GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (2)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

(2)

La morale soggettiva ha allargato il campo delle sue esperienze

Delle azioni di un uomo due giudizi occorrono: quello oggettivo, ed è il confronto tra l’atto in se stesso e la Legge; quello soggettivo, ed è il confronto tra l’atto medesimo ed il modo o il limite con il quale era appresa la legge nel momento di offenderla obiettivamente. Questo indiscusso principio ammette la possibilità di un divario tra il giudizio morale oggettivo ed il giudizio morale soggettivo, tanto è vero che esiste un peccato meramente materiale ed un peccato formale. Il primo giudizio deve essere sempre completato dal secondo, ma non deve il secondo mai perderlo di vista, avendolo invece come base e criterio. – In altri termini: la situazione soggettiva in concreto (di uno che non sapeva o addirittura non capiva, od era comunque in stato di ignoranza o di disattenzione), può essere diversa da quella che deciderebbe la obiettività della Legge. – Su questo divario si possono inserire gravi abusi ed è necessario chiarire doverosamente la questione. Ecco taluni punti in proposito.

1. – Che una situazione soggettiva modifichi il giudizio dato secondo la legge obiettiva non lo si presume mai, se non ci sono ragioni per presumerlo od almeno per generare il dubbio. L’essenziale è sapere che cosa modifichi soggettivamente il valore oggettivo dell’atto. La risposta è semplice: modifica il valore oggettivo dell’atto tutto ciò che modifica sufficientemente il «volontario». E il «volontario» dipende dal grado di conoscenza intellettuale e dal grado di intervento della volontà. Sono esse le due radici della imputabilità e della responsabilità. Ciò significa che anche uno stato patologico influisce nella valutazione soggettiva dell’atto compiuto, tanto quanto influisce sul «volontario». Il confessore potrà constatare che esiste uno stato patologico, potrà averne soltanto il dubbio e formularne la ipotesi, ma il punto divisorio tra il suo ufficio e le competenze specifiche in fatto di patologia resta sempre e solo il volontario. – Nessuno nega che chiare ed organiche cognizioni di psicologia e di una prudente psicanalisi gli possano giovare, ma il suo ministero non è né quello dello psicologo, né quello dello psicanalista. Questo deve essere affermato con estrema chiarezza, per evitare delle situazioni ibride, quali sorgono allorché si vuole entrare in un campo dove non si ha specifica e vera competenza e dove, spesso, non hanno competenza sufficiente neppure quelli che se ne intendono sul serio. In altri termini, la morale soggettiva ha come confine il limite di coscienza, che è dato intellettuale. Al di là ci saranno cose interessanti e strane, ma che non entrano di per sé nelle valutazioni necessarie alla amministrazione del sacramento della Penitenza. Il dato soggettivo sta nel tener conto di quello che uno ha intellettualmente creduto ed ha voluto. Il rimanente è oggetto di un altro discorso.

2. — Non si può negare che la esperienza e lo studio moderni abbiano attirato l’attenzione su molti fatti interni all’uomo. Un tempo era difficile sentire parlare del «subcosciente»; oggi il subcosciente» è diventato addirittura un mondo. Dell’uomo sappiamo qualcosa di più. Ciò significa che potremo trovare relazioni tra i fatti, scoprire meglio loro cause o concause. E per ciò che al giudizio del confessore sul dato soggettivo, questo presenta oggi elementi più vari, maggiori e più profondi. Per tale motivo i l Concilio Vaticano II ha ripetutamente inculcato l’uso delle nozioni scientifiche circa la pedagogia e la psicologia, chiedendo un progressivo allargamento delle nozioni solite a darsi ai futuri sacerdoti. [In questo il Sommo Pontefice si è tenuto cauto, viste le circostanze, ma egli ben sapeva che la psicoanalisi moderna è solo una congeria gnostico-giudaica di natura luciferina, quindi di nessuna utilità per il “vero” sacerdote … tutt’altro! Ne riparlerà più avanti. -ndr. -] Una migliore conoscenza del «soggetto», portata da questa più ampia prospettiva, sarà certamente utile al confessore. Egli non capirà molte cose, se non avrà cercato di allargare il campo delle sue nozioni. Tuttavia l’oggetto proprio del ministero della Penitenza resta quello che è indicato sopra: la situazione determinata dal volontario. Se il campo soggettivo, utile a conoscersi, si è indubbiamente allargato, non ne viene che il ministero della Penitenza debba adottare una complicazione di procedura, che si converrà all’onesto psicanalista [anche qui “onesto” psicoanalista è una parila molto grossa! -ndr. -], non al confessore. L’allargamento delle nozioni è per capire» e per poter, con la maggiore comprensione, essere più utili al penitente. Né pedagogia, né psicologia, né psicanalisi hanno mutato l’animo umano. Tutt’al più registreranno meglio i suoi fatti superficiali e reconditi. L’esperienza e lo spirito soprannaturale restano per i confessori i primi necessari piloti della loro azione sacramentale.

3. – C’è un senso nel quale il giudizio sul valore morale soggettivo allarga affatto la sua esperienza. Pertanto è falso e va evitato. Ecco di che si tratta. C’è un modo di considerare il comportamento dell’uomo che ha le seguenti caratteristiche:

– è generico, e pertanto non realizza gli aspetti e i particolari definienti e determinanti;

– è collettivista, ossia considera le azioni dei singoli come attività della massa, con l’effetto di trasferire almeno parte della responsabilità dal singolo alla folla, che è come dire farla svanire. Questa caratteristica è il frutto di un modo sbagliato e forse non avvertito di parlare della socialità;

– è farcito di termini e di slogans alla moda; tali termini hanno il potere di sfrangiare talmente tutto, di coprirlo sotto un suono talmente gradito da allontanare tutti i confini tra il bene ed il male. In tali condizioni tutto passa e lo vediamo benissimo. – Ora tutti i confessori sono in pericolo di giudicare molte azioni del penitente nel modo falso sopra denunciato. Stiano attenti.

La finalità sacramentale della Penitenza non muta.

– Il sacramento della Penitenza deve attuarsi attraverso un giudizio. Il giudizio deve rifarsi ad un criterio. Per questo motivo ci siamo preoccupati di avvertire che il criterio, ossia la legge obiettiva, non cambiava e che l’aspetto soggettivo delle azioni umane, pur cangianti in se stesse, doveva farsi con principi che sono immutabili. Ma ora dobbiamo guardare al Sacramento ed agli effetti che come tale gli convengono.

Perché questi effetti non mutano?

Perché la loro esistenza è legata al dogma, alla dottrina cattolica certa ed immutabile. Infatti per ammettere una evoluzione del sacramento della Penitenza bisognerebbe ammettere la evoluzione del dogma. Ora il dogma si approfondisce e approfondendolo se ne aumenta la ricchezza, la efficacia, la applicazione, ma in sé non muta. La considerazione degli effetti del Sacramento come tale merita un discorso serio e porta a conclusioni assai impegnative.

1. – Materia prossima del sacramento della Penitenza sono gli atti del penitente. Ciò significa che, ove mancano gli atti sufficienti del penitente, non esiste il sacramento e che la mancanza di compitezza negli atti menzionati per lo meno mette a repentaglio la efficacia della confessione. Quindi il soggetto è estremamente attivo. Deve esserlo in modo sufficiente, pena il non raggiungere l’effetto del sacramento. Questo dà la retta indicazione sulla pedagogia e sulla procedura della confessione, come vedremo. – Il penitente dovrà accusare, per quanto sa, specie morale e teologica, il numero dei peccati mortali. Infatti senza cognizione non si può fare giudizio. La umiliazione che porta con sé la accusa dei propri peccati è lievissima espiazione, meritata, per il peccato commesso. Tutto ciò che reintegra nella giustizia, anche se è doloroso, non mortifica, ma completa la personalità umana. La quale senza questa reintegrazione di giustizia resterebbe sempre nella ipocrita situazione di chi è coperto, ma incompleto. La accusa deve essere completata dal pentimento o manifestato o tale che dalle circostanze possa essere supposto. Questo pentimento deve essere serio. Non occorre trascriviamo qui una pagina del catechismo. Questo pentimento serio, e pertanto completato dal proposito di non ricadere nel peccato, è il più importante, anzi essenziale concorso che il penitente dà alla effettuazione del Sacramento. Esso è l’atto che deve esigersi più di tutti gli altri ed alla cui verità tutto deve concorrere nella preparazione del sacramento, nella elaborazione delle disposizioni, nella cauta e ferma esigenza da parte del confessore. Dio con atto sovrano di Sua competenza distruggerà il peccato, dopo che l’uomo libero peccatore lo avrà rinnegato nelle forme debite. Non prima. – È chiara la conseguenza di metodo: la catechesi della Penitenza, la metodologia di una preparazione, debbono puntare soprattutto sulla verità dell’atto di dolore, ornato delle ben note caratteristiche. – Ora, la pedagogia di preparazione del penitente su questo punto è gravemente trascurata: non se ne parla quasi mai (ed è senza fallo una colpa), non si creano (salvo che nelle confessioni dei collegi e dei bambini) quasi mai le condizioni di stimolo, di istruzione, di avviamento per la preparazione agli atti della confessione; pochissimi mettono facilmente a disposizione gli strumenti che richiamano un tempo ed efficacemente alla preparazione seria. Non si va errati se si afferma che la maggioranza delle confessioni non sono preparate. La gravità della cosa sta nel fatto che il pericolo di non portare la sufficiente penitenza dell’animo nelle confessioni non preparate è veramente grande. Per la santa Messa almeno si preparano i paramenti, la materia del sacrificio, le candele; per la penitenza, in genere, si prepara e si insegna a preparare nulla. Ripetiamo: la mancanza della penitenza, ossia del dolore ornato di tutte le caratteristiche fissate dal catechismo, compromette tutto il sacramento della Penitenza. – È questo il punto delicato per cui il sacramento della Penitenza viene tenuto ben lontano dal puro formalismo, dalla mera e meccanica tradizione, dal semplice gesto esterno che soddisfa la opinione di chi vede. Se la pastorale non torna ad occuparsi fino in fondo della preparazione delle disposizioni del penitente, si cancella in parte la efficacia di un fondamentale sacramento. – Il luogo adatto è condizione preliminare; per questo i confessionali non si possono mettere dove la gente ciarla e si distrae. I sussidi per la preparazione, tabelle e libretti, devono essere considerati non meno necessari delle candele per celebrare la Messa. Una disciplina osservata nel luogo ove si attende e ci si prepara la si deve inculcare a tutti, cominciando dai bambini. Insomma il sacramento, che è un atto divino, è anche un atto compiuto da uomini (penitente e confessore), umano, e che impegna a fondo tutta la responsabilità e la dignità degli uomini. Anche i peccatori hanno una dignità, nonostante la colpa; quella dignità superstite che hanno la devono portare integra e con solennità al compimento dell’atto divino. Le azioni fatte per direttissima sembrano essere entrate nel margine morale della esperienza moderna. Ma questo è un errore, perché l’uomo impreparato ad un atto, il quale di per sé esige preparazione, è veramente e non nobilmente incompleto. Il che non vale solo per il sacramento della Penitenza.

2. – Il principale effetto del sacramento della Penitenza, ricevuto con tutte le condizioni richieste è la remissione del peccato. Consideriamo anzitutto questo: la stima del sacramento della Penitenza sarà sempre proporzionata al concetto severo che si ha del peccato. – L’orientamento di non parlare di peccato, di non allarmare ed allarmarsi, di non temerlo e vergognarsene è orientamento deleterio della vita cristiana. Non c’è amore del mondo che tenga, rispetto per i non credenti che valga, a questo proposito. Il peccato grave è la morte dell’anima e la conclusione, almeno per il momento, negativa della stessa ragione della propria esistenza. A che prò, in fin dei conti, un sacramento della Penitenza, se il peccato è una trascurabile cosa, è una organizzazione del complesso di inferiorità che distrugge la persona umana, che la dissolve in un mito pietoso e ridicolo, etc? – La valutazione del peccato e del sacramento della Penitenza sono perfettamente correlative: insieme stanno, insieme cadono. Né basta che la valutazione del peccato la si tiri fuori per i bambini, allo scopo di impaurirli e contenerli, in certi momenti in cui brandelli di pratica cristiana istillano o richiedono una certa stima dell’Inferno. No, o questa valutazione sta intellettualmente e coscienziosamente alla base della vita o prende le dimensioni della ipocrisia e la inconsistenza della semplice paura. Tutta la educazione impartita, tutto il contegno, tutti gli enunciati intellettuali debbono fedelmente concorrere alla perfetta valutazione del peccato. – Bisogna spiegarsi. Chi maneggia senza alcun ribrezzo certa stampa, senza dare chiaramente a vedere quale motivo di dovere lo spinge a maneggiarla, educa chiunque lo vede alla svalutazione del peccato. Chi apre incautamente il video, senza ragione e senza cautela, mostrandosi stranamente tranquillo davanti ad esibizioni che per molti temperamenti sensibili possono costituire occasione grave e prossima di peccato, ottiene lo stesso risultato ed è inutile che tuoni contro la ingiustizia o la immoralità. Chi copre con i facili slogans azioni ed orientamenti al tutto alieni in qualsivoglia comandamento di Dio aiuterà tutti coloro che cadono nel raggio della sua influenza a farsi una idea di minimizzazione della colpa e ad ammetterla con allegria comunitaria. – Chi rimane non solo impassibile di fronte a certe esibizioni, ma tenta quasi di sembrare galante semplicemente non crede più al peccato, almeno in modo sufficiente. – La valutazione del peccato ha taluni particolari che debbono colorare sempre la catechesi abituale. Per esempio: è verità certa ed indiscutibile che la persona macchiata dal peccato mortale è incapace di qualsiasi vero merito, retribuito soprannaturalmente nella eternità. Infatti il merito soprannaturale ha per base lo stato di grazia, che non coesiste con il peccato grave. Ciò significa che una volta in peccato mortale è inutile agli effetti della gloria eterna, tanto qanto per essa si è esteso od è durato lo stato di peccato. Potrà non essere inutile ad altri effetti di minore e diversa portata. – Ancora: la valutazione del peccato grave non si separa dal senso di incombente pericolo della dannazione eterna. Sappiamo bene che questa parola da taluni la si pronuncia sottovoce o la si sottace. Non credano per questo di abolire l’Inferno, dato che, mentre per andare in Paradiso bisogna assolutamente crederci, per andare all’Inferno non occorre in alcun modo crederci. – È facile e doveroso prevedere che con questa moda di «non far caso al peccato del mondo», magari per poter meglio gettare ponti con esso, il sacramento della Penitenza avrà zone e livelli di paurosa desuetudine. Nessuno si metta in grado di doverne rispondere a Dio. A forza di far mostra che il peccato non esiste, non macchia e non contamina, se ne distrugge la valutazione, con le conseguenze sopra esposte. – Il peccato non muta nelle sue condizioni essenziali, nella sua fisionomia ontologica, nelle sue conseguenze teologiche. Pertanto muta la principalità del sacramento della Penitenza nel mondo del peccato. E credere che quello in cui viviamo sia diventato mondo di angeli e di profeti è semplicemente una stupidità.

3. – Non muta la grazia sacramentale della Penitenza. Essa è obiettiva nella grazia attuale, erogata per causa sua durante e dopo il sacramento, per un certo tempo con uno scopo ben determinato. Eccolo: contenere la debolezza per cui si pecca, aumentare le capacità reattive alle pericolose attrazioni della colpa, irrobustire la perseveranza alla quale si è impegnati nell’atto di dolore, emesso nel sacramento stesso. Ciò significa che il sacramento della Penitenza, mentre restituisce la santità essenziale, aiuta a perseverare nel bene ed è uno dei più grandi rimedi con i quali si provvede alla propria debolezza. È difficile, in circostanze ordinarie, esista la continua fuga del peccato, almeno grave, senza la periodica immissione della grazia sacramentale della Penitenza. Chi crede di essere intangibile per i propri filosofemi, superbamente affermati, per la propria intoccabile dignità personale, è sull’orlo della caduta tutti i giorni e probabilmente cadrà nel modo più stolido e pacchiano. Ha bisogno del Sacramento. Qui non ci si dimentica affatto della grazia sacramentale della santa Comunione; ma resta vero che, per divina istituzione, i due sacramenti non si sostituiscono in modo da lasciare – per chi ha peccato – una libera alternativa. Essi si integrano. – Finché la debolezza degli uomini non cambierà, ci sarà bisogno della grazia sacramentale del sacramento della Penitenza. Cambierà forse la debolezza degli uomini? Credete? Perché stanno aumentando le suggestioni, tanto che sono l’astuto fondamento della politica di massa, i conformismi, la corruzione di tutti gli organismi umani? Il discorso sarebbe lungo, la risposta è una sola ed è ora di farsela risuonare alle orecchie, prima che sia troppo tardi: la debolezza aumenta, per lo meno nella proporzione con cui aumentano le apparecchiature che impressionano gli uomini oltre misura. – In conclusione: la clientela bisognosa della Penitenza non è diminuita, è spaventosamente aumentata. Abbiamo detto e ripetiamo: «spaventosamente».

4. – Il rito sacramentale è finora immutato.

Infatti il rituale è tradotto in volgare, ma non ha ancora subito una vera riforma. Il rituale costituisce una Legge che obbliga in coscienza e che nessuno può a suo arbitrio alterare. Il Concilio Vaticano [il conciliabolo, il falso concilio c. d. Vaticano II, scomunicato con largo anticipo dalla bolla Exsecrabilis di Pio II, e che come tale non possedeva alcuna autorità ed i cui documenti sono da rigettare in blocco cme abominio della desolazione, cosa che Gregorio XVII sapeva molto bene da profondo teologo e canonista quale egli era, e che lascia sottoindendere a chi ha occhi per vedere ed orecchie per ascoltare ndr. – ] nella Costituzione Liturgica, ha disposto una «recognitio», ossia un ritocco ed eventualmente una riforma dei libri liturgici, ma non ha dato a nessuno l’autorità di innovare. La «recognitio» è affidata ad un Consilium, che trae il suo potere dalla suprema Autorità pontificia [quella vera, che allora come oggi è esautorata ed in esiliondr. – ]. Ci sono poi elementi che una qualunque «recognitio» non potrà mai toccare, perché non sono soltanto elementi rituali, passibili di mutazione, sono invece richiesti dalla sostanza teologica del Sacramento della Penitenza, così come lo ha concepito Cristo e il Magistero della Chiesa ha finora insegnato [fino cioè al 1958, finché c’è stato in successore di Pietro liberamente operantendr. – ]. I due campi: quello liturgico e quello – più grave – teologico sono chiusi alle libere iniziative dei privati e dei Vescovi stessi, le cui conferenze dovrebbero, in ogni caso, avere il benestare della Sede Apostolica [quella vera, naturalmente – ndr. – ]. Quello teologico e sostanziale è chiuso alla innovazione di chicchessia nella Chiesa, la quale non può mutare la dottrina certa e acquisita [questa è una chiara allusione ed un avvertimento per far comprendere da quali mani fosse gestita l’«apparente» chiesa dell’apostasia vaticanandr. – ]. Non ci consta che qui da noi ci siano stati abusi o innovazioni risolubili nell’esercizio del Sacramento della Penitenza. Da noi però si è parlato assai di innovazioni indotte o tollerate altrove e, se abbiamo scritto, ciò è anche perché i cattivi esempi non attecchiscano là ove Noi abbiamo responsabilità davanti a Dio. – Eleviamo la nostra accorata protesta contro tutti gli abusi che sono stati fatti: eleviamo tale protesta perché è nostro il diritto di difendere dai cattivi esempi i nostri figli. I sacerdoti si sappiano regolare secondo quello che abbiamo qui esplicitamente richiamato. – Non siamo disposti a tollerare abusi, qualunque sia il luogo da cui si importano. Sia ben chiaro che certi tentativi illegittimi di innovazioni sono solo la testimonianza di una inquietudine, di una deficienza di criterio teologico e forse di ignoranza, da ispirare vera e profonda pietà. – Il mondo attende da noi un ancoraggio, non delle avventure.

