gen. XXXVIII, 16); Queste parole si applicano ad ogni luogo. – Ma Dio non è ovunque solo per la sua potenza (come il sole è presente sulla terra per la sua influenza), ma riempio e penetra tutto; Dio riempie il cielo e la terra (Ger. XXIII, 24), lo spirito di Dio riempie l’universo. (Sap. I).

1. DIO È PRESENTE OVUNQUE, PERCHÉ TUTTE LE CREATURE SONO IN DIO.

L’universo è nella mente di Dio come un pensiero è nella nostra mente. Questo pensiero è un prodotto della nostra anima, così come l’universo è prodotto da Dio. Ora, la nostra anima è più grande del nostro pensiero e Dio è più grande dell’intero universo, e come la nostra anima penetra tutto il nostro pensiero, così Dio penetra l’intero universo, da cui le parole di San Paolo all’Areopago: In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (Atti XVII, 28). Nessun luogo è senza la presenza di Dio ed ogni luogo è in Dio (S. Ilario). Nondimeno non c’è commistione tra Dio e le creature. Dio rimane Dio e le creature rimangono creature. Dio è completamente distinto da loro (Conc. Vatic.).

2. DIO TUTTAVIA NON È LIMITATO DA ALCUN LUOGO, E NEMMENO DALL’UNIVERSO, PERCHÉ EGLI STESSO NON CONOSCE LIMITI.

Alla consacrazione del tempio, Salomone esclamò: “Poiché il cielo e i cieli dei cieli non possono contenerti, quanto più lo farà la casa che ho costruito per te (III, Rois VIII, 27.). L’infinito non può stare in uno spazio misurabile. spazio misurabile. (Origene). Colui che contiene tutto in sé non può essere contenuto in un luogo. (San Pietro Crisol.) Solo i corpi sono racchiusi in un legame; gli spiriti, al contrario, non sono racchiusi in un solo luogo, ma non possono agire in più luoghi: le loro operazioni sono limitate ad un luogo specifico. Non è così per Dio. – Dio è ovunque (poiché è in tutti i luoghi) e in nessun luogo (poiché non è limitato da nessun luogo) (S. Bernardo). È vicino a noi e lontano da noi, dentro di noi eppure fuori di noi; tutta la creazione è in Lui eppure Egli non è in essa (Sant’Efrem).

3. TUTTAVIA DIO È SENZA ESTENSIONE NELLO SPAZIO E QUINDI SI TROVA NELLA SUA INTEREZZA IN OGNI LUOGO.

Sebbene Dio sia più grande di tutto l’universo, la sua grandezza non assomiglia alla distanza dal cielo alla terra, che deve ancora essere estesa. Dio è senza estensione. Egli non si estende nello spazio, come se fosse per metà in cielo e per metà sulla terra. (S. Aug.). È ovunque e ovunque intero. È interamente in cielo e sulla terra. Tutto solo in cielo e tutto in ogni luogo del cielo e della terra (S. Aug.). Anche l’anima umana riempie l’intero corpo; è interamente in ogni parte del corpo e tuttavia non ha estensione nello spazio.

4. DIO È PARTICOLARMENTE PRESENTE IN CIELO, NEL SS. SACRAMENTO E NELLE ANIME DEI GIUSTI.

In cielo Dio è visto faccia a faccia, nel SS. Sacramento l’Uomo-Dio è presente sotto le specie del pane e del vino, nelle anime giuste Dio vi abita attraverso lo Spirito Santo. – Sebbene i re della terra abitino il loro intero palazzo, hanno una sola sala del trono dove tengono solennemente udienze e distribuiscono pubblicamente i loro favori. Dio fa lo stesso.

5. NON C’È LUOGO OVE DIO NON SIA.

Gli occhi del Padrone sono in ogni luogo; vedono il bene e il male. (Prov. XV, 8). Nelle chiese, spesso sopra l’altare, c’è un’immagine chiamata Occhio di Dio. Questa immagine ci ricorda che Dio è presente ovunque. Nessuno può nascondersi da Dio (Ger. XXIII, 23); ne abbiamo la prova nella storia del peccato originale. Che vi piaccia o no”, dice sant’Agostino, “Dio vi vede e non potete sfuggire al suo sguardo”. Nessuno, quindi, può sfuggire a Dio, sia che salga in cielo, sia che scenda all’inferno, o fugga fino alle estremità più lontane dell’oceano. (Ps. CXXXVIII,7). Giona cercò di fuggire da Dio senza riuscirci. – Dobbiamo quindi evitare ogni peccato. Se si viene colti da un uomo in un’azione vergognosa, si prova onta; ma quell’uomo ha la faccia di abbandonarsi ai vizi più terribili alla presenza di Dio. Che sciocco! (S. Aug.)

QUINDI NOI DOBBIAMO SEMPRE PENSARE CHE DIO SIA VICINO A NOI.

Ricordati ovunque che Dio è vicino. Come non smettiamo di respirare non dobbiamo smettere di pensare a Dio (Curato d’Ars). Non c’è un momento in cui non godiamo delle benedizioni di Dio, non ci deve essere un solo momento in cui il pensiero di Dio scompaia dal nostro cuore. (S. Aug.). Beato, dice S. Efrem, chi conserva sempre il ricordo di Dio, è come un Angelo del cielo sulla terra. È a lui che si applicano le parole di Gesù Cristo: “Beato il servo che il padrone trova sveglio al suo ritorno (S. Luc. XII, 37).

L’ESERCIZIO COSTANTE DELLA PRESENZA DI DIO CI DÀ GRANDI VANTAGGI: ci tiene efficacemente lontani dal peccato, ci mantiene in grazia di Dio, ci anima alle buone opere e ci rende intrepidi.

L’esercizio della presenza di Dio ci dà forza nelle tentazioni e ci tiene lontani dalla china del peccato, come Giuseppe in casa di Putifarre. I soldati combattono più valorosamente sotto gli occhi del loro re, proprio perché, per la sua presenza, possono essere premiati o puniti. (S. Alfonso) Con quale dignità non ci comportiamo davanti a un principe? Tanto più quando si sa di essere alla presenza di Dio. (S Giov. Chris.) Chi pensa alla presenza di Dio non peccherà mai (S- Th. Aq.); cadrà nel peccato tanto poco quanto colui che cade in esso aggrappandosi ad un oggetto solido. – Questo esercizio è quindi il modo migliore per perseverare nella grazia di Dio: chi cammina sempre alla presenza di Dio, non perderà mai l’amore di Dio; (S. Th. Aq.) lo perderà poco come si perde un oggetto prezioso che stringeva fortemente nella mano. (S. Fr. de S.) – Questo esercizio aumenta anche il nostro zelo per il bene, e di conseguenza porta a tutti le virtù. Il pensiero che Dio ci guardi, agisce su di noi, come l’occhio del padrone ci fa compiere i nostri doveri con maggiore zelo e precisione. Più siamo vicini alla sorgente, più l’acqua è limpida; più il fuoco è vicino, maggiore è il calore, e quanto più Dio è vicino a noi con un continuo ricordo della sua presenza, tanto più saremo perfetti; finché il ramo è unito al tronco, porta frutto, e finché il Cristiano è spiritualmente unito a Dio, produrrà frutti per la vita eterna. – Questo esercizio ci rende finalmente impavidi. S. Giovanni Chr. rispose all’imperatrice Eudossia, che lo minacciava di esilio: “Potresti farmi paura solo se riuscissi a mandarmi in un luogo dove Dio non ci sarebbe. E Davide diceva: “Anche se dovessi camminare nell’ombra della morte (cioè in pericolo di vita), non. temerò alcun male, perché tu sei con me”. (Sal. XXII, 4). Se, dunque, avete paura di andare da qualche parte da soli, ricordate che Dio è presente ovunque. Quando un uomo timido ha un compagno vicino a sé, cessa di avere paura, e noi, che sappiamo che il Signore onnipotente è con noi, avremmo paura (S. Rosa da L.), senza la cui volontà nessun essere vivente si muove?(S. Franç. de S.) – Purtroppo è molto facile dimenticare la presenza di Dio. Ci comportiamo come un cieco a tavola, quando gli si fa notare la presenza di un ospite di riguardo, lui si alza rispettosamente, e pochi istanti dopo si comporta di nuovo male, perché non vede l’ospite e dimentica subito la sua presenza. (S. Franç. de S.)

3. DIO È IMMUTABILE, CIOÈ RIMANE SEMPRE LO STESSO. (Ps. CI, 28).

Dio non aumenta né diminuisce (Eccl. XLIX, 22), non diventa né migliore né peggiore, non ritira mai la sua parola, ecc. (Numeri XXIII, 19). Dio non può perdere nulla, e non abbisogna di nulla che non possieda già; quindi, non c’è alcun cambiamento in Lui. La creazione stessa non ha cambiato Dio. Egli aveva decretato da tutta l’eternità che avrebbe creato l’universo nel tempo. I decreti di Dio per una nuova opera non sono nuovi, sono eterni. (S.Agost.). Dio cambia le sue opere, non cambia la sua volontà (id.) L’Incarnazione ha solo cambiato l’uomo, che è diventato migliore; ma la divinità non ha ricevuto nulla, perché possedeva tutte le perfezioni; non ha perso nulla, come il sole quando è nascosto da una nuvola (S. Ambrogio). Il nostro pensiero non cambia manifestandosi nella parola e Dio non è cambiato rivestendosi di umanità. – Né Dio cambia punendo i peccatori; non è Dio che cambia, è l’uomo. Finché Adamo ed Eva non peccavano, erano felici. Dopo il peccato erano cambiati, divennero tristi, ma Dio era rimasto lo stesso (S. Aug.). Quando il cuore è buono, percepisce Dio nella sua infinita carità e amabilità. Quando il cuore è cattivo, percepisce nell’immutabile Dio il giudice iracondo e vendicativo. (id.) Il sole agisce allo stesso modo sugli occhi: la luce rallegra l’occhio sano, ma ferisce l’occhio malato: non è il sole, ma l’occhio che è cambiato. Lo specchio vi riflette in modo a seconda che lo si guardi con un viso arrabbiato o con un viso sereno. Lo specchio è rimasto lo stesso, ma non l’uomo. Quando il sole splende attraverso un vetro colorato, i suoi raggi prendono in prestito i colori; il sole in sé non è cambiato, solo i suoi raggi sono diventati diversi. Dio non cambia nemmeno quando ricompensa; Dio non cambia i suoi decreti, l’uomo ha cambiato le sue opere. Quando la Scrittura dice che Dio si è pentito di aver fatto l’uomo, che Dio sia arrabbiato, ecc. non fa che adattarsi al nostro modo di parlare.

4. DIO È ONNISCIENTE, CIOÈ SA TUTTO: IL PASSATO, IL PRESENTE E IL FUTURO, ANCHE I NOSTRI PENSIERI PIÙ SEGRETI.

Dio sapeva che Adamo ed Eva avevano mangiato del frutto proibito; Gesù Cristo conosceva in anticipo il rinnegamento di Pietro, la rovina di Gerusalemme e molti altri eventi. Egli conosceva i pensieri di Simone il fariseo, che si era scandalizzato nel vederlo accogliere così cordialmente una peccatrice (S. Luc. VII, 40). La divinità assomiglia a uno specchio di infinita grandezza e chiarezza; tutte le nostre operazioni si riflettono in esso. (Santa Teresa). Dio guarda dal cielo, dice il Salmista (XXXI, 13), e vede tutti i figli degli uomini. I suoi occhi sono più luminosi del sole (Eccl. XXIII, 26). Chi ha fatto l’orecchio non udrebbe e chi ha fatto l’occhio non vedrebbe? (Sal. XXXIX, 9). Nessuna creatura è nascosta alla sua vista (Eb. IV, 13); Egli vede ciò che faccio molto meglio di me stesso. (S. Aug.) Dio vede il passato, il presente e il futuro allo stesso tempo, proprio come dalla cima di una montagna vediamo l’intero paesaggio con uno sguardo. Davanti a Dio il futuro è già realizzato. (Ger.) – Non ne consegue che l’uomo farà inevitabilmente il male che Dio prevede. È lo stesso, quando da lontano vediamo un uomo che si uccide; lo vediamo perché lo fa. ma non lo fa perché lo vediamo. Il passato che è nella mia memoria non è accaduto a causa di essa; allo stesso modo ciò che Dio vede nel futuro non è accaduto a causa di Lui. Che Dio veda nel futuro, non significa che una cosa accada fatalmente, perché Egli lo prevede. (S. Aug.) Quando Dio prevede la dannazione degli uomini, non ne è la causa. Anche il medico, secondo il decorso della malattia, che prevede la morte del paziente, non ne è la causa. Il dotto francescano Duns Scoto passò una volta davanti ad un contadino che bestemmiava orribilmente; lo pregò di non esporsi con tanta leggerezza all’inferno. Dio – rispose il contadino – sa tutto; se ha deciso di mandarmi in paradiso, ci arriverò, se invece ha deciso di dannarmi, niente potrà aiutarmi”. “Bene – rispose Duns Scoto – allora lascia anche il tuo campo non arato. Se Dio ha deciso di darti il raccolto, lo avrai anche senza lavoro, e se ha deciso di non dartelo, il tuo lavoro è inutile”. Il contadino riconobbe allora che le azioni dell’uomo, e non la prescienza di Dio, sono la causa della sua salvezza o della sua dannazione. (Overberg).

DIO SA ANCHE COSA CI ACCADREBBE IN DERERMINATE CIONDIZIONI; È PER QUESTO CHE A VOLTE CI MANDA DEI MALI PER EVITARNE DI PIÙ GRANDI.

Gesù Cristo sapeva che Tiro e Sidone si sarebbero convertite se avessero visto i miracoli grandi come quelli di Corozain e Betsaida. (S. Matth. XI, 21). – Dio prevede che un uomo così giusto sarebbe stato corrotto dal mondo, se non lo avesse richiamato prematuramente dalla vita. (Sap. IV, 11). Dio prevedeva che la permanenza in paradiso avrebbe nuociuto molto ai nostri primi genitori, per questo li ha cacciati (S. Giovanni Cris.) Dio prevedeva che un tale avrebbe abusato delle ricchezze con i suoi vizi: gli mandò la povertà: affinché un altro perda la sua strada con una vita comoda e tranquilla, lascia che i malvagi lo perseguitino (S. Greg. Gr.). È dunque per bontà verso gli uomini che li mette alla prova. Questo pensiero ci farà accettare le croci con rassegnazione. Poiché Dio sa tutto in anticipo, sarebbe inappropriato prendere alla lettera l’espressione “Dio mette alla prova i giusti” perché sa come si comporteranno i giusti. Sarebbe più corretto dire: Dio offre al giusto l’opportunità di mostrare la sua virtù.

Il Dio onnisciente porterà alla luce tutto ciò che è nascosto.

Nulla è così nascosto – dice Gesù Cristo – che non sarà manifestato, e nulla è così segreto che non sarà conosciuto e rivelato”. (S. Luc. VIII, 17).

Dio onnisciente manifesterà nel grande giorno tutto ciò che è nascosto.

