UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO; S.S. LEONE XIII – “PATERNA CARITAS”

Questa lettera indirizzata ai Vescovi Armeni rientrati nell’obbedienza alla Sede Apostolica di Roma, è piena di gioia per la desiderata unione al Corpo mistico di Cristo, che è in terra la Chiesa Cattolica, di questi fratelli un tempo lontani dall’ovile di Cristo, erranti senza la guida del supremo Pastore, il Vicario di Cristo, il Romano Pontefice. Ecco il vero ecumenismo, l’accoglienza di tutti i popoli, di tutti gli uomini nell’unica Arca di salvezza, la Chiesa cattolica con un atto di fede ed obbedienza a Dio e per Lui al suo Vicario in terra. Ben diverso è l’ecumenismo massonico-modernista che, cambiando significato al termine, lo intende come accettazione di ogni culto, indifferentemente riferito al vero Dio-uomo incarnato, o ad entità dichiaratamente anticristiche, cioè demoniache, come opportunamente ci ricorda il salmo XCV, … gli dei dei gentili sono i demoni. Con questo trucco linguistico, la falsa chiesa modernista, sta attuando il piano massonico degli infiltrati, di omogeinizzare in un solo minestrone i culti religiosi per traghettare poi il tutto verso la pseudo religione unica mondialista, quella dell’anticristo, il falso messia del transumanesimo.

Leone XIII
Paterna caritas

Lettera Enciclica

La paterna carità con la quale abbracciamo tutte le componenti del gregge del Signore è tale, per la sua forza e per la sua natura, che risentiamo, come in un’intima e costante comunione di sentimenti, tutto ciò che accade di propizio o di avverso nel mondo cristiano. Pertanto, come un grande e continuo dolore si era impadronito del Nostro cuore per il fatto che un certo numero di Armeni, principalmente nella città di Costantinopoli, si era separato dalla vostra fraterna società, così sentiamo ora una gioia tutta speciale e ardentemente desiderata nel vedere che tale discordia si è, grazie a Dio, felicemente sedata. Ma mentre Ci rallegriamo della concordia e della pace che vi sono restituite, non possiamo fare a meno di esortarvi a conservare con cura e a sforzarvi anche di accrescere questo grande beneficio della bontà divina. Per ottenere questo, cioè intendere la stessa dottrina e provare gli stessi sentimenti in ciò che concerne la Religione, bisogna che restiate tutti costanti, come lo siete, nell’obbedienza a questa Sede Apostolica; e quanto a Voi, cari Figli, dovete essere fedelmente sottomessi e obbedienti al vostro Patriarca e agli altri Vescovi che hanno il diritto di dirigervi. – Ora, siccome per scuotere questa religiosa concordia spesso viene l’occasione sia di contrasti negli affari pubblici, sia di contestazioni nelle cose private, dovete scongiurare i primi con quel rispetto e quella sudditanza che così lodevolmente manifestate verso il supremo Principe dell’Impero Ottomano, di cui Noi conosciamo bene lo spirito di giustizia, lo zelo per conservare la pace, e le eccellenti disposizioni a Nostro riguardo dimostrate da brillanti testimonianze. – Quanto alle contestazioni e alle rivalità, ne sarete agevolmente liberati se imprimerete profondamente nel cuor vostro e terrete presenti nella vostra condotta i precetti che San Paolo, l’Apostolo delle genti, dà a proposito della perfetta carità, la quale “è paziente e benigna; non è invidiosa, non agisce inconsideratamente, non si gonfia d’orgoglio, non è ambiziosa, non cerca i propri interessi, non si adira, non pensa al male” (1Cor XIII, 4-5). Inoltre questa eccellente e perfetta concordia degli animi vi assicurerà un altro beneficio, perché per merito suo potrete accrescere, come abbiamo detto, e fare sviluppare sempre più i risultati della pace e della restituita concordia. Infatti essa farà rivolgere su di Voi gli sguardi e i cuori di coloro che, pur avendo in comune con Voi la razza e la nazionalità, tuttavia sono ancora separati da Voi e da Noi, e non si trovano nel sacro ovile, di cui Noi abbiamo la custodia. Vedendo l’esempio della vostra concordia e della vostra carità, essi si persuaderanno facilmente che lo spirito di Cristo vige fra Voi, perché Egli solo può unire i suoi a Se stesso in modo tale da formare un solo corpo. Voglia Iddio che essi riconoscano ciò e decidano di ritornare a quell’unità da cui i loro antenati si sono separati! – Certamente accadrebbe loro d’essere inondati da una indicibile gioia vedendo che, per mezzo della loro unione a Noi e a Voi, sarebbero anche uniti a tutti gli altri fedeli che, nel mondo intero, appartengono al Cattolicesimo; comprenderebbero allora che essi si troverebbero negli abitacoli della mistica Sionne, alla quale sola è stato dato, secondo i divini oracoli, di rizzare dovunque le sue tende e stendere su tutta la terra i veli dei suoi tabernacoli. – Per altro sta principalmente a Voi, Venerabili Fratelli, posti alla testa della Diocesi d’Armenia, operare affinché questo auspicato ritorno si realizzi; a Voi, cui non manca, lo sappiamo bene, né lo zelo per esortare, né la dottrina per persuadere. Noi vogliamo pure che i dissidenti siano richiamati da Voi a nome Nostro e sulla Nostra parola; infatti, lungi dall’averne vergogna, conviene grandemente ricondurre alla casa paterna i figli che se ne sono allontanati e che sono aspettati da lungo tempo; anzi, bisogna andar loro incontro e aprire le braccia per stringerli al loro ritorno. Né crediamo che le vostre parole e le vostre esortazioni cadranno nel nulla. Infatti la speranza nel desiderato effetto Ci viene prima dall’immensa misericordia di Dio sparsa fra tutte le genti, e poi dalla docilità e dalle qualità naturali dello stesso popolo Armeno. Numerosi documenti storici attestano quanto esso sia incline ad abbracciare la verità, una volta che l’abbia conosciuta, e quanto sia disposto a ritornarvi se si accorge d’avere deviato. – Quegli stessi che sono separati da Voi nel loro culto si gloriano che il popolo Armeno sia stato istruito nella fede di Cristo da quel Gregorio, uomo santissimo soprannominato l’Illuminatore, che essi venerano in modo particolare come loro padre e loro patrono. Fra loro è rimasto pure memorabile il viaggio che egli fece alla volta di Roma per testimoniare la sua fedeltà e il suo rispetto verso il Romano Pontefice San Silvestro. – Si dice anche che egli sia stato ricevuto con l’accoglienza più benevola, e che ne ottenesse parecchi privilegi. In seguito questi stessi sentimenti di Gregorio verso la Sede Apostolica furono condivisi da molti altri di coloro che ressero le Chiese Armene, come risulta dai loro scritti, dai loro pellegrinaggi a Roma e, principalmente, dai decreti sinodali. È ben degno davvero di essere rammentato, a conferma, ciò che i Padri Armeni, riuniti in Sinodo a Sis l’anno 1307, proclamarono sul dovere di obbedire a questa Sede Apostolica: “Come è proprio del corpo essere sottomesso alla testa, così la Chiesa universale (che è il corpo di Cristo) deve obbedire a colui che da Cristo Signore è stato costituito capo di tutta la Chiesa”. Questo fu confermato e sviluppato ancora più chiaramente nel Concilio di Adana, nel sedicesimo anno del medesimo secolo. – Senza parlare di cose di minore importanza, vi è ben noto ciò che fu fatto nel Concilio di Firenze. I delegati del Patriarca Costantino V, essendosi recati colà per venerare come Vicario di Cristo Eugenio IV Nostro Predecessore, dichiararono di essere venuti a lui che era il capo, il pastore e il fondamento della Chiesa, pregandolo che il capo avesse pietà delle membra, che il pastore riunisse il gregge e confermasse la Chiesa quale fondamento . E presentandogli il simbolo della loro fede, lo supplicavano in questi termini: “Se manca qualche cosa, faccelo conoscere”. – Allora fu pubblicata dal Pontefice la Costituzione conciliare Exultate Deo, con la quale Egli li istruì su tutto quello che giudicava necessario conoscere della dottrina cattolica. I delegati, ricevendo questa Costituzione, affermarono a nome proprio, del loro Patriarca e di tutta la nazione Armena, di aderirvi pienamente e di sottomettersi con cuore docile e devoto, dichiarando a nome dei suddetti, e come veri figli della obbedienza, di “ottemperare fedelmente agli ordini e alle prescrizioni della Sede Apostolica”. Perciò il Patriarca di Cilicia, Azaria, nella sua lettera a Gregorio XIII, Nostro Predecessore, in data 10 aprile 1585, poté scrivere con tutta verità: “Ecco che noi abbiamo trovato i documenti dei nostri antenati sull’obbedienza dei Cattolici e dei nostri Patriarchi al Pontefice di Roma; nel modo in cui San Gregorio l’Illuminatore fu obbediente al Papa San Silvestro”. È per questo che la nazione Armena ricevette con grandi onori i legati di ritorno dalla Santa Sede, e si fece un dovere di osservare fedelmente i precetti della stessa. – Noi nutriamo veramente la fiducia che questi ricordi saranno efficacissimi per indurre parecchi di coloro che sono ancora separati da Noi a ricercare l’unione. In verità, se la causa della loro indecisione o della loro esitazione fosse il timore di trovare meno sollecitudine a loro riguardo presso la Sede Apostolica, o di essere accolti da Noi con minore affetto di quanto essi vorrebbero, invitateli, Venerabili Fratelli, a rammentarsi ciò che hanno fatto i Pontefici Romani, Nostri Predecessori, i quali non si sono mai trovati in difetto di testimonianze circa la loro carità paterna verso gli Armeni. Essi hanno sempre ricevuto con benevolenza quelli di loro che sono venuti in pellegrinaggio a Roma o che qui si rifugiarono; essi hanno anche voluto che fossero aperte per loro case d’ospitalità. Gregorio XIII, come è noto, aveva concepito il disegno di fondare un istituto per l’opportuna istruzione dei giovani Armeni, e se fu impedito dalla morte di mettere in esecuzione questo disegno, Urbano VIII lo realizzò in parte accogliendo, con gli altri allievi stranieri, anche gli Armeni nel vastissimo Collegio da lui istituito per la propagazione della fede. – Quanto a Noi, malgrado la malvagità dei tempi, abbiamo potuto, grazie a Dio, eseguire più largamente il disegno concepito da Gregorio XIII, e abbiamo assegnato agli alunni Armeni un fabbricato assai vasto presso San Nicola da Tolentino, istituendovi, nelle forme volute, il loro Collegio. Questo è stato fatto perché si rispettasse, doverosamente, la liturgia e la lingua dell’Armenia, così commendabile per l’antichità, l’eleganza e il gran numero d’insigni scrittori; e molto più perché un Vescovo del vostro rito dimorasse costantemente a Roma per iniziare alle cose sante tutti gli alunni che il Signore chiamasse al suo particolare servizio. A tale effetto era stata fondata da lungo tempo anche una scuola nel Collegio Urbaniano per l’insegnamento della lingua Armena, e Pio IX, Nostro Predecessore, aveva provveduto a che nel ginnasio del Seminario pontificio romano vi fosse un professore per insegnare agli alunni del paese la lingua, la letteratura e la storia della nazione Armena. – Del resto la sollecitudine dei Pontefici Romani verso gli Armeni non è restata circoscritta entro i confini di questa città, perché nulla è stato loro più a cuore che di togliere la vostra Chiesa dalle difficoltà in cui si trovava, e di riparare i mali che essa ebbe a subire per la perversità dei tempi. Nessuno ignora con quale cura Benedetto XIV si sforzò di proteggere e di conservare intatta la vostra liturgia, come quella delle altre Chiese orientali, e di fare in modo che la successione dei Patriarchi cattolici d’Armenia fosse reintegrata in favore della Sede di Sis. Voi sapete pure che Leone XII e Pio VIII dedicarono le loro cure affinché nella capitale stessa dell’Impero Ottomano gli Armeni avessero un prefetto della loro nazione per gli affari civili, come le altre comunità che appartengono a detto Impero. – Infine è vivo il ricordo degli atti compiuti da Gregorio XVI e da Pio IX per accrescere nel vostro paese il numero delle sedi episcopali, e perché il Prelato armeno di Costantinopoli primeggiasse in onore e dignità. Questo fu fatto, prima istituendo a Costantinopoli la Sede Arcivescovile e Primaziale, e poi decretandone l’unione con il Patriarcato della Cilicia, a condizione che la residenza del Patriarca fosse stabilita nella capitale dell’Impero. E per impedire che la distanza venisse ad indebolire la stretta unione dei fedeli Armeni con la Chiesa Romana, fu saggiamente provveduto a che il Delegato apostolico risieda nella medesima città, per rappresentare il Pontefice Romano. Voi stessi potete dunque essere testimoni della sollecitudine che abbiamo avuto per la vostra nazione, e Noi lo siamo a Nostra volta dell’attaccamento che professate verso di Noi, e del quale abbiamo spesso avuto la dimostrazione. – Quindi, poiché da una parte le qualità del vostro popolo, la pratica degli antenati e tutta la storia dei secoli passati sono fatti per attirare verso questa roccaforte della verità gli Armeni che sono separati da Voi, e con efficacia così grande che non saprebbero essere trattenuti da un più lungo indugio, e dall’altra la Sede Apostolica si è sempre sforzata di avere strettamente unita a sé la vostra nazione, e di richiamarla all’antica unione se qualche volta se ne allontanava, ne conseguono evidentemente validissime ragioni perché Voi, Venerabili Fratelli, vi consigliate, e perché Noi a Nostra volta abbiamo la buona speranza che sia pienamente ristabilita l’antica unione. Ciò tornerà certamente a profitto di tutta la nazione, non solamente per la salute eterna delle anime, ma anche per quella prosperità e quella gloria che si possono legittimamente desiderare sulla terra. La storia attesta infatti che fra i sacri Pastori dell’Armenia hanno brillato di più vivo splendore, come fulgide stelle, coloro che sono stati più strettamente uniti alla Chiesa Romana, e che la gloria della vostra nazione ha toccato il suo apogeo nei secoli in cui la Religione cattolica vi ha prosperato più largamente. – Dio solo, moderatore di tutte le cose, può concedere che questo avvenga secondo i Nostri voti e i Nostri desideri, Lui solo, che “chiama coloro che vuole onorare e ispira sentimenti religiosi a chi vuole” . Con Noi fate salire verso di Lui supplichevoli preghiere, Venerabili Fratelli e diletti Figli, affinché, mossi dalla sua grazia trionfatrice, tutti coloro della vostra nazione che per il Battesimo sono entrati nella società della vita cristiana e che tuttavia sono separati dalla Nostra comunione, Ci ricolmino d’una gioia intera ritornando a Noi, “professando la medesima dottrina, avendo la medesima carità e nutrendo tutti i medesimi sentimenti” (Fil II, 2). Sforzatevi d’avere per ausiliatrice presso il trono della grazia “la gloriosa, benedetta, santa, sempre Vergine Maria, Madre di Dio, Madre di Cristo” perché Ella offra “le nostre preghiere al Suo Figlio, nostro Dio” . Impiegate altresì come intercessore con Lei l’illustre martire Gregorio l’Illuminatore, affinché, quale ministro della grazia divina, compia e consolidi l’opera che egli ha cominciata a prezzo delle sue fatiche e della sua invincibile pazienza nei tormenti. Domandate infine, a imitazione della Nostra preghiera, che la docilità degli Armeni e il loro ritorno all’unità cattolica servano di esempio e di stimolo a tutti quelli che adorano Cristo ma sono separati dalla Chiesa Romana, affinché essi ritornino là donde sono partiti, e vi siano un solo ovile ed un solo Pastore. – Mentre a ciò dedichiamo i Nostri voti e la Nostra speranza, accordiamo, nell’effusione della carità e come pegno della bontà divina, la Benedizione Apostolica a Voi, Venerabili Fratelli, e a Voi tutti diletti Figli.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 luglio 1888, anno undecimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA V DOPO PASQUA (2023)

3DOMENICA V DOPO PASQUA (2023)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La liturgia continua a cantare il Cristo risorto e ci invita, in questa settimana delle Rogazioni, ad unirci a quella preghiera con la quale il Salvatore ha chiesto a Dio di far partecipe, con l’Ascensione, la propria umanità di quella gloria che, come Dio, possiede fin dall’eternità (Off.). Anche noi possederemo un giorno questa gloria, poiché ci ha liberati dal peccato con la virtù del Suo Sangue (Intr., Comm.). Poiché Gesù Cristo partendosi da noi ci ha lasciato come consolazione « di poter pregare in Nome suo, onde la nostra gioia sia perfetta », cosi domandiamo a Dio « per nostro Signore » di non rimanere senza frutto nella conoscenza di Gesù, affinché, credendo alla sua generazione da parte del Padre, (Vang.) noi meritiamo di entrare con Lui nel Regno di suo Padre.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Isa. XLVIII: 20

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiate usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja.

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

Ps LXV: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: dà a Lui lode di gloria].

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

 Orémus.

Deus, a quo bona cuncta procédunt, largíre supplícibus tuis: ut cogitémus, te inspiránte, quæ recta sunt; et, te gubernánte, éadem faciámus.

[O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi súpplici di pensare, per tua ispirazione, le cose che son giuste; e, sotto la tua direzione, di compierle.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli.

Jac. I: 22-27

Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit. Qui autem perspéxerit in legem perfectam libertátis et permánserit in ea, non audítor obliviósus factus, sed factor óperis: hic beátus in facto suo erit. Si quis autem putat se religiósum esse, non refrénans linguam suam, sed sedúcens cor suum, hujus vana est relígio. Relígio munda et immaculáta apud Deum et Patrem hæc est: Visitáre pupíllos et viduas in tribulatióne eórum, et immaculátum se custodíre ab hoc sæculo.

[“Carissimi: Siate osservanti della parola, e non uditori soltanto, che ingannereste voi stessi. Perché se uno ascolta la parola e non l’osserva, egli rassomiglia a un uomo che contempla nello specchio il suo volto naturale. Contemplato, se ne va, e subito dimentica come era. Ma chi guarda attentamente nella legge perfetta della libertà, e persevera in essa, diventando non un uditore smemorato, ma un operatore di fatti, questi sarà felice nel suo operare. – Se alcuno crede d’essere religioso, e non frena la propria lingua, costui seduce il proprio cuore, e la sua religione è vana. Religione pura e senza macchia dinanzi a Dio e al Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni, e conservarsi incontaminati da questo mondo”].

STUDIO E CURIOSITA.

L’esposizione cristiana — ed è il Cristianesimo che noi, sulle orme degli Apostoli veniamo esponendo in queste spiegazioni — oscilla tra le verità più alte, trascendenti addirittura ed i concetti più umili, più pratici. Qualche volta il pensiero apostolico vola, tal altra cammina per vie piane, quasi trite. Abbiamo volato con Paolo, camminiamo oggi con S. Giacomo. Il quale è molto preoccupato dei pericoli della speculazione pura, anche religiosa. È facile illudersi e credere, per illusione, che il parlare molto di una cosa, o il meditarla profondamente, lo specularvi d’intorno voglia dire amarla per davvero. Illusione funesta sempre; ma più funesta quando la materia della illusione, sia religiosa; quando si creda religiosità o religione perfetta la speculazione teologica la più sottile e più alta. La speculazione ci vuole, perché noi uomini, anche nel campo religioso siamo esseri intelligenti, razionali: vogliamo capire. È un bisogno ed un dovere, è un ossequio a Dio: l’ossequio dell’intelligenza. Ma non basta, ma non è la cosa più importante. Perciò l’Apostolo dice ai fedeli: siate osservanti della Legge, non solo curiosi di essa. Mettetela in pratica, non appagatevi di conoscerla a perfezione. E continua osservando che il fare diversamente, il preferire la speculazione curiosa all’osservanza pratica, il guardare e sentire al fare, ancora il separare quello da questo, è un’illusione, un auto inganno. – E dopo avere insistito su questo concetto fondamentale, non con l’abilità del sofista, ma collo zelo dell’apostolo, conclude in un modo e con una formula anche più severamente e modestamente pratica, che per le sue qualità apparenti, può anche scandalizzare, ma che importa rammentare sempre per fare del buon Cristianesimo, fare della religione autentica. La quale consiste, dice l’Apostolo (e adopera la parola « religione pura ed immacolata presso Dio e il Padre ») nel « visitare i pupilli e le vedove tribolate ed oppresse, custodendo il proprio cuore senza macchia fra la corruttela del nostro secolo ». Visitare i pupilli e le vedove tribolate, oppresse; notoriamente i deboli sono stati il bersaglio della perversità vile. E nessuno è così tipicamente debole come la vedova coi suoi orfanelli. Le anime pagane approfittano di queste debolezze per opprimerle e spogliarle ed angariarle: prendono quel poco che c’è, spogliano di quel nulla che è rimasto. Le anime pagane… le quali proprio così, proprio in questo assalto ostile, cupido avido al poco benessere di questi deboli, si rivelano tali: pagane. Ed è inutile che ostentino così facendo, così trattando il prossimo, sentimenti buoni di adorazione, di amore per il loro Dio, per Iddio. L’abito religioso su queste anime egoistiche è una maschera, che non inganna nessuno, certo non inganna Dio. La pietà verso di lui si rivela e traduce in modo irrefragabile solo nella carità operosa, benefica verso i poveri, anzi verso quei poveri che non sono più poveri, verso quelli dei quali chi fa il bene non ha nulla da umanamente ripromettersi, tanto sono poveri e miseri! I pupilli e le vedove, bersagliati, oppressi. Il linguaggio apostolico è di una singolare chiarezza. Senza questa carità o attuta, o almeno sinceramente voluta, non c’è religione, c’è una lustra di Cristianesimo. Ma basta questa carità, perché si possa dire religiosa un’anima? Basta? Delicato problema, ma a cui si può sicuramente rispondere: Se c’è in un’anima carità sincera, senza secondi fini, senza alterazioni innaturali, c’è la religione, almeno embrionalmente. Non c’è ancora la pienezza, c’è già il principio: non c’è ancora l’albero, c’è già il germe. Non siamo all’arrivo; siamo alla partenza per… verso la religione, verso Dio. Ecco perché noi possiamo predicare a tutti i nostri uditori, a quelli che hanno ancora la fede e a quelli che non l’hanno forse mai avuta, che forse l’hanno disgraziatamente perduta: siate caritatevoli, cioè fate la carità, e avrete nell’anima l’aurora e il meriggio di Dio.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Alleluja

Allelúja, allelúja.

Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúja.

[Il Cristo è risuscitato e ha fatto sorgere la sua luce su di noi, che siamo redenti dal suo sangue. Allelúia.]

Joannes XVI: 28

Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúja.

[Uscii dal Padre e venni nel mondo: ora lascio il mondo e ritorno al Padre. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann XVI:23-30

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Amen, amen, dico vobis: si quid petiéritis Patrem in nómine meo, dabit vobis. Usque modo non petístis quidquam in nómine meo: Pétite, et accipiétis, ut gáudium vestrum sit plenum. Hæc in provérbiis locútus sum vobis. Venit hora, cum jam non in provérbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiábo vobis. In illo die in nómine meo petétis: et non dico vobis, quia ego rogábo Patrem de vobis: ipse enim Pater amat vos, quia vos me amástis, et credidístis quia ego a Deo exívi. Exívi a Patre et veni in mundum: íterum relínquo mundum et vado ad Patrem. Dicunt ei discípuli ejus: Ecce, nunc palam loquéris et provérbium nullum dicis. Nunc scimus, quia scis ómnia et non opus est tibi, ut quis te intérroget: in hoc crédimus, quia a Deo exísti.

[“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: In verità in verità vi dico, che qualunque cosa domandiate al Padre nel nome mio, ve lo concederà. Fino adesso non avete chiesto cosa nel nome mio: chiedete, e otterrete, affinché il vostro gaudio sia compito. Ho detto a voi queste cose per via di proverbi. Ma viene il tempo che non vi parlerò più per via di proverbi, ma apertamente vi favellerò intorno al Padre. In quel giorno chiederete nel nome mio: e non vi dico che pregherò io il Padre per voi; imperocché lo stesso Padre vi ama, perché avete amato me, e avete creduto che sono uscito dal Padre. Uscii dal Padre, e venni al mondo: abbandono di nuovo il mondo, e vo al Padre. Gli dissero i suoi discepoli: Ecco che ora parli chiaramente, e non fai uso d’alcun proverbio. Adesso conosciamo che tu sai tutto, e non hai bisogno che alcuno t’interroghi: per questo noi crediamo che tu sei venuto da Dio”].

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.)

LA PREGHIERA DEL MATTINO E DELLA SERA.

Quando il re Demetrio mandò contro i Giudei un esercito poderoso, un capitano espertissimo, Giuda Maccabeo, raccolse i suoi soldati impauriti, e raccontò loro una visione che li rallegrò tutti. « Non temete! — disse; — nel cuor della notte m’è apparso un personaggio venerando per età e gloria e circonfuso di una magnifica maestà. A me che meravigliato guardavo, una voce disse: « Questi è l’amico dei fratelli e del popolo d’Israele, questi è colui che molto prega per noi e per la città santa: Geremia è, il profeta di Dio ». Allora Geremia, stendendo la destra, mi consegnò una spada d’oro, dicendomi: « Ricevi la spada santa dono di Dio, con la quale abbatterai i nemici d’Israele mio popolo ». Confortati da queste parole, i valorosi attaccarono battaglia, pregando. La vittoria fu compiutamente splendida: ritornando giubilanti attraverso i campi insanguinati s’accorsero che il capitano dei nemici era tra i morti. Allora, alzato un grido di trionfo, benedissero il Signore onnipotente (II Macc., XV). Cristiani, che siete impauriti davanti agli assalti continui delle tentazioni e del mondo, Cristiani che siete oppressi dalle tribolazioni, Cristiani che soffrite stanchi e aggravati, alzate gli occhi al cielo: nella gloria di Dio Padre v’è Uno sempre intento a pregare per noi. Semper vivens ad interpellandum pro nobis (Ebr., VII, 25). Assai più fortunati noi siamo dei guerrieri di Giuda, perché chi intercede senza posa per noi, non è un profeta, non è un semplice uomo, ma è lo stesso Figlio di Dio, Gesù Cristo. Ecco perché Egli stesso, nel suo Vangelo, ha promesso che la nostra preghiera sarà sempre esaudita: « Se voi domandaste qualsiasi cosa al Padre, in mio Nome, non vi sarà negata. Ma finora non avete mai pregato in mio Nome: su! Domandate e avrete; chiedete ed ogni vostra brama sarà compiuta ». La preghiera è la spada d’oro che Cristo consegna a ciascuno di noi: solo con essa supereremo ogni lotta della vita e abbatteremo il nostro nemico d’inferno. Solo con essa si sono formati i Santi: noi ci meravigliamo davanti alla purezza di S. Luigi Gonzaga, all’umiltà di S. Carlo Borromeo, alla carità di S. Filippo Neri, come di cose favolose e impossibili. Sì, sarebbero state davvero cose favolose e impossibili, se questi uomini avessero pregato così poco e così male come noi. – Questa volta non è della preghiera in generale che vi voglio parlare. Già tutti avete sentito e siete convinti che la preghiera sia necessaria all’anima, come al corpo il respiro; che chi prega si salva e chi non prega si danna. Oggi invece vi parlerò di un dovere quotidiano, dovere indispensabile che distingue il Cristiano di fede viva, dal Cristiano di fede morta. Nell’Antico Testamento, v’era una legge che obbligava gli Ebrei ad offrire due sacrifici al giorno: uno all’alba, l’altro al tramonto. Unum offeretis mane et alterum ad vesperum (Num., XXVIII, 4). Nel Nuovo Testamento, noi pure dobbiamo innalzare, al principio e alla fine di ogni giorno, un sacrificio di lodi che appunto si chiama preghiera del mattino e della sera. – 1. LA PREGHIERA DEL MATTINO. Milton, nel suo poema Il Paradiso perduto, descrive Adamo che, appena creato, apre gli occhi a contemplare le meraviglie del mondo. Vede i fiori coloriti, il verde dei boschi, vede l’azzurro del firmamento disteso sulla sua testa, e rapito in estasi manda un grido. « Mi slanciai e saltai verso il cielo come per toccarlo!» fa dire il poeta al primo uomo. Spontaneo come quello di Adamo deve essere, tutte le mattine appena apriamo gli occhi, lo slancio del nostro cuore impaziente di elevarsi a Dio. Comincia un altro giorno: un’altra pagina del libro di nostra vita. Oh se tutte le pagine cominciassero col santo Nome di Dio, di Gesù Salvatore, di Maria madre amorosissima, del nostro Santo protettore, del nostro Angelo custode, come ci troveremmo lieti quando, finita l’ultima pagina, dovremo consegnare il libro nelle mani della Giustizia Divina!…  Tutto prega alla mattina. Ecco ad oriente il cielo si sbianca: non sentite in questo momento come un invito universale a pregare? Venite adoremus Dominum, qui fecit nos! È la voce dei monti che si districano dalle tenebre; è la voce delle valli che come cappe smeraldine, si riempiono di luce; è la voce delle acque vicine o lontane, è la voce dei campi delle piante dei fiori; è la voce dei passeri che garriscono insieme sulla gronda del vostro tetto; è la voce del sole levante, del sole bello radioso, del sole immagine di Dio nel suo grande splendore. Questi milioni di voci, che sorgono da ogni parte della terra, sono voci di adorazione e di ringraziamento: ma è una musica senza parole. Ci vogliono le parole: ma queste non le può dire che l’uomo. Non le potete dire che voi. E non le direte? Iddio ha sempre avuto un gran desiderio delle primizie. Dalla storia sacra conosciamo che i primi frutti del campo erano per Lui; i primi agnelli del gregge; le prime bestie dell’armento; il primo figliuolo d’ogni famiglia era per Lui. Questo suo amore per le cose prime, incontaminate, Dio lo conserva ancora ed esige da noi la primizia di ogni giorno. Il mondano quando si sveglia pensa ai piaceri, perché suo dio è la passione ed a lei offre le sue primizie. L’uomo avaro e affarista pensa all’interesse, perché suo dio è il danaro, e a lui offre le sue primizie. L’uomo superbo e smanioso d’emergere pensa agli onori, perché suo dio è l’ambizione e a lei offre le sue primizie. Ma noi, che siamo Cristiani di nome e di fatto, noi che per Dio abbiamo il Signore del cielo e della terra, il Creatore delle visibili cose e delle invisibili, doniamo a Lui le primizie di ogni nostra giornata. Ci sono alcuni che, per pigrizia o per occupazioni, spesse volte cedono alla tentazione di rimandare le preghiere: « Le dirò dopo; prima devo far questa o quella osa; prima devo mangiare… ». L’esperienza insegna che orazioni tramandate sono orazioni tralasciate. E poi, se anche avessimo a dirle più tardi, non sarebbero primizie e perderebbero molto di valore. Nella santa Scrittura Dio si paragona ad un viaggiatore mattutino che sta in piedi vicino alla porta, e batte perché gli sia aperto. Ecce sto ad ostium et pulso. Cristiani, non siate maleducati con Dio! Non fatelo attendere in anticamera! Ma la prima parola di ogni giorno sia: « avanti, Signor mio e Dio mio ». Per fortuna a questo mondo ci sono cuori generosi. Non solo si accontentano al mattino delle preghiere comuni, ma vogliono offrire a Dio una grande primizia: la S. Messa. Beate queste anime, a cui è dato di capire quello che altri non capiscono. Nel primo scampanio esse ascoltano la squilla del Gran Re e accorrono in Chiesa. Se è vero che il lavoro impedisce a molti d’ascoltare la S. Messa ogni giorno, è non meno vero che altri la trascurano per la sola pigrizia di alzarsi per tempo. Segno è che non riescono a comprendere che tesoro si gettano dietro le spalle. Io ripeterò le parole che S. Ambrogio diceva ai Milanesi: « È una vergogna che il primo raggio del sole vi trovi inerti nel letto, e che la luce venga a colpire occhi ancora imbambolati da una sonnolenta spossatezza; questo raggio ci rimprovera il lungo tempo perduto per i meriti e l’oblazione del Sacrificio spirituale. Prevenite dunque l’aurora!… » (In Ps., CXVIII, n. 22). Si legge nel Vangelo che, essendosi Gesù avvicinato al letto di una fanciulla di dodici anni per risuscitarla, la prese per mano dicendo: « Fanciulla, alzati ». Ecco ciò che vi dice la mattina Gesù: vi comanda d’alzarvi e vi porge la mano. È una mano divina: stringetela, adoratela, baciatela con le vostre preghiere. Così trascorreranno i giorni e gli anni: alla fine dei secoli sentirete ancora la medesima voce, e vedrete la medesima mano: « Alzati! ». Sarà il risveglio di un giorno senza tramonto. – 2. LA PREGHIERA DELLA SERA. Una sera, uno dei più grandi ingegni del medioevo, il celebre Lanfranco, allora studente e più tardi Vescovo di Cantorbery, camminava verso Roano. Nel traversare una foresta, fu assalito e derubato dai ladri che poi lo legarono, mani e piedi, ad un albero e, tiratogli il cappuccio sugli occhi, lo abbandonarono. Tremante di spavento, umido di rugiada notturna, immobile, con gli occhi sotto il nero del cappuccio, comprese d’essere esposto a certa morte. Lontano s’udiva l’urlo di qualche belva randagia… Perduta ogni speranza umana, si ricordò di Dio, si ricordò ch’era sera e che era bene pregarlo. Cominciò le orazioni che fanciulletto tante volte aveva recitate, giunte le manine, a piè del letto; ma dopo le prime parole non seppe proseguire: non le ricordava più. Confuso e vergognoso di se stesso, si rivolse a Dio singhiozzando così: « Come, o Signore, da tanto tempo studio nelle università, e non so a memoria neppure la maniera d’invocarvi e di pregare ». Allora fece voto di consacrarsi a Dio, se fosse potuto scampare da quel pericolo. E così fu, poiché all’alba seguente alcuni viandanti lo liberarono. Lanfranco corse tosto nel convento più vicino e si fece monaco. Ed al tramonto d’ogni sera, quando la campanella invitava a preghiera, egli arrossendo s’inginocchiava. Anche ai nostri tempi, e più numerosi che mai ci sono uomini a cui si può applicare questo racconto in tutta la sua estensione. Anche essi sono in viaggio, devono attraversare la foresta del mondo anch’essi, e nemmeno mancano assassini e bestie feroci. Anch’essi alla fine della loro giornata sono forse caduti nelle mani del nemico delle anime; sono stati presi, legati col legame del peccato… Una cosa sola potrebbe liberarli: la preghiera. Ma essi non sanno più pregare; ne hanno perduta l’abitudine, hanno dimenticato perfino le parole. Da mesi e da anni, alla sera, si gettano stanchi ed infelici a dormire senza mai levare il cuore a Dio, senza neppure un segno di croce forse, così come le bestie sopra il loro strame. Ah, Cristiani, nessuno di noi rimanga in questo povero stato! Alla sera ricordiamoci dell’obbligo di ringraziare Dio che un altro giorno ha concesso alla nostra vita, un giorno pieno talvolta di gioie e talvolta di dolori, e sempre di grazie e di benedizioni. Ricordiamoci dell’obbligo di domandare perdono a Dio di tante offese nuove aggiunte alla grave somma delle vecchie. Infine, ricordiamoci di supplicarlo perché la notte passi tranquilla e il giorno veniente ci trovi migliori. – Tra le orazioni della sera, due pratiche non si possono trascurare: il santo Rosario e l’Esame di coscienza. L’una è una dolce catena di rose mistiche che lega i figli coi genitori e tutta la famiglia con la Vergine Maria; l’altro è un piccolo conto delle perdite e dei guadagni spirituali. « Sentite; — diceva ai primi Cristiani S. Giovanni Crisostomo, — voi tutti avete un registro in cui scrivete ogni giorno le entrate e le uscite; certamente non andrete mai a dormire prima d’aver fatto i vostri conti, ma la vostra coscienza non è anch’essa un libro aperto in cui dovete notare ogni sera il guadagno e la perdita, l’amore e l’ingratitudine? Ogni sera quindi, prima d’addormentarvi, prendete a tu per tu la vostra anima e ditele: « Su anima mia, su facciamo i conti: che bene hai fatto? che male hai fatto? ». Allora vi sorgerà spontaneo l’atto di ringraziamento per l’aiuto ricevuto dal Cielo, l’atto di dolore per la nostra cattiveria, e il sincero proposito di un migliore domani. – Infelici le case ove discende la notte senza preghiera! Intorno ad esse invano s’aggirano gli Angeli invisibili, invano aspettano nella malinconia. Infelici le famiglie dove la madre trascura questo suo dovere, dove il padre manca per divertirsi nelle osterie, dove i figliuoli cresciuti nell’età e nel male sono in giro, chi sa dove… chi sa dove… E ritorneranno a notte alta, sotto le stelle numerose nel cielo: ma nessuna stella è accesa nell’anima loro. « Diciamo le preghiere della sera » disse alla sua donna un padre di famiglia  sofferente da anni di una seria malattia. Da un pezzo nella casa si era dimenticato di pregare, ma dopo che il Signore aveva mandato quella prova, un barlume di fede era ritornato. Appena la madre incominciò le orazioni, rientrarono i figliuoli adulti dai loro divertimenti serali e rimasero a bocca chiusa, distratti. Il povero padre li sogguardava, e lagrime silenziose gli rigavano la faccia patita. « Che hai da piangere? », gli chiese la donna sottovoce. « Io morrò: — rispose amaramente, — e quando sarò sotterra nemmeno un suffragio riceverò dai miei figliuoli: essi hanno dimenticato le preghiere; non sanno pregare più ». La madre allibì, e tremò tutta. Il cuore le diceva ch’ella senza colpa non era della cattiva educazione religiosa dei figli. Oh quanti genitori, sentendosi morire, usciranno in quel grido straziante! « Quando sarò sotterra non un suffragio avrò dai miei figliuoli: essi non pregano, né sanno pregare più! ».  E la colpa di chi sarà stata?.. — I DIFETTI DELLA PREGHIERA. Quando fu eletto papa Gregorio VII, la Chiesa viveva un’ora difficile della sua storia. Il potere civile s’era intruso negli affari ecclesiastici fino ad arrogarsi la nomina dei Vescovi e talvolta dei Pontefici stessi; uomini indegni, più simili a lupi che ai pastori, riuscivano non raramente ad occupare i posti più alti; l’avarizia e il mal costume s’erano diffusi anche tra coloro che avrebbero dovuto dare il buon esempio. Tutto c’era da estirpare e rinnovare nella Chiesa. Invece papa Gregorio, ch’era un santo, pensando che quasi nulla vi fosse da fare, si ritirò per giorni interi a pregare. Poi cominciò a scriver lettere: scrisse ai monaci del convento di Cluny, dove aveva passato alcuni anni della sua giovinezza, scongiurandoli di pregare per lui; scrisse a parecchi suoi amici, che sapeva devoti, domandando la carità di preghiere. « Ma, o santo Padre, — diremmo noi — perché perdete il tempo così? Non vedete come il demonio devasta la Chiesa? Su, lanciate la scomunica ai ribelli di Germania, castigate gli avari, deponete gli intrusi, accorrete… ». – « Sì — ci par che risponda quel grande Papa dal silenzio della sua tomba, — sì, tutto questo va bene; ma prima e sempre e sopra ogni cosa, pregate. Senza preghiera non si fa niente ». Che dire allora di certa gente che si scusa così: « Io non prego perché non ho tempo: ho troppe faccende ». Per quante faccende abbiate, certo non sarete occupati come il Papa san Gregorio. E poi: non sapete che la prima, la più necessaria faccenda è la preghiera? Non sapete che più si prega e più si trova tempo anche per le altre cose? Non sapete che si salva soltanto chi prega? Ecco perché Gesù nel Vangelo ci stimola con insistenza a pregare. « In verità vi dico che qualunque cosa domanderete al Padre in nome mio ve la concederà. Finora nulla avete chiesto in Nome mio: chiedete e otterrete. I vostri  desideri saranno compiuti in gioia  ». « Come si spiega allora, — pensano alcuni, — che molte volte ho pregato ed il Signore ha fatto il sordo con me? » Non diamo la colpa al Signore quando la colpa è tutta nostra: se non abbiamo ottenuto è perché abbiamo pregato male. Non accipitis eo quod male petatis (Giac. IV, 3). E S. Agostino spiega: « Non ricevete o perché voi siete cattivi, o perché domandate cose cattive, o perché pregate malamente ». Non accipitis eo quod mali, mala, male petatis. Consideriamo, ad uno ad uno, questi difetti che rendono vana la nostra preghiera. – 1. EO QUOD MALI. Il re Antioco si vide perduto (II Macc., IX). Era stato scacciato da Persepoli vergognosamente; ed anche i suoi generali, Nicanore e Timoteo, erano stati sconfitti dai Giudei. Il Signore poi, che tutto vede, lo faceva spasimare con un lancinante dolore di visceri. E quasi non bastasse, mentre spingeva a corsa impetuosa il suo cocchio, il cavallo impennatosi lo sbalzò sulla strada, ammaccandolo in tutte le membra. Quando quest’uomo perfido, che aveva sognato di comandare alle onde del mare e di pesare sulla sua stadera le cime dei monti, si vide sbattuto a terra, quando vide la sua carne sfasciarsi e marcire viva in un fetore a cui egli stesso non sapeva più resistere, allora rivolse a Dio la sua preghiera. « È giusto ch’io mi sottometta al Signore… ». E pregandolo, promise che avrebbe dato libertà a Gerusalemme che poco prima aveva pensato di ridurre a cimitero; promise di restituire l’oro e l’argento che aveva sacrilegamente rubato nel tempio; promise di rispettare quei Giudei che non reputava degni neppur di sepoltura ma che avrebbe voluto sterminare e lasciarli in preda agli avvoltoi e alle belve; promise perfino di farsi circoncidere e diventare anch’egli uno del popolo di Dio. Quante promesse! E quale fervore in questa preghiera! Eppure i dolori non cessarono, eppure non guarì. Tra le montagne selvagge e rocciose, lungi dal suo paese, abbandonato da tutti, come l’ultimo miserabile del mondo, disperatamente moriva Antioco, il re. Perché Dio, che è sì buono, non ha esaudito la sua preghiera? Orabat hic autem scelestus (Macc. IX, 13). Con cuore iniquo e senza aver rinnegato alla sua malizia, costui pregava Dio, a quo non esset misericordiam consecuturus, dal quale non avrebbe giammai ottenuto grazia. Pensiamo un poco: noi, che spesso ci lamentiamo di non essere esauditi nella preghiera, come stiamo di coscienza? Come pretendere che Dio ci ascolti se siamo in peccato? Il peccato ci fa servi del demonio: e noi dopo aver servito il demonio, abbiamo il coraggio di domandare la paga al Signore? Il peccato ci fa nemici di Dio: e noi pretendiamo che Egli aiuti i suoi nemici i quali si beffano in Lui, e saranno peggio che prima? Il Signore non è come gli uomini che vedono appena la vernice esterna, ne scruta nel cuore. Possono essere belle e buone le parole che gli diciamo, ma se il nostro animo è cattivo non saremo esauditi; bensì riceveremo il rimprovero che Gesù lanciò in faccia agli ipocriti farisei: « Questa gente mi onora con la bocca, ma il loro cuore è lontano da me. Vi dico che mi onora inutilmente ». (Mt. XV, 8). Quante volte ancor noi abbiamo pregato con la bocca mentre il nostro cuore era lontano: con una creatura, con un divertimento, con una passione, col demonio. Per ciò non fummo esauditi. – 2. EO QUOD MALA. « Finora, — diceva Gesù, — non avete chiesto cosa alcuna nel mio Nome: domandatela e la riceverete ». Che cosa significa domandare nel Nome del Salvatore? Significa chiedere cose che riguardano la nostra eterna salvezza. A quanti Gesù potrebbe rispondere la parola che disse ai figli di Zebedeo: « Voi non sapete cosa domandate » (Mt. XX, 22). Purtroppo, la nostra debolezza ci china verso terra e ci mette la benda sugli occhi circa l’ultimo fine della vita. Infatti, che cosa si domanda da tanti? Forse la luce della verità, forse l’amore della virtù, l’aumento della grazia? No, non è così. Si domanda una vita senza croci, piena di ricchezze, di onori, si domanda che questa terra che è valle d’esilio diventi un paradiso. E spesso questi beni sono la rovina di molte anime. Quanti se non fossero stati ricchi ora sarebbero in Paradiso; quanti se non fossero saliti tanto in alto tra gli uomini, ora non sarebbero discesi tanto in basso tra i demoni; quanti, se a tempo opportuno avessero avuto una croce, una malattia, la morte, ora non gemerebbero per sempre nel fuoco eterno! Ecco perché Iddio, che ha la vista più lunga della nostra, non sempre ci esaudisce quando gli chiediamo i beni del mondo. Chi è quella madre che darebbe a suo figlio per giocare un rasoio, le forbici, gli aghi? E voi pensate che Dio non faccia per le anime nostre quello che anche noi sappiamo fare con i nostri figliuoli? Il Signore disse un giorno a Salomone: « Domandami quel che vuoi e l’avrai ». Oh se facesse a noi questa domanda! Chiederemmo subito una vita lunga come quella di Matusalem, una forza terribile come quella di Sansone; chiederemmo ricchezze infinite. Invece Salomone rispose: « Dammi, o Signore, lo spirito della sapienza che guidi i miei passi sulla retta strada, e non ti abbia ad offendere mai ». E Dio fu commosso da questa risposta e aggiunse: « Giacché non mi hai domandato un bene fugace del mondo, ma un bene eterno, abbiti non solo la sapienza, ma anche un regno florido e ricchezze, e onori, tutto ». Ricordiamo anche noi, quando preghiamo, la parola di Gesù: « Cercate soprattutto il regno di Dio e la sua giustizia; il resto vi sarà dato per giunta ». – 3. EO QUOD MALE PETATIS. La preghiera talvolta non è esaudita perché fatta male: senza umiltà, senza sostanza, senza fiducia. a) Senza umiltà: Due uomini entrano nel tempio a pregare. Uno è un fariseo, l’altro è un pubblicano. Il fariseo, dritto davanti a Dio, non fa che esaltare se stesso e umiliare gli altri: « Grazie, o Signore, che non m’hai fatto un ladro, un ingiusto, un disonesto come gli altri, come quel pubblicano là in fondo ». Il pubblicano invece, là in fondo, non osava neppure levare gli occhi dal suolo e si batteva il petto e singhiozzava: « Signore, sii buono anche con me che son peccatore ». « Guardate — concluse Gesù, narrando la Parabola, — guardate che dal tempio uscì giustificato solo il povero ed umile pubblicano (Lc., XVIII, 14). b) Senza costanza: Un uomo, a mezzanotte in punto, batte alla porta d’un suo amico. « Amico, prestami tre pani. M’è capitata gente che ha fame in casa, ed io non ne ho più, nemmeno una briciola ». L’amico non viene neppure alla finestra e di dentro gli risponde: « Senti, mi dispiace, ma ho già chiuso tutta la casa. Io sono a letto, i miei figli anche: non vorrai farci alzare per darti del pane!… ». L’altro in piedi davanti alla porta chiusa non si scoraggia e comincia a battere. Batte una volta, due, tre… L’amico non può più dormire. Se non per amicizia, ameno per levarsi quella seccatura, si alza e lo esaudisce (Lc., XI, 5). Dunque, bisogna pregare, senza scoraggiarsi, fin quando si ottiene quel che si domanda. Oportet semper orare et numquam deficere. Non lasciamoci vincere dal silenzio del Signore: più tarda la grazia e più bella sarà. Trenta anni ha pregato santa Monica per il suo figliuolo, ma poi quale grazia! Suo figlio fu un santo. c) Senza fiducia: Una donna vien dalla terra di Chanaan per far la sua preghiera a Gesù: « Signore! Figliuolo di Davide, pietà di me, che ho una figlia indemoniata! ». Gesù non la guarda, non le risponde nemmeno una parola. Non respondit ei verbum. Ma essa vuol essere esaudita. Gli va dietro, e non guardata piange, e non ascoltata prega, tanto che gli Apostoli ne sentono compassione: « Maestro — dicono — lasciala andare, non vedi come grida? — Gesù allora si volge e le dice burberamente: « Io son venuto per i Giudei e non per i Cananei ». La povera donna non è vinta da questo reciso rifiuto: vuole essere esaudita e va dietro sempre e non guardata piange e non ascoltata prega. Non capisci, — la rimprovera Gesù, — ch’Io non posso strappare il pane di bocca ai figli per darlo ai cani? ». E quella donna accetta d’essere come un cane, anzi si chiama cagnolino; e nell’impeto della sua fede, risponde: « Sì, è vero, ma i cagnolini hanno le briciole che cadono dalla mensa del padrone, dunque, una briciola, tra quelle che cadono dalla mensa del padrone, anche per me, anche per mia figlia indemoniata una briciola… ». Gesù allora non poté più resistere e le rispose: « La tua fede è grande; sia fatto come tu vuoi ». In quel momento sua figlia guariva. È questa la fiducia delle nostre preghiere? – San Luigi IX, re di Francia, era partito per la crociata. Ma quando con la sua flotta si trovò in mezzo al mare, una burrasca terribile cominciò a flagellare e squassare le navi. Tutti urlavano e piangevano di paura. Il re pallido e tremante s’inginocchiò sul ponte della nave ammiraglia e pregò un istante; poi alzatosi calmo e sorridente disse a tutti che niente di male li avrebbe incolti. « Donde ricavate questa fiducia? », gli domandarono i suoi. Laggiù, — rispose egli, — nel monastero di Chiaravalle in questo istante si prega fervorosamente per noi. Tutto andrà bene ». Cristiani! Quando nella vita attraversiamo certe ore di burrasca, quando l’anima nostra sta per affondare nel male, ricordiamoci allora della preghiera e saremo salvi.