La soprannaturalità deve dominare la amministrazione del Sacramento

Cerchiamo di fissare gli elementi concreti, con i quali si attua questa soprannaturalità.

– Lo spirito di Fede.

Nell’amministrare il Sacramento della Penitenza lo spirito di Fede, per intervento positivo e virtuoso della volontà, obbliga a vedere, con la chiarezza della luce di Dio, alcune cose. Eccole:

– La dignità dell’anima del penitente, chiunque egli sia, dato che per redimerla Cristo è morto in Croce:

– l’avverarsi, a proposito della stessa anima, in quel momento di tutto il mistero della Redenzione;

– la enormità della macchia dalla quale Dio in quel momento libera; anche quando si tratta di colpe veniali, valutandole nella eterna luce della grandezza di Dio, appare chiara la infinita misericordia;

– l’avvenire glorioso dell’anima, che viene ristabilito;

– la debolezza alla quale la grazia sacramentale provvede;

– il passo compiuto verso il compimento del numero degli eletti.

Certo, perché questa visione soprannaturale si componga nell’anima del confessore, siccome richiede il rispetto al Sacramento, occorre che egli faccia «sempre», prima di ascoltare qualunque penitente, uno sforzo di raccoglimento, magari per un solo attimo, e veda l’immenso sfondo sul quale egli in quel momento agisce. Riteniamo che il proponimento di un attimo di raccoglimento faccia parte del dovere sacerdotale e che solo il rispetto a quel proposito lo possa portare al livello, al quale sta un Sacramento. – L’effetto certo sta nella devozione, ossia nella pietà profonda, con cui agisce nel Sacramento.

2. – Combattere la «abitudine», che può prevalere nella amministrazione del Sacramento. Spesso i penitenti sono numerosi e si succedono. Spesso i casi si succedono ripetendosi con monotonia. Raramente salta fuori un complesso spirituale che sveglia l’attenzione, acuisce l’interesse. Tutto questo, unito alla immobilità, al dispendio fisico, ad altre circostanze di fatto o di ambiente, conduce ad una sorta di ripetizione meccanica. Questa lascia intatto il Sacramento in sé e nel suo effetto, tuttavia non si potrebbe dire che il confessore abbia assolto bene e reverentemente il suo compito. Egli deve reagire alla meccanicità con tutte le forze dell’anima sua, aiutandole con una preparazione di preghiera e con il ricorso brevissimo alla stessa preghiera, allorché avverte l’infiacchimento psicologico, che tende a pervaderlo. Solo con queste pie avvertenze egli circonda di ambiente soprannaturale il Sacramento che amministra. Questi piccoli consigli sono «determinanti» per avere una degna amministrazione della Penitenza.

3. — Non confondere il Sacramento con qualcosa di profano.

Non si può ammettere l’esercizio della curiosità. Questa è facile, perché si è nel momento in cui un’anima apre se stessa. Essa è generalmente disposta o rassegnata a lasciarsi «leggere». Questo rende facile la soddisfazione della curiosità. Ma tale soddisfazione nulla ha a che vedere con il Sacramento, perché in esso si rappresenta tutto di Dio e nulla di noi stessi ed il servirsene per uso proprio, per lo meno, prepara una possibile profanazione. Per lo stesso motivo non è ammissibile la divagazione della chiacchiera. La chiacchiera, ammesso che sia onesta, non trova assolutamente il suo collocamento nella Penitenza, deve andare altrove. Resta inteso che quanto è necessario alla integrità della accusa ed all’espletamento del multiplo dovere del confessore non è mai chiacchiera. Questa spesso è desiderata da taluni penitenti e da tutto un settore di penitenti, facilmente individuabile. Ma si deve risolutamente resistere, anche se la resistenza può esser fatta – finché hanno effetto — con modi contenuti, sereni e dolci. La chiacchiera ha la capacità di insinuarsi come l’aria e tutto può esser buona scusa per non ostacolarla: conoscenza, direzione, stanchezza, un po’ di varietà in tanta monotonia. Attenti, quanto entra la chiacchiera, altrettanto se ne va quella soprannaturalità, che dipende dal contegno dei due attori, penitente e confessore. – Il discorso della chiacchiera che sfiora o insozza la sfera dei sentimenti verrà appresso. Il senso soprannaturale del Sacramento esclude nel confessore una certa anche confusa mentalità psicanalista. Cerchiamo di mettere le cose in chiaro. Molti ingenuamente e per fare qualche elogio al Sacramento della Penitenza lo avvicinano alla psicanalisi; qualcuno anzi asserisce che la psicanalisi è una profana imitazione della confessione. La differenza tra i due istituti è netta, totale, enorme. Ed ecco il perché. Anzitutto la psicanalisi ha un presupposto ideologico che non può accordarsi né con la natura obiettiva delle cose, né con la dottrina cristiana. Anche se quel presupposto ideologico è piuttosto tramontato, continua però a sostenere tutta la travatura della pratica psicanalitica e facilmente la contamina. In secondo luogo esiste una linea precisa di demarcazione: la confessione comincia dal «cosciente» in su; la psicanalisi comincia dal «subcosciente in giù». Quindi, anche per chi non credesse al Sacramento, sono due «livelli» al tutto diversi. Spieghiamoci. La confessione considera solo il peccato e questo comincia solo da un atto cosciente e libero. Quanto si è svolto prima o al disotto della attuale coscienza responsabile non interessa direttamente la confessione. – La psicanalisi pesca in tutte le costruzioni fatte al disotto del livello di coscienza e, se anche qualche volta lo psicanalista ascolta il racconto di un fatto libero, non è quello che lo interessa, per definizione. – La psicanalisi sguazza in tutto quello che è istinto, reminiscenza, fantasia e sentimento; ama i fondali dove la umanità conserva ed accumula tutte le testimonianze della sua miseria. La confessione tratta il peccatore in quanto ha mancato per un atto interno di consenso spirituale e non rimescola quanto può umiliarlo. – E qui c’è un punto importante a considerarsi: la persona sottoposta a psicanalisi uscirà dalla seduta sapendo di aver rivelato vergogne, che forse non sono neppur sue perché fluiscono da una registrazione subcosciente di sensazioni dall’esterno; il penitente che esce dal confessionale ha rivelato il peccato, non la deformazione costituzionale, alza la testa e si sa redento. – Nella confessione la persona è rispettata e non solo per il sigillo del segreto, ma per una valutazione teologica; nella psicanalisi il soggetto si trova ravvolto dal manto innominabile delle anomalie patologiche e indicibili. [In pratica la falsa scienza psicoanalitica, che non ha nessuna caratteristica di scienza sperimentale, non essendo dimostrabile in nessun modo, tanto meno con i risultati clinici, è piuttosto “ideologia gnostica”, nella quale la “scintilla divina”, cioè l’essenza divina ingabbiata nella materia “corpo”, e che secondo la gnosi è parte stessa di Dio, sua emanazione, non è corruttibile, per cui i conflitti si instaurano sulla componente “anima”, che viene lasciata ed incitata ad estrinsecarsi libertinamente, soprattutto attraverso il peccato, che per tale ignominiosa pratica, è metodo terapeutico liberatorio da nevrosi, psicosi ed altre psicopatie … una vera idiozia di origine luciferina, in assoluto e diametrale contrasto con la teologia cattolica, quindi da respingersi in toto e sotto ogni aspetto, come ci suggerisce opportunamente il Sommo Pontefice Gregorio XVII! – ndr. – ] I confessori chiariscano bene le loro idee e non indulgano mai alla tentazione di fare un po’ di psicanalisi, quasi che questo aggiungesse un prezzo umano ad un deficiente valore divino. Netta separazione: si tratta infatti di assurde e imperdonabili contaminazioni. La vera cura contro tali contaminazioni consiste in una chiara coscienza dell’argomento e in un solido rispetto a tutte le regole, ben strette, che la tradizionale teologia morale ha dettato e circa i limiti di accusa del penitente e circa i limiti di interrogazione da parte del confessore. – La psicanalisi ha già infettato teste, pratiche, costumi, letteratura, politica, ogni mezzo di comunicazione sociale: sta a noi impedire che infetti il sacramento della Penitenza. La preoccupazione non è fuor di luogo perché taluni moralisti, che sono senza alcun dubbio fuori di ogni consenso teologico, le hanno aperte le porte. – I sacerdoti della nostra Diocesi [e del mondo intero -ndr. -] sono avvertiti. Noi non neghiamo affatto che la terapia psicanalista possa dare dei risultati. No. Ma parliamo di terapia, non di filosofia. Quello che importa è che il possibile onesto nella psicanalisi venga lasciato ai medici specialisti e che i preti non pretendano sostituirsi a detti medici, tanto più contaminando un Sacramento.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (1)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

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Lo scopo di questa lettera

Il sacramento della Penitenza è il primo tipico strumento per la remissione dei peccati, nonché il massimo mezzo per la profonda formazione cristiana dei fedeli, come singoli. Il nostro scopo non è quello di ripetere qui quanto può essere facilmente letto in qualunque testo approvato di Teologia morale. Per questo sarebbe sufficiente pubblicare una nota bibliografica con la raccomandazione di servirsene.Il nostro scopo è solo quello di illustrare la proposizione espressa in apertura di questa lettera e di concorrere, per quanto ci è possibile, a crearne nei nostri Sacerdoti il convincimento serio e operante. Riteniamo che, per conseguire questo scopo, si debbano trattare diverse questioni.

Perché la Penitenza è il primo tipico strumento per la remissione dei peccati personali?

Perché, nella ipotesi esistano peccati personali, la penitenza è necessaria, ossia senza di essa in re od almeno in voto non si dà perdono dei peccati. Ciò pone, nel caso esistano peccati mortali personali, una alternativa netta ed impreteribile: o penitenza, almeno in voto, o dannazione. Gli altri mezzi per ottenere il perdono dei peccati senza la attuale amministrazione della Penitenza sono validi e raggiungono l’effetto in quanto contengono in qualche modo il «voto» e pertanto il riferimento al sacramento stesso della Penitenza. La affermazione – estremamente grave – non è una sottigliezza teologica, è un dato fondamentale ed elementare del semplice catechismo. – Per vedere chiaramente la gravità della affermazione, bisogna aver precise e stagliate due verità altrettanto elementari. Il peccato è la più vergognosa e terribile macchia che possa incogliere l’uomo, perché la legge divina – contro cui si lancia il peccato – è condizione impreteribile di salvezza eterna. Legge e peccato sono termini collegati: per dimenticare l’uno bisogna dimenticare anche l’altro. La incarnazione del Verbo ha una sua ragione fondamentale nella redenzione dal peccato; Gesù è l’Agnello che toglie i peccati dal mondo.Il sacramento della Penitenza, collocato nella cornice di queste due verità, assume la sua grandiosità imponente. Se il nostro ministero non compie quello che occorre per togliere i peccati dal mondo, resta un ministero sostanzialmente sterile. Il sacramento della penitenza è la riduzione sacramentale della vicenda espiatrice del Verbo fatto uomo.

Perché la Penitenza è il massimo mezzo per la formazione dei fedeli come singoli?

Perché il confessore, che è nella Penitenza padre e dottore, deve compiere le funzioni di medico dell’anima ed in tale veste deve rendersi conto delle radici dei peccati, deve prescrivere rimedi congrui, deve dare consigli salutari, deve pensare ad evitare le ricadute. Tutto questo fa nel segreto del sigillo, per il quale più facilmente le anime si aprono, nella intimità discreta della cognizione, la quale dispone con singolare naturalezza il penitente alla umiltà, nella dignità di un sacramento del quale non si evita il soprannaturale prestigio. Ossia: nella Penitenza il confessore agisce in maniera diretta sulla vita interiore, vi ha una ineguagliabile capacità incisiva, si impone con giustificata autorità, quanto compie è accompagnato da una divina grazia che supera ogni altra umana efficienza. Nella Penitenza il confessore, ben conscio del suo ministero, illumina, corrobora, orienta, rassicura. Ciò dimostra la capacità educativa dello strumento sacramentale. Nessuno in questo mondo entra nell’anima altrui con la nobiltà, intimità ed efficacia, offerto dalla Penitenza. La psicanalisi entra nella situazione psicologica di fatto, che è un’altra cosa, perché l’anima di un uomo non è da confondersi con la sua fantasia, con i l suo istinto e con il suo subcosciente. Alle spalle della psicanalisi non ci sta un ordine ed una efficacia di ordine divino.

Perché preoccuparsi dello scopo specifico della Penitenza?

Perché si tratta di uno scopo essenziale della nostra Fede. Dove si arriva, infine, se non si tolgono i peccati dal mondo? Poiché nasciamo peccatori, liberi ed immaturi, abbiamo bisogno di una educazione. Poiché la nostra fisionomia interiore e la indefinita varietà degli atti personali che ci seguono portano ad una non minore varietà di situazioni personali, il più delle volte indecifrabili dall’esterno, non è affatto sufficiente ed adeguata una educazione esteriore e di massa. Occorre che il tocco educativo attinga le singole anime. Finalmente a nessuno può sfuggire che l’avvenire del popolo di Dio, formato di fedeli singoli, è intimamente legato alla esistenza di una educazione cristiana, specifica e pertinente. – Questo è necessario capire: che nessuno strumento per quanto ingegnoso, per quanto tecnicamente perfetto, ha nel sacro ministero la potenza penetrativa, la capacità forgiatrice del sacramento della Penitenza. – C’è tuttavia un motivo che dimostra la urgenza di occuparsi dell’argomento. La tecnica ministeriale, che deve pur essere considerata con fiducioso rispetto, tende per un complesso di fatti (che non possiamo esaminare qui) ad invadere e dominare il campo dell’apostolato sacerdotale. I mezzi sacramentali vengono ricercati meno, spesso troppo poco. Un certo umanesimo, di sapore del tutto pelagiano, nel campo intellettuale tende a mettere in primo piano risorse, anche oneste in sé (come la tecnica psicologica, età), ma che in molti servono a distogliere dalla stima per i superiori mezzi: origine divina, quali sono il Sacrificio e i sacramenti. Il naturalismo acquista ogni giorno espressioni scaltre, che paiono accreditarlo non meno del soprannaturale, specialmente se presentato come un ragionevole compromesso per incontrare il mondo, mentre l’incontro con il mondo deve essere fatto nell’ambito segnato dall’Evangelo applicato dai santi Apostoli. Il demonio gioca la tattica di far sostituire ai mezzi dell’Evangelo i sotterfugi di una vacua razionalità mondana. E talvolta ci riesce. Non esitiamo affatto a giudicare tutto questo preoccupante e spaventoso. Ed è per questo che questa Nostra lettera è un grido di allarme. Avevamo cominciato a stenderla or sono diciannove anni allora ci preoccupavamo di richiamare la perfetta e santa amministrazione del sacramento della Penitenza. Quella lettera non fu allora compiuta perché attendevamo l’esito di talune avventure intellettuali. Gli anni sono passati ed oggi a farci ritornare sull’argomento non è solo la preoccupazione della santa amministrazione del Sacramento, bensì il dovere di ridare al Sacramento il prestigio e la preminenza, perdute purtroppo nell’anima di taluni ministri di Dio. Il confronto tra la lettera mai pubblicata e la lettera presente è testimone che talune cose si sono volte al peggio e non al meglio. Contro questa diminuzione di un prestigio della Penitenza si levano alcuni fatti o difetti, che avremo occasione di esaminare appresso. Si leva soprattutto la fame e la sete, che del Sacramento e della direzione spirituale (così legata al Sacramento) prova un numero infinito di anime, pur senza saperlo. Non si dimentichi che il sacramento della Penitenza è la porta più ordinaria al sacramento della Eucaristia, cibo e vita delle anime, ed allora si capirà quanto sia vera la equazione: la formazione profonda dei cristiani è pari alla frequenza ed alla santità con le quali si amministra il sacramento della Penitenza! – C’è un’ultima generale ragione per preoccuparsi assai dello scopo specifico del sacramento della Penitenza. Essa è la necessità della educazione individuale delle anime. Cioè: per educazione non basta affatto quella cosiddetta comunitaria, semplicemente ecclesiale, collettiva, di massa, perché le anime si formano ad una ad una. Nessuno vuol negare che la educazione collettiva sia complementare e qualche volta suppletiva della educazione individuale; si afferma solo che generalmente non è sufficiente. – Sta il fatto che la opinione di comodo scivola verso la convinzione di occuparsi della educazione collettiva, abbandonando la educazione individuale come colpevole di opprimere la libertà della persona umana. E proprio la persona umana, che in ogni caso è ontologicamente persona e in moltissimi casi non è affatto «moralmente» persona, ad invocare l’intervento della formazione individuale. – Ora nella testa di coloro i quali credono alla educazione esclusivamente comunitaria, disprezzando la educazione individuale, entra altrettanto la convinzione che in fin dei conti la Penitenza è solo per rimettere i peccati, una sorta di lavatrice automatica. Noi dobbiamo reagire con tutta la forza contro una simile erratissima concezione che non ha nessuna verità ed un solo pregio: quello di essere molto, ma vergognosamente, comoda. Ecco le principali ragioni per le quali le anime, finché è possibile, vanno formate una per una. Si ammette che è difficile ottenere questo, ma Dio non ci imputerà ciò che diventasse praticamente impossibile, per il numero dei fedeli, per la insufficienza delle forze, per la riottosità delle stesse anime a lasciarsi guidare verso Dio. Mentre dovremo rendere conto di tutto quello che potevamo fare. Le anime sono dissimili. Riesce difficile sostenere che le anime siano o possano essere ontologicamente dissimili. Però, poiché entrano per la unione sostanziale in un composto umano che porta con sé tracce di tutte le generazioni preterite e queste tracce compone e scompone in svariatissimi modi, senza tener conto della intrusione di molti dati di fatto, le anime sono praticamente dissimili tra di loro. A noi poco importa che la ragione della dissomiglianza sia una piuttosto che l’altra; basta il fatto che la dissomiglianza c’è. – La dissomiglianza mette fuori gioco la efficacia di molti mezzi, altri riduce, altri altera. La azione educativa per questo motivo deve partire non solo da una base di principio teorico ed astratto, ma dalla conoscenza del singolo caso in concreto. Spesso accade che lo stesso metodo rende un educando amico ed un altro educando nemico e tanto basta a far capire che i metodi educativi non si possono applicare sempre e dovunque indiscriminatamente. – Le esperienze interiori – oltre che esteriori – delle anime sono dissimili. Queste esperienze infatti dipendono da ambienti, da contatti, da persone, dal grado di doti di relazione, dalle reazioni esterne e finalmente dalla stessa recettività o reattività del singolo. Anime simili possono avere esperienze non solo dissimili, mai addirittura opposte. Tutto ciò porta l’impegno educativo sempre alla considerazione e all’impegno individuale. Affinità ed analogie non mancano, si danno accostamenti che possono permettere anche qualche classificazione, ma con tutto questo non si arriva a poter abitualmente provvedere alla educazione spirituale in una formai semplicemente collettiva. Tanto quanto questa verità entrerà nella convinzione dei nostri confratelli, altrettanto aumenterà la giusta stima del sacramento della Penitenza. – Si potrebbe aggiungere che infinite compressioni di anime trovano uno sfogo giusto solo nell’ombra discreta del sacramento della Penitenza. Pensiamo che i dolori e le solitudini angustiose degli altri debbano avere il loro peso nel farci giudicare con saggezza in merito alla presente questione. Il fatto che lentamente si stia facendo una diversione falsa e dalle incalcolabili conseguenze, – dalla educazione anzitutto individuale alla educazione anzitutto od esclusivamente collettiva, dalla educazione che si adatta alla indefinita ricchezza e varietà delle anime a quella ispirata semplicemente al tipo standard, moda, folla… – deve attirare la nostra attenzione. Esso, soprattutto se entra inavvertitamente (come accade nella maggior parte dei fenomeni), ci fa mettere da parte il sacramento della Penitenza quale lo ha concepito e configurato Gesù Cristo. Infatti da qualche parte – non qui – qualcuno si è provato a dispensare dalla accusa individuale, dando larghe e gratuite assoluzioni generali alla massa. Forse qualcuno ha fatto a meno persino di quella.

