QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA UNDECIMA Nella Feria feconda della Domenica seconda.
Della Penitenza. Si scopre l’inganno e si mostra il pericolo di perdersi eternamente a chi differisce la conversione.
Quæretis me, et in peccato vestro moriemini San Giov. Al cap. 8
Confesso il vero, che io deploro la cecità di coloro, i quali differiscono di giorno in giorno la loro conversione col dire, che in ogni età può ridurli il peccatore a penitenza, giacché in ogni età, in ogni tempo sta Iddio con le braccia aperte per stringerlo al seno, purché pentito; deploro dico la vostra cecità se qui siete con tali sentimenti in cuore; e siate risoluti di non turbare il presente con la sollecitudine dell’avvenire, onde vogliate dare, se non gl’ultimi momenti della vostra vita, almeno quelli della vostra vecchiaia al pentirvi. Or sappiate, che se così opererete, sarà tanto certa la vostra dannazione, quanto è certa la vostra presunzione, mentre pretendete la Misericordia Divina legata a’ vostri capricci! Tacete e assicuratevi, che questo vostro pensiero andrà deluso, e ridotti al capezzale proverete avverate le parole di Critto: Quæretis me, in peccato vestro moriemini; e son da capo. La penitenza non v’ha dubbio esser frutto d’ogni stagione. Ella si nell’età più fiorita, come negl’anni più freddi matura al caldo della carità misericordiosa di Dio; se vi piovano le nevi sul capo, se vi scorre per le vene gelo di morte, finché siete in questa vita, siete nell’autunno di penitenza, che a Dio riserva, Omnia poma nova, et vetera; per arida e secca che sia la vecchiaia può, come la verga d’Aron, germogliare in una fiorita e fruttuosa correzione. Qual pianta più sterile della croce d’un ladro, e pure bagnata con sangue del Redentore, gli porse un frutto da trapiantare in Paradiso. Qual ramoscello più piccolo che l’ultimo momento di vita? E pure l’anima, con questo in bocca, divenutole olivo di pace, può, come colomba, da un diluvio d’acque volare all’arca d’eterna salute. Se così è (sento taluno, che mi dice) a che dunque turbare il presente con la sollecitudine dell’avvenire, se goduto il presente può assicurarsi in un momento il futuro? Diasi dunque con ottimo partimento il godere alla vita presente, il pentirsi alla morte; (così costei con voce da Circe). Ma chi non vede esser ciò una tanto certa perdizione, quanto è una vera presunzione; quasi che la Misericordia divina debba esser legata a’ nostri capricci. Tacete , tacete , ed assicuratevi che questo vostro pensiero andrà deluso, se voi, procrastinando la vostra conversione, non vi darete a sollecita penitenza. Date mente alle prove. Quando io parlo che non indugiate a pentirvi alla morte non intendo già di parlare con quelli che sono risoluti di pentirsi veramente alla morte, e non prima, poiché questi già stanno con un piede nell’inferno, per non dire con tutti e due, e per questo sol atto di volontà sono sempre in peccato mortale; intendo di predicare a coloro che indugiando di giorno in giorno, di solennità in solennità, procrastinano la conversione, finché arrivano all’ultima malattia, e quivi invece di convertirsi si dannano. Contro costoro dunque me la prendo, e dico loro, poveri infelici, è possibile, che non conosciate il gran male che voi fate procrastinando la vostra conversione? È vero, sento rispondermi, siamo peccatori, e ben conosciamo che questo nostro differire la conversione conducendoci all’ultima malattia ci conduce sull’orlo della dannazione, ma non per questo diffidiamo di salvarci, merceché la Santa Chiesa ci ha provveduti, in quel tempo di cose pie, come di Benedizioni del Santissimo Rosario, del Cordone del Carmine, della Cintura; tutto è vero, ma contentatevi però che io di voi mi rida mentre in quell’estremo confidate nell’aiuto di queste, per altro sante cose, e frattanto viviate da bestie. Sentite tra gl’insetti v’è un’animale, che chiamasi mille piedi, e pure con mille piedi appena si muove, la ragione si è, perché essendo privo di sangue non ha calore per servirsi di quelli strumenti datigli dalla natura a far moto; anche voi peccatori avrete, allorché sarete moribondi sopra del vostro letto, molte reliquie, brevi e benedizioni, ma perché non avrete nel cuore una scintilla di carità non vi saranno nulla affatto, giacché viveste male e non avrete in quel punto calor celeste, e così non potrete attuarlo a quei mezzi, acciò vi giovino; avverrà a voi in quell’estremo, come avveniva a David che, nell’ultima sua vecchiaia non arrivava a potersi riscaldare, sicché carico di panni gelava; ma se queste devozioni non bastassero? Voi mi replicate, procureremo d’avere una buona corona di religiosi i quali c’aiutino, ci suggeriscano quanto è necessario per salvarsi. Voi dite bene, che la perizia d’un buon confessore in quell’estremo val molto, e però chiunque brama salute, dovrebbe eleggersi per assiduo regolatore dell’anima sua un uomo; ma tale appunto quale lo vorrebbe assistente al suo morire; val molto in quel tempo, è vero, un buon confessore, ma sappiate che il suo aiuto, quantunque buono, non per questo sarà tale, che possa da sé solo liberarvi dall’inferno, e mandarvi in Cielo. Fu sfidato a duello un certo nobile, non men privo di spirito, che d’esperienza nell’uso della spada. Accettò questi l’invito sulla speranza di chiamare per secondo un suo caro e buon maestro di scherma. Compiva egregiamente le sue parti il maestro, poiché nell’atto stesso di battersi col suo contrario non levava mai gli occhi dal cavaliere, riparate, diceva, quel colpo di sotto, ponetevi in guardia, avanzatevi, ritiratevi, ferite; ma il nobile, quanto ignorante, altrettanto impaurito non eseguiva i documenti del direttore, perché appena ne intendeva la voce. Ferito pertanto a morte, lasciò la vita sul campo con tutta l’affettuosa e valevole assistenza d’un tanto padrino. Voi vi dovete trovare nel fine di vostra vita a fiero duello col nemico comune; ottima sarà l’assistenza d’un santo confessore, v’insinuerà egli atti di fede, di contrizione, di confidenza nel sangue di Gesù; ma voi abbattuti dal male, agitati dalla coscienza, intimoriti dalle tentazioni, appena intenderete i termini di tali atti, mentre mai aveste in costume d’esercitarli, e quel che è peggio, assaliti da diaboliche suggestioni vi lascerete superar dall’inimico che resterà vincitore e padrone dell’anima vostra per tutta l’eternità. Ma Padre, quantunque voi ci poniate nell’inferno, noi però speriamo di non balzarvi, quantunque questa nostra mala vita ci conducesse al capezzale. Il Santissimo Sacramento della Confessione v’è sempre, ci confesseremo prima di morire, ed eccoci salvi. Tutto bene; ma i conti non riusciranno, perché non li fate con Dio, che sdegnato per la vostra mala vita, non vi permetterà questo necessario aiuto. Permetterà Iddio, che voi moribondi siate assistiti da un Sacerdote che, non sapendo la formula dell’assoluzione, vada per il Rituale, e voi frattanto moriate. Così avvenne ad un infelice, che dalle piume saltò alle fiamme; permetterà che il Sacerdote si scordi di darvi l’assoluzione, così occorse in Firenze ad un cavaliere da me conosciuto e non di buona vita. Che tramortifica prima d’assolvervi, così avvenne nella città di Perugia ad un Ecclesiastico. Permetterà che il Sacerdote si dimentichi affatto delle parole necessarie: Ego te absolvo, così avvenne in Torino. Che un’ignorante di prima classe creda non potervi assolvere, così accadde ad un scellerato in Firenze; permetterà, che il Sacerdote venuto alla vostra casa non possa per qualche accidente entrare in camera, così appunto successe ad una donna in Ascoli, e morì senza Confessione. Questi e simili casi permetterà Iddio, che intervengano nella persona di chi vuole indugiare la sua conversione. – Olà, peccatori miei dilettissimi, non vorrei che faceste come il leone, che per non atterrirsi, non vuol guardare all’armi de’ cacciatori; guardate, e guardate bene in quanti modi vi può colpire la Giustizia Divina. Ma su via, voglio che abbiate la sorte di confessarvi, e per questo, che speranza avrete della vostra salute, mentre questa vostra confessione non sarà dissimile a tante altre, nelle quali non avevate dolore vero de’ vostri peccati, sarà simile a quella d’un infelice scolaro narrata da Fra Bernardino da Busti; dice egli, come un infelice scolaro, che più che le scienze, studiava vizi, venne a morte, e tra lacrime e sospiri passò con gli ultimi Sacramenti, lasciando a tutti una speranza assai viva di sua salute, ma perché non è tutt’oro quel che riluce, poco dopo gl’apparve miseramente dannato, e disse: morii con segni sensibilissimi di pentimento, ma non furono, poiché io non piansi i peccati commessi, ma i gusti, che dovevo perdere, e sappiate che troppo male l’intendono quelli i quali pongono le loro speranze nelle ultime confessioni, essendomi io dannato per non aver avuto dolore, né proposito. Che dite? che fate? che risolvete? Si badi lasciare ancor la mala vita, mentre toccate con mano che se giungerete in tal stato al capezzale, neppur potrà, quali dissi, giovarvi la Confessione. – Padre, Padre, voi mi dite, se non riuscisse far la confessione prima di spirare, si può fare un atto di contrizione, che supplisce a tutto, e basta sia fatto un momento prima di spirare. Un atto di contrizione? E che vi par di dire, o peccatori, quando dite un atto di contrizione? Bisogna che voi v’immaginiate che tanto sia fare un atto di contrizione quanto leggerlo in una cartina stampato. Fare un atto di contrizione, vuol dire dolersi con un dolore il maggiore di tutti i dolori, non dico sensibili, ma apprezzativi de’ vostri peccati. E voi vi tenete in pugno questo dolore, quando in vostra vita sol vi siete doluto di non aver potuto far più peccati? Far un atto di contrizione? Vuol dire avere un proposito di voler patire mille morti, prima che tornare a peccare. E voi vi tenete in pugno questo proposito, mentre in vostra vita non avete fatto altri propositi, che di sfogar le vostre passioni? Fare un atto di contrizione, vuol dire pentirsi d’aver offeso Iddio, non già per timor dell’inferno, non per perdita di Paradiso, non per bruttezza di peccato, ma solo per aver offeso Lui Sommo Bene, e che merita d’esser infinitamente amato. E voi vi tenete in pugno questo pentimento, per puro amor di Dio, mentre in vostra vita non avete fatto che voltar le spalle a Dio, per interesse, per odii, per amori? Voi un atto di contrizione in morte, che mai l’avete fatto in vita? Fare un atto di contrizione vuol dire amare Iddio sopra ogni cosa, e voi ve lo tenete in pugno, mentre in vita avete amato più le ricchezze, che Dio, più gli onori che Dio, più colei che Dio, più colui che Dio! Eh mi meraviglio di voi. – Se io vi dicessi, allorché sarete moribondi: figlio, per salvarti, bisogna fare un atto di contrizione in lingua greca, voi mi rispondereste, non è possibile, perché mai ho imparato questo linguaggio e voi vorrete far un atto d’amor di Dio in morte, quando mai l’amaste in vita? Ohime, vi piango perduti! E voi sento mi rispondete: non ci vogliamo disperare, perché se non potremo fare questo atto di contrizione, e non avremo lingua da confessarci; sappiamo che alla morte bastano i cenni, basta un chinar di testa, un calar di palpebra, uno stringer di mano, un battersi il petto, questo è d’avanzo, perché in quel punto ci sia data l’assoluzione di qualsivoglia scelleraggine. Certo, da qualsivoglia Sacerdote; certo! E dove è l’Imperatore Ottone Terzo di questo nome, il quale per rimanere assolto d’una privata ingiustizia accettò da San Romualdo di pellegrinare a piedi nudi al Monte Gargano, ed ivi per un’intera Quaresima vestir sacco, digiunar con rigore, dormire in terra? Dove è quel gran Pacomio, che caduto in disonestà, vuole con suo sommo rossore palesarlo in uno de’ Concili più nobili di Toledo? Dove è quella Fabiola gran Principessa Romana, la quale violata una ordinazione Ecclesiastica, volle con sommo rossore accusarsene sulle porte del Laterano? Se voi foste presenti, vorrei dirvi che potevate aspettare agli ultimi fiati di vostra vita, ed allora ottenere con un sol cenno, quello che tanto vi costò. Olà, olà mi muovo a compassione di non pochi che ignoranti di questa bella dottrina, che bastano i cenni, intraprendano grandi fatiche, aspre penitenze; Fermatevi voi pellegrini che con croci in spalla vi portate al riverito santuario di Loreto; fermatevi o voi che volete con tanto disagio passare a San Giacomo di Galizia, e con tanti pericoli a’ luoghi di Terra Santa; basta che chiniate la testa prima di morire, che stringiate le mani al Sacerdote per ottenere intiera l’assoluzione delle vostre colpe; bastano i cenni, sì, ma non basta, perché questa si confermi da Dio, vi vogliono l’interne disposizioni di dolore e di proposito. E come è possibile che chi ha bevuto l’iniquità come l’acqua, e che chi si pente sol perché non può vivere, l’abbia? Mutate parere, perché questi vostri disegni alla morte non vi riusciranno. Uditemi. Tre sorte di morte si danno e non più: in due è certissima la vostra dannazione, nell’altra è quasi indubitata se a quel tempo riducete la vostra conversione. Se la morte vi viene all’improvviso da un accidente, da un catarro, da una percossa, da una caduta, è finita, siete dannato, perché siete in peccato mortale. Se poi la vostra morte viene con un mal furioso, o di sconvolgimenti di stomaco, o di dolori di viscere, o di spasimi di testa, o simili, voi ben vedete che non potrete applicare ad un negozio di tanta importanza e fuori di voi, senza Confessione vi perderete. – Che se poi la morte venisse con principii di male assai tenue, sicché vi lasciasse libera la testa, per pensare alle vostre colpe, sciolta la lingua da confessarle, e spiritoso il cuore a dolervene; voi siete in peggiore stato di convertirvi, per che mai vi darete ad intendere, né vorrete credere, che una tale infermità debba portarvi all’altra vita, e per ciò mai vi ci preparerete; farete a guisa d’un pigro viandante, il quale non potendo passare un torrente gonfio di molte acque, ne’ suoi principii va sempre irresoluto, tra se dicendo, le passerò più giù, le passerò più giù, e finalmente deluso, quando delibera di passarlo, non ne trova più il varco. Oltre che, credete voi forse che il demonio, il quale fino a quel tempo avrà goduto il possesso dell’anima vostra felicissimamente per i tanti vostri e gravi e continuati peccati, ha poi per lasciarvi nel più bello, e che gli scappiate dalle granfie? Appunto egli farà con voi ciò che suol farsi nelle ultime giornate campali allorché si viene a guerra finita, non si lascia veruno a quartiere, tutti a combattere, e perché? Perché quella è l’ultima giornata in cui se si perde non vi è più speranza di vincere, e se si vince non vi è più paura di perdere; e però allor si fanno le ultime prove. Così appunto interviene alla nostra morte; sa l’inferno che da quel punto dipende tutto, e però, che non farà allora lucifero? Sapete: ve lo dice il Signore nell’Apocalisse. Descendit ad vos diabolusbabens iram magnam, sciens quia modicum tempus habet … vi verrà al letto con una furia e rabbia incredibile, perché sa che ha poco tempo, e se vi perde, è finita. Chiamerà dunque allora tutte le furie d’inferno perché v’assaliscano, v’assalirà con tentazioni di fede, v’assalirà con tentazioni di vendetta, di disonestà, saprà ben’egli rappresentarvi quei balli, quelle veglie, quegli affetti, colui, colei, e vi farà cadere in uno di quei pensieri laidi ai quali avete per l’addietro sempre dato libero l’adito nella mente, certo l’assenso nel cuore. Che rispondete a queste verità? Ecco la risposta troppo confidenziale, se non abbandonate il peccato. In quel punto il Signore mi aiuterà … no! Perché troppo spesso vi siete a Lui ribellati, dopo confessati, dopo avervi di nuovo data la sua grazia; no! Perché son mesi, son anni, che amorosamente vi chiama, che ritorniate alla sua obbedienza, e voi restii non l’ubbidiste; onde Egli farà con voi come si suole con le città ribelli, che non arrendendosi alle chiamate, si manda tutto a ferro e fuoco. No, che non v’aiuterà, perché vedrà che voi ricorrete a Lui non per amore, ma per forza, e vi risponderà, come il gran capitano Jefte rispose agli Ismaeliti: Nonne vos estis, qui odistis me, et dejecistis, nunc venistis, necessitate compulsi; voi (dirà Iddio) m’avete finora odiato, m’avete scacciato con amori con odii, con bestemmie, ed or mi chiamate; non voglio venire, siete forzati, non lo fate di cuore; no, che non vi aiuterà, anzi sentite ed inorridite: vi abbandonerà, di tanto si dichiara per il Profeta reale, mentre, se non vi risolvete a penitenza; udite le parole: Convertentur ad vesperas, famem patientur ut canes; Costoro che tante volte furono da me chiamati a penitenza, e mai si risolsero a farla bene, ora che la vorrebbero fare al capezzale, famem patientur ut canes faranno trattati da cani. Come si trattano i Cani? gli si danno gli avanzi, il peggio; voi avete voluto dare il meglio della vostra vita agli spassi, alle bettole, ai giuochi, alle usure, alle lascivie, e trattar me da cane, dandomi gl’avanzi della vostra vita, ed Io voglio trattar da cani voi, vi metterò una catena alle mani ed ai piedi e vi legherò eternamente nell’inferno: Ligatis manibus pedibus projicite cum in tenebras exteriores. Tanto provò quell’infelice cortigiano, di cui ne porta il funesto successo l’Eminentissimo Baronio ne’ suoi Annali. – Un predicatore apostolico della minima mia Compagnia, predicando la Quaresima in Digiure Città di Borgogna, atterrì tutta l’udienza con un caso formidabile, a cui accrebbe gran credito il Padre guardiano de’ Cappuccini, che nello scendere il predicatore dal pulpito, gli presentò il padre suo compagno, dicendo: eccovi o Padre un testimonio di veduta, e che fu spettatore dell’orribile tragedia. Uditela anche voi, miei uditori, con eguale spavento, ed utile. In un villaggio di Borgogna, un cavaliere, che da gran tempo era abituato nel vizio, resisté sempre alle divine ispirazioni, persuadendosi che prima di morire si sarebbe convertito. Iddio, che lungamente l’aveva tollerato, lo buttò finalmente nel letto con gagliarda febbre, ma neppure allora s’induceva a volersi confessare, benché esortato vivamente dal parroco che l’assisteva; quando rivolgendo l’ammalato gl’occhi, vide scritto a caratteri maiuscoli nel cortinaggio quella sentenza d’Isaia: Quærite Dominum dum inveniri potest, cercate il Signore, mentre si può ritrovare. A tal vista, doveva compungersi, eppure maggiormente s’ostinò immaginandosi che fosse invenzione del curato per condurlo alla Confessione; onde è che minacciando, comandò che si levasse via quel cartello, altrimenti avrebbe messo in pezzi e coltri e tendine, e questo v’era. I domestici, ancorché non vedessero niuna scrittura, per quietare il di lui furore, mutarono quelle in altre cortine, nelle quali con maggior prodigio mirò di nuovo l’infermo espresse quest’altre parole del Salvatore: Quæretis me, non invenietis, mi cercherete senza trovarmi; voi vi crederete che a questo spettacolo si ravvedesse il misero? Appunto non fu così; vie più inviperito gridando e bussando e minacciando si protestò, che a loro dispetto non si sarebbe confessato, non essendo egli ragazzo da temere di spauracchi; furono costretti i parenti a cambiar nuovamente la cortina, ma questa mutazione fu un esporgli avanti gl’occhi la terribile sentenza della sua condannazione, imperocché sulla terza cortina comparve figurata a neri caratteri la minaccia di Cristo Giudice: In peccato vestro moriemini, morirete nel vostro peccato. A questa terza veduta arrabbiatosi più che mai, si contorse con impeto e dopo violenti agitazioni spirò l’anima sciagurata, e nello spirare tutta la casa s’agito con orribil terremoto, come se rovinasse da fondamenti; né solo l’anima se ne andò, ma anche il corpo scomparve, portato via, non si seppe da chi, né dove, ma ognuno se lo poté purtroppo immaginare. A sì formidabile spettacolo rimasero gli astanti pieni d’orrore, e molto più quando, per divina rivelazione si seppe la verità di questi monitorii. La moglie restata vedova, ed una figlia che aveva, uscirono da quella funestissima casa, e corsero alle Carmelitane scalze a prendere vita religiosa; il figlio rimasto erede, rinunziate le sue facoltà, vestì l’abito Cappuccino e fu appunto quegli che, terminata la sopradetta predica, testificò il deplorabile avvenimento affinchè: exemplum effet omnium pœna unius. Imparate a non indugiare la penitenza, se non volete esempii, se non così visibili, certo egualmente spaventoli…
LIMOSINA Voi sapete che gl’indovini per dar la buona o rea ventura, si fanno dar la mano bene stesa ed aperta, e s’ella è ben formata, ed ha le linee della palma lungamente dritte e stese ne sogliono fare augurio di lunga vita; a me, senza dubbio, darebbe l’animo di saper dire certamente, se la vostra vita sarà eternamente lunga, se vi salverete, si o no, e se starete bene anche in questa vita: vitæ quæ nunc est, et future, e non dubitate che io non colga sul segno; perché parlo con lo Spirito Santo, basta che si osservi, se la vostra mano è ben aperta per sovvenir a’ poveri; se così è, voi siete salvi: eleemosina liberat a morte.
SECONDA PARTE
Ho parlato finora contro di quelli che, indugiando la loro conversione di tempo in tempo, finalmente si riducono in pessimo stato alla morte con una quasi certezza di dannazione, ma perché questi sono la minor parte, voglio aprire gl’occhi con un fatto della Sacra Scrittura a quei che procrastinano di tempo in tempo, e vivono tra peccati, dicono: siccome sono uscito dal peccato altre volte, così ne uscirò questa ancora, e con questa debole speranza indugiano a confessarsi. Voi dunque dite così, allorché siete in peccato, e dalla coscienza, e da’ buoni amici siete esortato a confessarvi. Dio m’assisterà con la sua santissima grazia, come ha fatto altre volte, dandomi forza d’uscire dal peccato; piano, piano, perché questo è un paralogismo: ve l’ha data altre volte … dunque ve la darà sempre? Nego, nego, la conseguenza non tiene, e se non lo credete, udite. Voi ben sapete che Sansone s’era buttato nelle braccia di Dalila meretrice, la quale subornata da’ Filistei, procurò di sapere l’origine della gran robustezza di Sansone per potergliela togliere, e così darlo nelle mani nemiche. Ecco che un giorno, tutta alla domestica, domanda Dalila a Sansone: dimmi, se m’ami, d’onde mai in te tanta robustezza, sicché niuno possa abbatterti? È facile, rispose Sansone, basterebbe legarmi con sette nervi umidi, ed eccomi debole al par degl’altri; non cercò più la rea femmina; procura da’ Filistei questi lacci, e fintasi tutt’amore verso Sansone, gli riesce legarlo, e legatolo grida: a te Sansone, ecco i Filistei Philistin super te Sanson; Sansone scuote le braccia e a guisa di sottil filo di canapa, spezza quelle funi di nervo; Dalila vedendosi svergognata nell’impresa, si lamenta con Sansone, Ecce illusisti mihi, non posso credere che m’ami, se non mi confidi i tuoi segreti; dimmi dunque, e d’onde a te deriva tanta robustezza? questa mi si toglie, risponde Sansone, allorché io sia legato con funi del tutto nuove; e Dalila lo stringe con corde nuove, ed ella stessa grida: Philistiin super te Sanson, e Sansone con un solo divincolamento di persona, ruppe quelle corde come se fossero stati tenuissimi spaghi; Dalila di nuovo fa l’adirata, e poi di nuovo lo prega a compiacerla, che gli dica, dove veramente consista il fondo della di lui forza; Sansone le dice: per dirtela, se vuoi togliermi ogni forza, conviene inchiodarmi per i capelli nel pavimento; Dalila l’inchioda, e poi alza le voci: Philistiin super te Sanson, e Sansone, con un’alzata sola di capo, cava quel gran chiodo dal pavimento come altri farebbe un piccolo fuscelletto dall’arena. Or qua miei uditori, già v’ho narrato il fatto, nel quale voi m’avete a dire, se ravvisate più l’amore, o la pazzia di Sansone, voi mi rispondete: che l’amore è cieco, e perciò aveva condotto ad una sì gran pazzia Sansone, il quale quantunque vedesse apertamente il tradimento, ad ogni modo non sapeva abbandonare quella rea femmina, che lo voleva morto. Né qui si ferma l’infame amore ma nuovamente con lusinghe interrogato, gli scopre la verità e gli dice: tutta la mia forza consiste nella mia capigliatura; Dalila subito richiama i Filistei, lusinga l’amante, fa che gli si addormenti nelle ginocchia, prende le forbici, taglia i capelli, lo scuote, lo gitta da sé, lo butta nelle mani de’ nemici, e poi grida: Philistiin super te Sanson … Sansone si desta, e stimando di riscuotersi come prima da quelle insidie, dice nel suo cuore: Egrediar sicut antea feci, gli scapperò dalle mani, ma non fu così, perché recesserat ab eo Dominus, onde legato, accecato e strascinato vi perde la vita. Or, cari miei Uditori, come si portò tanta ruina a Sansone, non per altro se non perché era scappato altre volte, perché s’era liberato altre volte: Egrediar sicut antea feci. – Questo paralogismo lo tradì, e questo tradisce la maggior parte degl’uomini. Intendete: la verrà giorno in cui Iddio v’abbandonerà, Dominus recedet … vedete quanto diversamente io discorra da voi; voi dite, che perché Iddio v’ha fatta la grazia altre volte, ve la farà anche adesso; ed io vi dico, che quanto più ve l’ha fatta, tanto più è difficile che l’abbiate un’altra volta. Giovane, uomo, tu hai scampata la morte e del corpo e dell’anima trovato da’ rivali in quella casa; non dire, l’ho scampata una volta, la scamperò la seconda! Donna t’è riuscito una volta mancar di fede senza pericolo, non ti riuscirà; ti sei confessata bene, non tornare, perché Dominus recedet …
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA DECIMA Nella Domenica seconda di Quaresima
Del Paradiso: Tutto si può, e si deve tollerare in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro. Et transfiguratus est ante eos. S. Matt. cap. 17.
QUARESIMALE (X)
QUARESIMALE (X)
DI FULVIO FONTANA
Sacerdote e Missionario DELLA COMPAGNIA DI GESÙ
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA DECIMA Nella Domenica seconda di Quaresima
Del Paradiso: Tutto si può, e si deve tollerare in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro. Et transfiguratus est ante eos. S. Matt. cap. 17.
Non si può, no, grida l’Apostolo, giunto al terzo Cielo, avere vera notizia di ciò, che sia Paradiso, perché “Nec oculus vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit, queæ Deus præparavit diligentibus se”. Ma non per questo voglio trascurare gli inviti di San Giovanni nell’Apocalisse, che con chiave d’oro c’apre il Paradiso: Ostendit nobis Sanctam Civitatem Jerusalem. Inoltriamoci dunque a rimirare questa Patria eterna de’ Beati, giacché a tanto ci consiglia San Girolamo, scrivendo ad Eustachio: Paradisum mente perambula, ch’è quanto dicesse scorri pure il Paradiso non con occhio corporeo, che tanto non vale, ma col lume della Fede. La fede dunque dia a noi questa mane e qualche notizia del Paradiso, e contentatevi, che io pratichi con voi, quel che fece colui, riferito da Jerocle Greco, il quale per far venire in cognizione di qual bellezza fosse il suo Palazzo, ne mostrò una sola pietra: Così io con il santo lume della Fede non più vi mostri che una pietra di Paradiso, che vale a dire un grado solo di Gloria, e questo v’assicuri, che supera quanto di bene possa immaginarsi, non che trovarsi in tutto l’Universo; dal che arguirete se sia bene tollerare ogni travaglio in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro. Ecco dunque, che ancor io vi porto in mostra una piccolissima pietra di quella celeste Gerusalemme, acciocché dalla di lei preziosità abbiate un sbozzo del Paradiso. L’Angelico San Tommaso me la pone in mano con assicurarci che un sol grado di Gloria, vale più che tutto il Creato e creabile: Bonum gratiæ etiam minima unius animæ particularis, majus est, quam omnia bona naturæ totius Úniversi. – Posta questa verità, figuratevi pure un gran signore che a niuno ceda nella sublimità de’ natali e tutti superi nelle aderenze d’illustri parentele. Dategli per abitazione nella città regina del mondo un palazzo sì sontuoso che superi di gran lunga quel regio de’ monarchi della Cina, ove, al riferire de’ storici, contavansi sessanta nove camere tutte alla stesa, una più bella dell’altra, e fra queste quattro, vedeansi tra le principali, essendo la prima coperta a lamine di rame artificiosamente storiato di finissimo argento, la seconda d’oro, la terza e la quarta ove il principe dimorava, rimiravasi tutta tempestata di perle e gemme preziose. Possieda questo signore per ornamento della sua reggia, mense intarsiate di diamanti, scrigni tempestati di rubini, ed abbia gioie in tal numero che possa, niente inferiore ad Ottone Augusto, dispensare a chi gl’aggrada un milione e due cento mila scudi, che egli donò alla capella di Giove Capitolino, e superiore al tanto rinomato Nipote di Lillio possa adornarsi con un milione e mezzo, che con tante appunto vi comparve in un ballo; abbia altresì per sua mera delizia entro il nobile suo giardino, quell’albero, che da Luitprando fu veduto, ed ammirato nel gran Salone di Costantinopoli: Era questo tutto di bronzo, e carico d’augelli d’oro, che dolcemente a forza d’arte cantavano; oppure quell’altro veduto con ammirazione da Marco Polo nella Reggia del Gran Khan, mercè che era d’oro massiccio, e gli pendevano per frutti, grosse perle: ne pare manchi ad un signore di tanta maestà il seguito di nobile e numerosa servitù; gli si concedano pure oltre al numero ben grande di cavalieri e principi che lo assistano nelle anticamere, quei seicento paggi, de’ quali Antioco si servì nel regio convito di Dafne. Erano questi tutti vestiti di broccato a gala, e tutti coronati di gemme e con gran vasi d’oro andavano per tutto spargendo preziosi unguenti. Or ditemi, uditori, il possesso di tanta ricchezza e di tesori sì immensi posseduti da un signore sì grande, possono forse paragonarsi ad un grado di Gloria, che si goda in Cielo? Appunto perché quante furono, sono, e saranno gioie, tesori nel mondo non bastano, sborsati a’ primi Medici delle Università più accreditati, per fare, che non vi travagli in vita un affanno di petto, un dolor di testa, un crucio di denti, dove che un sol grado di Gloria vi dà il possesso di tesori infinitamente maggiori, e di più, vi libera da quanti possano immaginarsi mali nel mondo. Padre! Deh sentite, che volete signora? O s’io potessi avere la minima parte di quelle gioie, mi parerebbe di godere non un grado di Gloria, ma un intero Paradiso; bene, io vi rispondo, e per questo, che ponete di qua il Paradiso negli ornamenti, nelle vanità, non l’avrete di là. Passo avanti, e giacché il mondo come insaziabile non solo vuole le ricchezze, ma per essere ancor più beato, ama di dominare, voglio vedere se non potendosi un grado di Gloria eguagliare con tanti tesori, possa almeno paragonar con l’assoluto dominio di gran parte del mondo. Diasi adunque à questo signore non solo questa vostra Provincia ricca di terre sì illustri, e di città sì nobili, ma un regno, un impervio, anzi l’Europa tutta, che vale a dire: abbia il possesso di quanto con assoluto comando dominino un Pontefice Romano, due Imperatori, d’Occidente uno in Vienna di Germania, d’Oriente l’altro in Constantinopoli di Romania; di quanto possiedono sette regi, due granduchi, sei repubbliche, dodici Principi Ecclesiastici, e tanti duchi d’altezza, con i due serenissimi marchesi di Brandemburgo e Baden. Or bene, tutto questo gran Dominio può paragonarsi ad un grado di Gloria? Appunto, appunto, aggiungete pure ai Regni, e Imperi d’Europa, quanti ne vantano con l’Asia, l’Africa, e l’America, e poi afferite con tutta verità, che vale più un solo grado di Gloria, che non è tutto il possesso d’un mondo intero, perché un grado di Gloria vi dà infinitamente più, e vi costituisce monarchi di tal grandezza, che formando di tutte le umane grandezze una sola grandezza, è un nulla, a paragone di quella, in cui vi costituisce un grado di Gloria. O grado di Gloria, che gran bene porti a chi ti possiede e pure colui dentro di sé dice: potessi io avere non un mondo, ma un piccolo comando, che volentieri rinuncerei a questo grado di Gloria, perché così potrei soddisfare alle mie vendette, e compiacere a’ miei sensi. Ah stolti, ah pazzi, che così sprezzate i gradi di Gloria? Se bene mi consolerei quando i peccatori per un piacere peccaminoso facessero gettito d’un bene che nulla più valesse di quel che valga questa terra; ah che maggiore è la perdita, mercè che un grado di Gloria non solo vale più di tutta la terra, ma di tutto il Cielo, di tutta la material città de’ Beati. Il Paradiso, come saprete, è quella Città posta in una bellissima pianura, la quale occupa dodici mila stadii, che vale a dire, mille e cinquecento miglia per lunghezza, ed altrettanto per larghezza. In questa Città solamente si ammira ogni bellezza, ogni preziosità, essa solamente può chiamarli Civitas perfecti decoris. L’oro, che tra noi fregia le stanze più nobili, ivi lastrica le strade più popolari; e le gemme che qua giù si portano sul capo, son colassù calpestate dal piede. Su avarizia portati con gl’occhi in Cielo, già che non puoi entrarvi con i piedi, sporgi il capo dentro ad uno di quei finestrini, per i quali Daniele di Babilonia vagheggiava un giorno Gerusalemme; mira un poco se le ricchezze che colassù si possiedono, sono da posporsi alla terra; pensa un po’ se meritano che tu le getti per quell’affetto disordinato che hai alla roba; per quell’interesse che ti stringe le mani, finché non soddisfi né mercedi, né pii legati. Uditori miei, tenete pur fissi gl’occhi nelle ricchezze celesti, e poi siate sicuri, che 7sprezzerete la terra. Accadrà per appunto à voi, come à colui che avendo prima studiata la Geografia, e formato sommo concetto della terra perché l’aveva sentita dividere in tante provincie, regni, ed imperii, andato poi a prender lezione da un astrologo si sentì supporre la terra stessa per un punto che sta nel centro de’ Cieli; di che meravigliato, non si soddisfece, finché sentì per risposta l’uno, e l’altro non discostarsi dal vero poiché chi contempla la terra da se sola ha ragione di stimarla per grande, ma chi la paragona con i cieli, non può non disprezzarla per piccola, e pure e terra e cielo sono un nulla à paragone d’un grado di Gloria. O Dio e può trovarsi chi per un bene da nulla sprezzi quella Gloria che gli porta un sì gran bene? Passiamo avanti, e dopo aver consegnato a quel monarca e terra e cielo, tutto inferiore ad un grado di Gloria, giacché Nullius rei sine socio jucunda est possessio, gli si dia per compagno un esercito d’Angeli vestiti di luce, di vergini bianche come gigli di Martiri imporporati di palme, di confessori candidi al par delle nevi. Più gli sia dato, e finisca di coronare la sua gioconda conversazione la più bella, la più eccellente, la più santa di tutte le creature che siano mai uscite dalle mani di Dio, dico Maria, che sola sola potrebbe farvi gioire d’allegrezza, avendo Ella forza d’incatenare ogni cuore. Eppur, tutto ciò, chi’l crederebbe, è inferiore ad un grado di Gloria, giacché, come dice Agostino, un grado di Gloria: Estmajus bonum quam Cælum, Terra et quidquid in illis includitur. Perché tutte queste cose vi dà il grado di Gloria e di più vi concede eternamente goderle. Un grado di Gloria sì guadagnato con una limosina, con una corona, con un’opera pia fatta per Gesù, è un bene incomparabilmente maggiore, eppure si sprezzano questi beni di Paradiso, e vogliono i fuggitivi della terra, finché parmi sentire chi, bestemmiando, dica che Grazia di Gloria in Cielo? Il nostro Paradiso lo vogliamo in terra tra i comodi, tra le delizie, tra’ piaceri. Dio immortale! E se è vero, come è verissimo, che il possesso de’ beni, il dominio del mondo, il godimento della Patria de’ Beati, con la conversazione de’ Santi e della Vergine stessa, tutto inferiore ad un grado di Gloria che si goda in Cielo, che farò io per darli paragone che vaglia? Orsù mi sia lecito di dire che per eguagliare, se non per superare questo grado di Gloria, cavi Iddio con la sua Onnipotenza dal nulla, e dia l’essere a nuovi mondi di gran lunga superiori. Voi ben sapete che Iddio scherzò allorché sbalzò dal nulla questa gran macchina del mondo, con porvi un globo di fuoco che con i suoi raggi di luce sgombrasse quelle tenebre, che erant fuper faciem terra; scherzò allorché diede commissione al sole di provvedere di luce; la luna, che con i suoi raggi d’argento scemasse qualche poco l’oscurità della notte; scherzò quando sparse per il cielo lucidissime stelle; furono scherzi la formazione d’una terra sì vasta, d’un mare si smisurato, perché allor si diportò come Ludens in Orbe terrarum. S’alleni, per così dire, l’Onnipotenza, e se allora adoperò un dito della sua destra, impieghi ora la mano ed il braccio, e faccia comparire non uno, ma mille mondi, faccia che in essi la terra non più produca né triboli di disgusti, né spine d’amarezze, ma solo germogli, rose di contentezze, faccia un mare, che sempre in calma, mai minacci tempeste, dal quale siano esiliati i naufragi e ad ogni scoglio possa dirsi: qui abbiamo il porto, stenda i cieli che con la loro serenità continua, mantengano il brio delle allegrezze, non si veda mai folgoreggiare per aria un lampo, niun tuono spaventi, niun fulmine precipiti, e quivi vi sia dato vivere sani e robusti per mille anni, al fine de quali, senza provare agitazione di morte, sia trasportato il vostro spirito con somma quiete sopra del cielo, e giunto ad una di quelle dodici porte di diamante, spalanchisi ad un tratto, e rimbombando sonore le trombe, giulivi vi escano incontro con angeliche squadre di Martiri, torme di sacri confessori, drappelli di caste vergini e vi ricevano, narrandovi con lingue di Paradiso le grandezze di quella abitazione veramente regia. Eppure, tutto ciò non può formare quella piccola pietra che v’ho portata qui in mostra d’un sol grado di Gloria. E come è possibile, sento chi mi dice che un grado di Gloria contenga in se un bene sì smisurato, che superi quanto finora s’è detto? Così è, eccovi la risposta: prendete un diamante e ponetelo a confronto con tutti i marmi più belli della terra, e voi vedrete in quel diamante una tale prerogativa che non troverete in tutti i marmi immaginabili, cioè a dire uno scintillar sì luminoso che vi sembrerà una piccola stella della terra, e questa luce sì nobile mai mai troverete in tutti i marmi del mondo. Or così va, miei uditori, chi godrà un grado di Gloria avrà, per mezzo di quello, o Dio, che non avrà? O grado di Gloria quanto sei stimabile! Eppure tanti ti sprezzano. O Pater Abram, Pater Abram; Ahimè, queste sono voci d’Inferno; E perché turbare i discorsi di Paradiso? Son voci d’Epulone, che pretendi da Abramo? Non altro che una stilla di Paradiso: Mitte Lazarum ut intingat extremum digiti in aquam, refrigeret linguam meam. Tu deliri, o Epulone, mentre per estinguere le ardenti fiamme, che ti abbruciano, nulla più domandi d’una stilla? Io so che il Mongibello quando con le ardenti sue fiamme entra nell’Onde, le divora, ed il Mar Tirreno agl’assalti del Vesuvio mette in fuga e tu sciocco, con una stilla d’acqua pretendi estinguere l’inferno? Taci, stolto che sei! Tacete voi, risponde a noi Sant’Agostino. Tacete, sì si, una sola goccia, un sol grado di quelle stillate dolcezze del Paradiso, delle quali parlò in spirito Gioele, allorché disse: In illa die stillabunt montes dulcedinem, una sola, dice, di quelle gocce, basta non solo a smorzare, ma a disfare tutto l’inferno, e mutarlo in Paradiso; ecco le parole del Santo Dottore: Tota dulcescerer damnatorum amaritudo. – Cada una sola stilla di quei torrenti di Paradiso nell’inferno ed eccolo un Paradiso, non più abitato da’ demoni, ma dagl’Angeli; non più tenebre, ma luce; non più catene, ma libertà; non più dolori, non più spasimi, ma sanità perfetta, godimenti inenarrabili. Tota dulcesceret damnatorum amaritudo. O quam magna, esclami pure ogn’uno col Profeta, multitudo dulcedinis tuæ Domine! Ma sento chi mi dice: noi più di proposito brameremmo questo gran bene, se n’avessimo più distinta notizia, se sapessimo più distintamente ciò che sia questo grado di Gloria! Che sarà mai dunque questo grado di Gloria, mentre non porterà seco solo vedere le pompe trionfali di quelle Gerarchie Celesti che faranno corteggio al Re Sovrano, né pure rimirare i Santi vestiti di Corpo glorioso, sì penetrante che potrà passare per mezzo d’ogni monte, come ora il sole passa per un cristallo sì agile, che potrà in un subito calare dal Paradiso in terra, così impassibile, come impassibile è l’anima; così luminoso, che se un Beato mettesse fuori del Cielo una mano, basterebbe per illuminare tutto l’universo cento volte più che fa il sole: Fulgebunt justi sicut sol in Regno Patris eorum, mentre non sarà rimirare Maria sempre Vergine, il di cui sembiante ci terrà incatenati i cuori; Maria, Maria nostra Avvocata, nostra Signora, nostra Protettrice, le di cui bellezze sono il miracolo de’ miracoli, finché come scrive Sant’Ignazio Martire in una delle sue lettere, mentre Maria era ancora in terra, concorrevano a truppe i popoli per vederla. Che sarà dunque questo grado di gloria, che sarà? Sarà vedere un abisso di splendori in un teatro di maestà, in un centro di gloria Iddio, videbitis eum sicuti est. E che vuol dire, uditori miei, vedere Iddio? Chi mi avvalora il pensiero, chi mi purga la lingua, sicché io possa in parte spiegarvi quel che vedrete vedendo Dio? Vedrete quello che è la Beatitudine universale di tutte le creature; vedendo Lui non pensate già di vedere niuno di questi oggetti creati; Egli increato, questi materiali; Egli purissimo spirito, questi difettosi; Egli perfettissimo, e pure tutto ciò, che vedrete fuori di Lui, immaginatevi che voi tosto vedrete; vedendo Lui, vedrete Dio. Oh chi potesse ridire che sarà del vostro cuore a quel primo sguardo? Oh che deliqui d’amore voi sentirete! Che vampe di carità, che rapimenti, e che estasi! Che dolcezze! Allora sì, che adorerete tanta Maestà, e quasi reputandovi indegni di sì gran bene, vorrete sospirare, vorrete piangere per un certo solito sfogo di tenerezza, ma non vi farà permesso, no: Non audietur ultra vox fletus, et vox clamoris, crediatelo ad Isaia. Che direte allor, che vi vedrete Beati, che vale a dire al possesso di tutti i beni per goderli non solo perfettamente, ma eternamente? Allora tutta giubilo nel suo cuore, dirà quella verginella: beata quell’ora, beato quel punto in cui voltai le spalle a quell’amante, ricusai i suoi regali, ributtai le sue imbasciate; beata me, che ho conservato intatto il giglio della mia verginità. Allora, sopraffatta dal giubilo, esclamerà quella maritata: o quanto feci bene a sopportare le tirannie del mio consorte, mi strappazzò con parole, mi percosse più volte, non fui moglie, fui serva, fui schiava, ma la mia pazienza? Ecco dove m’ha portata: al possesso di tutti i beni per goderli perfettamente, eternamente. Son finite le grida, son finiti i dolori, ecco il giubilo, ecco il contento! Allora, pieni d’allegrezza esclameranno quegl’uomini, quelle donne: felici noi per quel punto in cui demmo la pace all’inimico; felici noi perché non imbrattammo le nostre mani con roba altrui; felici noi perché portammo rispetto alle Chiese; felice l’ora in cui abbandonai quel compagno sì dissoluto; felice quel punto in cui abbandonato il mondo, mi ritirai nel chiostro. Ah, che se per me venisse mai un’ora così beata, che mi vedessi ammesso nel possesso di tanta gloria, ancor io, in qual sentimenti, in quali atti, in quali parole proromperei? Se mi sarà permesso accostarmi a quel Soglio Divino: Et veniam ad Solium ejus. Io voglio dire al mio Dio; che vorrei dire, se sopraffatto dall’amore, mi converrebbe attonito tacere. Taccio, ma mentre io fò silenzio; tu peccatore, tu peccatrice alza gl’occhi, e poi dirottamente piangendo esclama con dolorosa voce: Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me! Son belli quei Palazzi alla Reale, ma non sono per me; li demeritai allor che profanai le mie sale con veglie e balli; le mie Stanze con giuochi; le mie camere più segrete con replicate disonestà. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me. Son belli quei diamanti, quelle perle, quelle gioie che t’adornano, ma non per me; le demeritai allor che feci gettito della più bella gioia che si prezzi in Cielo: la santa virginità; Paradiso sei bello, ma non sei per me. È nobile la conversazione di quei tanti Angeli, di quei tanti Cherubini, e quei tanti Serafini, che ardono di santo Amore verso del loro Iddio, ma non è per me, che sempre avvampai di amor profano in odio al mondo, in odio a Dio. Paradiso sei bello, ma non sei per me: Non è per me la compagnia di quei Santi confessori perché chiamato al par di loro alle solitudini del Chiostro, vi stetti con gl’affetti nel secolo, innalzato alla dignità di Sacerdote mi portai al Sacro Altare con rozza mente, con laido cuore, maneggiai Cristo al par del fango. Paradiso sei ben bello, ma non sei per me; non è per me la compagnia di quei Santi penitenti nel mondo, mentre io vi son vissuto tra crapule e lussi; non è per me poter fissare gl’occhi in quei drappelli di caste vergini, molto meno nell’amabile volto di Maria, mentre io con occhio anche sacrilego tramai insidie alla castità più custodita. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me perché, troppo interessato, non mi curai delle tue ricchezze per aver la roba altrui; non sei per me, perché troppo avido d’onori, ricusai le tue eterne dignità. Paradiso non sei per me, perché troppo vana stimai più la mia caduca bellezza che la tua; non sei per me: troppo fui irriverente nelle Chiese, troppo dedito alle vendette, troppo disubbidiente a’ miei maggiori, disprezzatore de’ Sacerdoti, e sempre diedi mal esempio alla mia famiglia; da me impararono i figli le bestemmie, le mormorazioni, le disonestà; da me impararono le figlie ad amoreggiare dalle finestre, nelle porte, per le strade; io li precedevo nella, io l’istigavo agl’ornamenti, io li posi sull’orlo de’ precipizi, io gli feci perdere con l’onore anche l’anima, e però Paradiso sei bello, ma non sei per me. Misero peccatore, misera peccatrice, e non ti crepa il cuore alla rimembranza di dover dire, se non muti vita … Paradiso sei bello, ma non sei per me: muta vita, lascia l’iniquità rinuncia al demonio, osserva i Comadamenti per poter alla tua morte proferire queste parole di giubilo Paradiso, Paradiso sei bello, e sei per me; sei bello, e sei per me.