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps LXV: 8-9; LXV: 20

Benedícite, gentes, Dóminum, Deum nostrum, et obœdíte vocem laudis ejus: qui pósuit ánimam meam ad vitam, et non dedit commovéri pedes meos: benedíctus Dóminus, qui non amóvit deprecatiónem meam et misericórdiam suam a me, allelúja.

[Popoli, benedite il Signore Dio nostro, e fate risuonare le sue lodi: Egli che pose in salvo la mia vita e non ha permesso che il mio piede vacillasse. Benedetto sia il Signore che non ha respinto la mia preghiera, né ritirato da me la sua misericordia, allelúia].

Secreta

Súscipe, Dómine, fidélium preces cum oblatiónibus hostiárum: ut, per hæc piæ devotiónis offícia, ad cœléstem glóriam transeámus.

[Accogli, o Signore, le preghiere dei fedeli, in uno con l’offerta delle ostie, affinché, mediante la pratica della nostra pia devozione, perveniamo alla gloria celeste].

Prefatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

Paschalis

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre: Te quidem, Dómine, omni témpore, sed in hac potíssimum die gloriósius prædicáre, cum Pascha nostrum immolátus est Christus. Ipse enim verus est Agnus, qui ábstulit peccáta mundi. Qui mortem nostram moriéndo destrúxit et vitam resurgéndo reparávit. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia cœléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare: Che Te, o Signore, esaltiamo in ogni tempo, ma ancor piú gloriosamente in questo giorno in cui, nostro Agnello pasquale, si è immolato il Cristo. Egli infatti è il vero Agnello, che tolse i peccati del mondo. Che morendo distrusse la nostra morte, e risorgendo ristabilí la vita. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCV: 2

Cantáte Dómino, allelúja: cantáte Dómino et benedícite nomen ejus: bene nuntiáte de die in diem salutáre ejus, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore, allelúia: cantate al Signore e benedite il suo nome: di giorno in giorno proclamate la salvezza da Lui operata, allelúia, allelúia].

Postcommunio

Orémus.

Tríbue nobis, Dómine, cæléstis mensæ virtúte satiátis: et desideráre, quæ recta sunt, et desideráta percípere.

[Concedici, o Signore, che, saziati dalla forza di questa mensa celeste, desideriamo le cose giuste e conseguiamo le desiderate.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

ORDINARIO DELLA MESSA

TUTTA LA MESSA (L’UNICA “VERA” CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (1)

LO SCUDO DELLA FEDE (251)

LO SCUDO DELLA FEDE (251)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (20)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

CAPO III

IL SACRIFICIO DIVINO

SECONDA PARTE DEL CANONE.

CAPO IV

•••••••••••••••••

LA PARTECIPAZIONE

ossia la Comunione Divina.

ART.  II.

LIBERA NOS ECC.

Orazione.

« Liberateci, ve ne supplichiamo, o Signore da tutti i mali presenti, passati e futuri , e per intercessione della Beata, Gloriosa e sempre Vergine e genitrice di Dio, Maria, e dei Beati Apostoli vostri Pietro e Paolo, ed Andrea, e di tutti i santi (Si segna dalla fronte al petto colla patena e la bacia). Date, propizio, pace nei nostri giorni, affinché per opera della vostra misericordia restiamo sempre liberi dai peccati, e sicuri da ogni perturbazione. (Qui sottomette la patena all’Ostia, scopre il calice, genuflette, sorge, prende l’ Ostia, la spezza per mezzo sopra il calice dicendo): « Pel medesimo Signor nostro Gesù Cristo Figliuol vostro. » (Pone la parte, che ha nella destra sopra la patena: di poi si divide una particella della parte che gli è rimasta nella sinistra, dicendo): « Il quale con Voi vive e regna nell’unità dello Spirito Santo. » (L’altra mezza parte ripone colla sinistra presso alla prima sulla patena, e colla destra poi tenendo la particella sopra il calice, che tiene colla sinistra, dice): « Per tutti i secoli dei secoli. » (Il popolo risponde): « Così sia. »

Esposizione dell’Orazione:

Libera nos etc.

« Liberateci, o Signore, vi preghiamo, da tutti i mali presenti, passati e futuri ecc. ecc. » Quest’orazione non altro essendo che un’aggiunta, anzi un’esposizione dell’ ultima dirnanda dell’ orzione domenicale, per essa la Chiesa c’ insegna che ben si può con Dio Padre dire tutto il nostro cuore e mettergli dinanzi ad uno ad uno tutti i nostri mali, dai quali lo vogliamo supplicare di liberarci per poi abbandonarci rassegnati in braccio alla bontà di così gran Padre amoroso. I tanti mali di noi poveri figli sono i peccati passati, di cui non possiamo mai essere senza timore (1) : poi sono i pericoli e le amarezze che ci angustiano presentemente: finalmente la paura dei mali venturi, i castighi cioè e le pene, che abbiamo tanto ragione di aspettarci dalla giustizia di Dio, e le nuove cadute che temiamo per le proprie infermità, come mali che più ci mettono spavento. – Quest’orazione, sia per la sua antichità, sia per le sue espressioni, accenna ai tempi delle persecuzioni. Allora si recitava insieme con tutto il popolo; e per questo il Sacerdote la dice ancora adesso ad alta voce nel venerdì santo; nel qual dì tutto sacro alla morte del Redentore, alla Chiesa, raccomandate distintamente tutte le varie persone ed i vani oggetti per cui prega nel corso dell’anno, preme di fare quelle raccomandazioni in modo tenerissimo; essendo che in quel giorno lo spettacolo della morte di Gesù, messo così vivamente innanzi, fa concepire speranza di maggiore propiziazione. Noi intanto figuriamoci quei poveri fedeli perseguitati, che col favor delle tenebre si raccoglievano nelle catacombe pei santi misteri. Là non si arrischiavano di alzar la voce, paventando ad ogni istante, che non corressero dentro in quegli antri a slanciarsi sopra loro quelle belve umane, nel perseguitarli inferocite. Là trovandosi insieme intorno all’altare, avevano ogni dì novelle perdite da piangere; alcuno raccontava tristamente, come qualche povero fratello aveva ceduto nel terribile cimento; e insieme piangendolo, lo raccomandavano a Dio. Altri raccontavano i particolari della morte dei loro Vescovi e dei fedeli compagni: chi li aveva osservati ritti là in mezzo del circo col petto ignudo ad aspettare i leoni, le iene, le tigri aizzate dai truci custodi: diceva uno di aver veduto il leone, quando dava dentro nel petto a quel Santo; come versasse le viscere per terra, e barcollando morisse abbracciato all’orribile testa col grido: « Viva Gesù! » Altri diceva della iena: con terribile salto gettarsi sulle spalle di un giovine eroe, e con tremendo ruggito, trascinarlo pell’anfiteatro… mentre i feroci spettatori battevan le mani; ed egli, col collo tra le zanne della fiera, guardando il cielo gridare: « Viva Gesù! » Chi sentiva ancor terrore della tigre accosciata, che acceffava fremente nel vergine petto a quella fanciulla (che ieri qui aveva con essi ricevuta la Comunione), e diceva piangendo, come la buona slanciava le candide braccia verso del cielo; e la tigre gettarle gli unghioni nel viso, ed alzando il terribile ceffo lasciare cadere giù le viscere palpitanti dal muso insanguinato! Chi raccontava del rogo acceso, e come soffiassero dentro col viso infocato i rabidi sgherri: e sopra i crepitanti carboni guizzasse la vampa celestina e rosseggiante: e quei crudeli stendere sul graticolato di ferro rovente, e tener con tenaglie i prodi compagni, con cui avevano là tante notti insieme vegliato: e rosseggiare le membra orribilmente gonfie, e screpolare la pelle, e la carne squagliata cadere giù in stille di fuoco; e sbuffare le fiamme e come serpenti di fuoco e taglienti lamine, girar intorno alla persona: e tra il crepitare dei carboni sotto alle nere ruote del fumo pareva ancora di sentirli tutti gridare: « Viva Gesù! » Alcuni altri poi si portavano sul petto in un vaso il sangue dei martiri, che avevano raccolto dai supplizi; altri gli avanzi, con gran rischio sottratti a chi li faceva disperdere: altri un cadavere santo portato via dalle gogne o tratto fuori dalle cloache, in cui il prefetto lo aveva fatto gettare. Qui purificate con balsami quelle reliquie, si ponevano sotto la mensa, su cui gli spiriti che gli animarono, dal cielo vedrebbero sacrificato Gesù. Così tutti quei buoni, anch’essi minacciati da quegli spettacoli di ferocia, che raccontavano, si stavano prostrati ai piedi dell’ara santa, come agnelletti da essere svenati la dimane, e dopo di avere mangiato il Pane divino, e bevuto al Calice dei forti, sorgevano dall’altare come leoni (così s. Giovanni (Hom. 61, ad Pop.) e s. Cipriano) terribili al diavolo ed agli amici suoi. Deh! in quel furore di tempesta quanto veniva loro bene gridare: « Liberateci, o Signore, dai mali passati, presenti e futuri; » e qui pieni di diffidenza di loro medesimi, confidare a Dio le proprie debolezze e tentazioni e la paura dei mali futuri. Qui col cuor di un figlio che piglia tutte le occasioni di parlar della madre noi facciamo questa osservazione. Tutti i fedeli del mondo cattolico dopo il Pater noster usano sempre a recitare l’ Ave Maria. Bene sta: si termina il Pater noster con una paurosa parola: a malo! In vero coll’inferno spalancato sotto dei piedi, nel pericolo di cader in peccato, ed offendere Iddio Santissimo, colla morte che ci corre incontro ad ingoiarci, l’Ave Maria è il grido dei figliuoli che chiamano la Madre a salvarli e poi è anche il sospiro della speranza di spirare tra le sue braccia. A ragion adunque nell’orazione libera nos si dice subito: « Per l’intercessione della Beata Vergine, genitrice di Dio, e dei beati Apostoli Pietro e Paolo, ed Andrea e di tutti i Santi ecc, ecc. » E poi così vivamente rinnovando la memoria della passione di Gesù Cristo, potevano dimenticarsi che ai piedi della croce stessa, nell’ora del gran Sacrificio, stava Maria? A questa potentissima Regina dei martiri, a questa più tenera delle madri si raccomandavano quei figli in procinto di essere martirizzati, e le correvano in seno con tutte le paure e speranze loro: poi ai beati Pietro e Paolo, e Andrea: a Pietro, su cui fu edificata la Chiesa (Cyp. ep. 71.); a Paolo, che tanto l’ha propagata e sublimemente istruita; ed Andrea, primo chiamato alla sequela del Signore (Bon. rerum liturg. lib. 2, n. 2). A tutti e tre in somma, che la confermarono col proprio sangue; ad essi, che precedendoli al martirio, bevettero il calice di Gesù con tutte le sue amarezze sino all’ultima goccia: poi a tutti i Santi, da cui per un istante eran divisi ancora, facevano supplica di aiutarli di forza in quei cimenti, in cui mentre tenevano dietro ai loro esempi così luminosi, sentivano il peso della propria infermità. Dio della bontà! ecco un mondo che viene a perseguitarci fino nei più reconditi recessi del santuario vostro! Ecco i popoli sconvolti cercano di rovesciarsi sul capo ciò che a loro sta sopra, e tutto sobbissare nella polvere e nel sangue; in questi giorni di procella, tra un passato che crolla, ed un avvenire che non si può formare di getto; noi per Gesù Cristo tranquilli nella vostra immutabilità, noi contempleremo il trionfo, che preparate alla vostra Chiesa sulle rovine dei vostri nemici. Ecco qual è la pace di Gesù; la pace del bambino in seno alla madre. Bella immagine, che parla ai sensi ed al cuore più ancora! Quando una madre prende in braccio il suo bambino, il bambino in quel seno non ha più paura, e dorme tranquillo e riposa dolcemente sul petto: e ne ha ragione, perché veglia per esso l’ amor della madre. Che, se alcun le si facesse vicino, o scuotesse con sorpresa il bimbo per risvegliarlo, come fosse sopra pericolo, gridandogli forte: « Bimbo, sta desto! Perché guai, se la madre ti dimentica un momento; aperte le braccia, cadi a sfracellarti per terra!: » la madre garrirebbe costui acremente; « che? gli direbbe, non lo porto io in seno, che sono sua madre? E l’amor della madre non si dimentica mai, che ha il bambino in braccio: e seppur si dimenticasse, le braccia della madre starebbero conserte per istinto, a tener fermo sul seno il figlio delle viscere sue. » Ed è così. Ora diciamo noi: e chi mai ha creato l’amore in petto alla madre? Iddio (crediamo!), da cui ogni paternità deriva; ed ha tale amore creato, perché sapeva che la creaturina sua di tanto avrebbe bisogno. Viva Dio! Il Creatore dell’amore ben ne avrà ancora in sé tanto serbato, per aver cura dei figli del Sangue del suo Gesù! Egli, così s. Giovanni Grisostomo, dei padri più indulgente, e più di madre tenero, dice per bocca del suo profeta (Is. XLIX, 15), che la madre può forse dimenticarsi del suo bimbo; ma non Egli di noi, che tutti ci porta in cuore. Così noi non possiamo a tenero padre, né a “più sincero amico, né a più potente, che sia Dio, abbandonare noi stessi per vivere più in pace. « Concedeteci propizio pace nei nostri giorni, affinché aiutati dall’opera della vostra misericordia, restiamo sempre liberi dai peccati, e da ogni perturbazione sicuri ecc. ecc. » Pregavano un po’ di pace per quei dì; pace perché potesse stabilirsi il regno di Gesù Cristo: pace, perché la Chiesa non venisse lacerata dalle discordie, e specialmente dalle eresie, amarezze maggiori per lei in quella pressura: ma che al tutto fossero liberati per Gesù Cristo dal peccato e dalle continue paure di tanti nemici, che loro fremevano d’intorno. – Ora per potere accompagnare quest’orazione con disposizioni convenienti ai nostri tempi, osserveremo: che nel recitare quest’orazione il Sacerdote posa le mani sulla mensa, come se si abbracciasse all’ altare per mostrare che sopra vi è Gesù, per cui possiamo con fiducia farci appresso al trono della misericordia per porgere le nostre suppliche (Heb., IV, 16 ). Qui noi pensando che se si mutarono i tempi, i bisogni della Chiesa ora sono forse maggiori, col cuor pieno delle antiche memorie e dei mali nuovi, non cessiamo mai di gridare attaccati all’altare: « Signore, Signore, per pietà liberateci da ogni maniera di mali, che c’invadono da tutte le parti: dai mali passati; e sono i peccati commessi, che ci tengono inquieti sull’esito della nostra salute: dai mali presenti, che sono le nostre passioni, le persecuzioni alla sordina contro i fedeli vostri, la guerra universale contro alla Chiesa, rotta dai nemici nostri e di Voi, che s’ingrossano ogni dì, e diventano ognora più audaci e minacciosi. Liberateci dai mali futuri: prima di tutto dalla perdita della fede, di cui siamo minacciati, conservateci pel vostro regno, e non ci mandate cogli empi in perdizione. E voi, o tenerissima Madre di Dio, al Signore che abbiamo offeso, dite per noi quelle parole di pietà che voi sola sapete: che, se egli è vero che siamo peccatori, siam pure i vostri figli, e voi la più buona madre: e le madri sono sempre madri, anche coi figliuoli che vorrebbero diventar buoni. Voi pure, o beati, Pietro, che dall’alto de’ cieli come capo della Chiesa presiedete ancora alle sue battaglie; Paolo, gran maestro delle nazioni; Andrea, che dalla croce consolavate il popolo fedele colle vostre parole, anche in mezzo ai terrori di morte; voi, Santi tutti, che nella gloria godete la pace, come corona delle combattute battaglie, a noi qui, drappello in combattimenti ottenete una coscienza senza rimorsi, la confidenza nel Dio delle vittorie, e la pace di Gesù Cristo. »

Divisione dell’Ostia. Continua la spiegazione

del!’ orazione: Libera nos ecc.

Chiediamo di poter insistere su questa parte della Messa, così poco avvertita, che pure così grandi e tenerissimi misteri contiene. Noi ci faremo a contemplare questi tre che vi si esprimono; osservando come pel primo si viene a significare esser Gesù Crocifisso fatto pace nostra: Ipse est pax nostra… solvens inimicitias in carne sua (Ephes. II, 14.). Nel secondo si figura la formazione della Chiesa. Nel terzo si ricordano e la risurrezione e la vita eterna in paradiso. Faremo ora di spiegare come si esprimono questi tre misteri in questo punto della Messa: e li noteremo coi numeri per distinguere dessi misteri dalle devote osservazioni.

I° Ecco in fatti come si esprime essere Gesù Cristo la pace nostra. Già prima d’incominciare quest’orazione il suddiacono nella Messa solenne sale sull’altare e rimette all’uopo la patena al diacono: il quale anticamente, come fassi ancora al presente in qualche Chiesa, la mostrava al popolo per invitarlo alla Comunione. Il Sacerdote prende da lui la patena, su di cui ha da deporre il Santissimo per distribuirlo in Comunione ai fedeli. Con essa fa il segno di croce sulla sua persona, e la bacia dicendo: « Date,propizio, pace nei nostri giorni, affinché siam sempre liberi dal peccato, e posti da ogni perturbazione al sicuro. » Col baciar la patena su cui si pone Gesù, viensi ad esprimere, che Gesù nel Sacramento appunto è nostra pace: perché in sulla croce in cui fu posto, Egli disciolse le nostre inimicizie (Eph. II, 14. Coloss. I, 20) nella sua carne crocifissa; è nostra pace, perché ci raccoglie tutti insieme, e vuole che siamo uniti in carità per disporci alla comunione (S. Hier. q. ad Rom.): è nostra pace perché ci ha riconciliati col suo Padre e ci fa adottare per figliuoli: è nostra pace, perché ora ci vuol dare Se stesso in pegno di quella pace che sarà la futura nostra beatitudine. Ecco il mistero accennato pel primo. – Continua l’ orazione: « Per il medesimo Signor nostro, il quale con Voi vive e regna Dio nell’unità dello Spirito Santo. » Ora prima di esporre, come si esprima il mistero, che accennammo, intorno alla formazione della Chiesa, continuando a riscontrarci nella meditazione nostra sulla passione del divin Redentore, premetteremo alcune piissime osservazioni, che all’accennato mistero ci condurranno. Il Sacerdote bacia la patena, la quale significa la lapide del santo Sepolcro; e questo rito esprime la pietà delle donne, che, comprati gli aromi, vennero per ungere Gesù. Esse, poverine! si davano pensiero del gran sasso, che non avrebbero potuto smuovere. Ma Gesù Cristo le consolò. Con quel bacio si esprime la grazia, di che Egli degnolle, nella sua apparizione. Egli le salutò, ed esse verisimilmente gettatesegli innanzi, cercarono di baciargli i piedi santissimi. Intanto il Sacerdote, deposto il SS. Corpo sopra la patena, scopre il calice, l’ adora genuflesso; prende l’Ostia colla mano destra, e la solleva sopra il calice, e nel dividerla in mezzo, dice: « Pel medesimo Signor nostro Gesù Cristo. » Depone la parte, che gli resta nella destra, sopra la patena; poi dalla parte, che egli tien sopra del calice nella sinistra, divide una porzione; e colla destra ritenendola ancora sul calice sollevata, quella che gli resta nella sinistra, depone presso alla prima sulla patena, nel dire: « Il quale con Voi vive e regna nell’unità dello Spirito Santo. » Questo dividere, che fa il sacerdote, dell’Ostia in tre parti, l’abbiam noi dagli Apostoli imparato: anzi da Gesù medesimo, il quale, quando ci donava la SS. Eucaristia nell’ultima cena, la divideva colle sue mani, distribuendola a tutti i discepoli (Matt, XXIV, 26). Così ci dava modo di saziarci tutti a nostra volontà di questo cibo celeste; e di potere tutti insieme noi, umana famiglia, raccoglierci alla mensa del comune Padre e comunicare con Esso nel bacio santo di carità. E siccome l’Eucaristico Sacramento esprime in modo particolare questa riconciliazione universale, ed unione di carità; così Gesù con un miracolo d’amore divinamente ingegnoso lo ordinava in modo, che nel dividere in parti, potessero i suoi fedeli per esso comunicarsi con Dio e con tutti i fratelli, anche quelli che non avrebbero potuto godere la sorte di trovarsi presenti. Anticamente i diaconi erano incaricati di portare agli assenti, agli infermi, e fino nelle carceri ai confessori questo pegno di pace e di carità divina. – Fermiamoci un istante a pensare a quei generosi in carcere per Gesù Cristo, che tornavano forse dagli interrogatorii, in cui si era cercato di convincerli e persuaderli a rinunciare alla fede con quegli eloquenti argomenti, che sono i letti di ferro e le torture danti uno stiramento a slogar loro le ossa, e le ruote dentate facenti un giro a lacerare loro la carne, ad ogni lor franca parola. Tornavano adunque da quelle prove crudeli; ed ecco appunto il diacono aveva ottenuto di penetrare ad essi travestito; e portava in buon punto Gesù, mandato dalla santa Messa coi saluti dei fedeli, che avevano con tanto fervore pregato per loro, e che a loro si raccomandavano. Ben pareva a quei forti di vedere quasi cogli occhi Gesù entrar nel carcere, per dare loro la pace e sostenere con essi le catene, i ceppi, la morte. « Deo gratias, » dicevano quei santi, per dire: « Dio sia benedetto! presto ci ciberemo insieme nel banchetto del Padre celeste in paradiso. » Era pure costume di conservar nelle chiese la SS. Eucaristia; e si trovano nei monumenti dell’antichità cristiane certe custodie in forma di colombe che si tenevano sospese sopra l’altare, dove si riserbava per essere all’uopo distribuita agli infermi, agli assenti e per essere adorata dai fedeli: se la portavano gli anacoreti negli eremi, i fedeli in casa. Si conservano veli e pezzuole ricchissime in cui si ravvolgeva. Ora qui vorrebbe la pietà che noi parlassimo della reale presenza del SS. Sacramento: ma ci riserbiamo di contemplare questo tutto nostro tesoro nel volume III, Prediche e Meditazioni. Del resto tutta questa opera corrisponde a questo scopo cioè mirabilmente stringerci intorno a Gesù e farci con Lui santi qui, per possederlo in paradiso. Ma la santa Messa va di pari passo colla passione di Gesù Cristo: e questa nella passione è l’ora della maggior pietà. Quando, spirato il benedetto Gesù, i crocifissori ed i nemici suoi in quel tenebrore con neri pensieri e con orribile rimorso nell’anima si ritiravano da quel tristo monte taciturni ed atterriti, alcuni di essi già ravvedendosi si fermavano da lungi, ed alzando gli occhi spaventati al Corpo di Gesù pendente da quella croce, si picchiavano il petto, dicendo sommessamente: « Tristi a noi, che abbiam mai fatto! Misericordia, misericordia! » Intanto giravano voci di tremende apparizioni; si diceva, che si eran veduti cadaveri e scheletri fremere orribilmente in gola agli spalancati sepolcri: che s’era spezzata la rupe del Calvario, come è ancor veramente: e il velo del tempio da cima a fondo squarciato. Qui già cominciavano a girare intorno alcuni più amici di Gesù, e farsi più appresso alla croce, ed al vederlo là morto, empire le mani di pianto! Poi si davano faccenda per usare a Gesù quel poco di carità ultima, che per loro si poteva, preparandosi a staccarlo di croce, e ricoverarlo in sepolcro. Maria Maddalena e Giovanni e le pie donne, fissi gli occhi sul morto Gesù, con ansioso lamento stavano tutti esterrefatti ed atterriti, e tratto tratto lasciavano cadere lo sguardo sulla santissima sua povera Madre… E Maria?… Ci manca il cuore a dirne parola! perché fino lo Spirito Santo non volle dir altro che: « stava…. sotto la croce di Gesù la sua Madre Maria!… » – Piovevano ancor le gocce di Sangue, ed intanto già si mettevano all’opera pietosa di deporlo dalla croce, tutti dicendosi in cuore quei buoni, che avrebbero fra poco baciato lui morto fra le braccia della SS. Madre di tutti i dolori! Così adoperavansi in quella infinita pietà. Ed ora appunto il diacono col dare il segno al popolo di farsi vicino, e il Sacerdote nel segnare, che fa, se stesso di croce colla patena col baciarla, e col deporre Gesù sulla patena, fanno segno di prepararci a pianger del cuore sopra Gesù con quella tenerissima pietà, con cui Giuseppe, Nicodemo, e gli altri pii lo deponevano dalla croce. Il cuore ha da fare qui tutta la sua parte. Il Sacerdote, abbiam detto, tiene il corpo di Gesù sollev«««ato sopra del santo calice. Deh! lasciamo correre ancora uno sguardo con quei santi e con Maria SS. sopra Gesù, misticamente qui dinanzi, come sulla croce, spirato. Ecco quel Corpo, che pendeva giù da quei chiodi con orribili squarci! eccolo col Capo sul petto tutto pieno di Sangue, che dalle spine stilla giù ancora grommato. Ve’ quegli occhi lividi e spenti e quella bocca ancora semiaperta, per dirci l’ultima sua parola al cuore. No: Egli è spento! Non dice più parola; ma parlano per noi tutte le sue Piaghe; parla Maria nel suo mar di dolori, che allarga le braccia e le mani per ricoverarselo in seno almeno morto, il suo Gesù!… « O santissima Madre, aspettate; ché per voi faranno i buoni, che vi piangon d’intorno! » Ma chi viene innanzi? Chi?… Un soldato che fieramente lo guarda, e trovatolo estinto, ah! gli dà della lancia nel petto: in quel gran colpo gli squarcia il Cuore. Ah! mette un grido Maria; ché « propriamente, dice s. Bernardo (Sermo de 12 stelle), Maria si ebbe nel cuore quel colpo, non Gesù, che non aveva più l’anima là, mentre la Madre non si poteva da quel Cuore divellere. » Così la ferita del Costato di Gesù, si può dire ferita al cuor di Maria! E Maria a quel colpo lascia cadere giù le braccia: e sotto le braccia, ah! buon Gesù! si trova d’avere con Giovanni noi, divenuti a piè della croce a Lei figliuoli. Oh! sì, che nel vederci ancora qui intorno all’altare rossi del Sangue di Gesù (Io. Chrys. De Sacer 2) deve ben esclamare: « miei figliuoli, che mi costate sì caro, per salvarvi vi voglio riporre in questa mia ferita del Costato divino.» Intanto sgorga giù a terra, misto coll’acqua, l’ultimo Sangue, il Sangue, diremo, più vitale di Gesù, Cristo. Ed ecco come in questo punto si figurano la Chiesa e le sue varie parti, che è il secondo mistero, che abbiam detto significarsi qui nella Messa.

II. Come ad Adamo addormentato fu tratta una costa di petto, e ne fu da Dio creata la madre degli uomini, condannati poi alla morte pel peccato; così dal Costato di Gesù Cristo dormiente in quel sonno di morte, esce purificata e rigenerata nel Sangue divino la Madre dei viventi, la sposa di Dio, la Chiesa (S. August. lib. 2, de Genes. contra Man. v. 24). Ammirando mistero! Nel calice fu infusa l’acqua per esprimere il popolo cristiano. Perché poi quello che era vino, e si mischiava col l’acqua nel calice, ora è vivo Sangue di Gesù Cristo; ed in Gesù la natura umana si tocca, si unisce, si bacia, si accoppia colla Divinità: perciò la natura nostra collegandosi colla Divinità, si rinnovella a vita eterna, ed in Lui si rigenera l’umanità. Piglia adunque in Gesù Cristo capo e cominciamento una nuova generazione: rirnpastandosi nell’acqua del Battesimo, per dirla con Tertulliano, di Spirito Santo la natura umana, ed immollandosi l’umanità nel balsamo vivificatore e ristoratore della Divinità nel divin Riparatore. Ggsù poi trasfonde questo principio divinizzato in noi, come la vite mette il sugo vegetale nel tralcio, che le sta unito (Jo XV., 5). Ad esprimere poi questa generazione rinnovellata, che è la Chiesa, sgorgò fuori del petto squarciato di Gesù Acqua mista col vivo Sangue (Bened. in infas. e Missal.), per fare intendere come nella Chiesa vi sia e il popolo cristiano significato nell’acqua, e con esso vi sia incorporato Gesù, che col Sangue suo comunica a questa madre la potenza di generare figliuoli a Dio in modo purissimo ed ineffabile (S. August. De siinb. et serin. 12 de temp.) per mezzo dei Sacramenti. Si, da questo Sacratissimo Cuore di Gesù Redentore esce quel Sangue divino, che lava nel Battesimo le anime dei rigenerati: che li consacra col Crisma dei forti: che con noi s’imrnedesima nell’Eucarestia: che ci monda e santifica nella Penitenza: che infonde la virtù ad operare prodigi ineffabili nei sacri ministri: che consacra i nostri matrimoni (Uomini animali, che non comprendono le cose di Dio, si preparano con opere indegne e laide ad esse:e consecrati col Sangue di Gesù nel Matrimonio, che s. Paolo chiama il Gran Sacram., che rende così sacra la società coniugale; anzi la civiltà corrotta cerca di sconsacrare, e disvolgere il primo elemento del civile consorzio riducendo ad un atto civile il matrimonio. Ma vi è una fiera che rugge e si getta sulla società a vendicare il sacrilegio, la fiera del divorzio, che strugge le umane famiglie. Tolto via il ritegno del Sacramento, nessuna legge umana può impedire, senza esser tiranna, che coloro che hanno fatto il contratto, non sciolgano il contratto a volontà): che finalmente dà l’ultima mano a ristorare alla vita eterna le nostre persone; quasi nei sette sacramenti, secondo la viva espressione di Tertulliano, rimpastandgsi di Spirito Santo l’umana natura. Sangue propiziatore, di cui sono bagnate le porte, per cui entrano nella Chiesa e nel paradiso coloro che si salvano! Cuore amabilissimo, che fu dato da Gesù a consumare l’opera della redenzione, secondo l’espressione dello Spirito Santo (Eccl. 38, 31): perciò, consumato il divin Sacrificio, si lasciò squarciare il cuore. S. Giovanni Grisostomo e con lui s. Agostino osservano come ne sgorgasse il Sangue misto all’acqua dal cuore, affinché n’uscisse il Sangue a ricrearci, ed immedesimarci con Lui a vita eterna. – Convengono di fatto gl’interpreti, che nella divisione della SS. Ostia in tre parti si rappresentano assai bene le tre porzioni della Chiesa, unite nel gran Capo Divino (S. Thom. 3 p., q. 85, a. 5, et Innoc. III, lib. 5 Myster. Mis:. cap. 3). Nella prima porzione rimessa sull’altare è Gesù Cristo, una delle specie divise, che colla virtù del suo Sangue, dal sacrificio versa e fa discendere continuamente sull’anime del purgatorio il refrigerio, la luce, e la pace (Innoc. III, lib. 4, Myster 3fiss., c. 3.). Nella porzione dell’Ostia SS., che coll’altra mano il Sacerdote depone ed unisce alla prima, è Gesù che dal seno del Padre s’accompagna alla Chiesa militante, che siamo noi; la guida e la sorregge nella battaglia; e pel Sacrificio che fa con essa, la prepara a salire coll’altra porzione al trionfo nella patria celeste. Per essa intanto Egli s’abbassa a regnar sulla terra: perché la Chiesa, che qual Eva novella gli esce dal petto, per la virtù del Sangue di Gesù genera figliuoli, adoratori fedeli, che formano il suo regno in terra, e che gli faran corona in paradiso. Nella porzione, che tien sollevata sopra il calice, è Gesù, che beatifica la Chiesa in Gloria (S. Thom. 3 p. q. 83, a. 5.). Sopra quel calice l’adorano i celesti e si letificano del profumo divino che manda in cielo il Sacrificio del Verbo, Splendor della gloria, che regnando col Padre e collo Spirito Santo, gli alimenta di sua beatitudine in paradiso per tutti i secoli dei secoli. Aggiungeremo a pascolo di pietà un’altra esposizione di s. Bonaventura (Opusc. Pers. 3. expos. Miss., c. 4.), il quale dice, che la particola deposta sull’altare significa che la Carne di Cristo nella passione fu deposta e subì l’azione della morte, e le due parti fuori del calice esprimono l’Anima che restò immortale, e la Divinità pure immortale ed impassibile. – Ora ci resta a dire ‘del terzo mistero espresso in quest’orazione, cioè della risurrezione e della vita eterna.

III. Ecco glorificato il paradiso, consolati i defunti, santificati i fedeli; il Sacerdote tenendo sospeso sopra il calice il santissimo Corpo, fa con questo sopra il calice stesso tre croci, dicendo: « La pace del Signore sia sempre con voi. » Il popolo risponde: « e collo spirito tuo. » Poi depone entro il calice la sacra particola che tiene in mano. Ma deh! ora che vediamo ancora? L’Ostia SS., che è il Corpo di Gesù, discende per man del Sacerdote nel santo calice, e si frammischia nelle specie col SS. Sangue? Contempliamone il mistero consolantissimo! Qui sull’altare, per rappresentare la mistica morte di Gesù Cristo sta deposto il Corpo sotto le forme delle specie diverse, diviso dal Sangue, per mettere misticamente sotto gli occhi, come era difatti nella morte reale là sulla croce il Sangue tutto versato da quel Corpo pendente, lacero e dissanguato. Ma come Gesù poi nel risorgere riassunse il Sangue nel suo Corpo, che riprese vita: cosi ora qui, secondo Innocenzo III e Benedetto XIV (Inn. III, Myst. Miss. liv. 5, c. 3), nell’atto dell’unire, che si fa dal Sacerdote, il Corpo col Sangue divino nel calice, si esprime appunto la riunione del Sangue col SS. Corpo nel momento della risurrezione. Riassuntosi nel Corpo di Gesù il SS. Sangue, si diffuse nelle vene, e l’anima benedetta allora rianimandolo, fece con quello battere quel Cuore del battito della vita immortale, a cui risorgeva, nella beatitudine della divinità da Lui inseparata. – Tergiamo noi dunque il pianto, e diamo luogo a tutta la consolazione. Nel farsi le tre croci e nell’invocare la pace sopra del calice, si esprime la SS. Trinità, che restituisce l’Anima al Corpo di Gesù, affinché non veda la corruzione (S. Thom. 3 p., q. 43, a. 5. Inn. III, lib. Myst. Miss.). E l’istante in cui l’anima di Gesù discende nel sepolcro, si unisce al Corpo (Sergius Papa apud D. Bon. ia expo. Miss. Inn. III, lib. 6 cap. I.), ne spezza i vincoli di morte; rifiorisce l’aspetto suo di celeste bellezza: l’occhio brilla di una luce divina: palpita il cuore del palpito immortale della beatitudine: si trasfigura carne e diventa impassibile, in istato come di lui agile e spirituale : così risorge a vita il Trionfatore della morte. Balza via la pietra rovesciata dall’Angelo, e lascia vedere dentro il vuoto sepolcro e le sacre bende a terra, segnali di morte trionfata. – Angeli sfolgoranti di splendor brillantissimo annunziano il trionfo di Gesù che è risorto. Ministri di morte, da quella tomba fuggite: fugge anche la morte, e guarda attonita fallito il colpo, e rotta la lancia nella tremenda mano. Ecco i morti escono vivi dai loro sepolcri, van pubblicando colla testimonianza della lor miracolosa risurrezione, che orrende prigioni della morte furono spezzate da una forza da cui essa fu vinta. Approssimiamoci colla più viva ed ardente carità a questo sacro Corpo (Io. Chrys. hom. 24, I ad Cor.). Ma ritorniamo al sacerdote per osservare, con sull’istante di deporre la SS. Ostia nel calice, col Corpo di Gesù tre croci sopra del calice e dice: « la pace † del Signore sia † sempre con noi †. » Con queste tre croci sopra la bocca del calice pare che si vogliano figurare le tre donne, che cercavano di Gesù sull’entrata del santo Sepolcro, di cui la bocca del calice esprimerebbe l’entrata (Inn. III, lib. 6, Myst. Miss. cap. 2.). Significano anche che tutto è crocesignato nella Chiesa, che dalla croce derivano le sue vittorie. Coll’invocare la pace significa, che non solamente pel merito del divin Sacrificio verremo assorti in Dio, e troveremo pel Redentore la pace in unione col Padre, col Figlio, collo Spirito Santo; ma ancora che per Gesù, in seno alla sua Chiesa, per mezzo de’ suoi precetti, consigli e Sacramenti, l’anima con coscienza senza rimorsi, già crocifissa nelle passioni, tranquilla tra le braccia di Dio, gode coi fratelli quella anticipata concordia, che si ha da godere eterna in paradiso (S. Hier. ep. ad Rum.), perché le guerre vengono dalle passioni traboccanti. La pace vera poi si gode dall’anima, quando essa vuole solo quel che vuole Iddio, e come lo vuole Iddio. Il popolo dovrebbe rispondere al Sacerdote con lagrime d’infinita gratitudine: « sia pure così, Amen! » Il Sacerdote poi nell’infondere nel calice santo il Corpo dice:

L’orazione: Hæc commixtio.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (14) “da NICCOLÓ I a LEONE IX”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (14)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Da Niccolò I a Leone IX)

NICCOLÓ I: 24 aprile 858-13 novembre 867

Concilio di Roma, 862.