La regola morale ed oggettiva divina non cambia

Il sacramento della Penitenza viene amministrato in forma di giudizio, per il fatto che si opera una scelta tra due estremi e questa scelta non è arbitraria, ma guidata dal merito delle cose tra cui si sceglie. I due estremi tra cui si sceglie sono: rimettere o ritenere il peccato. Quale il criterio per scegliere? Gli atti e le disposizioni del penitente. Le disposizioni del penitente in che consistono? Nel pieno rinnegamento del peccato. Allora, presuppongo che qualcosa sia peccato, qualcosa no. Che cosa decide tra i due casi? La Legge, ossia la regola morale obiettiva congiuntamente con la situazione soggettiva. – Comunque tutto comincia a dipendere dal fatto che vi è una regola o legge morale oggettiva, e cioè indipendente da noi, superiore a noi, anche ammettendo la esistenza di leggi positive variabili. Ecco perché in tema di confessione sarebbe inutile continuare ogni discorso ed ogni uso se non esistesse una regola morale oggettiva, capace di discriminare tra il bene ed il male. Ecco perché è importante rispondere alla laconica domanda: cambia la morale? La regola morale oggettiva e divina non cambia. Ed ecco il perché. Il piano di Redenzione delineato nella rivelazione divina ha fissato un tipo dell’uomo con una legge precisa e degli scopi ben definiti. Questo piano non cambia. Per cambiare dovrebbe cadere – contro tutte le affermazioni di Cristo e degli Apostoli – il piano divino. La natura umana non cambia. La sua costituzione, la essenzialità sei suoi rapporti sono immutabili. L’ambiente presenta infinite inazioni accidentali, che non toccano mai l’essenza dell’uomo. La Legge è stata data come definitiva ed eterna. Le norme morali date da Cristo hanno valore fino a che Egli non «verrà di nuovo», e cioè per tutti i tempi fino al momento escatologico. La fissità della norma fino all’ultimo giudizio è una delle cose che risaltano nella predicazione evangelica. – La Chiesa ha in tempo recente chiaramente disapprovato la cosiddetta «morale della situazione» ed il Vaticano II ha richiamato – fatto di morale, sia pure interpretandola secondo lo sviluppo dei tempi [chiaramente questo è criticare il conciliabolo senza che i suoi insipienti “censori” se ne rendessero conto, viste poi le successive affermazioni in evidentissimo contrasto -ndr.-], le norme sempre affermate dal magistero ecclesiastico. Contro questa fissità della regola morale si levano talvolta voci discordi, o – piuttosto – si insinuano «modi» di considerare le cose, i quali dovrebbero a poco a poco arrivare a dissolvere la norma stessa. La confusione in materia, la incompetenza teologica e la presunzione di facili scrittori possono creare il miraggio di una fata morgana possono sedurre anche dei confessori. Noi li mettiamo severamente in guardia. – A tale fine osserviamo più da vicino taluni punti sui quali è facile creare il rovesciamento della norma divina.

1. – Qualcuno ha creduto che nel Concilio venisse indotto qualcosa di nuovo a proposito del matrimonio con tutte le sue conseguenze. Vediamo anzitutto il «creduto nuovo». Si tratta dell’amore coniugale. In effetti a questo amore si dà una attenzione non consueta ai Documenti antecedenti del Magistero. Non è mancato durante la elaborazione conciliare qualcuno che avrebbe voluto si asserisse l’amore essere fine essenziale del matrimonio [tesi eretica -ndr.-]. La verità è che questa asserzione non venne e che quanto detto sull’amore coniugale era già ben noto ed è tutto uno sviluppo di quanto san Paolo afferma al capo 5 della lettera agli Efesini. Vediamo le conseguenze. Essa – la novità – sarebbe stata, nei desideri di qualcuno, una tale precedenza dell’amore sulla fecondità da consentire al primo almeno qualche sbizzarrimento ai danni della seconda. Ma questo non accadde. Si dice invece (1. c. 50) espressamente: «Il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole. I figli infatti sono il preziosissimo dono del matrimonio». Si è fatto un gran parlare di qualche rimedio costrittore e riduttore della fecondità coniugale. I principi della morale non hanno mai ammesso mutilazioni né anatomiche, né fisiologiche, né biologiche. Restava a vedere se il conclamato rimedio fosse nulla di tutto questo, ma solo un vero ed onesto regolatore nell’ambito della natura. Dire se lo fosse e lo fosse nel senso voluto dalla morale accettata non appartiene ai teologi, ma agli scienziati. Per studiare la cosa il Sommo Pontefice [quello falso del falso concilio -ndr.] ha costituito una numerosa commissione, la quale ha già presentato il frutto dei propri studi. Ma la Santa Sede non si è ancora pronunciata in alcun modo. Pertanto le regole morali restano quelle di prima. [e tali resteranno sempre! – ndr. – ]

2. – Si è notata una certa tendenza qua e là a dare più importanza alla persona umana che alla legge divina. Il che è inammissibile, perché non esiste nella persona umana alcun diritto di legittima emancipazione dalla legge. E non che tutto questo lo si dica chiaro, ma si inducono tali accentuazioni, tali toni e tali sfumature, dalle quali è facile dedurre un qualche lenimento della legge a favore della emancipazione umana. Questi toni sdrucciolevoli si trovano generalmente negli scritti superficiali, dall’andamento più giornalistico che ragionato, tuttavia creano delle perplessità nelle anime. Noi mettiamo severamente in guardia tutti i sacerdoti contro quello che si accenna, nei facili scritti, verso una maggiore emancipazione del volere umano e li esortiamo a stare accuratamente agli insegnamenti dei testi di Teologia morale che la scuola ha messo loro in mano [cioè quelli antecedenti al conciliabolo! -ndr.-]. Facciamo qualche esempio per spiegarci meglio. Quando si mette troppo l’accento sulla incomprensione che taluni giovani constatano da parte dei rispettivi genitori ed educatori, si tace troppo e volentieri che, ad onta di qualsivoglia incomprensione, intatta – e per diritto divino — la patria potestà con le sue emanazioni. Così, per compiangere i giovani, si giunge praticamente ad asserire la loro emancipazione dalla virtù della obbedienza, dal dovere della disciplina, sostituendo un certo colloquio, che sarà sempre utile, ma non è un equivalente della obbligazione voluta da Dio. Per lo stesso motivo si finisce con l’addurre le generazioni giovanili a disprezzare l’apporto insostituibile della esperienza e ciò con danno enorme dei giovani stessi, spinti in tal modo a ricredersi per la via dell’esperimentato e generalmente tardivo dolore inutile. – Pare che molti lentamente stiano arrivando ad ammettere che tutto diventa morale quando è afferente alla libertà ed alla personaumana. Ciò in contrasto con il dato fondamentale della vita che è una prova di come ci si sa diportare di fronte ad una Legge, non deterministica, ma obbligante in linea morale.

3 — E cambiato qualcosa in materia di castità, di purezza, di modestia? (Modernamente si direbbe: «in materia sessuale», ma preferiamo mantenere la vecchia e più cauta terminologia). È certamente cambiato in molti il modo di considerare il sesto comandamento, ma non è cambiata la Legge. Vediamo dunque come è cambiato questo «modo». – Anzitutto si parla della materia come se il parlarne non implicasse più ragioni di educazione, di pudore, di cautela, di difesa dal fomite della concupiscenza. Di conseguenza se ne parla troppo. Ciò è connaturato al diffondersi della teoria freudiana. Ma, riteniamo, è dovuto molto più all’esagerato senso della personalità umana, per cui si cerca di eliminare tutto quanto alla stessa è limite, contenimento, sacrificio. Questo, dopo aver dimenticato che la persona umana è soggetta alla Legge e non è arbitra della Legge. Finalmente se ne parla troppo per non esser da meno della grande stampa, la quale ostenta abitualmente in materia la più grande procacità o la più voluta indifferenza, salvo ad abbandonarla contradditoriamente quando una regola morale le viene bene per creare lo scandalo e l’utile dello scandalo. Guardandosi intorno si può avere anche la impressione che si debba considerare morto il senso del pudore. Ma, stiano attenti i sacerdoti: non esiste un consenso nel male, ossia, il largo consenso nel male non modifica in nulla la legge del bene. Si dovrebbe osservare la Legge di Dio, anche se si restasse soli! Una ben intesa psicologia ed una retta pedagogia, considerando l’insieme del quadro in cui oggi avviene lo sviluppo e la educazione, potranno variare certe impostazioni affatto secondarie e probabilmente nocive nella situazione moderna; ma non toccano né la debolezza, né il fomite, né il rapporto di attrattiva, né la sostanza del peccato e della virtù. Siamo d’accordo nel dire che la sola modestia degli occhi oggi non basta più, data la esibizione del contegno e di tutte le comunicazioni sociali. Ma ciò significa che si deve tutelare la virtù piuttosto con il metodo attivo, positivo e combattivo, e che occorrono maggiori riserve interiori; non significa affatto che la modestia degli occhi oggi non sia più necessaria. Il pericolo di peccato è aumentato, non diminuito. Il rapporto tra l’anima ed il corpo rimane lo stesso; le conseguenze del peccato originale non si sono affatto affievolite; il rumore, la fretta e la incessante varietà delle sensazioni non dispensano dai problemi, ma ne creano uno nuovo togliendo concentrazione e indipendenza all’azione dello spirito. Il mistero del quanto il materiale attinga lo spirito e del quanto lo spirito incida sul materiale è ben grande; rimane non meno il dovere obiettivo di difendere lo spirito, di prendere tutte le necessarie cautele contro le debolezze proprie del composto umano. – Dovremo appresso ritornare sull’argomento.

4. – Non è mutata la fisionomia teologica del sacramento della Penitenza. E dottrina cattolica che esso è intrinsecamente, oltre che un sacramento, un giudizio. La interpretazione che la Tradizione ha sempre dato di tutte le parole evangeliche riferentisi alla istituzione del sacramento ed al conferimento del perdono non lascia dubbi al riguardo. Il consenso di tutta la Chiesa, durato tanti secoli, chiama in causa la sua infallibilità e pertanto la divina garanzia. Chi volesse toccare il carattere giudiziario del sacramento della Penitenza sarebbe obbligato a distruggere la Tradizione ed il magistero ecclesiastico. Per questo motivo la fisionomia teologica e giuridica del sacramento non viene né può venire in discussione, come non possono discutersi tutte le conseguenze della essenza; anche giuridica. È per questo motivo che, salvo il caso di necessità urgente o di impossibilità, nessuno può arbitrarsi di manomettere in qualsivoglia modo la integrità formale della accusa dei peccati, sostituirla con accuse generiche e collettive o trovate simili.

5. – Fino a questo momento non è cambiato neppure il rituale del Sacramento. Il rituale costituisce una Legge, che vincola in coscienza. Pur sapendo che anche il rituale dei sacramenti andrà soggetto ad una riforma, bisogna attendere che venga e nessuno è autorizzato a sostituirsi nelle innovazioni ad una Autorità, quale risiede solo nella Chiesa. In conclusione: solo la Legge può addurre mutazioni; prima della legge, quando non si voglia garantire la perfetta osservanza, non resta altro che la indisciplina e la anarchia. Il diritto liturgico è stato legittimamente per molti secoli riservato al potere supremo della Chiesa; attualmente il Concilio Vaticano II ha riconosciuto alcuni poteri ad organi inferiori [altra chiara stoccata alle mutazioni del falso concilio – ndr.-]. Nella materia di loro competenza bisogna attendere che questi decidano. L’ondata pseudoculturale di estrazione hegheliana che ha investito tutte le manifestazioni intellettuali, impoverendole, ha investito anche talune scuole e persone ecclesiastiche. Si tratta di ignoranza di quella estrazione (come abbiamo già molte volte ammonito), si tratta di complessi di inferiorità rispetto ai grandi colori della messinscena pubblicitaria, si tratta in ultima analisi di uno svanire nella distinzione del bene dal male, della verità dall’errore, di una pretesa creativa dell’essere nel vero e nel buono: gli ecclesiastici se ne guardino specialmente a proposito di un sacramento fondamentale per la salvezza dell’uomo peccatore. L’idea della indifferenza tra bene e male è praticamente presentata in concreto dalla grandissima maggioranza degli attuali mezzi di comunicazione, in termini espliciti da imprese editoriali, che non si occupano né del bene né del male, ma solo del danaro. Essa, immessa dalla lettura quotidiana, a poco a poco, si può insinuare e di fatto in qualche modo si insinua anche nel clero. Questo denunciamo altamente e contro questo pericolo mettiamo tutti in guardia. – Il sacramento della Penitenza è legato con situazioni che non muteranno mai; neppur esso cambierà, quanto alla sua sostanza ed alla base morale che sempre suppone il giudizio morale.

[Continua… ]

PERSEVERANZA

PERSEVERANZA

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide ; S.E.I. Ed. Torino, 3a ed. 1930]

1.-Necessità della perseveranza. — 2. Per perseverare ci vuole coraggio. — 3. Motivi di attendere alla perseveranza. — 4. Esempi di perseveranza. — 5. Eccellenza e vantaggi della perseveranza. — 6. Facilità della perseveranza. — 7. Disgraziati quelli che non perseverano! — 8. Mezzi di perseverare.

1. Necessità della perseveranza. — Dopo che Gesù Cristo aveva già detto in particolare della preghiera che « è necessario pregare sempre, cioè perseverare nella preghiera, e non stancarsi mai di pregare » (Luc. XVIII, 1); venne ad una sentenza più generale e disse perentoriamente che « quegli solo andrà salvo, il quale persevererà fino in fin di vita, nella fede, nella pietà, nella religione, nell’adempimento insomma di tutto ciò che costituisce la vita del cristiano » (Matth. XXIV, 13). Perché «chi mette mano all’aratro e si rivolge indietro, non è fatto per il regno dei cieli » (Luc. IX, 62). E con ragione: infatti non è forse l’uomo tenuto a progredire sempre in perfezione? Sì certo: e come potrà egli pervenirvi senza perseveranza? Ricordatevi, dice S. Bernardo, che il cristiano non si obbliga a servire Dio per un anno o per un determinato tempo, come un mercenario; ma per tutta la vita come un figlio; e quindi per quanto corra, non avrà mai il premio, se non corre fino alla morte : e ne ha esempio in Gesù Cristo che fu obbediente fino alla morte.
Ascoltiamo i salutari ammaestramenti che ci forniscono su questo punto gli Apostoli. S. Paolo, per animare i Romani a non più ricadere nel peccato dopo esserne siati mondati col battesimo e con la penitenza, ma a perseverare nel bene, propone loro l’esempio di Gesù Cristo il quale risuscitato una volta da morte, più non muore (Rom. VI, 9); e incoraggiava i Corinzi a mantenersi fermi e saldi, a proseguire anzi più alacri nelle opere del Signore, col ricordare loro che di quanto facessero, Dio nulla avrebbe lasciato senza mercede (I Cor. XV, 58). I Galati ammoniva che stessero nella libertà ricevuta da Cristo, e non si lasciassero più piegare al giogo della servitù del demonio; che non facessero solamente il bene in sua presenza, nè si stancassero qualche volta di farlo, ma fossero sempre zelanti per tutto ciò che vi è di buono (Gal. V, 1) (Gal. VI, 9) (id. IV, 18). – Scongiurava gli Efesini, per le sue catene, che si regolassero in maniera degna della loro vocazione, cioè come figli di luce, perché se altre volte erano stati tenebre, fatti cristiani erano divenuti luce del Signore (Eph. IV, 1) (Id. V, 8). Sì, la vocazione del cristiano è la perseveranza nel bene che egli cominciò a praticare dal punto in cui pose piede nelle vie spirituali. Ma chi cammina, moltiplica i suoi passi, avanza per arrivare alla mèta; voi dunque che avete ricevuto Gesù Cristo, vi dirò col medesimo Apostolo, camminate sui suoi passi, stretti a lui, edificati sopra di lui, e fermi nella fede che vi fu insegnata, ma fermi così ch’ella cresca ogni giorno nella vostra gratitudine (Coloss. II, 6-7). Guardate che nessuno di voi manchi alla grazia di Dio; non lasciate che la stanchezza vi accasci, o la tristezza vi abbatta (Hebr. XII, 15-3). – Crediamo rivolto ad ognuno di noi in particolare quel comando di San Paolo a Timoteo: « Ti ordino innanzi a Dio che tutto vivifica, e innanzi a Gesù Cristo, di osservare questo precetto immacolato e irreprensibile, fino alla venuta del Signore; perchè chi combatte nell’arringo, non è coronato se non ha combattuto come deve » (I Tim. VI, 13-14) (Il Tim. II, 5). – « Voi dunque, o fratelli miei, vi dirò con S. Pietro, che avete conosciuto il bene, custoditelo gelosamente, perchè non vi accada di scadere dalla vostra fermezza; ma crescete nella grazia e nella conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo » (II Petr. III, 17-18). « Conservatevi nell’amor di Dio », vi dirò con S. Giuda. « Mantenetevi fedeli fino alla morte », vi ripeterò con S. Giovanni (Apoc. II, 10). « Ricordatevi di quello che avete udito e ricevuto, e osservatelo per modo che chi è giusto lo divenga di più; chi è santo, diventi più santo » (Id. III, 3) (Id. XXII, 11). – « Tenetevi fermi dinanzi al Signore », inculcava Samuele al popolo ebreo (I Reg: X, 19). « Sta saldo a tuo luogo, dice a ciascun uomo il Savio, e persevera nell’invocazione dell’altissimo Iddio » (Eccli. XVII, 24). Ben comprendeva questa necessità della perseveranza il Salmista il quale diceva a Dio: « Assodate i miei passi per la strada che conduce a voi, affinché non mi avvenga di barcollare » (Psalm. XVI, 5).