LIMOSINA
Iddio per Isaia pone in vendita il Paradiso: Properate emite. Bisogna miei uditori, comprare il Cielo, non vi sgomenti la preziosità sua, poiché ciascuno di noi ha tanto di capitale che basta per una tal compra, non vi vuole più, dice San Pier Crisologo, che un pezzo di pane, un poco di limosina distribuita a’ poveri si può spender meno? Deus Regnum suum fragmento panis vendit et quis excusare poterit non ementem, quem tanta vilitas venditionis accusat? E pure si trova chi ne pure a prezzo sì vile vuole comprare il Paradiso. Ah Dio! Vende, Iddio a poco prezzo i piaceri del Cielo, non vi è chi li voglia; vende il demonio i piaceri del mondo a gran prezzo, ed ognuno compera, si spende ne’ giuochi, ne’ conviti, nelle feste, nelle pompe, nelle vanità, sarebbe poco, nelle vendette, nelle disonestà, e per il Paradiso non solo non vi è oro, né argento, ma neppur rame per sovvenir la povertà d’un mendico.
SECONDA PARTE.
Il Cielo, uditori, al dire dell’Evangelista, s’acquista per via di negozio, di traffico: Simile est Regnum Cælorum homini negotiatori: Se ciò è vero, come è verissimo, voi ben sapete, che è legge di buon negoziante trasportare in Paese straniero quelle merci, che colà non sono, e di là portare quelle che nel proprio o non nascono o non si lavorano. Bisogna dunque se vogliamo guadagnare il Cielo per via di traffico, come ci addita il Redentore, che noi colassù mandiamo quelle merci che v’hanno spaccio, e che ivi non si trovano. Desistete, o ricchi, d’accumular più quell’oro, che racchiudete in cassa, e sol lucrate in vani ornamenti, in superflue vanità. Avari, non occorre con nuove usure, con traffici illeciti accrescere le vostre ricchezze, non manca oro in Cielo, già v’ho detto, che tutte le Grade Piazze son fabbricate Ex auro purissimo. Donne, quelle pietre preziose, quei diamanti, quelle perle che con tanta vanità v’adornano, non vi comprano il Cielo, perché colassù fino le porte, le mura, le torri sono gemme: Porte nitent margaritis, omnes muri tui, et turres Jerusalem gemmis edificabuntur. Ambiziosi, non tramate più la rovina del prossimo per salire a quella dignità, a quel posto, non mancano titolati e grandi nel Cielo, mentre tutti i Beati sono un popolo di regi: Percipite Regnum vobis paratum a Patre meo. Uditori, ori, gemme, onori non hanno spaccio in Paradiso perché di queste merci il Paradiso n’abbonda. Dunque se volete guadagnarlo col traffico, portate colassù le merci che non vi sono: In Cielo non v’è pianto, non v’è dolore; in Cielo non v’è tempo, essendovi l’eternità … Non erit ibi luctus, neque dolor erit ultra: Dunque per ottenere il Cielo vi vogliono lacrime di cuor contrito, dolori di patimenti, di tribolazioni tollerate con pazienza. Queste sono le merci che hanno spaccio nel Cielo, e queste ci otterranno il Paradiso. Eccovi il modo d’ottenere il Cielo, guadagnarselo con portare di là la mercanzia che non v’è, che vale a dire patimenti; e se così farete, Isaia vi assicura, che qui vicerit possidebit hæc: tutto questo sì gran bene del Paradiso è per voi, di grazia non vi lasciate accecare da i diletti peccaminosi di qua, che presto v’invola la morte, ma solo attendete agl’eterni dell’altra vita. Volete, che io v’insegni un altro modo per guadagnare il Paradiso? Fissate spesso gl’occhi colassù, perché così vivrete bene, ed il Paradiso sarà vostro. Tito e Domiziano, ambedue figli del vecchio Imperatore Vespasiano, furono fra di loro sì differenti, e riuscirono di natura e di costumi sì varii, che Tito fratello maggiore al dir di Svetonio fu chiamato: Delitiæ Generis humani, e Domiziano: Flagitium Generis humani. Per rendersi buono e di costumi sì retti Tito, v’ebbe gran parte la prudenza del suo Aio, che per molto tempo gli assisté. Fattosi notte conduceva costui il giovinetto Tito in una loggia; indi dicevagli: Volgete gl’occhi alle stelle; vedete quella figura formata di vent’otto Stelle, si chiama Ercole , ed ha ottenuta quella stanza colassù in cielo, perché nel mondo atterrò molti mostri; ve l’otterrete ancor voi, se riporterete vittoria di quei vizi che infettano il mondo. Udite: quell’altra costellazione formata di ventisei sfavillanti lumiere, si chiama Perseo, e fu quel giovane sì generoso, che fece guerra alle Gorgoni, e con un colpo di lancia sviscerò l’Orca Marina, liberandone Andromeda, sicché non fosse divorata; or così appunto sfavillerete ancor voi se col braccio della vostra autorità difenderete l’onore delle matrone, e la pudicizia delle donzelle. Date ancora un’occhiata a quelle due figurine composte ambedue di nove stelle; sono Castore e Polluce, e voi ancora v’avrete questo splendore se qui nel mondo fomenterete la pace, e v’amerete con i sudditi: volete altro anche con volgere gl’occhi a queste menzogne; si rese Tito principe sì buono, vi delitiæ generis humani vocaretur. Deh date un’occhiata a quei Giusti del Paradiso, … Qui fulgent quasi stelle in perpetuas æternitates, e chi vi tiene, chi v’impedisce? Vedete colà quella matrona coronata di tanta gloria, ella è Francesca Romana. Chi v’impedisce o vedove un simil posto? Vedete colassù quella Cunegonda, chi v’impedisce o maritate un simil possesso? Chi o donzelle? mirate le Lucíe! Chi o contadini? mirate un’Isidoro! Suspice Cælum, dice Agostino, et accipies Cælum. – Mi giova credere, che alla mia predica siano molti e molte che abbiano da vedere fra poco la Gloria che io non ho saputo descrivere. S’io sapessi chi sono, oh con che ossequio li rimirerei; qual santa invidia m’occuperebbe il cuore, vorrei fino baciar la terra che calpestano. Ma ahi, che sento mutarmi l’allegrezza in pena; così non fosse: vi saranno anche molti e molte che non la vedranno mai … s’io sapessi quali sono! Vorrei scendere da questo pulpito e, afferratili per un braccio, dir loro: Ah infelice, vuoi dunque perdere il Paradiso, abitazione sì bella, la compagnia de’ Santi, di Maria, di Dio, per non lasciare quella maledetta amicizia, per non restituire quella roba, per non perdonare a quell’inimico? Leggo pure in Erodoto di quell’Egistrato Eleo che, tenuto legato da una catena ad un piede da’ demoni, per poter correre alla bramata libertà, recise quel piede che gliela impediva; e tu non avrai animo, non per una libertà, che finisce, ma per l’eternità, di troncare quei legami lascivi? non l’avrai? Andate dunque a casa, e questa sera sull’imbrunir di notte, dite, mirando il Cielo: Sei pur bello Paradiso, ma forse non sarai per me.
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Non si può, no, grida l’Apostolo, giunto al terzo Cielo, avere vera notizia di ciò, che sia Paradiso, perché “Nec oculus vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit, queæ Deus præparavit diligentibus se”. Ma non per questo voglio trascurare gli inviti di San Giovanni nell’Apocalisse, che con chiave d’oro c’apre il Paradiso: Ostendit nobis Sanctam Civitatem Jerusalem. Inoltriamoci dunque a rimirare questa Patria eterna de’ Beati, giacché a tanto ci consiglia San Girolamo, scrivendo ad Eustachio: Paradisum mente perambula, ch’è quanto dicesse scorri pure il Paradiso non con occhio corporeo, che tanto non vale, ma col lume della Fede. La fede dunque dia a noi questa mane e qualche notizia del Paradiso, e contentatevi, che io pratichi con voi, quel che fece colui, riferito da Jerocle Greco, il quale per far venire in cognizione di qual bellezza fosse il suo Palazzo, ne mostrò una sola pietra: Così io con il santo lume della Fede non più vi mostri che una pietra di Paradiso, che vale a dire un grado solo di Gloria, e questo v’assicuri, che supera quanto di bene possa immaginarsi, non che trovarsi in tutto l’Universo; dal che arguirete se sia bene tollerare ogni travaglio in questo mondo, per la conquista d’un tanto bene nell’altro. Ecco dunque, che ancor io vi porto in mostra una piccolissima pietra di quella celeste Gerusalemme, acciocché dalla di lei preziosità abbiate un sbozzo del Paradiso. L’Angelico San Tommaso me la pone in mano con assicurarci che un sol grado di Gloria, vale più che tutto il Creato e creabile: Bonum gratiæ etiam minima unius animæ particularis, majus est, quam omnia bona naturæ totius Úniversi. – Posta questa verità, figuratevi pure un gran signore che a niuno ceda nella sublimità de’ natali e tutti superi nelle aderenze d’illustri parentele. Dategli per abitazione nella città regina del mondo un palazzo sì sontuoso che superi di gran lunga quel regio de’ monarchi della Cina, ove, al riferire de’ storici, contavansi sessanta nove camere tutte alla stesa, una più bella dell’altra, e fra queste quattro, vedeansi tra le principali, essendo la prima coperta a lamine di rame artificiosamente storiato di finissimo argento, la seconda d’oro, la terza e la quarta ove il principe dimorava, rimiravasi tutta tempestata di perle e gemme preziose. Possieda questo signore per ornamento della sua reggia, mense intarsiate di diamanti, scrigni tempestati di rubini, ed abbia gioie in tal numero che possa, niente inferiore ad Ottone Augusto, dispensare a chi gl’aggrada un milione e due cento mila scudi, che egli donò alla capella di Giove Capitolino, e superiore al tanto rinomato Nipote di Lillio possa adornarsi con un milione e mezzo, che con tante appunto vi comparve in un ballo; abbia altresì per sua mera delizia entro il nobile suo giardino, quell’albero, che da Luitprando fu veduto, ed ammirato nel gran Salone di Costantinopoli: Era questo tutto di bronzo, e carico d’augelli d’oro, che dolcemente a forza d’arte cantavano; oppure quell’altro veduto con ammirazione da Marco Polo nella Reggia del Gran Khan, mercè che era d’oro massiccio, e gli pendevano per frutti, grosse perle: ne pare manchi ad un signore di tanta maestà il seguito di nobile e numerosa servitù; gli si concedano pure oltre al numero ben grande di cavalieri e principi che lo assistano nelle anticamere, quei seicento paggi, de’ quali Antioco si servì nel regio convito di Dafne. Erano questi tutti vestiti di broccato a gala, e tutti coronati di gemme e con gran vasi d’oro andavano per tutto spargendo preziosi unguenti. Or ditemi, uditori, il possesso di tanta ricchezza e di tesori sì immensi posseduti da un signore sì grande, possono forse paragonarsi ad un grado di Gloria, che si goda in Cielo? Appunto perché quante furono, sono, e saranno gioie, tesori nel mondo non bastano, sborsati a’ primi Medici delle Università più accreditati, per fare, che non vi travagli in vita un affanno di petto, un dolor di testa, un crucio di denti, dove che un sol grado di Gloria vi dà il possesso di tesori infinitamente maggiori, e di più, vi libera da quanti possano immaginarsi mali nel mondo. Padre! Deh sentite, che volete signora? O s’io potessi avere la minima parte di quelle gioie, mi parerebbe di godere non un grado di Gloria, ma un intero Paradiso; bene, io vi rispondo, e per questo, che ponete di qua il Paradiso negli ornamenti, nelle vanità, non l’avrete di là. Passo avanti, e giacché il mondo come insaziabile non solo vuole le ricchezze, ma per essere ancor più beato, ama di dominare, voglio vedere se non potendosi un grado di Gloria eguagliare con tanti tesori, possa almeno paragonar con l’assoluto dominio di gran parte del mondo. Diasi adunque à questo signore non solo questa vostra Provincia ricca di terre sì illustri, e di città sì nobili, ma un regno, un impervio, anzi l’Europa tutta, che vale a dire: abbia il possesso di quanto con assoluto comando dominino un Pontefice Romano, due Imperatori, d’Occidente uno in Vienna di Germania, d’Oriente l’altro in Constantinopoli di Romania; di quanto possiedono sette regi, due granduchi, sei repubbliche, dodici Principi Ecclesiastici, e tanti duchi d’altezza, con i due serenissimi marchesi di Brandemburgo e Baden. Or bene, tutto questo gran Dominio può paragonarsi ad un grado di Gloria? Appunto, appunto, aggiungete pure ai Regni, e Imperi d’Europa, quanti ne vantano con l’Asia, l’Africa, e l’America, e poi afferite con tutta verità, che vale più un solo grado di Gloria, che non è tutto il possesso d’un mondo intero, perché un grado di Gloria vi dà infinitamente più, e vi costituisce monarchi di tal grandezza, che formando di tutte le umane grandezze una sola grandezza, è un nulla, a paragone di quella, in cui vi costituisce un grado di Gloria. O grado di Gloria, che gran bene porti a chi ti possiede e pure colui dentro di sé dice: potessi io avere non un mondo, ma un piccolo comando, che volentieri rinuncerei a questo grado di Gloria, perché così potrei soddisfare alle mie vendette, e compiacere a’ miei sensi. Ah stolti, ah pazzi, che così sprezzate i gradi di Gloria? Se bene mi consolerei quando i peccatori per un piacere peccaminoso facessero gettito d’un bene che nulla più valesse di quel che valga questa terra; ah che maggiore è la perdita, mercè che un grado di Gloria non solo vale più di tutta la terra, ma di tutto il Cielo, di tutta la material città de’ Beati. Il Paradiso, come saprete, è quella Città posta in una bellissima pianura, la quale occupa dodici mila stadii, che vale a dire, mille e cinquecento miglia per lunghezza, ed altrettanto per larghezza. In questa Città solamente si ammira ogni bellezza, ogni preziosità, essa solamente può chiamarli Civitas perfecti decoris. L’oro, che tra noi fregia le stanze più nobili, ivi lastrica le strade più popolari; e le gemme che qua giù si portano sul capo, son colassù calpestate dal piede. Su avarizia portati con gl’occhi in Cielo, già che non puoi entrarvi con i piedi, sporgi il capo dentro ad uno di quei finestrini, per i quali Daniele di Babilonia vagheggiava un giorno Gerusalemme; mira un poco se le ricchezze che colassù si possiedono, sono da posporsi alla terra; pensa un po’ se meritano che tu le getti per quell’affetto disordinato che hai alla roba; per quell’interesse che ti stringe le mani, finché non soddisfi né mercedi, né pii legati. Uditori miei, tenete pur fissi gl’occhi nelle ricchezze celesti, e poi siate sicuri, che sprezzerete la terra. Accadrà per appunto à voi, come à colui che avendo prima studiata la Geografia, e formato sommo concetto della terra perché l’aveva sentita dividere in tante provincie, regni, ed imperii, andato poi a prender lezione da un astrologo si sentì supporre la terra stessa per un punto che sta nel centro de’ Cieli; di che meravigliato, non si soddisfece, finché sentì per risposta l’uno, e l’altro non discostarsi dal vero poiché chi contempla la terra da se sola ha ragione di stimarla per grande, ma chi la paragona con i cieli, non può non disprezzarla per piccola, e pure e terra e cielo sono un nulla à paragone d’un grado di Gloria. O Dio e può trovarsi chi per un bene da nulla sprezzi quella Gloria che gli porta un sì gran bene? Passiamo avanti, e dopo aver consegnato a quel monarca e terra e cielo, tutto inferiore ad un grado di Gloria, giacché Nullius rei sine socio jucunda est possessio, gli si dia per compagno un esercito d’Angeli vestiti di luce, di vergini bianche come gigli di Martiri imporporati di palme, di confessori candidi al par delle nevi. Più gli sia dato, e finisca di coronare la sua gioconda conversazione la più bella, la più eccellente, la più santa di tutte le creature che siano mai uscite dalle mani di Dio, dico Maria, che sola sola potrebbe farvi gioire d’allegrezza, avendo Ella forza d’incatenare ogni cuore. Eppur, tutto ciò, chi’l crederebbe, è inferiore ad un grado di Gloria, giacché, come dice Agostino, un grado di Gloria: Estmajus bonum quam Cælum, Terra et quidquid in illis includitur. Perché tutte queste cose vi dà il grado di Gloria e di più vi concede eternamente goderle. Un grado di Gloria sì guadagnato con una limosina, con una corona, con un’opera pia fatta per Gesù, è un bene incomparabilmente maggiore, eppure si sprezzano questi beni di Paradiso, e vogliono i fuggitivi della terra, finché parmi sentire chi, bestemmiando, dica che Grazia di Gloria in Cielo? Il nostro Paradiso lo vogliamo in terra tra i comodi, tra le delizie, tra’ piaceri. Dio immortale! E se è vero, come è verissimo, che il possesso de’ beni, il dominio del mondo, il godimento della Patria de’ Beati, con la conversazione de’ Santi e della Vergine stessa, tutto inferiore ad un grado di Gloria che si goda in Cielo, che farò io per darli paragone che vaglia? Orsù mi sia lecito di dire che per eguagliare, se non per superare questo grado di Gloria, cavi Iddio con la sua Onnipotenza dal nulla, e dia l’essere a nuovi mondi di gran lunga superiori. Voi ben sapete che Iddio scherzò allorché sbalzò dal nulla questa gran macchina del mondo, con porvi un globo di fuoco che con i suoi raggi di luce sgombrasse quelle tenebre, che erant fuper faciem terra; scherzò allorché diede commissione al sole di provvedere di luce; la luna, che con i suoi raggi d’argento scemasse qualche poco l’oscurità della notte; scherzò quando sparse per il cielo lucidissime stelle; furono scherzi la formazione d’una terra sì vasta, d’un mare si smisurato, perché allor si diportò come Ludens in Orbe terrarum. S’alleni, per così dire, l’Onnipotenza, e se allora adoperò un dito della sua destra, impieghi ora la mano ed il braccio, e faccia comparire non uno, ma mille mondi, faccia che in essi la terra non più produca né triboli di disgusti, né spine d’amarezze, ma solo germogli, rose di contentezze, faccia un mare, che sempre in calma, mai minacci tempeste, dal quale siano esiliati i naufragi e ad ogni scoglio possa dirsi: qui abbiamo il porto, stenda i cieli che con la loro serenità continua, mantengano il brio delle allegrezze, non si veda mai folgoreggiare per aria un lampo, niun tuono spaventi, niun fulmine precipiti, e quivi vi sia dato vivere sani e robusti per mille anni, al fine de quali, senza provare agitazione di morte, sia trasportato il vostro spirito con somma quiete sopra del cielo, e giunto ad una di quelle dodici porte di diamante, spalanchisi ad un tratto, e rimbombando sonore le trombe, giulivi vi escano incontro con angeliche squadre di Martiri, torme di sacri confessori, drappelli di caste vergini e vi ricevano, narrandovi con lingue di Paradiso le grandezze di quella abitazione veramente regia. Eppure, tutto ciò non può formare quella piccola pietra che v’ho portata qui in mostra d’un sol grado di Gloria. E come è possibile, sento chi mi dice che un grado di Gloria contenga in se un bene sì smisurato, che superi quanto finora s’è detto? Così è, eccovi la risposta: prendete un diamante e ponetelo a confronto con tutti i marmi più belli della terra, e voi vedrete in quel diamante una tale prerogativa che non troverete in tutti i marmi immaginabili, cioè a dire uno scintillar sì luminoso che vi sembrerà una piccola stella della terra, e questa luce sì nobile mai mai troverete in tutti i marmi del mondo. Or così va, miei uditori, chi godrà un grado di Gloria avrà, per mezzo di quello, o Dio, che non avrà? O grado di Gloria quanto sei stimabile! Eppure tanti ti sprezzano. O Pater Abram, Pater Abram; Ahimè, queste sono voci d’Inferno; E perché turbare i discorsi di Paradiso? Son voci d’Epulone, che pretendi da Abramo? Non altro che una stilla di Paradiso: Mitte Lazarum ut intingat extremum digiti in aquam, refrigeret linguam meam. Tu deliri, o Epulone, mentre per estinguere le ardenti fiamme, che ti abbruciano, nulla più domandi d’una stilla? Io so che il Mongibello quando con le ardenti sue fiamme entra nell’Onde, le divora, ed il Mar Tirreno agl’assalti del Vesuvio mette in fuga e tu sciocco, con una stilla d’acqua pretendi estinguere l’inferno? Taci, stolto che sei! Tacete voi, risponde a noi Sant’Agostino. Tacete, sì si, una sola goccia, un sol grado di quelle stillate dolcezze del Paradiso, delle quali parlò in spirito Gioele, allorché disse: In illa die stillabunt montes dulcedinem, una sola, dice, di quelle gocce, basta non solo a smorzare, ma a disfare tutto l’inferno, e mutarlo in Paradiso; ecco le parole del Santo Dottore: Tota dulcescerer damnatorum amaritudo. – Cada una sola stilla di quei torrenti di Paradiso nell’inferno ed eccolo un Paradiso, non più abitato da’ demoni, ma dagl’Angeli; non più tenebre, ma luce; non più catene, ma libertà; non più dolori, non più spasimi, ma sanità perfetta, godimenti inenarrabili. Tota dulcesceret damnatorum amaritudo. O quam magna, esclami pure ogn’uno col Profeta, multitudo dulcedinis tuæ Domine! Ma sento chi mi dice: noi più di proposito brameremmo questo gran bene, se n’avessimo più distinta notizia, se sapessimo più distintamente ciò che sia questo grado di Gloria! Che sarà mai dunque questo grado di Gloria, mentre non porterà seco solo vedere le pompe trionfali di quelle Gerarchie Celesti che faranno corteggio al Re Sovrano, né pure rimirare i Santi vestiti di Corpo glorioso, sì penetrante che potrà passare per mezzo d’ogni monte, come ora il sole passa per un cristallo sì agile, che potrà in un subito calare dal Paradiso in Terra, così impassibile, come impassibile è l’anima; così luminoso, che se un Beato mettesse fuori del Cielo una mano, basterebbe per illuminare tutto l’universo cento volte più che fa il sole: Fulgebunt justi sicut sol in Regno Patris eorum, mentre non sarà rimirare Maria sempre Vergine, il di cui sembiante ci terrà incatenati i cuori; Maria, Maria nostra Avvocata, nostra Signora, nostra Protettrice, le di cui bellezze sono il miracolo de’ miracoli, finché come scrive Sant’Ignazio Martire in una delle sue lettere, mentre Maria era ancora in terra, concorrevano a truppe i popoli per vederla. Che sarà dunque questo grado di gloria, che sarà? Sarà vedere un abisso di splendori in un teatro di maestà, in un centro di gloria Iddio, videbitis eum sicuti est. E che vuol dire, uditori miei, vedere Iddio? Chi mi avvalora il pensiero, chi mi purga la lingua, sicché io possa in parte spiegarvi quel che vedrete vedendo Dio? Vedrete quello che è la Beatitudine universale di tutte le creature; vedendo Lui non pensate già di vedere niuno di questi oggetti creati; Egli increato, questi materiali; Egli purissimo spirito, questi difettosi; Egli perfettissimo, e pure tutto ciò, che vedrete fuori di Lui, immaginatevi che voi tosto vedrete; vedendo Lui, vedrete Dio. Oh chi potesse ridire che sarà del vostro cuore a quel primo sguardo? Oh che deliqui d’amore voi sentirete! Che vampe di carità, che rapimenti, e che estasi! Che dolcezze! Allora sì, che adorerete tanta Maestà, e quasi reputandovi indegni di sì gran bene, vorrete sospirare, vorrete piangere per un certo solito sfogo di tenerezza, ma non vi farà permesso, no: Non audietur ultra vox fletus, et vox clamoris, crediatelo ad Isaia. Che direte allor, che vi vedrete Beati, che vale a dire al possesso di tutti i beni per goderli non solo perfettamente, ma eternamente? Allora tutta giubilo nel suo cuore, dirà quella verginella: beata quell’ora, beato quel punto in cui voltai le spalle a quell’amante, ricusai i suoi regali, ributtai le sue imbasciate; beata me, che ho conservato intatto il giglio della mia verginità. Allora, sopraffatta dal giubilo, esclamerà quella maritata: o quanto feci bene a sopportare le tirannie del mio consorte, mi strappazzò con parole, mi percosse più volte, non fui moglie, fui serva, fui schiava, ma la mia pazienza? Ecco dove m’ha portata: al possesso di tutti i beni per goderli perfettamente, eternamente. Son finite le grida, son finiti i dolori, ecco il giubilo, ecco il contento! Allora, pieni d’allegrezza esclameranno quegl’uomini, quelle donne: felici noi per quel punto in cui demmo la pace all’inimico; felici noi perché non imbrattammo le nostre mani con roba altrui; felici noi perché portammo rispetto alle Chiese; felice l’ora in cui abbandonai quel compagno sì dissoluto; felice quel punto in cui abbandonato il mondo, mi ritirai nel chiostro. Ah, che se per me venisse mai un’ora così beata, che mi vedessi ammesso nel possesso di tanta gloria, ancor io, in qual sentimenti, in quali atti, in quali parole proromperei? Se mi sarà permesso accostarmi a quel Soglio Divino: Et veniam ad Solium ejus. Io voglio dire al mio Dio; che vorrei dire, se sopraffatto dall’amore, mi converrebbe attonito tacere. Taccio, ma mentre io fò silenzio; tu peccatore, tu peccatrice alza gl’occhi, e poi dirottamente piangendo esclama con dolorosa voce: Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me! Son belli quei Palazzi alla Reale, ma non sono per me; li demeritai allor che profanai le mie sale con veglie e balli; le mie Stanze con giuochi; le mie camere più segrete con replicate disonestà. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me. Son belli quei diamanti, quelle perle, quelle gioie che t’adornano, ma non per me; le demeritai allor che feci gettito della più bella gioia che si prezzi in Cielo: la santa virginità; Paradiso sei bello, ma non sei per me. È nobile la conversazione di quei tanti Angeli, di quei tanti Cherubini, e quei tanti Serafini, che ardono di santo Amore verso del loro Iddio, ma non è per me, che sempre avvampai di amor profano in odio al mondo, in odio a Dio. Paradiso sei bello, ma non sei per me: Non è per me lacompagnia di quei Santi confessori perché chiamato al par di loro alle solitudini del Chiostro, vi stetti con gl’affetti nel secolo, innalzato alla dignità di Sacerdote mi portai al Sacro Altare con rozza mente, con laido cuore, maneggiai Cristo al par del fango. Paradiso sei ben bello, ma non sei per me; non è per me la compagnia di quei Santi penitenti nel mondo, mentre io vi son vissuto tra crapule e lussi; non è per me poter fissare gl’occhi in quei drappelli di caste vergini, molto meno nell’amabile volto di Maria, mentre io con occhio anche sacrilego tramai insidie alla castità più custodita. Paradiso, Paradiso sei bello, ma non sei per me perché, troppo interessato, non mi curai delle tue ricchezze per aver la roba altrui; non sei per me, perché troppo avido d’onori, ricusai le tue eterne dignità. Paradiso non sei per me, perché troppo vana stimai più la mia caduca bellezza che la tua; non sei per me: troppo fui irriverente nelle Chiese, troppo dedito alle vendette, troppo disubbidiente a’ miei maggiori, disprezzatore de’ Sacerdoti, e sempre diedi mal esempio alla mia famiglia; da me impararono i figli le bestemmie, le mormorazioni, le disonestà; da me impararono le figlie ad amoreggiare dalle finestre, nelle porte, per le strade; io li precedevo nella, io l’istigavo agl’ornamenti, io li posi sull’orlo de’ precipizi, io gli feci perdere con l’onore anche l’anima, e però Paradiso sei bello, ma non sei per me. Misero peccatore, misera peccatrice, e non ti crepa il cuore alla rimembranza di dover dire, se non muti vita … Paradiso sei bello, ma non sei per me: muta vita, lascia l’iniquità rinuncia al demonio, osserva i Comadamenti per poter alla tua morte proferire queste parole di giubilo Paradiso, Paradiso sei bello, e sei per me; sei bello, e sei per me.