L’eresia dei Teopaschiti

635. Cap. 1 (7). Si deve certamente credere e professare veramente, sotto ogni aspetto, che il Signore nostro Gesù Cristo, Dio e Figlio di Dio, abbia sopportato la Passione della croce solo secondo la carne, ma che nella sua divinità sia rimasto impassibile, come insegnano l’Autorità Apostolica e la splendida dottrina dei santissimi Padri.

636. Cap. 2. (8) Quanto a coloro che affermano che il nostro Redentore e Signore Gesù Cristo e Figlio di Dio abbia sopportato la passione della croce secondo la divinità, cosa empia ed esecrabile per le menti cattoliche, siano anatema.

L’effetto del Battesimo

637. Cap. 9 (4) Tutti coloro che affermano che coloro che sono rinati dalla sorgente del santissimo Battesimo credendo al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, non siano ugualmente lavati dal peccato originale, siano anatema.

Lettera “Proposueramus quidem” all’imperatore Michele, 28 settembre 865

638. Il giudice non sarà giudicato dall’Imperatore, né da tutto il clero, né dai re, né dal popolo… La Prima Sede non sarà giudicata da nessuno…”.

639. Dove avete letto che gli Imperatori, vostri predecessori, avrebbero partecipato alle assemblee sinodali, ad eccezione forse di quelle in cui si discuteva della fede, che è universale, che è comune a tutti, e che riguarda non solo il clero ma anche i laici e tutti i Cristiani? Quanto più un reclamo è rivolto al giudizio di un’autorità superiore, tanto più si deve ricorrere ad un’istanza superiore, finché, passo dopo passo, si giunga a quella Sede il cui giudizio o è modificato in meglio da essa stessa, se l’importanza della questione lo richieda, o è riservato, senza dubbio, al solo giudizio di Dio.

640. Inoltre, se non Ci ascoltate, ne consegue necessariamente che sarete per Noi come Nostro Signore prescrive di considerare coloro che disdegnano di ascoltare la Chiesa di Dio; soprattutto perché i privilegi della Chiesa romana, confermati dalla bocca di Cristo nel beato Pietro, stabiliti nella Chiesa stessa, riconosciuti fin dai tempi antichi, celebrati da santi Sinodi universali e costantemente venerati da tutta la Chiesa, non possono in alcun modo essere diminuiti, limitati e modificati, perché il fondamento che Dio ha posto non può essere cancellato da nessuna impresa umana, e ciò che Dio ha stabilito rimane fermo e solido. .. Quei privilegi, dunque, conferiti a questa santa Chiesa da Cristo, che non siano stati conferiti dai Sinodi, ma solo celebrati e venerati da essi… ci obbligano e ci spingono ad “avere sollecitudine per tutte le chiese” di Dio (2Co XI: 28) .

641. Poiché, secondo i Canoni, il giudizio delle autorità inferiori deve essere deferito all’autorità superiore per essere annullato o confermato, è evidente che il giudizio della Sede Apostolica, per il quale non esiste un’autorità superiore, non debba essere rivisto da nessuno (232), e che a nessuno è permesso di giudicare il suo giudizio. Infatti, i Canoni hanno voluto che si facesse appello ad essa da tutte le parti del mondo; ma a nessuno è permesso di appellarsi al suo giudizio… Se, dunque, si ammette che ciò che riguarda il giudizio del Vescovo di Roma non debba più essere esaminato – perché questa è anche la consuetudine – non neghiamo che il giudizio di questa Sede possa essere modificato in meglio quando qualcosa le sia sfuggito, o da se stessa. Anche l’eccellente Apostolo Paolo, come leggiamo, ha fatto alcune cose in modo eccezionale, che sappiamo che poi le abbia riprovate; ma solo nei casi in cui la Chiesa di Roma, dopo un attento esame, abbia ordinato di farlo, e non quando essa stessa ha rifiutato di permettere che ciò che è stato ben definito fosse esaminato di nuovo…

642. Per quanto riguarda voi, vi chiediamo di non danneggiare la Chiesa di Dio, perché essa non danneggia il vostro Impero, poiché al contrario implora l’eterna Divinità per la sua stabilità e prega con incessante devozione per la vostra conservazione e salvezza. Non arrogatevi ciò che le appartiene, non cercate di sottrarle ciò che è stato affidato ad essa sola: sapete infatti che, come non è opportuno che un chierico, un uomo al servizio di Dio, si immischi negli affari del mondo, così un uomo incaricato degli affari di questo mondo deve rimanere lontano dalle cose sacre. Infine, non sappiamo come coloro che sono autorizzati a presiedere solo alle cose umane e non a quelle divine, osino giudicare coloro che si occupano di cose divine. Questo esisteva prima della venuta di Cristo, quando alcuni erano in modo esemplare sia re che sacerdoti; la storia sacra registra che San Melchisedek lo fosse (Gn XIV,18) e questo il diavolo lo imitava nei suoi membri, colui che cerca sempre di rivendicare per sé, in modo tirannico, ciò che equivale al culto divino, tanto che gli Imperatori pagani erano chiamati allo stesso tempo “Pontefici”. Ma non appena siamo giunti a Colui che è allo stesso tempo vero Re e Pontefice, l’Imperatore non si è più arrogato i diritti del pontificato, né il Pontefice il nome imperiale. Infatti, lo stesso “mediatore di Dio e degli uomini, l’uomo Cristo Gesù” (1 Tm II, 5) ha separato le funzioni dei due poteri secondo le loro attività e le loro distinte dignità – volendo che fossero innalzati dalla loro stessa umiltà e non abbattuti dall’orgoglio umano – in modo che gli Imperatori abbiano bisogno dei Pontefici per la vita eterna e i Pontefici si servano delle leggi dellIimperatore per il corso degli affari puramente temporali: affinché l’attività spirituale sia lontana dalle incursioni carnali, e quindi chi è al servizio di Dio non si immischi in alcun modo negli affari secolari (2Tm III, 4) e che, d’altra parte, chi si immischia negli affari secolari non sia visto presiedere agli affari divini; in modo che allo stesso tempo si provveda alla modestia di entrambi gli ordini, in modo che non si innalzino appoggiandosi l’uno all’altro, e che la funzione sia adattata in ogni caso a ciò che sono le azioni.

Risposte “Ad consulta vestra” ai Bulgari, 13 novembre 866.

La forma essenziale del matrimonio.

643. Cap. 3… Basterà, secondo le leggi, il consenso di coloro di cui si considera l’unione; se questo solo consenso dovesse mancare al momento del matrimonio, tutto il resto, anche se si realizza con la stessa unione carnale, sarà vano, come attesta il grande dottore Giovanni Crisostomo, che dice: “Ciò che fa il matrimonio non è l’unione carnale, ma il consenso”.

Forma e ministro del battesimo.

644. Cap. 15. Voi chiedete se gli uomini che hanno ricevuto il Battesimo da questo (pseudo-sacerdote) siano Cristiani o se debbano essere battezzati di nuovo. Ma se sono stati battezzati nel nome dell’altissima ed indivisibile Trinità, sono veramente Cristiani, e chiunque fosse il Cristiano da cui sono stati battezzati, non è opportuno che siano battezzati di nuovo; perché… “Il Battesimo… anche se conferito da un adultero o da un ladro, giunge come un dono intatto a colui che lo riceve” (356). Ed è per questo che il malvagio, quando fa del bene, non fa più male agli altri ma a se stesso; ed è per questo che è certo che coloro che questo greco battezzava, nessuna parte del danno li raggiungeva, per questo: “È lui che battezza” (Gv 1,33), cioè Cristo, e ancora: “È Dio che dà la crescita” (1Cor III,7(, sottinteso: e non l’uomo.

645. Cap. 71. Nessuno, per quanto impuro possa essere, può rendere impuri i Sacramenti divini, che sono il rimedio che purifica da ogni contaminazione. Allo stesso modo, un raggio di sole che passa attraverso i pozzi neri e le latrine non può ricevere alcuna contaminazione da essi; inoltre, per quanto possa essere il Sacerdote, non può inquinare ciò che è santo; perciò, fino a quando non sarà respinto da un giudizio dei Vescovi, si deve ricevere la Comunione da lui, perché quando i malvagi fanno del bene, fanno del male solo a se stessi, e una fiaccola accesa causa perdita a se stessa, ma agli altri dà luce nelle tenebre. .. Ricevete dunque senza timore il mistero di Cristo da ogni Sacerdote, perché tutto è purificato nella fede.

646. Cap. 104. Voi dite che nel vostro Paese molti siano stati battezzati da un ebreo – non sapete se sia un Cristiano o un gentile – e chiedete quale condotta tenere nei loro confronti. Se sono stati veramente battezzati nel nome della Santa Trinità o solo nel nome di Cristo, come si legge negli Atti degli Apostoli (II, 38 – XIX, 5  – perché è la stessa cosa, come afferma Ambrogio), è stabilito che non debbano essere battezzati di nuovo. Ma prima bisogna accertare se questo ebreo fosse Cristiano o gentile, o se è diventato Cristiano in seguito, anche se crediamo che non si debba trascurare quanto dice il beato Agostino sul Battesimo: “Abbiamo già sufficientemente dimostrato”, dice, “che il Battesimo consacrato dalle parole del Vangelo non sia messo in gioco dall’errore del ministro che ha un’opinione del Padre, del Figlio o dello Spirito Santo diversa da quella che insegna la dottrina celeste”; ed ancora: “In questo numero ci sono anche alcuni che conducono una vita scandalosa o addirittura si dilettano nell’eresia o nelle superstizioni dei gentili; eppure anche lì “il Signore conosce i suoi”” (2Tim II, 19). Perché in questa ineffabile prescienza di Dio, molti di coloro che appaiono all’esterno sono all’interno. E in un altro passo: “Anche le menti lente capiscono, come penso, che nessuna perversione umana, sia del ministro che del soggetto, possa fare violenza al Battesimo di Cristo”; e ancora: “Uno che è separato può passare, così come uno che è separato può possedere, ma passare in modo pernicioso; quanto a colui al quale trasmette, egli può ricevere per la sua salvezza, se non riceve lui stesso essendo separato.

Nessun uso della forza nell’accettazione della fede.

647. Cap.41 Riguardo a coloro che rifiutano di ricevere il bene del Cristianesimo, non possiamo scrivervi altro, se non che dovete persuaderli alla vera fede con monizioni, esortazioni ed istruzioni, piuttosto che convincerli con la forza che il loro pensiero è vanità. Inoltre, non bisogna in alcun modo far loro violenza per farli credere. Infatti, tutto ciò che non proviene da un desiderio non può essere buono (Sal LIII, 8; Sal CXVIII,108;  Sal XXVII,7); infatti, Dio esige una sottomissione volontaria, che si manifestaisolo con atti volontari, perché se avesse voluto usare la forza, nessuno avrebbe potuto resistere alla sua onnipotenza.

La confessione di un crimine non deve essere estorta con la tortura.

648. Cap. 86. Voi dite che nel vostro Paese, quando un ladro o un rapinatore è stato catturato e ha negato l’accusa contro di lui, il giudice gli colpisca la testa con delle verghe e gli punga i fianchi con punte di ferro finché non dica la verità; questo non è assolutamente ammesso né dalla legge divina né da quella umana, perché la confessione non deve essere involontaria ma spontanea, e non deve essere provocata dalla violenza ma pronunciata volontariamente. Se alla fine accade che, dopo aver inflitto questi tormenti, non si scopre assolutamente nulla di ciò che viene imputato a colui che li ha subiti, non arrossite almeno allora e riconoscete in che modo empio giudicate? E allo stesso modo, se un accusato che ha sofferto questo e non può sopportarlo, dice di aver commesso ciò che non ha commesso: a chi, chiedo, si rivolge tutta la portata di tale empietà, se non a colui che lo ha costretto a confessare questo in modo falso? Eppure sappiamo che non confessa, ma parla, colui che dice con la bocca ciò che non ha nel cuore! D’altra parte, quando un uomo libero è stato fermato per un crimine e – a meno che non sia già stato giudicato colpevole di un crimine in precedenza, o che, confessato da tre testimoni, subisca la pena, o che non possa essere confessato – giura sul santo Vangelo che gli è stato presentato di non averlo commesso, sarà assolto, e allora la questione sarà conclusa, come testimonia l’Apostolo delle genti più volte citato quando dice: “per confermare la fine di ogni controversia tra loro, c’è il giuramento”.

ADRIANO II: 14 dicembre 867-14 Dicembre 872

4° Concilio di Costantinopoli IV (VIII ecumenico) 5 ottobre 869-28 febbraio 870

X sessione, 28 febbraio 870: canoni.

La tradizione come regola per la fede.

650. (traduzione del bibliotecario Anastasio)

Can. 1. Volendo camminare con sicurezza nella via diritta e regale della giustizia divina, dobbiamo tenere come torce sempre accese, che illuminino i nostri passi nella sequela di Dio, le disposizioni e i pensieri dei santi Padri. (Versione greca abbreviata: “VGA” – 1. Desiderosi di camminare senza ostacoli nella via diritta e regale della giustizia divina, dobbiamo tenere come torce sempre accese le ordinanze ed il pensiero dei santi Padri).

651. Perciò, come il grande e sapientissimo Dionigi, le guardiamo e le consideriamo come una seconda Parola divina; e allo stesso modo, a proposito di esse, cantiamo con la massima ansia, con il divino Davide: “Il luminoso comandamento di Dio, luce per gli occhi”. Sal XVIII, 9 Sal CXVIII, 105 Prov VI, 23 Is XXVI, 9 . È infatti alla luce che si paragonano giustamente le raccomandazioni e i divieti dei Canoni divini; è per mezzo di essi che distinguiamo il meglio dal peggio, e discerniamo ciò che è utile e redditizio da ciò che non è utile ma dannoso.

652. Pertanto, le regole che sono state trasmesse alla santa Chiesa cattolica e apostolica sia dai santi ed illustrissimi Apostoli che dai Concili ecumenici e locali degli ortodossi, o anche da uno qualsiasi dei Padri che sono portavoce di Dio e dottori della Chiesa, dichiariamo di osservarle e custodirle. Regolando su di esse la nostra morale e la nostra vita, decretiamo che tutti i Sacerdoti, così come coloro che sono annoverati sotto il nome di Cristiani, siano canonicamente soggetti alle punizioni e alle condanne e, d’altra parte, alle reintegrazioni ed alle giustificazioni che sono state definite da queste regole; infatti, per conservare le tradizioni che abbiamo ricevuto oralmente o per iscritto dai Santi che un tempo hanno brillato, il grande Apostolo ci esorta apertamente. ( VGA – Pertanto, le regole che sono state trasmesse alla santa Chiesa cattolica e apostolica sia dai santi e illustrissimi Apostoli che dai Concili ecumenici ortodossi o locali, o anche da un Padre portavoce di Dio e dottore della Chiesa, dichiariamo di osservarle e custodirle. Infatti, il grande Apostolo Paolo ci esorta apertamente a conservare le tradizioni che abbiamo ricevuto oralmente o per iscritto dai santi che un tempo hanno brillato (2Ts II,15).

La venerazione delle immagini sacre.

653. Can. 3. Decretiamo che la sacra immagine di nostro Signore Gesù Cristo, liberatore e salvatore di tutti gli uomini, sia venerata con gli stessi onori del libro dei Santi Vangeli (VGA – 3. Decretiamo che l’immagine di nostro Signore Gesù Cristo sia venerata con gli stessi onori del libro dei Santi Vangeli).

654. Infatti, come tutti raggiungiamo la salvezza attraverso le parole che sono composte dalle sillabe contenute nel libro, così tutti, sia i dotti che i non dotti, beneficiano di ciò che è davanti ai loro occhi attraverso l’azione che queste immagini esercitano con i loro colori. Infatti, ciò che è detto nelle sillabe, l’espressione che impiega i colori lo proclama e lo esalta; ed è giusto, secondo la ragione e la tradizione più antica, per l’onore – perché si riferisce ai modelli stessi – che indirettamente le immagini siano onorate, e venerate come il libro sacro dei santi Vangeli e la figura della preziosa croce. (VGA – Infatti, come tutti ottengono la salvezza attraverso le parole contenute nel libro, così tutti, sia i dotti che gli ignoranti, beneficiano di ciò che è davanti ai loro occhi attraverso l’azione di queste immagini con i loro colori. Infatti, ciò che è detto nelle sillabe, anche la scrittura colorata lo proclama e lo rappresenta con i colori).

655. Se dunque qualcuno non venera l’immagine di Cristo Salvatore e non ne vede la forma, quando egli verrà nella gloria del Padre suo per essere glorificato e per glorificare i suoi santi (2Ts I,10), sia tenuto lontano dalla sua comunione e dalla sua gloria. (VGA – Se dunque qualcuno non rispetta l’immagine di Cristo Salvatore, non vedrà la sua forma alla seconda venuta).

656. Lo stesso vale per chi non venera l’immagine di Maria, sua Madre immacolata e Madre di Dio. Dipingiamo anche le immagini dei santi Angeli, come le divine Scritture li rappresentano a parole; onoriamo e veneriamo anche le immagini degli Apostoli, che sono degni di tante lodi, dei Profeti, dei Martiri, dei Consacrati e di tutti i Santi. Chi non si comporta in questo modo sia anatematizzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (VGA – Allo stesso modo onoriamo e veneriamo l’immagine di sua Madre immacolata e le immagini dei santi Angeli, come la divina Scrittura le rappresenta a parole, e anche quelle di tutti i Santi; e chi non si comporta in questo modo sia anatematizzato).

L’unicità dell’anima umana.

657. Can. 11. Mentre l’Antico e il Nuovo Testamento insegnano che l’uomo abbia un’unica anima ragionevole e intellettuale, e tutti i Padri e i Dottori che sono i portavoce di Dio nella Chiesa affermano la stessa dottrina, alcuni individui, dedicando i loro sforzi a inventare mali, sono arrivati ad un tale grado di empietà da insegnare impudentemente che l’uomo abbia due anime, e da tentare… di rafforzare la loro eresia con sforzi irrazionali. (VGA- (10). Mentre l’Antico e il Nuovo Testamento insegnano che l’uomo ha una sola anima ragionevole e intellettuale, e tutti i Padri e i Dottori che sono portavoce di Dio nella Chiesa affermano la stessa dottrina, ci sono individui che insegnano che l’uomo abbia due anime, e che rafforzano la loro eresia con dimostrazioni irrazionali).

658. Perciò questo santo Concilio ecumenico […] anatemizza a gran voce gli inventori ed i falsificatori di tale empietà, come pure coloro che condividono le loro opinioni; il Concilio definisce e promulga che nessuno debba assolutamente possedere o conservare in alcun modo i testi degli autori di questa empietà. Se qualcuno avrà l’ardire di agire in contrasto con questo grande e santo Concilio, sia anatematizzato ed escluso dalla fede e dalla Religione cristiana (VGA – Pertanto questo santo Concilio ecumenico anatematizza con voce potente gli autori di tale empietà, così come coloro che condividono le loro opinioni. Se qualcuno in futuro avrà l’audacia di dire il contrario, sarà anatematizzato.

Libertà nella guida della Chiesa.

659. Can. 12. (non esiste più in greco) Poiché i Canoni apostolici e conciliari proibiscono formalmente le promozioni e le consacrazioni di Vescovi effettuate sotto l’influenza e la raccomandazione di arconti, dichiariamo e decidiamo anche, in conformità a questi Canoni, che se un Vescovo, con l’inganno o la tirannia dei potenti, riceve in questo modo la consacrazione della sua dignità, sarà in ogni caso deposto, come un uomo che, non secondo la volontà di Dio, ma secondo la volontà del sentimento carnale, ha voluto possedere o ha accettato la casa di Dio da uomini e attraverso uomini.

660. Can. 17. (lat.) Inoltre, abbiamo respinto a priori come un’affermazione odiosa quella fatta da persone ignoranti: un Sinodo non può essere tenuto senza la presenza di un arconte. Infatti, i sacri Canoni non hanno mai prescritto la presenza di principi secolari ai sinodi, ma solo di Vescovi. E così troviamo che gli arconti non hanno mai partecipato ai Concili, ad eccezione di quelli ecumenici: perché gli arconti secolari non devono essere testimoni di ciò che talvolta accade ai Sacerdoti di Dio. (VGA – 12 Ci è giunta voce che non si possa tenere un sinodo senza la presenza dell’arconte. Ma i sacri Canoni non prescrivono mai che gli arconti secolari siano presenti ai sinodi, ma solo i vescovi. Né troviamo che essi siano stati presenti, ad eccezione dei Concili ecumenici: perché gli arconti secolari non devono essere testimoni di ciò che accade ai Sacerdoti di Dio).

Preminenza romana tra le sedi patriarcali.

661. Can. 21 (non esiste in greco – VGA). La parola di Dio, che Cristo disse ai santi Apostoli e ai suoi discepoli: “Chi accoglie voi accoglie me” Mt X,40 “e chi disprezza voi disprezza me” Lc X,16, crediamo sia stata rivolta anche a tutti coloro che, dopo di loro e sul loro esempio, siano diventati sovrani Pontefici e capi dei pastori nella Chiesa cattolica. Ordiniamo quindi che assolutamente nessuno dei potenti di questo mondo offenda o tenti di cacciare dal suo trono qualcuno di coloro che occupano le Sedi patriarcali, ma che al contrario ognuno li giudichi degni di ogni onore e rispetto, primo fra tutti il santissimo Papa dell’antica Roma, poi il Patriarca di Costantinopoli, quindi quelli di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Inoltre, nessuno scriva o componga scritti e discorsi contro il santissimo Papa di Roma antica, con il pretesto di presunte colpe da lui commesse; cosa che ha fatto recentemente Fozio e molto prima Dioscoro.

662. Chiunque, dunque, mostri presunzione e audacia tali da rivolgere insulti alla Sede di Pietro, il primo degli apostoli, per iscritto o senza scrivere, come hanno fatto Fozio e Dioscoro, subirà una condanna simile ed identica alla loro (VGA – 13) Chiunque mostri audacia tale da rivolgere insulti alla sede di Pietro, il primo degli apostoli, per iscritto o senza scrivere, come hanno fatto Fozio e Dioscoro, subirà una condanna identica alla loro).

663. Se qualcuno con qualche potere secolare, o qualsiasi persona potente, tenterà di allontanare dalla Sede Apostolica il suddetto Papa o uno qualsiasi degli altri Patriarchi, sia anatema.

664. Inoltre, se viene convocato un Concilio ecumenico e sorge qualche disputa sulla santa Chiesa dei Romani, o qualche controversia, è necessario indagare con rispetto e con la dovuta riverenza sul punto della contesa, e poi adottare una soluzione di cui uno si avvantaggia o di cui altri si avvantaggiano, ma mai avere l’audacia di pronunciare una sentenza contro i Sovrani Pontefici dell’antica Roma. (VGA – Ma se viene convocato un Concilio ecumenico e sorge una controversia sulla Chiesa dei Romani, si può, con prudenza e con la dovuta riverenza, indagare sul punto controverso e trovare aiuto o assistenza, ma non si abbia mai l’ardire di pronunciare un’accusa contro i Vescovi dell’antica Roma).

GIOVANNI VIII: 14 dicembre 872-16 dicembre 882

Lettera “Unum est” ai principi di Sardegna, intorno al settembre 873.

La schiavitù degli esseri umani deve essere abolita.

668. C’è una cosa per la quale dobbiamo paternamente ammonirvi; se non la correggerete, incorrerete in un grande peccato, e con esso non aumenterete i guadagni, come sperate, ma piuttosto i danni. Come abbiamo appreso, su istigazione dei Greci, molti di coloro che sono stati fatti prigionieri dai pagani vengono venduti nelle vostre regioni e, dopo essere stati comprati dai vostri connazionali, sono tenuti sotto il giogo della schiavitù; mentre è dimostrato che è pio e santo, come si addice ai Cristiani, che i vostri connazionali, dopo averli comprati dai Greci, li rimandino liberi per amore di Cristo e che ricevano la loro ricompensa non dagli uomini, ma dallo stesso nostro Signore Gesù Cristo. Perciò vi esortiamo e vi ordiniamo con amore paterno, se avete comprato dei prigionieri da loro, di lasciarli liberi per la salvezza delle vostre anime.

MARINO I: 16 dicembre 882-15 maggio 884

ADRIANO III: 17 maggio 884-settembre 885

STEFANO V (VI): settembre 885-14 settembre 891

Lettera “Consuluisti de infantibus“, all’arcivescovo Ludberto di Magonza

Magonza, tra l’887-888.

Condanna delle ordalie.

670. Ci hai consultato a proposito dei bambini che, dormendo nello stesso letto con i genitori, vengono trovati morti, per sapere se i genitori debbano purificarsi con il ferro rovente o con l’acqua bollente, o con qualche altra prova per dimostrare che non li abbino soffocati. I genitori, infatti, devono essere avvertiti ed ammoniti di non mettere questi bambini così teneri nel loro stesso letto, per evitare che, in caso di negligenza, vengano soffocati o schiacciati, e che quindi vengano riconosciuti colpevoli di omicidio. Infatti, sia che la confessione venga estorta con il ferro rovente o con l’acqua bollente, i santi Canoni non l’approvano; e ciò che non è stato stabilito dai santi Padri non deve essere presunto per invenzione superstiziosa. I reati resi pubblici dalla confessione spontanea o dalla deposizione di testimoni sono stati affidati al nostro governo per il giudizio, da quando il timore di Dio ci ha preceduto; ma ciò che è nascosto e sconosciuto deve essere lasciato al giudizio di Colui “che solo conosce il cuore dei figli degli uomini”. (3 Re VIII,39). Ma coloro che si dimostrano colpevoli di un tale crimine o che lo confessano, la vostra carità deve punirli; infatti, se chi ha distrutto con l’aborto ciò che è stato concepito nel grembo materno sia un assassino, quanto più non può scusarsi di essere un assassino chi abbia ucciso un bambino di almeno un giorno.

FORMOSO: 6 ottobre 891-4 Aprile 896

BONIFACIO VI: aprile 896

STEFANO VI (VII): maggio 896-agosto 897

ROMANO: agosto-novembre 897

TEODORO II: dicembre 897

GIOVANNI IX: gennaio 898-gennaio 900

BENEDETTO IV: gennaio (febbraio ?) 900-luglio 903

LEONE V: luglio – settembre 903

SERGIO III : 29 gennaio 904-14 Aprile 911

ANASTASO III: aprile 911-giugno 913

LANDO : luglio 913-febbraio 914

GIOVANNI X: marzo 914-maggio 928

LEONE VI: maggio-dicembre 928

STEFANO VII (VIII): dicembre 928-febbraio 931

GIOVANNI XI: febbraio/marzo 931-dicembre 935

LEONE VII: 3 gennaio 936-13 luglio 939

STEFANO VIII (IX): 14 luglio 939-ottobre 942

MARINO II: 30 ottobre 942-maggio 946

AGAPETO II: 10 maggio 946-dicembre 955

GIOVANNI XII: 16 dicembre 955-14 maggio 964

(A causa della deposizione di Giovanni XII (4/12/963) e di Benedetto V (23/6/964) l’elenco dei papi è diviso. Poiché vi è controversia su quale sia il Papa legittimo, in ciascun caso, sono indicati entrambi)

LEONE VIII: 6 (4 ?) dicembre 963-1 marzo 965

BENEDETTO V: 22 maggio 964 – 4 luglio 966

GIOVANNI XIII: 1° ottobre 965-6 settembre 972

BENEDETTO VI: 19 gennaio 973-giugno 974

BENEDETTO VII: ottobre 974-10 luglio 983

GIOVANNI XIV: dicembre 983-20 agosto 984

GIOVANNI XV: agosto 985-marzo 996

Enciclica “Cum conventus esset” ai Vescovi e agli Abati di Francia e Germania, 3 febbraio 993.

La venerazione dei santi

675. (2).. Di comune accordo abbiamo stabilito che la sua memoria – quella del santo Vescovo Ulrico – sia venerata con pio affetto e fedele devozione: infatti, quando veneriamo e veneriamo le reliquie dei martiri e dei confessori, è Colui di cui sono martiri e confessori che veneriamo; onoriamo i servi, affinché l’onore trabocchi sul Signore, che ha detto: Onoriamo i servi perché l’onore trabocchi verso il Signore che ha detto: “Chi accoglie voi accoglie me” (Mt X, 40), e perché noi, che non confidiamo nella nostra giustizia, possiamo sempre avere l’aiuto di Dio misericordiosissimo attraverso le loro preghiere e i loro meriti. Poiché i salutarissimi precetti divini e gli insegnamenti dei Santi canonici e dei venerabili Padri – con la pia considerazione dell’opinione di tutte le Chiese, ma anche con l’appoggio del Governo Apostolico – hanno sollecitato il raggiungimento di una soluzione utile e sicura, affinché la memoria del suddetto venerabile vescovo Ulrico sia dedicata al culto divino e sia sempre proficua nella più devota esecuzione della lode di Dio.

GREGORIO V: 3 maggio 996 – 18 febbraio 999 Febbraio 999

SILVESTRO II : 2 aprile 999 – 12 maggio 1003

GIOVANNI XVII : giugno – dicembre 1003

GIOVANNI XVIII: gennaio l004 – luglio 1009

SERGIO IV: 31 luglio 1009 – 12 maggio 1012

BENEDETTO VIII: 18 maggio 1012 – 9 aprile 1024

GIOVANNI XIX aprile – maggio 1024 – 1032

BENEDETTO IX: 1032 – 1044 (deposto per la prima volta nel 1044 dopo aver riconquistato il suo seggio per due volte, nel 1045 e nel 1047 fu deposto di nuovo)

SILVESTRO III: 20 gennaio – 10 febbraio 1045

BENEDETTO IX: 10 aprile – 1° maggio 1045

GREGORIO VI: 5 maggio 1045 – 20 dicembre 1046

CLEMENTE II: 25 dicembre 1046 – 9 ottobre 1047

BENEDETTO IX: 8 novembre 1047 – 17 luglio 1048

DAMASO II: 17 luglio – 9 agosto 1048

LEONE IX: 12 febbraio 1049 – 19 aprile 1054

Lettera “Congratulamur vehementer” a Pietro Patriarca di Antiochia, 13 aprile 1053

Professione di fede.

680. Credo fermamente… che la Santa Trinità, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, sia un solo Dio onnipotente, e che tutta la divinità nella Trinità sia coessenziale e consustanziale, della stessa eternità e onnipotenza, di una sola volontà, potenza e maestà: Creatore di tutte le creature, dal quale, per mezzo del quale, nel quale sono tutte le cose (Rm XI, 36), quelle in cielo e quelle in terra, le cose visibili e invisibili. Credo anche che tutte le Persone che compongono la Santa Trinità siano un unico Dio vero, pieno e perfetto.

681. Credo anche che il Figlio di Dio Padre, il Verbo di Dio, che è nato dal Padre da tutta l’eternità prima di tutti i tempi, consustanziale al Padre in tutte le cose, ugualmente onnipotente e co-uguale nella divinità, sia nato nel tempo dallo Spirito Santo, da Maria sempre Vergine, con un’anima razionale; abbia due nature, una eterna dal Padre, l’altra temporale dalla madre; abbia due volontà e due operazioni; è vero Dio e vero uomo, proprio in ciascuna delle nature e perfetto, non avendo subìto né mescolanze né divisione; né figlio adottivo, né essere immaginario; Dio unico e solo, Figlio di Dio in due nature, ma nella singolarità di una sola Persona; impassibile e immortale nella divinità, ma ha sofferto in umanità per noi e per la nostra salvezza con una vera passione della carne ed è stato sepolto; ed è risorto dai morti il terzo giorno con una vera risurrezione della carne; il quarantesimo giorno dopo la risurrezione salì al cielo con la carne con cui era risorto e con l’anima, e siede alla destra del Padre; da lì, il decimo giorno, inviò lo Spirito Santo, e da lì verrà, così come è salito, per giudicare i vivi e i morti, e ricompenserà ciascuno secondo le sue opere.

682. Credo anche nello Spirito Santo, pienamente, perfettamente e realmente Dio, che procede dal Padre e dal Figlio, uguale e co-essenziale in tutto al Padre e al Figlio, di uguale onnipotenza ed eternità in tutto, che ha parlato per mezzo dei Profeti.

683. Questa santa e indivisa Trinità, non in tre dèi, ma in tre Persone ed in una sola natura o essenza, un solo Dio onnipotente, eterno, invisibile e immutabile, io credo e confesso, professando veramente che il Padre è ingenerato, il Figlio unigenito generato, lo Spirito Santo né generato né ingenerato, ma procedente dal Padre e dal Figlio.

684. (Varie🙂 Credo che la santa Chiesa cattolica e apostolica sia l’unica vera Chiesa, nella quale è dato l’unico Battesimo e la vera remissione di tutti i peccati. Credo anche nella vera risurrezione di questa carne che ora porto, e nella vita eterna.

685. Credo anche che l’Onnipotente Dio e Signore sia l’unico autore dell’Antico e del Nuovo Testamento, della Legge, dei Profeti e degli Apostoli; che Dio abbia predestinato solo le cose buone, ma che conosceva in anticipo i buoni ed i cattivi. Credo e professo che la grazia di Dio conosce e segue l’uomo, per cui non nego il libero arbitrio alla creatura ragionevole. Credo e proclamo che l’anima non è una parte di Dio, ma è creata dal nulla e che senza il Battesimo sia soggetta al peccato originale.

686. Inoltre, anatematizzo ogni eresia che si erga contro la santa Chiesa Cattolica, e allo stesso modo chiunque creda che altre scritture, diverse da quelle ricevute dalla Chiesa cattolica, siano da considerarsi autorevoli, o le veneri. Ricevo in tutto e per tutto i quattro Concili e li venero come i quattro Vangeli; perché la Chiesa universale sta nelle quattro parti del mondo saldamente fondata su di essi, come su una pietra quadrangolare (cf. 472). Allo stesso modo ricevo e venero gli altri tre Concili… Tutto ciò che i sette Concili suddetti, santi e universali, hanno ritenuto e approvato, io lo ritengo e lo approvo, e tutti coloro che essi hanno anatemizzato, io li anatemizzo.

Lettera “Ad splendidum nitentis“, a Pietro Damiano, 1054.

La malizia del traviamento sessuale

687. … È opportuno che, come tu desideri, ci avvaliamo della nostra autorità apostolica in modo da togliere ai lettori ogni dubbio angoscioso, e in modo che sia stabilito per tutti che tutto ciò che è contenuto in questo scritto (il Liber Gomorrhianus), che si oppone al fuoco diabolico come all’acqua, è piaciuto al nostro giudizio. Affinché la licenziosità di un desiderio immorale non rimanga impunita, è necessario che venga respinta con l’adeguata severità apostolica e che si cerchi di affrontarla con rigore. Ecco, tutti coloro che si contaminano con uno qualsiasi dei quattro tipi di abominio menzionati, sono allontanati da tutti i gradi della Chiesa immacolata con la giusta censura prevista, e questo secondo il giudizio dei santi Canoni e il nostro. Ma poiché agiamo con grande umanità, vogliamo e ordiniamo, confidando nella divina misericordia, che coloro che, o con le loro mani o tra di loro, abbiano fatto germogliare il loro seme o lo abbiano sparso tra le loro cosce, e che non l’abbiano fatto per lunga abitudine o con molti, se hanno frenato la loro sensualità ed espiato i loro atti infami con una giusta penitenza, siano ammessi in quegli stessi gradi in cui non sarebbero rimasti per sempre se fossero rimasti nella loro decadenza; Agli altri deve essere tolta la speranza di riacquistare il loro grado: Coloro che, o per lungo tempo con se stessi o con altri, o con molti, anche per poco tempo, si siano contaminati con uno dei due abomini che descrivete, o che – cosa abominevole a dirsi e a sentirsi – si siano messi alle spalle degli altri. Se qualcuno osasse giudicare il nostro decreto di sanzione apostolica o inveire contro di esso, sappia che così facendo mette in pericolo il suo stesso rango.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (15) “da VITTORE II ad URBANO III”

LA VERGINE MARIA (2)

Il Vescovo Tihámer Toth

LA VERGINE MARIA (2)

Nihil Obstat: Dr. Andrés de Lucas, Canonico. Censore.

IMPRIMATUR: José María, Vescovo Ausiliare e Vicario Generale. Madrid, 27 giugno 1951.

CAPITOLO II.

SCRUPOLI RELATIVI AL CULTO DI MARIA

Un giorno una signora venne da me dicendo che voleva parlarmi. Io non sono cattolica – mi disse, – ma da dieci anni vengo nella chiesa dell’Università ed ascolto le sue conferenze. Ora non posso più aspettare: voglio essere cattolica. A casa si scatenerà un putiferio, i miei genitori vorranno impedirmi di fare questo passo, tutti saranno contro di me, potrei anche perdere il lavoro che ho; ma non posso più rimandare, devo farlo! – Ho chiesto:  E mi dica, cos’è che l’ha attratta di noi? La verità che più ha catturato la sua anima dal Cattolicesimo? – Diverse cose, rispose. Prima di tutto, il Santissimo Sacramento. A chi legge con attenzione le chiare parole di Gesù Cristo nella Sacra Scrittura: “Questo è il mio corpo”, non gli basta credere che Cristo sia in quel pane. Non è possibile riposo finché non possiamo essere nella Chiesa, che ci dà il corpo di Cristo. Voglio il Cristo che vive intero e completo nel Santissimo Sacramento. Inoltre, sono attratta dalla Confessione, perché sento che la mia anima ha bisogno di di poter parlare in tutta sincerità e ricevere l’assoluzione nel Nome di Dio. – E c’è qualcos’altro che la attrae? – Continuai a interrogarla. – Sì: il culto di Maria. Vedo che Gesù Cristo, quando ha detto a San Giovanni sulla croce: “Ecco tua madre”, ha anche dato una madre a tutti noi, una Madre che dobbiamo onorare ed amare!

* * *

Quelli di noi che per grazia speciale di Dio sono già nati nella Religione cattolica, quelli di noi che hanno, per così dire, respirato aria cattolica fin dal primo respiro, forse non hanno mai realizzato la verità espressa da quest’anima che era alla ricerca di Cristo. Quanta bellezza, quanti e quanto inesauribili tesori sono nascosti nella Chiesa cattolica! Non parlo ora del Santissimo Sacramento, né della Confessione…; essi non entrano nel nostro argomento. Ma mi occupo del culto di Maria, il tesoro nascosto, del cui valore non tutti i Cattolici sono consapevoli, il tesoro che con la sua luminosità e la sua luce ci guida con sicurezza sul cammino che porta a Cristo. Da sempre un segno caratteristico della Chiesa cattolica è stata la fervente adorazione della Madre di Dio. Con gioia, santo orgoglio e cuore riconoscente, abbiamo sempre reso omaggio alla Beata Vergine; eppure alcuni hanno frainteso e interpretato in modo sbagliato il nostro culto, lo hanno frainteso ed hanno sollevato scrupoli contro di esso. Se nell’ultimo capitolo scorso ho mostrato i fondamenti dogmatici su cui si basa il nostro culto, nel presente capitolo, voglio esaminare gli scrupoli che vengono sollevati e propagandati contro di essa. Sappiamo che la nostra fede cattolica non abbia nulla da nascondere; affrontiamo, quindi, apertamente le obiezioni e le difficoltà che possano essere sollevate contro il culto.

I. “CHE FU CONCEPITA DALLO DELLO SPIRITO SANTO”.

La prima difficoltà sorge già intorno alle parole del Credo: “… fu concepita dallo Spirito Santo e nata dalla Vergine Maria”… Vergine Maria! Vergine benedetta! Vergine e, soprattutto, Madre! Questo è il titolo che di solito diamo a Maria, ma abbiamo già incontrato la prima obiezione, la prima difficoltà: la verginità intatta della Madre di Dio!

* * *

A) Non c’è dubbio, affermare questo, riguardo alla nascita di Gesù Cristo, può lasciare perplessi anche gli uomini di buona volontà. Perché secondo la nostra fede, Cristo non è nato come gli altri uomini. Non aveva un padre terreno, è stato concepito dallo Spirito Santo, cioè San Giuseppe e la Vergine Maria – pur essendo uniti in un vero matrimonio – non ebbero vita matrimoniale. Ebbero un solo figlio, Gesù, che era figlio dello Spirito Santo, Egli non era figlio di San Giuseppe, ma solo di Maria. Questo è un fatto eccezionale. La storia dell’umanità non ci offre, né può offrirci, un caso del genere. Non è accaduto secondo le leggi umane… Ma la Sacra Scrittura lo afferma in un modo che non lascia spazio a dubbi, lo afferma in maniera così chiara e decisa che non è possibile sopprimerlo dai nostri dogmi, e chi non lo crede non può essere Cristiano. Quando, dalle labbra dell’Angelo apprese che le sarebbe nato un figlio, Ella chiese ansiosamente: “Come può essere, dal momento che non conosco, né mai conoscerò alcun uomo? (Lc. 1: 34). E l’Angelo risponde molto chiaramente: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà, e per questo motivo il Santo che nascerà da te sarà chiamato Figlio di Dio” (Lc. 1, 35). Questo è ciò che scrive SAN LUCA Evangelista. E in SAN MATTEO leggiamo: “Quando sua madre Maria fu promessa sposa a Giuseppe, si scoprì che aveva concepito nel suo grembo per opera dello Spirito Santo” (Mt 1, 18). E quando San Giuseppe è turbato da questo, l’Angelo lo rassicura con queste parole: “Giuseppe, figlio di Davide, non essere turbato nel ricevere Maria, tua sposa, perché ciò che è stato generato nel suo grembo è opera dello Spirito Santo” (Mt 1, 20). È possibile parlare più chiaramente? Quando preghiamo il Credo alludiamo a questi passi della Sacra Scrittura: “Egli è stato concepito dallo Spirito Santo, nato dalla Vergine Maria”. Con questo confessiamo che Cristo è nato in modo molto diverso dagli altri uomini. Non aveva un padre mortale sulla terra; non è stato sottoposto alla legge generale della nascita; sebbene abbia ricevuto il suo corpo da una madre, non lo ricevette come gli altri uomini, perché sua Madre, Maria, era vergine ed immacolata prima della sua nascita, e lo fu anche dopo…. È vero che la nostra povera ragione umana abbia difficoltà a comprendere, ma dobbiamo crederci… è necessario crederci. E colui che non ci crede non può essere Cristiano.