2. Per perseverare ci vuole coraggio. — Tutte le frasi che adopera nella Santa Scrittura lo Spirito Santo, quando parla di perseveranza nel bene, accennano a fortezza, a coraggio, a lotta, a combattimento, a sforzi, a fatiche : « Noi ci sforziamo di piacere a Cristo », confessava di sé l’Apostolo delle genti (II Cor. V, 9); e scrivendo a Timoteo lo confortava che combattesse il buon combattimento della fede, e s’impadronisse della vita eterna alla quale era chiamato (I, VI, 12); altra volta lo esortava a fortificarsi nella grazia della perseveranza che è in Cristo Gesù (II, II, 1).
« Una pietra quadrata, scrive S. Agostino, da qualunque parte si volti, si ferma e sta; così dev’essere del cristiano; egli deve temprarsi ed acconciarsi ad ogni tentazione in modo che per nessun urto cada, per nessun assalto crolli, ma si trovi saldo in ogni circostanza ». Il levriere che scorge la lepre, la insegue tra selve e spine e burroni, né cessa di correre finché non l’abbia presa. Ecco l’immagine del cristiano che aspira alla vita eterna… – Fratelli miei, scriveva S. Paolo ai Filippesi, io cammino verso la mèta che mi fu assegnata dal Signore Gesù Cristo. Non penso affatto di averla raggiunta, ma solamente, obliando quello che mi sta dietro e spingendomi a quello che mi sta dinanzi, tendo al termine, alla ricompensa celeste che Dio mi destina in Cristo Gesù. Noi tutti dunque che vogliamo essere perfetti, siamo di questo sentimento (Philipp. IlI, 12-15). L’Apostolo esamina, non dove è giunto, ma quello che gli resta di via da percorrere, per giungere al cielo. E si sforza e suda per tendere alla vita eterna, dimenticando tutto il resto… « Beati quelli, dice a questo proposito S. Gerolamo, i quali non riposando su le opere di giustizia per lo innanzi fatte, ogni giorno, a imitazione dell’Apostolo, si rinnovano e progrediscono in virtù: poiché la giustizia non giova al giusto dal giorno in cui egli cessa di essere tale. Santità è, non cominciare ma finire ». Quindi S. Cipriano, scrivendo ai martiri, così li esortava: «Se il combattimento vi chiama, se il giorno della battaglia è giunto, combattete da valorosi, lottate con perseveranza: ben sapendo che vi battete sotto gli occhi del Signore, che i generosi vostri sforzi sta considerando ».
La moglie di Lot fu cambiata in una statua di sale, non appena fermò il piede e si voltò indietro : per significarvi che vera sapienza è progredire, dannosa follia è arrestarsi o indietreggiare… Serva questo esempio a incuterci un salutare spavento, mentre ci dà un utile ammaestramento. Il cristiano è raffigurato in quel cavaliere che fu veduto da S. Giovanni nell’Apocalisse, montare un bianco cavallo e partire vincitore con nella destra un arco e in capo una corona, per vincere ancora (Apoc. VI, 1-2). Egli deve, come la Sposa dei Cantici, levarsi la notte, percorrere la città, cercare colui che è l’amore dell’anima sua; cercarlo per le contrade e per le piazze; e trovatolo afferrarlo, stringerlo, abbracciarlo così stretto che non l’abbandoni mai più (Cant. III, 2-4). – « Sta nel luogo, nell’uffizio che ti è toccato e continua nella preghiera », ci dice lo Spirito Santo (Eccli. XVII, 24). Questa parola sta, dimora, sii fermo, significa: 1° la lotta che si deve sostenere contro i nemici per perseverare… ; 2° il coraggio, l’energia con cui si deve combattere per ottenere la perseveranza … Sta, tienti saldo; resisti generosamente; non cedere, non indietreggiare; solo in questo modo tu persevererai… – I soldati, sul campo di battaglia, resistono, combattono con eroico valore; tuttavia qualche volta sono vinti dai nemici. Ma i soldati di Gesù Cristo, se si tengono fermi, sono sempre vittoriosi; poiché nessuno può rapire loro la virtù e la perseveranza nella virtù; nessuno, eccetto la loro propria volontà… Essi si mostrano quali li dipinge S. Cipriano, irremovibili in mezzo alle torture, più forti dei carnefici; e le loro membra scerpate, slogate, peste, resistono alle verghe, ai graffi, alle lame ardenti. Il più lungo e atroce supplizio non può vincere la loro fede; e quando non possono più servire Dio con i loro corpi, perché esanimi, non cessano di servirlo con le loro ferite (De Martyr.)… Sta, invincibile e perseverante contro il demonio, le tentazioni, il mondo, la carne. – Entrate a parte della felicità dei Santi, vi dirò con l’Ecclesiastico, per mezzo delle buone opere; studiatevi di progredire ogni giorno in virtù, perchè entriate nel numero di quelli che vivono e danno gloria a Dio; andate al cielo, vivete per l’eternità (Eccli. XVII, 25). Fruttificate come rosai piantati presso un ruscello (Eccl. XXXIX, 17). Crescete, moltiplicate le vostre virtù, spiegatele; siate fecondi in foglie, in fiori, in frutti di carità, di pazienza, di umiltà, di soggezione, di modestia, di purità, e di ogni virtù… « Studiate a divenire migliori di giorno in giorno, dice S. Basilio; progredite nelle virtù, affinché vi accostiate sempre più agli angeli e diveniate simili a loro ».

3. Motivi di attendere alla perseveranza. — « Io proseguo, dice l’Apostolo, per arrivare allo scopo » (Philipp. Ili, 12). Queste parole cosi spiega il Crisostomo: Io ho tuttavia una vita piena di combattimenti; mi trovo ancora lontano dalla mèta, sono poco avanzato nella corsa. Il grande Apostolo usa il verbo perseguito anziché corro; perchè colui il quale anela dietro un oggetto, se lo fa con ardore, non bada a persona, supera coraggioso ogni ostacolo, v’intende gli occhi, il cuore, il corpo, le forze, l’anima tutta; non pensa ad altro, ma tutto si volge ad ottenere il suo fine (In Verb. Apost.). – « Ecco che io vengo presto, dice il Signore nell’Apocalisse; e porto con me la mercede, per ricompensare ciascuno a ragione delle opere sue » (Apoc. XXII, 12). « Mantenetevi dunque fedeli fino alla morte, ed io vi cingerò la corona di vita» (Apoc. II, 10). « Badate a tenervi ben custodito ciò che avete, affinché non sia data ad altri la vostra corona » (Id. IlI, 11). – Regoliamoci in modo, secondo l’avviso di S. Paolo, che guadagniamo sempre meglio (I Thess. IV, 1). Perché parola certa e degna di fede è questa, che se noi moriamo con Gesù Cristo, vivremo con lui.; se con lui duriamo nei patimenti, con lui regneremo (II Tim. II, 11-12). Noi conserveremo mirabilmente l’acquisto fatto, se studieremo del continuo ad acquistare; invece vedremo diminuire e andare in fumo quello che possediamo, se cessiamo dall’aggiungervene. Come stanno bene su le labbra del cristiano quei detti della Sposa dei Cantici: «Mi sono spogliata della tunica, forse che la vestirò di nuovo? Ho lavato i miei piedi, come mai li imbratterò ancora? » (Cant. V, 3). « Perseveriamo adunque, se vogliamo essere coronati, conchiuderò col Crisostomo; perché nobile ricompensa non può mancare a chi segue il Signore » (In Verb. Apost.) (Homil. VIII); e con Fausto, vescovo di Reims: siamo perseveranti nel servizio di Dio, avendo di mira l’eterna mercede e adoperiamoci a sempre fare meglio ogni giorno. Il desiderio di raggiungere la corona e l’abitudine del bene ci portino a sempre crescere in meriti (In Vita).

4. Esempi di perseveranza. — Gesù Cristo durava le notti intere nella preghiera (Luc. VI, 12). S. Paolo non cessava notte e giorno dall’ammonire con lacrime ciascuno in particolare dei fedeli (Act. XX, 31); e già allora vedeva tanti esempi di Cristiani fermi e costanti nella pratica del bene, che poteva dire agli Ebrei : « Accerchiati da un nuvolo tale di testimoni, deponiamo ogni peso ed ogni peccato, e corriamo con pazienza di carriera per l’arena che ci è aperta » (Hebr. XII, 1). Di S. Barnaba nota il sacro testo, che « esortava tutti i fedeli a perseverare con animo saldo nel Signore » (Act. XI, 23). E tanto valevano presso quei fervidi cristiani le apostoliche esortazioni, che di loro in generale può attestare S. Luca, che « erano perseveranti nella dottrina degli Apostoli, nella partecipazione del pane che loro veniva distribuito, e nella preghiera » (Act. II, 42). – Bisogna fare per la conservazione e l’acquisto della grazia e della virtù, quello che fa l’avaro per l’oro, e imitarne la perseveranza. Oh felici noi! felice il mondo! se si potesse rendere di ogni cristiano quella testimonianza che di S. Agata rendeva Afrodisio, al tiranno Quinziano: « Sarebbe più facile ammollire i macigni e il diaspro, cambiare il ferro in piombo, anziché cambiare l’animo di Agata, e sviarla dall’amore di Gesù Cristo e dal proposito della castità» (In Vita); se su la tomba di ciascun fedele si potesse incidere l’elogio che fece di Tobia lo Spirito Santo : « Stette immobile nel timor di Dio, rendendogli grazie tutti i giorni del viver suo » (Tob. II, 14). – Così era Davide il quale poteva dire: « Signore, io non ho abbandonato la vostra legge; ma perseverava tra i miei, nella innocenza del mio cuore » (Psalm. CXIII, 87) (c. 2). Tale era Giobbe che esclamava: Finché avrò un filo di vita, le mie labbra non proferiranno parola men che retta, la mia lingua non pronunzierà menzogna, praticherò l’innocenza, non devierò mai di un passo dalla giustizia (Iob. XXVII, 3-6).

5. Eccellenza e vantaggi della perseveranza. — S. Bernardo fa questo elogio della perseveranza: «La perseveranza è il vigore delle forze, la consumazione della virtù, la nutrice dei meriti, la mediatrice delle ricompense, la sorella della pazienza, la figlia della costanza, l’amica della pace, il nodo della carità, il legame dell’unanimità, la cittadella della santità. Togliete la perseveranza, e l’obbedienza non ritrae più premio, il benefizio perde la sua grazia, il coraggio non merita più lode. Solo alla perseveranza si concede l’eternità, meglio, è essa che restituisce l’uomo all’eternità, dicendo il Signore: Chi persevera fino alla fine, sarà salvo ». « La perseveranza, scrive il medesimo Dottore, è la figlia prediletta del gran re, il frutto e il compimento delle virtù, l’arca che contiene ogni bene. E tale virtù, senza la quale nessuno vedrà Dio, nè sarà veduto da Dio, è il termine della giustizia per ogni credente: infatti che cosa giova il correre, e poi stancarsi ed arrestarsi prima di toccare la mèta? Corriamo in modo che arriviamo al premio! ». – Le più munite fortezze cedono agli sforzi di un assedio perseverante… La perseveranza è più potente che la forza; anzi è essa una forza ed una potenza irresistibile… Senza la perseveranza, dice S. Lorenzo Giustiniani, né chi combatte, vince; né chi vince, ottiene la palma. Solo la perseveranza merita la corona della felicità eterna; che più? questa corona le appartiene… – Basti ricordare a questo proposito il fatto della donna cananea e la parabola di colui che va la notte a chiedere tre pani ad un amico. Quella supplica a calde lacrime il Redentore che abbia pietà di lei, e Gesù non la degna di una parola: si prostra per terra e grida: Signore, soccorretemi, e Gesù la rimprovera dicendole che non bisogna gettare ai cani il pane dei figli. La donna non si perde di coraggio, ma con perseveranza nella preghiera volge a suo vantaggio il paragone, facendo osservare al Redentore che se ai cani non si dà il pane, ben si gettano le briciole e gli avanzi della mensa. E questa perseveranza le vale, oltre una perfetta guarigione, un magnifico elogio dalla bocca del divin Maestro: Grande è la tua fede, o donna! (Matth. XV, 22-28). E colui che si vede arrivare nel cuore della notte, mentr’egli è in letto coi chiavistelli alle porte, un amico che gli chiede del pane, non è vero che se, dopo di averlo mandato due o tre volte con Dio, l’altro non si parte, ma continua a chiedere e bussare, egli finisce col levarsi su e, se non in riguardo dell’amicizia, per togliersi almeno la seccatura, dà all’importuno quello che gli bisogna? (Luc. XI, 5-8). Poteva la Sapienza incarnata metterci più vivamente sott’occhio l’eccellenza e l’umiltà della perseveranza? – Perché, osserva qui S. Agostino, colui che è coricato, si alza per dare a chi picchia alla sua porta? Perché questi non cessa dal bussare, perché non ottenendo nulla in su le prime, persiste a domandare. Colui che non voleva dare, vi si risolve alfine, perché il suo amico continua e non si offende del rifiuto. Ora come vorrete che Dio il quale è così buono, Dio che ci esorta a domandare, e si offende se non domandiamo, come vorrete, dico, che non ci dia tutto e più ancora di quello che domandiamo, se perseveriamo! (In Verb. Domini). Questa violenza piace a Dio, ce ne assicura Tertulliano (De Orat.). – Gesù, salito su la nave di Pietro, gli ordina di spingersi in alto mare e di gettare le reti per la pesca. Simone gli fa osservare che già per tutta la notte si erano affaticati indarno, ma che tuttavia fidente nella sua parola non ricusava di rimettersi all’ingrato lavoro : e gettate infatti le reti, le ritirarono tanto piene di pesci, che dovettero chiamare aiuto e poco mancò non si squarciassero (Luc. V, 3-6). Perché questa pesca miracolosa? Per due ragioni : 1° perché avevano continuato tutta la notte a pescare, ancorché loro non venisse fatto di prendere nulla; 2° per la pronta obbedienza di Pietro a ripigliare il lavoro… Qui si adatta la sentenza di Seneca: « Non vi è cosa né cosi ardua, né così sublime che una perseveranza solerte, forte, irremovibile non giunga a conquistare. Molto in alto sta la vita beata, ma la perseveranza la raggiunge. È vergogna soccombere vilmente sotto il peso, e contrastare col proprio dovere. L’uomo forte e animoso non scansa la fatica; la difficoltà dell’impresa gli infonde coraggio anziché togliergliene ». – L’apostolo S. Giacomo ci assicura che colui il quale tiene fisso lo sguardo nella legge perfetta di libertà e vi persevererà, senza dimenticare quello che ha inteso, ma operando secondo la legge, questi sarà beato ne’ suoi fatti (Iacob. I, 25). Anche Gesù aveva detto : « Se dimorate in me, e le mie parole dimorano in voi, voi domanderete tutto quello che vi gradirà, e l’avrete » (Ioann. XV, 7). Chi poi dimora, cioè sta fermo, persevera in Gesù Cristo, costui non pecca, dice il medesimo Apostolo. Ora chi è che si tiene saldo in Gesù, e in cui Gesù dimora? è colui che ne osserva i comandamenti (I Ioann. IlI, 6, 24). Queste parole suggerirono al Venerabile Beda la seguente esortazione: « Sia Iddio la casa vostra, e siate voi la casa di Dio. Dimorate in Dio, e Dio dimori in voi. Dio abita in voi per contenervi nella perseveranza; voi abitate in Dio per non cadere ». – Molti altri preziosi e nobili vantaggi della perseveranza accenna Iddio nell’Apocalisse: « Chi vincerà, mediante la perseveranza, non vedrà la seconda morte » (Apoc. II, 11); cioè egli sarà esente dal peccato che separa l’anima dalla sua vita, che è la grazia di Dio. La prima morte è quella che percuote il corpo nella vita presente; la seconda morte è quella che percuote l’anima nel tempo, e quindi il corpo e l’anima nell’eternità. In altro luogo fa annunziare che al vincitore egli darà una manna sconosciuta ed una pietruzza candida nella quale sta scolpito un nome nuovo, che nessuno conosce, eccetto colui che lo riceve (Id. II, 17). Ora assicura che chi avrà vinto sarà vestito di bianchi lini, non vedrà mai il suo nome cancellato dal libro dei viventi, ed egli, Gesù, lo confesserà per suo innanzi al Padre ed agli Angeli suoi : anzi lo farà sedere accanto a sè sul suo medesimo trono; come egli stesso, avendo vinto, si è assiso sul trono con suo Padre (Id. III, 5-21). Altrove dice che del vincitore ne farà una colonna che starà in eterno nel tempio del suo Dio, che scriverà sopra di lui il nome del suo Dio e il nome della città di Dio, della nuova Gerusalemme che discese dal cielo da Dio e finalmente il nome suo (Id. III, 12). Quanti vantaggi, quante ricchezze, quanta felicità, quanta gloria per quelli che trionfano per mezzo della perseveranza! Essa racchiude adunque tesori infiniti… – Quando Dio vede una generosa perseveranza, immantinente colma l’anima di favori celesti; e più vede fedeltà e fervore, più egli abbonda in grazia ed in gloria, secondo quelle sue parole : « Sarà dato a colui che già ha, ed abbonderà » (Matth. XIII, 12). Poiché la grazia nasce dalla grazia, i progressi aiutano i progressi, i meriti fanno scala ai meriti, i trionfi procurano trionfi; di modo che più uno si adopera ad acquistare ed a perseverare, e più si arricchisce di virtù; più attinge di sapienza alla sorgente della sapienza, e più desidera attingerne. Affrettiamo il passo, cerchiamo, domandiamo, desideriamo, picchiamo fino alla fine, acciocché ci sia dato rallegrarci e godere senza misura e senza fine. Diciamo a Dio col Salmista: « Noi non ci allontaniamo più da te; tu ci renderai la vita e noi invocheremo il tuo nome: e l’anima nostra vivrà sempre per te » (Psalm,. LXXIX, 19) (Psalm. XXI, 30). « Felice l’uomo che a te si appoggia, che da te aspetta il suo soccorso! Egli traversa le sabbiose valli della morte; vi trova sorgenti di acqua viva; le piogge le fecondano; accresce del continuo la sua forza, finché giunge in presenza del Signore su la montagna di Sionne » (Psalm. LXXXIII, 6-8). Diciamogli anche con Salomone: «O Signore, Dio d’Israele, voi conservate l’alleanza e la misericordia ai vostri servi che camminano con perseveranza e con amore innanzi a voi » (III Reg. VIII, 23).87.

6. Facilità della perseveranza. — Certamente, se soltanto dagli sforzi dell’uomo dipendesse il perseverare nel bene, sarebbe cosa non solo difficile, ma superiore alle sue forze; ma quando al buon volere dell’uomo si unisca l’aiuto di Dio, diventa impresa facile e leggera. Ora non vi è pagina nella Scrittura santa che non ci prometta e ci assicuri questo soccorso : « Fedele è quel Dio che vi ha chiamati, scriveva S. Paolo, ai Tessalonicesi, ed egli medesimo verrà in vostro aiuto, vi conforterà e stabilirà e custodirà dal male, purché voi non cessiate per parte vostra di esercitarvi nel bene. Ah sì! noi confidiamo nel Signore, che quanto vi comandiamo, voi lo adempite e l’adempirete » (I Thess. V, 24) (II Thess. IlI, 2) (Id. 13) (Id. 4). – Rammentiamo sempre che Dio è fedele e che non permette che siamo tentati oltre le nostre forze; ma quando la tentazione ci assale, egli la tiene in tali confini, che torna facile, a chi vuole, il superarla (I Cor. X, 13). Prendiamo dunque vigore nella grazia che è in Cristo Gesù; lavoriamo, sopportiamo le fatiche della perseveranza, come valorosi soldati di Gesù Cristo (II Tim. II, 1) (Id. 3). – Di coloro che perseverano, leggiamo nella Sapienza che riceveranno il regno di gloria e il diadema di onore dalla mano del Signore; il quale li coprirà con la sua destra e li difenderà col suo braccio onnipotente: li guarderà dai nemici, li difenderà dai seduttori; li prova con dure battaglie per renderli trionfanti, e loro mostra qual è il valore della sapienza : non li abbandona neppure tra le catene, finché loro non abbia rimesso lo scettro e la potenza reale; paga ad essi il prezzo dei loro lavori, li guida per una via meravigliosa; fa a loro ombra di giorno, e luce di notte (Sap. V, 17; X, 12, 14, 17). – Affinché perseverino nelle vie della giustizia, Dio veglia su quelli che lo amano, dicono i Proverbi (II, 8), e il Signore medesimo ci esorta per bocca del Savio, a combattere per la giustizia, a cagione dell’anima nostra; ma combattere fino alla morte; e Dio sbaraglierà per noi i nostri nemici (Eccli. IV, 33). Alla perseveranza può applicarsi quello che di sè afferma la Sapienza: « Chi si ciba di me, avrà ancora fame; chi beve al mio fonte, avrà ancora sete » (Eccli. XXIV, 29); perché la pena che prova in sul principio chi si dà al bene, gli si cambia, se persevera, in facilità, gioia, felicità, allegrezza… Quando un cristiano comincia a vivere bene e a consacrarsi con fervore alle buone opere, a calpestare il secolo, i cristiani tiepidi e rilassati si burlano di lui, dice S. Agostino; ma se egli persevera, se si mostra superiore a loro con la pazienza, finisce col vedere coloro medesimi che lo canzonavano, mettersi a poco a poco dietro di lui e seguirlo (In Psalm.). . Ben conosceva questa consolante verità il profeta Abacuc, il quale esclamava : « Dio è la mia forza; egli darà a’ miei piedi la velocità del cervo; e mi condurrà, trionfando in vece mia, nelle altezze, mentre inneggerò alla sua gloria » (Habac. IlI, 19). « Siano grazie a Dio, dice S. Paolo, il quale ci fa sempre trionfanti in Gesù Cristo » (II Cor. II, 14).