LIMOSINA
Iddio per Isaia pone in vendita il Paradiso: Properate emite. Bisogna miei uditori, comprare il Cielo, non vi sgomenti la preziosità sua, poiché ciascuno di noi ha tanto di capitale che basta per una tal compra, non vi vuole più, dice San Pier Crisologo, che un pezzo di pane, un poco di limosina distribuita a’ poveri si può spender meno? Deus Regnum suum fragmento panis vendit et quis excusare poterit non ementem, quem tanta vilitas venditionis accusat? E pure si trova chi ne pure a prezzo sì vile vuole comprare il Paradiso. Ah Dio! Vende, Iddio a poco prezzo i piaceri del Cielo, non vi è chi li voglia; vende il demonio i piaceri del mondo a gran prezzo, ed ognuno compera, si spende ne’ giuochi, ne’ conviti, nelle feste, nelle pompe, nelle vanità, sarebbe poco, nelle vendette, nelle disonestà, e per il Paradiso non solo non vi è oro, né argento, ma neppur rame per sovvenir la povertà d’un mendico.
SECONDA PARTE.
Il Cielo, uditori, al dire dell’Evangelista, s’acquista per via di negozio, di traffico: Simile est Regnum Cælorum homini negotiatori: Se ciò è vero, come è verissimo, voi ben sapete, che è legge di buon negoziante trasportare in Paese straniero quelle merci, che colà non sono, e di là portare quelle che nel proprio o non nascono o non si lavorano. Bisogna dunque se vogliamo guadagnare il Cielo per via di traffico, come ci addita il Redentore, che noi colassù mandiamo quelle merci che v’hanno spaccio, e che ivi non si trovano. Desistete, o ricchi, d’accumular più quell’oro, che racchiudete in cassa, e sol lucrate in vani ornamenti, in superflue vanità. Avari, non occorre con nuove usure, con traffici illeciti accrescere le vostre ricchezze, non manca oro in Cielo, già v’ho detto, che tutte le Grade Piazze son fabbricate Ex auro purissimo. Donne, quelle pietre preziose, quei diamanti, quelle perle che con tanta vanità v’adornano, non vi comprano il Cielo, perché colassù fino le porte, le mura, le torri sono gemme: Porte nitent margaritis, omnes muri tui, et turres Jerusalem gemmis edificabuntur. Ambiziosi, non tramate più la rovina del prossimo per salire a quella dignità, a quel posto, non mancano titolati e grandi nel Cielo, mentre tutti i Beati sono un popolo di regi: Percipite Regnum vobis paratum a Patre meo. Uditori, ori, gemme, onori non hanno spaccio in Paradiso perché di queste merci il Paradiso n’abbonda. Dunque se volete guadagnarlo col traffico, portate colassù le merci che non vi sono: In Cielo non v’è pianto, non v’è dolore; in Cielo non v’è tempo, essendovi l’eternità … Non erit ibi luctus, neque dolor erit ultra: Dunque per ottenere il Cielo vi vogliono lacrime di cuor contrito, dolori di patimenti, di tribolazioni tollerate con pazienza. Queste sono le merci che hanno spaccio nel Cielo, e queste ci otterranno il Paradiso. Eccovi il modo d’ottenere il Cielo, guadagnarselo con portare di là la mercanzia che non v’è, che vale a dire patimenti; e se così farete, Isaia vi assicura, che qui vicerit possidebit hæc: tutto questo sì gran bene del Paradiso è per voi, di grazia non vi lasciate accecare da i diletti peccaminosi di qua, che presto v’invola la morte, ma solo attendete agl’eterni dell’altra vita. Volete, che io v’insegni un altro modo per guadagnare il Paradiso? Fissate spesso gl’occhi colassù, perché così vivrete bene, ed il Paradiso sarà vostro. Tito e Domiziano, ambedue figli del vecchio Imperatore Vespasiano, furono fra di loro sì differenti, e riuscirono di natura e di costumi sì varii, che Tito fratello maggiore al dir di Svetonio fu chiamato: Delitiæ Generis humani, e Domiziano: Flagitium Generis humani. Per rendersi buono e di costumi sì retti Tito, v’ebbe gran parte la prudenza del suo Aio, che per molto tempo gli assisté. Fattosi notte conduceva costui il giovinetto Tito in una loggia; indi dicevagli: Volgete gl’occhi alle stelle; vedete quella figura formata di vent’otto Stelle, si chiama Ercole , ed ha ottenuta quella stanza colassù in cielo, perché nel mondo atterrò molti mostri; ve l’otterrete ancor voi, se riporterete vittoria di quei vizi che infettano il mondo. Udite: quell’altra costellazione formata di ventisei sfavillanti lumiere, si chiama Perseo, e fu quel giovane sì generoso, che fece guerra alle Gorgoni, e con un colpo di lancia sviscerò l’Orca Marina, liberandone Andromeda, sicché non fosse divorata; or così appunto sfavillerete ancor voi se col braccio della vostra autorità difenderete l’onore delle matrone, e la pudicizia delle donzelle. Date ancora un’occhiata a quelle due figurine composte ambedue di nove stelle; sono Castore e Polluce, e voi ancora v’avrete questo splendore se qui nel mondo fomenterete la pace, e v’amerete con i sudditi: volete altro anche con volgere gl’occhi a queste menzogne; si rese Tito principe sì buono, vi delitiæ generis humani vocaretur. Deh date un’occhiata a quei Giusti del Paradiso, … Qui fulgent quasi stelle in perpetuas æternitates, e chi vi tiene, chi v’impedisce? Vedete colà quella matrona coronata di tanta gloria, ella è Francesca Romana. Chi v’impedisce o vedove un simil posto? Vedete colassù quella Cunegonda, chi v’impedisce o maritate un simil possesso? Chi o donzelle? mirate le Lucíe! Chi o contadini? mirate un’Isidoro! Suspice Cælum, dice Agostino, et accipies Cælum. – Mi giova credere, che alla mia predica siano molti e molte che abbiano da vedere fra poco la Gloria che io non ho saputo descrivere. S’io sapessi chi sono, oh con che ossequio li rimirerei; qual santa invidia m’occuperebbe il cuore, vorrei fino baciar la terra che calpestano. Ma ahi, che sento mutarmi l’allegrezza in pena; così non fosse: vi saranno anche molti e molte che non la vedranno mai … s’io sapessi quali sono! Vorrei scendere da questo pulpito e, afferratili per un braccio, dir loro: Ah infelice, vuoi dunque perdere il Paradiso, abitazione sì bella, la compagnia de’ Santi, di Maria, di Dio, per non lasciare quella maledetta amicizia, per non restituire quella roba, per non perdonare a quell’inimico? Leggo pure in Erodoto di quell’Egistrato Eleo che, tenuto legato da una catena ad un piede da’ demoni, per poter correre alla bramata libertà, recise quel piede che gliela impediva; e tu non avrai animo, non per una libertà, che finisce, ma per l’eternità, di troncare quei legami lascivi? non l’avrai? Andate dunque a casa, e questa sera sull’imbrunir di notte, dite, mirando il Cielo: Sei pur bello Paradiso, ma forse non sarai per me.
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA NONA
Nella Feria sesta della Domenica prima.
Si mostra non esser veri devoti di Maria Vergine; nè da Maria meritar protezione, quei che vogliono vivere nemici del Figliuolo Giesù.
Erat autem Jerosolymis Probatica piscina. S. Gio: cap. V.
Quante furono le operazioni, ed i fatti della Sinagoga tante furono le ombre della Chiesa e delle operazioni de’ fedeli. L’odierna Probatica con gli infermi che stanno sotto del portico attendendo la mozione dell’acque per mano angelica, mi fanno ravvisare quei peccatori che vivendo, come essi dicono, sotto la protezione di Maria, tengono per certa la salute eterna; senza accorgersi che siccome per ottenere salute agli infermi non bastava stare sotto il portico, ma bisogna tuffarsi nelle acque al primo muoverle dell’Angelo. Così ai peccatori per salvar le anime loro, non basta fingersi e figurarsi di star sotto la protezione di Maria, invocandola ogni dì, digiunando il sabato, ma è necessario tuffarsi nel bagno salutifero della Confessione mondandoli dalle colpe, abbandonando il peccato. Quando questo non si faccia, io v’assicuro, e saranno i due punti del mio discorso, che né voi siete devoti di Maria, né Maria sarà mai vostra Protettrice. Le monete di maggior prezzo, non v’ha dubbio, che sono le più facili ad essere falsificate; voi ben sapete che non v’è moneta di maggior pregio della Devozione di Maria, è questa una moneta d’oro di tal stima e valore che nel banco della Divina Misericordia trova sempre abbondantissimo lo spaccio. – Or questa moneta appunto, è quella che molti di voi, così non fosse, per istigazione del superbissimo principe de’ falsari, il demonio, falsificate. Non me lo credete? Su dunque alle prove. Come vien definita da’ Teologi la Devozione; Est voluntas quædam prompte tradendi se ad ea, quæ pertinent ad Deifamulatum, è quella prontezza di volontà, che taluno prova in tutto ciò che appartiene al servizio di Dio. Così San Tommaso; ma non così voi, poiché voi chiamate devoto di Maria chi recita devozioni in onor suo, chi ne va a visitare l’immagine, chi digiuna qualche giorno in ossequio di Lei, e cose simili. Sin qui non anderebbe male, ma non basta; voi mi portate la vostra definizione tronca, non me la dite tutta; bisogna che diciate che presso di voi, Devozione di Maria vuol dire Corona e peccati, Offizio e femmine, Salmi e mormorazioni, Salve Regine e vendette, Inni e laide canzoni, roba del prossimo e limosine in onor suo, e per finirla, digiunar dal cibo e non dal vizio. Se così è, voi non potete negare falsificata la Devozione, dunque come falsa non conterà nel banco Divino. Confessatela giusta: voi con questa falsa Devozione non cercate di servire alla Vergine, e però non siete veramente devoti suoi; ma con questa falsa devozione, avete solo la mira a gabbarla per quanto è dal canto vostro, per evitare i castighi di malattie, di penurie, di disonori e di morte che meritate per i peccati. Vorreste che a voi riuscisse, come ai Gabbaoniti; comparvero quelli, come sapete, avanti Giosuè con le vesti tutte lacere, con i viveri scarsi e di mala qualità, con le scarpe totalmente logore, e tutto ciò per dar ad intendere a Giosuè d’aver fatto lunghissimo viaggio per ritrovarlo, quando per verità appena si erano mossi per ricercarlo. Or siccome questa simulazione de’ Gabbaoniti non ebbe altra mira che sottrarsi da’ castighi, così voi, con la vostra fantastica devozione non avete altro scopo che liberarvi da quegli scempi funesti che vi minaccia la Divina Giustizia. Per questo voi di quando in quando vi presentate riverenti davanti la Vergine con certe vostre spoglie di penitenza più apparente che vera, voglio dire con certe esteriorità, benché pie, d’una limosina stentatamente donata in onore di Maria, d’un Salterio recitato, e con ciò vi credete di poterle dare ad intendere d’aver fatta lunga strada per ritrovarla, mentre neppure avete dati pochi passi, anzi neppur questi, giacché non vi siete mossi di casa non avendo lasciata la consuetudine maledetta, e l’abito invecchiato di peccare. Intendetela, queste vostre finte devozioni, non vi esimeranno da castighi; poterono i Gabbaoniti gabbar Giosuè, ma non potrete voi gabbar Maria, la quale adoprerà il braccio onnipotente del Figlio per piovere sopra di voi i suoi giusti sdegni: non sarete esenti da malattie, sarete flagellati da carestie, avrete ogni castigo in questa vita, perché non siete ma vi fingete devoti di Maria. E siccome queste vostre finte Devozioni non vi elimineranno da’ mali di qua, così non vi partoriranno i beni di là. – Lo sò, che sì! Volere andare in Paradiso con una Corona della Madonna accompagnata da una dozzina di peccati mortali; Pietro d’Alcantara, e perché sempre a capo scoperto, e con piede nudo, ne’ maggiori rigori del vero, perché tanto lacerarvi, tanto strapazzarvi? Domenico Loricato, perché ridurvi con tante asprezze a guisa d’un scheletro animato? Fu vostra disgrazia nascere ne’ secoli scorsi, se a voi toccava in sorte di vivere ne’ nostri, avreste imparato, che per entrare in Cielo basta un piccolo ossequio a Maria, ancorché finto, perché mescolato da colpe gravi. Che occorreva a Francesco Saverio che voi assicuraste la vostra salute con tanti sudori, con tanti stenti, con viaggi sì lunghi, con vigilie, con asprezze, con digiuni? Bastava visitare una Immagine di Nostra Signora ed ancorché foste macchiato di peccato mortale. Non risponde così il Saverio, non concludono così i Santi, i quali sanno che Cristo ha asserito che è stretta la porta del Cielo… Arcta est via, quæ ducit ad Cælum! E voi che correte per la via larghissima del peccato, vi date a credere di poter andare in Cielo col passaporto della Devozione finta di Maria, con averle recitato un’Offizio, biescinta una corona, digiunato un sabato? V’ingannate; voi siete come gli struzzi, i quali se hanno le ali come gl’augelli, non per questo hanno forza di volare, perché nel resto del corpo sono bestie quadrupedi; così pur voi, pensate di volare in su con le ali di questa Devozione, ma piomberete all’ingiù per il peso smisurato de’ vostri peccati. Passiamo avanti; voi ben sapete, che non giunge al Cielo chi non osserva la legge. Domine, quis habitabit in Tabernaculo tuo aut quis requiescet in Monte Sancto tuo? Signore, chi sarà degno d’entrare in Cielo … e ci risponde, non già chi recita alla Vergine una Corona con più peccati che Ave Marie, non chi fa per suo amore nel mercoledì e sabato qualche digiuno, e poi ne’ sette dì che conta la settimana, l’offende otto, nò! Ma quello sarà condotto al Cielo … qui ingreditur sine macula, et operatur justitiam, chi vive immacolato e giusto. Dunque, voi che commettete peccati, quasi abbi a dire a numero di respiri, con tutte le vostre Devozioni non ci entrerete, se non desistete dal peccato. Non vi lasciate ingannare dal demonio, il quale ha (quasi dissi) gusto che continuiate in quelle Devozioni, perché così con la speranza di salvarvi per mezzo di queste, continuate nelle amicizie, negl’odii, negl’interessi. Sapete quello che fa il demonio con voi? Quello fece Naasse con i suoi nemici? Udite. Nel primo de’ Regi si legge quella strana richiesta fatta da Naasse Ammonite a’ Popoli Galaditi, allorché furono vinti, disfatti e costretti alla resa; In hoc feriam vobiscum, fœdus, ut eruam omnium vestrum oculos dextros. Se volete pace, e che io cessi dalla strage, e dal far correre sangue per queste vie, io voglio, che a tutti vi si cavi l’occhio destro, vi lascio il sinistro, e tanto vi basti; Confesso il vero, che non può sentirsi condizione più barbara. Questo appunto è l’operar del demonio con non pochi, dice San Pietro Damiano; egli è contento che abbino un occhio aperto alla Pietà in certe Devozioni esterne, verso di Maria, di digiuni, di Limosine, di Rosari, di Visite alle sue capelle, ma vuole altresì che tengano chiuso l’occhio destro a’ comandamenti di Dio; sæpe malignus hostis potiorem partem Sanctitatis adimit minoremvero reliquit, perché così l’inganna, e conduce all’inferno, non vi fidate: resterete ingannati, questo piccolo lume non basterà. – Così avesse intesa questa verità quel misero giovine che con certe sue Devozioni a Maria, pretendeva che Maria fosse, quasi dissi, scorta alle sue scelleraggini. Aveva costui una indegna amicizia e dovendo andare a perdersi con colei, era costretto a trapassare nuotando, una tal parte di mare; prima però che si mettesse al trapasso, aspettava dell’amata il contrassegno d’un lume; andò più volte e tornò, non si può dire felicemente, perché sempre con la disgrazia di Dio. Quando i parenti di quella femmina, accortisi della tresca, esposero fuori una notte un lume ed il giovine infelice si pose subito a nuoto per portarsi senza saperlo, là dove lo portavano i suoi peccati, e quelli in tanto scostavano a poco a poco dalla casa il lume esposto, mentre il robusto giovine nuotava alla dirittura di quello, parendogli ormai quel viaggio più lungo del solito ed alla forza delle sue braccia, ed alla sfrenatezza delle sue voglie. Smorzarono finalmente i domestici la lucerna ed il meschino ormai stanco dal lungo nuoto, fu privo di quella luce che gli mostrava il viaggio, e rimase sommerso e poi morto; un altro intraprese troppo più lungo al tribunale di Cristo e da quello giù nell’inferno; tanto succederà a voi peccatori, i quali affidati dal lume delle vostre piccole Devozioni pensate d’andar sicuri al porto; no, non vi andrete, la candelina si estinguerà, e resterete sommersi in un mar di fuoco. Ma Padre, si dice pure che la Vergine Santissima è Avvocata de’ peccatori! Lo so ancor io, e chi ne può dubitare? E so che da Sant’Efrem è chiamata, Portus naufragantium tutissimus; sicurissimo porto de’ peccatori. Consolatevi pure, perché Maria è Avvocata de’ peccatori, e se io volessi negargli un sì bel titolo, avrei tanto scrupolo, quanto se gli rubasse una di quelle stelle che la incoronano. Ma intendiamoci di grazia, Ella non è Avvocata di quei peccatori che vogliano perseverare ne’ loro peccati, ma solo di quelli che dolenti, la supplicano ad impetrargliene il perdono e son risoluti di non peccar più. Così Ella se ne protestò con Santa Geltrude … Ego sum Mater peccatorum se emendare volentium; Io son Madre di quei peccatori che vogliono emendarsi delle loro colpe. Il che fu veduto dalla Santa in una nobile visione, allorché le comparve la Vergine sopra d’un Trono, bella a tal segno che pareva che il Paradiso mutatosi dal suo luogo, fosse venuto tutto ad abitarle nel volto, e notò che venivano da varie parti a gettarsi a’ suoi piedi, schiere di vari e mostruosi serpenti, e Maria gli prende, va con le sue mani, e li accarezza. – Or questi serpenti significavano i peccatori che dolenti delle loro colpe vanno alla sua clemenza; ma la Santa non vide mai che la Santissima Vergine accarezzasse le vipere che immobili stavano nel loro covile. Così Ella non è Avvocata di quelli che ostinati ne’ loro vizi non vanno a Lei per trovare rimedio, ma se ne stanno in quei covili di disonestà, d’odii, d’interessi maledetti. E Maria Vergine ha da essere protettrice di costoro? Poveri voi, il demonio v’ha attaccati a queste devozioni fortemente, per tenervi più tenacemente avvinti ne’ peccati con la speranza della protezione. Vedete là quel giovinastro? A quello parrebbe che il Cielo gli cascasse addosso, se non recitasse quelle orazioni prima d’andare a dormire, se non visitasse quella Chiesa; e poi non si fa scrupolo di andare a letto con più peccati mortali. Vedete là quella donna? Prima morire, Padre, che non digiunare il sabato, e non guardare il mercoledì; ancorché fossi finita di forze, voglio digiunare; ma poi vedrete che questa donna divorerà lascivie tutta la settimana. – In una città di Toscana, io so d’un muratore il quale aveva fabbricato all’anima sua una sepoltura di fuoco. Questo mentre stava gravemente infermo, fu visitato da un Padre della mia minima Compagnia, e perché era zelantissimo, gli toccò subito quel tasto che più gli premeva, dicendogli: Io so, con mio sommo dispiacere, che voi siete infermo più d’anima che di corpo, mentre avete una pratica che vi fa perdere il corpo e l’anima. Alzossi a queste parole il muratore a sedere sul letto e, messa la mano sotto del capezzale: Padre, disse, per sola grazia di Dio e della Beatissima Vergine Protettrice, e non per i miei meriti, io sono stato in Inghilterra, in Francia, in Polonia, e seguì a dire, mettendo fuori lo Scapolare della Madonna del Carmine e, baciandolo, così conchiuse: mai mi son cavato di dosso questo abito, e spero certamente che Maria Vergine mi sarà buona Avvocata in morte. Non si può credere di quanto zelo s’accendesse quel Religioso, udendo una tal risposta; come! Replicò il Padre, un abito sì santo ed una vita sì lasciva? E pretendete che Maria v’abbia da impetrare una buona morte, mentre fate una vita sì scandalosa? Statevene, che io qui vi lascio con l’abito della Vergine, e con l’indignazione di Cristo, e con l’inferno aperto; lasciate questo santo abito, diceva il Religioso. O questo no, replicava l’infermo; lasciate dunque la mala pratica, licenziatela, mandatela fuori di casa, se volete Maria per Protettrice. – O quanti e quanti si trovano, che sono macchiati della medesima pece, e si pensano d’andar salvi con menare una vita cattiva sulla speranza di qualche ossequio alla Vergine Santissima. Ma, Padre, che rispondete alle rivelazioni tanto famose, che chi è devoto di Maria non può dannarsi. Ci voleva anche questa per inquietarmi! Prima rispondo, che simili rivelazioni, o non si possono, o non si devono intendere, che della devozione, la quale è vera, perocché quella, che è falsa, ed è collegata col peccato, ordinariamente tira seco la dannazione. Dico in secondo luogo, che tali rivelazioni non si devono prendere nel senso loro letterale, ed assoluto, perché altrimenti si prenderebbe uno sbaglio di troppo peso. Sia per cagione d’esempio. In San Matteo al cap. 16. si dice: Qui crediderit, baptizatus fuerit salvus erit. Colui, che crederà ed avrà il Battesimo sarà salvo. Lo vedrebbe chi non ha occhi, che se volessimo intendere queste parole così assolute, ne verrebbe in conseguenza che saria sufficiente a salvarsi con il Battesimo la sola Fede, il che, come vedete, è più che falso, perché è di Fede indubitatissima, che per salvarsi, è necessaria la nostra cooperazione, e però l’Apostolo San Paolo dice: Non coronabitur, ni si qui legitime certaverit, con la Fede e col Battesimo vi vogliono l’opere; dunque tali parole di simili revelazioni si devono prendere non così sole, ma unite ad altre come queste, che dicono che con la Fede e col Battesimo vi vogliono le opere, e così per appunto, mentre in esse si vien dicendo, che i devoti di Maria si salveranno, insieme, sì insieme si deve intendere, se coopereranno alla loro salute, essendo verissimo che una simile Devozione è giovevole, ad un tal fine. Rispondo in terzo luogo, che queste rivelazioni non sono di fede ancorché siano venerabilissime, pregiabilissime, perché quelle solamente sono di fede, … Quæ proponuntur ab Ecclesia, ut credantur, che si propongono dalla Chiesa, acciò si credano. Ma queste, dalla Chiesa non son proposte perché si credano, adunque senza dubbio non sono di fede, ed io, dall’altra parte ho contro di voi più di cento rivelazioni che dalla Chiesa si propongono perché si credano. Nella prima de’ Corinti al cap. 6: Iniqui Regnum Dei non possidebunt, non è il Regno di Dio, per chi offende Dio. Ne’ Romani al cap. 8. Si secundum carnem vixeritis moriemini, se vivrete secondo i vostri sfrenati capricci vi troverete eternamente sepolti nel fuoco. In Giob al 21: Ducunt in bonis dies suos et in puncto ad infernum descendunt, consumano la vita loro in cercare tutti i piaceri, ed in un momento vanno all’inferno a trovar tutti i tormenti. Or che dite? Mentre io contro alle vostre rivelazioni, che non sono di fede, ne porto moltissime che sono di fede; adunque torno a dire, non vi fidate, non peccate sotto la scorta della Devozione, perché vi perderete. Oh Padre, noi abbiamo conosciuto uominacci di tal vita, che peggiori non sappiamo immaginarceli. Morì un certo uomo così disonesto che non aveva riguardo ad imbrattarsi con ogni età, con ogni sesso, con ogni condizione, anche le vergini consacrate a Dio restavano, per quanto era dal canto suo, appannate d’abito impuro; or questo uomo con somma pace e con tutti i Sacramenti, né ad altro può attribuirsi, che a quella Devozione che aveva di visitare Nostra Signora ogni sera. Passò all’altra vita una donna da me conosciuta, così vana, che pareva per lei esser nata ogni usanza, ogni moda, s’adornava per compiacere se stessa, per piacere ad altri, e se nello specchio faceva più ritratti di sé stessa, non lasciava anche di farne copia, e pure una donna di tal sorte, anche essa munita de’ Sacramenti passò con pace all’altro mondo, né può attribuirsi ad altro, una tal fortuna, che a quel benedetto Rosario, che sempre recitò. Chi v’ha detto, che questa gente sia salva? Forse l’arguite dalla quiete con cui sono morti, or vedete come diversamente da voi discorro, poiché dico che, essendo sì malamente vissuti si saranno dannati ed intanto non mostrarono inquietudine nel morire, in quanto, come dice Isidoro: il demonio non inquieta, chi già è certamente suo, prostratos, ac suos factos, contemnit. Ma Padre, sappiamo pur noi tanti e tanti esempj di certi uomini, e di certe donne che avevano mantello da ogni acqua, e stomaco da ogni vivanda, e pure si sono salvati per la protezione della Vergine. Ditemi, come si chiama questo libro, ove sono questi esempi? Il Libro de’ Miracoli; dunque a salvare uno di questi falsi devoti vi vuole un miracolo! Dunque, la loro salute si racconta come miracolo. E non vedete benissimo che lo sperare di salvarsi per miracolo, è lo stesso che darsi per dannato, perché miracoli si fanno sì rari, che è miracolo de’ miracoli, quando sono spessi? Fermatevi, non vedete che il fiume è grosso, non è possibile, che se vi cimentate al passo non ne restiate annegato. Eh Padre chi porta l’Abito di Nostra Signora non teme; vi passò, non è molto, uno, e giunte salvo al lido; ma questo esempio vi farebbe cuore per tragittare; appunto. Chi di voi, quantunque sappia, che uno per mezzo d’una devozione a Maria restò libero dalle archibugiate, si porrebbe a fronte per riceverle? Niuno certo sarebbe ben pazzo che volesse esporsi ad evidente pericolo di morte sulla speranza d’un miracolo, e pur questi sono gli stolti a’ danni dell’anima, che non fidano il corpo ad un miracolo, ma l’anima. – Mi ricordo aver letto, e finisco, come in San Martino, Terra vicina ai confini della Provenza, fu narrato questo caso da’ Padri Missionari Francesi. Si trovava in Firenze un malvivente, di quei che a guisa di animali immondi non si rivolgono che tra sozzure. Era quelli verso la Vergine un falso devoto, perché con i suoi ossequi a Maria voleva unire laidezze. Fra gli altri atti di Devozione fu l’andarsene à Roma, ove fattasi fare una statua d’Alabastro di Nostra Signora, ottennevi dalla Santità d’Urbano Ottavo Indulgenza in articolo di morte, la quale per lui non stette molto a giungere. Si fece portare la statua, e, doppo averla devotamente baciata per guadagnare l’Indulgenza, si munì con gl’altri Sacramenti, e poco dopo spirò. Indi a non molto , volendogli un Sacerdote dir la Messa, gli comparve, e dissegli: non vi straccate a pregar per me; le vostre Orazioni, benché fervorose, nulla mi gioveranno, son dannato. Dannato! E non siete voi quello, che eravate tanto devoto della Madonna, e non siete voi quello che ve la faceste fare in Roma per averla in vostro aiuto? Sì, ma sappiate che quando m’approssimai per dare un bacio alla statua, in cambio di Maria, baciai il demonio ivi comparso in forma di Colei, nella quale erano stati sempre collocati i miei affetti, ed ora per Lei mi trovo dannato. Che dite di questo caso, o falsi Devoti di Maria? Che volete, che diciamo Padre; diremo, che accade esser più nel numero de’ devoti di Maria; lasciamo pure di digiunare il Sabato, di recitare l’Offizio. No, no, tacete bocche indegne non dite così, questo vostro discorso è troppo mal fondato, non me lo credete? Riposiamo prima, e poi discorreremo.
LIMOSINA. Innocenzo Terzo, al riferire del Surio, che doveva dannarsi, ma per aver fatta una gran limosina, con cui s’era alzato un Monastero in onore della Vergine Santissima aveva avuto grazia di fare un atto di Contrizione prima di morire. Fate limosina ad onor di Maria.
SECONDA PARTE
Questa è la spina che mi trafigge il cuore, forte più di quanto finora v’ho detto, perché temo, che dal mio discorso non ne caviate una sciocchissima conseguenza, e perciò non prendiate motivo di lasciare tutte le Devozioni che fate in onore di Maria. Guai a voi se lascerete il Santissimo Rosario, se non porterete l’Abito del Carmine, la Sacra Cintura. Guai a voi, se non digiunerete in onor suo, se in suo ossequio non visiterete le sue Immagini, non mi state à parlare scioccamente, e dire a che servono queste Orazioni, se non servono per moneta da entrare in Paradiso? È vero, che non servono per moneta da entrare in Paradiso, ma servono perché il Signore v’aspetti un poco più, perché non fulmini così presto il castigo. Quanto più siete in disgrazia, tanto più dovete raccomandarvi a’ Santi, alla Vergine, a Dio. Bisogna levarsi questa pazzia di testa, che la Devozione della Madonna non vi ha da servire per scorta a’ peccati; digiuno il sabato, visito la Madonna, recito l’Offizio, dunque posso andare in quella casa, posso covare quell’odio: Oh che stolte conseguenze! La Devozione di Maria v’ha da servire per impetrarvi il perdono de’ peccati; lo non ho mai saputo che niuno si ferisca perché ci fono i balsami da medicarsi: i balsami fon fatti per le ferite; ma non si fanno le ferite per adoperare i balsami. Ditemi, ed a che ferve per vita vostra la patente d’un principe, volete forse che serva per franchigia di laidezze, di furti, d’omicidi, o questo no! Servirà bensì perché se il protetto ha qualche lite, il principe raccomandi la sua causa; servirà perché , se è perseguitato, il principe si frapponga e metta le parti in pace; servirà perché, se si trovasse in povertà, il principe gli assegni qualche stipendio da poter vivere. Tanto appunto dico io della Devozione della Madonna, non v’ha da servire di scala franca per liberamente peccare, perché andiate sfacciatamente in quella casa, perché liberamente facciate vendetta; non serve in questo, ma v’ha da servire, perché possiate avere molti aiuti di grazia che Ella v’impetrerà; molti soccorsi, che vi porgerà nelle vostre tentazioni; molti lumi Divini, che vi rischiareranno la mente; vi sottrarrà da molti castighi, che vi verrebbero addosso, e poi quel che più importa, servirà la Devozione della Vergine, perché abbiate particolare assistenza nel punto della morte. Per tutti questi capi, dico vi servirà la Devozione di Maria, ma non già mai per quello che voi vorreste, che sarebbe di poter vivere sempre a guisa di corvi, e poi morire come colombe. Io non pretendo, torno a dirvi, con questo mio discorso di togliere a’ peccatori quella confidenza che essi ripongono in Maria per le Orazioni, e Devozioni di Cintura, di abito del Carmine, Santissimo Rosario, Offizio, Limosine fatte in onor suo, e molto meno di levare alla Vergine quel culto che pur riceve da’ peccatori. Voglio che confidiate in Maria, voglio che le prestiate gl’ossequi che avete principiato, ma voglio altresì darvi qualche segno che vi possa far sperare salute eterna per mezzo della Devozione di Maria. Attenti. – Due sorti di peccatori si trovano, ed ambedue devoti di Maria. Alcuni sono peccatori, ed è grandissimo male; ma quel che è peggio vogliono seguitarlo ad esserlo, aggiungendo alle piaghe delle colpe mortali l’ostinazione, mentre non curano guarirle; e di questi non se ne può fare se non pessimo pronostico: già stanno con un piede nell’inferno ed è quasi certa la loro dannazione. – Altri sono peccatori, è vero; ma se peccano hanno subito fiero rimorso di coscienza, ed un animo fisso di lasciare il vizio; onde è, che bramano e cercano di trovare qualche pietoso samaritano, il quale versi balsamo sopra le loro ferite che pur troppo le conoscono mortali. Questa seconda sorte di peccatori, miei UU. possono avere qualche speranza di salute, poiché sebbene non abbiano la vera devozione di Maria, perché son privi di quella pronta e risoluta volontà di lasciare il peccato per amor suo, ad ogni modo sono stradati per averla, mentre racchiudono in cuore quella volontà di voltar le spalle a’ vizi, e di liberarsi dalla servitù contratta col demonio per mezzo di replicate scelleratezze. È vero che i primi albori dell’aurora nascente non sono giorno, ma è altresì verissimo che indi a poco il diverrà. È vero che chi pecca non è devoto di Maria, benché a sua riverenza pratichi molte Devozioni; ma è altresì vero che se unitamente a queste devozioni, avrà vera brama di liberarsi da’ vizi potrà sperare di svilupparsene, e di conseguire la vera Devozione, che ottenuta li conduca ad una beata morte, principio d’una eterna vita. Dunque, o peccatori, seguitate à raccomandarvi di cuore alla Vergine, seguitate pure à portare la Cintura, a vestir l’Abito, e recitare il suo Santissimo Rosario; ma sopra tutto vi raccomando che, se volete che la Vergine vi protegga, servate illi Puerum, non gli maltrattate il Figliuolo, non glielo strapazzate. Tanto disse il Re David a quei soldati, che gli professavano devozione, allorché gli altri gli si ribellarono; Servate mihi puerum meum Absalon; Servate mihi Puerum meum Jesum, dice la Vergine a questi che si dichiarano suoi devoti. Deh, se veramente m’amate, dice Maria a’ peccatori, se mi volete vostra Protettrice ne’ bisogni di questo Mondo, in vostro aiuto nel punto di morte, contentatevi di salvarmi il mio caro Figlio Gesù, Servate, non lo strapazzate con la lingua, non l’oltraggiate con i pensieri, non lo conculcate con i fatti peccaminosi, … Servate mihi. Date ricetto nel vostro Cuore a Gesù, Gesù riverite, Gesù amate, Giesù onorate, che così con tutta verità potrete dirvi miei devoti, ed allora non mancherò d’aiutarvi in questa vita, ed assistervi in morte.
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA OTTAVA Nella Feria quinta della Domenica prima.
Del Santissimo Sacramento,
in cui si riconoscono le finezze dell’ Amore Divino, e si mostra l’ingratitudine di chi non corrisponde. Non est bonum sumere panem filiorum, et mittere canibus. San Matteo cap. XV.