Nulla è così occulto – dice Gesù- che non sarà manifestato, e nulla do così segreto che non sarà conosciuto e rivelato (Luca VIII, 17). Dio rivelerà e manifesterà tutta la nostra vita soprattutto al momento della morte e nell’ultimo giorno. Il sole che sorge illumina tutte le cose e mostra il loro vero aspetto, così Gesù Cristo, il sole di giustizia, illuminerà, cioè, giudicherà tutto con la luce della sua onniscienza. Tutte le nostre preghiere, le nostre elemosine, i nostri digiuni, i nostri atti di castità per Dio, sono iscritti (nel libro della vita). (S. Cris. Jer.)

Dobbiamo quindi pensare spesso all’onniscienza di Dio, soprattutto nel momento della tentazione e poi quando soffriamo ingiustamente.

Un giorno un bambino entrò in una casa. Pensando di essere solo, fu tentato dalle mele che si trovavano lì. “No – gridò dopo – quando gli venne in mente l’onniscienza di Dio, non lo farò. Dio mi vede. – Prendine quante ne vuoi”, rispose qualcuno nascosto dietro la stufa. Possiamo vedere quanto questo pensiero fosse vantaggioso per il bambino. (Mehler I, 106.) Colui che sa di essere osservato, evita tutti i difetti; sapendo di essere osservati, manteniamo la nostra anima pura. Vivete come se al mondo ci foste solo voi e Dio (S. Alf.). – Giobbe, deriso dalla moglie e abbandonato dagli amici, si consolava con il pensiero che Dio sapeva tutto (Giobbe, XVI, 16); allo stesso modo la casta Susanna. (Dan. XIII, 42). Dio mostrerà la sua giustizia come la luce e la sua rettitudine come il sole mezzogiorno (Sal. XXXVI, 6).

5. DIO È INFINITAMENTE SAGGIO, CIOÈ SA COME PRENDERE MEZZI INFALLIBILI PER RAGGIUNGERE I SUOI FINI.

Il fine di Dio non è altro che la sua gloria ed il bene delle sue creature. Quando un agricoltore vuole raccogliere un ricco raccolto, ara con cura il suo campo, lo concima, sceglie i semi migliori e li semina al momento giusto: si dice che è saggio (prudente) perché usa i mezzi migliori per raggiungere i suoi scopi. Dio fa lo stesso. Guardate con quanta saggezza ha disposto tutto per preparare gli uomini alla venuta del Salvatore: la vocazione di Abramo, il viaggio dei figli di Giacobbe in Egitto, la purificazione degli Ebrei attraverso un destino molto duro in Egitto e nel deserto, la missione dei profeti, la cattività babilonese per l’istruzione dei pagani, ecc. La sapienza di Dio può essere vista anche nella vita di alcuni individui, Giuseppe in Egitto, Mosè, San Paolo, per esempio, così come nella condotta di popoli e degli imperi. “Oh profondità dei tesori della sapienza e della conoscenza di Dio! Quanto sono incomprensibili i suoi giudizi!” (Rom. XI, 33).

1. La sapienza di Dio si mostra soprattutto nel fatto che Egli fa servire il male al bene.

Lo si può vedere nella vita di Giuseppe in Egitto. Ciò che spesso consideriamo come un grande male è, secondo il piano di Dio, di grande utilità. Dio ha detto: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri e le mie vie non sono le vostre vie”. (Is. LV, 8). L’uomo propone e Dio dispone. “Quando un uomo ignorante entra nello studio di un artista, vede un artista, vede una miriade di strumenti che, a suo dire, sono inutili e inadatti all’uso. Il maestro sorride e continua il suo lavoro. Nella loro ignoranza gli uomini considerano inutile, addirittura dannoso, ciò che impiega per la realizzadei suoi progetti l’architetto dell’universo. L’uomo pretende di di capire meglio del sapiente Dio del cielo. (S. Aug.). Una volta un bambino vide le pecoreche lasciavano un po’ di lana tra i rovi di una siepe, e pregò il padre di tirarla fuori; ma pochi istanti dopo vide gli uccelli che cercavano questa lana per il loro nido, e si convinse dell’utilità della siepe. Quanti uomini sono come questo bambino!

2. La saggezza di Dio si manifesta anche nel fatto che Egli si serva di cose di minore apparenza per glorificare il suo Nome.

Dio, dice S . Paolo (I Cor. I, 27), ha scelto i deboli secondo il mondo per confondere i potenti. Tra tutti gli astri, Dio ha scelto la piccola terra come scenario delle sue rivelazioni, la Palestina come culla del Cristianesimo, una povera vergine come madre, un povero falegname come padre. adottivo, semplici pescatori come messaggeri del Vangelo, e innalzò ad alte dignità uomini poco apparenti (Giuseppe, Mosè, Davide; Daniele, ecc.) Dio evangelizza i poveri. (S. Matth. XI, 5) e nasconde le verità del Vangelo ai saggi e ai prudenti (Id. ibid. 25). Dà grazia agli umili e resiste ai superbi (S. Giacomo IV, 6). Usa spesso i mezzi più vili per aiutarci nel bisogno. S. Félice di Nola (+ 310) in fuga dai suoi persecutori, si era rifugiato nella fessura di un vecchio muro. Un ragno stese la sua tela dietro di lui, e i persecutori, non credendo che qualcuno potesse essere entrato, passarono oltre. (Mehler I, 185). La protezione di Dio dà la forza di un muro alla tela di un ragno, e senza questa protezione un muro non è migliore di una tela di ragno (S. Paolino). – Una povera vedova doveva pagare un debito già saldato dal marito, e cercò invano l’almanacco dove aveva scritto i suoi conti. Alla vigilia del processo pregò ferventemente con con i suoi figli fino a notte fonda, e poi una lucciola entrò dalla finestra dietro un armadio. Il figlio più piccolo desiderava ardentemente vedere l’insetto, la madre spostò un po’ indietro l’armadio e l’almanacco, così a lungo cercato, cadde a terra. Questi sono i modi molto semplici in cui Dio ci aiuta. – Infine, Dio vuole che raggiungiamo la virtù e il cielo attraverso le tentazioni (II Cor. XII, 9). Quando un’impresa utile incontra molte opposizioni e ostacoli, è un chiaro segno che viene da Dio. segno che viene da Dio. S. Filippo Néri rifiutò un’impresa perché non incontrava ostacoli. Un’opera – diceva- che inizia in modo così brillante sicuramente non ha Dio come autore. Quanti ostacoli ha incontrato Cristoforo Colombo quando partì per il suo viaggio di scoperta nel 1492! Quanti pericoli sopportò in mare all’andata e al ritorno! Quanta ingratitudine ricevette dal mondo! La conclusione è ovvia.

3. La sapienza di Dio si mostra finalmente nel bell’ordine dell’universo.

Tutti gli esseri visibili sono intimamente legati gli uni agli altri, si condizionano a vicenda. Come un orologio si ferma quando un ingranaggio viene rimosso o spostato, allo stesso modo ci sarebbe un disturbo nell’universo se un particolare essere venisse rimosso o cambiato. (S. Giov. Cris.) Se gli uccelli fossero sterminati, gli insetti si moltiplicherebbero in modo spaventoso. L’equilibrio della natura verrebbe sconvolto. Gli esseri che servono da cibo agli altri si moltiplicano enormemente, mentre i carnivori: leoni, aquile, ecc. hanno una prole molto meno numerosa. Come tutto è mirabilmente disposto, dice S. Basilio! Nulla sulla terra è senza scopo o senza utilità, anche se a prima vista non percepiamo questa utilità. Quanto è utile, ad esempio, l’alternarsi del sole e della pioggia, del giorno e della notte, delle diverse stagioni! Quanto è vantaggiosa la diversità dei talenti, delle carriere, ecc. Queste sono cose che uniscono le persone. L’armonia presuppone toni alti e bassi; così l’armonia sociale è prodotta dalla diversità dei talenti. (S. Aug.). Il più piccolo insetto, per quanto orrendo o scomodo, è utile. Gli insetti assorbono i gas che infesterebbero l’atmosfera. Gli avvoltoi divorano i cadaveri degli animali, che con la loro corruzione, soprattutto ai tropici, ammorberebbero l’aria. Anche i fenomeni che sono effettivamente dannosi per molti, come i fulmini, la grandine, le inondazioni, i terremoti, le pestilenze, ecc. non ci sembreranno più tali, se teniamo presente che Dio li usa per salvare le anime dalla dannazione eterna. Inoltre, questi stessi fenomeni hanno una certa utilità per l’uomo: per esempio, le inondazioni del Nilo. Le tempeste e i temporali contribuiscono alla vegetazione: pensiamo che la natura distrugga, invece lavora e fertilizza. Quanto è splendido il movimento e la marcia delle stelle! I movimenti del sole e della luna è degli astri esistono solo per rendere la terra un luogo piacevole in cui vivere. E se qualcuno si scandalizza per le lunghe notti polari, pensi all’aurora boreale. I toni piacevoli e l’armonia ammirevole di una cetra ci costringono a concludere che sia stata suonata da un abile artista; a maggior ragione il bellissimo ordine dell’universo, ci rivela l’infinita saggezza e arte di Colui che lo governa. (S. Greg Naz.). “O Signore, quanto sono meravigliose le tue opere!” dice il Salmista (CIII, 24), “hai fatto tutto con saggezza”.

6. DIO È ONNIPOTENTE, CIOÈ PUÒ FARE TUTTO QUELLO CHE VUOLE, E QUESTO SOLO CON LA SUA VOLONTÀ.

Dio può fare tutto, anche ciò che a noi sembra impossibile: per esempio, il salvataggio dalla fornace. Casi simili si verificarono durante le grandi persecuzioni. Con Dio, dice Gesù Cristo, tutto è possibile. (Matteo XIX, 26). E Gabriele disse a Maria: “A Dio nessuna opera è impossibile”. (S. Luc.I, 37). Dio non sarebbe Dio se non potesse fare tutto ciò che vuole (S. Pietro Crisol.). – Dio può fare tutto ciò che vuole, ma non vuole tutto ciò che può (Teod.). Dio non può e non vuole fare ciò che ripugna alle sue infinite perfezioni, ad esempio mentire, ingannare. Né Dio vuole tutto ciò che potrebbe fare; si accontenta di ciò che ritiene sufficiente (ibid.). Quindi Dio potrebbe creare un universo più bello, altri universi, altre creature. – Quando le creature vogliono intraprendere un’opera, sono obbligate a rispettare le leggi stabilite dal Creatore e di mantenersi entro limiti definiti: Dio non è vincolato da nulla. Tutto ciò che deve fare è volere, e immediatamente le cose sono fatte. Dio ha parlato e le cose sono state fatte; ha comandato e le cose sono state create. (Sal. CXLV1II, 5).

L’onnipotenza divina si rivela soprattutto nella creazione, nei miracoli di Gesù Cristo e nei miracoli che lo hanno preceduto e seguito per dimostrare la verità della Religione cristiana.

La terra ha una superficie di 5.400 miglia, quindi è immensa. Ma il sole è più grande (sempre secondo la falsa scienza astronomica antibiblica – ndr.-); esistono, tuttavia, astri celesti più grandi, (ancche se nessuno li ha mai visti… qui seguono false considerazioni astronomiche di stampo eliocentrico e antibiblico, che riteniamo di omettere perché non conformi alla dottrina biblico-cattolica – ndr. -). Dobbiamo aggiungere i miracoli di Gesù Cristo: la risurrezione di Lazzaro, il placarsi della tempesta, la liberazione dei tre giovani dalla fornace; gli innumerevoli miracoli di Lourdes; i numerosi corpi intatti dei Santi, ecc. Chi può raccontare le meraviglie del Signore e rendere pubbliche lle sue lodi? (Sal. CV, 2).

Poiché Dio è onnipotente, possiamo sperare nel suo aiuto nelle nostre necessità più urgenti.

Dio ha mille modi per aiutarci. Può, per esempio, mandare un Angelo, come Pietro in prigione, o fare un miracolo, come sul lago di Genezareth; ma, come regola generale, Dio usa i mezzi più deboli per aiutarci. È così che rivela la sua grandezza. Per salvare Giuseppe in Egitto, ha usato un sogno, per salvare Betulia, di Giuditta, una semplice donna. Non è più difficile per lui aiutare con pochi mezzi che con molti (I, Re XIV, 6).

7. DIO È SOVRANAMENTE BUONO, CIOÈ DIO AMA LE SUE CREATURE PIÙ DI QUANTO UN BUON PADRE AMI I SUOI FIGLIUOLI.

Dio ama le sue creature, cioè non vuole loro altro che il bene e non dà loro altro che il bene. Dio è l’amore stesso (I, S. Giovanni IV, 8 ). L’amore è essenziale alla sua natura. La sorgente può che produrre acqua, il sole solo luce! Dio non può non amare ed essere buono. La bontà di Dio è essenzialmente diversa dalla bontà delle creature“, dice Alb. Stoltz, come la luce di un muro illuminato dal sole è diversa dal sole stesso. Il muro è luminoso solo per la luce che comunica, mentre il sole è la luce stessa. Le creature sono buone, piene di amore, solo perché Dio comunica loro bontà e amore. Ma Dio non è solo buono, è la bontà, l’amore stesso. Per questo Gesù Cristo ha detto: “Nessuno è buono se non Dio solo”. (S. Marco X, 18).

1. L’amore di Dio si estende a tutte le creature. (Sap. XI, 25).

Il sole illumina gli immensi spazi del cielo e l’amore di Dio comprende tutte le creature. Neanche gli animali sono esclusi (S. Ephr.). Cristo stesso dice dei passeri: “Nessuno di loro è dimenticato da Dio” (S. Luc. XII, 6).

2. Dio ha un amore speciale per l’umanità, perché gli ha procurato innumerevoli benefici eccezionali, ha persino inviato suo Figlio per salvarl

I benefici che abbiamo ricevuto da Dio sono numerosi e degni di nota. “La sua bontà”, dice San Leone, “si riflette in noi come in uno specchio. Quali meraviglie ha messo nel nostro corpo: ci ha donato i sensi e il linguaggio, ha dotato la nostra mente di molte facoltà: intelligenza, libertà e memoria. Non ci ha forse dato per il nostro corpo: cibo, bevande, riparo, vestiti, salute, ecc.? Con quale bellezza non ha forse rivestito la terra per noi! La luce, il calore l’aria, il fuoco, l’acqua, le piante con i loro variegati frutti, gli innumerevoli animali, i pesci, gli uccelli, ecc. – Tutto questo lo ha creato per il nostro uso e godimento. E qual varietà c’è sulla terra: il susseguirsi delle stagioni, l’alternarsi del giorno e della notte, della pioggia e del sole. Quali forze Dio ha messo nella natura per usarle a nostro vantaggio: il magnetismo, l’elettricità, il vapore! Quali tesori ha nascosto per secoli nel seno della terra per l’umanità, giacimenti di carbone, miniere di sale, pietre e metalli preziosi, ecc.! Dio ha fatto veramente dell’uomo il Signore della creazione (Gen. I, 26), e così facendo ha dimostrato quanto lo ama. – Dio ci ama molto più di quanto amiamo noi stessi (S. Ign. L).