7. Disgraziati quelli che non perseverano! — A quanti cristiani si può applicare la parola di Gesù: « Quest’uomo ha cominciato a fabbricare, ma non ha potuto terminare » (Luc. XIV, 30). Chi comincia a servire Dio e non persevera, chi volge indietro lo sguardo, è come un edilizio cominciato e non terminato, sul quale non fu posto il tetto; si sfascia a poco a poco, si sgretola, e finisce per cadere affatto in rovina. Perciò quando Gesù guariva qualche malattia, o corporale, o spirituale, sempre diceva ai guariti : Andate, non peccate più, ma perseverate nella sanità dell’anima, affinché non v’incolga di peggio (Ioann. V, 14). Assolse la donna adultera quando seppe che nessuno dei suoi accusatori l’aveva condannata, ma le raccomandò di non più peccare (Ioann. VIII, 10-11). – Quando uno spirito immondo esce cacciato via da un uomo, va errando per luoghi aridi in cerca di riposo, e non trovandone, dice tra sé: Ritornerò là di dove sono uscito e venendo trova la casa scopata, pulita, sgombra e ornata. Allora se ne va a prendere sette altri spiriti peggiori di lui e con questi entra nella casa; e l’ultimo stato di quest’uomo è molto peggiore del primo (Matth. XII, 43-45). – Vi è forse disgrazia più terribile e più grave di quella di essere dichiarato inetto al regno dei cieli? Ora questo appunto affermò il Verbo divino in termini formali, di chi non persevera nel bene, non continua nella retta via : « Nessuno che mette mano all’aratro, disse Gesù, e si volge a guardare indietro è fatto per il regno dei cieli » (Luc. IX, 62). Considerate quello che avvenne alla moglie di Lot, affinché non abbiate da provare l’effetto di quella terribile sentenza del Signore: « Maledetto colui che non sta saldo nei precetti della mia legge e che non ne adempie le opere! » (Deuter. XXVI, 26). – Saullo aveva cominciato bene, ma non la durò e si perdette… Salo-mone aveva cominciato con ottimi principi, non si tenne fermo, e terribile dubbio lascia la Scrittura su la sua salvezza… Aveva cominciato bene Sansone, ma non perseverò, e i Filistei lo accecano, lo costringono a girare, come giumento, una macina; ne fanno il loro ludibrio, l’oggetto dei loro scherni… La Scrittura dice che il giusto è immutabile come il sole, mentre l’insensato è come la luna (Eccli. XXVII, 12). – S. Bernardo deplora la misera condizione di un giovane che aveva egregiamente cominciato, ma poi si era intiepidito, aveva guardato indietro ed era caduto in gravi eccessi. « Amaramente di te mi dolgo, o figlio mio, indicibile è il dolore che per causa tua io provo, o Goffredo. E chi infatti non si rattristerà vedendo il fiore della tua giovinezza, già da te offerto a Dio in odore di soavità, alla presenza degli Angeli che tripudiarono di gioia, ora calpestato dai demoni, lordato delle immondezze del secolo corrotto? Come mai, tu che eri chiamato da Dio, ora segui il demonio che a sé ti richiama? Come mai hai potuto, dalla sequela di Cristo, al quale or ora ti eri dato, rivolgere il passo addietro, e ritrarre il tuo piede dalla soglia della vera gloria? ». – Dal fonte battesimale parte la strada la quale mette capo al cielo; e per perseverare in questa via divina si rinunzia anticipatamente agli ostacoli che s’incontrano nel viaggio; si rinunzia solennemente al demonio, al mondo, alle sue pompe e alle sue opere; là il cristiano si obbliga, in faccia al cielo e alla terra, a vivere e morire per Gesù Cristo; cioè prende formale impegno di perseverare nel bene e allontanarsi dal male. Perciò colui il quale ha la disgrazia di non continuare per il retto cammino, dimentica, trascura, calpesta tutte queste risoluzioni. Allora succede uno sconcerto generale, una deplorabile confusione. Ecco colui che aveva rinunziato al demonio e al mondo, al vizio, alle cattive inclinazioni, al peccato, colui che aveva fatto giuramento di non seguire mai altri, né di servire ad altri che a Gesù Cristo, divenirgli infedele, volgergli le spalle, disprezzarlo e aborrirlo. Rinnega Gesù, abbraccia Barabba.  E furfanti più insigni di Barabba, il demonio e il mondo, gli tolgono tutto ciò che ha di prezioso, grazia, virtù, merito e gloria. Allora si grida come gli Ebrei deicidi al tempo della passione: « Non vogliamo che Gesù regni sopra di noi » (Luc. XIX, 14). Allora si ripete l’infame azione di Giuda che diceva ai principi dei sacerdoti : « Che prezzo mi offrite? ed io ve lo darò nelle mani » Matth. XXVI, 15). Satana, mondo, passioni, concupiscenza, che volete voi darmi? ed io vi consegno l’innocenza del mio battesimo, le mie promesse, i miei voti, la mia anima, la mia salute, la mia corona, la mia gloria, il mio Dio, la mia eternità! Ah! grande purtroppo è il numero di coloro che non perseverano! e piccola è la squadra di coloro che hanno la fortuna di toccare al termine della perfezione! « È di molti l’incamminarsi bene, ma di pochi l’arrivare alla vetta » (Sup. Matth.). Questa sentenza di S. Gerolamo serve di commento a quell’altra del Vangelo : « Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti » (Matth. XX, 16).

8. Mezzi di perseverare. — 1° Chi vuol durarla fino al fine, bisogna che abbia sempre sotto gli occhi il fine. 2° Stare vigilante : « Veglia su di te affinché non cada», dice il Savio (Eccli. XXIX, 27). « E chi si crede di stare saldo; badi di non cadere », dice S. Paolo (1 Cor. X, 12). Chi si è già avanzato per la via del cielo, cammina carico d’oro, deve perciò guardarsi attentamente dai ladri (Hyeron. Epist.). 3° Applicarsi alle cose di Dio. Di Maria Vergine, nota il Vangelo, che raccoglieva attenta, conservava e meditava tutto ciò che sentiva dirsi dai pastori e dagli altri testimoni della nascita di Gesù Bambino (Luc. II, 19). 4° Vivere tutti i giorni come se ogni giorno cominciasse l’opera della salute, o come se fosse l’ultimo della vita, e come vorremmo essere vissuti al punto di morte. 5° Lavorare alla presenza di Gesù Cristo e in sua compagnia. 6° Osservare fedelmente la legge di Dio : « Se la vostra legge, o Signore, confessava il Salmista, non fosse stata la mia continua occupazione, io già sarei perito » (Psalm. CXVIII, 92). 7° Camminare alla presenza di Dio e dei suoi Angeli: « Sia felice il vostro viaggio, disse Tobia; Dio sia con voi nel cammino, e l’angelo suo vi accompagni »  (Tob. V, 31). 8° Rammentarsi che Dio non muta e imitarlo (Malach. IlI, 6). 9° Tenersi strettamente aggrappati alla roccia incrollabile della Chiesa cattolica, apostolica, romana… [la “vera” Chiesa attualmente in esilio -ndr.-] Chi vuole davvero perseverare, deve : 1° riposare l’anima sua in Dio; 2° amare Dio con tutto l’affetto; 3° bramare ardentemente di progredire nella virtù; 4° considerare quanto grandi opere si possono fare da chi ha la volontà ferma e perseverante; 5° non dimenticare mai che brevi sono tutte le pene ed eterna la ricompensa; 6° invocare l’arcangelo Gabriele, che è l’Angelo della costanza e che è chiamato : Fortezza di Dio. 5° non dimenticare mai che brevi sono tutte le pene ed eterna la ricompensa; 6° invocare l’arcangelo Gabriele, che è l’Angelo della costanza e che è chiamato: Fortezza di Dio.

DUPLEX

DUPLEX

Posto dell’ufficio dei Santi a fianco dell’ufficio feriale o domenicale. –

[R. Aigrain: “Enciclopedia liturgica” – Ed Paoline, Alba; 1957 – pp.537-538]

Per lungo tempo la differenza di origine dei due uffici, ufficio del tempo ed ufficio dei santi, si manifestò nella maniera di recitarli.

1) Dapprima, l’ufficio dei santi, nato sulle tombe dei martiri, per conseguenza fuori delle grandi basiliche, fu per lungo tempo fedele alla sua tradizione di ufficio cimiteriale; esso si sovrapponeva all’ufficio feriale o domenicale; invece di sostituirsi o di incorporarsi ad esso, come avvenne in seguito, si limitò ad aggiungersi al primo. – Ancora nel IX secolo, queste doppie vigilie esistevano in certe feste maggiori come quella di S. Pietro e Paolo, di S. Andrea, di S. Lorenzo, della Assunzione, di S. Giovanni Battista; erano totalmente scomparse a Roma nel secolo XIII: non resterà che l’espressione liturgica, altrimenti inesplicabile, di festa doppia o ufficio doppio, duplex.

2) Verso il 754, questo secondo ufficio cominciò a fondersi nel grande ufficio quotidiano. Amalario, analizzando l’antifonario di Corbia, inviato da Papa Adriano, segnala ancora due uffici alla vigilia delle grandi feste, l’uno al cadere della notte, senza invitatorio, senza Alleluja, al quale il popolo non assisteva; l’altro a mezzanotte, con invitatorio, al quale i fedeli sono invitati: « io penso, scrive il Batiffol, che l’ufficio celebrato senza invitatorio al cadere della notte, fosse l’ufficio proprio del santo, la vigilia; e l’ufficio con l’invitatorio, celebrato a mezzanotte, fosse l’ufficio feriale trasformato poi in ufficio del Santo »

3) Esisteva quindi una specie di compromesso fra i due uffici senza che si possa dire con esattezza in che cosa consistesse; è probabile che nelle feste semplici, come si pratica tuttora, i salmi fossero della feria, le lezioni invece fossero del Santo; nelle feste più solenni l’ufficio del santo era di nove salmi e nove lezioni, come nelle feste di Nostro Signore a Natale,- all’Epifania, alle Ascensione; i salmi che dovevano formare il comune si riferivano al Santo; le lezioni erano prese, almeno in parte, dalla sua vita; così pure il testo delle antifone, dei responsori, dei versetti. Infine, l’ufficio dei santi prese completamente il posto dell’ufficio feriale, il quale veniva così soppiantato man mano che le feste dei santi si moltiplicavano e queste aumentarono soprattutto quando, all’ufficio delle ferie o delle feste semplici, si aggiunse l’obbligo di recitare il Piccolo ufficio della B. Vergine e l’ufficio dei morti. – Era lasciata grande libertà nell’accettare o meno una festa e nella scelta dell’ufficio; ogni chiesa, ogni monastero seguiva la propria devozione e non tutti i santi iscritti nel calendario venivano necessariamente celebrati. – Alla fine del IX secolo, tuttavia, « l’ufficio romano nel suo insieme, che abbiamo descritto, era giunto ad uno stato di perfezione tale, che non essere né superato né conservato… Opera anonima formatasi lentamente, opera singolare in cui viveva l’anima di Roma! Roma infatti vi aveva messo il meglio della sua letteratura e della sua storia: il suo salterio, la sua Bibbia, i suoi martiri. Vi aveva impresso il suggello della sua pietà lineare e semplice, più storica che sottile; della sua estetica, rimasta sensibile alle composizioni sobrie, vaste ed armoniose; della sua lingua concisa, chiara, concreta, fatta di termini biblici e ben ritmata. Essa vi aveva infine e soprattutto messo il suo canto » (Batiffol). I cambiamenti successivi non faranno che appesantirlo, e tutte le riforme, in ciò che avranno di saggio, consisteranno nel ricondurlo alla forma che ebbe in questa epoca.

DIVORZIO CRISTIANO – IL MAGISTERO IMPEDITO DI GREGORIO XVII

GREGORIO XVII –

IL MAGISTERO IMPEDITO:

DIVORZIO CRISTIANO?

[«Renovatio», V (1970), fasc. 2, pp. 165-166.]

Si è udita qualche voce che parla di un «secondo» matrimonio cristiano. Che sarebbe mai un secondo matrimonio cristiano? Niente altro che la dissoluzione del primo. Affermare un secondo matrimonio cristiano è affermare la legittimità del divorzio, cioè lo scioglimento non solo del matrimonio basato sul semplice diritto di natura, ma anche di quello che è Sacramento. – Ma il matrimonio cristiano non è dissolubile per sé: lo scioglimento dei matrimoni rati non consumati e quello operato dal privilegio paolino non costituiscono, come è noto, eccezione a questo principio. Non c’è posto per un «divorzio cristiano». – Naturalmente i fautori del divorzio cristiano si appellano, almeno per il caso di adulterio, al testo di Matteo XIX, 9. Ma a torto, perché esiste l’interpretazione autentica di questo testo, la quale esclude il divorzio. Infatti il Concilio di Trento ha sancito: «Se qualcuno dicesse che la Chiesa erra quando ha insegnato e insegna, secondo la evangelica ed apostolica dottrina, che il vincolo non può essere sciolto a causa dell’adulterio di uno dei due coniugi… sia anatema». Il punto della discussione trova la sua ragione nella celebre clausola di Matteo «excepta fornicationis causa». Secondo il significato letterale questo testo può non essere interpretato in senso divorzista e pertanto deve, dal punto di vista teologico, essere interpretato nel senso non divorzista: esiste una interpretazione autentica data, sia pure in maniera indiretta, sotto forma di «anatema» dal Concilio di Trento. Dunque non si dà né secondo matrimonio cristiano, né divorzio. Non che non siano mancate nei secoli talune rare voci discordi o dubitanti; ma quello che interessa è la prassi comune della Chiesa, che attesta una comune convinzione ed una comune dottrina. Quello che impressiona è il fatto che dei cattolici possano gettare il piccone demolitore su verità saldamente e universalmente acquisite. Tale fatto rivela qualcosa di grave. Anzitutto va in crisi in talune intelligenze la concezione della verità assoluta. La verità non va in crisi più di quanto non ci vada l’essere: sono troppo intimamente legati. La verità relativa, verso la quale vanno dubbie compiacenze, ha il suo incentivo nello spasmo divorzista che stiamo vivendo, quasi che, tra tante realtà umane ormai in decomposizione, non possa sopravvivere neppure un matrimonio per sempre sigillato da Dio. Probabilmente il grande principio al quale ci si deve attenere è il seguente, secondo taluni: dobbiamo enunciare verità deformandole sino a che non compiacciano il mondo moderno. Quasi che questo non sia meno morituro del mondo antico. In secondo luogo va in crisi tutta la logica della teologia. Infatti la teologia ha i suoi metodi di prova, che non possono sostituirsi ad arbitrio. Magistero e quanto è riflesso dal Magistero, anche solo ordinario, sui Padri, sui Dottori e sui teologi pare sia svanito dalle non ammirevoli considerazioni qua e là affioranti. – In terzo luogo va in crisi la dignità dell’uomo, al quale si vorrebbe manifestare indulgenza, prima negando a torto un diritto naturale che postula «fin dall’inizio» (Mt. XIX,8) l’indissolubilità del matrimonio, poi ritenendo l’uomo incapace di mantener un impegno. Il divorzio infatti vorrebbe dissuadere tutti e per sempre dal credere che tra gli uomini possa esistere un impegno durevole. Il che è indegno e triste. – Ma non si deforma la verità per compiacere chi intende togliere agli uomini la nobiltà di fare ancora fede alla propria parola.

[Cosa bisogna spettare per capire che il “divorzio breve cattolico”, oltre che un’idiozia teologica, è “anatema” – Conc. Trento, Sess. XXIV, Can. VII-, cioè scomunica irreformabile, esclusione dalla Chiesa Cattolica, dalla comunione dei santi, morte certa dell’anima, … farina velenosa e mortifera di satana, sparsa a piene mani dal suo “vicario” e dai suoi lacchè? Bisogna forse aspettarne di riparlarne nell’inferno, anch’esso cancellato con un colpo di mano dagli gnostici della setta vaticana del “novus ordo”, che osa contraddire tutte le leggi naturali, divine, i dettami evangelici, oltre che ripudiare il Magistero di sempre … certo che ci vuole un bel coraggio! … il coraggio di Giuda, l’Iscariota! E allora non possiamo che augurare agli adepti del loro maestro, se non si pentono: buona impiccagione! … Scegliete almeno un albero buono, magari non OGM! – ndr.-]

IGNORANZA

IGNORANZA

[G. Bertetti: “I Tesori di San Tommaso d’Aquino”; S.E.I. Ed. – Torino, 1918]

– 1. Ignoranza causa di peccato. — 2. Se l’ignoranza scusi o diminuisca il peccato. — 3. Ignoranza colpevole (De Malo, q. 3, art. 6, 7, 8).

1. Ignoranza causa di peccato. — La scienza pratica che dirige le azioni umane, non solo ci conduce al bene, ma ci allontana dal male: l’ignoranza dunque, togliendoci l’ostacolo che la scienza pratica ci opporrebbe a commettere il male, è causa di peccato, com’è causa d’errori di lingua l’ignoranza delle regole grammaticali. Ma doppia è la scienza direttiva negli atti morali, la scienza che ci può impedire il peccato. C’è una scienza universale, per cui noi giudichiamo che un atto è retto o deforme: e in tale scienza l’uomo trova talvolta ostacolo al peccato, come quando al considerar che la fornicazione è peccato se ne astiene: che se invece di tale scienza ci fosse l’ignoranza, questa sarebbe allora causa d’un peccato di fornicazione. — C’è poi una scienza particolare, ossia la scienza delle circostanze dell’atto stesso. Per questa scienza può accadere che l’uomo s’allontani senz’altro dal peccato oppure da una determinata specie di peccato. Così se un sagittario sapesse che ci passa un uomo, per niun conto scoccherebbe il dardo; ma non sapendo che quello è un uomo e credendolo un cervo, lancia la saetta e uccide l’uomo: in tal caso l’ignorar la circostanza della persona è stato causa d’un omicidio. Se invece un sagittario volesse uccidere un uomo, ma non suo padre, non lancerebbe certamente il dardo, se sapesse che chi passa è suo padre: ma poiché non lo sa, tira e uccide suo padre; l’ignorar questa circostanza è stato causa manifesta di peccato d’omicidio: perché in ogni caso questo sagittario è reo d’omicidio, quantunque in ogni caso non sia reo di parricidio. In diversi modi adunque l’ignoranza è causa di peccato.