B) In relazione a questo dogma vorrei anche sottolineare una circostanza che avvalora questa nostra convinzione, la corrobora e la rende accessibile al punto che, anche se non siamo in grado di comprendere la maternità verginale di Maria, – perché non saremo mai in grado di capirla – noi siamo forzati ad esclamare: realmente, così doveva venire a noi il Figlio di Dio. Naturalmente…, per ammettere che Cristo è nato come insegna la nostra fede cattolica, cioè: senza padre, da una Madre che ha concepito per opera dello Spirito Santo…, abbiamo bisogno di una fede profonda. Ma, allo stesso tempo, sembra più facile accettare questa nascita insolita che attribuire al Figlio di Dio fatto uomo una nascita comune, ed a farlo venire per la via consueta per la quale i figli degli uomini vengono al mondo. E se comprendiamo questo sublime insegnamento della Chiesa, allora possiamo parlare a buon diritto della Vergine Madre, la Beata Vergine, e possiamo onorare in Lei con profonda umiltà la Vergine Madre. Voi certo conoscete che genitori buoni e retti, hanno a volte un figlio che non assomigli affatto alla famiglia: genitori ferventi, pii, onorevoli, che hanno figli frivoli, prodighi, indegni. Chi può capire un tale segreto? Le ultime conclusioni biologiche affermano che quando i genitori danno vita a un nuovo bambino, questo nuovo figlio, questo nuovo essere umano è innestato fin dal primo momento nel tronco millenario dell’albero dell’umanità, e riceve come triste e misteriosa eredità le tendenze, le disposizioni, buone o cattive, dei genitori, dei nonni e persino di antenati lontani. Chi nasce oggi non può più essere l’uomo primitivo, puro, ideale, come il primo uomo uscito dalle mani del Creatore, ma siamo tutti noi un miscuglio incomprensibile e doloroso delle vite, delle inclinazioni, dei desideri, cadute e peccati dei nostri antenati vicini e remoti. È una triste realtà. E chiedo ora – facendo astrazione dai fondamenti dogmatici- : non era forse necessario che il nostro Redentore, scendendo sulla terra, scegliesse, alla sua nascita, un percorso completamente diverso alla sua nascita? Un percorso che, in un certo senso, lo avrebbe isolato dal tronco marcio e malato dell’umanità. Un percorso che avrebbe presentato un’origine diversa dalle altre, percorso attraverso il quale il “nuovo Adamo”, completamente puro, ideale, che viene immediatamente dalle mani di Dio, proprio come in un giorno lontano venne anche il primo Adamo immediatamente dalle mani del Creatore. Certo…, per ammettere che Cristo è nato come insegna la nostra fede cattolica, vale a dire: senza padre, da una Madre che ha concepito per opera dello Spirito Santo …, abbiamo bisogno di una fede profonda. Ma, allo stesso tempo, sembra più facile accettare questa nascita insolita che attribuire al Figlio di Dio fatto uomo una nascita ordinaria, e farlo venire per la via consueta, per la quale i figli degli uomini vengono al mondo. E se comprendiamo questo sublime insegnamento della Chiesa, allora possiamo parlare giustamente della Vergine Madre, della Beata Vergine, e possiamo in lei con profonda umiltà la Vergine Madre.

II. I “FRATELLI” DI CRISTO

Se è così, allora dobbiamo tutti deplorare nel profondo dei nostri cuori gli indegni attacchi che, nel corso del tempo sono stati diretti contro la Vergine Maria proprio in questo punto, e che volevano mettere in discussione la sua verginità.

A) Ho affermato all’inizio di questo capitolo che la nostra fede cattolica non ha nulla da nascondere, che non abbiamo motivo di essere disturbati da qualsiasi tipo di accusa; Voglio affrontare ora la mormorazione spudorata, con la terribile calunnia che i i nemici ostinati della Beata Vergine Maria vogliono diffondere ovunque ed inculcare nelle anime degli uomini, calunnie che forse non hanno raggiunto molti dei miei lettori, ma che non possiamo omettere, perché devono essere pronti a confutarle se un giorno dovessero sentirle. A chi mi riferisco ora? Agli uomini ostinati che, contro Maria, sussurrano con maligno compiacimento alle nostre orecchie: “Perché parlate continuamente della Vergine Maria quando, oltre a Gesù, ha avuto diversi figli? La chiamate Vergine senza diritto”. Fa venire i brividi l’anima nel vedere con quale gioia, con quale trionfante superiorità siano soliti scagliare questa accusa in faccia ai fedeli, e con citazioni dalle Sacre Scritture, e vedere che i nostri, turbati, non sanno cosa rispondere e tacciono…, coperti di rossore.

B) Ma la Sacra Scrittura parla davvero dei “fratelli di Gesù”? Sì, lo fa. E per meglio mostrare quanto poco Motivo abbiamo di nascondere qualcosa, ho raccolto i passi in cui si parla di loro. In una certa occasione, il Signore era circondato da una grande moltitudine, mentre insegnava. San Marco scrive come segue: “Nel frattempo giunsero sua madre e i suoi fratelli (e stando fuori, lo mandarono a chiamare” (Mc. III, 31). Dunque la madre e i fratelli di Cristo! Leggiamo in un altro passo di San Matteo: “Non è forse il figlio dell’artigiano – domandano in una certa occasione dopo aver ascoltato i suoi saggi insegnamenti. Sua madre non si chiama forse Maria? I suoi fratelli non sono forse Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non vivono forse tutti tra noi?” (Mt XIII, 55,56). Quindi, ancora una volta, i fratelli e persino le sorelle di Cristo! Secondo San Giovanni, Gesù si recò a Cafarnao, e con lui andarono “sua madre, i suoi fratelli e i suoi discepoli” (Gv II, 2). Inoltre, secondo San Giovanni, “anche molti dei suoi fratelli non credettero in lui” (Gv VII, 5). Negli Atti degli Apostoli si parla di Maria, madre di Gesù, e dei suoi fratelli e sorelle (At I,14). Ho elencato i principali passi della Sacra Scrittura in cui si parla dei fratelli e delle sorelle di Gesù. Ma il problema è questo: questi passi vanno compresi? Questi passaggi possono essere intesi nel senso che alludono ai figli di Giuseppe e Maria, fratelli e sorelle di Gesù Cristo, altri figli della Vergine? No, affatto! Chi cita la Sacra Scrittura deve conoscerla. Bene, allora: leggete il passo di San Luca (XXIV, 19) in cui le donne raccontano la la resurrezione di Cristo agli Apostoli, e confrontatelo con un altro brano di SAN GIOVANNI (XIX, 25). SAN LUCA dice: “Maria, madre di Giacomo”. SAN GIOVANNI dice: “Si trovavano nello stesso tempo presso la croce di Gesù, sua Madre e la sorella di sua Madre Maria, moglie di Clopa”. Così la Vergine Maria aveva una parente, il cui nome era anche Maria, moglie di Clopa, ed ebbe un figlio, Giacomo il minore. Anche San Marco (VI, 3) lo chiama anche “fratello” di Cristo, quando è chiaro che era suo cugino. Ed è che nella lingua orientale venivano chiamati e vengono chiamati “fratelli” ancora oggi, anche i parenti lontani, quelli che appartengono alla stessa famiglia. Tra il popolo è comune il dire, e ricopio alcune righe della lettera di uno studente di medicina: “Da buon Cattolico e da ungherese, è anche molto comune che un giovane parli con un altro, che non è nemmeno suo parente, e gli dica: “Dove vai, fratello?”. E quante volte sentiamo dire dalla bocca degli ungheresi: “Dove vai, fratellino?” Conosco bene le Sacre Scritture. In Terra Santa, ho visitato i luoghi santi con la Bibbia in mano. Conosco la mentalità orientale. Vorrei offrire un’eccellente prova riguardo alla parola “fratello”. Nella lingua arabo-turca questa parola “Kardhasim” significa “mio fratello”. Ebbene: il turco intelligente, ed anche il semplice turco che conosce la parentela del suo popolo con gli ungheresi, ci hanno salutato come ungheresi che sapevano che eravamo tali e quindi che eravamo loro “parenti” – in modo molto amichevole, dicendo “kardhasim, kardhasim” e stringendoci la mano. Lì in Terra Santa ed in Arabia “mio fratello” (kardhasim) significa un parente o una persona molto cara. Probabilmente anche noi ungheresi abbiamo preso da lì – dal Turan – l’espressione: “Come stai, dove vai? fratello?”. Cosa? Quel bambino di dieci anni è il tuo fratellino? Ma tu hai già quaranta anni! – Oh sì, è mio nipote. Forse mi si dirà che siamo noi che diamo questa svolta alle Sacre Scritture. No! Le Sacre Scritture una volta chiamano Lot “fratello” di Abramo, e altrove riporta fedelmente che Lot era figlio del fratello di Abramo, cioè suo nipote. Inoltre, di Giacobbe leggiamo anche che era “fratello” di Labano, eppure sappiamo che egli fosse il figlio di suo fratello. Il Cantico dei Cantici (IV, 9) chiama la stessa moglie o sposa “sorella”. – Ma – continuiamo ancora con le obiezioni – la Sacra Scrittura chiama Cristo, in diversi passaggi, come il primogenito di Maria (Mt 1, XXV; Lc. 2II 7). Quindi, in breve, Maria ebbe diversi figli? Per niente. Infatti, chiunque conosca il linguaggio delle Sacre Scritture, sa che è consuetudine chiamare il primogenito il primo figlio, anche se non ne sono venuti altri dopo di lui. Inoltre,  San Paolo chiama Gesù Cristo il Primogenito del Padre (Ebr I, 6). Inoltre, se Gesù Cristo avesse avuto fratelli e sorelle, figli di Maria, chi avrebbe potuto comprendere la delicata scena in cui il Crocifisso lascia la sua sua Madre alle cure di San Giovanni? Se Maria avesse avuto altri figli, perché lasciarla nelle mani di un estraneo? No. La Vergine Maria aveva un unico figlio: nostro Signore Gesù Cristo. E con questo unico Figlio onoriamo Maria. Tutti gli omaggi, tutta la gioia purissima, tutto il culto, tutta l’adorazione con cui i popoli cattolici onorano Maria da migliaia di anni derivano da questo fatto: lei ci ha dato Cristo. E non temiamo ciò che farisaicamente alcuni sembrano temere, cioè che il culto di Maria possa distogliere le nostre anime da Gesù Cristo ed essere un muro, un ostacolo tra noi e Dio, ma.., al contrario, è il nostro stimolo: “Per Mariam ad Jesum” è ciò che confessiamo sempre: “A Gesù attraverso Maria”.

III. CRISTO E MARIA

Esaminiamo più da vicino quest’altra obiezione, che viene spesso sollevata: il culto di Maria è un ostacolo sulla via di Cristo?

A) Sarebbe davvero un ostacolo se fosse vera la calunnia tanto sbandierata, la falsità che non riusciamo mai a confutare: che noi adoriamo la Vergine Maria. A volte tutta la nostra forza di convinzione di fronte ad un’affermazione così errata e ostinata, è inutile, e vano addurre prove. Il fine è sempre lo stesso: venerare Maria. Eppure, con quanta chiarezza il Catechismo ci insegna che noi solo onoriamo, non adoriamo Maria. “Ma tu le dici tante preghiere! – Quanti santuari, quante litanie, quante immagini, quante immagini!” Ma è sufficiente leggere il testo delle preghiere e delle litanie, e andare nei luoghi di pellegrinaggio, per vedere che in nessun luogo noi adoriamo Maria, e che non facciamo altro che rivolgere a Lei le nostre suppliche. C’è il testo tanto amato, l’”Ave Maria”. Chiunque può sentirlo: “Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi…”. Perciò non ti adoriamo, ma ti preghiamo di pregare per noi. Ed ancora: “Prega per noi, o Santa Madre di Dio, affinché possiamo essere resi degni di raggiungere le promesse di nostro Signore Gesù Cristo.”. Quindi: prega per noi! Prega per noi! E nelle litanie diciamo sempre: Pregate per noi, pregate per noi. – Osserviamo la marcata differenza che la Chiesa cattolica fa tra il culto di Dio e il culto di Maria. – Come inizia la litania lauretana: “Dio, Padre celeste, abbiate pietà di noi”. Sì, questa è adorazione. “Dio Figlio Redentore – abbiate pietà di noi”. Sì, anche questa è adorazione. Dio Spirito Santo – abbiate pietà di noi.”. Questa è una voce che adora. Ma poi continua: “Santa Maria…”. E noi cosa diciamo? “Abbi pietà di noi?” No, ma: “Prega per noi”. E così fino alla fine: “Prega per noi”! Alla fine della litania ci rivolgiamo a Dio, e il “Prega per noi” cambia di nuovo: “Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo – abbi pietà di noi”. Ecco come la Chiesa distingue chiaramente tra il culto di Dio e il culto di Maria.

* * *

B) Detto questo, è superfluo sollevare l’altra questione, cioè se il nostro culto mattutino sia prudente, se sia o meno un ostacolo, se chiuda o meno la strada al culto di Gesù Cristo. Non è possibile dare una risposta migliore a questa obiezione delle parole dell’Arcangelo Arcangelo nel salutare Maria. “Come osi pregare l’Ave Maria”, ci viene detto. Rispondiamo: se Dio invia un Angelo per salutare una persona, allora non possiamo essere censurati se anche noi la salutiamo con le stesse parole. E se nelle Sacre Scritture, scritte per ispirazione dello Spirito Santo, c’è una profezia che Maria “sarà chiamata benedetta per tutte le generazioni” (Lc. 1,48), allora coloro che si adoperano per l’adempimento di questa profezia e chiamano beata la Vergine Maria, è possibile che il culto di Maria sia anteposto il culto di Dio e lo ponga al secondo posto? C’è un capolavoro nel mondo la cui magnifica bellezza diminuisce l’ammirazione che proviamo per l’artista? Il maestro è sempre più grande della sua opera, e sappiamo che ciò che c’è di bello, affascinante e virtuoso in Maria è dovuto al suo Maestro, l’infinito Dio. Gesù e la sua santa Madre hanno vissuto insieme con una parentela di sangue ed una parentela di anima. E ora è lecito, per la Religione di Cristo, sciogliere e rompere questi intimi legami? Noi cerchiamo solo Cristo”, dicono gli altri. Anche noi lo cerchiamo. Ma è colpa nostra se, in Cristo, troviamo sempre Maria al suo fianco? Lei è al presepe, davanti ai Magi d’Oriente, nella fuga in Egitto, nella casetta di Nazareth, ai piedi della Croce, alla sepoltura di Gesù. Gesù e Maria si appartengono a vicenda: chi trova Cristo trova anche Maria, e chi smette di onorare Maria smette anche di onorare Gesù e – come dimostra la testimonianza della storia – cessa anche di piegare le ginocchia davanti a Cristo. Secondo l’insegnamento della storia, le madri di uomini eccelsi sono sempre state ricordate con rispetto… Vogliamo ulteriormente spiegare con quali titoli onoriamo la Madre dell’Uomo-Dio, Maria? – Chi non ha mai sentito parlare della madre dei Gracchi? E di Santa Monica, l’eroica madre di S. Agostino? E di Sant’Elena, la madre dell’imperatore Costantino il Grande? Abbiamo bisogno di altri esempi?…. Possiamo pronunciare con rispetto il nome di esse e dobbiamo negare questo onore solo alla Madre di Gesù? Il culto di Maria si oppone al culto di Gesù Cristo? Ah, ma dov’è un figlio che non voglia che sua madre sia onorata? Dov’è un figlio che considera un’offesa che sua madre venga rispettata? Al contrario: io non entrerei volentieri in una casa in cui non fosse permesso a mia madre di entrare. –  Tra le cerimonie di incoronazione in Ungheria, ce n’è una di significato molto interessante e profondo. Quando il Principe Primate incorona il re, nell’antichissima chiesa di Mattia, e pone sulle sue tempie il diadema di Santo Stefano, poggia per un momento con la sacra corona sulla spalla della regina. E nessuno si sorprende di questo, nessuno pensa che sia una negazione dell’autorità del re, ma al contrario. Quanto grande, pensiamo, debba essere l’autorità reale, che può illuminare con il suo splendore coloro che, senza essere il re, sono solo vicini al re! Non è forse naturale che Maria abbia il suo posto accanto a Gesù? Maria non è Dio, non è Cristo, ma è vicina a Lui, perché è sua Madre, e questa vicinanza ci ispira. E se qualcuno sostiene, anche dopo quello che abbiamo detto, che il culto ci distragga dall’adorazione di Cristo, lo imploro di fermarsi per una volta anche con spirito di osservazione, a Firenze, davanti a una delle più belle immagini di Maria, davanti all’impareggiabile dipinto di Raffaello, la Madonna della Sedia. Esaminiamo il volto trasfigurato della Vergine, mentre guarda in basso. Si vede che Ella non guarda l’esterno del Bambino, ma è completamente assorta nella contemplazione del suo volto divino. Il volto di Maria, in questo dipinto, è una delle più sublimi bellezze che l’arte umana abbia mai prodotto. Eppure …, mentre guardiamo Maria, notiamo improvvisamente che il suo sguardo, impregnato di una visione ammirevole, conduce impercettibilmente le nostre anime all’oggetto della visione, il misterioso Bambino divino. Perciò, alla domanda proposta se il culto di di Maria serva da ostacolo al culto di Cristo, la risposta non può che essere opposta. Quante volte onoriamo Maria, onoriamo Cristo; infatti, ci inchiniamo a Maria perché Cristo, il Figlio di Dio, era anche suo Figlio. Amiamo e onoriamo la Vergine Maria, le presentiamo il nostro omaggio e la nostra lode. Ma chi non sa che la pietra angolare, il centro ed il fine ultimo, l’alfa e l’omega di tutta la nostra religiosità è il suo santo Figlio, Gesù Cristo? Chi guarda Maria sente che il suo sguardo si posa su Cristo: chi guarda Maria sale a Cristo. Noi non adoriamo Maria, noi adoriamo solo Dio: a Lei preghiamo, sì, e la supplichiamo, e continueremo a supplicarla in futuro, con amore caldo e filiale, di pregare per noi. “Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi ora e nell’ora della nostra morte”.

LA VERGINE MARIA (3)

11 MAGGIO: SANTI FILIPPO E GIACOMO APOSTOLI

S. FILIPPO APOSTOLO

Otto Hophan: GLI APOSTOLI- Marietti ed. TORINO, 1951. N. H.

Nei cataloghi apostolici degli Evangelisti Matteo e Luca l’Apostolo Filippo viene subito dopo Giovanni. Giovanni e Filippo! Due nomi, due uomini, due… mondi! Su queste pagine irraggiano ancora le luci dell’eternità, che Giovanni ha fissate in alto col suo Vangelo e con la Apocalisse. Egli ha scrutato il divino Mistero più profondamente d’ogni altro fra i Dodici: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Iddio, e il Verbo era Iddio… »’; a ragione gli fu assegnato come simbolo l’aquila. Filippo, che gli vien vicino nel posto seguente, non ha per simbolo un’aquila; un’aquila accanto a lui piuttosto disturberebbe; poiché questo Apostolo è un’indole calma, obiettiva, quasi prosaica; è intento alle realtà palpabili e sensibili della vita; non è né poeta né mistico e in occasione di cerimonie appare maldestro e impacciato. Il Signore costituì il suo Collegio apostolico sapientemente, e come allora anche oggi…! Egli non vuole soltanto dei Giovanni, ma anche dei Filippo; Filippo etimologicamente significa « amico dei cavalli »; e in realtà il regno di Dio sulla terra non ha bisogno solamente di « aquile », ma anche di « cavalli » che tirino i carri scricchiolanti. In un antico scritto, che ci è stato trasmesso sotto il nome di Ippolito (1- 235), dal titolo « Intorno alla fede », gli Apostoli vengono chiamati collettivamente « cavalli di Dio », « poiché questi cavalli hanno tuonato il mistero della salvezza, portando la parola al buon Cavaliere e compiendo il corso della verità ». È strano che gli Atti apocrifi attribuiscano a Filippo dei tratti, che appartengono invece a Giovanni; egli, ad esempio, avrebbe invocato il fuoco dal cielo sugli abitanti increduli della città di Gerapoli, cosa che, calmo com’era per natura, non ha fatto sicuramente lui, ma il violento Giovanni, secondo l’esplicita testimonianza del Vangelo. Gli è pure attribuita la lotta contro l’eresia degli Ebioniti sulla fine del primo secolo cristiano, sebbene anche questa sia stata condotta da Giovanni. Questo scambio di Filippo con Giovanni ha certo il suo fondamento nell’antica tradizione, secondo la quale tutti e due sarebbero stati Apostoli dell’Asia Minore.

POSIZIONE

I primi tre Vangeli ci danno di Filippo esclusivamente il nome; non vi leggiamo nessun’altra notizia. Questo nome è in tutti i quattro cataloghi fisso sempre al quinto posto; tale collocamento ha il suo significato. Filippo non appartiene più al primo gruppo, che seguiva più da vicino il Signore; però viene immediatamente dopo di esso; questo quinto posto nel Collegio dei Dodici gli è assegnato già dalla storia della sua vocazione. Filippo è dunque il capo del secondo gruppo, che risulta inoltre di Bartolomeo, Matteo e Tommaso. Non ci è possibile accertare quali fossero i compiti specifici assegnati ai tre gruppi diversi di Apostoli e ai loro capi durante l’attività pubblica del Signore; il testo di Giovanni VI, 5, di cui dovremo dire presto, come pure la specializzazione di Matteo, ch’era stato precedentemente esattore e uomo di calcolo, potrebbero indurci a pensare che al secondo gruppo era stato commesso soprattutto l’incarico del settore organizzativo ed economico. Circa la condizione familiare dell’Apostolo Filippo, abbiamo delle notizie da una lettera del Vescovo Policrate di Efeso, scritta al Papa Vittore verso l’anno 190: egli sarebbe stato sposato ed avrebbe avuto tre figlie, delle quali due sarebbero morte vergini e martiri, la terza sarebbe stata sepolta a Efeso. Anche l’antico Papia, Vescovo di Gerapoli verso il 130, fa menzione di queste tre figlie, ch’egli avrebbe conosciuto personalmente. Ma qui forse ci troviamo di nuovo dinanzi a uno scambio dell’apostolo Filippo col diacono Filippo; di quest’ultimo si fa parola ripetutamente negli Atti degli Apostoli; egli è detto pure « evangelista », titolo che, secondo la terminologia della Chiesa del tempo, significava un predicatore del Vangelo, che vagava da un luogo ad un altro; e aveva « quattro figlie non maritate, che possedevano il dono della profezia ». Non è dunque difficile che in un’epoca posteriore si siano attribuite all’Apostolo Filippo le figlie del diacono; è vero che per l’Apostolo se ne ricordano solo tre, mentre il diacono ne aveva quattro; è certo però che le gesta riferite dagli Atti degli Apostoli riguardano non l’Apostolo ma il diacono Filippo. Quanto alle relazioni personali di Filippo, il Vangelo ci fa conoscere solo la sua patria: egli era di Bethsaida, villaggio di pescatori sulla riva nord-est o forse su quella occidentale del lago di Galilea. Da questo villaggio di nessuna importanza il Signore chiamò a Sè tre Apostoli; eppure un così singolare privilegio non lo preservò dalle saette dell’ira divina, ne accrebbe piuttosto la responsabilità: Gesù cominciò a indirizzare contro le città, nelle quali s’era compiuta la maggior parte dei suoi miracoli, parole di minaccia, perché non avevanO fatto penitenza: “Guai a te, Corozain! Guai a te, Bethsaida… Io vi dico: nel giorno del giudizio Tiro e Sidone saranno trattate con più indulgenza di voi! “». All’udire quella maledizione del Signore contro la sua terra forse pianse anche Filippo, sebbene freddo per natura. Il fatto ci avverte che la predilezione divina non esclude la riprovazione, qualora le proprie colpe l’abbiano meritata. Col ricordare la patria di Filippo, il Vangelo intende accennare pure ad un’altra relazione: « Filippo era oriundo di Bethsaida, patria di Andrea e di Pietro »; e in realtà gli intimi rapporti fra Filippo e Andrea sono messi in luce ripetutamente nelle pagine del Libro Santo; Ci è anzi lecito supporre che il primo messaggio di Gesù sia stato annunziato a Filippo dal nobile Andrea, suo conterraneo. Questi, nel suo zelo, aveva già guadagnato a Cristo il fratello Pietro; si volse poi a mettere sulla via del Signore anche l’amico suo Filippo; leggiamo infatti che « il giorno seguente Gesù volle andare in Galilea; ivi incontrò Filippo e gli disse: “SeguiMi” ». Ci sorprende il tono così preciso e piuttosto imperativo di questa chiamata; perché Filippo è il primo fra tutti, che si sente rivolgere un ordine così esplicito ed energico di seguire Cristo; non erano stati ancora chiamati neppure Giovanni e Andrea, ma avevano ricevuto solo un invito; doveva forse l’ordine così reciso troncare sull’istante ogni riflessione di Filippo, ch’era un po’ formalista? La pedagogia di Cristo tiene conto, con sapienza e benignità, della caratteristica di ciascuno dei suoi discepoli. La storia della vocazione ci fa vedere Filippo stretto da amicizia anche ad un altro Apostolo, a Natanaele-Bartolomeo. Potrà sembrare singolare che un Apostolo così freddo avesse due amici, uno, per così dire, a destra e uno a sinistra; ma l’esperienza ci insegna che appunto simili nature si vincolano a individui ricchi di sentimento, spintevi dall’intimo bisogno di supplire e completare la loro indole asciutta mediante l’amicizia. I cataloghi degli Apostoli dei tre Vangeli, come pure quello del Canone della Messa rendono onore a questa amicizia col ricordare sempre uniti Filippo e Bartolomeo. Ne conserva il ricordo anche la letteratura apocrifa: Bartolomeo accompagna Filippo nei suoi viaggi apostolici ed è accanto a lui anche nel suo martirio. Essendo amici, s’erano spesso comunicati quello che agitava i loro cuori; certamente, dunque, s’erano svelati l’intenso desiderio del Messia. E adesso era giunta l’ora, in cui l’uno poteva portare all’altro la notizia di Gesù. Fu veramente una grande ora dell’amicizia! Poiché Cristo Signore è il monte luminoso, cui deve tendere ogni profonda amicizia. « Filippo incontrò Natanaele » probabilmente alle porte di Cana, dove Bartolomeo abitava e dove il Signore stava per entrare, e gli disse: “Abbiam trovato Colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, il Figlio di Giuseppe, da Nazareth ” ». Quest’annunzio non è così zampillante dalla fonte come l’unica festiva proposizione di Andrea: « Abbiam trovato il Messia! »; sembra piuttosto da maestro di scuola, odora di libri. L’allegro Natanaele obietta maLiziosetto: « Da Nazareth? che può venire qualcosa di buono da Nazareth? »; Filippo non gli risponde con nessuna apologia di Gesù, vuole invece che l’amico si trovi di fronte al fatto, che ne faccia l’esperienza; e replica secco a Natanaele: « Vieni e vedi! ». E così ci è dato di conoscere l’Apostolo fino in fondo già in questo primo incontro con lui.

CARATTERISTICA

Il testo evangelico ora visto ci descrive già un aspetto della personalità di Filippo; ma l’Evangelista Giovanni ci ha trasmesso di lui altre tre notizie, che in qualche modo facilitano un’idea del suo carattere; l’Evangelista con questo intese certamente usare un’attenzione alle comunità dell’Asia Minore, che erano legate in modo particolare all’apostolo Filippo, perché era stato uno dei loro padri nella fede. La prima di queste notizie ricorre nel racconto della moltiplicazione miracolosa dei pani. La situazione era disperata: « Gesù vide venire a Sé la folla immensa di popolo, cinque mila uomini, non contate donne e fanciulli », con negli occhi il muto grido della fame; « allora Gesù disse a Filippo: “Dove compreremo pane perché questa gente possa mangiare? ». Un leggero sorriso dovette sfiorare il volto del Signore mentre faceva questa domanda, perché Egli non abbisognava dei consigli di Filippo; ma era opportuno che l’impossibilità della refezione di cinque mila persone fosse accertata da quell’Apostolo obiettivo e freddo; col rivolgersi a lui, Gesù mirava anche a risvegliare nel suo animo un timido presentimento dell’azione divina imminente: « Gesù disse questo per metterlo alla prova, poiché Egli sapeva che cosa voleva fare»; ma Filippo non percepì, nell’interrogazione del Maestro, l’intenzione delicata che vi si nascondeva; il sentire e il presagire non è il suo forte. È bravo invece nei calcoli: un’occhiata sola e ha già indovinato che in quel frangente « pane per duecento denari non basta loro, anche se ciascuno ne ricevesse un pezzetto soltanto ». Duecento denari erano forse tutto quello, che conteneva la cassa apostolica portata da Giuda; corrispondevano press’a poco a 28.000 lire della nostra valuta, ma con un potere d’acquisto, ai nostri giorni, quattro o cinque volte tanto. A che scopo sborsare tutto quel denaro? Un bravo economo evita, nella sua saggezza, le spese inutili. Fatti questi calcoli, il caso appariva a Filippo senza speranze; non gli brillò in mente alcuna idea, nemmeno un minimo sospetto, che lo strappasse al suo gelido calcolare, così da balbettare, un po’ perplesso, ma con improvvisa e crescente festosità: Signore, se Tu, se Tu…!; egli fa i conti solo con la « realtà », non con i miracoli. La seconda notizia intorno a Filippo s’incontra nel Vangelo della Domenica delle Palme “. « Fra coloro, ch’erano ascesi, si trovavano anche alcuni greci. Questi si rivolsero a Filippo, ch’era oriundo di Bethsaida in Galilea, e lo pregarono: “Signore, vorremmo vedere Gesù!”. Non conosciamo il motivo, che persuase questi « Greci », dei gentili cioè timorati di Dio, a presentare il proprio desiderio precisamente a Filippo e non ad un altro Apostolo; poté essere il suo nome greco, oppure la sua patria, e il Vangelo sembra alludere a questo motivo, ma poté essere anche un semplice caso; comunque sia, essi non avevano fatto i conti col formalismo di Filippo. Pagani, che vogliono vedere Gesù… Una faccenda scabrosa! Non era stato dato da Gesù stesso l’ordine agli Apostoli: « Non mettetevi sulla via verso i pagani! »; non s’era Egli rifiutato, almeno da principio, di guarire la figlia della Cananea perch’era pagana? « Non è giusto prendere il pane ai figli del popolo eletto e gettarlo ai cagnolini! », e cioè ai pagani; Filippo insomma abbordò il caso con la tediosa esattezza, che s’accompagna quasi sempre con le indoli asciutte. Ma neppure così ne venne a capo; « allora Filippo andò e lo disse ad Andrea »; questi, più longanime e più deciso di lui, non rilevò nella richiesta dei pagani nessuna difficoltà: « Andrea e Filippo andarono e lo dissero a Gesù ». – Quest’indole dell’Apostolo, fredda e impacciata dinanzi alle grandi idee, affiorò un’ultima volta nella sala dell’ultima Cena. Le parole del Signore risuonavano per la sala come rumore d’acque eterne: « Io sono la via e la verità e la vita. Nessuno va al Padre se non per mezzo mio. Se voi Mi conosceste, conoscereste anche il Padre mio. Da questo momento Lo conoscete e L’avete già visto ». Gli ultimi discorsi del Signore nel Cenacolo sono le luci più radiose intorno a Dio, che mai siano state fissate sul cielo dell’umanità; si possono paragonare ai lampi: squarciano la notte e strappano l’impotenza dello spirito umano dinanzi al mistero di Dio. Nel bel mezzo dunque di tanta solennità ecco Filippo con un desiderio che fa davvero pena: « Signore, mostraci il Padre e… ci basta! ». Povero Filippo! Tutto rivolto a osservare e a calcolare, al mondo sensibile e palpabile, non ha afferrato per niente il senso sublime delle parole di Gesù; egli vorrebbe vedere il Padre, di Cui parla Gesù, in una apparizione visibile, come Lo videro Abramo, Giacobbe e Mosè, e « questo basta »; non c’è bisogno di molte altre cose invisibili e inafferrabili. Il Maestro, dinanzi all’incomprensione dell’ingenuo discepolo, rispose con un rimprovero mite, ma insieme soffuso del suo intimo dolore: « Son con voi da sì lungo tempo e tu, Filippo, non Mi conosci ancora? ». Nell’opera « Stromatels » (tappeti) dello scrittore ecclesiastico Clemente Alessandrino, che tanto lesse e viaggiò sulla fine del secondo secolo (m. 214), leggiamo una quarta parola, che avrebbe detta Filippo ed è conservata nel Vangelo. Clemente avrebbe saputo dall’antica tradizione ch’era Filippo quel discepolo, il quale, al momento della chiamata, aveva chiesto la licenza: « Signore, permetti che prima vada e seppellisca mio padre”. Gesù gli replicò: “SeguiMi e lascia i morti seppellire i loro morti” ». Quanto già di Filippo, tipo perplesso, che non scorge i vasti orizzonti a causa di quant’è vicino, ci persuade della intrinseca verosimiglianza della notizia di Clemente, e che quindi le parole surriferite siano state dette realmente dal nostro Apostolo. Gesù, cui è lecito presentare ad ogni uomo delle pretese inesorabili e indeclinabili, tolse il discepolo ad ogni considerazione col preciso comando: « SeguiMi! ». Con tutto questo però avremmo presentato il buon Apostolo Filippo solo come un praticone freddo, statistico e pedante, e il giudizio che ne seguirebbe sarebbe troppo severo; la sua fisonomia apostolica dunque dev’essere ancora molto lumeggiata; poiché, nonostante la sua indole fredda e pratica, egli possedeva pure dello slancio e del cuore e della profondità, ma questi pregi erano in lui quasi nascosti e riservati nel più intimo dell’essere e solo faticosamente erompevano, come una sorgente ostruita. Quanti individui alla « Filippo », che all’esterno sembrano privi di sentimento, soffrono penosamente per la loro indole, che li rende incapaci di tradurre facilmente all’esterno il loro buon fondo interiore! Già la prima parola di Filippo, anche se un po’ cerimoniosa, è percorsa da un’onda calda d’entusiasmo per Gesù: « Abbiam trovato Colui, del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti ». Anche in occasione della moltiplicazione dei pani e dell’incontro con i Greci affiora una reale sollecitudine e non semplice calcolo; nella sua risposta, apparentemente solo oggettiva, tutti devono rilevare anche il dolente tono sottinteso: Pane per duecento denari non è sufficiente, anche se ciascuno dovesse riceverne un pezzetto »; egli non respinse i Greci né fece loro sperare d’essere ascoltati in altro tempo, sebbene la loro spinosa richiesta gli creasse degli impicci; procedette sì con ogni formalità, ma è evidente che gli stava pure a cuore che quei desiderosi « vedessero Gesù ». Filippo è un Apostolo freddo, nasconde però il sentimento più di quello che non si creda; quando si tratta di parole sovrabbondanti è veramente impacciato; ma l’amore dei fatti concreti è incomparabilmente più prezioso che la profusione di parole buone, con le quali parecchi tentano di riscattarsi dall’azione; e invece: « Figlioletti, non amiamo soltanto con le parole e la lingua, ma con i fatti e in verità »; non v’è dubbio che l’amore perfetto si ha solo quando un medesimo caldo palpito dà vita alle opere e alle parole, come era nel Signore, che si mostrava compassionevole verso le folle anche con sentimenti e parole, ma non si arrestava lì, bensì compiva i miracoli dell’amore. – La profondità di Filippo si rivelò nel modo più bello precisamente in quella espressione, che apparentemente fu la sua parola più ingenua: « Signore, mostraci il Padre! ». A ragione osserva il Bossuet : « Mai forse in tutto il Vangelo fu presentata un’esigenza più sublime e… più ardita di questa »; di fatto essa domanda l’ultima cosa, la cosa centrale: il mistero del Padre e del Figlio. Si direbbe quasi che Filippo, così proclive alle realtà palpabili e visibili della vita, sentiva l’insufficienza e l’incapacità del proprio essere e, stimolato dalla sua insoddisfazione, sospirò le profondità di Dio; giacché quanto più uno deve occuparsi di « denari » e di « pani » e di « pagani », tanto più sente pure il bisogno di radicarsi nei divini misteri. E il Signore, che non educò col metro o secondo un unico schema ciascuno dei suoi Apostoli, bensì adattandosi al suo temperamento, proprio Filippo guidò dalle strettezze del suo senno pratico agli ampi orizzonti e alle profondità di Dio. In occasione della richiesta dei Greci, il Maestro aveva già prospettato, nei riguardi del mistero della redenzione, una visione ricca di sublime e profonda verità: « Se il grano di frumento non cade a terra e muore, resta solo; ma se muore, porta molto frutto »; nella sala della Cena, accondiscendendo alle pretese di Filippo, Egli lo condusse sino alle vette della Trinità: « Chi ha visto Me, ha visto pure il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre!”? Non credi ch’lo sia  nel Padre ed il Padre in Me? » E Gesù già su questa terra, nella sua apparizione sensibile, è come la trasparenza del Padre; fin da quaggiù risplende nel suo dire e nel suo operare il Padre; perché dunque Filippo richiede un’apparizione del Padre? Gesù stesso è il riflesso di Lui, la sua apparizione più stupenda. Questa parola, rivolta dal Signore a Filippo, così solenne e pregna di senso, ci conduce ancor più in alto, fin dentro a quell’intimissimo mistero della Trinità, che la teologia greca chiama « perichóresis », circolazione cioè e più letteralmente « girare vicendevole! ». Iddio Padre e Iddio Figlio e Iddio Spirito Santo non sono affatto diverse nature, ma posseggono insieme la medesima divina natura; sono quindi insieme, « l’Uno nell’Altro », il Padre nel Figlio e il Figlio nel Padre; una Persona non può vivere fuori dell’altra; quest’inabitazione però dell’una nell’altra delle tre divine Persone non è un’esistenza immota, ma un giubilante movimento circolare, un eterno procedere e un eterno ritornare alla sorgente; « ognuna delle tre divine Persone è pure a suo modo un punto centrale e focale, al quale le altre due hanno relazione e nel quale si congiungono insieme ». Il Signore condusse Filippo a tali profondità della Divinità, precisamente Filippo! Solo l’Evangelista Giovanni ci ha tramandato in iscritto la parola provocata da Filippo. Filippo non è come Giovanni l’Apostolo con l’aquila, ha però l’anelito di elevarsi come l’aquila. Benedetto ogni Filippo, che anela all’aquila! Anche a lui saranno dette parole di lassù, proprie della vetta, ed esse realmente gli « basteranno ».

ATTIVITÀ

Circa l’opera e la morte dell’Apostolo Filippo, la Sacra Scrittura ci lascia nell’oscurità completa; così si spiega il sorgere dei così detti « Atti di Filippo » sullo scorcio del quarto secolo, compilazione non autentica, conservata in diversi frammenti e anche in diverse recensioni, che riferisce del nostro Apostolo ogni sorta di miracoli e di stranezze. Egli avrebbe predicato Gesù Cristo, ad esempio, in Atene, alla presenza di trecento filosofi greci, che bramavano di sentire delle novità; ci accorgiamo però subito della dipendenza di questa informazione dal discorso dell’apostolo Paolo all’areopago, come è riferito negli Atti degli Apostoli. Filippo sarebbe pervenuto, con un viaggio miracoloso, a Cartagine, che è paragonata alla città di « Azoto », dove, dopo il battesimo dell’eunuco, fu trasportato il diacono Filippo; avrebbe anzi annunziato il lieto messaggio persino ai Galli; s’intendono probabilmente i « Galati », che abitavano presso la Frigia, dove Filippo ha certo faticato. Anche la principale attività dell’Apostolo nella Scizia e nella Frigia e soprattutto la sua morte sono descritte in quest’opera drammaticamente e concedendo assai alla malsana tendenza di voler risvegliare nei lettori le pie sensazioni. Queste favole non rivendicano nessun valore storico, che anzi questi « Atti di Filippo », insieme con altri libri, furono espressamente proibiti da Un decreto del Papa Gelasio (492-496). Secondo il Breviario romano, Filippo lavorò nella Scizia e nella Frigia. Queste notizie s’appoggiano ad antiche tradizioni. La Scizia, sulla costa settentrionale del Mar Nero, l’odierna Ucraina meridionale, dovette essere il teatro dell’operosità missionaria di questo Apostolo per vent’anni; il nome però di questa regione, come terra di missione, ci obbliga a ricordare le riserve avanzate già per l’Apostolo Andrea, col quale Filippo dovette ivi prodigare le sue cure pastorali. Il suo zelo avrebbe preso di mira il culto di Marte che di fatto, secondo la testimonianza della storia, nella Scizia era in casa sua. La Frigia, secondo campo delle sue missioni, aveva per capitale la ricca e celebre Gerapoli; anche la lettera del Vescovo Policrate di Efeso a Papa Vittore, che sopra è stata ricordata, afferma che Filippo lavorò a Gerapoli ed ivi anche morì; pure un’antica iscrizione, scoperta nella necropoli di Gerapoli, ha un accenno a una chiesa consacrata dall’Apostolo Filippo. Vicine alla capitale erano le due città di Colossi e Laodicea, tutte e due ricordate negli scritti del Nuovo Testamento, Laodicea nell’Apocalisse di Giovanni, e Colossi nella lettera, di cui l’onorò l’Apostolo delle genti, Paolo. Giovanni, Paolo, Filippo! Come furono vicine le loro vie apostoliche in queste terre! Ci assale un profondo senso di mestizia quando pensiamo che queste regioni, nelle quali faticarono i primi cinque fra gli Apostoli — ivi infatti sudarono pure Pietro e Andrea —, sono oggi strappate a Cristo. Gli apocrifi, nel riferire dell’attività apostolica di Filippo, tornano con sorprendente frequenza e parecchie varianti alla descrizione della sua lotta con i serpenti o dragoni. Il cultO dei serpenti in quelle regioni risponde a verità storica; anche a Gerapoli il serpente fu custodito come animale sacro nel tempio della dea Cibele e fu onorato con le libazioni. Spieghiamo così perché l’arte di solito rappresenta l’apostolo Filippo impegnato nella lotta contro il dragone; la sua statua al Laterano annunzia la vittoria dell’Apostolo sulla potenza del dragone contorcentesi in virtù della croce. La Croce è così pesante, che schiaccerà sempre il dragone! Fu una singolare coincidenza quella dell’8 maggio 1945, lo storico giorno dell’armistizio: esso segnava il crollo d’un regime sbucato dall’inferno, e proprio in quel giorno la Liturgia, che onorava San Michele, patrono del popolo tedesco, annunziava: « Quando il dragone mosse guerra, Michele combatté contro di lui e riportò vittoria. Alleluia ». – Secondo lo scritto gnostico del terzo secolo « Pistis Sophia », sarebbe esistito anche un « vangelo di Filippo », contenente le rivelazioni del Risorto; ma la Scrittura canonica del Nuovo Testamento non ne sa nulla; tale « vangelo secondo Filippo » dev’essere una falsificazione dei tempi posteriori. Come l’opera di questo Apostolo, così è avvolta nell’oscurità anche la sua morte. Clemente di Alessandria afferma che Filippo, come pure gli apostoli Matteo e Tommaso, morì di morte naturale, mentre altri, e in realtà più numerosi, parlano di martirio. Secondo questi ultimi, Filippo sarebbe stato crocefisso a Gerapoli col capo all’ingiù come Pietro, al tempo dell’imperatore Domiziano o addirittura, secondo qualcuno, sotto l’imperatore Traiano (98-117), all’età di 87 anni. Singolare disposizione! Tutti e tre gli Apostoli oriundi dalla cara e… esecrata Bethsaida morirono in croce! Quanto dev’essere preziosa la croce dinanzi agli occhi del Signore, se Egli ne fa regalo ai suoi primi Apostoli! Sembra che le reliquie di Filippo siano state trasportate a Roma, dove sarebbero state composte, insieme con quelle dell’apostolo Giacomo Minore, nella chiesa dei Dodici Apostoli. Questo sarebbe pure il motivo, per cui la Chiesa latina festeggia insieme i due Apostoli; perché poi ne celebri la festa proprio il primo giorno di maggio (oggi trasportata all’11 maggio), non si saprebbe dire, se non fosse per una sottile ironia; giacché né Filippo né Giacomo Minore sono poeti e cantori della primavera, inclini com’erano piuttosto alla prosa della vita; la loro festa invece secondo la tradizione greca cade il 14 novembre. Negli «Atti di Filippo » apocrifi si legge una lunga e ridondante preghiera per la buona morte, ch’egli avrebbe recitata prima di subire il martirio; fu rielaborata da mano cattolica, ma è ancora riconoscibile la sua origine gnostica: « Cristo, Padre degli Eoni, Re della luce, Tu nella tua sapienza ci hai istruito e ci hai elargito il tuo intendimento; Tu ci hai regalato il consiglio della tua bontà; Tu non ti sei mai allontanato da noi; ci hai concesso la tua presenza della sapienza. Adesso, o Gesù, vieni, e dammi l’eterna corona della vittoria sopra tutte le forze e le potenze nemiche. La loro atmosfera tenebrosa non mi avvolga, affinché io mi apra la via attraverso i torrenti di fuoco e l’abisso tutto! Mio Signore Gesù Cristo, che il nemico non abbia modo di accusarmi dinanzi al tuo tribunale, ma rivestimi della tua veste splendente, del tuo suggello luminoso e in ogni tempo radioso, finché io passi dinanzi a tutti i dominatori del mondo e al dragone maligno, che a noi si oppone! Adesso, dunque, mio Signore Gesù Cristo, fammi incontrare Te nell’aria…! Trasforma la figura del mio corpo nella gloria degli Angeli e fammi riposare nella tua beatitudine, e ch’io riceva quello, che Tu hai promesso ai tuoi santi per l’eternità ». – Molto più semplice e… più profonda è la preghiera, che Filippo effuse veramente nel Vangelo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta! »; nel momento del martirio, dinanzi al portale dell’eternità, che gli si apriva, egli dovette ripetere desioso lo stesso grido. L’anelito più intimo d’ogni creatura umana va al Padre, all’ultimo principio di ogni essere; le tante cose di quaggiù — « denari », « pani » e anche « cinque mila uomini » — non bastano; solo Iddio basta! O santo Apostolo Filippo, vieni in nostro aiuto, perché possiamo giungere a quest’unico e a questo eterno Sufficiente!