Il suo amore supera persino l’amore materno (Is. XLIX, 15), e l’amore di tutte le creature messe insieme non si avvicina all’amore di Dio per noi. La fonte del suo amore è sempre inesauribile, e rimane la stessa anche quando milioni di uomini la respingono. (S. Fr. S.). – Ma l’amore di Dio si manifesta soprattutto nel fatto che ci ha dato suo Figlio. “Dio ha tanto amato il mondo – ha detto Gesù Cristo – che ha dato il suo Figlio unigenito” (S. Giov. III, 16). Abramo ha dato a Dio la prova più eclatante del suo amore offrendogli un figlio. Dio ha fatto lo stesso per noi. Non c’è amore più amore più grande, dice Gesù Cristo, che dare la vita per i propri amici. (S. Giovanni XV, 13) e Cristo ha voluto soffrire sulla croce per mostrarci l’eccesso del suo amore. Tutto il comportamento del Crocifisso dimostra il suo grande amore per noi. Egli ha inclinato il capo come per baciarci, ha steso le braccia come per abbracciarci, ha aperto il suo cuore per racchiuderci nel suo amore (S. Aug.). Nel SS. Sacramento Gesù Cristo ha voluto anche perpetuare la sua presenza tra noi, nella Santa Comunione, vuole unirsi intimamente a noi. Infine Gesù Cristo ha promesso nella sua bontà di esaudire tutte le preghiere fatte nel suo nome (S. Giovanni XIV, 14).

3. Tra tutti gli uomini, Dio mostra il suo amore di preferenza per i giusti.

Un’anima perfetta è preferita da Dio a mille imperfette (S. Alf.). O quanto il Dio d’Israele è buono con i retti di cuore (Sal. LXXII, I). Li visita con grandi consolazioni interiori (Sal. XXX, 20); fa sì che i giusti abbiano successo in tutto. (Rom. VIII,28). Il Padre e il Figlio vengono ad abitare in loro per mezzo dello Spirito Santo (S. J. XIV, 23). Dio ricompensa le buone opere dei giusti ben oltre i loro meriti, li ricompensa al centuplo (S. Matth. XIX, 29), li ama, nonostante i loro piccoli difetti e le loro imperfezioni. Eegli è come una madre che ama il suo bambino con tenerezza e compassione, nonostante la sua debolezza e la sua cattiva salute. (S. Fr. de S.).

4. Dio testimonia il suo amore anche ai peccatori.

Fino all’ultimo respiro li ricopre di favori, nonostante le loro malefatte; fa splendere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e la sua pioggia cade sui giusti e sui peccatori. (S. Matth. V, 45). Se li fa soffrire, è per amore. Dio è un medico che taglia e brucia solo per guarire (S. Aug.). Dio ama i peccatori solo perché tutti hanno ancora qualcosa di buono in loro e possono essere convertiti prima di morire. Ma l’amore di Dio per i peccatori non è facile da mostrare; una calamita attira tutti i pezzi di bontà del mondo. Se la calamita attira le particelle di ferro vicino a sé, ma se c’è un oggetto tra di essa, la sua forza può ancora estendersi a quell’oggetto ma le particelle non lo toccheranno. – L’amore di Dio si rifiuta solo ai demoni e ai reprobi. Si manifesta anche all’inferno, perché i dannati soffrono molto meno di quanto meritino. (S. Th. d’Aq.) L’amore di Dio da loro rifiutato è proprio la fonte dei loro tormenti. Diranno: Ah, se Dio non mi avesse amato così tanto, l’inferno sarebbe sopportabile. Ma essere stato amato così tanto! Che tormento! (Il Curato d’Ars). Poiché Dio è così buono con noi, dobbiamo amarlo sopra ogni cosa (S. Giov. IV, 19). Non dobbiamo tremare davanti a Lui come davanti all’Onnipotente, né temerlo come degli schiavi, ma avvicinarci a Lui con fiducia filiale (Rom. VIII, 15). – E poiché Dio è così buono con noi, dobbiamo esserlo anche per i nostri simili e persino per tutte le creature (Efes. IV 92). Dio ci ha quindi dato i seguenti comandamenti: l’amore di Dio, l’amore per il prossimo, l’amore per i nemici, il compimento delle opere di misericordia, le opere di misericordia che siamo tenuti a compiere anche verso gli animali. – La bontà di Dio si manifesta in particolare con la sua longanimità e la sua misericordia.

8. DIO È INFINITAMENTE PAZIENTE, CIOÈ LASCIA AL PECCATORE IL TEMPO DI CONVVERTIRSI.

Gli uomini sono soliti punire immediatamente, ma non Dio. Egli sopporta lungamente la ribellione delle sue creature ed il disprezzo delle sue grazie, “non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva “. (Ezechiele XVIII, 27). Per questo ha spesso predetto i suoi castighi con molto anticipo, ed è solo con lentezza, come con esitazione, che li ha eseguiti

. Egli ha lasciato ai contemporanei di Noè 120 anni per la loro conversione, 40 giorni ai Niniviti, 37 anni agli abitanti di Gerusalemme. (S. Matth. XXIII, 37). I castighi di Dio cadono come una folgore, non da un cielo sereno, ma da un cielo che prima era coperto di nuvole e mostrava i segni di una tempesta. – Dio dimostra la sua longanimità con la parabola del fico sterile (S. Luc. XIII). Se Dio non fosse Dio sarebbe ingiusto per la sua eccessiva pazienza con i peccatori. (S. Aug.). L’attività di Dio è l’opposto di quella dell’uomo: a questi ci vuole molto tempo per costruire e un attimo per distruggere; Dio, al contrario, crea in un batter d’occhio, ma è lento a distruggere; ha creato il mondo in 6 giorni e ha assegnato 7 giorni alla rovina di Gerico. (S. Giov. Chr.) Anche l’uomo non demolisce subito la sua casa se vi trova un difetto, la lascia in piedi e cerca di ripararla: Dio agisce così con l’uomo (S. Bern.).

Dio è così paziente perché ha pietà della nostra debolezza, e perché vuole rendere più facile la conversione del peccatore.

Dio agisce come una madre con il suo bambino recalcitrante. Invece di colpirlo, lo stringe più forte al suo cuore e lo accarezza fino a quando non sia calmato (Hunolt). – Dio ti risparmia perché tu possa convertirti, non perché tu rimanga nel tuo peccato (S. Aug.). Non sapete che la bontà di Dio vi porta alla penitenza? alla penitenza! (Rom. II, 4). Dio ha pazienza per noi solo perché vuole vederci tutti fare penitenza (II, S. Pietro III, 9.) Molti peccatori non hanno abusato della longanimità di Dio, perché tanti grandi peccatori si sono convertiti e sono diventati grandi Santi: Maria Maddalena, Agostino, Maria egiziaca e così via. Dopo la loro conversione hanno fatto più opere di giustizia di quante ne avessero fatte prima di aver commesso iniquità. (S. Aug.). Ma nonostante la pazienza longanimità di Dio, alcuni peccatori non si convertono; lo stesso raggio di luce solare agisce in modo diverso su oggetti diversi: ammorbidisce la cera e dissecca l’argilla mattone, e così la pazienza di Dio fa tornare alcuni e indurisce altri. – Se Dio non fosse paziente, pochi si salverebbero. Se Dio non fosse paziente, pochi si salverebbero, perché noi siamo tutti peccatori e se alcuni impiegano più tempo di altri a lasciare il peccato, noi tutti ci mettiamo molto a correggerci completamente. Se Dio eliminasse subito i peccatori, lo serviremmo meno per amore che per timore (Sant. Brig.) – Anche se Dio è misericordioso, è molto pericoloso rimandare la conversione, perché l’ira scoppia all’improvviso (Ecclesiastico V. 9) come nella parabola del fico. (S. Luc, XIII). Il ritardo causato dalla pazienza è compensato dalla severità della punizione. Più la punizione è ritardata, più è violenta, così come l’arco scocca la freccia con tanta più forza quanto più a lungo è stata legata la corda. (S. Aug.). Ne vediamo un esempio nella terribile fine del crudele Antioco Epifane (II, Maccab. IX).

9. DIO È INFINITAMENTE MISERICORDIOSO, CIOÈ PERDONA VOLENTIERI LE NOSTRE COLPE QUANDO CE NE PENTIAMO SINCERAMENTE.

Questa grande misericordia è rappresentata da Gesù Cristo nella bellissima parabola del figliol prodigo. (S. Luc. XV). Non appena Davide, sotto l’ammonimento del Profeta, Nathan, aveva confessato il suo crimine, Nathan gliene annunciò la remissione. (II Re XII, 13). Non appena il dolore di aver peccato si impadronisce del peccatore, il Signore è soddisfatto (S. Lor. Giustin.) È proprio di Dio avere pietà e perdonare. (Messa per i defunti). La misericordia di Dio è infinita: l’oceano ha dei limiti,

ma la misericordia di Dio non conosce limiti. (S. Giov. Cr.) Dio ci chiede di perdonare il nostro prossimo settanta volte sette; quanto deve essere grande la sua misericordia!

Dio manifesta la sua misericordia ricercando il peccatore con la sofferenza ed i benefici, ed accogliendo amorevolmente i più grandi peccatori, e mostrando loro più amore dopo la loro conversione che prima.

Dio è il buon pastore che segue la pecora smarrita finché non la ritrova. (S. Luc. XV). Dio manda la sofferenza al figliol prodigo; a Davide, un profeta; Gesù Cristo guarda Pietro per commuoverlo e parla con la Samaritana al pozzo di Giacobbe per convertirla. Dio assomiglia a un pescatore o a un cacciatore che escogita ogni sorta di trucchi ed esche per attirare i pesci o gli uccelli nelle sue reti. (L. de Gren). – Dio perdona i più grandi peccatori: “Se. – Egli dice – i vostri peccati fossero come scarlatto, io li farei diventare bianchi come la neve; e se fossero rossi come la porpora, li farei diventare bianchi come la lana.” (Is. I, 18). Quanto più grande è il peccato, più il Signore è accogliente, se il peccatore vuole convertirsi. Così diceva Davide: Signore siatemi propizio, perché numerosi sono i miei peccati (Sal. XXIV, 11). Dio è come un pescatore la cui gioia aumenta con la grandezza dei pesci che prende. Egli trae maggior onore dal perdono concesso agli uomini che, a causa del numero e la gravità dei loro peccati sembrando quasi indegni. “Nessuno è dannato per aver fatto troppo male, ma molti sono all’inferno per un solo peccato di cui non hanno voluto fare ammenda”. (Curato d’Ars). Fate tutto ciò che potete, Dio farà tutto ciò che può per riconciliarsi con voi. (S. Giov. Cr.). Anche Giuda sarebbe stato perdonato, se avesse voluto. – Dio a volte perdona all’ultimo momento, come dimostra il Buon Ladrone. Ma nessuno deve rimandare la sua conversione fino ad allora: Dio ha giustificato uno di loro all’ultimo momento perché nessuno si disperasse, ma solo uno perché nessuno rimandasse la sua conversione fino alla morte. (S. Aug.). Le conversioni sul letto di morte sono sempre dubbiose, perché l’esperienza ci insegna che in quel momento i peccatori promettono e, appena guariti, non mantengono nulla: è il caso dell’empio Voltaire. In punto di morte i peccatori difficilmente si convertono se non loro malgrado. Essi sono come i marinai che in caso di pericolo di naufragio, gettano in mare il loro carico per necessità, ma non per repulsione per il carico stesso. “È ridicolo chi, forte e giovane, si è rifiutato di combattere e poi, debole ed impotente, vuole finalmente essere portato sul campo di battaglia. Dio accoglie con amore il peccatore pentito. Quale non fu la bontà di Gesù Cristo verso la Maddalena nella casa di Simone (S. Luc. VIl), nei confronti della donna peccatrice che i farisei gli portarono nel tempio (S. Giov. VIII), verso il buon ladrone (S. Luc. XXIII)! Quanto affettuosa l’accoglienza riservata al figliol prodigo dal padre: e quel padre è Dio (Lc. XV). Dio è più pronto a perdonare il peccatore che il peccatore a ricevere il perdono. (S. Aug.). Prima che il supplicante si avvicini alla porta, Lui già l’apre. Signore, prima che egli si prostri davanti a Voi, gli avete già teso la mano (S. Ephr.). Dio si rallegra anche della conversione del peccatore; in cielo, dice Gesù Cristo, c’è più gioia nella conversione di un peccatore che nella perseveranza dei giusti che non hanno bisogno di perdono (S. Luc. XV, 7). Questa gioia deriva dal fatto che i peccatori convertiti di solito servono Dio con più zelo e lo amano con più ardore (S. Gregorio Magno). – Dio di solito tratta il peccatore dopo la conversione con più benevolenza di prima. Il padre del figliol prodigo fece preparare per lui un sontuoso banchetto al suo ritorno; questo padre è Dio (S. Luc. XV). Dio visita ogni convertito con consolazioni interiori. Lo riempie di grazie come S. Paolo che fu rapito al 3° cielo. (II Cor. XII, 2.). Quando gli uomini perdonano coloro che li hanno offesi, non li amano più come prima. Dio agisce in modo diverso. Stima di più colui che torna a Lui che colui che rimane indietro. (S. P. Dam.) Per questo S. Aug. chiama il peccato originale una colpa felice.

10. DIO È INFINITAMENTE SANTO, CIOÈ AMA IL BENE E DETESTA IL MALE. (Prov. XV.).

I pagani immaginavano i loro dèi come pieni di difetti e protettori dei vizi. Non è così per il vero Dio: Egli è puro da ogni macchia ed odia ogni tipo di male nelle sue creature. La santità di Dio non è altro che il suo amore per le sue infinite perfezioni. – Chi ama la pulizia cerca di essere lui stesso libero da ogni macchia e di mantenere pulito tutto ciò che lo circonda (la sua casa, la sua stanza, la sua i suoi libri, ecc.). Lo stesso vale per Dio: egli è puro da tutto e vuole che anche le sue creature lo siano. Quanto è puro l’azzurro del cielo che non è turbato da alcuna nube. Quanto è pura una veste candida senza un granello di polvere. Eppure Dio è ancora più puro. La santità di Dio degli Angeli e dei Santi è come la luminosità del sole rispetto alla luce di una lampada. Dio trova macchie anche negli Angeli (Giobbe, IV, 18).

La nostra giustizia, Signore, è davanti a te come un telo impuro” (Isaia LXIV, 6). Gli stessi Angeli del cielo lodano la santità di Dio (Isaia VI, 3), e la santa Chiesa dice giustamente nelle sue preghiere: “Tu solo, Signore, sei santo! – Dio vuole che anche noi, sue creature, siamo liberi da ogni contaminazione. Siate santi”, ci dice, “come io sono santo”. (III Mos. XI, 14). Per questo ha la legge naturale nell’anima di ogni uomo (coscienza); per questo ha rivelato la sua volontà agli uomini sul Monte Sinai e ha attribuito felici conseguenze alle buone azioni e conseguenze infelici alle azioni cattive. Per purificare gli uomini dalle loro colpe, manda loro delle sofferenze; è come il giardiniere che pota la vite per farla fruttificare. (S. Giovanni XV, 2). Inoltre li purifica anche nel purgatorio, perché nulla di impuro può entrare nel cielo. (Apoc. XXI, 27). I Santi e gli Angeli sono rappresentati con vesti bianche come la neve ed anche i neobattezzati sono vestiti di bianco. – Siate santi e puri e sarete i preferiti di Dio.