2. Se l’ignoranza scusi o diminuisca il peccato. — Essendo il peccato una cosa essenzialmente volontaria, l’ignoranza scuserà in tutto o in parte il peccato, secondo che in tutto o in parte toglie il volontario: il volontario, s’intende, che venne dopo l’ignoranza, non quello che l’avesse preceduta. Tolta la cognizione dell’intelletto, è tolto l’atto della volontà: e così è tolto il volontario quanto a quello che s’ignora. Laonde, se nel medesimo atto c’è qualcosa d’ignorato e qualcosa di conosciuto, può esserci il volontario quanto a ciò che si sa, ma sempre c’è l’involontario quanto a ciò che non si sa: sia che non si sappia l’immoralità dell’atto, sia che se n’ignori qualche circostanza. – Benché l’ignoranza sia sempre causa d’un atto non volontario, non sempre tuttavia è causa d’un atto involontario. Non volontario si dice, solo perché manca l’atto della volontà; si dice invece involontario, perché la volontà è contraria a ciò che si fa: perciò all’involontario tien dietro la tristezza, che non sempre segue il non volontario, come quando, conosciuto uno sbaglio, non ci si rattristasse, anzi ci si provasse piacere. Ma anche l’atto della volontà può precedere l’atto dell’intelletto, come quando noi vogliamo comprendere noi stessi: e per la medesima ragione l’ignoranza cade sotto la volontà, e diviene volontaria. Questo può accadere in tre modi: — 1° quando uno direttamente vuol ignorare la scienza della salute, per non allontanarsi dall’amore del peccato (JOB, 21, 14); — 2° quando si trascura di conoscere ciò che si dovrebbe sapere: e quest’è ignoranza indirettamente volontaria o ignoranza di negligenza; — 3° quando direttamente o indirettamente si vuole ciò ch’è cagione d’ignoranza: direttamente, come appare in chi volesse ubriacarsi per privarsi dell’uso di ragione; indirettamente, come chi trascurasse di reprimere i moti che insorgono nella passione e che crescendo legano l’uso della ragione nel caso pratico di scegliere fra il bene e il male. Considerandosi negli atti morali come volontario ciò ch’è causato dal volontario, l’ignoranza volontaria, appunto perché volontaria, non può causare un atto non volontario, e perciò non iscusa dal peccato. – Quando dunque direttamente si vuol ignorare per non essere dalla scienza distolti dal peccato, l’ignoranza non iscusa il peccato né in tutto né in parte, anzi l’aumenta: poiché è segno di grande amore verso il peccato il voler soffrire un danno nella scienza per poter peccare liberamente. – Quando poi indirettamente si vuol ignorare, trascurando d’imparare, o anche quando per caso si vuole l’ignoranza, volendo direttamente o indirettamente quello che porta con sé l’ignoranza, questa non iscusa interamente l’involontario nell’atto che ne deriva: perché l’atto, procedendo da ignoranza volontaria, è, in certo qual modo, volontario. Tuttavia ne diminuisce il volontario: poiché l’atto derivato da tale ignoranza è meno volontario di quello che si commetterebbe, se scientemente e senza alcuna ignoranza si eleggesse un tal atto; perciò siffatta ignoranza scusa l’atto seguente, non in tutto, ma in parte. È però da avvertire che talvolta e lo stesso atto seguente e l’ignoranza precedente sono un solo peccato, come sono un solo peccato il piacere e l’atto esterno del peccato: onde può accadere che il peccato sia reso più grave dal volontario dell’ignoranza, non meno di quanto sia scusato dall’atto diminuito del peccato. Se infine l’ignoranza non è volontaria secondo alcuno dei modi predetti e non è accompagnata da alcun disordine della volontà, allora fa involontario del tutto l’atto che ne deriva.

3. Ignoranza colpevole. – Non sempre l’ignoranza è colpevole. Non è colpevole ignorare ciò che non siamo obbligati a sapere: ma è colpevole l’ignorare ciò che dobbiamo sapere. — Ognuno deve sapere le cose che lo dirigano nei suoi atti: quindi ognuno deve sapere le cose di fede, perché la fede dirige l’intenzione; ognuno deve sapere i precetti del decalogo, per mezzo dei quali noi possiamo evitare il male e fare il bene: perciò furono promulgati da Dio alla presenza di tutto il popolo (Exod., 20). — Le cose più recondite della legge Mose soltanto e Aronne le udirono dal Signore: e intorno a queste ognuno è tenuto a sapere ciò che s’appartiene al suo ufficio; così il Vescovo deve sapere ciò che s’appartiene all’officio episcopale, e così degli altri; né senza colpa sarebbe per essi l’ignoranza di siffatte cose. Può dunque l’ignoranza considerarsi sotto un triplice aspetto: -— 1° in se stessa, e così considerata non ha ragione di colpa, ma di pena; — 2° in confronto alla sua causa: come causa di scienza è l’applicazione dell’animo al sapere, così è causa d’ignoranza il non applicar l’animo alla scienza, e il fatto stesso di non applicar l’animo a sapere ciò che si deve sapere è peccato d’omissione; — 3° in confronto a quel che ne segue: e così talvolta è causa di peccato, come sopra si disse. – Può ancora considerarsi l’ignoranza come conseguenza del peccato originale. — Nel peccato d’origine c’è la parte formale, appartenente alla volontà, cioè la mancanza della giustizia originale. Siccome poi dalla giustizia originale, per cui la volontà s’univa con Dio, derivava nelle altre forze una certa ridondanza di perfezione, di modo che, illustrata la ragione dalla conoscenza della verità, l’irascibile e il concupiscibile conservavano la lor rettitudine: così, tolta la giustizia originale della volontà, viene a mancare la conoscenza della verità nell’intelletto, la rettitudine nell’irascibile e nel concupiscibile. E così l’ignoranza e il fomite son la parte materiale nel peccato d’origine; come nel peccato attuale è parte materiale il rivolgersi a un bene commutabile.

TEMPO DI AVVENTO

TEMPO DI AVVENTO

[J.-J. Gaume: Catechismo di Perseveranza, vol. IV, lez. XXV, Torino 1881]

La vita dell’uomo dev’essere una festa continua; tutti i giorni, tutte le ore che la compongono, debbono essere santificate in modo, che ogni istante della nostra esistenza sia come un inno di gloria a Colui che ha creato l’uomo e il tempo. – Ma tanta si è l’umana fragilità, tanta la preoccupazione degli affari, tanta la violenza delle passioni, che la Chiesa nella sua materna tenerezza ha riputato conveniente di stabilire certi giorni e certi periodi speciali destinati a purificare il nostro cuore con la preghiera, con la mediazione delle verità eterne e con la penitenza: ecco quello che noi abbiamo velato nella precedente lezione.

I. – Idea dell’Avvento. — Nel primo ordine di quest’epoche salutari vuolsi collocare il tempo dell’Avvento. Infatti l’Avvento è un tempo di preghiera e di penitenza che la Chiesa ha stabilito per preparare suoi figli alla nascita del Salvatore. Ciò che sono le vigilie per le feste ordinarie, ciò che la Quaresima è per la Pasqua, ciò che quattro mila anni del vecchio mondo furono in ordine alla venuta del Messia, è l’Avvento alla solennità del Natale. – Quattro settimane di preparazione non sembreranno soverchie, quantunque si consideri l’eccellenza del mistero che le segue. Se il popolo d’Israele dovè prepararsi con tanta accuratezza a ricevere la legge promulgata sul monte Sinai”, a varcare le acque del Giordano e penetrare nella Terra promessa, a partecipare alle inefficaci sue vittime, o a celebrare le sue feste figurative, quali a parer vostro esser devono le preparazioni dei cristiani per riavere il Dio del Cielo, il Verbo eterno, il legislatore supremo, la vittima senza macchia, il tipo eterno di tutte le feste e di tutti i sacrifici?

II. – Antichità dell’Avvento. — Penetrata di questi alti pensieri, la Chiesa ha istituito l’Avvento per facilitare al Messia l’adito del nostro cuore. Sembra che la celebrazione dell’Avvento sia antica al pari della festa del Natale, quantunque la disciplina della Chiesa non sia stata a questo proposito sempre costante. Per molti secoli l’Avvento fu di quaranta giorni come la Quaresima, e incominciava a san Martino; e la Chiesa di Milano, fedele agli usi antichi, ha conservato le sei settimane dell’Avvento primitivo, che erano state adottate dalle Chiese di Spagna. Non andò molto per altro che dalla Chiesa di Roma fu ridotto a quattro settimane, cioè a quattro domeniche, compresa la porzione di settimana che precede il Natale. Tutto l’Occidente ne ha seguito l’esempio. – Per l’addietro si digiunava nell’Avvento, e in alcuni paesi questo digiuno era obbligatorio per tutti, in altri era di semplice devozione. L’istituzione del digiunoIè attribuita a san Gregorio Magno, il quale però non ebbe in mente di farne un precetto generale. Fino dalla metà del quarto secolo, nell’anno 462, san Perpetuo, vescovo di Tours, ordinò nella sua diocesi tre giorni di digiuno per ogni settimana, da san Martino fino a Natale; regolamento che divenne generale nella Chiesa di Francia nel settimo secolo dopo la convocazione del Concilio di Macon nel 581. Quella santa adunanza prescrisse che pel comune dei fedeli i digiuni si osservassero nel lunedì, mercoledì e venerdì di ciascuna settimana, dalla feria o festa di san Martino fino a quella della nascita di Nostro Signore, e che gli uffizi, e specialmente il sacrificio della Messa fossero celebrati come in Quaresima; vietò inoltre l’uso della carne in tutti i giorni durante lutto l’Avvento. La medesima astinenza era osservata nelle altre provincie cattoliche, e ne abbiamo la prova in una donazione pia di quell’epoca. Nel 753 avendo Astolfo re dei Longobardi in Italia concesso l’uso delle acque di Nonantola alla badia di questo nome, si era riservato quaranta lucci per uso della sua tavola durante la Quaresima di san Martino; dal che si può dedurre, che nell’ottavo secolo i Longobardi osservavano il digiuno nei quaranta giorni che precedono la festa di Natale, o che almeno si astenevano dalle carni – Al digiuno si aggiungevano le preghiere ed altri esercizi di penitenza. « Presso noi, scrive un antico autore, dalla festa di san Martino fino a quella di Natale, l’astinenza da ogni carne viene comandata a tutti i figli della Chiesa, come un mezzo indispensabile di accostarsi ai sacramenti nel giorno della nascita del Salvatore ». Il Pontefice Bonifazio VIII nella Bolla di canonizzazione di san Luigi dichiara, che quel degno successore di Carlo Magno passava tutti i giorni dell’Avvento in,digiuni e preghiere. Tale era la condotta dei semplici fedeli. – Quanto ai religiosi, essi digiunavano come in tempo di Quaresima, e i più hanno conservato fino ai dì nostri quest’uso. Aggiungeremo che questo è il corso naturale delle cose, poiché è colui che di tutti i suoi giorni non fa che una continua preparazione alle cose eterne, che conserva le strette osservanze di preparazione e di digiuno; è colui che non è più in battaglia, che conserva la propria arme mentre quegli la cui vita è una continua distrazione, un avvicendamento di piaceri e di disordini si disarma e più non veglia per difendersi dal nemico.

III. Liturgia dell’Avvento. — Intanto la Chiesa non trascura alcun mezzo per eccitare neI propri figli l’antico fervore dei padri loro. E non è forse con ragione? – Il Bambino che noi aspettiamo è forse meno amabile, meno santo, men degno di tutto l’amor nostro oggi che in altro tempo? Ha egli forse cessato di essere l’amico dai cuori puri? La sua venuta nelle anime nostre è forse meno necessaria? Ah! Che noi forse abbiamo rialzato in cuore gli idoli che Egli era venuto a rovesciare diciotto secoli fa! Deh! facciam senno davvero ed entriamo nei disegni della Chiesa, dacché vediamo come questa madre affettuosa raddoppia le sue premure per fermare in noi le disposizioni di penitenza e di carità necessarie al buon ricevimento del Bambino di Betlemme. Nei suoi uffizi ella dimette i suoi ornamenti di gioia e prende il color violetto in segno di compunzione. Il Gloria in excélsis si tralascia alla Messa; ma la stessa mestizia è temperata dalla speranza, ed ecco perché essa ripete l’Alleluia alla Messa della domenica. Lo sopprime alle ferie per richiamarci alla penitenza e per dire ai cristiani d’oggidì: sappiate che per i vostri padri tutti i giorni dell’Avvento erano giorni di astinenza e di digiuno: siano per voi almeno giorni di pentimento e dì preghiera. – E a fine di eccitare in tutte le anime questo doppio sentimento di speranza e di compunzione, ecco che adopra a vicende la voce di Paolo, la voce d’Isaia, la voce di Giovanni sulle rive del Giordano, la voce dello stesso Messia che si mescola agli accenti dei predicatori e agl’inni della Chiesa. « È tempo che ci svegliamo, l’ora della nostra redenzione si avvicina, la notte s’inoltra, il giorno è per nascere; affrettiamoci dunque ad abbandonare le opere delle tenebre, e rivestiamoci delle armi di luce. Camminiamo con onestà e decenza come si conviene nel giorno; non vi abbandonate ai vizi, ma rivestitevi del Nostro Signore Gesù Cristo ». Sono questi gli avvertimenti che ci dà l’apostolo san Paolo nell’epistola della prima domenica dell’Avvento. Allo scopo di rendere questa lezione più efficace, la Chiesa ci rammenta nel Vangelo il giudizio finale e la seconda venuta del Figlio di Dio; egli è come se dicesse: Se volete vedere senza timore arrivare il Dio ch’io vi annunzio, allorché verrà come vindice deivivi e dei morti, preparatevi a riceverlo ora ch’Ei viene come Salvatore. Beato chi è docile al mio avviso! Vedete quanto sarà formidabile la sua seconda venuta. « Si vedranno dei segni nel sole, nella luna e nelle stelle; le nazioni della terra saranno nella costernazione; gli uomini geleranno di spavento nell’aspettativa di ciò che deve accadere all’universo; le colonne del firmamento crolleranno; ed ecco arrivare il Figlio dell’Uomo sopra una nube, armato di gran potenza e maestà. Quanto a voi, allorché vedrete succedere tali cose, aprite gli occhi ed alzate il capo, perché la vostra redenzione è vicina. Giudicatene dal paragone del fico e degli altri alberi: quando li vedete fiorire voi dite, l’estate è vicina. Per egual modo quando vedrete quel ch’Io vi predico, sappiate che il regno di Dio è vicino. In verità Io vi dico, questa generamene non passerà senza che ciò si adempia. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno ». – Ditemi di grazia, poteva forse la Chiesa trovare una verità più capace di gettare il terrore nelle anime, e di forzare i cristiani a rientrare in loro stessi? Ma ella vuole che alle lacrime della penitenza e ai terrori del giudizio si uniscano i sospiri e le consolazioni della speranza. Perciò all’uffizio della sera essa li palesa nell’inno, Statuta decreto, le cui note e parole esprimono una dolce ma profonda malinconia.

« Ecco finalmente venire i tempi designati dai decreti del Signore;

» Ecco venire il giorno che si è fatto aspettare per tanti secoli.

» La posterità di un padre colpevole giaceva tribolata ed in angustie sopra un letto di dolori;

» Gli uomini erano senza forza, scoraggiati, sepolti nelle ombre della morte;

» I terrori della tomba, i tormenti dell’inferno erano la loro eredità;

» I figli d’Adamo tremavano e si esinanivano nell’aspettazione del supremo Giudice.

» Ohimè! chi poteva liberarli da mali sì grandi? Qual mano sarà abbastanza potente per sanare una piaga sì profonda?

» Voi solo, o Cristo! voi solo potete, scendendo dal vostro trono, rendere alla vostra immagine la sua forma e la sua bellezza!

» O cieli, apritevi sul nostro capo, lasciate cadere la vostra preziosa rugiada, e la terra fecondata dia al mondo il suo Salvatore.

» O Figlio, che venite per essere il nostro liberatore, sia lode a voi col Padre e con lo Spirito nei secoli eterni ».

.- In vece dell’Inno Statuto decreto, la Chiesa romana canta l’Inno. En clara vox redarguit, di cui porgiamo qui la poetica versione.

VERSIONE DELL’INNO

En clara vox redarguit.

Di buie tenebre fra l’ombre nere

Chiara una voce tuonar s’udì;

Lungi dei sogni sgombran le schiere,

Cristo dall’alto ci apporta il dì.

Dal reo torpore sorga la mente,

Assai sen giacque depressa al suo.

Novello un astro brilla repente

Sanando i mali, calmando il duol.

Ecco l’Agnello dal ciel s’invia

A nostro scampo già muove il piè.

Col mesto canto, o gente pia,

Dei nostri falli chiediam mercè.

– Tutto il popolo che la mattina tremava alla ricordanza della valle di Giosafatte, esulta la sera di deliziosa speranza, intravedendo il presepio di Betlemme, e mille schiette armonie esprimono questi sentimenti. E ne abbiamo una bella prova in quel cantico popolare che il fanciullo e il vecchio si dilettano di ripetere la sera nel cantuccio del fuoco: « Venite, divino Messia, cambiate i nostri giorni affannosi; venite, sorgente di vita, venite, venite, venite, ecc.». – La seconda domenica dell’Avvento la Chiesa continua le sue istruzioni; esse divengono sempre più preziose, a misura che il grande avvenimento si avvicina: è la luce che divien più viva a misura che il sole si avvicina all’orizzonte. Nell’epistola il grande Apostolo fa ancora udire la sua voce; egli annunzia che Gesù Cristo è inviato per adempiere tutte le figure e per riunire in un solo gregge i giudei e i gentili. – Il vangelo ci presenta il Precursore che addita nella persona di Gesù Cristo il Redentore aspettato da quaranta secoli. Egli conosceva quest’Agnello di Dio, ma i suoi discepoli nol conoscevano. Per ammaestrarli, egli spedì a Gesù due di loro con ordine di fargli questa interrogazione e aspettarne la risposta: « Sei Tu Colui che deve venire, o dobbiamo noi aspettarne un altro? » Gesù, avendo in loro presenza operato diversi miracoli, a cui secondo Isaia si riconoscerebbe il Cristo, Gesù rispose loro: « Andate, e dite a Giovanni quello che avete veduto; i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risuscitano;

Quando alla terra di nuovo splenda,

Cingendo il mondo d’alto terror,

Sul reo la giusta pena non scenda,

Ma ci protegga pietoso allor.