SAN GIACOMO APOSTOLO MINORE

In tutti e quattro i cataloghi degli Apostoli Giacomo Minore occupa il nono posto; è dunque nel Collegio apostolico in testa a un nuovo e terzo gruppo, al gruppo dei cugini e del… , traditore di Gesù. Marco lo chiama « Minore » per distinguerlo dall’altro apostolo di nome Giacomo, il figlio di Zebedeo e fratello dì Giovanni; probabilmente era minore per età, forse era anche più piccolo di statura — « minor » può significare tutte e due le cose — rispetto a « Jakobus maior », ch’era il più anziano e il più alto dei due; vedremo se a questo «minor = più Piccolo » competa anche un significato simbolico. Con gli uomini di quest’ultimo gruppo non ci si presentano solo dei nuovi visi, ma s’inserisce nella serie dei Dodici una nuova categoria; noi siamo abituati a chiamare gli Apostoli i « poveri pescatori di Galilea », indistintamente; di fatto però il gruppo degli uomini, che stanno intorno a Gesù, è più vario e più ricco non solo per i caratteri, ma anche per la professione e per la posizione sociale dei singoli, come del resto le trattazioni viste finora possono aver dimostrato; con questo terzo gruppo ottengono un posto ed hanno voce in quel venerando Consesso del mondo anche i contadini: Giacomo, Giuda e Simone pure erano rappresentanti dell’agricoltura. Il Vangelo veramente non ci dà diritto di tirare una simile conclusione, perché appunto di questi tre parenti di Gesù non ci dice una sillaba, fatta eccezione del loro nome; solo di Giuda Taddeo abbiamo una breve espressione conservataci da Giovanni; in compenso però Giacomo e Giuda Taddeo hanno lasciato dietro di sé due lettere, che fanno parte della Scrittura del Nuovo Testamento e almeno indirettamente rivelano parecchio anche dei loro autori. In queste lettere infatti, quasi come sulle vesti di Esaù, è diffuso il profumo dei campi in fiore, l’aroma della zolla fumante e vi posa sopra la luccicante rugiada del cielo. La tinta campagnuola e pittoresca di queste lettere designa quali autori dei contadini; nessun pescatore e nessun esattore e nemmeno un erudito, ma solo un campagnuolo, ch’è familiare alla natura e alle sue cure, scrive frasi come le seguenti: « Il sole si leva col suo ardore e brucia l’erba; la sua fioritura avvizzisce e il suo bell’aspetto svanisce… Chi non manca nel parlare, è un uomo perfetto, ch’è in grado di frenarsi completamente. Noi — noi! — mettiamo la briglia in bocca ai cavalli, perché ci obbediscano; così conduciamo l’intero animale… Perseverate in pazienza, o fratelli, sino all’avvento del Signore. Ecco, il contadino aspetta il prezioso frutto della terra e persevera in pazienza, finché abbia ottenuto la pioggia temporanea e serotina ». – L’ipotesi suggerita da simili espressioni trova la sua conferma in un documento storico di Egesippo, della metà del secondo secolo, che ci è stato conservato dallo scrittore ecclesiastico Eusebio; secondo questo documento, l’imperatore Domiziano (81-96) fece venire a Roma due nipoti dell’Apostolo e fratello del Signore Giuda Taddeo, loro nonno, e pronipoti dell’Apostolo e fratello del Signore Giacomo Minore, loro prozio, perché sospetti d’alto tradimento; sottoposti ad interrogatorio, essi esposero all’imperatore il loro modesto patrimonio fondiario, costituito da 39 plethren — un plethron equivaleva a 0,095 di ettaro — di terreno arativo e gli fecero vedere le loro mani callose; dopo di che quel Domiziano, che li aveva ritenuti come pericolosi parenti di Gesù di Nazareth, li rilasciò senza preoccupazioni, perché  se ne tornassero in patria; se ora ricordiamo che, secondo la successione semitica, i beni di famiglia rimanevano quasi immutati alla stirpe, troveremo molto verosimile che su quei 39 plethren di terreno arativo si fossero già affaticati, mangiando il pane nel sudore della propria fronte, il nonno Giuda Taddeo e i suoi fratelli Giacomo e Simone. Il Signore, dunque, ha chiamato anzitutto dei pescatori e dei contadini per farne degli Apostoli, e questo quanto è significativo! Tutti e due, il pescatore e il contadino, si sono abituati a duro lavoro e ad ancor più dura pazienza, giacché né l’uno né l’altro può strappare a forza un nonnulla; a tutti e due dev’esser dato; quale scuola preparatoria all’apostolato! Il contadino però, a differenza del pescatore, ha sotto i suoi piedi un suolo solido, non fluido; rispetto quindi al pescatore è meno arrendevole e anche meno capace di adattamento; è invece lento, cauto e tenacemente attaccato alla tradizione. Il contegno rigidamente conservativo di Giacomo Minore in parte va certamente spiegato con la sua professione.

FRATELLO DEL SIGNORE

Perché si distingua da Giacomo Maggiore, il figlio di Zebedeo, Giacomo Minore è detto in tutti e quattro i cataloghi degli Apostoli « figlio di Alfeo ». Egesippo chiama questo Alfeo anche Klopas, Kleophas; si tratta forse di un secondo nome o anche semplicemente di una diversa pronuncia dello stesso nome Alfeo. Questa notizia d’un Alfeo, chiamato anche Kleophas, ha un appoggio anche nel Vangelo. Gli evangelisti infatti Marco e Giovanni nominano alcune delle pie donne, che perseveravano presso la croce di Gesù, e fra loro Marco ricorda una « Maria, la madre di Giacomo Minore », mentre Giovanni ricorda una « Maria, ch’era sorella della madre di Gesù, la moglie di Kleophas »; queste due Marie, accuratamente determinate per mezzo del figlio da Marco e da Giovanni per mezzo del marito, sono molto probabilmente la medesima donna; se così, Kleophas è da identificare con Alfeo, poichè Giacomo Minore era figlio d’un Alfeo. Per questo Alfeo-Kleophas non abbiamo a nostra disposizione notizie bibliche; parecchi vedono in lui uno dei discepoli di Emmaus, che in realtà portava il nome di Kleophas; Egesippo direbbe ch’egli era fratello di San Giuseppe, il padre nutrizio del Signore; già da questo lato avremmo un certo rapporto di parentela del nostro Giacomo con Gesù. – Maria, madre di Giacomo e moglie di Cleofa, da Giovanni è detta espressamente « sorella di sua madre » (della madre di Gesù); forse era una sorella corporale di Maria, Madre di Dio, sebbene in questa ipotesi ne seguirebbe la difficoltà che si trovassero nella stessa famiglia due sorelle col medesimo nome di Maria; oppure era una cugina della Madonna o almeno cognata di Lei attraverso suo marito Cleofa; in ogni caso, era una parente. Le relazioni di parentela di questa nobil donna con la Madre di Gesù ebbero la loro espressione nella cordiale partecipazione alla vita e alla passione del Signore. Nella relazione di quanto avvenne sul Calvario, Matteo la esalta, perché come l’altra madre di Apostoli, la madre dei figli di Zebedeo, Salome, ella « aveva seguito Gesù fin dalla Galilea per prestarGli servizio ». Stette con le altre buone donne accanto alla croce e prese fra le sue le mani della sua povera e sublime sorella per persuaderla che non era affatto sola, anche se in quel momento il suo Figlio e il suo tutto moriva; con Maria Maddalena, ella fu l’ultima, la sera del Venerdì Santo, ad allontanarsi dal sepolcro e fu anche la prima, all’alba del dì di Pasqua, a stare presso il sepolcro, portando i doni dell’amore, gli aromi e gli unguenti per la salma. Ebbe per questo, insieme alle altre donne, la felicità del primo Alleluia e fu anzi ritenuta degna d’una cara apparizione dello stesso Risorto, dopo la quale si affrettò a portare il lieto messaggio agli Apostoli. Anche Giacomo Minore dunque ebbe veramente un’ottima madre, una seguace del Signore, che Gli rimase fedele sino alla croce; può essere che anche lui, come la maggior parte degli apostoli di tutti i tempi, sia stato preparato per Gesù da sua madre e che la pia donna stessa considerasse una felicità della sua vita, se Gesù avesse accettato da lei il suo Giacomo. – Nella Scrittura del Nuovo Testamento si fa parola ripetutamente anche di fratelli di Giacomo; Marco, ad esempio, nella relazione del Venerdì Santo e del giorno di Pasqua, chiama sua madre una volta « la madre di Giacomo Minore e di Giuseppe », un’altra volta solo « la madre di Giuseppe », la terza volta soltanto « la madre di Giacomo ». Anche Giuda nella sua lettera si presenta come « fratello di Giacomo » e in rapporti di parentela con lui è messo pure nei cataloghi degli Apostoli di Luca. Questi medesimi nomi: Giacomo, Giuda e Giuseppe, ai quali s’unisce ancora quello di Simone, s’incontrano come fratelli già nel Vangelo, dove compaiono specialmente come « fratelli di Gesù »; vi leggiamo infatti che i Nazzareni, sorpresi dinanzi alle grandi opere di Gesù, si domandano indignati e stupiti: « Donde può Egli aver tutto questo… Non è il falegname, il figlio di Maria e il fratello di Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone? ». A questo punto sorge spontanea la questione circa il senso dell’espressione «fratelli di Gesù » nel testo citato e anche in altri del Vangelo; dobbiamo pure toccarne una seconda: se Giacomo, fratello di Gesù, sia la stessa persona dell’Apostolo Giacomo Minore, il figlio di Alfeo, questione per la quale s’è versato tanto inchiostro. Noi sappiamo già dalla fede che, quando nel Vangelo si fa ripetutamente menzione di « fratelli di Gesù », questi non si devono intendere fratelli e sorelle corporali di Lui, ma suoi parenti in grado più lontano. Nel Vangelo stesso infatti è ben manifesto il sublime proposito di Maria « di non conoscere uomo »; ora questa frase fu difesa dalla Chiesa, sin dalle epoche più remote, come una perla preziosa a prova della perpetua verginità della Madonna; d’altra parte l’espressione « fratelli di Gesù » non ci costringe in nessun modo a ritenerli fratelli e sorelle corporali, poiché il termine « fratello » nella lingua dell’antico e nuovo Oriente è ambiguo, come, ad esempio, presso di noi il vocabolo « cugino »; quel termine designa non solo fratelli e sorelle in senso stretto, ma anche in senso largo, come nipote, cognato, cugino e talora indica persino rapporti di amicizia e comunanza fra popoli; si può quindi concludere a fratelli corporali solo quando siano notificati anche i nomi dei genitori. Si noti inoltre che i « fratelli di Gesù » non sono mai chiamati figli di Maria, i Nazzareni invece dicono, sottolineando, « Gesù, il figlio di Maria » ed in quello stesso testo, dove enumerano i suoi « fratelli ». Nella ipotesi di veri fratelli, sarebbe ancor più inesplicabile la preghiera, che il Signore rivolse dalla croce a Giovanni: « Ecco tua madre! » e il conforto dato a Maria: « Donna, ecco tuo figlio! »; non disse: un figlio!, ma: tuo figlio! Se la Vergine avesse avuto altri figli, il Signore non avrebbe affidata a Giovanni la cura di sua Madre, che rimaneva sola; gli altri figli avrebbero dovuto prendersi cura di lei in forza della Legge. E in fine possiamo provare che l’espressione « fratello di Gesù » non solo può significare « cugino », ma deve avere questo senso, arguendo proprio dal fratello di Gesù Giacomo; con una probabilità infatti, che si può dire certezza, si dimostra ch’egli si identifica con Giacomo l’Apostolo. Nel capitolo d’introduzione agli Atti degli Apostoli Luca enumera solo due Giacomo, non tre: Giacomo, il figlio di Zebedeo, e Giacomo, il figlio di Alfeo; nel capitolo decimosecondo riferisce la morte di Giacomo Maggiore; in quelli che seguono scrive ancora d’un Giacomo, ma senza alcuna aggiunta, che lo distingua da altri dello stesso nome; eppure balza evidente dai testi che doveva trattarsi d’una personalità molto stimata, d’una autorità anzi posta a guida della chiesa di Gerusalemme; se in essa Luca avesse scorto un terzo Giacomo, fratello del Signore, diverso dall’Apostolo Giacomo Minore, ce lo avrebbe fatto capire certamente in qualche modo, lui, l’Evangelista della precisione. Alla stessa conclusione ci conduce un’espressione della lettera ai Galati. Paolo scrive della sua prima visita, dopo la conversione, a Gerusalemme, ove rimase presso l’Apostolo Pietro, e poi continua: « Ma non vidi nessun altro Apostolo, a eccezione — in greco: ei’ mé — di Giacomo, il fratello del Signore »; Paolo, dunque, annovera il fratello del Signore Giacomo fra gli Apostoli; l’interpretazione ovvia, evidentissima del testo è questa, ogni altra sarebbe artificiosa, e tanto più, perché a Paolo, col testo addotto, importava dimostrare alla comunità di Galazia, che non aveva in lui troppa fiducia, la sua comunione con gli Apostoli più anziani. Infine, non si potrebbe in nessun modo spiegare il posto di direzione, che nella Chiesa apostolica occupava il fratello del Signore Giacomo, se egli non fosse stato uno dei Dodici; gli autori stessi, che non vogliono riconoscere l’identificazione del fratello del Signore con l’Apostolo, sono costretti ad ammettere che il primo, « anche se, dopo la morte del figlio di Zebedeo, non fu accolto dagli altri Apostoli nel loro Collegio, tenne tuttavia un posto uguale all’apostolico ». Anche secondo il « Vangelo degli Ebrei », che risale al primo secolo, Giacomo, fratello del Signore, partecipa all’ultima Cena; è considerato quindi come uno dei Dodici. Provata così la identificazione del fratello del Signore con l’Apostolo dello stesso nome, resta pure dimostrato inequivocabilmente che egli era figlio di Alfeo e di Maria, sorella della Madre di Gesù; è dunque la Bibbia stessa a provarci che Giacomo, il « fratello » di Gesù, non era figlio della Madre di Dio, Maria, e neppure un figlio di Giuseppe da un precedente matrimonio, come vorrebbe una leggenda, che si conserva nel così detto « Protoevangelo dell’apostolo Giacomo »; era invece figlio di parenti loro, della « sorella » cioè della Madre di Gesù e del fratello del padre nutrizio Giuseppe, La Chiesa greca fa distinzione ancor oggi fra il fratello di Gesù e l’Apostolo Giacomo, celebrando la festa del primo il 25 ottobre e quella dell’Apostolo il 9 dello stesso mese; le testimonianze però della tradizione, cui essa s’appoggia, non hanno valore, mentre la sentenza contraria è sostenuta già da Clemente Alessandrino, Origene e specialmente da Girolamo. Nel corso del Vangelo « i fratelli di Gesù » prendono spesso, nei suoi riguardi, un proprio atteggiamento, ch’è in contrasto con quello degli altri Apostoli. Ecco, per esempio, come scrive Marco: « Vennero sua Madre e i suoi fratelli. Si fermarono fuori e Lo fecero chiamare… Egli rispose: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Guardò allora a coloro, che sedevano a Lui dintorno e disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Poiché chi fa la volontà di Dio, questi Mi è fratello, sorella e madre ». Anche più tardi, nel cuore della vita pubblica. Giovanni può riferire ancora: « Neppure i suoi fratelli credevano in Lui ». Non dimentichiamo però di avvertire qui che Gesù contava certamente altri « fratelli », oltre a quei due o tre, che aveva fatti Apostoli, perché, come abbiamo visto, « fratello » poteva essere detto ogni parente anche lontano; e nondimeno il Sacro Testo non vieta la supposizione che persino quelli dei suoi « fratelli », che aveva elevati alla sublimità dell’apostolato, incontrassero per la loro fede in Cristo particolari difficoltà. Come suoi cugini infatti, erano stati gli amici quotidiani della sua giovinezza, i compagni dei suoi giochi e dei suoi canti, se non erano seduti anche alla stessa mensa e avevano riposato nel medesimo giaciglio; secondo un’antica tradizione, la mamma loro Maria, la moglie di Cleofa, dopo la morte prematura di suo marito, s’era trasferita presso sua sorella, la Madre di Gesù, nella casa di Nazareth; erano dunque vissuti in troppo intimi contatti umani col loro Cugino, nel quale mai avevano avvertito, sebbene fosse educato e raccolto, nulla di straordinario. Quando furono con Lui nella vita pubblica, si rallegrarono della sua fortuna coll’ingenuo orgoglio d’una parentela povera, che aveva generato un grande; ma quanto a intelligenza della missione spirituale e anzi divina di Gesù, essi, e proprio perché « fratelli » di Lui, ebbero da percorrere un cammino più lungo che non gli altri Apostoli. In tutti e quattro i cataloghi essi stanno agli ultimi posti; ve li avrà confinati la delicatezza del Signore; ma è possibile che per questa assegnazione all’ultimo gruppo abbia contribuito pure la fede lenta e faticosa di questi suoi cugini; Pietro, il primo nella serie, fu primo anche nella fede. Nella sua prima lettera ai Corinti Paolo menziona una particolare apparizione, che il Signore nel tempo pasquale concesse a Giacomo; il «Vangelo degli Ebrei » dice persino d’un giuramento, che Giacomo fece dopo l’ultima Cena, di non mangiare più pane finché non avesse visto Gesù risorto; ebbe dunque bisogno d’uno speciale soccorso per rassodarsi nella fede, come Tommaso o anche più di lui, giacché non fu assente, come questi, quando il Signore accondiscese a manifestarsi a tutti gli Apostoli? Ci è lecito pensare che Giacomo giungesse alla felicità d’una fede completa in Gesù, anche come « Signore e Dio », soltanto in virtù dell’accennata apparizione, quando fu a quattr’occhi col suo « Fratello »; una relazione puramente esterna con Gesù, fosse pure fisica, non basta a creare dei veri ed intimi rapporti con Lui, talora anzi è piuttosto d’impedimento che di aiuto. Il sangue è meno — minor! — della grazia; solo chi si lega a Gesù con la fede e con l’amore Gli è veramente fratello, sorella e persino madre, come Maria, che era congiunta a Lui e per sangue e per amore.

VESCOVO DI GERUSALEMME

Giacomo Minore è paragonabile a una stella ascendente, che comincia a brillare solo quando le stelle precedenti sono tramontate. Nel Vangelo non compare mai in scena, nemmeno con una sola parola; altrettanto si dica dei primi dieci anni negli Atti degli Apostoli; sta improvvisamente nella luce della storia solo dopo l’uccisione di Giacomo Maggiore nel 42 e la fuga di Pietro da Gerusalemme verso « un altro luogo »; questi, nella notte agitata della sua liberazione, lasciò nella casa di Marco l’ordine: « Annunziate questo a Giacomo e agli altri fratelli ». Già questo particolare accento su Giacomo fa concludere a una sua eminente posizione nella chiesa madre di Gerusalemme; come una « colonna » della Chiesa lo ricorda anche Paolo. Lo scrittore di storia ecclesiastica Eusebio afferma espressamente che Giacomo fu il primo Vescovo della Città Santa, e questo fatto appare chiaramente anche negli Atti degli Apostoli; tutte le volte infatti che Paolo riferisce dei suoi viaggi in Gerusalemme, menziona anche Giacomo e una volta anzi come l’unico Apostolo presente, e sempre come reggente la Chiesa della capitale; ora questa presidenza era sicuramente il posto più importante della Chiesa apostolica, poiché Gerusalemme era davvero la città santa, nella quale aveva faticato e sofferto il Signore stesso, in essa era risuscitato e da essa era asceso al Cielo; era dunque il cuore del giovane Cristianesimo. Era riservato a Gerusalemme quell’onore, che, a causa della sua colpa, più tardi passò a Roma; stava scritto nell’antica profezia: « Da Gerusalemme uscirà la Legge e la parola del Signore »; e questa divina elezione e il regno di Dio indugiavano a trasferirsi dalla prediletta Gerusalemme ad altra terra anche al tempo di Giacomo, nonostante la città deicida avesse gridato il suo esecrando: « Tolle, tolle — sia tolto di mezzo! ». Il fatto, dunque, che il Signore stesso, secondo la sentenza del Grisostomo, o i compagni d’apostolato, secondo quella di Girolamo, abbiano affidato il governo di questa Chiesa regale al nostro Apostolo e non a Pietro o a Giovanni o ad Andrea, sta a dimostrare la grande considerazione, in cui egli era tenuto. La sua parentela col Signore e ancor più il suo zelo straordinario anche per la Legge antica lo fecero certo apparire ai suoi colleghi come l’elemento più adatto per coltivare, sul suolo pietroso dello stesso Giudaismo, il meraviglioso albero del Cristianesimo. Nella « Dottrina degli Apostoli », antico scritto sirìaco, la consacrazione cristiana della regione da parte di Giacomo è descritta in termini raramente così solenni: « Gerusalemme e tutti i dintorni della Palestina, i territori dei Samaritani e dei Filistei, la terra dell’Arabia e della Fenicia e il popolo di Cesarea ricevettero la consacrazione del sacerdozio dall’Apostolo Giacomo, il legislatore e la guida della Chiesa apostolica, fondata a Gerusalemme, sul Sion ». La dignità però della sede episcopale di Gerusalemme non ci deve far dimenticare il peso, che s’accompagnava ad essa; il posto di Giacomo era importantissimo, ma anche il più difficile in tutta la Chiesa apostolica. A Gerusalemme vivevano ancora gli uccisori del Signore e il loro odio continuava ad ardere né accennava a scemare; il fanatismo religioso, ch’è il più accanito fra tutti, li spinse a perseguitare anche gli Apostoli, ch’essi ritenevano traditori della fede avita, e tanto solo per amore d’un sospeso alla croce; solo il calmo e saggio consiglio di Gamaliele, aveva stornato dagli Apostoli la sorte del loro Maestro; frattanto la proibizione di predicare, che il Sinedrio aveva loro intimata, non era mai stata revocata e ad ogni ora poteva legittimare una nuova persecuzione sanguinosa. Stefano, il nobile diacono e il primo martire della Chiesa primitiva, fu per la comunità di Gerusalemme come un santo avviso, che ammoniva di tenersi preparati anche alla morte per amore di Cristo; la sua lapidazione fu di fatto il segnale « per una grande persecuzione della Chiesa in Gerusalemme » che, condotta da Saulo furibondo, arrecò a quella primitiva comunità tanto terrore e tanto dolore. Quanto l’ambiente fosse mal disposto nei riguardi della comunità cristiana, anche dieci anni dopo la risurrezione del Signore, lo prova pure la persecuzione mossa dal re Erode Agrippa I: « Per piacere ai Giudei » aveva fatto giustiziare Giacomo Maggiore e aveva decretata la medesima sorte per Pietro. Giacomo dunque, nella sua qualità di Vescovo di Gerusalemme, copriva un posto veramente penoso; soggiornava, come Daniele, nella fossa dei leoni, che lo potevano aggredire ogni momento. Leggiamo nel Martirio coptico dell’Apostolo ch’egli, al momento della spartizione del mondo, aveva chiesto i territori dei pagani; è una leggenda; è possibile però che, immerso in riflessioni su quella città, sulla quale il Signore aveva pianto, abbia spinto spesso lo sguardo verso le regioni lontane, dove i suoi compagni d’apostolato giravano riponendo nei granai del Padre messi più abbondanti di lui, fermo a Gerusalemme, in quella città del mattino e della… sera. – E tuttavia anche il suo compito fu sublime, il più rispettabile anzi di tutti gli altri, ché egli poté portare a Cristo le reliquie del popolo eletto, al quale Iddio aveva giurato le sue promesse. E quanto sia stato il suo successo, lo prova la parola semplice, che rivolse a Paolo: « Tu vedi, o fratello, quante migliaia di Giudei hanno creduto ». Ci chiediamo allora in qual modo poté raccogliere e riporre per Cristo una messe così consolante in quel campo, ch’era stato tanto gravemente battuto dalla grandine. Prescindiamo dalla grazia, che s’era riservata anche fra gli increduli Israeliti « sette mila uomini, che non piegarono il loro ginocchio dinanzi a Baal »; quelle sante reliquie furono conquistate da Giacomo stesso, dalla sua pietà e dal suo rispetto per il sentimento giudaico, che abbracciava anche il modo esterno di condursi. Tutte le relazioni antiche mettono in risalto il santo tenore di vita di Giacomo. «Dai tempi del Signore sino ai nostri giorni », scrive Egesippo nel quinto libro dei suoi « Memorabili », « egli fu detto da tutti “il Giusto”. Egli fu santo sin dal seno materno. Non bevette vino o altra bevanda inebriante né mangiò mai nulla di vivo. Sul suo capo non passarono le forbici, non si unse con olio né frequentò i pubblici bagni. A lui solo era concesso di entrare nel Santuario (del Tempio). Non indossò neppure panni di lana, bensì di lino. Per il lungo tempo passato ginocchioni, la pelle delle sue ginocchia divenne dura come quella d’un cammello. In considerazione di questa sua ricchezza di santità fu chiamato “il Giusto e il baluardo del popolo” ». Questa condotta ascetica — Giacomo fu certamente nazireo per tutta la vita, legato quindi a certi voti di astinenza —, che oltrepassava di gran lunga anche quella dei Farisei, dovette lasciare appunto nel popolo giudaico una forte impressione. – Ai tempi di Girolamo sopravviveva ancora (420) la tradizione che le folle dei Giudei si pigiassero intorno a Giacomo per toccare anche solo l’orlo della sua veste. Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica adduce un passo dello storico ebreo Giuseppe Flavio, secondo il quale l’Apostolo sarebbe asceso, nell’opinione dei Giudei, a tale fama di santità, che essi nella distruzione di Gerusalemme ravvisarono una punizione di Dio per il supplizio, che pochi anni prima avevano inflitto a lui. Per quel popolo, così tenacemente attaccato ai suoi usi religiosi da giungere sino al ripudio del proprio Messia piuttosto che rinnegarli, non ci voleva un Apostolo da meno del nostro. In lui i Giudei videro, come in un modello vivente, che l’adesione a Cristo non era un tradimento, ma il compimento della fede dei padri. Nessuno stava in ginocchio nel Tempio più a lungo di Giacomo, che vi passava il giorno e la notte, come la profetessa Anna; nessuno era più di lui meticoloso in fatto di fedeltà alla Legge; la sua venerazione per l’Antico Patto si rivela ancor oggi nella sua lettera, che molti, sebbene a torto, dicono più del Vecchio che del Nuovo Testamento; rinvia infatti continuamente agli scritti e alla storia del popolo eletto. Egli quindi, così fedele alla Legge e rigido conservatore, fu come un ponte della Provvidenza e un’ultima grazia per Gerusalemme: riunendo in se stesso i due Testamenti, come un secondo Mosè, ebbe il compito di condurre il popolo dal Vecchio Testamento alla terra promessa del Nuovo; in questo sta il significato e la grandiosità dell’opera sua. Non dobbiamo nasconderci certo che questo accostamento di Vecchio e Nuovo Testamento, di Sinagoga e Chiesa in Giacomo doveva mettere sull’attenti: non ci sarà pericolo, per questa via, che il Vecchio soffochi il Nuovo Testamento? O riuscirà la Chiesa a svincolarsi da quell’attacco al Tempio? La storia delle prime sette cristiane, quali quella degli Ebioniti e dei Quartodecimani, sta a provare quanto poteva essere pericoloso l’affetto dei giudeocristiani per i loro usi religiosi. « Con vino nuovo si riempiono otri nuovi », e la Chiesa appartiene al mondo, e non solo alla sua culla nell’angolo della Palestina. Ma a questo scopo la Provvidenza di Dio si scelse un altro uomo, Paolo; egli è il padre degli etnicocristiani, come Giacomo è la guida dei giudeocristiani; Giacomo ebbe affidata Gerusalemme, Paolo Roma. Son per questo i due degli avversari.., o piuttosto dei fratelli, con diversi compiti commessi loro dal medesimo Signore?

AVVERSARIO DI PAOLO?

Ritenere Giacomo come un « giudeocristiano d’animo angusto », cui Paolo sia stato l’uomo « inviso », contradice assolutamente ai documenti biblici. Per quanto egli personalmente abbia potuto osservare la Legge mosaica sino all’ultimo apice, tenne tuttavia ben saldo il principio cristiano, che la salvezza viene da Gesù e non da Mosè, e considerò Paolo come « fratello »; e questo in lui era eroismo, perché appunto su quel gregge di Gerusalemme, che egli doveva pascere, era un giorno piombato quel giovane lupo e « aveva trascinato via uomini e donne, e li aveva gettati in carcere». Non vogliamo però negare che fra Giacomo e Paolo esistessero delle tensioni, non per colpa personale, ma per la diversità dei loro compiti. Negli Atti degli Apostoli li incontriamo in rapporti fra loro tre volte. La prima volta nel Concilio apostolico, che doveva definire la questione più grave della storia della Chiesa: se anche gli etnicocristiani fossero obbligati a osservare la Legge mosaica. Pietro aveva già fatto uso della sua pienezza di potere per sciogliere — non solo per legare! — e aveva dichiarato: « Perché volete tentare Iddio e porre sulle spalle ai discepoli un giogo, che nè i nostri padri né noi abbiamo potuto portare? No, noi crediamo di ottenere la salvezza per mezzo della grazia del Signore Gesù, come anche loro ». In quel momento gli occhi di tutti si rivolsero a Giacomo; nell’attesa di sentire a quale concezione avrebbe dato il suo voto favorevole quell’Apostolo stimato e conservatore più di tutti, le due parti rattennero il respiro; la giudaica sperava, la favorevole agli etnici temeva. E Giacomo si alzò e parlò: «Fratelli, ascoltatemi! Simone ha esposto come Iddio abbia mosso il primo passo per conquistare al suo Nome un popolo tra i pagani. S’accordano con questo le parole dei Profeti. Sta scritto infatti: “Poi edificherò di nuovo la tenda rovinata di David, restaurerò le sue macerie, la erigerò nuovamente. Allora gli altri uomini cercheranno il Signore, tutti i popoli, sui quali è invocato il mio Nome. Così dice il Signore, che questo opera “. Questo è l’eterno decreto. Per questo, secondo il mio parere, non si deve addossare ai pagani, che si convertono a Dio, nessun carico, ma però si deve esigere da loro che si astengano dalla contaminazione per mezzo degli idoli, dalla fornicazione, dal soffocato e dal sangue. Perchè Mosè da tempo immemorabile ha i suoi predicatori in ogni città; egli è letto ogni sabbato nelle sinagoghe » Queste parole, le prime che ascoltiamo dalla bocca di Giacomo, furono di grande importanza: « Non si deve imporre ai pagani nessun peso ulteriore! ». Rigido con se stesso, egli era abbastanza generoso per aprire ai gentili la porta della libertà dei figli di Dio. Anche cinque o sei anni dopo, ricordando quell’adunata apostolica, Paolo scriverà con evidente sollievo, nella lettera ai Galati : « Giacomo, Kefas e Giovanni, ch’erano ritenuti come colonne, porsero a me e a Barnaba la mano dell’alleanza »; ove Giacomo lo ricorda al primo posto, prima ancora di Pietro, perché egli aveva temuto soprattutto il voto di Giacomo; il sì di quest’ultimo nella controversia aveva doppio peso. Giacomo e Paolo si diedero la mano! Sarebbero state incalcolabili le tristi conseguenze per la Chiesa di Cristo, se in quella circostanza i due Apostoli non fossero venuti a un accordo; ma l’amore di Cristo può far convergere nell’unità anche un Giacomo e un Paolo. Osservando più attentamente la dichiarazione del nostro Apostolo, ci accorgiamo che essa non gli dovette riuscire facile; il suo cuore propendeva per il no; ma fu così leale, che in una questione definita in senso contrario da Dio stesso, dai Profeti e dall’esperienza, votò contro se stesso; non poté certo far a meno di limitare il suo voto con quattro clausole, che per questo son dette « clausole di Giacomo>>; con esse voleva rimuovere gli urti più gravi, che i contatti con gli etnicocristiani potevano provocare nei giudeocristiani; ed esse, nell’interesse della comunità cristiana, furono accolte nel decreto apostolico e ne fu segnalata la motivazione agli etnicocristiani: « Se vi guardate da queste cose, farete bene» in ordine al fraterno accordo con i giudeocristiani. Una o due delle quattro disposizioni, quella per esempio di starsene lontani dai conviti sacrificali dei gentili e l’astinenza da ogni relazione sessuale illegittima, come era in uso presso i pagani, si capiva facilmente che doveva valere anche per gli etnicocristiani; non era invece per loro evidente ed era meno facile a tradursi in atto l’esigenza che si mangiasse sempre carne monda e la proibizione del sangue, la cui commestione dal sentimento semitico era ritenuta detestabile ormai da millenni. Sarebbe tornato di gradimento se Giacomo, nel suo discorso, avesse avuto anche solo una paroletta di riconoscimento per l’opera di Paolo, che sedeva in quella nobile assemblea ancora impolverato e stanco, si può dire, per il suo primo viaggio apostolico; ma egli si riferì solo a Simone Pietro, sebbene immediatamente prima del suo discorso «Barnaba e Paolo raccontarono quali grandi segni e miracoli Iddio aveva operato per mezzo di loro fra i gentili » . Giacomo e Paolo sono ricordati insieme una seconda volta nella lettera ai Galati, in occasione del conflitto di Antiochia, del quale abbiamo scritto più sopra . Paolo, eccitato, rimprovera a Pietro la sua condotta inconseguente: « Perchè prima che fossero giunti alcuni della compagnia di Giacomo, egli (Pietro) frequentava la mensa in comune con i pagani; dopo il loro arrivo invece si ritirò e si separò per paura dei circoncisi. Con lui simularono anche gli altri giudei; persino Barnaba si lasciò trascinare dal loro infingimento ». « Della compagnia di Giacomo » ! Questo testo non ci dà il diritto di fare Giacomo responsabile dei raggiri dei giudaizzanti nella chiesa di Antiochia, con i quali tendevano a distogliere Pietro dalla libertà e semplicità del Vangelo per ricondurlo alla ristrettezza della Legge; Giacomo pensava rettamente e lealmente; nondimeno la parola indignata di Paolo accenna a lui come a quella persona, cui i giudaizzanti, anche se a torto, si appellavano di continuo come a un teste ufficiale; rimanendo egli personalmente così fermo nella rigida osservanza della Legge, dava un esempio, che nelle mani degli avversari dell’Apostolo delle genti diveniva un’arma potente. In realtà egli non si sarebbe mai concessa la libertà di Pietro, tanto meno quella di Paolo, né mai si sarebbe seduto alla mensa con gli etnicocristiani per mangiare uccelletti arrostiti o, peggio, carne porcina; si atteneva meticolosamente alle prescrizioni, che Mosè stabilisce nel capitolo undecimo del Levitico; e non è neppure impossibile che ai giudeocristiani egli desse il consiglio di non lasciarsi sviare dall’osservanza dei costumi paterni, beneficiando delle libertà concesse agli etnicocristiani. Giacomo fu giudeo per i Giudei, ma non fu pure gentile con i gentili — minor! —, come lo fu invece Paolo, di lui più aperto e sciolto. In questo senso certo, ma solo in questo ‘senso è da Paolo messo in relazione col conflitto di Antiochia. – Paolo e Giacomo stanno di fronte l’uno all’altro per l’ultima volta nel capitolo ventunesimo degli Atti degli Apostoli. Paolo, sempre magnanimo, portò a Giacomo la grande colletta raccolta fra le comunità etnicocristiane per soccorrere la Chiesa madre di Gerusalemme. Di questa visita, ch’è l’ultima fatta dall’Apostolo delle genti alla Città Santa, Luca poté scrivere la consolante relazione: « Dopo il nostro arrivo a Gerusalemme, i fratelli ci accolsero con gioia. Il giorno seguente Paolo venne con noi da Giacomo, presso il quale si radunarono tutti gli Anziani. Egli li salutò e poi riferì loro, sin nei particolari, quello che Iddio aveva operato per mezzo del suo lavoro fra i pagani. Quand’essi ebbero appreso tutto questo, lodarono Iddio. Però gli dissero… » Però! Di nuovo dunque un «però », di nuovo un’esitazione e una limitazione e… una richiesta, certamente, diciamolo pure, con ottima e fraterna intenzione. Si trattava di questo: nel mondo giudaico s’era sparsa la voce che « tu insegni a tutti i Giudei, che si trovano fra i gentili, l’apostasia da Mosè ed esigi che non facciano circoncidere i loro figli e che non vivano più in nessun modo secondo gli usi legali »; era una esagerata e diffamatoria generalizzazione. Anche Paolo infatti aveva avuto dei riguardi per i Giudei, tanto che aveva fatto circoncidere persino il suo discepolo Timoteo; ma non poteva dissimulare, per la sua concezione fondamentale, che la Legge non era necessaria alla salvezza dei giudeocristiani più di quello che lo fosse per gli etnicocristiani; ora questa sua posizione aveva provocato nell’animo giudaico tale tensione contro di lui, che c’era da temere per la sua vita, specialmente poi in una festività così solenne come la Pentecoste, che riuniva in Gerusalemme giudei di tutto il mondo. Fu questa sollecitudine per la sua vita che spinse a fargli una proposta, la quale, se non veniva da Giacomo, fu però da lui appoggiata: « Fa quello che ti proponiamo: quattro uomini fra di noi si sono obbligati con un voto. Unisciti a loro, purificati con loro e sostieni per loro le spese, perché possano farsi tagliare i capelli. Tutti allora comprenderanno che non v’è nulla di vero nelle voci, che sul tuo conto si sono diffuse, che tu piuttosto osservi fedelmente la Legge ». La proposta era una vera pretesa materialmente e ancor più moralmente. Per sé e per gli individui, che si volevano accollare a lui, Paolo doveva offrire in sacrificio un agnello, una pecora e un montone, cui inoltre s’aggiungevano i corrispondenti sacrifici incruenti; solo dopo di questi era sciolto il voto contratto del nazireato, la cui conclusione ufficiale consisteva nel taglio dei capelli. Ma per Paolo dovette costare molto di più tutta quella messa in scena: egli non era contrario al voto in sé, ché per sua libera determinazione s’era fatto nazireo già; ma nelle circostanze del momento un simile modo di agire significava confessare un torto non commesso, una vittoria dei suoi nemici e un funesto turbamento delle sue comunità etnicocristiane. Può essere che Giacomo districasse il collega da questi scrupoli con benevoli parole; lui pure nel Concilio apostolico aveva detto un sì doloroso a favore degli etnicocristiani; non avrebbe dovuto anche Paolo sostenere un sacrificio per i giudeocristiani? La carità di Cristo e la fede nella sua unica Chiesa vinse di nuovo; « Paolo si unì agli uomini, si purificò con loro e il giorno dopo andò nel Tempio. Ivi annunziò il termine del tempo del voto; poi fu offerto il sacrificio per ciascuno di loro ». Quel consiglio buono, col quale Giacomo aveva tentato di scongiurare il pericolo, che sovrastava alla vita di Paolo, fu per questi fatale; perché proprio al momento di sciogliere il voto, egli fu preso nel Tempio e quasi quasi veniva ucciso. Dovrà dunque ringraziar di questo Giacomo? Esattamente! Giacomo appianò a Paolo la via… di Roma, poiché quella prigionia, che durò due anni, ebbe termine col viaggio di Paolo a Roma, che egli tanto aveva desiderato di vedere. Giacomo, precisamente lui apre a Paolo la via di Roma! Gerusalemme, la culla, trasmette il Cristianesimo all’altra sponda, al vasto mondo. Ma anche Paolo fu fatale per Giacomo: Eusebio riferisce che i Giudei, quando si videro delusi in forza dell’appello di Paolo all’imperatore, presero le vendette su Giacomo, uccidendolo in cambio di Paolo; così questi giunse al martirio per l’opera di Giacomo e Giacomo per quella di Paolo.