11. DIO È INFINITAMENTE GIUSTO, CIOÈ RICOMPENSA TUTTO CIÒ CHE È BUONO. E PUNISCE TUTTO CIÒ CHE È CATTIVO.

o è infinitamente giusto, cioè ricompensa tutto ciò che è buono e punisce tutto ciò che è cattivo.

ricompensa tutto ciò che è buono e punisce tutto ciò che è

male.

La giustizia di Dio non è altro che la sua bontà. Dio punisce l’uomo solo per renderlo migliore, cioè più felice. “Dio è giusto perché è buono”. (Clém. AL).

1. Dio premia e punisce gli uomini in parte già quaggiù, ma la sua giustizia si perfeziona solo dopo la morte.

Già quaggiù, le buone azioni danno all’uomo onori, ricchezza, salute e coscienza tranquilla, (Salmo CXVIII, 165). Le azioni cattive producono il contrario. Noè, Abramo e Giuseppe hanno già ricevuto parte della loro ricompensa qui sulla terra; i figli di Eli e Assalonne hanno ricevuto la loro punizione. La giustizia perfetta si esercita solo nel giudizio successivo alla morte. Dopo la risurrezione, il corpo stesso parteciperà alla ricompensa o al castigo. – Se Dio punisse tutte le colpe commesse già in questa vita, gli uomini crederebbero che nulla è riservato per l’ultimo giudizio, e se non ne punisse nessuna, non crederebbero nella sua provvidenza (S. Aug.).

2. Dio premia la più piccola azione buona e punisce il più piccolo dei peccati.

Cristo promette di ricompensare un bicchiere d’acqua fresca dato ad uno dei suoi. (S. Marco IX, 40). Dio ricompensa persino uno sguardo alzato verso di Lui (Ste Teeresa).

“Vi dico – dichiara Cristo – che nel giorno del giudizio gli uomini renderanno conto di ogni parola inutile”. (S. Matteo XII, 36).

3. Dio punisce generalmente l’uomo là dove ha peccato.

Ciò che è stato usato per il peccato sarà usato per il castigo. (Sap. XI, 17) “Sarete ripagati”, dice Cristo, nella misura con cui avrete trattato gli altri” (S. Math. VII, 2). Assalonne era orgoglioso dei suoi capelli; fu la causa della sua caduta. Il cattivo uomo ricco peccò di più con la lingua, è questa che viene punita di più all’inferno. Il re d’Egitto aveva costretto gli Israeliti a gettare tutti i loro figli maschi nel Nilo e questo stesso re d’Egitto perì tra le onde del Mar Rosso con tutti gli uomini in grado di portare le armi. Il re Antioco, che aveva fatto uccidere Eleazar e i 7 fratelli Maccabei per la loro fedeltà alla religione, fu divorato dai vermi (II Mach. IX, 6). Ai due ladroni crocifissi con N. S. che erano stati assassini, furono spezzate le gambe. Aman, il ministro del re di Persia, aveva voluto impiccare lo zio di Ester, perché si era rifiutato di inchinarsi a lui, e il re fece impiccare Aman proprio sul patibolo che aveva preparato. (Ester V.) Le madri di Betlemme rifiutarono l’ospitalità alla Madre di Dio: fu una crudeltà contro il Figlio di Dio, presto punita dalla crudeltà di Erode contro i loro stessi figli. (S. Matth. II, 16). Nell’anno 70, gli abitanti di Gerusalemme furono puniti per le torture che avevano inflitto a Cristo. Molte migliaia di ebrei furono crocifissi dai soldati romani. (Quasi 500 furono giustiziati ogni giorno per 6 mesi). E 2.000 ebrei furono trasportati a Roma da Tito, vestiti con le vesti bianche dei pazzi. Napoleone 1° subì quanto aveva inflitto a Pio VII e fu prigioniero due volte. Molti dicono: “Si tratta di semplici coincidenze”, ma il Cristiano fedele vi riconosce il dito di Dio. (S. Aug.).

4. Nei suoi castighi e nelle sue ricompense, Dio prende in considerazione le situazione di ogni uomo, soprattutto delle sue intenzioni e dei suoi talenti.

Chi fa il bene per essere lodato dagli uomini non sarà ricompensato da Dio. (S. Math. VI, 2). Gli uomini giudicano secondo le apparenze, ma Dio guarda il cuore (I Re XVI 7). – Ecco perché la povera vedova che gettò 2 denari nel tesoro del tempio ha avuto un merito maggiore davanti a Dio rispetto a tutti i ricchi che avevano gettato il superfluo (S. Luc. XXI). Lo schiavo che, avendo conosciuto la volontà del suo padrone fa il male, riceverà più colpi dello schiavo che l’ha ignorava (S. Luc. XII, 47); cioè quanto più perfetta è la conoscenza di Dio, tanto più grave è il peccato.

5. Dio non ha riguardo per le persone (Rm II).

Molti di coloro che erano primi sulla terra saranno ultimi nell’altra vita. (S. Math. XIX, 30). È la storia del ricco malvagio e del povero Lazzaro.

Anche gli angeli furono riprovati. Molti di coloro ai quali oggi vengono erette statue, saranno infelici dopo la loro morte. Molti uomini hanno i loro nomi brillantemente scritti nel libro della storia, che saranno cancellati dal libro della vita custodito da Dio.

Essendo Dio sovranamente giusto, dobbiamo temerlo.

Temete colui – ci dice Cristo – che è in grado di gettare anima e corpo nel fuoco dell’inferno”. (S. Math. X, 18). Un solo peccato, il peccato originale, è la causa della morte e della sofferenza di tutta l’umanità e la dannazione eterna di molti. Da questo possiamo concludere quanto Dio sia giusto e quanto siano terribili le pene del Purgatorio. Possiamo trarre la stessa conclusione dalla crocifissione di N. S.. Chi dunque non teme Dio? – Ma il nostro timore di Dio non deve essere servile, ma filiale (Rom. VIII, 15), cioè dobbiamo temere meno di essere puniti da Dio che di offenderlo. “Chi fa il bene solo per paura del castigo, non ha ancora abbandonato completamente il peccato”. (San Gregorio Magno). Il timore filiale si trova solo con un grande amore per Dio, perché l’amore perfetto scaccia il timore servile. (San Giovanni, IV, 18). 11 Tuttavia, per paura del castigo occorre fare ciò che non facciamo ancora per amore della santità (S. Aug.).

Il timore di Dio ci dà grandi vantaggi: ci tiene lontani dal peccato, ci conduce alla perfezione e ci conduce alla felicità temporale ed eterna.

Il timore di Dio elimina il peccato (Sap. I, 27). Ha impedito al vecchio Eleazar di toccare le carni proibite. “Se”, disse, “ora sfuggissi ai tormenti degli uomini, non potrei sfuggire né vivo né morto alla mano dell’Onnipotente”. (II Macc. VI, 26). Chi teme il Signore, sfugge agli inseguimenti dello spirito maligno (S. Ephr.). Chi teme il Signore non teme nulla (Sap .. XXXIV, 16); abuserà dei suoi sensi tanto poco quanto un uomo crocifisso non si muove per paura di aumentare le sue sofferenze (S. Bas). Il vento disperde le nubi e il timore di Dio, la concupiscenza della carne (San Bernardo). Chi teme Dio si libera delle preoccupazioni del mondo, come un marinaio getta in mare il suo carico per paura del naufragio (S. Greg. M.). – Il timore di Dio preserva la virtù come il muro di cinta protegge la vite. (Luigi de Gr.). Essa è la gioia della virtù ed è simile alla

sentinella armata che sorveglia una casa per timore dei ladri (S. Giov. Chris.). Come l’ago buca il tessuto e apre la strada al filo di seta, così il timore di Dio apre la strada all’amore. (S. Aug. S. Fr. de S.). – Il timore del Signore è l’inizio della sapienza (Sal. CX, 10). Il timore degli uomini è misto ad amarezza, quello di Dio è pieno di dolcezza; questo rende l’uomo schiavo, l’altro lo rende libero (Cassiod.). Il timore di Dio è accompagnato da onore e gloria. Esso è coronato da gioia e letizia, rallegra il cuore e la mente. (Sap. 1, 11). Felice l’uomo che teme il Signore (Sal. CXI, 1). Dio sarà tanto meno da temere nel giudizio se lo abbiamo temuto in questa vita (S. Greg. Gr.).

Il timore di Dio è una grazia molto speciale.

Io, dice il Signore, metterò il mio timore nei loro cuori, affinché non si allontanino da me. (Ger. XXXII, 40). Preghiamo dunque come Davide: “Signore! Trafiggete la mia carne con il timore del vostro volto” (Sal. CXVill, 120). Il timore di Dio è uno dei sette doni dello Spirito Santo.

12. DIIO È INFINITAMENTE VERITIERO, CIOÈ EGLI RIVELA SOLO LA VERITÀ. (s. Giovanni VIII, 26).

Dio non può ingannare se stesso né può ingannare noi. Egli non può sbagliare, perché è onnisciente. Non può mentire, perché è infinitamente santo. “Colui che ha proibito così severamente la menzogna, non può commetterla” (S. Clém. Rom.). Dio non è come un uomo capace di mentire; non è come il figlio dell’uomo capace di cambiamento (Numeri XXIII, 19). Dobbiamo quindi credere alla Parola di Dio, anche alle verità che la nostra debole ragione non può afferrare, ad esempio i misteri della nostra santa Religione: la Santa Trinità, l’Incarnazione, la Presenza Reale.

13. DOO È INFINITAMENTE FEDELE, MANTIENE TUTTE LE SUE PROMESSE E COMPIE TUTTE LE SUE MIINACCE.

La fedeltà di Dio non è altro che la sua veridicità rispetto alle sue promesse.. – Le minacce di Dio nel Paradiso (Genesi II, 17) sono state adempiute alla lettera, così come è stata adempiuta alla lettera la promessa del Redentore. (ibid. III, 15); allo stesso modo, la minaccia di Gesù Cristo contro Gerusalemme si è realizzata alla lettera nell’anno 70. (S. Math. XXIV). Il suo tempio secondo Daniele (IX, 27) non deve essere ricostruito fino alla fine dei tempi. Ora, Giuliano, l’apostata, iniziò la ricostruzione nell’anno 361, ma dei terremoti distrussero le prime fondamenta e le fiamme che si alzavano dal suolo dispersero gli operai. – Dio spesso usa promesse e minacce per smuovere la nostra volontà indebolita. Gesù Cristo ci mostra continuamente la ricompensa o la punizione eterna. Le nature sensuali e rozze hanno bisogno di queste minacce, esse si lasciano guidare solo dalla paura, proprio come certi animali si lasciano domare solo dalla frusta. Dio, invece, minaccia solo per bontà. Un uomo che grida “Attenti!” dimostra con questo che non vuole colpirvi. Dio fa lo stesso: minaccia di punire per non essere obbligato a punire. (S. Aug.).

Tutto ciò che Cristo e i Profeti hanno predetto, e che non si è ancora avverato, si compirà.

Non ci sarà quindi mai un momento in cui la Chiesa non esisterà più, in cui il Papato sarà distrutto. (S. Math. XVI, 18). Il tempio di Gerusalemme non sarà mai ricostruito (Dan. IX, 27). Gli Ebrei si convertiranno alla fine dei tempi (Sal. III, 5). Il Giudizio Universale sarà preceduto da terrificanti prodigi in cielo e in terra (S. Math. XXiV, 29). Cristo risorgerà un giorno (S. Giov. V, 28) e ci giudicherà. (S. Math. XXV, 32). Inoltre il Cristo ci ha detto: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”. (S. Math. XXIV, 35). Se ci fidiamo di un uomo perché ha messo la sua firma su un documento, quanto più dovremmo confidare in Dio che ha riempito con le sue promesse tutta la Santa Scrittura. (S. Pt. Cris.).

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (15)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (15)

FRANCESCO OLGIATI:

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUINTO (4)

IV. – LE SCONFITTE

Nei fasti della fede cristiana è rimasta memoranda la vittoria della Serbia contro i Turchi nel 1456. Da quattro mesi Belgrado era assediata ed il Sultano ordinò un supremo e disperato attacco. Dopo ventiquattro ore di lotta accanita, i cittadini, stanchi e sfiduciati, stavano per capitolare, quando un umile francescano, alzando un crocifisso, si mise ad incuorare i vacillanti ed a pregare Dio e la Vergine. Alle parole di san Giovanni da Capistrano, gli assediati ritrovarono le loro energie e con impeto irruente sferrarono un nuovo attacco contro i nemici, che furono sbaragliati. Non quattro mesi di assedio, né un giorno di battaglia, ma una vita intera di combattimento noi dobbiamo sostenere. E se sulle labbra nostre e nel cuore torna sempre fresca la parola d’ordine di Sobieski, che a Vienna, nel 1683, gridava ai suoi soldati: « Andiamo incontro al nemico con piena fiducia nella protezione del cielo », è però anche vero che tutti sentiamo le difficoltà del conflitto continuo e talvolta esasperante. Ed ora v’è una battaglia campale da affrontare, ora una minuscola scaramuccia da vincere. Ora è il canto della vittoria che si eleva, ora è la vergogna della sconfitta che ci rattrista. Spesso, in una sola giornata, si uniscono insieme trionfi e disfatte, tentazioni superate e colpe commesse. A queste ultime dobbiamo dedicare una breve riflessione. -“La morale cattolica le chiama « peccati »; la filosofia cristiana le definisce: « Aversio a Deo et conversio ad creatura », un allontanarsi cioè da Dio ed un volgersi alle creature. Noi perciò, le guarderemo come sono in realtà, vale a dire uno schiaffo all’Amore divino in nome dell’amore dei beni perituri e fugaci.

1. – Diversi generi di sconfitte

Per procedere con ordine, converrà distinguere le nostre

L sconfitte morali in tre categorie: i peccati mortali, i peccati veniali, le imperfezioni. Questa distinzione fu apertamente rifiutata da Lutero e da Calvino, per i quali ogni peccato è di sua natura mortale. Ma essi, evidentemente, esagerano. Tutti comprendono quale differenza vi sia tra un figlio che uccide suo padre, un figlio che disubbidisce in una piccola cosa e un altro che, ad un comando improvviso, risponde con uno scatto inavvertito. Non si possono porre sopra un medesimo piano il parricidio, la disubbidienza e la debolezza di un carattere impulsivo, come non possono essere catalogate insieme, quasi fossero eguali, la morte, una malattia ed una leggera indisposizione. – Per portare un paragone, ricorderemo il fatterello gustoso capitato ad un geniale giornalista ed umorista italiano, Luigi Arnaldo Vassallo, detto Gandolin. Un bel dì un autore inedito riescì a bloccarlo e ad infliggergli la lettura di un voluminoso copione. L’autore tartagliava terribilmente. E Gandolin, dopo d’averlo ascoltato un bel po’, lo interruppe: — Questa di far tartagliare tutti i personaggi è davvero una trovata. Io credo che avrà successo. L’altro, sdegnato, rispose: — Lei si sbaglia. Non sono i personaggi che tartagliano, sono io. — Allora mi dispiace, ma non c’è da sperare niente di buono. Ecco. Il peccato veniale può essere appunto paragonato ad una persona balbuziente. Non è la parola scorrevole e piana, è un balbettio; ma il senso di quanto si dice, c’è ancora; c’è ancora, cioè, il significato cristiano in una vita, quantunque lo si esprima tartagliando. Che una persona balbetti, è un male; ma il male è molto peggiore ed essenzialmente diverso, se dovessimo pronunciare parole senza connessione, come avvenne — è un altro umorista che lo assicura — tra due amici che discorrevano così: — Tu sei miope o scemo? — Io sono di Novara. — Allora siamo contemporanei. Ah, voi ridete?! Eppure quante volte la vostra vita cosiddetta cristiana è un succedersi di azioni, che sono così poco organizzabili fra loro, come le parole di questo dialogo curioso!…

2. – Il peccato mortale e il peccato veniale.