Sia gloria eterna al Genitore,

Sia gloria all’unica prole immortale,

All’almo Spirito, divino amore

Per tutti i secoli sia gloria egual.     P. L,

« Il vangelo è predicato ai poveri; felice colui che non si sarà scandalizzato: » Più si avvicina il momento solenne cui il Messia deve fare il suo ingresso nel mondo, e più la Chiesa raddoppia le sue esortazioni. – La terza domenica S. Paolo ci parla ancora nell’epistola e ci invita al giubilo: L’aurora della liberazione splende sull’orizzonte; alla gioia egli vuole che aggiungiamo la preghiera,  vale a dire quel desiderio ardente che attrae Dio in noi, e che chiamerà nei nostri cuori. Nel Vangelo san Giovanni Battista, più che profeta, non predica più il Messia ma asserisce che è già nel mondo, e infatti Egli era in mezzo dei Giudei, e anche noi già l’adoriamo in seno a sua Madre allorché ascoltiamo questo Vangelo. Il Precursore aggiunge una parola che si verifica anche oggigiorno. « Egli è in mezzo di voi, e voi non lo conoscete ». Poi prendendo il tuono d’Isaia, egli fa echeggiare le volte dei nostri templi, come in addietro le rive del Giordano, di queste potenti parole: « Voce di colui che grida nel deserto: fate diritte le vie del Signore, abbassate le colline, colmate le valli, cioè preparate il vostro spirito e il vostro cuore e i vostri sensi al ricevimento del Messia. Ecco ch’ei viene, ed io non sono degno di sciogliere i lacciuoli delle tue scarpe » – E colui che tiene questo linguaggio è il più grande dei figli degli uomini! Oh! Quanto è grande, santo e rispettabile il Messia! Con quale zelo dobbiamo prepararci a riceverlo! – Finalmente la quarta domenica, allorché il divino Fanciullo è sul punto d’entrare nel mondo, allorché quest’amabile sposo batte già alla porta dei nostri cuori, la Chiesa termina tutte le sue istruzioni con queste parole: «Ogni carne vedrà il Salvatore inviato da Dio»; concetto meraviglioso che ne dice: state pronti, i tempi sono adempiti, il sole di giustizia e di verità è per splendere nell’universo; la sua luce è per diffondersi su tutti gli uomini, senza distinzione di ricchi e di poveri, di dotti e d’ignoranti, io vi ripeto, siate preparati. intendete voi l’immensa importanza, il sommo valore di quest’ultimo annunzio: ogni carne vedrà il Salvatore inviato da Dio? » Non ci contentiamo di ammirare la sapienza con cui la Chiesa distribuisce le sue istruzioni durante l’Avvento, ma entriamo eziandio nel suo spirito; aumentimo di fervore e di raccoglimento a misura che ci avviciniamo alla nascita del Desiderato dalle nazioni, che dev’essere pur anche il Desiderato del nostro cuore.

Antifone O. — A fine di rendere più vivi i nostri sospiri e i nostri voti, la Chiesa ha instituito la festa dell’Espettazione, ossia dell’aspettativa del parto divino. Questa festa, instituita al 16 dicembre, dura per tutta un’ottava ed in Francia stessa dura nove giorni. Ecco perché dal 15 al 23 dicembre la Chiesa canta a Vespro, innanzi e dopo il cantico della santa Vergine, le grandi antifone le quali sono chiamate le antifone “O”, perché incominciano tutte con questa invocazione. Esse sono ripetute tre volte per giorno all’uffizio della sera, di maniera che la festa dell’Espettazione è una specie di novena di sospiri, di gemiti, d’invocazioni. È impossibile per chi ha fede il recitarle senza entrare nei sentimenti ch’esse esprimono. Esse continuano per nove giorni in onore dei nove cori angelici; e scongiurano gli spiriti celesti a sospirare con noi per la venuta del Liberatore che ha pacificato tutto ciò ch’è nel cielo ed in terra. Con la loro varietà queste antifone esprimono i diversi caratteri del Messia e i diversi bisogni del genere umano. – Dal giorno della sua caduta l’uomo è un insensato quasi senza cognizione e senza gusto die veri beni; la sua condotta fa paura e pietà: egli ha bisogno di saviezza, e la Chiesa con la prima antifona la implora per lui: O Sapientia: « O Salienza, che sei uscita dalla bocca dell’Altissimo, che raggiungi il tuo scopo con forza, e che disponi tutte le cose con dolcezza, vieni ad insegnarci la via della prudenza ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo è uno schiavo del demonio: egli ha bisogno di un potente liberatore, e la Chiesa con la seconda antifona lo implora per lui: O Adonai: « O potente Iddio, condottiero della casa d’Israele! che vi siete mostrato a Mosè nel roveto ardente, e che gli avete dato la legge sul Sinai, venite a riscattarci con la potenza del vostro braccio ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo è venduto all’iniquità: egli ha bisogno di un Redentore, e la Chiesa lo chiede per lui con la terza antifona : O radix Jesse: « O radice di Jesse, che sei esposta come uno stendardo agli occhi delle nazioni, davanti alla quale i monarchi staranno in silenzio, e cui i gentili offriranno le loro preghiere, vieni a redimerci, non indugiare ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo è un prigioniero chiuso nel carcere tenebroso dell’errore e della morte: egli ha bisogno di una chiave per uscirne, e là Chiesa nella quarta antifona la chiede per lui: O clavis David: « O chiave di David e scettro della casa d’Israele, che apri e nessuno chiude, che chiudi e nessuno apre, vieni a levare il prigioniero dal carcere, quello sventurato ch’è immerso nelle tenebre e nell’ombra della morte». Dal giorno della sua caduta l’uomo è un cieco: egli ha bisogno di un sole che lo illumini, e la Chiesa con la quinta antifona lo chiede per lui: O Oriens: « O Oriente, splendore dell’eterna luce e sole di giustizia, vieni ad illuminare coloro che stanno sepolti nelle tenebre e nell’ombra della morte ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo è tutto corrotto: egli ha bisogno di un santifìcatore, e la Chiesa con la sesta antifona la chiede per lui: O sancte sanctorum: « O Santo de’ santi, specchio senza macchia della maestà di Dio e immagine della sua bontà, venite a distruggere l’iniquità ed a portare l’eterna giustizia ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo è come una grande rovina: egli ha bisogno d’un restauratore, e la Chiesa con la settima antifona lo domanda per lui: O Rex gentium: « O Re delle nazioni, Dio e Salvatore d’Israele, pietra angolare, che unite in un solo edificio i Giudei e i Gentili, venite e salvate l’uomo che avete formato del fango della terra ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo ha curvato la testa sotto il giogo di tutte le tirannie: egli ha bisogno d’un legislatore giusto, e la Chiesa con l’ottava antifona lo domanda per lui : O Emmanuel: « O Emanuele, nostro re e nostro legislatore, aspettato dalle nazioni, oggetto di tutte le brame, venite a salvarci, Signore Dio nostro ». – Dal giorno della sua caduta l’uomo è una pecorella smarrita ed esposta al furore dei lupi: egli ha bisogno di un pastore che lo difenda e che lo conduca in buoni pascoli, e la Chiesa lo domanda per lui con la nona antifona: O Pastor Israel: « O Pastore e Dominatore della casa di David, voi che siete da tutta l’eternità, venite a pascolare il vostro popolo nella pienezza della vostra potenza, e regnate sopra di lui nella giustizia e nella saviezza ». – Chi può additare qualche cosa di più commovente e di più completo di queste magnifiche invocazioni? Quanto a noi ci sembra che uno dei migliori preparativi alla festa del Natale sia di ripetere spesso queste belle antifone e di chiedere il dono dei sentimenti ch’esse esprimono. Sì, se vogliamo passare santamente il tempo dell’Avvento, uniamo i nostri desideri a quelli della Chiesa, dei patriarchi, dei profeti, dei giusti dell’antica legge; adottiamo qualcuna delle loro più fervorose parole; sia ella la nostra orazione giaculatoria di ogni giorno, affinché Dio possa dire di noi: « Ecco un uomo di buona volontà » così verremo esauditi. E se meglio ne talenta, scegliamo tra le seguenti preghiere, efficaci per formare in noi le disposizioni che la Chiesa richiede; « Io ve ne supplico, o Signore, inviate quello che voi dovete inviare. — Venite, Signore Gesù, e non indugiate; cieli, apritevi, lasciate discendere la vostra rugiada. — Divino bambino Gesù, venite a nascere nel mio cuore per bandirvi il peccato e collocarvi le vostre virtù ». – Uniamo alla preghiera un raccoglimento più grande e una vigilanza più continua; discendiamo più spesso nel nostro cuore per purificarlo ed onorarlo; pensiamo che ci deve diventare la cuna del divino Fanciullo. – Ma il grande preparativo è la rinunzia al peccato, e in modo speciale al peccato mortale. Che cosa può esservi di comune tra il Figlio di Maria e un cuore macchiato d’iniquità? – Ascoltiamo san Carlo che esorta il suo popolo a santificare l’Avvento, e applichiamo a noi stessi le parole di quel grande arcivescovo: « Durante l’Avvento noi dobbiamo prepararci a ricevere il Figlio di Dio che lascia il seno del Padre suo per farsi uomo ed abitare fra noi. Fa di mestieri ogni giorno sottrarre un poco di tempo alle nostre occupazioni per meditare in silenzio sopra le seguenti domande: Chi è colui che viene? Donde viene? Come viene? Chi sono coloro per i quali viene? Quali sonò i motivi, e quale deve essere il frutto della sua venuta? Chiamiamolo con tutti i nostri voti, unendoci ai giusti e ai profeti dell’antico Testamento che lo hanno sì a lungo aspettato; poscia per aprirgli il cammino del nostro cuore purifichiamoci mediante la Confessione, il digiuno e la Comunione « Non dimentichiamo che per l’addietro si digiunava tutto l’Avvento come se fosse la vigilia di Natale. E a gran ragione, perciocché la grandezza e la santità di questa festa ben richiedono una sì lunga vigilia e un sì lungo preparativo. Ma se in oggi non è il digiuno quotidiano come in allora prescritto dovrebbe ogni cristiano digiunare uno o più giorni la settimana, secondo la propria devozione. Conviene otre a ciò distribuire più larghe limosine ai poveri in un tempo in cui il Padre eterno ci diede, e ci dà ancora ogni anno, il suo proprio Figlio come una grande elemosina, e un tesoro di grazie e di misericordie; esser più attenti, che in altro tempo, alle opere buone e alla lettura dei libri devoti; finalmente prepararsi a questa prima venuta del Figlio di Dio, in maniera da poter aspettare la sua seconda venuta non solo senza timore, ma con quella fiducia e contentezza che accompagnano sempre una buona coscienza ». – E gravissimi sono i motivi che ha ciascuno di noi per seguire i consigli di questo grande apostolo dei tempi moderni, e per santificare l’Avvento.

1°.-  L’obbedienza al precetto della Chiesa, «io sono la voce di colui che grida nel deserto; preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri; la scure sta già alla radice dell’albero ». Quest’invito che il santo Precursore dirigeva ai Giudei riguarda egualmente gli uomini di tutti i secoli. Gesù Cristo venne al mondo per tutti: è dunque obbligo indispensabile per tutti di riceverlo. Per timore che noi trascuriamo un punto così essenziale, la Chiesa, sempre intenta al bene spirituale dei propri figli e interprete fedele degli oracoli divini, di cui le è affidata la cura, proclama nella maniera più stringente e più solenne l’invito del santo precursore per tutto il tempo dell’Avvento. La Giudea si scosse al suono di quella voce profetica che si alzava sulle rive del Giordano; i sacerdoti, i leviti, i soldati, i pubblicani, i peccatori di ogni classe e d’ogni condizione accorrevano in folla per chiedere il battesimo della penitenza. – Ora la voce stessa risuona nei nostri templi: abbiamo noi per avventura minor bisogno di penitenza? Abbiamo noi meno da temere di questo gran Dio che ora viene come Salvatore, e che un giorno verrà come giudice? Lasceremo noi che la Chiesa si affatichi invano a ripeterci: « Preparate i vostri cuori; ecco che ogni carne vedrà ben presto il Salvatore inviato da Dio? »

2°.- La gratitudine verso il Salvatore. Che cosa era l’uomo prima dell’incarnazione del Salvatore? Che cosa saremmo noi senza di Lui? Poveri, ciechi, schiavi, vittime del demonio, del peccato e dell’inferno, di che mai non gli andiamo noi debitori? E per liberarci, illuminarci, redimerci, restituirci i perduti nostri diritti, che non ha costato al Figlio di Dio? Un Dio che si nasconde sotto le sembianze di schiavo, che si sottomette a tutte le miserie dell’umanità; un Dio povero; un Dio fanciullo: ciò nulla dirà al nostro cuore? E noi che siamo riconoscenti ai minimi benefizi, nol saremo per un Dio che ci dà se stesso?

3°.- Il nostro vantaggio spirituale. La sorgente delle grazie non rimane esausta in nessun tempo dell’anno; ma le grandi feste sono giorni più propizi, son giorni in cui le grazie vengono sparse con maggior abbondanza. Tutta la Chiesa, animata allora dal medesimo spirito, offre a Dio un omaggio più solenne, gl’indirizza preghiere più fervide, lo piega con lacrime più sincere. Gesù Cristo è nato per la nostra salvezza; ma egli spande le sue grazie sopra quelli soltanto che si presentano con un cuore preparato a riceverlo. Le disposizioni ch’ei trova in noi diventano la misura dei suoi favori. Ebbene, abbiamo noi poco o nulla da domandargli? Scrutiamo l’interno del nostro cuore, interroghiamo la nostra vita passata, il nostro stato presente, il nostro avvenire, e risponderà per noi l’abisso delle nostre miserie.

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio che abbiate instituito il santo tempo dell’Avvento per prepararmi alla festa del Natale; fatemi la grazia ch’io la celebri santamente. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore,  io ripeterò ogni giorno, durante l’Avvento questa preghiera: Divino bambino Gesù, venite a nascere nel mio cuore.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: TEOLOGI IN TEMPO DI CRISI

IL MAGISTERO IMPEDITO:

TEOLOGI IN TEMPO DI CRISI

[«Renovatio», VII (1972). fasc. 3, pp. 331-332.]

 Il consenso dei teologi nella Chiesa è criterio certissimo di verità, ossia è sufficiente per dimostrare la verità teologica di un asserto. Tale valore non viene affatto ai teologi di per sé, ma dall’approvazione esplicita, od implicita, dell’autorità magistrale della Chiesa. Se non esiste una solida ragione per cui si possa ritenere che la Chiesa docente ha in qualche modo ratificato una tesi teologica, questa non ha autorità sul piano della fede. Con questo, abbiamo ricordato semplicemente un principio della dottrina cattolica. – È possibile allora rispondere alla domanda: chi, nella Chiesa, è il teologo» nel pieno e vero senso della parola, quello cioè che può concorrere alla formazione del «consenso» dei teologi, criterio certissimo di verità? La risposta è conseguente e necessaria: è teologo chi è in grado di avere l’approvazione del Magistero e pertanto può unirsi alla schiera degli altri che ottengono su un punto lo stesso consenso. Per essere teologi nel senso pieno, e fuori di ogni equivoco o sospetto, non basta aver una laurea in materia, non basta essere professore di teologia, scrivere, disputate, affermare circa la stessa. – La conclusione è netta: molti, moltissimi che oggi si dicono teologi non lo sono affatto nel senso sopra indicato. Non possono turbare la coscienza di alcuno, possono essere discussi da tutti, non sono strumenti utili per l’esercizio del Magistero. La nostra rivista protesta fortemente contro l’abuso che si fa del nome di «teologo». E non è affatto una mera questione di titoli, è invece una questione di sostanza e di serenità nella Chiesa. L’argomento dell’individuazione dei veri teologi, distinti dai non veri, ci porta ad alcune note storiche su quel che accade nel campo, non sempre a ragione, detto «teologico». – Le ideologie culturali che dominano la piazza «laica» non permettono di riconoscere il rapporto tra concetto ed essere, tra parola e vita. L’oggettività del linguaggio è misconosciuta, come lo fu, talvolta, in passato. Infatti per Heidegger il linguaggio coglie l’essere solo nel momento in cui l’essere si dilegua. È evidentemente come dire, in linguaggio corrente, che non coglie nulla. La filosofia analitica afferma che nessuna proposizione ha senso se non è immediatamente verificabile dall’esperienza. In ambedue i modi viene frustrato il rapporto tra concetto e realtà. Essi aprono la via all’affermazione arbitraria perché nel loro quadro il problema della verità neppure esiste. Ciò appare chiaramente nella filosofia ermeneutica, per cui il significato di ogni espressione è ridotto all’incidenza del testo espresso sulla condizione del lettore. Tutto deve ricondursi alla situazione del soggetto che ascolta o legge, disegnata dal messaggio implicito del linguaggio. Questa filosofia non risolve una questione, ma la nasconde nelle pieghe di una trovata. Infatti l’ermeneutica toglie la consistenza al linguaggio per ricondurlo semplicemente ad una soggettiva rielaborazione in colui che lo ascolta. [questa ad esempio è l’“ermeneutica” dietro la quale nasconde le sue eresie il teologo neo-gnostico J. Ratzinger – ndr-]. È nudo soggettivismo. Accostiamoci un momento al campo morale o della norma del costume. Si coglie qua e là, talvolta sussurrato, talvolta esplicito, l’unico riferimento ad un essere «collettivo». Non c’è più il riferimento alla coscienza individuale e di questa alla «norma» che ha un fondamento trascendente: il singolo uomo, la persona è alienata nelle regole puramente esteriori del comportamento collettivo. Questo è lo stato del pensiero nella sua trincea creduta avanzata. Un complesso d’inferiorità inspiegabile, uno zelo discutibile di incontro col mondo e con le «ricchezze» del pensiero moderno hanno autorizzato molte persone, laureate in teologia e non, ad immettere tutto questo nella teologia. – L’immissione è avvenuta non avvertendo che si scardinava tutto: uomo, pensiero, teologia, chiesa, fede. – L’immissione è aggravata da altri fatti dei quali ora citiamo i maggiori. I teologi protestanti, soprattutto tedeschi ed americani, hanno applicato senza risparmio le nuove ideologie alla loro teologia. Ciò è potuto accadere assai facilmente perché alla radice del luteranismo ci sta una fede che è soltanto fiducia e pertanto non espressiva della verità obiettiva immutabile. Non pochi cattolici nell’entusiasmo del dialogo hanno direttamente preso da teologi protestanti armi e bagagli, senza approfondirne le implicazioni. E così ci è dato di leggere quello che ci è dato di leggere. La volontà ecumenica è una ragione ottima. Ma non è mai una ragione valida per tradire la verità obiettiva, anzi rivelata. – La nostra prima considerazione ci ha fatto capire che molti professori di teologia non concorrono a formare il «consenso dei teologi», avente valore di criterio certissimo per la verità. Pensiamo che la seconda serie di considerazioni sull’attuale momento culturale ponga un ulteriore criterio di discrimine. Il soggettivismo conduce dalle vie del pensiero creativo alle vie del pensiero vano, del vaneggiamento. E allora, quanti sono i teologi, quelli che, in regola con la Chiesa, possono essere ascoltati, possono diventare strumento valido del Magistero, soprattutto di quello ordinario? Su quanti oggi scende il consensus Ecclesiæ seu Magisteri? [ … il breve passo omesso è chiaramente manipolato.] La verità non la si ritrova se non nell’unità. Qua e là maestri autentici parlano: siano benedetti. Il loro criterio sia sempre l’accordo con la Chiesa Universale, ossia col Romano Pontefice.

INFALLIBILITA’ DEL PAPA

Infallibilità del Papa.