Si dichiara Iddio questa mattina per San Matteo di non voler dare il Pane di Vita a’ cani, che vale a dire a’ peccatori mentre Egli lo ha destinato ai suoi soli figlioli; ed a ragione, poiché d’un opera sì fina del suo amore, qual è l’Eucaristia, non è dovere che ne partecipino gli indegni; sì, perché in questo cibo di vita, ha Iddio compendiate le meraviglie delle sue opere ammirabili: memoriam fecit mirabilium suorum, come ci assicura il reale Profeta, soggiungendo subito: escam dedis timentibus se; sì, perché questi Cibo eucaristico è quasi dissi, la superbia del divino Amore. – Apelle in quelle pitture, nelle quali vedeva consumata l’arte del suo pennello, temuto poco men che dissi dalla natura, era solito dipingere la sua immagine, volendo accoppiar con essa l’autore. Iddio altresì nella adorata Eucaristia nella quale vide, dirò così, consumata l’arte del suo amore non in pittura, ma realmente ci volle racchiudere se stesso, acciò, che uno fosse il Dono, ed il Donatore. Contentatevi dunque, che io ammirando la finezza di Chi dona un sì gran dono, detesti l’ingratitudine non solo di chi non si dispone a ben riceverlo, ma molto più di chi indegnamente lo riceve. L’amore è un atto della volontà e perciò invisibile, onde è che la sua maggior o minor grandezza non può conoscersi salvo che dall’opere. Probatio dilectionis exibitio est operis. Tra le opere con cui l’amore si manifesta, sono i Donativi, i quali quanto sono maggiori, tanto più palesano la grandezza dell’amore. È pur trito nel mondo il proverbio, che chi ama dona e più ama chi più dona. Se così è, e qual mai sarà l’amore che Iddio ci porta mentre nel Sacramento ci donò il maggior tesoro che possa donar Lui, che possa donare a noi audeo dicere, son parole d’Agostino: quod Deus cum sit omni potenti plus dare non potuit, cum sit sapientissimus plus dare nescivit, cum sit ditissimus plus dare non habuit. Egli ci dà il Santissimo Corpo, il Preziosissimo Sangue, l’Anima, la Divinità dell’Unigenito suo Figliuolo; questo sì che è altro che donare gemme, tesori, regni, imperi, giacché donando se stesso nel suo Divin Figliuolo, ha donato tutto: Quomodo cum illo non omnia nobis donavit. Rallegratevi dunque miei UU. mentre vilissime creature, ricevete dal vostro Iddio dono tale, di cui maggior non averia potuto dare ad un altro, Dio se possibile fosse con tutta la sua Onnipotenza; alzate pure voci di giubilo con San Bernardo, e dite: o charitas super excellens, omnia quæ potuit fecit, omnia que babuit dedit, dedit semetipsum. O carità sopraffina fece quello che poté, diede quello che aveva, diede tutto sé stesso; o amore, amore per noi. Angeli Santi, piantate qui pure due colonne, cavate da due preziosi zaffiri del Paradiso, ed à caratteri indelebili, incideteci il famoso motto, non plus ultra, dissi male, fermatevi; tanto potreste fare se più oltre non fosse passato l’Amor Divino. È passato più oltre, perché poteva dare tutto se stesso, ma darsi solo, (giacché Egli è in realtà Cibus grandium) a’ principi, a’ regi, agl’imperatori, ai Pontefici; ma no; l’Amor Divino non comportava che un dono sì prezioso si restringesse alle sole persone qualificate, ha voluto con straordinaria liberalità comunicarlo a tutti, sicché per San Luca ci fa intendere, Exi cito in vicos, et plateas , debiles, pauperes, et cæcos, et claudos introduc huc; voglio che il mio Corpo si dia a tutti ed a ciascheduno, sia chi si voglia. – Povero di facoltà, o vile di nascita, o infelice di condizione, o misero di talenti, sia chi si sia, tutti godano di questo Cibo prezioso. Ego veni in mundum ut vitam babeant, abundantius habeant. Un grande amore è questo, volersi comunicare a tutti; grazie a Voi, adorato Signore. E voi Serafini del Cielo infocati del suo amore, ajutateci a ringraziarlo, ed esponeteli, che siamo pronti portarci nelle Provincie più remote per godere d’un tanto Bene, d’un sì gran tesoro; appunto, l’Amor Divino non lo comporta, e per ciò non vuole, che à tale effetto si assegni una basilica delle più famose del mondo ma ci fa verificare ciò che già ci fece intendere per Malachia, che, in omni loco sacrificatur, is offertur nomini meo oblatio munda; voglio che in ogni luogo si dispensi il mio Corpo; non m’importa, che sia povera villa, barbaro paese, fetido spedale, Chiesa senza ornamenti, altare senza suppellettili, Tabernacolo senza oro, pisside senza gemme, In omni loco; in somma si dispensi questo Cibo di vita, perché, Ego veni in mundum ut vitam habeant, et abundantius babeant. Ma qua ci sono eccessi di un amore indicibile, mentre un sì gran tesoro, non solo si dispensa a tutti, ma in ogni luogo; deh Santi; le di cui ossa venerate, giacciono sepolte in questo Tempio, e l’anima regna in Cielo, correte al Soglio Divino, ed ivi prostrati, ringraziate per noi l’Altissimo, e assicuratelo, che per cibarci di questo Pane di vita, che si dispensa a tutti, ed in ogni luogo; Noi per cibarcene una sol volta, spenderemo facoltà, sangue, vita. Che dite UU.? e non sentite la risposta, che vi danno i Santi! L’Amor Divino non comporta, che si stabilisca prezzo, con cui si compri questa vivanda di Paradiso; e però, Venite, emite absque argento, absque ulla commutatione vinum, lac. Basta a me, dice Dio, che chi vuol cibarsi di questo Pane di vita s’accosti all’altare privo di colpa, e mondo di cuore, né da lui richiede i digiuni d’Elia, le piaghe di Giobbe, e la prigione di Geremia. Ego veni in mundum. Angeli, che c’assistete custodi, deh portatevi sollecitamente al Trono di Dio, e ditegli, che sopraffatti da grazie non sappiamo più che bramare; ma sento che essi mi rispondono: se voi non sapete che bramare, sa Iddio darvi nuovi pegni del suo amore, poiché non bastandogli aver dato il suo Figliuolo a tutti in ogni luogo, e senza prezzo, lo vuol dare ancora ogni volta che si vuol ricevere, mentre sarebbe stato un eccesso di finissimo amore dar se stesso a ciascheduno di noi, una sol volta in vita, o amore, amore! Mille e mille sono le mani che lo preparano, senza numero le Chiese nelle quali si consacra, innumerabili i ministri, che lo dispensano. Uomini, donne, figli, fanciulle, su aiutatevi l’un con l’altro a ringraziare il Signore Iddio, che tanto vi favorisce, invocate quanti sono vostri protettori in Cielo, che ad un Dio tanto amante di voi portino i vostri ringraziamenti. O amore, amore! darsi a tutti in ogni luogo senza prezzo, ogni volta che si vuole, un Cibo sì prezioso, che solo basta a giustificare un’anima. – Son finiti gli eccessi del Divino Amore? Appunto, v’ingannate, poiché è passato anche più oltre; si, più oltre, mentre potendo darcisi sotto le specie di qualche cibo rarissimo e preziosissimo, finché non si rendesse facile l’averlo, ha voluto darcisi sotto le angustie di poco Pane, e tutto questo l’ha fatto con tanto amore, che ha potuto dire: Delitiæ meæ esse cum filiis hominum. Se Iddio dall’altezza del suo trono si fosse abbassato a far dire una parola in benefizio dell’uomo, sarebbe stato un gran favore, segno d’uno stupendo amore molto più se ci avesse impiegata la lingua, più assai, se per soccorrerlo avesse stesa l’Onnipotente sua mano, e pure è passato più oltre, mentre non una parola, non un soccorso, ma tutto se stesso ha dato a pro degli uomini. Ah miei affetti, e perché tutti non ardete per un tanto amore, e perché tutti non vi abbruciate alla rimembranza d’un tanto tesoro, e perché non ve ne prevalente, accostandovi spesso a questa mensa divina per ritrarne quei tanti beni, che sempre reca chi bene si comunica. Eppure, un dono sì grande, come poco si prezza. Ditemi: se un’Ostia sola consacrata si ritrovasse tra tutta l’ampiezza di questo mondo, ecco, che tutti i nobili, e plebei, dame e cavalieri, principi e Regi la porterebbero per vie scabrose in devoto Pellegrinaggio a vederla, ed appena giunti, con gli occhi pieni di lagrime, col cuore acceso di devozione, accennando all’Ostia Divina, direbbero, là sta il Figlio di Dio? Oh invenzione d’amore, che ha saputo andare in Cielo col Padre, e nello stesso tempo restare in terra con noi. Non vi è amico che possa amare che fino alla morte, ma esso rimanendo con noi ha trovato modo d’amarci anche doppo morte. Ah, direbbero quei fortunati pellegrini, almeno potessimo toccarlo un tantino con la corona. Ah, che se fosse possibile averne un’invisibile pezzetto, vi spenderemmo di buona voglia tutti i nostri patrimoni. Ne vi sarebbe alcuno che avesse ardire di pensare a porsi neppure una volta sola cibare di quel Pane celeste. Ah carità sviscerata di Dio, ah ingratitudine troppo alta degli uomini, mentre avendo in questa vostra Patria non un pezzetto in un Reliquiario, ma tante Ostie consacrate, e potete cibarvene senza spesa, e senza pellegrinaggio, e pure come le stimate? O Dio, converrà pure, che io dica poco, anzi per molti, nulla! Alle Chiese, alle Chiese; s’io rifletto à quelle femmine, io vedo che la loro remota preparazione a comunicarsi, è trattenersi la sera antecedente a giocare, a ridere, a mormorare, senza neppur pensare a recitare il Santissimo Rosario, o l’Offizio di nostra Signora; se poi le vedo entrare in Chiesa, le rimiro tutte attente a pavoneggiar se stesse, scollate e sbracciate, ed a far pompa di sé, quasi Idoli per essere adorate. Gli uomini poi vi si preparano con occupar la mente in ciance di novelle, in interessi; sapete come vi si preparano non pochi Sacerdoti mentre che si vestono degli abiti sacri. Par che vestino abiti da scena: ridono, burlano, senza o non dire, non considerare le misteriose parole prescritte nel porsi quegl’abiti sacri indosso. Prendono dopo il Sacro Calice in mano, e con occhio libero guardano, mirano, non solo all’andare, ma ancora nello stare all’Altare, ove da molti si mangiano le parole e si maneggia Cristo peggio che non si farebbe un vil fante della terra. Che meraviglia dunque se questi tali, che così impreparati si portano a questa Mensa divina, non ricevano i meravigliosi effetti di questo Divino Sacramento. Tutta la colpa è loro, ed il male non vien dal cibo ma dallo stomaco, né solo si portano a questa mensa impreparati, ma doppo comunicati, li vedete subito immersi negl’interessi, nelle ricreazioni, intervengono ai giuochi, ai balli, ed invece d’impiegare quella giornata in opere pie, l’impiegano in mille inezie. Chi si vuole ben comunicare, bisogna che prima d’ogni cosa avvivi la fede, e concepisca la Presenza Reale del suo Dio in quell’Ostia Sacrosanta. Ah, che se avessimo vera Fede ci prepareremmo la sera antecedente con digiuni, con penitenze, con Rosari, e la mattina ci porteremmo alla Comunione con tutta riverenza e devozione, non si farebbero tante ceremonie in Chiesa, che ormai par quasi ridotta a sala di festino, tanti sono i discorsi, le riverenze, gl’inchini, i profondi saluti, che tali, piacesse a Dio , si facessero a questo Sacramento. Se bene, a che perder tempo contro chi poco si prepara a questa Mensa divina e nulla ringrazia, benché si sia nutrito con un tanto Cibo, mentre vi sono di quei peccatori i quali, doppo esser vissuti nelle laidezze di mille peccati, in quella istessa mattina che si confessano, dirò così, Dio sa con qual proposito e con la bocca ancor fumante d’alito velenoso, corrono subito ad inghiottire il Signore. San Giovanni Crisostomo non sapeva già capire come alcuni Cristiani reputassero tempo sufficiente i quaranta giorni della Quaresima a purificarsi da peccati di tutto l’anno, e prepararsi in tal forma a ricevere nella Pasqua Cristo Sacramentato, quadraginta diebus sanitatem animæ assignas, et Deum babere propitium expectas ludis ne quæso? Or che direbbe questo sì gran Dottore, se si ritrovasse a’ dì nostri, e vedesse tanti e tanti, che non solo non permettono quaranta giorni di penitenza a ricevere Cristo, ma con un breve passo dal Confessionario, dove hanno detto roba laida e scomunicata, vanno alla Mensa, per andar, dirò io, con un altro passo più breve , dall’Altare al postribolo. Che direbbe Sant’Agostino, il quale a chi si vuole accostare alla Santa Comunione prescrive digiuni, limosine ed orazioni, se vedesse che da molti si spendono i giorni avanti la Comunione in crapule, in bagordi, in veglie, in teatri, in parole disoneste, in canzoni amorose. Che meraviglia, dunque, che non si cavi frutto! Quel contadino, il quale getta il seme sopra la terra non ancor ben rammollita dalle piogge, raccoglie poco, ancorché il seme sia ottimo. – Così quantunque l’Eucaristia sia semenza che partorisca ogni bene, tuttavia gettata in certi cuori, che puzzano ancor di vendette, d’odii e di lascivie e di bestemmie, non può essere che renda frutto. Ah Dio, Sacerdoti, che dispensate il Sangue di Cristo nel Sacramento della Penitenza se permettete saviamente, all’anime che sogliono star lontane dal peccato, la Comunione immediatamente doppo la Confessione, non la permettete a chi visse lungamente nimico di Dio; ma ordinate loro che prima d’accostarsi al Pane di vita attendano a coltivare la grazia ricevuta nella Confessione, perché se sarete facili a concedergliela, gli faciliterete il ritorno a’ peccati. Scrive Plutarco, che presso i Sibariti si costumava d’invitar le Donne a’ conviti nobili un anno prima, affinché avessero tempo di bene accomodarsi, ed esser ben disposte all’onore che doveano ricevere. Dio immortale! Ed i Cristiani stimeranno superfluo l’apparecchio di pochi giorni per accostarsi alla Mensa Divina? Ma se questi che s’accostano alla Comunione dopo una Confessione in cui hanno vomitato veleno pestifero di laidezze poco prima commesse, sono degni di biasimo. Che diremo di coloro che s’accostano alla Comunione, non solo subito Confessati delle loro colpe, ma vi s’accostano, così non fosse, con l’affetto ai peccati di cui si sono confessati, volendo, che pacificamente alloggino insieme nel loro cuore, l’Arca e gl’idoli, Dio ed il diavolo; sapete voi chi sono questi tali? Questi sono quelli che non tolgono via l’occasione di peccare, perché non tralasciano quei sorrisi, quelle veglie, quei regali. Sappiano questi tali, che anticamente si serbava l’Eucaristia in un vaso d’oro o d’argento figurato a guisa di colomba, per significare che non è degno di ricevere Cristo dentro di sé, chi non arriva a vivere senza fiele che è quanto dire: senza ombra di laidezza in cuore. Sacri ministri di Cristo, quando vi si accostano ai piedi certe persone, le quali vedete che conservano rancori, che fomentano affetti non solo non gli dovete concedere la Comunione, ma mandateli via da voi senza proscioglierli. Come! volersi accostare alla Comunione con sdegni in cuore, con affetti impuri, con continuare nelle occasioni mi meraviglio, fate loro conoscere il pessimo loro stato, e poi licenziateli. Or se questi che ardiscono accostarsi alla Mensa Divina con affetti impuri, e senza lasciare le occasioni tutte di peccare, stanno in continuo pericolo di dannazione. Che dirò io di quei miserabili, i quali indegnamente si cibano di questo Pane di vita, voglio dire si comunicano in peccato mortale; a questi tali ricordo che Cristo sopportò tutto in Giuda, dissimulò a’ furti, le mormorazioni, l’infedeltà, ma quando sfacciatamente ardì comunicarsi con la coscienza macchiata da colpa grave, allora lo lasciò subito nelle mani del diavolo. E post buccellam intravit in eum satanas, il quale fieramente agitandolo, lo necessitò a disperarsi, e a darsi da per se stesso con infame laccio la morte, per esser portato ad ardere nell’inferno. Comunicarsi in peccato mortale! Non si può dir di peggio. Questa è una mostruosità sì grande, che maggiore non può darsi. Voi ben sapete che non v’è mostro più mostruoso di quello che vien composto da parti più stravaganti, or quali parti più travaganti possono mai mirarsi unite insieme che stare in un medesimo cuore, Cristo e peccato? Non potestis, miei UU. non potestis Mensæ Domini participes esse et mensæ Dæmoniorum, dice l’Apostolo; non è possibile sedere alla mensa di Cristo e godere de’ conviti del diavolo. Chi si vuol pascere delle cipolle d’Egitto, non può nutrirsi con la Manna del Cielo. Come volete mai, che questo Cristo, che non può tollerare in sua compagnia sotto il velo degl’accidenti la sostanza innocente del pane, possa poi venire ad abitare nel vostro petto, allorché sa esservi annidati serpi velenosi di vizi, allorché sa averci posta sua fede l’amore indegno verso quella femmina, l’odio implacabile verso quel nemico? Non potestis no! È un mostro, vi ho detto, una mostruosità, volere in cuore Dio e peccato. Or i mostri, come sapete non solo sono orribili per la mostruosa deformità, ma sono anche terribili per le rovine che pronosticano. Appena si vede un mostro che par che ognuno vi legga dentro qualche grave calamità, ancor io prevedo da un tal mostro rovine, e sono accertati i miei giudizi, perché sono dell’Apostolo che dice: Qui manducat, et bibit indigne, judicium sibi manducat, et bibit! – Ecco le rovine di chi si comunica in peccato mortale: Judicium sibi manducat, et bibit idest, dice il Crisostomo damnationem, è dannato, beve la morte dal fonte che sperava vita. – Il balsamo ha questa proprietà di conservare i corpi non ancor corrotti; ma s’è applicato ad un cadavere che abbia principiato ad imputridire, il balsamo serve perché più presto s’imputridisca. Così appunto nel caso nostro, è potentissima a conferirci l’immortalità beata la santa Comunione. Con tutto ciò se indegnamente si riceve, ci dà l’ultima spinta per l’inferno. Riceve indegnamente e perciò è quasi dannato chi si comunica senza confessarsi, avendo peccato mortale; chi si confessa ma non li dice tutti per vergogna, per malizia, chi li dice tutti ma ne lascia per rossore qualche circostanza necessaria, o specie diversa. E perciò se questo infelice vuol ritornare in grazia di Dio, conviene che con un vero dolore e fermo proposito vada a fare una buona Confessione, in cui s’accusi d’aver lasciati i tali e tali peccati, e poi si confessi di quanti da quel tempo che lasciò quelli, ne fece, perché di niuno è stato mai assolto. Datemi mente. Il peccato di chi si comunica in peccato mortale è sì orribile, che Dio per lo più non lo castiga in questa vita, perché in questa vita non vi è pena bastante, ma la riserba nell’altra. Ne ha voluto però alle volte dar qualche esempio ancora in questa vita come fece in quella rea femmina riferita da San Cipriano, testimonio di veduta; interrogata questa dal Confessore se avesse commesso il tal peccato, nego’ sfacciatamente, asserendo non esser di quei costumi, che egli presupponeva e raddoppiando la sfacciataggine nell’atto stesso di volerla ricoprire, ardì con fronte temeraria accostarsi alla santa Comunione, sperando, dice il Santo, d’ingannare Iddio, come aveva ingannati noi, suoi Ministri, ma non gli riuscì, poiché ricevuta l’Ostia, si cambiò subito questa in un affilatissimo coltello, che inghiottito gli segò miseramente la gola, lasciandola quivi morta, e tutta bagnata nel suo sangue, che ben si vedeva esser vittima scannata in quella Chiesa per esempio del suo sacrilegio. Dio immortale! Che vi strapazzino quelli infedeli che tengono l’Eucaristia non essere che semplice pane, non è da meravigliarsi, questo è uno strapazzo fatto ad un principe sconosciuto, da chi lo giudicava uomo ordinario; ma che v’oltraggino i Cristiani, che vi confessano per quel Dio che siete, è un eccesso intollerabile. Eh mio Dio io so che se il caldo s’incontra nel freddo in seno alle nuvole, non sa stare ivi paziente neppur per un’ora, ma squarciato il seno alle medesime nuvole, tuona, tempesta, e si accende in fulmini terribili. Il fuoco della vera carità, mio Dio, non deve stare col freddo de’ peccati nel cuore del peccatore, però tuoni, tempeste, e fulmini quegl’empi che non vi rispettano nel Divino Sacramento, e fate loro provare i vostri sdegni giustissimi privandoli e in vita, ed in morte del vostro Santissimo Corpo.
LIMOSINA È sicura la vostra roba se la darete in custodia a Dio ne’ poverelli, ond’è che un mercante ricchissimo richiesto un dì dal suo sovrano a dirgli con tutta verità quanto fosse il suo guadagno messo da parte in quell’anno rispose: mille scudi, e vedendo alterato il re per simile risposta, quasi si credesse burlato replicò, mille, o sire, e non più, perché mille n’ho dati a Dio ne’ suoi poveri, e così mille son certo averli in sicuro, l’altre mie facoltà soggiacciono tutte a tanti pericoli, che io temo di chiamarmene padrone.
PARTE SECONDA
Che vuol dire, che tanti Cristiani vivono ne’ peccati, perché questi non frequentano i Sacramenti, e perché non li frequentano? Perché abbracciano i motivi suggeritigli dal demonio. Dice taluno, io non frequento la Comunione per non dar da dire, perché se quel tale mi vedrà comunicare, dirà, mirate un poco, chi vuol fare da Santo! E per questo volete lasciare la Comunione per le parole di pochi sciocchi, per questo lasciare d’andare a Dio. Qual è quel pescatore colà nelle coste dell’India, che lasci di far preda di qualche incomparabile Margharita per timore dell’acqua fredda? O Dio, se sapeste, che perla di Paradiso si contiene in quell’Ostia sacrosanta, non solo non temereste le freddure d’una lingua mal Cristiana, ma sprezzereste, per acquistarla, un mar di ludibri. Altri si scusano dicendo che non si accostano a questa Mensa Divina, per non addomesticarsi tanto con Dio, e questi che così parlano sono d’ordinario persone puntigliose, e piene d’albagia; e se a queste persone, che dicono non accostarsi spesso per riverenza, il confessore per umiltà gli vietasse comunicarsi in un dì solenne di Festa, quando tutto il popolo si comunica, voi vedreste cambiarsi tutta l’umiltà in superbia, voi le vedreste strepitare, e dichiarare assolutamente che non vogliono questo smacco di non comunicarsi in giorno in cui tutto il mondo Cristiano comunica. Eh via, tacete voi tutti, che prendete simili scuse, non dite che non v’accostate per rispetto di Dio, dite piuttosto che non v’accostate a quella Mensa Divina perché volete seguitare a vivere nella vostra scandalosa libertà. – Altri poi non s’accostano perché dicono aver da fare assai, che i negozi di casa, della bottega, l’occupano tanto, che non gli resta tempo per questa Santa Funzione. Costoro sapete? Sono affogati dal demonio non con il fumo della superbia, ma con la polvere delle cose terrene: avete la famiglia da provvedere? Bene! Ma avete ancor l’anima! È possibile, che in un intero mese non si trovino due ore per confessarsi e comunicarsi, per assicurare la propria salute? Che negozi? Che imbarazzi? Perché siete in questo mondo, non vi siete per la terra, no, ma per il Paradiso. Che risolvete? giacché le vostre scuse non vagliano, che risposta date? Volete essere più frequenti nel comunicarvi? Ridotti che farete all’estremo di vostra vita avete da maledire la negligenza usata nel comunicarvi, ed io molto temo, che questa negligenza non sia per essere la causa della vostra rovina, e temo, che nel fine della vita abbiate da morir senza Sacramenti. Volete che io vi dica la vera cagione, perché non frequentate i Sacramenti? Perché volete continuare in quella pratica, in quell’odio, in quell’interesse. Sapete che il confessore non vorrà quella tresca, vorrà la restituzione, vorrà che perdoniate! Questa è la vera cagione perché non volete frequentare i Sacramenti. Certamente ogni nausea è cattiva, ma quella che si ha del pane, al dire d’Avicenna è peggiore d’ogn’altra, omnis naufeatio mala, panis autem pessima, temo e temo con ragione che questa gran ripugnanza che voi mostrate al Pane di vita, sia per voi un segno d’eterna morte; odo il Profeta, che me lo conferma, qui elongant se a te peribunt, chi si allontana da Dio, si dannerà; O che stupore vedere, che l’infermità fugge la salute! Ma se noi fossimo tiranni di noi medesimi potremmo far di peggio, che non volere adoperare un rimedio sì potente per salvarci, qui elongant se a te peribunt, intendetela o Cristiani, chi si slontana da Dio, perirà, si dannerà. Certa gente confinante con gl’Abissini, per assaltarli, e superarli, aspetta che per certi loro digiuni siano indeboliti, e poi improvvisamente gli son sopra con l’armi, e ne fanno macello. Così farà il demonio con voi altri che tanto indugiate a comunicarvi. Quando sarete stati lungamente digiuni da questo Pane di vita, v’assalirà, vi vincerà, morirete dannati. Cristiani miei per evitare questo pericolo di dannazione, frequentate questo Sacramento é perché possiate ritrarne veri frutti di vita eterna, accostatevici doppo una sincera Confessione e poi accostatevi con la debita modestia dell’abito, non essendo possibile che ritraggano utilità dalla Santa Comunione quelle donne che nella medesima mattina che devono comunicarsi, si adornino per non dire più immodestamente, certo più vanamente che mai, senza timore di presentarsi così pompose d’avanti a quella Maestà che per amor loro s’è umiliata nel Sacramento fino a non comparire uomo ma cibo ignobile. Non è possibile che ritraggano frutto dalla Comunione quelle donne che, rinunciando alle leggi della verecondia cristiana non si curano di riaccendere, con farsi vedere scollate, spettorate, sbracciate, quelle fiamme impure, per smorzar le quali, versò Cristo tanto sangue. – Racconta Roberto Lisio come giunta a morte una vanissima femmina che spendeva l’ore allo specchio, acconciandosi la testa ed ornandosi il volto, gli fu portato dal Parroco il Santissimo, acciò lo ricevesse per viatico all’altra vita. Ma ecco che d’improvviso si videro scendere dal Cielo due Angeli, i quali giunti alla camera, e salutata profondamente quell’Ostia Santissima, la rapirono dalle mani del Sacerdote, e sparvero. Ebbe questi a morire per lo spavento, né mai si riebbe, finché tornato alla Chiesa, ritrovò quell’Ostia riposta dagli Angeli su l’Altare, ed argomento, che il Signore giustamente aveva sottratto il suo Corpo a colei, mentre ella troppo aveva voluto adornare il proprio. Cari miei UU. se ornerete il vostro corpo con maniere lascive, con usanze che abbiano del disonesto, se trascurerete di cibarvi di questo Pane, io vi dico, che temo molto, se nel punto di morte avrete il Divino Sacramento, ma posso temere che non passiate all’altro mondo senza Sacramenti.
DI FULVIO FONTANA Sacerdote e Missionario DELLA COMPAGNIA DI GESÙ
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA SETTIMA Nella Feria quarta della Domenica prima.
L’Avarizia è vizio veramente traditore perché nascosto, perché difficilmente si allontana; si fa capo di tutti i vizi, e seco porta danni temporali, rovine eterne.
Tunc vadit assumit septem spiritus nequiores se, et intrantes habitant ibi.
S. Matt. cap. XII
Assuero quel gran re dell’Asia, che stese il suo comando sopra ventisette Provincie, non per altro innalzò a’ regi onori Mardocheo, se non per averli scoperti due domestici traditori. Una gran remunerazione potrò io aspettar da voi miei R. A. mentre voglio questa mattina scoprirvi il maggior traditore che abbia una gran parte di voi, il quale, nel portarvi la rovina della famiglia, la perdita dell’anima, non vuol esser solo; ma fattosi guida di non pochi traditori, v’insidia, vi rovina, v’uccide. Orsú, ove si tratta di scoprir traditori non v’ha bisogno di lunghezze. Eccovelo: questo traditore è l’Avarizia, ed è quello spirito così vostro nemico, che non contento delle sue frodi assumit septem alios per maggiormente rovinarvi: datemi dunque mente, già che voglio mostrarvi questo spirito veramente traditore, perché nascosto, perché difficilmente si slontana, perché è guida di tutti i vizi, perché porta rovine temporali, rovine eterne. – Disse pur bene l’Apostolo San Paolo, allorché chiamò l’avarizia radice di tutti i mali, già che l’avarizia si veste a guisa della radice delle di lei proprietà; come radice sta nascosta; come radice è difficile a svellersi, come radice è feconda di tutti i mali. Cominciamo dal primo: negate, se potete, che l’interesse a guisa di radice non stia nascosto nel fondo del cuore. Girate un poco per le piazze, per le botteghe, per i tribunali; entrate per le case private, e che sentirete? Altro non udirete, se non voci di chi si querela assassinato nella lite, gabbato ne’ traffici, ingannato ne’ contratti, defraudato nelle mercedi; e dall’altra banda non troverete, quasi dissi, uno il quale si persuada d’ingannare, di far torto, di defraudare; niuno si trova che si conti nel numero degl’ingiusti, de’ ladri, deʼ rapaci. Come va dunque questo affare! Tutto il mondo si lamenta delle ingiustizie, ed appena si trova chi si accusi d’essere ingiusto. Ecco l’origine: non per altro, se non perché gli uomini talmente occupati nella brama dell’avere, e nella solitudine di non perdere i beni di questa terra, né pur riflettano à ciò ch’è chiaro come il sole. Interviene a loro, ciò che intervenne in quella gran giornata, che si fece tra’ Romani e Cartaginesi al Trasimeno. Racconta Plinio, che quando dall’una e l’altra banda fieramente si combatteva, e con reciproca strage, si scosse terribilmente la terra per uno spaventosissimo terremoto; eppure niuno de’ combattenti se ne accorse. Sapete voi perché? Non per altro se non perché quella avidità di togliere all’inimico la vita, quel timore di non perder la propria, le strida di chi moriva, i plausi di chi vinceva; in una parola, la confusione di quel gran conflitto talmente occupava i sentimenti, e gli affetti di ciascheduno che non si pensava più ad altro. Questo appunto è quel che succede nel mondo con gli interessati con gli avari. L’interesse, l’avarizia eccitano, fanno un rumore sì grande nel cuore di costoro; li sconvolgono talmente le passioni o per l’avidità di non perdere o per la brama smoderata di guadagnare, che più non odono i rimorsi della coscienza, benché fierissimi; più non sentono i consigli della ragione, le minacce della fede; a tal segno, dice lo Spirito Santo, che l’interessato è persuaso d’essere un uomo prudente e savio, Sapiens sibi videtur vir dives. Un uomo interessato, un uomo che si lascia legare dall’amor soverchio alla roba, stima d’essere il Savio de’ savi, e però sprezza le voci de’ predicatori, i consigli de’ confessori, lascia latrar la coscienza, alla quale non dà retta, quantunque gli porga una cagione sì giusta di temere de suoi traffici, de’ suoi contratti, dei suoi maneggi. sapiens sibi videtur dir dives, per lui tutto è giusto, tutto è ben fatto. Sentite a questo proposito uno de’ più celebri miracoli di quel gran Santo Patriarca Francesco di Paola. Stando un dì alla presenza di Luigi XI Re di Francia, prese alcune monete riscosse dal popolo, per tributo, e trettele, ne fece uscire vivo sangue, a solo fine d’insegnare al re quanto facilmente si mescoli l’ingiustizia nell’imporsi a’ Popoli gli aggravi da principio almeno nel riscuorersi da ministri. Ah, che per verità, se ai dì nostri vi fosse un simile operator di prodigi, vorrei scender frettoloso da questo luogo e prostrato a’ suoi piedi, tanto vorrei pregarlo, finché accondiscendesse a rinnovare uno stupendo miracolo, e seco accompagnato umilmente lo vorrei condurre per le fiere, per le botteghe, per le case de’ ricchi. O la’ presto direi, portate qua tutte le vostre monete, v’ingannate, se le credete tutte di buon acquisto. Spremete, o Santo Patriarca, le monete di quel mercante: sangue, sangue. Stringete l’oro, che tiene in cassa quel nobile: sangue, sangue! Ah, che se voi con la vostra mano prodigiosa toccherete l’anello, che porta in dito quella femmina, le gioie di quella dama, gli abiti pomposi, le suppellettili preziose riempite le stanze, le sale, le casse, i palazzi di sangue de’ poverelli nelle mercedi ritenute, nelle usure praticate: tutta roba usurpata nel tener corte le misure, scarsi i pesi; nelle frodi, negl’inganni: sangue, sangue; e pure se parlate con costoro, vi diranno che sono innocenti e perché? Perché questo vizio dell’avarizia, a guisa della radice sepolta sotto la terra, sta nascosto nel cuor dell’interessato … – Né vi crediate, cari miei UU., che questo vizio tanto occulto sia meno difficile a sradicarsi, benché scoperto, appunto non sarebbe radice, se fosse facile a svellersi. Radix omnium malorum avaritia, grida, l’Apostolo, sapete perché? Perché tale appunto la ravvisò in quell’albero misterioso in cui riconosceva i vizi del mondo, tutto, ben vedeva egli pendere dai rami di quel grand’albero irriverenze nelle Chiese, spergiuri nelle bettole, bestemmie per le piazze, disonestà nelle case; ma la radice di questo grande albero qual era? l’avarizia. Or ditemi: qual è la differenza che passerà tra lo sradicare una profonda radice, e rompere un ramo d’un albero? Se vorrete rompere un ramo, benché grosso, d’un albero, stentate qualche poco, ma pure con qualche sforzo, e poco aiuto vi riuscirà: ma se vorrete svellere la radice, non basteranno le vostre forze, non quelle de compagni, bisognerà adoprare e ferro e fuoco. È difficile che quella lingua si moderi nelle mormorazioni, nelle bestemmie, non farà facile che colui lasci colei: bisognerà tentare, perché si faccia quella pace; ma pure coll’ajuto d’orazioni e santi religiosi si avrà l’intento, perché son rami d’un albero. Ma l’avarizia, che è radice, farà difficilissimo, dissi male; sarà impossibile; che dite, Padre? disditevi; non sta a martello il vostro discorso: vi sta, se mi udirete. Dico impossibile, perché gli avari, gl’interessati per ordinario non vogliono aiuto: tengono lontane quelle mani, che bramano svellerli l’avarizia dal cuore; non è vero? Udite le sacre carte ci raccontano come i due Faraoni re d’Egitto furono e ripresi e castigati: l’uno perché disoneto, perché interessato l’altro. Il primo fu quello che rapì Sara moglie d’Abramo, per averla a’ suoi piaceri. Il secondo Faraone fu quello che aggravò più d’ogn’altro il Popolo Ebreo, per tenerlo schiavo. Ah maledetto interesse, quanto difficilmente ti fiacchi. Il primo Faraone, al primo tocco del flagello di Dio, non solo si arrese, ma restituì ad Abramo la consorte, e pentito ne fece scusa. Il fecondo Faraone, perché si trattava d’interesse, non solo non si mosse al primo flagello di Dio, ma s’indurò sempre più sotto le percosse, e non desisté, fin che non restò sommerso nell’onde marine. Quello vuol dire combatter con l’interesse. Nel primo Faraone si aveva da combatter con l’amor del piacere, e non fu difficile; ma nel fecondo Faraone, che si aveva da combattere con l’interesse, non bastarono né i prodigi, né le stragi. Non accadde altro, è difficilissimo svellere quella radice dal cuore degli uomini. È talmente difficile a svellersi, che avendo un uomo levato certi danari ad un altro, sentendo dal confessore che conveniva restituirli, non si sapeva metter le mani in tasca per prenderli, convenne che il confessore glieli prendesse lui stesso. Mette radici sì alte e difficili a sbarbarsi, che neppure al capezzale moribondi, sanno indursi. Ciò è avvenuto a me nell’assistere ad una dama. Che dissi moribondi? Né pur talora morti vogliono seco il mal tolto. Sia la verità del seguente caso, presso l’Autore. – Jacopo da Utriaco racconta, come un certo avarone, simile forse a qualcheduno di quei che qui m’ascoltano, non faceva mai limosina del suo, ma si era ingrassato con la roba altrui. Venne costui a morte, e non poté dal confessore essere indotto a fare la dovuta restituzione. Ma invece di questa, chiamata a sé la moglie e i figli, fece testamento, dividendo i suoi danari in tre parti, alla moglie, ai figli, la terza a se stesso: e questa ultima parte fece porre in un sacco, costringendo la moglie ed i figli a promettere di sotterrare seco nel Sepolcro i danari. Morto dunque, e sotterrato con quel sacco di danari, una servetta di casa consapevole del fatto, chiamato a sé un certo giovane che ella bramava in sposo, gli promise, quando però egli l’avesse presa per moglie, che gli avrebbe manifestato un segreto, per cui sarebbe senza fatica, e senza dilazione di tempo, divenuto grandemente ricco e promettendo di far tutto il giovane, ella gli scoprì il fatto del sacco de’ denari sepolto col morto. Ma ecco, che essendo andato alla sepoltura una notte, ed apertala, vide con orribile spavento molti demoni, i quali liquefacendo quei danari entro una padella di fuoco, poscia così liquefatti gli gettavano giù per la gola di quell’avaro, gridando con voci d’inferno… già che foste tanto interessato, ed avesti tanta sete d’oro e d’argento: saziati, saziati! Vide il giovane, e veduto, più morto che vivo, se ne fuggì, narrandone nel dì seguente il fatto. – E se l’avarizia, miei UU., come radice è difficilissimo svellerla, come radice altresì sarà madre maledetta, da cui pullulerant quanti son peccati nel mondo. Non me lo credete? Meco scorrete quanti sono i comandamenti di Dio, e troverete, così non fosse, tutti, ma tutti violarsi per questo maledetto peccato dell’avarizia. Attenti! Idolatra l’avaro, perché in luogo di Dio adora l’oro, le ricchezze, la roba. L’avaro non santifica le feste, perché intento agl’interessi di lucro, tralascia la Messa nei dì festivi, e si pone a lavorare come le fosse giorno feriale. Comanda Iddio che si onori e padre, e madre; ecco che il figlio di cuore avaro, non solo non onora, ma positivamente strapazza e padre e madre, perché accorati se ne muoiano, e a lui resti il maneggio. Vuole Iddio, che non si pigli la robba d’altri, e l’avaro è solo intento a spogliarne il prossimo. Ah vizio, vizio pessimo dell’avarizia! Che come vera radice d’ogni vizio sei madre d’ogni iniquità. Non fornicare è strettissimo comando: Dio immortale! O come facilmente si trasgredisce questo precetto per l’avarizia! Quante fanciulle vendono il bel fiore della verginità? quante maritate tirate dall’avarizia contaminano il letto coniugale? Quante vedove macchiano il loro decoro. È precetto Divino: non pigliare il nome di Dio invano; e pure molti vogliono afferire i loro detti con giuramenti, e autenticarli con gli spergiuri; basta che vi sia la sola speranza del danaro, che subito si rende facile ad inghiottire la pillola dello spergiuro, perché coperta con foglia d’oro o d’argento, anche ne’ Tribunali a lla rovina del prossimo. Si sì, radix omnium malorum cupiditas; come radice produce ogni male. Sta col dito di Dio registrato: avverti non ammazzare; chi pone il ferro in mano di quell’omicida se non l’avarizia? Pochi impugnano le armi contro l’inimico che non abbiano per guida l’avarizia: radix omnium malorum cupiditas; l’avarizia, come radice, produce tutti i mali; e l’avaro, non solo è trasgressore d’un precetto di quanti ne prescrive l’Altissimo. Ne volete di peggio? Passa ancora l’avarizia alla mala educazione de’ figli. Attenti. S’accorge quella Madre, di quanto pericolo sono alla sua figlia quelle veglie, e quei festini, ne’ quali per lo più a lume di torcia e preparano i funerali alla pudicizia o già morta, o pur moribonda. Ma che? per quella maledetta speranza di maritarla con poco condiscende che ella si trovi ad ogni ricreazione con i favoriti. Quel padre di cuore tutto avaro per attendere con ansietà ai negozi, abbandona la cura della famiglia e lascia la briglia sul collo a’ figli e sebbene potrebbe con dar moglie a più d’uno, sanar la piaga della disonestà, che sa marcia, non se ne cura; e si dice, che l’utile di casa non comporta tante famiglie, e se la figlia sposata per avarizia, a persona che ella non voleva, ma facoltosa, si dannerà, tal sia di loro. E mi si replica, che la roba toglie l’orrore a quanti peccati possono derivare da un matrimonio fatto per forza: basta che per sensale d’esso si presenti l’avarizia, ed ogni Matrimonio è Beato. Né qui pur finisce il male d’un padre avaro si spinge da lui talora per forza agli Ordini Sacri, chi nemmeno è buono per servir la Messa, non che per dirla e si procurano le Chiese, e le cure per chi è più atto a divorar la gregge, che a pascerla. Ah maledetta avarizia; chi potrà mai raccogliere il numero de’ pestiferi frutti, che tu come radice, produci? Basta il dire, che fai voltar le spalle a Dio. – Nel sacro libro de’ Giudici si racconta, come v’era un cert’uomo nobile detto Mica, il quale avendo fabbricato in una villa un picciolo tempio, bello, devoto, decente; v’aveva posto per Sacerdote un Levita ebreo, e trattandolo da Figliuolo, quasi unum de Filiis, gli aveva assegnato appartamento ornato, vestimenti doppj, stipendio grosso, alimenti quotidiani; e forse perché egli avesse danaro da spendere, dice il sacro testo, che impleverat illi manum . Immaginatevi pare, che a tante finezze di Mica, corrispondeva con amor vero il Sacerdote. Avvenne un giorno che entrati alcuni soldati della tribù di Dan nel tempio, pretesero di svaligiarlo. Allora il Sacerdote tanto favorito da Mica, senza temere né gli insulti, né le spade, si pose a difendere i sacri arredi, Quid facitis? Quid facitis? Certo non può negarsi, che si portò come doveva. Ma piano, i soldati nel veder tanta resistenza, gli dissero: eh sta cheto; pensa lo stato tuo. Tu di piovano pezzente, e di pretazzuolo meschino, se farai a nostro modo, diverrai amministratore di cura molto maggiore, Tace, venique nobiscum, ut babeamus te Patrem, Sacerdotem. Quando il buon uomo senti lucro maggiore, chiuse gli occhi a’ benefizi di Mica, il primo di tutti cominciò a saccheggiar di propria mano l’altare, a spogliar le mura, vuotar le credenze, e a gran passi ne volò via con i soldati. Dite pure, se potete, che l’avarizia non sia madre feconda di tutti i mali; ed esclamate con Valeriano: Nihil est malum, quod cupiditas, aut non concipiat, aut non nutriat, aut non parturiat. Ma se l’interesse produce tutti i vizi, converrà che Iddio punisca l’interessato con tutti i castighi temporali ed eterni. Certo che sì, udite e sentite le rovine che porta in questo mondo l’avarizia, l’interesse vizioso. Chiama un giorno il Signore Zaccaria e gli dice: Zaccaria, Zaccaria, vedi tu nulla per aria? Zaccaria alzati gli occhi verso il cielo, guarda e risponde: sì mio Dio, se non erro, video volumen volans, un libro che va svolazzando per l’aria. Ma mi sapresti tu dire, replica Iddio, ciò che vi stia scritto? Signore, confesso il vero, che bene non discerno; pure mi pare di leggervi una spaventosa minaccia; così è, dice Iddio: l’hai indovinata; ecco le parole che vi stanno registrate: hæc est maledictio, quæ egredietur super faciem terræ. Ella è una maledizione che ha da piombare sopra la terra, e dove mai andrà a cadere un fulmine sì spietato? Povera casa! Io ti vedo in terra, ti vedo rovinata fino da’ fondamenti, se sopra di te viene questa gran maledizione. Ecco che piomba e dove s’invia? Oh Dio! … ad domum furis, ch’è quanto dire: allo sterminio di chi tiene roba non sua; ad domum furis, a chi non paga legati pii, a chi non soddisfa le religiose de’ livelli; ad domum furis, a chi ritiene mercedi, chi non paga i suoi debiti potendo, e fa che peni il suo creditore. Si, sì, tenete pur corte le misure o mercanti, tenete pur scarsi i pesi, bagnate le seti, perché crescano di peso; tenete il grano all’umido, perché ingrossi, le tende alle botteghe, perché non si vedano le magagne delle mercanzie; seguitate pure a fare, che l’industria ne’ vostri traffici in altro non consista, che in tramar frodi, e pigliare usure; ma aspettatevi poi la maledizione divina, la quale vi stermini; vi verranno malattie, che per mesi ed anni vi terranno attratti; i fiumi ingrossati inonderanno le vostre campagne; perderete de liti; i fulmini atterreranno le vostre case; uccideranno i vostri armenti; E quello che è peggio, questa maledizione non verrà come di passaggio, ma commorabitur in medio domus ejus, si fermerà, si stabilirà nel mezzo della casa di chi ha roba altrui. – Avvertite, che Dio si protesta, che queste disgrazie s’hanno da stabilire nella vostra casa. Poveri Figli, che siete figli di padri interessati, che hanno acquistato malamente; sarete sempre infelici; non avrà pace la vostra casa. E se voi non me lo credete, ve lo confermi il fatto di Cristo in S. Luca, quando Zaccheo ravvedutosi, disse a Cristo: si quid aliquem defraudavi, reddo quadruplum; ed il Signore, che rispose? Hodie huic domui salus a Deo facta est. Ma voi mi direte: e che risposta è questa? Pareva, che dovesse dire huic homini, perché Zaccheo era stato l’operator de’ furti, delle frodi; e perciò era pronto a rifare danni; onde tutta sua doveva esser la salute. Sì, ma il Signore l’intese meglio, e però disse: huic domui, perché vedeva apertamente che se Zaccheo non restituiva, non farebbe stato solo a patire, ma con esso lui la casa, i discendenti. Su dunque, quando non vogliate rovinati i Figli, né pur la vostra casa. Voltate le spalle all’avarizia: restituite l’altrui, e contentatevi di restar con meno, per non rimaner privo del tutto; poiché chi non rende l’altrui, perde con l’altrui anche il proprio: tanto vi fa intendere Iddio nelle sacre carte per Giobbe Divitias, quas devoraverit, evomet, et de ventre illius extrahet illas Deus. Io , dice Iddio, con le mie proprie mani e non con quelle d’un Angelo, voglio aprirgli il ventre, e fargli vomitar fuori quanto possiede e d’altri proprio, giusta la proprietà del vomito, che necessita a rendere col cattivo, anche il buono. Pazzo dunque chi non restituisce, chi non paga, chi non si sgrava delle altrui sostanze, perché perderà non solo quello, che non è suo, ma anche il proprio. Se l’avarizia è radice di tutti i mali, deve esser castigata con tutti i castighi temporali ed eterni; già i temporali ve li ho espressi: veniamo ora agli eterni. Ecco, che ve li minaccia Paolo Apostolo, neque fures, neque raptores, neque avari Regnum Dei possidebunt. Siete esclusi dal Paradiso, o voi, che prendete, che ritenete la roba altrui; né v’è altro modo per salvarvi, che restituire, e presto. E se vi esclude dal Paradiso l’Apostolo, vi condanna all’inferno lo stesso Dio nelle sacre carte, allorché con quel veæ tremendo, che secondo gli espositori, connota l’Inferno, più volte ve lo minaccia, Veæ, qui prædaris; veæ, qui congregat non sua, guai a te che rubbi, che ritieni roba d’altri, che defatighi a torto nella lice il tuo prossimo, che scemi agli operarj la dovuta mercede e in vece di danaro, dar loro il fracidume della bottega a prezzo il più rigoroso, a cui si dia la mercanzia più perfetta: Veæ, qui prædaris, guai a te, che non paghi legati pii, che non soddisfi alle Messe. Veæ, qui congregat non sua; chi è quello che raduna della robba non sua? quello che non fa limosina, perché quella robba è del povero: Veæ, Veæ, Veæ, e tutti questi veæ non dicono altro, che Inferno, Inferno, Inferno. O Avari, pazzi, che siete, mentre per poco danaro vi comprate l’Inferno, e perdete il Paradiso, mentre più stimate i beni da lasciarsi agli eredi, che l’anima vostra: mentre che con la roba altrui vi stabilite per fondo l’inferno per ritrarne in frutto perpetuo la dannazione. Udite successo spaventoso. Racconta Sant’Antonino Arcivescovo di Firenze nella sua Somma il seguente caso. Si trovava vicino a morte uno di questi ingrassati con la roba altrui, e quantunque esortato da’ Sacerdoti à restituire, mai si volse indurre. I figli desiderosi della salute del padre, si adoperarono anch’essi, ma senza frutto; giacché loro rispose l’iniquo padre: figli, se restituisco e campo, non ho con che vivere; se restituisco e muoio, non avete con che viver voi. A noi, ripresero i figli, non pensate signor padre; siamo contenti d’esser poveri, pur che voi salviate l’anima. Allora il padre mirandoli con occhio torbido, disse loro: tacete ché non avete cervello, e non sapete ancora esser più pietoso Iddio degli uomini. Se io son peccatore, posso sperar da Dio misericordia; ma se voi farete mendici, non avrete compassione dagli uomini, e così persuaso se ne morì. Quanta fosse l’impressione fatta nell’animo de’ figli per questo accidente, immaginatevelo voi. Uno tutto volle restituire, l’altro tutto volle ritenere: Quello che restituì si fece religioso di San Francesco, l’altro finì miseramente la vita. Or, mentre il religioso se ne stava una notte in alta contemplazione, gli si aprì sotto degli occhi una gran voragine e vide tra quei tormenti di fuoco e di fiamme, tra una gran folla di dannati e padre, e fratello, i quali afferrati insieme à guisa di due mastini arrabbiati, svellendosi i capelli, sgraffiandosi il viso reciprocamente. Per te maledetto figlio, diceva il padre, tanto patisco; ed io per te, replicava il figlio: meglio era che io generassi un serpe, diceva il padre; meglio era, diceva il figlio, che io fossi generato da un’orso. Tu mi bruci, o figlio; tu mi bruci, o padre. Questo è il fine di coloro che si procacciano la roba del prossimo, e son macchiati di avarizia. Fuggite o Cristiani il vizio dell’avarizia; se avete robba altrui, restituite subito; fe non vi è certo il padrone, dispensatela a’ poveri di Cristo, ma non tardate, perché quanto più tardate, tanto più l’interesse si radicherà nel vostro cuore; modum non habet avaritia, dice Sant’Ambrogio, nec capiendo impletur, sed incitatur; l’avidità dell’oro è una catena d’oro che non finisce mai, ed è à guisa della fiamma, che quanto più vi si aggiunge di legna più s’accende, e si rende inestinguibile, inflammatur auro avaritia, non extinguitur. Lasciate dunque questa maledetta avarizia, che vi porta tanta rovina; e se voi non la lasciate, quantunque si promulghino indulgenze, vengano Giubilei, tornino gli Anni Santi, nulla vi giova. Bisogna restituire, se volete godere questi tesori: o restituire, o dannarsi. Altro non vi è che possa scusarvi dal non restituire, che l’impotenza del non avere. Ma avvertite bene, che sia impotenza e che più tosto non sia un non volere, perché in tal caso, ancorché vi confessiate, il Sangue di Cristo, invece di lavarvi, vi avvelena, si res propter quam peccatum est, reddi po test, et non reddatur, pœnitentia, dice Sant’Agostino non agitur, sed simulatur. Pensate a’ casi vostri … LIMOSINA.