Io non mi soffermerò sulle nozioni elementari del catechismo, il quale ci insegna come il peccato mortale sia una violazione della legge morale in cosa grave, fatta con piena avvertenza della mente e con deliberato consenso della volontà, mentre invece il peccato veniale è una violazione della legge morale in cosa leggera, o anche in cosa per sè grave ma senza tutta l’avvertenza o tutto il consenso. La colpa grave si chiama mortale, perché priva l’anima della grazia soprannaturale che è la sua vita, le toglie i meriti e la capacità di acquistarne dei nuovi, e la rende degna della morte eterna nell’inferno. L’altro genere di peccato, poi, si chiama veniale, cioè perdonabile, perché non toglie la grazia e può aversene il perdono col pentimento e con buone opere, anche senza la Confessione sacramentale. – Ciò che in questi lineamenti di etica cristiana importa sottolineare, è il fatto che col peccato mortale noi ci ribelliamo a Dio e calpestiamo il suo Amore, immolandolo al nostro piacere; la colpa grave, in altre parole, è la negazione dell’amore divino. Il peccato veniale certo è un disordine ed un male, al cui confronto tutti gli altri non meritano il nome di mali, perchè è sempre un’offesa a Dio; è dannoso all’anima in quanto la dispone al peccato grave, come la malattia, pur non togliendo la vita, dispone alla morte; ci procura pene temporali in questo e nell’altro mondo; tuttavia non esclude totalmente l’amore di Dio, ma è soltanto un raffreddamento nell’amore. Come il soldato che si facesse disertore non potrebbe più parlare d’amore di patria, mentre, quando commette una leggera infrazione alla disciplina militare, può asserire ancora di amare il suo paese, quantunque non lo ami con tutto il suo cuore e quantunque sbagli; così noi, militi del grande esercito dell’umanità, possiamo ribellarci al nostro Re supremo (peccato mortale) e possiamo venir meno all’amore pieno che Egli giustamente esige da noi (peccato veniale). – In linea pratica, come si distingue la colpa grave dalla veniale? Soggettivamente, è alla nostra coscienza che bisogna rivolgerci, per vedere se, quando facciamo un’azione cattiva, abbiamo la consapevolezza piena che essa era un peccato mortale e ciononostante l’abbiamo liberamente compiuta. – Oggettivamente, esaminando l’azione in se stessa, spesso non è difficile cogliere la gravità o meno d’una colpa. Così. a tutti appare chiaro che sono peccati mortali la bestemmia, l’odio di Dio e del suo Cristo, l’omicidio, la profanazione del coniugio, le abbominazioni che hanno già fatto piovere fuoco sulla terra prevaricata, il furto di una grossa somma e via dicendo. Talvolta è la Scrittura stessa che dichiara grave un peccato. Sempre poi abbiamo la Chiesa, maestra della morale, che ci guida e ci illumina anche in questo campo. – Per giudicare, comunque, un peccato, bisogna considerare l’azione non in astratto, ma nella sua concretezza, tenendo calcolo delle circostanze e delle contingenze fra le quali essa cresce. – Ad esempio, si prenda il precetto della Chiesa, che, sotto pena di peccato mortale, comanda di assistere alla Messa nelle domeniche e nei giorni festivi. Può, a prima vista, sembrar strano che sia una colpa grave perdere una Messa: eppure, se si esamina il precetto nel complesso della vita cristiana, nulla v’è di più chiaro. « La santificazione del giorno del Signore — spiega il Manzoni nella sua Morale Cattolica — è uno di que’ comandamenti che il Signore stesso ha dato all’uomo. Certo, nessun comandamento divino ha bisogno d’apologia; ma non si può a meno di non vedere la bellezza e la convenienza di questo, che consacra specialmente un giorno al dovere più nobile e più stretto, e richiama l’uomo al suo Creatore. « Il povero, curvato verso la terra, depresso dalla fatica, e incerto se questa gli produrrà il sostentamento, costretto non di rado a misurare il suo lavoro con un tempo che gli manca; il ricco, sollecito per lo più della maniera di passarlo senza avvedersene, circondato da quelle cose in cui il mondo predica essere la felicità e, stupito ogni momento di non trovarsi felice, disingannato dagli oggetti da cui sperava un pieno contento, e ansioso dietro agli altri oggetti de’ quali si disingannerà quando li abbia posseduti; l’uomo prostrato dalla sventura, e l’uomo inebbriato da un prospero successo; l’uomo ingolfato negli affari, e l’uomo assorto nelle astrazioni delle scienze; il potente, il privato, tutti insomma troviamo in ogni oggetto un ostacolo a sollevarci alla Divinità, una forza che tende ad attaccarci a quelle cose per cui non siamo creati, a farci dimenticare la nobiltà della nostra origine e l’importanza del nostro fine. E risplende manifesta la sapienza di Dio in quel precetto che ci toglie alle cure mortali per richiamarci al suo culto, ai pensieri del cielo; che impiega tanti giorni dell’uomo indotto nello studio il più alto e il solo necessario; che santifica il riposo del corpo, e lo rende figura di quel riposo d’eterno contento a cui aneliamo e di cui l’anima nostra sente d’esser capace; in quel precetto che ci riunisce in un tempio, dove le comuni miserie e i comuni bisogni, ci fanno sentire che siamo fratelli. – La Chiesa, conservatrice perpetua di questo precetto, prescrive a’ suoi figli la maniera d’adempirlo più ugualmente e più degnamente. E tra i mezzi che ha scelti, poteva mai dimenticare il rito più necessario, il più essenzialmente cristiano, il Sacrificio di Gesù Cristo, quel Sacrificio dove sta tutta la fede, tutta la scienza, tutte le norme, tutte le speranze? Il Cristiano che volontariamente s’astiene in un tal giorno da un tal Sacrificio può mai essere un giusto che viva della fede? Può far vedere più chiaramente la noncuranza del precetto divino della santificazione? Non ha evidentemente nel cuore un’avversione al Cristianesimo? Non ha rinunziato a ciò che la fede rivela di più grande, di più sacro e di più consolante? Non ha rinunziato a Gesù Cristo? Pretendere che la Chiesa non dichiari prevaricatore chi si trova in tali disposizioni, sarebbe un volere che dimenticasse il fine per cui è istituita, che ci lasciasse ricadere nell’aria mortale del gentilesimo ».

3. – Le imperfezioni.

Da non confondersi col peccato sono le nostre imperfezioni, le quali, per la nostra natura corrotta, ci orientanonbensì verso l’umano, distogliendoci dall’amore divino, ma non sono offese formali di Dio, in quanto si riducono ad una semplice trasgressione non colpevole d’un precetto. Quanti difetti e capricci nostri, quante inclinazioni, curiosità, futilità, quante parole precipitate, quante preferenze e noncuranze, non sono peccati veniali, perchè non ce ne accorgiamo neppure mentre agiamo, e tuttavia sono imperfezioni! – I santi, nel loro amore fervido per Dio, cercavano in tutti i modi di vincerle, a poco a poco; e noi non ci meravigliamo se la grande Capitanio lasciò dopo la sua morte fogli e quaderni con i suoi minuziosi esami di coscienza, rivolti a togliere non i peccati, ma le sue imperfezioni; o se un Lacordaire giunse a usare certi metodi, che possono sembrare esagerati a chi non ha nessuna cura della formazione spirituale. Narra il suo biografo, il padre Chocarne, che un giorno il grande oratore manifestò al Priore del suo convento un difetto. « Ogni volta — gli disse — che vengo interrotto nelle mie occupazioni e mi sento bussare l’uscio non so signoreggiarmi in maniera da non provare un moto spontaneo di dispetto. Vorrei pertanto correggermi. Quando voi giudicherete opportuno, a qualunque ora, entrerete nella mia cella senza picchiare; e se scoprirete sul mio volto un segno di malumore, mi darete la disciplina ». « Sì, Padre farò così ». In quel giorno medesimo, per mettere a prova il suo penitente, il Priore entrò bruscamente in camera di Lacordaire. Questi subito si mise in ginocchio dinanzi a lui. « Ma Padre, io non ho veduto nulla ». « Voi non avete visto la mia impazienza, rispose il colpevole scoprendosi le spalle, ma io l’ho sentita ». E il castigo venne dato. Se simili esempi si meditassero, noi non constateremmo nella società attuale certi caratteri, che sono veramente caratteracci, incapaci di dominarsi e nati per rammentare ai disgraziati che li avvicinano come una delle opere di misericordia spirituale è quella di « sopportare pazientemente le persone moleste ». Sovente la infelicità umana proviene da piccolezze, come i più disastrosi incendi derivano da una scintilla.

4. – Il peccato e l’amare.

Se dovessimo ora approfondire il concetto di « peccato » nella morale cristiana, non dovremmo limitarci ad illustrare i punti di vista, dai quali anche in un ordine puramente naturale converrebbe porsi. È certo, ad esempio, che, dal punto di vista di Dio, il peccato è la ribellione alla volontà divina, è la rottura della razionalità, ossia è la negazione di Dio stesso, ed ha una gravità proporzionata alla divinità offesa; dal punto di vista della società, il peccato è turbamento dell’ordine ed ha conseguenze indefinite, che durano anche dopo la colpa commessa; dal punto di vista nastro, il peccato è la distruzione o la diminuzione della nostra dignità e la nostra rovina. Ma se noi partiamo dalla concezione dell’Amore soprannaturale di Dio verso di noi, l’enormità del peccato è ben più manifesta.

1. Noi, per la grazia che Gesù Cristo ci ha meritato, siamo stati elevati alla dignità di figli di Dio. Uniti a Gesù, nostro capo, vivificati dallo Spirito Santo, che esulta nei nostri cuori, possiamo dire con verità al Padre la dolce parola: Padre nostro. Il peccato distrugge questa nostra grandezza. È la ribellione dei figli all’amore del Padre. È il capolavoro dell’Amore infinito, che viene sciupato.

2. Incorporati a Cristo, costituiamo con Lui un unico organismo e, di conseguenza, come vedemmo, non siamo avulsi dagli altri credenti, ma formiamo con essi un unico corpo mistico, dove se il bene di uno è il bene di tutti (dogma della Comunione dei santi), il male di uno si ripercuote su tutti gli altri. Il peccato, in ultima analisi, è una negazione dell’amore del prossimo.

3. Soprattutto poi è un’offesa all’amore di Gesù Cristo per noi.

Noi siamo uniti a Cristo e viviamo della sua vita. Siamo le membra di Cristo. Quando pecchiamo, — è san Paolo che ce lo proclama, — noi profaniamo Gesù Cristo in noi, e delle membra d’un Uomo-Dio facciamo le membra d’un infame. E prosegue l’Apostolo: « Non sapete voi, dunque, che siete il tempio di Dio e che lo Spirito Santo abita in voi? Se qualcuno violerà il tempio di Dio, Dio lo perderà. Poiché santo è il tempio di Dio e questo tempio siete voi ».

4. È forse necessario aggiungere che col peccato veniamo meno anche all’amore che dobbiamo a noi stessi? Vedremo in seguito la sanzione della colpa e le pene del peccato, temporali ed eterne. Si capisce, quindi, l’orrore dell’anima cristiana per la colpa; si comprende come l’elogio più bello di san Giovanni Crisostomo venga riposto non nelle lodi suscitate dalla sua meravigliosa eloquenza, ma dalla parola del cortigiano di Eudossia all’imperatrice adirata contro il Vescovo di Costantinopoli: « Giovanni Crisostomo non teme nulla, eccetto il peccato mortale »; si spiega il grido della Regina Bianca al piccolo figlio Luigi, destinato a diventare poi il santo Re di Francia: « Vorrei vederti piuttosto morire, che reo d’una colpa grave ».

5. – L’esame di coscienza.