[G. Bertetti: Il Sacerdote predicatore. – S.E.I. ed. Torino, 1919]

  1. In che consiste l’infallibilità pontificia, 2. Come si dimostra. — 3. Il nostro dovere.

1. – IN CHE CONSISTE L’INFALLIBILITÀ PONTIFICIA. — Infallibilità non vuol dire impeccabilità; .. l’impeccabilità fu propria di Gesù Cristo per natura, fu propria di Maria Santissima per grazia,… non è propria né del Papa, né di qualsiasi altro mortale… tutti possiamo mancare nell’osservanza della legge santa di Dio, e tutti più o meno manchiamo, compreso il Papa che deve riconoscersi anche lui peccatore e confessarsi anche lui some qualsiasi altro fedele! … – Infallibilità pontifìcia non vuol dire che il Papa sia immune da errore in qualsiasi argomento o materia;… anche lui si può sbagliare, come qualsiasi altro, scrivendo o ragionando d’arti profane, e in tal cosa la sua opinione è discutibile come quella di qualsiasi altro- Infallibilità pontificia non vuol dire nemmeno che il Papa sia esente da errore, quando tratta d’argomenti religiosi in qualità di persona privata nelle familiari conversazioni; … e nemmeno quando ne tratta come semplice predicatore, catechista, confessore. – Infallibilità pontificia vuol dire « che il Romano Pontefice, quando parla ex Cathedra, cioè quando adempiendo l’ufficio di Pastore e di Dottore di tutt’i Cristiani, in virtù della suprema sua apostolica autorità definisce una dottrina intorno alla fede o ai costumi, da tenersi da tutta la Chiesa, mercé dell’assistenza divina a lui promessa nella persona del Beato Pietro, è dotato di quella infallibilità, della quale il divin Redentore volle che fosse fornita la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede, o ai costumi; e che però cotali definizioni del Romano Pontefice per sé sole, e non già pel consenso della Chiesa, sono irreformabili » (Conc. Vat., Sess. IV. c. 4)

2. – COME SI DIMOSTRA. — La Chiesa di Gesù Cristo è « la casa di Dio, la colonna e l’appoggio della verità» ( la Tim., III, 15);… stabilita da Dio nella verità mercé l’assistenza dello Spirito Santo promessole da Gesù Cristo, la Chiesa stabilisce a sua volta i fedeli nella verità, senz’ombra d’errore e d’incertezza… Ma questa casa di Dio, questa colonna e quest’appoggio ha il fondamento in Gesù Cristo e in Pietro: « E io dico a te, che tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non avranno forza contro di lei; e a te io darò le chiavi del regno dei cieli; e qualunque cosa avrai legato sopra la terra sarà legata anche nei cieli: e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra sarà sciolta anche nei cieli » (MATTH., XVI, 18, 19)… Con queste parole il Redentore comunicava a Pietro e ai suoi successori non solo la sua suprema autorità e per così dire la sua stessa personalità, ma anche l’infallibilità nell’esercizio delle somme chiavi… Quel che Pietro avrebbe legato e sciolto sarebbe pure nello stesso tempo legato e sciolto in Cielo;… perché Pietro sarebbe sempre stato in perfetta corrispondenza col Cielo nelle cose che riguardano la costituzione stessa della Chiesa – Lo promise esplicitamente Gesù con quelle parole a Pietro: « Io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga mai meno » ( Luc., 22, 37):… quella fede per cui Gesù Cristo l’aveva detto beato e l’aveva costituito pietra fondamentale della Chiesa… Una tale preghiera, fatta da Gesù Cristo, non a vantaggio personale di Pietro, ma di tutta quanta la Chiesa, fu certamente esaudita dal Padre;… poiché Gesù, Sacerdote eterno «nei giorni della sua carne, avendo offerto preghiere e suppliche, con forti grida e lagrime, a colui che poteva salvarlo dalla morte, fu esaudito per la sua riverenza » (Hebr., VII, 7).

3. – IL NOSTRO DOVERE. — Gesù, comandando a Pietro di pascere i suoi agnelli e le sue pecorelle (JOAN., XXI, 15-17), comanda pure a noi di credere con fermissimo assenso alla suprema autorità dottrinale della Chiesa… L’infallibilità del Papa è ora il segno di riconoscimento del “vero” Cattolico, come in altri tempi fu la consustanzialità del Verbo, la maternità divina di Maria, la giustificazione… Chi osasse anche soltanto dubitarne sia per noi eretico ed infedele… Vada tutto l’omaggio della nostra mente e del nostro cuore a Dio, infallibile per natura, e al Papa, infallibile per grazia;… fin quando staremo col Papa, staremo nella Chiesa, staremo con Gesù Cristo… Lontani dal Papa, saremo pure lontani dalla Chiesa, lontani da Gesù Cristo, lontani dalla via che conduce a salute. Siamo docili alla parola del Papa non solo quando ci parla come Maestro infallibile della Chiesa, ma anche quando ci parla piuttosto come Padre;… ricordandoci la legge del Signore,… avvisandoci dei pericoli, … esortandoci al bene,… invitandoci a partecipare ai gaudi o ai dolori della Chiesa … Chi si contenta d’obbedire al Papa nelle cose di fede, riservandosi la più ampia libertà di consenso in tutto il resto, si condannerebbe da se stesso;… poiché è di fede che si può andare all’inferno non solo per peccati commessi contro la fede, ma anche per peccati commessi contro l’umiltà e l’obbedienza… È forse un leggero peccato di superbia pretender di saperne più del Papa?… È forse un peccato leggero d’obbedienza il disprezzare la parola del Papa e collegarsi con i suoi nemici?… Son forse infallibili nostro padre e nostra madre?… Che direste di quel figlio che rispettasse i suoi genitori come certi cattolici rispettano il Papa? … -— « Chi ascolta voi, ascolta me, e chi disprezza voi, disprezza me; e chi disprezza me, disprezza Quello che m’ha mandato » ( Luc., X, 16)… queste parole, dette da Gesù ai settantadue discepoli aggiunti al Collegio Apostolico, queste parole non dovranno forse applicarsi con molto maggior rigore ai nostri doveri di sudditanza verso il Principe degli Apostoli, il Capo visibile della Chiesa, il Vicario di Gesù Cristo!

GRAZIA

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GRAZIA

[G. Bertetti: I Tesori di San Tommaso d’Aquino; S.E.I. Ed. Torino, 1922]

1. Necessità della grazia. – 2. Suoi effetti. — 3. Grazie gratis date [Contra Gent., 3, q. 147-154]

1. Necessità della grazia. — Le creature razionali, secondo la convenienza della loro natura, pervengono a una più alta partecipazione del fine che non le altre creature. Essendo di natura intellettuale, possono con la loro operazione attingere la verità intelligibile: il che non è dato alle altre creature prive d’intelligenza. Oltre l’intelletto e la ragione, per cui si può discernere e investigare la verità, furono anche date all’uomo le forze sensitive, interne ed esterne, in aiuto all’investigazione della verità. Gli fu anche dato l’uso della parola, affinché possa per mezzo di essa manifestare a d altri i suoi pensieri, e così ne risulti un vicendevole aiuto nella conoscenza della verità e in tutte le altre cose necessarie alla vita. Ma poi oltre ancora, l’ultimo fine dell’uomo è costituito in una conoscenza tale della verità da eccedere le sue facoltà naturali: cioè nella visione della stessa prima verità in se stessa. Se dunque l’uomo è ordinato a un fine che sorpassa le sue forze naturali, ha bisogno d’un aiuto soprannaturale da Dio per poter raggiungere un tal fine; ne ha bisogno per non poter esser allontanato dai molti impedimenti che vi si frappongono: impedimenti nella debolezza della ragione che facilmente è tratta in errore e disviata dal retto cammino, impedimenti nelle passioni e nelle affezioni che ci trascinano alle cose sensibili e inferiori, impedimenti anche nell’infermità del corpo che ci disturba nell’esercizio degli atti virtuosi. Questo aiuto divino rispetta però la libertà dell’uomo e non gli reca alcuna coazione a fare il bene. Dio provvede a tutte le cose secondo il loro modo: provvede dunque all’uomo e a ogni creatura ragionevole secondo il modo loro proprio d’agire volontariamente e d’essere padroni dei loro atti. Essendoci dato il divino aiuto allo scopo precipuo di farci raggiungere il nostro fine, e tendendo noi al fine per mezzo della volontà, Dio non esclude da noi l’atto della volontà, anzi ce lo forma precipuamente (Philipp., 2, 13). All’ultimo fine perveniamo con atti di virtù, e premio della virtù ci si propone appunto la felicità: ora nella virtù è essenziale da parte nostra la libera scelta, che non soffre alcuna violenza e coazione. L’aiuto divino ci è dato non per i nostri meriti (come sostenevano i Pelagiani), quasi dipendesse da noi il principio della nostra giustificazione, e da Dio ne dipendesse il compimento. L’effetto del divin aiuto è superiore alla facoltà della natura, e non è proporzionato agli atti che l’uomo produce secondo la facoltà naturale. Quella conoscenza soprannaturale del fine, che precede necessariamente il modo della volontà, non può venirci altronde che da Dio: a ciò non basterebbe la nostra ragione naturale. Di qui si spiegano quelle parole: « Non per le opere di giustizia fatte da noi, ma per sua misericordia ci fece salvi, mediante la lavanda di rigenerazione e di rinnovellamento dello Spirito Santo» (Tit., III, 5); «non è dunque di chi vuole né di chi corre, ma di Dio che fa misericordia » (Rom., IX, 16). A volere e a operare il bene noi abbiamo bisogno d’esser prevenuti col divino aiuto; noi siamo gli ultimi operatori, Dio è il primo movente; Dio è il duce, noi siamo ì soldati. Si dà gratis ciò che si dà a qualcuno senza un merito precedente: gratis dunque si dà all’uomo l’aiuto divino che previene ogni merito umano. Di qui il nome di grazia con cui è chiamato: «se per grazia, dunque non per le opere, altrimenti la grazia non è più grazia » (Rom., 11, 6). Ma non solo perché vien concessa gratuitamente si dice grazia: si dice grazia anche perché mediante essa, come una speciale prerogativa, l’uomo si rende grato a Dio, che con amore speciale ci aiuta a conseguire un bene superiore alla nostra natura, ossia il perfetto godimento non d’un bene creato, ma di se stesso. – Perché l’uomo possa, in modo quasi connaturale, facile e dilettevole, fare il bene e farlo bene, gli occorrono oltre le potenze naturali alcune perfezioni e abiti di virtù. Dio che a tutti provvede secondo la lor natura, ci dà la sua grazia come una forma o una perfezione per il conseguimento del nostro ultimo fine. Perciò la grazia di Dio si designa come una luce nella Scrittura: « Eravate tenebre una volta, ora siete luce nel Signore » (Ephes., V, 8). Luce, cioè principio del vedere, è quella perfezione che ci promuove alla visione di Dio, nostro ultimo fine. È un errore dunque il dire che la grazia di Dio non pone nulla nell’uomo, come nulla si pone in chi si dice d’aver la grazia del re, ma solo nel re che gli accorda i suoi favori. Tal errore deriva dal non badare alla differenza fra l’amor divino e l’amor umano: l’amor divino è cagione del bene che Dio ama in noi; non sempre l’amor umano.

2. – Effetti della grazia. — La grazia che ci rende grati a Dio è in noi effetto del divino amore. Effetto proprio del divino amore è il farci amar Dio: poiché chi ama, ha come scopo principale del suo amore il farsi amare dalla persona amata. — Il fine ultimo a cui l’uomo è condotto con l’aiuto della grazia divina è la visione di Dio per essenza, visione propria dello stesso Dio: e così questo bene finale è comunicato da Dio all’uomo. – Non può dunque l’uomo esser condotto a questo fine, se non si unisca a Dio per la conformità della volontà, il che è effetto proprio dell’amore, essendo proprio degli amici il volere e il non volere le stesse cose, e il goderne e il dolersene. Per la grazia dunque che ci fa grati a Dio noi siamo diretti al fine comunicatoci da Dio e perciò diveniamo amanti di Dio. — Alla perfezione d’un’opera si richiede costanza e prontezza d’azione, e ciò s’ottiene principalmente con l’amore che ci fa apparir leggiere le cose difficili e gravi. Dovendo la grazia rendere perfette le nostre operazioni, è necessario che per essa si costituisca in noi l’amore di Dio. Con l’amor di Dio la grazia ci dà pure la fede. — Il moto per cui tendiamo all’ultimo fine con la grazia è volontario, non violento. Ora, il moto Volontario può esserci solo verso una cosa conosciuta: conosciuto dunque da noi dev’essere il fine cui tendiamo volontariamente. Ma non potendo noi aver questa conoscenza secondo l’aperta visione nello stato di mortali, quaggiù l’abbiamo per fede. — Il modo di conoscere la verità segue il modo della natura di chi conosce; ma per il raggiungimento dell’ultimo fine s’aggiunge sopra la natura dell’uomo una perfezione, cioè la grazia: è dunque necessario che sopra la cognizione naturale dell’uomo s’aggiunga in lui qualche cognizione che oltrepassi la ragione naturale. Quest’è la cognizione della fede, ch’è di quelle cose che non si vedono con la ragione naturale. In ogni amante sorge il desiderio d’unirsi per quanto è possibile con l’amato: di qui si spiega il gran piacere che si prova a vivere insieme con gli amici. Se dunque con la grazia l’uomo è fatto amante di Dio, sorge necessariamente in Lui il desiderio d’unirsi, per quanto è possibile, a Dio. La fede poi, causata dalla grazia, ci dichiara possibile questa unione dell’uomo con Dio secondo il perfetto godimento, in cui consiste la beatitudine. Dunque dall’amor di Dio deriva nell’uomo il desiderio di goder Dio; ma il desiderio d’una cosa molesterebbe l’anima del desiderante, se non ci fosse la speranza di conseguir l’oggetto desiderato: fu dunque conveniente che negli uomini, in cui l’amor di Dio e la fede son prodotti dalla grazia, fosse anche prodotta la speranza d’acquistar la futura beatitudine. – Oltre a ciò, nelle cose ordinate alla consecuzione di qualche fine desiderato, quando spuntano le difficoltà, si trova un sollievo nella speranza. Or bene, quante difficoltà spuntano sul cammino per cui ci dirigiamo verso la beatitudine, verso il fine di tutti i nostri desideri! A spianarci queste difficoltà la grazia ci dà la speranza: «Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, il quale per sua misericordia grande ci ha rigenerati a una viva speranza, con la risurrezione di Gesù da morte: a un’eredità incorruttibile e incontaminata e immarcescibile, riservata nei cieli » ( la PETR., 1, 3, 4); « siamo stati fatti salvi dalla speranza » (Rom., VIII, 24).

3. – Grazie gratis date. — Son certi effetti di grazia ordinati all’istruzione e alla confermazione della fede, e l’Apostolo li enumera dicendo: « All’uno è dato per mezzo dello Spirito il linguaggio della sapienza, all’altro il linguaggio della scienza secondo il medesimo Spirito, a un altro la fede per il medesimo Spirito, a un altro il dono delle guarigioni per il medesimo Spirito, a un altro l’operazione dei prodigi, a un altro la profezia, a un altro la discrezione degli spiriti, a un altro ogni genere di lingue, a un altro l’interpretazione delle lingue ( la Cor.,. XII, 8-10). – Da Dio solo, che perfettamente comprende se stesso e che naturalmente vede la sua essenza, ci possono arrivare le cose di fede. Or bene, nella manifestazione delle cose di fede, come in tutte le opere divine, c’è un ordine. Alcuni ricevono immediatamente la verità di Dio, altri da questi, e così per ordine fino agli ultimi. Le cose invisibili, la cui visione forma i beati, e che sono oggetto di fede, vengono anzitutto rivelate con aperta visione da Dio agli Angeli beati; poi per mezzo degli Angeli ad alcuni uomini, non già con aperta visione, m a con una certezza che deriva dalla divina rivelazione. Questa rivelazione delle cose invisibili fatta da Dio appartiene alla sapienza, la quale consiste appunto nel conoscere le cose di Dio (Sap., VII, 27-28; Eccli., XV, 5). Ma poiché «le cose invisibili di Dio, si vedono dopo averle intese per mezzo delle cose fatte » (Rom., 1, 20), con la divina grazia non solo ci si rivelano le divine cose, ma anche alcune delle create: il che appartiene alla scienza (Sap., VII, 17; 2 ° Paralip., 1, 12). – Quei che ricevono la rivelazione da Dio devono, secondo l’ordine stabilito da Dio, istruir altri; e ciò non potendosi fare senza il linguaggio, fu necessario che loro si desse anche l a grazia, del parlare, secondo che richiede l’utilità delle persone da istruire ( ISA., 50, 4; Luc., XXI, 15). E perciò, quando per mezzo di pochi doveva predicarsi la virtù della fede fra diverse genti, furono alcuni ammaestrati da Dio a parlar diverse lingue (Act., II, 4 ). – L’insegnamento, se non è di cose per sé evidenti, ha bisogno di conferma per essere accolto; ma le cose di fede non sono per sé manifeste all’umana ragione; di qui la necessità d’una conferma per le parole di quei che predicano la fede. Non potendosi aver tal conferma per mezzo di qualche principio della ragione con modo dimostrativo, perché le cose di fede sorpassano la ragione, ci fu bisogno di alcuni indizi che chiaramente dimostrassero come da Dio erano derivate le parole dei predicatori, i quali operavano intanto cose che Dio solo poteva compiere, come la guarigione degli infermi e altre siffatte meraviglie (MATTH., X, 8; MARC., XVI, 20). Un’altra conferma si ha quando i predicatori di verità risultano aver detto il vero circa le cose occulte che possono poi manifestarsi: allora si crede anche quando dicono cose che sfuggono all’esperimento degli uomini. Necessario fu quindi il donò della profezia, per cui gli uomini possono conoscere e indicare ad altri, per rivelazione di Dio, le cose future e occulte ( la Cor., 24, 25). Quelli che ricevettero la rivelazione immediatamente da Dio, non solo la narrarono agli uomini contemporanei, ma la scrissero per l’istruzione dei posteri; dovettero pertanto esserci anche di quelli che ne interpretassero gli scritti: il che s’ha dalla grazia di Dio, come dalla grazia di Dio s’ha la rivelazione (Gen., XL, 8). – Vengono infine quei che credono fedelmente alle cose rivelate e interpretate: e questo s’ha col dono della fede. Ma poiché gli spiriti maligni fanno qualcosa di simile a ciò ch’è di conferma alla fede, tanto nei prodigi quanto nella rivelazione del futuro, è necessario che gli uomini, per non essere ingannati dalla menzogna, sappiano discernere spirito da spirito ( la JOAN., IV, 1). – In tutti gli effetti accennati della grazia occorre considerare una differenza. Benché a tutti competa il nome di grazia, perché gratuitamente e senza alcun merito anteriore si conferiscono, tuttavia il solo effetto dell’amore si merita il nome di grazia in quanto ci rende grati a Dio (Prov., VIII, 17). Perciò la fede, la speranza, e gli altri effetti ordinati alla fede, possono trovarsi anche nei peccatori, che non sono grati a Dio; invece il solo amore è dono dei giusti, perché « chi rimane nella carità, rimane in Dio, e Dio è con lui» (la JOAN. , IV, 16). – C’è ancora un’altra differenza da considerare negli effetti della grazia. Alcuni d’essi son necessari per tutta la vita dell’uomo, come il credere, lo sperare, l’amare e ubbidire ai comandi di Dio, perché non potrebbe aversi altrimenti la salvezza: e a questi effetti si richiedono in noi alcune perfezioni secondo cui possiamo operare a suo tempo. Altri effetti son necessari, non più per tutta la vita, ma in determinati tempi e luoghi, come il far miracoli, predire il futuro, e simili: e a questi effetti non si danno perfezioni abituali, ma si fanno da Dio alcune impressioni che cessano col cessar dell’atto. Si ripetono le medesime impressioni, quando sarà opportuno il ripetere l’atto: così i profeti, in qualsiasi rivelazione, sono illustrati da un nuovo lume; così in qualsiasi operazione di miracoli s i richiede una nuova efficacia della virtù divina.