Felici gli uomini se non fossero avari; hanno questi nell’oro, come osservò Aristotile, un instromento generale equivalente ad ogni altro bene commutabile; ond’è, che con loro si può aver tutto; il danaro è quello che metitur omnia. Aristotele, quando asserì questa verità, che chi ha danaro ha tutto, parlò de’ beni di questo mondo; ed io passo più avanti, e dico che l’oro ha la stessa potenza anco in cielo. Distribuite limosine à proporzione delle vostre facoltà, e fiate sicuri che col danaro dato a poveri, comprerete il Paradiso: e sarà un restituire a Dio , ciò che è di Dio.
PARTE SECONDA
Due sorti d’avarizia distingue S. Tommaso, ambedue gravemente peccaminosa, l’una contro la liberalità, l’altra contro l’avarizia. Or io sento taluno che mi dice: come si potrà conoscere se io nel mio cuore nutrisco quell’avarizia peccaminosa contro la liberalità, oppure ho quella cura che mi si deve, come capo di casa. Sant’Agostino v’insegna il modo; babes et concupiscis; plenus es, et sitis morbus est. Ditemi, come si distingue la sete naturale d’un uomo sano, da quella d’un idropico? Ecco: la sete naturale con una buona bevanda si appaga, la sete dell’Idropico con una buona bevanda si accresce. Se voi vedete che vi contentate di vivere nel vostro stato, sevi soddisfate d’una moderata raccolta, la sete vostra è d’uomo sano perché si sazia; ma se poi mai non state contento della sorte vostra, sempre più vorreste avere; se quando avete pieni i granai, bramate carestia per vendere bene il frumento; se trattate co’ poveri a tutto rigore, senza vedervi mai pieno del loro sangue; se non fate limosine, cercate pure un buon medico che vi curi, perché state male assai assai: la vostra sete è sete d’idropico, e questa sete, siccome nella infermità del corpo, così in quella dell’anima non si estingue, se non con sminuire la bevanda, che vuol dire con la limosina … Come potrò altresì conoscere se pecco d’avarizia contraria alla giustizia? Ecco il modo: hai tolto la roba al tuo prossimo? fai d’avere niente d’altri, o preso da te, o lasciatoti da tuoi maggiori. Restituisci! Ma tu subito a questa parola: “restituisci” principii a storcerti, a scusarti, con dire: io non restituisco non perché sia interessato, ma per non decadere dal mio stato. Oh quanto la discorri male! Tu non restituisci, non perché non vuoi decadere dal tuo stato, ma perché la vuoi fare da più di quel, che sei. Il figlio d’un contadino la vuol fare da bottegaro, da mercante il rivendugliolo, il mercante da nobile, il nobile da cavaliere, la figlia di quell’ignobile da gentildonna, da dama, con pompe, con sfoggi altrettanto dispendiosi alla borsa, quanto dannosi all’anima per l’immodestia. State nel vostro stato, così avrete comodo di restituire. – Altri dicono che gli impegni ne’ quali al presente si trovano, non permettono loro restituire, perché bisogna mantengano quello stato in cui Dio li ha fatti nascere; ma che però ne lasceranno strettissimo l’obbligo agli eredi. Gli eredi, replico io, credete voi che abbino da restituire ciò che voi avete tolto e fraudato per arricchirli? V’ingannate! Sappiate che stenteranno e suderanno a pagare quel semplice legato pio, e si eleggeranno piuttosto ad avere scomuniche addosso che soddisfarlo. Stenteranno a farvi celebrare quelle poche Messe nel giorno del mortorio più per apparenza pomposa che per stimolo di coscienza, e per amore verso l’anima vostra. O pensate voi, se vorranno restituire le grosse somme, non lo faranno, e vi lasceranno penare gli anni e anni nel Purgatorio, se pur non sarete sepolti nell’inferno, come è più probabile; mentre, ora che siete vivi, potete restituire, e non restituite, così dice l’Angelico, il quale afferisce che quilibet tenetur statim restituere si potest, vel petere dilationem, e devi restituir presto, se puoi; o devi dimandare dilazione; altrimenti sei in stato di dannazione. – Un certo Conte aveva rapiti alla Chiesa di Metz alcuni campi, e morendo, li aveva lasciati a’ Figli; sicché di mano in mano l’iniquo acquisto era già passato al decimo erede. Quando da un sant’uomo fu veduta una lunga scala posar giù nell’inferno, per la quale di grado in grado scendevano colaggiù gli iniqui possessori, che, non ostante le intimazioni de’ Sacerdoti, non avevano mai voluto rendere il suo alla Chiesa. Ecco quello che partorì l’iniquo acquisto tutti gli eredi a casa del diavolo; fœnus pecunia, dice San Leone , funus est Animæ, o restituzione, o dannazione. Altri vi sono, che son risoluti di restituire; ma come il mare che, doppo avere assorbite le navi intere, appena ne rende alle spiagge pochi avanzi, e questi laceri; s’inducono a restituire parte del debito, per prendere tutta l’anima. – Padre, sento per ultimo chi mi dice: io non restituisco, perché non ho, e neppure posso obbligare i miei eredi, perché la mia casa sta troppo male; voi, che un potete restituire, potete andar a spasso? certo che sì: lavorate dunque, e restituite. Potete spendere per le bettole? Desistete e pagate. Signora, avete danari per fare quella maledetta usanza? lasciate tanti ornamenti, e restituite. Amico, dimmi, puoi mantenere così non fosse!… tu m’intendi; e via tacete, e liberamente dite che non restituite, perché non volete restituire. Non pensate già d’ingannare Cristo, con dire, non posso, come ingannare il confessore. – Sacri ministri della Penitenza, padri confessori, assolverete voi chi vi adduce una tale scusa? Avvertite bene, perché parlano così subornati dall’avarizia, dall’interesse, pochi son quelli, che in realtà non possano; e se voi avrete indizio che siano scuse: non li assolvete; perché per lo più la facoltà dell’assoluzione è quella che non fa ridurre all’atto la restituzione, la quale sempre resta una mera velocità, mentre non si riduce all’esecuzione. Guai, ma guai grandi a chi è tocco dall’avarizia. Costui commette continui sacrilegi; perché ogni volta che si confessa, promette di restituire con la lingua, ma non col cuore; perché può e non restituisce. Orsù, io finora ho esortato a far limosina, per non peccare di quella avarizia ch’è contraria alla liberalità, ho esortato a restituire il mal tolto, il mal posseduto; ma sento rispondermi con le parole d’Ambrogio: pulcher sermo, sed pulchrius aurum; il discorso è buono, ma la roba altrui è migliore, perché quando non fò limosina, mi cresce la roba in casa, quando ritengo l’altrui son più comodo. Si è? Ed io vi dico, ed ho finito, e datemi ben mente, perché è Dio che vi parla per bocca mia: ed io vi dico che se non renderete la roba a chi si deve, renderete l’anima al diavolo.
CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA, DEL MESE DI MARZO 2023
MARZO è il mese che la Chiesa dedica a SAN GIUSEPPE, dichiarato da Pio IX l’8 Dic. 1870 Patrono della Chiesa!
S. Teresa e S. Giuseppe.
Ecco quanto dice: « Invoco S. Giuseppe come patrono e protettore e non cesso di raccomandarmi a lui: il suo soccorso si manifesta in modo visibilissimo. Questo tenero protettore dell’anima mia, questo amabilissimo padre, si degnò di trarmi dallo stato in cui languiva il mio corpo e di liberarmi da pericoli assai più gravi che minacciavano il mio onore e la mia salvezza eterna. In più, mi ha esaudita sempre, più di quanto sperassi e di quanto chiedessi. Non ricordo di avergli chiesto qualcosa e che non me l’abbia accordato. Quale ampio quadro io potrei esporre, se mi fosse accordato di conoscere tutte le grazie di cui Iddio m’ha colmata e i pericoli, sia dell’anima che del corpo, da cui m’ha liberata per intercessione di questo amabilissimo Santo! L’Altissimo dona ai santi quelle grazie che servono per aiutarci in certe circostanze; il glorioso S. Giuseppe – e lo dico per esperienza – estende il suo potere su tutto. Con questo, il Signore vuole mostrarci che, come un giorno fu sottomesso all’autorità di Giuseppe, suo padre putativo, così ancora in cielo, si degna di accettare la sua volontà, esaudendo i suoi desideri. Come me, l’hanno costatato per esperienza, quelle persone alle quali ho consigliato di raccomandarsi a questo incomparabile protettore; il numero delle anime che lo onorano cresce di giorno in giorno, e i felici successi della sua mediazione confermano la verità delle mie parole ». Per soddisfare questi desideri e per venire incontro alla devozione del popolo cristiano, il 10 settembre 1847, Pio IX estese alla Chiesa universale la festa del Patrocinio di S. Giuseppe che fino allora era celebrata soltanto dai Carmelitani e da qualche chiesa. In seguito, S. Pio X aumentò il valore di questa festa, onorandola di una Ottava e Pio XII, volendo dare un particolare patrono a tutti gli operai del mondo, ha istituito una nuova festività da celebrarsi il Primo Maggio; per questo motivo, venne soppressa quella del secondo mercoledì dopo Pasqua, e la festa del 19 marzo ricorda S. Giuseppe quale Sposo della Vergine e Patrono della Chiesa universale. (Dom Gueranger: L’Anno liturgico. Vol. I, Ed. Paoline – Alba,1956)
Queste sono le feste del mese di Marzo 2023
1 Marzo Feria Quarta Quattuor Temporum Quadragesimæ – Simplex
2 Marzo Feria Quinta infra Hebd I in Quadr. – Simplex
3 Marzo Feria Sexta Quattuor Temporum Quadragesimæ – Simplex
4 Marzo Sabbato Quattuor Temporum Quadragesimæ– Simplex
S. Casimiri Confessoris- Semiduplex *L1*
5 Marzo Dominica II in Quadr. – Semiduplex I. classis
6 Marzo Ss. Perpetuæ et Felicitatis Martyrum Duplex
7 Marzo S. Thomæ de Aquino Confessoris et Ecclesiæ Doctoris Duplex
8 Marzo S. Joannis de Deo Confessoris – Duplex
9 Marzo S. Franciscæ Romanæ Viduæ – Duplex
10 Marzo Ss. Quadraginta Martyrum – Semiduplex
12 Marzo Dominica III in Quadr. – Semiduplex I. classis
S. Gregorii Papæ Confessoris et Ecclesiæ Doctoris -Duplex
17 Marzo S. Patricii Episcopi et Confessoris – Duplex
18 Marzo S. Cyrilli Episcopi Hierosolymitani Confessoris et Ecclesiæ Doctoris – Duplex
19 Marzo Dominica IV in Quadr. – Semiduplex I. classis
20 Marzo S. Joseph Sponsi B.M.V. Confessoris – Duplex I. classis *L1* (transfer)
21 Marzo S. Benedicti Abbatis – Duplex majus *L1*
24 Marzo S. Gabrielis Archangeli Duplex majus *L1*
25 Marzo In Annuntiatione Beatæ Mariæ Virginis – Duplex I. classis *L1*
27 Marzo S. Joannis Damasceni Confessoris – Duplex m.t.v. *L1*
29 Marzo S. Joannis a Capistrano Confessoris – Semiduplex m.t.v.
31 Marzo Septem Dolorum Beatæ Mariæ Virginis – Duplex majus
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Sette Dolori ed Allegrezze di S. Giuseppe.
I. Sposo purissimo di Maria, glorioso s. Giuseppe siccome fu grande il travaglio e l’angustia del vostro cuore nella perplessità di abbandonare la vostra illibatissima Sposa; così fu inesplicabile l’allegrezza, quando dall’Angelo vi fu rivelato il Mistero sovrano dell’Incarnazione. — Per questo vostro dolore, e per questa vostra allegrezza preghiamo di consolar ora e negli estremi dolori l’anima nostra coll’allegrezza di una buona vita e di una santa morte somigliante alla vostra in mezzo di Gesù e di Maria. Pater, Ave e Gloria.
II. Felicissimo Patriarca, glorioso S. Giuseppe, che trascelto foste all’ufficio di Padre putativo del Verbo umanato, il dolore che sentiste nel veder nascere con tanta povertà il Bambino Gesù, vi si cambiò subito in giubilo celeste nell’udire l’armonia angelica, e nel vedere le glorie di quella splendentissima notte, — Per questo vostro dolore, per questa vostra allegrezza vi supplico di impetrarci, che dopo il cammino di questa vita ce ne passiamo ad udir le lodi angeliche, ed a godere gli splendori della celeste gloria. Pater, Ave, Gloria.
III. Esecutore obbedientissimo delle divine leggi, glorioso S. Giuseppe, il Sangue preziosissimo che sparse nella Circoncisione il Bambino Redentore vi trafisse il cuore, ma il Nome di Gesù ve lo ravvivò riempiendolo di contento. — Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza otteneteci, che tolto da noi ogni vizio in vita col Nome santissimo di Gesù nel cuore e nella bocca giubilando spiriamo. Pater, Ave, Gloria.
IV. O fedelissimo Santo, che a parte foste dei Misteri della nostra Redenzione, glorioso S. Giuseppe, se la profezia di Simeone di ciò che Gesù e Maria erano per patire, vi cagionò spasimo di morte, vi ricolmò ancora di un beato godimento per la salute e gloriosa risurrezione, che insieme predisse dover seguire di innumerabili anime. — Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza, impetrateci che noi siamo nel numero di quelli, che pei meriti di Gesù, e ad intercessione della Vergine Madre hanno gloriosamente a sorgere. Pater, Ave e Gloria.
V. O vigilantissimo Custode, famigliare intrinseco dell’Incarnato Piglio di Dio, glorioso S. Giuseppe, quanto penaste in sostentare e servire il Figlio dell’Altissimo, particolarmente nella fuga, che doveste fare in Egitto: ma quanto ancora gioieste avendo sempre con voi lo stesso Dio, e vedendo cadere a terra gli idoli Egiziani. — Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza impetrateci, che tenendo da noi lontano il tiranno infernale, specialmente con la fuga delle occasioni pericolose, cada dal nostro cuore ogni idolo di affetto terreno: e tutti impiegati nella servitù di Gesù e di Maria, per loro solamente da noi si viva e felicemente si muoja. Pater, Ave e Gloria.
VI. O Angelo della terra glorioso S. Giuseppe, che ai vostri cenni ammiraste soggetto il Re del Cielo, se la consolazione vostra, nel ricondurre dall’Egitto intorbidossi col timore di Archelao; assicurato nondimeno dall’Angelo, lieto con Gesù e Maria dimoraste in Nazaret. — Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza impetrateci, che da timori nocivi sgombrato il cuore, godiamo pace di coscienza, e sicuri viviamo con Gesù e Maria e fra loro ancora moriamo. Pater, Ave, Gloria.
VII. O esemplare di ogni santità glorioso San Giuseppe, smarrito che aveste senza vostra colpa il fanciullo Gesù, per maggior dolore tre giorni lo cercaste, finché con sommo giubilo godeste della vostra Vita ritrovata nel tempio fra i Dottori. — Per questo vostro dolore e per questa vostra allegrezza vi supplichiamo col cuore sulle labbra ad interporvi, onde non ci avvenga mai di perdere con colpa grave Gesù; ma se per somma disgrada lo perdessimo, tanto con indefesso dolore lo ricerchiamo, finché favorevole lo ritroviamo, particolarmente nella nostra morte, per passare a goderlo in Cielo, ed ivi con voi in eterno cantare le sue divine misericordie. Pater, Ave e Gloria
Antiph. Ipse Jesus erat incipiens quasi annorum triginta, ut putabatur Filius Joseph.
V. Ora prò nobis Sancte Joseph.
R. Ut digni efficiamur promissionibus Christi.
OREMUS.
Deus, qui ineffabili providentia Beatum Joseph sanctisimæ Genitricis tuæ sponsum eligere dignatus es: presta quæsumus, ut quem Protectorem veneramur in terris, intercessorem habere mereamur in cœlis. Qui vivis et regnas in sæcula sæculorum. Amen.
INDULGENZE PER LE 7 ALLEGREZZE ED I 7 DOLORI E PER LE DOMENICHE DI S. GIUSEPPE.
A sempre più infervorare i fedeli nella divozione a S. Giuseppe, a chiunque pratica il suesposto esercizio dei suoi sette Dolori ed Allegrezze, Pio VII il 9 dic. 1819 accordò l’Ind. Di 100 giorni una volta al giorno, e di 300 in ogni Mercoledì nonché in tutti i nove giorni precedenti così la sua festa, 19 Marzo, come quella del suo Patrocinio nella III Dom., dopo Pasqua, oltre la Plen. in dette due feste, ricevendo i SS. Sacramenti. Più ancora Indulg. Plen. a coloro che l’avranno praticato per un mese intero in un giorno a scelta, confessandosi e comunicandosi. — Inoltre Gregorio XVI, 22 Gen. 1836, concesse a chi lo praticherà per 7 continue domeniche fra l’anno, da scegliersi ad arbitrio, Indulg. Di 300 giorni in ciascuna delle prime 6 domeniche e la Plen. nella settima Confess. e Comunic. — Pio IX in seguito, l Febbr. 1817, confermò le sudd. Indulg. E vi aggiunse indulg. Plen. in ciascuna delle 7 domeniche purché, premesso il sudd. Esercizio, e ricevuti i SS. Sacramenti si visiti una chiesa, pregandovi secondo la mente di S. Santità. La quale ultima concessione lo stesso Pont. 22 Marzo 1847, la estese a favore anche di coloro, che non sapendo leggere reciteranno solamente i 7 Pater, Ave e Gloria, adempiendo però le surriferite condizioni. [Manuale di Filotea del sac. G. Riva, XXX ed. Milano, 1888]
Ench. Indulg. N. 469:
Ai fedeli che davanti ad un’immagine di San Giuseppe, reciteranno devotamente un Pater, Ave, e Gloria con l’invocazione: Sancte Joseph, ora pro nobis, si concede:
Indulgentia trecentorum dierum:
Indulgentia Plenaria s. c. a coloro che avranno piamente perseverato nella recita, ogni giorno per un intero mese (S. Pænit. Ap., 12 oct. 1936).
Ench. Indulg. N. 466:
Ai fedeli che nel mese di MARZO, o per giusto impedimento in altro mese dell’anno, praticheranno devotamente in pubblico, un pio esercizio in onore di San Giuseppe, Sposo della B. V. M., si concede:
Indulgentia di sette anni per ogni giorno del mese;
Indelgentia Plenaria, se praticato per almeno 10 volte nel mese, se confessati e comunicati pregheranno per le intenzioni del Sommo Pontefice.
Se poi nel mese di marzo, sarà praticata privatamente una preghiera o altra opera di pietà in ossequio a San Giuseppe Sposo della B. M. V., si concede:
Indulgentiadi 5 anni ogni volta in ogni giorno del mese;
Indulgentia Plenaria, s. c. se si pratica per un mese (S. C. Indulg. 27 Apr. 1865; S. Pæn. Ap., 21 Nov. 1933)
Ench. Indulg. N. 467
Ai fedeli che praticheranno pubblicamente il pio esercizio della novena in suo onore, prima della festa di San Giuseppe, Sposo di B. M. V. si concede:
Indulgentia sette anni per ogni giorno della novena;
Indulgentia Plenaria, se confessati sacramentalmente, comunicati e pregando per le intenzioni del Sommo Pontefice, sarà praticato per almeno cinque durante la novena. Se praticato privatamente, si concede:
Indulgentia di cinque anni per ogni giorno della novena;
Indulgentia Plenaria, suet. cond. al termine della novena, a chi sia legittimamente impedito al pubblico esercizio. (S. C. Ind. 26 nov. 1876; S. Pænit. Ap., 4 Mart. 1935).
Fac nos innocuam, Ioseph, decurrere vitam,
Sitque tuo semper tuta patrocinio.
(ex Missali Rom.).
Indulgentia trecentorum (300) dierum.Indulgentia plenaria suetis conditionibus, invocationquotidie per integrum mensem pie recitata (S. C. Indulg.,
hymni recitatione in integrum mensem producta (S. Pæn.Ap., 9 febr. 1922 et 13 iul. 1932).
– 464 –
Salve, Ioseph, Gustos pie
Sponse Virginis Mariae
Educator optime.
Tua prece salus data
Sit et culpa condonata
Peccatricis animae.
Per te cuncti liberemur
Omni poena quam meremur
Nostris prò criminibus.
Per te nobis impertita
Omnis gratia expetita
Sit, et salus animae.
Te precante vita functi
Simus Angelis coniuncti
In cadesti patria.
Sint et omnes tribulati
Te precante liberati
Cunctis ab angustiis.
Omnes populi laetentur,
Aegrotantes et sanentur,
Te rogante Dominum.
Ioseph, Fili David Regis,
Recordare Christi gregis
In die iudicii.
Salvatorem deprecare,
Ut nos velit liberare
Nostrae mortis tempore.
Tu nos vivos hic tuere
Inde mortuos gaudere
Fac cadesti gloria. Amen.
Indulgentia trium (3) annorum (S. Pæn. Ap., 28 apr.1934).
– 473 –
Virginum custos et Pater, sancte Ioseph, cuius
fideli custodiæ ipsa Innocentia, Christus Iesus,
et Virgo virginum Maria commissa fuit, te per
hoc utrumque carissimum pignus Iesum et Mariani
obsecro et obtestor, ut me ab omni immunditia
præservatum, mente incontaminata, puro
corde et casto corpore Iesu et Mariæ semper
facias castissime famulari. Amen.
(Indulgentia trium (3) annorum.
Indulgentia septem (7) annorum singulis mensis marti:
diebus necnon qualibet anni feria quarta.
Indulgentia plenaria suetis conditionibus, oratione quotidieper integrum mensem pia mente iterata (S. C. Indulg.,4 febr. 1877; S. Paen. Ap., 18 maii 1936 et 10mart. 1941)
-475-
Memento nostri, beate Ioseph, et tuæ orationis
suffragio apud tuum putativum Filium intercede;
sed et beatissimam Virginem Sponsam
tuam nobis propitiam redde, quae Mater est
Eius, qui cum Patre et Spiritu Sancto vivit et
regnat per infinita saecula saeculorum. Amen.
(S. Bernardinus Senensis).
Indulgentia trium annorum.
Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodoquotidie per integrum mensem oratio devote recitata fuerit
(S. C. Indulg., 14 dee. 1889; S. Paen. Ap., 13 iun.1936).
– 476 –
Ad te, beate Ioseph, in tribulatione nostra
confugimus, atque, implorato Sponsæ tuæ
sanctissimæ auxilio, patrocinium quoque tuum fidenter
exposcimus. Per eam, quæsumus, quae
te cum immaculata Virgine Dei Genitrice coniunxit,
caritatem, perque paternum, quo Puerum
Iesum amplexus es, amorem, supplices deprecamur,
ut ad hereditatem, quam Iesus Christus
acquisivit Sanguine suo, benignius respicias,
ac necessitatibus nostris tua virtute et ope
succurras. Tuere, o Custos providentissime divinae
Familiae, Iesu Christi sobolem electam;
prohibe a nobis, amantissime Pater, omnem errorum
ac corruptelarum luem; propitius nobis,
sospitator noster fortissime, in hoc cum potestate
DI FULVIO FONTANA Sacerdote e Missionario DELLA COMPAGNIA DI GESÙ
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA SESTA
Nella Feria terza della Domenica prima.
Esser necessaria una ferma vigilanza per guardarsi dalle piccole cadute, che per lo più fanno strada a gran precipizj.