Per rimanere fedeli all’amore di Dio e per non lasciarci lusingare dalle insidie nemiche, l’etica cristiana raccomanda la preghiera ed i Sacramenti, che ci fanno forti d’una forza divina e della grazia; consiglia la meditazione, che, facendoci riflettere all’amore di Dio ed al nulla delle cose, ci prepara alla buona battaglia, ci avvezza alla pratica della virtù, alla vittoria delle nostre passioni e delle cattive tendenze, ne mostra le insidie nemiche; soprattutto, per tacer d’altro, insiste molto sull’esame di coscienza. Già la sapienza pagana raccomandava questa pratica. Seneca, nel De ira, esclamava: « Che cosa v’è di più bello dell’abitudine di esaminare alla sera come abbiamo passato l’intero giorno? Che sonno tranquillo, dopo un buon esame di coscienza! ». Nelle sue Lettere a Lucilio soggiungeva: « Se voglio talora divertirmi con la compagnia d’un pazzo, non ho bisogno d’andare lontano; mi metto a ridere in me stesso. Mia moglie ha una pazza, Arpaste, che tutto ad un tratto ha perduto la vista. Cosa incredibile, ma vera, essa non sa d’essere cieca, e ripetutamente dice alla sua guida di portarsi altrove, perché dice che la casa è troppo oscura. Noi ridiamo di questo: eppure ci accade lo stesso. Nessuno riconosce d’essere avaro, cupido. I ciechi però cercano una guida: noi erriamo senza guida e diciamo: Io non sono ambizioso; ma come si fa in Roma a vivere diversamente? Non amo il lusso: ma la città costringe a tali spese… Perché ingannarci? Il male non è fuori di noi, ma dentro, nelle midolla delle nostre ossa. La difficoltà di guarire sta nel fatto che non ci crediamo ammalati ». La sapienza cristiana ha ripreso questo pensiero e l’ha meditato alla luce del soprannatur0ale. Dai Padri della Chiesa a sant’Ignazio di Loyola è un succedersi di raccomandazioni, ed anche di regole, che giovano praticamente a farne l’esame di coscienza con frutto. Né qui è il luogo di diffonderci su questo problema. Diremo soltanto che, forse, nessuno meglio di Massillon, così squisito nell’analisi psicologica, lo ha illustrato. In uno dei suoi Sermons pour l’Avent, egli descrive il giudizio universale; ed, invece di soffermarsi a tratteggiare la scena esteriore, fissa il suo sguardo su « la manifestazione delle coscienze ». Credo che, anche alla Corte di Luigi XIV, coloro che l’hanno ascoltato han provato in quel giorno un tremito salutare di spavento. – Da un lato Cristo, che tanto ci ha amato, ossia « un Salvatore che ci mostrerà le sue piaghe, per rimproverarci la nostra ingratitudine ». Dall’altro le coscienze, ognuna delle quali sarà esaminata. L’esame si estenderà a tutte le diverse età ed a tutte le circostanze della vita. Debolezze dell’infanzia, colpe della giovinezza, ambizioni e trascorsi d’una età più matura, freddezza e indurimento d’una vecchiaia forse ancora voluttuosa, tutta una storia di miserie che si andrà svolgendo dinanzi ai nostri occhi turbati. Non un’azione, un desiderio, un pensiero, una parola, sarà omessa; tutto rivivrà e apparirà nella sua vera fisionomia. Non solo la storia esteriore dei nostri costumi, ma sarà ricordata anche la storia segreta dei nostri cuori, brame vergognose, progetti ridicoli, gelosie basse e segreti; sentimenti vili, che cercavamo forse di nascondere a noi stessi ricoprendoli con veli pietosi, odi e animosità, intenzioni guaste e viziate, tutta questa vicenda di passioni usciranno d’improvviso come da una imboscata, mentre una luce improvvisa illuminerà l’abisso del nostro io e quel mistero d’iniquità che è il cuore umano. E sarà allora che vedremo come ciò che noi conoscevamo meno era noi stessi. All’esame del male che abbiamo fatto succederà quello del bene che abbiamo tralasciato: omissioni infinite, delle quali la vita nostra è stata piena, occasioni di esercitare la virtù tante volte neglette, anime che avremmo potuto formare e salvare e che abbiamo lasciato perire, indolenze, mollezza, indifferenza, lunga serie di giorni perduti e sacrificati all’ozio… E non basta. Saremo esaminati sulle grazie, delle quali abbiamo abusato; ispirazioni sante non raccolte, prediche e buone parole trascurate, dolori non santificati, doni naturali che avrebbero dovuto essere germi di virtù e furono sorgenti di vizio. E questi sono i peccati nostri. Ma l’esame non si fermerà qui. Si estenderà anche ai peccati altrui, che abbiamo causato e occasionato e che, quindi, ci verranno imputati. Ci saranno presentate le anime tutte, alle quali siamo stati causa di caduta o di scandalo; tutte le anime precipitate all’inferno per i nostri esempi, i nostri discorsi, le nostre immodestie; tutte le anime delle quali abbiamo sedotto la debolezza, corrotto l’innocenza, pervertita la fede, scosso la virtù, autorizzato il libertinaggio, confermato l’empietà. Gesù Cristo, al quale appartenevano, ce le richiederà come una conquista preziosa, che gli abbiamo ingiustamente rapito. Egli ci domanderà il prezzo del suo sangue. Non basta ancora. Le stesse nostre virtù, le opere sante compiute, saranno sottoposte ad una simile discussione rigorosa; intenzioni e motivi nascosti, che guastavano l’azione virtuosa; carità e beneficenze fatte per uno scopo d’ambizione; preghiere recitate senza raccoglimento, Sacramenti profanati, atti di pietà sciupati. Comunioni distratte senza preparazione e senza ringraziamento; vane compiacenze di sè e ricerca perenne di noi stessi anche nelle opere di Dio e del bene; il preteso oro che ci si rivelerà falso… E Massillon, dopo una tale descrizione, gridava con sant’Agostino: « Oh, se già in questo momento potessi vedere coi miei occhi lo stato della mia anima!.. ». L’esame di coscienza può realizzare questo voto dell’autore delle Confessioni; e può e deve essere il mezzo di prevenire e di evitare un simile giudizio divino; nè alcuno vi sia, che si disperi dinanzi ad una visione lugubre d’un passato di vergogne e di cadute. La morale cristiana, se da una parte ci invita a scendere nell’abisso delle nostre miserie, dall’altro ci indica nel Cuore di Cristo l’abisso dell’Amore che perdona e redime. Alla storia delle sconfitte si intreccia la storia delle divine misericordie.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (51a.)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (51a)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -IX a-

J. DIO SANTIFICANTE MEDIANTE I SACRAMENTI.

J 1 1. I Sacramenti prima dell’istituzione della Chiesa.

Tra le leggi del Vecchio Testamento esistevano anche i Sacramenti (1310) 1348 1602.

Questi sacramenti differivano dai nt Sacramenti drl N.T. in quanto non producevano la grazia, ma significavano che essa sarebbe stata solo in futuro da Cristo. 1310 1602.

La Circumcisione come sacramento rimetteva il peccato originale 780.

Dopo l’avvento di Cristo i Sacramenti del Vecchio T. cessarono ed il loro uso, promulgato ill Vangelo divenne peccato punibile 1348.

J 2 Sacramenti del Nuovo Testamento in genere.

J 2a. a. — ESSENZA DEI SACRAMENTI.

I Sacramento sono segni sensibili ed efficienti della grazia invisibile (1310 1606) 3315 3858; sono simbolo di cosa sacra e forma visibile della grazia invisibile 1639; riprov.: [I S. sono nudi simboli o segni esterni della fede praticata] 1602 1606 3489.

Nel rito dei Sacramenti si distingue la parte essenziale (materia e forma) e la parte cerimoniale 3315.

Tre sono le cose che producono un Sacramento: (una cosa tq.) materia, (le parole tq.) forma (nella persona del suo ministro) l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa. 1262 1312 1998 2536 3126 CdIC 742, § 1; l’essenza del sacramento è costituita dalla materia e dalla forma 1671.

La materia di per sé non è parte determinata (onde determinare la forma) 3315;

Pertanto l’imposizione della mano usata per sé non designa nulla di definito negli Ordini sacri, alla Confermazione, alla a.riconciliazione a110 a123 a127 a183 211 316 320 3315.

La forma dece significare l’effetto sacramentale 3315.

J 2b. b. — ORIGINE DEI SACRAMENTI.

2ba. Origine remota cioè,l’istituzione di Cristo. a.Tutti i Sacramenti del N.T. sono stati istituiti da Cristo 1864 2536 CdIC a731, § 1; si riprovano le asserzioni dei modernisti circa l’origine dei Sacram. 3439s.

I Sacramenti sono sette 860 1310 1601 1603 1864 2536.

2bb. Origine prossima o amministrazione. La Chiesa è originalmente ed universalmente dispenatrice dei Sacramenti: Cristo battezza per mezzo della Chiesa, sacrifica etc. 3806; crede nella remissione dei peccati, in resurrezione, nella vita eterna attraverso la Chiesa 21s.

Potestà della Chiesa nei Sacramenti. La Chiesa non ha il diritto di mutare ciò che attiene alla sostanza (o all’ a.integrità e al necessitare dei Sacramenti a1061 1699 1728 3556 3857.

Nel dispensare i Sacramenti la Chiesa ha il diritto di stabilire o mutare ciò che giudica meglio indicato per i tempi, i luoghi, la varietà delle cose, salvo la loro sostanza 1728.

Il Ministro dei Sacramenti ne è causa strumentale 1314.

La potestà del ministro e l’effetto dei Sacramenti non dipendono dalla probità (morale) del ministri 580 644s 793s 912 914 1019 1154 (1208) 1211-1213 1219//230 1262 1612 1684; add. condizioni del ministro del Battesimo, penit, ordin., J 3b 6b 8b.

Riprov. gli errori circa l’ambito dei ministri [Tutti i Cristiani possono amministrare i Sacramenti] 1610; [qualsiasi Sacerdote può conferire qualunque Sacramento] 1136; [la restrizione del potere di conferire i Sacramenti ai semplici Sacerdoti è stata fatta per il lucro e l’onore dei Vescovi] 1178.

Uno stesso ministro deve usare la materia e pronunziare la forma 2524.

Per l’efficienza dei Sacramenti è necessaria l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa 1262 1312 1315 1611 1617 (2536) 3126; si riprova l’opposta asserzione dell’esteriorismo 2328; chi usa la debita materia e forma, si presume abbia l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa 3318 3874:

Errore circa l’effetto del Sacramento (a. anche professato pubblicamente) per se non esclude l’intenzione di fare ciò che la Chiesa fa (3100-3102) a.3126; in questo principio è compresa la dottrina circa la validità del battesimo degli eretici (cf. J 3b), in qualunque modo sia conferito il rito cattolico ; contra, mutato il rito, si dubita circa la retta intenzione 3318.

Qyando i Sacramenti siano da conferire in forma condizionale

CdIC 941; ved. ai singoli Sacramenti.

Si riprova l’asserzione più lassa circa l’applicazione del probabilismo nell’amministrazione dei Sacramenti. 2101.

Rito e cerimonie della Chiesa non sono condannati senza peccato, se disprezzati o mutati per qualsiasi motivo 1255 1613 1811; il S. Pontefice può tollerare diversi riti fermo che siano di necessità di Sacramento 1061.

Si rivendica la legittimità di certi riti, ctr. i denigratori 1062 1864 2631-2633.

J 2c. c. — FINI, EFFETTO, STIMA DEI SACRAMENTI.

2ca. Fini. I Sacramenti sono mezzi specifici di salvezza e santificazione 2536

CdIC “731, § 1; si riprovano errori circa il fine 1605 3441 3489.

2cb. Effetto. I Sacramenti conferiscono (o aumentano) la grazia quando a.non si pone ostacolo (b.degnamente ricevuti) b1310 a1451 a1606 1602//1608 1864 2536 a3714 (a3845) CdIC a1110.

L’efficacia dei Sacramenti è ex opere operato, cioè i Sacramenti hanno virtù da se stessi come azioni di Cristo medesimo. 3844-3846.

Alcuni Sacramenti , a.cioè. batt., confermazione, ordine, imprimono un carattere, b.pertanto non possono ripetersi 781 ab1313 a1609 a1767 a1864 2536 CdIC ab732, § 1; il carattere è un segno spirituale indelebile nell’anima 1313 1609; dunque non è il Verbo di Dio 3228; il carattere è impresso quando non è ostacolato dalla volontà contraria 781; si imprime anche nella finta ricezione del Sacramento 781.

2cc. Necessità. I Sacramenti non sono superflui 1604 1864; senza i Sacramenti reali o di desiderio, . L’uomo non è giustificato, riprovata l’asserzione: [l’uomo è giustificato dalla sola fede senza Sacramento] 1604 1605s 1608 CdIC 737.

§ 1; in certi aggiunti effetti necessari per ottenere la salvezza si può col solo voto o desiderio (a.anche implicito) (1524 1543) 3869 a3870-3872; o per la fede del Sacramento 121.

Non tutti i Sacramenti sono necessari ai singoli uomini 1604 18642536.

2cd. Dignità. Non senza peccato i Sacramenti sono disprezzati o negletti. 1259 1699 1718 1775 2523 CdIC 944.

Tra i Sacramenti del N.T. vi è diversità di dignità 1603; l’Eucarestia eccelle sopra i restanti Sacramenti 1639s (3847).

J 2d. d. – SOGGETTO DEI SACRAMENTI.

Soggetto legittimo non è l’eretico o lo scismatico anche se errante in buona fede e se non chiede di essere riconciliato CdIC 731, § 2.

Il soggetto deve avere in qualche modo l’intenzione di ricevere il Sacramento CdIC 752, § 3 754, § 3; contradicendo l’accoglienza non si riceve né l’oggetto né il carattere del Sacramento 781; per i dormienti e dementi non si ha l’effetto del Sacramento anche se prima di questo stato consentirono o contraddissero 781.

3. Sacramento del Battesimo.

J 3a. a. ESSENZA DEL GIUDICETIA BATTESIMO.

Il Battesimo è un sacramento 761 777 860 1310 1314 1601 1864 2536; succede alla circumcisione 780.

La materia (remota) è l’aqua a.naturale 802 903 1082 a1314 a1615 CdIC a737, § 1; è lecito mescolare un siero antisettico 3356; materia invalida -: saliva 787; -: birra 829.

La materia prossima è l’abluzione (per mezzo di a.immersione b.infusione o c.aspersione) a229 a589 a757 CdIC 737, § abc758.

Si riprova: [Materia essenziale del battesimo è l’acqua, il crisma, l’eucaristia] 1016.

La forma è l’invocazione del nome della Trinità divina 111 (cap. 9) 123 176s 214 445 580 582 (588) 589 592 (637) 644 646 757 802 903.

Il Battesimo “in nomine Christi” (a.resta in ambiguo, b.ammesso, c. riprovato) a111 (cap. 8) a211 c445 b646; non è valido il Battesimo nel nome degli Angeli 176.

Le parole (espressione dell’azione) “ego te baptizo” sono necessarie per la validità 757; vale la loro forma attiva e passiva 1314; la falsa pronunzia per mera ignoranza o per difetto di lingua non invalida il battesimo 588 592; asserzioni riprovate circa la forma 2327s 2627.

J 3b. b. – ORIGINE DEL BATTESIMO.

Il ministro deve essere diverso dal soggetto battezzato (non si può battezzare se stesso) 788.

Il minister del Battesimo solenne (ordinario) è solo il Sacerdote 1315 CdIC 738; min. del bpt. straordinario è il diacono CdIC 741; in caso di necessità può essere ministro-: qualsiasi uomo, che in qualche modo conservi la forma della Chiesa ed intenda fare ciò che fa la Chiesa 1315 2536 CdIC 742,

§ 1; – anche un laico 120 1315 1349 (2536); – : anche uno scismatico 356; – : eretico 110s 123 127s 183 211 214 305 315s 320 478 1315 1617 (2536) 2567-2570 3126; -: giudeo 646; -: pagano 646 1315 (2536).

La qualità morale del ministro non influisce sulla validità 580 644.

L’errore del ministro circa l’effetto del battesimo non esclude l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa 3100-3102; laddove si possa veramente dubitare circa l’intenzione, si deve conferire il Battesimo condizionato 2838; in caso di battesimo ricevuto nell’eresia non sempre è di principio il battesimo condizionato, ma è da indagare e distinguere 3128; nel dubbio è da battezzare 319 582; in qualunque caso di Battesimo condizionato si disserta 2835-2839 3128

CdIC 746, § 2-5 747-749 752, § 3; formula del Battesimo condizionato da usarsi 758.

Rito del Battesimo da tollerare ed abolire 830.

J 3c. c. — FINE, EFFETTO, VALORE DEL BATTESIMO.

3ca. Effetto. Si riceve la grazia di Cristo (a.infusione della grazia informante e delle virtù, b. l’abito della fede) 111 a780 a904 b2567; riprov.: [il Battesimo di Cristo ha la stessa virtù del battesimo di Giovanni Battista ] 1614.

Il Battesimo produce —: la rinascita spirituale (a.nuova creatura) 219(239) 1311 a1672. – : un membro della Chiesa cattolica 1314 1671 2567-2570 3685 CdIC 87 737, § I;

Il battezzato ottiene tutti i diritti ed i doveri del membro, se non oppone un ostacolo (censura), un vincolo che impedisce la comunione CdIC 87; —: membro del Corpo mistuco di Cristo 1314 1671.

— : la remissione dei peccati (a.pecc. originale, b.dei peccati attuali) (3s) 41//48 (51) 60 150 a223s a231 a239 a247 308 ab325 575 a637 a685 a741 777 a780 ab794 ab1076 ab1316 a1514s 1672 a2559; tale remissione è piena, integra 1672; i peccati non solo da imputare 1515; il Battesimo elimina egualmente a tutti il peccato orig. 637; si riprov. gli errori circa l’effetto: [è tolto solo il reato alla pena] 1957; [già il solo ricordo del Battesimo e la sua fede rimette i peccati dopo il Battesimo o li muta in veniali] 1623.

— : la remissione di ogni pena (pertanto a.ai battezzati non è da imporre nessuna soddisfazione) a1316 1543.