LA LETTERA DI GIACOMO

La lettera di Giacomo è la prima delle sette lettere, che son dette « cattoliche ». Esse sono chiamate « cattoliche = universali » per distinguerle da quelle di Paolo, perché non sono, come le paoline, dirette a comunità particolari o a individui, ma, almeno nella loro maggioranza, a una comunità più estesa, in forma di encicliche. Due sono di Pietro, tre di Giovanni, una di Giacomo e una di Giuda Taddeo. La loro successione nelle edizioni odierne della Bibbia si attiene all’ordine degli Apostoli, che segue Paolo nel testo addotto della lettera ai Galati: Giacomo, Kefas e Giovanni “, ai quali è da aggiungere ancora Giuda. Quest’ordine, se si eccettua la lettera di Giuda, corrisponde pure all’epoca della loro composizione. La lettera di Giacomo, la prima delle sette lettere cattoliche, è anche il primo scritto del Nuovo Testamento; risale a un’epoca anteriore allo stesso Concilio apostolico, forse all’anno 48, perché non vi s’incontrano ancora allusioni alla grave questione, che la comunità cristiana avrebbe presto sollevata: se la Legge mosaica avesse ancora valore; la sua antichità risulta pure dalla sua probabile utilizzazione da parte di Pietro; si confronti, ad esempio, Giacomo I, 3 con I Pietro I, 7, o Giacomo IV, 6 con I Pietro V, 6. L’autore presenta se stesso come « Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo »; non si dice né « apostolo » nè « fratello del Signore »; ma appunto quest’umile passar sotto silenzio titoli così eccellenti depone per la genuinità della lettera; un altro Giacomo qualsiasi infatti, di nessuna importanza, si sarebbe attribuite quelle distinzioni per sorreggere una falsificazione; « il vero Giacomo » invece — questa ben nota espressione veramente dovette essere coniata per Giacomo Maggiore, nella lite per l’autenticità delle sue reliquie — non aveva bisogno di ostentare i suoi privilegi; bastava il suo nome a conciliargli piena autorità. E l’autorità egli la rivendica a sé stesso: in una lettera non lunga, che non conta più di 108 versi, s’incontrano 54 ordini, così che a ogni secondo verso è avanzata una richiesta energica, seria, non proposti solo degli avvisi avvolti in guanti di seta, e i destinatari di quegli imperativi sono anche ricchi insociali e ingiusti. « Orsù, o ricchi, piangete e gemete per la miseria, che verrà su di voi! La vostra ricchezza è putrefatta, le vostre vesti sono state rose dalla tignuola. Il vostro oro e argento si sono arrugginiti… Ecco, la mercede, che voi avete defraudata agli operai, che han mietuto i vostri campi, grida e il grido dei mietitori è penetrato sino all’orecchio del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e nella voluttà vi siete ben nutriti nel giorno dell’occisione. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi resiste >>. Queste espressioni tanto energiche, che rivelano di nuovo il contadino, potevano ben essere gridate da Giacomo nel suo e… nel nostro tempo, mentre lui stesso era dinanzi al popolo un modello vivente d’ogni giustizia e ascetica sobrietà. La lettera è indirizzata alle « dodici tribù nella diaspora» . Sotto questo termine s’intendono i giudeocristiani nella « dispersione », che vivevano cioè fuori della Terra Santa, quelli anzitutto della Fenicia e della Siria. La pastorale sollecitudine del Vescovo di Gerusalemme non si limitava esclusivamente al gregge custodito sotto i suoi occhi nella prima comunità, ma si estendeva anche a tutti quelli, che, essendo cristiani delle « dodici tribù », si trasferivano fra i pericoli delle regioni lontane. Al tempo dell’Apostolo i giudeocristiani non versavano in quelle tristi condizioni,nnelle quali vennero a trovarsi quindici anni più tardi, quando Paolo fece loro pervenire con la lettera agli « Ebrei » la sua parola di esortazione e di conforto, affinché rimanessero fermi in Cristo; tuttavia quei neocredenti stavano già nella crisi dell’inizio; il primo fervore era ridotto a una smorta fiamma; un tenore di vita inconseguente e le tribolazioni dall’esterno avevano fruttato l’indebolimento dell’uomo cristiano. Giacomo, con la sua lettera, volle ricondurre i compagni di origine e di fede al primo zelo: « Stimate pura gioia, fratelli miei, se incappate nelle diverse prove. Sapete che la prova della vostra fede opera la pazienza; la pazienza poi perfezionerà un’opera, affinchè diveniate perfetti e irreprensibili e sotto nessun rispetto manchevoli». La lettera di Giacomo non presenta quella nota personale, che riscontriamo, ad esempio, nelle lettere di Paolo, e per questo s’è voluto giudicarla come una raccolta semplicemente di sue pie sentenze, che sarebbero state disposte l’una accanto all’altra, secondo un filo logico, sciolto però e variante con rapidità; Lutero ne biasimò anche la forma: « La lettera getta là disordinatamente una cosa sull’altra »; l’aveva già detta « epistola di paglia » per il contenuto, perchè diametralmente opposta alla sua dottrina sulla giustificazione operata dalla semplice fede, solo dunque per difficoltà personali e aprioristiche. La lettera è invece quanto mai pratica e plastica, non certo costruita con lo studio su di un leggio; affronta uno dopo l’altro i problemi della vita cristiana. Com’è al naturale e deliziosa la descrizione del diverso comportamento dinanzi ai poveri e ai ricchi! « Fratelli miei, tenete libera la. vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo della gloria da riguardi di persona! Se nella vostra adunanza entra un uomo con anello d’oro, con vestito lussuoso e subito dopo un povero con veste sudicia, e voi guardate a colui ch’è in abito sfarzoso e gli dite: “Tu sta comodo qui “, mentre al povero dite: “Tu sta là dritto “, oppure: “Siediti giù, sotto lo sgabello dei miei piedi “, non avete pronunciato dentro di voi un giudizio parziale? ». La lettera di Giacomo è specialmente di tanta attualità per il suo carattere spiccatamente sociale; si potrebbe chiamare la Magna Charta del quarto stato, il precedente biblico delle encicliche pontificie « Rerum Novarum » e « Quadragesimo Anno ». Resterà classico per tutti i tempi il testo sull’importanza e il dominio della lingua: « Chi non manca con le parole, è un uomo perfetto, capace di tenere in freno anche tutto il corpo… La lingua è un membro piccolo, ma si vanta di grandi cose… Con essa benediciamo il Signore e Padre, e con essa malediciamo gli uomini, che sono creati a immagine di Dio. Dalla stessa bocca esce benedizione e maledizione >>. La lettera di Giacomo offre una importante testimonianza biblica, che è poi anche l’unica, per il sacramento dell’Estrema Unzione: «V’è qualcuno fra di voi ammalato? Chiami a sè i presbiteri della Chiesa; questi preghino su di lui e lo ungano con olio nel Nome del Signore. La preghiera piena di fede sarà di salvezza all’ammalato e il Signore lo solleverà. E se egli ha in sè dei peccati, gli saranno rimessi ». L’obiettivo principale della lettera, che trapela da tutte le richieste, è un cristianesimo vivo e fattivo, in opposizione a un semplice cristianesimo di chiesa rammonito; questa nefasta separazione fra fede e vita, fra teoria religiosa e pratica religiosa non potrebbe essere condannata più energicamente di quanto l’ha fatto il nostro Apostolo: «Traducete la parola in fatti e non ascoltatela solo, altrimenti ingannate voi stessi… Pietà pura, immacolata dinanzi a Dio e Padre si ha quando si aiutano gli orfani e le vedove nelle loro necessità e ci si conserva puri da questo mondo… Che giova, fratelli miei, se uno dice che ha la fede, ma non ha opere? Può forse la fede renderlo felice?… Se la fede non ha opere è morta ». Ora però ci siamo imbattuti in un altro passo, nel quale Giacomo e Paolo sembrano nuovamente in conflitto fra di loro; e di fatto le parole ora addotte sono state rilevate come una contradizione e una smentita delle profonde concezioni intorno alla fede, al peccato e alla giustificazione, che Paolo va esponendo sopratuttonnella lettera ai Romani. E in realtà non scrive egli esattamente il contrario di quanto insegna Giacomo, quando dice: « Noi siamo persuasi che l’uomo è giustificato per mezzo della fede, indipendentemente dalle opere della Legge… Chi compie opere, a costui la mercede viene computata non a titolo di grazia, ma secondo il merito >>? Ma l’opposizione di Giacomo e Paolo è anche nelle loro lettere soltanto apparente; tutti e due fanno uso delle stesse parole: fede, opere, giustificazione, ma in un senso diverso; Paolo esalta la fede viva, Giacomo biasima la fede morta; Paolo valuta come nulle le opere della legge mosaica, Giacomo esige come necessarie le opere della vita cristiana; Paolo attribuisce alla grazia la prima chiamata alla giustificazione, Giacomo esorta alla cooperazione con la grazia perchè s’accresca la giustificazione. Quello che Paolo insegna con sublimi svolgimenti di pensiero, Giacomo nelle sue semplici proposizioni non lo nega affatto; e quello che scrive Giacomo lo sottoscrive anche Paolo, perchè anch’egli esige in ogni sua lettera le opere della vita cristiana. La dottrina dunque dei due Apostoli è la medesima, solo l’accento è collocato diversamente: Paolo accentua la grazia, Giacomo le opere. Questo spostamento d’accento era già dovuto alla diversità del compito: Giacomo doveva stimolare del Cristiani, ch’erano pigri nell’operare, Paolo invece doveva reprimere dei Cristiani orgogliosi delle opere; ma esso aveva certo una radice più profonda nella diversità soggettiva di Paolo e di Giacomo: il primo, nella luce abbagliante della sua conversione nei pressi di Damasco, aveva compreso in misura più luminosa di tutti gli altri l’impotenza dell’uomo e l’onnipotenza di Dio; era stato condotto a Cristo dalla grazia, non dalla Legge, e quest’esperienza religiosa continuò poi a vibrare in tutti i suoi scritti; Giacomo invece non conobbe questo brusco passaggio, egli andò a Cristo per la via dritta e piana, per lui « la Legge era stata pedagogo a Cristo»; non aveva dunque nessun motivo di opporre l’una all’altra, la Legge alla Grazia. Così nella sua lettera, ch’è l’unico scritto che ci sia pervenuto di lui, si riflette fedelmente la personalità dell’autore: la sua condizione nella lingua e nelle immagini, e la sua spiritualità nelle concezioni. Del resto Paolo nella prima lettera ai Corinti ha scritto delle parole, che lo mettono in pieno accordo con Giacomo nella dottrina: « Io sono quel che sono per la grazia di Dio; la sua grazia però, ch’è toccata a me, non è rimasta in me inefficace; io anzi ho lavorato più di tutti gli altri; ma non io, bensì la grazia di Dio con me ».

GRANDE NEL REGNO DEI CIELI

La lettera agli Ebrei, diretta da Paolo ai giudeocristiani verso l’anno 63, un anno dopo cioè la morte di Giacomo, mostra quanto fosse grave la situazione, nella quale era venuto a trovarsi il nostro Apostolo, come vescovo di Gerusalemme, negli ultimi suoi anni. I giudeocristiani erano minacciati dal grave pericolo di ricadere nuovamente nel giudaismo; nei Giudei s’era riacceso l’odio fanatico contro Cristo; guizzavano già i primi bagliori della guerra giudaica, vicina ormai a scatenarsi sul popolo, che su di sè e sopra i suoi figli aveva invocato il Sangue di Cristo. Giacomo osservava col cuore affranto il compiersi del destino della sua gente; spirava l’ultimo termine, perché il Giudaismo nei riguardi del Messia persisteva ancora tenacemente incaponito nell’atteggiamento assunto il Venerdì Santo: « Sia tolto di mezzo! ». Eppure quanto s’era adoperato — certamente più di tutti gli altri Apostoli — perché anche quel suo gregge trovasse la via a Cristo! Quanta pazienza e quale riguardo gli aveva prodigato per non ferirlo nei suoi sentimenti religiosi! Piuttosto che mancare di attenzione verso di esso aveva chiuso un occhio su penose tensioni nei rapporti col collega Paolo. Nondimeno anche lui fu raggiunto dalla sorte, che il Signore aveva vaticinata ai suoi Discepoli: « Vi si caccerà dalle sinagoghe. Anzi viene l’ora, nella quale chiunque vi uccide crede di rendere un servizio a Dio >>; anche Giacomo, proprio lui, anzi lui solo fra tutti gli Apostoli fu ucciso dal Giudei; e in lui, l’Apostolo e il fratello di Gesù, fu rigettato una volta ancora Cristo stesso, il giorno della sua morte fu il suggello definitivo del Venerdì Santo. – Possediamo due relazioni molto antiche intorno alla morte dell’Apostolo Giacomo, una dello storico ebreo Giuseppe Flavio e l’altra dello scrittore ecclesiastico Egesippo. Nella prima si riferisce: quando, dopo la morte del procuratore Festo, non vi fu per un certo tempo nessun luogotenente nel paese, il sommo sacerdote Anano II profittò di questo tempo di vacanza per perdere Giacomo, fratello di Gesù. Invitò lui e alcuni altri dinanzi al Sinedrio, li incolpò di infrazioni alla Legge, li fece condannare e lapidare. Era l’anno 61 o 62, trent’anni circa dopo l’Ascensione; Giacomo contava allora, secondo Epifanio, 96 anni. Egesippo amplifica questa relazione oggettiva dello storico con particolari, che in parte sono leggenda, in parte sono presi a prestito dal Vangelo e dagli Atti degli Apostoli “; secondo la sua relazione dunque i Farisei avrebbero preteso che Giacomo nella festa di Pasqua spiegasse al popolo dal pinnacolo del Tempio — ci ricordiamo della storia delle tentazioni di Gesù —, « quale fosse la porta di Gesù, il crocifisso », per poter così stornare i Giudei dalla fede in Lui qual Messia; Giacomo apparentemente avrebbe consentito, ma, giunto in alto, avrebbe proclamato Gesù quale Messia e giudice del mondo dinanzi a tutto il popolo; allora i maggiorenti giudei, inquieti e furenti per timore che la moltitudine potesse essere persuasa da quella predica, avrebbero precipitato Giacomo dal tetto del Tempio e, ormai mezzo morto, l’avrebbero coperto di pietre, mentre egli, come Stefano, pregava per i suoi uccisori. Quando un sacerdote dei Recabiti, commosso da quell’eroismo, volle respingere quei furibondi, gridando: « Smettete, che fate? Il Giusto prega persino per voi », un gualchieraio avrebbe afferrato il suo rulletto e avrebbe fracassato all’Apostolo il capo. Per questo, per simboleggiare la sua passione, l’arte rappresenta Giacomo Minore con una mazza o una stanga da gualchieraio. La sua salma fu sepolta accanto al Tempio, ove al tempo ancora di Egesippo era eretto il « suo cippo)) 67. Una notizia invece di Gregorio di Tours trasferisce il suo sepolcro sul Monte degli Olivi, dove sarebbe stato deposto con Zaccaria, il padre del Battista, e col vecchio Simeone “. Quando l’imperatore Giustino II (565-578) trasportò le ossa del fratello del Signore Giacomo nella chiesa di San Giacomo, costruita nuova a Costantinopoli, avrebbero trovato ivi il loro sepolcro anche Simeone e Zaccaria; veramente Girolamo, ch’era tanto pratico dei luoghi, non sapeva nulla al suo tempo d’una tomba di Giacomo sul Monte degli Olivi. Una tradizione posteriore la mostrava nella valle di Giosafat, in direzione sud-est del Tempio; la spelonca, scavata nella roccia e divisa in più camere sepolcrali, è indicata anche oggi come « sepolcro di Giacomo ». La Chiesa latina, sino dal secolo sesto, celebra la festa dell’ascetico Giacomo insieme con quella del freddo Filippo il giorno primo maggio, così pieno di poesia! Si spiega questa festa comune ai due Apostoli, sebbene non compaiano mai uniti né nella Sacra Scrittura né negli apocrifi, col fatto che Roma nel secolo sesto eresse ai due la basilica, che oggi veramente porta il titolo « degli Apostoli>> in generale; e poichè la sua consacrazione fu fatta il primo di maggio, questo giorno nel rito romano è consacrato al ricordo dei due Apostoli. Ci inchiniamo pensosi dinanzi alla veneranda spoglia dell’Apostolo Giacomo, che giace fracassato sulla piazza del Tempio, come un sacro vaso dell’ultima grazia, un martire insieme del Vecchio e del Nuovo Testamento. Fra dieci anni anche il Tempio sarà abbattuto e ridotto in frantumi in punizione della grazia respinta; il Vangelo invece prenderà il suo libero corso, senza « clausole >> e riguardi, in tutte le direzioni del mondo, verso tutti i popoli. La Provvidenza tanto buona volle risparmiare a Giacomo il dolore di vedere il tramonto di Gerusalemme e il tramonto del tempo antico; egli però, l’Apostolo del Giudaismo morente, sta dinanzi al nostro tempo e dinanzi.., alle nostre anime e santamente ci ammonisce e ci scongiura di cambiare il tramonto di Cristo, che minaccia anche noi, in una sua ascesa; « perchè, se Iddio non ha risparmiato i rami naturali (Israele), non risparmierà neppur te. Riconosci dunque la benignità e la severità di Dio. La severità verso i caduti, la benignità di Dio verso dite, supposto che tu perseveri nella benignità di Dio, altrimenti sarai tagliato via anche tu ». La missione di Giacomo, dell’Apostolo di un’epoca, che volgeva alla fine, fu meno grande — minor! — di quella del fratello e compagno suo Paolo, dell’Apostolo delle genti, che ascendevano alla grazia del Cristianesimo; non fu però meno.difficile, e Giacomo non la condusse a termine meno fedelmente. Anch’egli, « il Minore », è un grande nel regno dei Cieli.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (13) “da GREGORIO III a BENEDETTO III”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (13)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Da Gregorio III a Benedetto III… )

GREGORIO III: 18 marzo 731-28 (29?) – Novembre 741

Lettera “Magna nos habuit” al vescovo Bonifacio, 732 ca.

Battesimo di dubbia validità.

582. Per quanto riguarda coloro che hai detto essere stati battezzati daI pagani, se è così, ti ordiniamo di battezzarli di nuovo nel nome della Trinità. … Ma ti ordiniamo anche che siano battezzati coloro che dubitano se siano stati battezzati o meno, o che siano stati battezzati da unpresbitero che sacrifichi a Giove e mangi carne sacrificale.

583. Avete chiesto se è lecito offrire oblazioni per i morti.La santa Chiesa ritiene che ognuno possa presentare oblazioni per i suoi morti veramente Cristiani, e che i presbiteri possano ricordarli. E anche se tutti siamo soggetti al peccato, è opportunoche il Sacerdote si ricordi dei Cattolici defunti ed interceda per loro. Ma questo non sarà permesso agli empi, anche se fossero Cristiani.

ZACCARIA: 10 (3?) dicembre 741-22 (15?) Marzo 752

586. Lettera “Suscipientes sanctissimae fraternitatis” all’Arcivescovo Bonifacio di Magonza, 5 novembre 744.

Simonia

(2) Abbiamo trovato (in una lettera di Bonifacio al Papa)… che ci è stato riferito da te che noi saremmo dei corruttori dei canoni e che cercheremmo di abrogare le tradizioni dei Padri, e che così facendo – Dio non voglia! – avremmo ceduto con i nostri chierici all’eresia simoniaca, accettando ricompense, o chiedendo a coloro a cui conferiamo il pallio di concederci ricompense chiedendo loro denaro, … (A Bonifacio viene chiesto di non scrivere più cose del genere), perché riteniamo impudente e offensivo che ci venga attribuito ciò che aborriamo totalmente. Lungi da noi e dai nostri chierici vendere per denaro ciò che abbiamo ricevuto per grazia dello Spirito Santo. … Anzi, anatematizziamo tutti coloro che osino vendere per denaro un dono dello Spirito Santo.

Concilio di Roma, terza sessione, 25 ottobre 745.

587. La discesa di Cristo agli inferi.

…Clemente, che nella sua stupidità rifiuta le determinazioni dei santi Padri e tutti gli atti sinodali, e che introduce anche il giudaismo per i Cristiani quando afferma che si può prendere in moglie la vedova di un fratello defunto, e che, inoltre, proclama anche che il Signore Gesù Cristo, scendendo agli inferi ne abbia tratto i pii e gli empi, deve essere spogliato di tutti gli uffici sacerdotali e gettato nelle catene dell’anatema.

588. Lettera Virgilius e Sedonius” all’arcivescovo Bonifacio di Magonza 1 luglio 746 (745?).

L’intenzione e la forma richiesta per il Battesimo.

Ci è stato riportato che in questa provincia c’era un Sacerdote che ignorava totalmente la lingua latina e che, quando battezzava, non conoscendo la pronuncia latina, diceva, distorcendo la lingua “Baptizo te in nomine Patria et Filia et Spiritus Sancti”. E per questo motivo la vostra venerabile fraternità ha pensato di ribattezzare. Ma… se colui che battezzava, mentre battezzava, pronunciava come abbiamo appena detto, non per introdurre l’errore o l’eresia, ma solo per ignoranza della lingua romana, noi non possiamo accettare che siano ribattezzati…

589. Lettera “Sacris liminibus“, all’Arcivescovo Bonifacio di Magonza 1 maggio 748.

L’intenzione e la forma richieste per il Battesimo.

In questo (Sinodo degli Inglesi) è stata manifestamente prescritta con fermezza e dimostrata con cura che chiunque fosse purificato senza l’invocazione della Trinità non avesse il Sacramento della rigenerazione. Questo è vero, perché se qualcuno si immerge nella fonte del Battesimo senza l’invocazione della Trinità, non è perfetto, e se non è stato battezzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. … I Sacerdoti del suddetto sinodo vollero che fosse osservato anche che se qualcuno, nel Battesimo, ometta di nominare una sola delle Persone della Trinità, non possa essere un Battesimo, il che è certamente vero; perché chi non ha confessato una delle Persone della Trinità non può essere un perfetto Cristiano.

STEFANO II (III): 26 mars 752-26 Aprile 757

Risposte di Qierzy (Oise), 754

La forma del Battesimo.

592. (Risposta 14). Quanto a quel presbitero che battezzava in modo così rude: Io mi immergo nel nome del Padre, e mi immergo nel nome del Figlio e mi immergo nel nome dello Spirito Santo, e che anche come Sacerdote non sa se sia stato un Vescovo a benedirlo: costui, che ignora la sua ordinazione, deve assolutamente essere deposto; ma i bambini che ha battezzato, anche se in modo rude, dal momento che sono stati battezzati nel nome della Santa Trinità, rimangano in quel Battesimo.

PAOLO I: 29 maggio 757 – 28 giugno 767

STEFANO III (IV): 7 agosto 768 – 24 gennaio 772

ADRIANO I: 9 febbraio 772-25 Dicembre 795

Lettera “Institutio universalis” ai Vescovi di Spagna, tra il 785 febbraio el 791.

L’errore degli adozionisti.

595. … Dalla vostra regione ci è giunta la triste notizia che alcuni dei Vescovi che soggiornano lì, Eliphand ed Ascaricus, con altri che sono d’accordo con loro, non arrossiscono di confessare il Figlio di Dio come figlio adottivo, sebbene nessun eresiarca abbia osato pronunciare una simile bestemmia, ad eccezione di quell’empio di Nestorio, che ha confessato il Figlio di Dio essere un semplice uomo …

Predestinazione.

596. Ma non è vero quello che dicono altri nelle loro file, cioè che la predestinazione alla vita o alla morte sia in potere di Dio e non nostro. Alcuni dicono: “Perché ci sforziamo di vivere, visto che è in potere di Dio?” altri dicono: “Perché preghiamo Dio di non essere vinti dalla tentazione”, visto che è in nostro potere grazie al libero arbitrio? ” In verità non possono né giustificarlo né sentirne la ragione, dal momento che non conoscono gli scritti del Beato Fulgenzio al presbitero Eugippio contro le parole di un pelagiano: “Dio ha dunque predisposto nell’eternità della sua immutabilità opere di misericordia e di giustizia […]; ha quindi predisposto meriti per gli uomini che debbano essere giustificati; per gli stessi uomini, che devono essere glorificati, ha preparato per loro delle ricompense; ma per i malvagi non ha preparato volontà o opere malvagie, ma tormenti giusti ed eterni. Questa è la predestinazione eterna delle opere di Dio a venire, e noi la proclamiamo con tanta fiducia quanto sappiamo che ci venga sempre proposta dalla dottrina apostolica.

2° Concilio di NICEA (7° ecumenico)

24 settembre – 23 ottobre 787

7a sessione, 13 ottobre 787.

Definizione sulle immagini sacre

600. … Avanzando sulla via regale ed aggrappandoci all’insegnamento divinamente ispirato dei nostri santi Padri e alla tradizione della Chiesa cattolica, che noi riconosciamo essere quella dello Spiritoche abita in essa, decidiamo, con tutta la precisione e l’accuratezza possibile, che per quanto riguarda larappresentazione della croce preziosa e vivificante, siano collocate le venerabili e sante immagini, mosaici o opere di qualsiasi altro materiale idoneo, nelle sante chiese di Dio, su oggetti o  paramenti sacri, sui muri e sui quadri, nelle case e sulle strade; l’immagine dinostro Signore, Dio e Salvatore Gesù Cristo, quella della nostra Signora senza macchia, la santa Madre di Dio, quella degli Angeli, degna del nostro rispetto, quella di tutti i Santi e i giusti.

601. Anzi, più li vediamo, grazie alla loro rappresentazione in immagini, più siamo portati a ricordare e ad amare i modelli originali e a rivolgere loro un saluto ed una venerazione rispettosa; non la vera adorazione propria della nostra fede, che è propria solo della natura divina,ma come si fa per la rappresentazione della croce gloriosa e vivificante, per i santi Vangeli e per tutti gli altri oggetti sacri; ed in loro onore si porteranno incensi e lumini, secondo il pio costume degli antichi. Perché “l’onore tributato all’immagine va al modello originale,e chi venera l’immagine venera in essa la Persona di Colui che essa rappresenta”.

602. Così sono confermati gli insegnamenti dei nostri santi Padri, la tradizione della Chiesa cattolica, una Chiesa che da un capo all’altro della terra ha accolto il Vangelo; così ci atteniamo a Paolo, che ha parlato (in 2 Cor II,17) a tutta la divina assemblea degli Apostoli e alla santità dei nostri Padri, tenendo fede alle tradizioni che abbiamo ricevuto (2Th II, 15); così cantiamo profeticamente gli inni che celebrano la vittoria della Chiesa: “Rallegrati, o figlia di Sion, alza la voce, o figlia di Gerusalemme, esulta e rallegrati con tutto il cuore; il Signore ha tolto dall’intorno a te le ingiustizie dei tuoi avversari dalla mano dei tuoi nemici; il Signore è re in mezzo a te; non vedrai più il male.”, e la pace sarà su di te per sempre (So III,14ss.).

603. Coloro che osano pensare o insegnare diversamente, o che seguono i maledetti eretici, disprezzano le tradizioni della Chiesa e immaginano qualche novità, o rifiutano uno qualsiasi degli oggetti consacrati offerti allaChiesa, Vangeli, rappresentazioni della croce, immagini o sante reliquie di un martire; oppure immaginanomanovre tortuose ed ingannevoli per rovesciare qualcosa nelle legittime tradizioni della Chiesa cattolica; oppure far servire oggetti sacri o monasteri sacri a scopi profani: a tutti questi, se sono Vescovi o chierici, ordiniamo di essere deposti; se sono monaci o laici, di escluderli dalla comunione.

8a sessione, 23 ottobre 787.

Elezioni ai sacri ministeri

604. Qualsiasi elezione di un Vescovo, di un Sacerdote o di un diacono fatta dai principi è nulla, secondo ilcanone (Canone degli Apostoli 30) che dice: Se un Vescovo, ricorrendo a principi secolari, entra per mezzo di questi inpossesso di una chiesa, sia deposto e con tutti coloro che accettano la sua comunione. Infatti, colui che debba essere elevato all’Episcopato deve essere eletto dai Vescovi, come è stato deciso dai santi Padri riuniti a Nicea, nel canone (can. 4) che dice: È molto opportuno che un Vescovo sia stabilito da tutti i Vescovi della provincia; se ciò dovesse risultare difficile, o per necessità urgenti, o per la lunghezza del cammino, è necessario in ogni caso che tre Vescovi si riuniscano nello stesso luogo, e anche gli assenti diano il loro voto ed esprimano il loro consenso per iscritto – e poi procedere all’ordinazione. La piena autorità su ciò che venga fatto è datain ogni provincia al metropolita.

Sulle immagini, l’umanità di Cristo e la tradizione della Chiesa

605. Ammettiamo le immagini venerabili; chi non le giudica tali, lo sottoponiamo all’anatema.

606. Se qualcuno non confessa che Cristo nostro Dio sia circoscritto secondo l’umanità, che sia anatema…

607.

Se qualcuno non ammette le presentazioni del Vangelo fatte con immagini, sia anatema…

608. Se qualcuno non saluta queste immagini, fatte nel nome del Signore e dei suoi santi, sia anatema.

609. Se qualcuno rifiuta tutta la tradizione scritta o non scritta della Chiesa, sia anatema…

Lettera “Si tamen licet” ai Vescovi di Spagna, tra il 793 e il 794.

L’eresia dell’adozionismo

610. La giustificazione addotta per l’eresia dell’adozione di Gesù Cristo, il Figlio di Dio, deve essere respinta come altre cose, perché si basa su argomenti falsi; in essa si può leggere la zizzania delle parole eretiche da una penna disordinata. Questo la Chiesa cattolica non l’ha mai creduto, non l’ha mai insegnato e non ha mai acconsentito a coloro che l’hanno creduto falsamente.

611. Infatti, egli stesso (Cristo) ha reso noto, a proposito di se stesso, di chi è Figlio, quando ha detto di aver proclamato agli uomini il nome del Padre. Egli dice: “Ho rivelato il tuo Nome agli uomini che mi hai dato dal mondo” Gv XVII,6 . Il Nome del Padre è stato fatto conoscere una volta agli uomini quando si è fatto conoscere come il vero Figlio, non putativo, proprio e non adottivo. Ma è necessario notare che si dice: “agli uomini che mi hai dato”. Di quegli uomini, infatti, che il Padre gli aveva dato e che aveva eletto prima della costituzione del mondo, non fanno parte coloro che lo confessano come figlio adottivo e non come Figlio suo, come se per un momento fosse stato estraneo al Padre o si fosse allontanato da Lui prendendo carne, mentre era un’unica volontà del Padre e del Figlio che il Verbo si facesse carne, come sta scritto: “Fa’ che io faccia la tua volontà; Dio mio, io l’ho voluta” Sal XXXIX, 9. Per questo dice altrove: “Salgo al Padre mio e Padre vostro” Gv XX, 17. Dice proprio “mio” e “vostro”, cioè suo non per grazia ma per natura, ma nostro per grazia di adozione. Inoltre, il Figlio non è mai stato, perché il Padre non è mai stato. Sempre e ovunque lo chiama espressamente suo Padre. Il Padre mio – dice – opera fino ad ora e anch’io opero” (Gv V, 17); e ancora: “Padre, glorifica il tuo Figlio, affinché il tuo Figlio glorifichi te” (Gv XVII, 1), e: “Quello che il Padre mio mi ha dato è più grande di tutte le cose” (Gv X, 29). – Ma se nelle loro astute prevaricazioni pensano che tutto ciò che abbiamo esposto sia da riferire solo alla divinità del Figlio di Dio, dicano dove Egli ha mai detto con un sentimento comune a noi “Padre nostro”. “Il Padre vostro – dice – sa di cosa avete bisogno”. Non dice “nostro”, come se fosse stato adottato con noi per grazia. E altrove: “Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt V, 48). Perché non ha detto “nostro”? Perché Egli è altrimenti nostro ed altrimenti suo. Poi dice ancora: “Se voi, che siete cattivi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà uno spirito buono a coloro che lo pregano? “Lc XI, 13 ecc. Poi Paolo, il vaso scelto, dice: “Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi”, Rm VIII, 32. Sappiamo infatti che non è stato consegnato secondo la divinità, ma secondo il suo essere vero uomo.

Concilio di Francoforte (sul Meno), intorno al giugno 794.

a) Lettera sinodale dei Vescovi del regno dei Franchi ai vescovi di Spagna.

612. .. Infatti, all’inizio della vostra lettera troviamo scritto che affermate: “Confessiamo e crediamo che Dio, il Figlio di Dio, sia stato generato dal Padre prima di tutti i secoli e senza inizio, coeterno e consustanziale, non per adozione ma secondo la discendenza”. Allo stesso modo, nello stesso luogo leggiamo: “Confessiamo e crediamo che, fatto da donna, fatto sotto la legge, Gal IV,4, non è Figlio di Dio per discendenza ma per adozione, non per natura ma per grazia. Questo è il serpente che si nasconde tra gli alberi da frutto del paradiso per ingannare tutti gli incauti…”.

613. Allo stesso modo, ciò che avete aggiunto di seguito, non lo abbiamo trovato affermato nella professione di fede del simbolo niceno: “in Cristo due nature e tre sostanze” Lettera “regi regum” all’Imperatore Costantino IV intorno all’agosto 682 e “uomo deificato” e “Dio umanizzato“. Qual è la natura dell’uomo, se non l’anima e il corpo? O qual è la differenza tra “natura” e “sostanza”, per cui dovremmo parlare di tre sostanze e non semplicemente, come dicono i santi Padri, confessare nostro Signore Gesù Cristo vero Dio e vero uomo in una sola Persona? Ma la persona del Figlio è rimasta nella Santa Trinità; a questa Persona è stata unita la natura umana, così che c’è una sola Persona, Dio e uomo, non un uomo divinizzato e un Dio umanizzato, ma Dio uomo e l’uomo Dio: per l’unità della Persona, un solo Figlio di Dio, e lo stesso Figlio dell’uomo, Dio perfetto, uomo perfetto. L’uomo è perfetto solo con l’anima e il corpo…; né neghiamo che in Cristo siano realmente presenti questi tre elementi, cioè la divinità, l’anima e il corpo. Ma poiché Egli è veramente chiamato Dio e uomo, nel nome “Dio” è designato tutto ciò che è di Dio, e in quello di “uomo” è compreso tutto ciò che è uomo. Perciò è sufficiente confessare in Lui l’uno e l’altro: la perfetta sostanza della divinità e la perfetta sostanza dell’umanità… L’uso ecclesiastico è di nominare in Cristo due sostanze, quella di Dio e quella di uomo….

614. Se dunque è vero Dio colui che è nato dalla Vergine, come può essere figlio adottivo o schiavo? Infatti non osate confessare Dio come schiavo o come figlio adottivo; e anche se il profeta lo chiamò schiavo, non fu per la condizione di servitù, ma per l’obbedienza dell’umiltà con cui divenne per il Padre “obbediente fino alla morte”.

b) Capitolare del Concilio.

Condanna degli adozionisti.

615. Can. 1… All’inizio dei capitoli l’empia e blasfema eresia dei vescovi Elifandro di Toledo e Felice di Urgel e dei loro seguaci, che nel loro falso pensiero affermavano per il Figlio di Dio un’adozione: cosa che tutti i suddetti santissimi Padri con una sola voce contraddissero e respingessero, e decisero che questa eresia dovesse essere estirpata del tutto dalla santa Chiesa.

LEONE III: 27 dicembre 795-12 giugno 816

Concilio del Friuli, 796 o 797: professione di fede. Symbolo.

La Trinità divina.

616. (Dopo il Simbolo di Costantinopoli segue questo): Ma la santa Trinità, perfetta, inseparabile, ineffabile e vera, cioè il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, la confesso senza divisione nell’unità della natura, perché Dio è trino e uno; cioè trino per la distinzione delle Persone, uno per la sostanza inseparabile della Divinità. Crediamo, quindi, che queste tre Persone… non siano solo in apparenza o come ipotizzato, ma vere, sussistenti, coeterne, coeguali e consustanziali…

617. Il Padre, vero Dio, è veramente e propriamente Padre, che da Se stesso, cioè dalla sua sostanza, ha generato il vero Figlio fuori dal tempo e senza inizio, coeterno, consustanziale e coeguale con Lui. E il Figlio, vero Dio, è veramente e propriamente Figlio, che è stato generato dal Padre in tutti i secoli… E mai il Padre fu senza il Figlio, né il Figlio senza il Padre. … – E lo Spirito Santo, vero Dio, è veramente e propriamente lo Spirito Santo: non generato né creato, ma procedente dal tempo e inseparabile dal Padre e dal Figlio. Era, è e sarà sempre consustanziale, coeterno e uguale al Padre e al Figlio. E mai il Padre o il Figlio sono stati senza lo Spirito Santo, né lo Spirito Santo senza il Padre e il Figlio.

618. Perciò le opere della Trinità sono sempre inseparabili, e nella Trinità non c’è nulla di diverso, dissimile o disuguale; nulla è diviso nella natura, nulla è confuso nelle Persone, nulla è maggiore o minore, nulla è prima o dopo, nulla è superiore; ma una sola e medesima potenza, una sola e medesima maestà, per sempre coeterna e consustanziale….

Cristo, Figlio di Dio per natura, non per adozione.

619. Ma di questa ineffabile Trinità, solo la Persona del Verbo, cioè del Figlio… è scesa dal cielo da cui non si è mai allontanata. Si è incarnato per mezzo dello Spirito Santo e si è fatto vero uomo dalla sempre vergine Maria, e rimane vero Dio. E la nascita umana e temporale non ha pregiudicato questa nascita senza tempo, ma il vero Figlio di Dio e il vero Figlio dell’uomo sono nell’unica Persona di Cristo Gesù; Egli non è: altro che è Figlio dell’uomo e altro che è Figlio di Dio, ma uno e lo stesso è Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, in entrambe le nature, quella divina e quella umana, vero Dio e vero uomo; non è un Figlio di Dio putativo, ma vero; non un figlio adottivo, ma il suo stesso Figlio, perché mai la natura umana che ha assunto lo ha allontanato dal Padre. Perché solo Lui è nato senza peccato, perché solo Lui si è incarnato, uomo nuovo, dallo Spirito Santo e dalla Vergine immacolata. Egli è consustanziale a Dio Padre nella sua natura, cioè divina; consustanziale anche alla madre, senza macchia di peccato, nella nostra natura, cioè umana. Perciò confessiamo che in ciascuna delle due nature Egli sia Figlio di Dio e non figlio adottivo, perché, senza confusione e senza separazione, avendo assunto la natura umana, uno e lo stesso è Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. È Figlio del Padre per natura secondo la divinità, e Figlio della madre per natura secondo l’umanità, ma propriamente Figlio del Padre in entrambi.

PASQUALE I: 25 gennaio 817 – 11 febbraio 824.

EUGENIO II: febbraio – maggio 824 – agosto 827

VALENTINO: agosto – settembre 827

GREGORIO IV: settembre (?)827 – gennaio 844

SERGIO II : gennaio 844 – 27 gennaio 847

LEONE IV : 10 aprile 847 – 17 luglio 855

Concilio di Pavia, 850.

Il Sacramento dell’unzione degli infermi.

620. (8) Anche questo salutare Sacramento, che l’Apostolo Giacomo raccomanda dicendo: “Se qualcuno di voi è malato?… gli sarà perdonato” (Giacomo V, 14), deve essere fatto conoscere al popolo con un’abile predicazione: si tratta infatti di un mistero grande e desiderabilissimo, con il quale, se viene chiesto con fede, il peccato viene perdonato e di conseguenza anche la salute corporale viene ristabilita… Ma bisogna sapere che se l’ammalato si dà alla penitenza pubblica, non può ricevere il rimedio di questo mistero, se prima non abbia ottenuto la riconciliazione e non ha potuto ricevere il corpo e il sangue di Cristo. Infatti, a colui al quale sono proibiti gli altri Sacramenti, non sarà in nessun caso permesso di usare questo.

Concilio di Quierzy, maggio 853

Libero arbitrio e predestinazione dell’uomo.

621. Cap. 1. Dio onnipotente creò l’uomo integro, senza peccato e dotato di libero arbitrio, e lo pose in Paradiso, con l’intenzione di farlo dimorare nella santità della giustizia. L’uomo, avendo abusato del suo libero arbitrio, peccò e cadde, e divenne “una massa di perdizione” (Sant’Agostino), di tutto il genere umano. Ma Dio, buono e giusto, ha scelto da questa massa di perdizione, secondo la sua prescienza, quelli che ha predestinato per grazia (Rm VIII, 29; Eph I, 11) alla vita, e li ha predestinati alla vita eterna; gli altri, quelli che il giudizio della sua giustizia ha innalzato nella massa di perdizione, sapeva in anticipo che si sarebbero persi, ma non li ha predestinati alla perdizione; tuttavia, li ha predestinati ad un castigo eterno, perché è giusto. E per questo si parla di un’unica predestinazione, che ha a che fare o con il dono della grazia o con il castigo della giustizia.

622. Cap. 2. Abbiamo perso il libero arbitrio nel primo uomo, e lo abbiamo ricevuto per mezzo di Cristo nostro Signore, e il libero arbitrio lo abbiamo per il bene, aiutato dalla grazia, e il libero arbitrio lo abbiamo per il male, abbandonati dalla grazia. Ma il libero arbitrio lo abbiamo, perché è liberato dalla grazia e guarito dalla corruzione per mezzo della grazia.

623. Cap. 3. Dio onnipotente vuole che “tutti gli uomini”, senza eccezione, “siano salvati” (1 Tm II, 4), anche se non tutti sono salvati. Il fatto che alcuni si salvino è un dono di Colui che salva; il fatto che alcuni si perdano è la retribuzione di coloro che si perdono.

624. Cap. 4. Come non c’è stato, non c’è e non ci sarà nessun uomo la cui natura non sia stata assunta in Cristo Gesù nostro Signore, così non c’è, non c’è stato e non ci sarà nessun uomo per il quale Egli non abbia sofferto, anche se non tutti sono redenti dal mistero della sua Passione. Il fatto che non tutti siano redenti dal mistero della sua Passione non riguarda la grandezza o l’abbondanza della Redenzione, ma la parte degli infedeli e di coloro che non credono in quella fede che “opera per mezzo della carità”, (Gal V, 6); perché il calice della salvezza degli uomini, composto dalla nostra debolezza e dalla potenza divina, contiene ciò che è utile per tutti; ma se non si beve da esso, non si è guariti.

Concilio di Valencia, 8 gennaio 855.

Predestinazione.

625. Can. 1… Evitiamo, con ogni sforzo, nuove espressioni e discorsi presuntuosi che possono avere più effetto nell’accendere la brace delle dispute e degli scandali tra i fratelli che nell’apportare qualsiasi edificazione nel timore di Dio. Tuttavia, senza esitare, ascoltiamo con riverenza e sottomettiamo le nostre menti con obbedienza a quei maestri che trattano la parola di verità in modo pio e giusto, e a coloro che hanno spiegato le Sacre Scritture in modo particolarmente luminoso, cioè a Cipriano, Ilario, Ambrogio, Girolamo, Agostino e altri che riposano nella pietà cattolica, e con tutte le nostre forze abbracciamo ciò che hanno scritto per la nostra salvezza. Infatti, sul tema della prescienza di Dio e della predestinazione, e su altre questioni per le quali è apparso che i fratelli abbiano provato non poco scandalo, riteniamo di dover tenere ben fermo solo ciò che per la nostra gioia abbiamo tratto dal grembo materno della Chiesa.

626. Can. 2. Noi riteniamo fedelmente che “Dio conosca ed abbia conosciuto in anticipo da tutta l’eternità sia il bene che il bene avrebbe fatto, sia il male che il male avrebbe commesso”, perché abbiamo la parola della Scrittura che dice: “Dio eterno che conosce le cose nascoste, che conosce tutte le cose prima che siano”; e ci compiacciamo di ritenere che “sapeva in anticipo, in modo assoluto, che i buoni sarebbero stati buoni per la sua grazia, e che avrebbero ricevuto per questa stessa grazia la ricompensa eterna; e sapeva in anticipo che i malvagi sarebbero stati malvagi per la loro stessa malvagità, e che sarebbero stati condannati dalla sua giustizia alla pena eterna”; come secondo il Salmista: “Perché Dio ha potenza e il Signore ha misericordia, che dà a ciascuno secondo le sue opere” (Sal. LXI, 12ss.), e come nella dottrina apostolica: “A coloro che con la perseveranza nel bene cercano la gloria, l’onore e l’incorruttibilità, la vita eterna; ma a coloro che per ribellione non aderiscono alla verità, riponendo la loro fiducia nell’iniquità, ira e sdegno, tribolazione e angoscia per ogni anima umana che commette il male” (Rm II, 7-10). Nello stesso senso lo stesso dice altrove: “Nella rivelazione del Signore nostro Gesù Cristo dal cielo con gli angeli della sua potenza, che si vendicherà con fuoco ardente di coloro che non conoscono Dio e non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, i quali subiranno la pena eterna nella rovina,… quando verrà per essere glorificato nei suoi santi e per essere ammirato in tutti coloro che credono” (2Ts I,7-10).