Cathedras vendentium Columbas evertit. S. Matt. cap. XXI
Sarà sempre degno d’encomj colui che con invenzione non mai abbastanza lodata, fabbricò con tale artifizio, nella gran sala di Dionigi in Siracusa, un meraviglioso orecchio di Saffo, da cui per lunghe ritorte, e piccolissime strade giungeva all’udito del Monarca, assiso nel suo proprio gabinetto, quanto dagl’incauti cortigiani si proferiva. Di questa corte sì, con verità poteva asserirsi ciò che d’altre figuratamente si dice, non v’esser muro che non osservi, angolo che non parli, né trave, né pietra che non accusi, mentre ogni sillaba articolata, ogni accento proferito passava al prodigioso orecchio di Saffo, e da questo saliva all’ orecchio curioso del Re; or sappiate, e non ve ne ha dubbio, che per impedire l’effetto d’opera sì degna, nulla di più vi voleva che tramezzarsi a quelle piccolissime vie un minutissimo grano di frumento. Quanto fu degna l’invenzione di costui nella fabbrica dell’orecchio di Saffo, altrettanto è dannosa l’astuzia del demonio, che con le diaboliche sue invenzioni ha trovato modo con cui render di Saffo l’orecchio dell’uomo alle voci di Dio; e quel che deve deplosarsi a lacrime di sangue è che per impedire questa corrispondenza della voce di Dio all’orecchio dell’uomo, si serve di cose minutissime, di piccoli errori, di cose che tal volta si stimerà vestire innocenza di colombe. No, no, anche queste vuol Cristo che si sbandiscano da noi, perché queste, benché piccole, a poco a poco fan la strada alle maggiori, le quali poi induriscono talmente il cuor del peccatore, che è quasi, dissi, impossibile, che più si ammollisca alle voci Divine. – Piaccia a Dio che le mie fatiche per più d’uno, non siano buttate al vento, griderò, suderò, strepiterò su questo pulpito; ma con qual frutto: vi saranno tra i miei UU. così non fosse, di quelli talmente induriti nel peccato, che per quanto io schiamazzi, ad ogni modo non si arrenderanno alla ragione, non si ammolliranno alle minacce, non si atterriranno ai castighi; finché si potrà dire esser caduta sopra di loro quella spaventosa maledizione, induratum est cor eorum, quasi incus Malleatoris, è divenuto il loro cuore a guisa d’una incudine, che quanto più è percossa, tanto più s’indura; hanno, i meschini, chiuso il cuore alla pietà, l’occhio al Cielo l’orecchio a Dio, a tal segno che, se le chiamate di Dio, o con le interne ispirazioni, o per mezzo di ministri evangelici, durassero cento anni, altrettanti persisterebbero nel rifiutarle. Bisognerà dunque rassomigliare costoro a quelli infelici i quali, quantunque udissero le voci di Dio per mezzo di Noè nel lavoro dell’Arca, ad ogni modo niuno di loro dava un minimo segno di pentimento. Vedevano, è vero, in ogni monte in ogni piano affrettarsi la grande opera, cader selve, atterrate a forza di braccia, sonar sotto il ferro querce di più secoli, ogni bosco della terra trasportarsi in uso d’acqua, intimando lacrime, e pianto quasi ogni selva dicesse, pænitentiam agite, penitenza, o popoli penitenza; ma essi eran sordi. Miravano, è vero, Noè che in età di sei secoli operava con robustezza da giovine, intenta la mano al lavoro, gli occhi al pianto, e, tacendo la lingua, ogni colpo di martello pareva dicesse, pænitentiam agite, penitenza, o popoli, penitenza; ma gli empi seguivano a peccare, peccando in faccia all’arca, prendendo per argomento d’impunità ciò, che doveva esser motivo di penitenza. Voi vi crederete, miei UU. che gli scellerati dopo d’essere stati chiamati da Dio per un secolo intero a penitenza, aprissero finalmente le orecchie per udire, per eseguire? Appunto: v’ingannate; sordi più che mai quelli indegni, non curarono il proprio bene, e vollero piùttosto esser sepolti dalle acque d’un diluvio, che pentirsi. Già m’avvedo, miei UU. che voi dentro del vostro cuore alzate tribunale di giustizia, per condannare costoro a perpetue fiamme, perché, chiamati per cento anni, non si convertirono: Ma piano, non correte alla sentenza, che forse potreste pronunziarla a vostro favore. Quanti anni sono, che Dio vi chiama? Non son cento, perché tanti non ne contate, non saranno cento, perché tanti non ne conterete; quanti dunque, sono venti, sono trenta, cinquanta, sessanta? E in tutti questi anni non vi ha Iddio chiamati con le ispirazioni interne, e con le voci de’ suoi ministri? Quante volte vi siete sentiti dire al cuore, ecce ancillam, non sta bene colei in casa; Quante volte avete udito da’ predicatori, che conviene lasciare tante vanità superflue, immodeste, che bisogna aver più cura de’ figli. Quante volte v’ha detto il confessore, quel compagno non è buono, quel gioco è la vostra rovina, in quel circolo, in quella bettola e si mormora, e si bestemmia, non vi andate: ah Dio, sono anni ed anni, che avete sempre ripugnato à queste batterie, né mai vi sete voluti arrendere; sì, dunque voi siete rei di quelle stesse fiamme, delle quali giudicavi meritevoli coloro che, chiamati da Dio, non vollero salvarsi nell’arca. Se bene dissi poco, allorché pretesi uguagliare il cuore di certi peccatori a quello di costoro; mentre senza taccia posso afferirlo più duro delle pietre. Uditemi, e vi farò toccar con mano quanto vi dico. – Stava l’empio Jeroboamo sacrificando con mano indegna sopra d’un altare di pietra, e già svenava vittime in culto di false deità, e offriva incenso a quelli idoli da se stesso temerariamente fabbricati. Giunse il fetore dell’incenso, e la voce della vittima al Cielo; finché Dio sdegnato ordina con severo comando al Profeta, che si porti al luogo del sacrificio, e ne rimproveri l’ardire. Arrivato colà l’Uomo di Dio, e trovato nell’atto nefando di sacrificare il re, ben conobbe, che il suo cuore alle voci di Dio si sarebbe mostrato più duro delle pietre; acceso per tanto di zelo, rivolto all’altare con volto adirato, e con voce di chi severamente minaccia gridò, Altare, Altare; ah Altare, ah pietre, ah sassi. Olà con chi l’avete, o buon Profeta? rispondete al Boccadoro che v’interroga, con chi ve la prendete, con le pietre, con i sassi? E da quando in qua hanno le pierre orecchio da udire, e voci da rispondere i sassi? Eh sgridate a chi vi può sentire, sgridate Jeroboamo, quid cum Lapide verba facis; Sì, sì, risponde il Profeta, parlo con pietre, perché dalle pietre impari il re ad obbedire alle voci Divine, ut Rex lapidis exemplo sanior fieret; e, o mirabil cosa, sentite, e inorridite, audivit lapis, distractus est, victimam effudit, homo ille non audivit; l’Altare subito si spezzò, si sparsero per terra le ceneri, la pietra sentì la voce di Dio ma non la sentì Jeroboamo. Piacesse a Dio, che qui non vi fosse qualche cuore così duro; ma so bene, che se Mosè tornasse a percuotere con la sua verga le pietre, ne vedremmo scaturire acque larghissime. So bene che, se l’Apostolo San Pietro stendesse nuovamente la mano, sorgerebbero fonti d’acque abbondantissime; ma, se i ministri di Dio batteranno con voci di tuono il cuore d’alcuni, non vi è pericolo che neppure ottengano una stilla di compunzione. Perdonatemi Zaccaria, voi diceste poco, quando parlando della durezza di questi tali, asseriste che: aures suas aggravaverunt, ne audirent, et cor suum posuerunt ut adamantem, ne audirent legem Dei; dovevi assolutamente dire, super adamantem, perché io vedo che vi sarà peccatore che supererà di durezza, non solo il diamante, che è la pietra più forte, ma la stessa durezza. Così è, così è; vi farà, così non fosse, tra i miei UU. chi sarà arrivato a questo segno; e perciò vestitosi della proprietà delle cose più dure, avrà ributtato dardi, verso di chi li lanciò. Scoccate saette su l’elefante, e vedrete, che invece di ferirlo, gli cadranno morte ai piedi, tanto egli è duro di pelle; ma, se le scoccherete in un feudo di bronzo concependo questo nella durezza del metallo un nuovo impeto, risalteranno contro la mano che le avvento’. Or dovete sapere, che il cuore di certi peccatori arriva a questo segno di durezza, che non solo resiste alla bontà di Dio, ma di più gli si rivolta contro, peccando tanto più fieramente quanto più Dio gli aspetta a pentirsi. V’ha Iddio prosperato con l’abbondanza de’ beni temporali, e voi, invece d’impiegare il danaro a ricomprarvi dalla servitù del demonio con limosine, con opere pie, in che l’impiegate? In giochi, in feste, in balli, sarebbe poco; l’adoperate in raddoppiar le vostre catene, giacché ve ne servite per vestirvi più sfacciatamente, e per tirare all’inferno con la vostra, l’anima di tanti incauti; l’impiegate in mantener quella mala pratica; l’impiegate in donativi, insidiando alla altrui onestà, e se Iddio, Medico pietoso muterà modi, per usarli tutti ad effetto di curarvi, e perciò permetterà che vi si susciti contro una fiera lite, che v’assalisca una febbre acuta, non per questo si ammollirà il vostro cuore; ma invece di baciare la mano Divina, la morderete fieramente, come frenetici, bestemmiando il Nome Sacrosanto del Redentore, e v’inoltrerete a tacciare la provvidenza d’un Dio; in somma per voi gli antidoti diverranno veleni, e le occasioni di ravvedervi si cambieranno in motivi di perdervi, e vi perderete, così non fosse, se non corrispondete alle chiamate divine. Come appunto si perdé quell’infelice nobile nella città di Toledo, al quale, perché era sempre stato sordo alle voci di Dio, Iddio turatesi, visibilmente staccate le mani da’ chiodi, le orecchie, gli disse con voce spaventosa alla presenza di molta nobiltà, vocavi, renuisti, ego quoque in interitu tuo ridebo; e quella voce, fu un fulmine, che appena uscita da quella immagine cacciò l’anima infelice da quel corpo scellerato, e fulminatala la seppellì nell’inferno. Cari miei UU. se voi non sfangate sollecitamente da quei vizi, se voi di proposito non date orecchio a quanto vi dico a nome di Dio, voi diverrete sempre più duri, con timore ben fondato, che neppur in punto di morte vi ammolliate, ritorniate a Dio. – Confesso il vero, che se piango la disgrazia di chi vive sì duro alle divine chiamate; m’inorridisco altresì alla riflessione dell’origine d’un tanto male. Sappiate miei R. A. che questo fiume sì spietato di colpe, annidato nel cuore di questi scellerati, non sboccò già dall’oceano; né vi crediate che per cagionare un diluvio sì spaventoso si aprissero le cataratte del cielo; v’ingannate se vi credete che per inondare l’anima con tante iniquità d’un peccatore duro di cuore si rompessero gli argini de’ fiumi, ed i lidi del mare; appunto. Tenuissimi furono i principii che a poco a poco hanno condotta quell’anima miserabile ad esser sorda e dura di cuore alle divine chiamate; fu un occhio non custodito, un guardo piuttosto curioso che immodesto; fu una piccola parolina non tollerata, un risentimento non represso, un poco d’ambizione, un piccolo interesse, un vil guadagno: questi furono i principii della durezza sì eccessiva di tali peccatori; bisogna dunque guardarsi di non cadere in piccoli mancamenti, perché questi fan la strada a precipizj orrendi. Vediamo di grazia questa verità in un singolarissimo esempio delle Divine Scritture. Le tribù ebree avevano richiesto a Dio qualche re che, invece di giudici, assistesse al governo loro: condiscese Dio alle istanze, e gli concesse Saul, il quale, quanto era vile di nascita, tanto era ricco di virtù. Samuele fu quello che l’unse, e lo pubblicò per re; e doppo gli disse: va’ in Galgala, dove arrivato m’aspetterai per sette giorni, dentro i quali io verrò per sacrificare, Septem diebus expectabis, donec veniam ad te. Obbedisce Saul, l’aspetta, ma già correva il settimo giorno, e Samuele non si vedeva: stavasene Saul tutto sopra pensiero, né sapeva a qual partito apprendersi; voleva aspettar di vantaggio, ma l’esercito nemico lo sfidava a battaglia e le vittime eran pronte per immolarle. Si risolve dunque Saul, giacche è vicina la sera del dì prefisso, d’offerire egli stesso il sacrificio, come pure venivali permesso dalla legge in assenza del Sacerdote: ma che, appena egli ebbe involate le vittime, ed ecco giunge Samuele, e rivolto à Saul: ah sfortunato, gli dice, che hai fatto? quid fecisti, non mi hai aspettato? lo vi ho aspettato, ripigliò Saul, più che ho potuto; ma non potevo più trattenermi, merceché i Soldati nostri chiedevano la Battaglia, ed i Nemici la minacciavano; e perché stimai scelleratezza uscire in campo prima d’aver placato il Volto Divino, per questo sacrificai. Sì eh, misero te, stulte egisti; or sappi che, per non avermi tu pazientemente aspettato, Iddio non vuol perpetuare il tuo scettro sopra del suo popolo, come avrebbe fatto, se tu m’avessi aspettato. Ed è pur vero, miei UU. che Saul per questa azione non solo perde’ il Regno, ma la virtù, la grazia, l’anima, il Paradiso; non precisamente per questa azione scusata da molti per colpa grave, ma per questa azione, che lo dispose alla perdizione. Or, se la rovina di Saulle dipende da una cosa, che per sé stessa era buona, che sarà di quelle occhiate? Guardatevi dunque da’ piccoli principii. Quali furono quelli principii, che han condotto quella donna a non si vergognare di comparir per le strade come madre, mentre mai fu sposa? Un’occhiata, un saluto, una veglia. Quali principii condussero quella donna ad esser corriera di lettere, segretaria di biglietti, mezzana a prostituire l’innocenza? Un saluto, un fiore portato a quella donzella. Chi ha condotto quella maritata a mancar di fede, quella vedova al male? Quella libertà di scherzar con gli uomini che pareva innocente; chi ha condotto quel miserabile a segno che scordato de’ figli, della consorte, vive in braccio alle lupe? uno sguardo, un saluto … Quali principii hanno avuto quelle bestemmie che si vomitano nelle bettole, ne’ giochi, nelle strade? da piccoli giuramenti: così è, così è! Le spine dell’istrice, da principio sono come peli; ma col tempo diventano dure al pari degli strali. Non occorre altro, basta una piccola goccia d’acqua che dal tetto grondi in cala, perché, trascurata, atterrerà le fabbriche che resistono a’ fulmini; basta una piccola scintilla a destar la morte addormentata sotto le polveri di munizione. Abramo trovato che ebbe Iddio, inesorabile al perdono del fuoco, nella provincia di Pentapoli, si portò nel giorno seguente in luogo discosto per rimirare l’esecuzione del divino castigo, e argomento’ il principio di quella orribile tragedia da una favilla, che dalla terra vide salire in aria, intuitus est Sodoma, et Gomorram, et universam terram regionis illius, viditque ascendentem favillam de terra . Non vi meravigliate, dice San Girolamo, che da una scintilla arguisse un sì grande incendio; ed è vero, che, scintilla parva res est; ma si fomitem comprenderit mænia, urbs, regionesque comburit. Considerate di grazia quella scintilla che risalga subito da una selce percossa dal fucile, e riflettete che il suo essere consiste in un briciolo di fuoco, che appena nato muore; e che altro non ha per misura della sua nascita, della sua vita, della sua morte e sepoltura, se non un istante. Or io vi dico, alzare un poco con gli astrologi la natività a quella piccola scintilla, e siate sicuri di trovar cose grandi: Incontri questa favilla alimento da pascersi, ed ecco che ingrandisce con la morte di quanto gli si oppone; cresciuta poi, si rende formidabile, incenerendo selve, distruggendo città, mœnia Urbs, regionesque comburit. Ecco dove è giunta quella scintilla, quel parto, di cui il mondo non ha più piccolo. Ario, Ario, e dove mai ti portò quella piccola scintilla d’ambizione? Ella ci condusse a divenire, di figlio, parricida crudele della Chiesa Romana, a por la bocca temeraria in Cielo, negando la Divinità del Verbo Incarnato; questa tua piccola ambizione tolse dalle bandiere di Cristo tanti popoli e li portò ad arrolarsi sotto quelle di lucifero. Questa insomma fece sì gran male che basterà dire con San Girolamo, che: ingemiscens Orbis terrarum, se Arianum esse miratus est; ah, che il mondo tutto dirottamente pianse, nel mirarsi infettato da peste ariana, e nel vedere ormai incenerita la Fede Cattolica da un eretico incendio; onde concluse il santo Dottore: Arrius in Alexandria una scintilla fuit, sed quia non statim oppressa ejus favilla, depopulata est totum Orbem. Non occorre altro, bisogna guardarsi dalle piccole cose; per atterrar quel gran colosso di Babilonia nulla più vi volle d’un piccolo sassolino. Sovvengavi di quella gran statua di Nabucco che figureggiava con capo d’oro, con braccia d’argento, con petto di bronzo tutta nobile, forte e robusta; Chi l’atterrerà? Chi la rovinerà? Si stacca un piccolo sassolino dal monte, percuote i piedi, che erano di creta, ecco a terra la statua, ecco confuso il tutto. Ahi quanto spesso avviene; chi ha denigrato lo splendore di quell’oro in quel cavaliere tanto stimato? un piccolo genio che troppo s’inoltrò. Chi quella dama? E non mi state dunque a dire: che male è guardare? O dire una parola uomini, donne, quanti siete, che così parlate, io vi rispondo che, se tutto il male si ferma in quel guardare, in quel parlare io vi rispondo e replico, che non ho che dire; ma il male è, che non si ferma qui, e se comincerete in questa forma, con questa piccola libertà, intendetela, non vi fermerete qui, si passerà alla amicizia, s’inoltrerà la domestichezza, s’arriverà à perdere tutto il candore, e lustro della innocenza e pudicizia; intendiamola, non bisogna dire che cosa è, che male è guardare, parlare; ditemi, che cosa è l’ovo d’un aspide, certo, che non si muove, non morde, non avvelena; è vero, e se rimanesse sempre ovo non farebbe mal niuno; ma, se un poco di caldo lo fomenta, voi vedrete, che da quell’uovo bianco nella sua scorza, freddo di sua natura, senza denti, senza veleno, ne nascerà un serpente sì pestifero, che avvelenerà quanti toccherà. Se quell’uomo sarà troppo libero nel trattare, nel guardare, nel parlare, scorgerete ben presto come queste piccole cose produrranno aspidi mortiferi, micidiali per l’anima. – Tornate ora a dire, che cosa è un piccolo principio, mentre porta seco tante rovine? Non si creda alcuno di poter principiare, e poi porre una colonna stabile, e dire: non plus ultra. La rovina di Sansone da che ebbe principio? Egli si lasciò uscir dagli occhi un sguardo, vidi mulierem de filiabus Philistinorum; voi qui mi replicate, e che male è una occhiata? Ma udite, appena disse “vidi”, che subito soggiunse: placuit oculis meis; una piccola occhiata concepì un grande amore, e dall’amore d’una Filistea nacque l’odio de’ Filistei, e la morte di Sansone. Chiede da voi il demonio un cantoncino … am mettete, vi dice, quel pensieruccio che passa per la mente volando. Avvertite di non vi lasciare ingannare dalla picciolezza, poiché entrato che sia il pensiero, crescerà in concupiscenza, si avanzerà in desiderio, verrà all’opera, si passerà alla consuetudine, all’abito, alla ostinazione, e questa caccerà dal vostro cuore tutta l’osservanza della Legge Divina e l’indurerà di modo che sarà quasi dissi, impossibile l’ammollirlo. Nolite, nolite, grida l’Apostolo, locum dare diabolo, perché, come commenta il Crisostomo, enim introjerit, cuncta dilatat, amplificat sibi; guardate, dice l’Apostolo Paolo di non dare luogo, benché piccolo, nel vostro cuore, al demonio, perché, vi assicura il Boccadoro, che, entrato, non uscirà, e, se non esce, siete perduti in eterno. LIMOSINA Vi raccomando la limosina; credetemi, UU. che con Dio v’è un bel trattare onde cercate pure quanti banchi mai volete, niuno è più fruttuoso, né più fedele della limosina, feneratur Domino, qui mieretur pauperis: mi dirà taluno, io non vedo questi guadagni; è vero, voi non li vedete, perché Dio ha vari modi da donare il suo, senza che neppure se ne accorga chi lo riceve; talora in premio della limosina fatta, vi conserverà la sanità; vi farà vincere quella lite, leverà di mente al vostro avversario di suscitarvela, spingerà altrove una nuvola gravida di tempeste, che volava a desertar le vostre possessioni; farà che vi avvediate dalle insidie de’ nemici …
SECONDA PARTE
Per conferma di quanto vi ho detto, voglio parlarvi con la nobile riflessione nata nell’ingegno fecondo di Sant’Isidoro, da cui conoscerete che , sì il precipizio d’un’anima, come la salute della medesima, dipende, come in radice, da piccolissime cose. Supponete dice egli, che io voglia far buono uno di voi; non vi crediate già, che io sia subito per dirvi, portatevi da quello ammalato, e succhiatene, a similitudine d’un Saverio, la marcia dalle sue posteme, no; ma vi esorterò à visitare tal volta i pubblici spedali, e, con compatire gli infermi, benedire Dio, che vi liberò a tanto male. Io non vi dirò, che ritirati subitamente da’ parenti, ed amici, abbandoniate le case, e vi mettiate con lo Stilita sopra d’una colonna, per ivi alle intemperie dell’aria purgare i delitti della vostra vita passata, o questo no; ma bensì vi esorterò à ritirarvi per breve ora una volta fra il giorno, per pensare all’altra vita, all’anima vostra, che è il maggiore interesse che abbiate. Certo, che, se io volessi farvi Santi, non pretenderei farlo subito; e perciò non ricorrerei alla vita per strapparvi di dosso l’abito, e vestirvi d’un sacco, ad imitazione di Francesco d’Assisi; ma solo vi mostrerei i Poverelli, immagini di Cristo, e vi esorterei a dispensar qualche limosina, insomma comincierei ad animarvi alla pratica di cose piccole perché passo passo voi poi arrivaste ad eguagliare i gran Santi. Volete vedere, che da piccoli principii ne dipenda talora una gran santità; contentatevi, che io vi porti quel bello avvenimento descritto da Sant’Agostino. Si tratteneva, dice il Santo, l’Imperatore Teodosio nella città di Treveri a rimirare i famosi giochi del Circo; Quando due cortigiani si appartarono da quello spettacolo, e non sapendo ciò che fare, s’incamminarono unitamente fuori della mura per godere la vita innocente della campagna, passarono d’una in un’altra strada, d’un ragionamento in un altro, finché giunsero spensierati in una boscaglia, dove sotto ruvida casuccia abitavano alcuni penitenti romiti. Entrarono per curiosità in quel tugurio, mentre come suol farsi, ammiravano le angustie della abitazione, e la scarsezza de mobili; videro un libro assai lacero sopra d’un tavolino. Uno di loro il piglia, l’apre, e si avvede contenersi in esso le azioni del grande Antonio; legge prima per curiosità e poi per diletto, e indi sente infiammarsi alla imitazione. Quando all’improvviso avvampando nel cuore d’un amor santo, e nel volto di un vergognoso rossore, proruppe in un sospiro e disse al compagno: poveri noi, che seguitiamo una strada sì diversa, che pretendiamo noi con tanti servizi, con tanti corteggi, e umiliazioni, nulla di più potiamo sperare, che d’essere in grazia del principe, e quando ancor v’arrivassimo, che avremo noi fatto? avremo cambiata servitù con servitù, non ci mancheranno odj, invidie, persecuzioni, e calunnie. Ed è pur vero, che per divenir amico di Dio, basta il volerlo, niuno potrà mai torcelo, amicus autem Dei, si voluero, ecce nunc fio, e tornato a fissar gli occhi sul libro, quasi come fuori di sé, batté la mano sopra la tavola, e rivolto al compagno, amico disse, io ho stabilito di non partir di qui, per qui consacrarmi del tutto a Dio, se voi non mi volete seguire, almeno non mi sturbate. Come, ripigliò l’altro commosso da tale esempio, no, no, che non voglio a voi lasciare il Cielo, e per me prender la terra; o ambedue alla reggia, o ambedue in questo tugurio. Così dissero, e risoluti di non tornare all’Imperatore, dentro d’un foglio gli mandarono l’avvio della loro determinazione, e deposti subito gli abiti del secolo, e gli ornamenti di cavalieri, si copersero di sacco, si cinsero di fune, si racchiusero in una cella e ivi sconosciuti al mondo trionfarono del mondo e conquistarono il Paradiso. Or ditemi, questa santa risoluzione, quella vita condotta sì santamente, colma di tante opere buone, da che ebbe principio? Non da altro, che dall’essersi ritirati da uno spettacolo, se non si partivano da quello spettacolo, non giungevano a quel romitaggio, non leggevan quel libro, non lasciavano il mondo. La vostra salute può dipendere appunto dal non intervenire ad una comedia, ad una veglia, ad un ballo ove, se v’anderete, quantunque forse potiate farlo senza colpa, può esser che sia principio di vostra perdizione. – Così è, cosi è; perché dovete sapere, che quanto io farei per farvi Santi, e rendervi perfetti, altrettanto pratica il demonio per farvi reprobi: egli vi vuol condurre alla perdizione a poco a poco vuol che cominciate la vostra dannazione con leggeri mancamenti, perché con questi è sicuro di farsi scala agli altri. Sa bene il demonio, che molti di voi non han per anco perduto affatto il timor di Dio; e perciò portate qualche rispetto alla vostra coscienza. Onde è che astuto, non vi stimola sul bel principio alle laidezze più nefande, ai sacrilegi più orribili, agli omicidi più detestabili, perché sa, che, forse in solo udire una tal proposta vi inorridireste; ma che fa? Vi consiglia ad amoreggiare, vi induce a quella irriverenza alle Chiese, a risentirvi di quel leggero affronto, cose, che a voi non pajano niente; ma infatti sono l’avanguardia dei misfatti più enormi. Non vi condurrà già il demonio su l’altezza d’un scoglio, alla riva del mare, dicendovi gettativi giù, precipitativi in quelle acque, perché sa, che inorriditi ributterete le sue indegne proposte; ma, perché voi un giorno v’immergiate in quel mare d’iniquità, che egli disegna, farà che un compagno vi conduca ad un ballo, ad una conversazione, vi suggerisca l’usar un poco più di vanità nel vestire; tanto gli basta, per potervi poi avere ad ogni più libera dissolutezza. Queste sono le astuzie del demonio, con queste precipita le anime; state attenti miei UU. e guardatevi accuratamente da piccoli principii. Il buon pilota non aspetta il furor della tempesta per mettersi in ordine a resistere; ma gli basta di vedere i primi principii, o nel salto de’ delfini, o nel fumar de monti, perché in questi ben riconosce le agitazioni mortali del suo legno per i bollori del mare adirato. Cristiano, saresti senza cervello, se tu solo ti ritirassi dalla tempesta quando a Cielo aperto precipita in terra, e non quando te la minacciano i tuoni, e quando te ne portano certi indizi, quei lampi di sguardi, quei nuvoli d’affetti: se tu scherzi, se tu burli, se tu non smorzi il fuoco quando con poche lingue gridando ti sveglia, ma aspetti superarlo quando per i tetti volerà infuriato, tu vi resterai incenerito. Intendetela; se non vi farete scrupolo di certe amicizie, se discorrerete domesticamente, v’ingolferete ne vizj con poca o quasi niuna speranza d’uscirne. O quanti, o quanti pagano con morte eterna i primi trastulli di quell’amore che credevano innocente, quanti ardono nelle fiamme, perché non ripresero quelli sdegni nascenti, che non stimavano nulla; quanti piangono con lacrime di dannati i piccoli errori della lingua. Quante femmine ora bruciano nell’inferno per le loro vanità scandalose, che non ebbero altra origine d’un trattenersi allo specchio. Tacete, o Cristiani, non vi lusingate con dir più, e che cosa è dare uno sguardo dir una parola, andare a veglie, ecc.? Son principii, che pajono innocenti, ma portano à rovine; aprite gli occhi, e correte pronti ai primi rumori, acciocché il demonio scacciato subito, non abbia ardire di più molestarvi, e vi salviate.
DI FULVIO FONTANA Sacerdote e Missionario DELLA COMPAGNIA DI GESÙ
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA QUINTA Nella Feria feconda della Domenica prima
La terribilità dell’Universale Giudizio; per gl’orrori che precedono; per la severità dell’esame; per la sentenza, che sovrasta.
Cùm veneris Filius Hominis in majestate sua et omnes Angeli cu meo, tunc sedebitsuper sedem majestatis suæ, et congregabuntur ante eum omnes gentes, et separabit eos ad invicem.
Così con quel che segue, descrive San Matteo la venuta di Cristo per giudicare il mondo.
Io per me son fuori di me; ne so con quali parole, con quai periodi abbozzar lo spavento di quella tremenda giornata, in cui saranno giudicati i vivi e i morti. So che sarà dies Domini, che vale a dire, dies irae, dies calamitatis etmiseriae, giorno di sdegno, di furori, di stragi. Padre amato, Padre San Francesco Saverio; voi, che sì bene imprimeste nella mente de’ vostri UU. il terrore di questo giorno; Voi Vergine Santissima, che ben lo comprendete, avvalorate lo spirito mio abbattuto; il mio cuore, che palpita, la mia lingua che trema mentre io senz’altro principio, do principio. Preparate pure R. A. il vostro cuore ai terrori, agli spasimi: mentre io procurerò mettervi sotto gl’occhi la spaventosa giornata dell’Universal Giudizio. Girolamo ne’ suoi volumi, e Iddio si nell’Apocalisse, come nell’Ecclesiastico ce lo descrive così: ecco, che in un subito si vedrà ricoperto di densissime nuvole il cielo; finché, dalla serenità di un giorno allegro si passerà alle tenebre d’una oscurissima notte, la quale altro lume non riceverà, che dalla luna grondante vivo sangue, da’ lampi spaventosi che atterreranno da’ fulmini spietati che inceneriranno. A’ terrori del cielo corrisponderanno gli spettacoli del mare, il quale tutto tumido e fluttuante s’alzerà per quaranta cubiti sopra l’altezza de’ monti più rilevati, indi abbassandosi si profonderà fino a perdersi di veduta, mutando in tanto le acque in color di sangue, e sangue putrefatto; li pesci e mostri marini, ancorché mutoli per natura, unitisi a gran schiere insieme, assorderanno d’insoliti clamori, e cielo e terra e in questa, ancor essa moribonda, ogni fiera, perché senza cibo, e senza riposo si stannerà da’ suoi covili gemendo e urlando, ogni erba de’ prati gronderà vivo sangue, ed in solite locuste, simili nella faccia all’uomo, ne’ denti al leone, nella coda agli scorpioni; s’avventeranno con fieri morsi ai peccatori, e ne faranno scempio crudele. Né qui finiscono gli orrori, poiché una grande aquila volando per l’aria griderà con voci di tuono, veæ veæ hominibus in terra, guai, guai a’ peccatori! Indi ferite da un Angelo più stelle ne cadranno pezzi a sterminio della terra. Dopo, scesi sopra di essi due milioni di Angeli sterminatori, guarniti di corazze impenetrabili di giacinto, scorrendo qua e là, su mostruosi cavalli a guisa di leoni di fuoco, faranno strage d’una gran parte degli uomini. – Ed è pur vero che questi preludi d’una giornata così tremenda, non son soli, v’è di peggio, perché unitamente à questi portenti armerà Iddio tutte le creature a danni del peccatore, pugnabit omnis creatura contra insensatos. Alle armi, alle armi dunque … orsi, tigri, pantere alle armi, non siete più soggette all’uomo. Fuori dalle vostre foreste, sfogate le vostre crudeltà sopra de’ peccatori. Leopardi, lupi, leoni alle armi, alle armi. Fuori delle selve, andate in traccia de’ scellerati. Sfogate la vostra ferocia, uccideteli, sbranateli, divorateli, serpenti, vipere, draghi, rospi, basilischi, alle armi contro degli iniqui. Fuori de’ vostri covili, infondete pestiferi veleni nelle carni ammorbate de’ perversi, ribelli al vostro Creatore. E voi terremoti non siate contenti delle stragi di Ragusa, delle rovine di Rimini, dello sterminio di Catania, ma smuovete da’ fondamenti ogni città, ogni terra, ogni castello; e fate che restino estinti e sepolti in un medesimo tempo tutti i peccatori. Voi fiere pestilenze non vi contentate degli spettacoli che cagionaste nella città di Napoli e di Genova a nostri tempi; mentre ne consegnaste alla morte fino a trenta mila in un sol dì; uccidete in ogni città, in ogni castello, in ogni contrada, quanti vivono nemici di Dio. O che orrori, o che miserie! veder tutte le creature sì irragionevoli, come insensate, armarsi contro del genere umano, e farne strage. Pensieri miei disperati io non so dove mi sia. – E pure non ho detto nulla, a paragone di quello che mi resta, poiché vi rimane la strage del fuoco divoratore. – Sono ormai scorsi sessanta e più anni, da che quel monte sì celebre, perché sì spaventoso del Regno di Napoli, detto il Vesuvio, aperta un’ampia bocca, vomitò un torrente di fuoco, che misto di zolfo, pece e bitume, durò ad ardere per dodici giorni nelle acque del mare vicino. Avereste veduto scagliarsi all’insù da quella accesa fornace nembi di grosse pietre, che con strepito di tuoni, e con violenza di fulmini, cadendo poi giù abbattevano case, uccidevano bestie e stritolavano uomini. Ah che prima di restare inceneriti e sepolti gli avreste sentiti esclamar: misericordia, è venuto il Giudizio, misericordia! Ma, se io fossi stato presente a queste dolorose esclamazioni, gli avrei con rimprovero, schiacciate le parole in bocca: sciocchi, che dite, il giorno del Giudizio? Eh mi meraviglio di voi, altro orrore, altro incendio sarà quello del giorno estremo. Questo fuoco che vomita il Vesuvio è fuoco prodotto dalla natura; ma quello del dì del Giudizio verrà dall’ira giusta di Dio implacabile. Questo esce da un sol monte; ma quello, secondo Alberto Magno, cadrà giù per ogni parte, scatenato dal cielo, sboccherà vomitato all’insù da mille voragini dell’Inferno. Il Giudizio eh, è venuto il Giudizio? Sciocchi tacete. Questo fuoco del Vesuvio scaglia ceneri, e sassi; ma quello assai più impetuoso sbalzerà in aria le stesse montagne. Questo riduce in cenere poche terre, e con esse gli abitatori, ma quello con mordacissima rabbia diramandoli in mille torrenti divorerà tutti gli uomini; incenerirà tutti i Regni; struggerà tutto il mondo. E voi dite: è venuto il giorno del Giudizio? Qua, qua miei UU. se così è, come è verissimo, che sarà allora delle vostre ville de’ vostri palazzi, de’ vostri poderi? Cenere, cenere! Che sarà de’ vostri magnifici sepolcri, delle gloriose inscrizioni, degli ameni giardini? O Dio, cenere, cenere! Che sarà, o dotti, de’ vostri libri, delle vostre statue, o eroi; delle vostre città, o principi? Cenere, cenere! Cenere dunque saranno, o donne, o dame, quelle camere, ove si giocava con tanta soddisfazione; quelle sale ove si ballava con tanto brio? Cenere dunque saranno quelle carrozze seguite da cavalieri! Cenere quelle vesti si pompose e alla moda; cenere, cenere insomma quei lisci, quegli ornamenti quelle gioje, quelle vanità, tutto sarà cenere, perché tutto prima fu fuoco: erunt omnes superbi, et omnes facientes iniquitatem stipula. (Malac. 