— l’impressione del carattere (anche nel Battesimo a.degli eretici ed b.in quello ricevuto fittiziamente). b781 1998 a2566 CdIC 732, § 1; pertanto non è lecito ritardate il Battesimo 183 316 319s (478) 580 (582) 644 758 810 855 1081 1624 1671 CdIC 732, § I: da qui la fede in un soloBattesimo 3s 41//5 I 150 319 684; riprov. l’errore circa il carattere 3228.

Sequele per la vita morale: la grazia del Battesimo per sé sola non è sufficiente ad assicurare la salvezza, ma si richiede un ulteriore ausilio della grazia e la cooperazione unana. 241, 397; il Battesimo non libera dagli obblighi della legge di Dio, della Chiesa, dei voti 1620-1622; ol Battesimo pt. non dissolve i matrimoni degli infedeli (ma conferisce solo il diritto ad un nuovo matrimonio in forza del privil. Paolino) 777 2582 2585 CdIC 1126.

3cb Necessità. Il Battesimo è un mezzo prescritto da Cristo 219; è necessario o in forma o almeno a.come voto (o desiderio), questo è il Battesimo di b.fiamma (121) 184 231 b741 a1524 1672 2536 a3869 CdIC ‘737, § I; add. luoghi del Battesimo degli infanti: J 3d.

In caso di necessità il Battesimo può essere amministrato in ogni tempo, anche nella Chiesa antica, nella quale era lecito solo nei giorni di Pasqua e di Pentecoste 184; in tal caso giustifica anche la fede senza Sacramento 121.

3cc. Dignità. Il Battesimo è il primo di ogni Sacramento ed il a.loro fondamento 1314 CdIC a737, § 1; è la a.porta di entrata nella Chiesa, b.dei Sacramenti, c.della vita spirituale c1314 a1671 a3685 CdIC b737, § 1.

J 3d. d. — SOGGETTO DEL BATTESIMO.

Il soggetto del Battesimo è solo ogni uomo viatore non ancora battezzato CdIC 745; è legittimato il Battesimo degli infanti 184 219 223 (224 247) 718 780 794 802 903 1349 1514 1625-1627; il Battesimo degli infanti (richiesto) di genitori acattolici, sotto quali condizioni sia lecito 2552-2562 3296 CdIC 750s;

Ugualmente il Battesimo conferito ai moribondi adulti infedeli 3333-3335.

Nell’adulto è richiesta per una valida ricezione a.l’intenzione, per una lecita disposizione b.la fede e c.la penitenza b2380s bc2835-2839 ab3333-3135.

4. Sacramento della confermazione.

J 4a. – ESSENZA DELLA CONFERMAZIONE.

Il battezzato deve essere condotto a: a.la benedizione b.l’imposizione della mano del Vescovo b120 a121 b123; c.il crisma sulla fronte, i. e. b.l’imposizione della mano è la confermazione a785 ab794 a831 b860 a1990 a2522 CdIC 780 781, § 2.

La confermazione è un Sacramento (785 794) 860 1310 1317 1601 1628 1864 2536.

La materia (remota) è il crisma (a.dal balsamo ed olio di olivo) b. benedetto dal Vescovo a831 a1317s b1992 CdIC 734, § 1 b781, § 1.

Forma delle parole della confermazione 1317.

J4b. b. – ORIGINE DELLA CONFERMAZIONE.

Si riprova l’asserzione dei Modernist. circa l’origine remota della confermazione 3444.

Il ministro a.ordinario è (solo) il Vescovo 120 123 183 187 215 320 785 794 831 860 a1069 a1318 a1630 1768 1777 a2588 CdIC .782, § 1; ministro straordinario può essere il semplice Sacerdote (a.ma non il diacono) b.fornito di facoltà della Sede Ap. a187 215 b10705 b1318 b2522 b2588 CdIC 781, § 2 a782, § 2; in mancanza di tale delega, proibita ed invalida è la confermazione del semplice Sacerdote 1990s 2522.

Ministro del crisma è solo il Vescovo, questo pure per a.ministro straord., il crisma deve essere benedetto d Vescovo (catt.) 187 215s 1068 (1071) 1317 a1318 (a1992) a2588 (CdIC .781, § 1).

Si riprovano le asserzioni circa il ministro 866 1178 3556.

Riti tollerati nella preparazione del crisma nella confermazione 831.

J 4c. c.0- FINE, EFFETTO, VALORE DELLA CONFERMAZIONE.

Si conferisce lo Spirito Santo 215 785 831 1318s; si dà come un aumento di grazia ed un rinforzo della fede 785 1311 1319.

Si imprime un carattere, pertanto la confermazione a.non si può ripetere 1313 1609 1767 CdIC a732, § 1; riprovato: [al cresimati non è da attribuire alcuna potenza] 1629.

La Confermazione non è un mezzo necessario alla salvezza 2523 CdIC 787; ma il trascurarlo non è senza peccato 1259.

J 4d. d. – SOGGETTO DELLA CONFERMAZIONE.

Soggetto è qualsiasi battezzato CdIC 786.

Per una lecita e fruttuosa ricezione si richiede lo stato di grazia. CdIC 786.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (14)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (14)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo QUINTO (3)

III. — IL CRISTIANO E L’AVIDITA’ DELLE RICCHEZZE.

Si attribuisce ad Alessandro Magno un detto curioso: « In una città assediata difficilmente potrà penetrare un filo di paglia; entrerà, però, sempre un asino con un carro carico d’oro ».

L’auri sacra fames fa scoppiare un nuovo conflitto. Tra l’Amore infinito di Dio e le ricchezze, l’uomo resta spesso esitante e poi molte volte si decide per l’idolo seducente del denaro. Né illudiamoci. Il ladruncolo della strada e l’elegante ladro della Borsa; il truffatore rinchiuso nel carcere ed altri imbroglioni che passeggiano fuori, e magari son decorati, il mercante o l’industriale che rubano all’ingrosso e l’oste che truffa al minuto con la subdola ripetizione del miracolo di… Cana (perchè, dopo tutto, anche egli… converte l’acqua in vino); i retroscena di certi fallimenti, di certe réclames giornalistiche, di crak improvvisi e di improvvise fortune; in una parola, le innumerevoli violazioni del settimo comandamento, nelle loro forme più svariate, dall’usura alla mancanza di onestà di una domestica, non costituiscono gli unici casi quotidiani in cui la battaglia viene perduta. – Siccome non siamo puri spiriti ed abbiamo tutti i nostri bisogni economici, la tentazione è sempre presente. È facile che il nostro cuore, quasi senza che ce ne accorgiamo, palpiti non per il Padre che è nei cieli, ma per il portafoglio che è nella tasca o per la cassaforte che è nell’ufficio. – Carlo Marx ha senza dubbio esagerato, quando con la sua concezione materialistica della storia ha sostenuto che in ultima istanza ogni fatto storico si spiega per via della sottostante struttura economica; ed i suoi discepoli hanno esagerato più ancora, sino al ridicolo, quando hanno voluto ridurre la storia e la vita ad una Magenfrage, ad una questione cioè puramente di stomaco. Sarebbe come un ridurre il poema dantesco all’inchiostro col quale è stato scritto. Tuttavia, chi può negare che un’anima di vero vi sia nel materialismo storico? La potenza del denaro domina, s’impone, tiranneggia; nazioni e individui, dinanzi ad essa, dondolano ed ondeggiano, si chinano e cedono. – Guerre di popoli e inimicizie personali, atteggiamenti politici e condotta individuale sono spesso influenzati e determinati anche e soprattutto dalla avidità del denaro. Del resto, la questione sociale che agita il mondo non ha forse anche un carattere economico? Ed allora i problemi s’impongono: com’è possibile essere praticamente Cristiani? Dobbiamo forse per seguire la morale di Cristo, che dichiara « beati i poveri », distruggere l’economia mondiale, o rovinare l’industria ed il commercio nazionale? I popoli han bisogno di ricchezza; povertà significherebbe la negazione della civiltà. La famiglia e gli individui debbono cercare d’arricchire; altrimenti verrebbe meno una fonte di progresso. Oh che vorreste convertire la terra in un ampio convento? A queste difficoltà s’aggiunge l’altra domanda: qual è la tattica che il Cristianesimo ci prescrive di fronte alla ricchezza? Come si vede, il problema storico, la questione sociale e la condotta individuale sembrano allearsi, per rendere più ardua la lotta, più oscura la risposta.

1. – Il principio fondamentale.

Bisogna sempre partire dal principio fondamentale: Dio è il centro della realtà e tutte le cose dipendono da Lui e debbono essere a Lui subordinate. Perciò non è lecito capovolgere l’ordine e porre a centro di tutto il denaro. O si riconosce come Essere supremo Iddio e il suo Amore infinito: altrimenti cadiamo nell’idolatria. « Non si può servire a Dio e a Mammona », ammonisce Cristo. E tutto lo spirito della sua predicazione contro l’abuso delle ricchezze è riassunto in tale concetto. Perché mai volete rifiutare Dio e rendervi schiavi dell’oro? « Badate e guardatevi da ogni cupidigia, perché la vita d’alcuno non stà nella ridondanza de’ beni che possiede ». Il valore d’un uomo non si misura dalla sua condizione economica; anzi, sovente la « seduzione delle ricchezze soffoca la buona semente della parola divina e la rende infrutuosa ». a Quelli che vogliono arricchire, commenta poi san Paolo, scrivendo a Timoteo, cadono nella tentazione e nel laccio del diavolo ed in molti desideri inutili e nocivi, che sommergono gli uomini nella morte e nelle perdizioni. Radice, infatti, di tutti i mali è la cupidigia ». I beni terreni non sono sicuri: “Non cercate, quindi, di accumulare tesori sulla terra, dove ruggine e tignola consumano e dove i ladri dissotterrano e rubano. Ma accumulatevi dei tesori nel cielo… ». Inoltre sono beni che bisogna un giorno abbandonare con la morte, come rammenta la parabola: « A un uomo ricco fruttava bene la campagna; e andava ragionando fra sè: — Come farò, che non ho dove riporre la mia raccolta? — E disse: — Farò così: demolirò i miei granai e ne fabbricherò di più vasti e ci metterò tutti i miei prodotti e i miei beni; e dirò all’anima mia: o anima, tu hai messo da parte i beni per molti anni: riposati, mangia, bevi e godi. — Ma Dio gli disse: — Insensato, questa notte ti si richiederà l’anima tua; e quanto apprestasti, di chi sarà? — Così, chi tesoreggia per sè e non arricchisce avanti a Dio». – Ecco, dunque, la base essenziale: dobbiamo amare Dio sopra ogni cosa, non il denaro; chi vive per il denaro, praticamente rinnega Dio e lo sostituisce con un idolo di oro.

2. – Ciò che non insegna la morale cristiana.

Non si deducano da un simile principio elementare conseguenze che nulla hanno a che fare con esso. 1. La morale di Cristo non condanna la ricchezza, in quanto ricchezza. Non proviene forse anch’essa da Dio? Non è forse uno dei doni che il suo Amore infinito fa all’umanità? L’uso della ricchezza è santo; solo l’abuso viene stigmatizzato. Nessuna meraviglia, quindi, se Gesù entra nelle case dei ricchi, se si asside alla loro mensa, se ha fra i suoi amici persone facoltose. Il fatto di Zaccheo (convertito da una visita gentile del Maestro) che restituisce con generosità ciò che aveva rubato, ma non dà tutte le sue sostanze, e che pure sente la bella assicurazione: « Oggi la salvezza si è fatta per questa casa », è significativo. E quando dovrà istituire l’Eucaristia, Gesù vorrà un cenacolo riccamente addobbato, che preludeva alla ricchezza dei suoi templi e delle basiliche cristiane, dove, essendo essa subordinata a Dio ed al suo servizio, l’ordine è rispettato. Ma non sembra — si chiederà qualcuno — che Cristo abbia condannato non solo l’abuso, ma anche l’uso della ricchezza? Non leggiamo noi forse in san Luca: « Guai a voi, o ricchi, perché avete ricevuto la vostra consolazione? ». No, Il vae vobis divitibus non è l’esclusione del ricco dalla Chiesa, ossia dal regno de’ cieli; ma è l’ammonimento dei pericoli che il denaro porta con sé. L’affetto sregolato ai beni che si possiedono sorge in noi facilmente e ci rende febbricitanti, come nota il santo di Ginevra; simili a chi è divorato dalla febbre e beve acqua con avidità, così il denaro ci comunica la febbre di una avarizia mai sazia. Inoltre, la fame dell’oro suggerisce mezzi illeciti per procurarselo e per conservarlo. E l’ansia per tale conquista e per tale difesa fa dimenticare i beni più alti e la vita morale. Se l’animo non è staccato dall’oro, osserva san Vincenzo de’ Paoli, somiglia ad una persona legata mani e piedi ad un albero, la quale non può né fuggire, né recarsi a domandar soccorso, e che pure si crede libera. Il denaro è spesso una chiave ingannatrice: essendo dorata, tutti la guardano e la bramano; e non sanno che essa ci rinchiude nella prigione dell’egoismo, dove più non si pensa ad amare Dio, più non ci si preoccupa del povero Lazzaro, ricoperto di piaghe, che invano sospira le briciole della mensa. t solo per questa antitesi tra l’egoismo e l’amore a Dio ed ai fratelli che Gesù dichiara: « È più facile che un cammello passi per la cruna d’un ago, che un ricco entri nel regno de’ cieli ». E chi riflette a tutti gli sfruttamenti compiuti nei secoli dagli Epuloni, comprende e conclude: è giusto. O si ama Dio e il prossimo, e si è Cristiani; o il dio nostro è il denaro, ed allora non lo siamo più. – Certo, può essere Cristiano il ricco, che usa delle sue ricchezze, ispirandosi al precetto dell’amore. Vorrete forse rifiutare il nome di « Cristiano a Leone Harmel, che a Valdebois fu il bon père dei suoi operai e che mostrò a fatti come anche l’atmosfera industriale può essere resa ottima dall’ossigeno dell’amore? Il ricco, non egoista, che nell’uso dei beni terrestri non viola il piano divino, non merita di sentirsi un giorno rivolgere da Cristo la terribile sentenza: « Avevo fame e non mi desti da mangiare… ». Egli, non solo con l’elemosina, ma con tutte le iniziative che la funzione sociale della ricchezza può suggerire in una determinata epoca e nelle circostanze concrete in cui vive, ama veramente Dio e il prossimo; ossia è veramente Cristiano.