627. Inoltre, la prescienza di Dio non ha imposto a nessun malvagio una necessità che gli avrebbe impedito di essere altro, ma ciò che sarebbe stato per sua volontà, in quanto Dio che conosce tutte le cose prima che siano, lo sapeva in anticipo a motivo della sua onnipotente ed immutabile maestà. “Né crediamo che qualcuno sia condannato a causa di un giudizio che egli (Dio) ha emesso in anticipo, ma a causa della propria iniquità. E questi malvagi non periscono perché non hanno potuto essere buoni, ma perché non hanno voluto esserlo e con il loro vizio sono rimasti nella massa della dannazione, o per demerito originario o anche per demerito attuale”.

628. Can. 3. Anche sul tema della predestinazione abbiamo deciso, e lo manteniamo fedelmente, secondo l’Autorità Apostolica che dice: “Il vasaio non ha forse il potere di fare della stessa pasta un vaso destinato ad essere un vaso nobile e un altro destinato ad un uso ignobile? ” (Rm IX, 21), aggiungendo subito: “Se dunque Dio, volendo mostrare la sua ira e manifestare la sua potenza, sopportò con grande pazienza i vasi d’ira pronti o preparati per la perdizione, per mostrare le ricchezze della sua grazia nei vasi di misericordia che ha preparato per la gloria” (Rm IX, 22 ss.). Affermiamo con fiducia la predestinazione degli eletti alla vita e la predestinazione degli empi alla morte; nell’elezione di coloro che devono essere salvati, tuttavia, la misericordia di Dio precede il merito, mentre nella dannazione di coloro che devono perire, il demerito precede il giusto giudizio di Dio. “Con la predestinazione Dio ha determinato solo ciò che Egli stesso avrebbe fatto o con la misericordia gratuita o con il giusto giudizio”, secondo la Scrittura, che dice: “Egli ha fatto ciò che sarà”, (Isaia XLV:11; Sept.); nei malvagi, tuttavia, Egli conosceva in anticipo la loro malvagità, perché proveniva da loro; non l’ha predestinata, perché non proveniva da Lui.

629. Ma il castigo che segue il loro demerito, come Dio che vede tutte le cose in anticipo, lo conosceva e lo destinava in anticipo, perché è giusto, Colui presso il quale, come dice Sant’Agostino, c’è sia un giudizio fisso che una certa prescienza per ogni cosa. A questo corrisponde la parola del Saggio: “I giudizi sono preparati per gli schernitori e le mazze che colpiscono per i corpi degli stolti” (Pr XIX, 29). Da questa immutabilità della prescienza e della predestinazione di Dio, per cui le cose future sono già avvenute ai suoi occhi, si possono comprendere anche le parole dell’Ecclesiaste: “Ho visto che tutte le opere che Dio ha fatto rimangono per sempre”. Non si può aggiungere né togliere nulla a ciò che Dio ha fatto, perché sia temuto” (Qo III, 14). Ma che ci siano uomini predestinati al male dalla potenza divina”, in modo che, per così dire, non possano essere altro, “non solo non lo crediamo, ma se c’è qualcuno che vuole credere una cosa così malvagia, con tutta la nostra detestazione”, come anche il Concilio di Orange, “gli diciamo: anatema”.

630. Cap. 4. Anche riguardo alla Redenzione per mezzo del Sangue di Cristo: a causa del grandissimo errore che è sorto su questo argomento, tanto che alcuni, come indicano i loro scritti, definiscono che sia stato versato anche per quegli empi che, dall’inizio del mondo fino alla Passione del Signore, sono morti nella loro empietà e sono stati puniti con la dannazione eterna, e che contro questa parola profetica: “Io sarò la tua morte, o morte, io sarò il tuo flagello, nel ferro” (Os XIII, 14), abbiamo deciso che dobbiamo semplicemente e fedelmente ritenere e insegnare secondo la verità del Vangelo e degli Apostoli che dobbiamo ritenere che questo premio sia stato dato solo per coloro di cui nostro Signore stesso dice: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna” (Gv III, 14-16), e l’Apostolo dice: “Cristo è stato offerto una volta per tutte per togliere i peccati di molti” (Eb IX, 28).

631. Per quanto riguarda i quattro capitoli che sono stati imprudentemente accettati dal consiglio dei nostri fratelli, a causa della loro inutilità e persino dannosità, e dell’errore contrario alla verità; ma anche gli altri) – diciannove capitoli, frutto di un ragionamento inetto e che – anche se se ne vantano – non sono sostenuti da alcuna erudizione secolare, in cui si trova più un’invenzione del diavolo che un qualsiasi argomento di fede: le sottraiamo completamente all’ascolto devoto dei fedeli e, affinché siano preservati in tutto da queste e simili cose, le proibiamo con l’autorità dello Spirito Santo; riteniamo inoltre che coloro che introducono novità debbano essere castigati per non essere colpiti ancora più duramente.

632. Allo stesso modo riteniamo che sia necessario affermare con molta fermezza che tutta la moltitudine dei fedeli che sono stati rigenerati “con acqua e Spirito Santo” (Gv III, 5), che sono stati così realmente incorporati nella Chiesa e, secondo la dottrina apostolica, battezzati nella morte di Cristo (Rm VI, 3), sono stati lavati dai loro peccati nel suo sangue; Perché non ci sarebbe stata in loro una vera rigenerazione se non ci fosse stata anche una vera Redenzione; perché nei Sacramenti della Chiesa non c’è nulla di vano, nulla di ingannevole, ma tutto è vero e sostenuto dalla sua verità e sincerità. Tuttavia, di questa stessa moltitudine di fedeli e di redenti, alcuni si salvano con la salvezza eterna, perché per grazia di Dio sono rimasti fedeli alla sua Redenzione, portando nel cuore la parola del Signore stesso: “Chi persevererà fino alla fine sarà salvo (Matt. X, 22. XXIV, 13). Gli altri, che non hanno voluto rimanere nella salvezza della fede ricevuta all’inizio, e che hanno preferito cancellare la grazia della Redenzione con una dottrina od una vita depravata piuttosto che conservarla, non raggiungono in alcun modo la pienezza della salvezza e il conseguimento della beatitudine eterna. Rm VI, 3 Gal III, 27 Eb X, 22 Eb. 22 sgg. 26, 28 segg..)

633. Cap. 6. Allo stesso modo, riguardo alla grazia per la quale coloro che credono sono salvati, e senza la quale la creatura ragionevole non è mai vissuta in modo beato, e riguardo al libero arbitrio ferito dal peccato nel primo uomo, ma restaurato e guarito dalla grazia del Signore Gesù, confessiamo nel modo più fermo e con piena fede quella stessa cosa che i santi Padri, con l’autorità delle sante Scritture, ci hanno insegnato a ritenere, ciò che hanno professato il Concilio africano (222) e il Concilio di Orange (370-397), ciò che hanno sostenuto i beatissimi Pontefici della Sede Apostolica (238-249) per la fede cattolica, e anche per quanto riguarda la natura e la grazia non ci permettiamo in alcun modo di andare in un’altra direzione. Per quanto riguarda le argomentazioni insensate ed i pettegolezzi delle donne anziane (1Tm IV, 7) e la poltiglia dei seguaci di Scoto, – che ripugnano in modo nauseante alla purezza della fede in ciò che in questi tempi pericolosi e difficili e, per aumentare ulteriormente il nostro lavoro, è aumentata in modo miserabile e deplorevole fino a spezzare la carità – la rifiutiamo completamente affinché le menti cristiane non siano corrotte da essa e non si allontanino dalla semplicità e dalla purezza della fede che è in Cristo Gesù (2Co XI, 3) e nella carità di Cristo esortiamo la carità fraterna a frenare il suo udito guardandosi da tali cose.

BENEDETTO III: luglio 855-17 aprile 858.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (14) “da NICCOLÓ I a LEONE IX”

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (67): IL MODERNISMO (1)

GNOSI, TEOLOGIA DI Satana (67)

IL MODERNISMO

(Enciclopedia Cattolica, C.d. V., vol. VIII Coll. 1188-1197; 1952)

MODERNISMO. – È l’indirizzo eterodosso delineatosi fra gli studiosi cattolici alla ine del secolo scorso e nei primi anni del presente, che si proponeva di rinnovare e interpretare la dottrina cristiana in armonia col pensiero moderno. Il termine modernismo ricorre ufficialmente la prima volta nell’Enciclica Pascendi dominici gregis del papa Pio X come comune denominazione di un complesso di errori in tutti i campi della dottrina cattolica (S. Scrittura, dogmi, culto, filosofia) per ridurlo al nucleo originario.

SOMMARIO: I. Genesi storica. – II. L’Enciclica, « Pascendi » III. Indole dottrinale. – IV. Errori principali, – V. Critica.

I. GENESI STORICA. — L’origine remota del Modernismo è da vedere nell’irrequietezza e bramosia di novità che sino dai pontificati di Gregorio XVI e di Pio IX serpeggiavano in alcuni ambienti cattolici, specialmente in Francia, insofferenti della teologia scolastica: le condanne dell’’indifferentismo di Lamennais (1834), del tradizionalismo di Bautain (1840) e del Bonetty (1855), del razionalismo di G. Hermes (1835), di Günter (1857) dell’ontologismo (1861) e del Frohschammers (1962), il cumulo di errori raccolti nel Sillabo di Pio IX (1864) sono le tappe dell’errore e i sintomi della tempesta che si addensava per la Chiesa. La celebrazione del Concilio Vaticano (1870) fu per un poco il provvidenziale argine: lo costituzione dogmatica De fide catholica definiva i rapporti tra scienza e fede e stabiliva l’essenza soprannaturale della fede e quindi della genuina nozione cattolica della Rivelazione e dell’ispirazione biblica; la costituzione I., l’unica portata a termine) De Ecclesia Christi affermava la divina autorità della Chiesa e il suo infallibile Magistero nella persona del successore del Principe degli Apostoli, il Romano Pontefice. Le prime avvisaglie della nuova eresia nel campo cattolico si maturano in Francia, dopo il Renan, con l’opera di A. Loisy, e la tendenza di non pochi studiosi cattolici, che intendevano adeguarsi ai risultati delle recenti indagini della storia comparata delle religioni e dei dogmi, della filologia dei testi, dell’archeologia biblica per fornire un’apologetica del Cristianesimo conforme ai bisogni dei tempi nuovi. La Chiesa aveva già riconosciuta la necessità di un opportuno ed urgente rinnovamento degli studi sacri e biblici in particolare e ne è documento l’Encicl. Providentissimus Deus (1893) di Leone XIII che ne tracciava il senso, il programma ed i principi: l’Enciclica lasciava allo studioso privato ampio campo di ricerca per tutti quei punti « qui expositionem certam et definitam adhuc desiderant » (Denz-U, 1942), mentre per i punti già definiti dalla Chiesa egli li poteva ancora approfondire, adattare ai bisogni dei tempi e difenderli dagli attacchi degli avversari.  All’uopo lo stesso Pontefice istituì la Pontificia Commissione Biblica (1902) ma il Loisy procedette per la sua via e il modernismo poté diffondersi e organizzarsi in Inghilterra col Tyrrell, in Italia col Buonaiuti, Murri, Minocchi ed in alcuni ambienti cattolici tedeschi, con un’ampiezza e penetrazione sempre più preoccupanti. – Toccò a Pio X l’arduo compito di smascherare l’eresia; e, fatto unico nella storia della Chiesa, il modernismo sprofondò su se stesso quasi immediatamente. Il primo intervento di Pio X fu il decreto del S. Uffizio Lamentabili del 3 luglio 1907, che riassume in 65 articoli i nuovi errori. Il decreto divenne condanna solenne con l’encicl. Pascendi dell’8 settembre dello stesso anno 1907; l’Enciclica, con grande sorpresa degli stessi fautori del modernismo, ha condensata la « sintesi logica dei loro principi con una « magistrale esposizione critica ed una critica magnifica » (G. Gentile). Infine, per evitare ogni compromesso e ambiguità nella sfera dell’insegnamento e della disciplina ecclesiastica, Pio X col motu proprio Sacrorum Antistitum del 1 sett. 1910, richiamandosi espressamente ai due documenti precedenti, pubblicava la formula del « giuramento antimodernista » che presenta ad un tempo i caposaldi della dottrina cattolica e i principali errori del modernismo che la volevano scalzare. Si può dire che così finisce la storia del modernismo, il cui doloroso ma ormai necessario epilogo furono le condanne pontificie dei capi dimostratisi ribelli o ricalcitranti. Invano alcuni fautori del modernismo (Programma dei modernisti, 2a, ed., Torini 1911, p. 97 sg.) si sono richiamati alle dottrine del Newmann sul « senso illativo » della fede e sull’evoluzione dei dogmi da lui difesa, perché egli ha sempre mantenuta la necessità della guida del Magistero ecclesiastico (cfr. J. Guitton, La philosophie de Newman. Essai sur l’idée de développement, Parigi 1933, p. 166 sgg.). In particolare l’idea centrale del modernismo di un antagonismo insanabile tra la tradizione della Chiesa e il pensiero contemporaneo a discrezione completa di quest’ultimo, è in aperto contrasto con la formola dello sviluppo del dogma di Newman secondo il quale « i vecchi principi ritornano sotto nuove forme, e l’idea cambia con essi per poter rimanere identica », principio che doveva impedire piuttosto che favorire il modernismo. (Essay on the development of christian doctrine, Londra 1878, p. 40). Del resto l’ortodossia di Newman è stata difesa da Pio X nella lettera al Vescovo di Limerick del 10 marzo 1908: « Profecto in tanta locubrationum eius copia, quidpiam reperiri potest, quod ad usitata theologorum ratione videatur, nihil potest quod de ipsius fide suspicionem afferat » (Acta S. Sedis, 41 [1908], p. 201). – In senso analogo, non vanno espressamente compresi nel modernismo condannato dall’Enciclica (e furono la maggior parte) quegli studiosi che, pur simpatizzando per le nuove idee, hanno accettato la decisione pontificia protestando di voler rimanere fedeli all’autorità della Chiesa. Fra questi va forse compreso anche il barone von Hügel (1852-1925) che subì profondamente l’influenza del Newmann (cf. M. Schillter-Hermkes, Friedrich von gel, Religion als Ganaheit, Düsseldorf 1948, p. 441 sgg.) : approfittando del favore che godeva presso i modernisti egli tentò, quanto era in suo potere, di riportare il Loisy e il Tyrrell all’obbedienza alla Chiesa (op. cit., p. 467 sgg. dove l’autore conchiude : « Hügels Religionsphilosophie ist also unzweidentig antimodernistisch »; tuttavia, a p. 480, n. 180 è riportata la lettera del 4 maggio 1907 del card. Steinhuber, prefetto dell’Indice, al card. Ferrari nella quale si deploravano gli scritti del v. Hügel insieme con quelli del Tyrrell, Fogazzaro e Murri. Ma è ancora prima di ogni condanna formale; difende l’ortodossia del v. Hügel anche M. Nédoncelle, La pensée religieuse de Fr. von Hügel, Parigi 1935, pp. 15-40).

II. L’ENCICLICA «PASCENDI ». — Considerata nel suo contenuto, nel procedere ed anche nello stile del tutto inconfondibile, è un documento fra i più decisivi del supremo Magistero, e fra tutti gli atti di Pio X resta il monumento più insigne del suo pontificato, documento delle sue più accorate preoccupazioni e come completamento definitivo di quella diga alla marea dei moderni errori, che da un secolo ormai teneva impegnata l’opera del Pontificato romano per la salvezza della fede. La sua caratteristica è nella struttura fortemente teoretica che le conferisce una singolare trasparenza, attraverso la quale le molteplici aberrazioni del modernismo, si dissolvono rivelando la loro stortura e l’evidente dissonanza col sacro deposito della fede. Gli errori del modernismo erano stati accuratamente raccolti e denunziati dal decreto Lamentabili con formule risolute e perspicue (Denz-U, 2005-65); l’Enciclica li riprende e li presenta nella loro genesi e li concatena strappandoli a quell’alone d’indeterminatezza in cui erano volutamente lasciati dai loro propugnatori: in questo senso si può dire che, pur a così breve distanza dal decreto, l’Enciclica dà una esposizione originale e nuova dei medesimi con un dominio della terminologia e della tecnica avversaria, unica forse in un documento del genere e che per questo doveva attirare sulla retta via quanti militavano in buona fede nelle file dell’errore. A questa prima parte, la più vasta ed elaborata, seguono le istruzioni disciplinari che i Vescovi devono attuare nella scelta dei professori nei seminari e per l’incremento degli studi filosofici, teologici e delle materie profane ausiliari. La parte dottrinale è divisa in tre punti nei quali vengono analizzate le tre principali tappe o fasi dell’errore o meglio, come si esprime profondamente l’Enciclica, le diverse personalità che si fondono e s’intersecano nei fautori del modernismo: il filosofo, il credente, il teologo, lo storico, il critico, l’apologeta, il riformatore. Il nerbo dell’esposizione è nella dimostrazione della solidarietà e continuità dei tre momenti nella demolizione della fede, in quanto il filosofo inizia con l’affermazione di soggettivismo e relativismo individuale assoluto, proclamando l’unico criterio del sentimento privato (è questo il solito, antico concetto gnostico delle idee innate ed immanenti di memoria platonica e neoplatonica, dell’altrettanto gnostico esame privato autorefenziale delle sette del Protestantesimo, e di tutte le eresie storiche opportunamente modificate, scientificamente abbigliate ed adattate al sentire moderno – ndr. -) di ciascuno in cui si risolve non solo la convinzione sull’Essere Supremo ma il contenuto ed il senso degli stessi dogmi. L’Enciclica ammonisce contro la doppia esasperazione a cui va soggetta la dottrina cattolica con il nuovo criterio: la « trasfigurazione in quanto la verità divina è costretta ad assumere un’esaltazione soggettiva per, muovere il soggetto, e la « deformazione » (defiguratio) in quanto arbitrariamente si crea alla fede una situazione diversa dalla sua realtà, in contrasto con le dichiarazioni del Concilio Vaticano (Denz-U, 1808). La conseguenza più deleteria è la professione dell’evoluzione intrinseca « illimitata dei dogmi il cui significato e valore non proviene dall’immutabile contenuto ma dall’emozione soggettiva che può suscitare nel credente: cecità nata da prurito di novità e da superba presunzione, come già aveva denunziato Gregorio XVI (Denz-U, 2072-80). – Si comprende come il credente si trovi svincolato da ogni criterio di oggettività e autorità estrinseco, dalla divina tradizione, così da abbracciare l’assurdità di affermare che da una parte, ad es., la storia nulla può dire sulla divinità di Gesù Cristo e che questa è unicamente presente alla coscienza del credente: separazione violenta già condannata da Pio IX (Denz-U, 1656) e prima da Gregorio IX nel 1228, al primo comparire del razionalismo teologico (Denz-U, 442 sg.). Sotto l’apparente fideismo i fautori del modernismo intendono mettere la fede a discrezione della coscienza umana (Denz-U, 2081-86). L’immanenza, proclamata dal filosofo e vissuta dal credente, viene applicata dal « teologo » alle formole e verità di fede con la conclusione che « le rappresentazioni della realtà divina si riducono a « simboli », che si rapportano a particolari situazioni di coscienza del credente e che mutano con essa: ciò vale anche dei Sacramenti e della divina ispirazione. La stessa Chiesa è un frutto di esperienza collettiva e deve adattarsi al suo ritmo senza coercizione o imposizione alcuna di autorità esteriore. Su questa linea i fautori del modernismo trapassano anche a definire i rapporti della Chiesa con il potere politico affermando la separazione assoluta fra Chiesa e Stato, contro la determinazione fatta da Pio VI nella costit. Auctorem fidei, che condannava l’errore del Concilio di Pistoia (Denz-U, 1502 sgg.). A questo modo viene demolita ogni consistenza e autorità del Magistero ecclesiastico e ogni sua esterna manifestazione o apparato gerarchico: non c’è campo che il modernismo non abbia invaso e scardinato dalla sua base per sostituirvi l’arbitrio. La conclusione finale è già implicita nel primo passo del soggettivismo filosofico: la proclamazione dell’ateismo e l’abolizione di ogni religione (Denz-U, 2087-2109). Strano miscuglio di torbide aspirazioni, le quali con il pretesto di una vernice pseudomistica e col richiamo ad un’interiorità più teoretica che intimamente pratica, pretendeva di patrocinare la politica della nuova democrazia (come in Italia fece il Murri) da sovrapporre e sostituire all’azione della Chiesa.-  Di lì a poco, con il motu proprio Præstantia Scripturæ (18 nov. 1907), il Papa insorgeva contro le deformazioni tentate nei riguardi del decreto Lamentabili e dell’Encicl. Pascendi, comminando la scomunica contro i contraddittori e dichiarando che i contumaci negli errori ivi condannati erano colpevoli di eresia, perché nella maggior parte di quelle proposizioni si attenta ai fondamenti della fede (Denz-U, 2114). Il Papa non solo seguì personalmente l’esecuzione della disposizioni dell’Enciclica e quelle relative al giuramento antimodernista, ma intensificò l’attività della Pontificia Commissione Biblica che si pronunciò « con autorità » sui principali problemi della teologia e dell’esegesi biblica; parimenti fondò il Pontificio Istituto Biblico in Roma, perché raccogliesse i più esperti studiosi cattolici del S. Testo e vi si preparassero i nuovi professori di S. Scrittura nei seminari.

III. INDOLE DOTTRINALE. – La gravità dell’errore dogmatico del modernismo. è tutta nel suo principio fondamentale. Il modernismo non consiste tanto nell’opposizione all’una o all’altra delle verità rivelate, ma nel cambiamento radicale della nozione stessa di « verità », di « religione » e di « rivelazione »: l’essenza di questo cambiamento è nell’accettazione incondizionata del « principio dell’immanenza » che sta a fondamento del pensiero moderno. È vero che tale principio teoretico è espresso raramente dai fautori del modernismo in modo sistematico, perché essi si applicano di preferenza alla ricerca positiva della storia della Chiesa, dei dogmi e della Bibbia: tuttavia l’indirizzo critico da loro seguito nelle ricerche è dominato da quel principio che abbandona senza residui la verità cristiana alla contingenza della cultura umana e dell’esperienza soggettiva. Il modernismo deriva in questo per tramite anche storicamente evidente dal movimento della riforma luterana, come l’Enciclica stessa ammonisce (Denz-U, 2086), in quanto la « Riforma » staccò la fede del singolo dall’ossequio all’autorità gerarchica stabilita nella Chiesa visibile. Il principio protestante ebbe la sua versione laica nel soggettivismo gnoseologico kantiano e di qui nel doppio indirizzo dell’idealismo trascendentale di Fichte-Schiling-Hegel che subordinava la religione alla filosofia dell’irrazionalismo fideistico (più vicino a Kant) di Jacobi-Fries-Schleiermacher, che poneva l’essenza della religione nel « sentimento » individuale del divino. – Frutto inevitabile di questa invasione della soggettività nel campo della fede fu la disgregazione della dottrina tradizionale della verità operata dalla « teologia liberale » tedesca della seconda metà del sec. XIX, la quale, dopo gli hegeliani Feuerbach, Strauss e Bauer, negatori non solo della Rivelazione, ma di ogni religione naturale e positiva, trattò la verità del Cristianesimo, e della religione in genere, come prodotto storico e culturale dell’epoca che le vide nascere (Ritschl, Vatke, Tröltsch, Hermann). Il concetto poi di « sviluppo » o « divenire » (Werden) della coscienza, elaborato da Hegel dal punto di vista della dialettica astratta, posto dal Darwin come la legge unica e fondamentale per la comprensione dell’origine della vita e della stessa coscienza. Spencer, nell’ambito della filosofia esponeva nei suoi Primi principi la « teoria dell’inconoscibile » che, come già Kant un secolo prima, dichiarava impossibile ogni via razionale per attingere l’Assoluto. Inoltre, la nuova via per accedere alla realtà spirituale veniva indicata nell’analisi psicologica dell’esperienza intima contemporaneamente nell’opera di H. Bergson in Francia e di W. James in America. Ma la fonte più diretta e completa cui attinsero i fautori del modernismo è la teoria del « fideismo simbolico » che A. Sabatier ha esposto con grande fascino in Esquisse d’une philosophie de la religion (Parigi 1879, specialmente p. 390 sgg.). In essa si fa un’applicazione radicale del principio dell’immanenza vitale a tutti i fondamenti della fede cristiana e si mostra insieme, con perfetta padronanza della teologia protestante (e dello gnosticismo in generale – ndr.- ), che la riduzione della fede a « istinto » soggettivo è l’unico logico principio della « Riforma » (cf. Fr. Heiler, A. Loisy, der Vater des katholischen Modernismus, Monaco, p. 46). Contemporaneamente i risultati della moderna filologia applicati al Testo Sacro ponevano problemi nuovi su l’autenticità, la struttura e l’interpretazione dei libri ispirati, che la teologia patristica e  la scolastica non potevano sospettare nella composizione del Nuovo Testamento; le esplorazioni delle civiltà antiche del mondo biblico in Medio Oriente e lo studio delle religioni extrabibliche mettevano di fronte ad analogie e somiglianze che non potevano essere casuali e che esigevano perciò un’interpretazione complessiva secondo un principio unitario. Il modernismo ne ha approfittato per riprendere un tentativo dello « gnosticismo » di abbracciare tutte le istanze della verità con un principio unico, la soggettività della verità e la relatività di tutte le sue formule e quindi la relatività del dogma. –  Il pericolo del modernismo è nella sua estrema duttilità che vuol schivare ogni qualificazione determinata e precisa sia in filosofia come in teologia: infatti i fautori del modernismo sfuggono dall’accettare l’uno e l’altro sistema filosofico in forma integrale, pretendendo di aver colto il principio unitario che caratterizza l’uomo moderno al di là e al di sopra delle opposizioni dei sistemi. Questo principio, che forma l’essenza del modernismo, è indicato nell’immanenza vitale intesa come « esperienza privata ». Il suo significato per la conoscenza cristiana è nella « mediazione » che il principio dell’immanenza opera di ogni dato reale, storico e filosofico rispetto ai prolegomeni della fede: l’esistenza di Dio, l’immortalità e la vita futura nel campo strettamente teoretico, e rispetto al valore oggettivo probante dei miracoli e delle profezie nel campo dell’apologetica. Poi nell’ambito stesso delle verità di fede il modernismo opera tale « mediazione » nel modo più radicale eliminando qualsiasi distinzione effettiva di valore fra le varie religioni e fra gli stessi atteggiamenti più opposti che può prendere il singolo dentro la sua religione. Si può oggi dire che il modernismo abbia unificato, in questo principio dell’immanenza, gli indirizzi opposti del fenomenismo, dello storicismo idealista e del fideismo di Kant-Schleiermacher, vale  dire: 1) la « realtà » è l’impressione di coscienza (Hume, James. Bergson); 2) la verità si risolve nel destino o sviluppo  della coscienza umana (Hegel); 3) tale coscienza si manifesta e si attesta nell’impressione o percezione intima ( « sensus » dell’encicl. Pascendi, « Gefühl » di Schleiermacher), quale si dà al singolo volta per volta. così i fautori del modernismo hanno potuto protestare di accettare tutta la dottrina della Chiesa, ma in realtà essi respingevano ad un tempo: 1) il concetto di « trascendenza ontologica » di Dio rispetto al creato e alla mente finita così che Dio è sostituito col « divino »; 2) il concetto stesso di soprannaturale così che i dogmi sono ridotti a « simboli » e ad « approssimazioni  »; 3) il concetto infine di « Magistero ecclesiastico » la cui autorità impegna per quel tanto in cui la coscienza privata del singolo si trova in accordo con l’autorità esterna. Il modernismo quindi ha capovolto il metodo tradizionale dell’apologetica cristiana nel rapporto tra « scienza e fede », rinnovando l’errore averroista della dissociazione nella coscienza stessa del Cristiano, come avverte il  Giuramento (Denz-U, 2146), fra l’ossequio esterno del credente all’autorità della Chiesa che propone l’autorità da credere e la convinzione interiore dello studioso. Così il contenuto e il valore stesso delle medesime verità venivano sottratti al Magistero ecclesiastico e riservati ad una forma di « supercomprensione » in virtù dell’emozione religiosa del soggetto. Allora, in ultima analisi, l’unica formula valida della verità religiosa si risolveva nella struttura che la coscienza dà a se stessa di fronte ai singoli problemi della fede. Giustamente perciò l’Enciclica qualifica il modernismo non tanto di eresia, quanto di « compendio di tutte le eresie »; si potrebbe quasi chiamare l’ « eresia essenziale » in quanto capovolge e nega la garanzia stessa dell’ortodossia, cioè il supremo Magistero che, mediante l’assistenza dello Spirito Santo, continua nella Chiesa secondo la promessa di Gesù Cristo. [Po ssiamo dire che l’« eresia essenziale » non sia altro che la solita gnosi primordiale, la teologia di satana, che perde il pelo ma non il vizio … – ndr. -)

ERRORI PRINCIPALI. — L’Encicl. Pascendi dichiara nel modo più perentorio che il modernismo, a causa della sua professione di soggettivismo radicale, trapassi al di là di ogni religione nell’agnosticismo assoluto e quindi di necessità finisce nell’ateismo. Il programma dei modernisti, pubblicato nel nov. 1907, come risposta all’Enciclica, lungi dallo scagionarlo, risulta una conferma punto per punto della opportunità e fondatezza della condanna papale.

.1. Modernismo biblico.— Alla dottrina (il Programma dice « opinione ») tradizionale che nella Bibbia si possiede il processo genuino della Rivelazione sia del Vecchio sia Del Nuovo Testamento, perché garantita dall’autorità di Dio che l’ha ispirata in ogni sua parte e per l’autorità degli scrittori secondari (ad es., Mosè, Giosuè, gli Evangelisti), che furono testimoni immediati o mediati di ciò che narrano, si oppongono, a sentire i modernisti, i recenti risultati della critica biblica secondo i quali i libri storici del Vecchio Testamento sono semplici raccolte di materiali che « non mostrano alcuna pretesa di provare la verità, ma semplicemente di purificare il sentimento religioso del lettore » e che perciò non possono aver Dio come autore principale. In questo senso principale. In questo senso si può ben ammettere che la Bibbia « non contenga alcun errore propriamente detto e molto meno le bugie sia pur officiose », in quanto che il racconto biblico si rapporta « a quelle forme e alle esigenze di vita dei lettori per i quali ciascun libro è stato scritto » (Il Programma dei modernisti, 2a ed., Torino 1911, p. 40). Parimenti l’ispirazione biblica non è più da concepire come una meccanica trasmissione delle parole o dell’idea da Dio all’uomo, ma in una vitale concezione della parola insieme e dell’idea per opera dell’uomo unito a Dio in una maniera speciale e soprannaturale (ibid., p. 41) che però il Programma non precisa. Va notato infine che, secondo il modernismo, lo scopo e il contenuto della divina Rivelazione non ha tanto carattere dottrinale riguardante la conoscenza astratta della divinità, quanto l’istruzione pratica del come venerare Dio e conformare la vita alla norma suprema della sua volontà (ibid., p. 45). La negazione dell’ispirazione come carisma, della storicità e del contenuto di verità assoluta del libro sacro è ripetuta e analizzata a riguardo del Nuovo Testamento, nella composizione dei Vangeli e dei rapporti fra loro, dove si fa distinzione fra l’elemento storico e l’elemento soprannaturale della fede, per passare alla distinzione nominata dalla stessa Enciclica (Denz-U, 2076) fra « il Cristo della storia e il Cristo della fede (Programma, pp. 66 sgg., 115): all’una appartiene di conoscere che Cristo è uomo, all’altra che Cristo è Dio e tocca al fedele vedere dappertutto il Cristo secondo lo spirito » (ibid., p. 75). Importa poco alla fede di accertare la nascita verginale, i miracoli clamorosi e infine la resurrezione del Redentore e se è possibile o no attribuire a Cristo l’annuncio di alcuni dogmi e la fondazione della Chiesa: questi fatti sfuggono alla storia e non hanno realtà che per la fede (ibid., p. m). Il principale rappresentante del modernismo biblico fu A. Loisy.

2. Modernismo teologico. — Al principio del Cristianesimo non c’era che la fede intensamente vissuta, senza dottrine definite o dogmi: questi sono « incrostazioni depositate dalla riflessione di coscienze esaltate, specialmente di s. Paolo, ma estranee al contenuto primitivo del Vangelo di Gesù ch’era un caldo e appassionato annuncio del regno imminente e un invito alla purificazione interiore » (ibid., pp. 74, 88). Altrettanto dicasi della dottrina dei primi Padri, dai quali esula ogni tendenza dogmatica così che è « arbitrario e aprioristico » far risalire all’insegnamento primitivo di Gesù e dei suoi primitivi seguaci i dogmi dei Concili e specialmente la fede del Concilio di Trento nella loro espressione. La « evoluzione dei dogmi » è stata, secondo il modernismo, l’effetto dell’adattamento vitale « indispensabile al Cristianesimo per sopravvivere nell’ambiente ellenistico in cui venne a trovarsi fuori della Palestina, e ciò vale specialmente per i dogmi fondamentali trinitario e cristologico e per l’organizzazione della Chiesa » (ibid., p. 81 sgg.). Così che « tutto è cambiato nella storia del Cristianesimo, pensiero, gerarchia e culto: l’elemento costante di verità ai primi tempi della Chiesa, nei secoli seguenti, compresa la scolastica e il Concilio di Trento che la canonizzò, come ai nostri giorni, è l’esperienza religiosa ch’è sempre identica negli uni e negli altri » (ibid., p. 92). In tutta la storia del Vecchio e del Nuovo Testamento si attua « la continuità di una Rivelazione che nella coscienza umana il divino fa di se stesso sempre più intensamente » (ibid., p. 111): dogmi, organizzazione ecclesiastica, Sacramenti… non sono che mezzi per realizzare quell’esperienza più profonda del divino; e i fautori del modernismo auspicano di poter in futuro farne a meno (ibid., p. 112).

3. Modernismo filosofico. — Il Programma rigetta categoricamente l’accusa di «agnosticismo » e — pur riconoscendo di accettare la critica negativa fatta alla ragione da Kant e Spencer (ibid., p. 28) — dichiara di professare un atteggiamento radicalmente diverso, quello cioè di spiegare ogni tipo di conoscenza (fenomenica, scientifica, filosofica, religiosa) in funzione dell’« azione » e quindi dell’esperienza che è propria ad ognuno in quei campi. In particolare nella sfera religiosa, sia per provare l’esistenza di Dio come per accertarsi della divina Rivelazione, non importano più le dimostrazioni della metafisica medievale e la testimonianza del miracolo e della profezia: oggi sono invece « le esigenze della nostra vita morale e l’esperienza del divino che si compie nelle profondità più oscure della nostra coscienza, che conducono ad un senso speciale delle realtà soprasensibili » (ibid., p. 97). Quanto all’accusa d’immanentismo, il Programma, pur riconoscendo che l’Enciclica ha visto bene, si affanna a dimostrare che il « principio d’immanenza » non è affatto in contrasto con la tradizione cattolica in quanto anche per questo il giudizio « Dio esiste », ammesso come la stessa teologia scolastica ammette che non è giudizio né analitico a priori né sintetico a priori, resta che sia sintetico a posteriori, cioè dimostrabile con l’esperienza, « la quale non può essere altro che quella che si compie dalla e nella coscienza dell’uomo » (ibid., p. 100). – Anche i Padri e lo stesso s. Tommaso non hanno voluto, dire altro, e l’immanentismo non è quel grosso errore che l’Enciclica ha voluto far credere (ibid., pp. 101 sgg., 120 sgg., 138 sgg.). Quanto ai rapporti fra scienza e fede, il Programma professa di ammettere la distinzione più netta nel senso che la fede religiosa è il « bisogno istintivo.., che nasce spontaneamente e si svolge indipendentemente da ogni tirocinio di preparazione scientifica » (ibid., p. 123). Il Programma come conclusione dichiara che il modernismo non avversa né la Scrittura e neppure la tradizione ma soltanto l’interpretazione scolastica delle medesime perché ormai sorpassata dal metodo critico della coscienza moderna (ibid., p. 127).

V. CRITICA. — Il Programma ha confermato pertanto tutti i principali capi d’accusa dell’Enciclica Pascendi e quale principio ispiratore nella concezione della fede, della storia, delle formule dogmatiche, della gerarchia del culto: l’esperienza privata soggettiva. Tale criterio dell’esperienza privata è presentato come il risultato indiscusso e definitivo del pensiero moderno che dovrebbe costituire la formula unica della possibilità della verità religiosa per la coscienza umana in generale. Il modernismo, sfruttando ed esasperando l’insufficienza critica di alcune posizioni tradizionali nel campo dell’esegesi e della storia della Chiesa, ha cambiato sostanzialmente l’interpretazione dei dati e del significato stesso della fede, della religione naturale e della funzione della ragione umana. È stato così rigettato in blocco il realismo greco-cristiano che aveva per fondamento la distinzione dell’uomo dal mondo e da Dio e la distinzione dell’ordine naturale dall’ordine soprannaturale; con ciò si aboliva ogni vestigio di trascendenza. Viene eliminato di conseguenza ogni valore assoluto e trascendente dei primi principi della ragione e con essi è tolta la possibilità della struttura logica del discorso e la validità di ogni posizione metafisica. A nulla valgono le proteste di alcuni modernisti di accettare integralmente la dottrina cattolica, perché il modernismo ha nel « principio d’immanenza vitale » il veleno corrosivo non solo dell’essenza e delle verità di fede ma del valore oggettivo di qualsiasi verità assoluta di fatto e di ragione e ritorna al principio di Protagora che « l’uomo è misura di tutte le cose » (Theæt., 152, fram. B I). Il modernismo, ancora pur derivando per canali molteplici dal soggettivismo del pensiero moderno, non presenta alcuna consistenza teoretica perché non s’impegna a fondo con nessun sistema o filosofia determinata, così che si risolve in un fenomeno di « contaminazione teoretica » e di superficiale concordismo. La contaminazione però più essenziale è stata il tentativo d’interpretare l’esperienza intima del soggetto (autocoscienza) in diretta continuità e come espressione unica autentica della vita religiosa e di prendere la coscienza religiosa comune o naturale come l’essenza o il comune denominatore della stessa divina Rivelazione e della vita della Grazia. La realtà è che ogni esperienza religiosa, nell’ambito della vita della Grazia e della fede, può avere sol valore secondario e in dipendenza della Rivelazione e del Magistero ecclesiastico. – L’errore del modernismo ha però giovato indirettamente alla vita della Chiesa, chiamando a raccolta le sue forze migliori per fronteggiare l’attacco più subdolo e vasto alla sua missione spirituale; gli studi superiori delle università cattoliche, stimolati dal modernismo, si sono in questa metà del secolo completamente rinnovati, specialmente nel campo delle scienze bibliche e della storia dei dogmi dove il modernismo teneva l’arsenale delle sue armi. Tuttavia, il pericolo del modernismo non è mai completamente debellato perché  è insita nella ragione umana, corrotta dal peccato, la tendenza ad erigersi a criterio assoluto di verità per assoggettare a sé la fede. Un tentativo affine al modernismo è la cosiddetta « théologie nouvelle » comparsa in dopo la II guerra mondiale ed energicamente denunziata dall’encicl. Humani generis (12 ag. 1950) di Pio XII.. – (Poi il ribaltone conciliare, ed ancor più le aberrazioni postconciliari degli antipapi dal 26 ottobre del 1958 in poi, hanno confezionato un ultramodernismo tuttora in corso in cui la Rivelazione divina è sovvertita totalmente senza maschere, sia in campo teologico, dottrinale, liturgico, che ancor più nella moralità pubblica e privata, e nella organizzazione della vita sociale – ndr. -)

Cornelio Fabro.

MODERNISMO SOCIALE. – A somiglianza di quello dogmatico, si può chiamare m. s. quel movimento di idee e di attività che, a riguardo della società politica e professionale, pretende di regolarsi senza tener conto delle norme e dei principi essenziali proclamati dalla Chiesa, o senza dare alla Chiesa il posto che le compete. Esso prende le mosse da un erroneo sconfinamento ideale e pratico, oltre i limiti dottrinali della morale cattolica, con il pretesto di dover camminare con i tempi, quasi che la verità essenziale fosse mobile e soggetta a variazioni. – Tali deviazioni modernistiche furono descritte nell’Enciclica Ubi arcano di Pio XI, del 28 dic. 1922, e si riferiscono alle teorie da taluni professate « intorno alla autorità sociale, al diritto di proprietà, ai rapporti fra capitale e lavoro, ai diritti degli operai, alle relazioni fra Chiesa e Stato, fra religione e politica, fra classe e classe, fra nazione e nazione, ai diritti della S. Sede e alle prerogative del Romano Pontefice e dell’episcopato, ai diritti sociali di Gesù Cristo stesso, Creatore e Redentore, Signore degli individui e dei popoli » (AAS, 14 [1922], p. 696). Storicamente, una anticipazione di modernismo sociale, sebbene la denominazione sia di data più recente, può dirsi il moto intellettuale che fu capeggiato dal Lamennais (v.) e compagni dell’Avenir, in quanto veniva alterato il concetto di libertà e si metteva in equivalenza il bene e il male: moto prontamente condannato da Gregorio XVI, con le Encicliche Mirari vos (1832) e Singulari (1834), seguite poi da documenti, come il Sillabo di Pio IX (1864), e soprattutto dalle Encicliche sociali di Leone XIII, fra cui l’Enciclica Libertas (1888) e la Rerum novarum (1891). Nel progredire degli studi sociali e con il sorgere della Democrazia Cristiana (concetto sociale volgarizzato con il favore di Roma e sùbito sostenuto fervidamente da molti giovani sacerdoti), un gruppo notevole di conservatori e di integristi di Francia e d’ Italia, che di fatto ripudiavano della democrazia e il nome e la sostanza, volle accusare di modernismo sociale tutte le iniziative dei più arditi e schietti sociologi cristiani, in testa ai quali erano, in Francia, Leone Harmel e, in Italia, Giuseppe Toniolo, prendendo a pretesto qualche inesatta espressione sfuggita ai più ardenti propagandisti. La verità è che, né i fautori della Democrazia cristiana, né gli abati Lemire, Naudet, Gayrand, Garnier e Marc Sagnier in Francia, né i sacerdoti don Albertario, don Vercesi, don Torregrossa, p. Ghignoni, p. Semeria, don Sturzo ecc. in Italia, con largo seguito di gioventù, possono chiamarsi modernisti sociali. Essi rimasero, anche nella polemica, generalmente ortodossi. Del resto, Leone XIII, con la sua Encicl. Graves de communi (19o1), aveva messo opportunamente in guardia tutti gli aspiranti al regno sociale di Gesù Cristo, preservando da ogni possibile deviazione, e Pio X, nella sua la sua Encicl. Il fermo proposito dell’11 giugno 1903, aveva dato norme pratiche all’Azione Cattolica Sociale. – Intemperanze varie nel senso modernistico avvennero nondimeno, in quel tempo, in Belgio, con l’atteggiamento dell’abate Daens e la sua Lega democratica; in Francia, con l’organizzazione dei Sillon riprovato da Pio X (1910), in Italia con la Rivista di cultura, Battaglie d’oggi e l’Organizzazione della Lega democratica nazionale di don Romolo Murri, propugnatore di un autonomismo che non poteva essere consentito. Nel momento presente, tanto in Francia che in Italia, e anche nelle altre nazioni, la sociologia cristiana è inquadrata in organismi di Azione Cattolica di piena garanzia. In particolare le « Settimane sociali »si mantengono nella più assoluta ortodossia, pur dando luogo a discussioni libere nelle quali possono esprimersi le tesi più ardite.