4). Iddio farà appunto come suol farsi nelle guerre più fiere e più sanguinose; ove nè pur si perdona agli alloggiamenti nemici per dare à divedere la strage, che poi si farà degli avversari. Si abbrucci, dirà, la terra; ardano i cieli; tutto s’incenerisca; ma dico: e perché la terra? che ci ha da fare per se medesima? Che male commisero i cieli? Servirono, sento rispondermi, materialmente di agio, d’ajuto e d’instrumento agli uomini per peccare. Ardono i cieli, perché mandarono le loro influenze amorevoli sopra de’ peccatori. Arda la luna, si abbrucci il sole perché somministrarono luce agli empi. Arda la terra, perché gli somministrò le vettovaglie. Cælum novum, terra nova; qui si fa a guerra finita; si brucino tutti gli alloggiamenti, tutto s’incenerisca. Le leggi umane vogliono che, allorché si commettono delitti enormi, non potendosi avere il delinquente, si confischi la casa. In questo giorno terribile, quantunque il delinquente sia già tra i ceppi, e catene per esser condannato, la sua casa non farà confiscata, ma bruciata. Io per me son fuori di me; e se qui non cessano i preludi di giornata sì spaventosa, non so che dirmi di più. Non sai che dire di più? E non senti ciò, che si conclude dalle sacre carte, che tutti questi orrori, questi portenti, questi spaventi sono principio della funestissima tragedia? Hæc autem sunt initia dolorum. Dunque, preludio delle miserie d’un mondo, sono spettacoli spaventosissimi, scatenamento di creature, un fuoco divoratore? Così è. Date d’orecchio, e ne sentirete l’intimazione. Olà, che strepito è quello che sento? Dite, chi dà fiato à quelle trombe che mi spaventano? Gli Spiriti Angelici, sento rispondermi, che posti a’ quattro angoli del mondo rimbombano alle porte di N. e intimano ai mortali il risorgere, a tutti il comparire al divino tribunale: Surgite mortui, venite ad Judicium. Alzatevi su voi, che tenete i piedi sopra di quei Sepolcri, non sentite colaggiù lo strepito delle ossa, che si vogliono unire insieme? Ecco che la cenere s’ammassa in carne: ecco stesi sulla testa i capelli: eccoli in quella forma che vissero: o come si affrettano per andare al Divino Giudizio! vedete: parte ne vanno a mano dritta, e sono gli eletti: parte a mano manca, e sono i reprobi. Chi è quella che tutta scarmigliata nel crine, tutta piangente negl’occhi, tutta sospiri e singulti se ne va al Tribunale? chi è? È quella che entrava nelle Chiese tutta brio, tutta fasto, e vi veniva per esser vagheggiata, tutta ornata nel capo, tutta scoperta nel seno e braccia, appunto, non può essere, non può essere! E io vi dico , che è essa. O se io potessi essergli vicino, le direi: eh non credevi signora, che dovesse mai giungere questo giorno? Io ve lo dissi; peggio per voi. Se quando entraste in Chiesa, allor che io predicavo del Giudizio, invece di dar mente a tanti saluti che v’insuperbivano, invece di tante cerimonie superflue, voi vi foste messa ad udirmi di proposito, non vi trovereste in questo stato. E quell’altra chi è? Ella è quella che si faceva precedere i servitori à capo scoperto ne’ tempi più rigidi del verno, volendo più rispetto à sé che a Dio. Ma dove sono quei Sacerdoti, da’ quali si faceva servire con tanta temerità? fino à farsi dare e di braccio, e da bere? Dove quel cavaliere che da per tutto l’accompagnavano? Non vi è niuno; se ne va sola soletta al divino tribunale. Su fido cameriere, correte ad acconciare la vostra signora; non vedete come ella è lurida, lercia? su portate le vesti più belle; prendete le gioie più preziose, deve andare avanti non d’un monarca terreno ma d’un Dio: Che vesti, che gioje? sento rispondermi non vi è più tempo; non fervono più a nulla. E quello, che tutto tremante e pieno di paura se ne va al tribunale, chi sarà mai? Egli è quel cavaliere à cui il dono della nobiltà non servi che per accrescere superbia; non intendendo, che l’obbligo di cavaliere è d’esser cortese. E quell’altro, che tanto ricco nel mondo, or del tutto è spogliato, qual sentenza riceverà? Pessima, perché nega ai poveri un piccolo sussidio; e quel ch’è peggio, non ha il capitale d’un’opera buona. Fermatevi dove vi ponete! Non è questo il vostro luogo. Andate a mano sinistra tra i reprobi, tra i dannati; e perché? Io fui fedele al mio consorte: così è, ma infedele al vostro sangue, permetteste alle vostre figlie non solo gli amori, ma le cadute ancora. Olà voi a mano manca nel numero de’ presciti? Padre fui fedele alla consorte, sì, ma posta sotto de’ piedi la reputazione del mondo, vi metteste ancora la legge di Dio, contentandovi delle leggerezze peccaminose della vostra consorte, e che talora servisse ad altro letto. E voi dove andate? Son Sacerdote! bene, ma maneggiate Cristo con mani sacrileghe, e con cuore immondo. Ma ohime, che vedo? Ecco, ecco schiere d’Angeli guerriere, che precedono al grande Iddio, millia millium ministrabant Ei, et decies centena millia assistebant Ei. O Dio! quale sarà l’orrore, quale la confusione, e lo spavento del peccatore, non in vedersi schierato a fronte un esercito d’uomini vili, ma d’Angeli così potenti, che un solo in breve ora uccise più di settanta mila Assiri, ed in tanto numero che, secondo una sentenza di San Tommaso, potriano dividersi in trenta mila milioni d’Eserciti, ognuno de’ quali fosse composto di trenta mila milioni di Combattenti e poi così nemici de’ peccatori, che se Iddio loro il permettesse, scenderebbero fin giù nell’Inferno per lacerar quanti vi sono quivi dannati. Angeli, Angeli ho gran timore di voi, non lo nego; ma troppo , ahi troppo mi fa gelare il sangue nelle vene il Dio degli Angeli. Eccolo, eccolo in nubibus Cæli in potestate magna, et majestate; eccolo, eccolo con la gran guardia di tuoni, di fiamme, di turbini, di fulmini, e di tempeste … circuitu ejus tempestas valida: già risuona con Eco funestissima la Valle destinata al Giudizio: già gemono gli Abissi, già si scuote la Terra e tremano i Cieli. Che farete, miseri, allorché vedrete quell’istesso Signore, che oltraggiaste, comparire per esser vostro Giudice severo? Ah, che se voi poteste, per non vederlo, vi cavereste gli occhi di propria mano. – Il Re Saule, essendo vinto in battaglia da’ Filistei, contro de’ quali si ricordava d’aver tante volte mossa la guerra, temé sì altamente di andar vivo nelle loro mani, che si appoggiò col petto sopra la punta della sua spada per far più tosto una morte da disperato. Ma voi infelici non solamente non potrete darvi la morte; non potrete cavarvi gli occhi; ma neppur calarli per non veder la faccia fulgorante dello stesso Dio, contro del quale avete mossa guerra fierissima d’amori, d’odii, d’interessi, … videbunt, in quem transfixerunt; non accadde altro, il trono è innalzato posuit in Judicium Tronum suum. – Quà dunque tutti a render conto. Non occorre o miserabili, che inorriditi voltiate le spalle, né che invochiate i monti, ché vi ricoprino. Già Dio si è dichiarato per Amos, che si absconditi fuerint in vertice caunelli, inde scrutans auferam eos. Qua, qua dunque tutti, ove severamente s’intima un’inevitabile redde rationem villicationis tuæ. Redde rationem o Ecclesiastico: rendete conto di quelle Chiese alla vostra cura commesse, di quelle entrate lasciatevi per ornamento degli altari, per aiuto de’ poveri; come dispensaste il Sangue di Cristo nelle Confessioni; con che purità lo maneggiaste all’altare; con che carità lo distribuiste a’ popoli; con che zelo toglieste gli abusi, emendaste i peccatori, assisteste a’ moribondi, ajutaste le anime ricomprate da Cristo e a voi raccomandate? Redde rationem, rendete conto di quell’offizio, che tante volte lasciaste, che con tanta irriverenza diceste; di quel coro, a cui assisteste con tante risa, con tante ciarle, con tante immodestie; rendete conto. Redde rationem o religioso: vi chiamai alla sicurezza del chiostro, e voi sempre desideraste d’uscirne; vi levai dalle occasioni di peccare, e voi sempre ne andaste in cerca. Rendete conto di quella obbedienza che prometteste, e sì male osservaste; di quella povertà contro la vostra professione abborrita; di quella castità oltraggiata con sacrilegi. Qua, qua padri di famiglia, rendete conto di quei figli male allevati, di quelle sostanze dissipate, di quella moglie strapazzata, di quel servitore non pagato, perché insegnaste ai figli più le bestemmie, che le orazioni? Perché impediste a quel figlio l’ingresso alla Religione; riafferraste per forza nel monastero quella figliuola? Perché non pagaste quel legato; dissipando più tosto il danaro in giochi, in bettole, in capricci? rendete conto. Madri, eccovi al tribunale! Rispondete, perché insegnaste à quella figlia più ad esser bella che buona, più vana che modesta? Perché l’allevaste più per il mondo, anzi per l’inferno tra gli amori, che per Dio alla pietà. Al tribunale, al tribunale o figli, rendete conto di quella età più innocente macchiata con sordidezze; di quelle parole di oltraggio a’ maggiori; di quelle sostanze prese senza licenza, dissipate non solo senza utile, ma con precipizio dell’anima ne’ vizi: Rendete conto di quelle scelleraggini insegnate a’ compagni, di quel tempo perduto con tanto vostro danno ne’ carnevali, tra i giochi, tra gli amori, tra i peccati. Qua, qua tutti … – Redde rationem o superiore, de’ tuoi sudditi; o suddito di quelle irriverenze; donna, di quelle vanità; conontadino, di quei poderi; bestemmiatore, mormoratore, di quella lingua sacrilega. Ebbene; cosa dite? che rispondete a queste interrogazioni? Bisogna pure che tutti si palesino i vostri peccati. Voi adesso potete nascondere, potete celare le vostre iniquità; ma in quella tremenda giornata tutte si hanno da manifestare. Eh Padre, non è possibile che si abbia da sapere ogni mia azione peccaminosa. Non vi lusingate, peccatori, perché delle vostre iniquità non se ne ha da perdere il conto, fallire il numero, d’imbrogliare le circostanze; tutte ad una ad una farà la Divina Sapienza comparire le vostre colpe ne’ libri con ogni aggiustatezza tenuti, ne’ registri con ogni fedeltà custoditi. E quando anche questi mancassero in quel giorno di tutta giustizia, accuseranno i vostri delitti gli Angeli, che sempre vi custodirono, e mai riconosceste; il confessore, che per troppo rigido fuggiste; quel compagno sì buono di cui vi burlaste: vi accuseranno, sì, v’accuseranno le mura stesse delle Chiese profanate con irriverenze; sarebbe, quasi dissi, poco male; diciamola, interdette con laidezze; v’accuseranno i sassi di quelle piazze passeggiate con tanto scandalo; quelle camere, quelle segretissime stanze, ove occultamente peccaste. Ma quando ben altri non v’accusasse, v’accuserà la vostra propria coscienza, testimonio fedele de’ vostri misfatti: si publica fama te non damnat, propria conscientia te condemnat. Peccavimus direte, o peccatori, accusando voi stessi; peccavimus dai primi giorni della fanciullezza fino agli ultimi della vecchiaia: e a far bene il conto abbiamo commesso più colpe che non sono i giorni, e forse l’ore del nostro vivere: peccavimus in ogni luogo, senza riguardo a Chiese, a piazze a strade, a monasteri di cacre vergini: peccavimus con ogni sesso, con ogni condizione di persone, in tutti i tempi, nelle feste, ne’ lavori, di giorno, di notte, dopo correzioni infinite, dopo ispirazioni incessanti, dopo rimorsi amarissimi, dopo aver tante volte promesso l’emendazione, il tutto disprezzando iteratamente: peccavimus… Che farò io miserabile in mezzo di tante accuse; se tremarono al pensiero di questi ultimati processi le colonne più stabili della Chiesa? Miro attonito, un Benedetto, senza colore un Bernardo, atterrito un’Ignazio, ricoperto di sacco e di cenere con un David, un Francesco d’Assisi: Hi qui oderunt adventum Judicis, quid facient? Esclama Gregorio, si terrore tanti Judicis, etiam qui diligunt, contremiscunt. Olà, cheti, silenzio. Io per rivelazione di Dio ho da pubblicare in presenza di questo popolo il più orrendo peccato, che abbia mai commesso in vita sua uno di voi, che state ad udirmi? Che dite? udite: Un giorno, dirò meglio; di mezza notte il Signore: ma no, che non è questo luogo da giudicare, ma da compungere. Or se Dio veramente me lo rivelasse, dirò col Crisostomo, e volesse, che io qui dicessi: il signor tale, la signora tale nel tal giorno, commise il tal delitto; e ciascuno di voi sa quello potrei dire. Ditemi, che fareste al solo sentirlo pronunziare? certo, che fuggireste a seppelirvi in uno di questi sepolcri, almeno per l’eccessiva vergogna prendereste bando da tutti per sempre. Or qual sarà la vostra confusione in quel giorno; quando, non uno, ma tutti i vostri peccati, non in presenza di poco popolo, ma dell’intero universo, in faccia degli amici, de’ cittadini, de’ nobili, de’ cavalieri, de’ parenti, del marito, del padre, de’ superiori, di tutti insomma, a suono di trombe infernali, a grida de’ diavoli, dalla voce stessa di Dio, quante mai commetteste scelleraggini, tante ne saranno pubblicate? Un certo giovane si era dato si dissolutamente à piaceri impuri, che all’anima nulla più pensava, come se anima non avesse; per farlo risolvere à cambiar vita niente giovavano, né le correzioni de’ parenti, né le ammonizioni degli amici, né le riprensioni de’ confessori; non vi restava per tanto altro rimedio che dal cielo: questo vi adoprò Iddio. Comparve al giovane dissoluto il Signore una notte, quando egli più profondamente dormiva, e fattosi vedere accompagnato da schiere Angeliche, in majestate sua. E che fa, disse rivolto agli Angeli, questo audace, che vive ostinato nel peccato? O muti vita, o si citi subito a questo mio tribunale per riportarne il dovuto castigo; così disse, e disparve la visione. Si destò il giovine, ma tanto atterrito, che levatosi dal letto, si vide incanutito per lo spavento. Col pelo mutò il vizio, poi che confessatosi visse santamente. Argomentate or voi da questo racconto quanto sarà terribile quel giorno, mentre la sola immagine compilata in sogno poté rendere dentro una notte d’un giovine un vecchio canuto. Su, dunque, si muti vita: si lascino i traffici illeciti, gli odi bestiali, le amicizie indegne, e non s’indugi, se non si vogliono provare i rigori funestissimi di quella estrema giornata, nella quale non vi è speranza di dovere essere aiutato da chi che sia. Se voi speraste, o miei UU. di poter trovare in quel giorno terribile rifugio, o aiuto, v’ingannate. E chi volete, pazzi che siete, che vi soccorra in die furoris Domini? non vi saran per voi né Santi, né avvocati, né protettori; tutti contro di voi saran la causa di Dio. Spererete forse nell’Angelo custode; ma come? se esso terrà in quella giornata la spada per eseguire la sentenza; forse ricorrerete alla Vergine? Non già; perch’Ella nasconderà bellissima Luna i suoi raggi, ed in quel dì funesto … non dabit lumen suum: forse da questo Cristo cercherete pietà; ma come? Se Egli severissimo Giudice vi rimirerà più che torbido; e sarà quello che, per uffizio griderà redde rationem! Non vi sarà dunque soccorso: sarà finita per voi: e voi a questa verità non temete, non tremate? non vi risolvete ad abbandonare i peccati, a dare di bando a’ vizi, à ben confessarvi? Avvertite, che se indugiate, verrà, così non fosse! verrà tempo, che vorrete pentirvi, e non vi pentirete, e non pentendovi, proverete i rigori del Divino Giudizio, che porta seco una irreparabile sentenza di dannazione … Dio non lo voglia. LIMOSINA. Negli umani Giudizi è proibito al Giudice da tutte le leggi il prender regali, per il pericolo che si corre di dar la sentenza più a favore del regalo che della giustizia. Nel supremo Tribunale del Giudice eterno le cose vanno al contrario; perché la volontà del Giudice è legge d’ogni rettitudine. Si dichiara Cristo che in quel giorno la sentenza favorevole si darà solo a chi regala secondo la sua possibilità: quod uni ex minimis meis fecistis, mihi fecistis. Fate dunque a gara di regalare il Giudice Cristo nella Persona de’ poverelli, se volete poter sperar la sentenza in favore.
PARTE SECONDA
Il processo è finito, il reo è convinto; resta la formidabil sentenza, da cui dipenderà l’eternità o di pene, o di premio: Venite benedicti;… discedite a me maledicti; queste due cose finiranno i tempi, stabiliranno l’eternità. Se così è, come potrà cadere in mente de’ miei UU. di più peccare? Tumanama Satrapo nativo delle Indie Occidentali, dove la gente usa scimitarre di legno, accusato di non so qual delitto a Vasco Nugnez, uno de’ Conquistatori di quei Paesi, si pose avanti ad esso ginocchioni, e dopo aver detto le sue ragioni, messa la mano sul pomo della Spada del Nugnez, proruppe, piangendo, in queste parole: E potete voi credere, che a me sia neppur caduto in mente d’offendervi; mentre so, che portate qui al fianco una spada, che divide in un sol colpo un uomo da capo a piedi? Ah miei UU., chi ben considera questa spada terribile, che metterà divisione tra gli eletti ed i reprobi, questo Cortello ex utraque parte acutus, che uscirà dalla bocca d’un Dio fulminante; come è possibile, che possa indursi a peccare? Sì, sì udiamone la pronunzia, perché ci rimanga ben fissa nel cuore. Su, su, dirà Iddio; vengano al possesso del Paradiso quel sacri Pastori, che presiederono vigilantissimi al mio gregge, e con essi, su venga quel sacro Clero che con vita ecclesiastica edificò le città. Su, su, al cielo o religiosi che viveste penitenti nelle celle, astinenti ne’ refettori, salmeggianti ne’ chori, che imitatori del vostro gran Padre, foste indefessi ne’ studj Santi, abbatteste eresie, e confutaste i nemici della Chiesa. Su, su, voi, che predicatori evangelici propagaste la mia gloria. Su, su, Servi di Maria mia Madre, che con pietà animaste i popoli alla di Lei devozione. Al Cielo, o dame, che viveste senza vanità . Al Cielo o cavalieri che viveste senza fasto. Al Cielo mercanti, artisti, che senza frodi trafficaste. Al Cielo in somma voi tutti che viveste osservanti de ‘ miei precetti: su, su, Venite Benedicti Patris mei; possidete paratum vobis Regnum; risponderanno i giusti a questo con un volo, che gli porterà dietro a Cristo verso l’Empireo. Venite, venite, ripiglierà il Redentore, voi, che chiamati obbediste, e dietro a me portaste la croce; venite liberi dal mare delle tribolazioni, vestiti di stole bianche lavate nel bagno del mio salutifero Sangue. Venite alla vita o Martiri, voi, che per me sopportaste la morte: venite al possesso de’ miei beni, voi, che per me vi spogliaste di tutto il mondo. Venite alla corona o Vergini, che per me immacolate vi conservaste, al premio, al premio per la battaglia, che sosteneste, al riposo, per le fatiche che tolleraste. Al Cielo, per la terra che calpestaste, o miei Santi: venite a benedire in eterno il mio Padre, che ab eterno v’ha benedetti. Venite Benedicti Patris mei; possidete paratum vobis Regnum. O Dio, che feste, che trionfi, che giubili saranno allora nel cuore de’ beati! – Non così per voi ribelli ecco la vostra sentenza: Discedite a me, partitevi da me vostro Dio, vostro Principio, vostro ultimo Fine; partitevi da me vostro Redentore; da me, che per voi mi feci Uomo, né mai cessai di piangere, e penare per vostro amore; da me, che per salvarvi m’esposi a croce, a morte; Discedite dal mio regno, da’ miei beni, dal mio Paradiso: Discedite, partitevi dal cospetto di questi Santi, che mi circondano, di questi Martiri miei soldati, di queste vergini mie spose: Discedite partitevi dalla faccia della mia Madre che adirata non può vedervi. Discedite a me maledicti, partitevi da me, maledetti da me, maledetti dal mio Padre, maledetti nell’anima, maledetti nel corpo, maledetti nell’intelletto, nella volontà maledetti ne’ vostri compagni, maledetti nel tempo, maledetti per sempre; avete amata la maledizione, eccola: Disceditea me maledicti, e dove? In ignem æternum. Non vi caccio da me, perché viviate a capriccio, come avete fatto finora, ma per rinchiudervi in una prigione; non vi scaccio da me, perché vi portiate a quelle veglie, a quei balli, a quelle feste: ma in ignem, al fuoco, in una prigione ove il tetto, le mura, il pavimento farà di fuoco: né qui finisco in ignem æternum nel fuoco eterno, eterno, eterno, che non avrà mai fine, e appena proferitasi dalla bocca di Dio quella parola æternum, appena fulminata questa sentenza, punto non di tarderà ad eseguirla. Voi ben sapete che appena Mosè ebbe finito di parlare contro i due ribelli di Dio Datan e Abiron; e subito si aprì sotto de’ piedi la terra, e vivi vivi se l’inghiottì. Così avverrà in quell’istante. Appena Cristo avrà finite di sentenziare contro i reprobi, che verrà subito a spalancarsi per mezzo la gran valle di Giosafatte, e gli assorbirà subito nel suo fondo, ibunt hi in fupplicium æternum. – Miei UU. unum de duobus, grida il Crisostomo, ha da toccare a voi, a me; o la salute, o la perdizione, o il Cielo o l’inferno, l’esser benedetti, o l’esser maledetti in eterno, e a noi sta l’eleggere: pensate a’ casi vostri, che io per me ho pensato ai miei, ed andate in pace.
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA QUARTA
Nella Domenica prima di Quaresima.
Convien fuggire l’occasione pericolosa perché quando alla tentazione s’unisca l’occasione, le cadute sono quasi inevitabili.
Ductus est Jesus in Desertum a Spiritu ut tentaretur a Diabolo. San Matteo cap. IV.
S’alza colà nel Mar del Brasile una rocca tutta d’una intera, e preziosa pietra, tutta un perfettissimo smeraldo, a cui acutissimi scogli fan siepe d’intorno come spine in corona d’un fiore e rompono la rabbia all’Oceano, che più furioso l’assalisce, dove la rocca più robusta resiste. Sorge ella sopra di quegli scogli, sopra di quei mari coronata delle sue proprie ricchezze, e vibrando per ogni parte un riso di lumi, par che si burli del vano sforzo delle onde, e de’ loro continui naufragi. Tal fortezza non diede a te natura o uomo, per renderti incontrastabile all’Oceano di tentazioni, con cui il demonio t’assalisce. È vero, gli assalti di questo comune inimico non possono fuggirsi; è vero, egli è indefesso nel replicare continue batterie alle anime nostre con fiere tentazioni, ma non per questo disperereste gloriose vittorie, quando voi vi contentate dare orecchio alle mie parole in questo giorno, con le quali vi lascerò per ricordo che fuggiate l’occasioni di peccare. Giacché è certissimo e sarà l’assunto del mio discorso, che quanto è debole il demonio con le sue tentazioni, quando queste sono disarmate dalle occasioni, altrettanto è vero non avere il demonio forza maggiore di quella che esperimenta allorché alle sue tentazioni s’unisce l’occasione. – Odo sul bel principio dall’eremo di Chiaravalle quel Santo Abbate Bernardo, il quale dopo averci ricordato esser noi attorniati da tentazioni di modo che la nostra vita merita più tosto nome di tentazione che di vita. Ut non immerito vita nostra ipsa tentatio debeat appellari, conclude con universale avviso a quanti vivono, hoc præmunitos vos esse volo neminem super terram absque tentatione victurum. Non v’è nessuno esclama il Santo Abbate, non v’è nessuno in questa vita che non sia combattuto da tentazioni. O là intendetela, il demonio fiero nemico dell’uomo non porta rispetto a Mitre, non cura Porpore, non stima Corone, sprezza Scettri, vilipende Sogli, assale Triregni, egli si ride della virtù, schernisce la Religione, e disprezza la bontà, tutti, tutti insomma d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni condizione sono dal demonio combattuti, e tentati. Neminem super terram absque tentatione victurum. Siamo dunque tentati, è vero, e bisogna duellare con quel serpente così terribile, che al primo fischio che diede, impresse un mortale contagio anco nel Cielo; con tutto ciò assicuratevi che queste tentazioni disarmate dalla occasione, poco o nulla ci possono nuocere. La tentazione senza l’occasione è a guisa d’un’aquila senza rostro e senza unghie; d’un leone senza denti, e senza furore; d’un soldato senza forze e senza armi, basta, che l’occasione non le dia lena e poi non temete: lo volete vedere? Penetrate meco col pensiero la foresta più abbandonata della Siria, e ivi conoscerete quanto poco possano le tentazioni disarmate dalla occasione; quel solitario Sacerdote, che ivi vedete, egli è San Girolamo; udite come, angustiato dalle tentazioni, parla, piangendo. Ah che lontano da Roma, pur vivo presente a’ teatri più vani di Roma, son pur compagno di fiere e di serpenti e pure odo suoni di giubilo, e vedo danze festose di romane donzelle; quantunque condannato al silenzio, al digiuno, al cilizio, ad ogni modo il demonio mi travaglia con musiche, conviti e pompe; lapido, è vero con dure pietre il mio petto in vendetta dell’anima oltraggiata dal corpo, ma pure l’Inimico Infernale rappresenta agl’occhi miei volti adorni, e petti ingiojellati, in somma … Ille ego scorpionum tantum, serarum socius, sæpe choreis intersum puellarum pallebant hora jejuniis et mens desideriis estuabat. Ma ditemi ÚU.con tutto l’assalto fiero di tante tentazioni, cadde, peccò questo penitente? appunto, mercè, che la tentazione non ha forza d’abbattere, disarmata, ch’ella sia dalla occasione. – Per maggiormente confermarvi in questa verità, passate pure dalla foresta della Siria alla spelonca dell’Umbria ed ivi vedrete quel Giglio di Paradiso Francesco d’Assisi, che nudo tra le nevi raffrena gl’ardori nemici, l’assalirono i demonj, ma per questo lo vinsero? Non già; ogni tentazione è debole, lontana dalla occasione, si supera facilmente. Basta fare come l’ape, allorché in tempo di verno esce dall’alveare; ella se punto è agitata dal vento, per non essere trasportata s’attacca subito ad un sassolino. Tanto dovete far voi in tempo di tentazione, subito, che sente qualche turbine molesto che v’agita il cuore, con la mente ricorrete a’ Santi, alla Vergine, a Dio, e non dubitate, che supererete facilmente la tentazione, purché ella sia disarmata dalla occasione. Si scateni pure a danni del grand’Antonio l’inferno tutto, prenda in prestito dalle più orribili fiere i disagi più mostruosi; lo assedi, lo strazi, non per questo canterà vittorie; basta un solo uomo à resistere a tutti i demoni insieme, dice Atanasio, si virium aliquid baberetis sufficeret unus ad prælium: la tentazione in somma poco, o nulla può, priva d’occasione. Ma o quanto è difficile resistere alla tentazione, quando è unita all’occasione. Ecco, che Zoé la sfrenata, vestita da povera contadina, sul farsi notte in tempo piovoso chiede dal povero romito Martiniano, un cantone per ritirarsi; le cede egli una delle sue stanzioline, e si ritira nell’altra, passando tutta la notte in orazione pregando Dio con David: viam iniquitatis amove a me. Ai primi albori del giorno licenzia in pace colei che con la sua sola vicinanza gli faceva guerra; ma che, doppo essersi con mille ringraziamenti partita, se la vide di nuovo innanzi in abito altrettanto pomposo quanto lascivo. S’accorge il poverello del gran pericolo; esce dalla cella per scoprire s’alcuno là si accostasse; mira il Cielo; e par che gli dica, così mi giocherai per un momentaneo diletto? ricordati con quanti rigori mi compraste? Dà un’occhiata alla spelonca, e quella stessa gli dice, per un capriccio dunque perderai il merito di tanti anni di penitenza, di tante orazioni, di tanti digiuni? Così sentiva parlarsi Martiniano, agitato dalla tentazione unita con l’occasione. Quando interiormente compunto, tratto dal più profondo del petto un sospiro, raccolse quanti più poté sarmenti, v’accese il fuoco, e al calor di quelle vampe estinse ogni fiamma maligna. Ma se poté, miei U.U. Martiniano numerare tra’ miracoli della grazia l’aver potuto resistere alla tentazione armata dalla occasione, non così poté gloriarsi quell’incauto romito colà ne’ contorni d’Arsinoe; Interrogate un poco quelle solitudini e domandate loro quanto di forza abbia la tentazione unita alla occasione, e sentirete rispondervi con le cadute di quell’incauto solitario, il quale quantunque veterano nella cristiana milizia incontratosi una sol volta in una maledetta occasione, disonorò con intemperanza di giovine la sua vecchiaia, e perdé quelle corone e quelle palme acquistate in tant’altre battaglie. Interrogate le arene dell’Egitto, e sentirete rispondervi con orrore, che hanno veduto rinegar Cristo da un discepolo del gran Pacomio; e fu allora che fidatosi di sé Atesso uscì con sicurezza dal Monastero, e s’incontrò con l’occasione. Interrogate i sassi della Palestina, quali furono testimoni per tanti anni delle fervorose orazioni, delle rigorose penitenze, delle sovraumane meraviglie di quel tanto nominato Giacomo, e pure un giorno lo piansero, di trionfante di tutto l’inferno, trofeo vergognoso di vittoriosa occasione, e giunto a segno di togliere, dopo l’onore, anche la vita à colei da cui poco prima aveva cacciato un demonio. Non occorre altro; dalla occasione di peccare al peccato non v’è più d’un brevissimo passo; dica pure ognuno con Cipriano, che … lubrica spes est, quæ inter sementa peccati salvare se sperat. Or che avete sentito che per salvarsi dalle tentazioni alle quali è unita l’occasione, non bastano, né le solitudini d’Arsinoe, né gli Eremi d’Egitto, né le spelonche della Palestina; vi dirò di più, che la tentazione unita con l’occasione arrivò a far prevaricare ancora nel Paradiso terrestre. Eva, come sapete, si pose a dare orecchio al serpente infernale, allorché gli disse, nequaquam moriemini, eritis sicut dii. Ecco, che Eva s’accosta all’albero: Eva, gl’avrei io detto, non v’accostate, avvertite la morte sta nascosta tra quelle fronde. Io non voglio, mi risponde, che vederlo per conoscerlo, e fuggirlo come veleno; Dio ha comandato, che non si mangi, non che non si miri; ma che! giunge all’albero, ne vagheggia il frutto, pulchrum visu, sta per un poco perplessa se debba staccarne un pomo, giacché à se stessa diceva, per obbedire basta non cibarsene; lo spicca dunque, l’odora, e perché alla vista gli pare che debba esser gustoso a mangiare, ad vescendum suave, determina di volerlo gustare; ma il precetto Divino, dico io eh, che questo sento, rispondermi, consiste tutto in non cibarmene, troverò ben io modo di gustarlo senza mangiarlo, ne addenterò un boccone, lo masticherò con fretta, e poi subito getterollo dalla bocca. Così risolve, lo mastica, lo gusta; ma che? L’appetito lo dimanda, la gola lo vuole, lo stomaco lo riceve, sicchè quel boccone trangugiato, à sé e al mondo tutto portò la morte. O andate à fidarvi dell’occasione mentre Eva non fu sicura nel Paradiso Terrestre. – uomini, donne, benché avanzati nell’età, non vi mettete nelle occasioni; non basta dire è ormai gelato il sangue nelle vene, son canutii capelli: se non resisté quel romito, benché vecchio, quantunque orasse, digiunasse, e facesse aspre penitenze, quanto più cadrete voi, che col cuore tutto nel mondo a mala pena vi segnate la mattina, e abborrite ogni sorte di penitenza: Cadrete vi dico se vi metterete nell’occasione… Religiosi non vi fidate di porvi nell’occasione, cadde un discepolo di Pacomio, che passava l’ore in orazione e i giorni in astinenze, quanto più cadrete voi, che quasi mai orate, che vi portate a quell’Altare senza preparazione, che vi state con pena, che per fretta non proferite le parole, che non fate ringraziamento, che tutto dì discorrete d’inezie, che dite quell’Offizio tanto strapazzatamente, e che finalmente, se avete qualche apparenza di Religioso nell’abito, certo non l’avete ne’ costumi, mentre talora ardite idolatrar volti, e prestare ossequi viziosi a dame; cadrete ancor voi; se pur finora non avete mancato a Dio con la castità perduta, e il voto conculcato. Niuno si fidi per uomo, di donna da bene che sia, perché se cadde Giacomo tanto timorato di Dio, come presumete di non cader voi, che temete più l’ombra d’un principe che l’ira di Dio: se starete in quelle case, a quei giochi, a quelle feste, ove fono ridotti d’uomini e di donne, di dame, e cavalieri, cadrete. Eh, che son pazzie pretendere di trattar con famigliarità con uomini e donne, e non peccare, almeno con compiacenza, e con brame indegne. In medio mulieris noli commorari, de vestimentis enim procedit Tinea, a muliere iniquitas viri, non vi trattenete, dice lo Spirito Santo, ove son donne, perché quanto è facile, che dal panno nasca la tignola, tanto è facile che dalla donna nasca l’iniquità dell’uomo. Niuno insomma si fidi, giacché ha veduto, che anche Eva posta in occasione col serpente, cadde nel Paradiso terrestre, e nel medesimo cadde pure Adamo, perché non seppe, come dice Sant’Agostino, star faldo all’occasione che gliene diede la consorte, Noluteam contristare. Or io dico s’Adamo uomo sì prudente, uscito allora dalle mani di Dio, colmo d’ogni tesoro di grazia, arricchito dall’abituale, avvalorato dall’attuale, con le passioni si moderate; con tutto ciò, perché si trovò nell’occasione cadde; come non cadranno quei giovani, quelle giovani fragilissime con le passioni indomite, tentati per ogni verso? Se l’uomo non ha saputo resistere all’amor pazzo nel Paradiso terrestre fra tanta pace, come potrà resistere in campo aperto con tanta guerra? Fuggite l’occasioni, perché è tanto difficile non peccare a chi sta nelle occasioni, quanto vivere in un’aria contagiosa e non ne contrar la peste; e se mai vi ci trovate per vostra disgrazia, bisogna assolutamente, quando non poteste fuggire, come Giuseppe, o che gridiate come Susanna, o che percotiate come Giuditta. Già v’ho mostrato che cade nella occasione anche chi è vissuto santamente, molto più chi vive con libertà di trattare. Or vi dico, che sono più che certi di cadute quei, che soliti a cadere si mettono nelle occasioni. Certi alberi ontuosi in tempo d’estate troppo calda, agitati da vento caldo si sono talora accesi da se stessi, e sono iti in cenere or che avrebbero fatto, se taluno avesse apprestato fuoco alle loro piante. Che può mai avvenire ai giovani, uomini e donne, che nel bollor del sangue dopo esser caduti si ripongono nelle occasioni, se non incenerirsi? Che s’à dunque da fare, torno a dirvi, come Giuseppe colà nell’Egitto con l’impudica padrona, Fuga usus pro armis, le sue armi, dice San Basilio di Seleucia, furono il fuggire; bisogna levarsi dalla occasione; altrimenti cadrà il corpo, si dannerà l’anima. Voi vedete, che ogni volta che andate in quel circolo mormorate, che vi portate a quel gioco spergiurate, che andate in quella bettola bestemmiate, statene lontani. Ogni volta, che con lei entra in quella casa pecca, se passa per quella strada, consente a quei pensieracci, fuggite, fuggite. – Bisogna fuggire l’occasione, se volete assicurarvi dalle nuove cadute. Trochilo favorito Discepolo di Platone, trovandosi in alto mare, fu sorpreso da una orrenda burrasca, fremevano i venti, incalzavano l’onde, a tal segno, che squarciate le vele, spezzati gl’alberi, e tutto il timone, già si tenevan per perduti quanti in quel legno si trovavan racchiusi. A gran forte si salvò Trochilo, e giunto a casa pien d’affanno, e colmo di spavento, diede subito ordine, che si murassero due finestre di sala, benché allegrissime, per che eran voltate al mare, per timore, come egli diceva, che rimirando qualche volta placido il mare, non gli venisse tentazione di porsi nuovamente in acqua. Volete assicurarvi dalle tempeste delle tentazioni, chiudete quegli sguardi, ancora, che talora vi paressero innocenti, quelli scherzi, che vi paressero geniali, levatevi dalle occasioni; non balli, non veglie, non tresche. Non fate come coloro i quali scappati dal mare, tutti zuppi d’acqua, ove fono stati con pericolo di morte, si mettono nella spiaggia a raccogliere gli avanzi delle loro vele, e a racconciarle per mettersi di nuovo in acqua, benché sappiano l’infedeltà di quell’onde. – Sentitemi bene, o voi vi stimate deboli, o vi tenete per forti; se conoscete la vostra fragilità, che pazzia è mai questa mettervi in un tanto pericolo. Voi meritate un severo castigo per questo stesso che conoscendo la vostra debolezza, tanto vi volete cimentare. Qual è quel pilota sì sciocco che sapendo d’avere un legno fragile e debole voglia con esso porsi in alto mare alla furia de’ venti, e delle tempeste? Se voi conoscete la vostra fragilità, e che ogni volta, che siete nell’occasione cadete, perché non fuggite? La lepre, perché si conosce debole non si pone a guardare i cacciatori, a scherzar con cani, ma fugge; così avete da far voi se vi stimate deboli: se poi vi stimate forti, né pur dovete esporvi alla occasione, mentre avete l’esperienza, che con tutta la vostra fortezza, siete caduti. Sovvengavi della bella riflessione di Plinio sopra del ferro, non v’è cosa, dice egli, né più dura, né più forte del ferro, questo sfascia baluardi, abbatte edifici, atterra città, tuttavia anche egli s’umana, e si lascia vincere da un sasso fosco di colore, vile di forma, e per migliaia d’anni reputato senza virtù. È questo la calamita che mostra genio sì superiore al ferro che lo muove ed agita ove gli piace, e lo necessita quantunque pesante, a slanciarsi per aria, a sé lo tira, quid ferri duritie tenacius, trabitur tamen a magnate lapide; non vi fidate della vostra fortezza, la forza, che ha la calamita nel ferro, l’ha l’amor della donna verso dell’uomo. Non me lo credete, ve lo confermi il seguente caso. S’amavano con amore diabolico un perfido giovine, ed una sfacciata donna, quando finalmente dopo una lunga tresca fu la femmina posta in un letto inferma, e perché la malattia fu di più mesi, ebbe la donna comodità di rientrare in se stessa, e parve del tutto mutata; Si confessò con molte lacrime e seguitò a detestare con replicati sospiri le colpe passate, finché il confessore, e la donna stessa pensarono di poter fare un passo, per verità troppo arrischiato, e fu di poter dare l’ultimo addio a quel suo padrone, nelle di cui mani era indegnamente vissuta, non con altro titolo però, che d’esortarlo a mutare anche esso vita, mentre vedeva à qual stato era ella ridotta , e a quello doversi anche lui ridurre; prescrisse dunque il Confessore le parole che doveva proferire la femmina alla presenza del giovine, e come doveva correggerlo; e per esser più sicuro dell’ottima riuscita, volle egli stesso introdurlo, e trovarsi presente al discorso. Ah Dio, che non bisogna stimarsi talmente forti, che si possa resistere alla occasione. Udite quanto diversamente riuscì il fatto dal concertato. Appena la femmina si vide colui presente, che risvegliati nel cuore gl’antichi affetti, si dimenticò totalmente di quella predica, che aveva sì ben premeditata a compungere il cieco amante, e fattane un’altra del tutto diversa, così parlò piena d’un empio furore con le braccia stese verso di lui: amico io v’ho sempre amato di cuore, ed ora convien che vi dica, che in questo ultimo v’amo più che mai; vedo che per voi me ne vado all’inferno, ma non m’importa, e voi siete la cagione, che io non temo l’eternità di quelle pene; e senza potere aggiungere altro di più, parte per l’estrema fiacchezza, parte per l’agitazione di quegl’affetti sì impetuosi, cadde supina sul letto, sopra di cui s’era alzata, e vi spirò l’anima con tanto orrore del confessore e del giovine che senza saper formar parola partirono più morti che vivi. Che dite, vi fiderete di porvi nelle occasioni sani, con dire: non cadrò, mentre i cadaveri stessi posti nelle occasioni non sanno resistere? O Dio, che le tornate per quella strada sotto qualsivoglia pretesto, ancorché santo, ricadrete; ah Dio, che se parlerete con colei sotto colore d’altro fine, di nuovo vi romperete il collo. Qual è dunque il rimedio per voi miserabili, che soliti a cadere, vi mettete nelle occasioni, non altro che seguire il consiglio di Dio nella legge vecchia: Recedite, dice Egli per Isaja, recedite nolite tangere, uscite fuori, ritiratevi dalle occasioni, e nell’uscire state attenti di non slungare neppure l’estremità d’un dito, perché vi resterete. Tali erano gl’ordini di Dio nella legge antica; più severi però sono nella nuova, ove intima ogni rigore per fuggire l’occasioni. Attenti alle parole di Dio per San Matteo: Si manus tua, vel pes tuus scandalizat te abscide, projice abs te; si oculus tuus scandalizat te, erue eum, et projice abs te. So che questo precetto non è litterale, ma metaforico, in modo che, come spiega Lirano: Per manum auxiliator pes pedem cursor, per oculum consiliarius intelligitur, cioè a dire, non solo devi lasciare colei, non solo la sua casa, il suo ritratto, quei nastri, quelle lettere, ma anche devi cacciar via da te colui che t’accompagna di notte, colei che ogn’ora porta le tue imbasciate. Abscide, projice abs te. Intendetela, dice Iddio, se l’occhio v’è occasione di peccare, io non voglio che si chiuda ma che si svelli dalla fronte. Se la mano, e il piede v’è d’inciampo ad offendermi, io non voglio che solamente si leghino, ma che si tronchino … Abscide … erue . – Dunque, chi dice tratterò, converserò, ma non peccherò, questa è legge nata nel vostro cervello, allorché stabiliste praticarla, ma non è legge di Dio, che vuole che si tronchi tutto. Notate inoltre una cosa più spaventosa: non dice solamente Iddio levati l’occhio, tagliati il piede, la mano; ma dice dopo che ti sei levato l’occhio, e tagliato la mano, il piede buttali via projice, projice. E perché, mi dirà qualcheduno, volete che io venga a tanto, mi caverò bensì l’occhio, che mi fu occasione di peccato; ma perché svelto dalla fronte più non vede, lo serberò chiuso in uno scrigno; mi taglierò quella mano, e quei piedi che mi diedero motivo a peccare; ma mentre divisi da me non hanno più modo da precipitarmi in peccati, li terrò in rimembranza de’ miei falli. No, no, veniamo a noi; terrò quella donna, dice taluno, non però più in casa propria, ma d’un amico, non vi andrò, non gli parlerò, gli scriverò bensì qualche lettera per creanza, non per malizia; se la manderò a salutare, lo farò, perché la gente non mormori, e perché la meschina trovandosi abbandonata affatto da me, non si getti al male. Olà, son diabolici i vostri pretesti. Erue, et projice, abscide, projice; lasciate colei tanto da lungi da voi, che non ne sappiate più nuova: non basta tagliare, bisogna gettar via da sé. – Racconta il Mattiolo d’un contadino, che segando un prato, tagliò con la sua falce per mezzo una vipera, e compiacendosi di sì bel colpo, pigliò in mano il tronco palpitante di quella serpe per insultarla; ma ben presto si accorse della sua temerità, perché ricevuto un morso, da quella bestia, morì sì subito che morì prima di lei. Tagliò costui Abscidit, ma non gettò via da sé, non projecit, e così se ne morì miseramente, e morì anche non compatito. Così appunto ha da intervenire a quel giovine; a quella giovine, i quali dopo aver troncata l’amicizia, la mala pratica, non sequestrano affatto ogni commercio di lettere, d’ambasciate, d’occhiate, hanno da rimaner morsicati sì malamente da questa vipera d’inferno del peccato mortale, che così non fosse, han da finire la vita con la dannazione dell’anima: Dio non la voglia.