2. Il Cristianesimo non giustifica la trascuratezza nei doveri che ognuno ha a proposito delle sue necessità economiche. Potrebbe, ad esempio, dire d’essere fedele al comando dell’amore un padre di famiglia che non si curasse dei bisogni della sua casa, o una mamma che sciupasse somme forti nel lusso ed in spese superflue, col pretesto che non bisogna avere il cuore attaccato al denaro? Il vero precetto non è negativo, ma è positivo: amare Dio e il prossimo. Lo sciupio del denaro, la noncuranza del risparmio, il criminoso disinteresse di fronte alle necessità dei propri cari, cosa sono in ultima analisi se non l’egoismo, ossia la negazione assoluta della morale cristiana? Chi profonde somme pazze nel gioco; chi sperpera il salario all’osteria; chi fa debiti per divertirsi e per condurre una vita di lusso sproporzionata alle proprie entrate, è egoista sempre. Non cerca Dio, ma se stesso, e resta nel disordine. Gesù Cristo, al contrario, c’insegna a preoccuparci anche delle cose economiche, ispirandole col senso del retto amore. Dinanzi alla folla immensa, che attratta dalla sua divina parola, l’aveva seguito nel deserto, ha forse esclamato: « Beati i poveri, perchè possono morire di fame »? No. Ha pronunciato, piuttosto, la sua sublime esclamazione: « Misereor super turbam » ed ha sfamato il povero popolo. È moralmente doveroso, quindi, ed è un’applicazione evidente del precetto dell’amore, interessarsi dell’economia propria, dell’economia domestica, delle finanze nazionali e dell’economia sociale. Oh, non è forse un amare il prossimo anche il procurare il benessere economico dello Stato, il promuovere la legislazione sociale, il contribuire all’organizzazione sindacale, cristianamente animata, del proprio Paese? – L’unica cosa che il Cristianesimo esclude è il capovolgimento dei valori. Quando, ad es., si asserisce che tutto è una questione di stomaco, la morale cristiana protesterebbe; ma quando si dovesse concludere: « Dunque il Cristiano non deve preoccuparsi dell’economia », si direbbe uno sproposito. Anche la Magenfrage si trasforma per noi in un problema morale, che dev’essere risolto non come lo potrebbe fare un bruto, non come lo potrebbe fare un economista puro, ma come ha il dovere di scioglierlo un economista discepolo dell’Amore. Queste due parole: economia e Cristianesimo non fanno a pugni. Quantunque la missione di Gesù sia stata di ordine essenzialmente spirituale e quantunque sia vano ricercare nel Vangelo un trattato di economia politica od un programma di riforme economiche, tuttavia è chiaro che la morale cristiana dev’essere l’anima ispiratrice anche del movimento economico. È la grande idea, che nella Rerum Novarum Leone XIII, contro le negazioni della scuola liberale e della corrente socialista, ha illustrato col suo genio, col suo cuore, con la sua autorità di Pontefice e di Padre.

3. – La povertà di spirito.

Nel discorso della Montagna, con una espressione semplicissima e divinamente profonda, Gesù Cristo ha espresso la sua dottrina riguardo alla ricchezza, proclamando beati i poveri di spirito. Chi sono i « poveri di spirito »? Forse gli imbecilli, come ha interpretato qualche scemo? Per null’affatto! La morale cristiana vuole che noi abbiamo compassione dei deficienti, ma non li propone a modello; bensì ci invita ad invocare, fra i doni dello Spirito Santo, quello della sapienza, della scienza, dell’intelletto…

I « poveri di spirito » sono coloro che, possedendo o non possedendo ricchezze, non hanno il cuore legato ad esse; che, quindi, riconoscono praticamente la centralità di Dio, e non adorano il dio Quattrino. Può essere « povero di spirito» un milionario, che usa le sue fortune secondo il comandamento della carità, non solo beneficando il prossimo, ma utilizzando i suoi capitali in opere che ridondano a vantaggio sociale. E può essere « ricco di spirito » un indigente, che, non avendo nulla, è minato dalla cupidigia e non aspira se non al denaro, invidiando chi lo possiede. È insomma il distacco dell’animo e del cuore dai beni del mondo, che esige Gesù Cristo; è lo spogliamento affettivo, anche se non è reale; è la condanna sia della ricchezza eretta a divinità, sia della povertà subita a malincuore. La prima delle Beatitudini si riferisce, quindi, ad ogni persona, ai ricchi ed ai poveri. È qui che bisogna allora distinguere, fra il comando della povertà evangelica, imposto a tutti, ed il consiglio rivolto solo a coloro che tendono allo stato di perfezione.

4. – Il comando della povertà.

A tutti è comandato di essere « poveri di spirito», senza eccezione. Tutti, pur servendosi del denaro, non debbono esserne schiavi. Non noi per il denaro, ma il denaro per noi, per il prossimo, per Dio: ecco la norma obbligatoria della vita cristiana. Chi calpesta una simile legge, nega l’amore d Dio, perchè lo pospone ed un bene creato; causa disastri sociali, che sono in opposizione all’amore del prossimo; rovina se stesso, perché si prepara mille disillusioni. – Mai, come in punto di morte, colui che ha vissuto per il denaro coglie tutta la verità della morale cristiana. Nella propria giovinezza, forse, era giunta la benedizione di Dio: gli affari erano prosperati, il benessere economico aveva recato il suo sorriso nella casa e la ricchezza aveva portato il proprio bacio. Invece di essere riconoscenti al Datore di ogni bene, forse il nuovo ricco si è dimenticato di Lui. Arricchirsi e allontanarsi da Dio è sempre stata la storia di molti, in ogni secolo, ma specialmente nel secolo nostro. L’attivitànfebbrile nel mondo degli affari assorbe tutte le facoltà dell’animo: qualche operazione fruttuosa, ma poco scrupolosa, viene a celebrare i funerali dei vecchi precettuzzi di morale; il problema più importante lo si trova enunciato ogni giorno nel costo del cotone, della seta, dei cereali o nel listino di Borsa. Alle antiche preghiere del mattino si sostituisce lo sguardo avido alle oscillazioni nel prezzo delle azioni, alla media dei consolidati e dei cambi, alle notizie dei fallimenti e dei concordati. E gli anni passano a questo modo.., ed a questo modo arriva un’indisposizione ed una malattia. Dapprima la cosa pare trascurabile; qualche giorno di riposo e tutto sarà riparato… Poi, si aggiungono le complicazioni…

L E fra una ricetta e l’altra, fra una visita del medico e quattro parole con un amico, par di sentire il rumore di un passo, come di chi s’avvicini alla camera nostra. Che c’è?nNulla… È la signora Morte, in cammino,.. Ma come? Chi l’ha chiamata? Non ha essa rispetto per gli uomini d’affari? Ahimè! Che volete? La Morte non ha mai avuto tempo di leggere il Galateo di monsignor della Casa… Nel frattempo la malattia s’aggrava. Il medico curante ed i familiari suggeriscono un « consulto ». Si telegrafa, si telefona. E giungono gli uomini della scienza; visitano accuratamente, gentilmente; sussurrano le loro strane parole mezzo greche e mezzo italiane, che al profano destano l’impressione di pietose etichette utilissime per velare la dotta ignoranza. Che volete? Se l’organismo si sfascia, il « professore » anche più celebre potrà se mai esprimervi il fenomeno in termini scientifici; ma potete esigere da lui qualcosa di più? È allora, in qualche momento di quiete, che la signora Morte comincia a mostrare la sua faccia. Dapprima un sospetto lontano, un’idea pallida, un baleno improvviso e rivelatore. Ma è sufficiente per turbare, per provocare un sussulto d’angoscia, di terrore e di raccapriccio… – Officine? stabilimenti? campi? palazzi? ville? depositi alle Banche? ricchezze?… Tutto questo che giova? Bisognerà provvedere al testamento; ma nel testamento si ripete insistente un unico verbo; lascio, lascio, lascio… E nulla più. – L’esame della propria vita s’impone. In quella ricca stanza elegante, di notte, quando il sonno ristoratore tarda a venire, mentre qualcuno veglia al capezzale, d’improvviso il quadro della propria esistenza si affaccia alla mente dell’infermo. Dopo tanti bilanci a fine d’anno e a fine del semestre è purtroppo giunto il momento in cui bisogna pensare al bilancio della propria vita. Il Dio dei primi anni innocenti riappare. Forse riappare accanto alla figura della vecchia mamma, morta pregando e che come un giorno ha congiunto le manine del bimbo, sembra che oggi voglia riunire in atto di preghiera le mani del figlio morente… – La speranza, ultima dèa, tenta sorridere; ma ormai quel pallido sorriso appare bugiardo. Le forze sfuggono. Nell’animo agitato, sconvolto, il dramma prosegue. Ricordi di colpe, proteste di deboli, obblighi di restituzioni, rimorsi oscuri, quasi personaggi viventi, balzano nella coscienza, minacciano e scompaiono. La vanità di una esistenza intera, assorbita nel danaro e ad esso sacrificata, s’impone allo sguardo. È il crollo d’un meraviglioso palazzo, illuminato di illusioni; là, sulle rovine, sta lei, vendicatrice, la signora Morte… E guai se allora non giunge, col Ministro del perdono, il conforto di Dio dimenticato negli anni della prosperità e ritrovato nell’amaro e desolato tramonto…

5. – Il consiglio evangelico della povertà.

Al giovane, che l’interrogava sul modo di salvarsi, Gesù — ce lo riferisce il Vangelo di san Matteo — rispose: « Se brami di arrivare alla vita, osserva i comandamenti ». Ed il giovane a Lui: « Ho osservato tutto questo dalla mia giovinezza; che mi manca ancora? ». Allora Gesù: « Se vuoi essere perfetto; va, vendi ciò che hai e distribuiscilo ai poveri; ed avrai un tesoro nel cielo; e vieni, e seguimi ». A tutti la morale cristiana impone di non esser adoratori del denaro; alla schiera di chi vuol tendere alle alte vette, suggerisce e consiglia la rinuncia reale e l’abbandono effettivo, non solo affettivo, d’ogni ricchezza, uno spettacolo meraviglioso quello che Cristo ci offre. – In questo mondaccio, dove per un soldo moltissimi son pronti ad abdicare ad ogni senso di onestà e di pudore, quell’espressione del Vangelo è bastata per suscitare eserciti di anime, che hanno preso la Povertà in isposa. E passano dinanzi al memore pensiero i Monaci e gli Eremiti, tutti gli Ordini antichi e moderni, le Congregazioni e le Famiglie religiose. Son folle sterminate di persone, che con un gesto sorprendente, dànno un addio ai beni, alle comodità, all’oro, per condurre una vita di mortificazioni e di penitenze. Era opportuno che simile scena si rinnovasse nel succedersi dei tempi. La povertà evangelica, in mezzo alle cupidigie umane, è un rimprovero, un mònito, un appello. Se la sua voce oggi risuona per tante anime come una lingua incomprensibile, la ragione è che la morale cristiana non è conosciuta. Poichè, lo si noti bene, la vera povertà evangelica si riduce ad un atto di amore per Dio e per il prossimo. Non è solo il poverello d’Assisi che dalla povertà fu condotto all’Amore e che dall’Amore fu condotto al più alto grado della povertà; ma in ogni anima consacrata a Dio, che a Lui si lega con un voto, si verifica lo stesso fenomeno. Chi volontariamente si spoglia di quanto legittimamente gode, dice al Signore, con l’eloquenza del fatto: « Per tuo amore, o Signore, io rinuncio a tutto; il mio gesto è un gestond’amore per Te. Io voglio Te solo, in questo e nell’altro mondo, perchè Tu sei il mio Dio e la mia felicità ». Colui che è perfetto nella povertà, ama Dio sopra ogni cosa in modo evidente; e si capisce come debba amare anche i fratelli suoi, più di ogni e qualsiasi altra persona. Il suo cuore non è occupato da ossessioni per i beni terreni; perciò resta aperto a tutti i bisognosi. Chi mai, per portare un piccolo esempio, ama di più il suo prossimo, di quelle vergini spose di Cristo e della povertà che si consumano silenziosamente negli ospedali? E nella storia dell’economia qual è quell’anticlericale così ignorante, che possa cancellare l’influsso esercitato dagli Ordini religiosi sullo sviluppo sociale avvenuto col passaggio dall’economia a schiavi all’economia dei servi della gleba ed ai liberi cittadini del Comune medievale? – Sono esilaranti alcuni economisti, che indicano il Cristianesimo quasi fosse fautore di una trasformazione del mondo in un grande chiostro. No. C’è bisogno a questo mondo della prosa e della poesia. E guai se dovessimo abolire la prosa! Guai, se per comperare un po’ di pane o un po’ di prosciutto, la buona massaia dovesse parlare in versi col prestinaio o col salumiere! Così anche nella questione della ricchezza: occorre la prosa dell’economia e la bella poesia della povertà assoluta. Oh chel vorreste distruggermi Dante, perchè nelle vicende della giornata voi parlate non componendo terzine? State tranquilli. Di Alighieri non ne nascono dodici al giorno: e di persone che si consacrano alla povertà evangelica e che cantano la poesia del distacco dal denaro, non ve ne saranno mai troppe. Sia benedetta la poesia e sia benedetta la prosa! Ciò che importa è che, nell’una e nell’altra, non si commettano errori di grammatica, di sintassi, o di senso… Non basta indossare un saio per essere perfetti: e le degenerazioni di alcuni Ordini, come gli Umiliati, ce lo ricordano. Nessuno è da riprovarsi, se resta nel mondo e utilizza i suoi averi; solo si richiede che non cada in certi sbagli, per i quali, invece di servirsi del denaro, lo serve indecorosamente ed ignobilmente.

6. – Il cristiano e la ricchezza.

La vittoria completa nella lotta contro la cupidigia dei beni terreni il Cristiano la raggiunge con l’unione a Cristo. Basta risvegliare in noi questo senso della incorporazione nostra col Maestro divino, che volle nascere in una stalla, che volle vivere poveramente, che scelse come suoi Apostoli uomini privi di fortuna, per rendere sempre più vigile la coscienza riguardo al distacco del denaro. Basta riflettere che vive in noi quel Gesù, che soccorreva e provvedeva ad ogni miseria, per capire l’ammonimento della prima lettera di san Giovanni: « Se alcuno ha de’ beni del mondo e vede che il suo fratello ne ha bisogno e gli chiude le sue viscere, come può rimanere l’amor di Dio in lui? Figlioletti miei, non amiamoci con parole e con la lingua, ma con opere e in verità ». È questo dogma dell’unione mistica di Cristo con noi, che deve farci scorgere Gesù nei poveri e deve caratterizzare la elemosina cristiana: la quale è per definizione, come vedemmo, il soccorso nostro non al povero, ma a Cristo vivente nel povero. È questo il pensiero che anima gli scritti dei Padri e la vita dei Santi, e che un venerdì santo induceva Bossuet a dimenticare quasi il Redentore, per non parlare che del povero: « Non vi domando — egli esclamava dinanzi al suo uditorio — che voi contempliate qualche dipinto di Gesù crocifisso; io ho un’altra pittura da proporvi, pittura viva, che ha l’espressione naturale di Gesù morente. Sono i poveri… In essi Gesù soffre, langue e muore di fame. In essi Gesù è abbandonato, disprezzato ». – Finalmente l’unione di Cristo con noi ci ricorda Giuda, la sua battaglia, la sua sconfitta, il suo tradimento. Uniti a Cristo come lui, anche ad ognuno di noi si propone il dilemma: o l’amore fedele al nostro Dio, o trenta denari infami. “Non si creda che Giuda sia scomparso dalla terra. Egli rivive in molti Cristiani, che ripetono la sua offerta: « Quanto mi volete dare, perchè io ve lo consegni?». Ed il turpe mercato si rinnova e ancora si vende il Figlio dell’uomo… Unica differenza fra Giuda ed i suoi successori è che questi ultimi talvolta sono pronti a tradire per una somma minore di trenta denari… Ma anche se i Giuda divenissero sempre più numerosi, anche se il vile mercimonio continuasse e si diffondesse, Giuda, simbolo dell’avidità dell’oro, ha torto e la morale nostra conserva i suoi sacri ed imprescrittibili diritti.