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (68): IL MODERNISMO (2)

LA VERGINE MARIA (1)

Il Vescovo Tihámer Toth

LA VERGINE MARIA (1)

Nihil Obstat: Dr. Andrés de Lucas, Canonico. Censore.

IMPRIMATUR: José María, Vescovo Ausiliare e Vicario Generale. Madrid, 27 giugno 1951.

[Questo libro è stato tradotto direttamente dall’originale ungherese da M. I. Sr. D. Antonio Sancho, Magistrale di Maiorca].

Alla Beata Vergine Maria, Madre di Dio, nella definizione della sua gloriosa Assunzione, in anima e corpo, al cielo.

Madrid, 1° novembre 1950

INDICE

CON QUALE TITOLO ONORIAMO LA VERGINE MARIA?

SCRUPOLI SUL CULTO DI MARIA

MARIA E LA NOSTRA FEDE

MARIA E LE DONNE

MARIA E LE MADRI

TUTTE LE GENERAZIONI MI CHIAMERANNO BEATA

LE GENERAZIONI”.

IMMAGINI DELLA VERGINE MARIA

LA MADRE ADDOLORATA

LA DEVOZIONE DELLA SPAGNA PER MARIA

I DOGMI

CAPITOLO PRIMO

CON QUALE TITOLO ONORIAMO LA MARIA VERGINE?

Il celebre filosofo americano EMERSON racconta un interessante episodio di un viaggio in autobus. In un afoso giorno d’estate, stancamente e scoraggiato, salì su un pullman. Con tedio proseguì il suo viaggio… per mezz’ora. Con la stessa sonnolenza, ed apatici, anche gli altri passeggeri erano seduti sull’automezzo… quando, ad una delle fermate, salì una giovane donna con un bambino dai capelli biondi e dagli occhi azzurri. Non appena si sedettero in un angolo della corriera, l’umore dei passeggeri cambiò completamente. Come se tutte le domande, i sorrisi, le risate di quel bambino innocente portassero l’aria del paradiso perduto agli uomini stanchi dalla faticosa strada della vita. E la madre teneva con tanto fascino ed amore per il suo piccolo bambino e gli parlava con tale affetto che lo sguardo di tutti era fisso su suo figlio, ed uno strano calore sciolse i loro cuori, che prima erano indifferenti. L’autobus che chiamano “Terra” ha funzionato per migliaia di anni, con milioni e milioni di viaggiatori: uomini sfiniti, malconci, immersi nell’indolenza, che non sapevano nemmeno dove stesse andando la corriera … quando un giorno, duemila anni fa, una giovane madre prese in in braccio il suo piccolo figlio, biondo e sorridente; ed occupò a malapena un posto in un angolo della carrozza, lì nella grotta di Betlemme, le anime dei viaggiatori si riscaldarono di un fuoco che non avevano mai sentito prima, ed il cuore, prima indifferente, ricevette nuova forza, come da una bellezza ed una tenerezza sconosciute. E da quel giorno la Madre ed il Figlio hanno sempre viaggiato con noi ed irradiano un fascino indicibile ed una forza di respiro che rinfresca le anime stanche nelle lotte della vita. – Non si può parlare di Gesù Cristo senza estendere il discorso anche alla sua Vergine Madre. È impossibile far conoscere la dottrina di Cristo, del Cristianesimo, senza menzionare la Vergine Maria. È la Beata Vergine che comunica bellezza, fragranza e fascino al Cristianesimo. È la fiaccola della grotta di Betlemme, la stella più bella della notte. Il suo mormorio è il più dolce “Gloria”. Nazareth non sarebbe la casa di Gesù se in questa casa non trovassimo sua Madre e l’Arcangelo; il Golgota non sarebbe così mirabilmente commovente se Gesù non avesse se Gesù non avesse piantato accanto all’albero della croce il giglio della valle, il primo ad essere innaffiato dal preziosissimo sangue, o la rosa che si arrampica sull’albero e fiorisce nei sentimenti di dolore. La Beata Vergine compie il primo miracolo, percorre per la prima volta la via crucis!  Rinchiude nel suo cuore la fede riposta nel Figlio morto e nella sua opera; è la prima a baciare la croce, con il desiderio e la consolazione della felicità eterna, le piaghe di Gesù; lei sola fa la veglia della prima risurrezione. Lei sola ha atteso per trentatré anni il Verbo dalla notte dell’Annunciazione; Ella sola lo ha ricevuto a Natale in Bethlem; Ella da sola lo ha atteso all’alba della Pasqua fiorita (PROHÁSZKA.). – “È nato dalla Vergine Maria”: così preghiamo nelCredo. Il Credo non contiene altro che queste quattro brevi parole, riferite a Lei: “È nato dalla Vergine Maria”. Una frase breve, ma il suo contenuto è così profondo, che i nove capitoli che ci accingiamo a scrivere sulla Vergine Maria difficilmente basteranno a scoprire ciò che è contenuto nella frase. La prima cosa che faremo è esaminare i fondamenti dogmatici del culto di Maria. – L’albero della magnifica fecondità, il culto di Maria, si dispiega e sprigiona la sua fragranza con migliaia e migliaia di fiori profumati nei nostri templi, nei nostri inni nelle nostre chiese, nelle nostre immagini, nelle nostre feste, nei nostri santuari, centri didi pellegrinaggio. Da quali radici si alimenta? Con quali titoli onoriamo la Vergine Maria? Questo sarà il tema di questo capitolo. E la nostra risposta sarà duplice:

I. La onoriamo perché è la Madre di Dio, e

II. Perché la Sacra Scrittura ci inculca il suo culto.

I. LA MADRE DI DIO

Come un gigantesco albero pieno di benedizioni, il culto di Maria estende i suoi rami su tutto il mondo cattolico; e la radice ultima dell’immenso albero, la radice da cui trae la sua linfa vitale, è questa breve frase: “Io credo in Gesù Cristo…, che fu concepito dallo dallo Spirito Santo e nato dalla Vergine Maria.”. Tutte il nostro venerabile culto con cui le anime cattoliche si inchinano a Maria, scaturisce dalla nostra fede in Cristo. – Riassumo in poche brevi frasi tutto ciò che crediamo su Maria. La Vergine Maria è la Madre di Gesù Cristo, quindi è la Madre di Dio; Madre, e tuttavia sempre vergine, intatta; Madre di un unico Figlio, Gesù Cristo, che è stato concepito dallo Spirito Santo – non per opera di un uomo, come gli altri uomini – la Vergine Maria, proprio in virtù della sua dignità di Madre di Dio, è stata preservata da Dio anche dalla colpa originale, così che è nata e vissuta esente. Questa è la nostra fede in poche parole su Maria. – Studiamo ora la nostra prima proposizione: Maria è Madre di Dio. È interessante il modo in cui un certo oratore dell’antichità sia uscito da un imbarazzo. Questi doveva pronunciare un discorso su Filippo di Macedonia; ma non lodò né le qualità governative di Filippo né le sue doti di guerriero; senonché, con voce concitata, pronunciò queste parole: “Basti dire di te, o Filippo, che sei stato il padre di Alessandro Magno”. Anche noi potremmo parlare a lungo della Vergine Maria, della bellezza della sua anima, delle sue virtù, del suo amore per Dio, della sua disponibilità al sacrificio… ; ma la esaltiamo nel modo più degno, dicendo: “Basta dire di Te, o Vergine Santa, che sei stata la Madre di Gesù”.

* * *

A) È un po’ strano vedere quanto poco le Sacre Scritture parlino della Vergine Maria.

Maria. Ella è raramente menzionata negli eventi. D’altra parte, le poche frasi che si riferiscono a Lei sono più che sufficienti a dimostrare la legittimità del nostro culto nei suoi confronti. Perché quelle poche frasi affermano tali glorie di Maria, che nessuno può dirne di più grandi. Leggiamo queste poche righe. Così scrive S. Matteo: “E Giacobbe generò Giuseppe, marito di Maria, dalla quale nacque Gesù. che fu chiamato Cristo” (Mt 1, 16). E SAN GIOVANNI aggiunge: “E il Verbo si è fatta carne” (Gv 1,1 4), cioè Colui che ha ricevuto carne mortale da Maria è il Figlio eterno di Dio. Pertanto, Maria è la Madre di Dio. Che parole semplici, eppure così piene di piene di conseguenze! “De qua natus est Jesus“, “da cui è nato Gesù” – questo è tutto. – Questa donna è così grande, così piena di grazia, così ammirevole, così santa, … da poter essere la Madre di Dio! Inoltre, anche Lei è figlia di Adamo, ma è così conforme al pensiero di Dio, che il Signore ha voluto la sua collaborazione nella cosa più sublime del mondo: l’Incarnazione del Verbo.

B) Madre di Dio, esaltata ed ineffabile! Ricevere e portare nel suo grembo, curare, servire ed educare il Dio davanti al quale gli Angeli puri si umiliano fino alla polvere, e alla cui presenza i Serafini ed i Cherubini nascondono il loro volto dietro le loro ali; Colui che ha creato l’universo, il sole, la luna, le stelle, e tutte le cose del mondo. Chiamare questo suo Figlio, coprirlo di baci, stringerlo al petto con l’amore di una madre! Colui davanti al quale tutte le forze del cielo e della terra si sottomettono ed obbediscono! La dignità della Madre di Dio è indicibilmente grande. “Non c’è nessuno come Maria”, esclama sant’Anselmo con entusiasmo: “Non c’è nessuno più grande di Dio, non c’è nessuno più grande di Maria”. La sublime distinzione di essere “Madre di Dio” può essere compresa soltanto considerando che tutti i saggi, i re, i Sacerdoti e gli Angeli del cielo non valgono quanto quello che Maria ci ha dato donandoci Cristo,  Figlio di Dio. Da una donna è venuto nel mondo il primo peccato, da una donna è nata la colpa; ma da una donna venne anche il suo rimedio.  La Beata Vergine era una donna scelta, una Madre senza macchia. Venne in questa terra di peccato come un giglio in fiore: senza macchia originale. Ha vissuto su questa terra come una rosa delicata: pura, senza macchia. Anche anche dopo la nascita di Gesù, rimase Vergine. Pulita e bianca come la neve appena caduta. Con quale timidezza, con quale prudenza dice all’Angelo: “Come è possibile che mi nasca un figlio, avendo consacrato la mia verginità a Dio e non volendo rinunciarvi? Non temere, Maria, perché hai trovato grazia agli occhi di Dio. La virtù dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra, il Santo che nascerà da te sarà chiamato il Figlio di Dio”. Cioè, non temere per la tua la tua verginità, perché sarai madre in virtù dell’onnipotenza di Dio, non a scapito della tua integrità, ma nella pienezza della tua purezza… La lingua ungherese chiama giustamente il giorno dell’Annunciazione “il giorno dell’innesto del frutto alla benedetta Donna benedetta”. Perché c’è stato davvero un innesto. Il ramo glorioso, il Figlio di Dio è stato innestato nella Beata Vergine, e attraverso di Lei in tutto l’umanità. L’innesto è stato fatto in modo che dalla radice millenaria del genere umano non dovessero spuntare in futuro, germogli marci peccaminosi, né rami di frutti velenosi, né mele acide e acerbe, ma parole ed azioni gradite a Dio. Che giorno di primavera fu quel giorno, quando la Vita germogliò! La Beata Vergine si abbandonò alla volontà divina, ed era in pace. E nel momento in cui pronunciò con tutta l’anima: “Sia fatto a me secondo la tua parola…”; nello stesso momento, quando, con santa umiltà il suo capo verginale chinato, Gesù Cristo iniziava la sua vita terrena vicino al cuore della Beata Vergine. Che mistero infinito di inconcepibile amore divino. Il Signore discende dal cielo, come alita sull’umile Vergine, l’avvicina e l’avvolge nel suo amore, come un oceano infinito! Vergine fiore del cielo, o Vergine Maria, mille lodi da tutto il mondo.

C) E Maria corrispose alla dignità ineguagliabile che aveva ricevuto. Era veramente Madre, una madre affettuosa, premurosa, amorevole, che sacrifica la sua vita. Quando il Bambino Gesù non era ancora nato, lei già le rivolge preghiere dal profondo della sua umile anima. – Quando la durezza degli uomini da Betlemme la costrinse ad una stalla, il bacio e l’abbraccio della Santa Vergine riscaldarono il tremante Gesù Bambino. Quando la crudeltà di Erode li costrinse a fuggire in Egitto, quel seno verginale fu un rifugio sicuro per il Bambino Dio. Quando il Salvatore cominciò a crescere, quel purissimo raggio di sole vegliava su di Lui giorno e notte. E quando… il Redentore stava morendo sul Golgota e i suoi occhi, già vitrei, non vedevano altro che volti di nemici intorno a Lui, sua Madre, la Madre di Dio stava ferma, dimostrando la sua fedeltà, ai piedi della croce, e la spada del dolore le trafisse il cuore più che mai. La Vergine Madre merita davvero le le lodi dei secoli, ha meritato che si scrivesse su di Lei negli innumerevoli volumi che riempiono le biblioteche, cantando le sue glorie. Ha meritato che la Chiesa istituisse feste per onorarla. È degna delle innumerevoli statue e immagini, una più bella dell’altra, con le quali i migliori artisti hanno presentato i loro omaggi nel corso dei secoli alla Beata Donna… Rispondiamo così alla prima domanda che ci siamo proposti: onoriamo la Vergine Maria, perché Dio l’ha onorata per primo, scegliendola come Madre del suo Figlio unigenito. Rispondiamo ancora di più. La onoriamo perché ce lo ordina la Sacra Scrittura.

II. IL CULTO NELLA SACRA SCRITTURA

Che nell’offrire tutti i nostri ossequi a Maria non deviamo dalla retta via ci viene mostrato anche dalle pagine della Sacra Scrittura. Da queste sacre pagine abbiamo imparato il culto di Maria. Dalle Sacre Scritture? Ma dove sono queste pagine?

* * *

A) Innanzitutto, c’è la scena del Paradiso: “Io porrò inimicizia tra te e la donna – questa è la parola sanzionatoria pronunciata dal Signore contro lo spirito maligno e seduttore, e tra la tua razza e la Donna e la sua progenie; Ella ti schiaccerà la testa, mentre tu le insidierai il calcagno” (Gen III,15). Come non onorare la donna potente, la Beata Vergine, la cui forza conquistatrice la cui forza vittoriosa nello spezzare il serpente ci è stata mostrata da Dio come il primo raggio di luce per la consolazione dell’umanità decaduta?

B) E la promessa del Signore si è adempiuta: “E Dio mandò l’Angelo Gabriele a Nazareth, una città della Galilea, ad una vergine, promessa sposa di un certo della casa di Davide, il cui nome era Giuseppe. E quando l’Angelo entrò dove si trovava, le disse: “Ave, piena di grazia, il Signore è con te; tu sei benedetta fra le donne” (Lc. 26-28). Davanti alla Vergine, stupita e timorosa, l’arcangelo Gabriele si inginocchia, e dalle sue labbra e per la prima volta il saluto esce dalle sue labbra e viene ascoltato: Ave, piena di grazia; il Signore è con te. Il saluto prorompe: dalle labbra dell’Angelo, e il vento, veloce, lo raccoglie con le sue ali e lo porta ai quattro angoli del mondo, in modo che non vi sia un solo angolo in cui non si senta il saluto angelico: Ave Maria. – All’inizio ci sono solo alcune anime elette che conoscono la dignità di Maria: Santa Elisabetta, San Giuseppe, gli Apostoli, il piccolo gruppo degli Apostoli, il piccolo gruppo dei primi fedeli. Ma sulle ali del vento il saluto si si diffonde. I popoli arrivano, le Nazioni sorgono, entrano nella Chiesa di Cristo e abbracciano la sua dottrina, e sia al Nord che al Sud, all’Est come all’Ovest, di giorno e di notte, sul mare e sulla terraferma, in guerra e in pace, nel tempio e nella casa, sul monte e nella valle, il saluto dell’Arcangelo Gabriele: Ave, Ave, Ave, Maria, piena di grazia, il Signore è con te. Che parole semplici e, in poche righe, che contenuto sublime! Che cosa sei tu, Maria, in te stessa? “Piena di grazia”. E nei confronti del Signore? “Il Signore è con te”. E cosa sei in relazione a noi, al resto dell’umanità? “Tu sei benedetta tra tutte le donne”. Stiamo dunque agendo con leggerezza, onorando l’ammirevole Madre? Siamo dispensati dal culto di Maria, dicendo che anche Ella era figlia di Adamo? Ma l’Angelo le dice: “Tu sei benedetta fra tutte le donne”. E noi non aggiungiamo una parola in quelle dettate da Dio quando mandò l’Arcangelo a salutarla.

C) Poco dopo questa scena, la, la Vergine Maria andò a far visita alla cugina Santa Elisabetta. Ed Elisabetta, sentendo la sua voce – come si legge nella Sacra Scrittura – “fu colmata di Spirito Santo” ed esclamò con gioia: “Tu sei benedetta tra tutte le donne, e benedetto il frutto del tuo seno! Beata tu hai creduto, perché le cose dette a te dal Signore si compiranno” (Lc. I, 42, 45). Non abbiamo forse il diritto di onorarla se Elisabetta, “piena di Spirito Santo”, l’ha esaltata con tanto entusiasmo? Ed è possibile che ci venga censurato il fatto che per aver innalzato Maria troppo al di sopra di noi, o per esserci inchinati troppo davanti a lei, quando San Luca, riferendosi al bambino Gesù di dodici anni ed i suoi genitori, scrive così: “Subito andò con loro e venne a Nazaret e fu loro sottomesso” (Lc. II, 51). Chi era il soggetto? Il Figlio di Dio. A chi era soggetto? A Giuseppe e Maria. Non dobbiamo forse onorare ed elevare al di sopra di tutti gli esseri creati la creati la Donna che Gesù Cristo ha onorato con l’obbedienza, alla quale si è inchinato in attesa dei suoi comandi?

D) Abbiamo non solo il diritto, ma il vero e proprio obbligo di onorare la Vergine Maria. Questo è dimostrato nel modo più chiaro dal testamento di Cristo. Il Venerdì Santo è il giorno più importante della storia universale. Cristo è inchiodato sulla croce e Maria gli è vicina, perché dove Cristo soffre, sua Madre è lì con Lui. È stata Lei a portarlo nel mondo. Ha voluto essere presente anche alla sua morte. Non è possibile leggere senza emozione il Vangelo di San Giovanni quando si riferisce alle parole pronunciate dal Signore dalla croce: “Donna, ecco tuo figlio! Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre”. E da quel momento il discepolo la prese come madre” (Gv XIX, 26-27). Ecco il testamento del Signore: Madre, sii una madre protettrice, patrona degli uomini, per i quali ho dato il mio sangue e la mia vita; guarda tuo figlio. Figlio, ecco hai tua madre. Lei non è la tua regina, non è la tua imperatrice…, non è mia madre…, no, è tua madre. – E allora, se ci viene chiesto con quali titoli onoriamo la Vergine Maria, in quale passaggio Cristo abbia comandato il suo culto, la nostra risposta è questa: qui lo ha comandato. Quando disse a San Giovanni, e in lui a tutti noi: “Ecco tua madre”. Da quel momento Maria è la nostra Madre celeste. E da quel momento il canto sulle labbra degli uomini non cessa mai. – Ecco i fondamenti dogmatici del nostro culto di Maria. Maria non ha perso il suo potere di Madre di Dio, nemmeno nei cieli, al contrario, lì anzi lo esercita in modo ancora più efficace. La Madre di Dio deve avere, in un certo senso, un ascendente su Dio, nel senso che Dio ascolta le sue preghiere con piacere. Maria prega, intercede incessantemente per noi, perché siamo tutti fratelli e sorelle di Cristo, e quindi siamo anche figli di Maria. E il suo Figlio divino ha affidato tutti noi alla sua cura e alla sua protezione. Che gioia sapere che abbiamo in cielo una Madre di bontà, una potente Protettrice, sempre pronta a prendere nelle sue mani i nostri affari e presentare le nostre suppliche al suo Divino Figlio! –  La Chiesa, fin dalle sue origini, ha effettivamente sperimentato la protezione di questa Madre benevola. Non c’è stato momento della sua vita di due millenni in cui non abbia sentito l’intercessione della Vergine Immacolata. E noi pure la sentiamo, quando corriamo da Lei, alla sua protezione, e chiediamo alla gloriosa e benedetta Vergine di ricevere le nostre suppliche nei giorni di tribolazione. Lei è la nostra Signora, la nostra Avvocata, la nostra Mediatrice. Non si è mai sentito in tutti i tempi che qualcuno che abbia implorato la sua intercessione sia stato rifiutato. Uniamo, dunque, con profondo rispetto l’espressione della nostra gratitudine alle parole dell’Angelo: Ave Maria, figlia prediletta del Padre! Ave, Madre del nostro Redentore! Ave, tempio dello Spirito Santo! Ave, Ave, tu che sei più santa dei cherubini, più sublime dei serafini! Ave, Maria, più splendente del sole, più bella della luna, più splendente delle stelle! Ave Maria, Regina degli Angeli; Ave, porta aperta del Paradiso! Ave, stella del mare. Ave, Maria, speranza dei patriarchi, anelito dei profeti, Regina degli Apostoli, forza dei martiri. Ave Maria, esempio ideale di madri cristiane. Ave, o benevola, avvocata di noi tutti. Ave, Madre di Dio, piena di grazia, il Signore è con te. Con te c’è il Signore, che era prima di te, che ti ha creato, e che Tu hai generato. Ti chiediamo, o Maria: rivolgi a noi questi tuoi occhi misericordiosi, e dopo questo esilio, mostraci Gesù, il frutto benedetto del tuo seno. O misericordiosissima, o graziosissima, o dolce Vergine Maria!

LA VERGINE MARIA (2)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (12) “da LEONE II a GREGORIO II”

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (12)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

(Da Leone II a Gregorio II)

LEONE II: 17 agosto 682-3 Luglio 683

561-563: Lettera “regi regum” all’imperatore Costantino IV intorno all’agosto 682

Conferma delle decisioni del III Concilio di Costantinopoli contro i monoteliti ed il Papa Onorio I.

561. Abbiamo appreso infatti che il santo e grande sinodo universale (Costantinopoli III) pensava lo stessocome tutto il Concilio riunito intorno a questa santa Sede apostolica (Concilio di Roma a. 680)… e che ha confessato, in accordo con noi: Che nostro Signore Gesù Cristo sia uno della santa ed indivisibile Trinità, che esista da e in due nature, senza confusione, senza separazione, senza divisione; che Egli sia un solo e medesimo Dio perfetto e che sia uno e lo stesso, perfetto Dio e perfetto uomo, rimanendo intatta la proprietà di ciascuna delle due nature che sono unite in Lui; che uno e medesimo abbia operato le cose divine come Dio, ed operato inseparabilmente le cose umane come uomo, con la sola eccezione del peccato; ed il Concilio ha veramente affermato che per questo motivo abbia anche due volontà naturali e due operazioni naturali per le quali la verità delle sue nature è principalmente manifestata, così che la differenza possa essere chiaramente riconosciuta, ed anche la verità delle due nature, a partire dalle quali e nelle quali esiste un solo e medesimo nostro Signore Gesù Cristo; per questo motivo abbiamo effettivamente riconosciuto che questo santo … sesto sinodo … si sia attenuto senza fallo alla predicazione apostolica, che sia in accordo in tutto e per tutto con la definizione dei cinque Concili universali, e che non abbia aggiunto o sottratto nulla alla definizione dei cinque Concili universali, né abbia sottratto nulla alle determinazioni della vera fede, ma che sia andato avanti con grande rettitudine sulla via regale ed evangelica; ed in essi ed attraverso di essi sia stata mantenuta l’elaborazione dei santi dogmi e della dottrina dei Padri approvati della Chiesa cattolica…

562. E poiché (il sinodo di Costantinopoli) ha proclamato in tutta la sua pienezza… la definizione della fedeche anche la Sede Apostolica del beato apostolo Pietro… ha accolto con riverenza, per questo motivo anche Noi e per mezzo del nostro ministero, questa venerabile Sede Apostolica, per unanime consenso,diamo il nostroa ciò che è stato definito da esso, e lo confermiamo con l’autorità delBeato Pietro…

563. E allo stesso modo anatemizziamo gli inventori del nuovo errore, cioè Teodoro, il Vescovo di Farano, Ciro di Alessandria, Sergio, Pirro… e anche Onorio che non ha purificato questa Chiesa apostolica con l’insegnamento della tradizione apostolica, ma ha cercato di sovvertire la fede immacolata in un empio tradimento (testo greco: ha permesso che la Chiesa immacolata fosse contaminata da un empio tradimento).

Benedetto II: 26 giugno 684-8 maggio 685

14° Concilio di Toledo, 14-20 novembre 684.

Le proprietà delle due nature in Cristo.

564. (cap. 8) Ma ora… predichiamo (ai fedeli), riassumendo il tutto in una breve definizione,che essi devono effettivamente riconoscere che le proprietà indivisibili delle due nature rimangono nell’unica Persona di Cristo, il Figlio di Dio, senza divisione né separazione, come pure senza cambiamento, l’una della Divinità, l’altra dell’uomo, l’una in cui è stato generato da Dio Padre, l’altra in cui è nato da Maria Vergine. L’una e l’altra delle suenascite sono dunque complete, entrambe perfette, non possedendo nulla di meno della divinità e non prendendo nulla di imperfetto dell’umanità; Egli non è diviso dal raddoppio delle nature, ma perfetto Dio e perfetto uomo, senza alcun peccato, è l’unico Cristo nella singolarità della Persona.Esistendo dunque come uno in entrambe le nature, risplende nei segni della divinità ed è sottoposto alle sofferenze dell’umanità. Infatti, non è altro che sia stato generato dal Padre ed altro dalla madre, sebbene sia nato in modo diverso dal Padre e dalla madre: tuttavia lo stesso non è diviso tra i due tipi di natura, ma è uno e lo stesso, essendo contemporaneamente Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Egli vive anche se muore, e muore anche se vive; è impassibile anche se soffre; non soccombe alle sofferenze; non ne è soggetto nella divinità e non vi sfugge nell’umanità; la natura della divinità gli dà il potere di non morire, la sostanza dell’umanità gli dà il potere di non voler morire e di poterlo fare; con l’una condizione è ritenuto immortale, con l’altra, quella dei mortali, Egli muore. È per l’eterna volontà della Divinità che ha assunto l’uomo che ha preso; è per la volontà dell’uomo che ha preso che la volontà umana sia soggetta a Dio. Per questo Egli stesso dice al Padre: “Padre, non la mia volontà, ma la tua sia fatta”‘ (Lc. XXII, 42), mostrando così che l’una è la volontà divina con cui l’uomo è stato assunto, l’altra la volontà dell’uomo con cui si debba obbedire a Dio.

(Cap. 9) Perciò, in accordo con la differenza di queste due nature, dobbiamo anche proclamare le proprietà di due volontà ed attività inseparabili.

(Cap. 10) … Se dunque qualcuno prende qualcosa della divinità da Gesù Cristo, il Figlio di Dio nato dal seno della Vergine Maria, o sottrae qualcosa all’umanità che Egli ha assunto, con la sola eccezione della legge del peccato, e se non crede sinceramente che esista come vero Dio e uomo perfetto in una sola Persona, sia anatema!

GIOVANNI V: 23 luglio 685 – 2 agosto 686

CONONE: 21 ottobre 686 – 21 settembre 687

SERGIO I: 15 dicembre 687-8 Settembre 701

15° Concilio di Toledo, iniziato l’11 maggio 688

Apologia di Giuliano

Dichiarazione sulla Trinità divina e sull’Incarnazione

566. (1) … Siamo venuti a sapere che in questo Liber responsionis fidei nostræ, che abbiamo inviato alla Chiesa romana per mezzo del regionario Pietro, sia apparso al suddetto Papa (Benedetto II) che il primo capitolo fosse stato da noi stabilito in modo imprudente, dove dicevamo a proposito dell’essenza divina:”La volontà genera la volontà come la sapienza genera la sapienza”. Quest’uomo l’ha trascurato in una lettura frettolosa, e quindi ha pensato che avremmo usato queste espressioni in modo relativo o nel senso di un paragone con la mente umana; e quindi è stato indotto ad ammonirci nella sua risposta dicendo: “Sappiamo dall’ordine naturale che il verbo ha origine dalla mente, come la ragione e la volontà; e questi termini non possono essere invertiti dicendo: come la parola e la volontà procedono dallo spirito, così anche lo spirito procede dalla parola o dalla volontà”;ed è a causa di questo paragone che il Romano Pontefice pensava che non si potesse dire “volontà dalla volontà” (ex voluntate).Per quanto ci riguarda, non è nel senso di questo paragone con la mente umana, né in senso relativo, ma secondo l’essenza che abbiamo detto: la volontà dalla volontà (ex voluntate), come anche la sapienza dallasapienza (ex sapientia). Per Dio, infatti, essere è la stessa cosa che volere, e volere la stessa cosa che sapere. Questo non si può dire dell’uomo. Per l’uomo, infatti, altro è ciò che si è senza volere, e un’altra cosa è volere anche senza sapere. Ma non è così in Dio, perché la sua natura è così semplice; e quindi per Lui essere è la stessa cosa che volere e sapere…

567. (4) Per passare anche all’esame del secondo capitolo in cui lo stesso Papa pensava che noiavessimo detto imprudentemente che abbiamo tre sostanze in Cristo, il Figlio di Dio:Come non ci siamo vergognati di difendere ciò che sia vero, così forse alcuni si sono vergognati di ignorare ciò che sia vero. Chi, infatti, non saprebbe che ogni uomo è fatto di due parti? (Cfr. 2 Cor IV,16 Sal LXII, 2)

(5) Contrariamente a questa regola, nelle Scritture troviamo anche che si possa intendere l’uomo nella sua totalità quando di solito viene nominata la carne, o che la perfezione dell’uomo intero possa essere designata quando a volte si parla solo dell’anima. Ecco perché la natura divina e la natura umana ad essa associata possono essere dette tre sostanze in senso letterale e due sostanze in senso figurato.

Ma altro è esprimere l’uomo intero con una proprietà, altra cosa è intenderlo come un tutto di una parte. C’è infatti un modo di parlare che viene spesso usato spesso nelle Sacre Scritture, con il quale si designa il tutto con una parte: così questo uso figurato è chiamato dai grammatici anche “sineddoche”.

La Trinità divina.

568. (Art. 1) Noi crediamo e confessiamo che Colui che è l’autore di tutte le creature contenute nel triplice edificio del mondo e che le conserva sia l’indivisibile Trinità.

(2) cioè il Padre, che è la fonte e l’origine di tutta la divinità; il Figlio, che è l’immagine completa di Dio perché in Lui è stata espressa l’unione con la gloria del Padre, generato ineffabilmente dal seno del Padre prima dell’avvento di tutti i secoli; e lo Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio senza inizio.

569. (3) Sebbene questi tre siano separati dalla distinzione delle Persone, tuttavia non sono mai separati nella Maestà del potere, poiché la loro divinità è dimostrata essere uguale ed inseparabile. E tuttavia, sebbene il Padre abbia generato il Figlio, il Figlio non è uguale al Padre, né il Padre uguale al Figlio, né lo Spirito Santo è uguale al Padre e al Figlio, ma è solo lo Spirito del Padre e del Figlio, Lui stesso uguale al Padre e al Figlio. (4) Non si deve credere che in questa Santa Trinità ci sia qualcosa che sia creato, asservito e servito; né che in Essa sia sorto in qualche modo qualcosa di avventizio o surrettizio, che sarebbe stabilito che un tempo non avrebbe avuto. …

(6) Sebbene per queste Persone, in ciò che sono in relazione a Se stesse, non si possa trovare alcuna possibilità di separazione, c’è però, per quanto riguarda la distinzione, qualcosa per cui il Padre non trae la sua origine da nessuno, il Figlio esiste perché il Padre genera e lo Spirito Santo procede dall’unione del Padre e del Figlio.

(10) E quando diciamo questo, non confondiamo le proprietà delle Persone, né separiamo l’unità della sostanza; né si deve pensare che in questa santa Trinità qualcosa sia maggiore o minore, né che qualcosa sia imperfetta o soggetta a cambiamenti. …

570. (12) Pertanto, in questa Santa Trinità c’è qualcosa che debba essere confessato senza distinzioni. Poiché il Padre ed il Figlio e lo Spirito Santo sono ciascuno per sé, il Padre deve essere creduto senza distinzione come un unico Dio con il Figlio e lo Spirito Santo. Ma per quanto riguarda larelazione, la proprietà delle tre Persone deve essere proclamata in modo distinto, come lo proclama l’Evangelista: Andate ed ammaestrate tutte le nazioni nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. (Mt XXVIII, 19). Infatti, parliamo di “relazione” nella misura in cui una Persona si riferisce all’altra; infatti, quando diciamo “Padre”, non intendiamo la Persona del Figlio, e quando si dice “Figlio” si dimostra che il Padre è inequivocabilmente presente in Lui. (13) Ma con il termine “Spirito Santo”, con il quale non si designa l’intera Trinità, ma la terza Persona della Trinità, la Persona che è nella Trinità, si indica la terza Persona della Trinità; non è del tutto chiaro come, nel senso della relazione, si rapporti alla Persona del Padre e del Figlio; infatti, se parliamo di Spirito Santo del Padre, non si parla in modo correlativo del Padre dello Spirito Santo, per cui non si intende lo Spirito Santo come Figlio; tuttavia, per gli altri termini con cui si designa la Persona dello Spirito Santo, è chiaro che si implichi la relazione. (14) È come “dono” in particolare che intendiamo lo Spirito Santo, che è noto per essere la terza Persona della Trinità, per il motivo che è dato ai credenti dal Padre e dal Figlio, con i quali, secondo la fede, è di una sola essenza; perciò, se parliamo del “dono del donatore” e del “donatore del dono”, la relazione è indubbiamente spiegata; questo, per evitare il biasimo, deve essere preso anche dal termine stesso “Spirito Santo”.

Cristo, il Figlio di Dio incarnato.

571. (16) Perciò, sebbene le opere della Trinità siano inseparabili, noi professiamo che non è stata l’intera Trinità a prendere carne, ma solo il Figlio di Dio che è stato generato dalla sostanza di Dio Padre prima dei secoli, e che alla fine dei secoli è nato dalla Vergine Maria secondo la Parola di Dio. Secondo il testo evangelico, “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. (Gv I, 14) …

(18) … La profezia dell’Angelo, secondo la quale lo Spirito Santo sarebbe sceso su di Lei (la Vergine Maria) e la potenza dell’Altissimo, che è il Figlio di Dio Padre, l’avrebbe adombrata (Lc 1,35) mostra che l’intera Trinità cooperi con la carne del Figlio di Dio.

(19) Infatti, come la Vergine conservava il suo pudore verginale prima del concepimento, così dopo la nascita non ha subito alcun danno alla sua integrità; perché ha concepito come una vergine, ha partorito come una vergine, e dopo il parto ha conservato il pudore dell’incorruzione senza che le venisse tolto.

572. (22) Che il Figlio di Dio, generato dal Padre increato, vero da vero, perfetto da perfetto, uno da uno,tutto da tutto, Dio senza inizio, abbia preso un uomo perfetto da Maria, la santa e inviolata.

(23) Come gli attribuiamo la perfezione dell’uomo, così crediamo che sia un uomo perfetto, così crediamo che in Lui ci siano due volontà, una della sua divinità, l’altra della nostra umanità; (24) ciò è reso pienamente manifesto dalle parole dei quattro evangelisti quando il nostro Redentore parla: “Padre mio, se è possibile che questo calice si allontani da me, ma non come voglio io, ma come vuoi Tu”, (Mt XXVI,39); e ancora: “Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di Colui che mi ha mandato (Gv VI,38)…

(25) Con queste parole mostra anche di aver riferito la sua volontà all’uomo che ha assunto, e quella del Padre alla divinità in cui lo stesso è uno e uguale al Padre: infatti, per quanto riguarda l’unità della divinità, la volontà del Padre non è diversa da quella del Figlio, perché c’è una sola volontà dove c’è una sola divinità. Ma per quanto riguarda la natura dell’uomo assunto, altro è la volontà della sua divinità, altro è quella della nostra umanità. (26) Perciò, dicendo: “Non come voglio Io, ma come vuoi Tu”, (Mt XXVI, 39), Egli mostra chiaramente di non volere che ciò che ha detto avvenga secondo la volontà del sentimento umano, ma che, secondo la volontà del Padre, avvenga secondo la volontà di Dio. Ma questa volontà del Padre non è in alcun modo contraria alla volontà del Figlio, perché per coloro per i quali la divinità è una sola, la volontà non può essere diversa, e dove non può esserci diversità nella natura del Padre, non può essere diversa la volontà del Figlio. Se non c’è diversità di natura, si possono tuttavia enumerare in termini generali le cose che possono essere enumerate.

573. (27) Pertanto, anche se è vero che, a causa di una similitudine comparabile secondo la quale la Trinità è chiamata memoria, intelligenza e volontà, questa parola “santa volontà” sia riferita alla Persona dello Spirito Santo, quando usata in sé, è detta secondo la sostanza. (28) Infatti, il Padre è volontà, il Figlio è volontà, lo Spirito Santo è volontà, così come il Padre è Dio, il Figlio è Dio e lo Spirito Santo è Dio, e molte altre cose simili che vengono dette secondo la sostanza da coloro che venerano veramente la fede cattolica, senza alcuna ambiguità. (29) E come è cattolico dire “Dio da Dio”, “luce da luce”, “luminosità da luminosità”, così è una giusta affermazione della fede cattolica dire “volontà da volontà”, come sapienza da sapienza, essenza da essenza; e come Dio, il Padre, generò Dio, il Figlio, così la volontà, il Padre, generò la volontà, il Figlio. (30) E sebbene secondo l’essenza il Padre sia volontà, il Figlio sia volontà, lo Spirito Santo sia volontà, tuttavia non si deve pensare che secondo la relazione siano una cosa sola; perché altro è il Padre che rimanda al Figlio, altro il Figlio che rimanda al Padre, altro lo Spirito Santo che, poiché procede dal Padre e dal Figlio, rimanda al Padre e al Figlio: non un’altra cosa, ma un’altra; perché coloro che hanno nella loro natura di essere uno nella natura della Divinità, hanno una proprietà peculiare nella distinzione delle Persone….

La risurrezione dei morti.

574. (35) Come con la sua risurrezione ci ha dato un esempio, e che vivificandoci, come dopo due giorni ci ha risuscitati dai morti, così vogliamo credere in tutti i modi che anche noi risorgeremo alla fine dei tempi, non nella forma di un’ombra aerea o in quella di una visione immaginaria, come afferma l’opinione reproba di alcuni, ma nella sostanza della vera carne in cui ora stiamo e viviamo; E al momento del giudizio ci troveremo davanti a Cristo e ai suoi santi Angeli, e ognuno riferirà ciò che ha fatto nel suo corpo, sia in bene che in male (2Co V:10) , e riceverà da Lui o per le sue azioni il Regno e la beatitudine senza fine, o per le sue malefatte la morte della dannazione eterna.

575; L’eminenza e la necessità della Chiesa di Cristo.

(36) La santa Chiesa cattolica, che ha questa fede, lavata dall’acqua del Battesimo, redenta dal prezioso Sangue di Cristo, che non ha alcuna ruga nella sua fede e non porta la macchia di un’opera impura, (Efesini V, 23-27), è davvero ricca di segni d’onore, splendente di virtù e risplendente dei doni dello Spirito Santo. (37) Con Cristo Gesù nostro Signore, suo Capo, di cui è senza dubbio il corpo, essa regnerà in eterno; e tutti coloro che non sono ora in essa o che non saranno in essa, che sono separati da essa o che saranno separati da essa, o tutti coloro che nella malvagità della mancanza di fede avranno negato che in essa i peccati siano rimessi, costoro, se non torneranno ad essa con l’aiuto della penitenza e se non crederanno con una fede non macchiata da alcun dubbio a tutto ciò che il sinodo di Nicea…, l’assemblea di Costantinopoli… e l’autorità del primo Concilio di Efeso ha deciso di accogliere, e che la volontà unanime dei santi Padri di Calcedonia o degli altri Concili, o di tutti i santi Padri che sono vissuti nella retta fede, prescrive di mantenere, sono puniti con una sentenza di dannazione eterna, e saranno bruciati alla fine dei tempi con il diavolo e i suoi consorti su una pira ardente.

GIOVANNI VI: 30 ottobre 701 – 11 gennaio 705

GIOVANNI VII: 1° marzo 705 – 18 ottobre 707

SISINNIO: 15 gennaio – 4 febbraio 708

COSTANTINO I: 25 marzo 708 – 9 febbraio 708

GREGORIO II: 19 maggio 715-11 febbraio 731

Lettera “désiderabilem mihi” a Bonifacio del 22 novembre 726.

Forma e ministro del battesimo.

580. Hai reso noto che alcuni sono stati battezzati senza interrogare il Simbolo, da sacerdotiadulteri e sacerdoti indegni. In questa materia, la vostra carità deve attenersi all’antica consuetudine della Chiesa: se qualcuno non sia stato battezzato nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, non è permesso in alcun modo che sia ribattezzato perché non è nel nome di colui che battezza, ma nel nome della Trinità che ha ricevuto il dono di questa grazia. Ed è necessario attenersi a quanto dice l’Apostolo: un solo Dio, una sola fede, un solo battesimo (Eph. IV, 5). Ma vi raccomandiamo di dare loro con uno zelo ancora più grande, un insegnamento spirituale.

Lettera “ta grammata” all’imperatore Leone III, tra il 726 e il 730

La venerazione delle immagini sacre

581. E tu dici che ci prostriamo davanti a pietre, muri e tavole di legno. Non è così, o imperatore; in esse troviamo un richiamo e uno stimolo: esse innalzano le nostre menti pesanti e spesse verso il cielo, ed è questa la ragione dei loro nomi, dei loro titoli incisi, dei loro tratti distintivi,ma non ne facciamo degli dei, come tu sostieni – e che ciò non accada! – perché non riponiamo in loro la nostra speranza. E se si tratta di un’immagine del Signore, diciamo: Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, aiutaci e salvaci. Se è un’immagine della sua santaMadre, diciamo: Tu che hai portato Dio, santa Madre del Signore, intercedi pressoil tuo figlio, nostro vero Dio, per la salvezza delle nostre anime. E per un martire: Santo Stefano, primomartire: tu che hai versato il tuo sangue per Cristo, poiché puoi parlare liberamente con Lui, intercedi perper noi. E per tutti coloro che hanno testimoniato la loro fede nel martirio, questo è ciò che diciamo, queste sono le preghiere che rivolgiamo che offriamo per la loro intercessione; e non è vero, come tu sostieni, o imperatore, che noi chiamiamo i martiri “dèi”.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (13) “da GREGORIO III a BENEDETTO III”