LIMOSINA Uno de’ gravissimi errori, che siano al mondo è a mio credere, l’opinione fortissima, che molti hanno d’essere assoluti padroni del loro, finché possano spendere, spandere, e farne quel che loro piace, e anche a somiglianza di quei filofosi antichi gettarlo in mare per fasto. Non è così, ne sono padroni, ma con riserva, con obbligazione di ripartir tra poveri ciò che gl’avanzi, all’onesta sostentazione del proprio stato. Come è questo Padre, non potiamo far limosina, non è vero, perché volete più del vostro gatto: non mi fate dire, ma fate una larga limosina.
SECONDA PARTE
Tommaso Moro gran Cancelliere d’Inghilterra, avvisato una mattina per tempo che i carcerati, rotto il muro della prigione s’erano tutti fuggiti; rispose gentilmente al Bargello da cui era chiesto con ansietà di provvedimento. Farai così, cerca con ogni sollecitudine mastri e muratori, e fa chiudere ben presto quella apertura della muraglia per cui sono usciti, affinché non venisse voglia ad alcuno de’ fuggiti di ritornarsene dentro, motteggiando così gentilmente sopra d’un caso che non ammetteva rimedio. Questa risposta che in bocca di quel grand’uomo sommamente ingegnoso in certe ironie proprie d’un cuor magnanimo, fu uno scherzo. Questa dico, è presso di me il più serio ricordo che io possa dare a chi brama viver bene. Se voi con la divina grazia avete rotta la carcere, in cui vi teneva chiusi il demonio, siete usciti da quella casa, avete abbandonata quella conversazione sì pestilente, chiudete, chiudete quelle porte, per le quali siete felicemente usciti; non più in quel luogo, non più a quella veglia, non più con quella persona… fuggite. – Una delle occasioni maggiori di peccare sono i cattivi compagni. Quelli sono il precipizio di tant’anime innocenti; le loro parole son punte che uccidono. Eglino dicono che certi peccati sono il minore de’ mali, che Iddio compatisce: il Paradiso è per noi, e così fanno cadere. Guai però a questi che così parlano, perché certo sarà per loro quell’inferno, al quale incamminano gl’altri. Colà nell’Indie v’è una serpe nemicissima dell’elefante, la quale per vincerlo usa questo stratagemma: se gli attortiglia alle gambe, a prima che egli possa strigarsene, lo ferisce mortalmente nel petto. La frode però torna come sempre accade, in danno di chi l’ordì, poiché l’elefante ferito lasciandosi cadere in terra, col suo peso schiaccia il capo alla Serpe e l’uccide. Questo è un vero ritratto de’ cattivi compagni, i quali muoiono sotto la medesima rovina cagionata ad altri, e dopo d’aver così mandate molte anime all’Inferno, seguono ancor loro. – Racconta Tomaso Cantipratense, come un suo discepolo dapprima buono, e poi sedotto da un cattivo compagno, morì senza confessione, e morì con queste precise parole in bocca: Io me ne vado all’Inferno; ma guai a colui che mi tirò a peccare: Væ autem illi, qui me seduxit, e se disse così morendo, arguite cosa dovette dire morto, quando all’entrar che egli fece all’inferno, rimirò quei demoni sì spaventosi, sentì quelle fiere, sperimentò quelle fiamme, e vide chiudersi dietro quelle porte, che chiuse ad un tratto, non gli dovevano essere aperte mai più per tutti i secoli. – Che s’ha dunque da fare? lasciare i cattivi compagni che ci sono d’occasione per peccare: la pratica di quel giovine è la tua rovina, perché quando sei con lui, sempre discorri di laidezze, sempre stabilisci laide determinazioni; quando sei con quella compagna sempre tratti d’amori, sempre pecchi o con pensieri o con parole, o con opere. Lontani dunque da tutte le occasioni che vi portano al peccato: Ed a voi rivolto, cattivi compagni, e iniqui pervertitori de’ buoni, fò sapere, che siccome tra tutte le opere divine è divinissima il procurar la salute delle anime divinorum divinissimum est cooperari Deo in salutem animarum. Così il pervertire un’anima doverà stimarsi tra tutte l’opere diaboliche, la diabolicissima. Come è possibile, che non capiate questo gran peccato; voi togliete compagni agl’Angeli, compagni a’ Santi, alle Sante Anime, a Cristo, e non tremate? Rubare a Cristo un’anima, che gli costa Sangue, Croce, Vita, per darla al diavolo, si può far di peggio? Dio immortale, se voi in un dì solenne vedeste entrare in questa Chiesa un uomo talmente sfacciato, il quale portandosi ardito all’Altare maggiore, allorché è più riccamente addobbato, lo saccheggiasse e perciò si mettesse a trinciar veli, e paliotti, a romper patene, e calici, non correreste a gridare: trattenete quel sacrilego, dategli, dategli? Lo vorreste calpestar co’ vostri piedi. Or sentite me, andate pure, levate a Cristo quanti arredi più splendidi ha ne’ suoi Altari, incendiateli, inceneritili, e poi sappiate che meno infinitamente d’oltraggio gli sarete, di quel che gli facciate à levargli un’anima, allorché la volete complice ne’ vostri peccati. Pensate dunque a’ casi vostri. Che vuol dire che tanti sono in occasione prossima di peccato, e pure non se ne levano? (Perdonatemi sacri confessori) tutto il male vien da voi. Deh non dispensate il Sangue di Cristo nel Santissimo Sacramento della Penitenza, trattenete quella mano sacerdotale, non assolvete chi non leva l’occasione prossima del peccato, potendo; altrimenti si rinnoveranno in voi le miserie di quel confessore che facile ad assolvere chi non levava l’occasione prossima, insieme con lui si dannò.
DI FULVIO FONTANA Sacerdote e Missionario DELLA COMPAGNIA DI GESÙ
Venezia, 1711. – Imprim. Michel ANGELUS Præp. Gen. S. J. – Roma 23 Aprile 1709)
IN VENEZIA, MDCCXI (1711)
PREDICA TERZA
Matt 5:13-19
Ego autem dico vobis: diligite inimicos vestros .
San Matteo al c. V.
Nella Feria festa delle Ceneri.
Chi perdona l’offese ricevute dall’Inimico, nulla perde di reputazione; molto acquista d’onore, perché segue l’Esempio di Cristo, perché obbedisce al comando di Dio.
Disse pur bene Temistocle, allorché rispose à colui che gli si offriva d’insegnarli il modo e l’arte di ritenere a memoria quanto mai avesse bramato ricordarsi; poiché gli soggiunse, che cola assai più grata gli avrebbe fatto, se gli avesse insegnato il modo di torsi dalla memoria quanto talora è, non solo utile ma necessario dimenticarsi: Gratius sibi facturum, si se oblivisci, que vellet, quam si meminisse docuisset. Piacesse pure al Cielo, che vi fosse una simile arte; certo, che, se vi fosse, moltissime serpi di discordie nascenti e potrebbero appena nate, strozzate: certo, che con facilità si potrebbero togliere dal cuore quelle piccole spine, che scovate, altro non producono che ferite, e talora mortali; si potrebbe togliere dall’animo quel picciolo veleno di disgusto, che tenuto qualche tempo, infetta le vene con tossico mortale di crudi risentimenti. Ma nostra disgrazia: una si’ bell’arte, di dimenticarsi quanto talora è necessario scordarsi, non v’è. Che faremo dunque per togliere dal cuore degli Uomini la brama delle vendette? Ricorreremo alla grazia, e con l’ajuto di questa, mostrerò esser gloria perdonare: tanto più, che si segue l’esempio di Cristo, il comando di Dio che vuole il perdono delle ingiurie, e son da capo. Orsù dunque, ditemi qual è il motivo, che vi suscitò lo sdegno, e vi dà impulso alla vendetta? grande, voi mi replicate, sono stato oltraggiato nella riputazione, danneggiato nella roba, perseguitato nella vita, ha operato con me da furbo, da scellerato: conviene che mi vendichi, altrimenti, vi rimetto del mio onore, della mia riputazione. Piano, piano, date luogo alla passione per conoscere apertamente quanto v’ingannate, con dire, che se non vi vendicate, vi rimettete d’onore, e di riputazione. Consideriamo attentamente questa verità. Ditemi, chi compone, chi forma il mondo? senza dubbio i consigli, i Magistrati, i Governatori, i Principi, gli Ecclesiastici, o Secolari. Or questi asseriscono che sia vergogna il perdonare? Appunto anzi questi con intimar castighi, e con fulminar censure parlano con lingue di spavento, non esser vergogna, ma gloria il perdonare. E se pur volete dilatar questo mondo, non vi porrete à formarlo, salvo, che di dotti, di savj, e di pii: ed è pur vero, che quanti sono i dotti, ed i savj, altro non fanno, che impiegarsi nello stabilimento della quiete, della concordia, della pace, ed i pii ben spesso a tale effetto porgon preghiere a Dio, acciò si estirpi ogni odio dal cuore de’ vendicativi, dunque non è vergogna perdonare. Voi mi replicate, che tanto v’è un mondo, benché picciolo, il quale afferisce esser vergogna il perdonare. Questo vostro mondo; v’intendo, è una combriccola di quattro cervelli sventati, che vivono a stampa, e senza coscienza, e con una tintura di politica diabolica, e presso di voi avrà più forza un tal piccolo mondo, e non l’avrà quel mondo vero composto di Magistrati, di governatori, di dotti, di savj, di pii? Anzi mirate quanto è stolto questo vostro mondo, su di cui v’appoggiate. Egli se or che siete sano, vi dice, che se perdonate vi rimettete del vostro onere; di li a poche ore, se per disgrazia sarete moribondo, vi dichiarerà per infame, se non perdonate. Mi meraviglio di voi. S’acquista gloria a perdonare l’ingiurie, a rimetter l’offese. Eh, che non si perde, torno a dirvi, di riputazione a perdonare all’inimico. Sapete quando vi rimettete del vostro onore, della vostra riputazione? allor che fate fare, o stendere quei testamenti, che cominciano col nome di Dio, e finiscono con quello del diavolo: allorché praticate quelle usure, opprimete la vedova, assassinate i pupilli, litigate contro ragione. Allorsì, che vi rimetti del tuo onore, o donna, quando porti le ambasciate, i biglietti, i regali, ma non già quando perdoni al prossimo; allora sì, quando presti la casa, dai la comodità , fai la guardia, o allora sì, che vi rimetti del tuo onore: del tuo onore vi rimetti a condur la Figlia in quelle veglie, a lasciar venire in Casa gli amanti: o qui sì, che vi si rimette del tuo onore, e già si sparla, come di riputazione perduta. Se bene in materia di tanta importanza trattandosi di riputazione, non voglio che crediate a me ma a voi stessi; il seguente caso, che son per narrarvi, vi ha da far decidere, se veramente si perda di riputazione, o pur si acquisti d’onore nel perdonare. Uditelo, e preparatevi al pianto, perché certo non si può sentire senza tributo di lacrimare. Narrano le storie della minima mia Compagnia di Gesù come una gran dama rimasta in stato vedovile, e con ampie facoltà, avea per frutto delle sue nobilissime nozze un figlio in età di diciasette anni, unico erede di tutte le sostanze, pupilla degli occhi suoi. Or mentre questi stavasene un dì ordendo in mezzo alla strada un certo giuoco, si abbatté a passare un forestiero, il quale accidentalmente glielo scompose. Si sdegnò il nobil garzone, e con alcune parole resistente ferì si altamente l’animo del forestiere, che tirato mano alla spada, gli stese una stoccata sì fiera, che colpitolo nel mezzo del petto lo passò banda a banda, e lo stese sepolto, e morto nel proprio Sangue. Affacciatasi in questo mentre alla finestra la madre vide e che vide? Vide estinto dentro un lago di sangue l’unico erede delle sue sostanze, il caro suo Figliuolo. Immaginatevi qual dovesse essere il dolore; ma che? come donna di gran pietà, alzati gli occhi al Cielo, se non frenò le lacrime, certo compose il cuore rimettendosi al divino volere. Frattanto l’uccisore cercando scampo entrò nella prima casa che trovò aperta e appunto era quella dell’estinto; salì le scale, giunse alla sala, s’inoltrò nelle camere ove veduto dalla madre col ferro in mano, imbrattato nel sangue del figlio, sentissi richiedere di ricovero; al che ella prontamente condiscese e frettolosa ordinogli un lauto pranzo; e prima di porlo a tavola, volle ella pure dar da lavare a quelle mani intrise nel Sangue del suo unico figlio; ella pure il servì a mensa, la quale terminata gli disse: or sappiate, o figlio, dico figlio, perché avendomi voi tolto con questo ferro l’unico figlio che avevo, voi prendo, e voglio per figlio. Sentite, in niun luogo voi siete meno sicuro che in questo, nel qual presto sarà la Corte. Io pertanto vi consiglio a partire; eccovi in aiuto questa borsa piena d’oro, e vi servirà per il vostro viaggio; andate alla stalla, e qui vi troverete un buon cavallo, quello pure prendete, col quale potiate presto uscir di Stato. Più voleva dire, ma fu costretto à dar sfogo alle lacrime. Che dite, o stolti vendicativi? vi pose del suo onore in perdonare questa signora? Eh, che voi stessi asserite, che non vi rimise d’onore, ma l’acquistò per atto sì bello. Se non vi avesse acquistato d’onore, che accadeva, che s’impiegassero le penne in lasciarci memoria di sì bel fatto? e fu quello, che dié nome di strada pia, a quella strada, ove è il nobil palazzo. Ah sciocco, e avrai più ardire di dire che vi rimetti del tuo onore a perdonare l’ingiurie? del tuo sì, e del più prezioso vi rimetti a non perdonare, perché vi metti l’anima. – Ecco, o vendicativo, sbattuto il tuo gran motivo di vendetta; e perciò, quando tu non ti arrendi al perdono, io non so più, che dirmi; salvo che richiederti à specchiarti in questo Cristo , e à riflettere qual esempio Egli ti abbia dato di perdono: starò à vedere, che tu ardisca né pur di pensare di rimettervi del tuo onore à seguir l’esempio di Cristo, magna gloria est sequi Dóminum. È certo, che l’esempio d’un grande ha forza maggiore per muovere alla sua imitazione: bastò, che Abimelecco, Re bisognoso di molte legna per certe funzioni di Guerra ne togliesse con mano reale un pezzo, perché tutti, non solamente soldati, ma uffiziali più riguardevoli, se li ponessero sulle spalle. Rifletti un poco a belli esempi, che ti ha dato questo Cristo, supremo Monarca Principe degli Angeli e degli uomini; che esempio diede? quante grazie compartì Egli ai Pontefici, a’ Farisei, che lo perseguitarono? pareva che gli strapazzi fossero per quei ribaldi semenze di beneficj. Qual dolcezza mai mostrò a Giuda, dandogli fino con le sue mani il suo Sangue nella Eucaristia? Acciò se ben l’aveva venduto, ad ogni modo fosse suo. Che clemenza non praticò con quel Malco, che più sacrilego di tutti gli altri ardì d’essere il primo a mettergli le mani addosso? gli rese con un miracolo l’orecchio recisoli da San Pietro; quasi che poco gli paresse di beneficare in altra guisa quell’empio, se non metteva mano all’Onnipotenza. In somma la sua Santissima Passione fu un gran compendio per sé d’oltraggi, e per i suoi nemici di grazie; sicché fu Cristo simile al sole, che quantunque ingombrato da nuvole, ad ogni modo fà benefizj; simile ad una pianta fruttifera, che dà i suoi pomi anche a quelli stessi che la percuotono. Ah, che se questi furono rari esempi d’amore verso chi ci maltratta, furono però come piccoli indizj di quel massimo, che ci diede sulla Croce, e fu veramente degno di un Dio. Udite: Pater, dice Egli rivolto all’Eterno Padre, Pater ignosce illis, Padre, Eterno Padre, il vostro Unigenito vuole una grazia da Voi prima di morire: domanda o Figlio: che perdoniate … e a chi? a chi m’ha tradito, condannato, crocifisso, Pater ignosce: a chi? a chi con duri chiodi m’ha confitto le mani; Pater, … dì Figlio a chi? A chi m’ha traforato i piedi, me li ha fermati su questo legno; Pater ignosce, si Figlio, perdonerò: perdonate a chi da capo a piedi m’ha flagellato, a chi m’ha coronato di pungentissime spine. Pater ignosce: à chi? A chi m’aprì con dura lancia questo costato. A chi? A chi m’ha posto in Croce; a chi? a chi mi toglie la vita, a chi mi dà la morte: Quis appetitus, griderò io con Ambrogio, non discat ignoscere, quando pro persecutoribus Christus orabat? E chi sarà, che sdegni di perdonare se Cristo chiede il perdono per i suoi nemici con tante bocche, quante sono le ferite? Qual vendicativo sarà sì protervo, che vedendo il Re de Regi, che perdona, voglia ostinato a vendicarsi, non voglia perdonare? Se vi è, esca di Chiesa: non deve star qui superbo contro di chi l’offese; se Cristo spasima sulla Croce per chi l’oltraggiò. Gran cosa? Cristo perdona, mentre vogliono, a tutti; e tu non vuoi perdonare né pure ad uno; perdona un Figlio di Dio; e non vuoi perdonare tu, che sei Figlio della putredine, creatura vilissima. Cristo ha perdonato a te tante volte; e tu non vuoi perdonare neppure una volta. Cristo perdona ancorché non sia pregato; e tu nieghi di perdonare, pregato non solo dagli uomini, ma dai Santi, dalla Vergine, da Dio: si può vedere ostinazione più sacrilega di questa? Or va, va’ maledetto e già che non ti muove l’esempio di Cristo, bisogna dire, che non sei, o non meriti d’esser Cristiano. Ecco, vedi, ecco Cristo, che ti volta le spalle da questo luogo, come appunto te le rivolta anche dal Cielo. Mio Dio, parlo contro di chi non vuol perdonare; mio Dio perdonatemi, fatelo strangolar da’ diavoli, e non riceva perdono da Voi chi non seguendo il vostro esempio, sfacciatamente lo nega; prima che parta da questo tempio abbandonatelo affatto, e con i vostri chiodi piantategli in mezzo al cuore l’eterna sua dannazione. Deh lasciate che con libertà io parli. Sacri Pastori, ordinate con comando irrevocabile che si tolgano via dalle Chiese gli adorati Tribunali della Confessione e voi Ministri riveriti del Tempio prontamente eseguite. Non è dovere che Dio perdoni le offese a chi non perdona; e quel Sangue di Gesù, che si sparge a salute di chi perdona, sia a dannazione di chi vuol vivere vendicativo. Se bene a che stancarmi? Dio comanda, tanto basta, conviene a forza obbedire. Iddio comanda: che rispondi? La mia riputazione: non importa, perdona. La mia robba: non importa: voglio, perdona. La lite ingiusta: non importa: voglio, perdona. È ancor caldo il cadavere del figlio, del marito, del fratello, del cognato: non importa: voglio, perdona. Che dici? Che rispondi? Bene t’intendo; tu mostri di non saper chi sia quel Dio che ti comanda: odi e inorridisci. Olà teste altere, teste superbe, teste balzane inchinatevi, abbassatevi, umiliatevi. È Dio che parla, e parla a voi con comando: or non parla per bocca mia a Turchi, ad eretici, a scismatici, a gentili, a diavoli, che o lo negano, o lo strapazzano, o non lo conoscono, o l’odiano; ma parla a voi, che avete la fronte bagnata d’acque battesimali. Sapete chi è quello che vi comanda il perdonare all’inimico? Egli è quello che scarica le tempeste sopra de’ tuoi campi; quello che manda le mortalità negli armenti; quello che in un sol giorno ha fatto morire trenta mila persone nella Città di Genova e di Napoli in un sol dì, percuotendole con fiera pestilenza. Egli è quello che ti ha scosso da’ fondamenti con fiero Terremoto la tua abitazione. Egli è quello che è Padrone assoluto della tua roba, de’ tuoi, di te! Egli è quello che postquam occiderit corpus, habet potestatem mittere in gehennam, che dopo d’averti posto il corpo morto in terra, ha podestà di piantarti l’anima nell’inferno per tutta l’eternità. – Questo è quel Dio, di cui dice il Santo Giobbe, che con un fiato solo può incenerirvi, vidi eos qui operantur iniquitatem fiante Deo, periisse; non dice folgorante, non dice fulminante: ma fiante, perché se Dio vuole, tutti ad un’ora ci può con un soffio distruggere: Spiritu labiorum suorum, dice Isaia, interficiet impium. Or questo Dio sì grande, e sì potente ti comanda, che tu non odii l’inimico, che vale a dire, non gli trami la morte, non gli scriva contro, non fomenti la giustizia, non gli tolga la roba, o reputazione; ma di più, quando tu dicessi di non fare niuna di queste cose, e di non odiare il tuo prossimo, Egli anco vuole, che tu dia segni aperti di non portargli odio, e perciò lo saluti, gli parli, non gli volti le spalle, non abbandoni i compagni quando egli sopraggiunge; hai da trattare (questa è la legge di Dio) il cittadino da cittadino, il fratello da fratello, la sorella da sorella, il parente da parente. Vi saranno (così non fosse) tra’ miei Uu. parenti, che non parlano con altri parenti; fratelli, che non trattano con i fratelli; e talora figli, che passeranno i mesi senza parlare con i loro padre, e madre. Questo modo d’operare vi tiene in peccato mortale: perché Iddio comanda, non solo, che non odiate, ma di più, che dimostriate di non odiare. Oltre di che, questo negare questi segni communi, apertamente palesano l’odio che avete in cuore. A me potete dire non odio ma non già a Dio, che è Scrutator cordium. Né mi stare a dire: tocca a lui parlare il primo, io son l’offeso; e io ti dico che tocca a te che sei l’offeso, perché tu sei quello che per ordinario hai il rancore, e l’odio e perciò a te spetta per ritornare in grazia di Dio. Presto, su obbedisci: dà la pace, parla al tuo prossimo, dagli segni che non l’odii; e sarà per vero, che per alcuni io getterò al vento queste mie parole; Dio immortale; che offeso si vendichi il Turco, lo Scita, il Barbaro, non dico nulla; i costumi degli Idolatri non son discordi dagl’Idoli: ma che si vendichi chi adora Cristo Crocifisso che perdonò a’ crocifissori, Pater ignosce illis, o questo sì che non l’intendo: Christianus nullius est hostisaut si est, jam non est Christianus. Il Cristiano, grida Tertulliano, non è nemico d’alcuno, o se è, non è Cristiano. Son onorato: son cavaliere, son dama: tacete e umiliatevi teste superbe, e se Dio vi comanda, che vi gettiate la testa ai piedi, non che perdonate all’inimico, abbiate a gloria di marcirli avanti decapitati. Son onorato, son cavaliere, son dama: siete cenere e polvere, e balzerete nell’inferno, se non perdonate; e ve lo testifichi il seguente fatto, tanto decantato ne’ pergami. S’odiarono lungamente due nemici senza salutarsi, senza parlarsi. Ammalossene uno e in breve tempo fu spedito da’ medici; gli furono attorno i parenti, amici confessori perché deponesse l’odio, parlasse all’inimico; tanto si disse che il moribondo s’indusse a dar la pace e a voler parlare; fu condotto l’avversario, il quale anche pieno di livore senza punto intenerirsi allorché si sentì domandar dal moribondo la pace, lo schernì col dirgli che la domandava perché era in quel punto, e gliela negò. Allora il moribondo, richiamati li spiriti di vendetta, si scagliò con quel poco di fiato che aveva contro l’inimico; l’ingiuriò, lo maltrattò di parole, ne stabilì la vendetta; e così pieno di rabbia spirò. E che credete forse, che non facesse la vendetta? la fece, poiché indi a poco tempo, allorché l’inimico si trovava pella piazza in un circolo di compagni comparveli avanti a vista di tutti un’ombra terribile, con una mazza di ferro in mano, e … olà, gli disse: son venuto a fare le mie vendette; e già che siamo stati nemici nel mondo, voglio che tali siamo per tutta l’eternità, e datagli con fiero colpo la mazza di ferro in petto, lo stese morto a terra, e seco condusse l’anima all’inferno. Questo è il fine di chi tien rancori in cuore, e non vuol perdonare: Pensate a’ casi vostri.
LIMOSINA. Cosimo Serenissimo Gran Duca di Toscana, e primo di questo nome discorrendo un giorno delli interessi di sua Corte col Mastro di Casa; sentì dirsi da questo, che troppo era liberale nel far limosine; al che il savio Prencipe: orsù, disse, bilanciate di grazia qual sia più; se quello che ho io ricevuto da Dio, o pure quello io gli dò ne’ Poverelli; e se sarà più quello che do ai Poveri, ritirerò la mano. Ecco le belle parole registrate nella vita in ratione dati, et accepti, numquam eo devenire potui, ut Deum debitorem, me autem creditorem inveniam. Ditemi, dico io a voi, di quel che Dio v’ha dato, ne date voi la metà? che dissi la metà? un terzo, un quinto, una centesima parte a’ poveri di Cristo?
SECONDA PARTE.
Questa Predica non è per noi, per grazia di Dio, nella nostra Patria non vi sono fazioni; non vi sono inimicizie; ma quanti rancori nel cuore; ma quante brame di nuocere; ma perché non si parla a quel vostro prossimo? perché non si saluta? Perché né pur parlate ai vostri parenti, talora ai fratelli, sorelle, suocere, nuore, padri, e figli, madri, e figlie. O Padre, non li voglio male. Non basta, non li torcerò un capello. Non basta per essere in grazia di Dio. Sentite ad iracundiam me provocavit Efraim in amaritudinibus suis. Non dice, perché ha ammazzata, rovinata quella Famiglia, ma perché ha de’ livori nel cuore non parla, non saluta. Or dovete sapere che la legge di Dio non solo comanda che non si ammazzi, non si odia nel cuore; ma che si dia evidenza di non odiare. Siete obbligati à dar segno di non aver odio nel vostro cuore; e però quei segni che si chiamano di benevolenza comune; e questo è un obbligo di precetto. Siete per tanto obbligati a dar quei segni di parlare, di salutare, di visitare nelle proprie case alle occorrenze, come comunemente si pratica con tutte le persone di simil forte, cioè à dire da’ parenti con i parenti, da’ vicini con i vicini, da’ paesani co’ paesani. O Padre! quantunque m’abbia ingiuriato non gli voglio male; ma non voglio trattar con lui. Primieramente nego che non gli vogliate male; perché ne sparlate; perché sempre interpretate male le sue azioni; vi dispiacciono i suoi avanzamenti, godete del suo male; vorreste che tutto il mondo fosse contro di lui del vostro umore. Mirate vedete quel fumo? Padre sì. Che v’è sotto: il fuoco, non è vero? Padre no, eh appunto. Fumo; dunque fuoco; non parlare, non salutare: fumo; dunque fuoco di livore. Orsù via, son con voi, si annida nel vostro cuore la carità necessaria; ma i segni di benevolenza comune, ove sono bisogna pur praticarli. Non siete in una Milano, in una Roma, ove comunemente non si parlano, e non si salutano i concittadini. Qui non è così; perché siete solito alle occorrenze di ragionar con tutti. Son contento, dirà taluno, di parlare a chi m’ha offeso; ma non voglio essere il primo. Sapete chi ha da essere il primo? quello che ama più l’anima sua. Sapete chi ha da essere il primo? quello che è stato offeso. O Padre questo è contro ogni dovere. V’ingannate. Chi ha bisogno di guarire? quello che ha offeso, o quello, che è stato offeso? l’offeso che ha il rancore nel cuore; dunque questo parli: O Padre non sono obbligato (ve la passo) e… Iddio non ha obbligo di darvi il Paradiso. Guai a voi, se Dio avesse i vostri sentimenti; certo il Paradiso non l’avreste; perché si protesta di voler usar con voi quella misura di misericordia che voi usate col vostro prossimo. Con questa occasione contentatevi, che io vi dica che non so capire il vostro operare. Voi avete bisogno per i vostri peccati della abbondanza della misericordia Divina, la domandate; Dio ve la promette, purché voi abbiate misericordia del vostro prossimo. E voi, che dite? Signore, voglio sì la vostra misericordia; ma niente ne voglio usare al mio prossimo: v’ingannate, dimittite, dimittemini. Io non gli voglio male; ma non lo voglio vedere; non lo voglio in Patria. Iddio non vi vuol male; ma non vi vuol vedere? non vi vuole in Paradiso. O stolti il Paradiso è vostro, e non volete perdonare. Quelli, che avranno de’ nemici, hanno, se vogliono, il Paradiso in pugno, e doppo d’aver perdonato possono dire con lieta fronte al Signore: Signore io voglio il Paradiso; me l’avete promesso, se perdono; ho perdonato, lo voglio: e vi vorrete privare d’un tanto bene, della grazia del Principe per quel livoretto, per quella ostinazione di non parlare, di non salutare? O se sapeste! m’ha offeso, m’ha danneggiato nella robba, nella persona, e per questo vi si dice, che facciate la pace, che parliate perché v’ha offeso; se v’avesse regalato, non accadrebbe altro. M’ha offeso di tal modo, che se non erano i miei Avvocati, la Vergine, il Signore, restavo sul tiro. Si eh? Presto dunque la pace, per corrispondere alla grazia ricevuta di non essere restato morto col corpo sopra la terra, con l’anima sepolta nell’inferno. Orsù finiamola; o lasciare i rancori, gli odii , o parlare al suo prossimo, di voltar le spalle al Paradiso, ai Santi, alla Vergine, a Dio; una delle due: aut cum Christo, aut cum diabolo nos esse oportes; eligamus quod volumus, o con Cristo perdonando, o col diavolo vendicandoci. Sento che ogn’uno mi risponde: pur che si stia con Dio, si lascino i rancori, gli odii, le vendette, si parli al prossimo; si saluti; gli si presti ogni offizio di cristiana benevolenza. Ecco dunque, che per stabilirvi il Paradiso, prendo la penna in mano, e immersa nelle Piaghe Santissime, stendo col sangue d’un Dio fatto Uomo la formola del perdono a’ nemici. Attenti, chi vuol salute: si turi gli orecchi chi non si cura della Eternità beata. Io, mio Redentore per quell’uffizio, che indegnamente sostengo su questo luogo a nome di questo popolo, mi dichiaro, come ogni vendicativo depone a’ vostri piedi adorati tutte le ingiurie che abbia mai ricevute; qui sacrificano i loro sdegni; qui scannano i loro odii per vittime al vostro amore; e benché assai loro scotti privarsi di quel diletto, che seco porta la vendetta, con tutto ciò, perché voi così comandate, vogliono obbedirvi; offeriscono per tanto la pace all’inimico, e perdonano a tutti. Voi altresì, mio Dio, perdonategli le loro colpe, con quella pietà con cui essi perdonano a’ loro nemici; e quando da’ demonj in punto di morte saranno accusati al Divino Tribunale; Voi siate il loro difensore e Protettore già che per Voi perdonano le offese ricevute. Evvi qui alcuno tra quelli che hanno ricevute ingiurie, il quale recusi soscriversi? Se v’è, parli: Si dichiari: perché quando vi sia uno di tal sorte, il quale non voglia soscriversi: io allora divenuto contro di lui tutto fuoco, con questo medesimo Sangue scriverò per lui sentenza d’eterna dannazione. Muoja, grido, muoja l’indegno, perisca chi nega a Cristo domanda sì giusta, e questo Sangue, che doveva salvarlo, questo lo condanni al fuoco eterno. Non trovi pietà, non impetri da Voi misericordia, mio Dio, chi non vuol perdonare. Prevalgano i suoi avversarii; cada egli vittoria de’ suoi nemici: resti vedova la consorte, orfani i figli, senza trovare né tetto che li accolga, né veste che li ricopra: si dissipi la sua roba, si estermini la sua casa: disperdat de terra memoria ejus pro eo, quod non est recordatus facere misericordiam. Sia giudicato al Tribunale Divino senza misericordia chi non fece misericordia. Vendetta! gridino le creature tutte: vendetta gli Angeli, vendetta i Santi, vendetta i demoni tutti, tutti gridino vendetta! cum judicatur exeat condemnatus: fate, che nel partire dal vostro Tribunale piombi nell’inferno, dilexit maledictionem, et veniet ei, noluit benedictionem, elongabitur ab eo. Ma a che tanto riscaldarmi? Eh, che qui non vi è persona sì sacrilega che voglia negare a Cristo il perdono, che domanda per chi l’ha offeso. No, no, anzi che son sicuro che ognuno sottoponendo le proprie passioni a’ Divini Comandi è risoluto di perdonare all’inimico, di parlargli, di salutarlo; né si porterà al riposo della notte con questo aggravio nell’anima, con pericolo di balzare dal letto nelle fiamme infernali. lo quanto a me voglio credere che tutti siate per riconciliarvi col vostro prossimo; e per darvene maggiore impulso, contentatevi, che io dia un motivo assai gagliardo alla vostra cortesia che certo alla generosità del vostro cuore, e alla nobiltà del vostro animo sarà di non poco momento. Voi vedete cari miei UU. che io qui per la salute delle anime vostre non perdono a fatica, a stento; e voglio credere, che darei con l’ajuto di Dio, quando tanto bisognasse per salvarvi, il sangue delle mie vene. Se così è, come è verissimo, come potrò credere che voi non siate per farmi la grazia, che sono per domandarvi? Sì, si la spero. Su dunque corrispondere alle mie povere fatiche: e o che contento sarà il mio, se ottengo questa grazia! E qual è ? Eccola, che voi per amor mio rimettiate tutte le ingiurie al vostro pressimo: gli perdoniate, gli parliate, lo salutiate. Su, fatemela, non mi negate questa consolazione. Ma che dissi. O che rossore, o che vergogna mi ricopre il volto! io pretendere per ricompensa delle mie povere fatiche una grazia si grande? perdonatemi, fui troppo ardito. Non avete da fare la pace per amor mio; non avete da parlare, non avete da salutare il vostro nemico per amor mio; o questo no, ma per amor di questo Cristo, forse non lo merita? forse i benefizi che Egli v’ha fatto non meritano una tal corrispondenza? E non è questo Cristo che vi mantiene la sanità, che vi dona le sostanze, che v’arricchisce di figliolanza sì degna, che con la sua misericordia v’ha liberato dall’inferno meritato con tanti peccati, ed or che state immersi in quelle disonestà pur vi sopporta? A che dunque si tarda? Si corrisponda ad un Dio sì buono, e sì benefico. Pace, amato popolo, pace. Cristo è quello che ve la chiede. Egli è il Principe della pace … Sovvengavi che altro non volle in tutto il tempo di sua vita, che pace: pace nella morte, pace dopo la sua morte; pace amato popolo, pace. Quando venne al mondo questa Ei portò, cantata dagli Angeli: Gloria in excelsis Deo, et pax in terra: Pax hominibus. Pace sempre insegnò a’ suoi discepoli: primum dicite pax huic domus; pace ci lasciò nel morire: Pater ignosce illis; pace nel risorgere: Pax vobis; pace finalmente mandò dal Cielo allorché mandò lo Spirito Santo, il quale altro non è, che Spirito d’unione e di concordia… Questa pace santa scenda dunque ora dal Cielo, questa riempia i cuori di quanti m’ascoltano. Ah, sì, che mi pare di vederla: eccola, eccola. Aprite i vostri cuori per riceverla; e non vi sia alcuno che strettamente non l’abbracci. Certo si ha da vedere a chi si ha da dar vinta, o a Dio, o al diavolo. E vi sarà chi voglia darla vinta al diavolo? Dio ce ne liberi.. Viva Gesù, Viva Gesù. Frema pure, schiamazzi, si disperi l’inferno tutto a suo dispetto, ha da regnare la pace; questa ha da togliere i rancori tra congiurati, le differenze tra congiunti; questa ha da unire popolo a popolo, casa a casa, famiglia a famiglia; non v’hanno da essere più dissensioni, e per amore di chi? Per amor di questo Cristo. Viva Gesù, Viva Gesù, sol non occidat super iracundiam vestram; non vi sia chi si porti al riposo della notte senza esser riconciliato col suo prossimo, acciò regni la pace fra noi in terra: sicura caparra della futura in Cielo.